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Italian Pages 880 Year 2016
MISCELLANEA BIBLIOTHECAE APOSTOLICAE VATICANAE XXII
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STUDI E TESTI ———————————— 501 ————————————
MISCELLANEA BIBLIOTHECAE APOSTOLICAE VATICANAE XXII
C I T T À D E L VAT I C A N O B I B L I O T E C A A P O S T O L I C A V AT I C A N A 2016
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Pubblicazione curata dalla Commissione per l’editoria della Biblioteca Apostolica Vaticana: Marco Buonocore (Segretario) Eleonora Giampiccolo Timothy Janz Antonio Manfredi Claudia Montuschi Cesare Pasini Ambrogio M. Piazzoni (Presidente) Delio V. Proverbio Adalbert Roth Paolo Vian
Descrizione bibliografica in www.vaticanlibrary.va
—————— Proprietà letteraria riservata © Biblioteca Apostolica Vaticana, 2016 ISBN 978-88-210-0950-1
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SOMMARIO M. BERNARDI, La lista C o Inventario secondo (1558) dei libri di Angelo Colocci (Vat. lat. 3958, ff. 184r-196r) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . R. BORGOGNONI, Monumenti di carta: glorificazione postuma della dinastia ducale di Urbino ed autopromozione del patriziato cittadino da due volumi della biblioteca di Marco Antonio Virgili Battiferri . . . . . . . . . R. M. CACHEDA BARREIRO, La Biblioteca de la familia Chigi: los libros impresos españoles del siglo XVII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . G. CARDINALI, Le vicende vaticane del codice B della Bibbia dalle carte di Giovanni Mercati. II. I prestiti e le cessioni esterne . . . . . . . . . . . . . . C. CUCINA, Il calendario runico nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Vat. lat. 14613) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A. DE FOUCHIER, Sur le Kitâb al-Šafí fí al-Ýibb d’Ibn al-Quff . . . . . . . . . . . D. DOMENICI, Nuovi dati per una storia dei codici messicani della Biblioteca Apostolica Vaticana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E. GIAMPICCOLO, Intorno a una medaglia di Pio V Ghislieri . . . . . . . . . . . M. B. GUERRIERI BORSOI, La decorazione dei manoscritti di Domenico Jacovacci nel fondo Ottoboniano latino della Biblioteca Apostolica Vaticana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . C. LENZA, I disegni dei monumenti napoletani di architettura nei manoscritti Seroux d’Agincourt nella Biblioteca Apostolica Vaticana . . . . . M. LÓPEZ-MAYÁN, Libros para la reforma religiosa: los manuscritos redescubiertos de Joan Dimes Lloris, obispo de Barcelona (1576-1598) . . . F. MUSCOLINO, Giovanni Battista de Rossi e Michele Amari: il sarcofago di Adelfia, le iscrizioni della Martorana, «una mutila epigrafe di strano senso» (CIL VI, 30463) e un (mancato?) incontro con Ernest Renan . . R. PERTICI, Giulio Salvadori e il mondo ebraico (dalle Carte Salvadori della Biblioteca Vaticana) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . S. SALVADÓ, The Medieval Latin Liturgy of the Patriarchate of Jerusalem and the Ordinal of the Holy Sepulchre (Barb. lat. 659) . . . . . . . . . . . . . . L. SALVATELLI, I manoscritti e la scienza alla corte papale di Avignone: suggestioni da alcuni codici miniati scientifico-filosofici della Biblioteca Apostolica Vaticana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . F. TRONCARELLI, Ioachim scripsit. Il più antico manoscritto del Super Prophetas (Vat. lat. 4959) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . P. VIAN, La Biblioteca Vaticana nelle memorie (1935) del sotto-foriere dei Palazzi Apostolici Federico Mannucci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indice dei manoscritti e delle fonti archivistiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indice degli esemplari a stampa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7 113 153 177 237 329 341 363 373 433 473 499 525 651 687 723 761 869 878
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MARCO BERNARDI
LA LISTA C O INVENTARIO SECONDO (1558) DEI LIBRI DI ANGELO COLOCCI (VAT. LAT. 3958, ff. 184r-196r) Il presente contributo costituisce la seconda tappa del progetto che ho avuto modo di proporre in un articolo apparso nel volume XX di questi stessi Miscellanea1: tale lavoro andrà dunque idealmente tenuto presente come premessa a quanto si esporrà di seguito. Il progetto in questione è quello di un’edizione dei principali inventarî librarî noti, ma ancora inediti, che costituiscono i documenti fondamentali sulla base dei quali è possibile tentare di ricostruire la biblioteca di Angelo Colocci (Jesi 1474 – Roma 1549)2. Le linee fondamentali di questo tema di ricerca e del progetto che lo riguarda sono state enunciate in quel mio lavoro, per cui qui ci si limiterà a richiamare, delle informazioni già offerte, solo quelle utili ad una più chiara esposizione del nuovo materiale che si intende presentare. A parte alcune più brevi liste bibliografiche spesso autografe, reperibili negli zibaldoni colocciani3, cinque sono, com’è noto, i principali inventari sui quale è possibile fondare la ricostruzione della collezione libraria dell’umanista esinate. Essi sono stati indicati da Corrado Bologna con le prime cinque lettere maiuscole dell’alfabeto latino: 1 Cfr. M. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici di Angelo Colocci: la lista a e l’Inventario Primo (Arch. Bibl. 15, pt. A), in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae 20 (2014), pp. 89-153 (Studi e testi, 484). 2 Per la bibliografia più aggiornata sul personaggio e sulle questioni relative alla sua biblioteca, onde evitare ripetizioni e ridondanze rispetto a quanto già indicato nel mio citato studio apparso in questi Miscellanea, rimando senz’altro ad esso e alla recente scheda M. BERNARDI, Angelo Colocci (Jesi [Ancona] 1474 – Roma 1549), in Autografi dei letterati italiani. Il Cinquecento, II, a cura di M. MOTOLESE, P. PROCACCIOLI, E. RUSSO, consulenza paleografica di A. CIARALLI, Roma 2013, pp. 75-110, pp. 96-99. Alcuni più specifici contributi verranno via via richiamati all’uopo. 3 Sono le liste a: Vat. lat. 2874, f. 112r; b: Vat. lat. 3217, f. 329r-v (databile a dopo il 1526); c: Vat. lat. 3903, f. 199r-v; d: Vat. lat. 3903, f. 206r-v; e: Vat. lat. 3903, ff. 222r-227v; f: Vat. lat. 4817, f. 196r-v; g: Vat. lat. 4817, ff. 210r- 211v (la designazione con lettere latine minuscole è stata proposta da C. BOLOGNA, La biblioteca di Angelo Colocci, in Angelo Colocci e gli studi romanzi, a cura di C. BOLOGNA e M. BERNARDI, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 2008 [Studi e testi, 449], pp. 1-20, pp. 13-14). La lista a è stata studiata ed edita in BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., pp. 102-103, 151-152.
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 7-111.
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MARCO BERNARDI
«A: Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Bibl., 15 [A], ff. 44r-63r (databile entro il 1549) B: Vat. lat. 3963, ff. 4v-5v (databile al maggio-giugno 1549) C: Vat. lat. 3958, ff. 184r-196r (datato al 27 ottobre 1558) D: Vat. lat. 7205, ff. 1r-52r (del 1582 ca.: è l’Inventarium librorum Fulvii Ursini, contenente anche i libri colocciani confluiti in quel fondo) E: Vat. lat. 14065, ff. 50r-63r (del 1543-1549 ca., in parte autografo)»4.
Come risulta chiaro già dalla citazione, gli inventari corrispondono ad altrettanti snodi nella storia di questa collezione. L’inventario A (che Vittorio Fanelli designò come Inventario primo, accostandovi come Inventario secondo la lista C)5, parzialmente autografo, è pertinente agli ultimi anni di vita dell’umanista: esso infatti è databile al periodo tra il 1540 e il 1549, cioè quello in cui egli — almeno per il breve lasso compreso tra il 1541 e il 1543 — dovette risiedere a Nocera Umbra per svolgervi il suo magistero di vescovo: con questa circostanza già Rossella Bianchi aveva ipotizzato che potesse essere messa in relazione questa prima lista (che contiene un po’ più di 500 voci)6. La breve lista B è invece stata identificata dal Mercati7 con quella costituita da una cinquantina di pezzi scelti per la Vaticana da Guglielmo Sirleto su incarico di papa Paolo III e a nome di Marcello Cervini, cardinale bibliotecario de facto al momento della morte di Colocci (1° maggio 1549)8. La collezione di quest’ultimo sarebbe dovuta passare al 4
BOLOGNA, La biblioteca cit., p. 13. V. FANELLI, Ricerche su Angelo Colocci e sulla Roma cinquecentesca, Introduzione e note addizionali di J. RUYSSCHAERT, Indici di G. BALLISTRERI, Città del Vaticano 1979 (Studi e testi, 283), pp. 48-49 (il volume è in realtà una raccolta di saggi apparsi di volta in volta in sedi diverse e radunati più tardi per i tipi della Vaticana, qui tuttavia — per comodità di citazione — vi si farà riferimento come ad un libro unitario, senza distinguere al suo interno contributo da contributo). 6 R. BIANCHI, Per la Biblioteca di Angelo Colocci, in Rinascimento 30 (1990), pp. 271-282; l’ipotesi è da me ripresa e integrata con informazioni ricavabili dalla lista stessa e dalle sue filigrane in BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., pp. 96-102 e 152-153, dove fornisco, appunto, per la prima volta l’edizione dell’inventario A (pp. 106-151). 7 G. MERCATI, Il soggiorno del Virgilio Mediceo a Roma, in ID., Opere minori raccolte in occasione del settantesimo vitalizio, IV: (1917-1936), Città del Vaticano 1937 (Studi e testi, 79), pp. 524-545 (la lista B è edita alle pp. 542-544). 8 La nomina a cardinale bibliotecario di Cervini (1501-1555) si deve a Giulio III e data propriamente al 24 febbraio del 1550, ma di fatto la biblioteca era stata affidata alle sue competenti e alacri cure da Paolo III, già dopo la morte di Agostino Steuco (15 marzo, 1548), suo assai meno accurato predecessore in questo incarico. Cervini, però, svolgendo la funzione di legato papale per le questioni politiche e religiose al Concilio di Trento negli stessi anni (15481550), si dovette avvalere dell’opera di Bernardino Maffei (1514-1553) come probibliotecario, e della fidata collaborazione, appunto, di Guglielmo Sirleto (1514-1585), che solo il 3 gennaio del 1554 avrebbe ricevuto ufficialmente la nomina a custode dell’istituzione. A questa carica rinuncerà il 2 aprile del 1557 (al momento della sua elezione a protonotario apostolico), in 5
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LA LISTA C O INVENTARIO SECONDO (1558) DEI LIBRI DI ANGELO COLOCCI
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pontefice per diritto di spoglio, tuttavia Paolo III vi rinunciò in favore degli eredi di Colocci, riservando per sé soltanto i volumi di B. Gli eredi però dovettero lasciare la parte più cospicua di questo ricco patrimonio librario in deposito presso la Guardaroba papale (cioè la tesoreria), forse — come ipotizza Mercati — in attesa di trovare un compratore9. In una lettera del 26 giugno 1556 inviata da Fulvio Orsini a Michele Forteguerri, della quale Mercati riporta uno stralcio10, si dà notizia della permanenza dei libri — ancora in tale data — nella Guardaroba. Poi essi dovettero probabilmente essere ceduti o, come ipotizza Rossella Bianchi11, venduti alla Biblioteca Vaticana. Di questa acquisizione (o almeno di una sua cospicua parte: 557 pezzi) abbiamo un inventario datato al 27 ottobre 1558. Questo inventario è appunto la lista C, di cui qui si fornisce per la prima volta un’edizione completa12 e sulla quale si ritornerà immediatamente. L’inventario D è invece quello dei libri appartenuti a Fulvio Orsini, che questi destinò fin dal 1582 in eredità alla libreria pontificia, nella quale entrarono nel 160213. Tra di essi, un certo numero favore del fratello Girolamo Sirleto, a sua volta cusode con nomina del 14 maggio dello stesso anno e fino alla morte nel 1576 (per queste notizie e la documentazione relativa si veda C. M. GRAFINGER, Servizi al pubblico e personale, in Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, II: La Biblioteca Vaticana tra riforma cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio (1535-1590), a cura di M. CERESA, Città del Vaticano 2012, pp. 217-236, pp. 219-222. 9 «Nella guardaroba furono portati anche gli altri libri (a quanto pare) in deposito e tenutivi per vari anni, senza dubbio a preghiera degli eredi lontani, i quali avrranno voluto, anziché trasportarli con ispese a Nocera o a Roccacontrada, tenerli in Roma, dove più facilmente si potevano trovar compratori e dove il Mannelli o altri di loro poté aspirare di tornare» (MERCATI, Il soggiorno del Virgilio Mediceo cit., p. 534); il Mannelli è Girolamo Mannelli, un cugino della madre di Colocci, in favore del quale egli rinunciò al vescovado di Nocera nel 1546: vd. F. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano (Barb. lat. 4882), a cura di V. FANELLI, Città del Vaticano 1969 (Studi e testi, 256), p. 87, nt. 156. 10 La lettera era già stata sintetizzata e in parte tradotta in francese da P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini, contribution à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887, p. 80-81, che — datandola però al 20 giugno — lamentava che nella sua fonte (il «Giornale de’ letterati d’Italia [t. XXVI, Venise, 1716, pp. 327-334]») non fosse menzionata «nulle part la provenance de la lettre». MERCATI, Il soggiorno del Virgilio Mediceo cit., p. 534, trae invece la citazione dalla trascrizione della lettera che ne dà G. F. LANCELLOTTI, Poesie di Monsignor Angelo Colocci, Jesi 1772, p. 110 (e rimanda, ma indicando erroneamente p. 90 per p. 80, allo studio del De Nolhac). 11 BIANCHI, Per la Biblioteca di Angelo Colocci cit., p. 273. 12 La lista costituisce il fondamento del primo studio complessivo sulla biblioteca di Colocci, che, pur con i suoi numerosi limiti, rimane tuttavia un termine di riferimento fondamentale in questo ambito di ricerca: quello di S. LATTÈS, Recherches sur la Bibliothèque d’Angelo Colocci, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire, publiés par l’École Française de Rome 48 (1931), pp. 308-344. 13 Su questa collezione fondamentale è ancora DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit. (D è edito alle pp. 334-402). Per una sintesi sulla questione (con bibliografia ag-
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era appartenuto a Colocci e Orsini li aveva probabilmente acquistati dagli eredi (forse scegliendoli tra quelli in deposito nella Guardaroba?). Non è possibile precisare con certezza quando ciò avvenne, ma verosimilmente fu subito dopo la morte del prelato e comunque prima del 1556: anno della citata lettera al Forteguerri, dove Orsini fa cenno alle sue acquisizioni colocciane come a evento remoto nel passato e prossimo alla dipartita dell’umanista14. Per questa ragione si può ritenere con buona probabilità che non vi siano coincidenze tra elementi di C e di D: i libri di Colocci che entreranno in Vaticana con l’eredità di Orsini erano già usciti dal deposito colocciano della Guardaroba (o addirittura non vi erano mai stati compresi) prima che questo venisse inventariato in C nel 1558. L’inventario E, infine, segnalato e studiato in alcune sue parti da Rossella Bianchi nel saggio più volte citato, andrà verosimilmente ricondotto alla stessa temperie di A: per il momento ancora ne manca un’edizione completa, ma ci si augura di poter colmare al più presto questa lacuna. Veniamo dunque allo specifico oggetto di questo contributo, l’inventario C: esso è contenuto nei ff. 184r-196r del Vat. lat. 3958, un codice miscellaneo e fattizio che raccoglie diversi inventari di biblioteche rinascimentali15. In C i libri sono ripartiti entro 10 casse e numerati progressivamente ricominciando da 1 ad ogni cambio di cassa. Sulle circostanze della compilazione di C l’ipotesi più plausibile è appunto quella formulata da Rossella Bianchi e cioè che esso fosse stato compilato «da funzionari giornata), vd. A. DI SANTE, A. MANFREDI, I Vaticani Latini: dinamiche di organizzazione e di accrescimento tra Cinquecento e Seicento in Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, III: La Vaticana nel Seicento (1590-1700): una biblioteca di biblioteche, a cura di C. MONTUSCHI, Città del Vaticano 2014, pp. 461-502, pp. 473-478; T. JANZ, Lo sviluppo dei Vaticani Greci tra fondo antico e accessioni seicentesche, Ibid., pp. 503-542, pp. 516-519 e T. PESENTI, Gli stampati: la formazione della «Prima Raccolta» e i suoi cataloghi, Ibid., pp. 543-598, pp. 546-547. 14 Cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., p. 80. 15 Oltre a quello dei libri di Colocci si segnalano — a mo’ d’esempio e per la rilevanza degli elementi — l’inventario della biblioteca di Guido Ascanio Sforza (ff. 103r-127r), redatto da Ludovico de Torres (cfr. F. PIGNATTI, Cesare Baronio studioso e la Vaticana, in Storia della Biblioteca Apostolica cit., II, pp. 189-216, pp. 202 e 214, nt. 36); una lista di manoscritti del collegio Capranica redatta da Domenico Ranaldi (ff. 131r-132v: cfr. J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collections de manuscrits, Città del Vaticano 1973 [Studi e testi, 272], p. 152, nt. 65); una lista di libri di Antonio Agustín inviati al cardinal Carafa nel 1586 per l’edizione degli atti conciliari (ff. 165r-172v: cfr. Ibid., pp. 74, 88, nt. 47); un elenco — appartenuto a Fulvio Orsini — di 267 libri greci che furono di Marcello Cervini (ff. 175-180r: P. PIACENTINI, Marcello Cervini [Marcello II]. La Biblioteca Vaticana e la biblioteca personale, in Storia della Biblioteca Apostolica cit., II, pp. 105-143, p. 124); l’inventario dei libri del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, passati nella collezione Barberini (ff. 218r-228v: cfr. G. MEERSSEMAN, La bibliothèque des Frères Prêcheurs de la Minerve à la fin du XVIe siècle, in Université de Louvain, Recueil de travaux d’histoire et de philologie, III s., 26 [1947], pp. 605-631 [Mélanges Auguste Pelzer]).
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LA LISTA C O INVENTARIO SECONDO (1558) DEI LIBRI DI ANGELO COLOCCI
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papali nel momento in cui i libri del Colocci in deposito nella Guardaroba entrarono in possesso della Vaticana». La studiosa rileva inoltre come l’inventario sia opera di almeno due mani (le indicheremo con a e b): la prima responsabile della parte più cospicua dell’elenco, la seconda dei ff. 189r-190v, oltreché delle notazioni marginali (di cui si dirà) e delle ultime sei righe dell’ultimo foglio (f. 196r)16. Finora, a quanto mi consta, l’ipotesi sull’identità di queste mani non è stata spinta oltre. Tuttavia, forse, si potrà addurre qualche ulteriore elemento e segnalare una pista di indagine, se si tenta di ricostruire, almeno a grandi linee, l’ambiente in cui verosimilmente la lista fu redatta, e di individuare le figure che gravitavano intorno alla biblioteca in tale frangente. Ritengo infatti probabile che i due compilatori vadano ricercati nell’ambito del personale della biblioteca, piuttosto che tra quello della Guardaroba: la compilazione di un regesto come C rientrava infatti negli interessi della prima delle due istituzioni (che sarebbe stata arricchita dagli item elencati), piuttosto che in quelli della seconda, senza contare che, in vista di tale operazione, potevano senz’altro vantare maggiori competenze gli impiegati della biblioteca. La trafila (deposito nella guardaroba, inventario, quindi acquisizione da parte della Vaticana) che dovette riguardare i libri di Colocci — pur con una dilatazione dei tempi versomilmente imputabile al fatto che la collezione rimase a lungo nella disponibilità degli eredi — rientrava probabilmente in una prassi. Analogo è ad esempio il caso — risalente ad una decina d’anni prima, quando la biblioteca era sotto il controllo di Cervini — dei libri del cardinale Agostino Trivulzio, morto il 30 marzo 1548. Gli inventari della sua biblioteca, osserva Petitmengin, «furono fatti a partire 16
BIANCHI, Per la Biblioteca di Angelo Colocci cit., p. 277, nt. 23; la citazione prec. si trova nella stessa pagina: una diversa ipotesi rispetto a quella ivi riportata era stata formulata da Ernesto Monaci che segnalò per primo l’inventario colocciano di Vat. lat. 3958 e che, a proposito della data del 27 ottobre del 1558, scrisse, appunto: «è verosimile che la data del citato inventario indichi il tempo in cui i libri del Colocci passarono all’Orsini e non quando entrarono nella Vaticana. Quest’ultimo passaggio sarebbesi compiuto dopo il 1600» (Il canzoniere portoghese della Biblioteca Vaticana, messo a stampa da E. MONACI, Halle 1875, p. XI, nt. 1). Monaci tuttavia non conosceva la lettera di Orsini del giugno 1556, né le circostanze che, più di cinquant’anni dopo, Mercati avrebbe illustrato nel suo studio sul Virgilio Mediceo (uscito per la prima volta nei Rendiconti della Pontificia Accademia romana di Archeologia 12 [1936], pp. 105-124 e riedito un anno più tardi nelle sue Opere minori). Quanto all’attribuzione alle due mani delle pagine di C, a me sembra che a b possano anche essere ricondotti gli ultimi tre item (nrr. 18-20) di f. 188v. Preciso inoltre che per «ultime sei righe» del f. 196r si intendono verosimilmente gli item nrr. 37-40, più le due righe finali («Sono in tutto [...] 406») del foglio, mentre il titoletto cassato «posti nell’XIa cassa» mi pare attribuibile ad a. Quanto alle sporadiche notazioni marginali (sulle quali si tornerà di seguito), la scarsa perspicuità che le caratterizza ne complica notevolmente l’attribuzione; del resto non si può eslcudere che esse possano essere ricondotte a personalità intervenute in un secondo momento sull’inventario e diverse dai suoi primi compilatori.
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dal 2 luglio nel guardaroba del Papa, dove essa era stata trasportata»17. Si tratta di libri che verosimilmente entrarono in Vaticana, visto che tra quelli elencati in questi inventari almeno una cinquantina è identificabile all’interno dei fondi vaticani antichi18. Il fatto poi che questi inventari siano conservati nel fondo Arch. Bibl. prova che essi costituiscono materiale di pertinenza della biblioteca e perciò verosimilmente redatto da personale ad essa afferente. Mi pare dunque che risulti plausibile che in questo stesso ambito debbano essere ricercate le personalità che si occuparono della collezione di Colocci il 27 ottobre 155819. Qual era la condizione della Biblioteca Vaticana in tale data e quali figure lavoravano al servizio dell’istituzione? Prima di rispondere, è necessario precisare che quello in cui avviene la registrazione del fondo colocciano è un periodo fortunato per la Vaticana, perché papa Paolo IV Carafa (23 maggio 1555 – 18 agosto 1559) vi dedicò molte cure, raddoppiando il numero degli impiegati (aumentò il numero degli scriptores) e dando una struttura stabile all’organico dell’istituzione20. Si ha inoltre notizia, sul finire del pontificato di Paolo IV, di un «riordinamento e ampliamento della biblioteca segreta»21. È dunque significativo che proprio in tale fase si decida l’inventariazione (e forse l’acquisto) di una ricca raccolta libraria — quella di Colocci, appunto — che ormai da troppo tempo giaceva nella Guardaroba pontificia. Quanto agli spazi in cui era ospitata quella che allora era chiamata Bibliotheca palatina occorre sottolineare che essi risultavano verosimilmente insufficienti, ma si dovrà attendere il grandioso progetto affidato da Sisto V a Domenico Fontana intorno al 1587, perché la collezione possa trovare ambienti idonei nel nuovo palazzo che venne costruito “dirimpetto” alla vecchia sede, nel luogo in cui — sostanzialmente — si trova tuttora22. Al tempo del nostro inventario, invece, essa occupava ancora le quattro sale 17 P. PETITMENGIN (con la collaborazione di J. FOHLEN), I manoscritti latini della Vaticana. Uso, acquisizioni, classificazioni, in Storia della Biblioteca Apostolica cit., II, pp. 43-90, p. 51 e note relative. Gli inventari in questione sono conservati nei ff. 1r-8r di Arch. Bibl. 11. 18 Se n’è occupato G. MERCATI, Codici latini Pico Grimani Pio e di altra biblioteca ignota del secolo XVI esistenti nell’Ottoboniana e i codici greci Pio di Modena, con una digressione per la storia dei codici di S. Pietro, Città del Vaticano 1938 (Studi e testi, 75), p. 166, nt. 1. 19 La data è riportata nell’intestazione: «Inventario delli libri del Colotio di sacra scriptura fatto alli 27 d’ottobre MDLviij» (Vat. lat. 3958, f. 184r). 20 R. DE MAIO, La Biblioteca Apostolica Vaticana sotto Paolo IV e Pio IV (1555-1565), in Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. card. Albareda, Città del Vaticano 1972 (Studi e testi, 219), pp. 265-313, pp. 266-268. 21 GRAFINGER, Servizi al pubblico cit., p. 222. 22 Cfr. M. BEVILACQUA, Domenico Fontana e la costruzione del nuovo edificio, in Storia della Biblioteca Apostolica cit., II, pp. 305-332.
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(le due publicae greca e latina e le due corrispondenti sale secretae: la parva greca e la magna latina o pontificia)23 dell’edificio voluto da Sisto IV sul lato Sud del Cortile di Belvedere, con ingresso dal Cortile del Pappagallo24. Intorno al 1516-1518 Leone X aveva però tentato di ovviare all’insufficienza degli spazi per una raccolta che stava inesorabilmente crescendo, concedendo l’uso come deposito di una quinta camara (o cambara) annessa alla parva secreta25. In questa Bibliotheca in cinque sale nel lato sud del cortile di Belvedere, verosimilmente, giungeranno perciò i libri di Colocci dopo la loro registrazione nell’ottobre del ’58, e da lì provenivano con ogni probabilità i compilatori di C. Chi costituiva dunque il personale della libreria papale? Il fondo Ruoli della Biblioteca Vaticana studiato da Christine Maria Grafinger ci fornisce alcune essenziali coordinate, perché segnala la presenza, al 13 agosto 1558, di «officiali maggiori, 2 custodi della libraria; 1 revisore il Faerno; 3 scritt. in latino; 1 scritt. in hebreo; 3 scrittori in greco in libraria; scopator 23 Alcune liste parziali di volumi contenuti nelle casse delle sale di questa quadruplice biblioteca (che fu poi detta libraria vecchia) furono redatte dai bibliotecari Ranaldi, prima, dunque, del trasferimento nel nuovo sito progettato dal Fontana (le liste sono state datate da P. PETITMENGIN, Recherches sur l’organisation de la Bibliothèque Vaticane à l’époque des Ranaldi [1547-1645], in Mélanges d’archéologie et d’histoire de l’école française de Rome 75/2 [1963], pp. 561-628, p. 574, tra il 1564 e il 1566) e sono contenute nel Vat. lat. 8185, ff. 343r-355v. Vi si farà talora riferimento perché in esso sono menzionati codici di provenienza colocciana che sono citati anche in C. Le liste dei Ranaldi (così come C) sono state tenute presenti dagli autori di Les Manuscrits Classiques latins de la Bibliothèque Vaticane. Catalogue établi par E. PELLEGRIN et F. DOLBEAU, J. FOHLEN et J.-Y. TILLIETTE, avec la collaboration d’A. MARUCCHI et de P. SCARCIA PIACENTINI, III/1: Fonds Vatican latin, 224-2900, publié avec le concours de la Bibliothèque Vaticane, Paris 1991 e III/2: Fonds Vatican latin, 2901-14740, édité par A.-V. GILLES-RAYNAL, F. DOLBEAU, J. FOHLEN et J.-Y. TILLIETTE, avec la collaboration de M. BUONOCORE, P. SCARCIA PIACENTINI et P.-J. RIAMOND, Città del Vaticano – Paris 2010, ai quali si avrà modo di fare frequente ricorso. Si segnala tuttavia che nel secondo tomo di questo terzo volume del catalogo, la lista dei Ranaldi è data come «aujourd’hui disparue» (il primo rimando a tale circostanza si trova in corrispondenza del Vat. lat. 2901, a p. 16): questo comporta che indicazioni più precise a riguardo siano reperibili solo per i mss. dal Vat. lat. 224 al Vat. lat. 2900 (cioè a quelli del tomo III/1), mentre per le successive segnature, al più, si troverà notizia di un semplice numero d’ordine (forse frutto di un antico appunto dei curatori, che attendeva di essere completato). Non sono purtroppo riuscito a trovare, nei volumi in questione, alcuna notizia di questa spiacevole disparition, né ho potuto per ora approfondire la questione attraverso un esame diretto del Vat. lat. 8185. 24 Sull’organizzazione degli spazi voluta da Sisto IV (che probabilmente riprendeva e sviluppava un progetto di Niccolò V) vd. A. MANFREDI, La nascita della Vaticana in età umanistica da Niccolò V a Sisto IV, in Storia della Biblioteca Apostolica cit., I: Le origini della Biblioteca Vaticana tra umanesimo e rinascimento (1447-1534), a cura di A. MANFREDI, Città del Vaticano 2010, pp. 147-236, 214-225 e F. CANTATORE, La Biblioteca Vaticana nel Palazzo di Niccolò V, Ibid., pp. 383-412. 25 A. RITA, Per la storia della Vaticana nel primo Rinascimento, in Storia della Biblioteca Apostolica cit., I, pp. 237-307, pp. 282-283.
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della libraria»26; il primo marzo del 1559 la dotazione risulta invariata27. Si può dunque dedurre che essa corrispondesse anche all’epoca in cui fu redatto C. Occorre ora vedere con quali concrete figure storiche possano essere identificati tali ruoli. Il 27 ottobre del 1558, il prefetto della biblioteca era il giovanissimo Roberto de’ Nobili (1541-1559), nominato cardinale bibliotecario il 25 maggio 1555 e rimasto in carica fino alla morte28. I veri animatori dell’istituzione in questa fase, però, sono i due custodi: Girolamo Sirleto e Federico Ranaldi. Il primo era il fratello del dotto e pio Guglielmo che aveva selezionato i libri di Colocci per la Vaticana su mandato di Paolo III. Guglielmo Sirleto aveva ceduto al fratello il proprio incarico di custode il 14 maggio 1557, al momento della sua elezione a protonotario apostolico (egli sarebbe tornato alla Vaticana come cardinale bibliotecario il 18 marzo 1572) e Girolamo rimase in carica fino alla morte, nel 157629. Federico Ranaldi, invece, già scriptor latinus dal 1522, divenne di fatto custode il 30 giugno 1557, ma la sua nomina fu ufficializzata solo il 15 ottobre del 1559, quando cioè il suo illustre e benemerito predecessore, Fausto Sabeo (che aveva però lasciato il suo incarico il 13 luglio 1558) morì: Ranaldi manterrà questa funzione fino alla sua morte, il 2 settembre 159030. Il revisore — l’unico degli impiegati — citato per nome nei Ruoli del 1558-1559 è Gabriele Faerno (1510-1561), che svolse la sua mansione a partire dal 1549, ma con carica ufficiale tra il 1554 e il 156131. Quanto agli scriptores, quello «hebreo» era, secondo De Maio, Alessandro Franceschi32: un rabbino convertito al cattolicesimo che era stato assunto il 1 dicembre 1548. Tuttavia alla sua morte — avvenuta proprio nel 1558 — egli aveva lasciato il proprio incarico in Vaticana al figlio Ottavio (1543-1601), che lo conservò per un anno33. Scriptor greco è invece Giovanni Onorio da Maglie (che lavorò in Vaticana come copista, scrittore e restauratore di libri dal 1535 al 1563), al quale Paolo IV, nella sua politica di ampliamento dell’organico, aveva aggiunto, il 30 marzo 1556, Emanuele Provataris (rimasto in servizio fino alla morte, nel 1571). Accanto a queste figure, si ha poi notizia di un terzo scriptor graecus, Francesco Syropulos, attivo tra il 20 gennaio 1556 e l’inverno del 1567. Infine occorrerebbe 26
Ruoli 33, f. 11r, cit. in GRAFINGER, Servizi al pubblico cit., p. 230. «2 custodi della libraria; Faerno revisore; 3 scritt. in latino; 1 scritt. in hebreo; 3 scrittori in greco; scopator» Ruoli 34, f. 7v (GRAFINGER, Servizi al pubblico cit., p. 230). 28 GRAFINGER, Servizi al pubblico cit., p. 222. 29 Ibid., p. 222 e p. 234, nt. 59. 30 Ibid., pp. 219 e 222. 31 Ibid., pp. 227-228. 32 DE MAIO, La Biblioteca Apostolica cit., p. 313. 33 GRAFINGER, Servizi al pubblico cit., p. 227. 27
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menzionare anche Matteo Devaris (nato nel 1505) che rimase in servizio come corrector graecus, con alterne vicende, dal 3 agosto 1541 alla morte, il 13 giugno 158134. Tralasciando la figura dello scopator, oscura e del resto poco pertinente al proposito di questo contributo, veniamo ora agli scriptores latini. Figura ormai storica, nel 1558, ad occupare tale ruolo era certamente lo spagnolo Ferdinando Ruano, nominato scriptor il 28 aprile 1541 e rimasto tale fino alla morte nel settembre 1559: alla sua attività benemerita si deve, tra l’altro, un preziosissimo inventario del fondo latino, il cui primo tomo è datato al 20 febbraio 1550 ed il terzo ed ultimo può ritenersi ultimato sul finire dello stesso anno35; il catalogo fornisce perciò una fotografia di questo fondo prima dell’ingresso dei volumi colocciani. Il secondo scriptor è invece Francesco Cresci, assunto con tale ruolo il 16 marzo 1556 e rimasto in carica almeno fino al 25 marzo 1560, quando divenne scriptor della Cappella Sistina36. Per l’identificazione del terzo scriptor nominato dai Ruoli dell’agosto 1558-marzo 1559, indicherei dubbiosamente la figura di Blasio Barnabei, originario dell’Aquila, che doveva però essere piuttosto anziano, visto che la sua nomina data al 6 luglio 153737. Tuttavia non si può forse escludere che come terzo scriptor si considerasse ancora Federico Ranaldi, dal momento che egli avrebbe occupato ufficialmente il posto di custode solo qualche mese più tardi (ottobre 1559) e che il suo predecessore in tale ruolo, Fausto Sabeo, era ancora vivo. Come si vede, purtroppo, alcune incertezze di identificazione gravano proprio sulla sezione dei ruoli che, con ogni probabilità, riguarda più da vicino l’elenco C. La compilazione dell’inventario, infatti, mi pare plausibile che potesse essere assunta in prima persona dai custodi, o demandata agli scriptores (lo prova, pur nella sua eccellenza, l’impresa del Ruano) ed è verosimile che per la collezione libraria colocciana, piuttosto povera di libri greci (occupano, come vedremo, la sola quarta cassa, non certo una delle più ricche), eventualmente si scegliessero scriptores latini. In ogni caso, alla compilazione di C contribuirono almeno due individui e tenderei a ritenere che l’elenco sia stato redatto in tempi piuttosto brevi e concentrati, forse addirittura in un giorno solo (e forse rivisto sommaria34
Sugli scriptores graeci vd. Ibid., pp. 227-228. I mss. che contengono il catalogo di Ruano sono i Vatt. latt. 3967, 3968, 3969. Sul personaggio e sui suoi inventari vd. PETITMENGIN – FOHLEN, I manoscritti latini cit., pp. 5259. Jeannine Fohlen sta preparando un’edizione dell’inventario di Ruano (la notizia è in M. CERESA, Acquisizioni e ordinamento degli stampati nel corso del Cinquecento, in Storia della Biblioteca Apostolica cit., II, pp. 91-104, p. 104, nt. 19). 36 GRAFINGER, Servizi al pubblico cit., p. 225. 37 Ibid., p. 225; DE MAIO, La Biblioteca Apostolica cit., p. 313 di fatto nomina solo due scriptores latini. 35
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mente in un secondo momento). Ad una tale ipotesi, infatti, mi pare inviti a guardare il fatto che l’accuratezza e la correttezza del catalogo — già non particolarmente brillanti nei primi fogli — diminuisce progressivamente con il procedere della registrazione: un fenomeno probabilmente imputabile alla stanchezza dei redattori per il prolungarsi del compito. È infatti già stato rilevato come l’Inventario secondo sia stato compilato in fretta e con scarsa cura38. Esso infatti rispetta solo in parte la modalità di catalogazione consueta in Vaticana all’epoca ed egregiamente rappresentata dal citato catalogo di Ruano39: essa prevedeva l’indicazione di titolo e autore (quando possibile) dell’opera, tipo di supporto (pergamena o carta)40, talvolta natura del libro (manoscritto o a stampa)41 e qualità della legatura. Quest’ultima indicazione non compare mai in C42 e anche l’indicazione della natura non è sempre affidabile (non si può essere certi che i 54 libri indicati come «impressi» siano gli unici stampati registrati dal catalogo: si veda ad esempio il caso del nr. 7, VII cassa, f. 192r), mentre quella del supporto scompare quasi del tutto a partire dalla VI cassa, salvo una sporadica riapparizione al termine di quest’ultima (nrr. 65-74 e 76). Nelle casse seguenti (tolto un unico caso, quello dell’«Horatius in bamb.» nr. 46, VIII cassa, f. 194r) l’indicazione compare solo a marcare casi di manoscritti membranacei, il che indurrebbe a supporre che il compilatore non abbia più ritenuto necessario precisare la natura del supporto per un gruppo cospicuo di libri tutti invariabilmente cartacei e si sia limitato a marcare solo le eccezioni43. Se si scende nel dettaglio degli item, a parte semplici sviste grafiche o varianti fonetiche44, la registrazione presenta alcuni veri e propri errori 38
Cfr. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 317: «Les indications que donne l’Inventario sont très succinctes et deviennent de plus en plus brèves au fur et à mesure que l’on approche de la fin, en même temps que l’écriture devient plus cursive et plus négligée». 39 PETITMENGIN – FOHLEN, I manoscritti latini cit., pp. 57-58. 40 In Ruano le due tipologie sono rispettivamente indicate con le espressioni «ex membranis» e «ex papyro»; in C si preferiscono piuttosto quelle equivalenti «in pergameno» e «in bambacina» o «in pap.» (senza che sia per ora possibile chiarire con certezza se queste due designazioni siano impiegate come sinonimi o se indichino un’effettiva differenza nella qualità della carta dei volumi inventariati). 41 I libri a stampa, tuttavia, all’epoca di Ruano sono ancora poco presenti e soprtattutto non sempre catalogati in Vaticana (cfr. CERESA, Acquisizioni e ordinamento cit., p. 94). 42 Forse l’unica eccezione potrebbe essere considerata l’espressione «absque tabulis» che accompagna il nr. 14, I cassa, f. 184r e che forse equivale a «sine tabulis», cioè sprovvisto di legatura in assi di legno o legato in assi di cartone (cfr. A. DI SANTE, La biblioteca rinascimentale attraverso i suoi inventari, in Storia della Biblioteca Apostolica cit., I, pp. 312-320, p. 313). 43 Si tratta dei nrr. 22, VIII cassa, f. 193v; 31 e 51, VIII cassa, f. 194r; 3, IX cassa, f. 194v; 25, IX cassa, f. 195r; 25, X cassa, f. 196r. 44 Come ad esempio la forma author per auctor (nrr. 19 e 54, II cassa, rispettivamente ff.
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che mi paiono assai più semplici da spiegare come inganni dell’udito che della vista: per esempio «Grecus» per «Gregorius» (nr. 28, II cassa, f. 185r), «Argipropidi» forse per «Argiropuli» (nr. 2, III cassa, f. 186r), «periachon» per «perì archòn» (nr. 30, III cassa, f. 186v), «Horatium» per «oratio» (nr. 34, VII cassa, f. 192v), la forma «Silvius Italicus» per «Silius Italicus» (nrr. 39-44, VIII cassa, f. 194r)45. Gli errori, tuttavia, sono tali da non richiedere di dover ipotizzare per forza uno «scribe ignorant»46: forse basterà pensare ad un annotatore che scrive rapidamente e di getto sotto dettatura, senza fare troppa attenzione a ciò che annota, ma solo preoccupandosi di riprodurre un po’ meccanicamente i suoni che gli pare di sentir pronunciare dalla voce di qualcuno che passa rapidamente in rassegna uno per uno i libri contenuti in 10 casse. Sarà forse degno di nota rilevare che nei fogli in cui la mano b dà il cambio ad a (forse per alleviarne temporaneamente la fatica dello scrivere?), non si riscontrano errori significativi47. L’identificazione di a e b con le mani dei custodi o degli scriptores in servizio, potrebbe 185r e 186r; 26, X cassa, f. 196r) o «Lutiani» per «Luciani» (nr. 31, IV cassa, f. 188r), «antiqua» per «antiquae» (nr. 71, VI cassa, f. 191v), «de Tumullis» per «de Tumulis» (nr. 69, VII cassa, f. 193r). 45 Gli altri probabili casi errore di una qualche rilevanza sono (si rimanda ai luoghi indicati per eventuali chiarimenti): «in bambiro» (nr. 33, III cassa, f. 185r); «methaora» (nr. 41, II cassa, f. 185v); «Questiones Bridiani» (nr. 14, III cassa, f. 186r); «Aristoteles de aleribus» (nr. 29, III cassa, f. 186v); «Constantie da Verano» (nr. 47, III cassa, f. 187r); «Pexius» (nr. 62, III cassa, f. 187r); «Bartholomeus de Bolonariis» (nr. 16, VI cassa, f. 190r); «Tullius Varine» (nr. 44, VII cassa, f. 192v); «Erodatus» (nr. 35, IX cassa, f. 195r); «Eutrobius» (nr. 1, X cassa, f. 195v); «Justinus Historibus» (nr. 3, X cassa, f. 195v); «Viaticanum Constantini» (nr. 13, X cassa, f. 195v); «Arapagita» (nr. 28, X cassa, f. 196r). 46 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 317, che, per altro già aveva ipotizzato che alcuni errori fossero d’«origine auditive». 47 L’unica eccezione riguarderebbea l’item «Bartholomeus de Bolonariis de caritativo subsidio» (nr. 16, VI cassa, f. 190r: vd.), il cui autore è in realtà Bartolomeo Bellincini: se il manoscritto è identificabile con il codice Vat. lat. 2649, bisogna precisare che oggi esso risulta adespoto. Tuttavia si può anche immaginare che esso presentasse un foglio iniziale recante autore e titolo, magari di mano di Colocci, com è tipico di molti suoi manoscritti (diversamente occorrerebbe pensare che i compilatori abbiano tentato di recuperare in qualche modo il nome dell’autore, magari affidandosi alla memoria, ma mi sembra assurdo ipotizzare un simile sforzo da parte dei compilatori: l’annotazione del solo titolo dell’opera sarebbe stata più che sufficiente per il livello di accuratezza di questo indice). Nel caso di questo item, però, l’errore non può davvero essere di tipo uditivo, mentre quello visivo appare più che probabile: direi che è assai meno verosimile, ad esempio, che la nasale di una desinenza possa essere scambiata dall’orecchio per una vibrante (-riis per -nis), mentre che le lettere ni vengano scambiate dall’occhio per rii è assai facile (specie se si immaginano scritte dalla tremenda grafia di Colocci); così come non sarà difficile leggere o una tonda e, mentre assai meno probabile è lo scambio uditivo tra i timbri delle due vocali. Ma se in questo punto di C i copisti a e b agiscono a parti invertite rispetto al resto dell’elenco, occorrerà allora immaginare che b qui sbagli ad annotare perché a non vede bene ciò che legge... Saremmo allora nel caso un po’ pietoso di un copista b che non sente bene e vede anche peggio: forse quello di uno scrivano
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conferire una maggiore concretezza alle circostanze di compilazione di C e forse contribuire perciò ad una sua migliore comprensione. Tale operazione, tuttavia, richiederebbe confronti più estesi e approfonditi di quelli possibili in questa sede e competenze paleografiche più solide di quelle a mia disposizione, per cui per il momento ci si limiterà a segnalare — in vista di future più circostanziate verifiche e in via del tutto ipotetica — una certa somiglianza della mano a con quella dell’ormai anziano Sabeo, e della mano b con quella del giovane Federico Ranaldi48. Al di là di ciò, altri elementi presenti in C costituiscono ulteriori minime tracce per ricostruire le circostanze in cui le operazioni di catalogazione del 27 ottobre 1558 ebbero luogo. Mi riferisco, in particolar modo, alle brevi note che sporadicamente compaiono nel margine sinistro accanto al numero d’ordine di alcuni item (li si numera nella prima colonna della tabella per comodità di richiamo). Se ne fornisce di seguito l’elenco, rimandando ai diversi loci dell’inventario per una discussione più approfondita in merito all’identità degli item che essi accompagnano49.
ormai anziano? Questo potrebbe anche spiegare perché poi si torni all’iniziale spartizione dei compiti: forse a si era reso conto di far molta più fatica a leggere che a scrivere. 48 Della prima si può vedere uno specimen nella prima parte della II colonna della fig. 5 di p. 51 del saggio di PETITMENGIN – FOHLEN, I manoscritti latini cit., che riproduce il f. 20v del Vat. lat. 3965 (e per contrasto si noterà una certa differenza rispetto alla scrittura più corsiva del Ruano — a sua volta ivi riprodotta nella I colonna corrispondente a f. 20r —, nonché alle sue forme più posate, per le quali si vedano ibid., figg. 9-10, pp. 56-57). Quanto a Federico Ranaldi, si vedano le correzioni interlineari e marginali al fondo del f. 22v della II parte Vat. lat. 3968, riprodotte nella fig. 12, Ibid. p. 64. 49 Si escludono dal seguente elenco altri segni o brevissime annotazioni marginali come quella — «volg.» / «v.» — che marca alcuni item in volgare (VI cassa, nrr. 1, 2, 4, 8, 9, a f. 190r, nrr. 18, 27 a f. 190v, nrr. 41, 49, 51 a f. 191r, nr. 60 a f. 191v; VIII cassa, nr. 19, f. 193v; IX cassa, nrr. 41, 42 f. 195v) o quella — «♀» — che contraddistingue alcune opere d’argomento astronomico (nr. 61, III cassa, f. 187r; nr. 21, VI cassa, f. 190v; nr. 43, VI cassa, f. 191r). Si tralascia anche la notazione «in simul» / «simul» che, corredata da una sorta di parentesi graffa, riunisce in due punti dell’inventario, coppie di item che, pur contrassegnati da distinta numerazione, probabilmente erano legati a formare un’unica unità libraria (cfr. nrr. 2-3 e nrr. 17-18 della V cassa, f. 188v). Da segnalare tra le brevi sigle marginali (non comprese nella tabella) anche «gr.» (cfr. nrr. 26, 27, 28, 64 dell’VIII cassa, ff. 193v-194r) che probabilmente identifica opere attinenti all’area disciplinare della gramatica (e forse — dunque — a contenitori come casse o armadi specificamente dedicati ad essa).
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Marginale
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Foglio Cassa Item
1 «post nm 13. positum»
184r
I
«20. Evangelium secundum Matteum [sic] cum scholis in perg.»
2 [illeggibile]
184v
I
«26. Nicomachius in Tridentonem in Bambacino»
3 «in p(rim)a in fine»
184v
II
«11. Epistole Petri Blesen. et aliorum in bamb. script»
4 «in p(rim)a in fine»
185r
II
«13. Augustinus Enchiridion in Bam. Impres.»
5 «con li concilii»
185r
II
«27. Acta in concilio Basiliensis in Bam. script.»
6 «in p(rim)a in fine»
185r
II
«28. Grecus [sic] Natiantienus in laude Basili in Bam scri.»
7 «5a cassa del Colotio»
188v
V
«4. Svetonius Dion. Spartianus Capitolinus Lampridius Gallicanus / Flavius Vopiscus Aurelius Victor, Eutropius Paulus Diaconus / Marcellinus, Pomponius Letus, Jo. Bapta Can.icus»
8 «2a cap. duplicatus»
190v
VI
«23. Regule artifitiali memoriè»
9 «[po]sti nella cassa de simili»
191v
VI
«62. Libri caldei numero sette levati della cassa 2a 63. T. Lucretii Cari de rerum natura impress.»
Se si escludono i marginali nr. 2 — perché illeggible — e nrr. 7 e 8, che forniscono informazioni, rispettivamente, pleonastiche (l’item compare sotto l’intestazione del foglio, che è appunto «In 5a capsa») o di poco conto (8 segnala che l’item è la seconda copia o la seconda parte di un libro registrato altrove: forse al nr. 31 della VI cassa, f. 190v: vd.), gli altri, sembrano alludere ad operazioni di spostamento e ricollocazione dei volumi, pressocché contestuali alla redazione dell’inventario. Nel caso del marginale 1, ad esempio, se si accetta la lettura con la forma participiale (la parola potrebbe anche far pensare a «ponitur»), si potrà ipotizzare che, in una fase successiva all’esame del contenuto delle casse e alla redazione del relativo inventario, i volumi siano stati disposti in qualche diverso luogo o contenitore. In tale circostanza alcuni di essi, forse per l’affinità dei loro contenuti, sono stati raggruppati, subendo dunque uno spostamento rispetto alla collocazione che avevano originariamente nelle casse. Ecco allora che un nuovo intervento sull’inventario segnalerebbe l’avvenuto spostamento dell’item
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20 accanto al 13 della cassa I, anch’esso una copia del vangelo di Matteo. A circostanze e operazioni simili sarà perciò da ricondurre la postilla «in prima in fine» nelle sue tre occorrenze (3, 4, 6). Il genere del numerale invita a pensare ad un referente sottinteso come «capsa», ma a quale «capsa» si alluda non può essere dato per scontato. Immediato sarebbe infatti pensare alla prima cassa di quelle inventariate in C, ma che utilità avrebbe spostare qualche volume disparato dall’una all’altra delle casse colocciane, visto che in questo caso non soccorrono nemmeno ragioni di affinità d’argomento? Tanto la prima quanto la seconda, infatti, contengono in buona quantità volumi d’argomento religioso e teologico (e in ogni caso gli item nrr. 11, 13, 28 non sono certo gli unici volumi di questo tipo contenuti nella II cassa). Non si potrà perciò escludere che il marginale possa segnalare l’avvenuta collocazione dei volumi in questione in una delle casse che corredavano i banchi delle sale della Biblioteca Vaticana dell’epoca. Si pensa, più specificamente, alla parva secreta, piuttosto che alla sala pontificia segreta (o magna secreta) — che a sua volta conteneva delle casse — perché in quella la prima cassa del primo banco conteneva volumi di teologia: e tali possono essere considerati gli item contrassegnati dal marginale in esame50. Anche il marginale 5 «con li concili» sembrerebbe rimandare ad uno spazio o ad un contenitore differente da quello costituito dalle casse colocciane: diversamente un simile rimando non sarebbe stato di alcuna utilità. Infatti, per lo meno da quanto risulta dall’inventario, non sembra esserci all’interno di queste casse uno spazio evidentemente dedicato a testi d’argomento conciliare, mentre una cassa (la terza in corrispondenza delle spalliere) espressamente dedicata a «Concilia et canones» era presente sempre nella parva secreta51. Infine, il marginale 9 «[po]sti nella cassa de simili» mi sembra possa a sua volta alludere a spazi esterni di collocazione per gli item 62 e 63 della VI cassa. Si tratta infatti di volumi d’argomento — per così dire — latamente scientifico: ora, quale delle casse colocciane si può considerare che contenga in modo specifico libri d’argomento simile? Volumi d’ambito matematico-astronomico, geografico o geometrico si trovano infatti in diverse casse, come nella terza o nella seconda (da cui, per altro, la precisa50 Sulla disposizione delle materie nella topografia della Biblioteca dell’epoca si veda MANFREDI, La nascita della Vaticana in età umanistica cit., pp. 217-224 e in particolare la scheda 25. Occorre precisare che gli spazi di cui si occupa il saggio di Manfredi sono in realtà quelli della biblioteca del 1481, tuttavia, come si è già accennato, l’unica rilevante novità nell’organizzazione degli ambienti della biblioteca, da allora al 1558, era stata l’inclusione di una quinta sala annessa alla parva secreta, per iniziativa di Leone X. Tale «camara» era adibita a deposito di materiale vario, documenti d’archivio, libri di poco pregio o volumi in attesa di restauro (cfr. RITA, Per la storia della Vaticana nel primo Rinascimento cit., p. 283). 51 MANFREDI, La nascita della Vaticana in età umanistica cit., p. 222, scheda 25.
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zione «levati della cassa 2a» sembra indicare che provengano i nrr. 62-63) e anzi, si direbbe che sia proprio la VI quella in cui essi si concentrano maggiormente (qui tra l’altro troviamo due delle tre marche «♀» di cui si è detto in nota). Anche in questo caso, dunque, il rimando a una «cassa de simili» sarebbe stato poco perspicuo se si fosse riferito ad una delle casse colocciane. Più persuasivo mi pare pensare ad un’allusione, ancora una volta, a qualche cassa contenuta nelle sale secretae della vecchia Biblioteca52. Queste annotazioni, in ogni caso, non sarebbero le sole a proporre laconiche allusioni a tali ambienti; in almeno un altro caso, infatti, troviamo un’indicazione — questa volta incorporata nell’item stesso — che sembra rimandare ad uno spazio della libreria papale. Mi riferisco alla precisazione «posti in la cascia camerale n° xia» che si legge in corrispondenza del nr. 17 della II cassa, f. 185r e che potrebbe rinviare proprio alla «cambara» leonina a cui si è più volte fatto cenno53. Sulle circostanze concrete in cui venne redatto l’inventario non mi pare per ora prudente spingersi oltre. La finalità principale del presente contributo, del resto, è quella di rendere disponibile un documento (l’inventario C) finora noto solo per parti e in maniera indiretta, attraverso le pubblicazioni di studiosi che l’hanno tenuto presente come base per la ricostruzione della biblioteca colocciana, senza tuttavia fornirne mai una trascrizione completa. Non solo: per ciascun item dell’inventario si è dato conto delle ipotesi identificative già proposte dalla bibliografia, assai spesso correggendole, precisandole, confutandole o integrandole con dati ed elementi ricavabili dall’esame diretto dei pezzi (oltre che dalla bibliografia disponibile), talora anche indicandone di nuove. Occorre tuttavia precisare che il lavoro di ricostruzione di questa biblioteca umanistica è ancora in corso: una collezione libraria come quella colocciana — complessa, ampia, dispersa, imprecisamente documentata — richiede infatti tempi decisamente lunghi e ripetute verifiche. Non sarà perciò infrequente imbattersi, nelle pagine che seguono, in informazioni in via di completamento o in questioni rimaste aperte (e non sempre risolvibili con certezza). Come si vedrà, tuttavia, il presente lavoro propone alcuni contributi nuovi, come, ad esempio, l’identificazione di qualche esemplare a stampa, poco o affatto noto, appartenuto a Colocci54. Su questa linea di ricerca molto rimane 52 Come ad esempio la IV cassa della spalliera della parva secreta che conteneva libri di medicina e di astrologia o la II del primo banco dedicata a non meglio precisate «variae facultates» (Ibid.) e non si può escludere che negli anni successivi al 1481 altre casse espressamente dedicate agli argomenti qui in esame fossero state aggiunte. 53 Sulla questione si rimanda alle note corrispondenti al nr. 17 della II cassa, f. 185r, nelle seguenti pagine, relative all’edizione di C. 54 Li si indica di seguito rimandando tuttavia agli item di C in corrispondenza delle cui
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ancora da fare, ma l’indagine sembra piuttosto promettente. Se infatti si parte dalle pur esigue indicazioni fornite da C e dagli altri inventari in merito a libri «impressi» sarà possibile formulare ipotesi identificative, da verificare poi attraverso un sistematico esame degli esemplari a stampa anteriori al 1549 (data di morte di Colocci) custoditi nei fondi stampati della Vaticana costituitisi nelle fasi più antiche della storia della Biblioteca. Ci si riferisce, naturalmente, alla Prima Raccolta, che si completa come fondo definitivamente chiuso sul finire del Seicento con le operazioni catalografiche di Giorgio Grippari, costituendo la base per gli odierni fondi Raccolta Prima, Aldine, Incunaboli, Membranacei, che vengono organizzati durante la prefettura di Franz Ehrle (1895-1914)55. In questi fondi occorre ricercare, in prima istanza, i libri di Colocci. Non bisognerà tuttavia trascurare la possibilità che alcuni pezzi siano stati dispersi e magari poi rifluiti in altri fondi vaticani. A lungo, infatti, è stata assai comune — presso la Biblioteca Vaticana, come presso la maggior parte delle biblioteche seicentesche e note possono essere reperite più circostanziate e precise informazioni in merito. Inc. I.4: SILIUS ITALICUS, Punica, Roma, Conradus Sweynheym e Arnoldus Pannartz, 1471, in folio (ISTC nr. is00503000; vd. nr. 39, VII cassa, f. 194r); Inc. II.21: QUINTUS HORATIUS FLACCUS, Opera, Venezia, Georgius Arrivabene mantuanus, 1490-1491, in folio (ISTC nr. ih00454000; vd. nr. 48, VIII cassa, f. 194r); Inc. II.195, TITUS MACCIUS PLAUTUS, Comoediae, Milano, Scinzenzeler, 1500, in folio (ISTC nr. ip00785000: cfr. nr. 49, V cassa, f. 189v); Inc. II.550 (int. 1): MARTIANUS CAPELLA, De nuptiis Philologiae et Mercurii libri duo, Modena, Dionyius Bertochus, 1500, in folio (vd. nr. 12, III cassa, f. 186r: il libro passò a Fulvio Orsini e non è perciò identificabile con un item di C); Inc. II.550 (int. 2): Orationes Philelphi cum aliis opuscolis, Venezia, Philippus de Pinzis Mantuanus, 1492, in folio (ISTC nr. ip00610000; vd. nr. 12, III cassa, f. 186r); Inc. III.83: DIOGENES LAERTIUS, Vitae et sententiae philosophorum, Roma, Georgius Lauer, 1472, ca. 29 × 22 cm (ISTC nr. id00219000; vd. nr. 58, VI cassa, f. 189v); Inc. IV.131: CLEOMEDIS De contemplatione orbium excelsorum disputatio; ARISTIDIS et DIONIS De concordia rationes; PLUTARCHI Praecepta connubialia [...], De virtutibus morum, Brescia, Bernardinus de Misintis per Angelum Britannicum, 1497, in quarto (ISTC nr. ic00741000; vd. nr. 16, IV cassa, f. 187v); Inc. IV.573 (costituito da quattro interni diversi, relativi ad opere di Plutarco, per le quali vd. nr. 23, III cassa, f. 186v); Ald. III.4: MARZIALE, Epigrammata, Venezia, Aldo Manuzio, 1501 (cfr. nr. 51, V cassa, f. 189v); Ald. III.75: POMPONIUS MELA, Chorographia; CAIUS IULIUS SOLINUS, Collectanea rerum memorabilium; Itinerarium Antonini; VIBIUS SEQUESTER, De fluminibus, fontibus, lacubus, nemoribus, paludibus, montibus [...] libellus; PUBLIUS VICTOR, De regionibus urbis Romae; DIONYSUS AFER, De situ orbis, Venezia, Aldo Manuzio, 1518 (vd. nr. 46, VI cassa, f. 191r); R. I IV.2131: Veterum aliquot de arte rhetorica traditiones de tropis in primis et schematis verborum et sententiarum [...] opuscula, Basilea, Froben, 1521, in quarto (vd. nr. 51, VII cassa, f. 193r). A questi andrà accostato anche l’Inc. II.525, DECIMUS JUNIUS JUVENALIS, Satyrae, Roma, Ulrich Han, ca. 1478, in folio e in quarto (ISTC nr. ij00638500; vd. nr. 6, IX cassa, f. 194v) che contiene una lettera manoscritta di dedica a Colocci, ma che non sembra tuttavia mostrare segni di appartenenza a lui. Alcuni di questi (e d’altri) volumi, passarono alla biblioteca di Fulvio Orsini e dunque, come si è detto, non possono essere identificati con item di C: se ne dà tuttavia notizia in modo che ne rimanga memoria, al fine di un’auspicabile futura ricostruzione complessiva della collezione collociana. 55 Cfr. PESENTI, Gli stampati: la formazione cit., pp. 573, 586-587.
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non solo — la pratica del baratto di libri56, in base alla quale volumi doppi di una stessa edizione, o talora — addirittura — di una stessa opera pur in edizioni differenti, venivano usati come merce di scambio per procurarsi opere diverse. Per questa via, libri di Colocci possono essere entrati nel mercato librario, essere stati acquistati da collezionisti, studiosi o istituzioni culturali ed eventualmente aver fatto ritorno in BAV con l’acquisizione di questi fondi da parte della Biblioteca nella sua storia plurisecolare57. Prima di fornire l’edizione di C, si precisa infine che i criteri adottati sono gli stessi già impiegati per quella di A, per cui si rimanda al mio precedente lavoro ad esso dedicato58. Per snellire la trattazione sono state adoperate alcune abbreviazioni e sigle59. I numeri di foglio di C sono stati indicati in neretto e le note sono state normalmente apposte al fondo di ciascun item; quelle invece che sono collocate in modo da precedere il numero corrispondente a ciascuno di essi (dunque a sinistra) segnalano la presenza in C di annotazioni marginali (nel caso di piccoli segni o abbreviazioni, essi sono stati direttamente riportati a testo)60. Ciascun item dell’inventario, quando ciò è stato possibile, è stato corredato di ipotesi identificative: nel caso di opere a stampa si è sempre indicata almeno l’editio princeps come possibile terminus post quem. In molti casi lo studio della bibliografia disponibile, unito all’esame diretto di molti pezzi, ha consentito di individuare concretamente il manufatto corrispondente alla voce dell’inventario (le segnature, quando non diversamente indicate, si intendono della BAV). Nei casi frequenti di laconici rimandi plurimi al semplice nome di uno stesso autore, o ad una sua opera, quando non è stato possibile fornire più precise e specifiche ipotesi identificative, le questioni ad esse pertinenti sono state affrontate nella nota relativa alla prima occorrenza dell’item; le altre occorrenze sono quindi state corredate degli opportuni rimandi alla prima. Non si troveranno, tuttavia, notizie per gli item di ovvia identificazione — a meno che non sia possibile associarli a qualche concreto esemplare o che non si prestino a qualche interessante riflessione in margine alla collezione colocciana — e per quelli che sono sfuggiti ad ogni ten56
Cfr. Ibid., pp. 549-550. Già L. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa appartenuti al Colocci, in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci. Jesi, 13-14 settembre 1969, Palazzo della Signoria, Jesi 1972, pp. 77-96, pp. 84-86 si soffermava sulla questione, indicando i fondi Barberiniano e Chigi come possibili collettori di alcuni di tali rivoli di dispersione. 58 Cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., pp. 104-105. 59 In particolare, membr. = membranaceo; cart. = cartaceo; fdg = foglio/i di guardia; ant. = anteriore; post. = posteriore; sup. = superiore; inf. = inferiore; marg. = margine; prec. = precedente; int. = interno. 60 È il caso dei già citati segni «volg. / v.», «♀» e «gr.». 57
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tativo identificativo. Dei codici è stata fornita — quando possibile — una sommaria descrizione che precisasse l’età del manufatto, il materiale del supporto, le dimensioni approssimative dei fogli in centimetri, il numero dei fogli, la presenza — se cospicua — di fogli bianchi, l’elenco — il più possibile completo — dei contenuti, almeno sulla base dei titoli o delle tavole presenti nei mss, la presenza di tutti quegli elementi che paressero di una qualche rilevanza (prescindendo per il momento da una puntuale e sistematica verifica in bibliografia del fatto che essi potessero essere inediti o già noti). Dato l’interesse colocciano di questo lavoro, un certo spazio è stato riservato alle informazioni — ricavate dall’esame diretto dei libri — riguardanti l’attività annotatoria dell’umanista, che si esercitò nei margini (con una certa predilezione per quelli superiori e inferiori) tanto dei suoi volumi a stampa, quanto di quelli manoscritti. Questo aspetto — forse il più originale e inedito tra quelli che ci si augura di aver qui fornito — ha permesso di rilevare ricorrenze e specifici ambiti di interesse. Si è rinunciato invece, in generale, a fornire estesi o completi rimandi alla bibliografia relativa ai manoscritti (salvo che per studi riguardanti specifici aspetti individuati di caso in caso): questa potrà agevolmente essere recuperata nei repertori pubblicati dalla BAV61 o nei contributi di più stretta pertinenza colocciana citati nelle prime note del presente lavoro e nei rimandi in essi reperibili. Per ciò che riguarda i volumi a stampa, nel caso di incunaboli, si è sempre citato il numero identificativo ad essi attribuito dall’Incunabula short title cataloque (di qui in poi ISTC) della British Library, consultabile online (www.istc.bl.uk). Imprescindibile è poi il contributo — ancora in fieri — offerto dal progetto BAVIC (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae Incunabulorum Catalogus), i cui risultati sono disponibili consultando l’Opac della BAV (www.opac.vatlib.it): a tale repertorio si devono alcune delle nuove acquisizioni di cui il presente lavoro dà conto; alle studiose e agli studiosi che se ne occupano — e in particolare alle dott.sse Laura Lalli e Francesca Schena — va dunque la mia profonda riconoscenza. 61 M. BUONOCORE, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1968-1980), Città del Vaticano 1986, 2 voll. (Studi e testi, 318-319); M. CERESA, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1981-1985), Città del Vaticano 1991 (Studi e testi, 342); M. CERESA, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1986-1990), Città del Vaticano 1998 (Studi e testi, 379); M. CERESA, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1991-2000), Città del Vaticano 2005 (Studi e testi, 426); M. BUONOCORE, Bibliografia retrospettiva dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana, I, Città del Vaticano 1994 (Studi e testi, 361); V. DI CERBO, M. DI PAOLA, C. FRANCESCHI, Bibliografia retrospettiva dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana, a cura di M. BUONOCORE, II, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 464).
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La lista C Vat. lat. 3958 (libri della biblioteca di Colocci entrati in Vaticana nel 1558) ff. 184-196 f. 184r Inventario delli libri del Colotio di sacra scriptura fatto alli 27 d’ottobre MDLviij Prima Cassa 1. Job in pergamena manuscriptus 2. Evangeliorum cum commentis in pergameno manu scripti 3. Psalmista cum commento in pergameno manu scripti 4. Psalterium cum commento mano scriptum in pergameno 5. Prima pars epistularum Beati Augustini pergameno mano scriptus 6. Evangelium secundum Mattheum mano script in pergameno 7. Genesis cum comentario in pergamena manu scriptus 8. Biblia Leviti in pergameno mano scriptus cum commento 9. Summa Gaufridi in pergameno mano scriptus62 10. Sermones Leonis pape xmi in pergamino antichissimus liber manu / scriptus63 11. Homelie Procli in pergamena liber antiquissimus ma. scriptus64 62 Probabilmente la Summa super titulis Decretalium, di Goffredo da Trani (XII sec. ex. – 1245): «con più di 280 manoscritti completi ancora esistenti […], la Summa si pone nella letteratura canonistica medievale al secondo posto dopo la Summa de penitentia di Raimondo da Peñafort e supera di gran lunga l’opera di forma analoga, ma intellettualmente ed economicamente più impegnativa, di Enrico da Susa, conservata solo in circa 115 manoscritti. Dopo questa imponente diffusione manoscritta la riproduzione a stampa rimane piuttosto contenuta: solo tre edizioni fino al 1500 [...], cinque nel Cinquecento» (cfr. M. BERTRAM, Goffredo da Trani, in DBI, 57, Roma 2001, pp. 545-549). 63 Questo item presenta verosimilmente un errore, visto che appare per lo meno improbabile che, a metà Cinquecento, un libro contenente sermoni di Leone X (1475-1521) potesse essere indicato come «antiquissimus» (l’abbreviazione «Xmi», sarà sfuggita all’annotatore forse a causa di una sorta di scatto inerziale per il quale il pensiero sarà ricorso automaticamente al Leo papa più recente e familiare; diversamente si potrà ipotizzare che la sigla significhi qualcosa come christianissimi). Probabilmente qui si volevano in realtà indicare i Sermones di San Leone Magno, cioè Leone I (390 ca. – 461). LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 320-321, 343 identifica questo item e il seguente, rispettivamente, con i codici Vat. lat. 3835 e 3836, mss. dell’VIII secolo in onciale. Tale identificazione è proposta in ragione dell’antichità dei due manufatti — che poteva ben colpire l’attenzione del compilatore cinquecentesco — e della loro contiguità nell’elenco C e nell’attuale collocazione; su questi manoscritti, in ogni caso, non si trova traccia della mano di Colocci. 64 Probablimente si tratta di una raccolta di omelie di Proclo di Costantinopoli (V secolo), ma l’indicazione è troppo generica per fornire più precise indicazioni. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 320-321, 343, come si è detto, identifica questo item con il codice Vat. lat. 3836, precisando tuttavia che un’omelia di San Proclo vi compare solo a f. 70v, il che indebolisce un po’ l’ipotesi identificativa. Si rileverà, piuttosto, che codici come i Vat. lat. 3835
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12. Summa magistri Moraldi in pergameno manu scriptus65 13. Evangeliorum secundum Matheum in bambacino manu scriptus 14. Evangeliorum B. Bernardi in per. script absque tabulis66 15. Epistole Isidori episcopi in per. script. 16. Pastorale in per. scr. 17. De Evangelica preparatione Eusebi in perg.67 18. Tractatus in canticis in perg.68 19. Sermones Gerardi. Landriani in Bam.69 70 20. Evangelium secundum Matteum [sic] cum scholis in perg. e 3836, data la loro natura di miscellanee patristiche, meglio corrisponderebbero (soprattutto il secondo) all’item «collectiones sanctorum patrum in perg. script.» che si trova a f. 185r, in corrispondenza del nr. 25 della II cassa. 65 La parola «scriptus» (come per il nr. 9: vd. supra) è in realtà scritta con il tratto abbreviativo per -us: in questo caso, tuttavia, occorre pensare ad una concordanza a senso e che l’annotatore stesse pensando alla parola liber (a rigore il participio dovrebbe concordare con il femminile summa), forse indotto dalla forma in cui è annotato l’item precedente. Quanto al magister Moraldus qui citato, non trovo notizie pertinenti, salvo quanto riferisce l’Historia universitatis parisiensis, auctore CAESARE EGASSIO BULAEO, IV: ab anno 1300 ad annum 1400, Parisiis, De Bresche, MDCLXVIII, p. 393, a proposito dell’anno 1366. Vi si parla infatti di un Moraldus «Magister in theologia», che, a nome dell’università, aprì un contenzioso con un certo «Goufredu[s] Roffleti» intorno alla fondazione di un collegio a vantaggio di detta istituzione. La summa qui richiamata potrebbe quindi essere un’opera compilata da costui nell’ambito del proprio insegnamento presso lo studium parigino. 66 Indicazione poco chiara: non risultano commenti ai vangeli, scritti da San Bernardo di Clairvaux, a meno che qui non si intenda alludere ai suoi Sermones per annum ad essi dedicati, secondo le ricorrenze dell’anno liturgico. Quanto all’espressione «absque tabulis» vd. la nota 42 delle pagine introduttive. 67 Eusebio di Cesarea (265-339 ca.), De evangelica Praeparatione o Praeparatio Evangelica. 68 Forse da identificare con l’item che troviamo indicato come «Tractatus in canticis canti. In carth. bo.» nell’elenco A a f. 58v [35] (e f. 57v [61]; cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., pp. 135 e 138). La corrispondenza tra questi item è rafforzata dall’uso colocciano di indicare la pergamena con l’espressione, ricorrente in A, «carta bona» (ho già argomentato in proposito Ibid., p. 110 nt. 61). Per altri casi di corrispondenza tra pergamena e «carta bona» tra A e C, vd. qui di seguito I cassa, nr. 22 (f. 184v); II cassa, nr. 24 (f. 185r); III cassa, nr. 13 (f. 186r). 69 Gerardo Landriani (1419-1445), vescovo di Lodi fino al 1435, poi trasferito a Tortona, umanista, celebre per aver ritrovato nel 1422 nel duomo di Lodi un codice contenente le opere retoriche di Cicerone (V. ROSSI, Il Quattrocento, Milano 1933, p. 20; C. EUBEL, Hierarchia Catholica Medii Aevi, 1: Ab anno 1198 usque ad annum 1431, Münster 1913, p. 296; 2: ab anno 1431 usque ad annum 1503, Münster 1914, pp. 8, 26, 27, 28, 63, 140 e 173). LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 320, 343 ipotizza che questo item corrisponda al codice Vat. lat. 4191, che contiene una raccolta di discorsi tenuti al concilio di Basilea, probabilmente sulla base del fatto che il primo di essi ha appunto per autore proprio il Landriani («Sermo Gerardi Landriani Episcopi laudensis in sacra synodim Basiliensi, in natalibus summi et immortalis filii dei» si legge in capo al f. 1r). Egli d’altronde propone anche l’ipotesi alternativa (e forse più convincente) che tale codice sia piuttosto richiamato dall’item nr. 27 della II cassa (f. 185r), al quale si rimanda. In ogni caso il codice non mostra traccia della mano di Colocci. 70 Il numero è preceduto da una notazione marginale di lettura non chiarissima e di
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21. Flores B. Bernardini in perg.71 f. 184v 22. Libri Dialogorum Sti Gregi in perg.72 23. Petri Balbi episcopi Tropiensis ad Sixtum q(uar)tum dialogi theologici in Bamb.73 24. Jo Chrisostomus de patientia in perg.74 25. Eusebius de vita beati Hier(oni)mi in perg.75 76 26. Nicomachius in Tridentonem in Bambacino mano diversa (o comunque, la si direbbe, aggiunta in un diverso momento) forse «post nm 13. positum» (o «ponitur») che evidentemente mette in relazione il presente item con il nr. 13, non a caso, anch’esso un Vangelo di Matteo (ma — sembrerebbe — senza commento). Se si accetta la lettura con la forma participiale, si potrà ipotizzare che, in una fase successiva all’esame del contenuto delle casse e alla redazione del relativo inventario, i volumi siano stati disposti in qualche diverso luogo: sulla questione ci si è soffermati nelle pagine introduttive, alle quali si rimanda. 71 Cfr. A, f. 57v [38], «flores a mano», BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 133, nt. 239). Si tratterà probabilmente di un florilegio di testi (prediche?) di San Bernardino da Siena. Si noterà en passant che il fatto che venga definito «beato» non comporta che l’opera a cui si allude qui possa essere datata anteriormente al 1450, anno in cui Bernardino venne proclamato santo, perché il compilatore usa questa espressione anche per santi ben più antichi, come «Beati Hieronimi» e «Beati Augustini» ai nrr. 25 e 27 di questa stessa cassa. 72 Questo item può forse essere confrontato con quello di A, f. 54v [29] «Gregorii dialogus in carta bona» (cfr. la nota relativa a I cassa, nr. 18). Si potrà forse allora considerare come un piccolo indizio a favore di quest’identificazione, il fatto che il presente item compaia a poca distanza da un altro (il nr. 28: vd. di seguito) di cui ritroviamo un possibile equivalente in A, nello stesso f. 54v (lì è il nr. [33] secondo la nostra numerazione; cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 126). 73 Più che di dialoghi composti da Pietro Balbi (1399-1479), nominato vescovo di Tropea da Pio II nel 1465 (cfr. EUBEL, Hierarchia catholica cit., II, p. 257), si tratterà di sue traduzioni dal greco, dedicate a Sisto IV. Non trovo infatti notizia di opere originali composte dall’umanista (cfr. A. PRATESI, Balbi, Pietro, in DBI, 5, Roma 1963, pp. 369-370), mentre Mattia Palmieri riferisce della dedica a Sisto della traduzione di un «Libro di San Massimo Martire sopra la Carità» (la testimonianza del Palmieri è citata nella voce dedicata a Pietro Balbi, in A. FABRONI, Memorie istoriche di più uomini illustri Pisani, Pisa 1792, t. III, pp. 205-224, p. 215). 74 Più probabilmente si tratterà delle omelie dello Pseudo Giovanni Crisostomo, De patientia in Iob; in BAV è conservata nel Vat. lat. 406 una traduzione in latino dell’opera, approntata da un conterraneo di Colocci, il tifernate Lilio Libelli (per la notizia vd. U. JAITNERHAHNER, Libelli, Lilio, in DBI, 65, Roma 2005, pp. 19-25). 75 Forse l’Epistola ad Cyrillum de vita, obitu et miraculis Hieronymi di Sant’Eusebio di Cremona. 76 Il numero è preceduto da alcune lettere (isolate da un segno di parentesi) che la lacerazione della carta in questo punto ha reso illeggibili. Quanto all’item, la sua identificazione è ardua: Nicomachio potrebbe essere il nome umanistico di qualche intellettuale che polemizzò con Antonio Tridentone, letterato parmense, autore della commedia Fraudiphila, lettore di retorica e poesia allo Studio di Bologna tra il 1454 e il 1456, poi familiare di Rodrigo Borgia, (vd. ROSSI, Il Quattrocento cit., p. 378; per bibliografia più recente vd. A. TISSONI BENVENUTI, Alcune considerazioni su Parma e i letterati parmensi nel XV secolo, in Parma e
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27. Beati Aug(usti)ni de cognitione vite in Bambacino77 28. Regule fram(entum) Beate Marie de Monte Carmelo in perg.78 29. Evangelium Marci cum scoliis in perg. scri. 30. Actus Apostolorum in per. scriptus In 2a Capsa Colotii 1. Summa de casibus Bart(holome)i de sancto Concordio in perg. scr.79 2. Liber profetarum cum expositione B(ea)ti Hier(oni)mi in perg 3. Evangeliorum secun. Marcum cum glosis in perg. scrp. 4. Beati Aug(usti)ni Liber de retractationibus in perg. script.80 5. Acta Apostolorum cum scholis in perg. script. 6. Epistole Pauli cum scolis in perg. script. 7. Evangelium Marci in perg. script. 8. Genesis cum expositione in perg. script. 9. Summa de vitiis in perg. script.81 10. Historia Ecc(lesiasti)ca Eusebii cesarien. in perg. script. 8211. Epistole Petri Blesen. et aliorum in bamb. script.
l’umanesimo italiano. Atti del convegno internazionale di studi umanistici [Parma, 20 ottobre 1984], a cura di P. MEDIOLI MASOTTI, Padova 1986, pp. 121-137, pp. 121, 123-124). 77 Si tratta probabilmente dell’opera pseudo-agostiniana De cognitione verae vitae che però già la Patrologia del Migne attribuisce ad Onorio di Autun (vd. PL, 40, coll. 1007-1008). 78 Cfr. A, f. 54v [33] «Regula de monte carmello» in BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 126. 79 Questo item può probabilmente essere messo a confronto con la voce «Pisanella» dell’elenco A, f. 54v, nr. [22], perché appunto con tale nome era indicata la Summa de casibus conscientiae del giurista e domenicano Bartolomeo da San Concordio (sul quale vd. C. SEGRE, Bartolomeo da San Concordio, in DBI, 6, Roma 1964, pp. 768-770). 80 Probabilmente i Retractationum libri duo di Sant’Agostino (cfr. PL 32, coll. 581-656). 81 Forse la Summa de vitiis et virtutibus del retore bolognese Guido Faba (1190-1248). 82 L’item è preceduto dall’indicazione marginale «in p(rim)a in fine». Essa forse testimonia qualche operazione di spostamento del materiale contenuto nelle casse, (cfr. anche nr. 20 della I cassa, f. 184r). La postilla potrebbe allora indicare che, nella nuova collocazione che i volumi ricevettero dopo l’apertura delle casse, il presente volume (così come quello registrato al nr. 13 al principio di f. 185r) sia stato collocato al fondo del raggruppamento di quelli originariamente contenuti in una prima cassa (su questa e su questioni analoge connesse alle note marginali di C si vedano le pagine introduttive). Quanto al contenuto, l’item nr. 11 sarà stato costituito da una raccolta delle celebri lettere di Petrus Blesensis cioè Pierre di Blois (1130/5-1212), di cui già Enrico II d’Inghilterra aveva fatto curare una ricca silloge (sul personaggio e per la bibliografia relativa vd. Bibliografia della letteratura mediolatina, a cura di S. CANTELLI BERARDUCCI, in Lo spazio letterario del Medioevo. 1. Il medioevo latino, diretto da G. CAVALLO, C. LEONARDI, E. MENESTÒ, V: Cronologiae bibliografia della letteratura mediolatina, Roma 1998, pp. 620-622). Qui segnalo anche la probabile coincidenza (sfuggitami in un primo momento) tra il presente item e quello che si legge in A, f. 53r [3] «Blasesis ep(isto)le a mano»: già MERCATI, Il soggiorno del Virgilio mediceo cit., p. 542 nt. 40 rilevava del resto come la forma «Blasesis» stesse verosimilmente per «Blesensis» (cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 124).
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12. Liber sex Dierum in versis Biblia in perg. script.83 f. 185r In 2a capsa Librorum Colotii Augustinus Enchiridion in Bam. Impres. 14. Disputationes fidei in perg. script. 15. Beatus Thomas super Dionisium di divinis nominibus in bamb. script.85 16. Epistular(um) diversorum in bamb. script. 17. Vita Leonis Xmi taxe ecc(lesi)arum in diocesis Remen’ in Bamb. script. et aliis Gallie posti in la cascia camerale n° xia86
8413.
83 Item di difficile interpretazione: non è chiaro il collegamento della parola «Biblia» con il resto. Inoltre le opere dedicate ai sei giorni della creazione sono numerose dal’Exameron di S. Ambrogio al De sex dierum creatione liber di Beda. Qui tuttavia si specifica che l’opera è in versi: potrebbe dunque trattarsi dell’Exaemeron di Blosso Emilio Draconzio, vescovo di Toledo (V sec. ex.; inc. «prima dies lux est terris, mors una tenebris»). Non trovo altre edizioni moderne dell’opera, se non DRACONTI TOLETANI hispani Hexaemeron seu de opere sex dierum liber singularis, cum M. J. WEITZII indice glossario et notis, Francofurti, Typis Wolffgangi Richteri, sumptibus vero Petri Kopffii, 1610. Si segnala, tuttavia, per il fatto di essere la versione in versi (in volgare) del racconto biblico (non solo, dunque, sui sei giorni della creazione), il ms. Vat. lat. 4821 (73 ff. membr., XV in.: l’autore, un tal Chiriaco — forse il Pizzicolli? — dice di averla composta tra il 1395 e il 1402, cfr. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 338, 344), che reca di mano di Colocci al f. 1v la titolazione «italiana diceria». 84 L’item è preceduto dall’indicazione marginale «in p(rim)a in fine»: vd. supra nr. 11 della II cassa. Il volume sarà verosimilmente da identificare con l’Enchiridion de fide, spe et caritate di Sant’Agostino, la cui princeps è data in Colonia, Ulrich Zel, 1467 circa, in quarto (ISTC nr. ia01265000); la BAV ne possiede un esemplare nello Stamp. Ross. 189, che ho esaminato, ma che, come ci si poteva aspettare, non contiene alcuna traccia della mano di Colocci (a f. 7r si legge in grafia di mano oltralpina del XV sec.: «Liber fratrum Charthusien. domus monte sancto Beati, prope Confluentiam»). 85 Cfr. A, f. 54r [9] «Thomas in Dionisium de divinis nominibus» in BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 125. 86 Probabilmente si tratta di un volumetto fattizio in cui sono stati legati elementi diversi in diversi momenti: cfr. A f. 61r [1] «taxationes benefitiorum in remen. et aliis civitatibus», Ibid., p. 142. Quanto alla Vita Leonis, M. DE NICHILO, I viri illustres del cod. Vat. lat. 3920, Roma 1997, pp. 40-41, propone di dentificarla con i ff. 1r-10r del codice Vat. lat. 3920 (si veda Ibid., pp. 39-54 una dettagliata descrizione del codice), tuttavia, le altre parti del mss. non sembrano poter corrispondere alla dicitura dell’item 17 (si tratta infatti di discorsi funebri, atti e appunti relativi a conclavi celebrati in occasione dell’elezione di Adriano VI, della morte di Leone X e di processi che riguardarono alcuni ecclesiastici). Di più difficile interpretazione è l’indicazione seguente, che sembra precisare una collocazione dell’item: «posti in la cascia camerale n° xia». Se l’inventario è condotto su libri contenuti nelle casse che vengono progressivamente numerate (qui la II), l’unica spiegazione che mi sovviene è che il nr. 17 possa essere stato immediatamente prelevato e ricollocato altrove (forse per la sua natura di documento d’archivio: «taxe ecc(lesi)arum in diocesis Remen’ [...] et aliis Gallie») e cioè nell’“undicesima cassa camerale”. Ciò che potrebbe stupire è il fatto che tale annotazione non sia posta nel margine sinistro come altre annotazioni analoghe (come «in prima in fine», ad es., a f. 185r, nr. 13, II cassa), bensì di seguito all’item. Tuttavia il caso non è isolato: allo stesso modo può
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18. Caii Plini Historia sine principio et fine in perg. scr.87 2a cassa del Colotio 19. Excerpta de varijs authoribus [sic] in bam. script. 20. Epistularum Ambrosii monachi in bambacino script. 21. Paradisi liber in pergameno script. 22. Sanctus Thomas super tribus notturni psalterii script. 23. Panegirici diversorum imperatorum in perg. script. 24. Sermones Leonis PP in perg. script.88 25. Coll(ectio)nes sanctorum patrum in perg. script89 26. Biblia in pergameno script. 9027. Acta in concilio Basiliensis in Bam. script. forse infatti essere interpretata l’annotazione «levati della cassa 2a» che troviamo a f. 191v, in corrispondenza del nr. 62 della VI cassa. Che cosa poi sia l’undicesima cassa camerale è però difficile dire. Forse l’aggettivo «camerale» potrebbe far riferimento a quel locale aggiunto nel 1513 da Leone X alle sale della Biblioteca e che era appunto detta «cambara (camara) parva secreta» — o anche semplicemente «cambara» — e che fu utilizzata come deposito «in cui erano collocati materiali eterogenei: documenti d’archivio, atti e documentazione connessa con i concili, codici latini e greci spesso poco raffinati per fattura, ma anche volumi sciolti o da restaurare» (cfr. RITA, Per la storia della Vaticana nel primo Rinascimento cit., p. 283): oggetti del tutto affini al presente item 17. 87 FANELLI, Ricerche cit., p. 65-66 identifica questo item con il Vat. lat. 3861, membr., VIII-IX sec., 30 × 21 cm ca., 173 ff. (turbato e lacunoso l’ordine dei ff. compresi tra f. 160 e 170) scritti su due colonne, intensamente postillati da Colocci (per es ai ff. 18r-v, 23r-v, 47r-v, 97v-99r), secondo i suoi interessi metrologici (vd. per es. f. 8r, marg. sup. «Xiij pass. i. Xiij M»; f. 147r, marg. inf. «o- Mensura umani corporis»). Il codice contiene i libri II-XIX della Naturalis Historia (manca dunque, appunto, del principio e della fine: una porzione di questa parte finale è stata riconosciuta nel ms. Leiden, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Voss. Fol. 61: cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 325-326). Sul codice vd. anche UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci cit., pp. 65-66, nt. 59. Altri item pliniani si trovano ai nrr. 10 (f. 194v), 14 e 22 (f. 195v) della IX cassa (vd.). 88 Cfr. A, f. 58v [30] (mano di Colocci) «Leoni Serm. in carth. bo.» (vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 137, nt. 281). 89 Cfr. A, f. 58v [28] (mano di Colocci) «Collectiones patrum in cartha bona» (vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 137, nt. 279, dove tuttavia, per una svista, si invitava al confronto con il nr. 21 anziché 25 della II cassa di C). Per l’identificazione di pergamena e «cartha bona» cfr. I cassa, nr. 18 e per una diversa proposta identificativa dell’item cfr. I cassa, nr. 11 e nota relativa. 90 L’item è preceduto da un appunto marginale di disagevole lettura, forse «con li concilii»: essa è stata probabilmente aggiunta in un secondo tempo per indicare che il presente item, relativo al Concilio di Basilea (1431), andava collocato accanto ad altri volumi contenenti documenti conciliari, come forse, ad esempio, quelli del concilio di Costanza (1414-1418). Sarà infatti utile rilevare che in A, f. 57v [49a-b], un item confrontabile con il presente recita «Acta concili Constantiensis item Basil.» (in questo caso l’«item Basil.» è stato integrato in un secondo tempo dalla mano di Colocci stesso: vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 134, nt. 247). LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 320 propone di identificare il volume relativo al Concilio di Basilea con il Vat. lat. 4191, che, come si è detto, contiene una raccolta di sermoni ivi pronunciati (cfr. supra nr. 19, cassa I, f. 184r). Il codice è un ms. cart.,
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Grecus [sic] Natiantienus in laude Basili in Bam scri. 29. Leonardi Aretini de temporibus suis et aliorum in bam. script.92 30. Egidii Vita impres. in Bamb. script.93 31. Jo. de Tandulo de anima in Bam. script.94
XV sec. (due mani oltralpine, la seconda da f. 50r), di ca. 28,5 × 21 cm, costituito da 2 fdg in principio e uno in fine non numerati, più 67 fogli numerati (bianchi i ff. 35v-36v, 67r-v). 91 L’item è preceduto dall’indicazione marginale «in p(rim)a in fine»: vd. supra nr. 11 della II cassa. Cfr. A, f. 57v [50] «Gregorii Nazianzeni opus» (anche in A, significativamente, l’indicazione segue quella relativa agli Acta conciliari) e [58] «Greg. Nazianzeni in Basilium»; L’item indicherà forse l’orazione funebre tenuta da Gregorio Nazianzeno per la morte dell’amico Basilio di Cesarea (cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., pp. 53-54). 92 Evidentemente il De temporibus sui libellus di Leonardo Bruni. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 330 e 342 assegna alla biblioteca di Colocci il codice Vat. lat. 1561, senza tuttavia far riferimento al presente item al quale potrebbe invece forse corrispondere. Occorre tuttavia precisare che il De temporibus occupa nel codice la seconda posizione e che questo contiene altre opere bruniane. Il volume è costituito da un bifoglio membr. (numerato in numeri romani), più 88 fogli cart., numerati in cifra araba (bianchi i ff. 75r-88v, ma preparati con rigatura), di ca. 28 × 20 cm. Il f. IIv (membr.) contiene una tavola dei contenuti del codice vergata da due mani (se ne fornisce la trascrizione integrando tra quadre i numeri di foglio in cui si trovano le opere menzionate): «Leonardi Aretini de Militia ad Reynaldum Albitium [f. 1r] / Idem de temporibus suis [f. 15v] / Eiusdem oratio ad Presides habita pro se ipso [f. 45r] / Eiusdem de rerum grecarum mutatione ad Angelum Azagiolum [i.e. Acciaioli; f. 51r]». Nei fogli contenenti gli incipit di ciascuna opera, l’iniziale dei trattati è decorata piuttosto elegantemente (in blu, porpora, verde e tratti di giallo, più foglia d’oro e d’argento). Nel f. 1r compare anche uno stemma cardinalizio che rappresenta un leone rampante in campo blu, taglito da una banda dorata: si tratta dello stemma di Pietro Barbo, poi papa Paolo II, che evidentemente Lattès non identifica. Il testo è vergato da un’umanistica corsiva, piuttosto inclinata a destra, ma non particolarmente elegante, forse la stessa che annota alcune varianti marginali. Nessuna delle mani visibili nel codice, tuttavia, risulta riconducibile a Colocci e del resto il volume, come segnala da ultimo PETITMENGIN – FOHLEN, I manoscritti latini cit., p. 87, nt. 210, corrisponde a un item che figurava già in inventari anteriori al 1558 (è il nr. 920 dell’inventario del 1550 redatto da Ferdinando Ruano e contenuto nei codici Vat. lat. 39673969, sul quale vd. Ibid., pp. 52-60). Altri riferimenti a Leonardo Aretino in C si trovano ai nrr. 10 e 11, III cassa, f. 186r (traduzioni della Politica di Aristotele: vd.); 54, VI cassa, f. 191r (Epistolae); 45, VIII cassa, f. 194r (un’orazione funebre); 5, X cassa, f. 195v (un’altra copia del De temporibus). A parte il presente item, qualche più circostanziata ipotesi identificativa può riguardare gli item 10-11 della III cassa. 93 Piuttosto contradditoria la dicitura del presente item che viene indicato come opera a stampa («impres») e al tempo stesso «script» (se non si tratta, nel secondo caso, di una forma di inerzia annotatoria indotta dal ripetersi della formula «in bamb. script.» negli item precedenti, occorrerà forse pensare a un manufatto a stampa, integrato da fascicoli manoscritti). Troppo vaga, in ogni caso l’indicazione per suggerire qualche ipotesi identificativa. 94 L’identificazione del personaggio qui richiamato ha resistito ad ogni mio sforzo di ricerca: si potrebbe pensare ad una grafia latinizzante per il cognome veneziano Dandolo, ma nessuno dei Giovanni Dandolo di cui si abbia qualche notizia sembra poter essere messo in relazione con un testo dal titolo De anima (si vedano le voci Dandolo, Giovanni, di M. POZZA, G. RÖSCH, M. POZZA e P. GUARNIERI, in DBI, 32, Roma 1986, rispettivamente pp. 474-476, 476-478, 478-479, 479-482).
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In 2a capsa Colotii 32. Jamblicus in Bamb. scr. 33. Evangeli volgari corrente infra an(n)o in ba(m)biro [sic]95 script. post 34. Cesaris Delphini Parmen. carmina96 f. 185v 35. Ma. Hier(oni)mi Vide cremonen. de arte poetica97 36. Vite Demostenis et Titi Flaminii [per] Plutarcum scripte cosmographia cum itinerariis et partibus itinerariu(m) Ant(oni)ni Inventaria di nuovo notati 46 et 47 Imp(erato)riss98 95 Non trovo alcuna attestazione per la curiosa parola che non parrebbe poter essere letta altrimenti, a meno che si voglia veder una poco convincente n al posto della r: in tal caso la sorta di apostrofo che segue la a e che si è sciolto con nasale potrebbe invece valere come generico segno di compendio per «bamb[ac]ino». Se si ipotizza invece che l’inventario sia stato redatto sotto dettatura, l’espressione potrebbe essere considerata l’esito dell’interferenza tra l’inerzia annotativa del compilatore (che inizia a scrivere «in bamb» come per la maggior parte degli item precedenti) e il fatto che l’item in questione fosse indicato come «in papiro» dal dettatore (cioè di normale carta, come si dice, ad esempio, di numerosi item dell’Inventario B dei libri incamerati alla morte di Colocci, compilato solo nove anni prima dal Sirleto: vd. MERCATI, Il soggiorno del Virgilio Mediceo cit., pp. 542-544). La strana parola nascerebbe dunque dalla crasi delle due indicazioni relative al supporto. Poco chiaro anche il senso dell’annotazione «post» che segue immediatamente. 96 Cesare Delfini, medico e teologo parmense, che visse tormentose vicende presso la corte di Enrico VIII di Inghilterra a causa di alcune sue posizioni teologiche. Accolto infine da Pio V, morì a Roma nel 1566. Fu autore di un poema esametrico in tre libri dedicato alla madonna, i Mariados libri tres, stampati la prima volta a Venezia «in Bernardini de Vitalibus officina», nel 1527: a quest’opera — l’unica in versi di una certa estensione — forse alluderà l’item presente (sul personaggio si veda I. AFFÒ, Memoria degli scrittori e letterati Parmiggiani, Parma 1793, t. IV, pp. 97-106). 97 Si tratterà dei De arte poetica libri tres del cremonese Marco Girolamo Vida, pubblicati la prima volta nel 1527 a Parigi «ex officina Roberti Stephani» e, nello stesso anno, a Roma «apud Ludovicum vicentinum» insieme ai suoi De bombyce, De ludo scacchorum e altre brevi opere in versi (con le stesse ancora a Basilea [s.n.] nel 1534). Non essendo specificato qui che si tratti di opera manoscritta, l’item potrebbe rimandare ad una di queste edizioni a stampa. Il Vida era amico e sodale di Colocci, con il quale partecipava alle riunioni della accademia Coricyana (in proposito vd. Coryciana, critice edidit, carminibus extravagantibus auxit, praefatione et annotationibus instruxit J. IJSEWIJN, Roma 1997, ad indicem). Dell’opera ho finora esaminato l’esemplare della citata edizione romana R. I IV.1729 (int. 3), senza tuttavia trovare segni di appartenenza alla biblioteca colocciana (nessuno dei tre interni che costituiscono il volume reca traccia di annotazioni manoscritte). 98 L’item corrisponde al Vat. lat. 1883: LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 324, 330, 342 lo cita chiarendo che contiene alcune vite di Plutarco tradotte da Leonardo Bruni, senza precisare però quali né a quale item di C corrisponda. L’esame del manoscritto consente invece di associarlo al presente item. Si tratta di un codice cart., XV sec., 174 ff. 14,5 × 18 cm ca. Esso contiene la vita di Demostene di Plutarco tradotta da Leonardo Bruni (da f. 1r) e quella di Tito Quinzio Flaminino tradotta da Guarino Veronese (da f. 17v), seguite (da f. 20r) dalla «Cosmographia» dello Pseudo-Etico Istro («In nomine domini summi Incipit Cosmographia feliciter cum itinerariis suis et partibus et ex factibus romanorum») e a f. 44r
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37. Petri Rige carmen in pentatheuchum Mojsis99 38. Bartholi de Saxo Ferrato minorica100 39. Petri Aquilani comentaria in libros s(ente)n(t)iarum101 40. Alexandri Aphrodisei interpretatio in lib. Arist(totelis) de anima 41. Alberti magni methaora [sic]102 42. Bede chronica et de natura rerum 43. Innocentius iij de miseria conditionis humane 44. Beda de t(em)poribus 45. Exempla virtutum et vitiorum ex diversis auctoribus excerpta 46. Albertini Muxati Chronica de gestis Henrici vij103 47. Aeneas Car(dina)lis de statu Germanie104
dall’Itinerarium Antonini imperatoris («Incipit itinerarium provinciarum Antonini Augusti»). Oltre a questi testi — citati in C — il codice contiene excerpta dai Dalogi ad Petrum Histrum di Leonardo Bruni Aretino (da f. 12r) e dalle Historiae adversus paganos di Paolo Orosio (f. 67r), e si conclude con la «Ex Dionisio translatio facta de greco in latinum per Cinthium romanum» (f. 72r). Sul codice, nei ff. 10r e 29v, si trova l’ex libris «Est augustini Trivultii Cardinalis S.R.E.» (e un riferimento ad un altro possessore — «Caesaris Trivultii» — si legge a f. 74r). Non vi trovo traccia della mano di Colocci. Il rimando «Inventaria di nuovo notati 46 et 47» che si legge in C si riferisce probabilmente ad un’altra menzione dell’Itinerarium Antonini: al nr. 46 della VI cassa a f. 191r troviamo infatti citata l’opera (incerto invece il rimando al nr. «47»). Quanto agli altri riferimenti alle opere di Plutarco in C, si vedano i nrr. 23, III cassa, f. 186v («vita [...] impressa in Bamb»); 3 («Tabula Plutarchi») e 22 («de virtute morali» con opere d’altri autori) della IV cassa, f. 187v; nr. 39, VI cassa, f. 191r («Aristidis et Catonis [...] scripte»). 99 Non sono purtroppo riuscito a trovare nessuna corrispondenza per il presente item. 100 È evidentemente il Liber minoricarum decisionum del celebre giurista Bartolo da Sassoferrato (ca. 1313-1357), sul quale vd. F. CALASSO, Bartolo da Sassofferrato, in DBI, 6, Roma 1964, pp. 640-669. 101 L’item rimanda ai Commentarii di Pietro dell’Aquila («Petrus de Aquila dictus Scotellus», nelle edizioni, ca. 1300-1361, cfr. G. GÁL, Pietro dell’Aquila, in Enciclopedia cattolica, IX, Firenze 1952, p. 1427) sui Sententiarum libri IV di Pietro Lombardo. 102 Cioè il commento di Alberto Magno al De Meteoris di Aristotele. Per un altro rimando all’opera cfr. A, f. 48r [9], «Albertus in metheo[...]»: vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 115, nt. 92. 103 Pur senza fare esplicito riferimento al presente item, LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 343 indica come colocciano il codice Vat. lat. 2962. Si tratta di un ms. cart., XIV sec. ex., ca. 29 × 23 cm, di 173 ff. più un fdg, salvo il f. 1r-v, che contiene un excerptum del trattato Contra Principales errores perfidi Machometi di Juan de Torquemada, ma di mano del XVII sec. Per il resto contiene appunto il De gestis Henrici septimi Caesaris (ff. 1a-68v), seguito dal De gestis italicorum post Henricum VII Cesarem (ff. 68v-172r). Non vi si trova però traccia della mano di Colocci (a meno che non le si vogliano attribuire le cifre della cartulazione). 104 L’«Aeneas cardinalis» è ovviamente Enea Silvio Piccolomini (poi Pio II) e l’opera è la Germania, o De statu Germaniae et his, qui per eam nationem obijciuntur Sanctae Romanae Ecclesiae et quomodo omnibus verissime respondeatur libri duo. Il fondo latino della BAV, oltre all’autografo dell’opera (Vat. lat. 3886), conserva due copie manoscritte che ne derivano (la seconda attraverso la mediazione della prima): Vat. lat. 3885, 3919 (cfr. E. S. PICCOLOMINI, Germania, a cura di M. G. FADIGA, Firenze 2009, pp. 102-112).
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48. Vita Urbani V 49. Nonius Marcellus Tiburtiensis105 50. Nonius Marcellus 51. Nonius Marcellus 52. Petri Candidi observationes et interpretationes vocabulorum eiusdem liber de cosmographia et de offitiis pertinentibus ad institutionem reip. Benvenutus de Jmola de Imp(eratori)bus romanorum Lucius Flo rus Aristotelis aeconomica Salustii lib. de bello Jugurt(in)o M.T f. 186r Nella cassa 2a del Colotio M. T Lib. de Celo et mundo eiusdem epistula ad Ottavium Ants de Aliis de immortalitate animarum Basilii magni libellus quomodo proficer(e) possumus ex elettione authorum [sic] gentilium106 105 Nonio Marcello, grammatico latino del IV secolo, nativo di Tibursico in Numidia: un altro item relativo alla sua opera — oltre ai due seguenti — questa volta a stampa, si trova a f. 189r, nr. 30 della V cassa. 106 Il contenuto dell’item 52 della II cassa corrisponde pressocché esattamente a quello del ms. miscellaneo Vat. lat. 1494 (che LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 324, 330, 341 richiama solo a proposito del Decembrio e di Aristotele): fino al f. 98v nel codice si trovano tracce della mano di Colocci. Le opere del Decembrio occupano i ff. 1r-34r (Grammaticon, Peregrinae historiae) seguite dal Liber Augustalis di Benvenuto da Imola fino a f. 43r (a f. 43v excerpta da Vegezio, Epitoma rei militaris); ai f. 44r-64v si trova Floro, Epitoma de Tito Livio, mentre ai ff. 65r-68v si leggono gli Oeconomica pseuodoaristotelici tradotti da Leonardo Bruni (per un elenco delle opere aristoteliche menzionate in C, vd. nr. 3, III cassa, f. 186r). L’indicazione «Sallustii lib. de bello Jugurt(in)o» si riferisce in realtà alla prosecuzione dell’Epitoma di Floro (ff. 69r-84v), relativa appunto al «Bellum Jugurtinum», come precisa un’annotazione marginale di f. 69r che avrà indotto il compilatore di C in un errore attributivo. A f. 85r si trovano i testi ciceroniani (si tratta del suo adattamento del Timaeus platonico ai ff. 85r-89v, seguito dalla pseudociceroniana Epistula ad Octavianum, ff. 90r-v). A f. 91r si legge il De immortalitate animarum di Antonio Agli vescovo di Volterra, seguito da altri excerpta e annotazioni De viris illustribus Urbis Romae (ff. 99r-114r) non menzionati dai compilatori di C. Ai ff. 115r-121v, infine, è contenuta l’Epistula de utilitate studii in libros gentilium di San Basilio Magno (nella traduzione di Leonardo Bruni). Ai ff. 123r-125r si trova ancora la lettera di dedica «Ad Batistam Caput de Ferro civem romanum» scritta da Giovanni Aurispa per la sua traduzione dello Scipio seu de praestantia ducum di Luciano e appunto tale trattatello; li segue a f. 126r-v una traduzione latina incompleta della novella boccacciana di Tancredi e Gismunda (Decameron IV, I), ad opera di Leonardo Bruni. C, tuttavia, non fa menzione dei testi compresi a partire da f. 123r per cui potrebbe trattarsi di un’aggiunta posteriore. Il codice è un ms. cart., XV sec., 129 ff. (bianchi 114v e 127r-129v) di 23 × 17 cm ca. Esso è costituito da più parti redatte in tempi diversi, due delle quali databili: la prima (ff. 1-64) riporta le sottoscrizioni di due copisti, (f. 34r «finito die XVIIIa mensis iunii per me Jacobum Lambardum de Pisis. Magistro Juliano de Vulterris» e «Frater Jacobus de Morrona de Pisis»: questo secondo nome compare anche a f. 43r dove è indicata la data del 1470: «[...] fini la v[i]gilia del Corpo di Christo. 1470»; lo stesso anno e il nome del Morrone
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53. De stimulo amoris in salvatorem liter. [sic] in perg. script.107 In 3a capsa librorum Colotii 1. Arenghe coram legatis recitan(dae) pro o(mn)i p(ro)posito et alia in perg. scrip.108 2. Argipropidi [sic] Translatio in Porfirium et alios in perg. script.109 3. Ethica Aristotelis cum scolii[s] in perg. scrip.110 compaiono anche ai f. 64v, mentre ancora al 1470 rimanda un’annotazione in greco del f. 90v); la seconda (ff. 99-114) è riconducibile al 1472 e all’opera di tale Ugolino Vitelli («Ego Ugholinus de Vitellis Castellanus ob innumerabilia Reverendi Magistri Iuliani Volaterani in me benemerita istud opusculum sibi scripsi sub annis domini nostri Yhesu Christi a nativitate esiudem M°CCCC°LXXII Mense Ianuarii tempore Sixti divina providentia pape quarti. finis», f. 114r). Il codice appartenne alla famiglia Maffei da Volterra (si veda l’ex libris «M. I. Maphei de Vulterris» a f. 68v), con la quale Colocci era in relazione (cfr. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci cit., pp. 38, nt. 47, p. 50, nt. 59). Esso può anche essere identificato con il manoscritto menzionato dai Ranaldi in Vat. lat. 8185, f. 354v, al nr. 21 dell’ultima cassa alla parete della Bibliotheca magna secreta, «Grammatica Candidi. Benventus de Cesaribus. Cicero de celo et mundo et eorum aeternitate. Ex papiro in tabulis» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 81-84). 107 Forse lo Stimulus amoris del francescano Giacomo da Milano (XIV sec.), o l’omonima opera di Eckbert di Schönau (XII sec.). 108 Cfr. A, f. 54r [4] «Arenghe a mano» vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 125, nt. 163. 109 La prima parola di questo item, pur presentando alcune correzioni per sovrascrizione, non sembra possa essere letta diversamente. Si tratterà di una grafia erronea forse per indicare Giovanni Argiropulo, tuttavia non trovo notizia di traduzioni di Porfirio a lui attribuite. 110 Numerosissimi gli item contenenti opere di Aristotele in C: oltre che qui e al nr. 52 della II cassa, f. 185v già esaminato (che corrisponde al Vat. lat. 1494 e contiene gli Oeconomica pseudoaristotelici: vd.), ne troviamo menzione ai nrr. 4 (Metaphisica in pergamena), 7 (senza precisazione del titolo, ms. in pergamena), 8 (Ethica in pergamena) a f. 186r e 19 (vd: è registrato come «Aristotelis Quaedam» ed è identificabile con il Vat. lat. 2990) e 29 («de aleribus»[?]: vd. nota) a f. 186v, tutti della III cassa; ai nrr. 28 della IV cassa, f. 188r (De celo, De generatione et corruptione, De Metheoris, identificato con Vat. gr. 252: vd.) e 29 della VI cassa, f. 190v (Phisica con commento). Oltre a queste opere, l’inventario dà notizia anche di alcune tabulae alfabetiche tratte dalle opere di Aristotele: nr. 2 (da una delle Etiche), nr. 11 (dal De animalibus), nr. 31 (senza precisazioni di fonte) della IV cassa (ff. 187v e 188r). Tuttavia, a parte i tre mss. citati, non è possibile, allo stato attuale delle conoscenze, stabilire altre corrispondenze con il materiale librario noto appartenuto a Colocci. Ci si limita a segnalare, per completezza, che il Vat. lat. 3898 (cart., XV sec., 30 × 22 cm ca., con antica numerazione da 77 a 113) contiene, ai ff. 24r-59v la traduzione latina di Giorgio Trapezunzio della Rhetorica (I-III) di Aristotele: si tratta di un frammento di un codice completo che è stato smembrato tra altri due mss, i Vat. lat. 3899 e 3900 (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/2 p. 365 e nt. 4; cfr anche LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 324, 330, 343). Inoltre per le mani dell’umanista dovette probabilmente passare un ms. della Politica, l’Ott. lat. 1882: vd. nr. 10, III cassa, f. 186r; infine tra i testi colocciani pertinenti, si potrà far menzione del Vat. lat. 3404, che conserva l’Introductio ad libros Aristotelis de syllogismo di Niccolò Giudeco, dedicata proprio al nostro (contiene a f. 1r-v la lettera di dedica a lui, ma nessuna traccia della sua mano). Si tratta di un codice cart., XVI sec., 14 × 21 cm ca., 27 ff. (27 è moderno), più un foglio non numerato (f. [I]) in principio; sul recto di quest’ultimo
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4. Methaphisica Aristotelis in perg. scrip. 5. Commentum in Politica in perg. script. 6. Thomas de Aquino in phisica in perg. scrip. 7. Aristotelis script. in perg. 3a cassa del Colotio 8. Ethica Aristotelis in perg. scrip. 9. Questiones B(u)ridani in ethica in Bamb. script.111 10. Politica traslata per Leonardum Aretinum in perg. scrip.112 11. Politica traslata per Leonardum Aretinum in perg. scr. 12. Frans Philelphus de obitu Valerii Marcelli in Bamb. scrip.113 Orsini ha annotato: «69. Nicolao Judeco ad libros Aristotelis con l’epistola al Colotio Ful. Urs» (cfr. anche DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 127, 251, 364). Il ms. passò dunque all’Orsini e non potrà perciò essere idenficato con item di C. 111 Le Quaestiones super decem libros Ethicorum Aristotelis ad Nichomachum di Giovanni Buridano. Non identificato. 112 Secondo BIANCHI, Per la biblioteca cit., p. 274, nt. 14, come si è accennato (cfr. nr. 3, III cassa, f. 186r), nella biblioteca di Colocci soggiornò il codice Ott. lat. 1882 che contiene appunto la Politica di Aristotele tradotta da Leonardo Bruni. Si tratta di un ms. membr., XV sec., di grande formato (ca. 30 × 18 cm), 141 ff., con una splendida iniziale miniata a f. 1r (dove si vede anche un cherubino che regge uno stemma: uno scudo con un’aquila nera). Bianchi associa questo ms. all’item dell’inventario A «Aristoteles greco et latino per P[etre] ium» (f. 48v nr. [29]: vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici di Angelo Colocci cit., p. 117) e infatti a f. 141r dell’Ottoboniano troviamo la sottoscrizione «Petreius infortunatus scripsit». Bianchi osserva poi: «credo improbabile che l’item si riferisca a un unico volume contenente una o più opere di Aristotele in greco e insieme in versione latina, mentre mi sembra più verosimile pensare ad una registrazione unica per due volumi distiniti della stessa opera di Aristotele, nel primo in greco, nel secondo in versione latina. In questo caso la seconda parte dell’item potrebbe ben corrispondere al nostro codice Ottoboniano». Se l’item di A si riferisse dunque a due e non a un unico libro, avremmo un elemento in più per accostare gli item 10 e 11 della III cassa di C alla voce di A e, conseguentemente, per identificare uno dei due item con l’Ott. lat. 1882. Questo volume secondo quanto osserva C. BIANCA, Petreio, Petrucci, Cervini. Il ms. Ott. Lat. 1882 e la «Politica» di Aristotele, in Rinascimento II s. 26 [1986], pp. 259-275, passò poi nelle mani di Marcello Cervini. Bianchi però ipotizzava che quet’ultimo se ne fosse appropriato alla morte dell’esinate, di cui era amico e curatore testamentario. In tal caso, tuttavia, ben difficilmente l’item di C potrebbero corrispondere all’Ott. lat. 1882, perché Cervini morì tre anni prima della compilazione dell’inventario e mi pare poco convincente ipotizzare che, alla dipartita di Marcello II, i due tomi fossero fatti ritornare nel fondo colocciano in deposito nella Guardaroba. Gran parte dei libri di Cervini passarono invece a Guglielmo Sirleto, la cui enorme collezione libraria costituirà, dopo diversi passaggi, il nucleo fondamentale del fondo Ottoboni (cfr. S. LUCÀ, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, in Storia della Biblioteca Apostolica cit., II, p. 166). 113 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 331, 342 attribuisce alla biblioteca di Colocci il codice Vat. lat. 1790 (cart., 158 ff., 23 × 17 cm ca., XV sec.), che contiene appunto, come recita l’intitolazione del f. 3r, «Francisci Philelphi ad Jacobum Antonium Marcellum patricium venetum et equitem auratum, de obitu Valerii Filii consolatio», seguita a f. 155r da una più breve παραμυθία in distici elegiaci greci (sul testo e il codice che lo contiene vd. R. FABBRI, Le “Consolationes de obitu Valerii Marcelli” ed il Filelfo, in Miscellanea di studi in onore
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13. Lib. in Theologia cuius primum cap. est de sapientia in perg.114 14. Questiones Bridiani [sic] super ethica in Bamb. scr.115 15. Libro volgare de varie romanze in perg. scr.116 16. Ditis Creten’ de bello Grecorum et Troianorum in Bamb. scr.117 di Vittore Branca, III/1: Umanesimo e rinascimento a Fienze e Venezia, Firenze 1983, pp. 221250). I due testi sono preceduti (a f. 1r) da una lettera di dedica del Filelfo a Ottaviano Ubaldini, il cui nome compare anche nel fdg a mo’ di ex libris. Questa circostanza, insieme al fatto che il codice non mostra alcuna traccia della mano di Colocci, suscitano qualche dubbio sulla riconducibilitù del codice alla sua biblioteca (o per lo meno occorrerebbe approfondire in che modo un libro che verosimilmente fu dell’Ubaldini, sia passato poi nelle mani del nostro). Altri item relativi al Filelfo sono: nr. 22, VI cassa, f. 190v («Convivium») e n. 64, VI cassa, f. 191v («Satir.»). Si segnala, per la novità del ritrovamento e per la pertinenza filelfiana, l’edizione a stampa delle Orationes Philelphi cum aliis opuscolis, Venezia, Philippus de Pinzis Mantuanus, 1492, in folio (ISTC nr. ip00610000): è infatti stato possibile individuare l’esemplare appartenuto a Colocci nell’Inc. II.550 (int. 2). Il volume contiene anche le traduzioni filelfiane di PSEUDO-ARISTOTELES, Rhetorica ad Alexandrum, PLUTARCHUS, Apophtegmata, e quella di Giorgio Valla di GALENUS, Introductorium ad medicinam principiis; sporadica la presenza della mano di Colocci (per es. f. XIVv, marg. inf. «sabaudienses a sabbatis mo(n)tib(us)»; f. LVIr, marg. destro «unus sol plus ut / mille stell.»). Si coglie l’occasione per segnalare anche (sebbene il suo autore non sia mai menzionato in C) un altro testo a stampa che costituisce una nuova acquisizione tra i postillati colocciani, cioè l’interno 1 dello stesso Inc. II.550, che contiene MARTIANUS CAPELLA, De nuptiis Philologiae et Mercurii libri duo (seguito dai libri III-IX relativi a De grammatica, De dialectica, De rhetorica, De geometria, De arithmetica, De astronomia, De musica), Modena, Dionyius Bertochus, 1500, in folio. Sul frontespizio la nota di possesso «Ful Urs» colloca l’item tra quelli passati a Fulvio Orsini. Il volume reca traccia di tre mani, una forse riconducibile al Carteromaco, mentre un’altra è certamente quella di Colocci, che qui interviene con abbondanza. Nei margini troviamo notabilia (f. 30r, marg. sup. «dividendo + partiendo»; f. 36v, marg. inf. «dedicativa + abdicativa») e annotazioni un po’ più articolate, per lo più pertinenti agli interessi metrologici-metricologici e antiquari del Nostro (f. 54v, marg. sup. «palla inventrix numerorum, Livius L° 7 de clavo figendo in templo Palladis»; f. 100r, marg. sup. «syllab. / Archimedes .chi. longa in principio L° 6 ibidem. puncti instar medio hestratun(?) loc° ibidem tellus, -lus brevis»), rimandi a loci librarii (f. 56r, marg. inf., preceduto dal tipico segno di richiamo a chiave, «o- canobi Stella Strato in 2° de Eudox° / vide Speram procli Eudoxi. Plin. i(ntroducti)o ubi multa») e postille tipiche (come color/ colores: ff. 6v, 54v, 65r; vox: ff. 6v, 15r, 30v). 114 Meno preciso — se si accetta l’identificazione — il corrispondente item di A, f. 57v [62] (di mano colocciana) «De sapientia a mano in charta bona» (ma vd. anche l’analogo «L[...] de sapientia in carth. bo.» a f. 58v [36]: cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 135, nt. 259 e p. 138). Per l’equivalenza tra pergamena e «charta bona» nelle abitudini annotatorie di Colocci vd. supra f. 184r, I cassa, nr. 18 con note e rimandi relativi. 115 Nonostante la grafia imprecisa del nome dell’autore, verosimilmente il presente item intende rimandare ad un’ulteriore copia dello stesso testo registrato qui al nr. 9. 116 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 336-337, 343 identifica questo item con il celeberrimo Canzoniere italiano, Vat. lat. 3793, accuratamente studiato e postillato da Colocci. La bibliografia su questo codice è sterminata (per alcuni essenziali rimandi, vd. BERNARDI, Angelo Colocci cit., p. 92). 117 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 343 segnala come colocciano il codice Vat. lat. 2957. L’identificazione con il presente item di C risulta persuasiva perché in effetti il testo di Ditti Cretese (sono le De bello troianorum efemerides o, come titola il codice a f.
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17. Jacobi Picinini Ephemerides in Bamb. scrip.118 18. Philostratus in Bambacino script. f. 186v In 3a capsa Colotii 19. Quaedam Aristotelis in Bamb. scr.119 20. Trebani Aurelii libellus de felicitatibus in perg. scr.120 1r, «De bello Graecorum et Troianorum») si interrompe a f. 90r (con le parole del libro VI «quam rem cuncti qui aderant uno ore exitialem eius pronuntiant»); nello stesso foglio in calce, inoltre, si legge la parola «adduntque» che evidentemente sarebbe stata la prima del fascicolo successivo, qui richiamata per facilitare l’ordinamento del codice (l’ultima parte si trova probabilmente ai ff. 7r-10r di Vat. lat. 3424, un codice che passò a Fulvio Orsini: cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 125, 251, 376, 380). Il Vat. lat 2957 è un ms. cart., XV sec. ex., di ca. 20 × 14 cm, costituito da 90 ff. numerati, più uno di guardia in principio e uno in fine; i titoli sono rubricati e le iniziali dei libri sono miniate con semplicità in oro, blu, verde, rosa e bianco. Vi sono tracce di postille umanistiche, ma nessuna mi pare della mano di Angelo Colocci (il codice era descritto nella lista, oggi scomparsa, dei Ranaldi, al nr. 57: cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/2, p. 62). 118 Si tratterà verosimilmente di una cronaca delle gesta del condottiero Jacopo Piccinino (1423-1465), per cui, per l’identificazione dell’item si potrà indicare il poema volgare in capitoli ternari Altro Marte di Lorenzo Gualtieri, detto Spirito, che in tale opera aveva tradotto poeticamente la propria esperienza di testimone oculare delle gesta di Jacopo Piccinino nella campagna sforzesca contro Siena degli anni 1452-1454, alla quale egli aveva personalmente partecipato. Dell’opera esistono almeno tre copie autografe note (il ms. 12411242 della Biblioteca Civica di Verona, il ms. D.5 dell’Augusta di Perugia e il XIII.C.32 della Nazionale di Napoli): il Gualtieri era infatti anche copista e suo è ad esempio un codice boccacciano, già ricondotto alla biblioteca di Colocci (il Vat. lat. 4813, sul quale vd. qui nr. 8, VI cassa, f. 190r; sul personaggio vd. G. ARBIZZONI, Gualtieri, Lorenzo, in DBI, 60, Roma 2003, pp. 208-212). Il legame tra Colocci e Lorenzo Spirito, però, è testimoniato da altre circostanze: nel suo zibaldone autografo Vat. lat. 4831 a f. 88r, Colocci annota alcune facezie che riguardano Lorenzo e precisa che egli fu «amico di miser Francesco mio tio» (cfr. M. BERNARDI., Lo zibaldone colocciano Vat. lat. 4831. Edizione e commento, Città del Vaticano 2008 [Studi e testi, 454], pp. 96 e 337). Rimane tuttavia per il momento inidentificato il codice a cui allude il presente item di C. 119 D. GIONTA, Tra Questenberg e Colocci, in Studi Medievali e Umanistici 3 (2005), pp. 402-412, p. 410 propone di identificare il presente item con il Vat. lat. 2990 — copiato da Giacomo Aurelio Questenberg e postillato da Colocci — in ragione del fatto che sul taglio del volume si legge, di mano di Questenberg, «Aristotelis quaedam». Il codice (cart., 19 × 14 cm ca., un foglio [I] non numerato, 382 ff. numerati, più altri 4 ff., di cui il penultimo numerato modernamente «385») contiene — giusta la tavola redatta a f. [I]r da Questenberg e completata da Colocci con i numeri di foglio — «Aristotelis de Anima interprete G. Trapezuntio. 1 / Alexandri Aphrodisei problematum liber interprete Theodoro [i.e. Gaza]. 60 / Aristotelis Magna Moralia interprete Gregorio Typhe[r]nate. 142 / Sexti Emperici [sic] contra professores artium interprete Jo L. [i.e. Giovanni Lorenzi]. 266». Le postille di Colocci sono poco numerose (ai ff. 295v, 323,v, 376v, 377v), mentre di sua mano è un indice dei contenuti del solo Sesto empirico, che si legge a f. 385r (vd. GIONTA, Tra Questenberg e Colocci cit., pp. 404-405 per la descrizione del codice). Per gli altri item aristotelici, vd. nr. 3, III cassa, f. 186r e note relative. 120 È probabilmente questo l’item che giustifica l’attribuzione alla biblioteca di Colocci
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21. Translatio Timei per Calcidium diaco(num) in perg. scr.121 22. Geographia Strabonis impress in Bamb.122 del codice Vat. lat. 2924, proposta da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 342, senza ulteriori argomentazioni. Cfr. anche A, f. 62r [8] «Trebanii Aurelii de felicitate»: BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 143, nt. 321. Il codice è un piccolo mss. di ca. 19 × 11,5 cm, composto da 9 ff. cart. bianchi non numerati in principio, seguiti da 20 fogli membr. numerati modernamente, e altri 9 ff. cart. bianchi non numerati, più un fdg in fine. I ff. membr. sono preparati con rigatura e sono coperti da una bella umanistica con titolo in capitali rubricate e iniziale miniata in oro su campo blu e tratti bianchi (i ff. 17v-20v sono però privi di scrittura). Contiene «Trebani Aurelii ad R. P. dominum Marcum Barbum Tarvisinum pont., De felicitate libellus» (f. 1r). Vi sono postille marginali in bella grafia umanistica da f. 3v in poi, ma non vi si scorge la mano di Colocci. 121 È probabilmente il Vat. lat. 3815, attribuito alla biblioteca di Colocci (senza far riferimento a C) da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 343 (allo stesso codice allude anche a p. 324, dove per errore scrive però «2815»: il Vat. lat. 2815 è invece un bel codice umanistico di 89 ff., che contiene «Juvenalis saturarum liber» [f. 1r] e che non è di pertinenza colocciana: non vi si trova la sua mano e reca le armi di Lodovico Podocataro: «parti, au I d’azur au mont d’argent soutenant une croix d’or, au II d’azur à la tête de lion d’or lampassée du même issant de la gauche», cfr. (Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 644; per le armi di Colocci vd. invece a f. 187r le note relative al nr. 47 della III cassa). Il Vat. lat. 3815 è un codice, membr., metà del XII sec., di 33 ff. numerati a matita, 18 × 11 cm, con postille marginali e interlineari coeve. La mano di Colocci si ravvisa però solo nel recto del fdg numerato 1 (membr., ma più recente), dove indica il contenuto del ms: «Tralatio TIMAEI / per Chalcidium Diaconum» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 321-322). 122 Da confrontare probabilmente con l’item [12] di f. 44r di A, che ci fornirebbe perciò due informazioni in più: si dice infatti «Strabo in stampa grande tochato m(esser) N(iccol)ò poco» (vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 107). Dunque un’edizione di grandi dimensioni e moderatamente postillata da una mano diversa da quella di Colocci. Tra le edizioni di Strabone appartenenti ai fondi vaticani antichi, trovo due esemplari che potrebbero corrispondere ai requisiti: Inc. S.121 e Inc. S.170. Quest’ultimo è una copia di Strabone, Geographia, libri XVI (traduzione di Guarino Veronese e Gregorio Tifernate, edito a cura di Giovanni Andrea d’Aleria), Venezia, Vindelino da Spira 1472, in folio (ISTC nr. is00794000). Qui le postille si trovano ai ff. 5r, 22r e poi moderatamente, ma quasi ininterrottamente, da f. 32v fino alla fine. Le mani che intervengono mi sembrano due: una caratterizzata dall’uso di curiose G maiuscole anche all’interno di parola (per es. «SaGuntum» a f. 47r e «PhleGeton» a f. 67r) e l’altra più tradizionale (per es. «Epydamnum .id est. Dyrachium», f. 115v): ritrovo entrambe le mani anche nel Silio Italico appartenuto a Colocci Inc. I.4 (cfr. nr. 39, VII cassa, f. 194r), il che mi pare un dato significativo, nella prospettiva di una possibile ascrizione alla sua biblioteca anche del presente item, pur in assenza della sua mano. L’Inc. S.121 è invece sostanzialmente una copia della stessa edizione, ma data in Roma, Conradus Sweynheym e Arnoldus Pannartz, 1473, in folio (ISTC nr. is00795000) ed è davvero un volume «tochato [...] poco», perché vi si trova solo una mano umanistica che aggiunge la cartulazione, scrive le intestazioni nel marg. sup. relative ai diversi libri che costituiscono l’opera, e verga qualche sparutissima nota. Se di uno di questi si tratta, è difficile dire quale, perché anche Inc. S.170 potrebbe risultare decisamente «tochato [...] poco» se confrontato con altri postillati appartenuti al nostro (come, ad esempio, Ald. I.1 [int. 1] o R. I IV.2139): una risposta potrà in futuro venire forse dall’incrocio dei rimandi di pagina reperibili all’interno di suoi appunti o tavole lessicali pertinenti a Strabone e la numerazione delle pagine delle edizioni. D’altronde, però, come mostrano gli item 24 e 25 di questa stessa cassa, Colocci possedeva più copie dell’opera,
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23. Vita Plutarchi impressa in Bamb.123
sicché non solo entrambi gli incunaboli potrebbero essergli appartenuti, ma mancherebbe addirittura all’appello un terzo esemplare. In ogni caso, in nessuno dei due volumi mi pare di poter ravvisare la mano del Nostro e non si potrà nemmeno poi escludere che un terzo item colocciano possa essere stato scambiato con altre bibliotece, secondo una prassi che è stata a lungo in uso per le copie di una stessa edizione possedute in più esemplari (cfr. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., pp. 84-86). 123 Troviamo un altro rimando ad un Plutarco a stampa nell’elenco A, f. 45r [16]: «Plutarcho in stampa grande» (cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 112, nt. 72). Allo stato attuale delle conoscenze in merito, non sono ancora stati trovati esemplari a stampa delle Vite di Plutarco appartenuti a Colocci, mentre se ne segnalano degli excerpta manoscritti in Vat. lat. 1883 e Vat. lat. 2946 (vite di Aristide e Catone tradotte da Francesco Barbaro, ff. 3r-92v: vd. nr. 39, VI cassa, f. 191r). Per quanto riguarda gli stampati plutarchei, alla biblioteca di Colocci finora sono state ricondotte le Ald. I.23-25 (vd. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., pp. 88), che però non contengono le Vite, bensì gli Opuscula moralia (Venezia, Aldo Manuzio e Andrea Torresani, 1509, in quarto); certamente colocciana è la mano che scrive «Plutarchi opuscula» a f. Ir di Ald. I.23, ma essa sembra poter essere ravvisata anche sulle altre due copie della stessa edizione Ald. I.24 (nella tavola iniziale e, per es., alle pp. 31, 74-75, 119, 323, 325) e più dubbiosamente in Ald. I.25 (pp. 525, 754, 863). Il fatto che Colocci possedesse più copie della stessa edizione non stupisce (potevano essergli pervenute attraverso l’acquisizione di parti di biblioteche di amici e conoscenti come Carteromaco o Questenberg) e del resto se uno dei tre esemplari può essere considerato copia di lavoro, questa dovrebbe essere Ald. I.24, perché in essa la mano dell’esinate è più presente. Per gli altri item plutarchei vd. nr. 36, II cassa, f. 185v e note relative. Qui si segnala tuttavia per la prima volta la pertinenza alla biblioteca colocciana dei quattro interni che costituiscono lo stampato plutarcheo Inc. IV.573 e che dovevano essere legati insieme già ai tempi di Colocci: la sua mano, infatti, ha completato il frontespizio del primo dei tre interni (PLUTARCHUS, De tranquillitate et securitate animi, ID., De fortuna vel virtute Alexandri, BASILIUS MAGNUS, Epistola de vita per solitudinem transigenda, Roma, Mazzocchi, 1510), aggiungendo i titoli compresi nel secondo (PLUTARCHUS, De placitis philosophorum naturalibus, Roma, Mazzocchi, 1510) e nel terzo interno (PLUTARCHUS, Regum et Imperatrumu Apophthegmata, Laconica apophthegmata, Dialogus in quo animalia bruta ratione uti monstrantur, RAPHAEL REGIUS, Apologia, Venezia, Rusconi, 1508) ed ha annotato sul verso del fdg quelli relativi al quarto (PLUTARCHUS, De claris mulieribus, PSEUDOPLUTARCHUS, Parallela minora, Venezia, Bernardinus Venetus de Vitalibus, ca. 1498-1500, in quarto, ISTC nr. ip00820000), tutti corredati dei rimandi di foglio. La mano dell’umanista si trova, oltre che nel frontespizio del primo interno, anche in quello del quarto (dove, oltre a un rimando di pagina, annota un rinvio all’Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea: «Euseb. in hista ecca ponit aliquas / claras mulieres»); nel secondo e nel terzo interno, invece, gli interventi sono distribuiti lungo il testo, dove per lo più evidenziano notabilia (per es. ai ff. 63r, 77r) e rimandi a loci librari o volumi («o- ignis triangulus Martianus in principio sexti» f. 72v; «In Plutarchi voluminibus impressis desunt hec omnia quae ia sunt plut 313», f. 76r; «L.° 14 inventum Dionysis cum pararet bellum in carthagin» f. 119r); si segnalano inoltre le postille tipiche «color» (f. 68v) e «vox» (f. 88r) e due note pertinenti a personaggi e questioni d’attualità ai tempi di Colocci (l’appunto «Pro Hieronymo Donato» a f. 115r, in corrispondenza della frase «Phocion Atheniensis neque ridens neque lachrimans ullo numquam est visus» e il marginale «pro bombarda / catapulta machina», annotato accanto a «Archidamus Agesilai filius cum Catapultae iaculum tunc primum ex Sicilia advectum vidisset, exclamavit “o Hercules! Viri perit virtus!”» a f. 119r). Il volume, tuttavia, non sarà probabilmente da identificare con alcuna delle voci di C, visto che sul recto del fdg si trova la segnatura «79» che rimanda alla
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24. Geographia Strabonis impressa in Bamb. 25. Geographia Strabonis impressa in Bamb.124 26. Homerus latinus impress. in Bamb.125 27. Topica Boetij impressa in Bamb.126 28. Apuleius impress.127 29. Aristotelis de aleribus [sic] impress. in bam.128 sezione degli stampati latini dell’inventario di Fulvio Orsini (cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., p. 388). 124 Per questo e per l’item precedente, si veda il nr. 22 di questa stessa cassa. 125 Indicazione troppo vaga: sono numerose le edizioni quattrocentesche dedicate alla traduzione latina della Batrachomyomachia e dell’Iliade. Per la prima delle due opere, è Carlo Marsuppini a curare la più antica edizione (Brescia, Thomas Ferrandus, ca. 1474, in quarto, ISTC nr. ih00300800), la quale accosta il testo greco alla traduzione latina. Dell’Iliade, invece, a parte le epitomi attribuite a Pindaro Tebano, la prima versione latina a stampa è quella di Lorenzo Valla (Brescia, Henricus de Colonia e Statius Gallicus, 1474, in folio, ISTC nr. ih00311000). Per quella dell’Odissea occorre aspettare il secolo successivo con la traduzione di Raffele Maffei Volterrano (Odissea Homeri per Raphaelem Volaterranum in latinum conversa, Roma, Mazzocchi, 1510), personaggio vicino a Colocci che era amico del fratello Mario (vd. FANELLI, Ricerche cit., p. 112). 126 Non trovo altre plausibili edizioni a stampa dell’opera a cui qui verosimilmente si accenna se non BOETHIUS, Topica; CICERO, Topica; BOETHIUS, In Ciceronis Topica commentum, Roma, Oliverius Servius, 1484, in folio (ISTC nr. ib00829000), di cui non mi risultano però esemplari in BAV, dove invece è custodita una copia dei Topica di Cicerone, con il commento di Boezio (Lione, Sebastiano Gryphius, 1541: R.G.Classici V. 2340), che tuttavia, vista la disposizione dei contenuti, è improbabile che potesse venire registrato sotto il nome di Boezio. Oltre a quello appena citato, le altre occorrenze del nome di Boezio si trovano ai nrr. 60, III cassa, f. 187r; 48, VI cassa, f. 191r; 56, VII cassa, f. 193 (tutti e tre copie del De consolatione philosophiae) e nr. 47, VIII cassa, f. 194r (l’unico rimando identificabile: vd.). 127 Se corrisponde al rimando di A, f. 44r [10] «Apuleius in stampa romana tocho», si tratterà di LUCIUS APULEIUS MADAURENSIS, Opera, Roma, In domo Petri de Maximis [Conradus Sweynheym e Arnoldus Pannartz], 28 Feb. 1469, in folio (ISTC nr. ia00934000: vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., pp. 106-107, ntt. 42, 46). Per il momento ho esaminato uno solo dei due esemplari vaticani dell’edizione, lo Stamp. Ross. 1078, sontuoso volume con capilettera miniati e pochissime annotazioni marginali d’altra mano. Se si considera un’ipotesi alternativa alla stampa romana (del resto anche qui i rimandi ad un Apuleio «impresso» sono due: vd. di seguito il nr. 36), si potrà pensare a quella aldina (Venezia, 1521), di cui ho potuto studiare per il momento due esemplari. Il primo è l’Ald. A.III.51, dove si individua una mano (sono almeno due i postillatori) piuttosto simile a quella colocciana, ma che esiterei però ad attribuirgli a causa dell’uso costante della d di modulo onciale e di una particolare forma del legamento ct che non ha riscontri nella più tipica scrittura dell’umanista. L’altro è l’Ald. III.98, che però reca nel frontespizio l’annotazione a penna «Fulvii Ursini xv», sicché non potrà essere identificato con item di C. Su di esso, tuttavia si trova traccia di un’intensa attività annotatoria portata avanti da almeno due mani: una è quella sottile ed elegante di Fulvio Orsini, mentre l’altra farebbe pensare a quella di Carteromaco (la maggior parte di queste note, che riportano per lo più varianti, è accompagnata dalla sigla «v.c.»: forse interpretabile come «vidit Carteromachus» o qualcosa di simile?); si segnalano come particolarmente estese le annotazioni dei ff. 32 e 65v. Non mi pare di poter individuare la mano di Colocci in nessun punto dello stampato. 128 Tutti i miei sforzi per trovare una corrispondenza a questo item non hanno prodot-
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30. Liber inscriptus et impres. Periachon129 31. Crinitus in Bamb. scrip.130 32. Jamblicus scrip. in Bam.131 33. Opera quedam Pontani in Bam. scr.132 34. Carmina de origine Grecarum litterarum et alia in bam. 35. Herbarum liber in bamb. script et Historiae to risultati. La parola «aleribus» mi pare di difficile interpretazione. L’ipotesi che potesse corrispondere ad «aleriensis» (così come nell’inventario A si leggeva di un «Plinio d’Aleria», f. 45r [15]: vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 112) e quindi far riferimento ad una curatela di Giovanni Andrea Bussi, vescovo di Aleria, è confutata dal fatto che non risultano edizioni da lui curate di Aristotele. In alternativa si potrebbe pensare alla grafia erronea per «de oleribus», ma non ho trovato notizia di testi aristotelici o pseudoaristotelici dedicati alle erbe che fossero trasmessi con titoli confrontabili. Per gli altri item aristotelici, vd. nr. 3, III cassa, f. 186r e note relative. 129 Anche questo titolo pone alcuni problemi interpretativi. Intanto doveva trattarsi di un volume composto dalla legatura di una parte a stampa e una manoscritta (se questo si intende con «liber inscriptus et impressus»). Il prof. Paolo Vian, che qui ringrazio sentitamente, mi suggerisce poi che «periachon» posssa essere grafia erronea per «perì archòn» e alludere all’omonima opera di Origene, di cui, tuttavia, non sono note edizioni a stampa o ms. appartenute a Colocci. In alternativa si potrà suggerire di identificare l’item (almeno la parte a stampa, ipotizzando che coincida con il «periachon») con JEAN PELLETIER, Peri archon (id est de principiis) scientiarum quae in dialectices initio generatim inquiri solent, breviter et artificiose complectens, Parigi, «in officina Henrici Stephani», 1513. La BAV conserva un unico esemplare dell’opera: R. I IV.50 (int. 8): l’esame dell’esemplare non ha tuttavia rivelato alcuna traccia riconducibile a Colocci, né nell’interno 8 (ff. 216-243), né negli altri interni. 130 Evidentemente un manoscritto che conteneva testi attribuibili a Pietro Crinito cioè Pietro Del Riccio Baldi (1474-1507), sul quale si veda R. RICCIARDI, Del Riccio Baldi, Pietro, in DBI, 38, Roma 1990, pp. 265-268. Non si ha notizia di mss. colocciani contenenti opere del Crinito, mentre è stata individuato l’esemplare a stampa del De poetis latinis (Firenze, Filippo Giunta, 1505) che appartenne all’esinate: R. I III.242 (cfr. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 90). 131 Cfr. nr. 8, IV cassa, f. 187v. 132 La designazione è evidentemente generica tuttavia si potrà avanzare dubitativamente qualche ipotesi d’identificazione. Numerosi sono i pezzi pontaniani noti (spesso autografi) della biblioteca di Colocci. Se ne darà conto via via nelle altre sei — più specifiche — occorrenze dei rimandi al nome di questo autore che si trovano nel presente inventario, cioè nr. 53, V cassa (f. 189v) «Dialogus de numeris poeticis»; nr. 54, V cassa (f. 189v) «Metheora»; nr. 30, VI cassa (f. 190v) «De fortuna»; nr. 55, VI cassa (f. 191v) «Dialogi»; nr. 67, VII cassa (f. 193r) «De stellis»; nr. 69, VII cassa (f. 193r) «De tumullis». Questi rimandi possono essere associati agevolmente ad altrettanti manoscritti colocciani (come si dirà); oltre ad essi, alla biblioteca di Colocci, però, è stato ascritto (cfr. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 332, 342) il codice Vat. lat. 2839, che contiene una copia autografa di lavoro del De rebus coelestibus. Proporrei perciò di far corrispondere alla generica dicitura «opera quaedam» proprio il Vat. lat. 2839 (cart., ca. 29 × 21,5 cm, un moderno fdg non numerato, 385 fogli numerati meccanicamente nel recto, 2 fdg post. moderni non numerati; i fogli antichi mostrano serie diverse di numerazione a penna): il suo aspetto disordinato e la sua voluminosità avranno forse suggerito una designazione neutra e generica a un compilatore che pare andare poco per il sottile nell’inventariare e che non aveva certo il tempo né forse l’interesse a svolgere un’analisi più minuta sui pezzi di questa biblioteca.
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36. Apuleius in Bam. impress.133 37. Liber Arismetrica in Bam. scr.134 38. Calculationes suiser. (?) in Bam. scr.135 39. Macrobius in Bam. scr.136 40. Vitruvius impress. in bam. cum tabula137 41. Euclidius de Geometria impress. in bambacina138 42. Leonis Alberti super architectura in Bam. scr. 133
Vd. qui sopra il nr. 28. Forse a questo item pensava LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 329, 343, quando indicava nel Vat. lat. 3902 l’unico ritrovato tra i «plusieurs traités de mathématiques mentionnés par l’Inventario», visto che l’unico altro trattato di aritmetica di cui non sia menzionato l’autore è un codice in pergamena (vd. f. 187r, III cassa, nr. 54). Il Vat. lat. 3902 è invece cartaceo (XV-XVI sec., ca. 21,5 × 29,5 cm, 55 ff. numerati, più un fdg iniziale più recente e un bifoglio finale) e reca sparutissime e incerte tracce della mano di Colocci (forse la parola «Deno(m)i(n)atio» a f. 25r e la cartulazione), mentre i testi sono di mani oltralpine. Il codice è miscellaneo e contiene: Consilium de regimine sanitatis (incipit «vestris optatis colendissime magister noster in Christo...» f. 2r); excerptum dal capitolo XXXIV di Jacobus Leodiensis, Speculum Musicae (incipit «Omnia quae a prima rerum origine processerunt ratione numerorum formata sunt...», f. 9r); Practica abbreviata super factis monetarum (incipit «primum intelligendum est quod ille...», f. 42r); Arismetica practica cum denariorum proiectilibus (incipit «Notandum est quod in primum practica uti potes...», f. 49r). 135 Nessuna ipotesi identificativa soccorre per questo item: la parola «suiser» resiste ad ogni mia ipotesi interpretativa. Si potrebbe pensare a una forma un po’ incongruamente latinizzata e abbreviata per l’aggettivo svizzero, nel qual caso, forse, si potrebbe pensare ad un testo matematico («calculationes») scritto in caratteri gotici. 136 Altri tre sono i rimandi a Macrobio nel presente inventario: nrr. 63 e 64 della V cassa (il secondo è designato come uno stampato corredato da indice manoscritto: f. 190r), nr. 48 della VII cassa (f. 192v). Due sono invece i pezzi finora noti (cfr. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 330 e 342), riconducibili alla biblioteca di Colocci: il Vat. lat. 1542 e il Vat. lat. 1546, quest’ultimo, come si dirà meglio più avanti, corrispondente al nr. 48 della VII cassa. Il presente item nr. 39 è invece stato identificato con il Vat. lat. 1542 (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 115, nt. 1), un manoscritto cart., XV sec., 33,5 × 22,5 cm ca., di 132 ff. (bianchi gli ultimi sette), che contiene i Saturnalia (I-VII) di Macrobio (ff. 1r-125v). È postillato da due mani, tra cui quella di Colocci (l’altra mi parrebbe quella del Carteromaco), ma con poche sparute annotazioni (per es. nel marg. inf. dei ff. 22v, 23v e 29r e nel marg. sup. di f. 30r). Quanto agli altri item, non dovrebbe essere in futuro troppo disagevole individuare lo stampato attraverso un esame sistematico degli esemplari vaticani plausibili, mentre manca ancora all’appello il volume corrispondente al nr. 63 della V cassa. 137 C. BOLOGNA, Colocci e l’Arte (di «misurare» e «pesare» le parole, le cose), in L’umana compagnia. Studi in onore di Gennaro Savarese, a cura di R. ALHAIQUE PETTINELLI, Roma 1999, pp. 369-407, p. 385 invita a identificare questo item con l’edizione di Vitruvio curata da fra Giocondo, cioè VITRUVIUS, De architectura, Venezia, Johannes de Tridino alias Tacuinus, 1511, in folio. M. DANZI, La biblioteca del cardinal Pietro Bembo, Genève 2005, pp. 31, 387 identifica la copia di quest’opera posseduta da Colocci con l’esemplare BAV, R. I III.298 (int. 1), che reca infatti sue postille, ma soprattutto di altre mani (forse Scipione Cartermaco). 138 La princeps è EUCLIDES, Elementa geometriae (tradotto da Adelardus Bathoniensis ed edito a cura di Johannes Campanus), Venezia, Ratdolt 1482, in folio (ISTC nr. ie 00113000): la BAV ne possiede tre esemplari del cui esame darò conto in un prossimo contributo. 134
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43. Quinterni quinque super pictura ma. script.139 f. 187r In 3a capsa Colotii 44. Bisanti descriptio et alia in bam. scrip. 45. Thome Bravardini Arismetrica imp. et scr. in bam.140 46. Trapezuntius in commentaria Tholomei impres. >47Pindarus cum commentariis< Dionysius de situ orbis cum commentariis172 27. Pindarus cum commentariis 28. Aristotelis de Celo de generatione et corruptione et de Metheoris173 29. Vitè quèdam s(anct)tor(um) 30. Demetrius Phalerius de interpretatione 31. Tabula Aristophanis Lutiani [sic] et Demost.174 32. Ptolomei armonica 33. Jamblicus de Pitagoricis memorabilibus 34. Geometria Euclidis175 35. Quatripartium Ptolomei176 36. Paulus Egineta177 37. Dionis libri aliquot 38. Dionysius de situ orbis et Oppianus
171 Un altro item relativo a Dionigi d’Alicarnasso si legge al nr. 9, X cassa, f. 195v. Nessuno dei due è per ora identificato. Si segnala tuttavia la presenza di opere di Dionigi d’Alicarnasso nell’Inc. IV.560 (int. 1), FORTUNATIANUS, Rhetoricorum libri tres, Dialectica, Computus; FRANCISCUS PUTEOLANUS, Epistola ad Jacobum Antiquarium; DIONYSIUS HALYCARNASEUS, Praecepta de oratione nuptiali, Praecepta de oratione natalitia, Praecepta de componendis epithalamiis, Venezia, Giovanni Tacuino, ca. 1499, in quarto (ISTC nr. if00274000), segnalato da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 89 e molto postillato da Colocci (spec. tra i ff. 13r-52v e 61r-68v). 172 Cfr. infra nr. 38. 173 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 323, 341, lo identifica con il Vat. gr. 252, che contiene le opere indicate di Aristotele e reca un ex libris di questo tenore: «A. Colotius amicis hunc paravit». Per gli altri item aristotelici, vd. nr. 3, III cassa, f. 186r. 174 Il secondo autore qui menzionato sarà verosimilmente Luciano di Samosata. 175 MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 93, nt. 71, indica come colocciano il codice Vat. gr. 1043 e segnala su di esso la presenza della mano dell’umanista. FANELLI, Ricerche cit., pp. 85-86, 101, identifica l’item di C con questo ms. di 42 fogli che contiene gli Elementi di Euclide e poche righe di Erone. Il testo è di mano di Giovanni Onorio, come si rileva sulla base della grafia e anche di una lettera di Niccolò Maiorano a Colocci, incollata a f. 2v (vd. G. MERCATI, Una lettera non bene edita né bene compresa del codice Vat. gr. 1043, in ID., Opee minori, III (1907-1916), Città del Vaticano 1937 [Studi e testi, 78], pp. 327-328). 176 Del Quadripartitum di Tolomeo ho esaminato i due esemplari vaticani della princeps (Venezia, Bonetus Locatellus per Ottaviano Scoto, 1493, in folio, ISTC nr. ip01089000), Inc. III.304 e Stamp. Barb. BBB V.31, senza trovarvi però tracce della mano di Colocci. L’item può essere confrontato con A, f. 60r [3], dove però l’opera è associata all’Almagesto («Almagestus quadripartitus»), che in C compare come voce isolata a f. 190v, VI cassa, nr. 35 (cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 139, nt. 294). Per gli altri item relativi a Tolomeo vd. nr. 46, III cassa, f. 187r. 177 Paolo di Egina fu un medico bizantino vissuto nel VII sec. d.C., autore di un Opus de re medica che compendia le conoscenze in tale campo acquisite fino a quel momento.
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Impressi178 39. Arati phenomena cum commentariis179 178 La posizione di questo «impressi», piuttosto rientrante rispetto al margine sinistro, ma non centrato nella pagina, pone qualche problema di interpretazione: è semplicemente la prosecuzione della voce che si trova al nr. 38 o è un’intestazione che si riferisce ai titoli che seguono dal 39 al 47? È vero che a questa seconda ipotesi si oppone il fatto che in tutto il resto dell’inventario non si fa mai ricorso a raggruppamenti di questo tipo, ma d’altronde, se l’espressione «impressi» si fosse riferita all’item 38, perché non annotarla sulla stessa riga dove lo spazio certo non mancava? In secondo luogo, l’elenco relativo alla IV cassa si apre a f. 187v con la precisazione che si tratta di «libri Greci script.», dunque manoscritti: non è quindi inverosimile che, volendo distinguere dagli altri alcuni volumi stampati, il compilatore li abbia raggruppati al fondo dell’insieme dei libri greci a cui appartenevano (per di più, se la dicitura «impressi» si riferisse al nr. 38, essa contraddirebbe — appunto — l’indicazione posta in capo alla quarta cassa a f. 187v). Dunque, in questo caso, propenderei per la stessa interpretazione di Lattès che considera i numeri 39-47 degli stampati, confortato in questo dalla constatazione che, dei pochi elementi identificabili tra gli item di questa cassa, tre sono compresi tra questi nove elementi e sono tutti e tre stampati. Non trovo invece notizia di un’edizione a stampa che contenga sia DIONYSIUS PERIEGETES, De situ orbis (la princeps di questo singolo trattato è data in Venezia, Bernhard Maler, Erhard Ratdolt e Peter Löslein, 1477, in quarto; ISTC nr. id00253000), sia l’opera di Oppiano (naturalmente si potrebbe pensare a un volume composto da due item a stampa indipendenti successivamente uniti in una sola legatura). Per quanto riguarda Oppiano, l’autore dell’Halieutica sive de piscatu (la princeps fu stampata a Colle Valdelsa, Bonus Gallus, 1478, in quarto; ISTC nr. io00065000; qui, tuttavia, come si è osservato, si tratterà di un manoscritto), si segnala che Colocci doveva conoscerne effettivamente l’opera, visto che al f. 142r dell’Inc. IV.125 (1), che contiene le Argonautiche di Apollonio Rodio (Firenze, Laurentius Francisci de Alopa Venetus, 1469, in quarto, ISTC nr. ia00924000; registrato nell’inventario dei libri di Fulvio Orsini: vd. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini, pp. 178, 181, 356), annota un rimando di questo tenore: «v. Oppianus in exilio de piscibus scripsit et de iride ad Calypsonis insulam, quam Home. in primo Odyss. et Plin. in primo, Ogygiam vocat». 179 Se, come si è ipotizzato nella nota precedete, questo è un volume a stampa, si potrà ricordare l’esemplare Inc. II.515, che contiene gli Scriptores astronomici veteres (Venezia, Aldo Manuzio, 1499, in folio; ISTC nr. if00191000), tra i quali numerosi testi di Arato con commento. Il volume, qui e là postillato da Colocci ma soprattutto da Scipione Carteromaco, è stato segnalato per primo da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 93. Qualche dubbio, tuttavia, che con questo volume nel suo complesso si possa identificare l’item di C sembrerebbe posto dal fatto che Arato non è il primo autore citato nel frontespizio, che qui si riporta: «Iulii Firmici Astronomicorum libri octo integri et emendati, ex scythicis oris ad nos nuper allati / Marci Manilii astronomicorum libri quinque / Arati Phaenomena Germanico Caesare interprete cum commentariis et imaginibus / Arati eiusdem phaenomenon fragmentum Marco T. C. interprete / Arati eiusdem Phaenomena Ruffo Festo Avieno paraphraste / Arati eiusdem Phaenomena graece / Theonis commentaria copiosissima in Arati Phaenomena graece / Procli Diadochi Sphaera graece / Procli eiusdem Sphaera, Thoma Linacro Britanno interprete». Tuttavia, come già rilevava Michelini Tocci, il libro «risulta dall’integrazione di due o tre altri esemplari mutili» (una sutura tra due parti si trova prima del trattato di Manilio, a f. 184, e un’altra sembrerebbe ravvisabile prima di f. 242r, dove, appunto, incomincia Arato) e visto che la mano di Colocci si trova con abbondanza sul solo Arato (spec. ff. 343v-347v, 359r, 366v, 367r, 371r-v), si potrà ben ipotizzare che al momento della registrazione in C, questa ultima parte dello stampato fosse ancora separata dalle altre.
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40. Theoni proginnasmata180 41. Thome Magistri collettanea181 42. Suidas182 43. Atheneus183 44. Dioscorides Nicander cum commentariis Arist. magna moralia 45. Vocabularium184 46. Lucianus 47. Xenophontis institutio Ciri gre. et. lat.185 f. 188v In 5a capsa 1. Tabula Catulli, Tibulli, Propertii, Columella Senecè Ovidij Metamorphoseos186 180 Cioè gli “esercizi preliminari” (Praeexercitamina) del retore alessandrino Elio Teone (I-II d.C.). 181 Probabilmente la Dictionum atticarum collectio o Egloga vocum atticarum (Ἐκγλογὴ ὀνομάτων καὶ ῥηματῶν Ἀττικῶν) di Tommaso Magistro, cioè Teodulo monaco (XIII-XIV secolo), dunque un’opera lessicografica come le seguenti, nrr. 42 e 45. 182 Alla biblioteca di Colocci è stato attribuito da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 88, l’Inc. I.20: SUIDAS, Lexicon Graecum, edito da Demetrio Calcondila, Milano, Johannes Bissolus e Benedictus Mangius, 1499, in folio (ISTC nr. is00829000) e il volume reca in effetti, oltre ad annotazioni di — direi — almeno altre due mani (una è quella del Carteromaco), postille di Colocci (per es. nei ff. Ir, Vv, VIr-v, VIIr). A far dubitare che però proprio a questo esemplare rimandi l’item di C è il fatto che questo volume è stato individuato come corrispondente al nr. 13 degli stampati dell’inventario di Fulvio Orsini «Suida tocco dal Cartheromacho, ligato alla greca in corame lionato, foglio grande» (vd. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 159, 181). 183 Dell’opera di Ateneo è noto un celebre manoscritto appartenuto a Colocci: il Vat. gr. 1164, codice bizantino dell’XI secolo, che contiene il suo De machinis bellicis, mentre excerpta dall’opera, postillati dall’umanista, si trovano nel Vat. gr. 1904 I (vd. BERNARDI, Angelo Colocci cit., p. 88-89 per la bibliografia relativa); copia del Vat. gr. 1164 si trova nel ms. Vat. gr. 220, che FANELLI, Ricerche cit., p. 84, riconduce parimenti alla biblioteca di Colocci (della cui mano, tuttavia, non trovo traccia nei fogli del ms). Qui, però, vista la collocazione dell’item, l’inventario fa riferimento probabilmente ad uno stampato. 184 Trattandosi di un Vocabolarium greco e a stampa, si potrà suggerire che il presente item posssa corrispondere all’Inc. I.21, JOHANNES CRASTONUS, Lexicon Graeco-latinum, Milano, Bonus Accursius, 1478, in folio (ISTC nr. ic00958000) che dovette appartenere a Carteromaco, ma che reca anche alcune sparute annotazioni di mano di Colocci (accanto alla parola Γρυλίζο: «γρυλλισμο grunnita de a(n)i(m)al. 53»; a Δαιμόνιος «Arist. de mundo ad Alex. / in prima linea»; a Δασμός «Hom. in p° Iliad. sortitio / vir. i(n) 3 sortitus protulit ullos» e a Δεῦρο «et pro hucusque ut apud Euripidem in Mede…»; oltre alla nota di possesso nel recto del fdg. inf.: «Vocabulariu(m) Angeli Coloij»). Cfr. BERNARDI, Per la ricostruzione cit., p. 72. 185 Cioè, ovvimente, la Ciropaedia di Senofonte. 186 Sull’uso di redigere Tabulae vd. nota relativa a nr. 2, IV cassa, f. 187v. Tre voluminosi codici, i Vat. lat. 4042, 4043, 4044 conservano le tavole alfabetiche tratte dagli autori qui citati: oltre al presente item, dunque, essi corrisponderanno al nr. 5 e forse al nr. 6 di questa stessa cassa. Si tratta di tre codici cartacei di mano di copisti diversi, in cui Colocci ha fatto riordinare alfabeticamente i vocaboli: il primo (326 fogli) da A a D; il secondo (251 fogli) da
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1872.
Ortographia Gasparini 3. Epistola de modo punctuandi Angeli Nubiarigenè libellus de modo scribendi
E a M; il terzo (298 fogli) da N a T. La mano di Colocci si trova soprattutto nel Vat. lat. 4042, dove interviene principalmente integrando rimandi a loci librarii in corrispondenza di alcuni lemmi e, nel recto del foglio iniziale non numerato (lo indicherò come f. [I]), dove fornisce parziali informazioni sulle edizioni da cui sono tratti i vocaboli: «In utraque pagina numerus folii Catull., Tibull., Propert.: Aldi prima stampa; Columella de Aldo». L’allusione è, per gli elegiaci, all’edizione aldina del 1502 di cui per le mani di Colocci dovettero passare due esemplari: Ald. III.19 e Ald. III.20, poi appartenuti ad Orsini e perciò non menzionati in C (cfr. J. RUYSSCHAERT, Fulvio Orsini et les élégiaques latins. Notes marginales à une bibliothèque du XVIe s. et à une biographie du XIXe, in Tradizione classica e letteratura umanistica. Per Alessandro Perosa, a cura di R. CARDINI, E. GARIN, L. CESARINI MARTINELLI, G. PASCUCCI, Roma 1985, II, pp. 675-684). Quanto al «Columella de Aldo», si tratterà forse della raccolta degli Scriptores de re rustica, che oltre a Columella contiene le opere di Varrone, Catone e Palladio (Venezia, Aldo Manuzio, 1514): Colocci ne possedette l’esemplare Ald. II.11 (cfr. FANELLI, Ricerche cit., p. 63) che infatti è coperto da una fittissima trama di postille di sua mano, ma che anche in questo caso non si trova in elenco perché passò ad Orsini (è il nr. 84 degli stampati latini dell’inventario D: vd. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., p. 388). Sul f. [I]r di Vat. lat. 4042 si trova anche un’indicazione relativa a Seneca: «Senece tragedie, Florentie, 1513 mens. Juli», cioè l’edizione per i tipi di Filippo Giunta, appunto del 1513. Anche di questa edizione si è trovato l’esemplare colocciano, cioè R. I V.101 (vd. nr. 9, V cassa, f. 194v). I Vat. lat. 4043 e 4044, invece, risultano pressocché privi di postille colocciane (anche se è indubbio che gli siano appartenuti; i tre mss. sono segnalati da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 327, 343, che tuttavia sbaglia la segnatura del primo, indicandolo come 4024, e trascina l’errore per gli altri due che diventano 4025 e 4026). 187 Gli item nrr. 2 e 3 sono riuniti da una sorta di parentesi posta nel marg. sinistro e accompagnata dall’annotazione «in simul» (riconducibile alla mano b, diversa da quella che redige la parte più cospicua dell’inventario), che indica evidentemente che essi costituiscono un’unica unità libraria. Il volume così formato può infatti agevolmente essere individuato nel Vat. lat. 2728 (cart., XV sec., 118 ff., 21,5 × 11 cm ca.), che contiene appunto l’Ortographia di Gasparino Barzizza (ff. 1r-97r), seguita dal De modo punctuandi di Angelo da Novilara (ff. 113v-116v), dedicati ad Elisabetta Malatesta (il codice è segnalato tra i colocciani da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 329, 330, 342, che però non lo associa esplicitamente a questi item); ai ff. 97r-113r si trovano poi excerpta dallo Pseudo Apuleio, De Diphtongis e dall’Ars minor di Donato. Il ms. fu finito di scrivere a Bagnaia dal viterbese Giovanni di Nicola, nel luglio del 1462 (come prova la sottoscrizione di f. 116v «SCRIPTUM BAGNARIE PER ME JOHANNEM [corr. su JOHANNES] NICOLAI VITERBIENSEM DIE XVIIII [?] MENSIS JULII M°CCCC°LXII° et cetera», vd. R. BIANCHI, S. RIZZO, Manoscritti e opere grammaticali nella Roma di Niccolò V, in Manuscripts and Tradition of Grammatical Texts from Antiquity to the Renaissance. Proceedings of a Conference held at Erice, 16-23 October 1997, at the 11th Course of the International School for the Study of Written Records, a cura di M. DE NONNO, P. DE PAOLIS, L. HOLTZ, Cassino 2000, II, pp. 587-653, p. 650). Colocci ha completato la tavola dei contenuti presente nel f. 1r aggiungendo due testi, quello di Angelo da Novilara e un «De modo scribendi» di «Gabriel magister», di cui oggi, tuttavia, non c’è traccia nel codice, mentre ancora viene registrato dai compilatori di C. Il codice può essere identificato con il nr. 44 dell’ultima cassa alla parete della Bibliotheca magna secreta secondo l’inventario parziale dei Ranaldi, Vat. lat. 8185, f. 355r: «Orthographia Gasparini. Epistole de modo punctandi. Angeli Nubiarigene libellus de modo scribendi» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 571-572).
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1884.
Svetonius Dion. Spartianus Capitolinus Lampridius Gallicanus Flavius Vopiscus Aurelius Victor, Eutropius Paulus Diaconus Marcellinus, Pomponius Letus, Jo. Bapta Can.icus 5. Tabula Catulli Propertii Senecè Tibulli 6. Tabula vocabulor. multor. Poetarum 7. Svetonius de vita cèsaris189 8. Svetoni Tabula 9. Svetonius cum comentariis sabellici 10. Doctrinale190 11. Priscianus191
188 Nel marg. sinistro accanto al nr. 4 è annotato, per ragioni che mi sfuggono, «5a cassa del Colotio»: l’annotazione risulta pleonastica, visto che l’intestazione del foglio è appunto «In 5a capsa». A quanto mi consta questo item non è finora stato associato ad alcuno dei libri di Colocci, ma in questo caso la ricca (anche se non completa) registrazione dei contenuti permette l’identificazione con un volume a stampa, il R. I II.1012, del cui frontespizio si fornisce la trascrizione, per un confronto: «Ex recognitione DES[IDERII] ERASMI ROTERODAMI, / C. Suetonius Tranquillus, Dion Cassius Nicaeus, / Aelius Spartianus / Iulius capitolinus / Aelius Lampridius / Vulcatius Gallicanus V.C. / Trebellius Pollio / Flavius Vopiscus Syriacus / QUIBUS ADIUNCTI SUNT / Sex. Aurelius Victor. / Eutropius / Paulus diaconus / Ammianus Marcellinus / Pomponius Laetus Ro. / Io. Bap. Egnatius venetus», Basilea, Johannes Frobenius, 1518 (segnalato da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 88). La mano di Colocci si trova un po’ ovunque (anche nel frontespizio) lungo questo cospicuo volume di 911 pagine, nonché in 8 fogli manoscritti autografi, inseriti dopo il f. 168, dove si collocherebbe una lacuna della stampa. Essi contengono un testo sulla vita dell’imperatore Adriano (cfr. anche BIANCHI, Per la biblioteca cit., p. 279 che associa questo volume all’item dell’inventario E, f. 62r, «Suetonius mio de Adriano») e sono però stati tutti biffati, come se il loro contenuto fosse stato copiato altrove. 189 I nrr. 7-8 di questa V cassa sono stati identificati dagli autori di Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 64-65, nt. 2 p. 65, con il Vat. lat. 2966, cart., XV sec., 204 ff., 28,5 × 20 cm ca., attribuito da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 343 alla biblioteca di Colocci. Il codice contiene nei ff. 1r-175r (con precedenti numerazioni) le Vitae Caesarum di Svetonio, ma va completato, per la parte iniziale, dai ff. 54r-63v (XV sec.) del Vat. lat. 6803 (cart./membr., XIV-XV sec., 2 fdg più 97 ff., di cui membr. i ff. 64-70 e databili alla seconda metà del XIV sec., 29,5 × 21 cm ca.), che recano appunto il titolo «C. Svetonij Tranquilli de duodecim Caesaribus ita C. Iulij Caes.» (f. 54r; questo secondo codice è segnalato come colocciano da Ruysschaert nelle note aggiuntive a FANELLI, Ricerche cit., p. 172). Il Vat. lat. 2966 contiene anche una tavola alfabetica tratta da Svetonio ai ff. 181r-204v ed era ricordato nelle liste dei Ranaldi, oggi scomparse, al nr. 156. (in proposito vd. Les classiques latins cit., III/2, pp. 625-626). Il codice Vat. lat. 6803 contiene invece, oltre all’item svetoniano, excerpta dalle Periochae di Tito Livio (ff. 1r-53r: cfr. nr. 8, IX cassa, f. 194v), dalle Noctes Attiace di Aulo Gellio («de clarorum virorum etatibus excerptum» f. 53r-v), dal III libro della Historia langobardorum di Paolo Diacono (che occupano i fogli membranacei) e dal De re coquinaria di Apicio (ff. 71r-97v): tutti, tranne il testo di Paolo Diacono, databili al XV secolo. 190 Forse il Doctrinale puerorum di Alexander di Villedieu (XIII sec.): una grammatica tratta dai testi di Prisciano, molto in voga nei secoli XIII e XIV. 191 Gli item che contengono opere di Prisciano in C sono numerosissimi (16 in tutto) e tutti contenuti in questa V cassa. Un buon numero è registrato con il solo riferimento al nome del grammatico e la specificazione del materiale di confezione del codice (solitamente pergamena, ma in qualche caso questa seconda indicazione manca): sono i nrr. 15 e 16 di
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12. Isidori Etimologiè cum tabula192 13. Candidi grammatica script in pap. eiusdem liber de Cosmo graphia, Flori epitomè Arist. aeconomica Benevenuti Jmolensis lib. de Imperatoribus193 14. Grammatica Franc(i)sci da Buti194 15. Grammatica Prisciani in perg.195 16. Prisciani de constructione in perg.196 f. 188v, i nrr. 27, 34-40 di f. 189r, i nrr. 42, 43, 45, 47 e 52 di f. 189v. Di qualcuno di essi, invece, si danno anche informazioni sul titolo dell’opera contenuta: è il caso dei nrr. 15 e 45 che contengono le sue Institutiones Grammaticae, dei nrr. 27, 16 e 41 con il De constructione (cioè i libri XVII e XVIII delle Institutiones), del nr. 34 che contiene De accentibus ed è accompagnato da testi di Donato e Servio, mentre il nr. 37 contiene lo scritto d’argomento metrologico Partitiones duodecim versuum Aeneidos; infine del nr. 52 si specifica che è un codice cartaceo («in pap»). Purtroppo di questo gran numero di volumi, finora sono stati ricondotti alla biblioteca colocciana solo il Vat. lat. 1487 e il Vat. lat. 2725 (vd. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 328-330, 341, 342), quest’ultimo identificabile con il nr. 37, V cassa, f. 189r, al quale si rimanda. Il Vat. lat.1487, invece, è un ms. del XII sec. ex., ca. 25 × 13 cm, 58 ff. membr. numerati, più un fdg ant. membr. più recente e due fdg post. cart., con capilettera ornati a foglia d’oro e iniziali di paragrafo rubricate. Contiene il De constructione (lo scrive Colocci nel fdg ant.), sicché potrà essere identificato appunto con il nr. 16, il 27 o il 41 (per le ultime due ipotesi propende Les Manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 72, che rimanda anche alla lista dei Ranaldi Vat. lat. 8185 f. 343r, in cui il codice sarebbe il nr. 14 della quinta cassa del terzo Pluteo della Bibliotheca Parva secreta, «Priscianus minor de constructione. Ex pergameno in nigro»). Il ms. porta le tracce di almeno 4 o 5 mani di glossa (dal XIII al XV sec.), ma quella di Colocci, fuorché nel fdg, non si trova altrove. Excerpta da Prisciano, De accentibus si trovano anche nel Vat. lat. 3898 (ff. 60r-66v: cart., XV sec., 29 × 20 cm ca.; cfr. Les Manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 365-366 e vd. qui anche il nr. 22, IV cassa, f. 187v). 192 Un altro item isidoriano si trova al nr. 15, I cassa, f. 184r, ma nessuno dei due è per ora stato identificato. Qui si segnala solo la presenza di excerpta dalle Etymologiae di Isidoro nel Vat. lat 2902, ff. 25r-30r (vd. nr. 45, VII cassa, f. 192v). 193 Pur con ordine leggermente diverso, tutte le opere e gli autori indicati in questo item compaiono anche al nr. 52 della II cassa (ff. 185v-186r) — al quale si rimanda — insieme a numerosi altri. Qui si sarà forse trattato di un codice di più modesta consistenza, magari derivato dal primo (Vat. lat. 1494). 194 Questo item può essere identificato con il Vat. lat. 1499, indicato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 330, 342. Si tratta di un ms. membr., XIV-XV sec., ca. 23 × 15 cm, 111 ff. numerati, ma con lacune tra f. 36 e f. 42 e tra f. 42 e f. 56 (alcuni fogli sono palinsesti: 12, 77-78, 97-98). A f. 1r presenta un’iniziale ornata con girali di foglie e fiori, ma non campita a colore; i capilettera sono rossi o blu, talora con tocchi di giallo. Nel bifoglio di guardia che precede f. 1 si trovano appunti di almeno quattro mani del XVI secolo, ma nessuna mi pare riconducibile a Colocci: tra queste una pare interpretabile come una doppia nota di possesso: «Gentilis Saxoli de Gualdo, prius magistri Nicolai Cartolarij in Burgo S. Petri de urbe». Il codice contiene appunto le Regulae grammaticales di Francesco de Buti («Ego Franciscus de Buti pisanus, cuius grammatice ac rethorice indignus professor, regulas grammatice in hoc opuscolo ordetenus compilavi...» f. 1r). 195 Cfr. supra, nr. 11 di questa stessa V cassa, f. 188v. 196 Per un’ipotesi identificativa vd. qui sopra nr. 11 di questa stessa V cassa.
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17. Guarinus veronensis de diphtongis scrit. in pap. 18. Tullij Epistule et Paradoxè 19. Festus Pompeius de verborum significatione in perg.198 20. Excerpta ex libris Festi Pompei in perg.
f. 189r 21. Julii Pomponii grammatica in pap.199 197
Come già gli item nrr. 2 e 3 (ai quali si rimanda), anche 17 e 18 sono riuniti da una sorta di parentesi posta nel marg. sinistro e accompagnata dalla parola «simul». Il libro così formato è identificabile con il Vat. lat. 1495 (segnalato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 325, 330, 341, che però non lo connnette esplicitamente all’item di C), che contiene Guarino Veronese, De dipthonghis (ff. 1r-7r) e, di Cicerone, excerpta dalle Familiares (ff. 17r-67v) dai Pardoxa ad Brutum (ff. 141r-155v), il Somnium Scipionis (ff. 156r-161v) e il De senectute da (ff. 173r-186r). Oltre a questi testi registrati da C, il volume ospita anche, ai ff. 7v-16v, un’Oratio de re uxoria dello stesso Guarino (ff. 7v8v), l’epistola pseudovirgiliana Ad Mecenatem composta dal Decembrio (f. 9r), l’Eroide XV di Ovidio (ff. 9v-12v), una «Oratio Mathioli perusini habita ante summos viros, rectorem et omnes Perusiae [...] in novationi [...] studiorum» (ff. 13r-16v); da segnalare ancora degli excerpta dai Tristia (f. 140r) e la traduzione di Leonardo Bruni dell’Epistula de utilitate studii in libros gentilium di Basilio Magno (ff. 162r-172v). Il codice (cart., 190 ff., non tutti numerati, 21 × 14 cm ca.) è opera di almeno quattro mani databili al XV sec., ma non mi pare però che presenti traccia di quella di Colocci. Il codice può anche essere identificato con il nr. 23 della quinta cassa del terzo pluteo della Bibliotheca parva secreta, secondo la lista parziale dei Ranaldi, Vat. lat. 8185, f. 343v: «Guarinus Veronensis de diphtongis. Virgilii epistola ad Mecenatem. Saphi Carmina ac [sic] Phaonem Siculum. Matheoli Perusini oratio habita ante summos viros rectorem et omnes Perusiae interpretes in novatione annua studiorum. M. Tullii Ciceronis Epistole familiares. Idem Paradoxa. Somnium Scipionis et de senectute. Ex papiro in rubro» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 84-85, p. 85, nt. 2). Si segnala che il presente è l’ultimo item di mano a di questo foglio: in corrispondenza dell’item nr. 18 inizia, a quanto mi pare di poter constatare, la parte attribuibile alla mano b di cui si è parlato nell’introduzione del presente articolo. 198 Per questo e l’item successivo cfr. supra, nr. 57 della III cassa, f. 187v. 199 Una seconda grammatica di Pomponio Leto è registrata al nr. 29 di questa stessa V cassa (f. 189r) e due sono le grammatiche pomponiane note appartenute a Colocci (segnalate da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 329, 341, 342); sarebbe dunque sensato ritenere che esse si possano identificare con i due item di C. Si tratta del Vat. lat. 1497 (elegante ma incompiuto codice umanistico di 112 fogli numerati — bianchi i ff. 97r-112v — 21 × 14 cm ca., con iniziale miniata a foglia d’oro; postillato da due mani, ma non da Colocci; contenente appunto il Grammaticae Compendium di Pomponio Leto) e del Vat. lat. 2727 (parzialmente autografo, 110 ff., postillato da due mani: quella di Colocci ai ff. 8v, 103v), che contengono entrambi una redazione del Romulus, dedicata nella primavera del 1479 a Thomas James, vescovo di Saint-Pol-de-Lèon e castellano di Castel Sant’Angelo (cfr. BIANCHI, RIZZO, Manoscritti e opere grammaticali cit., pp. 594, 601, 638, 639). Tuttavia la natura materiale di Vat. lat. 2727 — è un codice membranaceo — contrasterebbe con quanto registrarto a proposito di entrambi gli item di C, che sono appunto detti «in pap.». Si potrà allora segnalare un terzo codice appartenuto a Colocci, il Vat. lat. 2793, che contiene una redazione in versi della grammatica del Leto: il codice è indicato come colocciano Ibid., p. 639. In questo ms. (cart., XV sec., 20 ff., 28,5 × 20 cm ca.), tuttavia, la grammatica di Leto occupa solo la seconda posizione (ff. 10v-16r), dopo alcuni testi di Ovidio (Heroides
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22. Capri grammatici lib. elegantiarum in pap. Agroetius de emendatione Capri Palemonis grammatici libellus de partibus orationis Donati ars grammatica Servii gramm. compendium Asper iunior Carisii grammatica Valla de reciprocatione200 23. Jacobi Pisauri gramm. in pergam201 XV, Tristia I, 1-3: ff. 1r-10r). Il ms. è concluso da alcuni excerpta dalle Epistulae ad Atticum di Cicerone, da carmina latini e dalle Noctes Atticae di Gellio (ff. 17r-20v). Per un’ipotesi identificativa di questo codice con un item di C vd. oltre nr. 15, VIII cassa, f. 193v (per il dettaglio dei contenuti del codice cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 616-617). 200 Solo un esame diretto del codice ha permesso di identificare questo item con il Vat. lat. 1492 (laconicamente segnalato da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 329, 330, 341, ma non connesso al presente item): cart., ca. 21 × 14 cm, 1 fdg non numerato più 88 ff. numerati. Si tratta di una miscellanea grammaticale composta in ambiente pomponiano. Il f. non numerato contiene un sintetico indice del volume («CAPER / AGROETIUS / PALEMON / URBANUS / DONATUS / ASPER / CARISIUS / L. VALLENSIS de recip. /sui», a cui Colocci ha aggiunto «De origine iuris»). Contiene Flavius Caper, De Orthographia (f. 1r: «Vetustissimi Capri grammatici Liber elegantiarum vel orthographie», ff. 1r-6v); Agroetius, De Orthografia (f. 6v: «Incipit liber Agroetii de emendatione Capri libelli ad pontificem Eucherium», ff. 6v14r); Ps.-Rhemnius Palaemon, Ars grammatica (f. 14v: «Palemonis grammatici vetustissimi de partibus orationis liber», ff. 14v-31v); excerpta da Servio, Commentarius in artem Donati (f. 31v: «Incipit ars Donati grammatici in compendium redacta semel postremoque rursus redacta in compendiolum», ff. 31v-56v); Asper, Ars grammatica (f. 56v: «Asper gramaticus cuius romanus tempore Antonini philosophi fuit, imperante Augusto», ff. 56v-64r); excerpta da Charisius, Ars grammatica (f. 64r: «Carisii grammatici Ars incipit et haec omnia Diomede collecta videntur, nam quaeque iste dicit, Diomedes dicit», ff. 64r-72r) e dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (ff. 72r-73v); Lorenzo Valla, De reciprocatione sui et suus (f. 74r: «Laurentii Vallensis, de reciprocatione sui et suus libellus ad Jo. Tortellum», ff. 74r-86v); ai ff. 87r-88v ci sono frammenti diversi d’argomento grammaticale, tratti «ex Petro Misello», «Ex Flaviano grammatico» (f. 87r, dove compare anche il Carmen in laudem Laurentii Vallae), «ex Diomede» (f. 87v). Ritengo tuttavia dubitabile che l’annotazione colocciana del f. non numerato si riferisca a queste aggiunte, che non trattano «De origine iuris» (e del resto il bifoglio 87-88 è un «fragment d’un autre manuscrit»: cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 75). La mano di Colocci si trova soprattutto al principio di alcuni trattati, con annotazioni talvolta abbastanza estese (vd. per es. ff. 7r, 31v, 56v); vi si incontrano anche postille di una mano che mi pare attribuibile al Carteromaco. BIANCHI, RIZZO, Manoscritti e opere grammaticali cit., pp. 612-613, 617-618, 628, mettono in luce come la fonte dei testi dei grammatici antichi contenuti nel Vat. lat. 1492 vada ricercata nel codice oxoniense Additional C 144, appartenuto a Lelio della Valle. Il Vat. lat. 1492 è identificabile con il nr. 19 dell’ultima cassa alla parete della Bibliotheca magna secreta, nella lista parziale dei Ranaldi del Vat. lat. 8185, f. 345v: «Grammatica Capri. Ex papiro in tabulis» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 75-77, p. 77 nt. 2). 201 Identificabile con il Vat. lat. 1498 (segnalato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 329, 342 (ma cfr. anche BIANCHI, RIZZO, Manoscritti e opere grammaticali cit., p. 650). Si tratta di un codice membr., XV sec., ca. 18 × 12 cm, 43 ff. (bianchi i ff. 36r-43v), che contiene «Jacobi Pisauri, de octo partibus orationis epitoma grammaticum»
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24. Vocabolarium Nonii Marcelli202 25. Gramatica incerti aut. in perg. 26. Orthographia in pap.203 27. Priscianus de constructione in perg.204 28. Festus Pompeius in pap.205 29. Pomponii Leti gramm. in pap.206 30. Festus Pompeius et Nonius Marcellus inp(re)207 31. Servii Comentaria in Virg, in pap.208 32. Laurentii Vallè elegantie inp(re)ss209 (f. 2r); a f. 35v riporta l’epitafio di Jacopo da Pesaro, datato 1437. Il codice non presenta tracce della mano di Colocci. 202 La Compendiosa doctrina ad filium de proprietate latini sermonis di Nonio Marcello, unica opera conservata del grammatico del IV-V sec. d. C., che è appunto sostanzialmente un’opera lessicografica (vd. di seguito il nr. 30). 203 José Ruysschaert propone di identificare questo item con il codice Vat. lat. 1496 (vd. FANELLI, Ricerche cit., p. 172, nt. 18a), assegnato alla biblioteca colocciana da AVESANI, Due codici appartenuti ad Angelo Colocci cit. Il piccolo codice (ca. 17 × 11 cm), cart. e membr. (i ff. 74, 85, 86, 97, 98 sono membr. palinsesti del XIII sec.), XV sec., contiene il De orthographia di Johannes de Bononia. 204 Cfr. nr. 11 di questa stessa V cassa, f. 188v. 205 Cfr. nr. 57 della III cassa, f. 187v. 206 Cfr. nr. 21 di questa stessa V cassa, f. 189r. 207 Non trovo notizia né di incunaboli, né di cinquecentine che contengano in quest’ordine i due autori, mentre sono frequenti le edizioni in cui l’opera di Nonio Marcello (la Compendiosa doctrina ad filium de proprietate latini sermonis) precede quella di Festo Pompeo Sesto (De verborum significatione), però sempre accompagnate da Marco Terenzio Varrone, De lingua latina. La princeps, in questo caso, è data in Parma nel 1480, dal tipografo delle Epistolae di San Girolamo, per le cure di Pomponio Leto e Francesco Rolandello, in folio (ISTC nr. in00267000: ho esaminato l’esemplare BAV: Inc. III.62, senza tuttavia trovare traccia della mano colocciana): un’edizione più volte ristampata fino alle soglie del Cinquecento (l’ultima di cui trovo notizia è quella milanese di Leonardo Pachel del 1510). Dunque, a meno di pensare ad una svista del compilatore — tutt’altro che improbabile — occorrerà ipotizzare che il volume in questione sia in realtà costituito da due item distinti e di diversa origine, legati insieme. Attualmente è noto un esemplare dell’edizione SEXTUS POMPEUS FESTUS, De verborum significatione, Milano, Zarotus, 1471 (ISTC nr. if00141000), l’Inc. III.8, che MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 89 attribuisce alla biblioteca di Colocci: il volume è in effetti assai fittamente postillato dall’umanista. Si potrebbe allora ipotizzare che esso sia stato separato da un item contenente Nonio Marcello, al quale era precedentemente legato. 208 Per gli altri rimandi ai commentari di Servio su Virgilio vd. anche: nrr. 28, VIII cassa, f. 193v e 36, X cassa, f. 196r. Altre occorrenze del nome di Servio, oltre che nella miscellanea nr. 22, V cassa, f. 189r, si trovano anche ai nrr. 34, V cassa, f. 189r e 68, VII cassa, f. 193r (ai quali si rimanda per alcune identificazioni). 209 MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 89 ha individuato nell’Inc. II.259 la copia colocciana del trattato, che corrisponde all’edizione LORENZO VALLA, De romani sermonis Elegantia libri, Roma, Pannartz, 1475, in folio (ISTC nr. iv00054000). Si tratta di uno splendido esemplare con capilettera ornati e cornici miniate a mano in verde, blu, rosa e oro. Al volume è legata una tavola tematica alfabetica di mano di copista, a cui probabilmente Colocci ha aggiunto i rimandi di pagina. Interventi marginali di sua mano si trovano anche
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33. Donati gramm.210 34. Priscianus de accentibus Donatus et Servius211 in numerose pagine del libro (ff. 17r, 18r-v, 21r-v, 32r, 35r-v, 41v, 42v, 61v-62v, 66v, 73r-74r, 123r, 160v, 170r). Oltre che nel presente item, il nome di Valla compare anche ai nrr. 22, V cassa, f. 189r e 56, VI cassa, f. 191v. 210 FANELLI, Ricerche cit., p. 57 lo identifica con il Vat. lat. 2753. Si tratta di un ms. cart., XV sec., di ca. 21 × 13,5 cm, costituito da tre ff. non nummerati bianchi, seguiti da due ff. numerati I e II e altri 50 ff. numerati in cifra araba (invertito l’ordine dei ff. 49 e 50, bianchi entrambi, salvo che f. 50v, dove vi sono appunti di mano non colocciana), seguiti da un fdg. A f. Ir si trova la tavola del volume di mano colocciana («hortulus Columelle / Iuvenilia Virgi. / Pli. de viris illustr. / Rhemus Favinus gramaticus de ponderibus / Donati editio prima / eiusdem editio 2a artigraphi / eiusdem quodam de syllabis et pedibus / Servii Honorati de syllabis ad Aquilinum»), dalla quale si deduce che esso doveva originariamente comprendere altri testi. Tale indice coincide infatti esattamente con gli attuali contenuti del codice, solo a partire dal primo degli item relativi a Donato. Le due editiones del De octo partibus orationis donatiane (cioè l’Ars minor e l’Ars maior) occupano rispettivamente i ff. 1r-11v e 12r-43v (a f. 43v, anche un excerptum dal Commentum artis Donati di Pompeius grammaticus); ai f. 44r47v si legge invece un excerptum dal De finalibus di Servio («De syllabis», f. 44r). Il volume si chiude con un frammento umanistico d’argomento grammaticale, che nel ms. è però erroneamente attribuito a Varrone (ff. 47v-48v): si tratta invecce di un excerptum dalle Elegantiae del Valla (seguono, a f. 50v alcuni Epigrammi di Marziale). Oltre che nella tavola iniziale la mano di Colocci si trova nelle testatine inserite nei margini sup. per indicare il titolo dell’opera contenuta nei fogli corrispondenti, più qualche sparuto marginale (per es. ff. 30v, 32r). Il manoscritto può essere identificato con il nr. 18 dell’ultima cassa alla parete della Bibliotheca magna secreta, secondo la lista dei Ranaldi contenuta nel Vat. lat. 8185, f. 354r: «donatus grammaticus. Ex papiro in tabulis» (Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 578-580, p. 580, nt. 2, che tuttavia ignora la provenienza colocciana del codice). 211 Per questo e i seguenti rimandi priscianei cfr. nr. 11 di questa stessa V cassa, f. 188v. Il presente item è stato identificato con il Vat. lat. 1493 in Les Manuscrits Classiques latins cit., III/1, pp. 77-81, p. 81 nt. 1, a cui si rimanda per il dettaglio dei contenuti; qui ci si limita a riportare i dati essenziali ricavabili da tale repertorio: ms. cart., XV sec., un fdg (f. I) e 96 ff. numerati, più 9 bianchi al fondo (alcuni fogli hanno una numerazione più antica), 22 × 15 cm ca. Su f. Iv si legge una tavola dei contenuti («In hoc codice continentur insimul colligata de arte metrica opuscula ista, videlicet Prisciani opusculum de accentibus [...]»). Gli item menzionati in C sono le prime tre opere (a parte alcuni excerpta iniziali da Isidoro di Siviglia e dal Glossarium dello Pseudo-Petronio) di una qualche consistenza contenute nel codice, rispettivamente: ai ff. 7r-14r, Priscianus, De accentibus (seguito da excerpta da De figuris numerorum, ff. 14v-18r); ai ff. 19r-32v, Donatus, Ars Maior (libri I e III); ff. 33r-37v, Servius, De finalibus (attribuiti allo stesso grammatico, nel codice sono anche conservati PseudoServius, De arte et metris ai ff. 46r-50v; Servius, De centum metris, ff. 51r-51av; excerpta da Commentarius in artem Donati, ff. 60r-66v). Per il resto il ms. raccoglie excerpta e brevi testi d’argomento grammaticale (da Cicerone, Servio, Mario Vittorino, Rufino d’Antiochia e Guarino Veronese...). I. MARIOTTI, Marii Victorini. Ars grammatica, introduzione, testo critico e commento, Firenze 1967, p. 391, attribuisce alla mano di Colocci alcuni titoli e i rinvii di pagina della tavola. Questo codice è probabilmente da identificare con il nr. 23 dell’ultima cassa alla parete dell’inventario parziale della Bibliotheca Magna secreta (la quarta sala della Biblioteca di Sisto IV) compilato dai Ranaldi e contenuto nel Vat. lat. 8185, f. 354v «Prisciani opusculi de accentibus ex Carisio Grammatico item alia opuscula Donati et Servii grammaticorum. Ex papiro in tabulis» (cfr. Les Manuscrits Classiques latins cit., III/1, p. 81
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35. Priscianus 36. Priscianus in perg. 37. Priscianus in xii Aeneidi lib(r)o de metris in perg.212 38. Priscianus in perg. 39. Priscianus in perg. 40. Priscianus in perg. 41. Idem de constructione in perg.213 f. 189v 42. Priscianus in perg. 43. Priscianus in perg. 44. Lactantius Firmanum in pap.214 45. Prisciani grammatica in perg. 46. Libro volgare di geometria 47. Priscianus in perg. 48. Excerpta ex Polibio de militia romanorum >49.< Pomponii Leti epistole quedam
nt. 2). Secondo BIANCHI, RIZZO, Manoscritti e opere grammaticali cit., p. 618, il codice deriva probabilmente dal ms. Add. C 144 della Bodleian Library di Oxford (XI sec., contenente testi grammaticali) appartenuto a Lelio della Valle. 212 Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 569-570, p. 569, nt. 1 identifica questo item con il codice Vat. lat. 2725 (cfr. anche nr. 11, V cassa, f. 188v), un ms. membr., XV sec., 2 fdg iniziali, seguiti da 85 ff. numerati (i ff. 78 e 79 sono palinsesti), 19 × 11 cm ca., con iniziali decorate con girali di foglie e fiori bianchi e oro. Contiene Prisciano, Partitiones XII versuum Aeneidos principalium (ff. 1r-46r); Rufino, Commentarius in metra Terentiana (ff. 46r-50v); un excerptum dell’Ars maior di Donato (f. 51r «Donati grammatici nobilissimi de barbarismo, soloecismo [sic], metaplasmo atque schematibus», ff. 51r-58r); Prisciano, De figuris numerorum (ff. 59r-68r); Remio Favino, Carmen de ponderibus (ff. 68v-72r); un excerptum (cap. 4) da Mario Vittorino, Ars grammatica (ff. 72r-76v); Probo, De regulis iuris notarum (ff. 76v-78v); Pseudo Petronio, Glossarium (ff. 79r-82v). Il codice è anche identificabile con il nr. 29 della quinta cassa del terzo pluteo della Bibliotheca parva secreta, secondo l’inventario dei Ranaldi, contenuto nel Vat. lat. 8185, f. 344r: «Priscianus in 12 eneidos. Libros de metris. Marii Victorini Gramatici de orthografia vel analogia. Valerii Probi grammatici de regulis iuris notas et in fine quedam ex Petronio Arbitro» (Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 569, nt. 2). 213 Per una circostanziata ipotesi identificativa, vd. a f. 188v il nr. 11 di questa stessa V cassa. 214 Un altro rimando all’opera di Lattanzio si trova al nr. 38 della VI cassa, f. 190v. Finora l’unico volume colocciano noto contenente opere di Lattanzio è lo stampato Inc. I.33, LUCIUS CELIUS FIRMIANUS LACTANTIUS, Opera [De divinis institutionibus, De ira Dei, De opificio Dei vel de formatione hominis, De Phoenice carmen], Roma, Ulrich Han e Simon Nicolas Chardella, 1474, in folio (ISTC nr. il00006000), segnalato da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 89. Anche in questo caso si tratta di un pregevole volume con capilettera ornati a mano e cornice floreale miniata intorno alla pagina iniziale dei trattati. I margini ospitano numerose postille di mani umanistiche, tra cui quella di Colocci (per es. ff. 225r-v, f. 226r — dove compare la tipica postilla «Sil°» —, f. 228r). Tuttavia nessuno dei due item di C specifica se si tratti di un volume a stampa o manoscritto.
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49. Annotatione[s] quedam in Aululariam Plauti215 50. Tractatus Jo de Sacrobusto216 opusculum de virtute herbarum 51. Martiali Annotationes in aliquas comedias Plauti in pap.217 215
Gli item plautini di C sono cinque, uno solo dei quali identificabile: il nr. 52, VI cassa f. 191r (vd. ). Gli altri, oltre al presente, sono il nr. 51 di questa stessa V cassa (probabilmente un commento legato insieme a Marziale); il nr. 15, VI cassa, f. 190r (un Plauto annotato) e il nr. 76, VI cassa, f. 191v (manoscritto in pergamena con le Commedie). Oltre a questi, alla sua biblioteca dovette tuttavia appartenere anche un’edizione a stampa che si segnala qui per la prima volta: l’Inc. II.195, TITUS MACCIUS PLAUTUS, Comoediae, Milano, Scinzenzeler, 1500, in folio (ISTC nr. ip00785000), con il commento di Giovan Battista Pio. Purtroppo le pagine non sono numerate, sicché non è possibile dare indicazioni particolarmente precise sulla posizione delle postille: il volume infatti ne presenta di mano di Colocci, specie relative a pesi, misure e monete (per es. «talenta», «argenti nummum»...) e talora annotazioni anche di una certa entità precedute dal tipico segno a chiave che rimanda a passi del testo (per es. «o- servi quaternos modios frumenti accipiebant in mense, ideoque “demensum” dicebatur, an a mensi an a metiendo incertum»: il riferimento è al verso «vos meministis quot kalendis petere demensum cibum» Stichum, a. I, sc. 2, v. 3). Questa edizione non è registrata in C perché, come conferma un appunto sul recto del fdg, essa proviene «Ex libris Fulvii Ursini in Bibliotheca Vaticana». Può perciò essere identificata con il «Plauto con commento, tocco dal Colotio, coperto in tavole» registrato al nr. 36 degli stampati latini dell’inventario D: una conferma è data dall’annotazione ivi aggiunta dal Ranaldi «Plauto con il commento di Giovan Battista Pio, stampato a Milano nel 1500, in-folio» (cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 258, 384). 216 Per un volume a stampa colocciano che contiene un’opera di Johannes de Sacrobosco, vd. nota relativa al nr. 21, VI cassa, f. 190v. 217 Per Plauto vd. supra nr. 49. In ogni caso l’item non è identificato. Quanto a Marziale, in C trovo altri tre rimandi: nr. 68 e nr. 69 della VI cassa a f. 191v (l’uno in pergamena e l’altro in «papiro», cioè in carta); nr. 58 dell’VIII cassa, f. 194v (di cui non si dice altro). Non sono stati finora individuati mss. o edizioni che possano essere plausibilmente associati a questi item. Solo si segnala la presenza di numerosi epigrammi del poeta latino nel codice colocciano Vat. lat. 1610 (segnalato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 327, 330, 342; ms. cart., XV sec., due fdg più 121 ff., 21,5 × 12 cm ca.). Per il dettaglio dei contenuti di questa ricca silloge vd. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 205-211; qui si segnalano solo i testi di Marziale, ai ff. 56r-60v, 103r-111v, 115r-121r. Il codice tuttavia è aperto da testi di Tibullo (ff. 1r-37v), seguiti dall’Hermaphroditus del Panormita (ff. 38r-55r) ed epigrammi di Filippo Buonaccorsi (detto Callimacus Experiens: ff. 61r-102v); nel resto dei fogli, excerpta da autori classici diversi (f. 112r-113v: Ovidio, Ennio, Lucrezio, Cicerone, Lucilio, Seneca, Ennio) e da testi d’età umanistica (si veda in particolare nel f. IIr-v l’Epistula ad Johannem Lamolam de Panormitae Hermaphrodito di Guarino Veronese). Il codice presenta numerose postille di Colocci e anche alcune sue annotazioni più estese (per es. ai ff. [I]r. 38r, 39r, 40r, 52r; vd. anche nr. 70, VI cassa, f. 191v). Si segnala invece per la prima volta la presenza della mano di Colocci nello stampato Ald. III.4, MARZIALE, Epigrammata, Venezia, Aldo Manuzio, 1501, che tuttavia passò a Fulvio Orsini (è il nr. 52 dei suoi stampati latini: DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., p. 385). I notabilia che compaiono in numerosi fogli del volume, sembrano per lo più pertinenti alle sue ricerche su pesi, misure, monete e metricologia (cfr. per es.: «nummi - Milia» f. 49v; «putidula / numeratur secunda calculus» f. 50r; «Ducenties» f. 59r; «Syllab / sentis: -tis longa 61 / secunda “nescis heu nescis diem
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52. Priscianus in pap. 52. Jacobi de Buccabelli ars metrica218 53. Pontani dialogus de numeris poeticis219 54. Pontani metheora220 55. Salustii Catilina et Jugurtha221 56. Salustius 57. Salustius et Lucius Florus inp(re)ss222 58. Diogenes Laertius imp(re) et Justini et Flori epitoma imp(re) cum indicibus scrip.223 fastidi”» f. 199r e «syllab / cui 103 / Chloe 111 / Caius 124 / fac breve 59» f. 199v; si segnala anche la postilla tipica «color» f. 57r). 218 L’item può essere identificato con il Vat. lat. 1504, segnalato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 330 (dove però lo indica erroneamente come «1502»), 342. Si tratta di un codice cart. (ma con fdg post. membr.), XV sec., ca. 26 × 17 cm, 261 ff. Contiene gli Artis metricae libri di Giovan Giacomo Boccabella (morto nel 1464, canonico lateranense e professore di retorica nello Studio romano), in 4 libri. Secondo quanto ne dicono BIANCHI, RIZZO, Manoscritti e opere grammaticali cit., pp. 618, 622, 629, 630, il Vat. lat. 1504 — unico esemplare noto dell’opera — era stato pensato come volume di dedica per Pio II, ma successivamente venne impiegato, probabilmente dallo stesso autore, come copia di lavoro e venne perciò corredato da notabilia ed altri interventi annotatorii. Secondo le autrici, infatti, esso è intensamente postillato da un’unica mano (che si riscontra anche nel Giovenale Vat. lat. 1659) che presenta una certa variabilità, dovuta al fatto che gli interventi sono scalati nel tempo. 219 È stato identificato da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 331-332, 342 con l’autografo pontaniano dell’Actius, dialogus de numeris poeticis, Vat. lat. 2843: da un rapido esame del codice non mi è parso di poter individuare tracce della mano di Colocci, mentre numerosi sono gli interventi marginali dello stesso Pontano e di Pietro Summonte (per gli altri rimandi a Pontano, vd. nr. 33, III cassa, f. 186v). 220 Identificato da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 331-332, 342 con l’autografo pontaniano del Meteororum Liber, contenuto nel Vat. lat. 2838 (cfr. nr. 33, III cassa, f. 186v): ricco di interventi dello stesso Pontano, ma privo di annotazioni colocciane (nell’ultimo foglio, il 26v, è segnata la data di conclusione dell’opera: 1490). 221 Un altro item sallustiano, oltre che ai nrr. 56, 57 e 60 subito seguenti, si trova al nr. 59 della VII cassa, f. 193r (vd. per un’ipotesi identificativa). Tuttavia l’unico di questi rimandi identificabile con certezza è attualmente il nr. 57 (vd.). 222 MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 89 identifica il presente item con Inc. IV.118, int. 1: CAIUS SALLUSTIUS CRISPUS, Opera [De coniuratione Catilinae; De bello Jugurthino; Orationes et epistolae ex libris Historiarum excerptae], Roma, Eucharius Silber, 1490, in quarto (ISTC nr. is00075000); e int. 2: LUCIUS FLORUS, Epithomae rerum romanorum, Siena, Rodt, 1486-7, in quarto (ISTC nr. if00236000). Un esame diretto dello stampato rivela tuttavia che la mano di Colocci si riscontra solo sul primo interno (per es. ai ff. 3r, 4r-v, 7v, 9r, 11r-13r, 15r-33r, 60r), mentre il secondo è affatto privo di annotazioni di qualunque mano. 223 Il volume registrato qui al nr. 58, sembrerebbe essere costituito dalla legatura di due interni distinti, come mi pare suggerire la ripetizione di «imp(re)». Qui si propone per la prima volta l’identificazione dell’item laerziano e dunque il riconoscimento di un nuovo esemplare appartenuto alla biblioteca di Colocci; se si accetta l’identificazione, occorrerà supporre che la parte contenente Giustino e Floro sia stata poi separata (la mancanza del colophon dopo f. 193r, potrebbe essere vista come una conseguenza — e dunque una prova
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59. Salustius cum annot. 60. Salustius 61. Priscianus224 62. Vocabularium f. 190r 63. Macrobius225 64. Macrobius inp(re)ss. cum indice scrip. 65. Diodorus siculus cum indice scrip.226 — di queste ipotetiche operazioni di smembramento). Il volume in questione è l’Inc. III.83, cioè la princeps di DIOGENES LAERTIUS, Vitae et sententiae philosophorum, Roma, Georgius Lauer, 1472, ca. 29 × 22 cm (ISTC nr. id00219000). A f. 5r, la prima pagina del testo laerziano è decorata da un’elegante cornice miniata, dove spicca uno stemma cardinalizio in serto d’alloro (la descrizione dello stemma fornita dall’Opac della BAV è «troncato in I d’azzurro alle tre stelle e gigli di Francia; nel II scaccato d’argento e d’azzurro»). Sul volume sono abbastanza numerosi gli interventi marginali di Colocci e direi pertinenti alle sue ricerche su pesi, misure e monete: per es. «solidi mille» (f. 51v, marg. sup.); «Theofrastes tres libros de mensuris scripsit» (f. 60r, marg. inf.); «stadia» (f. 65v, marg. sin.); «mina / talentum / triobolum / chaenix / famem / amor / Olympiad» (f. 75r, marg. destro); «pecunia alexandrina» (f. 79v, marg. sin.) e così via. Ma si possono trovare anche — oltre alla tipica abbreviazione «Sil° [= similitudo]» (f. 2v) — annotazioni un po’ più estese, come quella che a f. 63v (marg. inf.) sembrerebbe rimandare ad un epigramma composto dall’annotatore «Δ° [=denarium?] eo q(u)oq(ue) nos fecimus / epigramma / ore venena ferens, Demetrion abstulit aspis / lu(mini)bus cuius lux tenebrosa micat». Sul volume mi sembra di poter individuare anche la presenza della mano di Carteromaco, con annotazioni nel suo tipico inchiostro porporino. Si segnala per completezza che nel codice colocciano Vat. lat. 4058 sono raccolti spogli lessicali alfabetici, tratti da Diogene Laerzio (ff. 227r-287r: da A a M; ff. 333r-377v: da N a Z). Un altro item laerziano in C si trova al nr. 54, VII cassa, f. 193r. 224 Cfr. nr. 11, V cassa, f. 188v. 225 Per questo e per l’item seguente, cfr. nr. 39, III cassa, f. 186v. 226 Due sono gli item, oltre al presente, che fanno riferimento all’opera di Diodoro Siculo: il nr. 68 di questa stessa V cassa e il nr. 17 della VI, f. 190r. La presente voce non chiarisce se il volume sia a stampa o manoscritto, ma solo che è corredato di una tavola manoscritta. È tuttavia probabile che l’indicazione «imp(res)ss» sia sfuggita all’annotatore e che quindi il volume in questione fosse composto esattamente come quello che lo precede («imp(res)ss cum indice scrip»). È dunque altamente probabile che il presente item possa corrispondere al volume a stampa Inc. II.225, contenente, nella traduzione di Poggio Bracciolini, DIODORUS SICULUS, Bibliothecae historicae libri VI, Venezia, Thomas de Blavis Alexandrinus, 1481, in folio (ISTC nr. id00212000); il volume comprende anche la Germania di Tacito ed è segnalato come colocciano da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 83. La mano di Colocci si incontra nei due fdg anteriori, dove pone alcune annotazioni tematiche con rimandi a loci del testo (per es. «stadia quot Egyptus 10 32 / Aegypti forma …»), e poi piuttosto intensamente lungo tutto il volume con annotazioni, talora anche in greco («vide θάμνος in Galieno περι ευχυμίας» f. 51v), spesso recanti rimandi bibliografici («Nili nomina / vide Dionys. de situ orb. q. etiam Syrum dicit apellari ab ethiopibus in 13», f. 7r), verosimilmente riconducibili ai suoi interessi geografico-metrologici. Dopo il f. CXX, seguono 16 fogli di mano di copista con la Tabula del volume, intestata da Colocci «Diodorus Siculus / non multum bona tabula, Vinetiis 1481». Proprio la presenza di questa parte manoscritta depone in favore dell’identificazione dell’item di C con questo stampato.
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66. Cornelius Tacitus de Origine et situ Germanorum227 67. Cornelius Tacitus imp(re)ss.228 68. Diodorus Siculus In 6 Cap. volg. 1. Agostino Justiniano dialogo della Corsica229 v. 2. Fiammetta del Boccaccio230 227
Un altro item contenente l’opera di Tacito si trova, oltre che al nr. 67 qui immediatamente seguente (vd.), al nr. 26 della VI cassa, f. 190v, dove l’Agricola è compreso in una miscellanea con altre opere (vd.). Si segnala, per completezza, la presenza di una tavola lessicale alfabetica dedicata al De oratoribus di Tacito nel codice colocciano Vat. lat. 4058, ai ff. 174r-184r (in gran parte autografi). Il presente item (nr. 66) è stato invece identificato con il codice Vat. lat. 2964, contenente Tacitus, Germania (ff. 1r-11r); Dialogus de oratoribus (ff. 12r-18r). Si tratta di un ms. cart., XV sec., 18 ff. (bianchi i ff. 11v e 18v; mancano due fogli tra gli attuali ff. 11 e 12, sicché l’incipit della seconda operetta risulta mutilo), 28 × 20 cm ca. (era citato anche al nr. 19 di una lista complementaria dei Ranaldi, oggi però scomparsa: vd. Les manuscrits latins cit., III/2, pp. 62-63, dove si indica però erroneamente come «186» il foglio della lista C). 228 Trattandosi di uno stampato, l’item potrà essere identificato con il volume R. I II.994, PUBLIUS CORNELIUS TACITUS, Annales, Roma, Stephanus Guillereti de Lothoringia, 1515, in quarto; il volume, curato da Filippo Beroaldo, contiene da f. 211r anche il De situ, moribus et populis Germaniae, il Dialogus de oratoribus e, dopo la marca tipografica, l’Agricola; il frontespizio menziona tutte queste opere in maniera generica («P. Cornelii Taciti libri quinque noviter inventi atque cum reliquis eius operibus editi»). Il volume è tutto molto intensamente postillato da Colocci (salvo che nelle pagine relative al De oratoribus e alla Germania); sull’interno del piatto anteriore — che conserva ancora la coperta in carta pecora originale — di sua mano si legge il rimando all’esistenza di una tavola alfabetica: «COR. TACITU[S] / habet tabulam in + / in reale», mentre nel recto del fdg ci sono alcuni rimandi a loci del volume, tra i quali un riferimento agli horti Sallustiani («Judei 206 33 / christiani 121 sodoma / horti sallustiani 103 et 186 / Sallustius Crispus .s.»), che già FANELLI, Ricerche cit., pp. 115-117 (che a p. 91 per primo segnala l’edizione di Tacito citata) metteva in relazione con i famosi horti che Colocci aveva acquistato sul Pincio. Suoi appunti, infine, si trovano anche sul risvolto di carta pecora che copre il piatto inferiore. Il volume è postillato anche da altre tre mani. 229 L’item è preceduto dalla sigla «volg.» nel marg. sinistro, verosimilmente a indicare che il testo qui registrato è in volgare. Analoga indicazione (in forma abbreviata: «v.») si trova anche in corrispondenza dei nrr. 2, 4, 8, 9, 18, 41, 49, 51, 60 della VI cassa (ff. 191r-v), nr. 19 della VII cassa (f. 193v), nrr. 41, 42 della IX cassa (f. 195v). LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 343 rimanda, senza citare esplicitamente l’item nr. 1 della VI cassa, al Vat. lat. 4812, cart., XVI sec., 129 ff. di piccola dimensione (in sedicesimo), di mano di più copisti (inc.: «Agostino Iustiniano, vescovo di Nebio, a lo Illustrissimo et vittoriosissimo Andrea Doria, General capitano maritimo de sacro romano Impero. / Fra molte gratie che mi ha concesse la divina maestà...»). A f. 4r si trova la data del 1531 («MDXXXI»). Colocci l’ha postillato solo fino al f. 21r, ma meno intensamente da f. 13r (sottolineature e crocette): le annotazioni sono di interesse per lo più linguistico. 230 Anche in questo caso LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 337, 343 non cita esplicitamente C e tuttavia indica come colocciano il codice Vat. lat. 4814, cart., XV sec., ca. 28 × 21 cm, 60 ff. (di cui 59 numerati meccanicamente: bianco il f. [60]), più un bifolio di guardia non numerato in principio e uno in fine. Lo spazio di scrittura è delimitato da un ri-
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3. Vocabolarium Lat. et Gallicum231 v. 4. Lib. in lingua spagnola232 5. Blondi Roma instaurata 6. Blondi Roma instaurata imp(re)ss.233 7. Blondus de Roma Triumphante imp(re)ss.234 quadro a punta secca, ma senza rigatura; l’incompiutezza del manufatto è testimoniata anche dal fatto che sono stati lasciati vuoti gli spazi per i capilettera (suppliti solo da lettere guida minuscole). Il codice non mostra traccia della mano di Colocci. Per altri item boccacciani vd. nr. 8, VI cassa, f. 190r e nr. 4, X cassa, f. 195v. Si segnala per completezza d’informazione che LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 343 indicava come colocciano il Vat. lat. 4815 che contiene la Commedia delle ninfe fiorentine (o Ameto). Tale testo non è menzionato da nessuna parte in C e il codice (cart., XV sec., in quarto, capilettera ornati in rosso e blu), del resto, non mostra nessun segno di appartenenza colocciana (vi sono postille ma della stessa mano del testo). Mi pare perciò più prudente sospendere il giudizio sulla sua appartenenza all’esinate, in attesa di ulteriori verifiche su altri inventari colocciani. 231 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 336 lo identifica con il Vat. lat. 2748, interessante piccolo codice membr., XIV sec. ex., ca. 18 × 11 cm, 136 fogli, con iniziali decorate in rosso e blu, molto intensamente postillato (spec. nei marg. inf. e sup.) da Colocci. Al principio ci sono note anche di una mano quattrocentesca, probabilmente germanica (il Questenberg?), che scrive gli equivalenti tedeschi di alcune parole francesi (vd. anche UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci cit., p. 99, nt. 173). 232 L’indicazione è evidentemente troppo generica per permettere qualche ipotesi identificativa. Si richiamano semplicemente, oltre alle considerazioni e ai rimandi proposti più oltre a proposito del nr. 18 della VI cassa (f. 190v), le indicazioni raltive a «libri spagnoli» che, in ragione della loro attuale segnatura (che li colloca in mezzo ad altri codici di pertinenza colocciana), FANELLI, Ricerche cit., p. 161-163 ipotizza possano essere appartenuti all’umanista, senza che essi però conservino traccia della sua mano: i Vat. lat. 4798 (una cronaca del regno di Castiglia), 4800 («libro intitulado espejo de la vida humana»: forse l’operetta di Rodrigo alcayde del Castillo de Sanctangelo, vescovo di Zamora, cioè Rodericus Zamorensis, il «Rodorinus Zamorensis» dell’elenco A, nr. [12], f. 46r: cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 114), 4801 (trattato catalano sugli scacchi), 4805 (operette sull’origine della coscienza e sul peccato mortale), 4806 (JAUME ROIG, Llibre de les dones o spill). Ai citati manoscritti Fanelli aggiunge anche il Vat. lat. 4799, che tuttavia, come rilevano PETITMENGIN – FOHLEN, I manoscritti latini cit., p. 87, nt. 210, è identificabile con un item già presente in un catalogo della BAV anteriore al 1558 (quello del Ruano, databile al 1550: cfr. in proposito la nota relativa al nr. 29, II cassa, f. 185r). Non ho purtroppo ancora avuto modo di esaminare direttamente questi mss. 233 La princeps è FLAVIUS BLONDUS, Roma instaurata, con addenda di Francesco Barbaro, Porcelio e Pietro Oddo, Roma, stampatore di Stazio, prima del 26 luglio 1471, in folio (ISTC nr. ib00701000), di cui la BAV possiede due esemplari, ma appartenenti a fondi (il Rossiano e l’Archivio Capitolare di San Pietro) in cui è improbabile che possano essere confluiti libri colocciani entrati nel 1558. Ho dunque preso in considerazione esemplari dell’edizione successiva e ho esaminato perciò l’Inc. II.412, che oltre alla Roma instaurata comprende, sempre di Flavio Biondo, De origine et gestis Venetorum, Italia illustrata, curata da Antonius Pantheus e con addenda di Hieronymus Broianicus e Paulus Ramusius, Verona, Bonino de Boninis, 1481-82, in folio (ISTC nr. ib00702000). L’edizione presenta alcune postille di una mano simile a quella di Colocci, ma più regolare e legata, con d di modulo onciale, che per lo più gli sono estranee. Ritengo dunque più prudente non suggerire un’identificazione. 234 La princeps è FLAVIUS BLONDUS, Roma Triumphans, Mantova, Petrus Adam de Michaelibus, ca. 1473, in folio (ISTC nr. ib00703000).
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8. Discorsi d(e) Boccaccio overo Philocolo senza principio235 9. Petrarcha Trionphi236 10. Lucanus cum annot.237 11. Sulpitii Verulani comment. in Lucanum238
235 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 318, 337, 343 lo identifica con il Vat. lat. 4813, cart. con fdg. membr., 151 ff., mancante in effetti del primo, che doveva contenere una bella iniziale miniata (ne è rimasta traccia nel verso del fdg). Il testo inizia dalla metà del cap. 15 del II libro del Filocolo («[no]bile cosa fare gratia? questa ha in sé una singulare belleçça...»). La sottoscrizione che si legge a f. 151v ci dà informazioni sulla redazione del codice che si colloca nel 1466, per mano del perugino Lorenzo Spirito Gualtieri («finito il libro chiamato Philocolo, facto e composto da me ser Giovanni Bochaccio, poeta fiorentino Clarissimo, Scripto e copiato per mano de me Lorenço Spirito da Peroscia, nell’anno milli quattrocento sexanta sey. Deo gratias amen»); sul personaggio vd. supra nr. 17, III cassa, f. 186r. Non trovo tuttavia sul ms. traccia della mano di Colocci. 236 In C si trovano altri due laconici rimandi a «Petrarca»: nrr. 28 e 30 della IX cassa, f. 195r. L’unico ms. petrarchesco finora noto appartenuto a Colocci è il Vat. lat. 4787 (cart., XV sec., 21 × 13,5 cm ca., 194 ff.) che contiene sia componimenti dei Rerum vulgarium fragmenta, sia, tra f. 153v e 178r, i Triumphi. Si tratta di un ms. giunto a Colocci per via familiare, tanto che in esso ai ff. 192r-v sono state registrate da due mani (una è quella dell’umanista) alcune note relative a eventi che riguardarono la famiglia Colocci. Questi appunti e quelli relativi al testo petrarchesco sono stati studiati da M. BERNARDI, C. BOLOGNA, C. PULSONI, Per la biblioteca e la biografia di Angelo Colocci: il ms. Vat. lat. 4787 della Biblioteca Vaticana, in Studii de Romanisticâ. Volum dedicat profesorului Lorenzo Renzi, a cura di F. D. MARGA, V. MOLDOVAN, D. FEURDEAN, Cluj-Napoca 2007, pp. 200-220: qui (p. 207) anche la notizia dell’ipotesi identificativa di un altro codice petrarchesco (contiene anch’esso i Rerum vulgarium fragmenta e i Triumphi, oltre ad excerpta dal De bello Jugurthino di Sallustio, da Lucrezio e dall’Eneide) che Colocci ebbe certamente a disposizione e che egli chiama Liber Mazzatoste (o forme analoghe), con il ms. Rare Bd. MS. 4648 no. 22 (olim: Mss. Bd. Petrarch. P P49 R 51) della Cornell University Library di Ithaca (New York). Egli inoltre — come ho mostrato in BERNARDI, Lo zibaldone colocciano cit., p. 85 e rimandi — possedette probabilmente la raccolta a stampa di opere latine di Petrarca Librorum Francisci Petrarche impressorum annotatio, Venezia, Simon de Luere, 1501, in folio, o l’identica edizione data in Venezia da Simone Bevilacqua nel 1503. Della prima la BAV non conserva alcun esemplare, mentre della seconda custodisce il volume segnato R. I II.857, sul quale tuttavia non ho trovato alcuna traccia evidente della mano del Nostro. Nessuno dei libri qui menzionati, tuttavia, può essere verosimilmente identificato con il presente item che cita i soli Trionfi, mentre gli altri due rimandi sono troppo generici per consentire più circostanziate ipotesi in merito. 237 Sono sette i rimandi a testi di Lucano in C: i nr. 10, 12, 13, 14 in questa VI cassa (f. 190r), il nr. 57 dell’VIII (f. 194v), il nr. 1 della IX cassa (f. 194v) e il nr. 25 della stessa cassa, di cui si dice «in pergameno» (f. 195r). A fronte di una così abbondante rappresentanza, tuttavia, non sono ancora stati individuati mss. o stampati dell’opera del poeta latino che possano essere ricondotti alla biblioteca di Colocci all’infuori dell’Ald. III.7 (int. 1), LUCANUS, Pharsalia, Lione [i. e. Venezia], Aldo Manuzio, 1502, che reca postille dell’esinate e anche del Carteromaco, ma che passò nella biblioteca di Fulvio Orsini (cfr. RUYSSCHAERT, Fulvio Orsini et les élégiaques latins cit., pp. 677-678, 680). 238 Identificabile con il Vat. lat. 2744 che, come rileva anche LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 330, 342, contiene appunto un commentario su Pharsalia di Giovanni Sulpicio da Veroli (inc.: «P. M. Annei Lucani cordubensis. Per Sulpitium Verulanum poetam elegantissimum ac oratorem ornatissimum interpretationes optimi dictatas habui.», f. 1r). Si
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12. Lucanus 13. Lucanus 14. Lucanus 15. Plautus cum annot.239 16. Bartholomeus de Bolonariis [sic] de caritativo subsidio240 17. Diodorus Siculus241 f. 190v v. 18. Libro spagnolo di Romanzi242 tratta di un codice cart., XVI sec., 16 × 22,5 cm ca., 303 ff. (più un foglio numerato «244a»). Il testo è a tutta pagina, direi vergato da un’unica mano umanistica, con titoletti e richiami marginali in porpora chiaro. Sul f. 1r che funge da frontespizio si distinguono sei mani, che annotano forse antiche segnature («36»), versi italiani («Amor ceco me guida lento et...») e notizie biografiche su Lucano («Acili Lucani filia ex Annea Mèla, Senece stohici fratre equite romano peperit cordube...»). Tra queste mani si riscontra anche quella di Colocci che si limita ad annotare «Lucan» e che nel resto del codice non si individua che forse in alcune sottolineature. 239 Per Plauto, cfr. nr. 49, V cassa, f. 189v. 240 Cfr. A, f. 57v [48] «opus de caritativo subsidio» e [58] «Barth. de caritativo subsidio»: vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 134 nt. 246 (dove per errore si è trascritto, nel secondo caso, «da caritativo»); LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 320 identifica questo item con il codice Vat. lat. 2649, pur precisando che esso «ne porte aucune trace de la main de Colocci». Egli però erra la decifrazione dell’appunto di C (legge «Bartolomeus de Balneariis») e anche la reale forma del nome dell’autore dell’operetta che è Bartolomeo Bellincini, e non Belloncini. Il Vat. lat. 2649 è un ms. cart., XV-XVI sec., adespoto e anepigrafo (ma il titolo si ricava dal colophon: vd. oltre), ca. 28 × 19,5 cm, costituito da due fdg, uno all’inizio e uno alla fine, 13 ff. non numerati (il primo bianco) contenenti la tavola dell’opera e 77 fogli numerati in numeri romani. Il testo è vergato da tre diversi copisti (il primo fino a f. XXXIXv; il secondo da f. XLr a LXIv e da f. LXXr a f. LXXVIIr; il terzo da f. LXIIr a f. LXIXv), che l’hanno tratto evidentemente da un’edizione a stampa: a f. LXXVIIr ne è riportato il colophon («Impressum est hoc opus de subsidio / caritativo et decima papali beneficiorum / Mutinae per Magistrum Antonium Mischo/minum et Dominum Rochozola socios / Anno domini MCCCCLXXXIX die / XI mensis Maii»), che permette di identificare il modello nell’editio princeps di BARTHOLOMAEUS DE BELLINCINIS, De charitativo subsidio et decima beneficiorum, Modena, Miscomino e Rocociola, 1489, in folio (ISTC nr. ib00302000). 241 Cfr. nr. 65, V cassa, f. 190r. 242 Cfr. anche l’identico rimando che si legge a f. 191r al nr. 41 di questa stessa VI cassa. Le diciture sono troppo generiche per fornire più circostanziate ipotesi identificative. Solo si segnalerà che, come già osservato da FANELLI Ricerche cit., p. 160, l’indicazione spagnolo copre nell’inventario le aree anche del portoghese e del catalano, ma si potrebbe anche supporre — data la sua affinità con quest’ultimo, specie all’occhio di un compilatore che ben difficilmente poteve avere molta pratica delle antiche letterature che si esprimevano in queste lingue — del provenzale. Si ricorderà perciò qui il celebre canzoniere portoghese appartenuto a Colocci Vat. lat. 4803, cart., XV-XVI sec., 210 ff. numerati e 18 non numerati (uno in principio, due dopo f. 2, uno dopo f. 10 e 14 in fine; tutti bianchi salvo il primo e l’ultimo), sul quale si veda, per le ultime acquisizioni e la bibliografia pregressa, G. TAVANI, Le postille di collazione nel canzoniere portoghese della Vaticana (Vat. lat. 4803), in Angelo Colocci e gli studi romanzi cit., pp. 307-314 (non mette conto invece di menzionare il Canzoniere ColocciBrancuti, cioè Lisboa, Biblioteca Nacional, cod. 10991, perché esso probabilmente non sog-
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19. M. Varronis de lingua latina Sextus Rufus de imperatoribus243 20. Astrolabium ♀ 21. Tractatus de sphera244 giornò mai nella BAV: tuttavia la sua storia anteriore alla scoperta nella biblioteca del conte Paolo Brancuti di Cagli, avvenuta nel 1875, rimane sostanzialmente ignota: vd. A. FERRARI Formazione e struttura del Canzoniere portoghese della Biblioteca Nazionale di Lisbona [Cod. 10991: Colocci-Brancuti]. Premesse codicologiche alla critica del testo [Materiali e note problematiche], in Arquivos do Centro cultural Portoguês 14 [1979], pp. 27-142, pp. 35-41). Si ricorderanno poi i suoi canzonieri provenzali M e g, cioè l’ex Vat. lat. 3794 (ora Paris, Bibliothèque Nationale, fr. 12474) e il Vat. lat. 3205, copia del precedente e poi passato a Fulvio Orsini (la bibliografia su di essi è assai estesa: per una sintesi vd. BERNARDI, Angelo Colocci cit., p. 91, 94-95), il Vat. lat. 4796, che contiene testi di Arnaut Daniel e Folquet de Marselha, corredati delle traduzioni ad opera di Bartolomeo Casassagia (una copia di queste traduzioni si trova anche ai ff. 287r-333r del Vat. lat. 7182, una miscellanea appartenuta a Colocci almeno in alcune sue parti: tra queste probabilmente anche quelle che contengono i lais de Bretanha portoghesi — ff. 276r-278r — e alcuni frammenti provenzali — ff. 281r-286v —; per qualche ulteriore sintetico ragguaglio sul codice vd. nr. 20, IX cassa, f. 195r), nonché i vari manoscritti che contengono testi pertinenti a queste letterature, talora corredati di traduzione italiana, in qualche caso persino autografa: il Vat. lat. 4802 che secondo FANELLI, Ricerche cit., p. 161-164 «è sicuramente appartenuto a Colocci» anche se non reca tracce della sua mano (contiene due poemetti di FRANCISCO DE MONER Y BARUTELL, El anima de Oliver in catalano e La noche mas prorpriamente llamada vida humana in castigliano: nei ff. 127r-138r del Vat. lat. 4818 troviamo una traduzione di questi testi, di pugno di Colocci; su questi testi e i codici che li contengono vd. J. SCUDIERI RUGGIERI, Le traduzioni di Angelo Colocci dal castigliano e dal catalano, in Atti del Convegno cit., pp. 177-196). Per la bibliografia relativa a questi mss. si veda BERNARDI, Angelo Colocci cit., pp. 93-94 e per una sintesi delle notizie pertinenti a ciascuno di essi, BERNARDI, Per la ricostruzione cit., pp. 32, 43-45, 54-55, 59, 63-64. 243 FANELLI, Ricerche cit., p. 57 identifica questo item con il Vat. lat. 1522, cart., XV sec. ex., 118 fogli, 29 × 20 cm ca., che contiene MARCUS TERENTUSI VARRO De lingua latina (ff. 1r-100r) e FESTUS SEXTUS RUFUS Breviarium ab urbe condita (ff. 105r-118v) e che reca numerosissime postille colocciane — specialmente relative ai pesi e alle misure — soprattutto sulla prima delle due opere. Il codice è descritto anche nella lista dei Ranaldi contenuta in Vat. lat. 8185, f. 334r, al nr. 9 dell’ultima cassa alla parete della Bibliotheca magna secreta: «Varro de lingua latina cum scholiis. Ex papiro in tabulis» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 99-101, p. 100, nt. 3). 244 Item preceduto dal consueto segno di Venere (cfr. nr. 61 della III cassa, f. 187v e nota relativa). Numerosi sono i trattati sulla sfera presenti nella biblioteca di Colocci, però per lo più essi sono compresi in miscellanee manoscritte o in edizioni a stampa che raccolgono anche altri testi, sicché, per il momento, non è possibile indicare il volume a cui si riferisce il presente item. Qui si segnala invece l’excerptum dall’Opus sphericum di Ambrogio di Cora che si trova ai ff. 188r-202v del Vat. lat. 6845 (il codice è segnalato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 322, 344); lo stampato Inc. IV.161, che nell’int. 1 contiene JOHANNIS DE SACRO BOSCO, Opus sphericum, GEORGIUS PURBACHIUS Theoricae novae planetarum, JOHANNIS DE MONTEREGIO, Disputatio contra Cremonensia deliramenta, Venezia, Erhardus Ratdolt, 1482, in quarto (ISTC nr. ij00450000, ma privo di postille colocciane) e, nell’int. 2, HYGINIUS, Poeticon Astronomicon, Venezia, Erhardus Ratdolt, 1482 (ISTC nr. ih00560000), che contiene De mundi et sphaerae ac utriusque partium declaratione (questo sì, postillato da Colocci: lo stampato è indicato come colocciano da FANELLI, Ricerche cit., p. 82).
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22. Fran(cis)ci Philelphi Convivium p(rim)a245 23. Regule artifitiali memoriè 24. Logica magistri Pauli Veneti247 25. Vegetius de re militari 26. Frontinus de aqueductibus Rufus de Provintiis Svetonius de grammaticis de rethoribus Plinius de viris illustribus Cornelius Tacitus de moribus Julii Agricole Censorinus de diebus natalibus248
Inoltre MICHAËL SCOTUS, Quaestiones de Sphaera, Bologna, Giustiniano de Rubeira, 1495, in quarto (ISTC nr. im00550000) si trova nell’int. 2 di Inc. IV.169, il cui int. 1 (ALFRAGANUS, Elementa astronomica, Ferrara, Andreas Belfortis Gallus, 1493, in quarto, ISTC nr. ia00460000) presenta postille colocciane. Il volume gli sarà appartenuto per intero, come prova la tavola complessiva di suo pugno che si legge al f. 1r («Alfragani / Mich. Scoti in sphera / Campani Tetragonismus / Archimedis / Boetii»). Si precisa infine per completezza che il trattato Sphaera di Proclo è contenuto nell’Inc. II.515 di cui si è detto (vd. nr. 39, IV cassa, f. 188r). 245 Verosimilmente i Mediolanensia Convivia duo (princeps: Milano, Simon Magniagus, 1483-1484, in quarto; ISTC nr. ip00605000). La parola «prima», indicherà che il volume qui registrato conteneva solo la prima delle due parti, tuttavia non si precisa la natura del libro e del resto non si conoscono esemplari colocciani contenenti l’opera. 246 L’item è accompagnato nel marg. sinistro dall’annotazione — di diversa mano, o comunque inserita in un secondo momento — «2a cap. duplicatus», che probabilmente lo segnala come copia di un altro testo o di una sua parte (il suo secondo «cap[itolo]»?). Se così fosse, il testo a cui si far riferimento potrebbe essere quello registrato al nr. 31 di questa stessa VI cassa f. 190v, «Pratica di memoria artificiale», che, non per niente, è marcato nel margine sinistro da un segno di richiamo. In ogni caso, per il momento, i volumi qui indicati non sono ancora stati individuati. 247 Paolo Nicoletti (1368-1428/1429), detto Paolo Veneto, eremitano e professore di logica nello studio padovano, autore del trattato Logica magna, la cui princeps è Padova, stampatore dell’Opus restitutionum di Platea, 1472, in quarto, ISTC nr. ip00219000. La BAV conserva esemplari dell’edizione successiva: Milano, Christophorus Valdarfer, 1474, in quarto, ISTC nr. ip00220000. Ne ho esaminato in particolare l’esemplare Inc. IV.737 che reca traccia di tre mani di glossa: la prima è una regolare semigotica (cfr. per es. f. 1r marg. sin. in basso; f [9r] marg. sup.); la seconda è una minuta umanistica del XVI sec. (per es. f. 2r, in basso a destra e f. 5r, idem); la terza, infine, potrebbe far pensare a quella di Colocci, ma forse in una sua fase giovanile (si veda per es. la g a sacchetto di «Argumentum» e poco più in basso «2a Regula», a f. 4r, o l’abbreviazione per «R(espo)n(si)o» a f. 5r e, nel verso «propositio ypotheticar(um)»). L’identificazione, tuttavia, non è sufficientemente certa da ascrivere senz’altro l’esemplare alla sua biblioteca (altro peso avrebbe, per esempio, se fosse accompagnata dall’identificazione delle altre mani con quelle del padre Niccolò o dello zio Francesco, che troviamo in altri libri del Nostro). 248 La dettagliata specificazione dei titoli compresi in questo volume ha permesso a LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 317, 328, 343, di identificarlo con il Vat. lat. 4498, una miscellanea che troviamo inventariata — con trascurabili varianti — anche nell’elenco E, f. 62v («Frontinus / Nypsus / Ruffus de provinciis / Svet. de Gramaticis / Taciti Agricola / viri illustres / mores Germanici / Sonium Claudij / Censorinus»). Il «Rufus de Provintiis» di C corrisponderà inoltre probabilmente al «De provinciis romanorum a mano»
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v. 27. Il convito di Dante 28. Libro de cirurgia in lingua spagnola249 29. Phisica Arist. cum coment.250 30. Jo. Jovianus Pontanus de fortuna251 di A, f. 62r [9] (cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 110, nt. 61 e p. 144 nt. 322; per i rimandi bibliografici di pertinenza colocciana relativi al codice vd. BERNARDI, Angelo Colocci cit., p. 93). Il Vat. lat. 4498 è un ms. membr., seconda metà del XV sec., 145 ff. più cinque ff. bianchi al fondo, 28 × 19 cm ca. (cfr. anche Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 412-415). Contiene: Frontinus: De aquaeductu urbis Romae (ff. 1r-20r); Sextus Rufus, De Provintiis [in realtà Ps. Messalla Corvinus, Ad Octavianum Augustum de progenie sua libellus] (ff. 20v-28r); Svetonius, De inventione grammaticae, De rhetoribus (ff. 36r-45r); Caius Plinius Secundus, De viris illustribus (ff. 45v-63r); Caius Cornelius Tacitus, De moribus Julii Agricole (ff. 63v-77v), Dialogus de oratoribus (f. 78r-97r), De origine et situ germanorum (f. 97v-109r); Marcus Iunius Nypsus, De mensuris [in realtà Balbus, Expositio et ratio omnium formarum] (ff. 109v-110v); alcuni excerpta da agrimensori minori (ff. 111r-112r); Lucius Anneus Seneca, Apokolokyntosis (ff. 112v-118v); Censorinus, De die natali (ff. ff. 119r-139r), seguito da un frammento «De naturali institutione» (ff. 139r-145r). L’item senecano non è menzionato in C, probabilmente perché l’operetta è adespota e anepigrafa nel ms. Rare tracce attribuibili alla mano di Colocci (per es. ai ff. 8v, 20v, 57v, 111r, 112r). 249 Vittorio Fanelli identifica il presente item con il Vat. lat. 4804, che è una copia dell’Enventari ho collectori en part de cirurgia et de medicina (così il frontespizio del cod.) di Guy de Chauliac, un trattato di chirurgia composto nel 1363: cod. cart. (con primo foglio in pergamena), ca. 32,5 × 21,5 cm, 267 ff. numerati, più due fdg moderni, uno in capo e uno in fine. La grafia è in caratteri gotici (XIV-XV sec.), ma i capilettera ornati e le eleganti miniature (illustranti le varie attività del medico) che lo abbelliscono sono in stile pienamente rinascimentale (le si trova ai ff. 1r, 27r, 41v, 72v, 98r, 114r, 120r, 140v, 147v, 154r, 175v, 223r, 264r); la scrittura è disposta su due colonne per foglio e i capilettera di inizio paragrafo sono marcati in rosso e blu, con tocchi di giallo. Il testo, come scrive Fanelli, è in «patois languedocien», una mescolanza di provenzale e catalano (inc. «en nom de Deu comença lo enventari ho collectori en part de cirurgia et de medecina compilat et complit en l’ayn de nostre senyor MCCClXiii per Guido de Caulliacs çirurgia adestra en arts et en medecina en la nobla [sic] estudi de Monpayler»). In base alle osservazioni sulla filigrana e sulle decorazioni si può con buona probabilità ascriverlo alla fine del Quattrocento (così FANELLI, Ricerche cit., pp. 161163). Sul codice tuttavia non si trova traccia di postille di Colocci (mentre ve ne sono di altre due mani, l’una che scrive in latino, l’altra che adopera la stessa lingua del testo). Quest’ultimo possedette invece certamente un altro codice d’argomento medico, il Vat. lat. 4797, visto che troviamo la sua mano nel recto del foglio non numerato iniziale, ad indicarne i contenuti: «Ioannitius in tegni / Arnaut de Villa nova de epidemia»; il codice contiene infatti il Liber isagogarum ad Tegni Galeni di Ioannitius (cioè il medico arabo Hunayn ibn Ishâd, al Ibâdí; con il nome tegni, da τέχνη, nel Medioevo si indicava — com’è noto — l’opera medica di Galeno, appunto «τέχνη ἰατρική») e il De epidemia di Arnaut de Villanova (medico provenzale morto nel 1311: cfr. FANELLI, Ricerche cit., p. 161), entrambi in catalano. La menzione esplicita della «cirurgia» nell’item di C invita però a ritenere più probabile che esso alluda al primo dei due codici qui citati (il secondo, inoltre, è probabilmente menzionato nell’inventario B dei volumi scelti dal Sirleto per la BAV alla morte di Colocci: qui si legge infatti, al nr. 128 «Libro di Techne in lingua spagnola»). 250 Per gli altri item aristotelici, vd. nr. 3, III cassa, f. 186r. 251 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 332, 342, ascrive alla biblioteca di Colocci l’autografo pontaniano del De fortuna: il codice Vat. lat. 2841, cart., ca. 28,5 × 21 cm,
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ff
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31. Pratica di memoria artificiale252 32. Bruni Longoburgen(sis) Cirurgia253 33. Jo. Imperatoris epistola Indorum de rebus Indiè254 34. Lib. qui inscribitur Viaticum255 35. Lib. qnusAlmagesti et observationes arithmetriè (?)256 36. Novelle Jo. Andreè257
70 ff. numerati più due fdg in principio e uno in fine. Vi trovo postille di Colocci solo al f. 52v, ma il suo nome è interpolato in diversi punti — da Pietro Summonte — come a simulare una dedica a lui del trattato: A. CAMPANA, Angelo Colocci conservatore ed editore di letteratura umanistica, in Atti del Convegno cit., pp. 257-272, p. 271. 252 L’item è preceduto nel marg. sinistro da un segno di notabile, per la cui funzione si rimanda al nr. 23 di questa stessa cassa. 253 Identificato da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 339 (nt. 1) e 343 con il Vat. lat. 4471. Si tratta di un ms. membr., XIV sec., ca. 33 × 23 cm, 56 ff. (più un bifolio di guardia cart. in principio e uno in fine), con belle iniziali decorate o almeno rubricate e due miniature (a ff. 1r, 23r) che marcano l’inizio di ciascuno dei due libri che compongono la prima delle due opere contenute nel codice. Il testo è disposto su due colonne e corredato da alcuni marginali coevi entro cartigli. A f. 55r-v ci sono appunti su due colonne di mano coeva al codice (probationes pennae a f. 56r). Il codice è composto da due diversi testi, vergati da due differenti mani che scrivono in gothica rotunda: la prima è responsabile della stesura dei ff. 1r-38v che contengono, secondo l’incipit di f. 1r, la «Cyrurgia Bruni Longoburgensis»; la seconda (ff. 39r-54v) scrive i «Secreta G. a magistro Girardo cremonensi translata de arabico in latinum verba Galieni» (f. 39r). La seconda parte è priva di miniature, ma ha i titoli dei capitoli e dei paragrafi marcati in rosso. Non vi trovo traccia della mano di Colocci. 254 Si tratterà di qualche scritto attribuito al leggendario Johannes Presbyter, il Prete Gianni, ritenuto un potente e ricchissimo imperatore di terre orientali variamente collocate in Asia o in Africa dai diversi cronisti. Vanta ad esempio numerose edizioni nel XV secolo un De ritu et moribus Indorum, attribuito a questo personaggio, la cui princeps è data a Strasburgo (tipografo del Breviarium Ratisponense), verso il 1479-1482 (in quarto; ISTC nr. ij00395000). 255 Trovandosi collocato tra libri d’argomento scientifico-tecnico e medico, si potrebbe suggerire che l’item alluda al Viaticum Constantini monachi, opera medica di Costantino Africano (ca. 1020-1087) di cui esiste un’edizione cinquecentesca che comprende anche le Divisiones Rasis filii Zacharie cioè di Muhammad ibn Zakaríyâ, Abû Bakr, al-Râzí (IX-X sec.), data a Lione, «expensis Vincentii de Portonariis de Tridino Montisferrati, Gilbertum de Villiers», 1510. L’item di C tuttavia non specifica la natura del volume. 256 Un riferimento all’Almagesto si trova, come abbiamo visto anche in A, f. 60r [3] («Almagestus quadripartitus») e nella lista e (contenuta in Vat. lat. 3903, ff. 222r-227v), f. 223r: «Quadripartito in greco». Quanto all’annotazione di C si osserverà che l’indicazione «Liber qnus» farebbe pensare ad un fascicolo di pochi fogli — «q(uinter)nus» o «q(uater)nus» —, nel qual caso è possibile che esso, in fasi precedenti sia stato legato con altro (forse proprio con un Quadripartitum come sembrerebbe suggerire l’item di A). 257 Cfr. A, f. 46r [3]: «Novella Jo: Andree», cfr. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., pp. 113, nt. 80. L’item non è identificato, ma alluderà a qualcuno dei Novella commentaria del giurista bolognese Giovanni d’Andrea (1271-1348): i più celebri sono quelli In quinque Decretalium libri (sul personaggio vd. G. TAMBA, Giovanni d’Andrea, in DBI, 55, Roma 2001, pp. 667-672).
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f. 191r 37. Varro de re rustica impress.258 38. Lactantius Firmianus259 39. Aristidis et Catonis vite a Plut(ar)co scripte260 40. Festi Pompei vocabularium261
258 Identificabile con la sola sezione varroniana dell’edizione degli Scriptores rei rusticae, Firenze, Filippo Giunta, 1515, costituita dall’esemplare BAV, R. I IV.890, segnalata come colocciana per primo da FANELLI, Ricerche cit., p. 63. Cfr. anche A, f. 62v [22] «Varone cor[e]cto p. Vittorio» (vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., pp. 96 e 145, nt. 329 e rimandi; cfr. anche BIANCHI, Per la biblioteca cit., p. 282). A partire da questo item 37 riprende la mano a. 259 Cfr. nr. 44, V cassa, f. 189v. 260 L’item è identificabile con il Vat. lat. 2946 (segnalato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 324, 342, che tuttavia non lo mette direttamente in relazione con questo item). Si tratta di un ms. cart. (ma con bifoglio di guardia membr.), XV sec., 124 ff. (bianchi i ff. 93r-100v). Su f. 2r-v (membr.) Colocci ha trascritto l’indice di questa miscellanea, che si apre con «Aristid / vita per F. Barbarum / Catonis [...]». Tra i ff. 3r e 92v sono infatti contenute le Vitae di Aristide e Catone tradotte da Francesco Barbaro (1390-1454, cfr. G. GUALDO, Barbaro, Francesco, in DBI, 6, Roma 1964, pp. 101-103) e dedicate a Zaccaria Barbaro (quella di Catone inizia a f. 34r). Accanto all’incipit di ciascuna di esse Colocci ha annotato, rispettivamente, «impressa 91» (f. 3r) e «impressa 96» (f. 34r): forse rimandi alle pagine di uno stampato delle Vite di Plutarco (cfr. nr. 23, III cassa, f. 186v); non ho tuttavia trovato notizia di edizioni a stampa di queste traduzioni del Barbaro. Oltre a questo, il volume prosegue poi con alcune lettere (la parte terminale, forse, di quella indirizzata ad Alberto de Sala e quella indirizzata al veronese Giovanni Salerno) di Guarino Veronese (che fu maestro di Francesco Barbaro) e si conclude con una lettera di Poggio Bracciolini. Tra questi due elementi si collocano testi che non ho per ora avuto modo di esaminare nel dettaglio. Se però si confronta l’attuale contenuto del codice con l’indice che Colocci ne trascrive al f. 2r-v, si dovrà constatare che il ms. deve aver subito uno smembramento e l’asportazione di alcune parti (come forse denunciano i fogli bianchi che si trovano all’interno del volume). Secondo l’indice, infatti, il codice avrebbe dovuto ospitare anche lettere di Gasparino Barzizza (altro maestro del Barbaro) e orazioni di Leonardo Bruni, Niccolò da Bologna e altre lettere di Guarino. Dopo gli item plutarchei riportati, l’indice, infatti, prosegue così: «epitaphios Manuelis per Andream Iuliani / epistula Guarini ad Jo. Chrysoloram p(re)/ceptorem suum / Gasparinus ad Andream Iulianum / Guarinus ad Barthol. / Poggius ad Varinum / Guar. Jac° de Fabas / Idem Manueli / Ide[m] Hier° vall[...]o / Ide[m] Ant. Corbinello / Alberto de Sala / Ide[m] Salerno / Leon. aretini oratio in funere Caroli / Zeni / Nici Bononiè lucani oratio pro licen/tiando / Guer. Aurispe / Aurispa Panhormite / Io. Lucidi carmen de principe / mantuan / Ambrosij oratio habita Basileae / Eiusdem coram caes(arem) / [f. 2v:] / Antoni ilirici expurgatio Constantinopolit. / Poggij multe epistule». Insomma, il ms. restituiva i contorni di un ambiente che sembra quello di Francesco Barbaro, piuttosto che quello di Colocci, sicché verrebbe da supporre che l’area della sua provenienza (senza escluderne il possesso da parte del Nostro, provato dalla tavola autografa iniziale) vada individuata nell’ambito dell’umanesimo veneto primo Quattrocentesco. La questione però meriterebbe maggiore spazio di quello qui concesso. 261 Cfr. supra, nr. 57 della III cassa, f. 187v.
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v. 41. un libro spag.lo di romanzi262 42. Seneca263 ♀ 43. Abubertus de nativitatibus264 44. Stephanus Niger impress.265 45. Paulus Pergulensis de logica compendium266 262
Cfr. supra, nr. 18 della VI cassa f. 190v. Oltre al presente, in C troviamo altri 7 rimandi ad opere di Seneca, uno solo dei quali però, per il momento, può essere associato ad un volume noto: a f. 194v il nr. 5 della IX cassa (l’unico che si indica come uno stampato: vd.), nella quale si trova la maggior parte degli item senecani. Gli altri sono il nr. 70 (Tragedie) della VII cassa, f. 193r; i nrr. 3 (si dice solo che è «in perg.»), 11 (Tragedie), 12 (Epistole) della IX cassa, f. 194v e, sempre nella stessa cassa, i nrr. 15 (Tragedie) e 23 («Declamationes») di f. 195r. 264 L’item è preceduto nel margine sinistro dal segno già incontrato in corrispondenza dell’item nr. 61 della VI cassa (f. 187r) e che si ipotizza marchi le opere d’argomento astrologico. Qui si tratta infatti del Liber nativitatibus (Kitâb al-Mawâlíd) di Abû Bakr al-Asan ibn al-Khaíb, che fu tradotto in latino intorno al 1218 da Salio patavinus. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 343 riconduce alla biblioteca di Colocci il codice Vat. lat. 4078, che contiene l’operetta. Si tratta di un manoscritto cartaceo di 57 fogli, vergati in una scrittura umanistica piuttosto spigolosa (inc.: f. 1r «Incipit liber Abubetri de nativitatibus / Dixit Abubetri Maugmet filius alkas sibi alkufi primo quod pertinet quid facere debeamus in nativitatibus…»; expl.: f. 57v « Completus est liber Alkisibi de nativitate, cum laude et adiutorio dei translato a Magistro Salione, de Arabico in latinum. Laus deo, Marieque virgini, matri sue»). Un esame diretto del ms. non consente però di scorgervi traccia della mano di Colocci, bensì di un’altra mano umanistica, piuttosto simile a quella di Giulio Camillo. Verosimilmente allo stesso item indicato in C si riferirà l’annotazione di A, f. 59v [19] «Albubater. de nativitatibus» (vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 140, nt. 304). La trascrizione del nome dell’autore, però, in questo caso, corrisponde più esattamente a quella che si trova nel frontespizio di un’edizione a stampa dell’opera: Albubater, magni Alchasii filius, de nativitatibus, Nürnberg, Johannes Petreius, 1540. 265 Il rimando è troppo generico: Stefano Negri (ca. 1475-1540) fu umanista e grecista, allievo di Demetrio Calcondila. Un suo dialogo (Διάλογος Στεφάνου τοῦ μέλανος βιβλιοπώλης καὶ φιλομαθής) si trova in principio della princeps del Lexicum graecum di Suida (di cui Colocci possedette l’esemplare Inc. I.20: cfr. nr. 42, IV cassa, f. 188r). Altre sue opere apparse in edizione a stampa che Colocci potrebbe aver conosciuto sono il Dialogus quo quicquid in graecarum literarum penetralibus reconditum [...] in lucem propagatur, His accedunt Philostrati Heroica [...] latinitati donata, Milano, Minuziano, 1517 (ne esiste un esemplare nel fondo antico della BAV, R. I III.54: il suo esame, tuttavia, non rivela traccia di alcun intervento annotatorio); oppure le Elegantissime e graeco authorum subditorum traslationes, videlicet Philostrati icones, Pithagorae Carmen aureum, Athenaei Collectanea [...], Milano, per Jo. de Castellono, 1521 (presente in BAV solo nel fondo Rossiano: Stamp. Ross. 3878), o piuttosto Quae quidem praestare sui nominis ac studiosis utilia noverimus [...], Basilea, Henricus Petrus, 1532 (esemplare del fondo antico: R. I IV.1917). Mi riservo di tornare al più presto sulla questione: qui basti per il momento la segnalazione di una possibile via di ricerca. 266 Sul personaggio vd. D. BUZZETTI, Paolo della Pergola, in DBI, 81, Roma 2014; la voce è per il momento consultabile online all’indirizzo web.dfcc.unibo.it. Qui il riferimento è al suo Compendium Logicae che ebbe una grande circolazione manoscritta prima dell’edizione a stampa; la princeps è PAULUS PERGULENSIS, compendium logicae, Venezia, Erhard Ratdolt per Lucilius Santritter, 1481, in quarto (ISTC nr. ip00190000). La BAV possiede, nei fondi antichi, solo esemplari delle edizioni successive, delle quali ho per il momento avuto modo di 263
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46. Pomponius Mela Solinius Itinerarium Antonini impress.267 47. Summa Magistri Nolandini 48. Boetius de conolatione philosophica268 v. 49. Vite de le ste virgine 50. Laurentii Bonicontri rerum diversarum libri269 consultare l’esemplare Inc. IV.109, dell’edizione Venezia, Baptista de Tortis, 1486, in quarto (ISTC nr. ip00192000): esso non mostra tuttavia alcuna traccia di mano colocciana, né d’altra mano (salvo nel margine del carme conclusivo). 267 Si propone qui per la prima volta l’identificazione di uno stampato appartenuto a Colocci, che ben corrisponde al presente item: si tratta di Ald. III.75, che contiene, POMPONIUS MELA, Chorographia; CAIUS IULIUS SOLINUS, Collectanea rerum memorabilium; Itinerarium Antonini; VIBIUS SEQUESTER, De fluminibus, fontibus, lacubus, nemoribus, paludibus, montibus [...] libellus; PUBLIUS VICTOR, De regionibus urbis Romae; DIONYSUS AFER, De situ orbis, Venezia, Aldo Manuzio, 1518. Il volume è molto intensamente postillato da Colocci, che vi annota marginalia anche abbastanza cospicui (si veda per es. a ff. 45r, 174r e 200v, dove l’annotazione «Insulas et domos capitolinus / dicit 211 in Antonino / Erasmi error in annotationibus Svetonii» rimanda probabilmente alla sua edizione delle Opera ex recognitione Desiderii Erasmi, R. I II.1012: vd. qui nr. 4, V cassa, f. 188v). Le postille riguardano per lo più i suoi interessi metrologici (cfr. per es. f. 52r marg. destro: «+ Mensurè / Ratio»; marg. inf.: «novem pedum et totidem unciarum»; f. 125r marg. inf.: «stad / mille pas / cubitum») e antiquari (f. 174r marg. inf. «Capitolius, in vita / Antonini “lorium” / Eutropius “lorios” / vocat illam ab urbe XII milia/ri», un appunto riferito ad un passo riguardante la Via Aurelia nell’Itinerarium Antonini; o ancora a f. 203r, preceduto da un segno di richiamo a chiave che rimanda a un passo del testo di Publius Victor: «o- vide de vico sandaliario in legio valliensium et capitolio»), ma anche linguistici (f. 91r marg. sup. «lingua punica / post annos 737 quem fuerat estructa»); numerosi sono i rimandi a loci librarii (per es. a Plinio: «Pli in 3 de / ambitu Ita/lie XXXL [...]» f. 57v; a «Ptol[omaeus]. in Almagest[o]» f. 45r; alle Epistolae di Cicerone: «Cico L(ibr)o ep. 5. ep. 16»; a Frontino: «Frontin fol 7», f. 207v). Il volume mostra però anche traccia di una diversa mano (per es. ff. 3r-v, 4v, 6r) che troviamo anche in un appunto datato, vergato in corrispondenza del frontespizio (f. 1r): «De taberna explicatus duobus iulliis et dimidio, mihi stetit anno d. 1525 et 2. pontificatus Clementis». Se ne potrà arguire che sia la mano di un precedente possessore del libro, visto che esso poi rimase a Colocci e passò alla BAV, come registrato in C, nel 1558. 268 Cfr. nr. 60, III cassa, f. 187r e rimandi. 269 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 330, 342 segnala un ms. che potrebbe corrispondere all’item qui registrato (che tuttavia non viene menzionato): il Vat. lat. 2844, che contiene, appunto, De rebus divinis et naturalibus e De rebus coelestibus di Lorenzo Bonincontri (cioè gli autocommenti ai suoi poemi Rerum naturalium libri e De rebus coelestibus: cfr. C. GRAYSON, Bonincontri, Lorenzo, in DBI, 12, Roma 1971, pp. 209-211). Non ho purtroppo ancora avuto modo di esaminare direttamente il ms. Segnalo invece per completezza che una copia della prima opera si trova anche nel fascicolo costituito dai ff. 11r-66v della miscellanea colocciana Vat. lat. 2833, cart., XV-XVI sec., in folio, 268 ff. (bianchi i ff. 269-271). Il primo foglio del fascicolo presenta questa intestazione:«Laurentii Bonincontri Miniatensis, Rerum Naturalium et divinarum ad Ferdinandum Aragonium Inclitum Siciliae Regem» (f. 11r). Tuttavia, questo gruppo di fogli, che appare autonomo rispetto al resto del codice (è di mano di un copista che non si trova nelle altre sue parti, presenta rubriche in rosso e un’iniziale decorata in verde e oro), non mostra però tracce della mano di Colocci (per la bibliografia
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v. 51. Tractatus algorismi de abaco270 52. Annotationes Codri in Comedias Plauti271 53. Comedia Epiphebus272 54. Epistole Leonardi Aretini273 55. Dialogi Pontani274 f. 191v 56. Dialectica Laurentii Vallè impress.275 57. Urbanus de fili[..]o 58. Pomponius Mela276 59. Porcellus Poeta de felicitate temporum Pii 2277 essenziale sul ms. vd. BERNARDI, Angelo Colocci cit., p. 80). Per un altro dubbioso rimando a opere del Bonincontri vd. nr. 1, VIII cassa, f. 193v. 270 Cfr. nr. 49, III cassa, f. 187r. 271 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 330, 342, segnala tra i codici colocciani il Vat. lat. 2738 che contiene appunto il commento di Codro relativo a Plauto (cfr. anche nr. 49, V cassa, f. 189v). Si tratta di un codice cart., XVI sec., 16 × 22 cm ca., 385 ff. organizzati per lo più in senioni (bianchi i ff. 5-8, 24, 109-110, 153-154, 334, 383-385). Il testo è a piena pagina, vergato da due mani umanistiche. Attribuibili a Colocci sono probabilmente la cartulazione dei fogli (almeno quelli numerati anticamente), le sottolineature e alcuni tratti e crocette (cfr. ad es. f. 260v) nel margine, che probabilmente richiamano l’attenzione su parole sottolineate. 272 Forse la commedia Philogenia et Epiphebus (1437/38) di Ugolino Pisani (1405-1445). 273 Per gli altri item pertinenti a Leonardo Bruni, vd. nr. 29, II cassa, f. 185v. Tra i libri colocciani noti non mi risulta una raccolta di lettere di questo autore. Sue traduzioni invece si trovano nei già menzionati Ott. lat. 1882, Vat. lat. 1494 e 1883. 274 Per gli altri item pontaniani vd. nr. 33, III cassa, f. 196v. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 331-332, 342, identifica il presente item con il dialogo Asinus, contenuto autografo nel Vat. lat. 2840, cart., XVI sec. in. (a f. 24r si legge un appunto datato 1501: «De immanitate liber finit Anno M° Vco primo»), ca. 28 × 21,5 cm, 57 ff. numerati (tranne il primo che è stato spostato in principio ma faceva parte in realtà dei fascicoli che si trovano tra f. 10 e f. 24 e che contengono il De immanitate), più un fdg libero e uno incollato, in principio e in fine. Il codice infatti, in realtà, oltre a brogliacci preparatori del dialogo Asinus (ff. 1r-7r), contiene due redazioni del De immanitate (ff. 20r- 24r e 33r-54v) e alcuni fogli bianchi (ff. 8r-v, 25r-29v, 32v, 55v-56v). Non vi trovo traccia della mano di Colocci. 275 Dell’opera la BAV possiede solo un esemplare della princeps, LORENZO VALLA, Dialectica, Milano, Guillermus Le Signerre, 1496-1500, in quarto (ISTC nr. iv00049000), nel fondo Propaganda Fide (II.15). Per le altre opere di Valla in C, vd. nr. 32, V cassa, f. 189r. 276 Per un altro item contenente Pomponio Mela insieme ad altri autori vd. nr. 46, VI cassa, f. 191r. Il presente item è stato identificato con il Vat. lat. 2952 che contiene Pomponius Mela, De Chorographia (ff. 1r-37v); Paulus Orosius, Historiae adversus paganos (Excerpta da I,2: ff. 38r-443); Gennadius Massiliensis, De viris illustribus (excerptum: XL, De vita Orosii; ff. 44r-v). Si tratta di un codice cart., XV sec., 2 fdg (ff. I-II), più 45 ff. (bianco f. 45r-v), 19 × 13 cm ca. Reca glosse e sommari marginali di mano forse del copista, oltre che di un’altra mano del XV sec. che impiega la g di modulo onciale, tipica del circolo di Pomponio Leto (il ms. era anche citato al nr. 71 di una lista complementaria dei Ranaldi, oggi però scomparsa; per tutte queste notizie vd. Les manuscrits latins cit., III/2, pp. 60-61). 277 Un rimando a Porcelio Pandone (1407- ca. 1485) si trova anche in A, f. 63v [51] (mano
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v. 60. Comedia iij Dantis de Paradiso 61. Fratris Enrici de Trapano carmina 27862. Libri caldei numero sette levati della cassa 2a 63. T. Lucretii Cari de rerum natura impress.279 64. Philelfi satir. impress.280 65. Lucii Auli Persii Flacci satyre in perg. scrip.281 66. Claudius Cornelius Severus in Bamb. scr.282 colocciana) «Porcellij». Vittorio Fanelli, in UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci cit., p. 16, nt. 20 identifica questo item di C con il codice Vat. lat. 1670 («Porcelii Pandonii poete laureati Epigrammatum, poematumque solutam praefatum incipit...» f. 1r). Si tratta di un ms. cartaceo (membr. il solo f. 120), di 120 ff., 29 × 21 cm ca., con numerose postille che tuttavia non mi sembra possibile ricondurre alla mano di Colocci (la stessa mano postilla il Vat. lat. 1672). Un altro item pandoniano si trova nel presente inventario a f. 193r, VII cassa, nr. 66 (vd.). Sul poeta vd. G. CAPPELLI, Pandone, Porcelio, in DBI, 80, Roma 2014, pp. 736-740. 278 Nel marg. sinistro, accanto ai nrr. 62-63 la consueta mano che è intervenuta altrove con aggiunte marginali (vd. nr. 20 della I cassa, f. 184r per l’elenco degli altri interventi) annota alcune parole non ben leggibili per il deterioramento della carta, ma che credo si possano decifrare — per la parte perspicua — come segue: «[po]sti nella cassa de simili» (la mano sembra quella qui indicata come mano b). Anche in questo caso l’intervento sarà la testimonianza di operazioni di raggruppamento tematico di item affini per argomento, dispersi tra le varie casse. Difficile dire, allo stato attuale delle conoscenze, a che cosa corrispondano i «libri caldei» di cui si parla al nr. 62. L’appunto riguarderà verosimilmente anche il nr. 63, nella sua natura di opera antica di “filosofia naturale”. 279 È per il momento noto uno stampato colocciano contenente l’opera di Lucrezio: Inc. II.19, TITUS LUCRETIUS CARO, De rerum natura, Verona, Paulus Fridenberger, 1486, in folio (ISTC nr. il 00333000), tuttavia esso difficilmente potrà essere identificato con il presente item visto che corrisponde al nr. 20 degli stampati latini dell’inventario D: «Lucretio con scholii del Colotio, coperto di corame rosso» (lo testimonia l’antica segnatura «Orsini.lat. 20» sul risguardo anteriore; è l’Inc. 405, secondo le segnature impiegate da DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 258, 383). L’esemplare presenta annotazioni di Colocci, spesso anche piuttosto estese (vd. per es. f. 5r, 56r-v, 75r-v, 89v, 91v). Una seconda edizione a stampa di Lucrezio che potrebbe essere appartenuta a Colocci si trova nell’interno 2 di Inc. IV.158, che, pur privo di tracce della sua mano, secondo Michelini Tocci è sempre stato legato all’interno 1 dello stampato, che presenta invece evidenti segni del possesso da parte dell’esinate (per i necessari rimandi e osservazioni, vd. nr. 29, IX cassa, f. 195r). 280 Per gli altri item relativi a Filelfo vd. nr. 12, III cassa, f. 186r. Quanto al presente item, la princeps è FRANCISCI PHILELPHI Satyrarum hecatosticon prima decas, Milano, Christophorus Valdarpher, 1476, in quarto (ISTC nr. ip00615000). Ne ho esaminato l’unico esemplare vaticano del fondo antico, l’Inc. III.104, uno splendido volume corredato della coperta originale, con bindelle e fermagli ancora funzionanti. Sui fdg ant. e post. vi sono annotazioni di mani del XVI secolo e alcuni marginalia si incontrano anche nel testo, ma nessuno mi pare riconducibile alla mano di Colocci. Ho poi esteso la ricerca alle edizioni successive, in particolare a quella data in Venezia per Bernardino Vercellese nel 1502, di cui si conserva nel fondo antico l’esemplare R. I IV.1176: esso però non reca alcuna traccia di consultazione (sul fdg si leggono solo vecchi segnature, a partire da quella dell’inventario Grippari: «IR/11110»). 281 Per questo e per l’item nr. 67 qui seguente, si veda il nr. 62, III cassa, f. 187r. 282 Forse il poeta epico romano Cornelio Severo (I d.C.) amico e contemporaneo di Ovidio, della cui opera rimangono solo frammenti.
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67. Auli Persii Flacci Poete satyrici in perg. scr. 68. Martialis in perg. scri283 69. Martialis in Bamb. scri: 70. Tibullus in bamb. scr.284 71. Catullus inpress. in Bamb.285 72. Propertius in Bamb. scr.286 73. Romuleon de Gestis Romanorum in Bamb. scr.287 74. Hesperidos Basinii Parmen in bamb. scr.288
283
Per questo e per l’item seguente, cfr. nr. 51, V cassa, f. 189v. Unico altro rimando tibulliano è quello che si trova al nr. 4 della IX cassa, f. 194v (mentre il poeta è citato come fonte dei lemmi delle Tabulae menzionate ai nrr. 1 e 5 della V cassa, f. 188v). Non sono noti manoscritti («scr.») colocciani che contengano la sola opera di Tibullo, mentre ne possedette l’edizione TIBULLUS, Elegiae sive carmina, Brescia, Boninus de Boninis, 1485, in folio (ISTC nr. it00370000), che costituisce l’int. 1 dell’Inc. II.200; l’int. 2 è invece un’edizione di Catullo (vd. qui nr. 71 e cfr. RUYSSCHAERT, Fulvio Orsini et les élégiaques cit., pp. 676-678). Si segnala però il già citato codice colocciano Vat. lat. 1610 (vd. nr. 51, V cassa, f. 189v), che nei primi 37 ff. contiene appunto Elegie di Tibullo. Qui la mano di Colocci si trova in diversi punti nei margini (per es. f. 1v) e in alcuni appunti un po’ più estesi (per es. nel marg. sup. di f. 38r), tuttavia accompagnata anche da un’altra mano. 285 L’unica edizione a stampa contenente il solo Catullo che sia noto essere appartenuta a Colocci è quella ospitata da Inc. II.200, int. 2: CATULLUS, Carmina, Brescia, Boninus de Boninis 1485-6, in folio (ISTC nr. ic00324000), che però passò ad Orsini (cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 226, 258, 382; per la bibliografia su questo item vd. BERNARDI, Angelo Colocci cit., p. 85). 286 Unico altro item properziano (se si escludono le tabulae tratte dai suoi testi ricordate ai nrr. 1 e 5 della V cassa, f. 188v: vd. note relative) è il nr. 6 della X cassa, f. 195v. Non sono noti per ora libri colocciani contenenti testi del solo Properzio. Excerpta dalle sue elegie si trovano ai ff. 41v-43r del Vat. lat. 1671 (per il quale vd. nr. 58, VII cassa, f. 193r). 287 Si tratterà di BENVENUTO DA IMOLA, Romuleon: l’item è probabilmente identificabile con il ms. Vat. lat. 1948 (segnalato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 342, che tuttavia non lo mette in relazione con questo item e non ne specifica il contenuto in maniera esauriente), che lo contiene («incipit liber qui Romuleon intitulatur eo quod de gestis romanorum tractat, editus ad instantiam strenuissimi et inspectissimi militis domini Gomethi yspani [i.e. Gómez Albornoz, governatore di Bologna]», f. 1r). Si tratta di un ms., cart., XIV ex., ca. 29 × 22 cm, 190 ff., scritto su due colonne, con capilettera decorati in rosso e blu. Non vi si trovano però segni di pertinenza colocciana (sul Romuleon vd. L. SERIANNI, La tradizione manoscritta del Romuleon di Benvenuto da Imola, in Acme. Annali della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università degli Studi di Milano 59/III [2006], pp. 301-315). 288 Cfr. A, f. 63r [2] (mano di Colocci) «Basinii Hesperidos». LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 330 e 342 ha ricondotto alla biblioteca colocciana la copia dell’Hesperidos di Basinio da Parma (1425-1457: sul personaggio vd. A. CAMPANA, Basinio da Parma, in DBI, 7, Roma 1970, pp. 89-98) contenuta nel Vat. lat. 1677, senza tuttavia metterla esplicitamente in relazione con i rimandi di C (o tanto meno di A). Sul codice di fatto non si trova traccia della mano di Colocci. Il Vat. lat. 1677 è un codice cartaceo (sulla qualità della carta che lo costituisce e che ben potrebbe corrispondere all’espressione «carta bambagina» [qui semplicemente «in bamb.»], ci si è già soffermati in BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 146, nt. 338) di 140 fogli, 28 × 20 cm ca., vergato da almeno dieci mani diverse: l’ultima, 284
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75. Epigrammatha Antiqua [sic] urbis Impress.289 76. Plauti comedie in perg. scrip.290 f. 192r In 7a cassa 1. Claudii Tolomei Geographia291 2. Commentaria in Persium292 3. Tullius de oratore293 che trascrive i ff. 136r-140r, interviene in questi fogli pesantemente sul testo, con correzioni e integrazioni. La stessa mano si firma con caratteri greci al fondo di f. 140r «Βαρτολομιους». 289 Probabilmente da identificare con il Vat. lat. 8493 (in realtà un volume a stampa: Epigrammata Antiquae urbis, Roma, Mazzocchi, 1521), appartenuto a Colocci e sovraccarico di sue annotazioni: cfr. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 309 e 344, ma soprattutto M. BUONOCORE, Sulle copie postillate vaticane degli ‘Epigrammata Antiquae Urbis’, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae 13 (2006), pp. 91-102, p. 96. Un’altra copia dell’edizione si trova invece nel Vat. lat. 8492 (segnalato da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 90, nt. 56), che appartenne ad Antonio Lelio (che la postilla abbondantemente), il quale la donò a Felice Trofino, vescovo di Chieti. Secondo quanto scrive Michelini Tocci, Colocci acquistò anche questo esemplare dopo la morte del Trofino (nel 1527). 290 Per Plauto, cfr. nr. 49, V cassa, f. 189v. 291 Per gli altri item relativi all’opera di Tolomeo cfr. nr. 46, III cassa, f. 187r. 292 Il presente item non è ancora stato identificato, tuttavia si segnala la presenza ai ff. 5r-72v del Vat. lat. 6850, del commento a Persio di Anneo Cornuto. Il codice è indicato da José Ruysschaert (nelle note aggiuntive a FANELLI, Ricerche cit., p. 172) come colocciano e reca infatti a f. [I]r una tavola dei contenuti di pugno dell’umanista. 293 Incomincia qui la lunga lista dei volumi contenenti l’opera di Cicerone. Li si prenderà in esame separatamente per ciascuna opera, quando questa è indicata. Il De oratore è menzionato ai nrr. 3, 18, (f. 192r), 28, 40 (f. 192v). L’unico ms. colocciano noto contenente l’opera è il Vat. lat. 1708 (cfr. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 325, 342 e vd. anche Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 325), membr., XV sec., 151 ff., 24,5 × 14 cm ca., con frontespizio elegantemente ornato: capolettera decorato in oro, verde, rosa, blu, con girali di foglie e fiori bianchi. La mano di Colocci vi si trova ai ff. 3v, 4r-v. Si individuano anche altre due mani, ma il codice è comunque poco annotato. Reca l’ex libris «A. Colotii et amicorum» (di mano del Nostro, f. 151v). Un excerptum del De oratore (II. 8. 33) si trova invece al f. 87v del Vat. lat. 1751. Per completezza si dà qui conto — in apertura di questa ampia sezione ciceroniana — anche del possesso da parte di Colocci di una grande edizione delle opere dell’oratore: CICERONIS Opera quae nobis benigniora fata reservarunt in quatuor volumina digesta, Milano, Guillermus Le signerre per Alexander Minutianus, 1498-1499, in folio (ISTC nr. ic00498000), segnalata per la prima volta da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 88. I quattro volumina sono ora legati nei due volumi Inc. S.125 e Inc. S.126, entrambi intensamente postillati dal nostro (nell’opac della BAV sono disponibili anche alcune immagini che mostrano postille colocciane): il primo soprattutto fino a f. 76r, in corrispondenza delle opere retoriche; il secondo fino a f. 176r, cioè sulle epistole Familiares e Ad Atticum (vi sono tracce anche di altre due mani, una delle quali attribuibile a Carteromaco). Questi volumi, tuttavia, non potevano essere registrati in C, perché passarono a Fulvio Orsini, come prova la marca di possesso «Ful. Urs.» che si legge a f. 1r. Si segnala infine la presenza di un item «Tullius de claris oratoribus» al nr. 16 della X cassa, f. 195v (vd.), ma che sarà da identificare con il Brutus.
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4. Tullius de finibus bonorum et malorum294 5. Tulli questiones Tusculane295 6. Tulli epistole ad Brutum ad Quintum fratrem et ad Atticum296 7. Asconius Pedianus et Giorgius in orationes Cic.297 294
Vd. anche il nr. 31, f. 192v. Non identificato. Sono evidentemente le Tusculanae Disputationes: vd. anche i nrr. 13, 17, 22 a f. 192r e 49 a f. 193r. Non identificati. 296 Cfr. anche nrr. 25, 32 di questa stessa cassa, f. 192v (ma anche nr. 18 della V cassa, f. 188v). Delle epistole ciceroniane, tra i libri di Colocci è nota un’edizione a stampa (segnalata da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 88; segnalo inoltre una mia svista in BERNARDI, Angelo Colocci cit., p. 85, dove il volume è erroneamente indicato come «Incun. II. 115»), l’Inc. II.151, MARCUS TULLIUS CICERO, Epistolae ad Brutum, ad Quintum fratrem, Ad Atticum, Roma, Eucharius Silber, 1490, in folio (ISTC nr. ic501000), in cui l’umanista ha annotato nel f. 1r «Habet tabulam Scipionis cum hoc signo [segue un segno che ricorda vagamente una I gotica maiuscola con due cerchietti ai lati «oIo»] IN AB». Si dà per la prima volta notizia qui del fatto che il segno menzionato, si ritrova nel primo foglio non numerato (lo indicherò come [I]) di Vat. lat. 4062 (cart., XVI sec., ca. 20 × 14 cm, 1 fdg non numerato, 82 ff. numerati, più 35 ff. bianchi non numerati; contiene spogli lessicali dalle epistole Ad Atticum — ff. 1r-24r — e dalle Familiares — ff. 24v-82r — ed è indicato come colocciano da MERCATI, Il soggiorno del Virgilio Mediceo cit., p. 533, 540, 543, che lo identifica con uno dei libri prelevati dal Sirleto per la BAV alla morte di Colocci: sarebbe il nr. 117 «Tabulas super epistolas ad Atticum in m», dove la m sta per membranis e allude alla materia di copertura del codice e non a quella dei fogli) in cui la mano di Colocci si incontra sporadicamente (appunto nell’intestazione «Ad Atticum et alios in magiore volumine incipit [segno: «oIo» c.s.]», f. [I]r, e forse in alcuni trattini, crocette e serie di tre puntini che evidenziano lemmi nei margini). Dunque questo codice andrà identificato con la Tabula Scipionis menzionata nell’Inc. II.151, sul quale, per altro, la mano di Colocci non si trova altrove (salvo forse a f. 118v nel marginale «simulatam mentoris» e f. 140v «vennoni»); il volume a stampa è invece postillato da almeno altre due mani (una delle quali mi pare riconducibile a Carteromaco). È poi noto un codice colocciano contenente uno spoglio lessicale tratto dalle sole Familiares di Cicerone, il Vat. lat. 4048 (cart., 577 ff., in due tomi), da un’annotazione del quale (di mano di Colocci sul fdg) risulta che i lemmi provengono da un’edizione di Josse Badius e Jean Petit («respondet operi Ciceronis in carthoni rossi videlicet rectorica, oratoria, forensia, venum dantur a Jodoco Badio et Io. Parvo»). Come già osservava LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 325-326, l’appunto prova che Colocci possedette un esemplare di questa edizione, che sarà da identificare con Opera Ciceronis epistolica, Parigi, «venundantur cum caeteris, ab Joanne Parvo et Jodoco Badio», 1522, di cui la BAV possiede un esemplare del cui esame darò prossimamente conto: R. G. Classici. II. 121 (int. 2). Si veda infine anche la miscellanea Vat. lat. 1495 (XIV sec.) che contiene excerpta dalle Familiares (ma identificabile con il nr. 18 della V cassa, f. 188v: vd). 297 Anche se qui non è precisato, l’item potrebbe in realtà rimandare a un’edizione a stampa: sembra infatti corrispondere piuttosto bene a QUINTUS ASCONIUS PEDIANUS, Commentarii in orationes Ciceronis, Venezia, Johannes de Colonia e Johannes Manthen, 1477, in folio (ISTC nr. ia01154000), che contiene anche GEORGIUS TRAPEZUNTIUS, De artificio Ciceronianae orationis pro Q. Ligario, al quale potrebbe riferirsi il «Giorgius» dell’item. Colocci ne possedette l’esemplare Inc. II.199 (segnalato da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 89), sul quale la sua mano si trova ininterrottamente fino a f. 55v (vi si leggono le annotazioni anche di un’altra mano, che ricorda un po’ quella del giovane Marcello Cervini). Nel f. 1r Colocci precisa che il volume «habet tabulam in +» e annota alcune altre espressioni («piso 295
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8. Tullius de oficiis298 9. Rethorica ad Herennium299 frugi / ludi color / theatrum dedicavit / provinciae consulares...»). Difficile dire a che cosa si riferisca l’espressione «in +»: un’allusione forse alla libreria di Marcello Cervini, cardinale di «Santa Croce» dal 1540? A questo proposito si nota che è lo stesso Cervini che in numerose lettere inviate a Colocci tra il 1541 e il 1546 si firma in calce «Uti f(rate)r M.Carlis ste +» (cfr. Vat. lat. 4104, per es. ff. 1r, 3r, 5r). 298 Gli altri riferimenti al De officiis si trovano ai nrr. 11, 24 a f. 192r, 27, 35, 39 (stampato) 41, 43 a f. 192v, 50 a f. 193r. L’unico volume colocciano noto dell’opera è il Vat. lat. 2888 (segnalato da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 325, 342), cart./membr (sono membranacei i ff. 1, 12-13, 24-25, 36-37, 48-49, 60-61, 72-73, 84-85, fdg post.), XV sec. in. (scrittura gotico-umanistica), due fdg in principio, più 96 ff., 21 × 14 cm ca., avvolto in un frammento pergamenaceo del XII-XIII secolo, che reca un lacerto delle Institutiones (II, 1, 34-41) di Giustiniano; su di esso Colocci ha annotato «Script» (su f. Iv si trova l’ex libris di un precedente proprietario: «Gomecii de Lesmos est hic liber presens»; cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 671-672). Non si trova altrove la mano di Colocci, mentre vi sono altre mani coeve al codice e del XVI sec. Non ancora individuata l’edizione a stampa del De officiis menzionata al nr. 39 di f. 193r: la princeps è MARCUS TULLIUS CICERO, De officis. Paradoxa Stoicorum. Hexastica XII sapientum de titulo Ciceronis, HORATIUS FLACCUS, Ad Titum Manlium Torquatum, Magonza, Johann Fust e Peter Schoeffer, 1466, in folio (ISTC nr. ic0057600). Esiste tuttavia anche un incunabolo romano che contiene il solo CICERO, De officiis, Roma Ulrich Han, ca. 1469, in quarto (ISTC nr. ic00576500). 299 Gli altri riferimenti alla Rhetorica ad Herennium pseudociceroniana si trovano ai nrr. 10, 16, 20, forse 21 a f. 192r e 26, 30, 33, 42, 47 a f. 192v. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 325, 342 segnala come colocciani i codici — contenenti il trattato — Vat. lat. 1713, 1716, 2895, 2896, 2898, 2900, sulla base del fatto che su di essi compare l’annotazione di sua mano «visus». Purtroppo non ho ancora avuto modo di esaminare tutti questi esemplari, ma solo il Vat. lat. 1713: è un codice membr., XV sec. in., 22 × 14 cm ca., con un bifoglio di guardia in principio e uno in fine e 58 ff. numerati, avvolti in una pergamena palinsesta di recupero, che reca traccia di grandi neumi di mano del XV sec. Non vi trovo traccia della scrittura di Colocci, ma solo qualche notula d’altra mano nei primi fogli, mentre a f. 1r si legge, in lettere greche, «φραγαπανις» (forse interpretabile come una marca di possesso relativa alla famiglia romana dei Frangipane): cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 329, da cui traggo le informazioni seguenti. Il Vat. lat. 1716 è invece cart., XV sec., un fdg iniziale e 111 ff. numerati (f. 110r è bianco), 20 × 14 cm ca. (tranne f. 111, leggermente più piccolo degli altri). Reca traccia di mani umanistiche, tra cui quella di Colocci, tra i ff. 1r5r. Sul verso del fdg — dove compare l’annotazione colocciana «visus» — è stata incollata anche un’etichetta (forse un frammento della legatura precedente) che reca il titolo «Rhet. ad Herennium». Questo trattato occupa i ff. 1r-109v, mentre gli ultimi due fogli contengono quello che sembra un commentario al trattato pseudo-ciceroniano e altre annotazioni (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 332). Anche il Vat. lat. 2895 è un codice umanistico, cart., XV sec., 76 ff. (bianchi i ff. 74v-75r, 76r), 22 × 15,5 cm ca.: il trattato (ff. 1r-74r) è seguito da alcune annotazioni nei ff. 75v e 76v (reca traccia di una sottoscrizione di copista a f. 74r — «P. F. Claris» — mentre la nota «visus» si legge a f. 1r; cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 675-676). Misto è invece il codice Vat. lat. 2896, in parte cioè membr. e in parte cart., XV sec., di 76 ff., 19,5 × 13,5 cm ca. (i fdg. 1-2, membr., provengono da un atto notarile). Il trattato è contenuto nei ff. 3r-76r che sono preceduti da alcuni appunti e da alcune annotazioni e da un testo poetico in volgare, dedicato a Martino V (inc. «Victorosa [sic] et triumphal insegna», f. 2r); nel f. 76v sono trascritti versi latini tratti da Virgilio e
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10. Rethorica ad Herennium300 11. Tullius de offitiis301 12. Tullius de natura deorum302 13. Tullij questiones tusculane303 14. Tullii orationes304 Ovidio. L’annotazione colocciana «visus» si trova a f. 2r, mentre a f. 3r si trova la nota di possesso «hic liber est Archangeli Piccoli Ebolitani καὶ τῶν φοιλον [sic]» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 676-678). Più antico il Vat. lat. 2898, membr., XIV sec., due fdg iniziali (che recano annotazioni sentenziose di diverse mani, mentre il «visus» di Colocci si trova nel recto del secondo), seguiti da 55 ff., 15 × 17 cm ca.. Il codice è databile al 1385 in base alla sottoscrizione di copista che si legge a f. 55r («Millesimo trecentesimo octuagesimo quinto, Padue, dum studium et etas floruit»); nello stesso foglio anche una nota d’acquisto di mano del XVI sec. («emptus MDXXII»). Il trattato si legge ai ff. 1r-55r (f. 55v ospita anch’esso frasi sentenziose) ed è intensamente postillato fino a f. 30v (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 678-679). Pressocché coevo al precedente anche l’ultimo dei codici citati, il Vat. lat. 2900, membr., XIV sec., un fdg (che contiene degli excerpta dall’Eneide e da un commentario al trattato pseudo-ciceroniano, di Alano di Lilla), seguito da 64 ff., 26 × 19 cm ca., che contengono, appunto la Rhetorica ad Herennium. Sul recto del fdg si legge anche una nota di possesso («Felipus Bartus») e la consueta annotazione «visus» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 680-681). 300 Cfr. nr. 9, VII cassa, f. 192r. 301 Cfr. nr. 8, VII cassa, f. 192r. 302 Unico rimando all’opera: LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 325, 342 segnala come colocciano il Vat. lat. 1758: si tratta di un ms. cart., XV sec., un fdg membr. in principio (f. I: reca la tavola dei contenuti e l’annotazione di mano colocciana «visus»), uno in fine e 108 ff. numerati (bianchi i ff. 71r-v e 108v), 31 × 21 cm ca., con iniziali decorate. Il codice contiene il De natura deorum (ff. 1r-70v) e il De legibus (ff. 72r-108r) ed è appunto identificabile con il presente item (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 364). 303 Cfr. nr. 5, VII cassa, f. 192r. 304 Altri rimandi generici alle Orationes di Cicerone sono ai nrr. 23 di f. 192r, 32 e 37 di f. 192v e 68 di f. 193 (ma insieme alle opere d’altri autori). Si segnalano però anche qui i rimandi alle orazioni In Verrem ai nrr. 29 e 44 di f. 192v. Un caso un po’ particolare è invece costituito dal nr. 34 che avrà contenuto anch’esso orazioni ciceroniane o pseudociceroniane («Tulli responsio adversus Salustium et Horatium [sic] pro lege Manilia»), ma che non è identificabile con nessuno dei pezzi per ora noti della biblioteca colocciana. I due rimandi alle Verrrinae potranno forse essere identificati invece con i Vat. lat. 1751 e 1754 indicati da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 325, 342 come colocciani. Lattès, tuttavia, forse indotto in errore dalla sintetica indicazione dei contenuti che si trova sul recto del fdg di Vat. lat. 1751 («In Verrem / in Catilinam»), afferma che esso contiene dei frammenti delle Verrinae e le Catilinariae. In realtà il ms. (membr., XV sec., un fdg, 87 ff. — bianco il f. 29v e assente per errore nella cartulazione il f. 17 —, 27,5 × 19,5 cm ca.), ospita il testo integrale delle Verrinae (ff. 1r-81v: completo della Divinatio in Caecilium ai ff. 1r-8r), seguito dalla pseudosallustiana Invectiva contra M. T. Ciceronem (ff. 82r-84r) e dalla pseudociceroniana Epistula ad Octavianum (f. 84v-86r). Segue (ff. 86v-87r) una Declamatio di Coluccio Salutati divisa in due parti (Collatini ad Lucretiam e Lucretia ad patrem et virum; a f. 86v si trova la firma «Franciscus Florillus»), seguita dal già citato excerptum dal De oratore (vd. nr. 3, VII cassa, f. 192r). A f. 86r si legge la sottoscrizione di una mano che però non mi sembra la stessa del codice, ma solo dei testi dei ff. 86v-87v («per me Francischus Putheum parmensem, die Xiiii sept. MCCCCLij»: il nome è scritto su rasura e rimanda verosimilmente a Francesco dal
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15. Tullius de inventione rethorica305 16. Rethorica ad Herennium306 17. Tulli questiones tusculane307 18. Tullius de oratore308 19. Tullius de amicitia309 20. Tullius ad Herennium310 21. Tullij Rethorica311 Pozzo, sul quale vd. R. CONTARINO, Dal Pozzo, Francesco, detto il Puteolano, in DBI, 32, Roma 1986, pp. 213-216 e G. FRASSO, Tre «scede» per il poetone, in Parma e l’Umanesimo cit., pp. 139-143). Il codice presenta diverse tracce della mano di Colocci, sia lungo il testo (vd. per es. ai ff. 8v, 14v, 30r, dove tre marginalia rinviano a un libro «magno» che andrà forse individuato nell’Inc. S.125-126: vd. nr. 3, VII cassa, f. 192r), sia nel verso del fdg dove sono registrati gli incipit delle varie parti dell’orazione, corredati dai rimandi di foglio («Si quis fol.1. / quod erat optandum 8 / Neminem unum fol 15 / Venio nunc 30 / Nemini video 48»). Il Vat. lat. 1754, poi, è un codice cart., XV sec., 29 × 18,5 cm ca., 203 ff. e contiene le sole Verrinae. Qui gli interventi marginali di Colocci sono anche più intensi (tra gli altri si segnala l’indicazione di una lacuna a f. 110r che fa menzione anche di un libro a stampa — «desunt plura hic et in L° impresso» —: forse ancora un rimando a Inc. S.125-126). Quanto alle altre Orationes citate in C, si veda il nr. 68, VII cassa, f. 193r. Orazioni pseudociceroniane sono presenti anche nel Vat. lat. 2951 (cart., XV sec., 6 fdg, più 300 ff., 18 × 12 cm ca.), che, giusta la sua tavola dei contenuti di mano colocciana che si legge sul terzo foglio non numerato, dovrebbe contenere, a f. 53r, «Ciceronis et Salustii invectivè» (senza che questo consenta di identificarlo con l’item nr. 34 di cui si è detto, perché il codice costituisce una miscellanea ricchissima, in cui i pezzi ciceroniani non occupano le prime posizioni). Il codice è segnalato da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 320, 325, 332, 341, che dà conto solo della presenza di opere di Senofonte (Gerone, Memorabilia) tradotte in latino e delle invettive di cui si è detto; Fanelli (UBALDINI, Vita di Mons. A. Colocci cit., p. 13 nt. 20) menziona invece la presenza di un sonetto indirizzato a Colocci dal Cariteo a f 299v. Il codice, per la complessità e ricchezza dei testi, meriterebbe in ogni caso un più esteso e completo studio, che esula però dalla specifica pertinenza del presente contributo: si rimanda perciò senz’altro alla dettagliata esposizione dei contenuti reperibile in Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 54-60. 305 Un altro rimando al De inventione si trova al nr. 36, f. 192v. Nessuna delle copie è per il momento stata identificata. 306 Cfr. nr. 9, VII cassa, f. 192r. 307 Cfr. nr. 5, VII cassa, f. 192r. 308 Cfr. nr. 3, VII cassa, f. 192r. 309 Un altro rimando al De amicitia si trova al nr. 38 a f. 192v. L’unico manoscritto colocciano noto contenente l’operetta è il Vat. lat. 2893, segnalato da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 342, che tuttavia indica al suo interno, genericamente, la presenza di «Traités philosophiques» di Cicerone. Il codice contiene invece, a parte alcuni excerpta dalle epistole di Curzio Rufo (ff. 1v-2v e 79r-v), il De amicitia (ff. 3r-78v) e il De senectute (ff. 31v-56v), seguiti dai Paradoxa ad Brutum (ff. 56v-71r) e dal Somnium Scipionis (ff. 71r-78v). Il codice è un manufatto membr., XV sec. (databile a dopo il 1459, visto che questa data compare su alcuni fogli palinsesti provenienti da documenti notarili, reimpiegati nella confezione del ms.), di 79 ff. seguiti da due fdg bianchi, 18 × 12 cm ca. Sul f. 1r Colocci ha vergato la parola «scriptus» (cfr. Les classiques latins cit., III/1, pp. 674-675). 310 Cfr. nr. 9, VII cassa, f. 192r. 311 Cfr. nr. 9, VII cassa, f. 192r.
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22. Tulli epistole familiares312 23. Tulli orationes313 24. Tullius de offitijs314 f. 192v In cassa 7a 25. Tulli epistole familiares315 26. Tullius ad Herenium316 27. Tullius de officiis317 28. Tullius de oratore318 29. Tullij verine319 30. Rethorica ad Herennium320 31. Tulius de finibus bonorum et malorum321 32. Tulli epistole ad Brutum et [e]iusdem orationes322 33. Rethorica ad Herennium323 34. Tulli responsio adversus Salustium et Horatium [sic] pro lege manilia324 35. Tullius de Offitiis325 36. Tullius de inventione326 37. Tulli orationes327 38. Tullius de amicitia328 39. Tullius de offitiis impress.329 40. Tullius de oratore330 41. Tullius de offitiis331 42. Rethorica ad Herennium332 312
Cfr. nr. 5, VII cassa, f. 192r. Cfr. nr. 23, VII cassa, f. 192r. 314 Cfr. nr. 8, VII cassa, f. 192r. 315 Cfr. nr. 6, VII cassa, f. 192r. 316 Cfr. nr. 9, VII cassa, f. 192r. 317 Cfr. nr. 8, VII cassa, f. 192r. 318 Cfr. nr. 3, VII cassa, f. 192r. 319 Cfr. nr. 23, VII cassa, f. 192r. 320 Cfr. nr. 9, VII cassa, f. 192r. 321 Cfr. nr. 4, VII cassa, f. 192r. 322 Cfr. nrr. 6 e 23, VII cassa, f. 192r. 323 Cfr. nr. 9, VII cassa, f. 192r. 324 Cfr. nr. 23, VII cassa, f. 192r. 325 Cfr. nr. 8, VII cassa, f. 192r. 326 Cfr. nr. 15, VII cassa, f. 192r 327 Cfr. nr. 23, VII cassa, f. 192r. 328 Cfr. nr. 19, VII cassa, f. 192r 329 Cfr. nr. 8, VII cassa, f. 192r. 330 Cfr. nr. 3, VII cassa, f. 192r. 331 Cfr. nr. 8, VII cassa, f. 192r. 332 Cfr. nr. 9, VII cassa, f. 192r. 313
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43. Tullius de offitiis333 44. Tullius varine [sic]334 45. Tulli topica cum comentariis Boetii335 46. Tullius de legibus Fedo(n) Platonis dialogus336 47. Rethorica ad Herennium337 48. Tullius de somnio Scipionis cum Macrobio338 333
Cfr. nr. 8, VII cassa, f. 192r. Cfr. nr. 23, VII cassa, f. 192r. 335 L’item è stato identificato con il Vat. lat 2902 (cart., XV sec., 2 fdg, 146 ff., 21 × 14 cm ca.; vd. anche nr. 12, V cassa, f. 188v), segnalato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 325, 342. Esso contiene infatti il «Topicorum ad Trebatium libellus» (f. 1r) di Cicerone (ff. 1r-24r) e un commento di Boezio alle Topiche ciceroniane (ff. 31r-146v; oltre ad excerpta dalle Etymologiae di Isidoro ai ff. 25r-30r). Nel recto del secondo fdg, si trova l’indicazione dei contenuti: «Thopicorum Tulli», al di sotto della quale Colocci ha aggiunto «Boetii Isidori». Il codice era registrato nella lista parziale dei Ranaldi, oggi scomparsa, al nr. 19 (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 17-18). Per un altro rimando al commento di Boezio cfr. nr. 27, III cassa, f. 186v. 336 L’item è verosimilmente identificabile con il Vat. lat. 2910 (cfr. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 324, 235, 342), membr., XV sec., un fdg in principio, 76 ff. (bianchi i ff. 33-40 e non numerati, come i ff. 75-76), 24 × 16,5 cm ca. Il codice è composto da due parti: la prima contiene appunto il De legibus di Cicerone (ff. 1r-32v) e la seconda il Fedone di Platone (ff. 41r-73v) nella traduzione di Leonardo Bruni (con sottoscrizione datata di copista: «per me Nicolaum comensem MCCCCLXIII»). Colocci a f. Ir ha annotato «visus» e «auscultatus» (d’altra mano nello stesso foglio si legge «ducati tre d’oro»: forse il prezzo del codice). Il volume era descritto nella lista oggi scomparsa dei Ranaldi, al nr. 10 (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 28-29). Un’altra copia del De legibus, si trova nel Vat. lat. 1758 (vd. nr. 12, VII cassa, f. 192r). 337 Cfr. nr. 9, VII cassa, f. 192r. 338 L’item è con ogni probabilità da identificarsi con il Vat. lat. 1546, segnalato da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 330, 342, che tuttavia menziona il solo Macrobio. Il codice è un bel ms. membr., XI-XII sec., ca. 27 × 15 cm, 91 ff., più un fdg membr. più recente in principio e corredato di miniature (per es a f. 1r). Il ms. è glossato da più mani, le più abbondanti coeve al codice (intervengono sia nell’interl. sia nei margini), ma ve ne sono anche di posteriori (XIV sec.). Quella di Colocci si trova, oltre che a f. 1r dove verga il titolo dell’opera («de somnio Scipioni[s]»), anche in una nota di possesso che si legge a f. 1v, dove egli scrive, dopo le annotazioni di due precedenti possessori (Angelo Fonticolano dell’Aquila, morto nel 1503 e Fabiano Branconi: «Liber Angeli Fonticulani / olim / nunc Fabiani Branchoni»), «Hodie A. Colotij / et amicorum» (sue sono poi forse alcune sporadiche sottolineature, numeri e manicule, per es. ai ff. 22v, 23r, 26v). Il codice contiene, ai ff. 2r-6v, il «Somnium Scipionis M. Tullli Ciceronis excerptum ex libro VI De Republica» (f. 2r), seguito da «Liber Macrobii Ambrosii / Theodosii [...] de Somnio Scipionis» (f. 7r; termina a f. 91v). Sul codice cfr. anche Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 117-119. Trovo traccia di un’unica annotazione («Dracones custodia assignant(ur)») vergata da una mano assai somigliante a quella colocciana anche a f. 75v dello stampato Inc. II.217, che, per i contenuti potrebbe ben corrispondere al presente item: contiene infatti CICERO, Excerptum de Somnio Scipioni; MACROBIUS, Expositio in Somnium Scipionis; Saturnalium libri, Venezia, Jenson, 1472, in folio, (ISTC nr. im00008000). La traccia è tuttavia talmente esigua e incerta, che più cauto appare non azzardare un’identificazione certa (si segnala solamente che le altre due mani che 334
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f. 193r 49. Tulli questiones tusculane339 50. Tullius de offitiis340 51. Fortunatiani Rethorica Rutilius Lupus de figuris rethoricis Aquila Romanus de figuris341 52. Valerius maximus342 compaiono nei marginali dell’esemplare sembrano le stesse che si trovano in Inc. I.4: vd. nr. 39, VII cassa, f. 194r). 339 Cfr. nr. 5, VII cassa, f. 192r. 340 Cfr. nr. 8, VII cassa, f. 192r. 341 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 317, 329, 342 identifica l’item con il Vat. lat. 2914, un ms. cart., XV sec., ca. 20,5 × 14,5 cm, 134 ff. più un fdg membr. (numerato 1). Sul fdg Colocci ha vergato l’indice del libro: «FORTUNATIANUS 1 / RUTIλIUS 95 / AQUILA 115 [in realtà 114v]». A f. 1ar Colocci annota «Julii 4», il resto del foglio e bianco e seguono tre ff. bianchi non numerati, quindi, il f. 1b dove inizia il testo di Fortunaziano che si estende fino a f. 93r (inc.: «Quid est rhetorica? Bene dicendi scientia. Quis est orator? vir bonus dicendi peritus. Quid est oratoris officium? Bene dicere in civilibus questionibus...»). Questa è l’unica parte intensamente postillata da Colocci, che per lo più però si limita a riportare a margine notabilia relativi al testo (per es. f. 7v «controversiarum G(ene)ra vij / Simp. legale / CONIUNCTUM RATIONALE»), alcuni anche in caratteri greci (per es. f. 22v «ST / scripti et voluntatis / ρHτορ καί Διανοια»). I ff. 93v-94v sono bianchi, mentre ai ff. 95r-114v si trova il testo di Rutilio Lupo (inc. «Prosapodosis. Hoc schema duobus modis fieri...»), sul quale Colocci si limita a segnare l’intestazione a f. 95r («Rutilii Lupi»). Lo stesso si può dire per il testo di Aquila Romano, ospitato ai ff. 114v-134r (inc. «Rhetoricos petis longioris morae ac diligentiae quia pro angustiis temporis quo me profecto urget...»): anche qui Colocci segna solo l’intestazione («Aquilae» f. 114v; «Aquil» f. 115r). Nei margini del testo vi sono anche tracce di un’altra mano che spesso interviene in greco mostrando una dimestichezza con tali caratteri assai maggiore di quella del Nostro. Un nuovo volume a stampa contenente opere retoriche di Rutilio Lupo e Aquila romano riconducibile alla biblioteca di Colocci, poi, può essere identificato nel volume segnato R. I IV.2131: Veterum aliquot de arte rhetorica traditiones de tropis in primis et schematis verborum et sententiarum [...] opuscula, Basilea, Froben, 1521, in quarto (contiene RUTILIUS LUPUS, De figuris sententiarum et elocutionis; AQUILA ROMANUS, De nominibus figurarum et exemplis; IULIUS RUFINIANUS, De figuris sententiarum et elocutionis; SULPITIUS VICTOR, Oratoriarum institutionum praecepta ad M. Silonem; [Auctor incertus], De Rhetorica; AURELIUS AUGUSTINUS, De musica; EMPORIUS RHETOR, De Ethopoeia ac loco communi; APHTHONIUS, Praeexercitamenta). Se ne dà notizia qui per la novità del ritrovamento e per la pertinenza del soggetto, sebbene il volume non possa essere identificato con alcun item di C, dal momento che passò nelle mani di Fulvio Orsini (è lo stampato latino nr. 89 dell’inventario D, come prova la presenza della mano di Orsini che annota «tocco dal Colotio» e il numero «89» sul recto del fdg anteriore; cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., p. 388). Sono piuttosto cospicui gli interventi di Colocci che, come di consueto, annota rimandi a loci librari («Cicero ad Her. conformatio et», «Quintil 70 prosopo», p. 32), qualche parola in greco («Ambitus περιώδος», p. 38; «Aσύνθετον / solutum», p. 49), e costruisce alcuni schemi di sintesi dei contenuti nei margini della p. 104 (dove compare anche la postilla caratteristica «R.la», cioè «regula»); particolarmente intensi gli interventi sul De musica (pp. 162-166), ma limitati per lo più a notabilia. 342 Altri due i rimandi all’opera di Valerio Massimo in C: nrr. 71, VII cassa, f. 193r e 19, IX cassa, f. 152r (con indici manoscritti). Nessuno di questi item mi risulta tuttavia identificato.
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53. Festus Pompeius sine principio343 54. Diogenes Laertius de vita philoxophorum344 55. Juvenales satire cum anotationibus345 56. Boetius de consolatione philosophica346 343 Per altri rimandi all’opera cfr. nr. 57, III cassa, f. 187r e nota relativa. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 318 e 342 propone l’identificazione di questo item con il Vat. lat. 2736, unico esemplare vaticano — a suo dire — che contiene l’opera, mancante appunto della parte iniziale. Si tratta di un ms. cart., ca. 23 × 17 cm, XVI sec. in., 82 ff., più due fdg membr., uno in principio e uno in fine (questi ultimi sono coperti da una scripta di modulo carolino, in gran parte erasa; alcune tracce di più antichi lacerti membr. — recanti tracce di notazione neumatica aquitana — si trovano anche all’interno del codice come listelli di supporto per i fogli cartacei: ff. 10, 11, 66, 75). In realtà, però, se si confronta il codice con il Vat. lat. 2731, risulterà piuttosto evidente che tra i due è il secondo a mancare del principio — come richiederebbe l’item di C —, sicché l’identificazione del presente item andrebbe fatta con quest’ultimo ms. anziché con l’altro. Il Vat. lat. 2731 è anch’esso un codice cartaceo in scrittura umanistica di 64 ff., che comincia, però dalla lettera C (il testo di Festo è sostanzialmente un elenco lessicale ordinato alfabeticamente) e a frase iniziata (con le parole «qui ferro minaciter eat in te vinculus mederi queat[...]», f. 1r), mentre Vat. lat. 2736 partiva da A e si apriva cone le parole «[A]UGUSTUS LOCUS SANCTUS / ab avium gustu id est quia avibus significatus est sic dictus sive ab avium gustatu [...]» (f. 1r), che sono le stesse che inaugurano — salvo minime varianti — il testo anche nelle coeve edizioni a stampa (come appunto nel già citato Inc. III.8: vd. nr. 30, V cassa, f. 189r) dell’operetta che, come è noto, è giunta frammentaria. In questo codice, oltretutto, il testo festiano è seguito — da f. 78v in poi — da alcuni altri appunti d’argomento vario (annotazioni d’argomento medico, epigrammi, brevi biglietti...): dunque più plausibile mi pare l’identificazione di questo «Festus Pompeius sine principio» con il Vat. lat. 2731 (dello stess avviso gli autori di Les manuscrits classique cit., III/1, p. 573, che segnalano anche che il ms. è citato anche al nr. 20 dell’ultima cassa alla parete della Bibliotheca magna secreta, nell’inventario dei Ranaldi in Vat. lat. 8185, f. 354v: «Festus Pompeius sine principio in papiro»). 344 Non sono al momento noti altri volumi colocciani contenenti l’opera di Diogene Laerzio, se non lo stampato qui segnalato per la prima volta al nr. 58 della V cassa, f. 189v (vd.). 345 I rimandi all’opera di Giovenale in C, oltre al presente, si trovano ai nrr. 59-63 dell’VIII cassa e nrr. 6 (uno stampato) e 7 della IX cassa, f. 194v. Al nr. 2 della IX cassa (f. 194v) si trova invece il riferimento ad un commentario a questo autore. Non sono noti per ora manoscritti contenenti l’opera di Giovenale riconducibili alla biblioteca di Colocci (un diverso discorso occorre fare per lo stampato, per cui si veda il nr. 6 della IX cassa) a meno che non gli si voglia attribuire, come fa LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 324, il codice Vat. lat. 2815 che per lo studioso, però, conterrebbe «le Timée et le Phédon de Platon» (evidentemente Lattès intendeva scrivere 3815: rilevano l’errore PETITMENGIN – FOHLEN, I manoscritti latini cit., p. 87, nt. 210). Il Vat. lat. 2815 contiene invece, appunto, le Satire di Giovenale. Si tratta di un bellissimo codice umanistico di 89 ff. (bianchi i ff. 83v-86v) con iniziali miniate e, a f. 1r, una lussureggiante cornice di girali di foglie, fiori e animali (foglia d’oro, rosa, blu e verde), che reca anche uno stemma (un leone dorato che ruggisce rivolto verso destra dove si vede un monte sormontato da un croce su campo blu). Il ms. reca traccia di due mani (che segnano varianti in alcuni punti e gli argomenti a margine del testo), nessuna della quali, però, riconducibile a Colocci. Tenderei perciò ad escludere che il codice possa essergli appartenuto o che possa essere identificato con uno di quelli citati in C. 346 Cfr. nr. 60, III cassa, f. 187r e rimandi in nota.
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57. Inscriptiones vetustatis impress. cum multis aliis adictis manu scr.347 58. Petronius arbiter348 59. Salustii invective in Ciceronem Ciceronis vita Antonii Panormite epistole349 60. Terentius cum annotationibus impresso350 347 L’item è stato identificato da BUONOCORE, Sulle copie postillate vaticane cit., p. 97, con il Vat. lat. 8494: PETRUS APIANUS, BARTHOLOMAEUS AMANTIUS, Inscriptiones Sacrosanctae vetustatis non illae quidem romanae sed totius fere orbis, Ingolstad, Petrus Apianus, 1534. 348 L’item è stato identificato (Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 297-298, p. 298, nt. 2) con il Vat. lat. 1671, cart., 21 × 14,5 cm ca., XV sec. ex., con fdg membr., 43 ff. e 4 ff. bianchi in fine. Esso contiene appunto degli excerpta dal Satyricon di Petronio (ff. 1r-38r), seguiti da Sidonio Apollinare (ff. 38v-41v) e dalle elegie di Properzio (ff. 41v-43r; per Properzio cfr. nr. 72, VI cassa, f. 191v). Il codice fu segnalato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 342 (che faceva menzione del solo Petronio). La mano di Colocci si trova in diversi punti (per es. ff. 12r, 23v, 25v, 28r-v, mentre al f. 27r-v si legge la sua tipica abbreviazione «Sil°»). Il codice è identificabile con il nr. 16 della terza cassa alla parete della Bibliotheca magna secreta, secondo l’inventario dei Ranaldi del Vat. lat. 8185, f. 350v: «Pertonius arbiter. Ex papyro in nigro» (Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 298, nt. 3). 349 L’item è forse associabile alla miscellanea umanistica Vat. lat. 2906 (menzionata da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 325, 326, 330, 332, 342, ma non messa in relazione con questo item), un ms. cart., XV sec. ex., 22 × 15 cm ca., composto da un fdg (f. I) seguito da 103 ff. e un fdg al fondo. Per il dettaglio dei contenuti si rimanda senz’altro al repertorio Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 22-26, qui mi limiterò a fornire la trascrizione della tavola dei contenuti che si legge a f. Ir-v, scritta da Angelo Colocci (la cui mano mi pare non compaia altrove nel resto del volume). Risulterà evidente da subito che, se a questo ms. si riferisce l’item di C, il suo compilatore ha scorciato fortemente. Tuttavia i contenuti citati da quest’ultimo sono tutti e tre presenti in Vat. lat. 2906, e nello stesso ordine di C (li evidenzio tramite sottolineatura per chiarezza e segnalo che i tre elementi richiamati dall’item di C si trovano, rispettivamente, ai ff. 3r-4r, 13r-21r e 38r-47r): «Salustij invectiva [ma cassato] / Cicer(o) In Catilinam / Catilina in Cicer. / Sallust. in Cicer. / Cic. In Sallust. / Demosthen ad Alexa(n)d. de greco eloqui[o] / Aeschin. / Dema[...] / M. Porcij co(n)tra ornata(m) mulierem / L. Valerii F. / Lansilaus ad papam / Panormitè oratio / Cic(eron)is vitae per Arretinum / Oratio Nicolai Marini Mariconda / [f. Iv:] Aurispa ad Bap. Cap(od)ifero cor. (?) Iudicium ex Luciano / Poggi oratio in funus cardinalis Zabarello / Porcellus ad Raymundum p(ri)ncipe(m) Salerni / Bart. Fatij ep(isto)la et elegantie / Cic(eron)is synonima / Panhormite ep(isto)le multe / L. Vallè ep(isto)le plur. / Cic(eron)is / Aurispa» (come si constaterà dal confronto con il repertorio citato, l’indicazione dei contenuti da parte di Colocci si fa sempre più approssimativa e imprecisa con il procedere della registrazione). 350 Oltre al presente e ai quattro item seguenti, non vi sono altri rimandi a Terenzio in C. Non sono per ora noti volumi contenenti l’opera di Terenzio riconducibili alla biblioteca di Colocci. Quanto allo stampato qui citato, la princeps di Terenzio è PUBLIUS TERENTIUS AFER, Comoediae, Roma, Sixtus Riessinger, ca. 1469, in quarto (ISTC nr. it00063800), di cui però non esistono esemplari vaticani. Il più antico esemplare a stampa di Terenzio posseduto dalla BAV e l’Inc. III.17 che contiene un’edizione in folio probabilmente stampata a Napoli da un tipografo che proprio da questa edizione viene nominato, verso il 1470 (ISTC nr. it 00064300). Non è tuttavia ancora stato possibile individuare il volume a stampa appartenuto a Colocci, anche a causa dell’elevato numero di esemplari custoditi dalla BAV.
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61. Terentius 62. Terentius 63. Terentius 64. Terentius 65. Tullius de fato351 66. Porcelli Poemata352 67. Jovianus Pontanus de stellis353 68. Servius Honoratus Persianus de ponderibus Tullii orationes aliq354 69. Pontano de Tumullis [sic] 355 351
Non trovo menzione di altre copie di quest’opera filosofica di Cicerone in C né sono noti volumi colocciani che la contengano. Segnalo tuttavia per completezza e per affinità d’ambito tematico (filosofico) la presenza di un excerptum dell’adattamento ciceroniano del Timaeus di Platone nel Vat. lat. 1494, ai ff. 85r-90v (per il quale si veda nr. 52, II cassa, f. 185v). 352 Per un altro item pandoniano, vd. supra, f. 191v, VI cassa, nr. 59. A parte il Vat. lat. 1670, Colocci possedette altri 4 codici contenenti l’opera di questo poeta napoletano (cfr. UBALDINI, Vita di Mons. Angelo Colocci cit., p. 16, nt. 20): il Vat. lat. 1672 (XV sec., cart., 29 × 17 cm ca., di 38 ff., più un bifoglio di guardia più tardo; inc. [f. 1r]: «Publii Porceli poete suavissimi de amore Iovis epistole incipiunt. Lege voluptuose»), postillato da mano non colocciana (la stessa di Vat. lat. 1670); il Vat. lat. 2836, in cui i suoi versi sono sparsi in mezzo a numerosi altri versi umanistici (XVI sec., cart., in folio, di 331 ff.), tra cui numerosi autografi colocciani (cfr. BERNARDI, Angelo Colocci cit., p. 80); il Vat. lat. 2906 (che segnala fin dalla tavola — di mano colocciana — la presenza nel volume di un testo di «Porcellus ad Raymundum principem Salerni», f. 1v; sul codice vd. nr. 59 in questa stessa cassa); il Vat. lat. 2951 (cospicua miscellanea umanistica di 300 fogli, contenente a f. 271r una «Porcelli elegia», come si legge nel verso del terzo dei quattro fogli non numerati che — in capo al volume — ne contengono la tavola di mano colocciana: cfr. nr. 14, VII cassa, f. 192r). 353 Si tratterà dell’autografo pontaniano del De stellis, contenuto nel Vat. lat. 2837 (cfr. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 331-332, 342): reca postille colocciane almeno ai ff. 23v, 50v, 65r e 80v. 354 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 324, qui probabilmente legge «Priscianus» anziché «Persianus», tuttavia mi pare abbastanza chiara la lettera del testo (evidentemente una svista del compilatore). Credo che lo studioso francese, tuttavia, anche se ciò non viene esplicitato, intenda identificare con questo item il codice Vat. lat. 2713 (e di questo avviso sono infatti gli autori di Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 557-560, p. 560 nt. 1), che, contiene infatti Servio, De finalibus (ff. 3r-5v) e Prisciano, De accentibus (ff. 5v e 9v) seguiti da Cicerone, Pro Marcello (ff. 15r-18v), Pro rege Deiotaro (ff. 18v-24v), In Catilinam (ff. 24v-44r). Oltre a ciò, il ms. (cart., XV sec., 88 ff. — numerosi quelli bianchi —, 29 × 21 cm ca.) contiene altri testi ed excerpta per lo più d’argomento grammaticale (Diomede, Ars grammatica, ff. 6r-9v, 12r; Andrea Brentius, Praeludia in principio lectionis Aristophanis, ff. 45r-56v) o metrologico-geografico (ff. 10r-11r: «De urbe Roma»; ff. 13r.14r: Remius Favinus, Carmen de ponderibus; ff. 78r-83v: Pseudo-Probus, De notis antiquis). Il codice è ricordato anche nella lista parziale dei Ranaldi contenuta nel Vat. lat. 8185 (f. 354r), dove il codice corrisponderebbe al nr. 2 dell’ultima cassa alla parete della Bibliotheca magna secreta: «Nonnulle antiquitates. Ex papiro in albo» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 560 nt. 1; si vedano nel complesso le pp. 557-560 per una più dettagliata presentazione dei contenuti del codice). Per altri rimandi a orazioni cicerioniane vd. nr. 14, VII cassa, f. 192r. 355 Anche in questo caso un autografo, il Vat. lat 2842 (cfr. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 331-332, 342). Si tratta di un codice cart., datato al 1502 (II f. non numerato
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70. Tragedie Senecè356 71. Valerii Maximi comentarii357 f. 193v In capsa 8a 1. Bonincontra comentario in Lucretium358 2. Ovidij Metamorphosiu(m)359 3. Ovidius de fastis360 verso: «JOANNIS JOVIANI PONTANI AD PETRUM COMPATREM NEAPOLITANUM DE TUMULIS LIBER PRIMUS INCIPIT Anno domini M° Quingentesimo secundo»), tre fogli non numerati e 38 ff. numerati, più un foglietto di dimensioni inferiori legato tra i ff. 10 e 11 (bianchi i ff. 37d e 38) e un fdg in fine. Il codice è evidentemente una copia di lavoro, dove numerosi sono gli interventi dell’autore, ma anche di altra mano (credo di Pietro Summonte), mentre non vi trovo quella di Colocci. 356 Cfr. nr. 42, VI cassa, f. 191r. 357 Cfr. nr. 52, VII cassa, f. 193r. 358 Se il riferimento è all’umanista e astronomo Lorenzo Bonincontri, si veda il nr. 50 della VI cassa, f. 191r. Non trovo però notizia di commentari a Lucrezio attribuiti al Bonincontri, rispetto ai cui interessi intellettuali, tuttavia, una simile opera non sarebbe risultata incongrua. 359 Come per Cicerone, anche i richiami ad Ovidio verranno presi in esame distinguendo le varie opere. Vi è un unico altro item relativo alle Metamorfosi, cioè il nr. 9 di questa stessa cassa. Allo stato attuale è nota un’edizione a stampa contenente quest’unica opera di Ovidio, appartenuta a Colocci: è l’Ald. III.16, OVIDIUS, Metamorphoseωn libri quindecim, Aldo Manuzio, 1502. Sul volume la mano di Colocci compare in diversi punti (per es. nei fdg iniziale e finale) con brevi annotazioni (come il tipico «Sil°»: pp. 148 e 129 per es.) o più articolate osservazioni d’argomento metrico e geometrico (per es. a p. 30, dove, in relazione al v. 108 del II libro annota «Exprimit verbum grecum Antuξ yos .i. / summa curvatura rotarum preter alia / significata in hymno Iambico [...]»). Vi si trova anche la mano di Giovanni Giacomo Calandra che a p. 505 annota «Hi libri ovidiani emendati fuerunt per Io. Ia. / Calandram maxima diligentia, in gratiam Divè / Ysabellè estensis Mantuè Marchionissè / edito super his emendationum libro: vij / kal. Jun Anno sal MDX». Tuttavia questo volume passò alla Biblioteca di Fulvio Orsini (cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 244, 257) per cui non è ad esso che faranno verosimilmente riferimento i rimandi di C. Segnalo infine, in apertura di questa sezione ovidiana, lo stampato Inc. II.121, OVIDIUS, Opera, Venezia, Lucantonio Giunta e Matteo Capcasa, 1489, in folio (ISTC nr. io000135000), che, oltre alle Metamorfosi, comprende anche le Heroides, l’Ars amandi, i Remedia amoris, i De medicamine faciei, i Fasti, i Tristia, le Epistolae ex Ponto e alcuni poemetti minori e pseudo ovidiani (è segnalato da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 95). Sul primo foglio (numerato 18) vi è una nota di possesso («Matthei Herculani liber»), ma poi la mano di Colocci fa subito la sua comparsa e si distribuisce sporadicamente su tutto il volume, concentrandosi però maggiormente sulle Heroides, sui Fasti e su In Ibin. 360 I Fasti sono ricordati ai nrr. 4 (insieme ai Tristia), 6, 10-14, 16 di questa stessa VIII cassa, f. 193v. Forse, l’unico item associabile a un volume colocciano noto è proprio il nr. 4, che potrebbe corrispondere all’Ald. III.18, che contiene OVIDIUS, Fastorum. Libri sex. De tristibus. Libri quinque, De Ponto. Libri quatuor, Venezia, Aldo Manuzio, 1503 (cfr. BERNARDI, Per la biblioteca cit., p. 72). Secondo la testimonianza dell’umanista olandese Nicolas Heinsius (1620-1681) a Colocci appartenne anche un antico codice oblungo dei Fasti, identificabile
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4. Ovidius de fastis et de tristibus361 5. Ovidius de tristibus 6. Ovidius de fastibus362 7. Ovidius de arte amandi impressus cum comentariis363 8. Ovidius de arte amandi 9. Ovidius metamorfoson364 10. Ovidius de fastis365 11. Ovidius de fastis 12. Ovidius de fastis 13. Ovidius de fastis 14. Ovidius de fastis 15. Ovidius epistole366
con il Vat. lat. 1604, membr., XII sec., un fdg (f. I), più 52 ff. (con f. 5 bis e 39 bis), 22 × 9 cm ca. Il codice contiene anche due carmina di Hildebertus di Lavardin (De vinea evangelica, De Joseph, f. 1r) e reca traccia di mani di glossa coeve, ma anche del XIII secolo (con una nota di possesso (f. 51v: «fratris Pet[ri] de Tieffenbac»?) e del XV secolo (si segnala, tra le altre annotazioni, la nota di possesso a f. 52r: «Machado et amicorum») che denotano usi scrittori (g di modulo onciale) propri del circolo di Pomponio Leto (queste notizie, con i relativi rimandi bibliografici, sono reperibili in Les manuscrits latins cit., III/1, pp. 197-198). 361 Cfr. nr. 3, VIII cassa, f. 193v. Un altro richiamo ai soli Tristia, invece, si trova all’item successivo (nr. 5). 362 Cfr. nr. 3, VIII cassa, f. 193v. 363 Altri rimandi all’Ars amatoria si trovano ai nrr. 8, 17 (con i Remedia amoris), e 20. Il nr. 7, tuttavia, è l’unico item ovidiano di cui in C si dichiari la natura di stampato. La prima edizione commentata del De arte amandi di Ovidio di cui trovo notizia è quella con il commento di Bartolomeo Merula, la cui princeps è Venezia, Johannes Tacuinus de Tridino, 1494 [i.e. 1495], in folio (ISTC nr. io00144000) di cui in BAV si conserva l’esemplare Stamp. Chig. II.142 (int. 1), che ho esaminato e sul quale tuttavia non si trovano tracce colocciane; in questa edizione inoltre l’Ars è accompagnata dai Remedia amoris, sicché più opportunamente andrebbe richimata per il nr. 17. Numerose anche le edizioni cinquecentesche in cui il commento del Merula è affiancato da «aliis additionibus novis nuper in lucem emissis» (la più recente di cui trovo attestazione è quella in quarto, illustrata, data «Tusculani, apud Benacum, in aedibus Alexandri Paganini» nel 1526). Non trovo notizia di edizioni con altri commenti. In ogni caso, l’item rimane per ora inidentificato, in attesa di più estese ricognizioni nei fondi antichi della BAV. Più numerose le menzioni di edizioni a stampa di Ovidio in A e, confrontabile con questo item stampato, quella di f. 44v [32] «Ovidio in stampa romana» (per la quale vd. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., p. 109, nt. 58). 364 Cfr. nr. 2, VIII cassa, f. 193v. 365 Per questo e i quattro item successivi, nonché per il nr. 16, cfr. nr. 3, VIII cassa, f. 193v. 366 Un altro generico rimando alle «Epistole» di Ovidio si trova al nr. 21. La definizione si adatta altrettanto bene alle Epistulae ex Ponto, ai Tristia, o alle Heroides (a queste infatti si riferisce l’item 19, come si vedrà). Questi item rimangono dunque inidentificati, tuttavia si segnala la presenza di epistole ovidiane al principio (ff. 1r-10r) del già citato Vat. lat. 2793 (per il quale vd. nr. 21, V cassa, f. 189r), che perciò potrebbe forse essere identificato con il nr. 15 o il 21 di questa VIII cassa. Si ricorda infine, per completezza, lo stampato colocciano Ald. III.17 che contiene OVIDIUS, Heroides, De arte amandi, Venezia, Aldo Manuzio, 1502, in quarto, poi passato a Fulvio Orsini. Nella pagina che contiene il frontespizio, il volume reca la
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16. Ovidius de fastis 17. Ovidius de arte amandi et de remedio amoris367 18. Ovidius de amoribus368 v. 19. l’epistole d’Ovidio in rima volgare369 20. Ovidius de Arte amandi370 21. Ovidius epistole371 22. Virgilii in perg.372 nota di possesso: «Johannis Baptista de Forteguerri clerici Pistoriensis»; la mano di Colocci si trova in diversi marginalia del volume (si segnala, ad es., per estensione quello di p. 308). 367 Cfr. nr. 7, VIII cassa, f. 193v. 368 Il titolo allude probabilmente agli Amores ed è l’unico item di C che rimandi a questa raccolta elegiaca. Non identificato. 369 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 337, 344, identifica questo item, pur senza citarlo espressamente, con il Vat. lat. 4822, cart., XIV ex., in folio, 116 fogli, con due iniziali miniate (a f. 4v relativa alla lettera di Fillide a Demofoonte; e a f. 61r dove inizia la lettera di Medea a Giasone e dove però il disegno è solo abbozzato) al principio dei rispettivi testi (ma lo spazio era predisposto anche per le altre iniziali). Il codice contiene traduzioni in ottave italiane delle Heroides di Ovidio ed è acefalo (comincia da un verso pertinente alla lettera di Penelope a Ulisse: «E non giaceria fredda nel mio letto / né de i tardati tempi averia cura, / né lla mia thela pateria difecto, / né tarderiesi la sua tessitura...»). Non trovo tuttavia traccia della mano di Colocci nel codice. 370 Cfr. nr. 7, VIII cassa, f. 193v. 371 Cfr. nr. 15, VIII cassa, f. 193v. 372 Generici rimandi a Virgilio si trovano anche ai nrr. 24 a f. 193v, 29, 31 (di cui si specifica «cum anotationibus in pergameno»), 33-36, 37 (un altro esemplare «cum anotationibus»), 38 a f. 194r dell’VIII cassa e nrr. 26, 27 della IX cassa, f. 195r. Tra i pezzi virgiliani noti della biblioteca di Colocci (a parte quelli di cui si dirà nelle note successive perché associati a rimandi meno vaghi: vd. nrr. 23 e 25) LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 326, 342 segnala il Vat. lat. 1576. La sua natura di codice membranaceo (XIV sec. ex., 206 ff. numerati, 22 × 15 cm ca., con capilettera ornati in oro, rosa, verde, blu, rosso e bianco) invita ad associarlo all’item 22: l’unico di cui si specifica «in perg.». Il codice è postillato da un’elegante mano umanistica e da un’altra mano meno esperta che attribuisce le battute delle egloghe ai diversi interlocutori. Dubbia la presenza della mano di Colocci che potrebbe essere ravvisata nella nota «Ovidius» (f. 1r) e nell’uso di crocette marginali (per es a f. 79v). Il codice contiene le Bucoliche (ff. 1v-17r), alcuni excerpta dalle Georgiche (ff. 17r-48r), l’Eneide (ff. 48v-203r) e il Moretum (ff. 204v-206v), più vari brevi versi latini ed excerpta da opere minori di Virgilio e da Ovidio. Il manoscritto corrisponde al nr. 21 della terza cassa alla parete della Bibliotheca parva secreta, secondo la lista parziale dei Ranaldi del Vat. lat. 8185, f. 345v: «Virgilius. Ex pergameno in nigro» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 144-146, p. 146, nt. 1). A Colocci appartenne anche il celebre Virgilio Mediceo (Firenze, Biblioteca Mediceo Laurenziana, Med. Laur. lat. XXXIX), che giunse a Roma da Bobbio intorno al 1461 e fu, prima che suo, di Pomponio Leto. Colocci lo possedette poi fino alla morte, quindi il libro fu forse inserito tra quelli scelti dal Sirleto per la BAV su incarico di Paolo III; comunque dovette soggiornare in Vaticana tra la morte dell’esinate (primo maggio 1549) e il momento in cui Giulio III lo donò, come pare probabile, al nipote, card. Innocenzo del Monte (forse già nel 1550). Certo è invece che esso fosse nelle mani di Rodolfo Pio da Carpi tra il 1560 e il 1564. Le peregrinazioni del codice sono illustrate da MERCATI, Il soggiorno del Virgilio Mediceo cit., pp. 529-537, tuttavia, per la fase che a noi qui più interessa (cioè tra il 1549 e il 1558) esse sono
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23. Virgilii buccolica et georgica373 24. Virgilius 25. Virgili Buccolica gr. 26. Jo. Florentini expositio super bucolica374 ricostruite purtroppo solo sulla base di — pur fondate e circostanziate — congetture. Non è dunque possibile dire se tra i «Virgili[i]» citati in C potesse esservi anche quello che solo più tardi (1589) sarebbe diventato il Virgilio Mediceo (dal discorso di Mercati si dovrebbe dedurre una risposta negativa al quesito). BOLOGNA, Colocci e l’Arte cit., pp. 383, 390, poi, formula l’ipotesi che anche il Virgilio Vaticano (Vat. lat. 3225, membr., IV sec., due fdg in principio, 76 ff., 22,5 × 20 cm ca.: vd. Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 113-117) che fu di Pontano, poi di Bernardo, Pietro e Torquato Bembo, che lo vendette ad Orsini nel 1579 (cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 127, 225, 358: non corrisponderà dunque a nessuna delle voci di C) possa essere appartenuto a Colocci: più probabilmente lo conobbe soltanto (il che è certo). Infine tra i libri virgiliani di Colocci vi fu anche l’Inc. II.16, PUBLIUS VERGILIUS MARO, Opera, Roma, Ulrich Han e Simon Nicolas Chardella, 1473, in folio (ISTC nr. iv00157000), che però difficilmente sarà richiamato da voci di C, visto che passò a Fulvio Orsini: DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 258, 381 (è il nr. 2 degli stampati latini di D). In conclusione si segnalano rimandi a commenti virgiliani, come quello di Servio (nr. 31, V cassa, f. 189r; nr. 28, VIII cassa, f. 193v; nr. 36, X cassa, f. 196r), un’expositio non meglio definita sulle Georgiche (nr. 27, VIII cassa, f. 193v) e quella sulle Bucoliche di un Giovanni Fiorentino (nr. 26, VIII cassa, f. 193v): quest’ultima (vd.) è l’unica a poter essere identificata. Non identificato neppure l’indice virgiliano (probabilmente un elenco alfabetico di vocaboli) ricordato al nr. 32 dell’VIII cassa, f. 194r. 373 Probabilmente da identificare con il Vat. lat. 1586, segnalato da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 325, 342. Si tratta di un codice membr., XV sec., un fdg, 95 ff., 25 × 17 cm ca. Contiene le Bucoliche (f. 1r-14v), le Georgiche (14v-51v), il Moretum (ff. 51v-53v), la Copa (ff. 54r-v), il Culex (ff. 57r-64r), Dirae-Lydia (ff. 64r-67r). Oltre ai testi virgiliani, il codice contiene numerosi excerpta da Ausonio, Marziale, Pseudo Tibullo e Pseudo Ovidio, Isidoro di Siviglia e un cospicuo centone virgiliano di Proba (ff. 84-94r; per i dettagli vd. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 163-165). Sul fdg si trova una nota di possesso di disagevole decifrazione («Iste liber est mei domini Miniatii Antonii Jacobi Johannis/ Puccij de Fl[...]») e più sotto, di una mano che mi pare attribuibile a Colocci, l’elenco dei contenuti del volume: «Buccolic / Georgic / Iuveni[l]ia» (non trovo altro di sua mano, se non forse un’annotazione nel marg. inf. di f 78r). Tracce di un’altra mano si trovano da f. 92r a f. 95r. Il codice può essere identificato con il nr. 16 della terza cassa alla parete della Bibliotheca parva secreta, contenuto nel Vat. lat. 8185, f. 345r, «Virgilius. Proba Centona. Ex pergameno in rubro» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, p. 165, nt. 3). 374 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 330, 342 indica come colocciano il codice Vat. lat. 1514 (senza tuttavia associarlo esplicitamente a questo item), membr., XIV-XV sec., che contiene appunto «Expositio Johannis Florentini super Bucolicis Virgilii mantuani» (f. 1r). Non ho potuto condurre che un rapido esame del codice e tenderei ad escludere che la mano che appone le glosse marginali ai ff. 1 e 2 sia quella di Colocci, anche se mostra con essa una qualche somiglianza (tuttavia le e sono di forma tonda, le s sono per lo più basse, laddove il nostro impiega solitamente, rispettivamente, e disarticolate in tre tempi e s alte). Si segnala infine che questo item (come i due seguenti e il nr. 64 a f. 194v) è preceduto da un sigla che mi pare di poter leggere «gr» e che tuttavia non saprei come sciogliere, a meno di pensare a qualcosa come gramatica o parole omoradicali, visto che il marginale marca commentari ad opere d’autori classici e testi di metrica (attinenti, dunque, all’area disciplinare del gramaticus). Per i due item seguenti cfr. anche nr. 22, VIII cassa, f. 193v.
