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Italian Pages 509 [512] Year 2008
MISCELLANEA BIBLIOTHECAE APOSTOLICAE VATICANAE XV
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STUDI E TESTI 453
MISCELLANEA BIBLIOTHECAE APOSTOLICAE VATICANAE XV
CITTÀ DEL VATICANO BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA 2008
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Pubblicazione curata dalla Commissione per l’editoria della Biblioteca Apostolica Vaticana: S.Em. Card. Raffaele Farina Cesare Pasini Giancarlo Alteri Marco Buonocore (Segretario) Ambrogio M. Piazzoni (Presidente) Adalbert Roth Paolo Vian Sever J. Voicu
Descrizione bibliografica in www.vaticanlibrary.va
Stampato con il contributo dell’associazione American Friends of the Vatican Library
–––––– Proprietà letteraria riservata © Biblioteca Apostolica Vaticana, 2008 ISBN 978-88-210-0845-0
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SOMMARIO F. ACCROCCA, «Buono scrittor di parole». Salvatore Minocchi, Giovanni Mercati e una recensione di Giuseppe Maria Zampini alla Vita di san Francesco di Paul Sabatier . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . M. BUONOCORE — O. DILIBERTO — A. FIORI, Un manoscritto inedito in tema di legge delle XII Tavole: il Reg. lat. 450 . . . . . . . . . . . . . . . . . . G. CAPRIOTTI VITTOZZI, Una enigmatica figura nel codice Ferrajoli 513 e una lampada da Canosa: aspetti della magia di origine egizia . . . . . . P. CAROLLA, Non deteriores. Copisti e filigrane di alcuni manoscritti degli Excerpta de legationibus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . M. CERESA, I manoscritti dei Diari del Maestro delle Cerimonie Biagio Baroni Martinelli posseduti dalla Biblioteca Apostolica Vaticana . . . M. CERESA — S. LUCÀ, Frammenti greci di Dioscoride Pedanio e Aezio Amideno in una edizione a stampa di Francesco Zanetti (Roma 1576) M. D’ONOFRIO, Una lamina d’argento lavorata a sbalzo e l’Evangeliario di S. Maria in Via Lata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A. JACOB, Le sermonnaire du prêtre Antoine de Pulsano: quelques remarques sur la date et le copiste du Vat. gr. 1277 . . . . . . . . . . . . . . . . . . B. JATTA, Il “Fondo antico” di stampe della Biblioteca Apostolica Vaticana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . F. SFERRA — V. VERGIANI, Due manoscritti sanscriti preservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana: Vat. ind. 76 e Vat. ind. 77 . . . . . . . . . . . TEDROS ABRAHA, Mälké’a Ùéllase — L’effigie della Trinità di Abba Sébüat Läab . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . P. VIAN, Le carte di Giulio Salvadori alla Biblioteca Vaticana: vicende e consistenza del fondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A. VILLANI, I bozzetti di Gian Lorenzo Bernini nella collezione Chigi . . . K. HERBERS, Pius-Stiftung für Papsturkundenforschung. Rapporto per l’anno 2006 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indice dei manoscritti e delle fonti archivistiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indice degli esemplari a stampa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7 49 101 129 171 191 231 253 271 303 311 399 421 497 505 509
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FELICE ACCROCCA
«BUONO SCRITTOR DI PAROLE» SALVATORE MINOCCHI, GIOVANNI MERCATI E UNA RECENSIONE DI GIUSEPPE MARIA ZAMPINI ALLA VITA DI SAN FRANCESCO DI PAUL SABATIER
La Vie de saint François di Paul Sabatier, pubblicata sul finire del 1893, ha segnato in modo decisivo gli studi francescani del XX secolo: con i suoi innegabili punti di forza e con le sue, non meno evidenti, debolezze, l’opera ha infatti influito in modo determinante sulla ricerca successiva, favorendo una svolta metodologica nello studio della vita dell’Assisiate e delle origini francescane. In anni recenti, studiosi di fama e competenza internazionale hanno concentrato la loro attenzione sulla Vie e sulle polemiche a cui essa diede origine, offrendo letture acute su interventi già noti e portando alla luce materiali nuovi, inerenti alla storia del dibattito che trasse origine dalla pubblicazione del Sabatier, apportando in tal modo un contributo importante per la ricostruzione dei fermenti culturali che animarono gli ultimi anni del pontificato leonino1. Nessuno, tuttavia, ha finora posto attenzione, anche perché non facilmente reperibile, ad una recensione della prima traduzione italiana della Vie che Giuseppe Maria Zampini pubblicò sulla Rivista Bibliografica 1 Notevoli studi sono stati dedicati, in questi ultimi anni, al Sabatier ed alla sua Vie de saint François (di recente ripubblicata in una collana che gode di notevole diffusione: cfr. P. SABATIER, Vita di san Francesco d’Assisi. Traduzione di G. Zanichelli. Presentazione di L. BEDESCHI, Milano 1978 [Uomini e religioni, 37]). Per non appesantire troppo queste pagine, mi limito a segnalare gli Atti di tre convegni: La «questione francescana» dal Sabatier a oggi. Atti del I Convegno internazionale. Assisi, 18-20 ottobre 1973, Assisi 1974; Francesco d’Assisi attesa dell’ecumenismo. Paul Sabatier e la sua «Vita di S. Francesco» cent’anni dopo. Atti del Convegno di Studi organizzato dall’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino e dalla Facoltà Valdese di Teologia. Roma 9 marzo 1993, Venezia 11 marzo 1993, in Studi Ecumenici 12 (1994), pp. 1-191; Paul Sabatier e gli studi francescani. Atti del XXX Convegno internazionale in occasione del centenario della fondazione della Società internazionale di studi francescani (1902-2002). Assisi, 10-12 ottobre 2002, Spoleto 2003. Si veda pure S. G. FRANCHINI, Sugli esordi della Società internazionale di studi francescani fondata da Paul Sabatier, S. Maria degli Angeli-Assisi (Pg) 2002 (Medioevo francescano. Opuscoli, 1): contributo originariamente pubblicato sulla Rivista di Storia della Chiesa in Italia 51 (1997), pp. 35-96, poi ripreso in Franciscana. Bollettino della Società internazionale di studi francescani 1 (1999), pp. 5-98, quindi stampato in volume a parte. Diversi interventi, inoltre, sono stati dedicati al Sabatier nei volumi di Fonti e documenti per la storia del Modernismo, editi dall’Istituto di Storia dell’Università di Urbino, di cui è stato animatore Lorenzo Bedeschi. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 7-48.
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FELICE ACCROCCA
Italiana – rivista diretta da Salvatore Minocchi, alla quale collaboravano, assiduamente, tra gli altri, Giovanni e Angelo Mercati –, nel fascicolo del 10 gennaio 1898: la recensione non difettava di chiarezza, tuttavia, priva com’era di parole di condanna oltre che d’ogni benché minimo accenno alla censura vaticana, ed elogiando vivamente i meriti letterari dell’autore, finiva per distinguersi tra quelle che, in ambito cattolico, erano state dedicate all’ormai notissimo libro del pastore protestante. La recensione provocò anche un piccolo sisma interno tra i collaboratori e gli amici della Rivista Bibliografica Italiana ed incrinò, in qualche modo, i rapporti tra Giovanni Mercati e Salvatori Minocchi, che alcuni anni prima avevano dato vita ad un intenso sodalizio intellettuale2. I carteggi di Giovanni Mercati oggi inventariati ed accessibili al pubblico 2 Accenni ai suoi rapporti con Mercati negli ultimi anni dell’Ottocento offre S. MINOCCHI,
Memorie di un modernista, a cura di A. AGNOLETTO. Introduzione di M. RANCHETTI, Firenze 1974 (Saggi Vallecchi, 13), 34-35, 38, 41, 43-44. Sul Minocchi, cfr. A. AGNOLETTO, Salvatore Minocchi: vita e opere (1869-1943). Con un’appendice di lettere inedite scritte da ecclesiastici ed ex-ecclesiastici italiani e stranieri sotto il pontificato di Pio X, Brescia 1964 (Biblioteca di storia contemporanea. Sezione prima. Il movimento cattolico in Italia e in Europa, 22); per il tema che qui particolarmente m’interessa cfr. L. BEDESCHI, Minocchi, il modernismo e la questione francescana, in Fonti e documenti del Centro Studi per la storia del Modernismo, 11-12, Istituto di Storia dell’Università di Urbino 1982-1983, pp. 293-360 (Bedeschi edita il carteggio Minocchi-Sabatier). Su Mercati, cfr. P. VIAN, «Non tam ferro quam calamo, non tam sanguine quam atramento». Un ricordo del card. Giovanni Mercati, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, VII, Città del Vaticano 2000 (Studi e testi, 396), pp. 393-459 (a pp. 396-397, nt. 5, un’accurata bibliografia sul Minocchi, alla quale si rinvia); ID., Un «Lebenslauf» del card. Giovanni Mercati per l’Accademia Austriaca delle Scienze di Vienna (agosto 1947), ivi, pp. 461-479. Oltre l’edizione del carteggio con Sabatier, per la quale utilizzò il materiale reperito presso il Centro Studi per la storia del Modernismo (Urbino), L. BEDESCHI, Minocchi, il modernismo e la questione francescana cit., 293, nt. 1, segnala una serie di carteggi inediti riguardanti Minocchi: «quello con Chiappelli (Fondo Chiappelli) nella Biblioteca Nazionale di Firenze, 1910-1914; l’altro con De Gubernatis (Fondo De Gubernatis) ibidem, 1899-1900; un terzo con Papini (Fondazione Primo Conti, Fiesole), 1905-1912; un quarto con Faloci Pulignani (Fondo Faloci) Biblioteca comunale di Foligno». Altro materiale viene segnalato da A. AGNOLETTO, Salvatore Minocchi: vita e opere cit., passim. I carteggi di Minocchi, comunque, sono diversi, dispersi in vari fondi e non ancora censiti. Oltre al materiale presente nella Vaticana, non soltanto nei «Carteggi Mercati», il sacerdote fiorentino ebbe infatti un nutrito carteggio con Antonio Fogazzaro, di cui resta traccia nelle Biblioteca Bertoliana di Vicenza (cf. P. MARANGON, Il modernismo di Antonio Fogazzaro, Bologna 1998 [Istituto italiano per gli studi storici in Napoli fondato da B. Croce, 42], passim); rapporti epistolari ebbe certamente anche con il bollandista François van Ortroy (non so al momento precisarne l’entità, ma conto di poter acquisire quanto prima il materiale presso l’archivio dei Bollandisti). Sarebbe certo utile un censimento, il più possibile completo, che però, al momento, non rientra nelle finalità di questo studio. Purtroppo, a seguito d’indagini da me fatte, non risulta che alla Biblioteca Nazionale di Firenze siano conservate lettere di Giovanni Mercati a Minocchi per il periodo qui preso in esame, mentre se ne conservano diciassette scritte nella seconda metà del quarto decennio del Novecento, quando Mercati era già cardinale.
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«BUONO SCRITTOR DI PAROLE»
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presso la Biblioteca Vaticana (al momento, la corrispondenza giunge fino al 1936)3, consentono di fare luce sugli avvenimenti, offrendo in tal modo un contributo importante non soltanto per un più preciso inquadramento delle reazioni provocate in ambito cattolico dal libro del Sabatier, ma anche dei rapporti tra questi e Minocchi e, in senso più ampio, delle tensioni che si agitavano nel mondo degli intellettuali cattolici nell’ultimo decennio del pontificato di Leone XIII4. Crisi e rinascita della Rivista Bibliografica Italiana La Rivista Bibliografica Italiana, che aveva cominciato le sue pubblicazioni quindicinali (in fascicoli di sedici pagine) il 10 marzo 1896, conobbe nel 1897 un momento di crisi. Benché il periodico avesse aumentato il numero delle pagine, tuttavia uscirono complessivamente solo 14 fascicoli, e per lo più in numero doppio: dopo i primi tre, singoli, vennero pubblicati in fascicolo doppio i numeri 4-5 (25 febbraio — 10 marzo), 6-7 (25 marzo — 10 aprile), 8-9 (25 aprile — 10 maggio), 10-11 (25 maggio — 10 giugno); il numero 12 uscì di nuovo singolo (25 giugno), infine i fascicoli 13-14 (10-25 luglio), per complessive 296 pagine5. Peraltro, fin dall’ottobre 1896 si erano ravvisate le prime difficoltà, risolte con il passaggio dell’amministrazione della Rivista nelle mani dei Salesiani. A questo proposito, l’11 ottobre Salvatore Minocchi scriveva a Giovanni Mercati: «Le cose son bell’e accomodate, senza che nessuno se ne accorga, perché i Salesiani seguitano (e son pronti per tutto il 1897) senza preoccuparsi del danaro a ricevere. Sia ringraziato Dio» 6. 3 Cfr. Carteggi del card. Giovanni Mercati I. 1889-1936. Introduzione, inventario e indici a cura di P. VIAN, Città del Vaticano 2003 (Studi e testi, 413) [d’ora in poi: VIAN]. 4 Per un quadro generale del periodo rinvio a note opere di sintesi: Storia della Chiesa, XXII/2, La Chiesa e la società industriale (1878-1922), a cura di E. GUERRIERO e A. ZAMBARBIERI, Cinisello Balsamo (MI) 19922; G. MARTINA, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, IV, L’età contemporanea, Brescia 1995. Si veda anche l’ormai datato, ma sempre importante e utile volume Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII. Atti del convegno tenuto a Bologna il 27-28-29 dicembre 1960, a cura di G. ROSSINI, Roma 1961 (Quaderni di storia, 1-2). 5 Si desidera ancora uno studio esaustivo su questa pubblicazione, peraltro rara: i primi anni (1896-1899) sono quasi introvabili. In Roma se ne conserva copia presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, che con tutta probabilità era di proprietà del cardinale Giovanni Mercati. Conto di dedicare un apposito saggio alla questione, utilizzando soprattutto le notizie reperibili nelle lettere indirizzate al Mercati da Salvatore Minocchi, conservate presso la Biblioteca Vaticana. In un suo scritto successivo, Minocchi rievocherà le vicende della Rivista Bibliografica Italiana: cf. Dopo sette anni, in Studi religiosi 7 (1907), pp. 711-714 (tutto l’art., pp. 710-745). 6 Biblioteca Vaticana, Carteggi del card. Giovanni Mercati [d’ora in poi: Carteggi Mercati], cont. 3, an. 1896, f. 711r (VIAN, p. 26, nr. 407).
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FELICE ACCROCCA
I Salesiani, infatti, rilevarono l’amministrazione, anche se Minocchi non dimostrava di essere troppo contento dei loro criteri di gestione: allo stesso modo, è molto probabile che i Salesiani non lo fossero di lui, stando almeno a quel che dice il p. Angelo De Santi7 della Civiltà Cattolica, in buoni rapporti con Mercati e – ancora in quegli anni – con il Minocchi. Infatti, secondo quanto (il 22 ottobre 1897) egli scrisse a Mercati, «la ragione vera, quantunque non allegata, del ritiro dei Salesiani» era quella che «l’amico Minocchi non fu abbastanza oculato nella scelta dei collaboratori, e quindi passarono cose, che non dovevano passare»8. Minocchi, dunque, non era stato sufficientemente vigile. Ma forse è possibile leggere, in queste osservazioni del De Santi, anche un velato, seppur implicito, sospetto verso le idee dello stesso Minocchi. In quegli anni le posizioni andavano già notevolmente diversificandosi; che i rapporti tra Minocchi e Mercati non fossero più quelli idilliaci dei primi anni ’90, lo dimostrano diversi accenni nelle lettere del Minocchi e, con una certa evidenza, anche il fatto che questi sarà informato del passaggio di Mercati dalla Biblioteca Ambrosiana alla Biblioteca Vaticana soltanto a cose fatte9. Peraltro, in quella medesima occasione, il De Santi scriveva pure al Mercati: «Godo assai ch’Ella ripigli la Rivista fiorentina. Quando seppi ch’era caduta, n’ebbi gran dispiacere. […] Speriamo ora che riviva bene in mano Sua e continui per anni assai e con intendimenti strettamente scientifici»10. Mercati avrebbe dunque dovuto assumere la direzione della Rivista, che sarebbe così risorta sotto diversi auspici, almeno nelle intenzioni del De Santi. La cosa viene confermata dal Minocchi stesso; pochi giorni dopo, infatti, il 3 novembre, egli scriveva al Mercati:
7 Angelo De Santi (1847-1922) fu per decenni membro del collegio degli scrittori de La
Civiltà Cattolica: oltre la voce di A. BARTOCCINI, in Dizionario biografico degli italiani, XXXIX: Deodato-Di Falco, Roma 1991, pp. 327-329, tutta incentrata sull’impegno profuso dal gesuita in favore della musica sacra, si rivela importante il volume di G. SALE, «La Civiltà Cattolica» nella crisi modernista (1900-1907) fra transigentismo politico e integralismo dottrinale. Prefazione di P. SCOPPOLA, Milano-Roma 2001. 8 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 955r (cfr. VIAN, p. 37, nr. 582). I salesiani, in un primo tempo, avevano rilevato l’amministrazione della Rivista, tenendola per quasi un anno; si erano poi tirati indietro, per circostanze che restano ancora da chiarire, anche se – molto probabilmente – non è andato lontano dal vero il De Santi, che ne individua la causa nell’atteggiamento incauto (o, perlomeno, dai salesiani ritenuto tale) del Minocchi. 9 I rapporti tra Minocchi e Mercati nell’ultimo decennio del pontificato leonino saranno oggetto di un prossimo studio, nel quale utilizzerò l’ampia documentazione che è possibile rinvenire nella corrispondenza di Giovanni Mercati. 10 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 955r (cfr. VIAN, p. 37, nr. 582).
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«BUONO SCRITTOR DI PAROLE»
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Caro e vero amico, presto, spero, riceverai una circolare relativa alla çRçiçvisç taæ, che farai nota ai comuni amici. In essa dico, che la çRçiçvçiçsçtaæ è prossima a risorgere, probabilmente in Milano. E godo molto che la prenda il Vallardi, ché sarà essa una buona avanguardia al çDçiçziçoçnçarioæ. I Salesiani son propensi a concedere che si riassuma il vecchio titolo, a patto di inviarlo per un semestre çgçraçtçisæ agli çaçbçbçoçnçaçtçiç çpçaçgçaçntiæ del 1897 (pochi più di cento); ma io penso che ora sia giunto il momento di prendere un titolo più nobile e speciale, e mi vo sempre più persuadendo di questo: çRçiçvçiçsçtçaç cç çrçiçtçiçcaæ – çdçiç sç çtçuçdçiç rç çeçlçiçgçiçoçsiæ – sç çtoçrçiçcçiç eç ç lç çeçtçtçeçrçaçriæ: Direzione e redazione: çBçiçbçlçiçoçtçeçcçaç A ç çmçbçrçoçsçiçaçnaæ; amministrazione: çDçiçtçtçaç çVçalçlçaçrçdiæ ecc. çMçiçlçaçnoæ. Tuttavia si può usufruire delle concessioni dei Salesiani, per apporvi çAçnçnçoç Iç IIæ e dire che continua la çRçivçiçsçtçaç b ç ç.ç Iæ. – Sono favorevolissimo a che apparisca sul frontespizio una redazione permanente, con segretariato e direzione presso la Biblioteca // çaçmçbçrçoçsçiçaçnaæ. […] // […] Se nel novembre concludete qualche cosa, a Gennaio si può ricominciare […] Dunque coraggio: vedrete con qual plauso sarà accolto in Italia il primo nuovo fascicolo con certe çrçiçvçiçsçtçoçneæ che vi faremo Cipolla, Savio, tu, tuo fratello ed io11.
La direzione sarebbe quindi passata a Milano12. La lettera si rivela importante anche per altri motivi. Prendendo in esame i loro caratteri, 11 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, ff. 965r-v, 966r (cfr. VIAN, p. 37, nr. 588). Su Angelo Mercati (1870-1956), cfr. P. SIMONELLI, Il cardinale Giovanni Mercati e i fratelli mons. Angelo e prof. Silvio Giuseppe servitori degli studi e gloria di Reggio, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi, ser. 10, 3 (1968), pp. 335-351; G. BATTELLI, Ricordo di Mons. Angelo Mercati, in Card. Giovanni — Mons. Angelo Mercati. XXV anniversario della morte del cardinale. Commemorazioni tenute il 23 ottobre 1982, Reggio Emilia, Studio Teologico, 1985, pp. 35-57. Il conte Carlo Cipolla (1854-1917) fu professore nelle università di Torino e di Firenze, occupandosi di diversi argomenti, attinenti, in prevalenza, all’ambito della Storia medievale: cfr. R. MANSELLI, in Dizionario biografico degli italiani, XXV: Chinzer-Cirni, Roma 1981, pp. 713-716; Carlo Cipolla e la storiografia italiana fra Otto e Novecento. Atti del convegno di studio, Verona 23-24 novembre 1991, a cura di G. M. VARANINI, Verona 1994. Fedele Savio (1848-1916), sacerdote, nel 1873 entrò tra i gesuiti; fu membro del collegio degli scrittori de La Civiltà Cattolica nel 1893-1894 e – sia prima che dopo quella data – professore di Storia ecclesiastica in diversi istituti della Compagnia, finché, nel 1906, venne chiamato a tenere la stessa cattedra nella Pontificia Università Gregoriana: si veda il suo Necrologio, in Civiltà Cattolica an. 1916, vol. I, pp. 625-627 (pubblicato nella Cronaca contemporanea I. Cose romane, sub nr. 6); Il p. Fedele Savio S.I. e l’opera sua negli studi storici, in Civiltà Cattolica an. 1917, vol. I, pp. 678-691; vol. II, pp. 34-49, 294-312. Minocchi entrò in contatto con lui, attraverso Mercati, nel corso del 1896. Benché la loro collaborazione si fosse ormai già avviata, tuttavia egli non sapeva ancora nulla sul suo conto, tanto che il 23 settembre di quell’anno, per inciso, chiedeva a Mercati: «… chi è questo Savio? prete, frate, secolare? mi scrisse una lettera gentilissima…»: Carteggi Mercati, cont. 3, an. 1896, f. 697v (cfr. VIAN, p. 26, nr. 401). Qualche giorno dopo, in risposta all’informazione trasmessagli da Mercati, Minocchi esclamava sorpreso: «Non avrei mai creduto gesuita il P. Savio!»: Carteggi Mercati, cont. 3, an. 1896, f. 705r (cfr. VIAN, p. 26, nr. 405). 12 Scriveva peraltro, in riferimento ai rapporti che si sarebbero dovuti pattuire con l’editore: «Per parte mia, però, sono irremovibile in questo, cogli editori; che, dopo un anno di
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FELICE ACCROCCA
esternando le proprie convinzioni politiche ed il proprio modo d’intendere i rapporti con gli studiosi di diverso orientamento, Minocchi scriveva in una confessione accorata e sincera: Caro Giovanni, mi vo accorgendo che non abbiamo proprio il medesimo carattere; ma questo non vorrà dire che ci vorremo meno bene, non è vero? Anzi soglion dire che fra marito e moglie per istar bene devono avere non uguale carattere. Io, vedi, sono un po’ mondano, compagnone, forse vanaglorioso e dissipato; tu, invece, vivi ritirato, raccolto in spirito, aborrente dal conversare col secolo; tu sei sempre gioviale, mi pare, // io sono abitualmente triste e pieno di rancore contro gli uomini e la natura; vi son dei momenti in cui la considerazione della nequizia degli uomini e dei tempi, e il vedere l’accanimento dei funesti partiti mi indebolisce anche la fede nell’avvenire (non vorrei dire in Cristo). Io sono quindi un essere affatto conciliativo: e questa mia tendenza mi rende un po’ alieno dal partecipare a tutto questo movimento cattolico, che volendo esser çpçaçpçaçleæ cessa di essere çiçtçaçlçiçaçnoæ. Io non trovo niente nella mia coscienza che si opponga al prender parte al futuro congresso degli Orientalisti a Roma. […] E d’altronde se per riguardo di paure più o meno vane ci ritiriamo sempre, noi preti, dalle manifestazioni della vita pubblica, non faremo che nuocere alla causa della verità. Meglio combattere che starsene torpidi13.
Non ci è conservata, purtroppo, la riposta di Mercati, anche se il suo disagio non dovette essere lieve. Se ne ha una chiara percezione nell’appunto – preziosa testimonianza! – da lui lasciato sul retro del foglio, nel quale annotò: «Ho risposto come meglio ho potuto, correggendo apprezzamenti, etc.»14. È vero, comunque, che il gruppo milanese si era messo all’opera per tentare di rafforzare e rinnovare la rete dei collaboratori, se il 27 novembre il salesiano Domenico Ercolini scriveva da Terranova a Mercati comunicando la sua impossibilità a corrispondere alla proposta di collaborazione ricevuta, assicurando però che sarebbe stato sicuramente fra gli abbonati della Rivista15. prova, se il periodico viene continuato, desidero un’indennità in denaro, che rappresenti il compenso per aver io, con non poca noia e fatica, messa insieme la redazione della çRçiçvçiçsçtaæ, per la prima volta. Però sarò poco esigente, e lascerò voialtri arbitri della questione: ai Salesiani avevo chiesto tra i 400 e i 500 franchi. Di più io potrò pro//curarvi quasi tutti gli indirizzi dei vecchi abbonati ecc.; così il periodico rientrerà nella linea del vecchio e sarà risparmiata di pianta la spesa di impianto, che è la peggiore. çSeæ [sottolineato due volte da Minocchi, con tratto molto spesso, ad evidenziare l’importanza della sottolineatura] l’editore la sa mandare, la nuova Rivista non può non avere un 500 abbonati alla fine del primo anno» (Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, ff. 965v-966r: cfr. VIAN, p. 37, nr. 588). Sulla busta Mercati ha scritto, tra altri appunti: «Nomi e cose per la Rivista da dire a Vallardi» (f. 968r). 13 Ibid., f. 966r-v. 14 Ibid., f. 967v. 15 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 982r (cfr. VIAN, p. 38, nr. 597).
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«BUONO SCRITTOR DI PAROLE»
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L’intervento di Manfredo da Passano Minocchi sembrava dunque aver passato la mano. Non sappiamo come – allo stadio attuale delle ricerche la documentazione risulta frammentaria –, ma certo è che nel giro di alcune settimane le cose cambiarono ancora: la Rivista restava a Firenze, ne rilevava l’amministrazione il marchese da Passano, direttore della Rassegna Nazionale, che forse in tal modo sperava di guadagnare qualche altro abbonato per la propria Rivista, in quegli anni funestata da grosse difficoltà economiche16; la direzione restava ancora nelle mani del Minocchi. La Rassegna Nazionale non era ovviamente gradita in tanti ambienti ecclesiastici sospettosi verso le idee dei cattolici liberali, e certo non era ben visto da molti il suo editore, il marchese da Passano: che la Rivista Bibliografica Italiana dovesse ora riprendere le pubblicazioni proprio sotto la sua egida non era cosa che si poteva sperare passasse inosservata anche presso buona parte dei collaboratori della Rivista stessa, che fino a quel momento aveva goduto della propria indipendenza17. Da una cartolina postale scritta da Minocchi il 26 novembre, sappiamo che il marchese si era già recato a Milano, dove aveva parlato personalmente con Mercati. Minocchi temeva infatti che quest’ultimo si rifiutasse di continuare a collaborare e quindi aveva fatto in modo che il marchese da Passano potesse parlargli direttamente, fornendogli le dovute rassicurazioni. In effetti, Mercati concesse ancora fiducia a Minocchi, cosa di cui questi lo ringraziava, avvertendolo peraltro, quale segno della sua buona volontà: «Nel programma sarò più cauto e più severo che per l’addietro, come vedrai». Mercati tuttavia doveva essere ancora piuttosto titubante, come possiamo percepire dalle affermazioni del Minocchi: «Ho letto e ponderato le tue due lettere – scrive il sacerdote fiorentino – di cui ti ringrazio: non posso rispondervi ora, affaccendatissimo, ma terrò sempre te 16 Notizie interessanti, a questo proposito, nel documentato volume di O. CONFESSORE, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La «Rassegna Nazionale» dal 1898 al 1908, Bologna 1971 (Saggi, 101), pp. 48-54. 17 Minocchi, tuttavia, già da tempo collaborava con la Rassegna Nazionale. Nei soli anni 1897-1898 intervenne diverse volte, in qualche caso con scritti corposi: cfr. S. MINOCCHI, Rivista di studi biblico-orientali, in La Rassegna Nazionale 19, vol. 96 (1897), pp. 659-690 (datata Firenze, luglio 1897); ID., Per la letteratura femminile in Italia, ivi 19, vol. 98 (1897), pp. 106-109 (una nota «A proposito degli Studi letterari di Emma Boghen Conegliani»); ID., Il Congresso degli Orientalisti a Parigi, ivi, pp. 413-435; ID., La donna nell’antico Oriente, ivi 20, vol. 99 (1898), pp. 540-550 (un’annotazione editoriale precisa: «Presentiamo a’ nostri lettori alcune pagine dell’opera di prossima pubblicazione del Sac. Dott. Salvatore Minocchi: Il Cantico dei Cantici tradotto e commentato con uno studio sulla donna e l’amore nell’antico Oriente; esse sono anche parte d’una lettura fatta dal ch.mo autore al Circolo Filologico di Firenze la sera del 17 gennaio 1897»).
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fra i più cari amici miei veri. Il mio intelletto non ha ancora finito di svolgersi e ancora vo formando le mie opinioni, e mi accorgo che su certi punti divento sempre più fermo e persuaso»18. Mercati era comunque lacerato non soltanto da dubbi e interrogativi personali. Altri amici, collaboratori anch’essi della Rivista, gli esprimevano infatti le loro perplessità. È il caso delle due lettere, datate 27 e 29 novembre, nelle quali Carlo Cipolla manifestò tutte le sue paure: nella prima, egli affermava di non condividere affatto il modo in cui veniva trattata la «parte politico-religiosa» nella Rassegna Nazionale, che sulla «quistione dell’inter//vento alle elezioni politiche» e su quella della «così detta çaçzçiçoçnçeç çcçaçtçtçoçlçiçcaæ» si muove in modo tale «da costituire un’aperta opposizione talvolta ai comandi talvolta ai più caldi consigli dell’Autorità Ecclesiastica»19. Cipolla temeva che la Rivista si trovasse in qualche modo legata ad un tale indirizzo: «Di certe cose – affermava – nessuno è obbligato parlare, ma se se ne vuol discorrere, mi pare che almeno si debba evitare la parte di opposizione sistematica all’autorità»20. Rilevava, inoltre, che soprattutto se si voleva diffondere la Rivista nei Seminari (in effetti, un tale obiettivo era stato sempre considerato prioritario dal Minocchi), non bisognava fornire alcun motivo di sospetto, ciò che a lui sembrava non si potesse invece evitare nel caso presente21. Cipolla aveva indubbiamente le sue idee, e non c’è dubbio che egli si sia mostrato sempre piuttosto sospettoso nei riguardi degli innovatori, ma non si può certo dire, stante anche il clima di chiusura che gravava sui seminari della penisola, che in quest’ultima considerazione egli difettasse di realismo22. Nella seconda missiva, Cipolla manifestava di nuovo le stesse 18 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 978r (cfr. VIAN, p. 38, nr. 595: cartolina postale). Nel margine alto, sul lato destro della cartolina, Minocchi aggiunge: «Saluta Ratti, sulla cui collaborazione ho poca fiducia. Che dice lui?». 19 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 979r-v (cfr. VIAN, p. 38, nr. 596). 20 Ibid., f. 979v. 21 Cfr. ibid., f. 980r. 22 Nel corso degli anni Novanta, peraltro, proprio la Rassegna Nazionale era più volte intervenuta sulla formazione del clero e sulla diffusione della cultura nei seminari, rimproverando al clero un atteggiamento eccessivamente ostile al progresso della cultura ed ai problemi più vivi e veri che agitavano la società: cfr. O. CONFESSORE, Conservatorismo politico e riformismo religioso cit., pp. 69-72 (a 71, nt. 6, un elenco degli interventi più significativi). Già nel 1886 il marchese da Passano (lettera a Giacinto Cassani del 9 febbraio) giudicava impossibile mantenere in Italia «quasi 300 buoni seminari», proponendo la creazione, nei centri maggiori, di seminari «come corsi universitari» (ibid., pp. 70-71). Sui seminari cfr. M. GUASCO, La formazione del clero: i seminari, in Storia d’Italia. Annali 9. La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea. A cura di G. CHITTOLINI e G. MICCOLI, Torino 1986, pp. 629-715. Uno spaccato particolare offre V. PAGLIA, Gli studi al seminario romano negli anni della crisi modernista, in Ricerche per la storia religiosa di Roma 8 (1990), pp. 203-220.
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perplessità, dichiarandosi disposto ad accettare la collaborazione, ma «senza voler figurare nell’elenco dei collaboratori ordinari»23. Del resto – a quanto scrive egli stesso – analoghe perplessità si affacciavano anche nella mente del Mercati, sebbene questi si mostrasse disposto – più di quanto non lo fosse Cipolla – a prestar fede alle assicurazioni che gli erano state date tanto dal Minocchi quanto dal marchese da Passano24. Il 7 dicembre anche Fedele Savio confidò a Mercati di ritenere «una grande disgrazia» il fatto che la Rivista non avesse potuto continuare a mantenere la sua indipendenza, rincrescimento che peraltro aveva manifestato allo stesso Minocchi25. Per motivi diversi, pure un uomo come il barnabita Giovanni Semeria si dimostrò perplesso di fronte a questo passaggio di proprietà, timoroso che gli «odi forti e possenti» che si erano ormai coagulati contro la Rassegna Nazionale potessero in qualche modo rovesciarsi sulla Rivista Bibliografica Italiana, precludendole così la possibilità di attuare il suo programma scientifico, che –
23 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 985v (cfr. VIAN, p. 38, nr. 599). 24 Sulla prima missiva, al f. 980v, Mercati ha annotato: «Anima bella! Ho risposto
d’aver fatto le stesse rifl. al Marchese e al Min., che sotto parola d’onore si sono obbligati di osservarle scrupolosamente». Nella seconda missiva, Cipolla scriveva invece: «Se l’Albertario dirigesse un periodico letterario in collaborazione con altri, chi po//trebbe credergli se promettesse moderazione[?] [Per mancanza di spazio, Cipolla non riesce a scrivere il punto interrogativo] Non paragono il Pass coll’Albertario, ma dico solo che ciascuno ha il proprio carattere, che non si muta». Si tenga presente che tutto il capoverso fu scritto in un secondo momento, nello spazio restante sul margine inferiore del f. 986r e sul margine superiore del f. 986v. 25 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, ff. 993v-994r (cfr. VIAN, p. 38, nr. 604): «… Il dott. Minocchi mi scrisse // che la çRçiçvçiçsçtaæ risorgerà coll’opera del Direttore della çRçaçsçsçeçgçnaæ. A dir vero ciò mi rincresce non poco e l’ho scritto allo stesso Minocchi. È stata una grande disgrazia, che la Rivista non potesse vivere nella sua vita indipendente di prima». Lo stesso giorno (7 dicembre) Luigi Gramatica (su carta intestata: Convitto «Cesare Arici» Brescia) scriveva a Mercati: «Di Minocchi ho ricevuto l’altr’ieri una cartolina in cui mi parla della risurrezione della Rivista Bibliografica Italiana. Se risuscitasse per non più morire sarebbe una gran bella cosa» (ibid., f. 991r: cfr. VIAN, p. 38, nr. 603). Nessun accenno, dunque, da parte di Gramatica, al cambiamento editoriale. Ciò perché il fatto non comportava alcun fastidio da parte sua, oppure perché il Minocchi gli aveva taciuto la cosa? Luigi Gramatica (1865-1935), sacerdote dal 1888, completò gli studi a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, e fu allievo del Collegio Lombardo (secondo Minocchi, in quel collegio «di non antica istituzione, v’era più libertà che in quello Capranicese. Le correnti di pensiero, che intanto nel cattolicesimo andavansi manifestando, avevano un riflesso nel Collegio Lombardo, mentre restavano ignorate affatto nell’Almo Collegio Capranica»: MINOCCHI, Memorie di un modernista cit., p. 35); soggiornò in Terrasanta, dove approfondì gli studi biblici e la conoscenza dell’arabo e dell’ebraico. Nel 1909 fu nominato dottore presso la Biblioteca Ambrosiana e nel 1914 ne divenne prefetto per volontà di Achille Ratti, suo predecessore, nel frattempo nominato prefetto della Biblioteca Vaticana: cfr. P. F. FUMAGALLI, in Dizionario biografico degli italiani, LVIII: Gonzales-Graziani, Roma 2002, pp. 390-392.
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scriveva al marchese da Passano – «è urgente attuare e che condurrà certo i lettori a maggiore larghezza di idee» 26. Dubbi personali e pressioni di amici in cui riponeva la propria fiducia spinsero quindi Mercati a scrivere, con tutta probabilità prima ancora del 7 dicembre, una cartolina a Minocchi, nella quale egli manifestava di nuovo dubbi e perplessità, lamentandosi – per quanto possiamo capire – del modo in cui era stata gestita la vicenda: il sacerdote fiorentino gli rispose l’8 dicembre, con una lettera (cf. Appendice) che era anche uno sfogo, «troppo giusto – a suo dire – e, per intenderci, necessario». La cartolina di Mercati aveva prodotto in Minocchi «penosa impressione». Egli dunque riassumeva le diverse fasi del ‘negozio’, assicurando che l’iniziativa era partita dal marchese da Passano: era stato lui a proporgli una simile soluzione. Di fronte all’obiezione del sacerdote, che l’avvertiva dell’antipatia nutrita da alcuni collaboratori della Rivista e da molti membri del clero nei confronti della Rassegna Nazionale, il marchese l’avrebbe invitato a fare a meno di tali collaboratori: soluzione, questa, rifiutata dal Minocchi27. Credo si possa assegnare sostanziale fiducia al racconto del Minocchi. Dubbi potrebbero sorgere, semmai, sul fatto che l’iniziativa dell’editore della Rassegna Nazionale non fosse stata indotta in qualche modo proprio da Minocchi o da ambienti a lui vicini, che avrebbero potuto in qualche modo sollecitare il marchese da Passano a formulare la sua proposta, tenuto conto, peraltro, di quanto lo stesso direttore affermerà nell’indirizzo di saluto (Ai cortesi lettori) sul primo numero del 189828. Ma sono dubbi destinati – al momento, almeno – a rimanere tali. Deve far riflettere, invece, un’osservazione di Minocchi. Questi, infatti, dopo aver riferito la soluzione proposta in un primo momento dal Marchese (fare a meno, cioè, del gruppo milanese), osserva: «Io credo che la Rivista si poteva far rinascere anche per tal via; ma siccome noi abbiamo sempre operato di comune accordo […] così io mi ricusai di distaccarmi da voi». La Rivista, dunque, sarebbe potuta rinascere anche senza Mercati ed altri amici a lui collegati, e che per il suo tramite erano entrati in contatto con il sacerdote fiorentino; questo, almeno a parole, riteneva Minocchi, il quale pur riconosceva: la Rivista è «nata anche per opera vostra». 26 Citato da O. CONFESSORE, Conservatorismo politico e riformismo religioso cit., p. 45. Sul barnabita Semeria la bibliografia è ormai abbondante: rinuncio perciò a dare riferimenti precisi, rinviando ai molti documenti editati in diverse annate dei Fonti e documenti per la storia del Modernismo e sulla rivista storica dell’Ordine, Barnabiti studi. 27 Cfr. Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 996r (cfr. VIAN, p. 38, nr. 6061). 28 Cfr. infra, nt. 48 e contesto.
