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Miscellanea senatoria II A cura di Annarosa Gallo, Sebastian Lohsse e Pierangelo Buongiorno
ACTA SENATUS B Studien und Materialien | 11 Geschichte Franz Steiner Verlag Franz Steiner Verlag
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contubernium Tübinger Beiträge zur Universitäts- und Wissenschaftsgeschichte
Acta Senatus B. Studien und Materialien Herausgegeben von Pierangelo Buongiorno und Sebastian Lohsse Band 11
Manuskripte, die bei Acta Senatus eingereicht werden, unterliegen einem anonymisierten Begutachtungsverfahren (double blind peer review), das über eine Aufnahme in die Reihe entscheidet.
Miscellanea senatoria II Herausgegeben von Annarosa Gallo, Sebastian Lohsse und Pierangelo Buongiorno
Franz Steiner Verlag
Volume finanziato con fondi FFABR 2017 (titolare Dr. Annarosa Gallo)
Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über dnb.d-nb.de abruf bar. Dieses Werk einschließlich aller seiner Teile ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist unzulässig und straf bar. © Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2023 www.steiner-verlag.de Layout und Herstellung durch den Verlag Satz: DTP + TEXT Eva Burri, Stuttgart Druck: Memminger MedienCentrum, Memmingen Gedruckt auf säurefreiem, alterungsbeständigem Papier. Printed in Germany. ISBN 978-3-515-12959-6 (Print) ISBN 978-3-515-12963-3 (E-Book)
Indice
Annarosa Gallo / Sebastian Lohsse / Pier angelo Buongiorno Premessa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Forme e tecniche Carlo Pelloso Along the Path Towards Exaequatio Auctoritas Patrum and Plebisscita in the Republican Age . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 Aldo Petrucci Il ruolo del senato nel trionfo dalle origini della repubblica alla sua crisi. . . . 65 Fonti e contenuti Annarosa Gallo Belve, giochi e competizione politica nel II secolo a. C. I senatoconsulti e il plebiscito Aufidio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 Fr ancesca Pulitanò Tacito, ann. 4.62 Sulle tracce di un senatoconsulto del 27 d. C.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127 Macarena Guerrero El praemium accusatori en el sc. de aquaeductibus (Frontino, aq. 127). . . . . . . . 149 Immacolata Eramo I senatus consulta negli Strategemata di Frontino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173
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Indice
Orazio Licandro Gli ἄριστοι e il βασιλεύς Il governo temperato di Vat. gr. 1298 e il Cicerone perduto. . . . . . . . . . . . . . 199 Indice delle fonti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 225
Annarosa Gallo / Sebastian Lohsse / Pier angelo Buongiorno
Premessa
C
on la pubblicazione di questo secondo volume di Miscellanea Senatoria si intende dare continuità alla diffusione dei risultati dell’attività seminariale e di ricerca sviluppata in margine al progetto PAROS e ad iniziative di ricerca ad esso interconnesse. Nelle pagine che seguono sono raccolti scritti di varia natura, in alcuni casi relativi a segmenti di percorsi di ricerca ancora in atto, ma tutti tesi a valorizzare aspetti e problemi della ricerca sul senato di epoca repubblicana e imperiale. Ma allo stesso tempo non è trascurata la riflessione sul metodo, sempre necessaria per un approccio maturo ai testi antichi. Come già nel precedente volume (apparso in questa collana con il numero B.4), le pagine che seguono sono articolate in due sezioni, Forme e tecniche e Fonti e contenuti. La prima sezione accoglie due scritti. Il primo, di Carlo Pelloso, riconsidera il lento percorso verso l’exaequatio dei plebiscita alle leges mediante un riesame dello strumento della auctoritas patrum. Aldo Petrucci esamina invece il ruolo del senato nelle procedure di conferimento del trionfo in epoca repubblicana, evidenziando la funzione di «filtro istituzionale» svolta dall’assemblea senatoria. Nella seconda sezione sono accolti invece quattro saggi che, prendendo le mosse da fonti di tradizione manoscritta, ricostruiscono il portato di alcune delibere senatorie. Prendendo le mosse da Plin. nat. 8.64, Annarosa Gallo esamina una serie di testimonianze liviane relative all’evoluzione della normativa (editti pontificali, delibere senatorie e il plebiscito Aufidio) in materia di importazione e impiego nei ludi di belve africane, anche alla luce del dibattito politico del primo quarto di II secolo a. C. Francesca Pulitanò esamina un celebre brano di Tacito (ann. 4.62), ricostruendo un senatoconsulto del 27 d. C. in materia di anfiteatri, la cui approvazione è narrata strumentalmente da Tacito per criticare la condotta di Tiberio. Si tratta dunque di una interessante Fallstudie della tecnica di lavoro dello storico senatorio e dell’uso in chiave argomentativa degli acta senatus e dei deliberati senatori.
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I saggi di Macarena Guerrero e Immacolata Eramo colmano invece una lacuna dei volumi, precedentemente pubblicati in questa collana (B.3 e B.6), relativi alla rappresentazione e uso dei senatoconsulti nelle fonti letterarie. Permettono infatti di esaminare l’uso dei senatoconsulti rispettivamente nel De aquaeductu (con particolare riguardo a un caso specifico) e negli Stratagemata del poliedrico senatore di età flavia e della prima età antonina Sesto Giulio Frontino. Orazio Licandro riconsidera infine un passaggio dell’anonima opera Περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης, contenuta nel manoscritto Vat. gr. 1298 (Anon. de scient. pol. 5.63–64), alla luce del quale riflette sul ruolo dei senatori nella forma rei publicae elaborata da Cicerone nel De re publica. Mette infatti a sistema il testo dell’Anonimo con testimonianze relative alla prima età imperiale sul lavoro del senato in commissione evidenziando così come le riforme augustee, costituissero un anello di congiunzione tra l’organizzazione dei poteri pubblici teorizzata da Cicerone e la speculazione in tema da parte dei giustinianei. Questo volume è stato consegnato alle stampe in tempi difficili, nel pieno di una pandemia che mette a rischio le vite di molti e rende più complesso il quotidiano di tutti. Piccolo segno tangibile del maggior vigore dello studio rispetto alle contingenze umane.
Münster, agosto 2020 A. G., S. L., P. B.
Forme e tecniche
Carlo Pelloso
Along the Path Towards Exaequatio Auctoritas Patrum and Plebisscita in the Republican Age
I. Introduction Roman jurists of the 1st and 2nd century AD provided numerous, yet similar, definitions of plebisscitum, depicting a legal reality that – it has been assumed – was current from the beginning of the 3rd century BC1. On the one hand, Capito and Gaius – who shared ideas that are implicitly represented in the works of Laelius Felix – focus on the existing differences between the Roman people, as a whole, and plebeian society as a part of this whole. Consequently, these jurists are inclined to further emphasise in their definitions of plebisscitum the composition of the tribal assemblies of the plebs, as opposed to the popular assemblies: if lex est quod populus iubet atque constituit, so plebisscitum est quod plebs iubet atque constituit2. In other words, the noted resolution of the plebs refers to a bill (rogatio) brought before the plebs (i. e. an aliqua pars included in the 1 Gell. 10.20.5 (‘Plebisscitum’ … est … lex, quam plebes, non populus, accipit [Ateius Capito]); Gell. 15.27.4 (ita ne ‘leges’ quidem proprie sed ‘plebisscita’ appellantur quae tribunis plebis ferentibus accepta sunt. plebes autem ea dicatur in qua gentes patriciae non insunt [Laelius Felix]); Gai. 1.3 (lex est quod populus iubet atque constituit. Plebisscitum est quod plebs iubet atque constituit. plebs autem a populo eo distat, quod populi appellatione universi cives significantur, connumeratis etiam patriciis; plebis autem appellatione sine patriciis ceteri cives significantur); Pomp. l. s. ench. D. 1.2.2.12 (ita in civitate nostra … plebi scitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum). Cf. Fest. s. v. scita plebei (Lindsay 293: scita plebei appellantur ea, quae plebs suo suffragio sine patribus iussit, plebeio magistratu rogante). 2 This definition implies a clear-cut distinction between plebs and populus (see De Martino, Storia della costituzione romana I 19722, 371); on the contrary, in the literary sources, there is no consistency in the use of these two denominations, which often appear to be interchangeable (see Maddox, The binding plebiscite 1984, 88; Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 99 f.; Sandberg, The concilium plebis 1993, 78).
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totum), voted for, and finally accepted: the patricians thus remained debarred from participation in such ‘fractional assemblies’, which were accordingly labelled as concilia and not as comitia3. On the other hand, the jurist Verrius Flaccus uses as a source for his entry on scita plebis, like Laelius Felix, introduces a further proviso. The process aimed at passing plebiscites, in fact, was initiated by the proposal of a tribune, and was carried out under the presidency of the same plebeian magistrate, that is, an officer who was not entitled to summon the patricians to vote on such matters4. As such, Pomponius, listing the ‘formants’ of the Roman legal system in the 2nd century BC – so long as one does not conceive of the term auctoritas as a synonym for iussus (that is ‘final vote’, ‘final resolution’, ‘approval of rogatio’), which seems rather unpersuasive – appears to add an interesting element to this process: Pomponius records that plebeian statutes would come into force – as the jurist wants to make it clear – without the authorisation (auctoritas) of the patrician senators (patres)5.
3 Gell. 15.27.4. Indeed, Cicero and Livy do not use these two terms (comitia and concilia) in accordance with the idea expressed by the imperial jurist, as already demonstrated by Botsford, The Roman Assemblies 1968, 119 ff., and Farrell, The Distinction between Comitia and Concilium 1986, 407 ff. Thus, either we must suppose that there was a tradition which preserved the strict distinction between comitia and concilium, as mirrored in Laelius Felix’s definition, or agree that this jurist makes a mistake, at least, as the quotation stands (see Taylor, Roman Voting Assemblies 1966, 60 ff. and 138, nt. 5; Develin, Comitia tributa plebis 1975, 306 ff.; Sandberg, The concilium plebis 1993, 78 ff.; Pelloso, Ricerche sulle assemblee quiritarie 2018, 329 ff.). 4 Such nuance implies that assemblies were not autonomous actors in Rome, but totally dependent on those who were given ius agendi. The people and the plebs could accomplish their (judicial, legislative, electoral) tasks only on the initiative of a curule magistrate or, respectively, of an officer of the plebs. Accordingly, even if law-making was formally a popular or plebeian prerogative, in practice it substantially consisted in a magisterial and tribunician activity, since assemblies could neither initiate, nor could they answer the rogationes other than by providing a ‘yes or no’ answer (see Mommsen, Römisches Staatsrecht III.1 1887, 303 f.) 5 In these terms, see Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 101 f. (but see also p. 238); against this reading, see the persuasive remarks of Guarino, L’‘exaequatio legibus’ dei ‘plebisscita’ 1951, 460: “l’interpretazione è troppo azzardata. Se anche ad essa non si rifiuta il termine auctoritas, isolatamente preso, vi si ribella, considerata nel suo complesso, la locuzione auctoritas patrum, che è, sino a prova contraria, squisitamente tecnica”. Even if the passage from Pomponius’ Enchiridion, as it stands, is deeply interpolated and, at some point, even syntactically incorrect (cf. Index interpolationum ad h. l.), much of the information can be considered authentically classic and part of a consistent narrative (see Bretone, Tecniche 1982, 226 ff., even if this author agrees with Biscardi and states that “la frase quod sine auctoritate patrum est constitutum significa che il plebisscitum ‘è stato creato’, come fonte di produzione giuridica, senza il consenso dei patrizi, non che la procedura necessaria per porlo in essere prescinda dall’intervento senatorio”).
Along the Path Towards Exaequatio
However, most of these sources, while covering the current legal status of the plebisscita from different perspectives, fail – at least as they stand – to include in their definitions any reference to a particular feature which diachronically played a fundamental role in the history of the struggle of the orders and, thus, in the subsequent political relationship of the patricii and plebei during the 5th, 4th, and 3rd centuries BC. I refer, of course, to the problem of the extent of the binding force of the rules which were enacted solely by the plebeians. If the plebs flourished and stood as a distinct civic group (ordo) within the republic, it is natural to assume that, initially, plebisscita were binding only to those who accepted the rules as proposed by the bill at stake. However, this does not appear to have been the legal status, as implied by the jurists: any enactment by the plebs – as can be gathered from context, as opposed to the legal definitions of plebisscitum provided during the era of the Principate – was binding for the Roman community at large. As far as the issue of plebiscitarian validity is concerned, general consensus – albeit articulated into varying degrees – seems to exist among modern scholars only with regard to the last step on the path which led to the final exaequatio: ever since the dictator Q. Hortensius forced the centuriate assembly to pass his famous rogatio de plebisscitis, the resolutions of the plebs were given per se a legal status which they continued to enjoy in the later Republic and the early Empire6, with the exception of the period in which Sulla’s reform was valid7. It was only in 287 BC that the tribal councils of the plebeians, gathered and presided over by their chiefs, obtained the power to introduce measures without conditions, which had automatic general validity and, accordingly, endowed a binding force among the universus populus. In other words, due to the acceptance of Hortensius’ reform by the entire populus Romanus8, the resolutions of the plebs had the same standing as the leges populi Romani. As Gaius himself maintains, when describing the events that led up to that which occurred in 287 BC, prior to the enactment of the lex Hortensia, the patricii could refuse to recognise the plebisscita “quae sine auctoritate eorum facta essent” (‘which were passed without their approval’). However, as a result of the exaequatio introduced by law, from 287 BC they could no longer challenge
6 See Gell. 15.27.4 (quibus rogationibus ante patricii non tenebantur, donec Q. Hortensius dictator eam legem tulit, ut eo iure, quod plebs statuisset, omnes Quirites tenerentur [Laelius Felix]); Gai. 1.3 (unde olim patricii dicebant plebisscitis se non teneri, quae sine auctoritate eorum facta essent; sed postea lex Hortensia lata est qua cautum est ut plebisscita universum populum tenerent: itaque eo modo legibus exaequata sunt); Pomp. l. s. ench. D. 1.2.2.8 (mox cum revocata est plebs, quia multae discordiae nascebantur de his plebis scitis, pro legibus placuit et ea observari lege Hortensia: et ita factum est, ut inter plebis scita et legem species constituendi interesset, potestas autem eadem esset); see, moreover, Liv. perioch. 11; Plin. nat. 16.37; Inst. 1.2.4. 7 See App. bell. civ. 1.266. 8 See Vassalli, La plebe romana nella funzione legislativa 1906, 131.
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the general validity of what the plebs “iussit atque constituit” (‘had approved and decided’)9.
9 Gai. 1.3. According to Mommsen’s interpretation of this passage (who reads quia, instead of quae), the patricians refused to recognise any plebisscitum, because such enactments were not eligible for a grant of auctoritas patrum (i. e. the formal approval of the patrician senators): Mommsen, Römische Forschungen I 1964, 157; Id., Römisches Staatsrecht III.1 1887, 155, nt. 3; cf. Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 43; Botsford, The Roman Assemblies 1968, 280; Magdelain, De l’auctoritas patrum 1990, 397; see, moreover, Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 238. Differently, Staveley, Tribal Legislation before the lex Hortensia 1955, 21, believes that Gaius proves just what Mommsen thought him to deny, i. e. the grant of patrician sanction as a condicio sine qua non of the validity of a plebisscitum: “whether or not we read the alternative quae for quia, Gaius can be taken to mean something very different, namely that the patricians in the years immediately preceding the lex Hortensia had refused to recognize certain unsavoury plebisscita on the ground that they had not afforded them the required auctoritas”. Also, Develin, Comitia tributa plebis 1975, 321, considers it more reasonable “to assume that before 287 there was a distinction between plebiscites with and without the auctoritas, since the phrase plebisscitis … quae sine auctoritate eorum facta essent must be given the meaning “such plebiscites as were made without patrum auctoritas”: this author shares the idea that the reading quae – in Gai. 1.3 used to introduce a restrictive clause, rather than a non-restrictive or parenthetical clause – gives more natural Latin than quia (see Beseler, Beiträge 1920, 109; David, Nelson, Gai Institutionum Commentarii 1954, 13; Amirante, Plebiscito e legge 1984, 2035; Sandberg, Magistrates and Assemblies 2001, 134; cf. Mannino, L’‘auctoritas patrum’ 1979, 97 f., who reaches the same conclusions, even if he opts for the reading quia). According to Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 85 and nt. 253, as well as to Guarino, L’‘exaequatio legibus’ dei ‘plebisscita’ 1951, 464 and nt. 37, Gaius used the term auctoritas improperly to mean something like ‘participation (in the assembly)’: in other words, the passage would suggest that once the patricians would say that they were bound by no plebisscita, since such enactments by the plebeians only, i. e. without their participation and acceptance (iussus), but once the lex Hortensia was passed, plebisscita were made equal to leges since it was stipulated that plebisscita should be bestowed with general validity for the whole populus. Once again, both authors conceive of the causal clause quia sine auctoritate eorum facta essent as non-restrictive, alluding to all plebisscita, as Mommsen did. Against this view, I remind the reader that, firstly, the particle quia regularly introduces a fact and rarely takes the subjunctive (i. e. the mode which expresses a reason given to the authority of someone different from the writer), and, secondly, that facta essent shows that Gaius is referring to a limited number of plebiscites which had been voted before 287 BC., whether auctoritas here hints at the ‘approval by the patrician Senate’, or more generally at any form of patrician ‘approval’. To conclude: maintaining that the choice between quia and quae is irrelevant (see Siber, Plebs 1951, 67; Humbert, La normativité des plebiscites 1998, 211, nt. 1) is not persuasive, since the former would better fit the allusion to all plebisscita in general, while the latter would introduce a restrictive clause; the use of the pluperfect subjunctive and, thus, the implicit reference to a limited number of plebiscites, rules out the view that gives auctoritas the vague and general meaning of ‘patrician participation’ (since this aspect is already implied in the definition and since no plebiscite can be voted with the participation of patricians); the pronoun quae must be preferred to the particle quia.
Along the Path Towards Exaequatio
The crucial point here, however, is that Livy, alongside Dionysius, attests to two statutes enacted prior to 287 BC: both appear to be identical in content and in form with the lex Hortensia, and to include measures which sought the same goal, that is, to make plebisscita binding for the entire community. The former was a lex Valeria Horatia, passed in 449 BC before the centuriate assembly “ut quod plebs tributim iussisset populum teneret”10; the latter was a lex Publilia Philonis proposed by the dictator Publilius in 339 BC before an unspecified assembly “ut plebis scita omnes Quirites tenerent” (Liv. 8.12.15–16). Taking into consideration the period after the lex Valeria Horatia (449 BC) and prior to the lex Hortensia (287 BC), a question arises which is twofold: what was the legal status enjoyed by plebiscites? And what was the role played by the Senate regarding the general validity bestowed upon such plebeian resolutions?
II.1 ‘Rejecting the past’: a view which only credits the lex Hortensia The most radical approach rejects these two earlier laws as unauthentic, consequently supposing that no reliable change was effected in the legal standing of the plebeian resolutions prior to 287 BC11.
10 Liv. 3.55.3: Omnium primum, cum velut in controverso iure esset tenerenturne patres plebi scitis, legem centuriatis comitiis tulere ‘ut, quod tributim plebes iussisset, populum teneret’: qua lege tribuniciis rogationibus telum acerrimum datum est. 11 Meyer, Untersuchungen über Diodor’s Römische Geschichte 1882, 610 ff.; Id., Der Ursprung des Tribunats 1895, 1 ff.; Binder, Die Plebs 1909, 371, 476, 485; Baviera, Il valore dell’‘exaequatio legibus’ dei ‘plebisscita’ 1910, 369; Beloch, Römische Geschichte 1926, 350, 477 f.; Siber, Die plebejischen Magistraturen 1936, 39 ff.; de Francisci, Storia del diritto romano I 1943, 303 ff. (but see also Id., Storia del diritto romano I 1943, 94); von Fritz, The Reorganisation of the Roman Government 1960, 18 ff.; Id., Plebs 1951, 61 ff.; Bleicken Das Volkstribunat der klassischen Republik 1955, 13 ff.; Id., Lex Publica 1975, 85 f., 95; Orestano, I fatti di normazione 1967, 266, nt. 3; Ridley, Livy and the concilium plebis 1980, 337 ff.; Maddox, The binding plebiscite 1984, 85 ff.; Hölkeskamp, Die Entstehung der Nobilität 1987, 163 ff.; Drummond, Rome in the Fifth Century 1989, 223; Magdelain, De l’‘auctoritas patrum’ 1990, 385 ff.; Humbert, La normativité des plébiscites 1998, 211 ff.; Id., I plebiscita 2012, 307 ff.; Lanfranchi, Les Tribuns de la Plèbe 2015, 232 ff. The following authors consider the lex Hortensia the only historical measure that changed the status bestowed on plebiscites and gave them equal status to the leges, professing a sceptic non liquet with regard to the first two statutes (449, 339 BC): see Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 65; Vassalli, La plebe romana nella funzione legislativa 1906, 111 ff.; Grosso, Storia del diritto romano 1965, 110 f.; Capogrossi Colognesi, Diritto e potere 2007, 148. See, also, Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung I 1884, 190 ff., 193, nt. 1, 254, nt. 3, who accepts the tradition, but fails to distinguish between the measures of 339 and 287 BC.
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According to Siber12, whose work further advanced the theory presented by Meyer, the two earlier leges did not make the plebeian resolutions applicable to the general populace, and must be considered as mere inventions, i. e. unhistorical attempts to explain, in general terms, the extraordinary erga omnes validity bestowed on certain plebisscita, that were voted on prior to the lex Hortensia. Due to such general and ideologically rooted premises, the author at issue seeks to demonstrate that every scitum passed by the plebeian tribes before 287 BC was ratified by a vote of the comitia centuriata, so as to affect the whole people. In other words, to acquire general validity, the measures stated by a given plebisscitum were converted 12 Siber, Die plebejischen Magistraturen 1936, 39 ff., 44 ff.; Id., Plebs 1951, 61 ff.; Meyer, Römischer Staat und Staatsgedanke 1964, 69; cf. Hennes, Das dritte valerisch-horatische Gesetz send seine Wiederholungen 1880, 5 ff., who gives the lex Valeria Horatia de plebisscitis the same effect Siber supposes existed prior to the lex Hortensia: according to this scholar it was under the lex passed in 449 BC that plebiscites were bestowed general validity, only on the condition that they were converted into statutes. Likewise, see Guarino, L’‘exaequatio legibus’ dei ‘plebis scita’ 1951, 458 ff.; Id., ‘Novissima de patrum auctoritate’, 117 ff., who considers as unhistorical the lex Valeria Horatia. This author focuses on a difficult passage of Appian (bell. civ. 1.59.266: εἰσηγοῦντό τε μηδὲν ἔτι ἀπροβούλευτον ἐς τὸν δῆμον ἐσφέρεσθαι, νενομισμένον μὲν οὕτω καὶ πάλαι, παραλελυμένον δ᾽ ἐκ πολλοῦ, καὶ τὰς χειροτονίας μὴ κατὰ φυλάς, ἀλλὰ κατὰ λόχους, ὡς Τύλλιος βασιλεὺς ἔταξε, γίνεσθαι, νομίσαντες διὰ δυοῖν τοῖνδε οὔτε νόμον οὐδένα πρὸ τῆς βουλῆς ἐς τὸ πλῆθος ἐσφερόμενον οὔτε τὰς χειροτονίας ἐν τοῖς πένησι καὶ θρασυτάτοις ἀντὶ τῶν ἐν περιουσίᾳ καὶ εὐβουλίᾳ γιγνομένας δώσειν ἔτι στάσεων ἀφορμάς), and reads it in the following sense. In 88 BC “i consoli Cornelio [Silla] e Pompeo [Rufo] proposero probabilmente ai comizi di ripristinare sotto la veste moderna di un consultum di tutto il senatus (organismo nobiliare di loro piena fiducia) l’auctoritas patrum preventiva per le leges centuriatae”, so re-enacting the system supposedly laid down by the leges Publiliae Philonis; such provisions, passed in 339 BC and in force up to 287 BC, provided that “il popolo tutto era vincolato in definitiva, patribus auctoribus, solo dalle leges centuriatae” and that “i magistrati titolari del ius agendi cum populo furono tenuti, su richiesta dei tribuni plebis, a convertire i pebiscita in proprie rogationes ed a sottoporli, previo parere favorevole dei patres e con i propri auspici, ai comitia centuriata” (see, likewise, Lanfranchi, Les Tribuns de la Plèbe 2015, 35: “si la loi de 339 eut une certaine réalité, ce ne put être, au maximum, que celle que lui confère A. Guarino: une loi stipulant que les magistrats devaient soumettre aux comices les plébiscites dont les tribuns réclamaient l’application, comme s’il s’agissait de leurs propres rogationes. Rien de plus”). Yet, neither Livy, nor Appian seem to confirm Guarino’s hypothesis: there is no case of such a conversion attested after 339 BC; no mention of such conversion is made in the short text of the lex Publilia Philonis de plebisscitis quoted by Livy; Sulla’s law, as paraphrased by Appian seems to affect the resolutions of the plebs only, as one can infer from the word πλῆθoς (mass) used to specify the meaning of δῆμος (people), and above all from the mention, made by the historian, of a rule providing the previous consent of the Senate that, first repealed or abrogated, was then re-established by Sulla and his colleague (which, clearly, only makes complete sense if one excludes any reference to the leges centuriatae since, as everybody knows, these provisions even prior to 88 BC never ceased to be ex lege previously authorised by the patres): see, on this topic, Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 83 f., 150 ff., and ntt. 490–491, 237 ff.; De Martino, Storia della costituzione romana III 19732, 70.
Along the Path Towards Exaequatio
into a lex centuriata: conversely, within the framework of the civitas, any plebeian enactment would merely represent a political wish, a non-binding programme, even for those who had passed it13. Despite approaching this problem from a radically different perspective, Mommsen grosso modo achieved similar results, at least as concerns the impact finally produced by the lex Hortensia on the previously existing status quo14. First, he believes that the so-called comitia populi tributa carried out legislation as early as the second half of the 5th century BC, and that such a fundamental reform could not be overlooked by the Roman annalists in their records15. Consequently, he maintains that the Valerio-Horatian law, and the Publilian law alike, were not 13 In other words, in the period prior to 287 BC the plebisscita were resolutions “die öfters zur Erwirkung von Komitialgesetzen und zu anderen Regierungsmaßnahmen … führten, die aber als solche für niemanden, auch nicht für die Plebs verbindlich waren” (Siber, Plebs 1951, 67; cf., in similar terms, Bleicken Das Volkstribunat der klassischen Republik 1955, 15 f.). See also Lanfranchi, Les Tribuns de la Plèbe 2015, 239: “à l’exception des plébiscites concernant la plèbe, s’il n’y avait pas intervention des consuls ou du Sénat, tout plébiscite – en particulier ceux qui souhaitaient modifier l’architecture institutionnelle de la cité – ne pouvait rester qu’un ‘vœu’. Ils n’étaient porteurs d’aucune valeur normative hors de la plèbe et ne pouvaient, en théorie, modifier les structures fondamentales de Rome. C’était un appel, un moyen de pression”. 14 Mommsen, Römische Forschungen I 1864, 163 ff.; Id., Römisches Staatsrecht III.1 1887, 157, nt. 1, 159 f.; cf., moreover, Cuq, Institutions Juridiques des Romains I 1891, 458; Krüger Geschichte der Quellen 1912, 17 ff. 15 The idea of two distinct tribal assemblies dates back to Mommsen, Römische Forschungen I 1864, 151 ff. (who also assumes that patricians were debarred from the assemblies summoned by plebeian tribunes in the later years of the Republic). It then gains a general support among scholars. See, for the view supporting the existence of two distinct assemblies based on a common tribal system that coexisted in the early Republic (as of 471 or 449 BC) and that, after the supposed exaequatio, tended to coalesce into one single body, Liebenam, Comitia 1900, 700 f.; Ogilvie, Commentary on Livy’s Books 1–5 1965, 381; Taylor, Roman Voting Assemblies 1966, 6 ff., 60 ff.; Botsford, The Roman Assemblies 1968, 474. Others believe that the emergence of the patricio-plebeian tribal assembly dates after the enactment of the lex Hortensia (287 BC), when plebiscites were made directly binding on all Quirites, and accordingly the patricians started to participate in the voting process of the plebeians: see De Martino, Storia della costituzione romana I 19722, 330 e Storia della costituzione romana II 19732, 154 ff. (mainly at p. 182: where the scholar argues that after the “parificazione dei plebisciti alle leggi”, it would be “assurdo pensare che i patrizi potessero continuare ad essere esclusi dalle assemblee, nelle quali ora si adottavano deliberazioni di interesse generale”). Contra, as supporters of the theory that inclines to deny that patricians had ever a vote in any form of tribal assembly, see Ihne, Die Entwicklung der römischen Tributcomitien 1873, 353 ff.; Kahrstedt, Die Patrizier und die Tributkomitien 1917–1918, 258 ff.; see also Develin, Comitia tributa plebis 1975, 302 ff.; Id., Comitia tributa again 1977, 425 ff.; Sandberg, The concilium plebis 1993, 74 ff.; from a different perspective, cf. Mitchell, Patricians and Plebeians 1990, 221 ff., who shares the view that there was only one tribal and tribunician assembly, even if he fails to regard it as an exclusively plebeian body.
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concerned directly with the problem of plebiscites per se: the former concerning the legislative activity of any tribal assembly in general16; the latter introducing the power of the praetor to summon the Roman people as tribes17. Secondly, he claims that the grant of the auctoritas patrum, being a requirement of the leges publicae populi and affecting the comitial processes only (i. e. being “das Complement des Comitialbeschlusses”), was neither used to enact laws passed by a purely plebeian body (concilium tributum)18, nor was it exactly overlapping with the senatus consultum that was required to precede any popular vote (“Vorgängige Zustimmung des Senat”)19. At the same time, Mommsen acknowledges the existence of a legal principle, established at some point prior to the XII Tables (451–450 BC), which, remaining untouched by the 449 and 339 BC reforms, allowed plebiscites to take general force, provided that the “Vorbeschluss des Senats” had taken place20, until the lex Hortensia was enacted. Such lex, Mommsen maintains, would finally have removed the ancient ‘vestige’ of the senatorial grant, so appearing to have operated along similar lines to the reform concerning the anticipation of auctoritas patrum with respect to the centuriae’s vote, which took place around 50 years earlier21. 16 Mommsen, Römische Forschungen I 1864, 154 ff.; Staveley, Tribal Legislation before the lex Hortensia 1955, 12, tends to support this view. Contra see: Ihne, Die Entwicklung der römischen Tributcomitien 1873, 370 ff.; Lange Römische Altertümer II 1876, 573 f.; Soltau, Die Gültigkeit der Plebiszite 1885, 8, 113 ff.; Roos, Comitia tributa – concilium plebis, leges – plebiscita 1940, 22 ff. 17 Contra, see Staveley, Tribal Legislation before the lex Hortensia 1955, 12: “Mommsen’s view … that the law concerned the right of the praetor to summon the populus by tribes is quite unsubstantiated”. 18 See Mommsen, Römische Forschungen I 1864, 157, 233 ff.; Id., Römisches Staatsrecht III.1 1887, 155, nt. 3, 159; Id., Römisches Staatsrecht III.2 1888, 1037 ff.; see, moreover, Madvig, Verfassung und Verhaltung des römischen Staates I 1881, 233; de Francisci, Storia del diritto romano I 1943, 271; De Martino, Storia della costituzione romana I 19722, 270 ff.; cf. Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 43; Botsford, The Roman Assemblies 1968, 280. Contra, see, among others, Soltau, Die Gültigkeit der Plebiszite 1885, 79; Staveley, Tribal Legislation before the lex Hortensia 1955, 20 f. 19 Mommsen, Römische Forschungen I 1864, 241 ff.; Id., Römisches Staatsrecht III.1 1887, 156 ff.; cf. De Martino, Storia della costituzione romana II 19732, 152. 20 Mommsen, Römische Forschungen I 1864, 215. See, on the lex Cornelia of 88 BC, which revived such pre-Hortensian rule, Id., Römische Forschungen, I, 206 f.; Id., Römisches Staatsrecht, III.1 1887, 158, 160. 21 Mommsen, Römisches Staatsrecht III.1 1887, 159 f. To be more precise, even if Mommsen believes that after the lex Publilia Philonis de patrum auctoritate “Praktische Bedeutung aber kommt der antizipierten Bestätigung gar nicht”, he denies that the change introduced in 339 BC was itself the reason for such decadence: “nicht weil die Anticipirung diese Befugnis denaturierte, was keineswegs der Fall ist, sondern weil dieselbe, als beschränkt auf den patricischen Theil des Senats, wohl geeignet war die patricischen Reservatrechte zu schützen, aber ihre Bedeutung verlor, seit es solche effektiv nicht mehr gab und an die Stelle des Patriciats die patricisch-plebejische Nobilität getreten war” (Mommsen, Römisches Staatsrecht III.2 1888, 1043). In other words, it was under this law (but not due to this law), that the ‘previous auctoritas’ became purely a formality within the legislative process before
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More recently, however, Humbert has reconstructed the Republican history of Rome, in the belief that the data found in the sources are an artificial representation of the facts, and expressions of “inévitables déformations infligées par l’annalistique”: which would deny “credit aux deux lois de 449 et de 339, posant par anticipation une exaequatio qui ne trouve sa place qu’en 287”22. However, this scholar does not go so far as to radically deny a large part of the normative acts prior to 287, as others, following Siber, have tended to23. According to Humbert, as for the period prior to 339 BC, “contraint de refuser à des programmes de revendication l’efficacité normative que les sources démentaient, mais à laquelle le conduisait un préjugé initial, Tite-Live a dû supprimer les plébiscites, mettre en doute leur existence, les bloquer au niveau de projets immatures et inermes”24. As for the period following this, “tout se passe comme si le plébiscite avait acquis valeur normative, car, en général, les preuves d’une tension entre la plèbe et le Sénat ont disparu”; yet “c’est un leurre”, since “la source de la norme se trouve, juridiquement, dans la décision sénatoriale de réformer la constitution et d’appliquer la réforme que la
the centuriae, whereas, almost fifty years later, the lex Hortensia abolished the ‘previous senatus consultum’ required to bring proposals before the plebs. In general terms, the following authors support the view that, as far as the legislative and electoral processes are concerned, the auctoritas patrum, to be granted before the vote and not afterwards, amounted to a formality: Humbert, Auctoritas patrum 1877, 546 f.; Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 115; de Francisci, Storia del diritto romano I 1943, 271 and Id., Sintesi storica 1968, 126; Scherillo, Dell’Oro, Manuale di storia del diritto romano 1950, 92; Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano 1957, 41; Tondo, Profilo di storia costituzionale romana I 1981, 237; for a rather different approach, see also De Martino, Storia del diritto romano II 19732, 151 ff. 22 Humbert, La normativité des plébiscites 1998, 237. 23 See Bleicken, whose view proves to be one of the more extreme: according to this author, “das Plebisscit erzeugte daher kein geltendes Recht; es stand außerhalb der Rechtssphäre, es war politisches Programm” (Bleicken, Lex Publica 1975, 77); yet, he dismisses almost all information provided by the annalists with regard to the period prior to 287 BC, rejecting “mindestens 22 Plebiscite … Übertragungen später politischer Gedanken auf die Frühzeit”, and finally considering authentic only the following seven leges on the one hundred and forty-two quoted by Rotondi (Bleicken, Lex Publica 1975, 77): lex de clavo pangendo (509), XII Tables, lex Valeria militaris (342), lex Publilia Philonis de patrum auctoritate (339), lex Publilia Philonis de censore plebeio creando (339), la lex Maenia de die instauraticio (338), lex Valeria de provocatione (300), lex Hortensia (287). Here, suffice it to say that “tribunician legislative initiative is so well documented in so many areas that it is surprising that modern scholars discount, qualify, or declare unreliable or illegal plebisscita passed before the lex Hortensia of 287 rather than develop an alternative historical explanation” (Mitchell, Patricians and Plebeians 1990, 190; see, moreover, Lanfranchi, Les Tribuns de la Plèbe 2015, 230: “si les prémisses de J. Bleicken sont correctes, la façon dont il évacue la quasi totalité de la législation antérieure à 287 ne peut qu’appeler de vives reserves”). 24 Id., La normativité des plébiscites 1998, 237.
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plèbe a simplement souhaitée, acceptée, formulée”25. Finally he notes, “a partir de 287, la plèbe devient la source formelle de la norme – et le Sénat adopte le rôle à la fois plus discret et plus significatif d’inspirateur”26. In other words, Humbert suggests that according to the general (and historically false) scheme built up by the Roman annalists, either the plebiscite, once voted on, had to be considered immediately valid and, thus, binding for the whole community, or the tribunician proposal was described as incapable of reaching the final stage of voting and approval by the tribes. This ‘historiographic’ artifice was intended to conceal both the true (‘political’, and not legal) nature of the plebisscitum (i. e. “un vœu, adressé aux organes de la cité – en particulier au Sénat – une injonction”), and the (once again ‘political’) determination to rewrite the earliest monumenta of the Roman tradition, i. e. “faire croire que la plèbe fut intégrée dans la cité et récupérée par le droit au terme de concessions et de reconnaissances, toutes aussi apocryphes les unes que les autres”27.
II.2 Some critical remarks In my opinion, such different branches of the same scholarly course share a number of common flaws. First of all, it is undeniable that Livy’s account of the plebeian activity, carried out in the period between 449 and 287 BC, lends no direct support to the above-mentioned interpretations. The tradition preserved in the sources is no doubt afflicted with numerous anachronisms, yet it certainly presents data of high value, so that systematically interpreting the course of events as always at odds with an admittedly consistent tradition sounds, in general terms, quite unpalata25 Id., La normativité des plébiscites 1998, 237, who continues in these words: “la résolution de la plèbe ne crée pas une règle contraignante. La source de la norme se trouve, juridiquement, dans la décision sénatoriale de réformer la constitution et d’appliquer la réforme que la plèbe a simplement souhaitée, acceptée, formulée”. Supporting this assumption would require us to either rewrite the data emerging from some sources or propose a completely partisan reading of others. For instance, as far as the so-called lex Ogulnia (Liv. 10.6.1–6; 10.7.1, 10.9.1–2) is concerned, claiming “que le projet ait été voté par la plèbe, n’y a pas de doute” (Id., La normativité des plébiscites 1998, 230) means going beyond Livy’s text, in which the only mention of a promulgatio is made. Moreover, with regard to Liv. 10.22.9, claiming that the phrase ex senatus consulto et scito plebis implies that “la décision relève du Sénat; la plèbe n’apporte qu’une confirmation” (Id., La normativité des plebiscites 1998, 233) means not reading the sources to discover their meaning, but reading them to attribute a pre-established meaning. 26 Id., La normativité des plébiscites 1998, 237. 27 Id., La normativité des plébiscites 1998, 238. Cf., also, Bleicken, Lex Publica 1975, 85: the plebisscitum is “ein politisches Programm”.
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ble. It, in fact, involves systematically rephrasing, or worse, totally dismissing, all opposing sources, as being conceived of as unreliable, mistaken, or forgeries. Many claim that to be binding for the populus Romanus as a whole, every plebeian resolution passed in the period prior to the lex Hortensia had to be endorsed by a vote of the people, gathered as comitia by centuriae, and yet, it is clear from our sources that there were several plebisscita which were applicable to the general populace without mention of any further recourse to a popular assembly. As such, so as not to weaken, or completely undermine this widely held scholarly interpretation outlined above, these relevant testimonia are usually dismissed by such scholars as being unhistorical, re-read as simple recommendations to the magistrates, or taken as examples of erratic exceptions to the general rule. Let us suppose, for a moment, that all the sources which attest to plebiscites with general applicability are immaterial or untrustworthy. How then, do we explain that, among all our sources, there is evidence for only one possible (and indeed questionable) case of transformation of a ‘plebiscite’ into a ‘centuriate law’?28 This clearly indicates that those who champion this approach have not adequately considered the extant body of evidence and, above all, have failed to discharge their burden of proof. There remain concerns with the view that – even despite the data provided by the annalistic tradition – plebiscites before 287 BC were never granted immediate validity per se, unless the entailed provisions only affected the plebeian organisation29. The following list of doubts shall attempt to further deconstruct against the stance advocated by those scholars who give credits the lex Hortensia only. (1) Why should it be considered absurd or unthinkable for a tribunician rogatio to not lead to a specific outcome, as our sources often attest? If one admits that, for instance, even within the plebeian order there would have existed different opinions and interests, as well as a variety of objections and mutual misunderstandings, then it is no longer necessary to consider that all reports pertaining to the multiple failed attempts of rogationes agrariae placed between 441 and 386 BC were wholesale unreliable30. (2) Why should the historiographic accounts that highlight, through a variety of frameworks, the contrast between patricians and plebeians in the phase imme28 Cf. Liv. 3.53–55 (Id., La normativité des plébiscites 1998, 212, nt. 9; Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 203). 29 This approach shares the distinction between ‘internal’ and ‘external’ plebiscites advocated by Soltau, Die Gültigkeit der Plebiszite 1885, 132 ff. and Siber, Plebs 1951, 67: yet our sources concerning plebiscites do not support it. For instance, any resolution regulating the tribunate itself (e. g., the manner of election; the increase of number; their major power) closely, even if indirectly, affects the patrician order; similarly, statutes passed by the plebs on land distribution and interest rates, although fundamental to the plebeii and their estates, strikes the core of patrician economy. 30 See Table n. 3.
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diately before the vote of the plebs, be seen as unreliable? If one believes that the patrician order wished to portray the plebs as divided among themselves, and to obstruct the very foundation of its political regime, then there is nothing to prevent us from accepting both the extremely intricate course of events in which the rogationes Terentiliae (461–454 BC) were placed by the annalists31, and the non-linear context of the rogatio Canuleia (445 BC)32. (3) If the main purpose of Roman annalists was to rewrite history, by creating forgeries which confirmed that after 449 BC no plebiscite was granted general validity in the absence of patrician approval, why then did the Roman historians not simply describe the rogationes, which were voted for by the plebs but not approved by the patrician civitas, in terms of proposals which were not implemented through the auctoritas? Tribunician vetoes, wars, mutual menaces, opportunistic synergies, represent, as is the case with the rogationes Terentiliae, the background to the rogationes Liciniae Sextiae (367 BC). Without denying that some annalistic exaggerations necessarily exist, accepting such a complicated and controversial picture seems to be a more plausible option than considering this episode an annalistic creation, which sought to establish fictitious facts in order to shape an erroneous historiographical model33. 31 See Table n. 3. See Cascione, Il contesto storico 2018, 2, nt. 14. 32 Liv. 4.1.1–4.6.3; Cic. rep. 2.63; Flor. 1.17; Ampel. 25.3. At the beginning of the year Canuleius promulgated a rogatio on intermarriage, but levies were ordered for war. As a result, the tribune proclaimed that he would obstruct the military operations until the plebs approved his proposal, and accordingly called a contio. At which point, despite the fact the Senate had seriously threatened him, he spoke at length to the plebs to support his proposal; the consuls also intervened, but their speeches antagonised the challenging order. Finally, since the patres were victi (due to the fact either that the patricians ended up supporting the intermarriage, or that the plebeians posed too serious a threat), the Canuleian measure was voted on. Suffice it to say, that even Guarino, La rivoluzione della plebe 1975, 217, admits that “la tradizione relativa a questo provvedimento è troppo piena di particolari per poter essere radicalmente contestata. È giusto credervi” (even if he immediately adds: “ma non sino al punto di ammettere con essa che il divieto di connubium fosse stato esplicitamente confermato [o addirittura odiosamente sancito ex novo] dalle Dodici tavole, in una delle due tavole ‘inique’ del secondo decemvirato, e nemmeno sino al punto di credere che il plebiscito Canuleio sia stato seguito dalla sanzione di una legge comiziale, votata cioè dai soliti improbabilissimi comizi centuriati”). 33 See Table n. 3. Ten years of continuous conflicts preceded the passing of the rogationes Liciniae Sextiae in 367 BC, after a successful Gallic war (vetoes, obstruction of elections for curule magistrates, appointment of dictators, withdrawal of auctoritas patrum, deferral of vote due to Appius Claudius’ speech). Yet, alongside the plebeian threats (a strategy that had not been successful enough to make the Senate accept the measures proposed by Licinius and Sextius), the sources describe some leading plebeians collaborating with their patrician counterparties for mutual benefit (as we know Fabius Ambustus, when military tribune, came out openly in support of the reforms): there is nothing to suggest that, after a
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(4) Moreover, given the several cases of approval of tribunician rogationes concerning the organisation of the plebeian order, which at the same time produced undeniable effects on the patrician order, how can these be explained in line with the supposed annalistic scheme?34 An authentic “nucleo essenziale della tradizione”35 cannot be dismissed and replaced with ‘metaphysical’ notions that either silence the ancient authors, or anachronistically give them modern voices. (5) If, by means of the lex Hortensia (which is conceived of as a statute that in the 3rd century BC expressly renewed the iter plebissciti), the senatorial approval was abandoned with regard to the plebiscitarian processes only, how can one explain the connection, clearly emerging from the sources, between this reform and the exaequatio? In other words, why do classical jurists not present the lex Hortensia as the statute that changed the method of bringing forward plebiscitarian proposals, by removing a requirement that, on the contrary, still remained for the leges publicae populi?
III.1 Relying on the tradition: the view supporting a step-by-step exaequatio Conversely, there is a course of thought which attempts to give a precise legal meaning to the three identical measures, recorded in the sources. By denying that the laws of 449 and 339 BC merely amounted to measures which anticipated the lex Hortensia, i. e. inventions by the annalistic tradition, or to actual measures but decade of a pointless struggle, the rogationes were not finally passed as a result of a responsible and forward-looking patricio-plebeian cooperation. 34 Liv. 2.56.1, 2.57.1, 2.57.4, Dion. Hal. 9.43.4 (in 471 BC V. Publilius brought in his law to the effect that henceforth, the plebeian tribunes should be elected by the tributa assemblies; initially the rogatio was opposed by the patres until Ap. Claudius conceded); Livy 3.30.5; Dion. Hal. 10.30.2 (in 457 BC, a plebiscite to the effect that the number of tribuni plebis increased was passed since the patres eventually approved); Liv. 3.65.1–4 (in 448 BC, L. Trebonius brought before the plebs a rogatio to prohibit the co-optation of the tribuni plebis); Liv. 7.16.8 (in 357 BC a plebisscitum, or rather a lex sacrata, de populo non sevocando passed). All of these cases should be presented in a radically different way, to be consistent with the supposed annalistic scheme indeed, the plebiscites at issue should be approved without any intervention by the Senate (if conceived of as vested with particular validity, as Humbert himself is erroneously persuaded), or be described as failed attempts (if conceived of as having universal validity, since according to Humbert, I plebiscita 2012, 310, “tutti i plebisciti il cui ricordo è stato conservato dagli annalisti …, tutti i plebisicti che portano un nome e che hanno tentato di introdurre una riforma conforme all’ideologia plebea: tutti questi plebisicti sono falliti, sono stati abortiti, sono nati morti”). Sources do not attest to this at all. 35 de Francisci, Storia del diritto romano I 1943, 228; cf. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte I 1988, 289.
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not ones which were concerned with the status of plebisscita, the historical development that led to the legislative plebeian enactments obtaining equal status to those enjoyed by the universally binding popular leges, is explained in terms of a ‘step-by-step emendation’36. 36 See Cornell, The Beginnings of Rome 1995, 278: “the law of 449 conceded the general principle that the plebeian assembly could enact legislation, but in some way restricted its freedom to do so unilaterally, for instance by making plebiscites subject to the auctoritas patrum or to a subsequent vote of the comitia populi, or indeed to both … On this view the supposed restrictions on plebeian legislation would have been partly removed by the law of 339, and completely abolished by that of 287. This explanation, that the laws of 339 and 287 did not replicate that of 449, but re-enacted it while introducing specific modifications, is the only one that fits the facts as we know them”. Other scholars, primarily in the past, considered reliable the Livian tradition en bloc: cf., e. g., Séran de la Tour, Histoire du tribunat à Rome I 1774, 14 f., 103, 261; Hoffmann, Der römische Senat 1847, 132; Ihne, Die Entwicklung der römischen Tributcomitien 1873, 353; Nocera, Il potere dei comizi 1940, 284 f. Yet, being unable to distinguish between the three measures (of 449, 339 and 287 BC), they believed that the last two laws were mere ‘repetitions’ of the first, even if this had not been repealed or had not been made obsolete (see, more recently, Develin, The Practice of Politics 1985, 22). Accordingly, each enactment deserved a political explanation. See, moreover, Mitchell, Patricians and Plebeians 1990, 186 ff., 229 ff., who finds unconvincing any attempt “to create a plebeian assembly”, and considers the struggle of the orders to be a fiction which should be dismissed as a forgery. Accordingly, he assumes that: only one tribal assembly (considered an element of the original system of Rome) existed; only one form of legislation was known, i. e. the plebisscitum; tribunes of the plebs (considered officials of the Republic from its beginning) presided over legislative activity carried out tributim; there was no actual distinction between comitia and concilium; plebiscites were granted universal validity, from the establishment of the tribunate. Against such a backdrop, as far as the measures enacted in 449 and 339 BC are concerned, he claims that “the formulae in all these laws are suspiciously similar in phrasing to the lex Hortensia, but it is unlikely that an inventive annalist created them to demonstrate an ancestor at work or to prove plebeians always had what they were struggling to obtain”; in Mitchell’s opinion, “the solution to the problem is contained in the formula itself and in another Livian passage in which a Twelve Table law was recited by the interrex of 355 B. C., M. Fabius Ambustus”, that is “ut quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset; iussum populi et suffragia esse”. All in all, “all the passages in question are versions of the rule that, for any law, the most recent enactment, creation, or change … was the last pronouncement on the subject and therefore current law”. It is not necessary to take a position on the author’s subversive view concerning the original binding force of plebiscites. As for the ingenious hypothesis concerning the aim pursued by the measures enacted in 449, 339 and 287 BC, leaving aside the fact that Mitchell does not explain the different wording existing between the principle laid out in the XII Tables (ut quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset) and the subsequent statutory rules de plebisscitis (ut quod tributim plebs iussisset populum teneret; plebisscita omnes Qurites tenerent; quod plebs iussisset omnes Quirites teneret), this reconstruction cannot be shared, to the extent that it fails to properly explain which supposed conflict between laws the leges Valeria Horatia, Publilia Philonis and Hortensia would respectively resolve (cf. Cic. Att. 3.23.2; Liv. 9.34; Tituli
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Willems, in the second volume of his extensive work on the Roman Senate, expounds some of the theories already advocated by authors in the 19th century37. For instance, he assumes that the lex Valeria Horatia, the lex Publilia Philonis, and the lex Hortensia alike, were concerned with the whole tribal system and not with the plebeian concilia alone (so that labelling these statutes merely de plebisscitis would be a ‘misrepresentation’)38.
ex corp. Ulp. 3; D. 50.16.102). See, among those who – in general terms – are inclined to trust the tradition as such, Frezza, Corso di storia del diritto romano 1974, 130 f.; Amirante Plebiscito e legge 1984, 2025 ff.; Id., Una storia giuridica di Roma 1991, 139 f., 186 f.; Serrao, Classi, partiti e legge 1974, 39 ff. Id., Lotte per la terra 1981, 94, 130 ff.; see, moreover, Kunkel, Wittmann, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik II 1995, 608 ff., 616. 37 Willems, Le Sénat de la République romaine II 1883, 80 ff. See Karlowa, Römische Rechtsgeschichte I 1885, 118 ff., who recognises – like Willems – that the lex Valeria Horatia could be referred to both leges and plebisscita, but believes – unlike Willems – that the lex Publilia Philonis (as well as the lex Hortensia), concerning the resolutions of the plebs, was intended to remove the requirement of the senatorial ratification. See, moreover, for a similar approach, Soltau, Die Gültigkeit der Plebiszite 1885, 1 ff., and Platschnick, Die Centuriatgesetze von 305 und 415 a. u. c. 1870, 497 ff.: both believe that the lex Valeria Horatia afforded the plebiscites general validity on the condition that the previous senatorial assent was granted; yet, if the latter supports the view that the lex Publilia Philonis was, in 339, barely reproducing the provisions already passed in 449, since they had become obsolete, the former maintains that under the lex passed in 339, tribunes, for the first time, were allowed to dicere cum senatu. Likewise, see Madvig, Verfassung und Verhaltung des römischen Staates I 1881, 242 ff., who sees in the lex Valeria Horatia a measure directed to equate leges to plebisscita, on the condition that the latter were approved by the voluntas of the patres (whatever form the senatorial approval took); in the lex Publilia Philonis the resolution which removed such senatorial intervention and, finally, in the lex Hortensia a mere ‘repetition’ of the second law. Yet, as Botsford notes, it is not possible that the laws on the status of plebiscites had become obsolete and, thus, worthy of reiterating, since plebisscita were being passed under the lex Valeria Horatia (as, for instance, the plebisscitum Genucium). Accordingly, this author suggests that the lex Valeria Horatia bestowed validity to plebisscita on the condition of a prior senatorial approval, whereas, he explains, the law passed in 339 was the final response to the question concerning the patrician participation in the assemblies summoned by tribunes: in other words, this law is suggested to be explained by the objection arisen by the patres against the plebisscitum Genucium due to their absence in the voting assembly (Botsford, The Roman Assemblies 1968, 277, 299 ff.). 38 “Les comitia tributa étaient régis par les mêmes conditions légales que les concilia tributa plebis. Si d’une part les lois tributes étaient soumises aux mêmes conditions que les plébiscites, si d’autre part la tradition ne mentionne pas les lois qui ont réglé ces conditions, on est amené naturellement à conclure que les mêmes lois qui, d’après la tradition, concernaient les plébiscites, se rapportaient aussi aux lois tributes, et qu’elles ont subordonné aux mêmes règles toute loi votée tributim, soit par la plèbe, soit par le populus” (Willems, Le Sénat de la République romaine II 1883, 91).
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If, initially, “les décisions votées par la plèbe n’étaient pas soumises à la patrum auctoritas”39, the first lex changed the current legal status of the plebiscites (and in so doing, confirming a use already well established in the 5th century BC), by bestowing the plebeian resolutions universal validity on condition that the vote expressed by the tribes was ratified by a (subsequent) sanction given by the patres-senators. Almost a century after, the second lex provided a similar regulation: only now the auctoritas patrum was to be afforded ante initum suffragium (before, and not after, the vote), as was the case with the proposals of leges brought before the centuriate assembly by curule magistrates under the simultaneous lex Publilia Philonis de patrum auctoritate. After which, the preliminary auctoritas patrum both “se confond avec le senatus consultum préalable”40, and continues to function as a binding requirement41. 39 Id., Le Sénat de la République romaine II 1883, 74. 40 Id., Le Sénat de la République romaine II 1883, 92: “les anciens, parlant de l’autorisation préalable, se servent indifférentement des termes: patrum auctoritas, senatus auctoritas, patrum consilium, senatus consultum, senatus sententia”; cf., amplius, Id., Le Sénat de la République romaine II 1883, 33 ff., 93 ff., 222 f. On the connection (if not identification) between auctoritas patrum and preliminary senatus consultum and on the meaning of the phrase senatus auctoritas, see, for instance, Nocera, Il potere dei comizi 1940, 271 f.; Grosso, Storia del diritto romano 1965, 202 f.; De Martino, Storia della costituzione romana II 19732, 152 f., e III 19732, 313 f.; Mannino, L’‘auctoritas patrum’ 1979, 121 ff.; Tondo, Profilo di storia costituzionale romana I 1981, 237; Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 41 ff., 70 f., 106 ff., 230 ff.; Magdelain, De l’‘auctoritas patrum’ 1990, 385 ff.; Cascione, Consensus 2003, 80, nt. 112. 41 The preliminary auctoritas patrum granted to proposals relating to legislation (so that no draft could be brought before the voting assembly until it had been approved by the patres) is usually seen as a restriction of the powers of the patrician Senate, as the final decision shifts from the most eminent representatives of this body to the assembly, and therefore the auctoritas would lose its original and fundamental role. On the contrary, according to Willems, Le Sénat de la République romaine II 1883, 72 ff. (who develops his thesis specifically dealing with the topic of leges centuriatae), it seems more likely that the leges Publiliae Philonis strengthened (or at least did not weaken) the position of the Senate. In Willems’s view, in other words, from 339 BC on, the assemblies – both mixed and plebeian – were only allowed to take resolutions that, in substance, turned out to be the result of a previous agreement between magistrates (elected from the nobilitas) and the Senate, so that, only at the last stage the assembly was involved: “le droit que le Sénat perd en théorie à l’égard du peuple, il l’obtient à l’égard des magistrats: en fair, l’influence du Sénat est plus étendue, plus efficace qu’antérieurement”. Cf., amplius, Zamorani, Plebe Genti Esercito 1987, 130 f.; Id., La lex Publilia del 339 a. C. e l’auctoritas preventiva 1988, 3 ff.; see, moreover, Di Porto, Il colpo di mano di Sutri 1981, 333; Amirante, Plebiscito e legge 1984, 2035, nt. 21; Mannino, Ancora sugli effetti della lex Publilia Philonis de patrum auctoritate e della lex Maenia 1994, 114; Humbert, La normativité des plebiscites 1998, 229; Graeber, Auctoritas patrum 2001, 27 ff. For an approach that ultimately is not so different from Zamorani’s, see Guarino, ‘Novissima de patrum auctoritate’ 1988, 140 f., who not only assumes that under the regulation passed in 339 BC plebiscites were bestowed general validity, only on the condition that they were converted into
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Finally, due to the lex passed in 287 BC, the legislative process which sought to pass plebiscites was completely dispensed with the requirement of the “patrum auctoritas préalable”42, until “Sulla rétablit la senatus ou patrum auctoritas comme comitial statutes, first approved by the Senate and then voted on by the centuriae, but also denies “che con la lex Publilia la auctoritas patrum si sia di colpo ridotta, quanto alle leggi comiziali, ad una mera formalità, o anche … ad un parere obbligatorio, ma non vincolante, reso dai patres sulle rogationes”. Conversely, in Biscardi’s view, under the leges Publiliae Philonis, the role played by the senatorial pre-approval varied depending on the type of voting assembly (Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 43, 87 ff.; 236 ff., 248 f.; see, in a similar way, Mannino, L’‘auctoritas patrum’ 1979, 83, 104, 121). 42 “Les patriciens prétendaient qu’à défaut de la patrum auctoritas les plébiscites ne les obligeaient pas. Depuis la lex Hortensia la controverse a cessé, parce que cette loi a aboli la patrum auctoritas comme condition nécessaire de la force obligatoire du plébiscite”, since “depuis cette époque l’histoire mentionne des plébiscites qui ont été votés et exécutés, malgré l’opposition du Sénat, partant, sans la sanction préalable ou subséquente de la patrum auctoritas” (Willems, Le Sénat de la République romaine II 1883, 80 f.). See, for a similar view, Beseler, Beiträge 1920, 109 (who, anyway, does not deal at length with the issue), and, above all, Niccolini, Il Tribunato della plebe 1932, 54 f. (who, as far as the lex Valeria Horatia de plebis scitis is concerned, argues that, if “le leggi che venivano approvate dal popolo nei comizi dovevano esser confermate dall’auctoritas patrum”, it was “logico quindi che i plebissciti, se dovevano acquistare valore di leggi, dovessero per lo meno essere sottoposti ad un senatoconsulto”; as for the resolutions proposed by Publilius Philo in 339 BC, the scholar believes that, if, through these measures, “si vuole … mettere perfettamente alla pari patrizi e plebei nei poteri legislativi”, thus, “i plebisciti devono … essere sottoposti al medesimo trattamento: anch’essi già vincolati dal senato-consulto successivo devono, analogamente, essere sottoposti al senato-consulto preventivo”). Accepting the Livian tradition almost literally and rewriting Willems’s thesis with a personal touch, Tondo also assumes that, if the lex Valeria Horatia required the granting of the subsequent auctoritas patrum (in addition to the “senatoconsulto preventivo”) for the plebisscita to be universally binding, under the reforms enacted in 339 BC the auctoritas patrum became ex lege a requirement to be fulfilled ante initum suffragium for both leges comitiales and plebisscita. At the same time, any tribunician proposal ceased de iure to be required to meet the binding consent given by all senators, as, on the contrary, was customary before (this would amount to a requirement that Sulla and his colleague decided to revive in 88 BC, by reintroducing the προβούλευμα); on the other hand, since the use of the “senatoconsulto preventivo” still remained with regard to the leges comitiales, this implied that the previous auctoritas – which was granted by the patrician senators only – started to serve as a mere “autorizzazione in bianco”. It was only under the lex Hortensia that such auctoritas was removed from any legislative process, making equal the resolutions of the plebs to that of the leges populi and overcoming the attacks mounted by the patricians (see Tondo, Profilo di storia costituzionale romana I 1981, 237; Id., Presupposti ed esiti dell’azione del trib. pl. Canuleio 1993, 44 ff.; see, moreover, Mannino, Ancora sugli effetti della lex Publilia Philonis de patrum auctoritate e della lex Maenia, 1994, 95 ff., who appears inclined to espouse such reconstruction; but see also Id., L’‘auctoritas patrum’ 1979, 60 ff., 103 f., who, on the one hand, claims that “in teoria, esistono talune difficoltà ad ammettere anche per i plebisciti un’auctoritas preventiva”, and, on the other hand, intends to point out that,
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condition préalable au vote de toute loi”, and henceforth “interdit aux tribuns … de soumettre aux concilia plebis des rogationes qui n’étaient pas approuvées préalablement par le Sénat”43. Sharing many features with previous reconstructions44, Staveley’s innovative model follows a rather conservative approach to the sources. According to this scholar, in the period before the 449 BC reform, any plebiscite had to be reintroduced by a consul as a proposal before the comitia and consequently approved by the majority of centuriae as a general law. In this model, the lex Valeria Horatia would have thus given all of the enactments carried by each of the two tribal systems of voting – whether plebeian (in concilio), or mixed (in comitiis) – equal standing, by conferring general validity as a result of the senatorial ratification (auctoritas patrum); the lex Publilia Philonis would then have freed the comitia tributa from such patrician sanctions, while the scita enacted by the plebeians in their tribal assemblies would have continued to be subject to the ratification of the patres45. Finally, always within Staveley’s scheme, since the plebisscita would have, once again, assumed a status inferior to that of leges, and tension between the two orders would have followed, in 287 BC (i. e. when Rome had reached a point of no return and there was a real risk of a tragic rupture within the city and a fratricidal war) the dictator Hortensius, as a result of passing his law, released the concilium plebis from any senatorial (or rather patrician) control, thus giving unconditional validity to the tribal enactments of the plebs. Salisbury’s contribution is one of the last attempts to explain the historiographic tradition and to attribute Livy’s account attesting to two separate laws
prior to the passing of the lex Hortensia, “i plebisciti necessitavano di un assenso preventivo”). 43 Willems, Le Sénat de la République romaine II 1883, 104 f. 44 Staveley, Tribal Legislation before the lex Hortensia 1955, 3 ff.: the author shares with Mommsen and Willems the view that the Valerio-Horatian, as well as the Publilian legislation, primarily concerned the tribes, rather than the plebeian councils; with Willems the view that after 449 BC plebisscita could be binding for the entire populus, only by the granting of auctoritas patrum (ratification); with Roos the view that there had “at one time been two distinct assemblies, one comprising plebeians alone, the other the entire populus, but from at least the second century BC no efforts were made to exclude the patrician vote in any comitia”. 45 Staveley, Tribal Legislation before the lex Hortensia 1955, 31: “the consul, Publilius Philo, attempted to adapt the constitution to the recent change in the composition of the governing class. The right of the patricians to veto legislation carried in the comitia populi tributa was withdrawn as being anomalous and of little value to the new nobilitas”. See Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano 1957, 40 ff., and Humm, Appius Claudius Caecus 2005, 427 f.: both support the theory that after 339 BC the plebiscites were binding for the whole community, only if, ex post, ratified by the patres through their mandatory and binding approval.
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de plebisscitis enacted prior to the final reform of 287 BC, as reliable46. According to this author, all plebisscita unofficially recognised by the patres before 449 and, as such, enjoying “a quasi-lex status” would be definitively and formally afforded general validity due to the lex Valeria Horatia47. Salisbury thus suggests that, within the context of the increasingly aligning interests of the leading plebeians and the patrician oligarchy, after approximately a century, the leges Publiliae Philonis would have changed the status of plebiscites in two different ways: de futuro, by labelling the ‘auctoritas patrum’ requirement as the approval to be given by the patres, in order to pre-validate any general measure that a tribune was going to bring before the concilium plebis; de praeterito, by giving legal validity to the plebisscita that had been recognised by the Senate in the time frame between 449 and 339 BC (that is, by imitating the precedent of the Publilian lex)48. Finally, Salisbury notes that the lex Hortensia would have allowed the concilium plebis to enact general resolutions: thereafter, such measures would become equal in status to leges, and as for the requirements of the legislative process, the constraint of the auctoritas patrum would be removed49.
III.2 Some critical remarks Willems’s and Staveley’s attractive and ingenious theories – which, as already noted, tend to read the tradition literally – do rest on the assumption that a patricio-plebeian assembly which voted on leges by tribe, existed as of the the mid-5th century BC: something that, to the best of our knowledge, is impossible to conclusively demonstrate50. Suffice it to say that, with reference to Publilius’ second law, 46 Salisbury, The Status of Plebisscita 2019, 1 ff. A further recent reconstruction that believes in the historicity of all three laws de plebisscitis has been suggested, albeit in less detailed terms, by Petrucci, Corso di diritto pubblico romano 2017, 40 ff.: according to this scholar the law of 339 would require, as did the contemporary law on legislative procedure, the preventive auctoritas patrum in order to bring a proposal before the plebs. However, as will be better seen, the sources concerning the period between 449 and 339 already seem to attest for plebiscites the requirement of auctoritas ante initum suffragium. This makes the supposed historical development unlikely. 47 Id., The Status of Plebisscita 2019, 6 f. 48 Id., The Status of Plebisscita 2019, 12 f. 49 Id., The Status of Plebisscita 2019, 14 f. See, for a similar approach, Cerami, Corbino, Metro, Purpura, Ordinamento costituzionale 2006, 39 f.: “nel 339 una legge Publilia Philonis potrebbe avere rinnovato il provvedimento che era stato già della lex Valeria Horatia e riconosciuto così tutti i precedenti plebisciti già votati. Nel 287 una lex Hortensia dispose in ogni caso la piena efficacia per tutti i cives delle delibere che da quel momento in poi sarebbero state assunte dal concilio plebeo”. 50 The lex Manlia de vicesima manumissionum (a law passed tributim and outside Rome, i. e. at Sutrium, in 357 BC) would be “the strongest indication that comitia tributa were employed
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which placed auctoritas patrum before the voting of centuriate laws only, it sounds quite unreasonable that such an adjustment (ut legum quae comitiis ceniuriatis ferrentur ante initum suffragium patres auctores fierent) was not conceived of as applying to all laws voted by the populus. Accordingly, the centuriae still seem to be the only legislative units into which the populus was divided in preparation for the vote at that time, i. e. 339 BC. Yet, even if one believed that from the 4th century BC onward the entire Roman populus was permitted to vote by tribe (in order to pass a lex, besides electing minor magistrates) and that, at some date, perhaps between 357 and 304 BC, the resolutions of such assembly had ceased to be subject to the (subsequent) auctoritas patrum, the statutory measure which effected this change could not be identified with the first lex Publilia Philonis. Indeed, such lex was directed, in the words of Livy, ut plebisscita omnes Quirites tenerent. How does a measure supposedly concerning the relation existing between the procedural requirement of the auctoritas patrum and the vote of the so-called comitia populi tributa (if not in any tribal assembly, no matter if mixed or plebeian, according to Willems) be expressed in terms of universally binding plebiscites? Why would such provision expound a simple and clear notion (i. e. ‘removing the auctoritas patrum’ in Staveley’s opinion; ‘preponing the auctoritas patrum’, in Willems’s) through wording which directly linked to a totally different aspect (i. e. the universal validity of the resolution voted by the plebeian tribes)? Finally, why would Livy – or his source – refer to plebisscita alone, by consuls for the purpose of carrying legislation in the 4th century”, and more precisely prior to 339 BC (see Staveley, Tribal Legislation before the lex Hortensia 1955, 10; cf. Botsford, The Roman Assemblies 1968, 303). Yet, some authors refuse to recognise the use of the comitia populi tributa for carrying out legislation in that period, claiming that Manlius’ procedure was exceptional and irregular (Di Porto, Il colpo di mano di Sutri 1981, 318, nt. 11, 332 f.; Graeber, Auctoritas patrum 2001, 49). Others maintain, even if following different interpretative paths, that, on that occasion, the centuriae were summoned to vote (Biscardi, ‘Auctoritas patrum’, 1987, 29 f., 231 f.; Guarino, ‘Novissima de patrum auctoritate’ 1988, 119). Others suppose the vote of the plebs (Develin, Comitia tributa plebis 1975, 326 f.). Independent of the problem of the existence of such popular assemblies as opposed to the plebeian councils as of the 5th century BC, Staveley’s thesis remains irremediably flawed in terms of the interpretation of the ancient sources. As Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano 1957, 414 f., points out, how can the law of 449 BC be supposed to have related, at the same time, both to quod populus tributim iussisset and to quod plebs tributim iussisset, if in the Livian text the key-words – contrary to what Staveley claims – are plebs, populus and tributim (ut quod plebs tributim iussisset populum teneret)? Moreover, it is not true that the presence of the adverb tributim can only be explained on the condition that, as Staveley supposes, the original measure at issue was somehow concerned with the same body, i. e. the populus, which at times voted by centuries, at times by tribus: such a term could plainly work, in the text of the lex Valeria Horatia, as a reference to the reform enacted in 471 BC and therefore it could simply reaffirm that, with regard to the plebeian councils, only the votes of the tribes (and not of other plebeian voting units) could be considered as binding.
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instead of mentioning either leges brought before the so-called comitia populi tributa or, more generally, all tribal enactments?51 As concerns Salisbury’s thesis, it further raises many questions. If the lex Valeria Horatia de plebisscitis is to be credited with the aims suggested by this scholar, what possible stipulations could the lex Valeria Horatia de tribunicia potestate have included, since this statute is expressly credited with recognising as sacrosanct magistrates of the city the tribunes, i. e. an office introduced in 494 BC by means of a lex sacrata approved without the patres? Moreover, if a vote by the plebs was, de facto and de jure, binding on all Romans, due to the adhesive intervention of the patres, in the frame of the ‘fluid’ constitution of the Republic, what was the practical function pursued by the laws of the years 449 and 339, if not that of unnecessarily reaffirming the same binding force? Why, contrary to the identical formulation the sources show, would the three different laws have produced different kinds of effects, the first one concerning the past, the second both the past and the future, the third only the future? How can we combine the view that, after the lex Hortensia plebiscites ceased to be subject to the preliminary auctoritas patrum introduced by the lex Publilia Philonis, and Gaius’ reading that before 287 BC patricians claimed that they were not bound by plebisscita ‘as (quia and not quae) they were created without their auctoritas’?
IV.1 Rejecting the past and relying on the tradition: the view that champions a ‘two-stage equalisation’ An intermediate theory – which, in the last few decades, has received many, albeit not always accurately motivated, adhesions – takes a less conservative line and assumes that only the Valeri0-Horatian laws enacted in 449 BC amount to an annalistic forgery, being they an attempt to explain the validity of certain plebiscites passed by the tribal council prior to the passing of lex Publilia Philonis and of the lex Hortensia52. 51 See Develin, Comitia tributa plebis 1975, 322, nt. 89: “the sources say quite clearly that the laws concerned plebeian decisions and to make them say anything else is unsubstantiated conjecture”. 52 See Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano 1957, 42: “a parte l’inverosimiglianza della tri plice disposizione, la prima datazione è in sé inaccettabile: che appena qualche decennio dopo l’istituzione del tribunato, ed oltre un secolo prima che la plebe fosse ammessa alle magistrature curuli, essa ottenesse il privilegio, quant’altro mai risolutivo, di vincolare con le sue leggi tutto il popolo, è fuori di ogni verisimiglianza. Se a base della tradizione relativa alla legge Valeria Orazia è un qualche nocciolo di verità, si deve trattare esclusivamente di un diverso nome dato al riconoscimento (attribuito, come vedemmo, ad altra legge degli stessi consoli) del carattere sacrosanto dei tribuni: la legge avrebbe conosciuto il valore delle elezioni che la plebe faceva nei suoi concilii, e gli annalisti avrebbero riferito il riconosci-
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Biscardi has developed one of the most in-depth version of this scholarly trend. This scholar accepts as true that in the course of the 5th and 4th centuries BC (i. e. prior to, and after, the XII tables) the plebeian resolutions recorded by the tradition need only be explained as ‘extraordinary cases’ (i. e. as plebiscites that would become laws by a vote of the comitia centuriata), or as ‘centuriate laws’ which the annalists, either erroneously or intentionally, presented under the veil of enactments by the plebs53. Against such a background, Biscardi gives the term auctoritas patrum, in connection with the process directed to pass a plebisscitum, two fundamentally different legal meanings54: after the lex Publilia Philonis55, this mento alla legislazione” (see Id., Storia del diritto romano 1957, 42, 52, 220); cf., following a similar line of thought, Costa, Storia 1925, 85 f.; Scherillo, Dell’Oro, Manuale di storia del diritto romano 1950, 92, 115, 168 f., 206 ff.; De Martino, Storia della costituzione romana I 19722, 374 f., 391 ff., and III 19732, 69 ff.; Cassola, Labruna, I concilia plebis 1989, 216 ff.; Nicosia, Lineamenti 1989, 245 ff.; Graeber, Auctoritas patrum 2001, 28, nt. 69; Humm, Appius Claudius Caecus 2005, 426 ff. See also Lintott, The Constitution 1999, 114, who believes that plebeian resolutions “at first … seem to have been only binding on the plebeians themselves, but the lex Publilia of 339 seems to have made it possible for them to be validated for the whole populus Romanus, through ratification either by the senate or by another assembly”, and that “the lex Hortensia of 287 made plebisscita equivalent to leges passed in the comitia centuriata or tributa”. 53 See Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 81 f., where, as regards the lex Valeria Horatia, some of the ideas already suggested by Pais and Arangio-Ruiz are reaffirmed: this statute, according to Biscardi, “appartiene a un’età rispetto alla quale tutta la tradizione è fallace”, and at most can be considered an altered version “di quello che è il carattere sacrosanto della magistratura tribunizia”. 54 More precisely, he recognises four different nuances: “auctoritas-ratifica politico-religiosa delle deliberazioni comiziali”, “auctoritas patrum preventiva dissociabile in formalità liturgica riservata ai senatori patrizi ed in parere preliminare non vincolante dell’intero se nato sulla rogatio del magistrato alle assemblee plenarie del popolo Romano”; “auctoritas patrum concernente le rogationes tribuniciae, nel senso di nulla-osta senatorio per la loro presentazione ai concilia plebis”; “auctoritas patrum preventiva, applicabile ai plebissicita come alle altre leges populi Romani … nel senso di senatoconsulto preliminare non vincolante” (Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 248 f.). 55 See Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 82 f., 87 f., where this author draws the reliability of the lex enacted in 339 BC, from the account Appian (bell. civ. 1.59.266) sketches with regard to the Sullan reform that, in 88 BC, was directed to overcome the discipline introduced by Hortensius in 287 BC and to revive the preceding system: “il ricordo della norma già abrogata concernente le rogationes tribuniciae non può non riferirsi alla lex Publilia Philonis”; according to such a law, revived by Sulla, any tribunician rogation was required to be implemented by a προβούλευμα, that is the “approvazione preventiva di una proposta, sulla quale l’organo deliberante deve ancora esprimere il suo voto”, pace Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano 1957, 40, 50, 192 (who, against the littera of the account written by Appian, believes that under the lex Publilia Philonis it was the plebiscite already voted on, and not the rogation, that needed to be ratified by the patrician Senate; see, as implicitly adhering to Arangio-Ruiz’s view, the recent pages written by Humm, Appius Claudius Caecus 2005, 121,
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term would indicate a mandatory and binding measure, which had to be sanctioned by the patres before the suffragium (voting) of any plebeian resolution which sought general validity (whereas, on the contrary, the legislative bills, after the reforms passed in 339 BC, would be subject to a mandatory, yet non-binding, prior ‘advisement’ by the patres). From the enactment of the lex Hortensia to the Sullan ‘reforms’ de comitiis centuriatis and de tribunicia potestate – or rather ‘restorations’, since they merely revived some neglected features of Roman public law56 – the auctoritas patrum would, in this model, map onto a preliminary and non-binding senatus consultum, changing into a ‘mere formality’ within the processes aimed at the enactment of plebiscites and comitial statutes alike57. In other words, the 190 f., 426 ff., 454). Likewise, see De Martino, Storia della costituzione romana I 19722, 391 f. (mainly p. 394), who claims that “il Senato potesse esplicare anche sui plebissciti quel controllo preventivo, che in seguito all’altra legge Publilia esercitava sulle rogazioni comiziali, un controllo che derivava dalla prassi consuetudinaria formatasi già prima del 339, di sottoporre preventivamente al Senato le proposte tribunicie al fine di attribuire ai plebissciti, mediante l’adesione dei patres, quella forza obbligatoria, che ad essi mancava”. In other words, according to this author, the (historical) lex Publilia Philonis de plebisscitis in 339 BC would recognise a practice that had been well established in previous centuries; on the contrary, Biscardi ‘Auctoritas patrum’ 1987, 82 ff., argues that the plebisscita, prior to 339 BC, were bestowed general validity by means of senatorial approval as exceptional and isolated cases. In similar terms, see Graeber, ‘Auctoritas patrum’ 2001, 254, 256: “das zweite publilische Gesetz de plebisscitis brachte wahrscheinlich nicht, wie Livius irrtümlich gemeint hat, die gleiche Regel wie die des Jahres 287 (lex Hortensia)”, since “wird es die in diesen Jahren noch immer offene Frage nach der Allgemeinverbindlichkeit der plebisscita dahingehend geregelt haben, diese von einer durch die Volkstribune vorher einzuholenden Willensäußerung des Gesamtsenats abhängig zu machen; in 339 BC, “zum erstenmal wurden diejenigen plebis scita, die für den populus bindend sein sollten, einer Vorberatung des Gesamtsenats unterstellt”; yet, unlike Biscardi, this author believes in “eine nachträgliche auctoritas-Erteilung” given in isolated and exceptional cases prior to 339 BC (“dagegen wurden vor 339 die licinisch-sextischen Rogationen erst nachträglich durch die auctoritas patrum für allgemeinverbindlich erklärt”: Id., ‘Auctoritas patrum’ 2001, 102). 56 Cf. Sandberg, Magistrates and Assemblies 2001, 130: “it is certainly reasonable to assume that Sulla did not want to appear as a radical reformer introducing something entirely new. The conservative leader of the optimates would rather emphasize that he restored an older, neglected constitution, thus giving his actions the justification of ancestral practice”. 57 Biscardi,’Auctoritas patrum’ 1987, 92 ff., 105 ff.: “i plebisciti, escluso con la lex Hortensia il requisito del preventivo assenso senatorio, rimangono peraltro sottoposti ad una previa consultazione del senato, sostanzialmente come le vere e proprie leggi dopo la lex Publilia de patrum auctoritate”. In other words, according to this author, the lex Hortensia would have allowed the exaequatio, not in the sense of no longer requiring a binding prior pre-ratification, but in the sense of requiring a previous, mandatory and non-binding auctoritas patrum for the plebeian resolutions and the leges alike (cf. Nocera, Il potere dei comizi 1940, 284 ff., who believes that, even prior to the enactment of the lex Hortensia the grant of the senatorial approval, to be given before the rogation was voted on, amounted to a mandatory requirement). Contra, see Guarino, ‘Novissima de patrum auctoritate’ 1988, 133: “se anche la lex
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final exaequatio, as supposed by this scholar, would affect the modalities of both proposing and voting on the rogationes before the concilia plebis, rather than directly involving the binding force bestowed upon the plebisscita.