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gr. 27. Expositio in georgica Virgilii gr. 28. Servii comentaria in Virgilium f. 194r 29. Virgilius375 30. observationes vocabulorum ex multis poetis376 31. Virgilio cum anotationibus in pergameno377 32. Index in Virgilium 33. Virgilius 34. Virgilius 35. Virgilius 36. Virgilius 37. Virgilius cum anotationibus 38. Virgilius 39. Calpurnei Buccolica Esiadi Georgica Silvius [sic] Italicus378 375
Cfr. nr. 22, VIII cassa, f. 193v. Forse uno dei numerosi codici colocciani contenenti elenchi alfabetici di vocaboli, come il Vat. lat. 4057 (sul quale vd. nr. 8, IV cassa, f. 187v; per altri codici di questo tipo vd. nr. 1, V cassa, f. 188v). 377 Per questo e i sette item seguenti cfr. nr. 22, VIII cassa, f. 193v. 378 Un item che contiene verosimilmente le Bucoliche di Calpurnio Siculo e i Punica di Silio Italico. Non trovo invece corrispondenze per il nome «Esiadi», che potrebbe però essere una semplice storpiatura per “Esiodo”. Così composto — sebbene in un ordine leggermente alterato, l’item potrebbe corrispondere alla princeps di Silio Italico, cioè SILIUS ITALICUS, Punica, CALPURNIUS SICULUS, Carmen bucolicum, HESIODUS, Opera et dies, Roma, Conradus Sweynheym e Arnoldus Pannartz, 1471, in folio (ISTC nr. is00503000), di cui la BAV conserva l’esemplare Inc. II.8. Esso è composto da tre interni — corrispondenti alle tre opere — che potrebbero in altre epoche essere stati legati in ordine diverso. Mi riservo tuttavia di tornare sulla questione dopo un esame diretto del volume. Quanto a Silio Italico, numerosi sono in C i rimandi alla sua opera (vd. i seguenti nrr. 40-44). A questo proposito si segnala qui per la prima volta come colocciano, l’esemplare Inc. I.4 della princeps, che però contiene il solo testo di Silio Italico. Il volume è intensamente postillato da due eleganti mani umanistiche che riportano varianti al testo e lo corredano di annotazioni, spesso contenenti ampi stralci da autori diversi (Plinio, Livio, Marziale...); una delle due impiega sovente un inchiostro porporino per evidenziare certe espressioni o nomi di autori. Tale ricco corredo procede senza interruzioni fino al f. 63v (cioè al v. 413 del VII libro), ma osservando con attenzione è possibile individuare, nel fitto intreccio di note, sporadiche tracce dell’inequivocabile mano di Colocci, che, oltretutto, a f. 57v, sottolinea significativamente la parola «picenum» (sua regione d’origine e oggetto di studio linguistico nei suoi appunti) nel v. 649 del VI libro e annota nel marg. sup. «Mevania / Picenum». Le altre sue postille si leggono nel marg. sup. di f. 1v («super his, Hor. “hoc erat in votis”»), nel marg. sin. di f. 32v, a completamento della nota «Pila» di un’altra mano («Vir. in IX»: probabilmente un rimando a Aeneis, IX, v. 711); nel marg. inf. del f. 53v («rostra tridentia»); nel marg. inf. di f. 57v («Rostra insigne pro Agrippa / serpens»); nel marg. inf. di f. 58r («ordine»). Negli ultimi due casi le postille si richiamano a parole sottolineate nel testo a stampa. Tipicamente colocciana (anche se ovviamente non esclusiva), poi, è l’abitudine a prediligere i margini superiori e inferiori per le annotazioni. Mi pare dunque altamente probabile che l’esemplare corrisponda a uno degli item di C (su di esso inoltre non trovo traccia di annotazioni che possano suggerire che il libro fosse passato 376
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40. Silvius Italicus cum anotationibus 41. Silvius Italicus 42. Silvius Italicus 43. Silvius Italicus cum comentariis impress.379 44. Silvius Italicus impress. 45. Leonardi Aretini oratio funebris380 46. Horatius in bamb.381 47. Horati poetica et epistole, et Boetius382 48. Horatius impress.383 all’Orsini), ma è difficile stabilire quale. Si potrebbe pensare ai nrr. 43 o 44, visto che sono gli unici che specificano la natura di stampato dell’item: in tal caso sarebbe da prediligere forse il 43, che sottolinea la presenza di “commentari”, a meno che tale espressione non vada piuttosto riferita al corredo di una commento a stampa (a tal proposito si rimanda all’item in questione). A rigore, quelle presenti su Inc. I.4 sono annotationes, sicché si potrebbe indicare anche il nr. 40 come possibile candidato per l’identificazione. 379 La prima edizione a stampa dei Punica di Silio Italico corredata da un commento è quella data in Venezia da Baptista de Tortis nel 1483, in folio, ISTC nr. is00507000 (che ha appunto il commento di Pietro Marso): più volte ristampata da altri tipografi. Per l’item seguente vd. qui sopra nr. 39. 380 Cfr. nr. 29, II cassa, f. 185r. 381 Altro autore abbondantemente rappresentato in C è Orazio. I rimandi che oltre al nome non contengono altre indicazioni relative alle opere sono: nrr. 48 (stampato: vd.), 53, 54 (stampato), 56 dell’VIII cassa a f. 194r. Poi vi è un unico item che menziona le Satire, il nr. 16, IX cassa, f. 195r (non identificato) e due esmplari contenenti le Odi: nrr. 51 (in pergamena) e 52, VIII cassa, f. 194r (vd.). Tre item menzionano l’Ars poetica: i nrr. 47 e 50 dell’VIII cassa a f. 194r (entrambi identificabili in ragione del fatto che contengono anche le Epistole e altri testi: vd.) e il nr. 24 della X cassa, f. 196r (non identificato). Un ultimo item contiene invece una vita di Orazio e probabilmente degli scholia d’argomento metrico (nr. 49, VIII cassa, f. 194r), anch’esso però non è identificato. L’unico manoscritto noto contenente l’intera opera di Orazio, appartenuto a Colocci è il Vat. lat. 3257, membr., XI-XII sec., ca. 28 × 18 cm, 120 ff. più un fdg in principio. Il preziosissimo manufatto passò a Fulvio Orsini (cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 126, 250, 359: è il nr. 9 dei mss. latt. dell’inventario D). Sul codice vd. M BUONOCORE, Codices Horatiani in Bibliotheca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1992, pp. 224-225 e anche Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 171-172. 382 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 320, 343 identifica il presente item con il codice Vat. lat. 4252, membr., XIII sec. (tranne ff. 46r-57v: XIV sec.), 92 ff., 20 × 14 cm ca., che contiene De consolatione philosophiae di Boezio (ff. 1r-57v), seguita dall’Ars (ff. 58v-66v) e dalle Epistole di Orazio (ff. 66v-92r; a f. 92v, excerpta dalle Metamorfosi di Ovidio e frasi latine sentenziose: vd. BUONOCORE, Codices Horatiani cit., pp. 242-243 e Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 393-393). 383 Finora era noto un unico volume oraziano a stampa riconducibile alla biblioteca di Colocci, l’Ald. III.1, QUINTUS HORATIUS FLACCUS, Opera, Venezia, Aldo Manuzio, 1501 (con postille anche d’altre due mani, una delle quali attribuibile a Scipione Carteromaco: cfr. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini cit., pp. 258, 383: è il nr. 14 degli stampati latini dell’inventario D). Qui si dà invece notizia per la prima volta di un nuovo stampato colocciano recentemente ritrovato: l’Inc. II.21, QUINTUS HORATIUS FLACCUS, Opera (con gli scholia dello Pseudo-Acrone, Pseudo-Porfirione e di Cristoforo Landino), Venezia, Georgius Arrivabene mantuanus, 1490-1491, in folio (ISTC nr. ih00454000). Sul libro intervengono almeno
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49. Horatij vita et Genera carminum quibus utitur384 50. Horatij poetica et epistole et liber de naturis animalium385 51. Horatij ode in perg.386 52. Horatii ode 53. Horatius387
tre mani, tra le quali, piuttosto insistentemente quella di Colocci con notabilia che mettono in evidenza espressioni del testo oraziano o dei commenti, per lo più pertinenti ai suoi interessi antiquari d’argomento metrico-metrologico e numismatico (oltre che linguistici). Si veda per es. a f. 70r (per i fogli che seguono il f. 193 impiego la numerazione moderna a matita che è stata aggiunta a quella antica perché la cartulazione è turbata a partire appunto dal f. 193) «Decempede + / parvissima / umbrae / porticus / Metata / castra ... Norma / Regula» (cfr. Odi II, 15, v. 14 sgg.); f. 171v (marg. sup.): «octingenta XL nummorum aeris alieni [spazio] Lucilius / sylepsis [spazio] decies centena iuvera omnibus interis»; f. [209v] (marg. inf.) «millia centum» (cfr. Sat. II, 3, v. 23); f. 212 r (marg. inf.) «Talenta» (cfr. Sat. II, 7 v. 89), f. [240v] (marg. inf.) «vitium inconcinni et incompositi hominis / secundarium(?) partuum actores omnia sumpsisse agunt / intente [spazio] sordidi ab inculta / reductum» (l’appunto si riferisce alla postillatissima Epist. II, 18). 384 Cfr. nr. 46, VIII cassa, f. 194r. 385 LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., pp. 317, 327, 342 colloca erroneamente questo item nella «neuvième caisse» (p. 317) e propone poi di identificarlo — correttamente — con il codice Vat. lat. 2770 (membr., XIV sec., 76 ff. più un bifoglio di guardia in principio e uno in fine cartacei, ca. 24 × 17 cm: vd. BUONOCORE, Codices Horatiani cit., p. 210). Il ms. presenta un’iniziale miniata in rosa, rosso, blu e verde e postille interlineari coeve al testo, in gothica rotunda. Lo specchio di scrittura è delimitato da linee a punta secca. Contiene l’Ars poetica (ff. 1r-9r) di Orazio e le Epistolae (ff. 9vr-36r), seguite da un Liber de natura animalium (ff. 37r-76v; quest’operetta presenta anche informazioni che sarebbero pertinenti in un lapidario: si conclude ad esempio a f. 76v con alcuni cenni a «lapides igniferi in quodam monte orientis qui grece dicuntur t[...]roblem»). Le pagine di quest’ultimo sono organizzate in modo da poter ospitare illustrazioni che non vennero poi realizzate e non presentano annotazioni marginali o d’altro genere. A f. 36v si legge una nota di possesso in mercantesca (Buonocore la trascrive come segue: «Iste liber est [---] qui moratur in scholis magistri Bastiani dotoris [sic!] grammatice et loice et qui moratur in grammatice magistri Carducci [---]»). Non vi si trova in alcun punto la mano di Colocci. Il ms. è descritto anche nella lista dei Ranaldi contenuta nel Vat. lat. 8185, f. 347r e corrisponderebbe (nonostante i compilatori commettano un errore nell’indicare la materia del supporto), al nr. 54 della terza cassa alla parete della Bibliotheca parva secreta, «Horatii Epistole et alia de naturis animalium. Ex papyro in rubro» (cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 595-596, p. 596, nt. 1) 386 Per gli altri rimandi oraziani cfr. nr. 46, VIII cassa, f. 194r. Si segnala, per completezza, che un excerptum dal primo libro delle Odi (da I, 3, v. 10 a I, 18, v. 13) si trova ai ff. 137r-144v del Vat. lat. 7192. Il codice è una cospicua miscellanea di 407 ff., 21 × 13,5 cm ca., costituita dall’aggregazione di 25 fascicoli d’argomento e talora d’epoche diverse (XV-XVI secolo: per il dettaglio sui contenuti relativi ad autori classici vd. Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 661-663). Certamente, però, alcune parti sono appartenute a Colocci, visto che la sua mano vi si trova in diversi punti (cfr. anche nr. 20, IX cassa, f. 195r): non però su questo excerptum oraziano. Per una sintesi relativa alle parti colocciane già note, vd. BERNARDI, Per la ricostruzione cit., p. 64 (la complessità e ricchezza del codice richiederebbe comunque un più approfondito studio, che esula però dall’interesse immediato del presente contributo). 387 Cfr. nr. 46, VIII cassa, f. 194r.
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54. Horatius impressus388 55. Expositio in poetica Horatii389 56. Horatius f. 194v 57. Lucanus390 58. Martialis391 59. Juvenalis392 60. Juvenalis 61. Juvenalis 62. Juvenalis 63. Juvenalis gr. 64. Magistri Grisonis Scans° metrica393 65. Angeli Cerilli carmina de excidio urbis394 In capsa 9a Lucanus395
1. 2. Commentaria in Juvenalem396 3. Seneca in perg.397 4. Tibullus398 5. Seneca impress.399 6. Juvenales impress.400 388
Cfr. nr. 48, VIII cassa, f. 194r. Per questo e l’item seguente cfr. nr. 46, VIII cassa, f. 194r. 390 Cfr. nr. 10, VI cassa, f. 190r. 391 Cfr. nr. 51, V cassa, f. 189v. 392 Per questo e i quattro item seguenti cfr. nr. 55, VII cassa, f. 193r. 393 Non trovo notizia di questo “Magister Griso”, autore di una Scansio metrica (forse delle Odi di Orazio?). 394 Anche in questo caso, nonostante le indicazioni piuttosto precise, non sono riuscito a identificare opera ed autore. 395 Cfr. nr. 10, VI cassa, f. 190r. 396 Per gli altri item relativi a Giovenale, cfr. nr. 55, VII cassa, f. 193r. Il pezzo non è identificato; si segnala per completezza la presenza del commento a Giovenale di Giorgio Merula (1430/1431-1494) nel codice colocciano Vat. lat. 4057 (sul quale vd. nr. 8, IV cassa, f. 187v), all’interno del fascicolo che va da f. 470r a f. 496v (il fascicolo ha una numerazione più antica da 2 a 28). Un altro commento manoscritto a Giovenale è legato all’edizione a stampa Inc. II.525, per la quale vd. nr. 6, IX cassa, f. 194v. 397 Cfr. nr. 42, VI cassa, f. 191r. 398 Cfr. nr. 70, VI cassa, f. 191v. 399 MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., pp. 92-93 propone di identificare questo item con R. I V.101: LUCIUS ANNEUS SENECA, Tragoediae, Firenze, Filippo Giunta, 1513 (scarse le postille colocciane e presenti solo nel frontespizio, e nei ff. 76v, 129v-130v, più sparse sottolineature). Cfr. nr. 42, VI cassa, f. 191r, per gli altri item senecani. 400 Per gli altri item relativi a Giovenale, cfr. nr. 55, VII cassa, f. 193r. Quanto alla presente edizione a stampa, ringrazio la dott.ssa Francesca Schena per la segnalazione dell’Inc. II.525, che costituirà presto l’oggetto di un suo prossimo contributo. Si tratta dell’edizione 389
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7. Juvenales401 8. Titus Livius impress.402 DECIMUS JUNIUS JUVENALIS, Satyrae, Roma, Ulrich Han, ca. 1478, in folio e in quarto (ISTC nr. ij00638500). La dott.ssa Schena pone la questione dell’ascrizione dello stampato alla biblioteca di Angelo Colocci in ragione della presenza nel volume, legati dopo il fascicolo [g], di 11 fogli interamente manoscritti che contengono un commento a Giovenale, preceduto da una lettera di dedica di «Iulianus Princivallis Camers, Angelo Colotio litteris emine(n)tissimo humanitate singulari atq(ue) amicoru(m) optimo» (l’incunabolo è integralmente digitalizzato e consultabile al link: http://digi.vatlib.it/view/Inc.II.525). Lascio naturalmente alla perizia della dott.ssa Schena l’approfondimento della questione e mi limito per ora ad osservare che tanto la lettera di dedica quanto il commento mostrano diversi interventi correttori (cancellature, sovrascizioni, correzioni interlineari) che inviterebbero a dubitare del fatto che il fascicolo che li contiene fosse destinato effettivamente all’invio all’«eminentissimo» Angelo Colocci, mentre più probabile mi parrebbe che questo fosse l’esemplare di studio su cui Giuliano Princivalle preparò il suo commento: il volume, infatti, è intensamente postillato da almeno tre mani (nessuna, per altro mi pare riconducibile a Colocci: una ve ne è che le assomiglia, ma poi nel complesso è piuttosto ben modulata e allineata e mostra un tratto troppo elegante e regolare, con qualche svolazzo). Sul Princivalle trovo una breve notizia in G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, t. VII: Dall’anno MD all’anno MDC, Modena 1779, parte III, cap. IV, p. 242 che riferisce quanto segue: «Giuliano Princivalle da Camerino, dato da Leon X per precettore o per aio al Card. Innocenzo Cibo, e che poscia nel sacco del 1527, vedendo i crudeli e ignominiosi tormenti, che si davano da’ vincitori a coloro, ch’erano in concetto di denarosi, gittossi disperatamente da una finestra, e morì sul colpo» (in nota, un rimando al libro I del De infelicitate litteratorum del Valeriano). Il 1527 sarebbe dunque il terminus ante quem per la datazione del commento. L’Inc. II.525 è in realtà completato dall’Inc. III.256 che, della medesima edizione, contiene la parte dedicata alle Satire di Persio: 10 fogli intensamente postillati (non da Colocci). 401 Cfr. nr. 55, VII cassa, f. 193r 402 Oltre alla presente trovo altre tre menzioni di Tito Livio: ai nrr. 9 (f. 194v), 17 (un altro stampato) e 18 (f. 195r) della IX cassa. Sono attualmente noti tre volumi a stampa contenenti l’opera di Livio, appartenuti a Colocci. Il più antico è l’Inc. S.4, L. A. FLORUS, Epithoma T. Livii patavini Historiae Romanae, TITUS LIVIUS, Ab urbe condita Libri [Decades I, III, IV], Roma, Conradus Sweynheym e Arnoldus Pannartz, 1469, in folio (ISTC nr. il00236000), individuato da MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 88. Colocci vi appone numeros postille, specialmente su Floro (per es. ai ff. 16-23 e 20v, 21r-v) e solo sporadicamente su Livio (per es. ff. 75v, 76r, 107r, 137v, 138r). Colocciana è poi l’Ald. III.79, TITUS LIVIUS, XIII decades ab urbe condita, Venezia, Aldo Manuzio, 1518 (cfr. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 88) che reca sottolineature e qualche annotazione colocciana nella tavola (per es. la postilla caratteristica «vox», frequentemente presente lungo tutto il volume), ma soprattutto suoi abbondanti marginali lungo il testo (per es. ff. 31v-35r, 193v-199v, 278v-280r, 324v-39r), spesso contenenti rimandi a loci librarii specialmente ciceroniani (per es. f. 1r, marg. inf. «Cic(er)o ep. fam. 107» e f. 202r «o- Cic(er)o epl. 112»). Terzo stampato colocciano relativo a Livio è un’altra aldina l’Ald. I.44, TITUS LIVIUS, XIII decades ab urbe condita, Venezia, Aldo Manuzio, 1521 (cfr. MICHELINI TOCCI, Dei libri a stampa cit., p. 88), sulla quale si legge la sua mano soprattutto nei fogli relativi alla prima decade (fino a f. 106r). A f. 5r troviamo il rimando a un manoscritto liviano («A. Codex habet libros X»). Presenti altre mani, direi posteriori. Si segnala infine una copia di «Titi Livii super >XIIII< omnes decades Romanarum rerum epithoma» (f. 1r) nel Vat. lat. 6803, ai ff. 1r-53r (sul codice cfr. nr. 7, V cassa, f. 188v), postillati da una mano che mi pare attribuibile a Carteromaco. Quella di Colocci non mi pare in realtà distinguibile nella parte liviana, bensì in quella con gli excerpta di Apicio, per es. ai ff. 71v,
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9. Titus Livius 10. Plinius impressus et emendatus403 11. Tragedie Senece404 12. Epistole Senece f. 195r In capsa 9a 13. Historie vulgare della guerra Punica 14. Plinius secundus impress.405 15. Tragedie Senecè406
72r-v, 73r-v, 97v. G. BILLANOVICH, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’umanesimo, 1, Padova 1981 (Studi sul Petrarca, 9), p. 225 segnala poi due codici contenenti Decadi degli Ab urbe condita libri che recano annotazioni di Colocci. Si tratta rispettivamente dei Vat. lat. 1840 e 1847. Il Vat. lat. 1840 (contiene la prima Decade) è un ms. membr., XII-XIII o XIII sec., 95 ff., 34 × 32 cm ca.; reca glosse marginali coeve, ma anche numerose annotazioni di mano del XV sec., di cui una, ai ff. 1-6 e 11r-v, dai tratti allungati che adopera inchiostro rosso e g di modulo onciale: un tratto tipico della cerchia di Pomponio Leto: cfr. Les manuscrits latins cit., III/1, pp. 198 e 417-488. Il Vat. lat. 1847 (contiene la III Decade) è anch’esso un codice membr, ma del XIII o XIV sec., redatto da almeno 4 mani, 168 ff. (dopo il nr. 100 con foliazione antica: 1001, 1002... fino a 1068), 29 × 21 cm, testo su due colonne (tranne f. 136v a piena pagina). L’inchiostro in numerosi fogli è sbiadito (è stato ripassato per es. il f. 1r). Reca glosse marginali che riportano varianti, di mani del XIV-XV sec., nei primi fogli. Una mano del XVI sec. si trova a f. 168r. A f. 158r si legge l’annotazione di un verso dell’Africa di Petrarca (mano del XV sec.). BILLANOVICH, La tradizione cit., p. 181, segnala anche che il codice è copia del ms. Firenze, Biblioteca Laurenziana, Plut. 63, 21 (cfr. anche Les manuscrits latins cit., III/1, p. 424). 403 La princeps, della principale opera dello scrittore latino è PLINIUS, Naturalis historia, Venezia, Johannes de Spira, 1469, in folio (ISTC nr. ip00786000). Qui la designazione è comunque troppo generica per tentare la via di altre ipotesi. Più estesi e ricchi i rimandi pliniani dell’elenco A: cfr. «Plinius in stampa sipontini in carta sigillorum» (A, f. 44r [7]), o «Plinio de stampa prima Du: Item alter» (A, f. 44v [31]) e «Plinio de Aleria» (A, f. 45r [15]). L’indicazione del nr. 10 di C potrebbe però più propriamente corrispondere al «Plinius in stampa romana cum glosis meis» di A, f. 44r [8]: in tal caso l’«emendato» di C non si riferirebbe tanto alla curatela dell’edizione, quanto alla presenza di postille manoscritte (le glosae meae di A); del resto l’espressione «impressus et emendatus» sembrerebbe distinguere la seconda operazione dalla prima collocandola in un momento successivo (si vedano in proposito le note pertinenti a ciascuno degli item citati in BERNARDI, Gli elenchi bibliografici cit., pp. 107, 109, 112). FANELLI, Ricerche cit., p. 68 identifica questo item con lo stampato R. I II.999, CAIUS PLINIUS SECUNDUS, Historia naturalis libri 37, ab Alexandro Benedicto Ve. Physico emendatiores redditi, Venezia, Per Johannem Rubeum et Bernardinum Vercellenses, 1507, ma si veda BERNARDI, Angelo Colocci cit., p. 95, per alcuni argomenti in contrario all’identificazione della mano che postilla il volume. Altri item pliniani si trovano al nr. 18, II cassa, f. 285r e ai nrr. 14 (stampato) e 22 («epistole»: ma vd. nr. 21), IX cassa, f. 195r, ma, salvo il primo, non sono stati identificati. 404 Per questo e l’item seguente, si vedano tutti i rimandi senecani, al nr. 42, VI cassa, f. 191r. 405 Cfr. nr. 10, IX cassa, f. 194v. 406 Cfr. nr. 42, VI cassa, f. 191r.
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16. Horatii satyre407 17. Titus Livius impress.408 18. Titus Livius 19. Valerius Maximus cum indice manu script.409 20. Pacifici Maximi Poemata410 21. Emilius Probus vita clarorum virorum411 407
Cfr. nr. 46, VIII cassa, f. 194r. Per questo e l’item seguente cfr. nr. 8, IX cassa, f. 194v. 409 Cfr. nr. 52, VII cassa, f. 193r. 410 Un altro rimando a Pacifico Massimi si trova qui di seguito al nr. 32 e anche in A, f. 63v [50] (mano di Colocci) troviamo l’annotazione «Pacifici». Uno dei due rimandi di C potrà corrispondere a Vat. lat. 2862 (cart., XV sec., 212 ff.), che contiene Hecatelegium (da f. 1r), Spartacidos (da f. 109r), Libellus de coniugatione verborum grecorum (da f. 142r), con correzioni e interpolazioni di mano di Colocci che aggiunge il proprio nome nella dedica dei testi o lo sostituisce a quello di altri dedicatari (per es. a ff. 13r, 37r, 99r), che introduce lezioni varianti, rispetto a quelle del testo di Massimi (per es. a ff. 84v, 157v) o addirittura trascrive interamente di proprio pugno alcuni testi (per es. ai ff. 158r-v, 178v-179r). Altri versi del Massimi si trovano in un fascicolo proveniente dal Vat. lat. 2862 e ora legato nel Vat. lat. 7192: sono i ff. 26r-64v, che recano però una più antica numerazione da 21 a 53. Questa miscellanea fu composta nel XVIII secolo e dunque non è identificabile tout court con l’altro item massimiano registrato da C (per qualche altro ragguaglio sul codice vd. nr. 51, VIII cassa, f. 194r). Qui la mano di Colocci è presente secondo le stesse modalità di cui si è detto a proposito di Vat. lat. 2862: egli ad esempio interpola un fogliettino scritto di proprio pugno, contenente alcuni versi di dedica che lo elogiano («Iamque pererrato tandem Colotius orbe / unicus inventus dignus honore meo / illi ego quicquid erit liber et mea musa dico / non habet ingenio nec probitate parem» f. 63r). Un ultimo fascicolo proveniente da Vat. lat. 2862 si trova ai ff. 160-167 di Vat. lat. 7182 (cfr. FANELLI, Ricerche cit., pp. 76-77; per ulteriore bibliografia vd. BERNARDI, Angelo Colocci cit., p. 90 e 94), una cospicua miscellanea di 500 ff., più 2 fdg in principio e due in fine, 21 × 14 cm ca., composta da 23 mss. XV-XVI sec. (vd. qui anche nr. 18, VI cassa, f. 190v; cfr. Les manuscrits classiques latins cit., III/2, pp. 659-660). Poco plausibile è poi l’ipotesi che uno dei rimandi di C si riferisca all’edizione a stampa dell’opera del Massimi (curata da Colocci, i cui lavori preparatori sono testimoniati sempre dal primo dei manoscritti citati), R. G. Neol. VI. 134 (PACIFICO MASSIMO, Opera, Fano, Hieronymus Soncinus, 1506) perché l’esemplare entrò in Vaticana solo più tardi, nel 1971, per dono di Vittorio Fanelli (su questo vd. J. RUYSSCHAERT, Introduzione, in FANELLI, Ricerche cit., pp, 1-6, pp. 5-6, nt. 16). 411 Forse l’item potrebbe essere identificato con il Vat. lat. 1916 (dello stesso parere anche gli autori di Les manuscrits classiques latins cit., III/1, pp. 476-477, p. 476, nt. 2), segnalato come colocciano da LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 342, che tuttavia non a torto lo indica come «Cornelius Nepos». Il codice (cart., XV-XVI sec., 90 ff. numerati, più un fdg [I] in principio e 2 ff. bianchi non numerati al fondo, 30 × 20 cm ca.) contiene infatti ai ff. 1r-63r il De excellentibus ducibus exterarum gentium di Cornelio Nepote (seguito da excerpta dal Liber de latinis historicis: ff. 70r-90v), che però nei manoscritti almeno fino al XVI sec. è solitamente attribuito a Emilio Probo. Il Vat. lat. 1916, in questo senso, non fa eccezione, come prova l’intitolazione di mano colocciana che si legge a f. [I]r — «Probus Aemilius / Plin. de viris. illustr. / A mano» — e che avrà indotto il compilatore di C a registrare l’item sono il nome di Probo. La menzione di Plinio (a lui è attribuito un «de viris illustribus liber» che è contenuto nei ff. 70r-90v del codice) invita però ad un’altra riflessione: non sembrerebbe infatti casuale il fatto di trovare appaiati i due nomi sia nel frontespizio di Vat. lat. 1916, sia in C (vd. nr. 22); ciò inviterebbe a formulare l’ipotesi che i nrr. 21 e 22 corrispondano in realtà al solo Vat. lat. 1916. Il fatto che qui in C Plinio sia registrato sotto un numero distinto, 408
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22. Plinii epistole412 23. Declamationes Senece413 24. Appianus Alexandrinus cum indice414 25. Lucanus in pergameno415 26. Virgilius416 27. Virgilius 28. Petrarca417 29. Claudianus418 30. Petrarca 31. Appianus Alexandrinus419 come se si trattasse di un diverso volume, non costituirebbe un forte argomento in contrario: il compilatore, specie se avesse lavorato sotto dettatura, avrebbe potuto registrare come distinti item i due titoli di opere comprese in un unico volume a mano a mano che gli venivano comunicati. Forse possono essere considerate tracce di errori simili i casi in cui item distinti dalla numerazione, sono poi stati successivamente riuniti sotto un unico numero (cfr. per es. nrr. 46 e >47posti nella xia cassaComm< vita di papa Sixto 40. Fragmenta quedam Sono in tucto libri 558 li altri --------------- 406453
451
Questa riga e quelle seguenti fino al termine dell’inventario (ad esclusione della riga cassata posta tra gli item 37 e 38) sono attribuibili alla mano b. Quanto all’item 37, esso allude a Marino Sanudo il vecchio, detto Torcello dal suo luogo di nascita (ca. 1260-1338), autore del Liber de expeditione Terrae Sanctae (qui ricordato come «contra Turcas»), anche detto Liber secretorum fidelium Crucis. Evidentemente LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque cit., p. 342 è a questo item che si riferisce nell’attribuire alla biblioteca di Colocci il Vat. lat. 2003, che egli indica come «Marin Sanudo: Secreta Fidelium». Si tratta di un ms. cart., XV sec., 20 × 28 cm ca., composto da 7 ff. non numerati contenenti la lettera di dedica e la tavola dei contenuti, più 135 ff. numerati e un fdg in principio e uno in fine (più recenti). La scrittura è a piena pagina, con rigatura preparata e rubriche e iniziali in rosso (queste ultime talora anche in blu). Il primo foglio non numerato (f [I]r) presenta un capolettera ornato a bianchi girari (in calce è presente uno stemma non leggibilissimo e probabilmente ritoccato: nel secondo — per quanto si riesce a distinguere — scaccato d’argento e d’azzurro). A f. 1r è presentata una sinossi degli incipit dei 4 vangeli. La mano di Colocci si incontra sporadicamente e mette in evidenza notabilia tratti dal testo e registrati nei margini (per es. ai ff. 74r, 82r, 88v, 92v, 93r, 94r, 106v dove registra il notabile d’interesse numismatico «BIZANTII octo», 110r, 112r). Una seconda mano compare nelle postille di f. 108r-v. 452 L’espressione — vergata, a quanto mi sembra, dalla mano a — è depennata ed infatti gli item seguenti sono contraddistinti da una numerazione che séguita quella della X cassa. 453 La prima delle due righe si riferisce agli item elencati in C, salvo un piccolo errore di conteggio: essi sono infatti 557, come già rilevava BIANCHI, Per la Biblioteca di Angelo Colocci cit., p. 277. Invece per quanto riguarda l’interpretazione della seconda riga e l’allusione a «li altri 406» è possibile soltanto avanzare ipotesi. Forse i 557 volume elencati in C sono tutti quelli che, della biblioteca colocciana in deposito in Vaticano, i custodi trascelsero, secondo una pratica consueta (così avviene, ad esempio, per alcune delle più significative acquisizioni dirette dai Ranaldi al principio del Seicento, come quelle che comportarono un’attenta selezione dei libri di Aldo Manuzio il giovane e di Alonso Chacon: cfr. PESENTI, Gli stampati: la formazione cit., pp. 545-547). Il numero 406, potrebbe allora riferirsi a libri della biblioteca colocciana che non furono catalogati dagli impiegati della Vaticana perché non scelti per entrare nelle collezioni di questa istituzione, ma lasciati forse a disposizione degli eredi. Se le cose stessero così, sarebbe assai probabile che tali volumi siano andati dispersi.
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3958, f. 184r.
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Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3958, f. 190v.
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Tav. III – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3958, f. 196r.
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MONUMENTI DI CARTA: GLORIFICAZIONE POSTUMA DELLA DINASTIA DUCALE DI URBINO ED AUTOPROMOZIONE DEL PATRIZIATO CITTADINO DA DUE VOLUMI DELLA BIBLIOTECA DI MARCO ANTONIO VIRGILI BATTIFERRI* I «Urbino ha sempre havuto la sua antica residenza de’ prencipi, la sua corte, ridotto de’ primi uomini d’Italia, anzi l’essempio e l’idea di tutte le corti del mondo, come dimostra il Castiglioni nel suo libro del Cortigiano»1. Così l’arcidiacono urbinate Marco Antonio Virgili Battiferri († 1637) si esprime in Urbino antico municipio, un essenziale profilo della città compilato negli ultimi anni della sua esistenza, rimasto allo stato manoscritto e connotato da una scarsa circolazione postuma. Nel conciso periodo appena citato, non particolarmente eloquente e di dichiarata derivazione dal Cortegiano2, Marco Antonio non soltanto condensa la segnalazione della presenza ad Urbino del palazzo e della corte signorile, ma riassume ed esaurisce l’intera plurisecolare parabola del dominio comitale e poi ducale sulla città. In stridente contrasto appare l’insistenza con la quale si era soffermato un trentennio prima sul medesimo tema il contemporaneo e concittadino Bernardino Baldi nell’Encomio della patria, testo che questi aveva recitato di fronte a Francesco Maria II della Rovere, per presentarlo * Vorrei esprimere la mia riconoscenza nei confronti dei professori Guido Arbizzoni ed Erminia Irace, i quali con la massima disponibilità hanno letto le presenti pagine, avanzando osservazioni critiche e suggerimenti che hanno significativamente contribuito a chiarirne la linea espositiva e ad arricchirne alcuni punti. Un doveroso ringraziamento va anche al dott. Marco Buonocore e al dott. Federico Marcucci, responsabile del Fondo antico della Biblioteca Centrale Umanistica di Urbino, per aver favorito entrambi in vario modo le ricerche ed una stesura più accurata e completa del testo. 1 M. A. VIRGILI BATTIFERRI, Urbino antico municipio, edito in R. BORGOGNONI, Prove di storiografia municipale ad Urbino. La storia antica nel sommario di Marco Antonio Virgili Battiferri, in Quaderni dell’Accademia Fanestre 9 (2010), pp. 289-318: 318 ll. 15-16. 2 Cfr. soprattutto B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano I, 2 (B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano. A cura di W. BARBERIS, Torino 1998, pp. 17-19); sulle fasi redazionali del capitolo ed il rapporto con la coeva rappresentazione letteraria della realtà cittadina e della sua corte, U. MOTTA, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sulla elaborazione del «Cortegiano», Milano 2003, pp. 69-97. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 113-152.
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quindi nel novembre 1603 al colto duca nella versione definitiva3: la storia municipale vi si intrecciava con le vicende dinastiche dei signori, verso i quali venivano esaltati l’attaccamento e l’incondizionata fedeltà di Urbino, soprattutto nel frangente delle travagliate occupazioni borgiana e medicea4. È possibile ricondurre la rapidità che caratterizza invece in Marco Antonio la menzione della fase della dominazione signorile alla differente congiuntura storica nella quale avviene la composizione del suo Urbino antico municipio: negli anni immediatamente successivi al 1629 l’ultimo duca aveva da tempo accondisceso al subentro della diretta amministrazione pontificia nel suo Stato — se la morte di Francesco Maria e la devoluzione non sono addirittura già avvenute mentre Battiferri scrive5. Viceversa, si cerca di annodare in modo obliquo un legame tra Urbino e la città petrina per mezzo dell’ascrizione al territorio urbinate del merito per le vittorie romane nelle battaglie del Metauro (207 a.C.) e di Busta Gallorum (552 d.C.), implicanti «la liberatione di Roma» l’una, «d’Italia» l’altra6. Sarebbe tuttavia erroneo equiparare la cursorietà di Marco Antonio nel sommario 3 P. PROVASI, La data probabile dell’Encomio della patria di Bernardino Baldi, in Arte e storia 20 (1901), pp. 101-102, 110-111; A. SAVIOTTI, Di un inedito carteggio di Bernardino Baldi, in Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti 1 (1901), pp. 145-155: 153. È l’attuale Urb. lat. 1021 (C. STORNAJOLO, Codices Urbinates latini, III, Romae 1921, p. 12), che Francesco Maria porterà con sé nella biblioteca di Casteldurante, dove verrà inventariato alla sua morte: M. MORANTI – L. MORANTI, Il trasferimento dei «Codices Urbinates» alla Biblioteca Vaticana. Cronistoria, documenti e inventario, Urbino 1981, p. 438 nr. 1217. Lo scritto verrà edito a stampa soltanto agli inizi del XVIII sec., sotto il pontificato di Clemente XI, nel clima del patronato su Urbino inaugurato dagli Albani: L. MORANTI, L’arte tipografica in Urbino (14931800). Con appendice di Documenti e Annali, Firenze 1967, p. 259; cfr. pp. 65-66. 4 B. BALDI, Encomio della patria, Urb. lat. 1021, ff. 22r-29r: «Fioriva all’hora in Urbino l’antichissima e nobilissima famiglia di Montefeltro, copiosa d’huomini valorosi ne la prudenza civile e nel’arme. Ecc.»; ff. 35r-36r: «[gli Urbinati] i principi naturali amano, honorano et osservano come Dii, e per difesa loro ne le occasioni sono larghissimi de le ricchezze, del sangue e de la vita stessa ecc.»; cfr. B. BALDI, Encomio della patria…, Urbino, Angelo Antonio Monticelli, 1706, pp. 62-84, 103-106. 5 Sulla datazione indicativa di Urbino antico municipio, che ha il suo terminus post quem nel conseguimento dell’arcidiaconato da parte di Marco Antonio (cfr. infra n. 31), BORGOGNONI, Prove di storiografia municipale cit., pp. 294-295. 6 VIRGILI BATTIFERRI, Urbino antico municipio cit., p. 318 ll. 22-24; cfr. R. BORGOGNONI, «Ex CALLE quodam». La fortuna di una indifendibile lettura di Procopio sulla topografia di Busta Gallorum, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche 110 (2012), pp. 11-58: 46-47. Il tentativo di paragonare Urbino a Roma e Firenze per la supposta comune origine dei fiumi Metauro, Tevere e Arno (VIRGILI BATTIFERRI, Urbino antico municipio cit., p. 318 ll. 20-21; cfr. BORGOGNONI, Prove di storiografia municipale cit., pp. 306-307) potrebbe poi mascherare un ammiccamento alla corte medicea, che fino a poco prima aveva vantato pretese sul ducato, in concorrenza con l’autorità pontificia, e che ospitava l’ultima erede Della Rovere, Vittoria, promessa sposa di Ferdinando de’ Medici: G. MONTINARO, Fra Urbino e Firenze. Politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (1574-1631), Firenze 2009, pp. 74-78.
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su Urbino ad una volontà di oblio dell’esperienza signorile nella propria patria, imputandola a convenienze politiche contingenti: due secoli almeno (a voler trascurare i predecessori di Federico da Montefeltro) non potevano essere liquidati con un accenno. A partire dalle ricostruzioni ottocentesche, il periodo della storia urbinate a cavaliere del 1631, anno del definitivo passaggio del ducato al governo dello Stato della Chiesa attraverso l’invio di un legato a latere, è stato prevalentemente letto in chiave di decadenza crescente, cui non sono stati alieni toni più o meno accentuati di fatalistica ineluttabilità7. Tale interpretazione, derivante dal fatto che la storiografia si è concentrata sugli sfortunati accidenti dinastici dei quali furono protagonisti gli ultimi rappresentanti della casata Della Rovere, in linea con la natura della maggior parte della documentazione disponibile, ha comportato che rimanesse praticamente ignorata la prospettiva sui medesimi eventi propria della classe dirigente cittadina, e sconosciuti gli eventuali giudizi da essa formulati in merito. A parziale giustificazione di una simile lacuna negli studi si pone la relativa povertà di testimonianze prodotte da membri del patriziato urbinate negli anni della devoluzione, che non siano del tutto impersonali, come gli scarni diari di Scudacchi e di Paciotti8, o estremamente formali e controllate, quali le varie orazioni elaborate per occasioni ufficiali e pensate per la pubblicazione. In un’ottica alternativa e complementare alle suddette tendenze, e con l’obiettivo di un primo recupero del ritardo sulle conoscenze delle posizioni assunte dall’aristocrazia municipale, si cerche7 J. DENNISTOUN, Memoirs of the Dukes of Urbino…, III, London 1851, pp. 197-236; F. UGOLINI, Storia dei conti e duchi di Urbino, II, Firenze 1859 (rist. anast. Urbino 2008), pp. 444-494. Non immune da questo paradigma (debitore comunque di una certa percezione dei contemporanei: G. TOCCI, Il governo della Legazione apostolica e le istituzioni cittadine, in Pesaro dalla devoluzione all’illuminismo, IV.1, Venezia 2005, pp. 3-30: 3-6) appare per esempio il recente saggio M. MIRETTI, Sul viale del tramonto. La fine del Ducato di Urbino, Bologna 2013, al di là della sua indubbia utilità. 8 «Memorie concernenti la città d’Urbino estratte da un libro manoscritto di Francesco Scudacchia, che esiste originalmente presso le monache di S. Maria della Bella di detta città», in Scritture, lettere, monumenti spettanti alla città ed alli uomini illustri d’Urbino senz’ordine cronologico insieme adunati fino all’anno MDCCXVIII dal padre Pier-Girolamo Vernaccia delle Scuole Pie, ed ampliati recentemente di più copiosa raccolta..., Urbino, Biblioteca Centrale Umanistica, Fondo antico del Comune (d’ora in poi BCUU, Comune), vol. 28, pp. 403-406 (l’intero volume è una copia ottocentesca dell’erudito urbinate Antonio Rosa; è possibile consultarne una riproduzione digitale integrale all’indirizzo: ); F. MADIAI, Il giornale di Francesco Paciotti da Urbino, in Archivio Storico per le Marche e per l’Umbria 3 (1886), pp. 48-79: 79 (continuazione di Guidubaldo Paciotti). Cfr. anche le annotazioni che il notaio Placido Vagnarelli verga nei suoi registri in occasione del decesso e del funerale di Federico Ubaldo e della partenza della vedova Claudia, ripubblicate ultimamente in M. GASPERONI, La morte di Federico Ubaldo della Rovere nel racconto di un notaio urbinate, in Pesaro città e contà 30 (2011), pp. 117-120.
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rà di delineare un’immagine differente della fine del ducato, ricostruendo la più ricca e sfaccettata valutazione che lo stesso Marco Antonio Virgili Battiferri ebbe modo di esprimere, al di là del riferimento convenzionale in Urbino antico municipio. Una valutazione che, senza essere meramente individuale, trova manifestazione attraverso la penna di un letterato esponente di una famiglia patrizia urbinate, il quale è nel contempo da un trentennio membro del capitolo metropolitano per venir promosso nel 1629 all’arcidiaconato, e che ha inoltre rivestito un ruolo attivo nella rifondazione della locale Accademia degli Assorditi nel 16239. Sarà nello specifico l’analisi degli interventi manoscritti su due stampati appartenuti a Marco Antonio e oggi conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, opportunamente inquadrati nel contesto della temperie politico-culturale della città, a far emergere il punto di vista sul passato recente di Urbino adottato da una porzione di quell’élite dirigente che si trova a dover trarre un bilancio dalla conclusione della fase ducale e a fronteggiare le incognite aperte per il futuro dall’avvicendamento del nuovo governo pontificio. Ad imporre però una spiegazione sin troppo diretta in termini di meschino opportunismo della reticenza con cui in Urbino antico municipio sono sfiorati i secoli del dominio signorile, tanto da poter far apparire superflua l’indagine appena proposta, intervengono le accuse assai esplicite di un testo coevo relativo alla vigilia della devoluzione, non ancora adeguatamente indagato. Il nome di Marco Antonio, nei panni di un canonico tutt’altro che umbratile e appartato spettatore, ricorre infatti più volte nelle Memorie istoriche concernenti la devoluzione dello Stato d’Urbino, noto finora solo nella versione impressa settecentesca e il cui originale è stato 9
I profili biografici più ricchi su Marco Antonio si devono allo scolopio Pier Girolamo Vernaccia, alacre cultore della memoria municipale nei primi decenni del Settecento che ebbe anche accesso a documentazione successivamente perduta (cfr. F. MARCUCCI, A proposito del Padre Pier Girolamo Vernaccia delle Scuole Pie, in Rerum Urbinatium archiva. Studi in memoria di Leonardo Moretti, a cura di A. DE BERARDINIS – G. PAOLUCCI, Pesaro 2010, pp. 289-299): Elogi degli uomini illustri d’Urbino descritti in epitome dal padre Pier Girolamo Vernaccia chierico regolare delle Scuole Pie l’anno MDCCXX ed ampliati recentemente di altre posteriori notizie a gloria immortale de’ medesimi, BCUU, Comune, vol. 59, f. 165v (num. mod.) per una notizia più sintetica, con ampliamenti a f. 225r-v. Voce analoga, ma non identica, in Serie degli uomini e donne illustri ch’ebbero per patria la città d’Urbino con le rispettive loro notizie raccolte in compendio da vari accreditati scrittori ed autentici manoscritti, distinte nel presente volume in più classi da Pier Girolamo Vernaccia delle Scuole Pie, Pesaro, Biblioteca Oliveriana (d’ora in poi BOP), ms. 1096, ff. 115v-116r. Dalle informazioni raccolte da Vernaccia derivano i profili posteriori usciti a stampa, come ad esempio A. LAZZARI, Dizionario storico degli uomini illustri d’Urbino, in G. COLUCCI, Antichità picene, 26, Fermo, dai torchi dell’autore, 1796 (rist. anast. Ripatransone 1988), pp. 160-161 (si segnala che il medesimo volume fu edito anche singolarmente come A. LAZZARI, Discorsi..., Fermo, dai torchi camerali di Pallade, 1796); per altri medaglioni biografici stampati si rinvia a BORGOGNONI, Prove di storiografia municipale cit., pp. 291-292 con note.
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rintracciato da chi scrive nel Barb. lat. 472910. Anonimo ma riconducibile all’ambiente dell’arcivescovo di Urbino Paolo Emilio Santorio (1623-1635), se non addirittura opera di quest’ultimo, esso descrive con nettezza manichea la contrapposizione tra i partigiani del periclitante prestigio della capitale ducale arroccati attorno alla figura arciepiscopale dipinta come baluardo di alta moralità, da un lato, e i cosiddetti «gessaroli» dall’altro, i voltagabbana che all’interno del patriziato municipale si erano servilmente aggrappati agli interessi e alla persona del governatore pontificio Berlingero Gessi, inviato da Urbano VIII nel dicembre 1624 e rimasto in carica sino ai primi mesi del 162711. Nel corso della narrazione Marco Antonio mostra di agire in modo solidale con il gruppo familiare dei Battiferri, ed in sinergia con i Virgili con i quali è imparentato: accorre a Pesaro a congratularsi con Gessi assurto alla porpora, briga per ottenere inusitati festeggiamenti dal recalcitrante comune in occasione dell’ingresso del neocardinale, ed è poi tra i pochissimi che vanno incontro a quest’ultimo e che lo accompagnano a cavallo ad Urbino tra l’ostilità generale, per eseguirne gli iniqui ordini da fedele «cagnotto»12. Allo scopo di compiacere il rappresentante 10 Memorie istoriche concernenti la devoluzione dello Stato d’Urbino alla Sede Apostolica…, Amsterdam 1723 (l’indicazione topica è palesemente falsa). Nel Barb. lat. 4729, ff. 249r-323v (num. meccanica), esso è intitolato «Relazione dello Stato d’Urbino, e delle cose che seguirono in occasione della devoluzione del medesimo Stato alla Santa Sede, scritta da monsignor Santorio arcivescovo d’Urbino». 11 Alcune considerazioni sulle Memorie in R. RUGGERI, Urbino durante la devoluzione del Ducato in una fonte del XVII secolo, in Studi Urbinati B1 55 (1981/82), pp. 79-102, che a nostro avviso ne sopravvaluta tuttavia l’oggettività e l’equilibrio. 12 Barb. lat. 4729, ff. 274r: «Corsero da Urbino subito in Pesaro a rallegrarsi con lui i signori Marco Antonio Battiferri, Iacomo Michalori canonici della metropolitana, il Gallo, che pretendeva di esser mastro di camera del signor cardinale, Virgilio Virgilii ecc.»; 282r: «Nel capitolo di San Domenico si congregavano il Gallo [...], il fratello, il conte Diego Palma, Mauro, il Virgilio, et il canonico Battiferri et Giovan Battista suo fratello, il Corona con l’Azzino, Francesco Paltroni e Francesco Maria Borrelli, ivi discorrevano in che modo potessero indurre il commune e gli privati ad abbracciare questa impresa di superare l’ingresso fatto da monsignor Santorio, e ricevere a guisa di trionfante il signor cardinale»; 286v-287r: «Vistosi in queste angustie il Bruni [Antonio Bruni, segretario del governatore] fè efficacissimi officii, et con qualche importunità, che l’affettionati del signor cardinale alzassero l’arme di lui, ancorché il Virgilio havesse scritto una lunga lettera a Pesaro sopra questa materia, come cosa odiosa e nova [...]. A tutti i ministri ducali fu commandato che eglino alzassero l’arme di sua signoria illustrissima, come fecero, eccetto però il signor Giovan Maria Viviani tesoriero di sua altezza. Seguirono l’esempio di costoro i Battiferri, [...] il Virgilio ecc. »; 288v-289r: «Si missero in viaggio al fine [...] il canonico Battiferri con dui fratelli, trovandosi il signor Giovan Battista imbrogliato e debitore del Monte della Pietà di centenaia di scudi; in simile et in maggior somma era debitore del Monte il Mazzantino, e facevano delli sviscerati del signor cardinale, acciò non si rivedessero loro i conti e fossero costretti al pagamento; [...] il Virgilio hospite de’ corteggiani del signor cardinale quando venivano in Urbino, onde cercava d’avvantaggiarsi nella sua gratia, sperando molto, né ottenne cosa alcuna»; 295v: «Era servito il cardinale con ardore incredibile in queste sue imprese dal logotenente, podestà et altri ca-
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papale, egli si presta persino ad un gesto infame di calunnia verso l’arcivescovo divulgando, su istigazione di Gessi, un falso messaggio epistolare che denunciava l’operato di Santorio ai tempi della sua precedente esperienza di guida della diocesi di Cosenza: Questa lettera il cardinal Gessi la mattina, essendo piena l’anticamera di gente la diede a leggere al canonico Battiferri, aggiungendo sfacciatamente che possendo gastigare monsignor arcivescovo haveva lasciato di farlo, et hora se gli mostrava cossì ingrato. Questa attione indegna non di cardinale e di sacerdote, ma d’un minimo plebeo, stomacò in modo i circumstati, et coloro che ne hebbero notitia, che il cardinal Gessi ne fu acerbamente lacerato.
La scorrettezza fu considerata così grave — continua l’estensore — che «la città fremeva contra il Battiferri, che fosse stato tanto vituperoso e sfacciato d’havere ardito di leggere la lettera in dishonore del suo prelato»; e Gessi dovette giungere a minacciare personalmente i cancellieri della curia episcopale affinché non intraprendessero alcuna azione ai danni del canonico13. Nonostante l’innegabile partigianeria delle Memorie, l’accaduto non può essere revocato in dubbio, essendo confermato in una missiva che Santorio, pur non additando correi, indirizza nel 1626 al padre Girolamo Fioravanti, confessore di papa Barberini, per lamentarsi senza remore dei soprusi recentemente subiti14. Se la preesistenza di un profilo dipinto a tinte tanto fosche costituisce un problema ineludibile con il quale confrontarsi, i documenti presentati nelle seguenti pagine varranno anche a ricostruire una generale posizione politica di Marco Antonio ben meno radicale, e ad illuminare altresì la sua condotta di una luce diversa rispetto all’impietosa lettura propagandata dal sostenitore dell’arcivescovo. gnotti, come il Galli, Palmi, Antaldi, Battiferri e simili»; cfr. Memorie istoriche concernenti la devoluzione cit., rispettivam. pp. 126, 166-167, 192-193, 205-206, 208, 244. 13 Barb. lat. 4729, ff. 297v-298r; cfr. Memorie istoriche concernenti la devoluzione cit., pp. 252-254. La punizione divina si abbatterà infine inesorabilmente sui «gessaroli», tra i quali «il Mazzantino messo in fuga e condennato di haver truffati mille et ottocento scudi al Monte della Pietà, e sforzato a renderli con grave sua infamia; il simile avenne al Battiferri, che anco egli haveva fraudato il Monte di bona quantità di danari spesi per suoi gusti; al Virgilio gli morse il figlio ecc.» (Barb. lat. 4729, f. 318v; cfr. Memorie istoriche concernenti la devoluzione cit., p. 354). 14 Barb. lat. 5625, ff. 143v-145r, lettera dell’8 ottobre 1626. Nella parte iniziale Santorio si giustifica di fronte alla critica, rivoltagli nella precedente corrispondenza di Fioravanti, di essersi espresso con toni oltre le convenienze: «Questo ben è verissimo che apertamente mi son doluto dei torti che mi sono stati fatti, poiché oltra le catture de’ miei preti, e d’un mio famigliare, fatti condurre nelle rocche con catene al collo, et altri strapazzi grandissimi, si è tentato di pregiudicarmi nell’honore, con haver il signor cardinale fatta legger nella sua anticamera una lettera già contra me scritta all’illustrissimo signor cardinale Ludovisio sotto mentito nome mentr’io era arcivescovo di Cosenza, e sua signoria illustrissima ridendo me la diede con le sue proprie mani» (ff. 143v-144r).
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II Nel meticoloso lavoro di reperimento delle opere, delle edizioni e talora degli esemplari stessi corrispondenti alle registrazioni bibliografiche che Bernardino Baldi aveva stilato per il proprio Elenchus librorum, Alfredo Serrai ha avvertito l’opportunità di non tralasciare quelle note di possesso attribuibili a individui che a vario titolo si possono legare alla persona dell’abate di Guastalla o alle vicende della sua raccolta libraria. In correlazione alle rispettive voci del catalogo baldiano, si fa così riferimento a due stampati esaminati presso la Biblioteca Vaticana e riconducibili al medesimo antico possessore, Marco Antonio Virgili Battiferri, che Serrai ha avuto modo di citare ripetutamente nella sezione biografica della monografia dedicata a Baldi15. Tali esemplari, segnalati di sfuggita decenni addietro da un profondo conoscitore dei fondi vaticani come Luigi Michelini Tocci16, appaiono accomunati non soltanto dall’essere transitati nella biblioteca dell’arcidiacono, ma anche da una stretta omogeneità contenutistica, e soprattutto dal fatto che Marco Antonio ha lasciato in entrambi tracce manoscritte che trascendono la pura e semplice affermazione di una proprietà o l’ordinaria attività di postillatura. Il primo volume, cui è apposta la segnatura vaticana Riserva IV.47 (ma già Stamp. Barb. Z.V.55), consiste nella Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini ducis di Baldassarre Castiglione, edita a Fossombrone per Ottaviano Petrucci nel 151317. Esso reca al di sotto del titolo, nel frontespizio, oltre ad un monogramma che si compone delle quattro iniziali del nome e del cognome del possessore, la nota «Marci Antonii Vergilii Battiferri archidiaconi Urbinatis». A conclusione del testo impresso, dopo il colophon, figura però un’ulteriore e più estesa nota di possesso, che insiste sulla parentela con il celebre umanista urbinate Polidoro Virgili: «Marci Antonii Vergilii Battiferri archidiaconi Urbinatis, et Polydori Vergilii archidiaconi Vuellensis, Anglicarum Historiarum scriptoris, Alexandro VI summo pontifice in Anglia quaestoris, pronepotis ex fratre» (Tavv. I-II). Mentre, sulla base di 15
A. SERRAI, Bernardino Baldi. La vita, le opere. La biblioteca, Milano 2002, pp. 362 e 742 (per una svista, la collocazione del secondo esemplare è riportata in maniera errata). Sulle menzioni di Marco Antonio nella prima parte, eminentemente in qualità di biografo di Baldi per averne recitato l’elogio funebre, si rinvia all’indice a p. 252 s.v. 16 L. MICHELINI TOCCI, II manoscritto di dedica della «Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini ducis ad Henricum Angliae regem» di Baldassarre Castiglione, in Italia medioevale e umanistica 5 (1962), pp. 273-282: 273 con n. 1. 17 Riserva IV.47: B. CASTIGLIONE, Ad Henricum Angliae regem Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini ducis, [Forosempronii, per Octavianum Petrutium, 1513]; EDIT16 CNCE 10053. Nel catalogo della raccolta di Baldi, l’opera è indicata per mezzo dei seguenti dati editoriali: «Balthasaris Castilionis de Vita G. Vbaldi Vrb. Ducis 4. Forosempronii» (SERRAI, Bernardino Baldi cit., p. 362).
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uno studio condotto precedentemente, si è in grado di ascrivere senz’altro queste registrazioni alla penna di Battiferri18, i rarissimi marginalia che compaiono a postillare l’Epistola risultano di un’unica mano più antica, da identificare forse con quella di colui al quale il volume era appartenuto nel Cinquecento19. E se i segni che Marco Antonio dissemina sul libro possono ancora apparire, ad una considerazione superficiale, come declinazioni eccentriche della rivendicazione del possesso sull’oggetto, l’esame del secondo stampato non lascia campo a dubbi circa la volontà di trasformare uno dei tanti esemplari usciti dai torchi in un prodotto unico, con una forte e consapevole impronta personale. Lo Stamp. Barb. Q.XII.72 contiene le due biografie dei duchi di Urbino edite a Venezia nel 1605 da Giovan Battista Ciotti, la Historia di Federico da Montefeltro scritta negli anni Cinquanta del XVI secolo da Girolamo Muzio e la più recente Vita di Francesco Maria I di Giovan Battista Leoni20, probabilmente vendute in abbinamento, visto il numero delle copie superstiti che come qui si presentano rilegate assieme21. Sul recto del foglio di guardia si trova di nuovo la nota di possesso, autografa ma in volgare: «Di Marc’Antonio Vergilii Battiferri archidiacono d’Urbino. 60», il cui numero finale, come ha osservato Serrai, dovrebbe essere indice di 18 R. BORGOGNONI, Conferme vaticane sulla mano di Marco Antonio Virgili Battiferri, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche 108 (2007-2010), pp. 243-249. 19 Senza far neppure menzione delle postille, C. H. CLOUGH, Federigo Veterani, Polydore Vergil’s «Anglica Historia» and Baldassarre Castiglione’s «Epistola … ad Henricum Angliae regem», in English Historical Review 82 (1967), pp. 772-783: 778 (= ID., The Duchy of Urbino in the Renaissance, London 1981, cap. XIII), sostiene che esso fosse stato di proprietà di Polidoro Virgili, rinviando semplicemente a MICHELINI TOCCI, II manoscritto di dedica cit., p. 273, che non supporta però in alcun modo l’affermazione. 20 Stamp. Barb. Q.XII.72: G. MUZIO, Historia … de’ fatti di Federico di Montefeltro duca d’Urbino, Venezia, Giovan Battista Ciotti, 1605; G. B. LEONI, Vita di Francesco Maria di Montefeltro della Rovere III duca d’Urbino…, Venezia, Giovan Battista Ciotti, 1605; a confermare il confezionamento in una medesima unità sin dall’epoca di Battiferri interviene l’assenza di qualsivoglia segno di possesso sulla seconda biografia. 21 Sono appaiate anche nell’esemplare un tempo incluso nella «Libraria impressa» ducale di Casteldurante, ed oggi conservato presso la Biblioteca Alessandrina con segnatura I.c.35.1: cfr. La libraria di Francesco Maria II della Rovere a Casteldurante da collezione ducale a biblioteca della città, a cura di M. MEI – F. PAOLI, Urbania 2008, scheda 7, pp. 161-162 (E. LOZZI). Nell’Elenchus baldiano si reperisce un’unica voce: «Vita di Franc.o Maria della Rouere, del Leoni 4. Ven.a» (SERRAI, Bernardino Baldi cit., p. 742). L’impegno profuso da Bernardino nel redigere agli inizi del Seicento la Vita di Federico da Montefeltro, che lo aveva portato inevitabilmente ad utilizzare Muzio allora allo stato manoscritto (cfr. l’elenco delle fonti accluso ad una lettera del 1602 pubblicata in SAVIOTTI, Di un inedito carteggio cit., p. 151) rende altamente improbabile il mancato acquisto della versione a stampa dell’opera da parte dell’abate di Guastalla; il fatto che quest’ultimo abbia registrato soltanto la biografia di Leoni, se non imputabile ad una mera omissione, potrebbe anzi suggerire che nella sua biblioteca i due testi figurassero parimenti uniti.
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un ordinamento progressivo all’interno della raccolta libraria, comprendente perciò almeno sessanta titoli; il medesimo monogramma incontrato nell’altro volume ricorre sul margine inferiore del frontespizio dell’opera di Muzio. Contrariamente ai consueti segni appena menzionati una serie di interventi manoscritti, riconducibile nella quasi totalità alla mente e alla penna di Battiferri, si distingue per una marcata originalità. La controguardia anteriore è innanzitutto occupata da una succinta rassegna bibliografica sulle biografie del duca Federico compilata da Marco Antonio22, e, sebbene di mano differente, non alieno al suo orizzonte culturale si dimostra un sonetto riportato sul verso del foglio di guardia con l’intestazione: «Del signor dottor Giovan Battista Pucci sopra la Corte d’Urbino». I testi a stampa di Muzio e di Leoni sono poi punteggiati di alcune evidenziature e brevi postille autografe, in concomitanza con passi che toccano specifici interessi dell’arcidiacono. Nell’ultima carta bianca dopo la conclusione della prima biografia (f. 6r), Marco Antonio trascrive propri versi: «Sopra la statua del duca Federigo primo posta nel palazzo d’Urbino fabricato da lui»; una coppia di altri suoi sonetti, vergati di suo stesso pugno, compare inoltre nell’ultimo foglio di guardia: «In morte del serenissimo prencipe Federigo 2° sposo della serenissima donna Claudia Medici li 29 giugno 1623» (recto), e «In lode del serenissimo signor duca Francesco Maria 2° ritirato a Casteldurante, dove condusse la libraria, e dove morì li 28 aprile 1631» (verso). Completa l’operazione di personalizzazione, quasi ad istituire un’ideale corrispondenza con le incisioni raffiguranti i duchi Federico e Francesco Maria I nell’antiporta delle rispettive biografie23, il fissaggio sul contropiatto posteriore di un’immagine a stampa di Francesco Maria II in età avanzata (Tav. III) che, pur nella specularità dell’orientamento, mostra stretta affinità con l’iconografia dell’ultimo Della Rovere riscontrabile nel tondo policromo in terracotta presente nell’Oratorio della Grotta di Urbi-
22 Incollato per un angolo al contropiatto anteriore e ripiegato è inserito nello stampato un foglio singolo nel quale, a partire dal dominio su Pennabilli, viene ricostruita la genealogia dei Malatesti, sicuramente non dovuto alla mano di Battiferri. Per la sua natura di addizione estemporanea al volume e per l’estraneità dell’argomento rispetto a ciò su cui si concentra l’attenzione di Marco Antonio, la carta sembra piuttosto generata dagli appunti di un lettore diverso e successivo; essa non sarà pertanto presa in considerazione. 23 Sulla prima delle quali ora G. CUCCO, Urbino: percorso iconografico dal XV al XIX secolo, Urbino 1994, pp. 100-101 scheda 31. Sia per questa effigie sia per quella di Francesco Maria (riduzione del ritratto di Tiziano) è riconoscibile un evidente rapporto di derivazione con le miniature che aprono i codici Urb. lat. 1765, f. 1r e Urb. lat. 1764, f. 1r, contenenti ugualmente le vite di Muzio e di Leoni: vd. C. STORNAJOLO, I ritratti e le gesta dei duchi di Urbino nelle miniature dei codici vaticano-urbinati, Roma 1913, pp. 19-20 e tav. VI, 21-22 e tav. XI; ID., Codices Urbinates latini, III cit., p. 686.
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no24. Il ritratto impresso, dove il busto del duca è racchiuso in un ovale decorato ai margini da quattro rami di quercia, è corredato del seguente epitafio: «Ultimus Urbini Franciscus hic ordine, sed dux primus laude fuit, gloria summa ducum» e, in una ulteriore striscia di carta incollata immediatamente al di sotto, «Obiit ingenti omnium luctu anno Domini MDCXXXI aetatis suae LXXXIII regiminis LVII». Ad integrazione dei dati cronologici, è stato aggiunto un «Die 28 Aprilis» da una mano che non è escluso possa identificarsi ancora una volta con quella di Battiferri, nonostante il tratto assuma qui un ductus più posato ad imitazione delle linee stampate sovrastanti. Per opere che non sembrano di per sé scontate sugli scaffali di una «libraria» nobiliare nella Urbino d’età moderna25, lo stato delle indagini induce prudentemente a limitarsi a rimarcare la potenziale rilevanza (non scevra da problematicità) di alcuni dati utili a ricostruire i passaggi di mano che le condussero dalle Marche sino alla Biblioteca Barberini, e quindi all’attuale sede di conservazione. L’arco di tempo, sebbene assai ampio, entro il quale il trasferimento deve essere necessariamente occorso è compreso fra gli estremi certi del 1637, anno della morte di Marco Antonio, e del 1837, data che compare sul timbro a stampa rosso ornato dell’ape barberiniana apposto ad entrambi i libri26. Benché soltanto una ricerca a largo spettro consenta di acclarare se i due stampati abbiano rappresentato acquisti sporadici, oppure se l’incameramento abbia riguardato una porzione cospicua ed organica della raccolta di Battiferri, non si può far a meno di notare come si infittiscano nel trentennio successivo alla devoluzione i contatti tra la città ed esponenti della famiglia Barberini o intellettuali al 24
Probabilmente di realizzazione posteriore al 1623, anno della morte di Federico Ubaldo: I Della Rovere. Piero della Francesca Raffaello Tiziano, a cura di P. DAL POGGETTO, Milano 2004, p. 338 scheda VIII.2 (A. VASTANO). Una più lata somiglianza si ravvisa nella rappresentazione del duca maturo dipinta da Giovan Giacomo Pandolfi nella chiesa pesarese del Nome di Dio, rivolto nella medesima direzione dell’incisione vaticana: G. CALEGARI, La chiesa del Nome di Dio a Pesaro, Urbania 2009, pp. 52-53. Iconografia difforme è invece quella del quadro anonimo conservato nel Museo Civico di Urbania: I Della Rovere cit., pp. 459-460 scheda XIV.2 (M. MORETTI). 25 Non risultano negli inventari notarili delle biblioteche Alessandri (1625) e Corboli (1592) che anzi, nella predominanza della trattatistica giuridica, sono totalmente prive di scritti su Urbino ed i suoi signori, tranne gli Statuti cittadini (1559): rispettivam. M. MORANTI – L. MORANTI, Librerie private in Urbino nei secoli XVI-XVII, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche 83 (1978), pp. 315-348: 337 nr. 199; IDD., La libreria della famiglia Corboli di Urbino, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche 85 (1980), pp. 229-261: 252 nr. 50. Nella seconda raccolta, tuttavia, non è escluso che avesse una connessione con il panorama culturale locale la presenza di testi di vasta fortuna come il Cortegiano di Castiglione e il De inventoribus di Polidoro Virgili (ibid., p. 256 nrr. 180, 209). 26 Riserva IV.47, f. a Iv; Stamp. Barb. Q.XII.72, f. a 1v.
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loro servizio. Riportando esclusivamente le evidenze macroscopiche, ad avvicendarsi innanzitutto nel governo della Legazione a ridosso del 1631 saranno infatti i nipoti di papa Urbano VIII, Antonio (1631-1633) e Francesco (1633-1645)27; ma anche Lucas Holste, in qualità di bibliotecario di quest’ultimo, si recherà nel 1643 ad Urbino con l’incarico di esaminare proprio le collezioni della zona e, nominato custode della Vaticana, promuoverà energicamente fin dal 1657 quelle trattative che avrebbero condotto nel giro di un biennio alla trasmigrazione a Roma della «libraria» ducale manoscritta28. All’ipotesi dell’ingresso precoce di una parte considerevole della biblioteca privata di Marco Antonio si frappongono sia i silenzi del catalogo della Barberiniana edito nel 168129, sia l’individuazione di volumi impressi posseduti dall’arcidiacono nel Fondo vaticano Capponi ed altrove30. Rimane materia di congettura che i responsabili dell’acquisizione per 27 C. WEBER, Legati e governatori dello Stato pontificio (1550-1809), Roma 1994, pp. 416, 474-475; le relazioni dirette dei fratelli Barberini con la realtà urbinate saranno comunque esili, soprattutto nel caso di Francesco, che delegherà la concreta gestione dell’amministrazione a vicelegati. 28 MORANTI – MORANTI, Il trasferimento cit., pp. 41 ss.; sull’attività complessiva di Holste presso le due istituzioni cfr. P. VIAN, Un bibliotecario al lavoro: Holste, la Barberiniana, la Vaticana e la biblioteca della regina Cristina di Svezia, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae VIII, Città del Vaticano 2001, pp. 445-492: 450-474. Indizio di un interesse più vasto per le raccolte librarie nella città è il fatto che, nella pagina del proprio diario dedicata al rapido soggiorno urbinate (pubblicata in MORANTI – MORANTI, Il trasferimento cit., pp. 155156 nr. LII), egli ricorda di aver visitato, oltre alla biblioteca ducale, anche «bibliothecam Federici Bonaventurae, nobili et eruditi Philosophi, et in ea Adrastum peripateticum de Musica, et alia quaedam Mathematica Barlamni manuscripta». 29 Dei tre scritti in questione, l’unico ad essere registrato è la Historia di Muzio: Index bibliothecae qua Franciscus Barberinus … magnificentissimas suae familiae ad Quirinalem aedes magnificentiores reddidit libri tres, II, Romae, typis Barberinis, excudebat Michael Hercules 1681, p. 104: «Ger. MUTIO Iustinopolitano. Historia di Federico di Montefeltro. Ven. 1605. 4. XXVI. C. 16». Se l’assenza della Vita di Leoni è spiegabile con una rilegatura in volume unico, aperto resta il problema della mancata menzione dell’Epistola di Castiglione. 30 Nella miscellanea con segnatura Stamp. Cappon. IV.937, che non riporta alcun vestigio di una precedente appartenenza barberiniana, il frontespizio di B. BALDI, La difesa di Procopio contro le calunnie di Flavio Biondo, con alcune considerationi intorno al luogo, ove seguì giornata fra Totila e Narsete, Urbino, Marc’Antonio Mazzantini, 1627 (interno 1) reca il monogramma di Marco Antonio Virgili Battiferri; nell’opera organizzata dal fratello di quest’ultimo Giovan Battista Racconto del prologo, comedia et intermedii rappresentati in Urbino li 4 di marzo MDCXXVIII. All’illustrissimo et reverendissimo monsignor Campeggi governatore dello Stato d’Urbino, Urbino, nella stamparia del Mazzantini, appresso Luigi Ghisoni, 1628 (int. 4), è inequivocabilmente la mano di Marco Antonio a correggere un paio di refusi del testo alle pp. 3, 23. MICHELINI TOCCI, II manoscritto di dedica cit., p. 273 n. 1, che si pronunciava per una dispersione della raccolta dell’arcidiacono nel XVII secolo, segnalava poi all’interno della propria biblioteca di famiglia a Cagli «un libro col solo monogramma del Vergili Battiferri […], il compendio delle Elegantiae del Valla fatto da Bono Accursio, nell’edizione grifiana in 8° del 1531». A puro titolo comparativo, si potrà ricordare che la ricca collezione di Baldi sarà
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la biblioteca dei Barberini abbiano potuto attribuire un valore aggiunto agli interventi della penna di Battiferri nei due esemplari sopra descritti, tanto da apparire determinanti nella scelta; è viceversa innegabile che essi rispondevano agli occhi di Marco Antonio ad una iniziativa tutt’altro che occasionale o dettata unicamente da premure estetiche. III Sull’Epistola de vita et gestis Guidubaldi Battiferri ha lasciato tracce quantitativamente ridotte e, dal punto di vista qualitativo, meno appariscenti; apporti che risalgono senza dubbio ai suoi ultimi anni di vita e pertanto alla fase terminale del ducato o a quella incipiente del governo legatizio. Lo comprova il qualificarsi con il titolo di arcidiacono, dignità capitolare che, come si è accennato, assumerà formalmente soltanto il 30 ottobre 162931. A fronte della convenzionalità della prima sul frontespizio, la seconda nota di possesso supplementare in fondo al volume risponde ad una logica diversa che ne travalica la funzione ordinaria, per entrare in implicita e simultanea relazione con i contenuti del testo veicolato dal prodotto tipografico di cui rivendica la proprietà e con l’esperienza biografica del proprietario stesso. Al centro della registrazione si pongono infatti i legami di parentela che proiettano quest’ultimo in una dimensione di perpetuazione familiare ed onomastica: nipote ex filio di Girolamo Virgili fratello di Polidoro e marito di Angelina Battiferri, Marco Antonio incarna nella sua persona e manifesta nel proprio doppio cognome entrambe le linee di ascendenza che avevano trovato un punto di confluenza due generazioni prima32. Si ha la subitanea impressione che, in maniera ancor più stringente, vi venga in certo qual modo adombrata un’emulazione del prestigioso smembrata nel Seicento tra la famiglia Albani, imparentata con l’abate di Guastalla e mirante a conservarne gli autografi (I. AFFÒ, Vita di monsignore Bernardino Baldi da Urbino primo abate di Guastalla, Parma, Filippo Carmignani, 1783, pp. 165-166) e i conti Berardi di Cagli, i quali acquistarono gran parte dei libri (G. M. CRESCIMBENI, La vita di Bernardino Baldi Abate di Guastalla, a cura di I. FILOGRASSO, Urbino 2001, p. 136; il passo è anche trascritto in SERRAI, Bernardino Baldi cit., p. 123). 31 Per la cronologia della carriera di Battiferri all’interno del capitolo, si veda specificamente A. ROSA, Serie cronologica di tutti li signori canonici della Chiesa d’Urbino…, BCUU, Comune, vol. 54, pp. 47-48, 52, 56 (cfr. anche l’appendice prosopografica alle pp. 371-372). Una trascrizione parziale del manoscritto (appendice esclusa), realizzata da F. Marcucci è disponibile all’indirizzo: . 32 Alberi genealogici di entrambe le famiglie sono in BCUU, Comune, vol. 115, f. 64r per i Virgili, f. 47r per i Battiferri; vol. 112, ff. 94v-95r (num. mod.) per i Virgili, f. 155r per i Battiferri (una riproduzione integrale di quest’ultimo manoscritto è disponibile all’indirizzo: ). Meno completo ed inesatto per le generazioni più recenti lo schema ricostruito in F. NEGRONI, Puntualizzazioni archivistiche sulla famiglia Virgili di Urbino, in Polidoro Virgili e la cultura umanistica europea. Atti
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prozio attraverso la simmetria delle carriere ecclesiastiche ed il raggiungimento dell’arcidiaconato, di contro all’omissione di altri traguardi conquistati dall’avo e al raccomandabile silenzio circa l’imprigionamento del 151533; pur senza una menzione esplicita, le occupazioni storiografiche di quest’ultimo culminate nella redazione della Anglica historia erano inoltre riecheggiate dalla dedizione per le lettere che il suo discendente aveva manifestato nel corso dell’intera vita, e della quale il libro stesso su cui la nota è vergata rappresentava una prova tangibile. Estraneo ad un moto estemporaneo di vanità, il ricorso al nome dello storico dell’Inghilterra si inquadra in uno sforzo da tempo intrapreso da Marco Antonio per promuovere il ricordo dell’antenato Polidoro e che si era concretizzato in forme molteplici. Già nel 1613 egli aveva donato al duca Francesco Maria i manoscritti autografi della Anglica historia virgiliana (gli attuali Urb. lat. 497-498), da lui reperiti nella torre di Fermignano allora proprietà del suo ramo della famiglia34, premettendo ad essi due brevi introduzioni35. Sul versante della produzione poetica del medesimo del Convegno Internazionale di Studi e Celebrazioni (Urbino, 28 settembre – 1 ottobre 2000), a cura di R. BACCHIELLI, Urbino 2003, pp. 39-51: 46. 33 Per le cariche e l’incombenza storiografica citate da Battiferri e risalenti al primo decennio del Cinquecento, D. HAY, Polydore Vergil. Renaissance Historian and Man of Letters, Oxford 1952, pp. 2-21; in sintesi R. RUGGERI, Polidoro Virgili. Un umanista europeo, Bergamo 2000, p. 17. 34 Vd. l’osservazione parentetica avanzata nello stesso anno in S. MACCI, Historiarum de bello Asdrubalis libri quattuor, Venetiis, apud Ambrosum et Bartholomeum Dei fratres, 1613, lib. 3, pp. 49-50: «Eam [sc. la torre di Fermignano, località dove Asdrubale sarebbe giunto] nunc possident Polydori Virgili Urbinatis, rerum Anglicanarum historici elegantissimi, ex fratre pronepotes patritii Urbinates, qui quoque Battiferrae familiae pervetustae cognomen retinent». Sebastiano Macci coglie qui il destro per omaggiare la famiglia di Marco Antonio, la frequentazione del quale si evince da una lettera (edita in R. BORGOGNONI, Manoscritti e stampati delle librerie dei duchi di Urbino e le biblioteche signorili del Quattrocento: un convegno, due mostre e due sguardi del primo Seicento, in Schede umanistiche n.s. 23 [2009], pp. 219-241: 240) in cui l’erudito durantino si prefigge di consegnare un esemplare di una pubblicazione fresca di stampa del corrispondente Bonciari proprio a Battiferri, volume presumibilmente entrato quindi nella raccolta privata dell’arcidiacono. 35 Urb. lat. 497, ff. 2r-3v; 498, f. 2r (C. STORNAJOLO, Codices Urbinates latini, I, Romae 1902, pp. 500-501); contrariamente a quanto asserito in BORGOGNONI, Conferme vaticane cit., pp. 245-246, un esame più accurato fa propendere per un’autografia di tali note introduttive, in cui compare una mano che si impegna ad apparire più calligrafica rispetto al consueto andamento corsivo della grafia di Battiferri. Per la storia pregressa dei codici, è noto solamente che nel 1516 Polidoro li aveva lasciati in custodia al notaio Federico Veterani ad Urbino, per rientrarne poi in possesso: D. HAY, The Manuscript of Polydore Vergil’s Anglica Historia, in English Historical Review 54 (1939), pp. 240-251: 240-244; CLOUGH, Federigo Veterani cit., 772-778. Marco Antonio si dichiara custode del patrimonio letterario del prozio: «cuius auctoris pater meus Polydorus ex fratre nepos, licet tanquam natu posterior opum haeres testamentarius non fuerit institutus, ego tamen eiusdem pronepos, operum custos, et forsan haeres in hac parte vere fideicommissarius substitutus, ut apud me semper eius opera quam
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periodo, Battiferri aveva risposto a dei versi indirizzatigli da Baldi e confluiti nei Concetti morali di quest’ultimo, dove l’abate di Guastalla lo esortava ad imitare il suo antenato36. È tuttavia l’imminente conclusione del processo di devoluzione che imprime nuovo slancio allo zelo celebrativo dei Virgili Battiferri. Rivolgendosi infatti a Rodolfo Campeggi, successore di Gessi, nella prefazione al volume edito nel 1628 e contenente alcune composizioni teatrali opera sua e di Marco Antonio, il fratello di quest’ultimo Giovan Battista tesse un parallelo tra Polidoro e il canonico stesso nel devoto rapporto intrattenuto con coevi esponenti della famiglia del governatore pontificio; all’interno del testo degli intermezzi ivi pubblicati che, seppur anepigrafo, è chiaramente frutto della penna di Marco Antonio, egli ha poi modo di definirsi prendendo spunto dalla menzione dei Cerealia romani da parte di Polidoro: «come nel libro De rerum inventoribus afferma il nostro Polidoro Vergilio, del cui pronepote sono l’inventioni e pensieri di tutti questi intermedii, gentilhuomo, che benché retirato et intento ad occupationi e studi più gravi, non sa però negare e ritirarsi nelle pubbliche occasioni di non compiacere e servire i signori, gl’amici e la patria»37. A coronamento della politica (auto)promozionale, per iniziativa dell’arcidiacoopes, fama quam facultates, monumenta quam testamenta fuerunt potiora» (Urb. lat. 497, f. 2r); in conclusione, con formula preteritiva, una captatio benevolentiae richiama congiuntamente i meriti di due antenati: «Ego autem licet dispari calamo Polydori, patris mei patrui, et dissimili opera Marci Antoni Battiferri, excellentissimi patris tui collateralis, et patris mei avunculi, parem gratiam et meritum non ausim praetendere, etc.» (f. 3v). I due manoscritti saranno conservati dal duca a Casteldurante: MORANTI – MORANTI, Il trasferimento cit., p. 436 nr. 1172. 36 Nella già citata miscellanea Stamp. Cappon. IV.937, che racchiude anche B. BALDI, Concetti morali…, Parma, Erasmo Viotti, 1607 (int. 2), è inserita una carta in cui una mano con ductus posato ben diversa da quella di Marco Antonio ha riportato un componimento poetico di Battiferri (int. 3: «Risposta di Marc’Antonio Vergilii Battiferri archidiacono d’Urbino nell’illustrissime Academie degl’Insensati di Perugia e degli Assorditi d’Urbino detto l’Adombrato, a monsignore abbate Baldi alla proposta sopra a c. 54, mostrandosi ch’il desiderio naturale della virtù s’accresce dall’essempio de’ maggiori»; inc. «Nobil alma non è che non accenda», exp. «che s’è sprone il desio, l’ingegno è freno»), che replica appunto a quello baldiano stampato alle pp. 54-55 («Al signor Marc’Antonio Battiferri de’ Virgilii. Doversi imitare le virtù degli antecessori»). Sin da un messaggio gratulatorio del 1597 per la nomina di Battiferri al canonicato, Bernardino aveva scritto: «mi giova sperare che Ella sia per risuscitare il nome del Sig. Polidoro» (P. PROVASI, Un amico di Bernardino Baldi [Marc’Antonio Vergilj Battiferri] con una lettera inedita del Baldi medesimo, in Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti 1 [1901], pp. 42-45: 43). 37 Racconto del prologo, comedia et intermedii cit., f. + 2v: «il grande e general desiderio, ma più il mio particolarissimo di riverirla e servirla, per rinovare e confirmarle quella devotione e servitù, ch’a punto cento anni sono Polidoro Vergilii archidiacono d’Vuallia, collettore pontificio, e fratello di mio avo, dimostrò all’illustrissimo signor cardinale Lorenzo Campeggi in Inghilterra, e quella che il canonico mio fratello ha tenuto col signor conte Ridolfo ultimamente in Bologna»; p. 27.
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no e del parente Virgilio Virgili iunior sarà infine eretta nel 1636 all’interno del duomo di Urbino una lapide commemorativa in onore dell’umanista, dove non appaiono casuali alcune minori consonanze lessicali con la nota di possesso38. Un fiero senso di continuità costituiva la pietra angolare del prestigio e della posizione eminente goduti dal patriziato municipale39, e diveniva tanto più determinante ora che, avendo la presenza e l’interferenza dell’autorità signorile a lungo impedito l’emergere nelle città del ducato di un’oligarchia di governo formalizzata, nel 1627 era stata finalmente sancita ad Urbino una perfetta coincidenza tra gradi di cittadinanza e gradi magistratuali40. Nel caso specifico dei Virgili il merito di aver ottenuto l’ascrizione alla nobiltà urbinate ricadeva proprio su Polidoro, che nel 1534 si era visto riconoscere da Francesco Maria I il privilegio per «se fratresque suos, omnemque posteritatem»41. Una simile percezione contribuisce a spiegare le relazioni di sintonia politica che i fratelli Battiferri intrattengono con l’altro ramo dei Virgili derivato da Gianfrancesco, fratello maggiore dello storiografo, denunciati a più riprese dalle Memorie istoriche concernenti la devoluzione. Il nome di Polidoro, il quale con la città e con i suoi duchi ave-
38 G. CERBONI BAIARDI, Urbino per Polidoro Virgili, in Polidoro Virgili e la cultura umanistica cit., pp. 5-16: 10; F. NEGRONI, Puntualizzazioni archivistiche cit., p. 49 n. 19, che riporta da ultimo il testo dell’iscrizione non più esistente, mutuandolo dalla trascrizione in LAZZARI, Dizionario storico cit., p. 276, che però per una svista reca la data come 1631. L’anno esatto è invece unanimemente indicato dalle sillogi manoscritte del Settecento: B. VINCENZI, In questo libro si contengono molte inscrizioni di lapide sepolchrali, et depositi con altre bellissime memorie antiche di questa città antica d’Urbino e sua diocesi fatte raccogliere […] l’anno Domini MDCCLII, BCUU, Comune, vol. 30, ff. XIIv-XIIIr (una riproduzione digitale integrale è disponibile all’indirizzo: ); F. M. GALLI, Raccolta di tutti gli epitafi, epigrafi ed iscrizioni lapidarie e sepolcrali antiche e moderne esistenti nella città ed archidiocesi […] alle quali si aggiungono tutte le altre appartenenti alla medesima città o libri 1792, BCUU, Comune, vol. 99, p. 73; [C. FIORINI], Collezione di tutti gli epitafi, epigrafi ed iscrizioni lapidarie, di munificenza, onorarie e sepolcrali antiche e moderne, sacre e profane alla città e cittadini di Urbino spettanti non solo in questa, suo contado ed altrove tutt’ora esistenti ma quelle ancora, che nelle erudite pagini vennero dall’ingiuria de’ tempi vendicate ed alla posterità conservate, BCUU, Comune, vol. 117, p. 100 nr. 142. 39 Cfr. ad esempio le costruzioni genealogiche, effettuate da un nobile perugino del Seicento, studiate ora in E. IRACE, Alla ricerca degli antenati. La memoria erudita degli Arcipreti della Penna (secoli XVI-XIX), in Gli Arcipreti della Penna. Una famiglia nella storia di Perugia, a cura di E. IRACE, Perugia 2014, pp. 1-30: 11-22 40 B. G. ZENOBI, Le «ben regolate città». Modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Roma 1994, pp. 95-97; cfr. 98-105 per gli altri centri dello Stato di Urbino. 41 Il testo del documento, pur mancante della parte terminale, si legge in LAZZARI, Dizionario storico cit., pp. 277-278, che dichiara di desumerlo da un manoscritto in suo possesso, e di non essere stato in grado, nonostante le ricerche, di reperirne un’altra copia completa.
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va mantenuto un rapporto intermittente ma non privo di gratificazioni42, non viene tuttavia confinato ad una celebrazione familiare che avrebbe dovuto interessare soltanto gli esponenti dei due rami della discendenza dei Virgili e dei Virgili Battiferri, bensì assurge a «gloria patria», entra nella schiera dei viri illustres che con il Seicento si identificano sempre più con i gentiluomini ed i letterati, in buona parte ecclesiastici43; si erge tra coloro che hanno reso famosa Urbino in un contesto europeo, accanto a Bramante, Raffaello e Federico Commandino ricordati da Marco Antonio in Urbino antico municipio44. Lo stesso epitafio inciso sulla lapide apposta dai discendenti, seguendo moduli non ignoti all’epigrafia funeraria della prima età moderna, gioca sulla doppia dimensione municipale nell’attaccamento del defunto alla città natale, e universale nella propagazione della sua fama (e nella sua prolungata permanenza nell’Europa settentrionale): «semper victurus in orbe/ obiit in patria»45. Dal frammento superstite di una perduta opera sugli uomini illustri di Urbino si apprende che Marco Antonio aveva dedicato spazio a due esponenti della famiglia Battiferri46, che aveva avuto modo di citare anche nel 1617 tra i personaggi famosi accanto a Polidoro e ad altri Virgili nell’orazione funebre per Bernardino Baldi47. L’abate 42 M. BONVINI MAZZANTI, Polidoro Virgili e il ducato di Urbino, in Polidoro Virgili e la cultura umanistica cit., pp. 17-35. 43 E. IRACE, Itale glorie, Bologna 2003, pp. 77-81. 44 VIRGILI BATTIFERRI, Urbino antico municipio cit., p. 318 ll. 12-14 (le tre personalità sono qui selezionate come rappresentanti locali dell’eccellenza nelle arti e nelle scienze, rispettivamente nell’architettura, nella pittura e nella matematica). 45 Per un caso di ancor più marcata coesistenza dei piani familiare, municipale e universale in una coppia di lapidi funebri dell’Ancona cinquecentesca, sia permesso rinviare a R. BORGOGNONI, Al di là della famiglia e della città: una reminiscenza ciceroniana nelle epigrafi sepolcrali di Bernardino e Benvenuto Stracca, in Benvenuto Straccha «Ex antiquitate renascor». Atti del convegno (Ancona, 22 febbraio A.D. MMXIII), a cura di G. PICCININI, A. MORDENTI, V. PIERGIOVANNI, G. S. PENE VIDARI, M. BONOMELLI, R. BORGOGNONI, Ancona 2014, pp. 105-115. 46 Scritture, lettere, monumenti cit., BCUU, Comune, vol. 28, pp. 104, 106-107 (le voci sono riportate per esteso in BORGOGNONI, Prove di storiografia municipale cit., p. 313 n. 19). Colpisce invece che egli non si sia affatto speso per glorificare la memoria di Laura Battiferri Ammannati, ivi rammentata esclusivamente in qualità di figlia di Giovanni Antonio Battiferri, che era stata posta ai vertici della poesia urbinate in BALDI, Encomio della patria…, Urbino, Angelo Antonio Monticelli, 1706, pp. 119-120. 47 M. A. VIRGILI BATTIFERRI, Oratione funebre in lode di monsignor Bernardino Baldi d’Urbino abbate di Guastalla..., Urbino, Alessandro Corvini, 1617, pp. 9: «Nella filosofia oltre quel Gio. Matteo Vergilii fratello di Polidoro, che ne fu publico lettore nello Studio di Padoa, e scrisse De materia prima, e De materia coeli, oltre quel Matteo Battiferri, che quasi ducent’anni sono ricorresse e ristampò il Commento d’Alberto Magno sopra la Filosofia naturale d’Aristotele, ecc.»; 10: «Nell’historie e nelle più belle lettere greche e latine fu così eccellente Polidoro Vergilii, che non solo dimostrò al mondo tutti gl’inventori delle cose con quel suo utilissimo libro De rerum inventoribus, ma portato dal valore e dal merito anche in parte quasi divisa dal nostro Mondo, fatto canonico di Londra, Archidiacono d’Vuallia e Nuntio
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di Guastalla aveva a suo tempo composto un epitafio in versi per Polidoro, e parimenti un sonetto encomiastico gli sarà tributato entro il 1633 dall’Assordito Giovan Leone Semproni48. Riconosciuto unanimemente vanto per la comunità cittadina, l’umanista poteva pertanto rappresentare, secondo la sensibilità di Marco Antonio, l’anello di congiunzione tra orgoglio municipale ed esaltazione familiare (nonché personale). Non va tuttavia trascurato un ulteriore risvolto, che si evince dall’apposizione della particolare nota di possesso nel volume contenente l’opera di Castiglione: la Epistola, che celebrava la personalità del duca Guidubaldo recentemente defunto, era indirizzata al sovrano d’Inghilterra alla cui corte Baldassarre si era recato di persona nel 1506, al fine di assistere per conto del suo signore alla cerimonia di conferimento dell’Ordine della Giarrettiera; lo scritto, edito nel 1513, aveva così mirato a ribadire, in tempi di avvicendamento di dinastie al potere nello Stato dell’Italia centrale, il saldo sostegno della monarchia inglese contro eventuali brame espansionistiche49. L’asse di alleanza tra l’Inghilterra e Urbino nell’età di Guidubaldo, già formatosi ai tempi del padre Federico50, non poteva non richiamare alla mente di un lettore come Marco Antonio Virgili Battiferri l’esempio di un altro personaggio della sua casata che aveva trovato sul suolo inglese una via per affermarsi dal punto di vista politico e per toccare le vette della Apostolico in Inghilterra, scrisse dottamente molt’opere, ma eccellentemente l’Historie di quello allora fiorito e catholico regno»; 12: «E nelle dignità ecclesiastiche ancora [...] Giulio Vergilii, che con giurisdittione quasi episcopale fu abbate di Mitra e commendatario della Badia della nobil terra di Casteldurante» (l’opera compare in ristampa anastatica in appendice al volume Seminario di Studi su Bernardino Baldi urbinate (1553-1617), [Urbino, Palazzo Ducale 9-10 dicembre 2003], a cura di G. CERBONI BAIARDI, Urbino 2006). Alcune di tali figure erano del resto state già ricordate in BALDI, Encomio della patria, Urb. lat. 1021, ff. 37v-38r: «Questo Gian Matteo fu il fratello di quel gran Polidoro, che seguendo il cardinale Hadriano chiamato dal re d’Inghilterra scrisse con tanta eccellenza l’historie di quel regno, un Dialogo de’ prodigii, de’ proverbii, e tradusse molte cose di lingua greca, e compose quel famoso libro degl’Inventori de le cose», ff. 39r, 40r; cfr. BALDI, Encomio della patria…, Urbino, Angelo Antonio Monticelli, 1706, pp. 111-112, 115, 119-120. 48 Rispettivam. B. BALDI, Gli epigrammi inediti. Gli apologhi e le ecloghe, a cura di D. CIAMPOLI, 1, Lanciano 1914, p. 79 nr. 358 (riportato anche in SERRAI, Bernardino Baldi cit., p. 231); G. L. SEMPRONI, La selva poetica…, Bologna, Clemente Ferroni, 1633, p. 158 (riportato anche in CERBONI BAIARDI, Urbino per Polidoro Virgili cit., p. 11). Ma il legame tra ascendenti illustri e discendenti contemporanei si ripete: per l’esortazione a Giulio Veterani a concludere la poetica lasciata incompiuta dall’avo Federico Bonaventura (p. 145), o per il sonetto rivolto a Guidubaldo Paciotti in lode dell’antenato, l’architetto Francesco Paciotti (p. 149). Sull’adesione di Semproni all’Accademia urbinate, cfr. ora L. GIACHINO, Giovan Leone Sempronio tra «lusus» amoroso e armi cristiane, Firenze 2002, pp. 6-7. 49 B. CASTIGLIONE, Vita di Guidubaldo duca di Urbino, a cura di U. MOTTA, Roma 2006, pp. XIII-XXXIII. 50 C. H. CLOUGH, The Relations between the English and Urbino Courts, 1474-1508, in Studies in the Renaissance 14 (1967), pp. 202-218 (= ID., The Duchy of Urbino cit., cap. XI).
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storiografia. Dato che, pur senza essere mai propriamente un cortigiano, anche Polidoro aveva a suo modo contribuito a rafforzare il legame tra i due Stati ed agito a favore dei Montefeltro, Battiferri ritiene opportuno ovviare al silenzio di Castiglione tramite un’integrazione in calce al testo; e lo fa in anni in cui si assiste ancora una volta ad una transizione nel governo, con l’estinzione prossima (o oramai avvenuta) della dinastia ducale, che però da decenni aveva coltivato un rapporto privilegiato con la Spagna, alimentato dallo scambio di doni e foriero di non trascurabili influenze reciproche anche in campo artistico e culturale51. A poter assumere una veste esemplare non era allora lo sfortunato Baldassarre, costretto un secolo prima all’esilio con Francesco Maria I dalla politica papale, ed i cui discendenti promuovevano la memoria attraverso pubblicazioni genealogiche ed encomiastiche, ma su qualche dettaglio delle quali l’omonimo nipote si era dovuto giustificare di fronte a Francesco Maria II52; erano invece in grado di rivestirla uomini come Polidoro, che avevano raggiunto una fama internazionale a prescindere dallo stretto aggancio con la corte urbinate — e forse non a caso percorrendo una carriera nell’alveo della Chiesa. IV Mentre immediata è risultata la datazione delle due puntuali note di Marco Antonio sul primo dei suoi volumi, una specifica e più ponderata riflessione andrà riservata ai numerosi e significativi interventi che punteggiano lo Stamp. Barb. Q.XII.72: prima di procedere ad un’interpretazione in senso unitario, appare infatti indispensabile cercare una conferma della loro contemporaneità, o almeno di un loro scaglionamento entro un periodo relativamente breve. Già la riconoscibilissima mano di Battiferri, alla quale pur nella variazione degli inchiostri e del modulo sono riconducibili quasi tutte le aggiunte, porta preliminarmente ad escludere che il prodotto sia frutto dell’accumulo nel tempo di segni vergati da lettori e/o proprietari 51 M. BONVINI MAZZANTI, Aspetti della politica interna ed estera di Francesco Maria II Della Rovere, in I Della Rovere nell’Italia delle corti, 1: Storia del ducato, a cura di B. CLERI – S. EICHE – J. E. LAW – F. PAOLI, Urbino 2002, pp. 77-91: 87-91; A. PÉREZ DE TUDELA GABALDÓN, Las relaciones artísticas de la familia della Rovere con la corte española durante el reinado de Felipe II en la correspondencia del Archivio de Estado de Florencia, in Centros de poder italianos en la monarquía hispánica (siglos XV-XVIII), coords. J. MARTÍNEZ MILLÁN – M. RIVERO RODRÍGUEZ, III, Madrid 2010, pp. 1543-1714; M. MORETTI, La Spagna a Urbino e Urbino in Spagna durante il governo di Francesco Maria II. Un riepilogo e nuove considerazioni, in Accademia Raffaello. Atti e studi (2012-2013), pp. 19-38. 52 Cfr. V. CIAN, Nel mondo di Baldassarre Castiglione. Documenti illustrati, in Archivio Storico Lombardo 7 (1942), pp. 13-26 dell’estratto; la lettera del 1602 a Francesco Maria, in cui si tenta di trovare un appiglio materiale all’affermazione della pretesa concessione dell’Ordine della Giarrettiera a Castiglione stesso, è pubblicata a p. 25).
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disparati. Nuovamente la nota di possesso, in cui compare il titolo di «archidiacono», è collocabile con facilità tra il 1629 e il 1637, e suggerisce che proprio in tali anni Marco Antonio, per motivi al momento non appurabili, deve aver proceduto ad una revisione complessiva della propria raccolta libraria. L’unico altro elemento che fu senza dubbio inserito in una fase così tarda è il ritratto di Francesco Maria II corredato delle didascalie, che non può essere antecedente al 28 aprile 1631, mentre le sottolineature e i marginalia all’interno dei testi biografici non offrono appigli cronologici in questo senso. Meno lineare, ma non votato all’insuccesso è il tentativo di datazione per i sonetti, per i quali andrà distinto (quando possibile) il momento della composizione da quello della trascrizione all’interno del volume: trattandosi comunque di pezzi d’occasione, l’intestazione o alcuni dei versi forniranno indizi funzionali ad ancorarli, almeno in modo ipotetico, all’evento per cui furono pensati. Ad un episodio relativamente più lontano nel tempo si riferisce il testo poetico per l’erezione della statua di Federico da Montefeltro, posta nel Palazzo ducale nel luglio 1606, dopo la quale data dovette essere riportato in una carta bianca dello stampato (anche se il modulo leggermente minore potrebbe tradire un’anteriorità rispetto agli altri interventi di esemplazione). Negli stessi anni sarebbe collocabile l’ideazione del sonetto dedicato a Francesco Maria II poiché, sebbene trascritto dopo la sua morte secondo l’indicazione dell’intestazione, il duca è presentato come ancora in vita e il terminus post quem potrebbe essere individuato nel gennaio 1607, momento nel quale egli si ritirò una prima volta a Casteldurante per cedere l’amministrazione dello Stato al consiglio degli Otto, costituito da altrettanti rappresentanti delle comunità principali. Sicuramente posteriore al 28 giugno 1623 è il testo di Battiferri in morte di Federico Ubaldo, e al medesimo episodio potrebbe riferirsi un accenno «d’alta Pianta alla caduta accerba» contenuto nei versi di Pucci. Con l’eventuale eccezione di questi ultimi e del sonetto di Marco Antonio per Federico da Montefeltro, strettamente omogenea appare per caratteri grafici la serie finale dei due sonetti dedicati agli ultimi Della Rovere, combinati con l’immagine di Francesco Maria II. Sebbene non si possa raggiungere un grado di certezza assoluta, gli elementi sopra citati portano a propendere per una realizzazione unica, o che si dipana in un arco cronologico ristretto agli anni a cavaliere tra ducato e Legazione; ciò ne accresce l’interesse, visto che il confezionamento si collocherebbe in contemporanea con la stesura del profilo della città di Urbino già richiamato. Starà ora all’analisi dei contenuti dimostrare quanto coerente si delinei il progetto di Marco Antonio, e come vi rientrino a pieno anche i sonetti la cui data di trascrizione rimane più aleatoria.
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V L’attenzione per le lettere, manifestata con evidenza da Battiferri in modo trasversale in più d’uno dei suoi interventi, si enuclea come un interesse specifico che costituisce un comune denominatore tra la dimensione familiare e civica prima richiamata e la celebrazione dinastica dei duchi di Urbino, oggetto primario della personalizzazione del secondo volume. A partire dalla breve bibliografia sulle Vite di Federico, che egli riporta nella controguardia, cui si aggiungono alcune annotazioni di suo pugno a margine del testo stampato: preoccupandosi infatti in via preliminare di fornire un elenco minimo delle biografie del duca più celebre a lui note oltre a quella di Muzio, e a differenza di quest’ultima rimaste allo stato manoscritto, l’arcidiacono registra i Commentarii di Francesco Filelfo e la Vita e fatti di Federigo di Bernardino Baldi. Dai dettagli di tale rassegna bibliografica si evince però come Marco Antonio non avesse (o non avesse più) una particolare consuetudine con il patrimonio della biblioteca ducale, e ciò può apparire sorprendente, considerati non solo la prossimità spaziale della residenza signorile con l’arcivescovado e i contatti di Battiferri con la corte, ma anche il fatto che le prime riunioni della rinnovata Accademia degli Assorditi si erano tenute proprio in questo ambiente del Palazzo urbinate53. Una conferma si ha osservando che egli non ebbe modo di consultare direttamente la vita di Filelfo, conservata nel manoscritto di dedica (l’attuale Urb. lat. 1022) e forse già trasferita da Francesco Maria nella sua «Libraria» di Casteldurante54: tutte le informazioni essenziali, come il numero dei libri e la lingua in cui fu redatta, sono ricavate da un passo della Istoria della casa degli Ubaldini di Giovan Battista Ubaldini, testo edito nel tardo Cinquecento e non derivante del resto da un ambito culturale propriamente locale55. Mentre si premura di segnalare un poco noto volgarizzamento dei Commentarii dell’umanista tolentinate, Battiferri sembra ignorare l’esistenza della rimanente produzione biografica quattrocentesca 53 A. LAZZARI, Dell’antica Accademia degli Assorditi d’Urbino, in COLUCCI, Antichità picene, 26 cit., p. 90. 54 Urb. lat. 1022 (STORNAJOLO, Codices Urbinates latini, III cit., p. 12). Dal codice urbinate (la cui presenza a Casteldurante è testimoniata dall’inventario in MORANTI – MORANTI, Il trasferimento cit., p. 436 nr. 1168) è stata pubblicata in F. FILELFO, Vita di Federico d’Urbino (1422-1461) pubblicata… secondo il testo finora inedito nel codice Vaticano-Urbinate 1022. A cura di G. ZANNONI, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche 5 (1901), pp. 263-393. 55 G. B. UBALDINI, Istoria della casa degli Ubaldini…, 1, Firenze, Bartolommeo Sermartelli, 1588, p. 133: dopo aver annunciato che nel quarto libro (mai portato a termine) sarà compresa la trattazione biografica di Federico da Montefeltro, figlio di Bernardino Ubaldini della Carda, aggiunge che «alla fine del qual libro porremo la vita di lui la quale descrisse latina in cinque libri messer Francesco Filelfo».
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dedicata al Montefeltro e non approdata alle stampe, a prescindere dalla conservazione o meno di codici ad Urbino, che siano ad esempio i Commentari di Pierantonio Paltroni utilizzati poco prima da Baldi56, oppure la biografia di Vespasiano da Bisticci da tempo assente dalla biblioteca57, o ancora il poema di Giovanni Santi mai giunto tra le mani del duca dedicatario58. Diverso il caso della Vita di Baldi, che viene esplicitamente menzionata come presente nella «libraria» di Urbino, nonostante sia lecito di nuovo domandarsi se nel momento in cui Marco Antonio scrive l’Urb. lat. 1015 fosse già tra i codici di cui l’ultimo duca aveva scelto di circondarsi nel ritiro durantino59. Il fatto che Battiferri rilevi una maggiore ricchezza della biografia baldiana rispetto a quella di Muzio potrebbe rimandare ad una sua consultazione diretta; forse non dell’esemplare che l’abate di Guastalla aveva inviato a Francesco Maria II e che non ne aveva riscosso il plauso, bensì una copia circolante negli ambienti colti urbinati60, magari trasmessagli a suo tempo dallo stesso Bernardino, cui lo legava una salda amicizia61. Indipendentemente dalla sua effettiva fruizione, la raccolta manoscritta istituita da Federico era ormai assurta a componente del mito della Urbino di età feltresca ed ancora negli ultimi anni del ducato rimaneva un monumento nonostante la «Libraria» personale creata dall’ultimo signore a Casteldurante. Baldi aveva avuto modo di celebrarla sullo scorcio del secolo 56 Per il manoscritto di Paltroni nella raccolta ducale annotato da Bernardino, l’Urb. lat. 1010, oltre a STORNAJOLO, Codices Urbinates latini, III cit., pp. 4-5, I. ZICARI, Il cod. Oliv. 1051 e la tradizione manoscritta dei Commentarii di P. A. Paltroni, in Studia Oliveriana 17 (1969), pp. 83-95, sul rapporto con l’antigrafo, BOP, ms. 1051. 57 Il codice di dedica è quasi sicuramente Rimini, Biblioteca Gambalunga, SC-MS 94 (già 4.A.IV.4), su cui VESPASIANO DA BISTICCI, Le vite, a cura di A. GRECO, 1, Firenze 1970, p. XXX. 58 Il manoscritto, attuale Ott. lat. 1305, si trovava a quest’altezza cronologica a Roma nella biblioteca del duca d’Altemps, forse portato nella città petrina oltre un secolo prima dallo stesso Raffaello: G. SANTI, La vita e le gesta di Federico di Montefeltro duca d’Urbino. Poema in terza rima (Codice Vat. Ottob. lat. 1305), a cura di L. MICHELINI TOCCI, 1, Città del Vaticano 1985, pp. LXXII-LXXIV. 59 Urb. lat. 1015, sul quale STORNAJOLO, Codices Urbinates latini, III cit., p. 8; U. MOTTA, Bernardino Baldi e le biografie dei duchi feltreschi, in Bernardino Baldi (1553-1617) studioso rinascimentale: poesia, storia, linguistica, meccanica, architettura. Atti del Convegno di studi (Milano, 19-21 novembre 2003), a cura di E. NENCI, Milano 2005, pp. 175-220: 218-220. Esso figura a Casteldurante alla morte del Della Rovere (MORANTI – MORANTI, Il trasferimento cit., p. 437 nr. 1208), assieme a molte altre biografie di Federico e di Francesco Maria I, nonché ad altri scritti riguardanti o dedicati ai duchi, compresi gli esemplari manoscritti delle biografie di Muzio (p. 436 nr. 1164) e di Leoni (p. 438 nr. 1228). 60 Si consideri come della Vita baldiana di Guidubaldo venga effettuata un’elegante trascrizione nel 1620 ad opera dell’urbinate Giulio Martinelli (Urb. lat. 1012): STORNAJOLO, Codices Urbinates latini, III cit., p. 5; MOTTA, Bernardino Baldi cit., pp. 215-217. 61 PROVASI, Un amico di Bernardino Baldi cit., pp. 43-44.
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precedente nella Descrittione del Palazzo ducale62, e alla presenza dei codici in essa preservati si era ispirato per enumerare nella biografia di Federico le opere di cui questi era stato omaggiato dai principali umanisti del suo tempo63. Anche Battiferri si era inchinato alla tradizione, elaborando un sonetto dedicato «Alla libraria de’ manuscritti del serenissimo signor duca nel Palazzo d’Urbino» oggi incluso in una silloge poetica presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro: il patrimonio dei «rari volumi» e delle «venerande carte» conferiva gloria e onore agli eredi rovereschi dei Montefeltro, creando altresì un ambiente di serena meditazione per Francesco Maria II («in un sete miracolo e diporto / del mio saggio signor, pompa e tesoro»)64. La rilevanza culturale assunta agli occhi di Marco Antonio dalle collezioni librarie assemblate dai duchi di Urbino emerge ugualmente da alcuni segni sporadici disseminati in vari punti dello stampato. Innanzitutto la sottolineatura in corrispondenza del passo nel quale, all’interno della narrazione della tormentata conquista borgiana del ducato, con la conseguente depredazione della biblioteca, Leoni riferiva il ritrovamento dei libri a Forlì, dove il Valentino li aveva fatti trasportare65. Anche l’intestazione del sonetto dedicato a Francesco Maria II, pur di argomento diverso, non manca di ricordare un altro momento essenziale, risalente questa volta ad anni assai più prossimi all’arcidiacono: quando il duca «condusse la libraria» a Casteldurante, formò cioè quella vasta raccolta libraria a stampa che sarebbe stata poi trasferita a Roma nel Seicento per arricchire la biblioteca della Sapienza66. Ad interessi sostanzialmente letterari possono essere ricondotte infine ulteriori tracce della lettura di Marco Antonio. La notazione dell’identità della «persona del luogotenente ecclesiastico» di Bologna cui Francesco Maria I era venuto in soccorso, vergata da Battiferri a margine della Vita di Leoni («Francesco Maria salva la vita al Guicciardino»)67, coglie più la sta62 B. BALDI, Descrittione del Palazzo ducale d’Urbino, a cura di A. SIEKIERA, Alessandria 2010, pp. 89-90; cfr. anche, sul medesimo tema, BALDI, Gli epigrammi inediti cit., p. 85 nr. 392. 63 Non senza alcuni abbagli, dovuti principalmente al lontano soggiorno guastallese in cui si trovò a lavorare: sia permesso rinviare a BORGOGNONI, Manoscritti e stampati delle librerie dei duchi di Urbino cit., pp. 219-224. 64 BOP, ms. 1757, c. 13v: «Alla libraria de’ manuscritti del serenissimo signor duca nel Palazzo d’Urbino»; inc. «Rari volumi e venerande carte»; exp. «del mio saggio signor, pompa e tesoro». Si veda anche l’esaltazione della medesima biblioteca come il migliore luogo di conservazione per gli autografi di Polidoro: Urb. lat. 497, f. 2r. 65 LEONI, Vita di Francesco Maria cit., p. 36. 66 Da ultimo, A. SERRAI, La biblioteca di Francesco Maria II a Casteldurante, in La libraria di Francesco Maria II cit., pp. 15-40; per la concezione di una ideale unità che sembra essere sottesa alla «traslazione» di cui parla Marco Antonio, cfr. W. BOUTCHER, Una biblioteca o due? Il rapporto fra le collezioni di libri in Urbino e in Casteldurante, in ibid., pp. 95-98. 67 LEONI, Vita di Francesco Maria cit., p. 386.
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tura dello storiografo fiorentino tratto d’impaccio che la rilevanza storica del fatto in sé; un autore la cui Storia d’Italia Baldi aveva potuto sfruttare per la sua biografia sull’ultimo duca feltresco, mutuandone parzialmente la concezione della causalità negli eventi umani68. In modo analogo, la precisazione cronologica che l’arcidiacono appone alla narrazione dell’ingresso a Milano da parte di Francesco Sforza, e per la quale rinvia al «Calendario di Costanzo Felici»69, lungi dal costituire una puntigliosità erudita, non sembra disgiunta da un certo compiacimento nel citare l’opera del medico durantino del secolo precedente: un letterato che si aggiungeva alle glorie del ducato roveresco e che aveva tra l’altro compilato quella Origine de’ signori da Montefeltro e duchi d’Urbino, quasi integralmente traslata da Sansovino all’interno della sua fortunata pubblicazione sulle famiglie illustri d’Italia70. VI Conformemente alla tradizionale tendenza diffusa tra gli intellettuali dello Stato di Urbino, tema prioritario è in Marco Antonio la rappresentazione della dinastia ducale, anche se la portata dell’immagine dei signori che si profila dalla selezione dei componimenti poetici trascritti nell’esemplare a stampa risulta di evidenza non immediata. Una piena comprensione non può fare a meno di risolvere l’incognita della presenza dell’unico sonetto non riconducibile a Battiferri all’interno dello Stamp. Barb. Q.XII.72: l’autore, in base a quanto si ricava dall’intestazione, è Giovan Battista Pucci († 1649), dottore in utroque che ricoprì più volte la carica di uditore in varie città italiane e che fu gonfaloniere ad Urbino anche nel 162671. Qualora ci si affidasse esclusivamente alla testimonianza delle 68
A. MONTEVECCHI, Letture della Storia d’Italia in autori del pieno e tardo Rinascimento: Bernardino Baldi e Tommaso Tomasi, in La storia d’Italia di Guicciardini e la sua fortuna, a cura di C. BERRA – A. M. CABRINI, Milano 2012, pp. 401-424: 401-412. Nell’Urb. lat. 900, ff. 18r-55r (C. STORNAJOLO, Codices Urbinates latini, II, Romae 1912, p. 626), Bernardino aveva anche riportato numerosi passi dell’opera guicciardiniana relativi a Francesco Maria I. Essa è del resto ben presente nelle biblioteche urbinati: gli Alessandri possiedono la Storia d’Italia nell’edizione parmense del 1567 (MORANTI – MORANTI, Librerie private cit., p. 336 nr. 180), mentre sugli scaffali dei Corboli si trova sia questo testo sia gli «Avvertimenti in materia de Stati» (MORANTI – MORANTI, La libreria della famiglia Corboli cit., p. 254 nrr. 136, 139). 69 MUZIO, Historia … de’ fatti di Federico cit., p. 81. Cfr. C. FELICI, Il calendario, overo ephemeride historico…, Urbino, Battista de’ Bartoli vinitiano, 1577, p. 78 s.d. 26 febbraio: «Francesco Sforza primo entra per forza in Milano et fassi creare duca di quella città l’anno 1450» (una riproduzione digitale è disponibile all’indirizzo: ). 70 D. BISCHI, I Brancaleoni di Piobbico in Costanzo Felici e Francesco Sansovino, Rimini 1982, pp. 20-24, dove lo scritto di Felici sui Montefeltro (conservato in BOP, ms. 940) è pubblicato con l’adattamento di Sansovino a fronte. 71 Elogi degli uomini illustri d’Urbino cit., BCUU, Comune, vol. 59, f. 173r-v (num. mod.)
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Memorie istoriche, apparirebbe ben singolare l’occorrere di versi di Pucci (forse persino autografi) nel libro di un «gessarolo» qual era Marco Antonio, dato che proprio il giureconsulto aveva volgarizzato la lamentazione di Geremia per la caduta di Gerusalemme72, cantata da Severino Paltroni nel 1626 nell’Oratorio cittadino della Grotta73. Nell’ambiguo passaggio che descriveva la città «devenuta ancella / e sotto il giogo di barbara gente» era chiaramente leggibile in filigrana la Urbino ceduta alla famiglia Barberini74, e così fu ovviamente interpretato dai seguaci di Gessi75. I nomi di Pucci e Battiferri non compaiono però soltanto in campi avversi in questi anni: essi si trovano accanto nei ruoli della rifondata Accademia degli Assorditi, istituzione culturale cittadina cui era stata data nuova vita nel 1623; anzi, in un appunto dell’organico dell’accademia, riconducibile anch’esso quasi totalmente alla mano di Marco Antonio, Pucci figura puntualmente tra i per un primo profilo più essenziale; f. 233r-v, per informazioni più analitiche; cfr. anche Serie degli uomini e donne illustri cit., BOP, ms. 1096, f. 131v. Dai dati di Vernaccia dipende ancora una volta LAZZARI, Dizionario storico cit., p. 249. 72 Barb. lat. 4729, ff. 276v-277r; cfr. Memorie istoriche concernenti la devoluzione cit., pp. 137-139. Il testo della Lamentatione è conosciuto anche in altri testimoni manoscritti, come BOP, ms. 144, ff. 182r-183v; ms. 1466, pp. 99-102 (quest’ultimo codicetto risalente al XVIII sec. di mano dell’urbinate Giovan Cristoforo Ciccarini). La versione contenuta in BCUU, Comune, vol. 93, f. 195, che in realtà corrisponde ad un bifolio di piccolo formato (consultabile in riproduzione digitale all’indirizzo: ), è stata pubblicata in E. SCATASSA, Lamentatione, Composta dal Sig. Dott. Gio: Battista Pucci e cantata dal Sig. Severino Paltroni nella chiesa della Compagnia della Grotta l’anno 1633, per la Devolutione dello Stato (di Urbino alla S. Sede), in Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti 3 (1903), pp. 147-149. 73 Barb. lat. 4729, ff. 276r-277r: «Nella settimana santa in concorso pienissimo di popolo fu cantata la lamentatione di Hieremia profeta, volgarizzata e messa in rime dal signor dottor Giambattista Pucci gentilhomo urbinate, sentita da tutti con singular gusto mescolato però con sospiri, e compassione di se stessi e della patria, spogliata delle sue prerogative e del soggiorno che vi facevano i suoi principi et la corte, et il signor Severo Paltroni l’andava spesso cantando con quel suo falsetto di molta gratia con altri ancora, ecc.»; cfr. Memorie istoriche concernenti la devoluzione cit., pp. 136-137. Nell’esemplare cui Scatassa è ricorso per la trascrizione (cfr. supra n. prec.) l’esecuzione è datata erroneamente al 1633. 74 In alcune versioni meno esplicite, l’aggettivo «barbara» è sostituito da «straniera» o «assiria», ma è significativo che il testo in Barb. lat. 4729, f. 276v registri a margine tutte le varianti dell’espressione. 75 Barb. lat. 4729, f. 277r: «A pena cantata in chiesa, i gessaroli ne diedeno parte al signor cardinale et al Bruni con l’interpretatione figurata et imaginata da loro, interpretando il nome di barbara gente i signori Barbarini, acciò si sdegnassero, et irritassero contra la città, i propri figli; eglino argumentavano, che fussero loro come contrarii alla patria con rappresentare al signor cardinale ch’eglino per servire, et seguitar lui, erano odiati, e persequitati nella patria, onde doveva sua signoria illustrissima farne vendetta, e gastigare l’ardire di quei cantanti, che facevano professione di schernire e beffeggiare i compatrioti, il governatore et tutti gli suoi adherenti»; cfr. Memorie istoriche concernenti la devoluzione cit., pp. 139-140. Si veda anche BAV, Barb. lat. 4729, f. 281r-v; cfr. Memorie istoriche concernenti la devoluzione cit., p. 163.
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membri76. Fianco a fianco nel medesimo organismo, i due condividevano gli stessi temi in ambito poetico, tanto più se appartengono a Giovan Battista alcuni componimenti reperiti in un codice oliveriano, tra i quali uno sul sepolcro di Guidantonio da Montefeltro, un secondo sulla statua del duca Federico, ed un terzo rivolto a Francesco Maria II77. Nel sonetto esemplato nel volume posseduto da Battiferri, Pucci prende il Palazzo di Urbino, la «mole sì vasta e sì superba / che innalzò Federico incontro agl’anni», quale spunto per una considerazione generale sulla caducità della gloria terrena: nella chiusa, secondo il poeta l’uomo resta immortale soltanto «pel suo valor» e non per le costruzioni soggette all’inesorabile azione disgregatrice del tempo78. Una simile riflessione a proposito di Federico, di cui si erano senza riserve esaltate le qualità umane e militari, appare certo discostarsi dall’ottica degli umanisti quattrocenteschi79, ma anche dalla descrizione di «fabbrica tanto insigne e viva» che Francesco Maria II prospettava scrivendo inutilmente alla Curia nel 1624 per cercare di assegnarne la proprietà alla nipote Vittoria80. L’immagine si avvicina piuttosto a quanto aveva affermato decenni prima Bernardino Baldi nella prefazione alla sua Descrittione del Palazzo, quando aveva contrapposto la fragilità dei monumenti stessi alle opere letterarie che li avevano descritti e così consegnati all’eternità81. Ridiscende dall’universale al particolare quel 76 Vat. lat. 6954, f. 177v, per la cui autografia e datazione, BORGOGNONI, Conferme vaticane cit., p. 245. Cfr. i nomi dei restauratori dell’Accademia in LAZZARI, Dell’antica Accademia degli Assorditi cit., p. 104. 77 BOP, ms. 1692, IV, m, ff. non num.: «Al sepolcro di Guid’Antonio da Montefeltro conte d’Urbino e duca di Spoleti padre de i duchi Odd’Antonio e Federico sopra il quale egli è scolpito in habito di Cordegliero con la spada da parte»; inc. «Guid’Antonio fu questi, hor poca terra»; exp. «Ma ch’oprò l’armi in procurar la pace»; «Alla statua di Federigo da Montefeltro, secondo duca d’Urbino erretta dal duca Francesco Maria secondo»; inc. «Questo, che qui di Federigo augusto»; exp. «La gloria sua nel simulacro altrui»; «Al signor duca Francesco Maria secondo»; inc. «Magnanimo signor, che i tuoi rigori»; exp. «Né scorge honori in te, che non gli ammiri». In corrispondenza di nessuno dei tre sonetti è indicato l’autore, ma il fatto che l’ultima attribuzione di uno dei componimenti precedenti, di argomento amoroso, rechi il nome di Giovan Battista Pucci porterebbe a non escludere, pur con tutte le cautele, che gli si possano attribuire. 78 «Del signor dottor Giovan Battista Pucci sopra la Corte d’Urbino»; inc. «Questa mole sì vasta e sì superba»; exp. «ma sol pel suo valor l’huomo è immortale». Una più tarda copia anepigrafa è in BCUU, Comune, vol. 93, f. 422r. 79 Ad es. di Federico Galli: L. MICHELINI TOCCI, I due manoscritti urbinati dei privilegi dei Montefeltro, con una appendice lauranesca, in La Bibliofilia 60 (1958), pp. 206-257: 224. 80 Lettera al cardinale Carlo de’ Medici, 7 maggio 1624, edita ultimamente in MONTINARO, Fra Urbino e Firenze cit., p. 41. 81 BALDI, Descrittione del Palazzo ducale cit., pp. 64-65; cfr. anche pp. 88-89, dove si esalta il «giuditio» di Francesco Maria II, che ha salvato la residenza, «che da principio era stata preparata per l’eternità», dalla distruzione che sarebbe potuta sopraggiungere per l’ignoranza
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riferimento puntuale alla realtà contemporanea della seconda quartina, dove il Palazzo medesimo «pur d’alta Pianta alla caduta accerba comincia a paventar del tempo i danni», e che si è già avuto modo di riconoscere nella prematura scomparsa dell’erede Federico Ubaldo, ultima speranza per una prosecuzione in linea maschile della dinastia dei Della Rovere. Il fatalismo della decadenza, fino a che la mole della residenza ducale — teme Pucci — «in breve la copra avena et herba», non stona con la visione generale che Virgili Battiferri intende far emergere dal complesso degli interventi sugli stampati; per questo motivo avrà plausibilmente ritenuto, o avrà pensato chi tra i suoi conoscenti lo ha in effetti trascritto, che potesse inserirsi nel libro secondo una logica coerente. Proprio Federico nel primo Seicento era ormai celebrato nelle forme stereotipiche che ne aveva assunto il mito, dopo le alterne vicende della sua fortuna nel corso del Cinquecento: il coraggio e l’astuzia, la costruzione della residenza signorile e l’istituzione della biblioteca, il mecenatismo, il paragone con i grandi generali dell’antichità, da Filippo ad Annibale82. E a questo duca, o meglio alla sua effigie, si rivolge il secondo sonetto, dedicato specificamente all’erezione della sua scultura all’interno del Palazzo: quella statua ideata nel 1603, realizzata con molte difficoltà da Girolamo Campagna su disegno di Federico Barocci e arrivata ad Urbino nel luglio 160683. Nel testo poetico di Marco Antonio, evidentemente composto nell’occasione della collocazione nella sua sede, il condottiero viene visto, in linea con la rappresentazione ormai canonica, come il «più illustre heroe» sia del passato remoto sia di quello recente, i cui risultati si sono distinti tanto nella sfera militare («l’armi») quanto in quella culturale («bei studi»), ma che è riuscito anche a conseguire periodi di reale pace, oltre che vittorie belliche, secondo l’etimologia del nome proprio del duca che era stata indicata in primo luogo da Francesco Filelfo nel pieno Quattrocento84. Il palazzo stesso ritorna qui quale testimonianza materiale de «l’animo regio», e l’incuria degli architetti preposti. Anche Baldi aveva voluto premettere al testo un sonetto dedicato all’edificio (p. 62). 82 F. ERSPAMER, Il «lume della Italia»: alla ricerca del mito feltresco, in Federico di Montefeltro. Lo stato le arti la cultura, a cura di G. CERBONI BAIARDI – G. CHITTOLINI – P. FLORIANI, 3, Roma 1986, pp. 465-484. 83 G. GRONAU, Die Statue des Federigo di Montefeltro im herzoglichen Palast von Urbino, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz 3 (1919-1932), pp. 254-267; ID., Documenti artistici urbinati, Firenze 1936 (rist. anast. Urbino 2011), pp. 38-43. 84 V. R. GIUSTINIANI, Francesco Filelfo (1398-1481) e la conoscenza del tedesco in Italia durante il Quattrocento, in Romania historica et Romania hodierna. Festschrift für Olaf Deutschmann zum 70. Geburtstag, 14. März 1982, Hrsg. P. WUNDERLI – W. MÜLLER, Frankfurt am Mein – Bern 1982, pp. 93-106: 93-94; la lettera filelfiana era già stata trascritta nell’appendice a FILELFO, Vita di Federico d’Urbino cit., p. 406.
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mentre il valore militare è confermato dai «tanti stendardi» ivi conservati; ed anche nel testo della biografia di Muzio Battiferri aveva evidenziato con una linea verticale il punto in cui il biografo aggiungeva che ulteriori imprese militari del Montefeltro, oltre a quelle narrate, potevano essere desunte dall’iscrizione scolpita sul fregio nel cortile del Palazzo di Urbino, fatta incidere a suo dire da Guidubaldo85. Nel sonetto si rileva che «el senno nel’effigie par si veggia», e che Federico ancora «vive e lampeggia» nelle sue realizzazioni architettoniche, nei componimenti poetici, e a maggior ragione «ne cori» dei sudditi urbinati, ispirando sino ad allora gloria e valore86. Nel 1606, ad un anno dalla nascita dell’erede Federico Ubaldo, non appariva ancora alcuna ombra nella produzione letteraria, ed anzi l’erezione della statua doveva aver innescato negli uomini colti gravitanti intorno alla corte urbinate una gara alla celebrazione, all’insegna della riaffermazione della continuità dinastica. Accanto a quelli di Baldi, lo avevano fatto in modo più esplicito i versi oliveriani forse attribuibili a Pucci: alla magnificazione dell’effigiato Federico equivaleva una esaltazione del committente, l’attuale duca Francesco Maria, «fatto di sua virtute» e che seguendo le orme del predecessore si alza fino al cielo e «com’in specchio de l’alme, ammirar pote/ la gloria sua nel simulacro altrui»87. L’intonazione encomiastica assunta da simili componimenti, ben lontani dalla devoluzione, acquista una luce diversa nel momento in cui essi sono accostati ai testi poetici di più tarda elaborazione. Un epicedio è infatti quello che Marco Antonio, all’indomani dell’inaspettato decesso di Federico Ubaldo, tributa al principe figlio di Francesco Maria II; quel medesimo principe ai cui festeggiamenti nuziali si era aggregato poco tempo prima presentando alcuni sonetti in onore di Claudia de’ Medici e degli illustri parenti, e redigendo la relazione sugli apparati approntati nell’arcivescovado per l’ingresso della coppia di sposi88. Anche nella triste occasione, il canonico esprime il suo dolore per la subitanea scomparsa di colui dal quale ci si attendeva uno sfolgorante futuro: nell’imperscrutabile volubilità della sorte, la morte perturbatrice delle gioie umane aveva reciso improvvisamente gli «orbi fatali» attaccati all’«arbor di Giove» — aveva 85
MUZIO, Historia … de’ fatti di Federico cit., p. 390. «Sopra la statua del duca Federigo primo posta nel palazzo d’Urbino fabricato da lui»; inc. «Tra le più antiche, o le moderne historie»; exp. «Spira gloria, e anco valor nell’armi». 87 BALDI, Gli epigrammi inediti cit., p. 63 nr. 271: «[Minerva] Scolpì la fronte e le sue lodi scrisse. / Quinci gridò: Francesco sol l’agguaglia / Siasi in pregio di senno, o di battaglia»; BOP, ms. 1692, IV, m, ff. non num.: «Alla statua di Federigo da Montefeltro, secondo duca d’Urbino erretta dal duca Francesco Maria secondo». 88 Conservati autografi nell’Urb. lat. 753, ff. 153r-154r, 155v-156r, 265r-266r (STORNAJOLO, Codices Urbinates latini, II cit., pp. 327-335): cfr. BORGOGNONI, Conferme vaticane cit., pp. 246-248. 86
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cioè separato la casa dei Medici da quella dei Della Rovere che si erano congiunte per via matrimoniale; così la medesima quercia roveresca, che aveva assicurato le sfere a sé, si ritrovava ora «prima de la radice […] i rami spenti»89. Al lutto espresso secondo gli stilemi tradizionali si conforma il componimento poetico, dello stesso Battiferri, su Francesco Maria II: come notato in precedenza, esso non è specificamente dedicato alla scomparsa dell’ultimo duca (l’intestazione recita genericamente «In lode del serenissimo signor duca Francesco Maria 2° ritirato a Casteldurante»), ma è comunque inquadrato in una situazione postuma con l’aggiunta di «dove morì li 28 aprile 1631». Le ragioni dell’adattamento di un simile testo preesistente realizzato per una diversa occasione, piuttosto che di un sonetto propriamente epicedico per l’ultimo Della Rovere, rimangono oggetto di speculazione, ma è assai probabile che Marco Antonio dovesse percepirlo come particolarmente efficace per il messaggio complessivo che intendeva trasmettere. In esso Francesco Maria viene rappresentato dotato di «alto intelletto» nel suo ritiro tra i libri, come durante le attività di governo aveva dispiegato un «giusto impero», ed è pertanto paragonato al re Numa il quale si ritirò in luoghi sacri e appartati, al fine di elaborare le proprie riforme politico-religiose («per ben regger di Roma il regno altero»). Nella chiusa del sonetto, Francesco Maria appare superiore tanto a Numa quanto al re Creso, per aver saputo coniugare, a differenza dei sovrani antichi, pietas e ricchezza90. A rafforzare il tono funereo dell’ultima sezione concorre l’immagine a stampa di Francesco Maria, sigillo di quella che risulta una singolare commemorazione, nella quale trovano un proprio equilibrio celebrazione della dinastia e compianto per la sua estinzione. VII Ricomponendo sinteticamente il quadro complessivo che Marco Antonio Virgili Battiferri ha inteso tratteggiare attraverso i mirati interventi manoscritti sui suoi stampati, gli ultimi due secoli durante i quali la città è stata dominata dalle dinastie dei Montefeltro e dei Della Rovere hanno rappresentato una fase gloriosa per il ducato, connotata da tutti quegli elementi che si erano precocemente cristallizzati nel mito della Urbino feltresca e che l’arcidiacono proietta in avanti nel tempo sino all’età di 89 «In morte del serenissimo prencipe Federigo 2° sposo della serenissima D. Claudia Medici li 29 giugno 1623»; inc. «Quasi palle volubili, c’han l’ali»; exp. «Onde il mondo attendea scettro e corona». 90 «In lode del serenissimo signor duca Francesco Maria 2° ritirato a Casteldurante, dove condusse la libraria, e dove morì li 28 aprile 1631»; inc. «Tra gli heroi nei palagi il giusto impero»; exp. «Di Creso havete l’or, di Numa il vanto».
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Francesco Maria II. Secondo una visione stereotipica che mostra ormai la sua stanchezza, nei decenni della signoria di Federico, personalità di eccezionale statura per le sue imprese militari, ma anche per l’apprezzamento della pace e per gli interessi letterari fuori del comune, la città si innalza a centro primario di raffinata arte e cultura, con la sua ricca biblioteca, fonte di conoscenza e nel contempo monumento ai duchi stessi in quanto scrigno delle loro biografie, e più in generale con il Palazzo, concreta e durevole memoria delle qualità del suo fondatore. I Rovereschi figurano, a loro volta, come suoi degni eredi pur vantando doti in parte diverse: Francesco Maria II unisce in sé devozione, saggezza nel governo e amore per il sapere, e soltanto la sorte imperscrutabile impedisce che le potenzialità di Federico Ubaldo trovino piena realizzazione. Ciò che differenzia tuttavia l’interpretazione di Battiferri da tutte quelle immagini che, a partire dal Cortegiano, avevano selezionato e fissato i caratteri mitici di Urbino e dei suoi signori è il fatto che, pur fondamentale per la città, il periodo ducale non ne esaurisce tuttavia interamente la storia. Esso viene ad essere soprattutto una fase ormai conclusa: è possibile affermare che il volume delle Vite si apre con la decadenza del Palazzo che rischia di pregiudicare la gloria di Federico nel sonetto di Pucci, e trova il suo epilogo — seguendo un andamento quasi circolare — nella morte dell’ultimo erede maschio e nell’epitafio stampato di Francesco Maria II. Un simile sguardo d’insieme, simultaneamente mesto ed encomiastico, non pensato per la pubblicazione (sebbene neppure del tutto privato), mal si confà alla veste di un uomo già totalmente votato agli interessi della subentrante amministrazione pontificia che, nei passi citati in apertura, le Memorie istoriche concernenti la devoluzione avevano drappeggiato attorno alle spalle di Marco Antonio. Grazie al peculiare approccio che Angela De Benedictis ha ultimamente adottato al fine di esaminare un evento drammatico per Urbino come la rivolta del 1572-1573, dietro la lettura monocausale dei fatti e la rappresentazione compatta del popolo tramandata da un diarista contemporaneo, emerge dalle carte del processo allora istruito una realtà dialettica e frammentata, formata da atteggiamenti radicali e concilianti che convivono e confliggono all’interno della città negli stessi mesi91. Analogamente per gli anni della devoluzione, la divisione schematica e semplicistica che le Me91
A. DE BENEDICTIS, Tumulti. Moltitudini ribelli in età moderna, Bologna 2013, pp. 23-98. Tra l’altro, pesantemente implicato nei disordini, condannato in contumacia e poi perdonato da Francesco Maria II era stato, assieme al figlio Bonaccorso, Virgilio Virgili, non diretto ascendente di Marco Antonio, ma figlio di Gianfrancesco fratello di Polidoro: L. CELLI, Storia della sollevazione di Urbino contro il duca Guidubaldo II della Rovere dal 1572 al 1574 da documenti inediti dell’Archivio Vaticano, Torino – Roma 1892, pp. 46, 55-56, 91, 107, 109, 129, 152, 179, 184, 203, 206, 230, 232, 238, 254, 297-298.
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morie operano nel corpo civico, secondo un’antitesi giocata sulla solidarietà o la rivalità con Santorio, nasconde un panorama politico ben più articolato. Gli stampati di Battiferri sui quali si è imperniata la presente indagine permettono a nostro avviso di definire una posizione intermedia tra quella filoromana di chi isola Francesco Maria e si coagula intorno agli inviati del potere papale nell’aspettativa di un avanzamento della propria carriera, e quella oltranzista di coloro che fanno mostra di opporsi alla nuova amministrazione, ritenendolo il mezzo più efficace per evitare il declassamento di Urbino su scala regionale e per strappare ai nuovi padroni le migliori condizioni possibili nell’imminenza di un processo comunque ineludibile. «Servire i signori, gl’amici e la patria»: nell’espressione pronunciata da Marco Antonio in un contesto «leggero» come l’intermezzo di una commedia (alla presenza però del governatore e alla vigilia della devoluzione), può essere riconosciuto il triplice obiettivo di una parte moderata della classe dirigente, che senza rinunciare alla devozione per la memoria dei duchi e disconoscere il ruolo decisivo della dinastia Montefeltro-Della Rovere nella costruzione dello Stato di Urbino e nella promozione della sua capitale, reputa di nessun vantaggio, ed anzi lesivo per la città, uno scontro frontale con i rappresentanti pontifici, cavalcato invece da Paolo Emilio Santorio. A differenza degli antagonismi personalistici posti in scena dalle Memorie, gli screzi manifestatisi tra l’arcivescovo ed il primo governatore rientrano a pieno titolo entro il quadro di una tensione più generale che nello Stato della Chiesa d’epoca post-tridentina contrappone sul territorio l’autorità secolare a quella episcopale, la quale ultima viene a subire una riduzione delle prerogative e un’interferenza nella propria autonomia92. A ciò nel comportamento di Santorio si cumulano motivi di rivalsa personale nei confronti di Gessi, dato che egli era stato inizialmente incaricato da Urbano VIII di adoperarsi per favorire l’incorporazione del ducato e si era immediatamente alienato l’anziano Francesco Maria II, lasciandosi sfuggire così tra l’altro la promozione alla porpora93. In tal senso il gesto calunniatore di Battiferri verso l’arcivescovo, certo condotto secondo modalità non ortodosse, può essere interpretato in alternativa come una decisa presa di distanze dalla politica arciepiscopale di una parte dei canonici del capitolo che rappresentano anche gli interessi di alcune famiglie patrizie urbinati. Molti elementi indicano poi che nelle dinamiche interne al clero metropolitano l’inimicizia con Santorio non doveva essere in fondo tanto acerrima quanto vogliono le Memorie. Nel 92 Si vedano le analogie con il caso ormai classico della Bologna del cardinale Paleotti in P. PRODI, Il sovrano pontefice, Bologna 1982, pp. 251-293. 93 S. FECI, Gessi, Berlingero, in Dizionario biografico degli Italiani, 53, Roma 1999, pp. 474477: 476.
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1624 Marco Antonio aveva ricercato il favore dell’arcivescovo offrendogli un esemplare del suo Spettacolo clericale già edito nel 1620, e dichiarandosi suo «cliens»94. Durante il periodo di rottura non si verifica un radicale mutamento, giacché nell’edizione a stampa de La difesa di Procopio, dedicata nel gennaio 1627 a Santorio dal nipote di Baldi, viene inserito proprio un sonetto di Battiferri95. Su esplicito incarico dell’arcivescovo, quest’ultimo pronuncia un nuovo Ragionamento sinodale nel novembre 1627, all’interno del quale il titolare della diocesi riceve parole di apprezzamento96. Si è già ricordato come il canonico conquisti nel 1629 la dignità di arcidiacono, e nel 1635 scriverà persino un Catalogus episcoporum Urbinatensium che un successivo elenco di opere di Marco Antonio (probabilmente stilato dall’erudito Vernaccia) afferma essere stato «fatto ad instanza di monsignor arcivescovo Santorio e donato al medesimo». Il profilo riservato all’avversario, aggiunto post mortem in un secondo momento, ne riconoscerà le doti, pur non tacendo che fosse stato «in ecclesia gubernanda […] parum providus»97. Nel più vasto orizzonte politico municipale il nome 94 Stamp. Barb. V.VII.102 (int. 51). Al frontespizio impresso de M. A. VIRGILI BATTIFERRI, Spettacolo clericale. Ragionamento … fatto nella Sinodo diocesana al clero di Urbino nell’anno 1616…, Urbino, [Alessandro Corvini] 1620, è anteposto un bifolio manoscritto: sul recto della prima carta un elaborato disegno a penna mostra al centro lo stemma dell’arcivescovo, circondato da angeli e figure allegoriche; nella seconda carta una mano calligrafica che si propone di imitare i caratteri tipografici scrive sul recto la dedica, mentre sul verso un sonetto di Battiferri in lode di Santorio. 95 «Del signor Marc’Antonio Vergilii Battiferri d’Urbino. In lode della patria e dell’autore» in BALDI, La difesa di Procopio cit., f. non num.; cfr. MORANTI, L’arte tipografica in Urbino cit., p. 213. Il mese successivo uscirà una seconda impressione, dedicata invece al conte Ottavio Mamiani Della Rovere dallo stampatore Mazzantini in data 1 febbraio. 96 M. A. VIRGILI BATTIFERRI, Priego sacerdotale. Ragionamento … fatto nella Sinodo diocesana al clero d’Urbino li 7 novembre 1627, Roma, Francesco Cavalli, 1633, pp. 41-42. 97 Per la lista degli scritti, BCUU, Comune, busta 77, fasc. 1, ff. 9r-10v (citazione da f. 10v). [M. A. VIRGILI BATTIFERRI], Catalogus episcoporum Urbinatensium, BCUU, Comune, busta 89, fasc. 5, f. 96v (non autografo): «1623. Paulus Emilius Sanctorius archiepiscopus septimus. Paulus Emilius Sanctorius Casertanus archiepiscopus Cosentinus, et illustrissimi cardinalis Sanctae Severinae ex fratre nepos, post renunciationem factam ab archiepiscopo Accorombono a Sanctissimo Pontifice Urbano VIII fuit electus archiepiscopus Urbini; ad cuius metropolitanam ecclesiam accessit die 25 mensis Septembris anno 1627. In cathedrali ecclesia publice synodum celebravit, ubi tunc et eius iussu ad clerum ego Marcus Antonius tum canonicus sermonem habui. Fuit vir turgidi ingenii, historicae eruditionis, in loquendo magnae libertatis; in ecclesia gubernanda et in sanitate tuenda parum providus; propterea in diebus canicularibus ad visitationem dioecesis personaliter accedens, maximo parrochorum dispendio, sui corporis periculo, ne dicam parto animarum profectu, febre correptus annos aetatis suae 75, obiit die 30 mensis Iulii 1635 Urbini, cuius sacra suppellectilia divino cultui dicata, et non mediocris valoris, sacristiae archiepiscopatus remanserunt»; cfr. fasc. 4, ff. 59v, 61r (copia probabilmente esemplata da Vernaccia, continuata sino all’arrivo di Spiridione Berioli nel 1787). Parte della voce è citata in A. LAZZARI, Serie de’ vescovi ed arcivescovi d’Urbino, in G. COLUCCI, Antichità picene, 22, Fermo, dai torchi dell’Autore, 1794 (rist. anast. Ripatranso-
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di un preteso fautore di Gessi isolato dal restante corpo civico non sarebbe stato neppure preso in considerazione, nella primavera del 1631, per pronunciare l’orazione funebre del duca Francesco Maria II. Come consta dai registri dei consigli comunali, il 27 aprile di quell’anno l’arcidiacono Battiferri sarà invece nella rosa dei quattro individui proposti, anche se la scelta ricadrà su Annibale Albani, esponente di una famiglia ben più illustre e futuro custode della Biblioteca Vaticana98; il padre Orazio negli anni immediatamente precedenti in qualità di oratore del duca nella città petrina aveva agevolato il processo di devoluzione, a tutto vantaggio di Urbano VIII, e per questo sarebbe stato ricompensato nel 1633 con il titolo di senatore di Roma99. Il discorso approntato da Annibale (che non sembra essere stato mai recitato ma che avrebbe rappresentato il punto di vista ufficiale degli Urbinati) si spinge ben oltre le caute posizioni di Battiferri, quando nella conclusione viene descritto il mutamento di governo come un passaggio di consegne determinato dal volere divino, ricorrendo all’immagine del defunto Francesco Maria che dal cielo rincuora i suoi sudditi100. E un’operazione ancor più vicina agli interventi di Marco Antonio, ma assai più spregiudicata, è quella de La selva poetica di Semproni, che nel 1633 compone un grande «polittico» in versi della dinastia Montefeltro-Della Rovere, ma lo affianca ad encomi dei nuovi signori Barberini e dei loro ne 1988), p. 271 (il volume è stato anche stampato singolarmente come A. LAZZARI, Memorie istoriche dei conti e duchi di Urbino…, Fermo, dai torchi camerali di Pallade, 1795). 98 BCUU, Comune, vol. 128 (Consigli XII), fascicoletto rilegato all’inizio del registro, f. 1v. Da notare che fra i consiglieri di primo grado figurano il fratello di Marco Antonio Giovan Battista e Virgilio Virgili (f. 1r). 99 Per Annibale Albani, Elogi degli uomini illustri cit., BCUU, Comune, vol. 59, f. 85r-v (num. mod.); cfr. Serie degli uomini e donne illustri cit., BOP, ms. 1096, f. 17r; per Orazio, BCUU, Comune, vol. 59, f. 65r; cfr. Serie degli uomini e donne illustri cit., BOP, ms. 1096, f. 27v; dettagliata la voce in LAZZARI, Dizionario storico cit., pp. 141-144. 100 «Per volontà di chi mi fe’ divenire eterno e beato, abbandonandovi io restate sotto la benignissima cura, sotto il santo dominio dell’ottimo Pastor delle genti, del dignissimo successore di Pietro, del grande Urbano ottavo. Egli sarà vostra guida, egli capo, egli duce». Nell’Archivio privato Albani, in corso di digitalizzazione da parte della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, sono conservati l’orazione e un abbozzo, rispettivam. con segnatura: 1-10-112 e 1-10-111 (una riproduzione digitale di essi può essere consultata all’indirizzo: ). In calce al testo dell’orazione è riportata, di altra mano, una nota, secondo la quale «non fu però recitata nell’essequie, perché non si stimò bene da chi governava il Stato per la Santa Sede alla quale era devoluto». Una copia ottocentesca si trova poi nella Biblioteca Centrale Umanistica di Urbino, rilegata in coda allo stampato con segnatura B.V.45 (come già segnalato da MORANTI, L’arte tipografica cit. pp. 220-221; una trascrizione, ad opera di F. Marcucci, è consultabile all’indirizzo: ). L’interpretazione della devoluzione come quale magnanimo del duca appare simile a quella proposta da Antonio Bruni alcuni anni prima ne La ghirlanda: cfr. G. ARBIZZONI, L’attività letteraria in età roveresca, in Pesaro nell’età dei Della Rovere, III.2, Venezia 2001, pp. 37-74: 63.
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rappresentanti Gessi e Campeggi101. Sotto l’egida del pontefice, nei medesimi anni Perugia tentava un proprio rilancio dopo aver subito una progressiva provincializzazione conseguente all’incorporazione nello Stato ecclesiastico, e lo faceva promuovendo la tesi delle promettenti potenzialità offerte ai cittadini meritevoli dalla nuova fase politico-amministrativa102. Anche ad Urbino la recentissima devoluzione del ducato poteva essere sentita, per coloro che condividevano la visuale moderata di Battiferri, come un’occasione che apriva alla classe dirigente municipale sbocchi maggiori rispetto all’ultimo periodo roveresco, a patto di instaurare però un proficuo dialogo con i rappresentanti locali del potere centrale appena giunti. Parimenti, da un punto di vista storiografico, se fin dall’età di Guidubaldo da Montefeltro Urbino si è identificata con i suoi duchi e la sua produzione si è incanalata nella biografia o nel panegirico103, con l’estinguersi della dominazione signorile è stato inevitabile che il ceto colto cittadino reimpostasse le coordinate della propria memoria, non soltanto cercando il favore dei nuovi dominatori ecclesiastici, ma riscrivendo un passato che rimontasse al di là della esperienza comitale e ducale. Quest’ultima, per quanto fulgida, avrebbe rappresentato una delle molte fasi dell’esistenza dell’abitato e della comunità, una parentesi conclusa in una storia di lungo periodo che affondava le proprie radici in un’epoca remota e che si proiettava contemporaneamente oltre. È quindi del tutto logico che trovi la sua genesi proprio a cavaliere della devoluzione uno scritto come Urbino antico municipio di Battiferri, che costituisce in qualche modo l’esito di quella riflessione sulla dinastia ducale visualizzata dallo stampato del Fondo Barberini sopra esaminato; né doveva trattarsi di un esperimento isolato, se nello stesso 1626, in pieno conflitto giurisdizionale tra Santorio e Gessi, il consiglio comunale si compiaceva delle «opere in lode della patria» che intendeva dare alle stampe Gallo Antonio Galli, secondo le Memorie istoriche il più irriducibile ed il peggiore dei «gessaroli»104. In ciò Urbino può 101 SEMPRONI, La selva cit., pp. 103-106 (Urbano VIII, Antonio e Francesco Barberini), 109 (Gessi), 123-131 (esponenti Montefeltro-Della Rovere), 135 (Campeggi); cfr. GIACHINO, Giovan Leone Sempronio cit., pp. 64-65, 68-70. Si segnala che nelle Memorie istoriche Semproni compare tra quei nobili che nel carnevale del 1626 girano per la città gridando: «Fuora, fuora gli gessaroli» (Barb. lat. 4729, c. 276v; cfr. Memorie istoriche concernenti la devoluzione cit., p. 132). 102 E. IRACE, Per una rilettura della Perugia seicentesca. Le Aedes Barberinae e la storia della città, in Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria 106 (2009), pp. 121-141. 103 P. PONTARI, «Patris Phederici immortalia gesta»: storiografia umanistica alla corte di Guidubaldo di Montefeltro, in L’età di Guidubaldo e Castiglione: lettere e arti alla corte di Urbino. Atti del Seminario di Studi (Urbino, 15-16 giugno 2006), a cura di G. ARBIZZONI – F. FURLAN = Humanistica 4 (2009), pp. 33-46. 104 BCUU, Comune, vol. 128 (Consigli VIII), f. 73r: «Fu letto il memoriale del signor Gal-
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essere posta a confronto con Ferrara la quale, sebbene dotata di una assai più robusta tradizione storiografica e cronachistica, nei tempi immediatamente successivi alla devoluzione del 1598 guarda con preponderante nostalgia all’epoca della signoria estense a fronte del decadimento della città pontificia, ma dove non manca neppure qualche voce che propone una valutazione positiva del presente105. Nonostante il clero capitolare, e più in generale gli ecclesiastici, forniscano nel Sei e Settecento i più assidui cultori di storia municipale106, è significativo che ad Urbino una ricostruzione storiografica che dedicasse spazio prevalente all’età antica sia provenuta da un personaggio come Marco Antonio: a stretto contatto con la corte roveresca nei decenni precedenti, appartiene ad un’istituzione (arci) vescovile indipendente e preesistente al potere signorile, e partecipa ad un’accademia prettamente cittadina quale quella degli Assorditi. Le turbolente esperienze politiche degli anni recenti iniziano così a venir elaborate e trasformate in memoria storica, con i duchi dei due secoli addietro come Federico da Montefeltro e Francesco Maria I, o molto prossimi come Francesco Maria II, pronti a prendere il posto che loro spetta nel pantheon delle glorie cittadine, tra i personaggi illustri che avevano reso celebre la città. Una tendenza, questa, che sarebbe giunta a piena maturazione quando, un secolo dopo, il canonico eugubino Rinaldo Reposati, autore de Della zecca lo Antonio Gallo nel quale dà parte di voler far stampare certe opere in lode della patria, et intesa fu da tutti gradita questa sua volontà». Basti il ritratto iniziale fornito dalle Memorie (Barb. lat. 4729, ff. 261v-262r): «il signor Polluce Gallo et il signor Gallo Antonio Gallo suo figlio, homo di natura torbido, seditioso, inventore di calunnie, di falsità, libelli infamatorii, lettere fittitie et d’altre machine in ruina del prossimo, nobile di nascita, povero, superbo, simulatore, tinto di theologia, filosofia e poetica; altre volte s’era vestito di divotione e di humiltà con la cinta di corio, baciando la terra e facendo atti simili di pietà, con publicare che s’era votato a san Francesco e voleva farsi frate di quella religione, ma tutto ad un tempo ricorrendo al suo genio nel male oprare. Fu d’ordine di monsignor Ala legato con ferri e manette e messo su un giomento, impriggionato nella rocca di San Leo per più mesi, ma però senza emendatione di vita e di costumi. Questo è quello, come si vederrà in progresso di questa opera, che hebbe ad essere la ruina d’Urbino con scompiglio delle cose sacre e profane»; cfr. Memorie istoriche concernenti la devoluzione cit., pp. 67-68. 105 A. BIONDI, Ferrara: cronache della caduta, in Storia di Ferrara, VI: Il Rinascimento. Situazioni e personaggi, a cura di A. PROSPERI, Ferrara 2000, pp. 494-508. Per altre manifestazioni coeve e posteriori di rimpianto dell’età estense, cfr. W. ANGELINI, Nostalgia per gli Estensi a Ferrara in periodo legatizio, in L’aquila bianca. Studi di storia estense per Luciano Chiappini, a cura di A. SAMARITANI – R. VARESE = Atti e memorie della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria s. IV, 17 (2000), pp. 585-604. 106 G. M. VARANINI, Storie di piccole città. Ecclesiastici e storiografia locale in età moderna (prima approssimazione), in Storiografia e identità dei centri minori italiani tra la fine del medioevo e l’Ottocento. Atti del Convegno di studi organizzato dal Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo (San Miniato, 24-26 settembre 2010), a cura di G. M. VARANINI, Firenze 2013, pp. 3-28.
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di Gubbio e delle Geste dei conti e duchi di Urbino, avrebbe incluso nella sua galleria di quadri di uomini famosi del centro umbro anche sei ritratti degli antichi signori107. La presenza del sonetto di Giovan Battista Pucci all’interno dello stampato posseduto da Battiferri e la posizione preminente da questi attribuita agli aspetti culturali potrebbero fornire un indizio della rete di relazioni in seno alla quale si costruisce e circola il messaggio politico-culturale che si è sopra definito108. È infatti indispensabile non tralasciare la dimensione sociale che all’epoca connota il libro e la biblioteca «privati», sentiti come patrimonio non di un singolo ma di un sodalizio all’insegna della condivisione del sapere, dimensione fissata nella formula «et amicorum» inserita fino a tutto il Cinquecento nelle note di possesso109. Piuttosto che strumento di lavoro e di conoscenza, le biografie dei duchi arricchite delle aggiunte di Marco Antonio divengono il veicolo di una rappresentazione ideologica che la consultazione ed il prestito del volume contribuiscono a diffondere e strutturare. E presupporre l’esistenza di un circolo informale di personaggi colti del patriziato municipale che traevano il medesimo bilancio dall’esperienza signorile è assai plausibile, anche se resta la concreta possibilità di identificare tale gruppo con la stessa Accademia degli Assorditi, soprattutto se il confezionamento del prodotto librario va collocato in una fase posteriore all’apice dello scontro durante il governo di Gessi narrato nelle Memorie istoriche. Secondo una relazione successiva di poco più d’un decennio, all’indomani della morte di Francesco Maria II erano sorte nelle città della nuova Legazione numerose accademie, disincentivate 107 L. COMPARATO, Rinaldo Reposati canonico in Gubbio, storiografo dei Della Rovere e collezionista di ritratti di uomini illustri della sua città, in «Lo stato e ’l valore». I Montefeltro e i Della Rovere: assensi e conflitti nell’Italia tra ’400 e ’600, a cura di P. CASTELLI – S. GERUZZI, Pisa 2005, pp. 193-202: 193-200. 108 Non va dimenticato che Pucci è anche membro del Collegio dei Dottori di Urbino, istituzione che avrà una sua parte nel processo di devoluzione, ma su cui non è qui possibile soffermarsi: si rinvia a M. BONVINI MAZZANTI, Il Collegio dei Dottori di Urbino. Dalle origini alla devoluzione del Ducato, in Grandi Tribunali e Rote nell’Italia di antico regime, a cura di M. SBRICCOLI – A. BETTONI, Milano 1993, pp. 861-883. Da notare soltanto che nel febbraio 1633 egli sarà inviato per conto del comune a Roma, affinchè si adoperi per la conferma del Collegio: BCUU, Comune, vol. 128 (Consigli XII), f. 95v. 109 A. NUOVO, «Et amicorum»: costruzione e circolazione del sapere nelle biblioteche private del Cinquecento, in Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della Congregazione dell’Indice. Atti del Convegno Internazionale (Macerata, 30 maggio – 1 giugno 2006), a cura di R. M. BORRACCINI, R. RUSCONI, Città del Vaticano 2006, pp. 105-127; D. NEBBIAI-DALLA GUARDIA, Letture e circoli eruditi tra Quattro e Cinquecento: a proposito dell’ex-libris «et amicorum», in I luoghi dello scrivere da Francesco Petrarca agli albori dell’età moderna, a cura di C. TRISTANO – M. CALLERI – L. MAGIONAMI, Spoleto 2006, pp. 375-393.
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in precedenza dal duca per timore che assumessero un connotato politico, nonostante si continuasse a coltivare la gloriosa memoria dell’ultimo della Rovere in chiave di continuità con l’amministrazione pontificia110. Non essendo un organo nato nell’alveo dell’ideologia barberiniana come invece quella dei Caliginosi di Ancona fondata negli stessi anni da Prospero Bonarelli111, nell’Accademia urbinate persone dalla sensibilità diversa potevano trovare posto in una compagine atta a comporre le tensioni esistenti tra gli schieramenti e a cementare le solidarietà interne, per riconoscersi (a maggior ragione dopo il 1631) nella proposta celebrativa del passato ducale suggerita da Battiferri, senza che ciò si traducesse nell’assunzione di posizioni politiche di nostalgica opposizione. Se si vuole, la «pietra» posta metaforicamente a suggello sopra i due secoli di esperienza ducale ad Urbino non è però rappresentata dai sepolcri monumentali che Francesco Maria II ancora si ostinava ad innalzare agli antenati feltreschi Federico e Guidubaldo all’interno della chiesa di S. Bernardino, come notava con una sfumatura di sarcasmo Santorio, relazionando a Roma sulle attività del vecchio signore112; né dal gruppo scultoreo comprendente il Cristo Morto, progettato da quest’ultimo per sé nella cripta del duomo e quindi integrato nella tomba di Federico Ubaldo 110
«Relatione della Legatione d’Urbino con piena notitia delle giurisditioni, fortezze, città e famiglie nobili che sono in quello Stato, data da persona ben informata e dotta al cardinal Vincenzo Costaguti a dì 15 di giugno 1648, che vi fu dichiarato legato», London, British Library, Add MS Ital. 8511, f. 192r (num. mod.): «[Gli abitanti della Legazione] Inclinano, eccetto però i Gubbinesi et alcuni altri montagnuoli, più alle lettere che all’armi. Onde sorsero dopo la morte del duca in ogni città Accademie, il che per avventura non sarebbe succeduto vivente lui per la tema che si ha da’ signori secolari che tali adunanze non degerino in conventicole, e che invece di lettere non si trattino rivolutioni e machine contro la persona del principe. È tuttavia da quei popoli riverita la memoria del loro duca e l’applicatione alle lettere sente tanto o quanto del gusto di lui che tra i principi dell’età sua apparve studiosissima, ma sopra tutto hanno del continuo in cuore et in bocca la memoria del suo buon governo, la forma del quale anco hoggi si prattica con sodisfattione universale cangiata solamente la persona del duca in quella del legato». Il passo era stato utilizzato già da DENNISTOUN, Memoirs of the Dukes cit., pp. 210-211 traendolo dal medesimo manoscritto, ma attribuendo a Gessi un’iniziativa di supporto alle accademie di cui l’autore della relazione non fa invece cenno. 111 L. GERI, Strategie familiari di promozione sociale e letteraria in età barocca. I Bonarelli tra corte, accademia e tipografia (1604-1669), pubblicato in rete sul sito dell’European Network for Baroque Cultural Heritage (ENbaCH), e consultabile all’indirizzo: ; una versione più estesa è in corso di stampa in Atti e Memorie dell’Arcadia 4 (2015) (comunicazione personale dell’autore, che ringrazio). 112 L. NARDINI, I sepolcri dei conti e dei duchi di Urbino, in Urbinum 5 (1931), pp. 32-42: 35-36; Barb. lat. 5625, f. 143v, lettera a Carlo Barberini, 4 giugno 1626: in un momento di ripresa ottimistica Francesco Maria «sta festante con speranza di lunga vita per il detto d’uno astrologo, che gli predice ch’egli habbia a rivedere due Sedi vacanti, et nihil cogitat de morte, mentre fa fabricare i tumuli agli duchi Federico e Guido».
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dopo la tragica morte del 1623113; e neppure dalla modesta lastra sotto l’acquasantiera della chiesa del SS. Crocifisso di Urbania, che costituirà l’ultimo riposo del duca nel 1631114. A farlo è piuttosto l’iscrizione onoraria d’età romana per Lucio Ranio Optato, che nel suo cursus honorum ricoprì la carica di curator reipublicae Urvinatium Mataurensium, rinvenuta nella seconda metà del Cinquecento sul Celio115. Conosciuta rapidamente ad Urbino grazie alla facilità con cui le sillogi a stampa avevano (pur imperfettamente) veicolato i testi iscritti116, essendo inclusa prima in quella di Smet e poi soprattutto nelle Inscriptiones antiquae di De Gruyter117, l’epigrafe venne utilizzata da Marco Antonio come elemento probatorio in apertura del suo Urbino antico municipio, al fine di delineare con sicurezza l’antichità della città e il suo statuto giuridico118. In questo modo Battiferri riproponeva su una base documentaria ben più solida ciò che negli anni di Guidubaldo si era impegnato a dimostrare con scarso successo Lorenzo Abstemio nella voce «Urbinum» del suo dizionario geografico119. Rispetto tuttavia alla congiuntura in cui quest’ultimo aveva esplicato la sua attività, con la devoluzione la ricostruzione della non irrilevante epoca storica antecedente l’esperienza ducale equivale a prospettare la possibilità di un nuovo periodo di prosperità per Urbino e la sua classe dirigente oltre la morte di Francesco Maria II: se vi era stato un passato prima dei Montefeltro, all’indomani dell’estinzione della dinastia roveresca sarebbe esistito un futuro, e in questa prossima fase una parte del patriziato municipale riteneva di avere ancora un ruolo indispensabile da giocare. 113
NARDINI, I sepolcri dei conti cit., pp. 41-42; F. NEGRONI, Il duomo di Urbino, Urbino 1993, pp. 166-167. 114 Si veda specificamente C. LEONARDI, Il sepolcro di Francesco Maria II Della Rovere ultimo duca di Urbino, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche s. VIII,4 (1964-1965), pp. 99-118. 115 CIL VI 1507 (cfr. pp. 3142, 4707); cfr. anche A. TREVISIOL, Fonti letterarie ed epigrafiche per la storia romana della provincia di Pesaro e Urbino, Roma 1999, p. 36 nr. 51. 116 W. STENHOUSE, Epigraphy and Technology in the Renaissance: The Impact of the Printing Press, in Latin on Stone. Epigraphic Research and Electronic Archives, ed. F. FERAUDIGRUÉNAIS, Lanham – Boulder – New York – Toronto – Plymouth, UK 2010, pp. 23-44. 117 I. LIPSIUS (ed.), [M. SMETIUS], Inscriptionum antiquarum quae passim per Europam liber. Accessit auctarium..., Lugduni Batavorum, ex officina Plantiniana, apud Franciscum Raphelengium, 1588, fol. LXVI nr. 11; J. GRUTERUS, Inscriptiones antiquae totius orbis Romani. In corpus absolutissimum redactae....Auspiciis Josephi Scaligeri ac Marci Velseri, [s.l.], ex officina Commeliniana, 1601, p. CCCCLXIII, nr. 4. 118 VIRGILI BATTIFERRI, Urbino antico municipio, p. 318 ll. 1-4, con il commento in BORGOGNONI, Prove di storiografia municipale cit., pp. 298-299. 119 Sia permesso rinviare a R. BORGOGNONI, Come una colonia. Vetustas e statuto giuridico di Urvinum Mataurense secondo Lorenzo Abstemio, e l’attualizzazione dell’antico in età feltresca, in Picus 36 (2016), c.s.
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Tav. I – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Riserva IV.47, f. d3v, colophon.
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Tav. II – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Riserva IV.47, colophon, particolare.
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Tav. III – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Stamp. Barb. Q.XII.72, risguardia posteriore.
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LA BIBLIOTECA DE LA FAMILIA CHIGI: LOS LIBROS IMPRESOS ESPAÑOLES DEL SIGLO XVII 1. Introducción: Una biblioteca ejemplar de época moderna Fundada por Fabio Chigi, futuro papa Alejandro VII, la biblioteca Chigiana se convirtió en uno de los fondos más importantes de la Biblioteca Apostólica Vaticana1. Durante la época moderna, los libros del cardenal Chigi, Flavio seniore a finales del siglo XVII y Flavio giuniore en el siglo XVIII se fueron incrementando gracias, principalmente, a las prestigiosas adquisiciones de las grandes abadías benedictinas italianas. Junto a las ediciones impresas, la recopilación de manuscritos se convirtió en el grupo más importante de la colección2. La creación de una biblioteca de estas características, durante el período barroco, no resultaba difícil si los deseos de un coleccionista y amateur de libros se combinaba con un cierto rango de autoridad. Es el caso de la colección del cardenal Richelieu, personaje clave por su mecenazgo en el arte y por ser el autor de varios escritos de temática política y religiosa3 o la del cardenal Barberini, una de las más importantes del siglo XVII y con más de mil volúmenes impresos en España. Nada extraño, tampoco, si consideramos el Seiscientos como la época del nacimiento de las bibliotecas que pusieron sus fondos bibliográficos al 1
Sobre la colección Chigi, véase el aparato bibliográfico recogido, in M. CERESA, Dipartimento Stampati. Sezione Stampati, in Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, I, a cura di P. VIAN – F. D’AIUTO, II, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 467), p. 812. 2 Entre los cardenales de la familia Chigi serán Flavio I, Segismundo, Flavio II y Flavio III quienes, de un modo especial, contribuyan al enriquecimiento de su biblioteca. No en vano, baste recordar los 4000 volúmenes que Flavio II donó a la colección familiar confiando, además, la creación de un catálogo de la biblioteca al bibliófilo Stefano Evodio Assemani. Por otro lado, gran parte de la biblioteca Piccolomini de Pío II y Pío III y el repertorio de obras alemanas compiladas durante su nunciatura apostólica en Colonia, forman parte de la columna vertebral de esta importante colección. Ibid., p. 809. 3 Algunos de estos escritos se encuentran en la colección Chigi como el Traité qui contient la methode la plus facile & la plus assure’e pour convertir ceux, qui se sont separez de l’Eglise (París, Cramoisy, 1651; collocazione: Stamp. Chig. I.15), el Traité de la perfection du Chrestien (París, A. Vitré, 1646; collocazione: Stamp. Chig. V. 372) o la décima edición de la Instruction du Chrestien (París, Jean Lost, 1647; Collocazione: Stamp. Chig. V.159 (int. 1). Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 153-176.
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servicio de todos los lectores; es el caso de la biblioteca Bodleiana (1602), la Ambrosiana (1609) o la Angelica (1614), éstas dos últimas en Italia, que emplearon el conocimiento acumulado de los libros para legalizar el derecho de acceso a la lectura. Esta característica de lo «público» hará que las colecciones privadas se enriquezcan, cada vez más, en volúmenes, calidad y extrañeza, creando un gusto por las áreas del saber y un hábito coleccionista que incrementará, considerablemente, su valor bibliográfico. Fabio Chigi fue, sin duda, un gran apasionado y coleccionista de códices. Su formación en arquitectura, gnomónica, filosofía y teología se combinó con el estudio de las obras clásicas latinas y con el interés por la música, las artes y la numismática4. Un gusto por lo antiguo que se traduce en la temática que presentan las obras impresas. De este modo, resulta lógico que tratados como De Architectura libri X de Vitruvio5, I quattro libri dell’Architettura de Andrea Palladio6 o los Discorsi sopra le Medaglie degli antichi de Enea Vico7 se conserven en la colección. Su pasión por el diseño, la pintura y las imágenes se pone de manifiesto en el Discorso intorno alle Imagini sacre e profane (Bologna, 1582)8, del cardenal Paleotti, en las Vite de più eccelenti Pittori, Scultori, ed Architetti de Giorgio Vasari9 o en la Idea del Tempio della Pittura de Giovanni Paolo Lomazzo10; un interés cultural que se había ido fraguando en su entorno familiar más cercano y que él mismo se encargó de continuar, contagiando a su sobrino, Flavio, su predilección por los artistas y pintores de su Siena natal11. En la universidad sienesa estudió filosofía y derecho, sin dejar de lado su interés por la poesía, la arqueología y la historia del arte: «Il dotto Celso Cittadini12 lo 4
G. INCISA DELLA ROCCHETTA, Gli appunti autobiografici d’Alessandro VII nell’Archivio Chigi, in Mélanges Eugêne Tisserant, VI, Città del Vaticano 1964 (Studi e testi, 236), pp. 442446. 5 M. P. VITRUVIUS, De Architectura libri X, Venezia, Francesco Franceschi, 1567. Collocazione Stamp. Chig. II.841. 6 A. PALLADIO, I quattro libri dell’Architettura, Venezia, Bartolomeo Carampello, 1601. Collocazione: Stamp. Chig. II.429. 7 E. VICO, Discorsi di M. Enea Vico parmigiano, sopra le medaglie de gli antichi, Venezia, Gabriel Giolito, 1558. Collocazione: Stamp. Chig. IV.1536. 8 G. PALEOTTI, Discorso intorno alle Imagini sacre e profane, Bologna, Alessandro Benacci, 1582. Collocazione: Stamp. Chig. IV.585. 9 G. VASARI, Vite de più eccelenti Pittori, Scultori, ed Architetti, Bologna, 1647, Collocazione: Stamp. Chig. IV.567 (1-3). 10 P. LOMAZZO, Idea del Tempio della Pittura. Milano, Paolo Gotardo Pontio, 1590, Collocazione: Stamp. Chig. IV.1372 (int. 1) 11 A. MIGNOSI TANTILLO, Le raccolte di Agostino e di Flavio Chigi, in Alessandro VII Chigi (1599-1667). Il Papa Senese di Roma Moderna, a cura di A. ANGELINI – M. BUTZEK – B. SANI, Siena – Firenze 2000, pp. 335-336. 12 De familia noble, Celso Cittadini nació en Roma y se dedicó al estudio de los clásicos
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istruì nell’archeologia. S’occupò anche di studi di storia dell’arte»13 como lo demuestran los títulos de Ammaestramento di pittura, scoltura ed architettura nelle Chiese, e Palazzi di Roma (Roma, 1686), de Filippo Titi14 y Due Trattati, uno intorno alle otto principali parti dell’Orificeria, l’altro in materia dell’arte della Scultura (Florencia, 1568) de Benvenuto Cellini15 así como su colección de poemas latinos, publicados a lo largo del siglo XVII, en diferentes ciudades europeas, bajo el título Philomathi Labores Iuveniles16 (Colonia 164517, Amberes 165418, París 165619). Desde este punto de vista, la presencia de Leonardo Agostini20 no pasa desapercibida durante el pontificado de Alejando VII; su nombramiento como Commissario delle antichità di Roma21 no es casual pues su amistad con Algardi, Bernini, Pietro da Cortona o Andrea Sacchi le permitieron conocer los aspectos más técnicos de los anticuarios romanos; durante estos años publica una nueva edición del libro de Filippo Paruta22 sobre la Sicilia descritte con medaglie, e ristampata con aggiunta da Leonardo Agostini latinos y griegos y de las lenguas orientales. Recibió una educación en un ambiente cortesano, un hecho que le permitió ser secretario de personajes de notable singularidad; entre ellos podemos destacar a Ranuccio I Farnese, duque de Parma, al duque Francesco Maria II della Rovere o al cardenal Federico Borromeo. G. FORMICHETTI, Cittadini, Celso, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVI, Roma 1982, pp. 71-77. 13 L. VON PASTOR, Storia dei Papi nel periodo dell’Assolutismo dall’elezione di Innocenzo X sino alla norte di Innocenzo XII (1644-1700), Roma 1932, pp. 219-320. 14 F. TITI, Ammaestramento di pittura, scoltura ed architettura nelle Chiese, e Palazzi di Roma, Roma, Giuseppe Vannacci, 1686. Collocazione: Stamp. Chig. VI.271. 15 B. CELLINI, Due Trattati, uno intorno alle otto principali parti dell’Orificeria, l’altro in materia dell’arte della Scultura, Florencia, Francesco Franceschi, 1568. 16 T. MONTANARI, Gli intellettuali allesandrini, in Alessandro VII Chigi (1599-1667) cit., p. 384. 17 Collocazione: Stamp. Chig. V.3411; Stamp. Chig. V.4902. 18 Collocazione: Stamp. Chig. V.842. 19 Collocazione: Stamp. Chig. I.639. 20 Humanista y anticuario italiano; trabajó para el cardenal Francesco Barberini recopilando antigüedades para la colección del Palacio Barberini y fue nombrado por el Papa Alejandro VII superintendente de las antigüedades del Estado de Roma. Agostini, Leonardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, I, Roma 1960, pp. 464-465. 21 T. MONTANARI, Gli intellettuali allesandrini, in Alessandro VII Chigi (1599-1667) cit., pp. 395-396. E. VAIANI, Leonardo Agostini, Gemmae et sculpturae e antiquae depictae… addita earum enarratione in latinum versa ab Jacobo Gronovio, Franequerae, 1694, in Alessandro VII Chigi (1599-1667) cit., pp. 395-396. 22 De familia noble, el filósofo y teólogo Filippo Paruta estudió también derecho y a los clásicos grecolatinos; su erudición le permitió llegar a ser secretario del senado de Palermo, cargo por el que destacó: «giacchè oltre le lettere scritte a nome del Senato di Palermo, ed il discorso in difesa dello stesso senato, scrisse pure un compendio esattimo dei privilegi della cittàm di Palermo». N. MORELLI DI GREGORIO, Biografia degli Uomini Illustri del Regno di Napoli. Ornata de’ loro rispettivi ritratti, IV, 5, Napoli, N. Gervasi, 1818, s.p.
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(Roma, 1649)23 y una década más tarde sale a la luz una obra de su autoría titulada Le Gemme antiche figurate (Roma, 1657)24, ambas conservadas en la colección chigiana. Con todo, esta pasión por las artes se complementa con una importante colección de autores clásicos (Cicerón, Séneca, Suetonio, Tito Livio, Plinio el Viejo, Plinio el Joven), humanistas como Aldo Manuzio con el Epítome de la Ortografía Latina (Epitome Ortographiae; Amberes, 1579)25, Benito Arias Montano26 con sus Aphorismos sacados de la historia de Publio Cornelio Tacito (Barcelona, 1614)27 así como obras de teología, moral, manuales de confesores, breviarios y vidas de santos. Libros de espiritualidad, orientados a motivar al fiel y a estimular su devoción como De Imitatio Christi (París, 1615) de Tomas Kempis28 o Il Confesore istruito (Genova, 1681)29 y La differenza tra il temporale e l’eterno (Venecia, 1656)30 de los jesuitas Paolo Segneri y Juan Eusebio Nieremberg, respectivamente. En este sentido, la colección presenta un número importante de obras jesuitas, un hecho objetivo justificado por su relación con miembros de la Compañía de Jesús como Giacomo Luti, amigo sienés y docto en las lenguas clásicas que, a los 58 años, ingresa en la orden religiosa31. 23
F. PARUTA, Sicilia descritta con medaglie, e ristampata con aggiunta da Leonardo Agostini, Roma, L. Grignani, 1649. Collocazione: Stamp. Chig. II.735. 24 L. AGOSTINI, Le Gemme antiche figurate, Roma, 1647. Collocazione: Stamp. Chig. IV. 1439; Stamp. Chig. IV.2307. 25 A. MANUZIO, Epitome Ortographiae, Amberes, ex oficina Christophori Plantini, 1579. Collocazione: Stamp. Chig. V.1484. 26 Humanista español; estudió Artes y Filosofía en el sevillano Colegio-Universitario de Santa María de Jesús. Entre 1556 y 1557 obtuvo la licenciatura y el doctorado en Teología. En 1560 ingresó en la Orden de Santiago. Dentro de su gran producción bibliográfica destaca la Biblia Regia o Biblia Políglota (1568-1572), impresa en Amberes por el tipógrafo Cristóbal Plantino bajo el mecenazgo del monarca Felipe II. R. LAZCANO, Benito Arias Montano. Ensayo bibliográfico, Madrid 2001, pp. 7-8. 27 B. ARIAS MONTANO, Aphorismos sacados de la historia de Publio Cornelio Tacito, Barcelona, S. Matevat, 1614. Collocazione: Stamp. Chig. V.1060. 28 T. KEMPIS, De Imitatio Christi, París, S. Rigaud, 1615. Collocazione: Stamp. Chig. VI. 623. 29 P. SEGNERI, Il Confesore istruito, Genova, Anton Giorgio Franchelli, 1681. Collocazione: Stamp. Chig. VI.529. 30 J. E. NIEREMBERG, La differenza tra il temporale e l’eterno, Venezia, Il Baba, 1656. Collocazione: Stamp. Chig. VI.1230; Stamp. Chig. VI.1516; Stamp. Chig. VI.661. 31 Incisa della Rocchetta transcribe algunas de las notas biográficas que de Alejandro VII se encuentran en el códice Chigiano A.II.51 de la Biblioteca Apostólica Vaticana. En una de las cartas, el papa describe al padre sienés como un «gentilhuomo senese, unico di sua casa, dotto in lingua latina e italiana, intendente della greca, ma molto più dell’ebraica, la quale ha professata negli ultimi anni di sua età. Fu dottore di legge, e la professò nello studio di Siena…». G. INCISA DELLA ROCCHETTA, Gli appunti autobiografici d’Alessandro VII nell’Archivio Chigi cit., p. 445.
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La cultura jesuita estuvo siempre presente en la vida de Fabio Chigi; Gian Vittorio Rossi se había formado al amparo de los grandes poetas, literatos y científicos de la Roma de los Ludovisi y de Urbano VIII; es más, en su obra Eudemiae libri decem (Colonia, 1645)32 hace referencia a su amigo, Fabio Chigi, por aquel entonces nuncio en Colonia. Como era de suponer, este libro forma parte de la colección de los Chigi, a los que se suman las obras de Atanasio Kircher o José de Acosta. De éste último se conserva la traducción, del español al italiano, de la Historia naturale e morale dell’Indie, impresa en Venecia, en el año 159633. Asimismo, el Opus Theologicum (Roma, 1664)34 y el Pharus Scientiarum (París, 1659)35 de Sebastián de Izquierdo se inscriben en este marco cultural del siglo XVII. Una literatura jesuítica y pedagógica que encajaba, por un lado, con los ideales humanísticos del papa Alejandro VII y, por otro, asentaba los valores defendidos por la Contrarreforma. La doctrina de los jesuitas afirmaba con rotundidad lo que el protestantismo negaba. Y con esto se identificaba Fabio Chigi. Resulta lógico, por consiguiente, encontrar en su colección el Imago Primi Saeculi, (Amberes, 1640)36, libro del centenario de la Orden, o algunas obras emblemáticas de Pedro de Ribadeneyra, como el Trattato della Religione, e Virtù, che debe avere il Principe Cristiano per governo de’suoi Stati, contro la doctrina di Nicolò Machiavelli, & altri politici (Genova, 1598)37. Éste último, considerado uno de los primeros tratados publicados en España con una crítica explícita a la teoría de Maquiavelo y con una propuesta de reforma espiritual de la monarquía española38. En él, el 32
Collocazione: Stamp. Chig. V.2203. J. ACOSTA, Historia naturale e morale dell’Indie, Venezia, Bernardo Basa, 1596. 34 S. IZQUIERDO, Opus Theologicum, Roma, ex typographia Varesiana, 1664. Collocazione: Stamp. Chig. I.191. 35 S. IZQUIERDO, Pharus Scientiarum, París, Claudii Bourgeat, & Mich. Lietard, 1659. Collocazione: Stamp. Chig. I.190. 36 Imago Primi Saeculi, Amberes, ex officina Flantiniana Balthasaris Moreti, 1640. Collocazione: Stamp. Chig. I.529. 37 P. RIBADENEYRA, Trattato della Religione, e Virtù, che debe avere il Principe Cristiano per governo de’suoi Stati, contro la doctrina di Nicolò Machiavelli, & altri politici, Genova, G. Pavoni, 1598. Collocazione: Stamp. Chig. IV.1784. 38 Una obra que aprovecha el padre Ribadeneyra para justificar una nueva teoría de la razón de Estado, diferente a aquella proclamada por los políticos franceses a quienes consideraba descendientes directos de Maquiavelo. De este modo, lo expone en las hojas preliminares del tratado: «Porque tomando una mascara, y dulce nombre de razon de Estado… todo lo que consultan, tratan y determinan, miden con esta medida, y nivelan con este nivel. Y como si la Religion Christiana y el Estado fuessen contrarios, ò pudiesse aver otra razón para conservar el Estado, mejor que lo que el Señor de todos los estados nos ha enseñado para la conservacion dellos, assi estos hombre Politicos è impíos apartan la razón de estado de la ley de Dios… Nicolas Machiavelo, fue hombre que se dio mucho al estudio del govierno de la Republica, y de aquella que comunmente llaman razon de Estado. Escrivio algunos libros, en 33
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escritor jesuita insta al príncipe cristiano a ejercitar la verdadera religión y a la práctica de las virtudes cardinales pues todo buen gobernante debe someterse a la ley divina y ejercer el poder según la misma «pues es de Dios de quien deriva su suprema potestad política»39. Una práctica de la virtù que el futuro papa Alejandro VII encontró, además, en la meditación espiritual y en la lecturas de los escritos del santo salesiano Francisco de Sales; sobre sus obras se pronuncia en una carta, durante su cargo de nuncio en Colonia: «Il ne vous persuade point l’austerité, ny la solitude des déserts, ny un genre de vie extraordinaire; mais une dévotion civile, noble, et temperée»40; una búsqueda de la perfección cristiana puesta de manifiesto en Tres montium, ac dotrinarum pervii ad superos, et Beatitudinem gradus duplici litterario in agone publice propugnandi (Siena, 1661) de Leonardo Marsilio y en la lámina grabada por el artífice florentino Stefano della Bella41; probablemente esta composición alegórica haya ilustrado originariamente la obra sienesa; un grupo de filósofos se dispone a escalar el Monte Parnaso, como lo hicieron los peregrinos de la Tabla de Cebes, hasta llegar a su cumbre, símbolo máximo de la virtud; una metáfora que se sitúa en la línea iconográfica de los frontispicios de las órdenes religiosas, en especial, la de los carmelitas como las Representaciones de la verdad vestida, místicas, morales y alegóricas, sobre las siete Moradas de Santa Teresa de Jesús de Juan de Rojas (Madrid, 1679), exégesis figurativa de las Moradas teresianas que conduce al lector por el castillo interior, símbolo del camino del alma hacia Dios42.
que enseña esta razon de Estado, y forma un Principe valeroso y magnánimo, y le dà los preceptos y avisos que deve guardar para conservar, y emplificar sus Estados. Pero como el era hombre impío, y sin Dios, assi su doctrina (como agua derivada de fuente inficionada) es turbia y ponçoñosa, y propia para atosicar a los que bevieren della». P. DE RIBADENEYRA, Tratado de la Religion y virtudes que deve tener el Principe Christiano, para governar y conservar sus Estados. contra lo que Nicolas Machiavelo y los políticos deste tiempo enseñan, Amberes, Imprenta Plantiniana, 1597, pp. 6,7,13. 39 M. PADRES VILAR, La Teoría de la simulación de Pedro de Ribadeneyra y el maquiavelismo de los antimaquiavélicos, Ingenium. Revista de Historia del pensamiento moderno 5 (2011), p. 138. 40 M. ROSA – T. MONTANARI, Alessandro VII, in Enciclopedia dei Papi, Roma 2000, pp. 336348. 41 A. ANGELINI, Alessandro VII e le arti; in Alessandro VII Chigi (1599-1667) cit. pp. 177178. C. GNONI MAVARELLI, Stefano Della Bella (Firenze 1610-1664), Il monte dei filosofi, in Alessandro VII Chigi (1599-1667) cit., pp. 177-178. 42 R. M. CACHEDA BARREIRO, Modos Iconográficos para la representación de las órdenes religiosas en los fondos librescos de la Universidad de Santiago de Compostela, in Santiago, ciudad de encuentros y presencias, Opus Monasticorum VI, a cura di E. FERNÁNDEZ CASTIÑEIRAS, J. M. MONTERROSO MONTERO, Santiago de Compostela 2012, pp. 259-279.
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2. Cultura alegórica y emblemática en la colección de la Familia Chigi Las obras emblemáticas no son ajenas a la colección de la familia Chigi; la utilización de emblemas y empresas con fines decorativos era frecuente en la cultura moderna de los siglos XVI y XVII; artistas europeos, especialmente italianos, se ocuparon de pintar composiciones emblemáticas en los programas iconográficos de las obras que le encargaban. Reyes, papas, cardenales y grandes mecenas de la época protagonizan innumerables creaciones alegóricas; Lorenzo Lotto utilizó la emblemática en el retrato del cardenal Bernardino De’ Rossi o Rafael, en el tapiz sobre la ceguera con la empresa de Clemente VII. No resulta extraño, por consiguiente, que artistas de la talla de Bernini hubiesen utilizado la emblemática bajo el mecenazgo del pontífice Alejandro VII o que numerosos emblemas decorasen el carruaje de Fabio Chigi, fabricado en Alemania en el año 164443. La importancia de la emblemática se pone de manifiesto en la historia cultural del momento. Daniello Bartoli en De simboli trasportati al morale o Piero Valeriano en su tratado sobre la Hieroglyphica explican, entre otros, la función del jeroglífico y del emblema44. En la construcción de éste se utiliza un motivo o pictura «que estructura el significado con sus distintas variantes iconográficas y establece un diálogo con los distintos lemas empleados»45, unos motivos que responden a unas imágenes y alegorías determinantes de una historia o tradición. De este modo, la función literaria e icónica del emblema se centra en la figura y en el lema pues éste «no sólo proporciona al emblema la forma… sino que le da significación particular al emblema… el emblema, por tanto, es un compuesto semiótico particular, en el que la figura, dotada de una apertura semántica, se orienta a una simbolización, gracias al lema y ésta, a su vez, tratándose de una expresión vaga pero particular desde el punto de vista de la lógica, logra un alcance general gracias a su vinculación con la figura»46. Con el título Emblematum liber, el humanista italiano Andrea Alciato publica su obra en el año 1531. Un libro pionero que recoge, por primera vez, esta nueva corriente icónico-textual y que se difunde a partir de la segunda mitad del siglo XVI. Las principales ciudades europeas se encargaron de traducir esta Emblemata a las lenguas vernáculas; es así cómo la traducción española — realizada por Bernardino Daza el Pinciano — fue
43
M. PRAZ, Imágenes del Barroco. Estudios de Emblemática, Madrid 1989, pp. 54-56. Ibid., pp. 21-26. 45 B. SKINFILL NOGAR, Presentación, in Las dimensiones del arte emblemático, a cura di B. SKINFILL NOGAL – E. GÓMEZ BRAVO, México 2002, p. 24. 46 Ibid. p. 24. 44
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editada en Lyon en el año 154947. En la colección Chigi se conserva una edición en latín, impresa en Padua, en 161648. Asimismo, los libros de Otto Vaenius ocupan un lugar importante en el fondo chigiano. El grabador flamenco Otto Van Veen, conocido por su apellido latinizado Vaenius, utiliza el emblema como una herramienta idónea para controlar y difundir los preceptos morales. La educación del hombre en el camino de la virtud y el aborrecimiento de los vicios será el eje sobre el cual gire una de sus obras más difundidas, Quinti Horati Flacci Emblemata, impresa en el año 1607. La elección de los textos de Horacio como base para el estudio literario e iconográfico encaja en una cultura barroca que combina la tradición de los autores clásicos con la moral cristiana de la Contrarreforma. Vaenius escribe su obra bajo la influencia de la corriente neoestoica, difundida por Justo Lipsio quien, a partir de sus obras, trató de conciliar los principios estoicos con un humanismo cristiano que buscaba el aplacamiento de los ánimos del hombre ante los infortunios de la suerte y el destino49. En la colección Chigi se conserva una edición flamenca del Quinti Horati Flacci Emblemata del año 161250, además de su Amorum Emblemata (Amberes, 1608)51 y el Theatro Moral de la vida humana en cien emblemas, con Enchiridion de Epicteto, y la Tabla de Cebes impresa en Bruselas en 167252. La corriente neoestoica está representada por Justo Lipsio quien, siguiendo la tradición de los espejos de príncipes, refleja, en sus obras, la evolución de la teoría política e ideológica de su época. En sus libros se revela una actitud conciliadora y un cierto desencanto por la situación política y religiosa, recurriendo a la filosofía estoica como “guía para sobrevivir razonablemente en una época de crisis sin esperanza”53. En la colección 47
C. BOUZY, Andrea Alciato, autoridad emblemática en el Tesoro de la Lengua de Sebastián de Covarrubias, in El Siglo de Oro en Escena. Homenaje a Marc Vitse, a cura di O. GORSSE – F. SERRALTA, Toulouse 2006, p. 95. 48 A. ALCIATO, Emblemata … cum imaginibus plerisque restitutis ad mentem auctoris, Patauij, apud Pet. Paulum Tozzium, 1618. Collocazione: Stamp. Chig. V.1616. 49 R M. CACHEDA BARREIRO, El pensamiento estoico en el Theatro Moral de Otto Vaenius, in Virtus Inconcussa. Estudios en torno al Theatro Moral de la Vida Humana de Otto Vaenius, a cura di M. LÓPEZ VÁZQUEZ – J. M. MONTERROSO MONTERO, A Coruña 2013, pp. 73-83. 50 O. VAN VEEN, Quinti Horati Flacci Emblemata, Antuerpiae, Ph. Lisaert, 1612. Collocazione: Stamp. Chig. III.297; Stamp. Chig. III.616. 51 O. VAN VEEN, Amorum Emblemata, Antuerpiae, venalia apud auctorem, 1608. Collocazione: Stamp. Chig. V.1574. 52 O. VAN VEEN, Theatro Moral de la vida humana en cien emblemas, con Enchiridion de Epicteto, y la Tabla de Cebes, Bruselas, F. Foppens, 1672. Collocazione: Stamp. Chig. I.691. 53 J. LIPSIO, Políticas, estudio preliminar y notas de J. PEÑA ECHEVARRÍA – M. SANTOS LÓPEZ, Madrid 1997, p. XXI.
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chigiana se conservan, entre otras, los Antiquarum Lectionum Commentarius54 y la Roma Illustrata de 164555. Junto a las obras de Vaenius, la Emblemata Ethico politica de Joannes Kreihing56, las Diverse imprese accomadate a diverse moralità de Giovanni Marquala57, basada en los emblemas de Alciato e impresa en Lyon en 1564 o la Emblemata de Hadrianus Junius (Amberes, 1569)58 ocupan un significativo lugar en la colección. Por otro lado, obras como La Iconologia de Cesare Ripa59 están también presentes; un manual de alegorías que se había convertido en la obra de referencia de los artistas europeos y americanos de los siglos XVI y XVII. Su inclusión en la biblioteca no es un hecho fortuito pues Fabio Chigi era miembro de la Accademia degli Intronati, una institución que estaba en relación directa con los filomati a la que pertenecía el humanista italiano60. La alegoría ocupa un lugar protagonista en obras como Iconologie, ou explication nouvelle de plusieurs images, emblemes, & autres figures hierogliphiques des vertus, des vices, des arts, des sciences, des causes naturelles, des humeurs differents, & des passions humaines (París, 1644) de Jean Baudoin61 o en el Museo Pictórico y escala óptica de Antonio Palomino de Castro (Madrid, 1715)62, uno de los tratados de pintura más relevantes impresos en España a principios del siglo XVIII. Un auténtico saber enciclopédico que sintetizaba los conocimientos de la época y, al modo 54 J. LIPSIUS, Antiquarum Lectionum Commentarius, Antuerpiae, ex off. Christophori Plantini, 1575. Collocazione: Stamp. Chig. V.500 (int. 1). 55 J. LIPSIUS, Roma illustrata, sive Antiquitatum romanarum breviarium. Opusculum ad instar Commentarii in romanarum rerum scriptores, Lugduni Batavorum, Franciscum Moiardum, 1645. Collocazione: Stamp. Chig. VI.119. 56 J. KREIHING, Emblemata Ethico politica, Antuerpiae, Iacobum Meursium, 1661. Collocazione: Stamp. Chig. V.1499; Stamp. Chig. V. 3626. 57 A. ALCIATO, Diverse imprese accomodate a diverse moralità, con versi che i loro significati dichiarano insieme con molte altre nella lingua italiana non più tradotte, Lyon, G. Rovillio, 1564. Stamp. Chig. V.1601. 58 H. JUNIUS, Emblemata, Antuerpiae, ex off. Christophori Plantini, 1569. Collocazione: Stamp. Chig. VI.1028 (int. 1). 59 C. RIPA, Iconologia, Perugia, P. Costantini, 1764-1767. Collocazione: Stamp. Chig. III. 1073 (1-5). 60 B. SANI, Cultura figurativa nella società senese del primo Seicento, in Alessandro Chigi (1599-1667) cit., pp. 40-48. 61 J. BAUDOIN, Iconologie, ou explication nouvelle de plusieurs images, emblemes, & autres figures hierogliphiques des vertus, des vices, des arts, des sciences, des causes naturelles, des humeurs differents, & des passions humaines, París, M. Guillemot, 1644. Collocazione: Stamp. Chig. II.723. 62 A. PALOMINO DE CASTRO, Museo Pictórico y escala óptica, Madrid, Lucas Antonio de Bedmar, 1715-1724. Collocazione: Stamp. Chig. II.774.
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vasariano, recogía las biografías de los artistas españoles más eminentes desde el siglo XVI63. Con todo, el humanismo buscó recuperar el saber y el arte de la Antigüedad con el fin de renovar intelectual y moralmente al hombre del Renacimiento. Los autores del siglo XVI no son ajenos a esta filosofía de vida y, volviéndose a la Antigüedad, recuperaron ideas y valores a partir de los textos clásicos originales. Resulta lógico, por consiguiente, que la obra del francés Guillermo de Choul sobre los Discorsi sopra la Castramentazione e disciplina militare de Romani; e sopra i bagni & esercizi antichi de greci e romani tradotti da Gabriello Simeoni (Venezia, 1557) se conserve en la biblioteca chigiana. Una obra que recupera la tradición clásica a partir de la numismática, la mitología y los epígrafes latinos. El humanista francés recopila las medallas de dioses, héroes, escenas mitológicas y guerreras que le permiten explicar la religión de los antiguos romanos, su disciplina militar y «los exercicios griegos y romanos»64. Un escenario simbólico que bebe de los programas iconográficos de los principales monumentos romanos y de la literatura clásica de Plutarco, Plinio y Pausanias. A estos parámetros responde también la obra de Vincenzo Cartari sobre las Imagini delli Dei degli antichi nelle quali sono descrite la religione degli antichi, gl’idoli, riti e cerimonie loro (Venecia, 1566)65, o los Diálogos de las Medallas e inscripciones y otras Antigüedades (Madrid: Felipe Mey: 1587) de Antonio Agustín, traducida al italiano y conservada también en los fondos de la colección66. En este compendio numismático, Antonio Agustín recurre a las fuentes clásicas para explicar cada una de las medallas a la luz de los textos históricos, épicos y líricos, con una referencia constante a Cicerón, Quintiliano, Aristóteles y Alciato. Asimismo, la mitografía — como la numismática — se convierte en uno de los géneros favoritos de la literatura del Renacimiento; una literatura al servicio de la propaganda política, de la defensa de la fe cristiana, como la Gerusalemme Liberata de Torquato Tasso y de la difusión de un retrato simbólico y alegórico de los personajes y «varones más ilustres» de la historia; una retratística libresca, de tradición clásica, derivada de los postu63 J. E. GARCÍA MELERO, Literatura española sobre artes plásticas. Bibliografía aparecida en España entre los siglos XVI y XVIII, T. I, Madrid 2002, pp. 246-249. 64 G. DE CHOUL, Discorsi sopra la Castramentazione e disciplina militare de Romani; e sopra i bagni & esercizi antichi de greci e romani tradotti da Gabriello Simeoni, Venezia, 1557, s.p. 65 V. CARTARI, Imagini delli Dei degli antichi nelle quali sono descrite la religione degli antichi, gl’idoli, riti e cerimonie loro. Venezia, F. Rampazzetto, 1566. Collocazione: Stamp. Chig. V.496. 66 La obra conservada en la colección responde a la edición italiana impresa en Roma, por Andrea Fei, en el año 1625. Collocazione: Stamp. Chig. V.496.
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lados de autores como Plinio que afirmaba que el retrato no debe buscar únicamente los rasgos físicos del individuo67. Suetonio será uno de los primeros biógrafos que introduce en sus obras el retrato físico acompañado de un análisis moral y las Vita Paralellae de Plutarco influirán, de modo decisivo, en obras renacentistas como la de Paolo Giovio. Un compendio de obras, de interés para los Chigi, como los Claros Varones de Castilla de Fernando de Pulgar68 o la Iconografía cioè disegni d’immagini de più famosi Monarchi, Filosofi, Poeti ed Oratori dell’antichità de Angelo Canini69. 3. Las ediciones españolas y el triunfo sobre la herejía A la luz de estas consideraciones, resulta lógico que la actividad editorial española de los siglos XVI y XVII responda, en gran medida, a los intereses culturales y personales de la familia Chigi. La colección conserva más de 100 ejemplares impresos en España y escritos en lengua española. Obras religiosas, históricas, diplomáticas, militares y literarias constituyen la esencia del conjunto. De este modo, se conservan los títulos más emblemáticos de la producción de Juan de Ávila, Calderón de la Barca, Francisco de Quevedo, Miguel de Cervantes, Juan Maldonado, Francisco de la Carrera y Santos, Cristóbal de Morales, Arias Montano o el obispo Juan de Palafox y Mendoza. Una temática que responde a los ideales de una nobleza renacentista y se enmarca en el contexto de una sociedad de la España barroca. Lágrimas de la nobleza del agustino Pedro Henrique70, los Elogios al conde de Peñaranda, virrey del reino de Nápoles impreso en 165971 o la Idea de un Príncipe político Christiano, representada en cien empresas del diplomático Diego Saavedra Fajardo72, son algunos de los ejemplos. La educación moral del príncipe fue un tema recurrente desde la 67 J. M. MONTERROSO MONTERO, «El retrato como imagen de una sociedad», in Morte e Sociedade no noroeste peninsular. Un percorrido pola Galicia cotiá. V-VI Semanas Galegas da Historia, Noia 1998, p. 397. 68 P. ANGHIERA – F. PULGAR – H. DEL PULGAR – CH. PATIN, J. MAGON, Opus epistolarum Petri Martyris Anglerii Mediolanensis … Cui accesserunt Epistolae Ferdinandi de Pulgar coaetanei latinae pariter atque hispanicae, cum tractatu hispanico De viris Castellae illustribus, Amstelodami, veneunt Parisiis, typis Elzevirianis; apud Fredericum Leonard, 1670. Collocazione: Stamp. Chig. II.605. 69 G. A. CANINI, Iconografía cioè disegni d’immagini de più famosi Monarchi, Filosofi, Poeti ed Oratori dell’antichità, Roma, Stamperia d’Ignatio de’Lazari, 1669. Collocazione: Stamp. Chig. II.669. 70 P. HENRIQUE, Lágrimas de la nobleza, Zaragoza, Pedro de Lanaya y Lamarca, 1639. Collocazione: Stamp. Chig. V.1457. 71 L. NIETO DE MONTES, Elogios al excelentissimo señor conde de Peñaranda, Nápoles, Novel de Bonis, 1659, Collocazione: Stamp. Chig. IV.2232 (int. 13). 72 D. SAAVEDRA FAJARDO, Idea de un Príncipe político Christiano, representada en cien em-
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Edad Media; en De Statu Planctu, Álvaro Pelagio insta al rey a ejercitar una vida privada y pública de acuerdo con las normas de la ética cristiana. El ejercicio del buen gobierno sólo se consigue con la práctica de las virtudes; un rex sapiens y prudente cuya conducta moral ha de servir de ejemplo a sus vasallos y secretarios del rey pues la dignidad y la “honra es premio de la virtud y sustenta las artes”73, así lo advierte Jerónimo Castillo de Bobadilla en su Política para corregidores y señores de vasallos en tiempos de paz y de guerra74, haciéndose extensivo a la vida religiosa en Instrucción de los sacerdotes de Antonio de Molina: «Por lo qual es muy necessaria la prudencia, y consideración de los Prelados, y Confessores, y de las demas personas, a cuyo cargo està el govierno, y direccion de las almas; para que sean fieles, y prudentes dispensadores, que den a los siervos de Dios, el manjar, en su tiempo conveniente»75. Pero la familia Chigi tampoco se olvida de los libros históricos o aquellos relacionados con la monarquía76 y los santos de España. Jerónimo Mascareñas con el Viaje de D. Mariana de Austria (Madrid, 1650)77, la Vida de Don Phelippe II el Prudente (Madrid, 1632) de Lorenzo van der Hamen y León78, la Corona de los Triumphos de los Santos del Reyno de Sardeña (Roma, 1658)79, el Libro de Armas de los mayores Señores de la España (París, 1642) de Ambrosio de Salazar80 o las Fiestas de la Santa Iglesia de Sevipresas, Amstelodami, apud Ioh. Ianssonium iuniorem, 1659. Collocazione: Stamp. Chig. VI.835 (1-2). 73 J. CASTILLO DE BOBADILLA, Política para corregidores y señores de vasallos en tiempos de paz y de guerra, II, Barcelona, Sebastián de Cormellas, 1624, p. 1. 74 J. CASTILLO DE BOBADILLA, Política para corregidores y señores de vasallos en tiempos de paz y de guerra, Madrid, Imprenta Real, 1649. Collocazione: Stamp. Chig. II.600. 75 A. DE MOLINA, Instruccion de Sacerdotes en que se les da Doctrina muy importante para conocer la Alteza del Sagrado Oficio Sacedotal, Barcelona, en casa de Cormellas, 1685, p. 527. 76 La historia y los acontecimientos relativos a la monarquía de los Austrias se convierte en un tema relevante dentro de la producción libresca italiana del barroco. Así se pone de manifiesto en las obras de Virgilio Malvezzi sobre la Introduzione al racconto de principali successi sotto Filippo IV, rè di Spagna (Roma, 1651) y en Successi principali della Monarchia di Spagna nell’anno 1639, Amberes 1641. 77 J. MASCAREÑAS, Viage de la serenissima reyna doña Maria Ana de Austria, Madrid, D. Díaz de la Carrera, 1650. Collocazione: Stamp. Chig. IV.1801 78 L. VAN DER HAMMEN Y LEÓN, Don Felipe el Prudente, segundo deste nombre, rey de las Españas y nuevo mundo..., Madrid, viuda de D. Martín, 1632. Collocazione: Stamp. Chig. IV.614. 79 A. TOLA, La corona de los triumphos de los santos del reyno de Sardeña de D. Augustin Tola... en la qual se prueva con 24. razones, que santa Elena madre del emperador san Constantino el Magno fue de Sardeña... Roma, Francesco Cavallo, 1658. Collocazione: Stamp. Chig. IV.1519; Stamp. Chig. IV.2177 (int. 12), Stamp. Chig. IV.2178 (int. 5). 80 A. DE SALAZAR, Libro de Armas de los mayores Señores de la España. París [s.n.], 1642. Collocazione: Stamp. Chig. IV.1690.
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lla al nuevo culto del Rey San Fernando III de Castilla y de León de Fernando de la Torre Farfán son algunos de los títulos que se conservan. Asimismo, la historia de los viajes, exploraciones y conquistas, se suman también a la temática hispana de la colección. En esta línea temática se sitúa la obra sobre la vida de Hernán Cortés, escrita por Francisco López de Gómara81, uno de los grandes historiadores del reinado de Carlos V o la Peregrinación del mundo de Pedro Cubero82, un libro que se enmarca dentro del género de las narraciones de viajes en un momento en el que el reino de Nápoles formó parte de la Corona de España83. La temática militar se pone de manifiesto en el impreso de Carlos Bonieres, Arte militar deducida de principios fundamentales (Zaragoza, 1644)84, un valioso compendio de reglas útiles para el buen uso de la guerra 85. En el frontispicio se resume el argumento principal del tratado, a partir de las figuras alegóricas que flanquean la estructura arquitectónica. Por un lado, el Arte y, por otro, la Guerra, personificadas a partir de Minerva y de Marte. Una incursión mitológica que se convirtió en motivo recurrente en los grabados librescos de la época. No en vano, la figura de Hércules había sido elegida como alegoría del poder en la monarquía de los Austrias o la figura de Marte, dios de la fuerza y de los combates capaz de fijar las reglas precisas para el ataque y la defensa en el campo de batalla, fue equiparado, en repetidas ocasiones, con Felipe IV y Juan de Austria86. Una guerra sabia e inteligente que el príncipe sólo conseguirá si practica la justicia y la prudencia; así lo explica el Barón de Auchy en las hojas preliminares de su obra: «Todo lo militar se reduze a emprender, hazer, acabar la guerra. El emprender un Principe a guerra es de Prudencia y 81 F. LÓPEZ DE GÓMORA, Historia del illvstriss. et valorosiss. capitano Don Ferdinando Cortes marchese della Valle, et qvando discoperse, et acqvisto la Nvova Hispagna, Roma, Valerio e Luigi Dorici, 1556. Collocazione: Stamp. Chig. IV.1381 82 P. CUBERO SEBASTIÁN, Peregrinación del Mundo, Nápoles, C. Porsile, 1682. Collocazione: Stamp. Chig. IV.1602. 83 E. SÁNCHEZ GARCÍA, Una edición castellana en la Nápoles de Carlos II: La peregrinación del mundo de Pedro Cubero Sebastián, The Korean Journal of Hispanic Studies 3 (2011), pp. 211-235. 84 C. BONIERES, Arte militar deducida de principios fundamentales, Zaragoza, Hospital Real, 1644. Collocazione: Stamp. Chig. IV.1401. 85 A. ESPINO LÓPEZ, Las Indias y la tratadística militar hispana de los siglos XVI y XVII, in Anuario de Estudios Americanos T. LVII, I (2000), pp. 301-302. 86 Un ejemplo de ello se puede ver en los grabados que ilustran la Felicissima victoria concedida del cielo al señor don Juan de Austria, en el golfo de Lepanto de la poderosa armada otomana, en el año de nuestra salvación de 1572, Lisboa 1578, una obra que exalta la victoria de la armada española en el golfo de Lepanto en el año 1571. R. M. CACHEDA BARREIRO, Las naves de Lepanto. Las glorias de Jerónimo Corte Real, in Quintana, revista del Departamento de Historia del Arte de la Universidad de Santiago de Compostela 11 (2012), pp. 125-138.
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Justicia»87; en la dedicatoria que Agustín de Castro88, predicador real en la corte de Felipe IV, dirige al autor de la obra insiste en la importancia de la práctica del arte militar, siempre que se sigan los preceptos de la Iglesia católica: «Pues está dispuesto con tal orden, tratado con tal claridad; abrazado con tanta comprehension; discurrido con tanto ingenio; ponderado con tanto juicio… tan ajustado a preceptos Catolicos; i de piedad… queda mi ignorancia disciplinada a la milicia…»89. Con todo, la defensa de la fe cristiana se convirtió en uno de los temas clave del patrimonio bibliográfico de la cultura barroca. Obras como el Theatrum del padre agustino Cristóbal de Santotís, impresa en Burgos en el año 1607, el Concilio Generalia publicada un año antes así como Sangre Triunfal de la Iglesia de Bartolomé de Villalba de la segunda mitad del siglo XVII (Madrid, 1672) son algunos de los numerosos ejemplos de la vasta producción que la Iglesia católica había iniciado para la comprensión e interpretación de la correcta doctrina. En el frontispicio del Theatrum, las imágenes de San Pedro y san Pablo se encargan de flanquear la portada arquitectónica, mientras el centro del pedestal se decora con la alegoría de la Iglesia, siguiendo las pautas flamencas del taller de Rubens; la Iglesia con la cruz en su mano derecha encadena al Furor y a la Envidia, símbolo del demonio y del pecado. Un modelo que se repite en los programas iconográficos de los grabados librescos y donde la Iconologia de Cesare Ripa será el manual de referencia. De este modo, en el Concilia Generalia, las alegorías de la Iglesia y de la Religión derrotan a los enemigos de la fe católica, pues están sustentadas por los Padres de la Iglesia Latina y de la Iglesia Oriental y además han sabido combatir a la herejía contemporánea a su magisterio y a la herejía contemporánea a la obra escrita. De ahí que se modifique la cita de Mateo 2, 20 y ahora se le otorgue a la fe, pues «los muertos son los que atentan contra el alma de la Iglesia»90 como se deduce de la cartela central inferior; un epígrafe que enmarca a los contrarios de la fe, depositados en tierra y lanceados por los báculos. De este modo, se recuerda la imagen del infierno — un tipo iconográfico medieval — como marco que les introduce en el espacio del abismo de la muerte. Durante el período de la Contrarreforma se había iniciado un proceso divulgador de la imagen de la Iglesia como vencedora de herejías, por lo que el concepto de Iglesia Militante del siglo XVI se transforma en Iglesia 87
C. BONIERES, Arte militar deducida de sus principios fundamentales, Zaragoza 1644, s.p. F. NEGREDO DEL CERRO, Los Predicadores de Felipe IV. Corte, intrigas y religión en la España del Siglo de Oro, Madrid 2006, p. 224. 89 Ibid., s.p. 90 Con este epígrafe se decora el pedestal del frontispicio: Defuncti sunt, qui querebant animam ecclesiae. 88
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Triunfante a lo largo del siglo XVII91; Los intereses del pontificado chigiano no se alejan de este objetivo. En el Tratado de Purgatorio contra Lutero y otros hereges, el franciscano Dimas Serpi explica que «resistir a la autoridad de la Santa Yglesia Romana es heregia… pues el Santo Concilio Tridentino para reprimir la maldita y descomulgada secta de Lutero ha hecho expresso decreto… para que se crea que ay Purgatorio, que se tenga por doctrina sana, que se enseñe como tal, y que se predique al pueblo Christiano»92. En el frontispicio de Parabien a la Yglesia Catholica Romana en la conversión de Christina Alexandra Reyna de Suecia93, Cristina de Suecia entrega su corona al papa Alejandro VII. La conversión de la reina al catolicismo supone, a los ojos de la cristiandad, el verdadero triunfo de la fe sobre la herejía protestante. Su traslado a Roma durante el pontificado chigiano se entendió como un refuerzo de poder de un debilitado estado pontificio que intentaba restituir las relaciones con la monarquía católica de Francia y España94. El viaje de la reina de Suecia a Roma lo describe Román Montero de Espinosa en el Epílogo del viaje que hizo desde Bruxellas a Roma Cristiana Alexandra Reyna de Suecia, impresa en Roma, en el año 165695, una obra que se conserva en los fondos españoles de los Chigi. Unos años antes de su conversión, la reina Cristina negociaba, a través del jesuita Francisco Malines, con el rey Felipe IV, la posibilidad de convertirse y establecer su residencia en un país católico. Es así como entre 1654 y 1655, Cristina renuncia secretamente a la fe protestante «estableciendo contacto con el papa en Roma, gracias a los buenos oficios del monarca español»96. Durante la misa de Navidad de 1655 la reina se convierte al catolicismo con el nombre católico de María Alejandra. Un acontecimiento crucial desde el punto de vista religioso, político pero también iconográfico. La entrega de la corona al papa sigue el mo91 J. M. GONZÁLEZ DE ZÁRATE, Renacimiento y Barroco, Imágenes para la Historia, Madrid 1992, p. 110. 92 D. SERPI, Tratado de Purgatorio contra Lutero y otros hereges, Barcelona, Gabriel Graells, 1613, p. 7. Collocazione: Stamp. Chig. V.575. 93 F. DE CARRERA Y SANTOS, Parabien a la Yglesia Catholica Romana en la conversión de Christina Alexandra Reyna de Suecia, Roma, Imprenta de la R. C. Apost., 1656. Collocazione: Stamp. Chig. IV.1310. 94 E. BORSELLINO, Alessandro VII e Cristina di Svezia, in Alessandro VII Chigi (1599-1667 cit., pp. 202-203. 95 R. MONTERO DE EESPINOSA, Epilogo del viaje que hiço desde Brusellas a Roma la magestad de Christina Alexandra reyna de Svecia..., Roma, R. C. Apost., 1656. Collocazione: Stamp. Chig. IV.1722. 96 M. PAZZIS PI CORRALES, España y Suecia: una relación fluctuante, in La Monarquía Hispánica en tiempos del Quijote, a cura di P. SANZ CAMAÑES, Madrid 2005, pp. 644-645.
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delo presente en los frontispicios librescos del renacimiento y del barroco. En la Vita Christi Cartuxano de Ludolphus de Saxonia (Alcalá de Henares, 1503)97 el autor ofrece sus libros a los Reyes Católicos, paralelismo que sigue la portada de la Biblia impresa por la Tipografía Vaticana en 1598, donde el papa Sixto V entrega la Biblia Vulgata a la Iglesia Católica, según los dictámenes que había mandado el Concilio de Trento, en la sesión IV. En este caso, se pone en evidencia la labor contrarreformista de la Iglesia tras la Reforma Protestante, encabezada por Sixto V, Clemente VIII y teólogos como el jesuita Roberto Bellarmino98. De este modo, el papa Alejandro VII se representa entregando el decreto de la Inmaculada Concepción en el grabado que José Gaudí firma en el año 166399. El debate doctrinal sobre la definición del carácter del culto de la Inmaculada Concepción surgido a lo largo del siglo XVII suscitó intereses diversos y opiniones contrarias. En la bula emanada durante su pontificado, Sollicitudo omnium Ecclesiarum de ocho de diciembre de 1661, recoge las doctrinas de los papas Sixto IV, Paolo V y Gregorio XV a favor de la fiesta de la Inmaculada; declarándose inmaculista y prohibiendo atacar esta doctrina100; ya en la segunda mitad del siglo XVII, el jesuita Juan Nithard, confesor de la reina Mariana de Austria y el teólogo Francisco Díaz de San Buenaventura se encargaron de defender las tesis inmaculistas en la curia romana logrando, gracias a las gestiones de éste último, que el papa Inocencio XII expidiese el breve pontificio In Excelsa por el que se mandaba «celebrar con octava la fiesta de la Inmaculada Concepción en la Iglesia universal con el mismo carácter que las otras dos festividades solemnes dedicadas a la Virgen, la Natividad y la Asunción»101. Una defensa de la declaración dogmática de la Inmaculada que se une a los objetivos políticos de la dinastía de los Habsburgo interesados en salvar su poder e influencia en España102. De este modo se representa la imagen 97
J. CARRETE PARRONDO, F. CHECA CREMADES, V. BOZAL, El Grabado en España (siglos XV-XVIII), Madrid 1992 (Summa Artis, XXXI), p. 15. 98 J. M. MONTERROSO MONTERO, La portada de la Biblia entre los siglos XVI y XVIII. (Aproximación a través de los fondos antiguos de la Biblioteca Xeral de la Universidad de Santiago), in V Simposio Bíblico Español. La Biblia en el Arte y en la Literatura, II, a cura di J. AZANZA, V. BALAGUER, V. COLLADO, Valencia 1999, pp. 482-483. 99 El grabado ilustra la obra de Juan Bautista Valda sobre las Solenes fiestas que celebro Valencia a la Inmaculada Concepción de la Virgen Maria: por el supremo decreto de N.S.S. Pontifice Alejandro VII, impresa en 1663. E. PÁEZ RÍOS, Repertorio de Grabados Españoles en la Biblioteca Nacional, Madrid 1981, grabado nr. 470. 100 M. Á. NÚÑEZ BELTRÁN, La oratoria sagrada de la época del barroco. Doctrina, cultura y actitud ante la vida desde los sermones sevillanos del siglo XVII, Sevilla 2000, p. 211. 101 M. LLORENS HERRERO – M. A. CATALÁ GORGUES, La Inmaculada Concepción en la Historia, la Literatura y el Arte del pueblo valenciano, Valencia 2007, pp. 203-204. 102 Carlos II escribió al cardenal Portocarrero en diciembre de 1695: «Deseando conti-
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de la Inmaculada en la portada de los Triunfos gozosos de Maria Sacratissima, concebida santa, pura, limpia y sin mancha de pecado original (Madrid, 1660) de Diego de Jarava Castillo103. El grabado firmado por el artífice madrileño Gregorio Fosman nos muestra a María con sus atributos de Tota Pulchra, acompañada de Santa Ana y San Joaquín. En la parte inferior se escenifica el milagro de Empel. La concepción inmaculada de María viene dada por sus progenitores y la justificación hagiográfica en la Puerta Dorada. Pero el autor, a través de su discurso, propone una explicación teológica pero también iconográfica, al utilizar el recurso de la concepción de su Hijo, con el Padre y el Espíritu en el estrato superior, para justificar, que la encarnación del Verbo se hace en carne libre de pecado. La interpretación apocalíptica de la mujer vestida de sol, con la luna a sus pies y coronada de doce estrellas, es la señal que presenta el cuarto evangelista en el libro del Apocalipsis; pero también será la señal, para las tropas que luchan en Empel, en la noche del siete al ocho de diciembre, cuando al grito de la inmaculada concepción, consiguen ganar la batalla. Una defensa de la imagen de María que vuelve a aparecer en el frontispicio de uno de los libros de Francisco de la Carrera y Santos, Noche y Día. Discursos morales sobre el contagio de la peste en Roma, impresa en Roma, en el año 1657. En las hojas preliminares de la obra, el autor explica el objetivo último de este escrito: «El fin de la obra es persuadir la enmienda, y el desengaño descubriendo nuestras dolencias, y aplicando las medicinas, para que logre Dios los intereses, que pretende sacar su soberanía de nuestros bienes, y nuestros males, en la noche de la tribulaçion, y en el dia del alivio… a bien tiempo nos llega el aviso de este dia, y de esta noche. El dia
nuar el feruoso celo con que los Señores Reyes mi padre y abuelo (que estén en gloria) solicitaron, el mayor culto de la Puríssima Concepción de Nuestra Señora para obligar, por medio de su auxilio, a que su Hijo Santissimo mire con piedad las presentes necesidades de esta monarquía, ordeno a la Junta de la Concepción me informe del estado que actualmente tiene este soberano misterio y de los medios de que se podrá usar por adelantarle hasta su última definición, esperando que no admitirá reflexión ni diligencia y de mi primera devoción». S. STRATTON, La Inmaculada Concepción en el arte español, in Cuadernos de Arte e Iconografía, T. I, nº 2 (1988), p. 112. Sobre la Inmaculada Concepción en el arte se han escrito numerosas obras: R. PISANI, Maria nell’Arte. Iconografia e Iconologia Mariana in venti secoli di Cristianesimo, Roma 2003; V. FRANCIA, Splendore di Bellezza. L’Iconografia dell’Immacolata Concezione nella pittura rinascimentale italiana, Città del Vaticano 2004; G. MORELLO, V. FRANCIA, R. FUSCO, Una donna vestita di sole. L’Immacolata Concezione nelle opere dei grandi maestri, Roma – Milano 2005; Inmaculada. Catálogo de la Exposición de la Almudena, organizada por la Conferencia Episcopal Española, Madrid 2005. 103 D. JARAVA CASTILLO, Triunfos gozosos de Maria Sacratissima, concebida santa, pura, limpia y sin mancha de pecado original, Madrid, Mateo Fernández, 1660. Collocazione: Stamp. Chig. IV.394.
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da palabras à otro dia (deçia el Propheta Rei) y la noche inspira sabiduría à otra noche»104. La imagen recoge al pontífice invocando a María, representada en la parte superior, con el Niño; el dragón de las siete cabezas completa la escena, junto a unas figuras tumbadas, en la parte inferior. La oración de Alejandro VII pertenece al Ave Maris Stella, «muéstrate que eres Madre», de ahí el tipo iconográfico que sigue en el ángulo superior izquierdo, tomado del icono Salus Populi Romano, que según la hagiografía había sido pintado por el evangelista San Lucas. Y en eso radica la interpretación de la iconografía, a partir del texto de Francisco de la Carrera. El Pontífice ora delante de María, en la «Montaña que Dios prefirió como morada» (Sal 68, 17), esto es, Roma, sede del magisterio petrino, pero que ahora es atacada por la peste y asolada por las aguas turbulentas del pecado, como lo demuestran las dos imágenes yacentes, en escorzo, del primer plano. Día y Noche, es la oposición entre el reinado de la vida, dado por los que siguen a Dios, frente a la tiniebla representada en la hidra de siete cabezas, siete coronas y diez cuernos, como aparece en el libro del Apocalipsis (12, 3), y que en el libro representa a los siete pecados capitales, que habitan en la Roma de las siete colinas. Sólo con las virtudes capitales se puede vencer la peste, pues sólo el pecado es el origen de esta epidemia: «No hay peste, ni guerra, ni hambre, ni enfermedad de la vida a que no haya dado ocasión algún pecado»105. Con estas imágenes se trata de buscar una correcta interpretación de la doctrina cristiana; una doctrina que debe estar constantemente supeditada al bien de la Iglesia. Si la herejía está presente, ésta tiene que ser vencida mediante la virtud cristiana, y es aquí donde María, aparece como espejo de virtudes, modelo de cristiano y defensora de la siempre «unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam». 4. Una percepción de la existencia en la colección Chigi: Simolachri, Historie e Figure della morte, una obra veneciana impresa por Vicenzo Vaugris La relación de Fabio Chigi con la muerte no resulta sorprendente si nos atenemos al contexto en el que nos movemos. La meditación sobre la muerte se había convertido, durante el período barroco, en uno de los temas recurrentes de la espiritualidad cristiana. Fabio Chigi, a imitación de 104 F. CARRERA Y SANTOS, Dia y Noche. Discursos Morales, sobre el contagio de la peste de Roma, Roma, 1657. 105 J. E. NIEREMBERG, Diferencia entre lo temporal y lo eterno. Desengaños de la vida con la memoria de la eternidad, postrimerías humanas y misterios divinos, Barcelona 1856, p. 245. F. MARTÍNEZ GIL, Muerte y sociedad en la España de los Austrias, Cuenca 2000, p. 145.
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los santos penitentes, había encargado a Bernini una calavera de mármol para colocarla en su mesilla106. En el siglo XIV se acuña el término «macabre» que, al margen del origen etimológico de la palabra, designaba «la visión entera de la muerte que tenía la última Edad Media»107; la conciencia sobre la mortalidad de la vida y la reflexión que desde el siglo XIII se había ido fraguando en torno al tema de la caducidad de la vida, se tradujo, en la esfera artística y literaria, en una representación del carácter espectral de la muerte. Un «memento mori» que servía de advertencia y llamamiento a una conversión radical avalada con una vida dedicada a la oración y a la caridad: «Y así nos parece que todos se van al cielo y están muchísimos en el infierno con todos los sacramentos, porque no se dispusieron… Despacio murió el mercader que ganó su hacienda engañando á sus hermanos, y más despacio está su alma en los infiernos…»108. La primera edición de la Danse macabre, del impresor francés Guyot Marchant, se inspiró en las pinturas murales del pórtico del cementerio de los Inocentes de París, desaparecidas con la demolición de esta obra en el período barroco. En ella, el cadáver, que todavía no es un esqueleto, sino un «cuerpo todavía no completamente descarnado, con el vientre rajado
106 La certeza de la muerte resulta inevitable y es de necio rehusarla pues ya Quevedo advertía que el necio es tanto «el que toda la vida se muere de miedo que se ha de morir, como el que vive tan sin miedo de la muerte como si no la hubiese». F. MARTÍNEZ GIL, Muerte y sociedad en la España de los Austrias cit., p. 354. Ya en su obra sobre la Virtud Militante contra las quatro pestes del Mundo, Embidia, Ingratitud, Sobervia, i Avaricia, con las quatro Fantasmas, desprecio de la Muerte, vida, Pobreza, Enfermedad, el escritor madrileño, basándose en el primer libro de la Retórica de Aristóteles, advierte: «No es malo morir, sino morir mal: como no es bien el vivir, sino el vivir bien. Morir es lei, i no daño, ni ofensa… Yo aconsejo, que ninguno tema de la muerte, i que todos teman la mala muerte: que ninguno la tema, i que todos la dispongan». F. QUEVEDO VILLEGAS, Virtud Militante contra las quatro pestes del Mundo, Embidia, Ingratitud, Sobervia, i Avaricia; con las quatro Fantasmas, Desprecio de la Muerte, Vida, Pobreza, i Enfermedad, Zaragoza, Herederos de Pedro Lanaja, impresores del Reino de Aragón, 1651, pp. 302-303. 107 J. HUIZINGA, El Otoño de la Edad Media. Estudios sobre la Forma de la vida y del Espíritu durante los siglos XIV y XV en Francia y en los Países Bajos, Madrid 2010, pp. 191-192. V. INFANTES, Las Danzas de la Muerte. Génesis y Desarrollo de un género medieval (siglos XIIIXVII), Salamanca 1997, pp. 22-50. A. SÁNCHEZ IGLESIAS, Catálogo de Relaciones de Sucesos en la Biblioteca de la Real Academia de Historia de Madrid (siglos XVI-XVIII). Tesis de Licenciatura dirigida por la Dra. Nieves Pena Sueiro, en el Departamento de Filoloxía Española e Latina de la Universidad de A Coruña (defendida el 15/02/2013). A. SÁNCHEZ IGLESIAS, Deformaciones y exorcismos a través de las Relaciones de sucesos del Siglo de Oro, in Artifara. Revista de lenguas y literaturas ibéricas y latinoamericanas 12 (2012), pp. 169-177. 108 M. MAÑARA VICENTELO DE LECA, Discurso de la Verdad dedicado á la Imperial Majestad de Dios, Madrid 1878, p. 21. F. MARTÍNEZ GIL, Muerte y sociedad en la España de los Austrias cit., p. 357.
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y hueco y con el andar de un antiguo y rígido maestro de baile»109 invita a los diferentes estratos de la sociedad a que le sigan. La muerte es igual para todos y así lo expone Chastellain en su poema Le Miroir de Mort o el poeta Jean Le Fèvre con su célebre frase: «Macabré. Je fis de Macabré la dance»110. Simulachri, historie e figure de la morte, impresa por Vincenzo Vaugris (Valgrisi) es una de las numerosas reediciones que la obra de Hans Holbein ha tenido a lo largo del tiempo111. Una copia de la edición de 1538 se conserva en el Bristish Museum con el título Les simulachres & historiees faces de la mort, autant elegamme~t pourtraictes, que artificiellement imaginees (Lyon, 1538), impresa por los hermanos Melchor y Gaspar Trechsel, impresores activos en Lyon en el segundo tercio del siglo XVI; a esta edición se suma otra de 1542, con el mismo texto de Gilles Corrozet que ya aparecía en la de 1538 pero esta vez impresa por Jan y François Frellon y una traducción latina, del mismo año, con los poemas de George Oemel or Aemilius112. De la obra que nos ocupamos contamos con dos impresiones venecianas en 1545, una en latín y otra en italiano. En la Biblioteca Apostólica Vaticana se conservan ambas ediciones. El número de grabados, cuarenta y uno, es el mismo que la versión francesa de 1538 y el texto es de Gilles Corrozet. Basada en la danza macabra de Holbein, las estampas venecianas se acompañan de pasajes bíblicos siguiendo la edición que los hermanos Techsel habían impreso en Lyon en el año 1538, con la introducción de escenas del Génesis y de personajes que son interrumpidos de su actividad cotidiana por la figura de la muerte. Esta iconografía estaba ya presente en Le Mors de la Pomme, poema conocido por Holbein y que propablemente le haya inspirado a la hora de diseñar sus dibujos113. Las primeras imágenes responden a la iconografía de la Creación, la Expulsión de Adán y Eva, Adán trabajando en la tierra y la osamenta de todos los hombres, pasajes del Génesis que toman sus modelos de los grabados bíblicos; unas imágenes que circulaban por los talleres de la Europa del 109
J. HUIZINGA, El Otoño de la Edad Media cit., pp. 191-192. V. INFANTES, Las Danzas de la Muerte cit., p. 23. 111 G. E. SEARS, A Collection of Works Illustrative of the Dance of Death, New York 1889, p. 20. 112 G. KASTNER, Les Danses des Morts. Dissertations et Recherches historiques, philosophiques, littéraires et musicales, París, 1852, p. 129. V. INFANTES, Las Danzas de la Muerte cit., p. 179. 113 L. P. KURTZ, The Dance of Death and the Macabre Spirit in European Literature. New York 1934, pp. 194-195. C. RODRÍGUEZ PELÁEZ, La danza de la muerte en los impresos navarros de los siglos XVI y XVII, in Ondare 18 (1999), p. 282. 110
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momento y que Holbein conocía a la perfección. No en vano, los hermanos Trechsel, de ascendencia alemana e impresores de la primera edición latina de la danza macabra, conocen las biblias del erudito español Miguel Servet — firmado Miguel de Villanueva114 — o las impresiones de Arnold Birckman y Hans Steelsius115. Unas imágenes emblemáticas que el propio Holbein utiliza para ilustrar parte de sus obras. De hecho, las cuatro primeras imágenes de la danza macabra se repiten en las Historiarum Veteris Testamenti Icones116. Durante el período de seis años (1519-1526), el joven artista preparó más de mil trescientos grabados y es en esta misma época, siendo maestro en la corporación de pintores de Basilea, cuando elabora los dibujos de la Danza de la Muerte y las imágenes del Antiguo Testamento. De este modo, las ilustraciones de Holbein se convertirán en un referente para la iconografía bíblica moderna. Los impresores de las primeras biblias europeas beben de modelos alemanes, como es el caso de Ganglielmus de Cereto (Venecia, 1493) o de la biblia inglesa de Miles de Coverdale (1535) que se inspira en una de las ediciones donadas por Christian Egenolff en Frankfurt en 1534117. En este sentido, no resulta extraño encontrar en xilografías que ilustran escenas del Antiguo Testamento o del Apocalipsis, la firma de conocidos artífices como Lucas Cranach, en el caso de las biblias luteranas118. Desde el papa, el emperador, el cardenal, la abadesa, el senador, el obispo hasta el abogado, el médico, el labrador, el niño o la monja, todos los estratos de la sociedad están presentes en la edición veneciana de Simulachri, historie e figure de la morte. Un argumento que presenta la danza macabra como un recorrido veloz de una vida caduca, donde la muerte es mensajera de Dios. Así aparece en el grabado sexto con la imagen del papa y la figura de la muerte, acompañados de sendos epígrafes119, aludiendo a los 114 Serveto se instaló en Lyon como editor y allí conoce al fraile dominico Pagnini para quien realiza una nueva versión de la biblia a la que añade notas y una introducción. F. T. VERDÚ VICENTE, Miguel Servet. Astrología y Hermetismo, Barcelona 2008, p. 121. 115 Los Trechsel son conocedores de los contratos de Biblias de Miguel Servet en Lyon. F. J. GONZÁLEZ ECHEVERRÍA, El resumen español de Amberes, Ymagines, realizado por Hans Holbein, el Joven y Miguel Servet en 1540, in Revista del Centro de Estudios Merindad de Tudela 12 (2002), p. 136. 116 H. HOLBEIN, Imágenes del Antiguo Testamento, ed. A. BERNAT VISTARINI, Palma de Mallorca 2001, pp. 22-27. 117 J. L. FLOOD, Les premières Bibles allemandes dans le contexte de la typographie européenne des XVe et XVIe siècles, in La Bible imprimée dans l’Europe moderne, a cura di B. E. SCWARZBACH, París 1999, p. 149. 118 Ibid., p. 155. 119 «Moriatur sacerdos magnus» y de «Et episcopatum eius accipiat alter», tomados del libro de Josué (20,6) y del Salmo 108 (8), respectivamente.
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cargos ocupados en la vida y a la inesperada llegada de la muerte: «Suscita el impío contra él y el acusador está a su derecha. Cuando fuere juzgado salga condenado, y su súplica sea inútil. Sus días de reduzcan a pocos, su cargo lo ocupe otro»120. Si analizamos el significado de lo representado, nos encontramos ante la historia del reino de la muerte, desde su origen, con la creación del hombre, creado a imagen de Dios, esto es, inmortal, y cómo por el pecado, el pecado original, entra en el mundo. Para eso, el autor se vale de la Historia Sagrada para explicar que la muerte ha entrado en el mundo pero, sobre todo, para insistir en cuáles han sido las consecuencias que ha causado, aplicados al hombre, ya no bíblico sino contemporáneo. Y buen ejemplo de ello son las imágenes grabadas alusivas a los estados clericales y a la nobleza. De esta manera, el mentor iconográfico es capaz de componer un discurso a partir del capítulo cuatro de Daniel, en especial, con el versículo 34, donde Dios humilla al hombre arrogante y soberbio, en este caso, a la propia emperatriz, recordándole el juego entre las consecuencias de este pecado y la muerte que es «paventosa, è dura», pues mientras uno piensa desde esta óptica, no es consciente que le espera la oscura sepultura121. Un esquema compositivo e iconológico invariable a lo largo de los cuarenta y un grabados: el origen del mensaje lo encontramos en un texto bíblico, en referencia, por lo general, a una conducta del hombre. Dicha conducta se representa en la imagen grabada, con escenas de la vida cotidiana, en especial, con la representación de historias de personas destacadas, bien sea del estamento clerical o de la nobleza, para luego, a manera de refrán o glosa, ilustrar la imagen y, de este modo, ejemplificar al devoto que las está contemplando. Un recurso primitivo, que tomado del «exemplum» medieval, tendrá su desarrollo más eficaz en la emblemática de época moderna. 5. Reflexiones Finales El patrimonio bibliográfico chigiano se vio incrementado con la llegada de Fabio al solio pontificio en el año 1655, con el nombre de Alejandro VII. Su interés por la cultura clásica y religiosa se confirma no sólo por los libros conservados en su colección, sino también por la iconografía representada en sus frontispicios. Si tenemos en cuenta que la portada del libro se convierte, en el siglo XVII, en el resumen alegórico del contenido
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Salmo 108, 6. Bajo la imagen se puede leer: «Iddio abbassa il gir superbo, è altero; e con la norte paventosa, è dura. Mentre gir pensi per miglior sentiero, ti conduce à la negra sepoltura». 121
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del mismo, podemos afirmar que la iconografía representada en los frontispicios analizados responde, sin lugar a dudas, a esta máxima barroca. Tiene sentido, por consiguiente, que los géneros representativos del renacimiento y del barroco tengan cabida en la colección chigiana de la Biblioteca Apostólica Vaticana. Las obras impresas sobre la educación de príncipes y el buen gobierno de la monarquía, temas políticos, militares y diplomáticos ocupan un lugar destacado; le siguen los libros históricos, con los anales de las principales ciudades, en especial las italianas, sin olvidar las misiones por América y por Oriente que las órdenes religiosas habían iniciado desde el siglo XVI. La importancia, además, que los libros religiosos ejercen para estimular la piedad de los devotos se pone de manifiesto en el número importante de impresos que se conservan. Un acervo cultural que refleja las necesidades de una sociedad moderna inmersa en una profunda crisis política, social y religiosa. En este sentido, los Chigi no van a ser ajenos a estos intereses y los programas iconológicos de los grabados librescos así lo ratifican. La estampa de la Inmaculada Concepción, inspirada en la iconografía de la mujer apocalíptica y acompañada de los atributos de la Virgen «Tota Pulchra», se convierte en uno de los modelos de las artes figurativas más difundidos a partir del Concilio de Trento. Asimismo, la figura de la muerte, en forma de esqueleto, sigue el modelo de las danzas macabras renacentistas, significando con su presencia, la impotencia del hombre ante la caducidad de la vida; la muerte invita al lector a meditar a partir de las citas bíblicas que Simulachri, historie e figure de la morte nos presenta en cada uno de los grabados; una meditación que lleva implícita esa idea del carácter transitorio de la vida pero también la concepción de aquella como la puerta que permite la unión del alma con Cristo. Pero la muerte nos presenta su doble cara pues se trata del «mayor tormento y dolor o el mayor descanso de la vida según se trate del pecador o del justo»122; desde esta óptica podemos entender la figura del sacerdote que desde el púlpito amenaza a sus fieles con las consecuencias del pecado; de este modo, la iconografía del predicador, inscrita en la doctrina de la fe tridentina, es llevada al arte con todas sus consecuencias. En uno de los grabados de la obra impresa por Vaugris, el púlpito ocupa un lugar preeminente pues el predicador debe ser visto y oído; la predicación se convierte en uno de los instrumentos utilizados por la Iglesia para combatir la herejía e invitar a la necesidad de las buenas obras para la salvación. 122 J. CARO BBAROJA, Las formas complejas de la vida religiosa, Madrid 1995, pp. 192-196. J. M. MONTERROSO MONETRO, A Doce vida da morte. Breve visión emblemática da existencia, in Speculum Humanae Vitae. Imaxe da morte nos inicios da Europa Moderna, a cura di M. MOSQUERA COBIÁ, A Coruña 1997, p. 21.
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Es así como artistas y clérigos se convirtieron en activos participantes en la batalla de Roma contra la herejía123. Una iconografía cristiana que, basándose en los modelos clásicos, se nutre de las argumentaciones de los autores antiguos y se lleva a imprenta en forma de emblema. En este sentido, los Discursos de la Religión de Guillaume de Choul, la Iconologia de Ripa y el Theatro Moral de Otto Vaenius dan buen ejemplo de ello. Modelos clásicos que tienen sus consecuencias en la iconografía del retrato libresco, símbolo de autoridad social e intelectual del autor de la obra como en la Práctica del amor de Dios de Francisco de Sales124 o en la imagen simbólica de otros mundos representada a partir de la figura del tártaro en la portada de la Historia de la conquista de China, escrita por el obispo español Juan de Palafox y Mendoza (París, 1670)125. No en vano, los fondos bibliográficos de los Chigi responden a los intereses y a los deseos de una familia que vive en un contexto determinado por los acontecimientos sociales y políticos de la Italia renacentista y barroca. Una época de riqueza cultural marcada inexorablemente por las deliberaciones del Concilio de Trento y por unos decretos dogmáticos que fueron llevados estratégicamente al emergente mundo de la imprenta y, por extensión, a los programas iconográficos del momento. La biblioteca de la familia Chigi recoge, en una diversa y heterogénea colección, las principales producciones bibliográficas de su época. El variado número de obras relacionadas con la iconografía y la emblemática desvelan no sólo los aspectos artísticos que imperaban en la Europa moderna, sino también y, de manera muy especial, se convierten en el espejo de la mentalidad y el sentir del hombre del momento. En definitiva, el fondo Stampati Chigiani entraña el reflejo de una cultura visual y filosófica que utilizando la literatura emblemática como instrumento de persuasión colectiva, acercó al individuo a la comprensión de los códigos de su época. Un patrimonio bibliográfico que no fue una excepción en las familias nobles italianas y que, a juicio de Tomaso Montanari: «Non si potrebbe citare un esempio più concreto del vitale inserimento della produzione intelletuale, e specificatamente poetica, all’interno di quel cantiere permanente di idee e di opere che fu il ponteficato alessandrino»126. 123 G. BALDERA VEGA, La Reforma y la Contrarreforma. Dos expresiones del ser cristiano en la modernidad, México 2009, p. 296. 124 F. DE SALES, Práctica del amor de Dios, Madrid, Pablo de Val, 1661. Collocazione: Stamp. Chig. IV.332. 125 J. PALAFOX Y MENDOZA, Historia de la conquista de la China, París, Antonio Bertier, 1670. Collocazione: Stamp. Chig. V.1736. 126 T. MONTANARI, Gli intellettuali alessandrini, in Alessandro Chigi (1599-1667) cit., p. 383.
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LE VICENDE VATICANE DEL CODICE B DELLA BIBBIA DALLE CARTE DI GIOVANNI MERCATI II. I PRESTITI E LE CESSIONI ESTERNE In memoriam Caroli Mariae cardinalis Martini
Proseguendo l’opera di edizione dei materiali raccolti da Giovanni Mercati circa le vicende del codice Vat. gr. 1209 dal momento della sua comparsa nelle collezioni vaticane agli inizi del XX secolo1, presento qui quella che Mercati aveva concepito come terza e ultima appendice documentaria alla sua opera, ossia la ricostruzione dei prestiti e delle cessioni ad extra del codice, compiuta sulla base di fonti documentarie conservate tra i materiali della Vaticana2. Anche in questo caso ho provveduto a verificare, aggiornare e dare forma distesa e compiuta alla serie di documenti (essenzialmente ricevute di prestito, lettere e libelli di supplica indirizzati ai pontefici), che Mercati aveva ritrovato e disposto cronologicamente3. Trattandosi di episodi isolati, distanti tra loro a volte più di un secolo, non avrebbe avuto alcun senso tentare di tessere una storia del codice, come quella presentata precedentemente, in cui si è considerata la vicenda del manoscritto, per così dire, sub specie inventariorum e sub specie tegumenti. È questo il motivo per cui ho ritenuto di lasciare intatto l’impianto originale di semplice catalogo ragionato delle fonti, presentando in extenso solo quelle inedite, e accompagnando tutte con una ricostruzione minima 1
G. CARDINALI, Le vicende vaticane del codice B della Bibbia dalle carte di Giovanni Mercati. I. La presenza negli inventari, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae 20 (2013), pp. 331-424. 2 Come già nel primo contributo, anche in questo caso faccio seguire questa ricerca dalla trascrizione in corpo minore del testo elaborato da Mercati, secondo le stesse norme editoriali. 3 Approfitto di questo secondo contributo anche per rimediare a una mia disattenzione. Non avendo fatto in tempo a porre nell’articolo precedente una serie di immagini che documentano lo stato attuale delle Carte Mercati 123, la pongo ora in coda a questo testo (Tavole 1-4). Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 177-236.
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che permetta di comprendere chi prese a prestito il codice, per quale periodo, con quale scopo e con quali risultati. In qualche caso, è stato necessario, per ragioni di perspicuità e completezza, anticipare la materia del terzo ed ultimo contributo che presenterà la storia delle collazioni del Vat. gr. 1209, che tuttavia solo in parte hanno relazione con i prestiti esterni, dal momento che numerose verifiche vennero fatte sul codice in loco, cioè in Biblioteca o tramite il personale della Vaticana, senza lasciare alcuna traccia né nei registri di prestito né nel fondo Archivio della Biblioteca. A questa terza parte si rimanda per una valutazione complessiva dei fatti qui presentati, mentre in contributi specifici mi occuperò di alcuni personaggi che ebbero in prestito il codice o vi lavorarono, la cui figura necessita di approfondite ricerche e nuovi vagli documentari per uscire dall’oblio e da una bibliografia ferma talora da più di cento anni. *
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Mercati inaugura la ricostruzione della vicenda dei prestiti del Vat. gr. 1209 con una esclusione. Egli nega recisamente che si possa riconoscere il codice B nel manoscritto biblico, che, secondo l’inventario dei codici di Niccolò V, compilato da Cosimo di Montserrat (1455)4, era in prestito a Francesco Griffolini da Arezzo5. Effettivamente, essendo la lista di codici concessi al Griffolini quasi esclusivamente composta di manoscritti greci, si sarebbe tentati di identificare nella Bibbia data mutuo il 13 maggio del 1456 o del 1457, il Vat. gr. 12096. Questa identificazione è, tuttavia, da respingere. E per più di una ragione. Anzitutto, come è stato già notato, non solo nel 1455 non risultavano nella collezione papale codici contenenti il testo biblico nella versione dei Settanta, ma bisognerà attendere vent’anni (ossia l’inventario del 1475), perché vi compaia un manoscritto in cui poter riconoscere B. 4 L’inventario è stato edito, per la parte greca, da R. DEVREESSE, Le fonds grec de la Bibliothèque Vaticane dès origines à Paul V, Città del Vaticano 1965 (Studi e testi, 244), pp. 1143, e, per quella latina, da A. MANFREDI, I codici latini di Niccolò V. Edizione degli inventari e identificazione dei manoscritti, Città del Vaticano 1994 (Studi e testi, 359). Si veda anche J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collections de manuscrits, avec la collaboration de J. RUYSSCHAERT, Città del Vaticano 1973 (Studi e testi, 272), pp. 11-12. 5 DEVREESSE, Le fonds grec cit., pp. 41-42. 6 DEVREESSE, Le fonds grec cit., p. 41. È da notare che, dei nove codici concessi al Griffolini, quello in questione, assieme al primo (Thucydidis historia), è l’unico a non esser stato identificato da Devreesse.
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In secondo luogo, il Vat. gr. 1209 è un codice privo di ornamentazione e, quando compare nell’inventario del 1475, risulta essere rivestito semplicemente in rubeo7, senza elementi decorativi o preziosi, come erano invece le serrature in argento con le armi di papa Parentucelli, che risultano dalla descrizione di Cosimo. Anzi, Mercati segue proprio la traccia di questa descrizione della preziosa coperta del codice biblico prestato a Griffolini, per affermare che non si tratta di un testo greco, ma di una Bibbia latina. Come secondo tra i Libri repositi in primo armario a dextera versus fenestram Cosimo descriveva una Bibbia latina, chiusa mediante «gafetis de argento et in scutis armorum Domini Nicolai8», che pare potersi ben sovrapporre alla voce di prestito al Griffolini. L’Aretino ebbe, dunque, dalla biblioteca papale, non il Vat. gr. 1209, ma il Vat. lat. 23. 1. Il prestito ad Ermolao Barbaro il Giovane, patriarca di Aquileia. La prima cessione esterna documentata del Vat. gr. 1209 risulta dal secondo dei due registri di prestito della Biblioteca Apostolica Vaticana, l’attuale Vat. lat. 3966 (verso del foglio 39a)9. Qui si legge che il 10 maggio 1491 Ermolao Barbaro riceveva mutuo un codice greco della Bibbia. Che si tratti del Vat. gr. 1209, e non del Vat. gr. 330, l’altro manoscritto greco biblico in possesso dei papi, è provato da due elementi. Anzitutto, B era rivestito in rubeo10, mentre il Vat. gr. 330 in nigro, così che era solo il primo a poter esser descritto, nell’aggiunta alla ricevuta, come in pavonacio. Secondariamente, il Vat. gr. 330 non contiene l’intera Scrittura, ma solo il Vecchio Testamento11, e dunque impropriamente poteva esser qualificato come Biblia12. L’intestatario del prestito, il veneziano Ermolao Barbaro il Giovane 7 DEVREESSE, Le fonds grec cit., p. 73: «Biblia. Ex membr. in rubeo»; sull’identificazione di questa voce col Vat. gr. 1209, si veda CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 348 e 394-396. 8 Questa la voce, edita da MANFREDI, I codici latini cit., pp. 3-4: «Item unum volumen parvum seu forme mediocris in quo est Biblia completa de littera formata parva, corio rubeo, impressa et gafetis de argento et in scutis armorum (sic) domini Nicolai». 9 I due primi registri di prestito della Biblioteca Apostolica Vaticana. Codici Vaticani latini 3964, 3966, a cura di M. BERTÒLA, Città del Vaticano 1942 (Codices Vaticani selecti, 27), p. 77. 10 CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 394-396. 11 Sul Vat. gr. 330 si veda Codices Vaticani Graeci, II: codices 330-603, recensuit R. DEVREESSE, In Bibliotheca Vaticana 1937 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti), pp. 1-2. 12 Va, tuttavia, notato che il lemma apposto dai bibliotecari vaticani al Vat. gr. 330 lo qualificava come: «Biblia»; si veda, a questo proposito: Inventari di manoscritti greci della Biblioteca Vaticana sotto il pontificato di Giulio II (1503-1513), introduzione, edizione e commento a cura di G. CARDINALI, Città del Vaticano 2015 (Studi e testi, 491), p. 313.
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(1453-1493)13, proprio nello stesso 1491 veniva nominato da Innocenzo VIII Cybo patriarca di Aquileia, in sostituzione del defunto Marco Barbo. La nomina, di per sé prestigiosa, divenne per Barbaro motivo di difficoltà, dal momento che la Serenissima vietava ai suoi ambasciatori di ricevere regali e cariche dai governi presso i quali prestavano servizio. Innocenzo VIII e Alessandro VI Borja furono, tuttavia, irremovibili e Barbaro, che dopo una prima resistenza aveva accettato il volere papale, fu rimosso dall’incarico di Oratore Veneto presso la Curia. Passò gli ultimi due anni della sua vita in esilio a Roma e ne approfittò per stendere le celebri Castigationes plinianae et in Pomponium Melam14, che fece appena in tempo a pubblicare, prima che la peste lo uccidesse nel luglio 149315. Gli ultimi due anni di vita di Barbaro, nei quali si colloca il prestito del Vat. gr. 1209 e che vanno dalla nomina patriarcale (6 marzo 1491) alla morte, furono tanto turbolenti sul piano politico, e anche personale, quanto produttivi su quello letterario. Da uno spoglio dell’epistolario del patriarca emergono con chiarezza l’affanno e lo sconvolgimento portati dalla nomina ad Aquileia e dalla destituzione da Oratore; la solidarietà e la vicinanza espresse da eruditi e amici; le tracce del lavoro su Plinio e Mela. Una riprova del lavoro alacre svolto da Barbaro nell’ultimo biennio viene anche dai registri di prestito vaticani, dai quali risulta che fu assiduo frequentatore della biblioteca, dalla quale prese a prestito numerose opere utili alla sua attività, ormai esclusiva, di filologo. In questa serie di codici presi mutuo, tutti classici, pagani o comunque
13 Sulla sua figura si vedano V. BRANCA, Un trattato inedito di Ermolao Barbaro: il “De coelibatu liber”, in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance 14 (1952), pp. 83-98; G. DELLA SANTA, Una vicenda della dimora di Ermolao Barbaro a Roma, in Scritti storici in memoria di G. Monticolo, Padova 1922, pp. 221-228; L. BANFI, Ermolao Barbaro, Venezia e il Patriarcato di Aquileia, in Nuova Antologia 111 (1956), pp. 421-428; E. BIGI, Barbaro, Ermolao (Almorò), in Dizionario biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 96-99; M. ZORZI, I Barbaro e i libri, in Una famiglia veneziana nella storia: i Barbaro. Atti del convegno di studi in occasione del quinto centenario della morte dell’umanista Ermolao (Venezia, 4-6 novembre 1993), Venezia 1996, pp. 363-396, segnatamente pp. 377-379; B. FIGLIUOLO, Il diplomatico e il trattatista. Ermolao Barbaro ambasciatore della Serenissima e il De officio legati, Napoli 1999 (Storici e Storia, 2); J. CÉARD, Barbaro (Ermolao), in Centuriae latinae. Cent une figures humanistes de la Renaissance aux Lumières offertes à J. Chomarat, réunies par C. NATIVEL, Genève 1997 (Travaux d’Humanisme et Renaissance, 314), pp. 79-84. 14 Hermolai Barbari Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam, I-II, edidit G. POZZI, Patavii, 1973-1974 (Thesaurus Mundi. Bibliotheca scriptorum latinorum mediae et recentioris aetatis, 11.14). 15 ZORZI, I Barbaro e i libri cit., p. 377.
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non biblici16, brilla solitaria la ricevuta di B, che appare completamente avulso dal contesto degli interessi culturali di Barbaro. Si potrebbero avanzare differenti ipotesi. Nulla vieta di pensare che Barbaro abbia usato la sua influenza e la confidenza con la struttura e le persone della biblioteca per ottenere un prestito a favore di un suo amico o collega filologo. Era questa una prassi non infrequente all’epoca e che, talora, le ricevute stesse lasciano intendere. Ma non si può escludere che il prestito possa far luce su altri interessi di Barbaro, che non risultano attestati dalle sue pubblicazioni e dalle sue lettere: in effetti, le opere edite e inedite sono di carattere filosofico o classicista o erudito. Il prestito della Bibbia dei Settanta illuminerebbe, dunque, un aspetto nuovo negli interessi di Barbaro. Si tratta forse di un filone di ricerca, su cui la morte gli impedì di proseguire. È possibile, e soprattutto corretto, leggere in questo prestito l’abbozzo di una svolta nelle ricerche e negli interessi del patriarca? Mercati, in effetti, nel terminare il paragrafo, e lasciando in sospeso una citazione, apriva a una possibile pagina ancora ignota della produzione letteraria di Barbaro. Alcuni decenni più tardi, Pio Paschini tornò sulla questione con un’interpretazione affatto diversa. Seguendo le tracce dell’epistolario barbariano17, egli nota l’emergere di una vena di meditazione cristiana e di riflessione sulla svolta che era stata portata dalla nomina patriarcale e dall’ordinazione presbiterale che questa comportava18. Scorrendo le lettere dell’ultimo biennio di vita, non è difficile raccogliere tracce di una riflessione di Barbaro su di sé come miles Christi19; di una riconsiderazione e meditazione della propria vocazione, tra autobiografia e teologia20, e di un’assunzione esistenziale di essa21; di un resoconto ragionato di tutti i passi che lo hanno 16 Il primo prestito documentato a favore di Barbaro è quello dei Vat. gr. 269, 1174 e 246, e del Vat. lat. 6896, datato 4 giugno 1490 (I due primi registri cit., p. 76); ai mesi successivi risalgono le ricevute per «Ioannes Scotus in Sentenciis» (I due primi registri cit., p. 114); «Stephanus De effectibus et Thomas latinus in duobus voluminibus copertis corio rubro» (27 luglio); Ippocrate, Nicandro e Dioscoride con un altro liber medicinalis, ossia il Vat. gr. 289 (3 agosto); il commento di Proclo a Tolomeo (7 settembre); «Aetius graecus in magno volumine ex papyro» (16 settembre); «Quadripartitum Ptolomei […] ex papiro in erubeo» (settembre); l’11 ottobre 1490 Barbaro fece prelevare un codice di Strabone e, in ultimo, il 14 dicembre il De animalibus di Eliano (I due primi registri cit., pp. 50-51 e 76). 17 E. BARBARO, Epistolae, Orationes et Carmina, edizione critica a cura di V. BRANCA, I-II, Firenze, 1943 (Nuova collezione di testi umanistici inediti o rari, 5-6). 18 P. PASCHINI, Tre illustri prelati del Rinascimento. Ermolao Barbaro, Adriano Castelleti, Giovanni Grimani, in Lateranum n.s. 23 (1957), pp. 11-207, segnatamente pp. 38-39. 19 Si vedano, exempli gratia, le lettere a Pico della Mirandola e a Bosso, ambedue datate all’ultimo di marzo del 1491, in BARBARO, Epistolae cit., I, pp. 61-62. 20 Cfr. BARBARO, Epistolae cit., pp. 72-77, segnatamente p. 73. 21 Cfr. BARBARO, Epistolae cit., p. 76.
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portato alla nomina e della serenità che deriva da una decisione che viene dal papa, libera da qualsiasi aspirazione da parte sua22. Impressionante risulta anche il tessuto scritturistico implicito, che affiora di tanto in tanto nelle lettere dell’ultimo biennio e che tradisce una notevole confidenza col testo biblico23. Tuttavia, non mi pare di poter affermare che il prestito del Vat. gr. 1209 possa esser letto come troppo strettamente legato alle vicende biografiche e spirituali di Barbaro. L’ipotesi che B abbia potuto accompagnare e sostenere in Barbaro la conversione, che il gesto del papa aveva compiuto in lui, e l’ingresso nel sacerdozio (che poi non avvenne), è troppo lontana dal vero e vicina all’archetipo di una consuetudine personale, quotidiana e diretta con la Scrittura, che solo la Riforma protestante avrebbe contribuito a rifondare in Europa. La pratica del testo biblico originale a scopo di orazione o meditazione personale pare assai inconsueta anche nel caso di uno dei più dotti e sensibili umanisti del Quattrocento italiano. Forse, da buon allievo del Gaza, sarà rimasto impressionato da quel codice greco in tribus columnis e ne avrà chiesto l’asporto, approfittando del ruolo e della stima di cui godeva negli ambienti della Curia pontificia, e del tempo libero che aveva ormai a disposizione. Un parergon sulla Complutense Prima di passare alla documentazione relativa al secondo prestito del Vat. gr. 1209, Mercati riteneva doveroso apporre alla sua ricostruzione un parergon, per affrontare e dirimere una questione ai suoi tempi ancora controversa. La riassumo in sintesi, essendo ormai inconfutabilmente risolta da tempo con esiti da tutti accettati. Nel corso del secondo decennio del Cinquecento era giunto a realizzazione un ambizioso progetto tipografico, patrocinato dal cardinale Francisco Ximénes de Cisneros, arcivescovo di Toledo, curato da un gruppo di filologi e docenti dell’Università di Alcalá de Henares e stampato da Arnaldus Guilielmus de Brocario: la Biblia Polyglotta Complutense. Nel 1517, infatti, furono terminati di stampare, in 600 copie perlopiù cartacee, i cinque volumi di testo biblico e il sesto di apparatus. Gli ultimi a essere editi furono i quattro volumi contenenti l’Antico Testamento, mentre per primo era stato stampato il Nuovo. Il 22 marzo 1520 giungeva l’autorizzazione papale alla stampa con motu proprio di Leone X de’ Medici. Il papa aveva contribuito alla realizzazione del progetto, prestando 22 Cfr. BARBARO, Epistolae cit., pp. 64-65, segnatamente p. 65; pp. 65-66, specie p. 66; e pp. 69-70. 23 Cfr. BARBARO, Epistolae cit., pp. 72-77, segnatamente p. 76.
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all’équipe di studiosi alcuni codici biblici, fatti uscire appositamente dalla Vaticana. Il cardinale Ximenes lo ringraziava nel Prologus: «Atque ex ipsis quidem Graeca Sanctitati tuae debemus, qui ex ista apostolica Bibliotheca antiquissimos tum Veteris tum Novi Testamenti codices perquam humane ad nos misisti, qui nobis in hoc negocio maximo fuerunt adiumento24». Il cardinale, come si vede, non specificava né il numero dei codici prestati né alcun elemento utile alla loro individuazione, se non la vaga qualifica di antiquissimi e la distinzione in codici vetero e neotestamentari. Fu probabilmente a causa di questa indeterminatezza e dell’indicazione della notevole antichità dei codici, che Erasmo da Rotterdam divulgò la notizia secondo la quale, per l’allestimento della Complutense, fu impiegato un «exemplar eximiae vetustatis spectataeque fidei exhibitum e bibliotheca Vaticana25». Di qui ad individuare nell’exemplar antiquissimus il codice biblico più antico che la Vaticana conservava, il passo non dovette essere difficile e si diffuse la convinzione che proprio il Vat. gr. 1209 fosse stato tra i manoscritti inviati in Spagna per i lavori di edizione della Complutense. Giuseppe Spalletti, che fu scriptor graecus della Vaticana dal 16 maggio 1770 alla morte (13 gennaio 1795)26, attesta quanto, ancora sul finire del XVIII secolo, fosse solida la convinzione che il Vat. gr. 1209 era stato la fonte testuale della Complutense27: 24 Biblia Complutense, I, f. Ir, col. 2. Un simile ringraziamento anche nel Prologus in Novum Testamentum, Biblia Complutense, I, IIIr, col. 2: «Et ut praefatiunculae tandem huic modus imponatur, illud lectorem non lateat: non quaevis exemplaria impressioni huic archetypa fuisse, sed antiquissima emendatissimaque ac tantae praeterea vetustatis, ut fidem eis abrogare nefas videatur. Quae sanctissimus in Christo pater et dominus noster Leo decimus pontifex maximus huic instituto favere cupiens ex apostolica bibliotheca educta misit ad Reverendissimum dominum Cardinalem Hispaniae, de cuius auctoritate et mandato hoc opus imprimi fecimus». 25 Si tratta della lettera scritta da Erasmo il 23 agosto 1527 da Basilea a Robertus Aldrisius, in Opus epistolarum Desiderii Erasmi Roterodami, VII: 1527-1528, denuo recognitum et auctum per P. S. ALLEN et H. M. ALLEN, Oxonii 1928, p. 134. 26 Su Spalletti, che fu anche professore alla Sapienza ed ebbe contatti con uomini illustri del suo tempo, come il pittore Anton Raphaël Mengs, si veda BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., p. 169 con ampia bibliografia a p. 180 nt. 113. Essendosi occupato principalmente degli Ottoboniani greci, si veda anche F. D’AIUTO, Ottoboniani greci, in Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, I: Dipartimento Manoscritti, a cura di F. D’AIUTO e P. VIAN, Città del Vaticano 2011 (Studi e Testi, 466), pp. 450-453, segnatamente p. 453. 27 Mercati segnalava, tra coloro che seguirono e divulgarono ulteriormente questa opinione, anche Giuseppe Bianchini e Filippo Vitali in EVANGELIARIUM / QUADRUPLEX / LATINAE VERSIONIS ANTIQUAE / SEU / VETERIS ITALICAE / […] / A / JOSEPHO BLANCHINO VERONENSI / […] / ROMAE ANNO DOMINI CIC IC CCXLVIII. / Typis Antonii de Rubeis, apud Pantheon, in via Seminarii Romani. / SUPERIORUM PERMISSU, I, rispettivamente pp. CDXCV e DLXVII.
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Ex hoc enim veluti ex purissimo fonte omnia sunt haurienda, ad hanc exactissimam amussim variae lectiones sunt exigendae, ut a Complutensibus editoribus pro exemplo omnium codicum hic unus meritissime fuerit selectus28.
E questa era la vulgata critica diffusa ancora negli anni Dieci del XX secolo, ossia ai tempi in cui Mercati intraprese lo studio del codice B29. Per far luce sulla vicenda, egli non solo riportò l’attenzione su alcuni atti papali dal contenuto inconfutabile, ma editò anche documenti allora ignoti agli studiosi. Relegando ad un breve accenno il fatto, pur rilevantissimo, che l’indoles del testo della Complutense è assai distante da quello del codice B, Mercati fonda la sua smentita anzitutto su tre litterae di Leone X. Al 27 agosto 1513 sono datate quelle con le quali il papa autorizza il bibliotecario Tommaso “Fedra” Inghirami a dare in prestito, dietro cauzione, all’abate complutense Alfonso García del Rincon e al cardinal de Cisneros due volumi contenenti l’Antico Testamento in lingua greca. I due intestatari del prestito erano tenuti a restituire i manoscritti entro un anno30. Le seconde litterae sono quelle datate 7 gennaio 1519, con le quali Leone X 28
Vat. lat. 10353, f. 55r. Questo il brano integrale da cui sono tratte le righe citate: «De hoc pretiosissimo codice longe plura a nobis uberiori calamo alias prolata sunt, quae heic repetere supervacaneum arbitramur utpote praesenti nostro instituto minus conseguentia, et si diligentius pro rei dignitate forent enucleanda in nimis prolixam excurrerent elucubrationem. Unum tamen monendum prae ceteris ducimus, codicem hunc omnibus aliis anteponendum et ob verendam illius vetustatem et ob raram in tanta antiquitate integritatem, et ob incredibilem scriptoris diligentiam, quae ubique maxime elucet, et constantem docti calligraphi sedulitatem clarissime patefacit. Quae quidem in caussa fuere, ut a nobis ea, quae fieri potuit cura illius prospectus lectoris oculis subiiceretur, et primo in ordine locaretur. Ex hoc enim veluti ex purissimo fonte omnia sunt haurienda, ad hanc exactissimam amussim variae lectiones sunt exigendae, ut a Complutensibus editoribus pro exemplo omnium codicum hic unus meritissime fuerit selectus. Atque o utinam mihi licuisset ex hoc fonte, ex quo Sixtus V P. M. antiqui foederis tabulas tanta cum Ecclesiae Romanae utilitate deprompsit, et Novi Testamenti scripta in lucem proferre, prout totis viribus adnitebar. Nonnullos alios ex pretiosioribus, qui in Vaticano asservantur, codicibus delibabimus, ut dulcissimo nostrorum Praesidum obtemperemus imperio [spazio bianco]». 29 Va notata la perplessità di C. VERCELLONE, Dissertazioni accademiche di vario argomento, Roma 1864, p. 129. Lo studioso barnabita, più ampiamente, anche se non in maniera più completa, ribadì l’opinione nella sua prefatoria a / ΔΙΑΘΗΚΗ / VETUS ET NOVUM / TESTAMENTUM / EX ANTIQUISSIMO CODICE VATICANO / EDIDIT / ANGELUS MAIUS / S. R. E. CARD. / Tom. I. / ROMAE MDCCCLVII. / APUD JOSEPHUM SPITHÖVER / LIPSIAE – APUD E. F. STEINACKER, p. IV nt. 1. 30 Leonis X pont. m. Regesta, ed. J. HERGENRÖTHER, n. 4263, sulle quali si vedano anche M. G. CERRI, I documenti pontifici per la nuova istituzione, in Le origini della Biblioteca Vaticana tra Umanesimo e Rinascimento (1447-1534), a cura di A. MANFREDI, Città del Vaticano 2010 (Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, 1), pp. 351-382, segnatamente pp. 376-377 e A. RITA, Per la storia della Vaticana nel primo Rinascimento, in Le origini della Biblioteca cit., pp. 237-307, segnatamente p. 287-288.
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scrive al nunzio in Spagna, Giovanni Ruffo, per esortarlo alla restituzione dei due codici biblici prestati al cardinale de Cisneros, che nel frattempo era deceduto31. Le terze litterae papali sono datate al 23 agosto dello stesso 1519; in esse si ordina a Inghirami di registrare in Biblioteca e di far registrare presso la Camera Apostolica l’avvenuta restituzione dei due codici, recuperati dal nunzio32. Già da questi tre documenti, tutti editi da tempo, appariva chiaramente che a prendere la via della Spagna non fu il Vat. gr. 1209, ma due codici contenenti il solo Vecchio Testamento: gli attuali Vat. gr. 330 e 346. Tuttavia, a scanso di equivoci, Mercati, dopo aver ricordato altri documenti già citati da Carlo Vercellone33, coglieva l’occasione per presentare al pubblico due atti, che, sebbene egli stesso considerasse «superflui in questa sede», tuttavia completano il quadro della vicenda e l’arricchiscono significativamente, essendo degli inediti. Il primo atto trascritto è la licenza papale di far uscire dalla Vaticana due codici per gli editori spagnoli, di cui Mercati riproduce il testo lasciandone inalterati gli errori e le peculiarità grafiche34. Il secondo documento
31 Una trascrizione del testo in Julii Pogiani Sunensis Epistolae et orationes olim collectae ab Antonio Maria Gratiano nunc ab Hieronymo Lagomarsinio … illustratae ac primum editae, Romae 1768, IV, p. 331 not. y, poi nuovamente in L. DOREZ, Recherches et documents sur la bibliothèque du cardinal Sirleto, in Mélanges d’archéologie et d’histoire 11 (1891), pp. 457-491, segnatamente p. 462 n. 1. Si vedano CERRI, I documenti pontifici cit., p. 378 (che tuttavia scrive «Russo» al posto del corretto «Ruffo») e RITA, Per la storia della Vaticana cit., p. 287. 32 Vat. lat. 3966, f. 12r, edito in I due primi registri cit., p. 55. Si vedano anche CERRI, I documenti pontifici cit., p. 378 e RITA, Per la storia della Vaticana cit., p. 287. 33 C. VERCELLONE, Dissertazioni accademiche cit., p. 410, non senza inesattezze. Mercati rinvia anche a C. VERCELLONE, Ulteriori studi sul Nuovo Testamento dell’antichissimo codice Vaticano. Dissertazione letta alla Pontificia Accademia di Archeologia il 14 luglio 1859, Roma 1866, dove tuttavia non si menziona la vicenda. Probabilmente aveva in mente C. VERCELLONE, Dell’antichissimo codice Vaticano della Bibbia greca. Dissertazione letta alla Pontificia Accademia di Archeologia il 14 luglio 1859, Roma 1860, pp. 13-14. Mercati aggiungeva le parole di Girolamo Aleandro dal Vat. lat. 3927, f. 455v (edite da L. DOREZ, Recherches sur la bibliothèque du cardinal Gerolamo Aleandro, in Revue des bibliothèques 2 (1892), pp. 49-68, segnatamente p. 56): «Die 15 Ianuarii 1519 dedi oratori hispano litteras i. breve pontificis cum litteris camerae apostolicae ad archiepiscopum Consentinum D. Johannem Ruffum nuntium apostolicum pro recuperandis duobus voluminibus grecis sacrae bibliae commodatis olim Cardinali Toletano. Remissa fuerunt ex Hispania praedicta duo Volumina Graeca bibliorum sacrorum: ut retulerunt mihi custodes, et ostenderunt ea in Bibliotheca hebreorum librorum». A proposito di Ruffo Mercati rinviava a F. CAVICCHI, Intorno al Tebaldeo, in Giornale storico della letteratura italiana. Supplemento 8 (1905), pp. 106-138, segnatamente p. 129 n. 1. 34 ASV, Diversorum Cameralium t. 63, f. 119r (olim f. 116), di cui esiste un regesto in Barb. lat. 2428, f. 1v, citato già da L. VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, tr. it. A. Mercati, IV.1, p. 454 nt. 3. La trascrizione di Mercati si può leggere nell’appendice a questo scritto, infra, p. 223. Si veda CERRI, I documenti pontifici cit., pp. 376-377.
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è la registrazione, da parte del notaio de Attavantis, della consegna fatta da Inghirami dei codici davanti a testimoni35. Soprattutto da questa seconda registrazione emerge chiaramente che ad essere prestati furono due codici biblici contenenti soltanto il Vecchio Testamento (testamenti veteris in lingua grecha), uno coperto di corio pergamino e di 512 fogli, e uno rivestito de rubro di 250 fogli. Nessuno dei due manoscritti può dunque essere identificato col Vat. gr. 1209, ma piuttosto il primo col Vat. gr. 330 (rivestito in nigro e di ff. 513)36 e il secondo col Vat. gr. 346 (ricoperto in rubeo e di ff. 254)37. Mercati concludeva notando come l’insieme di testimonianze prodotte, edite e inedite, collimasse perfettamente con quanto si poteva ricavare dalla consultazione degli inventari vaticani redatti nel 151838 e 151939: qui, infatti, il Vat. gr. 1209 appariva regolarmente al suo posto nel I banco, mentre risultavano assenti i Vat. gr. 330 e 34640. 2. Il prestito a Costanzo Sebastiano O.S.B.OLIV. (1540-1546) Il nuovo prestito di cui fu oggetto il Vat. gr. 1209 è documentato anch’esso dal secondo registro vaticano (Vat. lat. 3966), al foglio 15v41. La ricevuta è datata al primo di marzo, ma senza indicazione dell’anno, che andrà, pertanto, ricavato dal confronto tra la registrazione precedente e quella seguente. Essendo queste datate 1 giugno 1539 e 9 giugno 1546, ne consegue che il prestito dovrebbe essere stato concesso un primo di marzo tra quello del 1540 e quello del 1545 (il marzo 1546 è troppo prossimo alla data di restituzione del codice, come si vedrà fra breve). 35
ASV, Diversorum Cameralium t. 63, f. 119r (olim f. 116). Codices Vaticani Graeci cit., p. 1. 37 Codices Vaticani Graeci cit., pp. 23-25. 38 Index seu inventarium Bibliothecae Vaticanae divi Leonis Pontificis Optimi anno 1518c. Series graeca, curantibus M. L. SOSOWER – D. F. JACKSON – A. MANFREDI, Città del Vaticano 2006 (Studi e testi, 427), pp. XIV e 5, in cui a fianco della voce di descrizione del Vat. gr. 330 una mano ha apposto l’annotazione: «est in Hispania». Si veda anche CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 363-364. 39 L’inventario è stato edito, in maniera incompleta, da DEVREESSE, Le fonds grec cit., pp. 235-263; se ne vedano le pp. 260-263, assieme a CARDINALI, Le vicende vaticane cit., p. 364. 40 Codices Vaticani Graeci cit., pp. 2 e 25. Sulla Complutense si consultino T. H. DARLOWH. F. MOULE, Historical Catalogue of the Printed Editions of Holy Scripture in the Library of the British and Foreign Bible Society, I-II, London, 1903-1911, nr. 1412; N. FERNANDEZ MARCOS, El texto grieco, in Anejo a la edicion facsimile de la Biblia poliglota Complutense, Valencia 1987; La Bibbia: edizioni del XVI secolo, a cura di A. LUMINI, Firenze 2000, pp. 1-4; oltre a CERRI, I documenti pontifici cit., pp. 370, 376-378 e RITA, Per la storia della Vaticana cit., pp. 287-288. 41 Il prestito era già stato pubblicato, datato al 1539, da VERCELLONE, Dissertazioni accademiche cit., p. 412 e nella sua prefatoria alla cit., p. VII, nt. 1. 36
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Il codice preso mutuo è inequivocabilmente il Vat. gr. 1209, come risulta dai dati della ricevuta (codice biblico, pergamenaceo, in lingua greca, scritto in maiuscola e rivestito in rubeo). A concedere il prestito fu il bibliotecario stesso della Vaticana, che tra 1540 e 1548 era Agostino Steuco da Gubbio, vescovo di Chissamos42, mentre a riceverlo era un monaco benedettino olivetano: Costanzo Sebastiano. Per dare consistenza a questa figura, Mercati coniugava insieme quanto gli risultava dalla sua sterminata conoscenza dei fondi della Vaticana con la poca bibliografia disponibile, per lo più legata all’ordine religioso e alla provenienza napoletana di Sebastiano. La notizia più antica, precedente la data del prestito, è quella offerta dal Barb. gr. 42. Si tratta di un piccolo codice di 80 fogli (senza contare le 7 guardie), che reca il testo greco del commento di Proclo al Cratilo di Platone ed è chiuso da questa sottoscrizione: Scripsit Constantius Sebastianus monachus Montolivetanus XVIII° Kal. Februarias anno ab edita salute MDXXVI° Lupiis. Gratias Deo optimo maximo43.
Al monaco olivetano, che nel gennaio 1526 aveva terminato la trascrizione di Proclo da un vetustissimus codex, si deve pure una versione latina dell’Apologeticus di Gregorio di Nazianzo, che si trova manoscritta in Vaticana (Vat. lat. 3500), dove giunse coi codici di Antonio Carafa44, secondo quel che attesta la nota di possesso sulla prima guardia del codice. Questa traduzione latina venne poi edita ad Anversa nel 1570, grazie all’intercessione del cardinal Carafa, che era protettore dell’ordine Benedettino Oli42
T. FREUDENBERGER, Augustinus Steuchus aus Gubio, Augustinerchorherr und päpstlicher Bibliothekar (1497-1548) und sein literarisches Lebenswerk, Münster 1935 (Reformationsgeschichtliche Studien und Texte, 64/65), pp. 108-111; E. MÜNTZ, La Bibliothèque Vaticane au XVIe siècle, Paris 1886 (réimpr. Amsterdam 1970), p. 91; DEVREESSE, Pour l’histoire cit., p. 328 e ID., Le fonds grec cit., pp. 313-314, 360-361; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., p. 44, e ora P. PETITMENGIN, I manoscritti latini della Vaticana. Uso, acquisizioni, classificazioni, in La Biblioteca Vaticana tra Riforma cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio (1535-1590), a cura di M. CERESA, Città del Vaticano 2012 (Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, II), pp. 43-90, segnatamente pp. 47-49 e C. M. GRAFINGER, Servizi al pubblico e personale, in La Biblioteca Vaticana tra Riforma cattolica cit., pp. 217-236, segnatamente pp. 219-220. Si veda anche CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 366-367. 43 Barb. gr. 42, f. 80r. Mercati rimandava a G. PASQUALI, Prolegomena ad Procli commentarium in Cratylum, in Studi italiani di Filologia classica 14 (1906), pp. 127-152, segnatamente p. 143, precisando di non aver potuto trovare la nota, sulla base della quale Pasquali affermava che il libro fu donato da Nicolas-Claude Fabri de Peiresc a Luca Holstein. 44 I Vat. lat. 3454-3554 provengono dalla biblioteca di Carafa, come attestano BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., p. 82; A. MANFREDI, Vaticani latini, in Guida ai fondi cit., I, pp. 623-640, segnatamente pp. 624, 626; e G. CARDINALI, Un acquisto «poco giuditioso» del cardinale Antonio Carafa: il Gregorio Nazianzeno commentato da Elia di Creta Vat. gr. 1219, in α μη. Rivista di ricerche bizantinistiche 10 (2013), pp. 303-318.
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vetano45, e alla mediazione del cardinale Antoine Perrenot de Granvelle46. L’attività di traduttore dal greco di testi patristici non dovette limitarsi a Gregorio di Nazianzo, stando all’attestazione di Giosia Simler: «Constantius malphitanus, Cilenti abbas, vertit Basilii opuscula quaedam»47 e a quella dello storico dell’Ordine Olivetano: «Habeo quidem summum fuisse theologum et linguae grecae ac latinae peritissimum ut ex illa in hanc diligentissime transtulerit multa opera SS. Gregorii Nazianzeni, et Jo. Chrysostomi48». Le ultime due notizie che Mercati era riuscito a raccogliere sono costituite da due lettere, la prima di Flaminio Filonardi49, segretario di Carafa, a Sebastiano e la seconda di Sebastiano a Guglielmo Sirleto. La prima data al 28 febbraio 156450, mentre la seconda risale al 29 settembre 1565 e vede l’Olivetano rivolgersi da Napoli al cardinale per ringraziarlo dell’intercessione promessa presso il cardinale di San Clemente nostro protettore (G. B. Cicada)51. La bibliografia legata all’ordine religioso e alle origini napoletane non apporta nulla di più a quanto fin raccolto52. Così come anche il Chig. A.VII.204, che contiene il commentario alla Lettera ai Romani del napoleta45 Materiale inedito riguardante questa carica di Carafa si trova nelle lettere da lui ricevute da parte del generale, del visitatore Giovan Battista Romano, di abati e monaci dell’ordine, raccolte nei Barb. lat. 5734 e 5735. 46 The Plantin Press (1555-1589). A Bibliography of the Works printed and published by Christopher Plantin at Antwerp and Leiden, by L. VOET, III: G-L, Amsterdam 1981, pp. 10351036. Sulle vicende che portarono a questa edizione si veda la Correspondance de Christophe Plantin, publiée par M. ROOSES, II, Antwerpen 1885, pp. 102-105, 110, 112-113, 116-117, 139140 e 160-161, che, tuttavia, non apporta alcun supplemento di informazioni su Sebastiano. 47 EPITOME / Bibliothecae Conradi Gesneri, […] / TIGVRI APVD CHRISTOPHORVM / FROSCHOVERVM, MENSE MARTIO, / ANNO M. D. LV., p. 38. 48 HISTORIAE / OLIVETANAE / Auctore / D. SECVNDO LANCELLOTTO / Perusino Abbate Olivetano. / LIBRI DVO. / […] / DE LICENTIA SVPERIORVM. / Ex Typographia Gueriliana. 1623, I, p. 98. 49 Sullo scriptor latinus Filonardi si veda almeno BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., pp. 66 nt. 108 e 289. 50 Vat. lat. 6805, 312v. 51 Vat. lat. 6189, f. 251r. 52 Da HISTORIAE / OLIVETANAE cit., I, p. 98 dipende la Biblioteca Napoletana, et apparato a gli hvomini illvstri in lettere di Napoli e del Regno di Nicolò Toppi (1678), p. 68; da questa e dalla prima trae notizie Giovan Battista Tafuri per la sua Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli III. I, p. 413 e da questo Matteo Camera per la sua Istoria della città e costiera d’Amalfi (1836), p. 265. Che Mercati fosse sostanzialmente deluso dai risultati della ricerca biobibliografica su Costanzo Sebastiano lo dimostra quando, affrontando la vicenda delle collazioni del codice B, liquida così questo capitolo della sua ricostruzione, passando a quello dedicato a Basilio Zanchi: «Lascio qui da parte Sebastiano Costanzo da Amalfi, dal momento che ignoriamo a chi consti esser stata data in prestito la nostra Bibbia attorno agli anni 15401544, se poi la abbia usata negli scritti» (Carte Mercati 123, s.i.p.).
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no Girolamo Seripando O.E.S.A.53, dedicata a Sebastiano. Dalla dedicatoria non emergono dati biografici ulteriori, se non la traccia di una antica amicizia e di una grande stima tra i due54. Quel che è certo è che il codice venne restituito da Sebastiano prima dell’aprile del 1546, al massimo nel mese di marzo — ma Mercati crede molto prima — dal momento che una lettera di Sirleto a Marcello Cervini ne attesta la presenza a quell’epoca in Vaticana. Il Vat. gr. 1209 fu, dunque, fuori dalla Biblioteca in un arco di tempo massimo di cinque anni, che andrà probabilmente ristretto al triennio 1540-1543, come si vedrà nel paragrafo seguente. Si tratta di un periodo in cui si registra una certa facilità da parte dei responsabili della Vaticana a concedere prestiti all’esterno. Sebbene questa sia stata una pratica della Biblioteca sin dalla sua fondazione55, tuttavia l’epoca di Steuco fu caratterizzata da una notevole liberalità nella cessione dei codici56, alla quale si reagirà poco dopo, sospendendola drasticamente57. Rispetto a Barbaro, il monaco Sebastiano è un grecista e un patrologo più competente e raffinato; il fatto che sia lui ad aver prelevato il Vat. gr. 1209 rappresenta forse un primo indizio della consapevolezza del valore e dell’antichità del codice biblico, che si è già registrata proprio in quegli anni a partire dallo studio degli inventari vaticani58. Gli anni Quaranta del Cinquecento, o meglio il pontificato di Paolo III Farnese, registrano l’emergere della consapevolezza del pregio di B rispetto agli altri testimoni 53 Per una bibliografia minima su Seripando si vedano M. CASSESE, L’epistolario di Girolamo Seripando nella Biblioteca Nazionale di Napoli, in Campania Sacra 23 (1992), pp. 47-72 e il volume Geronimo Seripando e la chiesa del suo tempo nel V centenario della nascita. Atti del convegno di Salerno, 14-16 ottobre 1994, a cura di A. CESTARO, Roma 1997 (Thesaurus Ecclesiarum Italiae recentioris aevi, 12.8). 54 Chig. A.VII.204, f. 101v: «Has non eo ad te mitto, Sebastiane, quo illis te indigere existimem, sed ut nostrae inveteratae iam in Christo coniunctionis atque amicitiae monumentum extaret aliquod. Idque ex magni illius et sancti viri Reginaldi (scil. Pole) doctrina te potissimum auctore et monitore a me elaboratum. Sunt autem christianae vitae quae sequuntur leges hae, ex Pauli de moribus philosophia fideliter, nisi me fallit animus, simpliciterque descriptae, quarum apertam ac dilucidam explanationem, siquis eam fortasse requireret, in commentario reposui». 55 Si veda, oltre a I due primi registri cit., pp. IX-XI, da ultimo A. MANFREDI, La nascita della Vaticana in età umanistica da Niccolò V a Sisto IV, in Le origini della Biblioteca Vaticana cit., pp. 147-236, segnatamente pp. 212-213. 56 Su Steuco e la sua gestione della biblioteca rimando da ultimo a P. PETITMENGIN, I manoscritti latini della Vaticana cit., pp. 47-49; e a CARDINALI, Le vicende vaticane cit., p. 367 e nt. 140. 57 MANFREDI, La nascita della Vaticana cit., p. 213 e GRAFINGER, Servizi al pubblico cit., pp. 220-222. 58 Si veda CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 373-374.
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biblici conservati in Vaticana, che inizia ad attirare l’attenzione di studiosi consapevoli e qualificati. 3. Il prestito a Basilio Zanchi (ante 1546) Il terzo prestito del Vat. gr. 1209 non ha lasciato traccia nei registri, ormai dismessi, ma è provato da una lettera scritta di Roma alli 3 di Marcio del 1546 da Guglielmo Sirleto al reverendissimo monsignor Santa Croce legato in Trento padrone osservandissimo, ossia al cardinale Marcello Cervini59. La lettera, presentata già da Vercellone60 e da Pierre Batiffol61, inizia con queste parole: Reverendissimo monsignor mio molto osservando, per la mia de XXXI del passato ho scritto a Vostra Signoria Reverendissima un’autorità che San Paolo allega nel 62 adorent primo capitolo ad Hebraeos πρ ν αν π ν ς γγ λ ι eum omnes angeli Dei, la quale è, nella Bibia greca, nel Deuteronomio ad cap. XXXII, ma nelle tradotioni chi se dicono essere ex hebraeo non vi è niente63.
La lettera prosegue e Sirleto precisa: In la lettera passata ho detto che questo loco era corrotto in la stampa, adesso me ritratto et dico che in la stampa nel sopradetto capitolo del Deuteronomio è quel πρ ν αν / π ν ς γγ λ ι , ma quel altro manca, né accade corregere quelle parole chi havevo io corretto nella mia d’innanci, perché in quello esemplare che è nella libraria di Nostro Signore scritto in lettere maiuscule, il quale un tempo haveva don Basilio ve son le precise parole che allega San Paolo φρ ν ν λα α et la tradottione che tene la Santa Madre Chiesa lege laetamini gentes cum plebe eius64.
L’esemplare biblico «scritto in lettere maiuscule» va senza dubbio identificato nel Vat. gr. 1209, come conferma anche il fatto che quasi con queste stesse parole il codice è indicato negli inventari vaticani coevi65. A integrazione di questa scarna informazione si aggiunge un’altra lette-
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Vat. lat. 6177, ff. 102r-103r. cit., p. VII nt. 1. 61 P. BATTIFOL, La Vaticane de Paul III à Paul V d’après des documents nouveaux, Paris 1890, pp. 85-86. 62 Ebr 1, 6b. 63 Vat. lat. 6177, f. 102r. 64 Vat. lat. 6177, ff. 102 r-v. 65 CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 371-372. 60
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ra di Sirleto a Cervini, datata di Roma alli 12 di maggio del 154666. Sirleto scriveva a Trento a proposito di un problema di filologia biblica: Quella Bibia scritta in lettere maiuscule che è in libraria di Nostro Signore con67 la quale io et don Basilio una volta riscontravamo la stampata, legge in quel modo che lege la nostra latina, dico l’antiqua, perché queste altre traduttioni moderne hanno quisquis irascitur fratri suo temere68, obnoxius erit iudicio, quasi liceat homini christiano quacumque ex caussa irasci, qui iussus est bonum pro malo reddere, non malo resistere, pro inimico orare, maledicentibus benedicere et reliqua69.
Per ben due volte, dunque, nella primavera del 1546 Sirleto attesta che il codice era stato nelle mani di un don Basilio, che l’aveva preso in prestito e che, insieme a lui stesso, l’aveva collazionato con un’edizione a stampa. Il don Basilio citato nelle due lettere va identificato con Basilio Zanchi da Bergamo (1501-1558)70, un umanista dal profilo ancora oggi assai labile, che, rispetto ai tempi di Mercati, non ha attirato alcuna ricerca né complessiva né parziale che ne definisse la figura71. Dal punto di vista culturale, Zanchi, dopo un esordio da classicista, scese a Roma, entrando nei circoli eruditi dell’Urbe e anche a Napoli nell’Accademia Pontaniana, dove fu registrato col nome di Lucius Petreius Zanchius72. Qui attese a studi più prossimi alla filologia biblica e di interesse teologico, pubblicando il De modo interpretandi Sacram Scripturam e le Quaestiones in libros IV Regum et in Paralipomenon, senza tuttavia abbandonare l’ambito della classicità pagana, come attesta la Latinorum verborum ex variis auctoribus Epitome. Dal punto di vista personale, la sua vicenda fu assai più complessa, essendo entrato alla fine del 1524 tra i Canonici Regolari Lateranensi as-
66 Vat. lat. 6177, ff. 88r-89r, edita da Vercellone in cit., p. VII, nt. 1 e citata da H. HÖPFL, Kardinal Wilhelm Sirlets Annotationen zum Neuen Testament. Eine Verteidigung der Vulgata gegen Valla und Erasmus, Freiburg im Breisgau 1908 (Biblische Studien XIII, 2), p. 37 nt. 4. 67 Corretto su un precedente da. 68 Segue reus, poi espunto. 69 Vat. lat. 6177, f. 88r-v. 70 Si veda Biografia di Basilio Zanchi canonico regolare Lateranense, Roma 1841 (estratta dall’Album distrib. 40 anno VIII); P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini. Contributions à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887, ad indicem. 71 In questa sede, mi limiterò a presentare gli elementi biografici e bibliografici circa la figura di Basilio Zanchi più rilevanti al fine di questa ricerca, rinviando a un’altra sede un approfondimento monografico che vado elaborando da tempo. 72 Si veda C. MINIERI RICCIO, Biografie degli accademici alfonsini, detti poi pontaniani dal 1442 al 1543, [Napoli 1881], pp. 191-197.
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sieme a due dei suoi fratelli, Giovanni Crisostomo73 e Dionigi, emettendo nel 1525 la sua professione solenne perpetua, ma decidendo, nei primi anni Quaranta (certamente entro il 154374), di lasciare l’ordine religioso e di vestire «come gli huomini». Un passaggio che, se fu arduo e segnò una nuova fase nella sua vita, non gli alienò tutte le simpatie: Sirleto confermava a Cervini che egli «in verità, con tutto che sia fuor del monasterio, vive honestamente»75 e papa Giulio III Ciocchi del Monte nel 1550 lo volle in Vaticana come custode soprannumerario a vita76. È a questo «don Basilio della Pace»77, indicato con il nome della Chiesa e del convento romano dei Chierici Regolari Lateranensi (Santa Maria della Pace), dunque, che Mercati attribuisce lo studio78 e la prima collazione sistematica di B, che dovette essere compiuta, verosimilmente, non nelle sale della Vaticana, ma piuttosto presso il religioso, in un periodo massimo di sei anni, come si può evincere dalle lettere di Sirleto. Siccome questi ricorda di aver assistito Zanchi, il loro lavoro comune sarà da circoscrivere a dopo il 1540 (quando il codice fu restituito da Sebastiano e Sirleto si trovava da poco a Roma, dove era giunto alla fine del
73 Giovanni Crisostomo Zanchi fu autore di un De origine Orobiorum sive Cenomanorum, uscito a Venezia nel 1531 con dedica a Pietro Bembo, di un panegirico per Carlo V e di un incompiuto lessico biblico trilingue (ebraico, greco e latino), come attesta GENERALIS TOTIVS / SACRI ORDINIS / CLERICORVM CANONICORVM / HISTORIA TRIPARTITA. / […] / GABRIELE PENNOTTO / NOVARIENSE EX CONGREGATIONE LATERANEN. / S. Iuliani apud Spoletum Abbate, ac Theologo Auctore. / […] / ROMAE Ex Typographia Camerae Apostolicae. M. D. CXXIIII. / CVM LICENTIA SVPERIORVM, ET PRIVILEGIIS, pp. 792-793. 74 Lettera di Carlo Gualteruzzi a Giovanni Della Casa del 12 novembre 1547, in Corrispondenza Giovanni Della Casa-Carlo Gualteruzzi (1525-1549), a cura di O. MORONI, Città del Vaticano 1986 (Studi e testi, 308), p. 426. 75 Lettera di Sirleto a Cervini da Roma 25 novembre 1545, in Vat. lat. 6177, f. 184r, citata da R. DE MAIO, La Biblioteca Apostolica Vaticana sotto Paolo IV e Pio IV (1555-1565), in Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. card. Albareda a Bibliotheca Apostolica edita, I, Città del Vaticano 1962 (Studi e testi, 219), pp. 265-313, segnatamente p. 285 nt. 5. 76 DE MAIO, La Biblioteca Apostolica Vaticana cit., pp. 285-286; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., p. 61 nt. 61; GRAFINGER, Servizi al pubblico cit., pp. 222-225. Occorre ricordare che due anni prima (1548), Zanchi aveva brigato, senza riuscirvi, per ottenere il posto di Steuco a capo della biblioteca pontificia, come racconta P. PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima del cardinalato, in ID., Tre ricerche sulla storia della Chiesa nel Cinquecento, Roma 1945, pp. 155-281, segnatamente pp. 191-192. 77 A dimostrazione che la chiesa romana dei Canonici Regolari Lateranensi fosse quella della Pace, Mercati rinviava a una lettera di Steuco edita in STEPHANI BALUZII / TUTELENSIS / MISCELLANEA / NOVO ORDINE DIGESTA / ET NON PAUCIS INEDITIS MONUMENTIS / […] / OPERA AC STUDIO / J. D. MANSI ARCHIEPISCOPI LUCENSIS. / Tomus IV & Ultimus. / […] / LUCAE MDCCLXIV. / Apud VINCENTIUM JUNCTINIUM. / SUPERIORUM PERMISSU. / SUMPTIBUS JOANNIS RICCOMINI, p. 144. 78 HÖPFL, Kardinal Wilhelm Sirlets cit., p. 37.
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153979) e a prima del 1546 (quando Sirleto scrive a Cervini di aver lavorato «una volta» (olim) alla collazione di B con Zanchi)80. Tra le opere a carattere filologico, biblico e teologico edite da Zanchi non si trova traccia esplicita della consultazione e della collazione del Vat. gr. 1209. Mancano riferimenti sia nella dedicatoria delle In omnes divinos libros notationes81 al vescovo spagnolo Antonio Agustín sia nella prefatoria dell’epistola De christiana philosophia82. Mercati riteneva che i risultati del lavoro di collazione dell’Antico Testamento si trovassero, invece, sull’esemplare della Bibbia greco-latina in 8°, stampata Argentorati nel 152683, appartenuta a Guglielmo Sirleto84. Di qui le lezioni sarebbero state trascritte anche da altri studiosi ed eruditi suoi 79 Si veda l’attestazione autobiografica in una lettera del 23 giugno 1565 (Vat. lat. 6186, f. 20): «Io son stato in Roma horamai XXVI anni», cui è da appaiare quella del padre, inviatagli il 28 novembre 1539 ancora all’indirizzo napoletano (Vat. lat. 6189, f. 2r, citata da PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., p. 157), mentre, per il contesto in cui si inserì, si può vedere, oltre al citato PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., pp. 164-186, anche S. LUCÀ, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, in La Biblioteca Vaticana tra Riforma cattolica cit., pp. 145-188, segnatamente pp. 146-149. 80 In seguito, nel settembre 1549, Sirleto e Zanchi esaminarono anche la Bibbia latina di San Paolo fuori le Mura come appare da una lettera del primo a Cervini del 28 settembre 1549 (Vat. lat. 6177, f. 164r), edita da VERCELLONE, Dissertazioni accademiche cit., p. 89 e ripresa da HÖPFL, Kardinal Wilhelm Sirlets cit., p. 21 nt. 4: «Sono stato questi dì insieme con messer Basilio et messer Giovanni in San Paolo per vedere quella Bibbia qual se dice che sia stata scritta nel tempo di Carlomagno». Aggiungo a questa altre tracce del lavoro congiunto di Sirleto e Zanchi, ricavabili dall’epistolario del primo: il 23 febbraio 1547 Cervini chiedeva a Sirleto (Vat. lat. 6178, f. 148r, edito da CONCILII TRIDENTINI / EPISTULARIUM / PARS PRIMA / COMPLECTENS EPISTULAS / A DIE 5 MARTII 1545 / AD CONCILII TRANSLATIONEM 11 MARTII 1547 / SCRIPTAS / COLLEGIT EDIDIT ILLUSTRAVIT / GODOFREDUS BUSCHBELL / FRIBURGI BRISGOVIAE / B. HERDER / TYPOGRAPHUS EDITOR PONTIFICIUS / MCMXVI, p. 954, e PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., p. 186): «Mi sarebbe caro intendere quel che si trova scritto in dottori antichi circa l’uso della comunione sub altera specie tantum. E però vi prego che tra voi, don Basilio [Zanchi] e qualche altro vostro amico, vogliate raccorre i luoghi che in questa materia vi saranno occorsi o occorreranno»; mentre il 27 giugno 1551 Sirleto informava il suo protettore (Vat. lat. 6178, f. 1r, PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., p. 195) sugli studi da lui compiuti insieme a Zanchi. 81 BASILII ZANCHII / IN OMNES DIVINOS LIBROS / NOTATIONES. / […] / EIVSDEM IN IIII. REGVM, / ET II. PARALIPOMENON / LIBROS QVAESTIONES. / […] / ROMAE APVD ANTONIVM BLADVM. / M. D. LIII. MENSE / IVNIO. 82 BASILII ZANCHII / DE CHRISTIANA PHILOSOPHIA / EPISTOLA. / Romae apud Valerium, & Loisium fratres Doricos: / Mense Ianuario M. D. LII. 83 I Divinae Scripturae veteris novaeque omnia apparvero a Strasburgo, apud Vuolphium Cephal, nel 1524-1526. Si veda La Bibbia: edizioni del XVI secolo cit., pp. 15-16 con bibliografia. 84 Nel catalogo degli stampati appartenuti a Sirleto conservato nel Vat. lat. 6163, tuttavia, non risulta censita nessuna copia di questa edizione. Non ho trovata traccia di un esemplare appartenuto a Sirleto nemmeno nelle varie collezioni vaticane.
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contemporanei nei loro esemplari biblici personali; tra i quali egli ricordava Latino Latini, André Maes e Aquiles Estaço. Quanto ai primi due fa fede la testimonianza di Latini che scrisse a Maes nell’ottobre 1561, rivelandogli che le lezioni del testo biblico in suo possesso venivano da un codex Sirletianus, ossia dall’esemplare biblico a stampa del 1526, su cui erano stati posti i risultati della collazione di Zanchi85. Estaço, invece, fece trascrivere la collazione «ex libro Basilii Zanchi» sul suo esemplare della Bibbia greca edita a Basilea da Hervagius nel 1545, ora conservato in Biblioteca Vallicelliana insieme a tutti gli stampati dell’erudito portoghese (S.Borr.P.II.8)86. Qui al f. IIv si legge: Quae in hoc libro manu addita, descripta sunt ab Emanuele graeco scriptore Vaticanae Bibliothecae ex libro Basilii Zanchi rogatu Remigii medici cardinalis Farnesii87.
Già Mercati si chiedeva, senza sentirsi in grado di dare risposta affermativa, se Zanchi mirasse a una nuova edizione della Bibbia o a produrre una raccolta di lezioni da pubblicare a stampa, e se avesse portato a termine o meno il suo lavoro. Quel che è certo è che da questa collazione Zanchi sembra aver concepito la più grande opinione circa l’affidabilità del codice B, almeno quanto al Vecchio Testamento, secondo la testimonianza coeva di Johann Albert Widmanstad88: 85 Si veda la lettera di Latini a Maes del 3 dicembre 1560, in LATINI LATINII / VITERBIENSIS / Epistolae, Coniecturae, & Observationes / Sacra, Profanaque Eruditione Ornatae. / Ex Bibliotheca Cathedralis Ecclesiae / Viterbiensis. / A DOMINICO MAGRO MELITENSI / Eiusdem Ecc. Canonico Theologo. / […] / TOMUS SECUNDUS. / […] / VITERBII, ex Typographia Brancatia, / apud Petrum Martinellum. M.DC.LXVII. / SUPERIORUM PERMISSU, p. 80. Dallo stesso repertorio si leggano le lettere di Latini alle pp. 87 (citata da PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., pp. 210-211) e, soprattutto, 96-97 (PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., p. 211): «Sirletus valet utcumque notasque illas a librario adscriptas HES. Hesichium, H. Hieronymum significare respondit. Quae tamen non ex varietate Vaticani Codicis, sed ex Basilii Zanchi diligentia observata, librarius, ne quid praetermisisse videretur, ex Sirletiano codice in meum transtulit». 86 Si veda la descrizione del volume in I libri di Achille Stazio alle origini della Biblioteca Vallicelliana, a cura di M. T. ROSA CORSINI, Roma 1995, p. 27 n. 23. Ne aveva fatto menzione HÖPFL, Kardinal Wilhelm Sirlets cit., pp. 40-41 nt. 3. 87 Si veda anche quanto Estaço annotò sul suo esemplare Complutense del Nuovo Testamento (Biblioteca Vallicelliana, Ms.A. 1II*), f. IVv: «Vid … annota … Basilii Zanchi in … in Biblis graecis in chartaceis libris excusis». Si veda la descrizione del volume in I libri di Achille Stazio cit., pp. 94-95 n. 162. 88 Liber sacrosancti Evangelii de Iesu Christo Domino et Deo nostro, Reliqua hoc codice compehensa pagina proxima indicabit. Colophon: Viennae Austriae excudebat Michael Zymmerman ANNO M D LXII, s. i. p.
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Ex quo factum est ut singulari praerogativa divinae voluntatis a Iudaeorum scriptoribus Thargumicus, hoc est, interpretatorius ubique nominetur atque id optimo iure: quandoquidem de Christo Rege nulla Testamenti Veteris librorum interpretatio, sive Graeca LXX interpretum (quae, si usquam, certe in Vaticana bibliotheca aureis89 maioribusque litteris scripta, Basilii Zanchi doctissimi viri iudicio, cui ego certis de causis facile assentior, adhuc extat), sive Arabica Sahadiae Gaonis …
Come si è visto, il compagno di lavoro di Zanchi nelle collazioni di B era Guglielmo Sirleto, che assisteva da Roma il cardinale Cervini, legato a Trento, e andava conducendo numerosi e significativi lavori in ambito biblico. La sua disamina del Vat. gr. 1209 va, infatti, inserita in un contesto più ampio e complesso. Sirleto, da un lato, veniva stipendiato come «deputato a tradurre di greco in latino» per il Concilio di Trento90, mentre, dall’altro, sappiamo che lavorava a tradurre una Catena greca al profeta Isaia e molti altri Padri greci91. Non solo, ma la collazione biblica si colloca immediatamente prima del 1546, quando Sirleto, dopo aver rifiutato una cattedra di greco a Perugia (1545) e il servizio presso Ranuccio Farnese, si dichiara ormai dedito esclusivamente allo studio della Scrittura92. Inoltre, questo lavoro di collazione corrispondeva esattamente alla necessità che egli stesso aveva suggerito a Cervini: Dare il carico a persone dotte in tutte tre le lingue che rivedessero la Bibbia ebrea, greca e latina, e le conferissero insieme co’ esemplari antiqui e ne facessero una, la quale fosse conforme alla Santa Madre Chiesa e Santi Padri, e dove nell’ebreo fosse de più, che l’aggiungessero, ed anche avessero boni esemplari greci antichi, perché ve ne son molte scorrezioni così nel greco come nel latino93.
A monte di questo invito stava la convinzione che Sirleto aveva maturato in anni di studio del testo biblico e dei più antichi e celebri Padri greci, che nella Bibbia «molto è stato tolto, aggiunto e modificato al tempo degli eretici94» e che, dunque, il testo tràdito va esaminato con cautela e colla89 Mercati ritiene che l’«aureis» sia refuso di Widmanstad — e non di Zanchi —, che ha confuso il Vat. gr. 1209 con uno dei codici della regina di Cipro che gli erano allora attigui (Vat. gr. 1158 e 1208); cfr. CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 373-374. 90 La ricompensa di 4 ducati d’oro mensili fu percepita dal marzo 1545, secondo quanto edito da PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., p. 167. 91 Si veda PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., pp. 170-173. 92 Si veda PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., pp. 170-172. 93 Vat. lat. 6177, f. 47v, citato da PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., p. 182. 94 Così Latino Latini scriveva nel 1560 ad Andrea Maes, che gli aveva richiesto una copia delle varianti di B collazionate da Niccolò Maiorano, incontrando il rifiuto di Sirleto, che
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zionato nel modo più scrupoloso, al fine di recuperare una versione la più pura possibile95. Da questa convinzione e dall’invito a Cervini che Sirleto ne fece, e poi ufficialmente dalle risoluzioni del Tridentino, l’erudito calabrese iniziò a rendere più sistematica la raccolta di varianti ed emendationes96, fino a intraprendere una vera e propria correzione del testo del Nuovo Testamento, per cui risulta ufficialmente retribuito dalla Cura pontificia97. Il carteggio dell’editore di Anversa Christophe Plantin, in ultimo, permette di ricostruire i lavori di filologia biblica che continuarono ad occupare Sirleto ben oltre la metà del secolo e che saranno parzialmente editi nella celebre Bibbia di Anversa o Biblia Regia, stampata da Plantin, ma curata, per mandato di Filippo II, dal celebre erudito spagnolo Benito Arias Montano98. *
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Va, infine, notato, per inciso, che, dopo aver esposto le vicende dei prestiti di B ai due religiosi, Sebastiano e Zanchi, Mercati tornava sul dato, già constatato nella prima sezione del suo studio, ossia l’assenza di ogni menzione del codice nell’inventario redatto nel settembre del 1545 da Jean Matal, da lui consultato nella copia contenuta nel Vat. lat. 7132, ff. 1r-23v99. Il duplice prestito poteva ben parergli motivo sufficiente per spiegare una simile lacuna100. sulla base del confronto coi Padri antichi riteneva che il testo biblico andasse tutto riesaminato con cautela (PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., pp. 210-211). 95 Sulle opinioni di Sirleto quanto al testo greco della Bibbia e ai testimoni manoscritti si veda P. PASCHINI, Guglielmo Sirleto e il Decreto tridentino sull’edizione critica della Bibbia, Lecco 1935. 96 PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., p. 183. 97 Il mandato di Cervini si trova nel Vat. lat. 3965, f. 48r, già citato da PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., pp. 195-196: «A messer Guglielmo Sirleto scudi cinquanta d’oro, quali Nostro Signore li dona per mancia et per la fatica che esso messer Guglielmo ha durata già sei anni in correggere tutto il Testamento novo secondo i decreti del concilio Tridentino, di Palazzo il dì 14 di Gennaro 1554». Questa attività, intrapresa nel 1546 e poi, stabilmente, dal 1549, è documentata in PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., pp. 196-197. Nei Vat. lat. 61326143 si trovano le adnotationes, incomplete, di Sirleto. 98 Della Correspondance de Christophe Plantin, si vedano i volumi II (publiée par M. ROOSES, Antwerpen-‘S Gravenhage, 1885), pp. 104, 139, 193, 201, 278, 300-301; III (par M. ROOSES, Antwerpen-‘S Gravenhage, 1911), pp. 97-98, 99-100, 165; IV (par J. DENUCÉ, Antwerpen-‘S Gravenhage, 1914), pp. 257-260; V (par J. DENUCÉ, Antwerpen-‘S Gravenhage, 1915), pp. 33-37, 96-97, 106-107, 130-131; e VI (par J. DENUCÉ, Antwerpen-‘S Gravenhage, 1916), pp. 243-244. 99 Si veda il testo originale di Mercati, aggiunto in appendice a questo studio, infra, p. 226. 100 Si veda CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 368-369.
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Per parte nostra, possiamo aggiungere — quanto alla storia del codice — che queste due collazioni furono, e soprattutto quella di Zanchi, il primo sforzo compiuto consapevolmente per conoscere la portata filologica di B, rimasta ignota sia ad Erasmo che agli editori della Complutense. Prima dell’indagine compiuta da Zanchi in particolare non è finora emersa altra traccia di studio sistematico. Si tratta, del resto, di un dato che si integra perfettamente con il cammino di sviluppo della filologia biblica moderna, che dopo i primissimi e isolati passi del Valla, vedeva proprio in quegli anni, dopo Erasmo e la Complutense, la sua iniziale consistente fioritura101. 4. Il prestito al cardinal Antonio Carafa (1578-1586 ca.) Il Vat. gr. 1209 venne estratto dalla sua collocazione abituale per essere dato in prestito, per la quarta volta, sul finire degli anni Settanta del XVI secolo, ossia una trentina di anni dopo esser stato tra le mani di Zanchi. L’attestazione è contenuta nel tomo 26 (olim M) del fondo Archivio della Biblioteca, intitolato «Licenze di estrarre, e di copiare codici, t. I.», dove al f. 50v si trova il libello indirizzato: «Alla Santità di Nostro Signore per il Cardinale Carafa». Al f. 38r si legge: Beatissimo Padre. Per accomodare la Bibbia greca delli settanta interpreti, ch’ha commandato Vostra Santità che se stampi, sarà necessario, che commandi con polliza sotto scritta di suo pugno à messer Federico e suo fratello custodi della sua libraria vaticana, che mi diano la Bibbia greca scritta à mano di lettere maiuscole, e gl’infrascritti libri, et altri di dottori sacri sopra la scrittura, che Monsignor Illustrissimo Sirleto Bebliotecario (sic) giudicarà necessarii alla giornata per la speditione di detto negotio: e ne pigli quietanza102. Grisostomo sopra il Genesi. Glafira di Cerillo. La Catena del Genesi.
Greci
Humilissima creatura e devotissimo servitore, Antonio cardinal Carafa.
Il cardinale Antonio Carafa (1538-1591)103 inoltrò questa supplica a 101
L. D. REYNOLDS – N. G. WILSON, Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall’Antichità ai tempi moderni, Padova 19873, pp. 164-166. 102 e ne pigli quietanza aggiunto dal papa stesso. 103 Sul cardinale Antonio Carafa si consultino M. G. CRUCIANI TRONCARELLI, Carafa, Antonio, in Dizionario biografico degli Italiani, XIX, Roma 1976, pp. 482-485; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., p. 70 e CARDINALI, Un acquisto «poco giuditioso» cit., pp. 307-309.
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papa Gregorio XIII Boncompagni104, per ottenere quattro volumi in prestito dalla Vaticana e così avviare il progetto di edizione a stampa della Bibbia greca, che tuttavia, alla fine, portò all’edizione del solo Antico Testamento. In ottemperanza allo spirito e ai dettami del Concilio di Trento e dietro il consiglio di alcuni prelati, il colto papa Boncompagni aveva, infatti, deciso che fosse stabilito e pubblicato il testo biblico nella sua redazione greca105. A far luce su questa decisione, si può leggere anche il libello, non citato da Mercati, contenuto nel Vat. lat. 5668, dovuto alla penna di Pietro Galesini106 e da lui dedicato al cardinale Alessandro Damasceni Peretti107, nipote di Sisto V108. Vi si ricorda come ebbe un ruolo importante nel suggerire la necessità di questa edizione proprio il cardinale Felice Peretti, che poi sarebbe stato eletto col nome di Sisto V e avrebbe portato a termine l’edizione109. L’idea nasceva dall’opera di edizione che Peretti stava conducendo sugli scritti di Sant’Ambrogio110, che gli era stata affidata da Pio IV Medici e poi confermata da Pio V Ghislieri. Presentata a papa Gregorio, la richiesta di Peretti risultò convincente e ne ottenne il sostegno. È da 104
Su Gregorio XIII si veda almeno A. BORROMEO, Gregorio XIII, in Enciclopedia dei papi, III: Innocenzo VIII – Giovanni Paolo II, Roma 2000, pp. 180-202 con ampia bibliografia. 105 Si veda almeno La Bibbia. Edizioni del XVI secolo cit., pp. 110-111 con bibliografia. 106 Questo il frontespizio: «DE BIBLIIS GRAECIS / Interpretum LXXII / SIXTO QVINTO PONT. OPT. MAX. AVC. / editis / Commentarius brevis, ac dilucidus / a P. Galesinio Prot. AP. / scriptus / ad Ill.mum et R.mum D. / D. ALEXANDRVM PERETTVM / CARDINALEM MONTALTVM». Il testo fu poi edito a stampa nel 1587: DE BIBLIIS GRAECIS / Interpretum LXXII. / SIXTO V PONT. OPT. MAX. AVCTORE / editis / Commentarius brevis, ac dilucidus / a P. Galesinio Prot. Ap. / scriptus / […] / ROMAE, Ex Typographia Bartholomaei Grassij. 1587. 107 Vat. lat. 5668, f. 1r: «Ill.mo et R.mo D. / D. Alexandro Peretto / S. R. E. / Cardinali amplissimo, et optimo / P. Galesinius, Proton. Ap. / S. D.» 108 Su questo papa si veda, da ultimo, S. GIORDANO, Sisto V, in Enciclopedia dei papi cit., pp. 202-222. 109 Vat. lat. 5668, f. 43v (DE BIBLIIS GRAECIS / Interpretum cit., pp. 53-54): «Is quo tempore Cardinalis erat, ad sancti Ambrosii opera pure integreque corrigenda attentissimus et diligentissimus cum animadverteret illum tam egregium ecclesiae doctorem non modo ceteris anteponere hanc septuaginta seniorum editionem, ed ea ipsa ad omne eximiae lucubrationis studium perpetuo religioseque uti voluit sane quidem quemadmodum in ceteris solet, in eo etiam rectae perfectaeque emendationis munere quod summa cum laude praestitit publicis ecclesiae rationibus consulere, ut maxime, optimeque potuit». Una copia del breve papale di Sisto V sull’edizione della Bibbia greca dei Settanta, datato all’ottobre 1586, in Arch. Bibl. 50, ff. 83rv. 110 Vat. lat. 5668, f. 44r (DE BIBLIIS GRAECIS / Interpretum cit., p. 54): «Persuasit pontifici hoc optimus Cardinalis Montaltus, qui, eo mortuo, pontifex proxime creatus, quod apte recteque suaserat, quoniam e re publica esse vidit, quam primum, accurateque ad exitum perduci voluit». Si vedano F. COSTA, Il carteggio Peretti-Borromeo per l’edizione romana delle opere di sant’Ambrogio, 1579-1585, in Miscellanea Francescana 86 (1986), pp. 1015-1071 e GIORDANO, Sisto V cit., p. 205.
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notare che, nella narrazione di Galesini, la versione dei Settanta coincide perfettamente coll’antichissimo codice che di questo testo si conservava in Vaticana, ossia col Vat. gr. 1209111. Di fatto, pur collazionato con altri codici e con le citazioni indirette dei Padri della Chiesa (tra i quali i tre richiesti al papa insieme a B)112, ad essere edito non fu tanto il testo dei Settanta, ma quello conservato dal Vat. gr. 1209, di cui erano ormai chiare l’antichità, l’affidabilità e l’autorità113. Galesini, infatti, afferma: Haec vero pontificia, quae scilicet Sixti Quinti pontificis auctoritate in lucem prodiit, interpretatio haud equidem mista, sed pura simplexque esse videtur septuaginta illorum seniorum, aut certe ad eam proxime omnium accedit. Cuius rei argumento est primum titulus in vetustissimo bibliothecae Vaticanae exemplari, unde huius pontificiae editionis exemplum sumptum est, inscriptus non vacillantibus litteralis, sed praeclaris litteris, antiquitatem probabiliter et necessario demonstrantibus. Ea vero inscriptio cum nongentorum amplius annorum esse putetur, non est cur quisquem eam falsi nomine suspectam accuset114.