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Il marchese da Passano avrebbe tuttavia garantito la perfetta indipendenza della Rivista Bibliografica Italiana dalla Rassegna Nazionale, convincendo il sacerdote della bontà delle sue parole; deciso così ad avere l’assenso di Mercati e degli altri (Angelo Mercati, Luigi Gramatica, Carlo Cipolla, Fedele Savio, per fare alcuni nomi), Minocchi mise in atto una precisa strategia per raggiungere lo scopo: fece così in modo di far incontrare direttamente il marchese da Passano con Mercati, il quale dovette trarne un’impressione positiva, giudicandolo – è lo stesso Minocchi a riferirlo – «un perfetto gentiluomo»29. Nonostante ciò, Mercati continuava ad avanzare riserve, informandosi sui nomi di eventuali collaboratori e sul programma editoriale, richieste alle quali Minocchi rispondeva con evidente impazienza: i nomi non avrebbe dovuto neppure chiederli, poiché li conosceva già, dal momento che erano gli stessi di prima, ed anche il programma sarebbe rimasto identico, anzi sarebbe stato «più cauto»30. Assicurava, inoltre, che nella Rivista non sarebbe stato inserito il nome della Rassegna Nazionale «eccetto che per il nudo sommario, come si faceva prima»; solo l’indirizzo, ovviamente, sarebbe cambiato, e in luogo di via Ricasoli sarebbe apparsa via della Pace. Egli stesso avrebbe mantenuto la medesima responsabilità di prima su tutta la Rivista. Era evidente, comunque, la tensione tra i due. Minocchi si lamenta («in questi giorni non ho lavorato, che per rendermi degno della fiducia che dicevi di riporre in me»), si dichiara disposto ad «attutire» più d’una «opinione individuale», sfoga il suo malessere, affermando che gli è «riuscito duro il sentirmi fare tante riserve»31. In ogni caso, mostra di non nutrire alcun rancore nei confronti di Mercati, «perché so che sei sincero, ragionevole e amante della verità»32. Il sacerdote fiorentino, in definitiva, tentava di accreditarsi come indipendente tanto dalle idee della Rassegna Nazionale 29 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 996r (cfr. VIAN, p. 38, nr. 6061). 30 Ibid., f. 996v. 31 Ibid. Nelle sue Memorie, decenni più tardi, Minocchi ritornerà brevemente sull’intera
vicenda: «Ritornato a Firenze [dal Congresso di Friburgo, e da ulteriori viaggi, come sappiamo dai Carteggi Mercati], ebbi l’invito a rinnovare la pubblicazione della “Rivista Bibliografica”. Il marchese Manfredo da Passano, direttore della «Rassegna Nazionale», che in Italia rappresentava ben la tradizione, affievolita ma non spenta, del cattolicesimo liberale, aveva apprezzato l’utilità dell’opera e il valore dei propositi miei; e offerse di ripubblicarla a spese sue, lasciandomi libertà di redazione e scelta di collaboratori. Acconsentii, non senza qualche titubanza; avendo già sperimentato, che l’occuparsi di riviste ci fa perdere gran tempo, e ci distrae dalla meditazione. Ma tant’è; mi attrasse ancora l’ideale, accarezzato per due anni, e che credevo, o m’illudevo, fosse magari facile a conseguire. E la “Rivista», assicurata la pubblicazione, ritrovò i suoi lettori e i suoi fedeli collaboratori» (S. MINOCCHI, Memorie di un modernista cit., p. 46). 32 Ibid., f. 997r.
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quanto dalle posizioni del movimento cattolico dell’Opera dei congressi, sperando in tal modo di riguadagnare una stima che intuiva compromessa. Mercati scriverà subito una cartolina al Minocchi, il quale l’11 dicembre gli risponderà a sua volta con un’altra cartolina, dichiarando che il suo intervento era tal quale egli l’attendeva dal «nobile cuore» dell’amico33. La corrispondenza superstite mostra che Mercati prese subito a collaborare attivamente; il 22 dicembre Minocchi assicurava di essersi servito di alcune sue osservazioni al programma «per aggiungervi una piccola frase che lumeggia splendidamente tutto lo scritto, e toglie la durezza di certe ombre»34. In quella stessa circostanza lo informava della totale approvazione data alla Rivista dal direttore della Civiltà Cattolica, p. Gallerani35. La frattura sembrava dunque avviarsi verso una ricomposizione. Il 20 dicembre, intanto, era giunta al Mercati la proposta del p. Ambrogio Amelli36, che si era indirizzato a lui da Montecassino, chiedendogli, tra l’altro, se non fosse il caso di unire la Rivista alla Miscellanea Cassinese, una pubblicazione che era stata appena avviata dai monaci cassinesi nel tentativo di porre le basi per una «Rivista internazionale di studi benedettini»37. La proposta fu comunicata al Minocchi, il quale sembrò prenderla in considerazione: il 28 dicembre scriveva che una fusione vera e propria gli sembrava prematura, e tuttavia si sarebbero potuti unire i due periodici, pubblicandoli «insieme (in fogli separati) con abbonamento cumulativo»38; a queste condizioni non sarebbe mancata neppure la benedizione del marchese da Passano, il cui consenso sarà confermato da Minocchi in una missiva successiva (31 dicembre)39. L’8 gennaio il sacerdote fiorentino si mostrava entusiasta delle nuove 33 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 998r (cfr. VIAN, p. 38, nr. 6062). 34 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 1003v (cfr. VIAN, p. 39, nr. 609). 35 Alessandro Gallerani (1833-1905) fu rettore del Collegio della Civiltà Cattolica (1892-
1903) e direttore della Rivista (1892-1905): cfr. A. BOLAND, in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastique, XIX, Paris 1981, coll. 829-831; F. DANTE, in Dizionario biografico degli italiani, LI: Galliani-Gamba, Roma 1998, pp. 543-544; G. SALE, «La Civiltà Cattolica» nella crisi modernista cit., passim. 36 Ambrogio Maria Amelli (1848-1919), sacerdote dal 1870, in quello stesso anno era stato assunto come scrittore alla Biblioteca Ambrosiana, dove rimase fino al 1885, quando si ritirò a Montecassino. Impegnato nella restaurazione della musica sacra in Italia, fu attivissimo anche nel campo degli studi biblici. Della Miscellanea Cassinese, che fu una sua creatura, egli curerà soltanto il primo volume, nel 1897: cfr. Dizionario biografico degli italiani, II: Albicante-Ammannati, Roma 1960, pp. 759-760 (voce non firmata). 37 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 999r (cfr. VIAN, p. 38, nr. 607). 38 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 1006r (cfr. VIAN, p. 39, nr. 612). 39 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 1008r (cfr. VIAN, p. 39, nr. 614).
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possibilità che si aprivano con la proposta dell’Amelli: «Io sono compreso di entusiasmo per la nobilissima opera, e mi ci getterò mani e piedi, se la cosa si compirà. Fusione no, ché si rovinerebbe tutto; unione si, che si salverà tutto»40. Di fatto, non se ne fece niente, forse – anzi probabilmente – anche per il nuovo temporale che si scatenò sulla Rivista all’indomani della ripresa della sua pubblicazione. Lo stesso Mercati, peraltro, che pure aveva ripreso a collaborare, non aveva certo superato tutte le proprie remore. Non soltanto si mostrava guardingo con Minocchi, continuando a tenerlo all’oscuro delle trattative riguardanti il suo passaggio alla Vaticana41, ma insisteva nel chiedere che si facesse di tutto perché il periodico ottenesse l’approvazione ecclesiastica. Minocchi (31 dicembre) lo giudicava un «consiglio savissimo», assicurando di nutrire un identico desiderio, ma la cosa risultava – a suo dire – «quasi impossibile», «per mancanza di sacerdoti colti che abbiano tempo disponibile»42. Motivazioni che tornano identiche il 13 gennaio («penso sempre a quel tuo consiglio dell’approvaz. ecclesiastica», scrive Minocchi, il che lascia supporre che Mercati non avesse, almeno di recente, reiterato l’invito)43. Due giorni dopo il direttore assicura: «Tra due o tre giorni anderò dall’arcivescovo per la questione dell’approvazione»44. Ora, con buona probabilità, dopo l’accenno di Minocchi, possiamo supporre un rinnovato invito da parte di Mercati45. 40 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1019r (cfr. VIAN, p. 40, nr. 623). 41 Sembra esserne ben informato, invece, Carlo Cipolla: «Voglio sperare che Ella non
lascierà Milano, e che si pentirà di aver quasi abbandonato il progetto di un giornale di Storia ecclesiastica. Per questo scopo, l’Ambrosiana perderebbe molto. Forse Milano è la sola città d’Italia che ben vi si presta. Ci pensi sopra ancora» (Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 1010r: cfr. VIAN, p. 39, nr. 616; si vedano, in proposito, le indicazioni di VIAN). Credo, tuttavia, non possano esserci dubbi sul fatto che Cipolla alludesse al trasferimento di Mercati a Roma. 42 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 1008r (cfr. VIAN, p. 39, nr. 614). «Del resto – continua Minocchi – anche se fosse facile, sarebbe per ora impossibile nella presente condizione della Rivista, la cui redazione non è finita di formare ed è debole. Poi la Rivista non cade, né può cadere nella revisione ecclesiastica, che in vista dell’approvazione di me a direttore; e questa l’ho avuta e l’ho amplissima. Pure tengo conto del tuo consiglio savissimo» (ibid.). 43 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1022r (cfr. VIAN, p. 40, nr. 626). 44 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1024r (cfr. VIAN, p. 40, nr. 628). 45 Il 16 gennaio, peraltro, Carlo Cipolla, manifesterà a Mercati il proprio malcontento per questa mancata approvazione: «Oggi ricevo il n° primo della rinata // rivista, e ne fui pure sconcertato. Manca la revisione ecclesiastica. Convengo che essa, dopo la costituzione di Leone XIII, non è più richiesta; ma sarebbe stato prudente averla per far penetrare il periodico nei seminari» (Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, ff. 1029v-1030r: VIAN, p. 40, nr. 632). MINOCCHI, Dopo sette anni cit., pp. 713-714, si guarderà bene – com’era peraltro comprensibile, a quasi dieci anni di distanza – dal lasciar traccia di queste tensioni, limi-
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Il primo fascicolo della rinata Rivista Il 10 gennaio, intanto, era uscito il primo fascicolo della Rivista, di trentadue pagine. Dopo il saluto di Minocchi (Ai cortesi lettori, pp. 1-3), il numero si articolava nelle sezioni «storia e letteratura religiosa» (pp. 313), «storia e letteratura italiana» (pp. 13-18), «letture amene» (pp. 1820; venivano presentati due romanzi: Il fascino, di Emma Farrugia; Il patto, di Tullio Giordano), poi una «rassegna di studi agiografici» (pp. 20-24), «notizie» (pp. 25-27), «pubblicazioni periodiche» (pp. 27-32), «atti accademici» (pp. 32). Tra le pubblicazioni periodiche si dava conto della Miscellanea Cassinese. I fratelli Mercati apparivano entrambi tra i firmatari. A Giovanni si doveva la «rassegna di studi agiografici»46 ed una nota su uno studio di A. Lattes (pubblicato nel 1897 sui Rendiconti dell’Istituto Lombardo): nella nota Mercati, pur dichiarandosi «peregrinus et hospes (purtroppo) in glottologia», osava «proporre una congettura sull’etimologia di liminota, LIMINOTTA (p. 1359), leminota, limnota, che il Lattes giustamente interpreta per la domina o domicella, que, secondo il tandosi a qualche allusione circa la prima interruzione delle pubblicazioni, che i bene informati avrebbero comunque saputo, ciascuno a proprio modo, interpretare: «L’anno 1897, malgrado il bello incremento scientifico, che per opera di solerti scrittori prendeva il periodico, non fu propizio lungamente alla Rivista Bibliografica; una mala volontà d’uomini si piacque d’incepparne il cammino, e col termine del mese di luglio dovette sospendersi. Essa, però, venne ripresa ben tosto, al principio del 1898, grazie alle generose premure del marchese Manfredo da Passano, direttore della Rassegna Nazionale che da tanti anni combatte per il cattolicismo e per la verità. Egli non volle che quella nuova manifestazione di giovanili energie andasse perduta. Così presso la Rassegna Nazionale per due anni ho proseguito a dirigere la Rivista bibliografica italiana quindicinale». 46 Cfr. pp. 20-24. Il 13 gennaio (Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1022r: VIAN, p. 40, nr. 626), Minocchi aveva scritto, quasi per cautelarsi, al Mercati: «Carissimo Giovanni, ti chieggo scusa, e mi perdonerai perché non ho potuto far di meno. – Quel grullo del tipografo, dopo tanto dire, mi stampò per ultimo il tuo manoscritto che avevo dato il çpçrçiçmçoç çdiæ çtçuçttiæ. Fatto sta che inviateti le bozze domenica scorsa non ci sono pervenute corrette. Siccome neppure mi è pervenuto alcuna tua proibizione di inserir l’articolo, desiderando io che nel primo numero in tutti i modi comparisse il tuo nome, ho corretto e modificato alla meglio come ho potuto e l’ho fatto stampare; vedrai». La rassegna uscì con alcune mende tipografiche; nella copia della Rivista che si conserva presso la Biblioteca Vaticana, qualcuno – non il Mercati (forse qualcuno che poi collaborò alla raccolta delle Opere minori del Mercati? La cosa è ben probabile) – si è preoccupato si segnalarle a matita. Peraltro, ciò che l’anonimo correttore non segnala, risulta incompleta la nt. 2 di pagina 21, priva com’è della segnalazione delle pagine di un articolo di Franz CUMONT, Les Actes de S. Dasius, in Analecta Bollandiana 16 (1897), pp. 6-16: la lacuna verrà integrata in G. MERCATI, Opere minori raccolte in occasione del settantesimo natalizio sotto gli auspici di Pio XI II. (1897-1906), Città del Vaticano 1937 (Studi e testi, 77), p. 109, nt. 1. Mercati se ne lagnò con Minocchi, che il 15 gennaio gli suggeriva: «Se credi fa’ una notizia di çeçrçrçaçtçaç cç çoçrçrçiçgeæ per il prossimo numero, indicando e protestando contro il çrçiçpçoçsoæ postale» (Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1024r: VIAN, p. 40, nr. 628).
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caratteristico latino dei nostri statuti, it oppure ducitur ad maritum» (p. 25). Ad Angelo si doveva invece la (encomiastica) presentazione del volume: Die Katolische Kirche unserer Zeit und Ihre Diener in Wort und Bild. ROM, Das Oberhaupt, die Einrichtung und die Verwaltung der Gesamtkirche, e la presentazione, elogiativa anch’essa47, delle prime due annate (1896 e 1897) della Revue d’histoire et de littérature religieuses. Rivolgendosi Ai cortesi lettori, il Minocchi – nel rievocare le difficoltà trascorse, che avevano portato alla temporanea cessazione delle pubblicazioni – comunicava una notizia che, allo stato attuale delle ricerche, resta di fatto misteriosa. «Pensando – egli scrive – che forse il mio nome suonasse sgradito, rinunziai alla direzione, proponendo in mia vece il Dott. Angelo Mercati di Reggio-Emilia; ma pur troppo la mia decisione non altro produsse che il termine della pubblicazione» (p. 1). I Carteggi Mercati non conservano alcun accenno a questo fatto, né se ne trova traccia nella Rivista. Quindi, dopo aver ricordato il plauso che alla pubblicazione era stato tributato ovunque, Minocchi affermava che proprio questo era stato il motivo che l’aveva spinto a «trovare un forte editore» (di chi era stata dunque l’iniziativa? Sua o del marchese da Passano, come lo stesso Minocchi aveva assicurato al Mercati nella lettera dell’8 dicembre?)48. «La speranza – esclamava raggiante – s’è ora 47 «Aggiungerò – egli scriveva –, con una dolorosa confessione, che il periodico non è per tutti, perché non tutti sono a giorno del moderno spirito critico, perché si è attaccati in un modo gretto e cieco a principi tradizionali, a sistemi apologetici troppo comodi, per cui non mi meraviglierei punto, se qualcuno trovasse la Revue infetta d’un po’ di liberalismo teologico e gli sapesse ben anche di eresia, ma, per fortuna, lo siero dottrinale moderno è indotto con garbo, in modo pacifico e felice così che un intelligente, sebbene affatto nuovo e mettiamo pure contrario alla modernità, ne resta preso, l’assorbe, la fa sua e ne guadagna. Il cielo volesse che da noi la Revue trovasse molti lettori e propagasse un contagio, quanto salutare, altrettanto necessario!» (p. 28). Affermazioni che – mentre mostrano, con chiarezza, le posizioni e gli obiettivi del recensore – non convinceranno Carlo Cipolla, il quale ne scriverà a Mercati nella lettera, già citata, del 16 gennaio. Dopo aver espresso le sue riserve su diversi punti, il professore dell’università di Torino, osservava: «Né (se Ella me lo consente) io potei dirmi proprio contento del tutto neanche della rivista alla çRçeçvçuçeç d ç ç’çhçiçsçtç. etæ çdçeç çlçiçtçtçéçrç.ç çrçeçlçig.æ Le accuse che il Duchesne in quella çRçeçvçueæ fa a parecchi papi, sono proprio giuste, e la çvçeçnçdeæ proprio a posto? Io non deciderà, ma dubito» (Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1030v: VIAN, p. 40, nr. 632). 48 Cfr. infra, nt. 28 e contesto. La Rassegna Nazionale, peraltro, negli anni 1897-1898 non dedicò alcun cenno all’attività della Rivista. Soltanto nel fasc. del 1° dicembre, con riferimento al fascicolo della Rivista Bibliografica Italiana del 25 novembre, scriveva, nelle Notizie: «è notevolissimo l’articolo di A. Mercati sulla Cronologia dell’antica letteratura cristiana del celebre scrittore tedesco Adolfo Harnack» (vol. 104 [1898] 653: cfr. Rivista Bibliografica Italiana 3 [1898], pp. 673-683). Angelo Mercati chiudeva così la sua lunga recensione: «Non tarderà molto ad uscire il secondo volume della Cronologia, che condurrà le ricerche fino ad Eusebio […] Non si può che affrettarne con gli auguri la pubblicazione, perché queste sono opere, le quali (si prescinda da inevitabili difetti, specialmente da quelli
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così luminosamente adempita, da poter dire che la Rivista risorge bella e forte quale non fu mai: ond’io benché già schivo dall’assumerne di nuovo la direzione, cedo alle gentili premure di collaboratori ed amici, e ritorno volontariamente al mio posto» (p. 2). «Con la stessa redazione e gli stessi principi – assicurava –, la Rivista è la medesima di prima», «e, come per l’addietro, la Rivista vivrà indipendente» (ibidem). Egli tentava, in tal modo, di rassicurare non soltanto i lettori, ma – ancor più – amici e collaboratori. Eppure, proprio quel primo numero doveva dar vita ad una polemica, di cui nulla finora è trapelato; una polemica che i carteggi Mercati consentono, almeno in parte, di ricostruire. A suscitare scalpore erano la recensione di Francesco Carabellese49, pubblicata nella sezione di «storia e letteratura italiana» e, soprattutto, la recensione di Giuseppe Maria Zampini all’edizione italiana della Vita di san Francesco del Sabatier, pubblicata nella sezione di «storia e letteratura religiosa». Il Carabellese presentava la Breve Storia d’Italia di Pietro Orsi50, un volume in 16°, di XI-266 pagine, che compariva tra i Manuali Hoepli (ed. Milano 1897), lodando senza riserve il volume, scritto per il popolo, sottolineava, giacché esso «sarebbe del tutto disadatto a servire nelle scuole secondarie». Carabellese riteneva che, nonostante «la tirannia dello spazio», «le doti della chiarezza e prespicuità (sic!)» mostrate dall’autore fossero «superiori a quella della brevità» e questi, pur dovendo essere «elementarissimo», aveva tuttavia saputo «elevarsi in momenti opportuni a concetti sintetici e comprensivi, veramente assai ben detti». Subito dopo, il recensore chiudeva la sua presentazione con queste affermazioni: Voglio dare un esempio del metodo e dello scrivere dell’O., e ne scelgo uno in cui forse la brevità per ragioni speciali l’ha vinta su tutte le altre doti che dipendono dal punto di vista dogmatico dell’autore) promuovono davvero la scienza e gettano basi sicure per lavori desideratissimi nel campo teologico e storico» (pp. 682-683). Nel fascicolo del 16 dicembre si segnalava invece un «geniale studio di estetica di G. Gabrieli intorno a un recente libro di Leone Tolstoi sull’origine dell’Arte» (ibid., p. 880: il lavoro di Gabrieli, che recensiva una traduzione francese del libro di Tolstoi – Qu’est-ce que l’Art?, Paris 1898 –, fu pubblicato sul fascicolo del 10 dicembre: cfr. Rivista Bibliografica Italiana 3 [1898], pp. 705-714). 49 Francesco Carabellese (1873-1919) aveva frequentato l’Istituto di studi superiori di Firenze (dove, molto probabilmente, entrò in contatto con Minocchi), laureandosi in lettere con una tesi sulla peste di Firenze nel 1348 (1895). Qualche tempo dopo conseguì anche il diploma del corso di Paleografia e diplomatica e del corso speciale di Storia dell’arte. Si dedicò soprattutto alla storia civile della Puglia: cfr. B. FERRANTE, in Dizionario biografico degli italiani, XIX: Cappi-Cardona, Roma 1976, pp. 296-298. 50 Breve Storia d’Italia di Pietro Orsi: Milano, Manuali Hoepli, 1897, pagine XI-266 in 16. La presentazione (cfr. pp. 16-17) si poteva contenere nello spazio di una sola pagina.
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dell’illustre scrittore. Dopo aver detto che con la presa di Roma del 20 settembre 1870 si compì l’opera dell’unità ed indipendenza italiana, ha riassunto la storia del Regno d’Italia dal 1870 ad oggi in un solo periodo, che è l’ultimo del libro. “Dei quattro più insigni che ad essa avevano dedicato la mente ed il cuore, Cavour era morto fin dal 1861, Mazzini morì nel 1872, Vittorio Emanuele nel 1878 e Garibaldi nel 1882; e con essi andò man mano scomparendo dalla scena del mondo quella gloriosa generazione, che riuscì a fare l’Italia, perché era fornita di salde virtù, era animata da un profondo sentimento del dovere e provava un alto entusiasmo pel sacro nome d’Italia” 51.
Indubbiamente, tenuto conto di quelli che erano i rapporti tra la Santa Sede e lo Stato italiano dopo la breccia di Porta Pia, in particolar modo nella seconda fase del pontificato leonino, la scelta di questo passaggio da parte del Carabellese appariva perlomeno azzardata, tanto più in una Rivista che mirava a penetrare tra il clero e – soprattutto – ad avere, in quest’opera di formazione e divulgazione, la benedizione vaticana52. Quest’ultimo passaggio, probabilmente, dovette in qualche modo suscitare problemi al Mercati: non sappiamo se di propria iniziativa, o se perché qualcun altro se n’era lamentato con lui53, se non – quasi certamente – per entrambe le ragioni, certo è che, sul giudizio espresso dal Carabellese, egli dovette manifestare delle riserve a Minocchi, poiché quest’ultimo, il 18 gennaio, precisava a Mercati: «Il Carabellese, se ben guardi, non pronuncia che un giudizio letterario; e lo fa bene anzi; perché dà a vedere l’indole politica del libro senza difenderla. O che forse è delitto guardare in faccia la santissima unità della patria? E chi ha mai detto che la restituzione del potere temporale consiste nella cessione territoriale? La distinzione è sottile, ma c’è. Del resto non tollererò mai che la çRçiçvçiçsçtaæ parli espressamente contro il potere temporale»54.
51 Rivista Bibliografica Italiana 3 (1898), p. 18. 52 Per un quadro di quelli che erano gli obiettivi perseguiti in quegli anni dalla Santa
Sede – in particolare dalla Segreteria di Stato – in riferimento alla situazione italiana, si veda soprattutto il volume di L. TRINCIA, Conclave e potere politico. Il veto a Rampolla nel sistema delle potenze europee (1887-1904). In appendice: il «diario» ufficiale inedito del conclave del 1903. Presentazione di G. RUMI, Roma 2004 (Religione e società. Storia della Chiesa e dei movimenti cattolici, 46), pp. 33-111. 53 Se ne era lamentato certo Cipolla, nella lettera, più volte menzionata, del 16 gennaio: «… il nuovo giorna//le entra anche in politica, e a proposito di un libro d’autore, che poteva riuscire un po’ sospetto. Notisi che qui si tratta di un giornale destinato al clero» (Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1030r-v: VIAN, p. 40, nr. 632). Non possiamo esser sicuri, tuttavia, che la lettera di Mercati a Minocchi sia successiva a quella di Cipolla; sembra probabile, anzi, il contrario. 54 Ff. 1037r-1038r (VIAN, nr. 636, p. 40).
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La traduzione italiana dell’opera del Sabatier Lo scritto, tuttavia, che suscitò le maggiori riserve fu la recensione di Giuseppe Maria Zampini al volume della traduzione italiana della Vie de saint François di Paul Sabatier. Il volume, com’è noto, incontrò subito fortissime riserve. Qualche settimana dopo la sua pubblicazione (novembre 1893), sul quaderno 1046 del 20 gennaio 1894, la Civiltà Cattolica lo criticò duramente in una nota pubblicata anonima nella rivista della stampa, che sappiamo tuttavia opera del p. Angelo De Santi55: l’8 giugno 1894 l’opera fu messa all’Indice. I pesanti rilievi della Civiltà Cattolica trovarono, in qualche modo, recettivo il Sabatier, il quale, scrivendo ad un giornale protestante di Losanna, Evangile et Liberté, che aveva pubblicato una lettera indirizzatagli dal cardinale segretario di Stato, Mariano Rampolla del Tindaro56, riconosceva «il buon fondamento di 55 Come risulta da G. DEL CHIARO, Indice generale della «Civiltà Cattolica». Aprile 1850-
Decembre 1903, Roma 1904, citato da S. G. FRANCHINI, Tra rifiuto e profezia: la nascita della Società Internazionale di Studi Francescani di Paul Sabatier, in Paul Sabatier e gli studi francescani cit., p. 429, nt. 9. Cfr. in proposito G. PHILIPPART, Le Bollandiste François Van Ortroy et la Legenda trium sociorum, in La «questione francescana» dal Sabatier a oggi, pp. 174-177; BEDESCHI, Presentazione a SABATIER, Vita di san Francesco d’Assisi cit., pp. 7-9; L. PELLEGRINI, La Vie de saint François d’Assise e gli studi francescani tra impegno critico e tensione ideologica, in Francesco d’Assisi attesa dell’ecumenismo cit, p. 6; FRANCHINI, Sugli esordi della Società internazionale, pp. 26-28; G. MICCOLI, La Vie de saint François de Paul Sabatier, in Paul Sabatier e gli studi francescani cit., pp. 6-7. 56 FRANCHINI, Tra rifiuto e profezia cit., pp. 428-435, grazie a documenti inediti, conservati presso l’Archivio Segreto Vaticano, ricostruisce la fasi di un “incidente” che vide protagonista il cardinale Rampolla: pochi giorni dopo la pubblicazione della Vie, Sabatier ne inviò copia al Segretario di Stato, accompagnando il volume con una lettera di omaggio a Leone XIII; il cardinale rispose immediatamente, assicurando al Sabatier la benedizione apostolica. La lettera fu poi resa nota da un giornale protestante di Losanna (Evangile et Liberté), suscitando diverse reazioni in ambienti cattolici e liberali. In effetti, la risposta del Rampolla ebbe una certa risonanza in ambiti diversi; se ne lagnò pubblicamente, ad esempio, anche Raffaele MARIANO, nel suo volume Francesco d’Assisi e alcuni dei suoi più recenti biografi, Napoli, Tipografia della Regia Università, 1896. Secondo Mariano, il successo arriso al Sabatier si doveva spiegare anzitutto per il fatto che questi fosse «buon raccontatore, naturale, spigliato, sopra di ogni cosa, facile ed immaginoso ma un cattivo pensatore, di scarso intelletto e dall’animo preoccupato e, in fatto di religione, inclinante ed aperto a tutte le vedute più leggere, a tutti i pregiudizii comunemente accettati e ripetuti oggi». Un’altra ragione di tale consenso si poteva spiegare, a suo giudizio, soltanto con la vecchia massima, «alquanto musulmana, eppur nel fondo più vera che non si direbbe», Habent sua fata libelli. Quindi proseguiva con tono tagliente: «Di una cosa soltanto, è vero, le due ragioni insieme, tanto quest’ultima che quella prima, non bastano a render conto; ed è lo spettacolo strano (benché però degno di questi tempi nostri così sconnessi e sconclusionati) di Papa Leone XIII gratificante l’autore con l’apostolica benedizione» (pp. 35-36). Mariano si doleva ancora che «moltissimi (fra i quali alcuni che meno si sarebbe pensato, il Papa, per esempio) […] non hanno avuto pel suo lavoro [di Sabatier] che encomii e congratulazioni» (p. 97). Questa presa di posizione del Mariano fu contraddetta da alcuni suoi recensori. La Civiltà Cat-
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parecchie critiche che sono state fatte alla Vita di san Francesco d’Assisi» e dichiarava: «Sono sul punto di pubblicarne una edizione profondamente rimaneggiata, essa sarà specialmente migliorata dal punto di vista cattolico»57. La prima traduzione italiana, condotta da Carlo Ghidiglia e Costantino Pontani, pubblicata a Roma (ed. Ermanno Loescher) nel 1896, si presentava appunto con l’espunzione di diversi passi e il rimaneggiamento di altri. Neppure il nuovo rifacimento convinse tuttavia il De Santi. In un ulteriore intervento (quaderno 1115, del 23 novembre 1896)58, egli controllò minuziosamente la traduzione italiana in riferimento a quei passi che erano stati da lui precedentemente censurati. De Santi riconobbe che «le affermazioni più direttamente e più apertamente ingiuriose al Santo» erano «state omesse»59, segnalò le parti nuove, come il capitolo sull’indulgenza della Porziuncola (che sarebbe dovuto entrare anche nella seconda edizione francese) e la «nuova dissertazione sul primo luogo abitato dai Frati Minori»60. «Di tutti codesti mutamenti – ri-
tolica, che dedicò al volume una Rivista della stampa nel quaderno 1102, del 4 maggio 1896 (cfr. serie XVI, vol. 6, pp. 447-457), dichiarò: «per giunta egli ignora la dichiarazione officiosa, che apparve nell’Osservatore romano del 24 aprile 1894 intorno al valore delle lettere spedite dalla Segreteria di Stato di Sua Santità per ringraziare gli Autori che al Santo Padre fanno riverente omaggio delle loro opere. Ignora per ultimo che l’opera del Sabatier fu condannata e proibita dalla S. Congregazione dell’Indice con pubblico decreto dell’8 giugno 1894; indicando così a’ cattolici di tutto il mondo in qual conto dovessero tenere la nuova Vita di san Francesco, ed insieme dando un’eloquente risposta a’ maligni, che in un atto di pura cortesia della S. Sede verso il Sabatier, per una semplice lettera fattagli scrivere in ringraziamento del libro offerto, vollero scorgere, come ancor oggi fa il Mariano, o un argomento in favore del libro stesso o una contraddizione tra il sentire e l’operare del Papa» (p. 451). Angelo Mercati, che recensì il volume sulla Rivista Bibliografica Italiana, nel fascicolo del 25 ottobre di quello stesso anno (cfr. Rivista Bibliografica Italiana 1 [1896], pp. 245248), disse in proposito: «Ricordo d’aver letto una nota nell’Osservatore Romano la quale riduceva autorevolmente tutto questo cumulo di cose ad una usuale notizia di ricevimento del libro ed a ringraziamenti per l’invio d’una copia!» (p. 248). 57 Citato in FRANCHINI, Tra rifiuto e profezia cit., p. 430. 58 Rivista della stampa III., in La Civiltà Cattolica, serie XVI, vol. 8, pp. 578-582. Proprio nelle pagine precedenti la Rivista della stampa (II.) recensiva due saggi di Giovanni Mercati: Miracula beati Prosperi Episcopi et Confessoris; D’un palimpsesto Ambrosiano contenente i Salmi esapli e di una antica versione latina del commentario perduto di Teodoro di Mopsuestia al Salterio (studi poi ripubblicati in G. MERCATI, Opere minori (…) I. [1891-1897], Città del Vaticano 1937 [Studi e testi, 76], rispettivamente pp. 207-317, 318-338). Nel suo giudizio finale il recensore rilevava: il Mercati «non ristà dal pubblicare con insolito ardore opere ognor più rilevanti, e dal difendere, ad esempio di tanti illustri suoi compagni del clero, la gran causa della verità, valendosi dei tesori dell’Ambrosiana, donde negli ultimi decenni il Ceriani e il Ferrini trassero vere rarità» (ibid., p. 577). 59 Ibid., p. 578. 60 Ibid., pp. 579-580.
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conosceva – e di codeste nuove giunte, assai pregevoli, diamo ogni miglior lode all’Autore»61. Poi, però, continuava: Ma pur troppo egli ha tuttavia trascurato di accogliere gli altri appunti che gli facemmo, ed erano molti e non meno gravi, e riguardavano la sostanza del lavoro e il concetto fondamentale assolutamente sbagliato e tutto soggettivo, che lo guidò nel condurlo. Qui sta tutto il forte della censura. Giacché (ripetiamo qui volentieri quanto fu detto da noi altra volta), per bellezza di stile, per vivacità di descrizione, per esposizione storica assai curata, per minuta anzi amorosa diligenza nelle ricerche storiche, la Vita del Sabatier non ha pari. Ora, quanto sono maggiori questi pregi esterni che disegnano per dir così la cornice del quadro, tanto più ci disgusta l’indegna forma onde ci si fa innanzi il ritratto personale del Santo. […] si tratta di un castello immaginario, che si fabbrica col proprio cervello, che non ha nessun fondamento nella storia, che non è sostenuto da documenti di sorta alcuna, che ripugna a tutto il modo di pensare, di parlare, di operare proprio del tempo, onde si scrive, e che alla fine viene a darci di S. Francesco d’Assisi un’immagine falsa, ripugnante, ingiuriosa a lui, alla Chiesa, al senso cattolico. Or questo è ben altro che scrivere un’innocente leggenda. È far violenza alla verità, è ingannare il mondo, è favoreggiare la stupidaggine di una moltitudine di lettori ignoranti e di lettrici isteriche, che più badando alla forma, spesso smagliante di bei colori, che non alla sostanza, accolgono per oro di coppella quel che è scoria brutta e grossolana»62.
Veniva alla luce, così, un’incongruenza di fondo, che portava il De Santi a contraddirsi, nel momento in cui parlava di «esposizione storica assai curata», di «minuta anzi amorosa diligenza nelle ricerche storiche», senza farsi scrupolo poi di giudicare l’opera «un castello immaginario», «che non ha nessun fondamento nella storia, che non è sostenuto da documenti di sorta alcuna». Ma il drastico giudizio, che si chiudeva con un invito ai «figlioli obbedienti alla Chiesa» a gettare «lontano da sé quel che la Chiesa ha condannato e che non si può né ritenere né leggere senza venir meno alla propria coscienza»63, non era causato soltanto dalla lettura unilaterale che era stata fatta dal Sabatier e dalla naturale diffidenza – soprattutto negli ambienti ecclesiastici – per un pastore
61 Ibid., p. 581. La nuova dissertazione sul primo luogo dei frati e il capitolo sull’indulgenza riprendevano studi già pubblicati a parte dal Sabatier. Avverte De Santi: «Tanto il presente opuscolo [sul primitivo luogo], come il libretto e gli estratti citati nella nota precedente, ci furono cortesemente inviati dal sig. Sabatier, mentre correggevamo le bozze della presente rivista. Gliene rendiamo pubbliche grazie» (pp. 580-581, nt. 1). 62 Ibid., pp. 581-582. 63 Ibid., p. 582.
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protestante arrischiatosi a trattare temi così cari ai cattolici64; un tale rifiuto era riflesso pure delle «difficoltà che agitavano e già cominciavano a dividere la cultura cattolica intorno ai caratteri e ai limiti della ricerca storica e ai criteri richiesti per scrivere di storia della Chiesa» 65. La recensione di Giuseppe Maria Zampini Dunque, non soltanto la prima edizione della Vie de saint François, ma anche il suo rifacimento che vedeva la luce attraverso la prima traduzione italiana veniva duramente bollato da un personaggio influente e – sul piano personale – amico di alcuni collaboratori della Rivista Bibliografica Italiana. Dovette sorprendere molti, perciò, la recensione dello Zampini. Quest’ultimo (1856-1919), sacerdote della Diocesi di Trivento, subito dopo l’ordinazione sacerdotale (1882) si era dedicato all’insegnamento dell’italiano prima in una scuola di Cerreto Sannita, poi (1883-1885) nel seminario di Foggia, quindi nell’abbazia di Montecassino, dove rimase fino al 1901, quando, in forza dell’obbedienza (un’obbedienza che, certo, dovette costargli molto), fu richiamato dal vescovo a Frosolone, suo paese natale, come arciprete di S. Maria Assunta in Cielo: qui egli rimase fino alla morte, eccetto che nel breve lasso di tempo (1907-1908) in cui fu rettore del seminario di Foggia66. Non possiamo escludere – anzi, è molto probabile – che la decisione del vescovo di 64 Secondo De Santi, negli scrittori protestanti, «il pregiudizio contro la Chiesa cattolica è in loro una seconda natura, e per tal modo, che tutto veggono alterato e per dire così fuori di fuoco. Il migliore consiglio che si possa dare ad uno scrittore protestante è di non toccare affatto certi argomenti, soprattutto, se, come la vita di S. Francesco, sono intimamente collegati con la dottrina e pratica cattolica, con l’ascetica, con la mistica più sublime. Certe sfumature, che per un cattolico, specialmente se sacerdote e religioso e direttore d’anime, sono facili a comprendersi ed a spiegarsi, per un povero protestante, nuovo di tutto, devono riuscire indovinelli indecifrabili. Di qui le curiose ipotesi e le marchiane sentenze, che se non fossero insieme ingiuriose al senso cattolico potrebbero essere oggetto di amena ricreazione» (ibid., p. 580, in nota: prosieguo della nt. 1 di p. 579). 65 MICCOLI, La Vie de saint François de Paul Sabatier cit., p. 7. Indicativo di una tale difficoltà mi sembra anche il giudizio che Carlo Cipolla diede al Mercati a proposito della presentazione delle prime due annate della Revue d’histoire et de littérature religieuses, fatta dal fratello Angelo sulla Rivista Bibliografica Italiana (cfr. supra, nt. 47). 66 Purtroppo su Zampini è caduto un immeritato oblio: oltre al volume di A. BRUNALE, Il molisano Giuseppe Maria Zampini. Sacerdote, pedagogo, esegeta. Presentazione di L. BEDESCHI, Campobasso 1994 (Edizioni Cultura & Sport, 9), qualche accenno sul suo conto si trova anche in L. BEDESCHI, Murri e il riformismo religioso nel Mezzogiorno, in Fonti e documenti del Centro Studi per la storia del Modernismo, 28-30, Istituto di Storia dell’Università di Urbino 1999-2001, pp. 61-63. La sua figura, in effetti, meriterebbe una rinnovata attenzione.