IV.2 Some critical remarks According to this view, as already noted, during the first phase of the republican era, the plebisscita could only be granted general validity in exceptional circumstances (as long as they were converted into leges centuriatae and ratified by the patres); thus, prior to 339 BC, each plebeian enactment merely amounted to a non-binding political programme. However, such scheme is not persuasive in light of the source evidence. On the one hand, the sheer number of plebiscites recorded between 449 and 339 BC which were passed without senatorial opposition, or with explicit senatorial approval58, makes it very difficult to believe that there was a process of constant falsification, or systematic mistakes rooted in the annalistic tradition. What is more, the alleged conversion into leges, as already highlighted, finds almost no concrete testimonia in the sources. On the other hand, the exclusion of the general validity of a plebiscite in the event of senatorial obstruction during the same period, as confirmed by Livy, seems to suggest the opposite59. However, Biscardi contends that after 339 BC, the patrician auctoritas that was required for the proposals of leges populi suddenly became a non-binding “parere preliminare” (if not a formality), while the corresponding act which granted the voting of plebisscita remained a binding “nulla-osta”. As such, it can be suggested that, due to the reform enacted by Publilius Philo, the exaequatio turned out to be incomplete. Indeed, given that ancient auPublilia Philonis de plebisscitis altro non è che una invenzione annalistica, cosa che sarebbe davvero eccessivo affermare, è chiaro che il suo contenuto non può essere stato lo stesso della ben posteriore lex Hortensia de plebisscitis del 287 a. C.: la vera legge, quest’ultima, che promosse pienamente i plebisscita, senza bisogno di auctoritas patrum, al livello delle leges populi”; likewise, see Magdelain, De l’‘auctoritas patrum’ 1990, 385 ff., 398 f., who, adhering to Mommsen’s notion (Mommsen, Römisches Staatsrecht III.1 1887, 155, nt. 3), rejects the view that, both before and after 287 BC, plebiscites were per se subject to the grant of the senatorial authorisation; on the contrary, Graeber, Auctoritas patrum 2001, 27 ff., 94 f., 103 ff., 254 ff., denies that, once the lex Hortensia was enacted, the auctoritas patrum was removed: more precisely, this scholar assumes that “in der historischen Deutung bedeutete diese lex zwar den Abschluss der Ständekämpfe”, even if “das Gesetz diente der Lösung eines konkreten politischen Problems” and “rechtlich gesehen sollte sich nichts grundlegendes ändern”, as “die lex Hortensia die auctoritas patrum für Plebiszite künftig als generell gegeben ansah”. 58 See Table n. 3. 59 Liv. 3.63.9.
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thors point out that, at least regarding the former type of general resolutions, as of 339 BC the senatorial auctoritas came before the final decision made by the comitia, not after, on what textual bases does Biscardi’s construction rest?60 Finally, why would the jurists describe the lex Hortensia as the statute that gave the plebisscita the same status as that granted to the leges, if, in reality, such a result had already been achieved in 339 BC? Furthermore, this would mean that in 287 BC the dictator Hortensius, through his well-known law (which Biscardi conceives of as relating to the iter plebissciti, rather than to the general validity of the plebeian resolutions), would have merely transformed the auctoritas patrum into a “previa consultazione del senato … non vincolante”61.
60 See Guarino, ‘Novissima de patrum auctoritate’ 1988, 133, who, in part, follows Zamorani, La ‘lex Publilia’ del 339 a. C. 1988, 6 ff. On the grounds of his general idea, Biscardi, unlike Guarino, believes that App. bell. civ. 1.266 focuses only on plebiscites, since for the “rogazioni legislative curuli … non era mai stato prescritto il requisito del preventivo assenso senatorio, dato che infatti l’anticipazione dell’auctoritas aveva determinato immediatamente la sua trasformazione da ratifica in senatoconsulto non vincolante”. The conclusion is generally persuasive (i. e. it is likely that Appian mentions the plebeian resolutions in this passage, making it clear that δῆμος means πλῆθος); however, the author’s reasoning is unconvincing: indeed, in 339 BC the lex Publilia de auctoritate did not change the auctoritas-ratification into an auctoritas-advice, but – as Livy attests – it simply required auctoritas-ratification to follow, not the vote (as it was before), but the magisterial proposal. 61 To be more precise, according to Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 93, 106, some of the plebiscites voted for after 287 BC passed “nonostante il voto contrario del senato” (implying that the senatorial advice was not binding); moreover, it is his firm belief that the annalistic tradition proves “l’obbligo per il magistrato proponente di far precedere la votazione dalla consultazione del senato” (implying that the senatorial advice amounted to a formal requirement). Such a picture does not seem to me sufficiently accurate. On the one hand, many sources relating to the period after the enactment of the lex Hortensia, attest to some cases where the plebiscites were voted and enacted at times despite the Senate’s vote against them (which means that the tribunes addressed the Senate for its advice, before bringing forward their proposals), at times without the Senate’s prior consent (which means that, under some circumstances, the tribunes did not call on the Senate at all). On the other hand, Livy makes it clear that – no matter what the lex Hortensia concretely established – after 287 BC a high number of tribunician proposals seem to have been submitted before the plebs (… tulit ad plebem …) at the request (… ex auctoritate / ex consulto …) of the Senate or of the patres, rather than being voted only after the Senate’s “previa consultazione non vincolante”. In other words, as far as the period after 287 is concerned, the unitarian feature thought by Biscardi (i. e. the auctoritas conceived of as “senatoconsulto preliminare non vincolante” or “parere espresso dal Senato … non giuridicamente vincolante”) must be replaced with a more subtle and multifaceted picture.
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V. Interim considerations In the light of the fundamental issue on which this contribution is based, I will briefly summate some of the main results achieved in my critical analysis thus far. After the lex Valeria Horatia (449 BC) and before the lex Hortensia (287 BC), what was the legal status enjoyed by plebiscites and, as far as their general validity is concerned, what was the role played by the Senate? Such questions, as already emphasised, have been addressed and discussed so intensively and widely, that it is almost impossible to comprehensively enumerate each single attempt here62. Against such a bulk of varied pictures, on the one hand, there is still room for a re-examination of the issues, and for a fresher analysis of the sources. On the other hand, some preliminary and brief remarks, stemming from the results shown above, are necessary to frame the personal reconstruction which the remainder of this paper will focus on. Firstly, it has been argued that the sources do not demonstrate that, in order to be binding on the community as a whole, the plebeian resolutions, passed in the period prior to the lex Hortensia, had to be endorsed by a vote in the comitia centuriata. Roman historians present a good number of plebisscita as enactments directly vested with general validity and which were in the interest of the patricio-plebeian nobility, without mentioning any further recourse to the popular assembly (even if, as clearly emerges, the support of both patricians and plebeians was constantly required). Secondly, it is ungrounded to claim that, in the period between the 1st century of the republican age and the occurrence of the full exaequatio in 287 BC, resolutions of the plebs were never granted immediate validity per se, unless they only affected the plebian organisation. Plebisscita regularly pertain to aspects relating to the entire community and, as already noted, quite a number of passages drawn from the annalistic sources – far from being isolated exceptions – reliably show the binding force granted to tribunician proposals, as voted by the plebeian council with the approval of the Senate63. Thirdly, as for the third lex Valeria Horatia64, the sources referring to the period between the years 449 and 287 BC are replete with numerous examples of 62 Accordingly, Table n. 1 is intended only as an example of the multifaceted variety of views that scholars, taking different approaches, have put forward to depict the scenarios of the period between the mid-5th and the beginnings of the 3rd centuries BC. 63 As Cornell, The Beginnings of Rome 1995, 277, claims, arguing “that only the third and latest of these laws is historical” amounts to a sceptical interpretation that “cannot possibly be correct, because a number of plebiscites are recorded in the period before 287 BC which obviously did have the force of law”; moreover even if “some of these may be doubtful … it would be hypercritical to deny the historicity of such fundamental measures as the Leges Liciniae-Sextiae (367 BC), or the Lex Ogulnia (300 BC)”. 64 App. bell. civ. 2.453, 4.65; Cic. rep. 2.54; Dion. Hal. 11.45; Liv. 3.55.3–7, 3.56.12–13.
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plebiscites that, in one way or another, find recognition in the formal decision of the Senate. Accordingly, rather than thinking of these as being an invention by the annalists, to justify exceptional cases, it is more reasonable to see in the third Valerio-Horatian provision a lex centuriata regulating the due plebiscitarian process. Considering the historical context behind the (pro-plebeian) Valerio-Horatian reforms65, nothing prevents us from assuming that, from then on, the plebeian assembly not only elected the tribuni plebis as authentic ‘officers of the civitas’, but also passed general rules. In other words, it is possible to suggest that a statute was laid down “ut, quod tributim plebes iussisset, populum teneret”, even if such an ability – which was for the first time recognised in favour of the plebs – was necessarily subject to certain restraints: what is more, this reform does not seem to clash with the historical context, being introduced after the dreadful events which occurred during the second decemvirate (450 BC), and a few years before permission was granted for intermarriage (445 BC), in addition to the general recognition of the sacrosancta potestas of the plebeian chiefs and to the ban on the creation of civic officers sine provocatione (that is, not subject to a sort of ‘appeal before the people’)66. Fourthly, as for the exaequatio supposedly accomplished in 339 BC, the first of the leges Publiliae Philonis was directed, as we already know, “ut plebisscita omnes Quirites tenerent” (i. e. ‘to bestow universal validity to the plebeian enactments’)67. Even if we accept that in the 4th century BC the Roman people were permitted to vote on legislative rogationes in the so-called comitia tributa, it is unlikely that this lex removed the auctoritas-ratification from the process which sought to enact resolutions taken by the people divided into tribes. Similarly, it is unlikely that this resulted in the necessary approval of the particians for the plebeian resolutions, being brought in at an early stage of the process. Indeed, the wording of this lex, proposed by the dictator Q. Publilius Philo, a plebeian so inspired by ‘democratic ideas’ as to adopt a Greek surname, seems to focus – as it is quoted by Livy – on the validity granted to the plebiscites, rather than on the stages of the process designed to bring in, and vote on, tribunician rogationes. Conversely, the second of his laws is clearly imbued with a procedural rationale, requiring that the auctoritas patrum be given before a proposal is voted on, rather than afterwards68. 65 As Cornell, The Beginnings of Rome 1995, 276, rightly claims: “if the downfall of the Decemvirs and the Second Secession are regarded as broadly historical events, the restoration must have been accompanied by some kind of settlement”, in order to “cement the alliance of convenience that the plebs and the patriciate had formed in order to get rid of the Decemvirs”. 66 See Pelloso, Provocatio ad populum 2016, 219 ff. 67 Liv. 8.12.14–16. 68 Drawing on the Livian text, one can claim that the lex Publilia Philonis de plebisscitis focuses on the validity granted to the plebiscites, and not on the procedure for voting on a tribunician rogatio; however, a different 'procedural' meaning can also be argued, if one believes that the form quoted by Livy consists only in the ‘title’ of the lex, rather than reproducing
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Finally, taking into account the exaequatio achieved in 287 BC, jurists commonly describe the lex Hortensia as concerning the binding force directly bestowed upon the plebisscita, without the participation of the patricians in the voting concilia plebis, rather than as a measure affecting the modalities of the process of proposing tribunician rogationes69. The sources, in other words, say neither that, in 287 BC the requirement of the patrician auctoritas was removed from the plebiscitarian process, nor that such a requirement was kept as a formality. Indeed, each of these alternative readings of the lex can be seen as being a corollary derived from the historical reconstruction of the rules previously in place, concerning the voting procedure and the conditional general validity of the plebisscita70. As argued by Gaius, eo modo (i. e. ‘that way’) the plebiscites were given equal stature to the laws: the plebeian Hortensius, once appointed as a dictator in order to deal with a secession caused by a problem arising from debts, accomplished the final exaequatio by granting the former type of enactment the same status enjoyed by the latter. At the same time, it is worth noting that his important reform kept the plebiscitarian process in the hands of the ‘patricio-plebeian nobilitas’, since, in most cases after 287 BC, plebisscita were still proposed by the tribunes of the plebs on behalf of, or with the support of, the Senate, and seldom did they openly neglect the patrician interests by by-passing the Senate’s authority71. its content (ut plebisscita omnes Quirites tenerent; cf. ut, quod tributim plebes iussisset, populum teneret in the lex Valeria Horatia): “but this only increases our puzzlement at what Livy understood by them” (Ridley, Livy and the concilium plebis 1980, 346, nt. 33). According to Cornell, The Beginnings of Rome 1995, 278, “it is no good objecting that there is no clear evidence for any restriction in the Lex Valeria Horatia, or for its removal by the Lex Publilia or the Lex Hortensia … since our sources do not set out the detailed provisions of these laws”. This line of reasoning is persuasive merely as regards the 449 law. Indeed, on the one hand, if one compares the lex Publilia Philonis de plebisscitis with the lex Publilia Philonis de patrum auctoritate, then it becomes clear that the former, unlike the latter, can be conceived of as pertaining to validity; on the other hand, as far as the lex Hortensia is concerned, the jurists themselves seem to exclude the direct relevance of such a measure in terms of ‘procedure’. 69 Gai. 1.3 (cautum est, ut plebisscita universum populum tenerent: itaque eo modo legibus exaequata sunt); cf. Liv. perioch. 11; Gell. 15.27.4; Plin. nat. 16.37; Inst. 1.2.4; D. 1.2.2.8. 70 See Drummond, Rome in the Fifth Century 1989, 223. 71 A) See Liv. 26.21.5 (tribuni plebis ex auctoritate senatus ad populum tulerunt ut M. Marcello quo die urbem ovans iniret imperium esset); Liv. 27.5.6–7 (Muttines etiam civis Romanus factus, rogatione ab tribunis plebis ex auctoritate patrum ad plebem lata); Liv. 27.7.6 (dictator causam com itiorum auctoritate senatus, plebis scito, exemplis tutabatur: namque Cn. Servilio consule cum C. Flaminius alter consul ad Trasumennum cecidisset, ex auctoritate patrum ad plebem latum plebemque scivisse ut, quoad bellum in Italia esset, ex iis qui consules fuissent quos et quotiens vellet reficiendi consules populo ius esset); Liv. 27.11.8 (duo censores ut agrum Campanum fruendum locarent ex auctoritate patrum latum ad plebem est plebesque scivit); Liv. 27.33.12–14 (L. Atilius tribunus plebis ex auctoritate senatus plebem in haec verba rogavit: omnes Campani, Atellani, Calatini, Sabatini, qui se dediderunt in arbitrium dicionemque populi Romani Q. Fulvio proconsuli, quosque una
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It is now possible, in light of these debates, to consider the plebisscita with a view to attempting a new solution to the riddle of their validity, in connection to the issue of the relations between tribunes and Senate. secum dedidere, quaeque una secum dedidere, agrum urbemque, divina humanaque, utensiliaque sive quid aliud dediderunt, de iis rebus quid fieri velitis vos rogo, Quirites. plebes sic iussit: quod senatus iuratus, maxima pars, censeat, qui adsient, id volumus iubemusque); Liv. 34.53.1 (exitu anni huius Q. Aelius Tubero tribunus plebis ex senatus consulto tulit ad plebem, plebesque scivit, uti duae Latinae coloniae una in Bruttios, altera in Thurinum agrum deducerentur); Liv. 35.7.4–5 (inde postquam professionibus detecta est magnitudo aeris alieni per hanc fraudem contracti, M. Sempronius tribunus plebis ex auctoritate patrum plebem rogavit, plebesque scivit, ut cum sociis ac nomine Latino creditae pecuniae ius idem quod cum civibus Romanis esset); Liv. 39.19.3–7 (eo referente de P. Aebutii et Hispalae Feceniae praemio, quod eorum opera indicata Bacchanalia essent, senatus consultum factum est, uti singulis his centena milia aeris quaestores urbani ex aerario darent; utique consul cum tribunis plebis ageret, ut ad plebem primo quoque tempore ferrent, ut P. Aebutio emerita stipendia essent, ne invitus militaret neve censor ei invito equum publicum adsignaret; utique Feceniae Hispalae datio, deminutio, gentis enuptio, tutoris optio item esset, quasi ei vir testamento dedisset; utique ei ingenuo nubere liceret, neu quid ei qui eam duxisset ob id fraudi ignominiaeve esset; utique consules praetoresque, qui nunc essent quive postea futuri essent, curarent, ne quid ei mulieri iniuriae fieret, utique tuto esset. id senatum velle et aequum censere, ut ita fieret. ea omnia lata ad plebem factaque sunt ex senatus consulto; et de ceterorum indicum impunitate praemiisque consulibus permissum est); Liv. 42.21.4–7 (hoc consensu patrum accensi M. Marcius Sermo et Q. Marcius Scilla, tribuni plebis, et consulibus multam se dicturos, nisi in provinciam exirent, denuntiarunt, et rogationem, quam de Liguribus deditis promulgare in animo haberent, in senatu recitarunt. sanciebatur, ut, qui ex Statellis deditis in libertatem restitutus ante kal. Sextiles primas non esset, cuius dolo malo is in servitutem venisset, ut iuratus senatus decerneret, qui eam rem quaereret animadverteretque. ex auctoritate deinde senatus eam rogationem promulgarunt. priusquam proficiscerentur consules, C. Cicereio, praetori prioris anni, ad aedem Bellonae senatus datus est. is expositis, quas in Corsica res gessisset, postulatoque frustra triumpho, in monte Albano, quod iam in morem venerat, ut sine publica auctoritate fieret, triumphavit. rogationem Marciam de Liguribus magno consensu plebes scivit iussitque. ex eo plebisscito C. Licinius praetor consuluit senatum, quem quaerere ea rogatione vellet. patres ipsum eum quaerere iusserunt); Liv. 45.35.4–5 (paucos post dies Anicius et Octavius classe sua advecti. tribus iis omnibus decretus est ab senatu triumphus mandatumque Q. Cassio praetori, cum tribunis plebis ageret, ex auctoritate patrum rogationem ad plebem ferrent, ut iis, quo die urbem triumphantes inveherentur, imperium esset). B) See, moreover, Liv. 35.20.9–10 (sed his duobus primum senatus consulto, deinde plebei etiam scito permutatae provinciae sunt: Atilio classis et Macedonia, Baebio Brutti decreti); Liv. 35.40.5 (eodem hoc anno Vibonem colonia deducta est ex senatus consulto plebique scito). C) See, finally, Cic. Sen. 4.11 (qui consul iterum, Sp. Carvilio collega quiescente, C. Flaminio tribuno plebis, quoad potuit, restitit agrum Picentem et Gallicum viritim contra senatus auctoritatem dividenti; see Val. Max. 5.4.5; Cato or. 2.10; Cic. Brut. 14.57; inv. 2.17.52; acad. prior. 2.13; leg. 3.8.20; Plb. 2.21,7–8); Liv. 21.63.3 (invisus etiam patribus ob novam legem, quam Q. Claudius tribunus plebis adversus senatum atque uno patrum adiuvante C. Flaminio tulerat, ne quis senator cuive senator pater fuisset maritimam navem quae plus quam trecentarum amphorarum esset haberet – id satis habitum ad fructus ex agris vectandos, quaestus omnis patribus indecorus visus); Liv. 38.36.7–9 (de Formianis Fundanisque municipibus et Arpinatibus C. Valerius Tappo tribunus plebis promulgavit, ut iis suffragii latio – nam antea sine suffragio habuerant civitatem – esset. huic roga-
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VI. Auctoritas and plebisscita between 449 BC and 339 BC In considering the years between the leges Valeriae Horatiae (449 BC) and the leges Publiliae Philonis (339 BC), three different features (α, β, γ) composing of a unitary scheme emerge from the great number of the plebiscites enacted by tribes and from the scant number of rules aimed at the process to bring in, and vote on, plebeian resolutions72. α) In two cases, the previous patrician sanction is described in general terms and conceived of as a procedural requirement in order submit tribunician proposals to the plebs. 441 BC: the tribune Poetelius drew up some proposals for the so-called agrarian reforms; yet, the consuls did not want to bring the matter before the Senate. This behaviour, and the motivation behind it, seem to imply that, even prior to 339 BC some form of senatorial approval was required before the vote of a plebiscitarian bill73. tioni quattuor tribuni plebis, quia non ex auctoritate senatus ferretur, cum intercederent, edocti, populi esse, non senatus ius suffragium, quibus velit,impertire, destiterunt incepto rogatio perlata est, ut in Aemilia tribu Formiani et Fundani, in Cornelia Arpinates ferrent; atque in his tribubus tum primum ex Valerio plebisscito censi sunt); see, moreover, Plut. Flam. 18.2 (ἐξέβαλον δὲ τῆς βουλῆς τῶν οὐκ ἄγαν ἐπιφανῶν τέσσαρας, προσεδέξαντο δὲ πολίτας ἀπογραφομένους πάντας, ὅσοι γονέων ἐλευθέρων ἦσαν, ἀναγκασθέντες ὑπὸ τοῦ δημάρχου Τερεντίου Κουλέωνος, ὃς ἐπηρεάζων τοῖς ἀριστοκρατικοῖς ἔπεισε τὸν δῆμον ταῦτα ψηφίσασθαι); Liv. 34.1.2, 8 (M. Fundanius et L. Valerius tribuni plebi ad plebem tulerunt de Oppia lege abroganda … nulla deinde dubitatio fuit quin omnes tribus legem abrogarent. viginti annis post abrogata est quam lata); Cic. Sest. 48.103 (agrariam Ti. Gracchus legem ferebat: grata erat populo; fortunae constitui tenuiorum videbantur; nitebantur contra optimates, quod et discordiam excitari videbant et, cum locupletes possessionibus diuturnis moverentur, spoliari rem publicam propugnatoribus arbitrabantur; cf. App. bell. civ. 1.9 ff.; Plut. Ti. Gracch. 8–13; Liv. perioch. 58; Cic. leg. agr. 2.5.10, 2.12.31; Vell. 2.2.3; Auct. vir. ill. 64; CIL, I, n. 200, Meyer, or. rom. fr., p. 160: oratio C. Metelli contra Ti. Gr. de l. agr.); Plut. Mar. 29.1–2 (ὁ Σατορνῖνος εἶτα δημαρχῶν ἐπῆγε τὸν περὶ τῆς χώρας νόμον, ᾧ προσεγέγραπτο τὴν σύγκλητον ὀμόσαι προσελθοῦσαν, ἦ μὴν ἐμμενεῖν οἷς ἂν ὁ δῆμος ψηφίσαιτο καὶ πρὸς μηδὲν ὑπεναντιώσεσθαι. τοῦτο τοῦ νόμου τό μέρος προσποιούμενος ἐν τῇ βουλῇ διώκειν ὁ Μάριος οὐκ ἔφη δέξεσθαι τὸν ὅρκον, οὐδὲ ἄλλον οἴεσθαι σωφρονοῦντα: καὶ γάρ εἰ μὴ μοχθηρὸς ἦν ὁ νόμος, ὕβριν εἶναι τὰ τοιαῦτα τὴν βουλὴν διδόναι βιαζομένην, ἀλλὰ μὴ πειθοῖ μηδὲ ἐκοῦσαν; cf. Cic. Sest. 16.37; Balb. 21.48; dom. 31.82; leg. 2.6.14, 3.11.26; App. bell. civ. 1.29; Liv. perioch. 69; Schol. Bob., p. 272, 347; Auct. vir. ill. 73). To summarise: most plebeian resolutions turn out to be directly promoted by the Senate and then brought before the council by the tribunes (A); in two cases the plebiscite is claimed to reproduce the content included in a precedent senatus consultum (B); the testimonia present, in only a few cases, plebeian resolutions either promoted by the tribunes and brought forward in spite of the Senate’s vote, or promoted by the tribunes and submitted to the council without asking the Senate’s prior approval (C). 72 See Table n. 3. 73 Liv. 4.12.3–4: causa seditionum nequiquam a Poetelio quaesita, qui tribunus plebis iterum ea ipsa denuntiando factus, neque ut de agris dividendis plebi referrent consules ad senatum pervincere po tuit (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 209).
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415 BC: Decius brought in a bill for a colony to be sent to Bolae; yet, his colleagues vetoed this, claiming that they would not allow any plebiscite to be passed without prior senatorial approval74. β.1) In a number of episodes, by describing what happened before the enactment of a given plebiscite, Livy emphasises senatorial consent, or at times the absence of senatorial obstruction, for the bill to be voted by the plebs75. 445 BC: Canuleius’ bill on intermarriage was first brought before the council at the beginning of the year. It was only after many delays and obstructions, which antagonised the plebs, that the patres finally gave their pre-approval, so that the measure could be voted for by the tribes76. 440 BC: After a dispute between the two opposing orders over a famine, the tribunes, without any senatorial opposition, brought a bill before the plebs to give
74 Liv. 4.49.6: temptatum ab L. Decio tribuno plebis ut rogationem ferret qua Bolas quoque, sicut Labicos, coloni mitterentur, per intercessionem collegarum qui nullum plebi scitum nisi ex auctoritate senatus passuros se perferri ostenderunt, discussum est; cf. Liv. 4.49.7–12, 51.3–6; Diod. Sic. 13.42 (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 216; Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik 1994, 257 ff.). See Petrucci, Colonie romane e latine nel V e IV sec. a. C. 2000, 80 f.; Id., Osservazioni sui rapporti tra organi della res publica 2006, 708 (who rightly mainatins that the plebeians did not accept that any plebiscite be voted on with no senatorial approval); see, moreover, Chiabà, Roma e le priscae Latinae coloniae 2012, 97, 137 (who, erroneously states that “il plebiscito con l’istanza di fondazione, qualora fosse stato votato, avrebbe comunque necessitato della delibera senatoria per diventare attuativo”). 75 See, moreover, Liv. 7.16.1 (haud aeque laeta patribus insequenti anno C. Marcio Cn. Manlio consulibus de unciario fenore a M. Duillio L. Menenio tribunis plebis rogatio est perlata; et plebs ali quanto eam cupidius scivit; cf. Liv. 7.27.3, 7.42.1; App. bell. civ. 1.232, Gai. 4.23): in 357 BC M. Duilius and L. Menenius, tribunes of the plebs, proposed a famous measure which fixed the monthly rate of interest at 8,3 per cent. Albeit not so welcome to the patricians, it was voted for by the plebs, with even more eagerness than the lex Poetelia against canvassing. According to Humbert, I plebiscita 2012, 323, “la disposizione, certamente rogata, è tuttavia sprovvista di valore normativo”. Yet, even if one believes in Tacitus (Tac. ann. 6.16: sane uetus urbi fenebre malum et seditionum di scordi arumque creberrima causa, eoque cohibebatur antiquis quoque et minus corruptis moribus. nam primo duodecim tabulis sanctum, ne quis unciario fenore amplius exerceret, cum antea ex libidine locupletium agitaretur; dein rogatione tribunicia ad semuncias redactum; postremo uetita uersura), plausibly either the lex of the Twelve Tables (which first provided the interest of a twelfth of the capital per month) had fallen into desuetude and so had to be re-enacted, or after the Gauls had set fire to Rome, the legal cap was set higher, while, in 357 BC, it was lowered. All in all, it is not correct to assume, as Humbert does, that “si trattava solo di reclamare l’applicazione di una disposizione anteriore”. 76 Liv. 4.6.3: plebes ad id maxime indignatione exarsit, quod auspicari, tamquam invisi dis immor talibus, negarentur posse; nec ante finis contentionum fuit, cum et tribunum acerrimum auctorem plebes nacta esset et ipsa cum eo pertinacia certaret, quam victi tandem patres ut de conubio ferretur concessere (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 207; Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik 1994, 230 f.).
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Minucius the cura annonae so as to deal with, in a time of scarcity, the corn-shortage (either for a year or for an indefinite period)77. 432 BC: The leading plebeians wanted the tribunes to promulgate a statute to prevent individuals from canvassing for office, and thus, bribery. There was great contention between patricians and plebeians, but eventually the tribunes succeeded in carrying the statute. That is, they were allowed to bring it before the plebs and have it approved78. 367 BC: After a great many unfortunate setbacks due to numerous tribunician vetoes, in addition to patrician speeches which deferred the vote of the tribes, the tribes were finally allowed to vote on the plebeian consulship. In other words, the tribunes managed to make the dictator bring the bill before the Senate and to attain approval for a vote by the plebs79. However, this was only possible once Licinius and Sextius were elected for the tenth time and a statute for five out of ten viri sacris faciundis were selected among plebeians was passed.
77 Liv. 4.12.8: postremo perpulere plebem, haud adversante senatu, ut L. Minucius praefectus annonae crearetur; cf. Liv. 4.13.7; Plin. nat. 18.15, 34.21; Dion. Hal. 12.1.5 (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 209). Due to the late Republican association of the Minucii with the grain supply, Lucius Minucius was anachronistically interpreted as praefectus annonae by Licinnius Macer (who, indeed, saw his name listed in the libri lintei). On the Spurius Maelius’ and Lucius Minucius’ ‘saga’ (whose oldest version is found in Dion. Hal. 12.4.2–5), where the former is accused by the latter of attempted tyranny for using his own wealth and acquaintances to acquire grain, and so to meet with the people’s needs, in order to finally obtain absolute power, see Mommsen, Sp. Cassius 1871, 256 ff.; Pais Ancient Legends of Roman History 1906, 204 ff.; Ogilvie, Commentary on Livy’s Books 1–5 1965, 550 ff.; Lintott The Tradition of Violence 1970, 12 ff.; Forsythe, The Historian L. Calpurnius Piso Frugi 1994, 301 ff.; see a more recent analysis in Barbati, Dittatura e stato di necessità 2018, 258 ff., 271. Accordingly, it is untenable to repudiate this plebisscitum by arguing that no ‘statute’ (no matter whether lex rogata or resolution of the plebs) could have appointed a magistrate (see Siber, Die plebejischen Magistraturen 1936, 46; Humbert, I plebiscita 2012, 323, and Id., La normativité des plebiscites 1998, 227): the plebs, with the Senate’s consent, may have vested an officer already in charge with a special task, i. e. without creating any new magistratus. 78 Liv. 4.25.13–14: placet tollendae ambitionis causa tribunos legem promulgare ne cui album in vestimentum addere petitionis causa liceret. parva nunc res et vix serio agenda videri possit, quae tunc ingenti certamine patres ac plebem accendit. vicere tamen tribuni ut legem perferrent (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 211; Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik 1994, 246 ff.). 79 Liv. 6.42.9: et per ingentia certamina dictator senatusque victus, ut rogationes tribuniciae acciperentur; Ampel. 25.4; Diod. Sic. 12.25 2; Flor. 1.17 (1.26.1–4); Liv. 6.35–37, 6.42; Plut. Cam. 42.7; D. 1.2.2.26; Schol. Cic. Ambros. (p. 275 Stangl); vir. ill. 20.1; Zonar. 7.24.4 (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 216 ff.; Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik 1994, 294 ff.).
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358 BC: Poetelius, once the patres gave their approval, brought his bill against ambitio before the people80. β.2) Against the background of these episodes and the rules already considered, it is plausible to suggest that two additional passages further demonstrate that it was the proposal of a bill, and not the final resolution, which had to be approved by the patres, even if there is no clear mention of when such a sanction occurred. 449 BC: Duillius’ plebisscitum – which qualifies as a capital crime, both leaving the plebs without tribunes and appointing magistrates without provocatio – is presented as a repetition of the lex Valeria Horatia, even if the connection between these two identical measures remains quite obscure81. According to Livy it is for this reason that the patricians finally allowed this to pass, although they never reached a general consensus on the matter82. 366 BC: Camillus, acting as dictator for the fifth time, found no obstacle in being granted the military triumph, since the patres were fully in agreement with the plebs83. 80 Liv. 7.15.12–13: eodem anno duae tribus, Pomptina et Publilia, additae; ludi votivi, quos M. Furius dictator voverat, facti; et de ambitu ab C. Poetelio tribuno plebis auctoribus patribus tum primum ad populum latum est; eaque rogatione novorum maxime hominum ambitionem, qui nundinas et conciliabula obire soliti erant, conpressam credebant (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 221; Elster, Studien zur Gesetzgebung 1976, 12 ff.). This was the first statute of fifteen, regulating political corruption (crimen ambitus): the lex Poetilia, indeed, banned campaigning by homines novi for candidates in market-places and settlements, nundinae et conciliabula, outside Rome (see, as taking a rather conservative approach about this early criminal provision, Fascione, Alle orgini della legislazione de ambitu 1981, 269, 272 f.; Id., Crimen e quaestio ambitus 1984, 24; Hölkeskamp, Die Entstehung der Nobilität 1987, 83 ff.; Wallinga, Ambitus 1994, 411 ff.; Cornell, The Beginnings of Rome 1995, 469, nt. 33; Mouritsen, Plebs and Politics 2001, 35; Rosillo López, La corruption a la fin de la republique romaine 2005, 40, 48; pace Binder, Die Plebs 1909, 482; Bleicken, Lex Publica 1975, 265, nt. 60; Nadig, Ardet ambitus 1997, 19, nt. 6; Humbert, I plebiscita 2012, 322 f., and Id., La normativité des plebiscites 1998, 226). 81 According to Humbert, La normativité des plébiscites 1998, 213, nt. 9 “Tite-Live n’à pas compris la séquence logique plebisscitum – loi (ou senatusconsultum) et, surtout, n’à pas perçu l’identité substantielle des revendications de la plèbe et des lois comitiales; il n’à pas vu dans les secondes la réponse aux premières” and “l’analyse des modernes … ne vaut pas plus”. More precisely, as Zuccotti, ‘Sacramentum civitatis’ 2016, 77, remarks, “nel 449 una lex Valeria Horatia de provocatione … avrebbe stabilito il divieto di creare magistrature sine pro vocatione, sanzionando tale eventualità con la sacertà”, while “un successivo plebiscito … avrebbe anacronisticamente punito tale fattispecie senz’altro con la pena capitale”. 82 Liv. 3.55.14–15: M. Duillius deinde tribunus plebis plebem rogavit plebesque scivit qui plebem sine tribunis reliquisset, quique magistratum sine provocatione creasset, tergo ac capite puniretur. haec omnia ut invitis, ita non adversantibus patriciis transacta, quia nondum in quemquam unum saeviebatur; cf. Cic. leg. 3.9; Diod. Sic. 12.25.3 (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 203; Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik 1994, 221 f.). 83 Liv. 6.42.8: dictatori consensu patrum plebisque triumphus decretus (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 220). See Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana 1996, 44, 5
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γ) One case in particular seems to prove that a bill was not subject to any formal patrician sanction before being brought before a vote, on condition that the tribune himself had started the process on behalf of the Senate (and, accordingly, the tribunician bill’s contents were consistent with the senatorial stance). 413 BC: The Senate demanded the plebeian tribunes to consult the plebs on Postumius’ murder and to appoint a court for the enquiry. The plebs delegated the matter to the consuls84, in accordance with public opinion85. nt. 11; Cascione, Consensus 2003, 81 and nt. 113; see, for the link between triumphus and consensus patrum, Liv. 31.20.6; Liv. 37.46.2; Liv. 37.58.3; Liv. 40.52.4–7; Liv. 39.42.2. 84 Liv. 4.51.2–3: his consulibus principio anni senatus consultum factum est, ut de quaestione Postumianae caedis tribuni primo quoque tempore ad plebem ferrent, plebesque praeficeret quaestioni quem vellet. a plebe consensu populi consulibus negotium mandatur; cf. Flor. 1.17 (1.22.2); Liv. 4.49.7–4.50.6; Zonar. 7.20.2 (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 213 f.; Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik 1994, 259 f.). Postumius, a military tribune with consular power, had been stoned to death by his troops because, against his promise, he had denied them the spoils. Thus, the Senate invited the tribunes to ask the plebeians whom they would choose to lead the investigation. The consuls were ‘authorised’ to investigate the matter and to punish the guilty. According to Humbert, I plebiscita 2012, 323, “la critica mo derna è unanime nel negare ogni storicità a questa pesante invenzione” (see also Id., La normativité des plébiscites 1998, 228). Such a severe statement does not reflect the truth. On the one hand, some scholars seem to question the historicity of the episode, rather than radically deny it (see Ogilvie, Commentary on Livy’s Books 1–5 1965, 611 ff.; Santalucia, Studi 1994, 183, nt. 118; Venturini, Processo penale 1996, 98, 106; Giuffrè, La repressione criminale 1997, 187). On the other hand, other scholars advocate a more conservative approach: on the basis of the Livian passage concerned, they believe that a joint responsibility for setting up quaestiones between the Senate and the people “may go as far back as the fifth century”, and that “a particular historical circumstance – namely, the tension between the patricians and the plebeians during the Struggle of the Orders that was being exacerbated by the actions and subsequent death of Postumius – may explain the specific reasons for a joint decision on the part of the plebeians and the Senate” (in these terms, see Gaughan, Murder was not a crime 2010, 99). The same can be stated with regard to a plebisscitum voted prior to the enactment of the leges Valeriae Horatiae in 449 BC: Icilius proposed a bill that no-one should be punished for the recent plebeian secession, this measure being a mere doublet of a rule already established in a precedent senatorial consult (Liv. 3.54.5: factum senatus consultum … et ne cui fraudi esset secessio militum plebisque. Liv. 3.54.14: tribunatu inito L. Icilius extemplo plebem rogauit et plebs sciuit ne cui fraudi esset secessio ab decemuiris facta; Liv. 3.59.1–2: ingens metus incesserat patres, uoltusque iam iidem tribunorum erant qui decemuirorum fuerant, cum M. Duillius tribunus plebis, inhibito salubriter modo nimiae potestati, ‘et libertatis’ inquit, ‘nostrae et poenarum ex inimicis satis est; itaque hoc anno nec diem dici cuiquam nec in uincla duci quemquam sum passurus’; Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 203; Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik 1994, 208 ff.). 85 See Mommsen, Römisches Staatsrecht III.1 1887, 305, nt. 2, who distinguishes between “Volksabstimmung” and “öffentliche Meinung” as a result of the “factische Gesammtwille der Gemeinde” (cf. Nocera, Il potere dei comizi 1940, 162); see, moreover, Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale 1960, 26, nt. 22, who points out that consensus populi may stand
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δ) Only on two occasions does it appear that the threefold scheme, above depicted, failed. Indeed, two iussus (which some authorities qualify as leges populi, or as one plebisscitum and, respectively, one lex, rather than two plebiscites)86 – both for “opinione pubblica” and, as far as iussus concerns, believes that “non si può irrigidire il valore della volontà comiziale nella formula del comando” (cf., in similar terms, Cascione, Consensus 2003, 72 and nt. 86). 86 Taking aside both Siber, Die plebejischen Magistraturen 1936, 45 (who espouses, as usual, a hyper-critical approach, and conceives of both triumphs as forgeries), and Graeber, Auctoritas patrum 2001, 124 f. (who considers the plebiscitarian triumph of 449 BC “mit Sicherheit ein annalistisches Phantasieprodukt”, while, as for the case of 356 BC, “vor welchen Komitien der Diktator beide Anträge einbrachte, wird zwar nicht eindeutig gesagt, aber da die patrizisch – plebejischen comitia tributa wohl überwiegend für die Wahlen der niederen Magistrate zuständig waren und auch kein weiterer Fall bekannt ist, in dem ein Ober- oder Höchstmagistrat die Genehmigung seines Triumphs vor diesen Komitien rogiert hat, kommen nur die comitia centuriata in Frage”), suffice it to consider the following five main trends of thought. 1. Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 206, 223 (according to whom, if the triumph of 449 was a case of plebisscitum, as for the year 356 BC, the measure would be voted either “nei comizi … tributi … diretti dal dittatore”, or “più probabilmente, nei concilia plebis”; moreover, “questi plebisciti accordanti il trionfo non rappresentano in sostanza se non il gradimento del popolo e la constatazione della non opposizione dei tribuni”); 2. Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 33 ff. (rather inclined to identify the iussus populi of 356 BC, unlike that of 449 BC, with a lex rogata); Mannino, L’‘auctoritas patrum’ 1979, 75, 89 and nt. 50 (in 356 BC “il ditattore avrebbe ottenuto il trionfo senza la ratifica senatoria della deliberazione popolare”, while in 449 BC the triumph would be granted by the plebs); Lanfranchi, Les Tribuns de la Plèbe 2015, n. 53 and n. 113 (who identifies the iussus of 449 BC with a “plébiscite validé” and, as for the triumph of 356, generally supports the idea of a lex rogata); 3. Ridley, Livy and the concilium plebis 1980, 340, 343 (who claims that, due to Livy’s account, in 449 BC comitia of the whole populus would grant the triumph, while in 356 a tribunician law would be more plausible); 4. Richardson, The triumph 1975, 58 (who champions the view that the Senate permitted triumphs “through requests to the tribunes to act in the comitia tributa, which could extend the imperium of the returning general”); Staveley, Tribal Legislation before the lex Hortensia 1955, 9, nt. 1 (who explicitly counts the permission for the triumph of 356 BC among the comitial laws voted by tribes; moreover, as already noted, he agrees with Mommsen that the comitia tributa were established in 449 BC, so that such assembly could be the body that awarded the triumph to Valerius and Horatius); Drogula, Commanders and Command 2015, 111 f. (who, considering both cases at stake, maintains that “people … alone could authorize the temporary grant of imperium necessary to lead the victorious army through the streets of Rome”); Rich, The Triumph 2014, 210 (who believes in an “approval by the popular assembly rather than the Senate” for the year 449, and the year 356 BC alike; in his opinion, generally speaking, “a law had to be passed by the popular assembly granting them imperium for the day of their entry into the city, since their imperium, by virtue of which they commanded their lictors and troops, would otherwise lapse when they crossed the pomerium”); 5. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana 1996, 34 ff., 45, 52 ff. (who sees in Liv. 10.37.10 a ‘summary’ of the previous constitutional experience and, at the same time, a move towards the new discipline of triumph based on the plebs’ – and not on
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linked with the highly controversial matter of granting a triumph – were adopted, despite lacking prior senatorial approval. That is to say, this was passed merely in accordance with the assembly’s majority vote87. 449 BC: Icilius’ bill for the triumph of the consuls of that year, although many patricians spoke against it, was approved by all the tribes, and thus for the first time, victorious commanders triumphed only iussu populi. This enactment sounds, in any case, revolutionary and amounts to an extraordinary breach of the status quo, and to a first usurpation of apparently patrician prerogatives88. the populus’ – iussus); Humbert, I plebiscita 2012, 322, and Id., La normativité des plebiscites 1998, 226 (who considers both triumphs as examples where the patres’ consensus did not meet the plebs’ will); Sandberg, Magistrates and Assemblies 2001, 139 f. (who, since “the circus Flaminius was used as a meeting place for the concilium plebis also in later times” [Liv. 27.21.1; Plut. Marc. 2.7; Cic. Att. 1.14.1], believes that the plebeian assembly, once summoned at the prata Flaminia in the Campus Martius, “granted the consuls L. Valerius Poplicola Potitus and M. Horatius Barbatus the triumph that the Senate had not been willing to grant them”; the same assembly would be convened in 356 BC). 87 See Versnel, Triumphus 1970, 164 ff., for an accurate discussion of a triumphator’s need for both imperium and auspicium; cf. Firpo, Allora per la prima volta si celebrò un trionfo 2007, 97 ff. and Itgenshorst, Tota illa pompa 2005, 148 ff. for detailed discussions on the historicity of Livy’s descriptions of early triumphs; see, moreover, Ogilvie, Commentary on Livy’s Books 1–5 1965, 519; Oakley, A Companion to Livy VI–X 1997, 188. A military commander who, after defeating the enemies, desired a triumph – i. e. the highest military award – was not permitted, as a rule, to cross the pomerium: accordingly, a request for a triumph was highly unusual because it represented a violation of the normal prohibition of yielding one’s military imperium within the city. His ‘right’ to celebrate a triumph had to be claimed at a special meeting of the Senate convened extra pomerium, and the triumph marked the first moment when he was permitted to enter the city retaining his imperium (Liv. 26.21.1, 28.9.5, 31.47.7, 33.22.1, 34.39.5, 38.44.9–11, 39.4.2, 39.29.4, 42.21.6–7, 45.35.4; Plut. Caes. 13.1; Plut. Cat. Min. 31.2–3; Plb. 6.15.7–8; Cic. Att. 4.18.4, 7.1.5; Cic. Q. frat. 3.2.2; Vell. 1.10.4). If the Senate approved the commander’s request, it is commonly held that the tribunes of the plebs brought forward a rogatio aimed at a iussus that gave the triumphator the permission to enter the city possessing imperium on the day of his triumph (cf. Liv. 26.21.5 and 45.35.4, with Richardson, The triumph 1975, 59 f.; Beard, The Triumph 2007, 187 ff.). On a very few occasions, commanders celebrated triumphs in Rome despite the Senate had refused to grant permission: in such cases, the commander could obtain a necessary iussus from the ‘popular’ vote (Liv. 3.63.8–11, 6.30.2–3, 7.17.9, 10.37.6–12, 21.63.2; Suet. Tib. 2.4; Dion. Hal. 11.50.1, 17-18.5.3; Dio Cass. fr. 74.2; Plut. Marc. 4.6; Zonar. 8.20.7; Oros. 5.4.7). 88 Liv. 3.63.8–11: ubi cum ingenti consensu patrum negaretur triumphus, L. Icilius tribunus plebis tulit ad populum de triumpho consulum … nunquam ante de triumpho per populum actum; semper aestimationem arbitriumque eius honoris penes senatum fuisse … omnes tribus eam rogationem acceperunt. tum primum sine auctoritate senatus populi iussu triumphatum est; Liv. 10.37.10; Dion. Hal. 11.50.1; Zonar. 7.19.1 (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 213; Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik 1994, 223 f.). On the triumphs granted sine auctoritate patrum to L. Valerius Publicola and M. Horatius Barbatus in 449, see also Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana 1996, 33 ff., (who takes into account, alongside Livy, Dion. Hal. 11.49.3–
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356 BC: Marcius Rutilus, the first plebeian to be appointed as a dictator, was granted the triumph by the ‘people’ without any patrician authorisation89. However, this may also be read as ‘by the plebs’, given the context and the very generic use of the term populus by Livy.
VII. Auctoritas and plebisscita between 339 BC and 287 BC We now turn to the period between the enactment of the lex Publilia Philonis de plebisscitis in 339 BC and the crucial year in which, in circumstances that are not clear due to the scarcity of evidence, the dictator Q. Hortensius passed his famous law. This was later thought to be definitive in terms of exaequatio and bestowed upon the resolutions of the plebs equal status to that of the statutes voted in the assemblies of the entire Roman populace (287 BC)90. What is particularly striking about this, however, is that, in the light of the cases attested to in the sources, the general scheme that has been depicted above for the period of 449–339 BC seems to be almost unaltered here91. Ancient historians fall within two schools of thought in this regard, and either confirm the grant of a previous senatorial approval (α) or allude to it as a regular procedural requirement (β).
5). A previous case of triumph concerned P. Servilius Priscus, consul in 495 BC (Dion. Hal. 6.30.2–3). 89 Liv. 7.17.9: castra quoque necopinato adgressus cepit et octo milibus hostium captis, ceteris aut caesis aut ex agro Romano fugatis sine auctoritate patrum populi iussu triumphavit (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 223; Elster, Studien zur Gesetzgebung 1976, 23 f.). 90 See Willems, Le Sénat de la République romaine II 1883, 85 f.; Vassalli, La plebe romana nella funzione legislativa 1906, 127, nt. 3; Ferenczy, From the Patrician State to the Patricio-plebeian State 1976, 193 ff.; Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 88 f. and nt. 294; Maddox, The economic causes of the lex Hortensia 1983, 277 ff.; Id., The binding plebiscite 1984, 85 ff.; Hölkeskamp, Die historische Bedeutung der “Lex Hortensia de plebisscitis” 1988, 292 ff. (who reads the lex Hortensia as an exceptional response to popular pressure that contrasted with the process of patricio-plebeian compromise of the previous half-century). Cassius Dio (8.37.2) informs us that a tragic increase of debt caused severe strife between debtors and creditors. The plebeian tribunes proposed that capital be paid back with no interest, or that debts be diluted into three payments: the creditors, after attacking such measures, finally compromised, but the debtors asked for further concessions and Zonar. 8.1 says that this opposition ceased only when the enemy approached Rome. The Summary of Livy’s eleventh book points out that the plebs, after some seditions, seceded to the Janiculum; hence they were brought back to the city by the dictator Q. Hortensius, who died before the full term of his office. It was him – according to Plin. nat. 16.37, Gai. 1.3, Gell. 15.27.4, and D. 1.2.2.8 – that passed the measure stating that ‘whatever the plebs ordered was to be binding on the entire people’. 91 See Table n. 4.
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304 BC: As a result of preliminary senatorial approval, a proposal was brought before the people (or perhaps the plebs, given the parallel interests of the Senate and the tribunes) for temples and altars to be dedicated only by order of either the Senate or majority of the tribunes themselves92. 300 BC: The Ogulnii drew up a bill to increase the number of augurs and pontiffs and allow admission to these priesthoods by the plebs. Eventually the statute was voted on and approved, despite the firm opposition of the patricians and attempts to block the statute by some tribunes. Once again, senatorial consent can be seen to ‘ratify’ the tribunician proposal, rather than to ‘implement’ the resolution93. 287 BC: Shortly before the third (or even fourth) plebeian secession and the consequent enactment of the lex Hortensia, the tribunes tried several times to get the plebs to approve a bill which stipulated the abolition of debts. This would have in effect released those citizens imprisoned by their creditors; however, their efforts did not prove successful. While it is not definitively stated in the sources, it is possible to suggest that the tribunes failed to meet the requirement consisting in the senatorial preliminary approval94. 92 Liv. 9.46.7: itaque ex auctoritate senatus latum ad populum est, ne quis templum aramve iniussu senatus aut tribunorum plebei partis maioris dedicaret (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 234 f.; Elster, Studien zur Gesetzgebung 1976, 95 f.). More than a lex, this measure looks to be a plebisscitum as a result of the combined interests of the Senate and tribunes. 93 Liv. 10.6.9–11: ceterum, quia de plebe adlegebantur, iuxta eam rem aegre passi patres, quam cum consulatum vulgari viderent. simulabant ad deos id magis quam ad se pertinere: ipsos visuros, ne sacra sua polluantur; id se optare tantum, ne qua in rem publicam clades veniat. minus autem tetendere, adsueti iam tali genere certaminum vinci; cf. Liv. 10.7.1, 10.9.1–2 (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 236; Elster, Studien zur Gesetzgebung 1976, 103 ff.). The college of pontiffs was originally composed of five or, more likely, six priests, until it was increased to eight or, more likely, nine by means of the so-called lex Ogulnia (see Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano 2008, 200, nt. 96). 94 Dio Cass. 8.37.2: χρεῶν ἀποκοπὴν εἰσηγουμένων τῶν δημάρχων ὁ νόμος κελεύων τὴν ἄφεσιν τῶν ὑπερημεριῶν πολλάκις μάτην ἐξετέθη, πᾶν ἀπολαβεῖν τῶν δανειστῶν βουλομένων, τῶν δὲ δὴ δημάρχων αἵρεσιν διδόντων τοῖς δυνατοῖς ἢ τοῦτον ἐπιψηφίσαντας τὸν νόμον τὰ ἀρχαῖα μόνα λαβεῖν ἢ καὶ ἐκείνους τοὺς; Zonar. 8.2: Μετὰ δὲ ταῦτα δημάρχων τινῶν χρεῶν ἀποκοπὴν εἰσηγησαμένων, ἐπεὶ μὴ καὶ παρὰ τῶν δανειστῶν αὕτη ἐδίδοτο ἐστασίασε τὸ πλῆθος· καὶ οὐ πρότερον τὰ τῆς στάσεως κατηυνάσθη ἕως πολέμιοι τῇ πόλει ἐπήλθοσαν (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 238). According to Biscardi, ‘Auctoritas patrum’ 1987, 88, the so-called rogatio de aere alieno minuendo “non potè essere presentata ai concilia plebis per il voto contrario del senato”. Indeed, the two sources do not support such a clear-cut statement, as they merely connect the debt problem and the patrician opposition to the tribunician proposals with the last secession: then, in turn, this secession with the enacting of some of the Hortensian measures in 287 BC. To be more precise, Cassius simply says that, when the so-called proposal de aere alieno minuendo was brought forward, to find a solution to the debt question, the provision that ordered the creditors to release their debtors was presented, as usual, pointlessly, since the lenders wanted to recover everything and the tribunes were alternatively proposing that
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γ) On several occasions the tribunes began the plebiscitarian process on behalf of the Senate, bringing in a bill which was of interest to the most eminent of the patricio-plebeian nobles. 327 BC: The Senate requested the tribunes force the people to vote to appoint Publilius Philo as commander-in-chief for the entirety of the Greek war95. 319 BC: Perhaps at the request of the Senate, as inferred by a much later speech by Atilius Regulus, the tribune Antistius brought in and finally succeeded in passing a bill that provided the Senate with the power to punish the Satricans96. 296 BC: The Senate requested that the tribunes bring forward a bill which made the praetor the magistrate in charge of conducting the election process. This was evidently conducted with a view to appoint a committee of three men, who had the power to implement a project of colonisation (tresviri colonis deducendis)97.
debts be paid back in three payments. In Zonaras a dispute was started by the masses, when some of the tribunes championed the annulment of debts, since this measure was not granted by the creditors. This was only ended by the interference of enemies threatening the city. 95 Liv. 8.23.12: actum cum tribunis est, ad populum ferrent, ut, cum Q. Publilius Philo consulatu abisset, pro consule rem gereret, quoad debellatum cum Graecis esset (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 230; Elster, Studien zur Gesetzgebung 1976, 61 f.). 96 Liv. 26.33.10–11: per senatum agi de Campanis, qui cives Romani sunt, iniussu populi non video posse, idque et apud maiores nostros in Satricanis factum esse cum defecissent ut M. Antistius tribunus plebis prius rogationem ferret scisceretque plebs uti senatui de Satricanis sententiae dicendae ius esset. itaque censeo cum tribunis plebis agendum esse ut eorum unus pluresve rogationem ferant ad plebem qua nobis statuendi de Campanis ius fiat; cf. Liv. 9.12.5, 9.16.2–10 (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 232; Elster, Studien zur Gesetzgebung 1976, 77 ff.). 97 Liv. 10.21.9: tribunis plebis negotium datum est, ut plebei scito iuberetur P. Sempronius praetor triumviros in ea loca colonis deducendis creare (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 237; Elster, Studien zur Gesetzgebung 1976, 111 f.). The political backdrop of this case is the following: in the second half of the 4th century BC, the decisions taken by the Senate mirror a status quo in which the plebeians do not turn out to be, as they were in the past, against the founding of colonies arranged by senatusconsultum; moreover, after the military revolt of 342 BC, an extensive program of access to the land in favour of the lower strata of the plebs takes place. More precisely, in dealing with the founding of Minturnae and Sinuessa, Livy confirms that the Senate is given primary responsibility in authorising the colonies; but he also points out that the tribunes were entrusted to obtain a plebisscitum giving the power to summon and preside over the assemblies for electing the tresviri to the praetor urbanus in charge, P. Sempronius, since both supreme magistrates were absent from Rome. The practice previously followed was then changed from here on out, without affecting the Senate’s prerogative to found a colony (i. e. it was the consuls who were required to conduct such elections). This helped to establish the presence of younger men in the colonial boards, which were formerly dominated by ex-consuls. It is further noteworthy that, on this occasion, the plebs’ vote was deemed necessary, due to the constitutional change just mentioned:
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295 BC: As a result of a previous consultum passed by the Senate, a plebiscite prolonged the military command of Volumnius for a year98.
VIII. Conclusions If, as for the period between 449 and 287 BC, the annalistic tradition attests to three separate leges, which apparently lay down the same reform concerning the legal standing enjoyed by plebisscita, the scrutiny of single plebisscita enacted over these years allows for some interesting conclusions. 1. On the one hand, the role played by the lex Hortensia is uncontroversial in the sense that nobody can deny that this statute amounted to the last step on the path to the universal validity afforded to the resolutions of the plebs99. On the other hand, as far as the alleged effects of the lex Publilia Philonis are concerned, in the Livian narrative no relevant change in the legal standing of the plebeian resolutions is detectable after 339 BC. 2. The sources present an essentially codified process through which plebiscites acquired universal validity, both before and after the enactment of the supposed lex Publilia Philonis de plebisscitis. Yet this process does not seem to imply the ‘ratification by the patres’ (i. e. authorisation placed after the final vote of the plebs), either before or after 339 BC. What seems to be required throughout is
the subsequent testimonies show the consuls and praetors alternating in the presidency of such popular assemblies summoned for elections; however, once the new practice was established, voting a plebiscite to legitimise the praetor’s presidency ceased to be considered necessary (see Weigel, Roman Colonization 1983, 190 ff.; Petrucci, Colonie romane e latine nel V e IV sec. a. C., 73 ff., 87 ff.; Id., Osservazioni sui rapporti tra organi della res publica 2000, 700 ff.; Laffi, Studi di storia romana e di diritto 2001, 97 ff.; Id., Colonie e municipi 2007, 18). 98 Liv. 10.22.9: postridie … et L. Volumnio ex senatus consulto et scito plebis prorogatum in annum imperium est (Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 238; Elster, Studien zur Gesetzgebung 1976, 114 ff.). 99 More precisely, in 287 BC the Roman people una tantum and unprecedently delegated to the plebs the ability to enact general rules. This meant that such a reform did not directly impact the procedure of voting on the plebeian resolutions. Indeed, even after the lex Hor tensia was passed, many important procedural differences continued to exist between the iter legis and the iter plebissciti: for instance, only plebeian magistrates could summon the plebs to make it vote and the augural law requirements, such as the auspicia, did not affect the concilia at all. Yet, by providing any future plebisscitum per se with universal validity, the Hortensian reform indirectly annihilated the role still played by the senatorial consent given before the vote: whether it was asked or not by the tribunes, whether it was given or not by the senators, it was the voted plebisscitum that, iussu populi, was binding for the community at large.
Along the Path Towards Exaequatio
‘prior consent’ to be given by the patrician senators100, although the form of such consent is not stipulated. Either the Senate requests the tribunes to bring forward a given proposal; or the tribune, acting autonomously, before proposing his bill, must seek senatorial permission. 3. Even if there is no legitimate grounds to dismiss the leges Publiliae Philonis as entirely fictitious and, consequently, deny that in 339 BC a first or second step was made towards total equality between leges and plebisscita, it is necessary to ‘re-read’ such reforms or, at least, to narrow the goal pursued by the proposer at this juncture. A possible solution could be that we approach the filo-plebeian reforms of 339 in their entirety. Livy states that the dictator Q. Publilius Philo enacts three leges, the first two of which provide the resolutions of the plebs binding status on all Quirites and that laws brought to the centuriate assembly, before going to a vote, be approved by the patres. If so, the exaequatio supposedly achieved by means of the Publilia Philonis legislation could be explained simply as follows: the reforms at issue neither changed the previous standing of the plebiscites (granting them a new and unprecedented universal validity), nor modified the process of the enactment of plebeian resolutions (requiring the auctoritas patrum be given before the vote). They simply contributed to the final accomplishment of a ‘limited’ overlap of the leges over plebisscita. It seems true that a first ‘procedural’ exaequatio was obtained by Q. Publilius Philo as a result of one of the provisions included in his legislation, i. e. the lex that modified the process of passing a centuriate lex, by requiring the consent of the patres before (and not after) the vote in the assembly. In other words, the dictator, after repeating and, at the same time, establishing the rules to be followed for issuing plebiscites with general validity as a model, made the leges closer to general plebiscites from a procedural perspective: not the opposite101. As for the Publilian reforms, both leges and plebisscita needed prior approval by by patres to be binding for omnes Quirites, even if different rules regarding auspicia and magisterial competence to summon the Romans continued to apply to each of the two processes. 100 It is likely (if not certain) that, by some years after the final assessment of the patricio-plebeian nobilitas in 367 BC (which was a prerequisite for plebeians to enter the Senate) and, above all, after the plebissicitum Ovinium was enacted between the years 318 and 312 BC (see, e. g., Pelloso, Ricerche sulle assemblee quiritarie 2018, 269 ff. and ntt. 46 ff.), what originally was an authorisation exclusively given by the patres to the tribunician bills, started to change, at least de facto, into a general ‘senatorial approval’, i. e. an instrument of political intent that reflected more faithfully and intensively the interests of the new ruling class (in the same way that the preventive auctoritas patrum perhaps was confused with the preliminary senatus consultum after the enactment of the lex Publilia Philonis de patrum auctoritate). 101 This means that App. bell. civ. 1.266 points out that in 88 BC Sulla and his colleague, by repealing the Hortensian legislation, revived the ancient regime introduced in 449 BC, reaffirmed in 339 BC, and only implicitly abrogated in 287 BC.
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4. If all of this is ultimately plausible, then it is the law of 449 BC, rather than the law of 339 BC, that can be credited with the first legal reform affecting the process by which the plebisscita were passed with general validity. After the collapse of the second decemvirate, the Roman populus, by means of its iussus, did not delegate to the plebs – once and for all – the vote on universally binding scita, but required that every future plebeian resolution must first meet the approval of the patres who served in the Senate. This is further supported by the detailed account provided by Dionysius regarding the lex Icilia de Aventino publicando of 456 BC: before the Valeri0-Horatian legislation, a plebisscitum happened to be given binding force for the entire community neither per se, nor auctoritate patrum; the rules laid down by the plebieans, only if approved first by the patres sitting as senators and, then, by the popular assembly (comitia centuriata), could be considered binding for the entire community102. 5. Thus, to return to the results yielded by the current discussion, Table n. 5 succinctly outlines the possible path which, in the history of plebiscites, would have led to the total exaequatio that the Roman jurists considered an undeniable legal reality in the 2nd and 3rd centuries AD and, at most, linked to the lex Hortensia alone. Prior to 449 BC, a plebiscite obtained general validity only if converted into a popular assembly’s statute; from 449 BC to 287 BC, general validity depended on the prior grant of auctoritas patrum (since in 339 BC it was the legislative process which was conformed to the plebiscitarian one, rather than the opposite); after 287 BC the plebiscites were per se, i. e. irrespective of potential approval by the Senate, bestowed unconditional general validity. 102 In 456 BC, the so-called lex Icilia de Aventino publicando (Liv. 3.31.1, 3.32.7; Dion. Hal. 10.31–2; cf. Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912, 199 f.; Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik 1994, 95 ff.) was voted on and, then, recorded on a bronze pillar in the temple of Aventine Diana. It provided that public land on the Aventine, even the areas illegally occupied, be distributed in lots to the plebeians for building houses. Dionysius’ account records the precise procedural iter which led to the enactment of the measure. According to the Greek historian, the tribune who first brought forward the proposal, i. e. L. Icilius, submitted it to the consuls and the Senate. After some discussion the law was first approved by the Senate and then enacted by the centuriae, who had been summoned by the consuls. This law, considered a lex sacrata, evidently bears the name of the tribune Icilius (Liv. 3.31.1; Liv. 3.32.7; Dion. Hal. 10.32.4), whereas a centuriata lex would have been named after the consuls; as such, it is plausible that what the Senate approved, and the popular assembly voted on, did not amount to a mere rogatio, but to a resolution already passed by the plebeian tribes in a concilium (cf. Strachan-Davidson, The Decrees of the Roman Plebs 463; Serrao, Lotte per la terra 1981, 129 ff., 135 ff.; Oliviero Niglio, La lex Icilia de Aventino publicando 1995, 526 ff.; contra, see Binder, Die Plebs 1909, 473 ff.; Cornell, The Beginnings of Rome 1995, 262). In the period prior to the enactment of the leges Valeriae Horatiae, such a process – which sought to convert a plebeian resolution into a lex centuriata – seems to be unnecessary as long as the tribune brings forward a bill before the plebs on behalf of the Senate itself (cf. Liv. 3.54.5; Liv. 3.54.14; Liv. 3.59.1–2): cf. Table n. 2.
Along the Path Towards Exaequatio
Table 1 Trends of scholarly thought
Scholars
Periods Up to 449 BC
449–339 BC
339–287 BC
287–88 BC
1) Rejecting the Lex Valeria de plebisscitis (449 BC) and the lex Publilia Philonis (338 BC) as unhistorical statues
Meyer/ Siber/ Bleicken/ Magdelain/ Humbert/ Lanfranchi
No general validity
No general validity
No general validity
Unconditional general validity
Mommsen/ Krueger/ Cuq
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Unconditional general validity
2) Accepting the Lex Valeria de plebisscitis (449 BC), the lex Publilia Philonis (338 BC), and the lex Hortensia (287 BC) as historical statutes
Niebuhr
No general validity
Conditional general validity on the grant of ‘double authorisation’ (approval before the vote and ratification afterwards)
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Unconditional general validity
Platschnick/ Soltau/ Botsford/ Mannino (1979)
No general validity
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Unconditional general validity
Hennes
No general validity
Conditional general validity subject to conversion into a popular assembly’s statute
Conditional general validity subject to conversion into a popular assembly’s statute
Unconditional general validity
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Trends of scholarly thought (cont.)
Scholars
Periods Up to 449 BC
449–339 BC
339–287 BC
287–88 BC
Madvig/ Karlowa
No general validity
Conditional general validity on the grant of ‘senatorial consent’ (i. e. no matter how and when)
Unconditional general validity
Unconditional general validity
Willems
Conditional general validity subject to conversion into a popular assembly’s statute
Conditional general validity on the grant of ‘subsequent senatorial ratification’
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Unconditional general validity
Nocera
No general validity
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Staveley
Conditional general validity subject to conversion into a popular assembly’s statute
Conditional general validity on the grant of ‘subsequent senatorial ratification’
Conditional general validity on the grant of ‘subsequent senatorial ratification’
Unconditional general validity
Mannino (1994)
No general validity
Conditional general validity on the grant of ‘senatorial consent’ (i. e. no matter how and when)
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Unconditional general validity
Zamorani
No general validity
Conditional general validity on the grant of ‘subsequent senatorial ratification’
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Unconditional general validity
Along the Path Towards Exaequatio
Trends of scholarly thought
Scholars
Periods Up to 449 BC
449–339 BC
339–287 BC
287–88 BC
(cont.)
Tondo
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Conditional general validity on the grant of ‘double authorisation’ (approval before the vote and ratification afterwards)
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Unconditional general validity
3) Accepting the Lex Publilia Philonis (338 BC), and the lex Hortensia (287 BC) as historical statutes
ArangioRuiz/ Humm
No general validity
No general validity
Conditional general validity on the grant of ‘subsequent senatorial ratification’
Unconditional general validity
De Martino
No general validity
No general validity
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Unconditional general validity
Guarino
No general validity
No general validity
Conditional general validity subject to conversion into a popular assembly’s statute
Unconditional general validity
Biscardi
No general validity
No general validity (and isolated cases of general validity subject to senatorial approval)
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Conditional general validity on the grant of (mandatory but non-binding) ‘previous senatorial approval’
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Trends of scholarly thought (cont.)
Scholars
Graeber
Periods Up to 449 BC
449–339 BC
339–287 BC
287–88 BC
No general validity
Conditional general validity on the grant of ‘subsequent senatorial ratification’ (as a constitutional practice)
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial approval’ (auctoritas patrum being untouched by the lex Hortensia)
Table 2 Year
Sources
486–462
Val. Max. 5.8.2; Liv. 2.41.1; Dion. Hal. 8.68.1; Liv. 24.2.6; Dion. Hal. 8.87.4–8.88.1; Liv. 2.42.8; Dion. Hal. 9.1.2–3; Liv. 2.43.2–4; Dion. Hal. 9.2, 5.1–2; Liv. 2.44.1; Dion. Hal. 9.27.1–5; Liv. 2.52.2–3; Dion. Hal. 9.37–38; Liv. 2.54.2; Dion. Hal. 9.51–54; Liv. 2.61.1–2; Dion. Hal. 9.59.1–2; Liv. 3.1.1–2; Dion. Hal. 9.69.1
Plebisscita agraria
Failed/ Vetoed (with one exception in 467 BC)
471
Liv. 2.56.1, 57.1; Dion. Hal. 9.43.4; Liv. 2.57.4; Diod. Sic. 11.68.7; Dion. Hal. 9.68.7; Zonar. 7.17.6
Plebisscitum Publilium Voleronis de plebeis magistratibus creandis
Passed
462–457
Dion. Hal. 10.1.5, 10.3.4; Liv. 3.9; D. 1.2.2.3; Liv. 3.10.5–14 and 11; Liv. 3.15.1–3, 3.24–25, 3.30
Plebisscita Terentilia de Vuiris legibus scribundis
Failed
457
Dion. Hal. 10.30.2; Liv. 3.30.5
Plebisscitum de tribunis plebis decem creandis
Passed
456
Dion. Hal. 10.31.2–3 and 10.32.1–4, 10.33.1, 10.40.2, 11.28.2 and 11.28.7, 11.30–11.33.3, 11.37.7, 11.38.2, 11.46.5, 11.50; Liv. 3.31.1–2, 3.32.7, 3.35.4–5, 3.44.3–7, 3.45.4–46.8, 3.47.3–8, 3.48.1–49.4, 3.51.6–11, 3.54.11–15, 3.57.4, 3.58.5, 3.63.8–1, 3.65.9; Zonar. 7.19
Plebisscitum Icilium de Auentino publicando
Passed
449
Liv. 3.54.14–15
Plebisscitum Icilium de secessione
Passed
Plebisscitum
Passed/ Failed/ Vetoed
Along the Path Towards Exaequatio
Table 3 Year
Sources
Plebisscitum
Passed/ Failed/ Vetoed
449
Liv. 3.55.14–15; cf. Cic. leg. 3.9; Diod. Sic. 12.25.3; Liv. 3.55.14–15
Plebisscitum Duillium de tribunis plebis sine successoribus non relinquendis
Passed
449
Liv. 3.34.15; Liv. 3.55.14–15
Plebisscitum Duillium de consulibus non creandis sine prouocatione
Passed
449
Liv. 3.63.8–11; Liv. 10.37.10; Dion. Hal. 11.49.3–5 and Dion. Hal. 11.50.1; Zonar. 7.19.1
Plebisscitum Icilium de triumpho consulum
Passed
448
Diod. Sic. 12.25.3; Dio Cass. fr. 22; Liv. 3.65.1–4; Zonar. 7.17
Plebisscitum Trebonium de tribunis plebis non cooptandis
Passed
445
Liv. 4.6.3
Plebisscitum Canuleium de conubio patrum et plebeiorum
Passed
445
Liv. 4.1.2 and 4.6.5–12
Plebisscitum de consule plebeio
Failed
441
Liv. 4.12.3–4
Plebisscitum Poetelium agrarium
Failed
440
Liv. 4.12.8; cf. Liv. 4.13.7; Plin. nat. 18.15, 34.21; Dion. Hal. 12.1.5
Plebisscitum de cura annonae L. Minucio tribuenda
Passed
439
Dion. Hal. 12.4.6; Liv. 4.16.2–5; Plin. nat. 18.15, 34.21
Plebisscitum de L. Minucio honoribus tribuendis
Passed
436
Liv. 4.21.3–4; Val. Max. 5.3.2g
Plebisscitum Maelium de Seruili Ahalae publicandis bonis
Failed
432
Liv. 4.25.9–14
Plebisscitum de ambitu
Passed
421–414
Liv. 4.43.5–6, 4.44.7–10, 4.47.7–8, 4.48.1–2 and 48.15–16; Diod. Sic. 13.42.6; Liv. 4.49.6–12 and 51.3–6
Plebisscita agraria
Failed/ Vetoed
415
Liv. 4.49.6; cf. Liv. 4.49.7–12.51.3– 6; Diod. Sic. 13.42
Plebisscitum Decium de Bolae colonia deducenda
Vetoed
414
Diod. Sic.13.42.6; Liv. 4.49.7–12 and 51.3–6
Plebisscitum Sextium de Bolae colonia deducenda
Failed
413
Liv. 4.51.2–3; cf. Flor. epit. 1.17; Liv. 4.49.7–4.50.6; Zonar. 7.20
Plebisscitum de quaestione Postumi caedis
Passed
412–401
Liv. 4.52.2, 4.53.1–7, 5.12
Plebisscita agraria
Failed/ Vetoed
395–393
Liv. 5.24.7–5.30.7; Plut. Cam. 7.2–11.2
Plebisscitum Sicinium de parte ciuium Veios deducenda
Vetoed/ Failed
390
Liv. 5.50.8 and 5.55.1–2
Plebisscitum de ciuibus Veios deducendis
Failed
387
Liv. 6.5 and 6.6
Plebisscitum Sicinium de agro Pomptino
Failed
57
58
Carlo Pelloso
Year
Sources
Plebisscitum
Passed/ Failed/ Vetoed
368
Liv. 6.38.5–13; Plut. Cam. 39.4
Plebisscitum de multa M. Furio Camillo dicenda
Passed
367
Liv. 6.42.9; cf. Ampel. 25.4; Diod. Sic. 12.25 2; Flor. epit. 1.17; Liv. 6.35–37, 6.42; Plut. Cam. 42.7; D. 1.2.2.26; Schol. Cic. Ambros. (Stangl 275); [Auct.] vir. ill. 20.1; Zonar. 7.24.4
Plebisscitum Licinium Sextium de consule plebeio
Passed
367
App. bell. civ. 1.32–34; Cato. orig. 5.3e (Chassignet); Cic. leg. agr. 2.21; Colum. 1.3.11; Dion. Hal. 14.12; Gell. 6.3.39–40; Liv. 7.16.9, 10.13.14 and 34.4.9; Plin. nat. 18.17; Plut. Cam. 39.5–6 and Tib. Gr. 8.1–2; Val. Max. 8.6.3; Varr. rust. 1.2.9; Vell. 2.6.3; [Auct.] vir. ill. 20.3
Plebisscitum Licinium Sextium de modo agrorum
Passed
367
Liv. 6.35–39
Plebisscitum Licinium Sextium de aere alieno
Passed
367
Liv. 6.37.1, 6.42.2 and 10.8.2–3
Plebisscitum Licinium Sextium de decemuiris sacris faciundis
Passed
366
Liv. 6.42.8
Plebisscitum de triumpho M. Furii Camilli
Passed
358
Liv. 7.15.12–13
Plebisscitum Poetelium de ambitu
Passed
357
Cato. agr. 1.1; Liv. 7.16.1
Plebisscitum Duillium Menenium de unciaro fenore
Passed
357
Liv. 7.16.8
Plebisscitum de populo non seuocando
Passed
356
Liv. 7.17.9
Plebisscitum de triumpho C. Marci Passed Rutili
Table 4 Year
Sources
Plebisscitum
Passed/ Failed/ Vetoed
327
Liv. 8.23.12
Plebisscitum de imperio Publili Philonis prorogando
Passed
323
Liv. 8.37.8–11; Val. Max. 9.10.1
Plebisscitum Flauium de Tusculanis
Passed
Liv. 26.33.10–11; Liv. 9.12.5, 9.16.2–10
Plebisscitum Antistium de Satricanis
Passed
319 BC
Along the Path Towards Exaequatio
Year
318
Sources
Plebisscitum
Passed/ Failed/ Vetoed
Liv. 9.26.5–9
Plebisscitum de quaestione instituenda
Passed
318–312
Cic. Cluent. 43.121; Fest. s. v. praeteriti senatores (Lindsay 290); Liv. 9.29.6–8; Zonar. 7.19.7
Plebisscitum Ouinium de senatus lectione
Passed
312–311
Liv. 9.30.3
Plebisscitum Atilium Marcium de tribunis Militum creandis
Passed
312–311
Liv. 9.30.4
Plebisscitum Decium de duumuiris Passed naualibus
304
Liv. 9.46.7
Plebisscitum de dedicatione templi araeue
Passed
300
Liv. 10.6.9–11
Plebisscitum Ogulnium de auguribus et pontificibus
Passed
298
Liv. 10.13.5–11
Plebisscitum de lege soluendo Q. Fabio Maximo Rulliano
Passed
296
Liv. 10.21.9
Plebisscitum de creatione triumuirum colonis deducendis
Passed
295
Liv. 10.22.9
Plebisscitum de L. Volumni imperio prorogando
Passed
294
Liv. 10.37.9–12
Plebisscitum de L. Postumii Megelli triumpho
Passed
287
Dio Cass. 8.37.2; Zonar. 8.2
Plebisscitum de aere alieno minuendo
Failed
Table 5 Trend of scholarly thought Accepting the Lex Valeria Horatia (449 BC), and the lex Hortensia (287 BC) as historical statutes de plebisscitis
Scholar
Pelloso
Periods Up to 449 BC
449–339 BC
339–287 BC
287–88 BC
Conditional general validity subject to conversion into a popular assembly’s statute
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial consent’
Conditional general validity on the grant of ‘previous senatorial consent’
Unconditional general validity (only implicitly achieved through the lex Hortensia)
59
60
Carlo Pelloso
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61
62
Carlo Pelloso
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63
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Carlo Pelloso
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Aldo Petrucci
Il ruolo del senato nel trionfo dalle origini della repubblica alla sua crisi
I. Trionfo ed assetto costituzionale repubblicano: considerazioni preliminari Gli aspetti giuridici del triumphus durante l’età repubblicana della storia di Roma non hanno mai particolarmente entusiasmato gli studiosi di diritto romano, salvo rare ed autorevoli eccezioni1. Io stesso ero piuttosto scettico, quando, agli inizi degli anni Novanta del secolo passato, il mio primo Maestro, Feliciano Serrao, mi aveva prospettato l’opportunità di approfondire il discorso sulle leges de triumpho nell’ambito di un suo più vasto progetto di repertoriare tutti i dati delle fonti su rogationes e leges publicae, avviato negli anni Settanta e purtroppo mai giunto a conclusione. In realtà, man mano che mi sono addentrato nell’analisi del racconto degli antichi, le tematiche giuridiche legate alla concessione del trionfo mi hanno sempre di più coinvolto, inducendomi a realizzare uno specifico studio in materia, sfociato nella pubblicazione di una monografia nel 19962. La configurazione di una specifica normativa, infatti, da un lato, risulta in intima connessione con i rapporti internazionali ed il regime giuridico della guerra, assumendo rilevanza il carattere ‘legale’ della stessa (il bellum iustum), il numero di nemici uccisi, il tipo di imperium militare rivestito, il ruolo degli eserciti ed altri elementi correlati. Dall’altro lato, la dimensione sacrale del trionfo quale festa di ringraziamento per un’impresa bellica felicemente condotta, dove il vincitore era accostato o addirittura identificato con la suprema divinità, varcava il pomerium senza deporre l’imperium militare e perdere i connessi auspicia ed era seguito ed 1 Tra le quali spicca quella di Mommsen, Römisches Staatsrecht I 18873, 126 ss. 2 Petrucci, Il trionfo 1996. I risultati, cui sono pervenuto in quella sede, hanno rappresentato la base anche di quanto ho scritto successivamente sull’argomento in Petrucci, Osservazioni sui rapporti tra organi 2006, 715 ss. e Petrucci, Corso di diritto pubblico 2017, 368 ss.