È interessante notare che il valore e l’autorità del testo del Vat. gr. 1209 erano notevolmente cresciuti negli ultimi anni del Cinquecento, ben oltre le riserve e le cautele che Sirleto stesso nutriva ed espresse circa questo testimone della tradizione manoscritta biblica. Un ventennio prima dell’edizione gregoriano-sistina della Settanta, infatti, Latino Latini trasmette un parere non troppo favorevole di Sirleto sul codice B: Sirletus utriusque amantissimus Vaticano codici minimum tribuit, qui quamquam Septuaginta interpretum opus ut esse crederetur, adscriptam diligenter in
111 Vat. lat. 5668, f. 43v (DE BIBLIIS GRAECIS / Interpretum cit., p. 54): «Itaque Gregorio XIII quo pontifice in libris tanti doctoris praeclare corrigendis versabatur auctor hortatorque pene assiduus fuit ut graeca illorum septuaginta interpretum Biblia, quae in bibliotheca Vaticana pontificia asservantur in lucem emitterentur, quam emendatissime possent». 112 Vat. lat. 5668, ff. 43v-44r (DE BIBLIIS GRAECIS / Interpretum cit., p. 54): «Idque rei christianae publicae commodo atque usui fore ostendit cum ad cetera multa, tum ad omnem sacrorum commentariorum explicationem, quorum monimenta antiqui patres nobis reliquissent». 113 Il Vat. lat. 6946, f. 358r contiene una lettera di Sirleto a Bartolomé Valverde, parzialmente edita da BATIFFOL, La Vaticane de Paul III cit., pp. 83-84, in cui si elogia il codice vaticano: «quod tam mirae vetustatis est, ut doctorum virorum iudicio preferatur omnibus quae in publicis vel privatis bibliothecis inveniuntur». Era in errore VERCELLONE, Dell’antichissimo codice cit., p. 14. 114 Vat. lat. 5668, f. 44v (DE BIBLIIS GRAECIS / Interpretum cit., p. 55). Il riferimento è alla titulatio posto in calce Geneseos (Vat. gr. 1209, f. 46), come ricorderà anche Mai nella Praefatio alla sua edizione del codice ( cit., p. XIX).
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extremo professionem habet; ille tamen ab haereticis non uno loco corruptum, non modo clamitat; sed facile etiam gravissimis auctoribus nisus probat115.
Tre mesi dopo, tuttavia, Latini scriveva di nuovo ad André Maes, puntualizzando il parere dell’erudito calabrese: Sirletus de Vaticano codice ita sentit, ut si quis alius LXX sit, is certe minus depravatus affirmari possit. Habet autem ille quoque multa passim adiecta, quae LXX non esse constat116.
Secondo Sirleto, infatti, la cosa migliore da fare era quella di collazionare il Vat. gr. 1209 con un’edizione di prestigio come la Complutense: operaepretium autem erit Complutensem editionem in consilium adhibere, quod si Graeca non suppetet, facile latinam, quae seorsum edita est, interpretationem parare poteris. Ea enim erit tibi index ad ostendendum quid quoque loco graece legatur; ita enim comparata est, ut verbum verbo, servatoque ubique ordine pulchre respondeat, ut quidem ex Sirleto et Faerno audio117.
Nel lasso di tempo di un ventennio, dunque, queste perplessità e cautele di Sirleto nei confronti di B vennero superate e integrate nel lavoro di edizione, chiedendo al papa, per mezzo di Carafa, di ottenere in prestito il codice per poterlo collazionare. La supplica di Carafa al papa, sopra trascritta, necessita di alcune precisazioni e insieme permette una serie di considerazioni a margine. Anzitutto, già Mercati notava che Carafa, pur potente e stimato cardinale, e presidente della commissione per l’edizione della Settanta, doveva ricorrere ad una supplica formale per ottenere il codice, a riprova delle nuove e più severe misure di conservazione dei manoscritti adottate a
115
La testimonianza di Latini, datata al 4 febbraio 1561, è riportata da PASCHINI, Guglielmo Sirleto prima cit., pp. 211-212, che la trae da LATINI LATINII / VITERBIENSIS / Epistolae cit., pp. 84-85. 116 La lettera del 7 maggio 1563 a Maes è edita in LATINI LATINII / VITERBIENSIS / Epistolae cit., p. 113. Sirleto raccomandava a Maes, per mezzo di Latini, di far affidamento sul testo greco della Complutense, che stimava molto, considerando che «summam enim diligentiam et fidem in re tanti momenti Hispanos adhibuisse» (16 giugno 1562, LATINI LATINII / VITERBIENSIS / Epistolae cit., p. 104) e che « … diligentissime atque optima fide observata omnia fuisse …, nec quicquam dissimulanter praetermissum, idque tibi ita exploratum multis in locis esse …, ut polliceri audeat eamdem fidem in reliquis fuisse servatam» (11 dicembre 1562, in LATINI LATINII / VITERBIENSIS / Epistolae cit., p. 108). 117 Lettera datata 27 marzo 1561, in LATINI LATINII / VITERBIENSIS / Epistolae cit., p. 88. Si veda anche il tenore della lettera precedente (LATINI LATINII / VITERBIENSIS / Epistolae cit., p. 87).
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partire dal pontificato di Paolo III, concepite e messe in atto da Cervini e Sirleto e consolidate all’epoca di Baronio118. In secondo luogo, la richiesta fu approvata dal papa mediante l’apposizione di proprio pugno, sotto le parole «La Catena», della tradizionale formula di approvazione e mandato, seguita dall’iniziale del suo nome di battesimo, Ugo: «Pl(acet) et ita mandamus. U(go)119». Questa autorizzazione papale doveva essere poi girata, sotto forma di “polizza”, ai due custodi della biblioteca pontificia: Federico e Marino Ranaldi120. Va, poi, notato che il Vat. gr. 1209 è descritto come «Bibbia greca scritta à mano di lettere maiuscole», esattamente come avveniva negli inventari coevi redatti dal personale interno121. Il documento in esame non reca una data, ma è possibile collocarlo cronologicamente sulla base di alcuni indizi. Anzitutto, l’attività congiunta in biblioteca dei due Ranaldi iniziò nel 1576. Inoltre, il fatto stesso che la richiesta riguardi il codice da editare e i manoscritti dei Padri greci concernenti la Genesi, ossia il primo libro su cui si sarebbe lavorato, facevano propendere già Mercati a datare il documento alla fine del 1578 o agli inizi del 1579, nei primissimi mesi di lavoro della commissione. Il Vat. gr. 1209, una volta estratto e consegnato a Carafa, dovette essere conservato presso di lui, dal momento che la commissione da lui presieduta non lavorava in Biblioteca né in Vaticano, ma nella residenza del 118 Mercati rimandava al suo stesso contributo: G. MERCATI, Per la storia della biblioteca apostolica, bibliotecario Cesare Baronio, in Per Cesare Baronio. Scritti vari nel terzo centenario della sua morte, Roma [1913, pp. 85, 178], poi in ID., Opere minori, III: 1907-1916, Città del Vaticano 1937 (Studi e testi, 78), pp. 201-275. 119 Mercati rinviava, sebbene inesatti, a BIBLIORUM SACRORUM / GRAECUS CODEX VATICANUS / AUSPICE / LEONE XIII PONTIFICE MAXIMO / CUM / PROLEGOMENIS, COMMENTARIIS / ET TABULIS / HENRICI CANONICI FABIANI / ET / IOSEPHI COZZA ABBATIS CRYPTAEFERRATAE / EDITUS / [stemma di Leone XIII] / ROMAE / TYPIS ET IMPENSIS S. CONGREGATIONIS DE PROPAGANDA FIDE / CURANTE EQ. FRIDERICO MELANDRI ADMIN. / ANNO MDCCCLXXXI, VI, p. XXIX e E. NESTLE, Septuagintastudien, Ulm 1886 (Programm des Kgl. Gymnasiums in Ulm zum Schlusse des Schuljahrs 1885-1886), pp. 17-18, che attribuivano il mandato papale a Sisto V, precisando che si hanno esempi della scrittura di Gregorio XIII, ex. gr., in Arch. Bibl. 26, ff. 16v, 18v, 19v, (f. 26v un autografo, invece, di Sisto V) e in Arch. Bibl. 13, ff. 332v e 334v. Aggiunge poi che l’autografia gregoriana era già stata rilevata nel secolo XVII da un custode della Vaticana, che aveva annotato al f. 50v: Greg. XIII. 120 BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., pp. 47-49, 75, 79-80: Federico fu nominato coadiutore di Fausto Sabeo il 30 giugno 1557, sebbene fosse in servizio già da quasi due anni, e poi custode l’8 novembre 1559, rimanendo in carica fino alla morte, sopraggiunta il 2 settembre 1590; Marino fu nominato coadiutore del fratello Federico il 30 giugno 1565, custode il 4 febbraio 1576 fino alla sua rinuncia nel giugno 1602 († 28 maggio 1606). Si veda anche CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 374-376. 121 CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 371-372.
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cardinale presidente. Questa fu, infatti, la prassi seguita anche per i lavori di edizione della Vulgata, come risulta dall’attestazione oculare di Angelo Rocca122: Vidi enim multa Bibliorum exemplaria manuscripta, alia aliis antiquiora, quae suis in aedibus Romae Antonius Cardinalis Carafa non sine magno labore, atque impensis coacervavit, undique iis conquisitis: nam de Bibliis Vulgatae editionis ex Decreto sacrosancti Concilii Tridentini emendandis Congregationem iam inde a Pio IV inceptam, in eiusdem Cardinalis aedibus haberi Sixtus V mandavit123.
Era nel palazzo, in cui risiedeva Carafa, che probabilmente lavorava anche colui che ebbe l’incarico di collazionare il Vat. gr. 1209, ossia dapprima il toletano Pedro Chacón (1527-1581)124 e, poi, dopo la morte di costui, Fulvio Orsini (1529-1600)125. Sisto V, infatti, aveva voluto accelerare i lavori di edizione e nominato nella commissione Pierre Morin, Antonio Agellio, Chacón e Orsini. Agli ultimi due, come si è detto, era stato affidato il compito di collazionare il Vat. gr. 1209, che costituiva la base per stabilire il testo, e confrontarlo con le lezioni degli altri esemplari fatte trascrivere e inviare a Roma, come ricorda Carafa stesso nella dedicatoria al pontefice: Quibus sane doctorum hominum, quos ad id delegeram, industria et iudicio clarae memoriae Gulielmi cardinalis Sirleti (quem propter excellentem doctrinam et multiplicem linguarum peritiam in locis obscurioribus mihi consulendum proposueram) persaepe examinatis et cum vestro Vaticanae Bibliothecae (cui me benignitas vestra nuper praefecit) exemplari diligenter collatis, intelleximus cum ex ipsa collatione tum e sacrorum veterum scriptorum consensione, Vaticanum codicem non solum vetustate, verum etiam bonitate caeteris anteire; quoque caput est ad ipsam, quam quaerebamus Sptuaginta interpretationem, si non toto libro, maiori certe ex parte, quam proxime accedere. Quod mihi cum multis aliis argumentis constaret vel ipso etiam libri titulo qui est α α πι ι ν α curavi de consilio et sententia eorum, quos supra nominavi, huius libri editionem ad Vaticanum exemplar emendandam; vel potius exemplar ipsum, quod eius valde probare-
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GIORDANO, Sisto V cit., p. 218. Vat. lat. 1591, f. 406 sq. 124 Anche su Pedro Chacón e i suoi anni romani (ca. 1570-1581) mi riservo di presentare un contributo a parte, dal quale estrapolo ed anticipo qui quanto concerne la sua attività di editore del testo biblico greco. 125 Quanto a Orsini mi limito qui a due soli rimandi bibliografici: DE NOLHAC, La bibliothèque cit., e F. MATTEINI, Orsini, Fulvio (Lucio Settimio), in Dizionario biografico degli Italiani, 79, Roma 2013, pp. 649-653 con ampia e aggiornata bibliografia. Il Reg. lat. 2023, f. 387r contiene una lettera non datata di Orsini a Carafa, che mi riservo di pubblicare nell’ambito del contributo dedicato a Chacón. 123
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tur auctoritas, de verbo ad verbum repraesentandum, accurate prius, sicubi opus fuit, recognitum et notationibus etiam auctum.
Ecco, dunque, illustrati lo scopo dell’impresa, il metodo di lavoro seguito dalla commissione e il valore attribuito al Vat. gr. 1209, ormai considerato l’esemplare più antico, illustre e autorevole del testo biblico. La consacrazione ufficiale del valore e della rinomanza del codice, tuttavia, si deve a Fulvio Orsini, che fu il redattore anonimo della prefatoria Lectori, che segue la dedicatoria di Carafa, nella quale, per la prima volta, il Vat. gr. 1209 viene presentato al grande pubblico e datato con straordinaria precisione: Sed emendationis consilio iam explicato, ipsa quoque ratio, nunc erit aperienda, in primisque vaticanus liber describendus, ad cuius praescriptum haec editio expolita est. Codex is, quantum ex forma characterum coniici potest, cum sit maioribus litteris, quas vere antiquas vocant, exaratus, ante millesimum ducentesimum annum, hoc est, ante tempora beati Hieronymi, et non infra, scriptus videtur. Ex omnibus autem libris, qui in manibus fuerunt, unus hic prae aliis, quia ex editione Septuaginta, si non toto libro, certe maiorem partem constare visus est, mirum in modum institutam emendationem adiuuit.
L’edizione fu portata a termine nel 1586 e l’8 ottobre di quell’anno Sisto V ne firmò il decreto di approvazione, mentre la stampa fu terminata presso Zanetti a Roma nel 1587126. Fino a quella data, dunque, era nel palazzo di Carafa che probabilmente si riunivano anche i correttori ed è lì che il codice fu conservato fino alla conclusione dei lavori. Dal nostro punto di vista, possiamo concludere che le vicende dei prestiti di B nel Cinquecento corrispondono di fatto ad una sua vera e propria riscoperta: ignoto ad Erasmo, fu individuato come particolarmente autorevole e valorizzato da Zanchi e Sirleto, fino ad essere posto come testimone di riferimento nell’edizione curata da Carafa, in cui ebbero un grande ruolo Chacón, Orsini e, di nuovo, Sirleto. 5. Il prestito al cardinal Roberto Bellarmino (1615) Se il prestito a Carafa fu propedeutico all’edizione dell’Antico Testamento greco, l’uscita successiva del Vat. gr. 1209 dalla Vaticana, la quinta, non ebbe alcun riscontro editoriale.
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GIORDANO, Sisto V cit., p. 218.
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La traccia del prestito si trova nel tomo 26 del fondo Archivio della Biblioteca127: Beatissime Pater128. Ad collationem sacri textus novi testamenti, è Bibliotheca Vaticana opus est habere sex integra corpora testamenti novi; et è bibliotheca Patrum Vallicellae quatuor vetustissimos codices novi testamenti; omnia manuscripta.
La richiesta di codici vaticani, e vallicelliani, del Nuovo Testamento per procedere a una collazione aveva come richiedente il cardinale Roberto Bellarmino, come appare dalla causale che egli stesso appose sul foglio esterno del libello: Alla Santità di Nostro Signore. Licenza di estraere alcuni libri dalla Libraria Vaticana. Per la congregatione del testamento nuovo greco129.
A beneficiare della richiesta era la Congregazione XIV «pro typographia Vaticana», che aveva tra i suoi compiti quello di editare «quam emendatissime» anche il testo greco del Nuovo Testamento, che doveva, nelle intenzioni di papa Paolo V Borghese, completare il lavoro di edizione della Bibbia dei Settanta130. Il colto controversista gesuita131, nipote di Marcello Cervini, che era 127 Arch. Bibl. 26, f. 302r. La mano che ha vergato la richiesta è da Mercati identificata con quella di Giovanni di Matteo Caryophylli. 128 Il vocativo «Beatissime Pater» era riconosciuto da Mercati come di mano di Bellarmino, grazie al raffronto con un autografo contenuto in Arch. Bibl. 26, f. 149. 129 Arch. Bibl. 26, f. 312v. Dopo le parole «Nostro Signore», la mano di uno dei segretari del pontefice ha aggiunto: «All’Alamanni, che ne parli à Nostro Signore». Mercati precisa che Fabiani in BIBLIORUM SACRORUM cit., VI, p. XXX, erra nell’individuare il nome del pontefice e la data del documento: «Greg. XV. / 11 Agosto 1626» (derivandoli probabilmente dai ff. 305r e 310v dello stesso manoscritto). Gregorio XV era morto nel 1624. 130 Così Sisto V aveva stabilito con la «Immensa aeterni Dei» del 1587 (Bullarium Romanum, VIII, Augustae Taurinorum 1863, pp. 985-999, segnatamente p. 996). A un progetto simile lavorava Antonio Agellio nella prima metà degli anni Novanta del Cinquecento, come risulta da una lettera di Pierre Morin, in PETRI / MORINI / PARISIENSIS / PRESBYTERI ET THEOLOGI, / Vaticanique olim Scholastici et Secretarii, / Vaticanae Typographiae Praepositi, / OPUSCULA / ET / EPISTOLAE. / NUNC PRIMUM E TENEBRIS / ex fide MSS Authoris in lucem prodeunt. / […] / PARISIIS, / Sumptibus LUDOVICI BILLAINE, / Paris. Bibliopolae et Typographi, / in Palatio Regio. / M. DC. LXXV. / CVM PRIVILEGIO REGIS, pp. 343-344. Su questo episodio si tornerà nel terzo contributo di questa serie. 131 Nato a Montepulciano il 4 ottobre 1542, dopo l’ingresso al Collegio Romano (1560) e nella Compagnia di Gesù, fu studente a Padova (1567) e poi a Lovanio (1569), dove rimase come professore (1570-1576), dopo aver ricevuto l’ordinazione presbiterale (25 marzo 1570). Rientrato a Roma, fu professore di controversistica al Collegio Romano (1576-1587), di cui divenne direttore spirituale nel 1588 e poi rettore (1592-1594). Nel 1595 divenne preposito della provincia napoletana dei gesuiti e il 3 marzo 1599 venne creato cardinale. Il 18 marzo
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stato professore a Lovanio e al Collegio Romano — di cui fu poi direttore spirituale e rettore —, che aveva già dato il suo contributo nel gruppo di lavoro per l’edizione dell’opera di S. Ambrogio e poi nella commissione pontificia per l’edizione della Vulgata latina, ottenne facilmente il favore del papa, che diede mandato ai custodi della biblioteca di procedere al prestito dei sei codici richiesti, di cui vengono indicate esplicitamente le segnature132: Custodi della Biblioteca Vaticana prestarete al Cardinale Bellarmino sei volumi greci del Testamento nuovo segnati di fuori con li numeri 349. / 354. / 358. / 1150133. / 1209. / et 1254. / manuscritti in carta pergamena, con pigliarne ricevuta; Non ostante qualsiasi prohibitione, overo censura. Dal nostro Palazzo di Monte Cavallo, questo di 25 di luglio 1615. Paulus papa Vs134.
Il fatto che l’edizione voluta dal papa e affidata alle cure di Bellarmino non sia approdata alla stampa non ci permette di sapere quanto a lungo il gesuita abbia trattenuto i codici presso di se né il ruolo esatto di ciascuno dei collaboratori135. 6. Prestito a Giulio Bartolocci, O. CIST. (1669) Il sesto prestito esterno del Vat. gr. 1209 è documentato ancora dal tomo 26 del fondo Archivio della Biblioteca e data a poco più di cinquanta anni dopo quello concesso a Bellarmino. Una supplica indirizzata a papa Clemente IX Rospigliosi recita136: 1602 fu nominato arcivescovo di Capua, dove risiedette per tre anni prima di venir richiamato a Roma. Inserito nella Curia Romana, seguì i processi a Bruno e Galilei e numerose altre controversie teologiche del tempo. Morì a Roma il 17 settembre 1621. 132 Arch. Bibl. 26, f. 206r. Si noti che la numerazione dei codici è quella introdotta all’inizio del XVII secolo e ancora in uso (su cui, da ultimo, CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 381-385). Mercati, per mostrare come sia possibile che Bellarmino richieda genericamente sei codici e il pontefice, invece, li indichi con estrema precisione attraverso le singole segnature, presenta un caso analogo tratto da Arch. Bibl. 26, ff. 156v e 149r. 133 Mercati nota come la segnatura Vat. gr. 1150 vada corretta in Vat. gr. 1160. 134 La sottoscrizione è autografa del pontefice, mentre la causale specificata all’esterno del libello (f. 214v) è di altra mano: Ordine da dare libri con la ricevuta del Signor Cardinale Bellarmino. Mercati rinviava a A. BIRCH, Vom Vaticanischen Codex, in J. D. Michaelis, Orientalische und Exegetische Bibliothek 23 (1785), pp. 138-163, segnatamente p. 156. Il testo era stato edito da VERCELLONE, Dissertazioni accademiche cit., p. 130 e BIBLIORUM SACRORUM cit., VI, pp. XXIX-XXX. 135 Maggiori dettagli in questo senso saranno offerti nel terzo e ultimo contributo dedicato alla storia del codice B a partire dalle carte Mercati. 136 Arch. Bibl. 26, f. 625r.
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Beatissimo Padre. Giulio Bartolocci monaco di San Bernardo humilmente espone come, dovendo far collationare il Nuovo Testamento greco stampato, con un codice manoscritto antico per notare le varie lettioni d’ambe doi per servitio universale della Santa Chiesa, humilmente prostrato alli piedi della Santità Vostra, humilmente la supplica a concedere licenza al secondo custode della libraria Vaticana vogli consignare in mano dell’oratore il codice manoscritto greco della libraria suddetta segnato n.° 1209 e lo stampato parimente greco segnato n.° 141, acciò possa fuora di detta libraria e con maggiore commodità fare il detto confronto, che con sollecitudine se restituiranno, e non mancarà pregare per la buona salute della Signoria Vostra. Quam Deus etc137.
La data si ricava, come al solito, dall’indicazione posta sul lato esterno del libello, dove è registrata anche la risposta papale: Sanctissimus annuit ad mensem hac die 8 Iulii 1669. N. Piccolomineus Secretarius.
Il monaco cistercense Giulio Bartolocci (1 aprile 1613-19 ottobre 1687), che fu scriptor hebraicus della Vaticana dal 10 novembre 1650 al 1687138, chiese ed ottenne nel luglio 1669 di poter asportare dalla biblioteca il codice B per poterne collazionare il Nuovo Testamento con il testo edito. A questo scopo egli richiedeva anche di poter prelevare un’edizione a stampa della Sacra Scrittura, segnata col numero 141 nell’inventario degli stampati. Consultando il Codicum typis editorum Vaticanae Bibliothecae Inventarium redatto dal candiota Giorgio Grippari tra il 1686 e il 1690139 il volume richiesto da Bartolocci corrisponde a: 137 Arch. Bibl. 26, f. 627v: «Alla Santità di Nostro Signore papa Clemente IX per Giulio Bartolocci monaco di S. Bernando». 138 Si veda la voce di G. GARBINI, Bartolocci, Giulio, in Dizionario biografico degli Italiani, 6, Roma 1964, pp. 669-670. Quanto al lavoro in Vaticana, si veda BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., 126 nt. 92, 137, 145, 148 nt. 20, 298. A questa sua attività vanno ricondotti: il Vat. lat. 13482, contenente un autografo Index librorum hebraicorum, 1673; il Vat. lat. 13199, ff. 111r-134v (indice ai ff. 174r-182r) con la ricognizione dei fondi ebraici vaticani, tra cui quello Urbinate; il Vat. lat. 13196, ff. 7r-301v: Index librorum omnium Hebraicorum, tam impressorum quam manuscriptorum, qui anno Jubilei MDCL in Bibliotheca Vaticana extabant; i Vat. lat. 13197-13199: Index materiarum authorum et titulorum librorum manuscriptorum ebraicorum Bibliothecae Vaticanae, Palatinae et Urbinatis e il Vat. lat. 13482, ff. 1r-118v, che conserva l’inventario, incompleto, dei manoscritti e stampati ebraici Vaticani, Palatini e Urbinati. 139 Codicum typis editorum bibliothecae … in eadem bibliotheca scriptorem, 1686-1690, contenuto nei Vat. lat. 14748-14749 con un indice nei Vat. lat. 14741-14747, sul quale A. CAMPANA, Contributo alla biblioteca del Poliziano, in Il Poliziano e il suo tempo, Firenze 1957, p. 218; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., pp. 144-145, 154 nt. 79 e 155 nt. 93 e Guida ai
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Sacrae Scripturae veteris, novaeque omnia Graece. Venetiis Typ. Aldi Manutii. 1518. in fol. cum nott. marg. mss.
Questa voce è da identificare coll’esemplare della Bibbia greca stampato da Aldo Manuzio nel 1518140, che entrò in Vaticana come numero 141 della Prima Raccolta, fu poi spostato all’inizio del XX secolo tra le Aldine col numero 36 e oggi si conserva sotto la segnatura: Ald. I.42. Si tratta di un volume che fu per un certo periodo nella biblioteca del convento di San Silvestro al Quirinale, come attestano i due timbri a inchiostro nero sulla parte bassa del frontespizio141. La richiesta venne accolta e Bartolocci poté mettersi al lavoro. Tuttavia, la collazione dovette procedere a rilento rispetto ai piani e a quanto la Biblioteca aveva preventivato, se un mese dopo lo scriptor chiedeva una proroga del prestito142: Beatissimo Padre. Giulio Bartolocci Monaco di San Bernardo, e scrittore in libraria Vaticana essendo stato aggratiato dalla Signoria Vostra di poter estrarre da detta libraria dui codici Greci del Nuovo Testamento, uno mano scritto, e l’altro stampato ad effetto di notare le varie lettioni che occorrono tra di loro, e perchè hormai è passato il mese che la Signoria Vostra ha prefisso all’oratore et non ha possuto rivedere piu che li primi tre evangelij, che sono la terza parte in circa di tutto il Testamento Novo, si che per finire, vi vorrebero almeno dui altri mesi, onde l’oratore prostrato a piedi della Signoria Vostra humilmente la supplica di prorogarli il tempo per altri dui mesi. Che il tutto etc. Quam Deus etc.
La richiesta fu avanzata nell’agosto dello stesso anno, ossia allo scadere del mese per cui era stato concesso il prestito, e il papa acconsentì per metà: da un lato, concesse che Bartolocci potesse continuare a tenere presso di sé il prezioso codice, ma dall’altro ridusse il tempo della proroga a un solo mese, mentre lo scriptor ne aveva chiesti due: fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, II: Dipartimento Stampati – Dipartimento del Gabinetto Numismatico – Uffici della Prefettura. Archivio – Addenda, elenchi e prospetti, indici, a cura di F. D’AIUTO e P. VIAN, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 467), pp. 747-748. 140 La Bibbia. Edizioni del XVI secolo cit., pp. 14-15 e B. M. METZGER, Il testo del Nuovo Testamento. Trasmissione, corruzione e restituzione, tr. it. Brescia 1996 (Introduzione allo studio della Bibbia. Supplementi, 2), p. 107. 141 Alcune delle notae marginales manuscriptae ricordate nella voce dell’inventario, che si concentrano quasi esclusivamente sul testo di Geremia, sono attribuite da Mercati alla mano di Michele Ghislieri, Chierico Regolare Teatino, editore della catena dei Padri Greci al profeta Geremia (cui sono da connettere i Vat. lat. 6467-6468). Bartolocci non pare aver lasciato tracce del suo studio sull’esemplare. 142 Arch. Bibl. 26, f. 636r.
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Sanctissimus annuit ad alium mensem. Hac die 5 Augusti 1669. N. Piccolomineus Secretarius143.
Considerando le sole collezioni vaticane, non è possibile ricostruire l’uso che Bartolocci fece del Vat. gr. 1209, dal momento che questi non lasciò annotazioni sull’esemplare biblico a stampa che prese a prestito e nulla si trova tra i suoi materiali, che sono stati depositati nella biblioteca pontificia. Qui si trovano, infatti, soltanto tre elementi manoscritti riconducibili al monaco cistercense. Il Vat. lat. 6715 è un codice autografo che contiene il testo ebraico, la traduzione latina interlineare e note di commento da materiale rabbinico, dedicati al cardinale Luigi Capponi144; il Vat. gr. 10897 contiene, ai ff. 4r160r l’autografo della: […] MIGDAL OZ / SCEM ADONAI / TVRRIS FORTITVDINIS / NOMEN DOMINI. / Seu / Defensio Doctrinae Christianae He= / braice translata a Io. Baptista / Iona Galilaeo. / Auctore / R. D. Iulio Bartoloccio Monacho / Congregationis S. Bernardi Ordinis Cisterciensis.; e al f. 1r la lista autografa delle opere di Bartolocci. Nel Barb. lat. 3092, f. 295r è custodita una supplica di Bartolocci al cardinale Chigi, inoltrata tramite Leone Allacci, con la quale chiede, dopo 17 anni di servizio da scrittore ebraico con mezza parte di stipendio, lo stipendio pieno per gli anni rimanenti. È fuori dalla Vaticana che va, invece, cercata una traccia, sebbene non autografa, della collazione eseguita da Bartolocci, e precisamente alla Bibliothèque Nationale de France, dove è custodito il Paris. Suppl. gr. 53, che Mercati attribuisce alla mano di Lorenzo Porzio, che dunque fu collaboratore del monaco cistercense145. Il caso, labilissimo, di Bartolocci è l’unico esempio di collazione ampia, 143 Arch. Bibl. 26, f. 643v: «Alla Santità di Nostro Signore papa Clemente IX. Per Giulio Bartolocci monaco di S. Bernando». Il testo era stato edito da Fabiani in BIBLIORUM SACRORUM cit., VI, p. XXX. 144 […] / VIR PVLCHRE / VIDENS / SIUE / LIBER TOBIAE HEBRAICVS / Cum interlineari latina versione / Additis / Rerum verborumque annotationibus ex Rabbino- / rum commentariis desumptis. / AD / EMINENTISS. PRINCIPEM / ALOYSIUM / S. R. E. CARD. CAPPONIVM / Auctore / D. IVLIO BARTOLOCCIO CILLENEN. / Cistercensium Reformatorum Monacho. Il codice è datato al 1650. 145 Inventaire sommaire des manuscrits grecs de la Bibliothèque Nationale, par H. OMONT, III: Ancien Fonds Grec-Coislin-Supplément, Paris 1888, p. 209, n. 53: «Variantes lectiones codd. Vatt. 1209 et 171 in Evangelia, Acta apostolorum et Pauli epistolas; “Particola di lettera del M. R. P. D. Giulio di Sta. Anastasia al P. Henrico di San Giuseppe, Roma, 11 novembre 1669. (70).» Rimando, per ulteriori notizie su questo passaggio della storia del codice B, alla terza parte di questo studio, che sarà consacrata alle varie collazioni del codice nel corso dei secoli.
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se non completa, del Vat. gr. 1209 per tutto il XVII e XVIII secolo; e il fatto stesso che il lavoro rimase inedito attesta come il codice continuasse a giacere nelle collezioni papali senza partecipare alla rinascita della filologia biblica, che in quel tempo andava nuovamente affermandosi. 7-10. Prestiti ad Angelo Mai (1833-1848. 1849-1854) Molto più complessa, prolungata nel tempo e fortunosa è la vicenda del penultimo prestito del Vat. gr. 1209, che durò, sebbene non in maniera continuativa, addirittura per un ventennio, superando così la somma di tutti i prestiti precedenti e del seguente. La vicenda ebbe come protagonista Angelo Mai (1782-1854), che era giunto in Vaticana dall’Ambrosiana verso la fine del 1819 e vi aveva esercitato il suo mestiere di filologo e scopritore di testi dimenticati o risuscitati grazie alla chimica146. La prima tappa della vicenda è costituita da un libello di supplica di Mai a papa Gregorio XVI Cappellari: L’umile scrivente avendo finite le sue due raccolte, una in 4° di Tomi VIII147, e l’altra in 8°, di Tomi V148, non ha potuto però compiere la più importante sua intrapresa, commessagli con ispeciale onore dalla S(anta) M(emoria) di Leone XII, dietro precisa istanza che ne fece personalmente alla Santità Sua la chiara memoria del cardinal Somaglia; s’intende l’edizione della Bibbia greca secondo il Codice vaticano. Ora questa è la grazia che umilissimamente implora dalla Santità Vostra, cioè che voglia clementemente accordargli di proseguirla lentamente e quasi a tempo perduto nella Tipografia della Propaganda; permettendogli di recar seco dal Vaticano a tal fine il Codice sopradetto che sarà custodito con la più scrupolosa severità; e insieme quel Carattere greco, che sinora si è adoperato nella Edizione149.
Il papa rispose positivamente, come annotò Mai stesso nel margine sinistro del testo: «Accordata la grazia tutta150». Come si evince dal testo, Mai era all’epoca segretario della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, dove fu nominato il 15 maggio 1833. In 146
Un profilo sintetico in BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., pp. 210-211. I dieci volumi complessivi della Scriptorum veterum collectio Vaticana apparvero tra il 1825 e il 1838; più precisamente, il tomo VIII qui citato nel 1833, mentre il IX nel 1836 e il X nel 1838. 148 Mai allude ai volumi dei Classici auctores ex Vaticanis codicibus editi, che complessivamente furono dieci e apparvero tra il 1828 e il 1838; il tomo V uscì nel 1833, mentre il VI nel 1834. 149 Arch. Bibl. 50, ff. 89r-90v. 150 Il documento fu pubblicato integralmente in Spicilegio Vaticano di documenti inediti e rari estratti dagli Archivi e dalla Biblioteca della Sede Apostolica per cura di alcuni degli addetti ai medesimi, I, Roma 1890, p. 397. 147
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quell’occasione lasciò a Giuseppe Mezzofanti151 l’incarico di Primo Custode della Vaticana, che ricopriva ufficialmente dal 20 settembre 1819. Il prestito doveva servire a portare a termine la stampa della Bibbia greca dei Settanta, che gli era stata commissionata da papa Leone XII della Genga per interessamento del cardinale Giulio Maria Della Somaglia, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa tra il 1827 e il 1830152. I lavori erano stati avviati già da tempo e, cinque anni prima, nel 1827, Mai aveva già ricevuto dalla Tesoreria Generale un versamento per far fronte alle spese di questa iniziativa editoriale.153 Il prestito del Vat. gr. 1209 fu assai più lungo del tempo necessario all’edizione del testo, che, infatti, fu allestita tra il 1828 e il 1838154, mentre il codice rimase presso Mai fino al 1842 circa, ossia per nove anni consecutivi, durante i quali l’erudito bergamasco dovette continuare il suo lavoro di collazione rispetto all’edizione a stampa appena uscita155. È nel giugno 1843, infatti, che il codice venne chiesto in consultazione da Constantin von Tischendorf156. Il filologo e paleografo tedesco, infatti, avrebbe voluto preparare un’edizione di B, ma, nonostante le attenzioni
151
Si vedano almeno VITA / DEL CARDINALE / GIUSEPPE MEZZOFANTI / E / MEMORIA / DEI PIÙ / […] / BOLOGNA 1859. / TIPOGRAFIA DI G. MONTI AL SOLE, pp. 178-181 e BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., ad indicem. 152 L’intera vicenda è presentata sinteticamente dallo stesso Mai nella sua Praefatio all’edizione del codice ( cit., pp. XXII-XXIV). 153 Arch. Bibl. 50, f. 86r: La «Tesoreria Generale. Computisteria generale della Reverenda Camera Apostolica» il 25 giugno 1831 richiede al «Direttore della Biblioteca Vaticana» Angelo Mai «il conto regolare delle spese» dei 500 scudi da lui ricevuti nel gennaio 1827 «per l’edizione della Bibbia greca». La lista delle «spese occorse» di trova in Arch. Bibl. 50, f. 92rv e ammonta a 488, 42 scudi. 154 Al 4 maggio 1835 risulta datata una supplica di Mai a Gregorio XVI (Arch. Bibl. 50, f. 95rv) con la quale annuncia che «l’edizione della Bibbia greca, secondo il testo del Codice antichissimo Vaticano, volge verso il suo fine; poiché de’ cinque volumi, in cui è distribuita, ora è incominciato il quarto» e richiede di consultare altri codici per ovviare al fatto che «nel predetto Codice Vaticano sono alcune lacune, per deficienza di alcuni quaderni in tre luoghi; destino comune ai manoscritti antichi». Lo scopo di Mai era quello di evitare una «screditata edizione, cioè composta di testo in parte antico e in parte moderno; ossia parte tolto dai codici e parte dalle edizioni». L’edizione integrale del testo in Spicilegio Vaticano cit., p. 398. 155 Mercati rimanda all’annotazione apposta da Mai stesso nella collazione del primo volume della sua edizione del Vat. gr. 1209, ora nel Vat. lat. 9625, f. 69v: Huc usque contuli cum codice 22 Xbris 1839. In quella data Mai era appena arrivato al tredicesimo capitolo dell’Esodo. 156 A. GIOVANNINI, Della illustrazione dell’edizione romana del codice vaticano della Bibbia greca fatta dal prof. Costantino Tischendorf, Firenze 1869 e E. TISSERANT, Lettres de Constantin von Tischendorf à Carlo Vercellone, in Miscellanea Giovanni Mercati, VI: Paleografia-bibliografia-varia, Città del Vaticano 1956 (Studi e testi, 126), 479-498. CHIARI POLIGLOTTI ANTICHI E MODERNI / OPERA / DEL PROF. GUGLIELMO RUSSEL.
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predisposte, ricevette una risposta negativa157. Sebbene il papa fosse favorevole, alcuni in Curia temevano che il lavoro di Tischendorf potesse render vano quello condotto sullo stesso codice da Mai, che non si era ancora deciso a renderlo pubblico. Più fortunati, sebbene per consultazioni sempre molto limitate, furono Éduard de Muralt, che visionò B per tre giorni nel 1844, e Samuel P. Tregelles che nel 1845 ebbe accesso al codice per alcuni mesi158. Il 27 giugno 1846 Mai ottenne nuovamente di poter far uscire dalla Vaticana e portare presso di sé il Vat. gr. 1209, come attesta una sua dichiarazione autografa: 27 giugno 1846. Resi Vat. gr. 398. 1642. Presi Vat. gr. 1209. A.C.M.159.
Questo secondo prestito esterno concesso a Mai durò per circa altri due anni, dal momento che B fu reso alla biblioteca nel novembre 1848, quando, a causa dei moti rivoluzionari, papa Pio IX Mastai Ferretti e il Collegio Cardinalizio lasciarono Roma per riparare a Gaeta. Facendo tappa ad Albano, Mai scriveva al Primo Custode della Vaticana, Gabriele Laureani, pregandolo di ricollocare in biblioteca i circa 130 codici che aveva in prestito in quel momento, tra i quali anche il Vat. gr. 1209160. Il manoscritto, tuttavia, aveva ritrovato la sua collocazione in Vaticana, quando appena un anno dopo, approfittando del rientro a Roma e del ristabilimento della situazione, Mai chiese nuovamente in prestito, per la terza
157 Come si vedrà nel prossimo contributo, Tischendorf tornò a Roma nel 1866 e riuscì ad ottenere di consultare il Vat. gr. 1209 nel febbraio 1866 e poi, dopo una brusca inattesa interruzione, dal 21 al 27 marzo, grazie al sostegno di Vercellone, come risulta da Tischendorf stesso nella prefatoria al Novum Testamentum Vaticanum (l’originale della lettera si trova nel Vat. lat. 14042, ff. 548ss.); VERCELLONE, Ulteriori contributi cit., pp. 3-5; GIOVANNINI, Della illustrazione cit., p. 10 e TISSERANT, Lettres de Constantin cit., pp. 483-484. Si veda anche C. VON TISCHENDORF, Responsa ad calumnias Romanas. Item Supplementum Novi Testamenti ex Sinaitico codice anno 1865 editi, Lipsiae 1870. 158 In questa sede mi limito al classico C. R. GREGORY, Textkritik des Neuen Testamentes, I, Leipzig 1900, p. 37, rimandando al terzo e ultimo contributo sulla storia del codice B la trattazione più estesa e documentata di questi fatti. 159 Arch. Bibl. 47, f. 634r. 160 Il testo è stato edito in Spicilegio Vaticano cit., pp. 400-401 dall’originale in Arch. Bibl. 47, f. 778r (lettera) e 779r (elenco di codici e stampati da ricollocare in Vaticana) e, precedentemente, in Epistolario del cardinale Angelo Mai. Primo saggio di cento lettere inedite, pubblicate per cura di G. COZZA LUZI, Bergamo 1883, p. 129. Si veda anche la minuta autografa, datata da Albano al 20 novembre 1848, oggi nel Vat. lat. 9579, f. 253v, dove il Vat. gr. 1209 è citato tra i «codici di gelosia» e di cui si dice: «I più importanti e preziosi sono le due Bibbie greche vaticane 1209 e 2125, che prima di tutto altro favorirà riconoscere e ritirare».
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volta, la «Bibbia greca Cod. Vat. 1209»161, tenendola presso di sé fino alla morte, sopravvenuta nel settembre del 1854, quando da un anno e più era stato nominato Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Fu solo dopo i funerali del cardinale Mai, celebrati il 20 settembre 1854, che il secondo custode della Vaticana, Pio Martinucci, poté recarsi nell’abitazione del prelato e riportare in biblioteca il codice, che mancava dal suo posto da ben cinque anni: Vi andai, e riportai subito alla Biblioteca la celebre Bibbia162.
Sempre lo stesso Martinucci riferisce: Dippiù si è ritirato il preziosissimo e rarissimo Codice Vaticano greco della Bibbia secondo la versione dei LXX segnato col num. 1209 quale è stato trovato in più luoghi macchiato ed in alcune pagine è pure trinciata la pergamena, come lo sono moltissimi fogli dei Codici Copti di sopra notati, che forse non si potranno più riparare e si dovranno considerare perduti163.
Stando alla testimonianza del Secondo Custode, il prezioso codice biblico rientrò in Vaticana in condizioni molto critiche, non tanto a causa degli eventi che avevano travagliato la città, ma piuttosto delle modalità di lavoro, alquanto disinvolte, di Mai164. Stendendo i suoi «Cenni pel discarico da darsi al Santo Padre sul risultato del riscontro dai codici della Biblioteca Vaticana, fatto per ordine della stessa Santità Sua165», Martinucci, trattando al capitolo VI dei «Codici che
161
Arch. Bibl. 47, f. 679r, sotto la titolatura: «Presi dal Cardinale Mai. In 9brii anno
1849». 162 Arch. Bibl. 47, f. 786r: lettera di Martinucci al primo custode Alessandro Asinari da Sanmarzano, datata Roma, 21 settembre 1854, ma mai consegnata «perché Monsignor di S. Marzano venne in Roma». 163 Arch. Bibl. 47, ff. 795v (minuta) e 797v (bella copia) della relazione stesa da Martinucci in data 30 settembre 1854 (f. 795r/797r): «Avvenuta la morte del Cardinale Angelo Mai Bibliotecario di Santa Chiesa, nella mia rappresentanza di Secondo Custode della Biblioteca Vaticana fui autorizzato dall’Eminentissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Antonelli Segretario di Stato di recuperare i codici della biblioteca stessa ritenuti dal suddetto cardinale Mai per i suoi studi particolari. Quindi in esecuzione dei comandi ricevuti ho ritirato i codici seguenti». Segue l’elencazione completa. 164 Arch. Bibl. 58, ff. 135v e 140v (essendo due consecutive le copie del documento). Mercati, tuttavia, rinviando il lettore alla sezione documentaria relativa ai cambi di coperta cui andò soggetto il Vat. gr. 1209 e soprattutto a quello degli anni 1848-1849 (CARDINALI, Le vicende vaticane cit., p. 399), imputava la nuova legatura alla fragilità della precedente, ricordando che fu necessario rinnovare anche le coperture dei libri che Mai non prese a prestito. 165 Arch. Bibl. 58, ff. 134r e 139r. L’intero testo, in due redazioni identiche, occupa i ff. 134r-136v e 139r-141v.
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ritiene il Signor Cardinale Mai166» che egli elenca in numero di 155167, annota: Si è conosciuto che non usa l’avvertenza di trascrivere ciò che deve dare allo stampatore, ma consegna il codice. Quindi oltre che conviene far rilegare il codice o codici adoperati dallo stampatore, ritornano massacrati, laceri e guasti, come avvenne alla celebre Bibbia greca dei LXX quale fu dovuta riparare e rilegare, ed ora l’ha ripresa di nuovo. Essa è dimandata dai forastieri per essere veduta, perché è notata nelle guide di Roma168.
La querimonia di Martinucci, in realtà, andava ben oltre questo pur rilevante fatto e toccava il destino di molti altri codici, oltre al Vat. gr. 1209. Riporto altri ampi frammenti, sia perché inediti sia perché utili a contestualizzare la vicenda di B, che non fu un caso isolato, ma comune a tanti altri manoscritti della Vaticana: Ha dippiù altri codici non descritti nell’inventario, cioè de’ Colonnesi Greci, ed alcuni libri stampati. Se si crederà opportuno, si potrà far conoscere al Santo Padre che il numero indicato si è dedotto da una nota che diede a Monsignor Molza nel mese di marzo scorso, qual nota non è totalmente esatta poiché accusa di avere alcuni codici, i quali sono nella Biblioteca. Che nel mese di maggio ha estratto altri codici, e ne ha riportati altri. Che ha la chiave del cancello del Museo, della porta d’ingresso della libreria, e degli armarii dei codici, per estrarre a piacimento quei che crede. Le chiavi sono ritenute dai servitori di lui, deducendosi da un fatto da citarsi a voce. Rimanendo le chiavi in mano di persone estranee non può esservi alcuna responsabilità riguardo la custodia degli oggetti, né può esservi sicurezza per i medesimi. Che sembra impossibile che si possa nel medesimo tempo studiare sopra un numero si grande di codici. Che estraendosi i codici senza alcuna ricevuta in iscritto, se ne manca qualcuno, da chi si potrà ripetere la mancanza? Che quantunque possa usare ogni diligenza affinché i codici da lui tenuti siano conservati, può avvenire che gli possano essere rubbati. Che lo stesso pericolo si può incontrare nel trasporto dei codici, e nella poca fidatezza dei servitori, quali non dovrebbe ammetterli nella Biblioteca, molto più che dal fatto di averne cacciati alcuni perché ladri, si può sospettare sulla grande mancanza di codici stessi, come appresso. Che se fa trascrivere i codici per farli stampare, è necessario che altri li abbia, e per ciò s’incontra il pericolo che si smarriscano, che siano mutilati, guasti etc.
166
Arch. Bibl. 58, ff. 136v e 139v. Arch. Bibl. 58, ff. 134v e 139v: elenco di 155 codici in mano a Mai. 168 Arch. Bibl. 58, ff. 135v e 140v. 167
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Che vi è l’altro inconveniente che i codici stessi vadano in mano di altri per essere consultati, esaminati, studiati etc169.
I 155 codici trattenuti da Mai presso di sé, dunque, rientrarono tutti in Vaticana e ritrovarono il loro posto. Dopo quasi vent’anni di assenza il Vat. gr. 1209 veniva ricollocato nella sua sede, da dove poteva essere mostrato a studiosi e visitatori, presso i quali la sua fama era molto aumentata e divulgata, complici anche le guide all’Urbe che lo menzionavano come uno dei cimeli imperdibili della collezione libraria pontificia170. 11. Prestiti ai padri Carlo Vercellone, B. e Giuseppe Cozza-Luzi, O.S.B.I., (1867-1881) Poco più di dieci anni dopo il suo rientro ad opera di Martinucci, B venne nuovamente richiesto in prestito per provvedere alla sua prima edizione in fac-simile171. Pio IX aveva, infatti, deciso che fosse il Vaticano stesso a intraprendere l’opera di riproduzione fototipica del codice, e non colui che ne aveva fatto esplicita richiesta nel 1866, ossia von Tischendorf, che nel 1856 aveva pubblicato l’edizione critica della Bibbia dei Settanta e nel 1862 aveva realizzato, a spese di Alessandro II di Russia, la fototipica del Sinaitico, da lui rinvenuto tra il 1844 e il 1859. Tutte le disposizioni pratiche di questa impresa editoriale sono fornite dal documento emanato dal Segretario di Stato, il cardinale Giacomo Antonelli, nel gennaio 1867: Il Santo Padre, avendo disposto che a cura del padre Vercellone, barnabita, sia pubblicato pe’ tipi della Stamperia poliglotta della Sacra Congregatione di Propaganda Fide l’antichissimo Codice Greco della Bibbia dei Settanta, che si conserva nella Biblioteca Vaticana, Monsignor Martinucci, Secondo Custode della Biblioteca suddetta, prese le analoghe intelligenze col nominato padre Vercellone, farà 169 Arch. Bibl. 58, ff. 134v-135r e 139v-140r. Il testo è concluso dall’annotazione: «Fatto da Monsignor Martinucci nel 1851». 170 CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 388-390. 171 Si vedano le presentazioni e le valutazioni dell’opera in De editione romana codicis graeci Vaticani SS. Bibliorum auspicii ss. Pontificum Pii IX et Leonis XIII collatisque studiis C. Vercellone, I. Cozza et H. Fabiani impressi in typographia S. C. de Propaganda sex magnis voluminibus, 1868-1881, Romae 1881; B. PALOMBA, Il codice vaticano della Bibbia greca e la sua edizione romana, in Civiltà cattolica 465 (1869), pp. 3-22; Attilii Giovannini de Sacrorum Bibliorum vetustissimi graeci codicis Vaticani romana nuperrima editione commentariolus, Roma 1869; E. TISSERANT, Notes sur la préparation de l’édition en fac-similé typographique du Codex Vaticanus (B), in Angelicum 20 (1943), pp. 237-248; CH. M. GRAFINGER, Die Bemühungen um eine Vollständige edition des Codex Vaticanus (Vat. gr. 1209), in α μη. Rivista di ricerche bizantinistiche 7 (2010), pp. 411-420.
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sciogliere il ripetuto codice con tutte le possibili cautele e ne consegnerà al medesimo cinque fogli per volta, collocandoli in altrettanti telarini a doppio cristallo per poterli leggere senza essere toccati172, se non in caso di assoluta necessità dal solo padre Vercellone, e con due distinte chiavi o lucchetti, da ritenersi una da Monsignor Martinucci e l’altra dal padre Vercellone. Nell’atto poi della consegna Monsignor Martinucci ritirerà dal padre Vercellone la corrispondente ricevuta, e questi la esigerà da Monsignor Martinucci nell’atto della restituzione. Sarà poi cura del ripetuto Monsignor Secondo Custode di custodire gelosamente i fogli che gli verranno restituiti, onde in fine del lavoro possa la suddetta Bibbia essere rilegata e conservata nella Biblioteca stessa, come si è fin qui praticato. Tanto si partecipa a Monsignor Martinucci per sua intelligenza e norma173.
La tipografia prescelta fu quella di Propaganda Fide, che da poco era stata rilevata dal cavalier Pietro Marietti174, che aveva acquistato da von Tischendorf i caratteri fatti fondere per il codice sinaitico; mentre il curatore era stato individuato nel padre barnabita Carlo Vercellone175, uno studioso già noto in Vaticana, essendogli stato affidato, nel maggio 1857, il compito di rivedere e pubblicare l’edizione preparata da Mai, ma lasciata inedita, del testo del Vat. gr. 1209, che egli portò a termine in poco meno di due mesi. Vercellone dovette mettersi all’opera secondo le condizioni stabilite presumibilmente dalla Biblioteca Vaticana e ratificate dalla Segreteria di Stato, prelevando cinque bifogli per volta, ognuno custodito in una teca di cristallo con doppia serratura. Per questa operazione di riproduzione, il Vat. gr. 1209 era stato privato della sua legatura e sfascicolato, così da poter essere asportato per singoli bifogli. Man mano che il lavoro avanzava, ci si dovette render conto che i tempi 172 Il Primo Custode Ciccolini dirà, invece, per: «portar seco alle proprie case», come si vedrà infra, p. 218. 173 Arch. Bibl. 50, f. 104r-v: «43641. Dalla Segreteria di Stato 14. Gennaro 1867». Il documento è firmato: «G.C. Antonelli». 174 Pietro Marietti, figlio dell’editore torinese Giacinto, venne chiamato da Pio IX a dirigere la Tipografia Poliglotta di Propaganda Fide nel 1865 e vi rimase fino al 1872, quando, vedovo, fu ordinato sacerdote e rientrò a Torino. 175 Vercellone, nato il 10 gennaio 1814, il 20 gennaio 1859, quando era già procuratore generale dell’ordine dei Barnabiti, venne nominato scriptor honorarius della Vaticana (Arch. bibl. 5, f. 243r, erroneamente citato da BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., p. 235). Morì nell’Urbe il 19 gennaio 1869. Si vedano su di lui G. M. SERGIO, Notizie intorno alla vita ed agli scritti del P. D. Carlo Vercellone della congregazione de’ Barnabiti, Roma 1869; TISSERANT, Lettres de Constantin cit., pp. 479-498 e BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., pp. 235, 246 nt. 44 e 279 nt. 87 con bibliografia. Nel 1922 le carte Vercellone entrarono in Vaticana (attuali Vat. lat. 12959-12967, 12972, 14027-14061) e la sua collezione di Bibbie annotate venne acquistata da Benedetto XV. Una bibliografia di Vercellone in SERGIO, Notizie intorno alla vita cit., pp. 57-60.
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fissati nel documento della Segreteria di Stato erano troppo lenti e rischiavano di intralciare il ritmo dei lavori. Vercellone dovette presumibilmente far presente questa difficoltà e la necessità di stringere i termini di consegna e restituzione dei bifogli; questa richiesta dovette incontrare il favore della Biblioteca e trovare una risposta positiva, che venne ratificata da un nuovo pronunciamento del Segretario di Stato appena due mesi dopo il primo: Per accelerare la pubblicazione del Codice Greco della Bibbia dei Settanta che si conserva nella Biblioteca Vaticana, di che formava argomento il biglietto di Segreteria di Stato diretto a Monsignor Martinucci li 14 gennaio ultimo n. 43641, si autorizza lo stesso Signor Martinucci a consegnare al padre Vercellone, direttore della suddetta pubblicazione, il nuovo quinterno, qualche giorno prima che il sullodato padre Vercellone restituisca il precedente e così in seguito osservate però le cautele prescritte nel citato biglietto. Tanto si comunica al prefato Monsignor Martinucci per sua norma176.
I lavori di pubblicazione andarono avanti per circa due anni, durante i quali cinque bifogli del Vat. gr. 1209 uscivano dalla Vaticana e poco dopo vi rientravano quelli precedentemente dati in prestito, in ottemperanza alle indicazioni della Segreteria di Stato. Un nuovo provvedimento del cardinale Antonelli si rese necessario per dare al defunto Vercellone († 19 gennaio 1869) un successore alla guida dell’impresa editoriale, che venne trovato nella persona del basiliano Giuseppe Cozza Luzi, del monastero di Grottaferrata177, coadiuvato dal barnabita Gaetano Sergio. Il Cozza era già da un anno attivo in Vaticana, essendo stato coinvolto, non solo nella fototipica del codice B, ma anche nel più ampio progetto, concepito da Pio IX e dal suo bibliotecario Jean-Baptiste Pitra, di pubblicazione delle carte inedite di Mai. Nato a Bolsena il 4 dicembre 1837, Cozza era entrato giovanissimo nel monastero di Grottaferrata, dove vi aveva appreso il greco ed era stato avviato a studi storici, filologici e liturgici nel clima di rinnovata attenzione alle fonti antiche dei papati di Pio IX e Leone XIII178. Nel dicembre dello 176
Arch. Bibl. 50, f. 107r: «43641. Dalla Segreteria di Stato. 22 marzo 1867». Il documento è firmato: «G.C. Antonelli». 177 Il più recente e documentato contributo dedicato a Cozza-Luzi è quello di L. CARBONI, La caduta dell’ultimo sotto-bibliotecario, in Studi in onore del cardinale Raffaele Farina, I, a cura di A. M. PIAZZONI, Città del Vaticano 2013 (Studi e testi, 477), pp. 87-122. 178 Al momento di ricevere l’incarico in Vaticana (25 luglio 1868) Cozza aveva già all’attivo la pubblicazione di un’opera di topografia antica (Il Tuscolano di M. Tullio Cicerone. Ricerche di d. G. Cozza-Luzi, Roma 1866) e di un palinsesto (Sacrorum bibliorum vetustissima
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stesso 1869 vi sarebbe divenuto abate; nel 1873 sarebbe stato nominato scriptor graecus della Vaticana e nel 1882 sarebbe succeduto a Giuseppe Pecci come Sotto-Bibliotecario di Santa Romana Chiesa179. Da quell’incarico fu poi costretto a dimettersi nel 1899180. Nel provvedimento relativo all’avvicendamento dei curatori della fototipica, si trattò soltanto di ribadire le stesse condizioni di prestito del codice, indirizzandole ai nuovi responsabili e a colui che era il Primo Custode della Vaticana, Alessandro Asinari di San Marzano: In seguito dell’avvenuta morte del padre Vercellone barnabita, incaricato di attendere anche egli alla nuova edizione de la Bibbia sul Codice Vaticano, essendogli stato sostituito il padre Cozza Basiliano, la Santità di Nostro Signore si è degnata autorizzare che ne’ modi stessi con cui erasi stabilita la consegna de’ relativi quinterni del codice anzidetto al defunto religioso si consegnino i successivi quinterni al padre Cozza basiliano prescelto insieme al padre Sergio barnabita per curare la prosecuzione di siffatto lavoro. Tanto si partecipa a Monsignor di Sanmarzano Primo Custode della Biblioteca Vaticana per sua intelligenza e norma181.
Ne luglio di dieci anni dopo (1879) a Pio Martinucci, che dal 1876 era divenuto il Primo Custode della Vaticana, venne indirizzata una disposizione dal cardinal Mariano Rampolla del Tindaro, Segretario della S. Congregazione di Propaganda Fide per i Riti Orientali, per chiedere di continuare a fornire bifogli del Vat. gr. 1209 nelle modalità solite a colui che nel frattempo aveva ricevuto l’incarico di portare a termine la riproduzione del codice B, subentrando a Cozza Luzi: Enrico Fabiani: Dovendo il Signor Canonico Enrico Fabiani occuparsi della continuazione della stampa del Codice Biblico Vaticano B, il sottoscritto Segretario della S. Congregazione de Propaganda Fide per gli Affari del Rito Orientale, inerendo agli ordini ricevuti dall’Eminentissimo Cardinale Prefetto, prega la Signoria Vostra Illustrissima e Reverendissima a voler consegnare al medesimo i fogli del detto Codice, nella stessa forma con cui si è costumato nel passato col Reverendo padre Cozza182. fragmenta Graeca et Latina ex palimpsestis codicibus bibliothecae Cryptoferratensis eruta atque edita, I, Romae 1867). 179 Si vedano la memoria anonima De editione Romana codicis Graeci Vaticani cit.; V. PERI, Cozza Luzi, Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani 30 (1984), pp. 547-551 e L’abate Giuseppe Cozza-Luzi archeologo, liturgista, filologo. Atti della giornata di studio. Bolsena, 6 maggio 1995, a cura di S. PARENTI – E. VELKOVSKA, Grottaferrata 1998. 180 La vicenda, finora ignota del processo interno a Cozza-Luzi e delle sue dimissioni è stata portata alla luce da CARBONI, La caduta cit. 181 Arch. Bibl. 50, f. 110rv: «53595. Dalla Segreteria di Stato. 8 febbraio 1869». Il documento è firmato: «G.C. Antonelli». 182 Arch. Bibl. 50, f. 117r: «N.1. Dalla Propaganda. Li 8 Luglio 1879». Il documento è firmato: «Mariano Rampolla».
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Come si vedrà a breve Fabiani non ottenne o non fece uso di questa facoltà. Quel che è certo è che l’operazione di riproduzione fototipica, dopo l’accelerazione dei primi tempi che aveva suscitato il secondo intervento della Segreteria di Stato, cominciò presto ad andare a rilento e tale lentezza suscitò le preoccupazioni della Biblioteca, che vedeva con timore il fatto che già da un decennio i fogli del Vat. gr. 1209 andavano e venivano dalla Vaticana alla Tipografia. Fu questo allarme, condiviso dai vertici della Vaticana, a spingere il Primo Custode, Stefano Ciccolini, a scrivere al cardinal Rampolla nel giugno 1880: La Tipografia della S. Congregazione de della Propaganda, sono già trascorsi molti e molti anni, … l’impresa di riprodurre con la stampa il celebre Codice Vaticano, che contiene il testo greco della Sacra Bibbia. Per servire ai bisogni di questa edizione il Codice si decompose nei suoi quinterni e si diè facoltà a due degli scrittori addetti alla Biblioteca di poterli portar seco alle proprie case, affinché i giorni e le ore limitate allo studio nella Biblioteca non fossero motivo a ritardare i lavori, e la Tipografia avesse agio di andar spedita nella edizione. Siffatta anormalità è gran tempo che dura; e i due scrittori interrogati sul fatto hanno risposto il ritardo provenire dalla Tipografia, la quale essendosi arrestata nella intrapresa, ha tolto ai medesimi il modo di procedere spediti nell’opera loro, che deve andare di pari passo con la stampa. Nell’ultimo congresso tenuto sugli affari della Biblioteca tanto l’Eminentissimo signor Cardinale Bibliotecario quanto gli altri alla cura della medesima sono preposti, decisero che il sottoscritto per ragione del suo ufficio facesse premura alla Signoria Vostra Illustrissima e Reverendissima perché voglia esser compiacente di dare schiarimenti in proposito ed ad un tempo adoprarsi a far cessare una condizione di cose, che lascia uno dei più preziosi gioielli della collezione Vaticana esposto al rischio di smarrimenti, ed in guisa non punto decorosa per mostrarlo ai visitatori eruditi che spesse volte fanno dimanda di vederlo. Lo scrivente nella fiducia che la Signoria Vostra vorrà soddisfare ai desideri del Congresso, Le protesta la sua più profonda stima e passa all’onore di dichiararsi183.
La richiesta di Ciccolini e del consiglio di reggenza della Biblioteca venne accolta il 30 luglio dell’anno seguente, quando terminarono le uscite dei bifogli del Vat. gr. 1209 in direzione della Tipografia. La prova è fornita da un registro che venne allestito appositamente per annotare l’uscita dei gruppi di bifogli e la loro restituzione, controfirmate
183
Arch. Bibl. 50, f. 120rv: «Addì 3 giugno 1880».
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dal responsabile dell’edizione, Vercellone prima e Cozza Luzi poi; mentre non c’è menzione di prestiti a Fabiani184. Le registrazioni vanno dal 22 gennaio 1867 al 30 luglio 1881, iniziando con la prima: In seguito agli ordini emanati da Sua Santità e communicati dal Signor Cardinale Segretario di Stato con dispaccio dei 14 gennaio 1867, segnato n. 43641, il sottoscritto ha ricevuto da Monsignor Martinucci due fogli del codice greco contenente la Bibbia dei Settanta, notato col numero 1209, quali fogli sono segnati o paginati coi numeri da 1231 a 1238. Di più ho ricevuto la chiave dei telari con cristalli, nei quali sono chiusi i detti fogli da servire come è prescritto nel lodato dispaccio. In fede di che nella Biblioteca Vaticana ai 22 gennaio 1867. D. Carlo Vercellone Barnabita 185.
Questa l’ultima ricevuta: 30 luglio 1881. Restituiti i fogli del Codice Vaticano Greco 1209 da pagina 1285 a pagina 1236 essendone compiuta l’edizione e gli studii sulla medesima e così tutto integralmente il manoscritto si trova nella Biblioteca Vaticana. Stefano Ciccolini I custode. G. Cozza Luzi186.
Il registro si conclude con questa sottoscrizione: Posteriormente per una di Monsignor Ciccolini 1° Custode fu fatto il detto codice nobilmente rilegare dal Cristallini e collocare sotto le vetrine della Biblioteca per esser esposto all’ammirazione de’ visitatori come uno de’ suoi più insigni monumenti187.
A guisa di sintesi complessiva della vicenda della riproduzione fototipica del Vat. gr. 1209, che ne causò anche l’ultimo dei prestiti esterni alla Biblioteca, pubblico il testo della risposta del cardinal Rampolla del Tindaro alla richiesta di Ciccolini, dal momento che vi viene tracciata la storia dell’edizione nelle sue varie fasi: Non appena ricevuto il biglietto direttomi dalla Signoria Vostra Illustrissima e Reverendissima in data dei 5 del corrente, mi sono dato premura di raccogliere le 184 Arch. Bibl. 61, ff. 2r-17r. Lo stesso volumetto è stato utilizzato, ai ff. 18r-23v, per registrare l’uscita dei fogli del Vat. gr. 2125 a favore di Cozza-Luzi nel corso del giugno 1888. I documenti relativi all’edizione di questo codice si trovano in Arch. Bibl. 46 dopo quelli sul Vat. gr. 1209. 185 Arch. Bibl. 61, f. 2r. 186 Arch. Bibl. 61, f. 17r. 187 Arch. Bibl. 61, f. 17r.
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notizie relative alla stampa del Codice Vaticano della S. Bibbia, e dei motivi che nel seguito l’hanno fatta sospendere. Dico di avere raccolte le notizie relative, dappoiché questa Segreteria Orientale è stata fino ad oggi totalmente estranea a questo affare. Allorché da questa S. Congregazione per impulso della santa memoria di Pio IX fu presa la deliberazione di pubblicare colle stampe il Codice in discorso, fu affidata la esecuzione dell’opera all’Eminentissimo Cardinale Sacconi allora Prefetto dell’Economia, il quale presi gli opportuni concerti col Cavalier Marietti allora Direttore della Tipografia, e coi Reverendissimi signori padre Vercellone e padre Cozza, diè principio alla pubblicazione giunta fino dal 1873 a tutto il quinto volume. Arrivato peraltro felicemente fino a questo punto l’edizione restò in sospeso sia per altre circostanze sia per malattia sopraggiunta al reverendo padre Abate Cozza, e per tal modo fu sospesa ancora fino all’agosto del 1873 la retribuzione assegnatagli dall’Eminentissimo Cardinal Sacconi con lettera dei 22 febbraio 1867 per accudire alla stampa del Codice. Del resto prima di avere ricevuto il pregiato biglietto della Signoria Vostra, vedendo il gravissimo danno che deriva a questa S. Congregazione dalla sospensione della stampa, non escluse ancora le minacce di molti associati di respingere i volumi acquistati se l’opera non fosse sollecitamente compiuta, avevo già risolto preghiera a questo Eminentissimo Cardinale Prefetto onde fosse all’uopo riconfermato l’assegno già stabilito al Reverendissimo padre Cozza, e con questi avevo ancora tenuto parola più volte, sollecitandolo affinché venisse quanto prima pubblicato il sesto ed ultimo volume dell’opera. Come vede pertanto la Signoria Vostra non può esser posto a debito di questa S. Congregazione di Propaganda se il celebre Codice Vaticano non sia conservato con tutta quella gelosia e circospezione che esige; e se la stampa del codice medesimo non abbia avuto finora il suo compimento. Che anzi la S. Congregazione per quanto era dal suo canto non ha mai desistito dal far le più vive premure onde fosse il più sollecitamente condotta a termine la pubblicazione, trovandosi a ciò impegnati gravemente il suo onore e i suoi interessi. Ciò non ostante, avendo il sullodato padre Cozza in questi giorni corrisposto alle tante premure iterateglisi in nome dell’Eminentissimo Cardinale Prefetto, con esibirsi pronto al proseguimento del lavoro, sono stati già dati gli ordini opportuni al Cavalier Melandri Direttore della Tipografia poliglotta, affinché questo venga eseguito e condotto a termine colla maggiore celerità possibile188.
Termina qui la lunga sequenza dei prestiti e delle cessioni ad extra del codice Vat. gr. 1209, iniziata sul finire del XVI secolo e approdata alle prime riproduzioni fototipiche del manoscritto. In tutti i casi, la cessione fu dovuta all’esigenza di verificare e fruire il testo tràdito da B; questo, tra il XV e il XVII secolo, fu collazionato su stampati personali (paragrafi 1-2-3 e 6), poi venne impiegato nelle prime edizioni moderne del testo biblico greco (4), sia in quella riuscita dell’Antico Testamento, sia in quella rimasta 188
Arch. Bibl. 50, ff. 121r-122r: «N. 1. Dalla Propaganda. Lì 24 giugno 1880.»
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senza esito del Nuovo (5). Col XIX secolo, invece, la vicenda del codice B inizia a intrecciarsi con quella delle nuove tecniche di riproduzione, che permetteranno di pubblicare e divulgare il testo del codice dapprima in una classica edizione a stampa (7-10), curata da Mai, e poi in fac-simile fototipico secondo quanto si andava facendo in Europa per cimeli simili (11). Alla base di questo ultimo capitolo della vicenda del Vat. gr. 1209 stava, evidentemente, il problema della divulgazione del testo biblico tràdito da B e del suo impiego nelle moderne edizioni bibliche. Mossi dai successi di Tischendorf e dalle prime riproduzioni moderne e, insieme, dalla necessità di ideare soluzioni che permettessero di pubblicare il testo e di salvaguardare il codice dai rischi della consultazione, i veritici della Vaticana decisero di sperimentare proprio con B le prime tecniche moderne, inaugurando una serie di riproduzioni che sarebbero andate avanti per tutto il secolo successivo, fino all’attuale digitalizzazione. La tappa successiva, ossia la seconda fototipica, uscita tra 1904 e 1907, sarebbe stata quella per la quale Mercati stava preparando i prolegomena che qui si pubblicano e che uscì senza il fascicolo di accompagnamento previsto a causa dei tempi da lui impiegati e dalla sua insoddisfazione per quel che andava componendo, oltre che per i suoi impegni in Vaticana che aumentavano senza sosta189. Non se ne sarebbe interessato più nessuno, se non un altro futuro cardinale, Carlo Maria Martini, che a cavallo del Concilio Vaticano II avrebbe affrontato lo studio dapprima del testo tradito dal Vat. gr. 1209 e poi, dopo aver lasciato il governo dell’Arcidiocesi di Milano, quello della vicenda del codice, che non era riuscito a portare a termine nel 1966190. La malattia e la morte avrebbero deciso diversamente, così che una storia del codice sarebbe stata ancora da scrivere.
189 Su questa vicenda, oltre a quanto ho scritto in CARDINALI, Le vicende vaticane cit., pp. 334-339, rimando all’edizione commentata delle lettere di Ceriani a Mercati, che va preparando l’attuale prefetto della Vaticana, monsignor Cesare Pasini, per la collezione Studi e testi della Biblioteca Apostolica Vaticana. 190 CARDINALI, Le vicende vaticane cit., p. 333.
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DE CODICE B EXTRA BYBLIOTECAM CREDITO TESTIMONIA 1. Ann. 1491. Hermolao Barbaro patriarchae Aquileiensi. Praetermisso quodam antiquiore testimonio, quod ad alium bibliorum codicem spectare videtur191, primum huic probabiliter pertinens occurrit in libro secundo commodatorum bibliothecae Vaticanae nunc inter codd. Vatt. latt. 3966192, f. 39v: «Ego Hermous Barbarus patriarcha aquileg. et or (?) fateor habuisse bibliam unam g(re)cam (in margine alia manu: “Biblia greca”) die 10 mai 1491». Quae sequuntur alia manu “ex papiro in pavonatio cum cathena”, quamquam ad proxima biblia describenda videantur adiecta, vel minus accurata sunt vel forte praecedentem librum “helianum de animalibus in papiro die 14 decembris 1490” commodatum expressius designant. Quum una tantum biblia graeca universa, nempe B, tunc in Vaticano servaretur, quae autem «Biblia ex membranis in nigro» in indicibus ann. 1481 et 1484 dicuntur, id est codex nunc Vat. gr. 331, vetus solum testamentum contineant recentioraque plane sint, verisimile quidem est Barbarum doctissimum philologum his illa praetulisse, sed minime certum. De Hermolao Barbaro hinc Veneto ad summum pontificem oratore (144[…]1493 iul.), cuius in Sacram scripturam graecam studia prorsus ignorabantur, vide sis […]. Parergon. De codicibus Vaticanis Ximenio card. anno 1513 commodatis. Heic memorandum est Francisci card. Ximenes archiepiscopi Toletani quaedam parum accurata verba in […] bibliorum polyglottorum Complutensium plurimis, inde ab ipso (ut videtur) Erasmo193, olim persuasisse B a Leone X ad eundem Ximenium in Hispaniam transmissum atque illic ab editoribus eorum bibliorum 191 An. sive 1456 sive 1457 “die XIIIa mai” Franciscus Aretinus notissimus ille graecorum scriptorum interpres “mutuum” habuit “a R.mo Domino Archidiacono confessore Domini nostri” “unam Bibliam bene ornatam cum asseribus et serraturis de argento cum armis domini Nicolai quinti”, v. Müntz=Fabre o. c. 316, at quamvis praecedant et sequantur libri graeci iique soli eidem hellenistae commodati, biblia tamen latina fuisse puto, illa scilicet quae inter latinos Nicolai V libros idem Cosma secundo loco descripsit instructa: “ … grafetis de argento et in scutis armorum dni Nicolai”, ib. p. 48. Sane, ut alia mittam, in B convenire minime videntur verba “bene ornatam”, quae ornamenta designant haud vulgaria, et quidem iudicio hominis spectatissimi aetatis illius hac in arte incomparabili. 192 Librum hunc commodatorum (ab an. 148[…] ad an. […] circ.) utut a Vercellone iam indicatum praeterierunt Müntz et Fabre, qui in opere communi saepius laudato ediderunt librum primum a Demetrio Platina an. 14[…] inceptum. Edcher ille quoque suo tempore in monumentis ad historiam bibliothecae Apostolicae spectantium. 193 Cfr. Erasmi Epist. 882 an. 1527, inter Opera III (1703) 1002A, et Additamenta facta in suprema N. T. graeci ed. (an. 1535; cfr. infra, […] n. 3. In eadem opinione fuerunt Romae Blanchinius Evangel. quadr. I p. CDXCV, Ph. Vitali ib. p. DLXVII, mira ille coniciens, hic confundens; Io. Spalletti in cod. Vat. lat. 10353, f. 55, ac puto complures vel tempore C. Vercellone, qui eam fusius etsi non plene refutavit in ed. Maian. I p. IV not.
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adhibitum fuisse. Hodiedum hoc nem non negat: obstant enim praeter ipsam textus complutensis a Vaticano maxime distantis indolem, Leonis X litterae tum 27 august. 1513194 tum 7 ianuar.195 et 23 august. ann. 1519 datae, necnon acta praesidum bibliothecae penes Vercellone196 et acta duo anni 1513 nondum edita; quae concorditer omnia codices Vaticanos graecos 330 et 346 = Holmes 108 et […] eosque tantum Ximenio commodatos ostendunt; haec indices bibliothecae Vaticanae annis 1518 et 1519 confectos, qui libros hosce praetermittunt, B vero describunt (v. supra, […] nn. 6 et 7). Ceteris omissis proferemus acta nondum edita anni 1513, quae licet in praesenti prope superflua sint, numerum inplent testimoniorum de notissimo illo commodato audiendorum. Exstant eadem in Archivo Secreto Vaticano, Diversorum Cameralium t. 63, f. 116, sub lemmate margini circa initium adscripto: «Licentia extrahendi quaternos seu libros de Bibliotheca S. D. N. pro magistro Alfonso Garsia de Rincon (?) Abbate de Compludo». Errores scriptoris complures intactos relinquimus. Leo pp. X Motu proprio etc. Dilectis filiis Fedre Canonico Basilici principis Apostolorum de Urbe Blibliothecae palatii nostri Apostolici Bibliothecariis et Custodibus ac eorum cuilibet in virtute tanctae obedientie mandamus quatenus infrascripta volumina librorum in eadem Blibliotecha consistentia etiam si cathenis aut aliis ferris ligata (?) existant abinde removeant et dilecto filio magistro Alfonso Garsie del Rincon Abbati de Compludo in ecclesia Astoricensi ac dilecti filii nostri Francisci tituli Sanctae Balbine presb. Car.lis in Romana Curia procuratori et negotiorum gestori tradant et assignent recepto tamen prius ab eodem Alfonso nomine dicti Cardinalis sufficienti et ydonea cautione vel pignore de eisdemmet voluminibus librorum reportandis et cum effectu in eadem Blibliotecha vobis et pro tempore existentibus illius Blibliotechariis et Custodibus absque aliqua additione diminutione seu lesione vel rasura aut alio nocumento infra annum consignandis et retroducendis non obstantibus constitutionibus et ordinationibus Apostolicis ceterisque contrariis quibuscumque. Nomina vero voluminorum et librorum sunt hii que sequuntur Librum Iuditium ac Ruth pht ac quatuor librorum Regum et primus et secumdus paralimomenon et libri Esdre et Neemia et Thobias ac Iudith et Hester ac Iob et Proverbia Salomonis et Ecclesiastes et Sapientia et Ecclesiasticus ac duorum librorum Machabeorum in linga greca script. J.197 Placet et Ita motu proprio mandamus.
194
Leonis X pont. m. Regesta, ed. Hergenröther n. 4263. Ed. Lagomarsini, I. Pogiani epist. IV 331 not., ac denuo L. Dorez in Mél. d’archéol. et d’hist. XI (1891) 462 nt. 1. 196 L. c.=Dissert. acc. 410 n. non sine mendis. Adde Aleandri verba ex cod. Vat. lat. 3927 f. 455v, ed. Dorez in Revue des bibliothèques II 56: “Die 15 Ianuarii 1519 dedi oratori hispano l.ras i. breve pontificis cum l.ris camer. apo.ce ad archiep.m Consentinum D. Iohannem Ruffum nuntium ap.cum pro recuperandis duobus voluminibus grecis sacrae bibliae commodatis olim car.li Toletano. Remissa fuerunt ex Hispania praedicta duo volumina graeca bibliorum sacrorum ut retulerunt mihi custodes, et ostenderunt ea in Bibliotheca haebraeorum librorum”. – De Ruffo cfr., si lubet, auctores illatos a F. Cavicchi in Giornale storico della letteratura ital. supplem. 8 p. 129 n. 197 Scil. Johannes, quod fuit nomen Leoni X in baptismo inpositum. — Huius “motu 195
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Coll. F. de Att198 Cum nuper S. D. N. ex certis rationabilibus causis animum suum moventibus ac de requisitione R. patrum d. Gabrielis Archiepiscopi Barensis ac Alfonsi Garsie de Rancon abbatis de Compludo concessit sup. man. et mandavit Custodibus Bibliothech(ariis?) sup. is consig ut supra tam d. Thomas fedrus bibliotecharius sub die 27 Aug. 1513 tradit et consignavit eidem d. Alfonso qui libri sunt ligati, videlicet unus in tabulis, foliis 512199 et corio pergamino, et alius in tabulis de rubro in foliis 250200 in quibus sunt opera bibliae et testamenti veteris in lingua grecha quos quidem libros promisit restituere eidem bib. ario ut supra infra annum sub pena ducentorum duc(atorum) et sub eadem pena accessit R.s p. d. Gabriel Archiepiscopus Zarens. Accessit huic obligationi iur. etc. hactum in domo prefati D. Thome p D. Serafino de Cor. et Ioa. mad. Sabineus et Toletan. dioc. […]. Et in orto secreto etc. per D. Ter(entio) de […]. Io. script. apost.co et Fernando de Alfor.201 Portionario Giene … etc. et me F. de Att. not.
2. Circa ann. 1540-1545 Constantio Sebastiano ordinis Montis Oliveti monacho benedictino. In eodem codice Vat. lat. 3966, f. 15 (ol. 13), post unam celeberrimi Card. Contareni an. “1539 iunii” confessionem et ante aliam Camilli Luciferi “VIIII m. iunii” 1546 unius ergo ex annis 1540-1546 “al p.° di marzo”: Io frà Constantio Sebastiano faccio fede che ho r(icevu)to in pronto dal R.do Mons.or Bibliothecario [tunc Augustino Steucho Eugubino Ord. S. Augustini, episcopo Chissamensi, †1548] una biblia greca de littera maiuscula coperto rosso [seq. “quale” delet.] in carta pergamena quale prometto renderli presto et ad ogni requisitione de S. N. S. Idem fr. Constantius Sebastianus Neap. Manu propria202.
Manifeste describitur heic B iisdem fere verbis ac in posterioribus G. Sirleti fratrumque Ranaldi testimoniis. Frater autem Constantius Sebastianus Neapolitanus ille est “monachus Montolivetanus”, qui an. 1526 mense ianuario “Lupiis” Salentinorum Procli commentarium in Cratylum bona fide descripserat203, idem Gregorii Nazianzeni Apologeticon latine interpretatus est204: unus insuper et idem proprii” vix serius compendium ex cod. Vat. Barb. lat. 2428 memorat Pastor Geschichte d. Päpste IV 480 n. 1. 198 Attavant. sic Hergenröther. Huius notarii nomen saepius occurrit in Actis Concilii Lateranensis IV (an. 151[…]), in indice bibliothecae Vaticanae an. 15[…] etc. 199 Cod. Vat. gr. 330 re ipsa constat foliis […]. 200 Cod. Vat. gr. 346 constat foliis […]. 201 Testium cognomina certo legere non potui. 202 Meminit Vercellone in ed. V. et N. T. Maiana I p. vii not.=Dissert. accad. 412, rem ad an. 1539 perperam referens. 203 Cod. Vat. Barb. gr. 42: «Scripsit Constantius Sebastianus Montolivetanus XVIII° Kl. Februarias anno ab edita salute MDXXVI° LVPIIS». Cfr. G. Pasquali in Studi italiani di filol. class. XIV (1907) 143. Notulam cui idem v. cl. innixus librum a Peirescio Lucae Holstenio dono datum affirmat, non invenio. 204 Cod. Vat. lat. 3500, ol. Antonii card. Carafae: «Sancti Gregorii Nazianzeni Apologeti-
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ac “Constantinus malphitanus Cilenti abbas” qui “vertit Basilii opuscula quaedam” teste Iosia Simlero205, quique Lancellotto206 summus theologus et linguae graecae ac latinae peritissimus ex coniectura dicitur, “ut ex illa in hanc diligentissime transtulerit multa opera SS. Gregorii Nazianzeni et Io. Chrysostomi207”. — B domi quamdiu quonamque fructu Constantius adhibuerit ignoro: eundem ante m. aprilem anni 1546 imo longe autem reddidisse librum constat ex litteris G. Sirleti ad Marcellum Cervini cardinalem, quas mox recitabimus, n. 3. 3. Ante an. 1546 Basilio Zanchi Bergomati canonico Lateranensi. Guillielmus Sirletus Romae die 3 martii an. 1546 scribens “al S.or Santa Croce” i. ad Marcellum cardinalem Cervini, haec obiter ad Deuteron. 32, 43: «perché in quello esemplare che è nella libraria di N. S. scritto in lettere maiuscule, il quale un tempo haveva don Basilio, ve son le precise parole che allega san Paolo φρ ν ». Ex cod. Vat. lat. 6177 f. 88 particulam hanc ediderunt ν λα α Vercellone in ed. Maian. I p. VII not., dein accuratius P. Batiffol La Vaticane de Paul III à Paul V 85 sq. — Idem ibidem, f. 74r, ad eundem die 12 m. mai eiusdem anni, id ipsum tempus ideoque et commodatum probabiliter spectans: “Quella bibia scritta in lettere maiuscule che è in libraria di N. S. con (ex “da”) la quale io et Don Basilio una volta riscontravamo la stampata, legge in quel modo” etc. Edd. Vercellone ib., H. Höpfl in op. Kard. W. Sirlets Annotationen zum N. T. in Biblische Studien XIII, 2, 37 not. 4. Huius commodati pariter ac nonnullorum aliorum208 in actis domesticis mentionem nondum repperi: unde plures commodationes factas suspicareris quam cus Constantio Sebastiano Olivetano interprete». Editus fuit intercedente cardd. De Granvelle et A. Caraffa a Christoph. Plantin Antverpiae an. 1570; v. M. Roosens Correspondence de Chr. Pl. II 102. 205 Epitome Bibliothecae C. Gesneri (1555) 38, indeque in posteriores Bibl. ipsius editiones. Simleri notitia optima Lancellothum aliosque fugit. 206 Historiae Olivetanae lib. I f. 98, qui fere nihil de homine compererat. Ab eo tamen pendet Toppi Bibliotheca Napoletana (1678) 68; a Toppio Tafuri Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, III, I 413; a Tafurio Camera Istoria della città e costiera d’Amalfi (1836) 265, quicquid iidem aliter exponant. 207 Idem in vivis adhuc erat die 29 septembr. 1565, qua die Neapoli litteras dedit ad card. Sirletum gratias agens “dela volontà buona che ha in giovarmi con l’Ill. S. Clemente n(ost)ro Protettore” ([…]) et rogans “si degne responder à quelli domandi li ho fatte per le altre l(ette) re”, se illius “antiquo s(servito)re” professus et subsignans “Don Costanzo Sebastiano” (Cod. Vat. lat. 6189 f. 251). — “Al P(ad)re Don Costanzo Sebast.ni” etiam in cod. Vat. lat. 6805 f. 312v exstat epistula officii plena, Patavio die 28 febr. an. 1564 data, nisi fallor, a Flaminio Filonardi bibliothecae Vaticanae scriptore optante “che la lettera che à concorrenza con mio Padre hà la P(aterni)tà V.a fusse di spasso e consolazione, sicome ella in tutto è piena d’affanno et di dolore” ob tertianas febres et podagram. Sane Neapolitani Athenaei antecessor an. 1526 mense ianuario comparet quidam “R.do mro Sebastiano lo q. lege la l. de metafisica” penes E. Cannavale Lo studio di Napoli nel rinascimento (1895) docum. 1651-1654, verum is videtur a nostro diversus, qui “XVIII Kal. Febr.” eius anni “Lupiis” fuit Neapoli longissime distantibus. 208 […].
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quarum memoria exstat. De exemplari autem illo vaticano litteris maiusculis scripto an idem cum B sit dubitari nequit: cfr. Höpfl 37 sqq. Item constat (ib.) Dominum Basilium, qui librum penes se “olim” habuit, cum Bas. Zanchium bergomatem canonicum regularem lateranensem ac poetam elegantissimum fuisse, quem et Marcellus fovit aliquando209 et Sirletus plurimi faciebat210, cuique accepta ferenda est libri Vaticani collatio omnium prima vel hodiedum servata, cfr. […]. Basilium vero domi suae potius quam in ipsa bibliotheca librum contulisse longe verisimilius est, quod cum “olim”, non nuper, una secum factum Sirletus affirmet, dicendum videtur id ante a. 1546 fortasse non parum antea evenisse, attamen post annum 1539, in quo Sirletus Romam primum venit211; probabiliter etiam postquam Constantius Sebastianus librum acceperat (a. 1540 vel uno ex seqq.) et reddiderat. N. B. Quum B intra lustrum bis saltem commodatus fuerit, hinc forte probabili ratione explicatur cur liber ceteris indicibus inscriptus in indice Metelli (an. 1545 septembr.) desit. Sed hoc alia quaque caussa fieri potuisse supra, I part. 9 animadvertimus. 4. Ann. 1578-1586c. Antonio card. Carafa in usum editionis Romanae τῶν . In libro Archivi bibliothecae 26, olim M, cui titulus «Licenze di estrarre, e di copiare codici. T. I», inter rescripta Clementis VIII, f. 50v, idest a tergo libelli: «Alla S.tà di N. S.re Rev. Car.l Carafa», f. autem 38r sic ad verbum: Beatiss.° Padre Per accommodare la Bibbia Greca delli Settanta interpreti, ch’ha commandato V. S.tà che se stampi, sarà necessario, che commandi212 con polliza sotto scritta di suo pugno à m. Federico e suo Fratello213 custodi della sua libraria Vaticana, che mi diano la Bibbia greca scritta à mano di l(ette)re maiuscole, e gl’infrascritti libri, et altri di Dottori sacri sopra la scrittura, che Mons.r Ill.mo Sirleto Bibliothecario giudicarà necessarij alla giornata per la speditione di d. negotio. Grisostomo sopra il Genesi Glafira di Cerillo La Catena del Genesi
Greci
Humiliss.a creatura e devotiss.° ser. Card. Carafa 209 Idem an. 1542 Eustathii in Homerum suis sumptibus impressi exemplar unum dandum iusserat “a don Basilio della Pace” (ed. L. Dorez in Mélang. d’arch. et d’hist. XII 392), quam ecclesiam Lateranenses tunc tenebant, uti videre est e. g. in Baluze-Mansi Miscellan. IV 11; verum an. 1550 eum minus fovebat “per essere sfratato”. Vide infra, p. […]. 210 Cfr. epist. 15 febr. 1547 in cod. Vat. lat. 6177 f. 160 sqq. 211 Idem ipse in epist. quadam data die 23 m. iunii an. 1565: «Io son stato in Roma hormai XXVI anni». Vat. lat. 6186, f. 20. 212 Hinc patet quanta iam auctoritate opus esset ad libros vel cardinalibus commodandos: attamen commodabantur hi non raro. Cfr. quae congessi in op. Nel terzo Centen. dalla morte di C. Baronio. 213 Fridericus nempe et Marinus fratres Ranaldi, hic ab an. 157[…], ille ab an. 15[…] bibliothecae Vaticanae custodes. Cfr. ib. p. […].
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Subscriptio tantum est ipsius manu cardinalis. Summus autem pontifex suapte manu infra verba “La Catena” adscripsit: «Pl [idest “placet”, non “pro gratia”] et Ita mandamus V.»; adhoc, superius, post vv. “d. negotio” adiecit: «et ne pigli quietanza», nempe cardinalis bibliothecarius. Vulgavit Fabiani in ed. Rom. VI p. XXIX Libellum hunc ceu «mandatum Sixti V Pontificis ad apparandum celeberrimam Bibliae Graecae Sixtinam editionem», ideo ab E. Nestle Septuagintastudien I 18 iure reprehensus. Ast, quod est gravius, minime ad Sixtum V (1585-1590) datus est libellus, sed ad Gregorium XIII (15721585 april. 10), cuius sane nomine in baptismate inposito V(go), non autem “S. V” aliove quolibet, rescriptum de more firmatur214; cuius item manu scriptura certe prodit215. Ad initia autem operis, scilicet ad an. 1578 exeuntem vel circa retrahendum esse libellum patet tum per se, quia nimirum facultate tali opus erat ante omnia, tum ex ipsis codicibus experitis, qui ad Genesin i. e. primum principium spectant. Porro librum e bibliotheca extractum ab ipso operis praeside Carafa penes se retentum fuisse (quod certe de versionis Vulgatae latinae codicibus fecit, Angelo Roccha teste oculato216) longe verisimilius videtur quam concessum illi viro docto qui eum conferendum in se susceperat, nempe Petro Ciaconio et post eum Fulvio Ursino: nam codex praelegebatur in correctorum coetibus, qui a Carafa domi suae cogebantur, ut ostendemus infra, c. […]. — Ubicumque liber interdum asservatus fuerit, eundem loco suo non ante redditum diceres quam absoluta sit editio. 5. An. 1615 Roberto card. Bellarmino ad parandam N. T. graeci editionem. In eodem t. 26 Archivi bibliothecae f. 258v, manu Io. Matthaei Caryophylli, nisi fallor, praeter verba “Beatiss.e Pater” a card. Bellarmino scripta217. «Beatiss.e Pater. Ad collationem sacri textus novi testamenti, à Bibliotheca Vaticana opus est habere sex integra corpora testamenti novi; et è bibliotheca Patrum Vallicellae quatuor vetustissimos codices novi testamenti, omnia manuscripta».
Ib. f. 266v, manu eiusdem Bellarmini: «Alla S.tà di N. S. Licenza di estrarre alcuni libri dalla libraria Vaticana Per la Congregatione del testamento nuovo greco».
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Huius moris exemplum vidimus supra, p. […], in motu proprio Leonis X. Gregorii XIII scripturae a Sixtina plane diversae specimina habentur e. g. in eodem libro f. 16v, 18v, 19v (26v Sixti V) et in Indice Archivii secreti 13 ff. 382v, 334v. Ceterum rem viderat saeculo XVII quidem bibliothecae Vaticanae custos ac notaverat in f. 50v: «Greg. XIII», quod editores Romanos fugisse mirum est. 216 Bibliotheca Apostolica Vat. (1591) 406sq: «vidi enim multa Bibliorum exemplaria manuscripta, alia aliis antiquiora, quae suis in Aedibus Romae Antonius cardinalis Carafa non sine magno labore, atque impensis coacervavit, undique iis conquisitis: nam de Bibliis Vulgatae editionis ex Decreto sacrosancti Concilii Tridentini emendandis Congregationem iam inde a Pio IV inceptam, in eiusdem Cardinalis Aedibus haberi Sixtus V mandavit». 217 Ut constat conferenti litteras Bellarmini autographas in eodem t. 26 f. 135, infra edendas. 215
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Post vv. “N. S.” alia manu, cuiusdam scilicet ab epistulis pontifici: «All’Alamanni, che ne parli à N. S.» Ed. Fabiani in ed. Rom. VI, p. xxx, absurdis temporis notis: «Greg. XV. 11 agosto 1626» (illa quidem forte ex f. 265bisv: «Alla Sant.à di N. S. PP. Gregorio XXV. Per Mons. Diaz Vesc.° di Caserta», hac autem ex f. 261r, ubi manu P. A. Galletti: «Card. S. Susannae obiit 11 August. 1626») incredibili socordia rescripto adiectis: nam e vivis excesserant ambo, Gregorius XV an. 1624, Alemannus autem die 24 m. iulio an. 1626218. Hanc sane Bellarminii postulationem consecutum est Pauli V mandatum, quo Vaticana totidem, nempe sex corpora testamenti novi cardinali commodari iussit, ib. f. 177r: «Custodi della Bibliotheca Vaticana prestarete al Card.l Bellarmino sei volumi greci del Testamento nuovo segnati di fuori con li numeri 349 / 354 / 358 / 1150 / 1209 / et 1254 / manuscritti in carta pergamena, con pigliarne ricevuta; Non ostante qualsi sia prohibitione, overo censura. Dal nostro Palazzo di M.te Cavallo, questo di 25 di luglio 1615. Paulus pp.a Vs.»
Subscriptio est ipsius pontificis manu. — F. autem 185v, nempe foris, alia manu: «Ordine da dare libri con la Ricevuta del Sig.or Card.le Bellarmino». Vidit et sententiam expressit A. Birch Von Vaticanischen Codex in I. D. Michaelis Orient. Und exegetische Bibliothek XXIII (1785) 156; edd. Vercellone Dissertazioni accademiche 130 in not., […] Fabiani l. c. Numeri quibus libri vaticani distinguuntur novissimi sunt, sub initia saeculi XVII invecti et huc usque retenti. In uno tantum error obrepsit, nempe in 1150, pro quo leges 1160, non tamen cum Vercellone in ipsum textum tacite reponas. Quo autem modo factum sit ut cardinalis sex in summa tantum codices indicante pontifex tot singillatim sub propria quemque nota recenseat, id intelliges si chirographum ut alias219 ab ulterutro Vaticanae custode, ab Alamanno, puta, graeco et graece doctissimo paratum, ut conieceris. Quamdiu porro Bellarminus libros manu scriptos retinuerit, quisve contulerit,
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E. Legrand Bibliographie hellénique … au XVII siècle III 205. Ita, e. g., Bellarminus in epistula «All’Ill.re et M.to Rev. S.re il Sig.r Baldassare Ansidei» in eodem codice 26 Archivii bibliothecae, ff. 135, 142 (foris): «Ill.re et m.to R.do Sig.re. Hieri domandai a Nostro Sig.re licenza di haver dalla libraria vaticana la vita di Mattilde scritta da Donnizone, per farla riscrivere, et mandarla in Germania al P. Jacomo Gretsero della compagnia di Giesu, per servitio di una grande opera, che esso scrive in difesa di Papa Gregorio VII. La S.tà sua mi disse, che mi faceva la gratia volentieri, ma che io facesse sapere a V. S. che lei mandasse di questa licenza un chirografo alla S.tà sua, che di sua mano lo sottoscriverebbe. Prego dunque V. S. che mandi il suddetto chirografo, et havuta la licenza scritta, mi faccia gratia di mandarmi il libro, che lo farò transcrivere, et fedelmente quanto prima lo restituirò et con questo, gli prego da Dio ogni bene. Di casa li 26 d’Agosto 1611. Di V. S. Ill.re et m.to R.da Come fratello Il Card. Bellarmino». 219
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ex actis bibliothecae non liquet, sed cfr. infra, c. […], ubi historia illius editionis N. T. graeci interceptae narrabitur. 6. An. 1669 Iulio Bartoloccio mon. Cisterciensi, Vaticanae Bibliothecae scriptore hebraico. In t. saepius citato 26 Archivi Bibliothecae, f. 561r: Beatiss.mo Padre Giulio Bartolocci M.co di S. Bernardo hum.te espone, come dovendo far collationare il Nuovo Test.o Greco stampato con un codice manoscritto antico per notare le varie lettioni d’ambe doi per servitio universale della S. Chiesa Hum.te prostrato alli piedi della S.tà V. hum.te la supplica a concedere licenza al 2° Custode della lib.ria Vatic.a vogli consignare in mano dell’oratore il Codice m. s. Greco della lib.ria sud.a segnato n.° 1209 e lo stampato parimente Greco segnato n.° 141, acciò possa fuora di d.a lib.ria e con mag.re commodità fare il d.° confronto, che con sollecitudine se restituiranno, e non mancarà pregare per la buona salute della S. V. Quam Deus etc.
Foris, f. 564v: «Alla S.tà di N. Sig.re Papa Clemente IX Per Giulio Bartolocci m.co di S. Bernardo»; praeterea rescriptum: «Sanct.mus annuit Ad Mensem Hac die 8 Iulii 1669. N. Piccolomineus sec.rius». In eodem libro, f. 571v: Beatiss.mo Padre. Giulio Bartolocci M.co di S. Bernardo, e scrittore in lib.ria Vatic.a essendo stato aggratiato dalla S. V. di potere estraere da d.a libraria dui Codici Greci del Nuovo Test.° uno mano scritto, e l’altro stampato ad effetto di notare le varie lettioni che occorrono fra di loro e perché hormai e passato il mese che la S. V. ha prefisso all’or.re: et non ha possuto rivedere più che li primi tre evangelij, che sono la terza parte in circa di tutto il Test.° Novo, si che per finire, vi vorrebero almeno dui altri mesi. Onde l’or.re prostrato a piedi della S. V. hum.te la supplica di prorogarli il tempo per altri dui mesi. Che il tutto etc. Quam Deus etc.
Foris, f. 578v: «Alla S.tà di N. Sig.re Papa Clemente IX Per Giulio Bartolocci m.co di S. Bernardo»; item rescriptum ut supra: «Sanct.mus annuit ad alium mensem. Hac die 5 Augusti 1669. N. Piccolomineus sec.rius». Ed. Fabiani in ed. Rom. VI p. XXX, assuto alteri petitioni rescripto: «die 26 Augusti 1670 SS.mus annuit iuxta solitum …», quod ex f. 577v descriptum Stephano Gradio custodi datum fuerat roganti: «che dalla Bibliotheca Vaticana possa extrarsi libri manuscritti e carte spettanti agl’Indici incominciati a farsi e non finiti ancora a effetto di poter seguitar il lavoro in questi tempi ne quali i scrittori godono vacanze dal venir nella Biblioteca». Liber autem impressus n.° 141, in veteri «Codicum typis editorum Vaticanae Bibliothecae Inventario» (a. 16[…]) ita descriptus: «Sacrae Scripturae veteris novaeque omnia Graece. Venetiis Typ. Aldi Manutii 1518. in fol. cum nott. marg. mss.», illud profecto exemplar est, quod recens notatum A(ldin.) 36, antiquas servat notas “1. R” “141”, item sigillum “Biblioth. S. Silvestri” in colle Quirinali, praebetque notationes plures scriptas partim, nempe in Hieremiam, manu — ni fallor — Michae-
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lis Ghislerii clerici regularis Theatini, catenae Patrum Graecorum in Hieremias editionis. De collatione ipsa Bartolocci, quam ad aldinam editionem exactam viri docti iam viderant, cfr. infra, c. […]. 7.-10. Ann. 1833-1848, 1849-1854 Angelo Maio Biblia ex codice edenti. In tomo 50 archivi bibliothecae Vaticanae, f. 89, Angeli Mai ad Gregorium XVI supplex libellus220: L’umile scrivente avendo finite le sue due Raccolte, una in 4° di Tomi VIII221, e l’altra in 8° di Tomi V222, non ha potuto però compire la più importante sua intrapresa, commessagli con ipseciale onore dalla S. M. di Leone XII, dietro precisa istanza che ne fece personalmente alla Santità Sua la ch. memoria del Card. Somaglia; s’intende l’edizione della Bibbia greca secondo il Codice Vaticano. Ora questa è la grazia che umilissimamente implora dalla Santità Vostra, cioè che voglia clementemente accordargli di proseguirla lentamente e quasi a tempo perduto nella Tipografia della Propaganda; permettendogli di recar seco dal Vaticano a tal fine il Codice sopradetto che sarà custodito con la più scrupolosa severità; e insieme quel carattere greco, che sinora si è adoperato nella Edizione …
Pontificis responsum descripsit ipse Maius in margine: «Accordata la grazia tutta». Ed. I. Carini in Spicilegio Vaticano I (1891) 397. Cfr. ipse Maius in edit. Suae Pref. t. I p. XXII sq. Petitio data est an. 1833, postquam Maius S. Congregationis de propoganda fide secretarius factus (die 15 m. mai) bibliothecae Vaticanae custodiam huiusque librorum copiam dimiserat ac Mezzofanti in eius locum suffectus fuerat223. Librum anno 1833 sibi commodatum non solum usque ad impressionem absolutam (a. 1835 c.), sed et diutissime postea, scilicet ad an. fere 1842 (nam an. 1839 exeunte224 vix tertiumdecimum Exodi caput attigerat) Maius domi retinuit, ut textum neglegenter excusum ad codicem ipsum per otium exigeret. Redditum ante m. iunium an. 1843, quo Tischendorf eum in bibliotheca dies duos aegerrime impetravit tractavitque225, cardinalis accepit iterum a. 1846 die 26 mensis iunii226 ac restituit ante novembrem a. 1848, quando turbas et seditiones in dies recrudescentes Pius IX una cum sacro cardinalium collegio Caietam recessit. Tunc Maius litteris Albani datis227 C. Laureani custodem principem rogavit ut B aliosque codi220
Ibidem f. 90 aliud brevius exemplar libelli. Idest Scriptorum veterum nova collectio, cuius tomus VIII anno 1833, IX autem an. 1836 in lucem prodiit. 222 Nempe Classicorum auctorum e vaticanis codicibus erutorum. Tomus V an. 1833 vulgatus est, VI an. 1834. 223 Cfr. G. Rusel Vita del card. G. Mezzofanti, vers. ital. (Bologna 1859) 178 sq. 224 Cod. Vat. lat. 9625, nempe t. I ed. Maian. P. 136: «hucusque contuli cum codice 22 xbris 1839». 225 Sed etiam E. de Muralt an. 1844 per dies tres, S. P. Tregelles an. sequenti per plures menses saepius vidit. Cfr. Gregory Textkritik I 37, et vide sis infra, […]. 226 Confessio Mai ipsius exstat in t. 47 Archivi bibliothecae f. 634. 227 Ed. Carini in Spicilegio Vat. 400 sq. ex originali in c. 47 cit. f. 778; et ante eum Cozza 221
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ces Vaticanos sibi commodatos n.° circiter 130 in bibliothecam reponenda curaret, prouti fecit. Liber — quacumque de causa — male habitus erat teste Pio Martinuccio, qui ceteroqui Maio nonnihil infensus fuisse videtur: Si è conosciuto che non usa l’avvertenza di trascrivere ciò che deve dare alle stampe, ma consegna il codice. Quindi oltre che conviene far rilegare il codice o codici adoperati dallo stampatore, ritornano massacrati, laceri, e guasti, come avvenne alla celebre Bibbia greca dei LXX, quale fu dovuta riparare e rilegare, ed ora l’ha ripresa di nuovo. Essa è dimandata dai forestieri per essere veduta, perché è notata nelle guide di Roma228.
Mense Novembre 1849 Maius redux libros plurimos statim recepit, ac primum omnium «Bibbia greca Cod. Vat. 1209229», quam nonnisi post viri summi funera recuperavit P. Martinucci alter Vaticanae custos die 20 septembris a. 1854: « … andai, e riportai subito alla Biblioteca la celebre Bibbia» ait idem230, qui postea codices quotquot receperat ad absolvendos heredes recensens animadvertit: «Dippiù si è ritrovato il preziosissimo e rarissimo Codice Vaticano greco della Bibbia secondo la versione dei LXX segnato col num. 1209, quale è stato trovato in più luoghi macchiato ed in alcune pagine è pure trinciata la pergamena, come lo sono moltissimi fogli dei Codici Copti di sopra notati, che forse non si potranno più riparare e si dovranno considerare perduti231».
Ast haec detrimenta saltem pleraque iam ante Maium liber passus fuerat procul dubio: quod Martinucci minime rescisse videtur. 11. Ann. 1867-1881 Carolo Vercellone et Iosepho Cozza-Luzi codicem typis simillime edere iussis. In t. 50 archivi bibliothecae f. 104: 43641. Dalla Segreteria di Stato 14 Gennaio 1867. Il S. Padre avendo disposto che a cura del P. Vercellone, Barnabita, sia pubblicato pe’ tipi della Stamperia poliglotta della S. Congregatione di Propaganda Fide l’antichissimo Codice Greco della Bibbia dei Settanta, che si conserva nella Biblioteca Vaticana, Mons.r Martinucci Secondo Custode della Biblioteca sud.a, prese le analoghe intelligenze col nominato P. Vercellone, farà sciogliere il ripetuto codice con tutte le possibili cautele, e ne consegnerà al medesimo cinque fogli per volta, collocandoli in altrettanti telarini a doppio cristallo per poterli leggere232 senza esser toccati, se non in caso di assoluta necessità dal solo P. Vercellone, e con due distinte chiavi o lucchetti, da ritenersi una da Mgr. Martinucci, e l’altra dal P. Vercellone. Nell’atto Luzi Epistolario del card. A. Mai (Bergamo 1883) 129. […] ex schedula autographa in cod. Vat. lat. 9579 f. 159v, ubi sic: «codici di gelosia Bibbie greche 1209 2120» etc. 228 In t. 58 Archivi bibliothecae f. 140v (132.135) Martinucci haec scribebat a. 1851. At recolas velim quae de infirmiore codicis integumento animadverti supra […] n. 4. Varia vel librorum quos Maius numquam adhibuit integumenta renovare oportuit. 229 In t. 47 cit., f. 679r, manu Mai: «Anno 1849 in 9bre. Presi dal Card. Mai». 230 Ib. f. 786 in litteris 21 sept. 1854 ad priorem custodem Alex. San Marzano. 231 Ib. f. 795v, 797v sub die 30 septe. 1854. 232 «Portar seco alle proprie case», ait Ciccolini ib. f. 120.
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della consegna Mgr. Martinucci ritirerà dal P. Vercellone la corrispondente ricevuta, e questi la esigerà da Mgr. Martinucci nell’atto della restituzione. Sarà poi cura del ripetuto Mgr. Secondo Custode di custodire gelosamente i fogli che gli verranno restituiti, onde in fine del lavoro possa la suddetta Bibbia essere rilegata e conservata nella Biblioteca stessa, come si è fin qui praticato. Tanto si partecipa a Mgr. Martinucci per una intelligenza e notitia. G. C. Antonelli.
In eodem t. f. 107 sub n.° 43641 idem Card. Antonelli, die 22 mart. A. 1867: «Per accelerare la pubblicazione … si autorizza lo stesso Sig.r Martinucci a consegnare al P. Vercellone … il nuovo quinterno, qualche giorno prima che il sullodato P. Vercellone restituisca il precedente …».
Idem ib. f. 110, sub n.° 53595, ad Alex. San Marzano, die 8 febr. A. 1869: In seguito dell’avvenuta morte del P. Vercellone … essendogli stato sostituito il P. Cozza Basiliano … ne’ modi stessi … si consegnino i successivi quinterni al P. Cozza …
Ib. f. 117 M. Rampolla S. C. de Propaganda fide pro ritibus Orientalibus secretarius die 8 iulii a. 1879 eandem facultatem petit pro Henrico Fabiano ad editionem absolvendam assumpto, qui tamen eam vel non impetravit vel non adhibuit. Ib. f. 119, die 3 iunii 1880, Stephanus Ciccolini iussu consilii bibliothecae Vaticanae regendae expostulat ne prorogetur: una condizione di cose, che lascia una dei più preziosi gioielli della collezione Vaticana esposto al rischio di smarrimento, ed in guisa non punto decorosa per mostrarlo ai Visitatori ed eruditi che spesse volte fanno domanda di vederlo.
Quod tandem anno sequente die 30 iulii factum est, teste libro 61 Archivi bibliothecae, in quo supersunt ex Antonelli card. praescripto confessiones foliorum codicis datorum et acceptorum a die 22 ianuar. an. 1867 ad 30 iul. an. 1881.
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LE VICENDE VATICANE DEL CODICE B DELLA BIBBIA
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Tav. I – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Carte Mercati 123, f. non numerato.
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GIACOMO CARDINALI
Tav. II – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Carte Mercati 123, f. non numerato.
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LE VICENDE VATICANE DEL CODICE B DELLA BIBBIA
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Tav. III – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Carte Mercati 123, f. non numerato.
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GIACOMO CARDINALI
Tav. IV – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Carte Mercati 123, f. non numerato.
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CARLA CUCINA
IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA (VAT. LAT. 14613) 1. Alcune considerazioni preliminari Sotto la segnatura Vat. lat. 14613, la Biblioteca Apostolica Vaticana conserva un pregevole manufatto runico, di sicura origine nordeuropea, sinora inedito. Si tratta di un calendario epigrafico su legno del tipo sved. runbok o «libro runico» (variante runica della classe rimbok o «libro del computo»), vale a dire un calendario perpetuo portatile composto da tavolette legate fra loro a guisa di libro e affidato ad un sistema alfa-numerico di matrice runica. Il genere è noto e si inserisce entro una produzione calendariale su legno assai vasta, che interessa molte regioni dell’Europa centro-settentrionale e appare concentrata soprattutto nel periodo compreso fra il tardo medioevo e il rinascimento1. In tali manufatti, le caratteristiche tipologiche (forma e dimensioni del materiale di supporto) e grafiche (marcatura e cifrario per l’individuazione dei giorni del calendario) possono variare notevolmente, definendo parametri formali di sostanziale fluidità, sempre passibili di contaminazione per osmosi culturale da una zona all’altra e pur nel tendenziale rispetto di modelli iterati e fissi, propri di ogni produzione artigianale in serie. Ma la “struttura” del calendario, ovvero la sua articolazione interna fra disposizione degli elementi grafico-iconici e rispondenza 1
Cfr. C. CUCINA, Libri runici del computo. Il calendario di Bologna e i suoi analoghi europei, Macerata 2013, particolarmente pp. 75-131. A luoghi specifici di questo recente lavoro, in relazione alle diverse questioni connesse alla materia calendariale soprattutto nordica, si farà in questa sede più volte riferimento; al volume nel suo complesso, come opera che per la prima volta affronti lo studio dei calendari runici svedesi entro il più ampio contesto europeo medievale e post-medievale, e come ampia rassegna di dati documentali — epigrafici e manoscritti o a stampa — che consentano una più consapevole impostazione generale del fenomeno, si rimanda invece ora una volta per tutte. Le tabelle e i disegni che qui compaiono nelle figure, in alcuni casi già pubblicati in quello stesso libro (cfr. figg. 9-11), e che si intendono soprattutto come supporto visuale utile sia alla comprensione dei vari modelli tipologici e grafici dei calendari nordici fra medioevo e rinascimento sia all’analisi specifica delle tavolette del calendario runico vaticano, sono opera mia. Ugualmente mie sono le traduzioni italiane di tutte le iscrizioni e i testi antichi citati in questo saggio. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 237-328.
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CARLA CUCINA
allo scopo fondamentale del calendario perpetuo cristiano medievale di marca occidentale — identificazione delle feste dell’anno liturgico, soprattutto delle domeniche in genere e della Pasqua in particolare — si mantiene pressoché inalterata per lunghi secoli e ampie regioni dell’Europa, anche quando la diffusione dell’almanacco annuale a stampa ne dovrebbe rendere vana la replica e obsoleto l’utilizzo. Poiché entro tale variegata produzione calendariale epigrafica su legno si deve dunque inquadrare anche il piccolo libro runico del computo conservato nella Biblioteca Vaticana, varrà la pena, in via preliminare, di esaminare subito le possibili soluzioni offerte dal vasto corpus documentale a disposizione per i due aspetti che abbiamo ora evidenziato, ovvero da un lato il dato formale — graf(emat)ico e iconico-simbolico —, dall’altro il fondamento del calcolo cronologico e la sua organizzazione in modello lineare. Questo secondo aspetto costituisce in verità il presupposto stesso della fortuna del calendario perpetuo — anche nelle sue varianti portatili e/o da tasca che qui più interessano — a partire dal tardo medioevo, quando appare già diffuso ben oltre l’ambiente ecclesiastico e interessa sia la società rurale sia la borghesia cittadina dell’Europa centro-settentrionale. Si vedrà che proprio le zone d’influenza scandinava segnano la punta di massima espansione del fenomeno del calendario epigrafico su legno (sved. rimstav o «bastone del computo», norv. primstav o «bastone del calendario [propr. lunare o dei noviluni]»), il quale diviene strumento comune di orientamento nell’anno economico e civile presso gli agricoltori, sintetizzando meglio che altrove un processo di fitta intersecazione fra tradizione cristiana (la base del computo) e tradizione folklorica (la successione dei punti di “svolta” stagionali, agricoli ed economici in senso lato). Ora, sia detto in breve, il fondamento metodologico del computo ecclesiastico medievale, incardinato sull’anno giuliano, risiedeva nell’incrociare i dati relativi al ciclo solare con quelli riferiti al ciclo lunare sulla tavola del cosiddetto “grande ciclo pasquale”, il fine ultimo del calcolo risultando in sostanza l’individuazione della data della Pasqua e delle feste mobili che da essa dipendono nell’anno liturgico. Poiché il canone niceano (325 d.C.) agganciava la domenica di Pasqua al plenilunio successivo all’equinozio di primavera2, fondamentale risultava definire la posizione relativa dell’anno entro il ciclo lunare metonico, che si compie ogni 19 anni, quando il sole e la luna vengono a trovarsi di nuovo nella stessa posizione. Lungo uno degli assi ortogonali della tabula paschalis, dunque, compariva la serie del cosid2 In particolare, la Pasqua deve cadere nella prima domenica dopo la luna piena che segue l’equinozio di primavera, fissato dai padri conciliari il 21 marzo.
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
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detto “numero aureo” (lat. aureus numerus), utile a identificare le date dei noviluni di ciascun anno e affidata sul piano formale alle cifre romane da I a XIX ovvero a sistemi concorrenti, composti da altrettanti segni simbolici o alfabetici, che entrano nell’uso durante il medioevo3. Nella pratica computazionale, per conoscere il numero aureo di un certo anno si doveva dividere per 19 la data annuale incrementata di 1; il resto di tale divisione costituiva il numero d’oro e, nel caso esso fosse pari a zero, si identificava la cifra desiderata con il 19, ovvero come ultima posizione nel ciclo metonico. Circostanza di facile applicazione alle varie mnemotecniche del computo risultava il fatto che il numero aureo aumentasse di una unità ogni anno; mentre l’incremento unitario della data annuale necessario all’operazione matematica di base dipendeva dall’avvio dell’èra cristiana in coincidenza con il novilunio del 25 dicembre dell’anno 1, così che il primo numero aureo del ciclo entrava nell’anno 2 d.C. soltanto in corrispondenza del novilunio del 23 gennaio. Il riallineamento del ciclo decennovennale al reale ciclo astronomico, che anticipava leggermente nella misura di un giorno ogni 308 anni, e che dunque aveva condotto molti calendari tardo- o immediatamente post-medievali ad annotare una correzione del numero aureo (aureus numerus correctus) rispetto a quello “canonico” o antico (aureus numerus antiquus), non pare interessare la produzione nordica almeno nel modello epigrafico standard del runstav o «bastone runico del computo» svedese che qui più appare rilevante, ovvero se si escludono le realizzazioni — manoscritte o a stampa su matrice unica di legno — di almanacchi dall’articolazione computistica e iconica complessa (sved. bildkalendrar, dan. billedkalendere o «calendari illustrati»)4. In altri termini, i calendari epigrafici scandinavi su legno, sebbene risalenti per lo più a ben oltre la fine del periodo medievale, continueranno ad uniformarsi alla matrice computistica antica del numero aureo canonico, confermando da un lato la loro origine nell’età di mezzo e dall’altro il probabile confluire di elementi endogeni di computo (ad esempio, il tradizionale anno di 364 giorni, regolarmente suddiviso in unità ebdomatiche piene non segmentabili)5 nell’impianto del modello perpetuo ecclesiastico6. 3
Cfr. infra, figg. 1-3 e contesto. Sui quali si veda sinteticamente O. ODENIUS, Bildkalender, in Kulturhistorisk Lexikon for Nordisk Middelalder fra vikingetid til reformationstid (abbr. KLNM), København 1956-1978, rist. fotogr. 1981, vol. 1, coll. 532-534. 5 Sulla centralità della settimana nel computo nordico antico, soprattutto per come emerge dalle fonti islandesi medievali e particolarmente in rapporto alla strutturazione interna di alcune classi tipologiche di runstavar, si veda infra, § 3. 6 Per alcune considerazioni sull’applicabilità del numero aureo corretto ai calendari perpetui — runici e non — di area nordica, nonché sulle eventuali incongruenze documentali che si riscontrano in tale produzione, si vedano soprattutto N. LITHBERG, Rimstavar med 4
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Ugualmente per il fine ultimo della determinazione della data della Pasqua, poi, il computo cristiano puntava naturalmente ad isolare, nel cerchio dell’anno determinato dal ciclo solare, le domeniche. A identificare i “giorni delle messe” secondo il calendario liturgico servivano, nel modello latino corrente, le prime sette lettere capitali romane nel loro ordine standard, dalla A alla G, chiamate in tale contesto «lettere domenicali» (litterae dominicae o dominicales), ad ognuna delle quali corrispondeva un giorno della settimana. La dipendenza dal ciclo solare, che ha una durata di 28 anni, guidava la stessa pratica computistica per ottenere la lettera domenicale di un certo anno. Si divideva infatti la data annuale, aumentata di 9, per 28, e il resto di tale semplice operazione matematica si traduceva nella posizione di quell’anno entro il ciclo solare ovvero, in altri termini, nella lettera domenicale associata a quel numero sulla tabula paschalis per quello stesso anno. Se il resto fosse risultato pari a zero, l’anno si doveva intendere come ultimo del ciclo ventottennale, e la lettera domenicale di conseguenza doveva incrociarsi in corrispondenza del numero 28. L’incremento di 9 unità della data annuale, indispensabile al calcolo, dipendeva nuovamente dal canone niceano, che aveva posto l’inizio di un nuovo ciclo solare nell’anno 328: risultò così che il primo anno del primo ciclo solare a cavallo dell’èra cristiana cadesse in realtà il 9 a.C. Nozione ugualmente necessaria al computo era inoltre la circostanza che gli anni bisestili presentassero due lettere domenicali, una per il periodo precedente al 24 febbraio e l’altra, successiva nella sequenza, per il resto dell’anno7. La traduzione sul piano formale di questo sistema incrociato dei cicli rättade gyllental före år 1600, in Fataburen (1920), pp. 1-26; ID., Kalendariska hjälpmedel, in Tideräkningen, Tidsregning, utg. (udg.) M. P. NILSSON, Stockholm – Oslo – København 1934 (Nordisk kultur, 21), pp. 77-93; ID., Computus med särskild hänsyn till Runstaven och den Borgerliga Kalendern, Enligt uppdrag utgiven av S. O. JANSSON, Stockholm 1953 (Nordiska Museets Handlingar, 29), pp. 83-97; S. O. JANSSON, Runkalendarium, in KLNM, 14, coll. 495496; ID., Runstavsproblem, in Rig 30 (1947), pp. 168-181. 7 Sui fondamenti e la prassi del computo ecclesiastico medievale si faccia comodo riferimento a F. MAIELLO, Storia del calendario. La misurazione del tempo, 1450-1800, con una nota di J. DELUMEAU, Torino 1996, e alla buona sintesi offerta in J.-D. LAJOUX, Origines et avatars du calendrier chrétien, in Les calendriers. Leurs enjeux dans l’espace et dans le temps, Colloque de Cerisy du 1er au 8 juillet 2000, sous la direction de J. LE GOFF, J. LEFORT et P. MANE, Paris 2002, pp. 63-82. Di impianto generale ma particolarmente riferiti all’area nordeuropea risultano il fondamentale LITHBERG, Computus cit.; i contributi raccolti nel volume miscellaneo Tideräkningen, Tidsregning, citato alla nota precedente; A. PFAFF, Aus alten Kalendern, Augsburg 1946; e H. GROTEFEND, Taschenbuch der Zeitrechnung des Deutschen Mittelalters und der Neuzeit, Hannover 196010 (versione online con database in , maggio 2014). Utile risulta infine anche il classico A. CAPPELLI, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo dal principio dell’èra cristiana ai nostri giorni, Sesta edizione aggiornata, Milano 1988.
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
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Fig. 1 – La serie per il numero aureo (I-XIX) nelle principali varianti “inglesi” e “continentali”.
lunare e solare prevede nel medioevo, come si accennava, l’impiego di alcune serie varianti di cifre e/o grafemi con valore alfa-numerico, i quali sostituiscono oppure si affiancano ai numeri romani e alle lettere latine del modello del calendario perpetuo ecclesiastico. Si conoscono ad esempio, dalla documentazione riferita ad un’ampia area centro-settentrionale europea, due realizzazioni di cifrari puramente numerici costruiti su base pentadica, dunque, in ultima analisi, secondo il modello tipologico della stessa numerazione romana, cui evidentemente si ispirano. In particolare, grande diffusione mostra il sistema cosiddetto “inglese” (cfr. fig. 1), giocato sull’allineamento verticale di brevi tacche orizzontali o punti (per l’unità), realizzazioni di V eventualmente ruotate di 90° o 180° e arrotondate (per il cinque) e croci (per la decina), il quale appare caratteristico dei kalenderstavar soprattutto dell’area dello Staffordshire (i cosiddetti clogs almanacs), ma si rintraccia spesso anche in calendari di legno — su tavola e a libretto — norvegesi. E ugualmente molto utilizzato dovette essere il siste-
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ma cosiddetto “europeo” o “continentale” (cfr. fig. 1), che mostra sostanzialmente il medesimo impianto grafico innestato però su asta verticale “esplicita” nonché dotato di più numerose varianti realizzative del numerale per cinque; la documentazione acquisita segnala un’area di diffusione di tali cifre calendariali per lo più divisa fra la regione alpina (Tirolo) e quella scandinava (Danimarca, Norvegia e Svezia occidentale)8, e anche in questo caso — come per il tipo grafico “inglese” — l’impiego epigrafico su legno appare tutt’altro che esclusivo, interessando una produzione varia e articolata, manoscritta e poi a stampa su matrice intagliata nel legno, con modelli di almanacco-calendario replicati senza posa contaminando tipologie e tecniche realizzative diverse9. Entrambe queste serie numeriche esprimevano naturalmente il numero aureo, mentre la sequenza delle sette lettere domenicali rimaneva, anche nella prassi epigrafica riferita a tali segni calendariali, affidata alla serie alfabetica latina, il più sovente nelle forme romano-gotiche. Nella tradizione nordica del computo e nei calendari prodotti in area scandinava, tuttavia, sia la serie del numero aureo (a.isl. prímstafr, sved. run. prim o primstaf[u]r, sved. primstav) sia le lettere domenicali (cfr. a.isl. sunnudagr, sved.run. sun[nu]dag –r, sved. sunnodag) venivano sovente — di norma nelle zone di pertinenza svedese, più occasionalmente in aree di contaminazione e di contatto entro la Norvegia, la Danimarca e le coste baltiche10 — espresse tramite la sequenza del fuþark (ovvero attraverso l’ordine convenzionale non alfabetico delle rune) nella sua realizzazione più recente tipica del Nord e dell’età vichinga11. 8 Ma anche, per il tipo dei calendari illustrati tardo-medievali su pergamena o su carta, nella Germania nord-occidentale, nei Paesi Bassi e nelle Fiandre. Cfr. LITHBERG, Computus cit., p. 98. 9 Una valutazione più attenta di questa produzione, caratterizzata da ampia dislocazione geografica e notevoli intrecci documentali si troverà in CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 99-131 (capitolo 4, Calendari runici e contesto europeo). 10 Sulla zona d’origine e i canali geo-politici o geo-etnografici di diffusione dei bastoni del computo nella variante grafica runica svedese del runstav, si veda ampiamente CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 75-97 (capitolo 3, Origine e fortuna dei runstavar). 11 Sull’evoluzione e la configurazione grafematica del fuþark in Scandinavia a partire dall’inizio del periodo vichingo (ca. 800 d.C.) si vedano, oltre alle trattazioni classiche sull’argomento di E. WESSÉN (cfr. Om vikingatidens runor, Stockholm 1957 [Kungl. Vitterhets Historie och Antikvitets Akademien (abbr. KVHAA), Filologiskt arkiv, 6]; Från Rök til Forsa. Om runornas historia under vikingatiden, Lund 1969 [KVHAA, Filologiskt arkiv, 14]) e di A. LIESTØL (The Viking Runes: The Transition from the Older to the Younger Fuþark, in Saga-Book 20:4 [1981], pp. 247-266), particolarmente M.P. BARNES, The Origins of the Younger Fuþark — A Reappraisal, in Runor och runinskrifter, Föredrag vid Riksantikvarieämbetets och Vitterhetsakademiens symposium 8-11 september 1985, Stockholm 1987 (KVHAA, Konferenser, 15), pp. 29-45 (poi aggiornato in ID., The Origins of the Younger Fuþark: A Review of Recent and Less Recent Research, in NOWELE 56/57 [2009], pp. 123-142); O. GRØNVIK, Über die Bil-
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
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Fig. 2 – La sequenza fissa delle rune calendariali, con valore numerico progressivo da 1 a 19 per esprimere il numero aureo.
Nel caso del ciclo lunare decennovennale (aureus numerus), si mostra impiegata l’intera sequenza del fuþark scandinavo di 16 rune, intesa non più come serie alfabetica bensì come cifrario numerico, e integrata da ulteriori tre segni supplementari creati specificamente per tale fine calendariale (cfr. fig. 2). L’aggiunta al sistema codificato della scrittura epigrafica d’età vichinga di queste nuove tre rune, in ordine fisso e dotate unicamente del valore numerico richiesto (i.e. 17, 18 e 19 rispettivamente) si segnala, ad ogni modo, per il rispetto dei tratti grafici e grafematici già caratteristici di quel sistema scrittorio fin dalle sue più remote attestazioni, ovvero la legatura e la specularità: così che tale integrazione appare interessante sia sul piano generale della rintracciabilità dei processi di formalizzazione grafica nell’età medievale sia per l’evidenza di una piena codificazione immediatamente raggiunta fin dal secolo XIII in tutto il Nord, come dimostrano, a partire dalla prima attestazione sul fonte battesimale della chiesa di Bårse, nella zona danese (1250-1275 ca.)12, le varie iscrizioni su pietra o in ambiente chiesastico soprattutto di Svezia e Norvegia, fino alla stessa vasta ed eclettica produzione calendariale su manoscritto e su legno. Tale normalizzazione alfa-numerica del fuþark dovette godere, fra l’altro, di un notevole grado di consapevolezza teorica, se i nomi tradizionalmente atdung des älteren und des jüngeren Runenalphabets, Frankfurt am Main 2001 (Osloer Beiträge zur Germanistik, 29); M. STOKLUND, The Danish Inscriptions of the Early Viking Age and the Transition to the Younger Futhark, in Zentrale Probleme bei der Erforschung der älteren Runen, Akten einer internationalen Tagung an der Norwegischen Akademie der Wissenschaften, hrg. J.O. ASKEDAL et al., Frankfurt am Main 2010 (Osloer Beiträge zur Germanistik, 41), pp. 237252; e il recentissimo aggiornamento offerto sulla questione da M. KÄLLSTRÖM, Vikingatida och medeltida skrifttraditioner: Några iakttagelser med utgångspunkt i det svenska runmaterialet, in Futhark. International Journal of Runic Studies 4 (2013), pp. 102–128. Un ottimo manuale sulla storia e gli impieghi delle rune, accessibile ai non specialisti e assai affidabile anche sul piano delle considerazioni grafematiche, risulta infine M.P. BARNES, Runes. A Handbook, Woodbridge 2012 (cfr. qui soprattutto pp. 54-65 e 92-98). 12 Cfr. C. CUCINA, Il computo del tempo nella Scandinavia medievale. Riflessioni sulla memoria lineare e ciclica dalle genealogie ai calendari runici, in Figure della memoria culturale. Tipologie, identità, personaggi, testi e segni, Atti del convegno (Macerata 9-11 novembre 2011), a cura di M. BONAFIN, in L’immagine riflessa 22 (2013), pp. 245-286 (qui note 51-52 e relativo contesto).
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tribuiti alle neo-rune appaiono modellati proprio sul processo di adesione formale alle rune già esistenti. Alla prassi grafica usuale della “legatura” su asta comune (cfr. sved. bindrunor, dan. binderune «rune legate») rimanda infatti la runa ᛮ árlaug (= ᛆ nome acrofonico ár «[buon] anno» + ᛚ laug «[massa d’]acqua»; valore numerico: 17), mentre il principio della “specularità”, fondativo nel sistema originario delle rune per l’attestata e prolungata variabilità di direzione della scrittura, appare applicato alle rune ᛯ tvímaðr (= duplicazione [cfr. tví- «bi-»] speculare alto/basso di ᛘ maðr «uomo»; valore numerico 18) e ᛰ belgþorn (= duplicazione speculare destra/sinistra [cfr. belgr «(sacca di) pelle, pancia»] di ᚦ þorn «spina»; valore numerico 19). Nel caso del ciclo solare di ventotto anni, che replicava le prime sette lettere dell’alfabeto (litterae dominicae o dominicales), le varianti runiche dei calendari o almanacchi nordici impiegavano più pianamente le prime sette rune del fuþark scandinavo, ognuna delle quali gli Islandesi chiamavano, in tale specifica funzione, semplicemente sunnudagr «domenica» e gli Svedesi talvolta, con più puntuale calco sul medio-latino, sunnodags bokstav, appunto «lettera domenicale». Nella tradizione nordica, dunque, secondo il sistema di adattamento dei segni grafici già attuato per il numero aureo, le rune sostituiscono i caratteri latini nell’ordine e nelle forme peculiari del fuþark più recente, ovvero tramite la sequenza iniziale ᚠ ᚢ ᚦ ᚮ ᚱ ᚴ ᛡ intesa come corrispondente alla serie alfabetica latina A B C D E F G13. La tavola pasquale riprodotta nel calendario runico del Gotland datato 1328, il cui originale perduto è noto da una copia manoscritta della mano di Ole Worm14, da questi erroneamente identificata come tabella epactarum o «tavola delle epatte» (cfr. fig. 3)15, costituisce un esempio utile, potrebbe dirsi paradigmatico, della fusione del dato computistico (ecclesiatico) con la qualità grafica (runica) che si trova a fondamento del calendario nordico 13 Su forme e impieghi delle rune calendariali, particolarmente riferiti al tipo epigrafico su legno del runstav di marca svedese, si vedano soprattutto N. LITHBERG, Runstavens uppkomst, in Fataburen (1921), pp. 1-27; ID., Runstaven, en ursvensk rådgivare åt Sveriges bönder, in Fataburen (1932), pp. 117-138; ID., Computus cit., particolarmente pp. 57-104; N.-K. LIEBGOTT, Kalendere. Folkelig tidsregning i Norden, København 1973; S.-G. HALLONQUIST, Primstaven. En runalmanacka, in Runmärkt. Från brev til klotter. Runorna under medeltiden, red. S. BENNETH et al., Stockholm 1994, pp. 177-193. 14 Cfr. København, Det kongelige Bibliotek, Ny kgl. samling 203 8:o; edizione corredata da attento studio analitico in N. LITHBERG, E. WESSÉN, Den gotländska runkalendern, 1328, Stockholm 1939 (KVHAA, Handlingar, 45:2). 15 Cfr. ibid., p. 18, con la riproduzione fotografica sulla pagina a fronte. L’epatta indica propriamente la differenza fra l’anno tropico (o solare) di 365 giorni e l’anno sinodico (o lunare) di 354 giorni, la quale si traduce in un ritardo dei noviluni di 11 giorni; tale ritardo si ridefinisce ogni lunazione embolismica (30 giorni). Per il procedimento di calcolo si veda CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 57, nota 39.
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
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Fig. 3 – Tavola pasquale nel calendario runico gutnico, 1328 (copia di Ole Worm, in København, Det kongelige Bibliotek, Ny kgl. samling 203 8:o, p. 18).
medievale, in particolare nelle zone d’influenza svedese. Sul piano computistico, la tavola riproduce il grande ciclo pasquale di 532 anni (pari a 19 cicli solari di 28 anni) riferito al periodo 1140-1671; l’incrocio dei dati — lettere domenicali (doppie nel caso degli anni bisestili) sull’asse delle ordinate e numeri aurei replicati in 19 cicli successivi parallelamente all’asse delle ascisse — consentiva immediatamente di identificare l’anno secondo l’èra cristiana, mentre con l’ulteriore supporto del computo manuale (schema chirometricum), in uso correntemente nel medioevo, facilitava ad esempio l’individuazione della data della Pasqua16. Oltre ai presupposti computistici strutturali e al dato grafico, un terzo elemento o aspetto deve infine essere tenuto in considerazione quando si valuti la produzione medievale dei calendari perpetui, di impianto e fine liturgico ma in verità di ampia applicabilità laica e civile, in ogni zona dell’Europa medievale. Si tratta, in primo luogo, della centralità delle feste dei santi intese in senso molto lato come punti focali in quel continuum 16 Cfr. LITHBERG, WESSÉN, Den gotländska runkalendern cit., pp. 64-66 e, per lo schema chirometrico, pp. 19-20, con le riproduzioni fotografiche a fronte. Si veda più diffusamente CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 57-58, mentre per la pratica e la diffusione del computo manuale rimando a MAIELLO, Storia del calendario cit., pp. 87-96.
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tendenzialmente indistinto e invariato che è il tempo ciclico dell’uomo medievale17. Se il giorno del santo o la distanza relativa da una certa memoria solenne nell’anno liturgico costituiva anche nel Nord lo strumento principale — se non unico — dell’individuazione di una data entro il cerchio dell’anno18; e se la stessa tradizione onomastica rivelava presto con evidenza di subire il modello cristiano del richiamo al santo del giorno della nascita19, è assai interessante osservare come tale centralità assorba in sé, con particolare evidenza nelle regioni scandinave, una funzione decisamente più orientata in senso antropologico, diremo più “egocentrica”, del calendario; sicché ad essa si affida sostanzialmente la mappa delle attività socio-economiche fondamentali, legate al ciclo agricolo, ai mercati, alla vita istituzionale e giuridica della comunità20. Ne consegue che il piano analitico etnografico-culturale, che per la verità sempre si ritiene determinante nell’analisi dei calendari medievali per poterne definire univocamente le coordinate geografiche e cronologiche, riveste per lo studio dei calendari nordici fra medioevo e rinascimento una importanza insolita; poiché, a parte le ovvie peculiarità astronomiche e naturali dovute alle caratteristiche di latitudine e di clima, almanacchi e calendari delle zone di pertinenza scandinava mostrano talvolta di “piegare” addirittura la gerarchia dei santi e il loro culto ad una visione antropocentrica della scansione temporale ciclica, sovvertendo il rapporto di forza fra il fondamento ecclesiastico del computo e la sua applicazione quotidiana. Si prenda ad esempio, il caso dei santi Callisto e Tiburzio, celebrati rispettivamente il 14 ottobre e il 14 aprile. Non vi è praticamente calendario prodotto nel Nord, runico e non, alfabetico (e dunque literatum) o affidato a marche simboliche (e dunque idioticum), epigrafico o manoscritto, originale o tirato su matrice a stampa, in forma di bastone o di libro, lineare o tabellare, funzionalmente essenziale o complesso, che non 17 Sull’argomento del computo del tempo come teorizzazione di e mediazione fra un livello ciclico ed uno lineare, particolarmente riferito all’ambiente nordico medievale, cfr. CUCINA, Il computo del tempo nella Scandinavia medievale cit., pp. 245-251. 18 Su questo concordano con grande evidenza le fonti islandesi antiche, in particolare le saghe, e le iscrizioni runiche della Scandinavia. Cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 48-53. 19 Così attestano ancora la narrativa islandese medievale — particolarmente le saghe storiche e le biskupa so˛ gur o «saghe dei vescovi» — e la storiografia continentale di area nordica (ad esempio i Gesta di Adamo di Brema). Cfr. ibid., pp. 37-39. 20 Questo aspetto viene particolarmente evidenziato in CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 67-74. Fra i contributi specifici, i più utili mi sembrano senz’altro LITHBERG, Runstaven, en ursvensk rådgivare åt Sveriges bönder cit.; Årets högtider, utg. M. P. NILSSON, Stockholm – Oslo – Kobenhavn 1938 (Nordisk kultur 22); S. SVENSSON, Bondens år. Kalender och märkesdagar, hushållsregler och väderleksmärken, Stockholm 1945; A. DUBDAHL, Primstaven i lys av helgenkulten. Opphav, form, funksjon og symbolikk, Trondheim 2011.
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annoti queste due date come fondamentali nel ciclo annuale. Ora, il culto di questi due santi è antico, naturalmente, e la loro memoria tradizionalmente preservata nelle fonti liturgiche occidentali; ma certo, la centralità della loro celebrazione nel Nord, entro un modello di calendario che ancora segnala soltanto le feste più solenni e i santi più venerati della diocesi, dipende per l’appunto dalla coincidenza della loro commemorazione con le date liminari dei due misseri che costituivano le unità fondamentali del cerchio annuale secondo la tradizione islandese antica, particolarmente ben documentata (fra storiografia, corpus giuridico, trattatistica specifica e letteratura) in materia di computo21. Il modello computistico arcaico del mondo germanico settentrionale prevedeva in sostanza — ed in estrema sintesi — una semplice “alternanza” (a.isl. misseri, appunto) fra una stagione produttiva e una di consumo, se si vuole fra estate (a.isl. sumar) e inverno (a.isl. vetr) 22: nel misseri risiedeva la capacità autoctona, minima e corrente, di formalizzazione del trascorrere del tempo, mentre i mesi avevano in origine scarsa rilevanza — e le fonti infatti trasmettono una loro identificazione onomastica e strutturale assai fluida e incerta —, e il dato cronologico unitario più rilevante entro ognuno dei misseri era costituito piuttosto dalla settimana23. Ogni misseri risultava 21
Cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 65-66. fattore strutturale della bipartizione dell’anno islandese nei due misseri mostra in verità radici antiche, certamente precristiane e condivise anche al di fuori del mondo nordico, se di esso riferisce anche Beda a proposito della tradizione anglosassone. Cfr. BEDA VENERABILIS, De temporum ratione, 15 De mensibus Anglorum: «Item principaliter annum totum in duo tempora, hyemis, videlicet, et aestatis dispartiebant, sex illos menses quibus longiores noctibus dies sunt aestati tribuendo, sex reliquos hyemi» (ed. online con database all’indirizzo web , dicembre 2012). 23 Sulla percezione e formalizzazione del tempo in Scandinavia nell’età pre-cristiana, nonché sulla particolare sintesi di elementi endogeni e d’importazione che si osserva dopo la conversione al Cristianesimo, soprattutto nelle fonti islandesi antiche, si vedano E. BRATE, Nordens äldre tideräkning, Stockholm 1908; GUÐMUNDR BJÖRNSSON, Um íslenzka tímatalið, in Skírnir. Tímarit hins íslenzka bókmentafélags 89 (1915), pp. 263-302; ÞORKELL ÞORKELSSON, Den islandske tidsregnings udvikling, København 1936 (Særtryck af Aarbøger for nordisk Oldkyndighed og Historie); N. LITHBERG, Månkalender och veckoräkning, in Rig (1944), pp. 143156; K. HASTRUP, Culture and History in Medieval Iceland: An Anthropological Analysis of Structure and Change, Oxford 1985, pp. 17-49; THORSTEINN VILHJÁLMSSON, Af Surti og sól: Um tímatal o.fl. á fyrstu öldum Íslands byggðar, in Tímarit Háskóla Íslands 4 (1989), pp. 87-97; ID., Time-reckoning in Iceland before literacy, in Archaeoastronomy in the 1990s, ed. C. L. N. RUGGLES, Loughborough 1991, pp. 69-76 (versione online all’indirizzo , settembre 2012); A. NORDBERG, Jul, disting och förkyrklig tideräkning. Kalendrar och kalendariska riter i det förkristna Norden, Uppsala 2006 (Acta Academiae Regiae Gustavi Adolphi, 91; anche online in , dicembre 2012); S. JANSON, The Icelandic Calendar, in Scripta islandica. Isländska sällskapets Årsbok 62 (2011), pp. 51-104 (il contributo è disponibile anche in una versione online, con poche alterazioni, in , novembre 2012); CUCINA, Libri runici 22 Il
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infatti contare 26 settimane piene, sulla cui successione venivano incardinate le date fondamentali della società medievale islandese, a partire proprio dalle vetrnætr «notti d’inverno» intorno alla festa di s. Callisto (periodo 11-18 ottobre) per il misseri invernale e dall’occorrenza di sumarmál «misura del tempo d’estate» intorno alla festa di s. Tiburzio (fra il 9 e il 15 aprile) per il misseri estivo. La partitura dei bastoni del computo nordici, pur essenzialmente fondata sul modello del calendario perpetuo cristiano e sul computo ecclesiastico, continuerà per molti secoli a presentare in realtà un lato “invernale” e un lato “estivo”, talvolta registrando pieno allineamento con lo standard occidentale nel fissare le date liminari al 1° gennaio e al 1° luglio, rispettivamente, ma in molti casi mantenendo tali date al 14 ottobre e al 14 aprile, nei giorni celebratissimi di s. Callisto e di s. Tiburzio, come era secondo la tradizione computistica scandinava continentale, più antica e probabilmente comune24. Che la memoria di tali santi fosse il pretesto di un’annotazione piuttosto “stagionale” viene poi dimostrato dalla qualità iconica dei simboli che ad essi appaiono affiancati sui calendari nordici, normalmente un albero stilizzato con i rami vòlti all’ingiù per s. Callisto e l’inizio del periodo improduttivo, ovvero all’insù per s. Tiburzio e l’inizio della stagione della crescita e del raccolto, in un’area vastissima pan-scandinava e in tutte le numerose varianti tipologiche calendariali che a questa si riferiscono. E viene inoltre dimostrato dalla esplicita menzione della data d’avvio dei due misseri che s’incontra in coincidenza delle feste di Callisto e Tiburzio nelle fonti più varie, anche, ad esempio, nel già menzionato, notissimo calendario runico gutnico del 1328, dove si trovano le seguenti annotazioni puntuali: 14 ottobre:
ᚴᛆᛚᛁᛡᛋᛐᚢᛋ᛬[in rosso]ᚢᛁᚿᛐᚱᚿᛆᛐ kalihstus : uintrnat [traslitterazione alfabetica] Kalixtus vintrnat [trascrizione in a.gutn.] «Callisto; (prima) notte d’inverno»;
14 aprile:
ᛐᛁᛒᚢᚱᛌᛁᚢᛋ᛬[in rosso]᛬ᛋᚢᛘᛆᚱ᛬ tiburcius : : sumar : Tiburtius sumar «Tiburzio; estate»25.
Ciò è confermato del resto anche dalla testimonianza di una delle redazioni della materia computistica islandese medievale (Rímto˜l), ovvero il del computo cit., 15-41 (capitolo 1, Il calendario nel medioevo nordico: considerazioni preliminari sui tratti originali e sulla evoluzione del computo del tempo in Scandinavia). 24 Cfr. E. BRATE, Nordens äldre tideräkning cit., p. 26. 25 Cfr. LITHBERG, WESSÉN, Den gotländska runkalendern cit., pp. 5 e 11, con le riproduzioni fotografiche sulle pagine a fronte.
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trattato noto come Rím II, che riferisce all’uso della Scandinavia continentale26 appunto le date fisse rispettivamente del 14 ottobre (per l’inverno) e del 14 aprile (per l’estate): Calixtus messa kemur vetur at nore?nu tali. enn Tiburcius messo sumar «Il giorno della festa di s. Callisto [scil. il 14 ottobre] viene l’inverno secondo il computo norvegese, mentre il giorno della festa di s. Tiburzio [scil. il 14 aprile] viene l’estate»27. A questa particolare “lettura” egocentrica delle feste di alcuni santi, utili a definire il quadro di riferimento dei calendari medievali come tipicamente nordico, si aggiungono poi, naturalmente, tutte quelle evidenze di culto regionali o locali, pan-scandinave o limitate a singole diocesi, che risultano imprescindibili elementi analitici per una corretta collocazione genetica e geografica dei documenti. Si pensi, ad esempio, all’occorrenza iterata di celebrazioni ampiamente diffuse in tutto il Nord — come quelle dei re santi Olaf di Norvegia († 1030), Canuto di Danimarca († 1086) ed Erik di Svezia († 1160) —, ovvero di feste riferite a figure di santi missionari e martiri legate ad aree più ristrette e specifiche diocesi, quali s. Botvid, apostolo del Södermanland († 1120 ca.), s. Elena di Skövde (can. 1164), vedova e martire della regione svedese del Västergötland, s. Brynolf Algotsson, ve26 Sull’isola le stesse date del ciclo naturale si ritenevano invece agganciate, secondo il principio imprescindibile del rispetto dell’unità ebdomadica (cfr. BRATE, Nordens äldre tideräkning cit., pp. 26-27), a un giorno fisso della settimana, precisamente il sabato (a.isl. laugardagr) compreso fra l’11 e il 18 ottobre per l’inizio del misseri invernale, e il giovedì (a.isl. fimmtudagr lett. «quinto giorno [della settimana]» secondo la nomenclatura riformata dall’autorità ecclesiastica) che cadeva fra il 9 e il 15 aprile per l’inizio del misseri estivo. Chiarissima risulta in proposito la formalizzazione che si rintraccia entro la Grágas ovvero l’insieme delle leggi islandesi del periodo più antico, la cui codificazione scritta deve intendersi realizzata e progressivamente aggiornata a partire dalla fine del secondo decennio del secolo XII fino a poco dopo la metà del secolo XIII. Per il testo della Grágás, in particolare nella versione della cosiddetta Konungsbók (Codex Regius), ovvero il manoscritto no. 1157 in folio della Collezione antica nella Biblioteca Reale di Copenhagen (København, Det Kongelige Bibliotek, Gml. kgl. sml. 1157, fol.), si rimanda alla edizione Grágás. Islændernes lovbog i fristatens tid, udgivet efter det kongelige Bibliotheks Haandskrift og oversat af VILHJÁLMUR FINSEN, for det nordiske Literatur-Samfund, Förste del, Text I, Kjøbenhavn 1852 (rist. Odense 1974; per il passo che qui interessa, p. 37). Molto utile, anche per una sintetica ma corretta introduzione all’argomento, si rivela la traduzione in inglese moderno della stessa Konungsbók — ma con varianti e aggiunte segnalate soprattutto dalla Staðarhólsbók (manoscritto no. 334 in folio della Collezione Arnamagneana [Reykjavík, Stofnun Árna Magnússonar í íslenskum fræðum, AM 334, fol.]) — contenuta in Laws of Early Iceland: Grágás, The Codex Regius of Grágás with Material from Other Manuscripts, Translated by A. DENNIS, P. FOOTE, R. PERKINS, I, Winnipeg, Canada, 1980 (per l’introduzione, cfr. pp. 1-16). Sull’intera questione si faccia riferimento a CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 21-27, con l’ulteriore bibliografia ivi citata e discussa. 27 Cfr. Alfræði íslenzk: islandsk encyclopædisk litteratur. 2. Rímto ˜l, udg. for Samfund til udgivelse af gammel nordisk litteratur ved N. BECKMAN og KR. KÅLUND, København 1914-16, p. 156, § 136. Si veda inoltre JANSON, The Icelandic Calendar cit., p. 66.
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scovo di Skara († 1317), etc.28. E si pensi ugualmente alla eventuale collocazione delle memorie di alcuni santi di comune venerazione occidentale in giorni diversi secondo l’uso di alcune diocesi particolari, la cui infuenza può segnare aree e comunità anche oltre gli stretti confini ecclesiastici; come risulta ad esempio il caso, in questa sede particolarmente rilevante, dell’anticipazione della festa di s. Margherita vergine e martire al giorno 13/7 (anziché 20/7) e dello slittamento invece della memoria di s. Anna, la madre di Maria, al giorno 15/12 (anziché 9/12) secondo il calendario della diocesi finlandese di Åbo29. Ora, tale rilevanza del culto dei santi — comunque se ne vogliano intendere presupposti e funzionalità calendariali — si rintraccia nella produzione nordica secondo un cifrario simbolico, ovvero più direttamente o variamente iconico, di elevata standardizzazione. Se le domeniche — e la “prevalenza delle messe” risulta certamente il dato strutturalmente portante di ogni calendario perpetuo medievale, che al fine di isolare le feste di precetto (e scandire di conseguenza anche il tempo del lavoro) era nella sostanza impiegato — vengono sovente segnalate con tacche maggiori, croci, colore contrastante etc. sugli stessi calendari-almanacchi epigrafici di legno, l’annotazione delle più importanti feste liturgiche e dei santi si affidava ad un complesso e variabile sistema di simboli o raffigurazioni. Spesso tali indicazioni si rendono immediatamente riconoscibili quali attributi convenzionali dell’iconografia agiografica, mentre talvolta essi appaiono, pur rimanendo facilmente leggibili nella loro realizzazione realistica, più insoliti ed evidentemente legati a sollecitazioni molteplici, del ciclo agricolo-economico o della tradizione popolare. Nei paragrafi seguenti, sarà dato ampio spazio all’occorrenza e identificazione di queste marche delle 28 Un comodo riepilogo del calendario dei santi secondo una collazione delle fonti ecclesiastiche medievali riferite alle varie diocesi scandinave si può trovare in L. GJERLØW, Sammenlignende kalendarium for Norden ca. 1500, in Kalendarium II, in KLNM, 8, coll. 134-147. Per alcune considerazioni generali sull’incidenza del fenomeno del culto dei santi nel medioevo nordico, nonché per orientarsi entro la corposa bibliografia specifica o di più ampio riferimento, si veda C. CUCINA, Il pellegrinaggio nelle saghe dell’Islanda medievale, in Rendiconti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche, ser. 9, vol. 9:1 (1998), pp. 83-155 passim, e EAD., Libri runici del computo cit., pp. 40-41, e nota 90; su caratteristiche e presupposti “locali” del culto dei santi nei calendari nordici, ovvero sulla preminenza delle figure dei grandi re santi per la realtà socio-antropologica e la politica religiosa dell’area nordica, preminenza almeno fino al sec. XII agevolata dalla stessa Chiesa di Roma, cfr. ibid., p. 37, nota 79, e pp. 44-46. 29 Cfr. AA. MALINIEMI, Finland (= det medeltida Åbo stift), in Kalendarium II, in KLNM, 8, col. 131. Lo studio fondamentale sul calendario dei santi secondo la diocesi medievale di Åbo (oggi Turku) in Finlandia rimane la capillare ricognizione offerta dallo stesso autore in Der Heiligenkalender Finnlands. Seine Zusammensetzung und Entwicklung, Helsingfors 1925 (Suomen Kirkkohistoriallisen Seuran toimituksia, 20).
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feste sui calendari di tipologia affine al nostro piccolo esemplare vaticano, e dunque non ci soffermeremo qui più a lungo sulla questione. Ma vale la pena di anticipare almeno la qualità normalmente “analfabetica” della produzione standard dei rimstavar — anche nella variante runica svedese del runstav —, dove le indicazioni dei nomi dei santi mancano quasi sempre, nonostante il modello ecclesiastico latino (manoscritto, tabellare e verticale) naturalmente li prevedesse, e nonostante l’applicazione su bastone o tavol(ett)e (epigrafica, lineare e orizzontale) ne abbia in un primo tempo certamente contemplato l’inserimento. Così dimostra del resto lo stesso notissimo bastone runico di Nyköping, il più antico runstav che sia conservato, risalente alla metà o seconda metà del secolo XIII, il quale, pur nella sua forma frammentaria, conferma molti parametri di questa classe di calendari — cronotipici, tipologici e funzionali — come un insieme di elementi allo stesso tempo autoctoni (i misseri, le rune) e d’importazione (la base liturgica, i nomi dei santi)30. Così, fra l’importanza relativa attribuita ad alcuni santi in virtù dell’associazione con momenti cruciali dell’anno astronomico o civile, l’identità inequivocabile di alcune memorie o feste “locali” e lo slittamento delle celebrazioni di alcuni santi in coincidenza con gli usi delle singole diocesi, si delineano sia i tratti generali dei calendari di produzione nordica sia quelli specifici caratteristici delle varie realtà scandinave particolari, fino alle zone periferiche d’influenza o di contatto. Sarà la convergenza di questi elementi antropocentrici e di culto da un lato con le ricercate soluzioni grafiche e simboliche peculiari nelle varie regioni del Nord, dall’altro con l’eredità del modello cronotipico arcaico del misseri e dell’indivisibiltà ebdomadica a consentire infine una collocazione del piccolo e tardo calendario runico nella Biblioteca Apostolica Vaticana entro il quadro composito e affollato dei runstavar svedesi e in genere dei libri del computo di marca nordeuropea. 2. Descrizione “codicologica” e collocazione del calendario nella Biblioteca Apostolica Vaticana Il calendario runico a libretto del Vaticano (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613) risulta composto da otto tavolette 30 Sul cospicuo frammento di bastone runico rinvenuto nel 1964 durante alcuni scavi nella zona centrale di Nyköping (Stockholm, Statens historiska museum, inv. nr. 29486) si veda l’editio princeps, corredata da uno studio attento del fenomeno calendariale runico, ad opera di E. SVÄRDSTRÖM, Nyköpingsstaven och de medeltida kalenderrunorna, Uppsala 1966 (Antikvariskt arkiv, 29). Cfr. inoltre CUCINA, Libri runici del computo cit, soprattutto pp. 7983, e infra, fig. 6.
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di forma rettangolare, le quali misurano approssimativamente mm 233 × 50 (53 al centro); lo spessore del legno varia, per le singole lamelle, fra mm 3 e mm 4,5. Ogni tavoletta appare incisa su entrambi i lati, e reca lungo il lato minore (a sinistra sul recto, a destra sul verso di ogni lamella) due fori che permettono il passaggio di una cordicella, quale “legatura” del codice ligneo (cfr. fig. 4). Una volta richiuso (cfr. fig. 5), il piccolo libro del computo misura nelle tre dimensioni mm 233 (l) × 50÷53 (p) × 52 (a). La direzione di lettura suggerita dall’orientamento della numerazione moderna delle lamelle, la quale compare nell’angolo superiore sinistro secondo il supposto ordine delle pagine31, non corrisponde invece alla più probabile facies grafica originale, la quale prevedeva orientamento laterale inverso delle rune e direzione di lettura da destra a sinistra32.
Fig. 4 – Il calendario runico Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, composto da otto lamelle di legno tenute insieme da un cordino. 31 I numeri arabici appaiono tracciati con una matita appuntita e occasionalmente anche incisi nel legno. Se l’orientamento delle singole pagine suggerito da questa numerazione moderna non risulta coerente con la corretta “lettura” del calendario, l’ordine progressivo delle tavolette si mostra invece quasi sempre rispettato, con la sola eccezione delle pagine 9 e 10 (tavoletta 5), che si devono intendere invertite. 32 Si veda più avanti, in questo stesso paragrafo.
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Fig. 5 – Il calendario runico Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613. Si evidenziano le tacche, incise sul lato delle lamelle di legno, che indicano la corretta foliazione del piccolo libro del computo.
Lo stato di conservazione si rivela ottimo dal punto di vista della “leggibilità” dei segni calendariali, sebbene il legno mostri in diversi punti e su varie tavolette quelle lesioni (spaccature, macchie scure e piccoli fori) che sono il prodotto dell’azione di agenti esterni quali la variabilità di temperatura e di umidità, e la proliferazione di microrganismi e piccoli insetti. Frammenti di legno risultano mancanti rispettivamente in corrispondenza di uno degli angoli esterni al lato di legatura sulla seconda tavoletta (si tratta del danno più evidente, che interessa il margine del lato maggiore della lamella per una lunghezza di mm 34) e in corrispondenza di uno degli angoli sul lato di legatura della settima tavoletta. Entrambe le lesioni si rivelano posteriori al periodo di utilizzo prolungato del manufatto, poiché il legno palesa negli strati sottostanti il proprio colore naturale chiaro, ovvero né trattato con vernice o lacca più scura, come risultano tutte le “pagine” del calendario33, né eventualmente annerito dall’uso, come appare invece, ad esempio, in corrispondenza della perdita di un più consistente frammento all’esterno di uno dei fori di legatura sulla quinta tavoletta34. Com’è comprensibile, il legno si mostra infatti occasionalmente consumato, in particolare, nella zona di tali fori, appunto verso l’esterno dove correva il laccio o cordino, a testimoniare che evidentemente il calendario portatile dovette essere usato a lungo e aperto molte volte, e che presumibilmente venisse di norma appeso per lo stesso cordino alla cintura, come era costume nell’Europa settentrionale, per manufatti analoghi, fra tardo medioevo e rinascimento. Il legno non risulta precisamente identificato, poiché si è scelto di non sottoporre il materiale di supporto ad esame chimico che solo è possibile 33
Cfr. qui avanti. Si deduce da questo che il danno fu prodotto in età più antica, quando ancora il calendario veniva consultato, e dunque lo sfregamento del laccio o cordoncino di legatura interveniva a smussare i margini della lesione nel legno. 34
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attraverso rimozione di un frammento dal manufatto35; l’indagine esterna ed il confronto con alcuni calendarietti di analoga tipologia, tra cui particolarmente quello conservato nel Kabinet des Waisseshauses di Halle (segnatura 15 Q) e meticolosamente descritto da Adolf Hofe all’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso36, suggeriscono che possa trattarsi di legno di quercia37. La superficie delle tavolette appare levigata e trattata con lacca di rifinitura di colore marrone più scuro del legno naturale; le incisioni, sia sulle pagine interne relative ai mesi e all’apparato computistico, sia su quelle esterne “di copertina”, risultano profonde e ribadite con una pasta resinosa o stucco nerastri — di cui si conservano ampie tracce — al fine di rendere immediatamente leggibili i segni. In verità, neppure la natura della sostanza impiegata per tali rifiniture — della superficie e delle iscrizioni calendariali — risulta precisamente accertata, sebbene sembri che essa si possa identificare con un residuo o derivato vegetale fossile come la pece o il catrame38. La forma a V della sezione dell’intaglio, comune anch’essa ai tratti computistici e a buona parte delle annotazioni sulle tavolette esterne, rivela che lo strumento utilizzato doveva essere uno scalpellino a piede di capra39 e suggerisce che la realizzazione complessiva del calendario vero e proprio possa attribuirsi verosimilmente ad un unico incisore. Al contrario, alcuni elementi sulle tavolette esterne, come apparentemente la stessa data annuale 1684 che si può leggere sul “foglio” 1r, si mostrano incisi a sgraffio, probabilmente con un coltellino, può darsi da mano diversa e/o in un secondo tempo. La corretta foliazione del codice viene guidata da tacche incise, secondo una numerazione progressiva da uno a otto, sullo spessore delle lamelle lungo il margine superiore esterno del piccolo “libro del computo”, a circa 35 Tale è attualmente la prassi presso tutte le più estese collezioni museali europee, a meno che il costoso e invasivo procedimento d’analisi non si renda indispensabile alla ricerca. Cfr. anche CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 195, nota 146, a proposito dei calendari pseudo-runici a libro København, Danmarks Nationalmuseet, inv. nr. 15323, e Paris, Bibliothèque nationale de France, Scand. 29 ter (entrambi primo sec. XVI). 36 Cfr. infra, nota 155, e diffusamente entro il § 5. 37 Ciò conferma anche, su base empirica rispetto all’intero corpus documentale relativo a questa particolare tipologia di calendari runici, Sven-Göran Hallonquist (comunicazione personale del 30 giugno 2014). 38 Ibid. 39 Così risulta del resto per la produzione svedese comune di bastoni del computo. Si veda lo studio condotto in particolare sul runstav Göteborg, Stadsmuseet, GMallm 1160, nell’ambito della nuova proposta di analisi e catalogazione museale Documentation Report. Material Culture and Collecting, Module 4, International Museum Studies, Museion, Dept. Gothenburg University, authors M. CHOYA, Y. KIM, Å. KNIDE and R. LUNDBERG, module tutors M. GUSTAVSSON and S. LUNDÉN, Göteborg 2007, pubbl. online e disponibile fino al 2013.
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mm 60 dal lato di legatura (cfr. fig. 5). Non sussiste dunque alcuna incertezza riguardo al corretto ordine delle pagine, le quali infatti risultano perfettamente assemblate nel piccolo libro portatile, da tasca o da cintura. Più insolita si rivela semmai, pur entro i parametri riconosciuti della produzione di marca svedese orientale40, la direzione di lettura delle singole tavolette, la quale procede da destra verso sinistra, proponendo forme runiche speculari sull’asse verticale rispetto all’uso epigrafico più comune. Attualmente, il calendario è collocato nella Riserva del fondo Vaticano latino, conservato in un cofanetto appositamente predisposto41 rivestito in pelle di colore verde, con fine decorazione dorata a delineare i margini delle quattro facce laterali; su una di queste compare stampigliata in caratteri ugualmente dorati la legenda «KALENDARIVM RVNICVM» al di sopra del numero della collocazione attuale 1461342. Verde è anche la cordicella di seta che tiene legate insieme le tavolette del calendario43. La descrizione del codice entro il solo catalogo del fondo oggi disponibile per la sezione dei manoscritti entro cui è compreso l’attuale numero 14613, priva di ogni riferimento ai dati esterni del manufatto (data, provenienza, via dell’acquisizione etc.), si limita a segnalare «8 tavolette di legno con incisi i segni di un calendario in caratteri runici»44. La circostanza della collocazione di tale insolito manoscritto ligneo entro il Vaticano latino — circostanza significativa e sorprendente, poiché non di un codice latino si tratta — sfugge nei dettagli alla ricostruzione storica della costituzione del fondo, e si può sin da ora ammettere che 40
Cfr. infra, § 4. La custodia ha la forma di uno stretto parallelepipedo aperto in corrispondenza di una delle basi minori; il calendarietto, sulle cui dimensioni con ogni evidenza l’astuccio risulta precisamente confezionato, si può dunque semplicemente estrarre da questa apertura con l’aiuto del cordino. 42 Una seconda, più antica collocazione identificava il cofanetto con il numero 10212, che si può ritenere con ogni probabilità riferito alla prima accessione del manoscritto entro il fondo Vaticano latino nei primi anni del secolo scorso. Si vedrà qui avanti che testimonianze esterne consentono ora di risalire alla provenienza diretta della sua acquisizione dall’antica Bibliotheca Barberina; mentre la peculiarità tipologica del documento — un piccolo calendario runico di legno — spiega forse la straordinarietà — e l’incertezza (si vedano i due “tempi” di collocazione nel fondo Vaticano latino) — del suo percorso “interno” alla Biblioteca, unico caso attualmente noto di disaggregazione dal fondo Barberini a vantaggio del Vaticano latino. Per l’aiuto e la guida sicura ad una valutazione degli scarsi indizi testimoniali su parte dei manoscritti accessionati al fondo Vaticano latino, nonché per l’interesse costante mostrato per le mie ricerche, sono molto grata a Paolo Vian, direttore del Dipartimento dei manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana. 43 Risulta verosimile ritenere, proprio in considerazione dell’identità cromatica, che la stessa cordicella fu “rinnovata” in occasione della confezione elegante (l’astuccio verde, appunto) con la quale l’insolito calendarietto fu riposto nella sua nuova collocazione romana. 44 Cfr. Inventarium codicum vaticanorum latinorum 14.234 – 14.665, confecit O. BERTOLINI annis 1969-1975, Biblioteca apostolica vaticana 1977, p. 105. 41
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il percorso “interno” del nostro calendario runico non abbia in verità lasciato tracce di sicura evidenza entro le fonti disponibili. Tuttavia, una testimonianza certa sul terminus ante quem della presenza a Roma della piccola runbok e sulla sua appartenza ad una specifica raccolta libraria si deve all’occasione della visita romana, nei primi mesi del 1772, del filologo e orientalista svedese Jacob Jonas Björnståhl. Il fitto carteggio da questi intrattenuto con l’amico e bibliotecario di corte Carl Kristoffer Gjörwell, fin dall’inizio inteso per essere reso pubblico45, e poi pubblicato organicamente dopo la prematura morte dell’autore a Salonicco46, contiene una informazione per noi preziosa. Si legge infatti in una epistola, datata 18 marzo 1772, poi inserita nel primo volume del corpus come Brefvet 29, a proposito delle numerose e ricche biblioteche di Roma47. Tratteggiando brevemente le caratteristiche della Bibliotheca Barberina — cospicua collezione di oltre 9000 manoscritti, fra cui molti di grande valore, particolarmente nell’ambito delle lingue orientali e del greco, collocata al Palazzo Barberini48 —, l’allora professore dell’Università di Uppsala49 allude infatti ad un curioso reperto che giaceva negletto entro la collezione: Jag har ock därstädes sedt [...] äfven et gammalt Rune-Calendarium, som ingen härstädes förstod, innan jag gaf dem nyckeln. Runorne äro til figurerne olika med de i Sverige befintelige, så väl de almänna, som Helsing-Runorne50. 45
Le lettere di Björnståhl furono infatti pubblicate da Gjörwell, man mano che questi le riceveva, sui periodici Samlaren e Allmänna Tidningar, quasi come un diario del “Grand Tour” destinato al pubblico di lettori della più colta borghesia svedese. Alcune notizie utili sull’argomento si trovano nelle pagine introduttive del saggio di C. CARIBONI KILLANDER, All’ombra del paratesto. Tre lettere napoletane del viaggiatore Björnståhl in traduzione italiana, in Moderna Språk 105:1 (2011), pp. 171-179, cui si rimanda anche per un elenco dei pochi riferimenti bibliografici relativi alla figura e all’opera di Björnståhl (ibid., p. 171, nota 3). 46 Cfr. Resa til Frankrike, Italien, Sweitz, Tyskland, Holland, England, Turkiet, och Grekland: beskrifven af och efter Jac. Jon. Björnståhl. Efter des död utgifven af Carl Christof. Gjörwell, 1-6, Stockolm 1780-1784. Björnståhl non fece mai ritorno in patria, poiché in Grecia si ammalò di dissenteria e morì a Salonicco il 12 luglio 1779, quando aveva solo 48 anni. 47 In precedenza Björnståhl aveva delineato con evidente interesse e competenza anche la storia del Collegium de propaganda fide, sottolineando l’importanza della sua scuola e della sua straordinaria attività di stampa per la diffusione della conoscenza delle varie lingue del mondo. Cfr. Brefvet 28; Rom, den 2 Mart. 1772, ibid., 1, pp. 341-349. 48 «Bibliotheca Barberina, uti Prins Barberinis Palats, är stort och har vid pass 9000 Manuscripter, ibland hvilka mange äro mycket dyrbare; i synnerhet uti Orientalska Språken och Grekiskan» (Brefvet 29; Rom, den 18 Mart. 1772, ibid., 1, p. 358, con minima normalizzazione grafica). 49 Dove in quegli anni fu chiamato come adjunkt in lingue orientali, per essere nominato in seguito professore, prima nella stessa università di Uppsala, poi nell’università di Lund. Cfr. H. HOFBERG, et al., Svenskt biografiskt handlexikon, I, Stockholm 1906, p. 106. 50 «Lì ho visto inoltre [...] anche un antico calendario runico, che nessuno qui compren-
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Dunque, si trattava di un antico calendario runico, che nessuno era riuscito ad identificare come tale fino a che Björnståhl poté fornire ai custodi della collezione uno spunto corretto. Le rune che vi comparivano incise si rivelarono al sommario esame dello stesso Björnståhl presentare forme diverse da quelle effettivamente impiegate nell’epigrafia svedese, ovvero rispetto sia alle rune comuni, sia alle cosiddette “rune di Helsingia” (scil. Hälsingerunor o, come oggi vengono più spesso chiamate, stavlösa runor «rune prive di asta [principale]»)51. L’accademico svedese mostra in sostanza una buona conoscenza delle rune, sommaria ma comprensiva della variante più peculiare della tradizione della Svezia — le rune prive dell’asta principale, appunto —, che era anche la meno diffusa nell’uso epigrafico monumentale ovvero sulle steli funerarie dell’età vichinga. Ora, il sistema grafematico di questa varietà del fuþark era stato decrittato solo verso la fine del secolo precedente, dopo lunga ricerca, dal matematico e botanico svedese Magnus Celsius (1621-1678), designato alla fondazione fra i membri del Collegium antiquitatum (Antikvitetskollegium), istituito nel 1666 a Uppsala, e “Rector Scholae” in quella stessa città, i cui studi in materia di rune sarebbero stati pubblicati ed eventualmente integrati nel corso della prima metà del Settecento grazie al figlio Olof (1670-1756), orientalista e professore di greco sempre all’università di Uppsala. È verosimile dunque ritenere che Björnståhl avesse particolare contezza di tali indagini runografiche, che godettero di grande risonanza nell’ambiente accademico svedese e in particolare ad Uppsala, che era poi il luogo della sua stessa formazione universitaria e dei primi incarichi di deva, finché io non ho dato loro la chiave di lettura. Le rune risultano diverse nel disegno rispetto a quelle che si rintracciano in Svezia, sia quelle del tipo comune sia le rune di Helsingia (Hälsingland)» (Brefvet 29, ibid., pp. 358-359, con minima normalizzazione grafica). Björnståhl accenna anche alla esistenza di un catalogo della Biblioteca, pubblicato nel 1681 in quattro volumi: «Cataloguen på de tryckte böckerne är trykt år 1681 in folio, 4 Tomer» (ibid., p. 359). Si tratta dell’Index bibliothecae qua Franciscus Barberinus S. R. E. cardinalis vicecancellarius magnificentissimas suae familiae ad Quirinalem aedes magnificentiores reddidit, Tomi tres libros typis editos complectentes (A-L), Indicis bibliothecae barberinae Tomus secundus (M-Z), Romae 1681. I volumi dell’Index erano previsti, in realtà, in numero di tre (e non quattro), ma il terzo volume, che doveva contenere la descrizione dei manoscritti, non fu mai pubblicato (cfr. J. BIGNAMI-ODIER, Guide au département des manuscrits de la bibliothèque du Vatican, in Mélanges d’archéologie et d’histoire 51 [1934], p. 224). Si aggiunga che il nostro calendario runico, datato 1684, ed entrato a far parte della collezione Barberini non si sa quando — né per quali vie — dopo quella data, difficilmente avrebbe potuto comparirvi. Per altro, come si è visto, prima della visita di Björnståhl alla Biblioteca nel marzo del 1772, nessuno aveva neppure compreso la natura del piccolo libretto ligneo. 51 Su questa particolare variante del fuþark svedese, e sulla interessante storia della sua faticosa decifrazione ad opera di Magnus Celsius nel sec. XVII, si veda C. CUCINA, Olof Celsius a proposito delle rune di Helsingia (da una epistola ad Antonio Magliabechi), in RILD. Rivista italiana di linguistica e dialettologia 5 (2003), pp. 33-60.
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docenza. Sicché la sua chiamata in causa delle runae helsingicae — del tutto ridondante quando si tratti della produzione calendariale, dove mai tali rune risultano documentate — appare in verità riferirsi ad un ambito di studi allora di evidente attualità scientifica, e può in questo senso meglio comprendersi rivelandosi anzi legittimo sfoggio di aggiornamento in materia runologica. Consapevole della insolita configurazione delle rune sul manufatto conservato nella Bibliotheca Barberina — la quale si risolve, come si vedrà, nel loro orientamento speculare sui due assi (forme capovolte e vòlte a sinistra)52 —, Björnståhl tuttavia non ha dubbi nel riconoscere la tipica struttura del runstav, e dunque nel concludere che si tratti di un calendario runico di tipo tradizionale (et gammalt Rune-Calendarium). Il che naturalmente non sorprende, quando si consideri che la moda dei calendari epigrafici su legno — i baculi annales già descritti a metà del Cinquecento da Olaus Magnus per il vasto pubblico europeo53 — aveva conosciuto un vero e proprio revival nel periodo del “Goticismo” svedese; e, sebbene il tipo “tascabile” su tavolette multiple che il manufatto conservato a Roma rappresentava non fosse molto diffuso, soprattutto rispetto al tipo del bastone da passeggio (vandringsstav), l’organizzazione strutturale del suo contenuto calendariale, omologa al sistema lineare del runstav più comune54, risultava certo ben riconoscibile, con i suoi tre righi convenzionali sovrapposti di rune per le lettere domenicali, rune per i numeri aurei e simboli delle feste. Una conferma della coincidenza del calendario runico visto da Björnståhl nella Bibliotheca Barberina durante il suo viaggio a Roma con la runbok attuamente conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana come Ms Vat. lat. 14613 proviene dalla Biblioteca Reale (Kungliga Biblioteket) di Stoccolma, dove è custodita una riproduzione fotografica delle tavolette del nostro calendario (Stockholm, Kungliga Biblioteket, F.m. 70b). Due serie di fotografie risultano essere state inviate da Roma all’imprenditore e filantropo Oscar Dickson (1823-1897) a Göteborg. Molto facoltoso e appassionato finanziatore di esplorazioni artiche55, Dickson collaborò a lungo e strettamente con il re Oscar II di Svezia; e proprio al sovrano fece 52
Cfr. infra, §§ 3 e 4. Nella Historia de gentibus septentrionalibus, Romae 1555 (edizione in facsimile, con introduzione in inglese di J. GRANLUND, Copenhagen 1972). Cfr. C. CUCINA, Literae Aquilonarium antiquiores. Le rune in Johannes e Olaus Magnus fra prospettiva antiquaria e tradizione etnica, in I fratelli Giovanni e Olao Magno: opera e cultura fra due mondi, Atti del Convegno internazionale di studio, Roma-Farfa Sabina, 24-26 settembre 1996, a cura di C. SANTINI, Roma 1999 (I Convegni di Classiconorroena, 3), pp. 33-100 (qui particolarmente pp. 73-77, 92-93). 54 Cfr. infra, § 3. 55 Cfr. W. CARLGREN, Oscar Dickson, in Svenskt biografiskt Lexikon 11 (1945), p. 207; la voce è consultabile online alla pagina web (accesso luglio 2015), come parte dello SBL Database pubblicato a cura del Riksarkivet (Archivio nazionale di Svezia). 56 Ringrazio Sven-Göran Hallonquist, professore alla Kungliga Tekniska Högskolan di Stoccolma e coordinatore del Runstavsprojektet per conto del Nordiska Museet (cfr. infra, nota 140 e contesto), per le informazioni preziose da lui raccolte presso la Biblioteca Reale e generosamente messe a mia disposizione (comunicazione personale del 28 giugno 2014). 57 Cfr. J. MABILLON, M. GERMAIN, Iter italicum litterarium. Annis 1685 et 1686, Luteciae Parisiorum 1687, p. 133. 58 Cfr. B. DE MONTFAUCON, Diarium Italicum Sive Monumentorum Veterum, Bibliothecarum Musæorum, &c. Notitiæ singulares in Itinerario Italico collectæ. Additis schematibus ac figuris, Parisiis 1702, p. 210. 59 Ibid. 60 «Ac etsi haud libero exterorum aditu Bibliotheca frequentetur, Græcos tamen codices raptim semel inspectare licitum fuit, & quia, contra quam rumore nuntio audieram, exiguum prorsus numerum animadverti: percontanti quorsum abiisset illa Græcorum codicum copia, quæ in Barberinis ædibus exstare omnium ore ferebatur, responsum est, jam a multis annis cum exportarentur codices, a bajulis multos venum oblatos, & ad quingentos ejusmodi casu abstractos dissipatosque» (ibid.). 61 Cfr. anche J. G. CH. ADLER, Kurze Ueberschrift seiner biblischkritischen Reise nach Rom, Altona 1783, pp. 87, 137-162.
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del suo Iter italicum una descrizione degli archivi, delle biblioteche e delle epigrafi che si trovano nella città62. Fra le curiosità che emergono dal suo vivace resoconto — non ultima la descrizione dell’incontro con il giovane conte Leopardi di Recanati, «ein treflicher junger Gelehrter» che nel 1823 si dedicava alla redazione di un catalogo dei manoscritti greci della Barberina, fino ad allora mai sistematicamente registrati63 —, il Blume ricorda anche per l’appunto il nostro piccolo calendario runico che era stato già segnalato da Björnståhl64. La biblioteca Barberini fu acquistata da Leone XIII e trasportata al Vaticano nel settembre 1902. Al momento dell’acquisizione, contava poco più di 11.750 manoscritti, in larghissima prevalenza latini, circa 40.000 volumi a stampa e una parte archivistica (ca. 4000 unità comprese entro i manoscritti latini, cui si aggiunsero due fondi per ca. 10.000 volumi)65. La runbok attualmente collocata come Vat. lat. 14613 nella Riserva non compare nel catalogo manoscritto Pieralisi della grande collezione barberina, composto da un indice di schede alfabetiche, il quale separa i codici latini 1-6558 dai carteggi privati e diplomatici latini (nn. 6559-9808), dai codici greci e infine da quelli orientali; né essa compare nell’inventario, ugualmente manoscritto e ad opera degli stessi Sante e Alessandro Pieralisi, in 38 volumi in-4°. Ma le testimonianze incrociate dei viaggiatori nord-europei che visitarono la biblioteca Barberini fra Sette- e Ottocento costituiscono una prova certa della collocazione del libretto runico del computo entro la collezione, e ad esse ci si può, a tale riguado, affidare66. 62 Cfr. F. BLUME, Iter italicum, Dritter Band. Archive, Bibliotheken und Inschriften in der Stadt Rom, Halle 1830, p. 134. 63 Cfr. ibid., p. 135. È lo stesso Giacomo Leopardi la fonte di Blume riguardo al numero approssimativo dei codici greci allora posseduti dalla biblioteca Barberini («Er sagte mir, dass die Zahal der griechischen Handschriften noch etwa 400 betrage»), ma del catalogo, al quale il giovane di straordinaria erudizione stava lavorando, il professore di Halle non sa dire se fu portato a compimento («im J. 1823 übernahm Graf Leopardi aus Recanati [...] die Anfertigung eines Kataloges; doch weis ich nicht, mit welchem Erfolge»). Leopardi si dedicava alla redazione di questo catalogo nel marzo del 1823, come si rintraccia nell’epistolario, particolarmente nella lettera al padre Monaldo del 7 marzo (cfr. Epistolario di Giacomo Leopardi, raccolto e ordinato da P. VIANI, Quinta ristampa ampliata e più compiuta, Volume Primo, Firenze 1892, Epistola 171, pp. 294-295). 64 Cfr. BLUME, Iter italicum cit., p. 136, con la nota 11. 65 Cfr. BIGNAMI-ODIER, Guide au département des manuscrits cit., pp. 223-224. Sulla storia (origine, acquisizione e vicende ulteriori) del fondo Barberini della Biblioteca Apostolica Vaticana si veda ora dettagliatamente F. D’AIUTO, P. VIAN, Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, I. Dipartimento manoscritti (Studi e testi, 466), Città del Vaticano 2011, pp. 336-351. 66 Alle liste di manoscritti compilate da Montfacon e Blume, del resto, si è fatto talvolta riferimento per ricostruire il contenuto della raccolta, in assenza di un catalogo completo
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Le vicende che hanno condotto all’inserimento di questo entro il fondo Vaticano latino, come si diceva, appaiono al contrario del tutto sfuggenti. Può ritenersi che la identificazione del manufatto come calendario perpetuo cristiano fondato sull’anno giuliano — sebbene con impiego del fuþark al posto dell’alfabeto latino (per le lettere domenicali) e dei numeri romani (per la serie del numero aureo) —, unita all’incisione della data secondo la tradizione (anche abbreviativa) latina su una delle copertine esterne della runbok67, abbia fornito un possibile spunto per associare il curioso manoscritto ligneo alla collezione in cui ora si trova. Poiché null’altro si è potuto rintracciare della storia antiquaria di questo calendario runico, tuttavia, converrà procedere senz’altro all’analisi della sua struttura interna e del suo contenuto. 3. Articolazione del calendario vaticano: il modello nordeuropeo fra ciclo annuale e tabelle del computo L’organizzazione strutturale del calendario inciso sulle tavolette del piccolo libro runico nella Biblioteca Apostolica Vaticana (cfr. tavv. I-IV) prevede, come si è appena accennato, che la sequenza dei giorni dell’anno appaia ripartita fra le varie pagine interne, e che le due lamelle esterne fungano invece essenzialmente da “copertina” della rimbok, rimandando elementi di apparato grafico-computistico (legenda completa dei cifrari alfa-numerici per i cicli solare ventottennale e lunare metonico) e di tradizionale corredo (sequenza numerica del gioco cosiddetto “di s. Pietro”), oltre che annotazioni di vario tenore e di non agevole lettura, sebbene potenzialmente assai significative per definire — o confermare — data e origine del manufatto. Le tavolette del calendario vero e proprio, dunque, segmentano la sequenza annuale in 13 sezioni, ognuna con lettere domenicali per 28 giorni ovvero quattro settimane, salvo l’ultima, dove le lettere domenicali risultano invece 29, a restituire il 365° giorno dell’anno giuliano. Si evince proprio dalla realizzazione regolare e costante del rispetto dell’unità ebdomadica — e per converso, non appaia inutile sottolinearlo, dalla sostanziale mancanza di considerazione per la partitura mensile68 — che il modello cro(cfr. BIGNAMI-ODIER, Guide au département des manuscrits cit., p. 225, con le note 1 e 2); il grande Index del 1681 riguardava, come si è visto (supra, nota 50), solo i libri a stampa. 67 Cfr. infra, § 6, contesto successivo alla fig. 27. 68 La divisione dei mesi appare solo sommariamente annotata per mezzo di una tacca verticale a marcare il primo giorno del nuovo mese su ciascun lato (escluso il primo) delle tavolette relative alla sequenza annuale; ma si intende che la partitura strutturale fondamentale rimane, sul piano formale, quella ebdomadica, definita dalle sequenze delle 28 lettere domenicali (o 29 nel caso dell’ultima pagina del calendario) che compaiono su ognuna delle
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notipico di riferimento del calendarietto vaticano risieda nella tradizione scandinava, la quale privilegiava la settimana sul mese fin dalla formalizzazione del computo del tempo operata in ambiente islandese e trasmessa dalla documentazione manoscritta dei secoli XII-XIII, sia di vocazione storiografica (cfr. la Íslendingabók o Libellus Islandorum di Ari Þorgilsson) sia di natura enciclopedico-scientifica (cfr. le elaborazioni varianti del Rímto˜l o «Computo») sia, come in particolare si è già visto, di materia consuetudinaria-giurisprudenziale (cfr. la Grágás)69. I luoghi testuali in cui tale assetto computistico annuale emerge con evidenza per la tradizione islandese medievale si contano numerosi, ed una buona selezione — ragionata e finalizzata proprio a chiarire i presupposti della partitura dei calendari di area nordica — è già stata offerta al lettore italiano70; in questa sede, basterà richiamare soprattutto il chiaro fondamento ebdomadico della stessa “storica” riforma del calendario introdotta dalla società islandese poco prima del 960, di cui riferisce Ari fróði «l’erudito» Þorgilsson nella Íslendingabók (ca. 1120-1130), in particolare nel capitolo intitolato Frá misseristali ovvero «Del calendario»71. In sostanza, la riforma interveniva a sanare un ritardo del computo annuale rispetto al ciclo solare, ritardo dovuto a ciò che i coloni islandesi, giunti sull’isola dalla Norvegia nelle due generazioni comprese fra 870 e 930 ca.72, non potevano sapere a quel tempo, ossia «che vi era un giorno in più rispetto al numero delle settimane piene nelle due stagioni dell’anno»
lamelle interne della runbok. Si veda anche infra, § 5, la descrizione analitica delle singole tavolette del ciclo annuale. 69 Cfr. supra, nota 26. 70 Cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., particolarmente le pp. 17-36. 71 Cfr. Íslendingabók. Landnámabók, útg. JAKOB BENEDIKTSSON, Reykjavík 1968 (Íslenzk fornrit, 1), pp. 9-11; testo con traduzione italiana in CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 18. Per l’analisi dell’opera di Ari, affidabili e utilmente corredati da traduzione e commento in inglese risultano anche il classico The Book of the Icelanders – Íslendingabók, by ARI THORGILSSON, Edited and Translated with an Introductory Essay and Notes by HALLDÓR HERMANNSSON, Ithaca, New York-London 1930 (Islandica, 20; rist. 1970), e il più aggiornato Íslendingabók — Kristni saga. The Book of the Icelanders — The Story of the Conversion, Translated by S. GRØNLIE, London 2006 (Viking Society for Northern Research, Text Series, 18). 72 La fonte principale sulla storia della colonizzazione islandese rimane la Landnámabók o «Libro dell’insediamento» (tardo sec. XIII), per la quale si veda l’edizione di corrente riferimento curata da Jakob Benediktsson, in Íslendingabók. Landnámabók cit., e l’ottima traduzione inglese The Book of Settlement. Landnámabók, translated by HERMANN PÁLSSON and P. EDWARDS, Winnipeg 1972 (rist. 2007). Si tenga presente che la società islandese medievale, fin dalle origini orientata al mantenimento degli equilibri socio-politici tradizionali, e assai bene documentata a partire dal sec. XII, risulta una preziosa cartina di tornasole per lo studio e la valutazione dei parametri antropologico-culturali anche dell’area scandinava continentale.
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(at degi einum vas fleira en heilum vikum gegndi í tveim misserum)73; ovvero, in altri termini, che l’anno contava complessivamente 365 giorni74 e non 364 come appunto nel computo islandese tradizionale (at óru tali «nel nostro computo», scrive Ari), quale somma complessiva delle settimane piene comprese nei due misseri (26 + 26 = 52 × 7 = 364). La stessa soluzione offerta dalla riforma, attribuita dalla tradizione a tale Þorsteinn surtr («Þ. il Nero»), del resto, non interveniva sull’integrità ebdomadica, prospettando l’aggiunta di un’intera settimana intercalare (a.isl. sumarauki o «estensione dell’estate») ogni settimo anno, in corrispondenza di miðsumar, il tempo di «mezza-estate» compreso fra la 13a e la 14a settimana del misseri estivo75. Gli Islandesi, dunque, tendevano a mantenere prevalente la divisione settimanale dell’anno per quanti rischi ciò comportasse sul piano della coerenza astronomica76. Appare evidente dalle stesse fonti medievali che il fine di tale sistema risiedesse sostanzialmente nella volontà di garantire una sua facile e più ampia applicabilità popolare, per il fatto che le date ritenute fondamentali per la vita (agricola, economica e civile) della comunità — essenzialmente rurale e sparsa su un ampio territorio di non facili collegamenti — venivano così a cadere sempre negli stessi giorni della settimana; chiarissime risultano a questo riguardo, ad esempio, le norme relative alle convocazioni delle assemeblee regionali e comunitarie (a.isl. þing) e alle principali transazioni economiche entro la Grágás77, ma poi anche le formalizzazioni della trattatistica più direttamente riferita alla materia del computo, come è ovvio, nonché le numerose testimonianze nelle narrazioni delle saghe, più indirette ma assai significative come riscostruzione “ambientale”. In altri termini, e come è già stato possibile sottolineare per il particolare approccio scandinavo “egocentrico” al tempo santorale78, la divisione regolare dell’anno islandese si comprende più 73
Dal passo della Íslendingabók segnalato supra, nota 71. In verità il ciclo solare tropico andrebbe naturalmente computato su base astronomica fino a 365 giorni e 1/4, quale intervallo fra due successivi equinozi di primavera. Per alcune difficoltà poste dal racconto nella Íslendingabók, in relazione soprattutto alla incoerenza dei dati del computo rispetto alla evidenza astronomica del tempo di Ari, si veda CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 19-20, con la bibliografia ivi citata e discussa. 75 Cfr. HASTRUP, Culture and History in Medieval Iceland cit., p. 29 (Diagram 2). 76 Oltre al sumarauki della riforma di Surtr, il calendario islandese delle origini conosceva l’ulteriore aggiustamento delle auknætr lett. «notti in aggiunta» ovvero «notti intercalari», anche queste previste in corrispondenza della metà dell’estate, al fine di integrare il numero dei giorni del ciclo “mensile” tradizionale (12 mesi × 30 giorni = 360 giorni) rispetto all’anno ebdomadico (52 settimane = 364 giorni). Si veda ancora CUCINA, Libri runici del computo cit., soprattutto p. 20, nota 15, e p. 30. 77 Cfr. CUCINA, Il computo del tempo nella Scandinavia medievale cit., note 22-28 e relativo contesto; e inoltre ancora Hastrup, Culture and History in Medieval Iceland cit., pp. 24-26. 78 Cfr. supra, nota 20 e contesto. 74
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su base socio-antropologica, ovvero etnocentrica, che non propriamente astrologica e poi computistica. Oltre al dato della centralità della partitura ebdomadica, strutturalmente interessante sul nostro calendario risulta anche la disposizione relativa degli elementi del computo annuale. Lo spazio su ciascuna tavoletta appare infatti regolarmente ripartito in tre sezioni lungo l’asse maggiore. Al centro, tracciata entro un ampio modulo inciso con evidenza, corre la sequenza ripetuta delle prime sette rune del fuþark con valore di lettere domenicali, a marcare i giorni del ciclo annuale, da leggersi da destra verso sinistra. Al di sotto compaiono, in corrispondenza di alcuni di questi giorni, rune per i numeri aurei, tratte dal sistema di 19 caratteri con rapporto alfa-numerico, a marcare i noviluni per i singoli anni in relazione alle lettere domenicali, e fondate sul computo “canonico” ovvero non ancora rettificato su base astrologica (aureus numerus antiquus). Al di sopra del modulo centrale si individuano, infine, alcune marche simboliche, riferite a specifici giorni, le quali rimandano alle principali feste dell’anno, con evidente preponderanza semiotica del santorale e della liturgia cristiana (cfr. il segno della croce, su cui ogni elaborazione [icono]grafica si innesta) e puntuale segnalazione delle vigiliae, ma anche con occasionale vocazione alla scansione dell’anno civile79. Ora, questa disposizione dei dati alfa-numerici e iconici relativi al ciclo annuale su righi orizzontali sovrapposti — nell’ordine, dall’alto: marche delle festività liturgiche e dei santi, con eventuali connotazioni “egocentriche”, agricole o naturali; lettere domenicali; numeri aurei — corrisponde alla prassi calendariale epigrafica su legno (o più occasionalmente osso)80 diffusa per ampi tratti della regione nord-europea, non solo di marca scandinava. Lo schema per così dire lineare (dove i giorni appaiono dipanati orizzontalmente) — contrapposto al tipo “tabellare” (con i giorni disposti in colonna uno sotto l’altro) caratteristico del modello latino, che pure rifluisce nell’area nordica come specialmente associato alle più antiche realizzazioni manoscritte81 — si rivela tipico del primstav, in tutte le sue 79 Per alcune interessanti peculiarità — occasionali e sistematiche — delle realizzazioni grafiche e simboliche come marche delle festività sul calendario runico vaticano si veda infra, § 5. 80 La produzione di piccoli libri del computo su tavolette di osso risulta in particolare caratteristica della zona lappone. Si veda lo studio fondamentale di INGALILL e JOHN GRANLUND, Lapska ben- och träkalendrar, Stockholm 1973 (Nordiska museet, Acta Lapponica 19). 81 Si vedano, ad esempio, il calendario di Vallentuna, il più antico che si conosca dalla Scandinavia, redatto in latino alla fine del sec. XII (Stockholm, Statens historiska museum, inv. nr 21288, Liber ecclesiae Vallentunensis; bibliografia essenziale aggiornata in CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 82-83, nota 28), e il calendario runico gutnico del 1328, cui si è fatto già riferimento più volte in questa sede.
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forme varianti (a bastone da passeggio o a spada, ad asse, a tavola singola o a tavolette multiple) e anche nell’eventuale realizzazione grafica del runstav di origine svedese. Esso si rintraccia del resto già nel più antico esemplare di runstav che sia oggi conservato, quel bastone di Nyköping che fornisce il modello archetipico, runico e ancora “litterato”, di una classe di stavar che diverrà foltissima nel medioevo nordico più tardo e nell’età post-medievale (cfr. fig. 6)82.
Fig. 6 – Schema della sezione del runstav di Nyköping relativa al periodo 1° gennaio – 3 febbraio. Si identificano, dall’alto, le rune per i numeri aurei, le rune per le lettere domenicali e le indicazioni (croci, mezze croci e nomi) delle seguenti festività: 1/1 Circumcisio domini (croce), 6/1 Epiphania domini (croce), 13/1 Octava Epiphaniae (mezza croce), 20/1 Fabiani et Sebastiani (mezza croce), 2/2 Purificatio Mariae (croce + nome [run. maria]). Nello schema le mezze croci dell’originale (qui soli bracci superiore e destro) vengono rese tramite croci più piccole.
Circostanza interessante sul piano della disposizione relativa degli elementi secondo il modello epigrafico nord-europeo risulta poi che il medesimo orientamento lineare dei dati del calendario si riscontra ugualmente negli esemplari manoscritti o impressi su pergamena e su carta, dove anzi per l’esattezza esso sembra riversarsi proprio per influsso del tipo, assai più comune in origine, del primstav. Calendari perpetui portatili, da tasca o da cintura, furono prodotti un po’ dovunque in Occidente nel periodo medievale e post-medievale; ma se fuori dalla Scandinavia il modulo verticale delle pagine dei mesi permane nel tempo83, è un fatto che i numerosi piccoli almanacchi pieghevoli o a fisarmonica prodotti nel Nord, soprattutto nel corso del Cinquecento e particolarmente in area danese, sebbene manoscritti o stampati e colorati a mano, mostrino perfetta aderenza al “tipo” invece epigrafico del bastone del computo, con sviluppo longitudinale dei mesi e informazioni dipanate entro moduli sovrapposti. La lettura del calendarietto vaticano procede a ritroso, dunque la rimbok si sfoglia da sinistra verso destra, presentando la sequenza annuale dei giorni andamento da destra verso sinistra, anche qui secondo un ordine inverso rispetto alla prassi attuale. Si è già detto che nel caso dei segni ru82
Cfr. anche supra, nota 30 e contesto. Cfr. ad esempio il calendarietto tascabile dell’ecclesiastico francese Mamert Fichet (New York, The Pierpont Morgan Library, inv. nr M897; sec. XV), su cui si veda MAIELLO, Storia del calendario cit., pp. 20-22 e fig. 1. 83
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nici la variabilità della direzione di scrittura non introduce alcun elemento di criticità, costituendo le rune un sistema grafematico sostanzialmente fondato sulla rotazione di tratti secondari intorno ad un asse o asta verticale, e dunque sulla specularità, particolarmente negli sviluppi formali tipici dell’età vichinga. Nel caso dei runstavar, poi, tale caratteristica si conferma come piuttosto diffusa, e si vedrà più avanti che una direzione di lettura da destra a sinistra, con forme runiche capovolte ed orientate a sinistra, risulta anzi la realizzazione corrente per il tipo del calendario a libro composto da tavolette di legno84. In questo senso, anche le lamelle esterne della runbok vaticana devono intendersi come copertina anteriore e rispettivamente posteriore secondo un ordine inverso rispetto all’uso oggi corrente. In esse, piena attinenza con la materia calendariale si registra per la sola tavoletta 1v (p. 2 secondo la numerazione moderna), pagina che deve intendersi come lato interno della copertina anteriore del piccolo libro del computo. Nella foliazione originaria, dunque, che prevedeva — ricordiamo — l’apertura del volumetto a ritroso rispetto alla prassi attuale, tale pagina era intesa precedere il calendario annuale, proponendo in effetti in doppia legenda l’intero repertorio grafico alfa-numerico impiegato nel calendario, ovvero in altri termini i due cicli completi lunare (metonico) e solare (di 28 anni). Anche in questo caso, lo spazio sulla tavoletta appare tripartito lungo l’asse longitudinale: nella sezione superiore corre la sequenza delle 19 rune per la serie del numero aureo, con forme orientate a sinistra e lettura da destra verso sinistra; mentre in quella inferiore si registrano le repliche modulari cicliche delle sette rune per le lettere domenicali, con forme ugualmente orientate a sinistra e lettura sempre da destra a sinistra ma secondo ordine inverso, dove si osserva la consueta sovrapposizione dei segni ogni quattro unità a segnalare la doppia lettera domenicale riferita a ciascun anno bisestile del grande ciclo solare (cfr. fig. 7).
Fig. 7 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavoletta 1. Lato b: repertorio grafico runico del calendario per i cicli lunare (sopra) e solare (sotto). 84
Cfr. infra, § 4, particolarmente a proposito della runbok Stockholm, Nordiska museet, inv. nr 175015, proveniente dalla regione svedese dell’Östergötland, nonché sulle realizzazioni riferibili agli insediamenti svedesi nell’area del Baltico.
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L’inizio del ciclo ventottennale riprodotto sulla nostra tavoletta deve intendersi riferito all’anno 1520; nella tavola del grande ciclo pasquale di 532 anni compreso fra il 1140 e il 1671, a tale anno, che risultava il 17° del ciclo solare, corrispondeva infatti la doppia lettera domenicale g / a (in rune ᚼ / ᚠ), e si trattava dunque di un anno bisestile85. Che l’anno preso quale riferimento iniziale per l’apparato computistico del nostro calendario non corrisponda alla data incisa sull’ultima tavoletta (ovvero la prima secondo l’attuale numerazione), e anzi questa preceda di oltre un secolo e mezzo, non deve in verità stupire; poiché una delle caratteristiche più evidenti e riconosciute della vasta produzione di calendari perpetui runici su legno risulta nella tendenza a replicare più antichi esemplari senza necessariamente ritenere di dover aggiornare il modello sul piano astronomico o computistico, e forse a riprova di una tradizione diffusissima ma affidata ad artigiani non sempre tecnicamente consapevoli. Sulla stessa pagina, infine, entro lo spazio centrale, oltre alle rune per le lettere domenicali relative alla seconda parte dell’anno dopo il giorno bisesto, compaiono alcune incisioni, profonde e compatibili con la mano dell’autore del calendario. Si tratta di una piccola croce e di un simbolo grafico più articolato composto da segmenti lineari incidenti e/o incrociati, il quale in ogni evidenza replica con minima variante — rispetto al lato opposto della medesima tavoletta — il marchio di proprietà (sved. bomärke) della famiglia cui il calendario è appartenuto. Ma su questo si tornerà più avanti86. 4. Il calendario vaticano e la tradizione svedese dei runstavar nell’area del Baltico Si è già accennato in precedenza87, in via generale, alla sintesi strutturale di cui si sostanzia la produzione dei bastoni del computo — runici e non — di area scandinava, precisamente fra elementi comuni a tutti i calendari medievali di marca occidentale ed elementi invece riconducibili alla più antica (pre-cristiana) tradizione nordica del conto del tempo. Né appare opportuno dedicare qui ulteriore attenzione alle realizzazioni calendariali affidate ad una singola asta o tavola di legno, le cui caratteristiche specifiche sul piano della organizzazione interna si uniformano pienamente alla realtà viva e tradizionale da un lato della segmentazione dell’anno nei due 85
Cfr. PFAFF, Aus alten Kalendern cit., Z. (scil. Zahlentafeln – Anhang) 8. Cfr. infra, § 6, a proposito delle iscrizioni sulla runbok vaticana estranee alla materia calendariale vera e propria. 87 Cfr. supra, § 1. 86
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misseri (o, al limite, per alcuni modelli di stavar, nei quarti stagionali)88, e dall’altro del rispetto per l’unità ebdomadica. Varrà la pena invece esaminare il tipo di runstav che qui più interessa, ovvero il calendario epigrafico ripartito su tavolette multiple di legno legate a formare un libretto tascabile, che convenzionalmente si definisce per l’appunto in sved. runbok o «libro runico (del computo)». Mentre converrà segnalare, almeno in via generale, come ugualmente si rintraccino nel Nord realizzazioni non runiche di tale varietà (sved. rimbokar o «libri del computo»), ed anzi queste appaiano particolarmente caratteristiche di alcune regioni anche di spiccata influenza svedese. Ad esempio, dalla zona lappone proviene una vasta produzione di piccoli calendari affidati a lamelle di osso, corno o legno, organizzati strutturalmente e disposti graficamente allo stesso modo della variante a libro dei runstavar comune nel resto della Svezia (moduli orizzontali sovrapposti per i giorni dell’anno e i simboli delle feste), semmai contraddistinti da minore incidenza del dato lunare metonico89. Ora, una parte di tale corpus risulta per l’appunto del tipo pienamente idioticum o “analfabetico”, ovvero alcuni esemplari appaiono marcare le settimane non per mezzo delle rune bensì tramite semplici tacche intervallate da segni di croce, mentre le indicazioni delle festività risultano puramente simboliche. Da questa estrema propaggine settentrionale dell’area interessata dalla produzione di calendari epigrafici a libro, di fatto, anche qualora se ne consideri la varietà compiutamente runica, si ricava in generale il dato di una radicale semplificazione del contenuto computistico rispetto a quanto si osserva nei runbokar della Svezia centro-meridionale o delle zone di espansione 88
Cfr. particolarmente CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 30-34 e 58-59. I calendari epigrafici lapponi risultano relativamente noti alla ricerca del settore, poiché furono oggetto di uno studio specifico e capillare pubblicato da Ingalill e John Granlund al principio degli anni Settanta del secolo scorso (cfr. I. GRANLUND, J. GRANLUND, Lapska ben- och träkalendrar, Stockholm 1973 [Nordiska museet, Acta Lapponica, 19]). Una selezione documentale, utilmente riferita a diverse tipologie realizzative provenienti dalla Lapponia svedese, si trova ora anche in Digitalt museum, Nordiska museet, alle pagine web http://www.digitaltmuseum.se/things/runkalender/S-NM/NM.0175006+?subjects=%22Tider%C3%A4kning+:+ Evighetskalendrar%22&search_context=1&count=28&pos=12; http://www.digitaltmuseum. se/things/runkalender/S-NM/NM.0175011?subjects=%22Tider%C3%A4kning+:+Evighetska lendrar%22&search_context=1&count=28&pos=14; http://www.digitaltmuseum.se/things/ runkalender/S-NM/NM.0175012+?subjects=%22Tider%C3%A4kning+:+Evighetskalendrar% 22&search_context=1&count=28&pos=15 (classificato erroneamente come «runkalender», in verità non runico); http://www.digitaltmuseum.se/things/runkalender/S-NM/NM.0175019 +?subjects=%22Tider%C3%A4kning+:+Evighetskalendrar%22&search_ context=1&count=28&pos=17; http://www.digitaltmuseum.se/things/runkalender/S-NM/NM. 0175074+?subjects=%22Tider%C3%A4kning+:+Evighetskalendrar%22&search_ context=1&count=28&pos=19; etc. (accesso dicembre 2014). 89
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Fig. 8 – Calendario runico su sette tavolette di osso proveniente dalla Lapponia svedese. Stockholm, Nordiska museet, inv. nr 175006+ (Foto: Nordiska museet, in Digitalt museum, ; accesso dicembre 2014).
svedese orientale di cui qui converrà presto occuparsi; poiché da un lato quasi mai si trovano, sui calendari lapponi, indicazioni relative al numero aureo, e dall’altro il repertorio dei simboli per i vari giorni di festa risponde a criteri di massima economicità e di spiccata vocazione astrattista, richiamando in questo senso piuttosto la tradizione dei primstavar norvegesi che non la più immediata resa realistica degli attributi dei santi o degli emblemi delle festività sui runstavar svedesi. Tuttavia, nonostante le peculiarità locali di organizzazione grafica, di confezione90 e di culto dei santi91, i piccoli libri del computo lapponi condividono con una parte della documentazione affine di marca runica e svedese centro-meridionale la caratteristica fondamentale della partitura del ciclo tropico annuale in 13 sezioni, affidate ad altrettante “pagine” di legno o osso o corno, ognuna comprendente quattro settimane piene ossia 28 giorni, a restituire un anno di 364 giorni, integrato eventualmente sull’ultima tavoletta da un giorno in più, il 365°, necessario ad un approssimativo allineamento con il ciclo astronomico. 90 Mi riferisco soprattutto ai motivi ornamentali geometrici che decorano le lamelle di copertina e all’uso prevalente di predisporre i fori di legatura sul lato più lungo delle tavolette. 91 Rimando in particolare a I. e J. GRANLUND, Lapska ben- och träkalendrar cit., pp. 41-79.
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Fig. 9 – Runbok dall’Östergötland (Stockholm, Nordiska museet inv. nr 175015). Particolare della festa di s. Marco (25 aprile).
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Fig. 10 – Runbok dall’Östergötland (Stockholm, Nordiska museet inv. nr 175015). Particolare della festa della Esaltazione della croce (Korsmässa d’autunno, 14/9) e di s. Matteo (21/9). Lettura da destra a sinistra.
Tale modello strutturale, cui come si è visto appare sostanzialmente uniformarsi anche il nostro calendario vaticano, può dunque riscontrarsi o meno nella produzione svedese di analoga tipologia, in verità non necessariamente vincolata alla segmentazione del ciclo annuale in settimane piene, sebbene allo stesso modo priva di interesse per la partitura mensile. Un esempio particolarmente utile all’accostamento con la documentazione più corrente, in cui gli elementi del computo cristiano, nonché la base liturgica temporale e santorale, vengono integrati da evidenti specificità nordiche (su tutto, la rappresentazione della serie dei giorni come un continuum che ignora le unità dei mesi, e la predominanza del significato economico e sociale delle date fondamentali per la scansione dell’anno) proviene dall’Östergötland: si tratta di una runbok molto ben conservata (ora Stockholm, Nordiska museet inv. nr 175015; figg. 9-11), che rivela con immediata evidenza la qualità esplicita delle raffigurazioni delle feste e soprattutto la loro rinnovata identità folklorica in assai significative occorrenze. Lo slittamento dal piano devozionale al piano civile delle memorie di alcuni santi del calendario non si rivela, certamente, né insolito né caratteristico della sola area nordica, e si potrebbe al contrario definire come l’effetto della naturale evoluzione di uno strumento che, nel corso del medioevo, conferma semmai la centralità della Chiesa riguardo al dominio e alla gestione del tempo del lavoro agricolo, nonché delle principali occasioni di condivisione comunitaria o di consumo dei prodotti di quel lavoro. Ma ciò che colpisce nella tradizione svedese del runstav, e in particolare emerge con cristallina chiarezza in questo piccolo libro runico del computo dall’Östergötland, risulta evidentemente la manomissione degli elementi
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Fig. 11 – Runbok dall’Östergötland (Stockholm, Nordiska museet inv. nr 175015). Tavolette relative ai periodi 1/1-29/1 (sotto) e 28/2-28/3 (sopra). Lettura da destra a sinistra.
iconografici tradizionali anche di santi di primissimo piano e comune venerazione — come gli evangelisti, ad esempio — o di festività centrali del ciclo liturgico, come le celebrazioni comprese entro il periodo che va dal Natale all’Epifania. Con il che appare interrompersi una continuità iconica altrimenti di grande compattezza nell’Occidente cristiano, dove gli attributi o i simboli dei santi — e specialmente di quelli principali — si replicano identici o con minime varianti realizzative, nel rispetto della prevalente tradizione agiografica. Si veda, ad esempio, il caso delle feste degli evangelisti s. Marco (25 aprile, sved. Markusmässa) e s. Matteo (21 settembre, sved. Matteusmässa, Mattsmässa): in luogo dei simboli convenzionalmente associati ai due santi, rispettivamente il leone e l’angelo, appaiono sulla runbok östgotlandese un uccello su rametto frondoso per Marco (cfr. fig. 9) e un capro per Matteo (cfr. fig. 10), il primo a significare il cuculo che torna a far sentire il suo richiamo all’approssimarsi della buona stagione (cfr. il detto sved. Markus med göken «Marco [viene] con il cuculo»)92, il secondo a ricordare la conta dei maschi del gregge in previsione della nuova stagione degli accoppiamenti93. E si veda inoltre, fra le festività marcate sulle tavolette relative ai periodi 1/1 – 29/1 e 28/2 – 28/3 entro la stessa runbok (cfr. fig. 11), in particolare la sequenza dei primi giorni dell’anno, fino all’Octava epifania domini (13 gennaio): un corno potorio vòlto verso l’alto, a testimoniare le abbondanti libagioni che proseguono dal Natale, in corrispondenza del 1° 92
Cfr. LITHBERG, Runstaven, en ursvensk rådgivare åt Sveriges bönder cit., p. 122. Cfr. ibid.; SVENSSON, Bondens år. Kalender och märkesdagar, hushållsregler och väderleksmärken cit., p. 46. 93
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gennaio; tre corone, a marcare la visita dei Magi, in corrispondenza del 6; un corno capovolto, che chiude il «tempo di Jól» (sved. Juletid) segnalando la fine delle celebrazioni con grande consumo di cibo, in corrispondenza del 20° giorno dopo il Natale (sved. Tjugundag). Si può qui osservare che le feste della liturgia tendono a cedere prevalenza iconica al dato “egocentrico” economico e sociale (i banchetti e le libagioni tradizionali)94; così come, sulla seconda tavoletta, l’annotazione stagionale ovvero agreste prevale quale marca del giorno di s. Benedetto (21 marzo, sved. Bengtsmässa), sia attraverso un serpe avvolto a spirale (i serpenti escono dalle tane invernali) sia attraverso un rametto (l’inizio della primavera)95, secondo una prospettiva come si vede assolutamente “paritaria”, la quale accosta con naturalezza i punti focali della partitura liturgica dell’anno (cfr., sulla prima tavoletta, le memorie dell’Epifania 6/1, di s. Henrik 19/1, di s. Agneta 21/1, della Conversione di s. Paolo 25/1; sulla seconda tavoletta, le memorie di s. Gertrude 17/3, di s. Giuseppe 19/3 e dell’Annunciazione di Maria 25/3) con le date astronomiche e le principali scadenze della vita rurale. Si potrebbe aggiungere con tale naturalezza che in alcuni casi si può assistere ad una vera e propria “rilettura” folklorica degli stessi attributi tradizionali dei santi, se ad esempio la stessa spada di s. Paolo venne facilmente interpretata dagli agricoltori svedesi come segno della divisione dell’inverno, ovvero come indicazione che il 25 gennaio metà della stagione più fredda fosse ormai passata e si fosse però anche a metà del consumo delle riserve alimentari (cfr. sved. halvfallen snö och halvätet hö «per metà è caduta la neve e per metà è stato mangiato il fieno»)96. Ora, a parte lo sviluppo straordinario di questa tipologia di calendario portatile “a libretto” nella zona lappone, e a parte anche la sua diffusione in meno remote aree della Svezia secondo un modello semplice e accessibile di almanacco “popolare” ad uso soprattutto degli agricoltori, particolarmente rilevante appare in questa sede la fortuna che tale varietà di runstav (epigrafico, tascabile e su lamelle di legno) ha conosciuto presso le regioni orientali del Baltico, in zone di immigrazione svedese, fino al XVIII secolo e talvolta oltre. Preservata in alcuni interessanti esemplari o altrimenti nota grazie a descrizioni soprattutto ottocentesche97 appare infatti una classe di runbokar prodotta negli antichi insediamenti svedesi d’Estonia, specialmente insulari. L’attenzione marginale dei runologi, solamente incuriositi dalla 94
Si veda anche CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 72. Sulla stessa tavoletta, si noterà che anche la festa di s. Gregorio 12/3 viene marcata da un rametto, a segnalare la nascita dei primi germogli. 96 Cfr. LITHBERG, Runstaven, en ursvensk rådgivare åt Sveriges bönder cit., pp. 121-122. 97 Ma a partire, in verità, dagli ultimi decenni del secolo XVIII. Cfr. qui avanti. 95
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straordinaria recenziorità di tali epigoni runografici rispetto ad una diffusione dell’uso “dinamico” delle rune che non oltrepassa il primo secolo XVI in via generale ed il XVII per la confezione di calendari su legno (i runstavar da passeggio o da collezione riprodotti dalla moda goticista), si rivela in questo caso appena bilanciata dalle considerazioni etnografiche e antropologiche di coloro che hanno osservato il fenomeno come parte — eventualmente alterata — della tradizione estone in ordine al computo del tempo e alla realtà folklorica delle feste religiose o agricole del calendario annuale. La prima menzione di un calendario runico prodotto nella regione orientale del Baltico risale alla fine del Settecento, quando August Wilhelm Hupel annota nel terzo e ultimo volume del suo Topographische Nachrichten von Lief- und Ehstland (1782) che gli agricoltori dell’isola di Ösel (oggi Saaremaa) conservavano ancora ai suoi tempi l’uso di un peculiare calendario perpetuo, tipologicamente e formalmente diverso dalla realizzazione altrimenti corrente di almanacchi a stampa ormai diffusa anche in Estonia e in Lettonia98. La tradizione, si lascia intendere, si sarebbe protratta in particolare per la qualità sostanzialmente “analfabetica” di questi calendari, che dunque potevano essere usati da illitterati, appena in grado di applicare un sistema semplificato di computo, fondato soltanto sulle sette lettere domenicali e sulla ricorrenza delle principali feste liturgiche e dei santi ovvero sull’annotazione — puramente iconica anch’essa — di particolari punti di svolta stagionali e civili. La composizione di tali calendari perpetui veniva affidata a sette piccole tavolette di legno legate insieme, sulle quali — in particolare distribuite su 13 pagine — si individuavano sequenze di 28 segni complessivi intesi come replica di una base modulare di sette unità per quattro volte, a restituire dunque ognuna 28 giorni ovvero quattro settimane, per un totale di 52 settimane. Il dato grafico, non esplicito nella descrizione di Hupel ma evidente nell’incisione pubblicata a corredo del testo come tav. III (Oeselscher Bauer-Kalender), rimandava alla serie delle prime sette rune del fuþark, seppure realizzate in forme speculari e con direzione di lettura da destra verso sinistra, e in verità presentate, nella legenda posta in calce nello stesso disegno, in erronea sequenza99. Lo stesso libretto ligneo doveva leggersi dalla fine, a partire dunque dall’ultima tavoletta, e da destra verso sinistra100; ogni anno successivo cominciava un giorno in 98
Cfr. Topographische Nachrichten von Lief- und Ehstland, Gesammelt und herausgegeben durch A. W. HUPEL, Dritter und lezter Band, Riga 1782, p. 366. 99 Cfr. anche più avanti in questo stesso paragrafo. 100 Cfr. HUPEL, Topographische Nachrichten cit., III, p. 366: «bei dem Gebrauch des Kalenders folgen sie den Hebräern und andern morgenländischen Fölkern die ihr Buch von hinten anfangen, und von der Rechten zur Linken lesen».
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ritardo sulla sequenza del calendario101, mentre di ogni festa o particolare celebrazione dell’anno risultava annotazione tramite appositi simboli102. Il resto della breve presentazione viene da Hupel destinato ad una “lettura” delle feste annotate sul calendario di Ösel, le quali appaiono presentate in forma di elenco come legenda dei simboli che si rintracciano nella tavola allegata103. L’incidenza degli errori, sia nella collocazione delle festività del santorale sulla stessa tavola, sia nella identificazione onomastica fornita da Hupel in apparato, risulta non marginale, e può facilmente intendersi determinata dalla circostanza che l’ecclesiastico non poté osservare il manufatto direttamente, bensì per sua stessa ammissione si affidò al disegno e alla consulenza di altri per la sua analisi104. Poiché sarà utile più avanti tornare sul piccolo almanacco di Ösel105, non se ne discuteranno qui ulteriormente i dettagli realizzativi, soprattutto interessanti, ai fini della nostra indagine, quanto alle indicazioni iconiche o simboliche delle feste annuali. Ma conviene sottolineare che, nella scarsità relativa della documentazione runica baltica anche attualmente acquisita, e in generale entro il poco rilievo a questa assegnato negli studi sulla runografia post-medievale, il calendario descritto da Hupel e mai più ritrovato poté godere di una certa popolarità, suscitando la curiosità antiquaria e l’interesse antropologico-culturale della comunità scientifica europea. Così, se ne rintraccia la descrizione nel Supplemento al volume LXXXII del Gentleman’s Magazine and Historical Chronicle per l’anno 1812, dove viene riportata una versione inglese del testo di Hupel, tratta a sua volta dal primo volume del digesto di vari autori pubblicato da William Tooke come View of the Russian Empire during the reign of Catharine the 101
«Alle Jahr fangen sie um einen Tag später an zu rechnen» (ibid.). «Aus diesem Kalender wissen sie gleich jeden Wochentag, jedes stehende Fest, jeden ihnen merkwürdigen und durch einen abergläubischen Gebrauch ausgezeichneten Tag; denn jeder hat sein eignes Zeichen» (ibid.). 103 Cfr. ibid., pp. 367-370. 104 Scriveva Hupel (ibid., p. 367): «Jedes über den Tagen stehende Zeichen hat seine Bedeutung; einige zeige ich hier an, so weit mein Führer reicht: über etliche erklärte sich der um Rath befragte öselsche Bauer (ein Kalendermacher) nicht, es sei nun, daß er sie nicht verstand, oder welches wahrscheinlicher ist, daß er seiner Brüder abergläubische Gebräuche aus Vorsicht nicht verrathen wolte. Die kurzen Erklärungen liefere ich hier theils in den ehstnischen, theils in deutschen Ausdrücken: bei einigen fand ich Dunkelheit und Zweifel, wagte aber nicht mich von meinem Führer zu entfernen». L’identità del suo diretto informatore, probabilmente uno degli ecclesiastici menzionati in precedenza (ibid., p. 354), non è nota; accenno al fatto che anche l’incisione raffigurante il calendario gli fosse pervenuta indirettamente si trova a p. 366: «Von diesem Kalender liefere ich eine erhaltene getreue Abschrift, die manchen nicht unangenehm sein wird». Cfr. anche S. O. JANSSON, De estlandssvenska kalenderstavarna, in Svio-Estonica, vol. XVI, Ny följd 7 (1962), pp. 126-127. 105 Particolarmente entro il paragrafo seguente. 102
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Fig. 12 – Raffigurazione del perduto calendario runico dell’isola di Ösel (Saaremaa), Estonia, tratta dal Gentleman’s Magazine, 1812.
Second, and to the close of the Present Century106. Tooke, che era membro dell’Accademia Imperiale delle Scienze e dunque aveva facile accesso a vasto materiale librario e d’archivio107, invierà a Sylvanus Urban — e questi pubblicherà nella prima parte del suddetto Supplemento del Gentleman’s Magazine — la stessa riproduzione del calendario di Ösel (che 106 Pubblicato a Londra nel 1799. Il riferimento al Bauer-kalendar di Ösel si trova alle pp. 216-217. 107 Cfr. lo stesso TOOKE, View of the Russian Empire cit., p. V.
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Tooke dichiara essere un facsimile di dimensioni ridotte)108; in questa, ad ogni modo, risulta eliminata la legenda delle rune per le lettere domenicali — incongrua per dislocamento della settima runa ᛡ al primo posto della sequenza con il valore A —, la quale compariva in calce alla tavola pubblicata da Hupel, e che viene ora invece incorporata, secondo la corretta corrispondenza numerica, alle prime sette rune della sequenza annuale (cfr. fig. 12). La raffigurazione del calendario viene poi corredata da una versione inglese leggermente abbreviata della lista delle festività. Le poche ulteriori informazioni inviate da Tooke a Londra sulla produzione di tali «rude calendars» riguardano la circostanza che essi sarebbero stati all’inizio dell’Ottocento ancora in uso anche sulle vicine isole di Ruhn (scil. Runö, oggi Ruhnu) e Mohn (oggi Muhu)109. Si segnala come dato particolarmente rilevante l’assenza di ogni interesse specifico da parte di Hupel (e poi dello stesso Tooke, che di norma solo ripropone le osservazioni dell’ecclesiastico tedesco) a far notare l’impiego delle prime sette rune del fuþark come lettere domenicali su questo calendario tradizionale estone delle regioni insulari. L’argomento e silentio vale dunque come indizio significativo di una percezione del tratto runico come non incongruo in relazione a quell’area, poiché — si deve intendere — la matrice folklorica svedese della zona sulle coste orientali del Baltico doveva essere considerata già allora fattore di piana evidenza storico-culturale. Ugualmente rimarchevole sembra inoltre l’apparente inconsapevolezza di Hupel della esistenza della medesima tradizione runica calendariale sulle isole baltiche vicine a Saaremaa; dove al contrario essa doveva mostrarsi ancora dinamica, come testimonia al principio del sec. XIX la breve nota — questa volta originale — di Tooke, e come risulta dalla preservazione oggi
108 Cfr. Explanation of an Almanac used in the Isle of Œsel, in Gentleman’s Magazine and Historical Chronicle 82 (1812), p. 625 (entro la sezione «Evening Lectures»): «I herewith send you a fac-simile, somewhat reduced in size, of one of these rude almanacs, used in the Isle of Œsel, together with such explanations as could be collected from a rather intelligent boor». Anche il riferimento all’agricoltore locale che aveva fornito informazioni sulla lettura delle feste del calendario risulta in realtà tratto dal libro di Hupel, che identificava incidentalmente tale consulente come «ein Kalendermacher» (cfr. Topographische Nachrichten cit., III, p. 367). La rappresentazione del calendario, stampata in due sezioni da Hupel, compare invece sul Gentleman’s Magazine su tavola unica. 109 Cfr. Explanation of an Almanac cit., p. 625. Tale informazione non risulta desunta, contrariamente al resto della comunicazione inviata a S. Urban per la conferenza londinese, dal testo di Hupel, e si deve dunque intendere come un rapido aggiornamento critico-documentale, all’inizio dell’Ottocento, del corpus dei calendari runici di fattura estone.
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acquisita e nota di manufatti analoghi provenienti direttamente o indirettamente110 dalle isole di Ormsö (oggi Vormsi) e Dagö (oggi Hiiumaa)111. Lo stesso calendarietto di Ösel attrarrà ancora qualche curiosità alla fine dell’Ottocento, in particolare risultando l’oggetto di una breve messa a punto o intesa rettifica di alcuni elementi grafico-computistici e del santorale ad opera di Hans Hildebrand112; ma l’analisi più puntuale del suo contenuto calendariale risultava allora già in verità disponibile grazie all’inserimento del manufatto entro l’ampia tabella comparativa fornita in appendice al secondo volume della fortunata monografia di Carl Russwurm Eibofolke oder die Schweden an dem Küsten Ehstlands und auf Runö, pubblicato a Reval (Tallin) nel 1855. In questa appendice litografica113, le tavole XIII-XV dipanano gli «Heiligentage auf den Holzkalendern oder Runenstäben» su una serie di tabelle sinottiche, iconografiche ed esplicative, riferite ad un corpus documentario di dieci esemplari, marcati dalle lettere A-K. Particolarmente significativa in questa sede si rivela l’analisi delle feste annotate nei calendari marcati come I. e K. nella trattazione di Russworm: la piccola runbok di Ösel, già allora dispersa ed esaminata per esplicita ammissione sul testo di Hupel, corrisponde alla lettera K, mentre identificato come I risultava un calendario su otto tavolette proveniente da Röicks sull’isola di Dagö, datato 1767. L’interesse di Russwurm per tali manufatti si inserisce, come è ovvio, entro il più ampio quadro di valutazione della percezione e regolamentazione del tempo presso gli Estoni, osservata in prospettiva essenzialmente 110 È questo il caso della colonia dagö-svedese di Gammalsvenskby in Ucraina. Si veda anche più avanti, in questo stesso paragrafo. 111 Cfr. JANSSON, De estlandssvenska kalenderstavarna cit., p. 127. 112 Cfr. Besprechung des Runenkalenders von Oesel, in Verhandlungen der Berliner Gesellschaft für Anthropologie, Ethnologie und Urgeschichte, red. von RUD. VIRCHOW, Berlin 1880, pp. 159-161. La nota di Hildebrand prende lo spunto da una breve ricognizione dello stesso calendario, pubblicata l’anno precedente nei Sitzungsberichte der Berliner Gesellschaft für Anthropologie (18 Oct. 1879, p. 340-341) con il titolo Abhandlung über einen Runenkalender von der Insel Oesel. Nel numero dello stesso anno 1880 dei Sitzungsberichte der gelehrten estnischen Gesellschaft zu Dorpat, compare una nota di L. STIEDA pertinente ad un calendario runico in possesso di un agricoltore dell’isola di Ösel, secondo quanto riferito l’anno precedente da J. von Stiern. Questi avrebbe cercato di acquistarlo senza successo, e avrebbe inoltre riportato la circostanza che tale Bauern-Kalender risultava del tutto simile ad un esemplare conservato nel Museo di Nürnberg; dal che si poteva concludere che quest’ultimo altro non fosse che un calendario runico di origine estone, prodotto probabilmente sulla stessa isola (cfr. ibid., p. 32). Che il calendario di cui si tratta possa essere identificato con la runbok descritta per la prima volta da Hupel un secolo prima e da allora dispersa, mi pare non verosimile, sebbene gli elementi in nostro possesso non consentano di escluderlo del tutto. 113 Cfr. Lithographirte Beilagen zu Eibofolke oder die Schweden an dem Küsten Ehstlands und auf Runö, entworfen von C. RUSSWURM, auf Stein gezeichnet und gedruckt von W. MACDONALD, Reval 1855, im Commission bei Fr. Fleischer in Leipzig.
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sincronica, come corollario di un approccio che rimane etnografico nella sostanza, pur integrato da quell’attenzione erudita al dato storico-filologico che è caratteristica dell’autore. In verità, le considerazioni generali, ad esempio sull’adeguamento del calendario nordico al computo ecclesiastico o sulla data d’origine dei calendari runici, non reggono ad una riflessione che entri oggi nel metodo e nel merito114; ma a proposito dei calendari su legno di marca scandinava, Russwurm offre una corretta, sommaria descrizione delle varie tipologie testimoniate dalla documentazione allora acquisita — fondata in ultima analisi sui dati raccolti e resi noti da Liljegren115 —, ripartendo poi il suo esiguo corpus di calendari su legno prodotti nella regione estone appunto in base a tali diversi tipi116. Del calendario runico su otto tavolette di Dagö (1767), Russwurm segnalava un’organizzazione della materia calendariale del tutto simile a quella rintracciata sulla runbok di Ösel117; sicché, se si esclude la incisione dei cicli solare e lunare che vi compariva sulla pagina interna dell’ottava tavoletta, la sequenza dei giorni risultava convenzionalmente ripartita su sette tavolette, entro i soliti due righi modulari, in modo che la serie delle prime sette rune del fuþark — in questo caso identificata nelle sue forme standard, senza seppur lievi alterazioni118 — fosse ripetuta per 52 volte, con direzione di lettura da destra verso sinistra. Al di sopra delle rune per le lettere domenicali apparivano i simboli relativi ai santi e alle principali ricorrenze dell’anno, mentre al di sotto correva l’annotazione del numero aureo, che tuttavia i contadini fraintendevano a quel tempo come indicazione dei giorni fasti e nefasti119. Del calendarietto di Ösel descritto da Hupel, data la somiglianza grafica e strutturale con la runbok di Röicks, Russwurm sottolineava in particolare la plausibile derivazione dalla tradizione svedese, ben attestata per le isole di Ösel e Dagö, che già Hiärne aveva intuito120; e inoltre offriva alcune minime precisazioni formali, quali l’assenza di ogni dato relativo al ciclo metonico (il numero aureo) e la direzione di lettura da destra verso sinistra. Più interessante e già improntata ad un approccio analitico che prevede il 114
Cfr. anche JANSSON, De estlandssvenska kalenderstavarna cit., p. 128. Cfr. J. G. LILJEGREN, Runurkunder, Stockholm 1833. 116 Cfr. RUSSWURM, Eibofolke cit., II, pp. 169-172. 117 Cfr. ibid., p. 172. 118 Cfr. ibid., p. 174: «Nur der dagösche Kalender […] ist mit eigentlichen Runen versehen». 119 Cfr. ibid., p. 172. Russwurm aggiunge di avere conoscenza di un simile calendario conservato a Reval e prodotto nel 1840 in Dagö su un più antico modello, e inoltre di calendari (cosiddetti rîmstainar) di diversa tipologia originari di Kertell, costituiti da 12 tavolette destinate ciascuna ad un mese e a quel tempo apparentemente dispersi. 120 Cfr. qui avanti. 115
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puntuale confronto documentale appare invece l’annotazione che i segni relativi alle feste dei santi per lo più coincidevano con quelli sulla runbok di Dagö del 1767, in particolare in rapporto a quei giorni che al contrario non risultavano marcati su tutti gli altri calendari prodotti nell’area, ad esempio il 7 gennaio, il 7 ottobre, il 21 novembre e l’8 dicembre121. L’analisi di Russwurm rimane per molto tempo la più ampia trattazione del fenomeno dei calendari su legno nelle due realizzazioni estoni del Bauer-Kalender e del Runen-Kalender. Il solo ulteriore contributo specifico che risulti ad una mia ricognizione, prima della messa a punto tipologica e documentale offerta da Sam Owen Jansson all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso122, si rivela un articolo di F. Amelung dedicato al calendario antico-estone e pubblicato nel 1881, dove la base del corpus allora censito (scil. Russwurmiano) viene in particolare discussa nel merito dell’occorrenza dei giorni tradizionalmente marcati come nefasti — stabiliti in numero di 45 — e della loro relativa incidenza sulla disposizione delle feste del calendario, ovvero, in altri termini, in ordine al rapporto fra identità cristiana e base folklorica123. Sollecitato da una prospettiva soprattutto diacronica e interessato in particolare a ricostruire l’origine e l’evoluzione del fenomeno, Amelung chiamava in causa, insieme alle autorevoli trattazioni di Hupel e Russwurm, anche lo studio di F. J. Wiedemann sulle credenze popolari degli Estoni, pubblicato qualche anno prima124. In effetti, come si diceva poc’anzi, riferimenti all’uso di calendari su legno presso gli Estoni si rintracciano per lo più in alcuni luoghi della letteratura storico-etnografica relativa alla regione orientale del Baltico di più immediata pertinenza svedese. Un assai precoce riferimento si incontra già nella storiografia seicentesca, in particolare dovuto all’affermazione di Thomas Hiärne che, nonostante il poco trasporto delle popolazioni di Estonia, Livonia e Lettonia verso la lettura e la scrittura, presso gli Esto121 Cfr. RUSSWURM, Eibofolke cit., II, p. 172. I giorni citati ad esempio della comune occorrenza di elementi del santorale sui due calendari runici di marca svedese in zona estone rimandano alla celebrazione, rispettivamente, di s. Canuto (Kanuti ducis m. 7/1), di s. Brigida (Birgitte vidue 7/10), della Presentazione di Maria (Presentatio Marie v. 21/11), e della Immacolata Concezione (Conceptio Marie v. 8/12). 122 Come citato supra, in calce alla nota 104. 123 Cfr. F. AMELUNG, Der altestnische Kalender, in Sitzungsberichte der gelehrten estnischen Gesellschaft zu Dorpat, 1881, pp. 154-171. 124 Cfr. F. J. WIEDEMANN, Aus dem inneren und ausseren Leben der Ehsten, St. Petersburg 1876 (il riferimento ai 45 giorni di malaugurio del calendario estone si trova a p. 463). L’analisi proposta da Amelung, apprezzabile negli intenti, appare tuttavia viziata anch’essa — come si è rilevato per lo stesso Hupel e come pure si deve segnalare per Russwurm — dal presupposto cronologico errato che vuole la produzione svedese di calendari runici su legno originare già a metà del secolo XI ed apparire ampiamente diffusa all’inizio del secolo seguente (cfr. Der altestnische Kalender cit., p. 158).
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ni125 tuttavia egli stesso aveva potuto osservare l’impiego di bastoni o pezzi di legno su cui apparivano incisi i giorni dell’anno insieme alle principali festività, secondo una tradizione evidentemente appresa dagli Svedesi che abitavano le isole vicine alla costa; poiché, per l’appunto, tali calendari risultavano, fra quelli, comunemente diffusi. Pubblicata la prima volta solo nel 1794, la prima parte della Ehst-, Lyf- und Lettlaendische Geschichte di Hiärne, verrà ristampata insieme all’intera opera nel 1835, entro il primo volume dei Monumenta Livoniae antiquae, e sarà solo da allora più ampiamente nota126. Del fugace accenno contenuto in quel libro sull’argomento che in questa sede particolarmente interessa, si vorrà notare en passant la lucidità della lettura “genetica” del fenomeno della diffusione dei calendari su legno, pertinente e tuttora condivisibile nel caso della variante documentale runica. Cenni alla circolazione di calendari runici su legno nelle colonie svedesi d’Estonia risultano anche dalla rilettura del carteggio in tedesco che Russwurm intrecciò negli anni 1872-1881 con Artur Hazelius, particolarmente in relazione all’acquisizione di materiale etnografico per le collezioni museali di Stoccolma; la ricostruzione ragionata offerta in un saggio di Ilmar Talve del 1949127 ne offre alcuni spunti interessanti, se non altro perché gli sporadici riferimenti agli «(Holz)runenkalender» — allora già censiti e catalogati nel museo di Reval, oppure rintracciati da Russwurm in Dagö e in Nuckö (oggi Noarootsi) — vengono puntualmente segnalati come elementi di sicura rilevanza per la identificazione dei tratti distintivi della cultura degli Estlandssvenskar. Altri accenni fuggevoli si rintracciano ugualmente entro alcuni contributi dedicati all(o studio dell)a cultura popolare degli Svedesi d’Estonia, ad esempio ad opera di Sigurd Erixon al principio degli anni ’40 del secolo scorso, come risultato di una indagine etnografica condotta nelle campagne estoni nell’estate del 1934128: il dato che ne emerge risulta so125
Precisamente in Wiek (Läänemaa). Cfr. T. HIÄRNE, Ehst-, Lyf- und Lettlaendische Geschichte, in Monumenta Livoniae antiquae. Sammlung von Chroniken, Berichten, Urkunder und andern schriftlichen Denkmalen und Aufsätzen, welche zur Erläuterung der Geschichte Liv-, Ehst- und Kurland’s dienen, Erster Band, Riga – Dorpat – Leipzig 1835. La notazione sui calendari di legno di marca svedese in uso presso gli Estoni si trova a p. 49. 127 Cfr. I. TALVE, Carl Russwurms brev till Artur Hazelius. Några ord om tillkomsten av Nordiska museets estlandssvenska samlingar, in Svio-Estonica. Årsbok utgiven av Svensk-Estniska Samfundet 9 (1949), pp. 154-167. 128 Cfr. S. ERIXON, Hur Sverige och Estland mötas, in Folk-liv. Acta ethnologica et folkloristica europaea 6 (1942), pp. 5-13; ID., Något om det etnologiska materialets vittnesbörd om sambandet mellam Sverige och Estland, in Svio-Estonica. Årsbok utgiven av Svensk-Estniska Samfundet vid Tartu Universitet 7 (1940-43), pp. 46-65. 126
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stanzialmente la conferma dell’uso dei calendari perpetui su legno come un segnale inequivocabile del contatto e dello stretto legame folklorico fra l’elemento estone e quello svedese, con facile tendenza a rilevare anzi un fenomeno di “superstrato” culturale da parte di quest’ultimo. Così si annota che i kalenderstavar preservati nei musei di Dorpat e Reval devono considerarsi oggetti d’importazione svedese tout court129; e così si precisa che i numerosi calendari di legno di varie forme (a bastone, a tavola, a spada e a libro) rinvenuti in Estonia si rivelano copie identiche o molto fedeli dei bastoni runici o del computo prodotti in Svezia, e che verosimilmente si diffusero proprio per il tramite dei coloni svedesi130. Ma sarà poi lo studio finalmente più estensivo di Gustav Ränk sull’argomento del calendario tradizionale estone, inserito nella monografia Vana-Eesti rahvas ja kultuur, pubblicata in lingua estone a Stoccolma nel 1949 e in seguito resa accessibile in versione inglese come Old Estonia. The People and Culture131, a indirizzare i risultati della ricerca etnografica e il dato folklorico in genere verso una lettura utilmente combinata — agricola e santorale — dei punti focali del ciclo dell’anno, anche entro una prospettiva diacronica ovvero storico-culturale132. Non risulterà qui difficile comprendere come, al fine di introdurre l’argomento della organizzazione formale e strutturale dell’antico calendario popolare estone, particolarmente dell’area occidentale, venga ripreso ancora una volta, in quella sede, il modello — anche iconografico — del calendarietto runico di Ösel descritto da Hupel133; il quale dunque continuava a fungere da comodo paradigma per una produzione artigianale evidentemente diffusa e ormai ben nota, ma dispersa sul territorio e assai sfuggente, segnalata talvolta dai ricercatori sul campo ma non stabilmente censita né regolarmente acquisita. Dalla sommaria descrizione tipologica del materiale documentario offerta da Ränk risulta ugualmente chiara la tradizione tassonomica estone che vuole i calendari incisi nel legno definiti come sirvid in Saaremaa e riimid in Hiiumaa quando affidati o a rune o a semplici tacche (cfr. sved. 129 Cfr. ERIXON, Hur Sverige och Estland mötas cit., p. 12: «Från Sverige importerade äro väl i varje fall sådana kalenderstavar, som man finner i museerna i Dorpat och Reval». 130 Cfr. ERIXON, Något om det etnologiska materialets vittnesbörd cit., p. 56: «I Revals och Dorpats museer, liksom också Nordiska museet i Stockholm finnas talrika kalendrar av trä i käpp-, bräd-, svärd- eller bokform, vilka äro identiskt lika eller nära kopiera rikssvenska runoch kalenderstavar, antagligen med estlanssvenskarna som mellanhänder». 131 Cfr. G. RÄNK, Old Estonia. The People and Culture, Translated and edited by B. OINAS and F. J. OINAS, Bloomington, Indiana, 1976 (Indiana University Publications, The Uralic and Altaic Series, 112). A tale edizione inglese si farà riferimento in questa sede. 132 Secondo la stessa indicazione dell’autore nella Premessa alla edizione del 1949 (cfr. Old Estonia cit., p. xi). 133 Cfr. ibid., p. 119 e fig. 50.
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rimstav), ovvero come sirvilaud quando decisamente connotati da rune come segni calendariali (cfr. sved. runstav)134. In relazione al tipo su tavolette legate a libro, Ränk sottolinea la frequente segmentazione del calendario nelle 13 unità “mensili” che per l’appunto abbiamo visto denotare la variante baltica orientale della runbok svedese (e le rimbokar lapponi), e che l’autore identifica come tratto tradizionale del computo su cui si incardina il calendario cristiano135. Segnala poi la qualità eventualmente alfabetica ovvero “analfabetica” della marcatura delle feste su questi calendari, che di fatto possono mostrare o designazioni onomastiche o indicazioni simboliche per le principali celebrazioni annuali, e sintetizza correttamente le due questioni cruciali di tale produzione estone, ossia che l’utilizzo delle rune caratterizza necessariamente e nella sostanza un calendario di legno come svedese all’origine — se anche si tratti di copie modellate su un archetipo — e inoltre che non si può datare con certezza l’importazione e/o la diffusione di tale genere di calendario nella regione estone136. Base dell’argomentazione di Ränk risultano due esemplari soltanto: a parte il piccolo libro runico di Ösel (Saaremaa), egli menziona una runbok datata 1796, che gli risulta rinvenuta nell’isola di Dagö (Hiiumaa) e trasferita al Museo Nazionale d’Estonia. Il confronto fra il modello descritto da Hupel e questo secondo calendarietto direttamente visionato gli consente di valutare appena la natura alfabetica ovvero litterata di quest’ultimo, il quale riporta annotati i nomi delle feste, ad esempio NEAR per nääripäev «(giorno di) Capodanno», TÔNIS per tônisepäev «(giorno di) s. Antonio» (17 gennaio) e così via; e di concludere che il tipo di Ösel, con marche soltanto simboliche per le festività (attributi dei santi, animali, attrezzi agricoli etc.), doveva costituire un esempio più arcaico. Se lo studio dell’origine e della diffusione dei runstavar svedesi è poi approdato ad una considerazione del rapporto fra calendarium idioticum e modello alfabetico di fatto opposta137, l’ultima notazione di Ränk, a proposito della derivazione dell’uso estone dei calendari su legno (sia a libro sia a tavola) dal contatto con 134
Cfr. ibid., p. 118. Cfr. ibid., p. 119. 136 Cfr. ibid. Sulla storia degli insediamenti svedesi in Estonia si veda soprattutto E. BLUMFELDT, Estlandssvenskarnas historia, in En bok om Estlands svenskar. Bosättningsområde, Historia, Andra världskriget och överflyttningen till Sverige, Folklig kultur, Stockholm 1961, pp. 63-178. Per più brevi considerazioni, particolarmente riferite all’età medievale e comprensive di alcune rilevazioni etnografiche e linguistiche, si vedano ancora G. DANELL, Svenskarna i Estland, in Rig. Kulturhistorisk tidskrift 5 (1922), pp. 17-41, e G. HAFSTRÖM, Estlandssvenskarna, in Svensk tidskrift, 1941, pp. 512-519. 137 Cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 82-83, con la bibliografia ivi citata e discussa. 135
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Fig. 13 – Calendario runico di Dagö, Estonia (portato a Gammalsvenskby, Ucraina), datato 1766. Stockholm, Nordiska museet, inv. nr 89901 (Foto: Nordiska museets fotoateljé / Nordiska museet, in Digitalt museum, ; accesso dicembre 2014).
Fig. 14 – Calendario runico di Ormsö (Hansaa, Hullo by)/Wormsö (Hansasa, Hulo), Estonia. Stockholm, Nordiska museet, inv. nr 26072 (Foto: Bohm, Ingvar / Nordiska museet, in Digitalt museum, ; accesso dicembre 2014).
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Fig. 15 – Calendario runico estone proveniente da Dagö (Nömba, Pühalepa sn). Tartu, Eesti Rahva Muuseum, Ethnographic Museum, inv. nr 5677 (ERM 5677/1-6, Esti Rahva Muuseum, ; accesso dicembre 2014).
Fig. 16 – Calendario runico estone con simboli e nomi delle feste. Tallin, Eesti ajaloomuuseum, Etnograafiline kollektsioon inv. nr AM 9467 E 254/1-6 (Sirvilauad 1819, in , accesso maggio 2014).
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gli Svedesi stanziati lungo la costa, non può non essere tuttora condivisa. Ma, in verità, l’accenno rapido ai calendari runici su legno serviva anche in questo caso più che altro a introdurre il reale motivo d’interesse dell’autore, ovvero la dimensione folklorica della occorrenza, tradizione e funzione sociale delle feste dell’anno agricolo, e la convergenza o eventualmente l’innesto su queste dei cicli liturgico e santorale; e in tale prospettiva il lavoro di Ränk si rivela tuttora di grande utilità, anche per l’analisi del nostro calendarietto vaticano in rapporto ad alcuni esemplari ad esso analoghi per tipologia, stile (icono-)grafico e area di provenienza138. Il dato della “fluidità” del corpus documentale balto-svedese, cui prima si accennava, e che risulta evidente fin dalle prime testimonianze storico-etnografiche, caratterizza ancora oggi, si può dire marcatamente, la ricerca, costringendo spesso ad un incrocio del materiale museale e testimoniale che non sempre offre risposte risolutive. Secondo gli ultimi dati disponibili all’indagine runologica139, e grazie a recenti verifiche sulla materia calendariale runica di marca svedese, condotte entro un ampio progetto di censimento e catalogazione dei runstavar (Runstavprojektet)140, i runkalendar provenienti dalla regione estone ammontano attualmente ad una quindicina di esemplari141, distribuiti fra Stoccolma (Nordiska museet)142, Helsinki (National Museum of Finland [Suomen kansallismuseo])143, Tartu (Ethnographic Museum, Estonian National Museum [Ee-
138 Cfr. infra, § 5. Lo stesso autore tornerà ancora sull’argomento del calendario e del computo del tempo, ribadendo rapidamente la evidenza dei rimstavarna come segnali di diretta importazione culturale dalla Svezia, e riassumendo poi in particolare i punti focali del ciclo annuale estone e le celebrazioni relative secondo il costume popolare; cfr. G. RÄNK, Om Estlandssvenskarnas folkliga kultur, in En bok om Estlands svenskar cit., pp. 265-324 (per quello che qui interessa, pp. 284-286). 139 Per la gran parte mediati dalla sistemazione del corpus operata da S. O. JANSSON e pubblicata nel citato lavoro del 1962 (De estlanssvenska kalenderstavar). 140 Cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 86. 141 Devo questo aggiornamento del corpus dei calendari runici riferiti all’area estone soprattutto a Sven-Göran Hallonquist, che ha generosamente messo a mia disposizione il materiale fotografico e d’archivio, non pubblicato, relativo al lavoro di raccolta dei dati prodotto entro il citato Runstavprojektet. Ringrazio qui, ancora una volta, il collega svedese, senza la collaborazione del quale l’analisi della runbok nella Biblioteca Apostolica Vaticana non avrebbe avuto il conforto di così ampia possibilità di verifica. 142 Cfr. Stockholm, Nordiska museet, inv. nr 26072 (proveniente da Hansaa, Hullo by, Ormsö; cfr. fig. 14); inv. nr 39524 (proveniente da Gammalsvenskby, Ucraina, i.e. Dagö); inv. nr 89901 (proveniente da Dagö; datato 1766; cfr. fig. 13). Su quest’ultimo, in particolare, cfr. anche infra, nota 154. 143 Cfr. Helsinki, Suomen kansallismuseo, inv. nr 1073:4 (proveniente da Dagö); inv. nr 1073:5 (proveniente da Gammalsvenskby, Ucraina, i.e. Dagö); inv. nr 4982 (proveniente dall’Estonia, località ignota).
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sti Rahva Muuseum])144, Hapsal (est. Haapsalu; Aibolands Museum [Rannarootsi Muuseum])145, Halle (Naturalienkabinett des Weisenhauses)146, San Pietroburgo (Kunstkamera)147, Tallin (Estonian Historical Museum [Eesti ajaloomuuseum])148, Berlino (Museum Europäischer Kulturen)149. A questi possono aggiungersi un esemplare segnalato nella prima metà del secolo scorso a Zurigo (Landesmuseum), oggi apparentemente disperso150,
144 Cfr. Tartu, Eesti Rahva Muuseum, Ethnographic Museum, inv. nr 5677 (proveniente da Nömba, Pühalepa sn, Dagö; cfr. fig. 15); inv. nr A 313:4 (proveniente dall’Estonia, località ignota). 145 Il calendario apparteneva originariamente all’Utlandssvenska museet di Göteborg, il quale nel 1942 venne incluso nel Riksföreningen Sverigekontakt in Göteborg. Dal 14 maggio 2001 risulta depositato presso l’Aibolands Museum di Hapsal, in prestito temporaneo. Dalla documentazione rintracciata presso il Riksföreningen Sverigekontakt (cfr. comunicazione personale di Sven-Göran Hallonquist, 16 dicembre 2014, ed allegato documento di “Depositionsavtal”), non risulta numero d’inventario, ma il calendario runico, composto da sei tavolette, appare classificato come proveniente da Gammalsvenskby in Ucraina e datato 1829. 146 Halle, Naturalienkabinett des Waisenhauses, inv. nr 15Q (proveniente dall’Estonia, località ignota; datazione probabile sec. XVIII). Cfr. anche infra, nota 155. 147 St Petersburg, Kunstkamera, inv. nr 7147-5 (proveniente dall’Estonia, località ignota). 148 Tallin, Eesti ajaloomuuseum, Etnograafiline kollektsioon inv. nr AM 9467 E 254/1-6 (proveniente dall’Estonia, località ignota; cfr. fig. 16). 149 In quest’ultimo caso, si tratta per la verità di una copia d’età moderna su sei tavolette di legno; cfr. Berlin, Museum Europäischer Kulturen der Staatlichen Museen zu Berlin – Preußischer Kulturbesitz, Ident. Nr A (47 C 1) 41/1908, a-f (disponibile in SMB-digital, Online collections database, all’indirizzo ; accesso dicembre 2014). 150 Rintracciata da Nils Lithberg, che ne aveva conservata una riproduzione fotografica probabilmente eseguita negli anni ’30 del secolo scorso (cfr. Nordiska museet, Lithbergs arkiv, E1:1; qui pubblicata come figura 25, grazie a S.-G. Hallonquist e per gentile concessione del Nordiska museet), la runbok di Zurigo non risulta attualmente far parte delle collezioni dello Schweizerisches Nationalmuseum. Una ricognizione accurata del materiale runico e/o calendariale su legno catalogato dal Museo ha rilevato due soli manufatti, i quali non corrispondono al runkalendarium su lamelle censito da Lithberg. Si tratta di Zürich, Schweizerisches Nationalmuseum, inv. nr AG-2669, un runstav del tipo da passeggio «entrato a far parte della collezione del Museo nazionale nel 1889 insieme ad un cospicuo lotto di materiali lasciati come “dote di fondazione” (Morgengabe in tedesco) dalla Società degli antiquari di Zurigo» (Luca Tori, comunicazione personale dell’8 gennaio 2015); e di Zürich, Schweizerisches Nationalmuseum, inv. nr AG-2666, una pregevole kalendertavla (o calendario su tavola) della metà del sec. XV proveniente dal Canton Wallis, sulla quale si vedano già H. RUNGE, Eine Kalendertafel aus dem 15. Jahrhundert, in Mitteilungen der Antiquarischen Gesellschaft in Zürich, 12:1 (1858), pp. 3-28, Taf. I-II, e LITHBERG, Computus cit., pp. 26-28, 277 e fig. 5. Al dottor Luca Tori, responsabile supplente e curatore della sezione di Archeologia dello stesso SNM, sono molto grata per la generosa collaborazione prestata alla ricerca presso gli archivi del Museo.
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una runbok appartenente ad una collezione privata151 e inoltre, finalmente identificato entro il fondo Vaticano latino della Biblioteca Apostolica Vaticana152, anche il nostro libretto runico del computo, come l’analisi del contenuto calendariale e dei dati di corredo sulle lamelle esterne confermerà nei prossimi paragrafi. Fra tutti questi runstavar riconducibili all’elemento etnico svedese in Estonia, il corpus qui più direttamente preso in esame, al fine comparativo specifico di identificare soprattutto la occorrenza delle principali feste dell’anno e gli elementi (icono)grafici che queste traducono sulle tavolette del calendario runico vaticano, comprende in particolare il perduto esemplare dell’isola di Ösel descritto da Hupel e analizzato da Russwurm153; due runbokar provenienti da Gammalsvenskby in Ucraina, dunque in ultima analisi, direttamente o indirettamente, da Dagö (Hiiumaa)154, e i due calen-
151 Proveniente da Gammalsvenskby, in Ucraina (dat. 1827) e attualmente a Stoccolma, proprietà di Ann-Marie Orlog. Cfr. anche infra, nota 154. 152 Per la circostanza della notizia di tale esemplare conservata presso la Biblioteca Reale di Stoccolma, si veda supra, § 2, particolarmente contesto relativo a nota 56. 153 Cfr. in particolare HUPEL, Topographische Nachrichten cit., III, pp. 366-370; TOOKE, Explanation of an Almanac cit., pp. 625-626; RUSSWURM, Lithographirte Beilagen zu Eibofolke cit., tavv. XIII-XV. Si veda anche supra, note 99-124 e relativo contesto, con la fig. 12. 154 Si tratta rispettivamente del calendario runico su otto tavolette di legno Stockholm, Nordiska museet, inv. nr 89901 (cfr. fig. 13), datato 1766, originario di Dagö e rinvenuto a Gammalsvenskby (rus. Staroshvedskoe, oggi ucr. Staroshvedske, Zmiivka, Kherson Oblast) in Ucraina, dove fu portato nel 1781-1782, durante il processo di immigrazione della popolazione svedese che aveva lasciato l’isola baltica (cfr. anche Digitalt museum, alla pagina ; accesso dicembre 2014); e di un calendario runico ugualmente proveniente da Gammalsvenskby, su otto tavolette di legno e datato 1827, attualmente in collezione privata a Stoccolma (acquistato da Frank Olrog presso una famiglia di Gammalsvenskby e, almeno dal 2001, di esclusiva proprietà della vedova Ann-Marie Olrog [comunicazioni personali di S.-G. Hallonquist, 13 dicembre 2014, e di S.-G. Hallonquist con H. Gustavson, 16 dicembre 2014]; cfr. fig. 24). Sulla storia dell’insediamento dagö-svedese di Gammalsvenskby si veda The Lost Swedish Tribe. Reapproaching the history of Gammalsvenskby in Ukraine, ed. by P. WAWRZENIUK and J. MALITSKA, Stockholm 2014, particolarmente i contributi P. WAWRZENIUK, J. MALITSKA, Approaching the “Lost Swedish Tribe” in Ukraine, pp. 13-35; S. BOBYLEVA, The Russian State and Swedes in New Russia (between the eighteenth and nineteenth centuries), pp. 39-58; e soprattutto J. MALITSKA, People in between – Baltic islanders as colonists on the steppe, pp. 61-85 (cfr. pp. 81-82, a proposito dell’uso dei calendari runici: «The Swedish colonists in New Russia used the rune calendar, which signified to the contemporaries — the outsiders but also neighbors — the Swedes’ distinctive origin, as well as original method of numbering years and measuring time. Christmas, Midsummer (end of June) and St Martin’s Day (11 November) were the most important holidays. Christmas was the main holiday of the year for the Swedish colonists, just as Easter was for the Ukrainian and Russian peasants. As a rule Midsummer and St Martin’s Day, being Germanic holidays, were unknown to the Ukrainian and Russian locals»). Cfr. anche A. KARLGREN, Gammalsvenskby: land ock folk, Stockholm 1929,
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dari conservati rispettivamente a Halle155 e un tempo a Zurigo156, anch’essi di sicura origine estone. A forme e articolazione degli altri calendari si farà invece riferimento per elementi specifici, quando direttamente ciò serva all’analisi del “tipo” del libretto runico del computo di marca balto-svedese. 5. Le tavolette del ciclo dell’anno nella runbok vaticana La disposizione degli elementi grafici e simbolici sulle tavolette dei mesi del calendario nella Biblioteca Apostolica Vaticana segue dunque uno schema regolare e perfettamente convergente con il modello standard dei runstavar su lamelle multiple dell’area baltica di influenza svedese. Si vedrà, tuttavia, che margini per una definizione più accurata e/o originale di alcuni tratti esistono per il nostro esemplare, sia quando questi siano riferiti a occasionali soluzioni semiotiche per singole festività sia quando si evidenzino elementi costanti entro l’impianto organizzativo più generale. Posta la chiara identificazione runografica del calendario157, converrà valutarne ora attentamente la sequenza dei giorni espressamente celebrativi di punti “focali” dell’anno, segnalando in particolare le intersecazioni fra il tempo santorale e gli snodi del ciclo naturale con le principali scadenze dell’agricoltura e dell’allevamento. Per convenienza espositiva e più immediata leggibilità dei segni, i giorni delle feste saranno qui di seguito direttamente riferiti ai disegni delle singole tavolette della serie dei mesi, che compaiono nelle figure 17-23. e J. HEDMAN, L. AHLANDER, Historien om Gammalsvenskby och svenskarna i Ukraina, Stockholm 2003. 155 Si tratta del calendario runico Halle, Naturalienkabinett des Waisenhauses, Nr 15Q, sul quale si veda particolarmente A. HOFE, Vier Runenkalender aus dem Naturalienkabinett des Waisenhauses in Halle, in Runenberichte, 1: 4 (1942), pp. 135-160, tavv. XXII-XXV (per quello che qui interessa, soprattutto pp. 137-150, e tavv. XXIII-XXIV [figg. 57a-b]). Accenno allo stesso calendario si rintraccia già al principio del secolo XIX in una tabella pubblicata da F.D. GRÄTER in Idunna und Hermode. Eine Altertumszeitung 1 (1812), dove, sotto la titolatura Christlicher Runen-Kalender auf sieben buchenen Stäben in dem Naturalien-Cabinet des Waisenhauses zu Halle a. d. S., viene riprodotto il mese di gennaio con accanto l’interpretazione dei segni per le festività (manca indicazione del numero di pagina). Ritenuta da Hofe un esemplare svedese rimaneggiato in Finlandia (Vier Runenkalender cit., p. 150) e datata fra il tardo XVI e il XVII secolo (ibid.), in realtà la runbok di Halle pienamente rivela la sua origine estone, e molte delle “letture” dei segni calendariali proposte da Hofe (cfr. ad esempio l’interpretazione della comune B per biscop «vescovo» in corrispondenza dell’11 novembre, festa di s. Martino, come celebrazione invece di Martin Lutero e dunque indizio dell’età post-riformata del calendario) non reggono il confronto analitico con gli altri calendari tipologicamente affini. Il suo inserimento nel corpus dei calendari runici estoni si deve a più recente segnalazione, riferita in JANSSON, De estlandssvenska kalenderstavarna cit., pp. 131-132, e particolarmente nota 11. 156 Cfr. supra, nota 150. 157 Cfr. supra, § 3.
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Fig. 17 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavoletta 2. Lato a: periodo 1° gennaio – 28 gennaio (sotto); lato b: periodo 29 gennaio – 25 febbraio (sopra). Lettura da destra verso sinistra.
La seconda tavoletta del calendario158, che apre il ciclo dell’anno, riporta la sequenza dei giorni dal 1° gennaio al 28 gennaio (sul recto o lato a) e dal 29 gennaio al 25 febbraio (sul verso o lato b). Le feste appaiono marcate al di sopra del modulo centrale, dove corre la sequenza ripetuta delle sette rune per le lettere domenicali; al di sotto, in corrispondenza di alcuni giorni, si segnalano i numeri aurei, secondo l’ordine determinato dalla serie canonica o antica (aureus numerus antiquus). Si identificano le seguenti festività: [Tavoletta 2a: periodo 1° – 28 gennaio] 1 gen. croce (con × sull’asta)
6 gen. croce (con × sull’asta) 7 gen. croce 14 gen. albero con rami all’ingiù 19 gen. ᚠ per la vigilia
Circumcisio Domini / Octava nativitatis domini (sved. Åttonde dag) / Capodanno (sved. Nyårsdagen) Epiphanie Domini / Tertiadecima nativitatis domini (sved. Trettondagen) Kanuti regis († 1086; can. 1101)159 (notte di) mezzo-inverno (a.isl. miðvetr, sved. midvinter) vigilia s. Henrici ep. m.
158 Sulla prima tavoletta si veda supra, § 3, figura 7 e contesto, e infra, § 6, figura 26 e contesto. 159 La festività risulta celebrata nel calendario della diocesi di Åbo (cfr. Missale Aboense, 1488), mentre la liturgia delle altre diocesi del Nord (in particolare svedesi e danesi) ricordava invece in questo giorno un altro Canuto, ovvero Knut Lavard (Kanuti ducis m., † 1131; can. 1169), come dimostrano il Missale Upsalense novum (1513) e il Missale Lundense (1514). Cfr. MALINIEMI, Der Heiligenkalender Finnlands cit., pp. 232-233; e GJERLØW, Sammenlignende kalendarium cit., col. 135.
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20 gen. croce + simbolo episcopale 24 gen. ᚠ per la vigilia 25 gen. croce (con × sull’asta)
Henrici ep. m.160 vigilia Conversio Pauli ap. Conversio Pauli ap.161
[Tavoletta 2b: periodo 29 gennaio – 25 febbraio] 2 feb. croce (con × sull’asta) + candelabro162 4 feb. croce 15 feb. croce 22 feb. croce 23 feb. ᚠ per la vigilia 24 feb. croce (con × sull’asta) + pesce
Purificatio s. Marie / Candelora (sved. kyndelmässa) Ansgarii ep. cf.163 Sigfridi ep. cf. (Vexionensis, † 1002) Cathedra Petri ap. vigilia s. Mathie ap.164 Mathie ap.
[Tavoletta 3a: periodo 26 febbraio – 25 marzo] 7 mar. croce 12 mar. croce
Thome cf. (de Aquino, † 1274, can. 1333) Gregorii pp. cf.165
160 Nel tardo medioevo, la festa di s. Henrik risulta celebrata il giorno 20/1 nella diocesi finlandese di Åbo, mentre sui calendari prodotti in Svezia nello stesso periodo la commemorazione cadeva il giorno precedente (19/1). Sul problema della discrepanza fra la tradizione calendariale scandinava e finlandese riguardo al dies natalis di Henrik, “Apostolo della Finlandia” e Patrono della Cattedrale di Åbo, si veda ampiamente MALINIEMI, Der Heiligenkalender Finnlands cit., pp. 208-217. Cfr. inoltre più brevemente GJERLØW, Sammenlignende kalendarium cit., col. 136; e MALINIEMI, Finland (= det medeltida Åbo stift) cit., col. 131. 161 In corrispondenza del 28 gennaio era stata annotata per errore una croce, poi marcata da doppio tratto di cancellatura. La comparazione con gli altri calendari tipologicamente affini e provenienti dalla stessa area mostra che mai viene indicata la festa dell’Octava Agnetis v. m. (cfr. 21/1) o Agnetis secundo, pure comune anche nelle diocesi del Nord per tale giorno. 162 L’emblema affiancato alla croce risulta qui, in verità, una variante a quattro bracci del simbolo delle feste mariane correntemente adottato dall’incisore della runbok vaticana (cfr. più avanti, relativamente alla Tabella Ib-c). La peculiarità del tratto può dunque considerarsi realizzazione mirata a richiamare espressamente la festa della “Candelora”, che spesso sui calendari medievali del Nord veniva raffigurata tramite candele o candelabri. 163 La celebrazione di Ansgario (4/2, simplex), venerato in Scandinavia come “Apostolo del Nord”, si incontra per la prima volta intorno alla metà del sec. XV e risulta tratto comune anche del calendario finlandese. Cfr. MALINIEMI, Der Heiligenkalender Finnlands cit., pp. 234235; e ID., Finland (= det medeltida Åbo stift) cit., col. 131. 164 Nella diocesi di Åbo si celebra in questo stesso giorno anche la missa votiva de trinitate (cfr. GJERLØW, Sammenlignende kalendarium cit., col. 137; e inoltre MALINIEMI, Finland (= det medeltida Åbo stift) cit., col. 131). Ugualmente, secondo la tradizione calendariale svedese, documentata ad esempio nella regione di Mora, Dalarna, coinciderebbe con tale data anche il tempo dell’aggiunta di un giorno all’anno bisestile. Cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 64. 165 Dopo il XVI secolo, in corrispondenza di questo giorno compare spesso sui calendari svedesi, anche della regione baltica, l’indicazione simbolica (normalmente un rametto frondoso) dell’equinozio di primavera. Ciò si rileva, ad esempio, anche sulla runbok perduta di Ösel, descritta da Hupel, e sugli esemplari Halle, Naturalienkabinett des Waisenhauses, Nr 15Q, e Stockholm, collezione della famiglia Olrog, runbok datata 1827, proveniente da Gammalsvenskby.
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Fig. 18 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavoletta 3. Lato a: periodo 26 febbraio – 25 marzo (sotto); lato b: periodo 26 marzo – 22 aprile (sopra). Lettura da destra verso sinistra. 17 mar. croce + cappella166 21 mar. croce 25 mar. croce (con × sull’asta) + coppa168
Gertrudis v. abb. (Nivialensis, † 659) Benedicti abb.167 Annuntiatio s. Marie169
166 Il simbolo di un piccolo chiostro o cappella risulta l’emblema corrente di s. Gertrude di Nivelles sui runstavar svedesi; cfr. supra, fig. 11 (tavoletta superiore), dove la festa della santa in corrispondenza del giorno 17/3 (cappella) compare fra quelle di s. Gregorio 12/3 (mezza croce con rametto per i primi germogli) e di s. Giuseppe 19/3 (mezza croce). La realizzazione stilizzata a riquadri sul calendario vaticano trova puntuale corrispondenza con il doppio tratto quadrangolare rintracciato per questo stesso giorno sulla runbok di Gammalsvenskby (1827) in collezione privata. Il culto di s. Gertrude è ben documentato anche per la diocesi di Åbo fin dalla metà del secolo XIV (cfr. MALINIEMI, Der Heiligenkalender Finnlands cit., p. 246). 167 In corrispondenza della festa di s. Benedetto può comparire sui calendari svedesi, anche di area estone, il simbolo della dignità di vescovo (e abate) oppure un serpe avvolto in spirale, come indicazione stagionale (i serpenti escono dalle tane invernali, e non sono ancora velenosi; cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 71, particolarmente nota 77 e contesto, e inoltre supra, contesto relativo a nota 95, e fig. 11 [tavoletta superiore]). Si veda anche più avanti, note 215 e 225 e relativi contesti: il serpente compare presumibilmente su Halle, Naturalienkabinett des Waisenhauses, Nr 15Q; l’attributo episcopale, sulla runbok perduta di Ösel. Sia il calendario vaticano sia quello di Gammalsvenskby in collezione privata (datato 1827) presentano un tratto che parte dal braccio sinistro della croce, ma l’incisione del simbolo (probabilmente episcopale) risulta incompiuta. 168 Il simbolo ricorre in corrispondenza di tutte le feste mariane sul calendario vaticano (cfr. la sola variante realizzativa, specifica per la “Candelora”, 2/2, su cui supra, nota 162). Sui calendari runici affini di origine svio-estone, di norma tali feste recano il simbolo di una croce con nimbo semplice o doppio; cfr. entro la tabella I tutti gli esemplari, con la sola eccezione del calendario conservato un tempo a Zurigo. 169 Il giorno coincide con l’equinozio di primavera secondo il calendario giuliano.
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CARLA CUCINA
Fig. 19 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavoletta 4. Lato a: periodo 23 aprile – 20 maggio (sotto); lato b: periodo 21 maggio – 17 giugno (sopra). Lettura da destra verso sinistra.
[Tavoletta 3b: periodo 26 marzo – 22 aprile] 4 apr. croce + tre solchi (d’aratro?)170 14 apr. albero con rami all’insù171
Ambrosii ep. cf. primo giorno d’estate (s. Tiburtii)
[Tavoletta 4a: periodo 23 aprile – 20 maggio] 23 apr. croce 25 apr. croce + cuculo 1 mag. croce (con × sull’asta)
Georgii m. Marcii ev. Philippi et Jacobi ap. (per influsso svedese, forse Valburgis v.)172
170
La festa di s. Ambrogio viene regolarmente annotata sui runstavar svedesi e anche, in particolare, entro la classe di runbokar di provenienza svio-estone di cui qui specialmente si tratta. Sul calendario vaticano l’indicazione è stata erroneamente incisa in corrispondenza del terzo giorno di aprile (anziché del quarto), e le tre linee ricurve e parallele che sormontano la croce, incise con tratto più leggero, non risultano di agevole interpretazione. Nella tradizione svedese dei bastoni runici, il giorno di s. Ambrogio si mostra spesso segnalato da una marca agricola che rimanda al periodo dell’aratura, e a tale significato potrebbe essere ricondotta l’incisione sulla runbok vaticana. I calendari affini a quest’ultima per tipologia e provenienza di solito marcavano invece la festa di s. Ambrogio tramite il simbolo di un pesce, come indicazione naturale riferita alla riproduzione (cfr. più avanti, contesto successivo alla nota 215). 171 In verità, il simbolo dell’albero con i rami vòlti verso l’alto, comune su tutti i runstavar svedesi e replicato anche nelle varianti baltiche di marca scandinava come indicazione dell’inizio della buona stagione (a.isl. sumarmál) il giorno di s. Tiburzio (14 aprile), non differisce sul calendario vaticano dalla realizzazione opposta (albero con i rami rivolti verso il basso) che dovrebbe marcare l’inizio del misseri invernale il giorno di s. Callisto (14 ottobre); cfr. anche infra, nota 184 e contesto con la fig. 22, e inoltre infra, Tabella II. Sulla centralità di questi due punti del ciclo annuale sui calendari runici e nordici in generale, si veda supra, § 1, contesto relativo a note 21-27. 172 La festa popolare della notte di s. Valburga (sved. Valborgsnatt), tradizionale nel ca-
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3 mag. croce + croce come simbolo 17 mag. ᚠ per la vigilia 18 mag. croce + spiga (di segale)
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Inventio s. Crucis vigilia s. Erici regis m. Erici regis m. († 1161)
[Tavoletta 4b: periodo 21 maggio – 17 giugno]173 26 mag. croce 12 giu. croce + attributo incerto175
Missa votiva de Virgine174 Eskilli ep. m.176
[Tavoletta 5a: periodo 18 giugno – 15 luglio] 18 giu. 23 giu.
croce + simbolo episcopale ᚠ per la vigilia
Translatio Henrici ep. m. vigilia s. Johannis Baptiste
lendario svedese medievale (cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 66), risulta celebrata anche, seppure occasionalmente, nel calendario finlandese dei secc. XV-XVI. Cfr. MALINIEMI, Der Heiligenkalender Finnlands cit., pp. 248 e 250. 173 La tacca verticale che segnala l’inizio del mese di giugno è stata incisa per errore in corrispondenza del 31 maggio e poi replicata correttamente al di sopra del giorno seguente. 174 La celebrazione risulta caratteristica del calendario della diocesi finlandese di Åbo, relativamente all’ultimo sec. XV. Cfr. MALINIEMI, Der Heiligenkalender Finnlands cit., pp. 247248, e inoltre, più brevemente, GJERLØW, Sammenlignende kalendarium cit., col. 138; MALINIEMI, Finland (= det medeltida Åbo stift) cit., col. 131. In base al confronto con gli altri calendari affini, tuttavia, dove senza eccezioni viene annotata la festa di s. Urbano papa in corrispondenza del giorno precedente (25 maggio), la collocazione della croce potrebbe essere qui il risultato di un errore. La cura posta dall’incisore della runbok vaticana nella identificazione e catalogazione delle feste, sulla quale si argomenterà più avanti in questo stesso paragrafo, costituisce ad ogni modo tendenziale freno metodologico a valutare elevata la possibile incidenza d’errore nell’originaria incisione del calendario. 175 Il simbolo associato alla croce che marca la festa di s. Eskill risulta di non agevole identificazione: il disegno ricorda una balestra, ma l’attributo più spesso associato al vescovo martire di Strängnäs sui calendari svedesi ne sottolinea la dignità episcopale (copricapo o pastorale). Il tratto stilizzato che caratterizza le incisioni iconiche sul calendario vaticano (cfr. ad esempio più avanti, l’indicazione della festa di s. Martino, sved. Mårtensmässa o Mårtens dag, 11/11) consente appena di “leggere” questo simbolo come una mitra vescovile (con accennato il prolungamento dei fanoni) disposta orizzontalmente, ma potrebbe più verosimilmente trattarsi di un arnese agricolo o forse di una canna o amo da pesca, come indicazioni rispettivamente di attività stagionali (concimazione dei campi, semina delle rape) e del ciclo naturale (periodo della riproduzione di salmoni e lucci). Cfr. C. CAHIERS, Caractéristiques des saints dans l’art populaire, I, Paris 1867, p. 163, e inoltre Runstaven – Evighetskalendern, in Hernbloms lilla bokförlag, © Hernbloms bokförlag, 2012, alla pagina web (accesso aprile 2015); Årets dagar: Högtider och märkesdagar, in Nordiska museet, Svenska trender och traditioner, alla pagina web (accesso aprile 2015: «I början och mitten av juni var det tid för att så rovfrö och Eskilsdagen var en märkesdag för rovsådden»). 176 Eskill, evangelizzatore del Södermanland, viene ricordato in questo giorno nelle diocesi svedesi ed in quella finlandese di Åbo (secc. XIVex. e XVin.), in contiguità — e in quest’ultimo caso in subordine — con la festa dell’apostolo Barnaba; nel solo Missale aboense (1488), Eskill risulta celebrato il giorno precedente (11/6). Cfr. MALINIEMI, Der Heiligenkalender Finnlands cit., pp. 225-226, e GJERLØW, Sammenlignende kalendarium cit., col. 139.
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CARLA CUCINA
Fig. 20 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavoletta 5. Lato a: periodo 18 giugno – 15 luglio (sotto); lato b: periodo 16 luglio – 12 agosto (sopra). Lettura da destra verso sinistra. 24 giu.
croce (con × sull’asta)
28 giu. 29 giu. 2 lug. 13 lug.
ᚠ per la vigilia croce (con × sull’asta) croce (con × sull’asta) + coppa croce + spada
Nativitas Johannis Baptiste, giorno di mezzaestate (a.isl. miðsumar, sved. midsommar) vigilia ss. Petri et Pauli ap. Petri et Pauli ap. Visitatio Marie Margarete v. m.177
[Tavoletta 5b: periodo 16 luglio – 12 agosto] 22 lug. croce 24 lug. ᚠ per la vigilia 25 lug. croce (con × sull’asta) 29 lug. croce + coltello a lama larga178 9 ago. ᚠ per la vigilia 10 ago. croce + graticola
Marie Magdalene vigilia Jacobi ap. Jacobi ap. Olavi regis m. vigilia Laurentii m. Laurentii m.
177 La collocazione della festa di s. Margareta in questo giorno risulta evidente marca finlandese; al di fuori della diocesi di Åbo la celebrazione cadeva normalmente il 20/7. Cfr. MALINIEMI, Der Heiligenkalender Finnlands cit., p. 245 (si veda la nota 1, in particolare, su alcuni indizi documentali che puntano alla data del 13/7 occasionalmente anche in Svezia — cfr. il Liber ordinarius Lincopensis del 1384 — e, alla fine del medioevo, nell’area costiera orientale); ID., Finland (= det medeltida Åbo stift) cit., col. 131; GJERLØW, Sammenlignende kalendarium cit., col. 140. 178 L’attributo convenzionale del re santo di Norvegia Óláfr Haraldsson († 1030) risulta sui calendari nordici un’ascia. Si vedrà qui avanti (cfr. Tabella Ib) che, fra i calendari più affini alla runbok vaticana, un’ascia compare chiaramente sul solo esemplare un tempo conservato a Zurigo, mentre in tutti gli altri casi si osservano simboli simili a quello vaticano. Lo slittamento iconico può essere dovuto ad una associazione con la tradizione contadina estone, che voleva che in questo giorno si uccidesse una pecora. Si veda anche infra, nota 231 e contesto.
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
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Fig. 21 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavoletta 6. Lato a: periodo 13 agosto – 9 settembre (sotto); lato b: periodo 10 settembre – 7 ottobre (sopra). Lettura da destra verso sinistra.
[Tavoletta 6a: periodo 13 agosto – 9 settembre] 14 ago. 15 ago. 24 ago. 1 set. 8 set.
ᚠ per la vigilia croce + coppa croce (con × sull’asta) + coltello croce croce + coppa + M180
vigilia Assumptio s. Marie Assumptio s. Marie Bartholomei ap. Egidii ab.179 Nativitas Marie181
[Tavoletta 6b: periodo 10 settembre – 7 ottobre] 13 set. 14 set. 20 set. 21 set.
ᚠ per la vigilia croce + croce ᚠ per la vigilia croce (con × sull’asta) + nave182
vigilia Exaltatio crucis Exaltatio crucis vigilia Mathei ap. ev. Mathei ap. ev.
179 La festa risulta celebrata in tutte le diocesi del Nord, compresa quella finlandese di Åbo (cfr. GJERLØW, Sammenlignende kalendarium cit., col. 143), sebbene non risulti comunemente marcata nei calendari di provenienza estone. Si veda infra, nota 205, e Tabella Ic. 180 Il segno consueto che marca le celebrazioni relative alla Vergine sul calendario vaticano appare qui affiancato da una M, iniziale di Maria. L’incisione a sgraffio potrebbe non essere stata eseguita dalla stessa mano che ha redatto il calendario, ma aggiunta in un secondo momento. Si tratta dell’unica indicazione alfabetica relativa alle feste dell’anno che si rintracci nella nostra runbok. 181 La tacca che risulta incisa in corrispondenza del giorno 6 può senz’altro intendersi come abbozzo erroneo per l’indicazione della festa mariana dell’8; si noti che anche la tacca di segnalazione del primo giorno del mese, correttamente aggiunta poi al segmento superiore dell’asta della croce che marca il 1° settembre, era stata in un primo tempo incisa per errore due giorni prima. 182 L’immagine della nave in relazione alla festa di s. Matteo richiama verosimilmente l’inizio della pesca invernale, e dunque si configura come marca squisitamente stagionale («Denna dag ansågs också gäddan gå till botten vilket innebar att vinterfisket kunde inledas»;
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CARLA CUCINA
29 set. croce (con × sull’asta) + bilancia 4 ott. croce 7 ott. croce + cardaccio183
Michaelis archangeli Francisci levite cf. († 1226, can. 1228) Birgitte vidue.
Fig. 22 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavoletta 7. Lato a: periodo 8 ottobre – 4 novembre (sotto); lato b: periodo 5 novembre – 2 dicembre (sopra). Lettura da destra verso sinistra.
[Tavoletta 7a: periodo 8 ottobre – 4 novembre] 9 ott. croce 14 ott. albero con rami all’ingiù184 18 ott. croce (con × sull’asta) 21 ott. croce (con × sull’asta) + freccia 27 ott. ᚠ per la vigilia 28 ott. croce (con × sull’asta) 31 ott. ᚠ per la vigilia 1 nov. croce (con × sull’asta)
Dionysii Rustici et Eleutherii m. primo giorno d’inverno (s. Calixti pp. m.) Luce ev. Undecim milium virginum vigilia Simonis et Jude ap. Simonis et Jude ap. vigilia Omnium sanctorum Omnium sanctorum
[Tavoletta 7b: periodo 5 novembre – 2 dicembre] 10 nov. ᚠ per la vigilia
vigilia Martini ep.
cfr. Årets dagar: Högtider och märkesdagar cit., alla pagina web , accesso maggio 2015). 183 Sull’associazione popolare della santa svedese con lo strumento della cardatura nella iconografia calendariale, cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 74. 184 In realtà, la realizzazione del simbolo che marcava tradizionalmente sui calendari nordici l’inizio del misseri invernale non si mostra qui differente da quella — omologa e opposta (albero con i rami vòlti verso l’alto) — che segnala l’inizio del misseri estivo in corrispondenza del giorno di s. Tiburzio (14 aprile). Cfr. anche supra, nota 171 e contesto con la fig. 18, e inoltre infra, Tabella II.
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
11 nov. 19 nov. 23 nov. 25 nov. 29 nov. 30 nov.
croce + osso d’oca185 asta croce + àncora croce + ruota ᚠ per la vigilia croce (con × sull’asta) + chiave186
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Martini ep. Elisabeth vidue Clementis pp. m. Catherine v. m. vigilia Andree ap. Andree ap.
[Tavoletta 8a: periodo 3 dicembre – 31 dicembre] 4 dic. 6 dic. 8 dic. 13 dic. 15 dic.
croce croce croce + coppa croce croce + piccola coppa
Barbare v. m. Nicolai ep. cf. Conceptio Marie Lucie v. m. Anne matris Marie187
185 L’attributo
corrente di s. Martino sui calendari svedesi medievali e post-medievali risulta l’oca, di cui ricorrono raffigurazioni più o meno realistiche a seconda delle tipologie realizzative e dei materiali di supporto dei manufatti. La particolarissima allusione all’emblema del santo sul nostro calendario — del tutto originale nel vasto corpus documentale runico e non — rimanda, a mio parere, all’osso dello sterno dell’animale, che nel folklore svedese si estraeva dal volatile, tradizionalmente arrostito per la festa di s. Martino, al fine di prevedere, in base alla sua forma e al suo biancore, quanto lungo e quanto freddo l’inverno sarebbe stato. Si veda già Finnur Magnússon, Priscae veterum borealium mythologiae lexicon [...]. Accedit septentrionalium Gothorum, Scandinavorum aut Danorum gentile calendarium [...] jam primum expositum et cum variis cognatarum gentium fastis, festis et solennibus ritibus vel superstitionibus collatum, Havniae 1828, p. 849 (disponibile online all’indirizzo permanente http://www.mdz-nbn-resolving.de/urn/resolver.pl?urn=urn:nbn:de:bvb:12-bsb10359820-2; accesso aprile 2015): «Ex osse seu cartilagine pectorali dicti anseris auguria futuræ hyemis sumunt rustici; ex parte enim hujus albicante frigoris intensionem, ex nigricante remissionem colligunt...». Cfr. anche Runstaven – Evighetskalendern cit., alla pagina web : «Gåsen betyder vinterns ankomst, och de gamle plägade offra jorden en gås, av vilkens bröstben de spådde hur vintern skulle skicka sig. Den första delen av bröstbenet betyder vinterns början, bakdelen betyder vinterns slut. Det vita på bröstbenet betyder snö och blidväder, det mörka frost» (accesso aprile 2015). Su origine e significato dell’oca di s. Martino si veda CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 70; per alcune notazioni sull’importanza del giorno di s. Martino nella tradizione popolare estone, cfr. infra, note 233-234 e contesto. 186 Il simbolo della chiave compare in corrispondenza della festa di s. Andrea anche in altri calendari di matrice svedese e provenienza estone (cfr. qui avanti, Tabella Ie), ma non risulta emblema tradizionale nell’iconografia calendariale del Nord europeo, dove di solito si trova la croce decussata che comunemente ricorda il martirio dell’apostolo. La chiave può qui ritenersi richiamare piuttosto l’associazione con Pietro, di cui Andrea era fratello, ovvero alludere alla segmentazione stagionale dell’anno secondo la tradizione popolare, sebbene una diversa lettura sia stata occasionalmente fornita — ad esempio in relazione alla runbok di Halle — per lo stesso segno, che Hofe interpretava come un ignoto strumento di tortura delle carni del santo (cfr. HOFE, Vier Runenkalender cit., p. 145). Si veda anche infra, note 202-203 e contesto. 187 La festa risulta celebrata in questo giorno nella sola diocesi finlandese di Åbo, mentre nelle altre diocesi svedesi ricorre annotata, secondo il calendario comune, il 9 dicembre. Si
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CARLA CUCINA
Fig. 23 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavoletta 8. Lato a: periodo 3 dicembre – 31 dicembre. Lettura da destra verso sinistra. 20 dic. 21 dic. 24 dic. 25 dic. 26 dic. 27 dic. 28 dic.
ᚠ per la vigilia (con croce)188 croce (con × sull’asta) ᚠ per la vigilia croce (con tre tacche sui due lati dell’asta)190 asta (con tre tacche a sinistra) asta (con tre tacche a sinistra) asta (con tre tacche a sinistra)
vigilia Thome ap. Thome ap.189 vigilia Nativitas domini Nativitas domini Stephani protom. Johannis ap. ev. Innocentum m.
La segnalazione delle principali feste del calendario liturgico e civile sulla runbok del Vaticano può dunque contare su un sistema di simboli e marche iconiche preciso e coerente, entro il quale si segnalano poche imprecisioni o sbavature. Fra i tratti principali e più riconoscibili si individuano ad esempio le indicazioni delle feste mariane, per le quali la croce — che sempre segnala le occorrenze liturgiche e le memorie del santorale — risulta compresa entro una incisione a due bracci tendenti verso l’alto in forma di coppa. La soluzione grafica prescelta si mostra in questo caso originale, non tanto nella scelta di marcare in modo speciale le celebrazioni della Vergine, quanto nel disegno dell’incisione; poiché i calendari affini selezionati nel corpus documentale concordemente evidenziano le feste mariane, ma ciò in genere tramite un anello semplice o doppio a guisa di nimbo intorno alla croce (cfr. Tabella I), come realizzazione variante di un simbolo ⊕, corrente sui runstavar svedesi191. Le vigiliae delle festività più importanti risultano poi sul nostro calendavedano MALINIEMI, Der Heiligenkalender Finnlands cit., pp. 241-242; ID., Finland (= det medeltida Åbo stift) cit., col. 131; GJERLØW, Sammenlignende kalendarium cit., col. 146-147. 188 La croce risulta incisa dalla stessa mano, ma non ribadita con il colore, sulla stessa asta della runa che marca la vigilia. Si tratta verosimilmente di errata collocazione della festa di s. Tommaso, subito corretta. 189 In corrispondenza del giorno 22 compare una croce, con un solo tratto obliquo sull’asta, non ultimata né ripassata con il colore; anche questo segno risulta evidentemente un errore d’incisione. 190 Le tre tacche, doppie nel caso del giorno 25, singole a marcare i tre giorni seguenti (26-28), segnalano il tempo delle feste del Natale (sved. Juldagarna ovvero «giorni di Jól»). 191 Cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 62.
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
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rio di norma annotate per mezzo della runa ᚠ f (iniziale della parola a.sved. fasta «digiuno»), come sovente si rintraccia negli stessi runstavar svedesi (e lapponi)192 e come più o meno sporadicamente compare anche nella tradizione svedese d’Estonia: nel corpus qui preso a campione (cfr. Tabella I), condividono tale prassi soprattutto le runbokar di Halle e di Zurigo e, in misura minore, il perduto calendario di Ösel, sebbene le celebrazioni precedute da vigilia non sempre coincidano sui vari esemplari. Le vigilie possono poi comparire sulla runbok vaticana marcate in modo speciale tramite un ulteriore tratto secondario; anche questa una caratteristica condivisa con gli esemplari di Ösel, Halle e Zurigo, si rileva tuttavia una diversa individuazione di tali speciali solennità del calendario. Ad esempio la runbok di Zurigo segnala regolarmente con il triplice tratto le vigilie delle feste dedicate alla Vergine (Purificatio Marie 2/2, Annunciatio Marie 24/3, Assumptio Marie 15/8, Nativitas Marie 8/9)193, oltre a quella della festività di s. Lorenzo (10/8), mentre il calendario nella Biblioteca Vaticana ricorre a questa sottolineatura grafica per le vigilie delle feste della Nativitas Johannis Baptiste 24/6, Laurentii 10/8, Assumptio Marie 15/8, Omnium sanctorum 1/11, Nativitas domini 25/12. Quasi tutti i calendari, del resto, e in questo unico caso anche la runbok di Dagö datata 1766, marcano con grande evidenza la vigilia di Natale il 24 dicembre194. Elemento di spiccata originalità si rivela poi, in particolare, sul nostro calendario, la prassi di marcare in modo specifico — tramite una × sull’asta della croce — le festività che non erano state abolite dalla Riforma195. A partire dal tardo sec. XVI, il calendario svedese aveva visto infatti la riduzione del numero delle feste dei santi previste nel calendario di osservanza 192
Cfr. ibid. La perdita della tavoletta che recava incise le ultime quattro settimane dell’anno (più l’ultimo giorno) non consente di inserire in questo elenco anche la festa della Conceptio Marie 8/12, che con ogni probabilità doveva anch’essa essere preceduta dal segno potenziato per la vigilia. Cfr. anche la nota seguente. 194 Non è data la possibilità di verifica relativamente alla runbok di Zurigo, la quale risultava già a Lithberg mancante della tavoletta per il periodo 3/12 – 31/12; ma la frequente segnalazione delle vigilie, più o meno solennemente registrate su tale calendario, consente di ritenere che anche la vigilia di Natale vi fosse regolarmente marcata all’origine. 195 Apparenti eccezioni costituiscono i giorni 18/10 s. Luce e 21/10 Undecim milium virginum, i quali d’altro canto sembrano avere speciale rilevanza nella tradizione svio-estone. Dall’analisi comparativa proposta qui avanti emergerà infatti come entrambe le feste vengano correntemente annotate anche sugli altri calendari runici della medesima classe, con grande compattezza ed evidenza particolarmente nel caso del 21 ottobre. Cfr. infra, Tabella Id. In generale sulla libertà di osservare le memorie dei santi nelle zone rurali della Svezia post-riformata si veda ad ogni modo G. MALMSTEDT, In Defence of Holy Days: The Peasantry’s Opposition to the Reduction of Holy Days in Early Modern Sweden, in Cultural History 3: 2 (2014), pp. 103-125. 193
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romana, che era rimasto in uso per tutto il medioevo anche in Scandinavia. Ora, è un fatto che i runstavar prodotti in Svezia in età stabilmente post-riformata, ancora per tutto il sec. XVII, mostrano comunque di uniformarsi al modello tardo-medievale e dunque di replicare la lista delle principali feste dell’anno basata sul santorale cattolico; e d’altro canto è facile ritenere che la soppressione di celebrazioni periodiche legate sì alle figure di alcuni santi, ma essenzialmente vissute come momenti rituali di interruzione del lungo ciclo lavorativo dell’anno, fu solo assai lentamente registrata dalla popolazione laica e rurale, tendente a ritenere della partitura calendariale soprattutto le implicazioni etnocentriche e le tradizioni folkloriche196. La piccola runbok vaticana, in sostanza, ripropone anch’essa il modello tradizionale di runstav basato sul calendario giuliano, segnalando tutte quelle occorrenze liturgiche, e in particolare del santorale, che erano comuni sui calendari medievali del Nord; ma su tale copia, replicata come di consueto a partire da più antichi modelli197, allo stesso tempo, viene aggiunta l’indicazione puntuale — si direbbe oggi “politicamente corretta” — della nuova configurazione calendariale relativamente alle feste dei santi e della Vergine. Il che parla senz’altro a favore di una mano consapevole assai più di quanto non fosse comune fra gli incisori di runstavar fra tardo XVI e XVII secolo, tanto da far ritenere che l’autore del piccolo libro runico nella Biblioteca Vaticana probabilmente sia da identificarsi con — o fosse molto vicino a — un ecclesiastico. Di fatto, degli oltre 800 calendari epigrafici runici prodotti nello stesso periodo in Svezia o nell’area d’influenza svedese solo tre sono risultati all’indagine di Sven-Göran Hallonquist marcare in modo specifico le solennità e le feste preservate dopo la Riforma198. Sul piano strutturale, rispetto al modulo delle quattro unità ebdomadiche assegnate a ciascuna delle tredici pagine del calendario, si segnalano soprattutto199 la partitura mensile, indicata da una tacca verticale in corrispondenza del primo giorno di ogni mese (a volte, quando questo coincide con una festività, la tacca prolunga in alto l’asta della croce), e l’aggiunta di una runa ᚠ come 29a lettera domenicale sull’ultima tavoletta per il 365° giorno dell’anno. Le peculiarità del calendario vaticano e insieme la sua adesione graficosimbolica ad un tipo specifico di runbok, prodotto delle colonie svedesi 196 Cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., pp. 92-93; TH. A. DUBOIS, in Sanctity in the North: Saints, Lives, and Cults in Medieval Scandinavia, ed. by TH. A. DUBOIS, Toronto 2008, p. 23 (Introduction). L’argomento della particolare lettura “egocentrica” delle feste del calendario da parte della popolazione rurale svedese è stato affrontato anche supra, avvio del § 4. 197 Cfr. supra, contesto relativo a e seguente la nota 85. 198 Comunicazione personale del 28 giugno 2014. 199 Come già si è accennato supra, nota 68 e relativo contesto.
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
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Fig. 24 – Calendario runico estone di Gammalsvenskby, datato 1827 (Stoccolma, collezione privata).
d’Estonia, risultano molto evidenti quando lo si metta a diretto confronto con gli esemplari scelti a campione, ovvero i calendari di Ösel, di Dagö (datato 1766), di Gammalsvenskby (datato 1827), di Halle e di Zurigo200. Dalla rappresentazione sinottica dell’occorrenza e dei segni delle feste in tutti questi piccoli libri runici del computo, che si ricava dalla Tabella I201, emerge soprattutto il dato di una solida contiguità formale e sostanziale, la quale conferma l’assunto generalmente condiviso che la tradizione dei runstavar rimanga sì attestata molto a lungo, ma essenzialmente come replicazione artigianale di modelli calendariali in verità più “fossili” che dinamici. E conferma inoltre, in modo eclatante, come tale fissità del processo di trasmissione si realizzi di fatto in una notevole frammentazione del corpus documentale, offrendo una serie di varianti geografiche tipiche e molto compatte al loro interno; sicché la documentazione appare di fatto ripartita sull’ampio territorio di diretta pertinenza svedese in base non solo 200
Cfr. supra, fine del § 4, e inoltre figg. 12, 13, 24 e 25. Per convenienza del lettore, la Tabella I, dispiegata nelle sezioni a-e relative rispettivamente ai mesi di gennaio, luglio, settembre, ottobre e novembre, presenta il calendario secondo la partitura mensile convenzionale. 201
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CARLA CUCINA
Fig. 25 – Calendario runico estone di Zurigo (Foto: Stockholm, Nordiska museet, Nils Lithbergs arkiv E 1:1).
alle eventuali differenze di culto delle singole diocesi, ma anche in relazione agli standard semiotici stabiliti — e quindi replicati più e più volte con minime alterazioni individuali — per la sua realizzazione. In questo quadro localmente assai omogeneo, emerge dunque come tratto particolare della runbok nella Biblioteca Vaticana la tendenza dell’autore a ridefinire gli elementi significanti con il minimo grado di originalità consentito ad una tradizione fondamentalmente costretta in parametri convenuti, inserendo novità organiche o occasionali rispettivamente riguardo alla identificazione di alcune feste come permanenti nel calendario post-riformato e nella simbologia relativa ad alcuni santi, preferendo in certi casi letture meno convenzionali — ovvero orientate in senso più socialmente “egocentrico” che non agiografico — dei loro attributi (cfr. la nave per s. Matteo 21/9, ad esempio, laddove gli altri calendari affini eventualmente rimandano a versioni stilizzate dell’angelo), allusioni (cfr. il cardaccio per s. Brigida 7/10) e più diretti richiami alla tradizione popolare connessa con alcuni momenti dell’anno agricolo e civile che ai santi venivano di norma associati (cfr. l’osso del petto d’oca per s. Martino 11/11). Se un segnale originale si coglieva, come si è già notato, nella caratterizzazione grafica delle celebrazioni della Vergine (affidata sempre sulla nostra runbok ad un tratto ad arco o “a coppa” combinato con la croce, mentre gli altri calendari della medesima tipologia e provenienza prevedono regolarmente l’iscrizione della croce in un cerchio o “nimbo” semplice o
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
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Tabella Ia – Le feste di gennaio sui calendari runici a libretto di area estone.
Tabella Ib – Le feste di luglio sui calendari runici a libretto di area estone.
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CARLA CUCINA
Tabella Ic – Le feste di settembre sui calendari runici a libretto di area estone.
Tabella Id – Le feste di ottobre sui calendari runici a libretto di area estone.
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
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Tabella Ie – Le feste di novembre sui calendari runici a libretto di area estone.
doppio), interessante per il richiamo coerente al sistema simbolico risulta particolarmente la marcatura della festa di s. Anna, la madre di Maria (15/12), che sul solo esemplare vaticano mostra un significativo tratto ad arco più piccolo. Al contrario, dal confronto fra gli esemplari di questa classe si ricava come molto omogenea potesse risultare la caratterizzazione iconica di alcune feste, variata rispetto alla tradizione più corrente sui calendari del Nord. Ad esempio, tutti i calendari runici d’Estonia tipologicamente affini rappresentati nella Tabella I, con la sola eccezione dell’esemplare proveniente da Gammalsvenskby in collezione privata (1827), associano al giorno di s. Andrea (30/11) un simbolo originale, che ricorda una chiave; di non immediata lettura, l’emblema potrebbe richiamare uno degli strumenti del suo martirio202, ovvero alludere alla comunanza con Pietro, oppure eventualmente riferirsi alla percezione popolare della partitura annuale, che in Estonia voleva la festa di s. Andrea marcare l’inizio del periodo più freddo, come apertura, dunque, dell’inverno203. E si vedrà204 che molti altri 202
Così nell’interpretazione di A. Hofe (cfr. supra, nota 186). Cfr. WIEDEMANN, Aus dem inneren und ausseren Leben der Ehsten cit., p. 370, e RÄNK, Old Estonia. The People and Culture cit., p. 122. 204 Cfr. più avanti, in questo stesso paragrafo. 203
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casi, soprattutto relativi ad una marcatura delle feste orientata in senso “egocentrico” all’anno agricolo e civile, si segnalano per l’elevato grado di omologazione ad un sistema di segni compatto e peculiare. Elementi di pressoché assoluta compatibilità fra i vari esemplari — se si escludono pochi casi205 — si rintracciano anche nella selezione delle feste206, che mostrano per altro di aderire sostanzialmente al calendario in uso nella diocesi di Åbo. Ovunque se ne presenti il caso, le occorrenze che nella tradizione finlandese prevedevano una diversa posizione nel calendario annuale in rapporto alle altre diocesi svedesi risultano rispettare tale collocazione: così si segnala per le messe di Henrik (20/1 anziché 19/1), di Margareta (13/7 anziché 20/7), di Anna, la madre di Maria (15/12 anziché 9/12); mentre alcune feste si evidenziano come del tutto tipiche di quella diocesi, ad esempio la missa votiva de Virgine (26/5) 207 o la translatio Henrici (18/6). Il che naturalmente rispecchia la situazione storica e l’organizzazione ecclesiastica dei territori orientali interessati dalla colonizzazione svedese, i quali facevano per l’appunto capo alla diocesi aboense e a questa naturalmente uniformavano il calendario. D’altronde, le date marcate con più regolarità su questi calendari runici rispecchiano sostanzialmente il sistema di computo del tempo della tradizione estone medievale, dopo l’integrazione delle feste dei santi come punti focali del ciclo annuale. In tale sistema, basato sul numero delle settimane e/o dei giorni intercorrenti fra alcuni anniversari di speciale rilevanza208, si evidenziavano innanzi tutto quattro festività fondamentali per la partitura annuale dei quarti stagionali: il giorno di s. Giorgio 23/4 (inizio dell’estate), il giorno di s. Michele 29/9 (inizio dell’inverno), con i giorni di s. Giovanni 24/6 e delle feste di Natale 25-27/12 rispettivi punti stagionali intermedi. Altre tre date di importanza equivalente possono considerarsi poi la festa della Candelora 2/2 e i giorni di s. Giacomo 25/7 e s. Martino 205 Ad esempio, dal prospetto parziale offerto nella Tabella I si ricavano le date 20/7 Elias, 1/9 Egidii, 9/10 Dionysii Rustici et Eleutherii, marcate sulla runbok vaticana ma di solito non altrove, e viceversa i giorni 17/1 Antonii, 15/7 Divisio apostolorum, 24/9 Conceptio Johannis Baptiste, 21/11 Presentatio Marie, che questa ignora e gli altri calendari invece per lo più ricordano. 206 Fra i calendari rappresentati nella Tabella I, maggiore affinità con l’esemplare vaticano mostra in questo senso la runbok di Zurigo, dove appaiono marcate in genere le stesse festività. 207 Interessante risulta la circostanza che la Missa votiva de Virgine (26/5) compaia marcata sulla sola runbok della Biblioteca Vaticana, mentre gli altri esemplari presi a campione ricordino invece s. Urbano papa e martire il giorno precedente (25/5). 208 Cfr. E. PÄSS, The Estonian-Finnish Text of the Calendar of Anniversaries, in Annales litterarum societatis esthonicae – Sitzungsberichte der gelehrten estnischen Gesellschaft 1 (1937), pp. 410-411.
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10/11. A questi sette punti principali del sistema di computo calendariale si aggiungevano ancora, a marcare punti intermedi della segmentazione annuale, le feste dell’Annunciazione di Maria 25/3, di s. Tiburzio ovvero, come normalmente intesa, dell’Aratura dei campi 14/4, di s. Lorenzo 10/8, di s. Bartolomeo 24/8, di s. Caterina 25/11 e di s. Tommaso 21/12, con la possibilità per i giorni dell’Aratura e di s. Tommaso di prendere il posto rispettivamente delle feste di s. Giorgio e del Natale come momenti focali dell’anno. Punti che si rilevano utilizzati più occasionalmente nel sistema cronologico annuale basato sugli intervalli fra le festività risultano infine Capodanno 1/1, Epifania 6/1, s. Antonio 17/1, s. Mattia 24/2, Visitazione di Maria 2/7, ss. Sette fratelli (Septem fratrum m.) 10/7, Assunzione di Maria 15/8, “Hallowmas” 6/10, Commemorazione dei defunti (Omnium animarum) 2/11, s. Andrea 30/11209. Una comparazione con i coevi sistemi del computo impiegati in Finlandia ha mostrato come il quadro delle feste tradizionalmente considerate punti principali, intermedi ed occasionali della datazione per intervalli — qui prevalentemente ebdomadici o semi-ebdomadici — corrisponda in buona parte a quello estone. La cronologia finlandese si basava sui nove punti principali costituiti dai giorni di Candelora 2/2, s. Mattia 24/2, Annunciazione di Maria 25/3, s. Giovanni 24/6, s. Giacomo 25/7, s. Bartolomeo 24/8, s. Michele 29/9, Kekri 3/11 e Natale 25/12, con la festa di Kekri, coincidente con l’inizio di novembre (3/11) e funzionalmente corrispondente al giorno di s. Martino del calendario estone (fine del lavoro agricolo e del libero pascolo). Ulteriori sei punti intermedi si identificano nelle fonti finlandesi con le feste di s. Giorgio 23/4, di s. Walburga 1/5, della Croce 3/5, di s. Erik 18/5, di s. Urbano 25/5 e di s. Tommaso 21/12; mentre più occasionalmente si fa riferimento ai giorni dedicati a s. Paolo 25/1, s. Tiburzio (aratura) 14/4, s. Eskill 12/6, s. Pietro 29/6, s. Olaf 29/7, s. Lorenzo 10/8, Ognissanti (coincidente eventualmente con la festa di Kekri) 1/11, s. Martino 11/11, s. Caterina 25/11 e s. Anna 15/12210. Rilevante, in particolare per una valutazione dell’importanza relativa attribuita a certi giorni dell’anno, risulta il fatto che la data di partenza del computo annuale fosse identificata in Finlandia con la festa di s. Tommaso 21/12 e, in misura minore, con quella di Kekri all’inizio di novembre oppure, più raramente, con i giorni del Natale 25-27/12. In questo senso, la cronologia estone propone una più ampia serie di varianti computazionali, poiché si conoscono, quali giorni iniziali per il conteggio degli intervalli nel calendario annuale, in ordine di frequenza decrescente, le feste di Natale 209 210
Ibid., p. 411. Ibid., pp. 412-415.
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25-27/12, s. Michele 29/9, Candelora 2/2, s. Tommaso 21/12, Capodanno 1/1, s. Giorgio 23/4, Assunzione di Maria 15/8 e s. Martino 10/11211. Al di là dell’interesse specifico per una possibile ricostruzione del modello medievale originario e/o preponderante di tale tradizione computistica del calendario estone e finlandese, che certamente esula dai fini del presente lavoro, dall’occorrenza iterata delle feste che vi identificavano di volta in volta i punti focali dell’anno si comprende innanzi tutto la compattezza della documentazione costituita dalla nostra classe di runbokar relativamente alla scelta e marcatura delle feste, soprattutto di alcune di esse; e si ricava inoltre che la dipendenza di base dalle indicazioni del tempo santorale impartite dalla diocesi di Åbo, per la gran parte comuni con il calendario in uso nelle altre diocesi svedesi, potesse di fatto innestarsi su una realtà estone che aveva sue peculiari caratteristiche. Il che appare sia logico attendersi, naturalmente, sia sostanzialmente confermato da forme grafico-simboliche e struttura dei piccoli calendari runici su tavolette di cui qui soprattutto ci occupiamo. Un dato di sicura rilevanza analitica emerge nell’attenzione verso i momenti cruciali dell’anno legati al ciclo naturale ed eventualmente alle connesse attività del lavoro dei campi e dell’allevamento. Si è già visto che tale aspetto risulta centrale nella vasta tradizione svedese dei runstavar, dunque la sua realizzazione in questa particolare classe di runbokar di matrice svedese e di provenienza estone certamente non sorprende. Varrà la pena, tuttavia, soffermarsi sulla sistematica coerenza di alcuni segni calendariali che in questo gruppo di esemplari rimandano a punti focali dell’evoluzione stagionale, rispondendo ad una configurazione del calendario agricolo e civile di antica tradizione, già ricostruita nella sostanza dall’indagine etnografica. Ora, le date principali del calendario estone mostrano come la corrispondenza ricercata fra le principali feste legate all’economia e le celebrazioni liturgiche e dei santi, comune già in tutto l’occidente medievale, tocchi qui la stessa realtà linguistica, poiché si assiste ad una combinazione onomastica tradizionale e caratteristica che fonde il nome del santo con la definizione di un particolare punto di svolta dell’anno agricolo o naturale. Ad esempio, le feste riferite alla Vergine venivano di fatto distinte in base ai momenti della fienagione, della mietitura della segale o della semina (rispettivamente heina-maarjapäev 2/7, rukki-maarjapäev o küli-maarjapäev 15/8), al tempo d’inizio della latenza invernale delle serpi ovvero dei bru211
Ibid., p. 413. Più brevemente sulla divisione del tempo in intervalli irregolari basata su determinate feste oppure su vari mutamenti naturali o del lavoro agricolo si veda anche Cfr. RÄNK, Old Estonia. The People and Culture cit., p. 121.
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chi della segale (ussi-maarjapäev 8/11), e al momento della liberazione dei maiali dai ricoveri invernali perché potessero nutrirsi all’esterno (paastumaarjapäev 25/3)212. Ma molte altre feste di santi, di fatto, vedevano associate attività stagionali o manifestazioni del cambiamento della natura213: così si diceva che per s. Antonio 17/1 (tõnisepäev) l’inverno fosse arrivato a metà e che l’orso si girasse sull’altro fianco nel suo letargo; che per s. Paolo 25/1 (paavlipäev) l’acqua del mare cominciasse a esalare vapore e l’acqua del pozzo a divenire più calda; che dopo la Candelora 2/2 (küünlapäev) ovvero dopo s. Mattia 24/2 (madisepäev) «si consegnassero le chiavi alle galline», intendendo che queste potessero razzolare libere214; che per s. Pietro 22/2 (peetripäev) le sorgenti gorgogliassero e le pietre gelassero nelle loro acque; che per s. Benedetto 21/3 (pendisepäev) i serpenti uscissero dalle tane invernali215; che dopo s. Ambrogio 4/4 (ambrusepäev) i lucci ed altri pesci cominciassero a risalire fiumi e ruscelli per deporre le uova; che dopo s. Giorgio 23/4 (jüripäev) la corteccia degli alberi si allentasse sul tronco; che per s. Erik 18/5 (eerikupäev) spuntassero le prime spighe di segale; che per s. Bartolomeo 24/8 (pärtlipäev) la fienagione dovesse essere conclusa; che per s. Matteo 21/9 (mattusepäev) scomparissero mosche, zanzare e altri fastidiosi insetti e che durante la notte di s. Michele 29/9 (mihklipäev) le teste dei cavoli crescessero così tanto da rompere il filo che le teneva legate. Le attività agricole venivano d’altronde comunemente scandite dal richiamo ai santi del calendario. Così si faceva iniziare il lavoro dei braccianti e dei pastori con il giorno di s. Giorgio 23/4, mentre questi venivano poi congedati per s. Michele 29/9216. Per s. Margherita 13/7 (maretapäev) la farina per fare il pane si considerava pressoché esaurita, ma per s. Olaf 29/7 si poteva di nuovo avere pane abbondante217, dato che la stagione della mietitura secondo la tradizione popolare si iniziava con le feste di s.
212
Cfr. RÄNK, Old Estonia. The People and Culture cit., pp. 120-121. Ibid., pp. 121-122. 214 Per l’Annunciazione di Maria 25/3 (paastu-marjapäev) si diceva lo stesso per i maiali (cfr. supra, contesto relativo a nota 212). 215 Cfr. J. W. BOECLER, Der Esthen abergläubische Gebräuche, Weisen und Gewohnheiten, mit auf die Gegenwart bezüglichen Anmerkungen beleuchtet von FR. R. KREUTZWALD, St. Petersburg 1854, p. 81. 216 Cfr. RÄNK, Old Estonia. The People and Culture cit., p. 122. Rimando qui anche, una volta per tutte, alla edizione web del calendario popolare estone Eesti rahvakalender, Koguteose “Eesti rahvakalender” veebiväljaanne, liberamente consultabile alla pagina (accesso maggio 2015), nella quale si potrà rintracciare, rispetto alla letteratura classica di riferimento qui utilizzata, ulteriore bibliografia specifica in lingua estone. 217 Cfr. RÄNK, Old Estonia. The People and Culture cit., p. 128. 213
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Giacomo 25/7 (jaagupipäev) e di s. Olaf (olevi-, oolepipäev), appunto218. E risulta particolarmente significativo per la simbologia iconica rifluita sui nostri calendari runici — dove spesso l’emblema dell’ascia, attributo del santo re martire, cede a favore di una falce o di un coltello — che la festa della mietitura (falce) fosse legata in Estonia (come in Finlandia, in Carelia e in Svezia) all’uccisione rituale di una pecora (coltello)219. Altri punti di svolta stagionale corrispondono alla partitura essenziale del calendario scandinavo: così korjusepäev, quando il picchio comincia a far sentire il suo canto, coincide con la festa di midvinter o «mezzo inverno» 14/1; s. Tiburzio o sommar «estate» 14/4 era considerato in Estonia, come si è visto, giorno d’inizio dell’aratura dei campi (künnipäev, tiburtsiusepäev)220; i riti per s. Giovanni 24/6 (jaanipäev) manifestano la stessa centralità delle celebrazioni di midsommar o «mezza estate»221, e kolletamise-päev o «giorno dell’ingiallimento (scil. delle foglie)» corrisponde a s. Callisto o vinter «inverno» 14/10. Se si osservano le marche simboliche caratteristiche per alcune di queste feste sulla classe di runstavar che qui interessa (Tabella II), si noterà come per l’appunto in quelle prevalga di solito un diretto richiamo ai mutamenti stagionali o alle scadenze dell’anno economico, anche se tali emblemi potevano occasionalmente intercettare l’iconografia comune dei santi. Il 17/1 tõnisepäev, giorno celebrato con grande rilevanza nella tradizione estone come momento essenziale dell’anno economico, che nel pieno dell’inverno — ovvero esattamente a metà della stagione più fredda, come normalmente si riteneva222 — ruotava soprattutto intorno alla cura del bestiame, mostra ad esempio di aver assunto con facilità il legame iconografico di s. Antonio abate con il maiale; così di questo animale, in tale giorno, veniva cotta e mangiata la testa con cereali o (nelle isole) piselli223, che è quanto con ogni probabilità quasi tutti i nostri calendarietti runici intendono segnalare tramite l’incisione di una figurina zoomorfa224. Per madisepäev (s. Mattia) 24/2 si rilevava il primo annuncio di mutamento stagionale nella ricomparsa dei pesci in prossimità della costa — mentre per pendisepäev (s. Benedetto) 21/3, si ricorderà, a riemergere dalle tane invernali erano, se-
218
Ibid. Cfr. qui avanti. 220 Cfr. supra, contesto relativo a nota 209. 221 Cfr. RÄNK, Old Estonia. The People and Culture cit., pp. 126-127. 222 Cfr. BOECLER, KREUTZWALD, Der Esthen abergläubische Gebräuche cit., p. 75. 223 Cfr. RÄNK, Old Estonia. The People and Culture cit., pp. 123-125. 224 Il maiale compare raffigurato su tutti i calendari della classe dove si trovi segnalata la festività. 219
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condo una diffusa tradizione anche della Svezia, i serpenti225. I giorni di s. Giorgio 23/4 (jüripäev) e di s. Marco 25/4 (markusepäev) segnavano il vero e proprio inizio del più intenso lavoro estivo per contadini e pastori, con l’interessante sovrapposizione delle tradizioni popolari svedese ed estone riguardo all’associazione con il riudirsi del canto del cuculo, in Svezia associato a s. Marco226, mentre in Estonia di solito a s. Giorgio227; la marcatura di queste feste sui nostri calendari rispecchia dunque prevalentemente il folklore svedese per il simbolo del cuculo, ma d’altronde, pur nel possibile assorbimento del cavallo come animale tradizionalmente legato a s. Giorgio nell’iconografia cristiana, allude nel caso di jüripäev certamente alla centralità della cura degli animali finalmente al pascolo per l’antica tradizione estone228. La comparsa delle prime spighe di segale si faceva coincidere con la festa di s. Erik il 18/5 ed infatti una spiga stilizzata compare con grande evidenza su tutte le runbokar. Ancora, il 13/7 karrusepäev si riteneva che non si dovesse lavorare per non venire aggrediti dall’orso (est. karro)229; animale che si intendeva dunque probabilmente raffigurato sulla perduta runbok di Ösel, in alternativa all’emblema della spada che sugli altri calendari rimanda all’iconografia cristiana corrente per s. Margherita vergine e martire, ricordata in questo giorno nella diocesi di Åbo230. Le celebrazioni connesse al 29/7 olevipäev marcavano l’avvio del periodo della mietitura, un altro grande momento dell’anno economico, ovvero funzionalmente il suo inizio con la prima panificazione dal nuovo raccolto, e d’altronde un fascio delle prime spighe di segale veniva tradizionalmente conservato, in particolare nell’Estonia occidentale e nelle isole, sino ai giorni del Natale: così, sui nostri calendari, l’ascia emblema convenzionale del re santo di Norvegia si offre come alternativa minoritaria (sul solo esemplare di Zurigo) per una falce (sulle runbokar originarie della zona di Dagö) o per un coltello (sui calendari del Vaticano, di Ösel e di Halle), probabile traccia dell’antico rito del raccolto che prevedeva l’uccisione e consumazione di una pecora231. La fine delle attività agricole intense della stagione estiva 225 Cfr. supra, nota 215 e contesto. Forse proprio un serpe arrotolato si individua in corrispondenza di questo giorno sul calendario runico di Halle, quasi come rivisitazione del simbolo di norma attribuito a vescovi e abati che si incontra su alcuni degli altri esemplari. Per la tradizione svedese si veda LITHBERG, Runstaven, en ursvensk rådgivare åt Sveriges bönder cit., p. 122, e CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 71. 226 Cfr. LITHBERG, Runstaven, en ursvensk rådgivare åt Sveriges bönder cit., p. 122, e CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 71. 227 Cfr. BOECLER, KREUTZWALD, Der Esthen abergläubische Gebräuche cit., p. 85. 228 Ibid., pp. 83-85. 229 Cfr. Explanation of an Almanac cit., p. 626. 230 Cfr. supra, Tabella Ib. 231 Cfr. RÄNK, Old Estonia. The People and Culture cit., pp. 127-129, 131.
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coincideva con la festa di s. Michele 29/9, quando i braccianti venivano licenziati e i frutti del lungo periodo di raccolta dovevano essere messi in sicurezza per l’inverno: gli attributi dell’iconografia escatologica legata all’arcangelo — la bilancia e il corno — assumevano così, nella percezione popolare che rifluisce compatta nei runstavar svedesi, nuovo significato, con bilancia e stadera (quest’ultima risultato di una rilettura popolare del disegno del corno) intesi come strumenti della divisione delle provviste da conservarsi per il consumo invernale232. La festa di s. Martino in novembre costituiva, infine, un punto focale di svolta sia per il calendario fenologico (il ciclo della vegetazione cominciava la fase invernale) sia per il calendario economico, con la fine dei lavori stagionali d’autunno233; il folklore estone legava poi particolarmente la figura di questo santo alla protezione del raccolto e alla buona fortuna con il bestiame, in quest’ultimo caso intersecandosi fittamente con la vicina festa di s. Caterina 25/11 (kadripäev) e con l’usanza antica presso gli Estoni di fabbricare per questo giorno un’oca di paglia e piume (cfr. kadrihani «oca di Caterina»)234. Ancora in linea con la partitura dei runstavar svedesi, ricorrono poi su questi calendari runici le annotazioni squisitamente stagionali, affidate al ciclo vegetativo (rami nudi, spuntare di germogli, caduta delle foglie), relative ai giorni che marcano i quarti annuali, ovviamente 14/1 midvinter o «mezzo inverno» (korjusepäev), 14/4 s. Tiburzio / sommar o «estate» (künnipäev), 14/10 s. Callisto / vinter o «inverno» (kolletamisepäev); si noterà, al contrario, come la festa del solstizio estivo (midsommar o «mezza estate»), coincidente con il 24/6 s. Giovanni, non venga in questa produzione di solito235 segnalata da alcun simbolo che rimandi al ciclo astronomico — sui kalenderstavar nordici ed anche sui runstavar svedesi l’emblema più significativo e ricorrente rimaneva in questo senso un sole pieno236 —, ma solo dalla croce, forse perché jaanipäev con le sue fitte celebrazioni rituali restava fortemente legato alla ricorrenza cristiana del Battista. Un poco come si registra per i giorni del Natale, momento del massimo consumo invernale di cibo per tutta la Scandinavia — dove infatti di norma si incidevano su stavar di ogni tipo grandi corni ritti (poi capovolti dopo l’Epifania) a indi232 Cfr. LITHBERG, Runstaven, en ursvensk rådgivare åt Sveriges bönder cit., pp. 122-124, e CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 74. 233 Cfr. Mardipäev, in Eesti rahvakalender, Koguteose “Eesti rahvakalender” veebiväljaanne, alla pagina web (accesso maggio 2015). 234 Cfr. RÄNK, Old Estonia. The People and Culture cit., pp. 129-130. 235 Ma si veda l’eccezione costituita in questo senso dalla runbok di Gammasvenskby in collezione privata, datata 1827 (Tabella II). 236 Cfr. CUCINA, Libri runici del computo cit., p. 71.
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Tabella II – Le principali feste dell’anno naturale ed economico sui calendari runici a libretto di area estone.
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care tutto il periodo di Jól (sved. Juletid)237 —, che vengono marcati con triplice tratto (sui due lati dell’asta della croce per il 25/12, solo a sinistra per i giorni 26-28/12) sul nostro piccolo calendario vaticano, ma da croci semplici su tutti gli altri esemplari. Da quanto si è detto, risulta a mio avviso con una certa evidenza che questa classe di piccoli libri runici del computo prodotti in territorio estone secondo il modello svedese del runstav riflettono una tradizione popolare di calendario composita, dove gli elementi più antichi e “locali” della partitura annuale, delle credenze e degli usi rituali vedono sovrapporsi i dati strutturali (scelta delle feste da segnalare) e iconici (simboli relativi a tali feste) caratteristici del folklore svedese; trovando dunque, in molti casi, puntuale confronto con i runstavar — a bastone o a libro — prodotti nelle regioni della Svezia centro-meridionale. In particolare il nostro calendario nella Biblioteca Vaticana mostra, fra tutti gli esemplari affini esaminati, la più piena aderenza con questi ultimi — occorrenze particolarmente significative in questo senso si sono rivelate ad esempio le puntuali notazioni iconiche dei giorni di s. Marco 25/3, di s. Brigida 7/10 e di s. Martino 11/11238, rispettivamente identificate con un cuculo239, un cardaccio e un osso d’oca —, confermando quell’impressione di accuratezza da parte del suo autore già altrimenti rilevata sia nella realizzazione sempre coerente delle forme runiche sia nella consapevolezza della evoluzione del calendario dopo la Riforma. Che non tutte le marcature delle feste coincidano su queste runbokar con la tradizione svedese costituisce, d’altro canto, esito ugualmente interessante della nostra analisi, che sul piano del tempo santorale risponde al calendario finlandese — e di nuovo l’esemplare vaticano mostra di aderire alle peculiarità di quella diocesi con insolita puntualità (ad esempio, nell’inserimento della missa votiva de Virgine il 26/5, che non compare sugli altri libretti runici affini) — e sul piano del tempo economico e naturale innesta nuove letture dei punti focali del ciclo annuale (ad esempio nella centralità funzionale di feste come s. Antonio 17/1 o s. Giorgio 23/3 o s. Erik 18/5 etc.). 6. Le “copertine” della runbok vaticana: i dati esterni e di corredo Le due tavolette esterne del calendario nella Biblioteca Vaticana costituiscono, come si è detto, la copertina del libretto ligneo240. Secondo 237
Ibid., pp. 71-72. Si rammenterà inoltre che la festa di s. Martino (mardipäev) cadeva nella tradizione calendariale estone il 10 — e non l’11 — novembre. 239 In questo caso anche sul calendario di Zurigo. 240 Cfr. supra, avvio del § 3. 238
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il modello compositivo corrente di questa produzione, e se si esclude il lato interno della copertina anteriore (f. 1v ovvero p. 2 nella numerazione moderna), dedicato alla presentazione del repertorio grafico-computistico dei cicli lunare decennovennale e solare ventottennale241, esse non contengono elementi di calendario. Vi si trovano, invece, alcuni dati esterni utili alla collocazione cronologica ed eventualmente geografica del manufatto, nonché alla sua possibile storia, sebbene le annotazioni non consentano in verità — come si vedrà — alcuna attribuzione certa di autorialità, proprietà familiare o appartenenza locale.
Fig. 26 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavoletta 1. Lato a: gioco di s. Pietro (sotto) e iniziali onomastiche con marchio di proprietà familiare (sved. bomärke).