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richiamare in diocesi lo Zampini fosse motivata dal fatto che quest’ultimo era stato firmatario del programma per gli Studi religiosi, rivista di cui fu animatore e direttore il Minocchi, che cominciò le sue pubblicazioni all’inizio del 1901. Nel 1898, dunque, lo Zampini era professore di Belle Lettere nell’abbazia di Montecassino; scrittore prolifico67, nel 1882 aveva pubblicato anch’egli un volumetto di «impressioni e ricordi» su san Francesco68: collaboratore assiduo della Rivista Bibliografica Italiana, offriva, già da alcuni anni, la sua penna anche alla Rassegna Nazionale; aveva pubblicato, nel 1896, un Manuale della Bibbia nella nota collezione dei «Manuali Höepli»69 e proprio sul finire del 1897 un suo ampio contributo era stato pubblicato sulla Rassegna Nazionale70.
67 I suoi scritti, elencati da Brunale (ibid., pp. 132-138), assommano ad un numero di settantacinque tra volumi ed opuscoli, ai quali si devono aggiungere altre trentasette pubblicazioni, tra articoli, discorsi, conferenze e recensioni, anche se alcuni scritti furono poi ripubblicati a parte, in forma di opuscoli. 68 Cfr. G. M. ZAMPINI, San Francesco d’Assisi (VII centenario). Impressioni e ricordi, Torino, Tipografia Giulio Speirani e figli, 1882. Il volume, che ho potuto reperire a Frosolone, presso la chiesa di S. Maria Assunta in Cielo (colgo l’occasione per ringraziare della sua disponibilità il parroco, don Onofrio Di Lazzaro), non ha certo pretese storiche: si articola intorno ad un «librettino di memorie» nel quale l’autore aveva segnato le sue «impressioni del viaggio e de’ trenta mesi vissuti a Perugia» (p. 8), durante il servizio militare; nella terra umbra egli rafforzò il suo legame spirituale con il Santo di Assisi. Il libretto venne incluso tra la «sana letteratura francescana» da GIUSEPPE MARIA RAIMONDI DA MONTEVAGO, S. Francesco d’Assisi nella letteratura contemporanea, Palermo 1906, volume di recente definito un «vero esempio d’apologetica» (S. MIGLIORE, Mistica povertà. Riscritture francescane tra Otto e Novecento, Roma 2001 [Biblioteca seraphico-capuccina, 64], p. 104), nel quale si distingueva nettamente la letteratura – duramente fustigata – di marca razionalista da quella, appunto, «sana», che il francescano raccomandava (cfr. MIGLIORE, Mistica povertà cit., pp. 104-106). 69 Il volumetto (in 24°, di XII-308 pagine) fu presentato sulla Rivista Bibliografica Italiana nel fascicolo del 25 marzo di quello stesso anno dal Minocchi: «Quest’operetta, diceva Minocchi, non si può chiamare un’Introduzione alla S. Scrittura, mentre non si ferma che di volo sulle principali questioni… Ma pure il presente volume riesce opportuno e molto utile per chi brami, e ve n’è tanto bisogno in Italia, di acquistare un’idea generale della Bibbia». Lo Zampini era riuscito, «in così vasto campo», a «scegliere quei fiori che più si adattassero al pubblico e ai nostri tempi», «con una grazia, un’energia scultorea di stile, che attrae alla lettura». «Non nascondo – concludeva il Minocchi in tono agrodolce – che ci avrei veduto volentieri nominato qua e là anche qualche grande esegeta straniero, che il bravo sig. Zampini mostrasse di aver consultato e studiato; e che egli avrebbe maggiormente fatto apprezzare la insuperabile bellezza dei canti d’Israele, conducendo le sue eleganti traduzioni più dappresso al testo ebraico. Ma di tutto ciò non si può invero fargli gran torto, perché il libro, che del resto si mostra alla portata degli studi moderni, non è destinato ad avere un valore propriamente tecnico» (in Rivista Bibliografica Italiana 1 [1896], p. 22). 70 Cfr. G. M. ZAMPINI, Il libro di un frate sulla questione sociale, in La Rassegna Nazionale 19, vol. 98 (1897), pp. 747-777; il volume in questione era il seguente: P. ALBERTO MARIA WEISS dell’Ordine de’ Predicatori, La questione sociale, ovvero Istituzioni di sociologia. Pri-
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Lo Zampini, perciò, non era uno sconosciuto, e la sua permanenza a Montecassino, a contatto con una biblioteca fornita e con studiosi aperti alle moderne esigenze della scienza, pronti a recepire i nuovi risultati degli studi in campo biblico e storico, lo metteva in condizione di essere avvertito sui grandi dibattiti che si erano accesi intorno al volume del Sabatier. La sua recensione si mostrava attenta soprattutto al valore letterario dell’opera dello studioso francese: trascurava del tutto gli aspetti storico-filologici, evitando accuratamente di entrare in discussioni di contenuto teologico. Anzitutto, secondo Zampini, la traduzione «meglio non poteva esser fatta». Riguardo poi alla fortuna del libro, a suo giudizio questa era stata propiziata da alcuni fattori: «l’amore caldo del bene e il sentimento radioso della bellezza, che nel Sabatier hanno forme e colori nuovi». «Peccato – aggiungeva – che il criterio del vero non riesca allo stesso modo buono e bello, guastogli [sic!] da una sua tesi! Figuratevi ch’e’ vuol dimostrare “quanto il Francesco della realtà” sia “più grande, più virile, più santo del Francesco della leggenda”! Idea e parole ribadite e tirate alla peggio nell’Avvertenza de’ traduttori, a’ quali la bella figura del Santo d’Assisi appare “sfrondata dal Sabatier di quanto di sovrannaturale e di leggendario il sentimento e l’interesse religioso vi avevano aggiunto”». A giudizio del recensore, tuttavia «questo di sfrondare i geni religiosi di tutto [quel] che oltrepassa la quotidiana esperienza, se ad alcuni può parere un lavoro scientifico, a’ molti, a’ più, esso è dalla faccia brutta dell’amor proprio, è dall’egoismo che si maschera di scienza per non farsi riconoscere»71. Confutata questa posizione metodologica del Sabatier, Zampini riprendeva alcune affermazioni dall’introduzione, nelle quali lo studioso francese avvertiva i lettori di voltar pagina in quei punti in cui la sua opera avrebbe fatto loro pena, amando pensare che altri sarebbero invece piaciuti. «Di pagine che mi han fatto pena – commentava il recensore – io n’ho voltate parecchie, e non voglio neppure ricordarle; anche perché ce n’è altre di così viva e armoniosa bellezza, che sono un godimento, e per la fantasia, che ama i colori, e per l’animo a cui è sempre dolce la contemplazione di quel che sa dare di meglio questa calunniata natura nostra»72. Continuava perciò citando ampi brani dell’opera (le sue citazioni giungono fino alla pagina 154), mostrandone la forza delle immagini, che era anche viva testimonianza dello slancio poetico e della capacità di penetrazione psicologica dell’autore. Concludeva quindi ex ma versione eseguita sulla 2a ediz. tedesca dal Sac. CLEMENTE BENETTI, Docente del Collegio Vesc. di Trento. – Trento, Ediz. di G. B. Monauni, 1897. – In 8, pag. XVI-786. 71 Rivista Bibliografica Italiana 3 (1898), pp. 5-6. 72 Ibid., p. 7.
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abrupto, quasi avesse dovuto troncare il lavoro a metà: «Or vedete cosa strana! Ho ben letto le altre 164 pagine che seguono al tratto citato; ma non ho potuto far tacere quegl’interrogativi nella loro insistenza di voler tutta per sé l’attenzione mia. Talché una di queste due cose mi resta: o rifarmi sull’ordito del Sabatier, e scrivere un libro; o far punto. Che mi consiglia il lettore? L’amor proprio vorrebbe darmi a credere quel che non è… Il lettore vuole ch’io faccia punto!»73. Strana conclusione, invero. Che lo Zampini possa aver mostrato al Minocchi quello che – nelle sue intenzioni – doveva costituire soltanto una prima parte del suo lavoro e n’abbia ricevuto, in risposta, l’intimazione di troncare, poiché il testo eccedeva già lo spazio concesso? È un’ipotesi probabile, benché assolutamente impossibile da dimostrare. Le reazioni e le tensioni che ne seguirono Certo è che le reazioni a questa recensione non tardarono a farsi sentire. Il 16 gennaio Carlo Cipolla – in una lettera in cui si mostrava, peraltro, interdetto dal comportamento di Minocchi, incapace, a suo giudizio, di un confronto sereno – scriveva a Mercati: Oggi ricevo il n° primo della rinata // rivista, e ne fui pure sconcertato. Manca la revisione ecclesiastica. Convengo che essa, dopo la costituzione di Leone XIII, non è più richiesta; ma sarebbe stato prudente averla per far penetrare il periodico nei seminari. Ma che mai? Rimasi proprio scandalizzato dagli elogi fatti ad un libro empio, proprio empio, come è quello del Sabatier. E pensare ch’io l’ho pochi giorni fa combattuto in iscuola! Le modeste riserve non bastano, poiché il libro com’io lo conosco nel testo (e la çCçiçvç.ç çCçattæ. disse che restò quasi identico nella versione ital.) è la negazione sia del miracolo esterno, sia del miracolo interno della grazia in s. Francesco. In quel giornale destinato ai seminari si loda così un volume, che al postutto fu condannato a Roma, e meritamente [sic!] destò tanto scandalo!
73 Rivista Bibliografica Italiana 3 (1898), p. 11. Il brano era il seguente, tratto dalla pagina 154 del volume di Sabatier: «Chi sa se nessuno si leverà per riprendere l’opera sua? Il furore de’ subiti guadagni non ha gia fatto abbastanza vittime? non vi son già molti fra noi che si accorgono come il lusso sia una vana mostra, un inganno per l’occhio? e che se la vita è una lotta, non è una strage in cui bestie feroci si disputano una preda, ma è la lotta col divino, sotto qualunque forma si presenti, verità, bellezza e amore? Chi sa se questo agonizzante secolo decimonono non si solleverà dal suo sudario per fare onorevole ammenda e trasmettere al suo successore una parola di fede virile?» (ibid., p. 10).
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Né basta ciò, ma il nuovo giorna//le […] 74. C’è ancora che la çRçiçvçiçsçtaæ si presenta, nel suo insieme, con una intonazione magistrale, fatta non per amicare gli avversari, ma per disgustare gli amici. Sono troppo pessimista io?75.
Le riserve di Carlo Cipolla apparivano dunque esplicite e nette, su tutta la linea. Ricevuta la lettera, molto probabilmente Mercati si rivolse a Minocchi, comunicandogli lo sconcerto a cui il primo numero aveva dato luogo. Fu, per il sacerdote fiorentino, un «fulmine a ciel sereno». Minocchi rispose dopo «qualche ora», il 18 gennaio. È possibile, certo, che Mercati avesse scritto ancor prima di ricevere la lettera di Cipolla, ma la prima ipotesi sembra preferibile, poiché le contro obiezioni di Minocchi mostrano che le riserve manifestategli da Mercati erano in perfetta sintonia con quelle esternate da Cipolla (i Carteggi Mercati rivelano, peraltro, che le comunicazioni postali avvenivano allora in tempi strettissimi, oggi assolutamente impensabili). La lettera di Minocchi, su carta intestata alla Direzione della Rivista Bibliografica Italiana, restituisce uno spaccato della vivacità dei dibattiti e consente di capire la molteplicità dei pareri che animavano coloro che, all’interno del clero italiano, si sforzavano di promuovere un autentico rinnovamento degli studi. Un documento importante, che merita di essere trascritto quasi per intero: Carissimo Giovanni, Il tuo çfçuçlçmçiçnçeç çaç çcçiçeçlç çsçeçrçeçnçoç çmiæ dette sommo sconforto; e non ebbi che la consolazione di rendere, forse, più lieve il tuo, partecipandolo. È bene che abbia aspettato qualche ora a risponderti: poiché qui a Firenze ho potuto sapere che a tutti, anche a sacerdoti integerrimi e santi, è piaciuto senza riserve il primo numero della Rivista. […] çÈç p ç çiçaçcçiçuçtçoç o ç çlçtçrçeçmçoçdoæ (è la sua frase di stamani) ad Angelo tuo fratello, delle cui rette intenzioni non puoi dubitare. Dopo ciò mi persuado sempre più di quello che ieri, dopo non brevi considerazioni, conclusi; che, cioè costì a Milano, fra’ tuoi colleghi, fra’ tuoi amici hai chi çnçoçnç çaçmçaç çlçaç çRçiçvçiçsçtaæ ti monta la testa con scrupoli fuori di luogo e chi si giova della // tua bontà religiosa, ch’io venero, per toglierti l’indipendenza del pensiero e dell’azione. Guardati, guardati, ché sei vicino a perdere la santa libertà del pensiero! E poi, senti: è çiçmçpçoçsçsçiçbçiçleæ dirigere qualunque periodico, ove sono articoli firmati, senza lasciare ai firmatari la libertà delle loro opinioni; specialmente 74 Nel passaggio ora omesso, Cipolla muoveva critiche alla recensione firmata da Francesco Carabellese ed alla rassegna delle prime due annate della Revue d’histoire et de littérature religieuses fatta da Angelo Mercati (cfr. supra, nt. 47 e 66). 75 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, ff. 1029v-1030v (VIAN, p. 40, nr. 632). Le prime righe della lettera (cfr. ff. 1029v-1030r) erano state da me già citate: cfr. supra, nt. 45.
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poi trattandosi d’un periodico di indole così ampia e complessa come il nostro. Ho intenzione di mettere nel periodico (in copertina) una nota di questo tenore: “La direzione accoglie e inserisce gli articoli che sono sufficientemente compresi ne’ più ampi limiti del suo programma (religioso ecc.) e del suo carattere (politico letterario ecc.); ma la responsabilità morale e letteraria dei giudizi contenuti negli scritti çfçiçrçmçaçtiæ o con sigla resta intera ai loro autori, essendo impossibile materialmente e moralmente che il direttore possa esser ritenuto partecipe di tutte le opinioni espresse nel periodico”. Senza tali criteri, già lo sapevo, non è possibile neppur cominciare. […]76 E sullo Zampini avrei da fare la difesa: lasciamola da parte. Il dogma è intatto: che posso giudicar io, se lo Zampini dice bene o dice male, apprezzando çlçeçtçtçeçrçaçrçiçaçmçeçnçteæ l’opera del Sabatier? Io non ho letto né posso leggere il libro, ma so che lo Zampini è prete, buon prete, e devotissimo al Papa; questo mi basta. Se poi lo Zampini ha errato letterariamente, non ne è responsabile la Rivista, non io, ma solo lo Zampini. E lui ci pensi. Se tu pensi a quanto potranno dire i diffidenti in questa ignorante Italia (parlo del Clero) non potremo mai né io, né te lodare più alcun’opra // di gran valore, se è scritta da un protestante. Ma io ricordo che tuo fratello lodò il libro del Mariano, gettato nel fango dalla Civiltà Cattolica77. Continuiamo la nostra via senza guardare indietro. Del resto compatisco le tue incertezze. Tu appartieni a un sodalizio, e ti senti in dovere di agire come ti consigliano i tuoi superiori; fa’ come il buon 76 Ometto qui un passaggio già riportato in precedenza (cfr. supra, nt. 54 e testo relati-
vo). 77 I riferimenti a queste recensioni al volume del MARIANO, Francesco d’Assisi e alcuni dei suoi più recenti biografi, sono stati segnalati in precedenza (cfr. supra, nt. 56). La recensione sulla Civiltà Cattolica fu indubbiamente severa. Scriveva il periodico dei gesuiti: «Il San Francesco di Sabatier è un assurdo storico perché non ha mai esistito quel tipo d’uomo che quell’autore s’è creato con la fantasia. Ma il San Francesco del Mariano è un assurdo storico e logico, insieme. Non solo il Santo non è così esistito realmente, ma il concetto stesso che ne dà costui ripugna ne’ termini. È il concetto di una cosa ibrida, di un ircocervo, di un circolo quadrato, d’una mostruosità senza pari, umana insieme e religiosa» (serie XVI, vol. 6, p. 457). Il 23 giugno 1896, Minocchi comunicò a Mercati di aver fatto la conoscenza di Raffaele Mariano: «… ho fatto conoscenza con lui, e siamo onesti amici. Egli mi si è lamentato della Civiltà Cattolica, che l’ha messo in dileggio. Ha ragione: anche gli avversari vanno rispettati. Credo che lo spirito serio da cui è animato il nostro periodico sia una cosa nuova in Italia» (Carteggi Mercati, cont. 3, an. 1896, f. 600r: VIAN, p. 22, nr. 335). Angelo Mercati recensì il volume alcuni mesi dopo che era stato emesso questo drastico giudizio; i suoi toni, in effetti, si rivelano molto più sfumati. A suo parere, soprattutto «la teologia cattolica non è il forte dell’autore»; secondo il Mercati, «in mezzo a buone idee ogni tanto fa capolino un pensiero storico, filosofico, teologico errato in se stesso e nell’estensione e portata che gli vien data» (Rivista Bibliografica Italiana 1 [1896], p. 247). In definitiva, «il Mariano ha fatto un libro che ha molto del buono, nel quale ha colto l’occasione di introdurre ottime idee comunemente rifiutate o poco considerate, ma che, o per colpa del punto teologico-filosofico in cui si trova l’autore, o per immaturità sua in certe questioni, lascia non poco a desiderare» (ibid., p. 248).
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Dio ti inspira. Io so che le tue intenzioni sono rette e generose, e tanto basta, perch’io ti voglia sempre bene. Se potrai scrivere col tuo nome firmato, ne avrò piacere; se colla tua sigla o pseudonimo, e non più, tollererò; se non potrai più scrivere nella çRçiçvçiçsçtaæ, me ne piangerà il cuore per gli studi sacri italiani, ma ti vorrò sempre bene. A codeste condizioni, però, io non entrerò mai, anche se sarò invitato, a far parte del collegio dell’Ambrosiana. Circa la permissione ecclesiastica è necessario soltanto il permesso generico di stampa çnçeçlç çlçuçoçgçoç çoçvçeç çsçiç çfçaç çlçaç çpçuçbçbçlçiçcçaçzçiçoçneæ. Quindi ogni tuo articolo può essere inserito nella çRçiçvçiçsçtaæ, perché l’arcivescovo mi dà il permesso. Tuo S. Minocchi78.
Minocchi si dice rassicurato, dunque, da pareri favorevoli, ricevuti da persone al di sopra di ogni sospetto, che hanno approvato per intero il primo numero della Rivista. Trapela anche il suo disagio, quando difende il proprio operato rispetto alle affermazioni dei singoli autori: poiché se è vero quanto egli dice, che ai collaboratori andavano lasciati dei margini di autonomia, sembra pure che egli non abbia affatto ponderato le possibili conseguenze di quella recensione. Ingenuità? Eccessiva sicurezza, che lo portò ad agire con leggerezza? È possibile che, spinto dal desiderio d’immettere aria nuova nelle occluse stanze del clero italiano, egli sia stato tentato di premere sull’acceleratore concentrandosi prevalentemente su un aspetto della questione (il rinnovamento degli studi, appunto), dimenticando perciò la prudenza, o comunque sottovalutando le possibili reazioni di quell’ambiente che pure si proponeva di risvegliare dal torpore. Minocchi aveva certo buon gioco con Mercati nel ricordargli che la recensione di suo fratello Angelo al libro di Raffaele Mariano si distanziava (e nei toni e nella sostanza) da quella della Civiltà Cattolica. Ma proprio qui stava la differenza, mi pare, tra lui e i Mercati: questi ultimi, Angelo più di Giovanni, si mostravano decisi a spingere sull’acceleratore per offrire piena cittadinanza in casa cattolica alle nuove esigenze della scienza storica ed esegetica, ma restavano comunque intenzionati (non solo per una scelta tattica) a non oltrepassare certi limiti, cosa che peraltro avrebbe finito per vanificare i loro sforzi; Minocchi appariva invece più impaziente, desideroso di spaccare gli argini posti da un pensiero ormai superato, per nulla adeguato a sostenere le sfide poste dal moderno sapere scientifico, e che proprio per questo rendeva la posizione cattolica debole nel confronto intellettuale allora in atto. In effetti, la distanza della recensione di Angelo Mercati da quella della Civiltà Cattolica non era poi tanto più ampia rispetto a quella che correva tra la recensione dello Zampini e quella del De Santi. Tuttavia 78 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, ff. 1037r-1038v (VIAN, p. 40, nr. 636).
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sul libro di Sabatier era caduta una condanna ecclesiastica, ed era questo – agli occhi dei Mercati – a fare soprattutto la differenza. Dalla lettera trapela pure un certo sconforto di Minocchi, il quale sembra rendersi conto che le sue possibilità d’essere aggregato alla Biblioteca Ambrosiana vanno ormai riducendosi: nelle lettere a Mercati79 egli accenna più di una volta all’interesse che da Roma o da Milano si concentra sulla sua persona, ma da quanto si può capire non sembra che né l’Ambrosiana, né altre istituzioni romane abbiano mai fatto alcun passo concreto in proposito. Minocchi pare come lacerato, spinto da una parte dal desiderio di trovare una sistemazione sicura, confacente ai suoi bisogni intellettuali ed al suo indubbio valore di studioso, timoroso dall’altra che l’inserimento in un’istituzione consolidata avrebbe richiesto, come necessaria contropartita, una docilità ed una duttilità che non soltanto il suo ingegno brillante ed irrequieto, ma anche il suo carattere indocile faticavano ad acquisire. Non si è conservata, purtroppo, la risposta di Mercati, che pure vi fu, e che sarebbe stato interessantissimo leggere. Egli, infatti, nel margine superiore del primo foglio (1037r) della lettera di Minocchi, scrisse questa preziosa nota: «!! Ho risposto con fermezza, nulla tacendo, nemmeno il dovere di fare una scusa o riparazione». Prima ancora, però, che questa risposta potesse pervenirgli, a Minocchi era giunta un’altra lettera di Angelo Mercati, «fiera oltremodo», come la definisce l’interessato. Il 19 gennaio Minocchi scrisse perciò ancora una cartolina al Mercati80, affrontando anzitutto il tema del cambio editoriale: si lamentava con l’amico, perché aveva scritto «chi sa che» al fratello senza prima averlo udito; quindi affermava: «Certo, tu dubiti ancora ch’io stia d’accordo col M[arche]se Da Passano per farvi cadere in un tranello. Non ne parliamo, ché mi c’inquieto». Il cambio editoriale, dunque, continuava ad agitare gli animi, e d’altronde è facile comprendere che i sospetti verso la Rassegna Nazionale e verso il suo editore resistessero tenacemente e non potessero dissolversi come neve al sole. Minocchi tornava quindi sul primo numero della Rivista, garantendo il Mercati di aver avuto, nel corso di quella stessa giornata, nuove assicurazioni a voce che non v’era stato trovato «nulla di veramente scandaloso», «sebbene lo Zampini çpçeçrç iç çlç lç çaçtoæ çlçeçtçtçeçrçaçrçioæ sia stato troppo benevolo al Sabatier (e così penso anch’io; ma dimmi, ti ho mai detto a te, di fare le recensioni a modo mio?)»81. 79 Tratterò di questo problema in un prossimo saggio (cfr. supra, nt. 9). 80 VIAN, p. 29, nr. 446, data la cartolina 19 gennaio 1897, basandosi sul timbro postale,
peraltro di non facile lettura: tuttavia il contenuto della stessa mostra senza alcun dubbio che essa fu scritta l’anno seguente. 81 Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, f. 762r (VIAN, p. 29, nr. 446).
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La difesa dello Zampini appare dunque sempre più debole, ma non per questo Minocchi rinuncia a difendere il proprio operato, né mostra alcuna autocritica, sostenuto com’è anche da pareri autorevoli, che lo rafforzano nel suo convincimento circa l’atteggiamento eccessivamente timoroso e scrupoloso assunto da Mercati. Scrive infatti: Oggi ho ricevuto un biglietto tutto di mano del Card. Capecelatro che loda senza riserve il primo numero e si abbona; un’altro [sic!] del P. De Santi (cui ho mandato le tue bozze) che çiçnç çtoçnçoç çeçnçtçuçsçiçaçsçtçiçcoæ approva senza riserve il primo numero e m’incoraggia a proseguire (e ti ringrazia). Son pronto a inviarteli ambedue questi biglietti. Intanto di [sic!] prego dirmi çaç p ç çoçsçtçaç çcçoçrçrçeçnçteæ se brami che nel secondo numero escano scritti tuoi 82.
Non c’è motivo di mettere in dubbio le affermazioni di Minocchi, non soltanto perché egli si dice pronto ad inviare a Mercati i biglietti del card. Capecelatro83 e del p. De Santi, ma anche perché la corrispondenza Mercati conserva uno scritto a lui indirizzato dal gesuita, proprio in data 19 gennaio84. In quel breve testo, redatto su uno dei suoi biglietti da visita, il De Santi scriveva, tra l’altro: «Godo assai che la Riv[ista] bibl[iografica] sia risorta e ne ho già scritto all’amico Minocchi congratulandomi di cuore con lui. Veda anche Lei di consigliarlo bene nella scelta de’ collaboratori, altrimenti si suscitano dispiacevoli diffidenze che impediscono il bene che pur si vuole ottenere»85. De Santi, dunque, com’era comprensibile da parte sua, nutriva diffidenze per alcuni collaboratori, e certamente lo Zampini era tra questi; né doveva essere rimasto entusiasta della recensione di quest’ultimo al volume del Sabatier. Tuttavia, non 82 Ibid. 83 Il cardinale Alfonso Capecelatro (1824-1912), arcivescovo di Capua, già indirizzato
agli studi storici dal monaco cassinese Luigi Tosti, il 24 aprile 1890 era stato nominato da Leone XIII bibliotecario di S. Romana Chiesa: cfr., su di lui, la voce di F. MALGERI, in Dizionario biografico degli italiani, XVIII: Canella-Cappello, Roma 1975, pp. 435-439. Nelle sue Memorie, Minocchi ricorda le difficoltà da lui incontrate prima di poter giungere alla stampa della traduzione dei Vangeli, quindi confessa: «Dopo quel che era successo, ad evitare scandali e polemiche pericolose, pensai bene dedicare il volume a chi riuscisse, per l’alta sua autorità, ad accoglierlo in valevole protezione. Fu il card. Capecelatro; il quale benignamente accettò la dedica, e rispose con perfetta fiducia. Il libro, quindi, fu pubblicato» (MINOCCHI, Memorie di un modernista cit., p. 49). Nella sua lettera, il cardinale Capecelatro dichiarava peraltro di rallegrarsi nel «vedere che i nuovi studi biblici, caldeggiati particolarmente in Germania, e dai protestanti quasi sempre con intenti razionalisti, si compiano ormai con frutto dai cattolici, anche nella nostra Italia» (Il Nuovo Testamento. Tradotto e annotato da S. MINOCCHI I. I Vangeli, Firenze, Biblioteca scientifico religiosa — Roma, Libreria pontificia di F. Pustet, 1900, p. VII). 84 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1040r-v (VIAN, p. 40, nr. 637). 85 Ibid., f. 1040r.
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sembra ne avesse fatto parola al Minocchi, e perché questo si dice disposto, trionfante, ad esibire le righe che aveva ricevuto dal gesuita, e perché è lo stesso De Santi – nel biglietto indirizzato a Mercati – ad ammettere, semplicemente, di essersi congratulato con il sacerdote fiorentino del primo numero della rinata Rivista. Spinge invece sul Mercati perché vigili e consigli bene il direttore. In ogni modo, sembra sinceramente interessato alle sorti della Rivista Bibliografica Italiana ed al programma che la stessa si proponeva. Nonostante le ambiguità in cui era costretto a muoversi, stante la sua collocazione all’interno di una rivista come la Civiltà Cattolica che non aveva certo mai lesinato nello stigmatizzare ogni benché minimo sospetto di devianza dall’ortodossia, la posizione del p. De Santi finiva in qualche modo per distinguersi, quanto a duttilità, all’interno del collegio degli scrittori, come si registrerà anche qualche anno dopo, nel maturare della crisi modernista, conformemente a quanto hanno evidenziato le ricerche di Giovanni Sale86. Il giorno seguente (20 gennaio) scrisse a Mercati Giuseppe Faraoni87. Rispondendo ad una lettera che accompagnava alcuni opuscoli dello stesso Mercati, Faraoni entrava subito nel merito della questione che 86 Cfr. G. SALE, «La Civiltà Cattolica» nella crisi modernista cit., passim. Anche SCOPPOnella sua Prefazione al volume, segnala che la figura di De Santi «spicca» nel collegio degli scrittori come uno dei «più aperti alle nuove tendenze». Egli giudica una «tendenza per così dire “progressista”» quella incarnata dai padri De Santi, Brandi, Pavissich (ibid., p. 12). 87 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1041r-v (VIAN, p. 40, nr. 638). Giuseppe Faraoni (1868-1933), studiò a Roma (dove fu allievo al Collegio Capranica) e venne ordinato sacerdote nel 1892; dal 1895, dopo essere stato per tre anni cappellano nella parrocchia di Rifredi (Firenze), fu membro del Collegio Teologico Fiorentino come professore di Patristica. Fu anche prefetto degli Studi e membro di varie commissioni nella Curia arcivescovile. Il 25 ottobre 1917 divenne canonico della Metropolitana (cf. Bollettino dell’Arcidiocesi di Firenze, an. 1933, p. 161: debbo queste notizie a mons. Gilberto Aranci, archivista dell’arcidiocesi fiorentina, che ringrazio di cuore). Traduttore apprezzato (tra l’altro, di opere di Batiffol e del Mercier), nel 1904 Faraoni tradusse il volume (pubblicato a Firenze) di G. FONSEGRIVE, Lettres d’un curé de campagne, Paris 1894. Ebbe una parte di primo piano nella nascita della Libreria Editrice Fiorentina. Insieme a molti collaboratori della Rivista Bibliografica Italiana, risulta tra i membri della «Società Cattolica Italiana per gli studi scientifici» (cfr. A. GAMBASIN, Origini, caratteri, finalità della Società Cattolica Italiana per gli studi scientifici, in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII cit., p. 559). Lorenzo Bedeschi lo descrive «di idee murriane e autonomistiche. Insieme ad Andrea Torricelli era stato l’anima del periodico “La Bandiera del Popolo”, cessato nel dicembre 1906 e d’ispirazione democratico-cristiana» (L. BEDESCHI, Nuovi documenti per la storia dell’antimodernismo. De Töth e Cavallanti alla direzione dell’Unità Cattolica, in Fonti e documenti del Centro Studi per la storia del Modernismo, 15, Istituto di Storia dell’Università di Urbino 1986, p. 403, nota 22). Sul finire del 1906 fu fatto il suo nome quale possibile direttore dell’Unità Cattolica, ma poi non se ne fece niente, forse anche per un rifiuto da parte sua (ibid., pp. 402-408): sull’Unità Cattolica si veda il volume di M. TAGLIAFERRI, L’Unità Cattolica. Studio di una mentalità, Roma 1993 (Analecta Gregoriana, 264). LA,
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sembrava preoccupare fortemente l’interlocutore: «Hai letto il primo N. della R.B.I. e ti è dispiaciuto il vedervi delle brutte pagine. Hai deplorato, come anch’io, l’imprudenza a dir poco di M., ed hai fatto benissimo a dire a questo quel che gli hai detto senza tanti complimenti. Così voleva la vera amicizia e il desiderio di bene». Il disagio di Mercati sembrava essere dunque più ampio, non circoscrivibile tanto all’uno o all’altro degli interventi comparsi sulla Rivista, ma piuttosto all’indirizzo, alla piega stessa che questa minacciava di prendere: probabilmente, era un disagio non nuovo, che il cambio editoriale e gli articoli comparsi sul primo numero non avevano certo contribuito a sedare. Faraoni avvertiva pure che Minocchi era rimasto «un po’ sconcertato» dal suo intervento e che l’aveva pregato, la sera precedente (19 gennaio, dunque), di rassicurare il comune amico in Milano che s’era «trattato d’un’inavvertenza, che per l’avanti sarà più guardingo ecc. ecc»88. Il sacerdote fiorentino appariva dunque preoccupato, tanto da chiedere l’intervento di una terza persona, perché rassicurasse anch’ella l’amico comune, al quale era sinceramente legato e la cui collaborazione riteneva – ed era in effetti – preziosa. Tuttavia senza animosità, ma con schiettezza, contrariamente agli auspici del direttore, Faraoni finirà per rafforzare i sospetti di Mercati. Affermava, infatti, che Minocchi promette Ma … ma a dirtela M. mentre ha bella mente e bel cuore, tentenna ma tentenna molto e nella prudenza e nei criteri che devon guidare un direttore d’un periodico cattolico. In vista di questo, gli ho sempre raccomandato e vivamente che dia retta a’ veri amici e specialmente a te e che la smetta una buona volta di badare a dire, come fa da un pezzo in qua, che vuol escir, che bisogna essere indipendente. L’indipendenza, ma non nelle scapataggini e negli spropositi. Ha ricevuto congratulazioni da personaggi importanti pel 1° N. ma deve pensare che altro sono le lodi vaghe d’alcuni e altro i giudizi di tutti coloro che leggeranno le recensioni del Sabatier e dell’Orsi 89.
Lo stesso 20 gennaio, in cui Faraoni scriveva a Mercati, giungeva pure a Minocchi la lettera con cui Mercati, per sua stessa ammissione, rispondeva «con fermezza, nulla tacendo», a quella indirizzatagli da Firenze il 18 gennaio. Minocchi, a sua volta, replicò il giorno stesso. Difficile capire quali nuove precisazioni Mercati avesse potuto accampare: certo è che Minocchi, per ben due volte, accenna alle notizie trasmesse dal suo corrispondente, segno evidente che gli erano state presentate situazioni ritenute d’una certa gravità e che non poteva certo sottovalutare. Al centro della questione sembrerebbe esservi, ancora una volta, la 88 Ibid., f. 1041r. 89 Ibid.
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recensione dello Zampini: «e chi credeva che le cose stessero come dici? Ti scrissi ieri una cartolina. Ti ripeto: nessuno quanti interrogo, lo dico innanzi a Dio, mi dice che lo Zampini ha errato formalmente, e mi si conferma anche da preti, che hanno letto il Sabatier (Faraoni), che il libro è bello letterariamente, che lo Z. è stato solo troppo benevolo letterariamente, e in così delicata questione agì un po’ leggermente ecc.»90. Minocchi confermava dunque le affermazioni del giorno precedente, quando si era appoggiato, tra gli altri, proprio al parere del Faraoni. Sembra tuttavia che nella circostanza Mercati abbia esibito argomenti nuovi, probabilmente in riferimento alla persona di Zampini, fino a chiedere che si facesse a meno della sua collaborazione; lo si evince con chiarezza dal seguito dello scritto: «Ma stando le cose come dici, sono prontissimo a fare pubblica rettificazione e la farò – e perché non dovrei farla, dato il nostro programma? – ma non posso togliere la mia fiducia allo Zampini. Io a tutti fo noto il programma çcçaçtçtçoçlçiçcoæ della Rivista e ho modificato più d’una recensione, se lo vuoi sapere. Ma posso saper tutto io? posso [sic!] leggere e giudicare tutti i libri di cui si parla? Fo il meglio che posso; e se credi o esigi che un caso consimile non si debba ripetere mai più, credi o esigi ciò che è materialmente impossibile. Quel che potrò fare […] è il fare, dopo, l’opportuna rettificazione. Ti va o non ti va? È l’ultima mia parola»91. Il dialogo tra i due aveva ormai così raggiunto una notevole tensione, né cessavano attorno gli interrogativi degli amici, i quali – scrivendo al Mercati – non ricusavano dal manifestare il loro sconcerto per lo scritto di Zampini. È il caso, ad esempio, di Ambrogio Amelli, che il 22 gennaio, da Montecassino (non si dimentichi che già da molti anni Zampini insegnava proprio nell’abbazia), tra le altre cose chiedeva a Mercati, con malcelato sospetto: «Ora vorrei sapere che cosa ella pensi della Rassegna bibliografica, e specie della Rivista dello // Zampini sul Sabatier»92. Il 21 gennaio, intanto, Minocchi aveva scritto una lettera all’arcivescovo di Firenze, card. Bausa: gli presentava il primo numero della rinata Rivista, l’avvertiva di non essersi fatto vivo prima di allora poiché la Rivista era «in tutto e per tutto» quella stessa che aveva ottenuto già l’approvazione del Bausa medesimo e poi di Leone XIII, esponeva i motivi per cui egli non aveva «creduto mai necessario di chiedere la revisione ecclesiastica» e ne domandava l’approvazione, assicurando di essere disposto, qualora l’arcivescovo avesse creduto «conveniente» designare «una qualche persona» all’ufficio di revisore, a far pervenire all’interessa90 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1042v (VIAN, p. 40, nr. 639). 91 Ibid. 92 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1045r-v (VIAN, p. 40, nr. 641).