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esaltato dall’esercito in armi, spiega perché, fin ab antiquo, fosse necessario disciplinarne il regime giuridico anche sotto il profilo delle competenze degli organi costituzionali cittadini. Il quadro che di esse ci viene presentato, pur fondandosi su un mos maiorum affermatosi poco a poco fin dagli inizi della Repubblica, risulta integrato da nova exempla e forgiato dall’andamento della dialettica politica complessiva, come sempre avviene in assetti istituzionali – quale quello romano – non regolati da rigide norme scritte. Solo durante il III ed il II secolo a. C. i requisiti si fanno più stringenti, benché nella loro applicazione continui a dominare una notevole flessibilità, che ne consente la sopravvivenza fino al loro definitivo sovvertimento con l’instaurazione del regime augusteo. A quasi venticinque anni di distanza ritorno volentieri sull’argomento, ancorché nella più limitata ottica del ruolo ricoperto dal senato e dalle sue delibere, ringraziando vivamente chi mi ha sollecitato a farlo3. Mi corre tuttavia l’obbligo di avvertire, in via preliminare, che non intendo ridiscutere le varie posizioni della dottrina a suo tempo esaminate; terrò invece conto, per quanto qui interessano, degli importanti studi monografici sul trionfo, che sono stati pubblicati nel frattempo4. Sul piano metodologico, ribadisco la centralità di un’analisi condotta sui dati più significativi del racconto tradizionale, nella perdurante convinzione che da essi non si possa prescindere, neppure per l’epoca arcaica, quando si vogliano compiere ricostruzioni di un regime giuridico con un minimo di attendibilità5. Prendiamo dunque le mosse dall’epoca più risalente. 3 I Professori S. Lohsse e P. Buongiorno, che mi hanno invitato a tenere un seminario sull’argomento il 10 dicembre 2019, presso la Westfälische Wilhelms-Universität di Münster. Il presente contributo ne rappresenta il testo scritto. 4 Mi riferisco, in particolare, a quelli di Itgenshorst, Tota illa pompa 2005; Bastien, Le triomphe romain 2007; Beard, The Roman Triumph 2007 e Pelikan Pittenger, Contested Triumphs 2008. Di scarso interesse è invece il volumetto di Auliard, Victoires et triomphes à Rome 2001, poco aggiornato sulla bibliografia e totalmente appiattito in campo giuridico sulle posizioni della dottrina tradizionale, mentre Masi Doria, Spretum imperium 2000, 39 ss., 149 s., nell’esaminare la contentio tra il dittatore L. Papirio Cursore ed il magister equitum Q. Fabio Rulliano nel 325–324 a. C., si occupa anche del diritto a trionfare di quest’ultima carica, un aspetto analizzato peraltro anche da Bastien, Le triomphe romain 2007, 86 ss. Un’interessante trattazione, incentrata però sul solo contesto giuridico – costituzionale in cui si inserisce il trionfo di Q. Lutazio Catulo nel 241 a. C. (infra, § III sub c), è condotta da Mancinelli, Aspetti giuridici del trionfo 2015, 226 ss. 5 A proposito della più antica età repubblicana (fino al 389 a. C.) una raccolta completa dei dati sui senatoconsulti anche de triumpho è stata compiuta da Volterra, Materiali 2018, 97 ss. Sulla loro attendibilità (da estendere a tutto il IV secolo a. C.) condivido ancora quanto ho, a suo tempo, scritto in Petrucci, Il trionfo 1996, 9 ss., in controtendenza all’imperante scetticismo che, allora come oggi, continua ad essere manifestato dagli storici: così Itgenshorst, Tota illa pompa 2005, 89 ss., che incentra la propria attenzione solo sui trionfi celebrati fra il 340 ed il 19 a. C.; Bastien, Le triomphe romain 2007, 85 ss., il quale dedica ampio spazio alle falsificazioni annalistiche in riferimento soprattutto al periodo arcaico; Beard, The Roman
Il ruolo del senato nel trionfo dalle origini della repubblica alla sua crisi
II. Senato e ius triumphandi nei primi due secoli della repubblica a) La formazione del più antico mos Nei primi decenni del nuovo ordinamento repubblicano, all’incirca fino alla metà del V secolo a. C., i dati degli storici antichi ci rivelano che la concessione del trionfo avveniva sotto un rigido controllo del senato: tale organo risulta arbitro assoluto nell’autorizzarne la celebrazione o negarla e nello scegliere tra la cerimonia maggiore (triumphus) e quella minore (ovatio). Si forma quindi una prassi per cui qualunque comandante vittorioso cum imperio auspicioque avesse voluto procedervi era soggetto ad un sindacato assoluto dei patres. All’interno dei vari episodi6, basterebbe ricordare le affermazioni di Dionigi di Alicarnasso in relazione al trionfo dei consoli P. Valerio Publicola e T. Lucrezio per la vittoria sui Sabini e la presa di Fidene nel 504 a. C.: τὸν ὑπὸ τῆς βουλῆς ψηφισθέντα θρίαμβον κατήγαγον (Ant. Rom.5.43.2), ed al trionfo dei consoli P. Postumio Tuberto e M. Agrippa Lanato per aver sconfitto ancora i Sabini nel 503 a. C.: καὶ θριάμβοις ὑπὸ τῆς βουλῆς ἐκοσμοῦντο ἀμφότεροι, in cui però i senatori operano una gradazione tra triumphus vero e proprio attribuito a quest’ultimo ed ovatio accordata al primo (Ant. Rom. 5.47.2 e 4). A questi due esempi si può aggiungere quello raccontato in modo più articolato da Liv. 2.47.10 circa gli eventi del 480 a. C.: Victoria egregia parta, tristis tamen duobus tam claris funeribus. Itaque consul decernente senatu triumphum, si exercitus sine imperatore triumphare possit, pro eximia eo bello opera facile passurum respondit; se familia funesta Q. Fabi fratris morte, re publica ex parte orba, consule altero amisso, publico privatoque deformem luctu lauream non accepturum.
Il console M. Fabio aveva riportato sui Veienti una splendida vittoria bellica, che era stata però rattristata da un duplice grave lutto (victoria egregia parta, tristis tamen duobus tam claris funeribus): le morti in battaglia del collega nel consolato, Cn. Manlio, e del fratello, l’ex console Q. Fabio. Pertanto al senato, che intendeva decretargli il trionfo (decernente senatu triumphum), il console aveva risposto che, se l’esercito avesse potuto trionfare senza il comandante, glielo avrebbe consentito in considerazione dell’opera svolta in guerra (si exercitus sine imperatore triumphare possit, pro eximia eo bello opera facile passurum respondit), ma che personalmente pre-
Triumph 2007, 75 ss., 200 s., di cui basta riportare la frase di premessa ai brevi cenni sulle cerimonie trionfali della più antica Repubblica: «How a triumph was claimed in the earliest period of the Republic is frankly anyone’s guess» (p. 200). Vd. anche Pelikan Pittenger, Contested Triumphs 2008, 34, 37 ss. 6 Sui quali mi permetto di rinviare a Petrucci, Il trionfo 1996, 24 ss. Un’attenta schedatura delle fonti su di essi si trova in Volterra, Materiali 2018, 101 ss.
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feriva non accettare un alloro offuscato da tali eventi luttuosi, familiare e pubblico (se familia funesta – lauream non accepturum). Da rilevare nell’episodio appena riportato non solo l’iniziativa assunta in via esclusiva dal senato nel deliberare il trionfo al comandante vittorioso, ma anche la facoltà di quest’ultimo di rifiutarlo, che esclude certamente una richiesta in tal senso presentata dallo stesso.
b) L a rottura del mos primitivo e le oscillazioni nella formazione di una nuova prassi Subito dopo la metà del V secolo a. C. si verifica un episodio, che infrange il mos precedente, introducendo le basi per la nascita di una nuova prassi: nel 449 a. C., infatti, i consoli L. Valerio Potito e M. Orazio Barbato (gli stessi che avevano proposto le leggi Valeriae – Horatiae7), di fronte al rifiuto senatorio di concedergli il trionfo per aver vinto in scontri separati Equi, Volsci e Sabini, per la prima volta lo celebrano in forza del solo voto popolare e senza l’autorizzazione del senato (sine auctoritate senatus populi iussu). Narra lo storico patavino: Liv. 3.63.8–11: Ubi cum ingenti consensu patrum negaretur triumphus, L. Icilius tribunus plebis tulit ad populum de triumpho consulum, multis dissuasum prodeuntibus, maxime C. Claudio vociferante de patribus, non de hostibus consules triumphare velle … Nunquam ante de triumpho per populum actum; semper aestimationem arbitriumque eius honoris penes senatum fuisse; ne reges quidem maiestatem summi ordinis imminuisse. Ne ita omnia tribuni potestatis suae implerent, ut nullum publicum consilium sinerent esse. Ita demum liberam civitatem fore, ita aequatas leges, si sua quisque iura ordo, suam maiestatem teneat. In eandem sententiam multa et a ceteris senioribus patrum cum essent dicta, omnes tribus eam rogationem acceperunt. Tum primum sine auctoritate senatus populi iussu triumphatum est.
Avendo la maggior parte dei senatori negato ai consoli il trionfo, il tribuno Icilio presenta al concilio della plebe la proposta di farli ugualmente trionfare (L. Icilius tribunus plebis tulit ad populum de triumpho consulum), benché molti senatori si facessero avanti per dissuaderlo, e soprattutto C. Claudio, il quale urlava che i consoli volevano trionfare sui senatori e non sui nemici (maxime C. Claudio vociferante de patribus, non de hostibus consules triumphare velle). Alla base delle sue vibranti proteste egli adduce che mai in precedenza si era trattato del trionfo davanti ad un’assemblea popolare e che sempre la valutazione e la decisione di quell’onore era stata di competenza del senato (nunquam ante de triumpho per populum actum; semper 7 Con le quali, come è noto, si era ristabilito l’assetto costituzionale precedente all’esperimento del decemvirato, fissandone alcuni importanti principi: vd. Liv. 3.55.3–7, su cui mi sono soffermato, da ultimo, in Petrucci, Corso 2017, 34 s.
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aestimationem arbitriumque eius honoris penes senatum fuisse), una competenza che neppure i re avevano osato menomare. Con enfasi Claudio conclude intimando ai tribuni di non invadere le sfere di attribuzione altrui e proclamando che la città sarebbe stata veramente libera e le leggi uguali per tutti, se ciascun ordine (patrizio e plebeo) osservasse il proprio diritto e la propria maiestas (ita demum liberam civitatem fore, ita aequatas leges, si sua quisque iura ordo, suam maiestatem teneat). Malgrado anche gli altri senatori anziani avessero sollevato le medesime argomentazioni, tutte le tribù del concilio accolgono la proposta di Icilio (omnes tribus eam rogationem acceperunt) e per la prima volta il trionfo si celebra senza l’autorizzazione del senato, ma per ordine della plebe (tum primum sine auctoritate senatus populi iussu triumphatum est). Sull’episodio esiste anche la versione di Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. 11.49.3–5 e 11.50.1), che ne conferma le linee di fondo: l’opposizione del senato a concedere il trionfo per iniziativa di C. Claudio; la successiva convocazione del concilio della plebe; l’approvazione di un plebiscito (νόμος), su proposta dei tribuni, per autorizzare i due consoli a celebrarlo; e la sua celebrazione ad opera, per la prima volta, di una decisione del popolo (παρὰ τοῦ δήμου λαμβάνουσι τὴν καταγωγὴν τοῦ θριάμβου)8. Il novum exemplum del 449 a. C. non porta, però, all’affermazione di un mos sostitutivo del precedente, con un’assemblea popolare che scalza dal proprio ruolo originario il senato, ma apre comunque la strada ad una modifica della prassi, che comincia a manifestarsi nel decennio successivo, quando il ius triumphandi del comandante vittorioso trova fondamento, oltreché in un senatoconsulto, in un voto di un’assemblea popolare (iussum populi o plebis), posti su un piano di eguale dignità. Ne costituisce un esempio il trionfo del dittatore M. Emilio Mamerco nel 437 a. C. per la vittoria su Veienti e Fidenati, il quale, secondo un filone dell’annalistica accolto da Liv. 4.20.1, sarebbe rientrato in città trionfante senatus consulto iussuque populi: omnibus locis re bene gesta, dictator senatus consulto iussuque populi triumphans in urbem rediit. Che, però, una tale innovazione sul piano delle competenze non si consolidi lo si vede chiaramente negli anni seguenti. Se prendiamo in considerazione il racconto liviano sui trionfi avvenuti nel IV secolo a. C., infatti, da un lato, si registrano casi in cui è attestato, in modo esplicito o implicito, l’intervento concorrente del senato e di un’assemblea popolare: ad esempio, il trionfo del dittatore M. Furio Camillo per aver respinto vittoriosamente nel 367 a. C. un’incursione dei Galli (Liv. 6.42.8: dictatori consensu patrum plebisque triumphus decretus) ed il trionfo del console C. Petilio Balbo, unito alla cerimonia minore dell’ovatio per il collega M. Fabio Ambusto, per i successi, rispettivamente, sui Galli e Tiburtini e sugli Ernici nel 360 a. C. (Liv. 7.11.8–10: Dictator consulibus in senatu et apud populum magnifice conlaudatis
8 Per un approfondimento cf. Petrucci, Il trionfo 1996, 34 ss.
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et suarum quoque rerum illis remisso honore dictatura se abdicavit. Poetelius de Gallis Tiburtibusque geminum triumphum egit: Fabio satis visum ut ovans urbem iniret). Dall’altro lato, invece, sono riportati non pochi trionfi che continuano ad essere celebrati ex senatus consulto, senza che per essi sia possibile riscontrare tracce di interventi o votazioni popolari, come quello del console M. Valerio Corvo per la guerra vinta contro gli Ausoni nel 335 a. C. (Liv. 8.16.11: consul ex senatus consulto triumphavit) e quello del console C. Plauzio per aver debellato Vitruvio ed i Privernati nel 329 a. C. (Liv. 8.20.7: senatus de Vitruvio Privernatibusque consultus consulem Plautium dirutis Priverni muris praesidioque valido imposito ad triumphum accersit). A rimarcare ulteriormente la fluidità, in questo periodo storico, delle competenze circa l’attribuzione del ius triumphandi al comandante vittorioso si aggiunge l’episodio del trionfo tributato, nel 356 a. C., mediante un plebiscito sine auctoritate patrum, al primo dittatore plebeo, Marcio Rutilo, per la sua vittoria su Etruschi e Falisci. Narra Liv. 7.17.9: C. Marcius Rutilus … castra quoque nec opinato adgressus cepit et octo milibus hostium captis, ceteris aut caesis aut ex agro Romano fugatis sine auctoritate patrum populi iussu triumphavit.
C. Marcio Rutilo, dunque, avendo assalito all’improvviso gli accampamenti dei nemici, ne aveva catturati ottomila ed aveva fatto fuggire dal territorio romano tutti gli altri; per questo motivo gli era stato decretato il trionfo per ordine del popolo (rectius della plebe) senza autorizzazione del senato (sine auctoritate patrum populi iussu triumphavit). Riaffiora così la competenza esclusiva di un’assemblea popolare, allo stesso modo di come era avvenuto, circa un secolo prima, per il trionfo dei consoli L. Valerio e M. Orazio, però con l’importante differenza che Rutilo non ha dapprima presentato la richiesta al senato, ma si è subito rivolto al concilium plebis, senza preoccuparsi di trattare la questione di fronte ai patres9. Infine, nel 326 a. C. si verifica un novum exemplum destinato a costituire un precedente seguito nei decenni successivi. A Publilio Filone (autore delle omonime leggi del 339 a. C.10), dopo essergli stato prorogato l’imperium militiae, con plebiscito fatto votare previo accordo con il senato, perché concludesse felicemente l’assedio di Palepoli11, gli venne anche concesso – ed era la prima volta – il trionfo 9 Sull’instabilità delle competenze degli organi costituzionali in tema di trionfo tra la metà del V secolo a. C. e la fine del IV secolo a. C., oltre alla mia analisi in Petrucci, Il trionfo 1996, 35 ss., 49 ss., segnalo le interessanti osservazioni di Pelikan Pittenger, Contested Triumphs 2008, 37 s., 49 ss., in rapporto alla situazione politica dei quegli anni, malgrado la scarsa fiducia della studiosa sull’attendibilità delle notizie contenute nelle fonti. 10 Cf. Liv. 8.12.14–16. 11 Liv. 8.23.10–12, sulle quali rinvio a quanto dico in Petrucci, Corso 2017, 40 s.
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come promagistrato (acto honore). La singolarità dei due eventi (duo singularia haec ei viro primum contingere) è sottolineata dal racconto di Liv. 8.26.7: Publilio triumphus decretus, quod satis credebatur obsidione domitos hostes in fidem venisse … duo singularia haec ei viro primum contingere: prorogatio imperii non ante in ullo facta et acto honore triumphus.
La circostanza che egli sia stato il primo a trionfare come proconsole è confermata anche dagli Acta triumphalia12 e l’innovazione, una volta introdotta, si ripete poco dopo anche per il trionfo del proconsole Q. Fabio Massimo Rulliano nel 309 a. C.13, valendo da allora come norma del mos maiorum.
III. Il progressivo assestamento delle regole: le competenze del senato nel III e II secolo a. C. Durante la media età repubblicana il procedimento costituzionale per la concessione del trionfo tende a stabilizzarsi, superando quelle oscillazioni che abbiamo visto caratterizzare la seconda metà del V ed il IV secolo a. C. Questa stabilizzazione è però preceduta, proprio agli inizi del III secolo a. C., da un episodio che, nella narrazione degli antichi, sembra rappresentare un importante momento di passaggio, perché ad elementi collegati alla prassi anteriore si vengono ad aggiungere elementi nuovi. Andiamo ad esaminarlo.
a) Il trionfo del console L. Postumio Megello nel 294 a. C. Qui, per la prima volta, il comandante vittorioso lo celebra invocando a fondamento il suo potere d’imperio (eodem iure imperii), scavalcando in tal modo sia il rifiuto opposto dal senato che il veto avanzato da sette tribuni della plebe, anche se poi, per attenuare la rottura, si avvale del sostegno dei rimanenti tre e del concilio plebeo, per quanto non tradotto in una delibera formale. Particolarmente dettagliata è la narrazione contenuta in Liv. 10.37.6–12: Ob hasce res gestas consul cum triumphum ab senatu moris magis causa quam spe impetrandi petisset videretque alios quod tardius ab urbe exisset, alios quod iniussu senatus ex Samnio in Etruriam transisset, partim suos inimicos, partim collegae amicos ad solacium aequatae repulsae sibi quoque negare triumphum, ‘non ita’ inquit, ‘patres conscripti, vestrae maiestatis 12 Vd. Pais, Fasti triumphales, I, 1920, 7 e 54; Degrassi, Fasti Capitolini 1947, 95. 13 Così ancora gli Acta (Pais, Fasti triumphales, I, 1920, 7 e 59; Degrassi, Fasti Capitolini 1947, 96). In Liv. 9.40.20 ricopre invece la carica di console.
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meminero ut me consulem esse obliviscar. Eodem iure imperii quo bella gessi, bellis feliciter gestis, Samnio atque Etruria subactis, victoria et pace parta triumphabo’. Ita senatum reliquit. Inde inter tribunos plebis contentio orta; pars intercessuros ne novo exemplo triumpharet aiebat, pars auxilio se adversus collegas triumphanti futuros. Iactata res ad populum est vocatusque eo consul cum M. Horatium L. Valerium consules, C. Marcium Rutulum nuper, patrem eius qui tunc censor esset, non ex auctoritate senatus sed iussu populi triumphasse diceret, adiciebat se quoque laturum fuisse ad populum, ni sciret mancipia nobilium, tribunos plebis, legem impedituros; voluntatem sibi ac fauorem consentientis populi pro omnibus iussis esse ac futura; posteroque die auxilio tribunorum plebis trium adversus intercessionem septem tribunorum et consensum senatus celebrante populo diem triumphavit.
Dopo le guerre vittoriose nel Sannio ed in Etruria, Postumio chiede il trionfo al senato, più per rispetto del mos che per speranza di ottenerlo (cum triumphum ab senatu moris magis causa quam spe impetrandi petisset …); ed infatti nella successiva discussione tra i senatori si manifesta un orientamento sfavorevole alla concessione, motivato da varie argomentazioni: alcuni dicevano che era uscito troppo tardi dalla città (alios quod tardius ab urbe exisset), altri che era passato dal Sannio all’Etruria senza un ordine del senato (alios quod iniussu senatus ex Samnio in Etruriam transisset); quanti le sostenevano in parte erano suoi nemici, in parte erano amici del collega, che gli negavano il trionfo per equiparare entrambi nel ricevere un uguale rifiuto14 (partim suos inimicos, partim collegae amicos ad solacium aequatae repulsae sibi quoque negare triumphum). La reazione di Postumio è però quella di voler ugualmente trionfare eodem iure imperii con il quale aveva condotto e vinto la guerra, sottomettendo Sannio ed Etruria e riportando la vittoria e la pace (eodem iure imperii quo bella gessi, bellis feliciter gestis, Samnio atque Etruria subactis, victoria et pace parta triumphabo). Della questione sono allora investiti i tribuni della plebe, all’interno dei quali si delineano due posizioni: una contraria al console per impedire che il suo trionfo costituisca un novum exemplum (inde inter tribunos plebis contentio orta; pars intercessuros ne novo exemplo triumpharet aiebat …) e l’altra, invece, a lui favorevole in aperto contrasto con i colleghi (adversus collegas). Viene quindi convocata l’assemblea della plebe, di fronte a cui è chiamato il console, il quale: a) richiama i precedenti trionfi dei consoli Valerio e Orazio nel 449 a. C. e del dittatore M. Rutilo nel 356 a. C. (padre di uno dei censori in carica), celebrati non per autorizzazione del senato, ma per delibera popolare (non ex auctoritate senatus sed iussu populi); b) dichiara che avrebbe presentato anch’egli al popolo la proposta di trionfare, se non avesse saputo che i tribuni asserviti ai nobiles avrebbero interposto l’intercessio per impedire l’approvazione della legge (adiciebat se quoque laturum fuisse ad populum, ni sciret mancipia nobilium, tribunos plebis, legem impedituros); c) 14 Infatti, l’altro console, M. Atilio Regolo, aveva da poco ricevuto il diniego a trionfare per la vittoria sui Sanniti a Luceria, poiché aveva perduto un alto numero di soldati e non aveva osservato alcuni termini del loro patto di resa: cf. Liv. 10.36.19.
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ritiene che la volontà ed il consenso favorevole della plebe erano e sarebbero stati sostitutivi di un suo voto espresso (voluntatem sibi ac favorem consentientis populi pro omnibus iussis esse ac futura). Pertanto, il giorno successivo, malgrado l’intercessio di sette tribuni e l’opposizione del senato, Postumio trionfa basandosi sul consenso popolare e sull’appoggio degli altri tre tribuni (posteroque die auxilio tribunorum plebis trium adversus intercessionem septem tribunorum et consensum senatus celebrante populo diem triumphavit). Nella variante dell’episodio, conservataci da alcuni frammenti di Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. 17–18.5.4), la celebrazione del trionfo da parte di Postumio sarebbe avvenuta di propria iniziativa (ἀπὸ τῆς ἑαυτοῦ γνώμης) contro il consenso del senato e del popolo (δῆμος)15 ed avrebbe avuto come conseguenza, una volta terminata la carica, la sua citazione davanti al concilio della plebe ad opera di due tribuni, seguita dalla condanna unanime di tutte le tribù ad una multa di cinquantamila denari d’argento. I due racconti, come si vede, non coincidono fondamentalmente sul ruolo della plebe, a riprova delle incertezze annalistiche sui fatti di quell’anno rivelate da Livio stesso e dalle iscrizioni degli Acta triumphalia16. Sono invece accomunati da tre importanti dati: la richiesta al senato dell’autorizzazione a trionfare in conformità al mos vigente, il diniego dei patres e la decisione di trionfare iure imperii. Nella versione di Livio (che non sarebbe contraddetta da Dionigi, qualora si respinga l’integrazione editoriale con il riferimento al δῆμος17), tuttavia, la titolarità dell’imperium non è ritenuta da sola sufficiente a costituire un novum exemplum, perché Postumio cerca comunque una fonte di ulteriore legittimazione nel consenso della plebe, ancorché non formalizzato in un voto (voluntatem … consentientis populi pro omnibus iussis esse ac futura), e nel supporto dei tre tribuni non intercedenti18.
15 Sempreché si accetti l’integrazione delle parole οὔτε ὁ δῆμος proposta dalle edizioni moderne dell’opera di Dionigi: vd., per esempio, quella della Loeb, Dionysius of Halicarnassus, Excerpts books XII – XX, 338. 16 Cf. le diverse tradizioni di Claudio Quadrigario e di Fabio Pittore riportate in Liv. 10.37.13–15; negli Acta sono menzionati i trionfi di ambedue i consoli (Pais, Fasti triumphales, I, 1920, 8 e 66 s.; Degrassi, Fasti Capitolini 1947, 97). Sul punto vd., in tempi recenti, Bastien, Le triomphe romain 2007, 102 ss. 17 Vd. supra, nt. 15. 18 Sui profili più squisitamente giuridici di tale episodio nel quadro costituzionale dell’epoca rinvio ancora a Petrucci, Il trionfo 1996, 52 ss. Non si riscontrano successivi approfondimenti al riguardo in Itgenshorst, Tota illa pompa 2005, 159 s.; Bastien, Le triomphe romain 2007, 102 ss.; Pelikan Pittenger, Contested Triumphs 2008, 42 s.
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b) Le funzioni del senato e degli altri organi nel procedimento Nei decenni successivi del III e del II secolo a. C., il regime giuridico appare sufficientemente definito nei suoi elementi di fondo, come si deduce dai molti episodi, esposti soprattutto da Livio tra il 221 ed il 167 a. C., su trionfi celebrati o non concessi19. Per comprendere il ruolo del senato, basta richiamare tre esempi significativi. Il primo risale al 211 a. C., durante la seconda guerra punica: Liv. 26.21.1–4: Eiusdem aestatis exitu M. Marcellus ex Sicilia prouincia cum ad urbem uenisset, a C. Calpurnio praetore senatus ei ad aedem Bellonae datus est. ibi cum de rebus ab se gestis disseruisset, questus leniter non suam magis quam militum uicem quod prouincia confecta exercitum deportare non licuisset, postulauit ut triumphanti urbem inire liceret. id non impetrauit. cum multis uerbis actum esset utrum minus conueniret cuius nomine absentis ob res prospere ductu eius gestas supplicatio decreta foret et dis immortalibus habitus honos ei praesenti negare triumphum, an quem tradere exercitum successori iussissent – quod nisi manente in prouincia bello non decerneretur – eum quasi debellato triumphare cum exercitus testis meriti atque immeriti triumphi abesset, medium uisum ut ouans urbem iniret. tribuni plebis ex auctoritate senatus ad populum tulerunt ut M. Marcello quo die urbem ouans iniret imperium esset. pridie quam urbem iniret in monte Albano triumphauit; inde ouans multam prae se praedam in urbem intulit.
Alla fine di quell’estate il proconsole M. Marcello viene a Roma dalla provincia della Sicilia ed il pretore C. Calpurnio convoca per lui il senato nel tempio di Bellona. Nella seduta, dopo aver fatto un rapporto circa le proprie imprese (cum de rebus ab se gestis disseruisset) ed essersi pacatamente lamentato perché non gli era stato permesso di riportare l’esercito in patria una volta riorganizzata la provincia, Marcello chiede che gli sia consentito di entrare in città trionfando (postulauit ut triumphanti urbem inire liceret). La sua richiesta viene respinta (id non impetrauit) all’esito di un vivace dibattito, dove si confrontano chiaramente le opinioni dei favorevoli e dei contrari. I primi fanno leva sulle imprese felicemente da lui condotte, per le quali, se fosse stato assente, si sarebbero decretati onori e suppliche agli dei immortali (utrum minus conueniret – negare triumphum), mentre i secondi si basano sul fatto che la guerra non era stata condotta a termine e che gli era stato ordinato di conse19 Delle singole vicende nell’ottica degli assetti costituzionali mi sono occupato in Petrucci, Il trionfo 1996, 82 ss., 90 ss. È questo l’arco temporale su cui si sono concentrati maggiormente gli studi successivi: vd. Beard, The Roman Triumph 2007, 206 ss. e Pelikan Pittenger, Contested Triumphs 2008, 34 ss. La Itgenshorst, Tota illa pompa 2005, 159 ss. ne esamina dodici, tra il 211 ed il 185, mentre Bastien, Le triomphe romain 2007, 195 ss., 238 ss., 251 ss., 276 ss., 287 ss., analizza separatamente i diversi aspetti. Si veda anche Mancinelli, Aspetti giuridici del trionfo 2015, 242 ss.
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gnare al successore l’esercito, impedendogli così di testimoniare se il trionfo fosse meritato o no (an quem tradere exercitum successori iussissent – exercitus testis meriti atque immeriti triumphi abesset). Alla fine i senatori trovano un punto di incontro su una soluzione intermedia e deliberano di farlo entrare a Roma celebrando la cerimonia minore dell’ovazione (medium uisum ut ouans urbem iniret), anziché il trionfo. A tal fine i tribuni della plebe, su autorizzazione senatoria, presentano al concilium plebis la proposta che M. Marcello conservi l’imperium prorogato al momento di far ingresso in città. Il giorno prima, però, egli celebra comunque il trionfo sul monte Albano (pridie quam urbem iniret in monte Albano triumphauit). Il secondo episodio si colloca nel 193 a. C.: Liv. 35.8.2–9: L. Cornelius consul relicto ad exercitum M. Claudio legato Romam uenit. is in senatu cum de rebus ab se gestis disseruisset quoque statu prouincia esset … postulauit deinde, supplicationem simul triumphumque decernerent. prius tamen quam relatio fieret, Q. Metellus, qui consul dictatorque fuerat, litteras eodem tempore dixit et consulis L. Corneli ad senatum et M. Marcelli ad magnam partem senatorum allatas esse inter se pugnantes, eoque dilatam esse consultationem ut praesentibus auctoribus earum litterarum disceptaretur. itaque expectasse sese ut consul, qui sciret ab legato suo aduersus se scriptum aliquid, cum ipsi ueniendum esset, deduceret eum secum Romam … itaque nihil eorum quae postularet consul decernendum in praesentia censere. cum pergeret nihilo segnius referre ut supplicationes decernerentur triumphantique sibi urbem inuehi liceret, M. et C. Titinii tribuni plebis se intercessuros si de ea re fieret senatus consultum dixerunt.
Il console L. Cornelio, lasciato l’esercito al legato M. Claudio, viene a Roma e, dopo aver fatto un rapporto in senato sulle proprie imprese e sullo stato della provincia (cum de rebus ab se gestis disseruisset quoque statu prouincia esset), chiede ai senatori di deliberare una supplica agli dei insieme al trionfo per lui (postulauit deinde, supplicationem simul triumphumque decernerent). Tuttavia, prima che si formuli la proposta, uno dei patres, Q. Metello, che era stato console e dittatore, ricorda la contraddizione tra la lettera trasmessa in precedenza da Cornelio al senato sull’esito della guerra e quella inviata a tale proposito da un altro legato, M. Marcello, alla gran parte dei senatori (Q. Metellus – inter se pugnantes), una circostanza questa che aveva indotto il supremo consesso a rimandare ogni decisione, in attesa della comparizione di entrambi gli autori. Poiché il console era giunto in città ed il legato no, Metello era dell’avviso che non si dovesse per il momento deliberare su nulla (itaque nihil eorum quae postularet consul decernendum in praesentia censere); di fronte all’insistenza di Cornelio di procedere ugualmente a deliberare le suppliche e l’ingresso trionfale (cum pergeret nihilo segnius referre ut supplicationes decernerentur triumphantique sibi urbem inuehi liceret), i tribuni della plebe M. e C. Titinio comunicano l’intenzione di interporre il veto, se si fosse approvato il relativo senatoconsulto (M. et C. Titinii tribuni plebis se intercessuros si de ea re fieret senatus consultum dixerunt).
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Il terzo episodio fa riferimento ai fatti del 187 a. C.: Liv. 38.44.9–11: Post consulum profectionem Cn. Manlius proconsul Romam uenit; cui cum ab Ser. Sulpicio praetore senatus ad aedem Bellonae datus esset, et ipse commemoratis rebus ab se gestis postulasset, ut ob eas diis immortalibus honos haberetur sibique triumphanti urbem inuehi liceret, contradixerunt pars maior decem legatorum, qui cum eo fuerant, et ante alios L. Furius Purpurio et L. Aemilius Paulus.
Dopo la partenza dei consoli, giunge a Roma il proconsole Cn. Manlio, per il quale viene convocato il senato nel tempio di Bellona dal pretore S. Sulpicio; dopo aver ricordato qui le proprie imprese, Manlio chiede ai senatori di tributare l’onore agli dei immortali e di permettere a lui di entrare in città trionfante (ipse commemoratis rebus ab se gestis postulasset, ut ob eas diis immortalibus honos haberetur sibique triumphanti urbem inuehi liceret). Alle sue richieste, tuttavia, si oppone la maggior parte dei dieci legati, che erano stati con lui, e prima di tutti L. Furio Purpurione e L. Emilio Paolo (contradixerunt pars maior decem legatorum, qui cum eo fuerant, et ante alios L. Furius Purpurio et L. Aemilius Paulus). Principalmente essi gli imputano di aver cercato ogni pretesto per turbare la pace con il re Antioco e di aver condotto la guerra contro i Gallogreci senza autorizzazione del senato e del popolo. La replica puntuale di Cn. Manlio si incentra sulla mancata opposizione dei tribuni della plebe, i quali, a sua detta, non solo ne avrebbero sostenuto la postulatio, ma sarebbero stati anche pronti, se necessario, a formalizzarla in senato: Liv. 38.47.1–3: tribuni plebis antea solebant triumphum postulantibus aduersari, patres conscripti; quibus ego gratiam habeo, quod seu mihi seu magnitudini rerum gestarum hoc dederunt, ut non solum silentio comprobarent honorem meum, sed referre etiam, si opus esset, uiderentur parati esse.
Per tutta la giornata, comunque, si protrae la discussione, durante la quale sembra prevalere il parere negativo; la votazione è, tuttavia, rinviata al giorno successivo (dimittitur senatus in ea opinione, ut negaturus triumphum fuisse uideretur), allorché, per la pressione dei parenti ed amici di Manlio e per l’autorità dei senatori anziani, il trionfo gli è finalmente decretato con una numerosa maggioranza (triumphumque frequentes decreuerunt): Liv. 38.50.2–3: Postero die et cognati amicique Cn. Manlii summis opibus adnisi sunt, et auctoritas seniorum ualuit, negantium exemplum proditum memoriae esse, ut imperator, qui deuictis perduellibus, confecta prouincia exercitum reportasset, sine curru et laurea priuatus inhonoratusque urbem iniret. Hic pudor malignitatem uicit, triumphumque frequentes decreuerunt.
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I tre episodi appena riportati sono paradigmatici delle funzioni del senato nel mos che si era affermato. La sua competenza a decidere sul trionfo del comandante vittorioso risulta esplicitamente attestata secondo un procedimento ormai standardizzato, che comincia con la convocazione dei senatori fuori dal pomerio (extra pomerium), nel tempio di Bellona (o di Apollo), ad opera di un magistrato diverso dal richiedente e titolare del ius agendi cum patribus. L’aspirante procede all’esposizione (dissertatio o expositio) delle proprie imprese, spesso già anticipate da una precedente missiva, che vanno confermate dalle testimonianze dei legati o dell’esercito, per giungere poi alla presentazione della richiesta (postulatio, petitio) di «permettergli di entrare nella città trionfando» (ut triumphanti urbem inire liceret); la stessa è racchiusa in una proposta formale (relatio) rivolta ai senatori, che la discutono ed infine la votano. Nell’esercizio di tali competenze il senato è affiancato dai tribuni della plebe, ai quali è devoluto un ruolo di controllo circa il rispetto delle regole attraverso una pluralità di strumenti: a) utilizzando il veto (intercessio) contro orientamenti o decisioni del senato favorevoli alla concessione del trionfo; b) operando, in accordo con quest’organo, per assecondare o contrastare le richieste dei magistrati o promagistrati aspiranti; c) incaricandosi di presentare al concilium plebis le rogationes de triumpho per consentire ai promagistrati di conservare l’imperium anche all’interno del pomerium; d) imponendo di tenere separate le loro domande e di votare su ognuna singolarmente; e) differendo la concessione dell’onore per subordinarla al termine vittorioso della guerra; f) sostenendo le ragioni di un aspirante assente in opposizione alla richiesta di uno presente. Negli esiti i loro successi si alternano con le sconfitte, quando il veto è ritirato su pressione del senato o di suoi autorevoli esponenti oppure per intervento di un altro tribuno20. D’intesa con il senato operano, di regola, anche le assemblee popolari (in particolare, il concilium plebis), ma a volte, in caso di diniego da parte sua, si sostituiscono ad esso, come avviene per il trionfo ex plebiscito di C. Flaminio nel 223 a. C.21. Accanto al senatoconsulto troviamo, quindi, notizie di leges de triumpho, spesso precedute (o, più raramente, seguite) da un’esposizione delle gesta fatta al popolo radunato in contione, un’assemblea informale, che solitamente anticipava quella istituzionale chiamata a deliberare. Non sempre però la sintonia fra popolo e senato era così lineare22.
20 Su tali funzioni dei tribuni della plebe ho trattato in Petrucci, Il trionfo 1996, 140 ss., in relazione ai vari episodi del periodo storico qui considerato. Nelle trattazioni successive gli studiosi se ne sono occupati in modo del tutto marginale: vd., per esempio, Bastien, Le triomphe romain 2007, 287 ss.; Beard, The Roman Triumph 2007, 206 ss. 21 Liv. 21.63.2 e Plut., Marc. 4.3. 22 Sull’argomento rimando ancora a Petrucci, Il trionfo 1996, 140 ss. Per la dottrina successiva, vale l’osservazione formulata supra, nt. 20.
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Istruttiva in proposito è la celebre vicenda del trionfo di Emilio Paolo per la vittoria definitiva sul re macedone Perseo nel 167 a. C. In essa è palese come la votazione sulla conservazione dell’imperium ad un promagistrato aspirante trionfatore fosse l’occasione anche per entrare nel merito della concessione dell’onore. Nella lunga narrazione di Livio è sufficiente prestare attenzione ai seguenti brani: Liv. 45.35.4–9: tribus iis omnibus decretus est ab senatu triumphus mandatumque Q. Cassio praetori, cum tribunis plebis ageret, ex auctoritate patrum rogationem ad plebem ferrent, ut iis, quo die urbem triumphantes inueherentur, imperium esset. … nec de Anici nec de Octavi triumpho dubitatum est … totus Macedonicus exercitus imperatori erat neglegenter adfuturus comitiis ferendae legis. sed eos Ser. Sulpicius Galba, qui tribunus militum secundae legionis in Macedonia fuerat, … milites sollicitando stimulauerat, ut frequentes ad suffragium adessent. imperiosum ducem et malignum antiquando rogationem, quae de triumpho eius ferretur, ulciscerentur. plebem urbanam secuturam esse militum iudicia.
Al proconsole L. Emilio Paolo ed ai propretori Anicio e Ottavio è decretato il trionfo dal senato (decretus est ab senatu triumphus) per le loro vittorie in Macedonia ed Illiria, dandosi incarico al pretore Q. Cassio di accordarsi con i tribuni della plebe per far presentare ex auctoritate patrum la proposta di conservare loro il potere d’imperio nel giorno dell’ingresso in città sul carro trionfale (mandatumque Q. Cassio praetori, cum tribunis plebis ageret, ex auctoritate patrum rogationem ad plebem ferrent, ut iis, quo die urbem triumphantes inueherentur, imperium esset). Mentre sul trionfo di Anicio e di Ottavio non sorgono problemi (nec de Anici nec de Octavi triumpho dubitatum est), i soldati, che erano stati sotto il comando di Emilio, non manifestano alcun entusiasmo nel partecipare ai comizi dove si sarebbe dovuta approvare la legge per consentirgli di trionfare (totus Macedonicus exercitus imperatori erat neglegenter adfuturus comitiis ferendae legis). Ma un tribuno militare, Servio Sulpicio Galba, li sollecita ad intervenire numerosi al voto per respingere la proposta e vendicarsi in tal modo di un comandante tanto dispotico ed avaro (milites sollicitando stimulauerat, ut frequentes ad suffragium adessent … antiquando rogationem, quae de triumpho eius ferretur), certo che la plebe urbana avrebbe seguito le decisioni dell’esercito (plebem urbanam secuturam esse militum iudicia). Così, quando sulla proposta le prime tribù chiamate votano contro (intro uocatae primae tribus cum antiquarent), accorrono in Campidoglio i cittadini più eminenti, gridando che era un crimine privare del trionfo Emilio Paolo, vincitore di una guerra di tale importanza. Fra di essi, M. Servilio, che era stato console e comandante della cavalleria, chiede ai tribuni della plebe di sospendere la votazione, di riaprire la discussione e di dargli facoltà di parlare (ut de integro eam agerent ab tribunis petere, dicendique sibi ad populum potestatem facerent). I tribuni accolgono le richieste, dichiarando che avrebbero richiamato a votare le stesse tribù che si erano già espresse (de integro agere coeperunt reuocaturosque se easdem tribus pronuntiarunt), non appena M. Servilio ed altri cittadini, che lo volevano, avessero parlato:
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Liv. 45.36.1–10: His incitatis cum in Capitolio rogationem eam Ti. Sempronius tribunus plebis ferret … intro uocatae primae tribus cum antiquarent, concursus in Capitolium principum ciuitatis factus est, indignum facinus esse clamitantium L. Paulum tanti belli uictorem despoliari triumpho … M. Seruilius, qui consul et magister equitum fuerat, ut de integro eam agerent ab tribunis petere, dicendique sibi ad populum potestatem facerent. tribuni cum ad deliberandum secessissent, uicti auctoritatibus principum de integro agere coeperunt reuocaturosque se easdem tribus pronuntiarunt, si M. Seruilius aliique priuati, qui dicere uellent, dixissent.
Il lungo discorso di Servilio persuade il concilio della plebe, che alla fine delibera il trionfo, come ci attesta Plutarco, colmando un’ampia lacuna del testo liviano23. Pochi giorni dopo la sua celebrazione, Emilio Paolo espone le proprie imprese in contione con un’orazione memorabile (Liv. 45.40.9: paucis post diebus data a M. Antonio tribuno plebis contione, cum de suis rebus gestis more ceterorum imperatorum edissereret, memorabilis eius oratio et digna Romano principe fuit).
c) I criteri presi in considerazione per decretare il trionfo Nelle decisioni del senato e nell’interazione con esso dei tribuni della plebe abbiamo visto quanto influissero i criteri originati dalla prassi consuetudinaria (mos maiorum) e dai precedenti innovativi (nova exempla); si vengono in tal modo a definire taluni requisiti cui subordinare l’esercizio del ius triumphandi, ma nella loro applicazione concreta si rileva una notevole elasticità24. Uno dei più risalenti, in stretta connessione con l’esperienza dei primi due secoli della Repubblica, è quello di ricoprire una magistratura (eventualmente anche prorogata) con l’imperium auspiciumque più elevato al momento della vittoria, escludendosi perciò i magistrati con poteri gerarchicamente inferiori. Ne rappresenta una chiara attestazione la celebre vicenda del trionfo del console C. Lutazio Catulo, sotto il cui comando era avvenuta la vittoria navale del pretore Q. Valerio Fultone sulla flotta cartaginese nel 241 a. C. Secondo l’esteso racconto di Valerio Massimo 2.8.2, il pretore pretende che il senato estenda anche a lui il trionfo decretato al console, ma costui si oppone tenacemente, affinché una potestà minore non sia equiparata ad una maggiore nell’onore del trionfo (ne in honore triumphi minor potestas maiori aequaretur). Ne nasce una controversia per sponsionem, risolta
23 Vd. Plut. Aemilius 31.10. 24 Sull’argomento, dopo il più volte citato mio studio Petrucci, Il trionfo 1996, 140 ss., tornano, sotto diversi punti di vista e senza sostanziali novità, Itgenshorst, Tota illa pompa 2005, 176 ss., 180 ss., 193 ss.; Bastien, Le triomphe romain 2007, 196 ss., 251 ss., 287 ss.; Beard, The Roman Triumph 2007, 200 ss.
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rapidamente dal iudex Atilio Calatino, basandosi sull’ammissione da parte del pretore della superiorità del potere di comando del console25. Omettendo qui ogni discussione sull’attendibilità della testimonianza di Valerio Massimo circa l’instaurazione di un procedimento per sponsionem al fine di decidere la gerarchia tra imperia26, va invece osservato come non solo l’inferiorità dei poteri di comando, ma anche la mancanza della titolarità di una magistratura impedisse, sul finire del III secolo a. C., il trionfo ai generali vittoriosi, il cui potere di imperium auspiciumque fosse stato attribuito con procedure costituzionali extra ordinem: ciò avviene, durante la guerra annibalica, per P. Cornelio Scipione Africano nel 206 a. C. e L. Cornelio Lentulo nel 200 a. C., che avevano ottenuto importanti successi militari in Spagna come privati investiti dell’imperium proconsulare27. 25 Così esordisce la narrazione di Val. Max. 2.8.2: C. Lutatius consul et Q. Valerius praetor circa Siciliam insignem Poenorum classem deleuerant. quo nomine Lutatio consuli triumphum senatus decreuit. cum autem Valerius sibi quoque eum decerni desideraret, negauit id fieri oportere Lutatius, ne in honore triumphi minor potestas maiori aequaretur, pertinaciusque progressa contentione Valerius sponsione Lutatium prouocauit, ni suo ductu Punica classis esset oppressa, nec dubitauit restipulari Lutatius. Nel prosieguo Valerio chiama Lutazio a promettere con sponsio il pagamento di una somma, nel caso in cui la flotta cartaginese non fosse stata sconfitta sotto il suo comando; ad essa Lutazio risponde con una restipulatio. I due si accordano di scegliere come giudice Atilio Calatino, davanti al quale Valerio afferma che in quella battaglia il console giaceva zoppo in una lettiga e che egli aveva sostenuto tutti i ruoli di comandante. Però, prima ancora che Lutazio esponga le proprie ragioni, il giudice chiede a Valerio se vi fossero stati dissensi tra lui ed il console nella conduzione della battaglia e chi fra console e pretore avesse il potere di imperio maggiore (‘quaero’ inquit, ‘Valeri, a te, si dimicandum necne esset contrariis inter uos sententiis dissedissetis, utrum quod consul an quod praetor imperasset maius habiturum fuerit momentum’). Alla risposta di Valerio che il ruolo di console era indubbiamente più elevato (respondit Valerius non facere se controuersiam quin priores partes consulis essent futurae), Calatino replica chiedendo chi avesse gli auspici maggiori (‘si diuersa auspicia accepissetis, cuius magis auspicio staretur?’). Anche questa volta Valerio risponde che li aveva il console (‘item’ respondit Valerius ‘consulis’) ed il giudice perciò conclude che, siccome Valerio aveva ammesso che l’avversario disponeva di un imperium auspiciumque superiore (‘cum de imperio et auspicio inter uos disceptationem susceperim, et tu utroque aduersarium tuum superiorem fuisse fatearis), non c’era bisogno di alcuna argomentazione da parte di Lutazio, decidendo così la lite in suo favore (itaque, Lutati, quamuis adhuc tacueris, secundum te litem do’). 26 Rimando a quanto ho osservato sul punto in Petrucci, Il trionfo 1996, 85 ss. Nessuna delle opere monografiche successive qui considerate si è soffermata su di esso. Se ne è occupato invece Mancinelli, Aspetti giuridici del trionfo 2015, 221 ss., in particolare 235 ss. 27 Per il primo episodio vd. Liv. 28.38.4: Ob has res gestas magis temptata est triumphi spes quam petita pertinaciter, quia neminem ad eam diem triumphasse qui sine magistratu res gessisset constabat; per il secondo Liv. 31.20.2–6: Qui cum in senatu res ab se per multos annos fortiter feliciterque gestas exposuisset postulassetque ut triumphanti sibi inuehi liceret in urbem, res triumpho dignas esse censebat senatus, sed exemplum a maioribus non accepisse ut qui neque dictator neque consul neque praetor res gessisset triumpharet: pro consule illum Hispaniam prouinciam, non consulem aut
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La rigida osservanza di questo criterio, però, si attenua già nel secondo decennio del II secolo a. C., quando vediamo ammessi al trionfo i pretori inviati come governatori delle province spagnole con potere proconsolare28, realizzandosi così uno scollamento tra magistratura ricoperta (quella di pretore) e poteri esercitati (quelli proconsolari), con un’evidente prevalenza di questi ultimi. A guisa di corollari, già sul finire del III secolo a. C., si delineano gli altri criteri dell’assegnazione della provincia dove si è realizzata la vittoria sotto i propri auspici29, della riconduzione dell’esercito vittorioso (deportatio exercitus) a Roma, della conseguente pacificazione della provincia e della realizzazione di nuove conquiste territoriali30. Ancora Valerio Massimo (2.8.1) ricorda l’ulteriore requisito del numero di almeno cinquemila nemici uccisi in un solo scontro, che sarebbe stato formalizzato con l’approvazione di una lex, forse del 179 a. C., a cui ne sarebbe seguita un’altra più tarda (del 62 a. C.), volta a comminare una pena ai comandanti che avessero dichiarato il falso sulle perdite nemiche e sulle proprie31. praetorem obtinuisse. decurrebatur tamen eo ut ouans urbem iniret, intercedente Ti. Sempronio Longo tribuno plebis, qui nihilo magis id more maiorum aut ullo exemplo futurum diceret. postremo uictus consensu patrum tribunus cessit et ex senatus consulto L. Lentulus ouans urbem est ingressus. 28 Si vedano, per esempio, quelli celebrati da Fulvio Flacco nel 180 a. C. e da T. Sempronio Gracco padre e Postumio Albino nel 178, sui quali, rispettivamente, Liv. 40.39.1, 40.59.3 e 41.6.4 e 7. Sulla carica di pretori da essi rivestita quando vengono inviati a governare le province spagnole cf. Broughton, The Magistrates, I, 1951, 389 ss. 29 Suis auspiciis et in sua provincia, come dice Liv. 31.48.6 e 31.49.1–3 sul trionfo del pretore Furio Purpurione nel 200 a. C. 30 Sulla deportatio exercitus e la connessa fine della guerra cf., per esempio, i trionfi negati a Marcello nel 211 a. C. e a L. Cornelio nel 193 a. C. (Liv. 26.21.1–4 e Liv. 35.8.2–9, riportati supra, sub b) e, argomentando a contrario, quelli decretati, nonostante la sua assenza (trionfo di Purpurione citato alla nota precedente e trionfo del proconsole Acilio Glabrione nel 190 a. C., su cui Liv. 37.46.2 e 6). Sul requisito degli incrementi territoriali cf., per esempio, il diniego ricevuto dal console Q. Fulvio Flacco nel 212 a. C. (… ut pro aucto imperio, non pro recuperatis, quae populi Romani fuissent, triumphus decerneretur: Val. Max. 2.8.4). 31 Val. Max. 2.8.1: Ob leuia proelia quidam imperatores triumphos sibi decerni desiderabant. quibus ut occurreretur, lege cautum est ne quis triumpharet, nisi qui V milia hostium una acie cecidisset: … ceterum ne tam praeclara lex cupiditate laureae oblitteraretur, legis alterius adiutorio fulta est, quam L. Marcius et M. Cato tribuni plebei tulerunt: poenam enim imperatoribus minatur, qui aut hostium occisorum in proelio aut amissorum ciuium falsum numerum litteris senatui ausi essent referre, iubetque eos, cum primum urbem intrassent, apud quaestores urbanos iurare de utroque numero uere ab iis senatui esse scriptum. Come si vede, per far fronte all’ambizione di alcuni comandanti desiderosi del trionfo anche per piccole battaglie, si era stabilito con legge che nessuno potesse celebrarlo, se non avesse ucciso 5.000 nemici in un solo scontro, e, per rafforzarne il contenuto, successivamente era stata votata un’altra legge, su proposta dei tribuni della plebe L. Marcio e M. Catone, con la quale si minacciava una pena ai comandanti, che avessero osato riferire nelle lettere al senato un numero falso di nemici uccisi in battaglia o di propri soldati caduti. A tal fine si prescriveva loro, quando entravano in città, di
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Infine, da un’importante testimonianza di Aulo Gellio veniamo a conoscenza di altri requisiti ancora. Differenziando tra le cerimonie dell’ovatio e del triumphus32, l’erudito prevede, infatti, come causae per quest’ultimo, la dichiarazione rituale (rite) della guerra e la qualifica di legittimo (iustus) ed effettivo del nemico, con esclusione quindi delle guerre servili, di quelle contro i pirati e di quelle incruente, cui vanno aggiunte anche le guerre civili33: Gell. 5.6.20–21: «Ovalis» corona murtea est; ea utebantur imperatores, qui ovantes urbem introibant. Ovandi ac non triumphandi causa est, cum aut bella non rite indicta neque cum iusto hoste gesta sunt aut hostium nomen humile et non idoneum est, ut servorum piratarumque, aut deditione repente facta inpulverea, ut dici solet, incruentaque victoria obvenit …
d) I prodromi di una trasformazione? Il trionfo di Appio Claudio Pulcro nel 143 a. C. In quell’anno il trionfo del console Appio Claudio Pulcro sui Galli Salassi segna una marcata rottura degli equilibri raggiunti nei decenni precedenti. La perdita delle Storie di Livio ed i pochi riferimenti contenuti nelle altre fonti ci offrono un quadro frammentario della vicenda, ma le linee di fondo risultano chiare. Da Dione Cassio sappiamo che lo celebra senza una votazione favorevole e senza aver esposto le proprie gesta in senato e davanti al popolo34; da Cicerone, Valerio Massimo e Svetonio si apprende che era stata opposta l’intercessione da un tribuno della plebe, neutralizzata però dall’intervento della Vestale Claudia (figlia o sorella di Appio Claudio)35, mentre altri particolari rilevanti ci sono forniti dal tardo racconto di Orosio, Hist. adv. paganos 5.4.7, che afferma: giurare davanti ai questori urbani di aver scritto al senato cifre vere. Sul periodo di datazione della prima legge (intorno al 179 a. C.) concorda sostanzialmente anche Bastien, Le triomphe romain 2007, 294 ss. 32 Sui loro elementi di diversità cf., successivamente a Petrucci, Il trionfo 1996, 26 ss., 62 s., 99 s., 113 s., 149 ss., Bastien, Le triomphe romain 2007, 268 ss. 33 Come rileva Val. Max. 2.8.7. 34 Secondo Dio fr. 22.74.2 ed. Loeb, Claudio, pur non avendo ottenuto una vittoria, chiede ugualmente i fondi per celebrare il trionfo, senza tenere i consueti discorsi sulle imprese compiute in senato e davanti al popolo (μήτε ἐν τῇ βουλῇ μήτε ἐν τῷ δήμῳ), come se l’onore gli fosse dovuto anche in assenza di una votazione (una circostanza cui lo storico si riferisce con l’espressione μηδεὶς ψηφίσηται). 35 Cic. Cael. 14.34 rammenta che la Vestale Claudia avrebbe abbracciato il padre Appio Claudio per evitare che il tribuno della plebe intercedente lo facesse scendere dal carro trionfale (illa Vestalis Claudia quae patrem complexa triumphantem ab inimico tribuno plebei de curru detrahi passa non est?); simile è anche la versione di Val. Max. 5.4.6 (quae, cum patrem
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Appius Claudius aduersus Salassos Gallos congressus et uictus quinque milia militum perdidit. reparata pugna, quinque milia hostium occidit. sed cum iuxta legem, qua constitutum erat, ut quisque quinque milia hostium peremisset triumphandi haberet potestatem, iste quoque triumphum expetisset, propter superiora uero damna non impetrauisset, infami impudentia atque ambitione usus priuatis sumptibus triumphauit.
Secondo questa tradizione, Appio Claudio, dopo aver subito una sconfitta con la perdita di cinquemila soldati, vince i Galli Salassi, uccidendone a sua volta cinquemila. Richiede, però, ugualmente il trionfo, che non gli viene concesso a causa della precedente sconfitta (cum … triumphum expetisset, propter superiora uero damna non impetrauisset); nonostante il diniego, egli procede comunque a celebrarlo a proprie spese (priuatis sumptibus triumphauit) in forza della lex, di cui abbiamo fatto menzione in precedenza (sub c), che subordinava la potestas triumphandi all’uccisione di almeno cinquemila nemici (iuxta legem, qua constitutum erat, ut quisque quinque milia hostium peremisset triumphandi haberet potestatem). Ricostruendo i vari tasselli, è evidente che il console inizialmente avesse seguito il procedimento consuetudinario di chiedere al senato la concessione del trionfo, a spese dell’erario, e che il senato gliela avesse negata per l’eccessivo numero di soldati morti. Anche il popolo doveva aver manifestato un orientamento contrario, benché non sia chiaro se lo avesse formalizzato in un voto oppure no. Ma è la reazione di Appio Claudio a rappresentare uno strappo: infatti, anziché celebrare il trionfo sul Monte Albano iure imperii e a proprie spese, secondo un mos che si era venuto consolidando a partire dal 231 a. C.36, lo celebra in urbe (a proprie spese, privatis sumptibus), avvalendosi del suo imperium auspiciumque consolare e superando anche ogni veto tribunizio37.
suum triumphantem e curru violenta tribuni plebis manu detrahi animadvertisset, mira celeritate utrisque se interponendo amplissimam potestatem inimicitiis accensam depulit), mentre Suet. Tib. 2.2–3, dando conferma della celebrazione iniussu populi, qualifica la Vestale come sorella di Appio e riferisce della sua salita sul carro trionfale per impedire ai tribuni l’interposizione del veto (virgo Vestalis fratrem, iniussu populi triumphantem, ascenso simul curru, usque in Capitolium prosecuta est, ne vetare aut intercedere fas cuiquam tribunorum esset). 36 Ad avviarlo in quell’anno sarebbe stato il console C. Papirio Masone (cf. L. Pisone apud Plin. Nat. 15.38.126 e Val. Max. 3.6.5), seguito da altri nei decenni successivi, come M. Claudio Marcello nel 211 (Liv. 26.21.4 riportato supra nel testo sub b), Q. Minucio Rufo nel 197 a. C. (Liv. 33.23.8–9) e C. Cicereio nel 172 a. C. (Liv. 42.21.6–7). Per un’analisi delle implicazioni in termini politico – costituzionali del triumphus in monte Albano mi permetto di rinviare ancora a Petrucci, Il trionfo 1996, 87 s., 101 s., 122, 147 ss.; cf. anche Bastien, Le triomphe romain 2007, 265 ss. 37 Per una breve analisi di questo episodio, dopo Petrucci, Il trionfo 1996, 131 ss., vd. Itgenshorst, Tota illa pompa 2005, 197 s.; Beard, The Roman Triumph 2007, 203 s., 209 s.; Pelikan Pittenger, Contested Triumphs 2008, 47 ss.
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IV. Il quadro del I secolo a. C.: la tenuta del ruolo del senato La trasformazione sempre più incisiva degli assetti costituzionali durante tale epoca si riflette, come è facile immaginare, anche sulle vicende relative al trionfo. Nel complesso, però, continua a resistere la centralità del senato, almeno fino alla guerra civile tra Cesare e Pompeo, nonostante l’emersione di rilevanti aspetti di novità38. Cominciamo l’esame di questa nuova fase con i due trionfi di Pompeo nel 79 e nel 71 a. C., tributatigli mentre era un semplice cavaliere, munito di imperium pro praetore, nel primo caso, e di imperium proconsulare, nel secondo, senza rivestire la corrispondente magistratura prorogata (sine magistratu). Anche per essi le linee giuridiche di fondo si possono cogliere solo da un insieme di dati frammentari. Ricordiamo in primo luogo le testimonianze di Cicerone ed Aulo Gellio, che cita Sallustio, dove, accanto all’irrilevanza della titolarità di una carica, sostituita dall’esercizio effettivo di un imperium, si fa ancora menzione di elementi del procedimento tradizionale: il senatoconsulto e la lex de triumpho, eventualmente soggetti al controllo tribunizio39. Da altre notizie, sempre relative a questi due trionfi, veniamo a conoscenza del nuovo e fondamentale elemento della pressione degli eserciti, divenuti ormai professionali, in favore della concessione dell’onore40, rivelando una loro funzione che, per quanto non ignota in precedenza, è venuta ora ad assumere una veste 38 Per un approfondimento dei vari episodi, oltre ancora Petrucci, Il trionfo 1996, 176 ss., 204 ss., si rimanda a Beard, The Roman Triumph 2007, 7 ss., con ampia trattazione delle celebrazioni trionfali di Pompeo, soprattutto di quella del 61 a. C., dove però sono lasciati del tutto sullo sfondo i risvolti costituzionali. 39 Cic. imp. Cn. Pomp. 21.61–62, con riferimento al secondo trionfo, celebrato come eques Romanus dotato di imperium pro consule, su delibera del senato ed approvazione del populus Romanus (quid vero tam inauditum quam equitem Romanum triumphare? At eam quoque rem populus Romanus non modo vidit, sed omnium etiam studio visendam et concelebrandam putavit … Quid tam singulare quam ut ex senatus consulto legibus solutus consul ante fieret, quam ullum alium magistratum per leges capere licuisset? quid tam incredibile quam ut iterum eques Romanus ex senatus consulto triumpharet?) e Gell. 10.20.10, che riporta un breve frammento del secondo libro delle Storie di Sallustio, in cui si allude all’intervento del tribuno della plebe C. Erennio, per impedire a Silla (ma, in realtà, d’accordo con lui) la presentazione al popolo della proposta di far entrare in trionfo a Roma Pompeo nel 79 a. C. (Sallustius quoque proprietatum in verbis retinentissimus consuetudini concessit et privilegium, quod de Cn. Pompei reditu ferebatur, «legem» appellavit. Verba ex secunda eius historia haec sunt: «Nam Sullam consulem de reditu eius legem ferentem ex conposito tr. pl. C. Herennius prohibuerat). Anche Plut. Pomp. 14.1–3, riguardo al primo di questi trionfi, ricorda l’avversione iniziale di Silla sia per inosservanza della norma (νόμος) sulla titolarità della magistratura di console o pretore (con richiamo al precedente di Scipione nel 206 a. C.: supra, § III sub c), sia per la mancanza dell’età per diventare senatore. 40 Cf. Plut. Pomp. 14.1–4; App. bell. civ. 1.121.
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giuridica differente. Mentre prima la deportatio exercitus serviva unicamente a testimoniare il valore del comandante vittorioso, nel corso del I secolo a. C., nessuno può aspirare al trionfo, senza aver ottenuto in precedenza l’appellativo di imperator dalle truppe sul campo di battaglia (appellatio imperatoria), destinato a perdurare anche dopo il trionfo. Un altro elemento di novità è rappresentato dalla dilatazione dei tempi fra il momento della postulatio e l’eventuale concessione dell’onore, causata dalle forti contrapposizioni politiche: esemplificativo è il trionfo di Licinio Lucullo nel 63 a. C., che ha luogo dopo un’attesa di tre anni dalla richiesta al senato per le vittorie come proconsole contro Mitridate e Tigrane nel 66 a. C. È Plutarco41 ad informarci della fase finale della vicenda con gli ultimi contrasti: una volta intervenuta la delibera senatoria favorevole, infatti, il tribuno della plebe Gaio Memmio accusa Lucullo di peculatus e di protrazione illegittima della guerra persuadendo il concilio della plebe a non concedergli il trionfo (presumibilmente respingendo la proposta di lex che gli avrebbe permesso di entrare in città conservando l’imperium proconsulare), e solo grazie alle pressioni esercitate dagli uomini più influenti, l’assemblea, riunitasi nuovamente, infine glielo accorda. E così anche nel terzo trionfo di Pompeo, celebrato nel 61 a. C. per le vittorie sui pirati, sul Ponto e l’Armenia in forza degli imperia extraordinaria del 67 (lex Gabinia) e 66 a. C. (lex Manilia), le fonti alludono ai seguenti elementi: l’acclamazione previa a imperator sui campi di battaglia e l’attesa fuori dal pomoerium in ossequio alla norma (νόμος), che vietava al titolare dell’imperium militiae (in quanto promagistrato) di varcare il limite prima della concessione del trionfo42; la necessità di un voto del senato e del popolo43; le dispute intercorse tra i senatori sulle richiesta di trionfare per l’opposizione di Catone, basata sull’assenza dell’esercito ritenuta contraria alle precedenti usanze patrie; e, da ultimo, il senatoconsulto favorevole44. Infine, un importante squarcio sul ruolo del senato in materia di trionfo, alla fine della Repubblica, ci viene offerto dal fallito tentativo di Cicerone per ottenerlo a seguito di una battaglia vinta quando era governatore della Cilicia nel 51 a. C.45. Dopo aver ricevuto il titolo di imperator sul campo di battaglia46, mentre è ancora 41 Plut. Lucull. 37.1–2. 42 Plut. Pomp. 44.1–2. 43 Dio 37.20.6 ci documenta della decisione di Pompeo di congedare le truppe, una volta sbarcato a Brindisi, senza attendere un voto del senato e del popolo sulla loro partecipazione al trionfo (μήτε τῆς μήτε τοῦ δήμου ψηφισαμένου τι περὶ αὐτῶν), probabilmente immaginando i tempi lunghi della decisione circa la concessione dell’onore. 44 Dio 37.21.1–2. Sui trionfi di Pompeo e, in particolare, su quest’ultimo si dilunga Beard, The Roman Triumph 2007, 8 ss., senza però approfondire i dati giuridici. 45 Sul mancato trionfo dell’Arpinate, in aggiunta a Petrucci, Il trionfo 1996, 187 ss., vd. Itgenshorst, Tota illa pompa 2005, 67 ss.; Bastien, Le triomphe romain 2007, 306 ss.; Beard, The Roman Triumph 2007, 187 ss. 46 Cic. fam. 2.10.3, Att. 5.20.3.
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in provincia l’Arpinate già cerca l’appoggio dei consoli eletti per il 50 a. C., ma non ancora entrati in carica (L. Emilio Lepido Paolo e Claudio Marcello), e di Catone, affinché si faccia votare un senatoconsulto per le supplicationes agli dei e per la successiva concessione del trionfo47; le prime vengono decretate, malgrado il voto contrario proprio di Catone e di altri due senatori, ma si riesce ad evitare una possibile intercessio del tribuno della plebe Curione per intervento di Cesare48. Giunto a Roma agli inizi del 49 a. C. e perfettamente conscio del pesante clima politico, Cicerone resta comunque fuori dal pomerio, conservando l’imperium proconsulare in attesa della decisione sulla sua postulatio de triumpho; nel fare ciò, accoglie il suggerimento di Pompeo, che lo aveva consigliato di non rinunciarvi e di non comparire in senato per evitare possibili veti tribunizi49; alla fine, però, anche tale strategia si rivela vana, perché nella seduta del 7 gennaio del 49 a. C., per quanto la maggioranza dei patres sembrasse orientata ad accordargli il trionfo, il console Lentulo da poco entrato in carica, di fronte all’imminenza della guerra civile con Cesare, preferisce rinviare la discussione sul punto, anteponendo quella su quae essent necessaria de re publica50.
V. Osservazioni conclusive La rapida panoramica, ripercorsa nei paragrafi precedenti circa il ruolo del senato e la funzione dei senatoconsulti nei trionfi di età repubblicana, non fa che confermare le conclusioni già da me formulate nello studio del 1996, sulle quali non mi sembrano incidere in modo particolare le ricerche realizzate successivamente. Senza nulla togliere al loro valore, è evidente che esula dall’interesse principale dei loro autori (che non sono giuristi) la ricostruzione dell’assetto costituzionale che si riflette nelle singole vicende durante i vari momenti storici, prestandosi invece maggiore attenzione ad altri aspetti, in primis quello della dialettica politica e delle ideologie51. 47 Vd., tra le altre, Cic. fam. 15.10.1–2 (… peto a te id, quod facillimum factu est non aspernante, ut confido, senatu, ut quam honorificentissimum senatus consultum litteris meis recitatis faciundum cures …); fam. 15.13.2–3: (… petam, ut quam honorificentissimum senatus consultum de meis rebus gestis faciendum cures … vehementer te rogo, ut et quam honorificentissime cures decernendum de meis rebus gestis et quam celerrime: dignas res esse honore et gratulatione cognosces ex iis litteris, quas ad te et collegam et senatum publice misi). 48 Sul mancato veto di Curione vd. Cic. Att. 8.11.1–2; sugli esiti del voto in senato: Cic. Att. 7.1.7. 49 Cic. Att. 7.1.5, 7.3.3 e 7.4.2. 50 Cic. fam. 16.11.3: Nobis inter has turbas senatus tamen frequens flagitavit triumphum; sed Lentulus consul, quo maius suum beneficium faceret, simul atque expedisset, quae essent necessaria de re publica, dixit se relaturum. 51 Per esempio, rinuncia ad ogni tentativo di inquadramento sistematico rigido delle norme sul trionfo la Beard, The Roman Triumph 2007, 206 ss., e sulla stessa linea si pone so-
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Il dato pressoché costante di tutta l’età repubblicana, fin dalle origini, è rappresentato dalla centralità dei patres nell’autorizzare i comandanti militari vittoriosi a trionfare. Essi, infatti, in conformità al mos che si era già allora definito, non procedono in via autonoma, iure imperii, a celebrare il trionfo, ma lo subordinano ad un senatoconsulto di concessione, come risulta inequivocabilmente dalla stessa formula rituale della richiesta: ut triumphanti urbem inire liceret52, dalle espressioni postulare/postulatio e petere, con le quali essa viene manifestata53, e impetrare/impetratio, con cui è accolta54. Ciò corrisponde non solo alla più ampia funzione di controllo dei magistrati svolta dal senato, ma anche, più specificamente, alle competenze che allo stesso spettano circa l’attribuzione dei fondi pubblici indispensabili per la realizzazione della cerimonia55. Quando la richiesta viene respinta, a cominciare dalla metà del V secolo a. C., gli aspiranti non reagiscono trionfando sulla base dei propri poteri, bensì cercano una legittimazione altrove, nel voto di un’assemblea popolare (solitamente il concilium plebis), come avviene per Valerio ed Orazio nel 449 a. C., Postumio Megello nel 294 a. C., sia pure secondo la procedura sui generis sopra descritta (§ III sub a), e Flaminio nel 223 a. C., mentre M. Rutilo nel 356 a. C., prevedendo la contrarietà del senato, trionfa direttamente sine auctoritate patrum populi iussu. Tali episodi, oltre a segnare il progressivo ingresso di una competenza anche delle assemblee popolari in materia di trionfo, rivelano comunque la necessità di trovare un fondamento giuridico alternativo al diniego effettivo o supposto del senato. Dal III secolo a. C. il concilium plebis opera, di regola, congiuntamente ai senatori, anche se talora ne dissente (trionfo di C. Flaminio nel 223 a. C.) o ne vorrebbe dissentire (trionfo di Paolo Emilio nel 167 a. C.), esercitando pertanto un importante ruolo di bilanciamento delle competenze del supremo consesso. A consolidare tale ruolo doveva aver contribuito anche il mos per cui ai promagistrati, ai stanzialmente anche la Pelikan Pittenger, Contested Triumphs 2008, 34 ss. I dodici trionfi analizzati dalla Itgenshorst, Tota illa pompa 2005, 159 ss., le servono per ricostruire i dibattiti di stampo repubblicano tra comandanti vittoriosi, senato ed organi plebei. Infine Bastien, Le triomphe romain 2007, 195 ss., 238 ss., 251 ss., 276 ss., 287 ss., sceglie di scomporre i vari episodi nei singoli elementi (attendibilità delle tradizioni sui trionfi, loro origine, caratteristiche dei trionfatori, i popoli vinti, la regolamentazione delle cerimonie trionfali, l’utilizzazione politica, il controllo senatorio, etc.), trattandoli poi separatamente. 52 Cf., per esempio, Liv. 26.21.2 (211 a. C.); 28.9.7 (207 a. C.); 35.8.9 (193 a. C.); 38.44.9 (187 a. C.), dove ricorre sempre l’uso del verbo licere. 53 Cf., per esempio, Liv. 28.9.8 (207 a. C.); 33.22.1 (197 a. C.); 36.39.5 (191 a. C.); 38.44.9 (187 a. C.); 39.29.4 (185 a. C.); 41.6.4 (178 a. C.) per postulare/postulatio e Liv. 10.37.6 (294 a. C.); 39.4.1 (187 a. C.) per petere. 54 Cf., per esempio, Liv. 26.21.3 (211 a. C.); 32.7.4 (200 a. C.). 55 Tale aspetto, sottolineato esplicitamente da Plb. 6.15.7–8, è rilevato anche da tutta la più recente dottrina: vd. Itgenshorst, Tota illa pompa 2005, 56 ss.; Bastien, Le triomphe romain 2007, 252 ss.; Beard, The Roman Triumph 2007, 203.
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quali era stato concesso il trionfo, era permesso di entrare in città conservando il proprio imperium militare solo a seguito di un plebiscito ad hoc, secondo un’innovazione introdotta per la prima volta nel trionfo di Publilio Filone nel 326 a. C. (§ II sub b) Come dimostra il racconto sulle controversie collegate ai trionfi di Paolo Emilio e di Lucullo, la votazione sulla conservazione dell’imperium prorogato non si limitava a ratificare quanto già deliberato dal senato, ma permetteva di entrare nel merito della concessione, con la conseguenza che, negando la proroga, si negava anche il ius triumphandi già accordato. Durante i primi due secoli della Repubblica i criteri soggettivi ed oggettivi, valutati dal senato per dare l’autorizzazione a trionfare scegliendo eventualmente fra triumphus vero e proprio ed ovatio, appaiono ancora fluidi, condizionati come sono dal progressivo assestamento istituzionale della civitas. Successivamente i loro contorni si fanno più precisi, dando vita ad una normativa specifica, composta da regole risalenti al mos maiorum o introdotte dai nova exempla o da alcuni provvedimenti legislativi, senza però comportare mai eccessive rigidità nella loro attuazione, come accade negli ordinamenti formalizzati in testi scritti. In quest’opera di definizione dei criteri spicca, a cominciare dal trionfo di Megello nel 294 a. C. (e pur nella varietà delle sue versioni), anche l’attività dei tribuni della plebe, chiamati a vagliare le domande di trionfo presentate in senato. Essi, infatti, fungono da garanti del rispetto delle regole, che si sono venute a formare, agendo a volte in sintonia con i patres e a volte in opposizione ad essi, con esiti diversi a seconda delle circostanze concrete. Una tale competenza congiunta si prolunga fino alla crisi finale della Repubblica, come dimostra ancora l’atteggiamento di Curione verso la postulatio triumphi di Cicerone, e si manifesta di solito al momento della discussione in senato, ma anche, più occasionalmente, davanti alla plebe in contione o riunita nel concilio. Pertanto, se si esclude lo strappo di Appio Claudio Pulcro nel 143 a. C., rimasto peraltro isolato, nel periodo repubblicano della storia di Roma non pare che qualcuno abbia trionfato esclusivamente iure imperii. Del resto, come ho avvertito in premessa, il «filtro istituzionale» dell’autorizzazione senatoria e/o dei tribuni e del concilio della plebe si rendeva indispensabile per consentire al trionfatore, l’accesso in urbem intra pomerium rivestito dell’imperium e degli auspici militari. Di fronte all’opposizione degli organi interni, al comandante non restava altra alternativa che avvalersi dei suoi poteri per celebrare il trionfo sul Monte Albano a proprie spese, secondo un mos che, pur originando probabilmente alla prima età monarchica, si era poi riaffacciato e consolidato a partire dal 231 a. C.
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Fonti e contenuti
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Belve, giochi e competizione politica nel II secolo a. C. I senatoconsulti e il plebiscito Aufidio*
I. La testimonianza pliniana La Naturalis historia contiene l’unico testimonio su un senatoconsulto e un plebiscito inerenti all’importazione e all’impiego in Italia delle pantherae Africanae. Nell’incipit del primo libro, dove si offre al lettore il prospetto dell’opera1, con riferimento al libro ottavo dedicato agli animali terrestri, e in particolare a quelli selvatici ed esotici2, si segnala la presenza di alcuni paragrafi dedicati alle pantherae3. Qui si accenna a un senatoconsulto e alcune leggi sulle Africanae, e allo stesso tempo a quanti per primi mostrarono tali animali a Roma, in quale quantità, e la circostanza in cui ciò avvenne (De pantheris. Senatusconsultum et leges de Africanis. Quis primus Romae Africanas et quando; quis plurimas)4. Effettivamente nel libro ottavo, nel descrivere tra i felini dalla pelliccia maculata le pantherae5, sono menzionati due provvedimenti, un senatoconsulto e un solo plebiscito (non altrimenti noti), che ne avrebbero disciplinato l’importazione * Questo lavoro è dedicato alla memoria del Prof. Guido Clemente, che mi ha disvelato nuove prospettive di indagine. 1 Già preannunciata nella epistula dedicatoria a Tito, Plin. nat. praef. 33. 2 Ai paragrafi 1–141, mentre quelli 142–224 riguardano gli animali domestici, secondo la divisione proposta da Ernout, Pline l’Ancien 1952, 5 ss. 3 Nel contributo si riporterà il termine latino che, con pardus e leopardus, indica tutti i grandi felini diversi dal leone e dalla tigre (cf. Plin. nat. 8.62–63. Vd. ThLL X.1, s. v. panthera, p. 238 linn. 22–74), mentre il corrispondente italiano indica il solo leopardo dal colore melanico. 4 Plin. nat. 1. lib. VIII. 5 Plin. nat. 8.63.
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in Italia; inoltre le esibizioni di tali animali nel periodo compreso tra la seconda metà del I secolo a. C. e l’età di Claudio: Senatus consultum fuit vetus, ne liceret Africanas in Italiam advehere. Contra hoc tulit ad populum Cn. Aufidius tribunus plebis permisitque circensium gratia inportare. Primus autem Scaurus aedilitate sua varias CL universas misit, dein Pompeius Magnus CCCCX, Divus Augustus CCCCXX6.
Stando dunque alla testimonianza pliniana, un antico divieto senatorio aveva impedito l’importazione di Africanae in Italia. Divieto poi superato da una successiva deroga, introdotta a sua volta dal plebiscito promosso da Cn. Aufidio. Plinio non riferisce le date dei due provvedimenti, limitandosi a qualificare vetus il solo senatoconsulto, secondo un uso variamente attestato per indicare delibere del senato risalenti nel tempo rispetto all’epoca in cui un autore scriveva: ad esempio, Cicerone non aveva potuto che qualificare ‘antiqui’ i senatoconsulti deliberati oltre un secolo prima, nel 186 a. C., sul culto di Bacco7; analogamente avrebbe fatto C. Ateio Capitone nei suoi Coniectanea nel descrivere il senatoconsulto che nel 161 a. C. aveva attivato l’iter di approvazione della lex Fannia cibaria8. Questa medesima esigenza avrebbe indotto Plinio a precisare l’antichità di quella deliberazione senatoria, tanto più che il suo contenuto appariva oramai anacronistico. Ciò fu possibile grazie all’aggettivo vetus che però, nei libri pliniani, qualifica solo questo senatoconsulto, nonostante altri fossero altrettanto antichi, se non addirittura ancor di più9. Il passo pliniano, pur mancando di ulteriori circostanziati elementi cronologici su senatoconsulto e plebiscito, fornisce comunque come terminus ante quem l’anno 58 a. C., quando cioè per la prima volta M. Emilio Scauro avrebbe fatto esibire, nei giochi allestiti nell’ambito della sua edilità, più di un centinaio di pantherae maculate. Ciò fu possibile in forza del plebiscito Aufidio, come non troppo velatamente emerge dalla argomentazione pliniana, che istituisce un nesso di causalità (si noti l’uso dell’autem) tra la disposizione di legge e l’operato del magistrato. Plinio non precisa però i motivi sottesi alla decisione del senato di introdurre il divieto e di limitarlo alle sole pantherae, escludendo invece i leoni. Nei due passi pliniani in questione, Africanae si riferisce infatti alle pantherae10, mentre altrove l’aggettivo qualifica altre specie animali, come pure arboricole, vegetali e mine6 Plin. nat. 8.64. 7 Cic. leg. 2.37. 8 A maggior ragione sarebbe stato antico per Gellio che aveva letto l’informazione tramandandola: 2.24.2–3. 9 Plin. nat. 7.19; 8.135; 21.8; 22.7, 10, 13; 33.44–45 e 47; 34.24 e 30. 10 Sulla terminologia adoperata da Plinio per denominare questi animali vd. Leitner, Zoologische Terminologie 1972, 188 s.