Fig. 27 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavoletta 8. Lato b: datazione e incisioni varie e/o ricorrenti di iniziali onomastiche e marchi di proprietà familiare (sved. bomärke).
Il dato esterno più rilevante consiste nella data incisa sulla copertina posteriore (f. 8v ovvero p. 16 nella numerazione moderna), che rimanda all’anno 1684 (cfr. fig. 27). La faticosa sequenza in capitale romana e numeri arabici AN1684 per «anno 1684» mostra 6 e 4 realizzazioni speculari destra vs sinistra delle forme standard, e il numerale per 1 con errata collocazione del tratto secondario, in questo caso con ductus assimilabile alla cinetica epigrafica tipica delle rune (cfr. ᚴ). La tecnica incisoria a sgraffio della data e della maggior parte dei tratti presenti su questa pagina esterna, unita alla apparente casualità del disegno compositivo, dove forme incompiute ed elementi occasionali si configurano più come probationes “pennae” 241
Cfr. supra, figura 7 e contesto.
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o passatempo che non come parte integrante di progettata unità, consentono di ipotizzare — o almeno di non escludere — che tali incisioni possano risultare di mano diversa e più recente dell’estensore del calendario. Sul piano analitico, tale possibilità si traduce nella ovvia considerazione che la data presente sulla runbok vaticana non debba necessariamente ritenersi riferita alla sua realizzazione, ed anzi possa risultare indicativa della sola circostanza che in quell’anno il libretto runico fosse ancora in uso. La presenza di iniziali onomastiche (MMS) e di un marchio di proprietà familiare — la composizione a frecce incrociate su motivo a svastica centrale, qui replicato con insistenza ossessiva e abilità variabile — diversi da quanto si rileva sui due lati della prima tavoletta fanno anzi, a mio avviso, ritenere plausibile che in quell’anno il piccolo calendario runico semplicemente sia passato di mano, ovvero sia stato trasferito presso un’altra fattoria e dunque sia divenuto proprietà di una nuova famiglia. La copertina anteriore della runbok (f. 1r ovvero p. 1 nella numerazione moderna) presenta, al contrario, tratti epigrafici e stile compatibili con la confezione originaria (cfr. fig. 26). Sebbene la lettura delle sequenze alfabetiche non consenta di risalire alle identità che si celano dietro le iniziali dei nomi svedesi con patronimico SMS e EOS, e così definire precisamente il dato autoriale o di committenza del manufatto, si può in sostanza almeno rilevare come la tecnica dell’incisione risulti in altri termini non incoerente con la mano che ha redatto l’intero calendario del ciclo annuale. Le iniziali onomastiche — che devono intendersi dei possessori e/o forse degli stessi incisori della runbok — appaiono dunque combinate in sequenza a restituire anche il patronimico, secondo il modello «XYs-Son» che si lega sovente, in tutto il territorio di influenza svedese, ai marchi di proprietà caratteristici della tradizione contadina. Tali marchi, a seconda delle regioni associati a singole fattorie a gestione familiare oppure ad aree comuni più o meno estese, garantivano in primo luogo il diritto di possesso sui capi di bestiame; ma le varie fonti a disposizione, fin dalla tarda età vichinga e poi per tutto il medioevo e oltre, certificano la persistenza di tali bomärken come “stemmi” familiari, ad esempio sulle lapidi funerarie o su vari manufatti, fra cui per l’appunto i runstavar costituiscono una classe tipologica ad elevata frequenza d’attestazione242. Anche in questo caso, del resto, troviamo alla sinistra della sequenza centrale puntualmente il marchio della famiglia cui il calendario è appartenuto in origine, e che viene replicato, come si è visto, anche sul lato opposto della stessa tavoletta (f. 242 Cfr. C. G. HOMEYER, Die Haus- und Hofmarken, mit. XLIV Tafeln, Berlin 1870, pp. 28-33. Una selezione di tali Hauszeichen o bomärken, rintracciata su lapidi e monumenti funerari dei coloni svedesi nelle varie aree d’Estonia, e utile come campione tipologico esemplificativo, si trova in RUSSWURM, Lithographirte Beilagen zu Eibofolke cit., tav. V.
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1v o p. 2; fig. 7). Si noteranno ugualmente alcune altre iniziali (H, I, T, E) variamente combinate in monogrammi (H+I o H+T, E+T), di nuovo probabilmente da intendersi come indicazioni o marchi di proprietà di tipologia alfabetica e di più o meno remota origine onomastica o toponomastica. Come si registra in genere per tutta questa produzione runica delle aree periferiche svedesi, anche nel caso della potenziale rilevanza di tali bomärken per la storia locale e l’indagine antropologico-culturale la più recente letteratura critica non segnala evidenti sviluppi di ricerca243. Ma sarà interessante rilevare che l’uso di tali marchi — che già Olaus Wormius all’inizio del Seicento chiamava, nella tradizione peculiare del Nord, «runae familiares»244 — viene inteso come dinamico ancora nell’età moderna245, con massimo sviluppo alla fine del sec. XVI246, spesso associato a soggetti di natura commerciale oltre che agricola o familiare, e inoltre persistente ben oltre il mutarsi del contesto socio-antropologico di analfabetismo che ne aveva costituito senza dubbio il presupposto genetico all’origine247. Sulla stessa copertina anteriore del piccolo calendario runico nella Biblioteca Vaticana trova spazio, infine, anche una sequenza di linee e punti, incisa con evidenza nella sezione al di sotto delle firme e del marchio di proprietà. L’incisione, che mostra chiaramente traccia di un primo disegno — le aste intagliate appena a restituire il numero necessario di unità, poi perfezionate alternativamente come punti (al centro di quelle aste) o linee verticali —, può considerarsi un elemento di corredo, estraneo al calendario vero e proprio ma in verità rispondente, anche in questo caso, alla tradizione consolidata dell’epigrafia calendariale svedese. Si tratta del cosiddetto Sankt Peders lek o «gioco di s. Pietro», un passatempo matematico basato su una sequenza fissa di 30 unità numeriche distinte ed alternate, frequen243
Cfr. T. SKÅNBERG, Glömda gudstecken. Från fornkyrklig dopliturgi till allmogens bomärken, Lund 2003 (Bibliotheca historico-ecclesiastica lundensis, 45), p. 23, nota 100, per i pochi riferimenti specifici alla tradizione dei bomärken in Estonia. A tale recente monografia, cui si rimanda anche per una sommaria ma esauriente rassegna della precedente bibliografia e dei vari filoni di ricerca (particolarmente alle pp. 11-26), si possono poi specialmente affiancare, come trattazioni più ampie sull’argomento generale dei marchi di proprietà, C. LINDHOLM, Bomärken, Stockholm 1976 (Skrifter urgivna av Genealogiska Föreningen, 9), e J. NAHLÉN, Egna märken. Om bomärken och märkessamling, Umeå 1992 (Skrifter utgivna av Johan Nordlander-sällskapet, 17). Segnalo infine che entro il lavoro di Skånberg si accenna incidentalmente anche a quella simbologia impiegata sui kalenderstavar medievali che mostra eventuali sovrapposizioni grafiche con alcuni marchi di proprietà familiare (ibid., pp. 103-108). 244 Cfr. O. WORM, Runer, seu Danica literatura antiqvissima, editio secunda auctior & locupletior, Hafniae 1651, p. 21. 245 Cfr. ad esempio J. G. LILJEGREN, Run-Lära, Stockholm 1832, pp. 191-193 (qui specialmente p. 193). 246 Cfr. SKÅNBERG, Glömda gudstecken cit., p. 12. 247 Cfr. HOMEYER, Die Haus- und Hofmarken cit., p. 31.
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temente inserito nelle sezioni di raccordo o ai margini dei runstavar. I tratti grafici impiegati per tale sequenza consistevano sostanzialmente in aste o brevi tratti verticali, croci (greche o decussate), cerchi e punti, che venivano contrapposti a coppie (tratti verticali lunghi vs brevi, aste vs punti, aste vs croci etc.) e ripartiti in gruppi irregolari alternanti secondo un ordine stabilito nella sequenza numerica 4+5+2+1+3+1+1+2+2+3+1+2+2+1. Ora, la tradizione di questa “conta” dei trenta è nota in molte varianti, e in verità risulta essa stessa una realizzazione del tipo di enigma matematico generale noto come “problema di Josephus”, chiamato nelle fonti più antiche ludus Josephi248, basato sulla eliminazione progressiva di unità da una sequenza continua (generalmente circolare) che vede gli elementi di due insiemi affini ma contrapposti alternarsi in modo che uno dei due insiemi prevalga integro e l’altro venga invece del tutto eliminato. La combinazione numerica della sequenza e della base della “conta” prevede dunque che il gioco sia “truccato” all’origine, poiché chi lo conduce conosce il risultato; ovvero, quando si offra come un enigma di cui trovare la soluzione (in quale modo ordinare le unità degli insiemi X e Y perché rimangano solo le unità di X?), si intende che questa coincida con la permanenza dell’elemento o insieme per l’appunto prescelto. La variante lineare del ludus sancti Petri cui le incisioni sui runstavar si riferiscono propone una conta che elimina una unità ogni nove. Anche per questa interpretazione del gioco si conoscono molte versioni dell’episodio che ne rimanda l’origine, sostanzialmente riconducibile al modello narrativo diffuso in occidente in cui si tratta di una imbarcazione con s. Pietro e altre 30 persone a bordo, di un viaggio per mare con incombente tempesta e di una necessaria scelta dei superstiti, che solo nella misura del 50% scamperanno dunque al naufragio. Una delle varianti di tale impostazione del problema — separazione di 30 “amici” vs “nemici” con indice numerico 9 —, molto comune nella tradizione scandinava, rimanda ad una “conta” fra 15 cristiani e 15 giudei249, ma il testo dell’introduzione al gioco 248 Così in G. CARDANO, Practica Arithmeticae generalis, Milano 1539, secondo W. AHRENS, Mathematische Unterhaltungen und Spiele, Leipzig 1901, p. 288. Ahrens dedica un intero capitolo alla tradizione e alle implicazioni matematiche del problema di Josephus (cap. XV, Das Josephsspiel; ibid., pp. 286-301) e illustra tra l’altro una versione della conta ad eliminazione in base 9 — dunque identica alla variante utilizzata in Scandinavia sui bastoni runici (cfr. qui avanti) — che voleva tradizionalmente contrapposti 15 cristiani a 15 turchi: lo scopo della combinazione numerica in sequenza risultava naturalmente in questo caso l’esclusione dei turchi a vantaggio dei cristiani. 249 Cfr. P. PLANBERG, Ständig Års Räkning eller Almanach…, Stockholm 1784, p. 31. Da qui rifluisce la tradizione dell’aneddoto introduttivo della conta riferita anche in LITHBERG, Computus cit., p. 283, e in V. BRUN, Alt er tall: Matematikkens historie i oldtid og middelalder, Bergen 1964, pp. 201-202. Cito dalla ottima sintesi di quest’ultimo: « På en sjøreise skal det
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a eliminazione può vedere contrapposti facilmente nelle varie fonti circolanti in occidente cristiani e turchi, pellegrini (cristiani) e marinai, giovani studenti e vagabondi etc. — e va da sé che i giudei, i turchi, i marinai e i perdigiorno vengono prontamente sacrificati a vantaggio di cristiani, pellegrini e bravi discepoli —, mentre s. Pietro può trovarsi sostituito da un precettore spagnolo ebreo (Abrâhâm ibn ‘Ezrâ, nella variante iberica con gli studenti del sec. XII) o da un ignoto capitano, che salva i cristiani a scapito dei turchi nella versione più diffusa nell’Europa dell’età moderna, mediata dalle pagine popolarissime delle Récréations mathématiques et physiques di Jacques Ozanam250. Già segnalato come rilevante per la tradizione calendariale svedese entro la trattazione del runstav ad opera di Peter Planberg (1784)251, il gioco di san Pietro contava ben evidentemente su un presupposto funzionale legato al puro divertimento («För ålderdomens skull utsättes på Stafven St. Peters lek, hvormed de gamle sig roat», scriveva lo stesso Planberg)252; e l’inserimento dello schema del relativo codice numerico sui runstavar, på et fartøy ha vært 15 jøder og 15 kristne og Peter. Det ble storm, og det ble besluttet å kaste 15 mann over bord. Sankt Peter stilte opp mennene i denne rekkefølgen i en ring: KKKK JJJJJ KK J KKK J K JJ KK JJJ K JJ KK J. Hver niende mann skulle kastes over bord (telt fra venstre). Denne lek har værtt meget utbredt. På utallige runestaver finner man ovenstående serie innrisset, med forskjellige tegn for K og J» (ibid.). La descrizione del gioco nella variante cristiani vs ebrei con indice di calcolo 9 si trova già menzionata nel primo Cinquecento negli scritti di calcolo combinatorio di Johannes Buteo (Jean Bourrel), mentre, alla fine del secolo precedente, l’italiano Filippo Calandri impostava lo stesso problema opponendo 15 frati francescani a 15 monaci camaldolesi nel suo Trattato di Aritmetica (cfr. Firenze, Biblioteca Riccardiana, Codice Membranaceo Ricc. 2669; dat. fine sec. XV, Firenze): «Partendosi da Firenze 15 frati di sancto Francesco per ire im pellegrinaggio al Sipolcro s’accompagnarono in fra via con 15 monacj di Camaldoli [...] a Vinegia montarono in su ’na barcha per andare in Gerusalem [...] volendo alegerire la nave el padrone disse che 15 di loro voleva gittare in mare [...] contando di 9 in 9 [...] e frati tuttj restarono e’ monaci tuttj furono gittatj in mare. [Soluzione:] Jm prima e dove si comincia a noverare misse 4 fratj poi 5 monaci poi 2 fratj poi 1 monaco 3 fratj 1 monaco 1 frate 2 monaci 2 fratj 3 monaci 1 frate 2 monaci et 2 fratj et 1 monacho» (pagina con illustrazione miniata, introduzione narrativa e soluzione del calcolo consultabile online all’indirizzo web ; accesso giugno 2015). 250 Cfr. G. MURPHY, The Puzzle of the Thirty Counters, in Béaloideas. The Journal of the Folklore of Ireland Society 12 (1942), pp. 4-5. Per la versione dell’erudito e poligrafo Abrâhâm ibn ‘Ezrâ (ca. 1150) si veda M. STEINSCHNEIDER, Abraham ibn Esra (Abraham Judaeus, Avenare). Zur Geschichte der mathematischen Wissenschaft im XII. Jahrhundert, in Zeitschrift für Mathemathik und Physik 25 (1880), Supplement: Abhandlungen zur Geschichte der Mathematik 3 (1880), pp. 56-128 (qui particolarmente pp. 123-124). Per Ozanam, si veda la seconda edizione delle Récréations, curata da J.-É. MONTUCLA e J.-A. SIGAUD DE LA FOND, Paris 1778, pp. 168-171 (Arithmétique, chap. X, Probl. XVII). 251 Cfr. P. PLANBERG, Ständig Års Räkning eller Almanach cit., p. 31. 252 Ibid.
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dunque, altro non deve considerarsi se non un ausilio mnemonico di questo gioco matematico, diffusissimo in Europa fin dal medioevo e divenuto di gran moda in Scandinavia particolarmente nei secc. XVI-XVII253. Anche la Krönika di Gustavo Vasa, del resto, lascia intendere che all’inizio del Cinquecento il gioco era tanto usuale che, ad esempio, l’ostilità danese verso gli Svedesi potesse venire espressa attraverso la metafora del Sankt Peders lek, ovvero tramite la speranza di «giocare con gli Svedesi al gioco di san Pietro», prima con i nobili e i cavalieri, poi con i mercanti borghesi e gli agricoltori, si intende con il precipuo scopo di spazzare via l’intera classe dirigente della Svezia, «poiché — dicevano — un bue ben pasciuto è un affare certo e veloce»254. Interessante risulta poi la tradizione che variamente rimanda espedienti linguistici — motti, filastrocche, canzoni etc. — per memorizzare la corretta combinazione dei numeri: uno dei testi più antichi e frequentemente riferiti nella letteratura consiste per esempio nel verso latino Populeam virgam mater regina ferebat, dove la posizione delle vocali entro il loro ordine relativo standard a e i o u vede assegnato un valore numerico da 1 a 5, e questo valore viene tradotto per l’appunto nei numeri necessari alla sequenza del gioco di s. Pietro, nella chiave della soluzione per la variante più comune con indice numerico 9. Soluzioni di mnemo-tecnica latina simili a questa si conoscono numerose, anche relativamente ad un indice di calcolo diverso da 9, nella stessa regione scandinava255, e la tradizione popolare europea preserva memoria di molte altre versioni (in inglese, francese, tedesco etc.), che rispondono a questo medesimo codice alfa-numerico256. Non risulta agevole stabilire quando divenne di moda inserire lo schema numerico del gioco di s. Pietro sui runstavar svedesi. Secondo l’analisi di Sam Owen Jansson e forse già di Nils Lithberg, sostanzialmente confermata dalla ricerca runologica seguente257, il più antico bastone runico del computo che presenti la chiave della soluzione del gioco di s. Pietro e che 253 Cfr. E. SCHNIPPEL, Das St. Petersspiel, in Zeitschrift für Volkskunde, N.F. 1 (1929), pp. 190-191; J. BOLTE, Nachtrag (zu Emil Schippel, Das St. Petersspiel), ibid., pp. 192-194. Il gioco era, ad ogni modo, certamente praticato in Svezia già nel medioevo, come attestano le iscrizioni runiche su bacchette di legno rinvenute a Lödöse (cfr. qui avanti). 254 Cfr. P. SVART, Gustav Vasas Krönika, red. M. MOSESSON, Stockholm 2014, p. 6 (testo normalizzato basato sulla edizione di N. EDÉNS, Stockholm 1912). 255 Cfr. ad esempio LITHBERG, Computus cit., p. 286. 256 Cfr. ibid., e inoltre MURPHY, The Puzzle of the Thirty Counters cit., p. 3. Un altro espediente di tecnica mnemonica di cui si conservano ampie tracce nel folklore europeo consisteva nell’inserire direttamente i numeri, nell’ordine dato per le varie chiavi alla soluzione dell’enigma, entro una filastrocca. 257 Cfr. E. SVÄRDSTRÖM, Svensk medeltidsrunologi, in Rig 55: 3 (1972), p. 94.
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sia espressamente datato risale al 1504258. Ma la “conta” dei trenta doveva essere conosciuta e ampiamente praticata in Svezia fin dall’età medievale, se la sequenza numerica si trova incisa, anche eventualmente in contesto runico legato agli usi calendariali, su alcune bacchette di legno rinvenute a Lödöse nel 1971 e databili su base archeologica al pieno secolo XIII. Subito studiate da Elizabeth Svärdström259 e poi catalogate nel corpus delle iscrizioni svedesi del Västergötland (Vg 270, 274 e 276)260, tali bacchette conservano tracce consistenti o frammenti di sistemi di computo, ovvero di rune impiegate con valore numerico, dove il Sankt Peders lek gioca un ruolo decisamente rilevante. Sui quattro lati della bacchetta lignea Vg 270 (trästickan, Stockholm, Statens Historiska Museum, inv. nr 27600: 71: GD 2399; dep. i Lödöse Museum) compaiono, ad esempio, rispettivamente l’intera serie delle 19 rune per il numero aureo (lato A); alternanza di tacche lunghe e brevi secondo la combinazione numerica del gioco di s. Pietro, mancante dell’inizio (lato B); stessa sequenza ma con tacche invertite, ugualmente mancante dell’inizio (lato C); alternanza di rune ᚠ (f) e ᛣ (R) — la prima e l’ultima della serie del fuþark recente — secondo la medesima combinazione numerica, in questo caso mancante della fine (lato D)261. La bacchetta si mostra attualmente lunga mm 247 e a sezione pressoché quadrata (mm 13 × 12), ma un pezzetto di legno risulta in effetti mancante ad un’estremità, per una perdita che può essere stimata intorno a mm 3040262: il contenuto, però, si rivela facilmente integrabile con l’inizio (lati B e C) e la fine (lato D) della sequenza combinatoria della “conta” dei trenta, indice di calcolo 9. La sequenza, dunque, integralmente ricostruita, si presenta come segue (variante runica sul lato D, inizio in corrispondenza dell’estremità intatta della bacchetta, sequenza mancante fra [ ]): ᚠᚠᚠᚠᛣᛣᛣᛣᛣᚠᚠᛣᚠᚠᚠᛣᚠᛣᛣᚠᚠᛣ [ᛣᛣᚠᛣᛣᚠᚠᛣ]. Ma anche gli altri bastoncini rinvenuti negli stessi scavi a Lödöse inte258
Si tratta di Stockholm, Nordiska museet inv. nr 4752, proveniente da Mora, Dalarna. Cfr. LITHBERG, Computus cit., p. 286. 259 E. SVÄRDSTRÖM, Lödöserunor som talar och täljer, in Fornvännen 67 (1972), pp. 94– 107. 260 Consultabile in rete presso il Samnordisk runtextdatabas hos Uppsala runforum, all’indirizzo permanente (accesso luglio 2015). Si veda anche E. SVÄRDSTRÖM, Runfynden från Gamla Lödöse, Stockholm 1982 (Kungl. Vitterhets historie och antikvitets akademien, Lödöse: västsvensk medeltidsstad, 4: 5). 261 Cfr. SVÄRDSTRÖM, Lödöserunor som talar och täljer cit., pp. 99-102, figg. 5-6. La bacchetta Vg 270 Lödöse viene anche presentata in M. ÅHLÉN, Runmärkt. Från brev till klotter. Runorna i vardagslag och kyrkoliv under medeltiden, Katalog nr 6, Stockholm 1994, p. 25 (item 76). 262 Cfr. SVÄRDSTRÖM, Lödöserunor som talar och täljer cit., p. 98.
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grano rune e gioco di s. Pietro, in un caso con alternanza di ᚠ (f) e ᚢ (u) — la prima e la seconda runa del fuþark — secondo una sequenza numerica che rimanda alla “conta” nella variante con indice di calcolo 10263; nell’altro con alternanza di ᚦ (þ) e ᛅ (æ) per una sezione centrale della combinazione riferita al più comune indice di calcolo 9264. Anche in quest’ultimo caso, come su Vg 270, compare incisa accanto al gioco di s. Pietro la serie delle rune, ancorché parziale (solo i primi due ættir), che potrebbe ugualmente rimandare al cifrario per il numero aureo, e dunque ad un contesto fondamentalmente legato al computo calendariale. Sarà poi la tradizione più tarda, ormai rinascimentale dei runstavar a consolidare, come si diceva, questo collegamento fra il computo annuale e il passatempo matematico della “conta” dei trenta; a tal punto che potrà accadere, alle soglie del Settecento, di rintracciare su un bastone runico un intero repertorio di varianti del gioco, con una trascrizione in rune dei testi latini che a queste rimandano, e con indicazione occasionalmente diversa dal numero 30 per il totale delle unità considerate265. Anche in relazione alla occorrenza del Sankt Peders lek, dunque, si può concludere che il nostro calendario vaticano risponda ad una tradizione solida e costante dell’epigrafia calendariale svedese, confermando pienamente l’assunto, fin qui emerso dall’analisi di tutti i livelli di lettura del manufatto, di una adesione sostanziale al modello culturalmente trainante della Svezia. 7. Conclusioni La piccola runbok conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana entro il fondo Vaticano latino (segnatura 14613) si è rivelata alla nostra analisi un interessante esemplare — insieme tradizionale e innovativo, rispondente a una produzione di genere ma pregevole per coerenza formale ed eleganza del tratto epigrafico — di quella tradizione calendariale del Nord che negli ultimi secoli del medioevo e poi soprattutto nei secoli XVI-XVII conosce una vasta fortuna, e che nell’area orientale del Baltico — e nelle zone di successiva immigrazione svedese — prosegue vitale e ininterrotta fino al
263 Si tratta di due frammenti riferibili all’unica bacchetta Vg 274 (Stockholm, Statens Historiska Museum, inv. nr 27600: 71: GD 4470; dep. i Lödöse Museum). Cfr. SVÄRDSTRÖM, Lödöserunor som talar och täljer cit., pp. 103-105, fig. 7. 264 Si tratta di due frammenti, più consistenti di Vg 274, riferibili alla sola bacchetta Vg 276 (Stockholm, SHM, inv. nr 27600: 71: DC 1928; dep. i Lödöse Museum). Cfr. SVÄRDSTRÖM, Lödöserunor som talar och täljer cit., pp. 105-106, fig. 8. 265 Si tratta di un runstav datato 1705, proveniente da Fellingsbro, Västmanland (Stockholm, Nordiska museet, inv. nr 235477), sul quale si veda in particolare LITHBERG, Computus cit., p. 286, nota 1.
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Settecento inoltrato266. Proprio a quest’ultimo ambito deve essere ricondotto il calendario runico vaticano, che senza dubbio origina dalla regione insulare o costiera nord-occidentale dell’Estonia al tempo in cui essa era abitata dai coloni svedesi. Datato 1684 e opera probabilmente di un ecclesiastico, consapevole del nuovo santorale imposto dalla riforma e interessato, oltreché al computo annuale, ai giochi matematici e al calcolo combinatorio — come dimostra la “importazione” del Sankt Peders lek entro una tipologia di calendario runico più insolita rispetto al runstav tradizionale “da passeggio” —, il piccolo almanacco di legno a libro costituisce una testimonianza preziosa sia dell’uso tardo delle rune sia della realtà folklorica legata alle feste del ciclo annuale e incardinata funzionalmente al computo ecclesiastico. A questo riguardo, si è dimostrato come, in tale particolare produzione di runbokar affini al nostro esemplare del Vaticano, la matrice culturale svedese si sia potuta fondere con la tradizione locale della scansione del tempo economico e naturale; mentre la diocesi di riferimento per le feste del tempo liturgico e santorale si conferma — come era lecito attendersi dalla organizzazione ecclesiastica delle aree acquisite sul fronte baltico dalla corona svedese nel periodo della sua massima espansione (secc. XVIXVII) — quella finlandese di Åbo (Turku). L’elusività degli ulteriori dati esterni relativi all’autore del manufatto e/o ai diversi proprietari che probabilmente, a giudicare dalle varie sequenze di iniziali onomastiche che compaiono attualmente sui “fogli” di copertina, si sono succeduti nel tempo, insieme alla impossibilità di identificare — e quindi localizzare — il marchio o “stemma” familiare originario (che ricorre due volte in posizione strutturalmente “enfatica” sulla prima tavoletta), non consentono di stabilire l’esatto luogo d’origine del calendario. Ma l’analisi comparativa con il resto della documentazione oggi acquisita alla ricerca runologica e calendariale nordica, per la prima volta affrontata organicamente in questa sede in relazione alla regione estone, offre risultati certi e di grande interesse, permettendo inoltre di recuperare finalmente al corpus dei runstavar di marca svedese un esemplare di pregevolissima fattura e in ottimo stato di conservazione. Per quali vie sia giunto ad arricchire la Bibliotheca Barberina a Roma, da cui in ultima analisi proviene all’attuale Riserva del fondo Vaticano latino, non è stato possibile appurare. Ma, proprio in relazione alla prima nota acquisizione romana, non stupirà che si tratti di un manufatto che spicca entro la tarda produzione dei runbokar di quell’area, in verità un og266 Come si è visto, con propaggini perfino più tarde, quale tradizione di copie successive su modelli obsoleti, fra gli immigrati svedesi in Ucraina (Gammalsvenskby).
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getto che, pur inserendosi entro una tradizione popolare “povera” e seriale, tuttavia quella produzione rappresenta al suo meglio. In altri termini, il calendario runico nella Biblioteca Apostolica Vaticana, con le sue lamelle di legno incise di rune e di “insolite” marche simboliche, si rivela una di quelle testimonianze etnografiche peculiari dei costumi del Nord in grado di suscitare la curiosità antiquaria europea fra il Sei- e il Settecento, ma allo stesso tempo si mostra manufatto di per sé apprezzabile, accurato nell’esecuzione, riprodotto con spunti originali e tratto sicuro da modelli invece generalmente modesti e grossolani, adatto — come è lecito aspettarsi già dalla prima, importante collocazione libraria romana — ad un collezionismo di mirabilia, se così si può dire, d’eccezione.
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavolette 1r-v e 2r-v.
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CARLA CUCINA
Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavolette 3r-v e 4r-v.
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IL CALENDARIO RUNICO NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA
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Tav. III – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavolette 5r-v e 6r-v.
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CARLA CUCINA
Tav. IV – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14613, tavolette 7r-v e 8r-v.
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ADRIEN DE FOUCHIER
SUR LE KITÂB AL-ŠAFÍ FÍ AL-ÝIBB D’IBN AL-QUFF Depuis plus d’une cinquantaine d’années, les recherches sur la médecine arabo-musulmane ont permis à la communauté scientifique d’approfondir considérablement ses connaissances de l’histoire de la médecine. Elles ont notamment mis en évidence que cette médecine ne s’est pas contentée de traduire l’héritage grec, elle a su affiner les savoirs et développer des techniques propres ; son rôle important pour le développement de la médecine occidentale est aussi fondamental1. Ces études ont aussi permis de découvrir le rôle de savants jusqu’ici inconnus ou méconnus. Parmi ces savants se trouve Ibn al-Quff ( أﻣني اﻟﺪوﻟﺔ أﺑﻮ اﻟﻔﺮج ﺑﻦ،اﺑﻦ اﻟﻘﻒ ﻣﻮﻓﻖ اﻟﺪﻳﻦ ﻳﻌﻘﻮب ﺑﻦ إﺳﺤﻖ اﳌﺴﻴﺤﻲ اﻟﻜﺮيك, 630-685 hg, 1233-1286). De cet auteur nous connaissions son Kitâb al-‘Umdah fí Úinâ‘at al-Jirâüah (de préférence ‘Umdat al-Iúlaü fí ‘Amal Sinâ‘at al-Jarrâü) puisqu’il avait été édité en Inde en 19372, il aura cependant fallu attendre les travaux de Sami K. Hamarneh pour avoir une meilleure connaissance de sa vie et de son œuvre3. Né dans une famille chrétienne, son père était au service des Ayyubides à Karak avant d’être nommé secrétaire-scribe à Sarkhad où il se liera d’amitié avec Ibn Abí Uúaybi’ah et lui confiera l’éducation de son fils. Impressionné par l’intelligence de son élève, il lui enseignera les fondements de la médecine puis suite à la mutation de son père à Damas, Ibn al-Quff a eu l’opportunité de développer ses connaissances en médecine et de diversifier son apprentissage en métaphysique, philosophie, mathématiques et histoire naturelle. Nommé chirurgien à Ajloun, il revient à Damas quelques années plus tard comme médecin de la citadelle ce qui ne l’empêche ni d’enseigner ni d’écrire. Il est l’auteur des œuvres suivantes : — un commentaire sur les Ishârât d’Ibn Sínâ — un autre commentaire sur al-Mabâüith sur les sciences naturelles. Ces deux ouvrages sont aujourd’hui perdus. 1 Voir par exemple P. E. PORMANN – E. SAVAGE-SMITH, Medieval Islamic Medicine. Washington D.C. 2007. 2 Kitâb al-‘Umdah fí Úinâ‘at al-Jirâüah, 2 vols, Hyderabad 1937. 3 S. K. HAMARNEH, The Physician, Therapist and Surgeon Ibn Al-Quff (1233-1286), an Introductory Survey of His Time, Life and Works, Cairo 1974.
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 329-339.
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ADRIEN DE FOUCHIER
— Kitâb al-‘Umdah fí Úinâ‘at al-Jirâüah (de préférence ‘Umdat al-Iúlaü fí ‘Amal Sinâ‘at al-Jarrâü) qui est un manuel de chirurgie. — Kitâb Jâmi‘ al-Ghara fí Üifz al-Úiüüah wa-daf ‘ al-Mara qui traite de l’hygiène. — Kitâb al-Uùûl fí Šarü al-Fuúûl qui est un commentaire des aphorismes d’Hyppocrate. 4 — Risâlah fí Manafi‘ al-A‘â’ al-Insâníyah qui traite de l’utilité des organes. — Fí Üifz al-Úiüüah qui traite de la préservation de la santé. — Zubdat fí al-Ýibb qui est une encyclopédie de médecine à l’usage de médecins. — Kitâb al-Šafí fí al-Ýibb qui est une encyclopédie de médecine. Selon Joseph Nasrallah dans son Histoire du mouvement littéraire dans l’Église Melchite du Ve au XXe siècle5, il existe un autre exemplaire du Kitab al-Šafí fí al-Ýibb. Cependant comme Armaneh l’avait bien vu, le manuscrit du Vatican sous la cote Vat. ar. 183 est l’unique exemplaire connu. Assemani l’a rapporté de son voyage en Egypte (au f. 1 dans la marge supérieure se trouve cette marque : « Ass. 38 ») il passa ensuite à la Vaticane. G. Levi Della Vida dans son Elenco dei manoscritti arabi islamici della Biblioteca Vaticana6 ne lui accorde qu’une note très rapide dans l’appendice, ce manuscrit étant classé au milieu de manuscrits chrétiens, il lui avait échappé. Dans les années trente, G. Graf a commencé la rédaction d’un catalogue des manuscrits arabes-chrétiens de la Vaticane, malheureusement il n’a pas pu finir ce catalogue de sorte que son travail est resté à l’état de notes manuscrites. Mais ces notes sont maintenant consultables sur le catalogue en ligne de la Vaticane. Graf ne décrit que les manuscrits explicitement chrétiens, il laisse donc de côté le Kitab al-Šafí fí al-Ýibb. La seule notice du manuscrit disponible est celle faite par Assemani, reprise dans le catalogue de Mai qui ne reprend que les traductions latines d’Assemani en laissant de côté les citations arabes. Puisque le manuscrit du Vatican est dans un excellent état de conservation, qu’il est le seul connu, il nous est apparu utile de présenter une notice actualisée, plus détaillée, afin de ne pas laisser de côté une nouvelle fois ce manuscrit. 4
Voir F. SEZGIN, Geschichte der arabischen Schriftums, III. Medizine, Pharmacie, Zoologie, Tierheilkunde, Leiden 1970, p. 31. 5 J. NASRALLAH, Histoire du mouvement littéraire dans l’Église Melchite du Ve au XXe siècle, III/2 : (1250-1516), Louvain – Paris 1981, pp. 108-110. 6 G. LEVI DELLA VIDA, Elenco dei manoscritti arabi islamici della Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano 1935 (Studi e testi, 67), p. 282.
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SUR LE KITÂB AL-ŠAFÍ FÍ AL-ÝIBB D’IBN AL-QUFF
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Voici en premier lieu les informations sur le manuscrit : Nombre de folios : II. 259 ; hauteur : 258 ; largeur : 165. Justification : 180/185-115 ; 19 lignes par folio jusqu’au f. 185v puis de 19 à 25. Cadre réalisé à la pointe sèche. Le manuscrit est daté du 10 sha‘ban 670 de l’hégire (vendredi 11 mars 1272) au f. 259r. Le manuscrit se compose de 26 quinions (dont le 3ème est incomplet). On remarque des traces de lettres correspondant probablement à la numérotation des cahiers aux f. 90 (10ème cahier), f. 130 (14ème cahier) et au f. 160 (17ème cahier). Deux cahiers ont une numérotation copte incomplète, le 22ème cahier (f. 210) et le 24ème cahier (f. 230). Le 19ème cahier est numéroté au f. 180, ﺗﺎﺳﻊ ﻋﴩ, le 20ème (f. 190), ﻋﴩﻳﻦ, le 21ème (f. 200), ﺣﺎدي ﻋﴩ, le 23ème (f 220), /ﺛﺎﻟﺚ وﻋﴩ, et enfin le 26ème et dernier cahier (f. 250), ﺳﺎدس و ﻋﴩﻳﻦ, la calligraphie de ces nombres est droite et se situe dans la marge supérieure externe du recto. Il n’y a pas de signature de cahier ni de marque de milieu de cahier mais on remarque 3 notes de compilation toutes dans la marge inférieure externe : — f. 15v : ﺑﻠﻐﺖ ﻣﻘﺎﺑﻠﺔ ﻋﲆ اﻷﺻﻞ – اﻟﻄﺎﻗﺔ واﻷﻣﻜﺎن — f. 19v : …/ﺑﻠﻎ ﻣﻘﺎﺑﻠﺔ ﻋﲆ اﻻﺻﻞ ﺑﺤﻀﻮر ﻣﺼﻨﻒ ادام — f. 169v : ﺑﻠﻎ ﻣﻘﺎﺑﻠﺔ ﻋﲆ اﻷﺻﻞ وﺻﺢ La reliure de maroquin rouge a été faite sous le pontificat de Clément XI (pape de 1700 à 1721) comme l’indiquent les armoiries sur le dos. Voici maintenant le plan détaillé du manuscrit tel qu’il apparait dans les index. Partie I : « ﰲ ﺣﺪ اﻟﻄﺐDéfinition de la médecine » 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8)
ff. 1v-3r : Introduction et index ff. 3r-v : « ﰲ ﺣﺪ اﻟﻄﺐà propos de la définition de la médecine » ff. 3v-5r : « ﰲ اﻷﻣﻮر اﻟﻄﺒﻴﻌﻴﺔsur les aspects naturels » ff. 5r-13r : «ﰲ اﻷرﻛﺎنsur les principes élémentaires » ff. 13r-15v : « ﰲ اﳌﺰاجdu tempérament » ff. 15v-16v : « ﰲ اﻷﻣﺰﺟﺔ اﻷﻋﻀﺎءsur les tempéraments des membres » ff. 16v-18v : «ﰲ اﻷﺧﻼطsur les humeurs » ff. 18v-24r : «ﰲ ذﻛﺮ أﻣﻮر ﺗﺘﻌﻠﻖ ﺑﺎﻷﺧﻼطrappel sur les aspects concernant les humeurs » 9) ff. 24r-26v : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﻷﻋﻀﺎءpropos général sur les membres »
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ADRIEN DE FOUCHIER
10) ff. 26v-28r : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﻷﻋﻀﺎء واﺗﺼﺎﻟﻬﺎpropos général sur les membres et leurs contacts » 11) ff. 28r-33r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ ﻋﻈﺎم اﻟﺮاسanatomie des os et de la tête » 12) ff. 33r-40r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﺼﻠﺐanatomie de l’épine dorsale » 13) ff. 40r-47v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻴﺪ واﻟﻜﺘﻒ واﻟﱰﻗﻮةanatomie de la main et de l’épaule » 14) ff. 47v-49v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ ﻋﻈﺎم اﻟﺼﺪر واﻷﺿﻼعanatomie du thorax des côtes » 15) ff. 49v-55r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻮرك واﻟﺮﺟﻠنيanatomie de la hanche et des jambes » 16) ff. 55r-v : « ﰲ ذﻛﺮ اﻟﻐﻀﺎرﻳﻒ واﻟﺮﺗﺎﻃﺎت واﻻوﺗﺎرrappel sur les cartilages, les ligaments (musculaires) et les tendons » 17) ff. 55v-58v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﴩاﻳنيsur les artères » 18) ff. 58v-62r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻷوردةanatomie des veines » 19) ff. 62r-64r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻷﻏﺸﻴﺔ واﻟﺠﻠﺪanatomie des membranes et de la peau » 20) ff. 64r-66v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻷﻋﺼﺎبanatomie des nerfs » 21) ff. 66v-68v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻠﺤﻢ واﻟﺸﺤﻢanatomie de la chair et de la graisse » 22) ff. 68v-71v : « ﰲ اﻟﺸﻌﺮsur les cheveux » 23) ff. 71v-73r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻌﻀﻞanatomie du muscle » 24) ff. 74v-77r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﺪﻣﺎغ واﻟﻨﺨﺎعanatomie du cerveau et de la moelle » 25) ff. 77r-79v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻌنيanatomie de l’œil » 26) ff. 79v-82v : « ﰲ آﻻت ﺑﺎﻗﻲ اﻟﺤﻮاسsur les organes des sens restants » 27) ff. 82v-85r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻠﻬﺎة واﻟﺤﻨﺠﺮة وﻗﺼﺒﺔ اﻟﺮﺋﺔanatomie de la bouche, de la gorge et de la trachée » 28) ff. 85r-87r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻘﻠﺐanatomie du cœur » 29) ff. 87r-88v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﳌﺮئ وﻓﻢ اﳌﻌﺪةanatomie de l’œsophage et du cardia » 30) ff. 88v-90v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﳌﻌﺪ واﻟرثبanatomie de l’estomac et de l’épiploon » 31) ff. 90v-92r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻜﺒﺪ واﳌﺎﺳﺎرﻳﻘﺎanatomie du foie et du mésentère » 32) ff. 92r-92v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻄﺤﺎلanatomie de la rate » 33) ff. 92v-93r : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﳌﺮارةanatomie de la vésicule biliaire » 34) ff. 93r-94v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻜﻠﻴﺘنيanatomie des reins » 35) ff. 94v-95v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﳌﺜﺎﻧﺔanatomie de la vessie » 36) ff. 95v-103v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﺮﺣﻢanatomie de l’utérus » 37) ff. 103v-105v : « ﰲ ﺗﴩﻳﺢ اﻟﻘﻀﻴﺐ واﻟﺨﺼﻴﺘنيanatomie du pénis et des testicules » 38) ff. 105v-109r : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﳌﻨﻲpropos sur le sperme » 39) ff. 109r-110r : « اﻟﻘﺮﻧني ﰲ اﻷﻧﺜﻴنيanatomie de l’accouplement »7 7 Pour le chapitre 38, ff. 109r-110r, nous suivons le titre du corps du texte, le titre de l’index étant illisible car le papier est usé.
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SUR LE KITÂB AL-ŠAFÍ FÍ AL-ÝIBB D’IBN AL-QUFF
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ff. 110r-115v : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﻟﻘﻮى واﻷرواحpropos sur forces et les esprits » ff. 115v-122v : « اﻟﻘﻮى اﻟﻄﺒﻴﻌﻴﺔles forces naturelles » ff. 122v-124r : « اﻟﻘﻮى اﻟﺤﻴﻮاﻧﻴﺔles forces de l’être vivant » ff. 125v-127r : « اﻟﻘﻮى اﻟﻨﻔﺴﺎﻧﻴﺔles forces psychologiques » ff. 127r-v : « ﰲ اﻷﻓﻌﺎلsur les actes » Partie II : « اﻷﺳﺒﺎبLes causes » [de la maladie]
ff. 127v-128r : index 1) ff. 128r-130r : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ ذﻟﻚavant-propos » 2) ff. 130r-133r : « ﰲ ذﻛﺮ ﺣﻜﻢ اﻟﻬﻮاءrappel sur le pouvoir de l’air » 3) ff. 133r-135r : «ﰲ ذﻛﺮ ﻣﺎ ﻳﺤﺪث ﰲ ﻛﻞ ﻓﺼﻞrappel sur ce qui se passe dans chaque espace » 4) ff. 135r-137r : ﺗﻐريات اﻟﻬﻮاء اﻟﺘﻲ ﻟﻴﺴﺖ ﺑﻄﺒﻴﻌﻴﺔ ّ « ﰲ ذﻛﺮrappel sur les changements de l’air anormaux » 5) ff. 137r-138v : ﺗﻐريات ﺑﺤﺴﺐ أﻣﻮر أرﺿﻴﺔ ّ « ﰲ ذﻛﺮrappel sur les changements dus aux aspects terrestres » 6) ff. 138v-139v : « ﰲ أﺣﻜﺎم اﳌﺴﺎﻛﻦsur le pouvoir du calme » 7) ff. 139v-140r : « ﰲ ذﻛﺮ اﻟﺘﻐريات اﻟﺨﺎرﺟﺔ ﻋﻦ اﳌﺠﺮى اﻟﻄﺒﻴﻌﻲrappel sur les changements des sorties des voies naturelles » 8) ff. 140r-142v : « ﻓﻴﻬﺎ ﻳﺆﻛﻞ وﻳﴩبsur la nourriture et la boisson » 9) ff. 142v-145r : « ﰲ اﻟﺠﻮار اﳌﻴﺎةsur le circuit de l’eau » 10) ff. 145r-146v : « ﰲ اﻟﴩابsur la boisson » 11) ff. 146v-148r : « ﰲ اﻟﻨﻮم واﻟﻴﻘﻈﺔsur le sommeil et l’éveil » 12) ff. 148r-v : « ﰲ اﻻﺳﺘﺤاممsur le bain » 13) ff. 149r-151v : « ﰲ اﻟﺤﺮﻛﺔ واﻟﺴﻜﻮنsur le mouvement et l’immobilité » 14) ff. 151v-152r : « ﰲ اﻟﺠامعsur le coït » 15) ff. 152r-152v : « ﰲ اﻻﺳﺘﻔﺮاغ واﻻﺣﺘﻘﺎنsur le vomissement et la congestion » 16) ff. 152v-153r : « ﰲ أﺳﺒﺎب اﻟﻌﺮﺿﻴﺔsur les causes contingentes » 17) ff. 153r-154r : « ﰲ أﺳﺒﺎب ﺳﻮء اﳌﺰاجsur les causes des mauvaises humeurs » 18) ff. 154r-156r : « ﰲ أﺳﺒﺎب اﳌﺮض اﻵﱄsur les causes de la maladie chroniques » 19) ff. 156r-156v : « ﰲ أﺳﺒﺎب ﺗﻔﺮق اﻻﺗﺼﺎلsur les causes des différences de couleurs » 20) f. 156v : « ﰲ أﺳﺒﺎب أوﻗﺎت اﻷﻣﺮاض وﻣﺮاﺗﻬﺎsur les causes des temps et des fréquences des maladies » 21) f. 156v-157r : « ﰲ أﺳﺒﺎب اﻟﺴﺤﻨﺔ واﻟﻠﻮن وﺑﺎﻗﻲ اﻟﻠﻮازمsur les causes du faciès et de la couleur et autres corollaires »
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Partie III : saires] 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12) 13) 14)
« ﰲ اﻟﻠﻮازمSur les corollaires » [des organes qui sont néces-
ff. 157r-v : index ff. 157v-159v : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ ذﻟﻚavant-propos » ff. 159v-160r : « ﰲ ﺗﺴﻤﻴﺔ اﻷﻣﺮاضsur la désignation des maladies » ff. 160r-162v : « ﰲ ذﻛﺮ ﺳﻮء اﻷﻣﺰﺟﺔrappel sur les mauvais tempéraments » ff. 162v-164r : « ﰲ ذﻛﺮ اﻷﻣﺮاض اﻵﻟﻴﺔrappel sur les maladies chroniques » ff. 164r-165r : « ﰲ اﳌﺮض اﳌﺸﱰكsur la maladie contagieuse » ff. 165r-167r : « ﰲ ﻣﺮاﺗﺐ اﻷﻣﺮاض وأوﻗﺎﺗﻬﺎsur le classement des maladies et leurs temps » ff. 167r-v : « ﰲ اﻟﺤﺎﻟﺔ اﳌﺘﻮﺳﻄﺔsur la taille moyenne » ff. 167v-169v : « ﰲ اﻷﺳﻨﺎنsur les dents » ff. 169v-171v : « ﰲ ذﻛﺮ اﻷﻣﺮاض اﻟﺘﻲ ﺗﻌﺮض ﰲ ﻛﻞ واﺣﺪ ﻣﻦ اﻷﺳﻨﺎنrappel sur les maladies qui arrivent à chacune des dents » ff. 171v-172r : « ﰲ ذﻛﺮ ﺑﺎﻗﻲ ﺳﺤﻨﺎت اﻟﺒﺪنrappel sur le reste de la physionomie du corps »8 ff. 172r-v : « ﰲ ذﻛﺮ اﻷﻋﺮاض اﻟﻄﺒﻴﻌﻴﺔ واﻟﺤﻴﻮاﻧﻴﺔrappel sur les symptômes naturels et des êtres vivants » ff. 173r-176v : « ﰲ ذﻛﺮ اﻷﻋﺮاض اﻟﻨﻔﺴﺎﻧﻴﺔrappel sur les symptômes psychologiques » ff. 176v-177r : « ﰲ ﺳﻮء ﺣﺎﻻت اﻷﺑﺪانsur les mauvais changements des corps » ff. : ﰲ ﺣﺎل ﻣﺎ ﺑني زﻣﻦ اﻟﺒﺪنchapitre annoncé en index mais absent du manuscrit. Partie IV : « ﰲ اﻟﺪﻻﺋﻞDe la sémiologie »
ff. 177r-178r : index 1) ff. 178r-179r : « ﻛﻼم ﰲ ذﻟﻚavant-propos » 2) ff. 179r-181r : « ﰲ اﻟﺪﻻﺋﻞ اﳌﺄﺧﻮذة ﻣﻦ اﻟﻔﺮاﺳﺔdes signes tirés de la physionomie » 3) ff. 181r-182v : « ﰲ ﴍى اﻟﻌﺒﻴﺪsur le prurit » 4) ff. 182v-184r : « ﰲ اﻟﺪﻻﺋﻞ اﳌﻨﺬرةdes signes annonciateurs » 5) ff. 184r-186r : « ﰲ ﻋﻼﻣﺎت اﳌﺮض ﻣﻦ ﻣﻄﻠﻘﺎsur les symptômes de la maladie en général » 6) ff. 186r-187v : « ﰲ ﻋﻼﻣﺎت ﺳﻮء اﳌﺰاج اﻟﺴﺎذج واﻟﻌﺎديsur les symptômes du mauvais tempérament et du tempérament normales » 8
Le titre du chapitre est celui du corps de texte.
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7) ff. 187v-189r : « ﰲ ﻋﻼﻣﺎت اﳌﺮض اﻵﱄ وﺗﻔﺮق اﻻﺗﺼﺎلsur les symptômes des maladies chroniques et les différences des couleurs » 8) f. 189v : « ﰲ اﻟﻌﻼﻣﺎت اﻟﺪﻻﺋﻞ ﻋﲆ اﳌﺮض اﻟﺤﺎد واﳌﺬﻣﻦ و اﳌﺰﻣﻦ وﻋﻼﻣﺔ اﻟﺴﺨﻨﺔ واﻟﻠﻮنsur les symptômes des maladies aigües et chroniques et les symptômes de fièvre et de couleur » 9) ff. 189v-190v : « ﰲ اﻟﻌﻼﻣﺎت اﻟﺪﻻﺋﻞ ﻋﲆ أوﻗﺎت اﻷﻣﺮاضsur les symptômes des temps des maladies » 10) ff. 191r-192v : « ﰲ اﻟﻌﻼﻣﺎت اﻟﺪﻻﺋﻞ ﻋﲆ ﺣﺮارة ﻣﺰاج اﻟﺬﻛﺮdes symptômes de la chaleur de la constitution masculine »9 11) ff. 192v-193v : « ﰲ اﻟﻌﻼﻣﺎت اﳌﺄﺧﻮذة ﻣﻦ اﻟﺘﻨﻔﺲdes signes tirés de la respiration » 12) ff. 193v-195v : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﻟﻨﺒﺾpropos généraux sur le pouls » 13) ff. 195v-199v : « ﰲ أﺻﻨﺎف اﻟﻨﺒﺾclassification du pouls » 14) ff. 199v-201r : « ﰲ أﺳﺒﺎب اﻷﺻﻨﺎف اﳌﺬﻛﻮرةsur les causes de la classification mentionnée » 15) ff. 201r-203v : « ﰲ ذﻛﺮ اﻷﻣﻮر اﻟﻄﺒﻴﻌﻴﺔ اﳌﻐرية ﻟﻠﻨﺒﺾsur les aspects naturels changeants du pouls » 16) ff. 203v-205r : « ﰲ ذﻛﺮ اﻷﻣﻮر اﻟﺘﻲ ﻟﻴﺴﺖ ﺑﻄﺒﻴﻌﻴﺔ اﳌﻐرية ﻟﻠﻨﺒﺾsur les aspects du pouls qui ne changent pas » 17) ff. 205r-v : « ﰲ ذﻛﺮ اﻷﻣﻮر اﻟﺨﺎرﺟﺔ ﻋﻦ اﳌﺠﺮى اﻟﻄﺒﻴﻌﻲ اﳌﻌﻨﻰ ﻟﻠﻨﺒﺾsur les aspects dépassants le flux normal du pouls » 18) ff. 205v-207r : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﻟﺒﻮلpropos sur l’urine » 19) ff. 207r-208v : « ﰲ اﻻﺳﺘﺪﻻل اﳌﺄﺧﻮذة ﻣﻦ ﻟﻮﻧﻪsur l’inférence tirée de sa couleur » 20) ff. 208v-209v : « ﰲ اﻻﺳﺘﺪﻻل اﳌﺄﺧﻮذة ﻣﻦ ﻗﻮاﻣﻪsur l’inférence tirée de sa structure » 21) ff. 209v-211r : « ﰲ اﻻﺳﺘﺪﻻل اﳌﺄﺧﻮذ ﻣﻦ ازدواﺟﻬﺎsur l’inférence tirée des deux derniers points ensemble» 22) ff. 211r-215v : « ﰲ اﻻﺳﺘﺪﻻل اﳌﺄﺧﻮذة ﻣﻦ اﻟﺮﺳﻮبsur l’inférence tirée du dépôt ». Ce chapitre n’est pas annoncé dans l’index mais se trouve dans le corps de texte. 23) ff. 215v-216r : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﻟﱪازpropos sur les selles » 24) ff. 216v-217v : « ﰲ اﻻﺳﺘﺪﻻل اﳌﺄﺧﻮذة ﻣﻦ ﻟﻮﻧﻪ وﻗﻮاﻣﻪsur l’inférence tirée de sa couleur et de sa structure » 25) ff. 217v-219r : « ﰲ اﻻﺳﺘﺪﻻل اﳌﺄﺧﻮذة ﻣﻦ ﺑﺎﻗﻲ ﻓﻀﻼت اﻟﺒﺪنsur l’inférence tirée de la purification des déchets du corps » 26) ff. 219r-221r : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﻟ ُﺒﺤﺮانpropos sur les crises » 9
Le titre du chapitre est celui du corps de texte.
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27) ff. 221r-222r : « ﰲ ﺳﺒﺐ اﻟﺒُﺤﺮان وﺗﺨﻨﻖ اﻟﺒﻮل ﰲ اﻷﺳﺎﺑﻴﻊsur les causes des crises et l’ischurie (rétention aiguë d’urine) » 28) ff. 222v-224r : « ﰲ أﻳﺎم اﻷﺑﺮار واﻟ ُﺒﺤﺮانsur les bons jours et les crises » 29) ff. 224r-v : « ﰲ ﻋﻼﻣﺔ اﻟﺒُﺤﺮان اﻟﻜﺎﺋﻦ ﺑﺎﻻﺳﺘﻔﺮاغsur le signe de la crise due au vomissement » 30) ff. 225r-v : « ﰲ ﻋﻼﻣﺔ اﻟ ّﺒﺤﺮان اﻟﻜﺎﺋﻦ ﺑﺎﻻﻧﺘﻔﺎلsur le signe de la crise due au mouvement » 31) ff. 225v-226v : « ﰲ ﻋﻼﻣﺔ اﳌﻨﺬرة ﺑﺎﻟﺴﻼﻣﺔsur les symptômes annonciateurs de la salubrité » 32) ff. 226v-228r : « ﰲ ﻋﻼﻣﺎت اﻟﺮدﻳﺔ اﳌﺄﺧﻮذة ﻣﻦ ﺣﺎﻻت اﻷﺑﺪانsur les signes du mal tiré des changements des corps » 33) f. 228r-229r : « ﰲ اﻟﻌﻼﻣﺎت اﻟﺮدﻳﺔ اﳌﺄﺧﻮذة ﻣﻦ اﻷﻓﻌﺎلsur les signes du mal tiré de l’action ». Ce chapitre n’est pas annoncé dans l’index mais se trouve dans le corps de texte. 34) ff. 229r-230v : « ﰲ اﻟﻌﻼﻣﺎت اﻟﺮدﺋﻴﺔ ﻣام ﻳﱪز اﻟﺒﺪلsur les signes du mal qui apparaissent aux mains, aux articulations » 35) ff. 230v-232v : « ﰲ اﻟﻌﻼﻣﺎت اﻟﺮدﺋﻴﺔ ﻣﻦ اﻷﻣﺮاض أﻧﻔﺴﻬﺎsur les signes du mal pour les maladies des âmes ». Ce chapitre n’est pas annoncé dans l’index mais se trouve dans le corps de texte. Partie V : « ﰲ اﻷﻣﺮاض اﻟﺬي ﺗﺤﺪث ﰲ ﺳﻄﺢ اﻟﺒﺪن وﻫﻲ اﻷورامsur les maladies qui arrivent à la surface du corps et qui sont des tumeurs » 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7)
f. 232v : index ff. 233r-234r : « ﻛﻼم ﰲ اﻷورامpropos sur les tumeurs » ff. 234r-235v : « ﻓﻴام ﻳﺤﺪث ﻣﻦ اﻟﺪمce qui arrive au sang » ff. 235v-236v : « ﻓﻴام ﻳﺤﺪث ﻣﻦ اﻟﺒﻠﻐﻢce qui arrive au flegme » ff. 236v-237r : « ﻓﻴام ﻳﺤﺪث ﻣﻦ اﻟﺼﻔﺮاce qui arrive à la bile » ff. 237r-238r : « ﻓﻴام ﻳﺤﺪث ﻣﻦ اﻟﺴﻮداce qui arrive à la pituite » ff. 238r-240v : « ﻓﻴام ﻳﺤﺪث ﻣﻦ أﻛرث ﻣﻦ ﺧﻠﻂ واﺣﺪce qui arrive avec un mélange de plusieurs éléments » ff. 240v-241r : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﻟﻘﺮوحpropos généraux sur les ulcères » Partie VI : « ﰲ اﻟﺤﻤﻴﺎتsur les fièvres »
1) 2) 3) 4)
f. 241r : index ff. 241r-242v : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﻟﺤﻤﻴﺎتpropos sur les fièvres » ff. 242v-243v : « ﰲ ﺣﻤﻰ ﻳﻮمsur le fièvre journalière » ff. 243v-248r : « ﰲ ﺣﻤﻰ اﻟﻐﺐsur la fièvre récurrente » ff. 248r-249v : « ﰲ ﺗﺮﻛﻴﺐ اﻟﺤﻤﻴﺎت وﻏريهsur la structure des fièvres »
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5) ff. 249v-250v : « ﻛﻼم ﻛﲇ ﰲ اﻟﻨﻔﺎض وﻏريهpropos généraux sur le froid et autres » 6) ff. 250v-252r : « ﰲ ﺣﻤﻰ اﻟﺪقsur la fièvre fine »
1) 2) 3) 4) 5) 6)
Partie VII : « ﰲ اﻟﺴﻤﻮم وﻏريﻫﺎ ﻣﻦ اﻷدوﻳﺔSur les poisons et les antidotes » f. 252r : index ff. 252v : « ﻛﻼم ﰲ ﻛﲇ ذﻟﻚavant-propos » ff. 254r-255r : « ﰲ اﻟﺤﻴﺎتsur les serpents » ff. 255r-257r : « ﻓﻴام ﻫﻮ ﻣﺆزى ﻳﺤﺰر ﻣﻨﻪsur le nuisible qui si mesure » ff. 257r-258r : « ﻓﻴام ﻫﻮ ﻣﺆزى ﺑﺠﻤﻠﺘﻪsur le nuisible dans sa totalité » « ﰲ اﳌﺤﺮقsur les brûlures » annoncé en index mais n’existe pas. ff. 258r-258v : « ﰲ اﳌﺨﺪاتsur les engourdissements des membres »
Il manque les parties suivantes annoncées au début du manuscrit : Partie VIII : « ﰲ أﻣﺮاض آﻻت اﻟﻨﻔﺴﺎﻧﻴﺔSur les maladies de l’appareil psychologique » Partie IX : « ﰲ أﻣﺮاض آﻻت اﻟﺘﻨﻔﺲSur les maladies de l’appareil respiratoire » Partie X : « ﰲ أﻣﺮاض آﻻت اﻟﻐﺬاءDes maladies de l’appareil digestif » Partie XI : « ﰲ أﻣﺮاض آﻻت اﻟﺘﻨﺎﺳﻞSur les maladies de l’appareil génital » Partie XII : « ﰲ أﻣﺮاض اﳌﻔﺎﺻﻞSur les maladies des articulatoires » La transcription de l’œuvre d’Ibn al-Quff est donc incomplète mais fort heureusement il y a un colophon qui va révéler de précieuses informations. Voici le texte arabe tel qu’il se présente à la lecture au f. 259r :
وﻛﺘﺒﻪ ﺑﺨﻄﻪ داود اﺑﻦ ﻳﻌﻘﻮب اﳌﺴﻴﺤﻲ اﻗﻞ اﳌﺴﺘﻌﻠني ﺑﺼﻨﺎﻋﻪ اﻟﻄﺐ ﻟﻨﻔﺴﻪ وواﻓﻖ اﻟﻔﺮاغ ًﻣﻨﻪ ﻳﻮم اﻟﺠﻤﻌﺔ ﻋﺎﴍ ﺷﻬﺮ ﺷﻌﺒﺎن ﺳﻨﻪ ﺳﺒﻌني وﺳﺘامﻳﻪ ﻫﺠﺮﻳﻪ واﻟﺤﻤﺪ ﻟﻠﻪ داميﺎ Le catalogue de Mai nous offre seulement la traduction suivante : « Et exaravit hunc librum manu sua David filius Iacobi almasihi medicae artis peritorum minimus. Completus autem fuit die decima sciaabam, anno hegirae sexcentissimo. Et laus Deo semper ».
Le seul mot « difficile » du colophon est اﳌﺴﺘﻌﻠنيqu’Assemani traduit par « peritorum » complétant ainsi la ponctuation en lisant اﳌﺸﺘﻐﻠني. Cette lecture est cohérente et ne suscite pas d’objection. Voici une traduction en français du colophon : « Dâwûd ibn Ya‘qûb al-masíüí, le plus petit parmi les praticiens en sciences
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médicales, a écrit ce livre de sa main et pour lui-même. Il l’a achevé le vendredi 10 du mois ša‘bân de l’année 670 de l’hégire. Et gloire à Dieu pour toujours. »
Assemani ne relève pas dans sa traduction le caractère très personnel ( )ﻟﻨﻔﺴﻪde cet exemplaire qui est pourtant confirmé par d’autres indices. L’évolution de la justification et du nombre de lignes par folio, la qualité de la calligraphie — qui sans être illisible est loin d’égaler celle des scribes professionnels de la même époque. Par ailleurs, dans les parties existantes, certains chapitres annoncés en index ne sont pas reproduits ou encore des chapitres sont dans le corps du texte sans avoir été annoncés en index. Tout ceci montre que ce manuscrit n’était ni une commande ni destiné à la vente. Dans sa notice, Assemani suppose qu’il existe un deuxième volume dans lequel se trouvent la suite et la fin de l’œuvre d’Ibn al-Quff. En dehors de son appréciation personnelle, Assemani s’appuie sur le desinit de la septième partie qui annonce la huitième. Pour ma part je ne suis pas certain que ce deuxième volume ait existé. Le desinit de la septième partie ne diffère pas beaucoup des desinits des parties précédentes, ce n’est donc pas un argument décisif pour justifier l’existence des autres parties dans un second volume. Il est tout à fait possible, par exemple, que ce médecin n’ait pas eu le temps de recopier entièrement l’ouvrage ou bien que les parties qu’il recopiées lui étaient suffisantes. D’autres suppositions peuvent expliquer l’absence du deuxième volume. Quoiqu’il en soit, prenant en considération les thèmes des autres œuvres d’Ibn al-Quff tout en regardant attentivement le contenu de ce manuscrit, cette encyclopédie de médecine apparait comme une présentation générale de la médecine, une introduction d’un niveau soutenu sans être spécialisée. D’autre part, Harmaneh souligne dans une notice biographique sur Ibn al-Quff ses qualités pédagogiques : « Despite his absorbing responsibilities as physician-surgeon for the Mamelouk army, Ibn al-Quff was the bestknown medical educator of his time in Syria »10. Mon intuition est que le Kitâb al-Šafí fí al-Ýibb est une mise en forme élaborée de l’enseignement d’Ibn al-Quff. Puissent de meilleurs spécialistes de l’histoire de la médecine arabe s’emparer de ce manuscrit et ainsi infirmer ou confirmer mon intuition.
10 S. K. HAMRANEH, Ibn al-Quff, in Dictionnary of Scientific Biography, XI, New York 1975, pp. 238-239.
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Planche I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. ar. 183, f. 117r.
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NUOVI DATI PER UNA STORIA DEI CODICI MESSICANI DELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA* I codici mesoamericani di età preispanica e coloniale Tra le più importanti testimonianze pervenuteci dalla Mesoamerica precolombiana si annoverano i libri, o codici, i cui testi pittografici o logofonetici costituivano elementi fondamentali per la conservazione e la riproduzione della memoria culturale delle società indigene. Detti huun nelle lingue maya e amoxtli nella lingua náhuatl del Messico centrale, i codici erano generalmente costituiti da strisce di carta di corteccia o di pelle animale piegate a fisarmonica e ricoperte da un’imprimitura in gesso o calce, sulla quale i pittori tracciavano le immagini e i testi. Grazie a rappresentazioni iconografiche precoloniali e a fonti storiche coloniali, sappiamo che i popoli mesoamericani produssero un’ingente quantità di volumi dipinti, conservati a migliaia nelle grandi biblioteche delle antiche capitali. Ciononostante, l’inclemenza del clima tropicale e le distruzioni operate durante la conquista spagnola e il successivo processo di “estirpazione dell’idolatria” hanno fatto sì che il patrimonio librario mesoamericano precoloniale sia andato quasi completamente perduto: solo quattordici codici preispanici, oggi conservati in biblioteche europee e messicane, sono infatti giunti sino a noi. Fragili testimonianze di un universo intellettuale caduto in gran parte nell’oblio, quei quattordici manoscritti riccamente dipinti costituiscono oggi un vero e proprio tesoro di inestimabile valore culturale. I codici mesoamericani sono stati tradizionalmente suddivisi, sulla base di caratteristiche tematiche e stilistiche, in tre gruppi, tutti datati tra il XV e gli inizi del XVI secolo e provenienti da tre diverse aree culturali del * L’autore desidera in primo luogo ringraziare il dott. Paolo Vian, direttore del Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana, per aver sollecitato la scrittura del presente testo e per l’interesse mostrato nei confronti delle ricerche relative ai codici messicani. Un ringraziamento va anche a Silvia Danesi Squarzina e Luisa Capoduro per la collaborazione relativa all’analisi delle grafie dell’inventario della Guardaroba di Benedetto Giustiniani. Infine, un caloroso ringraziamento va a Laura Laurencich Minelli che per prima ha suscitato l’interesse per la storia del collezionismo americanistico in Italia e che ha discusso con l’autore molti dei temi trattati nel presente articolo. La responsabilità di ogni opinione, errore o imprecisione è comunque da attribuirsi esclusivamente a chi scrive. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 341-362.
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Messico antico: i codici maya (codici di Madrid, Dresda, Parigi e codice Grolier), i codici mixtechi provenienti dalla regione Mixteca di Oaxaca (codici Nuttall, Vindobonensis, Bodley, Selden e Becker-Colombino) e i codici del cosiddetto Gruppo Borgia, provenienti dalla regione di Puebla-Tlaxcala (codici Borg. mess. 1, Vat. lat. 3773, Cospi, Laud e Fejérváry-Mayer). Se i codici maya e quelli del Gruppo Borgia contengono essenzialmente testi di carattere calendariale, astronomico, divinatorio e rituale, quelli mixtechisono invece caratterizzati da una preponderanza di informazioni di carattere mitologico e storico-genealogico1. All’indomani della conquista spagnola la produzione di codici non solo non venne del tutto interrotta ma in alcuni casi fu addirittura incentivata da funzionari e missionari europei interessati allo studio delle tradizioni religiose indigene o al reperimento di informazioni storiche ed economiche. I codici coloniali, dipinti da artisti indigeni con immagini il cui stile tradisce il progressivo avanzare del processo di ibridazione culturale, furono sovente glossati con testi alfabetici in lingue indigene o europee2. Tali testi contengono informazioni di primaria importanza per comprendere il contenuto dei codici pittografici e in alcuni casi hanno costituito delle vere e proprie “stele di Rosetta” per la decifrazione dei sistemi indigeni di scrittura. Come è facile immaginare, l’analisi dei quattordici codici preispanici tuttora esistenti costituisce da oltre due secoli uno degli ambiti principali degli studi mesoamericanistici. La sopravvivenza di questi rarissimi manoscritti si deve principalmente al fatto che essi giunsero in Europa all’indomani della Conquista, inviati a sovrani e pontefici insieme ad altri oggetti preziosi in qualità di testimonianze del Nuovo Mondo e dell’inattesa umanità che lo popolava. Molti dei codici e degli oggetti inviati in Europa suscitarono però solo una passeggera curiosità e andarono comunque per1 Per un’introduzione generale ai codici mesoamericani si vedano J. GLASS, A Survey of Native Middle American Pictorial Manuscripts e J. GLASS – D. ROBERTSON, A Census of Native Middle American Pictorial Manuscripts, entrambi in Handbook of Middle American Indians, 14: Guide to Ethnohistorical Sources, Austin 1975; P. ESCALANTE GONZALBO, Los códices mesoamericanos antes y después de la conquista española. Historia de un lenguaje pictográfico, México 2010. Sui codici del Gruppo Borgia si veda E. HILL BOONE, Cycles of Time and Meaning in the Mexican Books of Fate, Austin 2007; sui codici mixtechi si veda M. JANSEN – G. A. PÉREZ JIMÉNEZ, The Mixtec Pictorial Manuscripts. Time, Agency and Memory in Ancient Mexico, Leiden 2011; sui codici maya di veda G. VAIL, The Maya codices, in Annual Review of Anthropology 35 (2009), pp. 497-519. In queste pubblicazioni è possibile reperire bibliografia specifica sui singoli codici, così come riferimenti alle diverse edizioni facsimilari. Fotografie e brevi commenti della maggior parte dei codici preispanici sono disponibili on-line nel sito della Foundation for the Advancement of Mesoamerican Studies (www.famsi.com). 2 Per un’interessante analisi della produzione di codici pittografici nel Messico coloniale si veda S. GRUZINSKI, La colonizzazione dell’immaginario, Torino 1994.
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duti, come dovette accadere, ad esempio, a gran parte di quelli inviati alla corte spagnola. Altri entrarono invece a far parte di collezioni d’arte e “camere delle meraviglie” di intellettuali laici ed ecclesiastici di diversi paesi europei, contribuendo in modo sostanziale alla formazione dell’immagine dell’America che l’Europa andava costruendo nel corso del XVI secolo. Lo studio della storia europea dei codici mesoamericani costituisce evidentemente un tema di grande interesse, sia per ricostruire i dettagli di un importate capitolo della cultura europea rinascimentale, sia per ottenere informazioni relative alla provenienza e alla “biografia” europea dei pochi codici mesoamericani oggi esistenti. Ciononostante, le informazioni relative alla storia dei singoli codici sono il più delle volte vaghe e frammentarie, spesso del tutto silenti sui dettagli del loro arrivo in Europa. Di recente, però, la rivalutazione di alcuni testi precedentemente negletti dagli studiosi mesoamericanisti e il reperimento di nuovi documenti hanno permesso di far luce sulla storia di alcuni codici messicani giunti in Italia negli anni ’30 del ’500. Tra questi è probabile che si debbano riconoscere i due codici messicani precoloniali oggi alla Biblioteca Apostolica Vaticana, la cui storia europea riconsiderata alla luce delle recenti ricerche è oggetto del presente articolo. I codici messicani della Biblioteca Apostolica Vaticana Il corpus di codici messicani della Biblioteca Apostolica Vaticana è uno dei più rilevanti al mondo, essendo costituito da ben due codici preispanici (Borg. mess. 1 e Vat. lat. 3773) e da un importante codice coloniale (Vat. lat. 3738). Il codice Borgiano Messicano 1, più comunemente noto tra i mesoamericanisti come codice Borgia, è costituito da sedici pezzi di pelle animale (probabilmente cervo o antilocapra americana) incollati in modo da ottenere un’unica fascia alta circa 27 cm e lunga 10,315 m; la fascia fu poi piegata a fisarmonica in modo da ottenere 39 pagine quadrate di 27 × 26,5 cm. L’intera superficie di entrambi i lati del codice è coperta da uno strato bianco — probabilmente di gesso — sul quale furono realizzate le pitture, ad eccezione della prima e dell’ultima pagina, lasciate in bianco. Oggi il codice non presenta copertine; in passato, quando già privo delle copertine originali, vi vennero apposte due copertine di legno, poi asportate alla fine del XVIII secolo e utilizzate per costruire una sorta di cartella nella quale il codice si conserva tuttora. Dal punto di vista del contenuto, il codice Borgia contiene strumenti calendariali e astrologici e immagini di divinità e cerimonie, utilizzati dai sacerdoti nativi per fini rituali e divinatori. I diversi studiosi che si sono
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dedicati all’interpretazione del contenuto lo hanno diviso in sezioni tematiche, il cui numero varia tra 23 e 29. Il codice Borgia è il manoscritto eponimo del cosiddetto Gruppo Borgia, al quale appartengono anche i codici Vat. lat. 3773, Cospi (Biblioteca Universitaria di Bologna), Laud (Bodleian Library di Oxford) e FejérváryMayer (World Museum di Liverpool). I manoscritti del Gruppo Borgia condividono aspetti formali, stilistici e di contenuto, trattandosi in tutti i casi di testi di carattere prevalentemente calendarico/divinatorio. Nel complesso si ritiene che tutti datino a un periodo compreso tra il XV e gli inizi del XVI secolo e che provengano genericamente dalla regione di PueblaTlaxcala, anticamente occupata da gruppi indigeni Nahua Orientali. Diverse peculiarità dei singoli codici del Gruppo Borgia permettono comunque di stabilire ulteriori suddivisioni interne al gruppo stesso, probabilmente dovute aspecifiche aree di provenienza. Per quel che riguarda il codice Borgia, il suo elegante stile pittorico, uno dei migliori esempi che ci siano giunti dall’antico Messico, per certi versi simile a quello del recto del codice Cospi e alle pitture murali di siti archeologici come Ocotelolco e Tizatlan, suggerisce che possa provenire da Cholula, città-santuario che fu uno dei principali centri culturali Messico antico3. Lo studio moderno del codice Borgia si può far rimontare al lavoro del gesuita José Lino Fábrega, pubblicato nel 1899 ma realizzato allo scadere del XVIII secolo su richiesta dell’allora possessore del manoscritto, il Cardinale Stefano Borgia4. Tra le più importanti edizioni moderne, ricordiamo quella realizzata da Lord Kingsborough5 con riproduzioni litografiche di Agostino Aglio, quella finanziata dal Duca di Loubat con prefazione di F. Ehrle6, per la quale Eduard Seler scrisse un fondamentale commento7, quella commentata da K. A. Nowotny8, quella con commento di F. Anders e M. Jansen9 e infine quella recentemente realizzata dalla Biblioteca Apostolica Vaticana con commento di J. J. Batalla Rosado10. 3
HILL BOONE, Cycles of Time cit., pp. 227-28. J. L. FÁBREGA, Interpretación del Códice Borgiano, in Anales del Museo Nacional de México 5 (1899), pp. 1-260. 5 E. K. KINGSBOROUGH, LORD, Antiquities of Mexico, London 1830-1848. 6 F. EHRLE, Il Manoscritto Borgiano Messicano 1, Roma 1896. 7 E. SELER, Codex Borgia, Eine Altmexikanische Bilderschrift der Bibliothek der Congregatio de Propaganda Fide, Berlin 1904-09. 8 K. A. NOWOTNY, Codex Borgia, Graz 1976. 9 F. ANDERS – M. JANSEN – REYES GARCÍA, Los templos del cielo y de la oscuridad: Oráculos y Liturgia. Libro explicativo del llamado Códice Borgia, Mexico 1993. 10 J. J. BATALLA ROSADO, Codex Borgia, Madrid 2008. Tra gli altri importanti studi sui codici del Gruppo Borgia vale la pena menzionare almeno quelli di B. SPRANZ, Los Dioses en los Codices Mexicanos del Grupo Borgia, Mexico 1964; K. A. NOWOTNY, Tlacuilolli, die mexika4
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Il codice Vat. lat. 3773, anch’esso membro del Gruppo Borgia e comunemente noto tra i mesoamericanisti come codice Vaticano B, condivide con il codice Borgia molti aspetti formali e di contenuto, essendo anch’esso di tipo calendarico-divinatorio. Il codice è composto da dieci pezzi di pelle animale uniti in un’unica striscia di 7,24 m di lunghezza, ripiegata “a fisarmonica” per formare 49 pagine di 145 × 125 mm. Tutte le pagine sono coperte da un’imprimitura bianca e dipinte su entrambi i lati, eccezion fatta per la prima e l’ultima, incollate alle copertine. Il Vat. lat. 3773 è infatti uno dei due soli codici preispanici che conservano le copertine originali: mentre il codice Laud è protetto da copertine in pelle di felino, nel caso del Vat. lat. 3773 si tratta di copertine lignee, la prima delle quali presenta ancora un frammento degli inserti di turchese che la decoravano. Con le sue 96 pagine dipinte il Vat. lat. 3773 è uno dei più lunghi codici preispanici oggi conosciuti. Sebbene dipinto in uno stile meno raffinato rispetto a quello degli altri membri del Gruppo Borgia, l’ampiezza del suo contenuto, suddiviso in 28 diverse sezioni, ne fa uno dei più rilevanti; la complessità del manoscritto è peraltro accresciuta dal fatto che almeno sei delle sue pagine furono anticamente ricoperte da una nuova imprimitura e ridipinte, utilizzando una paletta cromatica diversa da quella usata nella pittura originale. Come nel caso del codice Borgia, l’esatta area di provenienza del Vat. lat. 3773 è ignota: se in termini generali l’area di Puebla-Tlaxcala rimane la più probabile regione di provenienza della maggior parte dei codici del Gruppo Borgia, la presenza nel Vat. lat. 3773 di alcune convenzioni iconografiche di tipo mixteco fa supporre che esso possa provenire dalla regione di confine tra gli attuali stati di Puebla e Oaxaca11. Anche nel caso del codice Vat. lat. 3773, la storia del suo studio moderno si può far risalire al lavoro di José Lino Fábrega, che rinvenne il codice nella Biblioteca Apostolica Vaticana nel 178512. Seguirono poi le edizioni di Lord Kingsborough con riproduzioni litografiche di Agostino Aglio13, del Duca di Loubat con prefazione di Franz Ehrle14 e più tardo commen-
nischen Bilderhandschriften, Stil und Inhalt, mit einem Katalog der Codex Borgia Gruppe, Berlin 1961; B. BYLAND, Introduction, in The Codex Borgia: A Full-Color Restoration of the Ancient Mexican Manuscript, London 1991, oltre al già menzionato E. HILL BOONE, Cycles of Time cit. 11 HILL BOONE, Cycles of Time cit., 228-229. 12 FÁBREGA, Interpretación cit. 13 E. K. KINGSBOROUGH, Antiquities of Mexico cit.. 14 F. EHRLE, II Manoscritto Messicano Vaticano 3773. Roma 1896.
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to di Eduard Seler15, quella con commento di F. Anders (1972)16, e infine quella commentata da F. Anders e M. Jansen (1993)17. Il codice Vat.lat. 3738, noto anche come codice Ríos o, più comunemente tra gli studiosi mesoamericanisti come codice Vaticano A, è un libro di tipo europeo composto da 102 fogli di carta europea, in folio. Originalmente rilegato in pelle nera, come attesta un inventario del 1596 (cfr. infra), nella seconda metà del XIX secolo il volume fu nuovamente rilegato con la copertina in pelle rossa che ancora oggi lo caratterizza, ornata dagli stemmi di Pio IX (1847-78) e del cardinale bibliotecario Pitra (1869-89); nella rilegatura alcuni fogli furono mal piegati causando errori di paginazione e dobbiamo a F. Ehrle la ricostruzione dell’ordine originale, in seguito ulteriormente corretta da F. Anders e M. Jansen18. Gran parte delle pagine del codice contengono pitture accompagnate da un lungo testo italiano incompleto, già che giunge solo sino al f. 67r. Le immagini dipinte, che mostrano uno stile per certi versi grezzo ma comunque riferibile a un pittore indigeno19, sembrano essere state tracciate in diverse sessioni pittoriche mentre, a giudicare dall’uso di due diversi inchiostri, il testo alfabetico fu scritto in due momenti distinti (non è chiaro se da un unico autore o da due diverse mani). Dal punto di vista del contenuto, il Vat. lat. 3738 è composto da una serie di sezioni dedicate a temi diversi, separate da alcune pagine bianche: cosmologia e mitologia (ff. 1v-11v), computo dei giorni del calendario divinatorio o tonalpohualli (ff. 12v-37r), tavole cronologiche degli anni 15581619 (ff. 38v-40r), descrizione delle celebrazioni svolte in occasione dei “mesi” o ventine del calendario solare (ff. 42v-51r), trattazione “etnografica” di riti e costumi degli indigeni (ff. 54r-61v) e narrazione annalistica che giunge sino all’anno 1562 (ff. 66v-96v). Il contenuto pittorico di alcune di queste sezioni — in particolare di quelle mitologiche, calendariche e storiche che avevano chiari antecedenti in codici precoloniali — è pressoché identico a quello del codice Telleriano Remensis, oggi alla Biblioteca Nazionale di Francia. Si tratta di un codice coloniale le cui pitture, opera di 15
E. SELER, Codex Vaticanus Nr. 3773. Eine altmexikanische Bilderschrift der Vatikanischen Bibliothek, Berlin 1902. 16 Códice vaticano 3773 (“B”), edición facsimllar con Introducción de Ferdinand Anders, Graz 1972. 17 F. ANDERS – M. JANSEN, Manual del Adivino. Libro explicativo del llamado Códice Vaticano B. Codex Vaticanus 3773 Biblioteca Apostólica Vaticana, Graz 1993. 18 F. EHRLE, Il Manoscritto Messicano 3738 detto il codice Ríos, Roma 1900, pp. 17-18; F. ANDERS – M. JANSEN, Religión, costumbres e historia de los antiguos mexicanos. Libro explicativo del llamado codice Vaticano A. Codex Vatic. Lat. 3738 de la Biblioteca Apostolica Vaticana, Graz-México 1996, p. 12. 19 ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., p. 23.
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un pittore indigeno, furono copiate probabilmente tra il 1553 e il 1555 da uno o più codici precoloniali oggi perduti. Le pitture furono poi glossate in spagnolo tra il 1555 e il 1563 da almeno sei diversi autori; quattro di questi autori (uno o due dei quali dovettero essere indigeni o meticci) svolsero la maggior parte del lavoro di glossatura; l’ultimo dei quattro — attivo tra il 1558 e il 1563 nel convento di Puebla — fu il frater laicus dell’Ordine dei Predicatori Pedro de los Ríos, defunto nel 156520. La parte dipinta del Vat. lat. 3738 fu probabilmente realizzata nel 1562 (ultimo anno rappresentato pittoricamente nella sezione annalistica). Se alcuni autori ritengono che il Vat. lat. 3738 sia stato direttamente copiato dal Telleriano Remensis, F. Ehrle e B. Reina supposero invece l’esistenza di un manoscritto intermedio21. F. Paso y Troncoso22, seguito poi da E. Thompson, immaginò invece un prototipo comune, che R. Barlow chiamò “codice Huitzilipochtli”. Questa ipotesi è stata poi smentita da E. Quiñones Keber che, dimostrando la dipendenza delle glosse del Vat. lat. 3738 da quelle del Telleriano Remensis, ha chiarito che il primo è copia del secondo o, più probabilmente, di un manoscritto da questo derivato. Mentre secondo F. Ehrle, J. Glass e D. Robertson il Vat. lat. 3738 potrebbe essere stato dipinto in Italia, presumibilmente da un artista non indigeno, secondo F. Anders e M. Jansen, si tratterebbe comunque di un’opera di un pittore indigeno, il cui lavoro potrebbe essere stato commissionato dallo stesso Pedro de los Ríos nel convento di Puebla, mentre lui ancora lavorava alle glosse del Telleriano Remensis23. Tra il 1562 e il 1565-66 (anno d’ingresso del codice nella Biblioteca Vaticana, cfr. infra) vennero aggiunti, da due diverse 20 Sul codice Telleriano Remensis si veda E. QUIÑONES KEBER, Codex Telleriano-Remensis, Austin 1995. Sulla ricostruzione della vita di Pedro de los Ríos si vedano W. JÍMENEZ MORENO – MATEOS HIGUERA, Ambiente Histórico del Códice, in codice de Yanhuitlán, México 1940, p. 72: QUIÑONES KEBER, Codex Telleriano cit., pp. 130-132; ANDERS E JANSEN, Religión, costumbres cit., p. 24. Sulla relazione tra Vat. lat. 3738 e Telleriano Remensis si veda la sintesi in QUIÑONES KEBER, Codex Telleriano cit., pp. 129-130. L’identificazione di Pedro de los Ríos come autore di parte dei testi del Telleriano Remensis si deve al confronto tra due glosse del Vat. lat. 3738 e del Telleriano Remensis relative a una guerra svoltasi nel villaggio di Coatlan: se nel Vat. lat. 3738 si dice che Pedro de los Ríos presenziò agli eventi, nel Telleriano Remensis l’autore descrive gli stessi eventi usando la prima persona; cfr. QUIÑONES KEBER, Codex Telleriano cit., pp. 130-131. 21 EHRLE, Il Manoscritto Messicano 3738 cit., pp. 21-22; B. REINA, Algunas observaciones acerca del codice Vaticano 3738 o codice Ríos, in El México Antiguo 2 (1925), pp. 212-219. 22 F. PASO Y TRONCOSO, Descripción, historia y exposición del codice pictórico de los antiguos Nauas que se conserva en la Biblioteca de la Cámara de Diputados de París, Firenze 1898, p. 350. 23 GLASS – D. ROBERTSON, A Census cit., pp. 138-186; M. JANSEN, El Códice Ríos y fray Pedro de los Ríos, in Boletín de Estudios Latinoamericanos y del Caribe 36 (1984), pp. 69-82; ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., p. 29.
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mani24, i testi italiani che dichiarano esplicitamente la loro dipendenza dal lavoro di Pedro de los Ríos e quindi dal codice Telleriano Remensis. Inoltre, il fatto che il Vat. lat. 3738 contenga informazioni sull’area di Oaxaca che sono invece assenti nel Telleriano Remensis ha suggerito a F. Anders e M. Jansen che queste derivassero direttamente da Pedro de los Ríos25. Nella sezione annalistica, il Vat. lat. 3738 non contiene alcun testo esplicativo (presente invece nel Telleriano Remensis) il che indica che il testo italiano rimase incompiuto, forse proprio in seguito alla morte di Pedro de los Ríos. La redazione in italiano del testo esplicativo del Vat. lat. 3738, la sua elegante grafia e le grandi dimensioni del volume suggeriscono che il codice sia stato prodotto con l’esplicita intenzione di inviarlo a Roma; tale ipotesi sembra confermata dal fatto che il testo italiano, non limitandosi a tradurre le scarne glosse del Telleriano Remensis, si dilunga in riflessioni teologiche facendo spesso ricorso a interpretazioni demoniache della religione indigena, alla sua presunta relazione con la tradizione ebraica e a comparazioni con il paganesimo greco-romano e con il Cristianesimo stesso26. A soddisfare la curiosità di un pubblico europeo è chiaramente rivolta anche la sezione “etnografica”, copiata da un manoscritto ignoto ma priva sia di antecedenti preispanici che di un corrispettivo nel Telleriano Remensis. In quanto agli autori del testo italiano, i frequenti ispanismi lasciano supporre che si trattasse di spagnoli che conoscevano la lingua italiana. Curiosamente, il Vat. lat. 3738 contiene molti errori di copiatura di nomi indigeni che sono invece scritti correttamente nel Telleriano Remensis, come se i redattori del testo italiano non avessero molta familiarità con nomi e lingue indigene. Lo studio moderno del Vat. lat. 3738 può essere fatto risalire ancora una volta a José Lino Fábrega, il quale ne diede un’accurata descrizione nel suo studio dedicato al codice Borgia27. Brevemente menzionato insieme al Vat. lat. 3773 e al Borgia anche da Alexander von Humboldt che per primo ne notò la relazione con il codice Telleriano Remensis da lui osservato a Parigi, il codice fu per la prima volta interamente riprodotto in litografie a colori — pur con errori di paginazione — nell’opera di Lord Kingsborough, Antiquities of México28. Tra le successive edizioni del codice meritano di essere ricordate quella cromofotografica finanziata dal Duca di Loubat e 24 La prima mano si riconosce nei ff. 1v-51r; 66v-67r; 73v, mentre la seconda compare ai ff. 54r-61v. 25 ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., pp. 26-27. 26 Ibid., pp. 31-33. 27 FÁBREGA, Interpretación cit. 28 KINGSBOROUGH, Antiquities of Mexico cit.
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corredata da una prefazione di F. Ehrle29, l’edizione fotografica in formato ridotto della Secretaria de Hacienda del Messico commentata da J. Corona Nuñez30, il facsimile fotografico pubblicato a Graz31 e la già citata edizione dello stesso facsimile fotografico corredato da un eccellente studio di F. Anders e M. Jansen32, nel quale è possibile consultare sia la più accurata trascrizione del testo italiano che la sua migliore traduzione in spagnolo33. La storia italiana dei tre codici messicani della Biblioteca Apostolica Vaticana Prima di procedere alla presentazione dei nuovi dati che paiono far luce su alcuni aspetti della storia europea di alcuni dei codici messicani della Biblioteca Apostolica Vaticana è bene riassumere quanto di questa storia è stato ad oggi ricostruito. Per farlo, rimangono ancora oggi fondamentali gli studi che padre F. Ehrle, in qualità di prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana tra il 1895 e il 1914, pubblicò come introduzioni alle edizioni finanziate dal Duca di Loubat; su tali studi e sulle importanti integrazioni apportate da studi successivi, tra i quali spiccano quelli di Anders, Jansen e Reyes Garcia, è fondata la sintesi che si presenta di seguito34. Come rilevato da padre Ehrle35, la più antica registrazione diretta della presenza di codici messicani nella Biblioteca Apostolica Vaticana si trova nella minuta dell’inventario dei primi 6025 codici latini compilato da alcuni membri della famiglia Rainaldi, ai quali si deve la numerazione oggi in uso36. Al f. 168v della minuta, redatta da Domenico o Marino Rainaldi tra il 1596 e il 1600, si legge: 29
F. EHRLE, // manoscritto messicano Vaticano 3738 detto il Codice Rios, Roma 1900. J. CORONA NUÑEZ, Antigüedades de México, basadas en la recopilación de Lord Kingsborough (I-IV), México 1964-1967. 31 Códice vaticano 3738 (“A”), Graz 1979. 32 ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., 33 Oltre ai commenti alle edizioni e ai lavori citati in precedenza, vale la pena menzionare qui altri studi rilevanti per la storia del codice Vat. lat. 3738: G. KUBLER – C. GIBSON, The Tovar Calendar, New Haven 1951; D. ROBERTSON, Mexican Manuscript Painting of the Early Colonial Period: the Metropolitan Schools, New Haven 1959; E. QUIÑONES KEBER, Collecting Cultures: A Mexican Manuscript in the Vatican Library, in Reframing the Renaissance: Visual Culture in Europe and Latin America 1450-1650, a cura di C. FARAGO, New Haven 1995, pp. 229-242; P. MASON, The Purloined Codex, in Journal of the History of Collections 9 (1997), pp. 1-30. 34 EHRLE, Prefazione cit.; ID., Il Manoscritto cit.; ID., Introduzione cit.; ANDERS, Der Codex Vaticanus 3773 cit.; ANDERS – JANSEN – REYES GARCÍA, Los templos del cielo y de la oscuridad cit.; ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit.. 35 EHRLE, Prefazione cit., pp. 5-6; ID., Introduzione cit., pp. 9-10. 36 L’inventario Rainaldi si conserva nel codice Vat. lat. 6946, ai cui ff. 169r e 169v si trovano le menzioni dei due codici messicani. 30
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3738. Indorum cultis, idolatria et mores «Homeyoca, questo volendo dire» 17*¬ [188] Item in fine reconditur cartula in corticibus, allata à Iapone. Ex papyro, in nigro, c[artae] s[criptae] n[umero] 95, m[odernus] in folio magno. […] 3773. Indorum cultis, delineamente et effigies ac Hie- 23*¬ [192] roglifica, ex papyro, cum tabulis, quae quidem papyrus septem digitis lata se in longum extendit per palmos xxxi, ab utroque latere depicta, postea vero plicata formam libelli desumit.
Le stesse descrizioni, con alcuni cambiamenti minori, furono poi trascritte dopo il 1613 nel tomo IV, f. 434, della bella copia dell’inventario. Sulla base delle annotazioni sul lato destro della minuta, e cioè della presenza di un numero seguito da una “stelletta con piccola coda” (qui riprodotta come *¬), Ehrle dedusse che i codici Vat. lat. 3738 e 3773 — non menzionati nell’inventario redatto nel 1555 da Marcello Cervini — facessero parte di un gruppo di 64 manoscritti entrati nella biblioteca tra il 1555 e il 1596; in questo gruppo, di origine ignota e contenente diversi manoscritti orientali, i due codici messicani erano numerati rispettivamente con i numeri 17 e 23. L’arrivo del Vat. lat. 3738 — di chiara origine domenicana — all’inizio di questo lasso di tempo potrebbe significativamente coincidere con il pontificato di Pio V (1566-1572), membro dell’Ordine dei frati Predicatori. Un’ulteriore prova della presenza di codici messicani nella Biblioteca Apostolica Vaticana sin dalla seconda metà del XVI secolo è costituita dal breve accenno che Michele Mercati ne fece nel suo Degli obelischi di Roma (1589) dove, descrivendo alcune modalità della scrittura dei Messicani, concluse con la frase “come si può vedere in due libri della libraria vaticana ritratti da gli esemplari stessi venuti dal Messico”37. Nel suo commento al Vat. lat. 3773, F. Ehrle, seguito in questo anche da autori successivi, suppose che il Mercati si riferisse proprio ai codici Vat. lat. 3738 e 377338. 37 M. MERCATI, Gli obelischi di Roma, a cura di G. CANTELLI, Bologna 1981, p. 111. Dal momento che il Mercati scrisse la sua opera durante il viaggio in Polonia, Boemia e Austria al seguito del Cardinale Ippolito Aldobrandini, dobbiamo dedurre che il Mercati abbia visto i codici prima del 1588, anno della sua partenza da Roma. Degno di nota è il fato che il Mercati certamente conobbe l’opera di Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre et profane (1582), dove l’autore menziona brevemente le pittografie messicane. Come vedremo più sotto, l’oggi dispersa biblioteca della famiglia Paleotti includeva certamente un codice messicano, nessuna menzione del quale si fa purtroppo nella succitata opera. Sulla storia della redazione del lavoro di Michele Mercati, così come sulle relazioni tra questi e Gabriele Paleotti e sulla possibilità che i due si siano incontrati per discutere anche di geroglifici messicani si vedano G. CANTELLI, Pitture messicane, caratteri cinesi e immagini sacre: alle fonti delle teorie linguistiche di Vico e Warburton, in Studi Filosofici, 1978, pp. 147-220; G. CANTELLI, Introduzione”, in Michele Mercati, Gli obelischi di Roma, Bologna, 1981, pp. 9-38. 38 EHRLE, Prefazione cit., pp. 9-10; ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., p. 12.
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Un successivo e ben noto riferimento ai codici messicani è quello contenuto nelle edizioni del 1615 e del 1626 dell’opera di Vincenzo Cartari Immagini delli Dei de li antichi, nelle quali Lorenzo Pignoria aggiunse un suo Discorso o seconda parte delle imagini degli Dei indiani. Nelle pagine dovute al Pignoria si trovano infatti delle stampe di divinità messicane tratte dal codice Vat. lat. 3738. Stando a quanto asserisce lo stesso Pignoria, le immagini pubblicate per la prima volta nell’edizione del 1615 furono copiate da alcune carte avute dal senatore Ottaviano Malipiero e che sarebbero appartenute al cardinale Amulio39, Cardinale Bibliotecario della Biblioteca Apostolica Vaticana tra il 1565 e il 1566. Nell’edizione del 1626 venne aggiunta un’ulteriore immagine che, secondo il Pignoria, fu copiata da un disegno di Filippo Vinghernio di Tournay (Philip de Winghe), il quale “asseriva d’haverla cavata da un libro grande, che è nella Libreria Vaticana, compilato da fra Pietro de los Ríos”40. Se l’Amulio fece copiare alcune immagini del codice durante il suo cardinalato, la data del 1565-66 costituirebbe la miglior indicazione cronologica relativa all’entrata del Vat. lat. 3738 nella Biblioteca Vaticana. Tale data è compatibile con l’ipotesi, da me formulata in altro lavoro, che il codice possa essere stato portato a Roma dal frate domenicano Juan de Córdova, giunto dal Messico a Roma ben due volte tra il 1561 e il 156441. 39
L. PIGNORIA, Discorso o seconda parte delle imagini degli Dei indiani, in V. CARTARI, Immagini delli Dei de li antichi, Pietro Paolo Tozzi, Padova 1615: xxiii e segg. Le “carte del’Amulio” sono probabilmente da identificarsi con il Ms. 1551 della Biblioteca Angelica: cfr. J. SEZNEC, Un essai de mythologie comparée au debut du XVII siècle, in Mélanges d’histoire et d’archéologie (1931), pp. 268-81; JANSEN, El Códice Ríos cit., p. 78; ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., p. 15, n. 3; MASON, The Purloined Codex, p. 19. 40 L. PIGNORIA, Discorso o seconda parte delle imagini degli Dei indiani, in V. CARTARI Immagini delli Dei de li antichi, Pietro Paolo Tozzi, Padova 1626, p. 550. I disegni del De Winghe si conservano oggi alla Biblioteca Angelica, Ms. 1564. Vi compaiono il Quetzalcoatl del fol. 31r del Vat. lat. 3738 e il guerriero azteco del fol. 58r, oltre alla nota dove il De Winghe menziona esplicitamente l’ “ingenti libro, qui est Romae in bibliotheca vaticana […] quem collegit et compilavit F. Petrus a Rios Hispanus ordinis Praedicatorum”, notizia che il De Winghe lesse direttamente nel testo del Vat. lat. 3738. A tal proposito si vedano D. ROBERTSON, Mexican Indian art and the Atlantic filter. Sixteenth to eighteenth centuries, in First Images of America. The impact of the New World on the Old, a cura di F. CHIAPPELLI, Berkeley, 1976, 1, pp. 483-494. ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., pp. 15-16). 41 EHRLE, Introduzione cit., p. 11, commentando le due filigrane delle carte del Vat. 3738 (un Agnus Dei e un’ancora con una stella in un cerchio), sostenne che tali carte furono prodotte a Fabriano nel 1569 e tra il 1570 e il 1580, rispettivamente; questo avrebbe quindi indicato il 1570 come termine post quem per la realizzazione del codice. Anders e Jansen, dal canto loro, sostengono invece che tali filigrane erano in uso anche in anni precedenti; cfr. ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., p. 15, n. 4). Per l’ipotesi relativa a Juan de Córdova, si veda D. DOMENICI, The Wandering Leg of Indian King, in Journal de la Société des Américanistes 102 (2016), in stampa.
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Nella successiva introduzione all’edizione del Vat. lat. 3738, l’Ehrle rivide alcuni punti della sua precedente interpretazione, notando che le parole del Mercati “ritratti da gli esemplari stessi” — se prese alla lettera — potevano riferirsi solo al codice suddetto e non al Vat. lat. 773, che non è copia ma bensì originale messicano42. Secondo Ehrle, quindi, il Mercati avrebbe potuto riferirsi al Vat. lat. 3738 e a un altro codice coloniale oggi perduto. Un ulteriore indizio utile a chiarire questo aspetto fu identificato da Ehrle in un passo della Historia Natural y Moral de las Indias (1590) del gesuita José de Acosta. Questi, infatti, nel libro 7° della sua opera descrive le cerimonie e i sacrifici compiuti dai Mexica in occasione dell’apertura dell’acquedotto di Coyoacan durante il regno di Ahuitzotl e la successiva inondazione della città; nel relativo testo l’Acosta afferma che “Assi está todo oy dia pintado en los Anales Mexicanos, cuyo libro tienen en Roma y está puesto en la sacra biblioteca o libreria Vaticana, donde un padre de nuestra Compañía, que avía venido de México, vió esta y las demas istorias y las declarava al Bibliotecario de su Sanctidad, que en estremo gustava de entender aquel libro, que jamas avía podido entender”. Se la definizione di “Anales Mexicanos” potrebbe anche adattarsi al Vat. lat. 3738 (e non al Vat. lat. 3773 che non contiene alcuna narrazione annalistica), e come tale la intendono F. Anders e M. Jansen43, padre Ehrle — sulla scorta di Del Paso y Troncoso — osservò che in realtà nel Vat. lat. 3738, che pur riporta l’immagine dell’inondazione priva di testo esplicativo, non compaiono immagini delle cerimonie e dei sacrifici inaugurali, immagini che invece compaiono in altre opere storiche come la Historia de las Indias (1581) di Diego Durán e il codice Ramírez o codice Tovar (tutte opere derivanti, direttamente o indirettamente, da un testo storico indigeno in lingua náhuatl, oggi perduto, noto come Cronaca X). A queste fonti, e in particolare all’opera del suo confratello Juan de Tovar terminata attorno al 1585, attinse José de Acosta. Su questa base, Ehrle ipotizzò quindi che nella Biblioteca Apostolica Vaticana esistessero una volta due manoscritti coloniali: il Vat. lat. 3738 e un codice annalistico, derivante dal gruppo Durán/Tovar, entrato in Biblioteca prima del 1588; a questi due manoscritti si sarebbero quindi riferite le parole del Mercati. In seguito il codice annalistico sarebbe andato perduto prima del 1596, quando i Rainaldi stilarono il loro inventario44. Anders e Jansen, invece, preferendo vedere nel testo dell’Acosta un riferimento al 42
Cfr. GLASS – ROBERTSON, A Census cit., p. 228. ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., p. 13-14. 44 EHRLE, Introduzione cit., pp. 11-13. Per quel che riguarda l’identificazione del procuratore gesuita proveniente dal Messico che secondo l’Acosta descrisse al bibliotecario della Vaticana il codice annalistico perduto, Ehrle avanza due ipotesi: Pedro Díaz, a Roma tra il 1578 e il 1579, e Pedro de Hortigosa, a Roma nel 1584. In entrambi i casi, ma soprattutto nel 43
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Vat. lat. 3738, pensano che la spiegazione dell’anonimo gesuita, corrispondente proprio a una delle pagine prive di testo esplicativo italiano, sia stata effettuata solo oralmente45. Dopo essere stato ricordato e parzialmente copiato da Mercati e Pignoria, il Vat. lat. 3738 fu apparentemente dimenticato sino alla fine del ’700, quando José Lino Fábrega (1746-1797), dopo averlo osservato su indicazione del Cardinale Stefano Borgia, lo menzionò — come precedentemente ricordato — nel suo lavoro sul codice Borgia46. Per quel che riguarda invece il codice Vat. lat. 3773 — che sia o meno da identificarsi con uno dei due codici menzionati dal Mercati nel 1589 — sappiamo per certo solo che entrò nella Biblioteca Vaticana tra il 1555 e il 1596; non è da scartarsi l’ipotesi che sia stato portato dal Messico insieme al Vat. lat. 3738 nel 1565-66 anche se, come vedremo, è possibile che fosse giunto in Italia oltre trent’anni prima. Degno di nota è il fatto che il f. 96 del codice fu riprodotto alla metà del XVII secolo dal gesuita Athanasius Kircher alla pagina 424 del primo tomo del suo Oedipus Aegyptiacus. Negli stessi anni, una brevissima e scarna menzione dei codici messicani della Biblioteca Apostolica Vaticana fu pubblicata dall’americanista olandese Hornius, che commentando i glifi messicani annotò “extant etiam in Bibliotheca Vaticana”47. Molto più tarda, infine, è quella che sino ad oggi è stata considerata la più antica menzione del codice Borgia. Si tratta di una lettera che l’erudito messicano Antonio de León y Gama scrisse il 30 agosto del 1795 ad Andrés Cavo, un suo connazionale residente a Roma, per ringraziarlo del promesso invio di una copia dello studio esplicativo di un codice messicano conservato nella collezione del Cardinale Stefano Borgia. In una successiva lettera dell’8 luglio 1796, dove menziona sia il codice Cospi che “quelli della Biblioteca Vaticana”, León y Gama specificò che l’autore dello studio da lui atteso era José Lino Fábrega; infine, in una lettera del 19 agosto 1796, León y Gama caldeggiò la pubblicazione dello studio, accompagnato da illustrazioni dell’intero codice; ciononostante, lo studio di Fábrega dovette attendere più di cent’anni prima di vedere la luce nel 189948. Nel 1805, durante il suo soggiorno a Roma, Alexander Von Humboldt ebbe l’opportuprimo, la data di arrivo a Roma appare molto precoce rispetto alla cronologia dei lavori di Duran e Tovar. 45 ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., p. 13-14. 46 FÁBREGA, Interpretación cit. 47 G. HORNIUS, De originibus Americanis, Hagae Comitis 1652, p. 271; ANDERS – JANSEN, Religión, costumbres cit., p. 18, n. 5 48 ANDERS – JANSEN – REYES GARCÍA, Los templos del cielo y de la oscuridad cit., pp. 17-18, 33; J. J. BATALLA ROSADO, Codex Borgia cit., pp. 318-319.
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nità di vedere i codici della Biblioteca Apostolica Vaticana e il codice Borgia, menzionandoli nella sua celebre opera; a proposito del codice Borgia, Humboldt scrisse che il Cardinale Borgia lo aveva salvato dalle mani dei bambini della famiglia Giustiniani che lo stavano bruciando49. Gran parte dei commentatori moderni ha ritenuto inattendibile quest’ultima affermazione, suggerendo che il codice — che in effetti mostra evidenti segni di bruciatura su alcune delle pagine — fosse stato parzialmente bruciato da missionari cattolici durante un auto de fé di oggetti idolatrici e che la suddetta notizia fosse stata inventata al fine di magnificare il ruolo del Cardinale Borgia e di sostenere le pretese successorie che Camillo Borgia avanzò anni dopo sul codice50. Quando infatti Stefano Borgia morì nel 1804, lasciò tutti i suoi beni alla Congregazione de Propaganda Fide, eccezion fatta per quelli conservati nel suo museo di Velletri, lasciati al fratello Giovanni Paolo. Il fatto che il codice messicano, così come altri beni, pur appartenendo al museo di Velletri, si trovasse nella casa romana del cardinale scatenò una lunga controversia giudiziaria, conclusasi comunque con il passaggio del codice alla Congregazione. Da qui, il 21 aprile del 1902 il codice Borgia fu trasferito alla Biblioteca Apostolica Vaticana. Sebbene le più antiche testimonianze sulla presenza del codice Borgia in Italia siano più tarde rispetto a quelle degli altri due manoscritti, un arrivo ben più antico del codice in Italia è suggerito da una glossa italiana apposta alla pagina 68 del codice stesso, già notata da F. Ehrle51. La glossa, che recita “in queste carte sono li di de la setimana verbi gracia dominica lunez”, presenta infatti una grafia, un linguaggio e un disegno di una mano che suggeriscono che essa sia stata apposta nel XVI secolo da un autore di lingua spagnola o da un italiano fortemente ispanizzato. Effettivamente, l’ipotesi di un arrivo in Italia del codice Borgia già nel XVI secolo pare confermata dai nuovi dati che si presentano qui di seguito. Nuove ricerche sulla storia italiana dei codici messicani della Biblioteca Apostolica Vaticana I risultati che qui si espongono sono il frutto parziale di una più ampia ricerca che chi scrive sta conducendo, anche in collaborazione con Laura Laurencich Minelli, sull’arrivo in Italia di una serie di oggetti messicani 49
A. VON HUMBOLDT, Aportaciones a la antropología mexicana, México 1986, p. 109. ANDERS – JANSEN – REYES GARCÍA, Los templos del cielo y de la oscuridad cit., p. 37; ma cfr. EHRLE, Il Manoscritto Messicano Borgiano cit., pp. 10-11; D. HEIKAMP, American Objects in Italian Collections of the Renaissance and Baroque: A Survey, in First Images of America. The Impact of the New World on the Old, a cura di F. CHIAPPELLI, Berkeley 1976, p. 472. 51 EHRLE, Il Manoscritto Messicano Borgiano cit., pp. 4-5. 50
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nel corso dei secoli XVI-XVIII, i cui risultati sono stati in parte presentati altrove52. Una volta appurato l’arrivo in Italia di diversi codici messicani nel 1532-33 (cfr. infra), si è resa necessaria una revisione dettagliata di quanto sinora noto sulla presenza di codici nel territorio peninsulare. Nel caso specifico del codice Borgia, la cui presenza in Italia sin dal XVI secolo era suggerita dalla succitata glossa, si imponeva la necessità di provare a rimontare indietro nel tempo a partire dalla sua presenza nella collezione di Stefano Borgia nel 1795. L’unico possibile punto di partenza non poteva che essere la scarsamente considerata menzione di Alexander von Humboldt relativa al “salvataggio” del codice dalle mani dei bambini della famiglia Giustiniani. In effetti, grazie all’eccellente pubblicazione degli inventari della famiglia Giustiniani curata da S. Danesi Squarzina, è stato possibile trovare nuove tracce del codice, di quasi due secoli più antiche di quelle sinora note. Nell’inventario della Guardaroba di Benedetto Giustiniani, redatto tra il 1600 e il 1611, si legge infatti “Un libro in scorza d’Arboro con varij disegni di colori, e lavori indiani, n.° 1”, oltre a “trentasei pezzi di varie cose da sacrifitij d’Idoli Indiani, n.° 36”53. Sebbene l’entrata inventariale menzioni un libro in corteccia e non in pelle, riteniamo che — data la corrispondenza con la nota dell’Humboldt — il manoscrittoregistratovidebba essere comunque identificato con il codice Borgia. La menzione della carta di corteccia era infatti un vero e proprio luogo comune nei testi del XVI e del XVII secolo, dovuto alle molte descrizioni di tale carta che sin dagli inizi del XVI secolo erano circolate in Europa, come quella pubblicata nel 1525 da Pietro Martire d’Anghiera. È inoltre importante sottolineare che quando un codice conserva intatta la sua imprimitura di gesso o calce è estremamente difficile valutarne il materiale costituente mediante semplice osservazione a occhio nudo: a titolo di esempi basti ricordare che il codice Cospi fu descritto come un codice “di cartone” nel 1677 da Lorenzo Legati54, che il codice Fejérváry-Mayer, anch’esso di pelle, fu descritto come composto di carta d’agave in un catalogo del 1882 della Liverpool Free Public Library o che, come già ricordato più sopra, lo stesso Vat. lat. 3773 fu descritto erroneamente come cartaceo nell’inventario Rainaldi. Tali osservazioni permettono anche un’ulteriore deduzione sullo stato di conservazione del manoscritto quando questo si trovava nella Guardaroba 52 D. DOMENICI – LAURENCICH MINELLI, Domingo de Betanzos’ gifts to Pope Clement VII in 1532-1533: tracking the Early History of some Mexican Objects and Codices in Italy, in Estudios de Cultura Náhuatl 47 (2014), pp. 169-210. 53 Entrata della Guardaroba, 1600-1611, fol. 137r. Si veda S. DANESI SQUARZINA, La collezione Giustiniani, Torino 2003, v. I, pp. 57-58. 54 L. LEGATI, Museo Cospiano annesso a quello dell’ illustre Ulisse Aldrovandi, Bologna 1677, pp. 191-192.
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Giustiniani: se allora non era possibile osservare direttamente la materia di cui erano composte le pagine, questo suggerisce che il codice non fosse ancora bruciato, giacché nelle pagine parzialmente bruciate è chiaramente visibile il sottostante strato di pelle55. Tutto questo sembra fornire nuovo credito alle parole dell’Humboldt e forse dobbiamo veramente ringraziare il Cardinale Borgia per aver salvato il codice dalle fiamme innescate dai bambini di casa Giustiniani. La menzione nell’inventario del 1600-1611 non è l’unica reperibile negli inventari Giustiniani: al f. 1380r dell’Inventario post mortem del cardinale Benedetto Giustiniani (1621) sono registrati infatti “Un libro di lettere all’Indiana” e “Quaranta pezzi d’idoli e sagrifitij all’Indiana”; al f. 829r dell’Inventario post-mortem del marchese Vincenzo Giustiniani (1638) si legge di “Ventiquattro pezzi d’Idoli dell’Indie” e di “Un libro di geroglifici indiani”; infine, al f. 115r dell’Inventario del Cardinale Orazio Giustiniani (1649) si trova menzione di “Ventuno pezzi d’Idoli di varie forme di legno coperti di musaico e lettere geroglifiche. N.° 21”56. Dopo il 1649, il codice scompare dagli inventari successivi, non pubblicati da S. Danesi Squarzina ma comunque indagati senza successo da chi scrive. Evidentemente con il trascorrere del tempo i manufatti messicani vennero sempre meno valorizzati dai Giustiniani, tanto che gli oggetti a mosaico vennero dispersi e che il codice finì oltre un secolo più tardi nelle mani dei bambini dalle quali venne salvato dal cardinale Stefano Borgia. Ma come era giunto il codice messicano nella Guadaroba di Benedetto Giustiniani? Per tentare di rispondere a questa domanda non possiamo che addentrarci nel campo delle ipotesi, ma la recente riconsiderazione di un brano delle Historie di Bologna (1548) del domenicano bolognese Leandro Alberti, avviata da Massimo Donattini e proseguita da Laura Laurencich Minelli e da chi scrive57, fornisce una pista di estremo interesse. Il testo dell’Alberti, infatti, narrando eventi accaduti a Bologna nel 1533 in occasione di una visita di Clemente VII, descrive in dettaglio un ricco dono di oggetti messicani (mosaici di piume, coltelli sacrificali, maschere a mosaico di turchese ecc.) che il 3 marzo un “frate Domenico spagnuolo dell’ordine dei predicatori, che venea dalle Nuove Indie, ovvero dal Mundo 55 Le pagine bruciate sono state restaurate nel 1963, quando le lacune furono riempite con pelle di animale europeo. 56 Si veda DANESI SQUARZINA La collezione Giustiniani cit., v. I, pp. 158, 481; v. II, p. 13. 57 M. DONATTINI, Il mondo portato a Bologna: viaggiatori, collezionisti, missionari, in Storia di Bologna, t. III: Bologna nell’’età moderna (secoli XVI-XVIII), t. II: Cultura, istituzioni culturali, Chiesa e vita religiosa, a cura di A. PROSPERI, Bologna 2008, pp. 537-682; L. LAURENCICH MINELLI, From the New World to Bologna, 1533. A Gift for Pope Clement VII and Bolognese Collections of the Sixteenth and Seventeenth Centuries, in Journal of the History of Collections 24 (2012), pp. 145-158; DOMENICI – LAURENCICH MINELLI, Domingo de Betanzos cit.
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Nuovo” consegnò al Pontefice. Tra gli oggetti descritti dall’Aberti si legge di “alcuni libri molto ben dipinti che pareano figure hieroglifici, per le quali intendevansi fra loro, come noi facciamo per le lettere”. L’Alberti afferma poi che alcuni di quei libri sarebbero rimasti nelle sue stesse mani e che uno fu da lui regalato a Giovanni Achillini, noto umanista bolognese58. È evidente che tra questi oggetti e codici rimasti a Bologna vadano riconosciuti il codice Cospi, un ignoto codice che Teseo degli Albonesi osservò nella Biblioteca Paleotti e almeno alcuni dei numerosi oggetti messicani giunti poi nelle collezioni bolognesi di Ulisse Aldrovandi e Ferdinando Cospi59. La ricerca in diverse cronache relative alla storia dell’ordine domenicano in Messico, avviata al fine di riconoscere il non meglio identificato “frate Domenico spagnuolo”, ha fornito ulteriori dettagli di estremo interesse. Infatti, non solo è stato possibile identificare il latore del dono come Domingo de Betanzos, celebre fondatore dell’Ordine dei Predicatori in Messico, ma si sono reperite anche informazioni relative a un altro dono da lui portato a Clemente VII. La più antica menzione dei doni di Betanzos si trova nell’opera di Agustín Dávila Padilla (1596), il quale narra del viaggio in Italia che Domingo de Betanzos e Diego Marín fecero nel 1531-33 al fine di ottenere l’indipendenza della provincia messicana dell’Ordine dei Predicatori da quella di Santa Cruz di Hispaniola, alla quale era sino ad allora sottoposta. Dávila Padilla annotò che “la provincia le dio algunas cosas de la tierra, que se estiman en las apartadas y remotas, para que las presentase al summo Pontifice, en reconocimiento de obediencia: como fueron algunas imagenes de pluma, y algunas piedras medicinales, que se hallaban por despojos temporales, en los idolos que los indios adoraban”60. Dopo essere giunti a Siviglia nel 1531, dove affidarono il dono a un mercante diretto in Italia, Betanzos e Marín intrapresero un lungo cammino verso Marsiglia per visitare la grotta di Maria Maddalena e da lì si imbarcarono per Napoli, al fine di incontrare il Generale dell’Ordine Pablo Butigela. Essendo questi gravemente malato (morì infatti il 9 ottobre del 1531) i due dovettero attendere alcuni mesi in diversi conventi italiani sino al 19 maggio del 1532, quando il nuovo Capitolo Generale si tenne presso il convento di Santa Maria sopra Minerva, a Roma. Qui ottennero dal nuovo Generale Juan de Fenario l’assenso all’indipendenza della nuova provincia domenicana di Santiago de México. Nei giorni successivi, Betanzos incontrò a Roma Clemente VII. Dávila Padilla, descrisse in dettaglio l’incontro, grazie al quale 58
L. ALBERTI, O.P., Historie di Bologna, 1479-1543, Bologna 2006, pp. 629-630. DOMENICI – LAURENCICH MINELLI, Domingo de Betanzos cit. 60 A. DÁVILA PADILLA, O.P., Historia de la Fundacion y Discurso de la Provincia de Santiago de México, Madrid 1596, p. 69. 59
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il domenicano ottenne la conferma di quanto deciso dal Capitolo Generale, come testimoniato dalla Bolla Pastoralis Officii dell’11 luglio 1532: (…) para que Vuestra Santidad vea algunas cosas de las muchas de aquella tierra, envía mi Provincia con su pobreza esta pequeña muestra, para que lo sea mas de obediencia filial, que de valor ni de riqueza. Sacó entonces algunas imagenes de plumas muy bien labradas, que no solamente regalaban con sus visos, peroque admiraban con su composición, pues una a una habían sido assentadas todas aquella pequeñitas plumas, dejando después una obra tan maravillosa y bien compuesta. Lo que mas admiró al Pontifice y a los Cardenales, fue una mitra de pluma maravillosamente obrada, que avia sido de un sacerdote de los idolos,y otra hecha de pedreria, de turquesas y esmeraldas. Sacaron tambien algunos instrumentos con que los idolatras sacrificavan hombres al demonio; y en particular unas navajas de dos filos muy resplandecientes y vistosas, y mucho mas agudas y penetrantes con estraña subtileza. Huvo tambien algunas piezas deplumas del ropaje sacerdotal Indiano, que dezian con la mitra61.
Come è evidente, nel testo non si menzionano codici dipinti e purtroppo Dávila Padilla non descrisse alcun incontro bolognese, sebbene il cronista annotasse che Betanzos “Despidióse del Summo Pontífice aquella vez, aunque le vio otras”. La conferma che tra questi non ben specificati incontri successivi si debba riconoscere l’episodio bolognese narrato dall’Alberti la si trova in cronache più tarde. Antonio de Remesal, nella sua opera del 1619, ad esempio ricorda che una modifica della durata degli incarichi dei prelati, richiesta da Betanzos, venne approvata dal Pontefice con la bolla emessa a Bologna l’8 marzo del 1533, cioè soli cinque giorni dopo il suddetto incontro62. Il viaggio bolognese di Betanzos è comunque esplicitamente menzionato nel lavoro di Juan Bautista Méndez (1689) che, dopo aver riportato parola per parola il testo di Dávila Padilla relativo all’incontro romano, aggiunse “llegó su Santidad a la ciudad de Bolonia, donde visitándolo el V. Betanzos alcanzó nuevas gracias para la provincia” (Méndez 1993: 45-47)63. Un’analoga descrizione dell’incontro di Bologna — oltre che di quello di Roma — fu molto più tardi redatta da Juan José de la Cruz y Moya nella sua cronaca del 1756-5764. 61 DÁVILA PADILLA, Historia de la Fundacion cit., pp. 73-74; le stesse parole sono testualmente ripetute da J. B. MÉNDEZ, O.P., Crónica de la Provincia de Santiago de México de la Orden de Predicadores (1521-1564), México 1993 [1685], pp. 40-43. 62 A. REMESAL DE, O.P., Historia General de las Indias Occidentales y Particular de la Gobernación de Chiapa y Guatemala, México 1988 [1619], pp. 84. 63 MÉNDEZ, Crónica de la Provincia cit., p. 45-47. 64 J. J. CRUZ Y MOYA, DE LA, O.P., Historia de la Santa y Apostólica Provincia de Santiago de Predicadores de México en la Nueva España, México 1954 [1756-57], I, pp. 262, 270-275.
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La lettura congiunta delle cronache domenicane ci conferma quindi che Betanzos incontrò Clemente VII almeno due volte, una a Roma nel 1532 e una a Bologna il 3 marzo del 1533, in entrambi i casi consegnando al Pontefice ricchi doni di oggetti messicani che, almeno nel caso bolognese, includevano alcuni codici dipinti. Il Pontefice dovette regalare poi alcuni oggetti e codici ad altre persone (tra le quali l’Alberti stesso), probabilmente inviandone altri a Roma e Firenze65. Come si coniuga tutto questo con i codici della Biblioteca Apostolica Vaticana e in particolare con la presenza del codice Borgia nella collezione Giustiniani quasi un secolo più tardi? In un primo momento abbiamo ipotizzato che il nesso fosse da ricercarsi nel fatto che Benedetto Giustiniani risiedette a Bologna tra il 1606 e il 1611 in qualità di Legato Pontificio e che proprio a Bologna fu redatta parte dell’inventario della Guardaroba nel quale è menzionato per la prima volta il codice messicano. Grazie al sollecito e cortese aiuto di S. Danesi Squarzina e L. Capoduro66, però, è stato possibile scartare quest’ipotesi. La grafia con la quale è annotata nell’inventario la presenza del codice è infatti quella di Silvo Silva, attivo con i Giustiniani a Roma dal 1600 e non durante la residenza bolognese del Cardinale. Questo significa che il codice entrò nella Guardaroba in data ignota, ma certamente prima del 1606. L’ipotesi più plausibile per spiegare l’arrivo del codice prima di tale data ci pare essere quella legata al fatto che lo zio di Benedetto, Vincenzo Giustiniani, tra il 1558 e il 1570 fu Generale dell’Ordine dei Predicatori nel Convento di Santa Maria sopra Minerva, cioè esattamente nel convento dove circa cinquant’anni prima si era svolto il Capitolo Generale al quale aveva preso parte Domingo de Betanzos. Sebbene non si abbia alcuna evidenza diretta (e sia senz’altro possibile ipotizzare che Vincenzo Giustiniani abbia ottenuto il codice da uno degli altri domenicani messicani che presero parte a Capitoli Generali a Roma tra la venuta di Betanzos e il generalato del Giustiniani) ci pare possibile ipotizzare che Betanzos abbia lasciato il codice Borgia in dono al convento del suo Ordine nel 1532 e che alcuni decenni più tardi Vincenzo Giustiniani (defunto nel 1582) lo abbia inserito nella raccolta di famiglia 65 Non è questa la sede per approfondire la relazione tra i doni di Betanzos e la presenza di numerosi oggetti messicani in collezioni italiane del XVI e XVII secolo. Ci limitiamo qui a ricordare che ai doni di Betanzos potrebbero ben collegarsi sia il codice messicano, oggi perduto, donato da Francisco de los Cobos, segretario di Carlo V, all’umanista italiano Paolo Giovio (entrambi presenti a Bologna nel 1533, il secondo come membro della corte del cardinale Ippolito de Medici, nipote di Clemente VII), che quello (codice Nuttall) rinvenuto molti secoli più tardi nel convento domenicano di San Marco, a Firenze. Per ulteriori dettagli su questi aspetti si veda DOMENICI – LAURENCICH MINELLI, Domingo de Betanzos cit. 66 S. DANESI SQUARZINA, comunicazione personale, 2 aprile 2012.
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dove venne tesaurizzato dai suoi nipoti Benedetto e Vincenzo, due tra i più grandi collezionisti d’arte nella Roma dell’epoca. Per il momento non si tratta che di un’ipotesi, che potrà essere auspicabilmente confermata o smentita da future indagini. Vale però la pena sottolineare qui un’ulteriore elemento che ci pare significativo: come sopra accennato, il Gruppo Borgia è composto da cinque manoscritti strettamente legati tra loro in quanto a tematica, stile e provenienza. Mentre due di questi, tanto simili tra loro da costituire un vero e proprio “sottogruppo” (codici Fejèrvàry-Mayer e Laud), giunsero in Europa per vie ignote e sono oggi conservati a Londra e Oxford, i restanti tre si trovano oggi in Italia, uno a Bologna (codice Cospi) e due nella Biblioteca Apostolica Vaticana. La presenza in Italia di ben tre dei cinque codici del Gruppo Borgia suggerisce un’origine comune, sia per quel che attiene il loro reperimento in Messico (probabilmente raccolti da missionari domenicani in una stessa regione) che per il loro arrivo nella penisola. La possibile relazione tra questo arrivo, il viaggio di Domingo de Betanzos e il suo dono di codici a Bologna è testimoniata dalla presenza a Bologna del codice Cospi. Alla luce di tutto questo, ipotizzare che a quello stesso viaggio si debba far risalire anche l’arrivo in Italia dei codici Borgia e Vat. lat. 3773 ci pare per lo meno plausibile. Se per il codice Borgia il percorso attraverso Santa Maria sopra Minerva e la famiglia Giustiniani appare oggi il più fondato e in parte ben documentato, per quel che riguarda il Vat. lat. 3773 non disponiamo ancora di evidenze documentarie. Fu forse tra i codici portati da Bologna a Roma da Clemente VII? O fu invece donato da Betanzos al Pontefice nel corso del precedente incontro romano? Per il momento queste domande debbono rimanere senza risposta, ma speriamo che ulteriori ricerche possano far luce su alcuni aspetti di questa complessa e appassionante vicenda. Riflessioni conclusive I dati sin qui riassunti non solo chiariscono aspetti della storia italiana di alcuni codici messicani, ma permettono anche di riflettere sulle più ampie implicazioni derivanti dal ruolo che diversi membri dell’Ordine dei Predicatori ebbero nell’arrivo dei manoscritti in Italia. Se infatti la produzione in ambito domenicano del codice Vat. lat. 3738 era nota da tempo in virtù del suo nesso con l’attività di Fra’ Pedro de los Ríos, le vicende legate al viaggio in Italia di Domingo de Betanzos e al suo probabile nesso con la famiglia Giustiniani attraverso l’operato del Generale Vincenzo Giustiniani aprono uno scenario in gran parte inedito e da esplorare. Molti studi sono infatti stati dedicati al ruolo giocato da missionari domenicani e francescani nella registrazione e nella trasmissione di elementi della cultura indige-
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na mesoamericana67, così come al rilevante contributo teologico-politico dato da insigni membri dell’Ordine dei Predicatori — come Antonio de Montesinos, Bernardino de Minaya e Bartolomé de las Casas — alla battaglia in difesa dei diritti degli indigeni combattutasi nel corso della prima metà del XVI secolo. Di contro, scarsissime erano sinora le notizie relative al ruolo che i missionari ebbero nel far pervenire in Europa oggetti e manoscritti indigeni, nella maggior parte dei casi attribuiti invece a invii di conquistatori come Hernan Cortés. Alla luce dei nuovi dati, ci pare che l’invio di oggetti e manoscritti indigeni da parte di missionari domenicani non debba essere ritenuto un estemporaneo episodio di interesse prevalentemente aneddotico, ma vada piuttosto considerato proprio nel quadro del succitato dibattito teologicopolitico sull’umanità degli indigeni. La raffinatezza dei manufatti messicani e l’esistenza stessa di “libri” potevano costituire infatti prove tangibili di quella razionalità indigena sulla quale si fondava il rifiuto della schiavitù e la legittimità stessa dell’opera di evangelizzazione. Proprio negli anni ’30 del ’500, infatti, stavano prendendo forma le riflessioni di Francisco de Vitoria, sin dal 1526 cattedratico di teologia presso l’Università di Salamanca (la stessa dove aveva studiato Betanzos), secondo il quale gli indigeni non potevano essere considerati come esseri irrazionali (e quindi barbari e “schiavi di natura” secondo la teoria aristotelica) perché alcuni tratti culturali, tra i quali l’abilità nelle “arti meccaniche”, ne dimostravano la razionalità in potentia se non in actu, caratteristica che rendeva gli indigeni simili a bambini che, attraverso l’educazione e l’evangelizzazione, potevano essere condotti alla vita civile68. Ci pare quindi che gli oggetti inviati in dono al Pontefice dai domenicani messicani potessero fungere al tempo stesso da testimonianze dell’idolatria precoloniale, delle capacità meccaniche e intellettuali degli indigeni e, conseguentemente, della legittimità e della rilevanza del processo di evangelizzazione nel quale i domenicani si stavano impegnando e per il quale richiedevano l’indipendenza della provincia messicana. Lungi dall’essere semplici curiosità esotiche, almeno nelle intenzioni dei donatori, codici e oggetti d’arte divenivano supporti di asserzioni politiche e religiose relative all’identità degli indigeni americani e al progetto coloniale ed evangelico nel quale li si voleva inserire. In questo quadro, può apparire a prima vista contraddittorio il ruolo svolto da Domingo de Betanzos, protagonista di un’accesa polemica all’interno dell’Ordine dei Predicatori relativa al tema della razionalità degli 67 Sull’attività evangelica e “proto-etnografica” degli ordini missionari in Messico si vedano, a titolo di esempio, G. BAUDOT, Utopia e storia in Messico: i primi cronisti della civiltà messicana, 1520-1569, Milano 1991; R. RICARD, Conquête spirituelle” du Mexique, Paris1933. 68 Si veda A. PAGDEN, La caduta dell’uomo naturale, Torino 1982.
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indigeni; Betanzos fu infatti accusato da alcuni importanti confratelli di essersi espresso contro la razionalità degli indigeni, posizione che lo stesso Betanzos avrebbe ricusato solo in punto di morte. Rimandando ad altro lavoro per una più approfondita riflessione su questi temi, ci limitiamo qui ad osservare che le nuove informazioni relative al ruolo da lui avuto nell’arrivo di oggetti messicani in Italia potrebbero costituire nuovi elementi utili per una più articolata riconsiderazione della sua controversa posizione69. Al di là di quel che si voglia pensare dell’atteggiamento di Domingo de Betanzos, è comunque innegabile che lo studio dell’arrivo in Europa di oggetti e codici messicani dispieghi tutte le sue potenzialità laddove lo si inquadri nel dibattito intellettuale sull’America e sugli americani che ebbe un ruolo preminente nella cultura europea della prima età moderna. Solo in tale contesto è infatti possibile comprendere come oggetti e codici messicani venissero inseriti in edifici discorsivi che in buona misura determinarono i significati ad essi attribuiti. Pur con il mutare di tali significati nel tempo, la valorizzazione dei codici messicani fece sì che essi venissero tesaurizzati in collezioni e biblioteche dove ancora oggi possiamo apprezzarne l’inestimabile valore artistico e documentario.
69 D. DOMENICI, Cose dell’altro mondo: nuovi dati sul collezionismo italiano di oggetti messicani tra XVI e XVII secolo, in El Imperio y las Hispanias de Trajano a Carlos V: clasicismo y poder en el arte español, a cura di S. DE MARIA e M. PARADAS DE CORSELAS, Bologna 2014. Su Domingo de Betanzos e sulla polemica relativa alla sua posizione nei confronti della razionalità degli indigeni si vedano A. BANDELIER, Fray Domingo Betanzos, in Catholic Encyclopedia, a cura di C. HERBERMANN, 1913; A. M. CARREÑO, Fray Domingo de Betanzos, fundador en la Nueva España de la venerable orden dominicana, México 1924; J. RODRÍGUEZ CABAL, El P. Fr. Domingo de Betanzos, O.P., fundador en Guatemala de los Dominicos, Guatemala 1934; L. HANKE, Pope Paul III and the American Indians, in Harvard Theological Review 30,2 (1937), pp. 65-102; A. M. CARREÑO, La irracionalidad de los indios, in Divulgación histórica 1 (1940), pp. 338-349; E. O’GORMAN, Sobre la Naturaleza Bestial del Indio Americano, in Filosofía y Letras 2 (1941), pp. 141-159; A. TRUEBA, Dos Libertadores. Fray Julián Garcés y Fray Domingo de Betanzos, México 1955; A. DE LA HERA, El derecho de los indios a la libertad y a la fe. La bula ‘Sublimis Deus’ y los problemas indianos que la motivaron, in Anuario de Historia del Derecho Español 26 (1956), pp. 89-181; A. M. CARREÑO, Misioneros en México, México 1962; L. HANKE, All Mankind is One: A study of the Disputation Between Bartolomé de Las Casas and Juan Ginés de Sepúlveda in 1550 on the Intellectual and Religious Capacity of the American Indian, Chicago 1974; D. ULLOA, Los Predicadores divididos. Los dominicos en México en el siglo XVI, México 1977; A. ROBLES SIERRA, Una aproximación a Domingo de Betanzos. A propósito de su carta de 1540, in Actas del III Congreso Internacional ‘Los Dominicos y el Nuevo Mundo’, Salamanca 1990, pp. 227-258; P. SEED, ‘Are These Not Also Men?’: The Indians’ Humanity and Capacity for Spanish Civilisation, in Journal of Latin American Studies 25 (1993), pp. 629-652; P. FERNÁNDEZ RODRÍGUEZ, Los dominicos en el contexto de la primera evangelización de México, 1526-1550, Salamanca 1994: F. JAY, Three Dominican Pioneers in the New World: Antonio de Montesinos, Domingo de Betanzos, Gonzalo Lucero, Lewinston 2000; J. O. TINAJERO MORALES, Fray Domingo de Betanzos. Semblanza de un misionero incansable, México 2009.
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INTORNO A UNA MEDAGLIA DI PIO V GHISLIERI1 Se esiste un elemento in grado di guidare nella corretta interpretazione di una medaglia papale, questo è sicuramente, in molti casi, il piviale del pontefice. Se spesso, infatti ai più, la decorazione del piviale sembra un elemento puramente esteriore e di vanità, al punto da essere completamente trascurata o appena descritta, gli studiosi di medaglistica pontificia sanno che una prima informazione per l’adeguata analisi o datazione della medaglia può essere fornita da essa. Negli ultimi tempi, si è assistito ad un proliferare di volumi su medaglie pontificie, in cui il principale interesse dei vari autori è stato quello di mettere insieme il numero maggiore di medaglie di ciascun pontefice. E se tale operazione è senza dubbio notevole, anche per le difficoltà nel reperimento di molti esemplari che spesso si trovano in collezioni private, a volte lo zelo nella ricerca dei singoli pezzi non è accompagnato da altrettanta acribia nella stesura delle cosiddette schede tecniche. Avendo da poco pubblicato un articolo sulle medaglie papali e i giubilei straordinari per la prestigiosa rivista del Medagliere Vaticano2, la mia attenzione è caduta su una medaglia del pontefice Pio V Ghislieri.
Tav. I – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Md. Pont. Pius V, XXVIII.90,8. Medaglia di Pio V realizzata da Gian Federico Bonzagni nel 1566. Bronzo dorato, 35,80 mm. 1 Dedico questo contributo al prof. Giancarlo Alteri, il quale con i suoi preziosi insegnamenti ha saputo trasmettermi l’amore nei confronti di una materia, spesso così ostica. Ringrazio il signor Enzo Garofolo del Medagliere della Biblioteca per le foto a corredo dell’articolo. 2 E. GIAMPICCOLO, I Giubilei straordinari nella documentazione medaglistica, in Historia Mundi 5 (2016), pp. 40-57.
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 363-372.
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Essa, realizzata nel 1566 da Gian Federico Bonzagni, reca, al dritto, il busto del pontefice benedicente rivolto a sinistra con triregno e piviale circondato dalla legenda PIVS V GHISLERIVS BOSCHEN PONT M e, al rovescio, Gesù che benedice la folla, scena racchiusa dalla legenda NE DETERIVS VOBIS CONTINGAT3. In uno dei più recenti repertori che tratta anche della produzione medaglistica a nome di Pio V4, tale medaglia è interpretata come allusiva del giubileo straordinario del 1566. Papa Ghislieri, in effetti, il 9 marzo 1566, con la bolla Cum gravissima5, aveva indetto un giubileo straordinario per chiedere a Dio l’unione dei principi cristiani contro il pericolo turco. Il pontefice, infatti, era seriamente preoccupato dell’avanzata turca e pertanto aveva invitato tutta la Cristianità ad unirsi in preghiera, esortando i principi protestanti tedeschi a mettere da parte le questioni religiose per far fronte insieme al comune pericolo turco. Questa interpretazione, tuttavia, non appare corretta alla luce non solo di quanto riportano alcuni dei più antichi repertori di medaglie pontificie, ma anche alla luce di quelle informazioni che il piviale dello stesso pontefice ci fornisce e di alcune considerazioni che lo studio del tipo del rovescio ci suggerisce. Claude Du Molinet (1620-1687), canonico regolare di santa Genoveffa e autore di uno dei primi cataloghi scientifici dedicati alle medaglie papali, a proposito di questa medaglia scriveva: Judaeus praedives, Elias nomine, teste Ciaconio, non semel dum Pius Cardinalis esset, ab eo ad fidem Christianam amplectendam fuerat invitatus, promiseratque se tunc illam suscepturum, cum is ad Romanae Sedis fastigium ascenderet. Pontifex ergo electus promissionem factam in Eliae memoriam revocavit, nec frustra; nam paulo post baptismum flagitavit, ac illud cum tribus filiis et nepote, die 3, Pentecostes, in Vaticana Basilica, Cardinalibus praesentibus et nonnullis Patrinorum munere fungentibus, ad ipso Pio accepit, Michaelque nominatus est. Monentur autem hic Judaei neophyti ut in fide perseverent NE QUID DETERIUS IPSIS CONTINGAT, si Christianos ritus dimittentes, in pristinos errores relabantur, Synagogam Ecclesiae praeferentes. Cum etiam jussisset idem Pontifex ut celebritati hujus baptismi plurimi Judaei adessent in angulo Ecclesiae, triginta et amplius ex iis, Eliae et filiorum exemplo permoti, ad catechismum accessere caelestis luminis gratia per novam stellam Magis apparentem hic designata, cum hac epigraphe, ILLVMINARE IERVSALEM6. 3
Cfr l’espressione simile di Giovanni 5,14: Ne deterius tibi aliquid contingat. A. MODESTI, Corpus Numismatum Omnium Romanorum Pontificum (= d’ora in poi CNORP), III, Roma 2004. 5 Bullarum diplomatum et privilegiorum sanctorum Romanorum pontificum Taurinensis editio (= d’ora in poi Bull.), VII, pp. 431-433. 6 C. DU MOLINET, Historia Summorum Pontificum a Martino V ad Innocentium XI per eorum numismata, Paris 1679, p. 84. 4
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Il Du Molinet, quindi, muove le fila della sua spiegazione a partire dalla conoscenza tra il ricco ebreo Elia e il cardinale Ghislieri, dai tentativi da parte di quest’ultimo di convincere Elia ad abbracciare la religione cristiana e dalla promessa dell’ebreo che sarebbe diventato cristiano se il Ghislieri fosse stato eletto al soglio pontificio. Così era stato lo stesso pontefice, appena eletto, a richiamare alla memoria di Elia la promessa fatta e subito dopo costui aveva chiesto per sé e i componenti maschi della sua famiglia il battesimo7. La medaglia secondo il Du Molinet, conterrebbe una precisa ammonizione ai neofiti a perseverare nella nuova fede e a non ricadere in pristinos errores. Citando il Du Molinet anche il padre gesuita Filippo Bonanni (16381723), autore di un più ampio catalogo dedicato alle medaglie papali, ricollegava tale medaglia alle stesse motivazioni fornite dal canonico di santa Genoveffa, riportando le sue stesse parole: Percussum fuisse hoc numisma postquam Aelias Judeus, ut dictum est in numismate IV sacrum baptisma suscepit arbitratus est P. Molinetus: quippe (ait) monentur in illo Iudaei Neophyti, ut in fide perseverent, ne quid deterius ipsis contingat si Christianos ritus dimittentes in pristinos errores relabantur8.
A confermare l’esattezza dell’interpretazione della medaglia data dal Du Molinet prima e confermata dal Bonanni poi, è sufficiente un’attenta analisi del piviale del pontefice raffigurato sul dritto della medaglia. Si tratta di una scena in cui si muove una moltitudine di personaggi e che erroneamente è stata interpretata come una comune udienza papale9. Analizzando la rappresentazione da destra verso sinistra si osserva che davanti ad una architettura di Tav. II – Particolare del dritto della medaglia di Pio V. 7
Anche negli Avvisi di Roma (Urb. lat. 1040 ff. 245v-246r) si dice che “questo giudeo tratticava spesso con S. S.ta, la quale all’occasioni lo confortava sempre a farsi christiano mostrandoli come l’intendeva male a starsene in quella cecità”. 8 F. BONANNI, Numismata Pontificum Romanorum quae a tempore Martini V usque ad annum MDCXCIX, p. 294. 9 CNORP, III, p. 210.
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cui sono visibili due colonne, il pontefice vestito dei sacri paramenti e mitria versa l’acqua di un bacile sul capo di un bambino irrequieto trattenuto da un uomo inginocchiato dietro di lui. Dietro quest’ultimo, una figura in piedi che appoggia una mano sulla spalla dell’uomo inginocchiato. Ancora dietro, si scorgono altre due figure inginocchiate e dietro quest’ultime un’altra figura in piedi che appoggia la propria mano sulla spalla dell’ultimo. La scena pur nella ristrettezza spaziale del tondello è presentata con dovizia di particolari e sembra la trasposizione per immagine di quanto racconta il maestro cerimoniere di Pio V, Cornelio Firmano, a proposito della cerimonia svoltasi a san Pietro la mattina del 4 giugno 156610: Die Martis 4o Junij (1566) in mane quoniam Sanctissimus Dominus Noster mandavit, quod Episcopus Ferratinus Vicarius Basilice S. Petri faceret exorcismum in porta Ecclesiae et alia omnia usque ad effusionem aque in Sugestu dedi rotulum pro Babtismo parandorum hoc modo… Paratis omnibus ut supra feci portari in cammera in qua morabantur baptizzandi bacile cum Saleria, aliud bacile cum vase et mappula, et quinque faculas deinde ad cammeram Sue Sanctitatis ivi in qua Reverendissimi Domini Cardinales Farnesius, et Crispus qui debebant esse compatres quorundam ex ipsis baptizzandis, costituerunt eorum procuratorem Reverendissimum Dominum Archiepiscopum Sancte Severine ad interveniendum nomine ipsorum ad Cathechismum, et esorcismum affirmante Sanctissimo Domino quod illud fieri poterat quia per solum interventum et debitas ceremonias in infusione contrahebatur spiritualis affinitas. Deinde in Anticamera sue Sanctitatis Reverendissimi Domini Cardinales Pacecus, et Vitellius similiter eundem Archiepiscopum ad idem costituerunt Procuratorem, et idem fecit Reverendissimus Gesualdus, postea in Cammera paramentorum duxi deinde Baptizzandos ad Ecclesiam hoc videlicet procedebant quattuor mazzarij, duo neophite cum Bacile et soleria alter cum bacile, et cum vase, et mantilibus, deinde tres Parafrenarij Sue Sanctitatis cum eorum vestibus de rosato portantes tres pueros baptizzandos ornatos vestibus albis faculas in manibus portantes, quos sequebatur Elias et Moises Filius eodem modo vestiti cum faculis. Episcopus Ferratinus i. Amerius lotis manibus, et acceptis paramentis, de quibus dixi supra in Capella Sancti Andree sedens in porta Ecclesie super sede posita super tapete fecit exorcismum pro ut in meo rotulo presente dicto Archiepiscopo Procuratore, et Respond. (responderunt) ut dicebat. Postea ivit ad sugestum factum ante Capellam Sanctissimi Sacramenti altitudinis unius pedis ubi sedens super faldistorium versus ad portam Ecclesie fecit Cathechismum unxit eos deinde lavit manus et expectavit Pontificem qui cum Pluviali, et Mitra albis delatus descendit ad Basilicam ipsam Cruce et Cardinalibus secundum ritum procedentibus oravit ante sanctissimum sacramentum, ascendit in suggestum ivit ad sedem positam ante columnas Capelle Sacramenti versus Ecclesiam et lavit manus illo interim Accoluthis candelabra cum luminaribus porta’ (portante) et sine mitra stans dixit: 10
P. RIEGER, Geschichte der Juden in Rom II, Berlin 1895, pp. 423-425.
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Domine exaudi orationem meam / et camor (l. clamor) meus ad te veniat / Dominus vobiscum / et cum Spirito tuo / et orationem / Oremus / Domine Deus virtutum etc. Deinde sedit cum Mitra et tunc fecit portari ante suam Sanctitatem fontem argenteum duo auditores portarunt gremiale quod semper tenuerunt et Pontifex Baptizzavit Eliam quem tenuit Reverendissimus Dominus Cardinalis Crispus, Moisem quem tenuit Reverendissimus Dominus Cardinalis Vitellius, Leonem quem tenuit Reverendissimus Dominus Cardinalis Farnesius. Abraam quem tenuit Reverendissimus Dominus Cardinalis Pacecus, Eliam nepotem predicte Elie quem tenuit Rev. mus Dominus Cardinalis Gesualdus11. In fine Pontifex dedit pacem cum alapa cuilibet ipsorum et sine mitra stans dixit Orationem. V. / Oremus / Omnipotens etc. / Et cum Mitra sedens linivit eos oleo Chrismatis, dedit illis vestem candidam, et facellas accensas, et lavit manus, deinde sine mitra genuflexus incepit. / Te Deum laudamus / te Dominum etc. / Et dicto primo versu stetit usque ad finem Himni at cum Accoliti tulissent candelabra dixit Orationem. Sedit cum Mitra recepit babtizzatos ad osculum pedum, deinde sine mitra stans presente Cruce dedit benedictionem, et concessit presentibus indulgentiam decem Annorum, et totidem quadragenas. Assistentes Diaconi Reverendissimi Cardinales fuerunt Reverendissimus Dominus Cardinalis Vitelius, et Simoncellius, duo Prelati assistentes servierunt de libro et Candela. Pontifex completis omnibus ut supra oravit ante Sanctissimum Sacramentum et altare Vulnis (!) Sancti qui fuit ostensus et delatus in sede rediit ad Palatium. Fuerunt dicta die in Basilica Sancti Petri infiniti Judei quibus dedi locum subtus Organum Cardinales steterunt ante sugestum in bancis positis in forma rotunda.
Il Firmano testimonia che il pontefice battezzò Elia, che ebbe come padrino il cardinale Crispo, il figlio trentenne Mosè, che ebbe come padrino il cardinale camerlengo Vitellio, e i tre figli di quest’ultimo12 cioè Leone, Abramo ed Elia, i quali ebbero come padrini rispettivamente i cardinali Farnese, Paceco e Gesualdo. La decorazione del piviale rappresenta, quindi, la cerimonia del battesimo celebrato nella basilica di san Pietro il 4 giugno del 1566. Lo studio del tipo del rovescio, poi, ci illumina ulteriormente sulla corretta interpretazione non solo di questa medaglia, ma anche di quella per la quale per prima era stato utilizzato questo stesso rovescio. 11 Cfr Vat. lat. 12283 f. 96v dove si dice che ad Elia Corcos fu dato il nome di Michele e fu tenuto a battesimo dal cardinale Crispo; il figlio Mosè fu chiamato Pio dal nome del cardinale Vitellio, a Leone fu dato il nome Paolo dal nome del cardinale Farnese, Abramo venne chiamato Tiberio ed ebbe come padrino il cardinale Paceco e il piccolo Elia venne chiamato con il nome del cardinale padrino Gesualdo. In Avvisi di Roma (Urb. lat. 1040 f. 246v), a proposito del battesimo di Abramo e del piccolo Elia, si citano come padrini rispettivamente il cardinale Crispo e il cardinale Paceco. 12 Cfr Urb. lat. 1040 f. 246r. Il Du Molinet erroneamente scriveva che Elia Corcos ricevette il battesimo cum tribus filiis et nepote.
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La legenda indicata sulla seconda faccia della medaglia richiama un episodio del Vangelo di Giovanni 5, 14: Vi fu poi una festa per i Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. V’è a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzata, con cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo disteso e sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: “Vuoi guarire?”. Gli rispose il malato: “Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me”. Gesù gli disse: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”. E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare. Dissero dunque i Giudei all’uomo guarito: “È sabato e non ti è lecito prender su il tuo lettuccio”. Ma egli rispose loro: “Colui che mi ha guarito mi ha detto: Prendi il tuo lettuccio e cammina”. Gli chiesero allora: “Chi è stato a dirti: Prendi il tuo lettuccio e cammina?”. Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato, essendoci folla in quel luogo. Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: “Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio”. Quell’uomo se ne andò e disse ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo13.
Nel brano evangelico, Gesù guarisce un uomo malato da quasi quarant’anni e lo dissuade dal peccare ancora ne deterius tibi aliquid contingat14. La legenda della medaglia, invece, si riferisce ad una pluralità di individui come del resto si evince anche dalla scena rappresentata: infatti tra le persone raffigurate non ve n’è alcuno che si distingua dagli altri come nel caso del malato di Giovanni, divenuto protagonista dell’episodio,
Tav. III – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Medagliere, Md. Pont. Paulus. IV, XXVIII,85,2. Medaglia di Paolo IV realizzata da Gian Federico Bonzagni (?) nel 1555. Bronzo, 32,70 mm. 13 14
Io 5,1-14. Io 5,14.
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e Gesù viene rappresentato a destra nell’atto di benedire la folla di malati, a sinistra, i quali vengono esortati a non peccare più affinché nulla di peggiore della propria condizione contingente possano sperimentare NE DETERIVS VOBIS CONTINGAT. Non è la prima volta che questo rovescio appare sulle medaglie pontificie. Lo ritroviamo, infatti, in una medaglia di Paolo IV Carafa, realizzata nel 1555 con molta probabilità dallo stesso Bonzagni15, associata ad un dritto che reca lo stemma del pontefice circondato dalla legenda PAVLVS IIII PONT MAX AN I. Anche in questo caso, tale medaglia è stata interpretata da molti studiosi come una medaglia celebrativa dell’elezione del Carafa avvenuta il 23 maggio 155516. Erroneamente direi, perché la medaglia di Pio V e quella di Paolo IV hanno un unico filo conduttore e soprattutto le stesse motivazioni alla base della loro realizzazione. Appena eletto, Paolo IV stabilì severissime prescrizioni per gli ebrei con la bolla Cum nimis absurdum emanata il 14 luglio 1555: Cum nimis absurdum et inconveniens existat ut iudaei, quos propria culpa perpetuae servituti submisit, sub praetextu quod pietas christiana illos receptet et eorum cohabitationem sustineat, christianis adeo sint ingrati, ut, eis pro gratia, contumeliam reddant, et in eos, pro servitute, quam illis debent, dominatum vendicare procurent: nos, ad quorum notitiam nuper devenit eosdem iudaeos in alma Urbe nostra et nonnullis S.R.E. civitatibus, terris et locis, in id insolentiae prorupisse, ut non solum mixtim cum christianis et prope eorum ecclesias, nulla intercedente habitus distinctione, cohabitare, verum etiam domos in nobilioribus civitatum, terrarum et locorum, in quibus degunt, vicis et plateis conducere, et bona stabilia comparare et possidere, ac nutrices et ancillas aliosque servientes christianos mercenarios habere, et diversa alia in ignominiam et contemptum christiani nominis perpetrare praesumant, considerantes Ecclesiam Romanam eosdem iudaeos tolerare in testimonium verae fidei christianae et ad hoc, ut ipsi, Sedis Apostolicae pietate et benignitate allecti, errores suos tandem recognoscant, et ad verum catholicae fidei lumen pervenire satagant, et propterea convenire ut quamdiu in eorum erroribus persistunt, effectu operis recognoscant se servos, christianos vero liberos per Iesum Christum Deum et Dominum nostrum effectos fuisse, iniquumque existere ut filii liberae filiis famulentur ancillae […]17.
L’incipit della bolla pone l’accento sul fatto che gli ebrei erano sì tollerati dalla chiesa Romana in quanto testimoni della verità della fede cristiana, ma al solo scopo che essi riconoscessero i propri errori e spinti dalla pietà e dalla benevolenza della Sede Apostolica compissero ogni sforzo per ap15
Alcuni studiosi attribuiscono il diritto di tale medaglia a Gian Federico Bonzagni e il rovescio a Giovanni Antonio de’ Rossi. 16 Cfr CNORP II, Roma 2003, p. 468. 17 Bull., VI, pp. 498-500.
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prodare alla vera luce della fede cattolica. Dalla bolla fu stabilito che ogni città non avesse più di una Sinagoga, che gli ebrei non potessero acquistare immobili, anzi che vendessero ai cristiani quelli in proprio possesso. Ad essi fu imposto di indossare cappelli di colore giallo, fu vietato di avere servi cristiani e fu isolato per essi in Roma il quartiere che ormai abitavano da tempo immemorabile, nella zona del Portico d’Ottavia. Lo scopo della politica dei ghetti era la conversione degli ebrei; chi si fosse convertito avrebbe avuto diritto, in premio, ad una vita senza restrizioni particolari. E poiché molti giudei divennero cristiani, papa Carafa nel marzo del 1556 rinnovò la prescrizione del suo predecessore che impose alle comunità dello Stato Pontificio un contributo per la casa dei catecumeni di Roma18, fondata tra il 1542 e il 1543 da Paolo III con lo scopo di provvedere alla conversione di ebrei e maomettani, curando la catechesi prima e il reinserimento sociale dopo19. Pio V il 19 aprile 1566 con la bolla Romanus Pontifex20 rinnovava ed estendeva a tutta la Chiesa le prescrizioni della bolla di Paolo IV che erano state quasi completamente abolite da Pio IV il 27 febbraio 1562. Accanto ai provvedimenti che aveva riconfermato, il pontefice portava avanti una politica volta alla conversione del maggior numero possibile di ebrei. Nell’aprile del 1567 iniziò a diffondersi la notizia che il papa aveva intenzione di cacciare gli ebrei dai suoi territori e con la bolla del 26 febbraio 1569 Hebraeorum gens il pontefice decretò, sulla scia di quanto già avevano fatto Ferdinando il Cattolico in Sicilia nel 1492 e Carlo V a Napoli nel 1539, che gli ebrei lasciassero entro tre mesi tutti i territori dello Stato Pontificio ad eccezione delle città di Ancona e Roma21: […] Urbe Roma et Ancona dumtaxat exceptis, ubi eos solos hebraeos qui nunc eas habitant, ad praedictam memoriam amplius excitandam prosequendasque cum orientalibus negotiationes mutuosque commeatus cum eisdem permittimus tolerandos22.
Gli ebrei, dunque, poterono restare in due sole città dello stato pontificio: Ancona, dove la loro presenza era fondamentale per il commercio 18
L. VON PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, IV, Roma 1922, p. 489. K. R. STOW, Delitto e castigo nello Stato della Chiesa: gli Ebrei nelle carceri romane dal 1572 al 1659 in Italia Judaica. Gli Ebrei in Italia tra Rinascimento ed Età Barocca. Atti del II Convegno internazionale, Genova 10-15 giugno 1984, Roma 1986, pp. 173-192. Sulla conversione degli Ebrei, cfr M. CAFFIERO, Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Roma 2004. 20 Bull., VII, pp. 448-440. 21 PASTOR, Storia cit., VIII, pp. 231-232. 22 Bull., VII, pp. 740-742. 19
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con l’Oriente e Roma, perché, come il pontefice stesso sosteneva, a Roma sarebbe stato più semplice convertirli23. All’inizio del pontificato di Pio V, fra i ragguardevoli ebrei che decisero di convertirsi al cristianesimo, dunque, si ritrovano il vecchio Elia Corcos e i componenti maschi della sua famiglia, avvenimento che, come abbiamo visto, viene rappresentato sul piviale del pontefice. Se, quindi, entrambe le medaglie recano lo stesso rovescio è perché esse intendevano celebrare i provvedimenti presi da tutti e due i pontefici per convertire gli ebrei, conversione che li avrebbe portati a migliori condizioni di vita con la velata minaccia che in caso contrario o di ritorno al giudaismo, sarebbe potuto accadere qualcosa di ancora più grave. Il processo di conversione forzata degli ebrei era già iniziato in Spagna nel Medioevo, quando questi ultimi erano stati costretti ad abbracciare la religione cristiana. Certo, non tutti avevano accettato di buon grado. Alcuni conversos, chiamati anche Marrani, avevano abbracciato il cristianesimo solo per sfuggire alla morte, altri, più che la nuova fede, avevano sposato l’opportunità di cambiare la loro condizione oppressa di ebrei e di migliorare il loro status. Ma, molti di essi, in realtà, pur professandosi pubblicamente cattolici, avevano conservato nell’animo la fede giudaica: in apparenza, vivevano da cristiani, si accostavano ai sacramenti, portavano i figli in chiesa, ma nascosti agli occhi di tutti, nel segreto delle proprie case, seguivano la propria religione di origine, cercando il più possibile di osser-
Tav. IV – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Md. XXXV, 040,1. Medaglia che circolava tra i Marrani. Bronzo, 39,00 mm. La legenda del rovescio recita Cristo re è venuto in pace e nella persona umana di Gesù vivente. 23
R. SEGRE, Il mondo ebraico nei cardinali della Controriforma in Italia Judaica. Gli Ebrei in Italia tra Rinascimento ed Età Barocca. Atti del II Convegno internazionale, Genova 10-15 giugno 1984, Roma 1986, pp. 119-138.
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varne i precetti24. Rifiutati dalla maggior parte degli ebrei per aver rinnegato la propria fede e dalla maggior parte dei cristiani che li considerava ebrei con sangue impuro, furono perseguitati dall’Inquisizione spagnola e furono costretti a lasciare la Spagna e il Portogallo tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI. Molti di loro trovarono rifugio in Italia, insediandosi a Ferrara, a Roma e ad Ancona, luogo quest’ultimo dove furono bene accolti da papa Paolo III. Paolo IV, però, iniziò a perseguitare i Marrani proprio perché era lapalissiano che la loro fosse una conversione solo apparente. Per questo motivo, il 30 aprile 1556, l’Inquisizione stabilì che i Marrani fossero trattati come apostati25 e gettati in prigione; in quell’occasione, sessanta di loro, che riconobbero la fede cattolica come penitenti, vennero trasportati sull’isola di Malta o inviati ai remi delle galere; ventiquattro, che non vollero “riconciliarsi” vennero strangolati e condannati al rogo in pubblico. Per dimostrare la propria adesione alla nuova religione, al fine di allontanare qualsiasi sospetto di apostasia, alcuni Marrani cominciarono a far circolare medaglie particolari che recavano, al dritto, il busto di Gesù e, al rovescio, una legenda in ebraico inneggiante a Gesù, Dio e insieme uomo26, testimonianza più immediata di una religione ormai (almeno pubblicamente) rinnegata.
Tav. V – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Md. XXXV, 040,2. Medaglia che circolava tra i Marrani. Bronzo, 34,30 mm. La legenda del rovescio recita Gesù il Nazareno Messia, Dio e insieme uomo. 24
C. ROTH, Storia dei Marrani, Genova – Milano 2003. PASTOR, Storia cit., VI, p. 489. 26 Ringrazio la dott.ssa Sara Simone della Biblioteca Apostolica Vaticana per avermi aiutato nello scioglimento delle legende in ebraico. 25
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LA DECORAZIONE DEI MANOSCRITTI DI DOMENICO JACOVACCI NEL FONDO OTTOBONIANO LATINO DELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA* Nel 1698 Carlo Bartolomeo Piazza censì le principali biblioteche di Roma soffermandosi con ammirazione su quella Ottoboniana, formata dal cardinale Pietro Ottoboni, poi papa Alessandro VIII, ereditata e accresciuta dal nipote, il cardinale Pietro Ottoboni junior. Nell’elencarne le opere più significative scrisse «Altre due insigni raccolte di rare notizie si custodiscono; cioè l’una di molte, e varie illustri famiglie d’Italia, e di Roma. L’altra di varie, e curiose materie di sacra, e profana erudizione compillate con molto studio del Cavaglier Giaccouacci». È una importante e precoce testimonianza del fatto che erano confluiti in questa biblioteca alcuni manoscritti appartenuti a Domenico Jacovacci, sebbene il suo nome sia stato alterato1. In particolare le «raccolte» alle quali Piazza si riferisce sono Repertorii di famiglie e Repertorii di diverse materie che appaiono puntualmente citati nell’ultimo foglio di un Indice dei manoscritti della Biblioteca Ottoboniana, verosimilmente del XVIII secolo: «Nel credenzino esistente nel 2o braccio della libraria sud(dett)a / Num(ero) 10 Tomi in foglio scritto con lettere dorate nel titolo fuori = Repertorij di materie diverse fatti da Dom(eni) co Jacovacci tutti cartolati / Nel secondo spartimento del med(esimo) / Num(er)o 7 tomi scritti con titolo di fuori in lettere dorate = Repertorij di Famiglie fatti da Dom(eni)co Jacovacci per ordine alfabeto»2. * Rivolgo un particolare ringraziamento al dottor Ambrogio M. Piazzoni, vice Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, che ha reso possibile questo studio con il suo fattivo sostegno. 1 C. B. PIAZZA, Eusevologio romano, overo delle opere pie di Roma, Roma 1698, p. CXXI. Il cognome è indicato in modo assai vario nei documenti e negli studi: si è scelta la forma Jacovacci che sembra la più diffusa nella bibliografia recente. 2 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana (= BAV), Ott. lat. 2544, f. 83v; qui sono elencati anche, al f. 8v «7. Altro in italiano, figurato, con titolo fuori, Traiano trionfante overo Imagine della Colonna Trajana, delineato dal Villamena di Domenico Jacovacci»; f. 14 «24. Altro, italiano, col titolo fuori, Il Cacciatore di Domenico Iacovacci»; f. 77v «9. Cod(ice) Italiano con titolo fuori. Lettere inedite del Beranda [sic] Tom.1 / 10. Cod(ice) italiano che è il tomo 2° dell’opera antecedente / 11. Cod(ice) Italiano con tit(olo) fuori = Memorie del CarMiscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2015, pp. 373-431.
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Come è ben noto, la Biblioteca Ottoboniana fu acquisita nel 1748 dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e i testi di Domenico Jacovacci vi sono ancora conservati3. I Repertorii di famiglie sono una collezione di documenti consultata con frequenza dagli studiosi che vi cercano notizie soprattutto sulle casate della città papale per i secoli dal XIII al XVII. Nonostante la notorietà di questi volumi il loro autore non è stato oggetto di particolari analisi tanto che sino a pochi anni fa si lamentava la mancanza di notizie sul suo conto4. In realtà si hanno varie informazioni sul nobile romano, ma fruite in contesti separati cosicché non si era chiaramente collegato l’autore dei manoscritti ottoboniani con il Maestro delle strade di Alessandro VII e con il committente di Gian Lorenzo Bernini, mentre si tratta sempre dello stesso individuo. Su Domenico Jacovacci (1604-1661), cavaliere di Calatrava, chi scrive ha elaborato uno studio complessivo, soprattutto collegato al suo ruolo di committente e collezionista di opere d’arte, ma in questa sede l’analisi si appunta sulla decorazione grafica dei suoi manoscritti conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana, argomento singolarmente trascurato dalla storiografia5. I Repertorii di famiglie sono un’opera vastissima, conservata nei sette manoscritti Ott. lat. 2548-2554, ciascuno dei quali risulta diviso in più parti per un totale di 27 tomi, in cui sono state censite 4.167 famiglie in ben 11.276 pagine, alle quali se ne sommano altre 440 non numerate, poste dinal Bentivoglio»; f. 78v «Cod(ic)e Italiano con tit(olo) fuori = Notizie di Castel Gandolfo», tutte opere appartenute a Domenico Jacovacci. 3 Sul fondo Ottoboniano si veda F. D’AIUTO, Ottoboniani, in F. D’AIUTO – P. VIAN, Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, voll. 2, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 466), I, pp. 446-450; in particolare sui mss. Ottoboniani latini, si veda M. BUONOCORE – F. D’AIUTO, ivi, I, pp. 453-455. Questo studio si limita ad un gruppo di manoscritti che è stato possibile identificare come di provenienza Jacovacci sulla base delle notizie attualmente note, ma non è escludibile che altri se ne possano trovare nel fondo. 4 P. VIAN, Frammenti e complessi documentari nei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana. Qualche esempio, in Archivi e archivistica a Roma dopo l’unità. Genesi storica, ordinamenti, interrelazioni, Atti del convegno, 12-14 marzo 1990, Roma 1994 (Pubblicazioni degli archivi di Stato. Saggi, 30), pp. 404-441, sopr. p. 427. 5 Archivio Storico del Vicariato di Roma, S. Marco, Battesimi I, f. 395; S. Maria in Campitelli, Morti I, seconda parte, f. 4. Mentre il mio studio era in corso è stato inserito in internet un contributo di C. DE DOMINICIS che contiene varie informazioni sullo Jacovacci, compresi i documenti prima citati. Si veda in www.accademiamoroniana.it/indici/introduzione%20 all’opera, con titolo “Domenico Jacovacci, Repertorii di famiglie. Trascrizione ed Indice di Claudio De Dominicis”, Roma 2013. Ho ricostruito la trasmissione dei beni appartenuti allo Jacovacci sino al tardo XVIII secolo senza trovare specifiche notizie sui suoi libri e manoscritti. Non mi soffermo in questa sede sulle notizie biografiche relative agli anni più avanzati della vita del cavaliere.
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all’inizio delle varie lettere6. I volumi in folio sono accuratamente scritti su pagine elegantemente scandite da linee che lasciano cospicui margini bianchi su tutti i lati del foglio e l’opera era dunque stata allestita in una forma definitiva, si vorrebbe dire “da parata”, adatta a suscitare l’ammirazione del lettore. Le famiglie sono disposte in ordine alfabetico, cosicché dobbiamo immaginare che almeno la raccolta di tutti i singoli dati fosse completata nel momento in cui fu redatto il primo volume dell’opera stessa. Questo ci introduce immediatamente nelle considerazioni relative alla datazione dell’opera che di solito è indicata come pertinente al periodo 1621-1642. Tali date figurano proprio sui disegni del primo e dell’ultimo volume mentre quelli intermedi presentano le seguenti indicazioni cronologiche: Ott. lat. 2549: 1625; Ott. lat. 2550: 1638; Ott. lat. 2551: 1639; Ott. lat. 2552: 1640; Ott. lat. 2553: 1640. Considerare il 1621 come data di redazione del primo volume è però certamente impossibile per vari motivi, il primo dei quali è che lo stesso primo tomo contiene in realtà almeno una registrazione pertinente al 1624 e non è meno significativo che nell’anno scritto sul disegno lo Jacovacci fosse ancora un adolescente, avendo soli diciassette anni. Nel primo tomo del secondo volume dell’opera compare addirittura la data 16417. Tutti i volumi in questione recano inoltre un’annotazione interna, che consiste in un computo delle famiglie presentate per ciascuna lettera, redatta nel marzo 1655. Questa annotazione compare in tutti i volumi anche del secondo Repertorio di cui parleremo successivamente e costituisce un termine post quem non inoppugnabile mentre stabilire quando l’opera sia stata cominciata è arduo. Come si vedrà in seguito, a parere di chi scrive essa esisteva nel 1638 anche se non si può affermare in quale stato di elaborazione. Non meno importante è un altro ordine di problemi, ai quali si vuole qui fare solo un breve cenno, ovvero chi abbia effettivamente realizzato quest’opera e per affrontarlo conviene fornire alcune essenziali notizie su Domenico Jacovacci. Questi, figlio di Marcantonio e della sua terza moglie Giulia Muti, era nato in una famiglia di antico lignaggio, imparentata con altre importanti 6 Per una descrizione analitica del contenuto si veda V. FORCELLA, Catalogo dei manoscritti riguardanti la storia di Roma che si conservano nella Biblioteca Vaticana II/ Codici Ottoboniani, voll. 4, Torino – Roma – Firenze 1879-1885, II, 1880, pp. 235-394; C. A. BERTINI FRASSONI, Codici vaticani riguardanti la storia nobiliare, Roma 1906, pp. 67-80. 7 BAV, Ott. lat. 2548, pt. 1, f. 311: de Albertonibus; Ott. lat. 2549, pt. 1, f. 82: Caietani. Sbaglia FORCELLA (Catalogo cit.) ad indicare la presenza nel primo tomo della data 1639 nei documenti sulla famiglia Albernozi, poiché la data è 1369 (f. 166 del manoscritto).
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casate romane, che aveva però superato il suo momento di massima importanza storica, certamente raggiunto nel XVI secolo quando aveva dato alla Chiesa due cardinali8. Rimasto orfano del padre quando aveva solo un anno, Domenico era stato allevato da due zii, il vescovo Ascanio († 1612) e Prospero († 1634), che aveva militato al servizio di vari nobili e aveva assolto diversi incarichi nell’amministrazione cittadina9. La nobiltà dei suoi avi e l’aiuto di un Orsini permisero allo Jacovacci di acquisire l’importante titolo di cavaliere di Calatrava, conferimento di cui si ebbe notizia a Roma nel settembre del 1625, ma resta da chiarire se l’impresa fu portata a buon fine anche per sue specifiche benemerenze10. L’Orsini in questione dovrebbe essere Francesco (1600-1667), fratello minore di Paolo Giordano II, educato in Spagna e certamente presente nel paese iberico nel 1624-25 per seguire gli affari di famiglia, entrato poco dopo nell’ordine gesuita11. L’Avviso riporta: «Il Sig(no)r Dom(eni)co Jacovazzi nobile Rom(an)o in gr(azi)a del Sig(no)r Abb(at)e Orsino, che si trova in Spagna ha ottenuto da S(ua) M(aes)tà Catt(oli)ca la Croce, et l’habito di Calatrava». L’afferma8 Sulla famiglia si vedano C. WEBER, Genealogien zur Papstgeschichte, voll. 6, Stuttgart 1999-2002 (Päpste und Papsttum, 29), IV, 2001, in particolare p. 615 con albero genealogico; M. D’AMELIA, Verso la caduta. Le famiglie Margani e Iacovacci nella Roma del Cinquecento, in Disuguaglianze: stratificazione e mobilità sociale nelle popolazioni italiane (dal sec. XIV agli inizi del secolo XX): relazioni e comunicazioni presentate da autori italiani al II Congré Hispano Luso Italià de Demografía Histórica, Savona, 18-21 novembre 1992, Bologna 1997, I pp. 83107, soprattutto pp. 95-97; M. BEVILACQUA, Palazzo Jacovacci Baldinotti Carpegna. La fabbrica rinascimentale e barocca da Giulio Romano a Giovanni Antonio De Rossi, in M. BEVILACQUA – C. DI BELLA, Palazzo Baldinotti Carpegna sede di commissioni parlamentari del Senato della Repubblica, Roma 2009, pp. 17-73, con riferimenti ai diversi fondi di documenti. Fondamentali opere manoscritte sono: Roma, Biblioteca Angelica, ms. 1638: G. P. CAFFARELLI, De Familiis romanis vel Romae (c. 1609), f. 44; ms. 1604: D. JACOVACCI, Historiae familiae suae, sive regestum instrumentorum, aliarumque scripturarum ab. a 1177 ad 1635 suam familiam spectantium (1635-38: le notizie relative alla famiglia si arrestano al 1635 ma un appunto interno reca la data 1638). Archivio di Stato di Roma (= ASR), G. ALVERI, Famiglie romane, t. XX, ff. 30-96 (testo non datato ma anteriore al 1625 e posteriore al 1613 poiché vi è ricordato il terzo matrimonio di Giulia Muti che avvenne in quell’anno). 9 Per notizie su Prospero si vedano i tre manoscritti citati nella nota 8. Le date di morte degli zii di Domenico si ricavano da ASR, Atti Stato Civile Napoleonico, Appendice, Libri parrocchiali, busta III, S. Maria in Aquiro, Morti 1597-1644, f. 56 (Ascanio: 22 aprile 1612), f. 60 (Carlo: 20 giugno 1613), f. 173 (Prospero: 30 gennaio 1634). 10 BAV, Urb. lat. 1095: Avvisi 1625, f. 557v, in data 5 settembre. Il titolo di cavaliere è registrato per la prima volta, per quanto mi è noto, nel testamento della parente Giulia Farfenga, redatto il 6 gennaio 1627: Archivio Storico Capitolino, Archivio Urbano, sez. I, A. Campora, b. 214, ff. 85-86. 11 G. A. PATRIGNANI, Menologio delle pie memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù, voll. 4, Venezia 1730, II, pp. 6-8; per la presenza in Spagna si veda V. CELLETTI, Gli Orsini di Bracciano, Roma 1963, pp. 157-158.
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zione «che si trova in Spagna» dovrebbe riferirsi all’Orsini, ma resta una limitata possibilità che invece sia relativa allo Jacovacci perché in altri casi, sempre negli Avvisi, si ricorda la cerimonia di consegna a Roma della croce, a differenza di quanto accade nella circostanza che ci interessa. Tra il gennaio del 1621, allorché fu eletto caporione del rione Colonna, e il dicembre 1626, quando fu nominato custode a vita della Fontana di Trevi, un solo documento a me noto si riferisce a Domenico e allo zio Prospero, nel giugno 1622, ma non è stato possibile controllarlo e verificare se Domenico era presente alla stipula dell’atto12. Il controllo effettuato sugli Stati delle anime, purtroppo, non ha dato informazioni perché mancano proprio le registrazioni del periodo che interessa, mentre nel 1630, il primo anno disponibile, Domenico viveva da solo con il vecchio zio Prospero e vari servitori; dunque non è possibile chiarire se in quegli anni (1621-26) Jacovacci era o no a Roma13. Stranamente, benché fosse l’ultimo esponente del suo ramo familiare, Jacovacci non sembra essersi sposato sebbene a ciò non ostasse la sua appartenenza all’ordine cavalleresco i cui membri, dal secolo precedente, erano solo tenuti alla “castità coniugale”, ovvero a non contrarre più di un matrimonio14. Sin dal 1627 assunse una posizione importante nella sua famiglia, occupandosi attivamente della costruzione della cappella nella chiesa di S. Paolo alla Colonna che fu realizzata con un apposito lascito dello zio Ascanio15. Molti documenti ne attestano il coinvolgimento nella vita cittadina nonché l’attenta amministrazione che realizzava dei suoi cospicui beni. Aveva sicuramente un vivo interesse per le vicende familiari passate, tanto da cercare testimonianze perse o dimenticate dei suoi avi e da possedere un libro con i disegni degli stemmi e delle lapidi dei suoi antenati. 12 Per gli eventi del 1621 e 1626 si veda C. DE DOMINICI, Domenico Jacovacci cit. Il documento del 1622 è segnalato in Roma, Biblioteca Angelica, ms. 1604, f. 196 n. 806, 11 giugno 1622: si tratta di una locazione enfiteutica di terre a Cori, fatta con un notaio del luogo. 13 Il palazzo degli Jacovacci è registrato nella parrocchia di S. Maria in Aquiro: ASR, Atti Stato Civile Napoleonico, Appendice, Libri parrocchiali, busta III, S. Maria in Aquiro, Stati delle anime, 1600-1634: 1630 f. 61; 1631 f. 90v; 1632, f. 120v; 1633 f. 150v; 1634 f. 177v (senza lo zio). Il registro precedente conservato è relativo al 1606 e al f. 44v è ricordata la famiglia di Prospero, un monsignor Jacovacci ma non il piccolo Domenico. 14 G. MORONI, Dizionario di erudizione storico ecclesiastico, VI, Venezia 1840, p. 232. In verità non si hanno notizie su una moglie di Jacovacci ma ci sono riferimenti a suoi figli che, personalmente, non sono riuscita a verificare. Per WEBER (Genealogien cit., p. 615) Domenico ebbe Carlo e Prospero (in realtà nomi di due suoi zii) e per DE DOMINICIS (Domenico Jacovacci cit.) una Marta. 15 M. B. GUERRIERI BORSOI, La cappella Jacovacci in S. Paolo alla Colonna a Roma e altre notizie storico-artistiche sulla distrutta chiesa barnabita, in Barnabiti Studi 30 (2013) [2014], pp. 5-19.
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Il cavaliere era al centro di una rete di relazioni estesa e importante, apparendo molto legato ad alcune famiglie di grande nobiltà cittadina, come i Cesarini, i Frangipane, i Savelli. Si presentava dunque con molti caratteri consueti di un nobile di livello del suo tempo ed è difficile immaginare che dedicasse buona parte della sua esistenza a una grande opera di collazione documentaria, certamente più consona ad uno storico e ad un erudito. Anche ipotizzando che Jacovacci abbia potuto utilizzare materiale già in parte predisposto prima del suo intervento, è indubbio che si giovò di collaboratori, necessariamente esperti nel settore specifico della ricerca storica e genealogica. È ora possibile documentare che Jacovacci corrispose numerosi pagamenti a Costantino Gigli, spesso usato come intermediario con il copista Sebastiano del Pesto, ma che in qualche caso sembra anche aver ricevuto denaro in prima persona16. I pagamenti rintracciati vanno dal 1639 al 1641 per un totale di oltre 200 scudi; in particolare un pagamento del maggio 1641 al Gigli è fatto «per dui repertori dell’A et B» mentre il copista riceve un dono di tre scudi alla fine del lavoro. In linea di massima il copista riceveva 2 baiocchi a facciata, cioè doveva scrivere 50 facciate per avere 1 scudo, ma non tutti i pagamenti sono sicuramente basati su questa equivalenza. Comunque, supponendo costante tale valore, ne dedurremmo che furono scritte oltre 10.000 facciate. Poiché i pagamenti in questione sono elencati in un fondo bancario non possiamo affermare che siano il totale degli esborsi del cavaliere il quale, naturalmente, poteva usare altri istituti di credito o i contanti. Le lettere A e B figurano unite sia nel primo volume del Repertorio di famiglie (Ott. lat. 2548, diviso in quattro tomi, per un totale di 56 facciate non numerate e 1.857 numerate) sia nell’altro dedicato a diverse materie (Ott. lat. 2555, con 663 facciate, mentre il totale delle facciate dell’opera in dieci volumi è 4.938). Appare evidente che la mole del lavoro di Gigli e del copista si rapporta al primo e non al secondo lavoro, e non limitatamente al volume ricordato, ma all’insieme dell’opera. Costantino Gigli (c. 1590-1666), nato dal colto Giovan Battista in una famiglia “civile” e ben imparentata, ma non ricca, fu uno storico apprezzato, particolarmente legato a Francesco Gualdi con cui collaborò per l’opera Delle memorie sepolcrali. Alcuni suoi manoscritti, un tempo attribuiti al 16
ASR, Monte di Pietà, Depositi liberi (sempre così a seguire), Mastri 75-78, 274-273; si veda l’Appendice documentaria. Il nome del copista è scritto in forma variabile e Jacovacci ne usò anche altri nel corso della sua vita.
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Gualdi, si conservano nella Biblioteca Apostolica Vaticana e rivelano i suoi forti interessi per lo studio delle famiglie nobili cittadine, studio basato sulla ricognizione di infiniti documenti d’archivio17. Pensare che Gigli sia stato utilizzato solo come intermediario con un copista, quando non era affatto necessario per questo, appare riduttivo ed è invece molto probabile che abbia collaborato in qualche forma al Repertorio di famiglie, visto anche che alcuni fogli per quest’opera figurano come carta “da minuta” in un manoscritto contenente suoi materiali18. Tutti i volumi dei due Repertori ostentano uno stemma Jacovacci, che l’autore definisce «Arme da me usata», sempre con la croce gigliata di Calatrava, tutti uguali nella sostanza araldica, ma diversi nell’ambientazione, e su questo aspetto ci soffermeremo in seguito. Lo stemma presenta sempre un leone in piedi che sostiene lo scudo con sei crescenti19, e nel volume che Jacovacci redasse con tutte le memorie spettanti alla sua stessa famiglia, oggi conservato nella Biblioteca Angelica di Roma (ms. 1604), scrisse esplicitamente che questo era il vero stemma della casata, anche se ne erano attestati altri. Il leone era certamente considerato una figura araldica fondamentale da Jacovacci e non è casuale che nella celebre medaglia da lui commessa a Bernini, come dono per Alessandro VII, si narri la storia di Androclo e il leone20. I disegni che corredano i primi tomi dei sette volumi del Repertorio di famiglie sono tracciati a penna (Tavv. I-VII) e sembrano voler suggerire l’idea di incisioni, costituendo quasi l’equivalente delle antiporte dei testi a stampa. Come li considerasse lo Jacovacci è esplicitato dalla menzione che se ne fa nell’indice di ciascun volume ove sono definiti Imprese con l’eccezione di quello contenuto nel manoscritto Ott. lat. 2553 chiamato Geroglifico. Quest’ultimo si differenzia dagli altri per non essere corredato da un motto che invece costituisce sempre parte fondamentale di un’impresa; per usare la terminologia antica è come l’anima rispetto al corpo. I disegni non vogliono dunque rappresentare un soggetto reale, poiché 17 F. FEDERICI – J. GARMS, “Tombs of illustrious Italians at Rome”: l’album di disegni RCIN 970334 della Royal Library di Windsor, volume speciale 2010 di Bollettino d’arte, Firenze 2011, pp. 8-14 (con ulteriore bibliografia). I manoscritti sono i Vat. lat. 8250-8257. 18 BAV, Vat. lat. 8254, pt. 2, ff. 420-423. Sugli ulteriori rapporti tra i due personaggi tornerò in altra occasione. 19 T. AMAYDEN, La storia delle famiglie romane, a cura di C. A. BERTINI, voll. 2, Roma [1910-1915], I, p. 458: Arma: d’azzurro a sei crescenti d’argento, disposti 2-1-2-1. Bordura inchiavata di rosso e d’argento. 20 Sulla realizzazione di questa medaglia tornerò in altra occasione. Si veda F. PETRUCCI, Gian Lorenzo Bernini per casa Chigi: precisazioni e nuove attribuzioni, in Storia dell’arte 90 (1997), pp. 176-200, pp. 190-192, con bibliografia precedente.
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l’impresa deve presentare in forma simbolica un proposito, un desiderio, una linea di condotta che si vuole “imprendere”21. Le imprese furono diffusissime nel mondo rinascimentale e nel Seicento ed esiste una notevole trattatistica contemporanea e posteriore su questo fenomeno. Quelle di Jacovacci non soddisfano la precettistica stabilita da Paolo Giovio alla metà del XVI secolo22, e non sono molto simili alle normali imprese, solitamente prive di figure umane, sintetiche e semplici. A ben vedere però, quasi sempre è come se un’impresa abbastanza tradizionale — la figura di una cosa, con un motto — fosse sovrapposta ad un’ambientazione assai articolata nella quale agiscono anche figure umane. Al di là di questi distinguo, la denominazione che l’autore ha prescelta per i disegni induce a interpretarli effettivamente come imprese. L’impresa ha, in senso molto lato, un carattere biografico che Jacovacci sembra rendere più evidente del normale. Infatti, il cavaliere elabora un numero molto elevato di imprese che dovevano ricordare avvenimenti connessi alla sua vita, come accettato dalla trattatistica contemporanea: «quante operazioni io imprenderò, altretante potrò io Imprese formare mutandole secondo l’icominciamento d’altre opere»23. Questa convinzione è basata anche sul modo in cui l’autore si riferisce ai disegni, ad esempio nel ms. Ott. lat. 2548 si legge «Impresa fatta l’anno 1621» ed espressioni simili ritornano negli altri volumi. Verosimilmente il termine «fatta» significa inventata, elaborata, più che disegnata. Anche se l’incompletezza delle informazioni disponibili non consente di sciogliere sempre questi enigmi figurativi, alcuni soggetti delineati sem21 Secondo la definizione di M. PRAZ, voce Impresa, in Enciclopedia Italiana, Roma 1933, ed. cons. 1949, vol. XVIII, pp. 938-940. 22 P. GIOVIO (Dialogo delle imprese militari e amorose, Roma 1555) fissa questi cinque requisiti dell’impresa: 1. che fosse con giusta proporzione di corpo (cioè figura) e d’anima (motto); 2. che non fosse sì oscura da aver bisogno della Sibilla per interprete, né tanto chiara che ogni plebeo l’intendesse: 3. che soprattutto avesse bella vista, cioè rappresentasse cose gradevoli all’occhio, come astri, fuoco, acqua, alberi, strumenti, animali, uccelli fantastici; 4. che non vi comparisse la figura umana; 5. che il motto che n’è l’anima fosse d’una lingua diversa dall’idioma di colui che faceva l’impresa, perché il sentimento fosse alquanto più coperto, e che il motto fosse breve, ma non tanto da essere oscuro o dubbioso (così sintetizza PRAZ, Impresa cit.). Si veda l’edizione commentata di questo testo di Giovio a cura di M. L. DOGLIO, Roma 1978. 23 G. FERRO, Teatro d’imprese, Venezia 1623, p. 207 (volume dedicato al cardinale Francesco Barberini e splendidamente illustrato): «Si fanno l’imprese per rappresentare ad altrui qualche nostro disegno od operatione che noi abbiamo impreso a fare, la quale è seguita da noi, & insieme ottenuto quanto per quella mostrassimo di voler ottenere, viene ella ad havere altresì conseguito il suo fine rispetto all’autore, se bene rispetto agli altri sempre ciò rappresenta. La onde quante operazioni io imprenderò, altretante potrò io Imprese formare mutandole secondo l’icominciamento d’altre opere».
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brano fare effettivamente riferimento all’esistenza del cavaliere, soprattutto se si tiene presente un grave avvenimento che gli accadde nel 1638. Un Avviso del 18 dicembre 1638 informa che «È stato carcerato il S(igno)r Domenico Jacovacci gentilhuomo Romano al quale sono state levate alcune scritture, et anco sono stati carcerati alcuni suoi servitori senza penetrarsi per hora la causa, se bene si dice che gli habbino trovato tra l’altre scritture un libro dell’origine di tutte le famiglie di Roma, et loro descendenze»24. Il libro citato naturalmente ricorda il Repertorio del quale si è già parlato, nel quale forse i Barberini trovavano qualche cosa di disdicevole. Più improbabile mi sembra il riferimento ai volumi genealogici di Ceccarelli, il noto falsario di documenti, che certamente Jacovacci possedeva e frequentemente cita nel suo repertorio genealogico, ma che erano assai diffusi. Dopo venti giorni di detenzione lo Jacovacci fu rilasciato e condannato allo «esilio dalla Città a beneplacito de Padroni [i Barberini] con sicurtà di osservarlo, e di rappresentarsi sotto pena di 10.000 scudi». Di lì a poco il cavaliere si sottrasse all’ambiente romano compiendo un lungo viaggio in Europa con il duca Giuliano Cesarini, che durò circa un anno. Il duca era ancora piuttosto giovane, essendo nato nel 1618, e lo Jacovacci dovette essere un fidato e più esperto compagno con il quale intraprendere l’avventura del Grand Tour. L’importanza del duca fa sì che gli Avvisi ci diano notizia degli spostamenti della piccola comitiva, a cui si unirono in tempi diversi Ludovico Lante e Mario Massimo. I signori passarono per Pisa, verosimilmente per Lione, ove avevano fatto arrivare una rilevante quantità di denaro per mantenersi, raggiunsero la regina ed il re di Francia ed entrarono persino nelle Fiandre. Quando tornarono a Roma Cornelia Caetani, la madre del duca Cesarini, era sdegnata che questi frequentasse lo Jacovacci, tanto da ritirarsi in un convento, sebbene non siano dichiarati i motivi della sua riprovazione nei confronti del cavaliere25. I rapporti di Cornelia con il figlio erano cattivi 24 BAV, Ott. lat. 3341, pt. 2, f. 473v, trascritto in E. ROSSI, Roma ignorata, in Roma 16 (1938), p. 81. 25 Avvisi: BAV, Ott. lat. 3347, pt. 1, f. 1v, in data 25 dicembre 1638; f. 24v, in data 8 gennaio 1639, ff. 115v-116, in data 5 marzo; f. 134, in data 19 marzo; Ott. lat. 3347, pt. 2, f. 220rv, in data 14 maggio; f. 355v, in data 16 luglio; Ott. lat. 3342, pt. 1, f. 84v, ultima data precedente 3 marzo 1640: « È ritornato in Roma il S(igno)r Duca Cesarini assieme con li Ss.ri Dom(eni) co Jacovacci, et Mario de Massimi che l’anno passato se ne passorno a vedere la Francia, et Fiandra con le p(rincipa)li Città dell’Italia»; ff. 143v-144, ultima data precedente 16 marzo: «La Duchessa Cesarini sorella del Card(ina)le Caetano si è ritirata nel Monastero di S(an)ta Caterina di Siena a Monte Magnanapoli dicesi per disgusto che il Duca Cesarini suo fig(lio) lo continui a praticare con Dom(eni)co Jacovacci, il qual Duca Cesarini va incognito dicendosi che voglia ritirarsi dalle molte spese per pagare li debiti fatti da esso, et da suo Padre».
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già da anni, da quando nel 1635 era rimasta vedova e il giovane duca aveva fatto opposizione alla restituzione del quarto dotale, privandola addirittura di parte delle sue suppellettili26. Quanto meno la nobildonna e la famiglia Cesarini saranno state contrariate da questo lungo e costoso peregrinare di Giuliano lontano dalla famiglia e dagli obblighi che gravavano su di lui. Probabilmente non è un caso che il duca, pochi mesi dopo il rientro, si sia sposato con Margherita Savelli, compiendo il passo che ci si aspettava da lui per la continuazione della casata. È possibile però affermare che Jacovacci mantenne forti legami con il Cesarini che esaltò in uno dei suoi scritti e per il quale seguì la realizzazione di un importante volume a stampa, come si vedrà in seguito. Nell’Ott. lat. 2550 il motto, nel quale si legge la data 1638, recita «PROTEXISTI ME A CONVENTV MALIGNANTIV(M) A MVLTITVDINE OPERANTIVM INIQVITATEM» (mi proteggesti dal conciliabolo dei maligni, dalla moltitudine di coloro che operano per l’iniquità; tratto dal I salmo di David, LXIII, 3), frase indirizzata alla figura di Maria Immacolata che domina un bel paesaggio costiero (Tav. III). La Vergine, dunque, avrebbe protetto il dedicante da chi ingiustamente lo accusava. Sembra sicuro il riferimento allo Jacovacci nel manoscritto Ott. lat. 2552 ove si scorge un leone atterrato, ferito e incatenato, con la data 1640 e il motto «NON OBLIVISCAR» (che io non dimentichi), con il quale il cavaliere ricorda a se stesso il dolore che aveva dovuto affrontare (Tav. V). Il leone infatti è la figura alla quale lo Jacovacci ricorre sistematicamente per riferirsi alla sua casata. Nel volume interposto tra i due precedenti, l’Ott. lat. 2551, che reca la data 1639, un colossale albero in primo piano domina un paesaggio sereno nel quale quattro cavalieri galoppano insieme (Tav. IV). Su un cartiglio posto davanti al fusto si legge il motto «NEC IRA IOVIS» (neppure l’ira di Giove). Nella celebre conclusione delle Metamorfosi di Ovidio (15, vv. 87172) è scritto «Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas», versi con i quali il poeta afferma che, grazie all’opera compiuta, nulla potrà distruggere la sua fama. Benché la citazione non sia testuale questo concetto potrebbe essere ben applicato all’opera principale dello Jacovacci contro la quale il potere, in qualche modo, potrebbe essersi accanito. Forse è pertinente anche la considerazione che il motto figura davanti ad un albero e le relazioni tra i 26 P. ROSINI, La duchessa Cornelia Caetani Cesarini con il carteggio inedito presso la Fondazione Camillo Caetani di Roma, in Banca dati Nuovo Rinascimento, immesso in rete il 4 luglio 2009 all’indirizzo www.nuovorinascimento.org, 39 pagine, pp. 27-28. Purtroppo le lettere rintracciate della duchessa si arrestano al 1635.
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vari appartenenti ad un casato prendono normalmente l’aspetto di un “albero” genealogico. L’opera di Iacovacci, elencando i documenti, consentiva proprio queste ricostruzioni genealogiche. Il disegno del volume Ott. lat. 2553, che reca anch’esso la data 1640, ma nessun motto, mostra invece un cerchio formato da un serpente che si morde la coda, l’Ourobus, noto simbolo di eternità, posto ad incorniciare un blocco sospeso in aria sul quale sono raffigurate due mani che si stringono, allusione alla fedeltà, e una freccia conficcata sul blocco stesso, passante attraverso una lettera S (Tav. VI). L’immagine esalta un forte legame, che si suppone eterno o si desidera duri per sempre, ove naturalmente uno dei due personaggi coinvolti deve essere lo Jacovacci (al quale credo alluda la freccia con la S, che ho ritrovato in due quadri a mio avviso provenienti dalla sua raccolta27). Resta invece oscuro con chi egli abbia stretto questo forte legame, a chi prometta eterna fede. L’impresa dell’ultimo volume, datata 1642 e con il motto «APTA REFRINGAM» (che io spezzi le cose unite) mostra infine una bocca di cannone sospesa nel cielo e separata dal suo affusto, precipitato nel paesaggio sottostante (Tav. VII), ma non è stato possibile comprendere cosa o chi Jacovacci avrebbe voluto dividere. Il riferimento a fatti biografici della vita di Jacovacci è ancora più difficile per il disegno del primo volume, Ott. lat. 2548, anche perché degli anni giovanili del cavaliere non sappiamo quasi nulla. Il disegno mostra un grande vascello, letteralmente coperto da riferimenti araldici agli Jacovacci, sopra il quale sembra avvenire una lotta furibonda, con polvere e fumo che coprono la tolda della nave. Il motto «DEEST AVRA PARATO» (cala il vento, stai pronto), sembra illustrare letteralmente le grandi vele flosce che non sospingono più la nave (Tav. I). Carlo Jacovacci († 1613), uno degli zii di Domenico, cavaliere di S. Giovanni con professione fatta a Malta nel 1594, fu certamente al servizio della Chiesa, e forse anche del Granducato, come capitano di navi28. Non so se Domenico può aver desiderato imitarlo compiendo qualche giovanile esperienza sulle navi del tempo, ma il senso profondo dell’immagine resta oscuro e suggerisce l’idea traslata di un momento di interruzione al quale può seguire un brusco cambiamento. Il cavaliere aveva certamente un vivo interesse per il mare, possedeva grandi marine dipinte, in una delle quali era raffigurato un vascello, e 27 Presenterò i due dipinti in un prossimo studio; sono quelli, di cui si parla infra, con levrieri in un paesaggio. 28 A. GUGLIELMOTTI, La squadra permanente della marina romana: storia dal 1573 al 1644, Roma 1882, pp. 138, 147, 160, 163. Notizie su Carlo, che ebbe vari incarichi militari, si trovano nei tre manoscritti citati nella nota 8.
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spesso nei paesaggi presenti nei disegni che ci interessano ricompaiono il mare e le navi, forse più di quanto sia usuale come normale contesto paesaggistico. D’altro canto il viaggio, di cui il vascello è uno strumento, è per eccellenza una metafora dell’umana esistenza, dalla quale ci si aspetta un possibile cambiamento o che ha offerto un evento imprevisto. Il disegno del successivo volume (Ott. lat. 2549) mostra la Fortuna appoggiata su una sfera in mezzo al mare, che sparge soldi e corone di varia natura e lascia cadere armi verso terra. Un leone, allusivo agli Jacovacci, sta accovacciato sulla riva alle sue spalle e sembra osservarla (Tav. II). Il motto «DVMMODO VELIS» allude alla figura stessa, sospinta dall’aria che tende a mo’ di vela il suo manto, secondo la tipica iconografia della fortuna. Nel 1625, come ricordato, lo Jacovacci aveva ricevuto la nomina a cavaliere di Calatrava dalla quale poteva aspettarsi un importante progresso sociale e quindi anche questa volta una lettura in chiave biografica dell’impresa sembra possibile. Infine bisogna evidenziare un ulteriore aspetto problematico di questi disegni: quando furono fatti? Come detto, essi si trovano nel fascicolo iniziale di ciascun volume, contenente l’indice generale, quello dei nomi delle famiglie inserite nel testo e altre indicazioni propedeutiche, dunque questo fascicolo può anche essere posteriore al testo stesso, ma non anteriore. Sembra comunque ragionevole credere che siano stati fatti nel periodo 1638-1642, più o meno in coincidenza con la scrittura dei volumi stessi. I Repertorii di diverse materie, in ben dieci imponenti volumi in folio (Ott. lat. 2555-2564), sono una raccolta di testi realizzata per argomenti disposti in ordine alfabetico. Sembra quasi che per ciascuna voce trattata siano stati estratti i riferimenti ad essa pertinenti da una collezione di libri, poiché ritornano molto frequentemente gli stessi titoli. Potrebbero forse essere i testi a disposizione di Jacovacci, sui quali però non abbiamo alcuna informazione. Non si tratta di una sorta di dizionario, poiché non vi è la definizione del termine selezionato, né la volontà di presentarne gli aspetti fondamentali o di spiegare al lettore di che cosa si sta parlando, quanto una raccolta di citazioni bibliografiche che spaziano da opere antiche sino a volumi del primo Seicento, questi ultimi non molto numerosi. Come già detto l’unica certezza cronologica è che si tratti di opera anteriore al 1655, allorché furono contati i lemmi divisi per lettere. Nell’ultimo volume si ebbe cura di scrivere che le materie assommano a 3.284 e le facciate a 4.938, dunque relativamente poche rispetto all’opera precedente. L’apparato illustrativo (Tavv. VIII-XII) è molto più semplice di quello
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del repertorio genealogico, poiché ciascun volume presenta solo lo stemma Jacovacci, ma con diverse ambientazioni, alcune praticamente uguali a quelle visibili in analoghi disegni della serie precedente. Non è stato possibile individuare un nesso tra le “voci” contenute nel volume e le rappresentazioni presenti nei disegni. In alcuni volumi ci troviamo di fronte a semplici paesaggi, talora con bucoliche rappresentazioni di pastori, come nel ms. Ott. lat. 2562 (Tav. XII), ma in un caso abbiamo anche una veduta urbana, come quella nel ms. Ott. lat. 2564, con una città caratterizzata da torri, un arco e una colonna coclide, che però non può essere considerata una rappresentazione di Roma. Non stupisce trovarvi scene di caccia, come vedremo una grande passione dello Jacovacci. L’inseguimento di un cervo, ad opera di Diana, si distribuisce alla sinistra e alla destra dello stemma nel ms. Ott. lat. 2555 (Tav. VIII), un uomo spara a degli uccelli palustri nel ms. Ott. lat. 2560 (Tav. XI) e una caccia esotica con turchi contrapposti ai leoni è rappresentata nel ms. Ott. lat. 2558 (Tav. IX). In altre due occasioni piccoli drappelli di armati giocano o si muovono nella campagna (Ott. lat. 2556 e Ott. lat. 2557) ed infine, nell’Ott. lat. 2559, si incontra anche una raffigurazione mitologica con Orfeo che suona davanti agli animali, fra i quali vi è persino un unicorno (Tav. X). Se il Repertorio di famiglie di cui si è parlato è l’opera più nota di Jacovacci, un manoscritto che ha rivelato molto sulla vita e gli interessi di questo nobile romano, e si è mostrato di particolare interesse anche dal punto di vista decorativo (Tav. XIII-XVIII), è certamente Il Cacciatore posto insieme da Domenico Iacovacci Cavaliere del Habito di Calatrava libri V (Ott. lat. 1460). È un testo ambizioso, diviso in ben cinque libri, come è enunciato nella «Tavola del Contenuto del Volume»: Il Primo Libro contieni li Uffitij del Cacciator maggiore, del Capocaccia, et Assestatore. I Segni de’ Cani buoni, e i Paesi di dove vengono. Qualità e attenenze del Cacciator a Cavallo, et a piedi. Documenti di tutte le strade della campagna di Roma. Alcuni avvisi circa il Levriero; Et il modo di lassare alle Fiere, e le differenze per la lor morte. Il secondo, l’Uffitio del Bracchiero, e cose ad esso spetta(n)ti. Il modo del far razza de’ Limieri, di elegger i cani migliori, di tenerli, e governarli. Altre circostanze sopra i Cani, e particolarmente de’ Bracchi, e Levrieri, Con l’Infermità e cura di essi. Il Terzo, Le Caccie della Trasteverina, Quelle dell’Isola, Del Latio, e Quelle di là dell’Arrone. Il Quarto, Un Discorso sopra la Cognitione, Infermità, e cura de gli Uccelli.
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Il Quinto, Eloggi, Canzone, e Ottave in lode di Primo, Levriere d’Inghilterra del Sig(no)r Domenico Iacovacci; Con alcuni Sonetti, Strofe, e Madrigali in lode del Sig(no)r Duca Giuliano Cesarini, in occasione, che giovinetto di 15 Anni ammazzò un gran’ Cinghiale, che gli uccise il Cavallo sotto.
Ha dunque un taglio sistematico che vuole presentare tutti gli “ufficiali” coinvolti nella caccia, le modalità di svolgimento, l’utilizzo che si deve fare dei cani. Di questi ultimi si presentano le razze più apprezzate e i sistemi per allevarli efficacemente e allo stesso modo si parla dell’allevamento degli uccelli; quindi delle località in cui si svolgevano le cacce della nobiltà romana, in un ampio territorio intorno alla città. L’ultimo libro invece ruota intorno ad argomenti d’occasione come la celebrazione di un campione di Jacovacci, il levriero Primo, nonché l’esaltazione del duca Giuliano Cesarini che avrebbe abbattuto da adolescente un terribile cinghiale, probabilmente nel 1633. La caccia e l’allevamento dei cani furono attività della massima importanza nella vita dello Jacovacci, occasioni per intessere e coltivare relazioni sociali ad altissimo livello29. La caccia non era infatti intesa come attività di svago solitario, ma come autentico rito di corte, equiparata alla guerra — ovvero l’occasione in cui si prova il proprio valore — e quindi coordinata da ufficiali che vi rivestivano un ruolo importante. Significativa, ad esempio, è l’affermazione che il perfetto principe deve essere cacciatore, perché c’è somiglianza tra il comandare la guerra e la caccia. Ancora, Jacovacci asserisce che il «Cacciator Maggiore» è personaggio di rango, al quale sono concesse speciali patenti da re e principi, e che quando deve parlare con il suo signore non fa anticamera perché la caccia «non patisce dilatione di tempo». Sostiene questa affermazione con un’ampia casistica di esempi, facendo anche riferimento al suo soggiorno a Parigi (che ora sappiamo essere avvenuto nel 1639), alle consuetudini della corte imperiale e di quella spagnola, a quelle degli stati italiani di Toscana, Savoia e Mantova. Jacovacci parla di una realtà che conosce a fondo e soprattutto apprezza profondamente, tanto che non stupirebbe appurare che fu lui stesso “ufficiale” al servizio di qualche cacciatore nobilissimo. In fondo al manoscritto è stata inserita una bella raffigurazione topografica (Tav. XVIII), ripiegata su tutti i lati, che reca la scritta: «Pianta fatta 29
È illuminante a questo proposito il seguente brano di un Avviso del 1625 (BAV, Urb. lat. 1095, f. 80): “Li SS.ri Peretti col mezzo delle caccie delle quali molto si diletta il S(igno)r Card(ina)l Barberino hanno acquistata la gratia di S(igno)ria Ill(ustriss)ima, ond’hora si ragiona quasi p(er) sicuro, che l’Abbate Peretti nella p(rossim)a promot(ion)e debba essere promosso al cardinalato».
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levare da Dom(eni)co Jacovacci per fare una Caccia Reservata comoda, et a proposita per sollievo del Nepote del Papa, nel Paese qui dicontro descritto, e in questo foglio disignato da mettersi nel libro fatto da me intitolato il Cacciatore di Domenico Jacovacci». Il vastissimo territorio piacevolmente raffigurato si trova tra Tevere e Teverone (cioè l’Aniene), e vi sono in mezzo innumerevoli proprietà come «la Cecchina», «la Cinquina», «la Cesarina», il casale di Marco Simone, verso destra Tor Vergata, prossima alla strada per Tivoli, e innumerevoli altri casali. Al centro c’è la strada che va a Lamentana, ovvero Mentana, che era allora un feudo Peretti. Era un territorio ben noto allo Jacovacci perché qui anche lui aveva delle terre, ovvero il casale del Fiscale presso la Nomentana30. Di quale nipote di pontefice si tratti non è noto ma i papabili sono vari: da Antonio Barberini a Flavio Chigi, senza escludere Camillo Pamphilj o Camillo Astalli Pamphilj. Nel volume (ff. 245-248v) è contenuto lo scritto «A Primo levriere d’Inghilterra del Sig. Domenico Iacobacci cavaliere di Calatrava Canzone di Domenico Benigni in occasione della caccia di Lamentana fatta dal Sig. Cardinale Antonio Barberini» che sembrerebbe collegarsi a quanto ricordato. Domenico Benigni (1596-1653) fu un letterato dell’entourage barberiniano31, autore di testi da porre in musica, e questo suo scritto non do30 Nella piramide sulla destra è inserito questo testo: «La riservata pare che possa farsi dalla sboccatura del Teverone nel Tevere lungo esso Teverone sino al precojo delle vacche rosse di fate ben fratelli e suo confine verso Tivoli, attraversi la strada maestra di Tivoli nel confine di Castel Arcione e S. Sinforosa tiri sopra il laghetto e confine tra Marco Simone e Violata attraversi la strada delle molette pigli il confine tra la Saccoccia e Lamentana, seguiti d(ett)o confine fino all’Oster(i)a di fonte di Papa, et il Castel di S. Antonio attraversi la strada di Lamentana, tiri nel confine della Cesarina, e Lamentana del casale di S. Giova(n)ni sino alla macchia delle quadri de Monte Ritondo, ripigli sotto Ciampiglia e sui Costaroni, alla Vale della Cerusa, sotto al Castellaccio fino alla strada d(e)l piano che va a Monte Roto(n)do lungo essa strada sotto la Valle delle ladre a Marcigliano, attraversi la strada maest(ra) arrivi al Tevere e seguiti lungo di esso sin alla medema sboccatura d(e)l Teverone nel Tevere. Dove è principiata la sua terminazione nella pianta oltre il Tevere e Teverone si ved(e) segnata con linea rossa […]. In questa riservata includono le macchie delli Costaroni sopra Marcigliano, d(e)lla Valle de Ladri, d(e)l Castellaccio, d(e)lla valle della Cerusa, e di Ciampiglia, la Macchia delle Quadri, di S. Gio(vanni), d(e)lla Cesarina li costaroni di S. Gio(vanni), la Macchia della Saccoccia, di Marco Simone, e li Costaroni d(e)l suo confine, la macchia de sette bagni, et il costaron d(e)l bufalo; tutte queste macchie sono abili a tener porci e caprij quando saranno risguardate, oltre la communicatione che possono fargnene le risguardate di Lamentana, e di Monte Rotondo con le quali confinano, e nelli larghi si troverà sempre quantità di lepri essendo il paese a proposito e commodo da veder belle carriere. Il bando per restringerlo maggiorm(en)te si potria fare dalli ponte Salaro, Lamentana, Mammolo fino all confini di Monte Rotondo, di Lamentana, di Marco Simone con la Violata, di S. Sinforosa con Castello Arcione e del Precoio de fate ben fratelli verso Tiv(oli)». 31 Segretario dell’abate Peretti nel 1631, cameriere segreto di Innocenzo X, accademico Umorista e censore dell’accademia nel 1638, se ne parla nelle Memorie de’ Gelati e le sue po-
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vrebbe superare il 1645 quando il cardinale Antonio dovette rifugiarsi in Francia a seguito dell’avvento al potere di Innocenzo X. Certo il porporato fu un appassionato cinofilo, tanto da far ritrarre la sua cagna Tigre addirittura da Andrea Sacchi32. La data più tarda segnata sul manoscritto, là dove si ricordano gli anni di nascita e morte di molti cani appartenuti allo Jacovacci, è il 1648 (f. 255). Non è elemento sufficiente per escludere che il testo sia più tardo ma anche l’insistita esaltazione di Primo, perderebbe di interesse e attualità in un libro di troppo successivo. Questo testo di Jacovacci si collega ad una tradizione illustre come attesta uno scritto, vicino nel tempo e nello spirito che lo sottende, ovvero il Discorso sulla caccia di Vincenzo Giustiniani, per altro opera più breve e semplice33. La lettura di questo Discorso è estremamente istruttiva per apprezzare il valore di rito sociale elitario che la caccia rivestiva, là dove il marchese ne sottolinea i costi altissimi e cita, con evidente orgoglio, i partecipanti alle battute. Veniamo ora all’interessantissimo apparato illustrativo che si concretizza in cinque disegni, oltre alla già citata pianta. In questo caso abbiamo un autentico frontespizio disegnato a penna con la figura dominante di Diana accompagnata da due cani uno dei quali, nuotando nel mare, trascina un velo sul quale è scritto il titolo (Tav. XIII). Naturalmente non manca lo stemma familiare e anche il crescente lunare sul capo della dea potrebbe alludere contemporaneamente al mito e all’insegna degli Jacovacci. L’ambientazione di Diana, non in una selva, ma sulla riva del mare attraversato da grandi navi, è certamente inusuale e si noterà l’assoluta identità del vascello con quello visto nel volume Ott. lat. 2548. La cura posta nel raffigurare il paesaggio costiero e il sole parzialmente coperto dalle nuvole è certamente apprezzabile, mentre colpisce sgradevolmente la sproporzione della mano di Diana. Notevole anche la tecnica esecutiva con i segni della penna che accompagnano la forma delle cose — verticali nel monte, ondulati nelle fronde, ecc. — e con l’utilizzo di una sorta di puntinato nelle zone più in luce. Il disegno successivo è di nuovo allegorico con un tronco che brucia, accompagnato dal motto «QUANTO M’INVECCHIO PIÙ TANTO PIÙ ARDO», osservato da un monaco e da una suora mentre un angioletto esie furono stampate nel 1667: G. M. CRESCIMBENI, Dell’Istoria della volgar poesia, voll. 6, Venezia 1730-1736, V, 1730, p. 190. 32 G. INCISA DELLA ROCCHETTA, Notizie inedite su Andrea Sacchi, in L’Arte 27 (1924), pp. 60-76, p. 73. 33 V. GIUSTINIANI, Discorsi sulle arti e sui mestieri, edizione a cura di A. BANTI, Firenze 1981, pp. 81-98.
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attizza le fiamme e l’altro ha ai suoi piedi l’arco e le frecce (Tav. XIV). È probabile che l’ardore qui alluda alla passione per la caccia, il tronco sia metafora del maturo cavaliere mentre non è chiaro il significato delle figure consacrate, che sembrano stupite da tale passione. I tre disegni successivi entrano in medias res e raffigurano i preparativi per una battuta di caccia, la cura dei cani e un eccezionale ritratto del levriero Primo. La raffigurazione della caccia in atto era assai diffusa nell’arte del primo Seicento romano e basterà pensare alle incisioni e ai quadri di Antonio Tempesta, che hanno un taglio epico, con figure molto animate e violentemente contrapposte alle fiere. La grande rappresentazione della preparazione della battuta (Tav. XV) ha tutt’altra impostazione, frammentandosi in molte scene di gusto descrittivo e aneddotico. Ecco così il particolare dell’uomo staffato trascinato dal suo cavallo, un cane che defeca, il nano che tiene un segugio, tra una folla di personaggi intenti a lavorare per organizzare la caccia, sorvegliati dall’ufficiale in primo piano e osservati dai nobili signori arrivati in carrozza sino ai bordi del bosco. L’uomo che comanda la caccia, nell’angolo a sinistra, è accompagnato da un trombettiere che ostenta, ancora una volta, le armi Jacovacci. La scena di allevamento e cura dei cani (Tav. XVI) presenta il gusto del dettaglio curioso in modo ancor più evidente. La “bracchieria” è incredibilmente ambientata sotto due aulici loggiati sostenuti da colonne tortili come quelle del baldacchino berniniano. Servitori si aggirano intorno ai cani feriti, ricucendone i tagli, li sfamano, li puliscono e non manca una scena di accoppiamento. Ancora una volta un folto gruppo di alberi delimita la composizione lasciando vedere in alto i cani riuniti per una battuta, davanti ad un casino, un edificio piuttosto piccolo e semplice, che ricorda una struttura reale. Jacovacci ha diffusamente parlato nel testo delle cure da somministrare agli animali, del cibo da dare loro prima delle cacce per averli forti e prestanti — pane e uova crude — e nei suoi conti si riscontrano sovente pagamenti per l’alimentazione dei suoi cani. L’autore del disegno palesa difficoltà nella rappresentazione degli elementi architettonici, soprattutto le basi delle colonne che appaiono irregolari e anomale. Questi due disegni sono a doppia pagina, ambiscono dunque ad una dimensione imponente, così come lo Jacovacci amava i quadri di grande formato, spesso dedicati a raffigurazioni della natura. Tra le scene dipinte da Jan Miel per la Venaria, negli anni Cinquanta, probabilmente dopo la realizzazione di questi disegni, immortalate in una
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celebre serie di incisioni, ce ne sono alcune che non rappresentano l’azione contro gli animali quanto le fasi che la precedono o accompagnano come «L’andar al bosco», «L’assemblea», «La curea» (ovvero lo studio delle tracce degli animali nel bosco, la colazione, la distribuzione di pezzi di carne ai cani alla fine della caccia) che presentano un analogo gusto34. La citazione di Miel non è casuale poiché Jacovacci aveva quadri di questo pittore, da solo o in collaborazione con paesaggisti, cosicché il suo modus operandi doveva essere gradito al cavaliere. Miel si inquadra tra i Bamboccianti, sempre attenti a cogliere gli aspetti di vita vissuta nelle scene raffigurate, come si riscontra nei disegni appena esaminati, ma non si intende con questo attribuirglieli, quanto proporlo come un possibile riferimento per il disegnatore. L’ultimo disegno, anch’esso a doppia pagina, è un autentico ritratto del famoso Primo (Tav. XVII), celebrato nel manoscritto da versi di illustri letterati, come il già ricordato Benigni, Lelio Guidiccioni (1582-1643), Giovanni Lotti (1602-1686) e Antonio Sforza. Il levriero, appartenente ad una razza di origine inglese, sottile «ma di corpo maggiore», come ricorda il padrone, non è rappresentato intento ad inseguire la preda, ma grandeggia davanti al paesaggio, accompagnato da oggetti che alludono alla caccia. Anche in questo caso il disegno si rapporta con opere pittoriche possedute dal cavaliere, ben quattro grandi quadri con levrieri entro paesaggi, almeno uno dei quali fu eseguito da Giovan Francesco Grimaldi nel 1643. Credo di aver identificato due di questi dipinti, come dimostrerò in una prossima occasione, ed in uno la figura del cane è particolarmente simile mentre nell’altro ricompare identico il corno da caccia visibile nel disegno vaticano. L’Ott. lat. 1457 è un altro manoscritto di grande interesse anche se più per il suo contenuto complessivo che non in relazione alla decorazione grafica. Si intitola Traiano trionfante overo imagini della colonna Traiana delineate dal Villamena di Domenico Iacovacci e all’interno si legge la data 1660. Il volume contiene una serie di rare stampe di Francesco Villamena, in un secondo stato che reca l’indicazione «Si vendono in piazza Navona da Gio. Batta. de Rossi Milanese Roma». Le incisioni erano state approntate nel 1616 per essere pubblicate da Giacomo Mascardi con lo studio in latino di Alfonso Chacón già edito nel 1576, mentre nel testo ottoboniano l’opera del dotto spagnolo è stata tradotta in italiano35. Il manoscritto attesta, evi34
A. DI CASTELLAMONTE, La Venaria reale, Torino 1774, incisioni di G. Tasniere da J. Miel. A. CHACÓN, Historia utriusque Belli Dacici a Traiano Caesare gesti, ex simulachris quae in columna eiusdem Romae visuntur collecta, Romae, Mascardi, 1616; nella pagina «Typo35
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dentemente, il grande interesse nutrito da Jacovacci per la cultura classica e la volontà di uno studio attento dei rilievi, per trarne la conoscenza di usi e costumi dei Romani, come dimostrano le note numerate che accompagnano le immagini. Questa volta il disegno presenta in alto un compasso aperto, intorno al quale si avvolge un cartiglio con la scritta AEQVABIT, e sotto due paesaggi uno dei quali rettangolare e l’altro tagliato in diagonale (Tav. XIX). Visti i precedenti, è verosimile che anche in questo caso si tratti di un’impresa. Il verbo latino ha molti significati che vanno da paragonare a compensare, ma in questo caso l’associazione con il compasso, che serve anche a misurare, farebbe propendere per il primo. Forse l’immagine vuole comparare l’antichità con il presente. I due paesaggi appaiono diversi, sebbene dello stesso tipo, normalmente definito ideale, ma uno appare più frammentario dell’altro, forse come la conoscenza che abbiamo del passato rispetto al presente. Il manoscritto Ott. lat. 2525 contiene le Memorie raccolte dal Cardinal Bentivoglio di Domenico Iacovacci e reca inserito nel frontespizio il solito stemma del cavaliere. Come informa un’avvertenza interna di tratta di una copia tratta dall’originale e che presenta passi eliminati nell’edizione a stampa. Poiché le memorie furono impresse per la prima volta nel 1648 il manoscritto deve essere posteriore a questa data ed è altresì interessante che lo Jacovacci potesse avere accesso ai testi lasciati dal porporato. È un volume elegante, scritto con grande cura, con larghi margini bianchi su cui spiccano i riferimenti al contenuto, iniziali ornate e finalini disegnati. Nel volume c’è un disegno a penna raffigurante varie navi in un porto, alcune delle quali colpite da raggi che provocano incendi provenienti da uno specchio posto su un campanile (Tav. XX). Questo è dentro una città murata dietro la quale di scorge un irregolare monte a sei cime, mentre nel cartiglio in cielo si legge «A MAGNIANIME COSE HA INTENTA L’ALMA ET INSOLITE COSE OPRAR DISPONE»36. In questo caso è possibile che il disegno non debba essere letto come un’impresa relativa al possessore del testo, ma forse come un omaggio all’autore dell’opera, uomo colto e autore di studi importanti, nonché abile negoziatore politico. Lo specchio ustorio
graphus lectoris» si precisa che F. Villamena intervenne sulle precedenti lastre cinquecentesche consumate. 36 Il motto è una variazione di due versi della Gerusalemme liberata di T. Tasso — «A magnanime imprese intenta ha l’alma, et insolite cose oprar dispone» (LII, vv. 411-412) — riferiti a Rinaldo. I monti visibili nel paesaggio sono troppo irregolari per credere che si riferiscano allo stemma Chigi.
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potrebbe essere un riferimento criptico alla capacità del diplomatico di sconfiggere gli avversari con mezzi imprevedibili37. Nel ms. Ott. lat. 2545 è contenuta una versione della celebre opera dedicata da Domenico Jacovacci ad Alessandro VII intitolata Notitie di Castel Candolfo, di Albano, della Riccia, di Genzano e di Nemi con una tavola delle cose in esso contenute al santissimo Padre Alessandro VII date dal suo Vassallo, e Servitore Domenico Iacovacci. Del testo si conoscono molte redazioni, la più importante delle quali è quella conservata nel Palazzo Chigi di Ariccia che certamente è quella donata al pontefice. Probabilmente il testo fu preparato in previsione dell’acquisto del 1656 da parte dei Chigi dell’antico feudo Savelli, un territorio che lo Jacovacci doveva conoscere bene visti i rapporti familiari già ricordati con i Savelli stessi e i Cesarini, nonché i frequenti soggiorni a Genzano38. Il contenuto era certamente già stato approntato in forma finale entro il 1655 poiché il 5 gennaio dell’anno successivo Jacovacci pagò 10 scudi a Giuseppe Vincenzo Marascia «per haver poste insieme le memorie dategli da esso di Castel Candolfo, Albano» ed altri 7,5 scudi il 19 aprile «p(er) Relatione et altro di Castel Candolfo». L’espressione «poste insieme» dovrebbe indicare un’opera di collazione e revisione di appunti di varia natura ma presso la Biblioteca Casanatense di Roma esiste una copia dello studio (ms. 2113) con l’indicazione Notizie […] raccolte da Giuseppe Vincenzo Marascia palermitano che fa pensare ad un coinvolgimento più profondo, relativo anche all’acquisizione dei dati. Non molto si sa di questo sacerdote siciliano, autore di alcuni studi di agiografia locale, se non che visse lungamente a Roma e si spense a Palma nel 1669. In un suo manoscritto conservato a Palermo si conservano dei testi che sembrerebbero costituire un’ulteriore versione di questo scritto39. L’ultima data che figura nel manoscritto di Ariccia è il 2 novembre 1655, relativa alla donazione fatta dal cardinale Antonio Barberini dei 37
Mi limito a ricordare che nei due ms. 1556 e 1604 della Biblioteca Angelica di Roma, appartenuti allo Jacovacci, sono conservati altri disegni, nel primo uno stemma e un’impresa forse di epoca chigiana, e nel secondo solo uno stemma. 38 Ho riportato il titolo dell’esemplare Ott. lat. 2545. F. PETRUCCI in L’Ariccia del Bernini a cura di M. FAGIOLO DELL’ARCO – F. PETRUCCI, Catalogo mostra, Ariccia, Palazzo Chigi, 10 ottobre – 31 dicembre 1998, Roma 1998, scheda 1 A-G pp. 45-49, elenca le versioni esistenti e propone una datazione al 1658. Ringrazio Francesco Petrucci per avermi fornito le riproduzioni del manoscritto e l’autorizzazione a pubblicarle in questa sede. 39 Per i pagamenti si veda ASR, Monte di Pietà, Mastro 330, (1656/I parte), ff. 549, 817. PETRUCCI, in L’Ariccia cit., p. 45 ricorda l’opera della Casanatense. Su Marascia si veda G. ROSSI, G. DI MARZO, I manoscritti della Biblioteca Comunale di Palermo: indicati e descritti, voll. 4, Palermo 1873-1934, I, 1873, p. 52: ms. D 51.
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beni Frangipani, che aveva ricevuto in usufrutto a vita, agli eredi croati dei Frangipani. La versione ottoboniana risale al 1658 e vi si legge che quella era l’ultima stesura dell’opera, come dimostra per esempio la presenza di una premessa, assente nel manoscritto di Ariccia40. Il testo ottoboniano è inoltre corredato dalla fedele trascrizione di alcune iscrizioni, di cui si imitano i caratteri e le cornici di rifinitura (f. 64), inserite nel corso del testo, così come un disegno acquerellato (f. 62a) che mostra un antico monumento rupestre, esistente nei pressi di Palazzolo, dedicato ad un console come indicano vari particolari iconografici e soprattutto i fasci littori41. In fondo al testo alcuni documenti trascritti e altre iscrizioni copiate indicano la volontà di arricchimento del contenuto del volume. La versione delle Notitie già appartenuta ai Chigi è redatta su pergamena e corredata da sette disegni che raffigurano alcuni dei luoghi descritti nel testo, grandi tavole che mostrano il “monogramma” di Jacovacci42. Il contenuto dei fogli del manoscritto di Ariccia è stato dettagliatamente esaminato da Petrucci e va dall’omaggio allegorico al pontefice alla prevalente documentazione topografica. È indubbia l’originalità di alcune inquadrature, con il territorio visto da un immaginario e altissimo punto di vista, cosicché si apprezza la sfericità della terra, specchio di competenze e conoscenze non comuni e di autonomia di approccio al tema della veduta. Petrucci, basandosi sulla presenza del monogramma, ha proposto l’attribuzione dei disegni allo Jacovacci43. 40 All’inizio e alla fine del ms. Ott. lat. 2545 figura questa scritta: «E da sapersi che questa relatione doppo donata la prima volta a N. Sig.re ALESSANDRO VII se ne sono date dell’altre copie fora, le quali di mano in mano si sono andate ampliando, e questa è la più piena, e l’ultima, che si è fatta sino al principio dell’Anno 1658». Già la versione del ms. Chig. H.III.86 presenta ampliamenti ed è posteriore al 9 aprile 1657 allorché fu nominato cardinale il «de Bagni» [Nicolò Guidi di Bagno], citato come proprietario di un casino a Castel Gandolfo, mentre nella versione di Ariccia è ancora detto monsignore. 41 Si veda in merito G. GHINI, Palazzolo in epoca antica, in Il Convento di Palazzolo sul lago albano, a cura di M. COGOTTI, Roma 2002 (Lazio ritrovato), pp. 43-59, sopr. pp. 50-54. 42 Alcuni storici dichiarano che lo Jacovacci autore di quest’opera era di Albano ma non vi è alcun dubbio che egli sia l’uomo qui studiato, anche perché fa vari riferimenti al suo Repertorio sulle famiglie. Sarebbe interessante capire da quale elemento ebbe origine la notizia dell’origine indicata perché essa si rintraccia in autori di solito affidabili come E. LUCIDI (Memorie storiche dell’antichissimo municipio ora terra dell’Ariccia e delle sue colonie Genazzano e Nemi, Roma 1796, p. 3) e O. RAGGI (I Colli Albani e Tuscolani descritti ed illustrati, Roma 1879, p. 83). 43 PETRUCCI (in L’Ariccia cit., pp. 45-49) presentò i sette fogli come di Ignoto, pur notando la presenza del monogramma, successivamente compreso da Luciana Pinto: F. PETRUCCI, in Mecenati e dimore storiche nella provincia di Roma, a cura di F. PETRUCCI, Catalogo mostra, Tivoli, Scuderie estensi, 7 marzo – 7 maggio 2005, Roma 2005, p. 57, qui considera Jacovacci autore dei disegni.
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Questa ragionevole deduzione logica appare ora messa in dubbio dall’esistenza di alcuni pagamenti a Gregorio Tomassini (c. 1616/17-1698), artista a lungo protetto dallo Jacovacci, sintetizzabili nel modo seguente: nel 1655 il cavaliere gli pagò 21,50 scudi per lavori imprecisati mentre nel 1656 fu retribuito per «haver fatto sopra una carta pecora un Paese che rapresenta l’Arme del Papa», per «otto giornate che è stato a Genzano per levare la Pianta di Castel Candolfo» e per aver fatto «una carta di Cosmografia» rispettivamente compensati con 6, 4 e 6 scudi44. Supponendo che anche i pagamenti del primo anno siano per dei disegni avremmo un compenso totale di 37,5 scudi, ovvero mediamente di 5,5 scudi per sette disegni, cioè quante le tavole del testo di Ariccia. Queste raffigurano, citando i titoli dalla «Tavola delle Figure» del manoscritto, «Frontispitio, Paese metaforico, Arme di N(ostro) Sig(no)re co’ i Monti della Sacra Scrittura» (Tav. XXI); «Strada da Monte Cavallo alle Frattocchie»; «Strada dalle Frattocchie à Castello; da Castello ad Albano, alla Riccia, à Genzano, et a Nemi, col ritorno per l’altra parte»; «Prima, e Seconda veduta di Castello Candolfo in prospettiva; Terza veduta in pianta» (Tav. XXII); «Veduta dall’Appartamento di sopra del Palazzo di Castel Candolfo» (Tav. XXIII); «Veduta dalla Sommità del Giardino de Cappuccini di Albano» nonché la Veduta di Genzano con gli stradoni di accesso (Tav. XXIV). Il penultimo e il terzultimo disegno mostrano, come già accennato, il mondo dall’alto, tanto che se ne apprezza la sfericità e forse al primo potrebbe corrispondere la «Cosmografia» (intesa in senso ampolloso come rappresentazione della terra) mentre è evidente il riferimento alla prima e quarta tavola dei pagamenti del 1656. A mio avviso questi disegni necessitano di competente tecniche non modeste, peculiari di un topografo o magari di un architetto e Tomassini ebbe esperienze in questi campi. Mentre sulla specifica attività di architetto tornerò in altra occasione, qui segnalo che, ad esempio, nel 1668 gli furono pagati ben 110 scudi per «un disegno, e prezzo di tre rami intagliati scritti, e stampati a tutte sue spese delle piante concordate in città della Pieve nell’anno 1665 per l’operationi da farsi nelle medesime Chiane»45. 44 Per maggiori dettagli sulla vita e l’attività di Tomassini rimando al mio studio complessivo sullo Jacovacci. In più occasioni il cognome è riportato come Tomasini ma non credo che questo possa essere sufficiente per ipotizzare l’esistenza di due personaggi. Jacovacci pagò ripetutamente questo artista, dal 1654 al 1660, ma non sempre sono indicate le causali. Per i pagamenti qui citati: ASR, Monte di Pietà, Mastro 299 (1655/ II parte), ff. 864, 1117, 1316; Mastro 300 (1656/ I parte), f. 630; Mastro 301 (1656/ II parte), f. 817. 45 S. ROBERTO, Gianlorenzo Bernini e Clemente IX Rospigliosi. Arte e architettura a Roma e in Toscana nel Seicento, Roma 2004 (Roma: storia, cultura, immagine, 12), p. 365.
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Proprio nel 1668 veniva edito dalla Camera apostolica un libro che ricordava questo concordato tra il pontefice e il granduca di Toscana corredato da tre piante del territorio delle Chiane, che non recano nome del disegnatore e dell’incisore, a mio avvivo da identificarsi con il materiale a cui fa riferimento il pagamento precedente46. Due di queste, di ampia dimensione e di eccezionale complessità, sono nel loro genere specifico autentici capolavori, di grande efficacia descrittiva e nello stesso tempo di alto valore estetico, grazie agli inserti decorativi dei cartigli e delle tabelle. Tomassini era senz’altro capace di incidere tanto che in un albero genealogico di casa Chigi, del 1673 circa, appose la scritta «Gregorio TOMASS(in)o del(ineavit) et F(ecit) »47. Egli è altresì l’autore di una pianta del Conclave eretto alla morte di Alessandro VII, nel 1667, dedicata da Francesco Contini, che progettò le strutture destinate ad ospitare i porporati48. La pianta vera e propria, dal profilo mosso e irregolare, si dispiega sopra due vedute della piazza di S. Pietro e di Castel Sant’Angelo, in quest’ultima descrivendo davanti al monumento un curioso contesto pastorale con armenti, rovine e figure umane (Tav. XXV). Tomassini fornì in più occasioni disegni per incisioni. Poco prima del 1677 redasse un elaborato disegno con Paolo III e la rappresentazione delle opere realizzate durante il pontificato farnesiano, inciso da Cesare Fantetti e inserito nella nuova edizione del testo di Alfonso Chacón dedicato ai pontefici. Sebbene non rechi il suo nome, per la stessa opera disegnò anche la tavola con le medaglie del pontificato di Alessandro VII, come attesta il pagamento conservato nella contabilità Chigi49. Questa attività proseguì anche in anni più tardi, come prova un frontespizio per una tesi con il Trionfo della Cristianità del 168550. I suoi disegni per incisioni più noti sono 46 Capitoli e piante concordate sopra l’Operationi da farsi nelle Chiane, In Roma Nella Stamparia della Rev. Camera Apost. 1668. 47 Per un’attenta analisi dei vari stati di questo albero genealogico si veda G. INCISA DELLA ROCCHETTA, Inventario dell’Archivio Chigi, dattiloscritto del 1969 presso la BAV, numeri 25261-25262. Si veda anche D. PETRUCCI, in I Chigi a Formello: il feudo la storia e l’arte, a cura di I. VAN KAMPEN Catalogo mostra, Formello, sala Orsini di palazzo Chigi, 14 novembre – 31 dicembre 2009, Formello 2009, scheda 1 p. 99. 48 L’opera è citata in F. EHRLE – H. EGGER, Die Conclavepläne: Beiträge zur ihrer Entwicklungsgeschichte, Città del Vaticano1933 (Studi e documenti per la storia del Palazzo Apostolico Vaticano, 4), p. 44f, senza riferimento a Tomassini che firma l’opera nell’angolo in basso a destra «Gregori Tomasini». 49 A. CHACÓN, Vitae et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. Cardinalium, voll. 4, Romae 1677, III. tav. tra le coll. 556-557, IV coll. 719-720. V. GOLZIO, Documenti artistici sul Seicento nell’Archivio Chigi, Roma 1939, pp. 353, 355 (è indicato il solo cognome del disegnatore). 50 A. PAMPALONE, La Chiesa trionfante, iconografia perduta di Francesco Civalli, in Annua-
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però contenuti in un bel libro a stampa, sempre di epoca chigiana, come si dirà a breve. Ci troviamo dunque di fronte ad un personaggio versatile e con competenze che spaziano da quelle tecniche a quelle di un vero e proprio artista figurativo. Se l’ipotesi proposta che Tomassini sia autore dei sette disegni chigiani è corretta, la presenza del monogramma dello Jacovacci sui fogli di Ariccia dovrebbe indicare che egli li commise per donarli al papa e non che ne fu autore. Nel 1659 lo Jacovacci ricevette dal duca Giuliano Cesarini un cospicuo rimborso per spese che aveva anticipato in sua vece nei due anni precedenti. Tali pagamenti risultano infatti nella contabilità di Jacovacci, senza particolari indicazioni e non sarebbe stato facile capire a cosa si riferissero. Fortunatamente nel 1659 il cassiere del Monte di Pietà registrò le causali degli esborsi concorrenti al totale ed è immediatamente comprensibile che si tratta di spese relative alla realizzazione di un libro, poiché vi figurano pagamenti di 45 scudi a Gregorio Tomassini «per varij disegni», 102 scudi a Giovan Battista Bonaccini [Bonacina] per «diversi intagli di rame», 21 scudi a Stefano Piccardi [Etienne Picart] per un frontespizio51. L’opera va riconosciuta nel volume Carmina di Virginio Cesarini pubblicato a Roma nel 1658 da Angelo Bernabò. È un libro assai raro, dedicato al pontefice regnante da Filippo Cesarini e pagato da Giuliano, nipote del poeta52, che figura spesso unito con un altro testo dello stesso autore, le Poesie liriche toscane, pubblicato nel 1664, sempre dal Bernabò. Il primo (Tav. XXVI) contiene la bella antiporta con Apollo e una figura femminile, verosimilmente la Poesia, ai piedi di una quercia, posta davanti ai monti sormontati da una stella (ovvero gli elementi araldici chigiani), mentre in cielo sono rappresentati un putto, con il nome di Alessandro VII, e una colomba con le insegne papali, stampa che reca i nomi di Tomassini e Bonacina come disegnatore e incisore. Seguono il ritratto di Virginio Cesarini (firmato da Bonacina), e un secondo foglio, con funzione di antiporta ovvero la celebre immagine del papa portato in portantina verso Genzano, il feudo dei Cesarini, con la veduta delle strade di accesso dalla rio della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon 13 (2013), pp. 194-221, figg. 2-3 (incisione conservata in ASR, Cartari Febei, vol. 92, c. 320). 51 ASR, Monte di Pietà, Mastro 308 (1659/II parte), f. 1137. Qui è registrato il rimborso fatto da Giuliano Cesarini a Jacovacci per i soldi da lui spesi. 52 Il dedicatario dell’opera era fratello di Giuliano ed era l’uomo destinato a perpetuare la famiglia dopo che il duca aveva perso i suoi due figli maschi. Forse questo libro doveva in qualche modo renderlo gradito al pontefice preparandone il destino futuro, ma Filippo, chierico di camera, non generò eredi e i beni Cesarini passarono successivamente agli Sforza.
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parte di Ariccia, disegnata da «Tomasini» e incisa da Picart (Tav. XXVII). Il volume è arricchito da una serie di illustrazioni allegoriche, con testatine e finalini, nonché una rappresentazione del Campidoglio. Nel manoscritto di Ariccia la veduta del tridente di strade, voluto dal duca Giuliano Cesarini, è impostata in modo simile a come appare nella stampa del libro. L’analogia del taglio a volo d’uccello, un po’ più scorciato nel testo a stampa, avvalora l’ipotesi che le due immagini siano state ideate dal medesimo individuo. È difficile ritenere che Tomassini, autore dell’incisione, possa aver visto e tratto spunto da un manoscritto conservato direttamente dal pontefice, mentre è più facile pensare che lo conoscesse perché lo aveva redatto. Nelle Poesie liriche toscane si ritrovano varie delle incisioni presenti nei Carmina ma ve ne sono anche di inedite e soprattutto vi figurano, oltre all’immagine della piazza capitolina, altri dieci siti di Roma e dintorni trasformati dal pontefice regnante53. Questo secondo libro è impaginato in modo del tutto analogo al precedente: all’inizio di ogni nuovo testo poetico c’è una piccola scena, una testatina con elementi allegorici, una maiuscola figurata. Lo stile delle immagini dei due volumi è assolutamente uguale e, benché non sia possibile dimostrarlo, chi ha disegnato le prime deve aver inventato anche le seconde. Limitandoci prudenzialmente al solo libro del 1658, si tratta di un’opera veramente ricca, con le tre tavole a piena pagina e oltre quaranta diverse incisioni, dalle lettere ai finalini, sino a piccole illustrazioni di maggior complessità figurativa. La realizzazione pratica del testo dovette essere seguita dallo Jacovacci, come abbiamo già detto legato da vincoli di “servitù” non meno che da rapporti di stima e fiducia, al duca Cesarini. Ne fu stampata almeno una copia in cartapecora, ed una fu donata al pontefice, che probabilmente ebbe modo di vedere il volume sin dall’ottobre 1657, come ricorda nel suo diario54. 53 Spesso si legge che l’incisione di Picart si troverebbe nel volume del 1664 ma la situazione che ho descritta si riscontra in due opere della BAV (R. G. Lett. It. III 63; Stamp. Barb. GGG VIII 42) in cui i due volumi sono rilegati insieme. I due volumi della BAV citati presentano un diverso assemblaggio delle incisioni, come spesso accadeva in testi di quest’epoca. Nel testo esposto alla mostra di Ariccia la stampa di Picart è indicata come presente nel secondo volume: FAGIOLO DELL’ARCO, in L’Ariccia cit., p. 175 che elenca diversamente anche le vedute architettoniche. Nei testi da me analizzati vi sono: la piazza di S. Maria in Trastevere, la piazza di S. Maria della Pace, la piazza di Castel Gandolfo con la chiesa di S. Tommaso, la piazza del Campidoglio con il palazzo dei Conservatori in evidenza, S. Ivo e il cortile della Sapienza, l’attuale via del Plebiscito con palazzo d’Aste (prima dell’intervento di De Rossi), il colonnato di S. Pietro con il terzo braccio, palazzo Chigi ai SS. Apostoli, piazza Colonna senza la chiesa di S. Paolo e con palazzo Ludovisi in costruzione, l’arsenale di Civitavecchia, piazza del Popolo con le chiese all’inizio del tridente viario. 54 FAGIOLO DELL’ARCO, in L’Ariccia cit., scheda n. 13 p. 175. Molte immagini del volume
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Visti i rapporti documentati in precedenza, dovette essere Jacovacci a scegliere Tomassini, come probabilmente fece con Bonacina che lavorò di nuovo per lui negli anni successivi. Il cospicuo compenso dato a Tomassini non può certo essere relativo solo al frontespizio e all’antiporta, le sole tavole ove figura il nome dell’inventore, ma dovrebbe riferirsi a tutto il contenuto figurativo del libro, certo suggerito da un intellettuale, che istintivamente si tende a riconoscere nello Jacovacci stesso. Queste ultime considerazioni ci introducono al problema dell’attribuzione dei disegni che abbiamo esaminato. L’estesa ricerca d’archivio relativa allo Jacovacci ha permesso di individuare solo un pagamento nel 1649 per dei disegni ad un certo Lazzaro Monello, senza qualifica, artista del quale non ho trovato alcuna notizia55. Ipotizzando un errore dell’estensore del documento si potrebbe pensare a Lazzaro Morelli, scultore berniniano, certamente presente a Roma in quest’anno. Ciò nonostante non mi pare che tale documento possa essere in alcun modo vincolante, poiché non si conoscono disegni di Morelli e la professione di scultore non sembra renderlo particolarmente adatto come illustratore. Come detto, i disegni contenuti nei manoscritti ottoboniani sono di datazione incerta ma, a mio avviso, non anteriori al 1638 circa e prevalentemente compresi entro il 1655 (solo uno è certamente successivo), e quelli del Cacciatore dovrebbero essere collocabili intorno alla metà del secolo. L’intero gruppo rivela una forte omogeneità stilistica che non può sopportare un’eccessiva dilatazione del tempo di esecuzione. Unica eccezione potrebbe essere la pianta per fare la «Caccia Reservata» che, quanto meno, richiede competenze da cartografo, pur essendo assai più naif dei disegni del territorio realizzati da Tomassini per il testo di Ariccia. L’autore è un operatore piacevole, ma non immune da scadimenti qualitativi, che lavora con la scomoda tecnica del disegno a penna con inchiostro, cercando di realizzarvi effetti simili a quelli delle incisioni, là dove costruisce l’ombra con un reticolo fitto di tratti o evoca trasparenze luminose diradando il segno sino ad un leggero puntinato. Si tratta di disegni poco sono riprodotte in G. ROMANI, Tra romanzo e poesia spirituale dagli Innamoramenti … di Angelo Albani agli Epitaffi di Agostino Manni, in Libri e cultura nella Roma di Borromini, a cura di B. TELLINI SANTONI – A. MANODORI, Catalogo mostra, Roma, Biblioteca Vallicelliana, 19 gennaio – 31 marzo 2000, Roma 2000, pp. 99-160, sopr. pp. 111-142. G. MORELLO, Bernini e i lavori a S. Pietro nel «diario» di Alessandro VII, in Bernini in Vaticano, Catalogo mostra, Città del Vaticano, Braccio di Carlo Magno, maggio – luglio 1981, Roma 1981, pp. 321-340, p. 323 (in data 13 ottobre 1657); non citato in R. KRAUTHEIMER – R.B.S. JONES, The Diary of Alexander VII. Notes on Art, Artists and Buildings, in Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte 15 (1975), pp. 199-233. 55 ASR, Monte di Pietà, Mastro 287 (1649/ II parte), f. 917, 10 scudi in data 6 luglio 1649.
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pittorici, con una quasi totale mancanza di ritocchi acquerellati o sfumati, ma con ombre evidenti che servono a creare i volumi. L’autore sembra a tratti scolastico, diligente più che creativo. Si nota la tendenza a ripetere alcune tipologie, ad esempio gli alberi che si piegano assecondando i bordi del foglio, né i visi dei personaggi sono differenziati e intensamente espressivi. A tratti si colgono evidenti errori, ad esempio nella nave del ms. Ott. lat. 2548 che mostra contemporaneamente la poppa e la fiancata senza riuscire a suggerire la posizione in scorcio; nel ms. Ott. lat. 2554 la cittadella fortificata che è raffigurata nella parte superiore del foglio è vista dall’alto, creando un forte contrasto con la costruzione del paesaggio in primo piano. Ancora, nel ms. Ott. lat. 2552 il leone dovrebbe essere sdraiato, ma lo scorcio è troppo debole e la coda sembra innalzarsi innaturalmente verso l’alto. L’autore è fondamentalmente un illustratore, più che un artista, ovvero usa l’immagine per visualizzare un contenuto piuttosto che per creare una forma godibile di per sé. Spesso la penna accompagna la struttura delle cose delineate con cambi di direzione ed è caratteristico il modo di realizzare le chiome degli alberi con un tratto che si arrotola su se stesso, suggerendo i contorni mossi e frastagliati delle chiome dell’albero. Le fronde anteriori si stagliano chiare, lasciando trasparire la carta bianca, contro quelle retrostanti scure, creando un efficace senso di tridimensionalità. Il fondale di cielo raramente è lasciato bianco, ma variato con tratteggi che suggeriscono le nuvole e i raggi solari con un sistema di lavoro veramente simile a quello degli incisori, tanto che possiamo chiederci se questa tecnica non sia stata prescelta per rendere più agevole una successiva trascrizione nel rame. Nella resa degli elementi vegetali l’autore ricorda a tratti i disegni di Giovan Francesco Grimaldi e anche i paesaggi sono affini a quelli dell’artista bolognese56. Sono paesaggi di tipo “ideale”, con piccoli borghi, torri, castelli, ma meno grandiosi e popolati da semplici presenze umane, senza evocare creature mitologiche. Sono vari, senza essere veramente originali, e certe volte sembrano riecheggiare anche i modi di Claude Lorrain e di Gaspar Dughet, tutti artisti dei quali Jacovacci possedette vari dipinti. Grimaldi potrebbe essere stato una fonte di ispirazione per questo disegnatore, forse per il tramite delle incisioni derivate dai suoi soggetti. Un altro artista che l’autore dei disegni di Jacovacci potrebbe aver apprezzato è Dominique Barrière (c. 1618-1678), pittore e incisore assai prolifico, 56 SKA,
A. M. MATTEUCCI – R. ARIULI, Giovanni Francesco Grimaldi, Bologna 2002; D. BATORGiovanni Francesco Grimaldi (1605/6-1680), Roma 2011.
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attivo a Roma dal 1640 in poi, autore di derivazioni da Claude Lorrain e di autonomi paesaggi classicisti, del quale conosciamo anche disegni che rivelano la prevalente pratica incisoria. Non solo la natura, ma anche le credibili e semplici figure inserite nelle sue opere, ad esempio le varie vedute della celebre villa Aldobrandini a Frascati (1647), potrebbero essere state studiate dal nostro disegnatore57. I comprovati e reiterati rapporti di patronage di Jacovacci con Tomassini non possono essere sottovalutati e questo personaggio va preso in considerazione come possibile autore dei disegni vaticani. Nel tentativo di meglio definirne lo stile con testimonianze dirette della sua capacità disegnativa, non mediate dalla trascrizione incisoria, sono stati presi anche in considerazione i disegni contenuti nel codice Chig. P.VII.10, alcuni dei quali firmati58. Senza entrare nel merito delle problematiche architettoniche, ma osservandone solo gli aspetti figurativi, le immagini del pontefice e di altri fedeli inginocchiati, che Tomassini proponeva di inserire, probabilmente in forma di sculture, sugli altari della rinnovata S. Maria in Campitelli, sono perfettamente confrontabili con le figure del libro Cesarini, come mostrano i panneggi semplici e dalle pieghe ampie realizzati con un tratto fluido e sicuro. Molto interessanti sono anche i disegni contenuti nel ms. Chig. P.VI.1, un bel volume formato da disegni raffiguranti soprattutto candelabri e stemmi, certamente eseguiti da più artisti. Sul verso di otto fogli compare la scritta «del Tomassini» e solo su due «del Giorgieti», ma ad entrambi gli artisti penso possano spettare anche altri fogli59. Si tratta di una rac57
M. ROETHLISBERGER, Dessins de Barrière et de Guillerot, in Gazette des beaux-arts 109 (1987), 1419, pp. 139-151; A. NEGRO SPINA, Dominique Barrière, un incisore francese nella Roma del Seicento, in Prospettiva 57-60 (1989-1990), pp. 255-264; M. PRÉAUD, Barrière Dominique, in Allgemeines Künstlerlexikon, vol. 7, München – Leipzig, Saur, 1993, pp. 174-175; L. TREZZANI, Una veduta inedita del parco di Villa Pamphilj, in Bollettino dei Musei Comunali di Roma 22 (2008), pp.189-193; J. BEECHER, Incisioni dubbie di Lorrain attribuite a Barrière, in Grafica d’arte 25 (2014), 97, pp. 7-15. 58 R. WITTKOWER, Carlo Rainaldi and the Roman Architecture of the full Baroque, in The Art Bulletin 19 (1937), 2, pp. 242-315, p. 283; M. PEDROLI BERTONI, S. Maria in Campitelli, Roma 1988 (Le chiese di Roma illustrate, n.s. 21), pp. 15-23; K. GÜTHLEIN, Zwei unbekannte Zeichnungen zur Planungs- und Baugeschichte der römischen Pestkirche Santa Maria in Campitelli, in Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana 26 (1990), pp. 185-255, p. 244. Preciserò in altra occasione nuovi dati sulle modalità di commissione di questi disegni a Tomassini. Disegni architettonici di questo architetto sono conservati anche presso l’Accademia Nazionale di S. Luca ma non sono presi in considerazione perché non utili per l’analisi qui condotta. 59 M. WORSDALE, Bernini inventore, in Bernini in Vaticano, Catalogo mostra, Città del Vaticano, Braccio di Carlo Magno, maggio – luglio 1981, Roma 1981, pp. 231-278, p. 271. Il ms. non ha titolo; il nome di Tomassini compare sui nn. 2, 3, 28, 29, 32-35; quello di Giorgetti sui nn. 40, 41. I due cognomi degli artefici (senza nomi) figurano nell’inventario (n. 389) del
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colta approntata in epoca chigiana, come si ricava dalla quasi costante presenza dello stemma di Alessandro VII, in cui i disegni a penna sono quasi sempre impreziositi da una coloritura all’acquerello. Soffermandoci su quelli di Tomassini se ne ricava la sensazione di una raffinata creatività barocca che associa con grande libertà forme umane, soprattutto putti, simboli araldici, oggetti comuni, come nel candelabro (n. 33) il cui corpo è costituito da un vaso e la parte superiore da un mazzo di fiori. L’artista padroneggia perfettamente lo scorcio, ad esempio nelle chiavi papali che sormontano gli stemmi (nn. 2-3) e si esprime con un tratto spigliato, con frequenti interruzioni nel segno della penna, enfatizzando le forme con il colore chiaroscurato. Sulla base di tutte le opere ricordate, certe o ragionevolmente attribuibili a Tomassini, è evidente che vi sono talune analogie tra i suoi lavori e i disegni vaticani dei codici Jacovacci. Sono somiglianze che derivano dall’appartenenza ad un comune milieu artistico, ad un uguale momento artistico, persino con riferimenti a medesimi temi, come la celebrazione del pontefice Alessandro VII. I confronti sono resi poco probanti dall’essere spesso sbilanciati, là dove si faccia riferimento alle incisioni, e sono poco dirimenti se si considerano i fogli topografici del volume di Ariccia. La maggior vicinanza si riscontra proprio con le due incisioni firmate contenute nel volume fatto per i Cesarini. Le figure del corteo papale sono comparabili con quelle delle scene del volume Il Cacciatore e analoga è l’attenzione al dettaglio, il tono narrativo garbato. La figura inginocchiata davanti ad Apollo nella seconda antiporta ha fisionomia classicheggiante come la Fortuna nel ms. Ott. lat. 2549, ma il panneggio, che nel primo caso è morbido e verosimile, nel secondo è bloccato in una complessità artefatta. Però il ductus dei disegni autografi, soprattutto gli oggetti raffigurati nel ms. Chig. P.VI.1, è molto diverso da quello riscontrabile nei fogli qui analizzati anche se, come accennato, nei volumi di Jacovacci si è forse voluto tener conto di una successiva possibile trascrizione incisoria. Dunque, i caratteri simili non appaiano sufficienti per un’attribuzione fondo Chigi di G. Baronci (IV, p. 161v) presso la BAV. I Giorgetti furono una numerosa famiglia di intagliatori e scultori e tra i primi furono molto apprezzati Pietro Paolo (vivo nel 1651, probabilmente morto nel 1655, quindi da non prendersi in considerazione per questo manoscritto) e Giovanni Maria († 1681), per i quali si veda J. MONTAGU, Antonio and Gioseppe Giorgetti: sculptors to cardinal Francesco Barberini, in The Art Bulletin 52 (1970), pp. 278- 298, p. 279; M. C. BASILI, sub voce Giorgetti Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 55, Roma 2001, p. 291; D. TRIER, Giorgetti, Giovanni Maria, in Allgemeines Künstlerlexikon, 54, München – Leipzig, Saur, 2007, p. 430. Di Antonio Giorgetti si conosce il disegno per il monumento di Luca Holstenio nel ms. Chig. P.VII.9, pt. A, f. 81.
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a Tomassini dei disegni qui esaminati pur consentendo di considerarlo un possibile riferimento per l’autore. Infine, l’ipotesi, come detto confutabile, che Jacovacci sia stato l’autore dei disegni contenuti nel manoscritto di Ariccia lascia però il dubbio che il cavaliere possa essere stato in grado di realizzare da solo i disegni dei suoi manoscritti. I nobili dilettanti erano piuttosto numerosi nella società romana come le fonti stesse attestano, a partire da un noto passo di Baglione che ne ricorda una dozzina60. Molti nobili avevano maestri di disegno e questa capacità era considerata consona con la cultura in senso lato di un gentiluomo, cosicché l’ipotesi ha una certa plausibilità. Non si può negare che sarebbe stato particolarmente comodo per il cavaliere realizzare i disegni da inserire nei suoi libri, contestualmente alla scrittura o nel momento in cui venivano rilegati. Questa ipotesi potrebbe giustificare quel sentore di impegno scolastico che talora si avverte nei disegni, così come taluni errori, e nel caso queste opere siano state effettivamente realizzate da un dilettante esse andrebbero considerate come testimonianza di una competenza apprezzabile.
60 G. BAGLIONE, Le vite de’ pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino à tempi di Papa Urbano VIII nel 1642, Roma 1642, pp. 366-367.
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APPENDICE DOCUMENTARIA Pagamenti sul conto bancario di Domenico Jacovacci ASR, Monte di Pietà, vol. 75 (Mastro 1639/ I parte) f. 717: 15 [marzo], s. 6,35 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) scritture fatte p(er) detto S.r Dom(eni)co» f. 895: 28 [maggio], s. 6,70 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) n. 282 facciate di scritt(u)re p(er) il sud(detto) S. Dom(eni)co, et altro, che doverà scrivere» 21 [giugno], s. 3,40 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) 174 facciate di scrittura fatte da Sebastiano d(e)l Pesto copista» ASR, Monte di Pietà, vol. 76 (Mastro 1639/ II parte) f. 1212: 14 [luglio], s. 8,50 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) facciate 314 di scritt(u) re, et s. 2,50 p(er) carta» 6 [agosto], s. 5 di moneta a Costantino Gigli, «per scritt(u)re fatte da Bastiano copista, et esso S. Costantino si ne doverà far fare ricevuta» 12 [settembre], s. 8 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) 400 facciate di scrittura» 8 [ottobre], s. 7,33 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) diverse scritture fatte p(er) ser(vizio) del sud(detto) S. Jacovacci» f. 1578: 22 [novembre], s. 12,80 di moneta a Costantino Gigli e copisti «p(er) diverse scritt(ur)e fatte p(er) ser(vizio) dell’su(detto) Ill(ustrissi)mo S. Dom(enico)» ASR, Monte di Pietà, vol. 77 (Mastro 1640/ I parte) f. 499: [2 gennaio], s. 7,20 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) scrit(tu)re fatte p(er) ser(vizio) di detto Dom(enico)» 13 [febbraio], s. 9,88 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) diverse scrit(tur)e fatte p(er) ser(vizio) del sud(detto)» f. 844: [31 marzo], s. 7 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) facciate n. 359 di scritture fatte da Sebastiano del Perto Copista» ASR, Monte di Pietà, vol. 78 (Mastro 1640/ II parte) f. 1012: 11 [maggio], s. 3,86 di moneta a Costantino Gigli, «farg(lieli) pag(are) p(er) Sebastiano del Perto Copista […] p(er) scrit(tur)e fatte p(er) detto S. Dom(enico)» [11 maggio], s. 2,61 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) pagarli al detto per copie di scrit(tur)e fatte»
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f. 1175: [13 giugno], s. 7,40 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) facciate n. 370 di scrittura fatta da Sebastiano del Perto Copista» f. 1437: 17 [agosto], s. 10,19 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) doverli pagare a Sebastiano copista per n. 509 facciate di scrit(tura)» f. 1707: 30 [ottobre], s. 8,20 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) n. 410 facc(iat)e di scrittura fatte da Sebasti(an)o del Porto Copista» f. 1859: [1 dicembre], s. 10,43 di moneta a Costantino Gigli, «n. 521 1/2 facc(ia)te di scritt(u)re» f. 1973: 24 [dicembre], s. 5 d’oro e s. 1 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) facc(ia)te n. 429 di scritture fatte da Seb(astiano) del Porto Copista» [nella colonna degli scudi d’oro c’è 5 in quella degli scudi di moneta c’è 7, da considerarsi come il totale; qui lo scudo d’oro vale 1,2 scudi di moneta] ASR, Monte di Pietà, Depositi liberi, vol. 274 (Mastro 1641/ I parte) f. 340: 13 [febbraio], s. 13,49 di moneta a Costanzo (sic) Gigli, «p(er) n. 674 facc(ia)te di scrittura fatte p(er) suo serv(izio)» f. 465: 23 [marzo], s. 13,65 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) n. 682 1/2 facciate di scrittura fatte da Sebastiano del Petto Cupista» f. 569: 26 [aprile], s. 5,30 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) facc(ia)te n. 265 di scrittura fatta per suo serv(izi)o da Sebastiano del Porta Cupista» ASR, Monte di Pietà, Depositi liberi, vol. 273 (Mastro 1641/ II parte) f. 688: 28 [maggio], s. 6 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) dui repertori dell’A et B» 10 [giugno], s. 6 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) copie di scritture, et altro» f. 791: 28 giugno, s. 7 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) facciate di scritt(u)re» f. 906: 7 [agosto], s. 5,50 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) diverse facciate di scritt(u)re fatte p(er) suo servitio» 24 [agosto], s. 5,30 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) diverse facciate di scrittura fatte da Sebasti(a)no del Pesto» 10 [settembre], s. 4,88 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) diverse facciate di scrittura» f. 1060: 20 [settembre], s. 3,71 di moneta a Costantino Gigli, «p(er) resto delle facciate di scritture da Sebastiano del Perto» f. 1166: 20 [novembre], s. 3 di moneta a Sebastiano del Petto, «disse donar(glieli)»
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2548, pt. 1, f. 7: Impresa, disegno a penna e acquerello.
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Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2549, pt. 1, f. 7: Impresa, disegno a penna.
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Tav. III – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2550, pt. 1, f. 6: Impresa, disegno a penna.
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Tav. IV – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2551, pt. 1, f. 6: Impresa, disegno a penna.
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Tav. V – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2552, pt. 1, f. 7: Impresa, disegno a penna.
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Tav. VI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2553, pt. 1, f. 6: Geroglifico, disegno a penna.
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Tav. VII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2554, pt. 1, f. 7: Impresa, disegno a penna.
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Tav. VIII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2555: Stemma Jacovacci, disegno a penna.
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Tav. IX – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2558, f. 7: Stemma Jacovacci, disegno a penna.
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Tav. X – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2559, f. IV: Stemma Jacovacci, disegno a penna.
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Tav. XI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2560: Stemma Jacovacci, disegno a penna.
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Tav. XII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2562: Stemma Jacovacci, disegno a penna.
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Tav. XIII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 1460, f. V: Frontespizio de Il Cacciatore di D. Jacovacci, disegno a penna.
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Tav. XIV – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 1460, f. VII: Antiporta da Il Cacciatore di D. Jacovacci, disegno a penna.
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Tav. XV – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 1460, ff. 1bis v-1ter r: La preparazione della caccia da Il Cacciatore di D. Jacovacci, disegno a penna.
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Tav. XVI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 1460, ff. 57 ter v-57 quater r: L’allevamento e la cura dei cani da Il Cacciatore di D. Jacovacci, disegno a penna,
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Tav. XVII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 1460, ff. 239v-240r: Il levriero Primo da Il Cacciatore di D. Jacovacci, disegno a penna,
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Tav. XVIII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 1460, ff. 256v-257r: «Pianta … per fare una Caccia Reservata», da Il Cacciatore di D. Jacovacci, disegno a penna e acquerello.
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Tav. XIX – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 1457, f. 2: Impresa, disegno a penna.
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Tav. XX – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2525, f. X: Impresa, disegno a penna.
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Tav. XXI – Ariccia, palazzo Chigi: Gregorio Tomassini (attr.), «Frontispitio, Paese metaforico, Arme di N(ostro) Sig(no)re co’ i Monti della Sacra Scrittura», acquerello su pergamena.
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Tav. XXII – Ariccia, palazzo Chigi: Gregorio Tomassini (attr.), «Prima, e Seconda veduta di Castello Candolfo in prospettiva; Terza veduta in pianta», acquerello su pergamena.
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Tav. XXIII – Ariccia, palazzo Chigi: Gregorio Tomassini (attr.), «Veduta dall’Appartamento di sopra del Palazzo di Castel Candolfo», acquerello su pergamena.
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Tav. XXIV – Ariccia, palazzo Chigi: Gregorio Tomassini (attr.), Veduta di Genzano con gli stradoni di accesso, acquerello su pergamena.
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Tav. XXV – Biblioteca Apostolica Vaticana, Stamp. Barb. U.IV.29: Gregorio Tomassini (incisore), Pianta del conclave eretto alla morte di Alessandro VII, incisione.
LA DECORAZIONE DEI MANOSCRITTI DI DOMENICO JACOVACCI
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MARIA BARBARA GUERRIERI BORSOI
Tav. XXVI – Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Lett. It. III.63: Gregorio Tomassini (inventore) e Giovan Battista Bonacina (incisore), Apollo e la poesia in un paesaggio con le figure araldiche Chigi, incisione da V. Cesarini, Carmina, 1658.
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LA DECORAZIONE DEI MANOSCRITTI DI DOMENICO JACOVACCI
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Tav. XXVII – Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Lett. It. III.63: Gregorio Tomassini (inventore) e Etienne Picart (incisore), Alessandro VII e la veduta di Genzano con gli stradoni di accesso, incisione da V. Cesarini, Carmina, 1658.
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CETTINA LENZA
I DISEGNI DEI MONUMENTI NAPOLETANI DI ARCHITETTURA NEI MANOSCRITTI DI SEROUX D’AGINCOURT NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA La «sfortuna critica»1 che Angela Cipriani poteva lamentare nel 1971 a proposito dell’Histoire de l’art par les monumens di Seroux d’Agincourt, al punto da giustificare il suo interesse verso un autore ancora generalmente considerato un esponente dell’erudizione tardo-settecentesca, è stata ampiamente compensata dai numerosi contributi che si sono succeduti da quella data. In particolare, crescente attenzione è stata dedicata alla lunga e complessa elaborazione dell’apparato iconografico, ritenuto a giusto titolo l’apporto più originale del francese nell’intraprendere una storia dell’arte illustrata. La monumentale impresa editoriale, iniziata lentamente a comparire a fascicoli dalla fine di giugno del 1810, ma completata soltanto postuma, nel 1823, nei sei tomi dell’edizione integrale per i tipi parigini di Treuttel e Würtz, si segnala infatti per il corredo di «325 planches» enfaticamente evidenziato sin dal titolo, di cui 73 di architettura, 48 di scultura e 204 di pittura. Appunto alle tavole, che si susseguono secondo un ordine sistematico e cronologico, viene affidato il compito di mostrare il corso evolutivo dell’arte «depuis sa décadence au IVe siècle jusq’à son renouvellement au XVIe», con sommarie didascalie in calce e numeri di rimando alle brevi osservazioni sui singoli monumenti prescelti da d’Agincourt2, nella convinzione, così riassunta dallo stesso autore nel 1786, «qu’on ne peut pas parler affirmativement des arts qu’en ayant leurs productions sous les yeux»3. 1
A. CIPRIANI, Una proposta per Seroux d’Agincourt. La Storia dell’Architettura, in Storia dell’Arte 11 (1971), pp. 211-261, in part. p. 211 e nt. 1. 2 Nelle intenzioni dell’autore, il rapporto tra testo e immagine doveva essere ancora più stringente, prevedendo di far incidere nella tavola la pagina di riferimento della trattazione. Le vicende della pubblicazione sono state attentamente ricostruite in I. MIARELLI MARIANI, Seroux d’Agincourt e l’Histoire de l’art par les monumens. Riscoperta del medioevo, dibattito storiografico e riproduzione artistica tra fine XVIII e inizio XIX secolo, Roma 2005, pp. 169-189. 3 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, Lettere al Tiraboschi, ms. it. 861 = α. L. 8. 4, lettera di Seroux d’Agincourt a Girolamo Tiraboschi, datata Roma, 25 dicembre 1786, cit. in C. GAUNA, La Storia pittorica di Luigi Lanzi. Arti, storia e musei nel Settecento, Firenze 2003, Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 433-472.
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Sulle tavole non mancarono, invece, di appuntarsi le critiche dei contemporanei. Nonostante l’adozione del formato in-folio, i rilievi, fittamente assemblati, appaiono non sempre di eccellente qualità nella resa, soprattutto per le ridotte dimensioni che ne ostacolano la lettura, e complessivamente disomogenei, sia per la differente tecnica incisoria (chiaroscurata o, per lo più, a semplici contorni) dovuta ad artefici diversi4, sia per la disparata provenienza dei materiali, che d’Agincourt fece comunque rielaborare dal suo fidato collaboratore, Gian Giacomo Machiavelli5. Eleggendo a sistema quell’intenso scambio di disegni così frequente negli ambienti artistici tra Sette e Ottocento, Seroux realizza infatti il suo ricchissimo repertorio grafico attingendo o a incisioni e pubblicazioni precedenti, opportunamente verificate, o a originali forniti da amici, collaboratori e corrispondenti, di volta in volta menzionando le fonti o segnalandone con orgoglio — nel caso dei secondi — il loro carattere inedito. Questa capillare ricerca, che ha impegnato oltre trenta anni e assorbito notevoli risorse, ha lasciato traccia nel corpus di disegni, in gran parte alla base delle incisioni, ma spesso non impiegati per le tavole dell’Histoire, che, unitamente a lettere e appunti, è confluito, per volontà testamentaria dello stesso d’Agincourt, nei fondi della Biblioteca Apostolica Vaticana. In grado di offrire un significativo tassello alla ricostruzione della genesi dell’opera e addirittura a una sua rilettura critica6, il materiale preparatorio ha attirato la considerazione p. 116. D’Agincourt annunciava a Tiraboschi: «j’en ai presque 300 gravés», ma «cela ne suffise pas pour mon ouvrage que je voudrais intituler Histoire de l’art par les monumens». 4 Il nome degli incisori è dichiarato dallo stesso d’Agincourt, che in nota alla Préface cita, per le tavole di architettura, Benedetto Mori, «élève du célèbre Piranesi», e Domenico Pronti, mentre, per quelle di scultura e pittura, Tommaso Piroli, «l’un des meilleurs graveurs romains», e il proprio collaboratore Gian Giacomo Machiavelli. J.-B.-L.-G. SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art par les monumens, depuis sa décadence au IVe siècle jusq’à son renouvellement au XVIe; ouvrage enrichi de 325 Planches, Tome Premier: Texte. Tableau historique. Architecture, Paris 1823, p. ij, nt. 1. Secondo William Young Ottley, altro collaboratore di d’Agincourt, «Some of the plates were etched by Piroli, but the greater part were done by an inferior French artist whom Agincourt kept with him for that purpose». W. Y. OTTLEY, Notices of Engravers, and Their Works, Being the Commencement of a New Dictionary …, London 1831, s.v. Chevalier I.B. Seroux d’Agincourt. Non volendo accreditare questa testimonianza, l’incognito artista francese sarebbe stato, invece, Machiavelli. 5 Ancora d’Agincourt dà notizia, in più luoghi dell’Histoire, della collaborazione di Gian Giacomo Machiavelli, già menzionato come incisore delle tavole, «qui, de plus, en a fait seul tous les dessins» con lodevole «patience et […] intelligence». SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Premier, Préface, p. ij, nt. 1. Per un profilo biografico, cfr. E. CALBI, Un album di Gian Giacomo Machiavelli, disegnatore del d’Agincourt, in Ricerche di Storia dell’Arte 33 (1987), pp. 31-48. 6 Per la Cipriani, «L’originale apporto dei manoscritti […] non si esaurisce unicamente in un repertorio di documenti […], bensì incide anche nel campo della storia della critica, permettendo attraverso un più sicuro e chiaro esame del materiale di base, una più fedele visio-
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degli studiosi prevalentemente per il suo indubbio valore documentario, specie nel caso di monumenti medievali perduti o profondamente alterati, ma esso offre anche importanti indicazioni sulla produzione e circolazione di rilievi e sugli studi in corso alla fine del XVIII secolo e all’inizio del successivo, utili per ricostruire il quadro della cultura artistica di quegli anni e la sua rete internazionale di relazioni. Da qui la rilevanza della questione della provenienza dei disegni, prescindendo da quelli del Machiavelli e dai pochi, ancora incerti, di mano dello stesso Seroux: accanto ai rilievi eseguiti su sua richiesta, in taluni casi si tratta appunto di materiali redatti spontaneamente e poi donati o ceduti al francese. Già Henri Loyrette ha contribuito a porre in luce l’apporto di alcuni artisti7, basandosi anzitutto su quanto asserito proprio da d’Agincourt: infatti, se solo rari autori firmano i disegni, come il pittore inglese William Young Ottley e l’architetto pavese Paolo Mescoli, Seroux non manca di solito di dichiarare le paternità dei rilievi nella descrizione analitica delle tavole; inoltre, dall’analisi dei fondi vaticani, Loyrette ha individuato ulteriori contributi non citati, come quelli del pittore trevigliano Giovan Battista Dell’Era, dell’orvietano Carlo Cencioni e dell’olandese Humbert de Superville. Nel complesso, però, la lista dei collaboratori per le tavole di pittura e scultura, pur includendo nomi famosi, quali Antonio Canova, Vincenzo Camuccini, Pierre Peyron, Louis-François Cassas accanto ai meno noti Louis-François-Sébastien Fauvel, Jurami e Laurent Blanchard, resta fortemente lacunosa8. La provenienza risulta, al contrario, più accertabile per i rilievi di architettura, che richiedevano il coinvolgimento di disegnatori dotati di specifiche competenze tecniche. Il loro elenco annovera un folto numero di architetti francesi, compresi giovani pensionnaires dell’Académie de France a Roma di cui Seroux era un assiduo frequentatore — come LouisÉtienne Deseine, Louis-Jean Desprez, François-Jacque Delannoy — accanto a Charles Norry, Jacques-Guillaume Legrand, Jacques Molinos e Claude Billard de Bélissard, tra i quali risaltano Léon Dufourny, per il suo ruolo preponderante, e Pierre-Adrien Pâris, divenutone poi il devoto amico degli ultimi anni9. Abbastanza nutrito anche il gruppo degli architetti italiani: ne dei criteri cui l’autore si è attenuto, dei presupposti culturali, degli ultimi raggiungimenti critici». CIPRIANI, Una proposta per Seroux d’Agincourt cit., p. 224. 7 H. LOYRETTE, Séroux d’Agincourt et les origines de l’histoire de l’art médiéval, in Revue de l’Art 48 (1980), pp. 40-56. 8 Cfr. MIARELLI MARIANI, Seroux d’Agincourt cit., pp. 139-152. Nel novero degli autori va incluso lo stesso Tommaso Piroli, il quale, oltre a provvedere all’incisione (vedi supra), eseguì anche alcuni disegni; ibid., p. 155. 9 Sulla base di analogie stilistiche e dei temi raffigurati, Pierre Pinon ipotizza comunque
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oltre il citato Paolo Mescoli, che fornisce rilievi acquerellati delle chiese romaniche pavesi, Alessandro Emanuele Marvuglia, autore dei disegni della Zisa di Palermo; Gaetano Stegani, per quelli della fortezza di Rimini; Ruffillo Righini di Forlinpopoli, per le chiese di Bologna e Ravenna; Giovanni Antolini, per i rilievi del Sacro Speco di Subiaco; Leonardo De Vegni, per la pianta e spaccato trasversale di un sepolcro etrusco; il ravennate Camillo Morigia, per alcune particolarità della volta e la disposizione del portico di San Vitale10. Tuttavia, non mancano, anche in questo caso, zone d’ombra, come quelle riguardanti la provenienza dei disegni di architetture napoletane, che si cercherà appunto di rischiarare riprendendo ipotesi già avanzate da chi scrive11, qui sviluppate e soprattutto corroborate dal raffronto tra i materiali conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana e quelli ritrovati presso diversi istituti partenopei. Il soggiorno napoletano di d’Agincourt La scelta dei monumenti napoletani di architettura presenti nelle tavole dell’Histoire, sebbene funzionale alla trattazione sviluppata nella «partie esthétique», deve comunque essersi fondata sull’esperienza diretta maturata da d’Agincourt durante il suo soggiorno nella capitale borbonica. Purtroppo, non ci è pervenuto nessun taccuino sul quale Seroux, per ogni località, doveva certamente fissare le proprie annotazioni, corredandole magari con veloci schizzi. Inoltre, conosciamo poco del suo viaggio napoletano, a quanto pare unico; infatti, nonostante la permanenza a Roma per circa trentacinque anni, a differenza di altri studiosi francesi che approfittarono della relativa vicinanza per visitare più volte il territorio campano (come il citato Pâris, che vi si recò tre volte, nel 1774, nel 1783 e nel 1807), Seroux non vi ritorna, così come avviene, d’altronde, per le mete italiane toccate prima di stabilirsi definitivamente nell’Urbe. Gli unici elementi — a parte quelli desumibili dal testo e dalle descrizioni delle tavole — ci sono di mano di Pâris altri disegni, rispetto a quelli attribuitigli da Loyrette, presenti nei fondi della Biblioteca Apostolica Vaticana. Cfr. P. PINON, Pierre-Adrien Pâris (1745-1819), architecte, et les monuments antiques de Rome et de la Campanie, Rome 2007 (Collection de l’École française de Rome, 378), pp. 74-80. 10 LOYRETTE, Séroux d’Agincourt cit.; sui rapporti con Morigia, cfr. ancora MIARELLI MARIANI, Seroux d’Agincourt cit., p. 142 e passim. 11 C. LENZA, Una testimonianza perduta della cultura neoclassica: l’opera inedita di Emanuele Ascione sui monumenti napoletani, in Architettura nella storia. Scritti in onore di Alfonso Gambardella, a cura di G. CANTONE – A. MARCUCCI – E. MANZO, Milano 2007, vol. I, pp. 405417 e tavv. f. t.; EAD., L’architettura napoletana del classicismo nell’editoria artistica tra Sette e Ottocento, in Architettura del classicismo tra Quattro e Cinquecento. Campania saggi, a cura di A. GAMBARDELLA – D. JACAZZI, Roma 2007, pp. 237-265.
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forniti dalla Notice redatta da Achille-Étienne Gigault de La Salle, premessa all’edizione parigina dell’Histoire del 182312, e dal successivo profilo propostone da Jules Dumesnil nell’Histoire des plus célèbres amateurs français et de leurs relations avec les artistes del 185813, mentre nessuna menzione del viaggio al Sud figura nelle Notizie storiche pubblicate dal «suo amico» romano Giovanni Gherardo de Rossi nel 182714. Incerta anche la durata del soggiorno: stando a quanto afferma de La Salle, Seroux parte alla volta di Napoli dopo una prima permanenza di diciotto mesi a Roma, dove era giunto il 29 novembre del 1779, avendo attraversato la Savoia e il Piemonte, toccato Genova, dimorato a Modena, Bologna, Venezia, Firenze, e aver visitato Perugia, Gubbio, Cortona e Siena. In base a questo dato, d’Agincourt si sarebbe messo in viaggio dopo il maggio del 1781, e infatti, nei primi mesi di quell’anno — come scrive lui stesso nell’Histoire — effettua una seconda visita alle catacombe romane, già attentamente esplorate nel maggio precedente. Per de La Salle, d’Agincourt torna a Roma «à la fin de l’année», dopo una sosta nella ricca biblioteca dell’Abbazia di Montecassino, dai cui codici può trarre una miniatura inedita per la sua opera15. Tuttavia, da una lettera di Louis-Jean-François Lagrenée, direttore dell’Académie de France, del 19 dicembre del 1781, a quella data Seroux non risulta ancora rientrato16, mentre addirittura Dumesnil ne posticipa il ritorno alla fine del 1782, con tutta probabilità erroneamente, anche se non è escluso che Seroux si trovasse ancora a Napoli agli inizi del nuovo anno17. In ogni caso, il tempo, almeno superiore a sei mesi, deve essergli stato sufficiente per conoscere i monumenti della città e dei dintorni, documentarsi sulla loro storia ed entrare in contatto con artisti e intellettuali. Gli autori citati non fanno alcun cenno alle sue relazioni nella capita12 A.-É. GIGAULT DE LA SALLE, Notice sur la vie et les travaux de J.L.G. Seroux d’Agincourt, in SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome premier, pp. 1-10. 13 J. DUMESNIL, Histoire des plus célèbres amateurs français et de leurs relations avec les artistes, Tome III: J.-B. Louis-Georges Seroux d’Agincourt. Thomas-Aignan Desfriches. 17151814, Paris 1858. 14 G. G. DE ROSSI, Notizie storiche del cav. G. B. Lod. Giorgio Seroux d’Agincourt, Venezia 1827. 15 SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Cinquième: Planches. Peinture; Première Partie, Pl. LXVIII: Peinture de deux Obituaires, manuscrits latins du XIIe ou XIIIe siècles, nr. 3. Ai piedi di Montecassino rileva le chiese del Crocifisso e di S. Maria delle cinque torri. 16 Correspondance des Directeurs de l’Académie de France à Rome avec les surintendants des Bâtiments publiée d’après les manuscrits des Archives nationales par MM. Anatole de Montaiglon et Jules Guiffrey sous le patronage de la Direction des Beaux-Arts, vol. XIV, I780-1784, Paris 1905, p. 145. La lettera è segnalata in MIARELLI MARIANI, Séroux d’Agincourt cit., p. 46, nt. 91. 17 Lo lascerebbe supporre un appunto che figura su uno dei disegni napoletani riferito ai monumenti angioini della Pl. XXX, dove è riportata la data 1782; cfr. infra, nt. 53.
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le borbonica, tranne Dumesnil che, forse ingannato dall’errata cronologia proposta, ipotizza che proprio qui d’Agincourt abbia incontrato Angelica Kauffmann, la quale, tuttavia, da ottobre 1781 a gennaio 1782 si trovava a Venezia e solo nell’aprile avrebbe iniziato a Napoli il ritratto dei componenti della famiglia reale, terminato poi a Roma. Comunque, tenendo conto del rango dell’ex fermier général, è lecito supporre che egli abbia frequentato i salotti più accreditati, a partire da quello dell’ambasciatore francese Jean-Baptiste-Charles Clermont d’Amboise, più vicino alla vita di corte che agli artisti suoi connazionali18, al cui limitato interesse per le arti e le antichità suppliva il suo segretario, Dominique-Vivant Denon, all’epoca consigliere d’ambasciata19 e reduce dall’importante campagna di rilievi nel Mezzogiorno condotta su incarico di Jean-Benjamin de Laborde per l’impresa editoriale diretta dal Saint-Non. Del Voyage pittoresque, il cui primo volume risale appunto al 1781, erano già apparsi diversi fascicoli, e l’opera doveva essere ben nota a d’Agincourt, che in seguito riserverà parole di sincero apprezzamento nei confronti del Saint-Non, conosciuto personalmente in Francia20. Che tale conoscenza possa aver favorito o meno i suoi rapporti con Denon21, è presumibile che questi abbia inaugurato, fin da allora, quell’amicizia con Seroux proseguita negli anni, a Roma o da Parigi, durante la sua brillante carriera. Una frequentazione privilegiata dovette intrattenerla con William Hamilton, ministro plenipotenziario della corte britannica a Napoli, le cui residenze di Palazzo Sessa e del Casino di Posillipo, oltre a ospitare lussuosi ricevimenti, costituivano anche fulcri della vita intellettuale e artistica della capitale22. D’altro canto, il contatto tra i due si era già stabilito in precedenza, come attestano le lettere che Seroux invia nel 1779 a Hamilton da Bologna e Firenze23, e si potrebbe anche congetturare che questi, 18 Cfr. É. BECK-SAIELLO, Napoli e la Francia. I pittori di paesaggio da Vernet a Valenciennes, Roma 2010. 19 Vi si insedia ufficialmente dal 1779. Cfr. P. LELIÈVRE, Vivant Denon. Homme des Lumières “Ministre des Arts” de Napoléon, Paris 1993. 20 «Tous les amis des arts doivent un tribut de reconnaissance à la mémoire de cet excellent homme, pour l’utile emploi qu’il fit de ses talens et de sa fortune; tous ceux qui, comme moi, ont été liés avec lui, gardent précieusement le souvenir de ses belles qualités». SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Premier: Architecture, p. 96, nt. a). 21 I rapporti di Denon con l’abbé, stabiliti tramite de Laborde, si incrinarono presto a causa del diario, che Saint-Non rielaborò per il testo del Voyage, sfociando poi in un’autentica controversia sulla sua titolarità. Cfr. P. LAMERS, Il viaggio nel Sud dell’Abbé de Saint-Non. Il “Voyage pittoresque à Naples et en Sicile”: la genesi, i disegni preparatori, le incisioni, Napoli 1995. 22 Cfr. C. KNIGHT, Hamilton a Napoli. Cultura, svaghi, civiltà di una grande capitale europea, Napoli 2003. Con Hamilton Seroux condivideva l’interesse per le terrecotte e i vasi figurati. 23 Modena, Biblioteca Estense Universitaria, Autografoteca Campori, lettere di Seroux
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notoriamente vicino agli artisti, sia stato il tramite tra d’Agincourt e LouisFrançois Cassas, certamente a Napoli nel 1779. Ma le lacune nella biografia del pittore, proprio da quell’anno fino al 1782, allorché, dopo il viaggio in Istria e Dalmazia, torna nuovamente nel Regno di Napoli per proseguire verso la Sicilia24, non consentono di appurare quando abbia incontrato d’Agincourt, né quando abbia eseguito, con Mareux, disegnatore del corpo d’artiglieria, il rilievo dell’Arco di Alfonso presente nell’Histoire25. Una parte del tempo Seroux deve averlo di sicuro impiegato a consultare le biblioteche della città. Alla difficoltà di accedere alla Biblioteca Reale, per la quale era previsto il complesso trasferimento dal Palazzo di Capodimonte a quello dei Regi Studi, sopperivano le biblioteche monastiche e soprattutto le fornite librerie private, aperte agli studiosi, anche stranieri. Vito Capialbi da Monteleone ci restituisce una traccia del rapporto stabilito con il marchese Francesco Taccone, al quale avrebbe, più tardi, inviato da Roma in dono una preziosità bibliografica per la sua «belle bibliothèque», evidentemente a lui familiare, pregandolo di considerala «comme marque de sa reconnaissance»26. Raffinato bibliofilo e collezionista di antichità e d’arte, in corrispondenza epistolare con i principali bibliotecari ed eruditi del tempo (da Jacopo Morelli della Marciana di Venezia all’abate Gaetano Marini custode della Vaticana, ad Angelo Mai dell’Ambrosiana, ad Angelo D’Elci, instancabile incettatore di quattrocentisti), Taccone poteva fregiarsi di una fornitissima e scelta biblioteca — alienata nel 1812 per costituire d’Agincourt a Willam Hamilton datate Bologna, 15 febbraio 1779, e Firenze, 23 agosto 1779, per le quali cfr. MIARELLI MARIANI, Seroux d’Agincourt cit., pp. 33-34 e 36-37. 24 Nel profilo biografico di Cassas redatto da Dumesnil, dopo aver ricordato la sua presenza a Napoli nel 1779, si legge: «Il visita les Calabres à cette époque, dessinant ce qu’il trouvait de plus remarquable sur son passage», per essere poi a Roma nel 1782. DUMESNIL, Histoire des plus célèbres amateurs cit., Notice sur Cassas, pp. 341-345. Inoltre, in una lettera di Cassas a Thomas-Aignan Desfriches, datata «Rome le 18 septembre 1787», sempre trascritta da Dumesnil, si fa cenno a un altro breve soggiorno a Napoli: «Je pars demain pour Naples, autant par dissipation que par curiosité; j’y ferai peu de séjour», ibid. p. 260. 25 Secondo la Miarelli Mariani, i disegni preparatori della tavola sarebbero invece databili al 1782, mentre Cassas predisponeva i materiali per il Voyage del Saint-Non. MIARELLI MARIANI, Seroux d’Agincourt cit., p. 147. Cassas fornisce a d’Agincourt altri materiali, tra cui i disegni del piedistallo della Colonna di Teodosio a Costantinopoli e dell’Arco di trionfo a Salonicco utilizzati nell’Histoire. 26 Questo il testo del biglietto che l’accompagnava, riportato senza indicazione di provenienza: «D’Agincourt le prie d’accepter ce livret du XIV. siècle comme marque de sa reconnaissance. Il n’est digne de prendre place dans la belle bibliothèque de Monsieur de Tacconi que per ce qu’il a appartenu à deux de ses illustres compatriotes». V. CAPIALBI DA MONTELEONE, Marchese Francesco Taccone, in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli ornata de’ loro rispettivi ritratti compilata da diversi letterati nazionali dedicata al Sig.r T. J. Mathias inglese, T. VI, Napoli 1819, s.v. L’estensore ritiene che si tratti di «un’edizione quattrocentista»; in ogni caso, il pregio del dono fa supporre un consistente debito di riconoscenza nei confronti del Taccone.
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il nucleo della Biblioteca Gioacchina della Nazione Napoletana, voluta dal governo murattiano27 — punto di riferimento per i viaggiatori colti, unitamente a collezioni d’arte e a una lodata quadreria; e proprio al marchese di Sitizano si rivolgerà Luigi Lanzi per riceverne notizie utili alle sue ricerche sulla scuola pittorica napoletana, procurategli dal dotto antiquario e regio istoriografo Francesco Daniele. Tra le escursioni, de La Salle cita una duplice salita sul Vesuvio e la visita a Ercolano, Pompei, Salerno e Paestum. Benché lontano dagli ambiti di studio di Seroux, l’interesse per il Vesuvio era stato rinverdito dalla spettacolare eruzione dell’8 agosto del 1779, che aveva fornito materia di approfondimento agli scienziati ed eruditi partenopei, come al padre somasco Giovanni Maria della Torre28, a Michele Torcia, la cui relazione, in edizione bilingue, venne corredata da una scenografica veduta notturna di Pierre-Jacques Antoine Volaire29, ma soprattutto a Hamilton, che ne fece oggetto di un Supplement dei suoi Campi Phlegraei30. Nella lettera indirizzatagli da Firenze il 23 agosto del 1779, Seroux si rammaricava di non aver potuto assistere all’evento, dichiarando che si sarebbe ritenuto «bien heureux de le voir avec vous yeux si bons observateurs et d’y prendre de vos leçons»31, chiarimenti che avrà potuto recuperare durante le sue ascese al cratere del 1781. A Napoli, invece, si trovava già Cassas, che può darne un dettagliato resoconto, riferendo anche le informazioni comunicategli direttamente da Hamilton32. Come sottolinea Dumesnil, le motivazioni della visita a Pompei risiedevano nella possibilità, rispetto ai grandi monumenti pubblici di Roma, di trarne lumi sul modo di vivere degli antichi e sui caratteri delle loro abitazioni33. Tuttavia, a differenza dei disegnatori del Saint-Non e, pri27 Cfr. V. TROMBETTA, Storia e cultura delle biblioteche napoletane. Librerie private, istituzioni francesi e borboniche, strutture postunitarie, Napoli 2002 (Crisopoli, Collana di bibliografia e storia delle biblioteche 2), pp. 272-286. 28 G. M. DELLA TORRE, Incendio trentesimo del Vesuvio accaduto gli 8 agosto 1779, Napoli [1779]. 29 M. TORCIA, Relazione dell’ultima eruzione del Vesuvio accaduta nel mese di agosto di questo anno 1779 / Rélation de la dernière éruption du Vésuve arrivée au mois d’Août de cette année 1779, Napoli [1779]. 30 W. HAMILTON, Supplement to the Campi Phlegraei: Being an Account of the Great Eruption of Mount Vesuvius in the Month of August 1779. Communicated to the Royal Society of London / Supplément au Campi Phlegraei ou Relation de la grande éruption du mont Vésuve au mois de août 1779. Communiquée à la Société Royale de Londres, Naples 1779. 31 Lettera di Seroux d’Agincourt a Willam Hamilton datata Firenze, 23 agosto 1779, cit. 32 Copie de la description faite par Cassas de l’éruption du mont Vésuve du 8 août 1779, in DUMESNIL, Histoire des plus célèbres amateurs cit., pp. 200-203. Nel testo, estratto dal suo diario, Cassas riferisce i colloqui con l’ambasciatore: «M. Hamilton me disait […]». 33 «Les monuments antiques que Rome actuelle a conservés peuvent bien donner une
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ma di loro, dello stesso Pâris, Seroux non vi esegue rilievi, limitandosi a impiegare nell’Histoire alcuni disegni desunti dalle pitture ercolanesi34, forse ricalcati dai grandi tomi de Le Antichità di Ercolano esposte o dalla più accessibile edizione che ne trasse Tommaso Piroli, suo collaboratore, i cui primi tre tomi, sulle pitture, appaiono tra il 1789 e il 1790. I dipinti offrivano esempi di quelle architetture irragionevoli stigmatizzate da Vitruvio, d’ineseguibile costruzione ma di straordinaria leggerezza, già accostate al gotico da Charles-Nicolas Cochin nella celebre Lettre sur les peintures d’Herculanum, aujourd’hui Portici del 1751 e che, nel contesto napoletano, vennero individuate come esempi di «difformità gotica» da Mario Gioffredo nel suo trattato del 176835. Più tardi, in una lunga lettera a Girolamo Tiraboschi, d’Agincourt ritornerà a discutere sulle analogie tra gli «arabesques» e il presunto sistema gotico, facendo riferimento proprio al «mauvais usage» invalso nella pittura del I secolo testimoniato dalle pitture di Ercolano36. Durante il percorso verso Salerno e Paestum, la meta più meridionale raggiunta, d’Agincourt si ferma presso il monastero benedettino della SS. Trinità della Cava per consultare i preziosi codici della sua biblioteca, da cui infatti proviene una miniatura da lui pubblicata37, ricevendo anche noidée de la magnificence des Romains, de l’immense pouvoir des empereurs et du luxe déployé dans les fêtes et réunions publiques; mais ils ne peuvent pas faire comprendre la manière de vivre des simples particuliers il y a dix-huit cents ans, ni donner une idée de leurs demeures»; ibid. p. 11. Secondo l’autore, d’Agincourt si sarebbe addirittura stabilito a Pompei. 34 SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Quatrième: Planches. Architecture et Sculpture, Pl. XLI: Principaux monumens de l’architecture dite Gothique, élevés dans les diverses contrées de l’Europe, aux XIVe et XVe siècles époque la plus brillante de ce système, nr. 20, e Pl. LXVIII: Tableau des formes et proportions des colonnes, avant et durant la décadence de l’Art, jusqu’à son renouvellement, nrr. 41 e 52. 35 Gioffredo sviluppa una severa critica verso «i capricciosi ornamenti di Architettura» che figurano in «molte pitture» che «si sono trovate nell’Ercolano», indicati come origine della «difformità gotica», dal momento che «quando le arti insieme coll’Impero declinarono gli Architetti senza il freno delle regole che sovente strigne e trattiene l’immaginativa, come erano rozzi nel disegno, presero per norma i capricci degli antichi pittori, e l’usarono». Dell’Architettura di Mario Gioffredo Architetto napoletano Parte prima Nella quale si tratta degli Ordini dell’Architettura de’ Greci e degl’Italiani, e si danno le regole più spedite per disegnarli, Napoli 1768, p. 9. Sugli aspetti teorici del trattato mi sono soffermata in C. LENZA, “Dell’Architettura” di Mario Gioffredo. Trattatistica ed editoria di pregio a Napoli nella seconda metà del Settecento, in Rara Volumina. Rivista di studi sull’editoria di pregio e il libro illustrato, 1-2 (2002), pp. 73-90. 36 Lettera di Seroux d’Agincourt a Girolamo Tiraboschi, datata Roma, 25 dicembre 1786, cit. 37 SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Cinquième, Pl. LXVIII, Peintures de deux Obituaires, manuscrits latins du XIIe ou XIIIe siècles, nr. 4. Come per Montecassino, Seroux ricorda la benevola accoglienza dei monaci.
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tizia dell’opera che stava preparando Salvatore Maria Di Blasi, archivista del monastero, poi edita nel 178538. Lungo l’itinerario visita probabilmente la Rotonda di Nocera dei Pagani, di cui non erano ancora circolate la pianta e la sezione su disegno di Pâris pubblicate nel III volume del Voyage del Saint-Non e riproposte nell’Histoire39, restituendo, nel testo di commento, il ricordo dell’impressione provata nell’accedervi. Circa le sue visite in città, Dumesnil menziona solo le catacombe di San Gennaro. La notevole attenzione rivoltavi, già a Roma, veniva giustificata da d’Agincourt per ritrovare in esse gli unici esempi di pittura e scultura dei primi secoli della decadenza, e, di fatti, anche da quelle napoletane trae disegni utilizzati nel tomo sulla pittura40; in questo caso, inoltre, dovette essere colpito dalla loro complessa articolazione, di cui pure fa tracciare sommari rilievi41. Alla data del viaggio, ne erano apparse due suggestive vedute di Louis-Jean Desprez, pubblicate dal Saint-Non nel V fascicolo del Voyage, annunciato il 24 aprile del 177942 e confluito nel volume impresso nel 1781, e nello stesso anno vedeva la luce, a Napoli, una dotta dissertazione di Alessio Aurelio Pelliccia43, la cui immaginosa interpretazione, come sistema di strade sotterranee intercomunicanti, viene riportata e discussa da d’Agincourt a commento della relativa tavola44, potendo esserne venuto a conoscenza proprio durante la sua permanenza nella capitale borbonica. La ricerca delle opere di pittura e scultura spinge ovviamente d’Agincourt a esplorare i grandi complessi religiosi della città. Lo attestano le pitture presenti nelle tavole dell’Histoire provenienti dalle chiese di Sant’Antonio al Borgo, dove può ricalcare sull’originale la tempera creduta di Colantonio45, San Lorenzo, nella cui sacrestia può ammirare il San Girolamo 38 M. DI BLASI, Series principum qui Langobardorum aetate Salerni imperarunt ex vetustis sacri regii Coenobii Trinitatis Cavae tabularii membranis eruta eorum annis ad christianae aerae annos relatis a vulgari anno 840 ad annum 1077, Napoli 1785. 39 SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Quatrième, Pl. VIII: Basilique de S.te Agnès hors des murs, Église de S.te Constance, Temple de Nocera. IVe siècle, nrr. 9 e 10. 40 SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Cinquième, Pl. XI: Peintures de diverses catacombes de Rome et de S.t Janvier à Naples. IXe, Xe et XIe siècles, nr. 9, pitture che dichiara di aver trovato ancora esistenti nel 1781. 41 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in avanti omesso),Vat. lat. 13479, f. 40. 42 Cfr. LAMERS, Il viaggio nel Sud cit., p. 391. 43 A. A. PELLICCIA, De Christianae Ecclesiae primae, mediae, et novissimae aetatis politia dissertationes, Tomo III, parte II, Napoli, 1781, Dissertatio V. De Coemeterio sive Catacumba Neapolitana. 44 SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Quatrième, Pl. IX: Tableau des catacombes les plus célèbres, tant payennes que chrétiennes, nrr. 11-14. 45 SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Sixième: Planches. Peinture. Deuxième et troisième Parties. Tables générales des matières, Pl. CXXX: Peinture en détrempe, sur bois, par
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dello stesso artista46, Santa Caterina a Formiello47, San Giovanni a Carbonara48, Monteoliveto49. A loro volta, le illustrazioni dedicate alla scultura riflettono le sue visite al Convento del Carmine50 e soprattutto alla Chiesa di Santa Chiara, autentico museo della scultura trecentesca, con il grande mausoleo di Roberto d’Angiò, all’epoca pressoché integro, e altri numerosi sepolcri, i cui particolari figurano nelle tavole51, rivelando un’attenta ricerca dei monumenti angioini proseguita nella Chiesa di Santa Maria della Croce di Palazzo — in seguito demolita per l’apertura del Foro Gioacchino durante il Decennio francese — che ospitava il sepolcro della regina Sancia di Maiorca52, opere per le quali le incisioni e i disegni della raccolta di d’Agincourt53 rivestono un prezioso valore di testimonianza54. Col-Antonio del fiore, à Naples. XIVe siècle, e Pl. CXXXI: Tête peinte en détrempe, sur bois, par Col-Antonio del fiore, à Naples. XIVe siècle. 46 Ibid., Pl. CXXXII: Autre peinture en détrempe, sur bois, par Col-Antonio del fiore, à Naples. XIVe siècle. 47 Ibid., Pl. CLXIII: Suite chronologique des anciens maitres de l’école Toscane, successeurs de Giotto. XIVe et XVe siècles, nr. 12, Strage degli innocenti di Matteo da Siena. 48 Ibid., Pl. CLVIII: Suite chronologique des vieux maitres des Écoles Bolonaise et Napolitaine. XIVe-XVIe siècles, nr. 10, affresco con la Nascita della Vergine, che d’Agincourt, sulla scorta di De Dominici, attribuisce a Stefanone. 49 Ibid., Pl. CLVIII, nr. 11, affresco della Natività nella Cappella del Noviziato, attribuito, sulla base della stessa fonte, allo Zingaro. 50 SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Quatrième, Pl. XXX, Mausolée du roi Robert à Naples, et autres monumens de la maison d’Anjou. XIIIe et XIVe siècles, nr. 4, statua della regina Margherita. 51 Ibid., Pl. XXX: nr. 5, mausoleo di Roberto d’Angiò; nrr. 9, 10, 11, bassorilievi dal monumento di Carlo, duca di Calabria. Pl. XXXV: Statues, bas-reliefs et autres sculptures de diverses écoles d’Italie. XIVe siècle, nr. 13, particolare dal sarcofago nella cappella della famiglia de Merloto; nr. 14, particolare dal sepolcro delle figlie di Carlo di Durazzo, Agnese e Clemenza; nr. 15, particolare dal sepolcro di Ludovico di Durazzo. 52 Ibid., Pl. XXXI: Tombeau de la reine Sanche d’Arragon, dans l’église de S.te Marie della Croce à Naples. XIVe siècle. 53 Vat. lat. 9840: f. 55v: «Pl. XXX Mausolée du Roi Robert à Naples et autres monumens de la maison d’Anjou. XIII et XIV Siècles»; f. 57r, due disegni riferiti alla Pl. XXX, con appunto: «S. Chiara 1782 Derriere le m.e autel t. du Roi Robert», sopra, a sinistra «La R. Margh. cl. du Carmine», e sul verso del foglio, ripiegato, «Statue de la R. Margherite dans le cloitre du Carmine à Naples […]»; f. 57 v.: altri disegni riferiti alla Pl. XXX, a destra: «Charles Ier f. 2 pl. XIX», con appunto: «Cette figure a été supprimée sur la deuxième épreuve de la pl. XXX hist.e de l’art, et lui a été substituée celle de Charles II son fils, Pl. XXX, 7»; f. 58r, «Pl. XXX n. 9», sotto, a matita leggera: «S. Chiara XIV Siècle […]»; altro appunto sul retro del foglio «Eng. p. 242 endroite du grand autel tomb. de Ch. Duc de Cal. Fils du R. Robert m. en 1328». Gli appunti che accompagnano i disegni testimoniano la complessa elaborazione della tavola, dove Seroux ritenne di intervenire con delle modifiche, sostituendo il monumento di Carlo I d’Angiò con quello del figlio, Carlo II, presente in un monastero ad Aix en Provence, di cui intanto gli era stato fornito il disegno dal collezionista e antiquario Alexandre de Fauris de Saint-Vincent. 54 Tra gli altri, cfr. F. ACETO, Un’opera ‘ritrovata’ di Pacio Bertini: il sepolcro di Sancia di Maiorca in Santa Croce a Napoli e la questione dell’‘usus pauper’, in Prospettiva, 100 (2002),
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Nelle sue perlustrazioni della città, non sfugge infine a Seroux l’Arco di Alfonso in Castelnuovo, il quale, per la presenza di altre fabbriche che ne occludevano la vista, era solitamente ignorato dai viaggiatori stranieri55. Alla “scoperta” dell’Arco alfonsino, sottolineata con soddisfazione, dovette contribuire il suo interesse per le fortificazioni, dovuto alla giovanile esperienza nella milizia, giunto fino concepire un’opera sull’architettura militare, che, sebbene mai sviluppata, lo avrebbe condotto ad acquisire le sue «premières connaissances sur l’état des arts dans le moyen âge»56. E lo conferma la collocazione del rilievo dell’Arco nella tavola destinata a illustrare, per la restante parte, «fortifications militaires». Quello di Castelnuovo costituisce l’unico disegno — purtroppo disperso — dei monumenti napoletani di cui d’Agincourt dichiara la provenienza, attribuendolo, come già ricordato, a Cassas e Mareux. Nulla ci riferisce, invece, che consenta di identificare gli autori dei pur ricchi materiali grafici presenti nella raccolta, per la cui esecuzione sembrerebbe doversi limitare l’apporto dello stesso Seroux ed escludere l’intervento di Gian Giacomo Machiavelli, che non aveva seguito lo studioso nel suo viaggio57. Ciò solleva un interrogativo, che si fa più intrigante a proposito dei rilievi di architettura, peraltro di entità e qualità non trascurabili, per i quali Seroux dovette certamente ricorrere al contributo di un competente architetto. «Un architecte napolitain très instruit»: un’ipotesi sull’incognito autore dei disegni Tra i materiali presenti nella Biblioteca Vaticana si conserva una cospicua serie di disegni, in gran parte utilizzati per la Planche LIV Divers édifices élevés à Rome et à Naples. XIIIe, XIVe et XVe siècles, i quali, secondo pp. 27-35; S. D’OVIDIO, ‘Cernite Robertum Regem virtute refertum’. La ‘fortuna’ del monumento sepolcrale di Roberto d’Angiò in S. Chiara, in La chiesa e il convento di Santa Chiara. Committenza artistica, vita religiosa e progettualità politica nella Napoli di Roberto d’Angiò e Sancia di Maiorca, a cura di F. ACETO – S. D’OVIDIO – E. SCIROCCO, Battipaglia 2014 (Quaderni del Centro interuniversitario per la storia delle città campane nel Medioevo, 6), pp. 275-312. 55 «Resserré entre les deux tours de la forteresse […], et entouré d’un corps-de-garde et de diverses autres fabriques, sa situation le rend si peu propre à frapper les regards, que beaucoup de voyageurs ont visité Naples sans l’avoir remarqué». SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome premier: Architecture, p. 97. L’appunto è forse mosso nei confronti dello stesso Saint-Non e dei suoi disegnatori. 56 Ibid., p. 96, nt. c). 57 L’ipotesi, formulata dalla Miarelli Mariani, è fondata sulla considerazione che «i fogli napoletani mostrano un segno diverso rispetto a quelli a lui attribuibili con certezza». MIARELLI MARIANI, Seroux d’Agincourt cit., p. 139. Per l’autrice, «Gran parte del materiale napoletano, comunque, è caratterizzato da un’incertezza di tratto che farebbe pensare a un copista non professionista, perlomeno per i disegni riproducenti opere pittoriche e scultoree»; ibid., p. 141.
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Seroux, risultavano all’epoca ancora inediti e gli sarebbero stati forniti nel 1781 «par un architecte napolitain très instruit», del quale per ben due volte si dichiara spiacente di aver smarrito o dimenticato il nome, per potergli esprimere la dovuta riconoscenza58. L’affermazione, che ha già attirato l’attenzione di Loyrette59, è singolare, dal momento che d’Agincourt non si ritiene in dovere, laddove sottace altre collaborazioni, di giustificarlo, così da far ritenere intenzionale l’omissione. Tanto più che il numero dei disegni forniti accredita l’incognito architetto napoletano tra i collaboratori non secondari dell’opera, e pertanto poco credibilmente obliato, come conferma la nota che li accompagna60: I. Nota de’ disegni Tav. Ia Prospetto del Campanile di S. Chiara. Tav. IIa Pianta del Piano terreno, Primo Piano, e secondo Piano. Tav. III Prospetto del Basamento del Camp.e e del p.o Piano in grande. Tav. IV Prospetto del secondo, e terzo piano del Campanile. Tav. V Pianta del Basamento, o sia Piano terreno. Tav. VI Pianta del Primo Piano. Tav. VII Pianta del secondo Piano. Tav. VIII Pianta del terzo Piano. Tav. IX Profilo del basamento, e Scala per ascendere al Primo Piano. Tav. X Profilo del secondo, e terzo Piano. — Prospetto della Porta che dà l’ingresso nel cortile di S. Chiara — Profilo della sud. Porta con sua tenda. — Prospetto delli archi di cui è composto il Chiostro de’ Frati che servono la Chiesa di S. Chiara — Arco maggiore di S. Lorenzo. — Prospetto della facciata della Chiesa di S. Chiara — Pianta del Campo Santo. — Pianta della Chiesa de’ P.P. Geroglimini
Il totale ammonta a ben diciassette disegni, di cui quattordici riguardano il complesso di Santa Chiara, uno la Chiesa di San Lorenzo61, e gli 58 L’affermazione è ribadita già nell’excursus storico sull’architettura: «Les dessins des figures relatives à cette discussion m’ont été fournis par un architecte napolitain dont je regrette beaucoup de n’avoir pu retrouver le nom, pour le placer ici avec l’expression de ma reconnaissance». SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome premier: Architecture, p. 99, nota d), e più esplicitamente nella spiegazione delle tavole: «les dessins relatifs à la tour ou clocher de S.te Claire étaient inédits; ils m’ont été fournis, en 1781, par un architecte napolitain très instruit, et dont je regrette d’avoir oublié le nom», ibid., Tome Troisième: Texte. Description des Planches, p. 58, nr. 18. 59 LOYRETTE, Séroux d’Agincourt cit., p. 41. 60 Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 25r. 61 Grand’Arco Nella Rl. Chiesa di S. Lorenzo di Napoli, scala in palmi napoletani, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 29v, inciso e pubblicato nella Pl. XLII: Série chronologique des Arcs substitués
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ultimi due le piante di monumenti napoletani del tutto estranei, per datazione, rispetto ai precedenti e di fatti non utilizzate nell’Histoire62. Volendo giustificare la loro spuria presenza, va ricordato che la chiesa tardo-cinquecentesca dei Girolamini (o di San Filippo Neri) era non solo la più apprezzata dai viaggiatori stranieri, solitamente severi nei confronti dell’architettura moderna di Napoli, ma si riproponeva allora all’attenzione per il completamento della facciata su progetto di Ferdinando Fuga, così come al nome di Fuga si ricollega il Cimitero delle 366 fosse realizzato nei primi anni sessanta alle falde del colle di Lotrecco; sicché il riferimento a Fuga può fornire l’indizio di una provenienza dei disegni dagli ambienti artistici improntati a un classicismo razionalista. A loro volta, tra i disegni relativi a Santa Chiara, uno riguarda la facciata della chiesa63, due il portale con aggettante gronda nel recinto della corte antistante la basilica64 e uno gli archi del chiostro dei frati minori65, a proposito del quale d’Agincourt aggiunge, nella nota, una postilla che rileva l’alternanza di lunette piene e vuote al di sotto dei sesti acuti. I dieci rimanenti disegni sono tutti relativi al Campanile, i soli ordinati in tavole numerate66, lasciando presumere un’organizzazione connessa a un’altra raccolta. Di pregevole fattura su foaux entablemens, dans l’architecture dite gothique, et des autres parties qui en constituent le système, nr. 19, omettendo la piccola figura, fuori scala, dell’osservatore. Un particolare è stato utilizzato anche nella Pl. LIV (cfr. infra), nr. 23, come conferma la numerazione a matita appostavi da d’Agincourt. 62 Pianta del Campo Santo di Napoli, scala in palmi napoletani, Vat. lat. 9845, f. 91r., mentre non è stata individuata la pianta della Chiesa di San Filippo Neri, probabilmente dispersa. 63 Prospetto della R. Chiesa del SS. Sacram.to e S. Chiara in Napoli, scala in palmi napoletani, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 58r, inciso e pubblicato nella Pl. LXIV, nr. 17 (numerazione annotata anche a matita sul disegno). 64 Prospetto della Porta con sua Tenda che introduce nel Cortile avanti la R. Chiesa del SS. Sacram.to e S. Chiara in Nap., scala in palmi napoletani, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 30v; Profilo della Porta che dà l’ingresso nel Cortile avanti la R. Chiesa del SS. Sacram.to e S. Chiara in Nap., scala in palmi napoletani, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 31r, entrambi pubblicati nella Pl. LIV, rispettivamente ai nrr. 19 e 20 (numerazione anche annotata a penna sul disegno). 65 Archi del Chiostro nel Convento de’ Frati Minori contiguo al R. Monistero di S. Chiara in Napoli, scala in palmi napoletani, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 30r, pubblicato nella Pl. LXXI: Appareils et procédés de construction, en usage avant et durant la décadence de l’Art, nr. 38. Forse prevista un’altra collocazione, come lascia presumere il numero 21 appostovi da d’Agincourt. 66 Tav. I [Prospetto del Campanile], scala in palmi napoletani, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 27v; Tav. II [Piante dei tre livelli], scala in palmi napoletani, ibid., f. 25r; Tav. III [Prospetto del basamento e del primo ordine del Campanile], ibid., f. 28v; T. IV [Prospetto del secondo e terzo ordine del Campanile], ibid., f. 29r; T.V [Pianta del piano basamentale], scala in palmi napoletani, ibid., f. 25v; T. VI [Pianta del piano primo], scala in palmi napoletani, ibid., f. 26r; T. VII [Pianta del piano secondo], scala in palmi napoletani, ibid., f. 27r; T. VIII [Pianta del piano terzo], scala in palmi napoletani, ibid., f. 26v; T. IX [Spaccato del basamento e primo ordine], ibid., f. 28r; T. X [Spaccato del secondo e terzo ordine], ibid., f. 32r. Le Tavv. I, II e IX sono incise nella Pl. LIV, ai nrr. 8, 9, 10, 11, 12; dagli altri disegni sono tratti i particolari ai
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gli di dimensioni pressoché uniformi (prevalentemente cm 37,8 × 24,2), realizzati a penna e inchiostro acquerellato, quasi sempre inquadrati da cornice e accompagnati da scala grafica espressa in palmi napoletani, i disegni registrati nella nota si differenziano da quelli degli altri monumenti napoletani, quali il sommario rilievo a penna di una finestra di San Giovanni a Carbonara67, composto nella stessa tavola del Campanile di Santa Chiara, e un prospetto della torre campanaria di San Lorenzo, non utilizzato nell’Histoire68. Per tema e caratteristiche, i descritti disegni del Campanile presentano stringenti analogie con quelli prodotti per illustrare l’opera, rimasta inedita, De’ migliori Monumenti di Napoli del napoletano Emanuele Ascione69. Ho ricostruito altrove, dettagliatamente, la vicenda di questa iniziativa nrr. 13-18. Le piante, lo spaccato e il prospetto del Campanile di Santa Chiara figurano anche nella tavola sinottica delle torri campanarie, rimasta inedita, presente in Vat. lat. 9845, f. 90v. 67 Finestra di S. Giovanni a Carbonara, senza scala di riferimento, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 30v, pubblicato nella Pl. LIV, al nr. 22. La stessa numerazione è apposta a matita sul disegno. 68 Naples S. Lorenzo, senza scala di riferimento, Vat. lat. 9845, f. 18r. 69 Notizie su Ascione sono fornite già dal contemporaneo Pietro Napoli Signorelli nella terza parte, rimasta inedita, dell’opera Regno di Ferdinando IV adombrato in tre volumi in continuazione delle vicende della coltura delle Sicilie, il cui capitolo IV, Arti del disegno, è stato pubblicato da N. CORTESE, con note di G. CECI, Gli artisti napoletani della seconda metà del secolo XVIII, in Napoli Nobilissima. Rivista d’arte e di topografia napoletana, n.s., II (1921), fasc. I-II, p. 16; G.B.G. GROSSI, Le Belle Arti […] Opuscoli storici su le Arti, e Professori dipendenti dal disegno ne’ luoghi che oggi formano il regno di Napoli, Napoli 1820, vol. II, pp. 173174; N. MORELLI DI GREGORIO, Biografia dei contemporanei del Regno di Napoli chiari per iscienze, lettere, armi ed arti del volgente secolo XIX, Napoli 1826, p. 133; A. BORZELLI, L’Accademia del disegno nel decennio 1805-1815, in Napoli Nobilissima. Rivista di Topografia ed Arte napoletana, X (1901), fasc. II, pp. 53-56. Oltre alle opere menzionate dagli autori elencati, tra le quali: la direzione dei Granili, la trasformazione del Collegio Massimo dei Gesuiti, l’apparato funebre per Carlo III in San Luigi di Palazzo (cfr. P. D’ONOFRI, Elogio estemporaneo di Carlo III, Napoli s.d. ma post 1788, dove Ascione è citato come «graduato coll’onore di capitano») e varie perizie e consulenze (tra cui il consolidamento del Palazzo Reale), si registrano in bibliografia pochi cenni relativi all’attività di Ascione. Cfr.: per il progetto di decorazione della Chiesa di San Luigi al Largo di Palazzo, A. VENDITTI, Architettura neoclassica a Napoli, Napoli 1961, pp. 162-164; sulla supervisione del progetto per la trasformazione dell’edificio dei Regi Studi in Museo, C. ZUCCO, Le ipotesi progettuali dell’edificio. Da Cavallerizza a Museo, in Da Palazzo degli Studi a Museo Archeologico, Napoli 1977, p. 45, nt. 55; per il progetto di ristrutturazione e ampliamento della Nunziatella, R. PILATI, La Nunziatella. L’organizzazione di un’accademia militare 1787-1987, Napoli 1987, p. 23; per i lavori nel cappellone del transetto sinistro della Chiesa della Pietà dei Turchini, E. NAPPI, Il Conservatorio e la Chiesa della Pietà dei Turchini, in Ricerche sul ’600 napoletano. Saggi e documenti per la Storia dell’Arte, Milano 1993, pp. 87, 106; per la trasformazione in filanda del Carminiello, R. PARISI, Lo spazio della produzione. Napoli: la periferia orientale, Napoli 1998, pp. 38-42; per gli interventi previsti nella chiesa di San Luigi e nel braccio nuovo di Palazzo Reale, O. CIRILLO, Carlo Vanvitelli. Architettura e città nella seconda metà del Settecento, Firenze 2008. L’opera di ingegnere militare di Ascione resta comunque ancora meritevole di approfondimenti storiografici ai fini di un bilancio critico complessivo.
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editoriale naufragata70, qui sinteticamente riassunta. Arruolato nel Corpo del Genio, Ascione aveva concepito, fin dagli anni giovanili, il programma di un’opera che illustrasse i principali monumenti di Napoli nell’età del risorgimento delle arti, fondandola su accurati rilievi eseguiti insieme ai suoi «allievi», Giuseppe Giordano e Carlo Anderlino71. Così ne ricorderà l’origine lo stesso autore: Sin dalla mia più florida età cominciai a formare i Disegni di alcuni de’ più magnifici edificj di questa Capitale con quella diligenza, ed esattezza, che la perizia dell’arte mi somministrava, e che per se stesso l’oggetto richiedeva. Crebbe in me, come avvenir suole questa nobile passione, e divenne tale che senza più calcolare le limitate mie forze, mi determinai ad esaurir quanto di bello in genere di Architettura vi fosse stato, per pubblicarlo quindi per le stampe, con qualche mia breve dilucidazione72.
Nel 1784, Ascione sottopone a Ferdinando IV di Borbone il progetto di «formare i disegni di tutte le belle opere di Architettura pubbliche, e private col dettaglio della Statica degli istessi Edificji relativo alli di loro Fondamenti, grossi de’ Muri, e tagli delle Pietre, e de’ Legnami»: richiamo agli aspetti costruttivi che intendeva valorizzare, tramite l’esattezza del rilievo, le competenze dell’ingegnere militare, come per i rilievi dell’antico di Francesco La Vega e Andrea Pigonati73, in polemica con le restituzioni sommarie delle guide e con le vedute pittoresche della nuova produzione 70
LENZA, Una testimonianza perduta cit., al quale saggio rimando per gli ulteriori riferimenti archivistici relativi alla vicenda editoriale. 71 Ascione avrebbe sollecitato la collaborazione tramite un manifesto che invitava i giovani versati nel disegno ad aderire all’iniziativa, con la promessa di renderne esplicito il contributo in sede di pubblicazione. La proposta venne accolta da Carlo Anderlino, con una collaborazione di un anno e mezzo, e da Giuseppe Giordano, con un lavoro protrattosi per quattro anni, dei cui relativi apporti abbiamo notizia da un successivo contenzioso insorto sulla sottoscrizione delle tavole. Ne risulta che Ascione, oltre a coordinare l’opera, interveniva talvolta sui disegni dei collaboratori, i quali, dopo l’esecuzione dei rilievi e la restituzione grafica, venivano impegnati anche nella relativa incisione. Le precisazioni vennero fornite dallo stesso Ascione di fronte alle contestazioni mossegli da Giordano, che nel 1814, rivendicando il contributo proprio e del defunto Anderlino, chiese l’inserimento dei loro nomi in calce alle tavole da incidere. Napoli, Archivio di Stato (d’ora in avanti ASNa), Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1907, Relazione all’Accademia di Belle Arti, datata Napoli, 20 luglio 1814. Il documento consente, tra l’altro, di assegnare a Carlo Anderlino la paternità del disegno e dell’incisione del prospetto del Campanile di Santa Chiara e del rilievo del trionfo inserito nel primo ordine dell’Arco di Alfonso in Castelnuovo, come riferito da GROSSI, Le Belle Arti cit. 72 Ibid., lettera di Emanuele Ascione a Francesco Daniele del 7 settembre 1812. 73 Per l’attività di rilievo di La Vega, cfr. C. LENZA, Studio dell’antico e internazionalismo neoclassico: l’attività di Francesco La Vega nei cantieri vesuviani e la “fortuna” dei disegni, in Napoli-Spagna. Architettura e città nel XVIII secolo, Atti del Convegno internazionale di studi (Napoli, 17-18 dicembre 2001), a cura di A. GAMBARDELLA, Napoli 2003, pp. 51-72.
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per il Grand Tour. Significative sono soprattutto le finalità dell’iniziativa, la quale, «oltreche illustrarebbe la Patria, che lo merita al pari di ogni altra Città di Europa, e che è stata fin qui trascurata, sarebbe di eterna memoria alle stesse bell’Opere, che vengono alla giornata distrutte dalla voracità del tempo, e dal Genio de’ Posteri»74. In aggiunta alle necessarie autorizzazioni, Ascione richiede una privativa ventennale per la pubblicazione, da eseguire a proprie spese, concessagli, sebbene ridotta alla metà degli anni e soggetta a particolari condizioni75. Sotto la sua guida inizia anche l’incisione dei disegni, che Ascione si riprometteva di accompagnare con brevi note illustrative, ma all’indomani dei rivolgimenti politici a cavallo dei due secoli, l’entità dell’impegno, l’avanzare dell’età e la diminuzione delle risorse — non godendo più de «gli averi di ingegnere» corrispostigli nell’esercito, lasciato con il grado di capitano, ed essendogli venuta a mancare «la rendita sopra gli arrendamenti» — lo inducono nel 1807, dopo l’avvento di Giuseppe Bonaparte, a cedere l’opera alla Stamperia Reale. La proposta trova l’appoggio di Francesco Daniele, divenutone direttore, nella convinzione che «siffatta opera, oltre all’essere gloriosa per la nostra Nazione, sarebbe molto utile agli interessi di questa Real Stamperia, perché i forestieri principalmente, assai vaghi delle arti, comprerebbero avidamente una collezione sì bella»76. Lo stesso Daniele, dopo la cessione dei rami già incisi, caldeggia accoratamente al nuovo ministro dell’Interno del governo murattiano l’acquisto dei rimanenti disegni di Ascione, il quale «ha raccolto quanto potea esservi di buono in genere di Architettura in questa Capitale, incominciando da’ tempi più antichi, onde appare che l’Arte forse, prima che altrove qui in Napoli cominciò ad alzar la testa»77. Tesi che, a sua volta, Giuseppe Zurlo così propone in un’appassionata memoria rivolta a Carolina Annunciata Bonaparte: Signora, Il Segretario della Reale Accademia di belle Arti Emanuele Ascione fin dalla sua verde età concepì il lodevole impegno di ritrarre in disegno le opere di Architettura e Scoltura, che dopo il risorgimento delle Arti in Italia furono 74 ASNa, Bozze di Consulta di Camera Reale, vol. 546, ora anche in F. STRAZZULLO, Edilizia e urbanistica a Napoli dal ’500 al ’700. Seconda edizione, Napoli 1995, p. 61. 75 La Real Camera si espresse favorevolmente, riducendo il privilegio a soli dieci anni, prorogabili per altrettanti «dopo che si sarà veduta a prova la riuscita dell’opera progettata», e a condizione di essere consultata sulla pubblicazione di «qualunque carta o pianta» per la valutazione de «l’equo corrispondente prezzo». Consulta dell’11 settembre 1784, ibid. 76 Lettera di Francesco Daniele al ministro dell’Interno del 12 novembre 1807; ASNa, Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1907. L’accoglimento della richiesta è favorito dagli interessi eruditi del ministro dell’Interno del governo giuseppino, Andrè-François Miot. 77 Lettera di Francesco Daniele al ministro dell’Interno, datata Napoli, 8 giugno 1812, ibid.