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to «in precedenza tutte le bozze di stampa». In realtà – la lettera lo mostra con tutta evidenza –, tale evenienza non lo trovava affatto entusiasta. «Fra qualche giorno – assicurava – mi farò ardito di presentarmi». Non è tuttavia da escludere che abbia consegnato la lettera di persona, poiché la mattina del 22 ebbe un colloquio con il cardinale Bausa: Minocchi, ottenne quel che sperava di ottenere, e cioè che non vi fosse alcun revisore93. Il giorno stesso scriveva di nuovo a Mercati: il tono era accorato e trionfante al tempo stesso, dal momento che s’era visto confermato nel modo di agire niente meno che dal proprio arcivescovo. Si tratta di una lunga lettera, scritta su carta intestata della Rivista, di cui riporto stralci ampi e significativi: Carissimo Giovanni, Ti parlo con nuovo giuramento innanzi a Dio. Stamani sono stato da Sua Eminenza il Card. Bausa, già Maestro de’ Sacri palazzi94, per la revisione dei
93 Riporto il documento quasi per intero: «… Neppure ho creduto mai necessario di chiedere per la Rivista all’E. V. la revisione ecclesiastica; primo, perché il periodico di per sé non è religioso, benché la storia e la letteratura religiosa siano tra i principali suoi scopi; secondo, perché per rimanere responsabili in tutto degli articoli ivi pubblicati e firmati occorrerebbe non solo leggere l’articolo da inserire nella Rivista, ma pur sapere il contenuto esatto del libro che in quell’articolo bibliografico è lodato o biasimato, e ciò in tanta quantità d’articoli e varietà è materialmente impossibile; terzo, perché la redazione della Rivista, essendo incerta e poca, non aveva spazio di tempo sufficiente per poter dar campo al revisore di leggere comodamente gli articoli. Mi sono quindi limitato a valermi della fiducia che la Eminenza Vostra si degnava di riporre nella qualunque mia scienza e prudenza, cercando collaboratori cattolici onesti e dotti. Ciò non di meno più di uno scritto ho dovuto correggere o modificare; e, malgrado ogni cautela, è successo talvolta che dovessi far conoscere al pubblico che qualche recensione era stata, senza mia conoscenza del libro, recensita, inserita, benché meritevole di qualche biasimo. Ora, col rinascere della Rivista Bibliografica Italiana, per non morire così facilmente come prima, i miei amici di varie città d’Italia desiderano che questo periodico entri in mezzo al clero italiano senza sospetto sulla sua ortodossia, perciò desidererebbero che almeno una volta per tutte vi fosse pubblicamente annunziato che si pubblica con l’approvazione dell’Eminenza Vostra, che rilascia a qualcuno la responsabilità degli articoli ivi pubblicati, specialmente nel campo della storia e della letteratura religiosa, in doveroso omaggio ai recenti decreti di S. Santità. Io non posso nascondere all’Eminenza Vostra le difficoltà che vi sono perché alcuno si possa assumere la responsabilità di articoli firmati su libri da lui non letti; tuttavia se Ella crede conveniente per questo designarmi una qualche persona, non mancherò, com’è mio dovere, di fare a lui pervenire in precedenza tutte le bozze di stampa. Fra qualche giorno mi farò ardito di presentarmi, e intanto chiedendo la sua benedizione…»: la lettera è stata pubblicata da L. BEDESCHI, Il modernismo toscano. Variazioni e sintomi, in Fonti e documenti del Centro Studi per la storia del Modernismo, 10, Istituto di Storia dell’Università di Urbino 1981, pp. 93-95 (i brani citati sono a pp. 94-95). 94 Agostino Bausa (1821-1899), fiorentino, nel 1839 entrò tra i domenicani del convento di S. Maria Novella. Lettore di teologia nel 1847, missionario in Turchia e nel Medio Oriente (1849-1856), professore di Dogmatica nel seminario fiorentino, consulente dell’arcivescovo Gioacchino Limberti al Concilio Vaticano I, fu nominato maestro del Sacro Palazzo nel 1882; creato cardinale nel 1887, nel 1889 fu eletto arcivescovo di Firenze: cfr. V. DE
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libri, ed abbiamo discusso non brevemente la çrçeçvçiçsçiçoçneæ della çRçiçvçiçsçtaæ. Mi ha detto che non poteva trovar nessuno che si potesse assumere questa responsabilità, che questo era materialmente impossibile, perché il revisore sarebbe stato obbligato a conoscere il contenuto esatto e il valore dei libri recensiti. Quindi rilasciava a me, come prima, la fiducia dell’edizione, e che la mia direzione equivaleva per lui alla revisione ecclesiastica, ora e di poi, come per l’addietro. Quindi mi ha dato esplicita facoltà di pubblicare articoli di sacerdoti d’ogni altra dioce/1047v/si. Però mi ha detto che queste facoltà me le concedeva privatamente per la çtçuçtçaç çcçoçnçsçcçiçeçnçtçiaæ degli scrittori, ma non credeva utile il dirlo in pubblico, né mettere sul periodico l’çaçpçpçrçoçvçaçzç.ç eç çcçcçlçesæ. per non creare a lui e a me seccature inopportune. E ha concluso: Sia cauto nella scelta dei collaboratori; qui sta il punto. Bramo che i libri irreligiosi siano segnalati per tali. Quanto a ciò sono stato per esempio contento (çsçicæ!!!) della recensione dello Zampini al Sabatier; ha fatto bene a notare ciò che v’è d’irreligioso; così van fatte le recensioni (Io non ero entrato mai sul Sabatier, né sullo Zampini). Quindi prosegua, come ora, e non si dia pensiero di questo. Tu cascherai dalle nuvole udendo un ex-Maestro dei S. Palazzi parlar così. Eppure non ho aggiunto né levato verbo. Dopo ciò mi credo in diritto, caro mio, di sostenere che non ho fatto niente di male nell’inserire la recensione di Zampini; dopo ciò mi per/1048r/donerai se dico: Niente più dichiarazione, che ci nuoce, come periodico serio, e sveglia un vespaio senza sugo: ho pensato altrimenti. Tuo fratello mi dice che la recensione Z. gli è parsa debole dal lato critico-storico, anche se la parte religiosa vi è salva: e mi dice che ha pronte sul Sabatier un 100 schede. Gli dirò che mi faccia, con tutto il rispetto dovuto allo Zampini, una controrecensione e la inserirò! Queste son le dichiarazioni che preferisco, e non un semplice çmçeçaç çcçuçlçpaæ (fuor di luogo, a sentire il Card. Bausa) da minchioni. Quante volte la Civiltà Cattolica in questioni storiche e critiche non ha sbagliato? Moltissime volte. Eppure ha fatto mai il çmçeçaç çcçuçlçpaæ? Mai. E così si fa nel mondo; ma a noi che solo amiamo la verità e siamo come una famiglia non dispiace dire il pro e il contra. Venga dunque Angelo a far la parte sua. […] Mi dice tuo fratello che il primo numero non è all’altezza della scienza critica moderna: tu mi dici che lo Zamp. è çbçuçoçnçoç sç çcçrçiçtçtçoçrç d ç çiç çpçaçrçoçleæ. Credi che non lo sappia anch’io? Ma egli è che io redigo il periodico, pensando ai lettori nostri. Se agli abbonati insieme col çpçaçneæ più o meno arido di te e di tuo fr. non dessi anche il çlçaçtçteæ dello Zampini del Corniani ecc. nessuno, cioè pochi studiosi soltanto, leggerebbe il periodico. Ti prego di aver somma prudenza nel rivelare quanto ti ho detto in questa mia; e non mi dar più dispiaceri; cioè non ti allarmare senza vero bisogno. Però, parlami sempre chiaro95.
WILDE, in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastique, VI: Baader-Bavière, Paris 1932, coll. 1506-1507. 95 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, ff. 1047r-1048v (VIAN, p. 41, nr. 642).
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A questo punto, le obiezioni di Mercati dovevano apparire a Minocchi come degli scrupoli eccessivi. La lettera è preziosa, inoltre, perché ci consente di capire che anche Angelo Mercati, il quale pure – come sembra –, in riferimento all’intervento dello Zampini, non aveva sollevato dubbi particolari in merito all’ortodossia, appariva fortemente critico sull’impostazione della Vie de saint François, tanto da aver collezionato, in proposito, una quantità notevole di schede. Lo scritto mostra ancora quanto fosse diversa l’opinione di Mercati e Minocchi sul modo di svolgere la loro missione scientifica. Mentre Mercati riteneva ci si dovesse impegnare soprattutto in un faticoso e solido lavoro erudito, in un’attenta opera di scavo condotta con accortezza filologica, Minocchi coltivava da sempre l’idea di unire, accanto ai lavori eruditi, opere di alta divulgazione, per diffondere tra il popolo colto e tra il clero i risultati più aggiornati della ricerca. Non era soltanto per motivi economici, perciò, come potrebbe invece sembrare da un passaggio della lettera, che egli riuniva nella Rivista interventi di genere diverso: nelle sue lettere a Mercati, infatti, Minocchi era tornato più volte, sin da tempi non sospetti, sull’argomento, mantenendo sempre ferma tale opinione96. Interessante è poi un “Nota bene” che Minocchi, dopo aver sigillato la lettera, scrisse sulla busta, nel lato anteriore: «N.B. Alla persona che ti scrisse da Roma ecc. (P.D.S.) scrissi ier l’altro o innanzi, lunga lettera di sfogo filiale sulla presente questione Sab. Quindi parlò dopo çcçoçgçnçiçtaæ çcçaçuçsaæ». Si tratterebbe dunque di una lettera di grande interesse per la nostra questione, stante anche il suo destinatario, ma purtroppo tra la documentazione lasciata dal De Santi97 non si conserva alcuno scritto a lui indirizzato da Minocchi. Ancora sulla stessa busta, stavolta nel lato posteriore, Mercati annotò: «Rispondo». Qualche giorno dopo, il 26 gennaio, Minocchi ritornerà sull’argomento: «Io – afferma tra l’altro – per ora sono indeciso sull’affare Zampini-Sabatier; il De Santi mi scrive, che 96 Scriveva peraltro, in una lettera di tre anni prima (13 gennaio 1895), mentre attendeva alla composizione del suo volume sui Salmi, pubblicato appunto nel 1895: «Giorni fa ricevei (in riposta a una mia) una lettera del P. Gismondi, ove fra le altre cose mi augurava per l’avvenire una posizione simile alla Sua, e mi incitava a cercare di fare la intima conoscenza di Lei. Mi pare che sia esaudito il nostro carissimo Professore. Egli però, per sistema, non è favorevole a lavori di genere popolare, come il mio, per i molti guai a cui possono esser soggetti; ma io desidero da lui un nuovo giudizio in proposito, quando avrà veduto che questo mio lavoro // popolare l’ho compiuto cogli stessi mezzi e la stessa accuratezza con cui si compiono i lavori dotti» (Carteggi Mercati, cont. 2, an. 1895, ff. 309v-310r: VIAN, p. 11, nr. 142). Cfr. anche VIAN, «Non tam ferro quam calamo» cit., pp. 399-401. Su Minocchi esegeta, cfr. F. RAURELL, Preàmbuls per a un estudi sobre l’exegeta modernista Salvatore Minocchi, in Fe i teologia en la historia. Estudis en honor del Prof. Dr. Evangelista Vilanova, Barcelona 1997, pp. 383-391. 97 Così mi ha assicurato il p. Giovanni Sale, che ha lavorato a lungo sul fondo De Santi.
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le çcçrçiçtçiçcçhçeç g ç çrçaçviæ che dal lato religioso lo Z. muove al S. bastano a scusare l’artic.; ma doveva dire che il libro è proibito dalla chiesa. Non sembra però che sia rimasto molto male da quello scritto zampiniano»98. Verso una ripresa della collaborazione Nulla sappiamo del contenuto della risposta del Mercati, che pure vi fu, perché annotata da lui stesso, alla lettera del 22 gennaio, in quanto Minocchi non vi fa cenno; certo è che egli non interruppe la collaborazione con la Rivista, anzi, come si evince dalla cartolina scritta dal suo direttore il 26 gennaio, il loro rapporto sembrava avviarsi ormai al ritorno verso la normalità99. Dopo quella data sicuramente vi furono altri contatti tra i due, ma la corrispondenza superstite – dalla quale si evincono, appunto, i contatti precedenti – ci ha conservato, quale testo più vicino, una cartolina postale scritta da Minocchi il 7 febbraio, che mostra ormai Mercati pienamente reintegrato nel lavoro della Rivista e di nuovo desideroso di pubblicare, tanto che gli viene consigliato di attendere ancora, per poter correggere le seconde bozze 100. Quindi il sacerdote fiorentino ritorna sulla questione ZampiniSabatier: «Come ti dissi, al card. Parocchi piacque tutto il 1° numero e ne parlò con lo Zampini; metterò nel n. del 25 la notizia ZampiniSabatier. Lo Zampini çnçoçnç sç çaçpçeçvaæ che il Sab. fosse all’indice; io lo sapevo sinceramente»101. Dunque anche il cardinale Lucido Maria Parocchi102 98 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1056r (VIAN, p. 41, nr. 646). 99 Scriveva infatti Minocchi: «Ho dato subito a comporre il tuo çAçqçuçiçlaæ, ma non lavorar
tanto, mi raccomando. La tua salute è preziosa e delicata; se ti capita qualche notizia, fammela (come son preziose quelle che vedrai raccolte in questo numero!) ma di recensioni non ho bisogno per tutto febbraio» (ibid.). 100 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1067v (VIAN, p. 41, nr. 654): «Caro Mercati, ti mandai le bozze urgenti, perché avevi desiderio di inserir subito la tua recensione. È meglio aspettare ancora 15 giorni, e riavrai le seconde bozze. – Mi son sempre dimenticato di dirti, che la tipografia n’è fornita di caratteri ebraici: pei caratteri greci tempesterò, finché non li hanno mutati». Si tratta dell’articolo che il 26 gennaio Minocchi diceva di aver dato a comporre al tipografo (cfr. nt. precedente) e che verrà in effetti pubblicato sul fascicolo del 25 febbraio: I nuovi frammenti della versione greca di Aquila (3Reg. XXI 7-17, XXIII, 11-27), in Rivista Bibliografica Italiana 3 (1898), pp. 108-113 (Mercati recensiva: Fragments of the Books of Kings according to the Translation of Aquila… edited by F. C. Burkitt with a Preface by C. Taylor, Cambridge, University Press, 1897). Gli scrisse, peraltro, Minocchi: «Ti ripeto: lavora per la çRçiçvçiçsçtçaçæ a ç ç tç çeçmçpçoç a ç çvçaçnçzçaçtoæ, come ti va meglio; ho messo le fila così ampie questa volta, che spero di disporre presto le cose in modo equo per tutti» (ibid.). 101 Ibid. 102 Lucido Maria Parocchi (1833-1903), professore nel seminario di Mantova, aveva fondato nel 1871 la rivista La Scuola Cattolica. In quello stesso anno era stato nominato da
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era entrato nel vivo della discussione, a dimostrazione che la recensione aveva fatto parlare parecchio e negli ambienti più diversi. È ben difficile, poi, credere al fatto che Zampini non sapesse che l’opera del Sabatier era stata inclusa nell’Indice. Egli viveva in quegli anni a Montecassino, luogo non proprio isolato, fornito di una buona biblioteca: possibile che non avesse avuto notizia del clamore suscitato dal libro? E non è logico pensare che, prima di recensire l’opera di un autore protestante su san Francesco, egli avesse cercato anzitutto di sapere se vi erano state, e di quale segno, reazioni alla pubblicazione da parte dell’autorità ecclesiastica? E poi, di chi era stata l’iniziativa della recensione? Non credo dello Zampini stesso, quanto piuttosto di Minocchi, che dovette proporgli il libro inviandogliene copia. Perché Minocchi, allora, non ne aveva dato notizia a Zampini o non aveva comunque incluso tale notizia nella recensione, visto che – per sua stessa ammissione (lettera del 20 gennaio) – aveva già, in passato, «modificato più d’una recensione»? Sul fascicolo del 25 febbraio, Minocchi, come promesso nella lettera a Mercati, dava conto tra le notizie dell’uscita di Nuovi studi sulla vita di S. Francesco d’Assisi, cogliendo in tal modo l’occasione per mettere, a suo giudizio, la parola fine sull’incresciosa questione; allo scopo, chiamava peraltro in causa – non so con quanta condiscendenza e felicità da parte di quest’ultimo – un «chiarissimo P. gesuita», nel quale i bene informati non avrebbero certo fatto troppa fatica a riconoscere il De Santi:
Pio IX vescovo di Pavia e quindi, nel 1877, cardinale e arcivescovo di Bologna. Nel 1882 Leone XIII lo volle a Roma e nel 1884 lo nominò vicario generale per la diocesi di Roma. Nel 1896 fu nominato segretario del S. Uffizio: cfr. M. DE CAMILLIS, in Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano 1952, col. 853. Nelle sue memorie, Ernesto Buonaiuti così ricordò il primo incontro che, adolescente, aveva avuto con il cardinale Parocchi: «I preparativi per l’entrata furono rapidi e gioiosi. I superiori del Seminario, lo stesso Cardinal Vicario, l’austera e solenne figura del Cardinal Parocchi, già compagno di Roberto Ardigò nel Seminario di Mantova ed ora già da parecchi anni chiamato a sopraintendere, in nome del Papa, alla Curia Romana, vennero benevolmente incontro ai bisogni della famiglia. Ai primi di gennaio del 95, indossata per la prima volta la sottana paonazza dei seminaristi del Seminario Romano, io ero affidato ai prefetti della prima camerata. Il Cardinal Parocchi volle vedere il neo-seminarista che aveva riportato, alle prove di concorso, un successo cosi singolare. Mi trovai alla sua presenza, colmo l’anima di riverenza e di pavore, ed egli mi tenne un’ammonizione improntata ad una paterna condiscendenza, non scevra di oracolare sussiego, che io ascoltai con l’animo abbacinato. Le parole del presule porporato scesero ad una ad una, nel loro ritmo cadenzato, come parola di cielo. Il cardinale mi dipinse la missione sacerdotale come il più eletto dono che Dio potesse elargire ad una sua creatura e in pari tempo come l’onere più arduo che potesse pesare sulla responsabilità di un essere ragionevole. Io in verità non afferrai tutte le sfumature di quell’eloquio pomposo e sostenuto, ma al di sopra del monito del presule parlava l’austera severità dell’edificio massiccio, imponente, in cui il Seminario aveva la sua sede, di quei vasti e imponenti saloni in cui a me sembrava di perdermi» (E. BUONAIUTI, Pellegrino di Roma [La generazione dell’esodo], Roma 1945, pp. 27-28).
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Vedemmo nel fascicolo 10 gennaio della Rivista come il ch.mo prof. G. M. Zampini, presentando ai nostri lettori la versione italiana della Vita di S. Francesco d’Assisi di Paolo Sabatier, lasciasse in disparte la questione storicocritica, rispetto alla quale il Sabatier è stato già – e non sempre favorevolmente – giudicato nell’edizione francese, e ne mettesse in vista i pregi letterari ed estetici, pur non mancando di notare i gravi errori dogmatici contenuti nell’opera, che perciò è stata notata nell’Indice dei libri proibiti. A quest’ultimo proposito, sappiamo che un chiarissimo P. gesuita, redattore della Civiltà Cattolica, espresse amichevolmente il desiderio che lo Zampini stesso, il quale ha già pubblicato altri studi sopra S. Francesco, compilasse una vita popolare del grande Assisiate, redatta, a norma dei principi cattolici, nel bello stile del sì, di cui il professore di Montecassino apparisce egregio maestro. Sappiamo pure, che il ch.mo Zampini ha ben volentieri accettato di compiere l’onestissimo voto, ed offrirà quanto prima al popolo italiano una vita cattolica di S. Francesco, nella quale spiccherà principalmente il paragone tra il movimento sociale dei tempi del Figlio di Pietro Bernardone e il movimento sociale de’ tempi moderni. Auguriamo al prof. Zampini di darci presto presto questo suo nuovo lavoro, che speriamo non mancherà di avere meritate lodi dalla venerata persona, che prima lo ispirò 103.
Inutile dire che il voto espresso non sarà mai portato a compimento dallo Zampini. In quella stessa occasione, Minocchi citava una «gentilissima lettera» scritta a lui dal Sabatier (il 28 gennaio, da Assisi), dopo che questi aveva appreso notizia della recensione apparsa sulla Rivista, nella quale lo studioso francese gli «presentava un odorosissimo fiore»104, vale a dire l’annuncio della scoperta dello Speculum perfectionis, testo che riteneva opera di frate Leone. Minocchi citava poi un brano della lettera di Sabatier, che dev’essere però retrodata di alcuni giorni (è possibile che si sia trattato di un refuso tipografico), poiché già il 26 gennaio egli aveva detto a Mercati: «Mi ha scritto il Sabatier da Assisi ringraziando e abbonandosi alla Rivista105: presto mi manderà la vita di S. Francesco, 103 Rivista Bibliografica Italiana 3 (1898), p. 120. 104 Ibid., pp. 120-121. 105 Sabatier, come si apprende da BRUNALE, Il molisano Giuseppe Maria Zampini cit., p.
16, nt. 53, scrisse allo Zampini tre cartoline da Assisi: «una il 03.02.1898, l’altra il Lunedì di Pasqua dello stesso anno, un’ultima il 07.02.1901, in cui l’illustre figura di studioso francese, oltre a parlargli del suo S. Francesco d’Assisi, lo ringrazia per avergli inviato in dono una sua pubblicazione, dimostrandosi d’accordo su molti punti in essa trattati». Nella prima cartolina, ovviamente, Sabatier dovette esprimere la sua gratitudine allo Zampini per la recensione pubblicata sulla Rivista Bibliografica Italiana; c’è da credere, tuttavia, che questi siano soltanto i resti sparuti di un carteggio che dovette essere ben più abbondante, se ancora nel 1901 i due si mantenevano in contatto, comunicandosi le proprie pubblicazioni. Il 23 febbraio, da Assisi, Sabatier scriveva a Costantino Pontani: «Je vous adressai aussi la Rivista Bibliografica»: cfr. A. BARTOLI LANGELI, Lettere di Paul Sabatier a Costantino Pontani, in Franciscana. Bollettino della Società internazionale di studi francescani 6 (2004), pp.
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scritta da Fr. Leone suo confessore, creduta perduta, e da lui scovata non so dove dopo tanti secoli. La vuoi tu? per recensione»106. Parole in tutto fedeli – tranne, ovviamente, la proposta di recensione – al testo citato sulla Rivista. Il giorno seguente, 27 febbraio, Minocchi scriveva peraltro al Sabatier, ringraziandolo della sua «gentilissima cartolina», facendogli a sua volta le «più vive congratulazioni» per il prezioso «ritrovamento» e assicurandolo di una recensione. Entrava quindi nel vivo del problema, lasciando trasparire qualche eco dell’animato dibattito interno che era seguito alla recensione di Zampini: Però la prego di avvertire che, mentre io nutro per Lei vera ammirazione, tuttavia la mia opera si deve spesso limitare ad accogliere gli articoli dei miei collaboratori; senza togliere a loro, in cui ho fiducia, la libertà del pensiero e della parola. Quindi potrebbe darsi il caso, che se lo Zampini ha creduto di abbondare giustamente in lodi verso il suo libro, altri invece in questa ed in altre sue opere potrebbe trovare opinioni storiche e critiche contrarie alle proprie e notarle; ma nondimeno, e nelle lodi e nei dissensi, non vi saranno mai né adulazioni né scortesia107.
Minocchi, molto probabilmente, intendeva in qualche modo premunire il Sabatier, nell’eventualità che il Mercati avesse accolto davvero la proposta di recensire il volume, o che esso potesse essere recensito dal fratello Angelo, il quale aveva già dichiarato la sua avversione nei confronti della Vita di san Francesco. Il volume usciva qualche settimana dopo. Il 3 aprile Sabatier ne inviava subito copia («Je viens de recevoir les premiers exemplaires sortis de presse de mon nouvel ouvrage») a Minocchi, pregandolo di accettarlo come un dono personale, «car j’en ai envoyé – precisava – un aussi à M. le Prof. Zampini»108. Minocchi, il 6 aprile, rispondeva al Sabatier, ringraziandolo del «dono gentile e prezioso» che, dopo una «occhiata in generale», aveva valutato «insieme lavoro di scienziato e di artista». «Ne ho dato subito l’annunzio nella mia Rivi295-306. Della lettera del 23 febbraio (datata tuttavia, per refuso tipografico, 28 febbraio) viene dato il regesto a p. 297, sub nr. 2. Ringrazio di cuore Attilio Bartoli Langeli per avermi fornito copia della lettera, dalla quale ho sperato, invano, di trarre qualche ulteriore notizia. La nuova datazione, tuttavia, consente di escludere che l’invio potesse riguardare il fascicolo del 25 febbraio, nel quale Minocchi dava conto dei Nuovi studi sulla vita di S. Francesco d’Assisi: molto probabilmente, doveva invece trattarsi proprio del fascicolo del 10 gennaio, che conteneva la recensione dello Zampini (cosa normale del resto, se si tien conto che il Pontani era uno dei traduttori del volume di Sabatier). 106 Carteggi Mercati, cont. 5, an. 1898, f. 1056r (VIAN, p. 41, nr. 646). 107 Pubblicata da BEDESCHI, Minocchi, il modernismo e la questione francescana cit., pp. 301-302, doc. nr. 1 (qui a p. 302). 108 Ibid., p. 302, doc. nr. 2.
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FELICE ACCROCCA
sta – scriveva – e presto il nostro prof. Zampini ne parlerà più ampiamente»109. A Giuseppe Maria Zampini, dunque, era stato affidato l’onere della prossima recensione. Altri recensori, perciò, dovevano aver declinato l’invito, anche se non ci è possibile, a tal riguardo, saperne di più. Ancora nel luglio Sabatier era convinto che spettasse allo Zampini recensire l’opera, poiché in una lettera a Minocchi, il 10 del mese, mostrandosi raggiante per il successo arriso allo Speculum, comprovato anche dall’articolo «que Yves le Querdec lui à consacré le 20 juin dans l’Univers», nel post scriptum avvertiva: «Dans le cas où vous penseriez que l’article de Yves le Querdec serait utile à M. Zampini je pourrais le lui envoyer»110. Il comportamento di Minocchi, tuttavia, non sembra sia stato troppo lineare, stando almeno a quanto possiamo comprendere dalla documentazione superstite: il 7 agosto, infatti, egli spediva una cartolina al Sabatier, nella quale l’avvertiva di aver avuto «sul suo libro un giudizio, un po’ breve, di persona competentissima»111. Come ammetterà più tardi (2 ottobre) lo stesso Minocchi, nel post scriptum di una lettera diretta al Sabater, tale giudizio «era un piccolo cenno, meno di una pagina a stampa, del p. van Ortroy, contrario a Lei. Io dopo averlo letto ben bene, vidi che non diceva niente di speciale, ed essendo poi così smilzo mi dovetti decidere a rimandarlo all’autore»112. Minocchi, dunque, aveva chiesto al celebre bollandista di recensire lo Speculum perfectionis, o perché lo Zampini si era tirato indietro giudicando l’impresa superiore alle proprie forze o perché lo stesso Minocchi aveva finito per giudicarlo poco idoneo al compito. Il 15 agosto egli confida al Sabatier di volersi accingere a recensire l’opera, annunciando la pubblicazione per il 10 o il 25 settembre113, ma probabilmente tentennò ancora, poiché soltanto l’8 settembre il sacerdote fiorentino restituì il testo a François van Ortroy, «alléguant qu’il attendait un article, et on ne lui envoyait qu’une page»114. 109 Ibid., p. 303, doc. nr. 3. L’annuncio fu dato nella Rivista Bibliografica Italiana 3 (1898), p. 223 (fascicolo del 10 aprile), all’interno della Cronaca della Rivista: il Sabatier veniva definito uno studioso «della cui amicizia, senza partecipare alle sue idee in materia religiosa, ci sentiamo altamente onorati». 110 Pubblicata da BEDESCHI, Minocchi, il modernismo e la questione francescana cit., p. 308, doc. nr. 8. Yves le Querdec era più noto con lo pseudonimo di Georges Fonsegrive, direttore de «La Quinzaine». 111 Ibid., p. 313, nt. 2. Il documento non viene pubblicato, ma solo riassunto dal Bedeschi. 112 Ibid., p. 313, doc. nr. 11. 113 Cfr. ibid., p. 309, doc. nr. 9. 114 G. PHILIPPART, Le Bollandiste François Van Ortroy cit., p. 180. Come si evince dagli elementi raccolti dal Philippart (cfr. pp. 178-180), l’atteggiamento di van Ortroy doveva essere conseguenza di una precisa scelta tattica da parte del bollandista.
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«BUONO SCRITTOR DI PAROLE»
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A quel punto, Minocchi si decise a scendere personalmente in campo115: egli verrà in tal modo catapultato negli studi francescani che, per alcuni anni, assorbiranno una parte notevole delle sue energie, peraltro con buoni risultati116. Ma questa è un’altra storia, che spero di illustrare in altra occasione. APPENDICE
Si dà qui pubblicazione integrale della lettera scritta da Salvatore Minocchi a Giovanni Mercati, l’8 dicembre 1897 (Carteggi Mercati, cont. 4, an. 1897, ff. 996r-998v: VIAN, p. 38, num. 6061).
/996r/ Firenze, 8 dicembre 1897 Caro Mercati, se ti nascondessi che la tua cartolina m’ha prodotto penosa impressione, mi parrebbe quasi di mentire. L’affare del rinascimento della çRçiçvçiçsçtaæ per cura del Mse Da Passano è nato così: Venne da me il Marchese, invitandomi alla cosa: io gli opposi subito l’antipatia che alcuni miei collaboratori e molti del clero nutrono per tutto ciò che è çRçaçsçsçeçgçnçaç N ç çaçzçiçoçnçaçleæ; il March. mi accennò di far a meno di questi collaboratori, cioè di voialtri. Io credo che la Rivista si poteva far rinascere anche per tal via; ma siccome noi abbiamo sempre operato di comune accordo ed è questa la speranza nostra di poter fare un po’ di bene per gli studi del clero, così io mi ricusai di distaccarmi da voi, e dissi al Mse che senza il vostro beneplacito e la vostra cooperazione, la çRçiçvçiçsçtaæ, nata anche per opera vostra, non sarebbe risorta. Allora il Marchese mi parlò della perfetta indipendenza della çRçiçvçiçsçtaæ dalla çRçaçsçsçeçgçnaæ, in modi così decisivi, ch’io non potei dir di no, e cercai il modo di farvi dir di sì, pur a voi. Mi pensavo, che colle prevenzioni che avete circa la Rassegna N. e il suo direttore, difficilmente avresti acconsentito dietro una mia semplice lettera, e per metterti in grado di vedere, come si dice, il diavolo che è poi men brutto di quel che si crede, ti feci direttamente abboccare col Mse da Passano, che, nonché esser un diavolo, parve pure a te un perfetto gentiluomo. Così nacque pure l’occasione pro115 La recensione firmata da Minocchi sarà pubblicata sul fascicolo del 25 settembre
(cf. S. MINOCCHI, Nuovi documenti per la vita di S. Francesco d’Assisi pubblicati da Paolo Sabatier, in Rivista Bibliografica Italiana 3 [1898], pp. 547-553). 116 Il primo ad evidenziare tale aspetto, per nulla menzionato da AGNOLETTO, Salvatore Minocchi: vita e opere cit., è stato STANISLAO DA CAMPAGNOLA, Gli storici umbri e la «questione francescana», in La «questione francescana» dal Sabatier a oggi cit., p. 151, nota 95 (l’intero saggio, pp. 119-169). Sull’annosa questione che ebbe vita dalla pubblicazione dello Speculum perfectionis, cfr. L. PELLEGRINI, Introduzione a Speculum perfectionis, in Fontes franciscani, a cura di E. MENESTÒ e S. BRUFANI e di G. CREMASCOLI, E. PAOLI, L. PELLEGRINI, STANISLAO DA CAMPAGNOLA. Apparati di G. M. BOCCALI, S. Maria degli Angeli-Assisi 1995 (Medioevo francescano. Testi, 2), pp. 1829-1847, part. pp. 1829-1840.
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FELICE ACCROCCA
pizia di ripetere al Mse le inten/996v/zioni nostre e di fargli ripetere le assicurazioni sue. Dal canto mio non mancai poi di mostrare al Mse la natural diffidenza che mi avevano partecipato i collaboratori, talché egli mi ha pregato a far subito il çpçrçoçgçrçaçmçmaæ e spedirlo ai collaboratori in bozza (lo riceverai tra due o tre giorni), per far loro vedere come la çRçiçvçiçsçtaæ risorgerà la stessa di prima, con la stessa redazione (è inutile che tu mi chieda i nomi de’ collaboratori, li conosci già) indipendente affatto da qualsiasi periodico, sia pure privatamente amicissimo (Rass. Naz.); vedrai, e giudicherai. Nella çRçiçvçiçsçtaæ poi, mai sarà inserito il nome di Rassegna Naz. eccetto che per il nudo sommario, come si faceva prima: solo vi sarà (per forza!) l’indirizzo Via della Pace, 2, invece di Via Ricasoli, 21. Io avrò çsçoçloæ la stessa responsabilità di prima su tutta la Rivista ecc. ecc. Che cosa può dir di più il Mse Da Passano, che cosa posso dirti io? Io finora in questi giorni non ho lavorato, che per rendermi degno della fiducia che dicevi di riporre in me, e per omaggio alla quale son disposto, come direttore del periodico, ad attutire più d’una mia opinione individuale (benché non saprei in che cosa mai potremmo pensarla diversamente); ed ora, credi, m’è riuscito duro il sentirmi fare tante riserve, quante ne fai perché temi sul futuro programma della Rivista; esso è identico al passato, anzi çpçiçùç çcçaçuçtoæ, come mi sembra ti dissi. La mia confessione fu candida sì, ma pure /997r/ ingenua, né io avrei mai pensato che tu l’avresti torta in mal senso. Non ho nessun rancore con te, perché so che sei sincero, ragionevole e amante della verità; però ti scongiuro a voler deporre ogni sospetto, a lavorare con fiducia çcçoçmçeç p ç çuçoçiç eç ç q ç çuçaçnçdoæ çpçuçoiæ. Altro non ti chiesi mai, né altro mi desti; eppure la Rivista passata non mancò mai di scritti tuoi, che fosti il più assiduo collaboratore. La çRçiçvçiçsçtaæ può essere un’opera più grande del Dizionario, se sapremo amarla e fortificarla ognor più: spero di aver ben espresso questi sentimenti nella prefazione che ti manderò. Scusa lo sfogo, troppo giusto e, per intenderci, necessario. Nuova adunanza alla çSçoçcç.ç çaçsç.ç çitæ. per il congresso degli orientalisti: vi furon fatte da tutti, avendo io sollevata la questione, nuove formali proteste, che niente vi sarebbe entrata la politica, e che si sarebbe avuto dalla presidenza, e quindi dalle sezioni e dalle pubbliche generali adunanze, il più grande rispetto per il cattolicismo. E quasi a sanzione di ciò fu approvata la nomina del P. De Cara a delegato per l’egittologia; nota, che innanzi, scegliendosi i delegati fra i çpçrçoçfçeçsçsçoçriæ, l’unica eccezione era stata fatta per onorare preti e frati non professori (Minocchi, Beltrame). Io non so che cosa si esiga di più, dai liberali in favor nostro, finché dura il presente stato di cose. Io non sono asservito, né alla çRçaçsçsçeçgçnçaç N ç çaçzçiçoçnçaçleæ /997v/ né alla çSçcçuçoçlaæ o çOçsçsçeræçvçaçtçoçrçeç çcçaçtçtçoçlçiçcoæ; ma son persuaso, çiçlçiçaçcçoçsç çiçnçtçrçaç çmçuçrçoçsç çpçeçcçcçaçtçuçrç çeçtç çeçxçtçraæ. Non mi erigerò mai a difensore della çRçaçsçsçeçgçnçaç N ç .æ, ma neppure vorrò militare nelle file del movimento cattolico dei congressi di Fiesole e di Milano. Sempre tuo affezionatissimo amico Salvatore Minocchi
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MARCO BUONOCORE — OLIVIERO DILIBERTO — ANTONIA FIORI
UN MANOSCRITTO INEDITO IN TEMA DI LEGGE DELLE XII TAVOLE: IL REG. LAT. 450 I. Il manoscritto De duodecim tabulis libelli cuiusdam fragmenta. Intitola così André Wilmart la quarta ed ultima sezione cartacea (ff. 126-143) del codice Reg. lat. 4501, un manoscritto composito (appartenuto a Paul Petau2) le cui prime tre sezioni in pergamena trasmettono il Liber archidiaconi Suessionensis [ff. I-II. 1-121; sec. XIV (ad a. 1381)]3, un Chartularii cuiusdam S. Mariae Talverensis fragmentum [ff. 122-123; sec. XII p. m.]4 e l’Elenchus praesulum Turonensis provinciae [ff. 124-125b; sec. XII ex. (ad a. 1180)]5. L’attuale legatura è degli anni 1869-1878 [stemmi sul dorso di papa Pio IX (1846-1878) e del cardinale bibliotecario Giovanni Battista Pitra (1869-1889)]. Questi fogli finali (mm 195 u 140) costituiscono attualmente tre fascicoli: due quaterniones (ff. 126-133, 134-141) ed un binio (ff. 142-145) con i fogli 143-145 bianchi. La scrittura (una generica umanistica corsiva), di 1 A. WILMART, Codices Reginenses Latini. Tomus II. Codices 251-500, In Bibliotheca Va-
ticana 1945, 588 n. IV. 2 Segnato L. 54; cfr. WILMART, Codices Reginenses cit., 589 (vd. anche infra 74-75). Ricordo che nell’inventario curato dai benedettini della Congregazione di San Mauro tra gli anni 1680 e 1689, che recensiva la biblioteca della regina Cristina di Svezia, il codice era stato segnato con il n. 1229 e come tale descritto nel 1739 dal Montfaucon nella sua Bibliotheca bibliothecarum manuscriptorum nova: Synodalia Episcopatus Suessionensis. Chartae Monasterii Talcrinensis. Nomina Episcoporum Turonensium et Episcoporum Pictaviensium et Nannetensium. Anonymi Pandectum Legis XII. Tabularum, excerptum ex corpore Juris; vd. Les manuscrits de la Reine Christine Suède au Vatican. Réédition du catalogue de Montfaucon et cotes actuelles, Città del Vaticano 1964 (Studi e Testi, 238), 67. 3 WILMART, Codices Reginenses cit., 584-587 n. I. Su cui ora L. DUVAL-ARNOULD, État et carte du diocèse de Soissons d’après les listes bénéficiales de la fin du XIVe siècle, in Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen-Âge, 84 (1972), 330-335, 347-349; ID., ibid., 85 (1973), 159, 162-204, 241, 245, 251. 4 WILMART, Codices Reginenses cit., 587 n. II. Su cui ora J.-H. MARIOTTE, Annecy et ses environs au XIIe siècle d’après le cartulaire de Talloires, in Bibliothèque de l’École des Chartes,
130 (1972), 5-25. 5 WILMART, Codices Reginenses cit., 587-588 n. III. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 49-99.
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M . BUONOCORE
— O.
DILIBERTO
— A.
FIORI
un unico copista, è su 17 righe (specchio scrittorio mm 115 u 85; rigatura a secco verticale e orizzontale; spazio intercolonnare mm 5; rubricati i titoli ai ff. 126r, 127v-128r, 138r, 139v; sigilli della Vaticana ai ff. 126r e 143r); essa ci rimanda alla Francia come confermano le filigrane, le varianti Briquet 5797 (crosse: Clermont-en-Beauvoisis a. 1499) e Briquet 10202 (liocorne simple: Paris a. 1501). Possiamo quindi già precisare che la zona di produzione di questo documento, redatto all’inizio del sec. XVI, dovrebbe essere stata la Francia nord-occidentale. Inoltre: i fascicoli sono segnati il primo (ff. 126-133) dalla lettera a, il secondo (ff. 134141) dalla lettera g ed il terzo (ff. 142-145) dalla lettera h. Questo, a parere di Wilmart, poteva essere la prova che mancavano i cinque fascicoli centrali e che pertanto il trattato era mutilo6, i quali avrebbero sviluppato, ammesso che tutti fossero stati come assai probabile quaterniones, 40 fogli: pertanto il trattato in origine sarebbe stato di 60 fogli. Ma, come avremo modo di spiegare nel prosieguo dell’articolo, il testo sembra integro e pertanto dobbiamo supporre che il librarius Gallicus (o Italicus ma operante in Francia) si era servito per scrivere il trattato di questi soli tre fascicoli a lui disponibili, pertinenti, all’origine, ad un’unità codicologica più ampia predisposta per ospitare altro, poi mai utilizzata o reimpiegata per la trascrizione di ulteriore documentazione. Passiamo subito all’edizione di questo documento, sfuggito fino ad ora alla tradizione palingenetica delle XII Tavole (Tavv. I-VI)7.