Belve, giochi e competizione politica nel II secolo a. C.
rali, tutte provenienti dalla stessa area geografica11. Tuttavia sempre nella Naturalis historia il termine è adoperato anche come attributo di ferae, alludendo cioè congiuntamente a leoni e pantherae, ma tale uso sembra derivato dalla fonte utilizzata per narrare l’aneddoto sullo scultore Pasitele12. Per Plinio appariva insomma scontato che il termine Africanae senza alcuna specificazione individuasse unicamente le pantherae, in considerazione dell’area di loro maggiore diffusione, circoscritta, ai suoi tempi, all’Africa e alla Siria13. Queste non erano comunque le uniche abitate dalla specie, dacché vi era (stata) anche la Cilicia, come testimoniano alcune lettere dell’epistolario ciceroniano14, nelle quali quei felini sono menzionati con i sintagmi cibyratae pantherae o pantherae Graecae15. Tuttavia, in età vespasianea, ma in realtà già dalla metà del secolo precedente, l’Africa rappresentava senz’altro l’area con la più alta densità di questi animali16, tanto da concorrere, per iponimo, alla loro denominazione. Questo uso lessicale più tardo avrebbe dunque suggerito a Plinio di limitare alle sole pantherae l’antico divieto prima, e il successivo permesso poi, di importarle in Italia. Tanto più che una conoscenza indiretta della delibera senatoria e del testo di legge da parte del naturalista, gli avrebbe impedito di chiarire quest’aspetto:
11 Con riferimento a lumache (Plin. nat. 9.173; 28.211; 30.44–45; 30.57; 30.74; 30.127; 32.109; ma già Varr. rust. 3.14) e topi (nat. 30.43), a fichi (nat. 15.69 ma già Cato agr. 8.1; Varr. rust. 1.41.6), iris (nat. 21.41), spugne (nat. 31.129) e ocra rossa (nat. 35.35). 12 Mentre lo scultore era intento a ritrarre, presso i navalia, dove si trovavano belve africane, un leone, da un’altra gabbia era fuggita una panthera: Plin. nat. 36.40. L’episodio è datato al 55 a. C. in occasione dell’allestimento dei giochi da parte di Pompeo, nei pressi degli stessi navalia (Plin. nat. 8.53; 64). Fonte di Plinio sarebbe stato Varrone, se si tiene conto di nat. 39.36, passo da aggiunge a quelli citati a sostegno di tale identificazione in Melilla, Plinio il Vecchio 2007, 127–152, spec. 135–138. Su tecniche di cattura e metodi di trasporto di questo genere di animali si veda Bertrandy, Remarques sur le commerce 1987, 211–241; Bomgardner, The Trade 1992, 161–166; Epplett, The Capture of Animals 2001, 210–222; MacKinnon, Supplying Exotic 2006, 137–161; Guasti, Animali per Roma 2007, 138–152. 13 Plin. nat. 8.63: Nunc varias (pantheras) et pardos, qua mares sunt, appellant in eo omni genere, creberrimo in Africa Syriaque. nat. 10.202: Insidunt in eadem Africa pardi condensam arborem occultatisque ex ramis in praetereuntia desiliunt atque et volucrum sede grassantur. Una disamina delle fonti sulla distribuzione di questi animali nell’antichità è in Wotke, s. v. panther 1949, 750 s. e 762 ss. 14 Attraverso lo scambio intercorso tra il 51 e il 50 a. C. tra gli edili M. Celio Rufo e M. Ottavio e Cicerone in qualità di proconsole in Cilicia. In vista dell’allestimento dei giochi nel 50 a. C., fitta fu la corrispondenza tra gli edili designati e Cicerone, in merito alla richiesta di procurare loro delle pantherae dalla zona di Cibira: Cic. fam. 2.9; 2.11.2; 8.2.2; 8.3.1; 8.10. Tale richiesta fu rinnovata ancora nel 50 a. C. e di essa si lamentò Cicerone in due lettere ad Attico del 13 e del 20 febbraio (Att. 5.21.5; 6.1.21). 15 Rispettivamente Cic. Att. 5.21.5 e 6.1.21, e fam. 8.4.5 e 8.9.3. Cic. fam. 8.6.5. 16 Cic. fam. 8.9.3; Vitr. arch. 8.24. Ciò sarebbe accaduto anche per l’esiguità delle pantherae cilice: Cic. fam. 2.11.2; Plut. Cic. 36.6.
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oggetto della sua riflessione era infatti la natura17, non certo gli atti autoritativi18, da citare semmai a integrazione di specifici aspetti e questioni19, sulla scorta delle sintesi più o meno accurate di quanto si leggeva in fonti intermedie. A tale riguardo, Plinio avrebbe ricavato le informazioni sui due provvedimenti dall’opera di Varrone, uno dei suoi auctores. Nell’ottavo libro l’antiquario è menzionato nella sola sezione relativa agli animali domestici, in soli tre luoghi20, ma un numero così circoscritto di citazioni non presuppone il mancato ricorso alla opera varroniana anche altrove, nello stesso libro, pur in assenza di un richiamo esplicito21. I riferimenti alle pantherae (insieme ai leoni) in alcuni luoghi del De lingua latina, e ad altre specie provenienti dall’Africa nel De re rustica attestano infatti l’ampiezza degli interessi del loro autore, declinati a seconda degli ambiti esaminati (in questi casi linguistico e naturalistico)22. Tuttavia, è la composizione delle Quaestiones plautinae a esercitare una maggiore impressione a riguardo23, alla luce del verso del Poenulus inerente al commercio di mures Africani da Cartagine a Roma24. Tale verso avrebbe fornito a Varrone lo spunto per un approfondimento sull’identificazione di questi animali impiegati nei giochi organizzati dagli edili25, tanto da poter essere arricchito ulteriormente con la menzione dei provvedimenti normativi a essi pertinenti. Tuttavia nella trasmissione delle informazioni così ricavate, alcuni interrogativi rimangono inevasi sollevando il dubbio che l’originario divieto senatorio, e di
17 Plin. nat. 1.13. L’analisi sistematica del regno naturale è aspetto indagato in Naas, Le project 2002. 18 Per i senatoconsulti: Plin. nat. 7.19; 8.135; 21.8; 22.7; 22.10; 33.44–45 e 47; 34.24; 34.30. Per le leggi: nat. 7.117; 8.120; 10.139; 16.37; 18.210; 19.50; 21.7; 34.164; 35.197. 19 Secondo Vial-Logeay, Entre action et image 2019, 13–30, la menzione di questo senatoconsulto e del plebiscito Aufidio, come pure di altri provvedimenti, documenta il ruolo primario assunto dal senato nel corso del tempo sulle materie più varie, in particolare nel contrastare le manifestazioni del lusso, al centro della riflessione di Plinio, su cui infra Appendice2. 20 Con riferimento alle devastazioni compiute da conigli e talpe a danno di alcune città (nat. 8.104), all’acquisto di un asino dal costo spropositato (nat. 8.167 cf. Varr. rust. 3.7.) e alla sua testimonianza autoptica sulla conservazione della lana appartenuta a Gaia Cecilia nel tempio di Sancus (8.194). 21 Cf. Ernout, Pline l’Ancien 1952, 6 anche se riferito a fonti greche. 22 Varr. ling. 5.100; 7.40; 9.55. 3 fr. 11. Rust. 1.41.6; 3.9.1, 16, 18; 3.13.3. 23 L’attenzione nei confronti delle commedie plautine affiora anche in Varr. ling. 5.14, 68, 72, 89, 107, 131, 146, 181; 6.6–7, 11, 73; 7.12, 16, 38, 50, 77, 81, 86, 91, 93, 96, 98, 103; 8.36; 9.54, 106. 11 frg. 11. Rust. 2.1.20; 2.4.16. Plaut. Men. 40, 399, 522. 24 Plaut. Poen. 1010–1011, su cui infra. 25 Cf. Varr. rust. 3.13.3.
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conseguenza la sua abolizione, avessero davvero interessato unicamente le pantherae26.
II. L’identificazione delle Af ricanae La iunctura di Africanae con pantherae non è infatti l’unica possibile, potendosi l’aggettivo combinare con i sostantivi bestiae o ferae27, secondo un uso pure presente in Plinio, come sopra ricordato. Sostantivi che inoltre compaiono accostati anche al genitivo locativo Africae28. Le ferae bestiae formano dunque un genus, comprendente tutti i panterini, ossia pantherae, leoni e tigri29, mentre le bestiae Africae ne rappresentano la species, limitata ai soli leoni e pantherae, in considerazione del loro comune areale30. Questa classificazione è attestata in Varrone e in altre fonti più o meno coeve31, e permette di chiarire il significato assunto dal sintagma bestiae Africanae proprio nel terzo libro del De re rustica: le bestiae Africanae viste nelle venationes organizzate dagli edili nel circo Massimo32 sarebbero state appunto leoni e pantherae. D’altra parte, era noto già a Polibio che la fauna africana si caratterizzasse per la presenza anche di queste due specie33.
26 Già De Sanctis, Storia dei Romani IV 19692, 599, Broughton, The Magistrates I 1951, 423 nt. 4 e Bernstein, Ludi publici 1998, 276, hanno pensato alle ‘belve africane’ (African beasts). 27 Varr. rust. 13.3.3: … ut non minus formosum mihi visum sit spectaculum, quam in circo maximo aedilium sine Africanis bestiis cum fiunt venationes. Plin. nat. 36.40: Accidit ei (Pasiteles), com in navalibus, ubi ferae Africanae erant, per caveam intuens leonem caelaret, ut ex alia cavea panthera erumperet, non levi periculo diligentissimi artificis. Serv. auct. ad Aen. 5 v. 37Th-H: HORRIDUS terribilis. … LIBYSTIDIS URSAE aut re vera: aut ferae Africanae, id est leonis aut pardi. 28 Varr. ling. 7.40: Si ab Libya dictae essent Lucae, fortasse an pantherae quoque et leones non Africae bestiae dicerentur, seu Lucae. 29 Varr. ling. 5.100: Ferarum vocabula item partim peregrina, ut panthera, leo; utraque Graeca, a quo etiam et rete quoddam panther et leena et muliercula Pantheris et Leena. 30 Varr. ling. 7.40. 31 Ossia le fonti utilizzate in Plin. nat. 36.40 e in Serv. auct. ad Aen. 5 v. 37Th-H. 32 Varr. rust. 13.3.3. 33 Plb. 12.3.5: Καὶ μὴν τὀ τῶν ἐλεφάντων καὶ λεόντων καὶ παρδάλεων πλῆθος καὶ τὴν άλκήν, ἔτι δὲ βουβάλων κάλλος καὶ στρουθῶν μεγέθη, τίς οὐχ ἱστόρησεν; ὧν κατὰ μὲν τὴν Εὐρώπην τὸ παράπαν οὐδέν ἐστιν, ἡ δὲ Λιβύη πλήρης ἐστὶ τῶν προειρημένων. Tale descrizione, frutto delle conoscenze acquisite dallo storico durante il suo viaggio in Africa al seguito dell’Emiliano tra il 149 e il 146 a. C., è inserita per smentire le notizie tramandate da Timeo. Essa peraltro costituisce un t. p. q. per datare la composizione del libro dodicesimo successivamente al 146 a. C.: cf. Walbank, A Historical Commentary II 1967, 317 e 321 s. Durante il viaggio compiuto nella bella stagione del 146 a. C., Polibio raggiunse il Wadi Draa e probabilmente il capo Juby in vista delle Canarie, su cui vd. Desanges, Recherches sur l’activité 1978, 121–147. Per un
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Precisato il significato del sintagma bestiae Africanae, ci si chiede se nei medesimi termini vada inteso Africanae quando ricorra da solo come aggettivo sostantivato: in altre parole le Africanae per antonomasia sarebbero stati i grandi felini provenienti dall’Africa, ossia leoni e pantherae, o solo queste ultime? L’aggettivo sostantivato si ritrova nella notizia liviana relativa ai giochi edili organizzati nel 169 a. C., nei quali furono (re)impiegate le Africanae, insieme ad orsi ed elefanti, in forza del plebiscito Aufidio34: Et iam magnificentia crescente notatum est ludis circensibus P. Corneli Scipionis Nasicae et P. Lentuli aedilium curulium sexaginta tres Africanas et quadraginta ursos et elephantos lusisse35.
I moderni commenti a Livio identificano le Africanae con le pantherae, alla luce dell’informazione contenuta nella Naturalis historia36. Eppure, come si è avuto modo di osservare prima, il termine Africanae avrebbe potuto estensivamente alludere ai panterini provenienti dall’Africa, anche quando si fosse trattato delle loro cacce o dei loro combattimenti nel circo37. La più antica testimonianza è offerta dal passo del Poenulus già ricordato. Testimonianza che risulta tanto più preziosa perché documenta l’impiego di animali africani proprio in relazione ai ludi circensi (Non audis? Mures Africanos praedicat | in pompam ludis dare se velle aedilibus)38. La precisazione che si trattasse di mures Africani ha indotto a riconoscerli nelle pantherae, ipotesi questa di recente respinta, non trovando riscontro nelle fonti39: F. Capponi ha infatti prospettato che tale sintagma altro non sarebbe stato che ‘un gioco linguistico’, un nonsenso introdotto dal commediografo per evidenziare l’ignoranza linguistica dello schiavo Milfione di fronte alla parlata punica40. Questi non capendo una sola parola di quella lingua avrebbe equivocato e frainteso a tal punto il senso delle parole e delle frasi pronunciate dal cartaginese Annone, da attribuirgli una fantomatica vendita di topi africani da destinare agli inquadramento della fauna africana sempre utile Gsell, Histoire ancienne de l’Afrique 1913, 100–137. 34 Infra § VI. 35 Liv. 44.18.8. 36 Weissenborn/Müller, Titi Livi Buch XLIII–XLIV 18803, ad loc., 99. Così Briscoe, A Commentary Books 41–45 2012, ad loc., 522. 37 Qui come altrove il sostantivo è utilizzato nell’accezione contenuta nel ThLL III, s. v. circus, p. 1185 linn. 63–83. 38 Plaut. Poen. 1010–1011. 39 Che al contrario conoscevano i roditori africani, Plin. nat. 30.43. 40 Capponi, Osservazioni 1993, 167–171. Grazie alla errata traduzione lo schiavo avrebbe aumentato il proprio status sul palco secondo Moddie, In defense of Milphio 2017–2018, 321–350, diversamente dall’opinione secondo la quale il comportamento del servo avrebbe manifestato la sua mancanza di furbizia.
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spettacoli organizzati dagli edili41. Al pubblico romano dei primi decenni del II secolo a. C.42 quella presunta vendita sarebbe apparsa tanto improbabile quanto inverosimile, essendo notoria l’esposizione, nel circo, di ben altri animali africani – ad esempio gli struzzi ricordati sempre da Plauto nel Persa43 –, così da suscitarne lazzi e risate. Con la sua straordinaria capacità rappresentativa Plauto descrive, in un solo verso, un’attività consueta e abituale e il suo contesto sociale di riferimento44. L’importazione delle belve dall’Africa da parte di mercanti cartaginesi era insomma una realtà nota nei primi decenni del II secolo a. C.45: stando a un passo di Giovanni Lido, cattura e rivendita di queste belve, come di altri animali, non sarebbero state vietate dal trattato di pace stipulato con i Cartaginesi nel 201 a. C.46, diversamente da quanto stabilito invece per gli elefanti47. Questi ultimi infatti sarebbero stati destinati, una volta domati, a divenire vere e proprie armi da guerra48, come peraltro i Romani avevano appreso fin dalla guerra contro Pirro e poi patito nel corso dell’ultimo conflitto punico.
41 Così anche Faller, Punisches im Poenulus 2004, 163–202, spec. 193, al quale si rinvia in generale per l’analisi delle espressioni puniche presenti nella commedia. 42 La data di composizione della commedia oscilla tra il 191–190 a. C. e il 189 e il 187 a. C., vd. Woytek, Zur Datierung 2004, 113–138 con bibliografia. 43 Plaut. Pers. 199: Istuc marinus passer per circum solet. Verso che alluderebbe a quanto osservato nei giochi edili del 197 a. C., ricordati per la loro magnificenza in Liv. 33.25.1. Sulla provenienza dall’Africa degli struzzi, Plin. nat. 10.1. È difficile condividere l’opinione di Ville, La gladiature 1981, 52 secondo la quale quell’esibizione sarebbe stata isolata, viste le allusioni di Plauto a spettacoli con altri animali africani durante i giochi degli edili. 44 La testimonianza offerta da Plauto nel tratteggiare la società romana degli inizi del II secolo è in Gabba, Arricchimento e ascesa 1985, 5–15 [= 1988, 69–82]. Sulle connessioni con gli sviluppi storici vd. Gruen, Studies in Greek 1990. Per Germany, The Politics of Roman Comedy 2019, 66–84, l’aspetto politico nell’opera plautina emerge nel richiamo a questioni inerenti all’ellenismo, al lusso, all’auctoritas del pater. 45 In età tardorepubblicana, l’approvvigionamento delle belve destinate ai giochi si avvarrà anche delle clientele, costruite nel tempo in Africa, oppure dell’amicizia e della vicinanza ai quei governatori nelle cui province vi era disponibilità di panterini, secondo Deniaux, L’importation d’animaux 2000, 1299–1307. 46 Cf. Lyd. de mens. 3.46: Ὅτι Ῥωμαῖοι μετὰ τὸ νικῆσαι τοὺς Ἄφρους καὶ τὰ ἐκεῖθεν θηρία ἐπὶ τῆς Ῥώμης ἐκόμιζον καὶ ἐπὶ τῆς ἄμμου ἐφόνευον, ὡς μηδὲ τὰ ἐκ τῆς χώρας ἐκείνης θηρία ἀδούλωτα μείνῃ. 47 Liv. 30.37.3; 43.11. 48 In vista della guerra contro Antioco i legati di Massinissa offrirono tra l’altro trenta elefanti da inviare al console M’. Acilio Glabrione, Liv. 36.4.8. L’introduzione degli elefanti nei giochi avverrà solo nel 169 a. C. Liv. 44.18.8, sebbene prima Cicerone e poi Plinio la datino al 99 a. C. con gli edili C. Claudio Pulcro e L. Valerio Flacco: Cic. Verr. 2.4.6; har. resp. 26; off. 2.57. Plin. nat. 8.19. Sull’impego degli elefanti si rinvia a Scullard, The Elephant 1974.
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III. Il senatoconsulto del 187 a. C. A Roma, la commercializzazione delle belve avrebbe però avuto il mercato assai ristretto offerto dall’allestimento di giochi pubblici, finanziati con le risorse dell’erario. In occasione di celebrazioni religiose o dei trionfi, i cittadini avrebbero ammirato animali, altrimenti sconosciuti49. La loro esoticità destava infatti senza dubbio meraviglia e stupore e al contempo suscitava approvazione e gratitudine nei riguardi dei promotori di quelle esibizioni, di cui avrebbe goduto l’intera cittadinanza: approvazione dunque non solo verso gli edili, che agivano nell’esercizio della loro consueta competenza sulla cura ludorum50, ma anche verso gli ex magistrati, che ottemperando a un voto organizzavano spettacoli inclusi i giochi nel circo. Tale processo, lento e graduale, di costruzione del consenso intorno a iniziative di questo genere è inizialmente documentato nel 197 a. C., allorquando i ludi Romani approntati dagli edili curuli P. Cornelio Scipione Nasica e Cn. Manlio Vulsone, mostrarono, nel circo come sulla scena, una magnificenza maggiore rispetto alle precedenti manifestazioni, tanto da suscitare la letizia degli spettatori, peraltro accresciuta dalla notizia della vittoria su Filippo V51. Malgrado il silenzio liviano a riguardo, il livello di magnificenza si sarebbe misurato anche in relazione all’esibizione di animali africani, il cui impiego nei giochi edili è provata, come già detto, dalla testimonianza plautina. È tuttavia nel 186 a. C. che la venatio52 con leoni e pantherae concorse per la prima volta, insieme ad altre esibizioni, a rendere i giochi allestiti dall’ex proconsole M. Fulvio Nobiliore unici per ricchezza e varietà, tanto da essere equiparati – da parte del tardo annalista utilizzato da Livio, se non addirittura da quest’ultimo – a quelli successivi contraddistintisi per il reimpiego di quegli animali. Nel 187 a. C., di ritorno dalla campagna contro gli Etoli, Fulvio, ottenuto dal senato il trionfo, malgrado l’opposizione del console in carica e di un tribuno della
49 Sugli animali come attrazione negli spettacoli ancora utile Jennison, Animal for Show 1937 [2005]. 50 Sulla quale vd. Mommsen, Römisches Staatsrecht II.1 18873, 517–522, De Martino, Storia della costituzione II 19732, 239–241 e Daguet-Gagey, Splendor aedilitatum 2015, 236–333. 51 Liv. 33.25.1–2: Ludi Romani eo anno in circo scaenaque ab aedilibus curulibus P. Cornelio Scipione et Cn. Manlio Volsone et magnificentius quam alias facti et laetius propter res bello bene gestas spectate totique ter instaurati. Cf. Briscoe, A Commentary Books XXXI–XXXIII 1973, ad loc., 296, che respinge l’ipotesi di T. A. Dorey secondo la quale la magnificenza di questi giochi avrebbe rappresentato il tentativo degli edili di opporsi a Flaminino, minando così la sua popolarità. Diversamente nei precedenti giochi del 201 a. C. solo gli spettacoli scenici erano stati allestiti con grande sfarzo (Liv. 31.4.5–7). 52 Una disamina sulla venatio e dei provvedimenti ad essa connessi è in Polara, Le venationes 1983 e in Buongiorno, s. v. venatio 2017, 3167 s. con bibliografia.
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plebe53, chiese nella stessa seduta di adempiere al voto pronunciato nel giorno della conquista di Ambracia54 e organizzare così giochi solenni a Giove Ottimo Massimo. A tal fine avrebbe utilizzato una cifra pari alle cento libre d’oro conferite apposta (non sappiamo quanto volontariamente) dalle città greche, da detrarre dalla somma portata in trionfo e destinata all’erario55. Tale richiesta si fondava sulla procedura introdotta nel 200 a. C. di non indicare in anticipo la somma da riservare ai giochi votati a Giove. In quell’anno, il desiderio espresso dalla cittadinanza che il console cui fosse toccata la Macedonia facesse voto di giochi e donativi alla divinità in caso di vittoria contro Filippo, aveva incontrato l’opposizione del pontefice massimo, P. Licinio Crasso Dives56. Questi argomentava infatti che il voto non si sarebbe potuto sciogliere, in assenza di indicazioni precise sulla somma di denaro, da scomputare dai costi di approntamento della guerra. Di fronte però all’opposto parere dei colleghi, interpellati dal console, il pontefice limitò la discrezionalità riconosciuta in quel modo al magistrato, facendogli giurare, tra l’altro, che la somma sarebbe stata stabilita dal senato57. Ai patres fu dunque attribuita la competenza a vigilare sulle risorse erariali anche per tale scopo58, dando altresì loro lo strumento di un più serrato e ampio controllo sull’osservanza del mos di fronte a pretese e desideri della cittadinanza eventualmente assecondati da singoli magistrati.
53 Liv. 39.4; 5.1–6. Il trionfo di Fulvio è pure ricordato in Cic. Mur. 31. 54 Assedio e conquista della città sono riferiti in Liv. 38.3.9–11; Plb. 21.25–30; vir. ill. 52.1–2. Ennio l’aveva cantata nell’Ambracia, una fabula praetexta, e forse anche negli Annales (a riguardo vd. Skutsch, Enniana 1944, 79–81; Skutsch, The Annals 1985, 553) per celebrare e glorificare l’impresa di Nobiliore, del cui seguito il poeta faceva parte (vd. infra § V e nt. 97): vir. ill. 52.3: Quam victoriam per se magnificam Ennius amicus eius insigni laude celebravit. Con il bottino Nobiliore finanziò la costruzione dell’aedes Heculis Musaurum nel Campo Marzio decorato con statue depredate ad Ambracia, Plin. nat. 35.66. 55 Liv. 39.5.7. Sulla quantità di metallo e denaro esibita in quella circostanza, Liv. 39.5.14–15: Aureae coronae centum duodecim pondo ante currum latae sunt, argenti pondo milia octoginta tria, auro pondo ducenta quadraginta tria, tetrachma Attica centum octodecim milia, Philippei nummi duodecim milia trecenti viginti duo signa aenea septingenta octoginta quinque, et rell. Cf. Briscoe, A Commentary Books 38–40 2008, ad loc., 79–82. Il quantitativo di oro non appare casuale, se lo stesso fu impiegato nella fabbricazione di una corona offerta sempre a Giove e depositata nel tempio sul Campidoglio dai legati di Filippo nel 191, una volta autorizzati dal senato, Liv. 36.35.12. cf. Plb. 21.3.1–3. 56 Vd. Rüpke, Fasti sacerdotum II 2005, nr. 2135, 1107 s. 57 Liv. 31.9.5–10. Sul collegio pontificale composto da Q. Caecilius Metullus, M. Cornelius Cethegus, Cn. Servilius Caepio, C. Livius Salinator, C. Servilius Geminus, C. Sempronius Tuditanus, Ser. e C. Sulpicii Galbae si rinvia a J. Rüpke, Fasti sacerdotum I 2005, 76. 58 Della generale competenza del senato sull’erario dà notizia Plb. 6.13.1–3.
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L’idea di finanziare i giochi votati con dispendio di risorse si poneva nel solco di una visione e concezione del tutto nuova della magnificentia59: essa aveva preso piede agli inizi del secolo, e progressivamente si stava affermando grazie anche alle sempre maggiori disponibilità economiche offerte dalle guerre di conquista60. In questa prospettiva è dunque da leggere la richiesta di Nobiliore e la successiva decisione senatoria61. I senatori, infatti, ritenendo esosa la richiesta economica avanzata, proprio per l’uso che se ne sarebbe fatto, ossia l’allestimento di giochi, interpellarono il collegio pontificale, in merito alla sussistenza di una reale necessità religiosa tale da giustificare una simile spesa62. Chiarito che i costi di allestimento esulavano dall’aspetto religioso, i patres fissarono allora l’importo massimo di ottantamila sesterzi63, somma questa di gran lunga inferiore a quella originariamente richiesta64. Pur essendo state di molto ridimensionate le iniziali pretese, quella cifra consentì comunque di allestire diversi spettacoli sulla scena e nel circo, i quali si protrassero per dieci giorni: Decem deinde dies magno apparatu ludos M. Fulvius, quos voverat Aetolico bello, fecit. Multi artifices ex Graecia venerunt honoris eius causa; athletarum quoque certamen tum primum Romanis spectaculo fuit. Et venatio data leonum et pantherarum, et prope huius saeculi copia ac varietate ludicrum celebratum est65. 59 Utile è a riguardo Liv. 33.25.1 perché ricorda che anche prima del 197 a. C. i giochi edili si fossero celebrati con solennità, mentre in quell’anno maggiormente: et magnificentius quam alias facti. 60 Sfarzo e sontuosità caratterizzarono i ludi Romani del 201 a. C. organizzati dagli edili curuli limitatamente però agli spettacoli scenici; quelli del 200 a. C. promessi in voto dall’Africano in qualità di console (Liv 31.49.4), come pure quelli degli edili curuli (Liv. 31.50.1–2); quelli del 199 (Liv. 32.7.14) e del 196 (Liv. 33.42.9) sempre allestiti dagli edili curuli (nel 197 uno di loro era M. Fulvio Nobiliore). Data l’essenzialità dell’informazione tramandata si può ricondurla alle registrazioni pontificali. 61 Per Rosivach, The first venatio 2006, 271–278, l’intento perseguito da Fulvio allestendo questi giochi sarebbe stato divulgare la cultura greca attraverso rappresentazioni teatrali, gare atletiche e cacce; le riserve a tale ricostruzione sono infra ntt. 66 e 71. Walcher, M. Fulvius Nobilior 2016, 164–179, sottolinea l’aspetto politico di questi giochi e il loro apporto per allestimenti sempre più elaborati: la loro esemplarità si sarebbe caratterizzata anche per la forma di finanziamento e il successivo limite di spesa imposto dal senato. 62 Liv. 39.5.9: Senatus pontificum conlegium consuli iussit num omne id aurum in ludos consumi necesse est. Cento libbre d’oro corrispondevano a 45.46 kg di metallo. 63 Liv. 39.5.9–10: Cum pontifices negassent ad religionem pertinere quanta impensa in ludos fieret, senatus Fulvio quantum impenderet permisit, dum ne summam octoginta milium excederet. 64 Ottantamila sesterzi corrispondevano a circa 88 kg di argento, quantitativo esiguo al confronto con i 37600 kg esibiti durante il trionfo, Liv. 39.5.14, supra nt. 55. 65 Liv. 39.22.1–2. Da ricordare che già nel 196 a. C. durante la sua edilità, Nobiliore avesse allestito, insieme al collega, G. Flaminio, giochi con grande sfarzo, Liv. 33.42.9. Ciò nono-
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In quell’occasione si esibirono numerosi artisti professionisti, giunti appositamente dalla Grecia per onorare lo stesso Fulvio66, in qualità di attori, ballerini e musici67: pur pregiudicando forse le rappresentazioni di autori e attori romani68, tali esibizioni avrebbero certo destato l’attenzione dei Romani, ma non ne avrebbero catturato forse appieno il gusto69. Non a caso, infatti, le novità maggiori interessarono gli spettacoli nel circo, perché i Romani assistettero per la prima volta al combattimento tra atleti70, oltre a quello tra leoni e pantherae o alla loro caccia71. Lo spettacolo del 186 non fu certamente il primo allestito a Roma con le belve africane, ma il loro impiego (forse in stante, quella edilità si era caratterizzata principalmente per la distribuzione di grano a prezzo vantaggioso (Liv. 33.42.8). 66 Ferrary, Philhellénisme et impérialisme 20142, 566–568 e 571 s. ha evidenziato l’apporto dato sì da Nobiliore all’ellenizzazione culturale di Roma, senza però che ciò lo rendesse un grande filelleno nella prospettiva degli stessi Greci, indifferenti al fatto che a Roma artisti greci partecipassero a spettacoli pubblici o che un tempio fosse dedicato alle Muse. 67 Sull’associazione dei technitai di Dioniso tra II e I secolo a. C., cf. Le Guen, Les associations 2001, 39 s. Sul passo liviano cf. Weissenborn/Müller, Titi Livi Bücher XXXIX–XLII 19094, ad loc. 39.22.2, 44 in apparato. Briscoe, A Commentary Books 38–40 2008, ad loc., 295, ritiene che essi recitassero nella propria lingua, pur non essendo questa capita dalla maggior parte del pubblico privo di quelle competenze linguistiche. 68 Non essendoci alcun indizio per collocare in tale occasione la messa in scena dell’Ambracia di Ennio, cf. Ennius’ Ambracia, consultato alla pagina http://www.apgrd.ox.ac.uk/ ancient-performance/sources/595. 69 Il gradimento dei Romani per i giochi teatrali è testimoniato più tardi in Cic. Mur. 40. 70 Weissenborn/Müller, Titi Livi Bücher XXXIX–XLII 19094, ad loc. 39.22.2, 44 in apparato. Briscoe, A Commentary Books 38–40 2008, ad loc. 39.22.2, 295, riferiscono invece primum tanto al certamen quanto alla venatio. La notizia contenuta in Val. Max. 2.4.7, secondo la quale questo genere di lotta sarebbe stato introdotto dall’edile M. Emilio Scauro durante i suoi giochi nel 58 a. C., dipende da una fonte, forse la stessa di Plinio, che colloca le innovazioni nei ludi dalla fine del II secolo a. C., vd. infra § VI e Appendice 2. Le gare atletiche avevano origine etrusca e si differenziavano dagli agoni ginnici greci come sottolineato da Thuillier, Le programme athletique 1982, 105–122 [= Allez les Rouges 2018, 167–183]. Solo nel tempo, gli eventi ginnici greci divennero sempre più popolari, senza ovviamente soppiantare gli spettacoli di tradizione e costume romani come ludi e venationes: Suet. Aug. 44.5; Tac. ann. 14.21.4. 71 Ma la novità di questo spettacolo non sarebbe consistita certo nella sua origine greca, diversamente da quanto sostenuto da Rosivach, The first venatio 2006. La sua ricostruzione appare poco persuasiva, fondandosi sull’origine greca del termine e soprattutto sulla considerazione che questi animali insieme ai leoni fossero stati portati da Fulvio dalla Grecia, catturati in qualche riserva di caccia reale, in base al confronto con l’episodio dell’affidamento dei terreni di caccia e dei cacciatori reali macedoni da parte di Emilio Paolo al figlio poi divenuto l’Emiliano (p. 277 s). Quest’ultima ipotesi si basa sull’assunto che i romani non avessero conosciuto prima di allora la caccia grossa, ignorando del tutto le testimonianze plautine sull’impiego di animali africani – non certamente i topi, ma quelli di grossa taglia (come gli struzzi) – nei giochi edili, sopra ricordate. Vd. Ville, La gladiature 1981, 53 s., per la
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numero comunque maggiore?) contribuì a rendere il programma ancora più ricco e vario, tanto da accostarlo a quelli più tardi organizzati dopo l’introduzione del plebiscito Aufidio. Appare evidente quanto nella prospettiva della fonte liviana la magnificenza di questi giochi si misurasse soprattutto in rapporto ai felini africani, per il cui acquisto sarebbe servita una parte considerevole degli ottantamila sesterzi: in nuce stava attecchendo la pratica costosa di riempire il circo con animali esotici72.
IV. I senatoconsulti del 182 e del 179 a. C. In quell’occasione, il senato intuì il coefficiente di rischio insito nei ludi di fronte alle risorse destinate a finanziarli, e quanto la natura del responso pontificale avesse rappresentato l’espediente formale per limitare e frenare pretese, aspirazioni e ambizioni dell’ex proconsole. Quel limite di spesa costituì infatti un precedente da richiamare de futuro in situazioni analoghe. La questione si ripropose infatti nel 179 a. C., quando il senato impose al console Q. Fulvio Flacco di non eccedere quella somma per i suoi ludi a Giove, promessi in voto durante la campagna contro i Celtiberi73; giochi per i quali si sarebbero adoperate le somme ottenute dalle comunità iberiche74. Pertanto il senato in un altro decreto del senatoconsulto richiamò il console all’osservanza di una precedente sua deliberazione del 182 a. C.: questa aveva disciplinato e regolamentato il finanziamento dei ludi, vietando ai magistrati di procacciarsi, incassare, imporre e accettare contributi economici da parte di comunità italiche, latine, e provinciali. Con tale decisione, il senato impedì quindi a Fulvio Flacco di servirsi delle somme raccolte in questo modo per finanziare i suoi giochi: Ludi decreti, et ut duumviri ad aedem locandam crearentur. De pecunia finitum ne maior ludorum causa consumeretur quam quanta Fulvio Nobiliori post Aetolicum bellum ludos facienti decreta esset, neve quid ad eos ludos arcesseret cogeret acciperet faceret adversus id senatus consultum quod L. Aemilio Cn. Baebio consulibus de ludis factum esset. Decreverat id senatus propter effusos sumptus factos in ludos Ti. Semproni aedilis, qui graves non modo Italiae ac sociis Latini nominis, sed etiam provinciis externis fuerant75. derivazione delle cacce da modelli africani. Una disamina sulla venatio in età romana è in Epplett, Roman Beast 2014, 505–532. 72 Cf. Liv. 44.9.4 infra nel testo. 73 Liv. 40.44.8–9: Q. Fulvius consul priusquam ullam rem publicam ageret liberare et se et rem publicam religione votis solvendis dixit velle: vovisse, quo die postremum cum Celtiberis pugnasset, ludos Iovi optimo maximo et aedem Equestri Fortunae sese facturum; in eam rem sibi pecuniam conlatam esse ab Hispanis. 74 Liv. 40.45.9. 75 Liv. 40.44.10–12.
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Il senatoconsulto del 179 a. C. costituisce un esempio di senatoconsulto di rinvio, ossia di delibera costruita sulla base di altre, mediante disposizioni di rimando ad altra norma: primo e secondo decreto furono infatti elaborati in funzione di quanto stabilito rispettivamente dai senatoconsulti del 187 e del 182 a. C. Per quanto attiene al senatoconsulto del 182 a. C., esso è noto da questa unica testimonianza liviana, che lo identifica attraverso cronologia e materia. Il criterio cronologico recupera il modello consueto per archiviare, nel tabularium, le delibere senatorie anno per anno, attraverso le coppie consolari76; mentre la materia sintetizza (con il complemento d’argomento) generalmente l’oggetto della relatio pronunciata dal magistrato dinnanzi al senato. Altresì la narrazione liviana ricorda il contesto nel quale quella prescrizione era maturata. Nel 182 a. C., l’edile Ti. Sempronio Gracco, non pago delle somme disponibili per l’allestimento dei giochi, era ricorso a ulteriori sovvenzionamenti, fatti gravare sulle comunità in Italia, socie e Latine, e financo su quelle provinciali. Le loro possibili quanto probabili lamentele77 avrebbero rafforzato i patres nel contrastare tale pratica, forse introdotta allora per la prima volta o comunque per la prima volta dimostratasi eccessiva78. Per evitare che quel precedente generasse situazioni analoghe si vietò allora qualsiasi forma di contribuzioni onerose o volontarie per finanziare, a Roma, i giochi: da quel momento i costi di allestimento sarebbero dipesi unicamente dalle risorse pubbliche (secondo i limiti di spesa imposti dal senato), senza giovarsi di nessun altro finanziamento79, neppure delle personali contribuzioni degli stessi edili, poco probabili in un’epoca caratterizzata dall’alta attenzione mostrata dal senato nel preservare i patrimoni della nobilitas80.
76 Cf. e. g. Liv. 4.51.2 (che suscita qualche dubbio 413 a. C.); 33.44.1; 36.36.4; 45.9.3. Cic. leg. agr. 2.35; Att. 5.21.11. Gell. 2.24.2. Gai. 1.31; 2.253; 3.63. Del resto, anche le sillogi di senatoconsulti usavano il criterio cronologico per registrarli, cf. Cic. Att. 13.33.3. Sul punto vd. Buongiorno, Senatus consulta 2016, 17–60. 77 Briscoe, A Commentary Books 38–40 2008, ad loc. 40.44.12, 526 non esclude la possibilità che il riferimento alle comunità provinciali alludesse alle clientele dei Gracchi in Sardegna, occupata nel 238 a. C. dal console Ti. Sempronio Gracco. 78 Tale episodio può aggiungersi ai soprusi perpetrati dai magistrati romani a danno di soci e Latini, analizzati da Laffi, Il sistema di alleanze 1990, 293 s. Brennan, The Praetorship 2000, 169, interpreta il senatoconsulto come risposta alla competizione per l’elezione alla pretura. 79 Tale divieto senatorio fu nel tempo raggirato almeno in provincia, se nel 60 a. C. Cicerone in una lettera al fratello, in quel momento proconsole d’Asia, accennava alla presa di posizione dello stesso Quinto contro la pratica del vectigal aedilicium: Cic. ad Quint. fratr. 1.1.26. 80 Sul punto Clemente, Le leggi sul lusso 1981, 9 ss. Non era infatti ancora il tempo dell’impegno economico personale, su cui infra § VI e nt. 127 per la bibliografia.
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Nulla si sa dei giochi del 182 a. C., e perciò rimane ignoto in che modo quelle somme smisurate fossero state impegnate e spese: insomma quanti giorni avessero occupato i giochi, quali e quanti eventi fossero stati in programma e se tra questi vi fossero state venationes anche con bestie africane. Ciò ovviamente non sarebbe stato possibile, se fosse stato già vigente il senatoconsulto sul divieto di importazione di quegli animali in Italia. Ai fini del nostro discorso è dunque necessario chiedersi se, nel disciplinare la materia dei ludi, il senatoconsulto del 182 a. C. avesse affrontato anche la questione degli animali destinati agli spettacoli. Dal tenore delle informazioni a nostra disposizione emerge che la delibera del 182 a. C. non avesse riguardato la generale organizzazione dei giochi, piuttosto le forme del loro finanziamento. Tuttavia, il senatoconsulto avrebbe potuto non limitarsi a questo solo decreto, ma includerne altri comunque attinenti o interconnessi tra di loro81. Tuttavia, se l’obiettivo fosse stato vietare alcuni tipi di finanziamento, non sarebbe stato necessario ribadire cosa non sarebbe stato finanziato e perciò nessun accenno sarebbe stato riservato, tra l’altro, all’impiego delle belve africane.
V. Il senatoconsulto sulle Af ricanae (ca. 179) Per datare il senatoconsulto sul divieto di importazione delle Africanae, i giochi di Fulvio Nobiliore costituiscono senz’altro un terminus post quem, considerata la presenza nel programma di almeno una venatio82. Per quanto attiene ai ludi successivi, le fonti non registrano spettacoli venatori, ma in generale poco è noto dei loro programmi. In particolare, nel corso dello stesso anno, ai giochi di Fulvio seguirono quelli organizzati da L. Cornelio Scipione che a suo dire avrebbe votato durante la guerra contro Antico III. Senza entrare nel merito della circostanza sottesa a quel voto a Giove, della cui autenticità dubitarono alcuni storici antichi83, è da rilevare che quei giochi impiegarono elargizioni offerte da re e collettività, si svolsero per dieci giorni e videro esibirsi
81 Tra i quali difficilmente però ve ne sarebbe stato uno indicante il tipo di finanziamento consentito, essendo scontata la provenienza erariale. 82 Bernstein, Ludi publici 1998, 276 s., seguito da Walcher, M. Fulvius Nobilior 2016, 175 ritiene questa delibera senatoria affine al senatoconsulto del 182 a. C., e la interpreta come reazione all’aumentata spesa dei giochi, al fine di regolamentarla. 83 Secondo la testimonianza di Valerio Anziate ripresa da Livio, Scipione avrebbe ottenuto quelle somme mentre si trovava in Oriente a dirimere la controversia tra Antioco e Eumene, su mandato senatorio, perché solo dopo tale missione avrebbe discusso in senato dei giochi motivandoli con il voto a suo tempo pronunciato, e non invece dopo essere rientrato a Roma a guerra conclusa, nel 189: Liv. 39.22.9–10.
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artisti reclutati in Asia dallo stesso Asiatico84. Allestiti per accattivarsi il popolo dopo la sua condanna e in vista della sua candidatura a censore85, tali giochi potrebbero perciò aver incluso perfino spettacoli con le Africanae. Un loro impiego si può ipotizzare anche per i giochi dell’edile Tiberio Sempronio Gracco del 182 a. C. che, come si è già avuto modo di ricordare, si erano caratterizzati per le spese smisurate; come pure per quelli organizzati nel 179 a. C. da Q. Fulvio Flacco: l’investimento della stessa somma a suo tempo fissata dal senato per i giochi di Nobiliore, e il fasto delle celebrazioni non escludono, piuttosto ammettono eventuali esposizioni di fiere africane. Al contrario gli altri giochi celebrati sempre nel 179 a. C. non paiono essere commisurabili ai precedenti a causa della riduzione delle risorse stanziate: ciò è documentato per i giochi allestiti dal censore in carica M. Emilio Lepido in occasione della consacrazione dei templi di Giunone Regina e di Diana, promessi in voto nel 187 a. C., da console, durante la campagna contro i Liguri86; giochi per i quali il senato stanziò solo ventimila assi87, ossia un sedicesimo della somma nella disponibilità di Fulvio88, calcolati evidentemente anche sulla base delle risorse ottenute con quella vittoria89. Ciò nonostante, la durata di questi giochi nel circo fu di soli due giorni (uno per ciascuna dedicatio) a fronte dei cinque previsti per quelli scenici, dato questo da ricondurre all’esiguità degli eventi circensi, determinata peraltro dell’assenza di combattimenti, cacce o parate con le Africanae. Del resto, le poche informazioni sui giochi predisposti dagli edili in quell’anno (ricordati per la loro ripetizione a causa della manifestazione di prodigi90) e per gli altri celebrati annualmente fino al 170 a. C. dipenderebbero dalla mancanza di notizie degne di nota, a testimonianza di manifestazioni prive di quello sfarzo e di quella sontuosità che, quando presenti, le fonti non avrebbero perduto occasione di registrare. Non è quindi un caso che i giochi edili del 169 fossero stati ricordati
84 Liv. 39.22.8: L. Scipio ludos eo tempore, quos bello Antiochi vovisse sese dicebat, ex conlata ad id pecunia ab regibus civitatibusque per dies decem fecit. […] 10: tum conlatas ei pecunias congregatosque per Asiam artifices … Plin. nat. 33.138: Populus R. stipem spargere coepit Sp. Postumio Q. Marcio cos.; tanta abundantia pecuniae erat, ut eam conferret L. Scipioni, ex qua is ludos fecit. Briscoe, A Commentary Books 38–40 2008, ad loc., 299, cerca di integrare le due informazioni, ritenendo plausibili sovvenzionamenti privati per i giochi. 85 Bernstein, Ludi publici 1998, 275 s. 86 Liv. 39.2.11. 87 Liv. 40.52.1–3. 88 In quell’epoca, valendo un sesterzio 4 assi, 20.000 di questi equivalevano a circa 5.000 sesterzi. 89 Che però non sono tramandate. 90 Liv. 40.59.6.
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per la loro magnificenza commisurata alla reintroduzione delle esibizioni delle belve africane91, in forza del plebiscito Aufidio (su cui si tornerà a breve). I ludi Romani organizzati da Fulvio Flacco nel 179 a. C. avrebbero insomma rappresentato l’ennesimo episodio di sfarzo incontrollato: nell’arco di poco più di un ventennio infatti, in almeno sette occasioni, magistrati ed ex magistrati avrebbero ecceduto nell’allestimento dei giochi, tanto da sollecitare il progressivo intervento senatorio, reso possibile, sotto il profilo formale, dalla competenza assunta dal senato fin dal 200 a. C. sulle somme da destinare ai giochi ed estensivamente sulla loro organizzazione. Se, infatti, i pur fastosi giochi organizzati dagli edili curuli tra il 200 e il 196 parvero ai patres episodi isolati92, l’esosità della richiesta economica di Nobiliore, forte del suo prestigio derivante dalla vittoria, richiese una presa di posizione decisa e una soluzione duratura93. L’attenzione per le somme pubbliche da assegnare ai magistrati costituì per il senato un valido strumento di controllo e un efficace deterrente alle ambizioni personali, oltre che di verifica e contenimento delle spese. Calcolato in rapporto a diversi fattori (ad esempio la preda bellica), quel limite avrebbe però riguardato le sole risorse del popolo Romano. Per superare questo ostacolo, i magistrati ricorsero allora a forme esterne di finanziamento, ossia provenienti da comunità peregrine, subordinate a Roma. Non è nota quale fosse la procedura utilizzata in questi casi e sulla base di quale fondamento giuridico magistrati romani facessero valere questo tipo di contribuzioni, soprattutto se esse non fossero state disciplinate al momento della instaurazione del rapporto con Roma94. A tale riguardo, l’episodio del 182 a. C. avrebbe rappresentato il punto di non ritorno di una pratica divenuta nel tempo incontrollabile, intollerabile e rovinosa per le stesse relazioni con gli alleati, stremati economicamente da quel genere di contribuzioni. Limiti di spesa e divieto di finanziamenti esterni, pur contenendo magnificenza e lusso dei giochi, non li arrestarono del tutto, e perciò l’azione del senato si rivolse ai modi di utilizzo di quelle risorse. In particolare le esibizioni delle Africanae davano vita a spettacoli che per la loro natura esosa e meno tradizionale ormai si potevano e dovevano vietare. Prima di allora il senato non avrebbe ravvisato di disciplinarle, non essendo l’impiego di quegli animali assai frequente nel circo, a fronte anche degli esborsi 91 Liv. 44.18.8. 92 Liv. 31.4.5–7 (200); 32.7.13–14 (199); 33.25.1–2 (197); 33.42.8 (196). 93 Così anche Epplett, Roman Beast 2014, 507, che però data il senatoconsulto sulle Africanae al 186 a. C. 94 Forme di esenzione erano ricomprese in seno alla immunitas, anche in caso di guerra. A riguardo si rinvia anche se per un periodo successivo a Raggi/Buongiorno, Il senatus consultum de Plarasensibus 2020, 138–151.
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per il loro acquisto. Tuttavia, la presenza di tali spettacoli nel programma era prova tangibile della vanagloria personale e politica dei magistrati promotori di quegli eventi, consapevoli del potenziale politico insito in quelle manifestazioni. Contro questi eccessi si oppose parte della nobilitas romana e certamente lo fece Catone, tanto nell’esercizio magistratuale, quanto in ambito senatorio. Nessuna notizia si ha su tempi e modi di svolgimento della seduta del senato ed è perciò ignoto se la relatio del magistrato avesse riguardato l’importazione delle belve africane o qualche altro aspetto ad essa legato, perciò sfugge se la decisione dei patres ne avesse ricalcato ovvero modificato il testo, alla luce delle sententiae emerse durante la discussione. Ciò nonostante, è molto probabile che Catone abbia preso parte al dibattito95, opponendosi all’impiego di quegli animali, in linea con la sua avversione alla manifestazione del lusso. In quella circostanza egli avrebbe ricordato la venatio organizzata da Nobiliore nel 186 a. C. all’interno dei suoi ludi, ricostruendo la vicenda delle somme raccolte dal proconsole in Grecia, sulla quale era ben informato essendo stato legato senatorio durante la guerra etolica96. Del resto, a una datazione del senatoconsulto nel 179 a. C. o giù di lì concorre l’orazione catoniana In M. Fulvium Nobiliorem, pronunciata nel 178, una volta terminato l’ufficio censorio di Nobiliore: in quella occasione Catone gli si scagliò contro anche per le condotte assunte durante il consolato, rimproverandogli l’eccessiva mollezza nei confronti della truppa e la vanagloria nel far celebrare le proprie gesta al poeta Ennio al suo seguito97. Nel corso del tempo, ricchezza e magnificenza dei giochi costituirono insomma la spia del benessere economico e sociale dell’intera comunità, e perciò un potente strumento di affermazione politica, oltre che di mollezza dei costumi. Per frenare questo stato di cose il senato, orientato dai suoi membri più tradizionalisti e perciò meno impressionabili da nuove mode, agì anche contro le Africanae. I patres decretarono perciò il divieto di importarle non solo a Roma ma anche in Italia. In Plinio, il ricorso al termine Italia ricalca un uso consueto e frequente – osservato pure nella sintesi del senatoconsulto de ludis del 182 a. C. – per le narrazioni (storiografiche e non) interessate a circoscrivere lo spazio territoriale entro cui si svolgeva l’evento, al fine di una maggiore chiarezza espositiva98.
95 Cf. Plut. Cat. Mai. 9. Vd. Astin, Cato 1978, 104 ss. 96 Fest. 196.9–26L spec. 14–18. (Cato frg. 95 Sblendorio Cugusi). Astin, Cato 1978, 73 s. Linderski, Cato Maior 1996, 376–408 [= Roman Questions 2007, 61–87]. 97 Rispettivamente Gell. 5.6.24–26 (Cato frg. 103 Sblendorio Cugusi) e Cic. Tusc. 1.3. (Cato frg. 103 Sblendorio Cugusi). Il rapporto esistente tra il poeta e Nobiliore è analizzato da Badian, Ennius 1972, 183–195. 98 Cf. Liv. 39.18.8; 40.19.5; 43.11.4.
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Malgrado ciò, tale uso non avrebbe riprodotto né riecheggiato la terminologia del deliberato senatorio, tesa a individuare i soggetti (in qualità di singoli o di collettività) interessati e investiti dalla norma, per mezzo del loro statuto giuridico, piuttosto che della loro collocazione geografica, elemento questo che seppur indicato sarebbe stato comunque accessorio. Pertanto, il senatoconsulto approvato intorno al 179 a. C. (come pure quello del 182 a. C. con qualche differenza, non contemplando i Romani, bensì i provinciali) non avrebbe contenuto alcun riferimento all’Italia, piuttosto presentato la formulazione ‘civis Romanus, neve nominis Latini neve socius’, attestata nello stesso lasso temporale dal terzo senatoconsulto sul culto di Bacco, quello del 7 ottobre 186 contenuto nella Tavola di Tiriolo99. Nella trasmissione dell’informazione in altra tipologia di scritto, quella tripartizione sarebbe caduta per esigenze narrative, per essere dunque esemplificata e accorpata sotto il toponimo Italia. Il divieto di importare leoni e pantherae riguardò pertanto i Romani, per arginare le manifestazioni di lusso ad uso politico100, e al contempo si indirizzò a soci e Latini, per impedire che attraverso la loro intermediazione si compisse una fraus legis, raggirando così il divieto posto in essere dal deliberato senatorio. In che modo ciò sarebbe potuto accadere? Le navi che trasportavano merci (tra cui le belve africane) sarebbero attraccate nei porti delle città italiche, dove sarebbero avvenute le prime compravendite dei prodotti. Una testimonianza a riguardo è costituta ancora una volta da una commedia plautina, i Menaechmi, nel cui prologo Plauto ambienta l’antefatto a Taranto. Nel porto della polis sarebbe approdata la grande nave oneraria che trasportava il padre dei Menaechmi con uno dei figli, e i suoi prodotti da commercializzare su quella piazza101. Lo smarrimento del bambino sarebbe avvenuto, mentre in città si celebravano i giochi, a causa della gran folla di locali e stranieri accorsa ad assistervi102. Pur composta alla fine del III secolo a. C., la commedia attesta il ruolo marittimo ed economico detenuto da Taranto lungo le rotte commerciali
99 CIL I2 581 = X 104 = ILS 18= FIRA I2 30 = ILLRP 511 = AE 2000, 25 =AE 2005, 120+121 = AE 2006, 21 = AE 2011, 88 = EDR169492, lin. 6: Bacas vir nequis adiese velet ceivis Romanus neve nominus Latini neve socium … 100 In tal senso già Clemente, Le leggi sul lusso 1981, 10. 101 Plaut. Men. 26–27: Imponit geminum alterum in navim pater | Tarentum avexit secum ad mercatum simul. 102 Plaut. Men. 29–33: Tarenti ludei forte erant quom illuc venit. | Mortales multi, ut ad ludos, convenerant: | puer aberravit inter homines a patre. | Epidamniensis quidam ibi Mercator fuit, | is puerum tollit avehitque Epidamnium. 1112 s.: Cum patre ut abii Tarentum ad mercatum postea | inter homines me deerrare a patre atque inde advehi.
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mediterranee103; ruolo che comunque non si sarebbe indebolito, neppure dopo la guerra annibalica, perché, a dispetto della defezione ai Cartaginesi, la punizione romana non danneggiò lo scalo marittimo tarentino, approdo obbligato per le navi provenienti da oriente e da meridione104. Si comprende bene allora che qualsiasi comunità peregrina (socia e non) al centro di commerci e scambi, avrebbe offerto il contesto ideale per disattendere il divieto di importare le belve africane: i suoi cittadini infatti non sarebbero stati sottoposti alla normativa romana, e perciò avrebbero potuto commercializzare e organizzare (anche per conto di terzi, cittadini romani ad esempio) spettacoli ai quali avrebbero potuto prendere parte gli stessi Romani. Di fronte a un mercato divenuto sempre meno ‘cittadino’, il senato intervenne in modo analogo a quanto aveva già stabilito nel 193 a. C. in tema di usurae (e trasfuso nel plebiscito Sempronio de pecunia credita), ossia impose coattivamente il divieto anche ai non Romani105, temendo il pericolo concreto (o percepito come tale) che la norma fosse raggirata in forza delle relazioni sempre più stringenti dei Romani con le comunità italiche, non solo quelle socie e Latine106. Da allora in poi, nell’impossibilità di disporre delle ferae Africae quali spettacoli si sarebbero visti nel circo? Va da sé che il programma dei ludi avrebbe comunque previsto cacce ed esibizioni con altre specie animali (ad esempio orsi, cinghiali, tori); al contempo però si sarebbe fatto ricorso a generi diversi di spettacoli per offrire una maggiore varietà. Di ciò siamo informati da un passo liviano, che avrebbe attinto per questa parte a una ricostruzione annalistica d’età graccana, successiva all’approvazione del plebiscito Aufidio107, per il disappunto espresso nei confronti della smania oramai imperante di riempire il circo con bestie provenienti da ogni luogo. Si tratta di una lunga digressione inserita nella descrizione della presa della città macedone di Heracleum nel 169 a. C. da parte di M. Popillio Lenate (ex console e legato del console in carica Q. Marcio Filippo), resa possibile attraverso la manovra a testuggine, ricalcata sul modello delle esibizioni mostrate nei giochi, nonostante alcune modifiche di natura strettamente tattica108: Iuvenes etiam quidam Romani ludicro circensi ad usum belli verso partem humillimam muri ceperunt. Mos erat tum, nondum hac effusione inducta bestiis omnium gentium circum con103 Ha ipotizzato essere stata la polis magnogreca una piazza del commercio di schiavi in questo periodo e fino all’età imperiale Lippolis, Taranto romana 2005, 275–278. 104 Vd. Gallo, La punizione 2018, 814–820. 105 Liv. 35.7.2–5. Diversa è la logica sottesa alla celebrazione dei sacra a Bacco, sebbene il risultato fosse il medesimo. 106 Liv. 35.7.2–5. 107 Pare più difficile attribuirla a Livio proprio perché quel genere di spettacoli erano abituali ai suoi tempi. 108 Liv. 44.9.8–9.
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plendi, varia spectaculorum conquirere genera; nam semel quadrigis, semel desultore misso vix unius horae tempus utrumque curriculum conplebat. Inter cetera sexageni ferme iuvenes, interdum plures apparatioribus ludis, armati inducebantur. Horum inductio ex parte simulacrum decurrentis exercitus erat, ex parte elegantioris [exercitus] quam militaris artis propiorque gladiatorium armorum usum. Cum alios decursu edidissent motus, quadrato agmine facto, scutis super capita densatis, stantibus primis, secundis summissioribus, tertiis magis et quartis, postremis etiam genu nixis, fastigatam, sicut tecta aedificiorum sunt, testudinem faciebant. Hinc quinquaginta ferme pedum spatio distantes duo armati procurrebant comminatique inter se, ab ima in summam testudinem per densata scuta cum evasissent, nunc velut propugnantes per oras extremae testudinis, nunc in media inter se concurrentes, haud secus quam stabili solo persultabant109.
La possibilità di riprodurre, in tempo di pace, nel circo, esercizi e pratiche marziali (quadrighe, corse, testuggini, combattimenti), rappresentava un valido allenamento e addestramento per la gioventù romana in vista del suo impiego e impegno militare, e al tempo stesso un richiamo per tutti, protagonisti e spettatori, a compiti, obblighi e doveri civici. Tutto ciò sarebbe stato vanificato dagli spettacoli con animali esotici: questi, testimoniando il grado di prosperità, abbondanza e dominio conseguiti da Roma, avrebbero infiacchito e rammollito non solo la gioventù, e altresì indotto l’intera cittadinanza ad adulare i loro organizzatori. Nella riflessione polibiana, benessere e prosperità avrebbero insomma prodotto conseguenze irrimediabili sulla cittadinanza romana, generando lusso, magnificenza e sperpero, ambizione di cariche e brama di potere, adulazione e indolenza110. Pur non essendo precisati gli ambiti in cui quella degenerazione avesse preso forma, è possibile ricondurli anche ai ludi, tanto più che lo storico scriveva quando oramai questi erano divenuti ancora più sontuosi con il reimpiego delle Africanae in forza del plebiscito Aufidio.
109 Liv. 44.9.3–7. 110 Plb. 6.18.5–6: ὅταν γε μὴν πάλιν ἀπολυθέντες τῶν ἐκτὸς φόβων ἐνδιατρίβωσι ταῖς εὐτυχίαις καὶ περιουσίαις ταῖς ἐκ τῶν κατορθωμάτων, ἀπολαύοντες τῆς εὐδαιμονίας, καὶ ὑποκολακευόμενοι καὶ ῥᾳθυμοῦντες τρέπωνται πρὸς ὕβριν καὶ πρὸς ὑπερηφανίαν, ὃ δὴ φιλεῖ γίνεσθαι, τότε καὶ μάλιστα συνιδεῖν ἔστι αὐτὸ παρ’αὐτοῦ ποριζόμενον τὸ πολίτευμα τὴν βοήθειαν. 6.57.5–7: ἔστι δ᾽ ὡς ἐγᾦμαι, δῆλον. ὅταν γὰρ πολλοὺς καὶ μεγάλους κινδύνους διωσαμένη πολιτεία μετὰ ταῦτα εἰς ὑπεροχὴν καὶ δυναστείαν ἀδήριτον ἀφίκηται, φανερὸν ὡς εἰσοικιζομένης εἰς αὐτὴν ἐπὶ πολὺ τῆς εὐδαιμονίας συμβαίνει τοὺς μὲν βίους γίνεσθαι πολυτελεστέρους, τοὺς δ᾽ἄνδρας φιλονεικοτέρους τοῦ δέοντος περί τε τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἄλλας ἐπιβολάς. ὧν προβαινόντων ἐπὶ πλέον ἄρξει μὲν τῆς ἐπὶ τὸ χεῖρον μεταβολῆς ἡ φιλαρχία καὶ τὸ τῆς ἀδοξίας ὄνειδος, πρὸς δὲ τούτοις ἡ περὶ τοὺς βίους ἀλαζονεία καὶ πολυτέλεια.
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VI. Il plebiscito Aufidio Per circa un decennio, il divieto di importare e utilizzare le Africanae a Roma e nelle comunità presenti in Italia rimase in vigore, finché il tribuno Cn. Aufidio111 non propose al concilio di superare quel divieto, rendendo lecita l’importazione di leoni e pantherae. La datazione del plebiscito nel 170 a. C. è la più probabile, perché prospettata in considerazione del reimpiego di quegli animali nei giochi del 169 a. C. (Liv. 44.18.8) e supportata dalla constatazione che le disposizioni senatorie in materia di giochi convergono verso quell’anno112. Dalla sintesi pliniana, emerge quanto l’azione del tribuno si fosse rivolta contro la delibera senatoria del 179 ca. (Contra hoc [scil. senatus consultum]), e dunque contro le assise che la avevano prodotta113. È possibile che la proposta fosse stata discussa dal tribuno in senato, sotto forma di relatio, e in quella sede respinta dai senatori, ovvero che fosse stata presentata direttamente al concilio, avendo intuito il magistrato l’opposizione dei patres: in ogni caso la proposta di legge sarebbe stata priva dell’auctoritas patrum. Questo non fu comunque un episodio isolato, e neppure senza precedenti, perché dagli inizi del secolo e fino ad allora già ben tre plebisciti erano stati votati in dissenso con il senato114. L’azione di Aufidio si poneva dunque nel solco già tracciato da alcuni tribuni di rivendicare scelte e intraprendere azioni in modo autonomo rispetto agli orientamenti e alle decisioni senatorie, pur nel rispetto delle prerogative di ciascuno; ciò fu possibile alla luce di un rapporto che nel corso del secondo secolo e fino ai Gracchi si dimostrò equilibrato tanto nell’intesa e nella condivisione quanto nelle differenze e divergenze. Mai come in questi casi, il tribuno si fece interprete delle istanze e dei bisogni dei cittadini, osteggiati dalla severa intransigenza senatoria. Cosa era intervenuto allora nel 170 a. C. nella politica romana da indurre il tribuno ad opporsi al senato e alla sua deliberazione, pur di reintrodurre la pratica di allestire spettacoli con le Africanae? Del tribunato di Aufidio le fonti ricordano non solo il provvedimento legislativo, ma anche il suo intervento, insieme al collega M’. Giuvenzio Talna, contro 111 Cf. Liv. 43.8.2. Sul personaggio vd. Klebs, s. v. Aufidius 1896, nrr. 4–5 e Broughton, The Magistrates I 1951, 420 e 423. Inoltre. Mathieu, Histoire d’un nom 1999, 117 s. Sulla possibile identificazione con il rogator del plebiscito si è espresso anche Briscoe, A Commentary Books 41–45 2012, ad loc., 415. 112 Così Scullard, Roman Politics 19732, 226; come pure Ville, La gladiature 1981, 54 s. Invece è stato datato nel 103 a. C. Rotondi, Leges publicae populi Romani 1912 [rist. 1990], 328 s. Non è censito in Elster, Die Gesetze 2003. 113 Plin. nat. 8.64. 114 Plebisciti Valerio Fundanio (195 a. C.), Terenzio (189 a. C.), Valerio (188 a. C.); ad un anno di distanza dal plebiscito Aufidio, si ebbe il Rutilio (169 a. C.) e poco più di un trentennio dopo quello Cassio (137 a. C.). A riguardo si rinvia a Gallo, Interactions 2022.
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l’ex pretore (della flotta) C. Lucrezio Gallo115, senza però offrire alcun elemento in grado di fissare la sequenza cronologica tra i due eventi. Nel 170 a. C., di fronte alla accusa dei Calcidesi per gli abusi e i soprusi perpetrati a loro danno tanto da Lucrezio nel 171 a. C., quanto dal pretore della flotta in carica, L. Ortensio, i patres disapprovarono quelle azioni116 e nel caso di Lucrezio lo convocarono in senato, dove contro di lui ancora una volta si scagliarono anche i due tribuni117. Questi formalizzarono le loro accuse in due distinti procedimenti dinnanzi al concilio: in forza di un loro plebiscito, fu istituita una quaestio extra ordinem de repetundis che condannò il reo118; parimenti un’accusa affine alla perduellio trovò forma in un processo multaticio, quello cioè che prevedeva il pagamento di una somma di denaro per evitare la condanna dell’imputato119. La condotta di Lucrezio (come pure di Ortensio) non rappresentò un evento unico, perché in quel lasso temporale non poche erano state le ambascerie e legazioni straniere giunte a Roma per denunciare le condotte che di anno in anno i magistrati romani assumevano nei loro riguardi: già nel 171 a. C. il senato aveva registrato le rimostranze degli abitanti di Coronea120; l’anno seguente oltre a quelle dei Calcidesi, vi erano stati i reclami degli Abderiti121 e dei Tisbei122, degli ambasciatori del re gallo Cincibilio, dei Carni, degli Istri e degli Iapidi123. Risulta abbastanza chiaro quanto in questi casi i tribuni avessero agito di concerto e a sostegno dell’azione del senato, a conferma che, in questo periodo, il loro rapporto con il senato non fosse precostituito e preordinato, piuttosto si costruisse intorno a ciascuna singola questione e da parte di ciascun tribuno: generalmente dominarono condivisione e comunanza di intenti, ma non mancarono divergenze e contrasti sul da farsi. Il tribunato di Cn. Aufidio esemplifica al meglio questa fluttuazione, perché, come detto, la proposta di legge sull’importazione delle Africanae contrastò la politica senatoria a riguardo. Le motivazioni sottese all’iniziativa tribunizia potrebbero essere scaturite dalle malversazioni compiute dai magistrati in provincia. Fino alla condanna di Lucrezio, questi si giovavano di quanto fraudolentemente estorto nell’esercizio delle loro funzioni – mentre lo si accusava in senato, lo stesso Lucrezio si occupava dei 115 Le accuse riguardarono il sacrilegio dei templi e la loro depredazione, il saccheggio dei beni privati, la riduzione in schiavitù di uomini liberi: Liv. 43.7.5–11. 116 Liv. 43.4.5–13. 117 Liv. 43.8.1–3. Tribuni che già prima lo avevano accusato nei loro discorsi, Liv. 43.4.5–7. 118 Liv. 43.8.10. 119 Liv. 43.8.9. Il concilio convocato con funzione giudiziaria gli infisse una multa di un milione di assi pari a 250.000 sesterzi. Cf. Santalucia, Diritto e processo 19982, 83 ss. e 196. 120 Liv. 43.4.11. 121 Liv. 43.4.8–13. 122 IG VII 2225 = Syll.3 II 246 = FIRA I2 31. 123 Liv. 43.5.1–10.
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suoi fondi di Anzio e dell’approvvigionamento idrico della colonia finanziato con le somme del bottino,124 – quando invece il popolo si faceva carico della guerra contro Perseo, fino ad allora con scarsi risultati. Perché dunque i cittadini non avrebbero potuto godere collettivamente di qualche piccolo beneficio, come ad esempio assistere a giochi più godibili, grazie alla reintroduzione degli spettacoli con i panterini? Non si sarebbe alla fine trattato di introdurre nessun novus mos, piuttosto di recuperare una consuetudine peraltro non troppo lontana nel tempo (essendo intercorso all’incirca un decennio dal senatoconsulto contro le Africanae). Nonostante l’assenza dell’auctoritas patrum avesse potuto indurre in misura maggiore più di un dissuasor a osteggiare il progetto di legge, Aufidio presentò comunque la sua rogatio, forse fortificato dalla condanna inflitta nel frattempo a Lucrezio da parte di tutte le tribù, che avevano accolto l’impianto accusatorio suo e del collega, ammesso però che il processo si fosse svolto prima dell’iter legis: in questo caso le accuse addotte dapprima in contio, poi in senato e infine durante i processi125 avrebbero concorso a costruire una più che solida argomentazione contro eventuali contestazioni e critiche alla proposta di legge. Quand’anche però l’azione contro l’ex propretore fosse stata posteriore all’iniziativa legislativa, la stessa materia trattata, la riammissione delle Africanae nell’arena, non avrebbe avuto difficoltà a catalizzare intorno a sé il sostegno popolare, come del resto effettivamente avvenne. Il plebiscito Aufidio avviò dunque una nuova fase normativa e ideologica, perché, malgrado si fosse perduta nel tempo memoria della data e del contenuto specifico del provvedimento, gli effetti da esso prodotti furono immediati. Anzi essi si accrebbero sempre più nel tempo, in assenza di vincoli e limitazioni nell’impiego delle belve africane, tanto da provocare il dilagare del lusso anche nel circo. In queste condizioni, gli spettacoli nel circo offrirono grandi possibilità in termini di consenso politico ed elettorale, e perciò di affermazione politica garantita fin dalla edilità, grazie alla competenza sulla cura ludorum demandata agli edili126
124 Liv. 43.4.6. 125 Liv. 43.4.6; 8.2–3 e 9. 126 Cic. off. 2.57; cf. Plut. Sull. 5. La mancata elezione di Silla alla pretura urbana tra il 96 e il 95 è attribuita alla volontà del popolo di eleggerlo dapprima all’edilità per poter godere degli spettacoli con le belve libiche grazie alla sua amicizia con Bocco che avrebbe facilitato il reperimento di tali animali. Tuttavia, l’importanza assunta dai giochi nella costruzione delle carriere politiche era un’occasione da sfruttare anche per chi non avesse rivestito l’edilità, ma avesse ottenuto la pretura urbana, ufficio al quale competevano i ludi Apollinares. In questa occasione il magistrato avrebbe approntato giochi altrettanto splendidi, come è documentato nel 65 a. C., con i giochi scenici del pretore urbano L. Licinio Murena allestiti con grande gusto e raffinatezza, in vista della candidatura al consolato: Cic. Mur. 37–41.
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e all’apporto delle contribuzioni personali da parte degli stessi magistrati, le quali nel tempo si affiancarono ai consueti finanziamenti pubblici127. La magnificenza dei giochi avrebbe insomma catturato il gradimento dei cittadini, che se ne sarebbero ricordati a tempo debito, al momento delle elezioni, ragione per cui sarebbe stato opportuno non lesinare sul loro allestimento128. Tale prospettiva apparve chiara all’indomani del plebiscito, perché ad un anno dalla sua approvazione, nel 169 a. C., gli edili P. Cornelio Scipione Nasica e P. Cornelio Lentulo inserirono nei loro giochi l’esibizione anche di sessantatré Africanae, tra leoni e pantherae, oltre che di quaranta tra orsi ed elefanti, facendo registrare un elevato livello di magnificenza129, effetto diretto dell’applicazione della legge. Che quelle esibizioni avessero assunto la forma di cacce130 ovvero di parate131, in ogni caso l’esposizione delle Africanae avvenne in forza del plebiscito Aufidio e contribuì all’ascesa simultanea dei due Cornelii, che raggiunsero entrambi la pretura nel 165132 e il consolato nel 162 a. C.133. Da questo momento, un crescendo di sontuosità, lusso e magnificenza caratterizzò i giochi grazie alla costosa pratica di riempire il circo di panterini134 e di altri animali esotici135, non solo a Roma136 ma anche nelle comunità municipali in Italia137. Del resto la maggiore disponibilità di belve africane avrebbe consentito, nel
127 Daguet-Gagey, Splendor aedilitatum 2015, 299–302. 128 Cic. off. 2.58. 129 Liv. 44.18.8, vd. supra. 130 Weissenborn/Müller, Titi Livi Bücher XLIII–XLIV 18803, ad loc. 44.18.8, 99 in apparato. Inoltre, ThLL VII.2, s. v. ludo, p. 1773 linn. 61–66. 131 Secondo l’ipotesi formulata da Briscoe, A Commentary Books 41–45 2012, ad loc., 522. 132 Cf. Broughton, The Magistrates I 1951, 438. 133 Uno come ordinario, l’altro come suffetto, cf. Broughton, The Magistrates I 1951, 441 s. 134 Cic. Sest. 135. Varr. rust. 3.13.3. Relativamente ai giochi di Pompeo nel 55 a. C. (Cic. fam. 7.1.3. Dio 39.38.1–2. Plin. nat. 8.53 e 65), di Cesare nel 46 a. C. (Dio 43.22.3 Plin. nat. 8.53. Suet. Caes. 39.4.), di Augusto nell’11 a. C. e del 2 a. C. (rispettivamente Dio 54.26.1; Plin. nat. 8.64. Dio 55.10.7–8), di Caligola (Suet. Calig. 18.3) e di Claudio (Plin. nat. 8.64. Suet. Claud. 21.3). Inoltre, Sen. Lucil. 7.4; Plin. nat. 34.127. 135 Plin. nat. 8.18–22, 96. 136 Una rassegna a riguardo è in Lo Giudice, L’impiego 2008, 361–395. 137 Nel II secolo d. C., nel municipio di Alifae, L. Fadio Piero in occasione della sua cooptazione nel senato locale aveva in due diverse circostanze organizzato venationes bestiarum Africarum e venationes plenae, oltre a spettacoli gladiatori e scenici: CIL IX 2350 = ILS 5059 = EDR136030; CIL IX 2351 = EDR136442. Su questo personaggio vd. Camodeca, Lucius Fadius 2009, 6. Nell’iscrizione pompeiana di Cn. Alleius Nigidius Maius successiva al 59 d. C., si menziona l’allestimento di venationes comprendenti tutta una varietà di bestie: Bodel et alii, Notes on the elogium 2019, 171 s.
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tempo, in età imperiale, di introdurre un genere nuovo di condanna, la damnatio ad bestias, capace essa stessa di costituire uno spettacolo a sé138. La punizione all’esposizione alle belve era comunque una pratica più antica, non riconducibile però nell’alveo della damnatio, bensì in applicazione dell’imperium militiae: ciò infatti era avvenuto con la condanna capitale inflitta ai disertori stranieri in un caso, nel 169 a. C., fatti calpestare dagli elefanti da L. Emilio Paolo139, e nell’altro, nel 146 a. C., gettati in pasto alle belve da Scipione Emiliano140. Ad ogni modo, la reintroduzione delle belve africane negli spettacoli nel circo si impose nella riflessione degli antichi, che ne misero fin da subito in evidenza gli effetti negativi. Già alla fine del II secolo a. C.141, infatti, un anonimo annalista attribuiva alla reintroduzione delle Africanae, la scomparsa delle esibizioni atletiche utili militarmente, insinuando quanto quelle novità nell’area avessero minato l’addestramento romano e intaccato talune prestazioni militari: non troppo velatamente infatti sosteneva che senza la pratica della testuggine esibita nei giochi la città nemica non sarebbe stata conquistata. Allo stesso tempo, quella annotazione conteneva il biasimo verso gli spettatori, già rapiti, affascinati e coinvolti dai giochi con le bestie. Anche grazie al plebiscito Aufidio, gli allestimenti nel circo raggiunsero quindi livelli di sfarzo e magnificenza, inimmaginabili per analoghi spettacoli organizzati prima del 170 a. C.; tuttavia gli autori antichi avrebbero fissato e datato la magnificenza dei giochi solo a partire dalla fine del secolo, momento nel quale il lusso aveva permeato e caratterizzato la società romana senza più alcuna interruzione, e anzi in un continuo crescendo142.
138 In proposito vd. Mommsen, Römisches Strafrecht 1899, 925–928; Epplett, Spectacular 2014, 520–532. Non bisogna dimenticare che per questa forma di supplizio fossero adoperati anche gli orsi. 139 Plb. 30.25.1; Liv. 45.32.8–11 e 33.5. 140 Val. Max. 2.7.3; Liv. perioch. 51. 141 Periodo nel quale si registra una diffusa presenza di animali esotici negli spettacoli organizzati dagli edili, come i leoni nel 102 a. C. (Plin. nat. 8.53) e gli elefanti nel 99 a. C. (nat. 8.19). 142 Non è un caso che alla fine del II secolo a. C. fossero stati promossi nuovi interventi normativi contro il lusso: nel 115 la lex Aemilia (Gell. 2.24.12; Plin. nat. 8.223; vir. ill. 72) e l’editto censorio (Plin. nat. 8.223; Cass. Chr. 639H). In epoca sillana poi si era avuta la riabilitazione del lusso, non inteso più come disvalore, come ha messo in evidenza Zecchini, Ideologia suntuaria 2016, [En ligne]. La ricostruzione antica aveva però fissato agli inizi del I secolo a. C. il dominio del lusso in ambito pubblico e privato, come si evince anche dalla riflessione contenuta in Plin. nat. 36.7–8; cf. 33.145 e 36.115.