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erette ad utilità ed ornamento ne’ pubblici luoghi di questa capitale; come a dire l’Arco Trionfale di Alfonso I, le Tombe Angioine ed Aragonesi, il Tempietto di Pontano, il Mausoleo di Sannazzaro, le più belle fontane, il Palazzo Capece ed altro. Si rileva da siffatti monumenti così il buon gusto che qui s’introdusse nell’Aurora delle Arti, come il genio de’ nostri Nazionali Artisti, e se ne può anche trarre l’utilità dell’esempio, e della buona imitazione, giacché dopo quel tempo si cadde nella forma esagerata, ed il capriccio prese il luogo delle regole, e degli Ordini: al quale abuso non vi è forza, né eloquenza che basti a resistere, e più efficace dell’uno, e dell’altra, è certamente l’esempio78.
Avendo fatto leva tanto sull’affermazione dell’identità della nazione napoletana, congeniale alla nuova svolta autonomista impressa da Gioacchino Murat, quanto su un intento pedagogico volto a depurare il gusto dalle stravaganze barocche, la proposta viene accolta, potendosi così procedere nella transazione. Gli incartamenti amministrativi ci consentono di ricostruire l’elenco dei soggetti previsti da Ascione. Le quindici incisioni già eseguite all’atto della vendita riguardavano: quattro la Cappella Pontano, tre il Campanile di Santa Chiara (il prospetto generale, le piante alle diverse quote e la sezione), due la Cappella di Santa Maria della Stella, quattro il Palazzo della Riccia e due il Palazzo Gravina79, mentre i venticinque disegni da incidere annoveravano «l’Arco di Alfonso, che si compone di sedici pezzi la maggior parte terminati», alcuni tra i principali monumenti napoletani di scultura, dalle tombe (i sepolcri di Pedro de Toledo, di Sannazzaro e della regina Sancia), alle fontane (la fontana di Santa Lucia a mare, quella di Palazzo e la fontana Medina), più un numero imprecisato di disegni «già cominciati»80. 78
Lettera di Giuseppe Zurlo a Carolina reggente, datata Napoli, 3 dicembre 1812, ibid. Sulla politica culturale promossa da Carolina, e sulla parallela iniziativa di pubblicazione dei rilievi di Pompei di François Mazois, cfr. C. LENZA, “L’utilità dell’esempio e della buona imitazione”. Lo studio dei monumenti tra erudizione e divulgazione di modelli, in L’idea dell’Antico nel Decennio francese, Atti del terzo seminario di studi “Decennio francese (1806-1815)” a cura di R. CIOFFI – A. GRIMALDI, Napoli 2010, pp. 191-223. Alla fig. 5 si propone anche il raffronto tra il prospetto del Campanile di Santa Chiara per l’opera di Ascione e quello pubblicato nell’Histoire. 79 Dalla distinta dei rami inviata da Francesco Daniele il 4 dicembre 1807, apprendiamo il contenuto delle tavole: «Cappella Pontano: Frontespizio, Cappella di Pontano, Facciata Magg.re col Taglio, Moduli in grande della stessa Cappella. Campanile di S. Chiara: Facciata del Campanile, Pianta del Campanile in tre ordini, Taglio del Campanile. Cappella di S. Maria della Stella: Facciata e Taglio della Cappella, Pianta della medesima con suo cornicione e capitello corinzio. Palazzo della Riccia a Forcella: Facciata, e Pianta del Palazzo, Facciata in grande di detto Palazzo con sua Pianta, Modulo in grande del primo ordine di detto Palazzo, Modulo del second’ordine. Palazzo di Gravina: Facciata interiore con sua pianta, Porzione della facciata esterna in grande». ASNa, Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1907. 80 «Oltre di questi sono per terminarsi molti disegni della Cappella Caraccioli, il Disegno
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Passato alla Stamperia Reale e al patrocinio regio, il progetto si fa più ambizioso, con l’intento di estendere l’opera dai monumenti della capitale a quelli dell’intero regno, coinvolgendo le principali istituzioni, sicché le delucidazioni vengono affidate all’Accademia Pontaniana, mentre all’attività degli incisori viene preposta l’Accademia di Belle Arti, di cui Ascione è intanto divenuto segretario. Nonostante, o forse proprio a causa della complessa macchina organizzativa così impiantata, la realizzazione procede con tale lentezza (si continuano per anni a incidere i disegni o a ritoccare i rami) che, pur sopravvivendo al nuovo scenario storico della Restaurazione e alla stessa morte di Ascione nel 1817, con una stentata prosecuzione fino ai primi anni trenta81, finirà per essere abbandonata, complice anche la rivale impresa varata da Antonio Niccolini, che vi sostituisce una più moderna pubblicazione periodica con tavole a semplici contorni, intitolata Real Museo Borbonico, i cui primi fascicoli datano dal 1824. Le tavole già incise, con i relativi rami, restarono presso la Reale Stamperia, mentre alcuni disegni, depositati nell’archivio del Ministero dell’Interno, furono rinvenuti da Francesco de Cesare, che se ne avvarrà per pubblicare, nel 1834, un’agile raccolta dei monumenti di architettura del Rinascimento82. Scarsa l’attenzione all’opera di Ascione, fino a qualche anno fa completamente trascurata, anche a seguito della dispersione dei suoi materiali. Alcune stampe, riguardanti il Palazzo del Principe della Riccia (oggi Marigliano) furono pubblicate da Giuseppe Ceci nel 190083, senza tuttavia approfondirne la provenienza, e nel 1937, unitamente a quelle del Palazzo Gravina, da Roberto Pane, che le rinvenne presso la Deputazione di Storia Patria84. Solo in anni recenti è stato possibile, da parte di chi scrive, di Lanislao [sic], ed altri molti già cominciati». Lettera di Emanuele Ascione a Francesco Daniele, datata Napoli, 7 settembre 1812, ibid. 81 Cfr. LENZA, Una testimonianza perduta cit., dove emerge anche un consistente ampliamento dell’originario programma per includere i monumenti medievali del regno. 82 F. DE CESARE, I monumenti di architettura greci, romani e del sec. XV esistenti nel Regno di Napoli e Sicilia di qua dal Faro, Napoli 1834, con tavole poi confluite in Le più belle fabbriche del 1500, ed altri monumenti di architettura esistenti in Napoli misurati, disegnati, e descritti con notizie storiche, ed osservazioni, Napoli 1845. Oltre che i disegni del Palazzo del Principe della Riccia, come espressamente dichiarato, de Cesare potrebbe aver utilizzato anche quelli del Campanile di Santa Chiara. 83 G. CECI, Una famiglia di architetti napoletani del Rinascimento. I Mormanno, in Napoli Nobilissima IX (1900), fasc. 11, pp. 167-172. 84 R. PANE, Architettura del Rinascimento in Napoli, Napoli 1937, dove a p. 128 scrive: «Il disegno del portale primitivo, pubblicato per la prima volta dal Ceci, ci è stato conservato per merito dell’architetto Ascione che, nei primi dell’ottocento, curò la esecuzione di una serie di incisioni dei monumenti napoletani, da servire ad un volume che poi non fu più dato alle stampe»; anche nelle didascalie ricorre la dizione: «da un’incisione dei primi dell’ottocento». Pane pubblica, in quella sede, alcuni rilievi del Palazzo del Principe della Riccia (pianta e
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ricostruire nelle sue varie fasi, dalla ideazione all’abbandono definitivo, il progetto di Ascione, e ritrovare ulteriori tavole incise (il prospetto del Campanile di Santa Chiara, presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria85, mai segnalato) e alcune prove di stampa, annesse alle certificazioni per il pagamento degli incisori, conservate presso l’Archivio di Stato di Napoli, raffiguranti i prospetti del piano basamentale e primo del Campanile e dei suoi due ordini superiori86, due tavole ancora di Palazzo Gravina87, e quelle non ancora note della Chiesetta di Santa Maria della Stella88 e soprattutto dell’Arco di Alfonso89. A ciò va aggiunta una raccolta prospetto di porzione della facciata, portale originario sulla strada e portale di accesso alla terrazza), attualmente dispersi, e i rilievi (pianta e prospetto generale, pianta e prospetto di porzione della facciata con il portale settecentesco, sezione e prospetto sul cortile) di Palazzo Gravina, oggi presenti presso altri istituti napoletani; cfr. le note infra. 85 Napoli, Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, I A I(15: T. Ia. Prospetto da Mezzogiorno del Campanile di S. Chiara simile in tutto alle Tre altre Facce, Architettura del di Stefano detto Masuccio IIo. Circa gli anni MCCCXXX a XLIII, a sinistra: Carlo Anderlino del. et scul. A. dir., quotato, già pubblicato in LENZA, Una testimonianza perduta cit., e insieme a quelli citati alle ntt. 86-89, in EAD., L’architettura napoletana del classicismo cit. 86 ASNa, Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1900: rilievo del basamento e del primo ordine del Campanile di Santa Chiara, scala grafica senza indicazione di misure, Ema. Ascioni dis., Raf. Aloja inc.; rilievo del secondo e terzo ordine del Campanile di Santa Chiara, quotato, scala in palmi di Napoli, Ema. Ascioni dis.¸Raf Aloja inc.; entrambe le prove di stampa sono incise a semplici contorni e accompagnate dalla seguente annotazione: «Esiste il presente rame inciso dal Sig. Raffaele Aloja in Stamperia Reale. Napoli 16 marzo 1810. Francesco Giomignani. Il presente rame pesa libre tre, vale carlini diciotto». Per il contributo di Aloja, vedi E. REGGINA, L’attività incisoria di Raffaele Aloja, in Grafica d’arte. Rivista di storia dell’incisione antica e moderna e storia del disegno, 76, 2008, pp. 9-13, dove si pubblicano anche le due incisioni del Campanile. 87 ASNa, Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1901: TAV. II. La Pianta del Palazzo di Gravina, scala in palmi di Napoli, Giu. Giordano dis., Raf. Aloja inc., con annotazione: «Esiste il presente rame nella Stamperia Reale, inciso dal Sig.r Raffaele Aloja; Rappresentante una pianta del Palazzo di Gravina, dell’opera del Sig.re Ascione. Pesa detto rame Libbre quattro, vale carlini ventiquattro. Il dì 8. Gennaro 1811. Francesco Giomignani»; TAV. III, pianta e prospetto quotato di porzione della facciata di Palazzo Gravina, scala in palmi di Napoli, con annotazione: «Parte della Facciata in grande. La porta principale è del Gioffredo» e aggiunta di Emanuele Ascione: «Sono del sentimento del Sig.r Presidente doversi adombrare la porta principale, ed alli pilastri del 2° ordine un po’ di meza tinta». 88 Tavola 2a. L’Ordine Corintio della Facciata. La pianta della chiesetta, scala in palmi di Napoli, prova di stampa con visto di Emanuele Ascione, ibid. 89 Ibid., F. 1917: prospetto esterno di Castelnuovo, Dom. Casanova Reg. I. inc., con annotazione: «Esiste il presente Rame in questa Reale Stamperia ed il peso di esso è di Libre Cinque, e once cinque il costo dei rame è di ducati quattro e grana trentacinque. Gaetano Fico»; ibid. F. 1915/I: prospetto della facciata interna d’ingresso, senza sottoscrizione; tavola con dettagli degli ordini, N. Ricci inc., con annotazione: «Esiste il presente rame in questa Reale Stamperia di peso libre quattro, e mezzo, prezzo carlini trentasei. Napoli li 14 Giugno 1823. Gaetano Fico»; dettagli delle fasce e medaglioni delle porte bronzee, Cataneo inc., con annotazione: «Esiste il presente rame nel deposito della Stamperia Reale, ed è del peso di libbre sei importa carlini quarantotto. Napoli, 27. Genn.o 1823. Luigi Caterino direttore»;
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di quindici tavole custodite presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, mai analiticamente studiate90, riguardanti la Cappella Pontano, la Chiesetta di Santa Maria della Stella, il Palazzo Gravina, l’Arco di Alfonso in Castelnuovo, il sepolcro di Alfonso Carafa nella Chiesa dei Cappuccini a Nocera dei Pagani e quello di Pedro de Toledo e Maria Osorio Pimentel nella Chiesa ibid. F. 1908: rilievo nel fianco sinistro del fornice con il ritorno di Ferrante e altri fregi, con annotazione: «Esiste il presente rame in Stamperia Reale dell’Opera del Sig.r Ascione, inciso dal Sig.r D. N. Luigi Vocaturo. Pesa libbre sei vale docati quattro, e grana 80. Il dì 24 Febbrajo 1818. Francesco Giomigniani»; ibid. F. 1909: dettagli del fregio e particolari decorativi, Ema. Ascione dis., Nic. Cesarano inc., con annotazione: «Esiste il presente rame in Stamperia Reale dell’Opera di Ascione incisa dal Sig.r D.n Nicola Cesarano. Pesa Libre sei vale docati quattro, e grana 80. Il dì 8 Giugno 1819. Francesco Giomignani». 90 Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, Palatina, Banc. V.13. 1-15. Sull’incartamento è riportato: “N.o 29 Stampe appartenenti alla opera di Ascione”. Se ne ritrovano solo 15, di cui: tre relative a Cappella Pontano (Tav. I. Pianta della Cappella del Pontano, in alto: Bassorilievo di marmo bianco al naturale che si conserva in Napoli presso dell’Abbate D. Francesco Saverio Gualtieri Bibliotecario Regio. Ora vescovo dell’Aquila; Ascione dis., Cataneo inc.; in basso: Fu edificata nel MCCCCXCII col disegno lasciato da Andrea Ciccione Napolitano Scultore ed Architetto già morto nel 1455, che fu discepolo di Masuccio IIo formato sulla maniera antica detta in antis dai Latini ed antichissima Greca detta α ς ν α ά τα ιν, doppia scala grafica in palmi di Napoli; a sin: G. Giordano del. sotto la direz.e di Ascione, a destra: Gius. Aloja inc.; Tav. II, A. Facciata maggiore della Cappella da mezzogiorno d’ordine Composto rivestita tutta di piperno, essendo di marmo scelto li soli ornamenti della porta, e delle finestre, come le tavole dell’iscrizzioni registrate nella tavoa [sic] IIIa; B. Taglio per lungo della med.a, che ne dimostra l’interiore semplicissimo, e solo decorato di varie iscrizzioni gia riportate dal P. Sarno nella sua vita del Pontano; a sin.: G. Giordano del. sotto la direz.e di Ascione, a destra: Gius. Aloja inc.; Tav. III, A. Facciata minore dalla parte di Oriente ornata similmente come l’altra da mezzogiorno; B. Taglio per corto della Cappella, che dimostra l’unico Altare, ed Icona dipinta sul muro a fresco; a sin.: G. Giordano del. sotto la direz.e di Ascione, a destra: Gius. Aloja inc.); due relative alla Chiesetta di S. Maria della Stella (Tavola Ia, Chiesetta di S. Maria della Stella Nella Regione Forcellense; L’interiore con la Sagrestia; Tavola 2a, La pianta della chiesetta, scala in palmi di Napoli; L’Ordine Corintio della Facciata, scala grafica senza indicazione di misure); tre del Palazzo Gravina (Tav. I, Il Palazzo degli Ursini de Duchi di Gravina Architettura di Gabriello d’Angelo; Interiore del Palazzo sul taglio AB della Pianta; scala in palmi di Napoli; a destra: Scarpati inc.; Tav. II, La Pianta del Palazzo di Gravina; scala in palmi di Napoli; a sinistra: Giu. Giordano dis., a destra: Raf. Aloja inc.; Tav. IV: Parte della Facciata interiore del Palazzo. La medesima è rivestita tutta di Piperno l’ornati delle finestre, e le medaglie sono di marmo bianco; quotato, scala in palmi di Napoli; a sinistra: Gius. Giordano ha delin. ed inc. EA ha diretto); cinque dell’Arco di Alfonso in Castelnuovo (rilievo del fornice con la partenza di Alfonso e altri fregi, senza sottoscrizioni; rilievo del fornice con il ritorno di Ferrante e altri fregi, senza sottoscrizioni; particolari degli ordini dell’Arco, quotato, a destra: C. Cataneo inc.; particolari architettonici degli ordini e delle cornici, senza sottoscrizioni; particolari del fregio e altre decorazioni, a sinistra: Ema. Ascione dis., a destra: Nic. Cesarano inc.); una del sepolcro di Alfonso Carafa (a Nocera de’ Pagani nel Coro de’ Cappuccini, Lavoro della Scuola di Merliano da Nola, scala in palmi di Napoli, a destra: Giuseppe Biondi inc.), una del sepolcro di Pedro de Toledo e Maria Osorio Pimentel nella Chiesa di San Giacomo degli Spagnoli (pianta e vista posteriore, a destra: Luigi Vocaturo inc.). Alcune tavole relative all’attività di Giuseppe Giordano sono state segnalate da G. D’ERRICO, Dall’architettura all’ingegneria, l’opera di Giuseppe Giordano nel Regno di Napoli (1764-1852), Tesi di dottorato in Storia e critica dell’Architettura, XXI ciclo, Seconda Università di Napoli, 2009, tutor F. CASTANÒ, co-tutor O. CIRILLO.
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di San Giacomo degli Spagnoli a Napoli. Infine, nell’ambito della mostra seguita alla recente campagna di restauro realizzata dal Laboratorio diagnostico delle Matrici dell’Istituto Nazionale per la Grafica, sulla scorta della ricostruzione da noi proposta, è stato possibile ricondurre all’opera di Ascione numerosi rami della Stamperia Reale depositati presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, talvolta corredati, accanto alle matrici, da prove di stampa, e persino alcuni disegni, rinvenuti presso il Gabinetto Disegni e Stampe del Museo Nazionale di Capodimonte91, il che consentirebbe, ricomponendo le varie testimonianze superstiti, di restituire in gran parte il suo progetto interrotto. L’interesse di questi ultimi ritrovamenti risiede non solo nel dare prova della qualità dei disegni originali a penna e acquerello — tra i quali, purtroppo, non risultano quelli del Campanile di Santa Chiara — ma anche nell’arricchire il repertorio delle tavole, estendendolo agli altri soggetti di scultura che, secondo i documenti, l’opera di Ascione avrebbe dovuto comprendere, vale a dire fontane (di Santa Lucia a mare, del Gigante o di Palazzo e la fontana Medina o del Nettuno) e sepolcri, tra i quali, oltre quelli, già citati, di Alfonso Carafa a Nocera e di don Pedro de Toledo e Maria Osorio Pimentel a Napoli, figurano il monumento a Jacopo Sannazzaro nella Chiesa di Santa Maria del Parto e il sepolcro della regina Sancia di Maiorca nella demolita Chiesa di Santa Maria della Croce di Palazzo, di cui d’Agincourt, come anticipato, pubblica il duplice rilievo del sarcofago alla tavola XXXI del volume sulla scultura, segnalandolo come inedito, ma non indicandone l’autore. Se il raffronto tra i disegni preparatori dell’Histoire presso la Biblioteca Vaticana92 e quelli dell’opera di Ascione al Museo di Capodimonte93, 91
I materiali sono stati segnalati da Maria Rosaria Nappi, che ha anche pubblicato alcune prove di stampa e i disegni dei rilievi interni dell’Arco di Alfonso e del sepolcro di Sancia. M. R. NAPPI, Disegnatori e incisori fra pittura e editoria. Il ruolo della riproduzione fra arte e strumento, in Immagini per il Grand Tour. L’attività della Stamperia Reale Borbonica, a cura di M. R. NAPPI, Napoli 2015, pp. 61-86. Tra gli ulteriori disegni custoditi presso il Gabinetto Diesegni e Stampe del Museo di Capodimonte, non citati nel testo, figurano quelli della Tomba di Alberada e degli Altavilla nell’Abbazia della SS. Trinità a Venosa (inv. 2349 e 2362). Tra i rami, particolarmente interessanti ai nostri fini sono invece le due matrici, con relative prove di stampa firmate da Ascione, riguardanti il Campanile di Santa Chiara, che ne completano la serie: Le piante colle iscrizioni alli quatto lati del Campanile e Taglio del Campanile secondo la linea AB del Piano. Abbici per l’intelligenza delle iscrizioni. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Deposito Rami, inv. 259763 e 259761 (matrici), 260741 e 260739 (prove di stampa). 92 Vat. lat. 9840, f. 58v: Pl. XXXI Tombeau de la Reine Sanche d’Arragon, dans l’Eglise de Ste Marie della Croce à Naples XIV Siecle. Sul disegno l’appunto: «Pl. XXXI n. 1 (gravé 1782) marbre»; f. 59r: «S. Croce t. de la R. Sancia partie vers le choeur», con le due cariatidi. 93 Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 1217 e inv. 1218: Sepolcro della regina Sancia, disegno quotato, penna e inchiostro acquerellato; La Re-
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benché analoghi, non autorizza ad affermare una medesima provenienza, l’ipotesi sembra più accreditabile a proposito del Campanile di Santa Chiara. In questo caso, occorre tenere conto che, non essendosi finora ritrovati gli originali di Ascione, il confronto avviene tra disegni e stampe, sicché i lievi discostamenti94 possono anche ascriversi alla fase di incisione, nella quale le tavole, accanto a eventuali correzioni, si corredavano di scritte, spesso in funzione di vere e proprie didascalie, e di esatte quotature. Inoltre, a differenza del prospetto generale del Campanile, delineato e inciso da Carlo Anderlino sotto la guida di Ascione, risalente, così come le piante e lo spaccato, al periodo iniziale di elaborazione dell’opera, le due tavole di dettaglio dei suoi ordini vennero incise solo successivamente da Raffaele Aloja. La stessa figura di Ascione presenta caratteri tali da essere individuato come l’incognito collaboratore di d’Agincourt. Seroux potrebbe averlo conosciuto direttamente a Napoli nel 1781, allorché questi, dal 1778 tenente di Lucania aggiunto al Corpo dagli Ingegneri, si era ormai pienamente affermato negli ambienti della capitale, come conferma l’esecuzione, nel febbraio di quell’anno, dell’apparato funebre per l’imperatrice Maria Teresa d’Austria nella Chiesa della Pietà dei Turchini, del cui disegno fa tirare una stampa incisa da Carmine Pignataro95. Inoltre, nonostante la sua formazione di ingegnere militare, impegnato in importanti progetti nella capitale e nel regno, Ascione si rivela in contatto con gli eruditi partenopei, come l’abate Francesco Saverio Gualtieri, regio bibliotecario, da cui proviene il rilievo con il ritratto del Pontano inserito nella sua raccolta. Né il suo credito si limita al contesto locale, ma si estende anche a quello romano e presso circoli familiari allo stesso d’Agincourt. Ascione è infatti conosciuto e apprezzato da Leonardo De Vegni, la cui “accademia domestica” in via Quattro Fontane contava appunto Seroux tra i suoi assidui frequentatori: nella rubrica di architettura delle Memorie per le Belle Arti, dove era succeduto a Onofrio Boni, De Vegni annunciava che «altra opera si prepara pel pubblico De’Migliori Monumenti di Napoli», elogiando gina Sancia Nell’antica Chiesa della Santa Croce de’ Francescani di sua Fondazione, disegno, penna e inchiostro acquerellato; ora pubblicati in NAPPI, Disegnatori e incisori cit. 94 In proposito, cfr. infra, nt. 107. 95 Disegno del mausoleo eretto nella Chiesa della Pietà de’ Turchini per l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria nel dì 20 Febraro MDCCLXXXI, in basso a sin.: di D.n Emanuele Ascione Tenen.e di Lucania; a destra: Carmine Pignataro inc. Una copia della stampa è custodita presso la Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli, L.P. Iconografia B0232, e un altro esemplare presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, Cat. X 147. Il disegno originale acquerellato, con lievi varianti, è conservato nel Gabinetto Disegni e Stampe del Museo Nazionale di Capodimonte, inv. 1220. Cfr. F. MANCINI, Feste ed apparati civili e religiosi in Napoli dal Viceregno alla Capitale, Napoli 1968.
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Ascione quale «uomo dottissimo in Architettura Militare, e Civile»96. Lo tenne in grande considerazione anche Angelo Comolli, pro-bibliotecario della Imperiali, snodo a sua volta di una fitta rete di relazioni erudite, tra le quali rientra nuovamente d’Agincourt, che gli fornisce alcuni testi per la sua Bibliografia storico-critica dell’architettura civile ed arti subalterne97. Comolli, anzi, si dichiara più volte espressamente debitore delle notizie e memorie trasmessegli da Ascione, annoverandolo tra i suoi corrispondenti napoletani, insieme a Vincenzo Lamberti. Quest’ultimo, in una lettera del 7 marzo 1788, riportata in nota nella Bibliografia, comunicava a Comolli che Ascione «sta preparando in istampa i migliori monumenti di questa metropoli»98, assicurando: «Essendo uomo di cognizione si farà onore»; affermazione alla quale Comolli volle aggiungere: «Io non ne ho dubbio, mentre so per prova, quanto il sig. Assione è dotto, e quanto estese sono le sue cognizioni anche nella parte erudita dell’architettura». Commenti tutti assonanti con quella definizione di «architecte napolitain très instruit» nella quale si cela l’identità dell’autore dei disegni conservati presso la Biblioteca Vaticana. d’Agincourt, Ascione, Cicognara e il primato del “risorgimento” delle arti Resta ancora da interrogarsi sulle ragioni della insolita dimenticanza di d’Agincourt, che possono forse essere rintracciate sviluppando il confronto tra i due progetti editoriali ed evidenziandone, al di là degli esiti, le analogie quanto le notevoli differenze. Sebbene circoscritto agli esempi napoletani, rispetto al respiro universale al quale ambiva l’opera di d’Agincourt, il programma di Ascione pre96
L. DE VEGNI, Elogio del Cav. Mario Gaetano Gioffredo Architetto napoletano, in Memorie per le Belle Arti, T. IV (1788), p. 113. 97 Oltre che nell’introduttiva Lettera dell’autore ad un amico, Comolli cita in più luoghi della sua opera «l’erudito, e diligente sig. cav. d’Agincourt francese, a cui io mi professo debitore di molti lumi per questa Bibliografia», dando, fin dal primo volume del 1788, notizia della «compita storia, tratta principalmente da’ monumenti incisi», a iniziare dall’epoca della «intiera decadenza» delle belle arti, «sino a’ nostri tempi», alla quale sta lavorando «con impegno, spesa, e fatica sorprendente». A. COMOLLI, Bibliografia storico-critica dell’Architettura civile ed arti subalterne, vol. I, Roma 1788, p. 153. Sul Comolli e la rete dei corrispondenti della Bibliografia, rimando a C. LENZA, “Per comodo degli architetti studiosi”. La Bibliografia architettonica di Angelo Comolli, in Scholion 9 (2015), pp. 156-179. 98 COMOLLI, Bibliografia cit., vol. II, Roma 1788, p. 254, nt. a). Dalla Bibliografia si evince che Ascione fornisce a Comolli notizie sul Repertoire des Artistes di Charles-Antoine Jombert (Paris 1765), «opera di lusso» da lui posseduta o visionata, e su due edizioni napoletane di aritmetica e geometria pratica di Elia del Re (1773) e Giorgio Lapazzaja (1784), oltre che sul manoscritto di Onofrio Giannone sulla prospettiva (v. infra nt. 111) e sulla dissertazione metafisica del bello, inedita, del marchese Berardo Galiani. Ivi, vol. II cit., p. 144, e vol. III, Roma 1791, pp. 49-51, 233-234.
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senta alcuni punti di contatto con quello del francese, sia nella rilevanza affidata alla dimostrazione grafica, sia nell’attenzione a monumenti tanto di architettura che di scultura. Tuttavia, esso si limitava agli esempi che avrebbero segnato la rinascita delle arti, nell’intento, di chiara impronta illuminista, di contribuire alla correzione del gusto, sicché, dal punto di vista cronologico, si intersecava solo parzialmente con quello dell’Histoire, che abbracciava a ritroso le epoche della decadenza, avvicinandosi piuttosto al disegno di Leopoldo Cicognara, il quale assumerà appunto il “risorgimento” dell’arte quale terminus a quo della sua Storia della Scultura. Profonde divergenze dividono invece Ascione, interno alla tradizione storiografica partenopea, e i due più celebri studiosi, sia sull’interpretazione del corso delle vicende artistiche, sia sui primati da attribuire alle diverse scuole della penisola. L’Arco di Alfonso in Castelnuovo costituisce un denominatore comune di tutte e tre le raccolte. La sua presenza nella tavola LIII, tra i pochi monumenti napoletani della sezione architettonica dell’Histoire, è dovuta al ruolo che d’Agincourt gli attribuisce, definendolo «le plus magnifique monument de ce genre qu’aient exécuté l’Architecture et la Sculpture, dans le long intervalle de tems qui s’est écoulé depuis la décadence de l’Art jusqu’à sa renaissance»99. In base alle sue affinità con i modelli antichi, Seroux ribadisce come indubitabile l’influenza di Alberti, e non si sottrae neppure dal pronunciarsi sulle diverse ipotesi riguardanti l’autore, accreditando l’attribuzione vasariana a Giuliano da Maiano a preferenza di quella, sostenuta dagli scrittori partenopei, in favore di Pietro di Martino100. Tale attribuzione costituisce il trait d’union con la successiva tavola LIV, dedicata agli edifici eretti a Roma e a Napoli dal XIII al XV secolo, nella quale infatti sono messi in raffronto, nella porzione superiore, Palazzo Venezia e la villa di Poggioreale, ritenuti entrambi, all’epoca, opera di Giuliano. Pianta e sezione della villa napoletana, col prospetto interno sul cortile, sono desunti dal libro III del trattato serliano, tuttavia in sede di stampa d’Agincourt si preoccupò di avvertire in nota il lettore della poca esattezza del disegno, grazie alle indicazioni dei fratelli Gasse, napoletani d’origine, ma formatisi a Parigi e pensionnaires nell’Urbe, i quali si sarebbero proposti di eseguire 99
SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit.,Tome premier: Architecture, p. 96. In nota, l’autore discute la tesi del De Dominici, concludendo a favore di Giuliano da Maiano; tuttavia, a seguire, rivede questa stessa attribuzione, grazie a un’ulteriore notizia riguardante il componimento poetico di Porcellio de’ Pandoni, Ad immortalitatem Isaiae Pisani marmorum caelatoris, rinvenuto dal canonico Angelo Battaglini presso la Biblioteca Vaticana, nel quale si ascriveva a Isaia da Pisa l’esecuzione delle sculture che ornano l’arco; ibid., p. 97, nt. a). A riprova della continua rielaborazione dei testi, nella spiegazione della tavola l’autore dell’Arco è invece ancora identificato con Pietro di Martino. 100
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un rilievo più attendibile e particolareggiato101, probabilmente poi confluito nella raccolta di Pierre-Adrien Pâris102. La “dimostrazione” visiva di d’Agincourt — in questo caso sviluppata e contrario — è volta ad affermare la fiorentinità della rinascita dell’arte, il che motiva l’inserimento, nella restante parte della tavola, di una nutrita serie di disegni relativi, quasi esclusivamente103, al Campanile di Santa Chiara, con piante alle diverse quote, prospetto, sezione del basamento e primo ordine, dettagli. La scelta è tanto più singolare, considerata la disponibilità, tra i materiali della raccolta, di un prospetto della torre di San Lorenzo, rimasto inedito, che meglio si sarebbe accordato alla cronologia quattrocentesca dei palazzi. Lo spazio dedicato al monumento si giustifica proprio con il proposito di d’Agincourt di confutare una tesi, dettata da partigianeria partenopea, che, ascrivendo l’intera costruzione del Campanile a Masuccio II, condurrebbe «à altérer l’histoire de l’Art», conferendo a Napoli, piuttosto che a Firenze, il primato nel “risorgimento” delle arti: Ce monument est célèbre à Naples, par l’abus qu’en on fait les écrivains de ce pays, pour essayer de ravir aux Florentins et d’attribuer à leur compatriotes la gloire d’avoir ramené, les premiers, l’usage des ordres grecs et romains104.
L’autore contestato è Bernardo De Dominici, alle cui Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, apparse a Napoli tra il 1742 e il 1745, d’Agincourt si era, comunque, più volte richiamato a proposito di opere sia di pittura che di scultura, recependo anche le sue fantasiose attribuzioni ad artisti come Stefanone o Masuccio II, ma già discostandosene, come abbiamo riferito, a proposito dell’Arco alfonsino. Al pari di quest’ultimo monumento, anche il Campanile di Santa Chiara aveva fornito al biografo napoletano motivo per accusare il Vasari, fin dalla premessa indirizzata A’ professori del disegno ed agli amatori di esso, di travisare il vero in nome della «passion […] verso i suoi nazionali»:
101 Ibid., p. 98, nota c): «J’apprends de MM. Gasse, jeunes architectes français aussi studieux qu’intelligens, que ce dessin n’étant point exact, ils se proposent d’en donner un autre beaucoup plus détaillé». 102 Ho sviluppato questa ipotesi in C. LENZA, Dal modello al rilievo: la villa di Poggioreale in un disegno della collezione di Pierre-Adrien Pâris, in Napoli Nobilissima. Rivista di arti, filologia e storia, V (2004), pp. 177-188. 103 Si aggiungono, ai nrr. 19-23, altri dettagli di archi e finestre attribuiti a Masuccio II in Santa Chiara, San Lorenzo e San Giovanni a Carbonara, per confermare il suo stile gotico. Fa eccezione, al nr. 24, il disegno dell’arco del Palazzo di Federico II di Svevia a Foggia, di cui Guglielmo della Valle aveva riportato le iscrizioni nelle sue Lettere Sanesi. 104 SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art cit., Tome Troisième, pp. 56-57.
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Per ragion d’esempio il nostro campanile di Santa Chiara, dicesi che il Vasari, essendo in Napoli, affermava essere stato fabbricato con disegno di Giotto, ed è di Masuccio secondo, quasi che non si sapesse dagl’intendenti che l’opera appartiene all’architettura già risorta, e non alla gotica di Giotto; l’Arco Trionfale in onore del re Alfonso primo, eretto nel Castel Nuovo, esser opera di Giulian da Majano, e pure fu fatica di Pietro di Martino milanese105.
La polemica è poi dettagliatamente sviluppata nella Vita di Masuccio secondo, dove il De Dominici può nuovamente dolersi del Vasari che, pur avendo certamente veduto in Napoli la gran fabbrica del Campanile, «giacché ella contasi per una delle più magnifiche, non solo della nostra città, ma dell’Italia», e constatato in essa «gli ordini della romana architettura così perfettamente compiuti», non ne avrebbe fatto menzione, per non attribuire ai napoletani il dovuto merito106. Il numero dei disegni e il grado di dettaglio dei rilievi pubblicati appaiono finalizzati proprio a fornire «la source, la preuve, et la réfutation de cette erreur», ponendo specificamente in risalto non solo la diversità — nello stile, nelle proporzioni e nella scelta e posa in opera dei materiali — tra i due registri inferiori e quelli superiori, ma anche talune particolarità riscontrabili nel primo ordine (la feritoia archiacuta per illuminare la scala a chiocciola interna; le basi, presenti in ciascuna delle quattro grandi finestre, per le colonnine che le avrebbero suddivise in bifore; le altre colonnine angolari, interrotte, destinate a ricevere le nervature della prevista volta a crociera a sesto acuto) atte a dimostrare la matrice gotica della costruzione legittimamente ascrivibile a Masuccio e la sua distanza — cronologica e stilistica — dal successivo completamento107. Da qui, le divergenze con Ascione. Pur non disponendo dell’illustrazione erudita che egli si era proposto di redigere — della quale vennero in seguito, ma vanamente, incaricati la Società Pontaniana, l’abate Luigi Caterino e l’architetto Nicola d’Apuzzo — la sua posizione ci è nota tramite le didascalie che fa inserire nel corpo stesso delle tavole, dalle quali si evin105 B. DE DOMINICI, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, edizione commentata a cura di F. SRICCHIA SANTORO – A. ZEZZA, Napoli 2003, pp. 20-21. 106 Ivi, p. 151. 107 Va notato che, nonostante le stringenti analogie, alcune peculiarità enfatizzate da d’Agincourt, come la feritoia archiacuta per illuminare la scala a chiocciola presente in prospetto, e le colonnine angolari interrotte visibili in pianta e nella sezione, non figurano nelle tavole del napoletano (di cui, comunque, non conosciamo i disegni): una differenza che lascia aperte molte ipotesi, dalla rielaborazione di una base comune di rilievo alla loro eliminazione in fase di incisione. La lettura dell’organismo architettonico fornita da d’Agincourt si rivela peraltro molto aderente all’effettivo stato della fabbrica, per il quale cfr. M. GAGLIONE, Il campanile di S. Chiara in Napoli, Napoli 1998 (Quaderni di antichità napoletane, 1).
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ce la conferma delle attribuzioni proposte dagli storici partenopei: come quella del Palazzo Gravina all’ancora misterioso Gabriele d’Angelo108, o della Cappella Pontano, compiuta nel 1492, al progetto del favoloso Andrea Ciccione, già morto nel 1455 — uno dei protagonisti della mitologia dell’arte partenopea creata dal De Dominici109 — e soprattutto del Campanile di Santa Chiara a Masuccio II, datandone la realizzazione tra il 1330 e il 1343110. Inoltre, è proprio Ascione a trasmettere a Comolli informazioni sul manoscritto di Onofrio Giannone riguardante alcune «giunte» alle Vite del De Dominici, che egli dichiara di aver consultato, estraendone qualche notizia «per verificarla, ed avvalermene nella nuova guida [sic], che sto preparando di questa Metropoli». La difesa del De Dominici dalle accuse di Giannone — definito «cattivo scrittore, per essere affatto privo di raziocinio, e di ortografia a segno, che non si può affatto leggere, e pieno ancora di mala volontà contro del de Dominici, sicché per opponersi a quanto quello scrisse in lode de’ nostri professori del disegno, altrettanto egli strapazza tutti, si oppone senza provare, e si contradice»111 — avvalora la prossimità di Ascione al biografo partenopeo, e dunque l’ipotesi che egli intendesse perpetuare, sulla scorta degli scrittori locali, la tradizione della primigenia dell’arte napoletana nel manifestare i germi di rinnovamento dai secoli di decadenza112. Una conferma proviene da Leopoldo Cicognara, che nel primo volume edito nel 1813 della sua Storia della Scultura, a conclusione del profilo di Masuccio II, citato come autore della bella architettura di tante chiese, tra cui quella di Santa Chiara, e delle sculture dei sepolcri angioini, «alcune delle quali veggonsi intagliate nella collezione numerosissima dei 108
Cfr. la scheda introduttiva alla sua biografia di P. GIANNATTASIO in DE DOMINICI, Vite cit., pp. 560-561. 109 Cfr. la scheda introduttiva di D. SALVATORE, ibid., pp. 216-217. 110 Cfr. le didascalie delle tavole, riportate quivi, infra, nt. 85 e nt. 90. 111 COMOLLI, Bibliografia cit., vol. II, Roma 1788, pp. 253-254. Il brano della lettera di Ascione è riportato nell’articolo Ritratti, e giunte su le Vite de’ Pittori Napolitani raccolte da Onofrio Giannone Pittore Napolitano. Il manoscritto risultava all’epoca di proprietà del Laviano marchese del Tito, che lo aveva affidato ad Ascione per trasmettere a Comolli le richieste informazioni, ma, secondo Ascione, «dovrebbe lacerarsi affatto, e se fosse mio l’avrei già fatto». Più benevolo, invece, il giudizio sull’inedito Trattato di Prospettiva prattica per uso de’ Pittori di Giannone, di cui lo stesso Ascione conservava il manoscritto. Ivi, vol. II, p. 255 e vol. III, pp. 223-224. 112 Il pamphlet scritto da Onofrio Giannone tra il 1771 e il 1773 risulterebbe comunque sintomatico di un clima polemico stabilitosi a Napoli nei confronti del De Dominici, al quale venivano imputate l’inattendibilità delle notizie sugli artisti antichi e la piaggeria nei confronti di quelli moderni. Per un bilancio critico dell’opera del De Dominici, cfr. F. SRICCHIA SANTORO, Introduzione, in DE DOMINICI, Vite cit., pp. IX-XLI.
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monumenti riportati nell’opera del signor d’Agincourt», così si riferisce ad Ascione: Un diligente raccoglitore di alcune memorie d’arti napoletane ha molti materiali disposti per illustrare, fra le produzioni de’ più antichi scultori ed architetti, anche le opere di Masuccio, ma non ci è data opportunità ancora di conoscere la sua dotta fatica col benefizio delle stampe. È questi il signor D. Emanuele Ascione architetto ingegnere, i cui lumi sarebber di lustro alla sua patria ove assoggettar gli piacesse a una critica matura e circospetta le sue memorie prima di renderle di pubblico dritto. Egli alcuna volta trasportato dallo zelo di dar risalto agli artisti della sua nazione propende verso alcune opinioni troppo volgari, come a cagion d’esempio quella di credere opera di Masuccio tutto ciò che vedesi eretto della torre di santa Chiara, mentre e per lo stile del basamento e per l’ordine rustico, che forma il primo piano, si conosce con troppa evidenza la distanza di tempo che passa tra questa e le restanti sovrapposte parti degli ordini dorico e jonico, che sono ben di molto posteriori. Le scolpitevi iscrizioni non ci obbligano a credere che Masuccio abbia condotto l’edifizio sino all’altezza che ora si vede, essendo appunto intagliate nell’ordine primo, il quale però è di una nobilissima e grandiosa costruzione, sicché non abbisogna punto l’artista per meritare un grado di considerazione segnalata che vengagli attribuito ciò che posteriormente vedesi fatto da architetti toscani, e che pare più opera del Brunellesco che d’ogni altro di quei primi architetti113.
Cicognara si inseriva, in tal modo, nella polemica tra d’Agincourt ed Ascione, sulla cui opera dovette ricevere notizie durante i suoi viaggi a Napoli, se non stabilire con lui contatti — diretti o indiretti — come attesta la presenza, nella raccolta dei materiali preparatori per la Storia della scultura, anch’essi conservati presso la Biblioteca Vaticana, di un disegno tratto da Ascione e riferito al rilievo del corteo trionfale nell’attico del primo ordine dell’Arco di Alfonso in Castel Nuovo114. E pure a proposito di 113 L. CICOGNARA, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia sino al secolo di Napoleone per servire di continuazione alle opere di Winckelmann e di d’Agincourt, vol. primo, Venezia 1813, pp. 468-469. Così conclude Cicognara: «Per rilevare il merito degli artisti napoletani non avvi bisogno di usurpar l’altrui gloria, specialmente ove sì manifesto si conosce tutto ciò che debbesi relativamente retribuire, ponendo ciascheduno al suo vero luogo e depurando la storia delle arti da tutti gli errori che un malinteso zelo di patrio amore spesso accumula con tanto detrimento del giusto e del vero». L’affermazione lascia presumere che Cicognara abbia potuto prendere visione, se non di appunti manoscritti di Ascione, almeno delle tavole sul Campanile di Santa Chiara. Nell’indice in calce al volume III della Storia figura: «Ascione D. Emanuele napoletano, ha illustrato i patrj monumenti». 114 L’iscrizione sul disegno riporta infatti: D. Emanuele Ascione. Sull’arco di trionfo al Castel Nuovo in Napoli di Benedetto da Majano. Vat. lat. 13748, Collezione di tutti i disegni originali che hanno servito per intagliare le tavole della Storia della scultura di Leopoldo Cicognara, f. 34r, n. 245. Il disegno, a inchiostro, risulta di particolare interesse, non essendosi finora rinvenuto quello corrispondente di Anderlino per l’opera di Ascione dal quale sarebbe stato ricalcato. Nella raccolta figura un secondo disegno relativo all’Arco alfonsino (n. 246: Sulla
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questo monumento, Cicognara si schiera nuovamente con d’Agincourt per contestare l’attribuzione a Pietro di Martino, cara agli scrittori napoletani, a favore di Giuliano da Maiano115. Non mancarono repliche nell’ambiente partenopeo, come quella a firma del libellista Francesco Rizzi, che pubblica a Napoli, nel 1817, un Compendio dell’opera intitolata: Storia della Scultura ec. del cav. Leopoldo Cicognara: Dica che che vuole il Cicognara dell’opera sulle nostre arti ch’egli seppe preparata dal nostro architetto Emanuele Ascione, ma qui troverà egli più fondamento di fatti che voli di fantasia, a quella guisa, che se il signor Millin pubblichi que’ depositi che fece disegnare già cinque anni fra noi, mostrerà al sig. Cicognara, che noi avevamo cose più degne di prodursi che quelle cinque ch’egli ci diede alla tavola XL […] e senza carattere disegnate, e con la maggiore trascuranza incise. Pietro de Stefani, e due Masucci I. e II. egli annovera soltanto di nostra scuola; ma io non voglio prevenire chi sta per vendicare queste nostre contrade che il Cicognara in questo volume loda con vane parole116.
Non possono escludersi, allora, più specifici motivi della reticenza di d’Agincourt sull’autore dei disegni di Santa Chiara. Un’omissione, forse inizialmente consigliata dallo stesso Ascione, per non contraddire la privativa richiesta, o da chi, della sua cerchia, può avere fornito i disegni al francese, ma che quest’ultimo dovette, più tardi, ritenere opportuna, per non rivestire di accenti personali una polemica di natura culturale. A sua volta, la ricezione dell’opera di d’Agincourt nell’ambiente partenopeo fu controversa. Agli inizi del 1811, quando già circolavano i primi porta di castel Nuovo a Napoli), riguardante uno dei due rilievi interni al fornice, eseguito invece da Francesco Hayez. Il regesto dei disegni presenti nella Collezione è stato integralmente pubblicato nell’Appendice documentaria da I. MIARELLI MARIANI, I disegni per la Storia della scultura di Leopoldo Cicognara, in 1810-2010. Luigi Lanzi: archeologo e storico dell’arte, a cura di M. E. MICHELI – G. PERINI FOLESANI – A. SANTUCCI, Treia – Corridonia 2012 (Collana Luigi Lanzi 2010, 6), pp. 299-325. 115 Nella seconda edizione, Cicognara darà anche notizia, come Seroux, dell’intervento di Isaia da Pisa, rinviando alla Memoria che il canonico Angelo Battaglini aveva intanto pubblicato nelle Dissertazioni dell’Accademia Romana di Archeologia, I, 1, Roma 1821, pp. 113-132. Cfr. L. CICOGNARA, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia sino al secolo di Canova per servire di continuazione all’opere di Winckelmann e di d’Agincourt, volume quarto, Prato 1823, pp. 244-254. 116 Il brano, dove si accenna anche al progetto editoriale sui monumenti funerari angioini di Aubin-Louis Millin, è riportato nella lunga recensione, a firma P.V., che compare sul Giornale dell’italiana letteratura compilato da una società di letterati italiani sotto la direzione ed a spese delli signori Niccolò e Girolamo fratelli conti Da Rio, serie seconda, XIV (1817), pp. 47-65. L’introvabile libretto, per i tipi napoletani di Giovanni de Bonis, è ricercato ansiosamente anche da Jacopo Morelli, che ne fa pressante richiesta al marchese di Villarosa. Cfr. M. TARSIA, Lettere inedite al marchese di Villarosa da diversi uomini illustri raccolte e pubblicate, Napoli 1844, lettera datata Venezia, 20 novembre 1818, pp. 278-279.
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fascicoli dell’Histoire, Francesco Daniele, convinto sostenitore dell’impresa editoriale di Ascione, così scrive a Jacopo Morelli: Sento che Visconti abbia trattati come cani i Francesi, che chiama magazzinieri di Antichità; e tali veramente sono. Sissignore, l’opera tanto aspettata di d’Agincourt è poi riuscita una solenne coglioneria, cioè un’opera francese117.
Erede della grande tradizione antiquaria, Daniele non poteva non essere prevenuto verso un’opera che, nonostante il notevolissimo apparato di citazioni attestanti la sicura padronanza di d’Agincourt di autori antichi e moderni, con tempestiva informazione anche sugli studi dei contemporanei, preferiva, tuttavia, “far parlare” i monumenti attraverso le immagini, anziché attingendo alle fonti. Non coglieva, così, la novità del metodo e la crescente insofferenza nei confronti dell’erudizione che invece Paul-Louis Courier, celebre grecista, spiritosamente tratteggiava nella lettera inviata a d’Agincourt nel 1808 sulla sua collezione di terrecotte: Non so se è vostra intenzione di pubblicare tutti i vostri vasi: sarebbe un bel dono da fare agli artisti e agli amanti dell’antichità, per parte mia vi esorto fortemente; ma se prendete questa decisione, vi prego, di sopprimere i commenti infiniti, le note superflue, il lusso tipografico e tutto lo sfoggio che rendono queste opere più costose e di minor valore. Quanto alle note esplicative, vi confesso, che se non trovo per prima cosa il soggetto di queste tavole, ne faccio a meno volentieri, più che costringere la mente a riconoscervi alcuni riferimenti o di Omero o di Euripide. Voi la pensate come me, credo, e vi accontentate di vedere, nella maggior parte dei monumenti che ci restano dell’antichità, la semplice rappresentazione di qualche scena di vita comune118.
Neppure le tavole furono esenti da critiche. Ancora nel 1843, Raffaele Liberatore, nel XIII volume del Real Museo Borbonico, nel testo che illustrava l’Arco di Alfonso dichiarava che il monumento, «italiana gloria, e vanto non meno della città nostra che del secolo XV», veniva appunto «nel ben insieme come nelle sue parti […] per la prima volta con iscrupolosa 117 Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Archivio Morelliano, 113 (= 12619), F. C-D, lettera di Francesco Daniele a Jacopo Morelli, datata «Di Napoli il dì 14 del 1811». 118 Lettera Al signor D’Agincourt a Roma, datata Livorno, 17 novembre 1808, in P.-L. COURIER, Lettere di un polemista, a cura di A. MOTTA, Palermo 1997, p. 114. La raccomandazione sembra accolta da Seroux nel pubblicare più tardi, con gli stessi editori parigini dell’Histoire, gli esemplari della sua collezione di terrecotte, assicurando, nella dedica Aux élèves des Beaux Arts, di accompagnare le tavole con sue «courtes explications, dans lesquelles je ne me piquerai point d’une profonde érudition; ma tête, plus qu’octogénaire, n’en serait plus capable»; inoltre, «les productions de l’art […] n’ont pas besoin de longs commentaires». J.-B.-L.-G. SEROUX D’AGINCOURT, Recueil de fragmens de sculpture antique en terre cuit, Paris 1814, pp. ij-iij.
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fedeltà delineato». In realtà, egli stesso era costretto ad ammettere che il prospetto, accompagnato da alcuni dettagli, campeggiava già nella tavola LIII della Histoire de l’art par les monumens di d’Agincourt, il quale ne aveva a sua volta rivendicato il primato di pubblicazione. Ma l’alterazione delle proporzioni dell’Arco e alcuni grossolani errori dell’incisione, come l’inversione dell’andamento del corteo trionfale, offrono a Liberatore buon gioco per commentare: «fanno veramente pietà quelle tavole, né mai vedemmo in tal genere nulla di più falso»119. Al di là del malevolo atteggiamento che sottende il commento, può avanzarsi qualche ultima considerazione sul confronto tra le tavole dell’opera di Ascione e quelle d’Agincourt, laddove le prime, dotate di scale grafiche e dettagliate quotature, si mostravano come l’esito di un rigoroso rilievo, talvolta esibendone anche gli strumenti (il filo a piombo), mentre nelle tavole dell’Histoire, nonostante una notevole attenzione ai sistemi costruttivi, la documentazione sull’architettura si incentrava prevalentemente sui caratteri tipologici e stilistici, utili a illustrare lo svolgimento delle vicende artistiche. Sicché, è l’intento pedagogico di Ascione, profondamente intriso di umori neoclassici, a determinare la differenza: le tavole di d’Agincourt vogliono “dimostrare” la storia dell’arte, laddove quelle di Ascione si proponevano di “ammaestrare” attraverso i suoi monumenti. In fondo, anche questo obiettivo non è estraneo a Seroux. Nella dedica Aux élèves des Beaux-Arts, che precede il Recueil de fragmens de sculpture antique en terre cuit, scrive infatti: Mes jeunes amis, vos maîtres vous diront qu’il y a deux manières d’apprendre à bien faire, dans la carrière que vous parcourez : l’une, en s’approchant des bons modèles ; l’autre, en s’éloignant de ce qui leur est opposé.
Da qui il senso della Histoire che, come recita il titolo delle iniziali livraisons, tramite la “riscoperta” del Medioevo, doveva «servir de suite à l’Histoire de l’art chez les anciens», ma dove non sarebbe stato possibile ritrovare, come nell’opera di Winckelmann, i principi della bellezza: Animé d’un désir égal de vous être utile, en prenant une route différente, j’ai démontré, dans un Recueil immense, comment l’oubli et l’ignorance absolue de ces mêmes principes ont produit, pendant douze siècles, la décadence des arts du dessin. Arrêtez un moment votre attention sur ces conséquences funestes, et sachez-moi quelque gré du travail que je me suis imposé, pendant trente ans, pour réunir et mettre sous vos yeux un pareil amas d’exemples qu’il vous importe d’éviter120. 119 R. LIBERATORE, L’Arco Trionfale di Alfonso nel Castel Nuovo, in Real Museo Borbonico, XIII (1843), p. 2. 120 SEROUX D’AGINCOURT, Recueil cit., pp. i-ij.
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Tav. I – Tav. I, Prospetto del Campanile di Santa Chiara in Napoli, scala in palmi napoletani, disegno a penna e inchiostro acquerellato. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 27v.
Tav. II – T. Ia. Prospetto da Mezzogiorno del Campanile di S. Chiara simile in tutto alle Tre altre Facce. Architettura del di Stefano detto Masuccio IIo. Circa gli anni MCCCXXX a XLIII, quotato, Carlo Anderlino del. et scul. A. dir. Napoli, Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, I A I(15 (autor. 428/IV II 1 del 22/12/2015).
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Tav. III – Tav. III, Prospetto del basamento e del primo ordine del Campanile di Santa Chiara in Napoli, scala in palmi napoletani, disegno a penna e inchiostro acquerellato. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 28v.
Tav. IV – Prospetto del basamento e del primo ordine del Campanile di Santa Chiara in Napoli, scala grafica senza indicazione di misure, Ema. Ascioni dis., Raf. Aloja inc., prova di stampa. Napoli, Archivio di Stato, Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1900 (su concessione del MiBACT n. 5 /2016, con divieto di ulteriore riproduzione).
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Tav. V – T. IV, Prospetto del secondo e terzo ordine del Campanile di Santa Chiara in Napoli, disegno a penna e inchiostro acquerellato. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9839 pt. 1, f. 29r.
Tav. VI – Prospetto del secondo e terzo ordine del Campanile di Santa Chiara in Napoli, quotato, scala in palmi di Napoli, Ema. Ascioni dis., Raf Aloja inc., prova di stampa. Napoli, Archivio di Stato, Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1900 (su concessione del MiBACT n. 5 /2016, con divieto di ulteriore riproduzione).
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Tav. VII – Tav. II, Piante dei tre livelli del Campanile di Santa Chiara in Napoli, scala in palmi napoletani, disegno a penna e inchiostro acquerellato. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 25r.
Tav. VIII – Le piante colle iscrizioni alli quattro lati del Campanile. Primo Piano. Secondo Piano. Terzo Piano. Aspetto verso Mezzogiorno, scala in palmi di Napoli, prova di stampa f.ta Ascione. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Deposito Rami, inv. 260741 (autor. del 22/03/2016).
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Tav. X – T. IX, Spaccato del basamento e primo ordine del Campanile di Santa Chiara in Napoli, disegno a penna e inchiostro acquerel lato. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 28r.
Tav. IX – T. X, Spaccato del secondo e terzo ordine del Campanile di Santa Chiara in Napoli, disegno a penna e inchiostro acquerellato. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 32r. Tav. XI – Taglio del Campanile secondo la linea AB del Piano. Abbici per l’intelligenza delle iscrizioni. In legenda: L Scala a lumaca per la quale si ascende al Campanile. M Intercapedine nel masso di fabrica fra il IIo e IIIo piano. Primo piantato composto di un sol masso di fabrica. AB Porta, e prima scala per cui si ascende al primo piano. Ai lati: Profilo del toro a. Profilo del toro b. Profilo della cimasa c. Forme delli caratteri lavorati a mosaico, particolari quotati, prova di stampa f.ta Ascione. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Deposito Rami, inv. 260739 (autor. del 22/03/2016). I DISEGNI DEI MONUMENTI NAPOLETANI DI ARCHITETTURA
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Tav. XII – Prospetto della R. Chiesa del S.S. Sacram.to e S. Chiara in Napoli, scala in palmi napoletani, disegno a penna e inchiostro acquerellato. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 58r.
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Tav. XIII – Archi del Chiostro nel Convento de’ Frati Minori contiguo al R. Monistero di S. Chiara in Napoli, scala in palmi napoletani, disegno a penna e inchiostro acquerellato. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9839, pt. 1, f. 30r.
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Tav. XIV – Pianta del Campo Santo di Napoli, scala in palmi napoletani, disegno a penna e inchiostro acquerellato. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 9845, f. 91r. In legenda: A. Portico. B. Cappella con sua sagristia. C. Condotto per lo scolo dell’acque. D. Camera. A sin.: Fosse profonde pal. 25. Larghe in quadro pal. 14. Muro fra le fosse pal. 2.
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LIBROS PARA LA REFORMA RELIGIOSA: LOS MANUSCRITOS REDESCUBIERTOS DE JOAN DIMES LLORIS, OBISPO DE BARCELONA (1576-1598) Entre las adquisiciones modernas del amplísimo fondo Vaticani latini de la Biblioteca Apostolica Vaticana1 figuran tres manuscritos litúrgicos de gran formato, íntimamente relacionados tanto desde el punto de vista de su materialidad como de su texto. Se trata de los ejemplares Vat. lat. 7594, 7596 y 7597, que contienen, respectivamente, la Missa episcopalis pro sacris ordinibus conferendis in sabbato IIII temporum de adventu, la Missa feriae quintae in caena Domini cum consecrationibus oleorum y la Missa sabbathi ante dominicam de passione, in quo fiunt ordinationes generales, cum sacris ordinibus praeinsertis. En sus últimos folios, los tres incluyen, además, la indicación del año en que fueron confeccionados: 1592 y 15932. Sin embargo, más allá de esta datación, apuntada en las sucintas noticias de los escasos catálogos en los que aparecen repertoriados3, estos códices nunca han merecido un estudio detenido, lo que ha conducido a la disparidad de opiniones acerca de su procedencia geográfica y a un absoluto desconocimiento de sus circunstancias de origen y uso4. En gran medida, esta escasez de información se debe al hecho de que nunca hasta la fecha se habían identificado las armas que decoran las páginas de frontispicio de cada volumen, lo que, obviamente, impedía conocer la identidad de su destinatario. Frente a esta situación, su análisis exhaustivo nos ha permitido no solo desvelar quién era el propietario de ese emblema heráldico, 1
En adelante, BAV. La fecha 1592 aparece en el f. 124r del Vat. lat. 7594 y la referencia al año 1593, en el f. 83r del Vat. lat. 7596 y en el f. 117r del Vat. lat. 7597. 3 Cfr. H. EHRENSBERGER, Libri liturgici Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, Friburgi Brisgoviae 1897, pp. 537-538 y P. SALMON, Les manuscrits liturgiques latins de la Bibliothèque Vaticane, III: Ordines romani, pontificaux, rituels, cérémoniaux, Città del Vaticano 1970 (Studi e testi, 260), pp. 46-47, nº 111-113. 4 Así, mientras que G. Baroffio ha planteado la hipótesis de un origen italiano (G. BAROFFIO, Iter liturgicum Italicum, Padova 1999, p. 283 e ID., Iter liturgicum Italicum. Editio maior, Stroncone 2011, p. 510), R. Kay les ha atribuido una procedencia española (R. KAY, Pontificalia. A repertory of latin manuscript pontificals and benedictionals, Lawrence 2007, nº 1152-1154). 2
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 473-497.
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sino, además, resituar los tres manuscritos en el peculiar contexto en que fueron elaborados y, de este modo, redescubrir su función y su significado como integrantes de una capilla libraria episcopal puesta al servicio de la reforma post-tridentina. Los tres volúmenes están realizados en pergamino de calidad y, como señalábamos, presentan un gran formato, de 360 × 250 mm, pese al número limitado de folios que los componen5. Con la excepción de algunas alteraciones en el último cuaderno de cada ejemplar, se estructuran en cuaterniones regulares6. El texto se dispone a una sola columna de 285 × 175 mm, con catorce líneas y pautado doble: en tinta negra, sepia o azul para los renglones y a mina de plomo para la escritura, una cuidada gotica antiqua de módulo muy grande y redondeado. En los tres casos existe foliación coetánea, en cifras arábigas rojas situadas en la esquina superior derecha, y se observa el uso de titulus currens, en rojo, en el centro del margen superior7. También encontramos dos tipos de reclamos horizontales, en rojo o negro, sin decoración: de cuaderno, localizados en el centro del margen inferior del último folio de cada cuaternión; y de folio, situados en el lado derecho del margen inferior de cada página. Apenas presentan anotaciones marginales; tan solo sucintas adiciones que identifican las lecturas bíblicas o añaden pequeñas rúbricas y que fueron incorporadas de manera coetánea a la confección de los volúmenes. Por último, solamente uno de los ejemplares, el Vat. lat. 7596, contiene notación musical, cuadrada sobre tetragrama rojo. Uno de los rasgos más destacados de sus mises en page es la presencia 5 El Vat. lat. 7594 está formado por 124 folios; el Vat. lat. 7596, por 83; y el Vat. lat. 7597, por 117. 6 El Vat. lat. 7594 se compone de dieciséis cuadernos, todos cuaterniones regulares con la excepción del último, que es un binión. El Vat. lat. 7596 está integrado por once cuadernos, igualmente cuaterniones salvo el undécimo, formado por un bifolio al que se ha añadido un folio. El Vat. lat. 7597 se estructura en quince cuadernos, de los cuales los catorce primeros son cuaterniones regulares y el último, un binión más un folio al final. 7 En el Vat. lat. 7594 el titulus currens indica a la izquierda: Missa III Te[m]p[ora] Adve[nti]; a la derecha, Pro clericis ordina[ndis] (ff. 2r-11r), Pro ostiariis ordin[andis] (ff. 12r17r), Pro lectoribus ordi[n]a[ndis] (ff. 18r-22r), Pro exorcistis ordi[nandis] (ff. 23r-29r), Pro acolytis ordin[andis] (ff. 30r-36r), Pro subdiac[onis] ordina[ndis] (ff. 37r-57r), Pro diaconis ordin[nandis] (ff. 58r-70r), Pro presbyteris ordi[nandis] (ff. 71r-97r) y Ad sacerdotes ordinatos (ff. 99r-124r). Por su parte, en el Vat. lat. 7596 indica, a la izquierda, Feria quinta y a la derecha, in caena Domini. Finalmente, en el Vat. lat. 7597 señala, a la izquierda, Sabbato a[n]te d[omi]nica[m] passionis y a la derecha, Pro clericis ordinandis (ff. 2r-11r), Pro ostiarii ordina[n]dis (ff. 12r-15r), Pro lectorib[us] ordinandis (ff. 16r-19r), Pro exorcistis ordina[n]dis (ff. 20r-22r), Pro acolytis ordina[ndis] (ff. 23r-30r), Pro subdiaconis ordina[n]dis (ff. 31r-48r), Pro diaconis ordina[ndis] (ff. 49r-61r), Pro presbyte[ris] ordina[ndis] (ff. 62r-90r) y Ad sacerdotes ordinatos (ff. 91r-117r).
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de un primer folio en el que, a modo de frontispicio y bajo el título de cada volumen, se halla iluminado, sobre campo de oro, un gran escudo partido: primero, un árbol de sinople arrancado y acostado de dos flores de lis de azur; segundo, un árbol de sinople arrancado y cogido por un brazo (fig. I). Dicho escudo se presenta, además, coronado por un capelo — verde en el Vat. lat. 7594 y Vat. lat. 7596 y morado en el Vat. lat. 7597 — con once borlas dispuestas en cuatro órdenes a cada lado y, en el caso del Vat. lat. 7597, se inserta en una moldura arquitectónica con volutas iluminadas en rosa. Las mismas armas se encuentran, en fin, dibujadas con tinta azul en el centro del margen inferior de la orla vegetal que enmarca el Calvario presente en el ejemplar Vat. lat. 7594, f. 98v, con la única diferencia de que, en este caso, del capelo penden seis borlas, y no once, dispuestas en dos órdenes a cada lado (fig. II). Este emblema heráldico identifica a Joan Dimes Lloris, obispo de Urgell (1572-1576) y de Barcelona (1576-1598), y tiene, por tanto, según ha señalado L. Darna Galobart, carácter parlante ya que la primera sílaba del segundo apellido del prelado, llor, significa laurel en catalán8. Teniendo en cuenta la datación expresa de los tres manuscritos en 1592 y 1593, es posible, pues, afirmar que Dimes Lloris fue su destinatario o, al menos, el prelado que comisionó su confección y que lo hizo, además, cuando ocupaba la sede de Barcelona. Ello es perfectamente coherente con el capelo episcopal, es decir, con seis borlas dispuestas a ambos lados, que corona su escudo en el f. 98v del ejemplar Vat. lat. 75949. Por el contrario, resulta sorprendente la presencia de un capelo con once borlas a cada lado en los frontispicios de los tres códices — y su iluminación en verde 8 L. DARNA GALOBART, La heráldica de los obispos de la catedral de Barcelona, siglos XII-XX, Universitat de Barcelona 1994 (Tesis doctoral inédita), pp. 144-145. Cfr., asimismo, F. DE ALÓS DE FONTCUBERTA, Armería Catalana, en Hidalguía. La Revista de Genealogía, Nobleza y Armas 22 (mayo-junio 1957), pp. 337-368 y 24 (septiembre-octubre 1957), pp. 717-764, en pp. 722-723; y P. F. PUIGDERRAJOLS I JARQUE, Heràldica a la catedral de Barcelona, [s. l.] 2011, pp. 18-20, disponible en línea: . El mismo emblema está también presente en los laterales del basamento que, como se verá más adelante, ordenó añadir en 1593 al retablo gótico del altar mayor de la catedral barcelonesa (À. FÀBREGA I GRAU, L’altar major de la catedral de Barcelona i els seves lipsanoteques, en Bulletí de la Reial Acadèmia Catalana de Belles Arts de Saint Jordi 12 (1998), pp. 199262, en pp. 207-213) y en su losa sepulcral, sita en la Capilla de San Paciano del mismo templo (R. PIÑOL ANDREU, Heráldica de la catedral de Barcelona, Barcelona 1948, p. 229), así como en varios sellos fechables hacia 1581-1583 (F. DE SAGARRA I DE SISCAR, Sigillografía catalana: inventari, descripció i estudi dels segells de Catalunya, III.1, Barcelona 1932, nº 3081-3084). Quiero expresar mi agradecimiento a Anna Orriols y a Leticia Darna por su ayuda en la identificación de estas armas y, en el caso de esta última, también por el envío de información procedente de su tesis inédita. 9 Así es también el capelo que corona su escudo en el sello recogido en DE SAGARRA I DE SISCAR, Sigillografía catalana cit., nº 3081.
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en dos de ellos–, ya que tal número de borlas no identifica ninguna de las tipologías eclesiásticas conocidas; la más cercana sería la arzobispal — con capelo verde con 2x10 borlas–, pero la sede de Barcelona no ostentó esta condición hasta 1964. Tales variaciones en el número y color de las borlas podrían indicar, por ello, que a finales del Quinientos todavía no existía un sistema heráldico de identificación de la dignidad eclesiástica tan riguroso como el actual10. Además de contribuir a rescatar del anonimato al promotor de los tres manuscritos que nos ocupan, este hallazgo posee una importancia especial porque las mismas armas se localizan en las páginas de frontispicio de dos códices custodiados en el Arxiu Capitular de Barcelona11: el Còdex 135 y el Còdex 136, igualmente carentes, hasta la fecha, de un estudio detallado12. En el primer caso, el f. 1r está ocupado por una gran bordura arquitectónica que contiene el título, Missa de benedictione abbatissae, bajo la cual se halla, iluminado en gran formato, el escudo de Dimes Lloris (fig. III). Un sistema decorativo similar, enriquecido con una guirnalda vegetal y un sencillo recuadro en tonos ocres, se encuentra en el f. 1r del segundo ejemplar, que contiene la Missa de consecratione electi in episcopum (fig. IV). A través, por lo tanto, de la presencia inicial del escudo del prelado barcelonés es posible relacionar los tres manuscritos de la BAV con los dos conservados en el ACB y, en consecuencia, redescubrir y reconstruir un conjunto de libros litúrgicos que, como se analizará a continuación, fue unitario en origen, tanto desde el punto de vista material como textual. En lo que se refiere a su materialidad, los cinco códices comparten, en efecto, una serie de particularidades formales. El empleo de un soporte de gran calidad — y excepcionalmente bien conservado13 —, el reducido número de folios, coherente con sus breves contenidos14, la estructura en cuaterniones regulares15, el empleo de una idéntica gotica antiqua de gran 10
Agradezco a Paolo Vian sus inestimables indicaciones con respecto a esta cuestión. En adelante, ACB. 12 Tan solo se hallan repertoriados de modo sucinto en dos catálogos: J. JANINI, Manuscritos litúrgicos de las bibliotecas de España, II: Aragón, Cataluña y Valencia, Burgos 1980, p. 36, nº 392-393; À. FÀBREGA I GRAU – J. BAUCELLS I REIG, Catàleg-Inventari General de l’Arxiu Capitular de la Catedral de Barcelona, IV: Còdexs 116-258, Barcelona 2005, pp. 426-428. 13 Con la salvedad del ejemplar ACB, Còdex 136, cuyos primeros folios se hallan dañados en la esquina superior derecha, con evidentes huellas de humedad y ataque de algún roedor. 14 El ejemplar ACB, Còdex 135 se compone de 29 folios y el Còdex 136, de 49. 15 El manuscrito ACB, Còdex 135 está estructurado en cuatro cuadernos, de los cuales los tres primeros son cuaterniones regulares y el cuarto, un binión con un folio antepuesto. El Còdex 136, por su parte, se compone de siete cuadernos, mayoritariamente cuaterniones regulares, con la excepción del primero, que es un bifolio, y del quinto, que es un ternión con un folio antepuesto. 11
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módulo, el uso de e caudata y de titulus currens o la presencia de notación musical cuadrada sobre tetragrama rojo son rasgos comunes que apuntan hacia un mismo lugar y contexto de producción. Por el contrario, se observan también algunas divergencias que inducen a pensar en la intervención de artífices distintos — o en distintos momentos — dentro de un mismo taller. Así, las dimensiones de los ejemplares conservados en el ACB16 son diferentes de las que señalábamos para los manuscritos de la BAV, como también lo son el formato de la caja de escritura17, la presencia exclusiva de reclamos de cuaderno — y no de página — y la utilización del rojo o el morado, en lugar del sepia, para trazar el pautado de los renglones. Estos rasgos formales otorgan a los códices una apariencia de suntuosidad que se completa con un aparato decorativo sencillo pero cuidado. Además de las páginas de frontispicio con las armas de Dimes Lloris, que en el caso de los Còdex 135 y 136 se ornamentan, como ya vimos, con borduras arquitectónicas y cenefas de carácter anticuarista (figs. III-IV), destaca la presencia de algunas iniciales decoradas con hojas, nudos y volutas. Tanto en el Vat. lat. 7596 como en el Vat. lat. 7597 se observan dos letras de este tipo, situadas al comienzo del orden eucarístico18 y de la oración Te igitur19 (figs. V-VI). El Vat. lat. 7594, por su parte, también presenta sendas iniciales en estos emplazamientos destacados del texto20, pero con un formato más sencillo, en el que la decoración iluminada ha sido sustituida por cuerpos puzle con filigranas en rojo y azul. No obstante, tanto este como los dos manuscritos precedentes fueron realizados y decorados coetáneamente por el mismo taller; no en vano, la mano responsable de la orla vegetal en tinta azul que enmarca el Calvario del Vat. lat. 7594, f. 98v (fig. II), es la misma que realizó la inicial del Vat. lat. 7596, f. 5r, situada sobre un fondo amarillo decorado con hojas de parra y roleos igualmente trazados en tinta azul y con pequeñas rayas (fig. V). Los códices del ACB, por el contrario, presentan tan solo una inicial decorada al comienzo de la primera rúbrica, en el f. 1v, y su léxico ornamental, aunque genéricamente emparentado con el de los ejemplares de la BAV, presenta, de nuevo, una mayor impronta anticuarista, con formas antropomorfas y vegetales que se
16 Los folios del ejemplar ACB, Còdex 135 miden 530 × 375 mm y los del Còdex 136, 535 × 380 mm. 17 La caja de escritura del Còdex 135 mide 444 × 280 mm y la del Còdex 136, 450 × 300 mm. Ambas presentan quince líneas de texto, en lugar de las catorce que se observan en los ejemplares de la BAV. 18 Vat. lat. 7596, f. 5r y Vat. lat. 7597, f. 3r. 19 Vat. lat. 7596, f. 24r y Vat. lat. 7597, f. 90r. 20 Vat. lat. 7594, ff. 1v y 99r.
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funden, casi arquitectónicamente, con los cuerpos de las letras (figs. VIIVIII), lo que sugiere la intervención de un artista diferente. Al margen de esta decoración, el resto de los folios que componen los cinco manuscritos carecen de iluminación y su ornamentación se limita a sencillas iniciales de filigrana en rojo y azul, de altura equivalente a uno o dos renglones, y a otros motivos menores, como cruces de bendición rojas, remates de renglón con detalles caligráficos, calderones azules y sutiles toques ocres en las mayúsculas negras. Excepcionalmente, según se indicó, solo el ejemplar Vat. lat. 7594 incluye en el f. 98v, coincidiendo con la oración Te igitur del canon eucarístico, un dibujo de un Calvario, realizado a tinta negra, a modo de grabado, sobre una hoja de papel que luego fue adherida a la página del códice y rodeada de una orla vegetal trazada en azul y dotada de las armas episcopales (fig. II). En su conjunto, todos estos rasgos formales y decorativos están estrechamente emparentados con los que caracterizan a los cantorales de la catedral de Barcelona datables entre los siglos XVII y XVIII, particularmente con el Còdex 25 y el Còdex 29, realizados en el XVII21, y con el Còdex 43, fechado en Barcelona en 172222. Tal parentesco es especialmente relevante porque se ha señalado que el principal centro de producción y abastecimiento de cantorales en el templo barcelonés fue el escritorio del monasterio de Sant Jeroni de la Murtra23, segunda casa jerónima de Cataluña, fundada en 1413 y situada en el actual municipio de Badalona, a diez kilómetros de Barcelona24. La Crónica de esta abadía, escrita por Francesc Talet a principios del siglo XVII, da cuenta, en efecto, de la dinámica labor escrituraria, principalmente de libros litúrgicos, desarrollada por sus monjes25, así como de la importancia de su biblioteca, que, en el XVIII, se integraría, en su gran mayoría, en la librería del III Marqués de la Romana, 21
AA. VV., Catàleg-Inventari General de l’Arxiu Capitular de la Catedral de Barcelona, Llibres Cantorals, ss. XVI-XX, III, Barcelona 2003, pp. 20-24 y 40-44, respectivamente. 22 AA. VV., Catàleg-Inventari General de l’Arxiu Capitular de la Catedral de Barcelona, Llibres Cantorals, ss. XVI-XX, V, Barcelona 2004, [s. p.]. 23 AA. VV., Catàleg-Inventari General cit., III, p. 40. 24 Sobre la historia de esta fundación, véanse J. DE SIGÜENZA, Historia de la Orden de San Jerónimo, I, Madrid 1907, pp. 292, 294-297, 481-581; C. BARRAQUER I ROVIRALTA, Las casas de religiosos en Cataluña durante el primer tercio del siglo XIX, II, Barcelona 1906, pp. 261-274; y J. M. CUYÀS TOLOSA, Resumen histórico del monasterio de San Jerónimo de la Murtra, Badalona 1975. 25 E. DURAN (dir.), Repertori de manuscrits catalans (1474-1620), III, Barcelona 2003, p. 333. Una edición reciente de esta obra puede consultarse en C. DÍAZ MARTÍ (ed.), La primera crònica del monestir de Sant Jeroni de la Murtra, 1413-1604, de Francesc Talet, Barcelona 2013, disponible en línea: .
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Pedro Caro y Sureda (1761-1811)26 y, por esta vía, en 1866 sería comprada por la Biblioteca Real27. Además, aunque en la Crónica de Francesc Talet no hay ninguna referencia a un supuesto encargo librario por parte de Dimes Lloris a los monjes de la Murtra, sí que se alude a la intervención de este prelado en la vida abacial en dos ocasiones28, lo que atestiguaría su vinculación personal directa con la casa jerónima. Pese a que, en el estado actual de nuestro conocimiento, carecemos de indicios firmes que permitan atribuir la confección de los manuscritos aquí estudiados al monasterio de Sant Jeroni de la Murtra, de lo que no cabe duda es de que, desde el punto de vista material, los códices responden a un formato librario estable, de larga duración, típicamente litúrgico y de origen barcelonés. En consecuencia, es posible afirmar que fueron elaborados en la propia ciudad de Barcelona o en su entorno durante la última década del siglo XVI, entre 1592-1593, fecha de los ejemplares de la BAV, y 1598, año del fallecimiento del prelado. Asimismo, resulta evidente que, a pesar de las diferencias existentes entre los manuscritos de la BAV y los del ACB, los cinco son obra de un mismo taller, que los produjo por encargo de Dimes Lloris y con una coherencia interna que es también patente en sus textos. En efecto, la complementariedad de los cinco códices a nivel formal tiene un paralelo preciso en su contenido. Según sus títulos respectivos, ofrecen las fórmulas necesarias para las misas que el obispo debía llevar a cabo durante la celebración de ciertos rituales privativos de la dignidad episcopal: Missa episcopalis pro sacris ordinibus conferendis in sabbato IIII temporum de adventu (Vat. lat. 7594), Missa feriae quintae in caena Domini cum consecrationibus oleorum (Vat. lat. 7596), Missa sabbathi (sic) ante dominicam de passione, in quo fiunt ordinationes generales, cum sacris ordinibus praeinsertis (Vat. lat. 7597), Missa de benedictione abbatissae (Còdex 135) y Missa de consecratione electi in episcopum (Còdex 136). Ahora 26 J. VILLANUEVA, Viage literario a las iglesias de España, XIX: Viage a Barcelona y Tarragona, Madrid 1851, pp. 2-4. Cfr., asimismo, el Catálogo de la biblioteca del Excmo. Sr. D. Pedro Caro y Sureda, Marqués de la Romana, Capitán General del Ejército y General en jefe, que fue, de las tropas españolas en Dinamarca el año de 1807, Madrid 1865, disponible en línea: . 27 J. DELGADO CASADO, La formación de la colección de referencia de la Biblioteca Nacional, en Boletín de Anabad 42 (1992), pp. 43-58, en p. 57. Sobre la historia de la biblioteca de este monasterio, cfr. también J. AYMAR RAGOLTA, La biblioteca del monasterio de Sant Jeroni de la Murtra, en La Orden de San Jerónimo y sus monasterios, II, El Escorial 1999, pp. 691-710. 28 En 1581, cuando firmó las bulas por las que se anexionaba a la Murtra la rectoría de Sanct Pere de Rexach. Y en 1587, cuando el prior Jerónimo Exquerra le tuvo que pagar 50 libras por causa de la muerte de Andreu Vila, rector de Sanct Pere de Rexach (DÍAZ MARTÍ (ed.), La primera crònica cit., pp. 625 y 693, respectivamente).
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bien, un examen más atento revela que, en cada caso, el orden y canon eucarísticos se hallan combinados con rúbricas y fórmulas procedentes del pontifical revisado por Agostino Patrizi Piccolomini y Jean Burckard, esto es, del llamado por M. Dykmans Pontifical romano de 1485, el primer libro litúrgico de este tipo que se imprimió — precisamente en ese año — y el que mayor difusión experimentó en el Occidente cristiano a lo largo del Quinientos, hasta que en 1596 Clemente VIII (1592-1605) impuso como único texto válido y obligatorio el del Pontificale romanum nacido de la reforma tridentina29. Así, en los manuscritos Vat. lat. 7594 y Vat. lat. 7597 las misas que se debían celebrar durante las ordenaciones de los diversos grados eclesiásticos el sábado de las témporas de Adviento, en el primer caso, y el sábado previo al Domingo de Resurrección, en el segundo, se insertan entre las rúbricas y fórmulas de las propias ordenaciones según la versión de Patrizi y Burckard, a saber: Pro clericis (Vat. lat. 7594, ff. 2r-11v; Vat. lat. 7597, ff. 2r11v)30; Pro ostiariis (Vat. lat. 7594, ff. 12r-15v; Vat. lat. 7597, ff. 11v-15r)31; Pro lectoribus (Vat. lat. 7594, ff. 17v-21r; Vat. lat. 7597, ff. 15v-19r)32; Pro exorcistis (Vat. lat. 7594, ff. 22v-26v; Vat. lat. 7597, ff. 19r-22v)33; Pro acolytis (Vat. lat. 7594, ff. 28v-34v; Vat. lat. 7597, ff. 23r-30v)34; Pro subdiaconis (Vat. lat. 7594, ff. 36r-53r; Vat. lat. 7597, ff. 30v-47r)35; Pro diaconis (Vat. lat. 7594, ff. 57v-70v; Vat. lat. 7597, ff. 48v-61v)36; y Pro presbiteris (Vat. lat. 7594, ff. 71r-125r; Vat. lat. 7597, ff. 61v-117r)37. El ejemplar Vat. lat. 7596, por su parte, contiene, junto a las fórmulas eucarísticas correspondientes, el ritual de celebración del Jueves Santo de acuerdo con el ordo De feria quinta in cena Domini del pontifical de Patrizi y Burckard38. Finalmente, los textos del Còdex 135 y del Còdex 136 responden, respectivamente, a los ordines De benedictione abbatisse y De consecratione electi in episcopum, tomados del mismo pontifical de Patrizi y Burckard, lo que, además, permite acotar todavía más su cronología entre la elaboración de los ejemplares de 29 M. DYKMANS, Le Pontifical romain révisé au XVe siècle, Città del Vaticano 1985 (Studi e testi, 311), pp. 108-133. El pontifical de Patrizi y Burckard está editado en M. SODI (ed.), Il “Pontificalis Liber” di Agostino Patrizi Piccolomini e Giovanni Burcardo (1485), Città del Vaticano 2006 (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica, 43). 30 SODI (ed.), Il “Pontificalis Liber” cit., pp. 15-18, nº 74-92. 31 Ibid., pp. 20-21, nº 101-110. 32 Ibid., pp. 22-23, nº 113-121. 33 Ibid., pp. 23-25, nº 124-133. 34 Ibid., pp. 26-28, nº 135-148. 35 Ibid., pp. 29-36, nº 151-181. 36 Ibid., pp. 37-48, nº 185-215. 37 Ibid., pp. 48-65, nº 217-268. 38 Ibid., pp. 457-482, nº 1530-1576.
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la BAV, en 1592-1593, y la impresión del citado Pontificale romanum, en 1595-159639. Por lo tanto, y pese a los títulos visibles en sus frontispicios, no nos hallamos ante unos meros misales, sino ante misales-pontificales, concebidos para ser utilizados por el obispo y redactados ad hoc, es decir, ante unas necesidades litúrgicas concretas y combinando fragmentos de misal y de pontifical para crear, como resultado, unos ordines únicos que se disponen, monográficamente, en volúmenes independientes. Dicha singularidad textual no reside solo en la decisión de integrar las fórmulas eucarísticas en los ordines pontificales o en las ligeras variantes textuales que se observan en ocasiones con respecto a la edición de Patrizi y Burckard. El hecho de que sus textos no fueron simplemente copiados, sino elaborados ad hoc se infiere también de algunas remisiones internas al contenido de un mismo volumen, con indicación precisa del folio correspondiente40, y de ciertos reenvíos externos al contenido de otro manuscrito41, reforzando el carácter complementario que existe entre los cinco y la evidencia de que fueron concebidos y empleados de manera original y unitaria, como una auténtica capilla libraria. En el mismo sentido apunta, por último, la adición, en el Vat. lat. 7597, f. 9r, de un pequeño pergamino que contiene una fórmula de bendición de un rey Philippum, que, dadas su cronología y circunstancias de confección, no puede ser otro que el monarca español Felipe II (1556-1598)42. El hecho de que este fragmento, de 93 × 110 mm y 10 líneas de texto, esté pautado en rojo y escrito en grafía humanística del siglo XVI permite, además, suponer que fue añadido contemporáneamente a la producción del manuscrito o, a lo sumo, poco tiempo después, pero sin duda aún en vida del propio monarca y de Dimes Lloris. Las circunstancias de origen de estos códices quedan, pues, esclareci39
Ibid., pp. 155-171, nº 574-623 y pp. 66-106, nº 274-407. Así, por ejemplo, en el Vat. lat. 7597 se lee: «Nota quod hic leguntur litaniae super diaconandos si non sint factae ordinationes subdiaconorum, quas require supra, folio 34, in ordinatione subdiaconi et eudem modum servabis» (f. 53r). O: «Nota quod hic leguntur litaniae super presbyterandos si non sint factae ordinatione subdiaconorum vel diaconorum, quas require supra, folio 34, in ordinatione subdiaconi et eundem modum servabis» (f. 68r). 41 La rúbrica inicial del Vat. lat. 7597 remite, de hecho, al contenido del Vat. lat. 7594: «Pontifex si voluerit ecclesiasticos ordines conferre et pro maiori commoditate missam plane et sine cantu celebrare, antequam ad ordinationem procedat. Debet prius omnia advertere, considerare et diligenter observare ut supra notata sunt ante missam sabbathi quatuor temporum de adventu et eo ordine procedere usque ad introitum missae exclusive» (f. 1v). 42 «Et famulos tuos summum pontificem et Philippum Regem nostrum, Reginam et Principem cum prole regia populo sibi commisso et exercitu suo ab omni adversitate custodi, pacem et salutem nostris condede temporibus et ab ecclesia tua cunctam repelle nequitiam, fructus terre dare et conservare digneris. Et gentes paganorum et hereticorum que in sua feritate confidunt dexterae tuae potentia conterantur. Per Dominum». 40
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das gracias al descubrimiento de la identidad de su promotor, a su localización cronológica y espacial y al establecimiento de sus particularidades textuales. Pero, más allá de ello, ¿cuáles fueron las necesidades litúrgicas concretas que motivaron su elaboración? ¿Cuál fue el significado y uso de estos libros en el contexto de la sede de Barcelona en las últimas décadas del Quinientos? Para responder a estos interrogantes conviene recordar que, al igual que en el resto del Occidente europeo, la situación religiosa y litúrgica de la Iglesia catalana estuvo marcada desde mediados del siglo XVI por las acciones reformistas derivadas del Concilio de Trento (1545-1563), que tuvo, de hecho, en la diócesis barcelonesa un destacado lugar de recepción. No en vano, a la vuelta de la tercera etapa de sesiones conciliares los obispos peninsulares que habían asistido a ellas desembarcaron en Barcelona, donde se reunieron con Felipe II43. No resulta, pues, sorprendente que los prelados que ocuparon la sede catalana desde el comienzo del Concilio manifestaran notables intereses reformistas, especialmente referentes a la acción pastoral y a la introducción de los nuevos libros litúrgicos tridentinos, herramientas privilegiadas de la renovación religiosa. Así, Jaume Cassador (1546-1561) impulsó en 1560 la publicación de un nuevo Breviarium Barcinonense y su sobrino y sucesor en la sede, Guillem Cassador (1561-1570) — que acudió personalmente a la última etapa de Trento — promovió la edición en 1569 del Ordinarium Barcinonense44. En coherencia con esta tendencia reformista, también Dimes Lloris concedió especial atención a la renovación de los libros litúrgicos, sobre todo a la difusión en toda la diócesis del Breviario romano de 1568 y del Misal romano de 1570, ambos confeccionados en el contexto tridentino y cuya obligatoriedad había sido decretada por el Concilio provincial de Tarragona en 1573, apenas tres años antes de su nombramiento como obispo de Barcelona45. Ignorados hasta la fecha, los misales-pontificales que hemos redescubierto hubieron también de formar parte de este proceso de revisión y actualización de los libros litúrgicos de la diócesis. Ahora bien, a diferencia del Breviario y del Misal, en el caso de los volúmenes de la litur43 S. ZAUNER ESPINOSA, La recepció del Concili de Trento a Barcelona. Efectes primerencs sobre la música, en 21 (2013), pp. 285-306, en pp. 287-288. Cfr., asimismo, H. KAMEN, The phoenix and the flame: Catalonia and the Counter Reformation, Yale 1993, pp. 82-156; J. BADA I ELIAS, Situació religiosa de Barcelona en el segle XVI, Barcelona 1970; y À. FÀBREGA I GRAU, La vida quotidiana a la catedral de Barcelona en declinar el renaixement. Any 1580, Barcelona 1978. 44 ZAUNER ESPINOSA, La recepció cit., pp. 288-290 y BADA I ELIAS, Situació religiosa cit., pp. 79-86. 45 FÀBREGA I GRAU, La vida quotidiana cit., p. 13 y KAMEN, The phoenix cit., pp. 93-102.
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gia episcopal Dimes carecía, como se ha visto, de una versión tridentina, que, de hecho, no se redactó e imprimió hasta 1595-1596, cuando nuestros manuscritos ya habían sido confeccionados; por ello tuvo que recurrir al pontifical más actualizado que existía entonces, el de Patrizi y Burckard, y ordenó su reelaboración y su fusión con el misal romano, resultando un contenido original y adaptado a sus inquietudes y necesidades. Así se entiende también la inclusión de una oración dedicada a Felipe II, quien, de hecho, con ocasión de la reunión de unas Cortes en 1585, estuvo en Poblet, Montserrat y Barcelona, donde pudo conocer de primera mano los avances de la reforma impulsada por Dimes y tan querida por el monarca46. Obviamente, la determinación del prelado no bastaba para que los nuevos libros litúrgicos, tanto los generales para toda la diócesis como los de carácter episcopal, se aceptaran rápidamente. Al contrario, sabemos que en 1596 Dimes todavía tuvo que recordar a la comunidad de Santa María del Mar la obligación de reemplazar el antiguo misal por la versión romana de 157047. En el caso de los cinco manuscritos episcopales que nos ocupan, desconocemos el modo preciso en que fueron recibidos y empleados en la catedral barcelonesa. No obstante, debieron de ser percibidos ya entonces de manera excepcional pues, a diferencia de los libros diocesanos promovidos por el propio Dimes y sus predecesores, se trataba de manuscritos, y no de impresos, cuyo contenido se había decidido distribuir en varios volúmenes, y no en uno solo. Es evidente que este proyecto librario de Dimes tenía un importante componente de prestigio y ostentación, quizás relacionado con su uso en el principal templo de la diócesis. Es, asimismo, posible que la decisión de encargar cinco códices con estas suntuosas características, similares a las de los grandes cantorales, estuviera motivada, como ha apuntado À. Fàbrega i Grau, por su afán de persuadir al cabildo barcelonés acerca de la necesidad de adoptar los nuevos usos litúrgicos48. Tampoco se puede descartar que, junto a estos factores, hubiera sido determinante la dificultad de imprimir unos libros de gran formato como éstos o que, incluso, se hubiera optado por esta esmerada factura para dotar a la catedral de unos libros que pudieran servir de modelos para eventuales ediciones impresas. De lo que no cabe duda es de que la confección de una capilla libraria tan excepcional para impulsar la reforma litúrgica no solo estuvo motivada por el contexto religioso general de la sede barcelonesa, sino también por la personalidad, igualmente excepcional, de su promotor. 46 KAMEN, The phoenix cit., pp. 44-81 y BADA I ELIAS, Situació religiosa cit., pp. 161-164. Cfr. también F. GARCÍA CUÉLLAR, Política de Felipe II en torno a la convocación de la tercera etapa del concilio tridentino, en Hispania Sacra 16 (1963), pp. 25-60. 47 KAMEN, The phoenix cit., p. 97. 48 FÀBREGA I GRAU – BAUCELLS I REIG, Catàleg-Inventari cit., pp. 427-428.
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Desde este punto de vista, además de su influyente trayectoria, tanto eclesiástica — como obispo de Urgell (1572-1576) y de Barcelona (15761598)– como política — fue presidente del Consejo de Aragón y Canciller de Cataluña del 1572 al 157649 —, Joan Dimes Lloris destacó por su elevada formación y sus inquietudes culturales y bibliófilas. Así, al igual que sus predecesores en la sede y de acuerdo con los estatutos de 1559, fue canciller de la Universidad de Barcelona, lo que implicaba, entre otros aspectos, que presidía todos los actos académicos de la comunidad universitaria50. Además, sabemos que, entre 1592 y 1596, promulgó varias licencias de publicación del Libro de la conversión de la Magdalena de Pedro Malón de Chaide51 y que fue propietario de, al menos, un manuscrito medieval: un ejemplar del Llibre dels àngels de Francesc Eiximenis, datable en 148652. En relación con ello, no se debe olvidar su preocupación por garantizar la conservación de los libros de la catedral, incluyendo aquellos más antiguos que estaban en desuso53, y por organizar adecuadamente el archivo: en 1582 nombró una comisión capitular para buscarle una nueva ubicación y en 1586 decidió ampliarlo con otra habitación anexa, en la que se depositaron los fondos de mayor actualidad y, por tanto, más frecuentemente empleados54. Todas estas actuaciones, en suma, permiten atribuir a Dimes Lloris una personalidad bibliófila, nunca antes señalada, que contribuiría a explicar su interés por poseer o encargar esta gran capilla libraria manuscrita en tiempos de la imprenta. Paralelamente a sus inquietudes culturales, la concepción de este proyecto librario solo se entiende si lo consideramos como una más de las 49 Para una síntesis de la biografía de Dimes Lloris, cfr. FÀBREGA I GRAU, La vida quotidiana cit., pp. 13-14; E. MOLINÉ I COLL, Loris, Joan Dimes, en Diccionari d’història eclesiàstica de Catalunya, dir. R. CORTS I BLAY – J. GALTÉS I PUJOL – A. MANENT I SEGIMON, II, Barcelona 2000, p. 519; y J. M. MARTÍ BONET (dir.), Barcelona, Terrassa, Sant Feliu de Llobregat, Gerona, Madrid 2006 (Historia de las Diócesis Españolas, 2), pp. 232-233. 50 A. FERNÁNDEZ LUZÓN, La Universidad de Barcelona en el siglo XVI, Barcelona 2005, pp. 96-98. 51 J. MARTÍN ABAD, La imprenta en Alcalá de Henares (1502-1600), III, Madrid 1991, pp. 1225-1226, nº 1080; pp. 1239-1240, nº 1090; y pp. 1279-1281, nº 1124. 52 Barcelona, Biblioteca Pública Episcopal del Seminari, ms. 400. Cfr. DURAN (dir.), Repertori de manuscrits cit., II.1, pp. 47-49. Lamentablemente, a día de hoy no ha sido posible localizar ningún documento que permita conocer o reconstruir una eventual biblioteca del prelado. 53 Al describir el Archivo de la catedral de Barcelona, J. Villanueva señalaba que «es moderno y así conservan pocos códices. Entre ellos está el Misal impreso en 1498, de que ya dije en el pontificado de Don Pedro García. Hay en él una nota sobre haber mandado el Obispo Don Juan Dimas Loris en 1596 que se guardase este ejemplar en el archivo y que nadie celebrase con él» (VILLANUEVA, Viage literario cit., p. 149). 54 J. SANABRE, El Archivo de la Catedral de Barcelona, II, Barcelona 1948, pp. 33-34.
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numerosas acciones reformistas desplegadas por el prelado, que fue, en efecto, el gran artífice de la implantación de las directrices tridentinas en Barcelona. Su preocupación por garantizar una correcta formación del clero y una adecuada práctica religiosa le llevó no solo a impulsar la renovación de los libros litúrgicos, como ya hemos visto, sino también a realizar una visita pastoral a la diócesis en 157855, celebrar cinco sínodos entre 1584 y 159756, fundar el Seminario conciliar de Barcelona en 159357 y publicar un Memorial de manaments y advertèncias (Barcelona, 1598), en estrecha colaboración con Pere Gil i Estalella (1551-1622), jesuita, geógrafo y catedrático de Teología en la Universidad de Barcelona58. Perteneciente al género de la literatura catequética inspirada por Trento, este Memorial establecía, entre otros aspectos, la recomendación de crear un registro del comportamiento de los feligreses de las parroquias de la diócesis, la prohibición a los clérigos de Barcelona de frecuentar la compañía de mujeres, ser sirvientes o participar en bailes, fiestas de disfraces y otros divertimentos por el estilo y la obligación de que, al menos una vez por semana, se enseñara el catecismo a los niños en catalán, garantizando así su correcta comprensión59. Al mismo Pere Gil encargó Dimes Lloris la revisión y reedición de las lecturas propias de los oficios de los santos de la sede barcelonesa60. Además, en 1582 promulgó un edicto sobre la reforma del calendario litúrgico de la sede61, promovió la canonización de san Olaguer y san Raimundo Peñafort y la búsqueda de las reliquias del obispo barcelonés san Paciano62 y protegió las fundaciones en Barcelona de los carmelitas descalzos, los capuchinos, los mínimos y los agustinos63. Teniendo en cuenta este gran dinamismo reformista, no sorprende que Dimes Lloris fuera, incluso, el responsable de dirigir la primera consulta 55 J. MAS, Loris en 1578, en Estudis Universitaris Catalans 13 (1928), pp. 420-444; 14 (1929), pp. 95-114 y 299-310; 15 (1930), pp. 140-159 y 250-257; 16 (1931), pp. 58-81 y 315-332; 17 (1932), pp. 95-123; 18 (1933), pp. 126-159. 56 J. SANABRE, Los sínodos diocesanos en Barcelona, Barcelona 1930, pp. 41-42. 57 E. SUBIRÀ I BLASI, El Seminari de Barcelona (1593-1917), Barcelona 1993, pp. 27-31. 58 J. IGLÉSIES, Pere Gil, S. l. (1551-1622) i la seva Geografia de Catalunya, Barcelona 2002, pp. 33-35. 59 KAMEN, The phoenix cit., pp. 165, 343 y 352, respectivamente. 60 À. FÀBREGA I GRAU, El P. Pedro Gil, S.I. y su colección de vidas de santos, en Analecta Sacra Tarraconensia 31 (1959), pp. 5-25. 61 Actualmente recogido en el Dietario de los años 1578-1584 (Barcelona, Arxiu de la Corona d’Aragó, ms. 21) (DURAN (dir.), Repertori de manuscrits cit., III, pp. 280-282, en p. 282). 62 FÀBREGA I GRAU, La vida quotidiana cit., p. 14 y MOLINÉ I COLL, Loris cit. 63 BADA I ELIAS, Situació religiosa cit., pp. 47-48.
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barcelonesa — y única en sus cincuenta primeros años de vida — a la Sagrada Congregación del Concilio, creada en 1564 por Pío IV (1559-1565) para reforzar la aplicación de los decretos tridentinos64. El encargo de los cinco manuscritos que nos ocupan es, pues, plenamente coherente con estas intensas inquietudes reformistas de Dimes Lloris. Es más, cronológicamente se sitúa en los años finales de su episcopado, entre la fundación del Seminario conciliar y la elaboración del Memorial de manaments, coincidiendo con el que parece el momento de mayor auge de sus actuaciones en materia formativa y pastoral. Tal evidencia queda confirmada por el hecho de que, en paralelo a la confección de los cinco misales-pontificales, que definían el modo correcto de celebración de la misa episcopal en determinadas ocasiones, nuestro obispo lideró una última intervención de gran envergadura: la reforma del interior del presbiterio de la catedral de Barcelona en consonancia con sus intereses artísticos y también con las proclamaciones tridentinas sobre la eucaristía. Ya en 1578 y bajo su presidencia el cabildo había decidido el traslado del coro para suprimirlo del centro de la nave, donde, como se constató entonces en otras catedrales españolas, obstaculizaba la implantación de la nueva liturgia tridentina65. En esta ocasión se trató de un proyecto fallido; sin embargo, ello no disuadió a Dimes de emprender, unos años después, la renovación del altar mayor con la construcción de un monumental sagrario-tabernáculo y la reforma del retablo gótico que había sido realizado entre 1356 y 137766. Así, en 1593, es decir, habiendo sido ya terminado el misal-pontifical Vat. lat. 7594 y en paralelo a la confección de los ejemplares Vat. lat. 7596 y 7597, Dimes encargó al carpintero catedralicio Joan Flix la realización de un gran tabernáculo — desgraciadamente perdido —, lujosamente esculpido por Miquel Brunet y decorado por el renombrado orfebre Phelip Ros67. Una vez terminado, en 1596 — cuando ya debían de hallarse también concluidos los Còdex 135 y 136– hizo modificar el retablo con la adición de un gran basamento, decorado en madera que simula el almohadillado pétreo de traza renacentista y dotado, en ambos extremos, de sus armas y de sendas inscripciones que lo fechan y lo identifican como su promotor. Pese al especial celo que nuestro prelado había depositado en este proyecto, su muerte el 8 de agosto de 1598 le impidió verlo terminado
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ZAUNER ESPINOSA, La recepció cit., pp. 300-301. J. BOSCH BALLBONA, Pedro Vilar, Claudi Perret, Gaspar Bruel i el rerecor de la catedral de Barcelona, en Locus amoenus 5 (2000-2001), pp. 149-177, en pp. 156-157. 66 FÀBREGA I GRAU, L’altar major cit., pp. 202-207. 67 BOSCH BALLBONA, Pedro Vilar cit. 65
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y, de hecho, el nuevo altar no sería consagrado hasta el 5 de septiembre de 159968. Todas estas actuaciones demuestran, una vez más, que Dimes Lloris promovió con energía la reforma litúrgica en toda su diócesis y, de manera especial, en su catedral. Ahora bien, tal afán de renovación y dignificación del principal templo diocesano no se llevó a cabo únicamente a través de las intervenciones artísticas en el presbiterio, ya conocidas por los especialistas, o mediante las múltiples iniciativas formativas y pastorales que hemos visto, sino que también tuvo un importantísimo cauce de expresión a través de la comisión de nuevos libros litúrgicos. En este sentido, en contra de la visión tradicional acerca del recurso a ediciones impresas para favorecer la difusión de los usos post-tridentinos, el hallazgo de los tres misales-pontificales hoy conservados en la BAV, ignorados hasta la fecha, y su relación con los dos ejemplares custodiados en el ACB conducen a la conclusión de que la producción manuscrita siguió desempeñando un papel fundamental. La originalidad y complementariedad de los cinco códices, tanto desde el punto de vista material y decorativo como en lo que se refiere a su texto, demuestra que fueron concebidos y empleados de manera unitaria, como una verdadera capilla libraria destinada a renovar la liturgia catedralicia en pleno contexto de reforma de la Iglesia barcelonesa y, más allá, catalana y peninsular. Desde este punto de vista, sus excepcionales características dieron respuesta a una necesidad religiosa práctica, especialmente impulsada por Dimes Lloris. Pero, en paralelo, estuvieron profundamente condicionadas por la personalidad bibliófila del prelado, sus inquietudes culturales y su afán de dignificación de la sede de Barcelona; de ahí que dedicara un particular esfuerzo a proveerse de cinco manuscritos de aparato — o, acaso, de alguno más que desconocemos a día de hoy — en plena época de la imprenta. El redescubrimiento de los manuscritos de Joan Dimes Lloris y la reconstrucción de su significado en el contexto reformista que los vio nacer suscita un último interrogante: ¿cuándo, cómo y por qué esta capilla libraria se desintegró, quedando sus miembros repartidos entre la BAV y el ACB 68 À. FÀBREGA I GRAU, Les lipsanoteques i les consagracions successives de l’altar major de la Seu de Barcelona: anys 1058, 1338 i 1599, en Lasarte, I, Barcelona 1998, pp. 127-132, en p. 131; e ID., L’altar major cit., pp. 207-213. En la actualidad, el retablo reformado por Dimes Lloris puede ser contemplado en la iglesia parroquial de Sant Jaume, en Barcelona, adonde fue trasladado en 1971 con motivo de una nueva reordenación del altar mayor catedralicio desencadenada por las directrices litúrgicas emanadas del Concilio Vaticano II (1962-1965) (J. BASSEGODA I NONELL, La catedral de Barcelona: su restauración (1968-1972), Barcelona 1973, pp. 61-62). En FÀBREGA I GRAU, L’altar major cit., pp. 235 y 241-242 pueden consultarse varias fotografías del aspecto del presbiterio de la catedral en 1888 y en 1970, con el retablo de Dimes todavía in situ.
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y perdiéndose la memoria de su existencia? Lamentablemente, en el estado actual de nuestro conocimiento carecemos de evidencias que permitan dar una respuesta precisa a esta cuestión. Sí podemos afirmar, no obstante, que la incorporación de los manuscritos Vat. lat. 7594, 7596 y 7597 a la BAV debió de producirse con anterioridad a los años sesenta del Ochocientos puesto que en ese momento fueron reencuadernados y se les añadieron unas nuevas tapas, de pergamino sin decoración sobre cartoné, y un nuevo lomo dotado, en los tres casos, de las armas de Pío IX (1846-1878) y, en el Vat. lat. 7594 y 7597, además, del escudo de Antonio Tosti, cardenal bibliotecario de la Santa Romana Iglesia entre 1860 y 186669. Ello es, asimismo, coherente con la signatura que presentan, correspondiente a la segunda gran fase de adquisiciones del fondo Vaticani latini que transcurrió entre los siglos XVIII y XIX y que actualmente comprende las signaturas Vat. lat. 4889 a Vat. lat. 985170. Más allá de esta fecha post-quem, en la actualidad no resulta posible reconstruir con mayor precisión la trayectoria de los tres manuscritos desde Barcelona hasta la BAV, circunstancia agravada por el hecho de que no se conserva ninguna documentación posterior al fallecimiento del obispo y susceptible de contener información sobre el destino de los códices71. Únicamente merece la pena señalar que, en el último tercio del siglo XVIII, en relación con una incipiente labor de recuperación, estudio y revalorización del patrimonio catedralicio barcelonés, el entonces archivero, Jaume Caresmar — que lo fue entre 1770 y 1789 —, elaboró un Cathalogus codicum seu librorum manuscriptorum, qui in segregatis sanctae Ecclesiae Cathedralis asservantur (ACB, Caresmar Índex, vols. I-VIII), en el que no se mencionan los tres manuscritos que nos ocupan. Ello podría constituir un indicio de que en ese momento ya no se hallaban en suelo español; ahora bien, dada la dispersión habitual de los libros litúrgicos entre los diversos espacios catedralicios, tampoco se podría descartar que se hallaran en un lugar distinto del archivo y que, por esta razón, no fueran repertoriados por Caresmar72. A falta de otros indicios documentales, que quizás futuras investiga69 J. MEJÍA – C. GRAFINGER – B. JATTA, I Cardinali Bibliotecari di Santa Romana Chiesa, Città del Vaticano 2006, pp. 275-279. 70 F. D’AIUTO – P. VIAN, Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, I, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 466), pp. 626-628. 71 Ni el ACB ni el Archivo Diocesano de Barcelona conservan ningún documento de este tipo, sea el testamento del prelado, sea algún inventario de sus bienes. 72 SANABRE, El Archivo de la Catedral cit., pp. 57-68. Cfr., asimismo, À. FÀBREGA I GRAU – J. BAUCELLS I REIG, Catàleg de l’Arxiu Capitular de la S.E. Catedral Basílica de Barcelona, I: Índex General de les Sèries Documentals, Barcelona 1969, p. 11 y Los manuscritos del Archivo capitular, en Scrinium XI-XV (1954-1955), pp. 17-29.
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ciones contribuyan a localizar, solo podemos suponer que las convulsas circunstancias que la catedral barcelonesa vivió durante los dos primeros tercios del siglo XVIII, debido, en gran medida, al desarrollo de la Guerra de Sucesión española (1701-1713) y sus consecuencias, y durante la primera mitad del XIX, en relación con los procesos de desamortización de los bienes eclesiásticos73, pudieron haber ofrecido la ocasión favorable para su traslado a la ciudad de san Pedro desde Barcelona, el lugar en el que fueron confeccionados y empleados al final del Quinientos y con el que, varios siglos después, ha sido posible relacionarlos de nuevo.
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SANABRE, El Archivo de la Catedral cit., pp. 57-70.
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Fig. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 7594, f. 1r.
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Fig. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 7594, f. 98v.
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Fig. III – Arxiu Capitular de Barcelona, Còdex 135, f. 1r. Copyright © Arxiu Catedral de Barcelona, Drets Reservats.
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Fig. IV – Arxiu Capitular de Barcelona, Còdex 136, f. 1r. Copyright © Arxiu Catedral de Barcelona, Drets Reservats.
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Fig. V – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 7596, f. 5r.
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Fig. VI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 7597, f. 90r.
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Fig. VII – Arxiu Capitular de Barcelona, Còdex 135, f. 1v. Copyright © Arxiu Catedral de Barcelona, Drets Reservats.
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Fig. VIII – Arxiu Capitular de Barcelona, Còdex 136, f. 1v, detalle. Copyright © Arxiu Catedral de Barcelona, Drets Reservats.
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GIOVANNI BATTISTA DE ROSSI E MICHELE AMARI: IL SARCOFAGO DI ADELFIA, LE ISCRIZIONI DELLA MARTORANA, «UNA MUTILA EPIGRAFE DI STRANO SENSO» (CIL VI, 30463) E UN (MANCATO?) INCONTRO CON ERNEST RENAN* in memoria di Rosario Barbera Sebbene piuttosto esiguo, il carteggio tra Michele Amari e Giovanni Battista de Rossi è interessante non solo per la levatura di entrambi i corrispondenti nei rispettivi ambiti di ricerca, ma anche per la diversità delle loro posizioni in campo politico e culturale. Amari, noto soprattutto come arabista, è un oppositore del governo borbonico e riveste un ruolo importante nella rivoluzione siciliana del 1848; dopo un lungo esilio a Parigi, rientra in Italia nel 1859 e inizia una rapida ascesa politica all’interno del nuovo Stato, attestandosi su posizioni fermamente laiche e, in qualche caso, anticlericali1. Ben diverso il profilo di de Rossi, insigne studioso di ar* Questo studio trae spunto dal carteggio — inedito, per quanto a me noto — tra Amari e de Rossi, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (lettere di Amari a de Rossi) e la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana “Alberto Bombace” di Palermo (lettere di de Rossi ad Amari). Ringrazio sentitamente il dott. Marco Buonocore, scriptor Latinus e direttore della Sezione Archivi della Biblioteca Apostolica Vaticana, presidente della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, per i suoi preziosi consigli. Per aver agevolato le mie ricerche, ringrazio il dott. Francesco Vergara, direttore della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, la dott.ssa Rita Di Natale, responsabile dell’Unità Operativa VI (Fondi antichi) e i funzionari direttivi dott.sse Maria Gabriella Lo Presti e Mercuria Salemi. Le lettere conservate presso quest’ultima biblioteca sono pubblicate con l’autorizzazione del Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana della Regione Siciliana (prot. 8210 del 21 novembre 2011). 1 Su Michele Amari (1806-1889) vd. almeno A. D’ANCONA, Elogio di Michele Amari, in Carteggio di Michele Amari raccolto e postillato, a cura di A. D’ANCONA, Torino 1896-1907, II, pp. 316-397; H. DERENBOURG, Notice biographique sur Michele Amari (1806-1889), in ID., Opuscules d’un Arabisant 1868-1905, Paris 1905, pp. 87-242; R. ROMEO, in Dizionario biografico degli italiani, I, Roma 1960, pp. 637-654; I. PERI, Michele Amari, Napoli 1976 (Gli storici, 5); M. AMARI, Discorsi e documenti parlamentari (1862-1882), a cura di R. GIUFFRIDA, Palermo 1989 (Edizione nazionale delle opere e dei carteggi di Michele Amari. Serie risorgimentale, 8); A. CRISANTINO, Introduzione agli «Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820» di Michele Amari, Palermo 2010 (Quaderni di «Mediterranea. Ricerche storiche», 14); A. NEF, Michele Amari ou l’histoire inventée de la Sicile islamique: réflexions sur la Storia dei Musulmani di Sicilia, in Maghreb-Italie. Des passeurs médiévaux à l’orientalisme moderne Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 499-523.
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cheologia cristiana, cattolico convinto e strettamente legato al Pontefice2. Nonostante la lontananza politica, certo accentuata dalla presa di Roma (20 settembre 1870), Amari e de Rossi hanno un breve carteggio che sem(XIIIe-milieu XXe siècle), a cura di B. GRÉVIN, Rome 2010 (Collection de l’École française de Rome, 439), pp. 285-306; F. MUSCOLINO, Michele Amari e Theodor Mommsen, in Athenaeum 101/2 (2013), pp. 683-692. 2 Su Giovanni Battista de Rossi (1822-1894) vd. almeno N. PARISE, de Rossi, Giovanni Battista, in Dizionario biografico degli italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 201-205 e, tra gli studi successivi, B. AGOSTI, Giovanni Battista de Rossi, Luigi Duchesne e l’epitafio di San Siro, in Ricerche di storia dell’arte 50 (1993), pp. 35-40; A. BARUFFA, Giovanni Battista de Rossi. L’archeologo esploratore delle catacombe, Città del Vaticano 1994; V. SAXER, Zwei christliche Archäologen in Rom: das Werk von Giovanni Battista de Rossi und Joseph Wilpert, in Römische Quartalschrift 89 (1994), pp. 163-172, alle pp. 163-168; P. SAINT-ROCH, Correspondance de Giovanni Battista de Rossi et de Louis Duchesne (1873-1894), Rome 1995 (Collection de l’École Française de Rome, 205); M. BUONOCORE, Giovan Battista de Rossi e l’Istituto Archeologico Germanico di Roma (Codici Vaticani Latini 14238-14295), in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung 103 (1996), pp. 295-314; ID., Le lettere di A. Noël des Vergers a G. B. de Rossi nei codici della Biblioteca Apostolica Vaticana, in Adolphe Noël des Vergers (1804-1867). Un classicista eclettico e la sua dimora a Rimini. Atti del convegno internazionale (Rimini 1994), a cura di R. COPIOLI, Rimini 1996 (Adolphe Noël des Vergers. Testi, 1), pp. 401-416; S. FRASCATI, La collezione epigrafica di Giovanni Battista de Rossi presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 1997 (Sussidi allo studio delle antichità cristiane, 11); A. FERRUA, Tre memorie poco note del grande G. B. de Rossi, in Domum tuam dilexi. Miscellanea in onore di Aldo Nestori, Città del Vaticano 1998 (Studi di antichità cristiana, 53), pp. 305-311; P. SAINT-ROCH, Henri Stevenson (iunior) et Giovanni Battista de Rossi, in Rivista di archeologia cristiana 78 (1998), pp. 311-321; B. JOASSART, Giovanni Battista de Rossi et Louis Duchesne. Lettres inédites, in Rivista di archeologia cristiana 79 (2003), pp. 359-363; D. MAZZOLENI, Giovanni Battista de Rossi. Apporti e progressi negli studi d’epigrafia cristiana, in Bollettino dei monumenti, musei e gallerie pontificie 25 (2005), pp. 385-395; J. MAIER ALLENDE, Aureliano Fernández-Guerra, Giovanni Battista de Rossi y la arqueología paleocristiana en la segunda mitad del siglo XIX, in Arqueología, coleccionismo y antigüedad. España e Italia en el siglo XIX, a cura di J. BELTRÁN FORTES – B. CACCIOTTI – B. PALMA VENETUCCI, Sevilla 2006 (Colección Actas, 62), pp. 299-349; G. VAGENHEIM, Portraits et travaux d’érudits au XIXe siècle: la correspondance inédite de Giovanni Battista de Rossi (18221894) et Eugène Müntz (1845-1902) sur les mosaïques d’Italie, in Académie des inscriptions et belles-lettres. Comptes rendus (2009), pp. 515-532; M. BUONOCORE, Giuseppe Gatti, Angelo Silvagni e le schede ICR di Giovanni Battista de Rossi: nuovi tasselli per la storia della loro “acquisizione”, in Marmoribus vestita. Miscellanea in onore di Federico Guidobaldi, a cura di PH. PERGOLA – O. BRANDT, Città del Vaticano 2011 (Studi di antichità cristiana, 63), pp. 305329; ID., “I due inseparabili”. A proposito delle lettere di Giuseppe Marchi a Giovanni Battista de Rossi conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana, in Giuseppe Marchi (1795-1860) archeologo pioniere per il riscatto delle catacombe dalla Carnia a Roma, a cura di S. PIUSSI, Trieste 2012 (Antichità altoadriatiche, 71), pp. 35-51; S. HEID, in Personenlexicon zur Christlichen Archäologie. Forscher und Persönlichkeiten vom 16. bis zum 21. Jahrhundert, a cura di S. HEID – M. DENNERT, Regensburg 2012, I, pp. 400-405; M. BUONOCORE, Giulio Cesare Battaglini, Giovanni Battista de Rossi e il codice Vat. lat. 10228: storia della sua acquisizione vaticana, in Studi in onore del cardinale Raffaele Farina, a cura di A. M. PIAZZONI, Città del Vaticano 2013 (Studi e testi, 477-478), I, pp. 59-85; altre indicazioni bibliografiche sono fornite infra, alle note 50 e 86.
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bra essersi conservato nella sua interezza e che si svolge in due momenti, nell’agosto 1872 e nel maggio 1878. Il sarcofago di Adelfia e le iscrizioni della Martorana Il 12 giugno 1872 è scoperto, nelle catacombe di San Giovanni a Siracusa, il sarcofago di Adelfia3, trasportato al Museo Civico il 15 giugno. Gioacchino Arezzo di Targia, direttore del Museo e assiduo corrispondente di de Rossi, il 19 giugno così gli scrive: La più gran fortuna per noi e per Cavallari si fu quella di trovare a piè della Tribuna, occulto entro un cavo chiuso da lapide un magnifico Sarcofago in marmo con 62 figure bibliche e con ritratto clipeato di due illustri conjugi, nel cui fregio del coverchio storiato questa Iscrizione IC ADELFIA CEPOSITA (sic) CONPAR BALEPI (sic) COMITIS. Dentro, sendo chiuso con ganci robusti di ferro impiombato il sepolcro, non altro che poche ossa degli stinchi, e la mandibola inferiore con denti di giovane. Il corpo stava composto una volta su di una lamina di piombo co’ lati rimboccati. Il S(igno)r Cavallari per mezzo del S(igno)r Amari Le farà capitare tutte le Iscrizioni in calco, e la fotografia del Sarcofago. Resta soddisfatta della impronta? Mi domandi tutto quel che desidera; mano mano la soddisferò. Non abbia soggezione. Per ora non potrei perché sono stivato da una folla per il benedetto sarcofago4.
Francesco Saverio Cavallari5, direttore delle antichità di Sicilia e scopritore del sarcofago, puntualmente, il 25 luglio scrive a de Rossi: Con la presente mi onoro diriggere alla S(ignoria) V(ostra) Ill(ustrissi)ma una fotografia del sarcofago di marmo da me rinvenuto nelle Catacombe det3 Per la bibliografia sul sarcofago e sulla rotonda di Adelfia fino al 1956 vd. S. L. AGNELIl sarcofago di Adelfia, Città del Vaticano 1956 (Collezione “Amici della catacombe”, 25), pp. 99-103. Tra gli studi successivi vd. almeno V. TUSA, I sarcofagi romani in Sicilia, Roma 19952 (Bibliotheca archaeologica, 14), pp. 87-91, nr. 83, tavv. 141-148; M. SGARLATA, Le stagioni della rotonda di Adelfia (indagini 1988 e 1993 nella catacomba di S. Giovanni a Siracusa), in Rivista di archeologia cristiana 72 (1996), pp. 75-113; EAD., Nuove luci sulla rotonda di Adelfia nella catacomba di S. Giovanni a Siracusa, in 1983-1993: dieci anni di archeologia cristiana in Italia. Atti del VII Congresso nazionale di archeologia cristiana (Cassino 1993), a cura di E. RUSSO, Cassino 2003, II, pp. 845-867; EAD., Il sarcofago di Adelfia, in Et lux fuit. Le catacombe e il sarcofago di Adelfia, Palermo – Siracusa 1998, pp. 15-52; EAD., S. Giovanni a Siracusa, Città del Vaticano 2003 (Catacombe di Roma e d’Italia, 8). Sulle circostanze della scoperta vd. A. FERRUA, Note sul sarcofago di Adelfia, in Rendiconti della Pontificia accademia romana di archeologia 27 (1951-1952), pp. 55-76. 4 Vat. lat. 14251, ff. 292-293, nr. 217. 5 Su Francesco Saverio Cavallari vd. almeno G. CIANCIOLO COSENTINO, Francesco Saverio Cavallari (1810-1896). Architetto senza frontiere tra Sicilia Germania e Messico, Palermo 2007 e S. HEID, in Personenlexicon zur Christlichen Archäologie cit., I, pp. 292-293. LO,
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te di S(an) Giovanni di Siracusa, che però si dovrebbero chiamare di S(an) Marziano. Io intraprendeva quello scavo a tutt’altro scopo, ma la fortuna mi fu propizia facendomi scoprire un monumento preziosissimo per l’istoria delle arti. Lo stile delle sculture ritiene qualche cosa che ricorda l’arte classica decaduta. Mi sembra della fine del 5:° secolo d(opo) C(risto). Non si nota alcuna influenza delle arti Bizantine come nelle sculture dell’undecimo e 12.° Secolo. Se la S(ignoria) V(ostra) si determina a scrivere qualche cosa la prego di notare che nella lastra del coperchio nella parte posteriore si osservano taluni uccelli che appartengono ad un opera di scultura più antica, e che il marmo poscia servì per il Sarcofago. Forse questa particolarità conduce all’idea che il Sarcofago fosse stato scolpito in Siracusa?6
De Rossi dà notizia della scoperta nel Bullettino di Archeologia Cristiana dello stesso anno7. Per la descrizione, però, non fa in tempo ad avvalersi della fotografia invitagli da Cavallari, ma solo di «un bozzetto di disegno a penna assai peritamente fatto dal sig. Salvatore Politi8». In seguito, anche Amari invia a de Rossi una fotografia del sarcofago: [408r] Roma 21. agosto 1872 Chiarissimo Signore Il Cavallari mi ha mandato alcune fotografie del sarcofago di Siracusa ch’è stato illustrato dal sac(erdote) Isidoro Carini di Palermo9 e che il Cavallari stesso si propone di pubblicare nel Bollettino di quella Commissione di Antichità10. Credo che le piacerà di avere una di coteste fotografie e perciò mi do la pre6
Vat. lat. 14251, f. 358, nr. 272. G. B. DE ROSSI, Siracusa. Scoperte nelle catacombe di S. Giovanni, in Bullettino di archeologia cristiana s. II, 3 (1872), pp. 81-83. 8 Su Salvatore Politi, disegnatore, custode delle antichità di Siracusa, socio corrispondente dell’Instituto di corrispondenza archeologica, vd. G. IMMÉ, Pagine di bibliografia siracusana, Siracusa 2012, pp. 199-201. 9 I. CARINI, Su d’una nuova iscrizione rinvenuta nelle catacombe di Siracusa, s.l. (ma Palermo) 1872 (lettera a Salvatore Cusa, datata Palermo, 19 giugno 1872); ID., Annotazioni sul sarcofago rinvenuto in Siracusa, in Bullettino della Commissione di antichità e belle arti in Sicilia 5 (1872), pp. 27-34. La «letteraccia» di Carini sul sarcofago (verosimilmente il primo dei due scritti) è criticata da Gioacchino Arezzo di Targia in due lettere a de Rossi, Vat. lat. 14251, ff. 354-355, nr. 270 (Siracusa, 22 luglio 1872) e ff. 372-375, nr. 281 (Siracusa, 5 Agosto 1872). Su Isidoro Carini (1843-1895), che dal 1890 è primo custode della Biblioteca Apostolica Vaticana, vd. G. BATTELLI, Carini, Isidoro, in Dizionario biografico degli italiani, XX, Roma 1977, pp. 102-106 e M. CH. GRAFINGER, in Personenlexicon zur Christlichen Archäologie cit., I, pp. 276-278. Tra gli studiosi che si interessano del sarcofago subito dopo la scoperta vi è anche Filippo Matranga (vd. nt. 17), che pubblica Sul sarcofago di recente scoperto nelle catacombe di Siracusa. Lettere del sac. Filippo MATRANGA al signor dottor Saverio Cavallari, Palermo 1872 e Sul sarcofago rinvenuto nelle catacombe di Siracusa nel giugno 1872. Lettere del sac. Filippo MATRANGA al sig. dr. Saverio Cavallari, Palermo 1873. 10 F. S. CAVALLARI, Sul sarcofago ritrovato nelle catacombe di Siracusa nel giugno 1872, in Bullettino della Commissione di antichità e belle arti in Sicilia 5 (1872), pp. 22-27. 7
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mura di offrirla a Lei ch’è maestro in questa e in tante altre [408v] parti della dottrina archeologica. Duolmi che essendo venuto in Roma per due o tre giorni mi manca il tempo di vederla personalmente. Gradisca intanto gli attestati della mia profonda osservanza. Suo Devot(issimo) Collega M(ichele) Amari Al Chiar(issimo) S(ignor) Commend(atore) De Rossi Membro dell’Accademia delle Iscriz(ioni) di Francia Roma11
De Rossi, che aveva già ricevuto una fotografia da Cavallari, ringrazia e chiede notizie sull’iscrizione araba appena scoperta nella chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio di Palermo, nota come la Martorana12. Grottaferrata 24 Agosto 1872 Chiarissimo Signore e Collega Benché io abbia già ricevuto dal Cavallari la fotografia del Siracusano sarcofago13, pure Le sono gratissimo dell’esemplare, che dalla Sua cortesia ricevo e gliene rendo le debite grazie. Ho scritto al Cavallari, che desidererei fare il cambio del mio Bullettino14 con quello delle Sicule antichità15. Raccomando anche a Lei questo mio desiderio. Ha Ella pubblicato l’iscrizione Araba della cupola del tempio di S(anta) Maria dell’Ammiraglio in Palermo16? Ne conosco soltanto la greca epigrafe te-
11 Lettera di Amari a de Rossi (Roma, 21 agosto 1872), Vat. lat. 14251, f. 408, nr. 299, su carta intestata: «Ministero | della | Istruzione Pubblica | Consiglio Superiore». 12 Lettera di de Rossi ad Amari (Grottaferrata, 24 agosto 1872), Palermo, Biblioteca centrale della Regione siciliana, Carteggio Amari, vol. XXXVIII, nr. 35/2475; quattro facciate, testo solo sulla prima facciata con, in alto a sinistra, annotazione: «Risp(osto) | 29. Ag(ost)o». 13 Lettera di Cavallari a de Rossi (Palermo, 25 luglio 1872), Vat. lat. 14251, f. 358, nr. 272. 14 Il Bullettino di archeologia cristiana. 15 Il Bullettino della Commissione di antichità e belle arti in Sicilia. Cavallari, con la lettera in Vat. lat. 14251, f. 474, nr. 350 (Palermo, 1 ottobre 1872), invia a de Rossi il quinto fascicolo del Bullettino, comprendente anche il suo scritto e quello di Carini sul sarcofago di Adelfia (vd. nt. 9 e 10). 16 È l’iscrizione in arabo con l’epinicio dell’anafora e la grande dossologia scoperta nell’aprile 1871 sulle travi lignee della cupola e pubblicata, oltre che nell’articolo cit. a nt. 22, anche in M. AMARI, Le epigrafi arabiche di Sicilia trascritte, tradotte e illustrate, I. Iscrizioni edili, Palermo 1875, pp. 83-90, nr. 24, tav. 10, fig. 5 (= ID., Le epigrafi arabiche di Sicilia trascritte, tradotte e illustrate, a cura di F. GABRIELI, Palermo 1971, pp. 109-117, nr. 24, tav. 10, fig. 5); sulla scoperta vd. anche E. KITZINGER, I mosaici di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, Palermo – Washington 1990 (Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici. Monumenti, 3 – Dumbarton Oaks Studies, 27), pp. 117, 131.
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sté scoperta, intorno alla cui interpretazione ho scritto al Matranga17, che m’ha inviato un suo opuscolo18. Colgo con lieto animo quest’occasione di rinnovarle la protesta dei sensi di distinta stima coi quali mi segno Della Signoria V(ostr)a Chiarissima Devot(issi)mo Obbl(igatissi)mo Servit(or)e e Collega G(iovanni) Batt(ist)a de Rossi Al chiarissimo Sig(no)r Comm(endatore) M(ichele) Amari Senatore del Regno ec. ec.
Amari, nella sua risposta, evidenzia le difficoltà editoriali incontrate dal suo studio sull’iscrizione araba della Martorana. Accenna anche, in termini positivi, al restauro della chiesa, condotto in quegli anni da Giuseppe Patricolo e Antonino Salinas19 e oggetto di una vivace polemica; critiche sono espresse, tra gli altri, sia dal già ricordato Matranga, sia da Ernest Renan, che è a Palermo nel 1875 per il congresso degli scienziati italiani, promosso anche da Amari20. 17 Papas Filippo Matranga, studioso, in particolare, di lingua greca e archeologia cristiana, fratello minore di papas Pietro (1807-1855), che era stato Scriptor Graecus della Biblioteca Apostolica Vaticana. Entrambi i fratelli sono tra i corrispondenti di de Rossi, vd. Vat. lat. 14298 («Corrispondenza letteraria e privata del Comm. G. B. de Rossi. Indice»). Tra le opere di Filippo Matranga vi sono le Lettere sul sarcofago di Adelfia cit. a nt. 9 e la Monografia cit. alla nt. successiva. 18 L’opuscolo in questione (F. MATRANGA, Monografia sulla grande inscrizione greca testé scoperta nella Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio detta della Martorana, Palermo 1872), pubblicato il 15 agosto, è inviato dall’autore a de Rossi con la lettera in Vat. lat. 14251, f. 390, nr. 292 (Palermo, 17 agosto 1872); alle osservazioni di de Rossi, Matranga risponde con la lettera in Vat. lat. 14251, ff. 446-447, nr. 327 (Palermo, 11 settembre 1872). L’iscrizione è menzionata anche nelle lettere di Matranga a de Rossi in Vat. lat. 14251, f. 473, nr. 349 (Palermo, 30 settembre 1872) e f. 547, nr. 398 (Palermo, 13 novembre 1872). In La Sicilia Cattolica cit. Matranga trascrive la lettera inviatagli da de Rossi il 25 agosto 1872, accettando le integrazioni proposte; l’articolo de La Sicilia Cattolica è pubblicato anche in appendice alle ristampe della Monografia cit. Sull’iscrizione greca, oggetto di un discusso intervento di ricomposizione in occasione dei restauri di Patricolo e Salinas vd., con altra bibliografia, F. TOMASELLI, Il ritorno dei Normanni. Protagonisti ed interpreti del restauro dei monumenti a Palermo nella seconda metà dell’Ottocento, Roma 1994 (Officina, n.s., 10), pp. 89-91, figg. 45-47. 19 Su Giuseppe Patricolo (1833-1905), architetto, docente universitario e, al tempo dei restauri della Martorana, membro della Commissione di antichità e belle arti per la Sicilia e della Commissione edile di Palermo, vd. A. MANIACI, Palermo capitale normanna. Il restauro tra memoria e nostalgia dall’Ottocento al Piano Particolareggiato Esecutivo, Palermo 1994, pp. 44-47; TOMASELLI, Il ritorno dei Normanni cit., pp. 247-251 e passim. 20 Nella Monografia, come anche in una lettera pubblicata su La Sicilia Cattolica, anno V, nr. 219, 24 settembre 1872, p. 3, Matranga critica i restauri condotti da Patricolo. Giudizi negativi sono espressi anche nelle Nuove effemeridi siciliane s. III, 3 (1876), p. 347, in un articolo redazionale riferibile ai compilatori V. Di Giovanni, G. Pitrè, S. Salomone-Marino;
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[428r] Antignano 29. Ag(osto) (18)72 Chiarissimo Sig(nor) Collega Rispondendo alla pregiata sua lettera del 24. ricapitata jeri, mi do la premura di significarle che la iscrizione arabica, scoperta ultimamente nella cupola della Martorana in Palermo, non potrà uscire alla luce sì tosto com’io sperava. Io scrissi l’articolo relativo a quella, da inserire nella Rivista Sicula, in appendice alla 1.a classe delle iscrizioni arabiche di Sicilia21; ma l’editore mi ha fatto difficoltà22. Tra la interpretazione mia ed una dottissima lettera del giovane Ignazio Guidi23, che ha compiuta felicemente la lezione di vocaboli quasi cancellati, l’articolo è sì grave di lettere [428v] greche ed arabiche da minacciare il naufragio alla povera Rivista la quale fa acqua da tutte le parti e non tarderà a sommergersi24. Ora io penserò a trovar naviglio più leggiero; e se non mi verrà fatto, aspetterò la stampa della grande opera che spero pubblichino i professori Salinas e Patricolo25 i quali con molta cura attendono alla restaurazione di nel fascicolo successivo è pubblicato il carteggio tra i membri della Commissione di antichità e belle arti (G. Daita, G. Meli, G. Patricolo, A. Salinas), che difendono il loro operato, e i tre compilatori della rivista, che ribadiscono le proprie critiche (La chiesa dell’Ammiraglio o della Martorana in Palermo, in Nuove effemeridi siciliane s. III, 4 (1876), pp. 105-116) e menzionano quelle espresse durante la sua visita in Sicilia nel 1875 da Ernest Renan, su cui vd. E. RENAN, Vingt jours en Sicile. Le Congrès de Palerme, in Revue des deux mondes 12, III pér., 45 (15 novembre 1875), pp. 241-265, alle pp. 244-245; La Sicilia nel 1875 giudicata dal sig. E. Renan, in Nuove effemeridi siciliane s. III, 2 (1875), pp. 331-352, alle pp. 334-335; E. RENAN, Venti giorni in Sicilia. Il congresso di Palermo. Lettera al direttore della Revue des deux mondes, Palermo 1876, pp. 10-12; sui restauri e sulle polemiche che li accompagnarono vd. anche KITZINGER, I mosaici di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo cit., pp. 25-26, 112-121; S. ÒURÇIÒ, Byzantine Aspects of Church Towers in Norman Sicily, in Byzantino-sicula V. Giorgio di Antiochia. L’arte della politica in Sicilia nel XII secolo tra Bisanzio e l’Islam. Atti del convegno internazionale (Palermo 2007), a cura di M. RE – C. ROGNONI, Palermo 2009 (Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici “Bruno Lavagnini”. Quaderni, 17), pp. 65-85, spec. pp. 66-69 e, in particolare, MANIACI, Palermo capitale normanna cit., pp. 69-77; TOMASELLI, Il ritorno dei Normanni cit., pp. 162-167. 21 La Rivista Sicula di scienze, letteratura ed arti, edita a Palermo da Luigi Pedone Lauriel tra 1869 e 1872, con una effimera nuova serie nel 1895, pubblica vari articoli di Amari su Le epigrafi arabiche di Sicilia trascritte e tradotte, con un Discorso preliminare, in Rivista Sicula di scienze, letteratura ed arti 1 (1869), pp. 91-99, seguito dalla Classe prima. Iscrizioni edili, ibid. 1 (1869), pp. 171-178, 339-348; 2 (1869), pp. 93-100, 305-317, 373-381; 3 (1870), pp. 137-152; 4 (1870), pp. 169-187, 321-333 e dalla Classe seconda. Iscrizioni sepolcrali, ibid. 5 (1871), pp. 323-347; 6 (1871), pp. 162-177; 7 (1872), pp. 221-232 e Nuove fotografie e correzioni de’ numeri 2, 3, 4, 13, 18 della presente classe, ibid. 7 (1872), pp. 245-246. 22 In effetti, Amari pubblica il suo lavoro Iscrizione arabica nella cupola della Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio volgarmente detta Chiesa della Martorana in Palermo, in Annuario della società italiana per gli studi orientali 1 (1872), pp. 105-115, riportando, alle pp. 108-111, la lettera di Guidi (Roma, 27 giugno 1872); vd. anche nt. 16. 23 Su Ignazio Guidi (1844-1935) vd. B. SORAVIA, Guidi, Ignazio, in Dizionario biografico degli italiani, LXI, Roma 2003, pp. 272-275. Per la lettera in questione vd. nt. precedente. 24 Come, in effetti, avviene proprio nel 1872 (vd. nt. 21). 25 In realtà né Antonino Salinas né Giuseppe Patricolo pubblicano una monografia sul monumento. A Patricolo, però, si deve La Chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio e le sue antiche
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quel monumento. Mi tarda in vero di procrastinare la stampa di quella lettera del Guidi, il quale è destinato a far grande onore alla nostra patria per la tempra della sua mente, la erudizione e la facilità alle lingue. Gradisca egregio Signore gli attestati della mia osservanza Suo Devot(issimo) M(ichele) Amari Chiar(issimo) S(ignor) Com(mendator)e G(iovanni) B(attista) De Rossi Grottaferrata26
È interessante notare come Amari si definisca «Collega» scrivendo a de Rossi «Membro dell’Accademia delle Iscriz(ioni) di Francia» e come de Rossi faccia altrettanto rispondendo al «Collega» Amari. È evidenziata, in tal modo, l’unica “appartenenza” che i due avevano in comune: de Rossi è associé étranger dell’Académie des inscriptions et belles-lettres dal 1867, Amari lo è dal 1871. Come raccomandato sia a Cavallari sia, nella lettera del 24 agosto, ad Amari, de Rossi riceve dal primo il fascicolo del Bullettino della Commissione di antichità e belle arti in Sicilia nel quale, come scrive Cavallari ho avuto l’ardire di scrivere un piccolo articolo sopra il fortunato rinvenimento del Sarcofago nelle catacombe di Siracusa27. A questo mio articolo segue quello del mio carissimo amico Isidoro Carini28 degnissimo Sacerdote esemplare per i suoi costumi e la pietà cattolica. Il mio articolo fu scritto per far conoscere che il merito del mio rinvenimento si deve ascrivere alla fortuna sempre a me propizia e non gia al mio sapere29. Io forse mi slanciava a scrivere piu di quello che dovea, ma spero che la S(ignoria) V(ostra) vorrà essere cortese di compatire un artista il quale non ha alcuna intenzione di aspirare ad altro, ma che sà distinguere quello che non sa. Io la ringrazio per il suo pregevole bollettino30
adiacenze, in Archivio storico siciliano n.s., 2 (1877), pp. 137-171 e 3 (1878), pp. 397-406, mentre Salinas dà notizia dei Ristauri nella chiesa dell’Ammiraglio, detta la Martorana, in Palermo, in Rivista sicula di scienze, letteratura ed arti 7 (1872), pp. 198-102, e pubblica La grande iscrizione greca della Martorana, ibid. 8 (1872), pp. 130-134 e due lettere di Amari al ministro della pubblica istruzione (Firenze, 7 aprile e 3 settembre 1871) sulle Iscrizioni arabiche in gesso scoperte durante il rifacimento dei tetti della Martorana, ibid. 7 (1872), pp. 81-85. 26 Lettera di Amari a de Rossi (Antignano, 29 agosto 1872), Vat. lat. 14251, f. 428, nr. 313. 27 CAVALLARI, Sul sarcofago ritrovato nelle catacombe di Siracusa cit. 28 CARINI, Annotazioni sul sarcofago rinvenuto in Siracusa cit. 29 Concetto analogo anche nella lettera di Cavallari a de Rossi (Palermo, 20 gennaio 1875), in Vat. lat. 14255, f. 43, nr. 30: «Certamente la S(ignoria) V(ostra) possiede il n° 5 del Bullettino in cui trovasi la fotografia del bel Sarcofago di Adelfia. Io sono stato sempre fortunatissimo negli scavi, tuttoché l’opera mia viene continuamente attraversata da coloro che mi dovrebbero agevolare». 30 Il Bullettino di archeologia cristiana.
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e dalle poche parole che la S(ignoria) V(ostra) scrive sul Sarcofago31 si vede la mano maestra dello scrittore. Io credo però che quelle parole furono scritte alla vista di un rozzo e cattivo disegno che difformava il carattere delle figure. Spero che la mia fotografia avesse fatto tutt’altra impressione! A me sembra che l’arte cristiana è sviluppatissima, e che l’artista per arrivare a quella espressione così sicura, doveano precedere altre opere. Se m’inganno a me piu di ogni altro la correzione32.
«Una mutila epigrafe di strano senso» (CIL VI, 30463) e un (mancato?) incontro con Ernest Renan Nel 1871, durante la stesura del terzo volume della sua Histoire des origines du christianisme, intitolato L’Antéchrist e dedicato agli avvenimenti compresi tra la prigionia di San Paolo a Roma e la caduta di Gerusalemme33, Renan scrive a Giulia Bonaparte34: Nous avions formé le projet, ma femme et moi, d’aller passer à Rome les mois d’octobre et novembre. J’avais besoin pour mes travaux de revoir les catacombes et les dernières fouilles de M. de Rossi. Nous y avons renoncé. J’ai craint que dans un moment où les esprits sont si fort excités, il ne se fît autour de mon voyage beaucoup de faux bruits et de malentendus. Beaucoup de catholiques s’obstinent fort à tort à voir en moi un ennemi et cette appréciation erronée provoque non moins de malentendus en sens contraire. Je suis un simple chercheur de vérité; mais on ne veut pas se prêter à admettre une chose si simple35.
L’anno successivo, tuttavia, Renan parte per l’Italia, con l’intento dichiarato di soggiornare a Roma: Ces jours-ci j’ai remis à l’Académie mon livre, consacré à l’Apocalypse et à Néron36. Aujourd’hui même, je pars pour Rome, où j’ai diverses recherches à faire pour ce volume. Il y a 22 ans que je n’ai vu la ville éternelle; beaucoup de découvertes importantes ont été faites depuis par les fouilles de M. de Rossi et de Pietro Rosa37. 31 DE ROSSI, Siracusa. Scoperte nelle catacombe di S. Giovanni 32 Vat. lat. 14251, f. 474, nr. 350 (Palermo, 1 ottobre 1872).
cit.
33
E. RENAN, L’Antéchrist, Paris 1873. Julie Charlotte (Giulia) Bonaparte (1830-1900), moglie di Alessandro del Gallo marchese di Roccagiovine; suo nonno era Luciano Bonaparte principe di Canino, fratello di Napoleone I. 35 Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. Correspondance 1845-1892. Édition définitive établie par H. PSICHARI, Paris 1961, pp. 575-576, nr. 397, lettera a Giulia Bonaparte (Sèvres, 3 settembre 1871). 36 Si riferisce, naturalmente, a L’Antéchrist. 37 Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 613-615, nr. 429, lettera a Pietro II di Braganza, imperatore del Brasile (Parigi, 17 settembre 1872). 34
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Rosa38, autore di importanti scavi sul Palatino per volontà di Napoleone III, accoglie benevolmente Renan, che lo cita, in termini elogiativi, in lettere a Giulia Bonaparte39 e lo ringrazia, con altri studiosi, nell’introduzione de L’Antéchrist: Enfin, je dois exprimer ma vive reconnaissance à MM. Amari, Pietro Rosa, Fabio Gori40, Fiorelli41, Minervini42, de Luca43, qui, durant un voyage que j’ai fait l’année dernière, ont été pour moi les plus précieux des guides. On verra comment ce voyage se rattachait par plusieurs côtés au sujet du présent volume. Quoique je connusse déjà l’Italie, j’avais soif de saluer encore une fois la terre des grands souvenirs, la mère savante de toute renaissance44.
De Rossi, invece, si sarebbe rifiutato di incontrare Renan, come quest’ultimo scrive ad Amari deplorando una polemica scoppiata dopo il suo viaggio in Italia: Gori a eu tort de faire la sortie dont vous me parlez. C’est aussi inopportun que possible. Il importe que, dans le grand déchirement qui se prépare entre 38
Su Pietro Rosa (1810-1891) vd. M. A. TOMEI, Scavi francesi sul Palatino. Le indagini di Pietro Rosa per Napoleone III (1861-1870), Roma 1999 (Roma antica, 5), con notizie biografiche su Rosa alle pp. 1-19; F. DELPINO – R. DUBBINI, Pietro Rosa e la tutela delle antichità a Roma tra il 1870 e il 1875, in Annali della Fondazione per il Museo “Claudio Faina” 18 (2011), pp. 397-411. 39 Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., p. 692, nr. 497 (Roma, 18 ottobre 1875); pp. 693-695, nr. 499 (Parigi, 9 novembre 1875); pp. 735-736, nr. 534 (Casamicciola, 1 settembre 1877); pp. 741-742, nr. 539 (Venezia, 1 ottobre 1877). 40 Fabio Gori (1833-1916), libero docente di archeologia nel 1873 e, nello stesso anno, membro della commissione di vigilanza su monumenti e archivi provinciali di Roma, autore di studi relativi soprattutto alla storia, all’archeologia e alla topografia di Roma; vd. N. PARISE, Gori, Fabio, in Dizionario biografico degli italiani, LVIII, Roma 2002, pp. 28-31. 41 Giuseppe Fiorelli (1823-1896) riveste ruoli di notevole importanza nell’amministrazione delle antichità sia nel Regno delle Due Sicilie sia, soprattutto, nel Regno d’Italia, divenendo, nel 1875, capo della Direzione centrale degli scavi e dei musei e, nel 1881, della Direzione delle antichità e belle arti presso il Ministero della pubblica istruzione; nel 1875 è accolto nell’Accademia dei Lincei, della quale diviene vicepresidente nel 1885; vd. G. KANNES, Fiorelli, Giuseppe, in Dizionario biografico degli italiani, XLVIII, Roma 1997, pp. 137-142; Due protagonisti e un comprimario dell’antichistica italiana del secolo XIX. I carteggi Comparetti, Fiorelli, Barnabei, a cura di S. CERASUOLO, Messina 2003 (Carteggi di filologi, 4). 42 Giulio Minervini (1819-1891) al tempo del viaggio di Renan (1872) era bibliotecario della Biblioteca universitaria di Napoli e membro della Giunta consultiva di archeologia presso il Ministero della pubblica istruzione; vd. M. MUNZI, Minervini, Giulio, in Dizionario biografico degli italiani, LXXIV, Roma 2010, pp. 599-601. 43 Forse il chimico Sebastiano de Luca (1820-1880), autore, tra l’altro, di vari studi su reperti pompeiani, vd. A. CIARALLO, Scienziati a Pompei tra Settecento e Ottocento, Roma 2006 (Studi della Soprintendenza archeologica di Pompei, 14), pp. 56-58, 78-79, 81-82. 44 RENAN, L’Antéchrist cit., p. XLVII.
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l’Italie et la papauté, le royaume d’Italie puisse dire qu’il a poussé la modération et les concessions aussi loin que possible. Il n’est pas vrai que la commission des catacombes m’ait refusé l’autorisation de les visiter. Je n’ai pas demandé une telle autorisation. Le lendemain de mon arrivée à Rome, j’allai pour voir de Rossi; j’y suis retourné plusieurs fois; j’ai pris toutes les précautions pour qu’il n’ignorât pas le désir que j’avais de le voir. Il n’a pas voulu avoir de rapports avec moi. En cela, il a pu manquer à ses devoirs de confrère. Quand nous l’avons nommé comme vous associé étranger de l’Institut, nous n’avons pas tenu compte de ses opinions religieuses, qui étaient antipathiques aux trois quarts de ceux qui ont voté pour lui. Mais le fonctionnaire est inattaquable. Aucun conservateur d’antiquités n’est obligé de recevoir les personnes qui viennent s’adresser à lui. Quant à une demande d’autorisation pour visiter les catacombes, je le répète, je n’en ai pas fait. On m’avait donné de l’École française un permis que je n’ai pas eu même à exhiber. Grâce à Gori, qui a été pour moi d’une grande complaisance, j’ai tout vu à mon aise. Je veux tout le bien possible à Gori, mais je regrette qu’il se lance dans cette voie de récriminations, où il ne peut que se faire du tort45.
La colleganza nell’Académie des inscriptions et belles-lettres non sembra dunque sufficiente a evitare che de Rossi assuma un atteggiamento di chiusura nei confronti di un intellettuale spesso in contrasto con l’ortodossia cattolica e autore di opere messe all’Indice; un biglietto da visita di Renan, inserito nel carteggio de Rossi del 1872, è una traccia di questo mancato incontro46. Nel 1877 de Rossi pubblica, nel Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma47, un’epigrafe frammentaria rinvenuta nella demo-
45
Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 644-646, nr. 455, lettera ad Amari (Parigi, 13 dicembre 1873); vd. anche la lettera a Giulia Bonaparte (22 aprile 1874), ibid., pp. 653654, nr. 463: «Gori a du savoir; il a été pour moi extrêmement complaisant. J’ai appris que depuis mon voyage il s’est lancé dans des polémiques personnelles très regrettables. Comme je ne lui veux que du bien, j’en ai éprouvé un véritable chagrin». 46 Vat. lat. 14251, f. 703r, nr. 607, biglietto da visita con, a stampa: «Ernest Renan, | Membre de l’Institut.» e, a matita, annotazione: «hôtel d’Allemagne». 47 G. B. DE ROSSI, D’una mutila epigrafe di strano senso rinvenuta nel torrione destro della porta Flaminia, in Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma s. II, 1 (1877), pp. 241-246, con incisione alla tav. 20, fig. 8 (l’articolo di de Rossi è inserito all’interno della relazione di Visconti e Vespignani cit. alla nt. successiva); sull’iscrizione, oggi conservata nei Musei Capitolini, Giardino Caffarelli, NCE 3005, vd. CIL VI, nr. 30463 (C. HÜLSEN); ICVR NS, I, nr. 3909 (A. SILVAGNI); D. MUSTILLI, Il Museo Mussolini, Roma 1939, p. 184, nr. 95; ILCV, I, nr. 1342 (C. DIEHL); ICVR NS, X, nr. 27667 (D. MAZZOLENI – C. CARLETTI); S. CASTELLANI, in SupplIt, Imagines. Roma CIL, VI) 1. Musei Capitolini, a cura di G. L. GREGORI – M. MATTEI, Roma 1999, p. 554, nr. 2166; EDB, nr. 13165 (E. FELLE); C. PAPI, Intimazioni, preghiere, minacce, maledizioni, in Atti dell’XI Rencontre franco-italienne sur l’épigraphie “Libitina e dintorni”. Libitina e i luci sepolcrali. Le leges libitinariae campane. Iura sepulcrorum: vecchie e nuove
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lizione di una delle torri accanto alla Porta Flaminia o Porta del Popolo48, già da lui illustrata in una seduta della Società dei cultori dell’archeologia cristiana49. Dopo la scoperta, scrive de Rossi, io ne vidi materialmente l’aspetto; e trovatala assai difficile a leggere, massime alla mia debole vista, ne lasciai la cura e lo studio ad occhi migliori. Quivi era chiaro nella terza linea il vocabolo PAGANA o PAQANA; e perciò supponendosi, che l’epigrafe alludesse agli antichi pagi urbani o suburbani, il Mommsen venuto a Roma nel passato ottobre ebbe desiderio di esaminare la difficile lapide50. Molta fu la nostra sorpresa, quando egli annunziò di aver letto: FILIA MEA INTER FEDELES FIDELIS FVIT INTER pagaNOS PAGANA FVIT. iscrizioni, Roma 2004 (Libitina, 3), pp. 404-411, a p. 406, cat. G62; EDR, nr. 102486 (M. FEDI); per altre indicazioni bibliografiche, vd. infra. 48 Sulle indagini che portano alla scoperta vd. C. L. VISCONTI – V. VESPIGNANI, Delle scoperte avvenute per la demolizione delle torri della porta Flaminia, in Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma s. II, 1 (1877), pp. 184-252, spec. pp. 239-240. Sulla porta Flaminia, nota anche, dal XV secolo, come porta del Popolo per la vicinanza con la chiesa di Santa Maria del Popolo, vd., con altra bibliografia, G. PISANI SARTORIO, in Lexicon Topographicum Urbis Romae, III, a cura di E. M. STEINBY, Roma 1996, pp. 303-304. 49 Bullettino di archeologia cristiana s. III, 4 (1879), p. 24, conferenza del 25 novembre 1877: «Il comm. de Rossi mostrò agli adunati la copia di una iscrizione trovata lo scorso settembre fra le pietre adoperate come materiale nel torrione destro della porta del Popolo. L’iscrizione è scolpita in una gola rovescia di travertino, è mancante da ambe le parti e di lettura difficilissima per la natura stessa della pietra. Essa fu da principio creduta pagana. Ma esaminata più accuratamente dal ch. sig. prof. Mommsen, egli sagacemente vi lesse: quod filia mea inter fedeles fidelis fuit, inter a…nos pagana fuit (vd. l’illustrazione di questo raro monumento nel Bull. 1877 pag. 118 e segg.)». Nella nota 1 a p. 24, a firma di de Rossi, si legge: «Si è dubitato, se tra le lettere inter e nos esista veramente lacuna; e non piuttosto si debba leggere inter nos (V. Renan nella Rev. arch. Nov. 1878 p. 328; e negli atti della R. Acc. dei Lincei, Marzo 1879 p. 122 e seg.). La pietra è stata fotografata: e nella fotografia dopo INTER si scorgono chiaramente le vestigia della lettera A». 50 Sui rapporti tra Theodor Mommsen (1871-1903) e de Rossi vd., in particolare, S. REBENICH, Giovanni Battista de Rossi und Theodor Mommsen, in Lebendige Antike. Rezeptionen der Antike in Politik, Kunst und Wissenschaft der Neuzeit. Kolloquium für Wolfgang Schiering, a cura di R. STUPPERICH, Mannheim 1995 (Mannheimer historische Forschungen, 1), pp. 173-186; G. VAGENHEIM, Le raccolte di iscrizioni di Ciriaco d’Ancona nel carteggio di Giovanni Battista de Rossi con Theodor Mommsen, in Ciriaco d’Ancona e la cultura antiquaria dell’Umanesimo. Atti del convegno internazionale di studio (Ancona 1992), a cura di G. PACI – S. SCONOCCHIA, Reggio Emilia 1998 (Collana “Progetto Adriatico”, 2), pp. 477-519; M. BUONOCORE, Theodor Mommsen e gli studi sul mondo antico. Dalle sue lettere conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Napoli 2003 (Pubblicazioni dell’Istituto di diritto romano e dei diritti dell’Oriente mediterraneo. Università di Roma “La Sapienza”, 79), pp. 3-10, 65-270; J. S. PERRY, In honorem Theodori Mommseni: G. B. de Rossi and the collegia funeraticia, in Augusto augurio. Rerum humanarum et divinarum commentationes in honorem Jerzy Linderski, a cura di C. F. KONRAD, Stuttgart 2004, pp. 105-122; G. VAGENHEIM, «Quel triste carteggio» et «quei dolci vincoli». Deuils familiaux et amitié fraternelle dans la correspondance entre Theodor Mommsen et Giovanni Battista de Rossi, in En el centenario de Theodor Mommsen (1817-1903). Homenaje desde la Universidad española, a cura di J. MARTÍNEZ-PINNA, Málaga – Madrid 2005 (Antiquaria Hispanica, 11), pp. 37-44.
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E continua: Esaminata attentamente la pietra, la sagace lettura del Mommsen mi è apparsa esattissima in quanto alla sostanza; e capace solo di qualche lieve complemento nelle parti scheggiate e corrose degli estremi margini. […] La frase di sapore piccante sopra citata non può essere supplita INTER pagaNOS PAGANA FVIT. Imperocché dopo le chiare lettere INTER non segue la sillaba PA: la prima lettera è senza dubbio A, ed anche il Mommsen ne intravide le vestigia; poi viene la base di una L od E. Ciò posto spontaneo mi si offre il supplemento INTER ALieNOS51.
Riproponendo il suo saggio nel Bullettino di archeologia cristiana, de Rossi aggiunge una appendice con il risultato di una nuova, congiunta autopsia dell’epigrafe da parte sua e di Mommsen, a seguito della quale conclude: in somma la sostanza della lezione della singolare epigrafe dal nuovo esame non è mutata: e nella frase capitale INTER…. NOS PAGANA FVIT, ove l’antitesi del contesto spontaneamente suggerisce e richiede il pagaNOS, le tracce superstiti non si prestano all’ovvio supplemento; ed in quella vece chiamano un vocabolo, che cominci dalla lettera A52.
Nello stesso anno, Rodolfo Lanciani, legge, senza proporre integrazioni: IS ALIQVIT VOLVERIT FACERE IN VOD FILIA MEA INTER FEDELES FIDELIS FVIT INTER NOS PAGANA FVIT QVOD SI QVIS VOLVERIT OSSA MEA VEXARE53
L’articolo edito da de Rossi nel Bullettino della Commissione archeologica comunale suscita la curiosità di Ernest Renan54 che, nella seduta del 26 aprile 1878, 51 DE ROSSI, D’una mutila epigrafe di strano senso cit., pp. 241-242. 52 G. B. DE ROSSI, Epigrafe mutila di strano senso rinvenuta nel torrione
destro della porta Flaminia, in Bullettino di archeologia cristiana s. III, 2 (1877), pp. 118-123, con appendice a p. 124 e incisione alla tav. 9, fig. 1. 53 R. A. LANCIANI, in Notizie degli scavi di antichità (1877), p. 270. Su Rodolfo Amedeo Lanciani (1845-1929), membro della Commissione archeologica comunale di Roma, architetto della Direzione centrale (poi generale) per i musei e gli scavi presso il Ministero della pubblica istruzione, docente di topografia di Roma antica presso l’Università di Roma, senatore del Regno vd., con altra bibliografia, M. BUONOCORE, Appunti di topografia romana nei codici Lanciani della Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma 1997-2002; D. PALOMBI, Lanciani, Rodolfo Amedeo, in Dizionario biografico degli italiani, LXIII, Roma 2004, pp. 353-360; ID., Rodolfo Lanciani. L’archeologia a Roma tra Ottocento e Novecento, Roma 2006 (Problemi e ricerche di storia antica, 25); ID., in Personenlexicon zur Christlichen Archäologie cit., II, pp. 782-784. 54 Su Ernest Renan (1823-1892) vd., con altra bibliografia, R. DUSSAUD, L’œuvre scienti-
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appelle l’attention de l’Académie (scil.: des inscriptions et belles-lettres) sur une inscription récemment découverte à Rome, où se lit le membre de phrase quod filia mea inter fideles fidelis fuit, inter …///NOS pagana fuit. “M. Mommsen, dit M. Renan, lit inter paganos; mais ce qui reste des lettres détruites ne permet pas cette lecture; il serait d’ailleurs singulier de trouver sur une tombe l’expression d’un sentiment de scepticisme. M. de Rossi lit inter alienos, entendant alienos dans le sens de ‘païen’. Le père veut éviter que l’on ne fasse sur le tombeau de sa fille des cérémonies païennes. Je crois que ce qui reste visible des lettres cassées répond mieux au mot alumnos. Il supposerait que la jeune fille en question faisait partie d’un alumnat, soit privé, soit public, situation qui entrainait plus d’un acte de paganisme, mais que le père tient à constater qu’au fond elle était chrétienne et qu’il faut traiter son tombeau comme celui d’une chrétienne. Quelle condition était au juste celle de l’alumnus? J’abandonne cette question, dit M. Renan, à ceux de mes confrères qui sont plus versés dans l’épigraphie et l’administration romaines”55.
Renan pensa di rivolgersi a de Rossi, nei confronti del quale esprime più volte apprezzamento56, ma, forse memore del rifiuto oppostogli nel 1872, ricorre alla mediazione di Amari, inviandogli una nota con le sue richieste da presentare a de Rossi. Paris, 5 mai 1878 Mon cher ami, Il a paru dans le numéro d’octobre-décembre dernier du Bollettino d’archeologia comunale57, une inscription qui m’intéresse beaucoup. J’ai écrit mes desiderata sur la feuille ci-jointe. Je voudrais bien avoir une photographie ou un estampage des parties douteuses de l’inscription, ou, ce qui serait le mieux, c’est que M. de Rossi voulût bien examiner de nouveau la pierre et voir si les lectures que nous proposons sont possibles. Vous êtes, je crois, bien avec lui; voudriez-vous lui transmettre ma note, et lui dire combien nous tiendrions à avoir son sentiment? fique d’Ernest Renan, Paris 1951; Ernest Renan (cat. mostra), Paris 1974; É. RICHARD, Ernest Renan penseur traditionaliste?, Aix-Marseille 1996 (Collection d’Histoire des Idées Politiques); J.-P. VAN DETH, Ernest Renan. Simple chercheur de vérité, s.l., 2012; Ernest Renan et l’Italie, a cura di J. BALCOU, s.l., 2013 (Biblioteca del Viaggio in Italia. Studi, 105). 55 Comptes rendus des séances de l’Académie des inscriptions et belles-lettres s. IV, 6 (1878), pp. 71-72. 56 Oltre ai casi citati nel presente lavoro vd., in Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 532-533, nr. 356, la lettera (Sèvres, 22 maggio 1870), a un “confrère” non identificato, sulla paventata distruzione delle “Arènes de la rue Monge” (l’anfiteatro romano di Parigi): «Je ne doute pas que si notre confrère M. de Rossi pouvait être consulté, il ne fût de cet avis, et que, si un pareil monument eût été découvert à Rome, il ne fût l’objet de la plus sérieuse attention». 57 DE ROSSI, D’una mutila epigrafe di strano senso cit.
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Si vous pouvez m’obtenir les éléments nécessaires, peut-être pourrais-je vous envoyer une petite note à ce sujet pour mes confrères des Lincei, à qui je tiens à prouver combien je suis honoré du titre qu’ils m’ont conféré. Nos compliments à Mme Amari et à M. Sabathier58, s’il est près de vous. Croyez à ma plus vive amitié E. Renan rue Saint-Guillaume, 16 Inscription n° 8 de la table. M. de Rossi lit ALIENOS (fin de la 2e et commencement de la 3e ligne). Mais la lettre qui commence la 3e ligne ne me paraît pas un E. D’après la gravure, j’y verrais plutôt un M, et je lirais ALVMNOS. Les traces qui restent sur le monument permettent-elles cette lecture? Si telle était la bonne lecture, je supposerais que la femme en question faisait partie d’un alumnat soit public, soit privé. Tandis qu’elle était avec ses camarades, elle faisait comme tout le monde, et on l’eût prise pour une païenne; mais le père tient à ce que l’on sache qu’elle était en réalité chrétienne, sans doute, comme le suppose M. de Rossi, pour éviter qu’on ne fasse des cérémonies païennes sur son tombeau. À la 1re ligne, M. Le Blant59, à qui j’ai communiqué l’inscription, propose de lire INSE[pultus jaceat], formule bien connue. Les traces qui restent se prêtentelles à cette lecture? E. Renan rue Saint-Guillaume, 1660
Amari, qualche giorno prima, aveva espresso a Renan la possibilità che, dopo la morte di Pio IX, avvenuta il 7 febbraio, «les scrupules politiques, comme ceux de M.r de Rossi et de bien d’autres, subissent des changements»61. Animato forse da questa speranza, e certo, comunque, dei suoi buoni rapporti con l’archeologo cristiano, Amari si reca subito da de Rossi per consegnargli la nota di Renan — loro collega dell’Académie des inscriptions et belles-lettres, come Amari sottolinea — ma, dopo aver aspettato a lungo, non riesce a incontrarlo: 58 François Sabatier (1818-1891), critico d’arte e traduttore, padre adottivo di Louise Bouquet (1835-1909), moglie di Amari. 59 Frédéric-Edmond Le Blant (1818-1897), archeologo ed epigrafista, membre ordinaire dell’Académie des inscriptions et belles-lettres dal 1867, direttore dell’École française de Rome nel 1883-1889, socio dell’Accademia dei Lincei dal 1884; è autore, tra l’altro, delle Inscriptions chrétiennes de la Gaule antérieures au VIIIe siècle, Paris 1856-1865 e del Nouveau recueil des inscriptions chrétiennes de la Gaule antérieures au VIIIe siècle, Paris 1892; vd. D. MASTRORILLI, in Personenlexicon zur Christlichen Archäologie cit., II, pp. 802-803 e anche infra, nt. 83. 60 Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 752-753, nr. 548, lettera ad Amari (Parigi, 5 maggio 1878). 61 Carteggio di Michele Amari cit., II, p. 212, nr. 429 (Firenze, 23 aprile 1878).
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[244r] Roma 10. Mag(gi)o 1878 Chiarissimo Sig(nor) Collega Mi rincresce averla forse disturbata questa mane e non aver potuto compiere né anco il fine della mia venuta, perché io aveva un ritrovo a mezzodì e dopo aspettato circa un’ora in casa di Lei, dovetti andarmene. Lo scopo del disturbo, ch’io intendea darle è [244v] spiegato nell’inclusa nota di Ernesto Renan il quale me la mandò al fine di presentarla a Lei. La prego di farmi sapere che cosa possa io rispondere al nostro collega dell’Accademia; e caso mai volesse darmi qualche spiegazione a voce le chieggo che mi faccia sapere a qual ora possa io venire senza recarle disagio come temo aver fatto oggi. Gradisca l’attestato della mia prima osservanza Sig(no)r Com(mendator)e De Rossi Roma Suo Devotiss(imo) M(ichele) Amari62
A questa lettera è evidentemente collegato un biglietto da visita dello stesso Amari, che doveva accompagnare la nota inviata da Renan e sottolineava, ancora una volta, la comune appartenenza accademica: Sig(nor) Comm(endator)e G(iovanni) B(attista) De Rossi Socio straniero all’Ist(ituto) di Francia63 11.64 Piazza d’Aracoeli Prof. Michele Amari Senatore del Regno Di parte (sic) del Sig(nor) Ern(est) Renan 5. Piazza dell’Esquilino65
De Rossi, resosi conto dell’equivoco, si reca nel pomeriggio presso Amari ma, non riuscendo a incontrarlo, formula le sue scuse per quanto accaduto: Il sottoscritto è dolente di non potere più a lungo trattenersi e fare a viva voce le debite umilissime scuse che fa per iscritto. Questa mane è accaduto un equivoco ed una distrazione, di che lo scrivente ha vero rossore. Equivoco cir62 Lettera di Amari a de Rossi (Roma, 10 maggio 1878), Vat. lat. 14260, f. 244, nr. 196, su carta intestata «Senato del Regno» e listata a lutto (forse per la morte di Vittorio Emanuele II, avvenuta il 9 gennaio 1878). 63 L’Institut de France comprendeva, e tuttora comprende, l’Académie des inscriptions et belles-lettres, della quale de Rossi è associé étranger (vd. supra). 64 Sic; in realtà il numero civico corretto dovrebbe essere 17. 65 Biglietto da visita di Amari, in Vat. lat. 14261, f. 445, nr. 887 (si trascrive in corsivo il testo a stampa).
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ca la persona annunciatagli; distrazione nell’essere uscito di casa lo scrivente, dimenticando che era atteso nel salotto. Scusi dunque, indulgentissimo mio Commendatore, e mi permetta di tornare una di queste sere dopo il Suo pranzo circa le 6 3/4 per sapere in che posso servirla. 10 Maggio 1878. G(iovanni) B(attist)a de Rossi66
Se è facilmente ipotizzabile che Amari e de Rossi si siano in seguito incontrati, non è possibile, sulla base di quanto è noto, affermare o escludere che vi sia stato un incontro tra de Rossi e Renan nel corso del soggiorno effettuato da quest’ultimo a Roma nell’estate di quell’anno. Le successive, reciproche menzioni nelle pubblicazioni sull’epigrafe danno comunque l’impressione che i due studiosi non si siano mai direttamente confrontati sull’interpretazione del testo. Renan scrive, infatti, di aver esaminato l’epigrafe in compagnia di Amari, mentre de Rossi cita le opinioni di Renan ricavandole dall’edito. Dopo il suo soggiorno romano dell’estate 1878, dunque, Renan, durante la seduta del 23 ottobre 1878 dell’Académie des inscriptions et belles-lettres, fait une communication sur l’inscription de Rome, dont il a été déjà parlé: Quod filia mea inter fideles fidelis fuit, inter nos pagana fuit. Il a été l’examiner pendant son dernier séjour à Rome, accompagné de M. Amari. On a cherché à rattacher le mot nos, qui commence la deuxième ligne, à une syllabe qui eût terminé la ligne précédente, à la suite de inter. La vue de la pierre a convaincu M. Amari et M. Renan que le lapicide, ayant trouvé la pierre abrupte, a passé à la ligne suivante, qu’ainsi il n’y a rien entre inter et nos, et que la vraie lecture est inter nos. M. Hauréau67 trouve singulier que le père, étant païen, dise de sa fille: fidelis inter fideles fuit. M. Renan n’en disconvient pas. On pourra discuter sur l’inscription, mais le texte lui paraît être ainsi68. 66
Lettera di de Rossi ad Amari ([Roma], 10 maggio 1878), Palermo, Biblioteca centrale della Regione siciliana, Carteggio Amari, vol. XXXVIII, nr. 34/2474; quattro facciate, a righe, con il testo solo sulla prima facciata. 67 Jean Barthélemy Hauréau (1812-1896), storico e filologo, membre ordinaire dell’Académie des inscriptions et belles-lettres dal 1862; a lui si deve, tra l’altro, il completamento, tra 1856 e 1865, della Gallia christiana iniziata nel 1715 dai Maurini. 68 Comptes rendus des séances de l’Académie des inscriptions et belles-lettres s. IV, 6 (1878), pp. 198-199; vd. anche il Bulletin mensuel de l’Académie des inscriptions. Mois d’octobre, in Revue archéologique n.s., 36 (1878), p. 328: «M. Ernest Renan fait part à l’Académie des observations que lui a suggérées l’examen fait par lui à Rome, de concert avec son confrère M. Michel Amati (sic), de l’inscription commentée successivement par MM. Mommsen et de Rossi et où l’on avait lu jusqu’ici: “Quod filia mea inter fideles fidelis fuit inter paga|nos, etc.”. M. Renan croit que les quatre lettres paga finissant la première ligne n’ont jamais existé et qu’il faut lire simplement “inter nos”. Il s’exprime en ces termes: “La pierre qui porte l’inscription est aujourd’hui déposée dans l’espace demi-circulaire qui fait face au Pincio. Elle est en travertin; sa surface est inégale. Le lapicide ayant à graver le texte qui nous occupe sur une
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Ricevuta una fotografia da Lanciani, Renan medita la stesura di una nota, come comunica ad Amari il 5 dicembre 1878: J’ai reçu la photographie. Ayez la bonté d’adresser mes meilleurs remerciements à M. Lanciani. Je crois qu’il est tout à fait désirable que le public savant voie de ses yeux ce curieux monument. C’est dans les Lincei que cette publication serait, je crois, la mieux à sa place. Un mémoire, il me serait difficile de le faire, n’étant pas épigraphiste latin de profession. Le seul point sur lequel j’aurais à m’exprimer est la lecture inter nos, sur laquelle j’ai moins de doute que jamais, et dont le mérite vous appartient. Les Lincei admettent-ils de simples notes d’une page ou deux? Cela me suffirait; le mémoire qui a paru dans le Bollettino d’archeologia comunale me dispensant d’entrer dans une foule de détails. Je communiquerai à l’Académie69 la belle photographie de M. Lanciani; mais cela ne dispensera pas d’une publication qui, je crois, devrait se faire à Rome. Je pourrais vous adresser ma communication sous forme de lettre, ou l’adresser aux Lincei, comme vous voudrez70.
Una settimana dopo, il 13 dicembre, il breve testo è già pronto ed è inviato ad Amari, con una lettera del 15 dicembre: Voici ma petite note pour les Lincei. Ayez la bonté de la remettre à M. Lanciani, et de lui dire combien je serai honoré qu’il veuille bien la lire. Il n’y a qu’un point qui m’inspire des doutes: c’est la cassure du Q au commencement de la seconde ligne, laquelle contrarie mon hypothèse et ferait croire qu’il a pu disparaître des lettres à la troisième ligne, avant NOS. Néanmoins, je crois que votre lecture est la bonne, quelque idée que l’on ait sur l’ensemble de l’inscription. Quant à fidelis opposé à paganus, de Rossi prouve très bien qu’on en trouve des exemples du commencement du IVe siècle, peut-être de la fin du IIIe71.
Amari comunica la lettera di Renan nella seduta della Classe di scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia dei Lincei il 16 marzo 187972: table grossière et accidentée, n’a pas craint, comme il arrive d’ordinaire, de plier son œuvre aux accidents de la surface. À la fin de la ligne où l’on a cru lire paga il existe bien un intervalle, mais je me suis assuré d’abord que cet intervalle était trop petit pour contenir les lettres d’aucun des mots proposés, notamment les quatre lettres paga de paganos; en second lieu, conformément à l’avis de M. Michel Amati (sic), qu’en cet endroit la pierre paraissait n’avoir reçu aucun trait. Ma conviction, après examen attentif, est qu’il n’y a rien à restituer entre le mot inter qui finit la ligne et les lettres nos qui commencent la ligne suivante”». 69 Non è stato possibile trovare traccia di questa comunicazione negli indici dei Comptes rendus des séances de l’Académie des inscriptions et belles-lettres. 70 Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 769-771, nr. 567, lettera ad Amari (Parigi, 5 dicembre 1878). 71 Ibid., p. 774, nr. 569, lettera ad Amari (Parigi, 15 dicembre 1878). 72 Atti della R. Accademia dei Lincei. Transunti s. III, 3 (1878-1879), pp. 121-124. Una versione di questa lettera, che differisce da quella edita solo in alcuni dettagli della punteg-
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Il Socio corrispondente Lanciani parla dei monumenti scritti, scoperti nel nucleo delle torri laterali alla Porta del Popolo, e specialmente di una bizzarra iscrizione di strano senso relativa ad una donna che fu fidelis inter fideles, inter… nos pagana fuit. La lacuna è stata supplita inter (paga)nos dal Mommsen, inter (alie)nos dal ch. De Rossi. Il Socio Renan, in una lettera comunicata dal collega Amari, crede che non vi sia lacuna fra inter e nos, e propone quindi di leggere inter nos pagana fuit. Il Socio Lanciani, appoggiato dal ch. Henzen, dimostra, con una copia fotografica del Sallo, che dopo inter ci sono traccie (sic) di lettere: onde si potrà forse dubitare del supplemento (alie)nos, ma non si potrebbe ritenere per assolutamente vera la versione del Renan, che nega esistervi lacuna. Ecco la lettera del Socio Renan. “L’excellente note publiée par M. de Rossi, dans le Bollettino della Commissione Archeologica Comunale (oct.-déc. 1877)73 a fait connaître un monument découvert près de la Porta Flaminia, et qui présente un extrême intérêt pour l’époque si peu connue de la transition du paganisme au christianisme. Dans un court séjour que je fis dernièrement à Rome, je pus voir, avec mon précieux ami M. Amari, le monument lui-même, déposé dans l’hémicycle réservé de la Place du Peuple. L’œil sagace et dégagé de toute préoccupation de M. Amari aperçut du premier coup une particularité importante74. La phototypie ci-jointe mettra tous les épigraphistes à même de juger par eux-mêmes des difficultés que présente ce texte singulier. Loin de moi la pensée de tenter, après le savant M. de Rossi, la restitution d’une inscription aussi obscure. Un seul point importait75. Comment compléter ce membre de phrase: FILIA MEA INTER FEDELES FIDELIS FVIT INTER… NOS PAQUANA FVIT? Ce membre de phrase paraît renfermer une lacune. En examinant la pierre ou la photographie, en effet, on reconnaît deux choses. La première, c’est que rien ne manque au commencement de la 3ème ligne. S’il y avait eu une lettre disparue avant N, on en verrait des traces, l’espace lisse à gauche de N étant assez large. La seconde remarque, c’est que le mot INTER, à la seconde ligne, s’arrête bien avant la fin de la ligne, laissant après lui un espace fruste de la largeur de deux lettres. M. Mommsen76, conduit par le parallélisme de la phrase, proposa de lire: INTER [PAGA]NOS77 PAQANA FVIT. Loin du monument, cela devait paraître tout-à-fait vraisemblable. En présence du monument, une telle restitution est difficile à défendre. Qu’on prenne la longiatura e nell’aggiunta o soppressione di qualche frase (i casi sono indicati in apparato), è in Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 771-774, nr. 568, a un destinatario indicato solamente come «Monsieur et savant confrère» (Parigi, 13 dicembre 1878). 73 DE ROSSI, D’una mutila epigrafe di strano senso cit. 74 Le parole da «Dans un court» a «importante» mancano in Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 771-774, nr. 568. 75 In Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 771-774, nr. 568 si legge: «importait au point de vue des recherches auxquelles je me livre». 76 T. Mommsen, in DE ROSSI, D’una mutila epigrafe di strano senso cit., pp. 241-242. 77 In Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 771-774, nr. 568 si legge: «[PAQA]NOS».
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gueur de PAQA, à la 3ème ligne, qu’on le porte après INTER, à la seconde ligne, on verra que l’espace n’est pas suffisant pour le contenir. M. de Rossi proposa [ALIE]NOS; je songeai à [ALUM]NOS; mais ces hypothèses sont repoussées par le monument; car, je le répète, à la 3ème ligne, il n’y avait aucune lettre avant NOS et, à la 2ème ligne, après INTER, l’espace est trop court pour renfermer soit PAQA, soit ALIE, soit ALUM. En présence du monument, ces impossibilités me frappèrent, mais je ne renonçai pas à chercher des traces de lettres dans l’espace qui suit INTER. Ce fut M. Amari qui, examinant la pierre sans aucune idée préconçue, me dit: “Il n’y a rien après INTER; la véritable lecture est INTER NOS”. Reprenant l’étude du monument d’après cette idée, je me convainquis bientôt que notre savant confrère avait probablement vu la vérité. Il importe avant tout de bien étudier le bloc de travertin sur lequel l’inscription est tracée. C’est un fragment de corniche, qui, dans sa destination primitive, n’était nullement destiné à recevoir une inscription. Quand l’inscription fut tracée, la pierre offrait déjà presque toutes les irrégularités, presque toutes les cassures qu’elle présente aujourd’hui. Ainsi le mot VOLVERIT, à la 3ème ligne est écrit d’une façon qui prouve que le trou qui dépare la pierre en cet endroit existait avant que l’inscription fût tracée. Même observation sur VEXARE, à la 4ème ligne. Il semble donc que la pierre était, quand on grava l’inscription, dans l’état d’ébrèchement, où nous la voyons aujourd’hui78. Quand le lapicide arrivait à quelque partie détériorée, ou présentant ces trous qui sont naturels au travertin, il sautait en quelque sorte jusqu’à ce qu’il trouvât un espace lisse, propre à recevoir l’écriture. C’est ce qui lui est arrivé à la 2ème ligne, après INTER. Tout le bord de droite de la pierre est fortement avarié; les plans primitifs ont disparu. Plutôt que d’écrire sur une surface déclive et rugueuse, le lapicide s’est arrêté, avant que la pierre lui manquât tout-à-fait; il est revenu à la ligne et a tracé en tête de la 3ème ligne, avec toute la netteté, dont il était capable, le mot NOS, qui suivait INTER. Il semble donc qu’il faut lire: Quod filia mea inter fedeles fidelis fuit, inter nos pagana fuit. Je laisse aux épigraphistes le soin de traiter les nombreuses questions qui se rapportent à ce texte bizarre. Les singularités qu’on y peut relever sont les mêmes dans les trois lectures, dans celle de M. Mommsen, dans celle de M. de Rossi et dans la mienne. Le doute ne porte que sur un mot. Tous les épigraphistes me paraissent d’accord pour rapporter le monument au IVème siècle, et même plutôt à la 1ère moitié de ce siècle qu’à la seconde. L’opposition de fidelis et de paganus est un fait indéniable. Je regarde comme certain, avec M. de Rossi, que ces deux mots ont ici le sens de «chrétien» et de «païen». L’épitaphe de Rila (sic)79 Florentina… pagana nata… fidelis facta80 est de la fin du troi78
Nota di Renan: «Seul le Q initial de la 2ème ligne a un peu souffert». In Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 771-774, nr. 568 manca «de la 2ème ligne». 79 In Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 771-774, nr. 568 si legge: «Nila», vd. nt. successiva. 80 Nota di Renan: «De Rossi, Bullet. di arch. christ., 1868, p. 75-76», cioè G. B. DE ROSSI, Annotazione bibliografica sopra un’insigne iscrizione cristiana di Catania, in Bullettino di ar-
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sième siècle ou de la 1ère moitié du quatrième. Qu’on lise inter paganos, ou inter alienos, ou inter nos, la relation générale des mots principaux reste la même et parfaitement déterminée. Dans les hypothèses de M. Mommsen et de M. de Rossi, le père est chrétien. Dans mon hypothèse, il est païen81. Comment, dira-t-on, un païen du temps de Constantin ou de Constance peut-il appeler ses coreligionnaires pagani et les chrétiens fideles? Cela n’est pas, après tout, plus singulier que de voir un père chrétien écrire en grosses lettres que sa fille était fidèle parmi les fidèles, païenne parmi les païens. Les noms de sectes une fois créés, s’imposent indépendamment de la circonstance qui y a donné origine. Les protestants acceptèrent très-vite le nom de protestants. Nous appelons chrétiens les grecs orthodoxes, sans que nous entendions par là prononcer sur leur orthodoxie réelle, et les chrétiens latins catholiques, sans affirmer tout ce que ce mot semble supposer. La phototypie exécutée par la commission archéologique communale et que nous publions, fera sans doute faire des progrès rapides à l’interprétation de cette inscription qui, jusqu’ici, a bien plus excité la curiosité qu’elle ne l’a satisfaite
De Rossi torna sull’iscrizione in occasione di una conferenza della Società dei cultori della sacra archeologia in Roma, il 12 gennaio 1879: Il comm. de Rossi presentò la fotografia di quella strana iscrizione rinvenuta presso la porta del Popolo; della quale già altra volta ha ragionato nelle nostre conferenze (vd. Bull. 1879 p. 24). Il sig. Rénan ha impugnato la lettura proposta dal riferente INTER AlieNOS PAGANA FVIT, affermando che dopo INTER non si vede traccia d’altra lettera; e che perciò si dee leggere: INTER NOS PAGANA FVIT. La fotografia fatta circolare fra gli adunati fe’ a tutti vedere le vestigia della controversa lettera A; le quali furono notate anche dal Mommsen (vd. Bull. 1877 p. 118 e segg.)82.
Non è possibile precisare se, dopo il (mancato?) incontro del 1878, vi siano stati altri contatti tra de Rossi, Amari e Renan. In almeno un altro
cheologia cristiana 6 (1868), pp. 75-76, riguardante l’iscrizione di Nila o, meglio, Iulia Florentina (CIL X, 7112), su cui vd., con altra bibliografia, G. MANGANARO, Iscrizioni latine e greche di Catania tardo-imperiale, in Archivio storico per la Sicilia orientale s. IV, 11-12 (1958-1959), pp. 5-30, alle pp. 10-15, nr. 2, fig. 2; G. RIZZA, Un martyrium paleocristiano di Catania e il sepolcro di Iulia Florentina, in Oikoumene. Studi paleocristiani pubblicati in onore del Concilio ecumenico vaticano II, Catania 1964, pp. 593-612; I. BITTO, Alcune osservazioni sulla iscrizione di Iulia Florentina (CIL X 7112), in Studi tardo antichi 6 (1989), pp. 245-287. 81 Questo periodo manca in Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., pp. 771-774, nr. 568. 82 G. B. DE ROSSI, in Bullettino di archeologia cristiana s. III, 5 (1880), p. 65.
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caso Amari fa da mediatore tra i due studiosi83, ma Renan non compare tra i corrispondenti di de Rossi84. Dopo il 1878 non sono più noti scambi epistolari tra de Rossi e Amari. Ciò, naturalmente, non basta a dedurre che i loro rapporti si siano incrinati: poiché de Rossi viveva a Roma, e Amari frequentava assiduamente la capitale per i suoi numerosi incarichi politici, i due avevano, infatti, svariate occasioni di incontro. A riprova dei perduranti legami, de Rossi riceve dalla famiglia Amari il necrologio dell’illustre congiunto85. Dai documenti noti sembra lecito dedurre che de Rossi sia rigoroso nell’evitare i rapporti con Renan, studioso per più aspetti “scomodo” e ufficialmente condannato dalla Chiesa. Nei rapporti con Amari, invece, la posizione è più sfumata, perché de Rossi dialoga con lo studioso, nonostante questi sia anche un importante rappresentante politico di quel Regno d’Italia che, nel 1870, pone fine alla sovranità temporale del Papa86. L’atteggiamento di de Rossi, «parmi ces catholiques à la fois fidèles et modérés»87, nei confronti di Amari è dunque coerente con le sue scelte. Allo stesso modo, non vi è alcuna contraddizione, in de Rossi, tra il rifiuto di onori e incarichi provenienti direttamente dal governo italiano e la sua vivace attività a livello municipale anche negli anni dopo Porta Pia, con funzioni
83 Renan, dovendo inviare a de Rossi e Garrucci due volumi da parte di Le Blant, si rivolge ad Amari, vd. Œuvres complètes de Ernest RENAN, X. cit., p. 716, nr. 516 (Parigi, 26 ottobre 1878): «Aujourd’hui j’ai remis à mon libraire pour qu’il vous les expédie deux exemplaires de l’Essai sur les sarcophages d’Arles de M. Edmond Le Blant. Voici dont il s’agit. M. Le Blant m’avait remis ces exemplaires au moment de mon départ pour que je les remisse à M. de Rossi et au Père Garrucci. Ce sont deux forts volumes; ils chargeaient tellement notre malle que nous dûmes renoncer à les emporter. Aujourd’hui je vous les fais passer par librairie. Aurez-vous la bonté de les faire remettre aux deux personnes susdites? Si elles viennent les réclamer chez vous, dites-leur que les volumes sont en route et arriveront sans tarder». Nell’edizione, la lettera reca la data del 1876, che qui si propone di correggere in 1878 sia perché nel 1876, per quanto a me noto, Renan non compie un viaggio in Italia, sia perché l’opera inviata è da identificarsi con E. LE BLANT, Étude sur les sarcophages chrétiens antiques de la ville d’Arles, Paris 1878 (Collection de documents inédits sur l’histoire de France, s. III, Archéologie). 84 Secondo quanto risulta dal Vat. lat. 14298 («Corrispondenza letteraria e privata del Comm. G. B. de Rossi. Indice»), se si eccettua il suo biglietto da visita inserito nel carteggio del 1872 menzionato supra, nt. 46 e contesto. 85 Vat. lat. 14282, f. 479, nr. 429, foglio listato a lutto con testo a stampa: «La famiglia Amari | compie il doloroso ufficio di | annunziare la morte del | Prof. Michele Amari | Senatore del Regno | accaduta improvvisamente in | Firenze il 16 Luglio 1889». 86 Sugli atteggiamenti politici di de Rossi vd., in particolare, PH. FORO, Giovanni Battista de Rossi, entre archéologie chrétienne et fidélité catholique dans l’Italie de l’Unité, in Anabases 9 (2009), pp. 101-112. 87 FORO, Giovanni Battista de Rossi cit., p. 108.
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istituzionali nelle quali si distingue soprattutto per la difesa dei monumenti minacciati dall’espansione edilizia della nuova capitale88. Amari, comunque, mostra di essere ben cosciente dei limiti oltre i quali de Rossi non è disposto a collaborare. Dovendosi scegliere, nell’aprile 1879, un nuovo membro per l’Accademia dei Lincei, rifondata cinque anni prima con l’intento di farne una delle principali istituzioni scientifiche del giovane Stato unitario, egli, pur essendo ben conscio dell’altissima levatura di de Rossi, consiglia invece a Domenico Comparetti89 di indicare la contessa Ersilia Caetani Lovatelli90: Vogliamo che i Lincei innalzino su i comignoli del Campidoglio la bandiera dell’emancipazione del bel Sesso: l’emancipazione seria ed onesta ben s’intende? Ebbene scriviamo il nome di Donna Ersilia in capo lista della scheda che ci manda il Sella91 per la elezione ad uno de’ due posti vuoti nella nostra classe. […] Ebbene, in Roma uno dei pochi palagi aperti agli empii conquistatori è quello lì; e tra i cultori dell’archeologia […] potremmo noi scegliere il de Rossi o il p. Garelli senza esporci ad un rifiuto?92.
88 De Rossi è, in particolare, consigliere municipale, membro della Commissione archeologica comunale di Roma e della Commissione conservatrice dei monumenti e oggetti d’arte e d’antichità per la provincia di Roma. A livello nazionale, comunque, de Rossi è membro della Giunta consultiva di archeologia, istituita nel 1891 presso il Ministero della pubblica istruzione. 89 Su Domenico Comparetti (1835-1927) vd. G. PUGLIESE CARRATELLI, Comparetti, Domenico, in Dizionario biografico degli italiani, XXVII, Roma 1982, pp. 672-678; Due protagonisti e un comprimario cit.; Domenico Comparetti, 1835-1927. Convegno internazionale di studi (Napoli – Santa Maria Capua Vetere 2002), a cura di S. CERASUOLO – M. L. CHIRICO – T. CIRILLO, Napoli 2006 (Materiali per la storia degli studi classici, 3). 90 Su Ersilia Caetani Lovatelli (1840-1925) vd. A. PETRUCCI, Caetani Lovatelli, Ersilia, in Dizionario biografico degli italiani, XVI, Roma 1973, pp. 155-157 e L. NICOTRA, Archeologia al femminile. Il cammino delle donne nella disciplina archeologica attraverso le figure di otto archeologhe classiche vissute dalla metà dell’Ottocento ad oggi, Roma 2004 (Studia archaeologica, 129), pp. 29-46. 91 Su Quintino Sella (1827-1884), oltre a Epistolario di Quintino Sella, a cura di G. e M. QUAZZA, Roma 1980-2011 (Istituto per la storia del risorgimento italiano. Biblioteca scientifica, s. II, Fonti, 71, 74, 80, 81, 87, 91, 92, 100, 101), vd. almeno Quintino Sella tra politica e cultura 1827-1884. Atti del convegno nazionale di studi (Torino 1984), a cura di C. VERNIZZI, Torino 1986; P. L. BASSIGNANA, Quintino Sella. Tecnico, politico, sportivo, Torino 2006 (Biografie storiche); Quintino Sella Linceo, a cura di M. GUARDO – A. ROMANELLO, Roma 2012 (Storia dell’Accademia dei Lincei. Cataloghi, 1); Quintino Sella, scienziato e statista per l’Unità d’Italia, Roma 2013 (Atti dei Convegni Lincei, 269). 92 S. TOSCANO, Il carteggio Comparetti-Amari, in Siculorum Gymnasium 32 (1979), pp. 413-543, alle pp. 522-523, nr. 68 (Roma, 27 aprile 1879); a p. 523, nt. 4, Toscano sostiene che il «p. Garelli» non altrimenti identificato sia, in realtà, il gesuita Raffaele Garrucci (18121885), archeologo ed epigrafista, su cui vd. C. FERONE, Garrucci, Raffaele, in Dizionario biografico degli italiani, LII, Roma 1999, pp. 388-390; S. HEID, in Personenlexicon zur Christlichen
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Comparetti segue il consiglio di Amari («Ben volentieri mando il mio voto per la nomina della contessa Ersilia benché la nostra classe abbia già troppi archeologi»)93; la contessa Caetani Lovatelli è effettivamente accolta nell’Accademia, mentre de Rossi non entra mai a farne parte94, a differenza di Amari, che è socio nazionale dal 1875, e di Renan, che è corrispondente straniero dal 1876. Anche Quintino Sella, presidente dell’Accademia, consapevole delle riserve di de Rossi nei confronti del nuovo Stato, nel 1879, in un’accorata lettera al presidente del consiglio Benedetto Cairoli95, scrive: Dovrei chiedere […] che si crescesse di Lire 25 mila la dotazione annua dell’Accademia. Così si soddisferebbe ad una domanda fatta colle più vive insistenze dal Mommsen e da tutti gli archeologi. Si intraprenderebbe la grande carta di Roma antica che le scoperte per i nuovi lavori in città, e per le indagini nei codici e nelle descrizioni antiche modificano in modo così essenziale. Avrei alla mano una combinazione alla quale aiuterebbero il de Rossi ed altri archeologi di grande valore, i quali non contribuirebbero ad una pubblicazione fatta direttamente dal governo italiano. Ma come vi faccio simile proposta mentre avete in mente di privare, coûte qui coûte, il bilancio dello Stato di 50 milioni di entrata? Forse vedremo uno di questi giorni che a questa esigenza di una carta di Roma antica …96 provvede qualche governo straniero. Ma lasciamo da parte queste e tante altre dolorosissime considerazioni che inspirano al mio animo profondamente attristato i vostri propositi finanziari97.
Il mancato ingresso di de Rossi tra i Lincei non impedisce, comunque, che l’Accademia lo commemori ufficialmente, nella seduta del 25 novembre 1894, con un commosso discorso di Domenico Comparetti: Purtroppo — osserva Comparetti — egli non apparteneva di fatto a questo nostro consesso scientifico, non già perché non vi fosse chiamato, invitato e desiderato, ma perché un’autorità a cui egli doveva obbedienza ed ossequio, e sentimenti delicati che onorano lui senza offender noi, gli vietavano di esser dei nostri. Virtualmente egli però era con noi, poiché, com’ei con faceta cortesia Archäologie cit., I, pp. 550-552; C. FERONE, Opuscula, III. Lo studio delle antichità classiche nel Mezzogiorno d’Italia. Scritti su Raffaele Garrucci, a cura di A. RUSSI, San Severo 2013. 93 TOSCANO, Il carteggio Comparetti-Amari cit., pp. 524-525, nr. 69 (Firenze, 29 aprile 1879). 94 Vd., in particolare, BUONOCORE, Theodor Mommsen e gli studi sul mondo antico cit., pp. 259-260, nota 754 e la commemorazione di de Rossi da parte di Comparetti citata infra, nt. 98 e contesto. 95 Su Benedetto Cairoli (1825-1889) vd. almeno M. BRIGNOLI, Cairoli, Benedetto, in Dizionario biografico degli italiani, XVI, Roma 1973, pp. 365-372. 96 I puntini di sospensione sono nel testo originario. 97 Epistolario di Quintino Sella cit., VI, pp. 118-119, nr. 4148 (Roma, 1 dicembre 1879).
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suoleva dire, se non effettuò il passaggio da una parte all’altra, fu unicamente per la mancanza di un ponte che né a lui, né a noi era dato costruire, malgrado ogni buon volere. Al desiderio di lui adunque che l’Accademia gli dimostrò mentre ei visse, corrisponda un vivissimo rimpianto per la sua morte, che l’Accademia farebbe torto a sé stessa se lasciasse inosservata, in mezzo al generale cordoglio che destò in ogni dove.
Dopo aver evidenziato la grandezza umana e scientifica di de Rossi, il suo prestigio internazionale ma anche la sua “italianità”, Comparetti conclude con la speranza che i colleghi approvino queste poche ma sentite parole dettate da un animo riconoscente per chi onorò il nome italiano e se non fu con noi fra queste pareti, fu certamente con noi in quel consorzio intellettuale e scientifico della patria nostra di cui questa Accademia non è che una parte e una sede98.
98
Commemorazione del comm. G. B. de Rossi letta dal socio Domenico COMPARETTI, in Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. V, 3 (1894), pp. 805-808 (seduta del 25 novembre 1894).
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ROBERTO PERTICI
GIULIO SALVADORI E IL MONDO EBRAICO (DALLE CARTE SALVADORI DELLA BIBLIOTECA VATICANA) Ad Alberto Cavaglion Amicus amico
1. Il problema Salvadori. Nell’ottobre del 1950, la rivista Studium ospitava un saggio-testimonianza di Saul Israel dedicato a Giulio Salvadori e Israele. Da Salonicco, dove da secoli viveva e prosperava una grande comunità ebraica, nell’agosto del 1916 Israel era venuto in Italia per studiare medicina all’università di Roma. Tre mesi dopo, nel corso dell’esame di licenza liceale al liceo Ennio Quirino Visconti, conobbe appunto Salvadori, che era fra gli esaminatori. Nacque allora un’amicizia discepolare che sarebbe durata fino alla morte del professore: Ricordo con precisione quella stanza larga ed alta che dava sulla Piazza Navona, dalle mura severamente imbiancate e quella sedia sulla quale era appoggiato il telaio di un quadro a olio che riproduceva dei fiori. Le mie visite divennero presto frequentissime. Salvadori mi riceveva come si riceve una persona attesa da tempo, mi veniva incontro con le braccia tese, spingendo avanti il suo esile corpo come se lo facesse scivolare e mi stringeva le mani con effusione, fissandomi con quello sguardo che non abbandonava mai quello del suo interlocutore. Mi faceva parlare della mia esperienza religiosa e se gli riferivo qualche lettura fatta, soprattutto se si trattava di un brano biblico, andava a cercare un Vecchio Testamento e lo rileggevamo insieme. La mia fantasia era straordinariamente soggiogata dalla ricchezza di affinità che scoprivo fra l’esperienza spirituale inculcatami dall’infanzia e quello che Giulio Salvadori mi stava rivelando di un mondo che cominciavo da poco a penetrare. Era un aspetto inaspettatamente nuovo di quello che costituiva il fondo essenziale della mia anima che, per una serie di coincidenze che mi apparivano provvidenziali, mi si stava svelando a poco a poco. Giulio Salvadori sembrava prendermi per mano e guidarmi dolcemente in questa incredibile esplorazione e pareva dirmi: «Ecco, questa è la tua casa, la nostra casa; entriamo e riposiamoci insieme!». E veramente questo volle dirmi un giorno. Dopo avermi riferito una bellissima e assai lunga citazione del Vangelo che, nello stile e nella freschezza caratteristica delle figurazioni, mi rammentava le parabole agadistiche che mi erano tanto famigliari, Salvadori concluse con un accento di voce nel quale, come al solito, vibrava una lieve inflessione di contentezza che gliela modulava come un Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 525-649.
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canto: «Vede, Israel, tutto questo è vostro... e possiamo dire senz’altro, è nostro... non è vero?...»1.
Come vedremo, la necessità di un confronto con l’ebraismo non emerge solo nel rapporto col giovane Israel e con altri amici ebrei, ma percorre i molti scritti e la copiosa corrispondenza (edita e inedita) di Salvadori: fu insomma una costante del suo cristianesimo. Fin dai primi anni dopo la sua conversione, egli si interrogò sul “mistero” d’Israele e — nel confronto con altri popoli dell’antichità — ne sottolineò il carattere unico e provvidenziale. Iniziò quindi a operare una distinzione fra gli ebrei secolarizzati e quelli «credenti». Sui primi ripeté spesso giudizi e valutazioni correnti nell’opinione pubblica europea del suo tempo, non solo in quella cattolica: che fossero fra i più convinti assertori del “libero pensiero” e contigui alle logge massoniche, che alimentassero i partiti rivoluzionari. Ma il suo vero interesse era per i secondi, perché la sua personalità era essenzialmente religiosa: con costoro cercò costantemente un dialogo, un confronto, richiamandoli all’esperienza dell’antico profetismo biblico, da lui avvertito come il vero prologo dell’esperienza cristiana. Ma anche verso i primi, scrisse e ripeté sovente, che, pur ponendosi come “nemici” della Chiesa, la Chiesa non li doveva trattare come tali: verso i lontani, richiamava spesso l’esperienza del Samaritano, quindi il bisogno di avvertirli come prossimo. L’atteggiamento di Salvadori verso l’ebraismo, come vedremo, è un intreccio di perduranti stereotipi anti-giudaici e di aperture religiose e umane: si avverte un qualcosa di nuovo che cerca faticosamente di emergere all’interno di un orizzonte teologico e culturale ancora segnato da antiche diffidenze. Nel mondo cattolico italiano fra Otto e Novecento il suo non fu un caso isolato, perché — qualunque siano state le posizioni della gerarchia ecclesiastica e della Santa Sede2 — poi, all’interno di quel mondo, si confrontarono sempre sensibilità e approcci diversi, su questo come su altri problemi3. In varie occasioni Salvadori sostenne la «libertà» del cat1
S. ISRAEL, Giulio Salvadori e Israele, in Studium 46 (1950), nr. 10, ottobre, pp. 5, 10-11 [dell’estratto]. 2 Sulle quali rinvio una tantum a G. MICCOLI, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra Otto e Novecento (1997), in ID., Antisemitismo e cattolicesimo, Brescia 2013, pp. 39263; ID., Un’intervista di Leone XIII sull’antisemitismo, in Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, a cura di A. MELLONI et al., Bologna 1996, pp. 577-605, a proposito dell’intervista comparsa su Le Figaro del 4 agosto 1892. 3 Per un primo inventario, cfr. V. DE CESARIS, Pro Judaeis. Il filosemitismo cattolico in Italia (1789-1938), Milano 2006. Ma chi scrive fu per tempo edotto dell’esistenza di una cultura cattolica estranea od ostile all’antisemitismo dalle opere di due grandi storici “laici”, come Francesco Ruffini e Piero Treves (R. PERTICI, Piero Treves storico di tradizione [1994], in ID., Storici italiani del Novecento, Pisa – Roma 2000, pp. 199-257, 203-205).
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tolico e l’esigenza che, con il dovuto equilibrio, egli non assumesse un atteggiamento puramente gregario rispetto alle indicazioni della gerarchia e anche alla politica del cattolicesimo organizzato. L’analisi delle esperienze culturali e religiose di quegli anni rispetto ai problemi dell’ebraismo contemporaneo è ardua: impone una cautela critica e una sensibilità storiografica, che — si deve dirlo — non sempre si sono avute. È la storia del XX secolo che ci rende sensibilissimi anche al minimo accenno di anti-giudaismo che si possa rinvenire in scritti, lettere e dichiarazioni di allora: senza ridurne la portata e il significato, questa constatazione ci impone però di esaminarli, com’è stato giustamente scritto, «sans les rapporter exclusivement à notre point de vue contemporain, que le recul de l’histoire rend plus lucide»4. 2. Il Salvadori «bizantino» e l’ebraismo. Bisogna innanzitutto rendersi conto del percorso culturale, politico e religioso di Salvadori, nato nella provincia aretina (a Monte S. Savino) nel 1862 e quindi appartenente alla prima generazione della «nuova Italia» (quella — per intenderci — di Gabriele D’Annunzio e di Benedetto Croce). Così lo sintetizzava nelle sue memorie Gaetano De Sanctis, che lo conobbe a Roma intorno al 1890, all’interno di quei sodalizi cattolici di studenti universitari e insegnanti di cui Salvadori fu instancabile animatore: Salvadori fu educato cristianamente insieme coi fratelli da’ suoi genitori. Ma la sua fede cristiana non resse al malefico influsso del crasso positivismo che gli venne propinato dalla scuola statale. E con la fede caddero in parte nella sua ardente anima giovanile i freni di quella rigida morale che era stata essenziale elemento della sua educazione familiare. Temperamento poetico e romantico, assetato di verità e di bellezza, si lasciò sedurre da quel torbido ambiente della «Cronaca bizantina» di Angelo Sommaruga, cui la presenza di Giosuè Carducci dava apparenza di serietà e quella del giovanissimo Gabriele D’Annunzio dava con la squisitezza dei colori più smaglianti dell’arte l’esempio dell’audacia nell’esaltare lo sfrenamento di ogni passione5.
4 A. COMPAGNON, Connaissez-vous Brunetière? Enquête sur un antidreyfusard et ses amis, Paris 1997, pp. 29-30. 5 G. DE SANCTIS, Ricordi della mia vita, a cura di S. ACCAME, Firenze 1970, pp. 57-58. Sul rapporto culturale e d’amicizia fra Gaetano De Sanctis e Salvadori, notazioni importanti sono in Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, a cura di P. TREVES, Milano – Napoli 1962, pp. 1215-1216; fra l’altro, era convinzione di Treves che Salvadori avesse trasmesso a De Sanctis qualcosa della sua idealizzazione dell’umile Italia pre-romana e anti-romana, a sua volta mutuata dall’antiquario e archeologo Gian Francesco Gamurrini. Sull’incontro fra Salvadori e De Sanctis, notevoli sono anche N. VIAN, Sodalizi cattolici di cultura nella Roma di fine Ottocento, in Studium 69 (1973), pp. 765-780, e ID., La giovinezza romana di Gaetano De Sanctis, ibid. 80 (1984), pp. 305-318.
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Insomma la religiosità del giovane studente toscano, approdato con la famiglia nella nuova capitale del Regno alla metà degli anni Settanta, non resse all’urto della «cultura moderna». Del Salvadori «bizantino», della produzione poetica e critica del «tempo aberrante», sappiamo praticamente tutto grazie al gran libro che Nello Vian ha dedicato alla sua giovinezza6: l’ispirazione parnassiana della sua poesia, le curiosità per lo spiritismo, la Weltanschauung naturalistica di cui sembra appagarsi per qualche anno, la fede nell’evoluzionismo, la negazione del libero arbitrio e l’ammirazione per il determinismo di Enrico Ferri, l’accusa al cristianesimo di reprimere la natura umana, il sarcasmo contro l’Imitazione di Cristo. Il giovane Salvadori risente della svolta «pessimistica» della cultura europea degli anni Ottanta, vive gli effetti dirompenti della critica negativa e del dubbio sistematico, che poi descriverà con cognizione di causa nel libretto del 1906 su Henri Frédéric Amiel7. Vian non si ferma sulle sue posizioni politiche di allora, ma sembra certo (se stiamo ad alcuni riferimenti sparsi nelle lettere) che anch’egli conobbe un appassionamento politico, in sintonia col clima che si respirava nella scuola carducciana: più o meno tutti gli allievi di Carducci gravitavano intorno a quella che allora si chiamava l’Estrema, un mazzinianesimo sovversivo che si stava trasformando in “internazionalismo” e nel primo 6 ID., La giovinezza di Giulio Salvadori. Dalla stagione bizantina al rinnovamento, prefazione di B. TECCHI, Roma 1962, pp. 165-179 e passim. Sul Salvadori «bizantino», cfr. anche G. SQUARCIAPINO, Roma bizantina. Società e letteratura ai tempi di Angelo Sommaruga, presentazione di P. P. TROMPEO, Torino 1950, pp. 125-128 e passim. Più in generale, per chiunque s’inoltri nello studio di Salvadori, sono di grande utilità U. COLOMBO, Bibliografia salvadoriana, in Otto/Novecento 6 (1982), pp. 128-134 e F. BONALUMI, Bibliografia degli scritti a stampa di Giulio Salvadori, ibid. 9 (1985), pp. 151-191. 7 G. SALVADORI, E. F. Amiel o gli effetti della critica negativa, Roma 1906, anticipato in parte in ID., Da uno studio su E. F. Amiel, in L’Ora presente 1 (1895), pp. 376-382. I due volumi di H. F. AMIEL, Fragments d’un journal intime erano stati pubblicati a Ginevra nel 1883-1884: il loro successo va inquadrato nella moda del «pessimismo» che pervade la cultura francese alla metà degli anni Ottanta, su cui osservazioni e notizie sono in A. COMPAGNON, Les antimodernes. De Joseph de Maistre à Roland Barthes, Paris 2005, pp. 63-80. A questa «critica negativa» continui sono i riferimenti nelle lettere: di particolare rilievo quella a Edgardo Fiorilli del 24 settembre 1904: «Coteste tristezze, coteste angoscie io le conosco; le ho provate per più anni, né ancora sono del tutto sparite quantunque il fondo del cuore oramai sia fondato sopra una pietra incrollabile. Edgardo mio, non c’è dolore paragonabile a questo, di non poter fare. Ma non è male da cui non si risorga. E la prova l’ha viva davanti a sé in quest’uomo che le scrive, e che venti anni sono in questi mesi si trovava al parossismo di questa malattia e nella primavera seguente era guarito per sempre. […] Coraggio, mio caro Edgardo. Per guarire Ella ha fatto molto, perché ha dato prova della Sua buona volontà; e con la Sua fermezza ha avuto la prima vittoria. Ora bisogna vincere un’altra battaglia: quella contro la diffidenza e la critica eccessiva, cioè distruttiva» (G. SALVADORI, Lettere, I (1878-1906), a cura di N. VIAN, Roma 1976, pp. 450-451; d’ora in poi i due volumi delle Lettere saranno indicati con L seguito dal numero della pagina).
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socialismo8. Per cui il tenace antimazzinianesimo del Salvadori maturo era in realtà il frutto di un ripensamento e di un’autocritica: «io mi son disilluso da un pezzo di Mazzini […] — scriveva a Paul Desjardins il 24-25 giugno 1894 — se vogliamo la giustizia e la carità non possiamo far lega con qualsiasi forma di questo spirito assoluto e inesorabile, che crede lecito passar sopra a delle vite umane per un presunto bene dell’umanità»9. Furono quelli gli anni (del dicembre 1882 è l’impiccagione di Guglielmo Oberdan) in cui si sviluppò fra i giovani “sovversivi” il movimento irredentistico, allora ancora un fenomeno di estrema sinistra, e Carducci e la sua scuola giocarono un ruolo decisivo nel suo avvio. Negli ambienti “carducciani” di Roma erano attivi due giovani triestini (e irredentisti della prim’ora), come Salomone Morpurgo e Salvatore Barzilai, entrambi ebrei ed entrambi compagni di studi e di lotte del giovane Giulio10, il quale mutuò dal maestro anche l’interesse e l’ammirazione per uno «spirito libero» come Heinrich Heine, il «giovine ebreo biondo»11. Nonostante queste presenze e il culto per Heine, se scorriamo l’epistolario carducciano, c’imbattiamo non di rado in battute e sarcasmi verso l’elemento ebraico, tranne che vi si parli di Graziadio Isaia Ascoli o di Alessandro D’Ancona: questa nota è invece ripetuta e costante nei riferimenti a Tullo Massarani, a Emilio Treves, editore ebreo, alle consorti israelitiche di Enrico Panzacchi e di Arnaldo Fusinato (Erminia Fuà, tuttavia, convertita al cattolicesimo), a Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, «due israeliti» che pur di fondare la Rassegna settimanale (la rivista su cui praticamen8 «È da un pezzo ch’io sono uscito dal campo dove si combatte politicamente», scriveva a Giulio Cantalamessa il 2 luglio 1890 (L 119). Sulla scuola di Carducci e i suoi umori politici, cfr. P. TREVES, Aspetti e problemi della scuola carducciana, in ID., Ottocento italiano fra il nuovo e l’antico, III, Le tre corone?..., Modena 1992, pp. 79-105. 9 L 181. Al suo risentito patriottismo giovanile accennava scrivendo a Pietro Bracci il 6 giugno 1902: «Nella mia gioventù ho sentito anch’io la patria più forse che la donna, e quando poi è entrato in me il senso religioso, questo con la sua universalità non ha distrutto quello, ma solo l’ha subordinato e insieme l’ha fatto più puro e più vivo» (L 380-381). Sull’antimazzinianesimo di Salvadori ha molto insistito Piero Treves (fra l’altro in Ottocento italiano, III, cit., p. 26), ma esso non implica — come vedremo — una posizione totalmente antirisorgimentale, come invece Treves propende a credere. 10 VIAN, Giovinezza cit., pp. 104-106, con molti particolari di prima mano, tratti da una lettera a lui diretta da Salvatore Barzilai il 24 giugno 1937, ma anche TREVES, Aspetti e problemi cit., pp. 97-98. 11 G. SALVADORI, Canzoni e storie, in Il Fanfulla della domenica, V, n. 41, 14 ottobre 1883, poi in ID. Scritti bizantini, a cura di N. VIAN, Bologna 1963, pp. 105-114, 112-113 (d’ora in poi: SB). Sull’ebraismo di Heine, insiste anche in ID., Nuovo ideale, in Cronaca bizantina, II, vol. III, 1° settembre 1882 (ibid., pp. 189-198, 193), ma cfr. anche i pesanti sarcasmi ancora del 1882 contro Giuseppe Revere, perché osava commisurarsi nientemeno che con Heine (N. VIAN, Scrittore del «Lucifero» e penitente, in ID., Amicizie e incontri di Giulio Salvadori, Roma 1962, pp. 51-56, 54).
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te debuttò il diciassettenne Salvadori) «hanno l’ottima idea di rimetterci 60 mila lire». Ed erano poeti di scuola «carducciana», Giovanni Pascoli e Giovanni Marradi, che a Livorno nel 1893 pare si dilettassero di conversazioni antisemite. Si trattava di un classico «antisemitismo di sinistra», che nasceva da «certa blague giacobina, [da] cert’avversione a uomini d’altro censo e ambiente domestico»12, da un fondo plebeo di cui talora ci si compiaceva, oltre che da certe letture canoniche in quegli ambienti come quella di Proudhon. Negli scritti e nelle lettere del giovane Salvadori mancano invece blagues anti-ebraiche di codesto tipo: anche nella polemica contro Alessandro D’Ancona e in quella, particolarmente crudele, contro Giuseppe Revere, il vecchio poeta tardo-romantico triestino di religione ebraica13, non c’è alcun riferimento al loro ebraismo. L’unico cenno significativo al mondo ebraico contiene, certamente, immagini stereotipate (risente di una tradizione letteraria, che va da Shakespeare a Balzac), ma anche indizi di compassione e di ammirazione. Si tratta di un bozzetto in cui lo scrittore ventenne descrive una sua visita al Ghetto di Roma: è l’Ebreo povero che attira la sua attenzione e lo descrive secondo una maniera piuttosto scontata (il disordine lurido del mercato, i costumi tradizionali, che tanto allora colpivano — spesso sfavorevolmente — l’osservatore, gli sguardi taglienti e rancorosi), ma anche bellezze degne di Raffaello e atteggiamenti dignitosi e nobili: Una via lunga e stretta, incassata come un burrone fra case altissime, mi conduce al principio di Via Fiumara. È il Ghetto. Qui tutti gli odori, tutti i colori, tutte le apparenze di miseria che feriscono a tratti per gli altri quartieri di Roma povera, s’accumulano, si fondono, si confondono, producendo un’impressione strana e vivissima. Nelle botteghe aperte, sulle soglie delle case, sulla via stessa, cataste di stracci luridi d’ogni colore, cumuli di vecchiumi e di rottami, di scarpe rotte e di cappelli unti, bisunti, di tutto quello che è lurido, marcio, schifoso. E a un tratto, da qualche mucchio di cenci si vede saltar fuori un bambino biondo e ricciuto, una bambina che ha già nei grandi occhi neri d’adulta tutta l’ardente languidezza orientale. Così, fra le megere dai capelli lanosi arruffati, appare di quando in quando uno di quei visi ovali, puri e sereni che si crederebbero rubati a una Madonna 12 Per tutto ciò cfr. P. TREVES, L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano – Napoli 1962, pp. 176-178; ID., Aspetti e problemi cit., p. 85 nt. 5. 13 I termini essenziali della polemica contro D’Ancona del 1879 (Salvadori aveva diciassette anni!) sono in L 47 nota 1. Ma nella sua critica (di grande rilievo) della scuola “erudita”, Salvadori non coinvolgeva D’Ancona (e Pio Rajna), che «han mostrato di saper fare ben più che delle raccolte di schede» (G. SALVADORI, Eruditucoli, in Domenica letteraria, II, 27, 8 luglio 1883 [SB 215-223, 221]). Per la polemica del 1882 contro Giuseppe Revere, che sarebbe morto il 22 novembre 1889, cfr. VIAN, Scrittore del «Lucifero» cit., che documenta come Salvadori, dopo il suo «rinnovamento», andasse in cerca del vecchio poeta ebreo per chiedergli perdono.
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di Raffaello, se non fossero meno occidentalmente vivi dei raffaelleschi. Ma i più caratteristici sono i vecchi. Ve n’ha qualcheduno giallo terreo, con pochi peli grigiastri sul mento, con gli occhi maligni e taglienti come punte d’acciaio; ve ne sono più altri, bassi e ricurvi, coperti di soprabitoni logori e sporchi e di tube ammaccate, che ricordano nella fronte rilevata e nella lunga barba grigia il tipo tradizionale giudaico. Certe vecchiette sedute e meditabonde sulle loro seggiole zoppe pare abbiano accolto, negli occhiolini grigi, scintillanti dal viso giallo e rugoso, tutta la malizia, tutta la ferocia, tutta la sete di vendetta accumulata per trenta generazioni della loro razza oppressa, impotente a combattere i suoi feroci persecutori. Altre conservano la nobile tranquillità semitica14.
Dunque esiste un «tipo tradizionale ebraico»; dunque quella ebraica è una «razza oppressa», oggetto da sempre di feroci persecuzioni, verso le quali si è mostrata impotente a reagire. Non c’è da meravigliarsi che vi serpeggi una «sete di vendetta» contro la società persecutrice: quale via può percorrere questa «sete», Salvadori qui non lo dice ancora. Nel decennio successivo — come vedremo — la scorgerà nella palingenesi rivoluzionaria. 3. Gli anni dell’“acculturazione” cristiana e il Canzoniere civile (18851889). Si tratta pur sempre — non si deve dimenticarlo — dell’approccio di un ventenne, sia pur precocissimo15: la sua conversione ha luogo nella primavera del 1885, quando è ancora studente universitario (ma insegna già nella scuola secondaria) e sta per compiere ventitre anni. Essa ebbe in quel tempo, in quell’ambiente, un significato molto particolare: sembrò in assoluta controtendenza rispetto a un mondo intellettuale che per lo più era acattolico e areligioso, quando non anticattolico e antireligioso16. 14 FLORIZEL [G. SALVADORI], Mattutino, in Capitan Fracassa, III, 229, 20 agosto 1882, p. 2 (SB 237-241, 240-241). Di un precoce interesse per il mondo ebraico è indice anche l’iscrizione nel suo primo anno d’università (1880-1881) al corso di lingua ebraica tenuto nell’ateneo romano da Ignazio Guidi (VIAN, Giovinezza cit., pp. 75-76). Questo grande studioso era fratello di mons. Augusto Guidi, molto impegnato in un’intensa attività umanitaria nel quartiere di Trastevere, oltre che attivo nella Curia romana. Tracce dei rapporti di Salvadori coi due fratelli sono in L 168 e 342. 15 Stupisce la singolare precocità dell’ingegno di Salvadori (come quella, d’altronde, del suo grande amico Edoardo Scarfoglio): non ancora ventenne, discute già di difficili questioni filologiche e paleografiche con maestri del calibro di Ernesto Monaci, Alessandro D’Ancona, Pio Rajna, Adolfo Bartoli, e con coetanei di grande avvenire come Rodolfo Renier, con risultati tutt’altro che trascurabili: «Gradirei un estratto delle Storie toscane del Salvatori (sic), se l’hai», scriveva D’Ancona a Monaci il 17 settembre 1880, al che Monaci rispondeva il successivo 24 settembre: «Dell’estratto Salvadori non ho alcuna copia, non ricevendone mai nessuna dall’editore. Ora il Salv. si trova a Monte S. Savino (Arezzo), e non so se lo rivedrò prima della fine d’ottobre. Appena lo veda gli dirò il tuo desiderio. È un bravo ragazzo che ha preso quest’anno la licenza liceale» (Carteggio D’Ancona-Monaci, II, a cura di S. COVINO, Pisa 1997, pp. 156-157). 16 Questo aspetto è sottolineato nel breve ma acuto intervento di Paolo Toschi, in Aspetti
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Se apriamo il Canzoniere civile, la sua raccolta poetica pubblicata nel 1889, e concentriamo la nostra attenzione sulla parte in prosa, cioè le sette ampie introduzioni storico-filosofiche alle varie sezioni in cui sono raggruppati i componimenti poetici, ci accorgiamo come tra il 1885 e il 1889 Salvadori abbia rifondato completamente la sua cultura. Il giovane poeta «bizantino» si confronta con nuovi autori, spazia su problemi fino allora inediti: insomma diventa un intellettuale “cattolico”. Importa innanzitutto stabilire a quale tradizione del cattolicesimo italiano egli si ricongiunga. «A molti, oltre i Padri e i Dottori, poeti, filosofi e filologi cristiani moderni (si permetta a chi scrive di nominare principalmente Nicolò Tommaseo, Augusto Conti, Anton Federico Ozanam) appartiene molto di quello che qui è detto», scriveva in conclusione della Prefazione. Aggiungeva poi i nomi del suo direttore spirituale, il padre somasco Lorenzo Cossa, e quello di Antonio Fogazzaro17. Da questi e altri riferimenti presenti nei suoi scritti (Ruggiero Bonghi, il card. Alfonso Capecelatro, il padre Luigi Tosti, Cesare Guasti) è evidente come il neofita si rifacesse alla cultura cattolica che allora gravitava intorno alla Rassegna Nazionale, pubblicata a Firenze dal 1879, a cui più tardi anche Salvadori avrebbe rapsodicamente collaborato. Insomma il suo è da subito un cattolicesimo “conciliatorista”, epigono di quello ”liberale” di metà Ottocento, estraneo all’intransigentismo ormai dominante nel movimento cattolico italiano18. della cultura cattolica nell’età di Leone XIII. Atti del convegno tenuto a Bologna il 27-28-29 dicembre 1960, Roma 1961, pp. 298-299, che aggiunge importanti notazioni sul giovane Salvadori studioso della letteratura popolare. 17 G. SALVADORI, Canzoniere civile, Roma e Milano 1889, pp. 14-15. La Prefazione è datata: Roma, Venerdì Santo del 1889. Per il ruolo che la lettura del Daniele Cortis di Fogazzaro e il successivo rapporto epistolare con lo scrittore vicentino avevano giocato nella sua conversione, cfr. VIAN, Giovinezza cit., pp. 261-264 e passim; per il padre Lorenzo Cossa, cfr. G. SALVADORI, In memoria del p. Lorenzo Cossa, 4 agosto 1916 (1916), poi in ID., Lettere aperte, nuova raccolta a cura di C. VILLANI e N. VIAN, pref. del P.M. Cordovani O.P., Roma 1939, pp. 162-165 (d’ora in poi LA, seguito dal numero delle pagine), ma cfr. anche N. VIAN, Lorenzo Cossa e i Salvadori. Un grande confessore a Roma e penitenti come di casa, in Somascha 14 (1989), 2-3, dicembre 1989, pp. 65-98 [precedentemente in L’Urbe, n.s., 51 (1988), nr. 2, marzo-aprile, pp. 8-19; ibid., nr. 3-4, maggio-agosto, pp. 10-22]. Le superstiti lettere del padre Cossa ai Salvadori (solo due a Giulio) sono state pubblicate a cura di F. MAZZARELLO, Somascha 7-8 (19821983), pp. 118-207. 18 Salvadori si rifaceva consapevolmente al «rivolgimento intellettuale» che si era sviluppato nella Toscana intorno a Giovan Pietro Vieusseux e alle sue riviste, che conosceva principalmente attraverso N. TOMMASEO, Di Giampietro Vieusseux e dell’andamento della civiltà italiana in un quarto di secolo, Firenze 18642 (si veda per tutto ciò, G. SALVADORI, Giulio Mussini [1894], in ID., Liriche e saggi, a cura di C. CALCATERRA, II, “Semina flammae”. Ricordi dei primi studi e testimonianze di storia civile e letteraria, Milano 1933, pp. 134-149, 140-141; d’ora in poi LS, II, seguito dal numero delle pagine). Sull’eredità del cattolicesimo liberale del periodo risorgimentale e sulla Rassegna Nazionale è ancora imprescindibile il saggio di E.
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Qual è l’atteggiamento di questa cultura rispetto al problema ebraico? È più facile rispondere a una tale domanda per il suo prologo risorgimentale: infatti la cultura cattolico-liberale di metà Ottocento è, con poche eccezioni (la più notevole quella di Gino Capponi), largamente filo-semita, o almeno “emancipazionista”. Alessandro Manzoni, i suoi generi Massimo D’Azeglio e Giovan Battista Giorgini, il suo amico Antonio Rosmini, ma anche Vincenzo Gioberti e Raffaele Lambruschini, intorno al 1848 intervengono quasi tutti pubblicamente a favore dell’emancipazione degli ebrei, con scritti che stanno alla pari delle più famose Interdizioni israelitiche di Carlo Cattaneo19. Notevole soprattutto la posizione di Tommaseo, nel suo libro del 1835 Dell’Italia, un testo-base del pensiero politico e sociale di Salvadori. Trattando della politica ecclesiastica dell’Italia futura, lo scrittore dalmata asseriva: La Chiesa inerme; la legge non atea, ma a tutte le religioni uguale; e la Chiesa sarà forte, e la legge sarà cristiana. Se il culto cattolico, in terra in cui vivano o venti milioni di cattolici od una sola cattolica famiglia, verrà disturbato, abbia pena il disturbatore, come se si trattasse del culto acattolico o dell’ebreo. Possano far processioni e sonar campane, e predicare così a tutt’agio cattolici come ebrei; perché la strada è di tutti, a tutti la società concede licenza di fare squillare un corpo sonoro, sia ferro sia coccio, purché non turbi in modo grave la pace a’ vicini. Se in paese cattolico queste facoltà sono al maomettano interdette, in paese maomettano sa-
PASSERIN D’ENTREVES, L’eredità della tradizione cattolica risorgimentale, in Aspetti della cultura cattolica cit., pp. 253-287, in cui (p. 284) si accenna anche a Salvadori. Come anche il repertorio di G. LICATA, La «Rassegna Nazionale». Conservatori e cattolici liberali attraverso la loro rivista (1879-1915), Roma 1968, che contiene l’indice degli articoli e quello dei sommari della rivista: basta un rapido sguardo per verificare il gran numero di saggi su Tommaseo, che era morto a Firenze nel 1874; su Antoine-Frédéric Ozanam, morto nel 1853, «francese ma nato tra noi [a Milano], amico nostro, parlante come nessun altro straniero la nostra lingua, primo grande storico della civiltà moderna e di Dante» (SALVADORI, Luigi Mussini cit., p. 141), che in Toscana aveva lasciato duratura memoria nei suoi viaggi italiani; di e su Augusto Conti, come sugli altri autori citati nel testo. Sulla Rassegna è auspicabile una nuova indagine a tutto tondo, che riprenda e sviluppi i temi presenti nell’indagine di O. CONFESSORE, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La «Rassegna Nazionale» dal 1898 al 1908, Bologna 1971, e in altri successivi interventi della medesima autrice. Ancora molto da dire ha il classico G. GENTILE, Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze 19733: Salvadori, fra l’altro, condivideva con quel mondo il culto per Savonarola, «che io amo e venero quasi come un uomo santo», come scriveva a Ivan Ivanoviç Belozerskij il 7 settembre 1896 (L 241). 19 DE CESARIS, Pro Judaeis cit., pp. 102-103 (Manzoni), 132-137 (Massimo d’Azeglio), 125 (Giorgini), 99-103 (Rosmini), 91-99 (Gioberti), 123-125 (Lambruschini e i cattolici liberali fiorentini). Per le punte antigiudaiche di Capponi, cfr. invece B. DI PORTO, Gino Capponi e gli ebrei: un’antipatia non meditata, in La Rassegna mensile di Israel 34 (1968), pp. 104-110. Per il filosemitismo di Manzoni, cfr. soprattutto F. RUFFINI, La vita religiosa di Alessandro Manzoni, II, Bari 1931, pp. 371-416, sul quale dovremo tornare.
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ranno con apparenza di diritto interdette ai cattolici, e l’intolleranza apparrà, frutto o dovere della vittoria; e l’ossequio più ragionevole sarà l’ossequio meglio armato. Ponete il principio ch’i’ combatto: e a quel modo che il Sant’Uffizio poteva uccidere i maghi, a Robespierre sarà lecito uccidere i preti. Si dirà: sola la religion vera ha privilegio di carcerare e d’uccidere. Se questo è, carcerate e crocifiggete Gesù Cristo: che la sua religione non è certamente la vostra20.
Dunque libertà religiosa e uguaglianza fra i culti; negazione del noto principio che solo la religione «vera» possa godere dei diritti di libertà, ma che essa possa appellarsi alla libertà laddove è minoranza. Ma anche fra i collaboratori della Rassegna Nazionale ben noto è il filoebraismo di un altro grande amico di Salvadori, quale il padre Giovanni Semeria e di un ecclesiastico per cui egli provò sempre grande venerazione, come il vescovo di Cremona, mons. Geremia Bonomelli21; come anche la speciale relazione che gli scrittori della rivista fiorentina intrattennero con Luigi Luzzatti, altro corrispondente di Salvadori. Né va dimenticato che Fogazzaro fu uno degli scrittori italiani che espresse solidarietà a Émile Zola per il suo J’accuse del gennaio del 1898, al culmine dell’affaire Dreyfus, e che nel 1903, insieme ad Arturo Graf e Cesare Lombroso, elevò la sua «protesta civile» contro il pogrom di Kišinëv22. Nelle dense introduzioni alle varie sezioni del Canzoniere civile, Salvadori traccia una storia della “civiltà italiana” e una del pensiero moderno, 20 N. TOMMASEO, Dell’Italia libri cinque, I, a cura di G. BALSAMO-CRIVELLI, Torino 1920, p. 229. Per il filosemitismo di Tommaseo, cfr. B. DI PORTO, Niccolò Tommaseo e gli ebrei: una meditata simpatia, in La Rassegna mensile di Israel 35 (1969), pp. 505-514, ove si ricorda anche la sua memoria del 1848 Diritto degli Israeliti alla civile eguaglianza, rimasta inedita fino al 1933. 21 DE CESARIS, Pro Judaeis cit., pp. 175-179. Secondo Renzo De Felice, l’antigiudaismo cattolico dell’ultimo ventennio dell’Ottocento rimase «appannaggio dei gruppi clericali, intransigenti e dei gesuiti. La grande massa dei cattolici liberali […] respinsero sostanzialmente tali impostazioni della questione ebraica. […] Dagli accenni che si possono rintracciare qua e là nella loro stampa risulta […] chiaramente uno spirito del tutto diverso» e si portano a sostegno alcuni articoli della Rassegna Nazionale (R. DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, nuova edizione ampliata, Torino 1995, p. 41). 22 Per il rapporto fra Luzzatti e la Rassegna Nazionale, cfr. LICATA, La «Rassegna Nazionale» cit., p. 263 e soprattutto R. PERTICI, «Religioni libere entro lo Stato sovrano». Libertà religiosa e separatismo nel pensiero di Luigi Luzzatti, in Luigi Luzzatti presidente del consiglio, a cura di P.L. BALLINI e P. PECORARI, Venezia 2013, pp. 171-257, 194. Il telegramma di Fogazzaro a Zola del 10 febbraio 1898 è in A. FOGAZZARO, Lettere scelte, a cura di T. GALLARATI SCOTTI, Milano 1940, p. 415: «Gloria a Voi, Emilio Zola, […] per la gioia che avete data a quanti amano il giusto e il vero di raccogliersi fraternamente, rotta ogni barriera di lingua, di razza, di parte e di fede, come uomini intorno a un uomo». Per le circostanze, cfr. P. NARDI, Antonio Fogazzaro, Milano 19422, pp. 490-491, che ricorda le perplessità di Crispolti, «presente alla stesura del telegramma», e l’atteggiamento anti-dreyfusardo della stampa cattolica vicentina. Per la Protesta civile contro le stragi di Kiscinew del 1903, cfr. C. G. DE MICHELIS, Il manoscritto inesistente. I «Protocolli dei savi di Sion», Venezia 1998, p. 152.
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ma è necessario qui fermarsi soprattutto sulla filosofia della storia antica da lui elaborata il cui centro è la redenzione. Non si tratta di cercarvi aspetti particolarmente originali: il giovane poeta toscano si dimostra un epigono (probabilmente attraverso la mediazione dell’antiquario e archeologo aretino Gian Francesco Gamurrini) dell’anticlassicismo diffuso in molti ambienti cattolico-liberali dei decenni precedenti. Costoro, in nome del proprio cristianesimo, avevano cercato di liberarsi dalla soggezione verso l’antichità classica, e sottolineato l’inferiorità della morale del paganesimo rispetto a quella cristiana: ne era derivato un marcato distacco dalle virtù della romanità, la condanna dell’espansionismo bellicoso, dell’imperialismo, di una gloria puramente militare. Tutti questi atteggiamenti li ritroviamo anche in Salvadori: in particolare, l’anti-cesarismo e l’attenzione alla vita degli antichi popoli italici, che costituiscono anche lo sfondo storico dei suoi giudizi sulla politica, interna ed estera, del Regno d’Italia in quello scorcio di secolo23. All’origine della storia umana, — scrive Salvadori — il primo sentimen23 TREVES, Lo studio dell’antichità classica cit., pp. 591-826, nei profili dei “neoguelfi” (Manzoni, Capponi, Enrico Bindi, Atto Vannucci, Silvestro Centofanti) e nelle dottissime annotazioni ai loro scritti ma cfr. anche G. CALDERARO, Alessandro Manzoni e il mondo latino e greco, Firenze 1937, pp. 65-143: in Salvadori, come in quelli che Treves chiama i “neoguelfi”, si ha una maggiore apertura al mondo ellenico e il culto per Virgilio, romano “anomalo”. Per Gamurrini, cfr. ora G. M. DELLA FINA, Gamurrini, Gian Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, LII, Roma 1999, pp. 133-135 e il saggio dello stesso Salvadori cit. più avanti alla nt. 25. Per le ricadute politiche dell’antiromanesimo, cfr. F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 19622, pp. 315-323, incentrate sul grande critico della megalomania crispina e studioso della questione contadina, Stefano Jacini, altro eminente collaboratore della Rassegna Nazionale. In qualche modo jaciniane sono le riflessioni di Salvadori dopo la sconfitta di Adua, che costituì anche per lui un trauma duraturo. Scriveva a Luigi Costantini nel marzo 1896: «Ho letto ultimamente alcune lettere intime di Mazzini, del periodo più critico della sua vita, cioè di quello nel quale non cavando profitto dalla riuscita della spedizione di Savoia, s’ostinò nella sua idea della rivoluzione per ottener la giustizia, e quindi si volle mettere al posto dell’unico legislatore di giustizia, sostituendo alla sua croce la legge del sacrifizio superbo. È una lettura utilissima, perché fa intendere come si sia fatta una Italia anch’essa superba. L’idea dell’unità territoriale e della romanità di questa Italia, che viveva da secoli nelle regioni e nei municipi, e aveva, unica fra le nazioni, rinunziato alla conquista e al diritto della forza, ha alterato interamente la sua indole, ha disseccato e avvelenato le più intime sorgenti della sua civiltà. Bisogna dir la verità intera, quando è il caso, perché altrimenti non s’ha il diritto di dirla a una parte. Quest’orgoglio laico fu preceduto da un simile orgoglio sacerdotale. Il Mazzini fu in quella idea l’erede del Machiavelli, che dette la teoria della pratica di Cesare Borgia, che era chi era, cioè, diciamolo pure, il figlio d’un papa. Com’è chiara ed eloquente la giustizia di Dio, chi la sappia vedere nei fatti! Che n’è avvenuto? quella che dalle due prepotenze è rimasta soffocata, è stata l’Italia povera, l’Italia umile, libera ne’ suoi municipi, produttrice in quei centri modesti di civiltà vera e di giustizia, soprattutto l’Italia dei lavoratori delle campagne, soggetta per amore alla Chiesa, e abile a distinguere negli uomini di Chiesa le pretese umane dai diritti divini, l’Italia di s. Francesco in una parola» (L 224-225).
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to religioso ebbe carattere monoteistico: si credeva all’esistenza di spiriti invisibili, benevoli o malevoli, per assecondare o placare i quali si ricorreva alla preghiera e al sacrificio: «Ma, per un profondo pervertimento d’intelletto, la cui spiegazione è in un più profondo pervertimento morale, il culto fu poi per paura indirizzato ai genii ( α ν ς) malefici, quasi a spiriti placabili; che fu forse il primo passo al paganesimo». Gli uomini finirono per specchiarsi in questi spiriti malefici (ché tali restavano, anche quando simboleggiavano le più splendide forze della natura) e facevano prevalere in loro stessi i propri vizi. E, come questi dei inesorabili apparivano placabili solo col sangue, così loro: quindi la legge di guerra, di sangue e di vendetta che si perpetua tra gli uomini singoli, tra le città, tra le nazioni, tra le classi. Quindi tutti gli antichi pagani, col cuore reso duro e insensibile all’orrore del sangue, erano pronti ai sacrifici di sangue e anche di sangue umano; e questi li indurivano maggiormente, li facevano crudeli e omicidi. Un ulteriore passaggio (che era già un inizio di purificazione) fu quello da questo politeismo al panteismo naturalistico. In sue varie manifestazioni, Salvadori presentiva l’avvento del cristianesimo: così nel tema della morte e resurrezione che percorre i misteri orfici, in cui il dolore è via di rigenerazione, così negli spunti profetici di un rinnovamento futuro del genere umano presenti in Virgilio. Nella «favola antica» affiorava dunque un barlume di verità: una concezione del dolore come conseguenza della colpa nella speranza della liberazione. Ora questa verità riluce invece pienamente solo nella tradizione ebraica: «una parola di promessa, nella quale è la spiegazione rivelata del destino umano, che, movendo dal fatto d’esperienza della nostra miseria, ne dà la cagione nella colpa, facendone sperar la fine in una liberazione avvenire: una parola, cioè, universale, che, dando notizia di fatti i quali oltrepassano i confini dell’esperienza, non può essere se non rivelata, e si fa lume di tutta la storia umana, collocandola nell’ordine divino della Provvidenza»: Ma più antica che non nel mondo greco il nuovo culto d’Apollo, viva nella vita di Giuseppe, parlante in Mosè, affidata alle apposite scuole da Samuele, pronunciata di sul trono di David, la parola di promessa, con a fondamento la rivelazione fedelmente serbata, nasceva e sempre più chiara e forte si diffondeva lontano, nel popolo ebreo. Da tutto il popolo alla tribù di Giuda, da questa alla casa di David, la sua stirpe era determinata: re di tutti i popoli, dai Salmi era già presentato come il Giusto che con indicibili patimenti riconduce a Dio i gentili; per Isaia l’uomo dei dolori era già l’Emmanuele, che fa il nuovo patto di Dio col suo popolo, l’agnello che con la sua morte toglie i peccati dal mondo, che pel suo sacrificio sarà glorificato come signore delle nazioni. E, durante il regno dell’ultimo Tarquinio, sotto il quale furono portati a Roma i libri sibillini, Daniele, da Babilonia presso
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a cadere, vedeva gl’imperi assiro-babilonese, persiano, greco e romano uno dopo l’altro passare, e sulle loro rovine fondarsi per non cader mai l’impero del Figliuolo dell’uomo, elevato nel cielo sul trono divino24.
Dunque carattere provvidenziale del popolo d’Israele, che aveva fedelmente serbato la rivelazione, da cui scaturiva una parola eterna di promessa: Gesù Cristo ne era il compimento e la piena rivelazione. Come Tommaseo, anche Salvadori riaffermava l’eterna validità del profetismo ebraico, in cui scorgeva la prima affermazione dei suoi ideali religiosi e morali di cristiano. Molti anni dopo, avrebbe ribadito le ragioni dell’eccezionalità ebraica anche su d’un altro fondamento, quello della «repugnanza al sangue», cioè dell’estraneità non solo alla pratica di sacrifici umani (che invece Salvadori riteneva non infrequenti nell’esperienza romana, anche dopo il celebre senatoconsulto del 96 a. C. «ne homo immolaretur»), ma anche a quelli degli animali, «tanto, che solo in tempi abbastanza tardi, cioè dopo l’esodo dall’Egitto, lasciò prescrivere olocausti e vittime; poiché precetti intorno ai sacrifizi di sangue non furon dati agli Ebrei altro che dopo la loro caduta nell’idolatria, cioè dopo l’adorazione del vitello d’oro; quasi simili sacrifizi fossero istituiti per il minor male, affinché il popolo incline e pronto com’era ai sacrifizi di sangue, li offrisse piuttosto a Dio che agl’idoli». E aggiungeva: E sempre si osservava che il sangue non venisse in uso né dei sacerdoti né degli offerenti; e quindi si versava alla base dell’altare, dove correva l’acquedotto purificatore. Mentre gl’idolatri bevevano il sangue delle vittime e ne mangiavano l’adipe, com’è detto nel Deuteronomio (XXXII, 38: sec. l’interpretaz. di S. Tommaso, I, IIae, CII, ad 8). E presso gli Ebrei questo divieto era espressamente posto a fine di educazione a vera umanità. Poiché l’uso del sangue, anche degli animali, era proibito, acciocché gli uomini avessero in orrore l’effusione del sangue umano: sicché si dice nella Genesi: “Non mangerete la carne col sangue; poiché farò vendetta del sangue delle vostre vite” (chiunque l’abbia versato). E si noti che questo è detto quando agli uomini, oltre l’erbe e i frutti della terra, vennero assegnati in cibo anche gli animali, nella nuova benedizione del genere umano data a Noè e ai suoi figli (Gen., IX, 4-6). […] Le leggi rituali mosaiche sono dunque informate da un’idea d’educazione umana e divina: miravano cioè, non solo a far sentire la riverenza del sangue, la stima della vita umana, ma anche l’inestimabile valore del Sangue di Cristo; quasi in quelle prescrizioni di astensione e di reverenza fosse già un’ombra del paragone espresso da s. Paolo: Quanto magis sanguis Christi…25. 24
SALVADORI, Canzoniere civile cit., pp. 28-29, 48, 52-53. 25 ID., Gian Francesco Gamurrini. Ricordi [1924], in ID., Liriche
e saggi, a cura di C. CALIII, “In fide et veritate”. Saggi e memorie dell’ultima milizia, Milano 1933, pp. 248277, 266-268; d’ora in poi LS, III, seguito dal numero delle pagine
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È difficile stabilire se questo riferimento di Salvadori fosse intenzionale, ma quanto scriveva sulla «riverenza del sangue» presso gli ebrei e sui divieti biblici che lo riguardavano era ciò che gli ambienti ebraici avevano sempre risposto alla secolare accusa di «omicidio rituale», rilanciata a fine Ottocento da alcuni esponenti del nuovo antisemitismo e molla di molti pogrom che avevano insanguinato l’Europa orientale nel trentennio precedente la Grande guerra26. 4. Il problema religioso in Italia e l’ebraismo (1889-1894) Negli anni successivi, Salvadori — con l’amico Filippo Crispolti e altri amici più giovani come Gaetano De Sanctis e il padre Semeria — si propose di promuovere un moto di inserimento degli intellettuali cattolici nella vita culturale italiana sulle orme di un grande scrittore di successo come Antonio Fogazzaro, l’esempio vivente «che si può esser passati per tutte le vicende della crisi moderna con piena partecipazione di sentimento, e pur riuscire alla vita nova in una fede antica com’è la cristiana»27; e in un dialogo ravvicinato con un politico-intellettuale come Ruggiero Bonghi, l’autore della legge delle guarentigie, ma anche l’amico di Manzoni e di Rosmini, lo storico di Gesù e di Francesco d’Assisi, un liberale non anticlericale, anzi aperto alle ragioni della fede (nonostante che alcune delle sue opere “religiose” fossero state messe all’Indice)28. Come accenneremo, questo inserimento presupponeva — a suo modo di vedere — un moto di riforma religiosa all’interno del cattolicesimo italiano, di cui dovevano farsi promotori e protagonisti una generazione nuova di laici, estranea al tradizionale movimento cattolico. Il loro compito sarebbe stato di elaborare un diverso atteggiamento di fronte alla modernità e quindi anche alla politica italiana: ma questa doveva a sua volta essere modificata nei suoi indirizzi fondamentali, quali si erano affermati nella soluzione monarchico-unitaria del moto risorgimentale e nell’opera della classe dirigente allora salita al potere. 26 Per il ricupero del tema dell’«omicidio rituale» da parte del prete praghese August Rohling nel suo Der Talmudjude del 1871, cfr. G. L. MOSSE, Il razzismo in Europa dalle origini all’Olocausto, Roma – Bari 1980, p. 152. 27 F. M. PASANISI e G. SALVADORI, Il problema religioso in Italia. Lettere pubbliche ad Antonio Fogazzaro, in Rassegna Nazionale 15, vol. LXXIV, 1° novembre 1893, pp. 122-139, poi, col titolo Il problema religioso in Italia. Ad Antonio Fogazzaro, in LA 134-157, 135. Il significato dell’azione di Salvadori in quegli anni è stato ben colto da TREVES, Lo studio dell’antichità classica cit., pp. 1216-1217. La centralità di Salvadori nell’intellettualità cattolica romana degli anni Novanta è sottolineata da G. SEMERIA, I miei tempi, volume II de I miei ricordi oratori, Milano 1929, pp. 75-81 e passim. 28 G. SALVADORI, La riforma cattolica in Italia. Lettera all’on. Bonghi, in La Cultura, n.s., II, 50, 11 dicembre 1892, pp. 467-472, poi in LA 118-128 ma cfr. Ruggero Bonghi, in L’Ora presente 2 (1896), pp. 52-61. Sulle polemiche letterarie che Salvadori aveva avute con lui fra il 1882 e il 1883, cfr. VIAN, Giovinezza cit., p. 157.
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Era in questa prospettiva che Salvadori tornava a parlare dell’ebraismo: non di quello biblico, come aveva fatto negli anni precedenti, ma di quello contemporaneo e del ruolo che giocava nella situazione italiana ed europea. Le sue posizioni acquistano particolare rilievo se le poniamo, sia pure rapidamente, a confronto con alcuni orientamenti, che — sulla cosiddetta questione ebraica — erano emersi all’interno del mondo cattolico dalla metà degli anni Ottanta. Nel 1886 — com’è ben noto — era uscita La France juive di Édouard Drumont, che nel 1892 aveva fondato La libre parole, l’organo dell’antisemitismo francese. Nel 1889, lo stesso Drumont aveva tradotto in francese, rendendolo quindi fruibile dal pubblico colto dell’Europa occidentale, Der Talmudjude (1871) di August Rohling, che costituiva una sprezzante liquidazione dell’ebraismo come religione (e fra l’altro — lo abbiamo accennato — rilanciava l’accusa di omicidio rituale)29. Non sappiamo fino a che punto Salvadori fosse a conoscenza di questo movimento francese30, ma certamente rientrava fra le sue possibili letture il noto saggio pubblicato dalla Civiltà cattolica nel 1890, Della questione giudaica in Europa. Per la rivista dei gesuiti italiani, esisteva una questione ebraica in Europa, che non nasceva da odio di religione e di stirpe, ma dal fatto che l’ebraismo aveva voltato le spalle da secoli alla legge mosaica, sostituendola col talmudismo, che contraddice ai principi più elementari dell’etica naturale. Infatti il suo nucleo centrale consiste nella certezza che «gl’israeliti, non solamente formano la razza superiore del genere umano, tutto composto di razze a loro inferiori; ma che, di pien diritto divino, a loro unicamente compete il possesso dell’universo, il quale un giorno dovranno godere». Per cui, in ogni paese, «il giudaismo è forza sempre straniera e sempre nemica» e tende «a sopraffarne gli abitanti ed a predominarli, per virtù dell’intrinseca sua costituzione dogmatica e civile, religiosa, giuridica e nazionale». Questo disegno di dominio (portato avanti attraverso i mezzi 29 Per una scelta antologica dei testi fondamentali dell’antisemitismo di fine Ottocento ricorro a R. PIPERNO, L’antisemitismo moderno. Antologia, pref. di R. DE FELICE, Bologna 1964, pp. 79-92 (per Drumont), pp. 93-95 (per Rohling). Si ricordi che il successivo libro di Rohling Der Staat des Zukunft sarebbe stato condannato dalla Chiesa e messo all’Indice nel 1897. Per la situazione italiana, cfr. DE FELICE, Storia degli ebrei italiani cit., pp. 27-43, che sottolinea la ripresa dell’antigiudaismo cattolico dalla metà degli anni Ottanta. 30 Ma cfr. infra, nt. 142. Nella già cit. lettera a P. Desjardins del 24-25 giugno 1894, Salvadori cita alcune «bellissime parole di Drummond»; in nota, Nello Vian ipotizza che si tratti «probabilmente» di Drumont, aggiungendo che costui «si rese famoso per il violento antisemitismo, più che per le parole di carità citate» (L 182 nt. 19). In realtà quelle parole sono di Henry Drummond (1851-1897), pastore evangelico scozzese, di cui è ancora molto noto il libretto del 1890 The Greatest Thing in the World, un commento all’inno alla carità contenuto nella prima lettera paolina ai Corinzi. È riproposto, con qualche modifica, in P. COELHO – H. DRUMMOND, Il dono supremo, Milano 20074: fra la spiritualità di Drummond e quella di Salvadori esistono effettivamente molte affinità.
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dell’usura, della finanza, etc.) è stato largamente favorito dall’emancipazione di cui gli ebrei hanno progressivamente goduto nel secolo successivo alla rivoluzione francese, tanto che si può dire che gl’immortali principî di libertà, fraternità e uguaglianza abbiano giovato sostanzialmente soltanto a loro. È vero che hanno subìto persecuzioni e tuttora qua e là le soffrono: «ma queste sono state e sono conseguenze della loro prava pazzia» e hanno un carattere di perpetuità e di universalità che deve far riflettere. Di questa vicenda il caso italiano era esemplare: «dal 1859 in qua, [l’Italia] è divenuta un regno di ebrei, che hanno saputo gabbare la moltitudine dei grulli, spacciandosi pe’ più sfegatati patrioti della Penisola». Nel nuovo Regno, «quasi tutto il giornalismo liberale di ogni grado per diretto o per indiretto, è manipolato da’ giudei. […] Che dire poi del pubblico insegnamento? Siamo contornati da ebrei nelle università, da ebrei nei licei, da ebrei nei ginnasi, da ebrei nelle scuole elementari». Questo disegno di dominio ha trovato uno strumento adeguato nella massoneria, in cui è forte la presenza ebraica e con cui esiste un’identità di intenti. «I legami che stringono il moderno giudaismo al massonismo sono ora così evidenti, che sarebbe ingenuità negarli in dubbio». Dunque chi sosteneva che era in atto una guerra fra le società europee e la lobby ebraica, non aveva torto: ma come condurla? La Civiltà Cattolica disapprovava i mezzi che allora venivano invocati dagli antisemiti: la confisca dei loro beni e l’esilio. Essa giudicava opportuno un ritorno al passato: era necessario por fine all’uguaglianza civile fra i cittadini di diversa religione, considerare gli ebrei come una minoranza nazionale da regolare con leggi diverse da quelle previste per la maggioranza: «leggi tali, che al tempo stesso impediscano agli ebrei di offendere il bene dei cristiani, ed ai cristiani di offendere quello degli ebrei». È da notare che la rivista giudicava vani i progetti di «conversione di Israello al cristianesimo», che erano circolati in molti ambienti cattolici (specie quelli giansenistici e post-giansenistici fino a Manzoni) e che avevano circondato di un alone escatologico e apocalittico il ritorno di Israele alla Chiesa: progetti che — sia pure in una prospettiva “conversionistica” — imponevano un atteggiamento di rispetto nei suoi confronti. Come anche respingeva la giustificazione dell’uguaglianza civile (insomma la fine del ghetto e della segregazione) che circolava in altri ambienti cattolici, come una via di assimilazione della minoranza ebraica e di un suo progressivo aprirsi alla religione della maggioranza del popolo in mezzo al quale viveva31. Nel 1892 in Francia si erano udite due voci cattoliche, molto diverse fra 31
PIPERNO, L’antisemitismo moderno cit., pp. 96-145; DE FELICE, Storia degli ebrei italiani cit., pp., 37-40 (la maggior parte dei saggi anti-ebraici della Civiltà Cattolica furono opera del padre Raffaele Ballerini).
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loro, ma entrambe radicalmente critiche di Drumont e del suo antisemitismo: quella di uno scrittore scandaloso e violento come Léon Bloy e l’altra di un pacato storico cattolico-liberale come Anatole Leroy-Beaulieu. Per quest’ultimo gli ebrei erano le vittime indirette dell’anticlericalismo che circolava nella società post-rivoluzionaria, perché l’intolleranza provocava intolleranza e i cattolici indirizzavano contro gli ebrei gli odî che contro di loro rivolgevano gli anticlericali. Al contrario, la solidarietà di cattolici e di ebrei avrebbe potuto far fallire insieme l’anticlericalismo e l’antisemitismo. Per presentare l’antisemitismo come un effetto perverso dell’anticlericalismo e opporgli il fronte comune delle due religioni, Leroy-Beaulieu doveva ridimensionare il ruolo primario che — secondo molti (semiti e antisemiti) — gli ebrei avevano svolto nella nascita del libero pensiero, dello spirito rivoluzionario e della laicità. Perciò negava quanto sostenuto, per esempio, da James Darmesteter, allievo di Renan e professore di persiano al Collège de France, che l’ebreo sia stato negli ultimi secoli «le docteur de l’incrédule; tous les révoltés de l’esprit viennent à lui dans l’ombre ou à ciel ouvert». Questo processo di secolarizzazione ha semmai disgregato lo stesso ebraismo: nell’ebreo secolarizzato, l’ideale messianico si è ormai convertito in umanitarismo e in progressismo, ma anche su questo terreno la distanza dal cattolicesimo non è incolmabile. Certo i vangeli mettono in guardia contro l’utopia («Il mio regno non è di questo mondo», dice Gesù), ma, come la recente enciclica leonina Rerum novarum stava a dimostrare, la Chiesa spinge i cristiani all’impegno nel mondo, per realizzarvi il regno della pace e della giustizia. Anche lo storico francese, inoltre, ammetteva l’esistenza di un «particolarismo» ebraico, ma lo faceva risalire allo spirito di clan tipico delle minoranze religiose, specie se a lungo perseguitate, e rilevava che codesto spirito di solidarietà sopravviveva spesso alla perdita della fede religiosa. Infine non escludeva che gli ebrei europei mirassero, prima o poi, alla ricostituzione di uno Stato ebraico in Palestina, ma vi sarebbero confluiti gli ebrei dell’Europa orientale, che erano ancora sottoposti a soprusi e persecuzioni, piuttosto che quelli occidentali, di cui semmai prevedeva un processo migratorio verso gli Stati Uniti32. 32 A. LEROY-BEAULIEU, Israël chez les nations, Paris 18933, pp. 50-56, 58 (per la citazione di Darmesteter), 336-347 (messianismo e idea di progresso), 348-381 (il “particolarismo”), 398-413 (l’idea di “Stato ebraico”). Questo libro riprendeva una serie di saggi pubblicati sulla Revue des Deux Mondes allora diretta da Ferdinand Brunetière, rivista che prestò allora molto attenzione a questi temi, a cominciare dalla severa recensione che il suo direttore riservò alla France juive di Drumont nel fascicolo del 1° giugno 1886 (per tutto ciò, cfr. COMPAGNON, Connaissez-vous Brunetière? cit., pp. 35-49 e passim). Sulla figura di Leroy-Beaulieu come scienziato sociale molte notizie sono in G. QUAGLIARIELLO, Ostrogorski, gli anni di fine secolo e l’avvento della macchina politica, in M. Y. OSTROGORSKI, La democrazia e i partiti politici, Milano 1991, pp. 7-96.
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Invece i vaticini di Bloy, ossessionato (come il giovane Salvadori) dal povero fra gli ebrei, esplicitamente antimoderno e apertamente anti-giudeo, ribadiscono tuttavia la grandezza storica e il ruolo provvidenziale degli ebrei: «La loro triste carne, per così tanti secoli refrattaria a ogni mescolanza, è più che sufficiente a indicarci la loro prodigiosa eccezionalità in seno al genere umano. Ciò non toglie che sia il Ceppo di Nostro Signore Gesù Cristo, e pertanto riservato, inestirpabile, immortale — orribilmente potato, certo, all’indomani del solenne “Crucifigatur”, ma intatto alla base, con le radici che aderiscono ai più intimi recessi della Volontà divina. […] conviene chiedersi una buona volta, a faccia a faccia con le Tenebre, se nel Popolo Orfano, condannato in tutte le assise della Speranza ma che, nel giorno fissato, avrà forse il diritto di ricorrere in appello, non si nasconda dopotutto, sotto specie di un’ignominia senza pari, un qualche mistero da adorare infinitamente»33. A suo modo, Bloy cercava di restituire agli ebrei un’incomparabile dignità storica: riproduceva tutti gli stereotipi antigiudaici del cristianesimo, prima di liberarli in un profetismo filo-giudaico. Il suo franco e arcaico cattolicesimo era «antigiudaico e filo-semita, a seconda che si guardi all’esteriorità delle espressioni o alle intenzioni che esse celavano», come avrebbe detto Proust del barone di Charlus. Ma ora passiamo a Salvadori. La sua analisi più diffusa sul problema ebraico in Italia è contenuta in uno scritto pubblicato nel novembre del 1893 sulla Rassegna Nazionale, firmato insieme all’amico editore Francesco Maria Pasanisi, ma di fatto tutto di sua mano34. Si tratta — va detto subito — di un testo per molti rispetti di grande rilievo, di cui dovremo per forza qui semplificare le argomentazioni. Salvadori tracciava con mano sicura una storia religiosa del XIX secolo, in cui il 1848 costituisce un punto di svolta. Nei trent’anni precedenti, nell’età della Restaurazione, si era sviluppato in Europa un grande risveglio religioso: era nato in Germania, intimamente legato all’idea di nazione 33 L. BLOY, La salut par le Juifs (1892), trad. it. Dagli ebrei la salvezza, con un saggio di G. CERONETTI, Milano 1994, pp. 32-34: per la polemica di Bloy contro Drumont, ibid., pp. 17-25. Ripubblicandolo alla fine del 1905, Bloy definiva il suo libretto «la più energica e urgente testimonianza cristiana in favore della Razza Primogenita» (p. 12) e lo dedicava a Raïssa Maritain, un’ebrea che poi si sarebbe convertita. Proprio R. MARITAIN, Les grandes amitiés (1944), trad. it. Le grandi amicizie, Milano 19662, pp. 105-115, ha fornito una lettura ricca di chiaroscuri del volumetto di Bloy. 34 Il problema religioso in Italia cit., in LA 134-157. Da vedere le pp. 131-133 per la storia del testo, che doveva essere seguito da una seconda parte, poi mai pubblicata, e che inizialmente era intitolato Tesi cattoliche. Sulla figura di Pasanisi (1852-1905), funzionario ministeriale, ma anche — per alcuni anni — editore, notizie in L 171 e in TREVES, Lo studio cit. pp. 1216, 1239, che ricorda come iniziasse la sua attività di editore nel 1891, col primo fascicolo della Storia greca di K. J. Beloch e la portasse avanti con un programma editoriale di orientamento anti-positivistico.
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e si era manifestato come idealismo in filosofia e romanticismo in letteratura. Questi movimenti si erano riprodotti anche in Italia, «ma temperati, nei compromessi ontologici e nei romanzi e nei drammi storici». I compromessi ontologici sono le filosofie di Rosmini e Gioberti (compromessi fra idealismo tedesco e ontologia cattolica), i romanzi e i drammi storici, quelli di Manzoni. Salvadori ne dava un giudizio largamente positivo: «tanta fu la sanità, la forza e l’altezza dei principali ingegni che in Italia seguirono il nuovo moto, che poco mancò non gli cambiassero interamente natura, e, conciliando la libertà e l’obbedienza, non ci dessero anticipatamente risolto il problema che affatica questo secolo alla sua fine». Questo è il Risorgimento di Salvadori: quello degli anni Quaranta, di Gioberti e di Balbo, che puntava a risolvere la questione nazionale in sintonia con le caratteristiche di lungo periodo della storia d’Italia: il carattere cattolico e il policentrismo, da cui l’ipotesi federalistica35. Furono gli insuccessi del ’48 a mettere in crisi tutto questo quadro. Salvadori anticipava ad allora l’inizio della crisi religiosa della cultura italiana (ed europea), che di solito si fa coincidere con la diffusione del positivismo nel decennio successivo, e indicava come esemplari le vicende di Ippolito Nievo e quella, molto più clamorosa, del prete Cristoforo Bonavino, divenuto poi Ausonio Franchi. Insomma il fallimento del ‘48 preparò la miscredenza dei decenni successivi. La soluzione monarchico-unitaria del 1859-1861 risultò così — a suo giudizio — molto meno “moderata” di quanto comunemente si pensi. L’unitarismo mazziniano, che vi prevalse, non poteva essere realizzato se non con una serie di guerre e di rivoluzioni; inoltre si rifaceva esplicitamente all’eredità di Roma e quindi conteneva una potenziale aspirazione alla politica di potenza: «Indipendentemente dalla volontà de’suoi iniziatori, dei quali solo alcuni n’erano consapevoli, essa in fondo fu una rapida demolizione di tutto il passato. Il nuovo regno non respinse solo quello che del passato, per testimonianza concorde di tutti gl’intelligenti, era morto, conservando e apparecchiando a nuova vita l’imperituro, che era, come sempre, buono a dar frutto; ma tutto senza distinzione quello ch’era eredità degli antichi». Questo tratto «giacobino» della nuova classe dirigente si era rivelato 35 LA 144-145. Colpiscono le non poche assonanze fra le brevi pagine di Salvadori e il ben più vasto disegno tracciato da Giovanni Gentile nel primo capitolo (Del pensiero italiano dal 1815 al 1830) della sua tesi di laurea su Rosmini e Gioberti pubblicata nel 1898 (G. GENTILE, Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento, Firenze 19583, pp. 3-42); comune ad entrambi la ricerca di una terza via fra il giacobinismo e l’Illuminismo settecentesco da una parte, e la polemica antimoderna del cattolicesimo “reazionario” della Restaurazione dall’altra; o, come diceva Salvadori, la conciliazione della libertà e dell’obbedienza.
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con maggior forza dopo l’avvento al potere della Sinistra e soprattutto con la politica crispina: Così il Giacobinismo nuovo e gli avanzi dell’antico, mal trattenuti da un liberalismo di mezzi termini impotente a frenarli, ora servendo ora combattendo, fanno in ogni modo avanzar sempre per la via della guerra anticristiana uno Stato fatalmente democratico, che non di rado è alle mani di uomini legati da un proposito d’odio: ed ecco l’esercito raccoltosi nel nostro paese, non già contro pure forme, ma contro la parte più vitale del Cristianesimo vivo. Uomini educati al vecchio o al nuovo Giacobinismo, o senz’alcun principio obbligati alla parte dell’odio, divenuti i padroni della cosa pubblica, hanno bandito, o hanno fatto il possibile per bandire, la religione dallo Stato, dalla Scuola e anche dalla Famiglia, come cosa morta o moribonda. E la politica religiosa, se per un certo tempo è stata indeterminata, senza criteri direttivi e senza fini chiari e precisi, è poi divenuta risolutamente ostile36.
Crispi era un ex mazziniano, quindi un uomo della rivoluzione, fautore di una politica di potenza, massone e “gallofobo”: un concentrato di quanto il neo-cattolico Salvadori avversava. La sua politica ecclesiastica era lontana dal separatismo cavouriano: puntava a una laicizzazione integrale della società italiana. Si stava insomma organizzando un vasto fronte anticattolico, di cui facevano parte gli atei conclamati e le logge massoniche. Il duro attacco di Salvadori alla massoneria aveva certamente alle spalle le encicliche pontificie degli anni precedenti37, ma poggiava anche su alcuni dati di fatto che non sfuggivano ai contemporanei: le numerosissime e clamorose manifestazioni verbali e di piazza (come l’inaugurazione a Campo de’ Fiori del monumento a Giordano Bruno del 1889), il fallimento del tentativo di conciliazione nel 1887, nel 1888 la destituzione del sindaco di Roma Torlonia e la sconfitta dei clericali nelle successive elezioni amministrative, i provvedimenti governativi sulle decime sacramentali, sulle Opere Pie e gli articoli 182-184 del nuovo codice penale Zanardelli38. Tutta 36
LA, 148-152. Leone XIII pubblicò tre encicliche anti-massoniche: Humanum genus, 1884; Inimica vis. De Secta massonica in Italia, 8 dicembre 1892, rivolta all’episcopato italiano; Custodi di quella fede. La massoneria in Italia, 8 dicembre 1892, rivolta al popolo italiano. Cfr. G. MICCOLI, Leone XIII e la massoneria, in Storia d’Italia, Annali 21, La Massoneria, a cura di G. M. CAZZANIGA, Torino 2006, pp. 193-243, dove si sottolinea che, se l’ipotesi del complotto massonico rappresenta uno dei grandi temi della polemica cattolica per tutto l’Ottocento, nondimeno dopo il 1876 in Italia si era effettivamente operata una saldatura fra la classe di governo di Sinistra e i vertici massonici. Per il rapporto fra la massoneria italiana e il mondo ebraico, cfr. F. SOFIA, Gli ebrei risorgimentali fra tradizione biblica, libera muratorìa e nazione, ibid. pp. 244-265. 38 Sulla politica ecclesiastica della Sinistra, cfr. A. C. JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 19714, pp. 329-359. Gli articoli 182-184 (Dei delitti contro la pubblica amministrazione) punivano il ministro del culto che, nell’esercizio delle sue funzioni, pub37
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questa politica — per lui — aveva lo scopo di bandire «la religione dallo Stato, dalla Scuola e anche dalla Famiglia, come cosa morta o moribonda» e ad essa la Massoneria italiana aveva costantemente e pubblicamente assicurato il suo appoggio39. Ora questo fronte anticattolico, secondo Salvadori, aveva anche una componente ebraica: si tratta del giudizio meno lusinghiero che appare — sul problema — nei suoi scritti pubblici e conviene esaminarlo attentamente. Scrive: Ma, per intender bene i diversi elementi che entrano nella lotta ond’è agitata la nostra Società, bisogna tener presente che v’ha tra noi un popolo, il quale, mentre non s’è affatto affratellato con quelli che in fondo l’alimentano del loro lavoro, è però, nella parte che pensa, posseduto da quest’idea dell’umanità indipendente e solo da sé stessa dirigentesi ad un qualsiasi suo fine: il popolo ebreo. Questo popolo sempre grande, perduta, tranne in pochi, ogni speranza nella resurrezione ad una vita immortale e quindi offuscata quella pura idea di Dio che fu anticamente sua guida e sua forza, ha messo la potenza e la tenacia paziente dell’antica fede e dell’antica speranza a servigio d’un’avidità di dominio e di godimento quaggiù, ostinata e insaziabile. Quindi il suo materialismo maravigliosamente imperterrito e costante. E quindi anche s’intende come per molti di quel popolo, la mèta più o meno consapevolmente prefissa sia la demolizione di tutto l’edifizio sociale cristiano per istabilire sul terreno sgombro l’adorazione dell’umanitarismo. E questa parola anch’essa quanto sia sincera, nella parte di quel popolo più procacciante e zelante, si vede dal fatto ch’esso non s’affratella agli altri né di sangue né di lavoro, ed è quindi la consorteria più numerosa e potente che sia al mondo.
Emergono una serie di elementi ricorrenti nella coeva polemica gesuitica e cattolico-intransigente: quello ebraico è un popolo a parte, non assimilato, che vive del lavoro degli altri e forma la consorteria più numerosa e potente che sia al mondo. Ma (come in Bloy), in Salvadori persiste l’ammirazione anche di fronte al suo traviamento: questo popolo è pur «sempre grande». Soprattutto lo scrittore toscano lamenta la perdita dell’antica fede, il processo di secolarizzazione che ha investito le élites ebraiche: esse blicamente biasimasse o vilipendesse le istituzioni, le leggi dello Stato o gli atti dell’autorità o che eccitasse a tale vilipendio. 39 Nel maggio 1890, il gran maestro Adriano Lemmi, dichiarava all’assemblea del Grande Oriente d’Italia che molti progetti che la massoneria aveva caldamente sostenuti si erano tradotti in leggi dello Stato o comunque avevano trovato concreta attuazione, come da ultimo la riforma delle opere pie attuata da Crispi. Tra il 1892 e il 1893, lo stesso Lemmi aveva compiuto un lungo viaggio per l’Italia, con lo slogan Creare e dirigere l’opinione pubblica, indicando gli obiettivi della sua organizzazione: l’abolizione delle guarentigie previste dalla legge del 1871, la precedenza obbligatoria del matrimonio civile su quello religioso, il divorzio, l’esclusione dell’insegnamento del catechismo dalle scuole elementari (F. CONTI, Storia della massoneria italiana dal Risorgimento al fascismo, Bologna 2003, pp. 128-135).
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hanno trasferito l’antica speranza profetica su d’un piano meramente storico, trasformandola in un diffuso materialismo e in un umanitarismo ateo. Che gli ebrei, che quasi tornavano alla luce dopo secoli di ingiustizia, fossero naturalmente tra i leader radicali dell’Europa era un giudizio (o, se si vuole, un pregiudizio) allora largamente diffuso, e non solo nel mondo cattolico. Si trattava di un pregiudizio che (come talora capita) isolava e ipostatizzava alcuni dati di fatto: «Per ragioni comprensibili, dato il loro passato, — scrive Owen Chadwick — ne vediamo molti alla guida di movimenti rivoluzionari, anche perché erano tradizionalmente dotati, come popolo, di un grande amore per i libri e un’inclinazione connaturata per il pensiero filosofico. L’influenza del giudaismo, da poco emancipatosi, non è da scartare a priori nella riflessione sulla nascita dello Stato secolare. Dal momento che le divisioni di carattere religioso li avevano tenuti in condizione subordinata, essi erano disposti a metter in discussione l’intera tradizione religiosa europea»40. Come in Leroy-Beaulieu, il giudizio negativo di Salvadori cadeva dunque sull’ebraismo che aveva perduta l’antica fede e si era secolarizzato, diventando a sua volta agente di secolarizzazione. E qui si innestava un altro motivo, diffuso nella polemica cattolica: il suo legame con la massoneria, che sarebbe «una bandiera attorno alla quale si raccolgono in tutto il mondo fraternamente ebrei e disertori cristiani»41. In base alla sua analisi, la Civiltà Cattolica — come abbiamo visto — aveva concluso che era in corso una guerra e che era necessario ricorrere ai ripari, proponendo nuove “interdizioni israelitiche”. Il ragionamento di Salvadori resta invece su d’un piano eminentemente religioso e ribalta il tipo di risposta. Gli ebrei secolarizzati, materialisti e umanitari, saranno anche nemici della Chiesa, ma — questo era il nucleo forte del suo pensiero — la Chiesa non li deve trattare come tali: E uomini restano, presi ad uno ad uno, anche coloro che hanno parte a dirigere il moto, meno i pochi nei quali la menzogna e l’odio diventati quasi una seconda natura pare abbiano cancellato l’impronta della dignità umana. Ma, tolti i loro ordinamenti in corpi stretti da un legame empio non giustificabili mai, anch’essi, e giacobini e settari ed ebrei, son designabili con quella grande parola, prossimo, che non conosce tra gli uomini divisioni umane di sorta alcuna.
40 O. CHADWICK, The Secularization of the European Mind in the Nineteenth Century (1985), trad. it. Società e pensiero laico. Le radici della secolarizzazione nella mentalità europea dell’ottocento, pref. di F. BOLGIANI, Torino 1989, p. 67. 41 Nella giunta eletta nel maggio 1893 e composta da Adriano Lemmi, Ernesto Nathan, Ettore Ferrari, Achille Ballori, Carlo Meyer, Rinaldo Roseo e Luciano Morpurgo, gli ebrei erano due: Nathan e Morpurgo (CONTI, Storia della massoneria italiana cit., p. 136).
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Non sono mai giustificabili le organizzazioni semi-segrete a cui talvolta si affiliano, ma presi ad uno ad uno, gli ebrei (come i giacobini e i settari) restano uomini e il cristiano li deve considerare come «prossimo», senza introdurre nell’umanità divisioni o gerarchie. Erano concetti ripetuti anche da Leone XIII, ma Salvadori ne fa il perno dei suoi ragionamenti: chi è infatti il nostro prossimo? A questa formidabile domanda, così rispondeva nel 1895: Chiunque tu trovi che abbia bisogno del tuo aiuto, parli o non parli la tua lingua, partecipi o non partecipi le tue idee. Chi passa accanto all’infelice e, potendo, non lo soccorre, o non potendo soccorrerlo, non gli dice almeno una buona parola, tradisce la carità. E allora non gli giova, ad evitar la condanna di Dio e degli uomini, né la religione, per quanto vera, ch’ei professa, né l’abito quantunque sacro e santo che indossa. Ma chi, incontrandosi in una sciagura la risente in sé stesso per compassione, e quanto è da sé la solleva, la solleva senza che verun motivo speciale di simpatia lo attragga, senza che ci sia da ripromettersi o lode di uomini o riconoscenza dal beneficato, la solleva perché è sciagura, sciagura d’uomo, di creatura di Dio, intende l’amore e per la via dell’amore cammina verso la luce.
Salvadori conosceva l’obiezione che spesso viene rivolta a questa impostazione: che l’amore per gli erranti, il considerarli «prossimo», può indurre a mettere in secondo piano il culto per la «verità». Ma egli riteneva che i cristiani dovessero sfuggire all’aut aut fra amare in modo esclusivo la verità (facendosi «un dovere di odiare chi è o ne sembra privo») o di «condiscendere con l’affetto verso gli erranti» col rischio di «rattiepidirsi nell’amor santo del vero». E indicava ancora una volta come esemplare il comportamento di Gesù Cristo: Ma Gesù, e questo è in lui ammirabile e deve a noi servire d’esempio, sa mantenere tra la mente ed il cuore un perfetto equilibrio. Mentre noi, se amiamo la verità, ci facciamo spesso un dovere di odiare chi è o ne sembra privo, e se condiscendiamo con l’affetto verso gli erranti, ci rattiepidiamo nell’amor santo del vero, Gesù accoppia in sé, in modo incomparabile, la pienezza della verità e un amore tenero e immenso per gli erranti. E l’amore lo fa giusto innanzi tutto portandolo a riconoscere e lodare il bene ovunque esso si trovi. Così alla religione sua egli ha dato una intonazione larga e comprensiva, la capacità divina di trovare dappertutto il bene, e dovunque lo trovi assimilarselo, — il bene la cui pratica non può certo dispensarci dall’amore del vero, ma non può neanche dal più sicuro e tranquillo possesso del vero essere supplita42.
Dunque la religione di Cristo aveva «una intonazione larga e compren42 G. SALVADORI, Lezioni dal Vangelo, introduzione e note del P. M. CORDOVANI O.P., Roma 19362, pp. 47-49.
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siva», cercava di trovare il bene anche fra coloro che ne erano lontani e assimilarlo: quindi di apprendere qualcosa anche da loro. 5. Chiesa e società italiana. Questo atteggiamento (verso ebrei, massoni, liberi pensatori, in generale verso coloro che si dicevano nemici della Chiesa o venivano ritenuti tali) era minoritario nel cattolicesimo italiano e Salvadori lo sapeva bene. Essi venivano avvertiti come battistrada di una nuova società (quella laica dell’Italia unita), verso la quale il mondo cattolico organizzato provava un’avversione generalizzata e radicale. Per lo scrittore toscano, era invece necessario non respingere in toto la presente civiltà: certo, delle arti, delle scienze, delle industrie che essa offriva, si poteva anche abusare, ma questo non significava che esse fossero intrinsecamente cattive: Ma, se simili impulsi e simili menti muovono e governano un’intera nazione, non bisogna dimenticare ch’essi non sono la nazione; precisamente come se ai loro fini adoperano le scienze, le arti, le industrie, i frutti della terra, questi prodotti delle facoltà umane e delle forze naturali sono innocenti dell’abuso che ne vien fatto. A servigio delle mire anticristiane, e il popolo e i mezzi offerti dalla civiltà restano inconsapevoli e naturalmente buoni.
Ora, la gerarchia ecclesiastica, «al cui labbro è commessa la parola di purificazione e di vita», dovrebbe cercare di entrare in contatto con la nuova società italiana, «giungere al popolo così mutato coi mezzi offerti dalla civiltà; portargli quella parola, non antica né nuova, ma eterna, in nuova forma, perché non se ne allontanasse infastidito: “simili al padre di famiglia che”, quando la necessità lo richiede, “cava dal suo tesoro le cose antiche e le nuove”». Una parte minoritaria del clero ha cercato di agire in questo modo, ma ha dovuto affrontare l’ostilità di molti confratelli: Né sono mancati nel nostro clero uomini che a quest’ufficio sapessero rispondere degnamente; non diciamo già solo dei dotti, ma uomini che, per le nuove difficoltà, non si sono arretrati dal beneficare, facendo rispettare col sapere vero e la santità della vita la fede che schiettamente professavano, tanto più mirabili appunto perché dovevano vincere solo con le doti e le virtù personali lo zelo indiscreto, la pusillanimità, la paura dei loro confratelli, e l’avversione diffusasi nella società laica contro la loro classe; uomini che, dovunque una preghiera di bisognoso li chiamava, hanno saputo esercitare, con la condiscendenza e la dolcezza della carità veramente sentita, la parte più grave e delicata del loro ministero; uomini che, anche nella nostra società, attendono, con ingegno e dottrina umiliati e velati, all’educazione più paziente dei giovani accolti senza distinzione. Non ostante la terribile divisione delle due classi, non sono mancati i Samaritani i quali, per una partecipazione di sentimento che direi materna se non se le potesse dare un nome
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più alto, hanno seguito le miserie, le malattie, i combattimenti del nostro secolo; o, usciti da esso, non lo temono perché l’hanno vinto.
L’esempio portato qui e altrove da Salvadori era quello del padre Lorenzo Cossa. La sua prassi pastorale (e quella di altri come lui) seguiva un metodo preciso: quello di non escludere nessuno. E quindi lo sdegno delle grettezze di cuore e delle superbie, e degli odii religiosi che dividono anche quelli che dovrebbero essere congiunti, e la carità dello spirito per tutti, quanti incontrava sulla sua via bisognosi d’aiuto, senza che ristrettezze o fastidio o risentimento particolare, nonché avversione o disprezzo, mai, escludesse nessuno.
Ma la maggioranza della Chiesa italiana, e l’insieme delle organizzazioni cattoliche che l’hanno seguita, ha risposto alla guerra con la guerra: ha respinto in toto la nuova civiltà e in questo modo ha ridato fiato all’anticlericalismo già presente ab antiquo nella società nazionale: la divisione fra clero e popolo si è infatti stabilita «da secoli per la confusione d’un primato signorile del clero col suo primato ministeriale, per l’alleanza sua con la forza, l’uso della spada e l’abuso delle ricchezze». Questi errori antichi «hanno contribuito non poco alla fatale divisione presente». Dopo l’unità, il clero italiano ha sentito l’ostilità; ha visto i palazzi dei pubblici poteri, le scuole, le case popolarsi d’una nuova gente educata a principi ad esso sconosciuti, con una coltura di cui non intendeva bene l’indole; e, già svanito com’era in parte pel mancare della dottrina e della sapiente carità, sgomentato d’una guerra di cui non aveva preveduto la ferocia, s’è ristretto entro le mura de’ suoi asili abbandonati, e, di tutto diffidando, ha tutto respinto. Così è divenuta quasi irreparabile la divisione tra clero e popolo […]; è stata accettata e accresciuta, con la esclusione del clero stesso dalla società civile, dai popoli sobbillati in questo dai nemici, non solo del clero, ma del Cristianesimo. Respinto, com’è stato, dalla società nuova, considerato come una classe oltrepassata e reietta, esso ha accettato la guerra, si direbbe, come guerra.
Questo atteggiamento è stato speculare a quello dei nemici del cristianesimo e in qualche modo funzionale al loro disegno: Come gli altri si sono staccati in tutto dal passato, così esso [il clero italiano] s’è mostrato diffidente di tutto il presente; come gli altri hanno rifiutato quasi fosse irragionevole e inaccessibile la dottrina cristiana, così esso non s’è piegato a svestirla d’una forma che quasi si direbbe la rende inanimata e ristretta a pochi; come gli altri hanno voltato le spalle, deridendo, al culto cristiano, così esso non ha cercato di metterne a parte, quanto era possibile, il popolo, facendo che il linguaggio simbolico e il linguaggio parlato delle cerimonie, delle preghiere, delle letture,
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dei cantici, fosse inteso, quanto era possibile, nella sua bellezza misteriosa e pur persuasiva43.
Questo atteggiamento di scontro frontale con l’Italia uscita dal Risorgimento ha comportato nel clero un’incapacità generalizzata di parlare al popolo e di suscitare in esso un nuovo bisogno religioso: Così noi ci troviamo di fronte ad un pubblico che, in gran parte, ha perduto, non solo la coscienza del bisogno religioso ma anche la notizia che un tale bisogno vi sia; e con un clero che dovrebbe insegnarne l’esistenza e il modo di soddisfarlo, e, per la condizione in cui si trova, non può. Né questo vuol dire che la sete della giustizia e della vita immortale nel nostro popolo non vi sia: essa è anzi in ogni classe, ma specialmente nelle meno avide di guadagno, tanto più viva quanto meno da anni e anni è stata soddisfatta: ma non si sa che il liquore onde questa sete è appagata è divino; e a pochi tra gli assetati viene efficacemente indicato ove ne sia la pura inesauribile sorgente44.
6. Per una «riforma cattolica». Se la situazione del clero italiano era questa, a chi poteva spettare il compito di promuovere un moto di riforma religiosa? Salvadori aveva in qualche modo anticipato la sua risposta in una lettera a Ruggiero Bonghi del dicembre 1892, pubblicata nella sua rivista, La Cultura: tale funzione egli l’assegnava ai laici, specialmente a quelli che — come lui — si erano formati nella cultura moderna, ne avevano vissuto le contraddizioni e le aporie, trovando infine pieno appagamento al proprio bisogno religioso nel ritorno alla fede cristiana. Lo scrittore toscano era stato fra i primi in Italia ad avvertire (già alla metà degli anni Ottanta) la crisi della cultura positivistica e la nascita di uno “spirito nuovo”, in cui trovava appagamento un’inquietudine religiosa troppo a lungo soffocata45. 43 Come si vede, Salvadori accennava motivi che sarebbero stati propri del movimento liturgico novecentesco. 44 LA, 152-156. 45 Il saggio di un amico di Salvadori come D. CORTESI, Lo “Spirito nuovo”, in Nuova Antologia, 1° giugno 1896, pp. 516-521, prendeva in esame con un certo acume la rinascita spiritualistica che nei primi anni Novanta stava verificandosi anche in Italia e ne delineava le seguenti componenti: la diffusione della filosofia di Schopenhauer e degli scritti morali di Tolstoj, «i faticosi drammi del norvegiano Ibsen», la fortuna crescente della musica di Bach, il movimento di Paul Desjardins col suo periodico Le Devoir présent e con le sue propaggini italiane di cui parleremo subito, l’opera di Antonio Fogazzaro e il suo tentativo di «concordare la teoria evoluzionistica col dogma cattolico», la diffusione dello spiritismo e del «teosofismo». L’articolo parve «bellissimo» a un lettore esigente come Giovanni Vailati, che lo segnalava il 6 giugno 1896 al cugino Orazio Premoli, futuro barnabita e studioso manzoniano (G. VAILATI, Epistolario 1891-1909, a cura di G. LANARO, Torino 1971, p. 47). Per la figura di Decio Cortesi e la sua amicizia con Salvadori, notizie in L 390-391. Se scorriamo gli scritti di Salvadori degli anni Ottanta troviamo la percezione che la parabola della poesia carducciana sia ormai nella fase discendente (SB 32-35), l’intuizione della novità di quella pascoliana (SB 27),
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La sua stessa esperienza biografica, il suo “rinnovamento” ne era stata una straordinaria manifestazione, parallela a quelle conversioni che, nella cultura francese, avrebbero avuto un impatto ben più clamoroso46. Erano questi «nuovi credenti» che — a suo giudizio — potevano promuovere una riforma religiosa, che acclimatasse il cattolicesimo nella nuova Italia: erano dei “moderni”, che avevano percorso la parabola della modernità e che erano andati al di là di essa, scoprendone e criticandone le antinomie. Essi perciò non potevano proporre un puro e semplice ritorno a un passato, che a loro non era mai appartenuto: non erano, né potevano essere dei puri e semplici “tradizionalisti”. Costoro — con la loro esperienza — testimoniavano che era possibile una rinascita dello spirito cristiano anche nell’Italia di fine secolo: perché «non conservano la fede come un’abitudine morta; o, esperimentata in sé la crisi del secolo, hanno riacquistato con la fede la vita dell’anima; o solo, senza mai averla perduta del tutto, l’hanno ravvivata in sé con l’amore operoso»47. È particolarmente significativo che — nell’ottica di Salvadori — a promuovere questa riforma religiosa dovessero essere dei laici sostanzialmente estranei al tradizionale movimento cattolico: una tale prospettiva ritornerà, ovviamente con molte differenze, nel Fogazzaro del Santo48. La loro precedente esperienza sopravviveva, come purificata, dopo l’approdo al cattolicesimo: insomma non avevano abbandonato le ragioni della coscienza soggettiva e del dialogo con la modernità. Ecco perché questa «nuova gioventù italiana» poteva essere al tempo stesso «umile e ardita, libera e obbediente, capace di pensare e di sacrificare il proprio pensiero alle esigenze legittime della parola divina, capace di fare e di lasciar l’opera che riconosca dannosa»49. Essa indicava una via intermedia fra l’assoluto soggettivismo e la totale abdicazione alla propria individualità, fra una la critica per molti aspetti assai acuta delle aporie dell’erudizione letteraria e l’esigenza di una nuova critica estetica (SB 215-223), la sensazione dell’esaurimento del realismo di Zola (SB 124-129) e dell’involuzione pessimistica dell’ultimo Renan (LS, II, 127-128). 46 F. GUGELOT, La conversion des intellectuels au catholicisme en France (1885-1935), préface de E. FOUILLOUX, Paris 1998. 47 G. SALVADORI, La riforma cattolica in Italia cit. (LA, 121). L’articolo rispondeva a quello di R. BONGHI, La riforma cattolica, in La Cultura, n.s. II, 49, 4 dicembre 1892, pp. 433-436. Scrivendo a Paul Sabatier l’8 gennaio 1906, Salvadori avrebbe ricordato che l’intento della sua lettera a Bonghi del 1892 era di ricordare «la tradition ininterrompue que nous avons d’un Catholicisme libre. C’est le secret de s.t François, qu’il soit le nôtre» (L 487). 48 P. MARANGON, Fogazzaro e Il Santo cent’anni dopo, in Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati 256 (2006), s. VIII, vol. VI, A, pp. 7-19, che insiste molto sull’idea fogazzariana della santità laicale come via per la riforma religiosa (pp. 12-15), sottolineandone la novità rispetto al riformismo pre-modernistico degli anni Novanta; ma non accenna alla posizione di Salvadori peraltro espressa in uno scritto diretto proprio a Fogazzaro. 49 LA, 119-120.
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modernità sfrenata e il puro e semplice ritorno al passato. Ricercava — si potrebbe dire — una via cattolica alla modernità, o, come diceva Salvadori, una «buona modernità». Della modernità, egli scorgeva gli albori fra Cinque e Seicento: ne vedeva i germi nella nuova scienza della natura da Leonardo a Galileo, in un diverso approccio all’individuo nella sua dimensione psicologica (Shakespeare, gli “psicologi” inglesi), in un ricupero del senso della storia, in una più vasta coscienza del genere umano (Lessing) e nell’idea di redenzione universale che ne scaturiva. «Non si può negare — scriveva — che sia un ideale santo». Dunque «dove sta il male?». Nell’avere disconosciuto le radici cristiane di quei grandi progressi scientifici e morali e nell’aver creduto che essi potessero garantire l’autosufficienza dell’uomo, negando il suo bisogno di Dio50. Avendo rigettata la trascendenza, restava come dovere impellente la realizzazione di quegli ideali nel mondo storico ed ecco, dunque, emergere il concetto di rivoluzione: Quindi […] l’errore […] è tanto più terribile, quanto più contiene in sé di verità. E l’errore, praticamente, si manifesta nella scelta dei mezzi: rimanendo un solo l’ideale, s’intende quello conseguibile nel mondo, i mezzi son diversi. Giustizia e amore, da una parte, maritate alla superbia e alla viltà, muovono le rivoluzioni; cioè, in fondo, il sacrifizio altrui a vantaggio proprio: giustizia e amore, dall’altra, maritate all’umile ardimento della carità, muovono la rivoluzione cristiana, cioè il proposito del sacrificio proprio a vantaggio altrui, per vivere in Dio una vita comune51. 50 «Il male fondamentale sta nella superbia e nella viltà, ond’è impastata la natura umana corrotta; nella superbia, che non riconosce la fonte vera d’ogni virtù, antica e moderna, nel Figlio dell’uomo; nella viltà che, innanzi a Dio, non si leva a Dio per la via necessaria a raggiungerlo, quella dell’umiliazione fino all’annullamento, ma si chiude in sé per paura di rinnegare se stessa» ([G. SALVADORI], Gl’inizi della modernità, in La Carità. Bollettino dell’Ospizio S. Filippo, nr. 2, Roma 26 maggio 1893, pp. 7-8, 7). Il titolo del bollettino era lo stesso della rivista napoletana La Carità (1865-1886), fondata e animata da Alfonso Capecelatro, Enrico Cenni e Ludovico di Casoria, insomma il gruppo dei neoguelfi di Napoli. Il motto della pubblicazione era Chi non ama non conosce Dio: perché Dio è carità (I Gv, 4, 8). L’Ospizio S. Filippo Neri per fanciulli abbandonati fu una delle principali realizzazione caritative di Salvadori e dei suoi amici nella Roma degli anni Novanta; esso era nato nel marzo 1892 dalla trasformazione di un precedente ricovero notturno ricavato da un granaio in via delle Marmorelle, aperto il 19 marzo 1886; per tutto ciò, cfr. [ID.], Ricovero e ospizio di S. Filippo. Un po’ di storia, in La Carità. Bollettino dell’Ospizio S. Filippo, nr. 1, Roma 19 marzo 1893, pp. 7-8. 51 [ID.], Gl’inizi della modernità cit., p. 8: «Di questa rivoluzione cristiana moderna, e quindi della buona modernità, il principio è nel secolo decimosesto; e, in quel secolo, l’iniziatore più consapevole, più potente, più amabile è Filippo Neri, il fiorentino fattosi romano, cioè l’artista educato alla carità». Sulla figura di Filippo Neri, cfr. anche [ID.], S. Filippo Neri, in La Carità. Bollettino dell’Ospizio S. Filippo, nr. 2, Roma 26 maggio 1893, pp. 1-5, che lo vede come un protagonista della «Riforma cattolica» del XVI secolo. Temi molto simili sono nel saggio di E. PISTELLI, San Filippo Neri (1895), in ID., Profili e caratteri, Firenze 1921, pp. 85-93,
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La riforma auspicata da Salvadori — e questa è un’altra capitale differenza rispetto al Santo di Fogazzaro e, credo, anche ai suoi amici che seguirono la deriva modernistica del decennio successivo — doveva restare tutta interna alla Chiesa, essere appunto una «riforma cattolica»: «a nessun patto — precisava — intende romper la pace, né staccarsi dall’unità della Chiesa: perché sente bene che solo nell’unità e nella pace è la forza dell’azione religiosa, e sopratutto la sicurezza del consenso intero, quindi lo spirito di associazione»52. Questa idea di «riforma cattolica» era ritornante nella storia d’Italia: la dialettica fra libertà e obbedienza era stata tipica — nel Duecento — del moto francescano, ma Salvadori fu sempre straordinariamente interessato soprattutto all’esperienza cinquecentesca. Mentre solo pochi anni dopo, nella grande opera di Francesco Ruffini sulla libertà religiosa, saranno gli eretici italiani del Cinquecento a tenere il centro del quadro53, in lui erano invece i fautori di una «riforma cattolica» che si era sviluppata parallelamente a quella protestante, rimanendo sempre interna alla Chiesa: Nel qual secolo [nel Cinquecento] più si studierà, e più, io credo, si vedrà che, salvo alcuni toccati dal misticismo aristocratico di Giovanni Valdez, i nostri grandi italiani che più si son detti inclini alla Riforma luterana, non hanno mai voluto staccarsi dalla chiesa nella quale erano stati battezzati, e tutt’al più tennero il dogma della Giustificazione secondo la formula creduta ortodossa dal Contarini, fino a che non aderirono sinceramente alla definizione del Concilio di Trento. E i veri riformatori italiani di quel secolo non son certo i pochi staccatisi da Roma, dei quali nulla resta di vivo: sono bensì Gaetano Thiene, Girolamo Emiliani e Filippo Neri, gli umili eroi della sapienza e della carità. E che altro intendeva l’ultimo tra questi, cioè il più profondo, puro e amabile spirito che, dopo S. Francesco, abbia dato il nostro popolo, quando, se non erro, ogni giorno, mandava il Baronio a pregare in S. Pietro con queste due parole: obbedienza e pace54? che fu pubblicato nella Rassegna Nazionale. La fonte principale di entrambi è la monumentale Vita di S. Filippo Neri di Alfonso Capecelatro, un altro esponente del conciliatorismo postunitario, pubblicata in prima edizione nel 1879. 52 LA, 123-124. Parole pressoché identiche avrebbe usate due anni dopo a proposito della riforma francescana, recensendo la vita di Francesco d’Assisi di Paul Sabatier: G. SALVADORI, Vita breve di San Francesco d’Assisi, con un saggio di N. VIAN su Giulio Salvadori e Paul Sabatier, Milano 1941, p. 129. 53 F. RUFFINI, La libertà religiosa, I, Storia dell’idea, Torino 1901 [ma 1900], pp. 68-98. 54 LA, 126. «Il Baronio, credo per consiglio di Filippo, era solito di andare ogni giorno a piedi nella chiesa di San Pietro a pregare, e vi pregava con tanto fervore, che gli occhi gli si riempivano di lacrime. Si prostrava davanti alla statua del Principe degli Apostoli, dicendogli ogni dì queste due parole, nelle quali è tanta luce di semplicità e di bellezza: Obbedienza e pace: e coteste parole che gli stavano nel cuore, le ripeteva poi prostrandosi al sepolcro del santo Apostolo, invocandolo, e pregandolo che venisse in ajuto alla Chiesa turbata e scissa dall’eresia protestante. Esse servivano mirabilmente a rendere sempre più vivo nel Baronio
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Erano questi i precedenti a cui i riformatori di fine Ottocento dovevano guardare: anch’essi avrebbero risposto nello stesso modo a chi li avesse interrogati sull’avvenire religioso del popolo italiano: Gli italiani della fine di questo secolo sono in fondo quelli del Duecento e del Cinquecento. Come allora così ora, o sono cattolici, o sono increduli. Che l’alleanza dell’Autorità ecclesiastica con la forza abbia portato, specialmente dopo Castel Cambrésis, anche la mala genìa degl’ipocriti, questo è un altro discorso. Il vento della Rivoluzione spazza via gl’ipocriti: e rimangono a fronte cattolici ed increduli. Ma non è vero affatto che i cattolici italiani abbiano in fronte il marchio del servilismo, quando così non si chiami la servitù di Dio. Il cattolicismo italiano ha invece posseduto sempre il segreto d’una mirabile libertà proprio nell’obbedienza: e basta rammentare S. Francesco e Dante, S. Filippo, il Contarini, Vittoria Colonna e Michelangelo. Esso ha avuto sempre due caratteri che, quasi ali d’angelo, l’hanno fatto sfuggire ad ogni laccio di servitù umana: la profezia e la santità, la parola dantesca e l’opera Francescana. E questi due caratteri, essendo note d’idealità vera, non possono non essere attivi, fecondi, riformatori e innovatori55.
Come si vede, Salvadori proponeva come modello degli uomini attivi, fondatori di ordini religiosi, apostoli della carità: perché questa «riforma cattolica» non poteva essere meramente intellettuale, anzi doveva rifuggire l’amore della Chiesa, e lo avvezzavano a guardarla nel centro della sua unità, ch’è appunto l’Apostolo san Pietro» (A. CAPECELATRO, La vita di S. Filippo Neri. Libri tre, II, Roma – Tournay 18893, pp. 116-117) 55 LA 126-127. La vasta operosità di Salvadori sulla storia della «riforma cattolica» del Cinquecento (a cui spinse anche numerosi allievi) meriterebbe uno studio a parte. Si ricordi almeno il volume di R. DE MAULDE LA CLAVIÈRE, San Gaetano da Thiene e la Riforma cattolica italiana (1480-1527), Roma 1911, in realtà opera del tutto nuova rispetto all’originale francese proprio per gli interventi di Salvadori nel testo e nell’apparato documentario, che di fatto ne fanno un libro in gran parte suo. Sulla fortuna del termine e concetto di «riforma cattolica» (katholische Reformation), cfr. H. JEDIN, Riforma cattolica o Controriforma?, Brescia 19672, pp. 13-33, che ne segnala la diffusione in Germania con l’opera di un discepolo di Sybel, WILHELM MAURENBRECHER, Geschichte der katholischen Reformation del 1880 e la presenza in Italia già in un saggio di P. Tacchi Venturi del 1901. Un allievo di Salvadori, EUGENIO MASUCCI pubblicò una rassegna Sulla Riforma cattolica in Italia, in Archivio della Società Romana di storia patria 50 (1927), pp. 189-201 (su Masucci, cfr. L 881 e passim). Donde Salvadori abbia attinto il concetto è difficile dire: non come termine storiografico, ma come esigenza spirituale esso è presente in tutta la cultura toscana dell’Ottocento, di cui — come abbiamo visto — egli è un epigono. In un testo che di quella cultura è particolarmente significativo, Pasquale Villari ripercorreva la vita di Girolamo Savonarola, che per lui era stato un cattolico ortodosso (non un anticipatore di Lutero, come lo consideravano gli storici tedeschi): egli «voleva mettere in armonia la ragione e la fede, la religione e la libertà. La sua opera si connette al concilio di Costanza, a Dante Alighieri ed Arnaldo da Brescia, iniziando quella riforma cattolica che fu l’eterno desiderio dei grandi Italiani» (P. VILLARI, La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, II, Firenze 18824, p. 224). Ma Riforma cattolica è — com’è noto — anche il titolo della celebre opera postuma di Vincenzo Gioberti pubblicata da Giuseppe Massari nel 1856.
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dalle sottigliezze teologiche e dall’intellettualismo, di cui sempre avrebbe rimproverato gli amici che si mostravano sensibili alle tematiche del modernismo. Era rispondendo ai bisogni morali più profondi del proprio tempo che i «nuovi credenti» potevano mostrare una strada convincente a quanti «sono rimasti nella paurosa confusione del dubbio»; illuminando «non con una istruzione arida e morta, ma con una parola nutrita dal cuore, dalla mente, dall’esperienza, viva e vitale, sulla natura dei bisogni che sentono, e indicare dov’è che li possono trovare appagati»56. Dalle loro azioni, dal loro comportamento, anche dai loro silenzi, potranno essere riconosciuti come portatori di un’esperienza in qualche modo comunicabile, ma per forza propria, non per un intento di proselitismo. S’intende allora l’importanza per lui della figura di Filippo Neri, mediata dall’opera storica di Alfonso Capecelatro: alle eresie (vecchie e nuove) si risponde con la riforma religiosa, non con lo scontro frontale; piuttosto che «oppugnar con sottile dialettica e con grande erudizione» gli “errori” dei diversamente pensanti, è preferibile mostrare in positivo le ragioni della verità57. «Si potrebbe dire — aggiungeva Capecelatro — ch’egli [Filippo Neri] non dimostrò, ma invece mostrò, la virtù della Chiesa cattolica: il che è un modo di persuasione diverso alquanto dall’altro, ed efficacissimo sempre»58. Lo stesso potrebbe ripetersi di Salvadori: è questo l’approccio sotteso ai suoi rapporti con uomini e donne di altre religioni, anche (come avremo modo di vedere) con i numerosi amici e discepoli ebrei. 5. L’esperienza dell’Ora presente (1895-1897). Egli cercò di attuarlo soprattutto nell’Ora presente, il mensile che diresse dal gennaio 1895 alla fine del 1897: si tratta di una delle esperienze fondamentali della sua vita e corrispose a un approfondimento del suo modo d’intendere il cristianesimo. «Nessuno si può considerare arrivato, nella vita dello spirito, per quanto la parola divina gli splenda alla mente….», scriveva a Paul Desjardins nel giugno 1894. Così il cammino di Salvadori continuò anche dopo la 56
LA 157-158. Questo era un altro tratto che Salvadori ricavava dall’esempio di Filippo Neri, che voleva che i suoi preti «rispondessero agli eretici operando, non polemizzando. Al Baronio, che fu dei suoi discepoli più cari, ordina non di rispondere ai protestanti, ma di scrivere gli Annali della Chiesa con verità» (PISTELLI, San Filippo Neri cit., p. 91). 58 CAPECELATRO, La vita di S. Filippo Neri, II, cit., p. 110. Un altro tratto della spiritualità filippina mutuato da Salvadori fu quello del nascondimento: «Come in tutte le altre sue opere di cristiano apostolato il principale suo pensiero fu di nascondere e far dimenticare la propria persona, così fece in tutte le altre», scriveva ancora Capecelatro (ibid., p. 111): specialmente in quelle culturali, come gli Annales ecclesiastici scritti da Cesare Baronio ma concepiti da Filippo Neri. Questo modo di lavorare quasi per interposta persona fu proprio anche di Salvadori: per cui nelle opere dei suoi allievi c’è molto di suo, più di quanto comunemente si pensi. 57
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conversione: nei primi anni — come abbiamo visto — cercò di rifarsi una cultura e di comprimere, mortificare il vecchio Adamo. Possiamo dire che nel binomio libertà/ubbidienza, privilegiò l’ubbidienza. Verso la metà degli anni Novanta sentì il bisogno di espandere di nuovo la sua anima, riaprendola al sentimento di umanità. Come scriveva a Ivan Ivanoviç Belozerskij il 5 settembre 1896: «dopo Dio, a Lei più che ad ogni altro devo se il cuore troppo lungamente mortificato s’è riaperto a quel sentimento che si può chiamare umanità, dico a quel sentimento vivo e largo che, anche mortificato l’io della materia, ci fa provare il palpito della vita vera». E all’amico Luigi Costantini, il 14 agosto dello stesso anno: E del resto, che gran momento, Gigi mio, e come bisogna aprire le porte e buttar giù le barriere, per far entrare tutti, tutti quelli che hanno ancora il cuore vivo, che sono sinceri e amici del bene. E come diventa sempre più odioso ogni esclusivismo, ogni piagnisteismo, ogni modo che non sia del cuore aperto, e della luce della parola di Dio semplice e grande, quale la ripete tutto l’universo! E non temere che questo seme non porti con sé tutta la pianta, poiché è il senso della Croce di Cristo, e per necessità porta con sé Cristo non dimezzato e la misteriosa comunione dell’umanità rinnovata con lui cioè la Chiesa. Ma tutto questa con una divina semplicità, senza le aggiunte umane e le complicazioni scolastiche o sentimentali59.
Appunto l’esperienza dell’Ora presente e del gruppo dell’Unione del bene, in cui collaborano cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei, non credenti di varia gradazione è il documento più notevole di questa apertura all’umanità e alla civiltà moderna. Tracciandone un bilancio al momento in cui la rivista cessava le pubblicazioni, Salvadori scriveva: Noi cattolici così scendevamo sul comune terreno umano, mettendoci in cammino con gli uomini vissuti fuori della fede, per imparare da loro quello che il senso umano e civile poteva aver loro insegnato, e insieme indicando a loro quello che noi conoscevamo come mèta del cammino comune. Eravamo come viaggiatori per una medesima via, che prima degli altri avessero potuto raggiungere la città da tutti desiderata, e ora tornassero indietro a indicarla agli altri. Né questo poteva essere per noi motivo d’orgoglio, mentre in realtà non è altro che una maggiore responsabilità. Quale duplicità in questo contegno? O forse si voleva che noi forzassimo il passo dei nostri compagni di viaggio, non rispettando in loro quel sacro lavoro che solo deve passare tra la coscienza e Dio? O si voleva che cancellassimo le nostre orme precedenti e non invitassimo gli altri a prender parte alla nostra buona ventura? D’altra parte era al Regno di Dio che volevamo invitare, non alle chiesuole degli uomini: volevamo servire, non all’interesse d’alcun partito, ma alla verità e al bene. E grazie a Dio, questa luce s’è abbastanza diffusa perché non si possa oramai più confondere con le esigenze degli interessi e delle passioni. Chi si professi cri59
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stiano non può più sinceramente creder necessario alla sua fede l’uso della forza e dell’astuzia; chi sia intimamente civile non può più creder necessario, a conservare i beni che la civiltà vuol garantire, la rinunzia all’unica Religione veramente civile e universale. Se sacrifizi si devono fare da una parte e dall’altra, com’è realmente, sono di quei sacrifizi che purificano. Ora questa vera riconciliazione fra Religione e Civiltà s’è fatta in molti cuori e molte menti, né alcun sofisma di appassionati o d’interessati la potrà distruggere60.
Così le grandi amicizie che nascono in questi anni sono con un ugonotto francese (Paul Sabatier), un protestante svizzero (Ernest Bovet), un ortodosso ucraino (Ivan Ivanoviç Belozerskij), alcuni ebrei (Luigi Luzzatti e David Santillana) e un ateo trasteverino come Augusto Sterlini. Salvadori considerava il proprio rapporto con tutti costoro come «pratica delle leggi generali del Vangelo ad gentes»61. Missione, se si vuole, ma non proselitismo: parlando della riforma francescana, egli ricordava che «il suo carattere era stato predicare con l’esempio senza giudicare chi operasse diversamente»62. A chi gli prospettava il rischio di un generico sincretismo religioso, Salvadori rispondeva: l’Ora può essere stata fatta con mille difetti, e può non aver corrisposto all’intenzione e all’idea che l’ha mossa, ma l’idea dell’Unione, di cui essa era un’espressione, se ben intesa, è santa. Ella sa bene perché ne ha dato l’esempio che, se uno è caduto, bisogna scendere dove è caduto, se si vuole aiutare a rialzarsi. Disapproverebbe ella la donna che, amando un uomo incredulo, lo sposasse per guadagnarlo alla Fede? Ebbene, quello che questa donna farebbe con uno si può tentare con molti: i cattolici che sentono questo bisogna scendano nel campo che hanno comune con gli altri, e cerchino con la carità e l’esempio di attirarli per la via che conduce alla Chiesa. So anch’io che è pericoloso, e siamo combattuti dagli eccessivi di tutt’e due le parti (dico le parti umane, o, se vuole anche politiche, perché la divisione vera la vedremo, grazie a Dio, nella valle di Giosafat) e ne vedrà le prove negli ultimi numeri dell’Ora. Ma che perciò? Se non arrischiamo qualche cosa, non guadagneremo mai nulla e bisogna pure esser riprovati dagli uomini se si vuole esser benedetti dal Signore63.
L’11 gennaio 1892 una quindicina di giovani (scrittori, studiosi, ecclesiastici) fondarono a Parigi l’Union pour l’action morale che mirava a una rigenerazione etica della società attraverso una serie di iniziative culturali, 60 G. SALVADORI, Agli amici dell’Unione per il bene (1898), in ID., Lezioni dal Vangelo cit., pp. 82-84. 61 G. Salvadori al padre G. M. Santarelli, francescano, Roma, 1° agosto 1895 (L 207). 62 SALVADORI, Vita breve di San Francesco d’Assisi cit., p. 130. 63 G. Salvadori alla zia Giannina Nenci Pistoj, Monte s. Savino, 20 agosto 1897 (L 266267).
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pedagogiche, morali e religiose. Ne era animatore il trentenne Paul Desjardins (era nato nel 1859 e quindi era di tre anni maggiore di Salvadori), scrittore e critico letterario di una certa fama, amico di Melchior de Vogüe e di Édouard Rod, fra i protagonisti del mutamento culturale antipositivistico che si stava svolgendo in Francia e in Europa64. Per chiarire il senso della sua iniziativa, nello stesso anno Desjardins pubblicò Le devoir présent, un pamphlet che riscosse subito un grande successo. Il clivage fondamentale dell’epoca — scriveva — era fra coloro che l’amico Rod aveva chiamati i «negatifs» e i «positifs»: «ceux qui tendent à détruire et […] ceux qui tendent à reconstruire». Fra i primi indicava Renan e i suoi seguaci, i buddisti vuoti e nichilisti, i poeti come Leconte de Lisle, i filosofi scettici come Edmond Scherer, scienziati come Darwin e i suoi seguaci, ideologi come Taine, romanzieri naturalisti come Zola. Fra i positivi: il veri cristiani e i veri ebrei, «attachés à l’esprit profond de leur religion», i filosofi del nuovo spiritualismo francese («les nouveaux disciples de Platon, des stoïciens et de Kant») come Charles Secrétan, Renouvier, Lachelier, Fouillée fino a Sully-Prudhomme. Ponendosi fra i «positifs», Desjardins intendeva chiamare a raccolta uomini e donne di ogni religione e credenza, affinché cercassero risposte alle fondamentali domande dell’esistenza: l’umanità ha un destino? esiste una legge nella vita umana? il dovere è una realtà o una finzione? Il suo scopo — scriveva — non era di distruggere le vecchie religioni, né di fondarne una nuova: il problema fondamentale non era teologico o teoretico, ma morale. Né si trattava di dar vita a una nuova società di beneficenza: non ci si poteva limitare all’assistenza ai bisognosi, ma bisognava risvegliarne la coscienza65. Nelle intenzioni di Desjardins, l’Union pour l’action morale intendeva costituire un’area di ricerca «il cui confine non era dettato dai dogmi, ma dall’esperienza: problema religioso ed esperienza religiosa sembravano avere dimensioni più ampie della stessa fede e certamente dell’appartenenza confessionale. A questo campo, che appariva vastissimo, potevano accedere tutti: uomini e donne, colti e sprovveduti, ricchi e poveri »66. Erano gli anni delle encicliche sociali di Leone XIII, dalla Rerum novarum alla Au milieu des sollicitudes; della grande diffusione del tolstoismo sull’onda del Roman russe di de Vogüe pubblicato nel 1886; quando la conferenza di mons. John Ireland, il noto arcivescovo di Saint Paul nel Minnesota, alla Société de geographie del 18 giugno 1892, organizzata da 64 F. CHAUBET, L’Union pour l’action morale et le spiritualisme républicain (1892-1905), in Mil neuf cent, nr. 17, 1999, pp. 67-89, 67-68. 65 P. DESJARDINS, Le devoir présent, Paris 1892, pp. 6, 64-82. 66 M. RANCHETTI, Il cattolicesimo italiano del Novecento: un profilo, in ID., Scritti diversi, II, Chiesa cattolica ed esperienza religiosa, Roma 1999, p. 24.
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Albert de Mun e de Vogüe, sembrava bandire un cristianesimo riconciliato col mondo moderno e attento ai problemi sociali. Quando il primato della ragion pratica veniva ribadito dallo stesso pontefice nella lettera al vescovo di Grenoble del 1° luglio 1892, che invitava all’unione di «tous les honnêtes hommes», che provassero «l’attrait du bien et l’aptitude à le réaliser». E il Papa aveva ricevuto Desjardins il successivo 19 settembre: lo scrittore gli aveva ribadito di non voler «créer un nouveau port pour les âmes», ma solo di «faire monter l’eau dans ceux qui existent déja», ricevendone l’approvazione. Insomma fino alla metà degli anni Novanta, Desjardins riuscì a tenere in equilibrio le diverse anime del suo movimento, quella spiritualistica, ma più decisamente laica, e l’altra più nettamente religiosa e talvolta schiettamente cristiana. Sarà solo negli anni dell’affaire Dreyfus che la prima verrà nettamente prevalendo67. Le devoir présent giunse anche nelle mani di Salvadori, che lo recensì con non poche riserve nel 1893. Gli sembrava che le intenzioni dell’autore fossero più che lodevoli, ma che mancassero di un fondamento adeguato: tutte queste cose sono senza dubbio cose belle e buone; ma come si determinano praticamente? dov’è la luce, che ci dica in che veramente esse consistano, cioè in fondo, in che consiste il bene? e dov’è la forza per effettuarlo? […] Le parole nostre, grandi o piccole che siano, sono per questo senz’autorità. Ma La Carità ricorda parole che hanno un’autorità superiore a quella d’ogni creatura: Io sono venuto a mettere il fuoco nel mondo; e che altro voglio se non che s’accenda? Così ha detto il Cristo; e così è.
Insomma lo scrittore toscano sospettava che una prospettiva genericamente spiritualistica — anche se costituiva un progresso rispetto al precedente positivismo — restasse incapace di motivare un impegno totale: «Amare; ma come?». A quasi sei anni dal decreto Post obitum del S. Uffizio, che aveva inferto un colpo durissimo al rosminianesimo italiano, egli non esitava a richiamare proprio l’esperienza rosminiana: «Un grande italiano e grande cristiano di questo secolo, il Rosmini, così diceva ai suoi confratelli dell’Istituto della Carità: Amate gli spiriti dei vostri fratelli. Questo è amor vero: amare le anime; operare per il bene delle anime. Bisogna dunque operare»68. Ciò nonostante, quando nell’aprile del 1894 Desjardins venne a Roma per un giro di conferenze, Salvadori lo volle ascoltare e rimase molto col-
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CHAUBET, L’Union pour l’action morale cit., pp. 79-80. [G. SALVADORI], Il dovere presente, in La Carità. Bollettino dell’Ospizio S. Filippo, nr. 2, Roma 26 maggio 1893, pp. 5-6. 68
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pito dalle sue argomentazioni, che attenuarono le riserve in qualche modo “confessionali” dell’anno precedente: Ora a me Lei ha fatto intendere meglio d’alcun altro che nessuno si può considerare arrivato, nella vita dello spirito, per quanto la parola divina gli splenda alla mente; che a volte, dov’è meno luce è più amore, e quindi è più vicino al Regno di Dio chi apparentemente ne parrebbe più lontano; che insomma, nell’anima, non v’è peggiore ingiustizia di quella che fa credere alla propria giustizia. Erano cose da me sentite più volte, e anche accettate e gustate come vere; ma furono alcune Sue parole nella conferenza al Collegio romano quelle che me le fecero vedere più vivamente, e quindi m’ispirarono il proposito di guardarmi quanto era possibile da questo cattivo fermento dell’anima, che è proprio il «fermento farisaico» del Vangelo. Com’Ella vede, è un gran beneficio: potrei io dimenticarmene69?
Antonietta Giacomelli70, che di Rosmini era pronipote e che fu la principale collaboratrice di Salvadori nella redazione dell’Ora a presente, avrebbe raccontato vent’anni dopo a Tommaso Gallarati Scotti gli sviluppi del viaggio italiano di Desjardins: Nell’anno 1894, Dora Melegari fece venire a Roma Paul Desjardins, a tenervi una conferenza intorno all’Union pour l’action morale, che era derivata — seppure non l’aveva in parte ispirato — dal suo libriccino Le devoir présent. La tenne nell’aula del Collegio romano, e fu qualche cosa di elettrizzante nel senso più intimo della parola. Il Desjardins fu indi invitato a parlare in casa Melegari, dinanzi ad alcune persone simpatizzanti, fra le quali i frequentatori di casa Reese. (La contessa Reese era una signora americana, protestante, la quale da qualche tempo teneva — con intenti consimili — riunioni dalle quali era sorto un piccolo periodico, intitolato L’alba, che credo abbia avuto breve vita. Fra questi frequentatori era Giulio Salvadori). Subito dopo la venuta a Roma del Desjardins, il Salvadori si fece presentare in casa nostra, e mi trasmise l’invito alle riunioni iniziate in casa Melegari. In breve fu deciso di redigere un bollettino della Unione che ivi si andava formando col nome di Unione per il bene, e ne fu affidato l’incarico al Salvadori e a me. Non piacendoci l’arido nome di bollettino, lo intitolammo L’Ora presente. Il primo numero uscì la vigilia di Natale del 1894 e fu subito accolto con grande simpatia, specie fra quelle che si chiamano anime. Si ebbero subito 1400 abbonati, che andarono poi decrescendo, formandosi una selezione naturale, mentre la simpatia aumentava fra i rimasti, ed i nuovi. Quando, per le difficoltà economiche e la decisione della nostra partenza per Venezia (si può dire che l’Ora si faceva in casa nostra, e il mio buon padre ne teneva l’amministrazione) l’Ora, col 1897, cessò. Vi fu perfino chi scrisse d’averne pianto, e si sentì che qualche cosa di non caduco era rimasto. […] Tornando all’Ora, dato il suo anonimo, credo bene dire che, oltre al Salvadori, che 69
G. Salvadori a P. Desjardins, Roma, 24-25 giugno 1894 (L 179). Sulla quale, cfr. Giacomelli, Antonietta, in Dizionario biografico degli italiani, LIV, Roma 2000, pp. 129-132, con ampia bibliografia. 70
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ne aveva l’alta direzione ed a me che (come si dice in gergo giornalistico) ne facevo la cucina, collaborarono P. Semeria e Giulio Vitali, e con Visione Fogazzaro e una volta pure Paul Sabatier, Giovanni De Castro e Scipio Sighele. (Tanto per nominare degli scrittori più o meno noti). Del resto collaborarono persone d’ogni campo, uomini e donne, giovani e vecchi, laici e sacerdoti, borghesi e militari. (Tra questi, il colonnello Cesare Airaghi, caduto a Adua e l’attuale generale Marazzi). L’appello ai soldati, poi, era del capitano Domenico Guerrini, eccellente ufficiale, che dirigeva la Rivista di Fanteria. Molti poi s’interessavano, e mandavano notizie e proposte. Tra questi il gen. Baratieri, Francesco Papafava, Georges Goyau, la duchessa Ravaschieri, donna Giulia Marliani, la cont. Maria Pasolini, Dora Melegari, Maria Pia Alberti, P. [Giovanni] Giovannozzi, Don Brizio [Casciola] (allora in erba), Giulietta Mussini, Carlo Placci, la bar. Elena French, L. A. Villari, Pasquale Villari, [Alberto] Parisotti, il prof. [Giuseppe] Cuboni, Olinto Salvadori, [Luigi] Luzzatti, donna Emilia Peruzzi, Maria Manfroni. Tanto per dare un’idea a voi. Il Fogazzaro vi ho detto a voce che nell’Ora non vi ha di suo che Visione. Ora aggiungo che abbiamo riprodotto col suo consenso nel numero del Maggio del 1897, la prima parte della sua Figura di Antonio Rosmini. Vi devo dire che, parlandovi della parte storica dell’Ora, ho aderito ad un vostro desiderio, ma che desidero non apparire menomamente come informatrice. Ne avrei fatto volontieri a meno anche di fronte a Voi71.
Notevole innanzitutto nell’Unione è la preminenza dei laici, e tra i laici, delle donne. Non però nel senso della sociabilità femminile consueta anche in precedenza: qui l’elemento femminile ha piuttosto un «ruolo di trascinamento»72, come nel caso di Antonietta Giacomelli. Inoltre la componente interconfessionale, e quindi lo svincolamento dall’autorità ecclesiastica, ne sono un’altra caratteristica. Per cattolici come Salvadori — lo abbiamo visto — l’impegno nell’Unione costituì un salto di qualità rispetto alle esperienze precedenti, ma non può essere considerato una rottura col passato: dal momento della sua conversione, egli era stato l’animatore di «cenacoli» in cui la presenza laicale era stata predominante, come il circolo 71 A. Giacomelli a T. Gallarati Scotti, Rovereto, 7 marzo 1914 (Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Archivio Tommaso Gallarati Scotti, 7.23.55). Per i personaggi citati, si rinvia alle dotte note di Nello Vian alle Lettere di Salvadori. Questi della Giacomelli erano appunti richiesti da Gallarati Scotti in vista della stesura della sua Vita di Antonio Fogazzaro, Milano 1920, che sarà completata nell’estate del 1914. Egli li utilizzò parcamente: cfr. T. GALLARATI SCOTTI, La vita di Antonio Fogazzaro. Dalle memorie e dai carteggi inediti, introduzione di C. A. MADRIGNANI, Milano 1982, pp. 317-318. La Giacomelli aveva dedicato diverse pagine all’esperienza dell’Unione per il bene e all’Ora presente in A raccolta, Milano 1899, passim, una specie di diario romanzato, come i suoi precedenti volumi Lungo la via (1889) e Sulla breccia (1894). Tornò a parlarne diffusamente in A. GIACOMELLI, Ricordando Giulio Salvadori, Milano 1929, pp. 5-23. 72 F. MILANA, I cenacoli intellettuali/1: ricerca religiosa e crisi modernista, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, II, a cura di A. MELLONI, Roma 2011, pp. 1465-1480, 1467.