6 WILMART, Codices Reginenses cit., 588: “itaque quinque medii quaterniones intercidisse videntur, et sic tantum principium libelli simul cum clausa servatur”. 7 Per maggiore comodità d’utenza i singoli paragrafi sono stati indicati progressivamen-
te con numeri arabi tra parentesi quadre. Ai fini dell’edizione si fa presente che si sono sciolte le abbreviazioni, normalizzate maiuscole/minuscole e le non frequenti monottongazioni, risolto l’& in et. Seguendo, invece, le norme fissate da Stephan Kuttner [ST. KUTTNER, Notes on the Presentation of Text and Apparatus in Editing Works of the Decretists and Decretalists, in Traditio, 15 (1959), 452-646] si sono mantenute le abbreviazioni C. = Codex, ff = Digestum (vd. ora anche G. BATTELLI, Lezioni di paleografia, Città del Vaticano 19994, 107), l. = lex (ad eccezione di quando non si faccia riferimento alla lex XII Tabularum), Inst./Insti. = Institutiones. Gli interventi del librarius o suoi errori sono indicati in apparato. Con il corsivo sono state indicate le rubricature. Anche in questa sede ringrazio la dott.ssa Silvia Conte la quale, conoscendo il lavoro di schedatura da me intrapreso (per cui vd. infra alla p. 69), nel corso di una sua ricognizione d’altra natura operata sul catalogo del Wilmart da me affidatole mi ha indicato il codice Reg. lat. 450.
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UN MANOSCRITTO INEDITO IN TEMA DI LEGGE DELLE XII TAVOLE
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[1] PANDECTVM LEGIS duodecim tabularum ex toto corpore iuris ciuilis accuratissime excerptum cum aliis plerisque adiectis inchoat8. [2] ANNO ab urbe condita CCC° exactis demum regibus Tito Romulio et Gaio Veturio consulibus, Marcus Valerius et Publius Virginius tribuni plebis effecti legem suis contionibus celebrantes Titum Romulium decem milibus aeris et Publium Veturium XII milibus condemnarunt quod se non damnari plebemque et tribunos legem ferre non posse publice profiterentur. Cuius certaminis intestinaeque controuersiae ut finem imponerent tribuni plebis leuius agere cum patribus / cupientes legum latores et ex plebe et patribus communiter elegerunt. Qui utrisque utilia ferrent quaeque aequandae libertatis usui essent ex diuersis Graeciae ciuitatibus iura elicerent9-10. Unde id factum litterarum monimentis compertum est: ut sicut et regibus ad consules. Ita anno tricentesimo altero a consulibus ad decemuiros forma ciuitatis mutatur. Quo quidem anno decemuiri ex communi omnium plebis et patriciorum consensu ad scribendas leges ad Lacaedemonas partim et Athenienses populos missi sunt11 ius non scriptum ex illis. Ex istis uero ius scriptum quae populo Romano utilia essent referentes. Quibus propositis legibus populum romanum / ad contionem aduocarunt decemuiralis huius referendae legis gratia. Cui cum ad rumores hominum duplex deesse caput diceretur duabus adiectis tabulis totum humani iuris corpus absolui posse profiterentur12. Hinc leges duodecim tabularum anno proxime sequente perpetuum sibi nomen sortitae sunt. Quas Lucius Valerius et Marcus Horatius consules priusquam in Sabinos Aequos Hernicos populos urbe egrederentur in aes incisas in publico proposuerunt13. Hinc responsa prudentum sententiae et opiniones eorum quibus permissum erat iura condere quique iurisconsulti appellabantur. Quorum omnium sententiae et opiniones eam auctoritatem tenebant / ut iudici recedere a responso eorum non liceret. § Responsa de iure naturali gentium et ciuili Institutionibus14. Hinc plebiscita hinc senatusconsulta hinc praetorum edicta15. Quibus omnibus sic coadunatis (seu flumina magna de paruis fontibus orta16) iura ciuilia hac forma auctore Iustiniano redacta licet antea confusa mortalium usibus applicantur. Quae tamen natiuum sibi ex lege XII tabularum robur originariamque auctoritatem assumpserunt. [3] Ex toto corpore iuris ciuilis excerpta hoc compendiolo, cui pandecto legis tabularum nomen est, carptim suo seruato ordine collocantur.
XII
8 incohat cod. 9 elicerentur cod. inde corr. 10 Tito Romulio — elicerent: LIV. 3.31. 11 anno tricentesimo — missi sunt: LIV. 3.33. 12 Quibus propositis — profiterentur: LIV. 3.34. 13 Quas Lucius — proposuerunt: LIV. 3.57. 14 Inst. 1.2.8. 15 aedicta cod. 16 Ov., rem. am., 97; vd. infra alla nota 211.
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f. 126r
f. 126v
f. 127r
f. 127v
52 f. 128r
f. 128v
f. 129r
M . BUONOCORE
— O.
DILIBERTO
— A.
FIORI
[4] Primum ex volumine Institutionum haec / iura ex decemuiralibus legibus orta comperiuntur. [5] Agnati sunt tutores suis agnatis pupillis per legem duodecim tabularum si eis in testamentis parentum quorum in potestate fuerunt de tutoribus non sit prouisum. Unde frater maior annis dicitur legitimus tutor sui fratris pupilli. § primo de legitima agnatorum tutela Insti.17. Siue parens pupilli decesserit intestatus totaliter siue quo ad tutelam tantum. § Quod autem eodem titulo supra18. [6] Hac lege XII tabularum patronus est legitimus tutor sui liberti impuberis. § Uno Insti. de legitima19 patronorum tutela20. [7] Si tutor uel curator male administrat negotia21 pupilli uel adulti: ut suspectus / accusari et remoueri potest ab administratione per legem XII tabularum. Insti. de suspectis tutoribus in principio 22. [8] Eadem lege statuitur ne quis tignum alienum aedibus suis iniunctum eximere cogatur: sed liberetur dando domino duplum aestimationis ne ciuitas ruinis deformetur § cum in suo Insti. de rerum diuisione 23. [9] Si possessor rei alienae cum titulo et bona fide rem mobilem possideat eam anno usu capiat et immobilem biennio (in Italia tantum per legem XII tabularum)24. Hodie tamen mobilis res triennio usu capitur. Immobilis uero decennio: inter praesentes et uicennio inter absentes praescribitur. Insti. de usucapionibus in principio25. [10] Lex XII tabularum et lex Attilia26 pro/hibent usucapionem rerum furtiuarum. Insti. de usucapionibus § furtiuae 27. [11] Hac lege omnes pariter mares et feminae utpote tam filii quam filiae nepotes quam neptes proximiores in gradu ad successionem uocantur ab intestato. Cum utraque persona maris et feminae28 in hominum procreatione simili naturae officio fungatur. Insti. de exheredatione liberororum § Sed haec 29.
17 Inst. 1.15.1. 18 Inst. 1.15.2. 19 seq. agnatorum tutela exp. cod. 20 Inst. 1.17. 21 negocia cod. 22 Inst. 1.26. 23 Inst. 2.1.29. 24 ) om. cod. 25 Inst. 2.6. 26 i.e. Atinia, per cui infra alla nota 224. 27 Inst. 2.6.2. 28 foeminae cod. 29 Inst. 2.13.5.
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UN MANOSCRITTO INEDITO IN TEMA DI LEGGE DELLE XII TAVOLE
53
[12] Eadem lege XII tabularum filii erant necessarii heredes suis parentibus uellent nollentue. Sed a praetore est indultum eis beneficium abstinendi. Insti. de heredum qualitate et differentia § Sui 30. [13] Lex XII tabularum permittebat testatoribus erogare legatis omnem suam substantiam. Sed hodie lex Falcidia hoc prohibet saltem / ne liceat ultra dodrantem. Insti. ad legem Falcidiam in principio31. [14] Hac lege XII tabularum hereditas intestati primum ad suos heredes puta ad liberos non emancipatos tempore mortis ipsius intestati. Insti. de hereditatibus quae ab intestato deferuntur § intestatorum 32. [15] Item hac lege filii emancipati sunt omnino exclusi a successione parentum sed beneficio praetoris succedunt patri intestato defuncto. § emancipati supra eodem titulo33. [16] Per hanc legem nepos loco patris praemortui succedit auo et pronepos loco nepotis praemortui. § Item uetustas supra eodem titulo Insti. 34. [17] Eadem lege deficiente ordine descendentium et ascendentium hereditas intestati defer/tur ad agnatum proximum. Insti. de legitima agnatorum successione in principio35. [18] Lex XII tabularum suo agnato36 intestato defuncto admittebat agnatos proximioris gradus ad successionem aequis portionibus siue mares siue feminae fuerint. § Ceterum eodem titulo supra 37. [19] Agnati proximioris gradus praeferuntur agnatis ulterioris gradus. Nec admittunt eos una cum eis. Vt puta frater praefertur in successione fratris sui filio alterius fratris per legem XII tabularum § Si plures eodem titulo supra 38. [20] Hac lege mater non succedebat filio nec filius matri. Sed hodie per Orficianum senatusconsultum filius matri contraque mater filio per Tertullianum uicissim / succedunt. Insti. ad senatusconsultum Tertullianum39 et de senatusconsulto Orficiano40 in principio. [21] Hodie successiones quae deferebantur a lege XII tabularum minima capitis diminutione perimuntur. § Sciendum Insti. de senatusconsulto Orficiano41.
30 Inst. 2.19.2. 31 Inst. 2.22 pr. 32 Inst. 3.1.1. 33 Inst. 3.1.9. 34 Inst. 3.1.15. 35 Inst. 3.2. 36 agna cod. 37 Inst. 3.2.3. 38 Inst. 3.2.5. 39 Inst. 3.3. 40 Inst. 3.4. 41 Inst. 3.4.2.
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f. 129v
f. 130r
f. 130v
54
f. 131r
f. 131v
f. 132r
M . BUONOCORE
— O.
DILIBERTO
— A.
FIORI
[22] Agnati capite minuti non succedunt suis agnatis praecedentibus puta filius emancipatus a patre non succedit suo patruo per legem XII tabularum. Sed hodie secus beneficio praetoris. Insti. de successione cognatorum in principio 42. [23] Inter agnatos uero est locus successioni tam lege XII tabularum quam iure praetorio usque ad decimum gradum. § finali eodem titulo supra 43. [24] Patronus succedebat liberto defuncto intestato sine liberis per legem XII tabularum. Insti. / de successione libertorum in principio44. Sed hodie ulterius progressum est. Nam si libertus non habet ultra centum aureos in bonis potest testari patrono omnino praeterito. Sed si facultates suae transcendant centum aureos si testatur tenetur45 relinquere tertiam partem patrono § Sed nostra eodem titulo supra46. [25] Per legem XII tabularum a iure percipiendarum hereditatum quod angustissimis finibus fuerat constitutum multi excludebantur qui uocantur ad illud ius per praetorem. Ut Insti. de bonorum possessionibus § Adhuc autem 47. [26] Lege XII tabularum ususfructus eorum quae possidet arrogatus tempore arrogationis acquiri arrogatori non prohibetur / nec iure praetorio. Ut Insti. de acquisitione per arrogationem in principio48. [27] Poena iniuriae per legem XII tabularum erat talio cuius legis uerba haec sunt. Si membrum rupit in eum e pacto talio esto49. Ut simile membrum scilicet iniurianti rumperetur. Sed pro ore fracto erat sola pecuniaria poena constituta, quae poena talionis hodie in dissuetudinem50 abiit. Et praetores pro omni iniuria introduxerunt poenam nummariam ut aestimetur per iniuriatum et postea iudex tanti condamnet uel minoris iniuriantem prout ei uisum fuerit aequum. § poena Insti. de iniuriis51. [28] Actio furti non manifesti a lege XII tabularum manauit ad duplum. § Sunt / autem de noxalibus actionibus 52. [29] Primo tamen Atheniensis Draco furem cuiuscumque53 modi furti supplicio capitis puniendum esse statuit sensitque. Sed Solon Salaminius54 dupli poena uindicandum existimauit. Decemuiri qui post tabulas scripserunt neque pari seueritate in puniendis omnium generum furibus neque remissa nimis leui42 Inst. 3.5. 43 Inst. 3.5.5. 44 Inst. 3.7. 45 tenetnr cod. inde corr. 46 Inst. 3.7.3. 47 Inst. 3.9.2. 48 Inst. 3.10. 49 Cuius legis — talio esto: GELL., noct. Att., 20.1.4. 50 pro desuetudinem. 51 Inst. 4.4.7. 52 Inst. 4.8.4. 53 cuiuscunque cod. 54 solaminius cod.
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UN MANOSCRITTO INEDITO IN TEMA DI LEGGE DELLE XII TAVOLE
55
tate usi sunt. Nam furem qui manifesto furto prehensus esset tum demum occidi permiserunt si aut cum faceret furtum nox esset aut inter diu se telo cum55 prehenderetur se defenderet56. [30] Ex ceteris autem manifestis furibus liberos uerberari additique iusserunt ei cui furtum factum esset si modo / id luci fecissent neque se telo defendissent. Seruos autem furti manifesti prehensos uerberibus affici statuerunt et ex saxo praecipitari. Sed pueros impuberes praetoris arbitrio uerberari uoluerunt noxamque ab his factam sanciri57. Sed hodie a lege illa decemuirali discessum58 est. Nam si quis super manifesto furto iure et ordine experiri uelit in quadruplum datur59 pro non manifesto in duplum § in duplum60 et § quadrupli Insti. de actionibus61. [31] Quae lex XII tabularum punit iudicem arbitrumue iure datum qui ob rem dicendam pecuniam accepisse conuictus est 62. [32] Hac lege iniuranti alteri uigintiquinque aeris poenae sunto 63. / [33] Eadem lege si animal meum lasciuia uel furore aut feritate alicui damnum intulerit illi damnum passo teneor actione noxali de pauperie et liberor dando animal pro noxa. Insti. Si quadrupes pauperiem fecisse dicatur § Uno 64. [34] Ex lege XII tabularum appellatione teli continetur quodcumque65 manu mittitur ut lignum lapis ferrum et similia. Insti. de publicis iudiciis l. Lex Cornelia66. [35] Hac lege debitoribus confessis aeris alieni iudicatis XXX dies sunt dati conquirendae pecuniae causa quam dissoluerant. Quos dies decemuiri iustos dies appellauerunt67 eo quod nihil cum his debitoribus his XXX diebus nihil agi iure posset68. / Cuiusquidem legis uerba haec sunt: aeris confessi rebusque iure iudicatis XXX dies iusti sunto69 post deinde manus iniectio esto. In ius ducito ni iudicatum facit. [36] Haud qui pseudo eo in iure uim facit secum ducito. Vincito neruo aut compedibus quindecim pondo non minore si uolet maiore uincito. 55 quum cod. 56 furem — se defenderet: GELL., noct. Att., 11.18.1-7. 57 Ex ceteris — sanciri: GELL., noct. Att., 11.18.8. 58 dicessum cod. 59 Sed hodie — datur: GELL., noct. Att., 11.18.10. 60 Inst. 4.6.23. 61 Inst. 4.6.25. 62 iudicem — convictus est: GELL., noct. Att., 20.1.7. 63 sumito cod.; alteri — sunto: GELL., noct. Att., 20.1.12. 64 Inst. 4.9 pr. 65 quodcunque cod. 66 Inst. 4.18.5. 67 confessis — appellaverunt: GELL., noct. Att., 20.1.42. 68 nihil — posset: GELL., noct. Att., 20.1.43. 69 sumto cod.
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f. 132v
f. 133r
f. 133v
56
M . BUONOCORE
— O.
DILIBERTO
— A.
FIORI
[37] Si nolet suo uiuito ni suo uiuit qui eum uinctum habebit duas libras farri in dies dato. Si uolet plus dato70. [38] Eadem lege cauebatur ut qui falsum testimonium dixisse conuictus esset e saxo Tarpeio deiiceretur71. Telos duodecim tabularum ex toto Volumine Institutionum. / f. 134r
f. 134v
f. 135r
[39] Leges quae in digesto ueteri lege XII tabularum aliquid cautum fore ferunt inferius describuntur. [40] Lex XII tabularum dicta est quoniam decem tabulis eburneis legum plenis a Graecis in Romanos delatis per decem uiros a Romanis illuc missos, quibus corrigendi interpretandiue praefatas decem tabulas concessa fuit potestas; additae fuerunt duae tabulae unde ea lex nomen sumpsit quarum auctor Hermodorus ex decem uiris fuit ut l. II § postea ne diutius ff. de origine iuris 72. [41] Ab hac lege XII tabularum manarunt actiones quibus in foro disceptandum foret ut dicta l. II § deinde73 ex hiis legibus74. [42] Solebant constitui quaestores a populo Ro/mano qui notioni causarum75 capitalium praessent, quorum lex XII tabularum meminit ut dicta l. II § et quia ut diximus76. [43] Lege XII tabularum cautum fuit si quis erat ducturus uxorem prius eam in seruam peteret ut demum eo penuria probationum suae intentionis succumbente ea pronunciaretur libera quo tute matrimonium cum ea coendum esset cuius iuris transgressor Appius Claudius magistratus in persona filiae Verginii77 ea iussu patris per quempiam in seruitutem postulata maluit eam ancillam pronunciare, ne eam ille matrimonio sibi copularet quin potius legis ipse uiolator amore uirginis bacatus sua uirginitate potiretur, quo scito Verginius78 / castitatem filiae uitae praeferens suam; de taberna lanionis arrepto gladio filiam interemit ut dicta l. II § et cum placuisset79. [44] Duodecim tabulis latis post aliquot annos dissensio plebis cum patribus orta nitentis suo de corpore sibi deligere consules, inde uentum ut partim de plebeis partim de patribus tribuni militum crearentur dicta l. II § deinde cum post80.
70 aeris confessi — plus dato: GELL., noct. Att., 20.1.45. 71 ut qui falsum — deiiceretur: GELL., noct. Att., 20.1.53. 72 D. 1.2.2.4. 73 sequitur et a librario exp. 74 D. 1.2.2.6. 75 sequitur praessent a librario exp. 76 D. 1.2.2.23. 77 uirginii cod. 78 uirginius cod. 79 D. 1.2.2.24. 80 D. 1.2.2.25.
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UN MANOSCRITTO INEDITO IN TEMA DI LEGGE DELLE XII TAVOLE
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[45] Appius Claudius fuit auctor praecipuus legum XII tabularum inter caeteros decem uiros quorum unus ipse fuit ut dicta l. II § Ab hoc Appius Claudius81. [46] Extabat liber Atilii82 Triparta nuncupatus qui ueluti nostrae institutiones iuris cunabula continebat, ideo tripartita dictus, quoniam primordia legum XII tabularum / primordia iuris ciuilis id est disputationis prudentum seu interpretationis factae super lege XII tabularum, quae interpretatio est digesta nostra. Item libri compositi super institutione actionum erant enim certa uerba pro quacumque proponenda actione introducta a quibus nec etiam a sillaba agentem decidere liceret alioquin iuris sui amissione percellebatur sic trini iuris83 principia continebat § Atilius84 dicta l. II85. [47] Seruus qui furtum facit uel aliud delictum iubente domino uel sciente reddit dominum obnoxium actione noxali per legem XII tabularum l. II ff. de noxalibus actionibus86. [48] Quis tenetur actione de tigno iniuncto ad / duplum per legem XII tabularum si tignum alienum aedibus suis iniunctum sit nec patitur lex aedificium dirui ut tignum a domino excipiatur l. in rem § tignum de rei uendicatione87 l. Gemma ff. ad exhibendum88. [49] Tigni appellatione omnis materia significatur ex qua aedificium fit per legem XII tabularum ut l. tigni ff. ad exhibendum 89. [50] Digesti noui leges quae legis XII tabularum mentionem faciunt subsequuntur. [51] Verba sunt legis XII tabularum: si aqua pluuialis nocet opere manufacto a uicino in agro suo ager alterius datur isti actione aquae pluuialis arcendae datur, ut id opus tollatur. Et exponitur nocet id est nocere poterit, nam non morabitur donec sit ei nocitum l. Labeo / ff. de statu liberis 90. [52] Statuliber permissu legis XII tabularum uenundari potest tamen emptoris est periculo si conditio sibi datae libertatis adueniat l. statuliberos ff. de statuliberis91. [53] Emptionis uerbum omnem alienationem amplectitur et ita cautum est lege XII tabularum ut l. statuliberi a ceteris § Labeo ff. de statuliberis 92.
81 D. 1.2.2.36. 82 attilii cod. 83 sequuntur primordia continebant a librario exp. 84 Attilius cod. 85 D. 1.2.2.38. 86 D. 9.4.2. 87 D. 6.1.23.6. 88 D. 10.4.6. 89 D. 10.4.7. 90 D. 40.7.21. 91 D. 40.7.25. 92 D. 40.7.29.
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f. 135v
f. 136r
f. 136v
58
f. 137r
f. 137v
f. 138r
M . BUONOCORE
— O.
DILIBERTO
— A.
FIORI
[54] Cauetur lege XII tabularum ne quis tignum alienum aedibus suis iniunctum eximere cogatur sed duplum pro eo praestet per actionem de tigno iniuncto ut l. adeo § cum in suo de acquirendo rerum dominio ff. 93. [55] Lex XII tabularum et lex Aquilia94 inhibent95 usucapionem rerum furtiuarum ut l. non solum in principio ff. de usucapionibus 96. / [56] Si riuus aquae ducatur per locum publicum ab aliqua uniuersitate quo noceatur priuato, datur illi actio contra uniuersitatem ut sic disponat aquaeductum ne illi priuato noceat97 l. Si per publicum98 ff. ne quid in loco publico. [57] Si arbor mea impendeat agro uicini sic quod nocumentum umbra eius deferat fructibus, per legem XII tabularum succidenda est ne altior maneat quindecim pedibus a terra ut l. I ff. de arboribus caedendis 99. [58] Si arbor uicini inclinata sit uento supra agrum meum, ut eam adimat, ne sic stet datur mihi a lege XII tabularum ut l. II ff. de arboribus caedendis100. [59] Omnis actio quae nomine serui mei mihi competit uel ex lege XII tabularum si / alius eum castrauit uel Aquilia101 quia eum uulnerauit uel furti quia eum furto subtraxit uel alia non desinit mihi competere uel manumisso uel alienato seruo l. quicumque102 ff. de103 actionibus104. [60] Tignum alienum aedibus iniunctum suis per aliquem mala fide uendicari potest ac tanti damnatur is cuius sunt aedes quanti in litem iuratum fuerit, nihilominus tamen si uelit dominus tigni consequetur duplum per actionem de tigno iniuncto ne melioris sit conditionis qui mala fide iniunxit eo qui bona fide. Id quoque cautum est lege XII tabularum ut l. qui res in fine ff.105 de solutionibus106. [61] Per legem XII tabularum licet occidere furem interdiu deprehensum si se telo defendat alioquin / non l. si pignore § furem ff. de furtis 107. [62] Lex XII tabularum non permittit tignum alienum aedibus meis iniunctum solui uel uendicari. Idem si uineis meis ne hoc praetextu aedificia mea diruantur uel uinearum cultura turbetur l. I ff. de tigno iniuncto 108. 93 D. 41.1.7.10. 94 i.e. Attilia = Atinia. 95 pro prohibent. 96 D. 41.3.33 pr. 97 sequitur si a librario exp. 98 D. 43.8.5. 99 D. 43.27.1.8. 100 D. 43.27.2. 101 vd. supra alla nota 94. 102 quicunque cod. 103 deest obligationibus et. 104 D. 44.7.56. 105 D. 46.3.98.8 fin. 106 deest et liberationibus. 107 D. 47.2.55(54).2.
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59
[63] Inferius inseruntur leges siue sancita in lege XII tabularum quorum in legibus codicis fit mentio. De episcopali audientia. [64] Furiosus habet curatorem legitimum agnatum proximum ex lege XII tabularum ut in l. de creationibus C. de episcopali audientia 109. [65] In successione agnati pariter admittuntur mares et feminae puta frater et soror succedunt fratri praemorienti aequis / portionibus per legem XII tabularum l. lege110 et l. meminimus111 C. de legitimis heredibus. [66] Filius sororis uterinae consanguineae uel germanae praemortuae una cum filio fratris praemortui succedit pariter auunculo suo l. lege in fine112 et l. meminimus113 C. de legitimis heredibus. [67] Successores debitoris sunt obnoxii proportionibus hereditariis creditoribus defuncti ipso iure lege XII tabularum diuisis actionibus l. pacto C. de pactis114. Ideo pactum illorum quod unus ipsorum solus conueniatur a creditoribus, ceteris omissis, non praeiudicat creditoribus, quin agere possint contra unumquemque pro portione hereditaria ut [vacat]. [68] Actiones inter successores creditoris sunt / diuisae ipso iure per legem XII tabularum, ut unusquisque agat contra debitores pro portione hereditaria l. ea que C. familiae herciscundae 115. [69] Creditores conueniunt non legatarios sed heredes debitoris per legem XII tabularum l. creditores C. de hereditariis actionibus 116. [70] Auunculus non est filio sororis legitimus tutor per legem XII tabularum sed patruus filio fratris bene ut l. I C. de legitima tutela 117. [71] Nepos ex filio praemortuo pariter succedit auo cum patruo suo et substituitur in locum patris per legem XII tabularum l. III C. de suis et legitimis liberis118. [72] Filius postumus119 defuncti praefertur in successione sorori defuncti etiam consaguineae. Et ita cauetur in lege XII / tabularum ut l. intestato C. de suis et legitimis liberis120.
108 D. 47.3.1. 109 C. 1.4.27.2 [a. 530]. 110 C. 6.58.14 [a. 531]. 111 C. 6.58.15 [a. 534]. 112 C. 6.58.14.6 [a. 531]. 113 C. 6.58.15 [a. 534]. 114 C. 2.3.26 [a. 294]. 115 C. 3.36.6 [PP]. 116 C. 4.16.7 [a. 294]. 117 C. 5.30.1 [a. 290]. 118 C. 6.55.3 [a. 293]. 119 posthumus cod. 120 C. 6.55.4 [a. 293].
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f. 138v
f. 139r
f. 139v
60
M . BUONOCORE
— O.
DILIBERTO
— A.
FIORI
[73] Lege antiqua id est XII tabularum debitores hereditarii sunt obligati unicuique heredum pro portione hereditaria l. I C. de exceptionibus 121. [74] Infra sunt insertae leges inforciati facientes mentionem legum rum.
XII
tabula-
Et primo
f. 140r
f. 140v
f. 141r
[75] Pupillo non datur curator per legem XII tabularum etiam si est furiosus sed tutor, sic potius datur tutor ut pupillo cum aetas pupillaris insit ei a natura quam curator ut furioso qui furor inest ei ex accidenti et causa naturalis praeponderat accidentali l. qui habet in principio ff. de tutelis 122. / [76] Tutoris datio est mixti imperii, ideo ei competit cui facultatem dandi uel lex scilicet XII tabularum uel senatusconsultum uel princeps concessit l. muto § tutoris datio ff. de tutelis123, et quoad propositum nostrum scilicet lex XII tabularum ipsa defert agnatis proximis tutelam qui non debent suscipere administrationem sine iudicis auctoritate ut l. finali § omnem autem dubitationem C. de administratione tutorum124, qui textus est singularis ad hoc secundum Aretinum125 in § Inst. de legitima agnatorum tutela126. Item curator furiosi agnatus scilicet proximus debet suscipere administrationem auctoritate iudicis praestito iuramento sacramentali de bene administrando confecto inuentario et sub ipotheca / rerum suarum l. de creationibus C. de episcopali audientia127. Sic licet illi tutores curatoresue dentur a lege XII tabularum tamen quodammodo uidentur dati a iudice ratione susceptae administrationis auctoritatae eius ut dicto § tutoris datio128. [77] Permissum est parentibus dare tutores testamento suis liberis impuberibus maribus et feminis in eorum potestate constitutis. Et id cauetur lege XII tabularum ut l. I ff. de testamentario tutore 129. [78] Quilibet potest dari tutor etiam si sit consul uel praetor. Et id cautum est lege XII tabularum ut l. tutor incertus ff. de testamentaria tutela 130. [79] Proprie iudex non dat tutorem legitimum puta fratrem maiorem fratri impuberi / uel patruum filio patris, quia per legem XII tabularum ipso iure factus est tutor ut l. legitimos ff. de confirmando tutore uel curatore131. Sed uno respectu uidetur datus a iudice ut supra dictum est. 121 C. 8.35(36).1 [a. 212]. 122 D. 26.1.3 pr. 123 D. 26.1.6.2. 124 C. 5.37.28.4 [a. 531]. 125 i.e. Angelo Gambiglioni, per cui vd. infra alla nota 242. 126 Inst. 1.15. 127 C. 1.4.27.1 [a. 530]. 128 D. 26.1.6.2. 129 D. 26.2.1. 130 D. 26.2.20. 131 D. 26.4.5 pr.
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61
[80] Agnatus est legitimus tutor sui agnati impuberis, utpote frater fratris patruus nepotis per legem XII tabularum ut l. I in principio ff. de legitimis tutoribus132. Item patronus liberti impuberis ut dicta l. 133. [81] Manumissor sui serui impuberis nanciscitur ilico tutelam eius per legem XII tabularum siue sponte manumittat siue grauatus in testamento sui praedecessoris ut l. tutela legitima § I ff. de legitimis tutoribus 134. [82] Legitima tutela liberti impuberis non defertur patrono uerbis legis XII tabularum / sed coniecta mente seu per interpretationem135 elicita namque136 iurisperiti interpretati fuere, sicut lex XII tabularum uoluit hereditatem liberti intestati decedentis pertinere ad patronum, ita eam uelle onus tutelae liberti impuberis ad eum patronum pertinere, nam ubi est commodum ibi debet esse onus l. tutela in principio ff. de legitimis tutoribus 137. [83] Per legem XII tabularum potest accusari tutor suspectus et remoueri138 l. I in principio ff. de suspectis tutoribus 139. [84] Lege XII tabularum interdicitur prodigo bonorum suorum administratio. Et ei a praetore debet dari curator l. I in principio ff. de curatore furioso uel aliis extra minores dandis140. / [85] Si is qui datur a lege XII tabularum iurator furioso uel prodigo puta agnatus est inhabilis141 quia minor annis uel furiosus uel surdus et mutus uel alia ratione excusatur ei furioso uel prodigo datur curator a praetore ut l. saepe ff. de curatoribus furioso uel aliis142. [86] Patronus qui accusauit libertum de capitali crimine non succedit ei intestato uita functo per legem XII tabularum ut l. is autem ff. de iure patronatus143. [87] Datur bonorum possessio unde legitimi agnatis qui uocantur ad successionem per legem XII tabularum uel aliis qui alia lege senatusconsulto uocantur l. II in fine ff. unde legitimi144. / [88] Bonorum possessio ex lege quae datur ex titulo ut ex legibus senatusueconsulto bonorum possessio detur et est septima extraordinaria datur ei cui aliqua lex noua defert bonorum possessionem nominatim non ei cui lex XII tabula-
132 D. 26.4.1. 133 D. 26.4.1. 134 D. 26.4.3. 135 seq. illicita exp. cod. 136 nanque cod. 137 D. 26.4.3. 138 remouri cod. 139 D. 26.10.1. 140 D. 27.10.1. 141 inabilis cod. 142 D. 27.10.13. 143 D. 37.14.11. 144 D. 38.7.2.4.
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f. 141v
f. 142r
f. 142v
62
f. 143r
M . BUONOCORE
— O.
DILIBERTO
— A.
FIORI
rum defert hereditatem puta agnato ut in l. unica ff. ut ex legibus senatusueconsulto bonorum possessio detur145. [89] Agnatus qui est in utero matris suae tempore quo moritur agnatus suus si editur ei succedit et praefertur quibusque gradu remotioribus per legem XII tabularum ut l. intestato § utique ff. de suis et legitimis heredibus 146. [90] Legitima hereditas quae defertur a lege XII tabularum uel suo heredi uel / agnato proximo capitis diminutione etiam minima perit, ut si filius emancipetur a patre non ei succedit per legem XII tabularum. Vel filius fratris emancipatus non succedit patruo per legem XII tabularum ut l. capitis147 ff. de suis et legitimis heredibus148. [91] Sola successio quae defertur a lege XII tabularum capitis diminutione minima perimitur non ea quae alia lege senatusueconsulto defertur ut l. I § capitis minutio ff.149 ad senatusconsultum Tertullianum 150.
Marco Buonocore II. Umanesimo giuridico-antiquario e palingenesi delle XII Tavole. 2. Reg. Lat. 450* Non riesco a nascondere di aver provato una grande emozione. Il manoscritto che qui si pubblica, sino ad oggi inedito, appare infatti di straordinario interesse per la storia della storiografia palingenetica concernente l’antica Legge delle XII Tavole. Esso conferma un’intuizione ed un’ipotesi di lavoro avanzate a suo tempo, conforta e sviluppa i risultati che sin qui si erano raggiunti nell’indagine, ma offre anche, più in generale, prospettive nuove di ricerca nel campo della storia del diritto nell’età tra i secoli quindicesimo e sedicesimo.
145 D. 38.14. 146 D. 38.16.3.9. 147 captis cod. 148 D. 38.16.11. 149 D. 38.17.1.8. 150 tertulianum cod. * Il contributo che qui si pubblica è parte di una più vasta indagine che vado conducendo – anche in collaborazione con i colleghi ed amici coautori di queste pagine – sulla storia della storiografia concernente la palingenesi della Legge delle XII Tavole. Questa ricerca, dunque, fermo restando il suo imprescindibile carattere collettivo, si configura come prosecuzione di quanto da me già sottoposto all’attenzione della comunità scientifica in O. DILIBERTO, Umanesimo giuridico-antiquario e palingenesi delle XII Tavole. 1. Ham. 254, Par. Lat. 6128 e Ms. Regg. C. 398, in Ann. Palermo, 50 (2005), 83-116, cui si rinvia sin d’ora per l’impostazione generale del tema.
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UN MANOSCRITTO INEDITO IN TEMA DI LEGGE DELLE XII TAVOLE
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La pubblicazione di tale codice rappresenta dunque una tappa ulteriore nel cammino di ricerca che ormai da molti anni vado perseguendo per ciò che riguarda la palingenesi delle XII Tavole151 e che da qualche tempo si avvale della collaborazione indispensabile di specialisti in settori di ricerca non strettamente giusromanistici (paleografia, storia del diritto italiano)152, che sono i coautori di questo contributo. Anch’esso, peraltro, come sarà chiaro leggendo queste pagine, rappresenta solo un ul151 O. DILIBERTO, Considerazioni intorno al commento di Gaio alle XII Tavole, in Index, 18 (1990), 403-434; Contributo alla palingenesi delle XII Tavole. Le “sequenze” nei testi gelliani, ibid., 20 (1992), 229- 277; Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari 1992; Recensione a: F. D’IPPOLITO, Questioni decemvirali, Napoli 1993, in Iura, 44 (1993), 249-260; I destinatari delle Noctes Atticae, in Labeo, 42 (1996), 277-286; Conoscenza e diffusione delle XII Tavole nell’età del Basso Impero. Primo contributo, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alla esperienza moderna. Ricerche dedicate al prof. F. Gallo, Napoli 1997, 205-227 (= Ius Antiquum. Accademia Scienze di Mosca, 1, 2 (1997), 74-83); Scheda bibliografica “Ortolan, n. 704”, in I Quaderni di Capestrano, 4 (1998), 127-128; Bibliografia ragionata delle edizioni a stampa della Legge delle XII Tavole (sec. XVI-XX), Roma 2001; Charles Casati de Casatis e gli studi di “diritto etrusco”, in Ostraka, 10 (2001), 59-65; Di un modesto e (quasi) sconosciuto tentativo di palingenesi decemvirale del principio del XVI secolo, in Iuris vincula. Studi in onore di M. Talamanca, II, Napoli 2002, 447-468; A New Chinese Translation of XII Tables Law: Some Reflection on the Situation of Our Researches (in cinese), in Roman Law and Modern Civil Law. The Annals of Institute of Roman Law Xiamen University, 3 (2002), 51-57; Una miniatura medioevale in tema di decemvirato legislativo (a margine di Vat. Lat. 3340), in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, 9 (2002) [Studi e testi, 409], 103-114 [= BIDR, 100 (1997), 517-523]; Una palingenesi ‘aperta’, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di M. HUMBERT, Pavia 2005, 217-238; La palingenesi decemvirale: dal manoscritto alla stampa, in Le Dodici Tavole cit., 481-501; Le XII Tavole nel Digesto, in Ius Antiquum. Accademia Scienze di Mosca, 2 (16), 2005, 50-54 [= Digesta Iustiniani, VIII, Articuli et indices, Mosca, 2006, 49-55]; Umanesimo giuridico-antiquario e palingenesi delle XII Tavole. 1. Ham. 254, Par. Lat. 6128 e Ms. Regg. C. 398, in Ann. Palermo, 50 (2005), 83-116; “Lex de magistratibus”. Cicerone, il diritto immaginato e il diritto reale nella tradizione palingenetica delle XII Tavole, in Tradizione romanistica e Costituzione, dir. L. LABRUNA, cur. M. P. BACCARI — C. CASCIONE, II, Napoli 2006, 1469-1482. Della tradizione palingenetica del XVI secolo si interessano, attualmente, anche M. ZABÁOCKA, Ustawa XII Tablic. Rekonstrukcje doby Renesansu, Warszawa 1998 e I problemi della ricostruzione delle fonti giuridiche romane nella scienza moderna, in Ius Antiquum (Accademia delle Scienze di Mosca) 1.3 (1998), 28-34; cfr. anche, ultimamente, M. e J. ZABÁOCCY, Ustawa XII Tablic. Tekst — Táumaczenie — Objaùnienia, Warszawa 2000, passim; e J.-L. FERRARY, Saggio di storia della palingenesi delle Dodici Tavole, in Le Dodici Tavole cit., 503-556 (nonché i lavori del medesimo autore che verranno citati nel corso di questo contributo). Resta, tuttora, indispensabile il secondo capitolo (dedicato, appunto, alla storia della storiografia palingenetica delle XII Tavole) di E. DIRKSEN, Übersicht der bisherigen Versuche zur Kritik und Herstellung des Textes der Zwöl-Tafeln-Fragmente, Leipzig 1824. 152 Anche negli anni recenti, mi sono infatti avvalso, come esplicitato nei rispettivi lavori, della indispensabile collaborazione di Marco Buonocore, coautore oggi di questo contributo e, ultimamente, di Antonia Fiori, anch’essa decisiva, come si vedrà appresso, per la redazione del lavoro che si presenta.