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Appendice 1: Sequenza palingenetica degli atti autoritativi in materia di giochi Cronologia
Provvedimento
Materia
Fonti
200
Editto pontificale
Attribuzione al senato di fissare la somma da destinare ai ludi Maximi, in caso di adempimento di voto pronunciato dal magistrato
Liv. 31.9.5–10
187
Senatoconsulto
Richiesta di parere al collegio pontificale sull’importo fissato da M. Fulvio Nobiliore per l’allestimento dei ludi Maximi come voto per la presa di Ambracia
Liv. 39.5.9
187
Editto pontificale
Responso pontificale sulla irrilevanza degli aspetti religiosi circa la somma indicata da Nobiliore
Liv. 39.5.9–10
187
Senatoconsulto
Limite di spessa fissato a 80.000 sesterzi per i giochi di Nobiliore
Liv. 39.5.10
182
Senatoconsulto
Introduzione del divieto per i magistrati di chiedere contribuzioni a comunità italiche, latine e provinciali al fine di allestire i giochi
Liv. 40.44.11–12
179
Senatoconsulto
Conferma del tetto di spesa di 80.000 sesterzi anche per i ludi Maximi di M. Fulvio Flacco promessi in voto durante la spedizione contro i Celtiberi
Liv. 40.52.1–3
ca. 179
Senatoconsulto
Divieto di importare Africanae a Roma e in Italia da utilizzare nei giochi
Plin. nat. 8.64
179
Senatoconsulto
Limite di spesa di 20.000 assi per i giochi di M. Emilio Lepido a margine della consacrazione dei templi di Giunone Regina e di Diana
Liv. 40.52.1–3
Plebiscito
Autorizzazione a importare le Africanae a Roma e in Italia da impiegare nei giochi
Plin. nat. 8.64
170 ca.
Appendice 2: Le aedilitates magnificentissimae Nel secondo libro del De officis, Cicerone offriva un elenco di aedilitates magnificentissimae contraddistintesi per la ricchezza del munus143, e comprese cronologicamente tra l’edilità di P. Licinio Crasso Dives prima del 97 a. C. a quella di M.
143 Inoltre, Cic. Verr. 2.1.14; Sest. 135; fam. 11.16.3; 11.17.1. Don. de com. 8.2. vir. ill. 66.1; 72.4.
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Emilio Scauro del 58 a. C., alle quali fu aggiunta la magnificenza raggiunta durante i giochi del 55 a. C. allestiti da Pompeo144. Nella prospettiva ciceroniana, quella straordinaria magnificenza non avrebbe potuto prendere forma se non nell’ambito della cura ludorum (funzione che più di altre145 connotava quell’ufficio magistratuale146), quando, più che in altre occasioni, piacere e godimento sarebbero stati offerti alla cittadinanza147. È incerto dire se Cicerone avesse avuto intenzione di costruire un canone, mentre annotava le edilità di P. Licinio Crasso Dives (prima del 97 a. C.)148, L. Licinio Crasso e Q. Mucio Scevola (tra il 105 e il 100 a. C.)149, C. Claudio Pulcro (99 a. C), dei due Luculli, L. Licinio Lucullo e M. Terenzio Varrone Lucullo Liciniano (79 a. C.), di Q. Ortensio Ortalo (75 a. C.), D. Iunio Silano (forse nel 70 a. C.)150, P. Cornelio Lentulo Spinthere (63 a. C.) e M. Emilio Scauro (58 a. C.), e il secondo consolato di Pompeo (55 a. C.), quando fu inaugurato il primo teatro stabile a Roma anche predisponendo spettacoli con le belve151. Nel fare ciò comunque l’Arpinate avrebbe desunto e selezionato informazioni già riferite in sue precedenti opere152. È probabile che tale elenco abbia funto da modello per autori successivi, comunque da integrare o espungere, e soprattutto da approfondire in ordine alla tipologia delle novità viste di volta in volta durante i giochi. Ciò si riscontra nel secondo libro dei Factorum et dictorum memorabilium libri IX, nel capitolo de institutis antiquis. Qui Valerio Massimo aveva espresso la magni144 Cic. off. 2.57: Quamquam intellego in nostra civitate inveterasse iam bonis temporibus, ut splendor aedilitatum ab optimis viris postuletur. Itaque et P. Crassus cum cognomine dives tum copiis functus est aedilicio maximo munere, et Paulo post L. Crassus cum omnium hominum moderatissimo Q. Mucio magnificentissima aedilitate functus est; deinde C. Claudius App. f., multi post, Luculli, Hortensius, Silanus, omnes autem P. Lentulus me consule vicit superiores; hunc est Scaurus imitatus; magnificentissima vero nostri Pompei munera secundo consulatu, in quibus omnibus quid mihi placeat, vides. La natura politica dell’ultimo scritto ciceroniano è stata portata alla luce da Gabba, Per un’interpretazione 1990, 37–64 [= 2007, 95–127]. 145 Cic. Phil. 9.17. 146 Cic. Verr. 2.1.14; 5.36. har. resp. 23; 27. Sest. 118; 135. de orat. 1.57; 3.92. Planc. 13. ad. Q. fr. 3.6.6. Att. 9.12.3. 147 Cf. Cic. Mur. 38 (Quare, si populo ludorum magnificentia voluptati est …) e 77 (Quare nec plebei Romanae eripiendi fructus isti sunt ludorum, gladiatorum, conviviorum, quae omnia maiores nostri comparaverunt …). 148 Anno in cui rivestì il consolato nel 97 a. C. Broughton, The Magistrates I, 271 nt. 4, attribuisce a lui ovvero al console del 131 a. C. l’innovazione di premiare i vincitori dei ludi con ghirlande con foglie d’oro o d’argento (Plin. nat. 21.6). 149 Cf. Broughton, The Magistrates I 1951, 575. 150 Broughton, The Magistrates II 1952, 127. 151 Cf. Ascon. Pis. 1; 14. Dio 39.38.1–2. 152 L. Licinio Crasso: Verr. 2.4.133. C. Claudio Pulcro: Verr. 2.4.6 e 133; har. resp. 26. I due Luculli: Acad. 2.1. Q. Ortensio Ortalo: Brut. 318. P. Cornelio Lentulo Spinthere: p. red. ad Quir. 15. M. Emilio Scauro: Att. 4.16.6.
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ficenza dei giochi in rapporto alle innovazioni introdotte per beneficiare gli spettatori, quanto per affascinarli153. In tale rassegna si scorgono gli edili ‘ciceroniani’, C. Claudio Pulcro, i Luculli, P. Lentulo Spinthere e M. Emilio Scauro, ricordati unicamente per aver ciascuno abbellito in vario modo la scena durante i loro giochi. Allo stesso tempo si coglie l’inserimento di altri magistrati, che al pari dei primi avevano operato allo stesso modo, vale a dire C. Antonio Hybrida154, un Petreio (altrimenti sconosciuto) e Q. Lutazio Catulo. Per tale ragione, alcuni tra questi personaggi si ritrovano in altre fonti e in particolare in Plinio il vecchio155. Se comunque Cicerone e Valerio Massimo propongono il loro catalogo in modo unitario, quello di Plinio è disseminato nei diversi libri della Naturalis historia, a seconda del contesto da valorizzare con notizie relative alla magnificenza di taluni giochi. Le citazioni si concentrano essenzialmente nel libro ottavo, relativamente all’impiego di animali esotici, ma si ritrovano pure nel nono, nel trentaquattresimo, trentacinquesimo e trentaseiesimo. Tra gli edili annotati da Cicerone, Plinio cita Q. Mucio Scevola per aver organizzato, durante la sua edilità, il primo combattimento tra leoni156 (mentre per Cicerone, Quinto Mucio avrebbe improntato la sua magistratura a maggiore moderazione rispetto al collega157); rievoca poi l’edilità di Pulcro e dei Luculli per l’allestimento dei primi combattimenti tra elefanti e tra elefanti e tori158. Rimprovera poi l’edile Spinthere per l’uso della porpora nel confezionamento della toga prete-
153 Val. Max. 2.4.6–7: Religionem ludorum crescentibus opibus secuta lautitia est. Eius instinctu Q. Catulus Campanam imitatus luxuriam primum spectantium consessum velorum umbraculis texit. Cn. Pompeius ante omnes aquae per semitas decursu aestivum minuit fervorem. Claudius Pulcher scaenam varietate colorum adumbravit vacuis ante pictura tabulis extentam. Quam totam argento C. Antonius, auro Petreius, ebore Q. Catulus praetexuit. Versatilem fecerunt Luculli, argentatis choragiis P. Lentulus Spinther adornavit. Translatum antea Poenicis indutum tunicis M. Scaurus exquisite genere vestis cultum induxit. Nam gladiatorium munus primum Romae datum est in foro boario App. Claudio Q. Fulvio consulibus. Dederunt Marcus et Decimus filii Bruti Perae funebri memoria patris cineres honorando. Athletarum certamen a M. Scauri tractum est munificentia. Cf. Nepotian. 2.4.6–7. 154 L’uso di placche d’argento da parte di Antonio Hybrida durante la sua pretura nel 66 a. C. è attestato in Cic. Mur. 40. 155 Con riferimento alle innovazioni di Claudio Pulcro e Lutazio Catulo rispettivamente Plin. nat. 35.23 e 19.23. Invece in nat. 19.23 si ricorda l’introduzione delle vele di carbaso da parte di Spinthere durante la sua pretura nel 60 a. C. Amm. 14.6.25 ripropone l’informazione relativa a Lutazio Catulo. 156 Plin. nat. 8.53. 157 Cic. off. 2.57. Sull’edilità di Mucio pure Cic. Verr. 2.4.133. 158 Plin. nat. 8.19. Oltre a Plinio che offre la descrizione più minuta, tale episodio era stato ripreso anche da altri autori – Cic. Pis. 65, Sest. 116, fam. 7.1.1; Sen. brev. 13.6–7; Dio 39.38 – ognuno dei quali lo aveva letto sotto differenti chiavi di lettura, come evidenziato da Citroni Marchetti, La scienza della natura 2011, 228–263.
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sta159, laddove Valerio Massimo ne aveva ricordato l’arricchimento della scena con apparati d’argento. Più di ogni altra, è però l’edilità di Emilio Scauro ad essere maggiormente descritta, soprattutto per le molteplici novità viste durante i suoi giochi. Con riguardo alle esibizioni con gli animali, nell’area si erano viste centocinquanta pantherae160, un ippopotamo e cinque coccodrilli in un fossato appositamente costruito161. Scauro non si era comunque limitato solo a questo di per sé già munifico, ma aveva fatto realizzare un teatro provvisorio di straordinario sfarzo. Esso presentava infatti una scena di tre piani e trecentosessanta colonne162, abbellita con tremila statue163, forse anche con i quadri del pittore Pausia164, e adornata con stoffe attaliche e arredi scenici165. Pareti di marmo decoravano poi il piano inferiore della scena166, mentre il piano intermedio era di vetro e quello superiore di legno dorato, mentre la cavea disponeva di ottantamila posti167. L’attenzione nei confronti dei giochi organizzati da Scauro era congeniale alla posizione assunta da Plinio contro il lusso e le sue manifestazioni168, a dimostrazione di quanto gli eccessi in ambito pubblico fossero interconnessi alle condotte private: nel caso di specie, il naturalista si chiedeva quanto la magistratura avesse contributo a rendere bramoso l’edile169, insieme comunque ai corrotti modelli familiari dei genitori, M. Emilio Scauro (cos. 115) e Cecilia Metella, e del patrigno, L. Cornelio Silla170.
159 Plin. nat. 9.137. 160 Plin. nat. 8.64. Parte delle quali si era procurato in Cilicia per intervento di Cicerone, come già visto supra al § I. 161 Plin. nat. 9.11. 162 Plin. nat. 36.114–115; 36.4–8 (CCCLX columnas M. Scauri aedilitate ad scaenam theatri temporari et vix mense uno …). 163 Plin. nat. 34.36; 164 Acquistati dallo stesso Scauro durante la vendita all’asta organizzata dalla collettività di Sicione: Plin. nat. 35.127; 36.115. 165 Plin. nat. 36.115. 166 Plin. nat. 36.50; 115. 167 Plin. nat. 36.115. Pure nat. 36.189. 168 Vd. Citroni Marchetti, Plinio il Vecchio 1991, 200–242. 169 Plin. nat. 36.6 e 113. La megalomania di Scauro si era concretizzata pubblicamente soprattutto nella realizzazione del suo teatro provvisorio (opera tra le più splendide a detta del naturalista), i cui ornamenti (del valore di trenta milioni di sesterzi), una volta smontata la struttura, avevano abbellito la sua villa a Tusculum, per servire al lusso quotidiano, finché non erano stati distrutti dall’incendio appiccato dagli schiavi di Scauro in rivolta contro il loro stesso dominus (nat. 36.6 e 115). 170 Plin. nat. 36.116. Madre e patrigno sono accusati per essersi arricchiti grazie alle proscrizioni (pure nat. 37.11), mentre il padre per le ruberie compiute a danno dei provinciali. Di quest’ultimo è condannato anche lo sperpero di denaro per l’acquisto di uno schiavo (nono-
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Autori più tardi attinsero da Plinio le informazioni sulla venatio tra elefanti e tori nel 99 a. C., e sulla esposizione di ippopotami e coccodrilli nel 58 a. C171. Ma è più che probabile che costui le avesse tratte dallo storico d’età tiberiana Fenestella esplicitamente menzionato con riferimento alla venatio del 99 a. C. Infatti, nella Naturalis historia, l’apporto di questo autore non si limita a tale episodio, ma appare più esteso, pur prescindendo dalla diecina di citazioni quasi sempre riconducibili a manifestazioni di lusso negli ambiti più disparati172: dagli animali all’abbigliamento (stoffe e calzature), ai monili (perle e anelli) e agli oggetti preziosi (piatti e triclini)173. Un tale ricorso è comprensibile di fronte alla condanna espressa da Fenestella nei riguardi della luxuria per la sua ostentazione in ambito privato174. Tale ideologia era più antica, perché già espressa da Cicerone175, ma era stata ripresa nel primo principato, perché ritenutsa congeniale al nuovo contesto valoriale: cosa che del resto emerge anche in Valerio Massimo176. Tuttavia, in Plinio biasimo e riprovazione avevano investito non solo le manifestazioni private del lusso, ma anche quelle pubbliche, in linea con gli indirizzi d’età vespasianea volti a una maggiore e generale sobrietà di tutti costumi177. Se si tiene conto di tali considerazioni, si possono allora attribuire allo storico tiberiano, le notizie pliniane sulle edilità munifiche, e sulle altre manifestazioni di lusso non necessariamente circoscritte ai soli giochi e spettacoli178. Ci si deve tuttavia chiedere se e in che termini Fenestella avesse redatto un proprio catalogo sulla magnificenza di talune edilità.
stante fosse un grammatico), per una somma smodata (nat. 7.128). In questo contesto nessun accenno è invece alla sua legislazione suntuaria, pure ricordata altrove (nat. 8.223). 171 Rispettivamente in Gran. Licin. 36.6 e in Amm. 22.15.23. 172 Ad eccezione di nat. 15.1 sulla diffusione dell’ulivo. 173 Plin. nat. 8.19, 195; 9.65, 123; 15.1; 33.21, 146; 35.162. 174 Così già Drummond, Fenestella 2013, 580 e 585–588, nel commento ai frg. 9, 15, 24–28. 175 Cic. Mur. 76–77. 176 Val Max. 9.1.1–9, dove non si stigmatizza la ricchezza perseguita a beneficio del popolo (ad esempio relativamente agli abbellimenti della scena già ricordati), bensì quella privata. Per una rassegna delle manifestazioni del lusso in ambito domestico per questa epoca, vd. Dubois-Pelerin, Le luxe privé 2008. 177 Plin. nat. 36.5 e 8: Aut qua magis via inrepunt vitia quam publica? Quo enim alio modo in privatos usus venere ebora, aurum, gemmae? Aut quid omnino diis reliquimus? 8. Nimirum ista omisere moribus victis, frustaque interdicta, quae vetuerant, cernentes nullas potius quam inritas esse leges maluerunt. Haec atque quae secuntur meliores esse nos probabunt. Quis enim hodie tantarum columnarum atrium habet? 178 Diversamente Drummond, Fenestella 2013, 493, ritiene che non sia possibile attribuire a Fenestella altre parti del racconto pliniano.
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Se i frammenti sul lusso179 fossero stati escerpiti dai suoi Annales180, la struttura annalistica dell’opera avrebbe scoraggiato la presenza di un elenco unitario, a vantaggio dell’inserimento di quelle informazioni a margine degli eventi descritti181 (alla luce di una logica di cui troviamo eco anche in Plinio); al contrario, se quei frammenti fossero stati originariamente inclusi in una monografia sul lusso, come pure ipotizzato182, allora la redazione di un elenco sarebbe risultata senz’altro più congeniale. Ma questo resta, allo stato, un quesito ancora irrisolto.
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179 Derivati da scritti antiquari, in particolare dal De vita populi Romani di Varrone, secondo Drummond, Fenestella 2013, 493. 180 Come ipotizzato da Drummond, Fenestella 2013, nr. 70, fgr. 9, 15, 24–28. 181 Così Cornell, The Fragments 2013, 491 s. 182 Reitzenstein, Ein verkanntes Werk Fenestellas 1900, 409–424.
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Fr ancesca Pulitanò
Tacito, ann. 4.62 Sulle tracce di un senatoconsulto del 27 d. C.
I. Un enigma storico non ancora sufficientemente esplorato «At the intersection of classics and physics, or the humanities and the sciences, it is possible to pose logical questions and garner grounded solutions that either side has not been able to previously address». Sono le parole conclusive di una dissertazione di bachelor degree in Physics, che richiamano il concetto fin troppo ovvio della necessaria interazione tra le discipline al fine della progressione della scienza1. Osservazione valida in generale, che acquista un valore sorprendente nella sua applicazione alla vicenda del 27 d. C., quel crollo dell’anfiteatro di Fidene che più di una fonte antica ricorda, ma che solo Tacito racconta con una certa ricchezza di dettagli. L’episodio è sconcertante nella drammatica concatenazione dei fatti e nell’alternarsi di tinte opposte, dalla gioia alla disperazione: il liberto Atilio fa erigere a Fidene, poco lontano da Roma, un anfiteatro per la celebrazione di uno spettacolo di gladiatori. L’iniziativa richiama una moltitudine di persone, che si mettono in marcia anche da Roma, pregustando il divertimento. Forse il peso della folla accorsa, forse l’inadeguatezza del suolo, forse un difetto strutturale, forse la combinazione di alcuni o tutti questi fattori determina il crollo delle gradinate, causando una strage senza precedenti2. 1 Napolitano, Failure at Fidenae 2015, 7 e 88. 2 Nelle fonti antiche, è documentato anche un altro episodio analogo, cioè il cedimento di un settore del Circo Massimo sotto Antonino Pio, con un bilancio di 1112 vittime. Cf. Hist. Aug. Anton. Pius 9.1: adversa eius temporibus haec provenerunt: fames, de qua diximus, Circi ruina, terrae motus, quo Rhodiorum et Asiae oppida conciderunt, quae omnia mirifice instauravit, et Romae incendium, quod trecentas quadraginta insulas vel domos absumpsit. Vd. anche Chron. Min. I 146. In tema si veda, tra gli altri, l’incidentale richiamo compiuto da De Bernardi, Atti di
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Conviene dare subito la parola ai testi di riferimento, dai quali sarà possibile enucleare alcune questioni funzionali, nello specifico, a esaminare il contenuto del provvedimento che il senato venne chiamato ad emanare. Svetonio ricorda il crollo in due punti delle sue Vite dei Cesari: Suet. Tib. 40: Statimque revocante assidua obtestatione populo propter cladem, qua apud Fidenas supra viginti hominum milia gladiatorio munere amphitheatri ruina perierant, transiit in continentem potestatemque omnibus adeundi sui fecit. Suet. Cal. 31: queri palam de condicione temporum suorum solebat, quod nullis calamitatibus publicis insignirentur; Augusti principatum clade Variana, Tiberi ruina spectaculorum apud Fidenas memorabilem factum, suo oblivionem imminere prosperitate rerum; atque identidem exercituum caedes, famem, pestilentiam, incendia, hiatum aliquem terrae optabat.
Il primo passaggio è tratto dalla vita di Tiberio, principe regnante al momento del fatto. Svetonio racconta che Tiberio, in volontario ritiro in Campania, era stato richiamato a Roma dalle proteste popolari conseguenti al disastro. Lo storico cita l’evento solo cursoriamente, indicandolo come ragione per la quale Tiberio si era deciso ad un breve rientro a Roma, subito seguito da una nuova partenza (Suet. Tib. 41). In questa sede le notizie si limitano al numero delle vittime, senza che sia in alcun modo affrontato il tema della dinamica dell’incidente, né quello delle eventuali responsabilità. Il secondo testo ci rende edotti della grande eco che probabilmente ebbe la catastrofe di Fidene, presentata come una pubblica calamità idonea a dare lustro al principe. Nel pensiero di Caligola, quella di Tiberio era stata quasi una fortuna, analoga alla buona sorte di Augusto rispetto alla disfatta di Varo, perché il verificarsi di eventi di così grande risonanza, ancorché tragici, non può che restare impresso nella memoria dei posteri e degli storici. Assai più dettagliata è invece la cronaca di Tacito, che ci ha lasciato un racconto denso di particolari e di pathos. Siamo, come detto, nell’anno 27 d. C., dato che si desume facilmente dalla menzione dei due consoli, Marco Licinio e Lucio Calpurnio. Tacito dice che il disastro verificatosi a Fidene è tale da essere equiparato alle rovine di una guerra. A questa premessa segue il racconto del cedimento: Tac. ann. 4.62: nam coepto apud Fidenam amphitheatro Atilius quidam libertini generis, quo spectaculum gladiatorum celebraret, neque fundamenta per solidum subdidit neque firmis nexibus ligneam compagem superstruxit, ut qui non abundantia pecuniae nec municipali ambitione sed in sordidam mercedem id negotium quaesivisset. Adfluxere avidi talium, imperitante Tiviolenza 2011, 2 nt. 13. Sulla natura giuridica degli anfiteatri, cf. Pasquino, Gli edifici 2016, 81 ss. In generale, sulle manifestazioni sportive nel mondo greco e romano, Franciosi, Qui agitandi munus 2009, 107 ss.; Ead., Athletae 2012.
Tacito, ann. 4.62
berio procul voluptatibus habiti, virile ac muliebre secus, omnis aetas, ob propinquitatem loci effusius; unde gravior pestis fuit, conferta mole, dein convulsa, dum ruit intus aut in exteriora effunditur immensamque vim mortalium, spectaculo intentos aut qui circum adstabant, praeceps trahit atque operit.
Le righe che precedono possono essere lette su diversi piani. Quello, ad esempio, della posizione politica tacitiana, notoriamente tendenziosa, che addossa implicitamente la colpa della strage a Tiberio e alla sua generale avversione per gli spettacoli: se i divertimenti fossero stati organizzati più spesso a Roma, lascia intendere lo storico, tutte quelle persone non si sarebbero riversate contemporaneamente a Fidene. Non manca il giudizio moraleggiante sul liberto Atilio, autore dell’iniziativa, il quale, si dice, era mosso dalla smania di sordido guadagno. Infine, aspetto per lo più trascurato ma estremamente rilevante, Tacito fornisce anche indicazioni tecniche di una certa precisione. La narrazione di Tacito, come si è detto, è la più generosa di notizie. Solo incidentalmente si vuole ricordare come Woodman avesse individuato nel racconto un andamento circolare: secondo questa visione, la descrizione del soggiorno campano di Tiberio, relativo all’anno 26 d. C., risulta inframmezzata, nel libro IV, proprio dal richiamo all’episodio di Fidene del 27, per riprendere poi più avanti3. Lo studioso ha ritenuto l’esposizione tacitiana viziata da una cesura temporale ingiustificata, perché la questione di Fidene risulta incastonata, forse ad arte, all’interno del periodo di permanenza a Capri. A temperamento di questa opinione, va detto che in realtà anche Svetonio usa una sequenza simile degli eventi, precisando che il soggiorno fuori Roma di Tiberio si protrasse per ben sei anni e che il rientro dovuto alla tragedia rappresentò soltanto una parentesi di breve durata. Da questo punto di vista, nulla autorizzerebbe a pensare che Tacito avesse manipolato la scansione storica, dato che, sostanzialmente, essa coincide con quella data da Svetonio. Ci si può semmai domandare se questo genere di considerazioni abbia, oltre che un interesse letterario, una ricaduta sul piano storico-giuridico: in altri termini, il dubbio è che un’eventuale scarsa attendibilità del racconto dei fatti possa riverberarsi anche sulla credibilità delle conseguenze degli stessi, così come riferite nel testo. A questo proposito, possiamo partire dal presupposto che il contenuto del provvedimento senatorio oggetto della presente indagine, anche a prescindere da altre riflessioni più ampie sul racconto complessivamente considerato, appare riportato da Tacito con accettabile accuratezza. Ciò comporta la necessità di accennare, seppure brevemente, alla questione della correlazione tra il resoconto degli eventi da parte di Tacito e le fonti da lui utilizzate per riferirli.
3 Woodman, Remarks 1972, 150 ss. Si veda, più in dettaglio, Pulitanò, Luoghi 2018, 83.
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Si è talvolta parlato, in dottrina, di analytical creativity, espressione che indica una certa libertà interpretativa del nostro autore nell’esporre i fatti storici4. A questo giudizio fa da contrappeso la certezza che in più occasioni Tacito sia venuto a conoscenza degli acta senatus, anche se sussiste qualche dubbio sulle modalità di tale conoscenza. Se, infatti, è possibile reperire prove di un accesso diretto ai documenti da parte dello storico per quanto concerne l’epoca di Nerone, la situazione è diversa rispetto all’età di Tiberio, le cui testimonianze potrebbero anche essere state desunte, da parte di Tacito, da autori a lui precedenti5. Non possiamo, insomma, affermare con certezza che l’epoca di Tiberio sia narrata dallo storico con oggettività, perché non siamo sicuri che egli abbia avuto contatto diretto con le fonti. Della questione si sono occupati, in passato, illustri studiosi, tra cui Syme6 e Momigliano7. Il primo propendeva per un esame personale dei documenti da parte di Tacito, mentre il secondo era decisamente orientato a pensare che lo storico facesse largo uso di ‘invenzioni’. Più avanti nel tempo, Barnes ha preferito prendere posizione a favore di una diretta consultazione degli atti senatorii da parte di Tacito. L’opinione di quest’ultimo autore assume una rilevanza particolare in questa sede, in quanto egli individua proprio nel racconto dei fatti di Fidene un indizio significativo a favore del proprio assunto. Premesso, infatti, che Tacito tende ad arricchire la narrazione con dettagli che sono frutto della propria fantasia, in questo caso specifico egli avrebbe attinto alla fonte di Svetonio, integrandola con notizie che gli derivavano proprio dalla consultazione degli acta senatus. Tale conclusione sembra potersi accogliere: la dovizia di particolari, anche tecnici, sulle caratteristiche dell’anfiteatro e sulla dinamica del crollo lascia pensare, infatti, che la catastrofe avesse dato l’impulso ad un’attività istruttoria, e che proprio dai risultati di questa Tacito avesse assunto le informazioni riportate nella prima parte del racconto. Proprio sui dettagli tecnici appena richiamati si intende innanzi tutto soffermarsi, nella convinzione che una migliore comprensione delle ragioni che determinarono il crollo possa essere di ulteriore ausilio alla ricostruzione del contenuto del senatoconsulto emanato successivamente al disastro: senatoconsulto al quale, peraltro, non pare sia mai stato dedicato uno studio specifico. 4 Cf. Barnes, Tacitus 1998, 135: egli parla di Tacito come «a creative writer», il quale, partendo da un nucleo di oggettività, era solito imporre alla narrazione dei fatti la propria personale struttura, oltre che la propria interpretazione. 5 Barnes, Tacitus 1998, 136. 6 Per una recente ricognizione della principale bibliografia sul punto, cf., per tutti, Buongiorno, Senatus consulta Claudianis temporibus facta 2010, 21 ss.; importante, ovviamente, Syme, Tacito 1967, I, 547 ss.: l’autore mette in luce come il giudizio di Tiberio su Tacito fosse assai negativo. Crook, Consilium principis 1955, 131, parla di Tacito come la fonte più ostile a Tiberio. 7 Momigliano, Terzo contributo 1966, 739 ss.
Tacito, ann. 4.62
II. La complessa questione delle fondamenta Rileva, innanzi tutto, il luogo nel quale si consuma la tragedia: l’anfiteatro costruito a Fidene, allo scopo specifico di celebrare un grandioso spettacolo. Di esso conosciamo quello che ci dicono le fonti sopra citate: era una struttura costruita al risparmio, ma comunque abbastanza grande da contenere diverse decine di migliaia di persone. Quante, esattamente, è ancora oggetto di dibattito, perché su questo punto la testimonianza di Svetonio e quella di Tacito divergono. Il primo riferisce 20.000 vittime, il secondo parla più in generale di 50.000 persone. Ora, a ben guardare, le due versioni non sono incompatibili, perché mentre Svetonio usa specificamente il verbo perire, Tacito riporta che quinquaginta hominum milia eo casu debilitata aut obtrita sunt, dunque quello di 50.000 sarebbe un numero comprensivo sia delle vittime che dei feriti e si riferirebbe non solo alle persone che erano rimaste travolte all’interno dell’anfiteatro, ma anche a quelle che erano assiepate all’esterno, dove si trovavano verosimilmente attività economiche collaterali, analogamente a quanto accade al giorno d’oggi intorno agli stadi. Quanto alla solidità della struttura, Tacito individua due difetti: il primo riguarda le fondamenta, che non erano state gettate, dice letteralmente il testo, per solidum. Può essere interessante collegare questa formulazione con due passi provenienti dal trattato di Vitruvio de architectura8, ossia 1.3 (Firmitatis erit habita ratio, cum fuerit fundamentorum ad solidum depressio, quaque e materia, copiarum sine avaritia diligens electio) e 1.5 (Tunc turrium murorumque fundamenta sic sunt facienda, uti fodiantur, si queat inveniri, ad solidum et in solido, quantum ex amplitudine operis pro ratione videatur). Si può osservare come Vitruvio usi per due volte l’espressione ad solidum e una volta, in abbinamento a questa, in solido. In ambedue i casi l’architetto del I sec. a. C. intende chiarire come le fondamenta debbano essere scavate in sufficiente profondità, fino ad arrivare alla parte più solida del terreno (ad solidum) e debbano essere su questa (in solido) adagiate per un’ampiezza sufficiente in proporzione alle misure della costruzione. Ora, occorre notare come Tacito, invece, per rappresentare un concetto analogo, abbia preferito la preposizione per: neque fundamenta per solidum subdidit. Se non si vuole attribuire questa scelta alla casualità, occorre pensare che questo modo di esprimersi abbia un preciso significato, cioè quello di porre l’accento non sul come l’anfiteatro era stato costruito, ma sul quanto in profondità fossero state scavate le fondamenta. Lo scopo di queste precisazioni da parte di chi scrive non è quello di indulgere ad un virtuosismo tecnico, ma, al contrario, quello di porre i presupposti per un confronto tra i fatti accaduti e i provvedimenti emanati dal senato.
8 Cf. ancora Napolitano, Failure at Fidenae 2015, 12 ss. Vd. anche Procchi, Profili 2020, 183.
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Dunque, cominciamo con il chiarire che, nell’epoca storica di riferimento, era già avvenuto il passaggio dalla costruzione di anfiteatri provvisori a quella di anfiteatri stabili, anche se la situazione, da questo punto di vista, rimase fluida ancora per un certo tempo9. Da uno studio di Gregori, riferito ai luoghi degli spettacoli nelle zone dell’Umbria, apprendiamo che vi era una certa varietà di soluzioni per la celebrazione di giochi gladiatorii: essi potevano svolgersi anche nel foro o in altri luoghi, che venivano appositamente recintati o nei quali venivano costruite tribune di legno10. Per quanto riguarda la vera e propria costruzione di edifici per spettacoli, Gregori afferma quanto segue: «Secondo una tendenza di carattere generale sembra che anche in Umbria la costruzione degli edifici di spettacolo sia da inquadrare prevalentemente nell’ambito del I sec. d. C.»11. Siamo, dunque, nel nostro periodo di riferimento. Nello specifico, i ritrovamenti lasciano pensare che nell’età augustea (e anche qualche decennio dopo), gli anfiteatri fossero costruiti con blocchetti quadrangolari, posti a rivestire un nucleo in cementizio12. A questo periodo rimontano, dunque, le strutture identificabili con un opus caementicium rivestito in blocchetti di calcare. Negli anfiteatri di Ocriculum, Interamma e in alcuni settori di quello di Asisium si registra la presenza del reticolato. In alcune strutture è documentato anche l’uso del laterizio, soprattutto nelle parti soggette a restauri (ad esempio a Carsulae, Interamma, Suasa)13. 9 Secondo un racconto di Plinio (nat. 36.117), intorno alla metà del I sec. a. C. Gaio Scribonio Curione aveva costruito un doppio teatro, per celebrare i funerali del padre. Lo stesso aveva fatto Cesare, nel 46 a. C. (Dio 43.22.3), per celebrare il proprio trionfo, con una struttura che, pur essendo di legno e avendo perciò una vita comunque effimera, può essere considerata come la prima ad avere rivestito, a Roma, i caratteri propri di un anfiteatro pubblico. Così Pasquino, Gli edifici 2016, 103 ss. A Statilio Stauro si deve, invece, il merito di aver conferito a tali strutture il carattere della stabilità (Suet. Aug. 29). Il teatro da lui costruito nel 29 a. C. viene indicato, appunto, come il primo anfiteatro permanente: esso, ancora di materiale ligneo, fu però distrutto da un incendio. Ancora da Pasquino, Gli edifici 2016, 104 nt. 66, apprendiamo l’esistenza di iniziative di Caligola e di Nerone di costruire, prima di Vespasiano (che iniziò il Colosseo nel 72/74 d. C.), un anfiteatro nel Campo Marzio. Entrambe le versioni della struttura andarono distrutte, una per opera di Claudio, l’altra, lignea, consumata dalla furia degli incendi. Cf. Homo, Roma 1976, 254 s.; cf., tra gli altri, anche Veyne, Le pain et le cirque 1976; Savi, I gladiatori 1980; Dupont, La vita quotidiana 2006; Mann, I gladiatori 2014. 10 Gregori, Ludi e munera 2011, 58. 11 Gregori, Ludi e munera 2011, 59. 12 Gregori, Ludi e munera 2011, 71. 13 Per quanto riguarda, in particolare, Interamma Nahars, Gregori, Ludi e munera 2011, 81 ritiene che la presenza del reticolato policromo con alternanza di filari di pietra scura e di filari di calcare bianco non permetta di datare l’anfiteatro oltre la metà del I sec. d. C. Si vedano, in generale, Golvin, L’amphithéâtre romain 1988; Duncan Jones, Structure and Scale 1990, 174 ss.; Gros, Les théâtres en Italie 1994; Adam, L’arte 1984; Bianchini, Le tecniche 1926, 42.
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Ora, anche se sull’aspetto dell’anfiteatro di Fidene non abbiamo notizie dirette, possiamo tuttavia richiamare alcune ipotesi che sono state formulate, al di fuori dell’ambito degli studi storici, sulla forma di esso e sui materiali impiegati per la costruzione. Occorre da subito sgombrare il campo dalla possibilità che si trattasse di una struttura cosiddetta pleine, cioè scavata direttamente nella cava naturale, a favore dell’idea che, invece, essa fosse creuse, vale a dire eretta in modo da essere appoggiata sul suolo, indipendentemente dalla natura di esso14. Tacito parla espressamente di una struttura di legno, lignea compages, e si preoccupa di precisare che essa non era stata sufficientemente rafforzata da solide giunture. Dunque, il legno doveva essere il materiale di base. Nello specifico, doveva trattarsi di legno di abete, del quale la zona era particolarmente ricca. Lo storico ci ricorda, anche, che Atilio aveva agito avendo di mira un facile guadagno, il che può significare, da un altro punto di vista, che il liberto imprenditore avesse perseguito la via del risparmio. Concretamente, il risparmio potrebbe coincidere, in questo caso, con la scelta di utilizzare il legno di abete come unico materiale, pur essendo già diffusa, al tempo, la prassi di impiegare materie prime più solide15. La spiegazione di ciò potrebbe risiedere, peraltro, nella natura provvisoria della struttura. Ciò premesso, possiamo procedere con la descrizione di una ipotesi sulla configurazione del nostro anfiteatro, alla quale si può giungere attraverso il confronto con altre opere simili, appartenenti alla stessa epoca, delle quali ci sono pervenuti resti o testimonianze. Rilevano, in particolare, i rilievi scolpiti sulla Colonna Traiana e la conformazione dell’anfiteatro di Verona. Quanto alla prima, l’osservazione dei rilievi presenti su di essa ci dice che, probabilmente, la struttura di Fidene poteva essere stata concepita su tre file verticali, delle quali la prima sorretta da archi e la seconda da supporti triangolari. Secondo un calcolo che integra questi dati con le misure dell’anfiteatro di Verona, gli studiosi di modelli edilizi sono giunti a congetturare che l’altezza complessiva dello stadio di Fidene fosse di poco inferiore ai 36 metri e che le tribune fossero supportate da pali verticali, il cui numero avrebbe potuto essere forse 7516. Da Tacito apprendiamo, anche, che le giunture che legavano i pali alla struttura non erano sufficientemente forti (neque firmis nexibus … superstruxit), circostanza che, probabilmente, come si vedrà a breve, non rappresentò la causa principale, ma senz’altro una delle concause che determinarono il crollo. L’accento deve essere posto, a questo punto, sulla natura del terreno. Studi specifici hanno messo in luce che in quell’area vi era una percentuale di sabbia maggiore del 65 % e una componente argillosa del 18 % al massimo. Nel complesso, parliamo dunque di una base prevalentemente sabbiosa, al di sotto della 14 Napolitano, Failure at Fidene 2015, 11, sulla scorta di Golvin, L’amphithéâtre romain 1988, 157 ss. 15 Così Napolitano, Failure at Fidene 2015, 14. 16 Napolitano, Failure at Fidene 2015, 30 ss.
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quale, a una profondità di 80–120 cm, si trovava probabilmente uno strato roccioso, formato da pietra vulcanica di tufo17. In questo quadro, per tornare a quanto osservato poco sopra, bisogna ritenere che l’espressione per solidum sia riferita alla tecnica di inserimento dei pali nel terreno, o, meglio, alla necessità che essi fossero conficcati fino a penetrare nello strato roccioso. Solo così si sarebbe potuta garantire un’effettiva stabilità a tutta la costruzione. Probabilmente Atilio non aveva provveduto in questo modo. Alla mancanza di profondità dei sostegni si era poi aggiunto il carico eccessivo dovuto all’accalcarsi delle persone: il peso della folla, non retto dall’impalcatura, aveva fatto il resto. L’anfiteatro era così caduto, crollando in parte verso l’interno e in parte verso l’esterno, e aveva travolto, contemporaneamente, sia gli spettatori che erano già entrati, sia quelli che si trovavano ancora fuori. Una strage, la cui entità non è determinabile con certezza, ma che certamente aveva riguardato diverse decine di migliaia di persone18. Proprio sulla stima del numero degli spettatori conviene soffermarsi ancora per un momento. Anche su questo aspetto può soccorrere il confronto con altre strutture coeve. Sono di nuovo gli studi di Gregori a permettere qualche osservazione19. Sulla base dei resti di alcuni anfiteatri umbri, si può ricostruire quanto segue: pur essendo assai difficile calcolare con precisione la capienza di ciascuna struttura, perché essa dipende dalla precisa conoscenza della misura degli assi maggiori e minori, interni ed esterni, per Terni si potrebbe ipotizzare una capienza di10.000 persone e per Bevagna di 6000. Pare che l’anfiteatro di Arezzo, costruito forse in più fasi, la prima delle quali si colloca nel I d. C., contenesse 13.000 spettatori. Gregori si sofferma su questo dato anche in funzione di una congettura sul numero degli abitanti di questa come di altre città, ma deve concludere per una sostanziale inutilità di esso, considerato che «la capienza degli edifici di spettacolo era anche in funzione dell’afflusso di spettatori dal suburbio e perfino dalle città vicine20». Su questo si dovrà tornare a breve, data l’estrema rilevanza della circostanza anche nella nostra vicenda.
17 Napolitano, Failure at Fidene 2015, 56 ss. 18 Napolitano, Failure at Fidene 2015, 16, discute brevemente anche l’eventualità che l’ablativo assoluto coepto amphitheatro, con il quale esordisce il racconto, indichi il fatto che la costruzione dell’anfiteatro fosse stata stato intrapresa ma non finita, e che a dispetto di ciò esso fosse stato aperto al pubblico. Si trattava di una prassi non inusuale a Roma, ma che non sembra potersi ipotizzare per il nostro caso, dato che nel prosieguo della fonte si ricava da parecchi indizi che la struttura fosse stata completata. 19 Gregori, Ludi e munera 2011, 61 ss. 20 Gregori, Ludi e munera 2011, 84 nt. 10; cf., in generale, Scobie, Spectator Security 1998, 191 ss.
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Dunque, nell’Etruria del I sec. d. C. vengono costruiti edifici esterni alle città, sia per facilitare l’afflusso degli spettatori, sia per cercare di evitare disordini, sia perché occorrevano ampi spazi per la mole di questi edifici21. A queste indicazioni si debbono aggiungere anche quelle inerenti agli anfiteatri già menzionati. La ricostruzione tecnica di Napolitano giunge a calcolare una capienza di 30.266 persone per Verona; per avere un metro di confronto, si possono considerare le dimensioni del Colosseo, che conteneva, verosimilmente, circa 45.800 spettatori22. Quanto a Fidene, stimando, come detto, un’altezza di circa 36 metri e l’esistenza di tribune supportate da 75 pali, ci si può pronunciare per una capienza di 37.400, una cifra compatibile con i racconti di entrambi gli storici. Tornando alla dinamica del crollo, dal resoconto di Tacito si riesce a ricavare l’idea che il cedimento della struttura fosse dipeso da un movimento lussatorio dei sostegni, come lasciano intendere gli ablativi assoluti conferta mole, dein convulsa. Ciò significa, in sostanza, che il peso degli spettatori, pur essendo, forse, in linea astratta sostenibile rispetto alla portata delle tribune, aveva determinato una rotazione dei pali di sostegno, a propria volta dipesa dall’impianto troppo superficiale di essi. Le trincee di fondo, insomma, non erano abbastanza profonde per garantire la stabilità di tutta la costruzione sovrastante. Inevitabile, perciò l’accartocciamento di essa, con le tragiche conseguenze già più volte richiamate. Le premesse di natura tecnica così delineate non sono irrilevanti ai fini di un’analisi sulle conseguenze giuridiche della catastrofe, come subito si vedrà.
III. La struttura del senatoconsulto Tra gli autori antichi che si sono occupati del fatto, solo Tacito riporta, sebbene in modo particolarmente sintetico, i provvedimenti assunti dagli organi di governo romani. Non abbiamo a disposizione il testo originale del senatoconsulto, ma soltanto una sintesi del contenuto di esso, riferito da Tacito nell’ultima parte del racconto: Tac. ann. 4.62: … cautumque in posterum senatus consulto ne quis gladiatorium munus ederet cui minor quadringentorum milium res neve amphitheatrum imponeretur nisi solo firmitatis spectatae. Atilius in exilium actus est.
Che si tratti di un senatoconsulto non pare dubbio, dato che ad esso ci si riferisce con terminologia non equivoca: cautumque in posterum senatusconsulto. Sulla scorta degli studi di Volterra, sappiamo che la struttura dei senatoconsulti si presentava 21 Gregori, Ludi e munera 2011, 87. 22 Napolitano, Failure at Fidenae 2015, 31 ss.
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generalmente come tripartita, cioè composta da «formula introduttiva, thema e (annuncio della) decisione»23. Anche se in un caso, come questo, di trasmissione indiretta, non è ovviamente possibile ricostruire con precisione tutte le parti del provvedimento, le modalità espositive usate da Tacito permettono comunque di formulare più di un rilievo. Innanzi tutto, le due proposizioni introdotte da ne … neve risultano in linea con la prassi, documentata per il I sec. d. C. e per lo stesso Tacito, di riproduzione della parte dispositiva, il cosiddetto decretum, da parte di fonti non tecniche24. Nello specifico, si individuano due diversi decreta: il primo, ne quis gladiatorium munus ederet cui minor quadringentorum milium res; il secondo, neve amphitheatrum imponeretur nisi solo firmitatis spectatae. Segue l’affermazione Atilius in exilium actus est. Nel resoconto di Tacito, quest’ultima breve proposizione si presenta come una frase autonoma, separata dalle due precedenti introdotte da ne … neve da un punto fermo, che distingue questa sanzione dalle altre due. Si delinea una sorta di doppio binario: da un lato, le regole preposte alla sicurezza, verosimilmente elaborate dal senato sulla base della ricognizione del fatto e delle conseguenze nefaste di esso; in secondo luogo, la sanzione inflitta ad Atilio, che Tacito non collega direttamente con le due disposizioni appena menzionate, ma che, anzi, isola in una frase separata, interrompendo la fluidità del discorso e lasciando nel lettore l’impressione di una frattura anche sostanziale tra le diverse, ipotetiche parti del senatoconsulto. Sembrerebbe, allora che l’esilio fosse stato irrogato al di fuori della cornice del provvedimento. Ma su questo si tornerà. Riprendendo il discorso sulla struttura dei senatoconsulti, si ricorda che, di regola, la redazione del decreto era preceduta dall’indicazione della fattispecie sottoposta al vaglio del senato, alla quale si attribuisce il nome di relatio. Già a partire dall’età repubblicana tale relatio tende ad ampliarsi, recependo al proprio interno istanze di soggetti terzi (ad esempio, legazioni straniere), oppure, anche, una rielaborazione del discorso del magistrato convocante; per l’età imperiale Talbert ha evidenziato la prassi di comprendere nella relatio anche una «explanation», cioè una vera e propria ricognizione delle possibili soluzioni, compiuta dallo stesso magistrato convocante o, su sua autorizzazione, da un senatore, da un ambasciatore, da un sacerdote o addirittura da un privato25. Che la relatio fosse avvenuta anche 23 Per una disamina recente della struttura dei senatoconsulti, con valorizzazione della tradizionale tripartizione proposta da Volterra, cf. ora Buongiorno, Senatus consulta 2016, 20 ss., con richiamo anche alla diversa posizione mommseniana, che, con l’adesione di molta dottrina successiva, individuava una diversa partizione: la praescriptio, la sententia (composta a sua volta di relatio e decretum), il discessionis eventus (indicato da censuere) e, a partire dall’età augustea, il senatorum numerus. 24 Buongiorno, Senatus consulta 2016, 22. Per le citazioni con le enclitiche disgiuntive in Tacito, cf. 28 e 31. 25 Talbert, The Senate 1984, 234 ss.; Buongiorno, Senatus consulta 2016, 35.
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in occasione dell’episodio di Fidene si potrebbe arguire dalla ricchezza della descrizione di Tacito, ma la congettura regge soltanto ipotizzando, come si discuterà più avanti, che lo storico in questo punto stia citando di prima mano gli atti senatori. Sempre a partire dall’età del principato, comincia ad essere documentata anche l’esistenza della motivazione nei senatoconsulti, che precede il decretum e si presenta sotto forma di proposizione causale26. Nel nostro caso, mancando a monte la precisa conoscenza dei verba del provvedimento, è ancora più difficile pensare di poter distinguere questa componente. L’unico elemento rilevante è la frase che introduce la menzione del senatoconsulto: quinquaginta hominum milia eo casu debilitata vel obtrita sunt. L’enorme numero di vittime e di feriti induce il senato a intervenire: se, poi, questa stessa circostanza possa essere addotta, oltre che come occasione, anche come motivazione del senatoconsulto, è questione che rimane aperta.
IV. Le singole disposizioni Compiute queste premesse di carattere generale, è il momento di soffermarsi sul contenuto della pronuncia, comprendendo in essa, per ora, anche la previsione dell’esilio per il liberto imprenditore.
a) La prima disposizione: il censo minimo per organizzare spettacoli Come noto, dal punto di vista dell’impulso organizzativo, gli spettacoli potevano essere divisi in tre diverse categorie: Mommsen le indicava come lex, liberalitas, quaestus. L’iniziativa di Atilio rientrava senza dubbio nella terza categoria, quella dei giochi organizzati per guadagnare (quaestus), diversi da quelli istituzionali (lex), ad esempio organizzati dai candidati alle magistrature, e da quelli offerti per spirito di evergetismo (liberalitas)27. Dalla ricostruzione di Tacito è possibile capirlo chiaramente: egli infatti afferma che Atilio aveva intrapreso la costruzione dell’anfiteatro non abundantia pecuniae, cioè non perché aveva denaro da regalare (per pura liberalità, insomma), né municipali ambitione, vale a dire perché ricopriva una carica municipale o aspirava a conquistarla, ma per ottenere un profitto. Era, quest’ultima, un’eventualità ammessa e frequente, come appare, ad esempio, da CIL VIII 6995, iscrizione che fa riferimento ad una statua eretta con i proventi di uno spettacolo: statuam quam promisit ex reditibus locorum amphitheatri diei muneris […]. Come questa, esistono 26 Buongiorno, Senatus consulta 2016, 38. 27 Sui finanziamenti delle opere pubbliche nei municipi cf. Jouffroy, Le financiament 1990, 329 ss.
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parecchie altre testimonianze, nelle fonti, di giochi organizzati a scopo di lucro28. Nel caso di Fidene, però, lo scopo in astratto consentito viene indicato da Tacito come viziato da un elemento, diremmo, di immoralità (il profitto è ‘sordido’). Il senso di questo giudizio si comprende considerando alcune circostanze, così come si ricava da uno studio di Chamberland. Innanzi tutto, ci troviamo fuori da Roma, in un contesto municipale nel quale la regolamentazione dell’assegnazione dei posti nei luoghi di spettacolo seguiva alcune regole. Sappiamo, in particolare, che al di fuori dell’Urbe l’accesso al campo di gioco poteva essere subordinato al pagamento di quello che noi oggi definiremmo titolo d’ingresso. Accadeva, di norma, che all’interno dell’anfiteatro fossero riservati posti ad alcune categorie di persone, individuate in base allo status e all’appartenenza alla comunità che ospitava l’evento29. In altri termini, i soggetti di elevato stato sociale potevano godere di posti privilegiati e gratuiti. Ciò non valeva, invece, per coloro che appartenevano a gruppi sociali di grado inferiore e per coloro che giungevano da luoghi limitrofi. Di questo aspetto il racconto di Tacito non fa menzione, pur trattandosi di un dato importante al fine di ricostruire gli antefatti del disastro. Nel silenzio dello storico – che, anzi, potrebbe essere addotto come elemento di implicita conferma di quanto si sta per affermare – dovremmo ritenere che anche l’organizzazione di Atilio rientrasse nella normale prassi: è verosimile, cioè, che Atilio avesse previsto posti gratuiti per gli abitanti di Fidene e il pagamento di una tariffa per coloro che venivano da fuori. In questo contesto, il liberto aveva avuto un’intuizione vincente dal punto di vista dei proventi, cioè quella di allestire lo spettacolo fuori da Roma, ma non troppo lontano. In tal modo, complice anche il divieto di Tiberio di celebrare spettacoli in città, molti romani si erano messi in marcia per Fidene, luogo raggiungibile con una certa facilità: essendo tutti spettatori potenzialmente paganti, la prospettiva di guadagno era effettivamente molto elevata. Nel rispetto delle regole, Atilio aveva mostrato una spregiudicatezza imprenditoriale ai limiti dell’eticamente accettabile. Da questa considerazione era scaturita, forse, la decisione del senato di limitare la cerchia dei soggetti ai quali permettere l’organizzazione dei giochi, scopo perseguito stabilendo che l’iniziativa di allestire spettacoli dovesse essere da quel momento in poi limitata a chi fosse titolare di un censo di almeno 400.000 sesterzi,
28 Chamberland, A gladiatorial show 2007, 144. Lo stesso autore, 140 ss., si era in precedenza soffermato sui cosiddetti munera assiforana, anch’essi organizzati a scopo di lucro, di cui ci dà testimonianza CIL II 6278. 29 Chamberland, A gladiatorial show 2007, 143. Così risulta dalle disposizioni della lex Flavia municipalis e della lex Narbonensis.
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corrispondente a quello della classe dei cavalieri30. Come a voler dire che una persona già sufficientemente ricca non avrebbe cercato guadagni basati su facili speculazioni, oltre che propiziati da attività disonorevoli. In tal modo viene ridimensionato, di fatto, lo scopo del puro profitto. Si trattava però di un intervento indiretto, che non colpiva il cuore del problema: infatti, pur apparendo per certi versi idoneo a ridurre il rischio di comportamenti moralmente dubbi simili a quello di Atilio, esso non valeva certo ad escludere totalmente che tali comportamenti venissero riprodotti, da altri, in futuro.
b) La seconda prescrizione: il requisito della stabilità del suolo Chamberland fa leva sulle circostanze descritte nel paragrafo precedente, vale a dire la differenza di trattamento tra spettatori locali e, diremmo oggi, ‘tifosi ospiti’, per tacciare di immoralità il tornaconto di Atilio. Per Napolitano, il sordido guadagno di Atilio si potrebbe identificare, invece, proprio nella predisposizione ‘al risparmio’ delle fondamenta della struttura. A nessuno di questi due temi si riallaccia, a ben vedere, la seconda disposizione emanata dal senato. Essa fa riferimento, infatti, alla scelta del sito. Si dice che non dovranno essere costruite strutture per spettacoli se non su terreni firmitatis spectatae. Certamente questa prescrizione non impedisce di allestire uno spettacolo volto a guadagnare sull’afflusso di spettatori da fuori; ma, in realtà, essa non appare nemmeno perfettamente centrata sotto il profilo tecnico. Se, infatti, si vuole accogliere la lettura del racconto di Tacito compiuta da Napolitano, e conseguentemente ritenere che la falla costruttiva fosse da identificarsi con l’insufficiente profondità dei pali di sostegno, la solidità del terreno finisce per diventare solo uno dei fattori rilevanti, ma, evidentemente, non l’unico. Per quel che attiene all’esecuzione dell’opera, nulla è detto di una eventuale responsabilità dell’imprenditore sulla sorveglianza delle maestranze. È chiaro che non sia stato Atilio in persona a piantare i pali, ma è altrettanto chiaro che il senato non si spinse a valutazioni più puntuali dell’operato di costui. Volendosi esprimere la vicenda in termini moderni, si potrebbe affermare che la disposizione posta dai senatori si limitava a imporre una perizia tecnica preventiva sul luogo. Il senso di una simile soluzione potrebbe essere cercato nella natura stessa dello spettacolo allestito: il carattere provvisorio dell’anfiteatro avrebbe forse potuto giustificare l’uso di materiali di solidità appena sufficiente, ma a questo punto sarebbe stato 30 Gregori, Ludi e munera 2011, 28 ss. si occupa specificamente di Fidene, dicendo che il senato era intervenuto per vietare l’organizzazione di spettacoli a chi non avesse un censo di almeno 400.000 sesterzii. Dà per scontato che quello organizzato da Atilio fosse uno spettacolo «a pagamento» (28) e non fa menzione delle altre disposizioni del senatoconsulto. Sulla distribuzione dei posti a teatro vd. Cassarino, Sul divieto 2017, 577 ss.
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fondamentale garantire la posa di essi su un terreno adatto. Come dire che a parità di difetto di esecuzione dell’opera, un terreno più compatto avrebbe impedito il crollo. Come si è già avuto modo di sottolineare, dalla lettura puntuale delle espressioni tacitiane sembrerebbe doversi ricavare, per la verità, che non fosse stato il terreno in sé ad aver determinato l’indebolimento della struttura, ma il fatto che su quel terreno si fossero poste le fondamenta troppo in alto: circostanza a propria volta determinante, probabilmente, rispetto alla insufficiente profondità dell’inserzione dei pali. Peraltro, per completezza di analisi, si dovrebbe anche osservare che un terreno solido potrebbe non essere sufficiente ad impedire lo sgretolarsi di un edificio, qualora esso fosse tecnicamente impreciso. Il senato, insomma, in questa parte del provvedimento sembra considerare solo alcuni aspetti critici, senza analizzare l’insieme delle circostanze. O, perlomeno, questo lascia trasparire il racconto di Tacito.
c) Atilio viene esiliato L’ultima disposizione di cui il testo tacitiano dà conto è la sanzione nei confronti di Atilio. Qui lo storico è ancora più asciutto che in precedenza e non indica a quale fattispecie specifica faccia riferimento l’esilio. In questo punto egli non ci fornisce elementi sufficienti per ricostruire con certezza quali siano state le accuse mosse al liberto né in virtù di quale competenza il senato si fosse pronunciato nei confronti di Atilio. È noto che nell’epoca di cui ci occupiamo l’esilio non fosse più soltanto l’atto volontario con il quale era possibile sottrarsi alla pena di morte31, ma avesse assunto i connotati di una pena vera e propria. Ciò era avvenuto a partire dall’ultimo secolo della Repubblica32; con Silla, esso, accompagnato dalla aqua et igni interdictio, si era configurato come una pena ordinaria e perpetua, comportante la perdita della cittadinanza e dei beni33. Questo fenomeno si era accentuato con l’inizio del
31 Per tutti, Mommsen, Römisches Strafrecht 1899, 964 s. Per una ricognizione storica, cf. Crifò, Esilio 1966, 714 ss. 32 Crifò, Esilio 1966, 719. 33 Con l’aqua et igni interdictio, come noto, si bandiva definitivamente, per decisione del magistrato o dei comizi, un soggetto, che non avrebbe più potuto rientrare nel territorio romano, pena la morte. Mommsen precisava che questo provvedimento poteva essere rivolto solo a chi fosse uscito dalla comunità, e che esso non era comunque configurabile come una condanna penale, bensì come un atto amministrativo: Mommsen, Römisches Strafrecht 1899, 964, ripreso da Ferrini, Diritto penale 1905, 145. Cf. anche, fra gli altri, Giuffrè, La repressione criminale 1993, 84: «nell’esperienza di Roma, insomma, si avvertiva come ‘capitale’ anche l’allontanamento dalla comunità». Lo stesso autore ricorda (97) come, in rela-
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principato, già a partire da Augusto34. A Tiberio risale, nello specifico, l’istituzione della deportatio, che aveva sostituito l’aqua et igni interdictio come alternativa alla morte nelle accuse di maiestas, fattispecie criminale che, è risaputo, veniva largamente impiegata, sotto lo stesso Tiberio, per sanzionare i comportamenti più disparati, lesivi dell’autorità del principe35. Non siamo in grado di stabilire se anche in questo caso si fosse optato per una riconduzione del comportamento di Atilio all’area della maiestas: essa si sarebbe forse potuta configurare prendendo a pretesto la violazione del divieto, ribadito con forza da Tiberio, di celebrare giochi e spettacoli36. Nel silenzio sul punto di Svetonio, così come in quello di Tacito, l’unica osservazione che si può compiere con sicurezza viene ancora dalla riflessione di Mommsen, che sottolinea come, in generale, il termine esilio venisse largamente impiegato nelle fonti non giuridiche, per indicare genericamente e atecnicamente qualsiasi forma di allontanamento37. Nella nostra fattispecie, viziata dalla carenza di dettagli, l’unico dato che si ricava testualmente è l’assunzione della misura: per come Tacito riferisce l’episodio, c’è però da chiedersi se essa fosse stata davvero decisa dal senato, nell’esercizio delle proprie ampie competenze, o invece propiziata dallo stesso principe, con un atto d’autorità38. A tale proposito, si può prendere in considerazione un precedente interessante: nello studio sul senatoconsulto di Larino del 19 d. C., Ricci si sofferma a commentare l’espressione exilio adfecit, il cui soggetto sottinteso è Tiberio, e alla quale Svetonio ricorre per raccontare i meccanismi di predisposizione del testo da parte dell’assemblea39. La studiosa ipotizza che se, da un lato, tale indizio non si mostra sufficiente a fondare la congettura che il principe avesse partecipato completamente ai lavori di redazione del senatoconsulto, esso supporta certamente l’idea che Tiberio avesse espresso la propria volontà di scelta della pena per le feminae famosae40. Ricci ritiene che la previsione dell’esilio sia insomma da interpretarsi come un’iniziativa di Tiberio, recepita e messa in atto dal senato, nella quale zione alla maiestas, dall’8 a. C. l’esilio sarebbe diventato una vera e propria pena. Ancora sulla maiestas nella tarda repubblica, cf. Crook et alii, CAH IX, 19942, 518 ss. 34 Crifò, Esilio 1966, 720, parla di «istituto strettamente penalistico nel quale si confondono sovente pene diverse». 35 Mazzolari Storoni, Tiberio 1981, 10; vd. anche Michel, Tacito 1973, 142. 36 È ancora Svetonio a dare conto del ridimensionamento delle spese per i giochi e per gli spettacoli, oltre che della riduzione del numero di coppie di gladiatori (Tib. 34); in Tib. 37 egli narra di una terribile repressione ai danni della popolazione di Pollenzo, che aveva sequestrato un centurione reclamando a gran voce la celebrazione di giochi finanziata dall’eredità del padre di costui. 37 Mommsen, Römisches Strafrecht 1899, 966 e nt. 4. 38 Cf. supra, § III. 39 Suet. Tib. 35. 40 Ricci, Gladiatori 2006, 64.
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era comunque il principe ad aver giocato il ruolo principale. Una conclusione del genere si inserisce perfettamente nel quadro generale dei rapporti tra senato e principe nell’età tiberiana, come subito si espliciterà.
V. Tiberio e il senato Nell’epoca tiberiana si nota ancora un certo equilibrio tra il peso dell’attività normativa del principe e quella del senato. Per Buongiorno, è possibile individuare una linea di continuità tra Augusto e Tiberio, i quali, avendo ancora di mira il modello repubblicano, si ponevano come suasores piuttosto che come auctores dell’attività del senato. In questo senso si potrebbe affermare che l’autorità del principe e quella dell’assemblea fossero sullo stesso piano e che, addirittura, esse si rafforzassero a vicenda41. In effetti, in diversi punti delle rispettive narrazioni, Svetonio 41 Buongiorno, Senatus consulta Claudianis temporibus facta 2010, 7. Sul punto, cf. anche Spagnuolo Vigorita/Marotta, La legislazione imperiale 1992, 97 ss.; si veda, anche De Marini Avonzo, La funzione giurisdizionale 1957, part. 20 ss. per un tentativo di delimitazione della giurisdizione senatoria, che era molto ampia. Afferma la studiosa (25) che «Tiberio volle portare a termine il programma tracciato da Augusto, cercando di rendere definitivamente stabili le istituzioni che il suo predecessore aveva potuto in pratica facilmente imporre, ma che giuridicamente avevano un carattere personale e temporaneo; e tentò di dare al Senato, già rinnovato per il modo di composizione e per le funzioni affidategli, una reale indipendenza di fronte all’imperatore». De Martino, Storia della costituzione romana IV.I, 19742, 567 ss., ricorda innanzi tutto come l’attività legislativa del senato non sia mai stata autonoma e indipendente rispetto a quella del principe; per quanto riguarda l’attività giurisdizionale, l’autore menziona l’età di Tiberio come quella caratterizzata da un amplissimo uso dei processi per maiestas (569), ma non pensa che sotto Tiberio sia avvenuto il mutamento radicale dell’attribuzione al senato del potere giurisdizionale (570); il senato appare investito di una varietà di competenze, tra le quali si può richiamare quella di consigliare il magistrato nelle questioni di interesse pubblico, valorizzata soprattutto, secondo l’autore (573), da imperatori filosenatorii. Ciò, a detta dello stesso De Martino, «anche se il rapporto politico esistente tra senato ed organi del potere esecutivo ed in primo luogo tra senato ed imperatore era interamente capovolto rispetto ai principi repubblicani» (573). Cf. anche Santalucia, Diritto e processo penale 1998; Id., La giustizia penale nel principato 2009, 71, per la regolare competenza del senato, sotto Tiberio, per la maiestas e le repetundae. Cf. anche Nicoletti, Senato 1969, 1013 ss. (per l’età del Principato). Per la dialettica fra principe e senato in età tiberiana vd. Fanizza, Senato 1981, mentre per una ricognizione dei senatoconsulti emanati sotto Tiberio, tra il 14 e il 37 d. C., cf. per un primo elenco Volterra, Senatus consulta 1969, 1065 s. (senatoconsulti dal n.75 al n. 89; poi ripreso senza sostanziali modifiche in Talbert, The Senate 1984, con la registrazione però di AE 1978, 145). In particolare, è del 16 d. C. il senatoconsulto Libonianum (Volterra, nr. 75), con il quale si dichiarano nulle le disposizioni scritte a proprio favore nel testamento di un altro (cf. D. 48.10, De lege Cornelia de falsis et de sc. Liboniano); un altro senatoconsulto con il medesimo nome (nr. 77), sempre del 16 d. C., è ricordato in Coll. 8.7.1: esso considera la fattispecie di chi scriva dichiarazioni false in un
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e Tacito lasciano trasparire una dinamica di reciproco rispetto tra Tiberio e il senato, del quale il principe – pare doversi dedurre – riconosceva l’autorità42. Come documento diverso dal testamento; un senatoconsulto del 16–17 d. C. (nr. 76) conteneva l’espulsione dei mathematici dall’Italia; un altro provvedimento, in materia di confarreatio (nr. 78, non precisamente datato da Volterra; ma su questo provvedimento vd. ora Buongiorno, Appunti 2017, 308 ss.), avrebbe regolato lo status della donna che fosse diventata flaminica Dialis. Del 19 d. C. il senatoconsulto in materia di coercitio dei lenocinia (nr. 79), che, ad integrazione della lex Iulia de adulteriis, comminava le sanzioni relative all’adulterio alle donne che si fossero messe ad esercitare il lenocinio o il meretricio o il teatro. Nel 20 d. C., secondo quando tramandato da Coll. 8.7.2 e da D. 48.10.1.1, un senatus consultum cd. Messaliano (nr. 80) avrebbe sottoposto alle pene della lex Cornelia de falsis avvocati e testimoni che avessero accettato denaro per accusare un innocente o che avessero stretto accordi illeciti in questo senso. Un senatoconsulto che estende l’ambito di applicazione della lex Iulia repetundarum al proconsole (nr. 81) è ricordato da D. 1.16.4.2. Per il 21 d. C. Tacito (ann. 3.51) e Dione Cassio (57.20) citano un senatoconsulto (nr. 82) che fissa un intervallo di dieci giorni tra il momento in cui una condanna penale viene pronunciata dal Senato e quello in cui essa viene depositata presso l’aerarium. Nel 22 Tiberio dà vita ad una riforma del diritto di asilo contenuta in più provvedimenti (Volterra, nrr. 83–84). Nel nostro anno di riferimento, il 27 d. C. (ma la datazione è incerta, e c’è chi lo colloca, invece, nel 45 d. C.), un senatoconsulto Liciniano (nr. 85) si occupa ancora di falso, come indicato in Coll. 8.7.1 e in D. 48.10.9.3; il senatoconsulto Geminiano, del 29 d. C. (nr. 86), di cui si parla in Coll. 8.7.3, si occupa ancora dell’applicazione delle pene previste dalla lex Cornelia de falsis; diverse fonti richiamano un senatoconsulto del 33 d. C. (nr. 87), volto a prescrivere che i senatori impiegassero 2/3 dei loro capitali per l’acquisto di terreni sul suolo italico e a stabilire (Volterra, Senatus consulta, 1066), «la concessione di prestiti senza interesse che il debitore doveva garantire per il doppio con i terreni acquistati»; il sc. Persicianum (Pernicianum nella tradizione manoscritta), del 34 d. C. (nr. 88, estendeva le sanzioni della lex Iulia de maritandis ordinibus e della lex Papia anche agli uomini e alle donne che non ne avessero seguito le prescrizioni prima, rispettivamente, dei 60 e dei 50 anni. Volterra registra infine il senatoconsulto (nr. 89), propiziato dal tribuno Quintilianus che, secondo quanto riferito da Tacito in ann. 6.12, avrebbe contenuto delle statuizioni relative ad un libro sibillino. Si nota una decisa eterogeneità di contenuti in questi interventi senatori, tra i quali non viene menzionato il nostro provvedimento riguardante i fatti di Fidene. Sui senatoconsulti in generale, cf. anche O’ Brien Moore, Senatus consultum 1935, 800 ss., senza menzione del nostro provvedimento. 42 Alcune attestazioni del rapporto di Tiberio con il Senato si trovano in Svetonio. A titolo meramente esemplificativo, in Tib. 25 si narra che quando finalmente aveva deciso di accettare il potere, Tiberio aveva chiesto al senato di lasciargli i compiti che lo stesso senato ritenesse più opportuni. In Tib. 29 c’è un discorso diretto in cui egli afferma che un principe buono deve essere al servizio del senato e di tutti i cittadini; anche se poi, subito dopo, lo stesso Svetonio commenta l’atteggiamento di Tiberio, consistente nel lasciare al senato e ai magistrati il prestigio e il potere di una volta, come null’altro che un’illusione della libertà; più avanti, in Tib. 32, egli racconta che Tiberio biasimava alcuni ex magistrati per non aver scritto i propri rapporti al senato ed essersi rivolti direttamente a lui per le proprie ricompense. In ann. 4.6, Tacito sottolinea come nei primi tempi del principato di Tiberio gli affari pubblici e quelli più rilevanti tra i privati fossero trattati proprio in senato; ann. 4.37 riporta un discorso nel quale il principe dichiara che permetterà alla Spagna ulteriore di erigere un
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descritto anche da Ricci, gli interventi del princeps in senato assumevano diverse configurazioni, a seconda che si trattasse di vere e proprie applicazioni della facoltà di agere cum patribus o, invece, di semplici opinioni espresse in qualità di senatore43. Talvolta il principe appare protagonista della relatio, talvolta la sua partecipazione si presenta sotto forma di sententia, anche se, a ben vedere, in entrambi i casi il suo intervento potrebbe facilmente essere definito più tecnicamente, secondo la studiosa, come oratio. In generale, si possono distinguere due piani: quello formale, che si manifesta nell’ordinaria interazione tra principe e senato, in continuità con la prassi augustea e nell’osservanza di dinamiche ancora vicine a quelle repubblicane; sotto il profilo sostanziale, però, il rispetto dell’autorità senatoria da parte di Tiberio tradirebbe l’intento, non esplicito, di avvalersi del senato come veicolo privilegiato per imporre la propria volontà44. Ricci individua un’anomalia procedurale soltanto per il periodo del soggiorno di Tiberio a Capri. In questo lasso di tempo si può notare l’esistenza di una «direttrice anomala, fatta di fitti intrecci di comunicazioni scritte tra magistrati ed imperatori, dove spesso il senato non appare affatto45». La prassi diventa quella dell’invio di missive direttamente da parte dei consoli verso Tiberio, il quale a propria volta risponde in questa forma, in certi casi addirittura in calce alle comunicazioni ricevute, prendendo decisioni che prescindono dall’autorità dei patres. La natura complessa dei rapporti tra Tiberio e il senato nel periodo caprese fa da sfondo anche alla nostra vicenda, anche se nella fattispecie non sembrano evidenziate dagli storici coevi né frizioni né, per la verità, particolari forme di interazione tra i due organi. Svetonio presenta una versione dei fatti decisamente lineare, secondo la quale il grande clamore sollevato dalla strage avrebbe convinto il principe, che in quel periodo si manteneva lontano da Roma, a farvi rientro per fronteggiare l’emergenza. Il biografo non si sofferma, però, sui contenuti dell’intervento di Tiberio, limitandosi a sottolineare la circostanza che, finalmente, egli si era fatto vedere e avvicinare dal popolo, e a ricordare come, subito dopo, il principe avesse deciso di tornare a Capri. Se e come Tiberio, in questa occasione, si fosse coordinato con il senato, non è dato conoscere né dal racconto di Svetonio né da quello di Tacito. Non deve però essere sottovalutata la circostanza che quest’ultimo, come sopra accennato, sembra presentare il provvedimento senatorio come pronuncia autonoma. Dato, questo, che sarà ulteriormente commentato nel prossimo paragrafo.
tempio in proprio onore perché presso quella popolazione all’ossequio verso la sua persona si accompagna il rispetto verso il senato. 43 Cf. Tac. ann. 4.13 per l’espressione factaque auctore eo senatusconsulta. 44 Ricci, Gladiatori 2006, 61 s. 45 Ricci, Gladiatori 2006, 62.
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VI. Conclusioni: la narrazione di Tacito tra documentazione storica e scelte politiche È giunto il momento di tirare le fila del discorso. Ricapitolando i dati acquisiti, possiamo affermare che la disamina sulle circostanze del crollo di Fidene aveva portato il senato a intervenire su due fronti, ponendo il requisito di una consistente disponibilità economica dell’organizzatore e indicando le caratteristiche del luogo su cui edificare le strutture sportive. Lo studio di Napolitano induce a ritenere che la prima norma sarebbe servita a prevenire l’erezione di anfiteatri provvisori all’insegna del risparmio (evitando, ad esempio, l’uso di materiali inadatti). Quanto alla seconda, non sembra dubbio che perseguisse lo scopo di scongiurare, a monte, il pericolo di disastri dovuti all’inidoneità del terreno prescelto. Si riduce così lo spazio per dare credito alla ricostruzione di Chamberland, il quale, come si è visto, aveva interpretato la norma relativa al censo minimo richiesto come una reazione a quello che Tacito definisce il sordido guadagno di Atilio, cioè la collocazione dello spettacolo fuori da Roma, ma da essa non lontano, con conseguente incasso record dovuto all’afflusso di spettatori paganti. In effetti, se davvero il senato avesse inteso reprimere questo tipo di manovra economica, sarebbe forse intervenuto sulla regolamentazione dell’accesso agli spettacoli, sancendo norme volte a limitare la speculazione sul pagamento del titolo d’ingresso. Invece, nel decidere che solo persone dotate di una certa disponibilità di denaro potessero farsi promotrici di iniziative come quella di Fidene, sembra potersi leggere un intento del senato non tanto di impedire un futuro guadagno, quanto di precostituire le condizioni per una copertura dei costi adeguata alle esigenze di sicurezza. In questa prospettiva, la sicurezza appare essere il filo conduttore delle prime due disposizioni del senatoconsulto, che così abbinate appaiono complementari l’una all’altra46. La terza misura, quella dell’esilio per Atilio, analizzata in precedenza come parte integrante del contenuto del senatoconsulto, ma, come si è visto, riferita con uno stile completamente diverso rispetto a quello, più tipico della testimonianza 46 Si tratta di un’idea ricostruttiva presente in dottrina: Weber, Panem et circenses 1989, 13 ss., ad esempio, forse con visione eccessivamente modernizzante, ha affermato che lo scopo del senato sarebbe stato quello dell’emanazione di norme di sicurezza. A ben guardare, a questa definizione risponde però soltanto la prescrizione relativa all’idoneità del terreno: peraltro, nulla ci viene tramandato da Tacito riguardo all’individuazione di eventuali modalità di accertamento dei menzionati requisiti di solidità. Sempre su questa linea, Talbert, The Senate 1984, 468 pone l’accento sulla funzione di prevenzione di ulteriori incidenti, parlando di «regulations to prevent the recurrence of such a disaster». Anche per Barnes, Tacitus 1998, 139, le regole contenute nel senatoconsulto avrebbero avuto una funzione preventiva rispetto a disastri analoghi. Per un’ipotesi sull’intento del senatoconsulto di ridimensionare l’iniziativa privata, cf. Pulitanò, Luoghi 2018, 90 s. – Sulla speculazione edilizia e le circostanze che portarono ai successivi scc. Osidiano e Volusiano vd. Procchi, Profili 2020, 197.
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indiretta, delle altre due, potrebbe invece essere riletta in una chiave diversa. Nel peculiare fraseggio tacitiano si potrebbe infatti intravedere la consapevole rappresentazione sintattica di una dialettica tra senato e princeps. Ragionando per analogia rispetto a quanto sopra ricordato per il senatoconsulto di Larino47, si potrebbe ipotizzare che anche nel caso di Fidene fosse stato lo stesso Tiberio a intervenire per indurre il senato a pronunciare l’esilio per Atilio. Questo spiegherebbe la separazione ‘visiva’ nel racconto di Tacito. Da un altro angolo visuale, la cesura espositiva offusca anche l’idea che l’esilio fosse stato disposto in collegamento con le ragioni tecniche della strage; e allora si dovrebbe pensare ad una pena connessa con la violazione, da parte di Atilio, del divieto stesso di organizzare spettacoli, cui Tacito aveva sopra dedicato richiamo specifico. Andando più in profondità, la separazione si coglie anche sul piano politico. Il tenore di quelle che abbiamo definito come le prime due disposizioni del provvedimento è infatti lontano dal rispecchiare lo sfavore di Tiberio per gli spettacoli: anzi, le suddette norme, lungi dal vietare le manifestazioni, si preoccupano di inscriverle in una cornice di tutela della sicurezza degli spettatori. Poiché è improbabile pensare che il princeps ignorasse queste disposizioni, esse potrebbero essere viste, per certi versi, come una forma di tolleranza rispetto ad un’implicita presa di posizione del senato a favore dei giochi, purché non rischiosi per il pubblico; tolleranza solo apparente, però, se accogliamo l’idea che la previsione dell’esilio, posta in chiusura del senatoconsulto, incarni invece l’ingerenza della volontà inderogabile di Tiberio di vietare del tutto l’allestimento dei giochi, in opposizione sostanziale rispetto a quanto deciso del senato. In questa prospettiva, la pena dell’esilio voluta dal princeps finisce per assorbire e privare di reale efficacia le altre due disposizioni, ancorché esse fossero state, verosimilmente, il frutto principale della discussione in senato. Insomma, saremmo di fronte ad un esempio di rilevanza solo formale dell’assemblea, la cui volontà è comunque surclassata, nei fatti, da quella del principe. Difficile dire se davvero le cose andarono così, se, cioè, Tiberio prese parte alla riunione solo per ottenere con la forza il rispetto della propria contrarietà agli spettacoli, e con essa della propria persona: certamente Tacito mostra parecchio interesse per il fatto, una certa laconicità nel richiamarne le conseguenze giuridiche, e nessuna propensione a riferire le dinamiche della decisione in senato. Una traccia di quest’ultima sembrerebbe notarsi nel punto della narrazione in cui lo storico accenna alle carenze tecniche della costruzione: il richiamo è breve ma assai appropriato, forse perché riproduce, appunto, la relatio avvenuta in senato. Molto più appassionata, e per questo probabilmente di libera creazione tacitiana, è invece la descrizione del disastro in chiave politica. Il guadagno di Atilio, pur sordido, viene inserito nella cornice dei munera miranti al quaestus, di per sé perfettamente leciti; 47 Si veda supra, § IV. Com’è logico, tale ipotesi presenta ampi spazi congetturali e richiede perciò molta cautela.
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la responsabilità della strage è, invece, tutta di Tiberio e dei suoi divieti. Si potrebbe ipotizzare che anche questa sezione della cronaca sia una rivisitazione tendenziosa della relatio, ma si tratta di una mera congettura, a favore della quale milita soltanto la reiterazione, più avanti, del richiamo ai cinquantamila spettatori rimasti sotto le macerie come impulso alla convocazione del senato. Resta il fatto che il centro del racconto non è il senatoconsulto, che forse Tacito percepiva – per le ragioni appena esposte – come una vuota (e, aggiungiamo, incompleta) forma di esercizio assembleare, ma l’atteggiamento inaccettabile del princeps, per sottolineare il quale lo storico sfrutta l’efficacia del richiamo alla moltitudine di persone martoriate. La visione parziale di Tacito ha di fatto gettato un velo di persistente incertezza sui verba del provvedimento senatorio.