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San Sebastiano della seconda metà degli anni Ottanta, e aveva discusso in modo originale il pamphlet dell’amico Filippo Crispolti su Il laicato cattolico in Italia del 189073. Del «cenacolismo» cattolico degli anni Novanta (si ricordi ancora il suo impegno nella Scuola di religione di palazzo Altieri, di cui fu l’animatore fra il 1898 e il 1900), Salvadori fu dunque fra i protagonisti74. Significativo delle prospettive con cui s’impegnò nell’Unione per il bene e poi nella direzione dell’Ora presente è il breve annunzio della sua costituzione: Sappiamo che qui in Roma, tra persone differenti tra loro per le confessioni religiose nelle quali sono state educate, ma con tutto ciò concordi nel desiderio di prepararsi, nella crisi sociale presente, a un migliore avvenire, s’è costituita una Unione allo scopo del rinnovamento morale della nostra patria. Siccome noi che crediamo si debba spender la vita per quello che unisce gli uomini di buona volontà e non per quello che li divide, nulla invochiamo più vivamente che la caduta delle barriere innalzate dagli uomini per dividere ciò che Dio voleva congiunto, salutiamo dal fondo del cuore la nuova Unione. L’augurio che le facciamo è che il desiderio sincero la porti all’opera umile e moralmente efficace e s’esprima nella preghiera che Dio faccia il resto da sé. Non ne diamo per ora che una breve notizia, segnando i punti essenziali nei quali gli aderenti si trovano uniti di fatto; ad un’altra volta lasciamo la determinazione dei mezzi speciali, coi quali essi intendono metterli in opera. Motivo a questa Unione è stato il desiderio del rinnovamento morale. Ad essa tutti possono prender parte, purché sia in loro questo desiderio sincero, qualunque sia la loro condizione e la loro educazione politica e religiosa. Fine dell’Unione è questo rinnovamento, cioè la vita governata in tutte le classi da una legge di giustizia e di carità, considerata come legge superiore e accettata con gioia. A conseguire questo fine gli aderenti all’Unione intendono prepararsi col lavoro diretto al miglioramento sì economico che morale del popolo, e al ravvivamento dell’educazione nelle nostre scuole. Con questo essi desiderano solo dare un avviamento, e non stabilire dei limiti; pronti anzi ad accettare la luce che l’opera sincera e umile sperano chiami in loro75. 73 G. SALVADORI, Il laicato cattolico italiano, in Corriere nazionale (Torino), 17 aprile 1890, esplicitamente richiamato nella lettera aperta a Bonghi (LA, 119). Per l’opuscolo di Crispolti, cfr. G. B. CRISPOLTI, Filippo Crispolti. La mediazione impossibile verso il fascismo, s.l. 2010, pp. 37-46. 74 Proprio sull’Ora presente, Salvadori cercò di sottolineare la continuità fra l’Unione per il bene e le sue precedenti esperienze, indicando nell’amico Raffaele Salustri (uno dei poeti della “scuola romana”, scomparso nel novembre del 1892) Un precursore dell’Unione in Italia (L’Ora presente, 1, 1895, pp. 13-22) e ancora Qual è il nostro spirito (ibid., pp. 157-159) e ripubblicando alcuni stralci della propria lettera aperta a Bonghi del 1892 (La gioventù nuova in Italia, ibid., pp. 24-26): insomma Desjardins — ecco il senso di questi interventi — aveva trovato un terreno già arato. 75 [G. SALVADORI], La notizia che consola, in La Carità. Bollettino dell’Ospizio S. Filippo, nr. 4, Roma giugno 1894, p. 6.
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Eppure gl’inizi non furono facili: Salvadori e la Giacomelli, ai quali si unì il giovane padre Semeria e poi Giulio Vitali, vollero evitare che la rivista fosse espressione di un generico spiritualismo e cercarono di imprimerle un tono più schiettamente religioso e cristiano suscitando resistenze e contrasti di altri associati all’Unione (come Dora Melegari). Alla fine di aprile 1895, ebbero partita vinta, così che lo scrittore toscano poté caratterizzare il periodico secondo i suoi orientamenti76, anche se tenne sempre presente la necessità di mediare fra le varie anime del gruppo: Se alcuni di noi hanno dalla fede una luce che acquieta l’intelletto senza saziarlo, non v’è davvero per essi ragione d’orgoglio, perché non è una formula che dà il compimento del dovere e dell’amore; e altri, senza la professione di quella formula, può essere in questa via più innanzi di loro. Ma questi, d’altra parte, non possono non sentire la mancanza di quella luce: e se credono di conoscere, o di poter arrivare a conoscere, da sé, interi il dovere e l’ideale, non sono nel vero. Insomma, il
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Per queste vicende, spunti importanti sono nelle lettere della Giacomelli a Fogazzaro: «Noi siamo tornati a Roma da un mese, — scriveva il 7 novembre 1894 — e subito, con Giulio Salvadori ed alcuni altri giovani, eletti per virtù ed ingegno, mi son messa all’opera pel nostro piccolo periodico. E gran ventura — detto fra noi — che le persone del primo gruppo formatosi coll’idea dell’Unione — Giulio eccettuato — sieno, quali tuttora assenti da Roma, quali di molto raffreddati nel loro zelo, tanto da non occuparsene affatto. Così, noi del gruppo schiettamente cristiano, e più vivo, possiamo liberamente dare all’Unione, e al periodico che ne sarà la voce, l’indirizzo che crediamo migliore. Ogni tanto si riuniscono qui quei giovani, davvero, c’è fin troppa esuberanza di vita. — Io mi compiaccio molto d’essere la più vecchia del consesso; il più giovane poi è un frate, studente in questa Università — un ingegno possente, uno spirito moderno, a giorno di tutto il movimento morale e letterario odierno e che ha relazioni all’estero [il padre Semeria]». E il successivo 10 dicembre: «La Sig[norin]a Melegari, in casa della quale ebbero luogo le riunioni di questa primavera, è tornata l’altro giorno; e per domani ha invitato i primi componenti l’Unione pel collaudo del nostro lavoro. Dio ce la mandi buona! Ad ogni modo siamo entrambi [con Salvadori] risoluti a non decampare d’una linea. Braccia aperte a tutti, come il cuore; ma indirizzo interamente e apertamente cristiano». Il 16 marzo 1895: «Siamo più che mai sulla breccia contro certa gente che appartiene all’Unione [e] si spaventa di Cristo! Ci hanno appioppato un comitato… di salute pubblica. Povera gente — e credono di farci indietreggiare!». Finalmente il 20 aprile 1895: «Scrivere e spronare dal tavolino non poteva bastare; ho sentito più che mai il dovere dell’azione. Ed è azione così difficile e penosa e complicata, fra tanto urto di egoismi, di pregiudizi, di opposti principi! Superate, in Cristo e per Cristo, le lotte pel periodico, ora ci troviamo di fronte alle difficoltà, materiali e morali, del mettere in pratica quanto si dice. […] Io volevo scrivere per aiuto a qualche altro scrittore italiano; ma Giulio mi sconsigliò, eccettuando De Amicis. E Giulio, ormai, è diventato, dopo le lotte sostenute, il nostro dittatore. “Ho fatto, disse l’altro giorno, come Sisto V”. Si rammenta come, prima, voleva starsene rincantucciato? Ma era doppiamente necessario egli si affermasse, in quanto che, per certe donne dell’Unione, io sono un pruno in un occhio. — Vedesse che inflessibilità! Ha dei momenti nei quali, colla sua calma e la resistenza d’acciajo, spaventa tutti. Egli è un santo e un profeta» (Lettere di Antonietta Giacomelli ad Antonio Fogazzaro, a cura di D. ALESI, con una premessa di A. CHEMELLO, Vicenza 2008, pp. 61, 64, 85, 88-89): i corsivi sono miei.
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fondamento sul quale è possibile la nostra Unione, è da tutte le parti un sacrificio dell’orgoglio77.
Come anche quella di evitare fughe in avanti nei rapporti con la gerarchia ecclesiastica e con gli ambienti cattolici che le erano più vicini, da cui non mancarono — come accenneremo — attacchi e critiche78. 6. Il problema ebraico nell’Ora presente. Le tre annate dell’Ora presente non hanno ancora trovato un’analisi esauriente79. La rivista è stata per lo più inserita in una categoria, quella dei «fermenti pre-modernistici»80, 77 [G. SALVADORI], Il fondamento dell’Unione, in L’Ora presente 1 (1895), pp. 57-59, 58, nel numero di febbraio. 78 Nei numeri di marzo e di aprile 1895, L’Ora presente pubblicò il poemetto Visione di Fogazzaro: Salvadori o la Giacomelli dovettero chiedere alcune modifiche «per togliere un’offesa possibile ai prelati, e un pericolo di malinteso». Fogazzaro accettò il consiglio, ma inviando la seconda parte chiedeva se quel suo poemetto non sembrasse loro «troppo rivoluzionario». La Giacomelli rispondeva il 9 marzo: «Troppo rivoluzionario? […] ma se è ciò che ci ha entusiasmati fin dapprincipio! Se abbiamo chiesto quelle modificazioni era per togliere un’offesa possibile ai prelati, e un pericolo di malinteso. Qui non mi pare vi sia nulla da modificare. […] Glielo dico anche a nome di Giulio. — Del resto, lui ed io, e Semeria siamo rivoluzionari fin nel fondo dell’anima» (Lettere di Antonietta Giacomelli ad Antonio Fogazzaro cit., pp. 81-82). Eppure poi qualche altra significativa richiesta di modifica fu avanzata il successivo 16 marzo: «Io avevo già da più giorni consegnato al proto il Suo manoscritto, quando, ci sorse un dubbio. Quell’ “Udite Pietro, Ma precedete il suo vessil, ecc.” che noi intendiamo benissimo, sarebbe malamente e pericolosamente interpretato da molti. Senza di quello siamo tra due fuochi, e come! Perciò ci permettiamo di chiederle l’autorizzazione a togliere quella strofe, nonché — per altre ragioni che meglio Le saprebbe spiegare Giulio — la precedente: “Lume di stelle ecc.”. Ci pare che si possa benissimo saltare da “Riprendetelo, è mio” a “Non dite al mondo” ecc. Se Le dispiace, sia come non detto. Intanto consulteremo anche qualche sacerdote atto a consigliare in proposito. Del resto, più leggo la sua poesia più m’innamoro. È il più sublime canto cristiano» (ibid., p. 84). Col verso «Udite Pietro, Ma precedete il suo vessil, ecc.», Fogazzaro indicava un atteggiamento di sequela, ma anche di stimolo, rispetto al magistero pontificio, che poi esemplificherà nel Santo. La strofe fu eliminata e non risulta reinserita neanche nelle ristampe successive. Per Visione e il suo significato (il poemetto descrive — com’è noto — il ritorno di Cristo sulla terra e la «seconda conversione» di Fogazzaro), cfr. GALLARATI SCOTTI, La vita di Antonio Fogazzaro cit., pp. 248-250, che lo giudica «il più religioso dei suoi canti». 79 Per il ruolo che vi svolse Salvadori, un primo avviamento d’indagine è in N. VIAN, Umiltà cristiana di Giulio Salvadori. La rivista «L’Ora presente» e l’azione della «Unione per il bene», in Persona 11 (1970), pp. 101-103. Gli articoli dell’Ora presente non sono firmati e quindi creano problemi di attribuzione: la Bibliografia di Bonalumi (cfr. supra, nt. 6) ne comprende molti sulla base di testimonianze postume di Antonietta Giacomelli, Eugenio Masucci e Giovanni Zannone. Una certa cautela è tuttavia necessaria: per esempio vi è inserito il saggio L’intimo di Giacomo Leopardi (1, 1895, pp. 321-324), che è sicuramente di Guido Fortebracci: cfr. Scritti vari di Guido Fortebracci (Pietro Bracci), Roma 1904, pp. 34-37. Per i rapporti fra Salvadori e Bracci, cfr. L 132-133 e passim. 80 L. BEDESCHI, Circoli modernizzanti a Roma a cavallo del secolo, in Studi romani 18 (1970), pp. 189-215 e P. SCOPPOLA, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bolo-
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che non risulta soddisfacente, perché in qualche modo precostituisce uno sbocco “naturale” alla sua vicenda: sbocco, al quale invece molti (fra cui Salvadori) si sottrassero, mentre altri (come Semeria e Antonietta Giacomelli), pur attraversando dolorosamente l’esperienza modernistica, restarono sempre all’interno della Chiesa. C’è da chiedersi, semmai, se non sia da rovesciare la prospettiva: se, cioè, non si possa parlare di fermenti di riforma religiosa già presenti nell’Ottocento italiano (nell’ambiente cattolico-liberale e poi conciliatorista) veicolati nel secolo successivo da gruppi e singole personalità, rispetto ai quali il modernismo costituì, non voglio dire una “deviazione”, ma solo una delle possibili vie di sviluppo. Ma anche un rischio di blocco: perché la repressione antimodernistica provocò temporaneamente un irrigidimento dell’intera compagine ecclesiale e quindi silenziò anche la ricerca di questi “riformatori interni”, che solo progressivamente e in un clima mutato, sarebbero tornati allo scoperto o comunque avrebbero lasciato un’eredità importante nei decenni successivi. La rivista aveva come motto l’esortazione di mons. John Ireland, il famoso arcivescovo di Saint Paul nel Minnesota: Amiamo il nostro secolo, perché è il tempo che Dio ci ha dato per lavorare. Essa può essere infatti considerata anche come un capitolo della fortuna italiana dell’«americanismo»81, di cui si fece interprete in quegli anni soprattutto la Rassegna Nazionale: è evidente anche per questo aspetto la comunanza di temi col quindicinale fiorentino, che in certi momenti scese in campo per difenderla dagli attacchi degli ambienti intransigenti82. Attenta allo spiritualismo francese, in gna 1961, pp. 88-89. Richiamavo i contatti del giovane Giovanni Amendola con questi ambienti e i giudizi illuminanti che poi ne avrebbe dati, in R. PERTICI, Giovanni Amendola: l’esperienza socialista e teosofica (1898-1905), in Belfagor 35 (1980), pp. 185-197. 81 Dal nuovo mondo (1, 1895, pp. 70-74), che riporta ampi brani della conferenza di mons. Ireland La Chiesa ed il secolo (18 ottobre 1893) in occasione del XXV della consacrazione del card. James Gibbons; Del parlamento delle religioni a Chicago (ibid., pp. 177-180), conferenza tenuta a Bruxelles nel settembre 1894 da mons. John Keane, vescovo rettore dell’università di Washington; Segni forieri (3, 1897, pp. 268-269), che cita uno scritto del «nostro amico Carlo Placci» comparso sulla rivista milanese L’Idea liberale a proposito del padre Semeria: «La parte sinceramente religiosa, ma anche sinceramente moderna del mondo cattolico italiano s’è innamorata subito dei discorsi dei vescovi americani, del cardinal Gibbons, per esempio, di monsignor Ireland, di monsignor Keane». Lo scrittore Carlo Placci (1861-1941) era allora forse l’amico più caro del giovane Gaetano Salvemini, a cui confessava il 10 maggio 1897: «A voce avrebbe subito capito la trasformazione mia. Son tornato religioso convinto!!!» (G. SALVEMINI, Carteggi, I (1895-1911), a cura di E. GENCARELLI, Milano 1968, p. 53). Anch’egli, con l’amica Elena French, appartenne all’Unione per il bene. Che all’interno dell’Unione si svolgessero letture collettive dei discorsi dell’arcivescovo Ireland è testimoniato in GIACOMELLI, A raccolta cit., pp. 306-314. 82 Sull’«americanismo» della Rassegna Nazionale, cfr. CONFESSORE, Conservatorismo politico e riformismo religioso cit., pp. 69-114; EAD., «La Rassegna Nazionale» e l’americanismo, in Cattolici e Liberali. Manfredo Da Passano e «La Rassegna Nazionale», a cura di U. GENTILO-
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particolare all’opera di Léon Ollé-Laprune, docente per una ventina d’anni all’École Normale, maestro di Desjardins, Georges L. Fonsegrive, Georges Goyau (tutti variamente presenti nell’ambiente dell’Ora presente), ma anche di Blondel e Laberthonnière e della loro “filosofia dell’azione”83, la rivista rifuggì ogni atteggiamento pregiudizialmente ostile alla scienza e anzi molto insistette, soprattutto negli interventi del padre Semeria, sulla necessaria “conciliazione” fra scienza e fede84. Nel momento delle repressioni crispine contro socialisti e anarchici, le sue pagine furono singolarmente attente alla «questione sociale»: Igino Petrone seguì con attenzione le discussioni sul marxismo e sul socialismo, Giulio Vitali pubblicò reportages sui quartieri periferici di Roma e sull’impegno filantropico del gruppo di Salvadori85, Scipio Sighele intervenne sulla protezione dell’infanzia e il problema della delinquenza minorile. Particolarmente interessante è la polemica costante contro il nazionalismo (e il protezionismo)86 e la presa SILVERI, Soveria Mannelli (CZ) 2004, pp. 75-98. L’Ancora. Giornale politico-religioso di Padova nel numero del 10-11 agosto 1897 pubblicò un corsivo Attenti! in cui metteva in guardia i suoi lettori nei confronti dell’Ora presente: esso è riprodotto sotto il titolo Uno strano allarme, in L’Ora presente, 3 (1897), pp. 381-382. In difesa del mensile di Salvadori scendeva in campo il barnabita Alessandro Ghignoni, Per l’«Ora presente», periodico per il bene, in Rassegna Nazionale, 1° ottobre 1897, pp. 447-464. 83 Un libro di Ollé-Laprune sul valore della vita (1, 1895, pp. 87-90), a proposito dei suoi libri Le prix de la vie (1894) e Les sources de la paix intellectuelle (1892); Il dovere d’operare (ibid., pp. 225-227) a proposito di L. Ollé-Laprune, Le devoir d’agir (1894). Sui rapporti tra Goyau e Antonietta Giacomelli, cfr. Lettere di Antonietta Giacomelli ad Antonio Fogazzaro cit., p. 94. Su Ollé-Laprune e la “filosofia dell’azione”, cfr. le classiche pagine di G. GENTILE, Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Bari 19212, pp. 17-18, 181-191. 84 Sulla Revue des deux mondes del 1° gennaio 1895 era stato pubblicato il celebre articolo di Brunetière Après une visite au Vatican, in cui si dichiarava la «bancarotta della scienza» (COMPAGNON, Connaissez-vous Brunetière? cit., pp. 17-18). Sull’argomento, cfr. [G. SEMERIA], I diritti della scienza (1, 1895, pp. 101-108): per il dibattito che suscitò, cfr. le indicazioni di Nello Vian in L 188. 85 [G. VITALI?], Un giro nel quartiere di San Giovanni in Laterano (1, 1895, pp. 190-192); A proposito di una visita ad un ospizio di fanciulli abbandonati (ibid., pp. 419-425). L’attribuzione del primo a Giulio Vitali è quasi sicura in base a un suo cenno in G. VITALI, Alla ricerca della vita, Milano 1907, p. 338, dove fra l’altro — a proposito dell’Ora presente — si dichiara che da essa «chi scrive sa d’aver assai più ricevuto, che non abbia dato». Sulla figura di Giulio Vitali, notizie in L 227-228, ma soprattutto C. CESA, Gli equivoci dell’idealismo: il Fichte di Giulio Vitali, in «Culture dell’Anima». Letture moderne a inizio Novecento. Atti del Convegno di Studio, Chieti, 28-29 aprile 2010, a cura di M. DEL CASTELLO, C. TATASCIORE, G. A. LUCCHETTA, Lanciano 2014, pp. 41-62. 86 « Se veramente ogni popolo chiudesse agli altri le sue frontiere intellettuali e morali, ciò segnerebbe un regresso nel cammino dell’umanità», in Patriottismo (2, 1896, pp. 49-52, 49); [G. SALVADORI], L’ora della prova (ibid., pp. 145-146), dopo la sconfitta di Adua, in cui si affermava il bisogno di unità interna e di pacificazione, ma anche la necessità di «uscire dai sogni e dalle teorie» per venire incontro ai problemi delle classi più disagiate; Il sangue (ibid., pp. 410-412) e Ai fratelli d’Armenia (ibid., pp. 442-446), a proposito dei massacri turchi in NI
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di distanza dalla filosofia di Nietzsche, che allora — anche attraverso la mediazione dannunziana — stava diventando una moda culturale anche in Italia87. «Io volevo scrivere per aiuto a qualche altro [oltre Fogazzaro] scrittore italiano; ma Giulio mi sconsigliò, eccettuando De Amicis», scriveva la Giacomelli a Fogazzaro il 20 aprile 189588. In effetti fu soprattutto alla coeva letteratura francese che L’Ora presente guarda: a Fonsegrive, a Pierre Loti, a Gaston Paris, del quale Salvadori presenta il celebre saggio su Saint Josaphat, portando avanti con lui una significativa discussione sul buddismo89. Infine sulle pagine della rivista si conferma una fedeltà di fondo alla tradizione che da Rosmini giunge a Bonghi, all’abate Luigi Tosti, ad Augusto Conti e a Isidoro Del Lungo: insomma quella del vario «conciliatorismo» post-risorgimentale90. I brevi anni della rivista sono quelli che segnano il primo incontro dell’opinione pubblica italiana, quella “laica” e socialista in specie, con la questione ebraica. Soprattutto tre testi la impongono all’attenzione generale: la pièce teatrale del deputato repubblicano (e massone) Giovanni Bovio, Cristo alla festa di Purim, andata in scena a Napoli il 10 maggio Armenia e a Candia. Per i rapporti con il periodico liberista milanese L’Idea liberale e con l’economista Francesco Papafava, cfr. Lettere di Antonietta Giacomelli ad Antonio Fogazzaro cit., pp. 74-79, 89-90. 87 [G. VITALI], A proposito di Federico Nietzsche (3, 1897, pp. 200-209): per l’attribuzione, cfr. ID., Alla ricerca cit., p. 332. 88 Lettere di Antonietta Giacomelli ad Antonio Fogazzaro cit., p. 89. Ma è di grande rilievo la recensione positiva e acutissima che Salvadori dedicava a Myricae di Giovanni Pascoli (1, 1895, pp. 296-301), che riprendeva quella pubblicata nel 1892 sul Fanfulla della Domenica (LS, II, 129-134). 89 Lettere d’un curato di campagna (1, 1895, pp. 290-295) a proposito di Lettres d’un curé de campagne (1895) di Yves Le Querdec, pseudonimo di Fonsegrive: Fonsegrive fu uno degli autori prediletti della Rassegna Nazionale, che ne tradusse e pubblicò a puntate molte opere; [G. SALVADORI], La storia di Barlaam e Giosafat. Considerazioni sul buddismo (2, 1896, pp. 385-397); Dal «Jérusalem» di Pierre Loti (3, 1897, pp. 127-131). Notevole è anche la traduzione col titolo Antea del racconto di Henryk Sienkiewicz, Pójdömy za nim! (1894), una specie di anticipazione del Quo vadis? (2, 1896, pp. 254-265, 307-316): è noto il ruolo che il padre Semeria avrebbe avuto nella divulgazione in Italia del romanzo dello scrittore polacco. Sui rapporti fra Salvadori e Gaston Paris, cfr. la sua lettera a Desjardins (che di Paris aveva sposato la figlia) del 20 aprile 1903, dopo la morte del filologo francese, con le annotazioni di Nello Vian (L 406-407). 90 [A. FOGAZZARO], Di Antonio Rosmini (3, 1897, pp. 193-200); [G. SALVADORI], Antonio Rosmini e la mediazione nei conflitti sociali (ibid., pp. 145-154); Ruggero Bonghi (2, 1896, pp. 52-61); Ai giovani (Da due discorsi di Isidoro Del Lungo) (ibid., pp. 275-276); [ID.], Famiglia (3, 1897, pp. 99-127) a proposito dell’opera di Augusto Conti; [C. VILLANI], L’abate Luigi Tosti (ibid., pp. 469-471): fu Salvadori a chiedere al benedettino don Cornelio Villani un ricordo del padre Tosti il 3 ottobre 1897 (L 278-279). Per precedenti contatti fra Salvadori e Tosti, ibid., p. 98.
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1894, il saggio di Cesare Lombroso su L’antisemitismo e le scienze moderne, ancora del ‘94, e L’Europa giovane di Guglielmo Ferrero, scritta fra il 1894 e il 1895 e pubblicata nel marzo del 1897. Pur appartenendo tutti questi autori alla sinistra culturale e politica ed essendo fortemente ostili all’antisemitismo, anch’essi danno tuttavia credito a non pochi degli stereotipi “razziali” che cominciano (o riprendono) a circolare: se la polemica di Bovio contro il legalismo della religione ebraica ha come trasparente obiettivo il cattolicesimo dei suoi giorni (ma si ebbero risposte polemiche anche da ambienti ebraici)91, nel secondo capitolo del suo libro il socialista ed ebreo Lombroso enumera i Difetti degli Ebrei92, mentre Ferrero traccia una «fisiologia del genio ebraico», di cui evidenzia «la propensione al misticismo, la coscienza trascendentale dell’opera propria, il pessimismo, il fanatismo e soprattutto uno spirito etico che spesso degenera in una vera fronda contro la civiltà»93. L’ebreo è sostanzialmente un «nevrotico», in cui 91 «Nessuna volta come questa, dopo tante aspre censure, dagli opuscoli alle pastorali, dalle riviste all’enciclica, da’ semiti di Frankfort ai cattolici di Roma, e dal giornaletto clericale (chi l’avrebbe detto?) sino talvolta al radicale, dopo tante invettive, prediche, tridui, sino al divieto governativo a Roma, nessun’altra volta come questa un uomo avrebbe sentito il bisogno di due parole di apologia, di difesa, di polemica da premettere a questa nuova edizione dell’opera condannata. E pure, mai meno di questa volta ne ho sentito il bisogno» (G. BOVIO, Prefazione alla settima edizione, datata: Napoli, 10 ottobre 1894, in ID., Opere drammatiche, con prefazione di C. ROMUSSI, Milano 1904, p. 31). 92 C. LOMBROSO, L’antisemitismo e le scienze moderne, Torino – Roma 1894, pp. 13-19. Secondo Lombroso, il carattere degli ebrei aveva contribuito alla loro persecuzione e «l’abitudine continuata e concentrata per tanti anni nei commerci fece in loro predominare quell’abito della furberia e della menzogna, quella poca energia muscolare che è comune a tutti i commercianti». La tendenza all’endogamia aveva favorito «la frequenza della degenerazione che dà luogo a una gran quantità di genii, ma anche di nevrotici, di megalomani, di ambiziosi». Si aggiunse «l’istinto di appartarsi dagli altri […] e la strana conservazione dei vecchi costumi, dei vestiari medioevali dei singoli paesi». Il celebre antropologo sottolineava il loro «conservatorismo religioso [che] ha lasciato crescere sulle belle linee monoteistiche […] una caterva di riti a cui i fedeli, come sempre i bigotti, dànno molto più importanza che a tutti i principî religiosi» e, come esempio, ricordava «il selvaggio uso della circoncisione». Un tale conservatorismo aveva dato origine a una serie di gravi intolleranze all’interno delle varie comunità ebraiche (scontato il riferimento al caso di Spinoza). Infine gli ebrei avrebbero «forte l’intelligenza, [ma] scarso il carattere»: ostinati e tenaci, ma pronti alla simulazione e all’adulazione servile. Hanno perduto il coraggio fisico che caratterizzava i loro antenati e lottano piuttosto di furberia: «Aggiungiamo infine l’indole uggiosa e monotona, poco plastica, poco artistica del culto, lo spirito malinconico, chiuso dell’Ebreo fin dai tempi di Tacito, cause queste che sono le più frequenti delle antipatie individuali e nazionali». Tuttavia Lombroso era ostilissimo al moderno antisemitismo, che considerava uno strumento politico dei governi e di alcuni movimenti politici per eccitare l’opinione pubblica o deviarne ad arte la protesta: in particolare sottolineava il ruolo del nascente nazionalismo, ma anche di certi ambienti cristiani e socialistici. Per il libretto del 1894, osservazioni in G. CAVAGLION, Was Cesare Lombroso Antisemitic?, in Journal for the Study of Antisemitism 3 (2011), pp. 301-319, 309-312. 93 G. FERRERO, L’Europa giovane. Studi e viaggi nei paesi del Nord, Milano 1897, p. 411, ma più in generale cfr. tutta la sezione intitolata La lotta di due razze e di due ideali. L’antise-
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la lunga serie delle persecuzioni subite ha inoculato un pessimismo radicale e un’ansia di rigenerazione totale. «Mai — è stato scritto — come nel biennio 1897-1898 la stampa democratica e socialista dedica così ampio spazio alla follia, al genio, alla degenerazione fra gli israeliti, alla “lotta per la sopravvivenza”»94. Ma — continua Ferrero — mentre l’antisemitismo antico aveva ragione nel perseguitarli, perché la civiltà greco-romana era troppo superiore al loro spirito esclusivo e fanatico confluito poi anche nel cristianesimo, oggi la secolarizzazione e l’assimilazione li hanno inseriti nella civiltà moderna: «Egli [l’ebreo] non aggredisce più, come in antico, una civiltà che non conosce e che non vuol conoscere, con idee e sentimenti barbarici; egli è diventato un figlio adottivo, uno scolaro della civiltà ariana che alla fine ha vinto le sue resistenze; gran fortuna nostra non solo, ma anche sua, perché così egli, dopo tanto tempo di aberrazioni fantastiche, è rinsavito, guarendo in parte di quelle funeste inclinazioni che tanti errori gli hanno fatto commettere nel passato». Se per il Salvadori del 1893 era stata la secolarizzazione dell’ebraismo che aveva trasformato la sua ansia profetica in propensione rivoluzionaria o in attivismo economico, per Ferrero l’ebreo secolarizzato aveva ammorbidito la sua opposizione alla società circostante, anche se — aggiungeva — «anche oggi grattate l’ebreo di ingegno, e troverete sotto il profeta; né il profeta è un tipo che può interamente piacere alla fine del secolo decimonono. Pure esso ci domina e ci trascina»95. Un tale approccio in qualche modo “razziale” è del tutto assente nelle pagine dell’Ora presente, dove prevale invece una considerazione eminentemente religiosa. Nei confronti delle altre esperienze religiose (come anche dell’agnosticismo e dell’ateismo), Salvadori ripropone l’atteggiamento già maturato negli anni precedenti: né indifferenza, né fanatismo ma amore, «carità nelle vicende del pensiero e della fede»: La carità, allo spirito consapevole delle lotte del pensiero per averle già oltrepassate, persuade un senso di benevola e tranquilla attitudine allo spettacolo di quelli che non le hanno oltrepassate ancora; essa nel dissidente dalla nostra dottrina e dalla nostra fede ci educa a ravvisare l’uomo che è come noi, che dalla nobil sete del vero è travagliato più, forse, di noi: e, allo spettacolo di credenze avverse alla nostra, non ci dispone all’odio, ma ad un mesto rimpianto, come al ricordo di un mitismo (pp. 349-413). Il libro era dedicato al futuro suocero Cesare Lombroso e definito «frutto di un albero coltivato da lui». Per le circostanze in cui Ferrero scrisse questo fortunatissimo volume (un viaggio europeo fra il 1893 e il 1895 compiuto anche per sfuggire alle persecuzioni di Crispi contro i socialisti), cfr. TREVES, L’idea di Roma cit., pp. 266-269. 94 A. CAVAGLION, Felice Momigliano (1866-1924). Una biografia, Bologna 1988, p. 64, ma più in generale pp. 62-66. 95 FERRERO, L’Europa giovane cit., pp. 411-412.
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fratello perduto, che noi avremmo dovuto e potuto, e non abbiamo saputo guadagnare, che riguadagneremo forse domani se, in cambio di respingerlo, lo attiriamo a noi e cerchiamo d’illuminarlo, e gli parliamo la parola d’amore. […] Questa forma sublime di tolleranza che è la carità nelle vicende del pensiero e della fede, […] è l’ideale più alto che la coscienza umana si possa proporre96.
Come anche il rifiuto di ogni razzismo: «Apprendere a odiare le altre razze, quale funesto e puerile errore!»97. Il primo aspetto che accomuna i riferimenti all’ebraismo sparsi sull’Ora presente è una fortissima sottolineatura del valore del profetismo ebraico, considerato come un’esperienza religiosa unica nell’antichità e quale primo anello della catena che avrebbe portato a Gesù e al cristianesimo. Se in proposito Salvadori poteva trovare spunti già nelle pagine di Tommaseo, negli anni precedenti questa valorizzazione del profetismo era stato il tema centrale della grande Histoire du peuple d’Israël, pubblicata dal 1887 al 1893 da Ernest Renan (un autore con cui il giovane letterato toscano si era ripetutamente confrontato98): Le christianisme est le chef-d’oeuvre du judaïsme, sa gloire, le résumé de son évolution. Par le christianisme, les deux éléments qui étaient dans le judaïsme achèvent leur lutte séculaire. Les prophètes, vaincus par la Thora, dépuis le retour de la captivité, l’emportent définitivement; les pharisiens sont battus par les messianistes; […] Jésus, le dernier des prophètes, met le sceau à l’oeuvre d’Israël. Les rêves d’avenir, le royaume de Dieu, les espérances sans fin vont naître sous les pas de cet enchanteur divin et devenir pour des siècles la nourriture de l’humanité99.
Renan, come spesso aveva fatto, elaborava a sua volta i risultati dell’esegesi biblica tedesca (Georg Heinrich August Ewald) e della rinnovata storiografia sull’antico Israele (Julius Wellhausen). Mentre secondo la visione tradizionale, i profeti si erano limitati ad approfondire e sviluppare in singoli punti la religione di Mosè, che veniva considerata un sistema completo 96 [G. SALVADORI], Fanatismo, tolleranza, carità, in L’Ora presente 1 (1895), pp. 365-372, 371-372. 97 Patriottismo cit., p. 52. 98 Il 17 gennaio 1886, sulla Cronaca bizantina diretta da D’Annunzio, Salvadori aveva recensito il dramma filosofico di Renan Le prêtre de Nemi (LS, II, 127-129); il 22 settembre 1889, sul Fanfulla della domenica, aveva discusso il suo Examen de conscience philosophique appena pubblicato sulla Revue des deux mondes (LA, 78-91). 99 E. RENAN, Histoire du peuple d’Israël, V, Paris 1893, pp. 414-415. Per tutto questo problema, cfr. R. POZZI, Storia, filologia e pensiero razziale. Una riflessione su Ernest Renan, in EAD., Tra storia e politica. Saggi di storia della storiografia, Napoli 1996, pp. 245-275, 269-275. L’approccio renaniano era stato “popolarizzato” nel 1892 da un suo seguace ebreo, James Darmesteter, che aveva insistito sul nesso fra il tema della giustizia presente nel profetismo ebraico e il socialismo (J. DARMESTETER, Les prophètes d’Israël, Paris 1892, p. XV e passim).
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e ben definito, ora risultava sempre più evidente che essi avevano completamente rivoluzionato la religione d’Israele: grazie a loro, la religione nazionale fondata da Mosè era diventata universale e quindi la più diretta anticipazione del cristianesimo. Inoltre l’avevano liberata dall’osservanza minuziosa delle regole: dopo i profeti, la moralità era diventata una conquista interiore, il cui ambito era la coscienza individuale. Come scriveva nel 1894 un altro dei più efficaci divulgatori di questa nuova lettura: Noi abbiamo accompagnato lo sviluppo organico di una delle più grandi potenze spirituali che la storia dell’umanità abbia mai veduto, della parte più importante e magnifica della storia religiosa anteriore al Cristianesimo. Se Israele è diventato il popolo della religione per tutto il mondo, lo deve al profetismo che per il primo ed in modo chiaro ha avuto l’idea d’una religione universale e ne ha fissate tutte le basi. In Giovanni Battista il profetismo è risuscitato ancora una volta, e Gesù di Nazareth, il suo fiore più puro e il suo frutto più maturo, si è ricongiunto, in contrapposto al Giudaismo farisaico del suo tempo, al profetismo dell’Antico Israele. La profezia israelitica è la Maria che ha partorito il Cristianesimo, e la Chiesa cristiana medesima non ha saputo come meglio definire il pellegrinaggio terrestre del suo fondatore che parlando di lui come di uno ch’ebbe un ufficio profetico. Dove arriva l’influenza del Cristianesimo, là arriva oggi l’influenza del profetismo israelitico, e se il più antico dei profeti-scrittori, Amos, chiama la profezia il più splendido dono della grazia che Dio desse ad Israele, e solo ad Israele (Am., 2, 11), una storia di due millenni e mezzo non ha fatto che confermare la sua parola. La storia di tutta l’umanità non ha prodotto nulla che possa star a paragone, sia pur lontanamente, col profetismo d’Israele: grazie al suo profetismo, Israele è diventato il profeta dell’umanità. È una cosa che non dovrebbe essere mai né trascurata né dimenticata: ciò che l’umanità possiede di più prezioso e di più nobile, essa lo deve ad Israele ed al profetismo israelitico100.
Echi di queste ricostruzioni si trovano spesso nell’Ora presente: più che intervenire direttamente, Salvadori, che — come abbiamo visto — ne era diventato un po’ il «dittatore» (così lo definiva scherzosamente la Giacomelli), fa tradurre una serie di testi significativi od ospita interventi di alcuni giovani collaboratori. Abbiamo accennato come la polemica contro il nazionalismo sia uno dei motivi ispiratori della rivista: significativa in tal senso è la riproposizione del saggio di Solov’ëv Nationalisme et cosmopolitisme, allora tradotto in italiano, e l’entusiastica adesione alle sue «grandi verità»: «che il dovere morale dell’amore verso tutti gli uomini sia eretto a criterio del sentimento patrio come dell’umanitario; che gli odi di razza e 100 C. E. CORNILL, I profeti d’Israele, traduzione di D. LATTES e M. BEILINSON, prefazione di F. MOMIGLIANO, Bari 1923, pp. 162-163. L’opera di Carl Heinrich Cornill, Der israelitische Prophetismus era uscita originariamente nel 1894 e subito era stata tradotta in inglese (The Prophets of Israel. Popular Sketches from Old Testament History, Chicago 1897).
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di nazionalità siano, in nome della morale e della religione, definitivamente proscritti». Il collaboratore della rivista concentra la sua attenzione su d’un passo del filosofo russo e lo riporta con pieno consenso: Un solo popolo, fra gli antichi, ebbe vivo e profondo il sentimento nazionale, e fu l’ebraico. Al tempo stesso però quel sentimento non è privo di aspirazioni universalistiche, e anziché nutrirsi di reminiscenze del passato o di glorie presenti, trasporta il compimento del suo ideale nel futuro, per mezzo del linguaggio profetico e dell’idea messianica universale. Farisei e Sadducei s’oppongono a quel concetto altissimo, appoggiandosi all’esclusivismo nazionale meschino e ristretto del risorgimento politico. Ma l’ideale profetico si compie in Cristo: e da lui comincia veramente, non senza conflitto, la legge dell’amore universale101.
Quindi quell’esclusivismo che un po’ tutti gli analisti della questione ebraica (di qualsiasi orientamento fossero) indicavano come una delle peculiarità negative dell’ebraismo, trovava un’alternativa proprio al suo interno, nel profetismo: in esso aveva trovato accenti universali che preludevano all’insegnamento cristiano. In un saggio ridondante di echi letterari offerto alla rivista da una giovane collaboratrice allora impegnata in uno studio sulla «lirica ebraica», si torna più ampiamente sugli stessi temi: Ma ai profeti non si può pensare senza che attraverso le nebbie di diciannove secoli tutto un popolo si rizzi ai nostri sguardi, il popolo dei profeti e della profezia: Israele. E ci par di vederlo muovere in quel paesaggio melanconico, immortale, superbo. […] Il personaggio più importante in questa natura creata per lui, è il Profeta. La sua figura si muove maestosa fra le tribù di Giacobbe, errante di città in città, di terra in terra, senza tetto, senza eredità, senza otre né provvisioni ne’ suoi viaggi attraverso regioni disabitate, nelle lunghe soste contemplative sui monti. […] Il Profeta insomma è in Israele e fuori d’Israele, la mente di Dio fra gli uomini «Locutus est per Prophetas». La sua figura stupefatta ed estatica divide le epoche da Mosè al Cristo; oltraggiata, rimane ritta ed immobile; respinta ed uccisa, risuscita lì presso con un altro nome, con un’ altra voce, ma coi medesimi destini. […] Nel Profeta si riassume tutta la missione d’Israele nei secoli anteriori al Cristo. Le nazioni che fuggono si danno il convegno a quel punto lontano che il Profeta accenna. Si cambiano le sorti, i destini degli uomini spariscono: ma restano immutabili quelli segnati dal dito del Profeta. Esso è l’umanità esaltata fin dal principio, messa a parte 101 Cosmopolitismo e patriottismo. A proposito di un articolo di V. Solovief (1, 1895, pp. 261-266) a proposito di V. SOLOVIEF [V. S. SOLOV’ËV], La nazionalità in rapporto con la morale, ovvero i rapporti fra i popoli sotto il punto di vista morale, in Messaggero d’Europa, gennaio 1895. Il saggio col titolo Nationalisme et cosmopolitisme può leggersi in Vladimir Soloviev, introduction et choix de textes traduits pour la première fois par J. B SÉVERAC, Paris 1910, pp. 127-150: il brano sul profetismo ebraico è alle pp. 132-133
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di tutte le glorie future che noi possediamo. Rischiarato da luce superna il Profeta passò nel tempo, ma non visse nel tempo: vide l’umanità dall’uno all’altro confine, collocata non nel suo paese fra 1’Hermon e il deserto; non fuggente fra castighi e perdoni dalla legge del Sinai alla distruzione del Tempio, ma costituita nell’eternità intorno al sole del Verbo. Esso possedette in visione ciò che noi possediamo in realtà. Vide quello che Isaia chiamò Verbum abbreviatum, dal quale noi risaliamo ai Profeti come i Profeti scesero a noi. Noi apriamo il Vangelo a lato delle profezie, e solo una pagina ne lo divide: il Vangelo compie i Profeti, e spiega la legge. Non veni solvere sed adimplere. Le parole d’Isaia, di Geremia, d’Ezechiele, d’Amos, di tutti i veggenti, sono i canti preparativi al poema universale di redenzione, che per mezzo dei vaticini si collega al Cristo, suo centro e sua vita. La profezia è dunque l’unica espansione che Israele diede all’anima sua. Né soltanto con la voce, ma per mezzo di tutte le possibili manifestazioni: nel silenzio e nella gloria, sul campo di guerra e nel Tempio, trionfatore e vinto, nell’interno delle sue case, intorno al desco, nelle vesti, nei sandali, nella polvere che calpesta, nei moti del suo braccio. Grandi e piccoli adempiono la loro missione, fanno eco alla voce del Profeta, personificano l’umanità che aspetta, che crede, che s’affida al Venturo102.
La tradizione profetica costituiva il punto d’incontro fra ebrei e cristiani e il terreno su cui era possibile instaurare un dialogo fra loro. Sull’Ora presente questo tema, che (come vedremo) sarà sviluppato da Salvadori nei decenni successivi, resta implicito, ma la necessità di un rispetto reciproco e di un reciproco riconoscimento è già pubblicamente sostenuta. Nel luglio del 1896, la rivista traduce e pubblica un articolo che dichiara di aver tratto «da un ritaglio di giornale mandatoci» dalla Polonia. Conviene riportarlo tutto: Scrivono da Varsavia: Mi affretto ad informarvi, di un fatto molto nuovo e nel tempo stesso molto interessante. Sappiate che monsignor Nowodworski, vescovo cattolico di Plock, ha avuto una impreveduta sorpresa nella sua visita pastorale fatta alla piccola città di Serock. Infatti all’ingresso di essa città fu ricevuto solennemente dal rabbino del luogo, il quale sotto un ricco baldacchino, — circondato dal Kahal e da grande moltitudine di israeliti, diede il benvenuto a Monsignore in linguaggio ebraico. Il suo discorso fu a un dipresso questo: «Sii benedetto nel tuo entrare e nel tuo uscire da questa città. Sia benedetto il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe che ha dato all’uomo una parte della sua sapienza. Che egli benedica il Capo della Chiesa cattolica romana e i suoi inviati, affinché essi conducano il loro popolo nella via della verità e della virtù. Io, rabbino di Serock, dò il benvenuto a vostra eccellenza, in mio nome e a nome di tutti gli 102 Il profeta d’Israele (3, 1897, pp. 14-19). «Della giovane autrice di Roma e la sua lirica, il brano di uno studio sulla lirica latina da noi pubblicato nel numero di marzo dello scorso anno [1896], accennando ad altro suo studio sulla lirica ebraica, del quale queste pagine son parte dell’introduzione»: questa la presentazione, verosimilmente di Salvadori, del brano.
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israeliti di questo Comune. Che la vostra venuta qui, sia un’assicurazione di pace e di concordia fra israeliti e cristiani, e che il precetto “ama il tuo prossimo come te stesso” resti sempre profondamente impresso nei cuori». Monsignore, alquanto sorpreso, ma per nulla imbarazzato, ringraziò il Rabbino e proseguì all’incirca in questi termini: «Ora che la corrente d’odio antisemita cresce di più in più, la vostra cortesia a mio riguardo dimostra che voi sapete che la Chiesa ha sempre protetto gli ebrei contro le tempeste di avversione che di tratto in tratto sorgono nelle masse non abbastanza penetrate della santa dottrina evangelica sull’amore del prossimo. E venendo a me, vescovo, provate col fatto che voi sapete che i papi, i vescovi e tutto il clero cattolico elevano sempre la loro voce in vostra difesa in sì dolorosi casi. Ma la vostra cortesia mi è ancora più gradita, perché essa è l’espressione di speranze religiose. Il vostro Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è ancora il nostro Dio, la vostra Bibbia è la nostra Bibbia, i vostri salmi servono alla preghiera nelle nostre chiese. Dirò di più, che è dalla vostra nazione che proviene il corpo umano del nostro Redentore, ed è dalla vostra nazione che sono venuti gli Apostoli. Noi abbiamo adunque molte cose comuni con voi, ancorché sia con Colui, che è venuto per salvare tutti e che i vostri padri non vollero riconoscere, che è cominciata la nostra salute e la vostra sventura. Sono sventure e sofferenze, che furono predette da Osea quando profetizzò che voi sarete senza altare, senza sagrifizio, senza efod e senza tempio. Se non che vi sono altre profezie, le quali vi annunziano un avvenire felice, che vi riconcilierete con tutti, e tutti si riconcilieranno con voi. Tale evento non può aver luogo che per mezzo della carità che non sia soltanto sulle labbra ed una vana parola. La carità, per produrre la pace e la felicità, deve vivere nel cuore dell’uomo, e non può emanare da un cuore egoista, essendo che essa non può venire che dall’amore divino, il quale si manifesta al mondo nel Redentore del mondo. Andando tutti a questa feconda sorgente di carità e di amore, Gerusalemme risuonerà di cantici di gioia, e Sionne echeggerà di laudi per la gioia della propria salvezza. Io veggo nella vostra cortese condotta a mio riguardo un segno consolante di questo futuro riavvicinamento, e perciò prego Dio che vi conceda la sua grazia e la sua benedizione». Questa allocuzione, cosi semplice e così cordiale, ha prodotto su quanti l’ascoltarono la più viva impressione; e già molti vanno dicendo che alle porte di Serock si sono incontrati il vecchio e il nuovo Testamento103.
Non sappiamo se il rinvio al giornale polacco sia o no un artificio letterario, anche se il personaggio di mons. Michaá Nowodworski (1831-1896), vescovo cattolico di Plock, è storico. Nel suo discorso al rabbino si possono rilevare parzialità (come a proposito dell’atteggiamento della gerarchia cattolica verso gli ebrei nel medio evo), ma resta senz’altro molto forte la presa di distanza dall’antisemitismo, «ora che la corrente d’odio antisemita cresce di più in più». Il suo discorso rispecchia la posizione di Salvadori, anche quelle degli anni futuri: sia nella convinzione che l’atteggiamento 103
Vescovo cattolico e rabbino israelita (2, 1896, pp. 325-327).
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cattolico verso gli ebrei debba essere ispirato dalla «santa dottrina evangelica sull’amore del prossimo», sia nel guardare in avanti. Infatti, piuttosto che tornare a ribadire l’accusa di deicidio e quindi il carattere provvidenziale della sventura ebraica dei secoli passati, il vescovo (e Salvadori) insistono sul tema del possibile «ritorno di Israele» e della sua «riconciliazione» con le genti cristiane: ma «tale evento non può aver luogo che per mezzo della carità che non sia soltanto sulle labbra ed una vana parola». Carità, cioè amore, da parte dei cristiani; amore anche da parte ebraica e riconoscimento che tale amore «non può venire che dall’amore divino, il quale si manifesta al mondo nel Redentore del mondo». Quello del «ritorno d’Israele» è — com’è noto — un tema escatologico, su cui avremo modo di tornare: presente in numerose correnti cristiane (ma esplicitamente rifiutato — come abbiamo visto — dalla Civiltà cattolica), imponeva al cristiano il dovere di testimoniare di fronte al popolo dell’antica promessa la legge evangelica dell’amore, senza intenti immediatamente “conversionistici”, nella consapevolezza che «il buon seminatore sparge sì il chicco di grano, ma chi lo fa germogliare, oltre alla natura del terreno, è la volontà di Dio»104. Che questo ritorno fosse la prospettiva della rivista è testimoniato dalla peculiare riproposizione sulle sue pagine della leggenda dell’Ebreo errante. Nel quindicennio precedente essa era stata oggetto di ricerche ancora oggi classiche di tre grandi studiosi, con cui Salvadori era stato o era in contatto: Gaston Paris, Alessandro D’Ancona105, Salomone Morpurgo. In 104 Con queste parole Giorgio Levi Della Vida cerca di definire l’atteggiamento nei suoi confronti del padre Semeria (grande amico, come abbiamo visto, di Salvadori), testimoniando che «non gli venne mai in mente, né allora né poi, di cercare di tirarmi al Cristianesimo» (G. LEVI DELLA VIDA, Fantasmi ritrovati, Venezia 1966, p. 91). 105 Abbiamo già accennato (cfr. supra, nt. 13) a una polemica giovanile di Salvadori contro D’Ancona. Nell’Archivio D’Ancona, si conserva una sua lettera (Roma, 12 novembre 1884) in carta intestata: Fanfulla e Fanfulla della Domenica, in cui Salvadori sembra fungere da segretario di redazione del settimanale (Pisa, Scuola Normale Superiore, Carteggio D’Ancona, 49°, 1588). Soprattutto Salvadori avrebbe espresso più volte (L 863-864) grande apprezzamento per gl’interventi in difesa di Fogazzaro pubblicati da D’Ancona sul Giornale d’Italia nel giugno del 1906: com’è noto, lo scrittore vicentino era oggetto di vivaci attacchi dagli ambienti anticlericali dopo la sua sottomissione alla condanna de Il Santo da parte del S. Uffizio, resa nota il 5 aprile di quell’anno (se ne chiedeva l’allontanamento dal Consiglio superiore della pubblica istruzione). Le sue due lettere possono leggersi in A. D’ANCONA, Pagine sparse di letteratura e di storia. Con appendice “Dal mio carteggio”, Firenze 1914, pp. 497-500, insieme alla lettera di ringraziamento di Fogazzaro del 14 giugno («la vostra difesa vale quella di migliaia di cattolici»). Per questa significativa vicenda, cfr. M. MORETTI, La dimensione ebraica di un maestro pisano. Documenti di Alessandro D’Ancona, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di lettere e filosofia, s. IV, vol. I.1, 1996, pp. 209-248, 224-225, che documenta anche la costante avversione di D’Ancona verso la massoneria («la stereotipa associazione fra ebraismo e massoneria risulta inapplicabile al caso D’Ancona») e il suo spiri-
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modo studiato, tutti e tre rilevavano l’origine relativamente recente della leggenda e sottacevano il significato antisemitico che una sua lettura banalizzata le aveva attribuito. A conclusione del suo studio, il cristiano Paris aveva ricordato che «la réconciliation d’Ashavérus avec le Christ, la mort du Juif errant, idée précisément opposée à celle de la légende, est peut-être ce qu’elle pouvait offrir de plus sympathique, surtout à notre époque, et un poète français, M. Ed. Grenier, l’a traitée avec talent»106. Faceva riferimento al poema di Édouard Grenier, La Mort du juif-errant pubblicato nel 1857, ma trent’anni dopo, forse per suggestione della pagina di Paris, il tema era ripreso in un romanzo dallo scrittore Aimé Giron107. Salvadori ne traduceva e pubblicava l’ultimo capitolo, «chè in esso, traverso la favola, si legge la verità grande che solleva, che ineffabilmente conforta». Esso narrava non solo la riconciliazione di Isacco Laquedem (l’altro nome dell’Ebreo errante) con Gesù Cristo in seguito a un atto d’amore (a Bruxelles egli aveva incontrato quattro miseri orfanelli, per la prima volta nella sua lunga vita aveva sentito compassione e dato loro i cinque soldi che possedeva, e che miracolosamente si moltiplicarono), ma il suo ritorno in Palestina: questo è l’altro «ritorno» che il brano di Giron sottolineava. Insomma era nella sua antica terra che l’Ebreo errante trovava finalmente pace: un motivo, su cui — come vedremo — Salvadori molto rifletterà dopo la prima guerra mondiale, che affiora qui per la prima volta. Eco delle aspirazioni alla ricostituzione di una patria in Palestina, che percorrevano settori non secondari dell’ebraismo europeo già prima del sionismo di Theodor Herzl108; ma anche (ci ritorneremo) delle prospettive escatologiche di determinati ambienti cattolici e protestanti degli ultimi secoli, che giungevano fino a lui. Isacco Laquedem, l’Ebreo errante, fin da quella partenza da Bruxelles nel Bratualismo, che (aggiungiamo) ricorda per molti aspetti quello di Luigi Luzzatti. Salvadori difese pubblicamente Fogazzaro nella tempestosa assemblea studentesca del 2 giugno 1906 nel cortile del palazzo della Sapienza, subendo l’aggressione di alcuni studenti (L 492-493). 106 G. PARIS, Le Juif errant, Paris 1880, p. 19 (Extrait de l’Encyclopédie des Sciences Religieuses); A. D’ANCONA, La leggenda dell’Ebreo errante (1880, con aggiunte del 1881 e 1883), in ID., Saggi di letteratura popolare, Livorno 1913, pp. 143-190; S. MORPURGO, L’ebreo errante in Italia, Firenze 1891. 107 A. GIRON, Les cinq sous du juif errant, Paris 1887. 108 Sulle quali pagine interessanti sono in LEROY-BEAULIEU, Israël chez les nations cit., pp. 398-413, che fa risalire al romanzo di George Eliot Daniel Deronda (1876), in particolare alle tesi di Mordechaï, uno dei suoi personaggi, la popolarizzazione, anche al di là dell’ambiente ebraico, di tali aspirazioni. Leroy-Beaulieu legava il loro crescente successo alle difficoltà dell’assimilazione e alle persecuzioni nell’Europa orientale, ma mostrava scetticismo sulla possibilità di una loro presa sugli ebrei occidentali. Si ricordi che lo storico francese scriveva nel 1892, quindi prima dell’affaire Dreyfus.
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bante, s’era sentito per la seconda volta battere il cuore. Dio, forse, dall’alto del cielo, gettava finalmente uno sguardo di misericordia sul calzolaio della via del Calvario. Isacco sentì nuovamente destarsi nell’anima sua il desiderio ardente di rivedere Gerusalemme e quel bel paese di Giuda, che non ha l’eguale. Questa brama cresceva ogni giorno, e rendeva Isacco più infelice. Perciò egli risolse di rivolgere i suoi passi verso l’Oriente. Egli va. Traversa regni ed imperi, affrettandosi sempre più. La vecchiaia non pesava più tanto sulle sue spalle. Il suolo nativo è come una calamita — esso fa affrettare il passo all’esule che ritorna. Dopo molti mesi di peregrinazioni dal sommo dei monti al fondo delle valli, dallo sbocco di queste nel piano ai lontani orizzonti, egli cominciò a respirare un’aria che attivava le palpitazioni del suo sangue e riempiva il suo petto di profumi aspirati in altri tempi. Egli riconobbe qualche albero di Palestina. Rose di Gerico erravano qua e là in balia del vento. Solo, man mano che s’ avvicinava, egli si stupiva di non ritrovare che colline brulle, che magri campi inariditi109.
Insomma nella visione finale del romanzo di Giron la riconciliazione con Cristo si collegava col ritorno in Palestina. Secondo una lettura cristiana di un celebre passo biblico: «se ti convertirai al Signore, tuo Dio, e obbedirai alla sua voce, […] allora il Signore, tuo Dio, cambierà la tua sorte, avrà pietà di te e ti raccoglierà di nuovo da tutti i popoli in mezzo ai quali il Signore, tuo Dio, ti aveva disperso. Quand’anche tu fossi disperso fino all’estremità del cielo, di là il Signore, tuo Dio, ti raccoglierà e di là ti riprenderà. Il Signore, tuo Dio, ti ricondurrà nella terra che i tuoi padri avevano posseduto e tu ne riprenderai possesso. Egli ti farà felice e ti moltiplicherà più dei tuoi padri» (Dt 30, 2-5). Così era a Gerusalemme che si concludeva l’eterna peregrinazione di Isacco Laquedem. Queste idee Salvadori e i suoi amici cercarono di diffondere sull’Ora presente, che — almeno sulle prime — conobbe un discreto successo: nel 1895 gli abbonati furono 1427, di cui 1351 in Italia, 76 all’estero110. Numeri tutt’altro che disprezzabili nel panorama italiano di allora. Ma progressi109
I cinque soldi di Isacco Laquedem. L’ebreo errante (2, 1896, pp. 178-183). L’Ora presente 1 (1895), p. 562. Oltre al dato quantitativo, sarebbe interessante un’indagine sugli ambienti raggiunti dall’Ora presente. Abbiamo accennato a Francesco Papafava e al gruppo dell’Idea liberale a Milano; a Carlo Placci (ma si deve anche aggiungere Pasquale Villari) a Firenze; a Luigi Luzzatti e Giorgio Politeo a Venezia; a Crema erano abbonati Carlo Cantoni e Giovanni Vailati, che ne scriveva con entusiasmo al cugino Orazio Premoli (VAILATI, Epistolario cit., pp. 35, 37-38). Al gruppo dell’Ora presente appartenne anche Angelo De Gubernatis, dal 1895 professore di letteratura italiana all’università di Roma (C. DE CAPRIO, Pellegrini in Terrasanta, in Angelo De Gubernatis. Europa e Oriente nell’Italia umbertina, IV, a cura di M. TADDEI e A. SORRENTINO, Napoli 2001, pp. 203-221, 211-214). Questo contatto con De Gubernatis fu particolarmente importante per Salvadori, che, libero docente di letteratura italiana dal 1895, ebbe dal 1900 al 1910 l’incarico di Stilistica italiana all’università di Roma, lavorando quindi in qualche modo sotto la sua supervisione (alcune sue lettere dal 1895 al 1911 sono in Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Carte De Gubernatis, 110/68). 110
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vamente sorsero difficoltà economiche: «Lascia che in un umile poscritto — scriveva il filosofo Giorgio Politeo a Luigi Luzzatti nel dicembre del 1897 — accenni al fatto del giornale L’Ora presente che annunzia ai suoi abbonati di dover cessare per difetto di mezzi. Era forse il solo segno di salute morale in tanta confusione di cose, e si spegne anch’esso nell’indifferenza e nell’abbandono del pubblico. Il tuo bilancio va assai bene, ma il bilancio morale va assai male, e disgraziatamente non si trova ministro che lo rialzi»111. 7. L’amicizia con Luigi Luzzatti. «Caro Sabatier, ho bisogno di voi e prontamente. Il mio amico, e spero anche vostro Giulio Salvadori, un santo laico, vi dirà analiticamente cosa mi occorre subito. Anche lui mi aiuta. Così confortato dalla Chiesa e dalla eresia mite, darò una buona cornice al mio quadro»112: così, nel maggio del 1913, Luigi Luzzatti scriveva al biografo di Francesco d’Assisi. Era impegnato in una nuova edizione dei Fioretti, poteva contare sull’aiuto del cattolico Salvadori («la Chiesa»), sperava in quello dell’ugonotto francese (l’«eresia mite»). L’anno precedente, quando un gruppo di studenti romani aveva proposto che Salvadori succedesse a Giovanni Pascoli, appena scomparso, sulla cattedra bolognese di letteratura italiana, Luzzatti ne aveva scritto al ministro Credaro, appoggiando la loro richiesta: «Per la dignità e per l’austerità della vita, per la sapienza, per la cultura letteraria, per le poesie scritte con tanta altezza d’ideale, Giulio Salvadori sarebbe il degno successore di Carducci e di Pascoli alla cattedra di Bologna. Se fossi al tuo posto non esiterei a creargli l’ambiente propizio alla nomina; e sai che io sono uno di quei pochi che non propongono a un ministro ciò che non potrebbero se fossero al suo posto»113. L’amicizia fra Salvadori e Luzzatti nasce — lo abbiamo visto — al tempo dell’«Unione per il bene» e dell’Ora presente, iniziative a cui partecipa anche lo statista veneziano: «Colgo quest’occasione — scriveva Salvadori a Luzzatti il 15 settembre 1897 — per dirLe quanto Le sono grato anch’io della bontà che dimostra verso nostri amici dell’Unione e della troppo buona 111
G. Politeo a L. Luzzatti, Venezia, 5 dicembre 1897 (Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, fasc. Politeo Giorgio, 3170.61). Luzzatti era allora ministro del tesoro del governo di Rudinì. 112 L. Luzzatti a P. Sabatier, Roma, 22 maggio 1913, in Chiesa, fede e libertà religiosa in un carteggio di inizio Novecento: Luigi Luzzatti e Paul Sabatier, a cura di S. G. FRANCHINI, introduzione di A. ZAMBARBIERI, Venezia 2004, p. 108. Per l’amicizia “triangolare” fra Salvadori, Luzzatti e Sabatier e per i temi “francescani” che la sostanziarono, non posso che rinviare all’introduzione e alle ricche annotazioni di questo volume. Per il pensiero religioso di Luzzatti, cfr. soprattutto PERTICI, «Religioni libere entro lo Stato sovrano» cit., pp. 171-186. 113 P. P. TROMPEO, Via Cupa, Bologna 1958, pp. 147-150; all’episodio accenna anche VIAN, Amicizie e incontri cit., pp. 173-174.
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memoria che serba di me. E non so rispondere altro che col saluto francescano: Dio Le dia pace»114. L’atteggiamento verso l’ebraismo maturato da Salvadori in questi anni trova nel rapporto con Luzzatti un primo momento di verifica: verifica — si deve dire — singolarmente agevolata dall’atteggiamento che questi, a sua volta, teneva nei confronti del cristianesimo. Luzzatti sente viva la religione dei suoi padri soprattutto quando la vede minacciata da manifestazioni di antisemitismo, sempre più frequenti in Europa: allora tornava a «a sentirsi e a dichiararsi israelita di fronte all’ingiuria o allo scherno». Dichiarava di rifarsi al profetismo ebraico («Il mio antenato preferito è il profeta Isaia»), ma della sua religione aveva «perduta la fede ardente». Mentre esultava di aver compresa la grandezza del Cristianesimo, del quale studio le più che cento diverse manifestazioni concretate in Chiese e piango ancora, da celeste malinconia assalito, sulle eterne pagine del Sermone della Montagna. Un grande Sacerdote, il più alto di tutti, dopo aver letto la mia introduzione ai Fioretti di S. Francesco, dichiarò e mi fece dichiarare che io ero un ottimo cristiano. Ei mi mandò la sua benedizione. Di quel pio Pontefice serbo la memoria incancellabile115.
Egli era dunque uno dei non pochi appartenenti al mondo ebraico, che, anche in Italia, in quegli anni avvertirono una forte attrazione per il cristianesimo e credettero alla possibilità di un’amicizia ebraico-cristiana: educati spesso in famiglie rigidamente ortodosse, si erano sottratti a quella che Felice Momigliano avrebbe chiamata la «tirannia della Legge», al «ritualismo», all’«integralismo talmudico», trovando una risposta alle loro esigenze universalistiche e umanitarie anche nella parola di Gesù di Nazareth, “profeta ebraico”: 114 Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 2. Quando, dopo Adua e la fine politica di Crispi, Rudinì tornò al governo, Luzzatti fu per due anni ministro del tesoro (dal luglio 1896 al maggio 1898): grazie al suo intervento la Banca d’Italia e il Banco di Napoli concessero all’Unione tre grandi edifici nel quartiere di San Lorenzo, allora fra i più disagiati della capitale. Si trattava di costruzioni non del tutto finite e rimaste abbandonate a causa della “crisi edilizia” degli anni precedenti. In questi stabili, completati e ripuliti, furono accolte famiglie del quartiere, scelte fra le più bisognose e meritevoli, mediante un moderatissimo fitto da pagarsi a rate settimanali: da una a due lire la settimana. Tutta l’operazione era gestita dall’Unione per il quartiere di San Lorenzo, nata all’interno dell’Unione per il bene grazie all’impulso di don Brizio Casciola (R. FERLOSIO, Cinquant’anni. Storia vissuta, Roma 1954, pp. 12-22). 115 Lettera in data: Roma, 13 ottobre 1913, pubblicata in L. LUZZATTI, Prefazione a ID., Dio nella libertà. Studi sulle relazioni tra lo Stato e le Chiese, Bologna 1926, p. XXII (Opere di Luigi Luzzatti, 2). Luzzatti si riferiva evidentemente a Pio X, con cui era in rapporti cordiali fin dagli anni veneziani del card. Giuseppe Sarto (PERTICI, «Religioni libere entro lo Stato sovrano» cit., pp. 236-240). Sulle amicizie ebraiche di Pio X, cfr. DE CESARIS, Pro Judaeis cit., pp. 180-181, con la bibliografia precedente.
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È superfluo dichiarare — scriveva nel 1913 Felice Momigliano — che il giudaismo progressivo si sforza di intendere e comprendere la personalità di Gesù con rispetto e con simpatia. Gli Ebrei occidentali hanno assimilati i valori della cultura occidentale, cioè dell’ellenismo, intesa la parola nel suo significato più ampio e più comprensivo. Come si può capire Filone senza una conoscenza del pensiero platonico? Come valutare Maimonide senza tener conto dell’aristotelismo e della filosofia araba? E Dante, e Shakespeare e Goethe penetrati nella vita culturale ebraica dell’occidente, non esigono un’adeguata assimilazione della cultura cristiana? E questa a sua volta non postula la necessità di comprendere e di intendere la personalità di Gesù? La coscienza israelitica attuale può darsi ragione degli accenni diffamatori del Nazareno che ricorrono nel Talmud, nonché della successiva elaborazione leggendaria maturata e cresciuta al clima procelloso e torbido del medioevo, ma pel fatto stesso che l’intende, supera questa posizione116.
Alcuni restarono (più di Luzzatti) all’interno del loro mondo, propugnando una sorta di “modernismo ebraico”, che si scontrò con vive opposizioni e resistenze nell’establishment dei rabbini e delle comunità e trovò invece numerosi punti d’incontro nel contemporaneo modernismo cattolico: più che nella componente esegetico-critica, in quella mistico-religiosa. Il profetismo ebraico, Renan, Tolstoj, Mazzini, Fogazzaro, insomma i vari autori del sincretismo religioso del primo Novecento erano comuni a entrambi gli ambienti117. Salvadori fu estraneo al modernismo e rifiutò ogni collaborazione con 116
F. MOMIGLIANO, Giudaismo liberale e Gesù dei Sinottici, introduzione a C. G. MONTEGesù di Nazareth nel pensiero ebraico contemporaneo, Genova 1913, pp. VII-XLIX, XLIXLII. Il 4 giugno 1914, Momigliano inviava questo volume a Luzzatti con una lettera significativa: «A Lei che onora l’Italia e il Giudaismo illuminato non sarà discaro l’omaggio di questo volume. L’introduzione Le dirà le ragioni che mi hanno mosso a farlo tradurre. Ho iniziata una battaglia per un ideale che è buono, perché è vicino a quello che Ella propugna da tanti anni con la penna e con le opere» (CAVAGLION, Felice Momigliano cit., p. 152). Di questa assimilazione dei «valori della cultura occidentale» (Momigliano si riferiva anche all’illuminismo) da parte di esponenti della cultura ebraica italiana e sui complessi rapporti che ne scaturirono con l’establishment ebraico, si potrebbero fare molti esempi: dallo stesso Luzzatti (M. BERENGO, Luigi Luzzatti e la tradizione ebraica, in Luigi Luzzatti e il suo tempo. Atti del Convegno internazionale di studio (Venezia, 7-9 novembre 1991), a cura di P.L. BALLINI e P. PECORARI, Venezia 1994 pp. 527-541), ad Alessandro D’Ancona (MORETTI, La dimensione ebraica di un maestro pisano cit.), ad Alessandro Levi, ad Attilio Momigliano, a Piero Treves. Tutt’altro problema, storicamente ben distinto da questo, è quello delle conversioni al cristianesimo: quelle (dico) frutto di un processo interiore, non di mero opportunismo o conformismo. 117 Su questi aspetti di grande utilità è il saggio di A. CAVAGLION, Per un modernismo ebraico? Felice Momigliano (1866-1924), in Fonti e documenti 13 (1984), pp. 313-351, poi rifuso in ID., Felice Momigliano cit., pp. 135-164. Cavaglion prende spunto da F. MOMIGLIANO, «Modernismo ebraico?». A proposito del dramma Gli ebrei dello Tschirikov, in Coenobium II, 5, luglio-agosto 1908, pp. 28-37, ora in A. CAVAGLION, Coenobium 1906-1919. Un’antologia, Comano 1992, pp. 180-189. FIORE,
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le sue riviste, dove pure erano attivi alcuni dei suoi migliori amici (Semeria, Tommaso Gallarati Scotti, Antonietta Giacomelli, Fogazzaro, don Brizio Casciola). Lo giudicò come un movimento essenzialmente intellettualistico e, in quanto tale, divisorio: Bisogna però Le dica — scriveva nel 1907 a Gallarati Scotti — che amerei piuttosto trovarmi con Lei nell’azione modesta dove un solo Spirito addolcisce e congiunge, che nel campo del pensiero e della parola. […] Vedo uomini che erano indispettiti, a torto, con Dio, ostinati in opinioni di conseguenze funeste, che a poco a poco si disgelano al calore soave, al sorriso, della semplice carità di una donna che non discute mai [la sorella Giuseppina]; mentre invece la mia parola, anche buona, ma che in qualche modo opponeva idea a idea, non faceva altro che pungerli e irritarli. E dunque dovremo lasciare o disprezzare gli studi? No […] ma della critica e della discussione diffido per l’effetto negli animi e dei vicini e dei lontani, perché adombra i primi e non avvicina i secondi118.
Riteneva necessario coniugare la libertà del cristiano con l’obbedienza all’istituzione ecclesiastica: come abbiamo visto, considerava la dialettica libertà-obbedienza una delle caratteristiche più preziose del cattolicesimo italiano, dal moto francescano alla “riforma cattolica” del Cinquecento, fenomeni tutti che potevano prefigurare deviazioni ereticali, ma che invece avevano voluto restare all’interno della compagine ecclesiastica e lavorarvi sul lungo periodo. Questa era anche la sua prospettiva, fin da quando — dialogando con Bonghi — aveva propugnato una “riforma cattolica”. I suoi interlocutori ebrei appartenevano per lo più a quello che potremmo chiamare, in analogia a quanto emergeva in Gran Bretagna, un “giudaismo liberale”: avvertivano cioè l’importanza di un dialogo col mondo cristiano. Ma è indubbio che nei loro confronti la sua apertura non fosse inferiore a quella dei suoi amici “modernisti”, pur con i limiti storici di ogni esperienza umana situata nel tempo. Luzzatti aveva cercato di tradurre la sua sensibilità religiosa anche in azione politica, per cui — fra Otto e Novecento — si mostrò forse lo statista liberale più sensibile alle esigenze del mondo cattolico119. È celebre il discorso al VII congresso della Lega nazionale delle cooperative, tenutosi nel 1895 a Bologna, col quale fece respingere una serie di ordini del giorno che intendevano negare la registrazione e quindi la personalità giuridica alle casse rurali cattoliche, in quanto istituti statutariamente confessionali120. 118
G. Salvadori a T. Gallarati Scotti, Roma, 30 marzo – 10 aprile 1907 (L 528). Sulla vicenda, cfr. N. VIAN, Gallarati Scotti, «Il Rinnovamento» e Giulio Salvadori, in Studium 70 (1974), pp. 347-355. 119 G. SPADOLINI, Giolitti e i cattolici (1901-1914), Firenze 1960, pp. 95-96; PERTICI, «Religioni libere entro lo Stato sovrano» cit., pp. 225-240. 120 L. LUZZATTI, La libertà religiosa e la redenzione dei lavoratori (1895), in ID., La libertà di coscienza e di scienza. Studi storici costituzionali, Milano 1909, pp. 285-293.
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In una lettera del 21 giugno 1898, Salvadori gli espresse la sua soddisfazione per quell’intervento, che evidentemente il ministro gli aveva fatto avere, ma — rifacendosi all’esempio di Ozanam — sosteneva implicitamente che, a loro volta, quelle casse rurali non potevano seguire una politica rigidamente confessionale: «Vorrei aver qui la vita d’Ozanam, per riferirLe le parola d’indignazione con la quale egli rispose a chi in una delle Conferenze di s. Vincenzo fondate da lui, voleva che si negasse un soccorso a una famiglia protestante. Così è la liberalità umana; quanto più così dev’essere la carità cristiana, che non conosce fra gli uomini divisioni umane di sorta!». Un’analoga reciprocità suggeriva nei rapporti fra Stato e Chiesa. Nelle settimane precedenti il governo di Rudinì aveva emanate le famose circolari “anticlericali”, con cui aveva decretato la chiusura di un gran numero di organizzazioni cattoliche: «È un grave errore — scriveva Salvadori — credere che la Religione della carità e della verità si difenda con la forza e con l’astuzia; ma un errore non meno grave è pensare che con la forza e con l’astuzia si possa, non dico offendere quella Religione, che riconosce proprio nel sacrificio la sua maniera di vincere, ma anche punire gli abusi di essa che non siano delitti. Gli abusi della Religione non si combattono efficacemente altro che con la Religione: torni il sole nel mondo, e poi lasciamo ad esso l’opera sua»121. Salvadori non chiedeva privilegi per la Chiesa, ma una libertà piena in cui potesse dispiegare la sua azione: così poteva anche apprezzare un separatismo, come quello di Luzzatti, che tale libertà intendeva assicurare: amo in Lei l’amore della libertà, — gli scriveva nel 1914 — non sentita come velo di malizia, non come un passo per abbattere l’unico Magistero delle legge di equità che io credo dato d’autorità divina, ma come condizione perché i diritti d’ognuno, e prima di Dio, siano custoditi, e il desiderio naturale del bene cerchi e riceva la luce di verità che lo fa riuscire al bene realmente. Insomma Ella non è di certo di quelli che dice Tacito: Ut majestatem evertant libertatem praeferunt; si eam everterint, libertatem ipsam adgredientur. L’amore sincero della libertà, cioè della Verità che libera, fa prima o poi riconoscere quella Maestà, che non può essere d’alcuna sovranità umana122. 121 G. Salvadori a L. Luzzatti, Roma, 21 giugno 1898 (L 296-297). Sulle circolari di Rudinì, cfr. G. SPADOLINI, L’opposizione cattolica. Da Porta Pia al ’98, Firenze 19662, pp. 463-470. 122 G. Salvadori a L. Luzzatti, Roma, 8 marzo 1914 (Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 13), a proposito L. LUZZATTI, La Religione nel diritto costituzionale italiano (ora in ID., Dio nella libertà cit., pp. 181-190). Sull’ostilità di Francesco d’Assisi verso i privilegi ecclesiastici, molto si insiste in SALVADORI, Vita breve di San Francesco d’Assisi cit., pp. 56-57 e passim. Tacito scrive in realtà: Ut imperium evertant libertatem praeferunt: si perverterint, libertatem ipsam adgredientur (Ann., 16, 22)
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Nel 1899, sempre scrivendo all’amico ebreo, che gli aveva inviato un suo discorso su Gladstone, Salvadori si esprimeva «contro le smanie di conquista e d’oppressione dalle quali sembra presa l’Europa moderna, e che credo porteranno alla distruzione di questa nostra vantata civiltà europea», alludendo probabilmente alla guerra anglo-boera allora in corso, e — in linea con Fogazzaro e tutto l’ambiente della Rassegna Nazionale — aveva parole di apprezzamento per la conciliazione, tentata dal politico veneziano fra scienza e fede, la cui «armonia non dovrebb’esser cosa tanto difficile a intendere nella patria di Galileo, se non vi fossero di quelli i quali vogliono ad ogni costo il conflitto fra religione e civiltà perché vivono nella discordia»123. Ma queste concordanze politiche e culturali si basavano su d’un’affinità più profonda: In questo ultimo discorso — scriveva ancora nel 1899 — […] riconobbi molti dei pensieri ch’Ella espresse a Sabatier e a me quando venimmo a trovarlo, ed ella fece innanzi a quel bravo protestante un po’ toccato dal dubbio, quell’eloquente apologia del Vangelo. Che Dio lo aiuti sempre più e conduca sempre più vicino, e lo faccia con l’attrattiva dell’amor suo piegarsi a bere all’unica sorgente della verità e della vita, al figlio di David e figlio di Dio, desiderio d’Israele e sua gloria e luce di tutte le nazioni124!
La lettera del giugno 1897, l’aveva conclusa: «E che il Dio de’ Suoi Padri e nostro lo ricompensi dei pensieri che Ella ha per i poveri com’egli sa, cioè con magnificenza divina!». Il Dio dei Suoi Padri e nostro: secondo una tradizionale visione cristiana, Salvadori vedeva nell’ebraismo biblico il prologo del cristianesimo e in questo la piena realizzazione delle sue attese. Così — nelle lettere a Luzzatti, ma anche altrove — sottolinea sempre la radice ebraica di Gesù e di Maria, «la gloriosa Figlia di David, nel sublime suo cantico: “Ha raccolto Israele suo piccolo, ricordandosi della sua misericordia”»125. Come propugnava una “riforma cattolica”, Salvadori auspicava anche una riforma dell’ebraismo, di cui cercava, con tutta la discrezione possibile, di indicare alcuni contenuti nelle lettere all’amico. Dopo aver ricevuto la sua edizione dei Fioretti, gli scriveva: Ricorda Ella come il Sabatier ha reso il segreto che S. Francesco raccolse come la perla di prezzo inestimabile, per acquistar la quale vendé tutto quello che aveva? Lo dice nella prefazione al Floretum, e mi permetta trascrivere le sue parole: Com123
G. Salvadori a L. Luzzatti, Roma, 12 giugno 1899 (L 326-327). G. Salvadori a L. Luzzatti, Roma, 12 giugno 1899 (L 327). 125 G. Salvadori a L. Luzzatti, Roma, 18 gennaio 1920 (L 832). 124
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bien de siècles faudra-t-il attendre encore pour que les nations l’apprennent? Où est le peuple qui préfèrerait la situation d’Israël exilé le long de fleuves de Babel à celle de ses vainqueurs? Et pourtant, tandis que Babylone s’ensevelissait tout doucement dans la sable et dans l’oubli, le petit peuple des larmes préparait dans un village de la Judée le berceau de Celui qui a reçu le Nom qui est au-dessus de tous les autres noms. Se Israele, e intendo la parte eletta di questo popolo sempre grande, apre il suo cuore al segreto di S. Francesco, Israele è salvo: e nel diluvio moderno, che è quello della luce, e che minaccia sommergerlo, S. Francesco costruisce a questa parte eletta la nuova arca che lo condurrà a salvamento. Ella mi parla con tanta fiducia, e usa con me tali espressioni, che non so come corrisponderLe altro che con la sincerità del cuore126.
Che voleva dire? Il passo di Sabatier doveva avere veramente impressionato Salvadori, se lo ricordava allo stesso storico francese in un momento cruciale per il suo paese: nel settembre del 1914, durante la battaglia della Marna. «Le péril, — aveva scritto allora — le malheur a réuni la France, tandis que l’or, le plaisir et la haine l’avaient divisée. Et enfin Vous, Vous tous, sentez Dieu. Oui, mon Ami, Israël vaincu, le petit peuple des larmes, est le berceau du Roi des nations, du Sauveur des hommes. Si la royauté de l’or, si la primauté du monde vous manquent, la Royaume de Dieu vaut bien tous cela»127. La lezione che Francesco d’Assisi impartiva ai popoli era quella della piccolezza, o, come preferiva dire Salvadori, dell’«umiltà» (abbiamo visto il tema virgiliano e dantesco dell’«umile Italia»)128. Rivolto all’ebraismo, o 126 G. Salvadori a L. Luzzatti, Roma, 25 ottobre 1913 (Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 12). 127 G. Salvadori a P. Sabatier, Viterbo per la Quercia, 6 sett. 1914 (L 702). La stessa citazione si trova in G. SALVADORI, Famiglia e città secondo la mente di Dante. L’esilio. Saggi, Città di Castello 1913, p. 108, dove si ribadisce che «la regale signoria di tutti i popoli sia maestà puramente spirituale», e nel Ricordo di Paul Sabatier (1928), dove si ricordano le parole di Sabatier, secondo cui «sulla terra il trionfatore di domani “ce ne sera ni le plus riche, ni le plus savant, ni le plus fort”» (cit. in N. VIAN, Giulio Salvadori e Paul Sabatier, in SALVADORI, Vita breve di San Francesco d’Assisi cit., pp. VII-XLI, XXXVII). 128 Sull’«umiltà» come virtù etico-politica, pagine importanti in SALVADORI, Famiglia e città secondo la mente di Dante cit., pp. 18-21: «Non s’intenda questa virtù, come alcuni l’hanno voluta far apparire, condizione dell’animo fiacca e passiva, quasi viltà; l’umiltà amata da Dante è virtù dignitosa e regale, la virtù della grandezza vera. Ed era allora la virtù civile per eccellenza che, sgombrato lo scoglio della barbarie, splendeva agli occhi di quegli uomini in quell’età di fusione e trasformazione sociale, come condizione essenziale della convivenza umana». La potremmo definire come autolimitazione razionale, accettazione del «giogo» della ragione naturale, che già è in grado di discernere «che sia bene e che male, che ci detta le norme della naturale equità; che è il vero delle leggi, cioè il loro spirito. Coloro che custodiscono in pratica la verità con la giustizia osservando l’equità naturale, e coloro che non avendo chiaro questo lume di verità, pur si piegano alle leggi civili, che nelle città e nei regni ne rendono immagine, Dante li chiama col nome di umili. E però le condizioni dell’ordine e
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meglio alla sua élite politico-culturale (la «sua parte eletta»), questo invito auspicava un suo rinnovamento in due direzioni: nell’abbandono di un atteggiamento lato sensu nazionalistico o esclusivistico (la tematica del popolo eletto) e della ricerca di una conferma economica della propria elezione. Si trattava di stereotipi? Nel cattolico Salvadori lo saranno anche stati, ma va detto che motivi analoghi erano largamente diffusi anche all’interno dello stesso mondo ebraico, almeno di quei suoi settori che non risparmiavano critiche al tono religioso che vi prevaleva129. Siccome entrambi quegli atteggiamenti venivano considerati come una reazione a secoli di dura oppressione, sostanzialmente Salvadori invitava gli ebrei a una risposta diversa: quella, appunto, dell’«umiltà». Per lui — lo abbiamo notato — anche il Cristianesimo doveva riconoscere «proprio nel sacrificio la sua maniera di vincere». Ma una tale riforma (anche questo va notato) doveva scaturire da un approfondimento e da una purificazione della propria religione, non da una sua secolarizzazione (il «diluvio moderno, quello della luce, e che minaccia sommergerlo»): anche in questo senso la lezione di Francesco poteva essere vitale anche per «le petit peuple des larmes»130. Col suo «modernismo ebraico», Felice Momigliano non puntava all’asdella pace domestica, […] si comprendono tutte nella grande parola umiltà […] E l’effetto e il premio di essa, la pace». La «filosofia civile» di Salvadori dev’essere penetrata (e apprezzata) al di là del lessico “inattuale” in cui è espressa: come ha fatto (e da par suo) G. CAPOGRASSI, Le idee sociali di Giulio Salvadori (1938), ora in ID., Opere, IV, Milano 1958, pp. 107-120. 129 «Anche in Italia il modernismo [ebraico] — scriveva Momigliano — è ostacolato da una parte del rabbinato officiale e da’ suoi accoliti, e dall’altra dalla turba incolora, insipida e discretamente amorfa, perché sprovvista di ogni cultura specifica, non suscettibile di nessun palpito per la vita dello spirito, che si infischia allegramente di religione, e compendia la vita nel lavorare, guadagnare e godere. Sarebbe stato molto confortante il vedere gli ebrei italiani tra gli ultimi arrivati alla luce della libertà, iniziare una revisione dei valori religiosi ereditati dai padri, sopratutto di quelli che sono di tal metallo da non temere ruggine, come il profetismo ed il messianismo, e riacquistare una coscienza più lucida di se stessi. Occorre sapersi liberare dal vecchio che invecchia, se si vuol conservare il vecchio che non invecchia mai. Diceva bene Goethe: “Se vuoi mantenere ciò che hai ereditato devi saperlo riconquistare”. Ma questa fede, questa forza di originalità mancò. Anche in Italia il naturalismo e peggio il materialismo che fu come la comune temperie intellettuale dopo il ‘70, s’attaccò, salve poche eccezioni, agli ebrei letterati, scienziati ed uomini politici e forse con maggiore intensità che ai loro colleghi d’altra fede» (M OMIGLIANO , Giudaismo liberale e Gesù dei Sinottici cit., pp. XXXVII - XXXVIII ). 130 Se non ho visto male, l’unica citazione di Luzzatti da parte dello scrittore toscano è in SALVADORI, Famiglia e città secondo la mente di Dante cit., p. 50. Si tratta dell’articolo luzzattiano La nostra felina natura umana, pubblicato sul Corriere della sera del 27 marzo 1913 (poi in LUZZATTI, Dio nella libertà. Studi sulle relazioni tra lo Stato e le Chiese cit., pp. 496-498). La citazione è piuttosto generica, ma è bene ricordare che con quell’articolo lo statista veneziano bollava gli odî e le persecuzioni interreligiose che si stavano scatenando nella prima delle guerre balcaniche e portava avanti la sua battaglia a favore degli ebrei rumeni perseguitati nel loro paese, testi e documenti della quale sono riportati ibid., pp. 481-542.
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similazione dell’ebraismo italiano, ma a una sua rivitalizzazione: a suo parere, era il persistere della “mentalità del ghetto”, la segregazione dalla cultura contemporanea, la resistenza di alcuni tabù, che spingevano a un crescente distacco dalla religione dei padri. Con i suoi discreti suggerimenti di riforma, Salvadori auspicava invece una sua “purificazione” che lo predisponesse a un incontro col cristianesimo. È quindi evidente la distanza fra le loro prospettive. Ma lo scrittore cattolico non intendeva far proselitismo: si preoccupava di indicare un terreno di incontro e di dialogo e di non perdere mai il contatto con i suoi interlocutori ebrei, in modo che essi fossero in grado di comprendere la «perla» che potevano rinvenire dall’altra parte. Il resto — lo sapeva bene — non dipendeva da lui. 8. La polemica antitalmudica. Dopo la conclusione dell’Ora presente, non troviamo più interventi pubblici di Salvadori sul problema ebraico: dopo di allora, si deve piuttosto guardare ai carteggi e ai documenti privati. Il divampare dell’affaire Dreyfus nei primi mesi del 1898 muta i termini della questione e la radicalizza: fino ad allora era stato possibile (lo abbiamo visto) coniugare un approccio critico alla realtà dell’ebraismo europeo, comunque motivato, e un’ostilità radicale verso il nuovo antisemitismo. In seguito, questi atteggiamenti compositi hanno maggiore difficoltà a emergere: lo scontro è più radicale, le distanze più nette. Non abbiamo documenti diretti del suo atteggiamento di fronte all’affaire. Qualcosa, tuttavia, possiamo arguire dalla lettera del 20 aprile 1903 a Paul Desjardins, in cui gli esprimeva le proprie condoglianze per la morte del suocero Gaston Paris, cattolico e dreyfusardo131. Salvadori lodava l’articolo di Desjardins De l’Indifférence aux violations du droit, appena apparso nel Bulletin de l’Union pour l’action morale: «ho goduto — scriveva — di trovare una parola imparziale che risponde pienamente alla mia convinzione. Sì, il governo che non si fonda sulla giustizia imparziale per tutti, ma sulla passione d’una parte, per quanto provocata e offesa, è responsabile della divisione che nella nazione da esso amministrata viene come conseguenza della sua condotta»132. È necessario precisare il contesto, per cogliere il significato di questo passo. In seguito alla vasta mobilitazione delle forze dreyfusarde, per iniziativa del governo Waldeck-Rousseau, nel 1901 era stata votata dal parlamento francese la legge sulle congregazioni; l’anno successivo, nella primavera del 1902, la vittoria elettorale del Bloc républicain aveva portato alla formazione del ministero Combes, che di quella legge avrebbe fornito 131 Sul quale, cfr. U. BÄHLER, Gaston Paris dreyfusard. Le savant dans la cité, préface de M. ZINK, Paris 1999, ricco di documenti. 132 G. Salvadori a P. Desjardins, Roma, 20 aprile 1903 (L 406-408).
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un’interpretazione punitiva, peraltro costantemente contrastata da Waldeck-Rousseau, portando alla chiusura dei conventi. Il voto decisivo della Camera si era avuto proprio nel marzo del 1903, poche settimane prima di questa lettera di Salvadori: tutte queste vicende causarono — com’è noto — veementi proteste da parte della Santa Sede e una lacerazione gravissima nel paese133. Salvadori osservava che dapprincipio una parte era stata certamente «provocata e offesa» (Dreyfus, i suoi sostenitori e le loro espressioni politiche), ma che, una volta vinta la partita e raggiunto il potere, essa si era mostrata incapace di «una giustizia imparziale per tutti», basando invece la sua azione governativa «sulla passione d’una parte»: per cui portava la responsabilità della divisione del paese. Alla luce di questa lettura, si può dire che Salvadori fu “dreyfusardo” negli anni caldi dell’affaire, o per lo meno non condivise le posizioni oltranziste della destra cattolica. Ma fu poi risolutamente contrario alla torsione illiberale e vendicativa che le ragioni del dreyfusismo assunsero nell’azione del governo Combes: in un salotto romano — lo avrebbe ricordato molti anni dopo — udì il celebre Anatole France affermare: «Waldeck-Rousseau fabbricò una spada di legno, e noi l’abbiamo mutata in una spada d’acciaio»134. Quella di Salvadori è una parabola comune a non pochi dei suoi contemporanei: si pensi a Charles Péguy e a Bernard-Lazare, che da dreyfusardi si fecero oppositori della politica di Combes135. Va aggiunto che egli non assunse una posizione oltranzista nemmeno nel successivo scontro fra la Repubblica e la Santa Sede che portò alla “separazione” del 1905. Nelle lettere a Sabatier, che pur la sostenne a spada tratta, affiorano spesso parole di pace e appelli alla concordia: «Et remercions le bon Dieu aussi si l’Eglise en France est éprouvée et diminuée de puissance et de richesse. Selon la parole de s.t Jérôme, potentia et divitiis minor, erit virtutibus major»136. 133 Sulle vicende del 1901-1905 in Francia, cfr. ora J. LALOUETTE, La séparation des Églises et de l’État. Genèse et développement d’une idée 1789-1905, Paris 2005, pp. 367-416, ma sono ancora da leggere (per chiarezza ed equilibrio) le pagine di L. SALVATORELLI, Storia del Novecento, Milano 19755, pp. 303-344. 134 SALVADORI, Ricordo di Paul Sabatier cit., p. XXXIV. 135 D’obbligo il rinvio alle argomentazioni svolte da C. PÉGUY, Notre Jeunesse (1910), trad. it. La nostra giovinezza, a cura di G. RODANO, Roma 1993, pp. 44-81. 136 G. Salvadori a P. Sabatier, Monte S. Savino (Arezzo), 17 ottobre 1904 (L 461). Ma cfr. anche le lettere degli anni successivi all’amico francese (L 467-468, 485, 491). In Vita Malchi monachi captivi, I, Girolamo scrive: «Scribere enim disposui (si tamen vitam Dominus dederit; et si vituperatores mei saltem fugientem me, et inclusum persequi desierint) ab adventu salvatoris usque ad nostram aetatem, id est, ab apostolis, usque ad nostri temporis faecem, quomodo et per quos Christi ecclesia nata sit, et adulta, persecutionibus creverit, et martyriis coronata sit; et postquam ad Christianos principes venerit, potentia quidem et divitiis maior, sed virtutibus minor facta sit».
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Un cenno significativo al ruolo degli ebrei nella società italiana affiora in una lettera del 9 ottobre 1904 a Ivan Ivanoviç Belozerskij, il libraio ucraino che, da più di dieci anni, era fra i suoi amici più cari. Di fronte allo scoppio della guerra russo-giapponese e all’evidente favore con cui la maggior parte dell’opinione pubblica italiana guardava al Giappone, Belozerskij dovette scrivere a Salvadori una lettera molto risentita: accusando la Chiesa di simpatizzare per la causa nipponica, spinta dalla sua avversione verso l’Ortodossia, gli Italiani di crescenti sentimenti nazionalisti e la stampa di asservimento all’ebraismo e ai suoi sentimenti anti-russi. Nel rispondergli, Salvadori lo assicurava che «in quella lettera nulla v’era che offendesse i suoi sentimenti di cattolico o d’italiano», ma ribadiva l’universalità della Chiesa, «come la sentiva» lui: «nulla di più anticattolico che l’odio dei Protestanti o degli Scismatici, quantunque si riconosca quel che manca agli uni e agli altri nella verità, perché quello che più importa è la vita; e tra gli Scismatici de’ suoi tempi il Signore Gesù scelse la figura del Samaritano che amò veramente il suo prossimo, e pagano era quel Centurione che gli disse: Signore, non son degno che tu entri sotto il mio tetto; ma di’ solamente una parole e il mio figliuolo sarà guarito». Come anche negava che stesse emergendo un nazionalismo italiano: Ma è anche vero che nell’Italiano è assai debole il senso della grandezza nazionale, dello Stato come organismo di cui si è indivisibile parte; e quindi il suo patriottismo è assai differente da quello di altri popoli stretti più saldamente dal vincolo nazionale. L’italiano, è vero, è, com’Ella dice, individualista, ma anche universalista, e non sente per sé, né capisce negli altri il fascino della conquista. La conquista è per gl’Italiani, anche del popolo, una prepotenza, un andare a comandare in casa d’altri; e però l’ambizione imperiale della Russia, come quella dell’Inghilterra, le riguarda come una malattia per esso passata e superata.
Sulla questione della presenza ebraica nella stampa italiana, Salvadori concedeva invece qualcosa al suo interlocutore (come abbiamo visto anche con Sabatier, questo era un modo per mantenere un canale diretto con lui), ma subito dava un tono diverso alla sua argomentazione: Quanto alla nostra Italia, è vero ciò ch’Ella dice, che pur troppo buona parte della nostra stampa quotidiana è in mano agli Ebrei; e quindi si capisce che nei giornali si rifletta l’odio degli Ebrei contro la Russia. Le dirò anzi ch’essi aspettano di vedere la Russia pagare il fio delle sue persecuzioni contro di loro; e forse considerano i Giapponesi e gli assassini politici russi come ministri della vendetta di Dio137. 137 G. Salvadori a Ivan Ivanoviç Belozerskij, 9 ottobre 1904 (L 458-459). Su questa figura, cfr. M. Bertelé, Ivan Ivanoviç Belozerskij, in www.russinitalia.it. Sulla tradizione giudeofoba
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Insomma lo scrittore toscano sembrava ammettere la tesi del suo interlocutore (già presente negli articoli anti-ebraici della Civiltà cattolica) su d’una straripante presenza ebraica nella stampa italiana e sulla sua avversione anti-russa, ma in qualche modo la giustificava con le persecuzioni di cui gli ebrei russi erano stati oggetto negli ultimi decenni, per cui i Giapponesi diventavano ai loro occhi quasi i «ministri della vendetta di Dio»138. Infine è interessante il parallelo fra il «genio arabo» e «quello d’Israele», contenuto in una lettera del 1908 all’arabista Celestino Schiaparelli, docente all’università di Roma, che aveva pubblicato nel 1897 il testo arabo del diwan del poeta arabo del XII secolo, Ibn Hamdis, e ora aveva inviato all’amico un suo saggio di traduzione. Schiaparelli doveva avergli espresso qualche scrupolo per i contenuti di quella poesia, ma Salvadori non trovava da eccepire: «difficilmente — scriveva — si potrebbe avere una manifestazione più viva del genio arabo, con la poesia della scimitarra, del vino, del cavallo, del camello e della donna (sebbene questo bel nome in questo caso non mi par proprio) sentita col fuoco del deserto vanamente mitigato da una fonte d’acqua viva all’ombra di qualche palmizio. Come non raccogliere una simile testimonianza?». In quella poesia araba si avvertivano echi di «quell’ardire che passa attraverso la morte per il potere o il godimento», qualcosa di bruciante che ricordava quella ebraica, ma con una differenza fondamentale: «che anch’esso [il genio ebraico] è dominato dall’incendio, russa, di cui Belozerskij sembra qui risentire, cfr. C. G. DE MICHELIS, La giudeofobia in Russia: dal Libro del “kahal” ai Protocolli dei savi di Sion, con un’antologia di testi, Torino 2001. Contrariamente all’analisi rassicurante di Salvadori, è ben noto come la guerra russo-giapponese sia stata una delle “suggestioni del mondo” che contribuirono a sviluppare anche in Italia uno stato d’animo lato sensu nazionalistico (G. VOLPE, Italia moderna, II, 1898-1910, Firenze 19732, pp. 347-349). 138 Alla fine di questa importante lettera, Salvadori, in questo veramente uomo del suo tempo, esprimeva la speranza che l’espansione europea contribuisse all’unificazione morale e religiosa dell’umanità: «Ma c’è, grazie a Dio, una maniera superiore di considerare questi rapporti fra le razze, e quindi le conquiste. Come Roma riunì sotto le sue leggi tutti i popoli del Mediterraneo e così preparò le vie alla rigenerazione del mondo antico per mezzo del Cristianesimo, così ora fanno la Russia e l’Inghilterra dell’Oriente e dell’Occidente preparando così anch’essi le vie allo Spirito cristiano che arrivi con la Parola ai confini del mondo. La guerra presente fa della Russia un antemurale contro la barbarie mongolica, e farà davvero i Russi i difensori di tutto il mondo cristiano contro questa forza asiatica pagana, minacciante tutto ciò che di più caro e di più sacro esiste a difesa e a tutela della civiltà nostra. I Russi faranno insomma rispetto ai mongoli quello che i Franchi rispetto ai Saraceni, quello che i Sassoni rispetto agli Ungari, e per ciò meritamente prenderanno la difesa di tutto il mondo civile contro la barbarie asiatica. E sarà la vigilia dell’ultimo giorno quando, caduta ogni barriera il mondo sarà tutto un sol popolo e un amore. Intanto, mio caro Signor Giovanni, bisogna educare uomini i quali anticipino questa universalità nel loro cuore, pure adattandosi ai tempi e sapendo distinguere quello che è possibile da quello che è desiderabile. Così anche la guerra, che in questo ideale non ha parte, in altre condizioni dell’umanità è necessaria e però lecita» (L 460).
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ma nell’incendio, come nel roveto ardente veduto da Mosè, è Dio». Insomma il «genio arabo» era essenzialmente carnale, quello ebraico spirituale e religioso. Ma la conclusione di Salvadori era, al solito, ecumenica: Come può esserLe venuto il dubbio che lo studio profondo di un popolo che ha avuto tanta parte anche nella storia del nostro Occidente, non meritasse il tempo che ci vuole ? Venisse presto il giorno che, dopo esserci conosciuti a vicenda, riconoscendo ciascuno i diritti e i meriti degli altri, tutti i popoli della famiglia umana si raccogliessero, come fratelli che, divisi la mattina per andare al lavoro, si raccolgono la sera a uno stesso focolare, sotto una stessa lampada139!
Il «genio arabo» e quello «ebraico» erano come fusi nella personalità di David Santillana, nato a Tunisi da famiglia ebraica nel 1855 e naturalizzatosi poi italiano. Con la moglie Emilia Maggiorani, aveva conosciuto Salvadori nell’Unione per il bene: negli anni successivi aveva stretto intorno a sé una società cosmopolitica, imbevuta di cultura variamente religiosa e permeata anche d’interessi per la teosofia e lo spiritismo. Avvocato di successo, nell’anno accademico 1910-1911 tenne corsi di diritto islamico e di storia della filosofia greca all’università del Cairo, dal 1913 sarebbe diventato docente di diritto musulmano a Roma140. Abbiamo due copie di una lettera a lui diretta da Salvadori nella seconda metà del 1910: è molto probabile che sia stata scritta nelle settimane successive al dirompente discorso del 20 settembre con cui il sindaco di Roma, Ernesto Nathan, esponente di punta dell’ebraismo e della massoneria italiana, suscitò un grave incidente con la Santa Sede141. Conviene riportarla integralmente: Avvocato gentilissimo Ho qui un pegno della Loro cortesia, la circolare Luzzatti contro le pubblicazioni offensive del buon costume: e non voglio rimandarla senza una parola di 139
G. Salvadori a C. Schiaparelli, 30 agosto 1908 (L 556-557). Sulla figura di Schiaparelli, cenni significativi in F. GABRIELI, La storiografia arabo-islamica in Italia, Napoli 1975, ad nomen. 140 Sulla figura di Santillana, cfr. G. LEVI DELLA VIDA, David Santillana, in Rivista di studi orientali 12 (1929-31), pp. 453-461; FERLOSIO, Cinquant’anni cit., pp. 56-59. Molte notizie su Santillana e sull’ambiente teosofico romano d’inizio secolo sono in G. AMENDOLA, Carteggio 1897-1909, a cura di E. D’AURIA, Roma – Bari 1986, ad nomen. 141 Sull’episodio, ancora utile A. LEVI, Ricordi della vita e dei tempi di Ernesto Nathan (1927), a cura di A. BOCCHI, Lucca 2006, pp. 234-245, che riporta integralmente il rescritto del Papa al cardinal vicario Pietro Respighi (pp. 247-248) e la lettera indirizzata da Nathan ai giornali cittadini (pp. 248-249). La vicenda ebbe una vastissima eco internazionale, minutamente ricostruita in M. SANFILIPPO, La Santa Sede, Ernesto Nathan e le ripercussioni internazionali delle celebrazioni per il 20 settembre 1910, in Archivio della Società Romana di Storia Patria, 113 (1990), pp. 347-360.
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ringraziamento e di saluto. Come stanno Loro? e il piccolo Giorgio? il quale oramai comincia a non esser più piccolo, e intendo bene come dia pensiero al Padre e alla Madre che l’amano il desiderio ch’egli cresca mens sana in corpore sano, e buono con tutti, come vuole Iddio, non solo con alcuni, come vogliono gli uomini. In questi mesi ha Ella potuto prepararsi tranquillamente alla Scuola affidataLe al Cairo? Quanto godrei, Sig. David, a sentirla dai deviamenti posteriori risalire alla fonte della tradizione semitica, e specialmente del popolo Suo, d’Israele puer Dei, eletto e custodito immune dal contagio dei popoli idolatri, a conservare il deposito della Verità e della Legge, cioè chiara e viva la luce che illumina la coscienza, e che poi compita dalla Luce della Parola di Dio si raccolse nella divina semplicità, nella realtà, nell’universalità dello Spirito cristiano! Ricorda le parole ultime del Cantico di Maria? D’essa pietosa memoria raccoglie oggi Israele, ai Padri che l’udirono e ad Abraham, fedele. L’Islamismo con l’harem accanto alla tende del Profeta e la scimitarra annunziatrice del Corano; il Talmudismo con la perfidia, l’odio e il tradimento contro i fratelli cristiani, vipere che s’appiattano fra i rovi della siepe che i Figli della Vedova vollero fare alla Legge; queste, e specialmente quest’ultima, sono degenerazioni orribili contro le quali il generoso e schietto sangue semitico, nella luce della nostra civiltà, non può non ribellarsi142.
Dunque Santillana e la moglie avevano inviato a Salvadori il testo della circolare contro la pornografia, che Luigi Luzzatti, presidente del consiglio e ministro dell’interno, aveva emanato il 16 giugno 1910: un altro elemento del duraturo feeling fra l’uomo politico israelita e il mondo cattolico, che negli anni successivi vi avrebbe fatto costante riferimento143. Salvadori 142 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Carte Salvadori [d’ora in poi: Carte Salvadori] 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 8. Le due lettere sono di mano di Salvadori: su d’una è scritto Copia. L’espressione «figli della Vedova» è usata nel gergo massonico per indicare coloro che hanno avuto accesso all’iniziazione massonica, che li lega con un vincolo di «fratellanza». Secondo alcuni, tale espressione si attaglia in misura completa solo a chi abbia raggiunto il grado di Maestro. Ma Salvadori la usa qui e altrove per indicare gli ebrei, o almeno l’ebraismo ufficiale, che — lo abbiamo visto — considerava in buona parte contiguo alla massoneria. Secondo Drumont (ma la sua interpretazione sembra fantasiosa), la “vedova” era Gerusalemme: «L’image douloureuse de Jérusalem apparait donc au premier plan dans l’œuvre maçonnique. C’est la Veuve dont le fils dispersés se reconnaissent au bout du monde en criant: “A moi les fils de la Veuve!”» (É. DRUMONT, La France Juive. Essai d’histoire contemporaine, II, Paris 1886, p. 319 e anche 341): l’antisemita francese sosteneva l’origine ebraica della massoneria e del suo linguaggio iniziatico. 143 PERTICI, «Religioni libere entro lo Stato sovrano» cit., pp. 235-240. Secondo un motivo tradizionale della polemica antisemita, ai vari strumenti di propaganda anti-cattolica, «le Juif a joint la propagande anti-religieuse par le journal à scandales, la publication obscéne, la pornographie» (DRUMONT, La France Juive, II, cit., p. 455 e più in generale 455-463, dove erano molti i riferimenti alla prima fase dell’attività di Léo Taxil). Non è da escludere che
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ringrazia e chiede notizie di Giorgio, il futuro storico e filosofo della scienza, che allora aveva otto anni. Dovrà essere «buono con tutti, come vuole Iddio, non solo con alcuni, come vogliono gli uomini»: qui già affiora il motivo universalistico, che percorre la seconda parte della lettera. Dopo avere chiesto informazioni sull’insegnamento che Santillana doveva tenere all’università del Cairo, Salvadori parla di quanto veramente gli preme. Sarebbe lieto se l’amico riuscisse a risalire «dai deviamenti posteriori […] alla fonte della tradizione semitica, e specialmente del popolo Suo, d’Israele puer Dei». Lo scrittore parla di «tradizione semitica», comprendendovi — come abbiamo visto — il «genio arabo» e quello ebraico. Ma è soprattutto a quest’ultimo che si riferisce: la fonte di cui parla è certamente il profetismo ebraico, espressione di una religione dell’interiorità e dalla portata universale. L’antico Israele ha avuto un compito provvidenziale: quello di «conservare il deposito della Verità e della Legge, cioè chiara e viva la luce che illumina la coscienza»: per questo è stato «eletto e custodito immune dal contagio dei popoli idolatri». La religione dei suoi profeti ha raggiunto il compimento «nella divina semplicità, nella realtà, nell’universalità dello Spirito cristiano». Quali sono i «deviamenti posteriori» da cui lo «spirito semitico» deve liberarsi? Emergono nel passaggio da una religione universale (il momento profetico) a una religione “etnica”: categoria in cui Salvadori pone l’islamismo come l’ebraismo post-biblico. Del primo ribadisce la carnalità («l’harem accanto alla tende del Profeta») e lo spirito di conquista («la scimitarra annunziatrice del Corano»); il secondo lo vede degenerato nel Talmudismo. Dei temi della secolare polemica cristiana contro il Talmud, Salvadori trattiene soprattutto l’accusa che in esso sarebbero frequenti accenti blasfemi e accuse odiose contro «i fratelli cristiani», raffigurati quali «vipere che s’appiattano fra i rovi della siepe che i Figli della Vedova vollero fare alla Legge». Ma in questo motivo della «siepe», torna la condanna del particolarismo e l’appello a liberarsene rivolto a entrambe le religioni semitiche. Salvadori, quindi, pone uno stretto rapporto fra le religioni abramitiche: la loro storia comune ha il momento più alto nel profetismo ebraico, che trova un compimento nell’universalismo cristiano. Le due esperienze religiose non cristiane che ne derivano sono invece «deviamenti», in qualche modo “eresie”, rispetto alla rivelazione contenuta nell’antico Testamento: «deviamenti» nei quali si torna al precettismo e al particolarismo, sia pure di diverso tipo. La considerazione dell’ebraismo talmudico l’impegno luzzattiano contro la pornografia sia scaturito, più o meno consciamente, dal bisogno di dimostrare il contrario e che a un motivo analogo rispondesse anche l’invio della circolare da parte di Santillana a Salvadori.
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come “eresia” rispetto alla linea che si snoda dal profetismo ebraico alla rivelazione cristiana costituiva una soluzione non inconsueta al problema teologico della sopravvivenza del «falso Israele» in mezzo a quello «vero». Soluzione risalente ai Padri e ai canonisti medievali, che in qualche modo preservava un humus comune alle due religioni144. Nella sua pionieristica opera sull’antisemitismo, l’ebreo francese Bernard-Lazare distingueva (credo giustamente) gli antitalmudisti, che «sont avant tout poussés, comme les théologiens d’antan, par le désir de ramener Israël dans le giron de l’Eglise, d’autres, comme le docteur Rohling, [qui] sont plutôt disposés à le supprimer, et le déclarent incapable de servir jamais au bien»145. Salvadori è senz’altro assimilabile ai primi: ma va sottolineato che elementi polemici contro il “particolarismo” e il “dogmatismo” del Talmud erano largamente diffusi sia nella tradizione “laica” che dalla polemica illuministica giunge fino a Renan, sia nello stesso ebraismo “liberale”, da Moses Mendelsohn ad Abrahm Geiger146. Un suo epigono come Felice Momigliano lo giustificava come un elemento che aveva svolto una fondamentale funzione identitaria durante i secoli delle persecuzioni, ma che ormai era «sorpassato dalle nuove esigenze culturali» (un discorso parallelo a quello che per la scolastica facevano i modernisti cattolici): l’ebraismo contemporaneo doveva superare anche l’approccio talmudico alla figura di Gesù, storicizzando gli «accenni diffamatori del Nazzareno che ricorrono nel Talmud»147. Peculiare a Salvadori era tuttavia l’approccio a codeste polemiche teologiche. Lo abbiamo notato a proposito di protestanti e ortodossi: come cattolico riconosceva «quel che manca agli uni e agli altri nella verità», ma ai suoi occhi era assai più importante «la vita». Egli diffidava della 144 F. PARENTE, La Chiesa e il Talmud, in Storia d’Italia, Annali, 11, Gli ebrei in Italia, 1, Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti, Torino 1996, pp. 523-637, di cui si veda soprattutto il paragrafo 16, Un problema teologico (pp. 634-637). Sul dibattutissimo problema delle polemiche e delle ingiurie anti-cristiane presenti nel Talmud, pochi anni prima che Salvadori scrivesse questa lettera, era uscito l’equilibrato volume di R. T. TRAVERS, Christianity in Talmud and Midrash, London 1903. Sulla letteratura ebraica anti-cristiana (in particolare il Toledòth Yéshu), cfr. R. DI SEGNI, Il Vangelo del Ghetto. Le «storie di Gesù»: leggende e documenti della tradizione medievale ebraica, Roma 1985. 145 Fra i primi annoverava anche Bloy: «Ce souci du rôle futur des Juifs est exprimé par un livre singulier de M. Léon Bloy: Le salut par les Juifs (Paris, 1892)» (BERNARD LAZARE, L’Antisémitisme. Son histoire et ses causes, Paris 1894, pp. 231-232). 146 Per la polemica settecentesca, cfr. MOSSE, Il razzismo in Europa cit., pp. 5-22, a cui si può ricorrere anche per le posizioni di Rohling (pp. 150-153). Per l’anti-talmudismo di Renan, cfr. POZZI, Storia, filologia e pensiero razziale cit., pp. 265-266. Per le polemiche anti-talmudiche di Bernard-Lazare (quindi di un futuro campione del dreyfusismo), cfr. BERNARD LAZARE, L’Antisémitisme cit., pp. 7-17, 117-127, 154-157. 147 Cfr. supra, nt. 116.
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critica e della discussione, perché non riuscivano ad avvicinare i lontani: una parola, anche buona, (scriveva a Gallarati Scotti) che opponga idea a idea, non faceva altro che pungere e irritare. Per questo anche con gli amici ebrei difficilmente si lasciò indurre a discussioni teologiche: tanto che non sarei certo che questa lettera diretta a David de Santillana, gli sia poi stata veramente recapitata (nelle Carte Salvadori, in Biblioteca Vaticana, ne rimangono l’originale e una copia). 9. Una «Lega internazionale senza fede né legge di patria». Come abbiamo ripetutamente sottolineato, Salvadori aveva ereditato dalla tradizione neoguelfa risorgimentale e poi da quella conciliatoristica di fine secolo una marcata diffidenza verso il culto della romanità e dei suoi valori: quindi verso ogni politica nazionalistica e imperialistica. Anche la critica del talmudismo — a ben vedere — risentiva della stessa tensione universalistica che lo spingeva all’esaltazione dell’«umile Italia», piuttosto che di quella «grande»: È errore — affermava il 7 aprile 1900 — che ogni popolo dovrebbe oramai aver corretto col sangue l’idea che le nazioni, non altrimenti che le città, siano al mondo solo per la loro prosperità e la loro gloria, e quindi non abbiano altra legge che il loro interesse: esse sono obbligate alla osservanza dell’equità come i privati, non meno dei privati: se lo dimenticano, o non lo vogliono riconoscere, immancabilmente pagano cara la dimenticanza o la ribellione. Un’Italia obbediente a questa legge, Dante ha veduto nell’avvenire e designato col nome di umile. Dei nomi vivi nella mente di lui questo di umile Italia è forse quello rimasto finora più occulto, e che ora è più necessario si conosca e si ami. È il nome di un popolo che intende come la civiltà vera sia, non in grandezze e glorie esteriori che portano alle lagrime e al sangue: non nell’affermazione di un diritto che non riconosce dovere verso Dio, gli altri popoli e il genere umano; ma nell’operosità delle arti utili e delle arti belle, negli studi della scienza e della sapienza, nell’applicazione sempre migliore dell’idea di giustizia, nel riconoscimento di un limite posto alle esigenze nazionali da un dovere più alto che il patriottico (pur non dimenticando la necessità di difendere i doveri comuni e i conseguenti diritti anche con le armi) e nell’indicibile potenza morale che può venire dall’attività delle braccia e della mente rivolta senza secondi fini al miglioramento umano148.
Nella già citata lettera del 1904 a Belozerskij, aveva ribadito l’esigenza di «educare uomini i quali anticipino questa universalità nel loro cuore», ma che realisticamente sappiano anche adattarsi ai tempi, distinguendo «quello che è possibile da quello che è desiderabile. Così anche la guerra, — concludeva — che in questo ideale non ha parte, in altre condizioni 148 SALVADORI, Famiglia e città secondo la mente di Dante cit., p. 32. La conferenza del 1900 venne stampata nell’omonimo libretto del 1913.
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dell’umanità è necessaria e però lecita». Quando? Allorché esista una situazione iniqua che ci impedisca di compiere i nostri doveri: perché — cristianamente — per Salvadori il diritto fondamentale e primario è quello di eseguire ciò che la coscienza ci impone. Insomma anche lo scrittore toscano ammetteva — in linea con una secolare tradizione — la possibilità di una «guerra giusta»149 ed era sicuro del “diritto” italiano al compimento dell’unità nazionale: Non odio o vendetta, non oro né impero, non sangue e di gloria splender menzognero, né, sogno fallace, dell’Aquila il volo, o Italia! se adoro la forza, è viltà. Del sacro tuo suolo riprendi i confini, ascendi la scala dei gradi divini! il Dio degli eserciti è il Dio dell’amore; inalza chi muore l’eterna Città 150.
Dopo lo scoppio del conflitto mondiale, anch’egli ne vide le cause remote nell’apostasia dell’Europa («la guerre actuelle était le scandale nécessaire, dont la responsabilité remonte à ceux qui ont rompu le Lien qui réunissait les peuples sous la même Loi de justice et d’amour»)151, sottolineando gli effetti devastanti delle nuove religioni politiche, il nazionalismo e la statolatria: la causa prima di questa guerra è la superbia; sono gli Stati e le nazioni che non riconoscono nulla di superiore a sé, nessuna legge, nessun limite; cioè negano Dio. E la Germania è stata la prima, che con Lutero levò, nell’Occidente, il vessillo della ribellione, e fece i principi giudici e legislatori non sottoposti a giudizio, e poi con la sua filosofia atea e superba s’è messa fuori della verità, e ha messo l’uomo in luogo di Dio, per poi metterci lo Stato, per poi metterci un Cesare. Ma la mano di Dio non ha paura né dei Cesari né dei cannoni; e il sassolino di Daniele c’è sempre ad abbattere il colosso di Nabuccodonosor152.
Le sue passioni negli anni di guerra (perché anche il suo animo mite, 149 Su questa complessa tematica durante la prima guerra mondiale, cfr. D. MENOZZI, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna 2008, pp. 36-46. Si rinvia a questo testo anche per la lettura provvidenzialistica della guerra elaborata dal magistero pontificio (pp. 15-22) e per un’equilibrata valutazione della Nota pontificia del 1° agosto 1917 (pp. 22-31). 150 G. SALVADORI, Canto popolare di guerra, in ID., Ricordi dell’umile Italia. Dal Canzoniere civile, Torino 1918, p. 22. 151 G. Salvadori a P. Sabatier, Roma, 26 dicembre 1915 (L 722). 152 G. Salvadori a G. F. Gamurrini, Roma, 23 aprile 1916 (L 728-729).
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come vedremo, non ne fu esente) furono soprattutto determinate dalle vicende di alcuni dei suoi amici più stretti e da alcuni incontri: fin dal giugno del 1915, il padre Giovanni Semeria era divenuto cappellano presso il comando supremo, quindi a contatto quotidiano col generale Luigi Cadorna. Nel novembre dell’anno successivo, vi era chiamato anche Tommaso Gallarati Scotti come ufficiale di ordinanza di Cadorna. Nel giugno del 1916, Salvadori aveva fatto la conoscenza di Carla, una delle figlie del generale, che sarebbe diventata negli anni successivi sua discepola, oltre che amica carissima di sua sorella Giuseppina153. Così anche il poeta entrò a far parte, sia pure sempre da lontano, di quell’entourage di militari, intellettuali, giornalisti che si strinse intorno al comandante supremo con un atteggiamento di vera e propria venerazione e di fedeltà, anche quando — dopo Caporetto — il «Capo» uscì di scena e anzi fu oggetto per anni di furibonde polemiche154. Non pochi di costoro erano cattolici: anzi si trattava, spesso, di cattolici inquieti, che avevano incontrato le loro difficoltà nel periodo del modernismo. Le ragioni di questo fascino sarebbero state ripercorse da Gallarati Scotti quasi mezzo secolo dopo: Il Generale Cadorna che — comunque sia il giudizio che sulla condotta strategica della campagna fino a Caporetto possa essere portato su di lui — rimane nella storia d’Italia come un’alta figura della sua epoca e della prima guerra mondiale, aveva una tradizione famigliare patriottica e religiosa che lo riallacciava direttamente al Risorgimento e di cui era il naturale continuatore. Non invano suo padre Raffaele aveva comandato la guerra che si era compiuta con la breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870. E suo zio Carlo Cadorna, eminente personalità politica, si riallacciava ai primordi del Risorgimento. Anche spiritualmente Luigi Cadorna continuava nella stessa scia la sua opera nella guerra finale dell’unità italiana. Politicamente, come i suoi maggiori, egli rimaneva un cattolico liberale. Dopo una giovinezza in cui si era allontanato dalla fede dei suoi, vi era stato ricondotto durante il periodo in cui era stato di Comando a Cremona, dal Vescovo Geremia Bonomelli, grande pastore e ardente patriota. Dal suo liberalismo cattolico rima153 Per l’attività di Semeria durante la guerra, cfr. F. L. LOVISON, Il Cappellano militare Giovanni Semeria: le «armonie cristiane» di un uomo di Chiesa, in Barnabiti Studi 24 (2007), pp. 135-232; ID., P. Semeria nella Grande guerra. Un “caso di coscienza”?, ibid. 25 (2008), pp. 125-164, entrambi ricchissimi di documenti; per Gallarati Scotti, cfr. N. RAPONI, Tommaso Gallarati Scotti tra politica e cultura, Milano 1971, pp. 111-140. Sul rapporto fra i Salvadori e Carla Cadorna, cfr. L 731-732 e passim. 154 Significativa a questo riguardo, fra le altre, è la lettera scritta da Salvadori proprio a Luigi Cadorna dopo la vittoria, il 6 novembre 1918: «Nell’inno di gioia che da ogni parte sale, penso al Dimenticato, al Calunniato, che fu il formatore dell’esercito, che lo condusse tante volte alla vittoria, che fu travolto ingiustamente dalla catastrofe, che merita gli sia resa giustizia piena» (L 792-793); e quella del 18 agosto 1919, dopo la pubblicazione dell’inchiesta su Caporetto, a Carla Cadorna (L 819).
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nevano in lui ben delineati i limiti tra la sua professione di credente e i suoi doveri di cittadino e di soldato. La sua pratica era virile e sobria. […] Chi invece ci portò tutto il suo ardore sacerdotale e intellettuale, ma con la larghezza delle sue idee e del suo animo apostolico, e che io ritrovai dopo gli anni travagliati della vicenda modernista, fu Padre Giovanni Semeria, mio maestro negli anni giovanili in cui studiavo Diritto all’Università di Genova. […] La figlia del. Generale, Carla Cadorna, donna di superiore carattere e di forte cultura, amicissima di quanti vi erano in quel momento di più spiccate personalità nella vita spirituale della nazione, a cominciare da Giulio Salvadori, aveva desiderato per suo padre il conforto di un simile spirito disinteressato, indipendente, che della guerra sentiva un lato che ai tecnici e agli strateghi era estraneo. Semeria era l’opposto dell’«eminenza grigia» e a tutti gli inevitabili intrighi di un alto comando rimase indifferente e estraneo, benché la veste talare potesse a molti dar dubbi e fastidi e pretesto di diffidenza e di errate interpretazioni. Il caso ci faceva così ritrovare, ma su un altro piano che non quello dei conflitti teologici e filosofici155.
Come si vede, l’incontro ideale di Salvadori con Cadorna non può essere presentato come una sua «sbandata», ma discendeva da affinità religiose e comuni amicizie. Nei primi mesi del 1917, Gallarati Scotti chiese a Salvadori di «metterlo sull’avviso di fatti e condizioni che sia necessario conoscere ora specialmente per il bene del nostro popolo e per evitare i terribili mali che lo minacciano»156: lo scrittore prese sul serio questa richiesta e periodicamente gli presentò relazioni più o meno ampie sullo spirito pubblico del paese, colto talora in alcuni episodi da lui ritenuti particolarmente significativi. Non è da escludere che qualche eco di quelle lettere sia giunta al «Capo», che in quei mesi (dal 6 giugno al 18 agosto 1917) scrisse le famose quattro lettere al presidente del consiglio Boselli in cui attribuiva all’opera di sobillazione dei socialisti e dei “disfattisti” il forte aumento degli episodi di diserzione e di indisciplina che si stavano verificando nell’esercito157. 155
T. GALLARATI SCOTTI, Idee e orientamenti politici e religiosi al Comando Supremo: appunti e ricordi, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale. Atti del Convegno di Studio tenuto a Spoleto nei giorni 7-8-9 settembre 1962, a cura di G. ROSSINI, Roma 1963, pp. 509-515, 509-510. Ma sono ancora da leggere le pagine su Cadorna in G. SEMERIA, Memorie di guerra offerte per gli orfani a tutti i buoni italiani, Milano 19275, pp. 14-56. 156 G. Salvadori a T. Gallarati Scotti, Roma, 22 gennaio 1918 (L 765). «Al Conte Gallarati Scotti, se lo vede, — scriveva a don Giovanni Minozzi il 6 marzo 1917 — voglia dire che io non ho dimenticato, e che desidero gli faccia conoscer Lei le verità utili circa lo stato e l’animo dei soldati» (L 745). La lettera è importante perché contiene i nomi degli amici e di alcuni allievi di Salvadori che in quei mesi erano al fronte. 157 M. SILVESTRI, Isonzo 1917, Milano 19763, pp. 228-231. Il 21 giugno 1917, Salvadori scriveva a Carla Cadorna: «Raccomando a Lei, quanto è possibile, trovare i modi d’impedire l’immoralità nell’esercito. Ella sa qual è il segreto della fortezza. Ora un’antica congiura mossa da un soffio perverso mira a distruggere la fibra dei nostri giovani, ad avvelenarne il san-
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Il 1917 si stava, infatti, dimostrando un annus horribilis. Dalla fine del 1916 era cominciata una serie di agitazioni popolari contro il carovita, la penuria di viveri, gli speculatori, i “pescecani” e le autorità ritenute loro complici: insomma contro il protrarsi della guerra. Si trattò prevalentemente di un moto spontaneo di stanchezza e di malcontento, ma certo una qualche efficacia l’ebbe anche la propaganda socialista. La rivoluzione di febbraio, con l’abbattimento dell’autocrazia zarista e la proclamazione della repubblica, non aveva portato alla pace separata, ma i socialisti già la presentavano alle masse come il primo passo di un processo rivoluzionario che avrebbe soddisfatto l’aspirazione alla pace del proletariato russo: quindi un esempio da imitare. Questo il contesto delle lettere-relazioni inviate allora da Salvadori a Gallarati Scotti: è stato scritto che «di fronte a questo complesso di avvenimenti l’interventismo di sinistra andò progressivamente irrigidendo la sua posizione sia al governo sia soprattutto nel paese»158. Ma un medesimo «irrigidimento» coinvolse anche uomini come Salvadori, che non erano stati interventisti e tanto meno potevano definirsi di sinistra: fu allora che anche in molti di loro emerse una diffusa ostilità contro la Camera “giolittiana”, si cominciarono a vedere complotti dovunque, si contrapposero i vertici militari al governo civile. La sua prima, breve relazione riguarda la “rivolta di Tortona” del 1° maggio 1917, una delle tante sommosse che si ebbero in quel mese, su cui la censura cercò di stendere una cortina di silenzio: notizie abbastanza sicure gliene erano giunte da don Luigi Orione, che ne era stato testimone oculare: «Veramente — concludeva Salvadori — la prova non è finita: vigiliamo e siamo preparati; ma con la fede che tutto ciò è preparazione d’un gran bene. Voglia Dio (e per questo Le scrivo) che il contagio non si propaghi nell’esercito. Bisogna curare i piccoli e poveri soldati, cristianamente»159. gue, a fiaccarne e avvilirne l’anima; e quindi a distruggere la famiglia e a togliere la difesa alla Patria» (L 755). Si ebbero anche contatti diretti fra Salvadori e Cadorna, specie dopo la sua uscita di scena: il 31 dicembre 1917 lo scrittore toscano gli indirizzò una lettera che conteneva un’analisi della frana di Caporetto, che molto colpì Cadorna: «Essa contiene una diagnosi perfetta, fatta da par suo, delle cause che hanno condotto alla frana di Caporetto — diagnosi che molto mi potrà giovare», gli scriveva il generale (L 768 nt. 3). 158 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, pref. di D. CANTIMORI, Torino 1965, p. 332, e più in generale pp. 331-353; P. MELOGRANI, Storia politica della Grande guerra 1915-1918 (1969), Milano 1998, pp. 255-353. 159 «Per rispondere — aveva scritto Salvadori — al Suo desiderio e al mio, di vigilanza, Le scrivo quello che so d’una delle sommosse portate dal 1° Maggio, che non si sanno. Questa è stata a Tortona, città tranquilla d’ordinario e non molto coltivata dai sovversivi. Hanno fatto irruzione in Città donne e ragazzi dai 12 ai 18 anni mandando innanzi i ragazzi per farsene scudo; hanno assalito particolarmente la Pretura e il Vescovado, le fabbriche di munizioni e gl’istituti religiosi, tra gli altri quelli di Don Orione, che Ella sa quale impareggiabile benefattore del popolo è; e anche case di Signori privati. Nelle fabbriche, gli operai,
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In estate, — dopo la sanguinosa e sostanzialmente inutile decima battaglia dell’Isonzo e quella successiva dell’Ortigara — la propaganda pacifista trasse nuovo vigore dall’appello per la pace di Benedetto XV (1° agosto ma reso noto alla metà del mese). Per l’impatto che esso ebbe nell’immediato in non pochi cattolici impegnati in prima persona nello sforzo bellico, importante è ancora la testimonianza di Gallarati Scotti: Di quell’importantissimo documento in cui il Papa invocava la pace sulla base di tutta la sua azione ispirata ad una sincera im parzialità verso i belligeranti e suggerendo che le questioni territoriali fra Germania, Francia, Italia e Austria venissero regolate «secondo le aspirazioni dei popoli», due parole sole erano destinate a suscitare un pauroso conflitto di passioni tra le masse dei combattenti, — specie in Italia. Erano le parola che definivano la realtà della guerra come appariva in quel momento a chi la seguiva con animo trepido di Sommo Pastore: una «inutile strage». […] le due parole — distaccate dal contesto del documento diplomatico — trascorsero come un baleno su l’intero fronte — scossero la nazione in armi — risuonarono con accenti di minaccia nei Comandi a cominciare dal Supremo. Mai — credo — dopo il ‘70 la parola di un Papa aveva suscitato una simile tempesta di ire contro la Santa Sede «nemica d’Italia». Udii in quei giorni, sul fronte dalle labbra di Generali — non ostili per principî alla Chiesa e di temperamento moderato — parole roventi, minaccie giacobine: «Bisogna impiccarlo». Cadorna, colpito di sorpresa nella situazione difficilissima di quel momento, taceva e soffriva, quasi ruggente. Invano i «conciliatoristi» tentavano di inquadrare le parole nello spirito degli antecedenti appelli papali alla pace dell’8 settembre 1914 e del 28 luglio 1915. L’interventismo laicistico, massonico, ghibellino che stava all’erta e vegliava contro i ritorni di fiamma del neutralismo — soffiava violentemente nel fuoco. La parola d’ordine era quella di un «tradimento» del Pontefice alla causa nazionale. Ritornava in scena Pio IX. I nuovi risentimenti patriottici si assommavano agli antichi — non mai superati. I più in quieti, i più rattristati erano perciò quei cattolici che avevano votato per la composizione del secolare conflitto. Pareva loro assurdo che l’errore di una Cancelleria, bastasse per rendere vano il travaglio di decenni di
fatta causa comune con loro, hanno sospeso il lavoro. S’intende, fracassate le vetrine dei negozj, sfondate le porte. Davanti a un istituto di bambine, credo orfane, raccolte da Don Orione e affidate a Religiose, è durata la sassaiola tutta la notte e hanno cercato di svellere le inferriate. D’un Signore buono e alla mano (Opizzoni) hanno invaso la casa e spogliato la sala. Questi particolari Le diranno da qual soffio sono stati spinti e fatti Vandali questi campagnuoli» (G. Salvadori a T. Gallarati Scotti, Roma, 5 maggio 1917, L 749). Quel «soffio» era per lui la propaganda socialista e anticlericale. Su don Orione e i fatti di Tortona del maggio 1917, cfr. G. MARCHI, Don Orione, politica e politici, in Don Orione e il Novecento. Atti del Convegno di Studi (Roma, 1/3 maggio 2002), introduzione e cura di F. PELOSO, Soveria Mannelli (CZ) 2003, pp. 279-311, 289; G. VECCHIO, Don Orione e la politica del suo tempo, in San Luigi Orione: da Tortona al mondo. Atti del Convegno di studi, Tortona, 14-16 marzo 2003, Milano 2004, pp. 171-211, 183.
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una politica tendente a ricondurre le correnti cattoliche verso l’unificazione nazionale160.
Alle settimane successive appartiene la seconda “relazione” di Salvadori, di cui resta solo la parte conclusiva. L’impressione che il documento dovesse essere più ampio è confermata dal suo incipit, che appare come la continuazione di un discorso già avviato (farò poi qualche ipotesi sul suo contenuto). Il suo tema di fondo era l’indebolimento dello spirito pubblico del paese e della tenuta dell’esercito provocato dal vario “disfattismo” interno: ma la sua azione veniva collocata in un quadro più vasto, in cui si muovevano, in modo più o meno occulto, anche determinate forze transnazionali. Ma conviene riportare subito il testo: I denari che servono a comprare il tradimento acquistando influenza sui giornali e sugli uomini politici, passano per le mani di esseri «inesplicabili», versipelli rettili «senza patria», che fanno parte o comunque sono al servizio d’una grande lega d’interessi internazionale, ai cui interessati non importa la vittoria dell’una parte o dell’altra, e di ciascuno Stato la vittoria e la sconfitta perché mirano solo al loro interesse o, se parte attiva della lega, al dominio del mondo per mezzo dei denari. La rivoluzione di Russia fatta dagli Ebrei (dei quali è antesignano Kerenski) i quali hanno promosso e sfruttato tutte le teorie e i sogni che minavano, in uno o in un altro modo, l’ordine di cose già esistente, è compimento d’un antico disegno di distruzione del fascio russo e specialmente del legame tra popolo e Zar, che dava libero campo agli scoppi della passione popolare antisemita ed escludeva gli Ebrei dai diritti comuni; è stata fatta principalmente a profitto degli Ebrei, i quali hanno e vogliono mantenere il dominio della Russia lasciando come secondarie tutte le altre questioni, compresa la difesa nazionale: per questo è mancato il nerbo e il vincolo della resistenza all’invasione germanica, e la guerra esterna s’è mutata in guerra di classi. Il nuovo orientamento della Massoneria italiana manifestatosi nel Congresso della Rue Cadette [recte: Cadet] è tra noi la prima importante conseguenza di questa rivoluzione e del connubio avvenuto tra il volere dei forti nuclei d’ebrei levantini e le speranze degli Slavi meridionali di costituirsi in unità nazionale nell’ambito già segnato in parte dall’Austria; s’intende con una seconda rivoluzione che metta da parte gli Absburgo: il che probabilmente riuscirebbe alla costituzione d’un nuovo impero Slavo-ungarico, posto che gli Slavi meridionali non hanno da sé né mente né forza unificatrice; e d’altra parte, avendo la nuova Russia dichiarato di disinteressarsi delle piccole genti slave, e vedendo esse in un’Italia accampata sulle due sponde dell’Adriatico la rivale più temibile, s’intende che esse cerchino un nucleo organizzatore e una forza protettrice altrove. Il sacrificio degl’interessi italiani a vantaggio dei Jugoslavi (come il sacrificio del Belgio a vantaggio della Francia) nella carta delle sètte sovversive satelliti del Giudaismo, è nuova e chiara prova dell’indifferenza, rispetto a questioni di giusti160
GALLARATI SCOTTI, Idee e orientamenti politici e religiosi cit., p. 514.
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zia e di nazionalità territoriale, degli interessati alla Lega che ho detto, internazionale senza fede né legge di patria; poiché ad essi fa ora, cioè dopo la rivoluzione di Russia, miglior giuoco la formazione d’una confederazione Jugoslava, o Jugoslavaungarica, dominata da loro, a cui segua una prossima rivoluzione che metta da parte gli Absburgo, che la vittoria dell’Italia. Poiché bisogna tener presente che i più forti nuclei d’Ebrei, e quelli la cui sorte, come d’oppressi, agita ora i loro connazionali del mondo intero, sono in Russia, nei Paesi danubiani, nella Penisola balcanica (Galizia, Rumania, Macedonia, Salonicco…). Questi fatti e le manifestazioni proprie degli Ebrei, specialmente il Sionismo attuale (cioè il moto per la ricostituzione giuridica e politica della nazione ebraica, e in Palestina come Stato territoriale, e negli altri Stati come parti d’una nazione, senza terra, ma giuridicamente e politicamente tale) dimostrano che essi vogliono uscire dalla Guerra e dalla Rivoluzione seguente, nel «futuro assetto delle nazioni» con l’universale riconoscimento d’una posizione e d’uno Stato quali non avevano prima; che è stato mandato il grido di raccolta giudaico, raccolto dal Socialismo settario, cioè di radice giudaica, e dalla Massoneria (grido, che nell’antico rito d’ammissione massonico è espresso con le parole: A me i figli della Vedova!) che è dei momenti torbidi e pericolosi, ma anche di quei torbidi nei quali si può pescare, provocati dai gruppi, o dal gruppo dominante e dirigente, specialmente con la forza delle ricchezze, la «nazione in esilio»: il quale e i quali ho chiamato col nome di Giudaismo e che, per mezzo de’ suoi strumenti (oro, giornali, Massoneria e Socialismo settario) mira da secoli al dominio del mondo per mezzo delle forze della materia. Tutti questi fatti fanno intendere come la parola d’ordine nuova, ad arte diffusa nel mondo, specialmente nelle masse proletarie, e succeduta a quella di guerra, sia quella di rivoluzione; poiché veramente nei promotori della Rivoluzione permanente e nei focolari di essa è venuta a prevalere l’idea che i loro fini si posson raggiungere assai meglio con la distruzione degli antichi Stati europei e la formazione di nuovi aggregati dove le unità nazionali si riconoscano anche separate dalla terra161.
Il primo evento con cui Salvadori si confronta è la rivoluzione russa: quella del febbraio-marzo 1917, come il riferimento a Kerenskij rende evidente. Nel luglio del 1917, proprio il massone Kerenskij, ministro della guerra, aveva voluto un grande attacco contro l’esercito tedesco in Galizia (la cosiddetta “offensiva Brusilov”), che — dopo un primo momento di successo — si era risolta in una catastrofica ritirata. Dal 16 al 20 luglio, a Pietrogrado, era scoppiata una sollevazione popolare, appoggiata, dopo non poche esitazioni, anche dai bolscevichi, che era stata duramente repressa: allora Kerenskij era diventato capo del governo. Evidentemente Salvadori seguiva con attenzione tutte queste vicende: sia la crisi dell’esercito russo a cui era «mancato il nerbo e il vincolo della resistenza all’invasione germa161
Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Archivio Tommaso Gallarati Scotti, 12/35,
n. 20.
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nica», sia la rivolta a Pietrogrado («la guerra esterna s’è mutata in guerra di classi»). Ma per noi è importante il giudizio complessivo che dava sulla rivoluzione russa. Già nell’ottobre del 1904, scrivendo a Belozerskij, aveva sottolineato l’odio degli ebrei russi per il regime zarista: «Le dirò anzi ch’essi aspettano di vedere la Russia pagare il fio delle sue persecuzioni contro di loro», aveva aggiunto. Aveva auspicato — anche questo l’abbiamo visto — che essi non trasformassero il risentimento per le lunghe persecuzioni subite in volontà di dominio (il tema della francescana “umiltà”). Ma ora quel processo giungeva a compimento: la rivoluzione russa era stata fatta dagli ebrei e a profitto degli ebrei, i quali — pur di mantenere il dominio finalmente raggiunto — erano disposti anche a mettere in secondo piano l’impegno nella guerra, con conseguenze incalcolabili sul fronte italiano e su quello occidentale. Si trattava di analisi tutt’altro che isolate in quell’anno, a tutti i livelli della società europea: Le diplomazie occidentali — è stato scritto — non seppero […] interpretare appieno ciò che stava avvenendo in Russia. Alcuni iniziarono a parlare di un’ennesima mossa dell’ebraismo internazionale: gli Ebrei, di concerto con i Tedeschi, avevano organizzato la rivoluzione non solo per danneggiare l’Entente ma per sovvertire l’ordine mondiale. L’immaginazione degli occidentali fu colpita dalla presenza di tanti Ebrei nelle file dei rivoluzionari russi e soprattutto dal sostegno ebraico e tedesco alla fazione bolscevica. Buchanan, ambasciatore britannico a Pietroburgo, si disse convinto che i registi della rivoluzione erano gli Ebrei perché essi odiavano lo zarismo reo di tanti pogrom. La vicenda di Helphand, detto Parvus, che tramite l’ambasciata tedesca di Costantinopoli, città in cui da qualche anno risiedeva dedicandosi ai commerci, avvertì Berlino dei progetti rivoluzionari di Lenin è ben nota. Lo stesso dicasi del treno tedesco godente d’immunità diplomatica messo a disposizione di Lenin affinché questi dalla Svizzera raggiungesse la Russia. La rivoluzione russa fu così ritenuta una manovra tedesca con la regia ebraica: Helphand era ebreo, Lenin aveva una nonna ebrea e Carlo Marx era nipote di un rabbino162. 162
D. FABRIZIO, La questione dei Luoghi Santi e l’assetto della Palestina 1914-1922, pref. di G. RUMI, Milano 2000, pp. 151-152. L’autrice pone in evidenza che i primi successi politici del sionismo furono dovuti proprio a questo tipo di analisi: «Le diplomazie occidentali si convinsero che se gli Ebrei erano stati in grado di provocare la rivoluzione e la caduta dello zarismo, allora essi avrebbero potuto indurre il governo russo a proseguire la guerra con gli Alleati. Per allettare gli Ebrei a sostenere la causa alleata, i governi di Parigi e di Londra ritennero quanto mai necessario mostrarsi benevoli verso le aspirazioni sionistiche di modo che in cambio di un’accoglienza favorevole delle demands sioniste, gli Ebrei in Russia avrebbero combattuto le azioni pacifiste». Fu tale la convinzione nella forza dell’ebraismo internazionale e la disperazione degli Alleati in quel tragico 1917 che per primo il governo francese decise di concedere ai sionisti quanto fino ad allora aveva tenacemente rifiutato: una dichiarazione ufficiale di accoglienza delle loro richieste, quale fu la dichiarazione Cambon del 4 giugno 1917. Sebbene non resa di dominio pubblico, essa fu d’importanza eccezionale: per la prima volta nella sua storia, il
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Salvadori le registrava anche perché confermavano una sua antica certezza: quella dell’ebraismo “incredulo” come battistrada della rivoluzione. Il secondo evento su cui richiamava l’attenzione di Gallarati Scotti era il congresso internazionale massonico dei paesi alleati e neutrali che si era tenuto a Parigi dal 28 al 30 giugno 1917, che aveva lanciato il programma della “repubblicanizzazione” dell’Europa e dello smembramento dell’impero austro-ungarico: premesse indispensabili della costruzione di quella Società delle nazioni, che era da sempre un’aspirazione dei liberi muratori. A esso era seguito il patto di Corfù (20 luglio 1917), tra il presidente del consiglio serbo Pašic e il presidente del comitato jugoslavo di Londra Trumbiò, che rappresentava i fuorusciti sloveni, croati e dalmati: il patto prevedeva la formazione dopo la guerra di un regno serbo-croato-sloveno sotto la dinastia regnante in Serbia, che doveva comprendere la Dalmazia e l’Istria e (secondo le prospettive più ambiziose) perfino Gorizia e una parte del Friuli163. sionismo veniva riconosciuto da una potenza europea e riceveva quindi quella legittimazione e quel riconoscimento internazionali che fino ad allora gli erano mancati. Ma già l’anno precedente, nell’approssimarsi delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti e per il bisogno di assicurare la rielezione di Wilson, considerato “interventista”, gli Alleati avevano cominciato a dare segnali di apprezzamento delle posizioni sionistiche allo scopo di indurre gli ebrei americani, con tutto il loro potenziale economico, ad appoggiare la rielezione del presidente e la causa dell’Intesa (ibid., pp. 118-119). Su queste cruciali vicende e il carattere divisivo che fin da subito acquistarono, cfr. il giudizio di E. NOLTE, Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945, Milano 19993, pp. 37-54, a cui si ricorre utilmente anche per il nesso ebraismobolscevismo, come fu avvertito da una parte dell’opinione pubblica contemporanea, anche non immediatamente antisemita (pp. 87-88, dove si ricorda l’analisi di Winston Churchill). Ma a questo proposito cfr. anche DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo cit., pp. 46-49. 163 Sul patto di Corfù, cfr. L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria Ungheria, Milano 1966, pp. 311-313. Non si deve pensare che Salvadori fosse (come si diceva allora) un “dalmatomane”, cioè puntasse senz’altro all’annessione della Dalmazia all’Italia secondo gl’impegni del patto di Londra. Egli aveva precisato il suo pensiero in un saggio del settembre 1916, pubblicato sulla Nuova antologia: riprendendo le idee di Tommaseo, egli si opponeva all’idea di una grande Serbia che inglobasse in uno Stato accentrato alla francese gli slavi meridionali già sudditi asburgici; come anche all’integrazione della Dalmazia nella Croazia. Accettava invece l’idea di una confederazione che «lasciasse le genti slave meridionali libere di costituirsi, confederate in patto sociale con essa [la Serbia], in ordini civili e istituzioni convenienti alla condizione reale di ciascuna, morale e materiale, ai costumi, alle tradizioni, alla storia». A questa confederazione doveva partecipare come regione autonoma anche la Dalmazia, che — lo ripetiamo — non doveva confondersi con la Croazia (G. SALVADORI, L’idea slava nella mente di Niccolò Tommaseo, in LS, III, 167-176, 171-172). Ma tutto questo saggio è interessante, sia per l’analisi delle cause della guerra (individuate nel groviglio balcanico), sia per la ripresa della polemica tommaseana contro lo «Stato onnipotente» e il suo apprezzamento del modello confederale. Forse fu scritto (ma il problema sarebbe da approfondire) in relazione al volume collettaneo sulla Dalmazia, che Umberto Zanotti Bianco (un altro giovane amico di Salvadori) e Gaetano Salvemini progettarono fin dall’estate del 1915 in polemica contro la
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Al congresso parigino aveva partecipato anche una delegazione italiana guidata dal gran maestro Ettore Ferrari, che era giunta ai ferri corti con quella serba per la questione adriatica: il relatore André Lebey aveva infatti riconosciuto il pieno diritto italiano su Trento e Trieste, ma non aveva fatto alcun cenno all’Istria e alla Dalmazia, che invece il patto di Londra, non ancora conosciuto nei suoi particolari dall’opinione pubblica, ma di cui erano note le grandi linee, riconosceva all’Italia. La delegazione serba, accogliendo l’indicazione di Lebey, sostenne l’idea di ricorrere ai plebisciti per stabilire se certe popolazioni dovessero aderire a uno Stato piuttosto che a un altro, mentre i delegati italiani dichiararono che mai avrebbero potuto accettarla (temevano che essa potesse mettere in discussione il diritto italiano su Istria e Dalmazia). Ma un resoconto parziale e inesatto del congresso massonico apparso sul quotidiano parigino Le Temps del 6 luglio e ampiamente ripreso dalla stampa italiana nei giorni successivi, lasciò intendere che la delegazione italiana avesse accettato la logica del plebiscito e comunque non avesse avanzato alcuna rivendicazione sulla sponda orientale dell’Adriatico. Ne derivò una furibonda polemica, in cui la massoneria italiana fu accusata di tessere trame antipatriottiche e neppure le numerose smentite apparse sulla sua stampa riuscirono a frenare la protesta che dilagava anche al suo interno e il discredito da cui i vertici del Grande Oriente furono colpiti di fronte all’opinione pubblica164. «dalmatomania» dei nazionalisti. Zanotti Bianco doveva aver fatto il suo nome, probabilmente per un contributo su Tommaseo, se Salvemini, rispondendogli l’11 luglio 1915, scriveva: «Ottimo il programma di Dalmazia. Io accetto di farne il primo capitolo. Scriverò a Maranelli. Il pensiero di Cavour sulla Dalmazia mi par difficile possa dare materia per uno studio. Non conosco il Salvadori» (G. SALVEMINI, Carteggio 1914-1920, a cura di E. TAGLIACOZZO, Roma – Bari 1984, p. 166). Il volume — è noto — fu bloccato dalla censura di guerra nell’aprile del 1916, ma il saggio tommaseano ad esso destinato era stato scritto dallo stesso Zanotti Bianco, che lo avrebbe pubblicato solo nel 1918: un’altra “collaborazione segreta” di Salvadori? Il volume non pubblicato fu a fondo rielaborato da Salvemini e Carlo Maranelli e uscì col titolo La questione dell’Adriatico agl’inizi del 1918. Non è da escludere che Salvadori abbia fatto parte del gruppo di amici e di studiosi che lo videro e discussero in bozze: «Le bozze della Dalmazia vuoi farle rivedere a Giulio Salvadori, Circo Agonale, 14? Gli scriverò nei prossimi giorni», scriveva Salvemini a Zanotti Bianco il 26 dicembre 1917 (ibid., p. 349): per tutte queste vicende, cfr. A. FRANGIONI, Salvemini e la Grande guerra. Interventismo democratico, wilsonismo, politica delle nazionalità, Soveria Mannelli (CZ) 2011, pp. 114-133, 165-169, che giustamente sottolinea come la polemica sulla figura di Tommaseo si sia intrecciata profondamente con tutto il dibattito sulla questione adriatica (p. 119). 164 Sul congresso internazionale massonico del giugno 1917, cfr. F. FEJTÕ, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico, introduzione di S. ROMANO, Milano 1990, pp. 353-359 e 430-434, per i documenti conclusivi: a questo testo si rinvia anche per le riflessioni sull’ideologizzazione della guerra avvenuta dopo il 1917 (pp. 315-348) e per il ruolo che vi svolse la massoneria internazionale (pp. 349-362). Sulla partecipazione italiana
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Questa è la situazione che Salvadori fotografa nella sua relazione: egli percepisce il passaggio che nel 1917 si sta attuando, quello da una guerra «classica» a sfondo nazionale-espansionistico a una guerra «ideologica», di cui farà le spese l’impero austro-ungarico. Non basteranno le aperture federalistiche del nuovo sovrano o le sue offerte di pace separata, ma si punterà decisamente a una disgregazione dell’impero e alla fine della dinastia asburgica. Intuisce anche il ruolo, certo non secondario, che la massoneria europea sta giocando in tutta questa vicenda e, basandosi sulla lettura dei giornali che aveva a disposizione, ritiene che anche quella italiana si sia adeguata a questo disegno: cioè alla formazione di un agglomerato degli slavi meridionali, per il momento ancora all’interno dell’impero, magari gravitante intorno alla sua componente ungherese, ma in attesa di «una prossima rivoluzione che metta da parte gli Absburgo». Gli ebrei che in Russia guidano la rivoluzione (è chiaro che faccio riferimento alla prospettiva di Salvadori) vedono di buon occhio il generale rimescolamento della geografia politica dell’Europa centro-orientale: non solo perché offre ampi spazi alle loro trame sovversive, ma anche perché potrà permettere una generale emancipazione degli ebrei, massicciamente presenti (e oppressi) in tutta quell’area. Il terzo elemento su cui Salvadori pone l’accento è l’avanzata del sionismo (la sua relazione è probabilmente di poco precedente la dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917), che egli definisce come «il moto per la ricostituzione giuridica e politica della nazione ebraica, e in Palestina come Stato territoriale, e negli altri Stati come parti d’una nazione, senza terra, ma giuridicamente e politicamente tale», dove appare evidente che egli abbia già chiaro il passaggio del movimento dalla sua fase solidaristicoassistenziale a quella più propriamente politica165. Salvadori dà per certo che gli ebrei manovrino per ottenere nel dopoguerra una posizione enormemente superiore rispetto a quella in cui si trovavano alla vigilia del conflitto: hanno contribuito ad abbattere i regimi, come quello zarista, da cui venivano oppressi; si adoperano per distruggere gli antichi Stati europei e per formare nuovi aggregati dove (secondo i principî del sionismo) la loro presenza sia riconosciuta come nazione all’interno delle nazioni; puntano al congresso parigino e le sue conseguenze, cfr. CONTI, Storia della massoneria italiana cit., pp. 251-253, con la bibliografia precedente. 165 Per le vicende del sionismo nei primi anni di guerra (i due esponenti di punta ne erano allora Chaim Weizmann e Nahum Sokolow) e per l’accelerazione che le sue fortune ebbero nel 1917, cfr. FABRIZIO, La questione dei Luoghi Santi cit., pp. 113-133: si ricordi che fra il 29 aprile e il 4 maggio 1917, Sokolow, in visita a Roma, incontrò in Vaticano mons. Pacelli, il card. Gasparri e il Papa: in quei colloqui, la Santa Sede, nell’intenzione di liberarsi dall’ingombrante protezione della Francia in Palestina, non si mostrò contraria ai progetti sionistici, non percependone ancora i risvolti politico-territoriali (ibid., pp. 135-147).
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alla costituzione di uno Stato territoriale in Palestina. Per questi scopi, la loro azione può mimetizzarsi in diversi modi: spargere denaro per controllare i giornali e quindi plasmare l’opinione pubblica, valersi dell’azione della massoneria, da sempre aperta alla loro influenza, assumere la guida del socialismo rivoluzionario. Giudaismo, socialismo settario, massoneria sono aspetti di una stessa «lega d’interessi internazionale» che mira al dominio del mondo per mezzo dei denari»166. Con un procedimento tipico, Salvadori collegava alcuni dati di fatto (la presenza ebraica nei gruppi dirigenti della rivoluzione in Russia, le scelte politiche della massoneria internazionale a favore dell’abbattimento dell’impero asburgico, i progressi del sionismo) e alcune acute intuizioni (il dilagare della passione rivoluzionaria nell’imminente dopoguerra) in una prospettiva “complottistica” delle vicende contemporanee, in cui l’elemento ebraico diventava il regista occulto. Erano atteggiamenti tutt’altro che originali: già prima della guerra, nel 1908-1909, la rivolta dei Giovani Turchi, che avrebbe messo a soqquadro l’impero ottomano, era stata interpretata da diplomazie e opinioni pubbliche come una cospirazione massonica, giudaica e sionistica167. Nel dopoguerra l’esistenza di una congiura internazionale, di cui gli ebrei sarebbero stati l’anima e il motore primo, volta ad asservire in varie forme (il socialismo internazionale «senza patria» e il bolscevismo, l’organizzazione massonica, la finanza e il controllo dei media) il mondo ai propri voleri e a danneggiare le nazioni più povere come l’Italia sarebbe stata il tema centrale di un nuovo antisemitismo veicolato, in Europa occidentale, soprattutto dalla traduzione nelle varie lingue dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, che prima erano noti solo nell’impero russo168: l’amico Belozerskij, il libraio ucraino che aveva a lun166 Per l’avversione verso il sionismo di buona parte dell’opinione pubblica italiana (compresi non pochi ebrei), informazioni essenziali in DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo cit., pp. 55-64. 167 M. K. ÖKE, Young Turks, Freemasons, Jews and the Question of Zionism in the Ottoman Empire (1908-1913), in Studies in Zionism 7/2 (1986), pp. 199-218; FABRIZIO, La questione dei Luoghi Santi cit., pp. 35-36. La rivoluzione dei Giovani Turchi era partita da Salonicco, dove risiedeva una delle maggiori comunità ebraiche dei Balcani e molti di loro facevano parte delle logge massoniche. Inoltre, il progetto dei sionisti di ottenere la libera emigrazione ebraica in Palestina in cambio del sostegno finanziario ebraico nel risanamento del debito pubblico ottomano, accrebbe i sospetti (soprattutto britannici) di un complotto internazionale ebraico. 168 DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo cit., pp. 47-48. Fu l’articolo di G. PREZIOSI, L’internazionale ebraica, comparso sulla sua rivista La vita italiana nell’agosto del 1920, che popolarizzò in alcuni settori dell’opinione pubblica italiana il tema della congiura ebraica (ora in PIPERNO, L’antisemitismo moderno cit., pp. 181-190); allo stesso Preziosi si deve la traduzione e la pubblicazione dei Protocolli nel 1921. Nell’articolo del 1920, Preziosi affermava ancora di non essere antisemita e, anzi, di levare la voce «contro i delitti di cui si
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go fatto la spola fra la madre patria e l’Italia e che già nel 1904 mostrava evidenti spunti antisemiti, gliene avrà parlato o scritto? Anche senza ricorrere a questa ipotesi, probabilmente fantasiosa, si deve notare che qui Salvadori esasperava, nel clima arroventato della vigilia di Caporetto, quando la ricerca del “nemico interno” diventava per molti un’ossessione169, alcune delle posizioni già espresse alla fine del 1893: la condanna dell’ebraismo secolarizzato diventato l’avanguardia del massonismo, del socialismo, dell’umanitarismo. Quando parlava di Giudaismo, lo afferma chiaramente, egli non si riferiva alla totalità degli ebrei, ma al «gruppo dominante e dirigente, specialmente con la forza delle ricchezze, la nazione in esilio»: era quello che, in vario modo, aveva assunto un atteggiamento anti-cristiano. Il 22 gennaio 1918, lo scrittore toscano tornava a scrivere una letterarelazione per Gallarati Scotti: ma ormai l’amico non era più al Comando Supremo, avendo seguito Cadorna a Parigi nel nuovo incarico presso la Commissione militare interalleata. Ovviamente il problema era quello della rotta di Caporetto e delle sue origini, immediate e non. Salvadori si mostrava attento alle cause sociali e morali della disfatta: l’estraneità della classe dirigente ai problemi veri del popolo-nazione, il problema degli imboscati, la «differenza troppo grande di vita, in guerra, fra gli alti ufficiali e i soldati», i repentini ed enormi guadagni nati nel corso del conflitto. Soprattutto ribadiva che il popolo sotto le armi poteva concepire solo una guerra di «difesa preventiva dei nostri confini, e dei doveri dell’italianità e della civiltà fondate sulla Giustizia», ma era del tutto indifferente rispetto alle «ambizioni imperialistiche»: «Lo scopo della guerra italiana dev’esser netto e nei limiti del diritto e quindi la guerra chiaramente predicabile giusta: altrimenti l’opinione e del nostro e degli altri popoli si sperde, dubita e si stanca». Si era ormai all’indomani del colpo di Stato bolscevico in Russia e il pericolo del comunismo cominciava a emergere in tutta la sua pericolosità. Salvadori tornava a vederlo come la punta di un iceberg manovrato da forze occulte difficilmente identificabili: dice vittima tutto il popolo ebraico». Rendeva «omaggio al patriottismo di molti Ebrei in Italia», che «hanno di fronte al nostro paese benemerenze che non si distruggono», ma li esortava a scindere «la loro responsabilità da quella dei dissolvitori della società; […] da coloro che dissolvono il nostro e l’altrui paese», da lui identificati nell’«alta finanza internazionale da un lato e l’internazionale bolscevica dall’altro» (p. 187). Per l’origine dei Protocolli e la loro diffusione, cfr. il classico N. COHN, Licenza per un genocidio. I «Protocolli dei savi Anziani di Sion» e il mito della cospirazione ebraica (1966), Roma 2013, ma anche C. G. DE MICHELIS, Il manoscritto inesistente. I «Protocolli dei savi di Sion» cit. supra nt. 22. 169 A. VENTRONE, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica 1914-1918, Roma 2003, pp. 211-233.
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Niente però più necessario ora che preparar la difesa contro le arti e le calunnie che fabbricano vie coperte allo scatenarsi di quelle forze perverse che attendono il momento d’irrompere per agire e sconvolgere il nostro paese, come han fatto della Russia. […] i poveri lavoratori delle città e delle campagne sono stati abbandonati alle insidie dei minatori degli Stati e degli ordinamenti attuali, visibili, quando sono, alla spicciolata, ma invisibilmente collegati in tutto il mondo. I quali col loro antico costume di viltà innanzi ai forti, si valgono ora del pugno di ferro della Germania militare e della forza etnica costituentesi degli Slavi meridionali (Austria) per distruggere Stati e ordinamenti borghesi, come queste due potenze si servono di loro per portare negli Stati avversi lo sfacelo che prepari la disfatta. Quali siano queste forze in diversi modi organizzate, ancora occulte nelle loro radici, facies quidem habentes diversas, caudas vero invicem colligatas, a Lei l’ho già scritto, né sto a ripeterlo.
Lo scrittore alludeva evidentemente alle lettere dell’anno precedente, specie quella dell’estate, che abbiamo lungamente commentata. Ma — a mente fredda — sentiva di dovere aggiungere una precisazione: «Ma due avvertenze bisogna avere: una, per quel che riguarda il Giudaismo, l’altra la Chiesa Cattolica. Bisogna cioè agire non solo con prudenza, ma con giustizia, per non confondere il loglio col grano buono. Di questo ancora Le parlerò»170. Sembra di capire che in una delle sue lettere, Salvadori avesse parlato anche dell’atteggiamento del mondo cattolico nei confronti della guerra: lo avrà fatto nella prima parte, non pervenutaci, della relazione nella qua170
G. Salvadori a T. Gallarati Scotti, Roma, 22 gennaio 1918 (L 767-768). La citazione latina è tratta dalla costituzione De Haereticis del concilio Lateranense IV. Sulle lettere-relazioni del 1917-1918, tornava ancora dopo la pubblicazione dei risultati dell’inchiesta su Caporetto, scrivendone a Gallarati Scotti il 6 settembre 1919: «Non posso fare a meno di scriverLe perché da Lei posso esser inteso senza molte parole. Ella vede che la C[ommissione] ha dimostrato di non volere andare a fondo e scoprire il foco di maligna infezione di cui un episodio fu quello del 24 ottobre: e così pare che tutti siano congiurati a rovesciare la colpa del disastro sulla vittima espiatoria [Cadorna]. Eppure i fatti parlano in modo da far intendere a chi vuole e a chi non vuole. Mi son venute sottocchio, oggi, le strofe dell’inno distribuito clandestinamente ai soldati e segnalato dal Com[ando] S[upremo] il 18 ottobre: come non intendere che ci troviamo di fronte a gente che, o sotto l’ossessione d’un’idea, o in mala fede, vuol distruggere la famiglia, la patria, i nostri ordinamenti civili? Ella certo conoscerà quest’inno, che dà in altre parole, la sintesi del programma, già letta da me dieci giorni dopo sopra un muro: “Viva la rivoluzione sociale! Viva i Tedeschi in Italia!”. Ora bisogna dire ad alta voce che questo lavoro deleterio, contro ogni previdenza e riparo ed allarme di chi doveva vegliare e vegliava, fu tale che portò la rovina. Ma io non ho né la conoscenza dei fatti particolari, né la posizione, tale che mi diano di bandire e sostener queste cose pubblicamente. Per questo, mi rivolgo a Lei confermandoLe le mie lettere scritte prima e quindi senza passione. Bisogna che si faccia il possibile perché non si compia un’ingiustizia che sarebbe la rovina dell’Italia. […] Non si meravigli se come documento Le cito un inno. Quell’inno, nell’ultima strofe, è la sintesi del sistema di ribellione e della menzogna da cui si parte» (L 820-821).
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le poi si dilungava sulla congiura ebraico-massonica? Può darsi, specialmente se — come riteniamo — essa sia stata scritta fra la pubblicazione della Nota pontificia del 1° agosto 1917 e Caporetto. Avrà registrato un mutamento in alcuni ambienti cattolici, in cui i primitivi entusiasmi per la guerra stavano svaporando di fronte al malcontento serpeggiante nelle campagne e fra i fanti-contadini? E avrà collegato un tale mutamento agli indizi di cedimento che si registravano nelle fila dell’esercito? Anche questo è possibile171. Ma ora sentiva il bisogno di staccare, in qualche modo, l’Ebraismo e il mondo cattolico dalle altre forze (massoneria, socialismo settario) da lui accusate di avere «infettato» l’esercito e favorito il cedimento: era necessario, nei loro confronti, usare non solo «prudenza», ma anche un principio elementare di «giustizia» e operare al loro interno una distinzione, « per non confondere il loglio col grano buono». Insomma anche il Giudaismo era un mondo composito, che non poteva essere preso in blocco e, in blocco, osteggiato. Vi erano — al suo interno — anche gli «Ebrei credenti»: di uno di loro scriveva, dopo la battaglia del Piave, a don Giovanni Minozzi: Bisogna si riconosca con la riconoscenza del cuore, che è Dio che fa le cose grandi, qui non secundum potentiam armorum, sed prout ipsi placuerit dat dignis victoriam. Queste parole dei Maccabei mi ricordano la risposta che mi dette un giovane ebreo ufficiale dei Granatieri che combatté da valoroso per l’Italia e per Iddio, ed è morto. Io gli dissi: «Ho letto nei Maccabei che il vero valore viene da Dio». Ed egli mi rispose: «Se avessi letto una cosa simile, non m’avrebbe fatto nessuna impressione. Ma bisogna averle vissute certe cose! »172.
Nei mesi successivi Salvadori mostrò vivo interesse e simpatia per le proposte di un nuovo ordine internazionale basato sulla democrazia e sul diritto di autodeterminazione dei popoli avanzate dal presidente americano Wilson. Gli sembrava che incarnassero quella pace «nei limiti del diritto» di cui aveva scritto ripetutamente durante la guerra: Certo l’America torna a insegnare all’Europa le leggi dell’umanità; e sentendo le parole di Wilson, che suonano d’oltre Oceano, mi tornano alla mente le parole del salmo: Constitue, Domine, legislatorem super eos, ut sciant gentes quoniam homines sunt. L’America ci rimanda la luce della terra, quella della ragione, e vorrebbe congiungere le nazioni con questo vincolo e costituirne la Società della Città universale umana; ma Ella dice benissimo: «occorre che dominino Fides et Charitas»173. 171 Su questo trapasso all’interno del mondo cattolico e sulle critiche che suscitò negli ambienti più radicali dell’interventismo, cfr. MELOGRANI, Storia politica della Grande guerra cit., pp. 344-353. 172 G. Salvadori a don Giovanni Minozzi, Roma, 8 luglio 1918 (L 784-785). 173 G. Salvadori a G. F. Gamurrini, Livorno, 27 ottobre [1918] (L 790-791); a Manfredi
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Ma, come per la maggior parte del variegato “wilsonismo” italiano, giunse anche per lui il momento della delusione, di fronte ai risultati della conferenza di Versailles e del comportamento degli alleati verso l’Italia: Ci accorgiamo ora che una certa plutocrazia, che si dice democrazia, con la bandiera dell’equità, ma coll’intento di promuovere e difendere i suoi interessi, ha voluto imporre il suo giogo all’Europa: e noi già sentiamo che al giogo di ferro si sostituisce questo giogo d’oro, più grave e più vergognoso. E tuttavia il pericolo non sarebbe gravissimo, se si limitasse a un dominio politico ed economico. Ma i nuovi dominatori vengono con un’insegna religiosa, che vuol sostituire il segno nostro, quello che Ella dice del Cristo romano174.
10. Due giovani ebrei “salonicchioti”. Su d’una questione il Salvadori del dopoguerra operò una significativa palinodia rispetto alle angosciate analisi dell’estate del 1917: quella del sionismo. Questo mutamento fu dovuto — come vedremo — a una serie di nuove acquisizioni culturali e religiose, ma furono determinanti anche alcuni “incontri spirituali” che gli capitarono fra il 1916 e il 1917: con due ebrei ventenni provenienti da Salonicco, Saul Israel e Isacco Sciaky. Nell’agosto del 1916, entrambi erano venuti a Roma per terminare i loro studi liceali (avevano studiato al liceo italiano di Salonicco di cui era preside Alarico Buonaiuti, fratello di don Ernesto) e iniziare quelli universitari: Israel nella facoltà di medicina, Sciaky in quella di lettere. In ottobre avevano sostenuto l’esame di licenza liceale al liceo Visconti e qui avevano fatto la conoscenza di Salvadori, che in qualche modo li aveva conquistati. Nell’inverno successivo, le loro visite nella sua casa di piazza Navona diventarono frequentissime: dalle loro lettere, sembra che il poeta li guidasse in un’esplorazione continua delle loro più intime esigenze175. Porena, il successivo 2 novembre: «Bisogna che le virtù umane, e le leggi umane che l’America ci riporta (anche a noi Italiani!) come cosa perduta, siano ora poste sopra un fondamento che non crolli più» (L 793); ancora a Gamurrini, il 4 gennaio 1919: «Le sto scrivendo mentre avviene la visita di Wilson al Papa. Mi pare un gran fatto che si compie, quasi la luce umana della ragione rappresentata dal Presidente si congiunga un momento con quella umana e divina dell’uomo-Dio» (L 800). Per le vicende del vario wilsonismo italiano, cfr. FRANGIONI, Salvemini e la Grande guerra cit., pp. 179-231, attento soprattutto a quello di matrice democratico-massonica. 174 G. Salvadori al p. Ferdinando Pani, francescano, Roma, 20 maggio 1919 (L 809-810): dove si avverte la percezione di Wilson come espressione di certo mondo protestante che non fu rara nel mondo cattolico italiano. 175 I fondamentali dati biografici di Saul Israel si possono ricavare da P. ISRAEL, Presentazione di S. ISRAEL, Con le radici in cielo, Genova – Milano 2007, pp. VII-XVIII. Per queste sue prime vicende sono molto importanti anche alcuni suoi scritti autobiografici: ID., Ricordando Buonaiuti, in Ricerche religiose, 18 (1947), pp. 252-259 e il già ricordato Giulio Salvadori e Israele (cfr. supra, nt. 1). Su Sciaky, cfr. Isacco Sciaky. Il salonicchiota in nero. Ebraismo e
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Dei molti ebrei che gli si avvicinarono (lo vedremo nell’ultimo paragrafo di questo lavoro), la maggioranza era ormai priva di un’effettiva esperienza religiosa. In realtà più che di una fede perduta, si trattava di una fede mai conosciuta: erano passati per tutti gli -ismi contemporanei, oscillando fra misticismi, positivismi ed estetismi di vario genere. A loro Salvadori cercava prima di tutto di dare un ubi consistam: di risvegliare la necessità di uscire da se stessi, dai loro dubbi snervanti e di approdare alla vita attiva. Una volta risolte queste esigenze preliminari, potevano conoscere (alcuni lo facevano, altri prendevano direzioni diverse) anche un risveglio religioso. Il giovane Sciaky sembrava allora navigare a vista: per il Natale del 1916 (il terzo Natale di guerra, il secondo per l’Italia), manda al professore un biglietto dal tono “cristianeggiante”, in cui auspica che lo spirito del Redentore «aleggi sui potenti della terra, li induca alla pace nella giustizia»176. Ma Salvadori lo spinge soprattutto a ricercare se stesso, come avrebbe riconosciuto il giovane: Ella, professore, — gli scriveva il 20 maggio 1917 — in Roma rivelò me a me stesso, rivelò a me stesso la mia coscienza. Quale più grande debito di chi, sballottato per anni d’inesperienza tra ideali diversi, opposti, nutrimento non durevole al suo inesausto bisogno di fede, ideali che dopo un certo tempo morivano, come non rispondenti a ciò che oscuramente s’agitava nella sua propria coscienza, quale più gran debito verso chi a tale coscienza svelò il suo vero essere177?
Con Sciaky, il poeta puntava all’essenziale. A lui (ma anche a Israel) ripeteva spesso che la vita civile impone doveri e che dalla contemplazione dovevano sempre volgersi alla vita attiva, da Dio agli uomini. Perché era attraverso questi, che si poteva arrivare a Dio, in quanto solo «con l’azione uno è degno di Dio». E ancora gli scriveva: Vorrei che Ella e Israel leggessero un canto sentito dal Dalmata [Tommaseo] sulla tomba della sua Madre Slava e scritto nella lingua di Lei: dove si dice: «Una voce possente mi parlava nell’anima e mi sospingeva fuori della patria mia, della casa paterna mia, ad attingere e annunziare il nuovo vero, l’amore della retta fraternità e dell’immortale bellezza». Cosi è: e se la madre Italia ha fatto sentire questa verità ai suoi amanti orientali, le Madri posson esser contente perché questo vuol sionismo nella “Nuova Italia” fascista (1918-1938), a cura di V. PINTO, Livorno 2009, che però ignora il suo rapporto con Salvadori. 176 I. Sciaky a G. Salvadori, [Roma], 24 dicembre 1916 (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 9). Tutto lo scambio epistolare fra Salvadori, Israel e Sciaky è pubblicato infra, Appendice II. 177 I. Sciaky a G. Salvadori, Roma, 20 maggio 1917 (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 9).
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dire Dio, e quindi gli affetti della natura nella legge e l’onore dovuto al padre e alla madre. Ora se queste cose si sentono, bisogna cercare di metterle in pratica; e se noi non bastiamo, chiederemo l’aiuto di Dio178.
Nel maggio 1917, per motivi di salute, Giulio e Giuseppina Salvadori lasciarono Roma per S. Marinella, dove il lunedì 18 giugno ricevettero la visita dei loro giovani amici. Fu per questi una giornata indimenticabile, di conversazioni fitte di fronte al mare, da cui tuttavia ricavarono stimoli diversi. La natura eminentemente «politica» di Sciaky lo spingeva a riflettere sulla guerra in corso, sulle ragioni ideali dell’Intesa, sul ruolo degli Ebrei nella rivoluzione russa, sul quale aveva scritto un articoletto per il giornale italiano di Salonicco: l’anno dopo avrebbe ricordato come «gli ebrei […] seppero già alla Russia degli czar porre condizioni inflessibili»179. Chissà se non ne parlò anche col professore, che nei mesi seguenti ne avrebbe scritto a Gallarati Scotti nel modo che sappiamo. Salvadori aveva detto e ripetuto che la guerra sarebbe stata ancora lunga, ma era assolutamente necessario che si concludesse portando frutti di giustizia, «frutti senza i quali essa sarebbe un delitto». Li aveva informati che stava scrivendo quello che poi sarebbe stato il suo Canto popolare di guerra, in cui — da poeta — prendeva posizione contro ogni concezione imperialistica del conflitto in atto: l’araldo di questa pace democratica doveva essere il popolo italiano, che per lui non era l’erede di Roma «fondata nel sangue fraterno», ma dei comuni che avevano combattuto a Legnano per il loro diritto. Professore, quando si farà noto il Suo Inno di guerra? — gli scriveva Sciaky, entusiasta della giornata di S. Marinella — Sarà l’inno di guerra vero e potente dei popoli, ai quali l’Italia lo farà sentire; poiché è il cuore dei popoli oggi che sente in sé quello che si aspetta venga proclamato. Bisogna sommergere i tentativi di resistenza delle antiche idee, degli antichi pregiudizi, politici o d’altro genere, che oggi, purtroppo, non si può negare si facciano sentire, e con essi, si sente livore dove non si giustifica, se mai livore è giustificato. Non poco forse verranno screditate le ragioni ideali della guerra dell’Intesa, verrà screditata la guerra, che pur ieri si dovette invocare a sanare. […] E perché Ella confida nei giovani, posso sinceramente 178 G. Salvadori a I. Sciaky, minuta s.d. (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 6; riportata anche in L 833 nota 5). Il testo di Tommaseo recita: «Una voce possente sempre mi parlava nell’anima, e mi sospingeva fuor della casa del padre mio, e mi comandava ire a ricevere e recare il nuovo vero, ad annunziare la retta fraternità, l’amor della pura ed immortale bellezza» (cit. in N. TOMMASEO, Le memorie poetiche, con la storia della sua vita fino all’anno XXXV, a cura di G. SALVADORI, Firenze 19162, p. 39). 179 I. SCIAKY, Il problema di Salonicco (1918), in Isacco Sciaky. Il salonicchiota in nero cit., pp. 27-39, 38. L’articolo compariva nel primo anniversario dell’incendio di Salonicco (18 agosto 1917), che aveva segnato l’inizio della fine della presenza ebraica nella città greca.
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io giovane dire qui il mio sentimento? […] Mi permisi di scrivere una parolina, sulla “Voce d’Italia”, che si pubblica a Salonicco, sulla rivoluzione russa e gli ebrei; mi permisi di dire la parola che è bandiera del giudaismo rinascente: “Israel torni Emanuel”. [...] Lo so, Professore, in quella terra che ha visto odi e stragi e incendi, e grida d’orrore ha più d’una volta levate a Dio, in quella terra affranta si sentirà il Suo Inno, l’Inno dell’Italia. Quando quella voce sarà affidata alle ali del canto180?
Il giovane entusiasta parlava del sionismo e del ritorno degli ebrei in Palestina: auspicava che la bandiera della rinascita ebraica fosse Israel torni Emanuel e che la speranza di una pace democratica contenuta nell’inno di Salvadori risuonasse anche laggiù. Non è facile comprendere fino in fondo il significato di queste parole: lo Sciaky di questi mesi sembra auspicare una convivenza fra popoli e religioni nell’antica terra d’Israele secondo gli auspici espressi da Salvadori nel suo inno. Israel, invece, non era un ebreo secolarizzato: portava con sé un’esperienza profondamente religiosa, quasi mistica, rara fra gli ebrei occidentali, ma non impossibile a Salonicco: Ero nato e cresciuto in quella città che aveva rappresentato fino a quell’epoca, un fenomeno unico nel mondo della Diaspora ebraica: l’unica città dove gli ebrei costituivano una maggioranza assoluta (circa il 90 %) e dove per circa quattrocento anni, dopo la cacciata dalla Spagna, non solo non avevano conosciuto persecuzioni, ma avevano goduto di una vera e propria autonomia culturale, spirituale, giuridica e, fino ad un certo punto, anche politica. La loro vita si era svolta normalmente, non inibita né minacciata da nessuna limitazione arbitraria imposta dal di fuori; per cui essa appariva in tutto e per tutto simile a quella di qualsiasi altro popolo libero della terra. La vita religiosa era prevalentemente ebraica ed i contatti con l’ambiente non ebraico erano normali nel senso che gli attriti che potevano sorgere fra gente di cultura e di razza diverse, non raggiungevano mai le proporzioni di un conflitto. Le manifestazioni antiebraiche delle popolazioni ortodosse, si limitavano alla famosa processione pasquale durante la quale gli animi dei fedeli, dopo essere stati artificiosamente esaltati, si sfogavano soltanto in grida ed in minacce pronunciate non molto al di là delle vicinanze immediate delle chiese. Da parte nostra non si attribuiva molta importanza a queste escandescenze simboliche e, passata la breve ubriacatura, ci si divertiva a scherzare con gli amici greci su queste crisi ricorrenti. L’ebraismo di Salonicco aveva una sua fisionomia spirituale caratteristica ed una forza di suggestione particolare. È indispensabile rendersi conto di questo
180
I. Sciaky a G. Salvadori, Roma, 20 giugno 1917 (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Carte Salvadori, 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 9). Israel è un nome molto comune, generico (indica un popolo nella sua interezza), che non rinvia a nessuna responsabilità spirituale specifica. Emanuel (Dio con noi) richiama il popolo ai suoi doveri religiosi. Sul Canto popolare di guerra, cfr. supra, nt. 150.
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se si vuol misurare obbiettivamente l’intensità e la qualità della reazione provocata dal mio incontro con l’esperienza religiosa del Buonaiuti181.
e — potremmo aggiungere — di Salvadori. Lo avrebbe ribadito lo stesso Israel: «l’esperienza religiosa non soltanto non mi era mancata, ma era stata così piena che aveva proprio bisogno di sentirsi ripetuta e confermata. Era stata proprio questa esperienza che mi aveva permesso di conoscere e di amare Giulio Salvadori e di ritrovarmi molto al di là del mondo che avevo creduto isolato dall’odio e dall’incomprensione»182. Anch’egli, in quel primo inverno romano, a contatto con Buonaiuti e con Salvadori, avvertì una rinascita spirituale: «A me sembra di essere nato una seconda volta, perché sento che questa per me non è solo la primavera della vita, ma la primavera dell’anima». Dalle parole contenute in una lettera a Salvadori del 20 maggio 1917, sembra che tale rinascita provenga da una riscoperta delle proprie radici ebraiche, non tanto in senso religioso (ché non le aveva mai perdute), ma come appartenenza etnica. Risuonano quasi echi barrèsiani, più probabilmente il giovane Israel ha letto Herzl: È stato solo ora a rivelarsi per me tutto quello che era nascosto nel fondo del mio cuore: il patrimonio di fede, di speranza e di dolce entusiasmo che tante generazioni anteriori hanno affermato nella nostra coscienza. No, io non sono isolato in questa vita perché mi sembra di essere vissuto molto prima, nell’essenza della razza, di aver palpitato, come cellula, avente già i principi di una vita futura, nell’anima della stirpe. Io devo ora su questo mondo maturare il mio frutto, e dare quello che la poca forza del mio cuore può dare; domani ritornerò nel grembo della natura e sarò riunito a quello che è passato con i vincoli indissolubili dell’amore.
Il mistico Israel ringrazia «Dio di avergli dato un’anima per comprenderlo, per sentirlo e per sentire se stesso. La nostra vera felicità egli l’ha posta in noi, essa è pura semplice e grande: l’amore infinito. È questo amore che ci fa rivolgere gli occhi in alto nel nostro dolore, è il soffio della Sua essenza infinita che asciuga allora le nostre lagrime»183. Ma come si concilia questo amore universale con l’«essenza della razza», con l’«anima della stirpe», con la necessitante eredità di tante generazioni anteriori? Su questo Salvadori richiama la sua attenzione nella risposta: se Dio è amore e l’amore è universale, si deve «trovare una nuova Sion, non più ristretta a un angolo della Giudea ma immensa, non più limitata alla vita e alla sovranità d’una nazione, ma eterna». D’altronde questo 181 ISRAEL, Ricordando Buonaiuti cit., pp. 182 ID., Giulio Salvadori e Israele cit., p. 9.
252-253.
183 S. Israel a G. Salvadori, Roma, 20 maggio 1917 (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 9).
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afflato universalistico non era estraneo a Israele: esso lo poteva trovare nella sua antica tradizione profetica: Sì, è l’amore che La muove a dire col Profeta: Custodiscimi, Signore, come la pupilla dell’occhio, proteggimi all’ombra della tenda, è amore; e l’amore trae con sé e fa trovare tutto quello di cui l’anima nostra ha bisogno. «L’anima nostra è sfuggita, come passero, al laccio dei cacciatori; il laccio s’è logorato e noi siamo stati liberati». Il soffio di Dio, infinito amore, che libera i suoi dalle catene dell’antica servitù, dai pesi della materia, e fa così trovare una nuova Sion, non più ristretta a una angolo della Giudea, ma immensa, non più limitata alla vita e alla sovranità d’una nazione, ma eterna. È questo l’anelito dell’antico Israele, com’è nei Profeti: l’amore farà Loro vedere il mezzo necessario perché questo sia, darà d’accogliere e custodire la Parola che lo spirito di Israele nel suo fondo confusamente desidera e che è luce e virtù necessaria a mettere in pratica la verità che il cuore retto vede e ama, quella della fratellanza umana, l’amore della pura immortale bellezza184.
Il giovane e il professore dovettero riflettere su questa esigenza di universalità nel loro incontro a S. Marinella. Israel recepì il richiamo al profetismo ebraico, di cui cominciò a vedere in Gesù di Nazareth il maggiore epigono: Davanti al mare, infatti, ho sentito il mio spirito allargarsi all’infinito, ho sentito vibrare al dolce tremolìo dell’acqua tutta la mia essenza perché allora compresi la grandezza di quella vita che il mare raccoglie nel suo seno e l’ho paragonata all’amore sconfinato che mi invadeva. […] Non è forse davanti a questo mare a Capharnaum che Gesù sentì più profondamente lo spirito profetico e l’amore che doveva riunire l’umanità in una famiglia immensa? Questo sentimento ha vacillato, è vero, per tanti secoli, ci è sembrato vederlo sopraffatto negli ultimi anni da un freddo scetticismo: ma ora abbiamo il diritto di sperare. Il dolore umano non è sterile, «il dolore di un popolo sono delle vere lacrime» e un giorno sentiremo innalzarsi al disopra delle terre sconvolte, sulle città fumanti la voce del grande profeta: «Consolate, consolate il popolo mio». Non è vero, professore? d’altronde senza questa speranza come potrebbe esistere l’umanità185?
Le conversazioni e i dibattiti fra Israel e Salvadori (e quelli paralleli fra il giovane e Buonaiuti) continuarono fittamente nei mesi successivi. Una testimonianza importante delle acquisizioni del giovane ebreo “salonicchiota” è la lettera che inviò al professore nel Natale del 1917. Non so se Israel avesse letto Montefiore o Felice Momigliano, ma la sua nuova certezza era la medesima: Gesù di Nazareth era stato il maggior profeta 184 G. Salvadori a S. Israel, minuta s.d. (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 6). Le citazioni sono da Ps 17,8 e Ps 123, 7-8. 185 S. Israel a G. Salvadori, Roma, 21 giugno 1917 (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 9). La citazione è da Is 40, 1.
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d’Israele, sulla base del suo messaggio si poteva verificare un incontro fra ebrei e cristiani. A questa luce riconsiderava anche la prospettiva sionista (si era all’indomani della dichiarazione di Balfour e dell’occupazione di Gerusalemme da parte delle truppe inglesi): il luogo di questo incontro doveva essere la nuova Sion, da esso sarebbe scaturita una nuova era di pace per tutta la terra: Questa deve essere per gli ebrei pure una festa poiché Israel deve oramai riconoscere che Gesù è stato il suo più grande profeta. Oggi che con la liberazione di Gerusalemme sorride al popolo martire la speranza del suo riscatto, oggi più che mai io sento che questo deve essere il nostro unico ideale: ritornare alla nostra terra antica e risalire il monte di Sion puri da ogni falsa credenza e da ogni odio ingiusto, e così poter stendere la nostra mano ai fratelli cristiani dicendo: Per l’amore dei vostri martiri e dei nostri, per l’amore del nostro Padre comune, pace su tutta la terra! Non è vero professore? Io mi sento felice quando penso che ho un così grande ideale a cui dedicare la mia vita e ciò che mi infonde speranza è il non vedermi solo. Domani noi saremmo ebrei di razza, di origine, ma cristiani di religione e Israel sarà il Primogenito. «Certamente la salvezza è prossima per quelli che temono il Signore e la gloria durerà sulla vostra terra. La misericordia e la Verità si sono incontrate, la Giustizia e la Pace si sono baciate, la Verità germoglierà dalla Terra. E la Giustizia guarderà nel cielo e il Signore darà i suoi beni e la nostra terra darà il suo germoglio» (Salmo 84 o 85). Questo è il migliore augurio che io possa fare nel giorno della nascita del più grande profeta d’Israele e questo augurio va non solo al mio popolo ma a tutta la terra186.
Ora si capisce meglio perché, due mesi dopo, stemperando certe sue precedenti affermazioni, Salvadori ricordava a Gallarati Scotti che il giudaismo non era un blocco compatto. Perché quella fissata da Israel nella sua lettera di Natale (che certamente risentiva del confronto col suo professore) divenne precisamente la prospettiva che Salvadori avrebbe sviluppata nell’ultimo decennio della sua vita. Negli anni del dopoguerra, infatti, egli avrebbe ricuperato il sionismo, non tanto in chiave politica, ma in una prospettiva eminentemente religiosa: la nuova Palestina doveva diventare un punto d’incontro fra le varie confessioni cristiane e l’ebraismo, in attesa di un ricongiungimento finale, che assumeva ai suoi occhi un significato escatologico.
186 S. Israel a G. Salvadori, Roma, 25 dicembre 1917 (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 9). Israel avrebbe ricordato che la riscoperta del salmo 84/85 era stata opera di Salvadori, che volle avere da lui il testo ebraico di quei versetti, nella loro trascrizione letterale esatta, e sotto ogni parola chiese la traduzione più confacente (ISRAEL, Giulio Salvadori e Israele cit., p. 7). Se così fosse, la citazione contenuta nella lettera significava un tacito rinvio ai loro colloqui.
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11. Il ritorno d’Israele. Non è semplice oggi rendersi conto di queste posizioni, che pure serpeggiarono nel mondo cattolico del primo dopoguerra e che convissero magari con una diffidenza marcata per la Società delle Nazioni come si era venuta configurando e per il mandato britannico in Palestina. Le troviamo espresse in modo eloquente da una personalità in qualche modo “insospettabile” come il cardinale gesuita francese Louis Billot. In una serie di saggi pubblicati sulla rivista Études negli anni di guerra e dedicati al “secondo ritorno” di Cristo (tutto, intorno, induceva a una prospettiva apocalittica), il grande teologo indicava nella storia del mondo dopo la rivoluzione francese gli elementi che potevano far ritenere prossima la parousia: Je me demande si on ne trouverait pas, dans la marche des choses contemporaines, l’indice d’un acheminement vers cet événement extraordinaire. Et je me réponds sans hésiter qu’on l’y trouve effectivement, non pas encore, bien entendu, à considérer l’événement en lui-même, mais à l’envisager du moins, dans sa condition préalable et son prélude obligé, qui est le rétablissement du royaume d’Israël, autrement dit, la reconstitution des israélites, disséminés maintenant sur toute la surface de la terre, en corps de nation. Car il est visible que leur conversion en masse ne sera réalisable que quand aura cessé leur état d’emiettement aux quatre vents du ciel; il est de toute évidence que ce retour, cette résipiscence, cette reconnaissance en commun du véritable Messie si longtemps méconnu, qu’annoncent les prophéties, supposera chez eux un changement politique qui leur aura rendu leur unité et leur cohésion d’autrefois187.
Billot proseguiva, ricordando il famoso messaggio sionistico di Balfour e riportando con evidente approvazione il commento di un giornale francese: «Est-ce que MM. Wilson, Lloyd-George et Clemenceau ont voulu assurer la realisation de la promesse divine?». Dunque soltanto con la ricostituzione politica del popolo d’Israele si sarebbe potuta realizzare la divina promessa. Le “profezie” richiamate da Billot ritorneranno anche in Salvadori: sono quelle, in qualche modo canoniche su questo problema, contenute in Osea III, 3-5188 e in Rom XI. 187 L. BILLOT, La parousie, Paris 1920, p. 346. Questo testo non sfuggì a RUFFINI, La vita religiosa di Alessandro Manzoni, II, cit., p. 413. 188 «Et dixi ad eam: “Dies multos expectabis me; non fornicaberis et non eris viro, neque ibo ego ad te. Quia dies multos sedebunt filii Israel sine rege et sine principe et sine ephod et sine teraphim. Et post haec revertentur filii Israel et quaerent Dominum Deum suum et David regem suum et pavebunt ad Dominum et ad bonum eius in fine dierum”». Commentava Billot: «Pendant de longs jours, […] les enfants d’Israël demeureront sans roi et sans chef, sans sacrifice et sans autel, sans ephod et sans téraphim. C’est bien l’état où ils furent mis depuis leur expulsion du pays de leurs ancêtres, et où ils sont restés jusqu’à present. Aprés cela, post haec, par consequent, lorsqu’aura pris fin cette période d’exil et d’éparpillement dans les pays
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Nel corso delle ricerche manzoniane del dopoguerra, Salvadori si affaticò a lungo intorno a un testo che doveva offrirgli ulteriori suggestioni sul «ritorno d’Israele»: l’Exhortation a Enrichetta Manzoni Blondel, che l’abate Eustachio Degola lesse il 22 maggio 1810 nel momento in cui la giovane moglie di Alessandro abiurava dal calvinismo. Il discorso si apriva con la citazione di Is 11, 1-2 (Adiciet Dominus manum suam ad possidendum residuum Populi sui… Levabit signum in Nationes, congregabit profugos Israel) e, nella parte finale, tornava sull’argomento. Degola tracciava un’analisi estremamente pessimistica dei tempi e della situazione della Chiesa: L’Église n’en périra pas: mais la desertion va bientôt devenir si générale que les fidèles qui auront demeurés fermes pourront dire avec le Prophète: «Si le Seigneur ne nous avoit réservés quelques uns de notre race, nous aurions été comme Sodome, nous serions devenus semblables à Gomorrhe» (Is., I, 9). Tel est le mystère d’iniquité que du temps de St. Paul commençoit à paroître et dont nous avons le malheur de voir approcher l’accomplissement. Oh!, ma soeur, que de soupirs, de gémissemens et de larmes à répandre sur l’affreuse apostasie qui afflige, qui menace de toute part l’Église de Jésus Christ!
Ma esortava Enrichetta a non scoraggiarsi: la Provvidenza aveva i suoi rimedi. Quali? L’abate ligure si rifaceva a un colloquio fra Bossuet e il giansenista Duguet, che era assai noto nella tradizione giansenistica a cui egli apparteneva: Il nous faut un nouveau Peuple disoit Duguet, cet interprète solide et profond dont l’illustre Bossuet admira les lumières et dont une foule d’écrivains orthodoxes du dernier siècle a suivi la marche lumineuse et consolante. Vous connoissez, ma soeur, la chaine des Prophéties qui soit dans l’ancien Testament, soit dans le nouveau, annoncent le retour de ce Peuple. D’ailleurs cette pieuse assemblée de fidèles qui partage avec Vous le bonheur et la joie de votre retour à l’Église, est trop accoutumée à se nourrir des Écritures Saintes pour que je doive m’arrêter à rapporter en détail toute la suite de ces prophéties, et la certitude des événements qui doivent rappeler les fugitifs d’Israël: Congregabit profugos Israël. […] Oui, notre espérance, je vous dirai avec Tertullien: Toute notre espérance est liée a l’attente du vrai Israël. Que votre piété ne cesse donc jamais de former les voeux les plus animés pour son retour: ce prodige, cette résurrection, cette nouvelle Pentecôte, en un mot, qui doit rétablir toute chose et renouveler la jeunesse de l’Église comme celle de l’Aigle. Mais en même temps offrez au Seigneur le sacrifice continuel de vos prières pour arrêter sa colère, pour fléchir sa miséricorde en faveur des Chrétiens de nos étrangers, les enfants d’Israël se convertiront, et chercheront de nouveau le Seigneur leur Dieu, et David, leur roi, c’est-à-dire le Fils del David, le Messie qui leur avait été promis. Ils reviendront en tremblant vers leur Seigneur et vers Sa bonté, comme autrefois les frères de Joseph à celui qu’ils avaient renié, trahi, et vendu. Et le prophète d’ajouter: à la fin del temps, in novissimo dierum» (BILLOT, La parousie cit., p. 347).
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jours. Ces branches jadis sauvages et stériles, que sa main divine a placées sur l’olivier franc. Oui, priez sans cesse, afin que du moins les restes de son Peuple soient sauvés de ce retranchement terrible qui nous menace de toute part189.
Nel volume manzoniano, alla pubblicazione integrale dell’Exhortation di Degola, Salvadori faceva seguire un suo lungo saggio sull’abate ligure, in cui affrontava anche il tema a lui caro del «retour d’Israël». Lo scrittore toscano riproponeva le proprie riflessioni sulle vicende millenarie del popolo d’Israele, di cui abbiamo fin qui seguito l’evoluzione: il suo momento più alto è stato il profetismo antico, ma poi la sua «maggior parte» fu attratta dall’«idea d’indipendenza nazionale e del regno di questo mondo»: per questo perse «lo Spirito di Verità che già lo faceva esser Popolo e gli dava la vera libertà, lo preparava ad essere parte eletta del Regno di Dio, che non è di questo mondo». Come si vede, Salvadori parla ancora della «maggior parte», perché in tutta la storia di quel popolo c’è sempre un «resto» che ha seguito altre strade. Sono gli Ebrei «credenti», che egli distingue dagli 189 E. DEGOLA, Exhortation à une nouvelle catholique le jour de son abjuration du calvinisme l’an de grâce 1810, 22 mai à Paris, in G. SALVADORI, Enrichetta Manzoni-Blondel e il Natale del ’33, Milano 1929, pp. 79-124, 120-123. Salvadori aveva adombrato per la prima volta le sue ipotesi sulla conversione di Manzoni nell’opuscolo del 1910 Il rinnovamento di Alessandro Manzoni e la sua riforma dell’arte (LS II, 225-267), ipotesi che furono «accolte — ricorda Francesco Ruffini — con calore di consenso». In quello studio mostrava di conoscere solo di seconda mano l’Exhortation di Degola, citandola dal saggio di A. GAZIER , Manzoni à Port Royal en 1810, pubblicato nella Revue bleue del 14 marzo 1908. Negli anni successivi ne ottenne una copia da Parigi, su cui continuò a lavorare nel dopoguerra, quando tornò a Manzoni (i due saggi del 1920 e del 1924 sono stati raccolti in G. S ALVADORI, Il dramma reale d’Alessandro Manzoni, con una notizia di N. V IAN, Brescia 1962), iniziando quel lavoro che doveva essere pubblicato solo dopo la sua morte. Nel 1926, dalla Segreteria di Stato vaticana (forse da mons. Giovanni Battista Montini, attraverso il comune amico padre Mariano Cordovani o il fucino Igino Righetti, che era inquilino della casa romana di Salvadori), ebbe notizia che erano stati consegnati alla Biblioteca Vaticana libri e carte, tra le quali si trovavano alcuni manoscritti riferentisi all’abate Degola. Uno dei manoscritti era appunto il discorso del Degola per l’abiura di Enrichetta Blondel, autografo, come a Salvadori fu agevole accertare: su questo egli esemplò, correggendo e integrando, le prime bozze della copia parigina. Del gruppo di quei manoscritti, Salvadori si giovò per il suo lavoro, e sono quelli appunto che si trovano citati in nota come «Carte Vaticane in Vat. lat. 13136». Fra questi di particolare importanza per il nostro problema sono gli Studj sul ritorno degli Ebrei, ampiamente citati da Salvadori. Per una storia del testo dell’Exhortation degoliana, oltre alla Nota degli editori del volume del 1929 (p. 78), è utile F. RUFFINI, Una storia immaginaria della conversione di Alessandro Manzoni (1930), in ID., Studi sul giansenismo, con introduzione e a cura di E. CODIGNOLA, Firenze 19472, pp. 265-278, 265-266: si tratta (com’è noto) di una severissima recensione del lavoro manzoniano di Salvadori. Ancora RUFFINI, La vita religiosa di Alessandro Manzoni, II, cit., pp. 371-416, traccia una meticolosa storia della fortuna che il tema del “ritorno di Israele” ebbe nel giansenismo europeo da Pascal a Degola: per il colloquio fra Bossuet e Duguet, cfr. ibid., pp. 375-376.
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«increduli»: «quale delitto […] quello degli Ebrei increduli, come Spinosa e Reimarus (il padre del panteismo naturalistico di Herder e di Goethe, e il novatore della critica biblica […]) degli Ebrei i quali poi con l’arte massonica inoculavano questo morbo nei cristiani; che peccato aver tolto ai loro fratelli erranti sulla terra senza patria di potere innalzare a Dio il gemito del loro cuore!». Salvadori dunque riproponeva ancora una volta il tema della contiguità fra gli Ebrei «increduli» e gli ambienti massonici, che aveva sviluppato fin dal 1893190. Ma — come scriveva a Gallarati Scotti nel dicembre del 1920 — «nella Palestina nuova, […] si prepara il ritorno degli Ebrei credenti e quindi una ripristinazione della Chiesa di Gerusalemme»191. La Chiesa di Gerusalemme sarebbe stata come quella primitiva, «che san Pietro raccoglieva intorno a sé Pastore degli agnelli e delle madri loro, “coeletta” e dagli Ebrei e dalle Genti: questo grande annunzio […], il Degola (si deve dire a suo onore) lo sentiva ripetere alla Babilonia novissima e a tutta la terra: Salutat vos Ecclesia quae est in Babylone coëlecta et Marcus filius meus (1 Pt, 5, 13)»192. Dunque la profezia del «ritorno di Israele» faceva «onore» al prete giansenista: a essa lo stesso Salvadori quasi si abbandona nelle pagine del suo libro: Come accade degli uomini che vivono nelle idee e negl’ideali e si fanno poco sensibili alle sensazioni della realtà, il Degola vedeva le cose lontane meglio che le vicine: e, d’altra parte, la passione di guerra gli faceva velo alla pietà. Ma quale rimedio si offriva alla mente non chiara, bensì sincera, di lui, come consolazione del Consolatore Divino alla Chiesa martire? Abbiamo a questo la risposta data da lui medesimo dieci mesi dopo. Si può dir certo, il rimedio era quello che poi espresse con la parola profetica d’Isaia a Enrichetta Manzoni, ad Alessandro e a donna Giulia, il 22 maggio: «Il Signore stenderà la sua mano a riprender possesso delle reliquie del suo Popolo.... Egli inalzerà il suo Segno tra le Nazioni, raccoglierà i fuggiaschi d’Israele ». […] il Degola, quasi fosse un cristiano antico venuto dalla Sinagoga, lo vedeva principalmente in Israele, il quale, finalmente, caduta la benda dagli occhi, avrebbe adorato il Figlio di David Figlio di Dio dicendo: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Il lievito del pensiero del Degola, come si vede principalmente da questa visione d’un avvenire non lontano, era profetico. È anzi questa la vi sione madre della tradizione profetica antica e della nuova: quella del Giudizio, del Si gnore che viene prima come Salvatore, poi come Giudice, quasi preceduto dal fuoco, dalla desolazione e dalla morte, viene con i grandi flagelli a giudicare la terra; e insieme la formazione d’un nuovo Popolo, umile e puro, che esca, fuori della tempesta, alla luce e alla pace sul Monte di Dio. […] Ma nelle visioni degli antichi Profeti, 190
SALVADORI, Enrichetta Manzoni-Blondel e il Natale del ’33 cit., pp. 370-371, 261-262. G. Salvadori a T. Gallarati Scotti, Roma, 28 novembre – 19 dicembre 1920 (L 858). 192 SALVADORI, Enrichetta Manzoni-Blondel e il Natale del ’33 cit., pp. 296-297. 191
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non sempre si vede chiaro, a capo di questo Popolo che sarà fatto salvo, l’umile e mite Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio, che di quell’umile Popolo sarà Salute. […] Quale doveva essere questo Popolo? Secondo lui non altro che Israele: egli ripeteva con Tertulliano quello che dice nella Esortazione alla nuova cattolica Enrichetta: « Tutta la ragione della nostra speranza», cioè di noi Cattolici credenti, «è congiunta con l’espettazione d’Israele». E ripeteva anche la profezia di san Paolo, ma non in tutto fedelmente. Dice san Paolo: «Se alcuni dei rami dell’antico olivo sono stati infranti, e tu, essendo un olivastro, sei stato innestato in essi, in modo da essere a parte dell’umore che sale dalla radice e della pinguedine dell’oliva, non ti gloriare contro i rami: ché, se tu ti glorii, pensa che non sei tu sostegno della radice, ma la radice sostiene te. Ma tu dirai: Sono stati infranti dei rami, perché io fossi inserito. Bene: per la loro incredulità sono stati infranti; e tu stai per la fede. Non t’insuperbire, ma temi: ché, se Dio non perdonò ai rami naturali, per avventura non perdoni neanche a te». Questa grande speranza è speranza di pace, e sua luce è la visione di pace di tutto il genere umano, quella di una nuova Gerusalemme, che sarà solo quando Israele tornato a Dio dica amando e adorando: Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore. È la promessa poco notata e poco ascoltata dell’unico Messia Gesù, profeticamente illustrata da san Paolo, che congiunge indissolubilmente col ritorno d’Israele a Lui, il quale solo allora gli si farà vedere, il compimento dell’Unità cattolica e umana. Il Degola prima del ritorno di Enrichetta Manzoni, scriveva: «Gli Ebrei sono come un corpo di riserva che Iddio tiene preparato già da tanti secoli con una conservazione prodigiosa per riparare un giorno le perdite della sua Chiesa». «Errante, avvilito, proscritto, una provvidenza meravigliosa lo conserva attraverso di ormai diciotto secoli e di ogni maniera di persecuzioni. Egli ha visto sfiancarsi e perire le più bellicose e possenti nazioni che lo volevano estinto; ma il braccio dell’Onnipossente non cessò di proteggere tra le più rovinose catastrofi questo prediletto Erede delle promesse e serbarlo ai giorni della misericordia segnata al suo ritorno alla Fede. Reciso per la sua perfida incredulità dall’antico ceppo del mistico Olivo, vi fu in iscambio, per una gratuita elezione, innestata la Gentilità; ma, divenuta questa pure infedele alla sua Vocazione e vuota de’ frutti d’una verace pietà, ripiglierà la Divina Giustizia il taglio de’ moltiplicati rami isteriliti, onde l’albero israelitico, pieno del succo animatore della grazia di Gesù Cristo, tornerà a formare l’eletto Popolo del Signore. La conversione degli Ebrei è dunque, al dir dei Profeti, di Gesù Cristo, degli Apostoli, un avvenimento infallantemente preparato alla sua Chiesa, e la tradizione universale perpetua rende ugual testimonianza alla certezza di un avvenire così consolante per Lei». Questa nuova inserzione dei rami già tagliati, e quindi la reintegrazione dell’antico olivo d’Abramo e di Giacobbe, Israele, suppone dunque nella mente del Degola il taglio e l’esclusione della parte che discende dalla Gentilità, tutta quanta? Non credo; ma certo gran parte della Cristianità egli credeva malata di malattie dello spirito quasi incurabili. Solo all’entrata della famiglia Manzoni la sua visione si allargò, si rasserenò e si compì, comprendendo nel nuovo Popolo anche la parte che sarebbe venuta dalle nostre nazioni, o comunque d’altra stirpe che quella d’Abramo […]. La formazione del nuovo Popolo era dunque il «rimedio» preparato dalla Provvidenza alla «Chiesa martire». Questo prova il discorso per l’abjura di Enri-
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chetta Manzoni. E con parole che hanno questo significato il genovese sessantenne chiudeva il Discorso preliminare ai suoi «Studj sul ritorno degli Ebrei», che porta la data «Aprile 1821»: «Parlo a dell’anime ingenue, a de’ cuori sensibili agli interessi della Religione, a coloro insomma io parlo ai quali un tenero amore per l’afflitta Chiesa di Gesù Cristo ispira di ripetere.... Tota ratio Spei nostrae cum reliqua Israelis expectatione conjuncta est».
In fondo, concludeva Salvadori, quella di Degola verso gli Ebrei (come quella — si potrebbe aggiungere — dello stesso scrittore toscano) «era Carità e amore di pace, che dev’essere stato, e dev’essere sempre accetto e grato a Colei “che uscì di lor gente, il cui ceppo è David”, al Fiore di Jesse, che nel suo cantico sublime disse: Suscepit Israel puerum suum, recordatus misericordiae suae»193. Le reminiscenze del manzoniano Il nome di Maria si fondevano con le parole del Magnificat, parole che per lui avevano un significato particolare e intimo: erano le ultime dette dalla sorella Giuseppina il giorno della sua morte (17 marzo 1926): «E a un certo punto — scriveva a Carla Cadorna qualche mese dopo — intonò il Magnificat e accentuò con voce più alta il verso: Suscepit Israel puerum suum, recordatus misericordiae suae. Uno degli ultimi pensieri di Carità era per gli Ebrei! Queste cose, Signorina, a pochissimi posso dirle»194. 12. «Canti di Terrasanta per gli Ebrei». Salvadori seguì le vicende della Palestina post-bellica attraverso Antonio Barluzzi, suo vecchio alunno al liceo romano Umberto I, poi laureatosi in ingegneria, che già aveva lavorato a Gerusalemme prima della guerra alla costruzione dell’ospedale italiano. Vi era tornato nel maggio 1918, a pochi mesi dall’ingresso in Gerusalemme delle truppe inglesi, col distaccamento italiano (era infatti arruolato fin dallo scoppio del conflitto) e vi sarebbe rimasto a lungo a dirigere la 193
Ibid., pp. 290-297. G. Salvadori a C. Cadorna, Milano, 30 maggio 1926 (L 976). Lo stesso riferiva a Cristina Honorati Colocci da Milano, 24 aprile 1927 (L 1000) e a Renzo Supino il 2 giugno 1928 (L 1027). Il mese precedente la morte di Giuseppina, nel febbraio 1926, era nata a Roma una Società degli Amici di Israele, che si collocava all’interno delle tradizionali iniziative per la conversione degli ebrei, ma con vigore denunciava anche l’antisemitismo dilagante in Europa. Il suo principale protettore all’interno della curia vaticana era il cardinale olandese van Rossum, prefetto di Propaganda fide. Com’è noto, il 25 marzo 1928, l’associazione fu sconfessata dal S. Uffizio, che tuttavia colse l’occasione per condannare formalmente per la prima volta anche l’antisemitismo (R. MORO, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Bologna 2002, pp. 65-67, con la bibliografia precedente). Per quanto si sa, non risulta un qualche contatto dei Salvadori con la Società degli amici di Israele, ma le loro posizioni non erano molto distanti. Lo scrittore toscano conservò invece fra le sue carte un appello, verosimilmente del 1923, del Consorzio delle comunità israelitiche italiane e del Comitato italiano di assistenza agli emigranti ebrei, firmato dai rispettivi presidenti Angelo Sereni e Angelo Sullam, per il soccorso ai bambini ebrei colpiti dalla carestia in Ucraina (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, n.n.). 194
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costruzione di numerose basiliche, ospedali e scuole per la francescana Custodia di Terra Santa e per la Santa Sede: a lui si associò presto un altro allievo di Salvadori, quale il pittore Mario Barberis195. Era naturale che lo scrittore toscano fosse molto preoccupato per le sorti della presenza cattolica a Gerusalemme e in tutta la Palestina nell’intricata situazione post-bellica, che aveva visto la fine della secolare presenza ottomana, l’infittirsi dell’emigrazione ebraica e, nel 1923, l’inizio del mandato britannico sotto l’egida della Società delle Nazioni196. Come scriveva a Gallarati Scotti in una lettera del 1920, che abbiamo già avuto modo di citare: E Le raccomando dal cuore la Custodia francescana di Terra Santa; che là in mezzo a contrarietà d’ogni genere ha promosso la edificazione di queste due insigni basiliche, nel Getsèmani e sul Tabor: monumenti cattolici, che avranno un significato nuovo e grande nella Palestina nuova, dove si prepara il ritorno degli Ebrei credenti e quindi una ripristinazione della Chiesa di Gerusalemme. Bisogna fare in modo che l’attuale governo anglo-ebraico dia il consenso, e che la Custodia di s. Francesco abbia la fiducia che non le mancheranno i mezzi almeno per la basilica della Passione, di cui è stata già fondata, solennemente, la prima pietra197.
Ma nelle lettere a Barluzzi emerge nitidamente il modello di convivenza che Salvadori auspicava fra le religioni presenti in Palestina. Il 20 luglio 1920 scriveva: «Quanto mi piacque la notizia del nucleo di amici che, nel 195 Su Barluzzi e la sua amicizia discepolare con Salvadori, cfr. N. VIAN, Canti di Sion, in ID., Amicizie e incontri cit., pp. 161-166. Barluzzi era molto legato alla francescana Custodia di Terra Santa, tradizionalmente sensibile agli interessi italiani in Medio Oriente: D. FABRIZIO, Fascino d’Oriente. Religione e politica in Medio Oriente da Giolitti a Mussolini, pref. di S. ROMANO, Genova – Milano 2006, pp. 120-158. Sul ruolo politico di Barluzzi in Palestina insiste M. HALEVI, The Politics behind the Construction of the Modern Church of the Annunciation in Nazareth, in The Catholic Historical Review 96 (2010), pp. 27-55; non ho potuto vedere ID., A Pious Architect and an Italian Nationalist: Antonio Barluzzi and his activism in promoting the Italian interests in the Holy Land, in Cathedra, 144 (2012), pp. 75-106. Su Barberis, cfr. L 713. 196 L’ostilità della Santa Sede verso il progetto sionistico e la sua alleanza de facto con le mire inglesi sulla Palestina emergono già nel 1919 e si rafforzano negli anni successivi, soprattutto in quanto — a giudizio dei vertici vaticani — esso non risolve adeguatamente la questione del Luoghi Santi (FABRIZIO, La questione dei Luoghi Santi cit., pp. 196-235). 197 G. Salvadori a T. Gallarati Scotti, Roma, 19 dicembre 1920 (L 858): si era all’indomani della conferenza di Sanremo (24 aprile 1920), che aveva stabilito definitivamente lo smembramento dell’Impero ottomano e posto fine ai protettorati delle potenze europee sulle minoranze non musulmane in Levante, in primis a quello francese sui cattolici (FABRIZIO, La questione dei Luoghi Santi cit., pp. 193-196). Sull’atteggiamento della Custodia di Terra Santa, allora retta dal padre Ferdinando Diotallevi, rispetto alla delicatissima situazione palestinese, cfr. P. PIERACCINI, La Custodia di Terra Santa, il sionismo e lo Stato d’Israele (1897-1951), in Studi francescani 110 (2013), pp. 367-428, 375-388, che dimostra come subito dopo la guerra, oltre e più che il sionismo, fossero le presenze dei protestanti e degli ortodossi ad impensierire l’establishment cattolico di Palestina.
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campo della Fede e del lavoro, tenga saldo il ponte fra Roma e Gerusalemme! Questo è seguire S. Francesco nella vera conquista di Terra Santa. E mi tornano alla mente le parole divine: Beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram» e il successivo 14 novembre: «Mi pare che in Terra Santa più che altrove i Cattolici si dovrebbero distinguere per il contrassegno di Gesù Cristo: Ex hoc cognoscent omnes quod discipuli mei estis, si caritatem habueritis inter vos; e coi Cristiani dissidenti e con gli Ebrei come faremo? C’insegni il buon Samaritano». Per la basilica della Trasfigurazione, trasmise al progettista questo particolare voto: «E dunque i lavori del Tabor procedono bene? Possano gli uomini smarriti nel buio avere di lassù un raggio della Bellezza ineffabile nel dolce velo dell’Uomo Dio e a quel dolce ardore sentirsi spogliare il cuore degli odî antichi e aprirsi all’amore fraterno, alla Carità onnipotente!» (4 marzo 1922)198. Quindi i cattolici dovevano evitare atteggiamenti di arroganza spirituale nella nuova Palestina e trattare protestanti, ortodossi ed ebrei come loro «prossimo» (torna l’immagine del Samaritano, tipica — come sappiamo — dell’atteggiamento di Salvadori verso uomini di altre idee e di altre religioni): mettendo per sempre da parte gli odî secolari e aprendosi all’amore fraterno. Questo atteggiamento doveva valere (per le ragioni richiamate precedentemente) in primo luogo nei confronti degli Ebrei: Mi dica se una raccoltina di canti di Terra Santa anche per gli Ebrei, che richiamino le loro memorie e le speranze più sacre, che tutte fanno capo a Gesù Dio e Uomo, costà sarebbe ben accolta quantunque si dica, con rispetto e amore di quel Popolo, la verità. Ne ho parlato al P. Diotallevi per le Basiliche199.
Così scriveva a Barluzzi alla fine del 1925. Ribadire la “verità” cristiana, ma con rispetto e amore del popolo ebraico: in questa prospettiva scrisse in
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VIAN, Canti di Sion cit., pp. 162-163. G. Salvadori ad A. Barluzzi, [Milano, Natale 1925] (L 967). Del padre Diotallevi e della sua politica come Custode di Terra Santa (1918-1924), è documento importante F. DIOTALLEVI, Diario di Terra Santa 1918-1924, a cura di D. FABRIZIO, Milano 2002, da cui emerge il suo pragmatismo rispetto all’intransigenza anti-sionista del patriarca latino di Gerusalemme, mons. Luigi Barlassina. Interessanti sono le notazioni del 20 e 22 maggio 1922 (pp. 351352) e i giudizi negativi a proposito di una conferenza tenuta da Barlassina a Roma intorno alla situazione palestinese: a riferirgli dello «scontento che serpeggia a Roma per la conferenza tenuta dal patriarca» è proprio l’ing. Giulio Barluzzi, fratello di Antonio e corrispondente, come la moglie Maria Anderson, di Salvadori (L 1005-1007, 1032-1033). Il conflitto fra la Custodia di Terra Santa e il Patriarcato è analizzato da D. FABRIZIO, Identità nazionali e identità religiose. Diplomazia internazionale, istituzioni ecclesiastiche e comunità cristiane di Terra Santa tra Otto e Novecento, pref. di F. MARGIOTTA BROGLIO, Roma 2004, pp. 142-165, che sottolinea l’ossessione anti-sionistica del patriarca Barlassina. 199
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quegli anni un manipolo di componimenti pubblicati solo in parte, in cui Salvadori cercava di condensare le sue riflessioni sul «ritorno d’Israele»200. Il nome d’Israele — su questo Salvadori è chiaro, riferendosi alla discesa di Cristo agl’Inferi nell’intervallo fra la morte e la resurrezione — «è scritto nel cuore eterno /di Chi lo tolse, sempre, all’inferno, / l’Emmanuèl»: dunque la redenzione ha coinvolto anche le anime dei pii dell’antico patto, che dura per sempre. I due elementi fondanti la sua storia sono il sogno della scala di Giacobbe (Gen 28, 10-22) e la sua lotta con Dio (Gen 32, 23-33), da cui il progenitore uscì segnato. A questi aggiunge la benedizione sul letto di morte del figlio Giuseppe (Gen 49, 22-26), prefigurazione di Gesù (Veggente nelle tenebre / Ei, dal mortal tuo letto, / Ei, benedice all’umile, / al mite suo Diletto. / Ei benedice al Piccolo / che fu preso e legato / come l’agnel che portano / a vendere al mercato). Ma a questa benedizione all’Agnello, il popolo d’Israele non è rimasto fedele, non ha riconosciuto l’Emmanuele (O Israele, tu il Benedetto, / il tuo Re, figlio di Dio, l’eletto / Emmanuel / Spregiasti, e il regno di terra e d’oro / ti tolse, l’unico divin tesoro / ti chiuse il ciel). Da allora esso ha disceso, invece di salire, la scala di Giacobbe, il suo cuore si è indurito, è divenuto «pietra d’inciampo». L’«avvince il serpe reo dello sdegno / muto del Ciel» che lo ha accompagnato di secolo in secolo: «Da venti secoli solo / il cuor trafitto di cupo duolo, / te sol per te / Cerchi, regnante da Dio deserto / di cenci, /o d’oro vile coperto, / o Israel». La guerra recente ha inaugurato un’era in cui si avverte che il giorno dell’ira è prossimo: la terra è intrisa di sangue e cinta di fuoco orrendo, le madri piangono, tutti sono diventati superbi e increduli, l’unico a essere «cacciato in bando» è proprio il Cristo, il Re della pace. Quel che sospira il cuore del popolo d’Israele si sta per realizzare: In fine dierum (secondo la profezia di Osea) egli sarà di nuovo re «dov’arte splende, /dove il pio Jàfet stese le tende», tornerà in Palestina. Questo ritorno, tuttavia, non può essere soltanto politico, ma deve essere innanzitutto religioso e spirituale, altrimenti «il trono ambito sarà la tua gogna: / il sangue sparso, l’empia menzogna / saran con te». Il popolo d’Israele deve tornare al mistero della sua storia più antica: a Elia che sentì Dio non già nella bufera, ma in una soave aura leggera; a Davide, che conobbe il pentimento e offrì il cuore umiliato e il dolente canto al suo popolo che aspettava colui che doveva 200
Carte Salvadori 51, ins. 4, Canti di Terra Santa p. gli Ebrei. A questi si possono aggiungere la traduzione poetica di Gen 49, 22-26, inviata a Luigi Luzzatti in appendice alla lettera del 18 gennaio 1920 e i due sonetti che Salvadori inviò ancora a Luzzatti alla fine del 1924 (Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 19 e 28). Alcuni di questi componimenti furono pubblicati in G. SALVADORI, Odi, Israel, in Nel XVI centenario della dedicazione della Basilica Lateranense, 1924, p. 48. Sono riportati in Appendice I.
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venire; al mitissimo Mosè, che si sforzò di scolpire nel cuore dei suoi connazionali la legge che Dio, a sua volta, aveva scolpita nel suo cuore; e infine a Giacobbe, che vide la scala «in infinito spòrta». Il popolo d’Israele doveva superare l’incredulità che negli ultimi secoli era prevalsa al suo interno, doveva tornare ad amare il suo Dio: allora avrebbe ritrovato se stesso, visto riaffiorare la sua gentil natura troppo a lungo soffocata dalla superbia e dalla menzogna. E non poteva trovarlo che nella sua rivelazione umana: l’Uomo-Dio lo accoglierà allora nel suo mistero. In quel giorno (secondo la visione di Paolo nella lettera ai Romani, che anche Degola aveva — come abbiamo visto — parafrasato) si avrà la reintegrazione dell’antico olivo di Abramo e di Giacobbe, perché i rami già tagliati vi saranno di nuovo innestati e torneranno a portare l’umile fiore e il frutto pio: gli antichi patriarchi e i santi cristiani «in ciel letizïanti» sentiranno esaudito il loro intimo desiderio. Questa era la preghiera che la figlia di Jesse, la letizia d’Israele rivolgeva a suo Figlio: «Raccogli oggi Israele, / ai Padri che t’udirono / ed al tuo cuor, fedele!». Insomma — nella visione poetica di Salvadori — al culmine dell’eterea scala di Giacobbe si ergeva la croce di Cristo. Con questi versi, densi di echi biblici, di reminiscenze dantesche e manzoniane, e, se si vuole, anche di stereotipi provenienti da una millenaria tradizione, si concludeva la lunga riflessione di Salvadori sul mistero d’Israele. Il suo pensiero — tornava a ribadirlo alla fine — anche quando poteva sembrare severo nel dire quella che a lui sembrava la «verità», era invece sempre stato «fuoco d’amore / che nutron lacrime, [era stato] sangue del core». 13. Amicizie ebraiche nella koinonìa di Giulio Salvadori. Salvadori non si limitò alla pura testimonianza culturale e religiosa. A suo modo (lo abbiamo visto), egli mirava a una riforma religiosa di cui doveva essere protagonista una nuova generazione di credenti, estranei al movimento cattolico ufficiale: dei “rinnovati”, che erano giunti alla fede affrancandosi dalla cultura del secolo, ma che di quella cultura avevano fatto esperienza (e, in qualche modo, anche tesoro). A loro si dovevano affiancare cattolici “risvegliati”, che non avevano mai abbandonato la fede, ma che ne avevano sofferto un appannamento. La riforma da lui vagheggiata si realizzava appunto in un risveglio interiore, che si doveva diffondere attraverso una rete di amicizie e una serie di iniziative caritatevoli, educative e anche editoriali. Di questo movimento, Salvadori — che pure cercava continuamente di occultarsi — fu per decenni il centro operoso. Oggi è difficile arrivare a capire a quante donne e uomini giunse la sua voce, costituendo un’esperienza fondamentale di vita. Si trattava di allievi liceali e universitari con le loro famiglie, amici e amici di amici, persone assistite di ogni ambiente sociale,
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dame dell’altra società dedite all’impegno umanitario, sacerdoti, colleghi nell’insegnamento201: una koinonìa, che ricorda, per alcuni aspetti, quella che si strinse a Roma intorno a Ernesto Buonaiuti, negli anni Venti, ma con alcune differenze di fondo. Quella salvadoriana era più numerosa e culturalmente e socialmente più differenziata, non composta soltanto di giovani studiosi di grande avvenire; ed era rivolta all’«azione», all’impegno assistenziale ed educativo. Inoltre intendeva restare “ortodossa”, nel senso che egli studiatamente non manifestò mai alcuna dissidenza rispetto al magistero: Salvadori credeva alla possibilità di coniugare «libertà» e «obbedienza» e in molte circostanze espresse liberamente le sue posizioni. Insomma in silenzio, senza atteggiamenti clamorosi, con prudenza se si vuole (con benevola ironia Sabatier lo definiva cunctator202), egli seguiva la sua strada. Forse anche questa sua “ortodossia” ha determinato la non grande fortuna storiografica della sua figura, sostanzialmente affidata a studiosi che lo conobbero direttamente e che di quella koinonìa fecero parte (Tommaso Gallarati Scotti, Nello Vian, Pietro Paolo Trompeo, il padre Mariano Cordovani). Ora in questa comunità che gli ruotava intorno (lo abbiamo già visto nei casi di Luzzatti e di David Santillana, di Israel e di Sciaky) non pochi furono gli ebrei. Alcuni di questi conobbero — vicino a lui — un cammino di conversione al cristianesimo, che spesso prendeva le mosse dal disagio per un ebraismo ormai secolarizzato e, nel contempo, dall’esigenza di un nuovo orientamento di vita: è il caso di Giuseppina e Bruno Scazzocchio, appartenenti a una nota famiglia di ebrei romani, che Salvadori aveva conosciuto al tempo del suo insegnamento ad Albano Laziale (1885-1890) e con cui mantenne relazioni amichevoli per oltre quarant’anni. O del medico Renzo Supino, a cui, a pochi mesi dalla morte, scriveva parole che riassumono i pensieri degli ultimi anni sul mistero d’Israele: oggi [Pasqua] che sento voci della terra lontana de’ suoi Padri, santificata dal Sangue dell’unico Salvatore di tutti […] dove gl’italiani dovrebbero riprendere la tradizione di s. Francesco senza alcuna brama di dominio o di ricchezze, aprendo il cuore ai fratelli senza distinzione di nazione o di razza, e specialmente agli Ebrei perché sentano finalmente il palpito del Cuore Divino, che li ama perché il Sangue del Figlio della Vergine è il Sangue della Figlia di David. E quante volte Egli, l’unico Messia, li avrebbe stretti intorno a sé, raccolti in uno come la chioccia raccoglie i pulcini sotto le sue ali, ma essi non hanno voluto. Quando sarà che Israele, tornato 201 Di tutto questo mondo sono testimonianza fondamentale i due volumi delle sue Lettere, messi insieme in quarant’anni di lavoro da Nello Vian, di cui mi sono continuamente avvalso. 202 «Mais Vous savez que, si je suis cunctator, je n’oublie pas», scriveva Salvadori a Sabatier il 15 agosto 1910 (L 591), facendo evidente riferimento a una definizione dell’amico.
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a Dio, dica amando e adorando Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore!. Allora avremo la Pace e la parte eletta dell’umanità sarà specchio del Cielo sereno203.
Allievo del cognato Pio Spezi era stato invece Luigi Samuelli, laureato in legge poi entrato nell’avvocatura dello Stato. Il suo itinerario spirituale fu invece lungo e complicato e il suo approdo al cristianesimo doveva compiersi solo dopo la morte di Salvadori, sotto la guida del padre Vincenzo Ceresi: a lui — ancora nel 1953 — si raccomandava come «questo suo stanco e sbandato amico che ha tanto bisogno della grazia e della misericordia di Dio, per trovare quella pace vera alla quale il suo intelletto non ha saputo guidarlo»204. Eppure nel 1906, all’inizio della crisi spirituale che aveva cominciato a distaccarlo dal suo ambiente, proprio da Salvadori aveva avuto parole di incoraggiamento: da esse, fra l’altro, traspariva il “metodo” che lo scrittore toscano sempre seguiva nei rapporti con coloro che erano lontani dalle sue idee: Séguiti a camminare come la coscienza illuminata Le detta — facendo il bene che può; e vedrà che a poco a poco si compirà il lavoro di riordinamento delle idee, e il sole finirà per vincere con tutto il suo splendore. Se si trova a contatto con persone per le quali la vita ch’Ella sente è cosa straniera e nuova, non si sgomenti né si turbi per questo; faccia sentire questa vita con la bontà delle azioni, con l’amabile assennatezza delle parole, con la purità dei pensieri; e vedrà che senza prediche e professioni, e soprattutto senza discussioni, si desterà negli altri il desiderio di questa vita e della fonte da cui deriva205.
Ma il dolore e lo sconforto continuavano, come il giovane gli confessava nel settembre del 1907. Salvadori rispondeva seguendo, come sempre, il suo radicato anti-intellettualismo: Le crisi delle quali mi parla con una confidenza di cui Le son grato di cuore, si superano veramente com’Ella accenna: operando intensamente. La ragione lasciata a sé non s’appaga mai; subordinata alla volontà, cioè alla facoltà del dovere e del bene ritrova il suo posto e c’insegna la fonte del vero senza presumere di comprenderla. M’ha fatto molto piacere la Sua risoluzione di prender parte al prossimo concorso per la magistratura. Son certo che si preparerà con proposito virile, e speriamo che si consegua l’intento: in ogni modo, non sarà tempo buttato via206.
203 G. Salvadori a R. Supino, Milano, 26 febbraio – 8 aprile 1928 (L 1021), dove sono evidenti gli echi della Exhortation di Degola. 204 Cit. in L 510, nt. 2. 205 G. Salvadori a L. Samuelli, Monte S. Savino, 26 agosto 1906 (L 498). Il corsivo è mio. 206 G. Salvadori a L. Samuelli, Roma, 28 ottobre 1906 (L 510).
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Nel settembre del 1907, il giovane Samuelli, che viveva allora lontano da Roma, gli doveva avere scritto che qualcosa di nuovo era emerso in lui, che poteva essere sintomo di un futuro “rinnovamento”: Quanto m’è stata consolante la Sua lettera! per la quale mi par d’assistere all’alba piena di speranza, che si fa nel Suo spirito, onde acquisterà l’alacrità e l’allegrezza dell’azione, aspettando in silenzio che si levi il sole, velato, come può esser quaggiù, ma sempre fonte di conforto e di vita. Una parola della Scrittura, non ricordo dove, dice questo per Lei: È bene aspettare in silenzio il Salvatore Dio. Non abbia mai timore di scrivermi. Con le persone amiche non bisogna esser timidi. L’amicizia è coraggiosa. E per questo chiederemo insieme il coraggio che ci fa avvicinare con fiducia alla Persona sovranamente amabile a cui Ella mi dice d’essersi accostato, che non abbisogna d’altro che d’esser conosciuta perché s’ami e ci si affidi in Lui207.
Altri restarono fermi nella religione dei loro padri: fra questi i due giovani ebrei di Salonicco, del cui confronto del 1917 con Salvadori ho sottolineato l’importanza. Sciaky prese presto la strada dell’impegno nel movimento sionistico: già nell’estate del 1918, iniziava la sua vivace collaborazione alle riviste del sionismo italiano, con una serie di articoli sulle vicende di Salonicco, prima e dopo il tragico incendio (18 agosto 1917), che aveva distrutto la città, ponendo praticamente fine alla secolare presenza ebraica. Il suo non sarà un sionismo “religioso”, come potevano far presagire alcuni cenni delle lettere a Salvadori del ’17, ma risolutamente politico: anzi egli sarà forse il maggior esponente in Italia del «revisionismo sionistico» che faceva capo a Vladimir Ze’ev Jabotinsky, la corrente che, puntando alla creazione di uno Stato ebraico esteso su entrambe le sponde del Giordano, non nascondeva la propria volontà di controllo dell’elemento arabo e la diffidenza verso la potenza mandataria, la Gran Bretagna208. 207 G. Salvadori a L. Samuelli, Roma, 27 settembre 1907 (L 542): «È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore» (Lam 3, 26). 208 «Il revisionismo sionistico parte da una riaffermazione di principio, che ne indica e condiziona tutto l’orientamento: la chiara definizione del fine del sionismo, creazione dello Stato ebraico, in Palestina, entro i confini storici comprendenti i paesi di qua e di là dal Giordano, a traverso la costituzione di una maggioranza ebraica. […] Quindi, riaffermazione del carattere politico nazionale del movimento sionistico, e critica di tutte le ideologie […] che ne hanno offuscato la chiarezza. Il popolo ebraico ha sì una funzione da compiere, una missione di civiltà, com’è di tutti i popoli creatori di storia; ma una tale missione non è definibile in astratto, aprioristicamente — e non si deve identificare il popolo con un’idea. Ciò è proprio d’una chiesa, non d’un popolo. Missione di pace fra i popoli, giustizia sociale o non dal seno della vita del popolo; non possono condizionare questa vita, e coartarla. Quindi, riaffermazione dell’idea della nazione, come tale, e della necessità della sua vita autonoma: non un centro spirituale in Palestina, concezione astratta; ma uno Stato, condizione di regolare sviluppo della spiritualità di un popolo. Solo vivendo per sé, in modo autonomo, si crea per
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Sciaky è presto polemico proprio contro quello che chiama il «sionismo spirituale», per il quale «quel che importa di creare è un Centro spirituale, da cui irradii lo spirito ebraico nel mondo, spirito di fratellanza e di amore. Contro il quale ci sarebbe una flagrante offesa iniziale, se non si cominciasse a portare questo spirito nei rapporti fra ebrei e arabi»: Quindi, — continuava — si teorizzò un’opera moralmente e civilmente redentrice verso i fratelli arabi, di una nuova Svizzera da far sorgere in Oriente, esempio vivo ai popoli per intanto orientali di come s’abbian a risolvere i rapporti fra i popoli abitanti sullo stesso territorio, di uno Stato binazionale in cui venissero ad avere parità di diritti elemento ebraico ed elemento arabo, di una sede nazionale ebraica e di una... sede nazionale (?) araba in uno Stato palestinese. Quasi che simili stati possa crearli un artificioso trattato cartaceo, tra due elementi etnici sia pure di non così diversa maturità civile quali quelli in questione, l’ebraico e l’arabo, e non invece, quando pur li crea, la storia, che è anche storia di sangue. Quasi che un semplice trattato, sia pure combinato con la massima evangelica o tolstoiana purezza di intenzioni da ambe le parti — e ci vorrà del tempo prima che gli arabi conoscano non il Vangelo, ma Tolstoi e ne facciano il loro ispiratore alle proprie lotte politiche, — possa sia pure nella terra di Giosuè fermare il sole della storia, cioè il processo di sviluppo dei popoli determinante un perpetuo squilibrio tra le forze in presenza. Quasi che finalmente, […] senza quello slancio, quella intima sicurezza di sé e fiducia nell’azione che dà l’indipendenza politica e il senso della sua garanzia fondata su proprie armi, sia possibile quella qualunque creazione spirituale alla quale un popolo degno di questo nome non può non aspirare […]209.
Con tutte le debite differenze, anche quello di Salvadori era stato un «sionismo spirituale»: non a caso, aveva sempre raccomandato, come s’è visto, la pacifica coesistenza fra le popolazioni e le religioni presenti in Palestina e — con ingenuità di poeta — si era augurato che l’elemento italiano, magari incarnato nella Custodia di Terra Santa, potesse svolgere la necessaria opera di mediazione. Per dare consistenza filosofica a questa sua idea di Stato, Sciaky si sarebbe accostato negli anni Venti al gruppo di giovani filosofi e pedagogisti che si raccoglievano intorno a Giovanni Gentile (si sarebbe laureato a Firenze in filosofia nel 1926, dopo che aveva interrotti gli studi a Roma) e — come d’altronde non pochi esponenti del sionismo revisionista — avrebbe guardato con interesse al fascismo ital’umanità. Gerusalemme Atene, Roma insegnano» (I. SCIAKY, Revisionismo sionistico (1932), in Isacco Sciaky. Il salonicchiota in nero cit., pp. 144-148, 144). 209 Id., Il Sionismo (1929), ibid., pp. 117-134, 132. A questo volume curato da Vincenzo Pinto, che contiene anche una sua Introduzione (pp. 5-25), una Postfazione di Bruno Di Porto (pp. 239-246) e un’essenziale scheda biografica (pp. 237-238) si rinvia per i testi di Sciaky e per notizie sulla sua attività fino alla partenza dall’Italia. Sulla figura di Jabotinsky, ancora molto utile è il pionieristico saggio di C. L. OTTINO, Jabotinsky e l’Italia, in Gli Ebrei italiani durante il fascismo, n. 3, a cura di G. VALABREGA, Milano 1963, pp. 51-81.
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liano, alla sua esperienza corporativa, al superamento della lotta di classe in essa (sul piano teorico) realizzata. Anzi si sarebbe adoperato, fin quasi alla vigilia della svolta antisemita di Mussolini, di realizzare una qualche intesa fra l’Italia e il “revisionismo” in funzione anti-inglese. Nell’autunno del 1939, travolto dalle leggi razziali, si sarebbe trasferito a Gerusalemme con la moglie e i tre figli210. L’incendio del 1917 fu l’inizio della dispersione della famiglia di Israel. I suoi, avendo perduto quasi tutto, emigrarono in gran parte a Parigi, trasferendovi quel che restava delle proprie attività commerciali: il giovane decise invece di restare in Italia, continuando i suoi studi di medicina. Negli anni del dopoguerra, egli strinse ulteriormente i suoi legami con Buonaiuti e con la koinonìa di giovani «spirituali», più o meno “ortodossi”, che si stringeva attorno a lui. Sulle prime il suo ebraismo “religioso” vi suscitò qualche problema. Arturo Carlo Jemolo doveva avergli espresso i propri dubbi sull’opportunità che entrassero nella koinonìa coloro che non avevano «fede nella divinità di Cristo», se Buonaiuti così gli rispondeva il 31 maggio 1921: Gli elementi della k. sono stati reclutati così alla buona, mano mano che ci si è trovati insieme concordi nel desiderio di più profonda formazione religiosa. Io non ho badato per il sottile alla provenienza confessionale di ciascuno, sicuro com’ero che la vita comune avrebbe in definitiva amalgamati quelli che fossero spiritualmente suscettibili di pedagogia cristiana. Non mi pento del mio metodo. Quando sono riuscito a ottenere il consenso di uno spirito retto e franco come quello di Israel sul postulato che il cristianesimo rappresenta l’assoluta religiosità, non posso dichiararmi soddisfatto? Dico di più: non ho portato il nostro fratello ad un implicito riconoscimento del carattere soprannaturale dell’apparizione di Cristo sulla terra e del suo insegnamento? Simile risultato, quanto mai confortevole, mi incoraggia a persistere nel medesimo metodo e a tentare la formazione cristiana anche di chi viene da lontano e non ha, come noi, succhiato i primi elementi della tradizione cattolica dall’infanzia211.
Ma Israel doveva restare fermo alla convinzione che Gesù di Nazareth fosse il maggior profeta d’Israele, espressa a Salvadori già nella lettera del Natale 1917, se ancora il 4 aprile 1921 ne discuteva con Buonaiuti, che 210 Sciaky sarebbe morto nel 1979. Almeno fino al 1920 restano tracce dell’amicizia di Salvadori per lui: «Mi permetto — scriveva a Luzzatti il 18 gennaio 1920 — affidare questa lettera a un giovane studente di Lettere venuto alla nostra Università da Salonicco, giovane che s’affaccia alla vita con un nuovo desiderio di fare del bene. Egli Le dirà da sé d’una Signorina anch’essa abbandonata, che chiede lavoro onesto. E se Ella potrà indirizzarlo in proposito, il Suo consiglio sarà prezioso. Il giovane, che le porge la presente, è il Sig. Isacco Sciaky» (L 833). 211 Lettere di Ernesto Buonaiuti ad Arturo Carlo Jemolo 1921-1941, a cura di C. FANTAPPIÈ, introduzione di F. MARGIOTTA BROGLIO, Roma 1997, pp. 59-60.
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invece era «ancora convinto — scriveva Isabella Grassi, una testimone del dibattito — della necessità di avere intermediario tra noi e Dio Gesù Cristo»212. Questo problema teologico (quello della «mediazione») emerge come centrale anche in una tarda testimonianza dello stesso Jemolo, che — nei suoi ultimi mesi — ricordava: Nel 1920-21 la domenica mattina soleva adunarsi in una casa ospitale di amici un gruppo di giovani (il più vecchio non aveva ancora trent’anni) ad ascoltare la lettura ed il commento di una lettera di San Paolo, da parte di quell’uomo così ricco di fascino ch’era Ernesto Buonaiuti. Credo tutti praticanti, che si ritrovavano poi in una vicina chiesa per la messa di mezzogiorno. Ma nel gruppo entrò poi anche, dietro preghiera del fratello di Buonaiuti […], un ebreo di Salonicco, ventenne, molto simpatico e rispettoso, attaccatissimo alla fede dei suoi avi. Ascoltò con molta attenzione (ma chi poteva distrarsi alle lezioni di Buonaiuti?) e solo dopo qualche tempo, entrato in familiarità con i coetanei, ad uno che gli chiese le sue impressioni, rispose: «Grande maestro; una gioia ascoltare le sue lezioni; ma io ebreo ho l’impressione che voi cristiani abbiate relegato Dio Padre in soffitta»213.
Tuttavia continuarono anche i contatti con Salvadori, come risulta da alcuni, preziosi indizi. Molti anni dopo, Israel sarebbe rimasto colpito dalla lettura di una lettera del professore a Luzzatti del 28 febbraio 1920: «[...] spero di poter essere in grado di venire a salutarla. Le ho detto che le parole di S. Francesco a Frate Leone sono, per la prima parte, di Mosè? Yebarechécha Jahvé veiscmeréca»214. Si ricordò allora la profonda impressione che gli aveva fatta una sua descrizione particolareggiata della sera del venerdì: quando dopo la preghiera del tramonto, suo padre cantava, davanti alla tavola solennemente imbandita per la festività del Sabato, il saluto agli angeli della corte del Signore e come, prima di mettersi a tavola, i figli baciavano la mano ai genitori che impartivano loro la benedizione 212 O. NICCOLI, Koinonia. Note sulle vicende di un gruppo di giovani «spirituali» italiani negli anni Venti del Novecento, in Studi storici 53 (2011), pp. 523-576, 562. Niccoli giudica «rilevante» la presenza di Israel all’interno del gruppo, «come emerge anche il 31 maggio [1921], che appare un momento cruciale per il dibattito interno: nel corso di una discussione sull’opportunità o meno di sottomettersi alla Chiesa le opinioni sono diverse, e Israel osserva che nella sua condizione di ebreo un atteggiamento oppositivo sarebbe un troppo facile eroismo» (ibid.). Si discuteva, è ovvio, della «dichiarazione di fede» rilasciata da Buonaiuti e pubblicata sull’Osservatore romano dell’8 aprile 1921, con cui era provvisoriamente rientrata la scomunica comminatagli il 14 gennaio precedente. 213 A. C. JEMOLO, La devozione popolare oggi. La fede e le opere, in La Stampa (Torino), 18 gennaio 1981, p. 3. 214 G. Salvadori a L. Luzzatti, Roma, 28 febbraio 1920 (Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 21). Ma anche il precedente 24 gennaio, gli aveva scritto: «S. Francesco rinnovi a Lei la benedizione data al suo Leone “pecorella di Dio”, quella benedizione nuova le cui prime parole sono di Mosè» (Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 20).
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di rito: «Che il Signore ti benedica e ti custodisca». «Ma è la preghiera di S. Francesco!», aveva esclamato Salvadori, «è la benedizione di S. Francesco a Frate Leone... è così bella, così dolce...». Volle avere, come altre volte aveva chiesto al giovane Israel, anche di questa benedizione il testo ebraico con la traduzione letterale215. Nell’estate del 1921, il giovane studente di medicina raggiunse la famiglia a Parigi. La pausa degli studi e la lontananza da Roma gli consentirono di tracciare un bilancio del cammino percorso negli ultimi anni, da quando era venuto in Italia. Allora attraversava una grave crisi intellettuale: di quelle che snervano e riducono all’impotenza. Salvadori, che in gioventù aveva conosciuto momenti analoghi e che poi nel libretto su Amiel aveva cercato di individuarne i sintomi e di offrire le soluzioni, lo aiutò a superarla. L’Israel prima maniera credeva alla «giustizia» come culmine dell’umanità e che il popolo d’Israele ne fosse in qualche modo il custode. Salvadori, già nel commento al suo componimento di licenza liceale, lo aveva disilluso: «Nelle idee d’umanità e di giustizia che un popolo si fa, del vero e del falso: chi può distinguere? Umanità e giustizia, vento passeggero che spira sopra le nazioni, sentimenti che poi si calpestano. […] Fallace la convinzione d’essere un popolo da Dio destinato all’impero»216. Il professore gli fece conoscere la legge evangelica dell’amore (lo abbiamo visto già nel loro primo scambio epistolare del maggio 1917): l’amore che «ha il potere di rendere il dolore sublime e di trasformare l’odio in pietà» e che è il più sicuro fondamento anche della vita associata, perché se una giustizia intesa come equità «fa che gli uomini si sopportino», quella che ha per base l’amore li rende fratelli. Colui che aveva rivelato la legge dell’amore era il Nazzareno Gesù: questo si era proposto di «compiere della legge divina, inceppata fra gli infiniti rami tortuosi della dialettica religiosa non paga della limpidità e semplicità sublimi del verbo profetico» (come si vede, ancora il nesso fra Gesù e il profetismo ebraico). I due uomini che lo avevano guidato in questa profonda maturazione erano stati un prete già scomunicato e per il momento rientrato in seno alla Chiesa, Buonaiuti, e un professore-poeta che lo aveva accolto in casa sua, impegnandolo in lunghe conversazioni, Salvadori appunto. Tutto questo Israel volle scrivergli in una lettera da Parigi del 15 settembre 1921:
215 ISRAEL, Giulio Salvadori e Israele cit., p. 7. Otto foglietti di trascrizioni ebraiche e di traduzioni, probabilmente di mano di Israel, furono conservati da Salvadori (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 2). 216 La minuta dei giudizi sui componimenti di Israel e di Sciaky fu conservata da Salvadori (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 7). Israel pubblicò quello che lo riguardava in ISRAEL, Giulio Salvadori e Israele cit., pp. 11-12.
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Per scriverle ho aspettato un momento di calma completa perché è nella pace spirituale che mi si presentano più vive e più efficaci le immagini di coloro che diedero alla mia anima la sua forma definitiva. In questi momenti mi è dolce ritornare al passato e ricordare tutte le trasformazioni avvenute in me e tutte le magnifiche esperienze spirituali acquistate alle quali si associa naturalmente il ricordo del suo pensiero tutto rivolto ad un amore scevro di compromessi. Fu infatti la sua parola, professore, che ebbe una notevole influenza sulla mia formazione spirituale gettandomi nell’anima un seme prezioso che diede germogli fecondi i quali fruttificano a suo tempo: frutti di serenità e di amore. Ricordo che nei primi tempi della maturazione del pensiero, fra le amarezze dei disinganni che la realtà opponeva ai miei sogni ardenti, al mio sentimento generoso, cominciai a dubitare di molte cose belle e lasciai alla ragione fredda e schematica, che nel dubbio trova il terreno più propizio, trasformare questa mia incertezza angosciosa riguardo i più alti problemi etici in una certezza negativa. Fu allora che conobbi due persone che non potrò mai scordare: lei professore, e il professore Buonaiuti; non posso definire l’influenza misteriosa che fu operata sul mio spirito; non so che fibre profonde vibravano con le loro parole; però quello che posso precisare è che dal fondo dell’anima ripullulò una vita che sembrava già sommersa sotto il dubbio e il razionalismo più rigido: cominciai a comprendere in modo preciso come gli autori delle nostre miserie siamo noi stessi e come l’amore ha il potere di rendere il dolore sublime e di trasformare l’odio in pietà; compresi che la vera fonte di pace non è quella giustizia civile che si limita a rendere possibile l’ordine mediante un numero più o meno completo di concessioni reciproche, ma in quella giustizia che riposa in ogni coscienza, in quella divina giustizia che ha per base sicura l’amore: la prima fa che gli uomini si sopportino mentre quest’ultima li rende fratelli. Non è vero professore? è questo che il Nazzareno Gesù si proponeva di compiere della legge divina, inceppata fra gli infiniti rami tortuosi della dialettica religiosa non paga della limpidità e semplicità sublimi del verbo profetico. Se tutti gli uomini sapremo tendere a questa mèta con semplicità di animo e senza superbia, con la sensazione dell’imperfezione materiale e morale di tutti indistintamente allora ci potremo vantare di essere assurti molto al di sopra della bestialità217.
Due anni dopo, nell’estate del 1923, Israel si laureava e tornava a Parigi, stremato dal tour de force degli ultimi esami e della discussione di laurea. Nella capitale francese dovette scontrarsi con alcune manifestazioni di ostilità a sfondo antisemita, che gli ricordarono crudamente che la legge dell’amore era ancora lungi dall’affermarsi e che per gli ebrei non c’era requie. E tornò all’idea di una terra dove finalmente non avessero solo «un semplice permesso di soggiorno concesso spesso con mala voglia», ma una patria: in un’Europa in cui emergevano pulsioni antisemite, anche in Israel
217 S. Israel a G. Salvadori, Parigi, 15 settembre 1921 (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 9).
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riaffioravano temi sionistici. Sentiva nostalgia di Roma e dell’Italia e degli affetti che vi aveva lasciati. Così ne scrisse a Salvadori il 30 agosto 1923: Mi trovo qui da un mese e già mi sento invadere da una profonda nostalgia per Roma; non so quale fascino irresistibile ha esercitato su di me la città e il popolo; ma sento che non posso vivere in un altro ambiente e mi lasci chiamarla la mia patria nonostante il mio passaporto. Chi potrà mai comprendere col cuore prima che colla mente, la tragedia di uno spirito che si sente ovunque chiamato straniero? eppure non può esistere uomo senza patria come non esiste uomo senza padre e senza madre; esistono dei figli abbandonati; i nostri fratelli ci hanno cacciati dalla casa paterna, se ne sono divisa l’eredità fra di loro ed appena ci vogliono accordare l’elemosina di un’ospitalità tollerante! Perché dunque tutti i popoli della terra possono avere un diritto di proprietà sul nostro pianeta e noialtri un semplice permesso di soggiorno concesso spesso con mala voglia? chi potrà o saprà mai comprendere l’atroce ingiustizia e l’assurdità di questa concezione? Creda pure che in questa mia amarezza non c’è odio e se parlo a Lei col cuore aperto è perché so di poter essere compreso. La paura che ha l’uomo di non essere abbastanza furbo lo spinge ad essere estremamente cattivo; questa è una verità che lasciò nella storia tracce di sangue. Ogni uomo o popolo disprezza l’altro o cerca di scrutar i difetti altrui piuttosto che affermare le proprie virtù, sicché siamo più propensi a sapere uno più cattivo di noi che a cercar di diventar buoni. Mi perdoni queste considerazioni poco ottimistiche ispiratemi da fatti in apparenza banali successi giorni fa218.
Alcuni mesi dopo, tornato in Italia, Israel andò a visitare il professore in casa sua. Era ammalato, lo ricevette in camera. Riferendosi alla lettera ricevuta da Parigi, gli parlò con «un accento leggermente accorato»: «Quanta energia, Israel, quanta forza d’ingegno e quanta fatica sprechiamo per ricercare tutto quello che ci divide... eppure sarebbe tanto più semplice, tanto più grande e vero, cercare quello che ci unisce... è questa una malattia dello spirito della quale dobbiamo cercar di guarire...». E ancora: «Non ho bisogno di vedere nulla modificato nella sua anima; vorrei che Lei diventasse sempre più cosciente del proprio ebraismo». In contatto con un ebreo “religioso” come Israel, che riconosceva in Gesù di Nazareth il maggior profeta d’Israele, Salvadori avvertiva che l’ebraismo e il cristianesimo erano «una unica esperienza etico-religiosa storicamente realizzatasi in due mondi diversi, ma non opposti»219. Yebarechécha Jahvé veiscmeréca: da Mosè a Francesco d’Assisi, in qualche modo il cerchio si chiudeva. 218 S. Israel a G. Salvadori, Parigi, 30 agosto 1923 (Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 9). La lettera fu riproposta in ISRAEL, Giulio Salvadori e Israele cit., pp. 9-10, con la data erronea del 30 aprile 1923. 219 Ibid., pp. 10-11.
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APPENDICE I Canti di Terrasanta p. gli Ebrei Carte Salvadori 51, ins. 4: Canti di terra Santa p. gli Ebrei.
I. In fine Ave, o Terra, ove Israele vide l’alta scala d’oro, che all’errante, all’infedele sempre è nobile tesoro! Ei ritorna, ahi col pie’ morto, ad ascendere lassù. Ma già sente nel Risorto di risorgere virtù; Ma già vede (oh nuova vista!) del dolor l’alto mistero; ma già crede, la conquista dell’eterno Sol del Vero Data all’uom che leva l’ala dal suo sangue a volar sù, e gli appar l’eterea scala nella Croce di Gesù.
II. Ebrei Tu che Israel tuo piccolo scegliesti tra le genti, tu che invano raccoglierlo nei secoli hai cercato; Tu ch’eri Luce agli Angeli scendenti e salienti che Jacòb vide in estasi, e l’hai quel dì segnato; Tu della stirpe d’Isai virgulto novo e santo; del puro Fior purpureo frutto di sangue tinto Gesù, torna al tuo Popolo
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c’hai tanto amato e pianto, cui tutto hai dato il sangue, ch’è dalla morte avvinto. Maria, la figlia d’Isai di cui da Dio sei Figlio, l’umil Fanciulla, termine d’altissimo Consiglio A cui virtù mirabile diede l’Onnipotente COLUI CHE È (ineffabile Nome) con Lei presente, Tutta intrisa di sangue cinta di fuoco orrendo mira la Terra, e piangere le madri, in cuor tacendo. Tutti superbi e increduli vede, cacciato in bando Te solo, o Re pacifico: onde son preda al brando. E prega in novo gemito: «Raccogli oggi Israele, ai Padri che t’udirono ed al tuo cuor, fedele!»
III. O Israele m’odi. Dell’ira prossimo è il giorno. Quel che sospira cupo il tuo cuor Da tanti secoli domo e non spento verrà: la folgore del tradimento nel cieco orror Sorda s’annunzia. Dov’arte splende, dove il pio Jàfet stese le tende, tu sarai re. Ma il trono ambito sarà la tua gogna: il sangue sparso, l’empia menzogna saran con te. M’odi, Israele. Fuoco d’amore che nutron lacrime, sangue del core, è il mio pensier.
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Non mio; ma splende nella Parola eterna. Ascoltami. Alla sua scola crescesti, tu, finché nell’umile velo, mistero tremendo, eterno sole del vero, venne Gesù.
IV. La benedizione di Giacobbe a Giuseppe Odi, Israel, nel turbine tra i folgori dell’ira che, Figlio della Vedova, serpente che cospira Giù nelle inferne tenebre con l’abisso ribelle tu imprecasti nell’odio che ti velò le stelle, Odi, da tanti secoli, la voce dell’Agnello? Il Forte, umilïatosi a Dio nel gran duello, Poi che il percosso fèmore gli dié spavento arcano del lottator più debole che apparve sovrumano; Colui che vide gli angeli scender l’eterea scala e risalir, con l’igneo lampo divin dell’ala; Veggente nelle tenebre Ei, dal mortal tuo letto, Ei, benedice all’umile, al mite suo Diletto. Ei benedice al Piccolo che fu preso e legato come l’agnel che portano a vendere al mercato. Egli, Iacòb. All’inclito tuo Padre, ah, sii fedele, e Lui, che ti diè il mistico
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tuo nome odi, Israele!
V. Sai del tuo nome sacro il mistero? Fedele o errante, ne attesti il vero, o Israèl. Quel nome è scritto nel cuore eterno di Chi lo tolse, sempre, all’inferno, l’Emmanuèl. Amore e guerra, fede o disdegno, con l’umil David umile, il Regno del Re dei re cerchi; ed al Nebo riguardi ancora ove sentendo lontana aurora cadde Mosè. Ma poi la luce dell’alto Verbo il cuor di tema vile o superbo fatto di sé Smarrì. Da venti secoli solo il cuor trafitto di cupo duolo, te sol per te Cerchi, regnante da Dio deserto di cenci, o d’oro vile coperto, o Israel. Che vale l’oro, la terra, il regno? T’avvince il serpe reo dello sdegno muto del Ciel.
VI. Come nel minimo germe presente tutta, sigillo d’idea, latente la palma è già, Tale alla mente del Patriarca l’alto tuo fato raggiò, che varca d’età in età Orma indelebile di Dio. Poggiata avea la testa su la sacrata pietra d’altar.
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E’ vide in sogno l’eterea scala scendere e ascendere con fulgid’ala e sfolgorar Ignei nel volto messi di Dio ed in un palpito tema e disio schiusero il cor. All’ineffabile voce di tuono dolce e terribile, dicente: “Io sono il tuo Signor. Come la polvere immenso, eletto da me tuo popolo; e benedetto in lui sarà tutto il redento popolo umano”. Ed il Redentor tu attendi invano d’età in età. Di grado in grado l’eterea scala si scopre, un lampo di rapid’ala rivelator Di luce in luce, di vero in vero sempre più tenue velo il mistero la sente il cor. O Israele, tu il Benedetto, il tuo Re, figlio di Dio, l’eletto Emmanuel Spregiasti, e il regno di terra e d’oro ti tolse, l’unico divin tesoro ti chiuse il ciel. Ahi! gli alti gradi, fatti di pietra nell’indurato tuo cor, dall’etra, atrio del ciel tu cali; e pietra d’inciampo al passo del tuo vicino sognante o lasso ne fai, crudel.
VII. Dalla Genesi, XLIX, 22-26 Giuseppe, il nato a crescere, bello d’aspetto appar: vanno per lui le vergini
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sui muri a rimirar. Ma d’empia invidia ardente della sua forza altier, ingiuriò il Crescente lo stuolo degli arcier. Ma i ceppi onde lo strinsero sciolse Colui che può: ne uscì pastor di popoli, pietra a Israel tornò. Del padre tuo, l’altissimo Iddio t’aiuterà; in sua misericordia Ei ti benedirà. Col ciel di sopra splendido, con l’abisso al tuo pie’, con le madri che allattano, Ei benedice a te. In fin che il desiderio degli Angeli sia pieno, benedetto nei secoli il nome Nazareno.
VIII. Rileggendo l’Epistola ai Romani. A Luigi Luzzatti grato per gli orfani del Mezzogiorno augura il buon anno [1925] G.S. I. “Torna, olivo gentil dai rami infranti nella ricchezza che ti volle Iddio; tornin quei rami, per innesti santi, a portar l’umil fiore e il frutto pio. Altri, già d’olivastro, or tuoi tu vanti nutriti all’onde del divin tuo rio: or gli uni e gli altri in ciel letizïanti senton compìto l’intimo desìo” Israël, m’odi! Ritrovar te stesso puoi, risentir la tua gentil natura sotto il superbo, il vile,il menzognero.
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Ama il tuo Dio: se il Suo paterno amplesso cerchi, l’Uom troverai di lui figura, l’Uom-Dio t’accoglierà nel suo Mistero.
II. M’odi, Israël! Torna ad Elia, che sente (combattendo il Baàl) nella bufera non già, non già nel fulmine presente Dio, ma in una soave aura leggera. Torna al figlio di Jèsai, che si pente della lettera, vile e menzognera e il core umilïato offre e il dolente canto, a Sïon che il venïente spera. Torna a Mosè mitissimo, cui ‘l Dito di Dio scolpì la legge viva in cuore ed ei scolpirla a te nel cuor contese E a Chi la Scala vide in Infinito spòrta, e attenderti in alto il pio Signore che poi le braccia sulla Croce stese.
APPENDICE II Carteggio Saul Israel-Isacco Sciaky-Giulio Salvadori Carte Salvadori 62, ins. 3: Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei.
I. Sciaky a Salvadori Domenica 24 Dicembre 1916 Ill.mo Signor Professore, Nel giorno della Natività del Redentore sia lecito far voti che lo spirito di Lui di carità d’amore aleggi sui potenti della terra, li induca alla pace nella giustizia. Isacco Sciaky
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II. Israel a Salvadori Roma, 20 Maggio 1917 Egregio Professore, Ci rincresce assai di non averla potuto salutare prima della sua partenza per augurarle una pronta e completa guarigione; la preghiamo quindi di scusarci se per tanto tempo non ci siamo fatti vedere. Speriamo tuttavia poter vederci qualche volta laggiù per visitarla e domandarle nello stesso tempo alcuni consigli sul nostro lavoro. A me sembra di essere nato una seconda volta, perché sento che questa per me non è solo la primavera della vita, ma la primavera dell’anima. È stato solo ora a rivelarsi per me tutto quello che era nascosto nel fondo del mio cuore: il patrimonio di fede, di speranza e di dolce entusiasmo che tante generazioni anteriori hanno affermato nella nostra coscienza. No, io non sono isolato in questa vita perché mi sembra di essere vissuto molto prima, nell’essenza della razza, di aver palpitato, come cellula, avente già i principi di una vita futura, nell’anima della stirpe. Io devo ora su questo mondo maturare il mio frutto, e dare quello che la poca forza del mio cuore può dare; domani ritornerò nel grembo della natura e sarò riunito a quello che è passato con i vincoli indissolubili dell’amore. È così che io sento di essere figlio della creazione, il cuore mi si empie di una gioia mistica quando mormoro: «Proteggimi come la pupilla dell’occhio e mi nasconderò all’ombra delle tue ali!» Allora ringrazio Dio di avermi dato un’anima per comprenderlo, per sentirlo e per sentire me stesso. La nostra vera felicità egli l’ha posta in noi, essa è pura semplice e grande: l’amore infinito. È questo amore che ci fa rivolgere gli occhi in alto nel nostro dolore, è il soffio della Sua essenza infinita che asciuga allora le nostre lagrime. Son felice, professore, di aprirle il mio cuore; sento tuttavia di non averle detto tutto; sono così invaso che solo la mia gioia interna può esprimere quello che penso. Le auguro di nuovo una completa e definitiva guarigione e la saluto con sincera affezione Saul Israel Il nostro indirizzo: Passeggiata di Ripetta N° 16 int. 2
III. Salvadori a Israel Mio caro Israel, Sì, è l’amore che La muove a dire col Profeta: Custodiscimi, Signore, come la pupilla dell’occhio, proteggimi all’ombra della tenda, è amore; e l’amore trae con sé e fa trovare tutto quello di cui l’anima nostra ha bisogno. «L’anima nostra è sfug-
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gita, come passero, al laccio dei cacciatori; il laccio s’è logorato e noi siamo stati liberati». Il soffio di Dio, infinito amore, che libera i suoi dalle catene dell’antica servitù, dai pesi della materia, e fa così trovare una nuova Sion, non più ristretta a una angolo della Giudea, ma immensa, non più limitata alla vita e alla sovranità d’una nazione, ma eterna. È questo l’anelito dell’antico Israele, com’è nei Profeti: l’amore farà Loro vedere il mezzo necessario perché questo sia, darà d’accogliere e custodire la Parola che lo spirito di Israele nel suo fondo confusamente desidera e che è luce e virtù necessaria a mettere in pratica la verità che il cuore retto vede e ama, quella della fratellanza umana, l’amore della pura immortale bellezza.
IV. Sciaky a Salvadori Roma 20 maggio 1917 Egregio Professore, Abbiamo avuto il dispiacere di non averla potuta salutare prima della Sua partenza, della quale seppi dal prof. Monaci, al quale Ella ha avuto la bontà di parlare di me. Meritavo io tanto? E la fiducia che Ella ed il prof. Monaci ripongono in me, accrescono di tanto i miei obblighi. Potrò io ad essi tutti e completamente soddisfare? Se inettitudine mia intellettuale non permetta i frutti che alla preziosa Loro guida legittimamente si aspettano, valga a giustificarmi «il lungo studio e l’amore» che mi guida, e mi valga la purità del sentimento della mia coscienza. Poiché Ella, professore, in questa Roma a me ora due volte cara, e come «santa genitrice» d’Italia, nella cui lingua ebbi la fortuna di nascere alla vita dello spirito, e come quella che a me, nell’incertezza dei miei ventun anni, additò la «via di gire al monte»; Ella, professore, in Roma rivelò me a me stesso, rivelò a me stesso la mia coscienza. Quale più grande debito di chi, sballottato per anni d’inesperienza tra ideali diversi, opposti, nutrimento non durevole al suo inesausto bisogno di fede, ideali che dopo un certo tempo morivano, come non rispondenti a ciò che oscuramente s’agitava nella sua propria coscienza, quale più gran debito verso chi a tale coscienza svelò il suo vero essere? E poiché la mia mamma mi permette di dirlo, fu la prima a gioire lacrimosa alla luce che ora rischiara la mia anima, professore, io non posso dimenticare che Ella ha fatto questa luce. E l’Italia, nella quale la mia mamma ha sempre visto la fata nemica che le avrebbe un giorno sottratto l’affetto dei suoi occhi; l’Italia le rende il figlio migliore, la fa piangere di gioia. Professore, mi son permesso di dirLe questo: ma non ci permette Ella di considerarLa da più che…professore? Quando potremo tornare a sentire la Sua parola? Certamente forse solo quest’autunno: ma almeno la Sua salute si rimette presto, ora? Mi permetta di presentare i miei rispetti alla Signorina e a Lei i più fervidi auguri dal Suo aff.mo Isacco Sciaky
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V. Salvadori a Sciaky Caro Shaky, Ella m’ha dato una gran consolazione dicendomi che la Sua Mamma con lacrime gioisce di sentire che l’Italia le rende il figlio migliore. Questo amore Suo e d’Israel [Saul] per l’Italia lontana, e il ritrovare sé stessi nell’Italia presente, mi ricordano l’affetto più profondo e misterioso del core d’un uomo che anch’egli venne qua da terra orientale e riportò le fragranze della solitudine e il senso dell’ineffabile Infinito: N. T.[ommaseo] Vorrei che Ella e Israel leggessero un canto sentito dal Dalmata sulla tomba della sua Madre Slava e scritto nella lingua di Lei: dove si dice: «Una voce possente mi parlava nell’anima e mi sospingeva fuori della patria mia della casa paterna mia, ad attingere e annunziare il nuovo vero, l’amore della retta fraternità e dell’immortale bellezza ». Cosi è: e se la madre Italia ha fatto sentire questa verità ai suoi amanti orientali, le Madri posson esser contente perché questo vuol dire Dio, e quindi gli affetti della natura nella legge e l’onore dovuto al padre e alla madre. Ora se queste cose si sentono, bisogna cercare di metterle in pratica; e se noi non bastiamo, chiederemo l’aiuto di Dio».
VI. Sciaky a Salvadori Roma, 20.VI.917 Egregio Signor Professore, Dobbiamo ringraziarLa della giornata che la Signorina ed Ella ci hanno fatto passare a S. Marinella. Devo dire che per me questa giornata è per me indimenticabile? Nel ritorno, non parlava Israel, né io gli parlai: quando, qui a Roma, uscivamo da casa sua, ci sentivamo sollevati il cuore, sempre; una volta, avevamo parlato, Ella ci aveva parlato, di Antonio Fogazzaro. Pioveva da un mese: usciti sulla via, dopo cinque minuti, già quasi a Torre Argentina ci accorgemmo che c’era il sole! Il sole era anche in noi. L’altra sera, il treno ci portava via; la linea del mare all’orizzonte svaniva, sogno celeste; la serenità del giorno, davanti al mare, era pure indefinibile, e compenetrava di leggera mestizia la nostra anima. Ci lasciavamo trasportare dal treno rapido, senza reagire. Ora, Ella dice, la vita civile impone doveri; è vero, e dalla contemplazione, dobbiamo sempre trarre l’anima alla vita attiva, da Dio, agli uomini. E per questi, lo disse Ella ieri, s’arriva a Dio poiché solo con l’azione uno è degno di Dio. Professore, quando si farà noto il Suo Inno di guerra? Sarà l’inno di guerra vero e potente dei popoli, ai quali l’Italia lo farà sentire; poiché è il cuore dei popoli oggi che sente in sé quello che si aspetta venga proclamato. Bisogna sommergere i tentativi di resistenza delle antiche idee, degli antichi pregiudizi, politici o d’altro genere, che oggi, purtroppo, non si può negare si facciano sentire, e con essi, si sente livore dove non si giustifica, se mai livore è giustificato. Non poco forse verranno scredi-
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tate le ragioni ideali della guerra dell’Intesa, verrà screditata la guerra, che pur ieri si dovette invocare a sanare. Ancora molto si dovrà soffrire, disse Ella avant’ieri, dopo tre anni di guerra già quasi trascorsi, perché la guerra porti i suoi frutti; frutti senza i quali essa sarebbe un delitto; è purtroppo vero, e forse, è bene che così sia, se più durevole perciò sarà il frutto dell’esperienza. Ma nel tempo lungo, bisogna anche battere, bisogna anche dirli la parola che valga un atto, la parola che illumina. E perché Ella confida nei giovani, posso sinceramente io giovane dire qui il mio sentimento? E come anch’io giovane aspetti da Loro la parola? La parola che noi sentiamo eco della nostra vera anima, ma che Loro, al popolo, sanno dire? Quando il Suo inno di guerra sarà di tutti? Lo canteranno i miei, nella mia Salonicco; lo so, Professore. Mi permisi di scrivere una parolina, sulla “Voce d’Italia”, che si pubblica a Salonicco, sulla rivoluzione russa e gli ebrei; mi permisi di dire la parola che è bandiera del giudaismo rinascente: “Israel torni Emanuel”. Ricevetti approvazione da amico, e un altro amico, fratello a me più che amico, mi scrisse commosso che avessi proclamato pubblicamente questa verità. Lo so, Professore, in quella terra che ha visto odi e stragi e incendi, e grida d’orrore ha più d’una volta levate a Dio, in quella terra affranta si sentirà il Suo Inno, l’Inno dell’Italia. Quando quella voce sarà affidata alle ali del canto? Sono stato oggi dal prof. Monaci: anch’egli lavorava, ad un’opera di elementare giustizia, ad un articolo che porta nuova luce sul pensiero dell’Ascoli — sulla questione della Ladinia. Ella che conosce il prof. Monaci può immaginare se la sua prima domanda, quando gli ebbi detto d’esser venuto a S. Marinella, fu «Ha visto Salvadori? Come sta?». E può anche immaginare la sua gioia, nel sapere la buona notizia. Egli passa le vacanze a Roma, così che io avrò un’altra delle guide delle quali in questa Roma ho imparato a non saper fare a meno. Deve lavorare, m’ha detto. Quando si pensi che noi giovani… Hanno ricevuto notizie di Suo fratello? Saremmo felici di sapere il buon esito dell’operazione. La prego di trasmettere i miei rispettosi saluti a Sua sorella e sono sempre Suo devotissimo Isacco Sciaky
VII. Israel a Salvadori Roma, 21 Giugno 1917 Egregio Professore, È nostro dovere ringraziare Lei e la Signorina per la gentilezza eccezionale che hanno avuto per noi lunedì: conserveremo il ricordo di quella giornata fra i migliori della nostra vita, e se come crede lei poco abbiamo visto del paese, abbiamo potuto sentire tutto davanti al mare e vicino a loro. Da quel momento io provo il desiderio di essere poeta come lei per poter mettere in alcuni versi tutto quello che mi vibra nell’anima. Davanti al mare, infatti, ho sentito il mio spirito allargarsi all’infinito, ho sentito vibrare al dolce tremolìo dell’acqua tutta la mia essenza perché allora compresi la
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grandezza di quella vita che il mare raccoglie nel suo seno e l’ho paragonata all’amore sconfinato che mi invadeva. Ecco, mi sono detto, ecco perché solo il silenzio della natura può farci dare le migliori lacrime e il più puro entusiasmo. «Non hanno lingua né parola né si ode la loro voce, ma la loro linea esce dall’infinito…» Non è forse davanti a questo mare a Capharnaum che Gesù sentì più profondamente lo spirito profetico e l’amore che doveva riunire l’umanità in una famiglia immensa? Questo sentimento ha vacillato, è vero, per tanti secoli, ci è sembrato vederlo sopraffatto negli ultimi anni da un freddo scetticismo: ma ora abbiamo il diritto di sperare. Il dolore umano non è sterile, «il dolore di un popolo sono delle vere lacrime» e un giorno sentiremo innalzarsi al disopra delle terre sconvolte, sulle città fumanti la voce del grande profeta: «Consolate, consolate il popolo mio». Non è vero, professore? d’altronde senza questa speranza come potrebbe esistere l’umanità? Prego di offrire i miei ossequi alla Signorina e di credere sempre alla mia profonda affezione per lei Saul Israel
VIII. Israel a Salvadori Roma, 25 Dicembre 1917 Egregio Professore, Questa deve essere per gli ebrei pure una festa poiché Israel deve oramai riconoscere che Gesù è stato il suo più grande profeta. Oggi che con la liberazione di Gerusalemme sorride al popolo martire la speranza del suo riscatto, oggi più che mai io sento che questo deve essere il nostro unico ideale: ritornare alla nostra terra antica e risalire il monte di Sion puri da ogni falsa credenza e da ogni odio ingiusto, e così poter stendere la nostra mano ai fratelli cristiani dicendo: Per l’amore dei vostri martiri e dei nostri, per l’amore del nostro Padre comune, pace su tutta la terra! Non è vero professore? Io mi sento felice quando penso che ho un così grande ideale a cui dedicare la mia vita e ciò che mi infonde speranza è il non vedermi solo. Domani noi saremmo ebrei di razza, di origine, ma cristiani di religione e Israel sarà il Primogenito. «Certamente la salvezza è prossima per quelli che temono il Signore e la gloria durerà sulla vostra terra. La misericordia e la Verità si sono incontrate, la Giustizia e la Pace si sono baciate, la Verità germoglierà dalla Terra. E la Giustizia guarderà nel cielo e il Signore darà i suoi beni e la nostra terra darà il suo germoglio» (Salmo 84 o 85) Questo è il migliore augurio che io possa fare nel giorno della nascita del più
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grande profeta d’Israele e questo augurio va non solo al mio popolo ma a tutta la terra. Mi creda, professore, sempre suo affezionato e voglia presentare a sua sorella i miei profondi rispetti Saul Israel
IX. Israel a Salvadori Parigi, 15 Settembre 1921 203 Rue Lafayette Egregio professore, Per scriverle ho aspettato un momento di calma completa perché è nella pace spirituale che mi si presentano più vive e più efficaci le immagini di coloro che diedero alla mia anima la sua forma definitiva. In questi momenti mi è dolce ritornare al passato e ricordare tutte le trasformazioni avvenute in me e tutte le magnifiche esperienze spirituali acquistate alle quali si associa naturalmente il ricordo del suo pensiero tutto rivolto ad un amore scevro di compromessi. Fu infatti la sua parola, professore, che ebbe una notevole influenza sulla mia formazione spirituale gettandomi nell’anima un seme prezioso che diede germogli fecondi i quali fruttificano a suo tempo: frutti di serenità e di amore. Ricordo che nei primi tempi della maturazione del pensiero, fra le amarezze dei disinganni che la realtà opponeva ai miei sogni ardenti, al mio sentimento generoso, cominciai a dubitare di molte cose belle e lasciai alla ragione fredda e schematica, che nel dubbio trova il terreno più propizio, trasformare questa mia incertezza angosciosa riguardo i più alti problemi etici in una certezza negativa. Fu allora che conobbi due persone che non potrò mai scordare: lei professore, e il professore Buonaiuti; non posso definire l’influenza misteriosa che fu operata sul mio spirito; non so che fibre profonde vibravano con le loro parole; però quello che posso precisare è che dal fondo dell’anima ripullulò una vita che sembrava già sommersa sotto il dubbio e il razionalismo più rigido: cominciai a comprendere in modo preciso come gli autori delle nostre miserie siamo noi stessi e come l’amore ha il potere di rendere il dolore sublime e di trasformare l’odio in pietà; compresi che la vera fonte di pace non è quella giustizia civile che si limita a rendere possibile l’ordine mediante un numero più o meno completo di concessioni reciproche, ma in quella giustizia che riposa in ogni coscienza, in quella divina giustizia che ha per base sicura l’amore: la prima fa che gli uomini si sopportino mentre quest’ultima li rende fratelli. Non è vero professore? è questo che il Nazzareno Gesù si proponeva di compiere della legge divina, inceppata fra gli infiniti rami tortuosi della dialettica religiosa non paga della limpidità e semplicità sublimi del verbo profetico. Se tutti gli uomini sapremo tendere a questa mèta con semplicità di animo e senza superbia, con la sensazione dell’imperfezione materiale e morale di tutti indistintamente allora ci potremo vantare di essere assurti molto al di sopra della bestialità Creda sempre, professore, alla mia profonda affezione e riconoscenza per lei e riceva un cordiale saluto Saul Israel
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P.S. La prego di voler salutare tanto sua sorella da parte mia; se mio vuol fare il piacere di scrivermi il mio indirizzo è questo: Saul Israel – 203 Rue Lafayette – Paris
X. Israel a Salvadori Parigi 30 Agosto 1923 Professore, Lo stato di stanchezza estrema nel quale mi sono trovato dopo aver sostenuto gli ultimi esami speciali e quello di laurea, mi ha costretto a lasciare immediatamente Roma per venire fra i miei a riposarmi; perciò non ho potuto compiere il grato dovere di salutarla. Ma lei che sa come il mio affetto per lei non è in proporzione alle manifestazioni formali può scusarmi facilmente Mi trovo qui da un mese e già mi sento invadere da una profonda nostalgia per Roma; non so quale fascino irresistibile ha esercitato su di me la città e il popolo; ma sento che non posso vivere in un altro ambiente e mi lasci chiamarla la mia patria nonostante il mio passaporto. Chi potrà mai comprendere col cuore prima che colla mente, la tragedia di uno spirito che si sente ovunque chiamato straniero? eppure non può esistere uomo senza patria come non esiste uomo senza padre e senza madre; esistono dei figli abbandonati; i nostri fratelli ci hanno cacciati dalla casa paterna, se ne sono divisa l’eredità fra di loro ed appena ci vogliono accordare l’elemosina di un’ospitalità tollerante! Perché dunque tutti i popoli della terra possono avere un diritto di proprietà sul nostro pianeta e noialtri un semplice permesso di soggiorno concesso spesso con mala voglia? chi potrà o saprà mai comprendere l’atroce ingiustizia e l’assurdità di questa concezione? Creda pure che in questa mia amarezza non c’è odio e se parlo a Lei col cuore aperto è perché so di poter essere compreso. La paura che ha l’uomo di non essere abbastanza furbo lo spinge ad essere estremamente cattivo; questa è una verità che lasciò nella storia tracce di sangue. Ogni uomo o popolo disprezza l’altro o cerca di scrutar i difetti altrui piuttosto che affermare le proprie virtù, sicché siamo più propensi a sapere uno più cattivo di noi che a cercar di diventar buoni. Mi perdoni queste considerazioni poco ottimistiche ispiratemi da fatti in apparenza banali successi giorni fa. Le rinnovo l’espressione del mio profondo affetto e la saluto cordialmente pregandola di salutare pure sua sorella da parte mia Saul Israel 203 Rue Lafayette – Paris
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THE MEDIEVAL LATIN LITURGY OF THE PATRIARCHATE OF JERUSALEM AND THE ORDINAL OF THE HOLY SEPULCHRE (BARB. LAT. 659) The manuscript Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 659 is a late twelfth-century ordinal containing the use of the medieval Latin Patriarchate of Jerusalem. It represents the earliest and liturgically most complete witness to the rite established by the Frankish ecclesiastical community of Jerusalem. Barb. lat. 659’s rubrics provide detailed information on the liturgy of the Mass and Divine Office for the entire annual cursus (temporale, sanctorale). Additionally, the ordinal records information on the canon’s many elaborate processions. The present contribution aims to provide an overview of the liturgy’s history, the manuscript’s contents, and note the distinguishing facets of the Latin Patriarchate’s, rite in order to emphasize the significance of this liturgical source for the broader scholarly community.1 Phases of Development in the Liturgy of the Latin Patriarchate of Jerusalem On 1 August 1099, two weeks after the Crusader’s gain control over Jerusalem, Godfrey of Bouillon establishes a benefice for the sustenance of 20 Latin canons to officiate over the Holy Sepulchre of Jerusalem.2 Besides this foundational act, the early history of the development of the patriarchate’s devotional tradition is complicated by the lack of extant liturgical sources, and a corresponding lack of historical inquiry into their liturgical practices. Scholars such as Bernard Hamilton, Rudolf Hiestand, and Kaspar Elm, among others, discuss the political and economic activities of the patriarchate and clergy in Jerusalem.3 However, it is only in recent 1
I am currently preparing a critical edition of the liturgy of the Holy Sepulchre to be submitted for publication in Spicilegium Friburgense (Academic Press Fribourg). 2 B. HAMILTON, The Latin Church in the Crusader States. The Secular Church, London 1980, p. 14. 3 Cfr. HAMILTON, Latin Church cit.; K. ELM, Das Kapitel der Regulierten Chorherren vom Heiligen Grab in Jerusalem, in Militia Sancti Sepulcri. Idea e institutzioni, a cura di K. ELM – C. D. FONSECA, Città del Vaticano 1998, pp. 203-222; R. HIESTAND, Der lateinische Klerus in den Kreuzfahrerstaaten: Geographische Herkunft und politische Rolle, in Kreuzfahrerstaaten als Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 651-686.
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decades that the liturgical activities of the patriarchate begin to receive more focused attention.4 The development of the liturgy of the Latin patriarchate of Jerusalem is marked by five distinct periods. The first constitutes the years from 1099 to 1114. During this formative time clergy officiating the Latin rite in the Holy Sepulchre were organized as secular canons, most probably following some form of the rule of Aachen (Institutio canonicorum Aquisgranensis).5 Clergy did not live in community, and held private property. No liturgical sources from these years are currently identified. A passage in the Historia of William of Tyre, retelling the canons’ later adoption of the Augustinian Rule, discloses the care the first clergy took when constituting their liturgy. In describing the formation of the second Latin rite of Jerusalem William gives a view on the composition of the first rite: Ordinem quem primi principes studiose et cum multa deliberatione in ecclesia Ierosolimitana instituerant regulares canonicos introducendo commutavit.6
While William is writing long after the period in question (ca. 1170s1184) scholarship need not treat the first decade of the Latin patriarchate with disregard. The religious fervor of the first Crusaders and clergy attending Christianity’s holiest shrine probably translated in their treating multikulturelle Gesellschaft, a cura di H. E. MAYER, Munich 1997, pp. 43-68; W. HOTZELT, Kirchengeschichte Palästinas im Zeitalter der Kreuzzuge, 1099-1291, Cologne 1940. 4 C. DONDI, The Liturgy of the Canons Regular of the Holy Sepulchre of Jerusalem: a Study and a Catalogue of the Manuscript Sources, Turnhout 2004; I. SHAGRIR, The Visitatio Sepulchri in the Latin Church of the Holy Sepulchre in Jerusalem, in Al-Masâq 22 (2010), pp. 57-77; EAD., Adventus in Jerusalem: The Palm Sunday Celebration in Latin Jerusalem, in Journal of Medieval History (forthcoming 2015); A. JOTISCHKY, Holy Fire and Holy Sepulchre: Ritual and Space in Jerusalem from the Ninth to the Fourteenth Centuries, in Ritual and space in the Middle Ages: proceedings of the 2009 Harlaxton Symposium, a cura di F. ANDREWS, Donington 2011, pp. 44-60; C. MORRIS, The sepulchre of Christ and the medieval west: from the beginning to 1600, Oxford 2005; A. LINDER, “Like Purest Gold Resplendent”: The Fiftieth Anniversary of the Liberation of Jerusalem, in Crusades 8 (2009), pp. 31-51; ID., The Liturgy of the Liberation of Jerusalem, in Medieval Studies 52 (1990), pp. 110-131. Cara Aspesi, Cecilia Gaposchkin, Renata Salvarani, John Simon are also currently working on different aspects of liturgy in the Latin East. Cfr. older discussions in C. KOHLER, Un Rituel et un Bréviere du Saint-Sépulcre de Jérusalem (XIIe-XIIIe siècle), in Revue de l’Orient Latin 8 (1900-1901), pp. 382-500; O. BRAUN, Der Palmsonntag in Jerusalem zur Zeit der Kreuzzüge, in Historisch-Politische Blätter für das Katholische Deutschland 171 (1923), pp. 497-512; B. ZIMMERMAN, Ordinaire de l’Ordre de Notre-Dame du Mont Carmel, Paris 1910. 5 M. A. CLAUSSEN, The Reform of the Frankish Church: Chrodegang of Metz and the Regula Canonicorum in the Eighth Century, Cambridge 2004. 6 WILLIAM OF TYRE, Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, a cura di R. B. C. HUYGENS, I, Turnhout 1986, XI: 15, p. 519; cfr. DONDI, Liturgy cit., p. 60.
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the liturgy with special care. William’s statement, if very indirectly, evidences a trace of the thought given over to the first rites celebrated by the clergy.7 While the liturgical creativity of the first Latin clergy must have been great, apparently in the eyes of successor patriarchs, their daily service to the Holy Sepulchre were either deemed poor, or had significantly declined after their institution. The second period of the Patriarchate’s history, ca. 1114-1145, begins to unfold when Gibelin became patriarch of Jerusalem (1108-1112).8 Prior to his tenure as patriarch, Gibelin was archbishop of Arles, a region where the Augustinian reform first took root.9 Gibelin’s proclivity for this reform is attested through his unsuccessful attempt to institute the Augustinian rule.10 This was completed in 1114 when Arnulf of Chocques successfully returned to officiate as patriarch of Jerusalem (1099, 1114-1118). Much like his predecessor, Arnulf was steeped in the reform movements of the time.11 His reasons for reforming the clergy of Jerusalem were the following: Novos quippe incolas dominici oblitos precepti, de die in diem plus et plus corrupit; qui minores nichili reputans, ad clerum etiam transcendit, et suis prestigiis agitans, sibi mancipavit; quem enim decebat ut devotior Deo existeret et bonum de se exemplum minoribus preberet, proh dolor! Voluptati carnis magis inservivit et honorem suum modis incredibilibus polluere non dubitavit.12
The state of the clergy’s care over the Holy Sepulchre, and their lack of self-discipline impels Arnulf to institute a change. Arnulf presents the reform of the clergy as a means of correcting their disciplinary problems, and restoring his view of what the proper devotional cult to the Holy Sepulchre should be.13 The weight given to the proper care of the liturgy, and 7 Cfr. P. D. HANDYSIDE, The Old French Translation of William of Tyre, PhD diss., Cardiff University 2012, pp. 92-93. 8 HAMILTON, Latin Church cit., pp. 52-86. 9 Y. VEYRENCHE, Quia vos estis qui sanctorum patrum vitam probabilem renovatis’. Naissance des chanoines réguliers, jusqu’à Urbain II, in Les chanoines réguliers: émergence et expansion (XIe-XIIIe siècles); actes du sixième colloque international du CERCOR, Le Puy en Velay, 19 juin – 1er juillet 2006, a cura di M. PARISSE, Saint-Étienne 2009, pp. 29-70; ID., Chanoines réguliers et sociétés méridionales. L’abbaye de Saint-Ruf et ses prieurés dans le sud-est de la France (XIe-XIVe siècle), PhD diss., Université Lumière-Lyon 2, 2013. 10 Le cartulaire du chapitre du Saint-Sépulcre de Jérusalem, a cura di G. BRESC-BAUTIER, Paris 1984, docs. 20, 25, pp. 76, 85-86. 11 Arnulf became familiar with the ideals of the Benedictine reform while a student of Lanfranc. 12 BRESC-BAUTIER, Cartulaire cit., doc. 20, p. 76. 13 Ibid., doc. 20, p. 76: Defuncto enim predecessore meo domno Gibilino, ego Arnulfus, omnium Jherosolomitanorum humilius a rege, clero et populo in pastore electus et patriar-
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its efficaciousness through performance further underscores the special attention the liturgical creativity of the Latin patriarchate deserves.14 The liturgy written between the institution of the Augustinian reform and the subsequent period of liturgical activity is witnessed in the Angelica Sacramentary-Gradual (Rome, Bib. Angelica, ms. 477-Cambridge, Fitzwilliam Museum, ms. McClean 49) and to a lesser extent, the Melisende Psalter (London, Brit. Lib., ms. Egerton 1139).15 The Angelica SacramentaryGradual is a composite liturgical manuscript containing the prayers of the celebrant along with the chants of the choir. It was most probably created between the years 1132-1140, and in the possession and use of Patriarch William of Malines (1130-1145). The third period of liturgical activity in the patriarchate occurs in response to the fiftieth anniversary of the capture of Jerusalem by the Franks, on 15 July 1149 and onwards. At this time, during the tenure of patriarch Fulcher of Angoulême (1145-1157), the entire rite undergoes a revision of its contents. The compound effects of the failure of the Second Crusade, with the fiftieth anniversary of the capture (or liberation) of Jerusalem signal that the rebuilding of the Holy Sepulchre edifice held special significance for Patriarch Fulcher and his clerical community. The introduction of the ordinal signals a deep rethinking of its liturgy took place: Incipit breviarium adbreviatum, idest quodam excerptum de pluribus libris, secundum antiquam consuetudinem institutionum ecclesie dominici sepulcri, partim secundum novam [consuetudinem] legendi et canendi in eadem ecclesia, sicuti patres antique et priores predicte ecclesie valde probabiles viri communi assensu, parique voto et bona discretionem simpliciter ordinaverunt, ac nullo contradicente, firmitur tenere et habere pariter decreverit. Si autem aliquid hic de predictis consuetudinibus quid scriptum non fit defuerit in fine libri huius queratur.16 chali honore sublimatus, anime mee periculum metuens eorumque animabus mederi cupiens, criminibus eorum diutius consentire nolui, quos correctione paterna ut vitam suam corriugerent multociens ammonui. Monebam enim ut communiter viventes vitam apostolicam sequerentur, et [pro] regula beati Augustini vita eorum canonice regeretur, ut Domino Jhesu Christo eorum devotius placeret servicium et nos cum eis in eterna gloria repirememus premium. 14 I. ROSIER-CATACH, La Parole efficace. Signe, rituel, sacré, Seuil 2004. 15 The source McClean 49 is taken from folios 70r-83v of the Angelica manuscript and contains the lavishly illuminated canon of the mass. The Jerusalem Sacramentary (Paris, Bib. nat., ms. Lat. 12056, ca. 1230s), while basing its liturgy on the Angelica, shows significant changes which I am currently studying. Since the so-called Melisende Psalter was made for private devotional use, its utility for informing the liturgy of the patriarchate requires cautionary use. 16 Barb. lat. 659, f. 26v; cfr. DONDI, Liturgy cit., p. 48; KOHLER, Un rituel cit., p. 397. Barletta, ms. s/n, f. 25r. N.B.: Kohler’s foliation of the Barletta ms. takes into account the first
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On its own, this introductory statement might not clearly identify when this revision of the liturgy occurred. However, as Charles Kohler points out, and my current work underscores, the revisions took place during the Patriarchate of Fulcher of Angoulême.17 The liturgical revisions were both intended to clarify the praxis, and explicitly intended to coincide with the spiritual renovation promulgated through the rededication of the Holy Sepulcher in 1149. Another confirmation of the liturgical revisions enacted at this date is seen when comparing the proper chants of the Angelica Sacramentary-Gradual and with those of Barb. lat. 659. My current investigations identify many significant changes in the choice of Mass propers and tropes. At this time, much like in 1114, a push to restructure and unite the devotional life of the Latin East took place. The ordinal Barb. 659 is thus a significant witness to an important moment in the liturgical praxis of the Latin Patriarchate of Jerusalem. The fourth period influencing the liturgical tradition of the patriarchate commences with the loss of Jerusalem in 1187. If the period 1114 to 1187 is characterized by the patriarchate’s implementation of normative measures to standardize the liturgical practices in the patriarchate, the physical relocation of the Holy Sepulchre canons and the clergy of their dependent churches to Acre mark a period of liturgical heterogeneity. During the Second Kingdom of Jerusalem (1191-1291) the new social-geographic conditions position the Patriarchate of Jerusalem in a situation where they are less able to control the many concurrent liturgical rites being officiated in Acre.18 One consequence of this is witnessed by the suppression of the Liberation of Jerusalem festivity by the clergy of the Knights Templar.19 Due to the varied nature of extant sources, mostly belonging to the Cathedral of Acre and churches not following the rite of the patriarchate, this period requires much investigation.20 The Pardouns d’Acre demonstrates the presnine folios which are additions to the manuscript. The current folio number refers to the current foliation which excludes these additions. In general, when referring to the actual manuscript, one needs to subtract 10 page-numbers from Kohler’s indications. 17 S. SALVADÓ, The 1149 Rededication of the Holy Sepulchre, Patriarch Fulcher, and Jerusalem’s Liturgical Renovation, article under review. 18 Cfr. S. SALVADÓ, Liturgy of the Holy Sepulchre and the Templar Rite: Edition and Analysis of the Jerusalem Ordinal (Rome, Bib. Vat., Barb. Lat. 659) with a Comparative Analysis of the Acre Breviary (Paris, Bib. Nat., Ms. Latin 10478), PhD diss., Stanford University, 2011, pp. 260-460. These chapters discuss different changes to the liturgy after the loss of Jerusalem in 1187. 19 S. SALVADÓ, Reflections of Conflict in Two Fragments of the Liturgical Observances from the Primitive Rule of the Knights Templar, in The Military Orders 6: Culture and Conflict, a cura di J. SCHENK, Surrey, forthcoming 2015. 20 SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 40-140.
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ence of at least forty churches in Acre, most of which are celebrating the liturgical traditions of their place of origin (e.g., Pisa, Venice, etc.).21 The liturgical organization of Acre, and its impact on the liturgies practiced there need to be considered in light of William of Agen’s election in 1262 as the patriarch of Jerusalem and Bishop of Acre.22 My ongoing analysis of the Barletta Ordinal (Barletta, Arch. della Chiesa del Santo Sepolcro, ms. s.n) entails noting some of the differences effected to the liturgy at the time of its writing, ca. 1200-1220.23 With this source can be added the Acre-Jerusalem Sacramentary (London, Brit. Lib., ms. Egerton 2902.) most probably written ca. 1225-1228 during the patriarchate of Gerold (1225-1239) when Latin clergy had access to the Holy Sepulchre (1228-1244).24 The only other thirteenth-century source instructive to the rite of the Holy Sepulchre is the Templar Acre Breviary (ca. 1230s, Paris, Bib. Nat., ms. Lat. 10478). This manuscript transmits the Psalter and the liturgy for the entire annual cursus with all chants, office readings, and prayers written out in full.25 The loss of Acre in 1291 demarcates the final stage in the development of the liturgy of the Holy Sepulchre.26 After these events, the move to Cyprus and the relationship with the patriarchate’s many continental dependencies mark an important period for its rite. The sources from this period, along with the many, yet to be identified, continental manuscripts, promise an significant perspective on how this distinct liturgy evolved both in Cyprus and in the Western dependent houses of the order of the Holy Sepulchre.27 Initial investigations point towards an expansion of devotion to local saints.28 However, questions concerning how the liturgy of the Holy Sepulchre in Cyprus is affected by its new context remain to be further elucidated.29 Additionally, and important for the liturgy’s impact on the 21
Ibid., pp. 415-452. HAMILTON, Latin Church cit., pp. 299-309. The ecclesiastical organization of the city was changed after 1262 when the roles of patriarch of Jerusalem and bishop of Acre were consolidated with the election of William, former bishop of Agen, cfr. HAMILTON, Latin Church cit., p. 271. 23 I would like to sincerely thank Mons. Leonardo Doronzo of the Basilica of the Holy Sepulchre in Barletta for giving me the invaluable access to this source. I would also like to thank Prof. Iris Shagrir for been instrumental in facilitating my access to this source. 24 DONDI, Liturgy cit., p. 84. 25 For a discussion of extant sources identified by Dondi and their relation to the liturgy of the Patriarchate of Jerusalem, cfr. SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 40-140. 26 DONDI, Liturgy cit., pp. 67-90; SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 359-414. 27 DONDI, Liturgy cit., pp. 91-102. The sources of the monastic order of the Holy Sepuclhre are a rich trove necessitating identification, cataloging, and examination. 28 DONDI, Liturgy cit., pp. 103-105. 29 Dondi’s discussion of the calendar is already a very useful inception of this research, cfr. DONDI, Liturgy cit., pp. 103-105. 22
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continent, is to ask if and how the celebration of the Jerusalem rite on the continent effects local traditions in any way.30 Ownership, Manuscript Description, Contents A notice in the opening folios of Barb. lat. 659, dated to 1133, stipulates the obligations that the churches of the Holy Sepulchre, Templum Domini, Mount Sion, and Mount of Olives were to carry out when one of their canons died.31 The inclusion of this document in Barb. lat. 659 attests to the close relationship between the canons of the Holy Sepulchre and those of the Templum Domini church. Additionally, and further emphasizing the relationship between these churches, is the funerary ordo for a dead canon of the Holy Sepulchre, placed immediately preceding the above-mentioned agreement.32 At the time these documents were written, between 1130 and 1136, the canons of the Holy Sepulchre officiated the liturgy for the Knights Templars, whose central commandery was located at the Templum Salomonis church on the Temple mount. This clerical relationship is echoed in the Primitive Templar rule (written ca. 1129) where it stipulates the military brethren were to follow the liturgy of the Holy Sepulchre.33 Only after 1139 are the Templars allowed to officially incorporate this clergy as formal brethren of their own order.34 Thus, the ordinal Barb. lat. 659 witnesses the close ecclesiastical coordination between the dependent churches of the Holy Sepulchre before the loss of Jerusalem in 1187. 30 S. SALVADÓ, Commemorating the Rotunda in the Round: The Medieval Frankish Liturgy of the Holy Sepulchre and its Performance in the West,” in Tomb and Temple: Reimagining the Sacred Buildings of Jerusalem, a cura di E. FERNIE – R GRIFFITH-JONES, Woodbridge, forthcoming 2015. 31 SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 482-483: Barb. lat. 659, ff. 12v-13r; cfr. KOHLER, Un Rituel cit., pp. 433-34; BRESC-BAUTIER, Le cartulaire cit., app. 3, pp. 351-352. 32 KOHLER, Un Rituel cit., pp. 433-34; BRESC-BAUTIER, Le cartulaire cit., app. 2, 349-50. 33 The Rule of the Templars. The French Text of the Rule of the Order of the Knights Templar, traduzione ed edizione a cura di J. UPTON-WARD, Suffolk 1992, pp. 11, 21-22. However, this practice was not strictly followed in all Templar commanderies, especially those on the Continent, cfr. S. SALVADÓ, Templar Liturgy and Devotion in the Crown of Aragon, in On the Margins of Crusading – The Military Orders, the Papacy and the Christian World, a cura di H. NICHOLSON, Surrey 2011, pp. 31-44; C. DONDI, La Liturgia del Santo Sepolcro di Gerusalemme: origine, adozione da parte degli ordini religiosi (e militari), e soppravvivenze, in We sing a hymn of glory to the Lord. Preparing to Celebrate Seven Hundred Years of Sibert de Beka’s Ordinal, 1312-2012. Proceedings of the Carmelite Liturgical Seminar, Rome, 6-8 July 2009, a cura di K. ALBAN, Rome 2010, pp. 71-83; ID., Manoscritti liturgici dei templari e degli ospitalieri: le nuove prospettive aperte dal sacramentario templare di Modena (Biblioteca capitolare O.II.13), in I Templari, la guerra e la santità, a cura di S. CERRINI, Rimini 2000, pp. 85-131. 34 The bull Omne datum optimum, issued by Innocent II in 1139, allowed the Templars to choose their chaplains as they wished; H. NICHOLSON, The Knights Templar: A New History, Stroud 2001, p. 137.
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Barb. lat. 659 is copied between 1173 and 1187 specifically for use by the Knights Templar, and most probably sometime in the mid 1170s. The inclusion of rubrics from the Templar’s liturgical stipulations in the ordinal by the original main hand of Barb. lat. 659 identifies this military order as the owners of the manuscript. As I discuss in an analysis of the text, the passage is a practical-oriented reformulation of chapters seventy-four to seventy-six of the Primitive Rule.35 The order of the stipulations concerning the feasting and fasting days Templar brethren were to observe are reformulated in the Barb. lat. 659 version to reflect their order in the liturgical calendar. This new organization facilitates their use by the celebrant who was to help enforce the brethren’s religious observations.36 The date of the manuscript’s creation is approximated through the calendar and the body of the ordinal: The calendar contains an entry in the original hand for the feast of Thomas Becket (Dec. 29), yet there is no mention of his commemoration in the main of the manuscript, and the collects for this martyr’s Mass are added by a different, and posterior, hand at the end very of the manuscript.37 A second, near contemporary twelfth-century hand introduces the feast of St Bernard of Clairvaux (Aug. 20) in the calendar, and is not accompanied by any posterior additions of liturgy.38 Hands datable to this period add no other entries for saints canonized in the twelfth century. The paleographical features of the writing, comparable to other sources from the Latin East, further substantiate its twelfth-century origin.39 Liturgical differences between Barb. lat. 659 and the Templar’s Acre Breviary (Paris, Bib. nat., ms. Lat. 10478) suggest that the ordinal was copied before the loss of Jerusalem in 1187.40 The liturgical content of Barb. lat. 659, however, was formulated earlier. Indications such as the above-quoted breviary prologue, the lack of Thomas Becket or St Bernard’s liturgy in the body of the ordinal, and the profusion of quotes explicitly referring to the reform work of Patriarch Arnulf of Angoulême (1145-1157), and the liturgical differences between the Angelica Sacramentary-Gradual, all support dating the writing of this 35
Cfr. SALVADÓ, Reflections of Conflict cit. If copied in the scriptorium of the Holy Sepulchre, this facet also evidences close cooperation between the two clerical communities. 37 SALVADÓ, Liturgy cit., p. 281. Barb. lat. 659, ff. 6v, 139r. 38 SALVADÓ, Liturgy cit., 68. The liturgies for Ss Thomas Becket and Bernard of Clairvaux (both containing proper liturgical material) found into the Acre Breviary (Paris, Bib. nat., ms. lat. 10478) demonstrate that devotion to these saints entered early in the history of their cult. Thomas Becket becomes part of the calendar of the Holy Sepulchre, while St Bernard is only celebrated by the Knights Templars. 39 DONDI, Liturgy cit., p. 64. Liturgical differences with the Barletta Ordinal and the Templar Breviary of Acre further confirm this dating. 40 SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 260-358. 36
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newly revised liturgy during Fulcher’s patriarchate. The new ordinal for the Holy Sepulchre was edited to coincide with the rededication of the church of the Holy Sepulchre between the years 1149 and 1153.41 While scholarship justifiably focused on the thirteenth-century Barletta ordinal, in large part due to Kohler’s partial edition, Barb. lat. 659 and the Angelica Sacramentary-Gradual are, from the perspective of sources illustrating praxis, the most representative liturgical witnesses of the patriarchate’s twelfth-century rite.42 The ordinal Barb. lat. 659 is nearly complete and contains no major lacunae. Only one folio (what would have been fol. 10r-v) is missing, and affects portion of the computation table.43 The ordinal is written throughout in the same twelfth-century hand. Twelve additional twelve- and thirteenth-century hands are present in Barb. lat. 659. These represent the additions to the calendar, a chant, and above-mentioned Thomas Becket collect at the end of the folio. In the calendar there are entries for the first through seventeenth Templar Grand Masters, while entries for the 2, 3, 6th appear to be lacking.44 The inclusion of an obiit notice to the calendar for the seventeenth Templar Grand Master Richard of Bures attests the use of this ordinal until at least 1247.45 Rubrics alternate between black and red ink. An illuminated initial is present at the opening of the ordinal on folio 10r.46 Some erasures and omissions of text are present, but are generally very few. The ordinal is written on parchment (ca. 280 mm × 195 mm) and organized in eighteen gatherings as follows: 110, 2-178, 1810. Barb. lat. 659’s contents divide in four rough sections: The opening Kalendar (ff. 1r-6v) gives way to: Computistical tables and rubrics for finding 41
SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 14-39; ID., The 1149 Rededication cit. The Barletta ordinal does not appear to be a manuscript copied for practical everyday liturgical use. It is liturgically disorganized and incomplete (e.g., lacking the sanctorale for first half of year), and combines sections of the Barb. lat. 659 ordinal with incomplete portions of a sacramentary, collectar, hymnal, and rituale. While this source is perhaps the single-most complex and richest witness of the rite, it commands a corresponding conscientious use. 43 Current foliation does not take this lacuna into account. 44 These omissions might be the result of illegible entries, since there appear to be traces of entries pertaining to obit notices that are illegible. 45 Barb. lat. 659, f. 3r (May 9); J. BURGTORF, The Central Convent of Hospitallers and Templars: History, Organization, and Personnel (1099/1120-1310), Leiden 2008, p. 125; M. L. BULST-THIELE, Sacrae domus militiae Templi Hierosolymitani magistri: Untersuchungen zur Geschichte des Templerordens, 1118/19-1314, Göttingen 1974, pp. 211-215. 46 In addition: f. 8r contains a computational wheel; f. 79r a line drawing of the bust of Christ (positioned at the bottom of the page, under the liturgy for the Octave of Easter); from f. 124v (commencement of the Gradual portion of the manuscript) each Introit receives a larger embellished initial; H. BUCHTHAL, Miniature painting in the Latin kingdom of Jerusalem. With liturgical and paleographical chapters by Francis Wormald, Oxford 1957, pp. xxx, 21-22, 107. 42
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dates of movable feasts (f. 7r); a Templar Rule fragment relating to feasts the military brethren are to observe (f. 7v); Computistical tables and rubrics, continued (f. 7v); Ordo of prayers for a sick canon (f. 10r); Agreement between churches in Jerusalem to aid in a canon’s funeral, ca. 1130-1136 (f. 12v); A constitution from 1133 regarding a canon’s funeral (f. 13r); Ordo for reading and singing in the Holy Sepulchre (f. 14r); Rubrics for the induction of canon (f. 16r); Customs for reading in the refectory (f. 18r). After this section the Ordinal section commences the Temporale: Rubrics for celebrating the commemoration of the Resurrection (f. 18r); the above-quoted prologue to breviary — Advent (f. 26v); Christmas (f. 32v). Then the following is intercalated: Graduale de temporis (f. 46v); Graduale de sanctis (f. 46v); Sanctorale hiemalis (f. 47r). Hereafter the Temporale continues: Septuagesima (f. 54v); Quadragesima (f. 56v); Palm Sunday (f. 64v); Easter (f. 75v); Sanctorale (f. 81v); Temporale (f. 85v); Ascension (f. 87r); Pentecost (f. 90r); Trinity Sunday (f. 91v); Post-Pentecost Season (f. 92v). Characteristic of the Advent and Winter Temporale is the inclusion of saints’ feasts interspersed in the rubrics. The third and fourth sections of the manuscript treat the summer Sanctorale and Graduale. Sanctorale aestivalis: June (f. 96v); July (f. 100v); August (f. 103v); September (f. 109r); October (f. 112v); November (f. 114v); December (f. 119r); Common offices (f. 120r). Graduale for Easter Sunday onwards (f. 124v); Graduale aestivalis de sanctis (f. 131r); Graduale Common offices (f. 138r); Additions (f. 139r). As this overview of the ordinal’s contents demonstrates it is clearly a carefully organized and copied source intended to faithfully transmit the rite of the patriarchate of the Holy Sepulchre. The clear sections for properly calculating Easter, the ecclesiastical documentation attesting to the clerical obligations between churches, along with the rubrics stipulating readings all emphasize the pastoral and practical impulse behind the creation of the ordinal. The above-quoted prologue indicates that the present liturgy was carefully examined and composed to avoid any conflicts or errors in its proper celebration. Prior Scholarship Given the importance of the Holy Sepulchre in Christian devotion it is surprising that the body of scholarship on its Latin liturgy is not broader than it currently is.47 The work of Cristina Dondi represents the most exhaustive inquiry on the corpus of extant liturgical manuscripts, the broad 47 The study of Carmelite liturgy, given that their first rite was that of the Holy Sepulchre, has indirectly examined the Jerusalem rite, cfr. ZIMMERMAN, Ordinaire de l’Ordre cit.
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liturgical traditions constituting the rite, and on the protagonists responsible for the writing of the liturgy of the Holy Sepulchre.48 The present author’s work, representing a continuation of Dondi’s study, is currently engaged in a critical edition of the liturgy of the Holy Sepulchre. The following observations represent a brief summary of Dondi’s findings. These observations will be emended and expanded in the commentary of the critical edition. The canons of the Holy Sepulchre originated from various parts of Europe, yet excepting for Daimbert of Pisa (1099–1102, 1105) and William of Malines (1130–1145) the patriarchs tended to be of north-French origins.49 It is no surprise to find the liturgy employing chant cycles and repertoires organized according to rites from these regions. However, in contradistinction to Dondi’s inadvertent presentation of the Holy Sepulchre rite as a patchwork-like compilation of liturgy from different dioceses, my present investigations underscore the concerted liturgical compositional activity of the patriarchate.50 The liturgy of the Holy Sepulchre is its own distinct Latin rite, with its own devotional identity reflecting its celebration in Jerusalem, and thus, without direct parallels. It was not copied wholesale from any one Western European diocese. What is used from different traditions was incorporated with the aim of crafting a suitable devotional message for the Latin rite of Jerusalem. Dondi analyzes various factors in order to see the liturgical traditions influencing the rite of the Holy Sepulchre: She examines the calendar, the series of Sunday Matins responsories for Advent, the Triduum Sacrum, and the Alleluia verses of the Sundays after the octave of Pentecost. She then examines the responsory series of Matins for the offices of All Saints (Nov. 1), All Souls (Nov. 2), and the office of the dedication of the church. Finally, and not discussed herein, she examines the daily office of the Virgin Mary. The choice of these points of analysis stems from comparative examinations of liturgical traditions carried out by prior scholars.51 The following is a summary of Dondi’s comparison of these findings against Latin East sources: The series of Advent Sunday Matins responsories is proper to the Holy Sepulchre, yet the series for Evreux, Paris, and Senlis are closely related.52 The corresponding series from the Barletta ordinal, 48
DONDI, Liturgy cit. HAMILTON, Latin Church cit.; ELM, Das Kapitel cit.; SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 19-20; DONDI, Liturgy cit., pp. 37-60. 50 The forte of Dondi’s analyses are their confirming the influential role the devotional traditions of north-East France had on the liturgy of the Holy Sepulchre. 51 DONDI, Liturgy cit., pp. 103-104. 52 Ibid., pp. 106-110; Evreux: Paris, Bib. nat., ms. Lat. 1270; Paris: Paris, Bib. nat., ms. 49
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presents a few small differences. This latter facet is related to liturgy written in 1149 often providing the celebrant and cantor a choice between various pieces. In the latter Holy Sepulchre sources decisions have often been made, with the remaining chants originally found in Barb. lat. 659 not included in the newer source. The responsory series for the Triduum Sacrum are again proper to the Holy Sepulchre, and are most similar to the use of Chartres.53 Dondi’s analysis of post Pentecost Alleluia verses of the Mass similarly reveals that the series is proper to the Holy Sepulchre, and yet still related to the uses of Chartres, Evreux, and Senlis.54 Demonstrating the thorough compositional activity of Jerusalem’s Latin clergy, data concerning the feast All Saint’s day (Nov. 1) divulges that the office is modeled on a form also occurring in Sées and York.55 The series for the responsories and verses of the office of All Soul’s day (Nov. 2) is related to the rites in the diocese of Rouen, and most specifically the liturgy as practiced in Bayeux.56 Finally, the analysis of the responsory and verse series of the Matins portion of the dedication of the church celebration demonstrates a close affinity to that found in the use of Chartres.57 While these analyses demonstrate a clear inheritance from northFrench liturgical practices, they do little, if not the opposite, to underscore the compositional activities of the Holy Sepulchre canons. The liturgical practices of the clergy’s ‘home’ dioceses are clearly the reference points for the Holy Sepulchre tradition, yet no single office celebrated in Jerusalem directly copies a continental source. Examining the series of responsories for these select cycles hides the variations related to the choice of antiphons, collects, hymns, and lessons; all areas where clergy tailor the message of an individual office to better express their community’s religious ideals. The study of Mass propers and how they engage with the Divine Office liturgy, currently being undertaken for the critical edition, points to further evidence illustrating how the Latin rite of Jerusalem is particularly Lat. 1023; Senlis: Paris, Bib. nat., ms. Lat. 10480. The rite of the Holy Sepulchre generally differs from continental traditions by its ordering of chants in the office, or in its choice of repertoire. 53 DONDI, Liturgy cit., p. 111. Chartres: Paris, Bib. nat., ms. Lat. 1794. 54 DONDI, Liturgy cit., pp. 113-118. 55 The liturgy is not an exact copy, but always slightly modified for the Jerusalem rite. DONDI, Liturgy cit., p. 119: Sees: Paris, Bib. nat., ms. Lat. 12036; London, Brit. Lib., ms. Stowe 12; London, Brit. Lib., ms Royal 8.B.III. York: Oxford, Bod. Lib., ms. Gough Missals 36; Oxford, Bod. Lib., ms. Laud. Misc. 84; London, Lamb. Pl. Lib., ms. Arc. L. 40.2/L.1; cfr. Barb. lat. 659, ff. 114r-115r. 56 DONDI, Liturgy cit., p. 123. Bayeux: Paris, Bib. de l’Arsenal, ms. 279; Bayeux, Bib. Chap., ms. 121; Bayeux, Bib. Chap., ms. 119. 57 DONDI, Liturgy cit., p. 127.
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distinct from other Western Christian liturgical uses. This distinctness is clearly not in the newness of liturgical texts, but rather, in their choice and organization. The large-scale devotional facets of the Jerusalem rite are made patent in the following sections, touching on distinctive aspects of the Latin liturgy of Jerusalem form the Temporale, Sanctorale, and the canons processional activities. Temporale The following aims to provide a succinct overview of some of the defining characteristics of Jerusalem’s temporale. The central devotional facet of the Latin clergy’s annual cursus is the celebration and commemoration of Easter. In the nuanced relationship with the other movable feasts, the Resurrection of Christ reverberates in important ways in nearly the entirety of the year. This devotional feature is approximated through the examination of the Commemoration of Easter held the Sunday before Advent, and in the post-Pentecost season. Later discussion of the processions continues to support and express this facet of Jerusalem’s Latin rite. Rubrics opening the liturgical texts of the manuscript indicate that previous to the commencement of Advent, the clergy of the Holy Sepulchre commemorate anew the Lord’s Resurrection. Placed so at the opening, and preceding the Advent rubrics (which normally signal the commencement of the liturgical year), the celebrations of Easter are placed as a point of liturgical departure. They form a nexus between the end of the year and the commencement of the next, forming an important devotional preface to the theology of Advent. Rubrics make clear the conscious choice by Jerusalem’s clergy that, in contradistinction to those continental practices that re-commemorate the Trinity on the Sunday before Advent, the clergy of the Holy Sepulchre do something different: In anno quo commenmoratio ressurectionis dominice evenerit XII kalendas Decembris, scilicet illa dominica ante Adventum Domini que alii fatiunt de Trinitate, nos autem in ecclesia Dominici Sepulcri, ob gloriose Resurrectionis eiusdem reverentiam, in ipsa dominica eande gloriosam sollempnitatem sicut in die Pasche recolimus.58
This passage illustrates the clergy’s awareness of the distinct nature of their commemoration and of their corporate devotional difference to Western European practices. The nature of this commemoration is such that the entire week preceding Advent Sunday receives proper liturgy and spe58
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cial rubrics. These stipulate what Masses are to be celebrated depending on when the Commemoration of the Resurrection Sunday occurs. Thus, rubrics are structured similarly to those which help the cantor navigate the liturgical order of Advent, with the corresponding adjustments to the liturgy, depending on the day of the week Christmas is celebrated.59 The following table (cfr. Table 1) outlines the weekly major Masses from Commemoration of the Resurrection Sunday to Advent Sunday. Table 1: Major Masses for the weekdays between the Commemoration of the Resurrection Sunday and Advent Sunday. Barb. lat. 659, ff. 18r-25v If the Sunday Commemoration of the Resurrection is celebrated on: November 20: Feria II (missa matutinalis): Pro defunctis; Feria VI: de Cruce. November 21: Feria II: de Cecilia; Feria III: de Clemente; Feria IIII: de Grisogoni; Feria V: de Petri Alexandrini; Feria VI: de Cruce; Sabbato: de BVM. November 22: Feria II: de Cecilia; Feria III: de Grisogoni [sic]; Feria IIII: de Petri Alexandrini; Feria V: de Dominica; Feria VI: de Cruce; Sabbato: de BVM. November 23: Feria II: de Clemente; Feria III: de Petri Alexandrini; Feria IIII-V: de Domenica; Feria VI: de Cruce; Sabbato: de Saturnino. November 24: Feria III-V: de Dominica; Feria VI: de Saturnino; Sabbato: de Andree. November 25: Feria II-IIII: de Dominica; Feria V: de Saturnino; Feria VI: de Andree; Sabbato: de BVM. November 26: Feria II: de Dominica; Feria III: de die; Feria IIII: de Saturnino; Feria V: de Andree; Feria VI: de Cruce; Sabbato: de BVM.
The majority of Masses celebrated during ferial days correspond to that of the saint’s feast day, while the Friday and Saturday Masses follow the custom of votive commemoration celebrating the Cross and the Virgin Mary. These aspects in isolation are not necessarily remarkable. However, starting from November 22rd rubrics introduce a more varied and continued celebration of Sunday Mass during ferial days, which often supersede a saint’s feast day. The most notable example is the case when the Commemoration of the Resurrection Sunday falls on November 25 (St Catherine’s feast day): On this date the ferial days of Monday to Wednesday are to celebrate the Sunday Mass, Thursday and Friday are conferred to
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For a clear example of these rubrics, and which are structured very similarly to the Holy Sepulchre’s commemoration of the Resurrection, see the ordinal of Chartres: L’Ordinaire chartrain du XIIIe siècle, a cura di Y. DELAPORTE, Chartres 1953, pp. 75-85.
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the Saint’s liturgy, and Saturday previous to Advent Sunday celebrates the major Mass in commemoration of the Virgin Mary. The liturgy for the Divine Office on the Commemoration of the Resurrection Sunday merits special attention.60 While none of the chants are newly composed, their configuration in this office illustrates the nature of the clergy’s devotional planning in the rite of the Holy Sepulchre. Its placement as a termination and commencement point of the annual cursus is revealed by the choice of liturgy recited. This feast represents a newly composed office based on Easter-day chants, yet augmented to three Nocturns.61 In addition, the feast receives a proper first and second Vespers, a proper compline, proper liturgy of the lesser Hours, and proper minor and major Masses. Some aspects, like Lauds are nearly identical repetition of Easter-day liturgy. An overview of the liturgy of First Vespers, Matins, and Lauds affords a clear understanding of the larger liturgical structures embedded in this commemoration (cfr. Table 2). Table 2: Office for the Commemoration of the Resurrection Sunday. Barb. lat. 659, ff. 18r-19r Brackets “[…]” indicate source of chant in the liturgy of Barb. lat. 659.
[Sabbato, vigilia commemoratio Resurrectionis] [Ad primas Vesperas] Epistola Christus resurgens Resp. Dum transisset [f. 75v: Easter, Matins: 3rd resp.] quo incepto, ordinata processione, ibunt retro sepulchrum cantando responsorio, quo finito ab illis quatuor quo responsorio inceperunt, cantabitur ibi Vers. Et valde mane. [f. 75v: Easter, Matins: 3rd resp. verse] In cappis sericis ut mox exigit cantatur Gloria patri reinteretur Resp. quatuor cappis sericis cantabunt versum. [f. 18v] Et valde mane, Gloria patri, Hymnus Chorus nove Iherusalem. [f. 80v: Saturday, 2nd Vespers, Infra Dom. I post Octava Pasche] Vers. Surrexit dominus de sepulcro. [f. 76r: Easter] Ad Magnificat Vespere autem. [f. 75r: Vigil of Easter] Ante Gloria patri reiteretur a cantore, post Gloria Patri reincipiat Patri, reiteretur a cantore post Gloria patri, reincipiat patriarcha si adfuerit, vel prior, aut ille qui incepit Vesperas. Sic autem fiat in ominibus dupplicibus festis. Sic enim retro [sepulchrum] postulat Collecta de Resurrectione. Qualiter placuerit sacerdoti et sic finientur ibi Vespere, Benedicamus domino cantabitur ab archicoris, his autem finitis et a prelato data benedictione nil cantando reveruntur eorum. Ad Completorium Confiteor Ant. Miserere mei Capitulum Tu in nobis Hymnus Salvator mundi do60 61
Barb. lat. 659, ff. 18v-19v. Easter-day celeb rations contain a special one-Nocturn Matins office.