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teriore – ancorché, a mio modo di vedere, decisivo – passo avanti nell’ambito di un più generale work in progress di cui ho incominciato a dar conto alla comunità scientifica negli ultimi anni. Per meglio comprendere, dunque, la rilevanza del codice che qui si analizza, giova ripercorrere per sommi capi lo svolgimento delle indagini pregresse e ricordare i risultati cui sino ad oggi si era già pervenuti, che il Reg. lat. 450, come detto, conferma e sviluppa in misura che non esito a definire straordinaria. 1. Aymar de (du) Rivail (1490-1560) pubblica nel 1515 – a soli venticinque anni – i suoi Libri de Historia Iuris Civilis et Pontificii153. Opera giustamente definita “pionieristica”154, essa rappresenta il primo tentativo palingenetico a stampa dell’antica legge delle XII Tavole e, per molti versi, il primo lavoro, tout court, di storia del diritto155. Il libro di Rivail è stato oggetto a più riprese di mie recenti indagini e ad esse, dunque, senz’altro, rinvio in questa sede per i necessari approfondimenti156. Basti qui ricordare, per i più limitati intendimenti del presente contributo, che l’opera in esame si cimenta in un tentativo palingenetico delle XII Tavole particolarmente ricco (per quanto ancora ingenuo), escerpendo Rivail, dalle innumerevoli fonti classiche (greche o latine) che citano, o semplicemente raccontano, l’antica legge, un numero di versetti non lontano da quello che ancor oggi conosciamo e che è normalmente raccolto nelle sillogi correnti. Rivail sembra aver dunque svolto un lavoro enorme di raccolta del materiale, di selezione del medesimo e, infine, di sistemazione delle norme decemvirali, sino a proporre una ricostruzione dell’antica lex duodecim tabularum sicuramente ancora ben lontana dai risultati che si raggiungeranno, con ben maggiore consapevolezza scientifica del problema, nei secoli successivi157, ma certamente di grande valore, non foss’altro per la mole del materiale raccolto. 153 Aymari Rivallii Allobrogis Jurisconsulti ac Oratoris Libri de Historia Iuris Civilis et Pontificii. Venundantur Valentiae in bibliotheca Ludovici Olivelli bibliopole universitatis Valen. iurati. Databile con certezza, attraverso un privilegio, al verso del titolo: Valentiae, 8 agosto 1515; numerosissime le edizioni successive: cfr. DILIBERTO, Bibliografia cit., 48. Da ultimi, vd. DILIBERTO, Lex cit., 1473-1475 e FERRARY, Saggio cit., 506-509. 154 J.-L. FERRARY, Naissance d’un aspect de la recherche antiquaire. Les premiers travaux sur les lois romaines: de l’Epistula ad Cornelium de Filelfo à l’Historia iuris civilis d’Aymar du Rivail, in Ancient History and the Antiquarian. Essays in memory of A. Momigliano, cur. M. H. CRAWFORD — C. R. LIGOTA, London 1995, 63. 155 Così, E. VON MOELLER, Aymar du Rivail. Der erster Rechtshistoriker, Berlin 1907. 156 Cfr. i miei La palingenesi cit., 486-490; Umanesimo cit., 107-109; Lex cit., 1473-1477. 157 DILIBERTO, Bibliografia cit., passim.
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Giova ricordare che le XII Tavole – ancora conosciute sicuramente sino al VI secolo d.C., sia in Occidente sia in Oriente, attraverso testi che, almeno in una certa misura, le conservavano158 – dopo quella data sembrano essere come scomparse, nel senso che di esse, pur conservandosi pienamente il ricordo159, non appaiono circolare testi che le conservassero nella loro interezza. Non sono mancati, in verità, sino al decimo secolo, alcuni accenni, piuttosto vaghi, dell’esistenza, soprattutto in ambiente monastico, di codici che potevano conservare traccia dell’antico testo legislativo160, ma si tratta di notizie la cui affidabilità, sino a prova contraria, appare quantomeno dubbia: non escludo però che le ricerche che gli autori di questo lavoro hanno intrapreso161 possano portare a qualche novità anche in tale campo d’indagine. Le XII Tavole, dunque, ad un certo punto, per così dire, si perdono. Restavano, invece, come ovvio, le innumerevoli citazioni di singoli lemmi o versetti delle antiche leggi decemvirali, conservate in fonti le più disparate: giuridiche, come ovvio, ma anche letterarie, grammaticali, lessicografiche, storiche, persino poetiche. Si trattava, quindi, volendo ricostruire l’antica legge, di raccogliere tale materiale, provare a metterlo in un ordine di successione delle leggi tra loro, che potesse restituire – nella misura in cui ciò fosse possibile – se non l’ordine originario, perlomeno quello nel quale gli autori latini greci potevano a loro volta leggerlo sino, appunto, al VI secolo. Rivail si cimenta, dunque, in tale tentativo. E, poco dopo, nel corso del ’500, si sviluppa un frenetico lavoro palingenetico: nel sedicesimo se-
158 Cfr. ultimamente DILIBERTO, Conoscenza cit., 205-210. Sul punto, vd. R. SCHOELL,
Legis Duodecim Tabularum Reliquiae, Lipsiae 1866, 17 ss.; L. WENGER, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953, 369 e ivi nt. 111 con letteratura essenziale; H. SIEMS, Bemerkung zu sunnis und morbus sonticus. Zum Problem des Fortwirkens römischen Rechts im frühen Mittelalter, in ZSS, 103 (1986), 409 ss. e F. WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte, I, München 1988, 306 e ivi nt. 99 e 100, con ult. letteratura; W. WOLODKIEWCZ, Le remarques d’Accurse sur les origines grecques de la Loi des XII Tables, in Collatio Iuris Romani, Etudes dédiées à H. Ankum, II, Amsterdam 1995, 643 ss. 159 Cfr. Vat. lat. 3340 f. 2v, su cui vd. P. PIACENTINI, Orosio, Historiae adversus paganos, in Vedere i classici. L’illustrazione libraria dei testi antichi dall’età romana al tardo Medioevo, a cura di M. BUONOCORE, Roma 1996, 210-214 n. 24 (ivi ult. lett.), sul quale ho già ragionato in altra sede dal punto di vista degli studi giusromanistici: cfr. DILIBERTO, Una miniatura medioevale cit., passim. 160 M. H. CRAWFORD, Roman Statutes, London 1996 (BICS. Supplement), I, 4; II, 569571; DILIBERTO, La palingenesi cit., 483-486. 161 Cfr. infra i §§ successivi.
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colo, infatti, si contano, per ciò che mi risulta, quasi quaranta tentativi di restituzione delle XII Tavole162. Rivail è, per così dire, il capostipite di tale impresa intellettuale. Il numero di fonti da lui escerpite è enorme e, nonostante, come detto, l’esito finale della palingenesi sia oggi sicuramente inaccettabile, appare sorprendente la sua capacità di lavoro, soprattutto tenendo conto che si tratta di un giovane, lui francese del Delfinato, appena fresco dei suoi studi giuridici pavesi163. Tra le fonti citate da Rivail come appartenenti alle XII Tavole – e, dunque, dallo studioso inserite nella propria ricostruzione – vi sono però anche alcuni luoghi tratti dal de legibus ciceroniano su cui ho avuto a più riprese l’occasione di richiamare l’attenzione degli studiosi164: mi riferisco a Cic. leg. 2.8.19-3.4.11. Si tratta, come notissimo, della digressione nella quale Cicerone immagina le leggi ideali per la città, proposte sulla base di modelli arcaici, sia dal punto di vista contenutistico sia da quello lessicale: ma sono, appunto, leggi ideali, concepite astrattamente dall’Arpinate, ma non attribuibili, tranne in due soli casi isolati, alle autentiche leggi delle XII Tavole165. Rivail, dunque, sbaglia. Non è la sua unica erronea attribuzione, ma questa, come si vedrà, appare particolarmente importante per il prosieguo della nostra indagine. In definitiva, però, la circostanza per noi più rilevante è che l’autore in esame sembra aver incominciato dal nulla il proprio lavoro ricostruttivo. Circostanza, in verità, che suscitava non poche perplessità, almeno in chi scrive queste note. 2. Poco dopo Rivail, nel 1522, Alessandro d’Alessandro dava alle stampe a Napoli i propri Dies geniales166. Opera di ben maggiore spessore della precedente – peraltro ignota a d’Alessandro –, quest’ultima conserva anch’essa una parte tutt’altro che breve dedicata alle XII Tavole. 162 DILIBERTO, Bibliografia cit., 47-119. 163 J.-L. FERRARY, Un juriste étudiant à l’Université de Pavie: Aymar du Rivail, in Bollet-
tino Società Pavese di Storia Patria, 1995, 165 e passim. 164 DILIBERTO, Lex cit., passim. 165 DILIBERTO, Lex cit., 1472. 166 Alexandri de Alexandro, Dies Geniales, Romae, In aedibus Jacobi Mazochii Ro. Aca-
demiae bibliopolae, Anno Virginaei partus, 1522; si ebbero, successivamente, ben 33 edizioni (con il titolo completo: Genialium Dierum Libri Sex) in Francia, Germania, Olanda: elenco in D. MAFFEI, Alessandro D’Alessandro, giurista umanista (1461-1523), Milano 1956, 175176. Cfr. ora DILIBERTO, Bibliografia cit., 51-53 e ID., La palingenesi cit., 490-491; ID., Lex cit., 1475 e ivi nt. 30.
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Non si tratta di un tentativo palingenetico in senso stretto, ma anche in questo caso la mole di materiale escerpito dalle fonti classiche, e conseguentemente utilizzato, è pressoché – ancora una volta, sorprendentemente – quasi completo. D’Alessandro, peraltro, non incorre nell’errore di attribuire il brano ciceroniano ricordato poc’anzi alle XII Tavole. Viceversa, tale errore ricorre nella successiva palingenesi a stampa a noi nota, quella proposta dall’editore Joannes Tacuinus Tridinensis, detto più semplicemente Tacuino, in un’opera apparsa a Venezia nel 1525167. Si tratta di un volume completamente diverso dai precedenti. Tacuino, infatti, stampa un’opera miscellanea che contiene testimonianze del passato le più svariate: per argomento e per epoca. Si incomincia dalle notae di Valerio Probo, per arrivare alle iscrizioni antiche, passando per Pietro Diacono, opere de metribus, de ponderibus, de mensuris, addirittura i trattati del Venerabile Beda e altri scritti minori. Ma, all’incirca a metà del volume miscellaneo in esame, appaiono anche le Leges XII Tabularum e le Leges Pontificiae. In altra occasione ho avuto modo di approfondire nel dettaglio l’analisi di tale lavoro stampato da Tacuino168. Si tratta, come appare evidente, della pubblicazione di un antico codice miscellaneo nel quale erano conservate le opere citate. Ciò che stupisce, dunque, è la presenza in esso di un riferimento esplicito alle XII Tavole. Si tratta, peraltro, di un tentativo palingenetico modestissimo, che conserva soltanto la lunga citazione ciceroniana che già aveva tratto in inganno Rivail, cui si aggiungono alcune norme decemvirali tratte da Plinio il Vecchio e da Gellio. Tacuino stampa, dunque, senza conoscere le due opere palingenetiche precedenti già ricordate, altrimenti avrebbe menzionato una mole di leggi decemvirali ben più ampio. Egli, semplicemente, riporta ciò che trovava in un antico codice (o in più d’uno), con il gusto erudito dell’umanista e senza alcun intendimento di ricostruzione storica del diritto decemvirale. 167 Hoc in volumine haec continentur. M. Val. Probus de notis roma. ex codice manu-
scripto castigatior, auctiorque, quam unquam antea, factus. Petrus Diaconus de eadem re ad Conradum Primum Imp. Ro. De metribus Alabaldus de Minutiis. Idem de Ponderibus. Idem de Mensuris. Ven. Beda De Computo per gestum digitorum. Idem de Loquela. Idem de Ratione unciarum. Leges XII Tabularum. Leges Pontificiae Ro. Variae verborum conceptiones, quibus Antiqui cum in rebus sacris, tum prophanis uterentur, sub titolo de Ritibus Romanorum Collectae. Phlegonis Trallani Epistola De Moribus Aegyptiorum. Aureliani Caesaris Epistola De Officio Tribuni Militum. Iscriptiones Antiquae variis in locis repertae, atque aliae, quae in Romano Codice continentur. Haec omnia nunc primum edita, Venetiis, In aedibus Joannis Tacuini Tridinensis, mense Februario 1525. Sull’opera, vd. DILIBERTO, Di un modesto cit., passim; FERRARY, Saggio cit., 505 nt. 2; DILIBERTO, Umanesimo cit., 109-111. 168 DILIBERTO, Di un modesto cit., passim.
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Ma la circostanza che Tacuino incorra – senza averne diretta conoscenza – nel medesimo errore di Rivail postulava già la possibilità che esistessero materiali preesistenti, concernenti le XII Tavole, cui gli autori della prima metà del ’500 potevano accedere, dai quali trarre anche erronee, comuni indicazioni. 3. L’ipotesi di lavoro era dunque quella di immaginare che esistessero, prima dell’apparizione dei tentativi palingenetici a stampa appena ricordati, materiali manoscritti che contenessero, in parte o completamente, quel lavoro di spoglio e raccolta del materiale concernente le XII Tavole che rinveniamo in Rivail e in d’Alessandro: tale ipotesi appariva plausibile, in astratto, tenendo conto proprio del fatto che l’apparizione repentina di quelle palingenesi a stampa nella prima metà del ’500 difficilmente poteva essere frutto di un enorme lavoro di raccolta del materiale svolto direttamente e solitariamente dagli studiosi menzionati. Si trattava, evidentemente, di compiere una verifica sul campo per provare a rintracciare tali materiali preesistenti. Esistevano, in altre parole, precedenti lavori – in qualche modo, per così dire, preparatori – che giustificassero l’apparizione, all’improvviso, di quelle palingenesi a stampa? Lo spoglio dei manoscritti giuridici, svolto encomiabilmente e esaustivamente da Dolezalek169, non offriva alcun elemento in tal senso. Ma noi sappiamo tuttavia che nel ’400 una cerchia di umanisti incominciava già ad interrogarsi non solo sui testi letterari che andavano riscoprendo dall’antichità classica, ma anche sulla storia delle leggi, nonché sulle magistrature, di Roma: sono nomi come quelli di Pomponio Leto, Francesco Filelfo, Lorenzo Valla, Flavio Biondo, Poliziano, il Platina, e molti altri170. In altre parole, l’interesse per l’antichità non si limitava alla curiosità per i testi letterari, ma incominciava a dirigersi anche verso le istituzioni della Roma antica. Tale cerchia di umanisti si interessava dei temi ora ricordati con atteggiamento mentale e curiosità intellettuale non di giuristi, ma di letterati: e tuttavia le opere che ci hanno lasciato dimostrano che essi andavano anche recuperando materiali che con il diritto della Roma antica avevano senz’altro diretto rapporto.
169 G. DOLEZALEK, Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis 1600, I-IV, Frankfurt a. M. 1972. 170 DILIBERTO, Umanesimo cit., 87.
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Insieme al collega ed amico carissimo Marco Buonocore171 è così iniziato lo spoglio sistematico di tutti i cataloghi di manoscritti conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana, con particolare riferimento a quelli che conservano opere miscellanee di argomento non strettamente giuridico che, dunque, non erano stati schedati da Dolezalek o da quanti, in passato, hanno provato a rinvenire tracce di diritto romano nei codici medesimi. Lavoro, come appare evidente, immane: si tratta di migliaia di cataloghi. Ma la buona sorte – e un po’, ritengo, anche l’acribia di chi vi ha lavorato, ad iniziare dal medesimo Buonocore – ha consentito pressoché subito di scoprire che l’ipotesi di lavoro era sicuramente fondata. 4. Il primo codice, in ordine temporale, che conserva tracce della Legge delle XII Tavole è stato redatto poco prima del 1443172 in Italia settentrionale. Si tratta di Ham. 254, attualmente conservato presso la Staatsbibliothek di Berlino: Ham. 254, f. 20v: Ex Lege XII Tabularum Iudicem arbitrumue iure datum qui ob rem dicundam pecuniam accepisse conuictus est capite puniri Fur manifestus ei cui furtum factum est in seruitutem tradatur. Noturnum furem occidendi ius esto. Si quis iniuria alteri faxit xxv eris poenae sunto. Si membrum rupit in eum e pacto talio esto. Si in ius uocat si morbus aevitasue ne uicium extit qui in ius uocabit iumen tum dato. Si nolet arceram sternito. Eris confessi rebusque iure iudicatis xxx dies iusti sunto. post deinde manus iniectio esto. in ius ducito ni iudicatum factitauit. aut qui pseudo eo in iure iudicet secum ducito. Vincito aut neruo aut compedibus xv pondo ne minore. At si uolet maiore incito. si uolet suo uiuito ni suo uiuit qui eum uictum habebit libras feriendo duas. Si uolet plus dato terciis nundinis partis secanto. Si plus minusue secuerint se fraudi esto. Vti quis legasset sue rei ita ius esto.
Il manoscritto è stato già pubblicato ed analizzato in un mio precedente contributo173. Basti dunque in questa sede solo un rapido richiamo alle conclusioni che si sono raggiunte. 171 Cfr. DILIBERTO, La palingenesi cit., 494 nt. 58; ID., Umanesimo cit., 88 nt. 8. 172 DILIBERTO, Umanesimo cit., 89. 173 DILIBERTO, Umanesimo cit., 94-97.
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Il codice è miscellaneo. Conserva, tra gli altri excerpta, le notae di Valerio Probo (che si ricorderà erano anche contenute nel volume stampato da Tacuino insieme alle XII Tavole), opere di Frontino, Varrone, Plutarco, Cicerone, Virgilio, alcune iscrizioni e molto altro. Insieme a tali scritti, in due diversi luoghi del codice – opera peraltro di due mani distinte – sono anche conservati brani delle XII Tavole. Il primo è quello qui riportato per esteso (f. 20v), il secondo (ff. 119v-120r) conserva invece il lungo testo di Cicerone tratto dal de legibus, erroneamente, anche qui, come in Rivail e in Tacuino, attribuito alle XII Tavole (M. T. Ciceronis ex Lege XII Tabularum)174. La conferma dell’errore tralaticio è dunque chiarissima e data alla prima metà del secolo precedente a quello delle prime edizioni a stampa della palingenesi decemvirale. Viceversa, sotto la menzione di Legge delle XII Tavole, nel brano del codice qui riportato, si menzionano, come appare chiaro, alcune delle norme decemvirali citate in un lungo (e celebre) brano di Aulo Gellio (noct. Att. 20.1), senza peraltro che sia esplicitato il nome dell’autore: corruzione di iudex arbiterue; disciplina del furtum (manifestum e nocturnum); l’iniuria punita con la pena di venticinque assi; il taglione in caso di membrum ruptum; la in ius uocatio; la disciplina della procedura verso il debitore insolvente (manus iniectio). A tali versetti tratti da Gellio, è aggiunto, nel finale, come ultima norma, il riferimento alla disciplina successoria dell’uti legasset (legassit) etc., notissima ai giusromanisti. Tale legge – che appare del tutto estranea al testo gelliano – è peraltro riportata dal copista (o dalla sua fonte) nella versione testuale (oggetto del legare sarebbe la sua res) che compare nelle fonti della giurisprudenza romana (Gai. 2.224, poi ripreso nelle Istituzioni giustianee, 2.22. pr.; Pomponio, in D. 50.16.120)175: mentre è noto che diverse versioni testuali della medesima norma si conservano in altre fonti romane, ad iniziare da Cicerone (inu. 2.50.148, così come nella Rhet. Her. 1.13.23: nelle quali oggetto del legare sarebbe familia pecuniaque). La circostanza, dunque, che nel codice in esame si conservi la versione giurisprudenziale e non quella ciceroniana del versetto appare quanto meno sorprendente, se si pensa quanto l’Arpinate, come si è già osservato, rappresentasse fonte privilegiata di quanti si occupavano, tra il ’400 e il ’500, di palingenesi decemvirale: magari in modo erroneo, come ormai noto.
174 Su cui, da ultimo, DILIBERTO, Lex cit., passim. 175 Sul punto, vd. DILIBERTO, La palingenesi cit., 496-497.
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In Ham. 254, dunque, si assemblano tra loro fonti diverse (letterarie e giurisprudenziali), senza menzionarne la provenienza, compiendo un’operazione analoga, per quanto embrionale, a quella che successivamente svolgeranno tutti coloro che si sono occupati di palingenesi decemvirale. Ancora. Pur non entrando nel dettaglio dell’analisi del testo, è di grande rilievo sottolineare che, come credo di aver dimostrato altrove176, il manoscritto non si limita a riportare il testo di Gellio, ma lo rielabora, al fine di rendere le citazioni delle norme delle XII Tavole – che nelle Notti Attiche sono indirette, raccontate – come se fossero invece veri e propri testi decemvirali. Il copista (o, ancora una volta, la sua fonte) compie dunque, nuovamente, un’operazione analoga a quella che hanno condotto nei secoli successivi, sino ai nostri giorni, gli editori di palingenesi dell’antica legge: ha cioè rielaborato i testi antichi per “tradurre” citazioni spesso del tutto discorsive, in veri e propri precetti legislativi. Ci troviamo, dunque, di fronte ad un primo tentativo palingenetico delle XII Tavole rinvenuto in manoscritti precedenti a Rivail e agli altri autori a stampa. Per giunta, esso consisteva, nello stesso codice, di due diversi brani, l’uno frutto dell’assemblaggio di Gellio e di una fonte giurisprudenziale (senza indicarne peraltro la provenienza); l’altro, come detto, tratto invece, esplicitamente, da Cicerone, di mano diversa dal primo, che contiene il medesimo errore che si riscontra nelle opere a stampa di Rivail e di Tacuino. Ora, Ham. 254 era appartenuto a Pietro Donato (Venezia, 1380/90 c. — Padova 1447)177, vescovo di Padova sino alla scomparsa, umanista insigne, che sappiamo tuttavia aver svolto anche studi giuridici, come testimonia, tra l’altro, l’inventario (a noi noto) della sua biblioteca178. Alla sua morte – particolare, come si vedrà, tutt’altro che trascurabile – la me176 DILIBERTO, La palingenesi cit., 497-500. 177 Sulla figura e l’opera di Pietro Donato, vd. P. SAMBIN, Ricerche per la storia della cul-
tura nel secolo XV. La biblioteca di Pietro Donato (1380-1447), in Bollettino del Museo Civico di Padova, 48 (1959), 53-98; A. MENNITI IPPOLITO, Donà (Donati, Donato), Pietro, in Dizionario biografico degli italiani, XL, Roma 1991, 789-794; G. MARIANI CANOVA, Per la storia della Chiesa e della cultura a Padova: manoscritti e incunaboli miniati dal vescovo Pietro Donato ai canonici lateranensi di San Giovanni di Verdura, in Fonti e ricerche di storia ecclesiastica, 25 (1997) [Studi di storia religiosa padovana dal Medioevo ai giorni nostri. Miscellanea in on. di mons. I. Daniele], 165 ss.; I. HOLGATE, Paduan Culture in Venetian Care: the Patronage of Bishop Pietro Donato (Padua 1428-47), in Renaissance Studies, 16, 1 (2002), 1 ss., 2 nt. 3 per ulteriore lett., 13 ss. (per un esame della biblioteca privata di Pietro Donato). Da ultimo, vd. anche G. POLARA, Il giurista e l’imperatore. Il poeta e l’imperatore. Un episodio nella fortuna della Notitia Dignitatum, in Tradizione romanistica e Costituzione cit., II, 1485. 178 DILIBERTO, Umanesimo cit., 89 e ivi nt. 15 e ivi letteratura.
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desima biblioteca è acquisita – con ragionevole attendibilità179 – da Fabrizio Ferrarini, priore dei carmelitani a Reggio Emilia dal 1481 al 1492, anno della scomparsa. 5. Ferrarini appartiene alla cerchia intellettuale di Flavio Biondo di cui abbiamo già parlato: e cioè a quell’ambiente culturale umanistico nel quale si incominciavano a studiare anche le antichità connesse, a vario titolo, con la storia giuridica di Roma antica180. Umanista importante181, legato a personaggi quali il geniale editore Aldo Manuzio182, gran raccoglitore di manoscritti, si dedicò soprattutto alla schedatura sistematica ed alla pubblicazione delle antiche iscrizioni romane, tanto da esser utilizzato, molti secoli più tardi, da Mommsen per la redazione del CIL183. Della raccolta epigrafica di Ferrarini si conoscono ben tre versioni autografe, l’ultima delle quali è conservata a Reggio Emilia (Ms. Regg. C. 398), denominata Antiquarium sive Divae Antiquitatis Sacrarium (Inscriptiones Graecae et Latinae undique collectae). È la versione definitiva della raccolta, redatta in prossimità della scomparsa dell’autore (1492). Nel codice dunque si conserva – insieme ad una molteplicità di iscrizioni romane antiche, riprodotte con disegni di straordinaria fattura – anche un esplicito riferimento alle XII Tavole: 179 Credo di aver dimostrato il passaggio di proprietà del nostro codice da Pietro Donato a Fabrizio Ferrarini sulla base di una nota di possesso attribuibile a quest’ultimo, contenuta nel medesimo manoscritto: cfr. DILIBERTO, Umanesimo cit., 90-92. 180 Cfr. supra § 3. 181 Cfr. E. ZIEBARTH, De antiquissimis inscriptionum syllogis, in Eph. Epigr., 9 (1905),
219-221 e passim; L. TASSANO OLIVIERI, Notizie su Michele Fabrizio Ferrarini umanista e antiquario e sulle vicende del codice autografo di Reggio Emilia C. 398, in Italia Medioevale e Umanistica, 22 (1979), 513-524; M. BILLANOVICH, Michele Ferrarini, Aldo Manuzio, Marin Sanudo, ibid. 525-529; R. ZACCARIA, Ferrarini, Michele Fabrizio, in Dizionario biografico degli italiani, XLVI, Roma 1996, 687-688 e ivi bibl. essenziale; M. BUONOCORE, Miscellanea epigraphica e Codicibus Bibliothecae Vaticanae. XI, in Epigraphica, 59 (1997), 303-304 [ora ID., Tra i codici epigrafici della Biblioteca Apostolica Vaticana, Faenza 2004 (Epigrafia e antichità, 22), 181-182]; A. GARZETTI — A. VALVO, Mantissa epigrafica bresciana (Supplemento ai Commentari dell’Ateneo di Brescia. Accademia di Scienze e Arti), Brescia 1999, 11; C. FRANZONI — A. SARCHI, Entre peinture, archéologie et muséographie: l’Antiquarium de Michele Fabrizio Ferrarini, in Revue de l’art, 125, 3 (1999), 20 ss.; C. FRANZONI, Gli studi antiquari di Michele Fabrizio Ferrarini, in Il “Portico dei marmi”. Le prime collezioni a Reggio Emilia e la nascita del Museo Civico, a cura di C. FRANZONI, Reggio Emilia 1999, 25 ss.; A. SARCHI, Fra Brescia e Reggio Emilia: l’antichità come bene civico, in Il “Portico dei marmi” cit., 47 ss.; W. STENHOUSE, Georg Fabricius and Inscriptions as a Source of Law, in Renaissance Studies, 17, 1 (2003), 96-107; DILIBERTO, Umanesimo cit., 91-93. 182 BILLANOVICH, Michele Ferrarini cit., passim. 183 CIL, III, XXV, 273 n. IX; CIL, VI, XLIII-XLIV n. XIV; CIL, V, XVII, 4 n. I (4), 79 n. V,
320 n. II (4), 428 s. n. X; CIL, XI, 2 n. VII, 130 n. II, 149 n. III, 171 n. II.
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UN MANOSCRITTO INEDITO IN TEMA DI LEGGE DELLE XII TAVOLE
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Ms. Regg. C. 398, f. XXXVr: in tabula. Ex Lege duodecim tabular(um) IVDICEM ARBITRVMVE IVREDATVM QUI OB REM DICVN DAM PECVNIAM ACCEPISSE CONVICTUS EST CAPITE PV NIRI FVR MANIFESTVS EI CVI FVRTUM FACTVM EST IN SERVI TVTEM TRADATVR NOCTVRNVM FVREM OCCIDENDI IVS ESTO SIQUIS INIVRIAM ALTERI FAXIT XXV AERIS POENAE SVNTO SI MEMBRVM RUPIT INEVM EPACTO TALIO ESTO SI IN IVS NOTAT SI MORBUS EVITAS NE VITIVM EXTIT QUI INIVS VOCABIT IVMENTVM DATO SI VOLET ARCE RAM STERNITO AERIS CONFESSI REVSQ.IVRE IVDICATVS XXX DIES IVSTI SVNTO. POST DEINDE MANVS INIECTIO ESTO. IN IVS DV CITO NI IVDICATVM FACTITAVIT AVT PSEVDO EO INIVRE VINDICET SECVM DVCITO VINCITO AVT NERVO AVT COMPEDIBVS XV PONDO NE MINORE AT SI VOLET MA IORE VINCITO. SI VOLET SVO INVITO NI SVO VIVIT QVI EVM VINCTVM HABEBIT LIBRAS FERIENDI DIES SI VOLET PLVS DATO TERTIIS NUNDINIS PARTIS SE CANTO. SI PLVS MINVSVE SECVERINT SE FRAVDI ESTO VTI QVIS QVIS LEGASSET SVAE REI ITA IVS ESTO
Ho riportato il testo che Ferrarini attribuisce alle XII Tavole esattamente come appare nella raccolta epigrafica, e cioè come se si trattasse di una vera e propria iscrizione. L’autore propone cioè il testo medesimo, disegnandolo come tratto da un’antica lapide, ma non riesce – come ovvio – a dare ad essa una collocazione geografica (scrive, infatti, semplicemente in tabula), come invece fa per tutte le altre iscrizioni, rispetto alle quali indica con precisione il luogo ove le ha rinvenute e copiate. La falsa attribuzione ad una vera e propria tabula è compiuta da Ferrarini, peraltro, del tutto consapevolmente. Infatti, nella precedente versione della stessa raccolta epigrafica (Par. Lat. 6128 f. 166r, attualmente presso la Biblioteca nazionale di Parigi, redatta intorno al 1482), sempre autografa di Ferrarini, e già analizzata in altra sede cui rinvio184, egli riporta il medesimo testo, lo attribuisce senz’altro alle XII Tavole, ma non
184 DILIBERTO, Umanesimo cit., 97-99.
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lo disegna come se fosse una vera iscrizione, bensì come un qualunque altro scritto antico185. Ferrarini, dunque, compie consapevolmente una sorta di inganno nei confronti del lettore, facendo credere si tratti di un’iscrizione antica e cioè di un frammento epigrafico (nientemeno che una tabula, appunto) del (presunto) vero testo dell’antichissima legge. In realtà, una semplice, anche superficiale analisi del testo decemvirale proposto da Ferrarini spiega agevolmente quale ne sia la fonte diretta: si tratta infatti esattamente della versione delle XII Tavole medesime contenuta nel precedente codice di Pietro Donato – già osservato – e che, come sappiamo, era stato acquisito da Ferrarini. I testi gelliani e l’aggiunta finale dell’uti legasset (legassit) sono a questo proposito molto chiari. Si conferma così l’esistenza di manoscritti concernenti le XII Tavole, preesistenti alle edizioni a stampa analizzate in apertura di questo contributo. 6. Il Reg. lat. 450 si inserisce in questo contesto. Il codice era sicuramente appartenuto186 a Paul Petau (Paulus Petavius, Orléans 1568 -- Paris 1614), erudito ed antiquario, ma anche giurista, consigliere presso il Parlamento francese e soprattutto gran raccoglitore di antichi codici187: Petau era peraltro venuto in possesso di molti dei manoscritti precedentemente raccolti da Pierre Daniel – avvocato, erudito e filologo anch’egli di Orléans (1530/31-1604)188 –, alla scomparsa di quest’ultimo. Ma Daniel, a sua volta, aveva potuto costituire una sontuosa biblioteca anche approfittando, nel 1564, della distruzione dell’abbazia di Saint-Benoît-sur-Loire (“Fleury”) ad opera degli ugonotti, dalla quale era riuscito a salvare e conseguentemente ad appropriarsi di molti codici antichi. Non siamo tuttavia in grado di stabilire se anche il Reg. lat. 450 appartenuto a Petau provenisse dal lascito Daniel, nonché, ancor prima, dalla menzionata abbazia. Comunque sia, alla morte di Petau, il figlio Alexandre (m. 1672) vendette la biblioteca paterna alla regina Cristina di Svezia, i cui libri, come si sa, vennero infine acquisiti, alla morte di lei (1689), dal cardinale Pie-
185 DILIBERTO, ibid. 186 WILMART, Codices Reginenses cit., 589. 187 W. S. (WEISS), Petau (Paul), in J. FR. MICHAUD, Biographie universelle ancienne et
moderne, 32, 1854 (reimpr. Graz 1968), 571. 188 P. D. (PATAUD), Daniel (Pierre), in MICHAUD, Biographie cit., 10, 1854, 103-104.
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tro Ottoboni (poi papa Alessandro VIII) e da lui pervennero infine alla Biblioteca Apostolica Vaticana189. Veniamo al nostro codice. Siamo tra la fine del ’400 e i primissimi anni del ’500, in Francia190. Un anonimo autore compila una raccolta di fonti antiche concernenti le XII Tavole di straordinario interesse. Il testo in esame ha, di per sé, un titolo eloquente: Pandectum legis duodecim tabularum ex toto corpore iuris ciuilis accuratissime excerptum cum aliis plerisque adiectis inchoat. Si tratta, cioè, del lavoro di schedatura sistematica – ancorché, come si vedrà, non esaustiva – del Corpus iuris ciuilis giustinianeo (e di alcune altre fonti non giuridiche), per escerpirne – come esplicitamente si afferma nel titolo – tutti i riferimenti alle antiche leggi decemvirali. Ancora una volta, il codice è miscellaneo (Atti di Sinodi, cataloghi di cariche ecclesiastiche, etc.), ma al termine compare quella che non è, per esplicito intendimento dell’autore, una palingenesi, bensì semplicemente un’ordinata191 schedatura del materiale sulle XII Tavole conservato nelle fonti giustinianee. Lavoro preparatorio, insomma: ma questa volta ben più ampio ed importante dei precedenti qui analizzati e, per di più, svolto quasi completamente su fonti giuridiche. Il che, di per sé, rappresenta circostanza di grandissimo rilievo ai fini delle nostre indagini. L’analisi puntuale del testo è svolta da Antonia Fiori nel contributo che segue al mio. Mi limiterò, dunque, ad alcune considerazioni di contesto, nell’ambito della più generale storia della palingenesi decemvirale, quale si sta appalesando ai nostri occhi nel corso di questa, ancora certo non definitiva, ricerca. 7. Il codice raccoglie materiali giuridici giustinianei, ma premette ad essi (ff. 126r-127v [2]) una breve storia del decemvirato legislativo tratta in larga parte dal terzo libro della storia di Roma di Tito Livio, anche se non in modo letterale, epitomando viceversa lo storico e intrecciando al racconto liviano un passo delle Istituzioni (Inst. 1.2.8) (f. 127r) e addirit189 Nell’ambito di una sterminata letteratura, sulla vicenda dei libri della regina vd. da ultimo F. e L. MACCHI, La biblioteca di Cristina di Svezia, in L’Esopo, 107-108 (settembre-dicembre 2006), 39-58. Ulteriore letteratura in P. BIANCHI, Una tradizione testuale indipendente della Lex Romana Visigothorum e la ricostruzione di Cuiacio, in Atti Accademia Costantiniana. XV Convegno internazionale in onore di C. Castello, Napoli, 2005, spec. 410-412 e ivi note. 190 Vd. BUONOCORE, Il manoscritto, supra 50. 191 Il materiale concernente le XII Tavole tratto dal Corpus iuris è infatti riportato nel
manoscritto seguendo – quasi sempre, con poche eccezioni – proprio l’ordine dei passi escerpiti quale si ritrova nella medesima Compilazione giustinianea.
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tura un verso di Ovidio (rem. 97) (f. 127v). Peraltro, come sarà anche confermato nel prosieguo dell’analisi, i nomi degli autori classici utilizzati non vengono mai menzionati dall’autore del nostro codice. Lo spoglio del materiale tratto dal Corpus iuris appare di straordinario interesse. Si tratta, infatti, della sistematica schedatura – ancorché non nell’ordine tradizionale dei uolumina192 – di Institutiones, Digestum Vetus (libri 1-24.2), Nouum (libri 39-50), Codex e Infortiatum (Digesto, libri 24.3-38). La mole di materiale escerpito è impressionante. Nel codice, peraltro, non si riscontra un vero e proprio intendimento palingenetico: l’autore di Reg. lat. 450 non cerca infatti di mettere in ordine le norme decemvirali in una successione coerente con un possibile, presunto impianto “originario” delle XII Tavole. Né appare interessato alla restituzione delle antiche leggi nella loro (ancora una volta, presunta) dizione letterale, non manifestandosi, da questo punto di vista, alcuna ambizione filologica. L’autore, più semplicemente, si limita ad un’opera di raccolta del materiale, estrapolando dal Corpus iuris giustinianeo i passi che potevano essere utili per restituire il contenuto del diritto decemvirale In tal senso, l’autore non raccoglie i passi del Corpus iuris medesimo così come li legge nel testo dal quale li escerpisce: egli, viceversa, riporta nel manoscritto una parafrasi delle fonti giustinianee raccolte, svolta – come viene efficacemente dimostrato nel successivo contributo193 –, in linea di massima, sulla base della Glossa accursiana. Tornerò tra breve su questo punto194. Nel testo, tuttavia, non compaiono solo fonti giuridiche giustinianee. Dal f. 131v in avanti, infatti, i brani tratti dalle Istituzioni sono – per così dire – interpolati aggiuntivamente, inserendo tra essi alcuni luoghi gelliani. Peraltro, come si è già osservato a proposito di Livio e Ovidio, l’autore (Gellio, appunto) non è mai esplicitamente menzionato e talvolta le citazioni tratte dalle Notti Attiche sono intercalate con quelle escerpite dalle Istituzioni giustinianee195, in un contesto complessivo nel quale, evidentemente, non rilevava la distinzione tra le diverse fonti utilizzate. Per ciò che concerne, dunque, i luoghi gelliani citati, si tratta, nell’ordine, in primo luogo delle norme relative alle diverse figure di lesioni corporali nelle XII Tavole (iniuria punita con la sanzione di venticinque
192 A. FIORI, Le fonti e il metodo: tra palingenesi ed esegesi giuridica (infra 82-93). 193 FIORI, Le fonti cit., infra 87-91. 194 Cfr. il § successivo. 195 Sul punto, si vedano le puntuali osservazioni di FIORI, Le fonti cit., infra 84.