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I. Preámbulo El premio es un fenómeno presente en la experiencia jurídica romana en ámbitos sumamente dispares: derecho castrense, derecho de familia, derecho procesal o derecho penal, por citar algunas de las muestras que se conocen1. Su empleo como recurso habitual es el reflejo de una idea profundamente arraigada en el ordenamiento jurídico. Son múltiples los testimonios recogidos en las fuentes en los que el premio se presenta por contraposición a la pena2. Una emblemática referencia a la citada dicotomía aparece formulada por Ulpiano en los albores del Digesto, donde, en el contexto de la labor atribuida a la Jurisprudencia, presenta el prae-
* Este trabajo ha sido realizado como parte del proyecto de I+D+i «Ruinas, expolios e intervenciones en el patrimonio cultural» (ref. UPO-1264180), financiado por el Fondo Europeo de Desarrollo Regional (FEDER) y la Consejería de Economía, Conocimiento, Empresas y Universidad, de la Junta de Andalucía, en el marco del Programa Operativo FEDER Andalucía 2014–2020 (objetivo específico 1.2.3 «Fomento y generación de conocimiento frontera y de conocimiento orientado a los retos de la sociedad, desarrollo de tecnologías emergentes», porcentaje de financiación 80 %). 1 Piénsese en los dona militaria, que prevén premios para recompensar los triunfos obtenidos en las campañas bélicas; en el ámbito familiar cabe destacar los privilegios del ius liberorum o el praemium emancipationes; desde la perspectiva procesal podemos reseñar el praemium accusatori y, en sede penal, baste citar el caso del arrepentido que colabora con las autoridades a cambio de la impunidad. Son frecuentes también los incentivos y exoneraciones a favor de quienes realizan actividades o servicios de pública utilidad. No obstante, los ejemplos mencionados son solo eso, algunas muestras. Una interesante presentación de conjunto de esta cuestión en Luraschi, Il ‘praemium’ 1983, 239–283. 2 Vd. Cic. de inv. 1.14, Quint. inst. or. 7.4.
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mium por antítesis a la poena, exponiendo la idea de que los sujetos no se guían exclusivamente por temor a las penas sino también por el estímulo de los premios3. La riqueza de la documentación jurídica y literaria transmitida por las fuentes ratifica la premisa apuntada y avala la aserción de que el premio es un fenómeno generalizado, que abarca variadas manifestaciones y considera presupuestos de lo más heterogéneos para su obtención. No obstante, es posible identificar la existencia de un elemento aglutinante en la extensa variedad de premios que conocemos: la utilidad social4. Conviene precisar que esa utilidad social, latente en las conductas ameritadas, no lleva aparejada necesariamente su ejemplaridad; así se muestra de modo palmario en el controvertido debate que suscitan algunas de sus célebres variantes5. En ese sentido cabe advertir que el praemium accusatori, que nos ocupa, no está exento de críticas, como veremos en las líneas que siguen. En todo caso, debe enmarcarse en el contexto de un ordenamiento jurídico como el romano, proclive al uso de este instituto para favorecer y gratificar actuaciones socialmente útiles. Por lo que respecta al beneficio a obtener en concepto de premio mediante el ejercicio de la acusación cabe destacar su heterogeneidad, así lo refrendan las hipótesis que conocemos a través de las fuentes. Sirvan de ejemplo la concesión de la ciudadanía a los foráneos, el posible ingreso en la tribu del condenado, la vacatio militiae o el pago de una suma pecuniaria, entre otros6. A continuación, pondre3 Vd. Ulp. 1 inst., D. 1.1.1.1: … bonos non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes. 4 La idea de premiar los actos socialmente útiles, aunque no merezcan una valoración positiva en el ámbito moral y social, por alejarse de los praemia virtutis causa, es refrendada por Ulpiano en un texto de discutida autenticidad. Vd. Ulp. 56 ad ed., D. 47.10.5.11. Para un estudio detallado del pasaje citado vd. Longo, Utilitas publica 1972, 38; Spagnuolo Vigorita, Utilitas publica 1994, 260–284 y Scevola, Utilitas publica II 2012, 316, nt. 46, y 344. 5 Cabe destacar la impunidad del culpable por colaborar con la justicia, hipótesis que se caracteriza porque conlleva el beneficio de la impunidad para premiar a quien, habiendo participado en un ilícito, decide contribuir con posterioridad a su esclarecimiento. Aunque se trata de una conducta que dista mucho del comportamiento ejemplar que, en otras ocasiones, sirve de precedente a la concesión de la recompensa, se justifica por la utilidad pública que supone su colaboración con la justicia. El estudio de algún caso emblemático en Guerrero, Una muestra de impunidad 2015, 487–503. Sobre esta modalidad de premio vd. Spagnuolo Vigorita, Utilitas publica 1994; Cerami, La collaborazione processuale 2003, 249–285; Russo Ruggeri, La collaborazione giudiziaria 2007, 113–168 y Varvaro, Certissima indicia 2007– 2008, 369–428. 6 No se pretende recoger aquí un elenco exhaustivo de los premios previstos para los acusadores, sino apuntar algunas de sus modalidades más conocidas a modo de ejemplo. Por lo que respecta al praemium civitatis, podemos citar la Lex Acilia repetundarum, que prevé la obtención de la ciudadanía para aquellos provinciales que acusaran de corrupción, de forma exitosa, al magistrado de provincias, vd. Guerrero, El praemium civitatis 2014, 5–28. Por lo que se refiere al ingreso en la tribu del condenado, vd. Cic. Balb. 57 y Alexander, Praemia
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mos el foco sobre el caso que nos atañe, que se integra entre las variantes mencionadas en último lugar, pues supone la obtención de una cuantía en concepto de premio a favor del acusador. De esta hipótesis, recogida en una disposición senatorial datada en el año 11 a. C., nos da cuenta Frontino en su obra De aquaeductu urbis Romae. La suma prevista en beneficio del acusador asciende a la mitad de la multa impuesta al condenado por quebrantar el perímetro circundante a los acueductos para preservar esa obra pública, salvaguardando así su infraestructura y evitando los posibles daños provocados por la proximidad de construcciones y plantaciones. En las líneas que siguen y, partiendo del texto frontiniano, nos proponemos escudriñar el contenido de la decisión senatoria, desgranando las actuaciones que la contravienen y las consecuencias de su transgresión.
II. Muestras significativas de acciones populares con praemium accusatori Como hemos apuntado, la experiencia romanística conoce numerosos y variopintos premios. Dirigimos nuestro interés, en este momento, hacia el praemium accusatori7, modalidad sobre la que las fuentes ofrecen abundantes noticias que atestiguan la presencia, fundamentalmente en el periodo republicano, de una constelación de leyes que contemplan una recompensa en beneficio de quien favorece la condena del acusado8. Esa proliferación de premios se asienta en la necesidad de incentivar y compensar la acusación por parte de ciudadanos privados, que operan como impulsores del proceso ante la ausencia de un sistema oficial para la persecución de los ilícitos9. 1985, 20–32. Respecto a la vacatio militiae vd. lo previsto en la Lex Sempronia iudiciaria para peregrinos y Latinos (FIRA I2, 101 s.). Por lo que se refiere al pago de una suma de dinero en concepto de recompensa por la acusación efectuada, remitimos a lo señalado infra para las acciones populares. Sirva de muestra la emblemática referencia de Tácito, que refiere la posibilidad del acusador de hacerse con una cuarta parte de los bienes del condenado, vd. Tac. ann. 4.20. 7 Baste citar un pasaje ciceroniano, de inv. 2.110, que alude a la causa jurídica y al fundamento del premio y la pena, idea ya referida en textos precedentes, vd. Cic. de inv. 1.14, 2.69 y 2.109. El texto arranca con la referida dicotomía poena/praemium y continúa señalando la abundancia de causas por las que puede solicitarse un premio. Por lo que a nosotros interesa puntualiza que, a menudo, se plantea ante los jueces la cuestión de compensar a los acusadores: ‘nam et apud iudices de praemio saepe accusatorum quaeritur’. 8 Puede mencionarse como ejemplo paradigmático el de las leges de ambitu contra la corrupción electoral y política. Vd., entre otros, con la bibliografía allí citada, Castán, Corrupción electoral 2012, 757–804, praecipue 772–787. 9 La ausencia de un sistema oficial de acusación y necesaria subordinación a la actuación de los particulares es una realidad a la que la doctrina se ha referido tradicionalmente como accusatio por contraposición a la inquisitio, distinguiendo así la diversa naturaleza del proceso criminal romano en sus distintas etapas. Mantovani, sin embargo, en el ámbito de las
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Antes de adentrarnos en el análisis detallado de nuestra hipótesis, fijaremos las coordenadas en las que se enmarca. El premio que aquí interesa es de carácter pecuniario y beneficia a quien, de forma exitosa, promueve la acusación de quebrantar el perímetro fijado alrededor del acueducto, que debía quedar libre de plantaciones y construcciones. El objetivo era evitar los daños que pudieran venir provocados por las raíces y edificaciones próximas a la obra pública. La recompensa, recogida en una disposición senatorial sobre la que volveremos, se encuadra en la esfera de las conocidas como acciones populares. Respecto a estas últimas, es conocido que bajo esa denominación se presentan un conjunto de vías judiciales caracterizadas porque el ciudadano que ejercita la acusación lo hace en su nombre, pero en defensa de un interés que no es meramente particular10; junto al interés privado, eventualmente, confluye un interés colectivo11. Basta una observación superficial de esta modalidad de acciones para constatar que las hipótesis así tuteladas cobijan situaciones muy dispares, a las que sirven de sustento disposiciones igualmente heterogéneas: leyes, senadoconsultos y edicto12. Por lo que respecta a la tramitación de las acciones populares, conviene precisar que existen aún considerables oscuridades acerca de su sustanciación, que pueden atribuirse, fundamentalmente, a la pobreza y parquedad de muestras sobre la materia, máxime por lo que se refiere a los casos que se sustentan en un sc., como el que nos ocupa13. Dicho esto, cabe advertir que la puesta en marcha de ese tipo quaestiones, prefiere el uso de la terminología unilateral/bilateral para referirse a esa realidad. Vd. Mantovani, Il problema d’origine 1989, 54 s. 10 Vd. Paul. 8 ad ed., D. 47.23.1. Sobre la discutida naturaleza de las acciones populares vd. por todos, con la bibliografía allí citada, Giagnorio, Brevi note 2012, 1–87. 11 En el caso que nos ocupa se tutela un interés que puede calificarse esencialmente de público, en la medida en que solo afecta al ciudadano como miembro de la colectividad. Ese parece ser el sentido que atribuye Paulo a las acciones populares, que competen al ciudadano como miembro del populus, vd. Paul. 9 ad ed., D. 3.3.43.2. Sobre el amplio debate suscitado por la noción de populus y su imbricación con el cives en cuanto integrante de ese colectivo vd., entre otros, con la bibliografía allí citada, Lozano y Corbi, La legitimación popular 1982, 9–50. 12 Cabe añadir que a dichas acciones se suman otras vías procesales que comparten la idea de legitimación popular; en este último sentido resulta paradigmático el caso de los interdictos conocidos como populares, vd. Lozano y Corbi, La legitimación popular 1982, 133–211. 13 Entre los autores y trabajos que estudian la materia se ha prestado poca atención a la situación que ahora importa. Son escasas las referencias, que se limitan a un tratamiento somero de la cuestión. Junto a nuestra hipótesis suele citarse el sc. de pago Montano, de fecha incierta, quizás del siglo I a. C., que contiene disposiciones similares a las previstas en la lex Lucerina, para la protección de lugares sagrados. No obstante, se plantean dudas en torno al carácter popular de la tutela establecida a través de esa disposición senatorial (CIL VI 31577 = ILS 6082 = FIRA I2 39). Por otra parte y, no obstante lo dicho, las acciones populares debieron ser un instrumento procesal cotidiano en el ámbito de la justicia romana, conjetura que viene avalada por la introducción, por parte de los compiladores, de un título del Di-
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de procesos presenta ciertas concomitancias con la acusación en el ámbito penal por lo que, antes de continuar con las acciones populares, haremos una sucinta referencia a la configuración del citado régimen acusatorio. De conformidad con los testimonios que conocemos cabe afirmar que, a lo largo del arco cronológico que abarca el período republicano y parte de la edad imperial se requiere, en el ámbito del proceso penal, la intervención de un ciudadano para el ejercicio de la acusación14. Esa participación popular activa que, en su configuración genética, fue concebida como modelo de civismo sufrió una transformación, con el auge de esa figura, que trajo como consecuencia la adulteración de su sentido primigenio. Las fuentes retratan una metamorfosis del acusador, cuyo significado y función originaria evoluciona de tal forma que pasa de instrumento al servicio de la justicia y ejemplo de compromiso cívico a profesional de la denuncia que, en su afán de enriquecerse con la suma prevista en concepto de premio, no repara en calumniar, amenazar y chantajear para la consecución de su objetivo: la ganancia sin escrúpulos. Lo dicho hasta aquí genera un clima de recelo y descontento social hacia el sistema acusatorio y el ejercicio de esa labor que los textos plasman de modo ostensible15; no obstante, ese descrédito no llevó a la desaparición de la figura del acusador16. Es más, cabe advertir, por contraste con lo señalado hasta ahora que, pese al controvertido retrato que ofrecen las fuentes, el sistema gesto dedicado a la materia: D. 47.23. Cabe añadir que el tratamiento doctrinal que han recibido las acciones populares resulta insuficiente e incluso, a veces, deficiente, cuestión subrayada recientemente por Paricio, Sobre Paulo y sus Libri ad edictum 2018–2019, 532. 14 En la esfera civil, como es sabido, rige el procedimiento formulario y las cuestiones se ventilan en dos fases: in iure y apud iudicem. En el ámbito penal vd. por todos Santalucia, Accusatio e inquisitio 2002, 179–193. 15 Sirva de muestra lo señalado en Tac., ann. 4.30: … Sic delatores, genus hominum publico exitio repertum et ne, poenis quidem umquam satis coercitum, per praemia eliciebatur. Ese fenómeno de degeneración que sufre la figura del acusador no es exclusivo ni originario de la sociedad romana. Baste señalar que la situación jurídica ateniense, en la que los particulares intervenían en defensa de intereses públicos o colectivos, es la que sirve de base a Aristófanes para configurar el perfil del sicofante. Dicho personaje, que tiene una presencia continua en las obras del comediógrafo griego citado, es retratado, con la hipérbole burlesca característica de sus obras, como un charlatán, corrupto y calumniador. La terminología actual ha acogido ese sentido; sirva de muestra la definición que recoge nuestro actual diccionario de la Real Academia Española de la Lengua, que define al sicofante como calumniador e impostor. Vd. DRAE. 2017, http://dle.rae.es/?w=sicofante. Para un estudio de la figura citada vd. Pellegrino, La maschera 2010, y Caciagli et alii, Il sicofante 2016, 55–77. 16 La aversión hacia los acusadores resulta patente en algunos pasajes. Baste citar el siguiente fragmento de Suetonio, en el que refleja, con suma elocuencia, en el contexto del catálogo de crímenes cometidos a diario por Tiberio, las relevantes recompensas concedidas a acusadores y, a veces, a testigos, subrayando que a ningún delator se le negó credibilidad. Vd. Suet. Tib. 61: … Decreta accusatoribus praecipua praemia, nonnumquam et testibus. Nemini delatorum fides abrogata …
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encontró también notables valedores, entre los que ocupa un papel destacado Tiberio, cuyo posicionamiento en defensa de la bondad y necesidad del acusador, contribuyó al auge que mantuvo en la siguiente centuria17. Dejemos al margen la probada degradación del régimen acusatorio en el ámbito penal para retomar una somera descripción del régimen de las acciones populares en las líneas que siguen. De conformidad con lo antedicho, se requiere la intervención del ciudadano para abrir la vía judicial. Ahora bien, la anotada correspondencia de las acciones populares con el proceso penal en el momento de su puesta en marcha, no parece encontrar reflejo en el resto del procedimiento donde, según la idea más extendida, se sigue la doble fase propia de la estructura procesal privatística18. Conviene advertir, sin embargo, que en lo tocante al desarrollo en dos fases, la inicial, que se desenvuelve ante el magistrado, habitualmente el pretor, y la que le sigue, que se dilucida ante el conjunto de los jueces conocidos como recuperatores, la hipótesis que aquí importa presenta una novedad de la que, por ahora, no analizaremos su alcance, pues volveremos sobre ella. La plasmación de esa peculiaridad la recoge Frontino al señalar que la impartición de justicia y el conocimiento de este tipo de causas corresponde al curator aquarum19. Prosigamos con nuestro objetivo que, en este momento, se circunscribe a examinar brevemente un par de muestras representativas de hipótesis amparadas mediante acciones populares, que contemplan como premio a favor del acusador, una fracción de la suma de dinero impuesta en concepto de pena al condenado, por analogía con el caso objeto de estudio. No nos proponemos su análisis exhaustivo sino escudriñar paralelismos y divergencias que puedan contribuir a esclarecer las claves y singularidades del caso que analizamos. Comenzaremos por la acción popular prevista contra quienes llevasen a cabo la remoción de lindes. Con el afán de proteger la propiedad y sus confines, que es una de las preocupaciones de la sociedad romana ab antiquo20, aparece recogida en la Lex Iulia agraria, de datación incierta, una acción que prevé un premio pecunia-
17 Vd. Tac. ann. 4.30.2–3, donde se atribuye a los acusadores la función de custodios del orden jurídico. 18 De conformidad con lo señalado, este tipo de procesos se encuentran a caballo entre las características del juicio público y el privado. Cabe advertir que las afinidades entre las acciones populares y la publica accusatio no debe llevar a su identificación, vd. Giagnorio, Brevi note 2012, 2 nt. 2 y 5 ss. 19 Frontin. aq. 127.3: … deque ea re iudicarent cognoscerentque curatores aquarum. Por lo que se refiere al citado curator, podemos advertir que, desde su nombramiento, ostenta la máxima autoridad en materia de aguas. 20 La cuestión de la demarcación de lindes de la propiedad es objeto de atención en la experiencia jurídica romana, donde se atribuye carácter sagrado a los confines y a la ceremonia que sirve para marcarlos: limitatio. Vd. XII Tab. VII.5 y D. 10.1, que es el título dedicado a la acción de deslinde.
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rio a favor del acusador21. Veamos los términos en que se plasma la cuestión que nos ocupa en el texto legal referido: Lex Iulia agraria = Lex Mamilia Roscia Peducaea Alliena Fabia, caput V: … Et si is, unde ea pecunia petita erit, condemnatus erit, eam pecuniam ab eo deve bonis eius primo quoque die exigito; eiusque pecuniae quod receptum erit partem dimidiam ei, cuius unius opera maxime is condemnatus erit, dato, partem dimidiam in publicum redigito. Quo ex loco terminus aberit, si quis in eum locum terminum restituere volet, sine fraude sua liceto facere, neve quid cui is ob eam rem hac lege dare damnas esto.
En el fragmento transcrito se alude al premio. Siguiendo el tenor literal del mismo se alude a la mitad de la suma que recibe (eiusque pecuniae quod receptum erit partem dimidiam ei) quien en mayor medida haya contribuido a la condena del acusado (cuius unius opera maxime is condemnatus erit); asimismo, se apostilla que la otra mitad se pone a disposición del tesoro público (partem dimidiam in publicum redigito). Pese a la ausencia de referencia expresa al vocablo ‘praemium’, resulta incontestable el carácter de tal que cabe atribuir a la recompensa pecuniaria prevista. Los términos empleados llevan a colegir que pueden ser varios quienes opten al premio, que se otorga a quien haya contribuido en mayor medida a lograr la condena: cuius unius opera maxime is condemnatus erit. Cabe resaltar el contraste entre la singularidad del premio, cuius unius, y la potencial pluralidad de aspirantes, de entre los cuales solo uno, quien haya contribuido maxime a la condena del acusado, será beneficiario del mismo. Dicho lo anterior se hace preciso, en primer término, identificar a los postulantes al premio. Lo habitual es que sea el acusador quien aspire a la recompensa y, como es sabido, en las acciones populares, el elegido para ejercer la acusación solo puede ser uno, aun cuando fuesen varios los peticionarios22, de tal forma que, si su intervención procesal resultase exitosa, será quien, a su vez, reciba el premio. Eso nos conduce a indagar acerca de la potencial pluralidad de aspirantes que sugería el tenor literal del pasaje, de entre los cuales se hacía necesario optar por uno23. Puesto que los términos empleados en el texto legislativo no circunscriben 21 Vd. Call. 5 de cogn., D. 47.21.3 pr. Las opiniones en torno a su cronología oscilan entre quienes la ubican en torno al año 109 a. C., por considerarla un suplemento a la legislación gracana, y quienes la adscriben a Julio César, situándola entre el 59 y el 55 a. C. Vd. Hardy, The Lex Mamilia Roscia Peducaea Alliena Fabia 1925, 185–191 y Crawford, The lex Iulia agraria 1989, 179–190. 22 Vd. Paul. 1 ad ed., D. 47.23.2: Si plures simul agant populari actione, praetor eligat idoneiorem y Ulp. 1 ad ed., D. 47.23.3.1: In popularibus actionibus is cuius interest praefertur. Suele entenderse como más idóneo quien tiene un interés más personal en la causa, siendo el pretor el encargado de estudiar dicha circunstancia y elegir al más adecuado para el ejercicio de la acción. 23 La fórmula aquí empleada, cuius unius opera maxime is condemnatus erit, presenta evidentes similitudes con otras que, en circunstancias análogas, fijan el mismo criterio para la
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la actuación determinante para la obtención del premio a la figura del acusador, eso permite sostener que, por ejemplo, un testigo cuyo testimonio haya resultado decisivo para la condena del acusado pueda beneficiarse del mismo24, desplazando, en ese caso, a quien asume el ejercicio de la acusación en la obtención de la recompensa. Esa posibilidad encuentra respaldo en las fuentes: Decreta accusatoribus praecipua praemia, nonnumquam et testibus … (Suet. Tib. 61). Suetonio, con la vida de Tiberio como telón de fondo, destaca la relevancia que durante su gobierno se concedió a los acusadores. En ese contexto, se hace eco de la concesión de premios a favor de los mismos y, ocasionalmente, también de los testigos. En definitiva, por lo que a nosotros interesa, se admite que un testigo ‘clave’ pueda resultar beneficiario; posibilidad que debió ser ocasional, así lo confirma la locución empleada por Suetonio: ‘nonnunquam’. Cabe advertir, ahondando en esa misma idea de excepcionalidad, que la asignación del premio a un testigo casa mal con su tradicional fundamento, al que se reconoce un doble efecto, de incentivo y compensatorio, pues venía a favorecer la puesta en marcha del proceso y a resarcir las molestias inherentes al ejercicio de la acusación25. En ese sentido, conviene subrayar que la actuación de un testigo, por determinante que resulte para lograr la condena, no es equiparable a la del acusador. En todo caso, admitido lo anterior, surge la cuestión de determinar el proceso selectivo para designar quién ha contribuido en mayor medida a la condena. Por lo que se refiere a la elección del beneficiario del premio, en otra hipótesis análoga conjeturábamos, a partir de las fuentes, el mecanismo arbitrado para su designación: sicut divinationes, quae fiunt de accusatore constituendo, et nonnunquam inter delatores, uter praemium meruerit (Quint. inst. or. 3.10.1). De conformidad con la noticia apuntada por Quintiliano, el mismo órgano judicial encargado de conocer las respectivas acusaciones resolvería, mediante un debate, la atribución de la recompensa prevista cuando era preciso dilucidar, de entre los delatores, cuál había contribuido en mayor medida al resultado condenatorio26. En nuestra hipótesis, como hemos señalado, cabe plantearse la atribución del premio, excepcionalmente, a persona distinta del acusador. No nos consta, sin embargo, la existencia de testimonio alguno en las fuentes que permita deducir atribución del premio: la contribución decisiva a la condena del acusado. Un elenco de los pasajes más relevantes en los que se sigue esa regla en Alexander, Praemia 1985, 21 nt.4. 24 La consideración de un testigo como destinatario del premio ya ha sido advertida, aunque en otro contexto, por Alexander, Praemia 1985, 22. 25 Sobre el premio como incentivo vd., entre otros, Liv. 2.20.12; 4.35.8; 35.11.6 y 45.36.4. Entre la variedad de premios documentados en las fuentes algunos tienen carácter exclusivamente compensatorio, pues se conceden ante situaciones que no aparecen recogidas previamente en ninguna disposición. Paradigmática en ese sentido es la concesión de la ciudadanía a particulares o comunidades para compensar la prestación de algún servicio. 26 Vd. Guerrero, El praemium civitatis 2014, § 4. Una referencia a los criterios específicos que deben entrar en consideración para conceder un premio puede verse en Cic. de inv. 2.112 ss.
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ante quién y cómo se selecciona al beneficiario. Desconocemos si su designación recaería sobre el pretor, que se encargaba de elegir al más idóneo para el ejercicio de la acusación, o sobre los recuperatores ante los que se desarrollaba la segunda fase del proceso. Detengámonos ahora en la conocida como actio de tabulis apertis, que sanciona la apertura extemporánea e ilícita del testamento. Sabemos que esta acción se configura como un complemento a lo previsto en los senadoconsultos Silaniano y Claudiano, datados en el s. I d. C. Veamos la referencia que ofrece Gayo al respecto: Gai. 17 ad ed. prov., D. 29.5.25:2: … Palam est autem esse, cuius poena in centum aureos ex bonis damnati extenditur: et inde partem dimidiam ei, cuius opera convictus erit, praemii nomine se daturum praetor pollicetur, partem in publicum redacturus.
A los efectos de nuestro estudio interesa, fundamentalmente, la parte que reproducimos del fragmento, que aporta ciertas claves respecto a la acción apuntada. El jurista señala que la pena se extrae de los bienes del condenado y asciende a cien áureos (cuius poena in centum aureos ex bonis damnati extenditur). Asimismo, apunta que el pretor se compromete a dar la mitad de esa suma (et inde partem dimidiam ei), en concepto de premio (praemii nomine se daturum praetor pollicetur), a quien con su actuación hubiese propiciado la condena (cuius opera convictus erit), quedando el resto a favor del tesoro público (partem in publicum redacturum). Una observación detallada del pasaje nos lleva a advertir que se menciona expresamente el premio, pero sin hacer uso de la expresión praemium accusatori, pues se apunta como beneficiario a quien haya favorecido la condena del acusado: cuius opera convictus erit. No obstante, hallamos indicios, en este caso, que nos mueven a circunscribir el premio al acusador. Veamos los motivos, que nos llevan a colegir que sería el acusador quien obtiene la ventaja prevista. La cláusula empleada en nuestro caso, sugiere que es uno el individuo que, con su labor, ha contribuido a la consecución de la condena. Y ello por contraste con otras hipótesis en las que la fórmula usada era indicativa de la concurrencia de varios postulantes a la obtención del premio, con la consiguiente necesidad de dilucidar quién ha contribuido en mayor medida a la condena: cuius opera maxime. En ese sentido resulta clave la locución maxime para perfilar la idea de un proceso selectivo, que lleva a optar entre varios sujetos y que, en el caso que nos ocupa, no está presente. Por otra parte, si atendemos al contexto en el que se ubica nuestro pasaje, en los párrafos precedentes advertimos que Gayo se refiere en ellos al praemium accusatori ex lege Cornelia de sicariis’27, acotándose la referencia de un modo explícito al acusador. Considerados conjuntamente los argumentos citados entendemos que, en nuestro 27 Vd. Gai. 17 ad ed. prov., D. 29.5.25 pr. En el parágrafo inmediatamente anterior al nuestro, sin embargo, la expresión empleada por el jurista es similar a la que nos ocupa, vd. Gai. 17
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caso, la asignación del premio debe circunscribirse al acusador, que es quien habitualmente debió recibir la recompensa, pues asume la molestia de poner en marcha el proceso, propiciando con su actuación la declaración de culpabilidad. No obstante, cabe preguntarse si, de concurrir un testigo determinante para la causa, podría éste aspirar a recibir el premio. Conforme a lo señalado, no parece que esté en la mente del jurista la expectativa de premio en persona distinta del acusador en esta hipótesis. Ahora bien, nuestra opinión no pasa de ser una conjetura y esa admisión excepcional parece admitirse en otros contextos28. Por lo que se refiere al premio previsto en el senadoconsulto de referencia, sc. de aquaeductibus, nos remitimos a § III sub b), donde llevaremos a cabo un análisis detallado del mismo.
III. El praemium accusatori en el sc. de aquaeductibus: Frontin. aq. 127 Transcribimos el texto frontiniano29 que reproduce la disposición senatorial base de nuestro estudio30: Frontin. aq. 127: Quod Q. Aelius Tubero Paulus Fabius Maximus cos. V. F. aquarum quae in urbem uenirent itinera occupari monumentis et aedificiis et arboribus conseri, Q. F. P. D. E. R. I. C. cum ad reficiendos riuos specusque , per quae et opera publica corrumpantur, placere circa fontes et fornices et muros utraque ex parte quinos denos pedes patere, et circa riuos qui ad ed. prov., D. 29.5.25.1: … ei qui convicerit deni aurei praemii nomine darentur ex bonis damnati … 28 La admisión en otros contextos puede ser más acorde al fundamento del premio. Traemos a colación en ese sentido la acción derivada de la Lex Acilia repetundarum, donde los subscriptores parecen concurrir a la obtención del premio junto al acusador. En ese caso, sin embargo, la aspiración a la recompensa está justificada en la medida en que los subscriptores actúan a la par que los acusadores en el ejercicio de la labor de acusación. Vd. Guerrero, El praemium civitatis 2014, § 4. 29 El texto que nos sirve de referencia es la edición de Cambridge University Press a cargo de Rodgers. Vd. también, Del Chicca, Frontino 2004. Un análisis de las distintas versiones de la obra y su título en González, Frontino 1985, XVII–XXII y LXIII–LXVIII y, más recientemente, Paniagua, Sexto Julio Frontino 2016, 38–42 y 48–54. 30 Antes de continuar con el análisis pormenorizado de pasajes concretos de la obra de referencia, conviene hacer una breve digresión sobre Sexto Julio Frontino, del que conocemos, a través de las fuentes, su actividad política y producción literaria. Asimismo, se conservan testimonios de autores coetáneos que reflejan admiración por su trayectoria como servidor público. De esas noticias colegimos que Frontino fue un personaje político notable del s. I de nuestra era que, siguiendo el cursus honorum, ocupó diversos cargos, entre los que cabe resaltar el de praetor urbanus y cónsul, este último en reiteradas ocasiones. Sabemos asimismo que fue nombrado curator aquarum con Nerva, período en el que emprende la escritura de nuestra obra de referencia, lo que nos sitúa en el año 97 de nuestra era, vd.
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sub terra essent et specus intra urbem et [extra] urbi continentia aedificia utraque ex parte quinos pedes uacuos relinqui, ita ut neque monumentum in is locis neque aedificium post hoc tempus ponere neque conserere arbores liceret; si quae nunc essent arbores intra id spatium, exciderentur praeterquam si quae uillae continentes et inclusae aedificiis essent. 2. Si quis aduersus ea commiserit, in singulas res poena HS dena milia essent, ex quibus pars dimidia praemium accusatori daretur cuius opera maxime conuictus esset qui aduersus hoc sc. commisisset, pars autem dimidia in aerarium redigeretur. 3. Deque ea re iudicarent cognoscerentque curatores aquarum.
A continuación, abordaremos su examen desgranando los presupuestos contemplados en el sc. a partir de la información que sobre el mismo nos proporciona Frontino, para dilucidar qué actuaciones pueden provocar la acusación que, en caso de culminar en condena del acusado, permite la obtención de la recompensa.
a) Presupuestos del sc. Conviene advertir, por contextualizar brevemente el pronunciamiento senatorial que nos sirve de punto de partida, que se inserta en el capítulo 127 del De aquaeductu urbis Romae de Frontino, junto a otras disposiciones senatoriales encaminadas a preservar el buen estado de las canalizaciones de Roma31. Ofrecemos aquí una exposición sintética del contenido en sus líneas esenciales para retomar el análisis pormenorizado a continuación. A grandes trazos el pronunciamiento senatorial establece la demarcación de un espacio protegido en torno a los acueductos. El objetivo era evitar que la proximidad de edificaciones y plantaciones pudieran dañar la infraestructura de la obra pública. Para ello, se prohíben las construcciones y la plantación de árboles a lo largo del perímetro fijado por el senado, que debía quedar expedito; asimismo se prevé la tala de aquellos árboles que, por su proximidad a la obra pública, violasen la disposición anterior, estableciéndose, no obstante, algunas excepciones. La sanción prevista para quienes contraviniesen Frontin. aq. 1. La relevancia de Frontino y la obra que nos atañe es enorme para el estudio de la canalización y distribución del agua a Roma con todas sus variantes, pues la misma se presenta con la estructura de un informe técnico que contiene toda la información que pudo recabar en el ejercicio de su cargo como máximo responsable en materia de aguas. De esto último nos da noticia el propio autor, vd. Frontin. aq. 2.2–3. Para un estudio de la labor de Frontino como curator aquarum vd. Peachin, Frontinus 2004. 31 A través de Frontino conocemos los seis pronunciamientos senatoriales del año 11 a. C. en los que se regulan cuestiones relativas a los acueductos. El mismo autor señala que la parte final de su obra está dedicada a la normativa sobre conducción y mantenimiento de las canalizaciones, vd. Frontin. aq. 3.2. Para un análisis sobre la regulación de la conservación de las estructuras que componen el acueducto vd. Guerrero, La conservación de las infraestructuras 2018.
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la referida prohibición es de 10.000 sestercios, destinándose la mitad de la misma al acusador en concepto de premio. Se apostilla, por último, que son los curatores aquarum los encargados de juzgar y conocer de estos asuntos. Conocemos, también a través del propio Frontino, el retrato que antecede y propicia esta decisión senatorial. A continuación, transcribimos el texto en el que describe los daños generados por los titulares de las tierras colindantes a la mencionada obra pública. Frontin. aq. 126: Plerumque autem uitia oriuntur ex impotentia possessorum, qui pluribus riuos uiolant. 2. Primum enim spatia quae circa ductus aquarum ex sc. uacare debent aut aedificiis aut arboribus occupant. 3. Arbores magis nocent, quarum radicibus et concamerationes et latera soluuntur. 4. Dein uicinales uias agrestesque per ipsas formas derigunt. 5. Nouissime aditus ad tutelam preaecludunt. 6. Quae omnia sc. quod subiecti prouisa sunt.
El fragmento se circunscribe al menoscabo ocasionado por las actuaciones abusivas de los titulares de los terrenos colindantes al acueducto. Anteriormente, sin embargo, en distintos momentos de la misma obra, dejaba constancia de otros factores que contribuían al deterioro de la infraestructura: el paso del tiempo, las inclemencias climáticas, los defectos constructivos y los fraudes llevados a cabo por particulares con el propósito de aprovecharse ilícitamente del abastecimiento de agua, son algunos de los señalados por Frontino32. En el pasaje referido deja al margen esas otras causas para centrarse en la incidencia de las actuaciones de los titulares de los terrenos aledaños al acueducto. Comienza enfatizando que la mayoría de las veces (plerumque), los daños son ocasionados por los abusos perpetrados por los titulares de los terrenos próximos a la obra pública (ex impotentia possessorum), que menoscaban los conductos de diversas maneras (qui pluribus riuos uiolant). A continuación se refiere a los daños ocasionados por las edificaciones y árboles situados en las zonas próximas al acueducto, área que debía permanecer libre conforme a la disposición senatorial (enim spatia quae circa ductus aquarum ex sc. uacare debent aut aedificiis aut arboribus occupant), haciendo hincapié en que los árboles son los más dañinos, pues con sus raíces rompen bóvedas y muros (arbores magis nocent, quarum radicibus et concamerationes et latera soluuntur)33. También 32 Las irregularidades, fraudes y abusos debieron ser constantes a juzgar por las noticias que proporciona Frontino, de ahí que se proponga como objetivo frenar esas prácticas fraudulentas supervisando y controlando tanto las concesiones como la cuota de suministro, vd. Frontin. aq. 114–115 y también aq. 105–106. 33 La actuación destructiva de los árboles, particularmente de sus raíces, sobre las estructuras de los acueductos se refleja profusamente en las fuentes. Sirvan de muestra los siguientes ejemplos: CTh. 15.2.1 (Imp. Const. a. ad Max. cons. aq.), donde Constantino señala la necesidad de preservar un perímetro de espacio despejado, sin árboles, alrededor de las canalizaciones, así como la obligación de talarlos, en su caso, para evitar daños en las estructuras. Zenón, a finales del siglo V d. C. prohíbe la plantación de árboles en la proximidad de los
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apunta la apertura de caminos y serventías con los que atravesaban las canalizaciones (dein uicinales uias agrestesque per ipsas formas derigunt), con el consiguiente quebranto de las mismas. Asimismo se refiere a la resistencia que, eventualmente, oponían los titulares de los terrenos contiguos al acueducto, impidiendo el acceso de los operarios a sus predios, obstaculizando así la ejecución de las obras encaminadas a la preservación del buen estado de la obra pública (nouissime aditus ad tutelam praecludunt). También a modo de preámbulo conviene precisar, antes de adentrarnos en el contenido del pronunciamiento senatorial que nos atañe, que el mismo trae causa del informe elaborado por los cónsules Quinto Elio Tuberón y Paulo Fabio Máximo. El citado memorándum describe el maltrecho estado que presentaban los acueductos conocidos como Julio, Marcio, Apio, Tépulo y Anión, y las medidas impulsadas para facilitar la rehabilitación de los mismos que, según la información que nos proporcionan las fuentes, Augusto se había comprometido a sufragar34. Sobre ese mismo informe se pronuncia el pasaje frontiniano que nos sirve de referencia que, en su inicio, antes de reproducir la decisión del senado, refleja la dimensión que había alcanzado el fenómeno de las construcciones y plantaciones de árboles que circundaban parte del trazado de los acueductos: … aquarum quae in urbem venirent itinera occupari monumentis et aedificiis et arboribus conseri35 … seguidamente señala las actuaciones encaminadas a paliar esa situación. Pasemos a su análisis. Las dificultades para armonizar el sentido completo del fragmento llevan a entender que presenta una laguna que, sin embargo, no impide la comprensión de su significado global. La posible omisión se plantea en las palabras iniciales atribuidas al senado: Q. F. P. D. E. R. I. C. (quod fieri placeret, de ea re ita censuerunt), cum ad reficiendos riuos specusque , per quae et opera publica corrumpantur … Las dos locuciones e ideas en las que se observa el desajuste se refieren, por una parte, a la reparación de conductos y galerías y, por otra, a la alteración o deterioro que provocan en la obra pública esas actuaciones36. A continuación, se recoge la medida acueductos para evitar los daños que éstos pudieran causar, vd. C. 11.43.10.2. También Casiodoro dejará constancia de lo perniciosas que pueden resultar las raíces de los árboles para la conservación del buen estado de las canalizaciones y la necesidad de cortar los árboles jóvenes antes de que con su crecimiento generen daños, vd. Cassiod. Var. 5.38. 34 Así se recoge en Frontin. aq. 125. 35 Vd. Frontin. aq. 127. 36 La posible laguna no aparece recogida en algunas versiones del texto. Vd. González, Frontino 1985, 87–88, que ofrece una interpretación integradora del pasaje del siguiente tenor: « … puesto que para reparar los canales y galerías se daña la red de conducción del agua y las obras públicas, se ha dispuesto que en la proximidad de las fuentes …» Esa traducción, sin embargo, no resulta del todo satisfactoria, pues parece claro que existe alguna omisión en la transcripción que impide acompasar de modo coherente ambas ideas. Sí se hace eco de la misma Paniagua, Sexto Julio Frontino 2016, 340–341, que recoge la omisión del
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adoptada por el senado que, esencialmente, determina despejar los aledaños de las canalizaciones. En concreto se propone liberar un espacio de quince pies por cada lado alrededor de los manantiales, las arcadas y los muros … circa fontes et fornices et muros utraque ex parte quinos denos pedes patere … Por lo que se refiere a las canalizaciones subterráneas y galerías, dentro y fuera de la ciudad, y de los edificios aledaños, el espacio prescrito es de cinco pies por cada lado … circa riuos qui sub terra essent et specus intra urbem et [extra] urbi continentia aedificia utraque ex parte quinos pedes uacuos relinqui37. Según se desprende del texto, se establece un perímetro diferente para las partes superficiales del acueducto y las soterradas, siendo mayor el área que se fija en torno a las primeras. En definitiva, la decisión senatorial se centra en fijar el espacio que debe quedar despejado ante la necesidad de salvaguardar el área que circunda a las distintas estructuras que componen el acueducto38 para facilitar así las tareas de limpieza y mantenimiento39. En línea con lo señalado se dispone que, en adelante, queda vedada la posibilidad de edificar o plantar en la superficie demarcada ita ut neque monumentum in is locis neque aedificium post hoc tempus ponere neque conserere arbores liceret. El texto prosigue planteando la cuestión de las plantaciones preexistentes al momento del pronunciamiento senatorial pero que contravienen el espacio fijado, pronunciándose a favor de su tala, salvo en aquellos casos en que las plantaciones estuviesen dentro de una villa o rodeadas de edificaciones … praeterquam si quae uillae continentes et inclusae aedificiis essent … Por lo que se refiere a la estructura y fórmulas lingüísticas del texto senatorial, podemos advertir, antes de continuar con el análisis pormenorizado de su contenido, que aparece desprovisto de la praescriptio40. Por otra parte, es probable que siguiente modo: «… que, como para reparar conductos y galerías que también provocan el deterioro de las obras públicas, se ha decidido que en torno a manantiales …». 37 Se calcula que dicho espacio equivale a 4,44 m. en el primer caso y 1,48 m. en el segundo. Vd. González, Frontino 1985, 341. 38 Actualmente suele identificarse el acueducto con la imagen monumental de las arquerías elevadas sobre el terreno que, en realidad, solo constituyen una mínima parte del trazado, que se compone también de partes soterradas y en superficie. A esa suerte de sinécdoque ha contribuido la prestancia que irradian los grandes arcos que, además de sortear los inconvenientes topográficos, sirven a la creación de un símbolo, una imagen de grandeza y poder genuinos de la cultura romana. Sobre la importancia del arco y su significado en la arquitectura romana hidráulica vd. Martínez de Morentín, Algunas consideraciones 2013, 392–395. 39 Vd. Frontin. aq. 119–128, donde se apuntan las obras de reparación y mantenimiento que requieren constantemente las estructuras que componen el acueducto. 40 La estructura de la obra es la de un informe técnico cuya parte final aborda la regulación jurídica de las canalizaciones y el abastecimiento hídrico a la ciudad de Roma. A priori no debe extrañar que, en una obra de semejantes características, cuyo perfil no es exclusivamente jurídico, y cuyo propósito es el de hacer acopio, de forma ordenada y unitaria, de toda la información relativa a la materia para que sirva de consulta de cara a su gestión y la de sus sucesores (Frontin. aq. 2.2–3), se omitan y sinteticen todos aquellos datos que no
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la relatio, en la que se expone de forma concisa la materia sobre la cual se pronuncia el senado, haya sufrido una purga, como sugiere Buongiorno. Es verosímil que la misma fuese efectuada por el propio Frontino para suprimir aspectos que no importaban en ese momento de su obra, presentando tan solo un breve apunte que permitiera conocer, someramente, la cuestión objeto de decisión por los patres41. A continuación, tras la conocida por la doctrina como fórmula de transición y el cum causal42, se halla el decretum, que refleja la decisión adoptada por el senado. Dirigimos ahora nuestro interés hacia ese decretum. Conviene hacer una breve digresión, in primis, que contribuya a acotar la mención a las construcciones en terrenos próximos a la obra pública. Es idea comúnmente aceptada la de que el pasaje que nos atañe, cuando alude a ‘monumentis et aedificiis’43 se refiere a monumentos funerarios y sepulcros; en definitiva a construcciones que integran la conocida como arquitectura fúnebre. Es conocido, asimismo, que la ubicación de ese tipo de obras extra pomerium obedecía a la regulación que, ab antiquo, prohíbe llevar a cabo sepulturas e inhumaciones en el interior de la urbe44 y a la costumbre de situar la ‘última morada’ en lugares de paso para permitir la observación de los transeúntes. Lo señalado respecto al emplazamiento lleva a que resulte habitual hallar, a los lados de las vías, lápidas, estelas y estatuas que sirviesen para identificar los lugares en los que se encontraban las tumbas. Por lo que a nosotros atañe, siguiendo las noticias proporcionadas por Frontino, los terrenos invadidos por obras aportan información esencial para el conocimiento de la normativa. No obstante, cabe advertir, por contraste con lo que acabamos de señalar, que cuando recoge la regulación de la Lex Quinctia de aquaeductibus, sí transcribe la praescriptio de la citada ley, vd. Frontin. aq. 129.1. 41 Resulta verosímil pensar que la relatio fuese reducida a lo esencial; la ratio la hemos señalado en la nota precedente: plasmar en la obra solo los datos de mayor relevancia para el conocimiento de la normativa, resumiendo y suprimiendo, en parte, la información que maneja. Cabe añadir que en sucesivos fragmentos de la misma obra encontramos otros pronunciamientos senatoriales en los que, con ligeras variantes, a una breve relatio sigue el decretum, vd. Frontin., aq. 100, 104, 106, 108, 125. Para un análisis de la estructura, el lenguaje y la técnica de los scc. vd. Buongiorno, Senatus consulta 2016, 17–60, praecipue 24 s. 42 Vd. Buongiorno, Senatus consulta 2016, 38 nt. 48. 43 Recuérdese la alusión a la invasión de monumentos funerarios y edificaciones, Frontin. aq. 126: aut aedificiis aut arboribus occupant, Frontin. aq. 127: … quae in urbem uenirent itinera occupari monumentis et aedificiis et arboribus conseri … Respecto a los monumentos vd. Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.2.6. 44 La praxis de ubicar la sepultura a las afueras de la ciudad, dada la prohibición de inhumaciones intra pomerium, estaba regulada desde las XII Tablas (XII Tab. X.1). El fundamento es discutido: motivaciones de salubridad pública, creencias religiosas que consideran la tumba lugar sagrado, e incluso evitar los incendios que podían suceder a los rituales fúnebres. Fuera cual fuese la motivación, la consecuencia era el emplazamiento de los enterramientos en lugares como las vías, a cuyos lados se disponían tumbas, sepulcros y monumentos fúnebres, creando así áreas funerarias en determinadas zonas.
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propias de la arquitectura fúnebre se ubicaban en las proximidades de parte del trazado de los acueductos, lo que causaba desperfectos en la estructura y suponía un obstáculo a las constantes obras de reparación y mantenimiento que exigía la red de canalizaciones. Por otra parte, cabe advertir que el texto senatorial refleja un tratamiento diverso de las plantaciones y construcciones. Mientras que respecto a los árboles y plantaciones, previos o posteriores a la prohibición, que transgredían el espacio a salvaguardar, queda claro que debían ser talados, salvo excepciones, ninguna referencia explícita se hace a las edificaciones preexistentes. Entre las razones que pueden explicar el trato dispar podemos argüir el mayor daño que provocaban las raíces en las estructuras45. Ese argumento no es nuestro, lo esgrime el propio Frontino, quizás para justificar el elocuente silencio en lo que atañe a las edificaciones transgresoras del área protegida46. No obstante, algún autor entiende que procedería la demolición de las construcciones, interpretación que excede los términos literales del fragmento47. El mutismo acerca de las edificaciones anteriores a la interdicción no permite hacer afirmaciones concluyentes al respecto, si bien cabe elucubrar que quizás, en este caso, la prohibición se fijó el objetivo de frenar la extensión de una práctica nociva, la proliferación de un fenómeno, el de las construcciones que acompañaban al ritual de la muerte, cuyas proporciones suponía un creciente problema para el acceso y mantenimiento en buen estado de la obra pública, pero sin determinar el derribo de las preexistentes. Cabe imaginar, por otra parte, que la propuesta de demolición de construcciones funerarias acarrearía no pocos problemas, dado el especial respeto que se profesa a los difuntos y a la arquitectura funeraria en la cultura romana48. Más adelante, Frontino vuelve a referirse, en la misma obra, al perímetro que debe quedar diáfano y sus excepciones en el marco de la regulación prevista en la Lex Quinctia de aquaeductibus, del año 9 a. C., de la que nos da cuenta a partir del capítulo 12949. En ese contexto, alude en el parágrafo séptimo al espacio libre que circunda a las distintas partes que componen el entramado del acueducto, prohibiendo que en ellas se interponga (quid obponit), construya (molit), cerque (obsaepit), plante (figit), erija (statuit), fije (ponit), sitúe (conlocat), are (arat), siembre (serit), o introduzca nada en su interior (neue 45 Vd. Frontin. aq. 126.3. 46 El texto senatorial no se refiere a las medidas a adoptar frente a las edificaciones preexistentes que, como expusimos, eran numerosas y provocaron el pronunciamiento que nos ocupa. 47 Vd. Malissard, Los Romanos y el agua 2001, 274, que interpreta que también se arrasaba con lo edificado. 48 Como es sabido, las tumbas se califican como lugar sagrado, por lo que el desmantelamiento y traslado de estas no debió resultar fácil, vd. Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.2.5–6. 49 Frontino, en su afán por recopilar la normativa relativa a la canalización de aguas a la urbe refleja, además de las decisiones senatoriales del 11 a. C., la ley referida.
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in eum quid inmittit), salvo en aquellos casos que se haga con la intención de reconstruir o reparar (praeterquam earum faciendarum reponendarum causa) o en los que la ley lo permita (praeterquam quod hac lege licebit oportebit)50. Dicha ley detalla, de forma más minuciosa que la disposición del senado, las conductas que suponen una transgresión del área fijada. Asimismo, se refiere a la potestad atribuida a los curatores aquarum para impedir, con los medios a su alcance, que se viole el perímetro de terreno circundante a los manantiales, arcadas, canalizaciones y galerías. Concretamente se les permite quitar, cortar, extraer, extirpar (tollantur excidantur effodiantur excodicentur ) árboles, vides, espinos, zarzas, cercas, sauces, cañas (arbores vites vepres sentes ripae maceria salicta harundineta). Con el mismo objetivo se les autoriza a tomar en prenda, imponer multas, requerir o exigir (eoque nomine iis pignoris capio multae dictio o rcitique esto)51. También en este punto la ley determina, de forma más pormenorizada que la decisión senatorial, las prerrogativas a adoptar por el curator aquarum frente a las contravenciones. A continuación, refiere la salvedad que, previo estudio de las circunstancias (causa cognita), puede hacerse en lo tocante a plantaciones y vallados (uites arbores quae villis aedificiis maceriisue inclusae sunt maceriae), aun cuando invadan el espacio diáfano a preservar, permitiendo su no demolición a los propietarios (ne demolirentur dominis permiserunt). Se subraya la necesidad, en esos casos excepcionales, de contar con una autorización en la que conste la inscripción del nombre del curator aquarum que dio el permiso52 (quibus inscripta insculpta[q]ue essent ipsorum qui permisissent curatorum nomina maneant )53. En lo atinente a esta materia, nada añade la ley respecto a la previsión senatorial y así se hace constar de modo expreso (hac lege nihilum rogatur). Ninguna apostilla se hace a las dimensiones del área protegida que ya estableciera el senado, por lo que se entiende que permanecen invariables. Observadas con atención las conductas que propician la decisión senatorial y, posteriormente regula la ley, se puede colegir que comparten una nota común: los daños a la infraestructura que contemplan pueden calificarse de indirectos, pues son consecuencia de actuaciones que no implican un ataque directo a la obra pública, ni se encaminan al aprovechamiento ilícito del agua54. Eso excluye, de 50 Vd. Frontin. aq. 129.7. 51 Vd. Frontin. aq. 129.9. 52 Quizás esa autorización obedeciese a que los cercados pudieran frenar el crecimiento anárquico y descontrolado de las raíces. 53 Vd. Frontin. aq. 129.10. 54 Equiparables a esas conductas serían las mencionadas serventías abiertas por los titulares de las tierras colindantes al acueducto, la obstrucción del acceso de los contratistas a las propiedades contiguas al acueducto para la reparación y conservación de las canalizaciones, así como la provisión de materiales y su traslado a través de los terrenos colindantes; situaciones referidas por Frontino como preludio de la disposición senatorial de referencia, vd. Frontin. aq. 124.4 y 125. El pronunciamiento senatorial trata de solventar las dificultades de
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un modo apriorístico, la intención dolosa o ánimo de causar perjuicio en el sujeto que las ejecuta, aserción que puede aplicarse de modo inequívoco a las posibles edificaciones y la plantación de árboles. Asimismo permite diferenciar estas actuaciones de otras, abordadas a lo largo de la obra, en las que el quebranto llevado a cabo sobre distintas partes del trazado de las canalizaciones tiene como finalidad el aprovechamiento ilícito del suministro hídrico55. Hasta aquí las conductas prohibidas, que contravienen lo dispuesto en la disposición senatorial, lo que nos permite conocer las situaciones que pueden provocar la intervención procesal que, de ser exitosa, merece un premio. Pongamos el foco ahora sobre este último.
b) Praemium accusatori Dejando a un lado los presupuestos centramos nuestro interés, en este momento, en el premio previsto a favor del acusador. La ratio del mismo resulta obvia: incentivar la persecución de los hechos referidos, susceptibles de dañar la infraestructura del acueducto, y compensar las molestias que la actuación procesal pudiera generar. Esta forma de tutela supone delegar en los particulares la salvaguarda de esa obra pública frente a la contravención de la disposición senatorial; por ello no resulta extraño que para incentivar y compensar su actuación se prevea una recompensa. En las acciones populares hasta aquí examinadas, el premio se asignaba a quien hubiese favorecido la condena o contribuido en mayor medida a la misma. Siguiendo la literalidad de los términos, en algún caso interpretábamos ampliamente el abanico de beneficiarios, pues las expresiones empleadas permitían su atribución a cualquiera que hubiese participado en la acusación o propiciado la condena, sin circunscribirse exclusivamente al acusador. La incógnita que surge en nuestra hipótesis es la siguiente: como venimos señalando, en los procesos de carácter popular el llamado a ejercitar la acusación es solo uno, lo que excluye la pluralidad de actores. Frontino, al transcribir la decisión senatorial que sirve de ejecución de las obras de reparación para conservar el buen estado de los acueductos. Como casi todas las galerías discurrían por terrenos particulares, se agilizaban las obras favoreciendo el acceso de los operarios a través de los mismos y el suministro de los materiales necesarios, que se extraían de las propiedades colindantes, compensando económicamente a sus titulares por ello. Para un análisis más detallado de estas cuestiones vd. Guerrero, La conservación de las infraestructuras 2018, § II.1. 55 Muestra y ejemplo paradigmático es el escamoteo de agua para desviar su distribución mediante el pinchazo del conducto encargado del suministro. Siguiendo a Frontino, ese tipo de abuso es tan habitual que, a lo largo del recorrido del acueducto, encuentra tubos acribillados por perforaciones fraudulentas que afectaban significativamente al caudal disponible para el uso público. Vd. Frontin. aq. 115.3; 106; 114; 115 y 128.2.
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eje a nuestro estudio emplea la locución: praemium accusatori daretur, en singular, lo que casa perfectamente con lo dicho hasta ahora, sin embargo, a continuación apostilla: cuius opera maxima … El escollo se plantea porque aunque, in primis, se atribuye el premio expresamente al acusador, encorsetando especialmente nuestro caso e invocando un sentido mucho más estricto del que hasta aquí había permitido la terminología empleada en otros pasajes, seguidamente se fija un criterio para la atribución del premio que sugiere que pudieran ser varios los postulantes. Como sabemos, tal y como está concebido el régimen de la acusación en las acciones populares, si se hubiesen postulado varios es necesario optar por uno, cuya designación como acusador lo convierte, en caso de éxito procesal, en beneficiario del premio. Dicho lo anterior, debemos preguntarnos por el sentido de la inclusión de esa cláusula, cuius opera maxima … que, a priori, resulta del todo superflua, pues la previsión del praemium accusatori en una acción en la que únicamente hay un acusador parece determinar, en ese escueto enunciado, al destinatario del premio. Quizás pudo pesar la herencia de la tradición al reproducir un esquema que, en otras situaciones, permitía concretar un criterio práctico que aquí resulta del todo inservible para la asignación del beneficiario de la recompensa. De ser esa la explicación, se trataría de una fórmula que, en nuestro caso, solo se explica como patrón formal, insertado por inercia siguiendo el modelo de hipótesis precedentes56. Dicho esto cabe preguntarse acerca de las posibles motivaciones personales que pudieron inspirar al individuo para el ejercicio de la acusación. En ese sentido podemos barajar la aversión o antipatía hacia el transgresor de la disposición senatorial, circunstancia que, a priori, no resta legitimidad al acusador, pues la adulteración del fundamento de la acción no impide indefectiblemente el desarrollo del correcto ejercicio de su rol. A todo ello cabe añadir la posible concurrencia de un interés particular relacionado con el papel de beneficiario del suministro y, por ende, interesado en el correcto funcionamiento del mismo. Ese criterio, el del interés personal, pudo ser determinante para elegir, de entre varios postulantes, al más idóneo para ejercitar la acusación57. Por otra parte, como advertíamos al inicio de nuestro estudio, en las acciones populares la designación del papel de acusador, de entre los posibles postulantes, correspondía al pretor. Ahora bien, en el caso que nos ocupa, Frontino recoge una referencia que, pese a su brevedad, encierra una enorme relevancia, pues supone la aparición en escena del curator aquarum, al que se atribuye tanto el conocimiento como el enjuiciamiento de esas causas58: deque ea re iudicarent cognoscerentque curatores aquarum. Debemos entender, conforme a lo señalado, que esa figura será la encargada de seleccionar al acusador, si hubiera varios peticionarios, e incluso 56 Sirvan de ejemplo las hipótesis analizadas supra, § II. 57 Vd. Paul. 1 ad ed., D. 47.23.2 y Ulp. 1 ad ed., D. 47.23.3.1. 58 Se refiere a la contravención del perímetro fijado en torno a la estructura de los acueductos, vd. Frontin. aq. 127.3.
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de suplir la labor que, en otros casos, realizaban los recuperatores, pues entre sus prerrogativas refiere (iudicarent cognoscerentque). Con la cautela que exige la interpretación de una información precaria, lo antedicho sugiere el desarrollo de un procedimiento extraordinario tramitado enteramente ante el curator aquarum59. No obstante, carecemos de datos adicionales que ratifiquen o amplíen esa información. Antes de cerrar este apartado, conviene advertir que, al tiempo en que Frontino refiere la vía procesal que estudiamos, ésta debía llevar en vigor casi una centuria60, sin embargo, el retrato que nos muestra evidencia su ineficacia para acabar con las conductas prohibidas por el senado. Otro dato que permite columbrar la esterilidad del cauce judicial apuntado lo proporciona también Frontino, que recoge la ley Quinctia, promulgada tan solo dos años después de la disposición senatorial que nos atañe e insiste, en su rogatio, sobre la misma materia61. El mutismo del texto legal acerca del premio nos lleva a concluir que fue suprimido, idea que se ve ratificada al referir la sanción, cuyo destino queda claro que se dirige al pueblo romano62. Es verosímil conjeturar que la recompensa prevista en el texto senatorial no fue eficaz y la tenacidad de los particulares en la contravención del mismo llevó a las autoridades a prever una modalidad de represión diversa, que endurece considerablemente la pena fijada por el senado, que pasa de 10.000 a 100.000 sestercios ante los mismos hechos.
IV. Conclusiones La fórmula con la que abríamos la rúbrica de nuestro estudio: praemium accusatori alberga peculiaridades que merecen una reflexión en el marco del sc. que la recoge. La disposición senatorial (año 11 a. C.), de la que nos da cuenta Frontino en su obra 59 En esa misma línea vd. Mateo, Nota sobre la concurrencia 2003, 402. Las competencias del curator aquarum plasmadas por Frontino no están del todo definidas. Algunas correspondían a distintos magistrados antes de la creación del cargo. Por lo que se refiere a las jurisdiccionales se le atribuyen prerrogativas concretas en Frontin. aq. 127.3 y aq. 129.9, e incluso, se hace referencia a la responsabilidad supletoria del pretor peregrino en Frontin. aq. 129.5. 60 Nuestra obra de referencia comienza a escribirse en el siglo I, tras el nombramiento de Frontino como curator aquarum, si bien, es muy probable que su culminación se llevara a cabo en época de Trajano, máxime por lo que respecta a los últimos capítulos de la obra 103–129, que son los que se refieren a la normativa. Vd. Paniagua, Sexto Julio Frontino 2016, 43. 61 Cabe advertir que no sucede lo mismo respecto a otras materias, como la extracción y traslado de materiales o el acceso a los terrenos colindantes para agilizar las obras de conservación del acueducto, cuestiones sobre las que la ley no vuelve, quizás porque las medidas previstas mediante sc. fueron más eficaces. 62 Frontin. aq. 129.4 y 6: … is Populo Romano centum milia dare damnas esto …
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De aquaeductu urbis Romae, fija un área expedita alrededor del acueducto para evitar los daños que edificaciones y plantaciones pudieran causar en la obra pública. La sanción ante la transgresión de ese perímetro requiere la interposición de una acción cuya promoción corresponde a un cives, a favor del cual se prevé, en caso de condena, un premio que asciende a la mitad de la cuantía prevista en concepto de pena. Seleccionadas algunas hipótesis de acciones quivis ex populo en las que el premio se destina a quien haya favorecido la condena y consiste en parte de ésta, su examen permite la identificación de notas comunes y especificidades con el caso que nos atañe. Entre los denominadores comunes la legitimación para el ejercicio de la acusación no se basa en la satisfacción de un interés privado, lo que no obsta para que, eventualmente, pueda confluir un interés personal. Conforme a esa idea, interpone la acción quien tuviese interés y fuese designado como el más idóneo para su ejercicio, en caso de ser varios los postulantes. Respecto al porcentaje de la condena que se atribuye en concepto de premio, el tratamiento es análogo: se asigna como recompensa la mitad del montante de la sanción (dimidium), mientras que la otra mitad se atribuye al erario. En la medida en que el premio procede de la condena impuesta al condenado, se supedita la obtención del mismo al éxito procesal de la acción puesta en marcha por el acusador. La ratio de este presupuesto es evitar el ejercicio temerario de la acusación, supeditando la obtención de la recompensa a la previa condena del acusado. Por lo que respecta a la terminología empleada, cabe señalar que no es homogénea: en algunos casos se hace referencia explícita al premio, en otros, sin embargo, se alude a una cuantía, que opera de modo incontestable como recompensa a favor del acusador, pero sin hacer mención del citado vocablo. Cabe advertir que no existe una fórmula única o prototípica en relación con los términos en los que se prevé el premio, si bien se presentan similitudes. De las fuentes analizadas se infiere, inequívocamente, que el premio es único, mientras que varios pueden ser los aspirantes a convertirse en beneficiario del mismo; y ello pese a que en las acciones populares es un solo individuo el que puede ejercer la acusación, pues aunque fuesen varios los peticionarios es necesario elegir al más idóneo para impulsar el proceso. Una atenta observación de las distintas hipótesis permite discernir una terminología que rehúsa y huye del empleo del sintagma praemium accusatori, que únicamente se constata en nuestro caso. Esto sentado, el criterio que se repite insistentemente en las fuentes, aunque expresado en modos diversos, es que obtiene la recompensa quien haya contribuido en mayor medida a la condena del acusado. Por lo que respecta al sentido de esta fórmula, entendemos que, en ciertos casos, es admisible que, excepcionalmente, persona distinta del acusador, por ejemplo un testigo esencial para la condena, pueda ser beneficiario del premio. En nuestro hipótesis, sin embargo, solo cabe admitir al acusador siguiendo la literalidad de los términos: praemium accusatori daretur, por lo que la cláusula prevista por el senado para fijar el criterio de atribución del premio: cuius opera maxima …, resulta innece-
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saria; quizás pueda explicarse como deudora de la tradición anterior, que hacía uso de la misma en situaciones en las que la recompensa no se circunscribía al acusador. Otra de las singularidades propias de nuestro caso que conviene subrayar es la entrada en escena del curator aquarum que, desde la atalaya de su cargo, recibe el encargo de conocer y enjuiciar ese tipo de causas. Aunque esa es la única noticia que ofrece Frontino al respecto y la parquedad informativa suscita incertidumbre, basándonos en esos datos, la interpretación que nos parece más acorde es la instauración de una cognitio extra ordinem presidida y desarrollada ante ese magistrado, máximo responsable en materia de aguas también en el ámbito jurisdiccional. Presupuesto todo lo anterior, la acción prevista por el senado se presenta como un instrumento procesal que, verosímilmente, no resultó del todo eficaz para la persecución de los hechos que prohíbe. Como prueba, baste citar el caótico panorama que ofrecen los aledaños del acueducto, descrito por el propio Frontino, y la aprobación en el 9 a. C., tan solo dos años después del pronunciamiento senatorial, de la lex Quinctia, que vuelve sobre esta misma materia recrudeciendo la sanción y suprimiendo el premio. Todo ello nos lleva a colegir la inoperancia de la normativa anterior y el empeño en modelar un sistema represor más eficaz ante la inobservancia del perímetro protegido por el senado. A través de las noticias que ofrecen las fuentes colacionadas, hemos tratado de arrojar nueva luz sobre la disposición senatorial que aquí interesa y el premio desde la perspectiva de nuestra hipótesis, ponderando la presencia de elementos que son fruto y consecuencia del panorama que envuelve el régimen jurídico de la canalización y el abastecimiento de agua a Roma.
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Immacolata Er amo
I senatus consulta negli Strategemata di Frontino Cum ad instruendam rei militaris scientiam unus ex numero studiosorum eius accesserim, eique destinato quantum cura nostra valuit satisfecisse visus sim, deberi adhuc institutae arbitror operae ut sollertia ducum facta, quae a Graecis una στρατηγημάτων appellatione comprehensa sunt, expeditis amplectar commentariis: «tra i cultori di scienza militare sono stato il solo a farne una trattazione sistematica, e mi sembra di aver soddisfatto questo intento con tutta l’applicazione che ho potuto dedicarvi; ritengo ora di dover completare l’opera intrapresa, pertanto raccoglierò in un agile compendio quel tipo di operazioni che sono frutto dell’ingegno dei comandanti e che i Greci definiscono con un unico termine: ‘stratagemmi’1. Nel proemio degli Strategemata, Sesto Giulio Frontino rivendica orgogliosamente la sua identità di autore de re militari per essere stato il primo ad aver trattato la materia in modo sistematico. Stando a Vegezio, che utilizzò questo suo scritto per la Epitoma rei militaris2, egli riassunse, come Cornelio Celso aveva fatto alcuni decenni prima di lui, molte delle nozioni che Catone il Censore aveva messo per iscritto nel De disciplina militari3, riscuotendone un discreto successo, proprio per aver fornito un utile servizio allo stato e tanto da meritare le lodi di Traiano in persona per il suo impegno4. 1 Frontin. strat. 1.1.1. Per le caratteristiche e la struttura dell’opera nonché per la sua collocazione nell’ambito della polemografia vd. Eramo, Exempla 2020 ed Ead., Frontino 2022, xxiii–lxxxix. 2 Non è possibile, stante la perdita del trattato militare di Frontino, verificare puntualmente l’utilizzo che ne fa Vegezio, operazione che tenta di fare per il III e IV libro dell’Epitoma Schenk, Die Quellen 1930, 39–81, considerando anche il valore ideologico che Vegezio conferisce alla sua opera (discussione in Neumann, s. v. Publius [Flavius] Vegetius Renatus 1965, 1005–1018). 3 Veg. mil. 1.8.10–11: haec necessitas compulit evolutis auctoribus ea me in hoc opusculo fidelissime dicere, quae Cato ille Censorius de disciplina militari scripsit, quae Cornelius Celsus, quae Frontinus perstringenda duxerunt. Vd. Lenoir, La littérature 1996, 81–82; Eramo, Exempla 2020, 33–35. 4 Veg. mil. 2.3.7: idem [i. e. quae pro utilitate rei publicae scribuntur] fecerunt alii complures, sed precipue Frontinus, divo Traiano ab eiusmodi comprobatus industria.
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Del resto, Frontino non era uno stratège en chambre: legatus legionis nel 70 d. C., legatus Augusti pro praetore in Britannia dal 74 al 77, fu al fianco di Domiziano nella campagna contro i Chatti nell’835. Eliano Tattico, che lo incontrò nella sua villa di Formia, gli riconosceva questa esperienza sul campo e lodava al tempo stesso la sua conoscenza delle teorie militari greche; verosimilmente sottopose al suo giudizio la prima stesura della Theoria tactica, ricevendone apprezzamento e incoraggiamento6. Il manuale de re militari non è stato tramandato. Abbiamo gli Strategemata, raccolta ragionata di stratagemmi militari che Frontino concepì come appendice e completamento di quell’opera di scientia militaris di impianto teorico. Questi esempi, tratti da episodi anche molto antichi della storia greca e romana, avevano lo scopo di fornire materia di ispirazione ai generali dell’epoca. Frontino non intendeva riproporre, in contesti e con attori diversi, azioni e operazioni di successo, era semmai convinto dell’opportunità che il generale potesse supportare l’insostituibile esperienza sul campo e l’intelligenza strategica con un bagaglio di conoscenze, nel quale la formazione teorica poteva essere corredata da un repertorio esemplificativo di casi di studio7.
5 «The consular Julius Frontinus compiled several volumes of Strategemata: for the most part, literary and antiquated. The reader would never guess that Frontinus had once governed the province of Britain and subdued a refractory region»: è il commento tranchant di Syme, Tacitus 1958, 68. Sulla carriera militare di Frontino vd. Kappelmacher, Iulius 1918, coll. 591–593; Ward Perkins, The Career 1937; Eck, Die Gestalt Frontins 19832; Christ, Sextus Iulius Frontinus 1989, 149–154; Laederich, Frontin 2016, 9–23. 6 Ael. pr. 3: Ἐπεὶ δὲ ἐπὶ τοῦ θεοῦ πατρός σου Νέρουας παρὰ Φροτίνῳ τῷ ἐπισήμῳ ὑπατικῷ ἐν Φορμίαις ἡμέρας τινὰς διέτριψα δόξαν ἀπενεγκαμένῳ περὶ τὴν ἐν τοῖς πολέμοις ἐμπειρίαν, συμβαλών τ’ ἀνδρὶ εὗρον οὐκ ἐλάττονα σπουδὴν ἔχοντα εἰς τὴν παρὰ τοῖς Ἕλλησι τεθεωρημένην μάθησιν, ἠρξάμην οὐκέτι περιφρονεῖν τῆς τῶν τακτικῶν συγγραφῆς, οὐκ ἂν ἐσπουδάσθαι παρὰ Φροντίνῳ δοκῶν αὐτήν, εἴπερ τι χεῖρον ἐδόκει τῆς Ῥωμαϊκῆς διατάξεως περιέχειν. A 1.2. Eliano cita Frontino tra gli scrittori di tattica suoi predecessori, ma questo non prova che ne sia stato influenzato (ipotesi che avanza König, Conflicting Models 2017, 156). 7 Strat. 1.1.1: ita enim consilii quoque et providentiae exemplis succincti duces erunt, unde illis excogitandi generandique similia facultas nutriatur; praeterea continget, ne de eventu trepidet inventionis suae, qui probatis eam experimentis comparabit. Caratteristiche stilistiche e strutturali della raccolta inducono König, Conflicting Models 2017, 162–163 a mettere in discussione il suo valore formativo. Il rischio di ingenuità è comunque dietro l’angolo: «gli Strategemata sono scarsamente legati all’attualità e sono giudicati privi di interesse strategico. Mettono altresì in luce una buona dose di ingenuità, sia nella convinzione che le circostanze storiche si ripetano eguali, sia e ancor più nella dichiarata fiducia che il generale romano, impegnato in difficili operazioni militari, o, peggio, caduto in un’imboscata, potesse trovare rapido soccorso nella lettura di vetusti se non improbabili aneddoti» (Del Chicca, Personalità 2002, 208); così come anche quello di sottovalutare l’autore (Campbell, Teach Yourself 1987, 14), se non si tiene costantemente presente che gli Strategemata nacquero come una sorta di appendice a un’opera di cui si conosce poco o nulla.
I senatus consulta negli Strategemata di Frontino
L’idea non era del tutto nuova. Sotto il principato di Claudio un altro autore militare, Onasandro, nel suo Strategikos aveva raccolto una serie di precetti di arte del comando, rivolgendosi ai magistrati cum imperio come potenziali destinatari, e traendo per loro materiale da «imprese praticate e da quegli uomini da cui discende l’intera stirpe dei Romani, che fino ad oggi ha primeggiato per nobiltà e valore», ovvero «tutto quanto, attraverso imprese e scontri reali, è accaduto soprattutto ai Romani: gli accorgimenti che misero in atto per evitare di patire danni e gli espedienti che escogitarono per infliggerli»8. L’originalità di Frontino risiede piuttosto nel modo in cui struttura il suo repertorio, operando una cernita di episodi storici, e storico-leggendari, e organizzandoli sistematicamente per categorie, da consultare alla bisogna, sotto forma di risposte a domande indirette (es.: de occultandis consiliis, de constituendo statu belli, quemadmodum incitandus sit ad proelium exercitus), e all’interno di una più generale ripartizione logico-diacronica che corrisponde alla ripartizione in tre libri: stratagemmi in preparazione della guerra, stratagemmi nel corso della guerra, stratagemmi di assedio9. Questa struttura è in qualche modo turbata dalla presenza di una sezione ulteriore, un quarto libro, introdotto da una prefazione che lo presenta come una sorta di appendice costituita da «esempi a carattere strategico, più che stratagemmi», ovvero aneddoti riguardanti in generale l’arte del comando, simili in parte a quelli già riportati10. La differenza tra i due ambiti è chiarita al termine del proemio generale degli Strategemata, dove l’autore distingue tra le azioni compiute da un generale con lungimiranza, utilità, successo e costanza – che sono definite complessivamente ‘strategika’ – e gli strategemata veri e propri, che sono solo parte degli strategika e individuano specificamente azioni svolte con abilità e astuzia
8 Onas. Strat. pr. 7–8: πάντα διὰ πείρας ἔργων ἐλήλυθεν καὶ ὑπὸ ἀνδρῶν τοιούτων, ὧν ἀπόγονον ὑπάρχει Ῥωμαίων ἅπαν τὸ γένει καὶ ἀρετῇ μέχρι τοῦ δεῦρο πρωτεῦον. […] πάντα […] κεχωρηκότα μάλιστα μὲν Ῥωμαίοις· ἅ τε γὰρ ποιήσαντες ἐφυλάξαντο παθεῖν καὶ δι’ ὧν ἐμηχανήσαντο δρᾶσαι. Sui destinatari dello Strategikos e la letteratura militare come bagaglio culturale dell’aristocrazia senatoria vd. Eramo, Precetti per gestire l’imperium 2021. 9 Non coglie prettamente nel segno il commento di König, Conflicting Models 2017, 168: «For, despite its superficial organisation, a destabilising sense of chaos emerges as one reads the Strategemata through. […] the text’s classification of exempla according to the various stages of conflict that a general might face makes an authoritative, rationalizing impression. However, this organisation of material does not simply place like stories alongside each other in ways that illuminate particular strategic themes; it also juxtaposes anecdotes in various disorientating ways» (ma vd. 174 per un più equanime e approfondito giudizio). La finalità di consultazione, più che di fruizione sistematica, giustifica l’impressione di disorganizzazione che si ravvisa nell’organizzazione della raccolta. 10 Strat. 4.1.1: exempla potius strategicon quam strategemata: quae idcirco separavi, quia quamvis clara diversae tamen erant substantiae, ne, si qui forte in aliqua ex his incidissent, similitudine inducti praetermissa opinarentur. Per lo stato della questione vd. Eramo, Exempla 2020, 49–54.
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tanto nell’evitare il nemico quanto nello sconfiggerlo11. Il carattere accessorio del quarto libro, e alcune peculiarità di natura linguistica e stilistica, hanno indotto alcuni studiosi a dubitare dell’autenticità e sua e della parte finale del proemio generale, che ne introduce l’argomento, alimentando un nutrito dibattito12. Non è questa la sede per riprendere la questione nei dettagli; si può comunque osservare che il carattere aperto della raccolta, suscettibile di integrazioni e anche di interpolazioni, esprimeva la volontà stessa dell’autore che, al termine della sezione ‘autentica’ del proemio, ammetteva di aver tralasciato molte testimonianze utili e non per negligenza bensì per oggettiva impossibilità di raccogliere tutti gli esempi tramandati in lingua e latina e greca, che altri avrebbero potuto aggiungere. Del resto, Frontino non avrebbe biasimato un’operazione di integrazione, ritenendola invece un valido aiuto, dal momento che aveva intrapreso questa come altre imprese non per trarne fama ma per l’utile altrui13. Con la sua raccolta di stratagemmi militari Frontino si muove in uno spazio letterario nuovo, inaugurando un filone che avrà una discreta fortuna nella manualistica militare greca, con gli Strategemata di Polieno e le retractationes bizantine14, e collocandosi consapevolmente in una terra a mezzo fra storiografia e raccolte di 11 Strat. 1.1.5: si qui erunt, quibus volumina haec cordi sint, meminerint στρατηγικῶν et στρατηγημάτων perquam similem naturam discernere. Namque omnia, quae a duce provide, utiliter, magnifice, constanter fiunt, στρατηγικὰ habebuntur; si in specie eorum sunt, στρατηγήματα. horum propria vis in arte sollertiaque posita proficit tam ubi cavendus quam opprimendus hostis sit. Sul ragionamento sviluppato da Frontino vd. Eramo, Stratagemmi 2020, 79–80; inoltre Wheeler, Stratagem 1988, 17–24; Santini, Il prologo 1992, 981–990 e König, Conflicting Models 2017, 167–178 per un commento generale al proemio. 12 La questione fu dibattuta dalla filologia ottocentesca, poi variamente ripresa in tempi recenti. Il primo a dubitare dell’autenticità del libro fu Wachsmuth, Ueber die Unächtheit 1860, 574–583, che pensava a un’aggiunta databile al IV–V sec., mentre Wölfflin, Frontins Krieglisten 1875 evidenziava le divergenze tra i primi tre libri e il quarto; Gundermann, Quaestiones 1888, 323–326 e Schanz, Zu Frontins Kriegslisten 1889 ipotizzavano un autore coevo a Frontino o di poco posteriore. A difesa dell’autenticità del libro si levarono, tra gli altri, Fritze, De Iuli Frontini 1888; Kortz, Quaestiones 1893, 5–10; Bendz, Die Echtheitsfrage 1938, 254– 266 per le conclusioni (che seguono una puntuale analisi filologica e stilistica). Assertori della tesi interpolazionistica sono Ireland, Iuli Frontini 1990, XXVI–XXVII e Pérez Castro, Acèrca 1999, 45–47. 13 Strat. 1.1.3: huic labori non iniuste veniam paciscar, ne me pro incurioso reprehendat qui praeteritum aliquod a nobis reppererit exemplum. quis enim ad percensenda omnia monumenta quae utraque lingua tradita sunt, sufficiat? at multa et transire mihi ipse permisi: quod me non sine causa fecisse scient qui aliorum libros eadem promittentium legerint. verum facile erit sub quaque specie suggerere: nam cum hoc opus, sicut cetera, usus potius aliorum quam meae commendationis causa aggressus sim, adiuvari me ab his qui aliquid illi adstruent, non argui credam. Sull’intento utilitaristico è improntata anche la composizione del De aquae ductu: vd. Del Chicca, Personalità 2002, 210–212. 14 Rance, Introduction 2016, 25–26; sulle retractationes bizantine un punto di riferimento rimane Dain, Le cinq adaptations 1931.