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mine Vers. Custodi nos. Kyrrielei. Et cum Oratio Visita quesumus Ant. Resurrexit dominus Ps. Nunc dimittis. [Dominica Commemoratio Resurrectionis] Ad Matutinas Invitatorium, A predictis IIII cantetur Invitatorium Alleluia Surrexit dominus vere [f. 75v: Easter, Invitatory] Hymnus Aurora lucis. divisio. [f. 78v: Dominica I post Pascha] Sermone. Quesumus auctor non dire sed Gloria tibi domine In primo Nocturno Ant. Ego sum qui sum Ps. Beatus vir. [f. 75v: Easter, Matins Nocturn] Ant. Postulavi Ps. Quare fremuerunt. [f. 75v: Easter, Matins Nocturn] Ant. Ego dormivi Ps. Domine quid. [f. 75v: Easter, Matins Nocturn] Vers. Resurrexit. [f. 77r: Feria II infra ebdomada Pasche] VI lectiones erit de omelia Evangelii Stetit Ihesus. In cappis sericis legantur Gloriam sue resurrectionis vel de Evangelio Cum adhuc tenebre essent et alie III lectiones erit de Evangelio Marie Magdalena, Resp. in cappis cantatur [Resp.] Marie Magdalena Vers. Cito euntes [f. 77r: Feria II infra ebdomada Pasche] Resp. Congratulamini Vers. Tulerunt dominum [f. 77r: Feria II infra ebdomada Pasche] Resp. Tulerunt dominum. Vers. Cito. [f. 77r: Feria II infra ebdomada Pasche] In cappis sericis tercium Resp., et cum cunctis dupplicibus festis cantantur, et omnes lectiones a canonicis leguntur, et dum tercia lectione leguntur, altaria et locus Calvarie et Sepulcrii incensantur et locus preciosi thesauri uno vera crux reponitur, a duobus canonicis presbiteris incensandi. Ita enim consuetudo omnibus dupplicibus festis conservatur et custodiatur. Lectio III de Evangelio, Maria Magdalena reiteretur Resp. Et valde mane et ceteri Ps. ut sint. In-[fol. 19r]cipit archichorus hanc antiphone ut suprascriptum est. Kyrriel. Et cum Missa matutina. Dicit dominus sicut est. In secundo Nocturno Ant. Crucifix Ps. Cum invocarem [f. 79v: Mag. & Ben. Dom I Post Pascha] Ant. Crucem Sanctam Ps. Verba mea [f. 79v: Mag. & Ben. Dom I Post Pascha] Ant. Surgens Ihesus Ps. Domine dominus noster [f. 79v: Mag. & Ben. Dom I Post Pasch.] Vers. Surrexit dominus vere [f. 79r: ad III Vers.; Dominica I post Pascha, and Modified Invitatory of Easter day] Resp. Expurgate vetus Vers. Non in fermento [f. 77v: Feria III infra ebdomada Pasche] Resp. Surgens Ihesus Vers. Surrexit dominus [f. 77v: Feria III infra ebdomada Pasche] Resp. Dum transisset Vers. Et valde [f. 75v: Easter, Matins: 3rd resp.] In tertio Nocturno Ant. Surrexit dominus Ps. In Domino confido [f. 79v: Mag. & Ben. Dom I Post Pascha] Ant. Surrexit Christus Ps. Domine quis habitabit [f. 79v: Mag. & Ben. Dom I Post Pascha]
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Ant. Post passionem Ps. Domine in virtute [f. 79v: Mag. & Ben. Dom I Post Pascha] Vers. Surrexit dominus de sepulcri [f. 75v: Easter, Patriarch’s procession to aedicule] Resp. Angelus domini [descendit] Vers. Angelus domini [f. 75v: Easter, Matins Nocturn] Resp. Angelus domini [locutus] Vers. Ecce precede vos. [f. 75v: Easter, Matins Nocturn] Resp. Et valde mane Vers. Mulieres emerunt [f. 78v: Dominica I Post Pascha] Ps. Te deum laudamus Sacerdos Vers. In resurrectionem. In Laudibus [similar to Easter Lauds, and Lauds of Dom I post Pascha] Ant. Angelus autem [f. 76r: Easter, Lauds] Ps. Dominus regnavit Ant. Et ecce terramotus [f. 76r: Easter, Lauds], Ant. Erat autem [f. 76r: Easter, Lauds] Ant. Per timore autem [f. 76r: Easter, Lauds], Ant. Respondens autem [f. 76r: Easter, Lauds] Capitulum Christis resurgens [Not from Easter day] Hymnus. Sermone blando Vers. Gaudisi sunt discipuli [f. 78v: Dom I post Pasche Lauds] Ad Benedictus Sedit angelus quo incepta, parata processione ibunt retro sepulchrum hanc cantando antiphonam ibique finite. Incipit psalmos Ps. Bendictus Oratio Deus qui hodierna die Ps. Benedicamus. Et sic Matutine finientur. [Modified form of f. 78v: post Lauds Sunday processions until Advent]
The rubrics for Saturday evening’s First Vespers of the Commemoration of the Resurrection note the performance of a procession to the sepulchral aedicule singing the third responsory from Easter Matins, Dum transisset, with its verse Et valde mane.62 This responsory-verse pair represents one of the main liturgical items repeatedly sung throughout the majority of the year in the Holy Sepulchre. As the indications in brackets note in Table 2, the liturgy celebrated also recites chants from the vigil of Easter. This Saturday Vespers procession is a ritual that is instituted on the Saturday of the Octave of Easter, and is to be performed throughout the summer and fall seasons (with some minor disruptions) until the Sunday before Advent Sunday.63 Thus, the liturgy performed on the eve of the Commemoration 62 The following chant identifications correspond to those used by: http://cantusdatabase. org/ (accessed 1 Sept. 2014), hereafter CANTUS ID. Dum transisset, CANTUS ID: 006565; Et valde mane, CANTUS ID: 006565a. 63 Barb. lat. 659, ff. 76v-77r: In sabbato hec et in omnibus sabbatis usque ad dominicam ante Adventum Domini post vesperas: fit processio ad sepulchrum. Si non ad fontes, excepto sabbato Pentecostes licet eodem sabbato vadunt ad fontes et non ad sepulchrum. De eo ordine quo prescripte sunt. Cfr. also Barb. lat. 659, f. 78v: where the liturgy is the same, except the Magnificat Antiphon, which is Cum esset fero.
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of the Resurrection Sunday also represents the termination of ritual begun after Easter that reverberates throughout the remainder of the year. The liturgy of Matins demonstrates a similar confluence of texts belonging to Easter and post-Easter weekly celebrations (cfr. Table 2). The invitatory repeats the joyful announcement of Easter day, while the Hymn Aurora lucis is first sung on the Octave of Easter. Antiphons of the first Nocturn are the same chants as those of Easter Sunday Matins, while the accompanying verse is culled from the Monday after Easter Sunday. Also taken from this first post-Easter ferial day is the series of three responsories from its first Nocturn. Rubrics following this first section of Matins provide instructions for this Sunday, and an important note concerning all subsequent double feasts: During the reading of the third lesson and singing of the responsory of the first Nocturn rubrics indicate a procession taking place to incense the altars of the Calvary chapel, that of the Sepulchral aedicule, and the treasury where the relic of the Holy Cross is kept. Given the duration to incense these three different sites within the Holy Sepulchre, additional liturgy is provided to be taken from the Gospels (a passage relating to Mary Magdalene’s encounter with the angel at the tomb), accompanied by the responsory-verse pair Et valde mane-Mulieres emerunt.64 This stipulation is one of the many, yet distinguishing rituals underscoring the particular devotion to the Resurrection in the rite of the Holy Sepulchre. The antiphons for the second and third Nocturns originally appear accompanying the Magnificat and Benedictus canticles after the Octave of Easter.65 However, some chants are also sung in the feast of the Invention of the Cross.66 Thus, the devotional interconnections and theological nuances of the Commemoration of the Resurrection are richly constituted. In addition, since this feast is placed as a preface to Advent, the appearance of these antiphons in this context opens the possibility for their interpretation in relation to their appearances in the subsequent fests: Singing them in this principal pre-Advent commemoration of Easter strongly calibrates their devotional reference point with Easter. These associations become stronger with the responsories sung during the second and third Nocturns. The fourth and fifth responsories are sung during the Wednesday of Easter week, while the sixth responsory (Dum transisset) is sung as the third and culminating responsory of Easter day Matins. The third Nocturn of the 64 CANTUS ID: 006676, 006676a. 65 Barb. lat. 659, f. 79v. 66
Barb. lat. 659, f. 84r: Crucifixus surrexit, CANTUS ID: 001957; Crucem sanctam, CANTUS
ID: 001951.
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Commemoration of the Resurrection repeat the first and second responsories of Easter day, and for the final ninth responsory, the above-mentioned chant, Et valde mane-Mulieres emerunt, is sung. Thus, the chant that accompanies the incensing of altars during the end of the first Nocturn is repeated as the culmination of Matins. The choice of responsory-verse pairs, while slight, is significant. The difference between the third and culminating responsory of Easterday Matins and that of the Commemoration of the Resurrection Sunday is apparent when considering the text in its performance. The responsory of Easter is the following: Dum transisset sabbatum Maria Magdalena et Maria Jacobi et Salome emerunt aromata: *Ut venientes ungerent Jesum alleluia alleluia Verse. Et valde mane una sabbatorum veniunt ad monumentum orto jam sole.67
In contrast to the semantic structure of this message, the ninth responsory of the Commemoration feast reorganizes the content as such: Et valde mane una sabbatorum veniunt ad monumentum: *Orto jam sole alleluia. Verse. Mulieres emerunt aromata summo diluculo veniunt ad monumentum.
The crux of the message lies in its reorganization of the text in the responsory’s repetenda (here marked by an asterisk). In the Easter day chant, the repetenda repeats the coming of the women to anoint Christ’s body. Instead, in the chant Et valde mane, the repetenda places emphatic emphasis on the metaphor of Christ, as the sun, having risen. It is the choir, in its entirety, which announce not once, but three times that the sun has risen.68 The devotional emphasis is placed the Resurrection of Christ. Of no lesser significance are the rubrics in the first Nocturn, which indicates this same chant to be repeated throughout the year when the incensing of the altars takes place on double feasts. This nuanced and but meaningful placement of text vividly highlights the devotional message effused throughout the liturgical year of the Holy Sepulchre. A brief examination of the differences between the Mass propers of Easter and its Commemoration provide further details on the particulars of the
67 While Barb. lat. 659 does not give the full text of the responsory, the Acre Breviary (Paris, Bib. nat., ms. lat. 10478, p. 452) has the full text and confirms this order. 68 As the last responsory of the Nocturn, the rependa again follows after the cantor’s singing of the lesser doxology.
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Jerusalem liturgy. The theological concept of the Resurrection finds a particular form of elaboration in the pre-Advent Sunday Mass (cfr. Table 3). Table 3: Masses for the Commemoration of the Resurrection and Easter Sunday Commemoration of Resurrection Mass, Easter Mass. Ms. 659, fol. 124v. Ms. 659, fol. 19v. Ad maiorem Missam, Introitus Resurrexi Introitus offitium Resurrexi [et] adhuc Ps. Domine probasti. Ps. Domine probasti [Hymn Christus vincit omitted] Sequiter Christus vincit A tribus vel a quatuor canonicis antiquioribus, archicoris cantatur. Deinde Kyirieleison Prosa Cunctipotens, Kyrielelison. Cunctipotens. Gloria in excelsis, Gloria in excelsis Oratio Deus qui hodierna, Oratio Deus qui hodierna die Epistola ad Corinthios Expurgate, Epistola Expurgate Resp. Hec dies, Vers. Confitemini, Resp. Hec dies Vers. Confitemini Alleluia Vers. Christus resurgens. Alleluia Vers. Pascha nostrum Prosa Fulgens praeclara, Sequentia Fulgens preclara Alleluia Vers. Victime paschali. Evangelio Marchi. Maria magdalena, Evangelio Maria magdalene. Credo in unum, Credo in unum, Offertorio Angelus domini, Offertorio Terra tremuit Vers. Notus Vers. Et factus est Vers. Ibi confregit Prefatio Te quidem Prefactio Te quidem omni tempore Sanctus. Clemens verbi sator, Festive cantetur Sanctus, Sanctus, Sanctus Communicantes, Hanc igitur Agnus dei Qui surrexit Agnus dei Qui surrexisti a mortuis Communio. Surrexit dominus. Communio Pascha nostrum Postcommunio Spiritum nobis. [McClean 49, fol. 81r: Postcommunio Ita missa est. Concede quesumus omnipotens deus ut qui resurrectionem; Paris, BNF, ms. 12056, f. 122r has: Spiritum nobis as first, with Concede quesumus omnipotens ut qui as second, plus various others prayers.]
The main difference between the Mass propers lies in the choice and number of Alleluia verses. In the Commemoration Mass the Alleluia verse is Christus resurgens, a text highlighting Christ’s conquest over death and his immortality.69 This is a departure from Easter’s Alleluia Pascha nostrum 69
Alleluia Vers. Christus resurgens ex mortuis jam non moritur mors illi ultra non domina-
bitur.
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underscoring the solemnity and the moral response this event requires from the devout.70 The emphasis on the triumphant nature of Christ’s resurrection is echoed in the second Alleluia verse sung after the sequence Fulgens preclara. The singing of Victime paschali laudes during Mass, a chant that accompanies the celebration of second Vespers from Easter onwards, again amplifies the positive and triumphal facets of the Resurrection. This was echoed in the use of the Et valde mane responsory earlier in the day’s Matins celebration. In addition, Victime paschali laudes elaborates on the already prominent role of Mary Magdalene visiting Christ’s tomb. The emphasis on Mary Magdalene as the special witness to the Resurrection of Christ finds elaboration in two principal liturgical occasions: The first is the July 22 feast day of Mary Magdalene.71 Rubrics in Barb. lat. 659 note that either the sequence Mane prima sabbati or Victime paschali laudes can be sung during her feast’s major Mass.72 Mane prima sabbati underscores Mary Magdalene’s role in witnessing and announcing the Resurrection. In addition to this connection between the Commemoration of the Resurrection Sunday Mass chant and the July 22 celebration, the appearance of the sequence Victime paschali laudes in the Post-Pentecost Easter commemorations makes the theological role of Mary Magdalene clear. Each Sunday there is a choice to sing anew either Victime paschali laudes or the final portion of the sequence Fulgens praeclara rutilat (at Iudea incredula) in the major Mass.73 This practice also echoes the propers sung on the Commemoration of the Resurrection Sunday celebrated before Advent Sunday. The recurrence of chants highlighting the moment Mary Magdalene learns of Christ’s Resurrection is related to one of the salient facets of the Jerusalem rite. The most characteristic devotional features in the Holy Sepulchre temporale liturgy find their expression in the weekly Mass and Office celebrations commemorating the Resurrection. As noted above, in the post-Pentecost period there is a near-continuous presence of Easter Masses. If no major nine-lesson feasts are present, then the day’s major Mass is from Easter. In the case of a nine-lesson feast, then the Easter Mass is celebrat70 Alleluia Vers. Pascha nostrum immolatus est Christus alleluia itaque epulemur in azymis sinceritatis et veritatis. 71 V. SAXER, Le culte de Marie-Madeleine en Occident, des origines à la fin du moyen âge, 2 vol., Paris 1959; D. HILEY, Early cycles of office chants for the feast of Mary Magdalene, in Music and Medieval Manuscripts, Paleography and Performance. Essays dedicated to Andrew Hughes, a cura di J. HAINES – R. ROSENFELD, Aldershot 2004, pp. 369-399. 72 Barb. lat. 659, f. 132v. 73 Ibid., f. 128r: Incipiunt Dominica officio Prima post Pente[costes], […] Ad Missam Maiorem Resurrexi sicut est. Sequentia Judea incredula vel Victime paschali et sic usque ad Adventum Domini nisi aliquam festum IX lectio intervenerit.
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ed as the morrow Mass.74 In combination with these Mass commemorations, the liturgy of the Divine Office also participates in remembering the Resurrection. From the octave of Easter to the Ascension, Sunday first Vespers perform anew the above-mentioned responsory-verse pair Dum transisset-Et valde.75 However, the presence of Easter liturgy also effects Matins celebrations. Between Easter and Ascension a modified form of the Easter’s single-Nocturn Matins is sung as the last three responsories of the third Nocturn of Matins. The foremost difference between Easter and the commemoration Nocturn is the choice in this latter setting of the more emphatic Et valde mane-Mulieres emerunt responsory-verse set as the final closing chant.76 Through this modification of the Matins, the commemoration extends thus to a tripartite Vespers-Matins-Mass commemoration of Easter. After the Ascension and Pentecost periods, rubrics stipulate a reappearance of the commemoration of the Resurrection in the office:77 A predictis autem octaviis [Pentecosten] usque ad Adventum Domini, IX lectio de omelia Evangelii Maria Magdalene Dominicis diebus legimus, et IX Resp. Et valde vel Dum transisset cantabimus, nisi occurrerit aliqua festivitas IX lectio.78
The rubrics for the subsequent offices of summer and fall seasons demonstrate that there is a predilection for the responsory Dum transisset. This is the chant that positions Mary Magdalene first in naming order, and resonates with the singing of Victime paschali laudes as the chosen witness of Christ’s Resurrection. A brief overview of some of the salient aspects of the sanctorale and the Holy Sepulchre clergy’s annual processions contextualizes the nature of these commemorations. Sanctorale The fore-going discussions of the commemorations of the Resurrection 74 Ibid., f. 92v: A Pentecosten usque ad Adventum Domini. Missa matutinalis de dominicis nisi festivitas occurrerit IX aut III lectio propietatem habentium in missali vel in gradali, maior semper erit: de Resurrectione. Quidem si festum IX lectio evenerit, matutinalis erit de Resurrectione, exceptis dominicis diebus maior de festo. Si uno III lectio, matutinalis de dominica, memoria de festo, maior de Resurrectione. 75 Ibid., f. 78v. 76 Ibid., f. 80v: Dominica II post [octabas] Pascha, Ad Matutinas […. Tertio Nocturno] Ant. Alleluia Ps. Celi enarrant Ps. Exaudiat te Ps. Domine in virtute Vers. Surrexit de hoc Resp. Angelus domini [descendit] Resp. Angelus domini [locutus] Resp. Et valde mane. Omnibus dominicis diebus usque ad Ascensionem dicentur hec tria. 77 The Mass commemorating the Resurrection is also reinstituted. 78 Barb. lat. 659, f. 92v.
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are fundamental when considering the observance of saints’ feasts in the liturgy of the Holy Sepulchre. Where the temporale finds careful structuring of its liturgy underscoring the triumphant quality of Easter as the foremost devotional concern, the sanctorale is restrained in the quantity and manner of commemorating saints. This apparent disparity is, however, itself symptomatic of the broader devotional interests of the Holy Sepulchre rite. The calendar of Jerusalem bears little comparison to coetaneous continental counterparts, which often have months brimming with saints and often multiple feasts on any given day.79 Notwithstanding, while most of the saints’ feasts in Holy Sepulchre are clearly indebted to north-French liturgical traditions, each office finds some form of liturgical re-composition, nearly always making them proper to Jerusalem.80 This aspect, which evidences a rejection of any wholesale adoption of pre-existent liturgical traditions, again underscores the thorough attention to the composite devotional message communicated by the Latin Patriarchate of the Latin East. Due to their theological relation with the facets of the temporale mentioned above, in the following only select feasts related to the Virgin Mary and the Cross are discussed. The dual celebrations of the July 15 Liberation of Jerusalem and rededication of the Holy Sepulchre, one of the most important civic feasts of Jerusalem, is currently undergoing examination by various scholars.81 It is presently sufficient to note that the liturgical construction of the Liberation of Jerusalem feast underscores the simultaneous prophetic return, and revelation, of Christ to the Gentiles. As such, it is a liturgical celebration commemorating the insertion of the Crusades and its resultant Latin communities of Outremer in the eschatological history of Christian salvation.82 Of the three principal Marian feasts of the Annunciation (March 25), the Assumption (Aug. 15), and Nativity (Sept. 8), the first and the last demonstrate a strong relationship to the Resurrection commemorations. The feast of the Assumption, in turn, receives the most elaborate processional liturgy of any of the sanctorale feasts.83 The feast of the Annunciation of the Virgin Mary finds a close parallel to the office in the tenth-century Limoges Manuscript F-Pn lat. 1085, notwithstanding, many of the same facets of 79 The liturgy of Cluny being a case example of highly extensive and elaborate devotion to saints. 80 SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 170-217. Cfr. DONDI, Liturgy cit., pp. 104-105, 253-302 (comparative tables of Latin East calendars). 81 This feast will not be discussed further herein, cfr. SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 171-181, 199-211. 82 SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 188-190. 83 Barb. lat. 659, ff. 105r-107v; SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 184-185, 245-246.
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this office are also evidenced in extant Parisian sources of the twelfth and thirteenth centuries.84 The distinguishing feature of the Holy Sepulchre celebration is the singing of the responsories Descendet dominus in the second position of the second Nocturn, with Christi virgo in the third position of the third Nocturn.85 Yet, it is a rubric placed at the end of Matins liturgy that changes the nature of this celebration: Arnulfus patriarcha precepit per obedientiam cantare Te deum laudamus et Gloria in excelsis deo et Credo in unum.86
There are two ramifications stemming from the presence of this rubric: The first concerns the mentioning of Patriarch Arnulf of Choques (1099, 1112-1118) in the ordinal. It is significant for it is the only instance where somebody else, besides patriarch Fulcher of Angoulême, is mentioned in the liturgical rubrics.87 Patriarch Arnulf is responsible for the successful reform of the Jerusalem clergy to the Augustinian rule.88 This vestige of his personal intervention in the liturgy is a noteworthy insight into Arnulf’s particular interpretation of the Annunciation’s theology. The second ramification of these rubrics follows as a consequence of Arnulf’s decision, and concerns the devotional messages arising from the singing of these texts with the Annunciation feast. Normally, these pieces are omitted during the seasons of Advent, Lent, and Holy Week, and are sung on Easter Eve and after.89 Since March 25 falls in the early period when Easter can be celebrated, there is the possibility of its occurrence when it is not formally allowed. The expressed will of Arnulf for these texts to be sung on the Annunciation brings to the fore a renewed emphasis on Christ while highlighting Mary’s role in the salvation of man.90 Rubrics preceding the March 25 office demonstrate a consciousness of the devo84 Rouen, Bib. Mun., 248 (olim A. 339); Paris, Bib. nat., ms. lat. 12044; Paris, Bib. nat., ms. lat. 1412; Paris, Bib. nat., ms. lat. 12601. 85 Descendet dominus, CANTUS ID: 006408; Christi virgo, CANTUS ID: 006278. 86 Barb. lat. 659, f. 54r. 87 Patriarch Fulcher’s name appears four times in the ordinal, and there over a dozen instances where new vs. old liturgical customs are signaled out in the rubrics; SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 33, cfr. Barb. lat. 659, ff. 17v, 26v, 40r, 48v-49r, 53v, 57v-58r, 70v, 75v, 78r, 85r, 98r, 98v, 101v, 114r, 117r-117v. 88 HAMILTON, Latin Church cit., pp. 12-16, 56-64. 89 J. HARPER, The Forms and Orders of Western Liturgy from the Tenth to the Eighteenth Century: A Historical Introduction and Guide for Students and Musicians, Oxford 1991, pp. 55-56. 90 This is surely not an ex nihilo innovation on Arnulf’s part, but, rather, should be examined against existing continental practices to understand the roots of his devotional motivations.
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tional consequences of associating these texts with the Annunciation inside Paschal tide.91 Thus, the Annunciation office of Matins can perform these three texts before the drama of Palm Sunday, and even within Holy Week itself. Their performance in these places has significant exegetical implications for Mary and the Easter festivity. If performed before Easter, these texts work to emphatically focus Mary’s role in salvation. Further attesting the conscious devotional associations created by Arnulf’s precept is the festivity celebrated on 8 September. The feast of Nativity of the Virgin Mary (Sept. 8) is an office similarly modeled on various French liturgical uses, but not identical to currently indexed sources.92 What is most distinctive concerning this office are stipulations provided detailing on how the celebration is to be modified in the case that the feast occurs on a Sunday.93 If in this latter case, rubrics instruct a visit to the chapel of the Invention of the Cross, situated adjacent to St Helen’s chapel below the choir. This demonstrates how this chapel, newly rebuilt by the Latin community of Jerusalem, was in all probability dedicated on the feast of the Virgin’s nativity.94 One remarkable aspect of associating Mary’s birth and the very object participating in Christ’s crucifixion lies in asserting a theological message through the coordination of ritual performances: A performance involving liturgy, procession and engagement with sacred space. The feast of the Invention of the Cross (May 3), celebrated earlier in the year, foreshadows this relationship to the Nativity of the Virgin Mary by also visiting the chapel of the Invention.95 The liturgy for the office is found in various continental sources, yet the specific arrangement of its chants is, as in other examples, proper to the Holy Sepulchre rite. A com91
Barb. lat. 659, f. 53v: Si in viglia Ramis Palmarum evenerit: nichil mutabit de sollempnitate. Si in die Ramis Palmarum evenerit: nichil de festivitate agitur. Set transferetur in crastinum. Si ante Cenam evenerit: celebrabitur. Si in Cena vel post ea penitus dimittetur usque ad octabas Pasche. Feria II post octabas Pasche, si magistris ecclesie placuerit et ab eis ratione dictante provisum fuerit, ob tante virginis reverentiam, sollempnitate celebretur, Resp. et Ant. cum Alleluia finientur. 92 Ibid., ff. 109r-110r; Cfr. Paris, Bib. nat., ms. lat. 1090 (Marseille), Paris, Bib. nat., ms. lat. 12044 (St. Maur-des-Fosses, Paris). 93 Barb. lat. 659, f. 109v: Si dominica contigerit hec sollempnitas: omnia parata sicut in aliis processionibus, ibunt ad inventionem. Finitis psalmi de primis vesperis: Canendo Resp. Stirps iesse cum Vers. Quo finito: Ant. Incipiatur a Patriarcha Gloriose magne Oratio Supplicationem Sequiter memoria de dedicatione illius ecclesie Ant. O quam metuendus est cum oratione. 94 The calendrical date of this chapel’s dedication has not been previously elucidated in scholarship before, cfr. D. PRINGLE, The Churches of the Crusader Kingdom of Jerusalem: Vol. III The City of Jerusalem, Cambridge 2007, pp. 15, 27. 95 Barb. lat. 659, ff. 84r-85r.
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mon trait of continental Invention of the Cross offices is the use of one recurring antiphon for all three Nocturns, or the more traditional use of different antiphons for each of the psalms.96 In the Holy Sepulchre office, one different antiphon is devoted to each of the Nocturns, for a total of three antiphons.97 A consideration of the antiphon texts provides insight to the devotional message of the office: Ant. Crucifixus surrexit de mortuis, redemit nos, alleluia, alleluia. Ant. Crucem sanctam subiit qui infernum confregit accinctus est potentia surrexit die tertia, alleluia. Ant. Ecce crucem domini fugite partes adversae vicit leo de tribu Juda radix David alleluia.98
The conjunct of these three texts underscore the triumphant nature of the Cross. Its erection announces a victory over death, and man is redeemed. The significance of the third day is enunciated in the second antiphon, while the last chant, again, pronounces the victorious nature of the Cross and associates it to the fulfillment of eschatological history of the Jewish people. When considered in relation to the Resurrection responsory, Et valde mane, with its emphasis on the triumph of Christ as the rising Sun, the Invention antiphons might be considered as amplifying the devotional message of the responsory. The associations between the Virgin’s Nativity (Sept. 8) and the Invention liturgy are made evident each year that that the May 3rd feast occurs on a Sunday. Rubrics in the office note how after the morrow Mass and chapter, clergy are to go to the treasury and extract the relic of the True Cross for a procession.99 Once at the choir, the Patriarch and clergy are to go in procession with the True Cross to the rotunda, and make a station at 96
SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 186-187. This might possibly reveal a consideration for number symbolism in relation to sets of threes. 98 Crucifixus surrexit, CANTUS ID: 001951; Crucem sanctam, CANTUS ID: 001951, Ecce crucem, CANTUS ID: 002500. 99 Barb. lat. 659, f. 84v: Hoc festum si dominica evenerit: Post capitulum intrant omnes chorum, ibique induti cappis sericis, vadunt ad locum ubi sancta crux reposita est, inde quo extracta a thesurario: Traditer patriarche et tunc parata processione. Incipit cantor hoc antiphona O crux splendidior Qua finita: in choro sequiter, Ant. Vidi aquam Oratio Exaudi nos domine sancte pater, postea, Ant. Ego sum alpha et omega et ibit processio retro sepulchrum, ibique finita Ant. sequiter Vers. Ego sum vera redemptio Vers. Surrexit dominus de hoc Oratio Deus qui hodierna die. Quo finita de hinc in aliis dominicis vadunt per claustrum cantando Ant. Sedit angelus quo usque veniter ante refectorium quam ibi finita et oratione: incipitur Ant. O crux gloriosa, o crux hanc cantando Ant. vadit processio ad inventionem et ibi dire Vers. Arbor amara Vers. Dicite in nationibus Oratio Deus qui crucem ascendisti. 97
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the rear altar of the Sepulchral aedicule. The singing of Easter liturgy at the conclusion of this procession further relates the devotional message of the office with the emphasis on the triumphant nature of the Resurrection witnessed in the Commemoration liturgy. However, the subsequent procession through the refectory and to the Chapel of the Invention establishes a direct link to the Sept. 8 feast of the Nativity. As the rubrics note, from that Sunday onwards the clergy are instructed to conclude the procession with a visit to the site of the Invention. On those years which the Nativity of the Virgin happens to occur on a Sunday, the interrelation between the Cross, the Virgin, and the Resurrection would be present to clergy and devout through an orchestrated confluence of different theological ideas, as unique to no other liturgical rite or place. The continued commemoration of the Cross in Vespers, Matins and Mass from the Octave of Easter onwards through to Advent, only compounds to this message.100 Finally, only days after the Nativity of the Virgin, the celebration of the feast of the Exultation of the Cross (Sept. 14) is observed. The Exultation office, as in most continental custom, reuses and amplifies the office of the Invention.101 This resultant message both accentuates and is dependent on the main devotional message of the Temporale liturgical cycle. This cursory discussion aims to underscore the interconnectedness of some of the sanctorale offices with the main devotional concern of the Holy Sepulchre rite. A brief mention of the feast of the Patriarchs (Oct. 6) further helps illustrate the nature of this relationship.102 Commemorating the Old Testament figures of Abraham, Isaac and Jacob, this office appears to be the only proper saints’ feast newly conceived by the Latin Patriarchate in Outremer, in contrast to the Liberation of Jerusalem celebration, which commemorates an event. The Patriarch’s liturgy is entirely based on pre-existent liturgy either from common of martyrs, confessors, or readings drawn from Lent. The composite message resulting from the kind of liturgy selected for their commemoration shows the figures interpreted as martyrs. Casting them as such interprets their histories in the manner of witnesses to Christ, and thus, as a part of the broader eschatology related to the Resurrection so present in Jerusalem’s liturgy. An examination of the calendar and liturgy for saints evidences a restrained approach to the cult of saints.103 This is symptomatic of the Jerusalem clergy’s care of the shrine 100 Ibid., f. 78rv: de Crucem autem, omnibus diebus usque ad Adventum Domini fit commemoratio, excepto in XL et in festis novem lectiones et in octavis et ab Adventum usque ad Pascha. 101 Ibid., f. 110rv; SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 187-88. 102 Barb. lat. 659, ff. 112r-112v; SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 188-90. 103 The liturgy of St Stephen protomartyr receives special processional attention, distin-
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of the Holy Sepulchre. The following discussion of the yearly processions will demonstrate the extent of this facet in Jerusalem’s Latin rite. Processionale The processional rites of the canons of the Holy Sepulchre represent some of the most visual and devotionally complex expressions of the Latin Patriarchate of Jerusalem. The setting of the liturgy in the holiest sites of Christianity creates a context for the Latin liturgy not replicable in any other geographic setting. The following discussion attempts to provide only an introductory perspective onto the most salient facets of the yearly temporale processions.104 The extent of processional rituals both within the Holy Sepulchre church and in the city of Jerusalem, combined with the complexity of liturgical interrelations between these and the office liturgy necessarily prevents an extensive consideration of this material in the present discussion. Similar to the relationship between the temporale and sanctorale liturgical cycles, a dialogue between processions inside the church and outside among the sacred sites of Jerusalem exists in the rite of the Holy Sepulchre. Both of these cycles further engage between processions that are intercessory or penitential in nature, and commemorative processions exploiting the loca sancta to engage in more mimetic activities. Some of these facets were already encountered with the above-mentioned feast of the Invention of the Cross and the Nativity of the Virgin Mary. The focus throughout all interior and exterior processions is, notwithstanding, mediated by the sepulchral aedicule. How both interior and exterior processions engage with the liturgical season and the approach or avoidance of stations at the aedicule creates the defining devotional prism affecting all processions in Jerusalem. The processions accompanying the vigil of the Commemoration of the Resurrection Sunday and during the day’s celebration equally create a spatial reference marker, like they do with the liturgy, for the entirety of the year.105 At the close of Saturday evening’s Vespers clergy finish the office by moving from the choir to the western altar of the aedicule while singing the responsory-verse Dum transisset-Et valde. Once at the altar, furguishing it out as one of the more significant saints feasts in the Jerusalem sanctorale, cfr. Barb. lat. 659, ff. 35rv, 104v; SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 192-193, 248-249. 104 Excepting Major Rogations (April 25), and All Soul’s (Nov. 2) day, the processional activities associated with saint’s cults is minimal when compared to Christological feasts, cfr. SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 244-252. 105 Barb. lat. 659, f. 18rv.
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ther liturgy is celebrated which includes the hymn Chorus nove Iherusalem with the verse Surrexit dominus de sepulcro, and Vespers is finished there. Clergy then return to the choir in silence. On the Commemoration Sunday the same processional movement from choir to the western altar on the rear of the sepulchral aedicule is held to finish the Matins-Lauds liturgy.106 From that day until Easter Sunday the clergy of the Holy Sepulchre do not make any more stations at the sepulchral aedicule. During Advent the Sunday blessing of the altars do not make direct reference to the rotunda’s sepulchral altar, and thus, the omission of any station emphasizes the nature of the liturgical season. With Christmas arrives the first quasi-public procession of the liturgy.107 However, instead of engaging the canons and Jerusalem’s population, rubrics stipulate a journey by the patriarch and his chosen clergy to the church of the Nativity. Due to the lack of an official liturgy performed by the patriarch, it might appear that this is not considered a liturgical act akin to a procession. However, rubrics in the ordinal associate this private devotional act with the Holy Sepulchre’s major public processions: Celebrata igitur ibi tante sollempnitatis misteria, et facta statione qui ab antiqus patribus, scilicet ab ordinatoribus offitii nostri comuni co[n]silo personarum et assensu tocius capituli dominice resurrectionis instituta est: sic in die Purificationis Sancta Marie ad Templum Domini. In die Ascensionis in Montem Oliveti. In die Pentecostes ad Montem Syon. In Assumptione Beate Dei Genetricis Marie, in Valle Iosaphat sicut et in ceteris ecclesiis hanc supradicta statio habere plenarie dinoscitur. Vesperis autem, de die celebratis Iherusalem leti et incolumnes et cum gaudio revertuntur.108
These rubrics emphasize the unity of the Patriarch’s act with the other processions.109 However, in contradistinction to these rituals mentioned in the passage, Christmas is noteworthy for its lack of engaging the Holy Sepulchre’s canons in processional activity. Neither are there any liturgical plays stipulated for the period. From the perspective of those feasts receiving processions by the patriarchate, this has the effect of underscoring, in 106
Cfr. Table 2 above. Barb. lat. 659, ff. 33v-35r. 108 Ibid., f. 33r. 109 In addition, these rubrics are also meant as a normative statement for those churches receiving the clergy of the Holy Sepulchre. Especially since there is a noted instance when, in the absence of the patriarch, clergy of the Holy Sepulchre were prevented from officiating the Ascension day liturgy as prescribed in the ordinal at the designated processional destination church at the Mount of Olives; HAMILTON, Latin Church cit., p. 75. 107
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a different manner, the significance of the redeeming nature of Christ’s Resurrection.110 The feast of the Purification of the Virgin Mary (Feb. 2) receives the first full procession involving the clergy of the Holy Sepulchre moving from their church to an outside destination.111 Involving both a mimetic facet recalling Mary’s reentrance to the Temple and the presentation of Christ to Symeon, canons move towards the Templum Domini church. Rubrics describe a richly equipped procession carrying candles, thuribles, processional crosses and books. After arriving to the Templum Domini and blessing the candles, and the singing of Lumen a revelationem with other chants, clergy circumambulate the church in the manner of intercessory processions while singing Marian and processional antiphons such as Adorna thalamum tuum. Subsequently, canons move to the southern portal of the Temple mount area and the Patriarch delivers a sermon to the people. Thereafter, the responsory Gaude Maria accompanies the procession to the place where the Presentation of Christ took place and Terce is celebrated there. Processional rubrics finish at this moment, and propers for the morrow Mass suggest this is celebrated at the Templum Domini church. Lenten rituals involve two processions, one moving through the building of the Holy Sepulchre, the other inside the rotunda around the sepulchral aedicule. On Ash Wednesday, after special ceremonies where the Patriarch gives sermons in chapter and at Calvary and the ceremony of ashes is held, after Sext clergy move in procession from the choir throughout the different portions of the church singing a litany.112 Of significance is that the entire rotunda of the aedicule is to be avoided on Ash Wednesday and the subsequent processions held on Wednesdays of Lent. Rubrics stipulate Wednesday processions to be held extra ecclesia.113 In contrast to this, on Fridays of Lent processions move from the choir around the sepulchral aedicule and finish at the altar on Calvary Chapel. In contrast to the previous Advent and pre-Lenten period, the clergy of the Holy Sep110 Additional historical context should be taken into consideration when discussing these rubrics, especially in light of the Nativity church being the old coronation church of the kingdom of Jerusalem, which had been changed during the time previous to Fulcher of Angoulême’s patriarchate. 111 Barb. lat. 659, ff. 50r-51r. 112 Ibid., ff. 56v-57r. 113 Rubrics in a different portion of the ordinal stipulate processional movement extra ecclesiam, which in this particular instance should not be interpreted as meaning the rotunda, or the Church of the Resurrection (Anastasis), as it was called and referred to in the ordinal; cfr. Barb. lat. 659, f. 17v: In XL autem facimus processionem feria IIII extra ecclesiam, feria VI circa sancti sepulcri ecclesiam et vadit in monte calvarie. In capite ieiuniorum, scilicet feria IIII similiter circa predicti sepulcre ecclesia sed non ascendit in montem calvarie.
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ulchre foreshadow the events of Easter with the intercessory processions circumambulating the church of the Holy Sepulchre and the rotunda’s sepulchral aedicule. The rituals’ movement physically mediates the polarity existent between the liturgical seasons where processions to the aedicule are effected or avoided. Holy Week sees an impressive array of processions representing the most significant liturgical acts of the canons of the Holy Sepulchre. Since these rituals are the subject of various ongoing and past studies, I presently provide only an outline of their structure, and concentrate on the special celebration of Easter vigils.114 On Palm Sunday, the Patriarch, with the True Cross in hands and accompanied by his treasurer, is met by the congregations and priors of the churches of Mt Zion, St Mary of the Mount of Olives, and the abbot of St. Mary of Josaphat.115 After Matins and before daybreak the procession heads towards Bethany to the Abbey church were Christ resuscitated Lazarus. The Patriarch pronounces various prayers there and thereafter, hymns and antiphons accompany the Patriarch, still carrying the True Cross with his own hands, for his entry into Jerusalem. Before entering the Temple mount area, remaining clergy and congregation join the Patriarch’s procession. At this moment senior clergy from the Holy Sepulchre bless palm and olive branches, and proceed to the Valley of Josaphat. A carefully choreographed liturgy follows involving antiphons and genuflections in respect of Christ’s entry into Jerusalem. After blessings are given, the clergy and Patriarch, as well as Jerusalem’s king, if present, go to a high point visible to all those gathered. The Patriarch then delivers a sermon to the people following the performance of an antiphon and a reading from Luke 18:35. After this moment, the Patriarch and clergy move through the Golden Gates while the cantor and children, placed above the gate, sing the antiphon Gloria laus et honor.116 Once inside, the procession moves to the Southern Portal of the Temple mount area where a station is made. At that place antiphons and responsories relating to the plotting of Christ’s murder, along with the Psalm Circumdederunt me are performed. This concludes the Palm Sunday feast and clergy return to their churches to celebrate Terce. Thursday celebrations involve a sermon, the liturgy of the absolution of penitents, the blessing of oils, the consecration of the host for the rest of Easter, the ceremony of the washing of feet, the cleansing of the altars, 114
Cfr. the work of Shagrir, and R. SALVARANI, Il Santo Sepolcro a Gerusalemme. Riti, testi e racconti tra Costantino e l’età delle crociate, Città del Vaticano 2012. 115 Barb. lat. 659, f. 65r. 116 Ibid., f. 66r.
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and the reading of the mandatum.117 The first major procession of the day entails movement of the Patriarch, again carrying the True Cross, southward across Jerusalem to the church of St. Mary of Mount Zion. After a sermon and absolution of penitents, a carefully organized procession of the blessing of oils takes place. Rubrics for the ordering of this ritual are the most detailed for any of the Holy Sepulchre’s processions. During this ceremony, and while the chant O redemptor is performed repeatedly, the Patriarch blesses the oils of chrism (confirmation), catechumens (baptism), and those for the sick, which will be used for all of the Patriarchate’s churches throughout the year. After this ceremony, the Patriarch engages in the washing of the feet, and thereafter all clergy return to their respective churches. Rubrics describe the entry of the Patriarch into the refectory of the Holy Sepulchre in order to perform the reading of the mandatum to his canons.118 The solemnity of Good Friday is expressed by a day devoid of sumptuous processions. Rubrics stipulate a short procession after Lauds by the Patriarch and his canons: No liturgy is mentioned to accompany the carrying of the True Cross as it approaches Mount Calvary.119 Once the True Cross is situated in its place, the Patriarch celebrates a solemn Mass and all venerate the cross barefooted. The celebration of the Vigils of Easter and Resurrection Sunday provide a pivotal point in the processional activity engaging with the sepulchral aedicule. Since the Sunday before Advent Sunday no procession made a station at the aedicule. On Saturday, after Sext and the performance of the twelve readings, the clergy of the Holy Sepulchre participate in the ritual of the Holy Fire. While not constituting a procession per se of the clergy, its celebration helps portray the role of the aedicule in the devotional life of Jerusalem during the twelfth century. Adopted from the Byzantine clergy who were celebrating this rite prior to the Latin’s arrival, the Miracle of the Holy Fire exemplifies the idea of the Holy Sepulchre above all as an actively miraculous and efficacious shrine.120 The ritual consists in the Patriarch choosing three or four pious individuals to act as the focal point of the litany’s performance in the sepulchral rotunda. These few chosen people are to lead the congregation and clergy in circumambulating the sepulchral aedicule, while the devotional expectation for the miracle grows 117
Ibid., f. 68v. Ibid., ff. 69v-71r. 119 Ibid., f. 71v. 120 One must keep in mind how rubrics ignore the presence of Byzantine clergy also participating in the miracle of the Holy Fire. Current work by Daniel Galadza on the Byzantine liturgy of Jerusalem promises to shed valuable light on these questions; Iris Shagrir is also currently investigating these aspects of shared ritual space of the Holy Sepulchre. 118
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and the litany is repeated. At a certain point, after rubrics describe the much shedding of tears and sobbing, the few barefooted protagonists who are also carrying the True Cross are to enter the aedicule and emerge from it with the miraculously lighted candle. Thereafter, the Patriarch and if present, king of Jerusalem, help spread the miraculous fire to others. The patriarch sings the Te deum and the Exultet iam angelica turba is sung to all present. Immediately after this, clergy move in procession to the font accompanied by the litany to baptize an infant. The procession finishes by the continued singing of the litany and the clergy’s return to the choir for the singing of a solemn Mass. The celebrations of Easter Sunday mark the first time the Patriarch and his clergy visit the sepulchral aedicule. During the Vigil of Easter neither the patriarch, nor clergy officially move in procession from the choir to the sepulcher; no rubrics outline such ritual. They are present in rotunda and participate in the liturgy, but no communal clerical procession is performed. On Easter Sunday, however, rubrics are clear. After the oneNocturn Matins, the Quem queritis play is held.121 Three clergy, representing the women, move out from the choir to the sepulchre and perform the dialogue there with two others, who enact the role of the angels. After the dialogue, the ‘women’ return towards the middle of the choir to exclaim the Alleluia, Resurrexit dominus. Thereafter, the Patriarch recites the Te deum from the choir, and the liturgy of Lauds is performed. After Prime and the morrow Mass, rubrics stipulate a solemn procession adorned with thuribles, candles, processional crosses and books, to move from the choir to the aedicule. At this official meeting between the canons and the aedicule clergy sing Dicant nunc Iudei, with the verse Surrexit dominus de hoc, and then after the collect Deus qui hodierna die, canons return to the choir singing either Salve festa dies or Ego sum alpha et omega. This represents the first ritual meeting between the Patriarch and his clergy with the miraculous tomb where the Resurrection took place. Later in the day, during the performance of second Vespers, there is an additional procession moving from the choir to the fonts where a station is made. Following this act, clergy return in procession to the altar at the rear of the sepulcher for another station marking the conclusion of Vespers. This procession takes place all of Easter week. On the Octave of Easter a series of processions are instituted which occur for the rest of the year until their final performance on the Commemoration of the Resurrection Sunday, previous to Advent. On Saturday before the octave, Easter week’s daily second Vespers procession is modi121
Cfr. SHAGRIR, The Visitatio Sepulchri cit.
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fied to exclude the visit to the fonts. From the vigil of the octave onwards, the Saturday second Vespers (or Sunday First Vespers) procession to the sepulchral aedicule is instituted for the rest of the year. From the Octave of Easter onwards, a procession after Lauds to the aedicule is also performed every Sunday, unless other major feasts interfere. Then, after the celebration of Prime, the Sunday altar-blessing liturgy is expanded to a procession moving through the refectory, to Calvary, and then to the altar at the rear of the aedicule. Starting from the Kalends of August this procession is enlarged to encompass more of the communal areas of the Holy Sepulchre, such as the dormitories, refectory, cellar, and kitchen.122 Since these processions, when considered as an aggregate, visit the sepulchral aedicule three times from the Saturday Vespers (Sunday first Vespers), Sunday post-Lauds, and after Prime, the number symbolism in this thrice-physical act should not be considered as fortuitous. Mention of the rituals carried out during the three rogation days preceding Ascension Thursday, along with the liturgy of Pentecost Sunday, will close this brief overview of the processions of the canons of the Holy Sepulchre.123 The liturgy of the Monday before Ascension replicates the rite of the major litany celebrated on the Major Rogation day (April 25).124 After Sext clergy are instructed to move eastward through Jerusalem to the Templum Domini and perform the Major Rogation liturgy, which involved celebrating the litany and Mass in that church.125 Of relevance in the present context is the return procession to the Holy Sepulchre. Once inside their church, canons move to their choir and perform an antiphon, verse and oration commemorating the Resurrection.126 Tuesday utilizes the same major rogation liturgy to move southeast through Jerusalem to the church of St Mary of Mt Zion.127 Once at Mary’s church, clergy perform Marian chants, move to the upper chapel of the Holy Spirit to recite more liturgy and, thereafter, return down to the choir to celebrate the litany and Mass. The return to the Holy Sepulchre repeats Monday’s commemoration once at the choir. Wednesday repeats the same liturgy and pattern, but moves north through an out of Jerusalem to the church of St Stephen outside the walls. On Ascension Thursday the clergy of the Holy Sepulchre make a procession after the morrow Mass towards two different churches 122
Barb. lat. 659, f. 93v. SALVADÓ, Liturgy cit., pp. 240-244. 124 Cfr. Major rogation day; Barb. lat. 659, ff. 82r-83v. 125 Barb. lat. 659, f. 86r. 126 Ibid., f. 86r: Christus resurgens et tunc intrant chorum Vers. Surrexit dominus de hoc sepulcro Oratio de Resurrectione, deinde dire IX. 127 Ibid., f. 86v. 123
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on the Mount of Olives. First, the Church of the Lords’ Prayer is visited and then clergy circumambulate the church of the Ascension, singing the versus Salve festa dies. Once the procession moves up to the church, the Patriarch delivers a sermon to the congregation and thereafter Terce is celebrated. Shortly after Ascension celebrations, the canons of the Holy Sepulchre observe the feast of Pentecost with a similarly rich processional liturgy. The vigil of Pentecost sees a performance of the litania septena with a blessing of the church’s fonts.128 The structure of this rite is the following: In choir: litany – procession to fonts – litany – blessing of fonts – litany: return to choir – finish litany – Mass. On Pentecost Sunday the processional activity shifts from the minor rogation days’ intercessory processions, to those akin to Ascension day’s, which exploit the mimetic possibilities of being at the physical place of the biblical event.129 After Prime canons move in procession to Mt Zion to meet the patriarchate’s other churches and their congregation. Together they proceed to the church of St Mary to the place where Christ washed his disciples’ feet on Maundy Thursday. Thereafter, canons move up to the chapel of the Holy Spirit, the site where the spirit came down to Christ’s disciples. After the performance of Pentecost liturgy, the Patriarch commences Terce. Thereafter once the Patriarch intones the hymn Veni creator spriritus, all genuflex, and then all congregations return to their respective churches to celebrate Mass. The post-Pentecost and Trinity Sunday liturgical period in the rite of Holy Sepulchre is characterized by the continued processional reverberation of Easter. Excepting major feast days, Sundays after Trinity continue the thrice meeting with the aedicule begun in the post-Easter season, which is only concluded at the final commemoration of the Resurrection on the Sunday before Advent. Conclusion The foregoing discussion of the liturgy of the Augustinian canons of the Holy Sepulchre in Jerusalem provides an overview of select salient facets of the rite. When examining the liturgy of the Divine Office and associated processional rubrics a predominant devotional preoccupation of the rite emerges: Namely, the commemoration of Easter in the liturgical year. The above-mentioned foreshadowing and extension of commemorations before and after Easter illustrate a different, and more present manner of celebrating the Resurrection of Christ than in most coetaneous continental liturgical traditions. When considering that this is the liturgy adorning the 128 129
Ibid., f. 88v. Ibid., f. 90r.
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Holy Sepulchre, which represents the most direct physical witness of the Resurrection, it is not unmerited that the central concern of the rite should be commemorating this event. Notwithstanding, many decisions regarding the nature of the rite were available to the canons of the Holy Sepulchre, and this liturgy illustrates the specific choices of the patriarchate’s liturgical deliberations. The perennial presence of pilgrims in Jerusalem all wishing to experience first-hand the sacredness of the Holy Sepulchre should also be counted as playing a role in the post-Easter commemorations. The opportunity for pilgrims to see the canons in procession to the sepulchral aedicule and perform Easter day liturgy might be a factor influencing the performance of this commemoration. Finally, what still remains to be explored is the relationship of this liturgy to the pre-existent Greek, and other, liturgies performed in the Holy Sepulchre. The ritual of the Holy Fire might well represent merely one, of the possibly many, Eastern Christian devotional facets adopted by the Latin rite.130 In addition, the ongoing examination of the proper liturgy of the Mass promises to elucidate still more theologically complex ways in which the liturgy of the Holy Sepulchre commemorates the Resurrection of Christ.
130 The type of influence Byzantine and other rites might have had on the Latin liturgy should be investigated through comparison of the different liturgies’ broad devotional concepts and theological interpretations of the seasons, instead of the adoption of actual liturgical texts.
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I MANOSCRITTI E LA SCIENZA ALLA CORTE PAPALE DI AVIGNONE: SUGGESTIONI DA ALCUNI CODICI MINIATI SCIENTIFICO-FILOSOFICI DELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA 1. Una manciata di fogli dalla sottile pergamena vitulina, elegantemente vergati con inchiostro bruno, decorati da raffinati giochi di penna a tratteggiare i contorni di esili motivi floreali, e dettagliate raffigurazioni geometriche inserite negli ampi margini: così si presenta uno dei più interessanti prodotti della ricerca scientifica sviluppatasi alla corte papale di Avignone, il manoscritto Latin 7293 della Bibliothèque nationale de France, contenente il De baculo o De instrumento rilevatore1. Tra i pontificati che si sono succeduti tra il 1305 e il 1429, quelli di Jacques Déuse/Giovanni XXII (1316-1334)2 e Pierre Roger/Clemente VI (1342-1352)3 possono essere considerati sotto molteplici punti di analisi massimi momenti di attenzione verso il mondo scientifico. Sebbene lo stesso Giovanni XXII si autodefinisca soltanto uomo di legge, piuttosto che fine teologo, caratteristica che vorrà sottolineare anche una volta divenuto pontefice, indubbia è la sua tensione verso le discipline scientifiche, dimostrabile sotto molteplici aspetti. Così nell’inventario dei libri a uso * Tale intervento prende le mosse dagli studi condotti dall’autore durante la stesura della tesi di dottorato del XXV ciclo del Dottorato di ricerca in Memoria e materia dell’opera d’arte dell’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo), intitolata I Codici e la cultura scientifica alla corte dei Papi tra XIII e primi decenni del XV secolo con particolare attenzione ai codici scientifici della Biblioteca Papale di Avignone, Viterbo 2013. 1 Il trattato in questione risulta tràdito ai ff. 1r-17v del codice miscellaneo Lat. 7293 (Paris, Bibliothèque nationale de France, d’ora in avanti BnF), si cfr. infra in questo saggio. 2 Per una biografia della figura di tale pontefice prima della salita al soglio pontificio si vd. N. VALOIS, Jacques Duèse, pape sous le nom de Jean XXII, in Histoire littéraire de la France 34 (1915), pp. 391-630; G. MOLLAT, Jean XXII pape, in Dictionnaire de théologie catholique, VIII, Paris 1924, coll. 633-641, J. E. WEAKLAND, John XXII before His Pontificate (1244-1316): Jacques Duèse and his Family, in Archivium Historiae Pontificiae 10 (1972), pp. 161-182, da ultimo si veda anche C. THROTTMANN, Giovanni XXII, in Enciclopedia dei papi, 2, Roma 2000, pp. 512-522; ID., Giovanni XXII, papa, in Dizionario biografico degli italiani, 55, Roma 2001, pp. 611-622. 3 Valida monografia riassuntiva di tal sfaccettata biografia rimane ancora D. WOOD, Clement VI. The Pontificate and Ideas of an Avignon Pope, Cambridge 1989. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 687-722.
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esclusivamente del pontefice, e da lui usati come utile diletto, si ritrovano oltre gli immancabili testi di argomento teologico e giuridico anche uno «Speculum Vincentii in III voluminibus, Palladius de Agricoltura, De regimine Principum, Liber de proprietatibus rerum, Auctoritates philosophiae»; a questi si aggiungeva un intero coffanus dedicato a svariati trattati di medicina4. La presenza tra questi volumi di un antidotarium non può fare a meno di ricordare come il presunto De venenis di Pietro d’Abano (1250-1318) fosse stato redatto proprio per Giovanni XXII, e che, per la fortuna dell’argomento, il trattato fosse rielaborato da Guglielmo di Marra5 nel 1362, all’interno del Sertum papale de venenis dedicato a Urbano V (1362-1370)6. Strettamente legati a questa produzione, rivolta a preservare la salute del pontefice, sono anche da ricollegare alcuni manufatti assai peculiari: le lingue di drago o serpentine. Già conosciute dalla seconda metà del XIII secolo — alcune sono menzionate nell’inventario generale del 1295 di papa Caetani —, erano utilizzate alla mensa del pontefice dal momento che potevano rilevare attraverso il semplice contatto con cibi o bevande la presenza o meno di veleni attraverso il viraggio o la condensazione7. 4 A. MAIER, Annotazioni autografe di Giovanni XXII in codici Vaticani, in Rivista di storia della Chiesa in Italia 6 (1952), pp. 317-332, ripubblicato in EAD., Annotazioni autografe di Giovanni XXII in codici Vaticani, in EAD., Ausgehendes Mittelalter. Gesammelte Aufsätze zur Geistesgeschichte des 14. Jahrhunderts, II, Roma 1967 (Storia e letteratura, 105), pp. 81-97, in particolare pp. 94-96. Il coffanus così come gli altri libri citati provenivano dalla biblioteca del Cardinal Johannes Gand. Tra i codici medici sono citati: un Antidotarium Nicolai, il De regimine sanitatis, alcune Questiones medicinae, gli Aforismi Ippocratis, un Quidem libellus arguimina (sic) e due non meglio specificati libelli de medicina; cfr. Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano (d’ora in avanti abbreviato in ASV), Instr. Misc. 1004. Da rilevare, come secondo le ricevute dei registri di pagamento per l’acquisto di libri dal pontefice, tra il 12 aprile e il 21 novembre 1317, ben tredici voci dei capitoli di spesa siano riferibili a opere di argomento scientifico, tra queste anche una Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (die 21 mensis novembris), cfr. ASV, Cam. Ap., Intr. et Ex. 16, ff. 29r-31v, vedi anche M. FAUCON, La librairie des Papes d’Avignon: sa formation, sa composition, ses catalogues, II, Paris 1887, pp. 18-20, 28-29. 5 Medico padovano, da non confondere, come invece proponeva agli inizi del secolo scorso Lynn Thorndike, con l’omonimo Guglielmo de Myrica anche conosciuto come Guglielmo di Spagna o d’Aragona; v. infra in questo paragrafo. 6 Quest’ultimo trattato ci è pervenuto, solamente, attraverso una copia del XVII secolo, dedicata a Urbano VIII (1623-1644); cfr. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in avanti abbreviata in BAV), Barb. lat. 306, f. 1r: «Incipit opusculum quod dicitur sertum papale de venenis. Francisco Barberino Cardinal Bibliotecario Urbani VIII Pontifici Maximi fratris filio hunc librum de venenis a Guglielmo de Marra Patavino compositum Urbani V Pontifici Maximi medico, eidem pontifici dicatum […]». 7 Così all’interno del Sertum si descrive tale particolare strumento: «Cornu serpentis a forma specifica producit succorum et lapis mutat colorem in presenza venenis […]. Lapis et cornu sunt corpora dura, tersa et frigida et polita tunc ac densus et dicti vaporis circustantes advenunt ad eis et condensantur et in aquam convertentur […] cornu irroratur ab illis sudo-
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Tornando alla produzione legata a Jean Déuse, lo stesso sostrato culturale che si intravede dietro la costruzione della nuova concezione della Visione beatifica8 non può prescindere da una conoscenza delle nuove teorie sulla visione e sull’ottica, portate avanti tra gli anni sessanta e settanta del Duecento da Witelo, Pecham e Ruggero Bacone, in un proficuo scambio intellettuale9. In un fine gioco speculativo le ricerche fisiche sulla luce naturale divengono un mezzo per cercare di conoscere l’essenza divina, cosicché : «[…] l’enjeu est non seulement celui d’une théorie de la lumière physique et de la perception optique, mais encore son articulation avec un théorie de la lumiere intellegible, dans sa dimesion naturelle du fonctionnement ordinaire de l’intellect et surnaturelle dans sa possibilité de connaître Dieu et l’anges»10. Anche le leggende che si sono sviluppate intorno agli interessi scientifico alchemici del pontefice possono essere lette, cum grano salis, quali testimonianze indirette di tale fermento culturale: si veda a proposito la notizia, riportata da François le Puy nel Breviarium Romanorum Pontificum, secondo la quale Giovanni XXII avrebbe trasformato l’intero Palazzo dei papi in un enorme laboratorio alchemico dedito alla ricerca e trasformazione dell’oro11. L’indicazione sembra, tuttavia, inverosimile e fortemente da ridimensionare, quand’anche si legga ribus. Similiter ipsi aer et vaporis advenentes lapidi et in aquam tandem conversi colorem ipsius lapidis permutant et obfuscant, vel obfuscantur speculum ab aere denso et corposo»; cfr. BAV, Barb. lat. 306, ff. 139r-140v. 8 C. TROTTMANN, Sciences optiques et theologie de la Vision Beatifique à la cour pontificale de Viterbe, in Mediaevalia textos e estudos 7-8 (1995), pp. 361-405. Circa il violento dibattito suscitato dall’innovativo pensiero di Giovanni XXII sulla visione beatifica, nell’ampio panorama degli studi si vd. in particolare M. DYKMANS, Robert d’Anjou, roi de Jérusalem et de Sicile, La vision bienheureuse. Traité envoyé au pape Jean XXII, Roma 1970 (Miscellanea historiae pontificiae, 30); ID., Les sermons de Jean XXII sur la vision béatifique, Roma 1973; ID., Pour et contre Jean XXII en 1333, Deux traités avignonnais sur la vision béatifique, Città del Vaticano 1975 (Studi e testi, 274); ID., Les frères mineurs d’Avignon au début de 1333 et le sermon de Gautier de Chatton sur la vision béatifique, in Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen-Âge 38 (1971), pp. 105-148; A. TABARRONI, “Visio beatifica” e “Regnum Christi” nell’escatologia di Giovanni XXII, in La cattura della fine. Variazioni dell’escatologia in regime di cristianità, a cura di G. RUGGIERI, Genova 1992, pp. 125-149; CH. TROTTMANN, Deux interprétations contradictoires de St. Bernard: les sermons de Jean XXII sur la vision béatifique et les traités inédits du cardinal Jacques Fournier, in Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge. Temps moderne, 105 (1993), pp. 327-379; ID., Vision béatifique et intuition d’un objet absent: des sources franciscaines du nominalisme aux défenseurs scotistes de l’opinion de Jean XXII sur la vision différée, in Studi medievali s. 3, 34 (1993), pp. 653-715; ID., À propos de la querelle avignonnaise de la vision béatifique: une réponse dominicaine au chancelier John Lutterell, in Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen-Âge 61 (1994), pp. 263-301. 9 Su tali ricerche e personaggi si veda in particolare la raccolta di saggi di A. PARAVICINI BAGLIANI, Medicina e scienza alla corte dei papi del Ducento, Spoleto 1991. 10 TROTTMANN, Sciences optiques cit., p. 373. 11 V. VERLAGUE, Jean XXII, sa vie et ses ouvres, Paris 1883, pp. 13-24.
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la decretale del 1317, Spondet pariter, come semplice, ma ferma condanna dell’iniquo profitto tratto dagli alchimisti ai danni della comunità e non dell’ars transmutatoria in quanto scienza, propriamente detta, anticipatrice della ricerca chimica12. In tale «[…] example of Papal care for Christendom and not obscurancy document or falsely claimed to forbid chemistry»13, si può individuare, inoltre, quella persistente tensione propria degli ambienti della curia verso tali discipline strettamente legate alla cura corporis. Tale ricerca era ritenuta d’altra parte come un completamento concreto della fede14, utile per apprendere i remoti e reconditi rapporti tra gli elementi al fine di tessere migliori lodi al Creatore dell’universo15. L’alchimia, infatti, peculiare mescolanza di scienza religiosa e religione scientifica, aveva come obiettivo finale, almeno per gli uomini di Chiesa, quello di giungere, attraverso una rigorosa investigazione del mondo naturale, anche sotto l’aspetto sperimentale, a una più soddisfacente cognizione teologico filosofica del fine ultimo del disegno celeste16. Bisogna, tuttavia, tenere presente che proprio dalla emanazione della bolla contro la magia, Super illius specula (1326), si constati all’interno dell’ambiente curiale un ambivalente atteggiamento intorno alle discipline alchemiche e astronomico-astrologiche, dal momento che queste ultime cominciano a essere considerate, al pari delle arti magiche, come probabili sospette di eresia17. Ciò appare 12 L. THORNDIKE, History of Magic and Sperimental Science, III, New York 1934, pp. 18-38. Fu proprio tale visione verso la scienza alchemica a far sì che alla fine del XIX secolo, il pontefice stesso fosse spesso rappresentato come vero alchimista e negromante, si cfr. su questo argomento in particolare PHILOPHOTES, Un Pape alchimiste, in Voile d’Isis 139 (1893), pp. 3-5; L. ESQUIEU, Notes historiques. Jean XXII et les sciences occultes, in Bulletin de la Société des études littéraires, scientifique et artistique du Lot 22 (1897), pp. 186-196; ID., Le couteau magique de Jean XXII, ibid. 25 (1900), pp. 240-264. Visione completamente positiva di Giovanni XXII come patrono delle scienze e del progresso era invece fornita agli inizi del XX secolo da J. J. WALSH, Popes and Science the History of the Papal Relations to Science During the Middle Ages an Down to Our Own Time, New York 1991, pp. 120-128. 13 WALSH, Popes and Science cit., p. 123. 14 S. BATFROI, La via dell’alchimia cristiana, Roma 2007, p. 31. 15 Ibid. p. 32. 16 In tale prospettiva, la pratica sperimentale della trasmutatio è relegata in secondo piano, inoltre il tanto agognato elixir, o pietra filosofale, non è caratterizzato da alcuna sostanza bensì incarnato dalla figura di Cristo stesso. Si veda su tale argomento ad esempio quanto proposto da Tommaso d’Aquino nel De lapide philosophico o da Raimondo Lullo nel De quinta essentia. 17 Tale atto non fa che ribadire e ampliare alcuni punti già precedentemente espressi nella decretale del 1317: si veda A. BOUREAU, Le pape e les sorciers. Une consultation de Jean XXII sur la magie en 1320, Roma 2004 (Source et document d’histoire du Moyen âge, 6), in particolare l’introduzione all’edizione critica, pp. VI-LII. Circa la rivalutazione negativa dell’alchimia tenuta in conto dai papi, almeno fin dalla seconda metà del XIII secolo in virtù della ricerca della pietra filosofale e dell’elixir di lunga vita, si vd. Micrologus 8 (1995). In tal propo-
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strettamente connesso alla duplice natura della disciplina: una teoretico speculativa, e una seconda esclusivamente pratica, insita ab origine in tale branca del sapere, nonché dall’esclusivo riconoscimento almeno dal XIV secolo della supremazia della prima, la sola in grado di far raggiungere l’utopico frutto dell’elixir. La ricerca dell’opus alchemico, che non deve essere semplicemente considerata come materiale e sperimentale, bensì ricerca filosofico-religiosa, metafora di quella spirituale. In virtù di tale spostamento di prospettiva gnoseologica il frutto dell’indagine alchemica diviene assimilato a elixir cristiano in grado di conferire, se non l’immortalità, almeno l’efficienza fisica fino al termine ultimo stabilito dalla volontà divina18. «[…] Quoniam Sanctitas vestra in statu suae iuventutis cogitare incoepit circa arcana et secreta cuiuscumque scientiae, ideo Deus, qui nostri desideriis reveleat misteria, vult dictae Sanctitatis maiestati omnis scientiae quamcumque particulam clarare perfecte, propter quod mihi secretum astronomiae completum in Baculo Jacob exstitit revelatum […]»19. In tal modo si apriva la lettera dedicatoria del già citato Instrumentum rivelatore, redatto negli anni Quaranta del Trecento e dedicato a Clemente VI (1342-1352). Tuttavia prime tracce di tale curiositas da parte del pontefice, come lo stesso Leo de Balneolis (1288-1342) sembra riconoscere, si riscontrano proprio già in statu suae iuventutis, come dimostrano alcuni manoscritti da lui utilizzati durante la lunga carriera universitaria. I Borgh. 13, 34, 134, 247, 312 conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana20 possono essere legati a vario titolo alla biblioteca personale di Pierre Roger/Clemente VI: manoscritti da lui studiati (Borgh. 13, 134, 312), durante sito degno di nota il caso del cardinale Francesco Napoleone Orsini (†1312), che nel testamento del 1304 ordina di bruciare alla sua morte tutti i libri di alchimia a lui appartenuti. Da ultimo si vd. anche M. MONTESANO, Il papato e la stregoneria, in Roma e il papato nel medioevo. Studi in onore di Massimo Miglio, I, a cura di A. DE VINCENTIIS, Roma 2012, pp. 123-135, in particolare pp. 127-131. 18 Circa l’evoluzione della concezione alchemica dopo Ruggero Bacone e la sua assimilazione da parte del mondo occidentale cattolico si cfr. M. PEREIRA, Un tesoro inestimabile elixir e prolongatio vitae nel Trecento, in Micrologus 1 (1993), pp. 161-188. 19 Wien, Nationalbibliothek, Vindob. Pal. 5277, f. 1rv. Cfr. M. VON CURTZE, Die Abhandlung des Levi Ben Gerson über Trigonomtrie und den Jacobstab, in Bibliotheca Mathematica 12 (1898), pp. 97-112, in particolare pp. 98-99. 20 A tali codici è da aggiungere anche la Summa di Auctoritates (BAV, Borgh. 204), dal momento che a ff. 13v-19v si riconosce la mano di Clemente VI. Cfr. MAIER, Codices burghesiani Bibliothecae Vaticanae, Città del Vaticano, Bibliotheca Apostolica Vaticana 1952 (Studi e testi, 170), pp. 260-261. Inoltre tale esemplare incompleto dei Parvi Flores sembrerebbe essere stato esemplato sul modello di quello posseduto da Giovanni XXII (vd. supra) ed inventariato all’interno della lista di spolio di Johannes da Gand; cfr. EAD., Annotazioni cit., pp. 94-95 nota 28.
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il periodo universitario parigino quando, tra il 1309 e il 1315, risiedeva in vicus straminis21; o successivamemte compilati come strumento didattico negli anni di insegnamento (Borgh. 34 e 247). Da ricollegare sempre alla sua poliedrica riflessione, una volta divenuto pontefice, anche l’esegesi alla Physioniomia aristotelica di Guglielmo de Myrica — della quale a oggi si conoscono solamente due versioni, tràdite rispettivamente dal ms. 81 della Biblioteca Alessandrina di Roma, codice del XIV secolo facente parte della biblioteca papale di Avignone22 e dal Canon Misc. 350 della Bodleian Library di Oxford, che raccoglie una tradizione più tarda del XV secolo23 —, nonché il già noto De baculo del matematico e astronomo ebreo Levì ben Gerson (1288-1344)24, al quale è da ascriversi anche la traduzione delle 21 Sull’attività letteraria, politico e diplomatica di Pierre Roger, prima di diventare pontefice, si vd. P. FOURNIER, Pierre Roger (Clemet VI), in Histoire littérarire de la France 27 (1937), pp. 209-238, J. E. WRIGLEY, Clement VI before His Pontificate. The Early Life of Pierre Roger (1290/91-1342), in Catholic Historical Rewiev 56 (1970), pp. 433-473. Testimonianze del periodo parigino si riscontrano all’interno dei suoi stessi sermoni: si cfr. per l’argomento G. MOLLAT, L’ouvre oratoire du Clement VI, in Archives d’histoire doctrinales et littérarire du moyen âge 3 (1928), pp. 239-274, in particolare p. 271. La presenza di note di possesso nei Borgh. 134 e 312 del tutto in linea con quelle presenti nei libri delle biblioteche dei conventi, in cui si indica la casa madre di appartenenza e il costo sostenuto per l’acquisto, nonché l’estrema semplicità esecutiva, farebbe ipotizzare che i due codici in questione potrebbero essere stati comprati attraverso le cautiones, devolute dal monastero ai singoli monaci proprio a tale scopo. Su tale argomento si veda in particolare K. HUMPHREYS, The Book Provision of Medieval Friars, Amsterdam 1964; ID., Scribes and Medieval Friars, in Bibliotekswelt und Kulturgeschichte, a cura di P. SCHWEIGEN, Munchen 1977, pp. 213-220; ID., The Effect of XIII Century Cultural Changes on Libraries, in Libraries and Culture 24 (1989), pp. 5-20. Per una trattazione della medesima problematica in ambito anglosassone si cfr. G. B. PARKES, Book Provision and Libraries at the Medieval University of Oxford, in Scribes, Scripts and Readers, a cura di ID., London 1991, pp. 299-310. 22 Nei fogli 1r-93v che riportano seppur in modo incompleto una versione acefala dell’Expositio in Physioniomiam, potrebbe riconoscersi l’esemplare di dedica al pontefice, o una versione redatta su tale archetipo in un breve lasso temporale. Infatti la tipologia di scrittura, l’apparato decorativo di stampo italiano, centro settentrionale, delle iniziali fitomorfe, ed infine l’uso dell’inchiostro lilla nei giochi di penna di fattura transalpina, indurrebbero a credere che il codice sia stato realizzato e decorato entro la prima metà del XIV secolo, da un atelier cosmopolita di area franco meridionale, forse avignonese, in base al melting pot culturale esistente nel codice; cfr. SALVATELLI, I Codici e la cultura cit., pp. 224-226. 23 La prefazione con la lettera dedicatoria al pontefice si conserva solo nel Canon Misc 350 (Oxford, Bodleian Library), ff. 1r-3r: «Guilelmi de Mirica commentaria in Phisioniomia Aristotelis sanctissimo domino et patri Clementi VI […] Guilelmus dictus de Mirica artistarum ne dicat magistrorum in artibus minimus […] Pro vitandis malorum periculosis contagiset proficuis bonorum consortis eligendis […]» cfr. THORNDIKE, History of Magic cit., p. 527. 24 Circa la dedicazione dell’Instrumentum rivelatore si veda sia la già citata epistola prefatoria (ms. 5277, Wien, Nationalbibliotek, f. 1rv): «Sanctissimo patri et domino, domino dilecto Clementi perspicacitatis acumine, celeri intellectu thesauro memoriaet facundia eloquendi […] Leo Israelita de Balneolis [...]» sia il colophon (ms. Lat. 7293, Paris, BnF, ff. 16v17r): «Explicit tractatus insrumenti astronomiae magistri Leonis iudei balneolensis habitato-
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sezioni inerenti l’astronomia del più esteso trattato filosofico Milhamot Adonai25. Accanto a tale specifica produzione, nella quale vi è inoltre da annoverare un commento di Alberto Magno al De animalibus di Aristotele, conosciuto oggi solamente tramite i pagamenti della Camera Apostolica dell’anno 135226, si deve anche segnalare l’impegno profuso intorno a questioni essenziali quali la riforma del calendario lunare e la correzione del numero aureo, indispensabile per stabilire la cadenza della Pasqua. Di tali ricerche furono dapprima incaricati gli astronomi francesi Firmin de Bouvais e Jean de Murs (1290-1355)27, che redassero, tra il 1344 e il ris Aurancae (sic) ad summum ponteficem dominum Clementem VI translatus de hebreo in latinum anno incarnationis Christi 1342 et pontificati domini Clementi anno primo». Per un’analisi dell’importanza di tale testo nell’ambito dell’evoluzione della matematica occidentale si vd. P. H. ESPENSHADE, A Text on Trigonometry by Levi ben Gerson, in Mathematics Teacher 60 (1967), pp. 628-637; B. GOLDSTEIN, Levi ben Gerson Contribution to Astronomy, in Studies on Gersonides, a Fourteenth-Century Jewish Philosopher-Scientist, a cura di G. FREUDENTHAL, Leiden – New York 1992, pp. 3-19; D. J. MANCHA, The Latin Translation of Levi Ben Gerson’s Astronomy, in Studies on Gersonides cit., pp. 21-46. La copia acefala tràdita nel manoscritto parigino latino 7293, ff. 1r-17v, potrebbe considerarsi per la sua elevata fattura l’esemplare di dedica al pontefice, o un codice esemplato su tale modello, dal momento che gli undici capilettera che sottolineano l’incipit dei differenti capitoli in cui è suddivisa l’opera potrebbero essere avvicinati alla mano del calligrafo Jean de Toulouse, trovando stretti punti di contatto con i capilettere, a lui attribuiti, che ornano il ms. 138 (Avignon, Bibliothèque municipale), cfr. SALVATELLI, I Codici e la cultura cit., pp. 231-236. 25 Sull’attività osservativa di Leo de Balneolis si vd. E. RENAN, Les écrivains juifs français du XIVe siècle, in Histoire littéraire de la France, XXXI, Paris, 1893, pp. 586-644, in particolare pp. 624-641; B. GOLDSTEIN, Medieval Observation of Solar and Lunar Eclipses, in Archives internationales d’histoire des sciences 29 (1979), pp. 101-155; da ultimo D. JACQUART, L’observation dans le sciences de la nature au Moyen Âge, in Micrologus. Il teatro della natura 4 (1996), pp. 55-75, in particolare pp. 56-59; C. SIRAT, Hebrew Manuscripts in the Middle Age, Cambridge 2002, p. 92. La traduzione dei capitoli del Milhamot Adonai, suddivisi in tre sezioni, è tràdita in maniera completa all’interno del Vat. lat. 3098, ff. 1r-108r (BAV), codice cartaceo di origine italiana risalente alla seconda metà del XIV secolo, cfr. L. THORNDIKE, Notes upon Some Medieval Latin Astronomical, Astrological and Mathematical Manuscripts at the Vatican Library, Part I, in Isis 47 (1956), pp. 391-404, in particolare pp. 391-392. 26 E. ANHEIM, La bibliothèque personnelle de Pierre Roger/Clement VI, in La vie culturelle, intellectuelle et scientifique à la cour des papes d’Avignon cit., pp. 1-48; A. MAIER, Der literarische Nachlaß des Petrus Rogerii (Clement VI) in der Borghesiana, in Recherches de théologie ancienne et médiévale 15 (1948), pp. 332-356; 16 (1949), pp. 72-98, ripreso in EAD., in Ausgehendes Mittelalter cit., II, pp. 255-315. 27 Matematico e astronomo assai rinomato dal momento che aveva composto l’Expositio intentionis regis Alphonsii circa tabulas eis (1321); su tale argomento si cfr. E. POULLE, Jean le Murs et les tables Alfonsines, in Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge 47 (1980), pp. 241-271; EAD., Les Tables Alphonsines avec le canons de Jean de Saxe. Édition, traduction et commentaire, Paris 1984; EAD., Les tables Alphonsies et Alphonse X de Castille, in Académie des Belles Lettres. Comptes rendus des séances de l’année 1987, Paris 1988, pp. 82102; EAD., Mesures et astronomie au Moyen Âge, in Micrologus 19 (2011), pp. 73-87, in particolare pp. 81-87. Da non sottovalutare anche il suo impegno decennale nel campo della ricerca
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1345, il De reformatione calendari, ampliamento del discorso precedentemente impostato nell’Epistula ad correctionem calendarii, probabilmente composta dal solo Jean de Murs entro il 134328. Infine, nel 1347, i parziali risultati ottenuti furono convogliati in un nuovo calendario lunare, al quale dal 1350, dovette dedicarsi il domenicano Jean de Thermis29. Sebbene in entrambi i casi gli studi non portarono a conclusioni definitive, ma solo a provvisori esiti, tanto da indurre il pontefice a non applicare la revisione del nuovo calendario30, tuttavia sulla base di tali studi e della simultanea
intorno alla musica polifonica sotto l’impulso e il sostegno del cardinal Philippe de Vitry (1291-1361): Ars Nova (1319), Musica speculativa secundum Boethium (1323), Libellus de cantus mensurabilis (1340), studi che incontrarono numerosi ostacoli anche a causa della promulgazione della bolla Docta Sanctorum da parte di Giovanni XXII; su quest’ultimo argomento si cfr. É. ANHEIM, La musique polyphonique à la cour des papes du XIVe siécle. Un sociologie historique, in Bulletin du centre d’études médiévales d’Auxerre 2 (2008), pp. 1-17; M. KLAPER, Liturgia e polifonia all’inizio del Trecento: appunti sulla genesi, trasmissione e recezione della Docta sanctorum di Giovanni XXII, in Philomusica 9, 3 (2010), pp. 135-149. 28 La prima lettera in cui si invitano i canonici Iohannes de Muris e Firmino de Bellavilla ad apportatre una correzione al numero aureo, ha data 25 settembre 1344 (ASV, Reg. 138, n° 305-306, f. 95r): si cfr. E. DÉPREZ, Clément VI (1342-1352). Lettres closes, patentes et curiales, se raporrtant à la France publiées et analysées d’après le registres du Vatican, I, fasc. 2, Paris 1925, p. 210, n° 1134. A questa istanza seguiranno le lettere inviate il 1° ottobre dello stesso anno all’arcivescovo di Burges, e al vescovo di Parigi affinché si solleciti l’autorizzazione ai due astronomi (ASV, Reg. 138, n° 313-314, ff. 96r-96v), cfr. DÉPREZ, Clement VI (1342-1352) cit., p. 212, n° 1139-140. Circa le vicende compositive del Tractatus de reformatione calendarii, ad oggi tràdito in sei esemplari: Lat. 15104, Paris, BnF; Canon. Misc. 248, Oxford Bodleian Library, Pal. Lat. 5226, 5292, 3162, 5273, Wien, National Bibliotek, si cfr. anche E. DEPREZ, Une tentative de réforme du calendrier sous Clément VI. Jean des Murs et la Chronique de Jean de Venette, in Mèlange d’archeologie et d’histoire 19 (1899), pp. 131-143; C. SCHABEL, John of Murs and Firmin of Beauval’s Letter and Treatise on Calendar Reform for Clement VI, in Cahiers de l’Institut du Moyen-Âge Grec et Latin (Københavns Universitet) 66 (1996), pp. 187-215. Circa le indagini che precedettero l’opera del 1344-45 si vd. ID., Ad correctionem calendarii: The Background to Clement VI’s Initiative?, ibid. 68 (1998), pp. 13-34. 29 Attualmente il documento è tradito dal ms. Sloane 3124 (London, British Library, ff. 2r-8r) nonché dal Vat. lat. 696 (ff. 136r-142v) si cfr. in particolare f. 136r: «Esto es que se si gue del canno proçedente della table de renovaçion della luna compuesta en Paris pro mandado [..] de lo papa Clemente VI ayno quinto de maestre Johan de Muris et de otros muchos mastros suspicientes en astrologia et astronomia»; cfr. THORNDIKE, History of Magic cit.., pp. 309-310; WODD, Clement VI cit., p. 207. 30 Sul vivace dibattito astronomico durante il pontificato di Clemente VI si veda anche K. BRUNNER, Die Gregorianische Kalenderform, Wien 1876, in particolare pp. 289-414; U. BERLIÈRE, La rèforme du calendrier sous Clement VI, in Revue Bénédectine 25 (1908), pp. 240-241; THORNDIKE History of Magic cit., pp. 268-280, 294, 324. Il lavoro di Johannes de Thermis alla morte di Clemente VI, dedicato nel 1354 al successore Innocenzo VI (1352-1362) con il titolo Tractatus de tempore celebrationis pascalis, ora è tràdito all’interno del Vindob. Lat. 5292, ff. 221r-239v (Wien, National Bibliotek).
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presenza di tali scienziati «il nuovo centro della cristianità ricoprì il ruolo di propulsore degli studi matematici ed aritmetici»31 Un ulteriore indice di fervore speculativo, che si protende anche nel campo medico, si può ravvisare nella lettera di Luigi di Beringen (13041361), datata 27 aprile 1348, redatta ad Avignone e inviata a Bruges. Narrando il flagello della pestilenza in atto l’autore si sofferma a sottolineare come: «est enim facta de anatomia per medicos in multis civitatibus, Italiae etiam in Avignone, ex iussu et praecepto pape ut sciatur origo morbis et sunt aperta et incisa multum corpora mortuorum»32. Su impulso dello stesso pontefice, pertanto, andando apparentemente contro la bolla Detestandae feritatis di Bonifacio VIII (1297-1304) del 27 settembre 1299, che vietava il sezionamento dei corpi33, sono autorizzate autopsie al fine di comprendere le vere ragioni del contagio ed evitarne la propagazione. Da riconnettere alla piaga della peste sembra possa sottendersi proprio la nominata redazione della Expositio in phisiognomiam di Guglielmo di Myrica34, rielaborazione omogenea in forma di trattato delle precedenti Sententiae cum questionibus in librum phisioniomiae. Il libello andrebbe letto, pertanto, come d’altra parte suggeriva fin dagli inizi del secolo scorso Lynn Thorndike, come una soluzione “positivista” e filosofica al clima di paura che incombeva sull’umanità, una risposta costruttiva a una società turbata 31 A. MURRAY, Ragione e società nel medioevo, Roma 2002, p. 219. Circa le interessanti osservazioni sul ruolo dell’aritmetica nella società medievale si vd. ibid., il cap. 8, Gli uomini e la matematica, pp. 201-223. 32 Per un’edizione critica di tale lettera e una breve biografia del suo autore si veda da ultimo A. WELKENHUYSEN, La peste en Avignon (1348), décrit par un témoin oculaire, Luis Sanctus de Beringen, in Pascua Medievalia. Studies voor Prof. Dr. J. M. De Smet, a cura di R. LIEVENS – E. VAN MINGROOT – W. VERBEKE, Leuven 1983 (Mediaevalia Lovaniensia, s. I, 10), pp. 452-492, in particolare pp. 466, 482. 33 Corpus iuris canonici, a cura di E. FRIEBERG, II, Lipsiae 1889, coll. 1271-1273 (Extrav. Commun., III, 4 De sepolturis); Les registres de Boniface VIII, a cura di A. THOMAS – M. FAUCON – G. DIGRARD, II, Paris 1885, n° 3409, pp. 289-290. Su tale problematica e sulla corretta interpretazione da dare alla bolla si veda E. BROWN, Death and Human Body in Later Middle Ages: The Legislation of Boniface VIII on the Division of Corps, in Viator 12 (1981), pp. 221-270; F. SANTI, Il cadavere e Bonifacio VIII. Intorno a un saggio di Elisabeth Brown, in Studi medievali s. 3, 28 (1987), pp. 861-878; A. PARAVICINI BAGLIANI, L’Église médiévale et la renaissance de l’anatomie, in Revue médicale de la Suisse romane 109 (1989), pp. 987-991; ID., Démembrement et intégrité du corps au XIIIe siècle, in Terrain 18 (1992), pp. 26-32; da ultimo si cfr. anche SALVATELLI, I Codici e la cultura cit., pp. 64-66. 34 Circa l’identificazione di tale autore con Gulielmo di Spagna, genericamente anche con Guglielmo d’Aragona si vd. M. DYAZY, Index Scriptororum latinorum Medii Aevi, Madrid 1959, pp. 326-327; R. A. POCK, Addenda to an Article on William of Aragon, in Archives d’histoire du Moyen Âge 35 (1968), pp. 297-299. Inoltre circa l’anteriore versione delle Sententiae super phisioniomia Aristotelis, databile intorno al 1310 conservata nel Lat. 16158, ff. 142r-161v (Paris, BnF), si cfr. C. LOHR, Commentaries d’Aristote au Moyen Âge latin, in Traditio 24 (1968), pp. 149-245, in particolare p. 203.
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e afflitta dalla malattia, in cui medicina, etica e biologia avrebbero potuto offrire gli strumenti concettuali e operativi in grado di ristabilire l’equilibrio tra l’uomo e il mondo a lui circostante35. L’assenza di riferimenti alle scienze astronomico-astrologiche, al fine di raggiungere tale riconciliazione con il mondo naturale36, potrebbe essere visto come ulteriore indice di quanto appena esposto circa l’altalenante opinione nella quale era tenuta tale disciplina dalla cerchia curiale. Accanto alle testimonianze dirette tramandateci sia dalle dediche, sia dalle fonti cronachistiche dell’epoca, non si può fare a meno di ricordare come sotto tale pontificato il giardino del vecchio palazzo papale fu ampliato e arricchito dalla presenza di animali esotici37. In tale prospettiva è da sottolineare come proprio la Chambre du cerf, studium privato, luogo di raccoglimento personale, non solo fu decorata da scene profane di caccia, secondo la più moderna moda propria delle dimore laiche38, ma anche 35 THORNDIKE, Historia of magic cit., p. 527, si cfr. anche da ultimo sul medesimo argomento, ma per una diversa opinione a riguardo, J. AGRIMI, Fisiognomica, natura allo specchio, in Micrologus 4 (1996), pp. 129-178 in particolare pp. 142-154; EAD., Ingeniosa scientia nature: studi sulla fisiognomica medievale, Firenze 2002 (Millennio medievale, 36, sottocollana, 8), in particolare, pp. 66-70; circa le caratteristiche apportate al testo dall’autore al momento della dedica al pontefice e soprattutto all’introduzione di digressioni al fine di rendere meno oscuro il significato del testo e giungere ad una «causa melioris doctrina ad plenariam evidentiam questionis» si vd. ibid., pp. 144-145; per una panoramica della fortuna di tale componimento all’interno della facoltà delle arti, ibid., pp. 125-126. 36 J. AGRIMI, Fisioniomia e “scolastica”, in Micrologus 1 (1993), pp. 235-271; EAD., La ricezione pseudoaristotelica nella facoltà delle arti, in Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge 64 (1997), pp. 127-188, in particolare pp. 165-178. 37 S. GAGNIERE, Les jardin et la ménagerie du Palais des Papes d’après le comptes de la chambre apostolique, in Avignon au Moyen Âge, a cura di H. ALIQUOT, Aubanel 1988, pp. 103109. Da notare inoltre l’esistenza di un vivier, del tutto simile a quello rappresentato nella scena di pesca del ciclo della Chambre de cerf, essenziale per l’approvigionamento di pesce per le cucine del palazzo papale: cfr. J. GIRARD, Le vivier du pape, in Annuaire de la Société des Amis du Palais de Papes 32-33 (1953-54), pp. 41-50; da ultimo per una trattazione complessiva dei giardini delle dimore papali avignonesi si vd. E. BARRETT, Les “vergers” de la papauté d’Avignon: Avignon, Pont-de-Sorgues et Villeneuve (1316-1378), Thèses de l’École de Chartes, Université de la Sorbonne, Paris 2004. 38 Si vedano in proposito le scene di caccia rinvenute a Sorgues (1375-1380) e Avignone presso rue du Gal rispettivamente livree del cardinale Juan Fernandez de Heredia e Guillame I d’Aigrefueille (†1369). Proprio gli affreschi commissionati da quest’ultimo sembrano avere forti legami, sul piano ideologico, con il ciclo papale dal momento che sembrano decorare lo studium privato del cardinal d’Agrifueille. Dal punto di vista artistico invece tali dipinti sono pervasi da un gusto di matrice squisitamente francese e da un linearismo gotico che li differenzia sostanzialmente dai modelli situati nel Palazzo dei papi, realizzati con un trentennio di anticipo. Si cfr. F. ENAUD, Découverte fortuite de peintures murales du XIVe siècle à Avignon, in Les monuments historiques de la France, 17, 2-3 (1971), pp. 196-202; M.-C. LÉONELLI, Un aspect du mécénat de Juan Fernadez de Heredia dans le Comtat: les fresques de Sorgues, in Genèse et début du Grand Schisme d’Occident, Paris 1980 (Colloques du CNRS, 586), pp. 409-
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dotata di numerose gabbie, voliere, all’interno delle quali erano ospitati uccelli delle specie più disparate. Voliere vuote erano poi dipinte negli strombi delle finestre nella camera papae, decorata quest’ultima da un rigoglioso motivo a girali, che tappezza interamente le pareti della camera di Benedetto XII (1334-1342)39. Natura, dunque, reale e natura immaginata, dipinta, si fondevano una nell’altra negli appartamenti privati del pontefice, in un reciproco gioco di specchi. Lo studium diveniva una sorta di prolungamento visivo del viridarium, che si estendeva proprio ai piedi della Torre del Guardaroba dove è situata la Chambre du cerf. Il bosco-giardino dipinto e l’hortus conclusus reale divenivano riflessi dell’ordine retto del governo e della sua implicita legittimazione, nonché dell’armonia tra uomo e mondo naturale, anticipazione del paradiso terrestre, dell’Eden perduto, analogia resa ancor più palese se si pensa alle alte mura che circondano e racchiudono il palazzo papale40. Il verger era, a distanza di un secolo, riproposizione di quei loca amena, loca solaciorum, di antica memoria, ricchi di animali esotici, lussureggiante vegetazione e fontane zampillanti propri della corte sve421; EAD., Les peintures des livrées cardinalices, in Monuments historiques 36, 170 (1990), pp. 40-47. Per un quadro complessivo dell’organizzazione e delle peculiarità delle residenze cardinalizie nella nuova residenza papale, in confronto con quelle romane e delle altre città papali, si vd. M. DYKMANS, Les palais cardinalices d’Avignon, in Mélanges de l’École française de Rome. Moyen-Âge, Temps modernes 83 (1971), pp. 389-438. 39 Per la camera e lo studium di Benedetto XII (1334-1342) e la rispettiva decorazione si vd. L. H. LABANDE, Le Palais des Papes et les monuments d’Avignon au XIVe siècle, I, Marseille 1925, p. 102; M. LACLOTTE, L’école d’Avignon, Paris 1983, p. 147; D. VINGTAIN, Avignone e il palazzo dei papi, Milano 1999, pp. 107-108, 119-121. Tale camera risulta in ordine temporale il secondo ambiente espressamente deputato a studio privato dopo quello di Giovanni XXI (1276-1277), situato nella torre del Palazzo papale di Viterbo; cfr. G. M. RADKE, Viterbo as a Profile of a Thirteenth Century Papal Palace, Cambridge 1996, in particolare pp. 82, 84, 237, 246-247; M.T. GIGLIOZZI, I palazzi del papa, Città di Castello 2003 (La corte dei papi, 11), pp. 124-125; V. BRANCONE, Le domus dei cardinali nella Roma del Duecento. Gioielli, mobili, libri, Città di Castello 2010 (La corte dei papi, 19), pp. 41-42. Per una storia di tale ambiente dedicato all’apposita attività erudita si vd. W. LIEBENWEIN, Studiolo. Storia e tipologia di uno spazio culturale, traduzione a cura di C. CIERI VIA, Ferrara 2005. 40 Per un’analisi del significato storico e allegorico del giardino nella società e nell’ambito della corte papale si vd. F. CARDINI, Il giardino del cavaliere, il giardino del mercante. La cultura del giardino nella Toscana tre-quattrocentesca, in Mélanges de l’École française de Rome, Moyen-Âge 106 (1994), pp. 259-273; P. MORPURGO, L’armonia della natura e l’ordine dei governi, in Il teatro della natura. Micrologus 4 (1996) pp. 179-205; F. CARDINI, Teomimesi e cosmomimesi, il giardino come nuovo Eden, ibid., pp. 331-354; P. MORPURGO, L’armonia della natura e l’ordine dei governi (secoli XII-XIV), Turnouth 2000 (Micrologus’ Library, 4); F. CARDINI, Il limite. Il giardino e la poetica dello spazio chiuso, in Il giardino e le mura, atti del convegno (S. Miniato, 23-24 giugno, 1995), a cura di C. ACIDINI LUCHINAT – G. GALLETTI – M. A. GIUSTI, Firenze 1997, pp. 23-36, in particolare pp. 29-30; da ultimo F. CARDINI – M. MIGLIO, Nostalgia del Paradiso, il giardino medievale, Roma 2002, in particolare pp. 141-148.
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va di Federico II, i quali possono essere considerati un modello diretto il giardino di Avignone41. Tale suggestione, che a prima vista può essere considerata come semplice capriccio (un ludus laico), può essere osservata sotto una diversa angolazione tenendo conto dei testi, delle opere scientifiche appartenute, lette, studiate, sottolineate e annotate da Pierre Roger/ Clemente VI, o di quelle semplicemente commissionate o a lui donate una volta divenuto pontefice, ma in seguito entrate a far parte della biblioteca papale. Se la raccolta libraria personale si inserisce perfettamente nell’ambientazione creata all’interno della Chambre du cerf, il sapore profano che pervade l’ambiente non fa che esaltarlo, sottolineando l’importanza in cui erano tenute le arti del quadrivium da parte del pontefice42. Il legame che si è cercato di stabilire tra tale omogenea raccolta di codici e il suo originario luogo di conservazione, non può non tenere conto di due fattori: il fatto che entrambi i soggetti, sono da considerarsi esclusivamente privati; una biblioteca personale43, racchiusa in un ambiente come la camera papae, 41 M. S. CALÒ MARIANI, L’acqua e le residenze regie dell’Italia meridionale, in Mélanges dell’École française de Rome 104 (1992), pp. 347-372; EAD., Lo spazio dell’ozio e della festa. I sollazzi, in Federico 2. Immagine e potere, a cura di M. S. CALÒ MARIANI – R. CASSANO, Venezia 1995, pp. 357-364; P. MANE, L’Opus Ruralium commodorum di Pietro de Crescenzi, ibid., pp. 365-367. Tuttavia non sembra in alcun modo riprendersi il gusto dell’acqua come cura corporis, così evidente nella tradizione federiciana; su tale argomento si veda in particolare S. MADDALO, Il De balneis puteolaneis di Pietro da Eboli. Realtà e simbolo nella tradizione figurata, Città del Vaticano 2003 (Studi e testi, 414); in special modo, pp. 7-21; EAD., I bagni di Pozzuoli nel Medioevo: il De Balneis Puteolanis, in Bains curatifs et bains hygiéniques en Italie de l’antiquité au Moyen Âge, a cura di M. GUÉRIN-BEAUVOIS – J.-M. MARTIN, Roma 2007 (Collection de l’École française de Rome, 383), pp. 79-92; S. MADDALO – S. SANSONE, Il De balneis Puteolanis di Pietro da Eboli nel ms. 236 della Biblioteca Palatina di Parma, in Forme e storia. Scritti di arte medievale e moderna per Francesco Gandolfo, a cura di W. ANGELELLI – F. POMARICI, Roma 2011, pp. 403-414. 42 Per una lettura iconologico-iconografica e simbolica della Chambre du cerf si cfr. CH. DE MERIDOL, La Chambre du cerf au Palais d’Avignon. Observations sur l’emblématique et la thématique de Clément VI (1342-1352), in Bulletin de la Société national des antiquaires de France 1985, pp. 210-213; EAD., Clément VI, seigneur et pape, d’après le témoignage de l’emblématique et de la thématique. La chambre du cerf. L’abbatiale de la Chaise-Dieu, in Le décor des églises en France méridional, Toulouse 1993 (Cahiers de Fanjeaux, 28), pp. 331-361. A mio avviso non sarebbe da escludere che tale ciclo monumentale, incentrato su scene di caccia, possa essere stato preso a modello, a distanza di circa tre-quattro decenni, per la composizione delle tabulae, che ornano il trattato cinegetico di Gaston Phébus, dal momento che gli esemplari più datati di tale opera sarebbero proprio da ascriversi ad un atelier di cultura avignonese del terzo quarto del XIV secolo, dove coesistono elementi decorativi caratteristici della produzione parigina con altri propri di quella boema, vd. infra in questo saggio. 43 Il fatto che si tratti di una raccolta di codici ad uso specificatamente personale, è dettato anche dalla presenza di un esiguo apparato decorativo, spesso semplicemente impostato, ma non portato a compimento. Interessante inoltre, dal punto strettamente codicologico, l’uso di pergamene di diverso formato, spessore e dimensione, senza essere uniformate, anzi alcune volte evidentemente di risulta, così come i numerosi spazi bianchi nelle colonne di
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adibita a studium, a luogo di raccoglimento personale; entrambi realizzati per esplicita volontà dello stesso Clemente VI. Si riassumeva in tal modo la concezione del pontefice di riuscire a racchiudere in un sol luogo l’inclinazione di conoscenza e di dominio sulla natura — perfettamente incarnate in Pierre Roger —, due facce della medesima medaglia, legame essenziale tra sapere e potere nato nella curia del XIII secolo44. 2. Una prospettiva privilegiata per osservare quella tensione verso le scienze esatte, che aveva già caratterizzato profondamente la speculazione della Curia romana nel XIII secolo45 — come decifrabile in filigrana dalla Recensio Bonifaciana del 129546, o da quella Perusina47 di sedici anni posteriore (28 febbraio – 4 giugno 1311), — e che non venne meno con lo spostamento della sede papale nella Nuova Roma, detengono le librariae del Palazzo papale di Avignone. Testimoni di tale linea di continuità, del scrittura, le diverse tonalità di inchiostro e di mise-en-page che sono di veri e propri blocchi di appunti assemblati in un secondo momento. Pertanto in tali manoscritti il testo era posto in primo piano rispetto all’apparato decorativo. 44 Per tali argomentazioni si cfr. da ultimo E. ANHEIM, La Chambre du cerf, in Micrologus 16 (2008), pp. 57-124, in particolare pp. 105-111. 45 Ampio e variegato risulta il dibattito su tale tema: per una summa da ultimo si cfr. SALVATELLI, I Codici e la cultura cit., pp. 28-40 e relativa bibliografia. 46 ASV, Indice 4 ol. arm. LVI, n° 45, ff. 62r e sgg.; si cfr. E. MOLINER, Inventaire de trésor du Saint Siège sous Boniface VIII (1295), in Bibliothèque de l’École de chartres 43 (1882), pp. 227-310, 626-646; 45 (1884), pp. 31-57; 46 (1885), pp. 16-44; 47 (1186), pp. 648-667; 49 (1888), pp. 226-237; F. EHRLE – H. DENIFLE, Archiv für Literatur und Kirchengeschichte des Mittelalters, I, Berlin 1887, pp. 30-41; F. EHRLE, Historia bibliothecae romanorum pontificum tum Bonifatianae tum Avenionensis, I, Città del Vaticano 1890, pp. 5-8; A. PELZER, Addenda et emendanda ad Francisci Ehrle Historia romanorum pontificum tum Bonifatianae tum Avenionensis, Città del Vaticano 1947, pp. 11-24; P. GUIDI, Inventari di libri nelle serie dell’Archivio Vaticano (1287-1459), Città del Vaticano 1948 (Studi e testi, 135), p. 15. Di tale inventario esiste anche una seconda versione assai più tarda, databile al XVI-XVII secolo, all’interno del ms. lat. 5180 (Parigi, BnF), per la parte relativa ai libri si cfr. FAUCON, La librairie cit., pp. 2-18. 47 ASV, Reg. Aven. Clemens VI, X, 65, ff. 452r-538v; si cfr. EHRLE, Historia cit., I, pp. 24117; GUIDI, Inventari cit., p. 16; M. H. JULLIEN DE POMMEROL – J. MONFRIN, La Bibliothèque Pontificale à Avignon et à Peñiscola pendant le Grand Schisme d’Occident et sa dispersion: Inventaires et concordances, I, Roma 1991 (Collection de l’École française de Rome, 141), pp. 488, 492-493 si vd. anche per una dettagliata analisi della storia di tale documento J. GARDNER, Il mecenatismo di Bonifacio VIII: l’inventario perugino del 1311, in Roma caput Mundi. Apogeo e decadenza di Roma medievale. Atti giornata di studi (Roma, Biblioteca Hertziana, 1 luglio 1999), a cura di J. GARDNER, Roma 2001 (Romanisches Jahrbuch, 34), pp. 69-87; da ultimo si cfr. P.-Y. LE POGAM, Les inventaires pontificaux entre la fin du XIIIe siècle et les débuts du XIVe siècle (1295, 1304, 1311): pour une réédition et une confrontation, in Thesis. Cahier d’histoire des collections et de muséologie 7 (2005), pp. 7-39, in particolare pp. 15-20; A. PARAVICINI BAGLIANI, La biblioteca papale nel Duecento e Trecento, in Le origini della biblioteca Apostolica Vaticana tra umanesimo e rinascimento (1447-1534), in Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, I, a cura di A. MANFREDI, Città del Vaticano 2010, pp. 84-94.
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medesimo orizzonte intellettuale della corte pontificia, oltre che della sua sfaccettata politica culturale48, appaiono i numerosi inventari avignonesi (1353, 1369, 1374, 1409-1410)49, nonché quelli relativi allo spostamento della residenza pontificia nel castello di Peñiscola (1412-14, 1423, 1433)50. Analizzando le recensiones Urbaniana51 e Gregoriana52 la spiccata attenzione verso le scienze esatte, si declina in una preponderante presenza dei libri naturales di Aristotele, secondo la recente traduzione del penitenziere papale Guglielmo da Moerbeke (1215-1286), nonché in numerosi esemplari dedicati ai suoi commentatori latini e arabi (Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, Avicenna), della Naturalis historia di Plinio il Vecchio e dell’Almagesto tolemaico. A tale nucleo si affiancano esemplari delle Ethimologiae di Isidoro, della Perspectiva maior di Johannes Pecham, della Perspectiva minor di Witelo, o ancora della traduzione di Campano Novara degli Elementa euclidei. Un peso consistente e assai articolato appare, inoltre, assumere il campo medico, nel quale un ruolo essenziale ricoprono le traduzioni di autori orientali quali Seraphion, Avicenna, Razus, Alfargani. Il medesimo orizzonte culturale appare perdurare, con un significativo incremento numerico dei volumi della biblioteca, anche sotto il pontificato di Benedetto XIII (1394-1423). Ciò appare evidente nell’inventario della magna bibliotheca di Peñiscola del 1412-1414 nel quale si possono enumerare, congiuntamente ai molteplici e omnipresenti libri naturales aristotelici e ai nutriti loro commenti, anche opere di Archimede, Boezio, Frontino, Galeno, Igino, Ippocrate, Palladio, Tolomeo, Vegezio, Vitruvio53. Da evindenziare come si possa anche constatare una progressiva e sempre più rilevante attenzione verso trattati dedicati all’arte medica. Se inizialmente questi appaiono raccolti in una specifica sezione, in seguito, viene loro dedicato ampio spazio in un apposito armarium54. Ciò è testimonianza 48
Cfr. supra. Per una panoramica completa e un’analisi dettagliata di tali fonti da ultimo si cfr. SALVATELLI, I Codici e la cultura cit., pp. 10-17, 247-259 e bibliografia citata. 50 Ibid., pp. 17-19, 263-272. 51 ASV, Reg. Aven. 122, ff. 195r-338v si cfr. EHRLE, Historia cit., pp. 254-437; GUIDI, Inventari cit., p. 58; PARAVICINI BAGLIANI, La biblioteca papale cit., pp. 99-103. 52 ASV, Coll. 468, ff. 218r-307r; cfr. EHRLE, Historia cit., I, pp. 451-560; H. HOBERG, Die Inventare des päpstlichen Schatzes in Avignon (1314-1376), Città del Vaticano 1947 (Studi e testi, 111), pp. 401-464; GUIDI, Inventari cit., 62; PARAVICINI BAGLIANI, La biblioteca papale cit., pp. 103-104. 53 Paris, BnF, Lat. 5156 A, ff. 1r-155r; cfr. FAUCON, La librairie cit., pp. 43-151; si vd. anche JULLIEN DE POMMEROL – MONFRIN, La Bibliothèque Pontificale cit., pp. 43-44, 339-340. 54 Se nella recensio del 1369 appaiono indistintamente catalogati tra i libri diversorum doctorum, in quella del 1375 le arti liberali sono interamente riunite all’interno della tabula V, suddivisa in tre rubriche: Grammatica, Logica, Naturalia, Utriusque iuris; Medicina; Ius civile. Iniziale differenziazione si comincia ad avere nell’inventario della biblioteca del palaz49
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non solo del decisivo accrescimento numerico degli esemplari, ma anche di una maggiore articolazione della disciplina: accanto alle auctoritates classiche o orientali, si devono rilevare anche compendi contemporanei inerenti veleni e antidoti, la peste o l’attività cardiaca55. Gli inventari della biblioteca papale di Avignone pur mantenendo invariata la base della scolastica aristotelica, se ne discostano a fronte di un panorama intellettuale più ampio e variamente declinato, dovuto sia alla volontà collezionistica o agli interessi personali dei pontefici — palese il caso di Pierre Roger/Clemente VI (13442-1352) —, sia alla pratica del ius spolii56. Tale caratteristica si riflette, ancora una volta, in particolare nell’arte medica che accoglie, in traduzione, sia trattati di matrice arabozo di Avignone del 1407, dove i codici inerenti il quadrivium e la medicina sono riuniti nel nono scaffale del terzo armadio. Infine nella libraria maior di Peñiscola (1412-1414) alla materia medica appare riservata il secundus ordo della quarta domuncula del secundum armarium (item 729-752); le opere di scienze naturali e quelle inerenti l’astrologia, la logica e la matematica risultano invece essere suddivise rispettivamente tra il primo ordine del quinto scaffale del secondo armadio (item 753-782) e il secondo ordine del settimo scaffale del terzo armadio (item 940-962). A. MANFREDI, Ordinata iuxta seritatem et aptitudinem intellectus domini nostri pape Gregori undecimi. Note sugli inventari della Biblioteca Papale di Avignone, in La vie culturelle, intellectuelle et scientifique à la cour des papes d’Avignon, a cura di J. HAMESSE, Paris – Thournout 2006 (Text et étude de Moyen Âge, 28), pp. 87-109. 55 Per tali considerazioni essenziali appaiono le testimonianze dell’ultimo inventario di Avignone (1407) cfr. rispettivamente la recensio della libraria magna Madrid, Biblioteca nacional, ms. 6399 (olim S. 3), f. 1r, cfr. F. EHRLE, Un catalogo fin qui sconosciuto della biblioteca papale d’Avignone (1407): il codice S. 3 della Biblioteca Nazionale di Madrid, in Fasciculus Joanni Willis Clark dedicatus, Cambridge 1909, pp. 97-114, in special modo p. 111; JULLIEN DE POMMEROL – MONFRIN, La Bibliothèque Pontificale cit., pp. 113-125, specialmente p. 113; nonché della Chambre du cerf e dello studium pape, cfr. rispettivamente: ASV, Coll. 469, ff. 177r184v; JULLIEN DE POMMEROL – MONFRIN, La Bibliothèque Pontificale cit., pp. 127-133; ASV, Coll. 469B, ff. 49v-50r; JULLIEN DE POMMEROL – MONFRIN, La Bibliothèque Pontificale cit., pp. 135-142. Allo stesso modo essenziali appiono le tre recensiones del castello di Peñiscola (1412-14; 1423; 1433), cfr. Paris, BnF, Lat. 5156 A, ff. 1r-155r; cfr. FAUCON, La librairie cit., pp. 43-151; si vd. anche JULLIEN DE POMMEROL – MONFRIN, La Bibliothèque Pontificale cit., pp. 4344, 339-340. Barcelona, Biblioteca de Catalunya, ms. 233, ff. 1r-24r; cfr. J. SERRANO I CALDERO – J. PERNAU I LESPELT, Darrer inventari de la biblioteca papal de Peníscola (1423), in Arxiou de Textos catalans antics 6 (1987), pp. 49-183, si vd. anche JULLIEN DE POMMEROL – MONFRIN, La Bibliothèque Pontificale cit., pp. 367-623. Barcelona, Biblioteca de Catalunya, ms. 235, ff. 1r-21v; cfr. JULLIEN DE POMMEROL – MONFRIN, La Bibliothèque Pontificale cit., II, 625-702. In relazione alla collezione privata del pontefice Benedetto XIII si vd. anche A. MAIER, Die bibliotheca minor Benedikts XIII (Petro de Luna), in EAD., Ausgehendes Mittelalter. Gesammelte Aufsätze zur Geistesgeschichte des 14. Jahrhunderts, III, Roma 1977 (Storia e letteratura, 138), pp. 1-53; SERRANO I CALDERO – J. PERNAU I LESPELT, Darrer inventari cit., pp. 185226. Barcelona, Biblioteca de Catalunya, ms. 229, ff. 19r-38v, si vd. in particolare f. 19r; cfr. P. MARTÌ DE BARCELONA, La biblioteca Papal de Peñiscola, in Estudios franciscanos 28 (1922), pp. 331-341, 420-436 e ID., La biblioteca Papal de Peñiscola, ibid. 30 (1923), pp. 88-94, 266272; anche JULLIEN DE POMMEROL – MONFRIN, La Bibliothèque Pontificale cit., pp. 702-744. 56 In relazione a tale pratica che assunse dimensioni assai rilevanti dal pontificato di
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orientale sia opere di medici occidentali contemporanei — spesso stipendiati dalla stessa curia —, ma anche nell’astronomia e nell’aritmetica come evidenziano alcuni trattatelli di computo essenziali per la determinazione del calendario liturgico57. Nelle librariae descritte all’interno dei testamenti dei cardinali di curia, la curiositas verso le scienze esatte, tranne circoscritti, rarissimi e specifici casi, sembra invece non essere così precipua, né particolarmente approfondita. Volendo intraprendere un discorso numerico, i codici “scientifici” non occupano che un ventesimo circa delle biblioteche private e si possono annoverare sotto tale etichetta testi delle più svariate matrici culturali: dal Secretum pseudo-aristotelico al De regimine principum di Egidio de Columna, dal De animalibus di Aristotele alle già nominate Ethimologiae di Isidoro di Siviglia, fino al trattato sul ludus schacorum58, per giungere a numerosi codici medici di varia natura, spesso segnalati semplicemente come liber de medicina o ancora libelli de arte medica59. 3. Interesse sporadico è stato prestato, fino alla seconda metà del secolo scorso, all’illustrazione libraria, fiorita grazie all’insediamento dei pontefici nella Nuova Roma. Sebbene i presupposti per una tale ricerca si fossero già consolidati tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo60 e fondamentali Clemente VI vd. D. WILLIMAN Records of the Papal Right of Spoil (1316-1412), Toronto 1974; ID., The Rights of Spoil of Popes of Avignon 1316-1415, Philadelphia 1988. 57 Si pensi ad esempio alla citata vicenda dell’Epistula ad correctionem calendarii, cfr. supra in questo saggio. 58 Con ogni probabilità da identificare con il Liber de moribus, et de officis nobilium super ludo schacorum, scritto didattico-moraleggiante del frate domenicano Jacobus de Casalis sul gioco degli scacchi. Interessante registrarne la presenza all’interno di una biblioteca ecclestiastica, visto l’atteggiamento ostile della Chiesa nei confronti di tale pratica ludica. Circa la fortuna e la tradizione manoscritta di tale opera si cfr. da ultimo D. D’ELIA, Il codice Buoncompagni n° 3, Trieste 2003, pp. 63-185 e bibliografia citata. 59 Essenziale per tale analisi la lettura degli elenchi di codici desumibili dai testamenti dei prelati di origine europea e francese, si cfr. D. WILLIMAM – J. MONFRIN – M. H. JULLIEN DE POMMEROL, Bibliothèques Ecclésiastiques au Temps de la Papauté d’Avignon, I, Paris 1980 e M. H. JULLIEN DE POMMEROL – J. MONFRIN, Bibliothèques Ecclésiastiques au Temps de la Papauté d’Avignon, II, Paris 2001. Infatti da tali inventari emerge che, nel lasso cronologico 13181409, codici scientifici compaiono solamente in 68 lasciti testamentari, rispettivamente di 43 di membri del clero francese e 25 inerenti a inglesi, italiani, spagnoli. Esemplificative sotto tale aspetto appaiono, ad esempio, le biblioteche dell’arcivescovo di Narbonne Gaspart de Laval (m. 1347) e di Johannes de Florentia (m. 1349), rispettivamente camerario e medico di Clemente VI, cfr. WILLIMAN, Bibliothèques Ecclésiastiques cit., pp. 191-192; 212-214. 60 Primi studi sulla miniatura e l’illustrazione libraria ad Avignone si devono L. H. LABANDE, Le manuscrits de la Bibliothèque d’Avignon provenant de la librairie des papes du XIVe siècle, in Bulletin historique et philosophique (1895), pp. 145-163; J. DOMINGUEZ BORDONA, Libros miniados en Aviñón para d. Fernandez de Heredia, in Museum 6 (1918-1920), pp. 317320; P. PANSIER, Histoire du livre et de l’impression à Avignon du XIVe siècle, 1-2, Paris 1922; J.
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contributi nel delineare l’importanza della miniatura avignonese, sulla scia delle ricerche inerenti la pittura monumentale61, fossero dovuti a François Avril62 e Marie-Claude Léonelli63, assai limitati appaiono gli studi inerenti la miniatura, almeno fino al 1993, anno di una mostra inerente i manoscritti conservati nella Bibliothèque municipale d’Avignon64: spartiacque decisivo nella storia degli studi. Risale al 1994, in occasione della mostra di libri liturgici Liturgia in figura, l’attribuzione a Jean de Toulouse delle tre parti di un messale in più volumi, realizzato per Clemente VII (13781394), da parte di Francesca Manzari65, la quale ha proposto, in seguito, attraverso una serie di specifici contributi, una prima panoramica della produzione miniata nel corso del 1300 nella capitale pontificia66, successiGIRARD, L’exposition des manuscrits à miniatures du Musée Calvet, in Mémoires de L’Académie de Vaucluse, s. 2, 27 (1927), pp. 35-48; L. H. LABANDE, Les miniaturistes avignonnais et leurs ouvres, in Gazette des Beaux Arts 3, 37 (1927), pp. 213-240, 289-305. 61 M. LACLOTTE, L’ècole d’Avignon et la peinture en Provence au XIVe et XVe siècle, Paris 1960; M. LACLOTTE – D. THIEBOUT, L’ècole d’Avignon, Paris 1984; E. CASTELNUOVO, Avignone rievocata, in Paragone 10 (1959), pp. 28-51; ID., Ragguaglio provenzale, ibid. 11 (1960), pp. 131140; ID., Un pittore italiano alla corte dei Papi d’Avignone: Matteo Giovannetti e la pittura in Provenza nel XIV secolo, Torino (1962) 1991; ID., Matteo Giovanetti al palazzo dei Papi di Avignone, Milano 1965; ID., Matteo Giovanetti e la cultura mediterranea, Milano 1966; I. FALDI, Matteo Giovannetti alla corte di Avignone e il suo rapporto con la formazione del gotico internazionale, in ID., Pittori viterbesi di cinque secoli, Viterbo 1970, pp. 4-12; E. CASTELNUOVO, Avignone e la nuova pittura, in Aspetti culturali della società italiana nel periodo avignonese, Todi 1981, pp. 387-414; ID., La pittura di Avignone capitale, in Roma, Napoli, Avignone. Arte di curia, arte di corte 1300-1377, a cura di A. TOMEI, pp. 57-91, Torino 1996; ID., Préhistoire du palais des Papes, in Monument de l’histoire. Construire, reconstrire. Le Palais de Papes: XIV-XX siècle, catalogo della mostra a cura di D. VINGTAIN (Avignon, 29 giugno – 29 settembre 2002), Avignon 2002, pp. 119-130, da ultimo si vd. E. CASTELNUOVO, Artifex bonus. Il mondo dell’artista medievale, a cura di E. CASTELNUOVO, Roma 2004, pp. 168-176. 62 Les fastes du gothique. Le siècle de Charles V, catalogo della mostra (Paris, 9 ottobre 1981 – 1 febbraio 1982), a cura di F. AVRIL, Paris 1981, in particolare pp. 281-282; ID., Manuscrits in L’art au temps de rois manudits. Philippe le Bel et ses fils. 1285-1328, catalogo della mostra (Parigi 17 marzo-29 giugno 1998), a cura di F. AVRIL, Parigi 1998, pp. 256-334. 63 M.-C. LÉONELLI, Un librairie d’Avignon à l’époque du Grand Schisme, in Bulletin historique et philologique 16 (1977), 115-122; EAD., La dévotion aux saints d’après les livres d’heures confectionnés à Avignon, in Mémoire de l’Académie de Vaucluse s. 7, 6 (1985), pp. 327-335; EAD., Les livres de priers de Clément VII, ibid. s. 8, 1 (1992), pp. 131-144. 64 Les manuscrits à peintures de la Bibliothèque d’Avignon. XIe-XVIe siècles, catalogo della mostra (Avignone, 2-25 giugno 1993), Avignone 1993. 65 F. MANZARI, Da Avignone a Roma. Committenza di alcuni codici liturgici, in Liturgia in figura. Codici liturgici rinascimentali della Biblioteca Apostolica Vaticana, catalogo della mostra (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 29 marzo – 10 novembre 1995), a cura di G. MORELLO – S. MADDALO, Città del Vaticano 1995, pp. 59-65. 66 F. MANZARI, Commande épiscopale et pontificale. Manuscrits avignonnais de la Bibliothèque Apostolique Vaticane, in Mémoires de l’Académie de Vaucluse s. 8, 6 (1997), pp. 29-36; EAD., La miniatura ad avignone nel XIV secolo, in Roma, Napoli, Avignone. Arte di curia, arte di corte. 1300-1377, a cura di A. TOMEI, Torino 1996, pp. 201-223; EAD., Libri liturgici miniati
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vamente confluita in una complessa e sfaccettata panoramica, che ha permesso di avere una visione globale dell’evolversi della produzione libraria67. In tale panorama un discorso particolare va impostato per i codici miniati di argomento scientifico, nucleo fino a questo momento, del tutto negletto dalle trattazioni specialistiche, tranne che per rare e peculiari eccezioni68, nel palazzo di Avignone: tre serie di messali solenni per uso del papa, in Medioevo: la chiesa e il palazzo. Atti del convegno internazionale di studi di storia dell’arte medievale (Parma, 20-24 settembre 2005), a cura di C. A. QUINTAVALLE, pp. 604-611. 67 F. MANZARI, La miniatura ad Avignone al tempo dei Papi (1310-1408), Bologna 2006; panoramica sullo stato attuale degli studi è stato infine esposto in EAD., Contributi per la storia della miniatura ad Avignone nel XIV secolo, in La vie culturelle, intellectuelle et scientifique à la cour des papes d’Avignon cit., pp. 111-140; da ultimo si vd. anche EAD., Committenze di papi, cardinali e vescovi, in Manuscrit illuminats. L’escenografia de poder durant les segles baixmedievals, I cicle international de confèrencies d’historia de l’art, Lleida 24-25 nov. 2008, a cura di J. PLANAS, Lleida 2010, pp. 43-66; EAD., Harley ms 2979 and the Books of the Hours Produced by the Workshop of Jean de Toulouse, in Electronic British Library Journal 11 (2011), pp. 1-19. 68 Da segnalare la particolare attenzione prestata al Livre de chasse, trattato di cinegetica composto dal conte di Foix Gaston Phébus. Sarebbero stati decorati ad Avignone, probabilmente nella bottega di Jean de Toulouse due, tra i quattro esemplari più risalenti, entrambi della seconda metà del XIV secolo, tutti riconducibili a un medesimo archetipo — si veda, pur nelle naturali differenze, il dipiegarsi dell’analogo ciclo venatorio illustrato, intimamente connesso al testo scritto e progettato fin dall’origine, come evidente dai rimandi diretti dello stesso autore: come yci est figure (St. Petersburg, The State Hermitage Museum OP n° 2, cod. 14.044; Paris, BnF, ms. fr. 619). Inoltre un terzo esemplare di tale gruppo (Paris, BnF, ms. fr. 616), realizzato per Giovanni senza Paura e illustrato da artisti parigini afferenti al Bedford trend, entro i primi anni del XV secolo, avrebbe preso a modello proprio uno dei suddetti codici avignonesi, pur rinnovandone il linguaggio artistico. Nel variegato repertorio ornamentale è presente l’inusuale motivo a «[...] ramage d’or bohémien était couramment utilisé dès la fin du XIVe siècle à Avignon. [...] On se suivent que celui-ci était presque sûrement un manuscrit illustré par des enluminérs avignonnais», ciò è sopratutto evidente ai ff. 52v, 53v, 54r; cfr. G. TILANDER, Le livre de la chasse du Gaston Phébus. Riproduction réduit des 87 miniatures du manuscrit français 616 de la Bibliothèque nationale de France, Paris 1910; R. A. BOUSSAT, Le livre de chasse, in Le maîtres de la venarie, II, Paris 1931; Le livre de chasse du Gaston Phébus, ms fr. 616, Paris, BnF, a cura di M. THOMAS – F. AVRIL, Paris 1976, in particolare pp. VII-XI e bibliografia di riferimento citata; vedi anche C. NORDENFALK, Hatred, Hunting, and Love: Three Themes Relative to Some Manuscripts of Jean sans Peur, in Studies in Late and Medieval Renaissance Painting in Honor of Millard Meiss, a cura di I. LAVIN – J. PLUMMER, New York 1977, pp. 324-341, in particolare pp. 330-335; F. AVRIL, Le livre de Chasse Morgan 1044, in Gaston Febus. Le livre de Chasse Ms M 1044, The Piermont Morgan Library, New York, a cura di Y. CHRISTE – A. D’ESCAYRAC-LAUTURE, Luzern 2006, II, pp. 125-157; MANZARI, La miniatura ad Avignone cit., pp. 267-273. Non si può tralasciare l’interesse suscitato dalle opere cartografiche degli anni ’20-’60 del XIV secolo, come dimostrerebbero le testimonianze dell’esistenza di carte geografiche di terra o nautiche genovesi, veneziane e maiorchine all’interno della biblioteca come dimostra per esempio l’ampio programma cartografico presente nella copia di offerta del Liber Secretorum Fidelium Crucis di Marin Sanudo a Giovanni XXII (BAV, Vat. lat. 2972), si cfr. R. ALMAGIÀ, Monumenta Cartographca Vaticana, I, Città del Vaticano 1944, pp. 97-98; B. DEGENHART – A. SCHMITT, Marino Sanudo und Paolino Veneto Zwei
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pur rappresentando un tassello essenziale nel quadro della storia dell’illustrazione del libro manoscritto legato al papato avignonese. Dei trentotto codici scientifico-filosofici a oggi riconosciuti come ascrivibili alle biblioteche papali di Avignone e conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana69, poco meno di un terzo risultano possedere una deLiteraten de XIV Jahrhunderts in ihrer Wirkung auf Buchillustrierung und Kartographie in Venedig, Avignon und Neaple, in Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte 14 (1973), pp. 1-137. Circa l’utilizzo di tali materiali per scopi lontani da quelli nautici o geografici strictu sensu si vedano i particolari casi di cartografia antropomorfizzata ad opera del chierico e scriptor della Penitenzieria apostolica Opicino de Canistris (BAV, Pal. lat. 1993; Vat. lat. 6435): su tale suggestiva parentesi della produzione libraria della curia avignonese si vd. R. G. SALOMON, Opicinus de Canistris Weltbild und Bekenntnisse eines Avignonesischen Klerikers 14 Jahrhunderts, London 1936; G. MERCATI, Per la storia del codice illustrato di Opicino de Canistris, in ID., Note per la storia di alcune biblioteche romane nei secoli XVI-XIX, Città del Vaticano 1952 (Studi e testi, 164), pp. 1-14; E. KRIS, A Psycotic Artist of the Middle Age, in ID., Psychanalytic Explorations in Art, New York 1952, pp. 118-127; R. G. SALMON, A Newly Discovered Manuscript of Opinicius de Canistris, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes 16 (1953), pp. 45-57; R. G. SALMON, Aftermath to Opinicius de Canistris, ibid. 25 (1962), pp. 137-146; P. MARCONI, Opicinus de Canistris. Un contributo medievale all’arte della memoria, in Ricerche di storia dell’arte 4 (1977), pp. 3-36; M. CAMILLE, The Image and the Self. Unwriting Late Medieval Bodies, in Framing Medieval Bodies, a cura di S. KAY – M. RUBIN, Manchester 1994, pp. 62-99; EAD., Opicino de Canistris, in Enciclopedia dell’arte medievale, VII, Roma 1997, pp. 813-815; G. RUY – M. LAHARIE, Art et folie au Moyen Âge. Aventures et énigmes d’Opinicius de Canistris (1296-vers 1351), Paris 1997; C. HARDING, Opening to God: The Cosmographical Diagrams of Opinicius de Canistris, in Zeitschrift für Kunstgeschichte 61 (1998), pp. 44-92; M. CICCUTO, Il viaggio dei segni nell’immaginario di Opicino de Canistris, in Itineraria 1 (2002), p. 237-244; da ultima M. LAHARIE, Le journal singulier d’Opicinus de Canistris (1337-1341): Vaticanus latinus 6435, Città del Vaticano 2008 (Studi e testi, 447-448). 69 Nel 1411 gli ottocentottantadue manoscritti rimasti ad Avignone, dopo il trasferimento della sede papale a Peñiscola, furono inventariati, insieme ai beni del tesoro, dal legato pontificio François de Conziè (1356-1432). Nel 1418 alcuni codici furono inviati a Roma al nuovo pontefice Martino V (1417-1431) e tra questi si annoverano anche gli attuali Vat. lat. 1965, 1966, contenenti Vincent de Beuvais, Speculum historiale et naturale. Dei restanti manoscritti, rimasti ad Avignone tra il 1411 e il 1594, anno dell’ultimo inventario della biblioteca, poche sono le notizie pervenuteci. A tale messe di materiale si riferisce la bolla del 22 maggio 1442 di Eugenio IV (1431-1455), in cui si rinnovava l’ordine di riportare a Firenze libri, privilegi e altri oggetti, ancora depositati presso l’abbandonata sede papale. In seguito non possediamo altra menzione se non una missiva di Sisto IV (1471-1484) del 1482, in cui si descrive il totale abbandono della collezione e il conseguente pessimo stato conservativo e, successivamente nel 1566, due liste redatte da Mario Zazzarini, chierico della diocesi di Amelia, per volontà di Pio V (1566-1572), al fine di trasferire «[…] pro usu et servitio nostro et Apostolicae sedis scripturas libros et regesta ad ipsam apostolicam sedem pertinentia quae in Archivio Palatii maioris Civitatis nostrae Avinionensis esse reperiuntur, ad almam urbem nostram deferri […]». La prima lista, del 22 agosto 1566, elenca cento volumi della torre di san Nicola, presi in consegna dallo Zazzarini; la seconda, datata 31 agosto, comprende invece una selezione di cinquantotto manoscritti riconsegnati dal messo pontificio e nuovamente depositati nei locali del palazzo di Avignone. Una parte dei restanti quarantadue volumi fu immediatamente mandata a Roma (fondo Vaticano latino ed Ottoboniano), mentre una seconda entrò più tardi nel fondo Borghese della Biblioteca Apostolica Vaticana e nel fondo Manoscritti della
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corazione di penna o pennello articolata70, i rimanenti o ne sono totalmente privi o caratterizzati da essenziali capolettera intarsiati, filigranati o più semplicemente rubricati all’incipit del volume o a volerne sottolineare le partizioni principali71. Da segnalare innanzitutto i semplici codici di studio tra i quali non solo si nota, almeno in alcuni casi, l’assenza totale o parziale di un apparato decorativo articolato in pagine d’incipit riccamente decorate, miniature tabellari, iniziali figurate o istoriate, ma anche l’incostante presenza di semplici iniziali intarsiate, filigranate, rubricate o rialzate, di tituli correnti o rubriche, sebbene in alcuni casi previsti dall’ordinator nel progetto redazionale72. Emblematici di tale intimo carattere possono risultare i codici di appunti, insieme di fascicoli di natura eterogenea, redatti su fogli di differenti dimensioni con inchiostri di tonalità ineguali, miseen-page variabile e incostante, in cui l’apparato decorativo si riduce a rare iniziali il più delle volte rubricate, sporadicamente intarsiate, riferibili allo scriptor, al quale si deve anche l’inserimento di schemi mnemotecnici e notabilia73. biblioteca Alessandrina di Roma. Nel 1594, per volontà di Clemente VIII Aldobrandini (15921605), il cardinal legato Ottavio Acquaviva ordinò l’inventariazione dei documenti d’archivio e dei trecentonovantadue codici ancora depositati, in precario stato conservativo, nel palazzo papale di Avignone. Tali volumi rimarranno ad Avignone almeno fino al 1604 ed entreranno legalmente a far parte del patrimonio di Scipione Borghese (1576-1632), cardinale bibliotecario e legato di Avignone, e della sua famiglia dal 21 febbraio 1607. Solamente nel 1891, questi manoscritti saranno acquistati all’asta da Leone XIII (1878-1903) andando a costituire, come già ricordato, il nucleo dell’attuale fondo Borghese della Biblioteca Apostolica Vaticana. Per tali vicende conservative cfr. da ultimo SALVATELLI, I codici e la cultura cit., pp. 19-20 e relativa bibliografia. 70 Per la maggior parte appaiono di provenienza franco meridionale (Borgh. 37, 128, 130, 133, 150, 236, 307, 308, 309, Vat. lat. 4497), all’ambito franco settentrionale sarebbero riconducibili tre codici (Borgh. 8, 64, 126) La datazione di suddetti manoscritti intorno alla prima metà del XIV secolo, trova conferma nell’esame delle filigrane che ornano i capilettera e accompagnano la colonna di scrittura, la cui rigidità e ripetitività compositiva rispecchiano uno stadio precedente alla maturazione della seconda metà del secolo XIV. Si annovera anche un manoscritto peninsulare probabilmente genovese (Borgh. 353), e uno insulare della metà del XIII secolo (Borgh. 58). 71 Bisogna specificare che i codici scientifici afferenti alle librariae papali fino ad oggi rintracciati, risultano essere in totale 46. Per la lista completa dei manoscritti conservati nella BAV e l’indicazione dei diversi item all’interno degli inventari si cfr. infra § 1.5. A tale elenco devono essere aggiunti anche il Laur. gr. 21.18 (Firenze, Biblioteca Mediceo Laurenziana), il Burney 275 (London, British Library), il ms. 81 (Roma, Biblioteca Alessandrina), nonché i codici Lat. 3332, 6516, 6523A, 7293, 7605 (Paris, BnF). Per le vicende storiche dei mss ora conservati alla BnF, derivanti dalla biblioteca del collegio de Foix di Tolosa e dalla bilioteca privata del cardinale Pierre de Foix (1386-1424), cfr. SALVATELLI, I Codici e la cultura cit., p. 18. 72 Cfr. Borgh. 55, 75, 86, 114, 196, 212. 73 A proposito si vedano in particolare Borgh. 13, 34, 134, 247, 312.
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L’elegante e raffinata fattura di altri manoscritti74 suggerirebbe come in alcuni codici la curiositas verso le scienze della natura si coniugasse a quel senso del bello, propria delle commissioni librarie di più alto livello destinate all’officium curiae, nei quali se pur il testo tradito doveva essere strettamente collegato alla particolare disposizione verso le scienze naturali, l’apparato decorativo doveva, pur nella sua concisione, essere del tutto paragonabile a quelli assai più estesi e variegati codici liturgici o giuridici contemporanei. Tra queste due macro categorie si inseriscono quei manoscritti che sono da ascriversi all’ambito universitario75 sia sulla base della mise-enpage76, sia di indicazioni interne o delle frequenti ed abbondanti annotazioni marginali posteriori alla redazione. La produzione di testi scientifici legati al mondo delle universitates arricchita da decorazione di pennello o, più frequentemente, di penna non deve essere vista come un hapax, come un caso isolato — pensiero sostenuto fino in tempi recenti —, sebbene le indagini degli ultimi anni, incentrate in particolar modo sul mondo insulare, abbiano cominciato a dimostrare la peculiarità del fenomeno77. Volendo valutare complessivamente gli apparati decorativi e illustrativi dei 74
Cfr. Borgh. 8, 37, 64, 126, 236, 307, 308, 309. Cfr. Borgh. 58, 128, 130, 133, 150. Gli incipit dei libri della Lojca vetus et nova tràditi all’interno dei Borgh. 133 e 150, opera in due volumi di un medesimo progetto editoriale, sono decorati da capilettera intarsiati realizzati in rosso e azzurro, cui fa eccezione l’iniziale a f. 1r del Borgh. 150, traduzione di pennello in oro, giallo e blu del lavoro di penna. 76 Su tale aspetto si cfr. C. BOZZOLO – D. COQ – D. MUZERELLE – E. ORNATO, Noir et blanc. Premiers résultats d’une enquête sur la mise-en-page dans le livre médiéval, in Il libro e il testo. Atti del convegno internazionale (Urbino, 20-23 settembre 1982), a cura di C. QUESTA – R. RAFFAELLI, Urbino 1984, pp. 195-221; da ultimo si vd. S. MAGRINI, Programmi e manuali di logica antica, in Segno e testo 6 (2008), pp. 295-336, in particolare pp. 335-336. 77 Su tale dibattito si vd. N RAMSAY, Artists, Craftsmen and Design in England, 1200-1400, in The Age of Chivalry: Art in Plantagenet England 1200-1400, catalogo della mostra (London, Royal Accademy of Arts, 6 November 1987 – 6 March 1988), a cura di J. ALEXANDER – P. BINSKI, London Royal Academy, 1987, pp. 49-54, in particolare p. 50, dove l’autore afferma:«[…] The university students and their masters did not need to have their texts illuminated […]»; per la tesi contraria che ha cominciato a far luce in tale campo si veda invece C. DE HAMEL, History of Illuminated Manuscripts London 1994, in particolare il capitolo intitolato Book for Student, pp. 108-142. Interessante l’annotazione circa la circolazione di alcuni manufatti in cui si sottolinea come i testi spesso scritti in Francia e Italia raggiungessero l’Inghilterra privi di decorazione e qui, a seconda della richiesta, venissero completati con l’apparato decorativo. Circa l’introduzione e la diffusione di testi scientifici, per quanto riguarda l’Inghilterra, si vd. C. BURNETT, The Introduction of Scientific Texts into Britain 1100-1250, in The Cambridge History of Book in Britain 1100-1400, II, a cura di N. J. MORGAN – R. M. THOMSON, Cambrige 2008, pp. 446-452, nonché per le peculiarità materiali di tali testi universitari si cfr. P. MURRAY JONES, University Book and the Sciences c. 1250-1400, in The Cambridge History of Book cit., pp. 456-462. Tuttavia manca ancora un’analoga analisi complessiva per la produzione francese della medesima tipologia libraria. 75
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manoscritti scientifici-filosofici chiosa essenziale risulta l’assenza di una tradizione figurativa a sé stante, che prende a riferimento i più svariati serbatoi illustrativi e si articola in un disomogeneo apparato di iniziali fitomorfe, caleidoscopiche o istoriate78, spesso avulse dal contenuto del testo tràdito79. La mancanza di una figurazione specifica che accompagni il testo, che traduca, sottolinei e integri con immagini la parola scritta si potrebbe spiegare, altresì con l’attenzione peculiare data alla parola scritta, alcune volte elegantemente sottolineata dalla sola presenza della decorazione di penna80. Stando a quanto fin’ora tratteggiato nella maggior parte degli esemplari la decorazione si traduce in una raffinata decorazione a carattere fitomorfo, che caratterizza sia l’incipit delle differenti opere sia inquadra lo specchio scrittorio tra variopinti racemi carichi di foglie trilobate azzurro, bruno aranciate, che divengono di frequente palcoscenico per gustose drôleries di carattere venatorio81, nelle quali palese è l’attenzione alla registrazione dei dati naturali ea sunt sicut sunt82. Alcuni manoscritti presentano, tuttavia, peculiari capilettera istoriati83, nonché differenti interventi figurativi marginali o successivi alla redazione del testo84, che per le loro caratteristiche meritano una particolare riflessione. Un elegante Cristo in trono su un prezioso sfondo color porpora impreziosisce la Q di Quoniam quidem (f. 1r) all’incipit dei Physicorum libri del Borgh. 126, codice parigino dei primi anni del XIV secolo [Tav. I], scelta 78 I codici di provenienza universitaria o legati al mondo degli studia spesso si presentano con scene di “genere” differentemente declinate, ma sempre legate intimamente al mondo accademico come la raffigurazione del magister in cattedra che insegna ai discepoli, siano essi laici o religiosi; cfr. Borgh. 37, f. 1r; 58, ff. 1r, 185r, 233r; 130, ff. 1r, 49r, 75r. 79 Cfr. infra in questo saggio. 80 Per tale aspetto cfr. Borgh. 18, 73, 115, 127, 151, 152, 196, 210, 361; Vat. lat. 4086. Interessante notare come tali volumi che possono essere fatti rientrare tra i libri a carattere esclusivamente privato, piuttosto che di apparato, presentino elevate caratteristiche codicologiche come qualità del supporto scrittorio, dimensioni, progetto editoriale attento e scrupoloso, ma una totale assenza di decorazione di pennello. 81 Nei codici presi in esame in nessun caso si notano casi di caccia inversée, cacce in cui gli animali solitamente prede divengono predatori, e cani o uomini le bestie braccate: su tale particolare tipo di rappresentazione e circa i suoi riflessi antropologici e sociali si vd. A. FISCH HARTLEY, La chasse inversée dans le marges des manuscrits gothiques, in La chasse au moyen âge, a cura di A. PARAVICINI BAGLIANI – B. VAN DER ABEELE, Turnhout 2000, 111-128. 82 Cfr. Borgh. 8, 37, 126, 128, 308, 309, 330; Vat. lat. 4497. Per un’analisi completa degli apparati decorativi di tali codici si vd. SALVATELLI, I codici e la cultura cit., pp. 87-115, 116240; ID., La scienza in figura tra Roma e Avignone, in Il libro miniato a Roma nel Duecento, a cura di S. MADDALO, in corso di stampa. 83 Cfr. Borgh. 126, 307, 353. 84 Cfr. Borgh. 37, 130, 236.
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iconografica assai precipua che viene rimarcata dopo pochi fogli anche all’inizio dei Methaphysicorum libri (f. 41r), dove all’interno della pancia dell’O di Omnes homines si staglia una Vergine con Bambino85. Un’analoga volontà di sottolineare con un soggetto sacro l’incipit di un’opera profana, si rintraccia nel Borgh. 307, codice di ambito franco meridionale databile tra l’ultimo quarto del XII secolo e il primo quarto del XIV. Ivi la I di Intencio nostra (f. 1r) al principio dell’interpretatio ai Physicorum libri I-VIII di Alberto Magno, risulta caratterizzata da una Vergine con Bambino e Santo86 [Tav. II]. Simile soluzione è infine rintracciabile nel Borgh. 353, codice dei primi anni del XIV secolo di fattura italiana centro-meridionale, dove ancora una volta un severo Cristo in trono con globo terracqueo sottolinea l’esordio del Grabadim medicinarum particularium (f. 1r)87. Se nel caso appena descritto il soggetto del capolettera istoriato può essere ricondotto alla figura del Christus medicus, in cui l’imago Christi potrebbe esere stata utilizzata per incrementare il potere curativo del testo tràdito dal manuale, di più difficile comprensione appaiono gli altri esempi riportati. In questi ultimi casi accanto a una lectio facilior nella quale si potrebbe constatare una semplice adozione di comodo di modelli propri di differenti generi librari, si farebbe strada anche una lectio difficilior. L’impiego di un simile apparato iconografico, nel quale il rapporto testo e immagine risulta assai allentato, rimanderebbe alla volontà dell’ordinator o del committente di rendere più appetibile a un pubblico non laico la materia profana trattata, suggellando per immagini l’assimilazione del pensiero classico scientifico-filosofico all’interno della speculazione teologica. Filosofia naturale, matematica e perspectiva, elette ad ancilla theologiae, divenivano centro e fondamento dell’intero sapere, essenziali per pervenire alla piena conoscenza del mondo sensibile e della Sapienza Divina88. 85 I due soggetti in verità potrebbero essere stati scambiati di posizione in quanto l’iconografia della Vergine meglio si adatterebbe ai Physicorum libri e quella di Cristo ai Methaphysicorum libri, cfr. SALVATELLI, I codici e la cultura cit., pp. 145-154. 86 La scena appare assai deteriorata per la caduta di ampie porzioni di pellicola pittorica, pertanto l’identificazione del personaggio aureolato in preghiera risulta di non facile interpretazione, tuttavia i frammenti della veste rimasti e la sua silouhette farebbero ipotizzare a un santo di un ordine mendicante, in qualche modo legato a un destinatario/committente del volume, rappresentato come intercessore verso la Vergine. Difficile interpretare la scena come una Sacra famiglia vedendo nel soggetto in ginocchio sulla terminazione vegetale un San Giuseppe; cfr. ibid., pp. 185-188. 87 Per una puntale analisi di tale codice si vd. in particolare L. SALVATELLI, Nuove precisazioni intorno al Borghese 353 della Biblioteca Apostolica Vaticana, in Rivista di storia della miniatura 17 (2013), pp. 107-112. 88 A tal proposito illuminanti appaiono le speculazioni di Ruggero Bacone e di Alberto Magno: si cfr. D. C. LINDBERG, The Beginning of Western Science, Chicago 1992, pp. 234-236; Alberto Magno e le scienze, a cura di J. A. WEISPEL, Bologna 1994 (Lumen, 13), pp. 61-82;
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Dettate da una volontà completamente differente appiano le gustose drôleries disegnate a lapis o con inchiostro bruno, a volte sottolineate da minuti tocchi di minio, dell’accurato Borgh. 37, codice franco meridionale dei primi decenni del XIV secolo. Delicati e sottili schizzi, desunti da un variegato lessico figurativo, ma accomunati da un’energica vitalità prendono vita senza soluzione di continuità dalle aste dei capilettera (ff. 3r, 14r, 30v) o impreziosiscono i richiami di fascicolo (ff. 24v, 48v, 146v, 158v, 170v, 194v, 231v)89 [Tav. III]. Il medesimo spirito che impronta tali “scherzi” marginali di penna si rintraccia anche ad apertura di volume: qui due scene di caccia con levrieri, cervi e lepri in corsa vivacizzano i severi tralci a foglia trilobata che incorniciano l’incipit dei Metaphysicorum libri (f. 1r)90 [Tav. IV]. Permeati da un’analoga fantasia appaiono anche i vivaci capilettera caleidoscopici, iniziali di matrice italo-centrale, costituiti da innesti di corpi antropomorfi su protomi vegetali, o da ibridi dal corpo umanoide con testa zoomorfa che sottolineano l’incipit del secondo libro degli Analitica posteriora e alcune delle principali partizioni dei Topicorum libri II-VIII (ff. 13r, 15v, 31r, 37v, 39r-v, 42r-v) del Borgh. 130, codice universitario realizzato dalla vasta e cosmopolita bottega del Liber Visionis, attiva nella Francia meridionale tra il primo e il secondo quarto del XIV secolo91. Un’attennonché i più recenti J. A. WEISPEL, Roger Bacon and the Science, Commentaries Essays, Leiden 1997, in particolare pp. 1-8; 49-66; L. TIRITICCO, Dall’ Opus Maius di Ruggero Bacone. Lo spirituale, il letterale e la scienza della Perspectiva, in L’arte della matematica nella prospettiva, a cura di R. SINISGALLI, Firenze 2009, pp. 115-126. 89 Confronti per tale decorazione sono ravvisabili nei disegni di Bernard de Toulouse del ms. 1318 della Bibliothèque Municipale d’Avignon. Per i soggetti presenti a ff. 146v, 148v, 170v del codice vaticano tangenze si possono proporre, anche, con i più tardi monocromi a grisaille che arricchiscono i bas-de-page dell’artista parigino Jean le Gris (si veda ad esempio lo Psalter of Bonne of Luxembourg conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York, ms. 69.86, ff. 83v-84r). Cfr. LABANDE, Les miniaturistes cit., pp. 239-240. F. AVRIL, Manuscripts Painting at the Court of France. The Fourteenth Century, New York 1978, pp. 74-75 90 L’impostazione e la fattura del fregio marginale vegetale e abitato risulta del tutto sovrapponibile per impostazione e fattura e cromia a quello che orna f. 1r del ms. 817 (Firenze, Biblioteca Riccardiana), di fattura francese, datato al luglio del 1306, come descritto nel colophon di f. 121v. Per analisi del codice vaticano in oggetto si rimanda a SALVATELLI, I Codici e la cultura cit., pp. 120-128 91 In ambito avignonese confronti si possono istituire con le iniziali caleidoscopiche del ms. 749 (Avignon, Bibliothèque municipale) o con le centinaia di figure della medesima tipologia che ornano i margini e l’intercolumnio del Vat. lat. 850 (BAV): cfr. F. MANZARI – G. STABILE, Aristotele latino, Analitica posteriora; Topica; De sophisticis elenchis, in Vedere i Classici. L’illustrazione libraria dei testi antichi dall’età romana al tardo Medioevo. Catalogo della mostra (Città del Vaticano, Musei Vaticani, 9 Ott. 1996 – 19 Apr. 1997), a cura di M. BUONOCORE, Città del Vaticano 1997, pp. 255-256; MANZARI, La miniatura ad Avignone cit., pp. 58-59, 69; da ultimo SALVATELLI, I codici e cultura cit., pp. 161-168.
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zione particolare merita l’abbozzo a sanguigna, nel bas-de-page di f. 91v, sicuramente inserito posteriormente e circoscrvibile al XV secolo [Tav. V], capriccio passeggero di uno dei proprietari del manoscritto, nel quale non sembra ricavarsi alcun addentellato filologico o testuale con i Topicorum libri I-VIII, all’interno dei quali il disegno risulta essere inserito. Quest’utlimo appena delineato da un sottile, alcune volte quasi impercettibile tratto di lapis rosso brunastro appare tracciato da una mano educata, ma differente a quelle delle iniziali istoriate (ff. 1r, 49r, 75r) o caleidoscopiche sopra citate. Una testa umana dalla fisionomia fortemente sottolineata si innesta su un corpo ferino sommariamente ritratto, di cui sono riconoscibili zampe e corpo leonino e una lunga coda ritorta. Seppure non si possano distinguere sicuri rimandi per la figurazione chimerica assimilabile a una manticora, lontane suggestioni si possono ravvisare oltre che nei bestiari, anche nell’animale androcefalo del Principio dei mali, illustrato nei Vaticinia Pontificum92, o nelle iniziali figurate a forma di sirena che abitualmente sottolineano l’incipit del Liber de arte poetica oraziano93. La presenza dello schema mnemonico a f. 74v del Borgh. 130, strumento di studio, essenziale per consentire di mettere in relazione visivamente le singole parti del discorso aristotelico, ma estraneo al progetto redazionale iniziale del manoscritto, come testimonia il suo inserimento in un foglio in origine anepigrafo, lascia il destro per soffermarsi a riflettere circa gli schemi mnemonici, geometrici, astronomico — astrologici che corredano i testi scientifico — filosofici. Tracciati con inchiostri colorati o più severamente in bruno e rubro all’interno della colonna di scrittura, o ancora inseriti al loro interno, modificandone alcune volte il flusso, o infine ad arricchire i marginalia e bas-de-page, devono essere considerati parte integrante dell’apparato paratestuale, e condividono con il testo scritto le medesime vicende di tradizione. Quand’anche non appaiono tracciati dal calligrafo, ma relegati negli spazi dedicati alle annotazioni marginali, disegnati da mani diverse, velocemente schizzati, forse, dai medesimi lettori, sembrano quasi sempre del tutto sovrapponibili a quelli realizzati, sebbene con più perizia, nei progetti editoriali più raffinati94. Gli schemi mnemonici aristotelici seguono, infatti, una precisa traditio e risultano abitualmente ab origine inseriti, quando previsti dall’ordinator, all’interno della colonna di scrittura; i diagrammi e le dimostrazioni geometriche, pur avendo anch’essi un archetipo predefinito, il più delle volte risultano occupare, invece, gli 92
Lunel, Bibliothèque municipale, ms. 7, f. 149r. M. BUONOCORE, Codices Horatiani in Bibliotheca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1992, pp. 312-326. 94 Assai stimolante in tal senso la serie di contributi raccolti in C. BURNETT, Scientia in margine: étude sur les marginales dans les mauscrits scientifiques du moyen âge, Génevre 2005. 93
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spazi marginali laterali, affiancando la/le colonna/e di scrittura o relegati nel bas-de-page. Solo rare volte compaiono inseriti all’interno del corpo scrittorio in stretto dialogo con quest’ultimo, sotto tale aspetto interessante appare il caso del Borgh. 64 (Campanus de Novara), dove il rapporto testo immagine risulta così stringente da far ipotizzare una peculiare relazione tra scriptor e calligrafo95. Gli schemi astronomici sono solitamente inclusi all’interno della colonna di scrittura, all’interno di spazi appositamente riservati e raramente appaiono aggiunti posteriormente alla redazione del volume in quanto imprescindibili alla corretta illustrazione e comprensione delle teorie enunciate per verba96. A meno che non si tratti di semplici quaternuli di studio, tali riproposizioni grafiche appaiono vergate con inchiostro bruno o a contrasto rosso/bruno, tuttavia, assai di rado le rappresentazioni coniugano l’illustrazione dei dati astronomici matematici con soluzioni grafiche di particolare livello iconografico. Discrimine per comprendere se gli schemi mnemonici o geometrico-matematici siano stati predisposti dall’ordinator o se siano stati eseguiti in un secondo momento, oltre che la posizione che occupano all’interno della mise-en-page del codice, può essere eletta il medium grafico con cui risultano tracciati: inchiostri policromi, nel primo caso, semplicemente a lapis o inchiostro bruno nel secondo caso97. 4. I manoscritti scientifici miniati ascrivibili alla Biblioteca papale di Avignone non solo rivestono una precipua valenza storico-artistica98, ma 95 Utile sotto tale punto di vista mi sembra il confronto con l’Urb. lat. 506, Witelo, Perspectiva, databile entro la prima metà del XIV secolo, e ascritto variamente alla Francia settentrionale, o alle regioni meridionali, per il precipuo utilizzo dell’inchiostro lilla. Infatti questo, sebbene possa essere considerato un manufatto di pregio, e non un semplice testo di studio, tuttavia non si distingue per la precisione e raffinatezza della mise-en-page riscontrabile nel Borgh. 64, veramente particolare nella panoramica dei codici astronomico-geometrici. A evidenziare il perdurare di tale modalità illustrativa, appena enunciata, si può sottolinerae come questa risulti evidente anche in manosritti matematico-geometrici umanistici di altissimo livello qualitativo — si pensi all’Urb. lat. 261, Euclides, Elementa o 632, Petrus Burgensis, De quinque corporibus regolaribus. 96 Eccezione si può riscontrare per esempio nel Borgh. 309, f. 160r, in cui la consueta rappresentazione di un’eclissi del De metheorologia appare aggiunta nel bas-de-page. 97 Sotto tale aspetto peculiare appare il Borgh. 236 dal momento che pur presentando schemi mnemonici redatti in fase successiva a quella di compilazione del manoscritto (probabilmente ascrivibili al XV secolo), questi appaiono tracciati con inchiostri verde, arancio, blu, indice dell’elevato livello sociale del fruitore del manoscritto. 98 Il fatto che nella lista dei libri da trasportare da Avignone a Peñiscola (1409), compaia un’esigua parte di tale tipologia di testi, rispetto all’index del 1407, non mi sembra da poter imputare alla scarsa considerazione in cui erano tenute tali opere, piuttosto al loro scarso valore monetario, nonché alla situazione di emergenza che ha fatto preferire opere di assoluta necessità per il funzionamento della sede papale. Da aggiungere inoltre, sempre a tal pro-
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rappresentano, allo stesso tempo una testimonianza storico-culturale del vivace clima intellettuale sviluppatosi all’ombra della nuova residenza papale, dell’altera Roma. Clima che, pur non raggiungendo più il livello dell’intenso dibattito che caratterizzò lo Studium Curiae del Circolo di Viterbo, o gli anni del pontificato di Bonifacio VIII, tuttavia ne proseguì l’indagine: si pensi, ad esempio, agli indiscutibili collegamenti tra le ricerche inerenti la perspectiva e la speculazione sulla visione beatifica di Giovanni XXII, o la volontà di considerare le scienze astronomiche, matematiche e naturali come un valido ausilio alla comprensione delle leggi che regolano il creato99. Solamente tenendo a mente tale paradigma intellettuale si possono pienamente comprendere le politiche culturali che hanno visto il vivo destarsi dell’interesse della corte papale fin dalla seconda metà del XIII secolo: dalle ricerche sulla perspectiva, sulla ricreatio corporis; per giungere alla metà del secolo successivo a quelle inerenti la Physioniomia e le più concrete indagini circa il calcolo del numero aureo per la corretta definizione della data della Pasqua. Sotto la prospettiva della lunga durata i volumi presi in esame costituiscono, inoltre, un necessario punto di confronto con la produzione libraria miniata di analogo argomento, sviluppatasi per e nella Curia romana, dalla seconda metà del secolo XIII100, e le cui testimonianze ad oggi si possono riassumere in una decina di manoscritti di notevole livello qualitativo: il parigino latino 16589, Boethius, In Porphirium; Aristoteles, Opera varia della Bibliothèque nationale de France101, il poderoso e omogeneo gruppo di codici toletani, realizzati per il cardinale Gonsalvo Gudiel102 o il più posito, come Benedetto XIII riesca a ricostruire una biblioteca del tutto equivalente a quella avignonese, anche per quanto riguarda le discipline medico-scientifiche. 99 Cfr. supra. 100 Su tale punto si rimanda alle più ampie riflessione in SALVATELLI, La scienza cit., in corso di stampa. 101 F. AVRIL – M. TH. GOUSSET, Manuscrits enluminés d’origine italienne, 2, Le XIIIème, Paris 1984, n. 157, tavv. LXXXVI-LXXXVII; V. PACE, Per una storia della minitaura dugentesca a Roma, in Studien zur mittelalterlichen Kunst 800-1250. Festschrift für Florentine Mütherich, a cura di K. BIERBAUER – W. SAUERLAENDER, München 1985, pp. 255-262, in particolare 257-259; M. TH. GOUSSET, Manoscritti miniati a Roma nei fondi della Bibliothèque nationale de France, in Bonifacio VIII cit., pp. 107-110, in particolare pp. 107-108, EAD., scheda cat. 75, ibid., pp. 225-226; MADDALO, Dal Magister Nicolaus cit., p. 99. 102 Su tali mss. si vd. da ultimo L. SALVATELLI, Suggestioni da una libraria cardinalizia di fine Duecento. I codici miniati scientifico filosofici di Gonsalvo Gudiel, in Memoria e materia, proposte e riflessioni, Atti della giornata di studi del dottorato in Memoria e materia dell’opera d’arte (Viterbo, Palazzo Brugiotti, 11 aprile 2012), pp. 65-75; ID., Sobre los ochos manuscriptos científico – filosóficos del cardenal Gonsalvo Gudiel, in Toletana 28 (2014), pp. 1-36. Assai diversi invece appaiono gli altri manoscritti scientifici posseduti dal Gudiel, ma non ascrivibili al “gruppo viterbese”; infatti i manoscritti 98.22 (Toledo, Biblioteca capitular) e 10009, 10053 (Madrid, Biblioteca nacional) sono da considerarsi manoscritti di semplice studio. In essi si
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tardo Vat. lat. 2463, Galvanus de Levanto, Thesaurus corporalis et alii della Biblioteca Apostolica Vaticana103, nonché il Canon Avicennae Gherardo Cremonensis interprete, Cent. III 91 della Stadtbibliotek di Nürnberg104. Tale riflessione porta conseguentemente a sottolineare, ancora una volta, il ruolo focale, la centralità di Roma nella storia della produzione del libro miniato del XIII secolo, la quale non si fa solo partecipe dell’accoglimento delle tendenze artistiche d’oltralpe e insulari. Una volta assorbite, rinvigorite, nonché riformulate secondo stilemi propri, queste ultime fungono da punto di riferimento per la nuova produzione transalpina del secolo XIV, in special modo avignonese105. 5. Codici scientifico-filosofici provenienti dalla biblioteca papale di Avignone ora conservati nella Biblioteca Apostolica con indicazione degli item dei diversi inventari.
constata la pressoché totale assenza di decorazione, nonché l’apposizione di numerose annotazioni e dimostrazioni geometriche sui margini di opuscula matematici. Interessante, e fuori dal comune, invece appare il manoscritto miscellaneo 98.28 (Toledo, Biblioteca capitular), di piccolo formato, sia per i suoi numerosi schemi astrologici e astronomici di pennello inseriti all’interno della colonna di scrittura (cfr. ff. 6r-67v), sia per le tabelle di computo del calendario in cui appare prevalente l’apporto della conoscenza matematico cosmologica del mondo arabo. Assai interessante la raffinata decorazione del Computus e dell’Algoritmus che pur in linea con analoghi prodotti del medesimo arco temporale se ne discosta sia per la varietas compositiva si per l’elevata fattura. 103 In tale gruppo possono altresì essere inclusi, sebbene caratterizzati da un severo, ma assai raffinato apparato decorativo esclusivamente di penna, l’Ott. lat. 1850 della BAV e il Plimpton 156 della Columbia University di New York, entrambi prodotti per e all’interno dell’ambiente curiale. Al medesimo ambito è anche da ricondurre un’Arithmetica di Boezio, ms. Lat. 14065 della BnF, appartenuta alla biblioteca privata del cardinale Gérard d’Abbeville. 104 Fino a oggi il suddetto codice era ascritto al primo quarto del XV secolo, sulla base dell’annotazione presente a f. 79bv, si cfr. N. INGEBORG, Die lateinischen mittelalterlichen Handschriften, Varia: 13.-15. und 16.-18. Jh., Wiesbaden 1997 (Die Handschriften der Stadtbibliothek Nürnberg, 4), p. 32; tuttavia in tale indicazione non si riconosce la mano di uno degli scriptores che redigono il codice, bensì la grafia personale di una delle numerose mani che successivamente postillano il codice. Il manoscritto deve essere, pertanto, considerato come un prodotto dell’ultimo quarto del XIII secolo nel quale si trovano numerose tangenze con coevi prodotti dell’italia centrale degli anni ’70-’80 del Duecento, di probabile ascendenza romana quali il ms. Lat. 965 della Bibliothèque nationale de France, il Plut. V dex 1 della Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze o i codici Arch. Cap. S. Pietro B 83, B 84, e il Vat. lat. 1384 della Biblioteca Apostolica Vaticana. 105 Per tale circolazione di idee e di manufatti si veda per esempio l’evidente parentela tra gli apparati decorativi presenti dei mss. 47.9 o 97.1 della Biblioteca y archivo capitulares de Toledo della seconda metà del XIII secolo, con prodotti avignonesi della prima metà del XIV secolo, di chiara impostazione e fattura italiana, quali il Vat. lat. 850, Guillelmus de Alvernia, Opera complura, l’Urb. lat. 355 e il Vat. lat. 1650, Seneca, Tragoediarum libri I-X cum Nicolai Treveth expositione della Biblioteca Apostolica Vaticana.
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1 – Borgh. 8 ARISTOTELES, Metaphysica, Physica, De generatione et corruptione Guillelmo de Moerbeka interprete (Inventario 1407, item 1506; Inv. 1411, item 115; Inv. 1594, item 299).
2 – Borgh. 13 Tractati de medicina 3 – Borgh. 18 ARISTOTELES, Logica nova et vetus (Inv. 1375, item 554; Inv. 1407, item 1474; Inv. 1411, item 580; Inv. 1594, item 313)
4 – Borgh. 34 PETRUS ROGERIUS (Clemens VI), Notulae variae (Inv. 1369, item 845; Inv. 1375, item 1394)
5 – Borgh. 37 ARISTOTELES, Metaphysica, Libri naturales Guillelmo de Moerbeka interprete (Inv. 1369, item 2037; Inv. 1375, item 420; Inv. 1407, item 1508; Inv. 1411, item 117)
6 – Borgh. 55 ARISTOTELES, Libri naturales Guillelmo de Moerbeka interprete (Inv. 1375, item 423; Inv. 1407, item 1597; Inv. 1411, item 428)
7 – Borgh. 58 ARISTOTELES, Logica nova et vetus (Inv. 1375, item 409; Inv. 1407, item 1472; Inv. 1411, item 478)
8 – Borgh. 64 WITELO, Perspectiva (Inv. 1407, item 1563; Inv. 1411, item 465; Inv. 1594, item 292)
9 – Borgh. 73 ARISTOTELES, Logica nova (Inv. 1375, item 557; Inv. 1407, item 1479; Inv. 1411, item 579)
10 – Borgh. 75 THOMAS DE AQUINO, In physicorum libros (Inv. 1369, item 549; Inv. 1375, item 479; Inv. 1407, item 1474; Inv. 1407, item 1505; Inv. 1411, item 481)
11 – Borgh. 86 Quaestiones de medicina (Inv. 1594, item 322)
12 – Borgh. 114 THOMAS DE AQUINO, In physicorum libros (Inv. 1369, item 867; Inv. 1375, item 480; Inv. 1411, item 409; Inv. 1594, item 319)
13 – Borgh. 115 THOMAS DE AQUINO, In physicorum libros (Inv. 1369, item 1077; Inv. 1407, item 1495; Inv. 1411, item 621; Inv. 1594, item 288)
14 – Borgh. 126 ARISTOTELES, Libri naturales, Metaphysica Guillelmo de Moerbeka interprete (Inv. 1369, item 775; Inv. 1375, item 448; Inv. 1407, item 1501; Inv. 1411, item 488)
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15 – Borgh. 127 ARISTOTELES, Metaphysica, Libri naturales Guillelmo de Moerbeka interprete (Inv. 1369, item 678; Inv. 1407, item 1525; Inv. 1411, item 456)
16 – Borgh. 128 ARISTOTELES, Libri naturales Guillelmo de Moerbeka interprete (Inv. 1375, item 418; Inv. 1407, item 1492; Inv. 1411, item 130)
17 – Borgh. 130 ARISTOTELES, Logica nova (Inv. 1375, item 410; Inv. 1407, item 1473; Inv. 1411, item 475)
18 – Borgh. 133 ARISTOTELES, Logica nova pars posterior (Inv. 1594, item 311)
19 – Borgh. 134 ARISTOTELES, De partibus animalium; Albertus Magnus, De natura et origine animae (Inv. 1369, item 500; Inv. 1375, item 421; Inv. 1407, item 1507; Inv. 1411, item 321; Inv. 1594, item 291)
20 – Borgh. 150 ARISTOTELES, Logica nova pars prima (Inv. 1369, item 922; Inv. 1375, item 556; Inv. 1407, item 1483; Inv. 1411, item 495; Inv. 1594, item 158)
21 – Borgh. 151 GUILLELMUS OCKHAM, Notabilia et summa totius logicae (Inv 1369, item 883; Inv. 1375, item 414; Inv. 1407, item 1487; Inv. 1411, item 515; Inv. 1594, item 158)
22 – Borgh. 152 THOMAS DE AQUINO, In Aristotelis sensu et sensato (Inv. 1369, item 962; Inv. 1375, item 456; Inv. 1407, item 1515; Inv. 1411, item 500)
23 – Borgh. 196 Opuscula de medicina (Inv. 1594, item 326)
24 – Borgh. 210 BOETHIUS, Arithmetica (Inv. 1594, item 329)
25 – Borgh. 236 ARISTOTELES, Methaphysica et Physica (Inv. 1369, item 895; Inv. 1375, item 415; Inv. 1411, item 136; Inv. 1594, item 277)
26 – Borgh. 247 PETRUS ROGERI, Notabilia et excerpta: de Iohannis gallensis collationum minoris; de re chiromantica, de re astrologica; regulae computis; expositiones in Aristotelis Physicam, de generatione et corruptione. (Inv. 1353, item 46)
27 – Borgh. 307 ALBERTUS MAGNUS, In Aristotelis physicorum libros (Inv. 1369, item 1129; Inv. 1375, item 447; Inv. 1407, item 1518; Inv. 1411, item 520)
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28 – Borgh. 308 ARISTOTELES, Libri naturales Guillelmo de Moerbeka interprete (Inv. 1375, item 548; Inv. 1407, item 1496; Inv. 1411, item 135; Inv. 1594, item 303 o 318)
29 – Borgh. 309 ARISTOTELES, Libri naturales Guillelmo de Moerbeka interprete (Inv. 1375, item549; Inv. 1407, item 1497; Inv. 1411, item 159; Inv. 1594, item 303 o 318)
30 – Borgh. 312 ALFRAGANI, Compendium Johannis Hispalensi interprete (Inv. 1369, item 552; Inv. 1375, item 471; Inv. 1407, item 1550; Inv. 1411, item 498; Inv. 1594, item 302)
31 – Borgh. 330 GUILLELMUS ALVERNUS PARISIENSIS, De universo. (Inv. 1407, item 918; Inv. 1411, item 512; Inv. Zazzarini 1566, item 40; Inv. 1594, item 36)
32 – Borgh. 353 JOHANNES NAZARET FILII MOSUE, De medicina (Inv. 1369, item 1178; Inv. 1375, item 474; Inv. 1407, item 1576; Inv. 1411, item 503; Inv. 1594, item 306)
33 – Borgh. 361 JOHANNES PECHAM, Tractatus de numeris (Inv. 1369, item 827; Inv. 1375, item 644; Inv. 1407, item 868; Inv. 1411, item 174; Inv. 1594, item 1)
34 – Vat. gr. 204 THEODOSIUS, De sphera; ANTOLICUS, De ortu et de occasu (Inv. 1295, item 425; Inv. 1311, item 625)
35 – Vat. gr. 218 PAPIA, Commentum super Euclidis geometria (Inv. 1311, item 604)
36 – Vat. gr. 1605 Liber de ingeniis (Inv. 1311, item 604?)
37 – Vat. lat. 4086 ROGERUS BACO, Opus maius (Inv. 1295, item 189)
38 – Vat. lat. 4497 VEGETIUS, De re militari (Inv. 1369, item 627; Inv. 1375, item 856; Inv. 1407, item 1091; Inv. 1411, item 390)
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Tav. I – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Borgh. 37, f. 146v.
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Tav. II – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Borgh. 37, f. 1r.
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LUCA SALVATELLI
Tav. III – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Borgh. 126, f. 1r.
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Tav. IV – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Borgh. 307, f. 1r.
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LUCA SALVATELLI
Tav. V – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Borgh. 130, f. 91v.
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FABIO TRONCARELLI
IOACHIM SCRIPSIT. IL PIÙ ANTICO MANOSCRITTO DEL SUPER PROPHETAS (VAT. LAT. 4959) Mariae Paulae, uxori meae Il Vat. lat. 4959 ha certamente un significato speciale per gli studiosi dell’escatologia medievale: è infatti il manoscritto più antico del Super Prophetas (tradizionalmente chiamato Super Esaiam), un gruppo di testi, attribuiti a torto a Gioacchino da Fiore, che hanno avuto una grande importanza culturale ed una notevole diffusione tra XIII e XIV secolo1. L’elegante codice, descritto e catalogato più di una volta2, ha destato da tempo l’attenzione degli specialisti ed il suo contenuto è stato analizzato da eminenti studiosi: David Morris, che sta preparando l’edizione critica di quest’opera singolare, ha tracciato recentemente un bilancio esauriente ed equilibrato delle indagini sull’argomento, cui hanno contribuito ricercatori come Herbert Grundmann, Marjorie Reeves, Bernhard Töpfer, Stephen 1 Super Esaiam Prophetam, Venetiis, Lazaro de Soardis, 1517. Per un catalogo dei manoscritti dell’opera si veda D. MORRIS, A Census of Known Super Prophetas Manuscripts, in Oliviana 4 (2012), URL: http://oliviana.revues.org/530. Si veda in generale M. Reeves, The Influence of Prophecy in the Later Middle Ages : A Study in Joachimism, second edition, Notre Dame 1993, pp. 521-522, 538-539. 2 H. HERMANN, Die italienischen Handschriften des Dugento und Trecento, Leipzig 1928, pp. 16-20; G. MERCATI, Codici latini Pico Grimani Pio e di altra biblioteca ignota del secolo 16. esistenti nell’Ottoboniana e i codici greci Pio di Modena con una digressione per la storia dei codici di S. Pietro in Vaticano, Città del Vaticano 1938 (Studi e testi, 75), p. 127; M. REEVES – B. HIRSCH REICH, The Figurae of Joachim of Fiore: Genuine and Spurious Collections, in Mediaeval and Renaissance Studies 3 (1954), pp. 170-199; EAD., The figurae of Joachim of Fiore, London 1972, pp. 276-288; F. L. SCHIAVETTO, [Il Vat. Lat. 4959, scheda descrittiva] in Il ricordo del futuro: Gioacchino da Fiore e il Gioachimismo attraverso la storia, a cura di F. TRONCARELLI, Bari 2006, pp. 224-226. Vedi anche M. BUONOCORE, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana: 1968-1980, II, Città del Vaticano 1986 (Studi e testi, 319), p. 1170; P. VIAN, I codici vaticani della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae 1 (1987) (Studi e testi, 329), pp. 229-257, in particolare p. 238; M. CERESA, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (19811985), Città del Vaticano 1991 (Studi e testi, 342), p. 554; M. BUONOCORE, Bibliografia retrospettiva dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana, I, Città del Vaticano 1994 (Studi e testi, 361), p. 492; M. CERESA, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1991-2000), Città del Vaticano 2005 (Studi e testi, 426), p. 670; V. DI CERBO – M. DI PAOLA – C. FRANCESCHI, Bibliografia retrospettiva dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana, II, a cura di M. BUONOCORE, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 464), p. 364.
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 723-760.
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FABIO TRONCARELLI
Wessley, Elena Bianca Di Gioia, Robert Lerner, Bernard McGinn3. Inserendomi nel solco di queste ricerche, nella speranza di fornire un contributo utile alla prossima edizione critica, mi pare opportuno fare presente al lettore alcune osservazioni che derivano da un’analisi diretta del codice e dall’esperienza paleografica. Inexpletum quoddam Il Vat. lat. 4959 sembra a prima vista un prodotto unitario, ma in realtà è un codice fattizio, la cui composizione è stata assai travagliata. Anche le singole pagine si presentano in modo poco uniforme, alternando immagini che occupano un’intera facciata a fogli di scrittura assai fitta: nelle parti in cui non ci sono illustrazioni e diagrammi, il testo è infatti è disposto su due colonne di 36/38 righe. Gli studiosi non sono unanimi sulla datazione delle mani dei copisti, ma di fatto, le date alternative proposte appartengono tutte al secondo quarto del XIII secolo: vedremo più avanti che forse è possibile arrivare a una datazione più precisa. Come si è detto, il Vat. lat. 4959 è il più antico testimone del Super prophetas pseudo-gioachimita4, un’opera così suddivisa: 3 D. MORRIS, The Historiography of the Super Prophetas (also known as Super Esaiam) of Pseudo-Joachim of Fiore, in Oliviana 4 (2012), URL : http://oliviana.revues.org/512. Uno dei meriti del giovane studioso americano è senza dubbio l’invito a restituire allo scritto il suo più probabile titolo, al posto di quello comunemente accettato. Ha scritto infatti il Morris (nota 5): “I believe that Super Prophetas is preferable to Super Esaiam Prophetam, or some variant thereof, for several reasons. Most importantly, it better represents what is actually found in the manuscript tradition beyond the 1517 print that is more familiar to scholars”. 4 A beneficio del lettore ci pare opportuno citare una nostra breve caratterizzazione di questo genere di letteratura escatologica: “Simili testi riadattano il messaggio di Gioacchino in una chiave politica adeguata al presente. Una delle conseguenze di tale processo era stata la identificazione dell’Anticristo in Federico II e nei suoi successori, che trova il suo riscontro nelle figure delle Praemissiones… Come dice il titolo della raccolta, si tratta della ‘premessa’, del ‘prologo’ ad un testo più ampio: questo ‘prologo’, paradossalmente, è fatto di immagini, che derivano in gran parte da opere gioachimite, ma sono riadattate e rielaborate. Il ‘prologo’ introduce un testo apocrifo dell’abate di Fiore, il trattato su Isaia (Super Esaiam), che mostra bene il cambiamento di mentalità collettiva nel Duecento. Infatti, pur presentandosi come un commento ad Isaia, formalmente simile al commento di Gioacchino all’Apocalisse, l’opera è ispirata a ben altri criteri rispetto a quelli gioachimiti: colpisce la ricerca del ‘qui’ ed ‘ora’, l’ansia incalzante per risolvere problemi del presente con il ricorso all’auctoritas del profeta biblico, la tendenza a voler cogliere la verità nascosta sotto il velo dell’allegoria, che fa saltare la polifonia esegetica gioachimita, semplificando le complesse speculazioni dell’abate e riducendo all’osso le sue ipotesi interpretative. In compenso, non mancano moniti validi per il presente: allusioni alle persecuzioni dei re tedeschi; date per la fine del mondo; esaltazione di nuovi ordini religiosi e dell’azione dei pochi eletti contro il resto di una Chiesa in preda a sclerosi; evocazioni dell’imminente scatenarsi delle forze dell’Anticristo; insomma, in una
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1) Le cosiddette Praemissiones, undici immagini accompagnate da note e didascalie5 che formano una specie di edizione alternativa, riveduta e corretta del Liber figurarum attribuito a Gioacchino6, un compendio semplificato della sua dottrina. Nelle Praemissiones s’insinua che l’Anticristo verrà dalla stirpe degli Svevi, sottolineando che una delle sue emanazioni è Federico II, ormai defunto e ancora senza successore. Inoltre, a differenza del Liber figurarum, viene riservato un posto speciale all’ordine cistercense7. 2) Un commento ad Isaia, preceduto da un prologo in cui Gioacchino si rivolge al suo compagno cistercense Raniero da Ponza. Il commento sviluppa idee che ben si accordano alle teorie gioachimite delle Praemissiones, mostrando un sostanziale apprezzamento per il movimento cistercense, nonostante le critiche per la sua parziale degenerazione. L’esegesi s’interrompe bruscamente al capitolo 11 di Isaia, senza una spiegazione8. 3) Una sezione, chiamata nell’edizione a stampa De oneribus sexti temporis, che si divide in due parti: nella prima ci sono alcune brevi profezie ricavate da Isaia su alcune città o regioni menzionate dalla Bibbia9; nella seconda una lunga serie di profezie, scritte sotto forma di glosse a diagrammi che indicano diverse regioni e diverse città in Europa e fuori dell’Europa10. In generale, si può dire che in questa sezione, attraverso allusioni più o meno evidenti, vengono ribadite le idee cui abbiamo accennato, ma non va dimenticato che la ricca e sovente oscura selva di profezie delle note marginali evoca eventi distanti tra loro nello spazio e nel tempo che non possono essere inquadrati in un’unica prospettiva escatologica. 4) Una sezione, chiamata nell’edizione a stampa De septem temporibus Ecclesiae, che discetta a lungo sui Sette sigilli dell’Apocalisse in rapporto parola non manca l’attualizzazione del messaggio gioachimita in una chiave adatta a rispondere alle urgenze dell’immediato”. F. TRONCARELLI, [Appendice a: Vat. lat. 4959, scheda descrittiva], in Il ricordo del futuro cit., pp. 224-225. 5 Nell’edizione del Soardi si trovano nelle pagine iniziali non numerate, che precedono il testo. Nel Vat. lat. 4959 le immagini figurano ai ff. 1r-4r. Non va dimenticato che nel codice vaticano le prime due immagini della serie non ci sono più perché si trovavano sul primo foglio che si è perduto molto presto. Ricordiamo inoltre che al f. 12v che troviamo un’ulteriore immagine chiamata Visio Jerusalem, che conclude il commento di Isaia: quest’immagine nell’edizione a stampa si trova al f. 9v. 6 Un’esauriente analisi degli elementi incomune e delle notevoli differenze che ci sono tra Praemissiones e il Liber figurarum è stata svolta da REEVES – HIRSCH REICH, The Figurae of Joachim of Fiore: Genuine and Spurious cit., pp. 180-199. 7 M. REEVES, The Abbot Joachim’s Disciples and the Cistercian Order, in Sophia 19 (1951), pp. 355-371. 8 Super Esaiam Prophetam cit., ff. 1r-9r. Nel Vat. lat. 4959 il testo è ai ff. 4v-12r. 9 Super Esaiam Prophetam cit., ff. 11r-27v. Nel Vat. lat. 4959 il testo è ai ff. 12v-13r. 10 Super Esaiam Prophetam cit., ff. 28r-49v. Nel Vat. lat. 4959 il testo è ai ff. 13v-28v.
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a quelle che vengono definite le Sette età della Chiesa11, riprendendo molte delle idee gioachimite già esposte prima, insieme a considerazioni di altro tipo che è difficile ridurre ad un unico denominatore. In ogni caso si deve ricordare che ci sono aggiustamenti e modifiche che aggiornano affermazioni fatte in precedenza: valga per tutti lo spostamento della data di inizio della fase finale della storia, che nelle Praemissiones è il 1260 (Vat. lat. 4959, f. 1r) e nel De septem temporibus è il 1290 (Vat. lat. 4959, f. 32r: ribadito dal copista nel margine con una nota vergata col minio). Come si vede dalla semplice descrizione del suo contenuto, la raccolta è costituita da testi di struttura non certo simile, che sviluppano idee non sempre uguali. Per questo motivo qualche studioso, in contrasto con le opinioni della maggioranza, ha osato sottolineare il carattere eterogeneo della raccolta12 e suggerito che possa essersi formata in tempi diversi13. Sulla loro scia, anche il Morris ha sostenuto che il testo che possediamo è un corpus composito, che può esser il frutto di un lavoro di progressiva rielaborazione nel corso del tempo14. L’esame del più antico codice dell’opera ci spinge nella stessa direzione, mostrandoci che il processo di rielaborazione continua è tangibilmente visibile sin dalle origini. Codicologica Il manoscritto misura mm 240 × 310 ed è costituito da 61 fogli, preceduti e seguiti da quattro fogli di guardia: due cartacei15, aggiunti al momento dell’ultima rilegatura; e due membranacei, associati al volume almeno dal 11
Super Esaiam Prophetam cit., ff. 49v-59v. Nel Vat. lat. 4959 il testo è ai ff. 29r-61v. F. TOCCO, L’eresia nel medio evo, Firenze 1884, pp. 304-305, n. 1; H. LEE – M. M. REEVES – G. SILANO, Western Mediterranean Prophecy: The School of Joachim of Fiore and the Fourteenth-Century Breviloquium, Toronto 1989, pp. 10-12. 13 F. TRONCARELLI, Il Liber figurarum tra ‘gioachimiti’ e ‘gioachimisti’, in Gioacchino da Fiore tra Bernardo di Clairvaux e Innocenzo III, Atti del V Congresso Internazionale di Studi Gioachimiti (San Giovanni in Fiore, 16-21 settembre 1999), a cura di R. RUSCONI, Roma 2001, pp. 265-286 (Opere di Gioacchino da Fiore, Testi e Strumenti, 13), in particolare pp. 267-268. 14 “Indeed, it is the enduring question of which religious community gave rise to our text that demonstrates this need more than anything else. For the assumption of a uniform origin voiced by Reeves, but implied throughout the literature, has the potential to obfuscate our understanding of the pseudo-Joachite corpus. It is entirely possible that these works arose in different religious communities, within the Sicilian Regno, that happened to share an interest in Joachim’s thought. If we are closed to this possibility — and we still know too little to say definitively one way or the other — we risk overlooking the full complexity behind the transmission of Joachim’s ideas and his legacy”. MORRIS, The Historiography cit., p. 34. 15 La filigrana rappresenta una “T” con tratto orizzontale arcuato e tratto verticale grosso, non attribuibile a una fabbrica di carta conosciuta. 12
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XVI secolo, che sono in realtà due fogli smembrati da un codice giuridico duecentesco, che riporta un trattato non identificato. I fogli di guardia non sono numerati, mentre tutti gli altri presentano una duplice numerazione: la prima, saltuaria, è antica16 (sec. XV ?); la seconda è più recente e risale ad un’epoca in cui il volume era già nella Biblioteca Vaticana. Il codice è composto da otto fascicoli. Il primo fascicolo si presenta nella forma 3+3+1, ma deriva da un quaternio regolare. Originariamente il fascicolo aveva tutti e quattro i bifolii che formano un quaternio, ma ben presto il primo bifolio è andato perduto17: tuttavia, a parziale “risarcimento” del fascicolo, è stato incollato un altro foglio ai precedenti, che rappresenta attualmente il foglio 7r. Sul margine inferiore della facciata che costituisce il verso di questo foglio troviamo il richiamo del copista, che scrive alla fine di ogni fascicolo la prima parola del fascicolo successivo. Ciò mostra che la ristrutturazione del fascicolo è avvenuta prestissimo, durante la trascrizione stessa. Il fascicolo successivo è irregolare, con l’ultimo foglio tagliato, anche se è apparentemente un quaternio descrivibile con la formula 4+4: in realtà la struttura originaria aveva più fogli e si vedono ancora le tracce di almeno una delle carte tagliate alla fine del quaternio attuale18. Il fascicolo seguente sembra un quaternio regolare, ma in realtà deriva da un fascicolo riadattato, ed è descrivibile secondo la formula 1+3+4, poiché ha inglobato un’altra carta che faceva parte di un altro fascicolo al momento della prima rilegatura. Seguono quattro quaterni regolari e da ultimo troviamo un quaternio con gli ultimi due fogli tagliati, descrivibile con lo schema 4+2. I fascicoli sono stati numerati anticamente con numeri romani in rosso, sul margine basso dell’ultimo foglio di ogni fascicolo: tuttavia, come abbiamo già detto, nella stessa posizione sono leggibili quasi sempre i richiami del copista che aveva scritto in questo stesso margine la prima parola con cui comincia la prima facciata del nuovo gruppo di fogli. Anche se, come si è visto, dobbiamo supporre l’esistenza di una legatura antica, forse sostituita verso il XV/XVI secolo, attualmente il manoscritto 16
In realtà la mano che ha indicato sul margine alto a destra la numerazione di tre fascicoli, non ha numerato progressivamente i fogli, ma si è limitata ad indicare la loro appartenenza al singolo fascicolo. 17 Sul f. 1r sono ancora visibili le tracce di una delle due illustrazioni delle Praemissiones che erano nel foglio perduto. 18 Va ricordato che al f. 13r per effetto del trasferimento di inchiostro si vedono impronte di alcune righe di testo sul margine sinistro che non corrispondono a quelle della facciata antistante e mostrano quindi che ci doveva essere un altro foglio al posto di quello attuale.
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ha una legatura in cartone pressato con copertura in carta verde e dorso in pergamena a quattro nervi, sul cui piatto anteriore c’è lo stemma del papa Paolo V (Camillo Borghese, 1608-1621) e sul cui piatto posteriore c’è quello del cardinal bibliotecario Scipione Borghese (1609-1618). Scripta manent Il primo fascicolo del manoscritto, è stato scritto in momenti diversi da differenti scribi che operano in due ambienti distinti. I primi tre fogli sono stati impiegati per trascrivere le cosiddette Praemissiones e l’inizio del commento ad Isaia, che doveva continuare nei fogli successivi lasciati in bianco. Il lavoro di copia è stato realizzato da tre amanuensi. Il primo, che chiameremo A (Tavv. I-II), scrive i fogli 1rv e 4v in una littera textualis19 di modulo medio20, ancora non del tutto sviluppata, con moderata spezzatura dei tratti e scarsa fusione delle curve contrapposte. 19 La terminologia ed il metodo paleografico che seguiamo sono quelli della cosiddetta “Scuola romana di paleografia” a cui apparteniamo. Tuttavia, nell’aspirazione a quella “integral paleography” su cui abbiamo avuto modo di scrivere più di una volta (F. TRONCARELLI, Introduction, in L. E. BOYLE, Integral Paleography, a cura di J. HAMESSE, Louvain-la-Neuve 2001, pp. IX-XVIII), ci pare opportuno utilizzare i lavori elaborati da altre scuole, separando i fatti dalle opinioni e distinguendo i risultati, conseguiti attraverso un esame rigoroso di codici e scritture, dalla terminologia e dalla metodologia che possono essere discutibili e sono spesso giustamente messe in discussione e criticate da studiosi non dogmatici. Non a caso su questi argomenti si sono sviluppati nel passato fecondi dibattititi: si vedano, per una prima introduzione al problema, i saggi raccolti nel volume Un secolo di paleografia e diplomatica (1887-1986). Per il centenario dell’Istituto di Paleografia dell’Università di Roma, a cura di A. PETRUCCI – A. PRATESI, Roma 1988; le riflessioni di A. PETRUCCI, La scrittura descritta, in Scrittura e civiltà 15 (1991), pp. 5-20; P. SUPINO MARTINI, Sul metodo paleografico: formulazione di problemi per una discussione, ibid. 19 (1995), pp. 5-29. E si tengano presenti gli inviti alla cautela nell’uso di una nomenclatura arbitraria delle scritture, in particolare quella avventuristica di Lieftink e dei suoi seguaci, di M. Palma, La definizione della scrittura nei cataloghi di manoscritti medievali, in La catalogazione dei manoscritti miniati come strumento di conoscenza:esperienze, metodologie, prospettive, Convegno internazionale di studi (Viterbo, 4-5 marzo 2009), a cura di S. MADDALO – M. TORQUATI, Roma 2010, pp. 183-194. 20 La scrittura è below the top line, ma questo fenomeno è scarsamente rappresentativo, contrariamente a quello che pensano troppi studiosi inesperti. Per comprenderlo basterebbe conoscere l’articolo di Ker che ha coniato il termine e scoperto il fenomeno per primo, invece di limitarsi a citare gli epigoni di Ker (N. KER, From “Above Top Line” to “Below Top Line”: A Change in Scribal Practice, in ID., Books, Collectors and Libraries: Studies in the Medieval Heritage, ed. by A. G. WATSON, London 1985, pp. 71-74, ma vedi ovviamente anche J. VEZIN, La réalisation matérielle des manuscrits latins pendant le haut Moyen Âge, in Codicologica, II, Leiden 1978, pp. 15-51). Si scoprirebbe così che non si tratta di una “regola” come ha detto qualcuno ingenuamente, ma di una “tendenza”, di una “prassi” non sempre uniforme che deve essere presa in considerazione con molta cautela ai fini della datazione generica di un codice. Ha scritto a riguardo Marco Palma, concludendo un’indagine che approfondisce e
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La scrittura non mostra un tratteggio particolarmente contrastato, né un’alternanza evidente tra tratti grossi e tratti sottili. Neppure mostra una decisa spezzatura dei tratti curvi: nonostante qualche caso che si ripete, come ad esempio l’occhiello della “h” o l’occhiello superiore della “g”, molte lettere presentano l’occhiello a volte romboidale e a volte tondeggiante, come per esempio la “d”, la “b”, la “a”, la “o”, l’occhiello inferiore della “g”. La “m” ha in genere la curva superiore arrotondata; la “n” e la “u” hanno il tratto superiore moderatamente spezzato; la “c” a volte si presenta con la curva superiore spezzata e a volte no. I trattini di attacco che dovrebbero servire per legare alcune lettere con le altre sono a volte prolungati o ritoccati in modo da simulare un tratto spontaneo o addirittura inventati come ad esempio nel caso della “d” che viene collegata alla “n” attraverso una sorta di “grazia” aggiunta alla terminazione del tratto terminale in alto (Tav. II, quinta riga: “protendetur”). Se si aggiunge a ciò il fatto che le curve contrapposte si fondono solo in pochi casi e sono spesso solo accostate, si ricava l’impressione di una scrittura gotica libraria non ancora pienamente sviluppata, nella quale le singole lettere sono ancora ben individuate e staccate, come avveniva nella tarda carolina. In questa grafia di transizione spiccano due caratteristiche, la prima delle quali è comune agli altri due copisti del primo fascicolo e la seconda solo ad uno dei due: la compresenza di due abbreviazioni per “et” a forma di “7”, di solito alternative (una col taglio centrale nel tratto verticale e l’altra senza tratto centrale); la compresenza di due modi diversi di scrivere l’abbreviazione per “orum”, una di due tratti ed una in tre. Questi ed altri elementi depongono a favore dell’appartenenza dei tre scribi ad un unico ambiente, nel quale bisogna supera quelle di Ker e Vezin: “Al termine di questo abbozzo di ricostruzione di alcuni aspetti materiali della metamorfosi subita dal libro manoscritto latino in due secoli cruciali della storia culturale europea ci pare opportuno ribadire, pur in presenza di chiare linee di tendenza nello svolgimento dei fenomeni osservati, che la scarsezza dei dati in nostro possesso richiede la massima prudenza nella loro interpretazione”. M. PALMA, Modifiche di alcuni aspetti materiali della produzione libraria latina nei secoli XII e XIII, in Scrittura e civiltà 12 (1988), pp. 119-133, in particolare p. 133. Tuttavia il problema non è solo questo: il problema è che in Italia la scrittura gotica libraria arriva più tardi di altri paesi ed è quasi dovunque, ma soprattutto in Italia meridionale, frutto di imitazione, non di spontanea evoluzione della scrittura. La conseguenza di ciò è che pratiche che altrove nascono da uno sviluppo graduale e possono indicare il mutamento della scrittura da una generazione all’altra, arrivano tutti insieme e coesistono in modo contraddittorio con abitudini e tecniche che altrove vengono messe da parte col trascorrere del tempo: fenomeni del genere non sono dunque rappresentativi e bisogna cercare altri elementi di datazione. Si veda a riguardo A. PRATESI, La scrittura latina nell’Italia meridionale nell’età di Federico II, in Archivio storico pugliese 25 (1972), pp. 299-316; F. TRONCARELLI, Tra Beneventana e Gotica: manoscritti e multigrafismo nell’Italia meridionale e nella Calabria normanno-sveva, in Libro, scrittura e documento in età normanno-sveva, a cura di G. VITOLO, Salerno 1992, pp. 115-167.
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supporre l’esistenza di un substrato comune, che deriva da un’educazione grafica di base simile; o bisogna immaginare un’interazione tra copisti che lavorano spesso insieme e che tendono ad imitarsi l’uno con l’altro, finendo col somigliarsi anche senza essere del tutto sovrapponibili. Non a caso troviamo contemporaneamente la prima mano (copista A) e la terza (copista C) che si dividono i compiti, scrivendo rispettivamente una il testo e l’altra le glosse su uno stesso foglio, il 4v. Il copista A è anche capace di realizzare miniature professionali come la sua scrittura: immagini dalle forme aggraziate e proporzionate, con colori tenui, nelle quali le tinte sfumano con armoniosa naturalezza e digradano spontaneamente l’una nell’altra (ai fogli 1v, 2r e 4r). La sua mano è estremamente sicura e la sua grafia è quella di uno specialista, come si vede dalla disinvoltura con cui, a differenza dei suoi compagni, riesce a tracciare le curve delle lettere a bandiera, dei segni di paragrafo a bandiera e delle volute a bandiera nelle illustrazioni, senza sforzo, senza ripensamenti, senza esitazioni, con un tratto solo, nonostante la difficoltà tecnica di tracciare curve con una penna a punta mozza (Tav. III). Questo copista si firma per ben due volte21 N‹L (N + segno di abbreviazione + L) e N ┐ (= N + L rovesciata) (Tav. IV): un compendio che non ci pare azzardato leggere come N(icho)l(aus). Lo stesso copista ha aggiunto nel margine sinistro del primo foglio un’importante didascalia “Io(achim) s(cripsit)”, che attribuisce esplicitamente a Gioacchino da Fiore la paternità del testo che riassume alcune sue idee, rielaborandole con significative interpolazioni22. Gli altri due amanuensi, che chiameremo B e C, pur essendo piuttosto esperti, hanno forme grafiche meno eleganti del primo ed usano un ibrido grafico di modulo piccolo, in cui si mescolano elementi della gotica libraria ed elementi cancellereschi (Tavv. V-VII), creando forme del tutto affini a quelle in uso a San Giovanni in Fiore e a Cosenza (Tav. VIII, a-b) una generazione prima e nei registri della cancelleria pontificia dall’epoca di Gregorio IX fino ai primi anni del pontificato di Innocenzo IV23. Tra i due, quello più influenzato da abitudini cancelleresche è senza dubbio il terzo (copista C), che prolunga con disinvoltura i tratti di alcune lettere per fare uno svolazzo ed usa le tipiche “d” ed “s” con il tratto superiore allungato che si trovano nei documenti in cancelleresca dell’epoca. Questo copista, tra l’altro, usa una penna a punta fine che sarebbe appropriata per scrivere 21
Ai ff. 1r, margine sinistro, circa a metà foglio e 4r, al’interno dell’illustrazione. Come, ad esempio, l’identificazione dell’Anticristo con la progenie di Federico II o la data d’inizio del Terzo Stato, fissata al 1260. 23 Oltre agli esempi già citati in F. TRONCARELLI, Tra Beneventana e Gotica cit., p. 154 n. 55, si vedano, a puro titolo d’esempio, alcune mani databili ai primi anni del pontificato di Innocenzo IV in Archivio Segreto Vaticano, Reg. Vat. 22, ff. 8rv e 120r. 22
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documenti e non libri, mentre il suo compagno (copista B), usa la penna a punta mozza adeguata per la gotica libraria e mostra una spezzatura dei tratti più accentuata di quella del primo amanuense. Le mani dei due scribi ricorrono ai fogli 2rv, 3r (copista B); 3v, 4r e le glosse a 4v (copista C). Di altra mano, sono invece le illustrazioni dei ff. 2rv e 3v, opera di un illustratore più rigido e impacciato di A, che chiameremo X (Tav. IX). Come abbiamo già detto, nel primo fascicolo c’era anche un’altra immagine oggi perduta24: essa si trovava sul primo foglio, che è caduto. Abbiamo la sua impronta a causa di un trasferimento di inchiostro nell’attuale primo foglio, che era invece originariamente il secondo (Tav. 1). La caduta del foglio è avvenuta prestissimo, come abbiamo visto, dal momento che si è cercato di “risarcire” il fascicolo del bifolio perduto incollando un nuovo foglio durante la trascrizione. Va sottolineato che i tre copisti usano inchiostri simili, ma in un caso uno di loro (f. 2r: mano B: Tav. VIIa) ha aggiunto alcune righe in un inchiostro di colore molto più scuro degli altri, sintomo di una certa dilatazione nel tempo della conclusione del lavoro25. In realtà abbiamo un indizio ancor più vistoso del procrastinarsi della trascrizione, se mettiamo a confronto la rigatura del foglio 1rv, opera della mano A e quello degli altri fogli, includendo anche quello del foglio 4v, dove ritroviamo la stessa mano. Pur riscontrando nei diversi fogli sempre lo stesso sistema di rigatura, una sola riga marginale a mina di piombo, molto leggera, su previa incisione e una serie di forellini irregolari tracciati uno per uno con uno strumento a punta, vi è comunque una differenza di realizzazione della rigatura imputabile solo a una esecuzione in tempi diversi, con tecniche diverse e strumenti diversi: infatti il primo foglio è stato inciso premendo una punta acuta dalla parte della carne, mentre tutti gli altri, compreso il 4v, in cui c’è la stessa la mano A che ha scritto il primo foglio, sono stati incisi tutti insieme contemporaneamente, sovrapponendoli, premendo dalla parte del pelo due punte che si alternano: una romboidale e l’altra acuta, leggermente più grossa dei quella del primo foglio. Alla discordanza di inchiostri che avevamo notato si aggiunge, dunque, 24 Il Morris (The historiography cit., nota 101) aveva già avanzato l’ipotesi che si fossero perdute le prime due immagini nel Vat. lat. 4959: tale ipotesi trova oggi una conferma. 25 I copisti impiegano inchiostri simili, anche se non identici, com’è naturale quando si lavora insieme nello stesso tempo. Infatti la terza mano e la prima hanno usato due inchiostri marrone chiaro molto vicini tra loro, scrivendo rispettivamente i fogli 2v, 3r (mano C) e 4r (mano A). Successivamente, ma certo a breve distanza di tempo, la mano B ha lavorato con un inchiostro un po’ più scuro, ma pur sempre di base simile a quello delle altre due mani. In seguito, però, la stessa mano ha completato il lavoro con un altro inchiostro, estremamente scuro e questo dovrebbe essere avvenuto a una certa distanza di tempo.
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una discordanza nell’esecuzione materiale della rigatura del fascicolo. Tutto ciò è la spia dell’esistenza di diverse fasi di lavorazione. Come si può ricostruire la vicenda? È evidente che le Praemissiones formano un blocco a sé stante iconografico e testuale, la cui trascrizione va programmata dall’inizio. In questo senso è naturale che i fogli necessari siano stati predisposti tutti insieme sin dall’origine, incidendoli simultaneamente per ottenere una rigatura uniforme e suddividere in modo omogeneo la porzione di spazio riservata al testo e quella riservata all’immagine, assegnando a ciascun copista un ruolo specifico. Non è invece logico che un copista abbia preparato arbitrariamente un unico foglio, predisponendolo in modo autonomo alla trascrizione con una rigatura difforme dal resto. Se ciò è avvenuto è solo perché si è deciso, ad un certo momento, di discostarsi da ciò che era stato fatto prima, per ottenere qualche cosa di diverso, come quando si decide di sostituire un’immagine, disegnata in precedenza insieme alle altre, per inserire un altro bifolio, preparato ex novo, con un’altra immagine accompagnata da un altro testo. La presenza di fogli incisi contemporaneamente e di tre copisti che lavorano assieme e usano inchiostri simili, si spiega dunque pensando ad una trascrizione unitaria del blocco delle Praemissiones su quattro fogli e otto facciate, predisposte dall’inizio (anche se come abbiamo già detto, oggi noi abbiamo solo tre fogli e sei facciate per la caduta del primo foglio). Quanto al foglio alternativo a questo schema ideale, il fenomeno si spiega pensando a una sostituzione del bifolio originale con un nuovo bifolio: la rigatura è stata fatta in modo diverso del tutto casualmente, come succede quando si riprende in mano un lavoro dopo un certo periodo e non si ricorda più come si è cominciato. Una volta ricostruito in questo modo l’andamento del lavoro, resta da dire qualcosa sulla sua esecuzione. È certo che per prima cosa sono state delineate le immagini, poiché a volte i copisti hanno scritto, involontariamente, sopra la figura e questo dimostra che la figura era stata già tracciata26.
26
Così ad esempio al f. 2r, la “H” di “Hic”, scritto nella didascalia miniata sottto la figura della Tuba, invade il perimetro del cerchio del “Terzo sigillo” disegnato sotto; al f. 2v nelle note scritte nel margine sinistro la “s” delle parole “quies” e quiescientibus”(righe 17 e 18 delle righe con testo) invadono il corpo del Drago; al f. 3v nella seconda nota del margine sinistro la “u” di “novissimus” (nona riga delle righe con testo) invade il perimetro del Salterio.
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Alia manu Terminata la copia delle le Praemissiones e iniziata la trascrizione del commento ad Isaia, il lavoro dei tre copisti è stato inopinatamente interrotto. Vi deve essere stata una causa di forza maggiore per costringere tutti a fermarsi e riprendere la copia dell’antigrafo in un ambiente nettamente diverso da quello in cui era iniziata. A partire dal foglio 5r, la trascrizione del commento a Isaia viene eseguita da un’altra mano, che non ha alcun elemento in comune con le precedenti: questo scriba, che chiameremo D (Tav. X), usa una littera textualis quasi del tutto sviluppata, di modulo medio, con una maggiore fusione delle curve contrapposte dei tre copisti precedenti e una più accentuata spezzatura dei tratti rispetto alle altre mani(si veda per esempi la forma della “o” romboidale; degli occhielli della “g”; dell’occhiello di “a”, “b”, “p”). La sua grafia fluida e scorrevole, pur non essendo così elegante come quella della mano A, è comunque molto disinvolta e ricca di svolazzi (come ad esempio nel tratto inferiore dell’occhiello della “h”), “grazie” ed abbellimenti calligrafici (come il trattino di attacco in alto all’occhiello della “p” che è spesso una sorta di lungo filamento). Il copista D usa ovviamente un altro inchiostro rispetto agli altri ed un diverso sistema di rigatura, ottenuta con uno strumento differente da quelli usati in precedenza, tracciando due righe marginali a mina di piombo, a partire da una doppia serie di forellini sul margine interno ed esterno del foglio. In seguito questo copista scriverà le note marginali nella sezione dove ci sono i diagrammi con le profezie regionali, tracciate e rubricate prima delle sue glosse27 da due mani diverse, che chiameremo E ed F, che si alternano una dopo l’altra (E ai ff. 13v-16r; D ai ff. 16v-26v): pur usando ambedue una gotica libraria primitiva, dal modulo grosso per le didascalie, che imita esplicitamente la scrittura “ufficiale” delle didascalie di certi codici gioachimiti come l’Ant. Padova 32228 (Tav. XIb), le due mani sono diverse come si vede dalla differenza di molte lettere e dal fatto macroscopico che il copista E traccia linee leggere e regolari in modo assai elegante, mentre il copista F traccia linee marcate e spesso irregolari, con un certo impaccio29. 27
Lo dimostra il fenomeno che abbiamo già ricordato nella nota precedente: si veda ad esempio ciò che accade nel margine sinistro del f. 12v, in cui la “a” di “provincia” della glossa marginale invade il cerchio di “Aquilegiensis”. 28 F. TRONCARELLI, Gerarchie grafiche e metodi di correzione in due antichi codici gioachimiti (Laur. Conv. Soppr. 358, Padova Ant. 332), in Mediaeval Studies 55 (1993), pp. 273-283; ID., Tra Beneventana e Gotica cit., p. 154. 29 Va inoltre ricordato che F usa un sistema di rigatura diverso da quello adottato da D e da E, ritornando parzialmente al metodo dei primi tre copisti e tracciando una sola linea
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Il copista D esegue le annotazioni marginali in due tempi: inizialmente usa un inchiostro marrone chiaro, di base simile a quello impiegato per scrivere il testo del commento di Isaia, ai ff. 13v-16r; in seguito ricorre a un inchiostro molto scuro ai ff. 16v-26v, cambiando anche aspetto della scrittura, che assume il carattere di una gotica libraria sviluppata e matura, con spezzatura dei tratti e fusione delle curve contrapposte quasi sistematica. È evidente anche in questo caso che la trascrizione si è svolta in almeno due tempi. Il copista D ha continuato il suo lavoro, ricopiando l’ultimo trattato ai ff. 29r-61v con un terzo inchiostro, a metà strada tra quello più chiaro dell’inizio e quello più scuro delle glosse della seconda parte della sezione con i diagrammi. È difficile dire se questa fase va datata prima o dopo la seconda fase di trascrizione delle glosse: in ogni caso non è contemporanea alla prima fase. Si direbbe tuttavia che questo lavoro sia stato fatto per ultimo, poiché quando è stato realizzato non erano più disponibili gli autori dei disegni e dei diagrammi delle pagine precedenti: infatti a f. 52v troviamo uno sgraziato diagramma30, eseguito da D in modo piuttosto goffo (Tav. XII), che avrebbe potuto essere delineato in modo molto più professionale dagli autori delle illustrazioni con cui D aveva collaborato. Quando la trascrizione è finita31, è intervenuto un rubricatore professionale che ha copiato l’incipit del commento di Isaia e qualche brano da evidenziare, decorando inoltre le iniziali (tutte di una mano che chiameremo G, tranne le due che ci sono a f. 13r, opera di una mano che chiameremo H). Due altre mani, che chiameremo I ed L, hanno tracciato in un ibrido grafico di tipo notarile-cancelleresco una serie di brevi note d’apparato, usando il minio (Tav. XIII). A volte queste note indicano anche le fonti ed in un caso il copista D integra la nota32, usando un metodo paragonabile a quello che abbiamo segnalato nel codice di Roma, Bibl. Naz. V. E. 150233. marginale, anche se i forellini di guida continuano a essere incisi all’interno e nel margine del foglio. Questo metodo verrà ripreso da D nell’ultima sezione del codice. 30 Si noti, ad esempio, l’asimmetria tra la parte destra e la sinistra della base, che si conclude ai vertici con due diversi tipi di cerchietti. 31 È comunque degno di riflessione che dopo l’ultima riga del foglio finale ci sia una nota che recita: “Hic scribend(a)e sunt figurae bestiarum” che allude alla presenza di figure nell’antigrafo che devono essere copiate e che invece sono state trascurate. Questa nota ricorre anche in altri codici (per esempio nel Ross. 552, f. 65r) e mostra probabilmente che la copia dell’antigrafo non è stata terminata. 32 Al f. 30v, margine sinistro, la nota in rosso riporta il nome del profeta Zaccaria e la mano D ha aggiunto sotto di essa il brano corrispondente. 33 F. TRONCARELLI, Citazioni bibliche e annotazioni in un codice della Montpellier di Pietro di Giovanni Olivi, in In uno volumine. Studi in onore di Cesare Scalon, a cura di L. PANI, Udine 2009, pp. 595-609.
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I due amanuensi sono simili, ma non uguali: il primo sembra più vecchio, usa una penna a punta fine ed ha i tratti arrotondati; il secondo, forse più giovane, si serve di una penna a punta mozza adatta alla gotica libraria e mostra una spezzatura delle curve accentuata. Ambedue usano un ibrido grafico ben noto ai paleografi34 che fonde le forme solenni della cancelleria pontificia con soluzioni grafiche più semplici, ma pur sempre gradevoli della minuscola notarile. Abbiamo tracce di questa scrittura in documenti calabresi di un certo impegno e soprattutto nei registri della cancelleria di Federico II, che non a caso aveva voluto che i suoi atti imitassero la cancelleria pontificia35. Lo ritroveremo anche più tardi, in forma più calligrafica, con un tratteggio più vicino alla littera textualis e volute capricciose e barocche nei documenti della cancelleria di Manfredi36, uno sciame di svolazzi che ritroviamo nei due copisti del Vat. lat. 4959 (Tav. XIV). Da ultimo, va ricordata la presenza di una mano della seconda metà del XIII secolo, che chiameremo M, che usa una littera textualis pienamente sviluppata: essa interviene due volte (ff. 12r e 18r) per inserire brani mancanti e probabilmente aggiunge l’illustrazione o quanto meno le didascalie della Visio Jerusalem al f. 12r (Tav. XV). Ricapitolando le nostre osservazioni possiamo affermare che il Vat. lat. 4959 è stato realizzato in diverse fasi: dapprima, in un unico ambiente, in due momenti distinti da un disegnatore (X) e tre copisti (A,B,C), uno dei quali (A) è a sua volta un disegnatore di professione Questi copisti usano una littera textualis non ancora pienamente matura e un ibrido grafico che fonde textualis e minuscola notarile simile a quella usata a Fiore e nei registri della cancelleria pontificia entro la prima metà del XIII secolo. In seguito il codice è stato continuato un po’ più tardi, in altro ambiente da un altro copista (D), che scrive in una textualis più evoluta, affiancato da due disegnatori (E, F), in tre fasi diverse che devono essere datate nell’arco di qualche anno verso la metà del XIII secolo, un periodo entro il quale la gotica libraria si afferma definitivamente nell’Italia meridionale. Alla fine della trascrizione il codice è stato rubricato da due mani (G ed H) e guarnito di note da almeno due copisti (I, L), in un ibrido grafico simile a quello usato dai registri di Federico II e dalla cancelleria di Manfredi, di cui si hanno remoti echi all’inizio degli anni sessanta del secolo37, fino 34 F. MAGISTRALE, La cultura scritta latina e greca: libri, documenti, iscrizioni, in Federico II. Immagini e potere, a cura di M. S. CALÒ MARIANI – R. CASSANO, Venezia 1995, pp. 125-141, in particolare pp. 133-134. 35 TRONCARELLI, Tra Beneventana e Gotica cit., p. 154. 36 V. FEDERICI, La scrittura delle cancellerie italiane dal secolo XII al XVIII, Roma 1934, tav. XLV: Grazia di Manfredi alla chiesa della S. Trinità dei Teutonici dell’agosto 1258. 37 Ibid., tav. XLVI.
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all’affermazione degli Angioini e di forme grafiche ispirate alla gotica corsiva anche nell’ambito delle scritture notarili e documentarie, nelle quali prevalgono la spezzatura generalizzata dei tratti e il raddoppiamento degli svolazzi e degli allungamenti che si chiudono, ripiegandosi su loro stessi38: fenomeni questi per che nell’esemplare vaticano non sono costanti e uniformi in ambedue le mani. Queste osservazioni non fanno che confermare la sostanza di quanto avevamo già osservato in precedenti contributi39, pur senza aver distinto cronologicamente le sezioni del codice: avevamo datato il cimelio al periodo 1250-1260, pensando come gli altri che fosse stato scritto in un unico periodo. Grazie ad un’analisi più approfondita possiamo dire oggi che il codice non è stato scritto nello stesso momento: e tuttavia la maggioranza dei suoi copisti mostra forme grafiche compatibili con l’evoluzione della gotica libraria e degli ibridi librario-cancellereschi in uso in importanti centri di scrittura libraria e documentaria dell’Italia centrale e meridionale nel periodo che va, grosso modo, tra 1250-1260 e che difficilmente può spingersi dopo il 1260 e superare lo spartiacque del 1266. La prima parte del Vat. lat. 4959 è stata trascritta dunque in questo decennio, prima del 1260; la sezione che contiene il commento ad Isaia e la prima parte di quella con i diagrammi dovrebbe essere stata composta subito dopo, a ridosso del 1260; di conseguenza la sezione finale con i diagrammi e le note scritte per ultime, in una gotica libraria quasi del tutto matura della mano D, la sezione che contiene il De septem temporibus Ecclesiae, e le note tracciate dopo la trascrizione del testo nei margini con mano spigliata in un ibrido notarile-cancelleresco, pieno di echi della gotica libraria, possono essere datate un po’ più avanti, ma non molto40, prima 38 Si confrontino, a riguardo, alcuni testimonianze significative dell’Italia centro-meridionale: per la cancelleresca usata nei diplomi pontifici si vedano la bolla di Alessandro IV datata 1255 riprodotta in Acta Pontificum, a cura di G. BATTELLI, Città del Vaticano 1965 (Exempla scripturarum, III), tav. 15, nella quale il raddoppiamento dei tratti è quasi inesistente e una delle bolle di Urbano IV (ad esempio: Archivio di Stato di Latina, Diplomatico pontino, n. 1, rilasciato a Orvieto nel maggio del 1264) nella quale al contrario è frequente; oppure per la scrittura notarile di documenti pubblici di alto livello, un documento calabrese redatto a Cosenza nel 1239, ispirato all’ibrido grafico della cancelleria federiciana (Perg. Aldobrandini IV, 26, pubblicato in TRONCARELLI, Tra Beneventana e Gotica cit., tav. 29) e il documento redatto da un celebre notaio, che doveva essere à la page, come Brunetto Latini nel 1263, nel quale il raddoppiamento degli allungamenti delle lettere o degli svolazzi è ormai quasi totale (Epistolae et instrumenta saec. XIII, a cura di B. KATTERBACH – C. SILVA-TAROUCA, Città del Vaticano 1930 [Exempla scripturarum, II], tav. 21). 39 TRONCARELLI, Tra Beneventana e Gotica cit., pp. 149-163. 40 Bernard McGinn ha osservato che nella conclusione dell’ultima sezione del Super prophetas potrebbe esserci un’allusione all’insurrezione di Corradino, poiché si accenna a un “modicum cornum” che spunterà sulla testa dell’Anticristo, ma sarà eliminato (B. MCGINN,
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del cambio radicale di usi e costumi in conseguenza della conquista degli Angioini quando ormai i documenti non venivano più redatti alla maniera di Manfredi e quando in ambito librario la littera textualis si impone definitivamente nell’Italia centrale e meridionale41. Ex libris Qualche indicazione utile sul destino del volume ci viene fornita da tre note di possesso di età diversa. La prima, del XIII secolo, pressoché contemporanea alla trascrizione, si trova sul margine alto del verso del primo foglio, nella stessa posizione nella quale è stato vergato l’ex-libris dei monaci di Fiore sul Cors. 797 dell’Accademia Nazionale dei Lincei42. L’annotazione erasa è ancora parzialmente leggibile, inclinando il foglio obliquamente rispetto alla luce (Tav. XVI). A giudicare da quello che si intravede parrebbe di leggere: “Frat(er) Robbertus sac(erdo)s d[e] Flore”. Si tratta di una lettura senza dubbio difficile e incerta, nella quale sembrano comunque sicure le lettere “Flore” (cfr. la “Fl” dell’abate Matteo, Tav. XVIb)43. Visions of the End: Apocalyptic Traditions in the Middle Ages, second edition, New York 1998, p. 178). L’ipotesi è ragionevole, ma non è sicura e andrebbe confermata da un’analisi del brano in rapporto alla terminologia e alle formule ricorrenti per designare Corradino. A nostro giudizio la questione è aperta: è anche possibile che non ci sia un’allusione a Corradino, ma piuttosto a Manfredi e al suo regno, che durò un tempo certamente assai “modicum” e di cui si poteva prevedere la fine, senza difficoltà, con la discesa in campo degli Angioini. Alla stessa maniera, se invece si fosse trattato di Corradino, non era difficile prevedere la sua fine anche prima della battaglia definitiva. Non ci sembra insomma che sia possibile stabilire con certezza una data successiva al 1266 per l’ultima parte del trattato. Sul problema della terminologia politica e delle formule ricorrenti della propaganda filoangioina e antiangioina si veda come prima introduzione A. BARBERO, Il mito angioino nella cultura italiana e provenzale fra Duecento e Trecento : I. La multiforme immagine di Carlo d’Angiò, in Bollettino storicobibliografico subalpino: Deputazione subalpina di storia patria 79 (1981), pp. 108-220, dal quale si ricava, tra l’altro, che, esattamente come avevo detto in Tra Beneventana e Gotica, p. 163, l’espressione “crociata” per indicare l’impresa di Carlo è piuttosto una formula usata dagli storici moderni (compreso Barbero) che non un modo di dire che si trova costantemente e ossessivamente nei documenti dell’epoca: essi, infatti, tendono a sfumare (non a caso) il carattere di crociata, che aveva caratterizzato la lotta contro Federico e insistono piuttosto sul carattere di legittima presa di possesso del regno da parte di Carlo e della necessità di spodestare un usurpatore. 41 Va da sé che la datazione del manoscritto conferma la nostra valutazione complessiva della fenomenologia grafica e codicologica della Calabria del Duecento, accettata del resto nelle storie della scrittura (cfr. P. CHERUBINI – A. PRATESI, Paleografia latina. L’avventura grafica del mondo occidentale, Città del Vaticano 2010 [Littera antiqua, 10. Subsidia studiorum, 3], pp. 466-467). 42 Debbo quest’osservazione all’amico Marco Cursi, che ringrazio. Sul codice corsiniano si veda la nostra scheda in Il ricordo del futuro cit., pp. 189-193. 43 Della stessa opinione è una paleografa esperta, come Giovanna Nicolaj, che ha visto
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È problematico identificare il personaggio citato. Nei documenti florensi del XIII, secolo redatti in epoche diverse nell’arco di una trentina di anni, ricorre il nome di frati chiamati Robertus44, (uno di loro è “sacerdos”45), ma non è detto che si tratti sempre della stessa persona. In ogni caso, non sembra si possa trascurare il fatto che il manoscritto sia appartenuto ad un monaco di Fiore. Quest’informazione ci può guidare nell’identificazione di uno degli scribi del Vat. lat. 4959, la mano A, che si firmava “NL” = Nicholaus. È forse possibile che si tratti del monaco florense Nicholaus de Longobucco, definito solennemente “scriptor”, che figura come testimone autorevole in un documento florense del 124646: un personaggio del genere, designato ufficialmente come scriptor, doveva essere un professionista e non uno scriba occasionale e doveva anche essere uno dei collaboratori dell’abate Matteo che, com’era consuetudine, firma l’atto insieme ai monaci più fidati. Tra loro, oltre a Nicholaus, c’è anche un Orlandus, che è evidentemente colui che diverrà abate del monastero nel 1256, restando in carica, tra varie traversie proprio negli anni in cui il Vat. lat. 4959 è stato trascritto. Un ultimo, piccolo enigma è rappresentato dal fatto che la nota di possesso del frate Roberto sia stata erasa. È difficile interpretare questo fenomeno: indica forse la volontà di nascondere un nome compromettente, com’era quello di un monaco ostile alla dinastia sveva? O testimonia solo il passaggio di proprietà del volume a un proprietario diverso dal frate Roberto? Non ci sentiamo di rispondere a quest’interrogativo e lo lasciamo per ora in sospeso, nella speranza di trovare qualche nuovo elemento che ci aiuti nel futuro. La seconda nota di possesso è di molto successiva47 e si trova sul riinsieme a me il codice, il 20 novembre 2014 e che ringrazio per la consulenza ed i consigli. Anche Marco Cursi ritiene plausibile la lettura “Flore”. 44 P. LOPETRONE – V. DE FRAJA, Atlante delle fondazioni florensi, Soveria Mannelli 2006, II, pp. 208, 264. 45 Ibid., p. 308: è un documento del 1224, con una sottoscrizione non autografa che non permette il confronto con quella del nostro codice. Va detto, comunque, a puro titolo di cronaca che la parola “Flore “della nota di possesso è scritta in una grafia che risente della minuscola cancelleresca, esattamente come quella non autografa, del “Robbertus sacerdos de Flore” citato nel documento del 1224 (si veda la riproduzione in F. TRONCARELLI, La scrittura dell’Abate Matteo, in Florensia 6 (1992), pp. 33-44, tav. 1. 46 LOPETRONE – DE FRAJA, Atlante cit., II, p. 264. 47 Nel codice ci sono numerose note, maniculae e disegni (si vedano ad esempio i ff. 1r, 25r, 36r) di epoca diversa, che danno qualche informazione sulla sua utilizzazione nel corso del tempo. Particolarmente interessanti le note aggiunte da una mano della fine del XIII secolo nell’interlinea nell’ultima facciata (f. 61v) che riadattano le profezie gioachimite agli eventi del Vespro. Altrettanto interessante la nota di una mano che interviene saltuariamente e sottolinea spesso le profezie sulla Sicilia (ff. 40v; 41r-v) la quale ha scritto al f. 43r una nota
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sguardo posteriore. Una mano che usa una grafia cinquecentesca dal modulo molto grosso ha scritto, mescolando lettere minuscole e maiuscole: “LEGI. Io Vi.” e successivamente “Io vtal.io (= Vitaliano) Cataldo de Gefuni in la tera veccaia ne l’anno 1559”. Anche in questo caso è difficile identificare con sicurezza l’individuo menzionato, come del resto il luogo in cui dimora. L’unica cosa che si può affermare con una certa sicurezza è che nel 1559 il volume era nell’Italia meridionale: infatti Gefuni è una forma linguistica comune a diversi dialetti dell’Italia meridionale, che può indicare sia una cittadina, che si chiama Giffoni in provincia di Salerno, sia la famiglia calabrese dei Giffone; quanto all’espressione “terra veccaia” che significa “terra vecchia”, essa è a sua volta una definizione geografica tipica dell’Italia meridionale, che ritroviamo per designare territori siti in diversi luoghi, compresa una parte della cittadina di Giffoni, che abbiamo menzionato Se ci spingiamo un po’ oltre, possiamo ricavare un indizio significativo, leggendo attentamente la nota: chi l’ha scritta dice infatti di trovarsi “in la terra veccaia” e non “en terra veccaia”, mostrando che la denominazione “terra vecchia” ha inglobato l’articolo, divenuto parte integrante del nome, come ad esempio nel caso della città “L’Aquila”, scritta sempre con l’articolo. Conosciamo un caso di questo genere che potrebbe essere significativo: un’area che veniva abitualmente chiamata nel XVIII secolo “La terra vecchia” (e non “Terra vecchia”) a Vibo Valentia, nella diocesi di Tropea48. Proprio in questa parte della città c’era un palazzo della famiglia Giffone49 e tra i membri di questo ramo della famiglia (un ramo distinto rispetto ai Giffone di Tropea e a Cinquefrondi) troviamo un Vitaliano Giffone, che fu “sindaco” della città nel 156650. Forse si tratta dello stesso personaggio che ha vergato la nota di possesso del nostro codice nel 1559. Se quest’identificazione è corretta, va sottolineato che nella diocesi di Tropea, a circa 85 chilometri a nord di Vibo, sorgeva la celebre abbazia florense di Fonte Laurato51, nei pressi dell’attuale Fiumefreddo. È possibile che il Vat. lat. 4959 sia appartenuto alla biblioteca questo monastero? databile al 1431 che commenta un brano sul papa angelico affermando: “Si sit natus hodie in monacho[s] invenire(tur). Papa Martinus, qui mortuus est […] concilia. Volo Eugenius”. Sulla buona fama di Eugenio IV nelle profezie pseudogioachimite si veda REEVES, The Influence cit. pp. 405 e 406. 48 G. BISOGNI GATTI, Hipponii seu Viboni Valentiae seu Montisleonis, Ausoniae civitatis accurate historia, Napoli 1725, p. 112: “Antiquae civitatis angulum quoddam, ubi nuc dicitur La terra vecchia….”. 49 Ibid., p. 337. Il Bisogni Gatti afferma che il palazzo dei Giffone era accanto a quello dei Francia, che si trova nei pressi dell’attuale via Terravecchia a Vibo Valentia. 50 Ibid., p. 337. 51 LOPETRONE – DE FRAJA, Atlante cit., I, pp. 19-20.
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Altrettanti problemi solleva la terza nota di possesso, degli inizi del XVII secolo, che troviamo nel margine inferiore del foglio 1r: “Emptum ex libris Cardinalis Sirleti”. Si tratta di una formula stereotipa usata per indicare i codici della biblioteca di Ascanio Colonna e di Guglielmo Sirleto52, inizialmente acquistati dal duca di Altemps53 e in seguito da Paolo V54. Il nostro codice era certamente nella biblioteca dell’Altemps, perché figura in un inventario, redatto dai bibliotecari della Vaticana dopo l’acquisto55: è però difficile affermare con assoluta sicurezza che in precedenza fosse davvero nella biblioteca di Sirleto, nonostante la nota di possesso. Il Mercati ha infatti scoperto che alcuni codici che riportano questa nota non appartennero al Sirleto ed ha osservato, incidentalmente, che nel Vat. lat. 4959 manca il numero di collocazione della biblioteca del cardinale calabrese56. E tuttavia, anche se è arduo sostenere con assoluta sicurezza che il manoscritto derivi da questa libreria, non è facile credere che possa essere appartenuto ad Ascanio Colonna, i cui libri confluirono parimenti nella biblioteca del duca di Altemps e in seguito in parte nella Biblioteca Vaticana57. Neppure si può pensare che il volume sia pervenuto a Colonna, come 52
MERCATI, Codici pichiani cit., p. 111. Si veda per una prima introduzione A. MEROLA, Altemps, Giovanni Angelo, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma 1960, coll. 550-551. 54 Com’è noto la biblioteca del cardinal Sirleto, Cardinale Bibliotecario dal 1572 al 1585, fu venduta nel 1588 al cardinale Ascanio Colonna; alla morte di questi, il 17 maggio 1608, i libri passarono per lascito testamentario al capitolo di San Giovanni del Laterano. Il testamento fu impugnato dalla famiglia Colonna e dopo un lungo processo la biblioteca fu venduta nel 1611 al duca d’Altemps per 13.000 scudi. In questo stesso periodo papa Paolo V riacquistò, per la somma di 800 scudi 36 manoscritti greci e 48 latini che avevano fatto parte della biblioteca del Sirleto e di Colonna: questi 84 codici portano appunto la nota “Emptum ex libris Cardinalis Sirleti”. Il codice è dunque entrato a far parte dei fondi della Biblioteca Vaticana nel periodo compreso tra il 1611 e il 1618 data della morte del cardinale Scipione Borghese. Sul Sirleto si veda il recente contributo di S. LUCÀ, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, in La Biblioteca Vaticana tra riforma cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio, a cura di M. CERESA, Città del Vaticano 2012 (Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, 2), pp. 145-188, con aggiornata bibliografia. Vedi anche su questi temi il pregevole volume di M. D’AGOSTINO, Giovanni Santamaura. Gli ultimi bagliori dell’attività scrittoria dei Greci in Occidente, Cremona 2013. 55 MERCATI, Codici latini cit., p. 115: “Ioachim, Super Prophetas”. 56 Ibid., pp. 111 e 127. 57 Il Colonna fu abate commendatario di S. Sofia di Benevento e dell’abbazia di Subiaco, dalle quali ebbe diversi manoscritti, a volte scritti in beneventana: ma le opere in essi contenute erano di natura assai diversa dalle profezie gioachimite, che peraltro non sembrano essere il tipo di testo che si poteva incontrare con frequenza tra i libri del cardinale. Su Ascanio Colonna si vedano: J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI, Recherches sur l’histoire des collections des manuscrits, Città del Vaticano 1973 (Studi e testi, 272). pp. 55, 68, 75, 80, 89, 92, 326; F. PETRUCCI, s.v. Colonna, Ascanio, in Dizionario biografico degli Italiani, XXVII, Roma 1982, coll. 275-278. 53
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molti altri, attraverso le raccolte di Marcello Cervini, che morì nel 1555 quando il Vat. lat. 4959 era ancora nelle mani di Vitaliano Cataldo Giffone, che ha vergato la nota di possesso nel 1559. Allo stato attuale dei fatti l’ipotesi più verosimile sembra essere quella che il volume sia giunto al calabrese Sirleto dalla Calabria, come del resto un gran numero di altri esemplari della sua collezione58. Serpens antiquus All’ipotesi, a nostro giudizio fondata, della derivazione del codice dalla Calabria, ci pare opportuno, affiancare un’altra ipotesi, a conclusione di queste brevi note. A scanso di equivoci, vorremmo ribadire che la consideriamo null’altro che una congettura ragionevole, che ci permette di comprendere meglio ciò che abbiamo esaminato, ma che, comunque, non cambia la sostanza di ciò che è stato osservato fino ad ora. Forse è possibile collegare il Vat. lat. 4959 ad alcune vicende precise che si sono svolte tra 1259 e 1267 ed hanno avuto come epicentro proprio l’abbazia di San Giovanni in Fiore. Sappiamo infatti che nel 1259 avvenne un episodio specifico a cui fa indiretto, ma esplicito riferimento il Vat. lat. 4959. Proviamo a riassumere l’accaduto. L’abate di Fiore Orlando ospitò nel monastero calabrese alla presenza vescovo di Strongoli e l’abate florense di Santa Maria Nuova, l’abate florense di Santa Maria di Monte Mirteto, che doveva prendere possesso, su autorizzazione del papa, della chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio Corone in diocesi di Rossano. L’evento era molto significativo: la chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio aveva grandissima importanza dal punto di vista simbolico perché era stata fondata da San Nilo ed era altamente considerata dai “Greci” di Calabria. La sua attribuzione all’ordine florense enfatizzava la dignità dell’ordine e ne ribadiva la sua buona fama, invitando tutti a dimenticare le critiche e le accuse a Gioacchino e ai suoi seguaci, mosse da religiosi e da laici in seguito allo Scandalo dell’Evangelo Eterno e alla condanna di Gerardo di Borgo San Donnino da parte della Commissione di Anagni nel 1254. Attribuire ai florensi il ruolo di continuatori del monachesimo basiliano costituiva una sorta di risarcimento simbolico di simili condanne ed accuse ed era espressione tangibile della volontà del papato di ricomporre e riamalgamare una Chiesa divisa in fazioni e scompaginata dalla lotta con Federico II. E tuttavia, nonostante l’importanza dell’iniziativa del pontefice non fu possibile obbedire al mandato apostolico. Come scrissero il vescovo di
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LUCÀ, Guglielmo Sirleto cit., pp. 173-176.
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Strongoli e l’abate florense di Santa Maria Nuova, la “malitia temporum” rendeva il compito non solo impraticabile, ma addirittura “pericolosum”59. La “malitia temporum” non tardò a manifestarsi. Gli Svevi avevano rialzato la testa e Manfredi, eletto re di Sicilia nel 1258, non ci mise molto ad intervenire contro chi sospettava di ostilità. Il nuovo sovrano si sbarazzò senza esitazione di coloro che non gli erano fedeli, colpendo perfino personaggi di indiscussa autorità come il Conte di Catanzaro. Anche l’abate Orlando subì questa sorte e fu espulso dal suo monastero per i suoi sentimenti antisvevi60, come del resto già era accaduto all’abate Giovanni di Brahala per opera di Federico II61. Ormai San Giovanni in Fiore era divenuto una roccaforte pontificia: l’abate Giovanni era stato reintegrato nel 1251 da Innocenzo IV e una commissione di abati cistercensi si era occupata di riformare l’istituzione, epurando i monaci filoimperiali e riducendoli al silenzio, facendo appello alla disciplina monastica e se necessario alla forza pubblica62. Per questo Manfredi non esitò a destituire un abate legato a doppio filo al pontefice facendo eleggere al suo posto un uomo di sua fiducia, l’abate Tommaso, cui il nuovo conte di Catanzaro promise, a ragion veduta, nel 1263 una nuova, prestigiosa fondazione, dotata di ricchissime rendite e territori63. E tuttavia l’abate Orlando non si diede per vinto: sostenuto da un gruppo di monaci fedeli al papa ed ostili agli svevi riparò in qualche parte, come già aveva fatto Giovanni di Brahala, e continuò a comportarsi come l’abate legittimo: non a caso nel 1265 fece una donazione chiamandosi, abate di Fiore, ad onta della presenza di Tommaso a San Giovanni64. Dopo la fine tragica di Manfredi e Corradino, l’ordine del passato fu restaurato: Urbano IV ordinò nel 1266 di ripristinare nella sua carica l’abate di Fiore e di rimandarlo nel suo monastero come anche tutti gli altri abati
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LOPETRONE – DE FRAJA, Atlante cit., II, pp. 390-391. Lo sappiamo da una bolla di Urbano IV del 1266: cfr. LOPETRONE – DE FRAJA, Atlante cit., II, p. 301. 61 Per una ricostruzione generale della complessa dinamica degli avvenimenti e delle loro implicazioni politiche si veda G. ANDENNA, II monachesimo florense ed il papato, in L’esperienza monastica florense e la Puglia, Atti del secondo Convegno internazionale di studio del Comitato nazionale per le celebrazioni dell’VII centenario della morte di Gioacchino da Fiore, Bari – Laterza – Matera, 20-22 maggio 2005, a cura di C. D. FONSECA, Roma 2007, pp. 29-60. 62 LOPETRONE – DE FRAJA, Atlante cit., II, p. 273: “ Vobis auctoritate committimus quia … monasterium [Floris] et alias abbatias prefati ordinis visitetis reformantes … et ad hoc si opus fuerit auxilio brachii saecularis”. 63 Ibid., p. 295. 64 Ibid., p. 300. 60
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espulsi dagli Svevi65. Orlando poté ritornare a San Giovanni, insieme con i suoi seguaci e con tutto quello che aveva portato con sé. La nostra ipotesi è che egli avesse portato via, nel suo esilio, l’antigrafo e la copia iniziata delle Praemissiones: si spiegherebbe così il brusco cambiamento nella trascrizione che abbiamo descritto nelle pagine precedenti. Il lavoro di copia doveva essere stato iniziato prima della venuta dell’abate di Santa Maria di Monte Mirteto, quando ancora non si era scatenata la “malitia temporum” ed era ancora possibile comporre e trascrivere un apocrifo gioachimita antisvevo come le Praemissiones e il commento ad Isaia, in una comunità che era stata “pacificata” dai cistercensi fedeli al pontefice, senza suscitare clamori, dissidi e forse denunce al braccio secolare. Il canto del cigno di questa “estate di San Martino” era stata l’attribuzione di Sant’Adriano a San Demetrio Corone ai florensi fedeli al papato, che venivano ufficialmente designati come eredi della spiritualità del monachesimo italo-greco. Della conquista di un tale zenith c’è evidente traccia nel Vat. lat. 4959: abbiamo suggerito altrove66 che l’immagine del serpens antiquus del f. 1v, che trasforma misteriosamente la spirale dell’anno liturgico gioachimita in un dragone diabolico, un fenomeno del tutto nuovo nell’iconografia gioachimita, di cui il nostro codice è il primo testimone e di cui la Reeves e la Hirsch Reich non riuscivano a trovare spiegazione67, era una vera e propria “citazione” del pavimento della chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio Corone68 (Tav. XVII). Abbiamo visto nelle pagine precedenti che 65
Ibid., p. 301. È per questo motivo che sono state scelte le immagini pubblicate a pp. 225 e 227 di Il ricordo del futuro. 67 REEVES – HIRSCH REICH, The Figurae of Joachim of Fiore: Genuine and Spurious cit., p. 191; IIDD., The figurae of Joachim of Fiore cit., p. 270: “There appears to be no connection between the concept of the figure and the sepent. The preoccupation of the medieval imagination with the symbol ov evil is probably responsible for the strange addition in Vat. lat. 4959 of a snake’s head”. 68 È sin troppo ovvio osservare che la simbologia del serpente e quella della spirale si trovano da sempre nell’iconografia di ogni parte del mondo e non costituiscono in sé un motivo estetico di grande originalità. Ciò che è originale, infatti, è la trasformazione in ambito gioachimita della spirale usata nel Liber figurarum per indicare lo lo svolgimento dell’anno liturgico nel corpo di un serpente. La spirale geometrica si ispirava infatti ad una simbologia diffusa nel Medioevo secondo la quale le volute della spirale sono un’espressione adeguata per rappresentare lo svolgersi del tempo. Ma il collegamento tra la spirale gioachimita ed il serpente è invece una novità. Sull’argomento si veda ciò che osservano REEVES – HIRSCH REICH, The figurae of Joachim of Fiore cit., pp. 249-261. Sull’interazione tra immagine e testo nella cultura medievale, da sempre cavallo di battaglia degli storici dell’arte e della cultura, si vedano le recenti discussioni internazionali testimoniate da atti di convegni come in Reading Images and Texts Medieval Images and Texts as Forms of Communication. Papers from the Third Utrecht Symposium on Medieval Literacy, Utrecht, 7-9 December 2000, a cura di M. HAGEMAN – M. MOSTERT, Turnhout 2005. Vedi anche Les images dans les sociétés médiévales: 66
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tale immagine è stata aggiunta al fascicolo delle Praemissiones, sostituendo quella che c’era prima: è lecito pensare che ciò sia avvenuto in un momento preciso, nel 1259, per celebrare visivamente la chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio, in omaggio all’abate Tommaso di Santa Maria di Monte Mirteto e più in generale per festeggiare l’accresciuta grandezza dell’ordine florense. Non a caso a tale grandezza e alla città di Rossano si allude esplicitamente nelle illustrazioni delle profezie regionali che saranno trascritte più tardi. Nella intricata foresta di diagrammi tutti uguali campeggia, in posizione di assoluto rilievo, una figura completamente diversa dalle altre: una croce che indica alcune città o diocesi della Calabria dove ci sono importanti abbazie florensi e cistercensi69, da sempre considerata dagli studiosi determinante per l’attribuzione e la localizzazione del Super ProPour une histoire comparée. Actes du colloque international organisé par l’Institut Historique Belge de Rome en collaboration avec l’École française de Rome et l’Université Libre de Bruxelles, a cura di J.-M. SANSTERRE – J.-CL. SCHMITT, Breuxelles – Roma 1999. Diversa è l’impostazione di Pensare per figure. Diagrammi e simboli in Gioacchino da Fiore, Atti del 7° Congresso internazionale di studi gioachimiti, San Giovanni in Fiore, 24-26 settembre 2009, a cura di A. GHISALBERTI, Roma 2010 (Opere di Gioacchino da Fiore: testi e strumenti, 23). Riguardo all’immagine del serpente sul pavimento di Sant’Adriano a San Demetrio Corone ha scritto Ciotta: “La presenza nel pavimento della chiesa di S. Adriano soprattutto di serpenti (in particolare il serpente posto all’inizio della navata) potrebbe collegarsi all’episodio — trasmesso dalla vita di s. Vitale da Castronuovo (AASS, Martii II, 1668, pp. 26-34: 30), che nel sec. X ricostruì la piccola chiesa — relativo alla donna che, per aver mentito, si ritrovò un serpente intorno al collo: entrata nella chiesa, il santo operò il miracolo e il serpente cadde a terra”. G. CIOTTA, Basiliani, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, II, Roma 1992, coll. 142-162 (con bibliografia su Sant’Adriano a San Demetrio Corone). Ci permettiamo di suggerire comunque anche un’altra possibile interpretazione: l’assimilazione tra la spirale e il serpente è una delle tante possibili varianti iconografiche dei bastoni pastorali nell’arte dell’XI e XII secolo del Nord Europa, nei quali troviamo a volte una spirale che sormonta l’antica “ferula” che rappresenta il comando. Un simile gusto per la metamorfosi, parallelo agli infiniti sviluppi della decorazione marginale dei manoscritti pregotici, poteva avere anche un risvolto simbolico: poiché spesso il serpente-drago era raffigurato in lotta con San Michele oppure con un leone simbolo della Tribù di Giuda (ed un felino, che per alcuni è un leone, per altri è una pantera lotta il serpente in un altro mosaico pavimentale a Sant’Adriano di San Demetrio Corone, della stessa epoca e della stessa maestranza di quello che abbiamo ricordato). In questa prospettiva la presenza di un serpente e di un felino come quella di un drago e San Michele può esprimere allegoricamente la lotta tra il Bene e il Male. Sull’argomento si veda D. THURRE, Pastorale, in Enciclopedia dell’Arte medievale, VIII, Roma 1998, coll. 460-465. 69 Ai vertici della croce troviamo Cosenza, nella cui diocesi ci sono Celico e San Giovanni in Fiore; Bisignano nella cui diocesi c’è l’abbazia della Sambucina dove Gioacchino divenne monaco; San Marco Argentano nella cui diocesi c’è la celebre abbazia di Santa Maria di Matina, che divenne cistercense nel 1221. Al centro della croce c’è Martirano, nella cui diocesi c’è l’abbazia cistercense di Corazzo di cui Gioacchino fu abate. Ai piedi della croce, sotto Rossano, troviamo “Sclus” un compendio di “Siculus” (sott. Ager) e che allude evidentemente ad un’altra regione cara ai florensi, la Sicilia nella quale Gioacchino visse da eremita agli inizi della sua conversione spirituale.
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phetas70 (Tav. XVIII). Senza entrare nel merito di tali osservazioni, mi limiterò a sottolineare che la croce include, nelle sue fondamenta, la memoria di una diocesi estranea o comunque secondaria rispetto alla tradizione cistercense-florense, proprio quella che diverrà invece così insigne per l’ordine florense a partire dal 1259. Infatti la croce è poggiata su Rossano, la culla del monachesimo italo-greco, nella cui diocesi c’è Sant’Adriano a San Demetrio Corone. In questo modo monachesimo florense, monachesimo cistercense e monachesimo italo-greco sono uniti in un simbolico abbraccio, così come aveva voluto papa Innocenzo IV. Se l’ipotesi che proponiamo verrà accettata, si potrebbero datare con maggior precisione le varie fasi di trascrizione del Vat. lat. 4959, che sarebbe stato iniziato a San Giovanni in Fiore prima del 1259; aggiornato in questa data nella stessa abbazia, in occasione dell’attribuzione all’ordine florense di Sant’Adriano a San Demetrio Corone; e in seguito completato altrove, durante l’esilio dell’abate Orlando. In seguito sarebbe finito nella città di Vibo Valentia, nella stessa diocesi dell’abbazia florense di Fonte Laurato. Tuttavia, anche se la congettura esposta non venisse accolta, la sostanza dell’analisi svolta nelle pagine precedenti non cambierebbe. Ciò che ci permette di formulare una valutazione attendibile del manoscritto non è infatti un’ipotesi, ma il frutto del metodo paleografico e codicologico. Se ne accettiamo la validità e l’attendibilità scientifica non possiamo allontanarci troppo dalla datazione proposta e rappresentare in modo divergente le fasi successive di copia del codice che abbiamo ricostruito. Anche senza l’ausilio di ipotesi brillanti, la paleografia e la codicologia procedono con un metodo autonomo di indagine ed ottengono validi risultati a prescindere dalle eventuali conferme di altra natura. Senza dubbio, come è naturale per il sapere umano, procedendo così possiamo raggiungere solo un certo grado di conoscenza, che si arresta alle soglie della precisione assoluta. E tuttavia questo fragile traguardo ha una sua dignità che non può essere messa in ombra. Non è molto, forse, ma non è neppure poco71.
70 REEVES – HIRSCH REICH, The Figurae of Joachim of Fiore: Genuine and Spurious cit., p. 196; TRONCARELLI, Il liber figurarum tra ‘gioachimiti’ e ‘gioachimisti’ cit., p. 272. 71 Al termine di questo lavoro desidero ringraziare tutti coloro che l’hanno reso possibile ricordando con affetto Maria Paola Saci, David Morris, Marco Buonocore, Marco Cursi, Giovanna Nicolaj, Paolo Vian, Antonio Schiavi, Elena Guerra, Irmgard Schuler e Eugenio Falcioni.
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 1r.
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Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 1r (particolare).
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FABIO TRONCARELLI
Tav. IIIa – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 1v (particolari): lettere “a bandiera”, paragrafi “a bandiera”, volute “a bandiera” nell’illustrazione. Le curve sono tracciate in sol tratto, senza ripensamenti dalla mano A.
Tav. IIIb. – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, ff. 1v, 2r, 2v (particolari), ff. 2r, 2v: paragrafi “a bandiera” tracciati a volte in due tratti , con ritocchi, dalla mano B e C.
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Tav. IVa – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 1r (particolare).
Tav. IVb – Biblioteca Apostolica Vaticana,Vat. lat. 4959, f. 4r (particolare).
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Tav. V – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 4r.
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Tav. VI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 4r (particolare).
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FABIO TRONCARELLI
Tav. VII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 2v (particolare).
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Tav. VIIIa – Padova, Biblioteca Antoniana, 322, f. 57b (particolare).
Tav. VIIIb – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 2v (particolare).
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FABIO TRONCARELLI
Tav. IX – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 2v.
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Tav. X – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 61v.
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FABIO TRONCARELLI
Tav. XIa – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, ff. 15v, 26v (particolari).
Tav. XIb – Padova, Biblioteca Antoniana, 322, f. 28r (particolare).
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Tav. XII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 52v (particolare).
Tav. XIII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 61v (particolare).
Tav. XIV – Palermo, Archivio di Stato, Tabulario della Chiesa della Magione, p. 71 (particolare).
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FABIO TRONCARELLI
Tav. XV – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 12r (particolari).
Tav. XVIa – Biblioteca Apostolica Vaticana, Chig. E.VI. 187, f. 10r (particolare della scrittura dell’abate Matteo).
Tav. XVIb – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 1v (particolare).
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IL PIÙ ANTICO MANOSCRITTO DEL SUPER PROPHETAS
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Tav. XVIIa – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 1v.
Tav. XVIIb – Sant’Adriano, chiesa di San Demetrio Corone, pavimento (particolare).
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FABIO TRONCARELLI
Tav. XVIII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4959, f. 16r (particolare).
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PAOLO VIAN
LA BIBLIOTECA VATICANA NELLE MEMORIE (1935) DEL SOTTO-FORIERE DEI PALAZZI APOSTOLICI FEDERICO MANNUCCI 1. Federico Mannucci: una vita al servizio della Santa Sede. 2. La vicenda delle sue memorie: pubblicazione, sequestro e distruzione. 3. La Biblioteca Vaticana nel volume. 4. Gli archivi della Santa Sede. 5. Le Sale Borgia e la nuova Biblioteca Leonina. 6. L’incendio del 1° novembre 1903. 7. La Biblioteca Barberini. 8. Gli ampliamenti del 1928. Lo scontro con Mercati e la giubilazione (1929) di Mannucci. 9. Il crollo del 22 dicembre 1931. 10. Conclusioni: protagonista e vittima della «modernizzazione». – Appendici. I. La relazione di Mannucci sull’incendio del 1° novembre 1903 (6 novembre 1903). II. Le versioni de L’osservatore romano sul crollo del 22 dicembre 1931. III. La lettera di Mannucci a Pio XI sul crollo del 22 dicembre 1931 (19 gennaio 1932).
1. La figura di Federico Mannucci spicca sullo sfondo del variegato mondo Vaticano dopo il trauma di Porta Pia; lo attraversa per quasi mezzo secolo, da Leone XIII a Pio XI, nel ruolo defilato ma strategico di sottoforiere dei Sacri Palazzi Apostolici, in ragione del quale fu protagonista e testimone del continuo adattamento alle esigenze della modernità delle secolari realtà sviluppatesi intorno alla corte pontificia. Di antica famiglia fiorentina, era nato a Firenze il 16 settembre 18481. Baccelliere in matematica e filosofia nel fatidico 1870, laureato in ingegneria (1873) nella Sapienza romana, sin dai giovani anni frequentò l’Osservatorio del Collegio Romano conquistando la fiducia del gesuita Angelo Secchi che assistette in alcuni lavori2. Perfezionatosi in architettura presso l’Accademia di S. Luca seguendo i corsi di Virginio Vespignani (già in relazione col padre), Mannucci intraprese presto l’insegnamento in una scuola serale cattolica, collaborando nel frattempo, come ingegnere, con ditte di lavori stradali e ferroviari. Roma e l’Italia dopo l’unificazione erano divenute grandi can1 Per la biografia di Mannucci, cfr. J. STEIN, Federico Mannucci. Commemorazione, in Acta Pontificiae Academiae Scientiarum Novi Lyncaei 88 (1934-1935), pp. 226-228; S. MAFFEO, La Specola Vaticana. Nove papi una missione, Città del Vaticano 20012 (Pubblicazioni della Specola Vaticana), pp. 99-101; ID., Mannucci, Federico, in Dizionario biografico degli italiani, LXIX, Roma 2007, pp. 135-136. 2 Nel 1929 Angelo Mercati ricordò, a proposito di padre Secchi e della rete di parafulmini che protegge il palazzo e la basilica Vaticana, Mannucci «che nei suoi giovani anni fu molto in relazione coll’illustre nostro concittadino», A. MERCATI, Reggio Emilia … a Roma, in Strenna dell’Istituto degli Artigianelli, Reggio Emilia 1929; ripubblicato in ID., Saggi di storia e letteratura, I, Roma 1951 (Storia e letteratura. Raccolta di studi e testi, 34), pp. 229-239: 231 nt. 12.
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XXII, Città del Vaticano 2016, pp. 761-868.
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PAOLO VIAN
tieri a cielo aperto, all’insegna della modernizzazione e delle speculazioni, tra volontà di progresso e vertiginosi arricchimenti privati. Ma la schietta e aperta militanza cattolica (che lo vide attivo nella Società ArtisticoOperaia, nata sotto il pontificato di Pio IX per costruire case per le classi più umili, nella Società della Gioventù Cattolica Italiana e nel Circolo S. Pietro3) e l’amicizia con alcuni ecclesiastici (in particolare con Francesco Ricci Paracciani, prima Maestro di camera e poi Maggiordomo dei Sacri Palazzi Apostolici, conosciuto attraverso Filippo Tolli) aprirono a Mannucci le porte del Vaticano di Leone XIII, appena rimesso dalla scossa della perdita del potere temporale e dalla drammatica e improvvisa contrazione di spazi e risorse che ne era derivata. Il 18 gennaio 1882 il papa chiamò il trentaquattrenne Mannucci a svolgere la funzione di sotto-foriere maggiore dei Sacri Palazzi Apostolici, alle strette dipendenze del foriere maggiore (titolo spettante per tradizione, dalla fine del Settecento, a un membro della famiglia dei marchesi Sacchetti). Le mansioni del sotto-foriere, figura della «familia» pontificia, sono così descritte dallo stesso Mannucci: Interviene a tutte le funzioni papali nelle quali il Pontefice usa la Sedia Gestatoria, avendone con il Forier Maggiore la direzione. Fa parte della Amministrazione Palatina ed ha l’uso permanente della carrozza di corte. I suoi obblighi sono la custodia, la ordinaria manutenzione e la conservazione di tutti gli edifici appartenenti ai Sacri Palazzi, ha parte attiva nelle nuove opere decretate dal Sommo Pontefice, sia nei progetti, nella direzione della loro esecuzione e nei collaudi finali. Rappresenta il Foriere Maggiore in casi di impedimento o di assenza4.
Per quanto impegnativo, l’incarico non impedì a Mannucci di continuare a occuparsi di una molteplicità di questioni, assecondando la versatili3
Del Circolo S. Pietro Mannucci fu vicepresidente fra il 1882 e il 1884, cfr. Il Circolo San Pietro. Cenni storici (1869-1969), a cura di G. L. MASETTI ZANNINI, Roma 1969, pp. 59, 79; una fotografia del giovane Mannucci, fra i «Soci fondatori e primissimi soci», fra le pp. 46/47. Per la storia del Circolo e per notizie sulle altre organizzazioni cattoliche delle quali Mannucci fu attivamente partecipe, M. CASELLA, Cattolici a Roma dopo l’unità d’Italia (1869-1900), Battipaglia 2011, pp. 83-108, 211-262, 399-493. 4 F. MANNUCCI, I miei quarantasette anni di sotto-foriere maggiore dei SS. PP. AA., Roma, Scuola Salesiana del Libro, s.d. [ma 1935], p. 9. Fra il 1884 e il 1888 Mannucci ricoprì anche la carica di Architetto dei Sacri Palazzi Apostolici, sino alla nomina di Francesco Vespignani, figlio di Virginio e compagno di studi di Mannucci, ibid., p. 47. Nella trascrizione dei testi del volume di Mannucci si rispetta rigorosamente la grafia della stampa; solo alcuni accenti gravi vengono resi con accenti acuti (sè sé; perchè perché; potè poté). Per il ruolo del sotto-foriere, G. MORONI, Indice generale alfabetico delle materie del Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, III, Venezia 1878, s.v. «Foriere maggiore del Papa», in indice, p. 190; s.v. «Sotto-foriere de ss. Palazzi apostolici, bussolante pontificio», ibid., VI, Venezia 1879, p. 171; G. FELICI, Famiglia pontificia, in Enciclopedia cattolica, V, Città del Vaticano 1950, coll. 9991008: 1005; N. DEL RE, Foriere maggiore dei Sacri Palazzi Apostolici, in Mondo vaticano passato e presente, a cura di N. DEL RE, Città del Vaticano 1995, pp. 504-505.
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tà dei suoi interessi e la solida ampiezza della sua formazione scientifica (scienza e tecnica, cognizioni teoriche e applicazioni pratiche convissero sempre in lui, con un gusto per l’aggiornamento e per i ritrovati più recenti che andava di pari passo con la fedeltà all’antico signore). Così collaborò col barnabita Francesco Denza alla fondazione e al primo sviluppo della Specola Vaticana (1888-1891), erede e continuatrice della Specola Pontificia Vaticana e dell’Osservatorio del Collegio Romano, fungendo sino al 1900 da assistente per la fotografia. Riaperto l’osservatorio della Torre dei venti, Mannucci realizzò, su invito della Royal Meteorological Society di Londra, un Atlante fotografico delle nubi che riscosse unanimi lodi e apprezzamenti. Nel 1891 su una torre leonina del colle Vaticano (oggi Torre S. Giovanni) Mannucci installò un grande telescopio fotografico e per impratichirsi nel suo uso soggiornò, nel 1892, a Parigi. Con l’oratoriano Giuseppe Lais, Mannucci si dedicò a fotografie del sole, della luna, dei diversi pianeti e delle stelle, nell’ambito delle imprese internazionali della Carta fotografica del cielo e del Catalogo astrografico. Più tardi, sotto il pontificato di Pio X, col nuovo direttore della Specola, il laconico e solitario gesuita Johannes Georg Hagen, Mannucci allestì la nuova sede della direzione, progettò e installò una nuova cupola per un grande telescopio visuale su un’altra torre leonina (quella che in seguito sarà definita della Radio) e curò la realizzazione del ponte di ferro che collegava le due torri e le due cupole, l’antica e la più recente, quella fotografica e quella astronomica5. 5 Sulla collaborazione fra padre Hagen e Mannucci, «appassionatissimo di ogni ricerca scientifica», a proposito dell’isotomeografo (per fornire una nuova dimostrazione sperimentale del moto della terra), nell’ambito delle attività della Specola Vaticana, cfr. S. NEGRO, Monsignor Ratti e Pio XI, in ID., Vaticano minore. Altri scritti vaticani, Vicenza 1963, pp. 120142: 136. Per ricordare e ricapitolare in grandi linee i fatti: con i doni pervenuti nel 1888 per il giubileo sacerdotale di Leone XIII furono raccolti e ordinati dal barnabita Denza e dall’oratoriano Lais alcuni strumenti scientifici per l’osservazione del cielo; rinasceva così di fatto la Specola nella Torre dei venti (costituita ufficialmente il 14 marzo 1891, con la lettera Ut mysticam) e nel 1889 Denza si recò a Parigi per assicurare la partecipazione vaticana al progetto della carta fotografica del cielo. Leone XIII fece collocare su una delle torri delle fortificazioni di Leone IV (la Torre S. Giovanni) un astrografo, allestito da Gautier di Parigi. Pio X (1906), dopo aver sostituito alla guida della Specola l’agostiniano Alfonso Rodríguez col gesuita Johannes G. Hagen, «destinò la seconda torre leonina [scil.: la Torre della Radio] alla installazione di un grande equatoriale per osservazioni visuali e l’attigua villa estiva di Leone XIII ad uffici ed abitazioni per astronomi», I. STEIN, La Sala della Meridiana nella Torre dei Venti in Vaticano, in L’illustrazione vaticana 9 (1938), nr. 10, 16-31 maggio, pp. 403-410: 403; G. JUNKES, Vaticano. IX. Specola e Radio Vaticana, in Enciclopedia cattolica, XII, Città del Vaticano 1954, coll. 1137-1139: 1137-1138; N. DEL RE, Specola Vaticana, in Mondo vaticano cit., pp. 998-999; MAFFEO, La Specola Vaticana cit., pp. 3-98. Per le due torri, cfr. anche D. FONTI, Dalla cittadella del papa alla Città del Vaticano, ibid., pp. 15-27: 23; EAD., Le mura e le porte, ibid., pp. 33-43: 38. La Torre della Radio fu precedentemente denominata anche Torre Pio X; e il ponte di ferro di collegamento fra le due torri, costruito da Mannucci, «non lasciò di suscitare qualche mormorio fra gli archeologi ed i tutori dei monumenti storici ed artistici
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Dal cielo alla terra. Mannucci fu uno dei protagonisti della modernizzazione del piccolo mondo vaticano, che peraltro seguiva quanto avveniva nell’Urbe: impiantò la prima centrale elettrica che permise di sostituire l’illuminazione a gas e gli ascensori idraulici; costruì una nuova residenza estiva per Leone XIII alla sommità del colle Vaticano, con un piccolo vigneto (su esplicita richiesta del papa); portò l’acqua potabile a Carpineto (luogo di nascita del pontefice); rinnovò la centrale termica; realizzò una nuova rete idraulica per la distribuzione dell’acqua potabile negli appartamenti vaticani; potenziò i vigili del fuoco e i mezzi anti-incendio; sostituì le carrozze a cavallo con le automobili. Nulla di sorprendente se fu ancora Mannucci uno dei più attivi promotori e organizzatori dell’Esposizione vaticana per il giubileo sacerdotale di Leone XIII (1888) e se fu lui a occuparsi del ricovero in Vaticano dei profughi dei terremoti di Messina (1908) e Avezzano (1915), del trasferimento della Pinacoteca nella nuova sede (1909), della riduzione ad abitazioni dei locali in via della Zecca (mentre della parallela costruzione del Palazzo di Belvedere, con la stessa finalità di creare abitazioni e uffici, si occupò l’architetto Costantino Sneider, 19031914), della protezione e dell’oscuramento del Vaticano contro le incursioni aeree durante il primo conflitto mondiale (1914-1918), dell’allestimento di un ospedale per i feriti della Grande Guerra affidato all’Ordine di Malta, della costruzione della sede del Pontificio Istituto Orientale (1917) nei pressi di S. Maria Maggiore, del restauro dopo un incendio della S. Casa di Loreto (1921), dell’allestimento prima dell’Esposizione missionaria mondiale (1925) e poi della fondazione del Museo missionario-etnologico in Laterano (1926), che rese permanente quanto era stato temporaneamente mostrato nei Giardini vaticani in occasione del primo giubileo di Pio XI. La personalità di Mannucci, questo infaticabile grand commis laico della Santa Sede, si identificava così intimamente con la fase eroica della prima modernizzazione del Vaticano che finì per risultare inevitabilmente incompatibile con i nuovi equilibri e assetti che si affermarono negli anni Venti con il pontificato di Pio XI. I referenti del papa brianzolo erano diversi e l’ormai anziano Mannucci non poteva che essere emarginato nello Stato della Città del Vaticano, «quel tanto di territorio» nato nel 1929 con i Patti Lateranensi. Di fatto proprio nell’anno dei Patti sopraggiunsero le dimissioni del sotto-foriere, che lasciò il servizio (come vedremo non del tutto spontaneamente) dopo quarantasette anni. L’estremo scorcio della vita lo trascorse in Vaticano, ove aveva ottenuto un’abitazione, la cittadinanza, il titolo di sotto-foriere maggiore onorario e le funzioni di membro della Santa Sede», STEIN, Federico Mannucci cit., p. 227; fu comunque rimosso dopo gli anni Trenta del Novecento.
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delle commissioni per i beni storici e artistici della Chiesa e per il santuario di Loreto6. Morì il 21 maggio 1935 e fu sepolto nella chiesa di S. Anna in Vaticano, proprio accanto alla porta progettata da Giuseppe Momo7. Quasi un’ironia della sorte per il sotto-foriere che probabilmente non aveva mai molto amato l’architetto vercellese, forse l’esponente più rappresentativo di quella dinamica pleiade di progettisti, architetti, ingegneri e imprenditori «esterni» (Luca Beltrami, la ditta Castelli e tanti altri) che in pochi anni avevano modellato il nuovo volto della cittadella dei papi. 2. Gli ultimi anni di vita di Mannucci non furono inoperosi. Al di là del consueto rispetto delle forme, la sostanziale traumaticità della giubilazione deve avere profondamente scosso l’antico sotto-foriere e innescato in lui un’onda di pensieri e ricordi che decise di mettere nero su bianco con un volume edito dalla Scuola Salesiana del Libro e aperto da una lettera a Mannucci del «can. Giovanni Ghezzi», datata Milano, 19 marzo 1935 (dunque poco più di due mesi prima della morte di Mannucci)8. Ghezzi 6
Nel 1929 Mannucci era membro della Commissione Permanente per la Tutela dei Monumenti Storici ed Artistici della S. Sede, sotto-foriere dei Sacri Palazzi Apostolici e assistente della Specola Vaticana, Annuario pontificio per l’anno 1929, Roma 1929, pp. 552, 587, 590. Nel 1930 era ancora membro della Commissione Permanente e assistente (in seguito, onorario) della Specola, Annuario pontificio per l’anno 1930, Città del Vaticano 1930, pp. 582, 619. 7 La data di morte (22 maggio 1935) per primo indicata da STEIN, Federico Mannucci cit., p. 226, e quindi ripresa da MAFFEO, La Specola Vaticana cit., p. 99; MAFFEO, Mannucci, Federico cit., p. 136, deve essere rettificata. Secondo La morte del comm. Mannucci, in L’osservatore romano, 22 maggio 1935 (ma uscito nel pomeriggio del 21 maggio), il decesso avvenne «verso le ore 13 di oggi, martedì [scil.: 21 maggio 1935], nel suo appartamento in Vaticano». L’errore, in origine commesso da Stein e ripreso da Maffeo, potrebbe essere stato provocato dalla data del giornale, che però non corrisponde a quella dell’effettiva pubblicazione. Per la porta progettata da Momo, FONTI, Dalla cittadella del papa alla Città del Vaticano cit., p. 25; EAD., Quartieri moderni, emergenze antiche, in Guida generale alla Città del Vaticano, Città del Vaticano – Milano 2013, pp. 291-305: 291. Testimonianze dell’attività di Mannucci andranno naturalmente cercate nel fondo «Palazzo Apostolico» dell’Archivio Vaticano, per il quale si rinvia all’inventario a cura di F. DI GIOVANNI e G. ROSELLI, Città del Vaticano, febbraio 2008 (Archivio Vaticano, Indice 1248, I-VI). 8 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit. La lettera di Ghezzi è a p. 3. Curioso appare già il titolo del volume, con una sigla decisamente criptica e ostica per un pubblico di non addetti ai lavori. Un indizio per credere che il discorso di Mannucci fosse più rivolto all’interno che all’esterno; o piuttosto che fosse una sorta di monologo e di esame di coscienza compiuto ad alta voce. Il fatto appare confermato dall’esiguo numero di copie stampate del volume, cfr. infra. Giovanni Ghezzi, figlio di Giuseppe e Giovanna Galli, nato il 21 giugno 1868 e battezzato il 22 nella chiesa parrocchiale di Carugate (Milano); sacerdote nel 1892, coadiutore a Colnago (1892-1893), poi nella basilica di S. Eustorgio a Milano (1893-1895) e nella basilica di S. Ambrogio, ove fu successivamente viceprefetto di sacrestia, vicemaestro del coro, canonico, procuratore del Capitolo della basilica, arciprete (1910-1934) e infine arcidiacono del capitolo della Metropolitana di Milano e prefetto della sagrestia capitolare; dal 1919 cameriere segreto di Sua Santità e prelato domestico, dal 1923 protonotario apostolico ad instar, dal 1929 membro della Commissione amministrativa diocesana; morì il 6 febbraio 1938, cfr.
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non era, nel mondo ambrosiano, un personaggio qualunque. Amico di vecchia data di Achille Ratti, nel 1935 era da poco divenuto arcidiacono del capitolo del Duomo di Milano. La scelta di Ghezzi per presentare il volume appare dunque essere, da parte di Mannucci, la ricerca di una forma di garanzia sull’operazione condotta dal sotto-foriere, di un’interpretazione autorevole e autentica dello spirito e degli intenti che l’avevano ispirata. Ed era un messaggio chiaramente destinato al papa che Mannucci aveva conosciuto molti anni prima proprio tramite Ghezzi ma che, come si vedrà, aveva progressivamente messo da parte il sotto-foriere preferendogli altri interlocutori. Insomma una scelta, questa di Ghezzi, piena di allusioni e di significati. Non a caso dunque il canonico milanese scriveva: Le condizioni particolari nelle quali assumesti e tenesti la reggenza dell’Ufficio Tecnico Vaticano e la svariata molteplicità delle opere alle quali portasti il valido contributo di un ingegno forte e versatile, richiedevano di essere ricordate da un’autentica testimonianza. E così era doveroso illustrare, sebbene in compendio, l’opera dei Sommi Pontefici, per la conservazione del patrimonio artistico della S. Sede e a incremento dell’arte in un periodo storico veramente difficile; la tua memoria raggiunge appieno lo scopo. Da questi appunti di Cronaca Vaticana, si potranno attingere utili cognizioni, poiché questo lavoro ha il merito della spontaneità, dell’esattezza, dell’autenticità delle notizie, senza gli inconvenienti di certe opere stese con artifizi di metodo e di stile. Mentre da questo lavoro risplende in meridiana luce il tuo affetto profondo al Vicario di Gesù Cristo, esso varrà a continuarne i benefici effetti della buona testimonianza data nel servizio della Santa Sede9.
Gli intenti di fedeltà ai papi e alla Santa Sede che avevano ispirato l’intera vita del sotto-foriere e motivato la stesura del volume venivano ribaditi nella premessa di Mannucci, ove i ricordi delle prime fasi del suo cammino e del suo ingresso in Vaticano si intrecciavano con sincere professioni di fede al papa ed esposizione delle motivazioni delle memorie:
Archivio Storico della Diocesi di Milano, Stato del clero 1878-1893, ordinato dell’anno 1892, f. 135; Duplicati, atti di battesimo, Carugate, 32/1868; Guida del clero della diocesi di Milano, ad annum; A.M- DIEGUEZ – S. PAGANO, Le carte del «sacro tavolo». Aspetti del pontificato di Pio X dai documenti del suo archivio privato, Città del Vaticano 2006 (Collectanea Archivi Vaticani, 60: 1-2), I, p. 265 nt. 475; II, p. 629 nt. 1099 (una sua lettera a Camillo Caccia Dominioni, Milano, 20 settembre 1910, ibid., p. 627); B. M. BOSATRA, La «vexata quaestio» dei Santi Vittore e Satiro tra Carlo Borromeo e Ildefonso Schuster. Stato delle fonti presso l’Archivio Storico Diocesano, in Studia Ambrosiana 3 (2009), pp. 69-99. Ringrazio mons. Cesare Pasini, prefetto della Biblioteca Vaticana, mons. Bruno Maria Bosatra, direttore dell’Archivio Storico Diocesano di Milano, e mons. Marco Navoni, dottore della Biblioteca Ambrosiana, per le notizie fornite. Il 1° giugno 1908 Ghezzi aveva donato ad Achille Ratti per la Biblioteca Ambrosiana un codice etiopico, Papa Pio XI evocato da Giovanni Galbiati […], Milano – Bologna – Brescia […] 1939 (Le grandi figure della storia), p. 294. 9 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 3.
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Per compiacere al desiderio di amici carissimi e più ancora perché siamo [sic] note le opere che la munificenza dei Sommi Pontefici, da Leone XIII a Pio XI, ha compiuto nei SS. PP. AA., mi accingo a stendere appunti di cronaca dal 1882 al 1929, cioè dai [sic] 47 anni di servizio attivo passati in Vaticano10.
«La tua memoria raggiunge appieno lo scopo», aveva scritto Ghezzi nella lettera d’apertura. Forse d’accordo col canonico milanese ma in un senso completamente diverso, Pio XI deve però essersi convinto che le finalità dell’operazione di Mannucci, consapevoli o inconsapevoli che fossero, non dovevano essere del tutto commendevoli. La triplice caratteristica della «spontaneità», dell’«esattezza», dell’«autenticità delle notizie» non faceva che rafforzare il potere deflagrante del volume scritto da chi per quasi mezzo secolo era stato il deus ex machina, il vero protagonista di quanto accadeva nelle strutture tecniche ed edilizie del Vaticano (e di tutto ciò che vi era collegato). La fortuna, o meglio la disgrazia, delle memorie del sotto-foriere dei Sacri Palazzi Apostolici è in grandi linee nota attraverso la ricostruzione offerta da Sergio Pagano nel 2011 annotando i diari del prefetto dell’Archivio Vaticano Angelo Mercati. Il volume, come si è visto, deve essere uscito fra aprile e maggio 1935 (la lettera del canonico Ghezzi reca la data del 19 marzo), nelle ultime settimane di vita dell’autore. Pio XI, sempre attento alle novità editoriali per la passione per i libri che lo accompagnò per tutta la vita11, con ogni probabilità lo ebbe assai presto fra le mani e, compatibilmente con altri impegni, deve averlo letto con interesse, perché trattava di un mondo che aveva conosciuto e di cui era divenuto il signore. Le reazioni non dovettero essere positive se il 6 luglio il papa, nella consueta udienza ad Angelo Mercati, gli «ordinò di conservare le 296 copie dell’opuscolo del Mannucci sul suo officio di Foriere maggiore [sic] ritirate dal commercio e qui depositate i giorni scorsi e di ritirare al possibile le poche copie già distribuite». Con significativo balzo cronologico permise poi al prefetto dell’Archivio Vaticano di portare con sé in villeggiatura 14 minute originali di lettere del papa avignonese Giovanni XXII, assenti nei relativi registri Vaticani e Avignonesi, che Mercati illustrò nel 1937 in un articolo12. In seguito il papa ordinò la distruzione delle 296 copie sequestrate (un numero piuttosto esiguo, che induce a credere che l’autore, forse anche finanziatore dell’edizione, pensasse a una circolazione
10
MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 5. C. CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino. Nuova edizione con l’aggiunta di due appendici, a cura di G. FRASSO, Cinisello Balsamo 1993 (Grandi biografie, 2), pp. 150-154. 12 S. PAGANO, L’Archivio Segreto Vaticano e la prefettura di Angelo Mercati (1925-1955) con notizie d’ufficio dai suoi Diari, in Dall’Archivio Segreto Vaticano. Miscellanea di testi, saggi e inventari, V, Città del Vaticano 2011 (Collectanea Archivi Vaticani, 84), pp. 3-155: 86-87. 11
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limitata dell’opera, nella ristretta cerchia di coloro che avevano a che fare col piccolo mondo Vaticano). […] si salvarono soltanto tre esemplari che Mercati legò con lo spago e chiuse nel cosiddetto «bagno Seganti» dell’Archivio (un locale al III piano superiore, «coll’ingresso dal camerino d’Urbano VIII»). Tali copie si trovano oggi nell’archivio della Prefettura e conservano allegato questo biglietto autografo di mons. Mercati: «Tre copie delle memorie del Comm. F. Mannucci ritirate integralmente — a quanto pare — dalla distribuzione. L’intiero fondo depositato in Archivio Vaticano venne ridotto in frammenti da mandarsi al macero per la Biblioteca Vaticana […]». Insieme ai volumi a stampa fu consegnato a Mercati anche il manoscritto dell’opera, oggi introvabile e forse anch’esso distrutto13.
«Ritirate integralmente — a quanto pare — dalla distribuzione». La prudenza di Mercati era d’obbligo e motivata. Qualcosa di fatto era sfuggito al primo rastrellamento, segno che la diffusione, forse promossa dal Mannucci stesso, era lentamente incominciata. Alcuni mesi dopo, il 25 ottobre, sempre Mercati annotò che Camillo Serafini, governatore dello Stato della Città del Vaticano14, gli aveva inviato altre quattro copie del volume «da lui ritirate» e senz’altro destinate alla medesima fine15. La distruzione delle copie (riduzione «in frammenti da mandarsi al macero») deve essere avvenuta (se si interpreta bene la notazione di Mercati) attraverso la Biblioteca Vaticana («per la Biblioteca Vaticana»), dotata allora di un laboratorio di restauro sicuramente più fornito di mezzi di quello dell’Archivio. Ma in questa fase di passaggio la curiosità di qualcuno deve avere sottratto almeno un’altra copia rispetto alle tre segnalate da Pagano e conservate in Archivio Vaticano, una copia poi trasmessa a un antico impiegato della Biblioteca Vaticana, il dottor Alfredo Diotallevi, che me l’ha mostrata e sulla base della quale ho potuto stendere queste note. Alle 13 Così PAGANO, L’Archivio Segreto Vaticano e la prefettura di Angelo Mercati cit., p. 86 nt. 266. Una breve rievocazione della vicenda in P. VIAN, Pio XI distruttore di libri (a proposito di Morcaldi, Brunatto e Mannucci), in Strenna dei Romanisti 76 (2015), pp. 487-499: 491-499. Una citazione del volume già in una scheda di A. DIOTALLEVI e A.M. VOLTAN in Conoscere la Biblioteca Vaticana, a cura di A.M. PIAZZONI e B. JATTA, Città del Vaticano 2010, p. 159. 14 Camillo Serafini (1864-1952), dal 1898 conservatore del Gabinetto numismatico della Biblioteca Vaticana, fu Governatore del neonato Stato della Città del Vaticano dal 1929 al 1952, cfr. PAGANO, L’Archivio Segreto Vaticano e la prefettura di Angelo Mercati cit., p. 67 nt. 175. «[…] fu il primo e ultimo titolare del grande palazzo costruito da [Giuseppe] Momo: infatti alla sua morte (1952) la carica rimase vacante sino alla sua soppressione nel 1969 decisa da Paolo VI», FONTI, Dalla cittadella del papa alla Città del Vaticano cit., p. 24. Cfr. N. VIAN, Figure della Vaticana, in L’urbe 49 (1986), pp. 104-124 [ripubblicato in N. VIAN, Figure della Vaticana e altri scritti. Uomini, libri e biblioteche, a cura di P. VIAN, Città del Vaticano 2005 (Studi e testi, 424), pp. 331-355]: 113-114 [344-345]. 15 PAGANO, L’Archivio Segreto Vaticano e la prefettura di Angelo Mercati cit., p. 87.
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tre copie rimaste in Archivio Vaticano se ne deve aggiungere dunque almeno un’altra. Ma il volume sembra essere effettivamente rarissimo; assente in tutte le biblioteche aderenti al Sistema Bibliotecario Nazionale, non è reperibile nei siti di antiquariato e commercio librario, come Amazon, Maremagnum, Comprovendolibri.it. 3. Il volume (cm 23 × 15) si compone di 211 pp. ed è articolato, dopo la lettera del canonico Ghezzi (p. 3) e la breve introduzione (pp. 5-10), in 74 capitoli (pp. 11-185), non numerati, e di lunghezza variabile, chiusi da un’appendice relativa agli eventi accaduti dopo la giubilazione di Mannucci (pp. 186-207) e un indice sommario (pp. 209-211); mancano il «finito di stampare» e, naturalmente, l’«imprimatur». La rassegna di Mannucci è onnicomprensiva e rivisita, seguendo un ordine prevalentemente cronologico (non topografico), tutti gli ambiti che furono oggetto di interventi del sotto-foriere, all’interno e all’esterno della mura vaticane: dalla Tipografia alle Catacombe di S. Callisto, da S. Giovanni in Laterano a S. Maria Maggiore, dal palazzo della Cancelleria all’Officina elettrica (per citarne solo alcuni). Gli scenari più illustri e aulici — le sale e le cappelle del palazzo Vaticano, le fontane, i cortili, i musei, colonne e monumenti, la basilica di S. Pietro, Castel Gandolfo e Loreto — si mescolano a soggetti più umili e strumentali (officine, ascensori, scuole popolari, abitazioni residenziali), con rapide pennellate e dovizia di particolari tecnici16. L’urgenza, quasi la 16 L’ascensore che dal pianterreno conduceva alla Sala Clementina era ancora azionato con forze umane, come ai tempi di Pio IX; Mannucci si occupò del suo funzionamento ma sudò freddo in occasione della visita a papa Leone del «re d’Inghilterra» e commentò con spirito l’episodio, MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 76-77. La visita in questione potrebbe essere quella di Edoardo VII a Leone XIII, avvenuta nel pomeriggio di mercoledì 29 aprile 1903, ultimo giorno del soggiorno romano del re. Dal cortile di S. Damaso il re effettivamente salì «al piano superiore per mezzo dell’ascensore riservato ai sovrani», Cronaca contemporanea. I. Cose romane: Visita del re d’Inghilterra a Leone XIII, in La civiltà cattolica 54 (1903), vol. X, quad. 1270, 16 maggio 1903, pp. 471-473. La rivista gesuita commentò lo storico evento: «dopo tre secoli e mezzo che un re inglese, ribellatosi alla Chiesa, aveva forzato la nazione a seguirlo nell’apostasia, per la prima volta un suo successore toccava la soglia del Vaticano, e tornava a fare atto di cortesia al Pontefice di cui per dieci secoli i suoi predecessori erano stati i sudditi più fedeli». Ma secondo L. CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…». Ricordi di lavori ed opere eseguiti nel Vaticano durante il pontificato di Pio XI (1922-1939), Roma 1940, p. 20, si trattò invece della visita del principe del Galles, il futuro Giorgio V; e dopo di essa si decise di meccanizzare l’apparecchio. Propende invece per la visita di Edoardo VII quando era ancora principe di Galles, dunque prima del 22 gennaio 1901 (ed è testimonianza autorevole), S. NEGRO, Musei che non si vedono, in ID., Vaticano minore cit., pp. 229-252: 249-252, che così descrive l’ascensore: «[...] era mosso a peso d’uomini, con un meccanismo complicato e pittoresco che non deve aver avute molte altre applicazioni. Consisteva in una grande ruota di legno, allogata in un locale di servizio, al cui asse era applicato tutto un sistema di funi e di carrucole che arrivava per vie coperte fino alle corde di sollevamento. La ruota, verticale e di grandi proporzioni, era fatta come quella di un mulino ad acqua, ma senza pale, ed i suoi fianchi erano tenuti insieme da grossi pioli che le davano
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fretta del lavoro memorialistico, forse l’isolamento senza grandi aiuti nel quale fu condotto sembrano risultare nei non rari refusi17. L’antico sottoforiere non pare rievocare il passato sulla base di appunti presi al momento degli eventi ma segue l’ordine dei suoi ricordi, confessando in un caso di non rammentare la data dell’evento e generalmente non abbondando in indicazioni cronologiche18. Evidentemente ricorda e scrive senza fare troppi controlli su altre fonti esterne ma affidandosi soprattutto alla sua memoria. A prevalere è lo sforzo di un tono oggettivo, di ricostruzione storica, senza troppe considerazioni e valutazioni personali. Solo qua e là talvolta s’insinua e trapela l’amarezza per mancati riconoscimenti o ingiusti rimproveri19, ma sempre contenuta e mai incontrollata anche di fronte alla l’aspetto di una gabbia, o meglio di una assurda scala rotonda, girante sul suo asse. Quando occorreva sollevare l’ascensore, alcuni uomini scelti fra i più pesanti entravano nella ruota e si mettevano a scalarla, tutti da una parte salendo sui pioli. Era, naturalmente, una fatica di Sisifo perché la ruota riportava sempre la pattuglia al punto di gravità girando sul suo asse con moto regolato dalla celerità con la quale gli uomini davano l’assalto ai pioli. Girando essa avvolgeva le corde e sollevava l’ascensore: quello appunto che si voleva. La cabina di questo arcaico impianto aveva i vetri dipinti, di modo che chi stava nell’interno non aveva affatto la sensazione del moto. La porta poi si apriva all’esterno, guaio grosso questo, perché la cabina si fermava invariabilmente o troppo alta o troppo bassa rispetto alla soglia, ed occorrevano allora lunghe manovre e tutto un cifrario di segnalazioni per fare la correzione in un senso o nell’altro. L’ultimo personaggio che questo singolare ascensore portò fu Edoardo VII, quand’era Principe di Galles. Egli rimase incantato notando che dall’interno non ci si accorgeva affatto del moto e fece molte domande a monsignor Stonor [Edmund Stonor, 1831-1912], rettore del Collegio inglese a Roma, che l’accompagnava, per sapere come fosse mossa la macchina. Ma il prelato dichiarò prudentemente di non conoscere abbastanza la materia per spiegarla a Sua Altezza. Intanto, mentre cigolavano le carrucole, il sottoforiere dei palazzi apostolici se ne stava in grande trepidazione. Era la prima volta che capitava a lui di issare un futuro sovrano in quella maniera e qualche giorno prima, esaminando per sicurezza gli ingranaggi e le corde, aveva concepito i più gravi sospetti sulla resistenza del barocco congegno. Tutto andò, con il Principe di Galles, per il meglio, ma il sottoforiere non volle assumersi altre responsabilità e ottenne da Papa Leone di disfare quell’anticaglia e di mettere anche l’ascensore al corrente con i tempi» (ibid., pp. 250-251). 17 Per citare solo alcuni esempi, Scitz per Seitz, per ben tre volte (MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 23; ma correttamente a p. 73); p. Laos per Lais (ibid., p. 40; ma correttamente ancora nella stessa pagina e alle pp. 94, 99); Eherle per Ehrle (ibid., p. 85; ma correttamente a p. 112). Cfr. ancora ibid., pp. 70 (realzioni per relazioni), 120 (vericò per verificò; Gerlack per Gerlach), 187 (quauto per quanto). 18 «Non ricordo la data in cui avvenne […]», a proposito della seduta inaugurale del comitato romano preposto all’organizzazione dell’Esposizione vaticana del 1888 per il giubileo sacerdotale di Leone XIII, di cui Mannucci era vicepresidente (Filippo Tolli presidente), MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 37. Altro esempio del singolare metodo di ricostruzione di Mannucci: parlando dei lavori commissionati da papa Leone a Carpineto, il sotto-foriere ricorda la sua visita a una sorgente indicatagli dal pontefice «sulla fine del mese di ottobre», ma non indica l’anno né prima né dopo (ibid., p. 68; cfr. anche a p. 70: «sulla fine di gennaio»). 19 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 22 (a proposito del ripristino delle capriate a S. Maria Maggiore: «per questo lavoro […] non ebbi nemmeno il compenso morale di una riga di ringraziamento; ché anzi, quando fu compiuto e ne fu data notizia dai giornali,
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crisi definitiva della giubilazione (peraltro non imprevedibile, dopo quasi mezzo secolo di mandato). Non compaiono, nelle memorie di Mannucci, corruzione e immoralità: non mancano invece sciatterie, incompetenze, improvvisazioni, resistenze al nuovo, gelose difese di ambiti e interessi privati20. Dalle pagine del sotto-foriere non emerge insomma un inquietante quadro da Vatileaks ma l’umanissimo ritratto di un mondo spesso attardato nella ripetizione della routine, nella pigrizia sclerotizzata dell’abitudine. L’intento dell’autore non è diffamatorio o di denuncia; talvolta anzi si rivela perfino reticente e sibillino, quasi non voglia dire, per onore della bandiera, qualcosa di grave e spiacevole21. Appena nominato sotto-foriere, Mannucci si propose «di prendere il più esattamente possibile cognizione del Vaticano e di tutte le sue dipendenze»22 per adempiere nel modo migliore possibile il compito de «la custodia, la conservazione e la manutenzione»23 di tutti i suoi edifici. Il quadro che si delineò presentava «molte deficienze ed uno stato di abbandono generale, tutto il merito fu attribuito ad altri»), 23-24 (a proposito dei quadri nelle volte della Galleria dei Candelabri, con conflitto fra i pittori Ludovico Seitz e Domenico Torti e finale allontanamento di Torti; ma inizialmente Leone XIII aveva disapprovato i quadri del pittore perugino Luigi (?) Angelini, prendendosela con l’innocente Mannucci: «Nel discendere [scil.: dal ponte il papa] incontrò me e mi rivolse un vivace rimprovero per la cattiva riuscita del quadro da lui visitato. Procurai di scusarmi facendo presente che la scelta del pittore non era stata fatta da me, ma inutilmente; dovetti quindi prendermi in silenzio il rimprovero, che non fu certamente dolce»). Ma cfr. anche gli accenni, discreti, a critiche di malevoli e incompetenti (ibid., pp. 69, 126). E ancora: ibid., pp. 44 (riferimenti all’«opposizione che ebbe da alcuni»), 58-60 (la «Commissione dei Cardinali, non tenendo affatto conto che i Sacri Palazzi avevano un ufficio tecnico responsabile, a completa insaputa di questo, approvarono il progetto» di un benedettino, «versato in architettura», per il consolidamento del Palazzo del Laterano e solo ricorrendo prima al segretario del papa, poi al papa stesso, Mannucci riuscì a stornare l’operazione). 20 Come nel caso del card. Gaetano De Lai (1853-1928), nell’ultima fase del pontificato leonino sotto-segretario della Congregazione del Concilio, che si oppose al restauro del prospetto sul giardino del palazzo della Cancelleria «per timore che ne scapitassero le sale del suo ufficio», MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 30. Ma cfr. anche il disgusto manifestato da Mannucci per il modo in cui gli addetti alla Fabbrica provvidero a collocare il feretro di papa Leone «nel loculo di deposito provvisorio sopra la porta d’ingresso alla scala della cupola», ibid., p. 80. 21 Per la localizzazione della nuova Pinacoteca, sotto il pontificato di Pio XI, Mannucci andava preparando un progetto: «Sottoposi al S. Padre che per redigere un progetto completo e concreto era necessaria la cooperazione del direttore dei Musei e sopratutto del direttore delle pitture. Il Santo Padre assentì alla mia proposta, ma la chiamata di questi personaggi non favorì il segreto imposto nel primo tempo», MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 159. Direttore dei Musei Vaticani era (dal 1920) Bartolomeo Nogara (1868-1954), conoscente e amico da lunga data di papa Ratti; «direttore delle pitture» e responsabile dei restauri era (dal 1921) Biagio Biagetti (1877-1954). L’accenno di Mannucci, sicuramente reticente, non suona propriamente lusinghiero per entrambi. 22 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 10. 23 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 10.
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necessaria conseguenza dello stato di smarrimento dovuto agli ultimi avvenimenti»24. Mancava l’acqua potabile negli appartamenti e scarsa era quella per i lavaggi, cortili come quello di S. Damaso e del Maresciallo in più parti erano privi di selciato «ed in tempo di pioggia si formavano dei laghetti»25. Lo stesso appartamento privato del papa era in condizioni precarie, al punto di apparire «un piede a terra, sprovvisto di ogni conforto»26 nel quale il pontefice nella stagione estiva doveva spostare il letto per trovare conforto e refrigerio27. Non migliori apparivano le condizioni dell’appartamento del segretario di Stato, che spingevano il card. Ludovico Jacobini nei fine settimana della stagione estiva a trasferirsi nella sua casa di Genzano (proprio durante una sua assenza si verificò un allagamento)28. Costanti sembrano le «alterazioni e guasti anche di memorie artistiche», specchio di quella «noncuranza delle cose d’arte»29 che induceva (o aveva indotto) a sconciare soffitti a cassettoni, a ricoprire affreschi, a modificare ambienti storici con un’estrema disinvoltura solo preoccupata di garantire una maggiore funzionalità30. Nella Sala Regia il fumo intenso delle centi24
MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 11. Ma per un confronto con la Roma contemporanea (in realtà non molto dissimile dalla città leonina) si leggano alcune pagine di U. PESCI, I primi anni di Roma capitale (1870-1878), Firenze 1907; e, soprattutto, di M. PORENA, Roma capitale nel decennio della sua adolescenza (1880-1890), Roma 1957, pp. 38-45 (per i mezzi di comunicazione), 46-49 (per l’illuminazione pubblica e privata), 50-55 (per le abitazioni e il riscaldamento). 25 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 11, 16. La sequenza dei cortili della Sentinella, Borgia, del Pappagallo, del Maresciallo conduce dall’imbocco del cosiddetto «Grottone» al cortile di S. Damaso, nel cuore del palazzo apostolico di Sisto V. 26 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 12. 27 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 11. 28 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 12. Per questi frequenti ritiri nella casa di Genzano, Mannucci non accenna invece alla motivazione dello stato di salute del cardinale, malato di diabete, cfr. C. M. FIORENTINO, Jacobini, Ludovico, in Dizionario biografico degli italiani, LXI, Roma 2003, pp. 791-794: 793-794. Su Jacobini, «fratello dei produttori dei celebri vini di Genzano», cfr. PESCI, I primi anni cit., p. 35. 29 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 13. 30 Due esempi: «Ricorderò a questo punto che per ricavare un’abitazione per un inserviente, fu mutilato un pregevole soffitto a cassettoni, portante nel centro lo stemma di Giulio II della sala detta del Pappagallo situata a fianco della cappella del B. Angelo [sic per B. Angelico], la qual sala è di memoria storica avendo servito per le adunanze in preparazione del Concilio di Trento con l’intervento del Pontefice. Appena mi si presentò l’occasione, feci demolire i tramezzi che la dividevano in due e feci ricostruire dal restauratore Cav. Danti la metà del soffitto distrutto, riducendola a cappella annessa all’appartamento di Monsignor Elemosiniere del 2° piano sopra la sala Ducale. Un altro esempio della noncuranza delle cose d’arte me l’offrì il gabinetto da bagno che era annesso all’appartamento del Card. Bibiena situato all’ultimo piano sul cortile dei Pappagalli. Questo gabinetto, vero gioiello d’arte, era stato utilizzato a dispensa, coprendone le pareti, affrescate ed avendone imbiancata la voltina a calotta che, spogliata dello strato di calce, si presentò di finissima fattura. Questo gabinetto, per ordine del Prefetto Mons. Theodoli [Augusto Theodoli, 1819-1892, Maggiordomo di
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naia di candele accese prima del 1870 nelle funzioni della Settimana Santa aveva reso quasi invisibili le pitture ricoperte da uno strato nerastro e percorse da infiltrazioni d’acqua dai tetti, mentre il pavimento cosmatesco della Cappella Sistina era in dissesto e i visitatori ne asportavano facilmente frammenti per conservare un ricordo31. Nella considerazione a trecentosessanta gradi di questo sfaccettato mondo Vaticano Mannucci dedica particolare attenzione alla Biblioteca Vaticana e agli archivi dei vari dicasteri. Cinque dei 74 capitoli e un’ampia sezione dell’Appendice sono appunto dedicati alla Biblioteca e agli archivi, per quasi 25 pagine delle 211 complessive. Un’attenzione che dimostra la considerazione di cui allora godeva l’istituzione, vero cuore e fulcro culturale della Santa Sede, sede di rappresentanza, onorata e ricercata da sovrani ambasciatori e personalità, ma anche luogo della memoria e quindi indispensabile sostegno e sussidio del buon governo. Quando si resero necessari restauri e demolizioni nel palazzo della Cancelleria (la cui amministrazione venne incorporata alla Prefettura dei Sacri Palazzi Apostolici), Mannucci condusse ricerche «nell’archivio e nella Biblioteca Vaticana», per verificare «se vi si conservassero documenti o disegni che avessero potuto facilitare il compito»; ed ebbe dal prefetto della Biblioteca (anche qui Mannucci non indica date ma dovrebbe trattarsi di Stefano Ciccolini, prefetto della Biblioteca dal 1880 al 1892, perché si direbbe che i fatti rievocati risalgano ai primi tempi del mandato del sotto-foriere) l’indicazione che documenti si sarebbero potuti trovare all’Archivio di Firenze, «ove mi recai con una presentazione dello stesso Mons. Prefetto. Fui ricevuto con grande cortesia, e fu messo a mia disposizione quel poco che l’archivio possedeva di questo palazzo, che per altro mi fu sufficiente»32. Ancora: quando si resero necessari riparazioni al muro della Cappella Sistina (siamo ormai nel pontificato di Pio XI) Mannucci chiese aiuto a mons. Stanislas Legrel-
Sua Santità e prefetto dei Sacri Palazzi Apostolici dal 30 marzo 1882; cardinale dal 7 giugno 1886], fu completamente ristaurato sotto la mia direzione e chiuso a qualsiasi uso», MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 13-14. 31 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 47-48, 51. La Sala Regia è una «grande aula cerimoniale» in comunicazione «con la Cappella Sistina, la Cappella Paolina e la Sala Ducale. Dalla Sala parte inoltre una scala, detta anch’essa Regia, che dà accesso alla basilica di S. Pietro», A. BREDA – A. RODOLFO, Il Palazzo Apostolico Vaticano. Itinerario di visita, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 147-207: 179. Cfr. anche F. EHRLE – E. STEVENSON, Gli affreschi del Pinturicchio nell’Appartamento Borgia del Palazzo Apostolico Vaticano riprodotti in fototipia e accompagnati da un commentario, Roma 1897, pp. 10-11; L. SIMONATO, Il Palazzo Apostolico Vaticano. Profilo storico, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 147-174: 164. 32 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 29.
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le, «della Biblioteca Vaticana», per conoscerne la storia edilizia e ne ebbe preziose indicazioni33. 4. La presa di Porta Pia aveva sorpreso la Santa Sede che si era precipitosamente ritirata nel piccolo mondo Vaticano, trasferendo come meglio aveva potuto ciò che era sembrato necessario non abbandonare nelle mani dei Piemontesi. La frettolosa sistemazione degli archivi, sistemati in condizioni spesso infelici e persino indecenti, era la dimostrazione di questa forzata situazione di necessità ma al tempo stesso anche un’ulteriore conferma dell’insensibilità agli aspetti culturali, che Mannucci spesso constata e deplora: Dopo gli avvenimenti del 1870, molti archivi furono trasferiti in Vaticano, occupando locali disparati ed inadatti ed alcuni, in seguito, affatto dimenticati. Nella soffitta, sopra la galleria delle Carte geografiche, con pareti in legno, vi erano stati formati vari riparti, nei quali vi si trovavano parti dell’archivio della Segreteria di Stato, l’archivio della Prefettura, della Segnatura e di altri34. In tutti vi notai un certo abbandono, perché dalle finestre, mal connesse e con vetri rotti, vi penetravano 33
«Quando però fu tolto l’intonaco, il muro si presentò in istato tale da recar meraviglia, che non si fossero prodotte lesioni nell’interno della Cappella. La pessima struttura del muro alla base non essendo conciliabile col carattere monumentale dell’edificio, pregai Mon. Legrelle della Biblioteca Vaticana di esaminare le memorie dell’epoca, per trovare qualche notizia che ne riguardasse la costruzione. Risultò infatti che per la costruzione della Cappella furono conservati alcuni muri di un antico edificio, che essendo di buona qualità ma di dimensioni insufficenti, furono ingranditi. Questi antichi muri furono infatti ritrovati nei restauri che seguirono, ed erano di solidissima struttura in pieno contrasto però con quelli costruiti per compierne la sezione. A questi antichi muri si deve se lo schiacciamento non ha prodotto effetti disastrosi nelle pareti della Cappella, non senza però segni di schiacciamento ben visibili nelle pitture della parete. Dopo la non lieta constatazione non rimaneva che por mano ai restauri, preceduti dall’esame delle fondazioni trovate solidissime», MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 171. Anche nel caso di interventi nella Cappella del B. Angelico e degli ambienti vicini, Mannucci cercò e trovò il conforto della storia, avendo conferme chiarificatrici in quanto il Pastor racconta a proposito della «camera da studio» di Niccolò V, ibid., pp. 108-109. Stanislas Le Grelle (1874-1957), dal 1903 scriptor aggiunto onorario della Biblioteca Vaticana, J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collections de manuscrits, avec la collaboration de J. RUYSSCHAERT, Città del Vaticano 1973 (Studi e testi, 272), pp. 257, 268 nt. 12; VIAN, Figure della Vaticana cit., pp. 106-107 [333-334]. 34 Mannucci si riferisce al piano più alto del Braccio di Pio IV («corridore di ponente» o Corridoio di Pirro Ligorio), i cosiddetti «soffittoni», ove rimasero a lungo sistemati numerosi fondi archivistici. Cfr. PAGANO, L’Archivio Segreto Vaticano e la prefettura di Angelo Mercati cit., p. 138 e ntt. 500-501; ID., L’Archivio Segreto Vaticano, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 227-235: 233-234. Sulle diverse collocazioni dei fondi archivistici Mannucci si era soffermato più minutamente in una relazione del 1896 ricordata e analizzata da S. PAGANO, Leone XIII e l’apertura dell’Archivio Segreto Vaticano, in Leone XIII e gli studi storici. Atti del Convegno Internazionale Commemorativo, Città del Vaticano, 30-31 ottobre 2003, a cura di C. SEMERARO, Città del Vaticano 2004 (Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Atti e documenti, 21), pp. 44-64: 51-53.
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le cornacchie e le carte sciolte venivano dal vento sparse per la soffitta. Nelle due grandi sale situate a piano terreno, ed a sinistra del corridoio che dal cortile di Sisto V conduce al Torrione di Nicolò V — di poi destinate a caserma dei gendarmi35 — notai, dalle fessure della porta, che nell’interno vi erano scaffali contenenti volumi di grande formato. Ne feci relazione a Mons. Prefetto36, il quale fece ricerche presso tutti i dicasteri onde conoscerne la pertinenza; non essendo riuscito a sapere a chi appartenessero detti volumi, ordinò che si forzasse la porta. Seppi in seguito che si trattava di volumi di grande interesse. Gli archivi notarili del Vicariato erano in ambienti situati nel cortile del Triangolo37, sotto l’attuale quartiere delle Guardie del fuoco. L’archivio del Buon Governo era in parte in questi locali, in parte in una sala del palazzo della Cancelleria e in parte nell’ultimo piano del cortile del Belvedere ove è ora il quartiere della Guardia Nobile38. Altri archivi poi erano situati nel piano superiore al museo Etrusco39 ed attorno al nicchione del Bramante40. 35 Collocato nelle prossimità del cortile di S. Damaso (al quale è collegato) ma di proporzioni decisamente più piccole, il cortile di Sisto V, parallelo al cortile del Maggiordomo, è incastonato nel palazzo apostolico sistino, a non grande distanza dal torrione di Niccolò V (o «torrione degli Svizzeri»), al quale è collegato da un ambulacro. 36 Dovrebbe senz’altro trattarsi del già ricordato mons. Augusto Theodoli (cfr. supra, nt. 30). 37 Non lontano dal cortile del Belvedere e da quello di S. Damaso, al cortile del Triangolo si accede da una porta collocata sulla sinistra prima dell’ingresso al cortile del Belvedere. 38 L’archivio della Congregazione del Buon Governo era dunque tripartito: parte in locali in prossimità del cortile del Triangolo, parte in una sala del palazzo della Cancelleria e parte ove era il «quartiere della Guardia Nobile», cioè in quei locali sopra la Galleria lapidaria ove, fra il 1975 e il 1976, si trasferì il Gabinetto numismatico della Biblioteca Vaticana, Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, II: Dipartimento Stampati – Dipartimento del Gabinetto Numismatico – Uffici della Prefettura. Archivio – Addenda, elenchi e prospetti, indici, a cura di F. D’AIUTO – P. VIAN, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 467), p. 904. Nel 1918 l’Archivio Vaticano cedette il fondo della Congregazione del Buon Governo all’Archivio di Stato di Roma, allora diretto da Eugenio Casanova, ottenendone in cambio alcune serie di documentazione camerale. 39 Voluto da Gregorio XVI e inaugurato il 2 febbraio 1837, il Museo Gregoriano Etrusco «occupa […] il palazzetto del Belvedere di Innocenzo VIII, progettato dal Pollaiolo, e l’appartamento di Tor de’ Venti di Pio IV (1559-1565), iniziato da Michelangelo e Girolamo da Carpi e finito da Pirro Ligorio, che all’esterno con il suo nicchione fa da quinta al monumentale bronzo romano della Pigna, nell’omonimo cortile. Al palazzetto del Belvedere conduceva la monumentale Scala a chiocciola del Bramante, iniziata nel 1512, che poteva essere comodamente percorsa anche a cavallo. L’appartamento pontificio a Tor de’ Venti, luogo di ritiro per i papi tra la seconda metà del XVI e la prima metà del XVII secolo, ebbe come ultimo occupante il cardinale Francesco Saverio de Zelada (1717-1801), bibliotecario e poi segretario di Stato al tempo di Pio VI. Sarà il suo successore Pio VII a stabilire nel 1816 la destinazione museale dell’appartamento di ritiro, ormai inglobato nella struttura dei Musei Vaticani con la costruzione della scala Simonetti (1779-1784), la cui ultima rampa reca proprio all’ingresso del Museo» », M. SANNIBALE, Museo Gregoriano Etrusco, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 341-352: 341-342. 40 Il cosiddetto «nicchione del Bramante» (in realtà opera di Pirro Ligorio) chiude il cor-
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Allorquando il S. Padre Leone XIII diede facoltà agli studiosi di consultare i documenti conservati nell’archivio della Santa Sede, fu necessario di destinare a tale scopo una sala prossima all’archivio stesso ma da questo separata; feci quindi il progetto di un edificio, i cui disegni si trovano nell’Ufficio del Foriere Maggiore, da costruirsi nel Giardino Vaticano di fronte alla sala di Sisto V, congiunto con questo per mezzo di un cavalcavia, per le sale di studio dell’archivio della Santa Sede e della Biblioteca Vaticana la quale, avendo a questo uso la sala d’ingresso alla biblioteca sul corridoio o galleria lapidaria, si era resa insufficiente per l’aumentato numero degli studiosi. Le nuove sale progettate, mentre erano in comunicazione immediata con l’archivio e con la biblioteca, ne erano completamente separate. Invece, sia per economia, sia per provvedere nel più breve tempo possibile a questa nuova esigenza, si stabilì di ridurre a sala di studio per l’archivio, una parte della cordonata adiacente all’archivio stesso sul viale dei Musei, e per la biblioteca, le due sale ora destinate per il Cardinale Bibliotecario, ridotte a sala unica ed in comunicazione diretta con l’antica, ridotta a sala d’ingresso41.
Mannucci non indica precisamente date ma il progetto al quale si riferisce, un edificio nei Giardini vaticani di fronte al Salone Sistino e a questo collegato da un cavalcavia che avrebbe dovuto sorpassare l’attuale Stradone dei Giardini, coincide perfettamente con quello concepito e presentato nel maggio 1885 da Giovanni Battista De Rossi42. L’unica, peraltro non tile della Pigna nel lato opposto al Braccio Nuovo e ospita la grande pigna bronzea che «nel 1608 fu smontata — insieme a due pavoni bronzei di età adrianea (i cui originali sono ora nel Braccio Nuovo) — dal cantaro nell’atrio dell’antica basilica di S. Pietro e collocata al termine di una scalinata a doppia rampa al centro del nicchione di Ligorio», G. SPINOLA, Cortile della Pigna, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 322-323. Cfr. D. REDIG DE CAMPOS, I Palazzi Vaticani, Bologna 1967 (Roma cristiana, 18), pp. 150-152. 41 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 14-15. Sino a Leone XIII, la secolare sala di consultazione della Biblioteca Vaticana era il vestibolo del Salone Sistino o «sala degli scrittori». Dopo l’apertura dell’Archivio Vaticano agli studiosi, all’inizio degli anni Ottanta, per l’accresciuto numero dei frequentatori che si registrò anche in Biblioteca, si individuò (intorno al 1885) per questa una sala più comoda e luminosa negli ambienti limitrofi, che in seguito sarebbe stata adibita a ufficio del cardinale Bibliotecario; cfr. R. FARINA, «Splendore Veritatis gaudet Ecclesia». Leone XIII e la Biblioteca Vaticana, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XI, Città del Vaticano 2004 (Studi e testi, 423), pp. 285-370: 315 nt. 108; P. VIAN, Da Leone XIII a Benedetto XVI: la sede attuale della Biblioteca Vaticana, in A. M. PIAZZONI, A. MANFREDI, D. FRASCARELLI, A. ZUCCARI, P. VIAN, La Biblioteca Apostolica Vaticana, introduzione di C. PASINI, con un contributo di P. PORTOGHESI, Milano 2012 (Monumenta Vaticana Selecta), pp. 310-335: 319. Anche in Archivio Vaticano la prima sala di consultazione utilizzata dopo l’apertura del 1881 (quella cui fa riferimento Mannucci, considerata «umida e per nulla igienica, mancante di luce, specialmente d’inverno ed in tutti i giorni piovosi» in un memoriale del 1889 di Pietro Wenzel) fu sostituita nel 1890 da una nuova sala di studio e da un nuovo ingresso; i posti riservati ai ricercatori salirono dai circa quindici a sessanta, PAGANO, Leone XIII e l’apertura dell’Archivio Segreto Vaticano cit., p. 61. 42 P. VIAN, «Una sede conveniente, commoda, definitiva degli stampati». Un progetto di Giovanni Battista De Rossi per l’ampliamento della Biblioteca Vaticana (7 maggio 1885), in Vaticana et mediaevalia. Etudes en l’honneur de Louis Duval-Arnould, réunies par J. M. MARTIN,
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lieve, differenza è che Mannucci pensava all’edificio per le «sale di studio» della Biblioteca e dell’Archivio, mentre De Rossi (ormai al tramonto della sua influente presenza in Biblioteca) concepiva il fabbricato per ospitarvi sì la sala di consultazione della Biblioteca ma anche e soprattutto per dare degna e definitiva collocazione agli stampati («una sede conveniente, commoda, definitiva»). I due personaggi, fra i quali non risultano significativi rapporti43, si sono influenzati reciprocamente o sono pervenuti indipendentemente alla stessa idea, peraltro non del tutto imprevedibile visto che l’unica possibilità di nuovi sviluppi edilizi era proprio sul fronte dei Giardini (come mostrerà la scelta della nuova sede della Pinacoteca, inaugurata il 27 ottobre 1932 da Pio XI nell’area del Giardino Quadrato, dunque proprio nella zona indicata dai progetti di De Rossi e Mannucci)? Per ora bisogna limitarsi a formulare i quesiti, senza offrire una risposta. Importa invece rilevare il clima di assedio, di preoccupazione, persino di paura che dominava il Vaticano nel pontificato di Leone XIII. Dopo quanto accaduto alla salma di Pio IX durante il trasferimento a S. Lorenzo in Verano (nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1881), il papa temendo irruzioni in Vaticano fece apporre «un robusto cancello all’ingresso del secondo cortile Borgia ed allestire un rifugio in alcuni ambienti sulla Basilica di S. Pietro, quasi completamente sconosciuti ed internati in modo da non apparirne l’esistenza»44. Ma il papa della Rerum novarum, pur consapevole dei pericoli della modernità, non si fa paralizzare dalla paura e sembra invece intelligentemente aperto e interessato alle novità. La sera del 5 gen-
B. MARTIN-HISARD et A. PARAVICINI BAGLIANI, Firenze 2008 (Millennio medievale, 71; Strumenti e studi, n.s., 16), pp. 472-486. Ancora sotto Pio X Mannucci propose la costruzione di un edificio nel «giardino quadrato» per dare spazio all’Archivio Segreto e alla Biblioteca Apostolica; e inizialmente avrebbe pensato di collocare l’Archivio anche nel nuovo edificio della Pinacoteca poi inaugurato nel 1932, MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 162-163. Ma il progetto non ebbe seguito. Già nella ricordata relazione del 1896 (cfr. supra, nt. 34) Mannucci aveva proposto «la riunione degli archivi delle Congregazioni in una unica sede, che a suo giudizio avrebbe potuto essere il palazzetto situato all’ingresso dei Giardini», PAGANO, Leone XIII e l’apertura dell’Archivio Segreto Vaticano cit., p. 53. L’idea venne in qualche modo ripresa nel 1914 da Leopoldo Silli che, incaricato di riferire al segretario di Stato Rafael Merry del Val sulla situazione degli archivi delle Congregazioni, ne propose la concentrazione nell’edificio che si affacciava sul Cortile delle Corazze, ibid. Nel 1914 Silli era, oltre che mazziere, «addetto allo schedario» dell’Archivio della Sezione II: Affari ordinari della Segreteria di Stato, cfr. Annuario pontificio per l’anno 1914, Roma 1914, pp. 414, 544. 43 Nei carteggi di De Rossi è conservata solo una lettera di Mannucci, Vaticano, 14 luglio 1886, con l’invito a partecipare a un incontro nella Galleria degli Arazzi per esaminare ed eventualmente approvare un modello di armadio, Biblioteca Vaticana, Vat. lat. 14275, f. 417r. 44 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 27. Su quanto accaduto nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1881, cfr. F. CRISPOLTI, Pio IX – Leone XIII – Pio X – Benedetto XV (Ricordi personali), Milano – Roma 1932, pp. 13-20; Il Circolo San Pietro cit., p. 54.
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naio 1900 Mannucci sostituì le candele nell’appartamento pontificio con dei lumi elettrici. E il papa si dimostrò subito entusiasta: Piacque molto al S. Padre il cambiamento fatto al comodino accanto al suo letto, con un lume speciale comandato da un interruttore mobile. Preso l’interruttore più volte, accendendo e spegnendo la lampada, disse: «Questo è veramente comodo. Con l’ordinario cerinetto si è obbligati a far ricerca al buio sul comodino, e poi il primo forse non va, occorre prendere il secondo, bisogna fare attenzione di non bruciarsi il dito e più, non lasciar cadere la testina rovente per timore di produrre incendio» ed accendendo e spegnendo continuamente la lampada ripeté: «questo è veramente comodo»45.
5. Le novità nel Vaticano leoniano non si limitarono però alle lampadine. Sin dall’inizio del pontificato si moltiplicarono investendo, come è noto, l’Archivio Segreto, aperto alla consultazione degli studiosi, e la Biblioteca Apostolica, trascinata anch’essa in una dimensione di pubblicità che precedentemente aveva conosciuto solo in misura limitata. Il segno principale di questo rinnovamento fu il trasferimento degli stampati dalle gallerie perpendicolari al Salone Sistino e dalle Sale dell’Appartamento Borgia, ove si erano andati accumulando nel corso dell’Ottocento per fronteggiarne il costante aumento, al grande ambiente sottostante il Salone Sistino, nei locali dell’antica Armeria46. Nasceva così la nuova Biblioteca Leonina, all’interno della quale la «sala di consultazione» era il vero simbolo di una stagione completamente diversa dalle precedenti47. Sul primo passo del decisivo processo Mannucci reca informazioni preziose. Si direbbe quasi che, come spesso capita anche nelle vicende più grandi, all’inizio di tutto vi sia una scoperta casuale: Le sale Borgia situate al primo piano sotto le Stanze di Raffaello, erano annesse alla Biblioteca Vaticana ed erano destinate al deposito della biblioteca Mai, e della collezione delle Stampe48. Rozzi scaffali coprivano tutte le pareti imbiancate. Una 45
MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 45. La decisione di papa Leone di istituire «un nuovo museo nell’appartamento Borgia, trasportatine i libri a stampa nella nuova biblioteca Leonina, istituita anch’essa in pro dei dotti che da ogni parte del mondo traggono allo studio dei codici Vaticani», risale al 20 aprile 1889; il nuovo museo fu aperto l’8 marzo 1897, EHRLE – STEVENSON, Gli affreschi del Pinturicchio cit., p. 5 (a p. 29 ricordo del ruolo di Mannucci nel restauro; sui lavori di restauro eseguiti dal 1892 al 1897, pp. 28-43). L’evento narrato da Mannucci potrebbe dunque essere avvenuto nel 1888. 47 FARINA, «Splendore Veritatis» cit., pp. 310-320. 48 Guida ai fondi manoscritti, II, cit., pp. 829, 878. Mannucci conosceva bene gli ambienti; cfr. le sue due lettere ad Agapito Panici, vice-bibliotecario, 3 luglio 1885 e 7 luglio 1886, a proposito delle richieste di riproduzioni di affreschi delle sale presentate dal «signor Armstrong», definito coi titoli di «Direttore dello Science and Art department di Londra» e 46
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mattina mi venne riferito che in una di dette sale, e precisamente in quella della Santa Caterina49, erano caduti alcuni pezzi di decorazione dell’arco centrale. Mi recai sul luogo, e mentre attendevo il Prefetto della Biblioteca, mi avvidi che nel pilastro centrale, libero dagli scaffali, vi era una scalfittura nell’imbiancatura, dalla quale traspariva dell’oro. Con tutta precauzione mi misi a togliere lo strato di calce, e con mia somma meraviglia potei scoprire parte di una di quelle figurine, che con finissimi ornati vi sono dipinte. Feci osservare a Mons. Prefetto questa mia scoperta. Questi veduto il pregio delle pitture, concepì l’idea d’un completo restauro50. Era grande ostacolo la mole di libri, per i quali occorreva un ampio locale attiguo alla Biblioteca. Il locale vi era, ed abbastanza ampio, cioè tutto il primo piano dell’edificio di Sisto V, ma era ingombro da grande quantità di vecchie armi dell’esercito pontificio. Mons. Prefetto mi ordinò di sgombrare senza indugio questo locale, trasportando tutte le armi — in via provvisoria — nella grande soffitta sopra la galleria delle Carte Geografiche, che era rimasta libera dopo che furono tolti gli archivi51. Appena liberate tutte le sale che costituivano l’appartamento nobile del papa Alessandro VI, si constatò che tutte le pareti erano decorate con affreschi ornamentali, e che il restauro avrebbe ridonato all’antico splendore questa insigne opera d’arte del Rinascimento. I pavimenti erano gli originali, ma era del tutto consunto lo strato di maiolica; fortunatamente però erano rimasti ben conservati non pochi tratti da poter servire di modello pezzi all’ingiro delle pareti da poter imitare per il colorito e per il disegno. Rimaneva però deturpata la sala situata nella torre Borgia52 ove per formare un sostegno alla parete di contro alle finestre della sala della Concezione53, era stato costruito un arco, ed erano stati distaccati gli affreschi di «Direttore del South Kensington Museum di Londra», Biblioteca Vaticana, Arch. Bibl. 41, ff. 211r, 213r-214r. 49 Dovrebbe senza dubbio trattarsi della Sala dei Santi, nella quale lo spazio maggiore è dedicato al «quadro grandioso che occupa tutto il lato opposto alle finestre e rappresenta la disputa di santa Caterina coi cinquanta filosofi convocati dall’imperatore Massimino», EHRLE – STEVENSON, Gli affreschi del Pinturicchio cit., p. 67 (per l’intera sala, ibid., pp. 65-69; M. SERLUPI CRESCENZI, Appartamento Borgia, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 376-380: 379-380). Da non confondersi dunque con la Sala di S. Caterina nel secondo piano del Palazzo Apostolico, BREDA – RODOLFO, Il Palazzo Apostolico Vaticano cit., p. 197. 50 Mannucci anche in questo caso non indica date; ma si tratta sicuramente di Stefano Ciccolini, come si è detto primo custode della Vaticana dal 23 aprile 1880 al 28 novembre 1892, BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 404. Per l’accortezza di Mannucci nel restauro degli affreschi della Cappella del Beato Angelico, cfr. MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 110. 51 Il riferimento è ancora ai «soffittoni» all’ultimo piano del Braccio di Pio IV o «corridore di levante», nel quale erano collocati alcuni archivi, cfr. supra, nt. 34. 52 La Torre Borgia, situata all’angolo nord-ovest del Palazzo Apostolico, edificata sotto Alessandro VI, in posizione dominante sul Belvedere e in collegamento, nei suoi livelli interni, con la Biblioteca Vaticana (già funzionante), con l’Appartamento Borgia (in corso di decorazione) e con il piano che sarebbe stato occupato dalle Stanze, SIMONATO, Il Palazzo Apostolico Vaticano cit., p. 158. 53 Dopo la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (8 dicembre 1854), Pio IX affidò all’artista anconetano Francesco Podesti (1800-1895) la realizzazione di un ciclo di affreschi dedicato all’evento che fu eseguito fra il 1856 e il 1865. Come ambiente
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di due lunette ove era costruito l’arco. Ciò costituiva una profonda alterazione per la quale non vi era che un solo rimedio, la demolizione dell’arco. L’architetto conte Vespignani54 era favorevole per la demolizione; il S. Padre volle però sentire il parere dell’architetto Azzurri55 nonché il mio, senza che l’uno sapesse dell’altro. Il parere fu unanime a quello del Vespignani, essendosi constatato che l’arco non era altro che un inutile ingombro, in quanto la volta che avrebbe dovuto sostenere, ne era completamente separata, ciò che non fu difficile mostrare anche ai profani, facendo scorrere un’asta in tutto il giro dell’estradosso dell’arco. La demolizione fu quindi definitivamente decisa, solo il Vespignani volle, per eccessiva precauzione, porre a sostegno di detta parete, una trave armata nel piano superiore. In questo grandioso ed importante restauro, non furono comprese le stanze dell’appartamento privato che facevano parte del quartiere della Guardia Nobile, che dal palazzo della Consulta al Quirinale dovette essere trasferito in Vaticano dopo il 187056. Il quartiere era diviso in due parti aventi ciascuna l’ingresso dalla sala Ducale. La parte verso il cortile del Maresciallo era occupata dagli ufficiali, l’altra, più vasta ma in diversi piani, nel lato opposto. La stanza d’ingresso e la seguente, con un piccolo gabinetto intermedio, erano le stanze private del pontefice Alessandro VI. La prima d’ingresso sulla sala Ducale doveva forse essere destinata a studio, la seconda, da letto con l’annesso gabinetto. Fui invitato un giorno ad esaminare un guasto avvenuto nel lume a gas che stava sospeso nel mezzo di questa stanza. Il sostegno era fatto dallo stesso condotto del gas fissato al soffitto, ed attraversava il solaio formato da una tela incartata. In vista del pericolo che avrebbe potuto costituire una fuga di gas, proposi di togliere la tela; la staccai io stesso da una parte per esaminare lo stato del solaio. Mi «fu scelta una grande sala della torre Borgia, adiacente alle Stanze di Raffaello, con le quali doveva idealmente collegarsi». Al centro della Sala fu collocato il mobile-biblioteca realizzato da Christofle di Parigi fra il 1874 e il 1878, commissionato da Marie-Dominique Sire, per ospitarvi le traduzioni della bolla di proclamazione Ineffabilis Deus, oggi conservate in Biblioteca Vaticana nel fondo Sire, cfr. M. FORTI, Sala dell’Immacolata Concezione, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 359-360. Cfr. anche REDIG DE CAMPOS, I Palazzi Vaticani cit., p. 249; Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, I: Dipartimento Manoscritti, a cura di F. D’AIUTO – P. VIAN, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 466), pp. 532-535. 54 Francesco Vespignani, compagno di studi di Mannucci (cfr. supra, nt. 4), «architetto», all’interno dell’Amministrazione Palatina, cfr. La Gerarchia Cattolica […] per l’anno 1891, Roma 1890, p. 473. Insieme a Cesare Crispolti, viene ricordato in CRISPOLTI, Pio IX cit., p. 18, per la sua reazione all’oltraggio alla salma di papa Mastai avvenuto nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1881. 55 Dovrebbe trattarsi di Francesco Azzurri (1827-1901), che dal 1880 era presidente dell’Accademia di S. Luca, cfr. B. ST. [= B. STÖTZNER], Azzurri, Francesco, in Saur Allgemeines Künstler-Lexikon. Die bildenden Künstler aller Zeiten und Völker, VI, München – Leipzig 1992, p. 81. 56 Sulle sale che facevano parte dell’Appartamento Borgia e che nel 1897 erano «annesse al quartiere della Guardie Nobili», EHRLE – STEVENSON, Gli affreschi del Pinturicchio cit., p. 75: «Esse sono collocate l’una dietro l’altra precisamente a mezzodì della sala IV, congiungendo il palazzo di Nicolò V colla sala Ducale».
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trovai in presenza di una stupenda decorazione con cui erano stati ricoperti i grossi cinque travi che rendevano estremamente solido il soffitto, precauzione molto probabilmente voluta dallo stesso Pontefice dopo lo spavento provato dal crollo di altro soffitto, dal quale poté miracolosamente salvarsi57. In seguito verificai che per ingrandire il gabinetto intermedio alle due stanze, si era demolito il muro di divisione con la stanza da letto, e ricostruito sotto uno dei grandi travi, lasciando fortunatamente intatte le decorazioni quantunque deteriorate. Queste decorazioni, erano fatte con uno stucco speciale, ed il maggior deterioramento appariva prodotto da un principio d’incendio, perché annerite e completamente distorte, causato da un grande camino situato nella parete di contro alle finestre. Non meno danneggiato era il soffitto in legno con gli scomparti a cassettoni della prima stanza. Affidai al Cav. Danti58 il restauro di questi due soffitti che condusse a compimento con vera maestria e col plauso di tutti gli intelligenti. In seguito, essendosi ventilato il progetto di annettere quelle sale a quelle già restaurate, incaricai il Cav. Danti di esaminare se nelle pareti vi fosse, sotto ripetute imbiancature, qualche traccia di dipinto. Fu così scoperta una decorazione architettonica nelle pareti, ma molto mal ridotta, ed altra negli sguinci delle finestre di un’epoca posteriore, sempre però di buona fattura. Le decorazioni delle finestre furono restaurate, alle pareti fu deciso di applicare una stoffa. Dopo il restauro generale delle grandi sale fu deciso di ammettervi il pubblico, restituendo così all’ammirazione una insigne opera d’arte. Per la esposizione a nord delle finestre delle sale Borgia, le pitture rimanevano ben poco visibili, specialmente nelle giornate invernali. Ciò mi indusse a studiare se fosse stato possibile supplire con la luce elettrica, se non per la visita del pubblico, data la limitata potenzialità dell’officina elettrica, almeno per le straordinarie circostanze. Non era possibile fare delle applicazioni nelle pareti, né di servirsi del piccolo aggetto della cornice di marmo all’imposta delle volte, perché le lampade, anche a gruppi, non avrebbero dato un’illuminazione uniforme. Mi decisi a collocare le lampade nel centro delle sale. Feci costruire dei semplici piatti di lamiera aventi un bordo sagomato di altezza tale da nascondere la lampada. Questi erano sorretti da catene in ferro fissate in punti opportunamente scelti nelle volte. Le lampade erano disposte orizzontalmente nei piatti; i piatti stessi e le catene furono patinati in modo da farli apparire oggetti antichi. Dovendo però le lampade rimanere 57 L’incidente avvenne il 29 giugno 1500, nella festa dei ss. Pietro e Paolo. Nella narrazione di Sigismondo de’ Conti, «il papa disponevasi a dare udienza allorquando improvvisamente essendo il cielo sereno imperversò una tempesta così violenta che tolse via come paglia leggera il tetto solidissimo della sala papale superiore, nella quale erano appesi i ritratti dei successori di S. Pietro dichiarati santi. Insieme rovinò anche la parte del soffitto della stanza dove sedeva Alessandro VI, il quale fu salvato dalla precipitosa caduta dei muri per mezzo di una trave che rimase infissa alla parete: dalla polvere poi lo riparò un arazzo tessuto in oro che stava disteso sopra il trono», L. von PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo […], III: Storia dei Papi nel periodo del Rinascimento dall’elezione di Innocenzo VIII alla morte di Giulio II […], Roma 1932, p. 524. 58 Giuseppe Danti, già ricordato supra a proposito di un restauro nella Sala del Pappagallo; si trattava di un restauratore nel quale Mannucci riponeva particolare fiducia e che cita spesso; comparirà a fianco del sotto-foriere ancora nel 1928; cfr. MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 13, 55-56, 111, 123; e infra.