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assi e taliones: noct. Att. 20.1.12-18 = f. 131v [27]); segue la lunga dissertazione contenuta nelle Notti Attiche sul furtum e i suoi genera, ripresa quasi tutta letteralmente dal testo gelliano (noct. Att. 11.18.1-10 = ff. 132r-132v [29-30])196; infine, nel medesimo codice si rinviene la sequenza gelliana di norme decemvirali già osservata in Ham. 254 e Ms. Regg. C. 398: dalla corruzione di iudex arbiterue sino alla procedura esecutiva sul debitore insolvente (noct. Att. 20.1.7-8; 20.1. 42- 45 = ff. 132v-133v [31-37]). La circostanza è di estremo interesse. Gellio, dunque, ancora una volta – ancorché senza citarne il nome, come già abbiamo verificato per i precedenti manoscritti – appare escerpito nell’ambito di un lavoro di raccolta del materiale sulle XII Tavole: ma in questo caso, è inserito all’interno di un’opera di schedatura di fonti giuridiche. Va tuttavia subito sgombrato il campo da una possibile, erronea ulteriore deduzione. I due manoscritti (Ham. 254 e Ms. Regg. C. 398) ora richiamati (o copie di essi) non possono rappresentare le fonti del Reginense in esame. Infatti, mentre nei manoscritti precedenti i brani gelliani sono tratti solo da noct. Att. 20.1, nel nostro testo è conservata anche la parte sul furtum contenuta, invece, nell’undicesimo libro dell’opera. Ancora. Mentre i medesimi manoscritti si fermano con la citazione concernente – nel testo gelliano – la possibilità dello squartamento del debitore insolvente (si plus minusue secuerint se fraudi esto: noct. Att. 20.1.49), nel Reginense in esame tale norma manca del tutto e si continua, invece, riportando (f. 133v [37]), come nel prosieguo del testo gelliano (noct. Att. 20.1.53), la norma decemvirale concernente la falsa testimonianza punita con la precipitazione dalla rupe Tarpea (e saxo): legge, quest’ultima, viceversa assente in Ham. 254 e Ms. Regg. C. 398. Di più. Mentre, come si ricorderà, nei due manoscritti precedentemente analizzati, al termine delle norme tramandate da Gellio, è conservato il versetto uti legasset (legassit) (che costantemente sarà presente nelle palingenesi decemvirali a stampa sin dagli inizi del ’500197), esso è curiosamente omesso nella schedatura operata dall’anonimo autore del Reginense, nonostante esso sia conservato all’interno del Corpus iuris198. 196 DILIBERTO, Materiali cit., I, 230-235; da ultimi, nell’ambito di una bibliografia copiosissima, vd. M. ZABÁOCKA, Quaestio cum lance et licio, in Iura, 54 (2003), 109; S. RONCATI, Caio Ateio Capitone e i Coniectanea (Studi su Capitone, I), in SDHI, 71 (2005), 337; A. DE FRANCESCO, Autodifesa privata e ‘iniuria’ nelle XII Tavole, in Parti e giudici nel processo. Dai diritti antichi all’attualità, a cura di C. CASCIONE — E. GERMINO — C. MASI DORIA, Napoli 2006, spec. 57-59, 61 e ivi nt. 43. 197 DILIBERTO, Umanesimo cit., 102-103. 198 Cfr. supra § 4.
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Gellio, dunque, è ancora una volta schedato – peraltro senza seguire l’ordine interno della sua opera199 – come fonte per la ricostruzione delle XII Tavole, ma in modo del tutto autonomo dai precedenti codici esaminati. Tuttavia, proprio tale assemblaggio di fonti giuridiche e brani gelliani contenuto nel Reginense conferma un fermento non isolato di lavori concernenti le XII Tavole – a cavaliere tra la prima metà del ’400 e i primissimi anni del ’500 – che prefigura una sorta di embrione ricostruttivo delle antiche leggi, che andrà sviluppandosi, integrandosi e perfezionandosi sempre più nel corso della prima metà del ’500. 8. Tale lavoro di raccolta del materiale concernente le XII Tavole pone, tuttavia, al moderno interprete un ulteriore – e, a mio modo di vedere, cruciale – problema, quello cioè di comprendere chi possa esser stato l’autore del Pandectum in esame, quale la sua formazione, quali i suoi intendimenti. Tutti gli elementi in nostro possesso depongono, dunque, nel senso che l’autore della raccolta fosse un giurista e non semplicemente un umanista interessato anche alla storia delle istituzioni romane antiche. Gli argomenti, come si vedrà appresso, sono molteplici. Già la circostanza che l’autore del codice avesse, come detto, larga dimestichezza con la Glossa accursiana200 farebbe supporre che egli fosse, appunto, un giurista. Ma l’analisi del codice offre altri e – ad avviso di chi scrive – forse decisivi elementi. Innanzi tutto, nel manoscritto in esame si cita esplicitamente per nome un solo autore, più o meno coevo alla redazione del codice medesimo (f. 140r [76]): secundum Aretinum in § Institutionum de legitima agnatorum tutela. L’analisi svolta a questo proposito da Antonia Fiori201 ha dimostrato che in questo luogo del nostro manoscritto si fa riferimento – con ragionevole sicurezza – alla Lectura super Institutionibus (o a passi di essa inseriti a corredo di altre edizioni del Corpus iuris) di Angelo Gambiglioni. Ora, poiché è noto che la citata Lectura era assai diffusa soprattutto presso i pratici del diritto nel torno di tempo in cui è stato redatto il codice, anche tale circostanza conferma l’idea che l’autore di Reg. lat. 450 fosse, appunto, un giurista.
199 Si parte, come detto, dal libro ventesimo delle Notti Attiche, per poi menzionare passi dell’undicesimo e tornare infine allo stesso ventesimo libro. 200 Cfr. il § precedente. 201 FIORI, Le fonti cit., infra 92.
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Il punto è, evidentemente, di grande rilievo: e credo possa essere definitivamente dimostrato alla luce di un evidente, quanto per noi eloquente, lapsus dell’autore del nostro codice. Al f. 129r [10] si parla (traendo il passo da Inst. 2.6.2) della lex Attilia (in realtà Atinia, ma è la lezione vulgata e non un errore del Reginense202), che proibiva l’usucapione delle res furtiuae. Al f. 136v [55], invece, in relazione a D. 41.1.7.10, concernente la medesima materia, l’autore cita, erroneamente, la lex Aquilia. Ora, come notissimo, quest’ultima disciplinava non già l’usucapione, bensì il damnum: ed era legge celebre e di particolare importanza. Ma solo un giurista, cui il nome della lex Aquilia doveva essere sicuramente ben noto, poteva incappare in un lapsus calami di questo genere. Solo chi maneggiava le fonti giurisprudenziali, infatti, poteva sostituire una lex con un’altra, anch’essa tuttavia esistente e largamente studiata. Reg. lat. 450 è stato, dunque, redatto da un giurista. Conosce la Glossa accursiana, utilizza la Lectura di Angelo Gambiglioni – diffusa soprattutto tra i pratici del diritto –, incorre in un lapsus (lex Aquilia in luogo di lex Atinia) nel quale solo un giurista poteva cadere. Ma si occupa di diritto romano arcaico: escerpisce, infatti, dal Corpus iuris (e non solo) i materiali necessari per ricostruire la legislazione della Roma più antica. C’è, dunque, da chiedersi per quale motivo – con quali intendimenti, spinto da quale curiosità intellettuale – un giurista tra la fine del ’400 e i primissimi anni del secolo successivo avesse raccolto le fonti giustinianee concernenti le XII Tavole. La spiegazione, a mio modo di vedere, può essere una sola. Una volta dimostrato, infatti, che l’autore del nostro codice non era un umanista con interessi giuridici, non resta che pensare si tratti di un giurista con interessi umanistici e con incipienti curiosità di natura storica. Il che non significa, ovviamente, che – dello storico – possedesse anche la sensibilità e il metodo. L’autore del Reg. lat. 450 non manifesta, infatti, come già rilevato, alcuna ambizione filologica, né alcun intendimento strettamente palingenetico (quale si paleserà già in Rivail nel successivo 1515203): egli si limita, infatti, alla raccolta del materiale escerpito dal Corpus iuris, senza provare ad ordinarlo in una successione di norme tra loro che avesse una possibile coerenza interna rispetto al (presunto) testo decemvirale originario. Inoltre, utilizzando ampiamente la Glossa accursiana per le parafrasi (e l’interpretazione) dei testi giuridici giustinianei, l’autore mede-
202 FIORI, Le fonti cit., infra 86 nota 224. 203 Cfr. supra § 1.
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simo dimostra di non possedere, rispetto alle fonti antiche, alcuna sensibilità rispetto alla diacronia storica. Egli è, insomma, un giurista tradizionale del suo tempo, fornito del relativo strumentario ermeneutico ancora solidamente quattrocentesco, ancorché incuriosito dal diritto romano arcaico. Forse, il nostro codice registra una sorta di fase di passaggio. Rappresenta, infatti, sicuramente, un avanzamento rilevante, nella storia della storiografia palingenetica, rispetto ai manoscritti analizzati nella prima parte di questo contributo (caratterizzati, come si ricorderà, dalla intrinseca modestia dell’assemblaggio delle fonti tra loro, svolto con intendimenti ancora pienamente e solo umanistici); ma è, al contempo, ancora ben distante dall’ambizione storico-giuridica di Rivail, che – si ricorderà –, magari sbagliando, cerca tuttavia di ordinare storicamente e filologicamente il materiale antico, per cimentarsi in una vera e propria opera palingenetica. Reg. lat. 450 si colloca dunque, con tutte le cautele del caso, in un momento di travaglio (e di passaggio). Il suo autore è mosso dalla curiosità intellettuale verso il mondo giuridico arcaico, tipica peraltro della cerchia di umanisti che già a metà del ’400 si cimentavano anche in ricerche concernenti le più antiche istituzioni romane204. Intorno a tale antichità, raccoglie una mole di fonti giuridiche ben più ampia di quella contenuta nei testimoni manoscritti precedenti, ma compie tale operazione con la strumentazione che possiede: quella, ancora, del giurista che utilizza i testi giustinianei senza la consapevolezza che si tratta di fonti da interpretare alla luce di una corretta visione diacronica della storia. Di quest’ultima – verrebbe da concludere – avverte il fascino, ma non è in grado di studiarne la profondità. In altre parole, l’autore di Reg. Lat. 450 non riesce a compiere – né forse era in condizione di farlo – il salto di qualità metodologico che porterà, di lì a poco, alla nascita della scuola culta. 9. Pur riservandomi di tornare ex professo sull’analisi dettagliata del nostro codice, in relazione alle diverse fonti escerpite dal Corpus iuris giustinianeo, si possono tuttavia svolgere alcune prime (e necessariamente provvisorie) considerazioni di carattere conclusivo. Il Reg. lat. 450 è la conferma, a mio modo di vedere definitiva, dell’esistenza di quei materiali preparatori, ai fini palingenetici, di cui si era ipotizzata l’esistenza e di cui si era riscontrata una prima testimonianza esaminando i manoscritti richiamati in precedenza. 204 Cfr. supra § 3.
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Un intenso lavoro – sino a pochi anni fa ancora del tutto sconosciuto – andava, dunque, svolgendosi tra la prima metà del ’400 e la fine del medesimo secolo. Esso consisteva nella raccolta e, in qualche caso, nell’embrionale tentativo di ordinare tra loro le fonti concernenti le XII Tavole, sparse nei testi dell’antichità romana (e greca), che in quel torno di tempo andavano riemergendo grazie al lavoro umanistico sugli antichi codici. Si trattava di schedare opere classiche, provare a sistemare il materiale così raccolto, assemblarlo ai fini palingenetici: un lavoro che, come dimostrano i manoscritti sin qui analizzati (tra loro di diversa fattura e ben differenti nei risultati), era svolto sia da umanisti in senso stretto, sia anche – perlomeno tra il finire del ’400 e i primissimi anni del ’500 – da giuristi animati da una curiosità di natura anche storica, se pure non sorretti da altrettanta sensibilità dal punto di vista metodologico e degli strumenti di lavoro. Il che rappresentava, tuttavia, come ovvio, un salto di qualità rispetto al lavoro strettamente quattrocentesco, di evidente impianto umanistico. Un remoto “monumento” legislativo, ai quei tempi irrimediabilmente perduto, andava reinventato sulla base di una molteplicità di citazioni, frammentarie e diversissime le une dalle altre, che si rinvenivano negli autori antichi. Un’avventura intellettuale, come si sa, che continua ancora ai giorni nostri. Un punto, però, appare ormai certo. Rivail, nel 1515 (sia detto non per sminuirne l’importanza o per ridurre il carattere fortemente innovativo che conserva la sua opera), non lavora ex nihilo. Egli trova un materiale preesistente, un lavoro in gran parte svolto: il Reg. lat. 450, con la schedatura sistematica, da parte di un giurista, delle fonti giustinianee (e non solo) ne è la più eloquente dimostrazione. Ma già prima – intorno al 1440, sulla base dei dati sin qui raccolti, non potendosi tuttavia escludere che altri codici inducano ad ulteriori retrodatazioni – si era messo in moto un processo, in ambito squisitamente umanistico, teso a cimentarsi con analoghi obiettivi, anche se con assai più modesti risultati. Solo le ricerche successive, in pieno svolgimento, consistenti – come già ricordato – nella sistematica schedatura dei cataloghi di manoscritti, potranno dirci se altri (come a questo punto ragionevolmente credo) lavori preesistenti al ’500 offrano ulteriori spunti per confermare tale ipotesi, modificarla o aggiornarla, soprattutto al fine di verificare, ove possibile, quali di questi materiali avessero direttamente utilizzato i primi autori a stampa di palingenesi decemvirali, dai quali ha preso le mosse questa nostra indagine. Oliviero Diliberto
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III. Le fonti e il metodo: tra palingenesi ed esegesi giuridica Il testo che viene qui presentato per la prima volta in edizione è una raccolta di materiali per la ricostruzione del contenuto delle XII Tavole, basata – prevalentemente – sul Corpus Iuris Civilis. Un lavoro intitolato dal suo autore Pandectum legis XII tabularum, anonimo e non esplicitamente datato, ma che elementi di diversa natura permettono di collocare in ambiente umanistico. Gli indizi codicologi sopra illustrati da Marco Buonocore205, innanzi tutto, consigliano di datare al più tardi all’inizio del ’500 la sezione del manoscritto vaticano che lo conserva, e una sicura autonomia rispetto ai primi tentativi palingenetici andati a stampa – specie quello del du Rivail206, che il nostro autore non mostra di conoscere – sembrerebbero darne conferma. La Francia settentrionale potrebbe essere l’area di redazione207; il genere prescelto, le fonti letterarie citate, l’interesse storico ed erudito per la ricostruzione della normativa decemvirale, persino il vezzo di indicare in greco la conclusione di una sezione (un vezzo peraltro frequente nei manoscritti di questo periodo)208, rimandano ad una formazione e ad un gusto umanistici. L’approccio al testo giustinianeo fornisce qualche altra traccia, e consente di dire qualcosa sull’autore che, stante la proverbiale poliedricità del contesto in cui si muove, non sembra tanto un letterato fornito di curiosità antiquarie in materia giuridica, quanto un giurista versato nelle humanae litterae. Un giurista – si potrebbe aggiungere – che con il cultismo condivide la passione per la storicizzazione del diritto romano, ma non l’insofferenza nutrita da alcuni umanisti nei confronti della dottrina medievale, non l’intento di “liberare il Corpus Iuris dell’apparato che gli era cresciuto intorno”209, e neppure un particolare interesse alla ricostruzione del testo in quanto tale (né quello delle XII Tavole, né quello del Corpus Iuris) secondo criteri filologici: sia perché reso in forma di parafrasi, sia perché riprodotto usando della sola Vulgata, sia perché accresciuto nel modo che vedremo. Un giurista di cultura umanistica, in205 Cfr. BUONOCORE, Il manoscritto cit., supra 49-50. 206 Libri de Historia cit., (per questo studio è stata vista un’edizione parigina del 1530);
cfr. DILIBERTO, Bibliografia cit., 47-50; ID., Di un modesto cit., 459-460; ID., Una palingenesi cit., 487-490; ID., Umanesimo cit., 107-109; FERRARY, Saggio di storia cit., 506-510. 207 Cfr. BUONOCORE, Il manoscritto cit., supra 50. 208 F. 133v: “telos duodecim tabularum ex toto volumine Institutionum”. 209 D. MAFFEI, Gli inizi dell’Umanesimo giuridico, Milano 1956, 54 (la frase riportata è riferita ad Ulrico Zasio e alla sua “aspirazione […] di riportare le fonti romane alla loro primitiva purezza”).
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somma, ma – per quanto l’analisi del testo possa indicare – non propriamente un precoce rappresentante del mos Gallicus che si andava in quegli anni formando. L’intento del nostro anonimo autore, dichiarato nell’incipit e formalizzato nel titolo, era dunque quello di compilare una silloge dei riferimenti alla Legge delle XII Tavole contenuti nel Corpus Iuris (un “pandectum […] ex toto corpore iuris accuratissime excerptum”). I frammenti sono stati scelti o per un espresso richiamo alle XII Tavole nel testo giustinianeo, oppure per l’indicazione della provenienza decemvirale fornita da un glossa, nel caso di citazioni più generiche, nel Corpus Iuris, al ius civile, ad una lex o ad una lex antiqua210. Non vi sono però solo excerpta della compilazione giustinianea: all’inizio dell’opera – e qui solamente – l’autore ammette l’introduzione di citazioni anche estranee (“cum aliis plerisque adiectis”) inserite qua e là, senza alcuna indicazione della provenienza, oppure ‘occultate’ dall’allegazione normativa. Dopo un’introduzione storica – formata da un compendio di passi di Livio seguiti da Inst. 1.2.8, ed intercalata da un verso di Ovidio211 – ha inizio quello che viene definito un “compendiolum” del materiale giustinianeo: non una palingenesi vera e propria, come ha spiegato Oliviero Diliberto nel contributo che precede212. I frammenti non riproducono letteralmente le fonti utilizzate (citate e non) – ne fanno piuttosto una parafrasi, a volte più, a volte meno libera – e della fonte seguono, per la gran parte, l’ordine di successione dei libri. Non è rispettata, invece, la sequenza dei volumina: sono escerpite prima le Istituzioni, poi il Digestum Vetus, il Novum, il Codex, e per ultimo il Digestum Infortiatum. Dei 91 paragrafi in cui il testo edito è stato suddiviso per la parte delle Istituzioni, quasi un quarto contiene in realtà (in tutto o in parte) passi 210 [7] gl. iure civili ad Inst. 2.6: “id est l. xii tabularum vel Romanorum per excellentiam”; [64] gl. lex ad C. 1.4.27.2: “scilicet xii tabularum”; [73] gl. antiqua ad C. 8.35 (36).1: “scilicet xii tabularum”. 211 “Flumina magna de paruis fontibus orta” ([2] f. 127v) è il v. 97 dei Remedia amoris. Nelle moderne edizioni critiche il verso suona, in realtà, flumina pauca vides de magnis fontibus orta (cfr., ad es., l’edizione curata da E. J. KENNEY per gli Oxford Classical Texts, Oxford 1961, 208, o da R. EHWALD per la Teubner, Leipzig 1910, I, 249), ma la lezione diversa citata dal nostro autore ha avuto anch’essa circolazione (come testimonia del resto l’apparato critico dell’ed. Kenney, cit. supra) e si può trovare in alcune edizioni corredate dal commentario di Bartolomeo Merula (cfr. P. OVIDII NASONIS De Arte amandi et de Remedio amoris, Venetiis, Iohannes Tacuinus de Tridino, 1494, f. 44v: “flumina magna vides parvis de fontibus orta”). 212 Cfr. O. DILIBERTO, Umanesimo giuridico-antiquario e palingenesi della XII Tavole. 2. Reg. Lat. 450, supra 75.
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delle noctes Atticae di Gellio213: anche in questo caso, non solo la fonte non è stata indicata, ma talvolta – e non impropriamente, ma con effettiva coincidenza di materia – il testo di Gellio è stato ricondotto alle Istituzioni214. Le uniche citazioni letterali delle norme delle XII Tavole sono tratte proprio da Gellio. Anche il famoso versetto decemvirale uti legassit (legasset), che sembra una costante delle opere palingenetiche più o meno contemporanee215, qui manca, nonostante ricorra tre volte nella compilazione giustinianea: in Inst. 2.22 pr., in D. 50.16.120 e in Nov. 22.2 pr. Il fatto singolare è che, a differenza degli ultimi due testi che non compaiono affatto tra quelli della nostra silloge, il primo – Inst. 2.22 pr. – è invece presente [13], ma è riportato solo per la parte in cui viene esposto il senso del versetto. La norma nella sua forma letterale è omessa216. Gli excerpta del Codice, dieci in tutto, non contengono molte sorprese. L’ultima costituzione richiamata è del l. VIII, il che naturalmente non esclude uno spoglio, infruttuoso, anche dei Tres libri. Più interessante, invece, è l’analisi dei frammenti del Digesto: se non altro, per la passione che, in quegli anni, animava gli sforzi per una sua
213 Sono nove frammenti, tratti in parte da Noct. Att. 20.1, in parte da 11.18. 214 È il caso di [29] e [30], che riportano (non integralmente e sempre per parafrasi) il
testo di noc. Att. 11.18.1-8 e 10, sul tema del furto, dove si racconta come i decemviri – senza seguire l’esempio della legislazione ateniese e senza eccedere in severità né in clemenza – avessero regolato la punizione del fur manifestus (fustigazione e addictio se libero, fustigazione e deiectio e saxo se schiavo), anche per alcune particolari fattispecie considerate tanto gravi da permettere l’uccisione del ladro (fur nocturnus o qui se telo defendit). Cadute in desuetudine queste norme, per il fur manifestus era ormai solo prevista la sanzione del quadruplum. Fin qui Gellio. L’autore del Pandectum si limita ad aggiungere la poena dupli per il furtum nec manifestum, e, senza citare le Noctes Atticae, allega i paragrafi delle Istituzioni che nel titolo de actionibus indicano con quali azioni si agisca in duplum e con quali in quadruplum (Inst. 4.6.23 e 25). Il tema sarà poi ripreso in [61] (D. 47.2.55 (54).2), che riporta la disposizione delle XII Tavole sul ladro colto in flagranza nelle ore diurne, che può essere ucciso da chiunque si telo se defendat. 215 Cfr. DILIBERTO, Umanesimo cit., 102-103; ID., Una palingenesi cit., 496-500. 216 Inst. 2.22 pr.: “Superest ut de lege Falcidia dispiciamus, qua modus novissime lega-
tis impositus est. cum enim olim lege duodecim tabularum libera erat legandi potestas, ut liceret vel totum patrimonium legatis erogare (quippe ea lege ita cautum esset: uti legassit suae rei, ita ius esto). […] novissime lata est lex Falcidia, qua cavetur, ne plus legare liceat quam dodrantem totorum bonorum, id est ut, sive unus heres institutus esset sive plures, apud eum eosve pars quarta remaneret”. [13]: “Lex xii tabularum permittebat testatoris erogare legatis omnem suam substantiam. Sed hodie lex Falcidia hoc prohibet, saltem ne liceat ultra dodrantem. Insti. ad legem Falcidiam in principio”.
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revisione filologica fondata sulla littera Pisana o Florentina217, sforzi che sarebbero poi culminati nell’edizione del 1553 curata da Lelio e Francesco Torelli218. Circondato da un’aura di sacralità per il fatto di essere considerato l’originale giustinianeo, il codice era stato oggetto sin dal Medioevo di deferenti ma rare consultazioni219, sino a quando nel 1490 Angelo Poliziano – autorizzato da Lorenzo il Magnifico – poté collazionare integralmente i suoi incunaboli con l’antico manoscritto. Da allora, ed anche per altri canali, le varianti della Florentina iniziarono a circolare: delle note del Poliziano si servì ad esempio Alciato nel 1515220. Anche le edizioni a stampa del Digesto – già prima di quella, più significativa, dell’Haloandro del 1529 (la cd. littera Norica)221 – presero ad indicare progressivamente, con un’accuratezza filologica ancora precaria, le lezioni differenti rispetto alla littera Bononiensis o, secondo l’espressione umanistica, Vulgata222. Il nostro autore non sembra però aver partecipato a questo fermento, e “visite alla Pisana”, personalmente o, come altri, sulla scorta delle note del Poliziano, non deve averne compiute. Il testo che ha di fronte e da cui trae i frammenti sulle XII Tavole – forse un manoscritto, probabilmente un incunabolo – è una littera Vulgata accompagnata dalla glossa accursiana. Le inscriptiones sono ancora incomplete (saranno completate solo con l’edizione Torelli): ma, a differenza del du Rivail che farà continue citazioni dei giuristi classici, chi redige il Pandectum è indiffe-
217 Il manoscritto, conservato a Pisa dal XII secolo, venne portato a Firenze come bot-
tino di guerra dopo il 1406, e lì fu custodito a Palazzo Vecchio fino al 1782, quando fu trasferito nella sede attuale della Biblioteca Laurenziana. 218 Digestorum seu Pandectarum libri quinquaginta ex Florentinis Pandectis repraesen-
tati, Florentiae, in officina Laurentii Torrentini, 1553. 219 Cfr. S. CAPRIOLI, Visite alla Pisana, in Le Pandette di Giustiniano. Storia e fortuna di un codice illustre. Due giornate di studio, Firenze 23-24 giugno 1983, Firenze 1986, 37-98. 220 H. TROJE, Graeca leguntur, Köln — Wien 1971, 23. 221 Digestorum seu Pandectarum libri quinquaginta editi per Gregorium Haloandrum,
Norembergae 1529. 222 Secondo la definizione che ne diede H. BRENCMANNUS (BRENKMAN), Historia Pandectarum seu Fatum exemplaris Florentini, Trajecti ad Rhenum 1722, 260: “Vulgatam constituit ea lectio, in quam plures antiquae editiones, quae vulgo in manibus omnium erant, conveniunt, maxime quae ante Noricam et Florentinam prodiere”. La cd. Vulgata o littera Bononiensis, nonostante una progressiva ‘standardizzazione’ del testo, non coincise mai – né agli inizi della sua formazione, né successivamente –, con le lezioni di un unico codice (al contrario della littera Florentina), ma la sua (tendenziale) unitarietà nacque come risultato di un’attività di esegesi compiuta dalla scuola: per questa ragione l’apparato accursiano era strettamente legato alla lectio vulgata, e poteva essere messo in discussione dalle varianti introdotte in base alla Florentina.
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rente ai nomi dei giuristi, che, in linea con la tradizione medievale, non vengono mai richiamati. La finalità più evidente non è quella, filologica, di restituire un testo: non quello decemvirale, e certamente neanche una lezione ‘corretta’ di quello giustinianeo, che viene parafrasato e talvolta richiamato solo a sostegno del principio giuridico espresso dal testo effettivamente riprodotto. Eccone un esempio: (ff. 128v-129r) [10] Lex xii tabularum et lex Attilia prohibent usucapionem rerum furtiuarum, Insti. De usucapionibus § Furtiuae (Inst. 2, 6, 2).
(f. 136v) [55] Lex xii tabularum et lex Aquilia (sic) inhibent usucapionem rerum furtiuarum, ut l. Non solum in pr. ff. De usucapionibus (D. 41, 3, 33 pr.).
Il primo dei due frammenti è un excerptum di Inst. 2.6.2223, dove si dice che la legge delle XII Tavole e la lex Atinia vietavano l’usucapione delle res furtivae. Il secondo è – salvo ‘inhibent’ per ‘prohibent’, e la svista di ‘Aquilia’ per ‘Attilia’224 – la riproduzione letterale del primo, ma con l’allegazione finale di un passo del Digesto. Ora, D. 41.3.33 pr.225 cita le stesse leggi ma riguarda l’usucapibilità del figlio partorito da un’ancilla furtiva, da parte di un possessore di buona fede, ex iusta causa, qualora apud eum conceptus et editus eo tempore fuerit, quo furtivam esse matrem eius ignorabat. In questo caso, secondo Salvio Giuliano, avrebbe operato il titolo astrattamente idoneo all’usucapione, nisi […] obstaret la proibizione delle XII Tavole e della lex Atinia. In altre parole, D. 41.3.33 pr. è un passo che, pur citando la disposizione decemvirale, non aggiunge nulla alla sua ricostruzione, anzi ne dà per presupposta la conoscenza per regolare una fattispecie parzialmente differente. Il nostro autore dà conto del riferimento alla lex XII tabularum in quel luogo del Digesto, ma non lo riproduce, preferendo invece limitarsi a ripetere il contenuto della norma decemvirale, espresso in Inst. 2.6.2. 223 Inst. 2.6.2: “[…] nam furtivarum rerum lex duodecim tabularum et lex Atinia inhi-
bet usucapionem […]. 224 Attilia è una lezione vulgata e non un errore dell’autore del Pandectum. La si legge, ad esempio, nell’edizione lionese delle Istituzioni, pubblicata per i torchi di Michael Wensler nel 1496, al f. 23va. Aquilia è invece, evidentemente, una distrazione di chi ha scritto, o trascritto, il Pandectum. 225 D. 41.3.33 pr.: “Non solum bonae fidei emptores, sed et omnes, qui possident ex ea
causa, quam usucapio sequi solet, partum ancillae furtivae usu suum faciunt, idque ratione iuris introductum arbitror: nam ex qua causa quis ancillam usucaperet, nisi lex duodecim tabularum vel Atinia obstaret, ex ea causa necesse est partum usucapi, si apud eum conceptus et editus eo tempore fuerit, quo furtivam esse matrem eius ignorabat”.
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L’intento dell’opera sembra piuttosto, per così dire, ricostruttivo-esegetico: si vogliono isolare le XII Tavole dall’insieme del Corpus Iuris – riconsegnandole così ad una dimensione storica – ma per restituirne il contenuto più che la lettera. E infatti il testo decemvirale viene sì isolato, ma con la sua esegesi già incorporata: l’esegesi, ovviamente, della glossa accursiana. Le inserzioni di parti di glosse nel testo sono numerose. L’esempio forse più significativo riguarda la trattazione della disciplina del tignum iunctum, una forma di accessione di mobile ad immobile regolata già dalle XII Tavole e che presenta – a tutt’oggi – problemi importanti di interpretazione, tanto da poter esser definita un’“antica querelle”226. Il tignum, propriamente un trave di legno (lavorato o meno), era per estensione identificato con omnis materia ex qua aedificium constat, vineaeque necessaria227, e la normazione decemvirale vietava che potesse essere separato dall’edificio o rivendicato dal suo proprietario, al quale era invece concessa un’azione per ottenere il doppio del valore del bene (l’actio de tigno iuncto). I punti oscuri relativi alla materia sono, come accennavo, più d’uno228, e dettati da una certa contraddittorietà presente nella compilazione giustinianea: la tutela giudiziaria del dominus tigni (se possa esperire l’actio ad exhibendum o la rei vindicatio, e quando: esclusivamente soluta re o in costanza di congiunzione), la distinzione tra tignum furtivum o alienum (se esista o meno per l’epoca decemvirale), il destinatario del divieto di solvere tignum (se sia il solo proprietario del tignum, il proprietario dell’edificio, o entrambi). Una serie di questioni cui la dottrina medievale aveva ovviamente fornito le sue risposte, che avevano trovato una sintesi nell’apparato accursiano. Parte di quelle risposte sono state fatte proprie dall’autore della nostra silloge, ed incorporate nel testo. L’intento storicizzante che animava il lavoro risulta così, nei fatti, piuttosto ridimensionato: sia perché la ricerca dei glossatori di una disciplina coerente si serviva di una logica ba226 G. MELILLO, rec. a F. MUSUMECI, Inaedificatio, in Index, 20 (1992), 560. 227 D. 47.3.1.2 228 La letteratura sull’argomento è ampia, e ovviamente non è questa la sede per darne
conto compiutamente: mi limito a ricordare G. MELILLO, Tignum iunctum, Napoli 1964; R. QUADRATO, Tignum iunctum ne solvito (dalle XII Tavole a Giustiniano), in Annali della Fac. Giurisprudenza dell’Univ. di Bari, Bari 1967 (estratto); F. MUSUMECI, Vicenda storica del ‘tignum iunctum’, in BIDR, 81 (1978), 201-265; ID., Inaedificatio, Milano 1988; H. HINKER, Tignum iunctum, in ZSS(RA), 108 (1991), 94-122. Segnalo infine il recente contributo di H. H. JAKOBS, Tignum iunctum und Pandektenkritik, ibid. 124 (2007), 198-289.
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sata sulla compilazione giustinianea, e non (se non in modo occasionale e senza gli adeguati strumenti tecnici) su una prospettiva diacronica, sia per il venir meno, nell’opera che stiamo esaminando, della separazione – che visivamente la pagina glossata conservava – tra il testo normativo e la sua più tarda interpretazione. L’esegesi accursiana sostanzialmente individuava in una ragione di publica utilitas il divieto di solvere tignum, che poneva in capo anche al proprietario dell’edificio229, ne urbs deformetur, e richiamava un passo di Ulpiano relativo ad una diversa fattispecie, ovvero il caso della costruzione su suolo pubblico nemine prohibente230 (D. 43.8.2.15: si quis nemine prohibente in publico aedificaverit, non esse eum cogendum tollere, ne ruinis urbs deformetur)231. La stessa motivazione, come si vede, si ritrova nel nostro Pandectum, mentre il testo di riferimento da cui il passo è tratto (Inst. 2.1.29) non conteneva nessun espresso accenno a ragioni urbanistiche o di interesse pubblico: Reg. lat. 450 (f. 128r)
Inst. 2.1.29
[8] Eadem lege statuitur ne quis tignum alienum aedibus suis iniunctum eximere cogatur: sed liberetur dando domino duplum aestimationis ne ciui-
Cum in suo solo aliquis aliena materia aedificaverit, ipse dominus intellegitur aedificii, quia omne quod inaedificatur solo cedit. nec tamen ideo is qui materiae dominus fuerat desinit eius dominus esse: sed tantisper neque vindicare eam potest neque ad exhibendum de ea re agere propter legem duodecim tabularum, qua cavetur, ne quis tignum alienum aedibus suis iniunctum eximere cogatur, sed duplum pro eo praestat per actionem quae vocatur de
229 Gl. de tigno iuncto ad Inst. 2.1.29: “[…] Sed quid si velit magis rem reddere, et
eximere, quam duplum praestare ? Respondeo non auditur, quia propter publicam utilitatem hoc fuit statutum […]”; gl. descendit ad D. 6.1.23.6: “[…] Respondeo: non est audiendus, quia non sui favor est hoc statutum, sed propter publicam utilitatem […]”. L’ultima delle due glosse tuttavia ricordava che, secundum quosdam, il divieto assoluto di separazione sarebbe valso solo nei riguardi del proprietario che avesse unito il tignum all’edificio in mala fede. Per l’apparato al Digestum Vetus è stata consultata l’edizione Lugduni, apud Hugonem a Porta, 1557. 230 QUADRATO, Tignum iunctum cit., 13. 231 Gl. vetaret ad D. 10.4.6: “ne urbs deformetur, ut […] infra Ne quid in loco publico l.
ii § Si quis neminem (D. 43.8.2.15) […]”.
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tas ruinis deformetur232 § Cum in suo tigno iuncto (appellatione autem tigni Insti. De rerum diuisione (Inst., 2.1.29). omnis materia significatur ex qua aedificia fiunt): quod ideo provisum est, ne aedificia rescindi necesse sit.
Ancora un esempio in tema di tignum iunctum; tra i sei frammenti in materia certamente il più significativo e rivelatore del metodo adottato dall’autore: Reg. lat. 450 (f. 137v)
D. 46.3.98.8 fin.
Glossa ordinaria
[60] Tignum alienum aedibus iniunctum suis per aliquem mala fide uendicari potest ac tanti damnatur is cuius sunt aedes quanti in litem iuratum fuerit: nihilominus tamen si uelit dominus tigni consequetur duplum per actionem de tigno iniuncto ne melioris sit conditionis qui mala fide iniunxit eo qui bona fide. Id quoque cautum est lege xii tabularum, ut l. Qui res in fine ff. De solutionibus (D. 46.3.98.8 fin.).
[…] Denique lex duodecim tabularum tignum aedibus iunctum vindicari posse scit (vulgata sciscit), sed interim id solvi prohibuit pretiumque eius dari voluit.
gl. Sciscit ad D. 46.3.98.8] id est statuit. alias, si scit, scilicet alienum, id est si mala fide iunxit […]. gl. Dari ad D. 46.3.98.8] quantum in litem iuratum fuerit […]. gl. Sciscit ad D. 46.3.98.8] […] nihilominus tamen potest agi actione de tigno iniuncto, qua consequatur in duplum, si ei hoc placuerit: ne melioris conditionis sit quam qui bona fide iniunxit […].
D. 46.3.98.8 fin. (riportato nella seconda colonna nell’edizione Mommsen) è un passo di Paolo, di interpretazione estremamente controversa. È poco comprensibile scit, e poco chiaro cosa il giurista intendesse parlando di pretium: è stato ipotizzato che si riferisse a quanto conseguibile agendo de tigno iuncto233, oppure con una rei vindicatio234, o anche con un’actio ex stipulatu235. Il frammento corrispondente della nostra raccolta [60] è assai meno enigmatico e molto più ampio del paragrafo paolino che vorrebbe riprodurre. I periodi aggiunti – come il confronto con la terza colonna mo232 In corsivo sono indicate le parti aggiunte rispetto al testo giustinianeo, tratte dall’apparato accursiano. Per le glosse è stata consultata l’edizione del Digestum Novum Lugduni, apud Hugonem a Porta, 1556. 233 MUSUMECI, Vicenda storica cit., 217; HINKER, Tignum iunctum cit., 119. 234 QUADRATO, Tignum iunctum cit., 25 nt. 70 e 35-44. 235 MELILLO, Tignum iunctum cit., 49-50.