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exempla, generi letterari da cui trae ispirazione e soprattutto argomento. Presentando, infatti, la sua raccolta e illustrando i criteri seguiti, Frontino ammette che racconti di stratagemmi utilizzati in guerra sono già presenti nelle opere storiche, ma non sono facilmente e immediatamente individuabili. Difficoltà incontra anche chi si approccia alle raccolte di esempi, che alla fine rischiano di confondere il lettore con una ridda di informazioni a lui non particolarmente utili15. Trattandosi di una raccolta sistematica di aneddoti tratti da altre fonti, più informate e molte delle quali largamente pervenute, gli studiosi hanno considerato gli Strategemata una fonte secondaria e di scarso rilievo, meno meritevole di attenzione rispetto al De aquae ductu dello stesso autore, anch’esso per più aspetti un unicum nella letteratura latina16. In realtà, è la scelta stessa dell’oggetto del trattato e la volontà di conferirgli il carattere sistematico di trattazione a rappresentare la cifra di novità che contraddistingue l’opera di Frontino. È chiaro che un criterio di scelta guidò l’operazione di cernita e raccolta di episodi esemplari di stratagemmi in guerra, la cui valorizzazione era così estranea alla morale militare tradizionale romana che Frontino fu costretto a ricorrere alla lingua greca per definirli17. Tuttavia, è dalla storia romana che egli trasse la maggior parte di questi esempi. La ragione di tale predilezione va rinvenuta non tanto nella maggiore varietà di materiale a disposizione, quanto nell’intento utilitaristico che l’autore si era proposto. Uomo di comando capace ed esperto, e uomo di governo scrupoloso e responsabile18, Frontino conosceva approfonditamente le strutture della vita politica romana e i meccanismi costitutivi dell’impero, della cui superiorità si sentiva in qualche modo partecipe19. Il capitolo sulla Romanitas degli Strategemata è ancora tutto da delineare anche in virtù del carattere stesso dell’opera, che presenta soltanto i dati informativi minimi per inquadrare il singolo aneddoto 15 Strat. 1.1.2: illud neque ignoro neque infitior, et rerum gestarum scriptores indagine operis sui hanc quoque partem esse complexos et ab auctoribus exemplorum quidquid insigne aliquo modo fuit, traditum; sed ut opinor, occupatis velocitate consuli debet. longum est enim singula et sparsa per immensum corpus historiarum persequi, et hi, qui notabilia excerpserunt, ipso velut acervo rerum confuderunt legentem. Frontino richiama qui l’incipit dei Dicta et facta memorabilia di Valerio Massimo (1.1.1): Urbis Romae exterarumque gentium facta simul ac dicta memoratu digna apud alios latius diffusa sunt quam ut breviter cognosci possint, ab inlustribus electa auctoribus digerere constitui, ut documenta sumere volentibus longae inquisitionis labor absit. Vd. König, Conflicting Models 2017, 157–160. Sul rapporto tra Frontino e le raccolte di exempla preesistenti Bendz, Die Echteithsfrage 1938, 56–70; Del Chicca, Personalità 2002, 208. 16 Wheeler, Polyaenus 2010, 19–36 per le raccolte di stratagemmi; Del Chicca, Struttura 1995 e Ead., Frontino 2004, XII–XXII per il De aquae ductu. 17 Eramo, Stratagemmi 2020, 77–79. 18 Ai dati salienti della sua attività di comandante, sopra richiamati, sono da aggiungere quelli relativi alla carriera amministrativa, culminata nell’incarico di curator aquarum nel 97 e terminata con la carica di consul III nel 100 con l’imperatore Traiano come collega. 19 Tot aquarum tam multis necessariis molibus pyramidas videlicet otiosas compares aut cetera inertia sed fama celebrata opera Graecorum, l’autore afferma orgogliosamente in aq. 16.
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nell’ottica dello stratagemma, dell’azione positiva o vittoriosa e dell’exploit, e semplifica sintetizzando le notizie non utili a questo fine, compreso il contesto storico generale di riferimento, la temperie sociale e l’attività amministrativa e politica che in qualche modo supportò le singole vicende o ne fu conseguenza20. È tuttavia innegabile che alcuni di questi elementi emergano, si direbbe recepiti in modo quasi involontario dalle fonti, nel tessuto espositivo, e consentono alcune considerazioni utili a inquadrare la questione. In tale ottica procede il repertorio che qui di seguito si presenta, nel quale si tenterà di mettere in evidenza come la presenza di riferimenti all’attività del senato negli Strategemata, per vicende e questioni spesso più ampiamente note nelle fonti parallele, possa essere una chiave di accesso per entrare nel laboratorio compositivo dell’opera. Va detto che l’attività del senato e i suoi interventi non figurano tra gli interessi prioritari degli Strategemata, come è naturale data la natura dell’opera: su un totale di circa 500 aneddoti, si contano soltanto tredici riferimenti, tutti indiretti; di questi, la massima parte è collocata nel quarto libro, il che se da una parte risulta plausibile in virtù del contenuto, che, si è visto, verte sugli strategika più che sugli strategemata, dall’altra complica l’operazione di Quellenforschung alla luce della problematica genesi del libro stesso. In sintesi, si tratta di: I) stratagemmi tratti da Tito Livio, Ab Urbe condita, una delle fonti principali degli Strategemata21; II) stratagemmi desunti dai Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo; III) stratagemmi di provenienza non immediatamente identificabile, a cui si dedicherà specifica attenzione.
I. Modelli liviani Le informazioni sull’attività senatoria tratte da Livio si riferiscono alla seconda guerra punica e si trovano tutte nel quarto libro, ad eccezione di uno stratagemma riportato nel terzo libro, riferito all’assedio di Capua del 211 a. C., quando il senato decretò che l’esercito non dovesse essere mosso dalla città fino a che non fosse stata espugnata (strat. 3.18.3): Idem, ab Hannibale obsiderentur et ipsi obsiderent Capuam, d e c r e v e r u n t , n e n i s i c a p t a e a r e v o c a r e t u r i n d e e x e r c i t u s . È qui evidente come Frontino segua Livio nell’enunciato del decretum senatorio, ma solo per la parte relativa alla sorte dei soldati romani che assediavano Capua: Q. Fulvio Ap. Claudio, prioris anni consulibus, prorogatum imperium est atque
20 Sulla tendenza all’atemporalità paradigmatica propria delle raccolte di exempla vd. Marino, Uso e rappresentazione 2018, 351–355 per Valerio Massimo. 21 Il 10 % degli aneddoti della raccolta, secondo Kappelmacher, Iulius 1918, coll. 599–600, avrebbe Livio come fonte diretta. Circa l’attività del senato nell’opera di Tito Livio vd. da ultimo Cavaggioni, L’attività deliberativa 2018, con bibl. citata.
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exercitus quos habebant decreti, adiectumque ne a Capua quam o b s i d e b a n t a b s c e d e r e n t p r i u s q u a m e x p u g n a s s e n t 22. A strat. 4.1.25 e 4.1.44 Frontino espone la vicenda dei soldati reduci da Canne (216 a. C.), che il senato sottopose a severe misure punitive, consistenti nella relegazione in Sicilia e nella sostituzione della razione di grano con quella di orzo, dettaglio ‘tecnico’ che soltanto Frontino rileva per questo frangente, vittima di un fraintendimento della fonte liviana o più probabilmente di un anacronismo (strat. 4.1.25)23:Legionibus, quae Punico bello militiam detractaverant, i n S i c i l i a m v e l u t r e l e g a t i s per septem annos hordeum e x s e n a t u s c o n s u l t o d a t u m e s t . Questi soldati relegati in Sicilia chiesero poi a Marcello di poter tornare in guerra (212 a. C.: strat. 4.1.44): Q. Fulvio Appio Claudio consulibus milites e x p u g n a C a n n e n s i i n S i c i l i a m a s e n a t u r e l e g a t i postulaverunt a consule24 M. Marcello ut in proelium ducerentur. I l l e s e natum consuluit: senatus negavit sibi placere committi his rem pub l i c a m q u i e a m d e s e r u i s s e n t ; Marcello tamen permisit facere, quod videretur, dum ne quis eorum munere vacaret neve donaretur neve quod praemium f e r r e t a u t i n I t a l i a m r e p o r t a r e t u r, d u m P o e n i i n e a f u i s s e n t .
I due stratagemmi sintetizzano, riprendendola verbatim in alcuni passaggi, l’esposizione più articolata presente in Livio, che riporta la punizione riservata ai soldati e successivamente la loro supplica, quindi la posizione di Marcello, che investì della questione il senato, e infine la decisione dell’organo, che, pur esprimendo perplessità riguardo alla richiesta, conferì a Marcello potere decisionale in merito, a condizione che nessuno di quei soldati ricevesse premi o licenze o ritornasse in Italia per tutto il tempo della permanenza del nemico sul suolo italico: De exercitu M. Marcelli, qui eorum ex fuga Cannensi essent, i n S i c i l i a m e o s t r a d u c i a t q u e i b i m i l i t a r e d o n e c i n I t a l i a b e l l u m e s s e t p l a c u i t ; eodem ex dictato-
22 Liv. 26.1.2. Nessun riferimento all’intervento diretto del senato riserva Polibio, sia nel racconto delle vicende dell’assedio di Capua, sia nella riflessione conclusiva sul valore di Romani e Cartaginesi, dove solo un cenno è dedicato alla resistenza romana (elogiata genericamente come ἀσαλεύτως, τεθαρρηκότως e τεθαρρηκότως): Ῥωμαῖοι δὲ καὶ τὴν πατρίδα διεφύλαξαν καὶ τὴν πολιορκίαν οὐκ ἔλυσαν, ἀλλ’ ἔμειναν ἀσαλεύτως καὶ βεβαίως ἐπὶ τῶν ὑποκειμένων καὶ τὸ λοιπὸν ἤδη τεθαρρηκότως προσέκειντο τοῖς Καπυανοῖς (9.9.8). 23 La sostituzione di grano con orzo fu misura punitiva adottata da Marcello nel 209, a seguito della battaglia a Canosa (Liv. 27.13.9; Plut. Marc. 25.10), e attribuita a Ottaviano da Suet. Aug. 24. Vd. Péré-Noguès, Autour des legiones 1998, 228; Feraco, Tito Livio 2017, 220–221. 24 Chiaramente in questo luogo Frontino utilizza consule nel senso di proconsule, come opportunamente faceva notare Gundermann, Quaestiones 1888, 351–352; Themann-Steinke, Valerius 2008, 424 preferisce credere a un errore di Frontino o della tradizione manoscritta.
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ris legionibus reici militem minimi quemque roboris nullo praestituto militiae tempore nisi quod stipendiorum legitimorum esset25. Sub haec dicta ad genua Marcelli procubuerunt. Marcellus id nec iuris nec potestatis suae esse dixit; senatui scripturum se omniaque de sententia patrum facturum esse. Eae litterae ad novos consules allatae ac per eos in senatu recitatae sunt; consultusque de iis litteris i t a d e c r e v i t senatus: militibus, qui ad Cannas commilitones suos pugnantes deseruissent, senatum nihil videre cur res publica committenda esset. Si M. Claudio proconsuli aliter videretur, faceret quod e re publica fideque sua duceret, dum n e quis eorum munere vacaret neu dono militari vir tutis ergo donaret u r n e u i n I t a l i a m r e p o r t a r e t u r d o n e c h o s t i s i n t e r r a I t a l i a e s s e t 26
Frontino coglie l’intento di Livio di sottolineare l’autorità del senato in materia di disciplina militare e la severità delle sanzioni esemplari irrogate, evidenziandolo nel suo breve ragguaglio27. La decisione del senato richiamata in strat. 4.5.6 si riferisce alla gratitudine pubblica rivolta a C. Terenzio Varrone per il comportamento adottato dopo Canne (216 a. C.): Varro collega eius vel maiore constantia post eandem cladem vixit, g r a t i a e q u e e i a s e n a t u e t p o p u l o a c t a e s u n t , q u o d n o n d e s p e r a s s e t r e m p u b l i c a m . Non autem vitae cupiditate sed rei publicae amore se superfuisse reliquo aetatis suae tempore approbavit; et barbam capillumque summisit, et postea numquam recubans cibum cepit; honoribus quoque, cum ei deferrentur a populo, renuntiavit, dicens felicioribus magistratibus rei publicae opus esse.
Anche in tal caso Frontino riprende il racconto esposto da Livio con maggior dovizia di particolari: quo in tempore ipso adeo magno animo ciuitas fuit ut consuli ex tanta clade, cuius ipse causa maxima fuisset, redeunti et obuiam itum frequenter a b o m n i b u s o r d i n i b u s s i t e t 25 Liv. 23.25.7; vd. anche 24.18.9: additumque tam truci censoriae notae triste senatus consultum, ut ei omnes quos censores notassent pedibus mererent mitterenturque in Siciliam ad Cannensis exercitus reliquias, cui militum generi non prius quam pulsus Italia hostis esset finitum stipendiorum tempus erat. 26 Liv. 25.7.1–4. Da 26.1.7–8 si apprende però che il margine decisionale concesso a Marcello fu in realtà minimo. L’episodio è anche richiamato da Val. Max. 2.7.15 (su cui infra; su questa versione vd. Marino, Uso e rappresentazione 2018, 369–370; Klotz, Studien 1942, 39, per un confronto delle due versioni) e Plut. Marc. 13.7–10. Sulla vicenda, il ruolo rivestito dal senato e le conseguenze del provvedimento Péré-Noguès, Note 1997; Cavaggioni, L’attività deliberativa 2018, 268–269. 27 Péré-Noguès, Autour des legiones 1998, 226–228.
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g r a t i a e a c t a e q u o d d e r e p u b l i c a n o n d e s p e r a s s e t ; qui si Carthaginiensium ductor fuisset, nihil recusandum supplicii foret28.
II. Modelli aneddotici: Valerio Massimo Si è visto come nel proemio degli Strategemata Frontino abbia identificato le fonti per i suoi stratagemmi militari nelle opere storiche e nelle raccolte di exempla. Per quanto riguarda i senatus consulta, se la fonte storica prediletta è Livio, quella aneddotica è Valerio Massimo29. Nei Facta et dicta memorabilia tutto il cap. 2.7.15 è dedicato alla disciplina militare e in special modo ai provvedimenti assunti dal senato in materia30. Questo capitolo offriva a Frontino già pronti gli aneddoti riguardanti i soldati degradati a seguito di un senatus consultum. Così strat. 4.1.18 riporta l’episodio dei soldati puniti dopo essere stati catturati e liberati da Pirro (279 a. C.): Appii Claudii sententia senatus eos, qui a P y r r h o r e g e Epirotarum, capti et p o s t e a r e m i s s i e r a n t , equites ad pedites redegit, pedites ad levem armaturam, omnibus e x t r a v a l l u m iussis tendere, donec b i n a h o s t i u m s p o l i a s i n g u l i r e f e r r e n t .
Frontino riporta in sintesi, ma compiutamente e senza omettere particolari, i provvedimenti del senato su proposta del censore Appio Claudio Cieco: i soldati furono degradati (da cavalieri a fanti e da fanti ad armati alla leggera), e fu loro proibito di attendarsi nel campo. Soltanto chi fosse tornato vittorioso due volte dal campo nemico sarebbe stato reintegrato nei propri diritti: Succurrebat enim illis quam animosa severitate Tarentino bello maiores eorum usi fuissent; in quo quassatis et attritis rei publicae viribus, cum magnum captivorum civium suorum numerum a P y r r h o r e g e u l t r o m i s s u m r e c e p i s s e n t , decreverunt ut ex iis qui equo meruerant peditum numero militarent, qui pedites fuerant in funditorum auxilia transcriberentur, neve quis eorum intra castra tenderet, n e v e l o c u m e x t r a a d s i g n a t u m v a l l o aut 28 Liv. 22.61.14–15; provvedimento richiamato anche in 25.6.7. La vicenda è menzionata da Val. Max. 3.4.4 e 4.5.2 e Plut. Fab. 18.4. 29 Sui rapporti tra gli Strategemata e i Facta et dicta memorabilia vd. Bosch, Die Quellen 1929, 82–91 e Klotz, Studien 1942, 33–52; inoltre Skidmore, Practical Ethics 1996, 49–50; Eramo, Frontino 2022, li–liii. 30 Val. Max. 2.7.15: sed tempus est eorum quoque mentionem fieri quae iam non a singulis verum ab universo senatu pro militari more obtinendo defendendoque administrata sunt. Su questa sezione vd. Marino, Uso e rappresentazione 2018, 368–374, nonché Coudry, La deuxième guerre 1998, 50 e Langlands, Reading 2008, 169–178; si concentra sugli aspetti stilistici e linguistici il commento di Themann-Steinke, Valerius 2008, 415–433. Già Bosch, Die Quellen 1929, 84–85 formulava una serie di ipotesi circa le fonti del capitolo sulla base del confronto con Frontino, giungendo a conclusioni non sempre condivisibili e comunque da verificare caso per caso.
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fossa cingeret, neve tentorium ex pellibus haberet. Recursum autem iis ad pristinum militiae ordinem proposuerunt, si quis bina spolia ex hostibus rettulisset31.
I soldati sconfitti dai Liguri nel 176 a. C. e responsabili della morte del loro comandante Q. Petilius Spurinus furono invece privati della paga annuale (strat. 4.1.46.): Cum ab Liguribus in proelio Q. Petilius consul interfectus esset, decrevit senatus, uti ea legio, in cuius acie consul erat occisus, tota infrequens referretur, s t i p e n d i u m e i a n n u u m n o n d a r e t u r, a e r a r e c i d e r e n t u r.
Dall’exemplum riportato da Valerio Massimo, Frontino trae, riprendendola fedelmente, la sostanza del provvedimento adottato dal senato, senza tuttavia affissare l’attenzione sulla responsabilità dei soldati per la morte del loro comandante, questione che invece la sua fonte ritiene cruciale per l’emanazione della decisione punitiva dell’organo, nell’intento di evidenziarne il ruolo di severo custode di disciplina: Age, quam graviter senatus tulit quod Q. Petillium consulem fortissime adversus Ligures pugnantem occidere milites passi essent! L e g i o n i n e q u e s t i p e n d i u m a n n i p r o c e d e r e n e q u e a e r a d a r i v o l u i t , quia pro salute imperatoris hostium se telis non obtulerant. Idque decretum amplissimi ordinis speciosum et aeternum Petilli monumentum exstitit, sub quo in acie morte in curia ultione clari cineres eius adquiescunt32.
La ribellione dei Liguri e lo scontro che ebbe luogo tra il monte Ballista e il Leto33, durante il quale il console Q. Petilius Spurinus trovò la morte, sono riportati anche da Livio, che però non fa cenno della punizione dei soldati. Si deve tenere presente che il testo liviano è lacunoso proprio nel punto in cui si descrivono le ripercussioni della vicenda a Roma e in particolare il problema creato dalla morte di entrambi i consoli, l’uno, Cn. Cornelius Scipio Hispalus per malattia, l’altro, Petilius Spurinus, in combattimento, che impediva al console suffectus di tenere regolari comizi34:
31 Val. Max. 2.7.15, che tuttavia tace dell’intervento di Appio Claudio: vd. Bosch, Die Quellen 1929, 85, seguito da Klotz, Studien 1942, 36–37; Humm, L’image de la censure 1998, 75–77, sul ruolo svolto dalla censura nell’ambito dei provvedimenti militari. Per un inquadramento generale vd. da ultimo Marino, Uso e rappresentazione 2018, 369. 32 Val. Max. 2.7.15. «Valerius viel rhetorischer schreibt», sottolinea Klotz, Studien 1942, 39. La morte di Petilius Spurinus e il più celebre aneddoto circa il fraintendimento dell’oracolo e dell’ambiguità del nome Laetus sono oggetto di Val. Max. 1.5.9 (da Liv. 41.18.5–9), su cui Champion, The Peace 2017, 102–103. 33 Il mons Ballista sarebbe da identificare con il monte Valestra, a sud ovest di Sassuolo, il mons Letus con il vicino monte S. Vitale (Bosio-Rosada, Le fonti 2020, 122). 34 Liv. 41.18.16.
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C. Valerius audita periti religionum iurisque publici, quando duo ordinarii consules eius anni, alter morbo, alter ferro perisset, suffectum consulem negabant recte comitia habere posse. deduxit.
Non si può escludere che nella porzione di testo interessata dal guasto fossero riportati i provvedimenti assunti dal senato, oltre che le informazioni riguardanti l’elezione dei magistrati per l’anno 175 e la ripartizione delle province35. Livio pone però i soldati sconfitti in luce positiva, sottolineando quanto determinante fu ai fini della vittoria il loro intervento, che consistette nell’occultare il cadavere del comandante36. Ad ogni modo, il riferimento di Frontino alla decisione del senato non sembra dare adito a dubbi circa la fonte da cui trasse gli elementi essenziali del provvedimento. Val. Max. 4.4.10 è la fonte dell’aneddoto sulla decisione del senato di fornire una dote a spese pubbliche alla figlia di Cn. Cornelio Scipione Calvo, vittorioso in Spagna ma ridotto alla povertà più estrema (strat. 4.3.4): Cn. Scipio post res prospere in Hispania gestas in summa paupertate decessit, ne ea quidem relicta pecunia, quae sufficeret in dotem filiarum, quas ob inopiam p u b l i c e d o t a v i t s e natus.
L’episodio è da Valerio Massimo inserito nella sezione de paupertate: Itaque, cum secundo Punico bello Cn. Scipio ex Hispania senatui scripsisset, petens ut sibi successor mitteretur, quia filiam virginem adultae iam aetatis haberet, neque ei sine se dos expediri posset, senatus, ne res publica bono duce careret, patris sibi partes desumpsit consilioque uxoris ac propinquorum Scipionis c o n s t i t u t a d o t e s u m m a m e i u s e x a e r a r i o e r o g a v i t ac puellam nuptum dedit37.
Frontino annovera l’aneddoto tra gli esempi illustri De continentia. L’esposizione è improntata alla sintesi ragionata dei dati principali della questione, sì che il racconto delle motivazioni che indussero il senato al provvedimento, chiaramente esposte in Valerio Massimo, sono rese con una formulazione, dotavit senatus, che sintetizza sia la decisione del senato che la sua attuazione. Non è necessario credere che in questo caso Frontino sia incorso in un errore, fraintendendo decedere nel senso di decedere e vita, laddove Valerio Massimo si riferirebbe alla fine del mandato nella provincia di Spagna, dal momento che è evidente, già solo dalla collocazione nel capitolo, che l’interesse primario di Frontino è evidenziare la continentia 35 Jal, Tite-Live 1971, 153. 36 Liv. 41.18.12. 37 Val. Max. 4.4.10. Sugli episodi dei Facta et dicta memorabilia che evidenziano la clemenza e la generosità del senato vd. Marino, Uso e rappresentazione 2018, 372–373.
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del personaggio, anche in tal caso traendo dalla fonte soltanto i dati funzionali a questo scopo, tanto è vero che poi Frontino tralascia la parte relativa all’entità dei patrimoni antichi, che invece la sua fonte discute38. Agli exempla di Valerio Massimo sembrerebbe risalire il celebre episodio dei soldati puniti per aver distrutto la cittadella di Reggio, di propria iniziativa e senza l’ordine del comandante, durante la guerra contro Pirro (279–270 a. C.). Condotti a Roma, furono imprigionati e uccisi, inoltre con un senatus consultum si vietò di seppellirli e celebrarne le esequie (strat. 4.1.38): In legionem, quae Regium oppidum iniussu ducis diripuerat, animadversum est ita, ut quattuor milia tradita custodiae necarentur: p r a e t e r e a s e n a t u s c o n s u l t o c a u t u m e s t , ne quem ex eis sepelire vel lugere f as esset.
La vicenda è raccontata anche da Polibio, che tuttavia non cita il provvedimento di condanna, ma chiaramente identifica i consoli come responsabili della pena comminata39. Valerio Massimo offre un resoconto più dettagliato e circostanziato, nel quale attribuisce al senato il provvedimento di punizione, conferendo così all’organo una competenza in materia di disciplina militare che non gli spettava40. Molto probabilmente in realtà si affidò ai comizi la decisione finale, come si può inferire da un’allusione di Dionigi di Alicarnasso e Orosio a un voto popolare41 e anche dalla menzione, da parte dello stesso Valerio, dell’intervento del tribunus plebis M. Fulvio Flacco, che tentò di impedire l’esecuzione. Nella realtà dei fatti, dunque, 38 Val. Max. 4.4.10: idem senatus Fabricii Luscini Scipionisque filias ab indotatis nuptiis liberalitate sua vindicauit. Di fraintendimento parla Klotz, Studien 1942, 40. L’episodio si collega al topos, tanto caro agli autori di età imperiale, della povertà e della frugalità degli antiqui: Sen. dial. 12.12.6; nat. 1.17.8 (che erroneamente riferisce l’aneddoto alle figlie del nipote di Cn. Cornelio, il più noto Scipione Africano); Apul. apol. 18.9; Amm. 14.6.11; Zonar. 9.3. Vd. Fayer, La familia 2005, 677–678; Etcheto, Les Scipions 2012, 202–203; Eramo, Frontino 2022, 368 n. 59. 39 Plb. 1.7.11–12 (οἱ στρατηγοὶ προαγαγόντες εἰς τὴν ἀγορὰν καὶ μαστιγώσαντες ἅπαντας κατὰ τὸ παρ’ αὐτοῖς ἔθος ἐπελέκισαν: 1.7.12). Sulla cronologia dell’episodio e il numero dei soldati che assalirono Reggio vd. Walbank, A Historical Commentary 1957, 53–54; sulla identificazione dei consoli Lippold, Orosio 1976, 433. 40 Val. Max. 2.7.15: sed cum aliquotiens senatus pro militari disciplina severe excubuerit, nescio an tum praecipue, cum milites, qui Regium iniusto bello occupaverant mortuoque duce Iubellio M. Caesium scribam eius sua sponte imperatorem delegerant, carcere inclusit, ac M. Fuluio Flacco tribuno plebi denuntiante ne in cives Romanos adversus morem maiorum animadverteret, nihilo minus propositum executus est. ceterum quo minore cum invidia id perageretur, quinquagenos per singulos dies virgis caesos securi percuti iussit eorumque corpora sepulturae mandari mortemque lugeri vetuit. 41 Dion. Hal. Ant. 20.16.1: ἀλλὰ πάσαις ταῖς φυλαῖς ἁπάντων τῶν ἐν ταῖς αἰτίαις τὸν ἐπὶ τοῖς κακουργοῖς τεταγμένον ὑπὸ τῶν νόμων καταψηφισθῆναι θάνατον; Oros. hist. 4.3.5: qui populi iussu medio in foro virgis caesi sunt securique percussi. Secondo Cassola, I gruppi politici 1962, 177–178 la provocatio ad populum non fu concessa, in quanto si temeva da parte del popolo una decisione contraria alla pena di morte.
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l’intervento del senato si sarebbe limitato all’ordine ai consoli di punire i soldati42 e al divieto di lutto e sepoltura, così come correttamente Frontino riporta, verosimilmente seguendo per questo episodio non Valerio Massimo, ma il racconto più dettagliato del XV libro di Livio, perduto43, che invece Valerio Massimo elabora al fine di esaltare la severità dei patres in materia di disciplina militare44.
III. Provvedimenti senatorii senza ulteriori riscontri nella tradizione Un’attenzione particolare meritano i riferimenti a provvedimenti del senato che non trovano riscontri diretti in fonti note. Si tratta di cinque stratagemmi che riportano episodi risalenti alla prima età della Repubblica: la guerra contro i Galli (2.6.1a), quella contro i Sabini (4.3.12), la guerra contro Pirro (4.1.24 e 4.1.38), la prima e la terza guerra punica (4.1.22 e 4.3.15). Strat. 2.6.1a riferisce di uno stratagemma che ebbe luogo nel 349 a. C., quando Roma era minacciata da due diversi pericoli: i Greci infestavano il litorale di Anzio, la foce del Tevere e il territorio di Laurento, mentre i Galli, già sconfitti da M. Camillo, scendevano dai colli Albani per sfuggire al rigore dell’inverno e darsi al saccheggio nelle zone pianeggianti e costiere. I Romani, costretti a una leva eccezionale a causa della defezione dell’appoggio degli alleati latini45, a seguito della morte di Appio Claudio affidarono la direzione della guerra, senza sorteggio, a L. Furio Camillo, sia per il prestigio di cui godeva sia soprattutto come omaggio beneaugurale alla vittoria paterna. Per lo scontro fu decisivo il duello corpo a corpo tra un Gallo e M. Valerio, soprannominato poi il Corvo a seguito di questo episodio46. Secondo la tradizione, infatti, la vittoria dei Romani fu assicurata dall’inter42 Vd. Oros. hist. 4.3.5: hoc facinus in tam sceleratos defectores puniendum Genucio consuli iussum est. 43 Liv. perioch. 15.2: legio Campana, quae Regium occupaverat, obsessa deditione facta securi percussa est. Livio richiama la questione di Reggio nel discorso di Cornelio Scipione Africano in occasione dell’ammutinamento a Sucrone (28.28.2–3): Regium quondam in praesidium missa legio interfectis per scelus principibus civitatis urbem opulentam per decem annos tenuit, propter quod facinus tota legio, milia hominum quattuor, in foro Romae securi percussi sunt; luogo che, chiaramente, non può essere ritenuto la fonte di strat. 4.1.38 (Klotz, Studien 1942, 38). Bosch, Die Quellen 1929, 86, che pure parla per questo aneddoto di «livianische Tradition», preferisce individuare, sulla base del confronto tra strat. 4.1.32, Val. Max. 2.7.5 e Liv. 41.27.2, la fonte di Frontino e Valerio Massimo negli Annales di Valerio Anziate (in realtà mostrando tutti i limiti di una Quellenforschung basata su testimonianze non pervenute). 44 Coudry, L’image du Sénat 1998, 133; Marino, Uso e rappresentazione 2018, 370–371. 45 Liv. 7.25.8. Si tratterebbe di 4200 fanti e 300 cavalieri, ma le cifre di Livio paiono esagerate in relazione alla popolazione del tempo. 46 Liv. 7.26.12: dictator magistro equitum A. Cornelio Cosso dicto comitia consularia habuit aemulumque decoris sui absentem M. Valerium Corvum– id enim illi deinde cognominis fuit–summo favore populi, tres et viginti natum annos, consulem renuntiavit.
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vento degli dèi, sotto le sembianze di un corvo che si posò sull’elmo del tribuno e partecipò attivamente al duello sfregiando con il becco e le unghie il volto del nemico. Ne scaturì un certamen haudquaquam ambiguum, le cui premesse avevano già reso evidenti le sorti: solo i primi tra i Galli effettivamente combatterono, mentre gli altri si volsero in fuga prima ancora di venire a battaglia. I Galli si dispersero poi per l’agro Falerno e si diressero verso l’Adriatico e la Puglia. Rispetto a questo resoconto di Livio47, diversa è la versione riportata da Frontino, secondo cui il senato dispose con decreto di accordare ai Galli sconfitti da L. Furio Camillo delle barche per attraversare il Tevere e di fornire loro delle provviste per facilitarne la fuga (strat. 2.6.1a): Gallos eo proelio, quod Camilli ductu gestum est, desiderantes navigia, quibus Tiberim transirent, s e n a t u s c e n s u i t t r a n s v e h e n d o s e t c o m m e a t i b u s q u o q u e p r o s e quendos.
Frontino sembra essere a conoscenza di un particolare ignoto alla tradizione liviana, che consisterebbe nell’intervento del senato per favorire l’allontanamento del pericolo dei Galli dai territori circostanti Roma. Si tratta, a ben guardare, di una versione alquanto sospetta, soprattutto se si mette in relazione con la seconda parte dello stratagemma, secondo la quale ai Galli che fuggivano per l’agro pontino fu aperta una strada «che è chiamata ‘Gallica’»48. Frontino sembra collocare la via Gallica nell’ager Pomptinus, a sud di Roma, direzione che i Galli in fuga presero secondo il resoconto liviano, ma più che incorrere in una tanto vistosa quanto poco credibile confusione con la via Gallica che attraversava Verona ed era collegata con la Aurelia, forse si limitò a seguire la sua fonte, che specificamente citava un’arteria di una via più importante di Roma, o più probabilmente anche in tal caso commise un errore di anacronismo, riferendo a secoli passati un’indicazione toponomastica in uso ai suoi tempi49. Fu però vittima di confusione nell’identificare il fiume, non il Tevere bensì il Volturno. Il fraintendimento potrebbe aver coinvolto anche la menzione dell’intervento del senato, riguardante, di fatto, non già la fuga del nemico quanto l’attribuzione a Furio Camillo, all’indomani della vittoria sui Galli, del comando nella guerra marittima che contemporaneamente i Romani avreb-
47 Liv. 7.25.10–26.9. 48 Strat. 2.6.1b: eiusdem generis hominibus postea per Pomptinum agrum fugientibus via data est, quae Gallica appellatur. Impropria appare la separazione del paragrafo in 2.6.1a e 2.6.1b nell’edizione di Ireland (probabilmente su una suggestione di Bendz, Frontin 1963, 222); Eramo, Frontino 2022, 305–306 n. 126. 49 Una via Gallica è attestata per la città di Roma in Curios. urb. 103, 18 Nordh (= 570, 24 Jordan). Secondo Jordan, Topographie 1871, 231 si trattava di un’arteria della via Aurelia; per Gundermann, Die Via Gallica 1889, 639–640, invece, della via Appia; Radke, Viae publicae 1981, 108 e 122 preferisce non identificarne l’ubicazione.
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bero dovuto affrontare contro i Greci e che non ebbe mai luogo a seguito del loro abbandono delle coste italiche50. L’intero cap. 2.6, De emittendo hoste, ne clausus proelium ex desperatione redintegret, riporta esempi riguardanti vari eventi della storia greca e romana, alcuni noti tramite Livio, ovvero la sconfitta cartaginese in Spagna nel 212, dopo la morte dei due Scipioni, per opera di L. Marcio Settimo51, e l’operazione con cui Gn. Manlio Torquato permise a Q. Fabio di sconfiggere gli Etruschi nel 480, sacrificando la sua stessa vita52. Altri stratagemmi sono invece tanto celebri da essere quasi leggendari. È il caso della battaglia di Coronea del 394 a. C., quando Agesilao II diede ai Tebani una via di fuga per poi massacrarli prendendoli alle spalle53; ed è il caso notissimo del ponte di barche che Temistocle vietò di distruggere per permettere la ritirata a Serse, episodio sul quale circolavano più versioni54. Gli altri stratagemmi, che non trovano riscontro diretto in altre fonti, riguardano la battaglia al Trasimeno contro Annibale (217 a. C.), episodi della campagna di Antigono Dosone contro gli Etoli (223–221 a. C.) e di Cesare contro i Germani (58–53 a. C.), e un aneddoto non meglio identificabile che ha come protagonista Pirro. Il re dell’Epiro è poi menzionato nell’ultima parte del capitolo, che a mio avviso può essere considerata la chiave di interpretazione di tutto il cap. 2.6. Qui Frontino riferisce che Pirro nei suoi Praecepta imperatoria raccomandava di non inseguire il nemico in fuga sia per evitare di indurlo al combattimento accanito e sfibrante, sia per poter a propria volta agevolmente sottrarsi allo scontro, sapendo che i nemici non avrebbero proseguito il combattimento fino al massacro. In modo del tutto eccezionale, per un autore che mai fa riferimento alla fonte utilizzata, la citazione di Pirro e della sua opera militare55, di cui non conosciamo né struttura né contenuto né carattere, induce a credere che Frontino ebbe modo di consultare questi Praecepta, che gli fornirono evidentemente l’idea di raccogliere dalle sue fonti degli exempla sul tema De emittendo hoste, ne clausus proelium ex desperatione redintegret. Gli episodi riportati in strat. 4.1.22 e 4.1.24 riferiscono di disposizioni assunte nei confronti di soldati per mantenere o ripristinare la disciplina, argomento intorno al quale, si è visto, ruota il cap. 4.1. Strat. 4.1.22 racconta di un episodio della prima guerra punica, quando, nel corso delle operazioni militari alle isole Lipari, 50 Liv. 7.26.10–14. 51 Liv. 25.37–38. 52 Liv. 2.47. 53 Plut. Ages. 18. 54 Vd. Polyaen. 1.30.4; Iust. 2.13.5; Erodoto (8.108) e Plutarco (Them. 16) attribuiscono il consiglio rispettivamente a Euribiade e Aristide (vd. il comm. di Vannicelli in Asheri-Vannicelli-Corcella-Fraschetti, Erodoto 2003, 306–307). 55 Che Pirro avesse composto uno scritto militare è attestato da Cic. fam. 9.25.1 ed Ael. 1.2, il quale lo annovera tra gli autori di tattica che lo hanno preceduto. Secondo Ateneo Meccanico avrebbe scritto Πολιορκητικά (5,13–61 e 31,7–8 Wescher), che sarà stata probabilmente una sezione dei Praecepta citati da Frontino e dagli altri autori.
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400 cavalieri disobbedirono all’ordine di portare a termine un’opera di fortificazione loro ingiunto dal console C. Aurelio Cotta e costui se ne dolse con i censori, ottenendo che i riottosi fossero degradati da cavalieri a aerarii: Aurelius Cotta consul, cum ad opus equites necessitate cogente iussisset accedere eorumque pars detractasset imperium, questus apud censores effecit, ut notarentur; a p a t r i b u s d e i n d e o b t i n u i t , n e e i s p r a e t e r i t a a e r a p r o c e d e r e n t ; tribuni quoque plebis de eadem re ad populum pertulerunt omniumque consensu stabilita disciplina est.
Tale vicenda, richiamata da Frontino solo in modo funzionale a focalizzare l’attenzione sul provvedimento di punizione, risulta invece più chiara dal resoconto di Valerio Massimo: Equestris quoque ordinis bona magnaque pars, quadringenti iuvenes, censoriam notam patiente animo sustinuerunt, quos M’. Valerius et P. Sempronius, quia in Sicilia ad munitionum opus explicandum ire iussi facere id neglexerant, equis publicis spoliatos in numerum aerariorum rettulerunt56.
Rispetto a Valerio Massimo, in Frontino mancano i dati relativi al numero dei cavalieri, al tipo di comando disatteso, al nome dei censori e alla loro declassificazione. Si potrebbe credere, pertanto, che Frontino stia sintetizzando Valerio Massimo, come si è visto nei casi sopra riportati, traendo solo i dati necessari per inquadrare l’episodio tra quelli de disciplina, se non fosse che Frontino aggiunge al racconto un riferimento preciso alla condotta assunta in quella occasione dal senato e dai tribuni della plebe. Secondo Frontino, dunque, la disciplina fu ristabilita da Cotta, che chiese e ottenne dai patres la sospensione del salario dell’anno precedente ai cavalieri; contemporaneamente anche i tribuni della plebe ebbero a dolersi dinanzi al popolo, ottenendo la stessa punizione. Nella sostanza, l’aneddoto di Frontino non chiarisce né semplicemente sintetizza il resoconto di Valerio Massimo, ma lo integra con il riferimento al senato, cui Frontino, a differenza di Valerio, attribuisce il provvedimento relativo alla sospensione della paga annuale, laddove Valerio si sofferma sulla causa specifica del provvedimento disciplinare e sull’entità delle unità coinvolte, omettendo la parte pecuniaria. Il confronto dei dati informativi provenienti da ambo le fonti, che non si contraddicono ma si integrano, permette di ricostruire con chiarezza l’intera vicenda, ma soprattutto rimanda a una fonte preesistente, più dettagliata e circostanziata, dalla quale entrambi gli autori attinsero indipendentemente l’uno dall’altro, e che potrebbe identificarsi nel perduto 56 Val. Max. 2.9.7. Chiara ascendenza liviana dell’aneddoto, dimostrata dall’uso di equester ordo, espressione che designa sempre gli equites equo publico, ravvisa Nicolet, L’ordre équestre 1966, 84. Sul ruolo svolto dai censori in questa occasione vd. Humm, L’image de la censure 1998, 75.
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XVIII libro di Livio, del quale la periocha fornisce soltanto il nome dei censori in carica e il loro provvedimento punitivo nei riguardi di sedici senatori57. Del tutto privo di fonti parallele risulta l’episodio di strat. 4.1.24, risalente al 280 a. C., anno della sconfitta di Eraclea, che è argomento anche di altri due stratagemmi della raccolta: nel primo, compreso nel capitolo De acie hostium turbanda, Frontino racconta di come P. Valerio riuscì a far credere ai nemici di aver ucciso Pirro, gettandoli nel panico e costringendoli alla ritirata; l’altro, inserito in una sorta di miscellanea de variis consiliis, riporta la decisione dello stesso console di far ispezionare a una spia nemica catturata tutto quanto l’accampamento58. Nell’aneddoto Frontino riferisce che il senato ordinò al console P. Valerio di condurre l’esercito sconfitto e messo in fuga a Eraclea al fiume Sepino, dove allestire un campo per svernare, e decretò di non inviare a supporto truppe ausiliarie (strat. 4.1.24): P. Valerio consuli s e n a t u s p r a e c e p i t , e x e r c i t u m a d S i r i m v i c t u m d u c e r e Sae pinum ibique castra munire et hiemem sub tentoriis e xigere. S e n a t u s , cum turpiter fugati eius milites essent, d e c r e v i t , n e a u x i l i a e i s s u m m i t t e r e n t u r, nisi captis eius …
Nessun altro dato si può inferire dalla menzione isolata di questo evento, che è d’altronde interessata da una corruzione testuale di antica origine. A fronte della situazione della tradizione manoscritta, che nei testimoni più antichi non presenta soluzione di continuità fra captis eius e il testo successivo, sensata appare la soluzione di Gotthold Gundermann, che opportunamente considera il testo successivo, legionibus quae Punico bello militiam detractaverant …, relativo a un altro esempio (4.1.25, su cui infra)59. Risulta infatti chiaro che quest’ultimo aneddoto riguarda la guerra punica e non quella contro Pirro. Ad ogni modo, qualunque sia l’entità del guasto, che difficilmente potrà essere sanato con un soddisfacente margine di sicurezza, è chiaro che il senso concessivo della proposizione corrotta in strat. 4.1.24 sia da riferirsi all’opportunità che l’invio di truppe ausiliarie sia condizionato
57 Liv. perioch. 18.5: M’. Valerius Maximus P. Sempronius Sophus censores cum senatum legerent, XVI senatu moverunt. Secondo Bosch, Die Quellen 1929, 91 la fonte comune di Valerio Massimo e Frontino potrebbe essere la raccolta di exempla di Igino (FRH, n. 63; sulla relazione tra le due raccolte vd. lo status quaestionis in Skidmore, Practical Ethics 1996, 47–48), che avrebbe desunto la notizia da Acilio; tuttavia le similitudini nell’esposizione inducono a pensare a una fonte in lingua latina, che potrebbe essere Claudio Quadrigario, sempre però per il tramite di Livio (vd. Humm, L’image de la censure 1998, 78–79; Eramo, Frontino 2022, 358–359, n. 52). 58 Frontin. strat. 2.4.9; 4.4.7. Sulla tradizione storiografica relativa a questi eventi vd. Caire, D’Héraclée à Ausculum 2009 e Corbier, Pyrrhus en Italie 2009, 225–226, con bibl. citata. 59 Vd Gundermann, Iuli Frontini 1888, 120 («hoc exemplum misere corruptum a proximis non distingunt codices»).
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da una qualche azione positiva da parte delle legioni romane, così come anche interpretarono i codici recentiores interpolati: nisi captis et victis hostibus60. Il luogo dove i Romani sconfitti avrebbero avuto dal senato l’ordine di svernare è del tutto congetturale, stante l’assenza di fonti parallele. A fronte della banalizzazione serinum di quasi tutti i testimoni, Droysen ipotizzava Ferentinum, Mommsen invece, seguendo i codici interpolati, pensava a Firmum, ipotesi entrambe inconciliabili topograficamente con Eraclea; Niebuhr parlava genericamente di Sannium. La soluzione più percorribile, dal punto di vista e paleografico e topografico, sembra essere Saepinum, proposto da Gundermann, località distante solo pochi chilometri dal luogo della battaglia appena consumata61. Anche in tal caso, l’esposizione del racconto tradisce un’elaborazione altamente sintetica della fonte di partenza, da parte dello stesso Frontino o della raccolta da cui Frontino dipende, come si può dedurre dalla iterazione di senatus a breve distanza e soprattutto dal fatto che il testo sembra riferirsi – nonostante la lacuna della tradizione – a due provvedimenti, dei quali il secondo anteriore al primo e conseguenza immediata della sconfitta subita. È poi qui evidente che Frontino, pur disponendo dei Praecepta militaria di Pirro, abbia seguito una versione di parte romana, volta ad esaltare il ruolo del senato come tutore della disciplina dei soldati e integerrimo castigatore di comportamenti disonorevoli. Gli aneddoti relativi a M’. Curio Dentato (4.3.12) e Lucio Mummio (4.3.15) sono compresi nel capitolo De continentia, che riporta paradigmi illustri di viri optimi sia romani, dell’età arcaica e del periodo delle guerre puniche – Catone il Vecchio (4.3.1), Fabrizio Luscino (3.2), Atilio Regolo (3.3), Scipione Africano (3.4) e Emiliano (3.9), Emilio Scauro (3.13) – sia greci: Aristide (3.5), Epaminonda (3.6), Alessandro (3.10, possibile interpolazione), che stranieri: Annibale (3.7 e 8) e Masinissa (3.11). Il capitolo comprende anche un episodio contemporaneo, riguardante la lealtà della tribù dei Lingoni, nel quale Frontino fu direttamente coinvolto in qualità di legatus legionis (3.14). La frugalità di M’. Curio Dentato è nota grazie al celebre aneddoto che lo ritrae intento a consumare un pasto povero al cospetto degli ambasciatori sanniti, giunti a visitarlo per offrirgli denaro e oggetti preziosi62. Altrettanto celebre è l’associazione di Curio Dentato alla distribuzione viritana delle terre in Sabina, che
60 Ireland, Iuli Frontini 1990, xxiii–xxiv. 61 Gundermann, Iuli Frontini 1888, 120 (Niebuhr, Römische Geschichte 1832, 584–585; Droysen, Geschichte 18772, 148). Vd. anche Lévèque, Pyrrhos 1957, 357 e nt. 4. 62 Fonti e loro discussione in Paladino, Manius Curius 1980 e Auliard, La diplomatie 2006, 253–254; sull’aneddoto anche Pasco-Pranger, Finding Examples 2015 (che, dedicando solo un rapido cenno alla vicenda della distribuzione viritana delle terre, parla di «possible, vague reference also in Plin. Nat. 18.8, Dio 8.37, Frontin. strat. 4.3.12»: 304 e nt. 22). Un punto di riferimento su M’. Curio Dentato rimane Forni, Manio Curio 1953, 177–179 per questo aneddoto.
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avvenne a seguito della vittoria sui Sabini (290 a. C.)63. Frontino segue la tradizione che gli attribuiva il rifiuto a ricevere una maggiore porzione di terreno in virtù dei meriti acquisiti in guerra (strat. 4.3.12): M’. Curius, cum victis ab eo Sabinis e x s e n a t u s c o n s u l t o a m p l i a r e t u r e i m o d u s a g r i , q u e m c o n s u m m a t i m i l i t e s a c c i p i e b a n t , gregalium portione contentus fuit, malum civem dicens, cui non esset idem quod ceteris satis.
Tra le fonti che si occuparono della vicenda, un senatus consultum che decise della distribuzione delle terre è citato da Valerio Massimo, secondo il quale il senato decretò l’assegnazione di sette iugeri pro capite e di 50 a M’. Curio. Questi accettò di riceverne solo la stessa porzione destinata agli altri cittadini, «sostenendo che fosse cittadino poco utile alla repubblica quello che non si fosse accontentato di quanto era stato accordato ad altri»: Idem, cum Italia Pyrrhum regem exegisset, nihil omnino ex praeda regia, qua exercitum urbemque ditaverat, attigit. Decretis etiam a senatu septenis iugeribus agri populo, sibi autem quinquaginta, popularis adsignationis modum non excessit, parum idoneum rei publicae civem existimans qui eo quod reliquis tribueretur contentus non esset.64
È evidente che i due autori riferiscono lo stesso episodio ma inquadrandolo in momenti diversi; infatti Frontino, che non ritiene di specificare la quantità di terra concessa viritim, connette la distribuzione delle terre con la vittoria sui Sabini65 e non con la cacciata di Pirro, evento successivo di 15 anni, come invece fa Valerio Massimo66, poco curante della cronologia delle vicende ma concentrato a porre
63 Secondo la tradizione liviana, l’anno 290 fu coronato da un duplice trionfo di M’. Curio Dentato, l’uno sui Sanniti, l’altro sui Sabini: Liv. perioch. 11: Curius Dentatus cos. Samnitibus caesis et Sabinis, qui rebellaverant, victis et in deditionem acceptis bis in eodem magistratu triumphavit (Forni, Manio Curio 1953, 193–196). 64 Val. Max. 4.3.5. 65 Tra le fonti, il riferimento alla vittoria sui Sabini è esplicito anche in Columell. 1.pr.14: itemque C. Fabricius et Curius Dentatus, alter Pyrrho finibus Italiae pulso, domitis alter Sabinis, accepta, quae viritim dividebantur, captivi agri septem iugera non minus industrie coluerit quam fortiter armis quaesierat e 1.3.10: tanta quidem Curius Dentatus, quem paulo ante rettulimus, prospero ductu parta victoria, ob eximiam virtutem deferente populo praemii nomine quinquaginta soli iugera, supra consularem triumphalemque fortunam putavit satis esse; repudiatoque publico munere populari ac plebeia mensura contentus fuit; Plin. nat. 18.18: Mani quidem Curi post triumphos inmensum que terrarum adiectum imperio nota contio est: perniciosum intellegi civem, cui septem iugera non essent satis. haec autem mensura plebei post exactos reges adsignata est. 66 Ancora più esplicito è il suo epitomatore Giulio Paride (4.3.5): idem post fugam Pyrrhi, cum sibi dari videret iugera quinquaginta, ceteris septena, ‘parum’, inquit ‘idoneus civis est, qui eo, quod reliquies tribuitur, contentus non est’.
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i due episodi celebrativi sullo stesso piano, onde accentuare la statura morale del protagonista67. Dal canto suo, Frontino sembrerebbe incorrere anche in tal caso in un errore di anacronismo, essendo unica tra le fonti a citare come destinatari dell’assegnazione non indistintamente i cives, bensì specificamente i consumnati milites, secondo una prassi consolidata ai suoi tempi68. Tuttavia la risposta che Frontino gli attribuisce in forma indiretta al termine dell’aneddoto (m a l u m c i v e m dicens, cui non esset idem quod ceteris satis) farebbe pensare a una volontaria forzatura, volta a isolare l’attenzione su questioni specificamente militari e a esaltare la figura di M’. Curio Dentato non tanto in qualità di cittadino, quanto in veste di stratego morigerato e continens, alla stregua di tutti gli altri protagonisti del cap. 3. Altrettanto rinomata era nella tradizione la morigeratezza di Lucio Mummio, il distruttore di Corinto del 146 a. C., il quale preferì destinare le spoglie della città conquistata all’Italia e alle province, per abbellirle con statue e dipinti, piuttosto che appropriarsene, rimanendo così in uno stato di tale povertà che il senato pagò a spese pubbliche la dote della figlia (strat. 4.3.15): L. Mummius, qui Corintho capta non Italiam solum sed etiam provincia stabulis statuisque exornavit, adeo nihil ex tantis manubiis in suum convertit, ut filiam eius inopem s e n a t u s ex publico dotaverit.
Anche in tal caso l’intervento del senato a favore di un comandante che aveva dato con le sue vittorie lustro alla patria non trova riscontro nella tradizione celebrativa del personaggio e aggiunge un dettaglio pienamente congruente con la vulgata circolante su Mummio, così come anche su Curio Dentato e gli altri personaggi illustri della tradizione di Roma, per i quali il particolare della dote filiale riconosciuta a pubbliche spese diventò un topos: lo stesso Frontino lo menziona, si è visto, in riferimento a Cn. Scipione69.
67 Sulla tradizione relativa all’assegnazione delle terre sabine vd. Torelli, Rerum romanarum fontes 1978, 52–55 e Ead., La conquista romana 1987; Berrendonner, La formation 2001, 113; Gallo, Prefetti 2018, 70–72. 68 Forni, Manio Curio 1953, 197 nt. 5. Anche Plut. apophth. reg. 194E non parlerebbe specificamente di ‘soldati’ (fraintendimento di Paladino, Manius Curius 1980, 354), bensì di cittadini: Μάνιος Κούριος, ἐγκαλούντων αὐτῷ τινων ὅτι τῆς αἰχμαλώτου χώρας ὀλίγον ἑκάστῳ μέρος διένειμε τὴν δὲ πολλὴν ἐποίησε δημοσίαν, κτλ. Più problematica è la menzione di Curio Dentato in Plut. Crass. 2.9–10, nella quale non è escluso che si parli di cittadini e non di soldati. 69 Strat. 4.3.4, su cui supra. Sui doni di Mummio vd. Lippolis, Triumphata Corintho 2004, 33–53 sull’episodio anche Eramo, Frontino 2022, 370–371 n. 70.
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IV. Conclusioni La rassegna dei luoghi in cui Frontino menziona o fa riferimento indiretto a interventi del senato su questioni di natura militare permette di elaborare qualche considerazione in merito ai caratteri degli Strategemata. La raccolta non può essere considerata una fonte utile per ricostruire questioni di natura tecnico-giuridica relative all’attività del senato, dal momento che i riferimenti sono sì specifici ma poco circostanziati e dettagliati, e richiamano soltanto i dispositivi della seduta senatoria, per giunta esposti con un lessico non sempre tecnico. Se, infatti, in alcuni casi Frontino ricorre alle formule in uso nelle fonti per introdurre gli ipsissima verba della decisione dell’organo – senatus censuit (2.6.1a), idem (i. e. i patres) decreverunt (3.18.3), sententia senatus (4.1.18), senatus praecepit (4.1.24), ex senatus consulto (4.1.25 e 4.3.12) e senatus consulto (4.1.38), ille senatum consuluit (4.1.44), senatus decrevit (4.1.46) – in altri la formulazione adottata è varia e definisce specificamente l’oggetto della decisione e non la sua elaborazione: a patribus obtinuit (4.1.22), dotavit senatus (4.3.4); ut senatus dotaverit (4.3.15); gratiaeque ei senatu et populo (4.5.6). A differenza del De aquae ductu, dove riportò gli ipsissima verba di senatus consulta di età imperiale, per gli Strategemata Frontino non si avvalse di redazioni scritte di delibere senatorie70. D’altronde, la forchetta cronologica in cui si dispiegano gli stratagemmi che menzionano il senato e la sua attività gli precludeva la possibilità di attingere a documentazione di archivio71. Infine, se l’autore del quarto libro sia lo stesso Frontino, a posteriori rispetto ai primi tre libri, o un suo epigono o imitatore, è questione marginale rispetto al ragionamento circa il modo in cui l’autore, sia dei tre libri che del quarto, costruisce la sua raccolta e ogni singolo episodio, consistente nel focalizzare l’attenzione sull’esito di una specifica operazione bellica, fornendo al lettore gli elementi minimi identificativi secondo uno schema generale: nome del protagonista, occasione, e quindi nome degli avversari, dinamiche di svolgimento dell’azione che giustifica il successo finale. Il metodo di lavoro adottato e valido per tutto lo svolgersi della 70 Grimal, Frontin. Les aqueducs 1944, x–xiv. Non lasciano adito a dubbi le formule che introducono il testo dei senatus consulta nel De aquae ductu: deque eorum officio senatus consultum factum, quod infra scriptum est (aq. 99.5); quod senatus quoque consulto facere curator iubetur, cuius haec verba sunt (103.5); sicut senatus consulto quod subiectum est cavetur (105.3); sic ex veteribus senatus consultis cognoscimus, ex quibus unum subieci (107.3); senatus consultum factum est, quod subieci (124.4); quae omnia senatus consultum quod subieci provisa sunt (126.6). I senatus consulta sono riportati a aq. 100–101.1; 104.1–2; 106.1–2; 108; 125; 127. Per un primo approccio al loro inquadramento vd. il comm. di Del Chicca, Frontino 2004, 370, 395–411; 427–430; 440–442; 445; 480–483; 485–490. Sul senatus consultum de aquaeductibus dell’11 a. C. noto da aq. 127 vd. il dettagliato saggio di Guerrero, El praemium accusatori, in questa raccolta. 71 Sulla mancanza di documentazione scritta per l’attività senatoria dei primi secoli della Repubblica vd. Mommsen, Sui modi 1858, 181–193, nonché Posner, Archives 1972, 167–169; Bonnefond-Coudry, Le Sénat 1989, 16–17.
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raccolta, libro quarto compreso, fu raccogliere fonti, organizzarle, dividerle, cercare singoli episodi e sintetizzarli, conferendo loro una nuova articolazione compositiva, sulla base delle rubriche pianificate o che si andavano via via delineando a seconda del materiale a disposizione, e con margini di interpretazione minimi se non nulli, e comunque funzionali alla comprensione dell’episodio. In tal modo, Frontino realizzava quell’intento che nel proemio orgogliosamente rivendicava come manifesto programmatico della sua operazione di intellettuale-militante, o militare-intelligente: nostra sedulitas impendet operam, ut, quemadmodum res poscet, ipsum quod exigitur quasi ad interrogatum exhibeat72.
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Gli ἄριστοι e il βασιλεύς Il governo temperato di Vat. gr. 1298 e il Cicerone perduto
I. La riscoperta di Vat. gr. 1298 e il Cicerone perduto Se v’è da riconoscere un merito indiscutibile per lo stato delle nostre conoscenze su Cicerone, questo va tributato indubbiamente ad Angelo Mai. La mente corre subito alla straordinaria riscoperta nel dicembre del 1819 del codice palinsesto bobbiense nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Vat. lat. 5757) contenente parti del De re publica, rinvenimento che suscitò l’immediata ammirazione di Giacomo Leopardi versata appena un mese dopo, nel gennaio 1820, nel canto Ad Angelo Mai: «Quell’Italo ardito, a che giammai non posi / Di svegliar dalle tombe / I nostri padri». Ma i meriti di Mai, di cui negli ultimi tempi vanno prevalendo più le critiche per i reagenti impiegati, che in effetti gravi danni hanno cagionato alle preziose pergamene1, vanno oltre, e si accrescono anche per il rinvenimento di un piccolo trattato tardoantico strettamente connesso con il De re publica di Cicerone parte di un codice palinsesto, anch’esso segno indelebile dell’indefessa attività di ricerca di opere perdute condotta dal cardinale2. Allora, poiché è appena concluso il bicentenario della scoperta ciceroniana, colgo l’occasione, senza alcun accostamento al Recanatese, per ricordare ancora Angelo Mai e soffermarmi su di un breve scorcio
1 Sui danni spesso irreversibili arrecati alle pergamene antiche dai reagenti chimici in voga nell’Ottocento, vedi Varvaro, La revisione 2014, 387 ss. 2 Sull’imponente bibliografia dedicata ad Angelo Mai, mi limito a segnalare i seguenti lavori, utili anche per risalire a ulteriore letteratura: Pertusi, Angelo Mai scopritore ed editore 1954, 167 ss.; Lo Monaco, In codicibus … qui Bobienses inscribuntur 1996, 657 ss.; Spaggiari, «Le dovizie antiquarie»: appunti 2010, 151 ss.; Varvaro, Le ultime lettere del carteggio di Niebuhr e Mai 2014, 707 ss.
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di questo prezioso codice da lui ritrovato e pubblicato nel 1827, nel secondo volume della sua Scriptorum Veterum Nova Collectio: il Vat. gr. 12983. Il codice, di fattura costantinopolitana (X secolo d. C.), è un esemplare delle orazioni di Elio Aristide, a cui si aggiungono brani del più antico testimone medievale della Politica di Aristotele e del commento di un maestro alessandrino di retorica del V secolo d. C., Giorgio Mono, al περὶ στάσεων di Ermogene4. Ma ciò che più riguarda i nostri studi sono i fogli di un trattato adespota di ‘scienza della politica’ di età giustinianea, il περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης, impiegati per restaurare Elio Aristide. Redatto in forma dialogica, i personaggi loquentes del trattato discutono delle forme ideali di governo e, nel farlo, mettono a confronto la Πολιτεία di Platone e il De re publica di Cicerone5, optando per quest’ultimo6 come luminosa indicazione di un modello di governo temperato del βασιλεύς7. Prima della sua ‘ottocentesca’ riemersione, di questo codice si aveva una notizia indiretta, cionon3 Mai, Scriptorum Veterum Nova Collectio 1827, 571 ss. L’edizione del trattato ancora insuperata è in Mazzucchi, Menae patricii 2002 (di cui ci si avvarrà, in queste pagine, pure della traduzione); Mazzucchi/Matelli, La dottrina dello Stato 1983, 209 ss.; Fotiou, Plato’s Philosopher King 1985, 17 ss.; sui molteplici aspetti implicati dal trattato rinvio a Licandro, Cicerone alla corte di Giustiniano 2017, e alla relativa bibliografia ivi contenuta; di recente Alvino, Lo specchio del principe 2019. 4 Su Giorgio Mono si rinvia alle pagine di Rabe, Aus Rhetoren-Handschriften. 7. Georgios 1908, 517 ss.; Hunger, Die hochsprachliche profane Literatur 1978, 82. 5 Sfortunatamente mancano i libri relativi al confronto più serrato, ma della sua certezza dà esplicitamente conto il πίναξ del V libro: παράϑεσις τῆς κατὰ Πλάτωνα καὶ Κικέρωνα πολιτείας, ἔτι δὲ τῆς κατὰ τὸν Πλάτωνα καὶ ᾽Αριστοτέλη ὅλης φιλοσοφίας [Comparazione della Repubblica di Platone e di quella di Cicerone e anche dell’intero sistema filosofico di Platone e di Aristotele (trad. C. M. Mazzucchi)]. 6 Ancora nel πίναξ del V libro si avverte il lettore che avrebbe incontrato critiche mosse a Platone: ὅτι ἀνομοια περὶ τῆς πολιτείας εἴρηται τοῖς ὑφ᾽ ἑτέρων εἰρημένοις, ἐν ᾧ καὶ ἔνστασις πρός τινα τῶν τῷ Πλάτωνι εἰρημένων [Esposizioni sullo Stato diverse da quelle espresse da altri, con anche un’obiezione verso alcune affermazioni di Platone (trad. C. M. Mazzucchi)]. Ora, a me pare ragionevole pensare che, se un punto del genere finiva nel sommario dell’indice di un libro del trattato, dovesse avere un peso rilevante nell’economia delle tesi propugnate nel libro; ne consegue che, nel quadro dell’impianto istituzionale preferito dai due personaggi loquentes, le obiezioni mosse a Platone non dovevano riguardare affatto aspetti secondari. 7 Già Angelo Mai ha affermato la derivazione del governo temperato dalla costituzione mista ciceroniana, soprattutto sulla base di Anon. de scient. pol. dial. 5.134–137 la cui matrice ciceroniana, secondo il Cardinale, proverrebbe da Cic. de re publ. 2.42: Itaque ista aequabilitas atque hoc triplex rerum publicarum genus videtur mihi commune nobis cum illis populis fuisse. Sed, quod proprium est in nostra re publica, quo nihil possit esse praeclarius, id persequar, si potero, subtilius; quod erit eius modi, nihil ut tale ulla in re publica reperiatur. Haec enim, quae adhuc exposui, ita mixta fuerunt et in hac civitate et in Lacedaemoniorum et in Karthaginiensium, ut temperata nullo fuerint modo (vedi C. M. Mazzucchi, Menae patricii 2002, 47). Tuttavia, diversi sono i passaggi che riecheggiano, laddove non si tratti addirittura di citazioni dirette, di idee dell’oratore; vedi Licandro, Cicerone alla corte di Giustiniano 2017, 55 ss.
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dimeno significativa, contenuta nella Bibliotheca di Fozio8. Ricchissimo di spunti sulla cultura politica e istituzionale VI secolo d. C., se vera, come continuo a credere, l’identificazione dei due personaggi con i due alti funzionari imperiali di Giustiniano, Menas e Thomas (nel manoscritto i nomi si presentano nelle versioni di Menodoros e Thaumasios)9, menzionati tra i commissari selezionati da Triboniano per la grande compilazione giuridica10, del trattato adespota adesso metteremo a fuoco un passaggio particolarmente significativo sotto il profilo istituzionale, in cui si individua una citazione diretta di Cicerone: Anon. de scient. pol. 5.63–64: ἡμεῖς δὲ τὴν ἁπλῶς, οἶμαι, πολιτείαν, σώφρονά τε δηλαδὴ καὶ αρίστην καὶ οὐ τήνδε ἢ τήνδε ἰδίως, ὡς Κικέρων τὴν τῶν ῾Ρωμαίων, ἐπισκοπεῖν ἐνεστησάμεϑα, πλὴν ἀλλ᾽ ἀρκέσει, ὡς ὁ ἐμὸς λόγος, δέκα ἀνδρῶν ἀρχόντων ἐπιλογὴ ἐκ τῶν ἀρίστων γιγνομένη πρὸς τὴν ὅλην τῆς πολιτείας διοίκησιν. [64] Ταῦτα λέγων, ὦ Μηνόδωρε, Κικέρωνι συμφήσεις ὅλην σχεδὸν λέγοντι τὴν βασιλικὴν φροντίδα περὶ δέκα ἐπιλογὴν ἀνδρῶν ἀρίστων καταγίγνεσϑαι προσήκειν, οἳ καὶ ἐξαρκέσουσιν, ἱκανοί γε ὄντες, καὶ ἄλλων ἀνδρῶν ἐπιλογὴν ποιήσασϑαι, οἷς ἂν χρῷντο πρὸς τὰς τῆς πολιτείας διοικήσεις. [Tuttavia noi abbiamo intrapreso a considerare lo Stato in assoluto, penso, cioè quello temperato e ottimo, e non questo o quello particolarmente, come Cicerone quello romano. Se non che basterà, come la penso io, per l’intero governo dello Stato la scelta di dieci magistrati dal ceto degli ottimati. 64. Dicendo questo – o Menas – sarai d’accordo con Cicerone quando sostiene che quasi tutta la sollecitudine reale deve rivolgersi alla scelta di dieci ottimati, i quali invero basteranno, avendone appunto la capacità, a scegliere altri uomini, di cui si serviranno nell’Amministrazione dello Stato (trad. C. M. Mazzucchi)].
Già una semplice scorsa è sufficiente per afferrare l’importanza del passo, un passo rivelatore della concezione ideologica del rapporto istituzionale tra l’imperatore e il senato: Thomas, il più giovane, richiama il suo interlocutore, Menas, a non divagare troppo e a restare, invece, al tema dell’analisi del governo temperato e 8 Phot. Bibl. cap. 37. Sull’opera foziana oggi è fondamentale la nuova sontuosa edizione curata da Bianchi e Schiano, Fozio. Biblioteca 2019. 9 Mentre sono molteplici e convergenti le strade che portano a identificare Menas con il raffinato filosofo neoplatonico che ricoprì la carica di prefetto del pretorio dell’anno 529 d. C. (Const. Summa rei publicae: Iustinianus Pius, Felix, Inclitus, Victor ac Triumphator, semper Augustus, Menae viro Illustri Praefecto Praetorio II, ex Praefecto huius Almae Urbis ac Patricio [a. 529]), dubbi più seri continuano a gravare sull’identità di Thomas. Di costui non si può escludere affatto che fosse uno dei quaestores sacri palatii di Giustiniano, brillante giurista, anche avvocato, dalla fulminea carriera nella burocrazia imperiale, nei cui passi iniziali probabilmente fu inquadrato come referendarius; sul punto Licandro, Cicerone alla corte di Giustiniano 2017, 41 ss., e bibliografia ivi citata. 10 Licandro, Cicerone alla corte di Giustiniano 2017, 35 ss.
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ottimo, quale appunto quello descritto da Cicerone; Menas, più anziano ma anche di calibro istituzionale superiore, con esperienza di alta caratura e di straordinaria profondità di pensiero, a questo punto risponderebbe con la citazione di un luogo ciceroniano in cui si teorizzava come migliore assetto di governo temperato per guidare la res publica quello di un princeps assistito da una commissione di 10 senatori (a loro volta competenti a sceglierne altri). Che questo passaggio del περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης, manifesto politico dell’«esigenza di condivisione del potere autocratico» con i migliori (ἄριστοι)11, suscitasse curiosità e interesse degli studiosi è comprensibile, semmai continua a destare stupore il sostanziale disinteresse, salvo poche eccezioni12. La questione, in effetti, è particolarmente intrigante, dato che in nessuno dei quaternioni sopravvissuti del De re publica vi è qualcosa di simile a cui possa riferirsi il frammento del trattato. Inevitabili, quindi, sono stati i tentativi di capirne di più e di guardare più in generale al περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης come potenziale testimone per gettare qualche ulteriore fascio di luce sul Cicerone perduto. Gianfranco Fiaccadori13 ha sostenuto con una certa perentorietà la provenienza del frammento dalla parte finale del V libro del De re publica; ma già Behr, a cui si deve il merito di aver pubblicato per primo, nel 1974, il foglio sfuggito ad Angelo Mai contenente la presunta citazione ciceroniana professava questa soluzione: «the new fragment, as well as the concept of the role of the best men in government, would seem to have occurred in the fifth book of Cicero’s De Republica, where the «rector rei publicae» apparently first occurs»14. Eppure, con grande onestà, Behr ammetteva come, per lo stato delle nostre conoscenze dovuto al carattere gravemente mutilo del trattato ciceroniano, tale proposta non fosse niente di più di «a hazardous conjecture». Stessa opinione è stata professata da Girardet: posta la supposizione che nel V libro Cicerone avrebbe affrontato l’emergenza politica e istituzionale dei suoi tempi, la soluzione individuata sarebbe stata quella dell’affidamento del potere a un princeps munito della facoltà di nominare un collegio di dieci ottimati, questi a loro volta abilitati a selezionare altri uomini per il governo della res publica15. 11 Cf. Fotiou, Dicaearchus and the Mixed Constitution 1981, 533 ss.; Gallina, Incoronati da Dio 2016, 38 ss. 12 Oltre all’editore del trattato, si ricordano gli scritti di Pertusi, I principi fondamentali della concezione del potere a Bisanzio 1968, 1 ss.; Id., La concezione politica e sociale dell’Impero di Giustiniano 1985, 541 ss.; e più recentemente Burgarella, Il Senato di Costantinopoli 1998, 399 ss.;
Gusso, Utopia e «prove di scienza politica» a Bisanzio 2001, 177 ss.; Garbarino, Contributo allo studio del senato 1992, passim. 13 Fiaccadori, Intorno all’Anonimo vaticano 1979, 133. 14 Behr, A New Fragment 1974, 149. 15 Girardet, Die Ordnung der Welt 1983, 196 s. Per altre diverse interpretazioni cf. Suerbaum, Studienbibliographie 1978, 59 ss. Si leggano pure Perelli, Il ‘de re publica’ 1990, 39 ss.; Pani, L’ultimo Cicerone 1993, 24.
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Condividendo la proposta di estensione della citazione ciceroniana avanzata da Mazzucchi e Behr, e accolta da altri studiosi come Fotiou16, si giunge, dunque, a una βασιλικὴ φροντις che, ricoperta da un eletto all’interno di un collegio di ottimati, proceda alla costituzione di una sorta di ‘gabinetto di governo’ formato da dieci ἄριστοι. Se l’assetto di governo eminentemente aristocratico costituito da un principe coadiuvato da un selezionatissimo collegio di aristocratici, è ciò che inequivocabilmente si trae dal περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης, più difficile è tutto il resto, a cominciare dall’individuazione della presunta citazione di un luogo ciceroniano. In effetti, la suggestione è quasi irresistibile, ma troppi aspetti restano in un cono d’ombra che condanna a restare su un debolissimo piano congetturale. L’individuazione del luogo del trattato ciceroniano, in effetti, è impresa davvero ardua. Nessuno, ad esempio, può attribuire un valore minore di un azzardo a ogni tentativo di immaginare non solo il luogo corrispondente, ma addirittura scorgervi una citazione diretta di Cicerone; insomma, la convinzione che quel passo del περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης sia letteralmente copiato dal De re publica non gode sino ad oggi di alcuna prova a suo favore. Inoltre, c’è un dato difficilmente superabile: se nel V libro Cicerone proponeva la soluzione per affrontare l’emergenza della crisi del suo tempo, è incongruo pensare che la proposta, appunto emergenziale, fosse invece quella immaginata dall’oratore come assetto stabile e ideale di un novus ordo. Ciò significa, che se l’anonimo autore del trattato giustinianeo ha davvero mutuato la forma rei publicae ideale ciceroniana, questa dovrebbe aver avuto una sede diversa dal V libro del De re publica. Non c’è da rimanere sorpresi, quindi, se la grave incertezza sulla questione lasci il campo aperto ad altre soluzioni, che non sono affatto mancate. Le difficoltà interpretative dovute anche alla pessima leggibilità di taluni fogli del manoscritto (spesso la scrittura del manoscritto diventa indecifrabile perché coperta da quella superiore del testo di Aristide), hanno permesso, per esempio, a Enrico Flores di scorgere margini per credere che De scient. pol. 5.64 – e segnatamente da δέκα ἐπιλογὴν ἀνδρῶν ἀρίστων sino a πολιτείας διοικήσεις – costituisca la precisa l’estensione della citazione ciceroniana la cui sede sia individuabile nella parte finale del III libro del De re publica. La lunga lacuna, causata dalla perdita dei quattro fogli interni del quaternione XLVI, interrompe il testo nel discorso tra Lelio e Scipione sino alla ripresa della parte conclusiva dell’intervento di Spurio Mummio, favorevole a una forma di res publica aristocratica, guidata da boni viri: «Cic. de re publ. 3.34.46: (Scip.) «[…] dici possint, cur illa sit res publica resque populi, quae sunt dicta de regno». «Et multo etiam magis,» inquit Mummius, «nam in regem potius cadit domini similitudo, quod est unus; plures vero boni in qua re publica rerum potientur, nihil poterit esse illa beatius. Sed tamen vel regnum malo quam liberum populum; id enim tibi restat genus vitiosissumae rei publicae tertium»». 16 Fotiou, A Re-consideration of Cicero’s «Princeps civitatis» 1984, 41 ss.
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Detto questo, è evidente però che si resta ancora in mezzo al guado, e allora prima di continuare a indagare sulla sostanza della questione fissiamo alcune coordinate: a) i giustinianei leggevano Cicerone, e certamente il De re publica; b) i giustinianei asserivano di leggere in Cicerone, in un qualche luogo del trattato, il vagheggiamento di un assetto di governo della res publica incentrato su un princeps/gubernator assistito da un ristretto numero (dieci) di aristocratici/ boni viri/principes; c) questa costruzione di Cicerone, però, è andata perduta perché non è presente nei quaternioni ritrovati. Inutile negare che le evidenti difficoltà testuali, la mancanza di indizi diretti rendano il passo di difficile interpretazione, persino ambiguo e fragile nel suo riferimento ciceroniano. Eppure, sarebbe un errore rifiutare aprioristicamente la probabilità di un uso diretto da parte dei giustinianei di un brano del De re publica che bene si prestava a sorreggere e giustificare ideologicamente, e ammantare per di più di nobile e alta antichità, quell’ipotetico impianto istituzionale. Riformuliamo, allora, il punto di indagine: era fantasiosa l’attribuzione a Cicerone di questo collegio di dieci ottimati? Era forse, più banalmente, il frutto di una manipolazione del pensiero dell’oratore circolante in quella cerchia di funzionari/ intellettuali imperiali del VI secolo d. C.? Oppure, è davvero possibile che Cicerone nel De re publica abbia immaginato una sorta di commissione che avrebbe dovuto affiancare il suo ‘princeps’ nella complessa e delicata funzione di governo di una risanata res publica? Nonostante il carattere mutilo che affligge sia il De re publica sia il περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης, è possibile compiere un passo avanti sul punto? È possibile aggiungere qualcosa e migliorare così il grado di conoscenza a cui siamo stati sinora condotti da chi se n’è occupato?
II. Temi e contesti ciceroniani Nonostante l’assenza di solidi elementi documentali per rispondere con un buon grado di probabilità agli interrogativi posti, non credo che la citazione ciceroniana sia il frutto di approssimative allusioni o di affrettate letture degli scritti dell’oratore, soprattutto del De re publica, da parte dell’anonimo autore del trattato. Sono troppi i passi del περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης sia riecheggianti chiari motivi ciceroniani, sia di stringente analogia o persino di perfetta corrispondenza con fatti reali o motivi ideologici o normativi facilmente riscontrabili nella legislazione giustinianea17, per ridurre banalmente il tutto a mere coincidenze.
17 Su questi aspetti vedi Licandro, Cicerone alla corte di Giustiniano 2017, 254 ss.
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Al tempo stesso, lo stato lacunoso e frammentario della documentazione inevitabilmente colloca queste brevi pagine su una dimensione indiziaria, e proprio qualche indizio è rintracciabile negli scritti di Cicerone, mentre tracce per ulteriori utili spunti riguardano vicende e riforme istituzionali relative al principato augusteo. Cominciamo, allora, da Cicerone. Abbiamo prima richiamato Cic. de re publ. 3.34.46, ma credo che forse un testo cruciale sia offerto dall’epistolario dell’oratore, e in particolare da un’epistula ad familiares non sempre adeguatamente valorizzata: Cic. ad fam. 1.9.21: Accepisti quibus rebus adductus quamque rem causamque defenderim quique meus in re publica sit pro mea parte capessenda status. De quo sic velim statuas, me haec eadem sensurum fuisse si mihi integra omnia ac libera fuissent. Nam neque pugnandum arbitrarer contra tantas opes neque delendum, etiam si id fieri posset, summorum civium principatum neque permanendum in una sententia conversis rebus ac bonorum voluntatibus mutatis, sed temporibus adsentiendum. Numquam enim in praestantibus in re publica gubernanda viris laudata est in una sententia perpetua permansio; sed ut in navigando tempestati obsequi artis est etiam si portum tenere non queas, cum vero id possis mutata velificatione adsequi stultum est eum tenere cum periculo cursum quem coeperis potius quam eo commutato quo velis tamen pervenire, sic, cum omnibus nobis in administranda re publica propositum esse debeat, id quod a me saepissime dictum est, cum dignitate otium, non idem semper dicere sed idem semper spectare debemus.
È il dicembre del 54 a. C., e Cicerone invia una lettera lunga, e ricchissima di informazioni, di straordinaria importanza a Publio Cornelio Lentulo Spinther. Concentriamoci sulla parte più importante ai nostri fini, quando cioè l’oratore spiega e rivendica il cambiamento di opinione verso Cesare, senza nascondere peraltro il suo legame con il futuro dittatore anche attraverso il fratello Quinto e il giurista Trebazio Testa. È interessante, tra l’altro, notare il rapidissimo, e pur significativo, passaggio su uno dei cardini dell’impianto ideologico di Platone (ad fam. 1.9.12: erant praeterea haec animadvertenda in civitate quae sunt apud Platonem nostrum scripta divinitus, quales in re publica principes essent talis reliquos solere esse civis). Giunge, quindi, il passaggio più pregnante, ossia la metafora della navigazione, in cui al timoniere (gubernator), garante di un approdo sicuro, si richiede una mano sicura, capace di assecondare i flutti perigliosi per cambiare repentinamente ove necessario la direzione (la mutata velificatio)18. Nel contesto di questa efficace e suggestiva metafora dell’arte del comando ovvero del pragmatismo massimo nell’esercizio del potere (gubernatio/gubernare, oggi governo/governare), Cicerone richiama il primato dei principes, in altri termini il tratto saliente della forma rei publicae collegiale sempre vagheggiata: il summorum civium principatus. Ora, a parte il dato testuale, tutt’altro che irrilevante, della comparsa del sostantivo ‘principatus’, il cui conio non credo debba attribuirsi a Cicerone sebbene 18 Mittelstadt, Cicero’s Political velificatio mutata 1985, 13 ss.