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occultate, era evidente che le volte e le pareti fino all’altezza di circa 2 metri erano bene illuminate. Rimaneva oscura la parte inferiore delle pareti, e la sala stessa. Vi rimediai, mettendo in ogni sala due potenti lampade sostenute da tripodi, in ferro, fatti costruire appositamente. Questi completavano l’illuminazione della parte bassa delle pareti e dell’ambiente, con minore intensità: tuttavia ciò contribuì molto al miglior risultato dell’illuminazione superiore, che permise di godere la vista delle pitture, come forse non era mai avvenuto, ed a rendere meno gravosa l’attesa di coloro che, o per affari o per visita, si recavano dall’eminentissimo Segretario di Stato per tutto il tempo in cui fu costretto a tenere in quelle sale il suo ufficio al principio del pontificato di Pio X59. La Biblioteca Vaticana ottenne, in cambio delle sale Borgia, l’ampio locale dell’Armeria, che si poté congiungere con la Biblioteca stessa mediante una nuova scala costruita nell’angolo del cortile della Stamperia60. Poco più tardi il S. Padre ricevette in eredità la celebre Biblioteca Barberini con gli artistici scaffali in noce61. Mi fu dato l’incarico di proporre il locale ove sistemarla e di curarne il trasporto, e la relativa sistemazione. Per il posto proposi una parte dello studio del mosaico, che era immediatamente adiacente alla nuova biblioteca di consultazione, avente uno sviluppo di pareti tale da potervi collocare gli scaffali senza sensibile alterazione62. Il mio progetto fu pienamente approvato ed il trasporto fu organizzato in modo che man mano si venivano sistemando gli scaffali, vi si collocavano i libri trasportati seguendo l’ordine nel quale si trovavano nell’antica biblioteca63.
Dunque, si direbbe che all’origine di tutto vi sia una quasi casualità di eventi. Lo sgombero delle Sale Borgia, il trasferimento dei volumi nell’Armeria, nella sala sottostante il Salone Sistino (e quindi la nascita, a ope59 All’inizio del pontificato di Pio X, le Sale Borgia furono dunque per un certo periodo sede dell’ufficio del nuovo cardinale segretario di Stato Rafael Merry del Val. La chiusura delle Sale provocò qualche mugugno. Il Capitan Fracassa del 4 novembre 1903 pubblicò la lettera di uno «Scampolino»: «Là [scil.: nella Città Leonina] si pensa a distruggere quel po’ di bene che ha fatto Leone XIII. Si chiudono le Sale Borgiane (riattate dal papa defunto per farle godere al pubblico) per adibirle a nuovo appartamento del neo-Segretario di Stato Merry del Val» [Arch. Bibl. 182, f. 28v; P. VIAN, Un discusso incendio nella Vaticana di un secolo fa, in Strenna dei Romanisti 63 (2002), pp. 673-693: 677]. Il gioco di contrapporre il nuovo papa al defunto (che pure in vita veniva bistrattato) non è dunque solo recente. 60 FARINA, «Splendore Veritatis » cit., p. 315. 61 La biblioteca e l’archivio Barberini furono acquistati nel 1902 dalla Santa Sede per la Biblioteca Vaticana per la somma complessiva di 525.000 lire. «Insieme a manoscritti, stampati e documenti vennero trasportati in Biblioteca anche gli scaffali e arredi lignei opera di Giovanni Battista Soria (1581-1651), attualmente ricomposti al primo piano della Biblioteca in una sala che corre parallela alla Sala di consultazione dei periodici», Guida ai fondi manoscritti, I, cit., pp. 338-339 (con ulteriore bibliografia). 62 Lo Studio del mosaico si trovava nella parte superiore del Braccio di Giulio II o «corridore di levante», all’altezza e in prossimità dell’attuale Sala Leonina; al pianoterra si trovavano le scuderie; cfr. anche infra. 63 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 52-57.
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ra di padre Ehrle, della «biblioteca di consultazione» nella neonata Sala Leonina), sarebbero partiti da una banale caduta di intonaco, che avrebbe rivelato le pitture sottostanti dando a Ciccolini l’idea di un restauro complessivo. Si deve prendere atto di questa ricostruzione, che rispetto a molte altre (tutte teleologiche, perché dominate dal fine ultimo dell’intera operazione) ha il merito della veridicità della prosaica quotidianità64. La caduta dell’intonaco attivò dunque una sorta di «effetto domino» e uno spostamento che ne mise in moto altri. Ma certamente, se casuale fu l’origine del processo, i tempi erano maturi per certe scelte, che coincidevano con la politica generale del pontificato. Perché il clima nuovo si respira in mille, grandi e piccole vicende. Quando Mannucci presentò alla Commissione cardinalizia relazioni allarmate sullo stato delle capriate in legno della Cappella Sistina (che andavano sostituite con capriate in ferro) e sui distacchi negli intonaci della volta, Leone XIII, «in considerazione della grandissima e mondiale importanza del monumento, ordinò che si istituisse una Commissione internazionale, presieduta dal Prefetto dei Sacri Palazzi, composta del Foriere Maggiore, dei tecnici dell’Ammne Palatina, del Presidente dell’Accademia di S. Luca e dei Presidenti delle Accademie estere residenti in Roma. Questa Commissione doveva prendere cognizione dello stato delle pitture di Michelangelo,
64
Mannucci fu comunque subito coinvolto nel progetto di trasferimento degli stampati dall’Appartamento Borgia e nei programmi di rinnovamento ambientale della Biblioteca Vaticana. Come ricorda la cronaca della Vaticana di quegli anni: «Marzo 7 [1891]: L’Eminentissimo Cardinale Segretario di Stato ha oggi convocato nei suoi appartamenti S.E. il Maggiordomo dei SS.PP.AA. [scil.: mons. Luigi Ruffo-Scilla, cfr. La Gerarchia Cattolica […] per l’anno 1891 cit., p. 460], il Sottobibliotecario della Vaticana addetto agli Studî [scil.: Giuseppe Cozza-Luzi], il Reverendissimo 1°. Prefetto della medesima [scil.: Stefano Ciccolini], il P. Ehrle membro straordinario del Congresso direttivo della Biblioteca stessa, il Rev. Venzel Sotto Archivista [scil.: Pietro Wenzel, primo custode dell’Archivio Vaticano, ibid., p. 476], ed il Sig. Mannucci Sottoforiere dei SS.PP.AA. per discutere intorno a nuovi locali da assegnarsi alla Vaticana ed allo Archivio. Discussi i progetti di trasferire la sala di studio della Biblioteca o nell’attuali sale della Tipografia, o nelle attuali Scuderie pontificie, hanno stabilito di recarsi sul luogo prima di prendere qualsiasi determinazione. id. 8: I suddetti si sono portati alle nuove sale (antica armeria) che si stanno apparecchiando pei libri stampati della Biblioteca, ed hanno determinato potersi aggiungere all’Archivio il tratto di dette sale attiguo al medesimo, e al grande ingresso del nuovo locale, e potersi apprestare alla sinistra dello stesso ingresso una nuova stanza per lo studio. L’Eminentissimo Segretario di Stato [scil.: card. Mariano Rampolla del Tindaro] ha dato incarico al Sig. Mannucci di fare preparare i necessarî preventivi», Arch. Bibl. 115, pt. A, f. 7r. Mannucci in seguito organizzò praticamente e realizzò, sotto la direzione di Ehrle, il trasporto dei 250.000-300.000 volumi dall’Appartamento Borgia alla sala dell’Armeria, in quattordici giornate di lavoro di quindici operai, dal 25 maggio all’11 giugno 1891; la nuova Sala di consultazione venne inaugurata il 23 novembre 1892, cfr. FARINA, «Splendore Veritatis» cit., pp. 316-317.
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discutere i provvedimenti da adottarsi e dare anche il parere sui lavori proposti per il rinnovamento del tetto»65. La fiducia di Leone XIII nei confronti di Mannucci e lo stretto legame che li legava appaiono evidenti66. Al sotto-foriere il papa affidò l’«assistenza tecnica nelle sue proprietà in Carpineto Romano sua città natale»67. Per portare l’acqua potabile nelle abitazioni Mannucci visitò una sorgente indicata dal papa; ma quando questa si rivelò troppo lontana dall’abitato (e per di più in un terreno che non era di proprietà dei Pecci) si ripiegò, su suggerimento di padre Secchi, sul progetto di raccogliere l’acqua di sorgenti nel territorio di Carpineto in serbatoi scavati nella montagna (il papa seguì il progresso dei lavori attraverso fotografie proiettate «nella sala del Concistoro alla grandezza naturale»)68. Ancora Mannucci, insieme all’archiatra personale del papa, Giuseppe Lapponi69, si occupò della trasformazione di un fabbricato di proprietà del papa in un «ospedale per donne». Mannucci seguì e controllò i lavori, condotti dall’«ing. Olivieri», e rassicurò il papa, al quale giungevano voci malevole su ritardi ed errori commessi nei lavori per l’acqua70. Leone XIII, che in giovinezza amava trascorrere tempo e persino andare a caccia a Carpineto in «un magnifico bosco di castagni»71, in Vaticano prediligeva (quando poteva) passeggiare e sostare nei Giardini72. Mannucci (che spesso accompagnava il papa nel65
MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 63-67. Il brano citato è alle pp. 64-65. Mannucci fu ripetutamente ministro della carità del papa. Nel settembre 1884 papa Leone temeva che l’epidemia di colera scoppiata a Ventimiglia si propagasse alla città di Roma e Mannucci si occupò dell’allestimento nel palazzo dei beneficiati di S. Pietro di un lazzaretto; ma l’epidemia non si diffuse e l’edificio fu in seguito utilizzato per pellegrinaggi, MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 30-32. 67 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 67. Per l’intero capitolo, dal quale sono tratte anche le frasi citate che seguono, ibid., pp. 67-71. 68 Sui lavori a Carpineto, in particolare per distribuire l’acqua potabile, cfr. S. NEGRO, Papa Pecci nel suo giardino, in ID., Vaticano minore cit., pp. 164-184: 168-169. Anche all’inizio del pontificato di Pio X, nell’appartamento privato, alla presenza del papa, Mannucci proiettò fotografie e vedute e per due volte trattò argomenti scientifici con fotomicrografie e fotografie celesti da lui eseguite alla Specola Vaticana, MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 102. 69 Giuseppe Lapponi (1851-1906), medico privato di Leone XIII e di Pio X, cfr. La Gerarchia Cattolica, la famiglia e la cappella pontificia per l’anno 1890 […], Roma 1890, p. 575. La sua biblioteca fu in seguito acquisita dalla Biblioteca Vaticana e si trova ora per buona parte nel fondo R.G. Medicina, cfr. Guida ai fondi manoscritti, II, cit., p. 849. 70 Come faceva con i suoi segretari, Leone XIII si mostrò gentilmente ma implacabilmente esigente, chiedendo a Mannucci di recarsi a Carpineto anche durante una sindrome influenzale del sotto-foriere, MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 70; NEGRO, Papa Pecci nel suo giardino cit., p. 168. 71 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 69. 72 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 72-76. Dalle pagine del capitolo le citazioni che seguono. Per la piccola residenza estiva allestita per Leone XIII a ridosso dell’attuale Torre della Radio, ma anche per il roccolo e la vigna, E. BONOMELLI, I papi in campagna, 66
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le passeggiate per ricevere tutte le indicazioni delle opere da eseguire) fu quindi investito dell’incarico degli abbellimenti, con «piantagioni di alberi per ombreggiare i viali» e «costruzione di luoghi di riposo». L’archiatra Alessandro Ceccarelli73 «vagheggiava l’idea che il S. Padre potesse almeno per qualche giorno interrompere la vita ordinaria nell’unica stanza del suo appartamento»; fu a tal fine adattato il casino di Pio IV74 ma per l’abbassamento di temperatura serale fu in seguito abbandonato a favore di un’«ampia sala rotonda» nella torre di Leone IV, «la gemella di quella ove era stato collocato l’equatoriale per la fotografia del cielo»75. Mannucci fece addirittura adornare da Ludovico Seitz la calotta sferica della sala con la volta celeste con la costellazione del Leone (con chiara allusione al nome del papa); e segnò i luoghi delle stelle principali con lampadine elettriche «la cui accensione veniva fatta con una piccola batteria di accumulatori». «Piacque al Santo Padre l’idea di aver decorato la volta con la costellazione del Leone, e la sorpresa dell’accensione delle stelle principali»76. Ancora Mannucci, col pittoresco «Maestro Raffaele» (un accorto e parsimonioso contadino che dava del «tu» al pontefice), si occupò della celebre vigna, alla quale papa Leone teneva moltissimo (ma dalla quale anche le guardie sottraevano grappoli)77. Insomma, le benemerenze di Mannucci agli occhi di papa Pecci legittimarono pienamente il «bravo Mannucci» che il ponprefazione di S. NEGRO, Roma 1953 (La nave d’Ulisse, 7), pp. 329-349; NEGRO, Papa Pecci nel suo giardino cit., pp. 164-184; A. CAMPITELLI, Gli horti dei papi. I giardini vaticani dal Medioevo al Novecento, Città del Vaticano – Milano 2009 (Monumenta Vaticana selecta), pp. 223-228; A. CAMPITELLI, I Giardini Vaticani, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 237-277: 248-249, 268-269, 271. Fotografie della torre e dello chalet di Leone XIII e della camera da letto all’interno della torre in NEGRO, Vaticano minore cit., tavv. 32-33. 73 Alessandro Ceccarelli, chirurgo privato di Leone XIII, cfr. La Gerarchia Cattolica […] per l’anno 1890 cit., p. 575. 74 La Casina di Pio IV (così denominata per quanto avviata a realizzazione dal suo predecessore Paolo IV, dal 1558, su progetto di Pirro Ligorio) è collocata a est della fontana dell’Aquilone ed è parallela, verso sud, al Giardino Quadrato; REDIG DE CAMPOS, I Palazzi Vaticani cit., pp. 145-146; SIMONATO, Il Palazzo Apostolico Vaticano cit., p. 164; CAMPITELLI, Gli horti dei papi cit., pp. 77-119; CAMPITELLI, I Giardini Vaticani cit., pp. 241-242, 261-267. 75 Si tratta della Torre della Radio. Sulla «palazzina della villeggiatura canicolare, non priva di uno chalet medievaleggiante, chiamato il Caffè Amos, con nome caratteristicamente ottocentesco, perché il Papa amava prendervi il caffè durante le sue conversazioni», addossato alla torre, CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., pp. 6-7; CAMPITELLI, I Giardini Vaticani cit., pp. 248-249, 268-269. Cfr. anche supra, ntt. 5, 72. 76 Cfr. NEGRO, Papa Pecci nel suo giardino cit., pp. 177-178. In G. STEIN, La Specola Vaticana, in L’illustrazione vaticana 2 (1931), nr. 18, 30 settembre, pp. 13-18: 15, sono pubblicate alcune fotografie degli affreschi della volta del museo astrografico. 77 Una mattina Mannucci fu convocato dal papa che lo fece passare avanti a tutti quelli che attendevano di essere ricevuti in udienza; il sotto-foriere pensò a «qualche cosa di grande urgenza»; ma soggetto del colloquio era ancora la vigna, a proposito della quale Mannucci indagò per prevenire misteriosi furti di grappoli. Sulla vigna di papa Leone, cfr. MANNUCCI,
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tefice riservò un giorno al sotto-foriere78 e che sicuramente lo ripagò dei mille nemici che contemporaneamente si creava. Uno fra i tanti, il card. Gaetano Aloisi Masella, prefetto della Congregazione dei Riti e pro-Datario, che, in disaccordo con Mannucci per alcuni interventi nella basilica di S. Pietro in vista delle beatificazioni e delle canonizzazioni dell’anno santo del 1900, fu sentito esclamare: «Mannucci me la pagherà»79. 6. Nonostante i rimbrotti e le insistenti sollecitazioni, il pontificato di Leone appare per molti versi l’epoca d’oro per Mannucci, che era stato nominato dal papa di Carpineto e che da lui aveva ricevuto incarichi, riconoscimenti e soddisfazioni. Dopo la morte del pontefice80, Mannucci fu architetto del conclave del luglio-agosto 1903; e in queste vesti sventò un piano per violare la segretezza del conclave e per far giungere all’esterno segnalazioni attraverso giornali appositamente contrassegnati81. Ma proprio all’inizio del pontificato di Pio X82 avvenne un episodio che avrebbe potuto avere gravi conseguenze per la Biblioteca Vaticana e che, di fatto, innescò una politica (sino allora trascurata) di più attenta sorveglianza e prevenzione83. I miei quarantasette anni cit., pp. 73-75; ma cfr. anche CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., p. 6; e supra, nt. 72. 78 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 71. L’apprezzamento fu formulato al termine di un colloquio che aveva riguardato i lavori condotti a Carpineto. 79 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 63. Mannucci, con l’autorizzazione del segretario di Stato card. Mariano Rampolla del Tindaro, aveva ordinato di non accendere le «due o tre corone di lampadari a candele che sovrastavano l’altare» «attorno alla Gloria del Bernini» al di sopra della Cattedra di Pietro, per evitare che la caduta di una candela provocasse un incendio che avrebbe messo a rischio anche l’incolumità del papa. Gaetano Aloisi Masella (1826-1902; dal 1889 prefetto della Congregazione dei Riti), «all’entrare in basilica con la processione, rimase malamente impressionato nel vedere al buio la Gloria del Bernini». Dopo l’immediata reazione, il cardinale «fece un reclamo a mio riguardo presso il S. Padre, che era stato prevenuto di tutto, il quale gli rispose: “Ciò che ha fatto Mannucci, lo ha fatto per la sicurezza della mia persona ed ha fatto bene”». Solo parecchi anni dopo, in occasione della beatificazione di Giuseppe Cottolengo (29 aprile 1917), Mannucci, «per l’illuminazione della Cattedra, invece dei lampadari», provò «l’illuminazione riflessa, col rendere splendente tutta la decorazione della Gloria che feci precedentemente ripulire. Questa innovazione riuscì di grande effetto, col mettere in evidenza ogni minimo dettaglio di quella meravigliosa composizione». 80 Il breve resoconto della malattia e della morte del papa (preceduta da quella, improvvisa, del suo fedele segretario e latinista Alessandro Volpini) in MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 77-81. Da confrontarsi con quanto scritto, per esempio, in CRISPOLTI, Pio IX cit., pp. 30-39. 81 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 79-81, non precisa a favore di chi fosse stato congegnato il piano; forse della stampa, già allora invadente e pervasiva. 82 Nei primi mesi del pontificato Mannucci si occupò del riadattamento degli appartamenti del papa e del segretario di Stato, MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 82-84. 83 Sull’incendio del 1° novembre 1903 (per il quale Mannucci non indica data precisa ma
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Il primo anno del pontificato di Pio X fu funestato da un grave incidente quale l’incendio di una vasta soffitta sovra il museo Chiaramonti84, ed adiacente immediatamente alla sala di Sisto V della Biblioteca Vaticana85. Il Prefetto della Biblioteca P. Eherle [sic], aveva assunto nella qualità di restauratore, un tal Marrè86 di straordinaria abilità, il quale non era riuscito ad ottenere un posto in una biblioteca governativa, quantunque avesse ottime referenze e ben documentata la sua abilità87. Il Prefetto, per tenerlo sempre a sua disposizione, gli aveva procurato l’alloggio in una camera prossima alla grande soffitta adiacente al sottotetto della sala Sistina, divisa da questa da un ripiano di scala. Egli possedeva una quantità di stampe, alcune delle quali di valore, e ne aveva riempiuta la soffitta: di circa 20 m. di lunghezza88. Essendo solo prendeva i pasti fuori di casa, molte volte però per economia conservava la sua cena nella soffitta, in una stufa collocata nel mezzo di essa: era però molto famigliare col vino, e qualche volta ritornava in casa non padrone di sé. Tornando a casa una sera alquanto alticcio nel ricercare i cerinetti che teneva prossimi alla detta stufa, e nell’accendere il lume deve aver causato l’incendio col gettare in terra il cerinetto non ancora spento. Infatti poco si limita a un riferimento generico), cfr. VIAN, Un discusso incendio cit., con la segnalazione di ulteriore bibliografia (pp. 692-693). 84 Il Museo Chiaramonti, collocato nel corridoio orientale del cortile della Pigna, fu allestito da Pio VII per ospitare oggetti di scultura, architettura, pittura raccolti per compensare le perdite avvenute nel Museo Pio-Clementino con le depredazioni francesi, P. LIVERANI, Museo Chiaramonti, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 318-320. 85 Sull’incendio scoppiato la sera del 1° novembre 1903, Mannucci scrisse una relazione, datata 6 novembre 1903, Arch. Bibl. 182, ff. 3r-8v [cfr. Appendici. I. La relazione di Mannucci sull’incendio del 1° novembre 1903 (6 novembre 1903)]. Di poco successiva deve essere la lettera (probabilmente di Ehrle) al card. Rafael Merry del Val, segretario (o pro-segretario) di Stato, riguardante le proposte di Mannucci e i provvedimenti da eseguire dopo l’incendio (il testo, presente in copia, è mutilo e non presenta datazione), ibid., ff. 16r-19r. Già precedentemente Mannucci aveva sottolineato la pericolosità della vicinanza di ambienti della Zecca alla Biblioteca, scrivendo a Ehrle anche a proposito dell’incendio scoppiato il 18 gennaio 1894 in locale della Zecca adiacente alla Biblioteca e di altro incendio, non datato, ibid., ff. 141r-141ar. 86 Carlo Marrè compare per la prima volta nella documentazione vaticana nel febbraio 1896 e dal 1897 nel registro del personale come «restauratore di codici»; era molto stimato da Ehrle che riteneva superasse per abilità e perizia tutti gli altri restauratori incontrati in altre biblioteche. Figura non priva di singolarità, solitaria, restìa a comunicare agli altri i «segreti del mestiere», Marrè lavorava contemporaneamente anche per altre biblioteche, come la Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma. Lasciò la Vaticana e Roma dopo l’incendio del 1° novembre 1903, prima con un permesso di tre mesi, poi definitivamente. Il 18 dicembre 1904 gli fu affidata la responsabilità del laboratorio di restauro della Biblioteca Nazionale di Torino e vi lavorò sino alla morte, nel 1918, cfr. Á. NÚÑEZ GAITÁN, Los albores del laboratorio de “restauración de códices” de la Biblioteca Vaticana. Franz Ehrle y sus colaboradores (18951914), in Studi in onore del cardinale Raffaele Farina, II, a cura di A. M. PIAZZONI, Città del Vaticano 2013 (Studi e testi, 478), pp. 789-809: 796-802, 807. Precedentemente, VIAN, Un discusso incendio cit., passim. 87 La notazione di Mannucci, per quanto maliziosa, non pare infondata, soprattutto alla luce degli eventi che seguirono. 88 Potrebbe trattarsi dell’attuale soffitta ancora a disposizione del prefetto della Biblioteca Vaticana, a poca distanza dal suo appartamento.
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dopo il tramonto fu veduto dalla piazza del Risorgimento che dal tetto della soffitta uscivano lunghe fiamme; furono avvertite le guardie del fuoco che unitamente alla squadra specializzata dei gendarmi si recarono sul luogo. Quando io vi giunsi constatai che la soffitta era una voragine e non mi rimase che circoscrivere l’incendio. Il Marrè dormiva tranquillamente nella sua camera; l’incendio per le proporzioni raggiunte si presentava spaventoso, ma non mi dette seria preoccupazione perché avveniva sovra una grossa volta. Il Segretario di Stato89, che venne sul posto, credette opportuno di chiedere l’intervento dei vigili municipali, i quali vennero immediatamente col loro comandante: questi gentilmente si mise a mia disposizione; accorse pure il Sindaco di Roma, principe Colonna90. Per togliere il brutto effetto che producevano all’esterno le fiamme, alimentate dagli oggetti che esistevano nella soffitta, pregai il comandante che l’inondasse con la pompa a vapore. Appena potei accertarmi che non vi era più nulla a temere per la Biblioteca, mandai persona che rassicurasse pienamente il S. Padre, il quale molto preoccupato, da una finestra del suo appartamento osservava l’incendio91. Frattanto il Marrè si era destato al rumore che si faceva attorno alla sua stanza, e come nulla fosse avvenuto, passò nella sala di studio mettendosi a dormire sovra uno dei banchi. Dalle osservazioni fatte dalla soffitta, dopo che fu possibile penetrarvi, mi resi ragione della causa dell’incendio. Come ho detto, il Marrè conservava la sua cena nella stufa situata nel mezzo della soffitta. Fra le sue eccentricità vi era quella di conservare in diverse scatole un’enorme quantità di fiammiferi di tutte le specie; ne furono trovate infatti alcune non incendiate perché bagnate. Egli tornato a casa si deve essere occupato subito di prendere la sua cena, come ho accennato, e, per l’oscurità deve aver usato gli zolfanelli che aveva a portata di mano e che senza riflettere, non spenti, deve aver gettato fra le carte. Un altro incendio avvenne una sera nella sala delle macchine della Zecca92; fui 89 In realtà nella serata del 1° novembre 1903 (ma si noti che anche in questo caso Mannucci non indica date precise ma si limita a un rinvio generico al «primo anno del pontificato di Pio X») accorse Rafael Merry del Val che dal 4 agosto era pro-segretario di Stato e raggiunse la pienezza del titolo solo il 12 novembre. Il card. Rampolla del Tindaro, molto vicino alle vicende della Biblioteca nell’ultima fase del pontificato leonino, era decaduto dalla carica di segretario di Stato il 20 luglio, con la morte di papa Pecci, cfr. G. DE MARCHI, Le nunziature apostoliche dal 1800 al 1956, Roma 1957 (Sussidi eruditi, 13), p. 14. 90 Prospero Colonna (1858-1937), sindaco di Roma dal dicembre 1899 all’ottobre 1904; cfr. F. BARTOCCINI, Colonna, Prospero, in Dizionario biografico degli italiani, XXVII, Roma 1982, pp. 428-432; EAD., Roma nell’Ottocento. Il tramonto della «città santa», Bologna 1985 (Storia di Roma, XVI), pp. 564, 621, 632, 732. A proposito di chi chiamò i pompieri italiani cfr. infra, nt. 200. 91 L’abitudine di Pio X di osservare l’esterno dalle finestre del Palazzo Apostolico è rilevata da C. BERTINI, Ai tempi delle guarentigie. Ricordi di un funzionario di polizia (1913-1918), Roma 1932, pp. 82-83. 92 L’incendio alla Zecca si verificò il 18 gennaio 1894, come Mannucci ebbe modo di precisare in lettera a Ehrle, dalle Stanze del Vaticano, 9 marzo 1900 (Arch. Bibl. 182, ff. 141r-v, 141ar). L’edificio era (ed è) affacciato sulla piazza del Forno, dunque in prossimità del Braccio di Pio IV (o «corridore di ponente») e quindi vicinissimo alla Biblioteca che allora si estendeva con le sue «gallerie» lungo tutto il «corridore». Sotto Leone XIII la zona della Zecca, un rustico villaggio dall’edilizia assai modesta destinata agli addetti ai servizi dei papi,
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avvertito subito dalle nostre guardie del fuoco, mi recai sul luogo e dall’esterno vidi la gravità del pericolo che avrebbe corso l’adiacente parte della Biblioteca se l’incendio avesse preso vaste proporzioni. Mi dissero che erano stati chiamati i vigili della città, ma io feci mettere intanto un tubo nella prossima bocca d’incendio sulla conduttura dell’ascensore, e mediante una scala posta innanzi a una delle finestre della sala si poté, col potente getto d’acqua limitare e quindi domare completamente l’incendio. Giunsero i vigili della città, ma forse non bene avvertiti, con mezzi affatto insufficienti. Potei giudicare della gravità del pericolo corso dalla Zecca quando ricevetti una lettera di ringraziamento dal Ministero del Tesoro93.
Va notato che Mannucci non ha alcuna remora ad attribuire la responsabilità dell’accaduto al restauratore Marrè, in qualche modo «coperto» nelle diverse ricostruzioni immediatamente formulate e poi in quelle successive, con evidenza per non colpire il prefetto Ehrle, che del bizzarro e poco sobrio restauratore «di straordinaria abilità» era il patrono e protettore. Mannucci non manca di segnalare la collaborazione nell’emergenza fra le guardie del fuoco vaticane e i vigili municipali: forse prove tecniche di Conciliazione ante litteram, ma anche occasione di confronti e possibili scontri e frizioni fra le autorità che si fronteggiavano sulle due rive del Tevere. La più stretta sorveglianza da parte dei vigili originata dall’incendio, con ispezioni pomeridiane nei locali della Biblioteca, permise talvolta di accorgersi di studiosi inavvertitamente rimasti chiusi dentro94. Da ritenere infine l’immagine di Pio X che dalle finestre del Palazzo Apostolico osserva, preoccupatissimo, l’incendio95. era divenuto il confine fra lo Stato italiano e il Vaticano (la vecchia Zecca vaticana continuò fino al 1912 a battere moneta per lo Stato italiano) e «non era raro ai primi del XX secolo veder passeggiare lungo la stessa strada le guardie svizzere del papa alternate ai finanzieri o ai bersaglieri del regno», FONTI, Dalla cittadella del papa alla Città del Vaticano cit., p. 17. Per i principi di incendi in questa zona densamente popolata, cfr. supra. Un accenno alla Zecca in S. NEGRO, Il più piccolo Stato, in ID., Vaticano minore cit., pp. 48-72: 66. 93 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 85-87. Ma l’evento del 1° novembre 1903 non dovette essere unico: Mannucci accenna a «pericolo di incendio» che «più di una volta si verificò nei locali della Biblioteca», ibid., p. 105. 94 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 105-106. 95 Quello degli incendi deve essere stato un soggetto che ha preoccupato molto e costantemente Mannucci, quasi ossessionandolo per i pericoli che ne sarebbero derivati nel piccolo mondo Vaticano. Lo si deduce anche da un aneddoto raccontato da Carlo Confalonieri, segretario particolare di Pio XI, risalente ai primi anni del pontificato. Per distruggere alcuni documenti, considerati inutili e da non conservare, Confalonieri e l’altro segretario particolare del papa (Diego Venini) fecero ricorso a «un antico e ormai dimenticato forno esistente nei Soffittoni del palazzo, sopra la terza loggia, e là, sotto i coppi, in un pomeriggio d’estate, mezzo asfissiati dal fumo, dal calore e dall’afa, fedeli esecutori espletarono il sovrano mandato. Non si accorsero però del filo di fumo che, uscendo dalla canna, faceva la spia. Dalla sua dimora nell’angolo opposto del cortile, il vecchio ingegner Mannucci, sottoforiere dei Palazzi Apostolici, e, a tempo libero, aiuto-astronomo e dilettante filosofo, vide a un certo momento quel pennacchio insolito: dubitò, aguzzò gli occhi sotto i grossi occhiali cerchiati
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7. Dopo aver trattato dell’incendio degli inizi di novembre 1903, proprio all’esordio del pontificato di Pio X96, Mannucci fa uno salto cronologico e torna all’indietro ricordando un evento che invece si colloca alla fine del pontificato di Leone XIII, l’acquisto della Biblioteca Barberini (alla quale però aveva già accennato, trattando della liberazione delle Sale Borgia dalla presenza degli stampati), avvenuto nel 1902. Un successo di padre Ehrle che, dopo l’acquisto nel 1891 della Biblioteca Borghese, assicurava alla Santa Sede un’altra, importantissima biblioteca «papale», cioè creata e alimentata da papi, cardinali e prelati spesso nell’esercizio delle loro funzioni. Anche nella vicenda Mannucci ebbe un ruolo, occupandosi del trasferimento dei manoscritti e degli stampati e del loro insediamento: Il P. Ehrle, prefetto della Biblioteca Vaticana97, conoscendo il valore della biblioted’oro, temette chissà che diavoleria, forse un principio d’incendio, e dette l’allarme. Ma, come avviene spesso nella confusione degli ordini improvvisi, cerca e ricerca, non si trovarono le chiavi e quelle capitate tra mano non andavano bene; così che le guardie del fuoco, lanciate come segugi contro la preda, arrivarono sul posto quando i rei del misfatto, al tutto ignari di quel trambusto, si erano già ritirati in buon ordine per altra via, leccandosi le dita per il bruciore delle scottature», CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., p. 152. Ove si deve rilevare, appunto, l’insistente attenzione di Mannucci ai pericoli del fuoco in Vaticano ma anche il tono quasi di ironico compatimento riservato al vecchio sotto-foriere da parte dello stretto entourage del papa. Una conferma che il pontificato di papa Ratti non poteva che risultare esiziale per Mannucci. Nei primi anni del suo mandato di sotto-foriere Mannucci assunse la direzione delle «guardie del fuoco» vaticane e ne riformò «il piccolo corpo con elementi idonei», cfr. MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 17. 96 Sempre nei primi tempi del suo pontificato, nel 1904, Pio X diede a Mannucci l’incarico di allestire «un conveniente alloggio nell’appartamento papale» per il segretario di Stato Merry del Val, BONOMELLI, I papi in campagna cit., p. 348. I rapporti personali di Mannucci col nuovo pontefice erano anche agevolati dalla comune amicizia di entrambi con Lorenzo Perosi, MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 114-115. 97 I rapporti di Mannucci con Ehrle risalivano almeno agli inizi della prefettura del gesuita e proseguirono nel corso degli anni; cfr. le lettere di Mannucci a Ehrle dell’11 luglio 1895 (per la consegna delle chiavi dell’appartamento del primo custode), del 3 ottobre 1895 (a proposito di tre armadi del Medagliere e per altri lavori), del 6 novembre 1891 (per spese per finestre della «nuova Biblioteca», cioè la biblioteca Leonina); Arch. Bibl. 218, pt. B, f. 355r; 75, f. 144r-v; 189, pt. A, f. 48r. Ma potrebbe riferirsi a Mannucci un accenno in lettera di Ehrle a Mercati, Roma, 6 agosto 1911 (date del timbro postale sulla busta): «I lavori danno le solite noie. L’ottimo Comm. Ma. non vuol fare ciò che esigono quelli di Strasburgo» (Biblioteca Vaticana, Carteggi Mercati, cont. 18, f. 4084r-v). «Quelli di Strasburgo» potrebbe essere un riferimento alla francese Société des Forges, di Strasburgo, specializzata nella manifattura dell’acciaio, che si occupò a lungo, anche in Vaticano, dell’allestimento di scaffalature; cfr. P. VIAN, «Quell’opera personale di Pio XI bibliotecario». Una memoria di Giovanni Mercati sul trasferimento degli archivi delle chiese romane dal Braccio di Carlo Magno (24 luglio 1948), in Studi in onore del cardinale Raffaele Farina, II, a cura di A. M. PIAZZONI, Città del Vaticano 2013 (Studi e testi, 478), pp. 1143-1180: 1153 nt. 40. Ma la fondazione della ditta dovrebbe risalire al 1919 ed essere quindi successiva alla lettera di Ehrle. In lettera a Giovanni Mercati, München, 9 ottobre 1918, Ehrle trasmise, con quelli per altri, i suoi saluti a Mannucci (Carteggi Mercati, cont. 25, f. 5214v).
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ca del principe Barberini e dell’archivio di questa Casa principesca, specialmente per le memorie del pontificato di Urbano VIII, prevedendo che molto probabilmente sarebbe venuto un giorno che preziosi documenti sarebbero andati dispersi, servendosi della devozione che questa famiglia principesca professava alla S. Sede, poté ottenere che biblioteca ed archivio fossero donati al Vaticano. La biblioteca occupava nel monumentale palazzo Barberini sale appositamente costruite, ed eravi sistemata in artistici scaffali di noce massiccia. Nella Biblioteca vaticana mancava il locale adatto per accogliere non solo i volumi ma tutta la scaffalatura, che il S. Padre voleva fosse integralmente conservata. A me fu affidato l’incarico di questa sistemazione, per la quale fu accettata e approvata la proposta di annettere alla Biblioteca vaticana una parte della galleria occupata dallo studio del mosaico. Le dimensioni della galleria furono fissate in modo da potervi sistemare tutti gli artistici scaffali; il trasporto fu eseguito conservando l’ordine in cui erano collocati nella biblioteca Barberini. A questo scopo giovò molto il fatto che la biblioteca aveva le finestre su di un cortile del palazzo; da una di queste si fecero calare in basso sovra i carri i pacchi dei volumi tolti ordinatamente dagli scaffali che venivano poi rimessi negli scaffali già preparati col medesimo ordine in Vaticano98.
Dunque l’occupazione dell’attuale quarto piano del Deposito degli stampati, che proseguirà nel corso degli anni Venti e Trenta del Novecento, con la progressiva conquista degli spazi prima delle scuderie al piano terra, poi dello Studio del mosaico che sovrastava le scuderie, avviene a partire dall’accessione della Biblioteca Barberini, nel 1902, il cui «vaso» poteva essere integralmente accolto solo incominciando a occupare parte del Braccio di Giulio II («corridore di levante»), all’altezza della Sala Leonina. Un altro segno della profonda continuità delle scelte nell’occupazione degli spazi99. Abbandonata l’idea dell’edificio esterno, quella avanzata da De Rossi e Mannucci, l’unica soluzione possibile era appunto l’occupazione del Braccio di Giulio II, progressivamente in tutti i suoi piani.
98 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 112-113. Mannucci qui in parte si ripete perché aveva già accennato all’accessione della Biblioteca Barberini trattando delle Sale Borgia, cfr. supra. Un’altra prova della natura molto personale, quasi artigianale, delle sue memorie, probabilmente non sottoposte a letture e controlli di altri o anche solo a riletture dello stesso autore. 99 Per la politica dell’occupazione degli spazi, da Leone XIII in poi, cfr. VIAN, Da Leone XIII a Benedetto XVI cit. «D’un primo settore, di circa cinquanta metri, fu amputata [scil.: la Fabbrica dei mosaici] già nel 1903 per far posto alla Biblioteca Barberini entrata nella Vaticana con tutta la sua artistica scaffalatura. Peraltro il papa Benedetto XV, considerando che la biblioteca potesse svilupparsi solo da questa parte, aveva già intenzione di trasferire la Fabbrica dei mosaici in altro locale; e Pio XI nell’ordinare i primi lavori per il nuovo magazzino degli stampati, aveva prospettato parimenti di valersi di tutta quest’ala dell’edificio bramantesco», I. GIORDANI, La Biblioteca nuova e l’opera di Pio XI, in L’illustrazione vaticana 3 (1932), nr. 23, 1° dicembre, pp. 1139-1142 [quarto articolo di una serie dedicata a «La Biblioteca Vaticana»]: 1140.
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8. Sarà questa, dopo il conclave dell’agosto-settembre 1914 (che vide ancora protagonista quale organizzatore il Mannucci100) e il pontificato di Benedetto XV, che amava «stabilire da sé anche i piccoli dettagli»101, la strategia perseguita. E sarà in tale quadro che avverrà, come vedremo, la caduta di Mannucci. Ma andiamo con ordine. Durante il pontificato di Benedetto XV, per buona parte coincidente con gli anni di guerra, Mannucci stabilì i primi contatti di collaborazione con mons. Achille Ratti, che nel settembre 1914 era succeduto a padre Ehrle quale prefetto della Biblioteca Vaticana. Fu mons. Giovanni Ghezzi (il futuro autore della lettera d’apertura del volume che sarebbe poi stato sequestrato e distrutto) a presentare Ratti a Mannucci102. D’intesa con Ratti furono assunti da Mannucci i provvedimenti per la difesa della Biblioteca dalle incursioni aeree: «Sulla terrazza del fabbricato ove trovansi esposti e conservati i più preziosi codici feci costruire una solidissima intercapedine con grossi travi per formare un ostacolo, ed impedire che un proiettile potesse penetrare nell’interno»103. Dal prefetto della Vaticana, col quale aveva «frequenti conversazioni», Mannucci ebbe un deciso incoraggiamento quando gli ventilò l’idea di una «Commissione permanente, la quale avesse facoltà di associarvi anche artisti estranei affinché gli eventuali restauri ai monumenti vaticani di universale importanza, o le nuove opere artistiche da eseguirsi, non andassero soggetti a critica ma fossero quanto più possibile perfette». Nelle conversazioni con Ratti emersero allora i nomi di Gaetano Moretti e di Luca Beltrami ma il papa non accolse l’idea degli «artisti estranei» per la Commissione che alla fine risultò composta dal foriere maggiore, dall’Architetto dei Palazzi Apostolici, dal direttore e vice-direttore dei Musei Vaticani, dal direttore delle pitture, dal prefetto della Biblioteca Vaticana (ap100
MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 115-117. MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 117. Durante il pontificato di Benedetto XV si collocano, fra il 1919 e il 1922, diversi interventi di Mannucci per la modernizzazione dell’Archivio Vaticano (elettricità; riscaldamento; montacarichi per i manoscritti; macchine da spolvero; sale di ricevimento e per il card. Archivista) testimoniati nei verbali dei «congressi», cfr. S. PAGANO, Per la storia dell’Archivio Segreto Vaticano fra XIX e XX secolo. I verbali dei «congressi» (1884-1922), in Dall’Archivio Segreto Vaticano. Miscellanea di testi, saggi e inventari, VII, Città del Vaticano 2014 (Collectanea Archivi Vaticani, 96), pp. 165-259: 225, 232-233, 235, 238, 240-242, 244, 248-249, 252, 260. 102 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 136. Ratti e Ghezzi venerarono insieme la salma di Pio X morto, ibid., p. 115. 103 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 119-120. I manoscritti erano allora conservati nell’edificio che chiude, verso levante, il cortile della Biblioteca, cfr. P. VIAN, Il Dipartimento dei Manoscritti, in La Biblioteca Apostolica Vaticana luogo di ricerca al servizio degli studi. Atti del convegno, Roma, 11-13 novembre 2010, a cura di M. BUONOCORE – A. M. PIAZZONI, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 468), pp. 351-394: 358 nt. 21; ID., Da Leone XIII a Benedetto XVI cit., p. 321. 101
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punto Ratti), dal sotto-foriere (cioè Mannucci) e da un segretario (che era il segretario della direzione dei Musei)104. Quando si verificò il catastrofico terremoto della Marsica (13 gennaio 1915), che provocò 30.000 morti ed ebbe conseguenze in tutta l’Italia centrale (Roma compresa), Mannucci si mise subito all’opera, rinnovando quanto aveva già fatto pochi anni prima dopo il terremoto di Reggio Calabria e Messina (28 dicembre 1908)105. Le scosse, nel 1915, provocarono danni e lesioni anche alle statue del Laterano; e il sotto-foriere, trovandosi «in buonissimi rapporti» con mons. Ratti, lo condusse a visitare le statue smontate106. Un’altra prova dei «buonissimi rapporti» fra Mannucci e Ratti: quando furono rilevati guasti nello zoccolo e nel pavimento della Pinacoteca (che dal 1909 si trovava al pianoterreno del Braccio di Pio IV, o «corridore di ponente», prospiciente lo Stradone 104 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 124. La Commissione Permanente per la Tutela dei Monumenti Storici ed Artistici della Santa Sede fu istituita da Pio XI, «secondo la Disposizione dell’Eminentissima Commissione Cardinalizia Amministratrice dei Beni della Santa Sede del 27 giu. 1923». Della Commissione furono inizialmente membri il marchese Giovanni Battista Sacchetti, foriere maggiore, nelle vesti di presidente; Bartolomeo Nogara, direttore generale dei Musei e della Gallerie Pontificie; Guido Galli, direttore artistico per le sculture; Biagio Biagetti, direttore artistico per le pitture; Giovanni Mercati, prefetto della Biblioteca Vaticana; Costantino Sneider, architetto; Federico Mannucci, sotto-foriere; Francesco Quadrani, nelle vesti di segretario. Il ruolo della Commissione era così precisato: «Fu istituita nello scorso anno 1923, per volontà espressa del S. Padre Pio XI, per ottenere non solo una maggiore unità e continuità d’indirizzo nei lavori di conservazione e di restauro dei monumenti d’arte e di storia dipendenti dalla S. Sede, ma anche una più razionale ripartizione delle competenze e delle responsabilità relative. I membri della Commissione, secondo le proprie attribuzioni, debbono periodicamente render conto dello stato di ciò che è in loro custodia, proporre le opere di conservazione e di restauro giudicate necessarie, perché siano approvate, e dare preventivamente il loro voto per qualsiasi lavoro o progetto di lavoro che dovesse farsi in fabbricati o terreni di spettanza della S. Sede per salvaguardarne eventualmente le ragioni storiche ed artistiche», Annuario pontificio per l’anno 1924, Roma 1924, p. 746. Per la Commissione cfr. M. A. DE ANGELIS, I Musei Vaticani all’epoca dei Patti Lateranensi. Evoluzione e modernizzazione dei Musei della Santa Sede nel pensiero e negli scritti del Direttore Generale Bartolomeo Nogara (1920-1954) conservati in Archivio Storico, in I Musei Vaticani nell’80° anniversario della firma dei Patti Lateranensi, 1929-2009, a cura di A. PAOLUCCI – C. PANTANELLA, Città del Vaticano 2009, pp. 15-31: 17-19 (ove si sottolinea il ruolo di Nogara nella sua istituzione). Ma Mannucci constaterà in seguito che le competenze della Commissione furono spesso disattese, cfr. infra, testo e ntt. 189 e 192. 105 Per il terremoto di Reggio Calabria e Messina e per l’uso dell’Istituto S. Marta per l’accoglienza dei profughi, MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 41-42, 111-112; per il terremoto della Marsica, ibid., pp. 125-130 (anche in questo caso si ricorse a S. Marta per il ricovero dei feriti e dei profughi). 106 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 127. L’invito formulato da Mannucci a Ratti aveva uno scopo preventivo di tutela del suo operato da malevoli attacchi: «Pensando poi che pochi o nessuno si sarebbero fatti un concetto giusto di questo lavoro [scil.: di smontaggio e di rimontaggio delle statue], che si svolgeva in luogo difficilmente accessibile, per prevenire quanto fosse possibile la critica, che suol farsi dai più incompetenti, non mancai di invitare a visitare i lavori persone, le quali potessero rendersi conto delle difficoltà da superarsi», ibid., pp. 126-127.
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dei Musei), il sotto-foriere, che sin dall’inizio aveva manifestato perplessità a proposito della nuova sede107, si servì del prefetto della Vaticana per avvertire il sotto-prefetto dei Sacri Palazzi Apostolici della gravità della situazione108. Ed era stato ancora Mannucci a occuparsi dell’adattamento dell’appartamento del prefetto della Vaticana109. Quando Ratti lasciò Roma per recarsi in Polonia i rapporti non si interruppero110; e durante una visita a Roma del nunzio Ratti, nella primavera del 1920, fu proprio 107 Quando Mannucci si apprestava a studiare la nuova collocazione della Pinacoteca, durante il pontificato di Pio X, mons. Luigi Misciattelli, sotto-prefetto dei Sacri Palazzi (1907. La Gerarchia Cattolica. La famiglia e la Cappella pontificia. Le amministrazioni palatine. Le Sacre Congregazioni e gli altri dicasteri pontifici con appendice, Roma 1907, p. 459) «si affidò unicamente al consiglio ed all’opera degli artisti pittori, i quali ben poco presero in considerazione le condizioni dei locali». Il sotto-foriere presentò una relazione al direttore dei Musei che non ne tenne conto. Mannucci non nascose quindi critiche sull’allestimento della sede ma a lui rimase solo l’incombenza del trasporto dei grandi quadri nei nuovi ambienti che, dopo l’inaugurazione da parte del papa, non tardarono a manifestare «non lievi difetti» (i locali erano prima della Floreria che ottenne in cambio compensi), MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 88-91. Sulla genesi della decisione di Pio X di allestire una nuova sede per la Pinacoteca, cfr. R. MERRY DEL VAL, San Pio X. Un santo che ho conosciuto da vicino, Verona 2012 [prima edizione italiana: 1949], pp. 41-42. Sulla Floreria e sulle sue diverse sedi, NEGRO, Musei che non si vedono cit., pp. 244-249. 108 Il fatto è indicativo della centralità della posizione assunta da Ratti in Vaticano durante la sua breve prefettura in Biblioteca Vaticana; a proposito della quale cfr. P. VIAN, «Una cambiale scontata prima di presentarsi ufficialmente allo sportello?». Achille Ratti prefetto della Biblioteca Vaticana (1914-1918), in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 469), pp. 801-870. Il sotto-prefetto (o vice-prefetto) dei Sacri Palazzi Apostolici era ancora nel 1916 Luigi Misciattelli (cfr. supra, nt. 107), Annuario pontificio per l’anno 1916, Roma 1916, pp. 576. 577. Da rilevare la difficoltà di comunicazione che il sotto-foriere aveva col suo superiore. 109 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 136. Alla fase dei primi rapporti fra Mannucci e Ratti risale questa notazione del prefetto della Vaticana: «Settembre 17/1915. Monsignor A. Gerlach Cam. Segr. Partec. partecipa allo scrivente avere il Santo Padre definitivamente approvato il trasporto nel giardino ormai riordinato delle due statue in bronzo che stanno in capo al Salone Sistino della Biblioteca. Il Comm. Mannucci è infatti venuto in B. per gli opportuni preparativi ed accordi», Arch. Bibl. 115, pt. A, f. 29r. Si trattava delle statue di s. Austremonio e di Urbano II donate a Leone XIII nel 1888, nel suo giubileo sacerdotale, inizialmente collocate all’ingresso del Salone Sistino. La statua di s. Austremonio, appoggiata su un alto basamento, fu poi posta nei Giardini Vaticani sul piazzale della ricostruita Grotta di Lourdes, opera dell’artista francese Jean Ossaye Mombur (1850-1896), con fusione della fonderia Maurice Denonvilliers, CAMPITELLI, Gli horti del papa cit., p. 244; CAMPITELLI, I Giardini Vaticani cit., p. 269; quella di Urbano II è ora nei pressi della Torre S. Giovanni, ibid., p. 271. Sulla figura di Rudolph Gerlach e sul caso che intorno alla sua figura nacque durante la guerra, BERTINI, Ai tempi delle guarentigie cit., pp. 304-308; I «fogli di udienza» del cardinale Eugenio Pacelli segretario di Stato, I (1930), a cura di S. PAGANO – M. CHAPPIN – G. COCO, Città del Vaticano 2010 (Collectanea Archivi Vaticani, 72), p. 430; A. PALOSCIA, Benedetto fra le spie. 1914: l’anno fatale della grande guerra, Milano 2013 (Testimonianze fra cronaca e storia. 19141918: prima guerra mondiale). 110 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 135-141.
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Mannucci ad accompagnare Ratti dal segretario di Stato, card. Pietro Gasparri, che si trovava a Nettuno, «presso i Padri Passionisti per un lieve riposo», e poi a ricondurre entrambi (Gasparri e Ratti) a Roma, sempre con lo stesso mezzo111. Qualche mese dopo, il 18 luglio 1920 Ratti graziosamente ricordò il fatto formulando gli auguri per la festa onomastica di Mannucci, definito il «più prudente», il «più scientifico chauffeur che lo conduceva dalla mano ferma ed impavida anche nella angusta spiaggia che l’onda marina batte in breccia o demolisce a Nettuno»112. Forse proprio sulla base di una relazione così intensamente cordiale, di conversazioni e scambi di vedute, Mannucci espose a mons. Ratti (che era ben lungi dal prevedere di divenire il papa della Conciliazione) un progetto per il futuro assetto dello Stato Vaticano, che avrebbe dovuto avere accesso al mare e comprendere, oltre alla basilica e ai palazzi Vaticani, una zona a occidente della città, verso il litorale113. 111 Gustosa la rievocazione della richiesta di aiuto formulata da Ratti a Mannucci: «Due o tre giorni prima di tornare in Polonia [Ratti] venne a cercarmi di buon mattino in casa. Mi disse subito: Non mi mandi a quel paese perché ci vado da me. Mi deve fare il favore di accompagnarmi con la sua automobile a Nettuno, per conferire prima di partire con il Cardinale Segretario di Stato», MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 136-137. La partenza avvenne il giorno dopo e in macchina, con Mannucci e un meccanico, vi era anche mons. Camillo Caccia Dominioni (1877-1946, cardinale dal 1935), dal 1921 Maestro di Camera, a proposito del quale cfr. DIEGUEZ – PAGANO, Le carte del «sacro tavolo», II, cit., p. 627 nt. 1097; I «fogli di udienza» del cardinale Eugenio Pacelli segretario di Stato, II (1931), a cura di G. COCO – A. M. DIEGUEZ, Città del Vaticano 2014 (Collectanea Archivi Vaticani, 95), p. 719. 112 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 137. Mannucci spiega subito dopo il tenore del messaggio: «Questa lode fu dettata dal fatto che il mare in quel punto aveva corroso ed asportato quasi la metà dell’orto, e che l’ingresso carrabile era vicinissimo all’orlo della frana, ed io stimai prudente di uscirne a vettura vuota per evitare ogni pericolo», ibid., p. 138. Piccolo episodio che però rivela la cautela e la circospezione di Mannucci, manifestate in seguito anche di fronte a problemi di ben maggiori proporzioni. 113 «Stante la impossibilità di una restaurazione del potere temporale e d’altra parte la imprescindibile necessità di una assoluta e sovrana indipendenza del Sommo Pontefice, non si presentava altro rimedio che ridurre a proporzioni minime il territorio pontificio. Su questa base mi proposi di formulare un progetto per la sistemazione materiale di questo minuscolo Stato, che esposi a Mons. Ratti e che brevemente riassumo», MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 138. Il progetto è ibid., pp. 138-141. Mannucci conclude: «Questa per sommi capi la sistemazione della Santa Sede, che dovrebbe farsi a tutte spese della Nazione, la quale, mi sembra, mentre assicurerebbe al Sommo Pontefice tutti i diritti di una vera e propria Sovranità temporale, senza gli oneri ad essa necessariamente congiunti, sarebbe per la Nazione Italiana una amplissima concessione per il compimento delle sue aspirazioni», ibid., p. 141. Ma collaborazioni con le autorità italiane Mannucci aveva già avuto sotto il pontificato di Benedetto XV, per la costruzione di «quattro grandi serre nel giardino quadrato appoggiate al muro di sostegno nel viale della Zitella», ibid., pp. 120-121. Per i rapporti, ancora inquieti, con la realtà italiana, è interessante il fatto che al momento del trasporto della salma di Leone XIII da S. Pietro a S. Giovanni in Laterano, ove fu collocata nel sepolcro preparato da Giulio Tadolini (1907), vi erano ancora timori, nel ricordo di quanto avvenuto alle spoglie di Pio IX durante il trasporto a S. Lorenzo al Verano (cfr. supra). Pio XI, «non
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Alla luce di questi più che cordiali rapporti si sarebbe potuto prevedere che il pontificato del papa lombardo significasse un’altra stagione felice per l’ormai anziano sotto-foriere114. Ma gli anni non erano passati invano e la situazione andava mutando. Lo si avverte nettamente da almeno tre inequivocabili fatti, che Mannucci non manca di rilevare, quasi prodromo della tempesta che sarebbe scoppiata. Dopo l’Esposizione Missionaria dell’Anno Santo 1925 (svoltasi fra l’Epifania 1925 e il 30 giugno 1926) fu deciso di spostare nel palazzo Lateranense gli oggetti esposti, nell’ambito di una mostra non più temporanea ma permanente. Il riallestimento dell’edificio per questa nuova funzione venne affidato a Mannucci ma la sua «circospezione» nell’opera venne considerata lentezza, negligenza e trascuratezza e il sotto-foriere fu estromesso dai lavori115. L’accusa di lentezza emerse anche nel secondo episodio (e si può immaginare agli occhi del pragmatico e veloce papa lombardo quanto fosse importante la rapidità nell’esecuzione volendo più oltre ritardare l’esecuzione della volontà del suo predecessore», «ordinò che il trasporto si facesse nel modo il più semplice e riservato, senza darne precedente notizia». Del trasporto furono incaricati mons. Carlo Respighi (1873-1947; prefetto delle cerimonie pontificie dal 1918 al 1947) e Mannucci. «Organizzato il piano da seguire, nel giorno fissato, e dopo avere tutto predisposto nella basilica, fu posto il feretro sopra un carro convenientemente coperto, ed a sera avanzata trasportato nel palazzo del Laterano, da dove a tutto agio dal passaggio interno, introdotto nella basilica. Il tutto procedette senza alcun incidente. Nel giorno seguente dopo un solenne ufficio funebre la Salma fu deposta nel monumento», ibid., pp. 153-154. Sulla questione dei confini italo-vaticani, da Porta Pia alla Conciliazione, cfr. T. AEBISCHER, La commissione tecnica italo-vaticana ed i confini del territorio vaticano, 19291933, in Studi romani 48 (2000), pp. 104-117; ID., Le ipotesi territoriali nella Questione Romana dal 1870 al 1929, in Rassegna storica del Risorgimento 87 (2000), pp. 411-430; ID., Un confine per il Papa. Problematiche territoriali nella Questione Romana e confine dello Stato della Città del Vaticano, Roma 2009 (Collezione storica, 6); ID., Lo scettro e la tiara. Potere temporale e territorio pontificio nella Questione Romana (1861-1871). Antologia di documenti dell’epoca, Roma 2011 (Odeporica). 114 Per la malattia e la morte di Benedetto XV e per l’elezione di Pio XI, cfr. MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 141-142, 142-143. Mannucci si occupò ancora del conclave del febbraio 1922 e poi della sistemazione dell’appartamento del papa, ibid., pp. 143-145. 115 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 154-158. Già a partire dal 1923 Mannucci si era occupato dell’allestimento dell’Esposizione Missionaria, incaricato dal papa che ricordava la parte svolta dal sotto-foriere nell’Esposizione del 1888 per il giubileo di Leone XIII, sempre nel cortile della Pigna. A proposito della sua estromissione dai lavori Mannucci scrive: «Mentre i lavori erano di molto avanzati, fu data ad altri la direzione dei lavori con la motivazione che procedevano lentamente. Fu giudicata negligenza la circospezione con cui erano condotti i lavori di consolidamento dei muri, e specialmente dei pavimenti delle grandi sale, in alcune delle quali il consolidamento, o meglio i nuovi sostegni con travi di ferro armati, si dovevano porre in opera conservando il cassettonato del soffitto della sala del piano inferiore; tutti gli altri lavori cioè i nuovi pavimenti, il cui materiale si era dovuto ordinare espressamente in fabbrica, procedevano senza interruzione. A mia giustificazione però il tempo impiegato poi ad ultimazione dei lavori dimostrò la insussistenza della motivazione del provvedimento preso a mio riguardo», ibid., pp. 157-158. Cfr. CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., pp. 29-42.
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degli incarichi ricevuti). Durante i progetti per l’edificazione della nuova Pinacoteca, che avrebbe dovuto superare i problemi riscontrati nella sede voluta da Pio X e inaugurata nel 1909, il papa manifestò l’intenzione di «associare alla nostra opera» Luca Beltrami116. Il disappunto del sotto-foriere (che vedeva intervenire nel suo ambito di competenze figure estranee) crebbe quando anche sulla localizzazione del nuovo edificio si manifestò una profonda divergenza di vedute fra il papa e Mannucci, che subì a tale proposito un’aspra ramanzina del pontefice. Obbligati dal papa a informare di tutti i loro passi Beltrami (che spesso era fuori Roma), Mannucci e il suo collaboratore, l’ing. Fabio De Rossi, dovettero poi giustificare a Pio XI anche i ritardi che questa infelice situazione provocava e di cui Ratti riteneva responsabili i due funzionari vaticani, che alla fine, anche questa volta, furono estromessi dal lavoro117. Anche il nuovo servizio automobilistico in 116 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 162. Si noterà che pochi anni prima proprio nelle conversazioni fra Ratti, prefetto della Biblioteca Vaticana, e Mannucci era emerso il nome di Beltrami come possibile membro della futura Commissione Permanente per la Tutela dei Monumenti Artistici della Santa Sede, cfr. supra, nt. 104 e testo relativo. In altri termini, Mannucci aveva evocato la logica che avrebbe finito per divorarlo. A proposito di Luca Beltrami (1854-1933), il noto architetto milanese in relazione con Achille Ratti sin dagli anni milanesi e autore del progetto della nuova sede della Pinacoteca Vaticana in un edificio costruito in una parte del Giardino Quadrato dei Giardini Vaticani inaugurato il 27 ottobre 1932, cfr. P. MEZZANOTTE, Beltrami, Luca, in Dizionario biografico degli italiani, VIII, Roma 1966, pp. 71-74; PAGANO, L’Archivio Segreto Vaticano e la prefettura di Angelo Mercati cit., p. 71 nt. 74; VIAN, «Quell’opera personale» cit., p. 1154 nt. 39. Per i rapporti con Ratti, CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., pp. 46, 47, 49, 71, 146, 161, 294, 295. Per la collaborazione fra Beltrami e Leone Castelli nella costruzione della Pinacoteca, L. CASTELLI, Luca Beltrami: L’uomo e l’artista, in L’illustrazione vaticana 4 (1933), nr. 17, 1-15 settembre, pp. 664-666. 117 La narrazione dell’intera vicenda è in MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 158-165. Fabio Massimo (successivamente, solo Fabio) De Rossi, che avrà un ruolo importante anche negli eventi successivi, era allora «aggiunto assistente» nell’ufficio del foriere maggiore, Annuario pontificio per l’anno 1929 cit., p. 587; succeduto a Ludovico Alessandri (ricordato più volte in I miei quarantasette anni cit., pp. 135, 136) come collaboratore diretto di Mannucci, era comparso per la prima volta in Annuario pontificio per l’anno 1922, Roma 1922, p. 714. Il papa aveva aderito al progetto che collocava il nuovo edificio «di vari metri arretrato dal viale della Zitella», mentre Mannucci, sulla base di considerazioni geologiche e climatiche, si era convinto che «altro luogo adatto per il nuovo edificio poteva essere il lato opposto al viale della Zitella, nel giardino quadrato, dove sotto il pontificato di Leone XIII io avevo proposto la costruzione di un edificio per le sale di studio della biblioteca e dell’archivio, e che [sic] sotto il pontificato di Pio X, dopo avvenuto l’incendio nella Biblioteca, vi progettai la costruzione di un nuovo edificio da sistemarvi tutto l’Archivio della S. Sede», ibid., pp. 162, 163; per il progetto dei nuovi edifici per Biblioteca e Archivio, cfr. supra, nt. 42. Cfr. la ricostruzione di CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., pp. 46, 161-162 (ove l’accenno all’incomprensione dei progetti del papa da parte di «vecchi tecnici di Palazzo» potrebbe essere proprio un riferimento alle resistenze di Mannucci). Per la nuova sede della Pinacoteca (inaugurata il 27 ottobre 1932), cfr. CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., pp. 137-150; A. NESSELRATH, La Pinacoteca Vaticana, in I Musei Vaticani cit., pp. 49-56; A. NESSELRATH – A. PAOLUCCI, I Musei Vaticani, in 1929-2009. Ottanta anni dello Stato della Città
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Vaticano fu occasione di un altro, il terzo, cocente smacco per Mannucci: «Avvenuta la abolizione delle carrozze furono adottate per i servizi di corte le automobili. Mi valsi della mia esperienza e dei consigli di persone competenti per redigere un progetto di organizzazione del nuovo servizio, comprendente la costruzione di una autorimessa. L’Amministrazione credette opportuno di affidare il nuovo servizio ad un noleggiatore»118. Per quanto Mannucci sia stato scelto dal papa (evidentemente memore del viaggio di andata e ritorno a Nettuno nella primavera 1920) per guidare il suo primo giro in automobile nei Giardini Vaticani119 e per quanto al sotto-foriere si debba l’idea dell’uso di apparecchi radio per diffondere la voce del celebrante durante le funzioni papali in S. Pietro (ove prima solo i più vicini ascoltavano qualcosa e gli altri per il disappunto e la distrazione davano vita a un insostenibile brusio)120, ormai il suo destino appare segnato. La crisi esplose durante i lavori per gli ampliamenti della Biblioteca Vaticana, concepiti e intrapresi nella seconda metà degli anni Venti, prefetto Giovanni Mercati ma «patronus munificentissimus» Pio XI, l’antico bibliotecario divenuto papa ma rimasto bibliotecario, con un’attenzione costante e ravvicinata a tutto quanto accadeva nella sua antica Biblioteca121, mentre stadel Vaticano, a cura di B. JATTA, Città del Vaticano 2009 (Studi e documenti per la storia del Palazzo Apostolico Vaticano, 7), pp. 145-156, e la scheda di A. CARIGNANI, ibid., pp. 363-365; FONTI, Dalla cittadella del papa alla Città del Vaticano cit., p. 24; CAMPITELLI, Gli horti del papa cit., pp. 287-288; CAMPITELLI, I Giardini Vaticani cit., pp. 250-251; e la scheda di D. FONTI, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 258-259. Il discorso allora pronunciato dal papa è pubblicato in Discorsi di Pio XI, edizione italiana a cura di D. BERTETTO, II: 1929-1933, Torino 1960, pp. 752-756, e in Acta Apostolicae Sedis 34 (1932), pp. 355-357; precedentemente in L’osservatore romano, 28 ottobre 1932, pp. 1-2. L’illustrazione vaticana 3 (1932), nr. 21, 1° novembre, è interamente dedicato all’inaugurazione della nuova Pinacoteca. 118 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 166. Per il rapporto di Pio XI con le automobili, cfr. CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., pp. 56-57. 119 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 166. 120 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 167-169. La prima applicazione della geniale trovata di Mannucci si ebbe durante la canonizzazione di Teresa del Bambin Gesù (17 maggio 1925), della quale Pio XI era molto devoto. 121 Per i lavori di ampliamento, cfr. G. BORGHEZIO, Pio XI e la Biblioteca Vaticana, in La bibliofilia 31 (1929), pp. 210-231: 215-218 (col ricordo, a p. 216, dell’opera di Mannucci e del suo collaboratore Fabio De Rossi); E. CARUSI, Le innovazioni nella Biblioteca Vaticana dal 1883, in Accademie e biblioteche d’Italia 5 (1931-1932), pp. 208-214: 212-213; GIORDANI, La Biblioteca nuova cit.; CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., pp. 59-60; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 258-259; CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., p. 148; J. RUYSSCHAERT, Pie XI, un bibliothécaire devenu pape et resté bibliothécaire, in Achille Ratti, Pie XI. Actes du colloque organisé par l’École française de Rome en collaboration avec l’Université de Lille III-Greco n° 2 du CNRS, l’Università degli studi di Milano, l’Università degli studi di Roma «La Sapienza», la Biblioteca Ambrosiana (Rome, 15-18 mars 1989), Rome 1996 (Collection de l’École française de Rome, 223), pp. 245-253: 248-250; N. MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library and the Carnegie Endowment for International Peace. The History, Impact, and
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vano per prendere avvio le grandi opere per la nuova Città del Vaticano122. In una udienza che il S. Padre mi accordò per concretare i lavori di ampliamento della Biblioteca secondo il progetto sottopostogli dal Prefetto, mi manifestò che era sua intenzione di cedere alle richieste fattegli di introdurre la corrente elettrica, sia per illuminazione sia per altri usi, non nascondendo la sua preoccupazione per i pericoli di sorprese che potevano derivarne. Procurai di rassicurare Sua Santità che ogni pericolo poteva esser eliminato assegnando alla Biblioteca una linea speciale a partire dall’officina. Questa linea doveva rimanere inerte, mediante interruttore situato nella stessa officina, e darsi la corrente solo dietro richiesta da farsi dalla Biblioteca, e da togliersi con avviso dato dalla Biblioteca stessa, facendo obbligo agli addetti all’officina di toglierla, se questa fosse mancata. Piacque al S. Padre questo temperamento e me ne ordinò l’esecuzione. Mi era però noto che le esigenze della Biblioteca erano considerevoli, feci osservare che l’ampliamento introdotto nella officina, se era sufficiente per le esigenze del palazzo pontificio ed annessi, non lo era certamente per il nuovo impianto della Biblioteca. Potei nella stessa udienza ottenere l’autorizzazione di sostituire i due vecchi motori a gas con due Diesel di 70 HP. ciascuno. L’abolizione delle vetture a cavalli e quindi delle scuderie, mi suggerì il modo di soddisfare alle continue richieste da parte del Prefetto della Biblioteca per l’aggiunta di nuovi locali necessari per il collocamento di nuove biblioteche pervenute alla S. Sede.
Influence of their Collaboration (1927-1947), Città del Vaticano 2009 (Studi e testi, 455), pp. 357-382 e passim; A. RITA, La Biblioteca Vaticana nelle sue architetture. Un disegno storico […], in Biblioteca Apostolica Vaticana. Libri e luoghi all’inizio del terzo millennio […], Città del Vaticano 2011, pp. 70-123: 106-110; VIAN, Da Leone XIII a Benedetto XVI cit., pp. 321-324. «Patronus munificentissimus» è citazione dell’epigrafe posta sotto il busto bronzeo di Pio XI, opera di Guarino Roscioli, che domina e presiede la Sala di consultazione dei manoscritti della Biblioteca Vaticana. Per offrire un quadro di riferimento generale: nel 1927 Pio XI decise di sopprimere la trazione ippomobile per il servizio della Santa Sede per sostituirla con automobili. Venivano così liberate definitivamente le scuderie al piano inferiore del Braccio di Giulio II (o «corridore di levante» o «Corridoio del Bramante »), che il papa decise di trasformare in un deposito librario. Poco dopo (fine marzo-inizio aprile 1928) Eugène Tisserant presentò un mémoire in cui indicava tre linee di sviluppo necessarie per la biblioteca dei papi in un prossimo futuro: accrescimento dei libri (necessità di nuovi depositi), dei lettori (necessità di una nuova Sala di consultazione) e dei servizi (necessità di ascensori e di sistemi di ventilazione). I piani furono discussi, come vedremo non senza difficoltà e dissensi, con Mannucci, Mercati, Tisserant e Leone Castelli. L’inaugurazione dei primi tre piani del Deposito Stampati (dunque nei locali delle antiche scuderie) avvenne il 20 dicembre 1928. Successivamente si decise di occupare anche la parte superiore del Braccio, precedentemente occupata dallo Studio del mosaico (trasferito in un edificio apposito); vennero così creati altri tre piani del Deposito, identici ai primi tre sottostanti, che furono inaugurati il 15 novembre 1931, cfr. E. FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant (1884-1972). Une biographie, Paris 2011, pp. 162-163, 166. 122 Per una visione d’insieme, G. MONTANARI, La costruzione della nuova Città del Vaticano, in 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 119-130, e le schede pubblicate ibid., pp. 343-356.
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In una mia relazione diretta al prefetto monsignor Mercati123, esponeva il progetto di assegnare alla Floreria tutto il locale delle scuderie situato al cortile del Belvedere, per liberare dall’uso di magazzino la grande sala ove fu da Sisto IV istituita la Biblioteca Vaticana, unitamente a tutti i locali adiacenti, l’ampiezza dei quali offriva una considerevole capacità. Il Prefetto mi fece osservare che preferiva i locali della scuderia meglio situati per le esigenze della Biblioteca, partecipandomi che avendone fatto cenno al S. Padre glie ne aveva data l’approvazione. Questi locali erano la grande corsia sul cortile del Belvedere, che dal portone centrale d’ingresso a questo cortile giunge fino all’angolo; fa seguito poi l’antica cordonata che dal cortile dava accesso alla terrazza intermedia fra il detto cortile e il giardino della Pigna, il cui piano coincide col piano della Biblioteca. Se questi locali, per la loro situazione, presentavansi idonei per la Biblioteca, non lo erano per lo stato in cui si trovavano. Di fatti il pavimento selciato della corsia era poggiato unicamente sul suolo argilloso, pervaso completamente dalle filtrazioni provenienti dal colle, a’ piedi del quale è situato tale edificio. La fogna centrale per uso della scuderia era in pessimo stato, ne percorreva tutta la lunghezza, i muri erano imbevuti di umidità. La Cordonata era fatta con mattoni a coltello, poggiata sul banco di argilla che costituisce il suolo della collina, ove si vedevano frequenti filtrazioni d’acqua. Il Prefetto della Biblioteca, dalla annessione di questi locali, vagheggiava il considerevole vantaggio di trasferire da questa parte l’ingresso alla Biblioteca per il pubblico. Questa soluzione esigeva, come si poté vedere da uno studio sommario, l’annessione di altri locali che erano situati sotto la sala Sistina, in condizioni anche peggiori. Vi era una scala ripidissima che saliva fino al piano della Biblioteca, i cui gradini, come quelli della Cordonata, poggiavano completamente sul terreno vergine con presenza di numerose filtrazioni d’acqua. Dato questo stato di fatto, era evidente che allo studio di annessione di questi locali alla Biblioteca, si dovesse premettere quello della bonifica. Unitamente all’Ing. De Rossi furono studiate le due soluzioni. Per il trasferimento dell’ingresso alla sala di studio, si vide che era possibile effettuarlo mediante una scala alla quale doveva far seguito quella già costruita per mettere in comunicazione la sala di studio trasferita nel portico del cortile della stamperia124. Più complessa si presentò la questione della bonifica, per la quale proposi un’abbassamento del suolo per rendere possibile la costruzione di un massicciato in calcestruzzo coperto con uno strato di asfalto. Proponeva inoltre la costruzione di un vespaio da formare uno strato d’aria indipendente dall’interno della corsia, con adatti mezzi per farne il rinnovamento. Proponeva altresì il modo di raggiungere il più che possibile al prosciugamento della base dei muri con canali da farsi nei muri comunicanti con la intercapedine e con l’esterno. Veniva così assicurato un permanente ricambio d’aria al vespaio, ottenendosi altresì il vantaggio di una emissione dell’umidità dei muri. Era pur necessario abbassare il terreno dalla parte del prato del Belvedere in
123 Non ho individuato il testo della relazione di Mannucci; ma una copia di una lettera di Mercati a Mannucci, 12 dicembre 1922, a proposito delle necessità della Biblioteca illustrate a Pio XI il 9 settembre 1922 è in Arch. Bibl. 272, ff. 35r-37r. 124 VIAN, Da Leone XIII a Benedetto XVI cit., p. 325.
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tutta la lunghezza del fabbricato e costituirvi una platea selciata da impedire la permanenza dell’acqua piovana in prossimità del muro. Rimaneva di provvedere al ricambio dell’aria in tutto l’ambiente della corsia, che avendo le finestre da una sola parte, non poteva avvenire che molto imperfettamente. Un efficace rimedio era l’apertura di finestre dalla parte del prato del Belvedere, facilitato dalla presenza delle nicchie, conformando le finestre con quelle esistenti nel muro di Nicolò V, in considerazione che la parte inferiore del prospetto sul prato ne segue la stessa linea125. Quanto alla cordonata mi sembrava che si dovesse separare dall’ambiente destinato a biblioteca, perché essendo incassata nel banco di argilla, i muri erano sempre invasi dall’umidità, ed in qualche punto si manifestava acqua sorgente. Mons. Prefetto aveva urgenza di iniziare i lavori perché desiderava fossero compiuti quando arrivavano gli scaffali ordinati in America126; richiese di urgenza un preventivo sommario della spesa da presentare al S. Padre, che fu redatto senza indugio. Il Prefetto proponeva per aumentare la luce nella grande galleria la demolizione dei grossi muri che chiudevano tre archi del portico; ma essendo un’opera di rinforzo all’edificio, che fin da principio erasi mostrata [sic] di deficente stabilità per il crollo di una parte avvenuto dopo compiutane la costruzione, ne feci cenno sulla relazione che accompagnava il preventivo, aggiungendo che la demolizione progettata esigeva un accurato esame dell’edificio. Non ostante questa riserva Mons. Prefetto presentò il preventivo al S. Padre e ne ottenne l’approvazione con la raccomandazione di ridurne possibilmente la spesa. Nell’esame che immediatamente intrapresi circa le condizioni di stabilità 125 REDIG DE CAMPOS, I Palazzi Vaticani cit., pp. 42-44, 138-139, 143-144, 168, 190, 206, 215. 126 MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., s.v. «Vatican Library: bookstacks», in indice, p. 738; FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 163. Gli scaffali furono forniti dalla ditta Snead del New Jersey diretta da Angus MacDonald (lo stesso modello adottato dalla Library of Congress); Tisserant andò lui stesso a comprare i marmi necessari per i nuovi depositi a Carrara, ibid. La ditta Snead, con la Société des Forges, di Strasburgo, fu responsabile anche dell’attrezzatura della Sala di consultazione degli stampati, adottata anche da altre biblioteche romane (Abbazia di S. Girolamo in Urbe, Pontificio Istituto Orientale, Senato della Repubblica), ibid., pp. 166-167. La ditta Forges si era occupata precedentemente dell’imponente «castello di scaffali in ferro, il più solido e connesso ed insieme il più capace» allestito nel 1926 per ospitare gli archivi delle chiese romane nel Braccio di Carlo Magno, VIAN, «Quell’opera personale» cit., p. 1153 e nt. 40. Ricorda a proposito degli scaffali Carlo Confalonieri: «Nell’opera di rifacimento da Lui meticolosamente disposta e ordinata, quando si trattò di acquistare la scaffalatura in ferro per il “Magazzino Stampati” cioè per il grande impianto per ordinare i moltissimi volumi a stampa che per mancanza di adeguata collocazione restavano un peso morto per la Biblioteca, volle che Monsignor Tisserant visitasse le principali biblioteche di Europa e di America per studiarne gli impianti e il funzionamento. Volle che si mettessero in gara le varie fabbriche sia nazionali che estere di attrezzature del genere, ed al momento di decidere, constatando che la ditta di New Jersey “Snead” era quella che aveva materiale migliore, sebbene di prezzo alquanto più alto, non esitò nella scelta; e soggiunse: “Non è un male: il denaro ci è venuto dalla America. È bene che torni in America”. Anche in ciò ammirai il Suo spirito di equilibrio. A quanto mi pare di ricordare, mi pare che appunto i fondi necessari fossero costruiti da un dono “personale»” fattogli da un ammiratore dell’aldilà dell’Oceano», CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., pp. 291-292.
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dell’edificio, potei accertare che nel prospetto dalla parte del cortile fino all’altezza del primo piano, i piloni delle arcate presentavano un’inclinazione all’esterno di oltre cm. 12; osservando poi i piloni dalla parte interna verificai che in ciascuno di essi al piano del cortile notavasi un distacco dal fondamento, conseguenza della rotazione da essi subita che riduceva sensibilmente la superficie di appoggio dei piloni stessi sulla fondazione. A questo grave difetto si era forse voluto rimediare costruendo i contrafforti innanzi ai piloni, tralasciando però quello fra i due archi all’angolo del cortile, che ne era maggiormente bisognoso127. Infatti questo pilone, che presentavasi costruito all’esterno in muratura ed all’interno con blocchi di travertino, aveva subito uno schiacciamento che aveva separato le due strutture. Nell’interno i blocchi di travertino erano smossi ed alcuni spezzati; nell’esterno lo schiacciamento era evidente per la rottura e schianti subiti nella decorazione in travertino dell’archivolta e delle cornici. Dopo questa constatazione, riferii a Mons. Prefetto che non era affatto prudente la completa demolizione dei muri che chiudevano gli archi, e che la luce si sarebbe, nei locali interni, aumentata coll’ingrandire le finestre ovali esistenti. Ne fu fatta una che potei mostrare al S. Padre venuto a visitare i lavori, il quale giustamente osservò che il difetto di luce si poteva molto migliorare con l’impianto della illuminazione elettrica128. 127 Fra il pontificato di Clemente VIII (1592-1605) e quello di Clemente XIII (1758-1769), per motivi di statica, i prospetti degli edifici che chiudono il cortile del Belvedere furono rinforzati da possenti contrafforti (o risalti) che finirono per sfigurare l’originario aspetto del cortile, cfr. J. HESS, La Biblioteca Vaticana: Storia della costruzione, in L’illustrazione vaticana 9 (1938), nr. 6, 16-31 marzo, pp. 233-241: 239-241; REDIG DE CAMPOS, I Palazzi Vaticani cit., pp. 153, 199, 225-227. «Tra le cose minori costruite in Vaticano sotto Clemente VIII vanno ancora menzionati i brutti contrafforti di sostegno addossati in data incerta e da un architetto ignoto, forse Giacomo della Porta o Carlo Maderno, alla facciata orientale del Corridoio di Pirro Ligorio, per contrastare il soverchio peso del nuovo piano (la Galleria delle Carte Geografiche) aggiunto dal Mascherino. Quattro ne furono allora murati: due da ogni banda dell’arco centrale, tutti recanti l’arme di papa Aldobrandini. In seguito questi risalti furono purtroppo estesi a tutto il Cortile del Belvedere, guastando anche il nobile prospetto della Biblioteca di Sisto V. Con le loro pesanti masse e conseguenti effetti violenti di luce e d’ombra, essi hanno definitivamente cancellato quanto sino allora poteva tuttavia ricordare — sia pure molto alla lontana — la serena armonia dell’originario disegno bramantesco» (ibid., p. 199); «Quando si osservi la forte pendenza della parete [scil.: del «Corridore di Bramante»] rinforzata da queste brutte aggiunte, si comprende la loro imprescindibile necessità ed urgenza, ad evitare un secondo e più grave crollo dell’edificio [scil.: dopo quello del 1531; cfr. infra, nt. 134]» (ibid., p. 227). Nel Braccio di Giulio II («corridore di levante» o di Bramante), nel tratto dalla porta d’ingresso nel cortile del Belvedere sino all’angolo con l’edificio sistino della Biblioteca Vaticana, vi sono quattro contrafforti. A partire dalla porta, fra i primi tre contrafforti sono stati aperti due archi (uno fra ogni coppia di contrafforti); fra il terzo e il quarto contrafforte (dunque fra il penultimo e l’ultimo, in prossimità dell’angolo con l’edificio della Biblioteca) sono stati aperti due archi. 128 Come ricorda Emanuele Musso, allora «assistente per l’economia» della Biblioteca Vaticana, nella fase più intensa dei lavori in Biblioteca Vaticana Pio XI era solito scendere ogni giorno festivo in Vaticana fermandosi dalle 10 alle 14, CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit. pp. 291, 294-295; un’attenzione assolutamente eccezionale e senza precedenti per un’istituzione particolare della Santa Sede.
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Pochi giorni dopo però riceveva una lettera di Mons. Prefetto con la quale insisteva sulla demolizione. Nella lettera così si esprime: Che Ella si sia mostrata riservata circa l’apertura degli archi, ho ricordato anch’io nell’esposto, ma è altresì vero che l’Ing. De Rossi me l’ha sempre dichiarata possibile, ed è vero che Ella l’ha messo in tre articoli del preventivo da lei formato, mandatomi la prima volta, e rimandato inalterato una seconda per l’approvazione del S. Padre. Dopo l’approvazione del S. Padre non restava che eseguire. La seconda volta però, io rimandavo il preventivo con una lettera di riserva nella quale così mi esprimeva: «Questo edificio che chiude sul lato Est il grande cortile del Belvedere costruito ad ampi loggiati con colonne e pilastri, poco tempo dopo da che fu compiuto crollò in parte. Fu di poi ricostruito, ma in seguito, sia per riscontrata deficente stabilità, sia per altri motivi, furono chiusi tutti gli intercolunni e sostituiti con altrettante finestre. Furono costruiti gli avancorpi e chiusi gli archi del portico a piano del cortile con muro della grossezza di metri uno, chiusura che dimostra essere stata decisa per dare maggior superficie di appoggio all’edificio che ha la considerevole altezza di m. 30, mentre gli avancorpi per quanto ben collegati col muro di prospetto non può dirsi che ne sostengano il peso, ma che sieno destinati a dare un appoggio laterale all’edificio che ha una lunghezza di m. 140, e la larghezza che non arriva a m. 10. Per questi motivi ed in considerazione specialmente del difetto di origine di questo edificio e della circostanza che il piano superiore, ove è lo studio del mosaico, dovrà sostenere il peso di una nuova biblioteca, non stimo prudente divenire alla riapertura completa degli archi, che sottrarrebbe mq. 16 di appoggio ai muri dell’edificio stesso; rimane però la possibilità dell’ingrandimento dei vani attuali delle finestre»129. Nello stesso giorno ricevetti la seguente lettera: «Vaticano 8 giugno 1928 Signor Commendatore, In seguito ad un ricorso che ho dovuto presentare per essere riuscite vane le vie della persuasione amichevole, il Santo Padre ha ordinato che il Sig. architetto Momo130 ed il Sig. Comm. Castelli131 esaminino se veramente vi sia pericolo a dare alla biblio129 Non è chiaro a chi sia indirizzata la lettera di Mannucci dell’8 giugno 1928, se al prefetto Mercati o ad altra autorità vaticana. La lettera non è comunque conservata nei Carteggi del card. Giovanni Mercati, ove è presente solo una lettera di Mannucci a Mercati, del 20 settembre 1919 [Carteggi Mercati, cont. 26, ff. 5467r-5468r; cfr. Carteggi del card. Giovanni Mercati, I: 1889-1936, introduzione, inventario e indici a cura di P. VIAN, Città del Vaticano 2003 (Studi e testi, 413; Cataloghi sommari e inventari dei fondi manoscritti, 7), p. 221, nr. 3400]. 130 Giuseppe Momo (1875-1940), vercellese, ingegnere e architetto, formatosi a Torino e poi intensamente attivo nella città e in Piemonte con interventi di tipo residenziale e industriale. Conosciuto anche per progetti di edifici religiosi in tutta Italia (soprattutto case parrocchiali, collegi e seminari), fu il vero protagonista dell’edificazione della Città del Vaticano sotto Pio XI (stazione ferroviaria, cancello di S. Anna, palazzi del Tribunale, della Posta e delle Congregazioni, sede della Pontificia Università Lateranense, nuovo ingresso dei Musei Vaticani), cfr. CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., pp. 45, 162; G. MONTANARI, Giuseppe Momo ingegnere-architetto. La ricerca di una nuova tradizione tra Torino e Italia, Torino 2000; ID., in 1929-2009. Ottanta anni cit., p. 98; FONTI, Dalla cittadella del papa alla Città del Vaticano cit., p. 21; I «fogli di udienza», II, cit., pp. 767-768. 131 Leone Castelli (1879-1956), milanese, titolare di una ditta di costruzioni (Costruzio-
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teca nuova dalla parte della corte la luce segnata nel preventivo approvato da cotesto Ufficio, o almeno una luce molto maggiore di quella che permettono di penetrare dagli archi senza contrafforti, gli occhi e le finestre che si intendono di lasciare. Pertanto fino a che i detti Signori non abbiano pronunciato il loro parere, deve rimanere sospeso ogni lavoro agli archi indicati. [f.to Mercati]» alla quale risposi con un biglietto nel quale esprimeva la mia sorpresa che la vertenza fosse considerata suscettibile di composizione amichevole. In ogni modo quantunque l’intervento del Momo non fosse certo lusinghiero per me, l’accettai, sicuro e fidente nelle mie buone ragioni. Nel sopraluogo con l’Arch. Momo potei dimostrare lo stato dell’edificio ed i particolari del pilone di sostegno delle prime due arcate. Da un esame sommario del peso che insisteva su questo, risultò una quantità eccessiva rispetto alla superfice [sic] di appoggio per uno stato normale, aggravata dallo stato in cui ora trovavasi, concludendo che in ogni modo la demolizione del muro che chiudeva i due primi archi doveva essere preceduto [sic] da un efficace rinforzo che lo avesse posto in condizioni da sostenere da solo l’intero peso soprastante. Per eseguire tranquillamente questo lavoro, fu deciso di costruire un’armatura da sostenere tutta la parte dell’edificio che gravava sul pilone che doveva essere in gran parte demolito. Quanto poi all’apertura completa degli archi, in considerazione che si veniva a sottrarre un appoggio di circa mq. 4 per ciascuno di essi, che riteneva non doversi sottrarre se il piano superiore attualmente occupato dal mosaico si fosse ridotto a biblioteca, ritenni prudente da non desistere dal mio progetto di ingrandire le attuali finestre di forma ovale. L’Arch. Momo, dietro queste mie osservazioni, non si oppose, e mi disse che avrebbe riferito al S. Padre quanto erasi discusso. Non conobbi i termini della relazione, solo ebbi il seguente biglietto: «23-VI-1928 – ore 14 Ill.mo Sig. Commendatore, Debbo in questo stesso pomeriggio fare a lei ed al Sig. Ing. De Rossi una comunicazione d’urgenza per riferirla alle ore 19,30. Prima che ella esca o venga o mi faccia chiamare, scendendo in biblioteca alle 15,30 circa. Con ossequio f ° Mercati» Mi recai alla Biblioteca nel pomeriggio, unitamente all’Ing. De Rossi ove invece
ni Edilizie Figli di Pietro Castelli), intraprese la collaborazione con la Santa Sede sotto il pontificato di Pio XI, dal 1923 (con interventi per la sistemazione della grande Esposizione missionaria negli spazi che erano già stati occupati per l’Esposizione Vaticana del 1888); ma era anche proprietario a Roma del teatro Sistina. Un suo profilo, a cura di M. CASTELLI, in 1929-2009. Ottanta anni cit., p. 97; e una scheda, ibid., pp. 395-396; ma cfr. anche Un alto riconoscimento ufficiale al Gr. Uff. Ing. Leone Castelli, in L’illustrazione vaticana 4 (1933), nr. 22, 16-30 novembre, p. 876 [a proposito della sua nomina a Cavaliere del lavoro]; La morte di Leone Castelli, ne L’osservatore romano, 7 luglio 1956, p. 2; CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., pp. 45, 124, 162; I «fogli di udienza», I, cit., p. 407; PAGANO, L’Archivio Segreto Vaticano e la prefettura di Angelo Mercati cit., p. 67 nt. 177.
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di riceverci assieme, fece rimanere me solo in sua presenza, ponendomi il dilemma; o che io avessi assentito alla completaa pertura [sic] degli archi, o altrimenti avessi abbandonato i lavori che venivano affidati all’Ing. De Rossi, il quale aveva assicurato potersi fare la demolizione senza la preoccupazione da me manifestata. A questa inaspettata dichiarazione non esitai un istante a rispondere, che consapevole della mia responsabilità verso il Santo Padre, non intendeva di far cosa che potesse anche minimamente tornare a suo discapito, e quindi rimanevo fermo su quanto aveva chiaramente esposto. Dopo di me ricevette anche l’Ing. De Rossi, il quale né allora né in seguito mi partecipò il colloquio tenuto con Mons. Prefetto, né io credetti di dimandargliene. Nell’andamento dei lavori della Biblioteca che il S. Padre visitava frequentemente, da alcune espressioni rivoltemi, mi era sorto il dubbio di un mutato contegno verso di me. Il dubbio divenne certezza in una udienza avuta in quei giorni, che si compendiò in un veemente rimprovero. Non è a dire quanto ne rimanessi amareggiato nel vedermi disconosciuta la lealtà, anzi l’amore col quale aveva sempre servito la S. Sede, e procurato di onorarla in opere all’infuori degli obblighi del mio ufficio, né valsero a mitigare la profonda impressione da me ricevuta le benevoli espressioni che il S. Padre mi fece pervenire da Mons. Mariani il giorno seguente alla udienza132.
Senza addentrarci in particolari troppo tecnici, cerchiamo di rilevare l’essenziale della narrazione. Mannucci era contrario alla soluzione, voluta invece dal prefetto Mercati, di occupare gli spazi delle scuderie, al piano terra del Braccio di Giulio II, sul cortile del Belvedere, che il sotto-foriere riteneva inadatti, in primis per l’umidità. Avrebbe preferito offrire quegli spazi alla Floreria, ottenendo in cambio per la Biblioteca l’antica sede della Biblioteca di Sisto IV e gli spazi adiacenti. Mercati sosteneva invece la soluzione delle scuderie, anche per trasferire al pianterreno del cortile del Belvedere l’ingresso della Biblioteca (che precedentemente avveniva prima attraverso la Galleria Lapidaria, poi attraverso il Cortile della Stamperia o della Biblioteca), nell’ambito di una rivalutazione e di un riscatto del cortile del Belvedere133. La scelta delle antiche scuderie comportava però il problema della necessità del ricambio dell’aria nella “corsia”, ottenibile con l’apertura di grandi finestre, per l’areazione degli ambienti e per la loro illuminazione. Qui la situazione divenne incandescente per il contrasto fra il prefetto della Biblioteca e il sotto-foriere. Il prefetto voleva la demolizione 132 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 175-183. Domenico Mariani (1863-1939), segretario dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, creato cardinale da Pio XI il 16 dicembre 1935, conservando sino alla morte la stessa funzione, cfr. PAGANO, L’Archivio Segreto Vaticano e la prefettura di Angelo Mercati cit., p. 41 nt. 78; VIAN, «Quell’opera personale» cit., p. 1150 nt. 20. 133 Sulla questione del nuovo ingresso, cfr. VIAN, Da Leone XIII a Benedetto XVI cit., pp. 324-325.
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dei muri e l’apertura di grandi archi, il sotto-foriere, consapevole della travagliata storia edilizia del «Braccio di levante» (già crollato e ricostruito)134, si disse contrario. «Non stimo prudente divenire alla riapertura completa degli archi», aveva scritto Mannucci. «Dopo l’approvazione del S. Padre non restava che eseguire [il progetto]», gli aveva replicato Mercati. Mercati cercò di convincere Mannucci; alle sue resistenze, si rivolse direttamente al papa che incaricò Giuseppe Momo e Leone Castelli di esprimere un parere. Il sotto-foriere, pur ritenendo «non […] certo lusinghiero per me» l’intervento di personalità esterne e considerando strano «che la vertenza fosse considerata suscettibile di composizione amichevole», accettò l’arbitrato, «sicuro e fidente nelle mie buone ragioni». Al di là dell’apparente, forse solo tattica convergenza di Momo sulle prospettive di Mannucci, importa rilevare lo schema che si profilava: Momo/Castelli vs. Mannucci; i «lombardi» (in realtà nel senso di settentrionali, visto che Momo era piemontese) contro i romani; quanti erano arrivati dall’esterno, che rappresentavano il nuovo, contro la tradizione locale e vaticana che personificava il vecchio, secondo uno schema che nella storia si ripete (si era verificato prima, si sarebbe verificato in seguito). Mannucci dunque non voleva l’apertura degli archi, Mercati insisteva. Il braccio di ferro giunse al suo apice nell’incontro del 23 giugno 1928 in cui Mercati convocò contemporaneamente Mannucci e De Rossi, ma ricevendo poi solo Mannucci e ponendolo di fronte a un brusco e drastico ultimatum: o Mannucci procedeva con l’apertura degli archi e la demolizione di parte del muro o rinunciava al lavoro. Mannucci, «consapevole della mia responsabilità verso il Santo Padre» e per non «far cosa che potesse anche minimamente tornare a suo discapito», ribadì e confermò le sue posizioni e scelse il ritiro. Fu l’inizio della disgrazia. Di lì a poco Mannucci si accorse che anche il papa prendeva le distanza da lui (ne ebbe conferma in un’udienza in cui fu esplicitamente rimproverato, come era accaduto in precedenza per la localizzazione del nuovo edificio della Pinacoteca); e il sotto-foriere ne rimase scosso vedendo «disconosciuta la lealtà, anzi l’amore col quale aveva sempre servito la S. Sede, e procurato di onorarla in opere all’infuori degli obblighi del mio ufficio […]». Era dunque Mercati che aveva influenzato il papa? Oppure era il papa che voleva le soluzioni di cui Mercati era intransigente sostenitore, proprio perché sapeva chi vi era alle spalle? Allo stato delle nostre conoscenze è difficile ri134 Sul parziale crollo del bramantesco «corridore» di levante, avvenuto il 7 gennaio 1531, cfr. L. von PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo […], IV: Storia dei Papi nel periodo del Rinascimento e dello scisma luterano dall’elezione di Leone X alla morte di Clemente VII (1513-1534), parte II: Adriano VI e Clemente VII, […], Roma 1929, p. 740; HESS, La Biblioteca Vaticana cit., pp. 234, 236; REDIG DE CAMPOS, I Palazzi Vaticani cit., pp. 121, 124-125; SIMONATO, Il Palazzo Apostolico Vaticano cit., p. 163.
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spondere alla domanda135. Certo è che la crisi per l’apertura degli archi nel Braccio di Giulio II della Biblioteca Vaticana segnò l’inizio della fine della lunga carriera vaticana di Mannucci, indotto alle dimissioni, nel nuovo clima della Conciliazione (11 febbraio 1929) e della nascita del nuovo Stato della Città del Vaticano, per quanto lo stesso Mannucci affermi esplicitamente (come vedremo subito) che avrebbe desiderato proseguire ancora il servizio, che sentiva di poter continuare. Appare interessante, dunque, la concatenazione fra la rievocazione dello scontro con Mercati e le dimissioni di Mannucci, che nelle memorie seguono immediatamente le pagine sull’apertura degli archi nel «corridore di levante» del cortile del Belvedere: In questo tempo avveniva il fatto memorabile della Conciliazione della S. Sede col Governo d’Italia, che destò la gioia universale, a me menomata, per i fatti spiacevoli avvenuti ed altri che seguirono. Io prevedeva che il nuovo stato di cose doveva richiedere una speciale organizzazione e nuove opere di carattere statale, indipendenti perciò dalla mia carica di sottoforiere dei Sacri Palazzi Apostolici che io, non ostante la mia età, ed i 47 anni passati in servizio attivo, sentivo di poter continuare. Le cose andarono altrimenti: fui consigliato, o meglio, mi si prospettò la necessità di dimandare la dimissione dalla mia carica di sottoforiere ed il collocamento a riposo. Non dico l’impressione penosa che ne riportai, sia perché non vedeva qual nesso vi fosse fra le attribuzioni del sottoforiere e le nuove opere richieste da esigenze statali, sia perché la mia carica era a vita: fu però necessità rassegnarsi136. In questa contingenza però debbo esprimere la mia più viva gratitudine al S. 135 Ma si tenga conto che Pio XI, nella testimonianza del suo segretario particolare Carlo Confalonieri, seguiva da vicino i lavori, occupandosi dei «minimi dettagli»; come a proposito del ballatoio nella Sala Stampati, dove il papa durante una visita si impose bruscamente alle diverse vedute di Tisserant (che avrebbe voluto estenderli anche alle pareti esterne, nello spazio fra i diversi finestroni), CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., pp. 292-293. 136 Anche per un evento personalmente così decisivo e ravvicinato (rispetto alla stesura del testo) come le dimissioni, Mannucci non indica, nelle sue memorie, una data precisa. Ma grazie alla cortesia del dottor Alejandro Mario Dieguez, dell’Archivio Vaticano, sulla base delle rubricelle dei protocolli della Segreteria di Stato, esse possono essere datate alla fine di febbraio 1929, poche settimane dopo la Conciliazione e la nascita dello Stato della Città del Vaticano. Ecco i dati: Archivio Segreto Vaticano, Segr. Stato, Reg. Prot. 732, n. 77853/29: «28 febbraio [1929]. Vaticano. Comm. Mannucci. Dimissioni dal suo ufficio di sottoforiere e da direttore dei Servizi tecnici della S. Sede. Privilegi e compensi che chiede. 3 marzo. Lodi del servizio da lui prestato. Concessioni accordate. Busta separata 282A»; ibid. 733, n. 78025/29: «6 marzo [1929]. Beni della Santa Sede. Segretario. Ordine per la giubilazione e privilegi accordati al comm. Mannucci, sottoforiere dei SS.PP.AA. Busta separata 282A». Non è stato possibile individuare la «busta separata» cui si rinvia; né sono stati trovati riferimenti nell’archivio della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari. In quanto anticipate (l’incarico di sotto-foriere era a vita), le dimissioni di Mannucci comportarono evidentemente dei «privilegi e compensi» richiesti e ottenuti. Non è ancora stato possibile datare l’udienza di Pio XI con Mannucci, anteriore alle dimissioni, nella quale il sotto-foriere fu esplicitamente rimproverato dal papa.
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Padre, il quale si degnò di provvedere con generosità alle mie non floride condizioni economiche, ma soprattutto alle morali concedendomi di conservare il titolo di sottoforiere emerito, l’uso della abitazione, la cittadinanza vaticana e di seguitare a far parte della Commissione permanente per la conservazione dei monumenti storici ed artistici della Santa Sede, e dell’altra istituita per il decoro della S. Casa di Loreto, spingendo la sua benevolenza fino a farmi sapere dal marchese Sacchetti, Foriere Maggiore, di essere disposto ad appagare anche altro mio desiderio137. Ebbe così termine la mia lunga gestione, alla quale dedicai con zelo tutta la mia attività nell’adempimento dei miei doveri, ed il mio povero talento nell’apportare alla residenza del Sommo Pontefice gli ultimi portati della Scienza e dell’industria per renderla più confortevole e degna138.
Mannucci si rendeva evidentemente conto che i Patti Lateranensi, con la nascita dello Stato della Città del Vaticano, aprivano una fase nuova che esigeva per il neonato Stato un assetto degno di questo nome. Ma come sotto-foriere dei Sacri Palazzi Apostolici, in un ruolo dunque non riguardante il nuovo Stato ma i palazzi del papa, credeva e si sentiva in grado di poter continuare ancora il suo servizio. Non gli fu consentito e fu indotto alle dimissioni. È probabile che la crisi con Mercati sia stato più l’effetto di una situazione di crescenti divergenze fra Mannucci e il nuovo mondo che aveva preso piede in Vaticano col pontefice lombardo che la vera e propria causa della giubilazione. Ma è interessante notare che fu la Biblioteca a rappresentare il casus belli, quegli «enormi finestroni alti da terra fin sotto la volta»139 che fanno oggi naturalmente parte su tre lati dell’aspetto del cortile del Belvedere140. Si può aggiungere che lo scontro fra Mannucci e Mercati del giugno 137 Foriere maggiore nel 1929 era il marchese Giovanni Battista Sacchetti, Annuario pontificio per l’anno 1929 cit., p. 587. 138 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 184-185. 139 GIORDANI, La Biblioteca nuova cit., p. 1139. 140 Certo consapevole della battaglia combattuta intorno a quei «finestroni», I. GIORDANI, La rinnovata Sala di consultazione della Biblioteca Vaticana, in L’illustrazione vaticana 4 (1933), nr. 20, 16-31 ottobre, pp. 789-791: 789-790, insiste sul fatto che si trattava in realtà di una riapertura di varchi sulle antiche scuderie, una riapertura che fra l’altro riprendeva quanto già fatto da Pio X al primo piano dell’ala occidentale per dare luce alla Pinacoteca e anticipava quanto sarebbe stato fatto, nel piano superiore dell’edificio sistino, nelle pareti della Sala di consultazione. «I larghi ed alti fornici dei tre edifici di levante, ponente e settentrione, erano stati in parte murati, in epoche successive, e ridotti, a porticine con occhialoni al piano terra (dove in parte rimangono) o a normali finestre rettangolari». Ma cfr. già GIORDANI, La Biblioteca nuova cit., pp. 1140-1141: «La Fabbrica dei mosaici dunque si trasferiva in altra sede, dietro l’antico Seminario minore vaticano; si riaprivano subito le grandi finestre sul Cortile del Belvedere, mentre si chiudevano quelle praticate nello spessore delle mura bramantesche verso la parete di levante, la quale così venne a riacquistare l’originaria compattezza architettonica, che la fa assomigliare a un bastione di fortezza, non interrotta che dal grande arco d’ingresso riabbellito, e dal sovrastante balcone, il cui accesso venne ampliato».
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1928, se innescò il processo che portò alla giubilazione dell’anziano sottoforiere (nel 1928 aveva compiuto ottant’anni), lasciò un segno anche sull’equilibrio nervoso del prefetto della Vaticana (che di anni ne aveva diciotto di meno e ne avrebbe compiuti, alla fine dell’anno, sessantadue). Assai probabilmente l’aspra frizione fu il motivo della crisi che indusse Mercati, nei mesi di luglio e di agosto, a ritirarsi a Marola, a pochi chilometri da Reggio Emilia, nel monastero divenuto una sede del Seminario diocesano e dove aveva studiato fra il 1878 e il 1885. Da Marola, il 10 agosto 1928, Mercati scrisse a William Warner Bishop, il bibliotecario americano che era uno dei protagonisti e degli ispiratori della modernizzazione allora in atto in Biblioteca Vaticana in collaborazione col Carnegie Endowment for International Peace. Chi ha appena letto le pagine sinora sconosciute di Mannucci e considera con attenzione le date comprende adesso meglio i discreti e sibillini accenni della lettera: Chmo Sr Bishop, tante grazie del saluto che Ella mi ha mandato dall’Isola Mackinay e dal Campo Davis: glielo ricambio da un vecchio monastero fondato al tempo di Matilde di Canossa, nella cui solitudine tranquilla riposo alquanto. O caro Sr Bishop, ne sentivo il bisogno: gli anni e i pensieri non pochi per i nuovi lavori, aggiuntisi agli antichi e per quelli che mi attendono al ritorno se dovrò restare in ufficio, mi vanno infiacchendo. Fortuna che ho l’assistenza validissima di Mgr Tisserant. Ma quanto mi duole che egli ne resti gravato per me! Sarebbe meglio assai che egli più valido e più abile potesse assumere tutto: ne sarei ben contento: magari dipendesse da me riuscire a quello scopo! Sarà come Dio vorrà. Mr Tisserant l’avrà tenuta di mano in mano a conoscenza di quanto si è fatto e si va facendo, e di qualche difficoltà non lieve sopravvenuta. Spero che tutto finirà bene e che Ella al ritorno non rimarrà scontenta vedendo attuata una buona parte almeno dei piani. Sto quasi per dire dei sogni che facevamo nelle due ultime primavere. Così sia possibile avverare il resto! Me ne danno la fiducia la bontà e magnanimità veramente straordinarie del Santo Padre e la benignità degli amici della Vaticana, tra i primi dei quali mi è grato contare i Sri N. M. Butler, Pritchett e Lei cogli altri compagni di Lei. Se Ella ha occasione di trattare con Loro, favorisca rendersi interprete ad essi de’ miei sentimenti. Intanto io auguro a Lei ottime vacanze, e La prego di presentare i miei ossequi rispettosi alla Signora. Mi creda Suo devmo G. Mercati141 141 MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., p. 364 nt. 27. Bishop si trovava in vacanza col figlio nel Michigan settentrionale e in Canada e da lì aveva inviato a Mercati un saluto. Mercati fa riferimento «al ritorno» di Bishop in Vaticana, perché il bibliotecario americano era stato da poco in Biblioteca, tra il febbraio e l’aprile 1928, stendendo il celebre «report» che svolse una funzione decisiva nelle successive fasi di modernizzazione. Nicholas M. Butler (1862-1947), premio Nobel per la pace nel 1931, fu dal 1925 al 1945 presidente del Carnegie Endowment for International Peace. Henry S. Pritchett (1857-1939), presidente (19001906) del Massachusetts Institute of Technology e successivamente (1906-1930) del Carne-
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Dunque, «gli anni e i pensieri non pochi per i nuovi lavori, aggiuntisi agli antichi e per quelli che mi attendono al ritorno se dovrò restare in ufficio» andavano «infiacchendo» Mercati che in quel momento pensò, forse per la prima volta, alla possibilità di una successione di Tisserant, ritenuto «più valido e più abile» e quindi più adatto a sostenere il peso di una situazione così complessa e difficile (sarà la soluzione che si impose con la compromissoria nomina di Tisserant a pro-prefetto il 1° dicembre 1930142). Mercati confidava che Tisserant avesse informato Bishop «di quanto si è fatto e si va facendo [scil.: in Biblioteca Vaticana], e di qualche difficoltà non lieve sopravvenuta». Ma, come nota Nicoletta Mattioli Háry, che ha ricostruito le vicende di questi anni in Biblioteca Vaticana soprattutto sulla base della documentazione americana, «the events of this period at the Vaticana can be reported only summarily from partial information found in correspondence of this time. It appears that Monsignor Mercati was seriously ill in July, but the nature of his illness is unknown. What is known is that he was absent from the Library during most of July and August»143. Ma alla fine la burrasca si placò; il 20 dicembre 1928 Pio XI, durante una delle sue frequenti visite in Biblioteca, inaugurò, alla presenza di sedici cardinali, il nuovo ingresso nell’angolo nord-orientale del cortile del Belgie Foundation for the Advancement of Teaching, visitò la Biblioteca Vaticana nel maggio 1926, stabilendo i primi contatti con l’istituzione; MATTIOLI HÁRY, pp. 42-43, 59-66 e passim. Bishop, Butler, Pritchett erano allora intensamente coinvolti nel programma di collaborazione del Carnegie Endowment con la Biblioteca Vaticana. 142 L’osservatore romano, 13 novembre 1930, nella rubrica «Nostre informazioni» (p. 1), pubblicò il seguente annuncio: «Allo scopo di assicurare, tanto più proficua quanto più tranquilla, l’assistenza e l’opera scientifica di Mons. Giovanni Mercati alla Biblioteca Apostolica Vaticana ed anche per assecondare il desiderio suo e le sue istanze, la Santità di Nostro Signore ha stabilito che l’Ill.mo e Rev.mo Monsignor Giovanni Mercati rimanga alla Biblioteca Vaticana col titolo e le prerogative di Prefetto; e che le cure e le responsabilità dell’amministrazione e del governo della Biblioteca sieno assunte, col 1° decembre prossimo, dall’Ill.mo e Rev.mo Mons. Eugenio Tisserant, col titolo di Pro-Prefetto e con le prerogative corrispondenti al primo posto dopo quello del Prefetto». Sulla tormentata genesi della nomina di Tisserant a pro-prefetto, cfr. RUYSSCHAERT, Pie XI, un bibliothécaire devenu pape cit., p. 249; FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., pp. 163-166. Secondo un’affermazione di Eugène Tisserant in lettera a Carlo Confalonieri, 19 giugno 1957, il testo del biglietto di nomina fu preparato dallo stesso Pio XI; la decisione fu comunicata a Tisserant il 24 ottobre e a Mercati il 3 novembre, ma scontentò Enrico Carusi, in predicato di divenire lui prefetto, con Tisserant vice-prefetto. Cfr. anche H. GAIGNARD, La vie spirituelle du cardinal Eugène Tisserant. Entre perfection et sainteté (1908-1945), Paris 2009 (Institut Catholique de Toulouse. Histoire et théologie, 3), pp. 39-40, 79-83, 92-95. Nell’agosto 1930 un medico aveva diagnosticato per Mercati una depressione nervosa; il fatto probabilmente accelerò la soluzione del problema dei rapporti con Tisserant e del ruolo e del titolo di quest’ultimo, ibid., p. 82. 143 MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., p. 363. Per il periodo non sono state individuate le lettere scritte da Tisserant a Bishop il 24 luglio e l’8 agosto, cfr. ibid., p. 363 nt. 25. Per la corrispondenza (passiva) di Mercati nel periodo, cfr. Carteggi del card. Giovanni Mercati, I, cit., pp. 422-425.
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vedere. Nell’occasione il papa visitò anche il pianterreno del Braccio di Giulio II con i tre piani di scaffalature della Snead disegnate dall’ingegner Angus Snead MacDonald e messe in opera dal capo-tecnico Carl Aichele, che per mesi era stato a Roma144. Probabilmente poco prima era stata scattata una fotografia del pianterreno delle antiche scuderie, già riempito della scaffalatura Snead; nella parte destra, ancora fresco di calce, si nota il primo arco aperto nel muro145. La sconfitta di Mannucci era completa e definitiva. Ma audiatur et altera pars. Sulle vicende narrate da Mannucci abbiamo anche la versione del suo antagonista. Trascriviamo alcune note di Mercati stese in margine agli eventi di quell’anno critico e decisivo che, per molti versi, fu per la Biblioteca Vaticana il 1928146: febbraio-marzo 1928: […] Inoltre, poiché il Santo Padre ha concesso di adattare gran parte della vecchia scuderia — quella sotto la galeria Lapidaria fino al passaggio della strada che sale dalla porta di S. Anna al cortile del Belvedere, studiato come adattare i locali e metterli in comunicazione con la nuova sala del catalogo e con una nuova sala di studio da costruirsi, se sarà possibile nel giardinetto a mattina della sala del catalogo e coll’estremità nord della Barberini. Studiato anche l’impianto della scaffalatura in ferro. Presentato preventivo lavori il 9 marzo e di nuovo il 28 marzo ed in somma approvato dal Santo Padre a condizione che si finisca entro quattro mesi. Aprile 1°, ore 11: Venuto il Santo Padre a vedere la nuova sala del catalogo e lo schedario. […] All’uscita S. Santità insiste per la celere esecuzione dei lavori d’adattamento sotto pena di multa in caso di ritardo […]. Maggio 6: Alle ore 11 c. il S. Padre è sceso a vedere i lavori di adattamento delle 144 MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., plate 17 (fra le pp. 380 e 381). Un’immagine del papa e del suo seguito di fronte al nuovo ingresso nella plate 18 (fra le pp. 382 e 383). Non si può escludere che fra i diversi personaggi compaia anche Mannucci. Fotografie in occasione dell’inaugurazione, dell’interno del nuovo ingresso (con la scala di collegamento), delle nuove scaffalature metalliche probabilmente al pianterreno sono pubblicate in C. PASINI, Achille Ratti bibliotecario, in 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 49-62: 56, 57, 59. Cfr. anche la scheda di A. DIOTALLEVI e S. DE CRESCENZO, ibid., pp. 306-308, e le schede pubblicate ibid., pp. 382-386. 145 MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., plate 16 (fra le pp. 374 e 375). 146 Anche GAIGNARD, La vie spirituelle du cardinal Eugène Tisserant cit., sulla base delle lettere di Tisserant al suo direttore spirituale Charles Ruch, si è reso conto dell’acuta criticità della situazione raggiunta nel 1928, anche nei rapporti Mercati-Tisserant: «L’incompréhension [scil.: fra Mercati e Tisserant] atteint son paroxysme avec les travaux de modernisation de la Vaticane. L’année 1928 est particulièrement difficile», ibid., p. 80; «Cette crise se poursuit au mois de juin. Les difficultés résident dans la manière de mener l’ensemble des travaux de modernisation, tout cela aboutit à la rédaction de deux mémoires. Eugène Tisserant et Monseigneur Mercati expliquent chacun leurs points de vue. La tension se poursuit jusqu’à la fin de l’année 1928 […]», ibid., p. 81. Al dissenso fra Mercati e Tisserant si deve quindi aggiungere quello fra Mercati e Mannucci.
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scuderie. Presenti con me Monsignor Tisserant, il Comm. Mannucci, l’ing. Fabio de Rossi147. S. Santità non approva che si forassero finestre dove sono le nicchie, né che si alzasse di 30 cm. il pavimento sopra l’antico: accoglie l’idea di fare l’accesso alla Biblioteca e all’Archivio dall’ambiente delle carrozze sotto la statua di S. Tommaso e ordina di presentargli un preventivo. […] Accenna all’idea di levare la cordonata, ma che si vegga se sia buona; ciò che mi permisi di revocare in dubbio, parendomi che meriti di essere riparata e conservata. Maggio 20 ore 11. Il S. Padre torna sul luogo. Presenti i medesimi che sopra e il Signor MacDonald Direttore della Comp. Snead (Jersey C., N.J.) venuto per studiare l’impianto degli scaffali. Monsignor Tisserant presenta i campioni e disegni e rileva e raccomanda l’adozione degli Standard Stacks. Esitazioni del S. Padre per la spesa. Mannucci sconsiglia di mettere scaffali sopra la cordonata per timore dell’umidità: il Santo Padre, esaminato tutto, decide che vi si pongano purché vi si faccia altra finestra, rinnovi il pavimento, anzi si facciano due o tre camere d’aria. I miei tentativi per salvare la cordonata, levandone il fondo umido e applicando l’asfalto non riuscirono: la distruzione, che seguirà (era conservata fino al fondo e identica alle cordonate del palazzo di S. Giovanni in Laterano almeno prima del restauro), risale principalmente al Signor Mannucci, come a lui risalgono le feritoie e i canali praticati sul muro a levante. Il Santo Padre inoltre decise che per il nuovo accesso non si fabbricasse una nuova scala dal suolo nella rimessa degli automobili ma si utilizzasse l’antica scala esistente sotto la sala biblica e la si continuasse a sera fino a raggiungere il termine della scala che porta alla sala di consultazione. La visita durò oltre un’ora. = NB. Il Signor Danti, mandato dal Comm. Mannucci, ha stoltamente fatto ricoprire di calce l’iscrizione originale dipinta che stava nell’arco e l’ha ridipinta poi, non conservando né i colori né le forme originali148. Ne informai subito S. Santità. — Il Santo Padre ha poi magnanimamente accettato che si ordinino gli Standard Stacks, gli ascensori e ventilatori occorrenti a fare un magazzino modello (ud. del 25 maggio). Giugno 28, ore 10,30: il Santo Padre scende a vedere […]. Poi accompagnato da Monsignor Tisserant e da Monsignor Confalonieri scende a vedere i lavori della nuova biblioteca. Approva il progetto del Signor Ing. Architetto Giuseppe Momo per l’apertura degli archi senza contrafforti, osteggiata ostinatamente dal Signor Comm. Mannucci: si pronuncia anche per l’adattamento della scala antica come il 20 maggio, ordinando però d’intendersi col medesimo Signor Architetto Momo, al quale Monsignor Tisserant ha scritto il giorno seguente. Luglio-dicembre. Il Santo Padre ripetute volte è sceso a vedere i lavori e a spingerli fortemente avanti; ha autorizzato l’apertura della nuova scala proposta da Monsignor Le Grelle; ha concesso i locali a sera immediatamente adiacenti per magazzino di deposito; ha autorizzato la rimozione della caldaia del calorifero 147 De Rossi partecipava come «aggiunto assistente» nell’ufficio del foriere maggiore (cfr. supra, nt. 117). Considerata l’età di Mannucci, prossimo a compiere gli ottant’anni, si avviava a sostituirlo, come di fatto poi avvenne. 148 A proposito di Giuseppe Danti, cfr. supra, ntt. 30 e 58.
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dell’Archivio e del camino di essa e l’acquisto di una nuova caldaia ecc. che basti all’Archivio e alla biblioteca insieme; infine ha ordinato la riparazione e l’adornamento del cortile del Belvedere secondo il disegno dell’On. Signor Arch. Luca Beltrami, il quale ha anche dato il disegno della nuova porta d’ingresso e delle bussole e delle lapidi e rimediato al disadorno e al goffo dell’ambiente e dello scalone. Le serrature furono affidate al Signor Comm. Leone Castelli e alla Ditta Bombelli di Milano; la fornitura del materiale per la luce elettrica della nuova Galleria alla ditta Snead, la quale poi anche ha provveduto al ventilatore pagato dalla Dotazione Carnegie. I ventilatori invece dei grottoni e del magazzino dei mss. furono invece forniti dal Signor Bozzino (?), che fece l’impianto del calorifero. — Mesi di febbrile lavoro per Monsignor Tisserant, per il Signor Segretario Signor E. Musso149 e poi anche per me, mentre premevano le bozze del Tolomeo e le difficoltà del catalogo degl’incunaboli150. Nei lavori del Belvedere fu trovata [sic] un pezzo di colonna bella di porfido con (riferisco a memoria). È stata collocata nel luglio l’indicazione della misura π o agosto 1929 nella Galleria Lapidaria presso il portone di ferro della Biblioteca. Dicembre 20. Inaugurazione della nuova galleria e del nuovo accesso della Biblioteca. V. Osservatore Romano del 21 (e 22) dicembre. Sua Santità si è dimostrato contentissimo, e tutti in generale sono rimasti ammirati della buona riuscita, non ostante la somma celerità, quasi precipitazione dei lavori151.
La ricostruzione di Mercati sostanzialmente coincide con quella di Mannucci, ma nel senso opposto. Appare anche chiaro come dietro la determinazione di Mercati di far procedere speditamente i lavori, senza indugi e ritardi, vi fosse proprio Pio XI. Mercati doveva procedere, per non perdere i promessi finanziamenti e non incorrere in sanzioni e multe. Le obiezioni di Mannucci, contro il quale sembra diretto il malumore di Mercati per la distruzione della cordonata e per altri interventi compiuti dal «cav. Danti» (ben noto a chi abbia letto le pagine delle memorie di Mannucci) su indicazione del sotto-foriere, potevano risultare fatali al progetto. Si può aggiungere che dalle note di Mercati si deduce che la soluzione dell’apertura dei finestroni negli archi senza contrafforti era di Momo (che però non si era 149
Su Emanuele Musso, «assistente per l’economia», in seguito «segretario economo» della Biblioteca Vaticana, cfr. infra, nt. 217. 150 Mercati era in quei mesi particolarmente impegnato, oltre ad altri lavori, nella revisione del lavoro del gesuita Josef Fischer per il commentario del facsimile della Cosmographia di Tolomeo (Urb. gr. 82), che avrebbe visto la luce nel 1932, e nella guida del lavoro di Tommaso Accurti e Luigi Gramatica di catalogazione degli incunaboli, cfr. MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 375, 461 e passim. 151 Arch. Bibl. 115, pt. A, ff. 46r-47r. Delle note si è fatta una selezione limitandosi ai soggetti maggiormente pertinenti al tema dell’articolo. Il riferimento dell’ultima notazione è agli articoli: L’ampliamento della Biblioteca Vaticana. La visita inaugurale del Santo Padre. La grandiosità del nuovo assetto; G. BORGHEZIO, Gli ordinamenti di Pio XI, in L’osservatore romano, 21 dicembre 1928, pp. 1-2.
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espresso così nel corso del «sopraluogo» con Mannucci). Si comprende anche quanto Mercati abbia dovuto soffrire in questa situazione, combattuto fra la necessità di proseguire nella direzione e nei tempi voluti dal papa, probabilmente pressato da Tisserant che si muoveva nella stessa direzione, e la consapevolezza che i lavori potevano così apparire non solo celeri ma persino precipitosi. Di qui un profondissimo malessere che lo indusse a ritirarsi a Marola, fra il luglio e l’agosto 1928; ma che forse mise anche in moto il processo che più di due anni dopo condusse alla compromissoria soluzione della nomina del pro-prefetto il 1° dicembre 1930. 9. La storia non si era però conclusa e le preoccupazioni del sotto-foriere ormai emerito sembrarono avere un’imprevista e tragica conferma. I lavori per gli ampliamenti della Vaticana tornano infatti nuovamente nell’Appendice del volume, riferita a fatti avvenuti dopo il pensionamento forzato avvenuto nel 1929. Il clou degli eventi, a proposito della Biblioteca, è rappresentato dal crollo nell’edificio Sistino avvenuto nel pomeriggio del 22 dicembre 1931, con la morte di cinque persone (quattro operai e un bibliotecario, un giovane nipote di Marco Vattasso, che dello zio, scomparso nel 1925, portava lo stesso nome)152. Al drammatico evento, «the greatest tragedy in the Library’s history»153, che in qualche modo sembrò dare ragione alle preoccupate apprensioni di Mannucci, il racconto del sotto-foriere emerito arriva gradualmente, facendo inizialmente un passo indietro e raccontando l’ultimazione dei lavori al pianterreno del Braccio di Giulio II: Nel 1929, epoca del mio collocamento a riposo, come ho esposto nelle mie antecedenti note, erano in corso i lavori della Biblioteca e del suo nuovo ingresso. Questi lavori erano stati da me iniziati, e si stavanano [sic per stavano] eseguendo in conformità di un mio progetto, nel quale aveva considerevole parte tanto il risanamento del locale, che dall’uso di stalla, doveva essere destinato a biblioteca, quanto il 152 Per il crollo del Salone Sistino, cfr. CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., pp. 84, 86-87; CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., p. 149; RUYSSCHAERT, Pie XI, un bibliothécaire devenu pape cit., p. 249; GAIGNARD, La vie spirituelle du cardinal Eugène Tisserant cit., pp. 83, 93, 97; MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 490-493, 495-496, 498-499, 503-506, 520, 525, 549, 566, 572; FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., pp. 167-169; RITA, La Biblioteca Vaticana nelle sue architetture cit., p. 110 (a p. 111 è pubblicato un disegno ad acquerello, an. 1932, Gabinetto delle stampe, Disegni. Generali. 368, di V. H. Bailey, che raffigura la facciata dell’edificio sistino ingabbiata dai ponteggi per i restauri dopo il crollo); VIAN, Da Leone XIII a Benedetto XVI cit., p. 319; e, soprattutto, infra, Appendici, II-III. Singolarmente, BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., non fa riferimento all’accaduto. Non ho potuto consultare A. S. MACDONALD, Disaster in the Vatican Library, in Scientific American 146 (7 April 1932), pp. 226-227, e Reconstructing the Vatican Library, in Catholic World 134 (December 1931), p. 364, citati da Mattioli Háry, p. 682. 153 MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., p. 493.
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consolidamento del prospetto sul cortile del Belvedere minacciato dalla rottura e conseguente strapiombo dei piloni. Rimase interrotto il risanamento del locale, che fu limitato alla costruzione di uno strato di calcestruzzo nel piano della galleria ricoperto con uno strato di asfalto154. Fu trascurato di provvedere al distacco dei piloni dal fondamento, verificatosi per lo strapiombo dei piloni stessi. Nulla fu fatto per il risanamento dei muri invasi dal salnitro fino a considerevole altezza, e nulla parimenti per assicurare una permanente circolazione dell’aria, sia nell’ambiente, sia nel vespaio. Fu adottato un congegno per la circolazione dell’aria nell’ambiente proposto ed eseguito dalla Casa Americana costruttrice degli scaffali in ferro155. Furono demoliti i muri che chiudevano i quattro archi del portico, non tenendo conto delle mie osservazioni fatte al riguardo. Nella galleria superiore già occupata dallo studio dei mosaici, in seguito al parere favorevole espresso dall’arch. Beltrami furono aperte grandi finestre negli interpilastri terminate ad arco a tutto sesto. La esecuzione di questi lavori fu curata e diretta dall’ingegnere De Rossi sotto il controllo dell’arch. Senatore Beltrami. La galleria, già studio del mosaico, fu annessa alla Biblioteca con lo stesso sistema degli scaffali in ferro adottato nel piano inferiore delle già scuderie, dietro assicurazione dei tecnici americani, che la galleria stessa avrebbe potuto sostenere un peso anche doppio156. Allo scopo di rendere uniforme la distribuzione del peso cui veniva assoggettata la galleria fu costruita una platea di cemento armato in tutta la sua superficie, la quale aumentava di molto quello già considerevole degli scaffali e dei libri gravante su piloni che, per lo strapiombo subito di cm. 12 alla sola altezza di mt. 10, si erano spezzati poco sotto al piano terreno formando un vuoto tale da ridurre di molto la superficie di appoggio di tutto l’edificio dalla parte del cortile del Belvedere. 154 Come si afferma esplicitamente in seguito, dopo lo scontro con Mercati, i lavori furono portati a termine sotto la responsabilità del De Rossi (cfr. supra), modificando il progetto originario di Mannucci. 155 Per il condizionatore d’aria allestito dalla ditta Snead, cfr. MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 306, 358-359, 370, 372, 379-380, 394. «Un potente ventilatore trasmette l’aria per tutto l’ambiente, caricandola automaticamente o impoverendola di vapor acqueo, a seconda delle condizioni atmosferiche, allo scopo di proteggere le rilegature in pelle, le quali soffrono tanto per l’eccesso di umidità quanto per l’eccesso di siccità», GIORDANI, La Biblioteca nuova cit., p. 1139. 156 A proposito della nuova sezione acquisita dal deposito degli stampati GIORDANI, La Biblioteca nuova cit., pp. 1141-1142, offre precise indicazioni: «la parte principale di essa occupa […] un locale lungo 136 metri, largo sei e alto più di sette, a volta, e comprende 10.000 metri di palchetti, disposti in 471 scaffali, alti m 2,10 del peso complessivo di 250 tonnellate di ferro. Venticinque file di scaffali del quarto piano sono state recinte di griglie e chiuse con porte speciali per i libri di maggior valore, della così detta “Riserva” e gl’incunaboli. L’impianto elettrico di questa sezione è ancora più moderno di quello sottostante: 300 lampadine elettriche, regolate a tempo da interruttori ad orologeria, con fili conduttori dentro tubi che garantiscono l’isolamento perfetto contro i pericoli dell’incendio, illuminano l’ambiente. Un ventilatore, collocato al secondo piano prende l’aria preventivamente essiccata o inumidita del magazzino sottostante, e la lancia per i tre piani del reparto. Questo è capace complessivamente di 420.000 volumi».
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Si era quasi al termine della sistemazione dei libri nel nuovo braccio, quando si manifestarono in tutta la sua lunghezza gravi lesioni. Si credette di poter rimediare col togliere dalla superiore galleria delle Lapidi tutti i pesanti resti di antichi monumenti gravanti sul pavimento157. Finalmente però con l’aggravarsi delle lesioni e riconosciutane la causa dalla direzione dei lavori, dopo aver sgombrato gli scaffali da tutti i libri che affrettatamente vi erano stati collocati, furono costruite in ogni interpilastro altrettante crociere in ferro sostenute da colonne, parimenti in ferro poggiate sul fondamento a sostegno completo di tutto il primo piano. Con maggior semplicità mi sembra che operando su ciascuno dei piloni col medesimo sistema usato nel primo, si sarebbe potuto ottenere pari efficacia con una costruzione in cemento armato158.
Mannucci fa quindi notare tutte le pecche, le superficialità, le omissioni del lavoro, dominato dalla fretta e dall’urgenza di finire i lavori sotto il pontificato di chi «raptim transit» e non tollerava indugi159. Per quanto in posizione ormai defilata, Mannucci continuava dunque a seguire da vicino i lavori informandosi o venendo a conoscenza dei particolari dall’antico personale a lui sottoposto. Di fatto le lesioni che l’edificio presentava costrinsero a un ripensamento: i volumi, affrettatamente collocati negli scaffali, vennero spostati e l’edificio venne rinforzato con un sistema evidentemente efficace anche se Mannucci ritenne che si sarebbe potuto ottenere diversamente lo stesso obiettivo. Ma le nuvole continuavano ad addensarsi dense e oscure sui lavori di ampliamento della Vaticana. Pur essendo avvenuto non nel Braccio di Giulio II ma nell’edificio storico di Sisto V, il rovinoso e tragico crollo del 22 dicembre 1931 sembrò dare lugubre ragione alle pessimistiche aspettative di Mannucci a proposito di un modus operandi che non sembrava consapevole della delicatezza di interventi di ristrutturazione in edifici storici di veneranda antichità. Ma anche nella rievocazione dell’incidente gravissimo del dicembre 1931 Man157 Il riferimento è alla Galleria lapidaria, allestita da Gaetano Marini nell’ambulacro che collega il Museo Chiaramonti e l’Appartamento Borgia con epigrafi pagane e cristiane, I. DI STEFANO MANZELLA, Galleria Lapidaria, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 320-321. 158 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 190-192. Quanto affermato da Mannucci, anche a proposito del provvisorio spostamento dei volumi da poco sistemati, è confermato dalla comunicazione (22 ottobre 1934) di Eugène Tisserant al congresso annuale dell’Associazione Bibliotecari Italiani svoltosi a Bari (20-23 ottobre 1934), il cui testo è pubblicato in E. TISSERANT, Il riordinamento della Biblioteca Vaticana, in Accademie e biblioteche d’Italia 8 (1934), pp. 582-584; cfr. MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., p. 566. 159 Interessante quanto scrive in proposito Carlo Confalonieri: «se per ragioni varie — a Suo giudizio — si verificava qualche rallentamento nel ritmo che egli voleva accelerato, lo faceva notare ed invitava ad insistere. La cava di marmo di Carrara era in ritardo per ragioni sue, nella consegna dei marmi per i ripiani del Magazzino… “bisogna sollecitare; si telegrafi… disse. Non è bene perder tempo”. Ed approvò quando gli si fece conoscere quanto era stato fatto, prevenendo i Suoi desideri», CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., p. 292.
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nucci non abbandona il suo stile di pacata e oggettiva esposizione di fatti e circostanze. Anche se all’evento, nell’Appendice, dedica diverse pagine, aperte da un titolo che sembra quasi lo «strillo» di un giornale: DISASTROSO CROLLO NELLA SALA SISTINA Nel tornare in casa la sera del 22 Dicembre 1931 ebbi la dolorosa sorpresa di sapere che da pochi minuti era crollata la parte centrale del salone di Sisto V della biblioteca. Mi recai al cortile del Belvedere ove potei rendermi conto della gravità del disastro. Non mi fu possibile raccogliere notizia alcuna essendo tutti occupati a tentare il salvataggio di cinque persone che erano nell’interno, delle quali dopo un penoso lavoro si dovette constatarne la morte. Di fronte a tanto disastro era ansioso di poterne conoscere le cause, perché fin dal primo momento, altri lo facevano dipendere da un movimento del terreno, altri dai lavori che si eseguivano nel piano terreno e tutti dalla imperfetta ed affrettata costruzione dell’edificio, sotto il breve pontificato di Sisto V160. Il braccio della biblioteca che prende il nome dal pontefice che lo edificò, attraversa al piano del grande cortile del Belvedere, le due ali dell’anfiteatro costruito dal Bramante. L’edificio è formato di due corpi divisi nel piano terreno da un muro di spina161 e da grossi pilastri rispondenti a quelli del prospetto. Il piano terreno è coperto con volta a botte nel corpo posteriore, e con calotte sferiche a sesto ribattuto nel corpo anteriore. Nei due piani superiori vi sono solamente i piloni sui quali poggiano le volte a crociera. Nel piano terreno fin dalla costruzione fu utilizzato il solo corpo anteriore, mentre nel posteriore rimase sempre un banco di argilla per i due terzi della altezza, sul quale era costruita la grande scala per salire alla parte intermedia dell’anfiteatro, che oggi forma il cortile della Stamperia. È vero che questo edificio fu costruito affrettatamente, ed è vero altresì che la sua costruttura apparisce poco accurata, ma è pur certo che la sua stabilità nulla lascia a desiderare. Nel primo piano dopo gli avvenimenti del 1870 fu adunata una quantità di armi di ogni genere appartenenti all’esercito pontificio, che io ho potuto calcolare di un peso di circa 500 tonnellate. Questo pesante ingombro fu rimosso allorquando il Pontefice Leone XIII destinò l’intiero piano a biblioteca di consultazione162. Nel non breve periodo di 47 anni che ebbi in custodia questo edificio, non vi riscontrai giammai il minimo segno di poca stabilità; che anzi nei due perturbamenti sismici che produssero la distruzione completa, l’uno della città di Messina, l’altro 160 REDIG DE CAMPOS, I Palazzi Vaticani cit., pp. 185-189 e passim; M. BEVILACQUA, Domenico Fontana e la costruzione del nuovo edificio, in Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, II: La Biblioteca Vaticana tra riforma cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio (15351590), Città del Vaticano 2012, pp. 305-332. 161 «Muro di spina» è, tecnicamente, un muro che, nelle costruzioni a pianta rettangolare, è disposto lungo un asse centrale parallelamente alle fronti lunghe, servendo come sostegno delle strutture orizzontali e delle coperture («muro trasversale» è invece un muro che, con funzioni analoghe, è posto perpendicolarmente alle fronti lunghe). 162 Cfr. supra, testo e ntt.
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di Avezzano163, si conservò nella sua completa integrità, mentre molte altre parti del Vaticano ne risentirono sensibilmente, verificandosi lesioni ed anche qualche, sia pur leggero, spostamento di muri. Dietro questi fatti volendo indagare sulla causa dei [sic] disastro, non mi rimaneva che prendere conoscenza del [sic] lavori che si stavano eseguendo nel piano terreno. Sarebbe stato opportuno un sopraluogo che ritenni prudente rimettere ad altro momento. Mi limitai ad assumere informazioni, dalle quali mi risultò che nel piano terreno si stavano eseguendo alcuni lavori destinati all’utilizzazione completa del piano terreno, e che comprendevano la costruzione di un piano ammezzato da essere annesso alla biblioteca. Una parte del piano terreno doveva essere assegnata ai Musei ad uso di magazzino dei frammenti di sculture antiche. Per dare luce a tutta la parte del corpo posteriore fu proposta l’apertura di grandi vani nel muro di spina negli interpilastri aventi m. 4 di larghezza terminanti da archi a tutto sesto fino alla altezza della volta, basandone le spalle sul piano terreno e stabilendone la soglia a m. 4,60 dallo stesso piano terreno. Spalle ed archi da eseguirsi unicamente con mattoni. L’ingegnere De Rossi fu incaricato dal Prefetto della Biblioteca di eseguire i lavori sotto la sua direzione164. Il lavoro fu iniziato nella parte più importante, cioè nella apertura di quattro vani partendo dai due centrali. I nuovi archi costruiti in breccia furono disarmati demolendo il muro, che aveva servito di armatura, dopo 5 giorni da che era stata chiusa la chiave165. Seguì immediatamente la costruzione degli altri due impostati, come i primi su nuove spalle a mattoni, la cui chiave fu chiusa il lunedì 21 dicembre, adottando per meglio rispondere alla voluta celerità, malta ordinaria mista con cemento. Nel giorno seguente due operai, ad insaputa dell’ingegnere [scil.: De Rossi], posero mano alla demolizione del muro che serviva di armatura dell’arco situato dalla parte del nuovo ingresso alla biblioteca. Nella mattina stessa che si stava eseguendo questa demolizione si manifestarono alcune crinature nel pavimento della Sala di Sisto V che richiamarono l’attenzione degli addetti alla Biblioteca e del Prefetto. Questi diede incarico ai suoi dipendenti di ricercare l’Ing. De Rossi, che non fu ritrovato, essendo occupato altrove.
163
Come si è accennato, i due eventi sismici avvennero rispettivamente il 28 dicembre 1908 e il 13 gennaio 1915, cfr. supra. In occasione del primo, Pio X avrebbe voluto recarsi sui luoghi del disastro ma sarebbe stato dissuaso dal suo entourage che temeva l’implicito riconoscimento della situazione ereditata da Porta Pia, BERTINI, Ai tempi delle guarentigie cit., pp. 193-194. 164 Il prefetto della Vaticana era allora Mercati; ma, come si è visto, dal 1° dicembre 1930 era affiancato da Tisserant come pro-prefetto; ed era Tisserant a seguire più da vicino lo svolgimento dei lavori. Si può dunque supporre che qui e successivamente Mannucci si riferisca a Tisserant, pur definendolo «prefetto»; oppure si può pensare che si riferisca nel primo caso a Tisserant, nel secondo a Mercati. 165 Nelle costruzioni edili, la «lavorazione in breccia» è la sostituzione a piccoli tratti successivi di muratura nuova a una fatiscente o lesionata.
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Intanto i due operai proseguivano a demolire il muro ed eransi provvisti di attrezzi adatti (di caravina166) per rendere più facile e sollecita la demolizione. Passò il mezzodì e nessuno si curò di ricercare l’ingegnere, né da parte della Biblioteca né da parte dell’impresa dei lavori, non ostante che l’assistente fosse stato avvertito dagli operai che lavoravano nel pianterreno, della manifestazione di indizi che facevano sospettare alcunché di anormale. Nel pomeriggio furono ripresi i lavori, compreso quello della demolizione. L’Ingegnere, sempre ignaro di tutto, si recò sul posto per sorvegliare la costruzione di un collettore destinato a convogliare le acque di pioggia e di filtrazione. Nessuno si prese premura di informarlo di quanto accadeva. Circa le ore 16 si recò alla Sala del Concistoro167, ove si stava compiendo il nuovo pavimento, e fu solo in quell’ora che, accentuatesi in modo allarmante le lesioni, fu fatto chiamare di urgenza. Non era giunto sul luogo che avvenne un primo crollo, seguito dopo pochi istanti da un secondo, che travolsero tutta la parte centrale del braccio Sistino, seppellendo sotto le macerie quattro operai ed uno studioso168. Da un primo esame mi sembrò, pur ammettendo come causa principale la intempestiva demolizione dell’armatura dell’arco, che al crollo avesse concorso qualche altra causa da renderlo così disastroso. Fui confermato in questa opinione nell’osservare una parte del muro di spina rimasto in piedi nel centro, inclinato verso il prospetto. Quando furono rimosse le macerie, l’inclinazione si venne accentuando in modo da rendere necessaria una puntellatura per arrestarne il movimento. Ciò poteva rivelare uno spostamento del muro di spina sulla fondazione, fenomeno che, doveva contribuire ad allargare in modo considerevole la zona del disastro. Dietro ulteriori osservazioni ritengo che la causa del disastro possa essere stabilita nel modo seguente. Non vi è dubbio che la causa determinante si debba ripetere dalla arbitraria ed intempestiva demolizione del muro di sostegno dell’arco costruito in breccia e terminato da sole 24 ore. Infatti appena è stata iniziata la demolizione il peso del muro superiore è andato a gravare sull’arco, il quale per effetto della pastosità della malta, ne ha dovuto 166 Termine romanesco per indicare la «gravina», attrezzo per lavorare il terreno, con lama a forma di zappa da una parte e un grosso dente simile a quello di un piccone dall’altra. 167 Allestita (come l’attigua Sala Clementina) durante il pontificato di Clemente VIII (1592-1605), la Sala del Concistoro è situata a nord, nel prolungamento del palazzo di Gregorio XIII; fu denominata nel Settecento, per la sua forma allungata, «Gallerione» ed è utilizzata soprattutto per i concistori pubblici. «L’ambiente è costituito da un corpo rettangolare addossato al palazzo di Sisto V, che funge da collegamento tra le due fabbriche. Il salone fu decorato con un ricchissimo soffitto ligneo intagliato e dorato e da un fregio ad affresco per volontà di Clemente VIII, che vi tenne il primo concistoro (5 novembre 1603). Nel Settecento era utilizzato per i pranzi di gala e il pontefice vi riceveva i cardinali e gli ospiti d’onore, come attesta l’iscrizione di Clemente XIII sulla parete est che lo definisce Triclinium Vaticanum (1765)», BREDA – RODOLFO, Il Palazzo Apostolico Vaticano cit., pp. 198-199. Cfr. REDIG DE CAMPOS, I Palazzi Vaticani cit., pp. 197-198. 168 Per i nomi delle cinque persone perite nel crollo, cfr. infra, Appendici. II. Le versioni de L’osservatore romano sul crollo del 22 dicembre 1931.
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produrre uno schiacciamento deformandolo. Da questo momento il muro di spina superiore all’arco, o meglio il primo piano ha cominciato a trovarsi senza appoggio, e ne sono seguìte le crinature delle volte manifestatesi nel pavimento della sala superiore. Nel proseguire la demolizione il fenomeno si è andato accentuando, e si sono manifestati segni allarmanti nel piano terreno, avvertiti dagli operai, ma trascurati dall’assistente ai lavori, ed il peso di tutta la parte superiore dell’edificio ha gravato al di qua ed al di là dell’arco. Per effetto poi del progressivo schiacciamento è seguìta la rottura delle volte, e per effetto del differente valore della spinta fra quelle del corpo posteriore con quelle verso il prospetto, è avvenuto un primo crollo. Dopo brevissimo tempo è seguìto l’altro che ha travolto la parte centrale dell’edificio fino al tetto, dovuto massimamente al carico portato sugli archi centrali recentemente costruiti, e non ancora consolidati. Inoltre è da osservare che il terreno sottostante al muro di spina è formato da uno strato, di un durissimo conglomerato di ghiaia. Questo strato che trovasi a livello del piano del nuovo ingresso della biblioteca, è inclinato verso la parte opposta approfondendosi di oltre mt. 1 al punto ove è terminato il crollo. In questo medesimo punto termina lo strato roccioso e si incontra uno strato di tufo argilloso. In tutta questa estensione la fondazione del muro di spina è superficiale, ossia il muro di spina poggia sul detto strato a pochi centimetri sotto il piano terreno; nel rimanente la fondazione è profonda, ma resa discontinua dalla presenza di una fogna che raccoglie le acque della parte superiore dell’edificio di Bramante, ed ove sono convogliate le acque di filtrazione di una sorgente, che fin dal pontificato di Benedetto XIV vi furono immesse perché danneggiavano le fondazioni del muro, come attesta un documento dell’epoca169. Lo stato di fatto di questo muro ha certamente contribuito ad affrettare ed aumentare l’entità del disastro. Difatti allorquando ha cominciato a manifestarsi lo schiacciamento con la conseguente rottura delle volte dei due corpi di fabbrica, la spinta esercitata dalla volta a botte del corpo posteriore ha prevalso su quella minore delle volte a calotta del corpo anteriore. Il muro di spina ha dovuto subire uno spostamento dalla verticale verso il prospetto, in modo considerevole, anche perché non ha potuto opporre la resistenza alla rottura certamente non trascurabile, se la fondazione fosse stata profonda, data la grossezza del muro di mt. 0.60 fra pilone e pilone, e quella tanto maggiore dei piloni aventi mt. 2.40 di grossezza nel senso longitudinale e mt. 1.20 nel trasversale. Il disastro è dunque dovuto come a causa determinante alla intempestiva ed arbitraria demolizione del muro di sostegno, o di armatura dell’arco compiuto il giorno innanzi, aggravato dalle condizioni speciali del terreno di appoggio del muro di spina in quella parte dell’edificio, ed è evidente che si sarebbe potuto scongiurare, o almeno ridurre a meno gravi proporzioni se alle prime manifestazioni avvenute nel mattino nella parte superiore, e specialmente nel piano terreno, si fosse sospesa la demolizione, e provveduto con opportune armature a sostituire la parte demolita. Questo gravissimo fatto dimostra quale e quanta circospezione debba usarsi 169
Da rilevare l’attenzione di Mannucci a una ricostruzione della storia edilizia degli ambienti che risale sempre indietro nel tempo, cercando di raccogliere dati da fonti documentarie. Un metodo che indica una mentalità.
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nell’intraprendere lavori di innovazione negli antichi edifici, sia per la vetustà, sia per la struttura non sempre perfetta, e per le condizioni speciali del terreno170.
Non si poteva essere più chiari ed espliciti. Sin dal primo momento le opinioni in merito alle cause del disastro si polarizzarono in due schieramenti: quanti lo facevano dipendere «da un movimento del terreno» e quanti lo addebitavano ai «lavori che si eseguivano nel piano terreno». Pur non disconoscendo l’imperfezione della costruzione affrettata dell’edificio di Sisto V, Mannucci prendeva nettamente posizione per la seconda ipotesi. Fu un maldestro intervento umano a provocare il collasso. Da notare che l’ormai sotto-foriere emerito non si recò sul luogo del crollo e ritenne prudente rinviare ad altro momento un sopralluogo (evidentemente la sua presenza poteva essere ritenuta sgradita e imbarazzante, una sorta di ombra di Banco). Pur nella loro asciutta pacatezza, le pagine di Mannucci sono un formidabile attacco, una rivincita quasi postuma, alle modalità di gestione dei lavori per gli ampliamenti della Biblioteca. Se sulla questione era volata la sua testa, sulla questione tornava ad avere un’ultima parola, tragicamente confermata dai fatti. Per quanto si parli del «prefetto» della Vaticana, l’implicita critica non sembra mossa a Mercati ma, come si è accennato, a Eugène Tisserant, che dal 1° dicembre 1930 era pro-prefetto della Biblioteca e il vero responsabile dei lavori. Ma alle spalle di Tisserant si intuisce il profilo di Pio XI, che costituiva la vera, unica, solida legittimazione del potere di Tisserant (frequentemente ricevuto in udienza dal papa al quale riferiva l’avanzamento dei lavori) e del suo procedere «affrettato». Si spiega allora perché il volume dovesse essere ritirato: un attacco così diretto, così tecnicamente e pacatamente oggettivo, dall’interno, da parte di un grand commis della Santa Sede, per diversi decenni arbitro di tutte le vicende tecniche ed edilizie in Vaticano, era semplicemente intollerabile. Il 22 dicembre, «due operai, ad insaputa dell’ingegnere, posero mano alla demolizione del muro che serviva di armatura dell’arco […]». Come potevano «due operai» prendersi una libertà simile senza un preciso ordine dall’alto? E se De Rossi era all’oscuro di tutto da chi poteva essere partito l’ordine? Mannucci non formula così drasticamente le domande; ma esse sorgono naturalmente dalla lettura del testo e sono inquietanti, molto più del mancato allarme e dei ritardi dell’intervento. «Causa principale» è la «intempestiva demolizione dell’armatura dell’arco», la «arbitraria ed intempestiva demolizione del muro di sostegno dell’arco costruito in breccia e terminato da sole 24 ore», alla quale si combinò disastrosamente la rimozione delle macerie che fece inclinare l’edificio e allargare la zona del disastro. Anche 170
MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 194-201.
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i preavvisi dell’evento furono sottovalutati e non si fece nulla per correre ai ripari. Basta confrontare la ricostruzione di Mannucci (che pur differisce sostanzialmente da quella presentata dallo stesso Mannucci in una lettera a Pio XI del 19 gennaio 1932171) con le descrizioni dei fatti pubblicate ne L’osservatore romano del 23 e 24 dicembre 1931 (nella seconda data fu pubblicato un comunicato di Tisserant)172 per rendersi conto dell’insanabile distanza fra le ricostruzioni dell’accaduto. Ma la pacata e ferma ricostruzione di Mannucci non è finalizzata a ottenere ragione, a una rivincita postuma su quanti lo avevano estromesso; «questi appunti»173, «questa specie di cronaca vaticana da me così poveramente esposta»174, si concludono infatti con un solenne ammonimento, con alcune considerazioni finali formulate «per coloro che avranno l’onore e la responsabilità di conservare la residenza del Sommo Pontefice»175: Gli edifici del Vaticano, cioè il Palazzo pontificio di Sisto V, le Logge, le sale Ducale e Regia176, la Cappella Sistina, i Musei e la Biblioteca, occupano la estremità del colle Vaticano, su di una superficie di 136.000 metri quadrati, orientata per la sua maggior lunghezza (800 metri circa) da nord a sud. La superficie dei fabbricati è di circa 96.500 metri quadrati, compresi i cortili; i principali di questi hanno una superficie di metri quadrati 28.000 circa; il perimetro dei fabbricati in esame è di metri 1.900 circa. Dall’esame della pianta della Città del Vaticano, appare evidente come quasi l’intero perimetro dei fabbricati insista sul ciglio dei bastioni delle mura di difesa costruite con taglio a picco del colle. Le dette mura, che hanno un’altezza degradante dai 17 agli 8 metri dal piano inferiore, vengono quindi a trovarsi soggette alla pressione del terreno retrostante, aumentata del peso dei fabbricati, certamente considerevole, sia per la notevole altezza di essi, (non pochi infatti raggiungono l’altezza di 40 metri), sia per il fatto di trovarsi concentrati in una superficie di terreno molto ristretta. La natura geologica del terreno non è uniforme; vi si trovano infatti delle zone rocciose, ma la più gran parte è composta da banchi di argilla alcuni con interposizione di strati di argilla mista a sabbia. Vi sono poi copiose filtrazioni di acqua, ed in alcuni punti vere sorgenti; la presenza di queste viene spiegata dalla posizione 171 Cfr. infra, Appendici. III. La lettera di Mannucci a Pio XI sul crollo del 22 dicembre 1931 (19 gennaio 1932). 172 Cfr. infra, Appendici. II. Le versioni de L’osservatore romano sul crollo del 22 dicembre 1931. 173 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 201. 174 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 135. 175 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 201. 176 La Sala Ducale è una «grande aula cerimoniale, ubicata nella zona più antica del palazzo, risalente a Innocenzo III e Niccolò III», adiacente alla Sala Regia, cfr. SIMONATO, Il Palazzo Apostolico Vaticano cit., p. 164; BREDA – RODOLFO, Il Palazzo Apostolico Vaticano cit., pp. 177-179. Per la Sala Regia, cfr. supra.
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topografica del Vaticano all’estremità dell’altipiano che si estende per molti chilometri quadrati, e confluisce nella valle del Tevere. La composizione geologica del sottosuolo e la presenza delle filtrazioni e sorgenti, possono dar luogo a scorrimenti del terreno, come infatti ho potuto verificare da oltre 40 anni nel lato nord dei Musei vaticani, e più precisamente nella zona che comprende la Scala di Bramante, la sala Rotonda del Museo, la sala delle Muse ed il casino di Pio IV nel cortile delle Corazze177. Nella Scala di Bramante vi è un distacco verso est dal resto dell’edificio; nella sala delle Muse si notano le lesioni in croce nei quattro archi dei passaggi e dei finestroni; quanto alla sala Rotonda ho potuto notare come le semplici crinature osservate non meno di 40 anni addietro, man mano si sono andate allargando, sino al giorno in cui, avuta cognizione della progettata costruzione del nuovo accesso ai Musei, credetti mio dovere, di farne oggetto della mia lettera al direttore dei Musei. La mia preoccupazione era giustificata anche dalle gravissime lesioni, esistenti nel casino di Pio IV e nel portico di unione di questo con la sala Rotonda, dalla fortissima inclinazione verso il muraglione avvenuta nella fontana detta dei pesci rossi, dal rigonfiamento riscontrato nel muraglione del bastione alto 17 metri sul piano stradale, dalla presenza di strati di argilla mista con sabbia trovati nei saggi del terreno in occasione degli studi preliminari per la nuova Pinacoteca, e da una spaccatura della roccia tufacea visibile in una grotta scavata normalmente alla linea delle mura fra la Scala di Bramante e la sala Rotonda. Inoltre le lesioni nel casino di Pio IV da cinquanta anni da me osservate hanno sempre progredito in modo allarmante, e senza la possibilità di rimedio, sino a rendere necessaria la demolizione di una buona parte di esso. Tutto ciò dimostra un movimento del terreno tendente a franare, movimento che tuttora persiste, come di recente lo ha dimostrato la rottura di quindici delle trentotto biffe che in data 8 agosto 1929 erano state apposte sulle lesioni esistenti nei locali sottostanti la sala Rotonda, avvenuta durante lo scavo per il nuovo ingresso ai Musei178. Il lento ma continuo movimento del sottosuolo, si verifica in molti altri punti. Dopo la Esposizione del 1888, il pontefice Leone XIII autorizzò il Padre Denza179 a ricostituire la Specola vaticana; il luogo prescelto fu la torre di Gregorio XIII 177
Scala di Bramante, Sala Rotonda del Museo, Sala delle Muse, casino di Pio IV (da non confondere con la Casina di Pio IV, cfr. supra, nt. 74) nel cortile delle Corazze: tutti ambienti, di epoca diversa, collegati l’uno all’altro e collocati intorno o in collegamento col Cortile Ottagono, cuore del Museo Pio-Clementino, spazio architettonico e museale realizzato nel 1772 dall’architetto Michelangelo Simonetti, cfr. G. SPINOLA, Museo Pio-Clementino, in Guida generale alla Città del Vaticano cit., pp. 327-340: 329 (scala di Bramante), 336-337 (Sala delle Muse), 337 (Sala Rotonda). 178 Dal 1870 sino al 1932 l’ingresso ai Musei Vaticani avveniva dall’atrio dei Quattro Cancelli, al quale si giungeva attraverso via delle Fondamenta e lo stradone dei Musei (o dei Giardini), SPINOLA, Il Museo Pio-Clementino cit., p. 339. Le precise indicazioni offerta da Mannucci (anche sull’apposizione delle biffe nell’agosto 1929) dimostrano che, dopo la giubilazione, egli continuò a seguire da vicino le vicende di cui si era occupato anteriormente. 179 Francesco Denza (1834-1894), già precedentemente ricordato (cfr. supra, nt. 5), barnabita, ideale continuatore ed erede del gesuita Angelo Secchi nello studio dell’astronomia e
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lungo lo stradone dei Musei180; ricordo di aver notato durante la esecuzione dei lavori, la presenza di lesioni che, aggravatesi in seguito, mi indussero ad oppormi, dopo un diligente esame del sottosuolo e delle varie strutture murarie, alla installazione di un ascensore che si voleva collocare, in località molto prossima alla torre, per mettere in comunicazione il piano terreno dell’Archivio con i vari piani della Biblioteca181. Queste lesioni recentemente si sono aggravate al punto da richiedere delle opere di rinforzo nelle murature del piano terreno. Una attenta osservazione delle lesioni sul prospetto lungo lo stradone dei Musei, fa sospettare uno scorrimento dell’edificio lungo la superficie discendente del colle su cui insiste. Nel palazzo di Sisto V, ove è la residenza del Santo Padre, vi sono state in passato e vi sono attualmente non poche lesioni dipendenti dalla sua posizione al termine del colle vaticano a sud verso la piazza di S. Pietro, come lo mostra la stessa qualità delle lesioni, ed i rimedi adottati, quali il grande sperone che fino alla altezza del primo braccio abbraccia l’angolo dei due prospetti est-sud, gli incatenamenti fatti nello stesso angolo al principio del pontificato di Pio X. Alcune di queste lesioni si trovano in luoghi immediatamente prossimi al palazzo, le quali unitamente alle recentissime nel corridoio dell’ascensore nobile, indicano un movimento della estremità del colle verso il basso. Estendendo poi le indagini nelle adiacenze del Palazzo Pontificio, debbo accennare un caratteristico fenomeno manifestatosi nel palazzo detto di Belvedere, fatto edificare dal Pontefice Pio X182: [sic] Detto Palazzo di pianta rettangolare orientato a Sud-Nord, è fondato per circa la metà della sua lunghezza verso Sud su terreno roccioso, mentre nell’altra parte la fondazione è a palizzata in terreno argilloso con presenza di considerevole quantità di acqua. Poco dopo ultimatane la costruzione, tutta la parte a Nord poggiante su terreno argilloso, si è distaccata dal resto dell’edella meteorologia; promosse l’istituzione di osservatori meteorologici in Italia e nell’America latina e divenne nel 1881 direttore della Società Meteorologica Italiana, da lui fondata. Nel 1887 promosse una mostra scientifica del clero in occasione dell’Esposizione vaticana per il giubileo sacerdotale di Leone XIII e poco dopo indusse il papa a ricostituire la Specola Vaticana (Ut mysticam, 14 marzo 1891), di cui fu il primo direttore e che impegnò nella Carta fotografica del cielo, cfr. G. MONACO, Denza, Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, XXXVIII, Roma 1990, pp. 804-806. 180 Si tratta della Torre dei venti (o della meridiana), edificata dal bolognese Ottaviano Mascherino fra il 1578 e il 1580 per volere di Gregorio XIII nel Braccio di Pio IV (o «corridore di ponente»), lungo l’attuale stradone dei Musei, per le osservazioni astronomiche in vista della riforma del calendario; le sue stanze furono affrescate negli anni 1580-1582 dal Pomarancio e dai fiamminghi Mathijs e Paul Bril, cfr. HESS, La Biblioteca Vaticana cit., pp. 236-237; PAGANO, L’Archivio Segreto Vaticano cit., p. 233; CAMPITELLI, I Giardini Vaticani cit., p. 259. 181 Vi era dunque un progetto per collegare il piano terreno dell’Archivio (dalla parte dello stradone dei Musei) con i vari livelli della Biblioteca (si può immaginare, quello della Sala Leonina e quello del Salone Sistino). 182 Realizzato nel 1910 da Costantino Sneider, nell’area dei Quartieri orientali, si trova ora alle spalle del palazzo delle Poste, opera di Momo (1933). «La fronte del palazzo, oggi sede dei Servizi Sanitari dello Stato, è meglio conservata su via della Tipografia, mentre su via della Posta è stato inserito un corpo moderno che ospita la Farmacia Vaticana», FONTI, Quartieri moderni cit., p. 296. Cfr. anche CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., pp. 22, 24.
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dificio, mostrando chiaramente uno scorrimento verso la parte più bassa; l’Arch. Sneider183 pensò di poter arrestare il movimento con la apposizione di catene in ferro nel senso longitudinale dell’edificio; dopo non molto, avvenne alle estremità delle catene uno strappo prodotto da un ulteriore scorrimento avvenuto nella parte dell’edificio già distaccatasi. Di recente poi altre lesioni si sono manifestate nel lato sud dell’edificio poggiata [sic] su terreno roccioso, che sino ad ora ne era rimasta immune. Nelle due torri, fotografica ed astronomica, della Specola Vaticana, facenti parte delle mura di difesa del colle vaticano fatte costruire dal pontefice Leone IV184, vi sono numerose lesioni: in quella fotografica [scil.: la Torre S. Giovanni] le lesioni sono parallele ai due lati del bastione, molto prossimo alla torre stessa, e che ha un’altezza di metri quindici dalla sottostante via delle mura. Inoltre lo sperone verso Est formato dalla testata del muro di cinta verso Est, del quale è rimasta una piccola parte, è del tutto distaccato dalla torre: il distacco è molto maggiore alla base, mentre nella estremità superiore la muratura è sgretolata, il che indica uno scorrimento del suolo. Altro indizio evidente di tale scorrimento si ha nell’interno di questa torre, ove circa 20 anni addietro fu costruito lo strumento per la dimostrazione della rotazione della terra. Sulla parete, che per l’occasione era stata completamente restaurata ed intonacata, si manifesta ora la riapertura delle lesioni preesistenti, le quali dànno sicuro indizio della laro [sic per loro] entità, confermando sempre la loro origine, come lo dimostra la graduazione sessagesimale fatta nella parete circolare della sala terrena della torre. Analogo fenomeno appare nell’altra torre, l’astronomica [scil.: la Torre della Radio]; ove si sono anche riaperte le lisioni [sic per lesioni] nelle pareti e nella volta completamente intonacate a nuovo, in occasione della decorazione della sala, che durante il Pontificato di Leone XIII, eseguì il pittore Prof. Seitz185. Va notato come su ciascuna delle due torri io abbia dovuto porre tre volte successivamente la mia attenzione: su quella fotografica la prima volta in occasione dei lavori inerenti alla installazione dell’equatoriale fotografico, la seconda in occasione degli esperimenti 183
Costantino Sneider (1845-1932), già precedentemente ricordato (cfr. supra, ntt. 104, 182), era architetto dei Sacri Palazzi Apostolici (1907. La Gerarchia cattolica cit., p. 459). «La collaborazione di Pio X con l’architetto Costantino Sneider […] — ancora poco indagata — quasi anticipa per certi aspetti quella di Pio XI con Giuseppe Momo», FONTI, Dalla cittadella del papa alla Città del Vaticano cit., p. 19. Sullo Sneider, La morte dell’Architetto dei Sacri Palazzi Apostolici, in L’illustrazione vaticana 3 (1932), nr. 9, 1° maggio, p. 435. 184 Già precedentemente ricordate; si tratta della cosiddetta Torre S. Giovanni e della Torre della Radio. La torre «fotografica» era l’attuale Torre S. Giovanni, quella «astronomica» la Torre della Radio. Per la prima, cfr. CAMPITELLI, I Giardini Vaticani cit., p. 271. 185 Il riferimento è all’allestimento di una residenza estiva per Leone XIII all’interno e nelle prossimità di quella che sarebbe stata successivamente denominata Torre della Radio (perché sormontata da un’antenna della Radio Vaticana). Cfr. supra, ntt. 5, 75. Ludovico Seitz (1844-1908), figlio del pittore tedesco Alexander Maximilian (1811-1888), aderì come il padre al movimento dei Nazareni. Eseguì affreschi nella cappella dei Tedeschi nella basilica di Loreto, nella chiesa romana di S. Maria dell’Anima e nella Galleria dei Candelabri in Vaticano. Fu direttore della Pinacoteca Vaticana.
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ricordati sulla rotazione della terra, e la terza in occasione di una ispezione fatta recentemente; e su quella astronomica, una prima volta in occasione dei lavori di restauro sopra ricordati, e che precedettero il soggiorno estivo che il S. Padre Leone XIII volle fare in quella località, la seconda per gli importanti lavori relativi alla installazione dell’equatoriale astronomico, e la terza recentemente. Ogni volta ho dovuto constatare la riapertura delle lesioni chiuse e restaurate in precedenza, indizio questo che il movimento ha continuato e continua lento ma inesorabile, e non può in alcun modo non essere attribuito che ad un continuo scorrimento del terreno verso la valle. Queste mie osservazioni, che ho potuto fare nel corso di 50 anni, mostrano cha [sic per che] le lesioni verificatesi, chiuse per tre volte, e per tre volte riapertesi, hanno raggiunto una entità eguale alla loro somma. E per non restare nell’ambito della Città del Vaticano, citerò nelle immediate vicinanze di questa il crollo causato da scorrimento, di uno dei piloni del nuovo viadotto della Ferrovia Vaticana186, avvenuto durante la costruzione di esso, e le solidissime opere di puntellatura e relativi restauri resisi necessari al viadotto della ferrovia Roma-Viterbo. Le condizioni del terreno, ne fanno dubitare l’arresto. Ciò richiede, che per la conservazione degli edifici del Vaticano, la cui durata non deve avere limiti, oltre ad una accurata manutenzione, è necessaria una diligente osservazione del suolo, per prevenire in tempo gli effetti della sua instabilità, compito facilitato dal prezioso contributo offerto dal Prof. Gioacchino De Angelis con la sua carta geologica della Città del Vaticano, e con i suoi studi sulle Catacombe187.
«Lesioni», «distacchi», «scorrimento del terreno», «movimento del sottosuolo». Mannucci martella, quasi ossessivamente, sul punto che gli sta più a cuore: la precarietà del teatro geologico vaticano, ove roccia e argilla convivono con correnti sotterranee, non ammette frettolose superficialità. 186 Il viadotto, su otto arcate, che attraversa la valle del Gelsomino, oltrepassa la via Aurelia e giunge al varco ferroviario posto lungo le Mura leonine; da qui la linea ferroviaria (che si stacca dalla ferrovia tirrenica in prossimità della Stazione di Roma S. Pietro) entra nel territorio vaticano e giunge alla stazione, progettata da Giuseppe Momo. I lavori incominciarono nel 1929, dopo la firma dei Patti Lateranensi; i primi collaudi avvennero nel 1932 ma la linea fu inaugurata nel 1934 (il fatto cui fa riferimento Mannucci deve essere avvenuto prima di questa ultima data). Cfr. CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., pp. 131-133; A. MARTINI, La ferrovia vaticana, in 1929-2009. Ottanta anni cit., pp. 173-180, e le schede pubblicate ibid., pp. 356-361. Sulla ferrovia vaticana, NEGRO, Il più piccolo Stato cit., pp. 59-62. 187 MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 201-207. Gioacchino de Angelis d’Ossat (1865-1957), docente nel R. Istituto Agrario di Perugia e nell’Università di Roma, presidente nel 1930 della Società Geologica Italiana, ha redatto le carte geologiche di alcuni colli di Roma, fra i quali il Vaticano, l’Oppio e il Palatino, e ha studiato la storia geologica di numerose catacombe romane (diversi studi sono raccolti in G. DE ANGELIS D’OSSAT, La geologia delle catacombe romane, I-II, Città del Vaticano 1939-1943 [Roma sotterranea cristiana, 2-3]). Si occupò, fra l’altro, anche dell’Agro romano e dell’apporto della geologia nel campo delle scienze archeologiche, cfr. B. ACCORDI, De Angelis d’Ossat, Gioacchino, in Dizionario biografico degli italiani, XXXIII, Roma 1987, pp. 303-304.
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Questo, manzonianamente, appare dunque essere il sugo di tutta la storia: un accorato invito, un preoccupato appello, sulla base dell’osservazione e dell’esperienza, alla cautela, alla circospezione, per evitare errori dagli effetti incalcolabili su edifici, «la cui durata non deve avere limiti», perché eterna è la parola che da quegli edifici promana. Anche giubilato, col suo libro, Mannucci intendeva ancora dare un estremo contributo al buon governo di «quel tanto di territorio» che la Provvidenza aveva procurato al papato per garantirne l’indipendenza. Nelle sue apprensioni, soprattutto a proposito della geologia del territorio Vaticano, che sono poi l’espressione di un senso acuto di responsabilità, Mannucci, curiosamente, non è dissimile dal suo intransigente «avversario» della fine degli anni Venti, Giovanni Mercati, come mostrano alcuni brani della memoria di Mercati del 24 luglio 1948 sul ventilato trasferimento dell’Archivio diocesano di Roma dal Braccio di Carlo Magno188. 10. La lettura delle pagine sugli ampliamenti della Biblioteca Vaticana, sulla localizzazione del nuovo ingresso dei Musei Vaticani189, sul crollo nel 188 VIAN, «Quell’opera personale» cit. Potrebbe forse essere proprio de Angelis d’Ossat «il geologo insigne incaricato da Lui [scil.: Franz Ehrle] dello studio del terreno [scil.: del palazzo Vaticano], citato da Mercati nella memoria, ibid., p. 1168 (alla nt. 81 il personaggio non risulta identificato). A «voci allarmistiche» relative alla «staticità degli edifici vaticani» e a «ipotetici movimenti tellurici» fa cenno un trafiletto de L’osservatore romano, 6 marzo 1932, p. 2 (Città del Vaticano. Sempre a proposito), che così concludeva: «[...] è in corso uno scrupoloso lavoro di revisione e restauro dei secolari edifici, lavoro già previsto e prestabilito nel rinnovamento edilizio della Città del Vaticano». 189 Mannucci avrebbe desiderato che il nuovo ingresso ai Musei fosse «quello che domina la piazza del Risorgimento, e che coincide col prolungamento dell’asse della via Crescenzio. In questo luogo sarebbe stato facile costruire due rampe accessibili alle vetture per l’andata e ritorno fino all’altezza del piano del giardino, per poi raggiungere il piano del Museo mediante ascensori, ovvero per la monumentale ed abbandonata scala del Bramante convenientemente decorata, che essendo a piano inclinato ed elicoidale è di comodo accesso, ed offre dalle finestre un magnifico panorama della Città di Roma. La scelta di questo luogo per l’ingresso dei Musei avrebbe arricchito il Vaticano di un grandioso monumento, mettendo alla vista del pubblico la bella Scala del Bramante assicurandone la conservazione, ed avrebbe offerto un ampio spazio alla sosta delle vetture, numerosissime in alcuni periodi dell’anno, ma soprattutto si sarebbe evitato il taglio del Cortile delle Corazze in vicinanza della monumentale Sala Rotonda, la quale trovasi a poca distanza dal bastione che sostiene un terrapieno di oltre m. 15 di altezza, e che è minacciato da una frana, i cui effetti si manifestarono in modo allarmante al casino di Pio IV al cortile suddetto, obbligandone la demolizione di una considerevole parte. Né può dirsi esente la stessa Sala Rotonda, ove in seguito al taglio del terreno si accentuarono alcune caratteristiche lesioni già esistenti, spezzando non poche biffe appostevi. Fu detto che la nuova scala a doppia elica ivi costruita costituisce un efficace sostegno alla Sala Rotonda: ciò è vero, ma è pur vero che il movimento del terreno si estende per lungo tratto al di qua e al di là della stessa Sala Rotonda […]», MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., pp. 189-190. Sull’argomento Mannucci scrisse il 16 giugno 1929 una lettera a Bartolomeo Nogara, direttore dei Musei, che non venne prese in considerazione, mentre la Commissione Permanente per la Tutela dei Monumenti Storici ed Artistici della Santa Sede non venne
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Salone Sistino nel dicembre 1931 fu dunque il motivo che provocò l’irritazione e lo sdegno del papa inducendolo a far sequestrare e poi distruggere le copie del volume. La cui colpa non era evidentemente quella di mostrare il polveroso e precario stato del Vaticano all’indomani di Porta Pia o la sua lenta e difficoltosa apertura alle novità. Non questa era l’occasione di scandalo, perché un’impressione non diversa, per esempio, si poteva ricavare da alcune pagine dei due volumi di memorie del primo commissario di Borgo, Giuseppe Manfroni, che avevano visto la luce per cura del figlio Camillo poco più di una diecina di anni prima190 ed erano diffuse e ben note; o da quelle, che ne costituiscono un’ideale continuazione, di Cesare Bertini, pubblicate nel 1932191. A inquietare e preoccupare il papa deve essere stato piuttosto il deciso attacco di Mannucci (tanto più incisivo ed efficace quanto più asciutto e pacato) al modus procedendi adottato nei grandi lavori edilizi che tra la fine degli anni Venti e per buona parte degli anni Trenta rimodellarono e trasformarono il mondo Vaticano. Un modus procedendi che Mannucci, dall’alto della sua quasi semisecolare esperienza, deve aver ritenuto avventato, irrispettoso non solo delle procedure192 ma anche (ed era ben più grave) incurante o, peggio, inconsapevole dei consultata, ibid., pp. 192-194. Pio XI inaugurò il nuovo ingresso dei Musei Vaticani, su viale Vaticano, il 7 dicembre 1932, CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., pp. 46, 124, 162-163. Cfr. L. CASTELLI, Il nuovo ingresso dei Musei Vaticani. La necessità pratica – L’esempio classico – La risoluzione, in L’illustrazione vaticana 3 (1932), nr. 24, 15 dicembre, pp. 1187-1190; CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., pp. 150-158 (con riferimento anche alle ipotesi allora scartate, fra le quali quella di Mannucci, peraltro non nominato); NESSELRATH-PAOLUCCI, I Musei Vaticani cit., e le schede di A. CARIGNANI, B. JATTA, M. P. NICCOLI, ibid., pp. 366-372; FONTI, Dalla cittadella del papa alla Città del Vaticano cit., p. 24. Il discorso allora pronunciato dal papa è pubblicato in Discorsi di Pio XI, II, cit., pp. 773-775; precedentemente in L’osservatore romano, 8 dicembre 1932, p. 1. Fotografie dei lavori in corso in Le nostre cronache, in L’illustrazione vaticana 2 (1931), nr. 23, 15 dicembre, pp. 11-22: 11-12. 190 G. MANFRONI, Sulla soglia del Vaticano. Dalle memorie di […], a cura di C. MANFRONI, I-II, Bologna 1920-1921. Il primo volume copriva gli anni 1870-1878, il secondo gli anni 1879-1901. Sulle figure di padre e figlio, cfr. rispettivamente, N. VIAN, Il primo commissario di Borgo, in Strenna dei Romanisti 31 (1970), pp. 429-438; G. MONSAGRATI, Manfroni, Camillo, in Dizionario biografico degli italiani, LXVIII, Roma 2007, pp. 768-770. 191 BERTINI, Ai tempi delle guarentigie cit. Le memorie di Bertini sono relative agli anni 1913-1918. 192 Non venne mai interpellata la Commissione anche se, al momento della sua istituzione, «fu stabilito che a questa Commissione si dovevano sottoporre tutti i lavori, di nuova costruzione, di restauro o di miglioramenti dei monumenti e delle opere d’arte», MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 124. Cfr. supra, nt. 104. D’altra parte anche Eugène Tisserant, quando dopo il crollo del 22 dicembre 1931 cercò di ottenere da Momo e Castelli i disegni del progetto, non ottenne risposta e allora constatò (in lettera a mons. Charles Ruch, 7 febbraio 1932): «J’ai écrit deux fois à l’ingénieur Momo, et une fois à l’entrepreneur Castelli. Point de réponse. Je sais que c’est leur système et qu’ils ne veulent aucun contrôle, prétendent tout régler avec le pape directement», FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 167.
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rischi che la violazione del teatro geologico, naturale e storico del Vaticano poteva procurare. Il disastroso crollo del 22 dicembre 1931 sembrava dare pienamente ragione, due anni dopo la sua giubilazione, a Mannucci, esponente di una «vecchia guardia» indigena estromessa da homines novi cari al papa, Beltrami, Castelli, Momo e tanti altri. Alla luce della storia successiva, gli allarmismi di Mannucci possono apparire eccessivi. Le paventate catastrofi di fatto non avvennero. Ma forse anche perché il crollo del dicembre 1931 e le pagine di Mannucci ebbero un qualche effetto e non furono completamente dimenticate. Il sotto-foriere morì, come si è visto, poche settimane dopo l’uscita del volume, di cui non conobbe la postuma condanna e la definitiva disgrazia193. Da uomo di fede194 e leale ministro della sede di Pietro, Mannucci avrebbe probabilmente accolto la damnatio memoriae con una sofferta ma docile sottomissione, senza ombre e senza riserve. In questa fedeltà a tutta prova, nel nome della quale sentì il dovere di prendere in mano la penna, 193
Il giornale della Santa Sede così ricordò il sotto-foriere, annunciandone la morte: «Scompare col venerando ottuagenario una eletta figura di fedelissimo servitore della Chiesa, di geniale artista, di esemplare lavoratore. Per oltre cinquant’anni egli fu in Vaticano e meritò la particolare stima di ben quattro pontefici. Specialmente nella carica di Sotto Foriere Maggiore, di assistente della Commissione permanente per la tutela dei monumenti storici ed artistici della Santa Sede, egli seppe costantemente e con fervida attività curare e custodire un patrimonio tra i più preziosi del mondo, sempre disposto a tutte le innovazioni che la scienza e il progresso davano di utile e di decoroso. Anche in questi ultimi anni in cui le sue giornate trascorrevano in un meritato riposo il suo prezioso consiglio era ricercato ed ascoltato. Cattolico fervente, era preparato da tempo al grande passo, sicché, pur se repentina, la morte lo ha trovato, come sempre nella sua vita di dovere e di abnegazione, pronto alla chiamata del Signore», La morte del comm. Mannucci cit. I funerali si svolsero nella mattinata del 24 maggio, nella chiesa di S. Anna. Cfr. anche Dopo la morte del Comm. Mannucci, ibid., 23 maggio 1935, p. 2 (a p. 3 una fotografia di Mannucci, a p. 6 l’annuncio funebre dei nipoti e della cognata); Il cinquantenario di attività di Federico Mannucci, ibid., 25 maggio 1935, p. 2 (con puntuale rievocazione delle attività di Mannucci e cronaca dei funerali, celebrati da Carlo Respighi, nella chiesa di S. Anna, nella mattinata del 24 maggio; non si accenna al volume di memorie che però appare noto a chi scrive, che ne deve avere utilizzato alcuni passi). Sino agli ultimi anni Mannucci continuò a essere attivo e a coltivare, fra l’altro, i suoi interessi astronomici: «Appena tre anni fa [scil.: nel 1932], all’età di 82 anni [n.d.r.: in realtà a 84 anni], [Mannucci] si compiacque ancora di venire a Castelgandolfo [n.d.r.: ove Pio XI aveva deciso di trasferire la Specola Vaticana] durante una notte per determinare lui stesso la meridiana del nuovo equatoriale visuale, osservando la stella polare con il teodolite», STEIN, Federico Mannucci cit., p. 228. Sul trasferimento della Specola Vaticana a Castelgandolfo (1933), STEIN, La Sala della Meridiana cit., p. 403. 194 Per la devozione di Mannucci a s. Antonio, alla cui protezione venne affidato l’innalzamento (agosto 1885) della colonna del monumento del concilio Vaticano I (che Pio IX aveva progettato per S. Pietro in Montorio ma la cui realizzazione era stata impedita dagli eventi del 1870), cfr. MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 35. Sul monumento al concilio Vaticano I, cfr. CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., pp. 14, 18-19; CAMPITELLI, Gli horti del papa cit., pp. 255, 287; CAMPITELLI, I Giardini Vaticani cit., pp. 273-274.
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risiedono il senso e il dramma della sua vita. In nome di quella fedeltà, fu un protagonista della prima fase della modernizzazione del Vaticano, da Leone XIII a Benedetto XV; e sempre in nome di essa si espose a divenire vittima della seconda fase della modernizzazione, che ebbe nel pontificato di Pio XI e nella nascita dello Stato della Città del Vaticano il suo apice. La modernizzazione, sentenzierebbe qualcuno, è un processo che, una volta evocato, non si ferma e spesso stritola e divora anche i suoi primi attori e motori. Figura per certi versi patetica dunque, quella di Mannucci, segnata da un dramma che si consumò nello scontro con Mercati nel giugno 1928 e nelle dimissioni del 1929. Il sotto-foriere era il difensore di una tradizione ormai sclerotizzata e ferma al passato oppure era il portavoce delle esigenze del buon senso, della saggia e accorta auscultazione dell’esperienza e della realtà contro il turbine dell’efficienza e della velocità a tutti i costi? Ognuno può dare la risposta che preferisce. Ma rimane l’immagine di un uomo che alla fine della sua vita, «in non floride condizioni economiche» (lui che, grazie alle sue conoscenze, avrebbe potuto facilmente arricchirsi, come certo accadde a molti suoi avversari), quasi come un innamorato incompreso, professa «la lealtà, anzi l’amore col quale aveva sempre servito la S. Sede, e procurato di onorarla in opere all’infuori degli obblighi del mio ufficio». Al di là del caso umano, però, le vicende di Mannucci, degli scontri durante i lavori per l’ampliamento della Biblioteca, del crollo del Salone Sistino e, sullo sfondo, delle tensioni tra Mercati e Tisserant fanno parte anche della storia, non solo architettonica, della Vaticana nella seconda fase della sua modernizzazione, che conobbe, con successi e traguardi, difficoltà e drammi che vanno conosciuti e di cui si deve tenere conto. «Tantae molis erat Romanam condere gentem» (Aen. I, 31).
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APPENDICI I. La relazione di Mannucci sull’incendio del 1° novembre 1903 (6 novembre 1903) Mannucci, in data 6 novembre 1903, presentò, al pro-segretario di Stato Merry del Val, una relazione sull’incendio scoppiato il 1° novembre 1903, presente in copia in Arch. Bibl. 182, ff. 3r-8v. La versione della relazione, stesa immediatamente dopo l’evento, sostanzialmente coincide con quella delle memorie pubblicate nel 1935 ma offre maggiori particolari. Entrambi i testi attribuiscono la responsabilità dell’accaduto a Marrè. La Vaticana si era però già mossa presentando probabilmente al pro-segretario di Stato una serie di «proposte concretate dal Consiglio Direttivo» per evitare in futuro pericoli di incendio (Ehrle a un’Eccellenza Reverendissima, 5 novembre 1903; Arch. Bibl. 182, ff. 1r-2r). Il 12 novembre Merry del Val inviò a Ehrle una relazione sulle proposte presentate dal Consiglio (Merry del Val a Ehrle, 12 novembre 1903; ibid., f. 9r). Le osservazioni della relazione furono probabilmente formulate da Costantino Sneider, Architetto dei Sacri Palazzi Apostolici, sulla base della relazione di Mannucci e di un personale sopralluogo (la lettera di Sneider a Merry del Val è probabilmente presente in copia, ibid., ff. 16r-20r). Ehrle, che stese alcuni appunti considerando anche le osservazioni che gli erano pervenute, scrisse nuovamente a Merry del Val il 20 novembre 1903 (cfr. l’appunto al f. 10r). Ma ecco la relazione di Mannucci: Relazione sull’incendio avvenut [sic] Nella sera di Domenica 1° Novembre [1903]195 dopo la consueta visita all’Officina elettrica alle ore 8 m’era ritirato nella mia stanza quando fui avverito da Angelo Bisignani196 che nel tetto della Galleria del Museo eravi un incendio. Egli aveva osservato il fuoco passando dalla Piazza del Risorgimento197. Mi recai immediatamente al luogo indicatomi ed ordinai al Bisignani di darne subito avviso alle Guardie del Fuoco. Giunto alla abitazione del P. Ehrle trovai aperta la porta, come parimenti aperta era quella dell’abitazione di Carlo Marrè.
195
L’indicazione dell’anno è aggiunta a matita, nell’interlineo, da mano successiva. Personaggio non meglio identificato. 197 «[…] grande area costituita da due parti asimmetriche tagliate dalla direttrice viaria in prosecuzione della via di Porta Angelica […]»; «punto di smistamento» di una serie di strade in varie direzioni, tutte intitolate ad antagonisti del papato (Crescenzio, Cola di Rienzo, Stefano Porcari, Giovanni Vitelleschi), A. RAVAGLIOLI, Vedere e capire Roma. Manuale per la scoperta della città, Roma 19812, p. A24. 196
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Eravi accorso il Caporale Bevitori198 delle Guardie del Fuoco avvertito mediante il telefono di una guardia di Città di servizio nel quartiere dei Prati. Pentetrato nella cucina del Marrè, vidi che il grande soffittone era in preda ad una voragine di fiamme. Frattanto il Bevitori stava già organizzando il servizio, e lo fece con tale prontezza che, mentre io tornava di corsa verso il quartiere, egli era già nel corridoio delle lapidi a stabilire con i compagni e coll’aiuto dei Gendarmi la presa d’acqua sulla bocca d’incendio nello stesso corridoio per alimento di una pompa di prima classe già collocata innanzi alla scaletta di accesso alle due dette abitazioni, colla quale in meno di 15 minuti si poté cominciare l’opera di spegnimento. Contemporaneamente accorrevano numerosi gli Svizzeri e i Gendarmi con grande quantità di secchi che, disposti in catena, assicurarono un flusso considerevole di acqua, oltre quello dato dalla pompa. Il Bevitori appena assicurato il funzionamento della pompa, fu da me mandato colla guardia Renzi199 a stabilire una pompa di 3a classe sullo stradone del giardino innanzi all’ingresso della stamperia, facendo presa d’acqua sulla potente bocca d’incendio della conduttura dell’ascensore collocata nello stradone medesimo. Il luogo di passaggio per la tubatura della pompa era l’ingresso al cortile della stamperia che fu trovato chiuso. Per abbatterne la porta giunse opportuno il rinforzo dei Vigili della Città200 e 198
Membro delle Guardie del fuoco vaticane; non meglio identificato. Altro membro delle Guardie del fuoco; non meglio identificato. 200 Da notare il fatto che nella lettera Mannucci non precisa quanto farà invece nelle memorie pubblicate nel 1935, ove la grave decisione di chiamare i pompieri comunali viene attribuita alla massima autorità vaticana presente sul teatro dei fatti, Merry del Val («Il Segretario di Stato, che venne sul posto, credette opportuno di chiedere l’intervento dei vigili municipali, i quali vennero immediatamente col loro comandante […]», cfr. supra). Si tratta della versione poi diffusa e largamente recepita. Nella ricostruzione di Ehrle, nella lettera alla Kölnische Volkszeitung (cfr. infra nt. 208), la decisione fu invece dello stesso prefetto gesuita interpellato in proposito da Mannucci, VIAN, Un discusso incendio cit., p. 682. Sicuramente l’appello alle autorità italiane e ai vigili municipali (e quindi le conseguenze politiche del fatto) fu uno degli aspetti sui quali più insistettero i giornali italiani e non (ma non, e pour cause, L’osservatore romano), anche per quanto riguardava i ringraziamenti ufficiali formulati e le gratificazioni decise per i vigili municipali. Ecco una serie di titoli e sottotitoli di quei giorni: L’arrivo dei vigili – Le autorità civili in Vaticano (Il messaggero, 2 novembre 1903); Il sindaco e due sottosegretari di Stato nel dominio pontificio (L’avanti, 3 novembre 1903); Le autorità politiche in Vaticano (Il giornale d’Italia, 3 novembre 1903); Un incendie ayant éclaté hier soir au Vatican, Mgr Merry del Val a demandé officiellement l’aide des autorités et des pompiers de la ville (L’Italie, 3 novembre 1903); I vigili romani in Vaticano (La patria, 3 novembre 1903); Le autorità e vigili italiani sul posto (La tribuna, 3 novembre 1903). Eugenio Binni, in un articolo pubblicato dal quotidiano torinese Il momento del 20 febbraio 1904 (Gl’incendi delle Biblioteche. L’incendio in Vaticano ed il p. Ehrle; cfr. Arch. Bibl. 182, f. 41r-v), diede probabilmente la versione più plausibile dei fatti e la loro spiegazione: «Mons. Merry del Val che tanto opportunamente aveva approvato, al momento dell’incendio, il parere del p. Ehrle di chiamare i pompieri municipali – evitando così ogni responsabilità alla S. Sede intorno alla repressione dell’incendio – incaricò il prefetto stesso di preparare uno schema di provvedimenti [scil.: per prevenire in futuro incendi]». Quindi, secondo tale ricostruzione, la proposta venne da Ehrle, ma la responsabilità “politica” della chiamata fu (come non poteva essere altrimen199
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poiché questi erano venuti con una macchina di 4a classe, stimai opportuno dar loro la preferenza per questo stabilimento, interessandomi di rimandare il Bevitori alla sua prima stazione al più presto. Il lavoro della conduttura di pressione nella pompa di 4a classe all’incendio fu lungo e faticoso, perché i Vigili mancanti di direzione e non conoscendomi, si accinsero a stabilire la conduttura nell’interno della stamperia piuttosto che sistemarla in colonna, servendosi della terrazza della nuova scala della Biblioteca di consultazione. L’altra pompa di 4a classe giunta quasi immediatamente dopo l’antecedente fu da me indirizzata al Giardino della Pigna e collocata all’angolo Est del Braccio Nuovo corrispondente all’altra estremità del soffittone incendiato. Giunta in seguito la pompa a vapore, incaricai il fontaniere Herzog201, aggiunto alle Guardie del fuoco, di fare eseguire la presa di acqua alla botte della fontana della Piazza di S. Pietro contigua allo stradone del Giardino. La conduttura di pressione di questa pompa fu anch’essa fatta passare nell’interno della Stamperia con lungo e faticoso lavoro. In questo intervallo di tempo le due Guardie del fuoco Renzi e Bevitori 2°202 coadiuvati dagli Svizzeri, Gendarmi, da vari artisti accorsi ed altre persone con la primitiva pompa di 1a classe e con altra anche di 1a classe collocata nella stanza da letto del Marrè senza mai interrompere la catena dei secchi, venivano avanzandosi nella soffitta, ove era già crollato il tetto e restringevano l’incendio nella parte centrale, mentre dal lato opposto la pompa dei Vigili Comunali, dal Giardino della Pigna tratteneva il fuoco delle travature del tetto. Crollato completamente il tetto dopo pochi altri istanti, l’incendio si poté dire completamente domato perché la materia che bruciava rimase completamente racchiusa entro le mura di circuito. In questo tempo si era compiuta la tubatura premente (?) della pompa a vapore il cui lavoro erasi ridotto del tutto superfluo. L’azione di questa macchina durò pochi momenti e fu quindi sospesa anche a parere del Sindaco di Roma203, ivi presente, perché già nella Sala di studio della Biblioteca si manifestavano filtrazioni d’acqua dal soffitto. Rimaneva solo ad arrestare il fuoco nelle travature del tetto della cucina e stanza da letto del Marrè che lentamente bruciavano, allo scopo di impedire che crollasse questa parte di tetto, ma a questo bastò all’esterno l’opera delle Guardie del Fuoco e dei Vigili coadiuvati dagli artisti muratori, ed all’interno l’opera dei Gendarmi e sopratutto degli Svizzeri i quali lanciavano secchi d’acqua dal sotto in su per lo spegnimento del soffitto. Due ore dopo il primo avviso, cioè alle 10, l’incendio si poté circoscrivere in modo da poter assicurare che ogni pericolo di ulteriore propagazione era scongiurato. ti) di Merry del Val. In questo modo si allontanavano abilmente dalla Santa Sede possibili contestazioni in merito all’efficienza e all’efficacia dell’intervento. Va comunque notato che una forma di collaborazione fra pompieri vaticani e italiani si era già instaurata in occasione dell’incendio alla Zecca del 18 gennaio 1894, cfr. supra, testo e ntt. 92-93. 201 Personaggio non meglio identificato. 202 Forse un altro Bevitori, anche lui membro delle Guardie del fuoco, distinto dal primo col numerale. 203 Il sindaco era Prospero Colonna, cfr. supra, nt. 90.
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In seguito si rivolse l’attenzione e si esplorarono tutte le soffitte circostanti e nella più prossima si lasciarono delle guardie con provvista di secchi d’acqua per arrestare ogni manifestazione d’incendio. Il lavoro di spegnimento delle materie incendiate durò fino a tutto il giorno seguente. Lo sgombro delle macerie fu cominciato con tutta precauzione nel mattino del 2 e terminò la sera del 4. Fino alle 2 pom. del 4 si trovò materia ancora in combustione sotto le macerie. In tutto questo intervallo di tempo si mantenne una pompa completamente montata con servizio di vigilanza. I Vigili del Comune si ritirarono al mattino del 2 sul fare del giorno. Dall’annesso tipo dimostrativo e [sic] fissata la ubicazione del soffittone incendiato rispetto alla casa del Marrè e del P. Ehrle. Esso ha una lunghezza di circa m. 26 ma il tetto da ricostruirsi si estende fino a tutta la stanza da letto dello stesso Marrè. – Dai resti ricavati dalle macerie risulta che questo grande soffittone sia stato ridotto a magazzino, ove erano mobili, infissi, attrezzi del mestiere ed una quantità considerevolissima di carta, stampe e giornali. Il tetto del soffittone era sostenuto da quattro incavallature di legname di castagno. Da un accurato esame fatto sul grado di distruzione dei vari oggetti apparisce che il punto ove il fuoco raggiunse la massima intensità, fu, nello spazio compreso fra la prima e la seconda incavallatura. In questa zona non rimasero che le parti metalliche ed alcune di queste furono anche fuse. Un altro punto ove il fuoco fu ancora violento fu l’angolo a sinistra dell’ingresso della soffitta, ove era una scala di legno per accedere alla soffitta sopra la cucina e rimanenti stanze, e sotto a questa una massa di cornici di legno. La maggiore intensità del fuoco nella parte centrale della soffitta è confermata dal grado di carbonizzazione delle travature, le quali furono dovute segare in opera per procedere allo sgombro, ad accezione [sic] della prima che io stesso feci abbattere a mano appena domato l’incendio perché minacciava di cadere. Di più una certa De Tomassi la quale abita una casetta isolata alla Porta Angelica204, ha dichiarato al caporale Bevitori, che fin dal crepuscolo essa aveva osservato del fumo e del chiarore sul soffittone, che vi aveva posto poco attenzione, credendo si trattasse di qualche fuochetto d’artificio già altre volte da lei osservato verso la scala del Bramante ove è l’abitazione di Filippo Seganti205. 204 Le cronache giornalistiche dell’epoca attribuirono al pollarolo Pasquale Di Tomassi e al muratore Antonio Cerasi il primo avvistamento, verso le 20, da piazza Risorgimento, del fumo e delle fiamme sprigionatisi dal tetto del Braccio bramantesco, cfr. VIAN, Un discusso incendio cit., p. 674. La Porta Angelica sorgeva, sino al 1890, ove l’attuale via di Porta Angelica sbocca su piazza Risorgimento; intitolata a Pio IV (Giovanni Angelo dei Medici), che l’aveva fatta costruire, fu allora demolita. «Gli avanzi degli ornamenti marmorei della porta sono stati fissati sul vicino muro collegato al bastione michelangiolesco del Belvedere», RAVAGLIOLI, Vedere e capire Roma cit., pp. A23-24. 205 Forse da identificare col Filippo Seganti, nominato «cameriere d’onore in abito paonazzo» il 7 gennaio 1904 (ma è curioso che Mannucci ometta il titolo ecclesiastico), 1910. La Gerarchia cattolica. La famiglia e la Cappella pontificia. Le amministrazioni palatine. La Curia romana […], Roma 1910, p. 397. Famiglia poi tradizionalmente vaticana, quella dei Seganti, alla quale probabilmente apparteneva anche l’Alessandro Seganti che nel 1903 era insegnante di matematica e aritmetica nell’Istituto d’insegnamento scientifico-letterario del Pontificio
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La De Tomassi si allarmò seriamente quando vide uscire le fiamme dal tetto, che essa dice si manifestarono verso il mezzo della soffitta. – La distruzione poi della rimanente parte del tetto a partire dalla seconda incavallatura si deve ripetere dalla violenza del vento di S. E. che imperversò fortissimo nelle prime ore della sera. Nell’ultima parte del soffittone le fiamme hanno appena lambito il piano del pavimento, come lo mostra evidentemente un mucchio di caperchio206 ivi trovato solo parzialmente bruciato. È da notare inoltre che la parte del soffittone più vicina all’ingresso era quella che conteneva il maggior numero di oggetti. Poco innanzi alla porta quasi sotto la prima incavallatura eravi una grande tavola sostenuta da cavalletti sulla quale era ammassata una enorme quantità di carte, le quali andarono in gran parte distrutte, ma molte ne rimasero solo parzialmente danneggiate. Se il fuoco avesse avuto principio in prossimità dell’ingresso non solo si sarebbe dovuto verificare in questo punto una maggiore distruzione degli oggetti, ma sarebbe stato attaccato molto più seriamente il tetto della cucina e delle rimanenti stanze le quali per la presenza dei soffitti in legno offrivano maggiore quantità di materia infiammabile ed un riparo al vento che tendeva ad inclinare le fiamme verso la parte opposta. Da questa considerazione e da fatti verificati sono portato a concludere che l’incendio ha avuto principio nella parte quasi centrale del soffittone o meglio fra la prima e la seconda incavallatura. Mettendo fuori di discussione la spontaneità dell’incendio che non potrebbe neppure seriamente sostenersi se si fosse ritrovato qualche cumulo di materia in putrefazione o fermentazione, potrebbe rimanere un dubbio che esso avesse potuto avere origine dalla pila elettrica ritrovata. Questa ipotesi deve essere affatto esclusa 1° perché la potenzialità della pila destinata a fornire la corrente per un piccolo apparecchio di galvano plastica non avrebbe potuto produrre scintilla sufficiente da bruciare gli oggetti circostanti. 2° Se la pila fosse stata l’origine del fuoco la pila medesima doveva essere l’oggetto rimasto per il tempo maggiore alla azione del fuoco stesso. Ora la detta pila era racchiusa in doppia cassa di legno rimasta quasi completamente intatta. Di questa cassa deve essere stato distrutto il solo coperchio, se pure vi era, il resto della cassa si è trovato leggermente carbonizzato il bordo superiore. 3° La pila era assolutamente inattiva perché secca; difatti il solfato di rame che ne formava la soluzione liquida, si è trovato completamente cristallizzato con cristallizzazione lenta nel fondo della medesima, e non con un processo violento come sarebbe accaduto se l’evaporazione del liquido fosse stata prodotta dal fuoco. Non rimane quindi che ripetere la causa dell’incendio da una disavvertenza del Marrè il quale penetrato nella soffitta, o abbia acceso qualche fiammifero gettandone in terra il resto non bene spento, ovvero ne abbia calpestato qualcuno sparso in terra che, accesosi, abbia poi pian piano sviluppato l’incendio. Questa supposizione è avvalorata dal fatto che io stesso ho ritrovato nella cuSeminario Romano, cfr. 1904. La Gerarchia cattolica. La famiglia e la Cappella pontificia […], Roma 1904, pp. 509-510. 206 Non ho individuato il termine nei dizionari; forse si tratta di un errore del copista.
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cina una cassetta senza coperchio ricolma d’ogni genere di fiammiferi: dimandata al Marrè una spiegazione di questa raccolta mi ha risposto che egli continuamente ne compra perché continuamente ne perde e quando poi li ritrova li aduna tutti in quella cassetta. È poi per me grande la probabilità che il Marrè nella sera di Domenica sia entrato nel soffittone. Egli stesso ha dichiarato che in una delle stufe di lamiera ivi ritrovata egli conservava le vivande per non farle mangiare dai sorci; vivande che deve aver ritirate all’ora della cena. A tutto quanto sopra debbo aggiungere che il Caporale Bevitori nell’accedere alla verifica dell’incendio accompagnato dall’aggiunto Muccetti207 bussò alla porta del P. Ehrle e poiché dovette attendere qualche secondo si determino [sic] ad atterrarla. Mentre il P. Ehrle dichiarava che in sua casa tutto era in ordine il Bevitori si rivolse subito alla porta del Marrè in atto di atterrarla. Il Marrè dall’interno disse di aprire subito e si presentò alla porta in veste da camera e pianelle tenendo in mano una candela. Alla domanda concitata del Bevitori rispose freddamente che presso di lui non era nulla che bruciasse, ma il Bevitori insistette perché appena entrato udì il crepitìo delle fiamme. Quando il Bevitori si slanciò nell’interno della cucina il Marrè finì coll’ammettere che anche egli sentiva del puzzo di fumo e disse al Muccetti, che da venti minuti messosi a letto non aveva ancora preso sonno. Di poi il Marrè disse a tutti che dormiva dall’Ave Maria, che da quattro giorni non era più entrato nella soffitta e che nel giorno di Domenica sentendosi poco bene non era uscito di casa, mentre fu veduto fuori del Vaticano nel mattino alle 11 circa. Il Bevitori dichiara coscienziosamente che egli appena veduto il Marrè ebbe l’impressione di persona alterata dal vino. Io che lo vidi poco dopo, preoccupato come era della gravità dell’incendio, non feci attenzione al suo stato, rimasi però sorpreso dalla freddezza con cui passeggiava per le stanze, e più tardi dell’interesse che prendeva per alcuni uccelli che teneva nella cucina. Osservai ancora che durante la notte, mentre tutti vegliavamo, il Marrè non ostante che si fosse veduta distrutta una grande quantità di oggetti di sua spettanza piuttosto che procurare di ricuperarne i resti nella soffitta resa in ogni sua parte accessibile, erasi posto a dormire sui banchi dell’antica sala di studio della Biblioteca. Vaticano, 6 Novembre 1903 firmato: Federico Mannucci Sottoforiere dei SS.PP.AA.
Dopo l’incendio vennero prese misure precauzionali all’altezza della situazione. L’incendio del 1° novembre 1903, nelle sue limitate conseguenze ma anche nella gravità dei suoi potenziali pericoli, innescò quindi un provvidenziale processo di ripensamento delle condizioni di sicurezza che vennero perfezionate via via, col tempo. Anche in questo la prefettura Ehrle (importante anche perché il gesuita ottenne personalmente lo spostamento 207
Personaggio non meglio identificato.
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della Zecca italiana dalla contiguità con le gallerie della Biblioteca, persistente e continua minaccia per possibili incendi) fu l’inizio di un cammino coerentemente proseguito dai suoi successori. Nonostante le immancabili polemiche che divamparono sulla stampa soprattutto italiana (tendenti a mostrare l’inadeguatezza della Santa Sede a tutelare i preziosi oggetti in suo possesso e dunque a riproporre a poco più di trent’anni da Porta Pia la questione della proprietà della Vaticana208), il caso fu importante anche come occasione di collaborazione, ben prima della Conciliazione del 1929, fra autorità italiane e vaticane nella salvaguardia dei tesori della Vaticana. Il testo è infine interessante perché rispecchia la mentalità di Mannucci, uomo della scienza e veramente figlio dell’Ottocento: positiva, attenta ai fatti verificati, implacabile nel sottolineare le responsabilità anche di persone vicine a figure eminenti e rispettate come Ehrle. II. Le versioni de L’osservatore romano sul crollo del 22 dicembre 1931 L’osservatore romano diede notizia del crollo nel giorno stesso del fatto, nell’edizione uscita nel tardo pomeriggio del 22 dicembre con la data del 23 dicembre 1931. Le indicazioni sono scarne e, nella concitazione del momento, non si riveleranno tutte esatte: CITTÀ DEL VATICANO. IMPROVVISO CROLLO ALLA BIBLIOTECA VATICANA Poco dopo le 17 di oggi, un rovinoso crollo è avvenuto alla sede della Biblioteca Apostolica Vaticana. All’ala nord del Cortile del Belvedere, il tetto del braccio Sistino è precipitato. 208
Le polemiche sono in parte analizzate in VIAN, Un discusso incendio cit., pp. 676679. Per il clima politico nella città fra il 1880 e il 1890, cfr. PORENA, Roma capitale cit., pp. 115-120. Le distorsioni e le alterazioni dei fatti raggiunsero un livello tale da spingere Ehrle a scrivere una lettera alla Kölnische Volkszeitung, che fu pubblicata il 13 novembre e prontamente tradotta, a cura di Léon Dorez, nella Revue des bibliothèques. Ma già il 3 novembre, quindi subito dopo gli eventi, Louis Duchesne, direttore dell’École française de Rome, aveva scritto una lettera di puntualizzazioni e rettifiche a Léopold Delisle, che fu letta all’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres nella seduta del 6 novembre, ibid., pp. 679-686. Ulteriori polemiche seguirono il viaggio di Ehrle a Torino, nel febbraio 1904, per recare il soccorso della sua esperienza alla Biblioteca Nazionale Universitaria colpita dal disastroso incendio del 25-26 gennaio 1904 [in proposito cfr. P. VIAN, Franz Ehrle a Torino (febbraio 1904). Un caso «politico», in Carthaginensia. Revista de estudios e investigación 31 (2015), pp. 445-497]. Per l’allontanamento della Zecca italiana dalla contiguità alle «gallerie» della Biblioteca Vaticana, cfr. P. VIAN, «Quelle dimore auguste per l’arte e per l’umano sapere». Come la Zecca italiana fu allontanata dalla Biblioteca Vaticana (1904): un successo diplomatico di Franz Ehrle, in corso di stampa nella miscellanea in onore di Giuseppe Avarucci o.f.m.cap., Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 2016.
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L’enorme peso ha prodotto la rovina di parte degli ambienti interni fino al piano sottostante. Tuttavia, dai primi sommari accertamenti, si ritiene che i danni alla Biblioteca siano limitati. Al piano terra dell’ala lavoravano numerosi operai che, fortunatamente al momento della disgrazia avevano già lasciato il loro posto. Anche quattro operai mancanti all’appello e per i quali molto si temeva, sono stati ritrovati incolumi alle 17,45. La notizia è stata comunicata immediatamente al Santo Padre da Mons. Mercati, Prefetto della Biblioteca. Subito sono accorsi sul posto tutte le autorità della Città del Vaticano con a capo il Governatore. Mentre scriviamo non è stato ancora accertato se vi siano vittime umane: è da ritenere, però, dato che nel pomeriggio i frequentatori della Biblioteca e gli studiosi sono abitualmente in scarso numero, non vi siano a lamentare dolorose disgrazie. Sul posto è accorsa anche una squadra dei pompieri di Roma ma ogni pericolo di incendio è apparso subito escluso. Tuttavia si dà mano alle opere di sgombero209.
Se il totale silenzio sulle cause del crollo era comprensibile nelle prime relazioni, esso appare meno intelligibile nel comunicato ufficiale che il pro-prefetto della Vaticana mons. Eugène Tisserant fece pubblicare ne L’osservatore romano del 24 dicembre 1931 (uscito nella serata del 23 dicembre), ove colpisce anche l’assenza di riferimenti alle perdite umane (mentre si offrono dettagliate indicazioni sulle perdite librarie): IL CROLLO NELLA SEDE DELLA BIBLIOTECA VATICANA. IL COMUNICATO DEL PRO PREFETTO In seguito al crollo verificatosi nel Braccio di Sisto V, al Cortile del Belvedere di cui ieri sera potemmo appena dar sommaria notizia, il Pro Prefetto della Biblioteca Vaticana Mons. Dott. Eugenio Tisserant comunica: «Il fabbricato della Biblioteca Vaticana, conosciuto sotto il nome di Braccio Vecchio, di cui è crollata una parte, martedì alle ore 16,30, è stato eretto da Sisto V negli anni 1586-1588, per ricevere la Biblioteca del Pontefice la quale si trovava troppo ristretta nei locali che Sisto IV le aveva consacrato nella parte più antica dei palazzi vaticani. Il Braccio Vecchio sorse così a tagliare il magnifico insieme ideato dal Bramante, a mezza distanza tra l’Appartamento Borgia ed il Nicchione di Innocenzo VIII. In quel punto il Bramante aveva disposto una larghissima scalinata, alta circa 209
L’osservatore romano, 23 dicembre 1931, p. 2. Cfr. anche Le nostre cronache: Un sinistro alla prima Biblioteca del mondo, in L’illustrazione vaticana 3 (1932), nr. 1, 1° gennaio, p. 9 (con fotografie prima e dopo il crollo, ibid., pp. 10-11). Un giornale americano, il Library Journal, precisò in seguito che il crollo dal tetto al suolo avvenne molto rapidamente, nel giro di due o tre minuti, MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., p. 491.
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11 metri, pari al dislivello che si trova fra l’attuale Cortile del Belvedere ed il cortile della Pigna210. I due muri maestri del fabbricato che oggi vi si trova, son fondati così su due livelli differenti: quello a nord a circa 11 metri al disopra di quello di sud. Tra questi due muri una linea di piloni che vanno assottigliandosi fino alla cima del tetto, servono d’appoggio a tre volte successive, mentre al pianterreno, i locali, mai sistemati in modo definitivo, servirono prima da fienile, poi da autorimesse e una parte, da magazzini per i frammenti del Museo di Scultura. I piani superiori erano occupati, uno, fin dal 1890, dalla Sala di Consultazione della Biblioteca e l’altro dal gran Salone di esposizione della stessa, conosciuto sotto il nome di Salone Sistino. La parte crollata corrisponde ai due piloni centrali ed ai tre archi relativi. Nella Sala di Consultazione son venute così a mancare una piccola parte della sezione dei libri sull’Inghilterra, e la maggior parte dei libri sulla Germania. Mancano di più le sezioni Diritto Canonico (circa 1/3) Diritto Civile, Epigrafia, Agiografia, Liturgia, Paleografia, Papi, Cardinali, Vaticano, Cataloghi di Biblioteca (quasi la totalità), e le collezioni di riviste storiche, filologiche, teologiche, orientali e bibliografiche. Sono pure caduti i volumi stragrandi, in gran parte riproduzioni fotografiche di codici, che si trovavano disposti in piano, ma di cui una parte notevole è stata ricuperata, abbastanza protetta dalla forma speciale degli scaffali. Il totale delle perdite si aggirerà attorno ai 15.000 volumi di cui una parte può essere sostituita con altre copie esistenti negli altri fondi della Biblioteca. Un’altra parte però sarà difficilissima a ricostruire, in conseguenza della rarità di certi libri, specie tra i cataloghi di Biblioteca. Il danno che sembra piccolo, considerato il numero dei volumi perduti con il totale di circa 500 mila stampati esistenti nella Biblioteca Vaticana, sarà molto risentito da tutti e particolarmente dai dotti che apprezzavano in modo tutto speciale la ricchezza della Biblioteca di Consultazione per le loro ricerche. Nel Salone Sistino son caduti un numero veramente esiguo di libri e si può dire di poca importanza, poiché gli armadi nei quali erano conservati una volta i manoscritti, non servivano in gran parte che di deposito per libri d’importanza secondaria. Gli armadi che girano attorno al Salone erano stati vuotati nell’ultima quindicina, e i libri del fondo Cicognara, come pure quelli illustrati, erano stati trasportati nella nuova sala delle stampe e incisioni, nell’estremità meridionale dell’antico studio del mosaico. Degli oggetti che erano esposti al pubblico sono distrutti, una gran coppa foderata di malachite, un’altra di granito roseo ed il fonte battesimale del Principe imperiale, figlio di Napoleone III. – Eugenio Tisserant Pro-Prefetto»211. 210 Sulle difficoltà che si presentarono a Fontana al momento della costruzione dell’edificio a motivo della configurazione del terreno, cfr. HESS, La Biblioteca Vaticana cit., p. 237. 211 L’osservatore romano, 24 dicembre 1931, p. 1. FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 167, che rinvia anche ai Carnets Baudrillart, 23 décembre 1931 (Les carnets du cardinal Baudrillart, texte présenté, établi et annoté par P. CHRISTOPHE, V: 26 décembre 1928-12 février 1932, Paris 2003, p. 1025) e alla nota di A. P[ELZER]., in Revue d’histoire ecclésiastique 28 (1932), pp. 490-491, offre un quadro diverso: «Nombre de cadeaux des grands de ce monde, exposés dans la salle sixtine, sont perdus. Le quart des volumes de la salle de consultation s’est effondré: quelques centaines devront être remplacés et plusiers milliers restaurés». M. de
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Siamo informati che il Santo Padre ha disposto che una Commissione d’inchiesta accerti le cause del fatto. Essa ha già iniziato l’attuazione del proprio compito.
La ricostruzione di Tisserant, ripresa da La civiltà cattolica212, indirizzava dunque l’attenzione sugli squilibri strutturali dell’edificio, con i due muri maestri fondati su livelli differenti; e, a differenza di quella di Mannucci, non faceva cenno, e pour cause, a interventi umani che avevano provocato il disastro. Il giornale della Santa Sede tornò, nel giorno stesso della pubblicazione del comunicato, sulle cause del disastro, integrando la cronaca degli eventi con ulteriori notizie e precisazioni anche sulle perdite umane e sui danni: «Resta di fatto che la rovina s’attuò dall’alto: la parte centrale del tetto, travolgendo successivamente la volta del Salone Sistino e quella della Sala di Consultazione, sottostante a questo, le sfondava nella zona di centro, rovinando sino al pianterreno». Si precisava poi che «il grande Salone Sistino ebbe dunque distrutti soltanto parte della volta e due pilastri su cui le pitture erano di puro motivo ornamentale: quelle delle pareti, dalle caratteristiche figurazioni, sono assolutamente intatte. […] Così il contenuto di due vetrine che trovandosi nel centro della Sala e furono trascinate nel crollo, è stato già completamente ricuperato». Venivano poi ricordate le vittime: «l’impiegato avventizio della Biblioteca Marco Vattasso, assunto in servizio dal 1. dicembre» che si trovava nella Sala di consultazione al momento del crollo (il giovane Vattasso, si precisava, era «nipote di Mons. Marco Vattasso, già scrittore della Biblioteca e deceduto quattr’anni or sono per malore che lo colse negli uffici stessi»213). Ritrovato ancora vivo fra le macerie intorno alle 23, fu trasportato all’ospedale Santo Spirito ove BOÜARD, Après l’accident de la Bibliothèque Vaticane, in Revue des bibliothèques 41 (1931), pp. 331-334: 333, sulla base di elementi forniti da Tisserant probabilmente a una certa distanza di tempo, ridimensiona le perdite reali a 500 volumi. L’ultimo riferimento alla «Commissione d’inchiesta» è a quella di carattere tecnico composta da Giuseppe Momo, Leone Castelli e l’«ing. Venuti», per cui cfr. infra, testo e ntt. 225-226. 212 Cronaca contemporanea. I. Cose romane: Disastro nella sede della Biblioteca Vaticana, in La civiltà cattolica 83 (1932), vol. I, quad. 1957, 2 gennaio 1932, pp. 73-75. 213 In realtà Marco Vattasso, nato a Trinità di Cuneo il 20 maggio 1869, era morto il 3 luglio 1925, dopo un malore che lo colse in Biblioteca, cfr. L’improvvisa morte di Mons. Vattasso, in L’osservatore romano, 5 luglio 1925, p. 3; V. ROSSI, in Giornale storico della letteratura italiana 86 (1925), pp. 419-420; M.-H. LAURENT, L’abbé Paul Liebaert scriptor honoraire adj. de la Vaticane. Sa vie et ses oeuvres (1883-1915), in Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. Card. Albareda a Bibliotheca Apostolica edita, II, Città del Vaticano 1962 (Studi e testi, 220), pp. 1-132: 7 nt. 5; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 268 nt. 10. Vattasso iunior aveva solo da pochi giorni incominciato a lavorare all’indice dei fondi manoscritti che era stato proposto da William Warner Bishop e finanziato dal Carnegie Endowment for International Peace, MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 489 nt. 114, 496 nt. 4. Per le circostanze della morte, ibid., p. 491. Il 22 gennaio 1932, nel trigesimo, una messa in suo
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morì. «Al piano terreno poi dove si stava adattando nel vasto spazio, vari locali ad uso di magazzini per la Biblioteca, al primo sinistro rombo del crollo, gli operai della ditta Faggiani, adibiti ai lavori, si precipitarono fuori per porsi in salvo e dare l’allarme». Ma quattro dipendenti, Petrignani, Manenti, Terlizzi e Guerra, rimasero intrappolati. Le salme degli ultimi due furono recuperate alle sei del mattino del 23 dicembre «dopo una notte di febbrile lavoro». I cadaveri furono composti nella chiesa di S. Pellegrino degli Svizzeri, ove fu celebrata una messa di suffragio. Alle 9,45 del 23 dicembre visitò i luoghi del disastro il cardinale Bibliotecario e Archivista di Santa Romana Chiesa Franz Ehrle, ricevuto da Tisserant «che informò esattamente Sua Eminenza sulle conseguenze dell’accaduto, per ciò che riguarda la parte scientifica della raccolta, come si sa, ricuperabile, e quella artistica del fabbricato». Seguivano poi particolari sui lavori di sgombero e sulle maestranze impegnate nell’opera. Si precisava infine che «Mons. ProPrefetto, scrittori, inservienti della Biblioteca, non lasciarono un istante il loro posto, riordinando i volumi estratti e assicurandosi che tutto fosse riposto al sicuro. A numerosi telegrammi di Biblioteche e di Istituti scientifici italiani ed esteri, Monsignor Tisserant ha risposto rassicurando nel senso esposto dal comunicato»214. La quarta salma (dopo quelle di Vattasso, Terlizzi e Guerra), quella dell’operaio Manenti, fu rinvenuta solo «iersera sul tardi» (quindi la sera di mercoledì 23 dicembre), e anch’essa fu successivamente composta nella chiesa di S. Pellegrino. «A mezzogiorno, poi, è stata trovata anche la salma del Petrignani. I funerali son fissati per sabato [scil.: 26 dicembre]. I lavori di sgombero si possono dire ultimati»215. suffragio fu celebrata nella chiesa di S. Lorenzino in piazza Rusticucci, In memoria del dott. Marco Vattasso, in L’osservatore romano, 21 gennaio 1932, p. 5. 214 Ancora del crollo al Braccio Sistino, in L’osservatore romano, 24 dicembre 1931, p. 2. 215 In suffragio delle vittime del crollo, in L’osservatore romano, 25 dicembre 1931, p. 2. Nella stessa data la direzione della Biblioteca esprimeva la sua gratitudine per quanti avevano manifestato solidale simpatia «da Enti pubblici e privati, da molte persone e dalla stampa tanto italiana quanto estera»; e agli organismi italiani che erano concretamente intervenuti in soccorso. Nell’occasione Tisserant, a integrazione del suo precedente comunicato, confermava che «nessuna delle pitture murali del Salone Sistino è stata non solo distrutta ma anche lesionata, e sono intatte anche quelle delle volte rimaste. Quanto ai codici esposti, una sola delle sette vetrine è caduta col pavimento, e degli otto manoscritti che conteneva, sette sono stati ricuperati e senza danno. Delle altre vetrine, due furono più o meno danneggiate, ma i manoscritti ivi contenuti sono perfettamente conservati. Alla lista degli oggetti distrutti, sono da aggiungere solo una delle tavole di granito fatta da Pio VI, e due delle tavole di labradorite con i piedi di legno dorato fatte sotto Pio IX. Posso aggiungere che fra i libri che si ritirano dalle macerie, molti potranno servire di nuovo dopo le pulizie, magari con una legatura nuova, perché file intere di libri cadute insieme collo scaffale, sono state protette da esso», Dopo il sinistro alla Biblioteca Vaticana. Ringraziamenti ed encomi. Ulteriori precisazioni, ibid., p. 2.
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Il papa si recò in Biblioteca «ieri venerdì [scil.: 25 dicembre], alle ore 11,30» accompagnato da Mercati e Tisserant. All’inizio Pio XI, provenendo dal cortile di S. Damaso, si recò «alla galleria, già sede della Scuola del Mosaico, ove sono stati riuniti i numerosissimi volumi non travolti dal crollo e tolti intatti dagli armadi non caduti. Si portò quindi alla sala di consultazione entrandovi tanto dalla parte della Biblioteca, quanto dalla parte dell’Archivio, e soffermandosi a lungo. Il Santo Padre discese quindi al pianterreno ove si trattenne al salone adibito a deposito dal 1928 e dove sono stati provvisoriamente sistemati i volumi recuperati dalle macerie. Risalì quindi al Salone Sistino, donde, dopo altra lunga sosta per la constatazione dei danni subiti dall’artistico ambiente, ritornò ai Suoi privati appartamenti passando per il Museo lapidario»216. Sulla visita del papa nella mattinata del giorno di Natale abbiamo un’altra preziosa testimonianza, più personale di quella cronachistica dell’Osservatore. Emanuele Musso era, nel dicembre 1931, segretario-economo della Biblioteca Vaticana: La mattina del 25 dicem. Festività del Santo Natale di Gesù, dopo tre notti e tre giorni di permanenza sul posto del disastro, ero da poco rientrato nella mia casa sulla Piazza San Carlo – Palazzo Sancarlo217, quando l’Ill.mo e Rev.mo Monsignor Carlo Confalonieri, Cameriere Segreto Partecipante di Sua Santità, mi chiamò al telefono per comunicarmi la decisione del Sommo Pontefice di scendere alle 10 nella Biblioteca. L’ordine era che non dovevano trovarsi sul posto altre persone all’infuori degli Ill.mi e Rev.mi Monsignori Giovanni Mercati ed Eugenio Tisserant, allora Prefetto e Pro-prefetto della Vaticana, ed il sottoscritto, allora Segretario Economo della Biblioteca stessa.
È il caso di segnalare che sulla vicenda non disponiamo della voce di Mercati, che interruppe la compilazione del «diario dei prefetti» (o «cronaca della Biblioteca») (Arch. Bibl. 115, pt. A) in concomitanza con l’assunzione del ruolo di pro-prefetto da parte di Tisserant (1° dicembre 1930). L’ultima, laconica notazione, in data 1° dicembre 1930, è appunto questa: «Monsignor Tisserant ha preso oggi il governo», ibid., f. 54v. 216 Dopo il crollo della Biblioteca. La visita del Santo Padre, in L’osservatore romano, 27 dicembre 1931, p. 5. 217 Emanuele Musso ricopriva nel 1931 l’incarico di «assistente per l’economia» (in seguito «segretario economo») della Biblioteca Vaticana. Era entrato in Biblioteca Vaticana nel 1925 e vi rimase sino al 1939, rivestendo sempre incarichi di natura amministrativa, cfr. Annuario pontificio per l’anno 1931, Città del Vaticano 1931, p. 622; CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., pp. 271, 291, 293, 295. Fu costretto alle dimissioni dalla scoperta di un caso di malversazioni di cui fu ritenuto alla fine responsabile (ma il suo declino fu possibile solo dopo la scomparsa del papa che era stato suo patrono). Evidentemente in ragione del suo ufficio, Musso abitava dunque in Vaticano, nel palazzo che si erge alle spalle dell’abside della basilica di S. Pietro, ove abitò Giovanni Pierluigi da Palestrina e fu in seguito ospedale delle Suore di S. Carlo di Nancy; a esso venne addossata da Momo (1929) la ricostruita palazzina dell’Arciprete, FONTI, Quartieri moderni cit., p. 302.
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Dovevo io avvertire i Monsignori di tenersi pronti. Indossato l’abito da cerimonia, come era di rigore durante le frequenti visite domenicali che il Pontefice faceva alla Biblioteca, fra le 10 e le 14, dopo aver avvertiti i miei superiori, come ordinato, mi recai alla Biblioteca. Il Papa scese dalla macchina all’ingresso del Cortile del Belvedere, accompagnato dal Partecipante di servizio, Mons. Confalonieri, dette l’anello a baciare ai Monsignori, a me, ed in silenzio — non disse una sola parola — si avviò per la scala di accesso. Preceduto da me, che — come di consueto — accennavo i dislivelli, visitò, dove fu possibile accedere, tutti i locali sinistrati. Si affacciò alla sala di Consultazione dalla quale attraverso il Salone Sistino scomparso si vedeva il cielo corrucciato e gelido in quella mattinata, e — pronunciando allora le prime parole — chiese: «E l’Archivio ha sofferto?…». Gli fu risposto di no; volle andare a vedere, dirigendosi personalmente alla scaletta di accesso ed entrando nel Cortiletto della Biblioteca218. Guardando attentamente i muri dell’Archivio e sostando in osservazione di tutto ciò che Lo circondava. Sul volto amato era diffuso un velo di mestizia che muoveva alle lagrime! Monsignor Mercati, Monsignor Tisserant, il Partecipante Mons. Confalonieri si ritrassero sul piccolo ripiano della scala ingombro ancora di polvere e calcinacci. Il Papa si fermò col Suo gesto abituale delle mani incrociate dietro la schiena, e lo sguardo rivolto a terra. Era a capo dei quattro gradini in mattone per i quali dal Cortile si accede alla scaletta… Non accennava scendere! Dato il dislivello, io ero ai piedi degli scalini per indicare; ero solito farlo sempre. Il Papa parlò ancora; e: «Musso, Lei è stanco!…». Accennò a scendere. Commosso, osai — ebbi la forza! — di rispondere: «Padre Santo, certo questa non ci voleva!». Egli scese, appoggiandosi con ambo le mani sul mio braccio, proteso ad accennare; poi posandomi le mani sulle spalle, con gesto davvero insolito, e guardandomi fisso negli occhi, «Sia fatta, disse, la volontà del Signore! Sempre; la volontà del Signore!». Era commosso. Rivoltosi poi ai rimanenti, che si erano affacciati, «La Biblioteca sarà rifatta, disse; sarà rifatta come era!». Si avviò verso la discesa e fino in basso, al cortile del Belvedere, dove giunto, prima di risalire in macchina: «Tutte le benedizioni, disse accennando un gesto di congedo, tutte le benedizioni!». Niente verrà a cancellare dall’animo mio, mai! l’espressione del Pontefice tanto accorata durante tutta la visita; il suo silenzio prolungato, il suo affanno. Niente saprà mai riprodurre la ferma rassegnazione ai Divini Voleri, pure in un’ora di tanto strazio219.
Il racconto di Musso rivela il comportamento e le reazioni intime di papa Ratti, che non nasconde commozione e turbamento di fronte al disa218 Il papa passò quindi dall’edificio cubico (aggiunto sotto il pontificato di Leone XIII per collegare il livello del Salone Sistino al livello della Sala Leonina) al Cortile della Biblioteca, salendo i pochi gradini che introducono a quest’ultimo; e fece poi il percorso nel senso contrario. 219 CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., pp. 289-291. I ricordi di Musso furono stesi in margine alla prima edizione del volume di Confalonieri, quindi entro o poco dopo il 1957.
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stro, ma che poi, rimettendosi alla volontà di Dio, sa reagire con coraggio e fermezza annunciando l’intenzione di «rifare» la Biblioteca com’era. I funerali delle vittime del crollo si svolsero sabato 26 dicembre nella chiesa di S. Anna. Le casse funebri furono trasportate a spalla dalla vicina chiesa di S. Pellegrino «dai colleghi d’ufficio del prof. Vattasso, e dagli operai della ditta Faggiani, compagni di lavoro degli altri travolti sotto le macerie». Al termine della liturgia (presieduta dall’agostiniano Luigi Campelli ma l’assoluzione fu impartita dal vicario del papa per la Città del Vaticano Agostino Zampini), «entro la giornata di oggi [scil.: sabato 26 dicembre] le salme del prof. Vattasso e dell’operaio Terlizzi saranno fatte partire rispettivamente alla volta di Trinità (Cuneo) e Lavello (Basilicata) mentre quelle degli operai Manenti, Guerra e Petrignani saranno trasportate al Campo Verano». Fra le molte personalità ecclesiastiche e laiche che parteciparono ai funerali, vi erano la sorella del papa, Camilla Ratti, i suoi segretari particolari, Carlo Confalonieri e Diego Venini, e il governatore dello Stato della Città del Vaticano, Serafini. «La Biblioteca Apostolica Vaticana oltreché dal suo Prefetto [scil.: Giovanni Mercati] era rappresentata dai membri del Congresso direttivo, S.E. il Balì Pio Franco [sic per Franchi] de’ Cavalieri220 e Mons. Enrico Carusi221, nonché da molti impiegati ordinari ed avventizi. Mons. Tisserant, Pro Prefetto era trattenuto nei locali della Biblioteca ove procede ininterrotto il lavoro del recupero dei volumi. Gli scrittori ed il personale della Biblioteca Vaticana erano al completo […]»222. Sui lavori di recupero degli stampati (ma anche di un manoscritto, fra i più preziosi), Tisserant diramò un nuovo comunicato martedì 29 dicembre, a una settimana esatta dal crollo: Il Pro-Prefetto della Biblioteca comunica: I lavori di ricupero dei libri rimasti nei scaffali addossati alle pareti della Sala di Consultazione, sono stati terminati, per la parete meridionale, alle 23,30 del giorno 26, e per la parete settentrionale, alle 10,10 del giorno 27. Questi lavori vennero quindi terminati prima della violenta pioggia che si scatenò alle 10,30. L’importante risultato è stato ottenuto grazie al lavoro veramente meraviglioso 220 Pio Franchi de’ Cavalieri (1869-1960), per sessantacinque anni scriptor onorario della Biblioteca Vaticana, N. VIAN, Ricordo di Pio Franchi de’ Cavalieri, in Aevum 35 (1961), pp. 123-130 [ripubblicato in ID., Figure della Vaticana cit., pp. 235-242]; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 267 nt. 9; VIAN, Figure della Vaticana cit., pp. 105-106 [332-333]. 221 Enrico Carusi (1878-1945), dal 1909 scriptor della Biblioteca Vaticana, BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 257, 268 nt. 13; VIAN, Figure della Vaticana cit., pp. 105-106 [332-333]. 222 Dopo il crollo della Biblioteca. I funerali delle vittime, in L’osservatore romano, 27 dicembre 1931, p. 5.
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dei carpentieri della Ditta Castelli, sotto la direzione del signor Ghislandi, ed allo zelo del personale della Biblioteca che dopo una mezza nottata di lavoro, accorse di nuovo all’alba, appena avvertite le prime goccie della pioggia mattinale. Il manoscritto della Caccia al Falcone223, che si temeva travolto ancora sotto le macerie, è stato ritrovato in una catasta di libri stampati, di gran formato, che erano stati salvati nelle prime ore del disastro. Non manca quindi nessun manoscritto. Pochi libri si trovano ancora tra le macerie. Per impedire che vengano rovinati dall’acqua, la zona di macerie ove si trovano è stata ricoperta nelle prime ore della mattinata del 27, da un tetto provvisorio, che permetterà di fare con tranquillità la ricerca dei libri ed il trasporto delle macerie224.
Per accertare le cause del sinistro fu nominata una commissione composta da Giuseppe Momo, Leone Castelli e l’«ing. Venuti dei vigili del Governatorato di Roma», che si riunì presso il governatore Serafini «per procedere collegialmente nel lavoro d’indagine»225 e che arrivò molto rapidamente alle conclusioni226. Accanto a essa, dal carattere marcatamente tecnico, venne costituita (24 gennaio 1932) un’altra commissione, di indole più giuridica, per accertare le cause del crollo «e così determinare i provvedimenti di ordine amministrativo e le responsabilità civili e penali». A farne parte furono chiamati mons. Massimo Massimi, decano del Tribunale della Rota, nelle vesti di presidente, l’avv. Paolo Pericoli, presidente del tribunale di prima istanza della Città del Vaticano, e mons. Spirito Maria Chiapetta227. Ma intanto l’evento luttuoso lasciò subito un segno profondo 223 Il celebre manoscritto del De arte venandi cum avibus di Federico II, che reca la segnatura Pal. lat. 1071. Evidentemente era conservato in un’esposizione permanente allestita per i visitatori del Salone Sistino, in una delle due vetrine ricordate nel resoconto de L’osservatore romano del 24 dicembre, cfr. supra. La presenza nell’esposizione permanente proseguirà comunque negli anni successivi, cfr. I libri esposti nella Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano s.d. [ma 1952], p. 18; I libri esposti nella Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano 1964, p. 15. 224 I solleciti ricuperi alla Biblioteca, in L’osservatore romano, 28-29 dicembre 1931, p. 2. A differenza di quanto affermato ne L’osservatore romano del 24 dicembre (ma nella linea di quanto precisato il 25 dicembre), Cronaca contemporanea. I. Cose romane: I danni dell’infortunio nella Biblioteca Vaticana. Funerali delle vittime, in La civiltà cattolica 83 (1932), vol. I, quad. 1958, 16 gennaio 1932, pp. 182-183, affermò che una sola delle sette vetrine nella zona del disastro era crollata col pavimento; degli otto manoscritti in essa contenuti, sette furono subito recuperati, mentre un ottavo fu ritrovato in seguito fra i volumi di grande formato messi in salvo subito dopo il crollo (si tratta del Pal. lat. 1071). 225 Dopo il sinistro della Biblioteca, in L’osservatore romano, 30 dicembre 1931, p. 2. 226 Nel giro di poco più di due settimane la «Commissione tecnica» aveva già completato il suo lavoro e nella serata del 15 gennaio presentò le sue conclusioni al governatore Serafini, che le trasmise il giorno dopo al papa, Dopo il sinistro alla Biblioteca, in L’osservatore romano, 17 gennaio 1932, p. 2; nello stesso giorno il giornale vaticano pubblicò un articolo su I lavori di restauro nella Biblioteca Vaticana, ibid., p. 5, con alcune fotografie. 227 Dopo il sinistro alla Biblioteca, in L’osservatore romano, 30 gennaio 1932, p. 2 (ma nonostante l’esplicito annuncio, gli Acta Apostolicae Sedis non pubblicarono il testo della nomi-
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anche nel papa, che era perfettamente consapevole anche del significato «sociale» dei lavori eseguiti in quegli anni in Vaticano228 e inserì un ampio riferimento all’accaduto nel discorso al collegio cardinalizio tenuto il 24 dicembre 1931 (due giorni dopo il fatto): Come aveva accennato, Sua Santità desiderava dapprima ringraziare l’Eminentissimo Decano del Sacro Collegio [scil.: il card. Gennaro Granito Pignatelli di Belmonte, che aveva formulato gli auguri al papa a nome del collegio cardinalizio e della prelatura romana]. Lo voleva ringraziare, in modo particolare, per la mesta commemorazione che egli aveva voluto fare in quel luogo, di quei poveri operai periti in un accidente così doloroso. Tutti gli operai, il Papa l’ha detto tante volte, tutti i figli del lavoro, questi primi, per così dire, i più umili ma veri, fisicamente i più veri imitatori dell’oggi nato Bambino di Betlem, domani operaio e lavoratore a Nazareth, tutti Gli sono particolarmente cari; più cari quelli che lavorano per Lui, che lavorano vicino a Lui. E questo è veramente il lato più doloroso della cosa: che essi siano mancati. Pel rimanente si tratta di quelle cose che, in un modo o nell’altro, in un luogo o nell’altro, quasi necessariamente avvengono; in riflesso, questo tanto più dovuto quando si pensi che si tratta di un edificio tre volte secolare, uno di quegli edifici un poco frettolosamente, tanto meno accuratamente potuti preparare e eseguire. E neanche la suppellettile scientifica e artistica potrebbe contristare troppo, anche se perduta, perché in parte è restaurabile facilmente, e facilmente riparabile in se stessa; e in poca parte, per quello che già si può constatare di veramente perduto, è quasi tutto questione di un po’ di pazienza, per poterla in seguito sostituire. Perdute sono invece le vite, anche ridotte al minimo, tesoro così prezioso di natura e di grazia: ed era di conforto al Padre il pensiero che la Provvidenza aveva data quella occasione, quella circostanza di auguri, fatti per il tramite del così eminente interprete, che assicurava un così largo contributo di suffragi per quelle povere anime: suffragi certamente più larghi, in quanto il gran cuore di Santa Madre Chiesa nel giorno solennissimo del Santo Natale dà la possibilità di celebrare tre volte il Sacrifizio propiziatorio, espiatorio, soddisfattorio. I componenti quell’eletto uditorio certo leggevano nel pensiero del Padre: Egli na della commissione); Cronaca contemporanea. I. Cose romane: Nomina di una Commissione per accertare le cause del sinistro alla Biblioteca Vaticana, in La civiltà cattolica 83 (1932), vol. I, quad. 1960, 20 febbraio 1932, p. 386. A questa seconda commissione fa riferimento anche de BOÜARD, Après l’accident cit., p. 333. Chiapetta era allora consultore per l’Ufficio amministrativo della Congregazione del Concilio e presidente della Pontificia Commissione per l’Arte Sacra in Italia (precedentemente denominata Commissione per l’Edificazione di Chiese e Case Parrocchiali dell’Italia meridionale e Isole); ingegnere e architetto, si era occupato della progettazione e della costruzione di santuari ed edifici di culto, cfr. Annuario pontificio per l’anno 1931 cit., pp. 518, 585; I «fogli di udienza», II, cit., p. 723. 228 CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino cit., p. 65; ibid., pp. 64-65, significativi riferimenti alla consapevolezza che il papa aveva dei benefici «sociali», in termini (si direbbe oggi) «occupazionali», dei grandi lavori intrapresi in quegli anni in Vaticano, anche utilizzando fondi provenienti dallo Stato italiano quale risarcimento alla Santa Sede degli incameramenti che avevano accompagnato il processo di unificazione nazionale.
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non dubitava che in quella triplice celebrazione li accompagnerà anche il pensiero, il ricordo di quei poveri e buoni figli229.
Il discorso è, come allora d’uso, riferito in terza persona. Colpiscono gli accenti umani dei riferimenti e la distinzione, sana, equilibrata, umana e cristiana, fra le perdite di vite umane e quelle di oggetti, preziosi quanto si voglia, ma mai paragonabili alle vite umane. Le parole del papa furono pronunciate il giorno prima del sopralluogo che il pontefice compì — come si è visto — nel giorno di Natale; ed è significativo che l’accenno al disastro in Biblioteca Vaticana abbia preceduto la trattazione di «tre grandi tribolazioni» che affliggevano in quei giorni il papa: le tensioni col regime fascista italiano a proposito dell’Azione Cattolica, la persecuzione religiosa in Messico, «gli avvenimenti della più vicina Spagna; la povera e cara Spagna», cioè l’instaurazione della seconda repubblica spagnola al termine dell’esperienza autoritaria di Miguel Primo de Rivera e dopo la caduta della monarchia. Probabilmente al papa, alla sua volontà di riprendere subito il cammino e di tornare il prima possibile alla normalità si devono l’immediata riapertura della Vaticana al pubblico, già il 2 gennaio 1932, al termine delle consuete vacanze natalizie230, e l’udienza concessa nella serata del 16 229 Il testo completo del discorso del 24 dicembre 1931 in Discorsi di Pio XI, II, cit., pp. 618-626. Il passo citato a p. 619. Il card. Granito di Belmonte poco prima aveva detto: «Beatissimo Padre, questo breve accenno ad alcune delle opere Vostre, nell’anno che sta per declinare, ci porta a conchiudere invocando dal Pargoletto Gesù nuove grazie e favori a sostegno e conforto della Vostra Augusta Persona per il nuovo anno e per i molti che seguiranno. E anche — perché tacerlo? — a conforto e lenimento del dolore che ieri è venuto a ferirVi per la grave, repentina, mai pensata sciagura abbattutasi proprio sulla Vostra Casa, nel Vostro Stato. Comprendo che non sarebbe questo il momento né la sede di accenno così triste: ma il Vostro cuore di Pastore, di Padre degli umili lavoratori e dipendenti, nonché di Mecenate degli studi e delle ricerche scientifiche, mi fa sperare venia. Permettete che tutti a Voi ci associamo nell’invocare da Dio Misericordioso pace eterna alle anime delle povere vittime; conforto e rassegnazione cristiana ai loro cari superstiti», cfr. Il ritorno a Dio per la pace e la prosperità del mondo, in L’osservatore romano, 25 dicembre 1931, p. 1. 230 La consultazione dei manoscritti riprese immediatamente, mentre quella degli stampati fu sottoposta ad alcune limitazioni, Cronaca contemporanea. I. Cose romane: I danni dell’infortunio nella Biblioteca Vaticana. Funerali delle vittime cit., p. 183. I lettori di stampati furono inizialmente sistemati nello spazio antistante alla Sala di consultazione dei manoscritti, MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., p. 506. In questo senso si era espresso un terzo comunicato di Tisserant, in data 30 dicembre 1931, pubblicato da L’osservatore romano, 31 dicembre 1931, p. 2 (La riapertura della Biblioteca): «Il Pro-Prefetto della Biblioteca comunica: “Il trasporto dei libri dalla Sala di Consultazione nei nuovi magazzini dell’antico studio del mosaico, è stato terminato nella mattinata del 29 corrente. Mentre si procede tutt’ora alla revisione delle diverse sezioni immediatamente ricomposte nel loro ordine, si principia con attività la pulizia dei volumi tratti dalle macerie. La Biblioteca sarà riaperta ai studiosi a termine delle vacanze natalizie, cioè il giorno 2 gennaio. I lettori di manoscritti saranno ammes-
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gennaio agli «scrittori» e agli impiegati della Biblioteca, guidati da Ehrle, Mercati e Tisserant. Nell’occasione il papa commentò nuovamente il fatto, insistendo soprattutto sulla dedizione del personale, sull’abnegazione sia della «vecchia» che della «nuova guardia» nelle operazioni di recupero dei volumi e di ripristino delle condizioni favorevoli allo studio231, mentre il 14 febbraio ricevette più di mille operai impegnati nelle opere a servizio della Santa Sede232. Nel frattempo sulla stampa italiana e internazionale divampavano le polemiche233, mentre il crollo non mancò di suscitare echi anche si come al solito; contrariamente, dato il ristretto numero di posti per la consultazione degli stampati, i lettori di questa categoria non potranno essere ammessi che in numero limitato. – Dalla Biblioteca Vaticana, 30 dicembre 1931. – Mons. Tisserant». Già il 10 gennaio il papa tornò in Vaticana per verificare i lavori di ripristino in corso, cfr. Una visita del Santo Padre alla Biblioteca, in L’osservatore romano, 11-12 gennaio 1932, p. 2; Le nostre cronache: I solleciti lavori per la completa efficienza della Biblioteca, in L’illustrazione vaticana 3 (1932), nr. 2, 15 gennaio, pp. 58-60 (ibid., pp. 55, 59-60, fotografie dei lavori in corso, per i quali cfr. anche L. CASTELLI, La tecnica dei restauri della Biblioteca Vaticana, ibid., nr. 9, 1° maggio 1932, pp. 433-434). Il 14 gennaio Tisserant scrisse ad Angus S. MacDonald e a William Warner Bishop narrando l’accaduto e le operazioni di recupero delle salme e dei volumi, MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., p. 491 e nt. 119. Poco prima, il 12 gennaio 1932, Tisserant aveva scritto anche a Butler, lodando la reazione del personale alla disgrazia, ibid., p. 492. 231 Il discorso è pubblicato in Discorsi di Pio XI, II, cit., pp. 629-631; precedentemente in L’osservatore romano, 18-19 gennaio 1932, p. 1; cfr. Cronaca contemporanea. I. Cose romane: Udienze pontificie: […] agli scrittori della Biblioteca Vaticana, in La civiltà cattolica 83 (1932), vol. I, quad. 1959, 6 febbraio 1932, pp. 280-281. A proposito delle operazioni di recupero dei volumi nota GIORDANI, La Biblioteca nuova cit., p. 1142, che al momento del crollo «una rapida organizzazione permise di mettere in salvo non solo i codici travolti nel crollo, ma anche quasi tutti i 15.000 volumi a stampa caduti (la somma dei volumi perduti non raggiunge i 500), e le sezioni rimaste intatte negli scaffali addossati ai muri maestri. Alla riapertura della Biblioteca, dopo le vacanze natalizie, gli studiosi poterono riprendere regolarmente le loro ricerche: lavorando anche di notte, con un clima rigido, gl’impiegati della Vaticana aiutarono a raccogliere i volumi tra le macerie, e lavorarono a metterli in ordine nei nuovi scaffali, e precisamente nel nuovo magazzino (quarto, quinto e sesto piano) quasi interamente vuoto. […] Secondo un piano, disegnato dai superiori, i libri vennero trasportati, sezione per sezione, e messi con rapidità in ordine, sì che gli studiosi non subirono seri intralci. Tutto il personale ebbe il più ambito compenso nella udienza particolare che il Santo Padre accordò qualche sera dopo, rivolgendo parole di lode a tutti gl’impiegati e ricordando ancora una volta le povere vittime, intanto che disponeva una rapida ricostruzione dei locali crollati». Cfr. anche MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., p. 492. 232 Il discorso è pubblicato in Discorsi di Pio XI, II, cit., pp. 651-654; precedentemente in L’osservatore romano, 15-16 febbraio 1932, p. 1; cfr. Cronaca contemporanea. I. Cose romane: Udienze pontificie: […] alle maestranze del Vaticano, in La civiltà cattolica 83 (1932), vol. I, quad. 1961, 5 marzo 1932, p. 484. 233 Dando notizia dell’accaduto, una breve nota dal titolo Il disastro della Biblioteca Vaticana, in La bibliofilia 34 (1932), p. 109, segnalava «una vivace polemica che si è aperta sui giornali italiani intorno alle condizioni di stabilità di una parte del Palazzo Apostolico. Mentre infatti da una parte si smentisce ufficiosamente che il pericolo di una nuova catastrofe minacci l’edificio, dall’altra si afferma la necessità di provvedere urgentemente a studiare un piano generale di lavori per il rifasciamento del Palazzo le cui condizioni statiche non
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nei rapporti diplomatici venendo ripetutamente trattato nelle udienze del papa col segretario di Stato Pacelli234. Dell’esistenza della commissione (forse quella di carattere amministrativo-giuridico, presieduta da Massimi, poiché quella tecnica, composta da personalità attestate nella disputa sulle responsabilità dell’accaduto sul fronte opposto a quello di Tisserant, aveva già presentato le sue conclusioni al papa alla metà di gennaio) e dell’esito dei suoi lavori siamo informati da una lettera di Tisserant scritta dodici anni più tardi, il 16 febbraio 1944, a mons. Rémi Leprêtre: Au printemps de 1932, un verdict de blâme a été porté contre moi […] par une commission qui ne m’a pas interrogé235.
Il 10 maggio 1932 William Warner Bishop, scrivendo il suo quinto «report» sulla Biblioteca Vaticana indirizzato al presidente del Carnegie Endowment for International Peace notava che la commissione d’inchiesta non aveva ancora reso pubblico il suo rapporto finale ma sembrava «quite definitely established that two piers in the basement, which […] [were] continued as supporting colums in the upper stories, had been weakened sarebbero molto soddisfacenti». Anche de BOÜARD, Après l’accident cit., p. 331, accenna a voci inesatte e fantasiose, con alterazioni talora operate ad arte, allora circolate, con articoli sul Journal des débats e L’Action française, con interventi di Charles Maurras e repliche e rettifiche dello stesso Tisserant. Si ripeteva insomma lo schema degli avvenimenti seguiti all’incendio del 1° novembre 1903. Ma con diversi obiettivi e forse con una minore virulenza, dovuta probabilmente al mutato clima nelle relazioni fra Stato e Chiesa in Italia. Nonostante le intermittenti frizioni, la Conciliazione era ormai un fatto acquisito mentre l’anticlericalismo di matrice risorgimentale andava volta per volta evaporando. Ciò nonostante, L’osservatore romano del 31 dicembre faceva seguire al testo del terzo comunicato di Tisserant (cfr. supra, nt. 230) un significativo commento: «Confidiamo sinceramente che sui vari comunicati del Pro-Prefetto, ai quali si aggiunge ancor più rassicurante quest’ultimo, l’opinione pubblica si sia formata una idea esatta del sinistro, che, luttuoso purtroppo per le sue vittime, è per il resto completamente riparabile — cioè nelle raccolte e nelle opere murarie e pittoriche — così, come hanno potuto documentare le stesse fotografie. Non diciamo di quanto si è potuto leggere in certa stampa d’oltre Oceano: le proporzioni del fatto vi sono moltiplicate in ragione multipla della distanza. Ma anche alcune cronache italiane han parlato nientemeno che di “crollo della Biblioteca” o scrivendo del “crollo alla Biblioteca” lo chiamarono persino “immane” mentre si trattava in realtà di parte di due sale. Anche per questo le dettagliate notizie di Mons. Tisserant, garante della verità di fronte al mondo intellettuale, sono giunte tanto sollecite e precise, quanto opportune. Abbiamo pure letto qua e là, a proposito di monumenti vaticani, di oscillazioni preoccupanti. Trattasi di oscillazioni di fantasie, ma niente affatto preoccupanti, perché da troppo tempo consuete». 234 Cfr. gli accenni nelle udienze del 23 e 26 dicembre 1931, I «fogli di udienza», II, cit., pp. 687 e nt. 4058, 689-691. Per le condoglianze e le manifestazioni di solidarietà da parte del mondo americano, cfr. MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 492-493. 235 FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 167.
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by workmen engaged on repairs» (il riferimento deve essere alla commissione di carattere tecnico, poiché le conclusioni di quella giuridico-amministrativa — come subito vedremo — erano state già rese pubbliche nel pomeriggio dell’8 aprile). Se ciò fosse accaduto «by reason of actual directions based on faulty calculations or by exceeding directions, will probably never be known». Sostanzialmente Bishop affermava, a pochi mesi dall’accaduto, quanto Mannucci avrebbe sostenuto nelle sue memorie del 1935. Ma il bibliotecario americano aggiunge: «When this [scil.: il rapporto della commissione] appears, the responsibility for the disaster will be determined. Meantime it should be noted that the official architect and the contractor working under him have been dismissed from their posts — so that the inference of probable blame attaching to them — at least for failure to exercise proper vigilance — seems reasonable»236. Le conclusioni della seconda commissione, quella giuridico-amministrativa, furono presentate al papa il 29 marzo e rese pubbliche nel pomeriggio dell’8 aprile. Nei mesi immediatamente successivi al crollo si deve essere certamente svolta fra le diverse parti una lotta sotterranea e senza quartiere per accusare e contemporaneamente difendersi. Nella ricostruzione (sinora possibile sulla base di fonti francesi) appare chiaro che Tisserant fu accusato della responsabilità dell’incidente, soprattutto da ambienti italiani di tecnici (Castelli) ed ecclesiastici e l’erudito francese rischiò seriamente di perdere la posizione da poco occupata237. Fra il 23 236 MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 505-506. Pare probabile che l’«official architect» sia Fabio De Rossi, succeduto a Mannucci nel ruolo di sotto-foriere. Nel 1931 aveva questo titolo e faceva inoltre parte dell’Ufficio Tecnico dei Servizi Tecnici del Governatorato e della Commissione per i Pubblici Lavori (Annuario pontificio per l’anno 1931 cit., p. 628). Sempre nel 1931, il 2 febbraio, era stato insignito della commenda dell’Ordine di S. Gregorio Magno, classe civile, cfr. Acta Apostolicae Sedis 23 (1931), p. 141. Le stesse posizioni De Rossi occupava nel 1932 (Annuario pontificio per l’anno 1932, Città del Vaticano 1932, pp. 643, 648), mentre il suo nome scompare nell’Annuario pontificio per l’anno 1933. Al termine dei lavori delle commissioni d’inchiesta il responsabile (forse il capro espiatorio) dell’incidente fu individuato in lui; e il crollo divenne un’occasione per una ristrutturazione all’interno dei Servizi Tecnici. Scomparvero infatti l’ufficio del sotto-foriere e l’Ufficio tecnico, mentre la neo-costituita Direzione Generale (guidata da Leone Castelli) venne affiancata da cinque sezioni (Edilizia, Tecnologica, Giardini e Strade, Comunicazioni, Floreria) e dalla Posta, dal Telegrafo-Telefono, dalla Stazione Radio. L’ufficio del foriere maggiore fu confermato ma nell’ambito del Maestro di Camera di Sua Santità, cfr. Annuario pontificio per l’anno 1933, Città del Vaticano 1933, pp. 639, 649-650. 237 «Mgr Tisserant manque de perdre dans l’accident le poste qu’il n’occupait que depuis un an. Qui en est responsable: le propréfet, en tant que commanditaire des travaux entamés sous le bâtiment qui s’est effondré pour y aménager les bureaux de la rédaction des fichiers et la future école de bibliothèconomie, ou bien le conducteur des travaux, l’entrepreneur Castelli? Celui-ci reçoit le soutien de prélats italiens déçus de la promotion de Tisserant, qui se trouve ainsi à deux doigts d’etre limogé par un Pie XI fort irrité», FOUILLOUX, Eugène
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dicembre 1931 e il 4 aprile 1932 si svolsero non meno di tredici incontri in presenza di Pio XI, ai quali parteciparono, soli o insieme, Tisserant, Mercati, Castelli. Tisserant, che partiva apparentemente sfavorito (non era forse lui allora «le véritable patron de la Vaticane»238 e di tutto quanto vi accadeva?), riuscì alla fine inaspettatamente indenne dalle inchieste e dai procedimenti. Un’udienza di Tisserant col papa, burrascosa ma decisiva, si svolse nella serata del 2 aprile 1932 e su di essa abbiamo nuovamente i resoconti (questa volta indiretti) dello stesso prelato francese riferiti da Baudrillart: À la sortie [du consistoire] Mgr Tisserant me raconte les gros ennuis qu’il vient d’avoir avec le pape au sujet des accidents de la Vaticane. Les Italiens et surtout l’entrepreneur [scil.: Leone Castelli] veulent rejeter sur lui la responsabilité de ce qui est arrivé. Il a eu ces jours-ci une explication avec le Saint-Père; il s’est vigoureusement défendu, sans mâcher ses mots, en brave et rude Lorrain qu’il est; le pape a été convaincu et lui a réitéré l’expression de sa confiance. «Ici il faut être dur», me dit’il. Au récit de ses réponses, Mgr Mercati était blême et presque tremblant. Jamais un Italien n’aurait eu cette audace [scil.: davanti a un papa]239. cardinal Tisserant cit., p. 167. Ma il nome di Tisserant non viene citato nella relazione finale della commissione giuridico-amministrativa presentata al papa il 29 marzo e resa nota nel pomeriggio dell’8 aprile 1932: «La Commissione Speciale, nominata dal Sommo Pontefice, con Motu Proprio del 24 gennaio 1932, per la necessità e urgenza di emanare provvedimenti amministrativi, a seguito anche di eventuali responsabilità penali e civili che potessero risultare, in dipendenza del crollo di parte della Biblioteca Vaticana, avvenuto il 22 dicembre 1931, mentre si svolgevano i lavori di riforma nei locali del piano terreno, ha presentato la sua relazione al Santo Padre nell’udienza del 29 marzo 1932. La Commissione assolve, per insufficienza di prove, dalla responsabilità del disastro, il Direttore dei lavori Ing. Fabio De Rossi. Sottoforiere dei SS. PP. AA., presunto responsabile penalmente e civilmente, e il Sig. Sebastiano Faggiani, Capomastro muratore dei SS. PP. AA., presunto civilmente responsabile, come Capo della Ditta omonima, esecutrice dei lavori. Dimette tuttavia il De Rossi dall’ufficio di Sottoforiere dei SS. PP. AA., essendo risultata la di lui direzione non adeguata all’importanza dell’ufficio stesso. Essendo poi risultata parzialmente arbitraria ed errata la esecuzione dei lavori da parte di persone impiegate dal Faggiani, priva il Faggiani stesso del titolo e dell’incarico di Capomastro dei SS. PP. AA. e di ogni diritto annesso; rescinde conseguentemente gli eventuali contratti della Ditta Faggiani con l’Amministrazione dei Beni della Santa Sede. Il Santo Padre, vista la relazione di cui sopra, ha ordinato che si dia corso alle deliberazioni della Commissione», Provvedimenti amministrativi, in L’osservatore romano, 9 aprile 1932, p. 2. Una conclusione per certi versi singolare e incongrua. De Rossi e Faggiani venivano assolti «per insufficienza di prove» dalla responsabilità del disastro ma contemporaneamente licenziati per inadeguatezza nella conduzione dei lavori. Non ho invece individuato un resoconto pubblico delle conclusioni dei lavori della commissione tecnica, presentate al papa già in gennaio. 238 FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 163. 239 Così Alfred Baudrillart nei suoi Carnets, 3 aprile 1932 (Les carnets du cardinal Baudrillart, V, cit., pp. 117-118), citato da FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 168, che rinvia anche a una lettera di Tisserant a mons. Ruch del 16 aprile 1932. L’«entrepreneur» è Leone
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Si noterà lo spirito nazionalistico («Les Italiens» / «brave et rude Lorrain» / «un Italien») che pervade l’appunto ed era probabilmente espressione di un sentimento condiviso da Baudrillart e Tisserant. La stessa chiave di lettura (Francesi / Italiani) che si constata in una lettera di Tisserant a mons. Ruch del 10 luglio 1933 a proposito degli ulteriori lavori in Vaticana: Castelli è «tout aussi accessible qu’un monarque perse» ma in lui il papa ripone «une souveraine confiance», al punto di preferire, contro il parere di Tisserant ma con l’appoggio di Mercati, del materiale italiano a quello americano per rafforzare la galleria ove si trovavano i nuovi depositi, col rischio (secondo Tisserant) di danneggiare questi ultimi240. Ancora una volta lo schema è di schieramenti nazionali (e dietro a essi non è difficile intuire quelli politici: francesi / italiani / americani). Certo è che a distanza di più di un anno e mezzo dall’incidente le contrapposizioni permanevano identiche a prima, prova che dalla vicenda nessuna delle due parti era uscita sconfitta e che il papa aveva scelto una soluzione di compromesso salvaguardando lo status quo. Nell’udienza del 2 aprile 1932 Tisserant avrebbe affermato che i lavori intrapresi sotto il Salone Sistino erano stati fatti a sua insaputa e che gli ingegneri non avevano neanche una pianta degli ambienti. Per i progetti di ricostruzione che sarebbero stati approvati dal papa, Tisserant denunciò di non averli visti e si domandò a un certo punto «se era ancora lui a governare la Biblioteca Vaticana o se era il commendator Castelli». La veemenza di Tisserant durante il colloquio sarebbe stata tale che Pio XI a un certo punto lo avrebbe interrotto dicendo: «Ma mio caro Tisserant, lasciatemi parlare»241. Uscito vittorioso dall’udienza col papa, il giorno dopo Tisserant poté esaminare i disegni di Castelli per la ricostruzione. E la riacquistata pace e il confermato ruolo per Tisserant appaiono ben riflessi nell’articolo che Castelli; l’indicazione «ces jours-ci», rispetto alla data del 3 aprile, fa in realtà riferimento al giorno prima. Secondo RUYSSCHAERT, Pie XI, un bibliothécaire devenu pape cit., pp. 249-250, che si basa sulle note preparate da Tisserant in vista degli incontri, dal 31 dicembre 1930 al 6 maggio 1933 il prelato francese fu ricevuto da Pio XI in udienza non meno di 42 volte per trattare nel dettaglio i problemi della Biblioteca; fu ricevuto anche nella mattina del 22 dicembre, quindi poco prima del crollo, e di nuovo il 31 dicembre. Da quel momento, a quanto pare, le udienze furono sospese e ripresero solo il 20 marzo 1932. 240 FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 169. Nella stessa lettera la frase di Tisserant, molto esplicita: «Je suis obligé de faire des efforts pour ne pas le haïr». Il riferimento è a Mercati. 241 Così la ricostruzione di FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 168, sulla base di un’intervista di Tisserant al gesuita della Radio Vaticana Pierre Lucas: «R.P. Pierre Lucas s.j, “Pie XI. Une conversation avec S.E. le cardinal Tisserant le 11 février 1969”, 12 pages imprimées» (ibid., p. 13 e nt. 10). Una fotografia dei lavori per la sistemazione del pavimento del Salone Sistino in L’illustrazione vaticana 3 (1932), nr. 20, 15 ottobre, p. 983.
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L’osservatore romano dedicò alcuni mesi dopo, il 4 agosto 1932, al giubileo sacerdotale del bibliotecario francese. In esso, a proposito del crollo del 22 dicembre 1931 si scriveva: Nel recente luttuoso crollo occorso nella Biblioteca stessa egli, infaticabilmente si adoperò, con l’E.mo Cardinale Bibliotecario e Mons. Prefetto acché venisse nel più breve tempo ripristinata la piena efficienza dei servizi. Per più giorni diresse costantemente i lavori di sgombero e assistette con affettuosa pietà alle estreme onoranze alle povere vittime, in tutto coadiuvato dai suoi dipendenti sì da meritare, tutti, altissimo elogio del Santo Padre242.
Come si è accennato, ai primi di maggio 1932 Bishop tornò in Vaticana e, dopo aver incontrato Tisserant, poté stendere il 10 maggio il suo quinto «report» sulla Biblioteca indirizzato al presidente del Carnegie Endowment Nicholas M. Butler243. Il testo è dominato dalla profonda impressione provocata dal crollo del 22 dicembre precedente, considerato «the most notable event of the year». Esso, notava Bishop, non può essere compreso dai resoconti della stampa e dalle fotografie; forse solo uno studioso che aveva frequentato quei luoghi in altri momenti poteva rendersi veramente conto dell’accaduto: Without warning the roof fell in and carried with it two successive floors, precipitating over nine hundred (metric) tons of stone, plaster, bricks, books, and furniture into the basement or ground floor. The shock was terrific. Many cracks appeared later in various parts of the palace which are now thought to be the result of this tremendous impact. There is a great hole throughout the center of the Reading Room, over thirty by fifty feet in floor space, through which we can see right up to the temporary roof. The vaulted and highly decorated ceilings of the great hall on the second floor and the more modest walls and ceilings of the Reading Room can now be seen through a forest of huge baulks and timbers which shore up the walls, floors and roof. One notes at once that the construction of the vaults and floors was very light, the upper vault but one brick thick. Considering the weight of the roof and the age of the great rafters — they date from 1588, when this wing was built — it is no wonder that even a slight weakening of the support below brought on an instantaneous collapse of the heavy, tiled roof, which crashed through the light upper floor, and then through the heavier floors below. 242 Il giubileo sacerdotale di Mons. Tisserant, in L’osservatore romano, 4 agosto 1932, p. 2. Citato da FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 169, sulla base della traduzione francese de La Documentation catholique, 27 giugno 1936, col. 1613. In realtà l’affermazione a proposito della partecipazione di Tisserant ai funerali delle vittime del crollo non è esatta, cfr. supra, testo e nt. 222. Alla ricorrenza dedicò spazio anche L’illustrazione vaticana 3 (1932), nr. 16, 15 agosto, p. 793, con un breve articolo dal titolo Il giubileo sacerdotale di Monsignor Eugenio Tisserant, ma senza far riferimento al crollo del 22 dicembre 1931. 243 MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 505-506.
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Bishop esprimeva ancora il suo stupore per la «unusual rapidity [with which] the rubbish was cleared away, temporary adjustments made, and routine service resumed». Ma constatava anche che se il crollo «had […] happened in the morning, instead of late in the afternoon, the loss of life [would] have been terrible»244. E faceva infine notare che era «impossible to praise too highly the coolness, skill, resourcefulness of Monsignor Tisserant», che già il 31 dicembre 1931 L’osservatore romano aveva addirittura definito «garante della verità di fronte al mondo intellettuale». Superata la grande crisi della fine del 1931 e dell’inizio del 1932, i lavori di ripristino proseguirono con celerità. I restauri necessari nel Salone Sistino e in altri ambienti (il 22 gennaio 1932 nuove crepe si profilarono nella sala del catalogo e poi nel nuovo deposito degli stampati245) furono realizzati sempre sotto l’attento controllo di Pio XI246 che il 30 marzo 1933 si recò in visita nella grande aula restaurata247. 244 Nel maggio 1932 Bishop calcolava in non più di 600 i volumi perduti, mentre circa 10.000 avrebbero avuto bisogno di interventi di restauro, MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., p. 506. Sulle perdite di stampati, i dati più o meno coincidono con le valutazioni di Tisserant e Giordani, cfr. supra, ntt. 211, 231. 245 MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 498-499. Il 25-26 gennaio 1932, il quotidiano vaticano pubblicò un comunicato di Tisserant a proposito della «crepa trasversale nella volta della sala ove si lavora alla compilazione del catalogo degli stampati», Alla Biblioteca, in L’osservatore romano, 25-26 gennaio 1932, p. 2. Da lunedì 29 febbraio, e per tutta la durata dei lavori di ricostruzione, l’ingresso degli studiosi all’Archivio e alla Biblioteca avvenne «dal Viale delle Fondamenta dirimpetto al portone dei Giardini Vaticani», L’ingresso alla Biblioteca, ibid., 28 febbraio 1932, p. 2. 246 FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 170, fa riferimento a una quarantina di udienze di Tisserant con Pio XI e a dieci visite del papa alla Vaticana fra il 2 aprile 1932 e la creazione cardinalizia di Tisserant (15 giugno 1936). Per i restauri cfr. anche MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 520, 525, 572. Il 18 marzo 1932, il quotidiano vaticano annunciò Il piano dei lavori alla Biblioteca (L’osservatore romano, 18 marzo 1932, p. 2) presentato dalla Commissione dei Pubblici Lavori e approvato dal papa: «I concetti costruttivi del progetto in merito alla ricostruzione hanno portato allo studio di una struttura in cemento armato da inserire nell’edificio esistente, senza variare menomamente la linea architettonica attuale, alla formazione di solai in ferro pur mantenendo nelle Sale per la Biblioteca e nella Sala Sistina le attuali volte convenientemente alleggerite e ricostruendo quelle crollate con la copertura che sarà eseguita con struttura in cemento armato. Allo scopo di meglio utilizzare il piano terreno, alto circa dodici metri, verranno ricavati a metà altezza degli ampi ammezzati utilizzabili anche come locali di lavoro e di studio. La Sala di consultazione a lavoro compiuto sarà ampiamente illuminata da finestroni verso il cortile del Belvedere. Tutto il fabbricato come si è detto manterrà inalterata la linea architettonica attuale. I lavori saranno ultimati nel termine di un anno». 247 Il Salone Sistino ripristinato, in L’osservatore romano, 31 marzo 1933, p. 2; Cronaca contemporanea. II. Santa Sede: Riapertura del Salone Sistino, in La civiltà cattolica 84 (1933), vol. II, quad. 1988, 15 aprile 1933, pp. 195-196. Il Salone Sistino fu riaperto al pubblico il 3 aprile 1933. Un album con nove fotografie (G. Felici) della visita del papa al Salone Sistino restaurato è in Biblioteca Vaticana, R.G. Fot. Obl. I.452; da qui è stata tratta la fotografia
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Con la visita del papa giungeva al suo epilogo una vicenda tragica e dolorosa che si era risolta, nell’efficace espressione di Étienne Fouilloux, in un «affrontement pour le pouvoir», di cui il crollo era stato solo un’occasione e un pretesto248. Nella memoria e nell’immaginazione rimane però soprattutto un’immagine: quella del vecchio cardinale Bibliotecario Franz Ehrle che, ormai quasi cieco, viene accompagnato sul luogo del disastro e affranto intravede fra le ombre le macerie di quella che era stata la sua creatura più bella e importante, la Sala di consultazione all’interno della Biblioteca Leonina, vero simbolo di una stagione, quella della primavera degli studi leonini, che aveva segnato la nascita della Vaticana moderna. Nonostante lo strazio, il gesuita ebbe la forza di incoraggiare le operazioni di recupero dei volumi249. La Sala sarebbe rinata di lì a poco, «più bella e imponente; davvero, e ad impressione di tutti, pulchrior evenit!»250, superando i difetti di impostazione biblioteconomica che dall’inizio l’avevano contraddistinta, con la trasformazione in un unico ambiente dei tre spazi nei quali era suddivisa. Ma un’epoca in qualche modo si poteva dire veramente conclusa251.
pubblicata in 1929-2009. Ottanta anni cit., p. 385. Cfr. anche La fine dei lavori di ripristino del Salone Sistino nella Biblioteca Vaticana, in L’illustrazione vaticana 4 (1933), nr. 8, 16-30 aprile, pp. 289-290. 248 FOUILLOUX, Eugène cardinal Tisserant cit., p. 169. CASTELLI, «… Quel tanto di territorio…» cit., p. 127, pubblica una fotografia, s.d., che raccoglie alcuni protagonisti di queste vicende (Castelli, Mercati, Tisserant) intorno a Pio XI, durante un sopralluogo per lavori in corso o da progettare. 249 E. CARUSI, Il cardinale Francesco Ehrle bibliotecario di S.R.C. (n. a Isny, Württemberg, il 17 ott. 1845, m. a Roma il 31 marzo 1934), in Accademie e biblioteche d’Italia 8 (1934), pp. 430-436: 434. La visita alla quale fa riferimento Carusi dovrebbe essere quella del 23 dicembre 1931, cfr. supra. Cfr. MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 491-492. Anche un altro testimone, oltre al ricordo «di un’alacre abnegazione da parte di tutti i fedeli addetti della Vaticana, dai più illustri ai più umili» e «del trepido e commosso affetto di tutto il mondo verso la Biblioteca dei Papi», evoca la «veneranda figura e la porpora del card. Ehrle, sereno e diritto, tra gli operai e i mucchi dei suoi libri polverosi e straziati», che incita «al lavoro, e quella ardita e giovanile di Mons. Tisserant, in alto al cumulo delle macerie», che dirige «l’opera di scavo e di liberazione dei volumi travolti», N. VIAN, L’operosità bibliografica della Biblioteca Vaticana, in Aevum 6 (1932), pp. 485-494: 493. 250 GIORDANI, La rinnovata Sala cit., p. 789. La Sala fu riaperta il 2 ottobre 1933. 251 RUYSSCHAERT, Pie XI, un bibliothécaire cit., p. 249. Già de BOÜARD, Après l’accident cit., pp. 333-334, aveva accennato alla possibilità di migliorie in occasione della ricostruzione: «Et de ce qui eût pu être un très grand mal résultera, de la sorte, un grand bien». Per le valutazioni positive di Bishop a proposito della nuova Sala di consultazione e dei nuovi depositi, cfr. MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 549-550 (an. 1934), 642 nt. 4 (an. 1939).
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III. La lettera di Mannucci a Pio XI sul crollo del 22 dicembre 1931 (19 gennaio 1932) Probabilmente non richiesto, ma per sua personale iniziativa motivata dalla lunga esperienza e consuetudine anche col fabbricato parzialmente crollato, Mannucci sentì il bisogno di scrivere al papa, poco meno di un mese dopo il disastro. La lettera (conservata in Arch. Bibl. 115, pt. A, ff. 49r52r) sorprende chi ha precedentemente letto la ricostruzione dei fatti ne I miei quarantasette anni di sotto-foriere dei SS. PP. AA. Città del Vaticano, 19 gennaio 1932 Beatissimo Padre, ho l’onore di umiliare alla Santità Vostra le seguenti osservazioni che si riferiscono al crollo, ed alla probabile causa, di una parte del Braccio Sistino della Biblioteca Vaticana, avvenuto la sera del 22 dicembre p.p. Nel tornare in casa la sera del 22 dicembre appresi il disastro avvenuto nella Biblioteca; mi recai nel cortile di Belvedere ancora invaso dalla polvere, ove potei constatarne la gravità, e rivolsi il pensiero a quale causa dovesse attribuirsi un sì grave crollo in un edificio che, avutolo in custodia per il non breve periodo di 47 anni252, non aveva presentato mai nulla di anormale, e dovetti solo occuparmene nelle circostanze seguenti: Nel primo o secondo anno del mio esercizio (1882 o 1883) dovetti rimedi[a]re l’inconveniente delle infiltrazioni di acqua che si verificarono in un locale verso il cortile di Belvedere, ove lo Scultore Jacometti253, Direttore dei Musei, stava eseguendo la statua del Pontefice PIO IX, destinata alla Confessione della Basilica Liberiana254. Dopo l’Esposizione Vaticana del 1888, avendo il S. Padre Leone XIII stabilito di istituire la Biblioteca di Consultazione, fu abolita l’Armeria che occupava tutto il primo piano del Braccio Sistino, che fu destinato a tale scopo, liberandolo di un peso di circa 500 tonnellate.
252 Si noterà che l’espressione riprende quasi alla lettera quella utilizzata da MANNUCCI, I miei quarantasette anni cit., p. 196: «Nel non breve periodo di 47 anni che ebbi in custodia questo edificio […]». 253 Ignazio Jacometti (1819-1883), scultore romano formatosi e docente nell’Accademia di S. Luca; prolifico autore di numerose opere, fra le quali i due gruppi scultorei, il Bacio di Giuda e l’Ecce homo, commissionati da Pio IX (che lo ebbe caro) e collocati ai piedi della Scala Santa presso S. Giovanni in Laterano, e la statua di Mosè, realizzata nel 1857 per il monumento dell’Immacolata Concezione di fronte al palazzo di Propaganda Fide in piazza di Spagna, cfr. S. SCLOCCHI, Jacometti, Ignazio, in Dizionario biografico degli italiani, LXII, Roma 2004, pp. 5-6. 254 Una delle ultime e più celebri opere di Jacometti, la statua di Pio IX orante, fu voluta da Leone XIII per la confessione della basilica di S. Maria Maggiore, di fronte all’altare della cripta, SCLOCCHI, Jacometti, Ignazio cit., p. 6.
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Che poi l’edificio si conservasse n[e]llo stato normalea era confermato dal fatto che, mentre in molte altre parti si verificarono gli effetti dei due violenti terremoti avvenuti di recente, nel Braccio Sistino non si riscontrò la più lieve crinatura, sia nei muri che sulle volte. Mi sono informato sulla qualità ed entità dei lavori che si stavano eseguendo nel piano terreno al momento del crollo, i quali, benché sottraessero una piccola superficie di appoggio al muro centrale, mediante l’apertura di vani, tale superficie era in proporzionib ben piccole e tali da non potersi assegnare come causa efficiente del crollo in un edificio che, pure di mediocre struttura, presentavasi in condizioni normali; si sarebbe verificatoc un effetto affatto sproporzionato alla causa. Alla ricerca della causa peraltro mi hanno condotto le seguenti considerazioni: L’edificio è poggiato sopra un terreno che può considerarsi quanto mai adatto; infatti esso è costituito da argilla molto compatta e quindi tale da sostenere i più grandi pesi; nel caso attuale peròd tre fatti lo possono rendere insidioso; primo che l’argilla trovasi in strati di vario spessore interpolati con strati meno compatti di argilla mista a sabbia; secondo che in tutta l’estensione del terreno su cui poggia l’edificio affiorano numerose filtrazioni di acqua ed in alcuni punti vere sorgenti; terzo che la natura del terreno non è omogenea, presentandosi in parte anche rocciosa. Le numerose filtrazioni di acqua e le sorgenti stesse si spiegano con la posizione topografica del Vaticano che occupa l’estremità dell’altipiano che ad Ovest si estende per molti kilometri ed una parte del piano del Tevere ove confluiscono tutte le acque di filtrazione di parecchi kilometri quadrati di superficie. Ora gli effetti derivanti da tale situazione sono la instabilità delle fondazioni degli edificie, se non si tien conto della esistenza degli strati interposti meno compatti, del continuo passaggio delle acque verso il confluente che in determinate circostanze e col lungo andare del tempo possono asportare una parte sia pure piccola del terreno attraversato, e finalmente della eterogeneità del terreno che nelle parti rocciose offre un appoggiof stabile, mentre nelle parti terrose lo sig deve rendere tale con opportuni artifici. Sono numerosi gli esempi che si possono addurre: posso ricordare che all’inizio della costruzione del quartiere detto dei Prati di Castello molti edifici condotti a termine dovettero essere rafforzati nelle fondazioni per fatto deih cedim[e]nti provocati dagli strati arenosi interpolati a quelli di argilla; tra questi posso citare il Palazzo di Giustizia e la testata del Ponte Umberto255 ove il cedimento fu considerevole in modo che il ponte stesso rimase chiuso al transito per più di un anno a Orig. normake. b Orig. ptoporzioni. c Orig. cerificato. d Orig. attualeperò. e Orig. edififci. f Orig. appaggio g Orig. leosi h Orig. dei, 255
Il Palazzo di Giustizia è il più grandioso fra gli edifici con cui l’Italia umbertina volle caratterizzare la «terza Roma». Voluta da Giuseppe Zanardelli, su progetto di Guglielmo Calderini, la costruzione si protrasse tra difficoltà e scandali dal 1889 al 1911, anno di inau-
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sottoposto al carico di prova costituito da un grosso strato di selci su tutta la sua superficie. Né mancano esempi anche qui in Vaticano: il casino di Pio IV al Cortile delle Corazze, tutto il lato Nord dei Musei Vaticani, il Palazzo di Belvedere che, per metà poggiato su terreno roccioso e per metà su terreno sciolto, è nettamente spaccato in due parti; che se poi gli strati di argilla non sono orizzontali, può avvenire anche lo scorrimento, come si verifica nel Palazzo di Belvedere sopra ricordato, in cui si notano tracce evidenti di scorrimento verso Nord. Queste considerazioni e questi fatti mi hanno indotto a pensare che l’abbondante filtrazione delle acque ed il loro passaggio sotto le fondazioni, specie del muro centrale, del Braccio Sistino, da tempo remoto abbiano lentamente eroso il terreno di fondazione, rendendolo molle sino a procurarne lo scorrimento.i Questo, come causa occasionale, può essere stato accelerato dai lavori in esecuzione nel piano terreno. Tale scorrimento deve essersi verificato verso il Cortile delk Belvedere, come lo conferma il fatto che dopo lo sgombero delle macerie la parte bassa del muro centrale rimasta in piedi dopo il crollo ha proseguito a muoversi in detta direzione, tantol da richiedere delle speciali opere di puntellatura per arrestarne il movimentom. Lo scorrimento in tale direzione spiega anche come la rottura delle volte sia avvenuta molto prossima al muro di perimetro verso il cortile della Libreria, e si sia invece verificata a considerevole distanza dal muro di prospetto verso il cortile di Belvedere. Inoltre una delle vetrine orizzontali contenente preziosi codici e che trovavasi innanzi una delle finestre verso il cortile della Libreria sopra una parte delle volte interamente crollata, è stata tagliata in due parti di cui una venne travolta dalle macerie, mentre l’altra venne proiettata nel vano della finestra, ove fu rinvenuta durante lon sgombero delle macerie. Riassumendo ritengo di poter concludere che il crollo sia dovuto allo scorrimento della fondazione del muro centrale, preparato da lungo tempo; e solo forse accelerato dai lavori in corso; data la completa integrità che appariva in tutto l’edificio, nulla si opponeva alla esecuzione di lavori, i quali del resto in nulla differiveno da altri già eseguiti in occasione dell’apertura del nuovo ingresso alla Biblioteca Vaticana, ed erano ordinati ad una migliore utilizzazione ed al risanamento di locali che sino ad ora erano rimasti in uno stato di semi=abbandono. Questa mia conclusione, che può essere all’occorrenza controllata con opportune ulteriori osservazioni, io sono lieto sottoporre alla Santità Vostra perché, trattandosi di un fatto derivante da un fenomeno completamente occulto, e quindi imprevedibile, a me sembra debba esonerare la S. Sede da ogni responsabilità.
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Orig. scorrimento;. Orig. dei Orig. tan tanto Orig. mo movimento Orig. le
gurazione, e oltre. In funzione dell’accesso al Palazzo, fra il 1892 e il 1895, fu costruito, su progetto di Angelo Vescovali, il ponte Umberto, cfr. RAVAGLIOLI, Vedere e capire Roma cit., pp. A14-15.
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Prostrato al bacio del S. Piede ed implorando l’Apostolica Benedizione mi raffermo della Santità Vostra Devotissimo Umilissimo Servo e Suddito
La lettera non è firmata ma, per motivi interni [gli accenni al «non breve periodo di 47 anni» di custodia dell’edificio della Biblioteca e al «primo o secondo anno del mio esercizio (1882 o 1883)»], è sicuramente riconducibile a Mannucci che però, curiosamente, assume qui, nel gennaio 1932, a poco meno di un mese dal crollo, una posizione diversa da quella che assumerà in seguito nel suo volume di memorie. Si può ipotizzare che la lettera (quattro ff. dattiloscritti nel recto, su carta copiativa) sia una copia allestita dai destinatari e inviata alla Biblioteca Vaticana per documentazione. Lo confermerebbe la presenza, immediatamente dopo nel volume, di un’altra copia di lettera (un f. dattiloscritto nel recto, su carta copiativa identica alla precedente), Roma, 9 gennaio 1932, a firma dell’«ing. E. Paladino» e indirizzata all’«ing. Momo / Commissione LL. PP.»256. In essa il Paladino, «per incarico del Signor Tenente Costantino Cattoi257, esperto e conosciuto radiogeotecnico», rende noto «che gli studi eseguiti dal sullodato Cattoi sulla zona della Città del Vaticano, stanno a dimostrare come il crollo della Biblioteca sia avvenuto per movimenti del terreno (frana). Il Cattoi, da semplici fotografie aeree e con l’aiuto della radiomante signorina Mataloni258, aveva già previsto della frana, allo stesso modo come previde quelle di Leprignano e di Monteverde a Roma259. Egli sarà ben lieto di mettersi a disposizione per dimostrare la verità delle sue asserzioni che, derise un tempo, oggi hanno trovato conferma nei fatti, sia per le avveratesi previsio256 Nel 1932 Momo era membro della Commissione per i Pubblici Lavori all’interno dell’Amministrazione Speciale della Santa Sede; con lui ne facevano parte Leone Castelli, Fabio De Rossi e Gaetano Malchiodi (Annuario pontificio per l’anno 1932 cit., p. 643). 257 Costantino Cattoi (1894-1975), eroe della prima guerra mondiale, legionario nell’impresa di Fiume e legato a Gabriele D’Annunzio, esperto di ricerche idriche e minerarie e promotore delle rilevazioni aeree a fini topografici e cartografici; a lui si devono le scoperte, negli anni Trenta, delle antiche città di Capena e di Lilibeo, vicino a Marsala, in Sicilia. In seguito le opinioni di Cattoi (a proposito dei graffiti rupestri e di altro) assunsero aspetti sempre più bizzarri, cfr. M. Martinelli, Costantino Cattoi (1894-1975), in http://www.duepassinelmistero. com/CCattoibiografia.htm [consultato il 7 agosto 2014]. 258 Maria Domenica Mataloni, giovane sensitiva conosciuta da Cattoi agli inizi degli anni Trenta e divenuta sua moglie (dal matrimonio nacquero Giovanna Atlantina nel 1932 e Maria Pia nel 1938); divenne in seguito una celebre radiomante. Insieme crearono una società radiogeotecnica con sede a Grosseto, per le ricerche idriche, minerarie e archeologiche nel sottosuolo, ibid. 259 Leprignano è il nome medievale della città di Capena che lo conservò sino al 1933. Già nell’Ottocento fu teatro di frane. Monteverde è un quartiere romano comprendente grosso modo il rilievo del Gianicolo, zona periodicamente interessata da frane, anche cospicue.
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ni, sia per la scoperta delle antiche città di Capena e di Lilibeo260». Insomma, i due documenti sono stati collocati nel cosiddetto «diario dei prefetti» a testimonianza del fatto ma contemporaneamente anche a discarico di eventuali addebiti di responsabilità nell’accaduto. Perché entrambi tendono ad accreditare l’ipotesi che il crollo sia dovuto a «un fatto derivante da un fenomeno completamente occulto, e quindi imprevedibile» esonerando così «la S. Sede da ogni responsabilità». Come spiegare il cambiamento di posizione di Mannucci fra il gennaio 1932 e i primi mesi del 1935, quando fu pubblicato il volume? L’unica spiegazione plausibile è che l’antico sotto-foriere abbia fra la prima e la seconda data, fra la lettera al papa e la pubblicazione delle memorie, attinto nuove informazioni sull’accaduto che lo hanno indotto a modificare la sua prima posizione. Post scriptum. La cortesia della dott.ssa Luigina Orlandi, della Biblioteca Vaticana, mi ha mostrato le fotocopie di alcuni documenti ritrovate fra le carte di padre Leonard E. Boyle (1923-1999), prefetto della Biblioteca Vaticana dal 1984 al 1997; esse proverebbero che i morti nel crollo del 22 dicembre 1931 furono almeno sei, non cinque. Il 12 agosto 1986 André Forestier scrisse infatti, da Noisy-le-Sec (Dép. Seine-Saint-Denis), a padre Boyle affermando che sua madre, Catherine Vezinaud, in viaggio in Italia col marito, Gabriel Forestier («sculpteur statuaire»), perì nel crollo del 22 dicembre 1931. André Forestier, che aveva allora sei anni ed era con i genitori e la sorellina di pochi mesi, chiedeva quindi di conoscere gli articoli della stampa (italiana e vaticana) sul fatto. Accludeva alcuni documenti: a) due comunicazioni telegrafiche della ditta Bonaldi, una s.d., una del 23 dicembre 1931, a proposito del trasporto del feretro [di Catherine Vezinaud] da Modane a Parigi; b) conto «del signor Forestier» di £ 604,50, con relativa quietanza, della Clinica privata per cure mediche (Via Toscana 13), dal 19 al 21 gennaio 1932, e per la sala mortuaria, 23 gennaio 1932; c) ricevuta di £ 50 dell’Autoparco centrale della Croce Rossa Italiana per trasporto con autoambulanza di Blanche Vezinaud (forse la sorellina, ma perché col cognome della madre?), 20 gennaio 1932; d) ricevuta di £ 1.800 dal dottor Giorgio Wild (Via Nizza 56, int. 4) per la preparazione del corpo di Catherine Vezinaud, 23 gennaio 1932. Si può ipotizzare che i Forestier si trovassero nel Salone Sistino al momento del disastro. Ma è curioso che i resoconti consultati non facciano cenno di questa vittima non italiana della tragedia. Si può aggiungere che Gabriel Forestier (1889-1969) fu in seguito scultore affermato, autore di opere (soprattutto dedicate alle vittime delle guerre) per parchi e giardini, in Francia e all’estero. [20 giugno 2016] 260
Capena è un’antica città italica, attestata sin dal IX secolo a.C., a una quarantina di chilometri a nord di Roma, tra la via Flaminia e la via Tiberina. Lilibeo è a pochi chilometri da Marsala.
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LA BIBLIOTECA VATICANA NELLE MEMORIE DI MANNUCCI
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Fig. I – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.38.14.
Fig. II – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.38.16.
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Fig.. III – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.38.17.
Fig. IV – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.38.19.
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LA BIBLIOTECA VATICANA NELLE MEMORIE DI MANNUCCI
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Fig. V – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.38.21.
Fig. VI – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.39.14.
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Fig. VII – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.39.15.
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LA BIBLIOTECA VATICANA NELLE MEMORIE DI MANNUCCI
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Fig. VIII – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.39.16.
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Fig. IX – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.39.18.
Fig. X – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.39.19.
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LA BIBLIOTECA VATICANA NELLE MEMORIE DI MANNUCCI
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Fig. XI – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.39.21.
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Fig. XII – Mus. Vat. Arch. Fot. IV.39.22.
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INDICE DEI MANOSCRITTI E DELLE FONTI ARCHIVISTICHE Ariccia, Palazzo Chigi Notitie di Castel Candolfo 392-394, 396, 402, 425-428 tavv. XXI-XXIV Avignon, Bibliothèque municipale ms. 138 ms. 749 ms. 1318
693 710 710
Barcelona, Arxiu Capitular Caresmar Index 488 Còdex 25 478 Còdex 29 478 Còdex 43 478 Còdex 135 476, 477, 479, 480, 486, 492 tav. III, 496-497 tav. VII-VIII Còdex 136 476, 477, 479, 480, 486, 493 tav. IV
–
Arxiu de la Corona d’Aragó 21
485
– Biblioteca de Catalunya ms. 229 ms. 233 ms. 235
701 701 701
– Biblioteca Pública Episcopal del Seminari 400 484 Barletta, Archivio della Chiesa del Santo Sepolcro s.n 654, 656, 658, 661 Bayeux, Bayeux 119 121
Bibliothèque
du
Chapitre
de 662 662
Berlin, Museum Europäischer Kulturen der Staatlichen Museen zu Berlin - Preußischer Kulturbesitz A (47 C 1) 41/1908, a-f 286 Bologna, Biblioteca Universitaria Calendario Messicano 4093 (Codex Cospi) 342, 344
Cambridge, Fitzwilliam Museum McClean 49 654, 658-659 Cambridge, Massachusetts, Harvard, Houghton Library Ms Typ 583 107 Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano Cam. Ap., Collect. 468 700 Cam. Ap., Collect. 469 701 Cam. Ap., Collect. 469B 701 Cam. Ap., Div. Cam. 63 185, 186, 223 Cam. Ap., Intr. et Ex. 16 688 Indice 4 699 Indice 13 227 Instr. Misc. 1004 688 Reg. Aven. 65 699 Reg. Aven. 122 700 Reg. Lat. 138 694 Reg. Vat. 22 730 Segr. Stato, Reg. Prot. 732, n. 77853/29 807 Segr. Stato, Reg. Prot. 733, n. 78025/29 807 – Biblioteca Apostolica Vaticana Arch. Bibl. 5 215 Arch. Bibl. 11 12 Arch. Bibl. 13 201 Arch. Bibl. 15, pt. A (cit. A) 7, 8, 10, 23, 26-31, 33, 36, 40-42, 44, 47, 51, 66, 71-74, 76, 78, 91, 99, 100 Arch. Bibl. 26 197, 201, 204, 205, 206, 207, 208, 226, 227, 228, 229 Arch. Bibl. 41 778 Arch. Bibl. 46 219 Arch. Bibl. 47 211, 212, 230, 231 Arch. Bibl. 50 198, 209, 210, 215, 216, 217, 218, 220, 230, 231, 232 Arch. Bibl. 58 212, 213, 214, 231 Arch. Bibl. 61 219, 232 Arch. Bibl. 115, pt. A 783, 794, 813, 841, 856 Arch. Bibl. 182 782, 787, 788, 831, 832
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INDICE DEI MANOSCRITTI
Arch. Bibl. 189, pt. A 790 Arch. Bibl. 218, pt. B 790 Arch. Bibl. 272 800 Arch. Cap. S. Pietro B.83 714 Arch. Cap. S. Pietro B.84 714 Barb. gr. 42 187, 224 Barb. lat. 306 688, 689 Barb. lat. 659 651-686 Barb. lat. 2428 185, 224 Barb. lat. 3092 208 Barb. lat. 4729 116-118, 136, 145, 146 Barb. lat. 5625 118, 148 Barb. lat. 5734 188 Barb. lat. 5735 188 Borgh. 8 706, 707, 708, 715 Borgh.13 691, 706, 715 Borgh. 18 708, 715 Borgh. 34 691, 692, 706, 715 Borgh. 37 706, 707, 708, 710, 715, 718 tav. I, 719 tav. II Borgh. 55 706, 715 Borgh. 58 706, 707, 708, 715 Borgh. 64 706, 707, 711, 715 Borgh. 73 708, 715 Borgh. 75 706, 715 Borgh. 86 715 Borgh. 114 706, 715 Borgh. 115 708, 715 Borgh. 126 706, 707, 708, 715, 720 tav. III Borgh. 127 708, 716 Borgh. 128 706, 707, 716 Borgh. 130 706, 707, 708, 710, 711, 716 Borgh. 133 706, 707, 716 Borgh. 134 691, 692, 716 Borgh. 150 706, 707, 716, 722 tav. V Borgh. 151 708, 716 Borgh. 152 708, 716 Borgh. 196 706, 708, 716 Borgh. 204 691 Borgh. 210 708, 716 Borgh. 212 706, Borgh. 236 706, 707, 708, 711, 716 Borgh. 247 691, 692, 706, 716 Borgh. 307 706, 707, 708, 709, 716, 721 tav. IV Borgh. 308 706, 707, 708, 717 Borgh. 309 706, 707, 708, 711, 717 Borgh. 312 691, 692, 706, 717 Borgh. 330 708, 717 Borgh. 353 706, 708, 709, 717
Borgh. 361 708, 717 Borg. mess. 1 (Codex Borgia) 341-362 Carte Mercati 123 177-232, 233-236 tavv. I-IV Carte Salvadori 51, ins. 4, Canti di Terra Santa p. gli Ebrei 625, 636 Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 2 633 Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 6 612, 615 Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 7 633 Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 8 591 Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, 9 611, 613, 614, 615, 616, 634, 635 Carte Salvadori 62, ins. 3, Corrispondenza e altre carte relative a Ebrei, n.n. 622 Carteggi Mercati 18 790 Carteggi Mercati 25 790 Carteggi Mercati 26 803 Chig. A.II.51 156 Chig. A.VII.204 188, 189 Chig. E.VI.187 758 tav. XVIa Chig. H.III.86 393 Chig. P.VI.1 400, 401 Chig. P.VII.9, pt. A 401 Chig. P.VII.10 400 Ott. lat. 1305 133 Ott. lat. 1457 390, 391, 423 tav. XIX Ott. lat. 1460 385-390, 417-422 tavv. XIII-XVIII Ott. lat. 1576 44 Ott. lat. 1850 714 Ott. lat. 1882 35, 36, 76 Ott. lat. 2525 391, 424 tav. XX Ott. lat. 2544 373 Ott. lat. 2545 392, 393 Ott. lat. 2548 374, 375, 378, 380, 383, 388, 389, 405 tav. I Ott. lat. 2549 374, 375, 384, 406 tav. II Ott. lat. 2550 374, 375, 382, 407 tav. III Ott. lat. 2551 374, 375, 382, 408 tav. IV Ott. lat. 2552 374, 375, 382, 399, 409 tav. V Ott. lat. 2553 374, 375, 379, 383, 410 tav. VI
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INDICE DEI MANOSCRITTI
Ott. lat. 2554 Ott. lat. 2555 Ott. lat. 2556 Ott. lat. 2557 Ott. lat. 2558 Ott. lat. 2559 Ott. lat. 2560 Ott. lat. 2561 Ott. lat. 2562 Ott. lat. 2563 Ott. lat. 2564 Ott. lat. 3341, pt. 2 Ott. lat. 3342, pt. 1 Ott. lat. 3347, pt. 1 Ott. lat. 3347, pt. 2 Pal. lat. 1071 Pal. lat. 1993 Reg. lat. 2023 Ross. 552 Ruoli 33 Urb. lat. 261 Urb. lat. 355 Urb. lat. 497 Urb. lat. 498 Urb. lat. 506 Urb. lat. 632 Urb. lat. 753 Urb. lat. 900 Urb. lat. 1010 Urb. lat. 1012 Urb. lat. 1015 Urb. lat. 1021 Urb. lat. 1022 Urb. lat. 1040 Urb. lat. 1095 Urb. lat. 1764 Urb. lat. 1765 Vat. ar. 183 Vat. gr. 171 Vat. gr. 204 Vat. gr. 218 Vat. gr. 220 Vat. gr. 246 Vat. gr. 252 Vat. gr. 269 Vat. gr. 289 Vat. gr. 330 Vat. gr. 331 Vat. gr. 346 Vat. gr. 349 Vat. gr. 354
374, 375, 383, 399, 411 tav. VII 384, 385, 412 tav. VIII 384, 385 384, 385 384, 385, 413 tav. IX 384, 385, 414 tav. X 384, 385 tav. XI 384 384, 385, 416 tav. XII 384 384, 385 381 381 381 381 845 705 202 734 14 711 714 125-126, 134 125 711 711 139 135 133 133 133 114, 129 132 365, 367 376, 386 121 121 329-338, 339 tav. I 208 717 717 53 181 35, 51 181 181 179, 185, 186, 223, 224 222 185, 186, 223, 224 205, 228 205, 228
Vat. gr. 358 Vat. gr. 398 Vat. gr. 1043 Vat. gr. 1054 Vat. gr. 1150 Vat. gr. 1158 Vat. gr. 1160 Vat. gr. 1164 Vat. gr. 1174 Vat. gr. 1208 Vat. gr. 1209 Vat. gr. 1254 Vat. gr. 1408 Vat. gr. 1605 Vat. gr. 1904 Vat. gr. 2120 Vat. gr. 2125 Vat. lat. 23 Vat. lat. 224 Vat. lat. 406 Vat. lat. 850 Vat. lat. 1384 Vat. lat. 1389 Vat. lat. 1487 Vat. lat. 1492 Vat. lat. 1494 Vat. lat. 1495 Vat. lat. 1496 Vat. lat. 1497 Vat. lat. 1498 Vat. lat. 1499 Vat. lat. 1504 Vat. lat. 1514 Vat. lat. 1522 Vat. lat. 1542 Vat. lat. 1546 Vat. lat. 1561 Vat. lat. 1576 Vat. lat. 1586 Vat. lat. 1591 Vat. lat. 1604 Vat. lat. 1610 Vat. lat. 1650 Vat. lat. 1659 Vat. lat. 1662 Vat. lat. 1670 Vat. lat. 1671 Vat. lat. 1672 Vat. lat. 1677 Vat. lat. 1708 Vat. lat. 1713 Vat. lat. 1716
871 205, 228 211 50 53 205, 228 195 205, 228 53 181 195 177-232 205, 228 48 717 53 231 211 179 13 27 710 714 48 56 58 34, 35, 56, 76, 89 57, 80 59 57 58 56 63 93 69 43 43, 85 31 92 93 202 91 62, 78 714 63 47 77, 89 78, 88 77, 89 78 79 81 81
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Vat. lat. 1751 Vat. lat. 1754 Vat. lat. 1758 Vat. lat. 1790 Vat. lat. 1840 Vat. lat. 1883 Vat. lat. 1916 Vat. lat. 1948 Vat. lat. 1965 Vat. lat. 1966 Vat. lat. 2003 Vat. lat. 2463 Vat. lat. 2649 Vat. lat. 2713 Vat. lat. 2725 Vat. lat. 2727 Vat. lat. 2728 Vat. lat. 2730 Vat. lat. 2731 Vat. lat. 2736 Vat. lat. 2738 Vat. lat. 2744 Vat. lat. 2748 Vat. lat. 2753 Vat. lat. 2770 Vat. lat. 2793 Vat. lat. 2815 Vat. lat. 2833 Vat. lat. 2836 Vat. lat. 2837 Vat. lat. 2838 Vat. lat. 2839 Vat. lat. 2840 Vat. lat. 2841 Vat. lat. 2842 Vat. lat. 2843 Vat. lat. 2844 Vat. lat. 2862 Vat. lat. 2874 Vat. lat. 2888 Vat. lat. 2893 Vat. lat. 2895 Vat. lat. 2896 Vat. lat. 2898 Vat. lat. 2900 Vat. lat. 2901 Vat. lat. 2902 Vat. lat. 2906 Vat. lat. 2910 Vat. lat. 2914 Vat. lat. 2915 Vat. lat. 2924
INDICE DEI MANOSCRITTI
79, 81 82 82, 85 36 99 32, 40, 76 100 76 705 705 108 714 17, 68 89 56, 61 57 54 46 46, 87 46, 87 76 67 66 60 96 57, 91 39, 87 75 89 89 63 42 76 45, 72 89 63 75 100 7 81 83 81 81 81, 82 13, 81, 82 13 56, 85 88, 89 85 86 45 39
Vat. lat. 2946 40, 73 Vat. lat. 2947 107 Vat. lat. 2951 83, 89 Vat. lat. 2952 76 Vat. lat. 2957 37, 38 Vat. lat. 2962 33 Vat. lat. 2963 107 Vat. lat. 2964 65 Vat. lat. 2966 55 Vat. lat. 2968 104 Vat. lat. 2972 704 Vat. lat. 2990 35, 38 Vat. lat. 3080 50 Vat. lat. 3098 693 Vat. lat. 3132 44 Vat. lat. 3205 69 Vat. lat. 3217 7 Vat. lat. 3225 93 Vat. lat. 3257 95 Vat. lat. 3404 35 Vat. lat. 3424 38 Vat. lat. 3441 102 Vat. lat. 3446 48 Vat. lat. 3454-3554 187 Vat. lat. 3500 187, 224 Vat. lat. 3738 (Codex Vaticanus A) 342-362 Vat. lat. 3745 102 Vat. lat. 3773 (Codex Vaticanus B) 342-362 Vat. lat. 3793 37 Vat. lat. 3794 69 Vat. lat. 3815 39 Vat. lat. 3835 25 Vat. lat. 3836 25, 36 Vat. lat. 3861 30 Vat. lat. 3885 33 Vat. lat. 3886 33 Vat. lat. 3890 106 Vat. lat. 3893 105 Vat. lat. 3894 105 Vat. lat. 3896 45 Vat. lat. 3898 35, 50, 56 Vat. lat. 3899 35 Vat. lat. 3900 35 Vat. lat. 3902 43 Vat. lat. 3903 7, 72 Vat. lat. 3919 33 Vat. lat. 3920 29 Vat. lat. 3927 185, 223 Vat. lat. 3951 46 Vat. lat. 3958 (cit. C) 7-15, 18, 21-23,
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INDICE DEI MANOSCRITTI
25, 26, 28, 30-41, 44-55, 57, 58, 60-62, 64-68, 71, 72, 74-76, 78, 79, 83, 86-95, 99-101, 103-108, 109-111 tavv. I-III Vat. lat. 3963 (cit. B) 8, 9, 32, 46, 71, 104 Vat. lat. 3965 18, 196 Vat. lat. 3966 179, 185, 186, 222, 224 Vat. lat. 3967 15, 31 Vat. lat. 3968 15, 18, 31 Vat. lat. 3969 15, 31 Vat. lat. 3993 47 Vat. lat. 4042 53, 54 Vat. lat. 4043 53, 54 Vat. lat. 4044 53, 54 Vat. lat. 4048 20 Vat. lat. 4057 49, 94, 97 Vat. lat. 4058 64, 65, 101 Vat. lat. 4062 80 Vat. lat. 4078 74 Vat. lat. 4086 708, 717 Vat. lat. 4104 81 Vat. lat. 4191 26, 30 Vat. lat. 4252 95 Vat. lat. 4471 72 Vat. lat. 4497 706, 708, 717 Vat. lat. 4498 70, 71 Vat. lat. 4514 45 Vat. lat. 4787 67 Vat. lat. 4788 46 Vat. lat. 4792 103 Vat. lat. 4796 69 Vat. lat. 4797 71 Vat. lat. 4798 66 Vat. lat. 4799 66 Vat. lat. 4800 66 Vat. lat. 4801 66 Vat. lat. 4802 69 Vat. lat. 4803 68 Vat. lat. 4804 71 Vat. lat. 4805 66 Vat. lat. 4806 66 Vat. lat. 4811 103 Vat. lat. 4812 65 Vat. lat. 4813 38, 67 Vat. lat. 4814 65 Vat. lat. 4815 66 Vat. lat. 4817 7 Vat. lat. 4818 69 Vat. lat. 4821 29 Vat. lat. 4822 92 Vat. lat. 4831 38
873
Vat. lat. 4889 Vat. lat. 4959
488 723-745, 746-752 tavv. I-VI, 753-756 tav. VIIIb-XIa, 757 tavv. XII-XIII, 758 tavv. XV, XVIb, 759 tav. XVIIa, 760 tav. XVIII Vat. lat. 5668 198, 199 Vat. lat. 6132-6143 196 Vat. lat. 6163 193 Vat. lat. 6177 190, 191, 192, 193, 195, 225, 226 Vat. lat. 6178 193 Vat. lat. 6186 193, 226 Vat. lat. 6189 188, 193, 225 Vat. lat. 6435 705 Vat. lat. 6467-6468 207 Vat. lat. 6715 208 Vat. lat. 6803 55, 98 Vat. lat. 6805 188, 225 Vat. lat. 6845 69 Vat. lat. 6850 79 Vat. lat. 6871 104 Vat. lat. 6896 181 Vat. lat. 6946 199 Vat. lat. 6954 137 Vat. lat. 7132 196 Vat. lat. 7182 69, 100 Vat. lat. 7192 96, 100 Vat. lat. 7205 (cit. D) 8-10, 54, 62, 77, 86, 93, 95, 102 Vat. lat. 7594 473, 474, 475, 477, 479, 480, 481, 486, 488, 490-491 tavv. I-II Vat. lat. 7596 473, 474, 475, 477, 479, 480, 486, 488, 494 tav. V Vat. lat. 7597 473, 474, 475, 477, 479, 480, 481, 486, 488, 495 tav. VI Vat. lat. 8185 13, 35, 46, 47, 56-58, 60, 61, 69, 87-89, 92, 93, 96 Vat. lat. 8250 379 Vat. lat. 8251 379 Vat. lat. 8252 379 Vat. lat. 8253 379 Vat. lat. 8254 379 Vat. lat. 8255 379 Vat. lat. 8256 379 Vat. lat. 8257 379 Vat. lat. 8492 79 Vat. lat. 8493 79 Vat. lat. 8494 88
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INDICE DEI MANOSCRITTI
Vat. lat. 9579 211, 231 Vat. lat. 9625 210, 230 Vat. lat. 9839, pt. 1 445, 446, 447, 465 tav. I, 466 tav. III, 467 tav. V, 468 tav. VII, 469 tavv. IX e X, 470 tav. XII, 471 tav. XIII, Vat. lat. 9840 443, 454 Vat. lat. 9845 446, 447, 472 tav. XIV Vat. lat. 9851 488 Vat. lat. 10353 222 Vat. lat. 10897 208 Vat. lat. 12283 367 Vat. lat. 12959-12967 215 Vat. lat. 12972 215 Vat. lat. 13196-13199 206 Vat. lat. 13199 206 Vat. lat. 13479 442 Vat. lat. 13482 206 Vat. lat. 13748 461 Vat. lat. 14027-14061 215 Vat. lat. 14042 211 Vat. lat. 14065 (cit. E) 8, 10, 44, 55, 70 Vat. lat. 14275 777 Vat. lat. 14613 237-324 [252 fig. 4, 253 fig. 5, 266 fig. 7, 289 fig. 17, 291 fig. 18, 292 fig. 19, 294 fig. 20, 295 fig. 21, 296 fig. 22, 298 fig. 23, 303 tab. Ia-b, 304 tab. Ic-d, 305 tab. Ie, 313 tab. II, 315 figg. 26-27], 325-328 tavv. I-IV Vat. lat. 14741-14749 206 Ciudad de México, Museo Nacional de Antropología Codex Colombino 342 Codex Grolier 342 Dresden, Buchmuseum der Sächsischen Landes- und Universitätsbibliothek Mscr. Dresd. R.310 (Codex Dresdensis) 342 Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana Plut. 5.1 714 Plut. 21.18 706 Plut. 39.1 (Virgilio Mediceo) 92 Plut. 63.21 99 – Biblioteca Nazionale Centrale, Carte De Gubernatis, 110/68
577
– Biblioteca Riccardiana 2669
319
Göteborg, Riksföreningen Sverigekontakt Dep. Hapsal, Aibolands Museum (Depositionsavtal, 14/05/2001) 286 Halle, Naturalienkabinett des Waisenhauses 15 Q 254, 286, 288, 290, 291, 297, 299, 301, 303 tab. Ia-b, 304 tab. Ic-d, 305 tab. Ie, 311, 313 tab. II Helsinki, Suomen kansallismuseo 1073:4 1073:5 4982
285 285 285
Ithaca (New York), Cornell University Library Rare Bd. MS. 4648 no. 22 67 København, Danmarks Nationalmuseet 15323 254 – Det kongelige Bibliotek Gml. kgl. sml. 1157, fol. Ny kgl. sml. 203 8:o
249 244, 245 fig. 3, 248, 264
Latina, Archivio di Stato Diplomatico Pontino 1
736
Leiden, Bibliotheek der Rijksuniversiteit Voss. Fol. 61 30 Lisboa, Biblioteca Nacional 10991 (Colocci-Brancuti)
69
Liverpool, World Museum Liverpool 12014 M. (Codex FejérváryMayer) 342, 344 London, British Library Add. 17415 Add. MS Ital. 8511 Burney 275 Egerton 1139 Egerton 2902 Royal 8.B.III Sloane 3124 Stowe 12
47 148 706 654 656 662 694 662
– British Museum Am1902,0308.1 (Codex Nuttall)
342
– Lambeth Palace Library (olim Sion College) Arc. L. 40.2/L.1 662
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INDICE DEI MANOSCRITTI
Lunel, Bibliothèque municipale ms. 7
711
Napoli, Biblioteca Nazionale XIII. C. 32
38
Madrid, Biblioteca Nacional ms. 6399 ms. 10009 ms. 10053
701 713 713
– Museo de América Codex Tro-Cortesianus (Codex Madrid)
342
Milano, Archivio Storico della Diocesi Duplicati, atti di battesimo, Carugate, 32/1868 765 Stato del clero 1878-1893, ordinato dell’anno 1892 765 – Veneranda Biblioteca Ambrosiana Archivio Tommaso Gallarati Scotti, 7.23.55 Archivio Tommaso Gallarati Scotti, 12/35, n. 20
561 601
Modena, Biblioteca Estense Universitaria Autografoteca Campori 438, 440 433, 441 ms. it. 861 (= α. L. 8. 4) Napoli, Archivio di Stato Bozze di Consulta di Camera Reale, vol. 546 449 Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1907 448, 449, 450, 451 – Museo Nazionale di Capodimonte Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 1217 Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 1218 Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 1220 Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 2349 Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 2362
454 454 455 454 454
New York, Columbia University Plimpton 156
714
– Metropolitan Museum of Art ms. 69.86
710
– The Pierpont Morgan Library M897
265
Nürnberg, Stadtbibliotek Cent. III 91
875
714
Oxford, Bodleian Library Add. C. 144 58, 61 Arch. Selden A. 2 (Codex Selden) 342 Canon. Misc. 248 694 Canon. Misc. 350 692 Gough Missals 36 662 Laud. Misc. 84 662 Laud Misc. 678 (Codex Laud) 342, 344 Mex. d. 1 (Codex Bodley) 342 Padova, Biblioteca Antoniana ms. 322 733, 753 tav. VIIIa, 756 tav. Xib Palermo, Archivio di Stato Tabulario della Chiesa della Magione 757 tav. XIV – Biblioteca comunale D 51
392
Paris, Bibliothèque de l’Arsenal 279
662
– Bibliothèque nationale de France fr. 616 704 fr. 619 704 fr. 12474 69 lat. 965 714 lat. 1023 662 lat. 1090 675 lat. 1270 661 lat. 1412 674 lat. 1794 662 lat. 3332 706 lat. 5156A 700, 701 lat. 5180 699 lat. 6516 706 lat. 6523A 706 lat. 7293 687, 692, 693, 706 lat. 7605 706 lat. 10478 656, 658, 669 lat. 10480 661 lat. 12036 662 lat. 12044 674-675 lat. 12601 674 lat. 14065 714 694 lat. 15104 lat. 16158 695 lat. 16589 713 mexic. 386 (Codex Peresianus) 342 scand. 29 ter 254 Suppl. gr. 53 208
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INDICE DEI MANOSCRITTI
Pesaro, Archivio privato Albani (temporaneamente depositato presso la Biblioteca Oliveriana e consultabile soltanto tramite le riproduzioni digitali in linea) 1-10-111 144 1-10-112 144 – Biblioteca Oliveriana 144 940 1051 1096 1466 1692, IV, m 1757
136 135 133 116, 136, 144 136 137, 139 134
Pisa, Scuola Normale Superiore Carteggio D’Ancona, 49°, 1588
575
Reykjavík, Stofnun Árna Magnússonar í islenskum fræðum AM 334, fol. 249 Rimini, Biblioteca Civica Gambalunga SC-MS 94 133 Roma, Archivio di Stato Atti Stato Civile Napoleonico, Appendice, Libri parrocchiali, busta III, S. Maria in Aquiro, Morti 1597-1644 376 Atti Stato Civile Napoleonico, Appendice, Libri parrocchiali, busta III, S. Maria in Aquiro, Stati delle anime 1600-1634 377 Cartari Febei, vol. 92 396 Famiglie romane, t. XX 376 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 75 378, 403 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 76 378, 403 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 77 378, 403 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 78 378, 403-404 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 273 378, 404 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 274 378, 404 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 287 398 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 299 394 Monte di Pietà, Depositi liberi,
Mastro 300 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 301 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 308 Monte di Pietà, Depositi liberi, Mastro 330
394 394 396 392
– Archivio Storico Capitolino Archivio Urbano, sez. I, A. Campora, busta 214
376
– Archivio Storico del Vicariato S. Marco, Battesimi I S. Maria in Campitelli, Morti I
374 374
– Biblioteca dell’Accademia dei Lincei e Corsiniana 797 737 – Biblioteca Alessandrina 81
706
– Biblioteca Angelica 477 1556 1604 1638
654, 658-659 392 376, 377, 392 376
– Biblioteca Casanatense 2113
392
– Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” 1502 734 – Biblioteca Vallicelliana A.1II*
194 nt. 87
Perugia, Biblioteca Augusta ms. D.5
38
Rouen, Bibliothèque municipale 248 (olim A. 339)
674
St. Petersburg, Kunstkamera 7147-5
286
– Gosudárstvennyj Ermitáà OP n° 2, cod. 14.044
704
Stockholm, Kungliga Biblioteket F.m. 70b
258
– Nordiska museet 4752 26072
321 283 fig. 14, 285
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INDICE DEI MANOSCRITTI
39524 89901
285 283 fig. 13, 285, 287, 299, 301, 303 tab. Ia-b, 304 tab. Ic-d, 305 tab. Ie, 311, 313 tab. II 175006+ 268, 269 fig. 8 175011 268 175012+ 268 175015 266, 270 figg. 9-10, 271 fig. 11 175019+ 268 175074+ 268 235477 322 Nils Lithbergs arkiv E1:1 286, 288, 291, 294, 299, 301, 302 fig. 25, 303 tab. Ia-b, 304 tab. Ic-d, 305 tab. Ie, 306, 311, 313 tab. II – Privat samling Ann-Marie Orlog s. s. 287, 290, 291, 301 fig. 24, 303 tab. Ia-b, 304 tab. Ic-d, 305 tab. Ie, 311, 312, 313 tab. II – Statens Historiska Museum 21288 264 27600: 71: DC 1928 (dep. Lödöse Museum) 322 27600: 71: GD 2399 (dep. Lödöse Museum) 321 27600: 71: GD 4470 (dep. Lödöse Museum) 322 29486 251, 265 fig. 6 Tallin, Eesti Ajaloomuuseum Etnograafiline kollektsioon AM 9467 E 254/1-6 284 fig. 16, 286 Tartu, Eesti Rahva Muuseum 5677 284 fig. 15, 286 A 313:4 286 Toledo, Biblioteca Capitular ms. 47.9 ms. 97.1 ms. 98.22 ms. 98.28
714 714 713 714
Urbino, Biblioteca Centrale Umanistica Comune, busta 77 143 Comune, busta 89, fasc. 4 143 Comune, busta 89, fasc. 5 143
Comune, vol. 28 Comune, vol. 30 Comune, vol. 54 Comune, vol. 59 Comune, vol. 93 Comune, vol. 99 Comune, vol. 112 Comune, vol. 115 Comune, vol. 117 Comune, vol. 128
115, 128 127 124 116, 135-136, 144 136-137 127 124 124 127 144, 145-146, 147
Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana Archivio Morelliano 113 (=12619), F. C-D 463 Marc. It. IX. 11 (= 6270) 103 – Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti Archivio Luzzatti, fasc. Politeo Giorgio, 3170.61 578 Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 2 579 Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 12 584 Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 13 582 Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 19 625 Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 20 632 Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 21 632 Archivio Luzzatti, fasc. Salvadori Giulio, 28 625 Verona, Biblioteca Civica 1241-1242 Wien, Museum für Völkerkunde MS 60306 (Codex Becker I)
38 342
– Österreichische Nationalbibliothek Pal. lat. 3162 694 Pal. lat. 5226 694 Pal. lat. 5273 694 Pal. lat. 5277 691, 692 Pal. lat. 5292 694 Vindob. mexic. 1 (Codex Vindobonensis) 342 Zürich, Schweizerisches Nationalmuseum AG-2666 286 AG-2669 286
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INDICE DEGLI ESEMPLARI A STAMPA Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Aldine A.III.51 41 Aldine I.1 39 Aldine I.7 102 Aldine I.23 40 Aldine I.24 40 Aldine I.25 40 Aldine I.42 207, 229 Aldine I.44 98 Aldine II.11 45, 54 Aldine III.1 95 Aldine III.4 22, 62 Aldine III.7 67 Aldine III.16 90 Aldine III.17 91 Aldine III.18 90 Aldine III.19 54 Aldine III.20 54 Aldine III.75 22, 75 Aldine III.79 98 Aldine III.98 41 Disegni. Generali. 368 814 Inc. I.4 22, 39, 86, 94, 95 Inc. I.20 55, 74 Inc. I.21 53 Inc. I.33 61 Inc. II.8 94 Inc. II.16 93 Inc. II.19 77 Inc. II.21 22, 95 Inc. II.121 90 Inc. II.151 80 Inc. II.195 22, 62 Inc. II.199 80 Inc. II.200 78 Inc. II. 217 85 Inc. II.225 64 Inc. II.259 59 Inc. II.412 66 Inc. II.515 52, 70 Inc. II.525 22, 97, 98 Inc. II.550 22, 37 Inc. III.8 59, 87
Inc. III.17 Inc. III.62 Inc. III.83 Inc. III.85 Inc. III.104 Inc. III.137 Inc. III.256 Inc. III.304 Inc. IV.83 Inc. IV.109 Inc. IV.118 Inc. IV.125 Inc. IV.131 Inc. IV.158 Inc. IV.161 Inc. IV.169 Inc. IV.560 Inc. IV.573 Inc. IV.737 Inc. S.4 Inc. S.121 Inc. S.125 Inc. S.126 Inc. S.170 Prop. Fide II.15 R. I II.611 R. I II.857 R. I II.994 R. I II.999 R. I II.1012 R. I III.54 R. I III.242 R. I III.298 R. I IV.50 R. I IV.890 R. I IV.1176 R. I IV.1729 R. I IV.1917 R. I IV.2131 R. I IV.2139 R. I V.101 R.G. Classici II.121:80 R.G. Classici V.2340 R.G. Fot. Obl. I.452
88 59 22, 64 101 77 44 98 51 104 75 63 52 22, 49 77, 101 69 70 51 22, 40 70 98 39 79, 83 79, 83 39 76 44 67 65 99 48, 55, 75 74 42 43 42 73 77 32 74 22, 86 39 54, 97 41 854
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INDICE DEGLI ESEMPLARI A STAMPA
R.G. Lett. It. III.63
397, 430 tav. XXVI, 431 tav. XXVII R.G. Neolat. VI.134 100 Riserva IV.47 119-120, 122, 124, 150 tav. I, 151 tav. II Stamp. Barb. BBB.V.31 51 Stamp. Barb. GGG.VIII.42 397 Stamp. Barb. Q.XII.72 120-122, 130-132, 134-135, 137-140, 152 tav. III Stamp. Barb. U.IV.29 395, 429 tav. XXV Stamp. Barb. V.VII.102 143 Stamp. Cappon. IV.937 123, 126 Stamp. Chig. I.15 153 Stamp. Chig. I.190 157 Stamp. Chig. I.191 157 Stamp. Chig. I.529 157 Stamp. Chig. I.639 155 Stamp. Chig. I.691 158, 160 Stamp. Chig. II.142 91 Stamp. Chig. II.429 154 Stamp. Chig. II.600 164 Stamp. Chig. II.605 163 Stamp. Chig. II.669 163 Stamp. Chig. II.723 161 Stamp. Chig. II.735 156 Stamp. Chig. II.774 161 Stamp. Chig. II.841 154 Stamp. Chig. III.297 158, 160 Stamp. Chig. III.616 158, 160 Stamp. Chig. III.1073 (1-5) 161 Stamp. Chig. IV.332 176 Stamp. Chig. IV.567 (1-3) 154 Stamp. Chig. IV.585 154 Stamp. Chig. IV.614 164 Stamp. Chig. IV.1310 167 Stamp. Chig. IV.1372 (int. 1) 154 Stamp. Chig. IV.1381 165 Stamp. Chig. IV.1401 165 Stamp. Chig. IV.1439 156 Stamp. Chig. IV.1519 164 Stamp. Chig. IV.1536 154 Stamp. Chig. IV.1602 165 Stamp. Chig. IV.1690 164 Stamp. Chig. IV.1722 167 Stamp. Chig. IV.1784 157 Stamp. Chig. IV.1801 164 Stamp. Chig. IV.2177 (int. 12) 164 Stamp. Chig. IV.2178 (int. 5) 164 Stamp. Chig. IV.2232 (int. 13) 163 Stamp. Chig. IV.2307 156 Stamp. Chig. V.159 (int. 1) 153
Stamp. Chig. V.372 Stamp. Chig. V.496 Stamp. Chig. V.500 (int. 1) Stamp. Chig. V.575 Stamp. Chig. V.842 Stamp. Chig. V.1060 Stamp. Chig. V.1457 Stamp. Chig. V.1484 Stamp. Chig. V.1499 Stamp. Chig. V.1574 Stamp. Chig. V.1601 Stamp. Chig. V.1616 Stamp. Chig. V.1736 Stamp. Chig. V.2203 Stamp. Chig. V.3411 Stamp. Chig. V.3626 Stamp. Chig. V.4902 Stamp. Chig. VI.119 Stamp. Chig. VI.271 Stamp. Chig. VI.529 Stamp. Chig. VI.623 Stamp. Chig. VI.661 Stamp. Chig. VI.835 (1-2) Stamp. Chig. VI.1028 (int. 1) Stamp. Chig. VI.1230 Stamp. Chig. VI.1516 Stamp. Pal. V.520 Stamp. Ross. 189 Stamp. Ross. 1078 Stamp. Ross. 3878 – Musei Vaticani Arch. Fot. IV.38.14 Arch. Fot. IV.38.16 Arch. Fot. IV.38.17 Arch. Fot. IV.38.19 Arch. Fot. IV.38.21 Arch. Fot. IV.39.14 Arch. Fot. IV.39.15 Arch. Fot. IV.39.16 Arch. Fot. IV.39.18 Arch. Fot. IV.39.19 Arch. Fot. IV.39.21 Arch. Fot. IV.39.22
879 153 162 161 167 155 156 163 156. 161 158, 160 161 158. 160 176 157 155 161 155 161 155 156 156 156 164 161 156 156 44 29 41 74 861 861 862 862 863 863 864 865 866 866 867 868
Napoli, Archivio di Stato Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1900 452, 466 tav. IV, 467 tav. VI Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1901 452 Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1908 453
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INDICE DEGLI ESEMPLARI A STAMPA
Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1909 Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1915/I Ministero Presidenza del Consiglio, F. 1917
Deposito Rami, inv. 260741 453 452 452
– Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” Lucchesi Palli Iconografia, B0232 455 Palatina, Banc. V.13. 1-15 453 – Museo Archeologico Nazionale Deposito Rami, inv. 260739
454, 469 tav. XI
454, 468 tav. VIII
– Società Napoletana di Storia Patria. Biblioteca I A I(15 452, 465 tav. II Cat. X 147 455 Pesaro, Biblioteca Oliveriana B.V.45
144
Roma, Biblioteca Alessandrina I.c.35.1
120
– Biblioteca Vallicelliana S.Borr. P II 8
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