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sia il primo di cui sia documentato l’uso, un uso assente persino in Tacito, la teorizzazione dell’influenza, o forse sarebbe meglio dire della supremazia dei summi cives nel governo della res publica corrispondeva ai più intimi convincimenti ideologici di Cicerone ma era anche uno dei pilastri del pensiero politico senatorio-repubblicano. Non solo. In Cicerone, ciò costituiva il punto finale di maturazione della riflessione teorica su di un equilibrio istituzionale poggiante su due gambe, il princeps/ gubernator e i principes o i summi cives o i boni viri eminentes, che lasciava sullo sfondo il senato nella sua composizione plenaria. Il contesto è quello degli ultimi anni ’50 del I secolo a. C., anni turbolenti e intensi in cui Cicerone elaborava il De re publica, rifletteva sulla storia politica e istituzionale romana, lontana, recente e attuale, e pur consapevole della necessità di una guida forte lasciava risuonare in numerose pagine echi di forte preoccupazione verso un potere assoluto concentrato in una sola persona. Nella teorica ciceroniana, dunque, questa nuova forma rei publicae, la cui distesa e compiuta trattazione fu formulata nel De re publica, si contrapponeva a uno Stato con assetto rigorosamente monarchico, prediletto invece nella Πολιτεία di Platone. III. Tracce del consilium senatorio augusteo nel Περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης Oltre a questi primi elementi testuali, certamente significativi ma non decisivi, è opportuno non perdere di vista un altro punto di contatto tra Cicerone e l’autore del περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης: come i principes ciceroniani non coincidevano affatto con l’intero senato, così gli ἄριστοι di Vat. gr. 1298 costituivano un ristretto numero di ottimati rispetto alla platea dei componenti del senato tardoantico, peraltro oggetto di una riforma che nel 537 d. C. differenziò istituzionalmente per ruoli e competenze i senatori stessi19. Sulla base di questa premessa, è possibile addurre una serie di indizi ed elementi utili a restringere l’obiettivo sulla commissione menzionata dal περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης, la cui funzione di gabinetto di governo per il βασιλεύς non appare sostanzialmente dissimile dall’equilibrio tra princeps e summi cives prefigurato negli scritti ciceroniani e nella sua teorica sulla res publica. Un sentiero stretto ma conducente è quello di verificare cosa sia eventualmente successo attraverso il confrontare della teorica ciceroniana con la prassi istituzionale augustea. In altri scritti, ho cercato di far emergere la profonda influenza esercitata dall’oratore sul princeps20, ho provato a dimostrare che nella sua 19 Vedi Garbarino, Contributo allo studio del senato 1992, praecipue 38 ss., relativamente al confronto tra Nov. 62 e Nov. 8. 20 Licandro, Augusto e la res publica imperiale 2018, passim. In questo percorso, naturalmente, è stato fondamentale, nonostante la parziale diversità di risultati, Lepore, Il princeps ciceroniano 1954.
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profonda azione riformatrice – ben oltre i luoghi comuni, le accuse di mera propaganda politica, di spudorate menzogne, di bieco cinismo mossegli – l’auctor del novus ordo seguì nella misura del possibile la grandiosa eredità ciceroniana compendiata nei trattati, soprattutto nel De re publica, per guidare la res publica lungo una difficilissima transizione istituzionale verso un approdo sicuro. E tra le sue vaste riforme, ve n’è una, cioè quella relativa all’istituzione di una commissione di magistrati e senatori da affiancare al princeps per gli affari di governo, che si presta a una rilettura alla luce dell’indagine condotta in queste pagine. È Svetonio a offrire in proposito qualche informazione in un passo della biografia augustea: […] sibique instituit consilia sortiri semenstria, cum quibus de negotiis ad frequentem senatum referendis ante tractaret (Suet. Aug. 35.3). Il frammento, inscritto nel più dettagliato resoconto svetoniano del metodo di lavoro e dell’approccio di Augusto verso il senato, ricorda, sia pure succintamente, l’introduzione di un particolare consilium voluto da Augusto composto di senatori con cui il princeps affrontava l’istruttoria delle questioni che sarebbero state formalmente deliberate in senato. La ratio della ‘riforma’ augustea con ogni evidenza risiedeva certamente nell’esigenza di una maggiore razionalizzazione dei lavori e di ottimizzazione dei ‘tempi della politica’. Ma si perderebbe una visione più generale se non la si leggesse alla luce del rapporto tra Augusto e il senato. Un rapporto sovente difficile e segnato, se non da una sorda ostilità, certo da un’allarmante diffidenza. L’assemblea dei patres era divenuta una incondita turba, secondo il biografo di Augusto21, tale da giustificare le diverse lectiones compiute in quegli anni. Naturalmente, non può negarsi una qualche esagerazione nel giudizio di Svetonio, perché una dura selezione si era già praticata attraverso le proscrizioni e la guerra contro Antonio. Eppure, la diffidenza nutrita da Augusto verso il senato era reale
21 Suet. Aug. 35.1–4: Senatorum affluentem numerum deformi et incondita turba (erant enim super mille, et quidam indignissimi et post necem Caesaris per gratiam et praemium adlecti, quos orcinos vulgus vocabat) ad modum pristinum et splendorem redegit duabus lectionibus: prima ipsorum arbitratu, quo vir virum legit, secunda suo et Agrippae; quo tempore existimatur lorica sub veste munitus ferroque cinctus praesedisse, decem valentissimis senatorii ordinis amicis sellam suam circumstantibus. 2. Cordus Cremutius scribit ne admissum quidem tunc quemquam senatorum nisi solum et praetemptato sinu. 3. Quosdam ad excusandi se verecundiam compulit servavitque etiam excusandi insigne vestis et spectandi in orchestra epulandique publice ius. 4. Quo autem lecti probatique et religiosius et minore molestia senatoria munera fungerentur, sanxit, ut prius quam consideret, quisque ture ac mero supplicaret apud aram eius dei, in cuius templo coiretur, et ne plus quam bis in mense legitimus senatus ageretur, Kal. et Idibus, neve Septembri Octobrive mense ullos adesse alios necesse esset quam sorte ductos, per quorum numerum decreta confici possent; sibique instituit consilia sortiri semenstria, cum quibus de negotiis ad frequentem senatum referendis ante tracaret. 5. Sententias de maiore negotio non more atque ordine sed prout libuisset perrogabat, ut perinde quisque animum interderet ac si censendum magis quam adsentiendum esset.
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e robusta. In effetti, tali e tante furono le cospirazioni contro il princeps22 da aggravare il quadro politico entro cui si situava un’esperienza come quella cesariana con il suo drammatico epilogo: mai un omicidio politico come quello di Cesare aveva costituito un ammonimento tanto preso in considerazione. La partita ‘giocata’ da Augusto con il senato era più insidiosa di quanto possa credersi, perché in quell’assemblea rigoglioso rimaneva il sentimento filosenatorio e repubblicano. Fu perciò in questo clima politico-istituzionale che il princeps, di cui occorre cogliere la grande cifra politica del mediatore, ritenne utile condividere in via preventiva con alcune componenti, possiamo immaginare quelle maggioritarie, le questioni e le proposte che avrebbe affrontato nelle sedute plenarie del senato. La tattica politica riverberatasi nelle mosse istituzionali chiariscono la preoccupazione di Augusto, al contrario di quanto ancora si scrive, di evitare, nella misura del possibile, continui conflitti con l’assemblea dei patres; da qui la decisione, utile anche a sciogliere quei grumi di diffidenza o di dissenso che sin dall’inizio potevano rallentare o indebolire l’iter di una riforma, di affiancarsi una commissione di senatori. Il fine era eminentemente politico: confrontarsi, elaborare le strategie più adeguate per ottenere il miglior e più rapido risultato possibile. Inoltre, per la composizione della commissione, la scelta dei senatori non fu una per tutte ma, probabilmente per non scontentare molti patres e al tempo stesso per allargare il consenso, il principe affidò a un sorteggio semestrale (consilia sortiri semenstria) la selezione e la rotazione dei componenti di tale consilium23. La mossa fu assai abile e gli effetti benefici erano di duplice ordine: con il sorteggio il princeps evitava abilmente il fenomeno della cristallizzazione degli incarichi in capo a una ristretta cerchia, mentre, al contempo, la rotazione continua
22 Per un quadro recente, Rohr Vio, Le voci del dissenso 2011; Braccesi, Giulia 2012, passim; di recente vedi Arcaria, Da Ottaviano ad Augusto 2017, 63 ss. 23 Naturalmente, le commissioni in questione erano cosa diverse da quelle incaricate della redazione dei senatoconsulti, sebbene sempre ad Augusto risalga una riforma volta a garantire l’autenticità dei testi deliberati dai patres. A tal proposito si legga Buongiorno, Senatus consulta 2016, 17 ss.; Verrico, Le commissioni di redazione dei senatoconsulti 2017, 31 ss. Cosa ancora diversa era la commissione estratta a sorte che si riuniva nei mesi di vacanza di settembre e di ottobre per garantire il numero legale delle sedute e, dunque, la piena operatività del senato, Suet. Aug. 35.4–5: Quo autem lecti probatique et religiosius et minore molestia senatoria munera fungerentur, sanxit, ut prius quam consideret, quisque ture ac mero supplicaret apud aram eius dei, in cuius templo coiretur, et ne plus quam bis in mense legitimus senatus ageretur, Kal. et Idibus, neve Septembri Octobrive mense ullos adesse alios necesse esset quam sorte ductos, per quorum numerum decreta confici possent … 5. Sententias de maiore negotio non more atque ordine sed prout libuisset perrogabat, ut perinde quisque animum interderet ac si censendum magis quam adsentiendum esset; testo fondamentale per capire gli interventi riformatori del regolamento senatorio introdotti da Augusto. In tema vd. Ormanni, Il «regolamento interno» del senato romano 1990.
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di esponenti della vita politica coinvolti come protagonisti dell’azione di governo finiva inevitabilmente per garantire alla sua persona un’estensione del consenso. Dalla più ricca versione di Cassio Dione, comunque coincidente nella sostanza con quella di Svetonio, traiamo altri particolari interessanti: Dio 53.21.4–5: τὸ δὲ δὴ πλεῖστον τούς τε ὑπάτους ἢ τὸν ὕπατον, ὁπότε καὶ αὐτὸς ὑπατεύοι, κἀκ τῶν ἄλλων ἀρχόντων ἕνα παρ᾽ ἑκάστων, ἔκ τε τοῦ λοιποῦ τῶν βουλευτῶν πλήϑους πεντεκαίδεκα τοὺς κλήρῳ λαχόντας, συμβούλους ἐς ἑξάμηνον παρελάμβανεν, ὥστε δι᾽ αὐτῶν καὶ τοῖς ἄλλοις πᾶσι κοινοῦσϑαι τρόπον τινὰ τὰ νομοϑετούμενα νομίζεσϑαι. [5] ἐσέφερε μὲν γάρ τινα καὶ ἐς πᾶσαν τὴν γερουσίαν, βέλτιον μέντοι νομίζων εἶναι τὸ μετ᾽ ὀλίγων καϑ᾽ ἡσυχίαν τά τε πλείω καὶ μείζω προσκοπεῖσϑαι, τοῦτό τε ἐποίει καὶ ἔστιν ὅτε καὶ ἐδίκαζε μετ᾽ αὐτῶν. [L’innovazione più significativa fu quella di assumere in qualità di consiglieri con mandato semestrale i consoli – oppure il console nei periodi in cui era lui stesso a essere in carica in carica come console – e, in aggiunta, un altro elemento scelto da ciascuna magistratura, più altri quindici uomini sorteggiati dal resto del senato, in modo tale che entrasse in uso la pratica per cui le leggi proposte venissero in un certo modo comunicate da costoro a tutti gli altri senatori. 5. Alcune questioni le sottoponeva all’esame di tutto il senato, benché ritenesse più opportuno che molti problemi, specialmente quelli più importanti, venissero preliminarmente sottoposti con calma all’attenzione di pochi; talvolta si serviva di questo procedimento anche quando sedeva in funzione di giudice insieme ai senatori nei processi (trad. A. Stroppa)].
Il passo dioneo ci dice che questo consilium per la sua composizione fatta di 15 senatori e di magistrati (anch’essi probabilmente già tutti senatori) mostrava un solido profilo istituzionale. Da non confondere con il consilium principis24, l’organismo aveva una durata semestrale e, nel rispetto di questo ciclo temporale, veniva rinnovato per sorteggio25. Sempre a Cassio Dione dobbiamo, poi, la notizia, su cui ritorneremo, che nel 13 d. C., a un anno dalla morte, Augusto fece richiesta, ricevendone piena concessione, di avvalersi di una commissione più allargata, composta di 20 consiglieri senatori, oltre ai magistrati, con mandato annuale per coadiuvarlo nel governo della res publica; inoltre, la forza dei suoi deliberati corrispondeva a quelli dell’assemblea dei patres. Stando a Cassio Dione la riforma puntava a esonerare il princeps
24 Vedi infra. 25 Anche il sorteggio non costituisce affatto un dettaglio e anzi costituisce un altro elemento di analogia, perché nella parte superstite del περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης relativa alla procedura di investitura del βασιλεύς, il ricorso al sorteggio è previsto come modalità essenziale: Anon. de scient. pol. dial. 5.50–53.
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dall’obbligo di recarsi in senato per le sue ormai precarie condizioni di salute26 evidentemente per non allentare la sua auctoritas sui patres. L’istituzione della commissione senatoria, le cui chiare finalità politiche volte ad assicurare maggior efficacia all’azione di governo, fu certamente un interessante exemplum istituzionale che non si esaurì con Augusto ma ebbe un seguito con Tiberio27. Purtroppo, però, restano in ombra alcuni aspetti. Innanzitutto, la cronologia. Né Svetonio né Cassio Dione forniscono notizie più precise sull’istituzione di questa commissione e, sebbene diversi elementi spingano a guardare a un arco temporale ampio che va dal 27 a. C. al 18 a. C., ciò che è indubbio è la sua operatività nel 4 a. C. attestata epigraficamente dal senatus consultum c. d. Calvisianum, il cui testo è contenuto nel V Editto di Augusto ai Cirenei28: V Ed. Aug. ad Cyren. ll. 84–90 (= FIRA I2 68): ῾Υπὲρ ὧν Γάϊος Καλουίσιος Σαβεῖνος Λεύκιος Πασσιῆ|νος ῾Ροῦφος ὕπατοι λόγους ἐποιήσαντο περὶ ὧν | Αὐτοκράτωρ Καῖσαρ Σεβαστός, ἡγεμὼν ἡμέτερος, | ἐκ ξυμβουλίου γνώμης ὃ ἐκ τῆς συνκλήτου κληρωτὸν ἔσχεν, | ἀνενεχϑῆναι δι᾽ ἡμῶν [[ι]] πρὸς τὴν βουλὴν ἠϑέλησεν, ἀνηκόντων | ἐς τὴν τῶν συμμάχων τοῦ δήμου τοῦ ῾Ρωμαίων ἀσφάλειαν, ἔδο | ξε τῆι βουλῆι. [In seguito a ciò che i consoli Gaio Calvisio Sabino e Lucio Passieno Rufo hanno esposto e su ciò che l’Imperatore Cesare Augusto, nostro principe, seguendo il parere del consilium che egli ha riunito per estrazione a sorte nell’ambito del senato, ha voluto che fosse effettuata una relazione da parte di noi stessi dinanzi al senato, prendendo in considerazione la sicurezza degli alleati del popolo Romano, il senato ha emesso il seguente consulto].
Com’è noto, il testo del senatoconsulto Calvisiano non fu integralmente riscritto nel testo edittale inciso nel marmo, fortunatamente però, grazie alla completezza 26 Dio 56.28.2–3: καὶ συμβούλους ὑπὸ τοῦ γήρως, ὑφ᾽ οὗπερ ἐς τὸ βουλευτήριον ἔτι πλὴν σπανιώτατα συνεφοίτα, ετησίους ᾐτήσατο· πρότερον γὰρ καϑ᾽ ἕκμηνον πεντεκαίδεκα προσετίϑετο. καὶ προσεψηφίσϑη, πάνϑ᾽ ὅσα ἂν αὐτῷ μετά τε τοῦ Τιβερίου καὶ μετ᾽ ἐκείνων [3] τῶν τε ἀεὶ ὑπατευόντων καὶ τῶν ἐς τοῦτο ἀποδεδειγένων, τῶν τε ἐγγόνων αὐτοῦ τῶν ποιητῶν δῆλον ὅτι, τῶν τε ἄλλων ὅσους ἂν ἑκάστοτε προσπαραλάβῃ, βουλευομένῳ δόξῃ, κύρια ὡς καὶ πάσῃ τῇ γερουσίᾳ ἀρέσαντα εἶναι. τοῦτ᾽ οὖν ἐκ τοῦ δόγματος, ὅπερ που καὶ ἄλλως τῷ γε ἔργῳ εἶχε, προσϑέμενος, οὕτω τὰ πλείω καὶ κατακείμενος ἔστιν ὅτε ἐχρημάτιζεν. 27 Suet. Tib. 55. 28 Purpura, Edicta Augusti ad Cyrenenses 2012, 466. Altri scorgono un altro segno nel 2 d. C. grazie a un altro editto menzionato stavolta da Giuseppe Flavio (Ios. ant. 16.162–165). Si tratta di un editto con cui Augusto ribadì le misure di favore alle comunità giudaiche in vigore dai tempi di Cesare; in tal senso Kunkel, Die Funktion des Consiliums 1968, 266, 315 ss. Contra Santalucia, Consilium semenstre 2016, 121 s., e Id., ‘Consilium semenstre’ 2017, 191 s., che invece ritiene trattarsi del consilium principis.
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del preambolo appena scorso, non sfugge la notizia del lavoro istruttorio svolto da una commissione, composta da senatori estratti a sorte, voluta dal princeps, appunto il consilium semenstre; né è trascurabile la piena conferma della parte finale di Cassio Dione in cui si ricorda la competenza giurisdizionale del consilium semenstre (… τοῦτό τε ἐποίει καὶ ἔστιν ὅτε καὶ ἐδίκαζε μετ᾽ αὐτῶν). Altro aspetto particolarmente rilevante concerne l’identità di questo consilium semenstre, se cioè sia possibile interpretarlo, seguendo un’autorevole opinione, affermatasi già alla fine dell’Ottocento29, come una delle prime embrionali pratiche dei consilia principum. Esplicito in tal senso Edouard Cuq. Con una radicalizzazione della lettura di queste informazioni, Cuq ha creduto che «c’est au profit du conseil ainsi constitué que le sénat abdica ses pouvoirs»30. Ma di recente sia Francesco Amarelli sia Bernardo Santalucia31, nel sottolineare gli aspetti di utilità istituzionale, hanno ribadito, e ritengo a ragione, come tale commissione vada tenuta del tutto distinta dal consilium principis, con cui convisse per soffrirne sempre più32 la progressiva interferenza e successiva istituzionalizzazione con il principato adrianeo33. Non convince neppure la tesi mediana congegnata da Crook forzata sino a vedere nella commissione senatoria il disegno di Augusto di realizzare una sintesi di cui non si riesce a percepire la sostanza, perché la coesistenza dei due consilia non è discutibile e la loro natura assai diversa34. Semmai, in questo caso, resterebbe più problematico definirne i rapporti, anche se credo che all’inizio le parti fossero invertite e la prevalenza del consilium semenstre sul consilium principis fosse garantita appunto dalla sua ufficialità rispetto al carattere informale dell’altro, a cui partecipavano prevalentemente familiari e amici del princeps. 29 Cuq, Le conseil des empereurs 1884, passim; De Ruggiero, s. v. Consilium 1900, 615; ma si leggano pure Orestano, Il potere normativo degli imperatori e le costituzioni imperiali 1937, 53; Magdelain, Auctoritas principis 1947, 89 s. 30 Cuq, Le conseil des empereurs 1884, 136. 31 Amarelli, La commissione senatoria augustea 2016, 1 ss.; Santalucia, Consilium semenstre 2016, 115 ss.; Id., Consilium semenstre 2017, 183 ss. Altra bibliografia: Crook, Consilium principis 1955, 8 ss.; Kunkel, Die Funktion des Consiliums 1968, 265 ss.; vd. Arangio-Ruiz, L’editto di Augusto ai Cirenei, 1974, 27 e nt. 32; Amarelli, Consilia principum 1983, 100 ss.; Rich, Cassius Dio 1990, 154; Arcaria, Commissioni senatorie 1991, 288 ss. 32 Similmente Arcaria, Commissioni senatorie 1991, 288 ss. 33 Sulla riforma del consilium semenstre riferita da Dio 56.28.2–3 vedi Crook, Consilium principis 1955, 14 ss.; Kunkel, Die Funktion des Consiliums, 267 ss.; De Martino, Storia della costituzione romana IV.1 19742, 575, 673 s.; Amarelli, Consilia principum 1983, 102 ss.; Arcaria, Commissioni senatorie 1991, 290 s.; Santalucia, Consilium semenstre 2017, 196 ss. Mentre sulle riforme adrianee, e in particolare sull’istituzionalizzazione del consilium principis, altri spunti in Palazzolo, Potere imperiale ed organi giurisdizionali nel II secolo d. C. 1974, 26 ss.; Id., Processo civile e politica giudiziaria nel principato 1991, 70 ss. 34 Crook, Consilium principis 1955, 15 s.; non condivisibile neppure per Santalucia, Consilium semenstre 2017, 198.
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Profilo ulteriormente diverso, ma altrettanto rilevante sul piano istituzionale è quello relativo ai poteri del consilium semenstre, e cioè se fossero soltanto istruttori o piuttosto anche deliberativi. Secondo Amarelli, aderendo alla ricostruzione di Crook e sulla scorta della prassi seguita da Tiberio35, che «non omise mai di consultare il senato»36, la commissione aveva funzioni esclusivamente istruttorie e preparatorie rispetto all’attività del senato. Anche Francesco De Martino ha sollevato dubbi sul potere inusitato concesso a questo consilium e al rischio di svuotamento del senato37. Tuttavia, queste obiezioni per quanto ragionevoli tendono a schiacciare il ‘fattore tempo’ fondamentale per interpretare meglio le testimonianze disponibili: il primo consilium semenstre ebbe certamente poteri istruttori, Svetonio al riguardo è assai chiaro; ma il secondo consilium, quello di durata annuale, riformato nel 13 d. C., fu qualcosa di diverso; il suo profilo istituzionale e i suoi poteri appaiono assai più marcati dalla riforma augustea, sicché viene da pensare diversamente, almeno sulla scorta di Cassio Dione, il cui passo rileggiamo nuovamente: Dio 56.28.2–3: καὶ συμβούλους ὑπὸ τοῦ γήρως, ὑφ᾽ οὗπερ ἐς τὸ βουλευτήριον ἔτι πλὴν σπανιώτατα συνεφοίτα, ετησίους ᾐτήσατο· πρότερον γὰρ καϑ᾽ ἕκμηνον πεντεκαίδεκα προσετίϑετο. καὶ προσεψηφίσϑη, πάνϑ᾽ ὅσα ἂν αὐτῷ μετά τε τοῦ Τιβερίου καὶ μετ᾽ ἐκείνων [3] τῶν τε ἀεὶ ὑπατευόντων καὶ τῶν ἐς τοῦτο ἀποδεδειγένων, τῶν τε ἐγγόνων αὐτοῦ τῶν ποιητῶν δῆλον ὅτι, τῶν τε ἄλλων ὅσους ἂν ἑκάστοτε προσπαραλάβῃ, βουλευομένῳ δόξῃ, κύρια ὡς καὶ πάσῃ τῇ γερουσίᾳ ἀρέσαντα εἶναι. τοῦτ᾽ οὖν ἐκ τοῦ δόγματος, ὅπερ που καὶ ἄλλως τῷ γε ἔργῳ εἶχε, προσϑέμενος, οὕτω τὰ πλείω καὶ κατακείμενος ἔστιν ὅτε ἐχρημάτιζεν. [Fece richiesta di venti consiglieri a carica annuale per via dell’età ormai avanzata, che non gli consentiva più di partecipare alle assemblee senatoriali se non sporadicamente; già in precedenza del resto, aveva associato quindici collaboratori con mandato semestrale. Venne inoltre votato che avessero validità, come se fossero state decise unanimemente dal senato, tutte le misure che Augusto ritenesse opportune in comune delibera con Tiberio, con quei consiglieri, con i consoli eletti annualmente e con quelli designati 3. Con i nipoti – quelli adottivi naturalmente –, e con tutti gli altri che di volta in volta egli associasse come adiutori. Avendo dunque ottenuto per decreto questo potere, che comunque possedeva già di fatto, continuava a gestire la maggior parte dei pubblici affari, anche se talvolta lo faceva rimanendo a letto (trad. A. Stroppa)].
La composizione del consilium mutò notevolmente poiché oltre all’aumento da 15 a 20 dei senatori a cui si aggiungevano i magistrati, fu prevista la partecipazione di aggiunti, qualora la loro presenza fosse di volta in volta ritenuta opportuna. Anche 35 Suet. Tib. 30; Tac. ann. 4.6; Dio 57.7.2; Crook, Consilium principis 1955, 131 ss. 36 Amarelli, La commissione senatoria augustea 2016, 3. 37 De Martino, Storia della costituzione romana IV.1 19742, 575 s.
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la durata del consilium si ampliò, passando da sei mesi a un anno; ma ciò che più conta è che le deliberazioni da quel momento furono considerate come approvate dall’intero senato. La versione di Cassio Dione può sembrare una forzatura o il frutto di un fraintendimento, ma credo che sia da accogliere l’invito di Bernardo Santalucia alla ragionevole supposizione che «l’istituzione del nuovo organo sia stata determinata anche dall’esigenza di un rafforzamento dei poteri di governo di Tiberio, considerato che le condizioni fisiche del vecchio imperatore andavano diventando di giorno in giorno più precarie. È probabile che Augusto si rendesse conto che il figliastro non aveva il temperamento per dirigere in modo efficace una commissione del vecchio tipo, meramente preparatoria delle delibere del senato, e proprio per questo motivo abbia deciso di tramutarla in una sorta di consiglio di governo»38. Quel che è certo è che la commissione approntava i testi dei suoi deliberati che nella forma e nella sostanza erano dei senatoconsulti. A voler mantenere un po’ di prudenza, optando per la tesi minimalista che riconosce al consilium semenstre, poi annuale, soltanto poteri istruttori, si potrebbe discutere se i testi così predisposti potessero subire modifiche da parte dell’assemblea plenaria oppure se questa si limitasse a una mera ratifica. Però, la presenza di senatori e dei consoli, oltre che di un rappresentante di ogni magistratura, le tracce di interventi in altri campi, come quello della giurisdizione, fanno pensare non solo che la sfera d’azione di questo particolare consilium senatorio fosse molto ampia, estesa ad altri ambiti e materie oltre quelle tradizionalmente di competenza dell’assemblea dei patres39, ma che i poteri andassero ben oltre una mera attività istruttoria, tanto da indurre appunto a condividere la versione di Cassio Dione che ne scorgeva un organismo deliberativo a pieno titolo.
38 Santalucia, Consilium semenstre 2017, 198. 39 Non deve escludersi che proprio in questi decenni si sviluppasse meglio l’efficacia normativa dei senatoconsulti di cui già primi segnali embrionali si erano avuti alla fine dell’età repubblicana. Antica e dibattuta questione giusromanistica, a cui adesso però si guarda con un tasso inferiore di astratto dogmatismo e con una maggiore attenzione allo spettro ampio delle fonti disponibili. Sull’emanazione di senatoconsulti normativi repubblicani si veda per esempio Giuffrè, Un senatoconsulto ritrovato 1980, 7 ss.; adde Solidoro Maruotti, I percorsi del diritto 2014, 10 ss.; ma è appena il caso di aggiungere che i senatoconsulti di valore normativo di età repubblicana non riguardarono soltanto la sfera del diritto criminale, come se non fossimo dinanzi a dispositivi normativi, perché tracce evidenti residuano anche per l’ambito privatistico come nel caso del senatoconsulto sul cosiddetto quasi-usufructus, di data incerta ma collocabile nella seconda metà del I secolo a. C.; sul tema per tutti Crifò, Studi sul quasi-usufrutto romano 1977, passim; e ancora Giuffrè, L’emersione dei «iura in re aliena» 167 ss. Resta fondamentale Volterra, Senatusconsulta 1969, 1049 s. [ora in Id., Senatus Consulta 2017 88 ss.]; cf. Crifò, Attività normativa del Senato 1968, 31 ss.
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IV. Persistenze del consilium senatorio augusteo nell’età del principato La prassi di ricorrere a tale consilium senatorio non riguardò soltanto l’esperienza istituzionale augustea, ma ebbe un ciclo vitale più lungo, consolidato dalla ripetizione a cominciare da Tiberio. A tal proposito, nonostante le opinioni autorevoli di chi ha visto altro40, non trovo grandi differenze tra la commissione senatoria augustea e quella di Tiberio. Anzi, nella versione di Svetonio vi sono alcuni dati semantici meritevoli di attenzione per il rilievo che acquistano per queste pagine: Super veteres amicos ac familiares viginti sibi e numero principum civitatis depoposcerat velut consiliarios negotiis publicis (Suet. Tib. 55.1). È vero, la notizia svetoniana è troppo lapidaria per trarne indicazioni più precise, nel senso che se, da un lato, è innegabile il carattere congetturale della costituzione del consilium senatorio da parte di Tiberio una volta per tutte agli inizi del suo principato e della sua permanenza, da un altro lato, è anche vero che è difficile negargli ogni attendibilità. Piuttosto mi sembrano interessanti altri aspetti, come dicevo prima, di carattere semantico: il primo è che tra i componenti, oltre che amici e familiari, furono chiamati venti principes civitatis, prova inconfutabile della resistenza di un lessico politico-giuridico preciso, quello tardo-repubblicano, potremmo dire, ‘canonizzato’ negli scritti ciceroniani; il secondo, è che Svetonio, a proposito dei compiti della commissione, usa l’espressione negotia publica, cioè una locuzione dal generale e generico significato di ‘questioni pubbliche’, che nel nostro caso confermerebbe il carattere della commissione come organismo competente sugli affari di governo tout court, senza limiti di sfere competenza né perimetrazioni all’ampiezza dei suoi poteri. Sebbene si faccia rilevare il rispetto che Tiberio osservò verso il senato, tanto da non aggirarne mai la competenza41, continuo a considerare la testimonianza di Svetonio un’importante attestazione della presenza istituzionale accanto al princeps di una commissione di senatori con poteri deliberativi, sulla scorta del precedente augusteo. È utile, a questo punto, la lettura di un altro passaggio dioneo: Dio 57.7.2: αὐτὸς μὲν καϑ᾽ ἑαυτὸν ἤ τι ἢ οὐδὲν ἔπραττε, πάντα δὲ δὴ καὶ τὰ σμικρότατα ἔς τε τὴν γερουσίαν ἐσέφερε καὶ ἐκείνῃ ἐκοίνου. ἐπεποίητο μὲν γὰρ βῆμα ἐν τῇ ἀγορᾷ, ἐφ᾽ οὗ προκαϑίζων ἐχρημάτιζε, καὶ συμβούλους ἀεὶ κατὰ τὸν Αὔγουστον παρελάμβανεν, οὐ μέντοι καὶ διῴκει λόγου τι ἄξιον ὃ μὴ καὶ τοῖς ἄλλοις ἐπεκοίνου. [Egli non prendeva quasi mai decisioni sulla base della sua sola responsabilità, ma portava tutte le questioni, anche le meno importanti, davanti al senato e le sottoponeva a 40 Per esempio, De Martino, Storia della costituzione romana IV.1 19742, 673, vi identifica il consilium principis. 41 Così Amarelli, La commissione senatoria 2016, 3 s.; vedi però già Crook, Consilium principis 1955, 131 ss.
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questa assemblea. Nel Foro era stato costruito un tribunale, sul quale sedeva in pubblico e amministrava la giustizia, avvalendosi sempre di consiglieri, secondo l’uso di Augusto, e non prendeva alcun provvedimento significativo senza renderlo noto agli altri (trad. A. Stroppa)].
Questo testo, sostanzialmente, è stato utilizzato per indebolire l’idea dell’esistenza del consilium senatorio. Ma qualche precisazione è opportuna. Il fatto che Tiberio portasse, comunque, le deliberazioni del consilium dinanzi al senato era una scelta politica del princeps «determinata dal preciso intento di compiacere il senato», ipotizza Bernardo Santalucia42, ma da questo non può affatto inferirsi, tantomeno meccanicamente, che il consilium fosse stato formalmente privato dei poteri deliberativi introdotti dalla riforma augustea. Mentre l’opinione che questa commissione fosse stata già fagocitata dal consilium principis, quasi ne costituisse una sottocommissione, è davvero soltanto una congettura basata, a mio avviso, su di una lettura fraintesa di Dio 57.7.2. Nel passo, infatti, la menzione del ricorso ai consiglieri, secondo l’exemplum augusteo, sembrerebbe riferito solo alla sfera giurisdizionale43, e quindi semmai un riferimento a un consilium giudicante da accostare a quello investito dal senatus consultum Calvisianum44. In ogni caso, l’ipotesi di una commissione interna al consilium principis competente a risolvere autonomamente, sia rispetto al consilium principis sia all’intero senatus, non solo sembra confliggere con le risultanze documentali relative alla stessa visione di Tiberio, non solo finisce per porre Cassio Dione in contraddizione con se stesso, ma è contraria all’evoluzione storica, almeno come è possibile ricostruirla grazie alle fonti disponibili. Infatti, l’idea dell’assorbimento delle commissioni senatorie da parte del consilium principis cozza contro le attestazioni della loro coesistenza, anche dopo l’istituzionalizzazione adrianea del primo. A tal proposito, l’esempio più evidente riguarda l’esperienza di Severo Alessandro, nella versione di Erodiano:
42 Santalucia, Consilium semenstre 2017, 200. 43 Arcaria, Commissioni senatorie 1991, 292, forza la lettura del frammento dioneo col farvi rientrare le affermazioni di Svetonio e finendo così per attribuire un valore solo esemplificativo all’espressione ἐπεποίητο … ἐχρημάτιζε. Lo stesso Cassio Dione distingueva i casi, affermando che talvolta Augusto in sede giurisdizionale seguiva questo procedimento (Dio 53.21.5: ἐσέφερε μὲν γάρ τινα καὶ ἐς πᾶσαν τὴν γερουσίαν, βέλτιον μέντοι νομίζων εἶναι τὸ μετ᾽ ὀλίγων καϑ᾽ ἡσυχίαν τά τε πλείω καὶ μείζω προσκοπεῖσϑαι, τοῦτό τε ἐποίει καὶ ἔστιν ὅτε καὶ ἐδίκαζε μετ᾽ αὐτῶν). Conforta in questa direzione anche quanto racconta Erodiano su Massimino il Trace (Hdn. 7.1.3), su cui vedi Spagnuolo Vigorita, I senatori nel principato di Massimino 1982, 205 s. 44 Analoghe considerazioni possono avanzarsi con riguardo a Dio 60.4.3, passo relativo a Claudio; cf. BGU 511.
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Hdn. 6.1.2: καὶ πρῶτον μὲν τῆς συγκλήτου βουλῆς τοὺς δοκοῦντας καὶ ἡλικίᾳ σεμνοτάτους καὶ βίῳ σωφρονεστάτους ἑκκαίδεκα ἐπελέξαντο συνέδρους εἶναι καὶ συμβούλους τοῦ βασιλέυς· οὐδέ τι ἐλέγετο ἢ ἐπράττετο, εἰ μὴ κἀκεῖνοι αὐτὸ ἐπικρίναντες συμψηφοι ἐγένοντο. ἤρεσκέ τε τῷ δήμῳ καὶ τοῖς στρατοπέδοις, ἀλλὰ καὶ τῇ συγκλήτῳ βουλῇ, τὸ σχῆμα τῆς βασιλείας ἐκ τυραννίδος ἐφυβρίστου ἐς ἀριστοκρατίας τύπον μεταχϑείσης. [In primo luogo scelsero sedici senatori, eminenti per l’età veneranda e la vita intemerata, affinché fossero collaboratori e consiglieri del principe; né alcuna deliberazione veniva promulgata e applicata senza che costoro l’avessero in precedenza vagliata e accolta. Il nuovo governo era gradito al popolo e ai soldati, ma soprattutto al senato, in quanto si allontanava dall’assolutismo tirannico, ispirandosi ai principi aristocratici (trad. F. Cassola)].
La commissione di 16 senatori difficilmente, come ha intuito Theodor Mommsen45, può essere intesa come il consilium principis, e fragile appare anche la proposta intermedia di Crook46 di utilizzare Erodiano come prova dell’operatività di un consilium principis integrato da commissioni senatorie. Si trattò, invece, molto probabilmente di una sorta di consiglio di reggenza generale, probabilmente concordato con il senato, insomma qualcosa di simile agli exempla di Augusto e di Tiberio, momento «di un disegno politico più ampio»47. I dubbi trovano una conferma in un passo dell’Historia Augusta: Sev. Alex. 16.1: Leges de iure populi et fisci moderatas et infinitas sanxit neque ullam constitutionem sacravit sine viginti iuris peritis et doctissimis ac sapientibus viris isdemque dissertissimis non minus quinquaginta, ut non minus in consilio essent sententiae, quam senatus consultum conficerent.
Severo Alessandro non si avvalse soltanto del consilium di 16 senatori, ma anche di altri organismi dalla singolare composizione come quella riportata dall’Historia Augusta la cui notizia, tuttavia, solleva non pochi dubbi rispetto alla lettura che se n’è data e mi sembra per lo più fraintesa48. In primo luogo, che si trattasse di un organismo diverso da quello indicato da Erodiano lo si desume inequivocabilmente dalla particolare e assai più ampia composizione: 20 giuristi, 50 ottimati. In 45 Mommsen, Römisches Staatsrecht II.2 18883, 903 nt. 3. 46 Crook, Consilium principis 1955, 86 ss., 103 s. 47 Secondo Spagnuolo Vigorita, Recensione di U. Vincenti, La partecipazione 1992, 251; mentre Vincenti, La partecipazione 1992, 18 ss., tende ad attribuirne il preciso scopo di assicurare in vista del tribunale senatorio criminale un’omogenea composizione della commissione; cf. Nasti, L’attività normativa di Severo Alessandro 2006, 220 s. nt. 146. 48 Addirittura del tutto inattendibile lo ritiene Dietz, Senatus contra principem 1980, 300 ss.; cf. Kunkel, Die Funktion des consiliums 1968, 293 s.; Amarelli, Consilia principum 1983, 21 nt. 1.
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secondo luogo, ci si riferisce a un ambito specifico, e non generale, riguardante atti normativi del princeps (e non di competenza dei patres): si parla infatti di constitutiones in materia di fisco e cittadini49; e anche la previsione dell’assistenza di un organismo elefantiaco, oltre 70 componenti, era circoscritta alle materie indicate, e all’approvazione degli atti non seguiva una fase successiva dinanzi al senato, neppure di formale ratifica. In terzo luogo, ancora l’ampiezza dell’organismo, che perciò fatico a identificarlo nel consilium principis sia pure allargato50, e al riguardo il tenore testuale è assai eloquente, induce a scorgervi un’esigenza squisitamente politica di Severo Alessandro; in altri termini, assicurare a quegli atti, e non ad altri negotia publica, l’assenso di 20 giuristi e di non meno di 50 notabili (doctissimis ac sapientibus viris), cioè di un numero pari a quello prescritto per l’approvazione di un senatus consultum, era il tentativo neppure tanto mascherato di anticipare un largo consenso, persino un’abile mossa di comunicazione politica per dare forza al contenuto del provvedimento e pubblica garanzia della sua bontà presso l’opinione pubblica. Che a un organismo del genere poi partecipassero tutti o gran parte dei consiliarii principis, non è fatto tale da suscitare il vagheggiamento di una composizione del consilium principis integrata da una commissione senatoria51. Certo resto non del tutto spiegata la fluidità dei rapporti e dei meccanismi di interazione tra princeps, senatus, consilium principis, e altri consilia. E forse resta preferibile la mommseniana ricostruzione tripartita52, tuttavia reinterpretata con una maggiore flessibilità. Probabilmente, il consilium principis restò sempre un organismo la cui legittimazione risiedeva nella discrezionale volontà del principe, mentre la coesistenza con commissioni senatorie si spiegava su di un versante squisitamente istituzionale in cui si praticava la ricerca costante di una mediazione politica tra princeps e senatus, tanto che in casi del genere i senatori commissari lo erano in quanto espressione di una delega dell’assemblea dei patres: erano infatti sorteggiati e non direttamente scelti dal princeps. A questa prassi indiscutibilmente inaugurata da Augusto ricorsero i principes, qualora ne avessero valutato l’opportunità sulla base della situazione politica. Non era però l’unica: in determinate circostanze, e probabilmente dettate da esigenze particolari nella dinamica princeps/senatus, le fonti documentano la presenza di organismi collegiali diversi, non solo dalle ristrette commissioni senatorie ma anche dal consilium principis, competenti per ambiti o su specifiche materie53. Da questa angolazione, allora, va colto e compreso l’inte49 Infatti, nel seguito del passo si fa riferimento al diverso atteggiamento di Severo Alessandro di rivolgersi a pochi consiglieri per altri affari (Hist. Aug. Sev. Alex. 16). 50 Che peraltro appare assai lontano dal tradizionale Gerichtskonsilium anche per la sua estraneità alla sfera giurisdizionale. 51 Adesivo alla tesi di Crook, Arcaria, Commissioni senatorie 1991, 293 ss. 52 Mommsen, Römisches Staatsrecht II.2 18883, 988. 53 Su questo aspetto rinvio a Arcaria, Commissioni senatorie 1991, 269 ss.
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ressante spunto offerto nel passo di Erodiano, ma suffragato anche dallo spirito filosenatorio di cui è intrisa l’Epitome historiarum di Zonara54, circa il gradimento dei patres che vedevano appunto nella commissione di cui si avvalse Severo Alessandro un esplicito segno di rispetto verso la tradizione aristocratica troppo mortificata dall’assolutismo antisenatorio dei predecessori (da Caracalla, a Macrino a Eliogabalo) secondo un’ottica diarchica, o se si preferisce di governo misto o temperato55, mai sopitasi56.
V. Un bilancio È tempo di concludere. Non abbiamo certo trovato la citazione ciceroniana riportata dall’anonimo trattatista del περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης, che potremmo riavere sotto gli occhi se si ritrovasse del De re publica il quaternione scomparso che la contiene, ma abbiamo individuato un filo, ancorché tenue, che ci riporta al gubernator di Cicerone (da non dimenticare il cenno epistolare al summorum civium principatus), ad Augusto, al suo rapporto con il senato e i principes, e alla comparsa sul piano istituzionale accanto al princeps di commissioni senatorie per sbrigare gli affari di governo della res publica57. Per quanto innegabile sia il carattere circolare, oltre che indiziario, dell’argomentare, non può tuttavia disconoscersi l’alta probabilità che nella parte lacunosa del trattato ciceroniano abbia trovato posto la riflessione su una simile forma rei publicae, peraltro implicita in diversi passaggi del De re publica, da cui Augusto trasse ispirazione per l’introduzione della commissione senatoria58; e grazie al ritrovamento di Vat. gr. 1298, a quel fondamentale passaggio, oggi possiamo considerare la riforma augustea come l’anello di congiunzione per lumeggiare il rapporto tra 54 Zonar. 12.15. Sulla resistenza dell’ideologia ‘repubblicana’ vedi le osservazioni molto puntuali di Mecella, Il paradigma repubblicano nell’Epitome historiarum 2019, 151 ss., che opportunamente richiama, sia pure in via marginale, il περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης. 55 Roberto, Aspetti della riflessione sul governo misto 2011, 119 ss.; sul fraintendimento dell’analisi polibiana della costituzione mista romana è incentrato il libro di Zecchini, Polibio 2018. 56 Sulla versione di Erodiano e di Zonara, tuttavia, è gravemente dubbioso De Martino, Storia della costituzione romana IV.1 19742, 673 s. nt. 155. 57 È appena il caso di aggiungere un altro accostamento, quantomeno come pura suggestione, a proposito della competenza degli ἄριστοι del περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης a selezionare altri ottimati a cui affidare incarichi di governo: in Dio 54.13–14, relativo alla lectio senatus del 18 a. C., si racconta che Augusto nominò una commissione formata dai migliori trenta patres ciascuno dei quali avrebbe dovuto scegliere cinque nominativi e dal cui totale sorteggiarne trenta, e così via sino al raggiungimento del numero complessivo di seicento senatori. 58 Licandro, Cicerone alla corte di Giustiniano 2017, 161 ss.
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il De re publica di Cicerone e la speculazione dei giustinianei, il cui filo rosso è l’impianto comune fondato sull’ideologia senatoria-repubblicana dei principes ‘codificato’ nel περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης. Come non ricordare a tal proposito l’atteggiamento di Tiberio? Non ha alcuna importanza se fosse sincero o strumentale, ciò che conta è la forma di cui vi è testimonianza nelle fonti: «In generale veniva chiamato Cesare, e talora anche Germanico, e, infine, secondo l’antica consuetudine, princeps senatus, titolo che persino lui usava per sé e per cui spesso dichiarava queste parole: «Per gli schiavi sono un signore, per i soldati un imperator, e per tutti gli altri un princeps»»59. Si tratta di una testimonianza raccolta da Cassio Dione molto precisa per poterla liquidare con disinvoltura. Resta altresì un fatto di indiscutibile contatto tra teoria e prassi nel governo della res publica del I secolo (Cicerone-Augusto) e quella VI secolo d. C. (anonimo trattatista-Giustiniano), che adesso spero sia visto sotto altra luce. Come nell’esperienza istituzionale giulio-claudia, il princeps fece ricorso a commissioni senatorie per il disbrigo degli affari di governo della res publica, così la teorizzazione dell’analogo ruolo degli ἄριστοι del περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης, fondato su un esplicito richiamo di un perduto ciceroniano del De re publica, trovava una precisa corrispondenza storica nella riforma giustinianea del senato del 537 d. C. (Nov. 62) con cui si distinsero i senatores-administratores e i senatores in quiete degentes ai fini della gubernatio rei publicae. Anche in questo caso, sarebbe semplicistico leggere questi nessi come casuali e derubricare il tutto a mera coincidenza60, non ultima la perfetta corrispondenza di Nov. 62 con il lessico ciceroniano. Ed evitare facili e frettolose letture è l’unico, modesto fine di queste pagine. Nell’infuocata temperie imperiale del VI secolo d. C., nelle stanze del potere risuonava quella voce antica a cui attingere per assorbire e superare il travaglio dell’impero, e questo spiega perché Menas e Thomas, nel poggiarsi sulla migliore tradizione del pensiero senatorio impersonata da Cicerone, vedessero nel βασιλεύς affiancato da un gabinetto di governo composto dai migliori ἄριστοι l’assetto istituzionale più equilibrato e temperato. Del resto, se ancora nel VI secolo d. C. il materiale ciceroniano circolava negli ambienti della corte imperiale, se il De re publica era letto e studiato da quel ceto di burocrati intellettuali al servizio dell’imperatore, non esiste alcuna ragione per negare la continuità, quell’ininterrotto filo ideologico tardorepubblicano modellato da Cicerone con l’originale teologia 59 Dio 57.8.2. 60 Garbarino, Contributo allo studio del senato 1992, 169 ss.; Licandro, Cicerone alla corte di Giustiniano 2017, 252 ss. A favore dell’idea che la teorica propugnata nel περὶ πολιτικῆς ἐπιστήμης possa aver influenzato gli orientamenti politico-istituzionali verso il senato, tant’è che svariati motivi appaiono riversati in Nov. 62 (ma il ragionamento può essere esteso a un più vasto spettro novellare), gioca anche la cronologia. Come credo di aver contribuito a dimostrare, la redazione del trattato giustinianeo dovrebbe risalire ai primi anni del regno di Giustiniano, se non addirittura prima (Licandro, Cicerone alla corte di Giustiniano 2017, 31 ss.), mentre Nov. 62 è del 537 d. C.
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imperiale frutto anche dell’innesto del sincretismo tra neoplatonismo e idee cristiane: un pensiero lungo e nobile che continuava a indicare nell’antico senato romano (ormai soprattutto quello costantinopolitano) il teatro principale della politica e della successione imperiale. Per quanto apparentemente paradossale, proprio nella ‘età di ferro’ dell’assolutismo imperiale, gli elementi monarchici, per quanto pienamente definiti e sorretti dalle concezioni ideologiche e dal pensiero politico del tempo, non obliteravano affatto l’impianto ‘repubblicano’ propugnato da Cicerone. Nel nome dell’antiquitatis reverentia, motivo ribadito e declinato con riferimento alla grande compilazione giuridica, a Costantinopoli si concepiva l’ardita operazione di attualizzazione del pensiero repubblicano di Cicerone plasmato da una generazione di colti e alti funzionari imperiali appartenenti alla migliore élite aristocratica. Questa ristretta cerchia, di cui conosciamo alcuni significativi esponenti (appunto Giovanni Lido, Pietro Patrizio, Paolo Silenziario, Mena, Cresconio Corippo, Procopio di Cesarea; Iunillo Africano, ecc., assieme ai tanti commissari giustinianei, soprattutto Triboniano, ma anche Teofilo, Doroteo, Cratino e Anatolio), indubbiamente rappresentava il nerbo di una solida burocrazia laica fatta di «funzionari colti ed esperti di diritto, usciti da famiglie di vecchie tradizioni, imbevuti delle memorie antiche e ad esse attaccatissimi, che videro nell’impero di Giustiniano una speranza per la difesa della civiltà a loro cara e dei privilegi di casta»61. Essi, non a caso gli stessi che assecondarono il visionario disegno giustinianeo di rifondazione dell’impero, continuavano a cibarsi della migliore letteratura politica e giuridica del passato e della romanità in particolare; nelle loro biblioteche, tra le loro mani e sotto i loro occhi ancora circolavano opere come la Πολιτεία di Platone, il De re publica di Cicerone, e nel dibattito politologico non esitarono a esprimere una ragionata preferenza per il secondo, soprattutto per quel Cicerone che, pur nella teorizzata presenza di un princeps/gubernator necessaria per rimettere in piedi una squassata res publica, non rinunciò mai a postularne una forma in cui fosse indiscutibile la centralità del senato e dei principes/boni viri. Nel raggomitolare il filo di questa continuità, allora, si risale sino al fondatore del principatus, Augusto, decisivo nel tramandare l’ideologia repubblicana del ‘migliore’ e dei ‘migliori’ cittadini a cui affidare la res publica restituta sia pure nel novus status. Quell’ideologia, per la verità, non fu mai smarrita dalle classi dirigenti romane e dai principes succedutisi nel corso dei secoli, tanto da continuare a essere uno dei perni principali del pensiero politico della tarda antichità. Non sorprende, per concludere, che simile continuità si fosse tradotta anche nella conservazione del relativo lessico politico-istituzionale, assolutamente corrispondente nelle due aree linguistiche dell’impero: se nei territori grecofoni si parlava di ἄριστοι, sempre nel VI secolo d. C., nell’Occidente latino grazie ai frammenti superstiti dei pane-
61 Lamma, Oriente e Occidente 1968, 112.
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girici di Cassiodoro, sappiamo che a proposito dei senatori, in omaggio a quell’inveterata tradizione, continuava a risuonare la nobile espressione di principes viri62.
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Orationum reliquae (ed. Sblendorio Cugusi) fr. 95 109.96 fr. 103 109.97
Variae 5.38 160.33 8.19.5 221.62 10.4.8 221.62
Chronica Minora (Monumenta Germaniae Historica) I 146 127.2
Cassius Dio Historiae Romanae fr. 22 57; 82.34 fr. 74.2 46.87 8.37.2 47.90; 48.94; 59 37.20.6 85.43 37.21.1-2 85.44 39.38 120.158 39.38.1-2 116.134; 119.151 43.22.3 116.134; 132.9 53.21.4-5 209 53.21.5 215.43 54.13-14 218.57 54.26.1 116.134 55.10.7-8 116.134 56.28.2-3 210.26; 211.33; 212 57.7.2 212.35; 214-215 57.8.2 219.59 57.20 142.41 60.4.3 215.44
Cicero I. Epistulae Ad Atticum 1.14.1 45.86 3.23.2 24.36 4.16.6 119.152 4.18.4 46.87 5.20.3 85.46 5.21.5 95.14; 95.15 5.21.11 105.76 6.1.21 95.14; 95.15 7.1.5 46.87; 86.49 7.1.7 86.48 7.3.3 86.49 7.4.2 86.49 8.11.1-2 86.48 9.12.3 119.146 13.33.3 105.76
Cato De agricultura 2.1 58 8.1 95.11
Ad familiares 1.9.12 205 1.9.21 205 2.9 95.14 2.10.3 85.46 2.11.2 95.14; 95.16
Indice delle fonti
7.1.1 120.158 7.1.3 116.134 8.2.2 95.14 8.3.1 95.14 8.4.5 95.15 8.6.5 95.15 8.9.3 95.15; 95.16 8.10 95.14 9.25.1 187.55 11.16.3 118.143 11.17.1 118.143 15.10.1-2 86.47 15.13.2-3 86.47 16.11.3 46.50
In Verrem 2.1.14 2.4.6 2.4.133
Ad Quintum fratem 1.1.26 105.79 3.2.2 46.87 3.6.6 119.146
Pro Caelio 34 82.3
II. Orationes
Pro Murena 31 101.53 37-41 115.126 38 119.147 40 120.154 76-77 122.175 77 119.147
Pro domo sua ad pontifices 82 38.71 De haruspicum responso 23 119.146 26 99.48; 119.152 27 119.146 De lege agraria 2.10 38.71 2.31 38.71 2.21 58 2.35 105.76 De imperio Cn. Pompei 61-62 84.39 In L. Pisonem 65 120.158
118.143; 119.146 99.48; 119.152 119.152; 120.157
Philippicae 9.17 119.145 Post reditum ad Quirites 15 119.152 Pro Balbo 48 38.71 57 150.6
Pro Cluentio 121 59
Pro Plancio 13 119.146 Pro Sestio 37 38.71 103 38.71 116 120.158 118 119.146 135 116.134; 118.143; 119.146
227
228
Indice delle fonti
III. Philosophica Academia priora 2.1 119.152 2.13 38.71 Cato Maior de senectute 4.11 38.71 De legibus 2.14 38.71 2.37 94.7 3.20 38.71 3.9 43.82; 57 3.26 38.71 De officiis 2.57
99.48; 115.126; 119.144; 120.157 2.58 116.128 De republica 2.42 200.7 2.54 36.64 2.63 22.32 3.46 203; 205 Tusculanae disputationes 1.3 109.97 IV. Rhetorica Brutus 57 38.71 318 119.152 De inventione 1.14 149.2; 151.7 2.52 38.71 2.69 151.7 2.109 151.7
2.110 151.7 2.122 ss. 156.26 De oratore 1.57 119.146 3.92 119.146 Codex Theodosianus 15.2.1 160.33 Collatio legum Mosaicarum et Romanarum 8.7.1 142.41 8.7.2 142.41 8.7.3 142.41 Columella 1 pr.14 191.65 1.3.10 191.65 1.3.11 58
Corpus Iuris Civilis Codex 11.43.10.2 160.33 Digesta 1.1.1.1 150.3 1.2.2.3 56 1.2.2.8 13.6; 38.69; 47.90 1.2.2.12 11.1 1.2.2.26 42.79; 58 1.16.4.2 142.41 3.3.43.2 152.11 10.1 154.20 11.7.2.5-6 164.48 11.7.2.6 163.43 29.5.25 pr. 157.27 29.5.25.1 157.27 29.5.25.2 157 47.10.5.11 150.4
Indice delle fonti
47.21.3 pr. 155.21 47.23 152.13 47.23.1 152.10 47.23.2 155.22; 167.57 47.23.3.1 155.22; 167.57 48.10 142.41 48.10.1.1 142.41 48.10.9.3 142.41 50.16.102 25.36 Institutiones 1.2.4
13.6; 38.69
Novellae 8 206.19 62 206.19; 219; 219.60 Curiosum Urbis Romae (ed. Nordh) 103.18 186.49 (ed. Jordan) 570.24 186.49 De viris illustribus 20.1 42.79; 58 20.3 58 52.1-2 101.54 52.3 101.54 64 38.71 66.1 118.143 72 117.142 72.4 118.143 73 38.71 Diodorus Siculus Bibliotheca historica 11.68.7 56 12.25.2 42.79; 58 12.25.3 43.82; 57 13.42 41.74; 57 13.42.6 57
Dionysius Halicarnassensis Antiquitates Romanae 5.43.2 67 5.47.2 67 5.47.4 67 6.30.2-3 46.88 8.68.1 56 8.87.4-8 56 8.88.1 56 9.1.2-3 56 9.2 56 9.27.1-5 56 9.37-38 56 9.43.4 23.34; 56 9.51-54 56 9.59.1-2 56 9.68.7 56 9.69.1 56 10.1.5 56 10.3.4 56 10.30.2 23.34; 56 10.31-32 52.102 10.31.2-3 56 10.32.1-4 56 10.32.4 52.102 10.33.1 56 10.40.2 56 11.28.2 56 11.28.7 56 11.30-11.33.3 56 11.37.7 56 11.38.2 56 11.45 36.64 11.46.5 56 11.49.3-5 46.88; 57; 69 11.50 56 11.50.1 46.87; 46.88; 57; 69 12.1.5 42.77; 57 12.4.2-5 42.77 12.4.6 57 14.12 58
229
230
Indice delle fonti
17-18.5.4 73 18.5.3 46.87 20.16.1 184.41 Donatus De comoedia 8.2 118.143 Fenestella (ed. T. J. Cornell et alii, The Fragments of the Roman Historians) Fr. 9 122.174; 123.180 Fr. 15 122.174; 123.180 Frr. 24-28 122.174; 123.180 Festus/Paulus Diaconus De verborum significatu cum Pauli epitome (ed. Lindsay) s. v. oratores (196.9-26) 109.96 s. v. praeteriti senatores (290) 59 s. v. scita plebis (293) 11.1 Flavius Josephus Antiquitates Iudaicae 16.162-165 210.28 Florus Epitoma de Tito Livio 1.17 22.32; 42.79; 44.84; 57; 58 Frontinus De aquae ductu 1 158.30 2.2-3 158.30; 162.40 3.2 159.31 16 177.19 99.5 193.70 100 163.41 100-101.1 193.70 103.5 193.70
104 163.41 104.1-2 193.70 105-106 160.32 105.3 193.70 106 163.41; 166.55 106.1-2 193.70 107.3 193.70 108 163.41; 193.70 114 166.55 114-115 160.32 115 166.55 115.3 166.55 119-128 162.39 124.4 165.54; 193.70 125 161.34; 163.41; 165.54; 193.70 126 163.43 126.1-6 160 126.3 164.45 126.6 193.70 127 149; 158-159; 161.35; 163.43; 193.70 127.3 154.19; 167.58; 168.59 128.2 166.55 129 164 129.1 162.40 129.4 168.62 129.5 168.59 129.6 168.62 129.7 165.50 129.9 165.51; 168.59 129.10 165.53 Strategemata 1.1.1 173; 173.1; 174.7 1.1.2 177.15; 194.72 1.1.3 176.13 1.1.5 176.11 2.4.9 189.58 2.6 187 2.6.1 a 185; 186; 186.48; 193
Indice delle fonti
2.6.1b 186.48 3.2 190 3.3 190 3.4 190 3.5 190 3.6 190 3.7 190 3.8 190 3.9 190 3.10 190 3.11 190 3.13 190 3.14 190 3.18.3 178; 193 4.1 187 4.1.1 175.10 4.1.18 181; 193 4.1.22 185; 187; 193 4.1.24 185; 187; 189; 193 4.1.25 179; 189; 193 4.1.32 185.43 4.1.38 184; 185; 185.43; 193 4.1.44 179; 193 4.1.46 182; 193 4.3.1 190 4.3.4 183; 192.68; 193 4.3.12 185; 190; 191; 193 4.3.15 185; 190; 192-193 4.4.7 189.58 4.5.6 180; 193 Gaius Institutiones 1.3
11.1; 13.6; 14.9; 38.69; 47.90 1.31 105.76 2.253 105.76 3.63 105.76 4.23 41.75
Gellius Noctes Atticae 2.24.2 105.76 2.24.2-3 94.8 2.24.12 117.142 5.6.20-21 82 5.6.24-26 109.97 6.3.39-40 58 10.20.5 11.1 10.20.10 84.39 15.27.4 11.1; 12.3; 13.6; 38.69; 47.89 Granius Licinianus 36.6 122.171 Herodianus 6.1.2 216 7.1.3 215.43 Herodotus 8.108 187.54 Historia Augusta Vita Antonini Pii 9.1 127.2 Vita Hadriani 8.1 221.62 22.11 221.62 Vita Marci Antonini philosophi 22.3 221.62 Vita Alexandri Severi 16 217.49 16.1 216 Iohannes Lydus De mensibus 3.46 99.46
231
232
Indice delle fonti
Iulius Paris Epitome Valerii Maximi 4.3.5 191.66 Iustinus Historiae Philippicae 2.13.5 187.54 Livius Ab Urbe condita 2.20.12 156.25 2.41.1 56 2.42.8 56 2.43.2-4 56 2.44.1 56 2.47 187.52 2.47.10 67 2.52.2-3 56 2.54.2 56 2.56.1 23.34; 56 2.57.1 23.34; 56 2.57.4 23.34; 56 2.61.1-2 56 3.1.1-2 56 3.9 56 3.10.5-14 56 3.10.11 56 3.15.1-3 56 3.24-25 56 3.30 56 3.30.5 23.34; 56 3.31.1 52.102 3.31.1-2 56 3.32.7 52.102; 56 3.34.15 57 3.35.4-5 56 3.44.3-7 56 3.45.4-46.8 56 3.47.3-8 56 3.48.1-49.4 56 3.51.6-11 56 3.53-55 21.28
3.54.5 44.84; 52.102 3.54.11-15 56 3.54.14 44.84; 52.102 3.54.14-15 56 3.55.3 15.10 3.55.3-7 36.64; 68.7 3.55.14-15 43.82; 57 3.56.12-13 36.64 3.57.4 56 3.58.5 56 3.59.1-2 44.84; 52.102 3.63.8 56 3.63.8-11 46.87; 46.88; 57; 67 3.63.9 34.59 3.65.1-4 23.34; 57 3.65.9 56 4.1.1 22.32 4.1.2 57 4.6.3 22.32; 41.75; 57 4.6.5-12 57 4.12.3-4 40.73; 57 4.12.8 42.77; 57 4.13.7 42.77; 57 4.16.2-5 57 4.20.1 69 4.21.3-4 57 4.25.9-14 57 4.25.13-14 42.77 4.35.8 156.25 4.43.5-6 57 4.44.7-10 57 4.47.7-8 57 4.48.1-2 57 4.48.15-16 57 4.49.6 41.74; 57 4.49.6-12 57 4.49.7 44.84 4.49.7-12 41.74; 57 4.49.7-4.50.6 57 4.50.6 44.84 4.51.2 105.76 4.51.2-3 44.84; 57
Indice delle fonti
4.51.3-6 41.74; 57 4.52.2 57 4.53.1-7 57 5.12 57 5.24.7-5.30.7 57 5.50.8 57 5.55.1-2 57 6.5-6.6 57 6.30.2-3 46.87 6.35-37 42.79; 58 6.35-39 58 6.37.1 58 6.38.5-13 58 6.42 42.79; 58 6.42.2 58 6.42.8 43.83; 58; 69 6.42.9 42.79; 58 7.11.8-10 69 7.15.12-13 43.80; 58 7.16.1 41.75; 58 7.16.8 23.34; 58 7.16.9 58 7.17.9 46.87; 47.89; 58; 70 7.25.8 185.45 7.25.10 186.47 7.26.9 186.47 7.26.10-14 187.50 7.26.12 185.45 7.27.3 41.75 7.42.1 41.75 8.12.14-16 37.67; 70.10 8.16.11 70 8.20.7 70 8.23.10-12 70.11 8.23.12 49.95; 58 8.26.7 71 8.37.8-11 58 9.12.5 49.96; 58 9.16.2-10 49.96; 58 9.26.5-9 59 9.29.6-8 59 9.30.3 59
9.30.4 59 9.34 24.36 9.40.20 71.13 9.46.7 48.92; 59 10.6.1-6 20.25 10.6.9-11 48.93; 59 10.7.1 20.25; 48.93 10.8.2-3 58 10.9.1-2 20.25; 48.93 10.13.5-11 59 10.13.14 58 10.21.9 49.97; 59 10.22.9 20.25; 50.98; 59 10.36.19 72.14 10.37.6 87.53 10.37.6-12 46.87; 71 10.37.9.12 59 10.37.10 45.86; 46.88; 57 10.37.13-15 73.16 21.63.2 46.87; 77.21 21.63.3 38.71 22.61.14-15 181.28 23.25.7 180.25 24.2.6 56 24.18.9 180.25 25.6.7 181.28 25.7.1-4 180.26 25.37-38 187.51 26.1.2 179.22 26.1.7-8 180.26 26.21.1 46.87 26.21.2 87.52 26.21.1-4 74; 81.30 26.21.3 87.54 26.21.4 83.36 26.21.5 38.71; 46.87 26.33.10-11 49.96; 58 27.5.6-7 38.71 27.7.6 38.71 27.11.8 38.71 27.13.9 179.23 27.33.12-14 38.71
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234
Indice delle fonti
28.9.5 46.87 28.9.7 87.52 28.9.8 87.53 28.28.2-3 185.43 28.38.4 80.27 30.37.3 99.47 30.43.11 99.47 31.4.5-7 100.51; 108.92 31.9.5-10 101.57; 118 31.20.2-6 80.27 31.20.6 43.83 31.47.7 46.87 31.48.6 81.29 31.49.1-3 81.29 31.49.4 102.60 31.50.1-2 102.60 32.7.4 87.54 32.7.13-14 108.92 32.7.14 102.60 33.22.1 46.87; 87.53 33.23.8-9 83.36 33.25.1 99.43; 102.59 33.25.1-2 100.51; 108.92 33.42.8 102.63; 108.92 33.42.9 102.60; 102.65 33.44.1 105.76 34.1.2-8 38.71 34.4.9 58 34.39.5 46.87 34.53.1 38.71 35.7.2-5 111.105; 111.106 35.7.4-5 38.71 35.8.2-9 75; 81.30 35.8.9 87.52 35.11.6 156.25 35.20.9-10 38.71 35.40.5 38.71 36.4.8 99.48 36.35.12 101.55 36.36.4 105.76 36.39.5 87.53 37.46.2 43.83; 81.30
37.46.6 81.30 37.58.3 43.83 38.3.9-11 101.54 38.36.7-9 38.71 38.47.1-3 76 38.44.9 87.52; 87.53 38.44.9-11 46.87; 76 38.50.2-3 76 39.2.11 107.86 39.4 101.53 39.4.1 87.53 39.4.2 46.87 39.5.1-6 101.53 39.5.7 101.55 39.5.9 102.62; 118 39.5.9-10 102.63; 118 39.5.10 118 39.5.14 102.64 39.5.14-15 101.55 39.18.8 109.98 39.19.3-7 38.71 39.22.1-2 102; 102.65 39.22.2 103.67; 103.70 39.22.8 107.84 39.22.9-10 106.83 39.29.4 46.87; 87.53 39.42.2 43.83 40.19.5 109.98 40.39.1 81.28 40.44.8-9 104.73 40.44.10-12 104; 104.75 40.44.11-12 118 40.45.9 104.74 40.52.1-3 107.87; 118 40.52.4-7 43.83 40.59.3 81.28 40.59.6 107.90 41.6.4 81.28; 87.53 41.6.7 81.28 41.18.5-9 182.32 41.18.12 183.36 41.18.16 182.34
Indice delle fonti
41.27.2 185.43 42.21.4-7 38.71 42.21.6-7 46.87; 83.36 43.4.5-7 114.117 43.4.5-13 114.116 43.4.6 115.124; 115.125 43.4.8-13 114.121 43.4.11 114.120 43.5.1-10 114.123 43.7.5-11 114.115 43.8.1-3 114.117 43.8.2 113.111 43.8.2-3 115.125 43.8.9 114.119; 115.125 43.8.10 114.118 43.11.4 109.98 44.9.3-7 112; 112.109 44.9.4 104.72 44.9.8-9 111.108 44.18.8 98; 98.35; 99.48; 108.91; 116.129-130 45.9.3 105.76 45.32.8-11 117.139 45.33.5 117.139 45.35.4 46.87 45.35.4-5 38.71 45.35.4-9 78 45.36.1-10 79 45.36.4 156.25 45.40.9 79 Livii Periochae 11 13.6; 38.69; 191.63 15.2 185.43 18.5 189.57 51 117.140 58 38.71 69 38.71 Nepotianus Epitome Valerii Maximi 2.4.6-7 120.153
Onasander Strategikós pr. 7-8
175.8
Orosius Historia adversum paganos 4.3.5 184.41; 185.42 5.4.7 46.87; 82 Plautus Menaechmi 26-27 110.101 29.33 110.102 40 96.23 399 96.23 522 96.23 Persa 199 99.43 Poenulus 1010-1011
96.24; 98.38
Plinius Maior Naturalis historia Praef. 33 93.1 1 lib. VIII 93.4 1.13 96.17 7.19 94.9; 96.18 7.117 96.18 7.128 121.170 8.1-141 93.2 8.18-22 116.135 8.19 99.48; 117.141; 120.158; 122.173 8.53 95.12; 116.134; 117.141; 120.156 8.62-63 93.3 8.63 93.5; 95.13
235
236
Indice delle fonti
8.64
94; 94.6; 95.12; 113.113; 116.134; 118; 121.160 8.65 116.134 8.96 116.135 8.104 96.20 8.120 96.18 8.135 94.9; 96.18 8.142-224 93.2 8.167 96.20 8.194 96.20 8.195 122.173 8.223 117.142; 121.170 9.11 121.161 9.65 122.173 9.123 122.173 9.137 121.159 9.173 95.11 10.1 99.43 10.139 96.18 10.202 95.13 15.1 122.172; 122.173 15.126 83.36 15.69 95.11 16.37 13.6; 38.69; 47.89; 96.18 18.15 42.77; 57 18.17 58 18.18 191.65 18.210 96.18 19.23 120.155 19.50 96.18 21.6 119.148 21.7 96.18 21.8 94.9; 96.18 21.41 95.11 22.7 94.9; 96.18 22.10 94.9; 96.18 22.13 94.9 28.211 95.11 30.43 95.11; 98.39
30.44-45 95.11 30.47 96.18 30.57 95.11 30.74 95.11 30.127 95.11 31.129 95.11 32.109 95.11 33.21 122.173 33.44-45 94.9; 96.18 33.47 94.9 33.138 107.84 33.145 117.142 33.146 122.173 34.21 42.77; 57 34.24 94.9; 96.18 34.30 94.9; 96.18 34.36 121.161 34.127 116.134 34.164 96.18 35.23 120.155 35.35 95.11 35.66 101.54 35.127 121.164 35.162 122.173 35.197 96.18 36.4-8 121.162 36.5 122.177 36.6 121.169 36.7-8 117.142 36.8 122.177 36.40 95.12; 97.27; 97.31 36.50 121.166 36.113 121.169 36.114-115 121.162 36.115 117.142; 121.164-167; 121.169 36.116 121.170 36.117 132.9 36.189 121.167 37.11 121.170 39.36 95.12
Indice delle fonti
Polyaenus 1.30.4 187.54
Cato Minor 31.2-3 46.87
Polybius Historiae 1.7.11-12 184.39 1.7.12 184.39 2.21.7-8 38.71 6.13.1-3 101.58 6.15.7-8 46.87; 87.55 6.18.5-6 112.110 6.57.5-7 112.110 9.9.8 179.22 12.3.5 97.33 21.3.1-3 101.55 21.25-30 101.54 30.25.1 117.139
Cicero 36.6 95.16
Plutarchus Apophthegmata regum et imperatorum 194e 192.68
Marcellus 2.7 45.86 4.3 77.21 4.6 46.87 13.7-10 180.26 25.10 179.23
Vitae parallelae Agesilaos 18 187.53 Aemilius 31.10 79.23 Caesar 13.1 46.87 Camillus 7.2-11.2 57 39.4 58 39.5-6 58 42.7 42.79; 58 Cato Maior 9 109.95
Crassus 2.9-10 192.68 Fabius 18.4 181.28 Flamininus 18.2 38.71 Lucullus 37.1-2
85.41
Marius 29.1-2 38.71 Pompeius 14.1-3 84.39 14.1-4 84.40 44.1-2 85.42 Sylla 5 115.126 Themistocles 16 187.54 Tiberius Gracchus 8.1-2 58 8-13 38.71
237
238
Indice delle fonti
Photius Bibliotheca 37 201.8 Quintilianus Institutiones oratoriae 3.10.1 156 7.4 149.2 Scholia Ambrosiana recentiora (ed. Stangl) 275 42.79; 58 Scholia Bobiensia (ed. Orelli) 272 38.71 347 38.71 Seneca De brevitate vitae 13.6-7 120.158 Dialogorum libri 12.12.6 184.38 Epistulae ad Lucilium 7.4 116.134 Naturales quaestiones 1.17.8 184.38 Servius Grammaticus In Vergilii Aeneida 5. 37 97.27; 97.31 Suetonius Vitae XII Caesarum Divus Iulius 39.4 116.134 Divus Augustus 24 179.23
29 132.9 35.1-4 207.21 35.3 207 35.4-5 208.23 44.5 103.70 Tiberius 2.2-3 82.35 2.4 46.87 30 212.35 32 143.42 34 141.36 35 141.39 37 141.36 40 128 41 128 55 210.27; 221.62 55.1 214 61 153.16; 156 Caligula 18.3 116.134 31 128 Divus Claudius 21.3 116.134 Tacitus Annales 3.51 142.41 4.6 143.42; 212.35 4.13 144.43 4.20 150.6 4.30 153.15 4.30.2-3 154.17 4.37 143.42 4.62 127-128; 131; 135-137 6.12 142.41 6.16 41.75 14.21.4 103.70 15.25.2 221.62
Indice delle fonti
Ps.-Ulpianus Liber singularis regularum sive Tituli ex corpore Ulpiani 3 25.36
5.131 96.23 5.146 96.23 5.181 96.23 6.6-7 96.23 6.11 96.23 Valerius Maximus 6.73 96.23 Facta et dicta memorabilia 7.12 96.23 1.1.1 177.15 7.16 96.23 1.5.9 182.32 7.38 96.23 2.4.6-7 120.153 7.40 96.22; 97.28; 97.30 2.4.7 103.70 7.50 96.23 2.7.3 117.140 7.77 96.23 2.7.5 185.43 7.81 96.23 2.7.15 181; 181.30; 182.317.86 96.23 32; 184.40 7.91 96.23 2.8.1 81; 81.31 7.93 96.23 2.8.2 79; 80.25 7.96 96.23 2.8.4 81.30 7.98 96.23 2.8.7 82.33 7.103 96.23 2.9.7 188.56 8.36 96.23 3.4.4 181.28 9.54 96.23 3.6.5 83.36 9.55 96.22 4.3.5 191.64 9.106 96.23 4.4.10 183; 183.37; 184.38 11 fr. 11 96.23 4.5.2 181.28 5.3.2g 57 De re rustica 5.4.5 38.71 1.2.9 58 5.4.6 82.35 1.41.6 95.11; 96.22 5.8.2 56 2.1.20 96.23 8.6.3 58 2.4.16 96.23 9.1.1-9 122.176 3.7 96.20 9.10.1 58 3.9.1 96.22 3.9.16 96.22 Varro 3.9.18 96.22 De lingua latina 3.13.3 96.22; 96.25; 116.134 3 fr. 11 96.22 3.14 95.11 5.14 96.23 13.3.3 97.27; 97.32 5.68 96.23 5.72 96.23 Vegetius 5.89 96.23 Epitoma rei militaris 5.100 96.22; 97.29 1.8.10-11 173.3 5.107 96.23 2.3.7 173.4
239
240
Indice delle fonti
Velleius Paterculus Historiae Romanae 1.10.4 46.87 2.2.3 38.71 2.6.3 58 Vitruvius De architectura 1.3 131 1.5 131 8.24 95.16 Zonaras Epitome historiarum 7.17 57 7.17.6 56 7.19 56 7.19.1 46.88; 57 7.19.7 59 7.20 57 7-20.2 44.84 7.24.4 42.79; 58 8.1 47.90 8.2 48.94; 59 8.20.7 46.87 9.3 184.38 12.15 218.54
Corpus Inscriptionum Latinarum I 200 38.71 I2 581 110.99 II 6278 138.28 VI 31577 152.13 VIII 6995 137 IX 2350 116.137 2351 116.137 X 104 110.99 Epigraphic Database Rome (EDR) 136030 116.137 136442 116.137 169492 110.99
II. Fonti epigrafiche e papirologiche
Fontes Iuris Romani Antejustiniani (FIRA, ed. S. Riccobono, I, Florentiae 19412)
Année Epigraphique (1888–) 1978, 145 142.41 2000, 25 110.99 2000, 120+121 110.99 2006, 21 110.99 2011, 88 110.99
Lex XII Tabularum – 24.36 7.5 154.20 10.1 163.44
BGU 511 215.44
12 (Lex Mamilia Roscia Peducaea Alliena Fabia) k. 5 155 30 (Sc. de Bacchanalibus) – 110.99
Indice delle fonti
31 (Sc. de Thisbensibus) – 114.122 39 (Sc. de pago montano) – 152.13 68 (Edicta Augusti ad Cyrenenses) – 210 101 (Lex agraria) – 150.6 Inscriptiones Graecae VII 2225 114.122 Inscriptiones Latinae Liberae Rei Publicae (ILLRP, degrassi) 511 110.99
Inscriptiones Latinae Selectae (ILS, dessau) 18 110.99 5059 116.137 6082 152.13 Sylloge Inscriptionum Graecarum3 (Syll.3, dittenberger) 2.246 114.122
241
Le attività di ricerca e seminariali avviate nell’ambito del progetto PAROS (Palingenesie der römischen Senatsbeschlüsse [509 v. Chr.–284 n. Chr.]) stanno portando alla pubblicazione di scritti di vario genere ed estensione, apparsi in prevalenza (ma non esclusivamente) nella collana Acta Senatus e tutti in qualche modo propedeutici al lavoro di palingenesi che verrà accolto nell’Abteilung A della collana. Prosegue in questo ambito, come sin da principio auspicato, la pubblicazione
ISBN 978-3-515-12959-6
9 783515 129596
di “Miscellanea senatoria”, ossia di una serie di volumi che raccolgono ricerche più brevi, condotte nel corso dell’ultimo biennio da studiosi variamente collegati al progetto PAROS e alcune delle quali presentate in occasione di conferenze svolte a Münster. Denominatore comune di questi studi sono l’attività e i meccanismi di funzionamento del senato romano, sin dai suoi esordi, come pure questioni legate alle fonti antiche e alla loro tradizione.
www.steiner-verlag.de Franz Steiner Verlag