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stra chiaramente – sono inserzioni di glosse che, pur nella brevità, finiscono per fare del testo quasi un compendio dell’esegesi accursiana in tema di tignum. Innanzi tutto, l’esperibilità della rei vindicatio, che sembrerebbe contraria alla disciplina decemvirale, è riferita dall’autore del Pandectum al caso di unione in mala fede del tignum all’edificio (“per aliquem mala fide”), esattamente come la glossa corrispondente. La lectio vulgata, a ben vedere, aveva al posto di scit (la lezione florentina adottata dal Mommsen) l’altrettanto problematico sciscit: che, diceva la glossa, significa “statuit” ma si può leggere anche “si scit”, dunque “si scit alienum”. Detto per inciso, nel De verborum significatione Andrea Alciato criticherà Accursio, che “si scit separatim legit” laddove, a parere dell’umanista, avrebbe dovuto invece intendere sciscere come confirmare236. Alciato però, con un eccesso di severità, tralasciava di rilevare come la glossa, al principio, fornisse proprio la fedele interpretazione di sciscit, ossia “statuit”. Ma “si scit”, anzi “si scit alienum”, era considerata una lettura preferibile perché si inseriva nel tentativo di rendere più coerente la regolamentazione giustinianea del tignum iunctum. In un passo sul medesimo argomento, D. 6.1.23.6, si diceva infatti che il proprietario del tignum non potesse giovarsi né di una rei vindicatio né di un’actio ad exhibendum, se non adversus eum qui sciens alienum suis aedibus iunxit. La coscienza dell’alterità identificava la mala fede237: e la disciplina del tignum elaborata dai glossatori si basava tutta sulla distinzione tra possessore di buona fede, contro il quale si poteva agire solo in duplum con l’actio de tigno iuncto238, e possessore di mala fede (qui 236 Alciato evidentemente in questo caso non aveva dinanzi la variante florentina “scit”, ma leggeva anche lui da un testo che aveva “sciscit”. La critica ad Accursio è nel commento a D. 50.16.62 nel De verborum significatione (qui consultato nell’edizione degli Opera omnia, Basileae, apud Thomam Guarinum, 1571, I, 217): “Sane verborum legis xii tabularum in iure quoque mentio est, ubi dicitur, quemadmodum ea lex tignum aedibus iunctum vendicari posse sciscit, sed interim id solvi prohibuit, preciumque dari voluit. Quo in loco Accursius, si scit separatim legit, nimirum ignorans, idem esse sciscere, quod confirmare: unde et plebiscitum dicitur”. 237 Nelle glosse è molto rara l’espressione tignum furtivum, si parla piuttosto di tignum alienum specificando se si tratti di unione di mala o bona fides. 238 In realtà la stessa glossa ordinaria testimonia una certa disparità di opinioni tra i doctores sull’esperibilità dell’actio de tigno iuncto nei riguardi del possessore di buona fede, alcuni negandola (come Giovanni Bassiano), altri arrivando ad ipotizzare che il dominus aedium di buona fede potesse essere condannato solo in simplum. Gl. de tigno iuncto ad Inst. 1.2.29: “[…] numquid haec actio competit etiam contra eum, qui bona fide iunxit? Respondetur sic ut hic, licet contradixerunt quidam […]”; gl. furtivum ad D. 24.1.63: “nota quod eo solo casu cum quis mala fide iniunxit agi potest de tigno iniuncto, non alias, sed agitur rei vindicatio et iuratur in litem, ut Institutionibus De rerum divisione § Cum in suo.
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sciens […] iunxit), contro il quale si disponeva di cinque azioni239, tra le quali appunto la rei vindicatio e l’actio ad exhibendum. Naturalmente – a causa del divieto decemvirale di solvere tignum – queste non potevano portare ad una materiale restituzione della cosa, ma solo al conseguimento del suo valore (il pretium del frammento di Paolo), che veniva determinato attraverso una giuramento estimatorio. È in questo senso che può intendersi la seconda aggiunta al nostro frammento: “(uendicari potest ac tanti damnatur is cuius sunt aedes) quanti in litem iuratum fuerit”. La terza inserzione (nihilominus tamen, si uelit dominus tigni consequetur duplum per actionem de tigno iniuncto, ne melioris sit conditionis qui mala fide iniunxit eo qui bona fide) è anch’essa tratta dalla glossa, e riguarda la possibilità di agire de tigno, quindi in duplum, anche contro il possessore di mala fede: perché, se questi fosse stato obbligato solo per il valore stimato della cosa, avrebbe avuto un trattamento più favorevole rispetto a chi avesse unito il tignum in buona fede, condannato sempre al duplum. Riassumendo, il nostro autore finisce per dire: 1. che contro il dominus aedium di mala fede il proprietario del tignum può esperire l’actio de tigno o la rei vindicatio; 2. che la revindica non porta al conseguimento del bene ma del suo valore; 3. che il valore viene quantificato con un giuramento estimatorio in litem; 4. che il dominus tigni può agire de tigno iuncto contro il possessore di buona fede per ottenere una condanna al duplum. Il testo iniziale, il controverso paragrafo di Paolo, è stato insomma trasformato in una sintesi dell’interpretazione dottrinaria medievale su quello stesso paragrafo. La glossa accursiana, maneggiata con una certa padronanza, è apparentemente l’unica fonte dottrinaria di cui il nostro autore si è servito per integrare il testo. Fa eccezione – o sembra farla – il riferimento ad un giurista indicato come Aretino, del quale viene richiamato il commento ad un titolo delle Istituzioni (“secundum Aretinum in § InstitutioIo.”; gl. descendit ad D. 6.1.23.6: “[…] sed numquid etiam bonae fidei possessor tenetur in duplum? Quidam dixerunt in simplum tantum […]”. 239 Gl. descendit ad D. 6.1.23.6: “[…] Item notate quod contra hunc malae fidei possessorem quinque competunt actiones, scilicet rei vindicatio, item ad exhibendum, item de tigno iuncto, item condictio furtiva et actio furti. Item, duae primae dantur quasi desierit dolo possidere, aliae non. Item prima et secunda et quarta, quia rei persecutoriae sunt invicem, una per aliam tollitur. Idem in tertia quantum ad simplum unum, quod rei persecutionem continet. Quinta vero, scilicet furti, nullam persecutoriam tollit, sed tantum penae; sed actio de tigno iuncto, in eo quod poenam continet, actioni furti detrahit, aliae vero non, quia rem persequuntur […]”.
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M . BUONOCORE
— O.
DILIBERTO
— A.
FIORI
num de legitima agnatorum tutela”240). Per antonomasia, l’appellativo di Aretino è attribuito al giureconsulto quattrocentesco Francesco Accolti241; in questo caso, tuttavia, i rimandi specifici all’opera e al contenuto consentono di identificare un altro celebre giurista di Arezzo, Angelo Gambiglioni242. Noto soprattutto per il suo Tractatus de maleficiis, il Gambiglioni fu autore di una Lectura super Institutionibus243 conclusa nel 1449, apparsa a stampa per la prima volta nel 1473 e destinata ad uno straordinario successo editoriale. Il riferimento alla sua opinione è molto puntuale, e potrebbe far supporre una conoscenza approfondita dell’opera, peraltro assai diffusa anche tra i pratici244. Tuttavia, come segnalato da Paola Maffei, passi del commentario alle Istituzioni sono stati spesso inseriti dagli editori a corredo della compilazione giustinianea245. L’estensore della nostra raccolta potrebbe dunque aver consultato direttamente la Lectura, oppure aver tratto la tesi del Gambiglioni dal volume delle Istituzioni che aveva dinanzi a sé.
240 F. 140r [76]: “[…] et quoad propositum nostrum, scilicet lex xii tabularum, ipsa defert agnatis proximis tutelam qui non debent suscipere administrationem sine iudicis auctoritate, ut l. fi. § Omnem autem dubitationem Codicis De administratione tutorum (C. 5.37.28.4), qui textus est singularis ad hoc secundum Aretinum in § Institutionum De legitima agnatorum tutela […]”. 241 Per la bibliografia su Francesco Accolti si rimanda alla voce redazionale del Dizionario biografico degli italiani, I, Roma 1960, 104-105. Cfr. anche E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, II, Il Basso Medioevo, Roma 1995, 447 nt. 154. 242 Sulla vita e l’opera di Angelo Gambiglioni cfr. D. e P. MAFFEI, Angelo Gambiglioni giureconsulto aretino del Quattrocento. La vita, i libri, le opere, Roma 1994 (Biblioteca della Rivista di Storia del Diritto Italiano, 34), e P. MAFFEI, Gambiglioni Angelo, in Dizionario biografico degli italiani, LII, Roma 1999, 115-118. Il nome di Francesco Accolti non è in realtà del tutto estraneo alla Lectura super Institutionibus del Gambiglioni, anzi a partire da una stampa veneziana del 1492 e fino alla metà del Cinquecento, le edizioni della Lectura sono state spesso accompagnate dai Casus dell’Accolti (MAFFEI, Angelo Gambiglioni cit., 45 nt. 18 e 88). 243 L’opera è stata qui consultata nell’edizione veneziana del 1563, ANGELI A GAMBILIONIBUS ARETINI
I.C. Clarissimi in Institutiones Iustiniani Commentarij, Venetiis, Aurelius Pincius excudebat, 1563, f. 38va: “[…] et expresse etiam promittat defensionem pupilli, videlicet ipsum indefensum non relinquere, ut est casus singularis in l. fi. § defensionem C. de administratione tutorum […] quia hoc specialiter et expresse requiritur a lege, ut ibi dicitur”.
244 A. MATTONE — T. OLIVARI, Dal manoscritto alla stampa. Il libro universitario italiano nel XV secolo, in M. ASCHERI — G. COLLI cur., P. MAFFEI coll., Manoscritti, editoria e biblioteche dal medioevo all’età contemporanea. Studi offerti a Domenico Maffei per il suo ottantesimo compleanno, II, Roma 2006, 709. 245 MAFFEI, Angelo Gambiglioni cit., 45 e 102-109.
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UN MANOSCRITTO INEDITO IN TEMA DI LEGGE DELLE XII TAVOLE
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Giunti alla conclusione, ritorniamo alle nostre premesse. Quello del manoscritto vaticano è una raccolta di testi sulla legge delle XII Tavole un po’ diversa dai tentativi palingenetici, più o meno contemporanei, sin qui noti. Con essi ha in comune l’intento di collocare in una prospettiva storica la normativa decemvirale: ed è un intento implicito nel fatto stesso di volerne separare i contenuti dal “mare magnum” della compilazione giustinianea, raccontandone la storia attraverso le narrazioni di Tito Livio, di Pomponio e di Aulo Gellio. Lo spirito umanistico è però interpretato, in questo caso, da un giurista di formazione tradizionale, che non cerca di restituire il testo delle XII Tavole, tanto meno di ricostruirne l’impianto246, ma piuttosto di riassemblarne i precetti e contestualmente di chiarirne il significato alla luce dell’interpretazione dottrinaria: non quella complessa e creativa elaborata dai Commentatori nei secoli a lui più vicini, ma quella offerta dai codici che stava consultando per trarne la normativa decemvirale, ovvero la glossa ordinaria al Corpus Iuris. Antonia Fiori
246 Cfr. DILIBERTO, Di un modesto cit., 464.
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M . BUONOCORE
— O. DILIBERTO — A. FIORI
Tav. I — Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 450, f. 126r.
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Tav. II — Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 450, ff. 127v-128r.
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M . BUONOCORE
— O. DILIBERTO — A. FIORI
Tav. III — Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 450, ff. 133v-134r.
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Tav. IV — Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 450, ff. 137v-138r.
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M . BUONOCORE
— O. DILIBERTO — A. FIORI
Tav. V — Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 450, ff. 139v-140r.
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Tav. VI — Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 450, ff. 142v-143r.
UN MANOSCRITTO INEDITO IN TEMA DI LEGGE DELLE XII TAVOLE
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GIUSEPPINA CAPRIOTTI VITTOZZI
UNA ENIGMATICA FIGURA NEL CODICE FERRAJOLI 513 E UNA LAMPADA DA CANOSA: ASPETTI DELLA MAGIA DI ORIGINE EGIZIA* 1. Il Codice Ferrajoli 513 Nel Codice Ferrajoli 5131, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, si può osservare un disegno a china raffigurante la fronte e il retro di una figura umana panneggiata (Tav. I). Il disegno è stato realizzato su un foglio aggiunto e incollato alla fine della raccolta (f. 42v), in carta più leggera che il restante fascicolo. Il Codice Ferrajoli 513 è noto per il fatto che contiene un’importante raccolta di epigrafi marsicane: esso uscì dalla penna di mons. Giovanni Camillo Rossi, Vescovo dei Marsi tra il 1805 e il 1818. Il codice passò attraverso diverse mani2 e le alterne vicende sono ricordate all’inizio della raccolta da un’annotazione di Giuseppe Gatti, il quale fa memoria di come il codice fu posseduto da Filippo de’ Romanis che lo rese noto a Clemente Cardinali, il quale pubblicò diverse epigrafi ivi descritte. Alla morte del Cardinali, il codice rimase tra le sue carte in mano agli eredi, per essere acquistato intorno al 1890, insieme al resto, dai marchesi Ferrajoli, i quali donarono infine tutta la biblioteca di famiglia a Papa Pio XI nel 19263. Il codice ha una sua connotazione unitaria, dovuta alla mano di mons. Rossi, che con precisione ha annotato anche i luoghi di provenienza delle epigrafi che andava copiando, tuttavia sono anche riconoscibili aggiunte allogene, ad esempio del Cardinali4 o del Gatti. Non è * Sono molto grata a Marco Buonocore, Scriptor Latinus e Direttore della Sezione Archivi della Biblioteca Apostolica Vaticana, che mi ha indicato l’esistenza del disegno incoraggiandomi a studiarlo. Ringrazio il dott. Giuseppe Andreassi, Soprintendente Archeologo per la Puglia e la dott. Marisa Corrente, archeologa nella stessa Soprintendenza, per avermi dato la possibilità di studiare le iscrizioni della lampada da Canosa e aver concesso il disegno dell’oggetto. Grazie inoltre al Prof. Emanuele M. Ciampini, per le interessanti conversazioni sugli aspetti della magia egizia, al prof. F. E. Brenk S.J., al prof. G. Garbini, al prof. Vincent Laisney O.S.B. e al dott. Ennio Sanzi per le generose indicazioni. 1 Sul codice, si veda BERRA 1948, pp. 116-117; BUONOCORE 1987; ID. 2004, pp. 26-29. 2 RUSSI 1978, p. 131. 3 Ibid. 4 Ibid. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 101-127.
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GIUSEPPINA CAPRIOTTI VITTOZZI
dunque possibile definire con chiarezza se il disegno sia stato realizzato dal Rossi stesso oppure da altri, magari su sua commissione: forse l’abilità richiesta dal soggetto, piuttosto complesso, faceva difetto al prelato, il quale si era comunque sforzato di copiare altrove eventuali decorazioni delle epigrafi in maniera piuttosto sommaria. Sfogliando il codice, si trovano infatti piccoli disegni e schizzi5 che sono realizzati con una penna meno sottile di quella usata per la figura panneggiata; in questi disegni l’autore ombreggia le figure con una serie di tratti paralleli che seguono un andamento a spirale. Il disegno del f. 42v appare più dettagliato e fine, anche se di proporzioni incerte e a tratti tecnicamente un po’ ingenuo. Va notato infine che il colore dell’inchiostro usato è simile a quello delle copie di mons. Rossi, mentre appare diverso in altre aggiunte allogene6. In conclusione, non abbiamo certezza che la figura sia opera dell’autore del codice e neanche che essa sia stata aggiunta dallo stesso alla raccolta di epigrafi, anche se quest’ultima ipotesi sembra probabile. 2. La figura sul f. 42v del Codice Ferrajoli 513 La figura è piuttosto sproporzionata: le spalle sono molto ampie e la parte inferiore del corpo un po’ corta; essa è tutta avvolta in ampie vesti: il mantello ricade abbondantemente sotto i gomiti mentre vela il capo. Le braccia sono incrociate sul petto, la destra visibile solo nell’area del gomito e della parte immediatamente inferiore, mentre il polso e la mano si nascondono sotto l’avambraccio sinistro, che si leva a tenere il velo, quasi nell’atto di coprirsi il viso; quest’ultimo è volto verso destra. Sul capo si nota un minuscolo coronamento di incerta natura. La figura sta su un piccolo plinto iscritto; il disegno lo rappresenta come diviso in tre parti, la centrale più larga mentre le due laterali strette e scurite dal tratteggio: la parte centrale rappresenta evidentemente la fronte del parallelepipedo e il riquadro a destra di chi guarda la faccia laterale in vista; è probabile dunque che il riquadro a sinistra raffiguri la faccia opposta, che il disegnatore ha riportato distesa sul piano. Sotto il gomito destro, si nota uno spigolo sporgente, incongruente rispetto alla silhouette della figura: si può supporre che si trattasse di una rottura accidentale spiegabile solo se la figura fosse stata realizzata in metallo, probabilmente bronzo; lo stesso motivo potrebbe giustificare 5 Ad esempio ff. 17v, 19v, 20r, 35. 6 RUSSI 1978, p. 132.
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UNA ENIGMATICA FIGURA NEL CODICE FERRAJOLI 513
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l’incoerenza delle proporzioni, ad esempio l’ampiezza delle spalle, forse dovuta ad uno schiacciamento del manufatto. Il disegno che riproduce il retro della figura riporta alternate iscrizioni in caratteri greci e immagini. 3. Un possibile contesto di riferimento per la figura del Codice Ferrajoli 513 La figura del Codice Ferrajoli 513 e le sue iscrizioni restano enigmatiche per la difficoltà di stabilire dei confronti precisi, tuttavia è possibile tentarne una comprensione avvicinandola ad oggetti conosciuti e inserendola in ambiti di ricerca già esplorati. Alcuni aspetti ci aiutano in questo tentativo: il coronamento sul capo, sebbene poco leggibile, fa riferimento con una certa chiarezza all’ambito delle divinità di origine egizia nella loro immagine ellenistica e romana; a ciò ben si accorderebbe la presenza delle figure/iscrizioni sul retro e il loro carattere criptico, che rimanda ad una pratica diffusa nelle iscrizioni magiche. I due motivi si ritrovano anche in una lampada bronzea mummiforme da Canosa, che appartiene ad una categoria di oggetti non molto diffusa per le nostre conoscenze. Decisivo per la considerazione di questa, è stato il lavoro di P. Gallo, che portò inizialmente all’attenzione una bellissima lucerna bronzea ritrovata a Luni e precedentemente ritenuta un falso7. Nel 1998, un nuovo articolo dello studioso ha accostato all’oggetto lunense altre due lampade in terracotta, rispettivamente da Atene ed Alessandria8. Nello stesso anno, è comparsa in Archeologia Viva la piccola fotografia di una lucerna bronzea mummiforme ritrovata qualche anno prima a Canosa di Puglia9. Proprio su quest’ultimo oggetto, non ancora adeguatamente conosciuto, possiamo soffermarci per avviarci alla comprensione della figura del Codice Ferrajoli 513. 4. La lucerna di Canosa La lucerna10 fu ritrovata (Tavv. II-III) nel corso di scavi condotti dalla Soprintendenza archeologica tra giugno 1991 e maggio 1992; essa fu rinvenuta incastrata in un muro divisorio di un’abitazione 11. 7 GALLO 1994. 8 GALLO 1998. 9 CORRENTE 1998, p. 57. 10 Museo Archeologico di Canosa, n. 53835. Alt. cm 16 circa, largh. mass. cm 4 circa. 11 CORRENTE 1992, p. 245; ID. 2005, pp. 37-41.
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GIUSEPPINA CAPRIOTTI VITTOZZI
La lampada ha la forma di un personaggio avvolto in un abito che ha una caratteristica quadrettatura la quale può essere identificata con quella che avvolgeva spesso le figure mummiformi: doveva trattarsi di una reticella oppure poteva essere lo stesso bendaggio a realizzare una lavorazione a quadri o a rombi. Nei due casi, possiamo considerare ad esempio una statuetta di Ptah ritrovata a Roma12, oppure le raffigurazioni della mummia nella tomba di Tigrane Pascia ad Alessandria13, alla quale d’altra parte fanno riscontro numerose mummie conservate in vari musei e in particolare nel Museo Greco-Romano di questa stessa città. Nel caso della lampada pugliese, abbiamo un’insolita caratteristica: il personaggio tiene le braccia lungo i fianchi invece che sul petto, inoltre ha gli occhi chiusi. Sul capo, vediamo un coronamento che ad un’osservazione attenta sembrerebbe essere una piccola doppia corona regale egizia. Il viso è ben modellato e il bendaggio che copre il capo lascia fuoriuscire sulla fronte dei capelli proseguendo verso il petto con uno scollo a V. L’uso di lasciare i capelli scoperti sulla fronte in una frangia scomposta non deriva dalla tradizione egizia ma si è affermato a partire dalla statuaria regale tolemaica. Sul davanti della figura, tre fasce iscritte sono sottolineate nel bordo superiore e inferiore da due incisioni parallele: tra la prima e la seconda, all’altezza dell’addome, c’è il primo grande foro funzionale alla lampada; il secondo si trova sulla parte bassa delle gambe; al di sotto di questo, i piedi emergono dalle bende. Sul dorso della figura, una forma arcuata e appiattita ne agevola la stabilità e offre il supporto per ulteriori iscrizioni. 5. Aspetti teologici e magici Nel presentare le altre lampade mummiformi, P. Gallo ha giustamente messo in luce il loro valore osiriaco, supponendo che esse potessero avere un ruolo nelle cerimonie liturgiche dell’Inventio Osiridis14. Lo stesso studioso ha notato come l’accendersi della luce sul corpo mummiforme non può non ricordare la formula spesso riportata sulle figurine mummiformi degli ushabti, dove si legge süð wsér. Questa formula, chiaramente analizzata da E. M. Ciampini15, indica il momento dell’illumina12 CAPRIOTTI VITTOZZI 2006b. Si veda anche un bronzetto al Museo Nazionale Archeologico di Napoli, raffigurante probabilmente il dio Ptah: BAROCAS 1989, p. 100, inv. 353, 410. 13 VENIT 1997. 14 GALLO 1994, p. 80; GALLO 1998, p. 153. 15 CAPRIOTTI VITTOZZI — CIAMPINI 1996, pp. 270-273.
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UNA ENIGMATICA FIGURA NEL CODICE FERRAJOLI 513
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zione del defunto che coincide con un passaggio fondamentale della rinascita, facendo riferimento all’unione tra il corpo di Osiride che giace nell’oscurità dell’oltretomba e la divinità solare. Va qui ricordato che questo nodo fondamentale della teologia egizia riguardante l’ambito della liturgia templare e quello funebre concernente il sovrano, conosciuto ampiamente soprattutto attraverso le elaborazioni del Nuovo Regno16, si sottende nel tempo alle credenze funerarie riguardanti ciascun individuo: ogni uomo, infatti, nella morte può divenire Osiride. In tal senso, è interessante notare come la presenza dei cosiddetti vasi canopi raffiguranti i figli di Horo, sul dorso della lampada di Luni, sembra alludere alla funzione di queste quattro divinità riconosciuta già nei Testi delle Piramidi17. Rispetto all’immaginario evocato dalla lampada di Luni, quella di Canosa chiarisce funzioni e aspetti diversi, inserendo l’uso della lucerna nell’ambito dei rituali magici, grazie alle iscrizioni in caratteri greci che vediamo sulla sua superficie, ambito al quale sarebbe appartenuta anche la figura rappresentata nel Codice Ferrajoli 513. Come ha ben chiarito recentemente Y. Koenig18, in Egitto la magia non era scissa dall’ambito religioso ma ne costituiva l’espressione: la potenza della parola magica va compresa alla luce dei miti cosmogonici nei quali il dio creatore chiama in esistenza attraverso la parola. La parola è dunque epifania. Analogo valore ha l’immagine, anch’essa elaborata dal creatore in altri miti cosmogonici, nei quali il dio modella nella creta19. Se la magia rappresenta una modalità di rapporto tra uomo e realtà, investendo anche la ritualità templare, essa esprime ampiamente la religiosità personale e, durante l’Ellenismo, si coniuga con altre credenze vicino-orientali e in particolar modo ebraiche, utilizzando spesso la scrittura greca: i testi magici di epoca greca e romana sono una delle espressioni efficaci dell’ambiente multiculturale sviluppatosi in Egitto. 6. Qualche nota sui testi magici L’esistenza dei testi magici va compresa nell’ambito della concezione egizia della parola sacra: essendo il legame tra significato e significante
16 In tal senso sono illuminanti le rappresentazioni dell’aldilà nelle tombe regali della Valle dei Re, tuttavia ritroviamo riti connessi alla stessa visione teologica ancora nei templi di epoca romana. Si veda anche § 7. 17 E.M. Ciampini in CAPRIOTTI VITTOZZI — CIAMPINI 1996, p. 273. 18 KOENIG 2002. 19 Per una sintesi di questi argomenti, si veda CAPRIOTTI VITTOZZI 2005a, pp. 18-23.
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GIUSEPPINA CAPRIOTTI VITTOZZI
assolutamente necessario e non arbitrario, la parola rituale era ovviamente intraducibile20. In Egitto, i testi sacri venivano elaborati da sacerdoti specialisti della Casa della Vita, istituzione interna all’ambiente templare, che aveva la funzione di rinnovare e mantenere la vita, sia dell’individuo che del paese, rendendo attuali le parole divine. I libri della Casa della Vita erano definiti bau di Ra, ovvero il potere della divinità suprema21. Tracce di questa concezione si ritrovano in autori non egizi, fino all’epoca tarda. Erodoto ricorda che i Pelasgi appresero i nomi degli dei dagli Egiziani e successivamente li insegnarono ai Greci (Hist. II 52). Luciano di Samosata ugualmente spiega che gli Egiziani per primi conobbero i nomi sacri e pronunciarono i sacri discorsi (lügou" èro˜") (De Dea Syria 2). A Giamblico, infine, dobbiamo una riflessione chiarificatrice; egli infatti scrive: … se i nomi venissero attribuiti sulla base di una semplice convenzione, sarebbe senza nessuna importanza usarne uno piuttosto che un altro; ma se essi sono legati alla natura degli esseri, quelli che più vi si avvicinano penso siano i più graditi agli dei; per questo è preferibile usare i nomi delle lingue dei popoli sacri così come sono: una traduzione, infatti, non permetterebbe di conservarne il medesimo senso... (De misteriis Aegyptiorum VII 5; traduzione di A. Anzaldi). L’uso di testi sacri egizi nel mondo romano è testimoniato da varie fonti. Apuleio, per bocca di Lucio, descrive i rotoli sacri usati dal sacerdote isiaco scritti in caratteri sconosciuti, alcuni caratterizzati da figure di animali, altri nei quali la scrittura era fitta e complicata e girava come una ruota (Metamorph. XI 22). Fonti iconografiche ci mostrano sacerdoti isiaci nell’atto di leggere da rotoli di papiro22. Di estremo interesse appare il fatto che nel cosiddetto rilievo di Ariccia23, una delle più importanti rappresentazioni di luogo di culto isiaco in ambiente romano, la statua di divinità femminile seduta tiene sulle ginocchia un papiro aperto: Iside si presenta dunque come signora delle parole sacre, confermando la sua antica fama di maga.
20 Sulla magia e i testi magici in Egitto: La magia in Egitto; KÁKOSY — ROCCATI 1991; La
magie en Égypte; BORGHOUTS 2002; ROCCATI 2002; KOENIG 2002. 21 M. WEBER, in LÄ III, 954-957 s.v. Lebenshaus; GARDINER 1938; CAPRIOTTI VITTOZZI 2004, pp. 73-75. 22 Ad esempio in un dipinto dal tempio di Iside a Pompei: Napoli, Museo Archeologico
Nazionale, inv. 8925; recentemente DE CARO 2006, p. 100, n. II.21, 1.46. 23 LEMBKE 1994a, tav. 3.1; LEMBKE 1994b; L. SIST, in DE ANGELIS D’OSSAT 2002, 266-
267.
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UNA ENIGMATICA FIGURA NEL CODICE FERRAJOLI 513
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Il periodo ellenistico e quello romano ci hanno restituito un gran numero di testi magici, in gran parte scritti in greco ma non solo, all’interno dei quali si alternano passi recanti prescrizioni traducibili e parole da pronunciare di difficile o impossibile comprensione: queste ultime rispondono all’esigenza, riconosciuta anche da Giamblico, di non tradurre le parole sacre. Nonostante i caratteri greci generalmente utilizzati, non siamo davanti a motti greci ma a trascrizioni di espressioni di origine egizia coniugate talvolta a forme allogene, spesso di origine ebraica24. La difficoltà di comprensione risiede anche nel fatto che si tratta di formulazioni infinitamente ripetute, anche in assenza di comprensione, e dunque – potremmo dire – consumate e trasformate dall’uso: fenomeno linguistico non lontano da quello che si poteva riscontrare in alcune formule latine utilizzate nelle preghiere a livello popolare fino a qualche decennio fa. In alcuni casi, troviamo dei nomi divini o dei motti anagrammati25, in altri, le parole da pronunciare sono dei veri e propri abracadabra26, in cui si affida a suoni allusivi, ripetuti e progressivamente variati, la funzione di evocare o suggestionare. Accanto a questi, infine, si trovano spesso i cosiddetti characteres27, grafemi che riprendono segni alfabetici di varia origine o anche geroglifici, segni aniconici che esprimono la forza di una divinità28 e utilizzano un linguaggio per iniziati. Diffusi a livello popolare dalla ricerca di una magia che risolvesse problemi di carattere quotidiano e spesso con intenzioni distruttive, i testi magici in circolazione nel mondo romano dovettero essere numerosi. Conosciamo episodi nei quali vennero bruciate quantità notevoli di papiri: secondo quanto narra Svetonio (Augustus 31.1), Augusto fece dare alle fiamme duemila rotoli; gli Atti degli Apostoli (19.10) ricordano la distruzione di libri magici avvenuta ad Efeso. Brevi motti magici circolavano anche su supporti diversi e meno vulnerabili, come le gemme magiche o piccole lastre metalliche. Il passo già ricordato di Apuleio testimonia l’uso in ambiente templare di testi forse geroglifici, ma anche di altri nei quali l’andamento stesso
24 BONNER 1950, pp. 11-12 ; DELATTE — DERCHAIN 1964, p. 15-16. Sui testi magici, si veda anche BRASHEAR 1995, PERNIGOTTI 1995. 25 BONNER 1950, p. 12. 26 QUACK 1998, p. 90. 27 BONNER 1950, p. 12 ; MASTROCINQUE 2004, pp. 90-98. 28 Ibid., pp. 91-92.
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GIUSEPPINA CAPRIOTTI VITTOZZI
della scrittura tendeva a creare figure, così come ne conosciamo ancora oggi ad esempio tra i papiri magici in greco 29. 7. Ancora sulla lampada di Canosa Pur nella sua unicità, la lucerna pugliese è dunque comprensibile in un preciso ambito tematico e collocabile in una categoria di materiali conosciuta. La figura osiriaca e la sua illuminazione rientra chiaramente nella tradizione della teologia egizia: se nelle tombe regali del Nuovo Regno è accuratamente descritta l’unione tra la divinità mummiforme giacente nell’oltretomba e la divinità solare, unione che porta alla rinascita, nel tempio di Dendera, in epoca romana, in occasione della festa del nuovo anno si celebrava l’unione dell’effige divina con la luce solare, in un chiosco collocato sul tetto del tempio stesso. Nell’ampio repertorio di testi riguardanti Osiride, è utile ricordare un inno alla luce presentato come rituale per il nuovo anno con finalità di protezione, riportato in una tomba tebana (TT 23), nel quale viene ripetutamente invocata “la perfetta luce di Osiride”30. È chiara la discendenza del testo di Plutarco da questa tradizione laddove parla di Osiride come colui che è nascosto tra le braccia del sole (De Iside et Osiride 52) o quando descrive la veste di Osiride come fatta di luce (De Iside et Osiride 77). È utile considerare la lampada di Canosa alla luce dei testi magici: conosciamo diversi casi nei quali viene presentato un incantesimo per mezzo di una lampada31. Di grande interesse è un papiro demotico che prescrive di recarsi in una stanza buia, scavare una nicchia nel muro orientale nel quale verrà poi collocata la lampada; nel corso del rito, un giovane fisserà la lampada e vedrà l’ombra del dio32; più avanti, la lampada viene invocata come Osiride33. Nello stesso papiro abbiamo anche eloquenti invocazioni alla luce34.
29 Ad esempio PGM VII, 300; BETZ 1986, p. 125. 30 HAIKAL 1985. 31 Ad esempio PGM IV, 930-1114; PGM VII, 540-578; PDM XIV, 150-231, 459-475, 475488, 489-515, 528-553, 750-771; BETZ 1986, pp. 56-60, 133-134, 204-208, 221-226, 235. 32 PDM XIV, 150-160; BETZ 1986, p. 204. 33 PDM XIV, 175-180; BETZ 1986, p. 305. 34 PDM XIV, 500-505, 545-550; BETZ 1986, pp. 223 e 225.
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7.1 Le iscrizioni sulla lampada di Canosa Le iscrizioni sono destrorse. La fascia sul petto: XA XAN La ripetizione di sillabe analoghe è conosciuta35. Ci si può chiedere se la voce non derivi dall’egiziano
Aæ “eccellente” o si tratti invece di semplici vocalizzi. La fascia sull’addome: DABAw(a) (a) Tra B e A l’iscrizione presenta una piccola area dove il bronzo ha creato un’escrescenza e, all’esame autoptico, non è chiaro se sia venuta a mancare una lettera.
La voce DABAw può essere posta in relazione con quella ripetuta in PDM XIV. 470-48036 come TABAw in quanto nome divino. Essa rimanda probabilmente all’ambito delle credenze ebraiche, per le quali viene invocato CABAwQ, anche in coincidenza con IAw, trascrizione greca di Yahweh. Evidente l’affinità con il nome divino IALDABAwQ, con il quale il dio della Bibbia era invocato in ambiente gnostico 37. Rivolgendo l’attenzione ad una possibile derivazione egizia, si potrebbe supporre qualcosa come dé.é bAw
“io do il potere/la potenza”38.
La fascia sulle gambe: XOOOO OX 35 Si veda ad esempio PGM I, 146-147; PGM XIII, 160-165, 470-475. BETZ 1986, pp. 7, 176 e 185. 36 BETZ 1986, p. 222. 37 MASTROCINQUE 2004, pp. 70, 79 e 83; BRASHEAR 1985, p. 3587. 38 Devo questo suggerimento a p. V. Laisney O.S.B.
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Voci affini sono ben conosciute e, attraverso il copto, rimandano all’egiziano kkw “tenebra, oscurità” e alle invocazioni per allontanarla39. È interessante notare come questa voce si trovi proprio vicino al foro che recava la fiammella. Retro, lato destro dello spessore della base: ALEILAC(a) (a) L’esame autoptico mi ha portato ad escludere una lettera iniziale S.
Non conosco una voce magica simile e sembrerebbe da escludere una provenienza dall’ebraico40. Il tentativo di ricostruire una derivazione dall’egiziano, mi ha suggerito l’ipotesi di un riferimento a éar “far salire, sollevare”, attraverso il copto ale, alHi, alH congiunto alla preposizione e-/ero=/ela= nella forma pronominale, e forse, infine, un pronome di 2° pers. sing. masch. -k41. Si tratta di una semplice ipotesi, che tuttavia avrebbe un senso sia per la presenza di una figura mummiforme, sia riguardo alla fiamma, che può essere invocata affinché si sollevi 42. Retro, lato sinistro dello spessore della base: COMMOUC Anche in questo caso non conosco una voce magica simile e sarebbe da escludere un’origine ebraica43. Supponendo una derivazione dall’egiziano, colpisce il possibile riferimento a sA “protezione”, attraverso il copto CO. Si può notare inoltre la coincidenza con la forma della preposizione allo stato pronominale mmo= alla quale può forse legarsi un pronome di 2° pers. sing. masch. -k44. La vocalizzazione sembra im39 PGM IV. 1065-1070: cww cww wcwwc viene interpretato come “allontanati, allontanati, oscurità” (BETZ 1986, p. 59 nota 147). Si veda anche la voce baincwwwc derivata dall’egiziano bA anæ kkw “anima vivente delle tenebre”. BRASHEAR 1985, p. 3602. 40 Ringrazio il prof. G. Garbini che ha avuto la cortesia di esaminare l’iscrizione: una lettura comprendente un S iniziale avrebbe potuto dare il significato “la mia protezione è per te”, tuttavia in una scrittura dalla vocalizzazione anomala. 41 Nelle voci magiche si nota una certa alternanza tra le lettere k e c. 42 Si veda ad esempio PDM XIV, 500-503, 545-550; BETZ 1986, pp. 223 e 225. 43 Anche in questo caso, il prof. G. Garbini ha notato che la vocalizzazione si opporreb-
be ad una derivazione dalla radice smk “sorreggere, sostenere”. 44 Si veda nota 41.
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probabile ma bisogna notare una certa ricorrenza di voci magiche concludenti in -OYX45. All’interno dell’arco formato dalla base: diversi characteres di impossibile lettura. In conclusione, la lampada di Canosa, pur mantenendo degli aspetti enigmatici, appare ben comprensibile soprattutto se inserita nell’ambito dei materiali e della letteratura di ambiente magico-religioso. La figura osiriaca mummiforme si ritrova anche nelle gemme46, e il dio è ben conosciuto in iscrizioni magiche, come ad esempio una defixio da Roma47. La provenienza della lucerna da scavi regolari permette inoltre una valutazione precisa della sua collocazione ambientale: il ritrovamento in un’abitazione fa riferimento ad una ritualità privata mentre l’inserimento nel muro ricorda la prescrizione del PDM XIV.15048. 8. Ipotesi sulla figura nel Codice Ferrajoli 513 Diversamente dalla lucerna di Canosa, la figura del Codice Ferrajoli non può essere catalogata con precisione in una categoria di oggetti e non conosco un reperto analogo, tuttavia possiamo supporre che si trattasse di un bronzetto funzionale a riti magico-religiosi di tradizione egizia. Qualche lume, per l’interpretazione della figura, ci può venire dal particolarissimo gesto con il quale il personaggio raffigurato volge il capo coprendosi il volto. Al riguardo sono state prese in considerazione alcune ipotesi. La prima che è stata esplorata riguardava la possibilità che si trattasse di un personaggio maschile: il peculiare gesto avrebbe potuto indicare una divinità nascosta, caratteristica ben conosciuta dello stesso Osiride attraverso la letteratura religiosa49; tuttavia, l’assenza di confronti iconografici ha consigliato l’abbandono di questa via interpretativa. Un’attenta considerazione del dato iconografico ha invece condot45 VYCICHL 1983, p. 103. 46 Talvolta anche in coincidenza con l’iscrizione baincwwwc: ad esempio in DELATTE —
DERCHAIN 1964, p. 78, n. 94. 47 BEVILACQUA 1992-1993. 48 Si veda nota 32. 49 Ad esempio, si veda PIANKOFF 1953, pp. 8-9; PIANKOFF 1954, pp. 330-331. Inoltre, si
vedano gli epiteti di Osiride in LEITZ 2003, p. 179.
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to ad una seconda ipotesi: il personaggio sarebbe femminile e presenterebbe un atteggiamento tipico del compianto. Se le proporzioni date dalle spalle molto larghe sconsigliano l’identificazione con una donna, va ricordata la probabile deformazione della figura dovuta ad uno schiacciamento. Lo stringersi le braccia al petto mentre con una mano si tira il manto sul volto è in realtà attestato anche per personaggi maschili, come nel caso di Agamennone, davanti al sacrificio di Ifigenia in un dipinto pompeiano50, tuttavia esso risponde con precisione a immagini di dolenti e prefiche. Un valido campionario di questi atteggiamenti ci è fornito dal ben noto “Sarcofago delle prefiche” da Sidone, conservato al Museo Archeologico di Istanbul51: in particolare si possono considerare le prime due figure da destra che, con aspetti leggermente diversi o l’atteggiamento speculare, possono comunque costituire un buon confronto per la figura del Codice Ferrajoli. La manifestazione del lutto, unitamente all’esistenza di un coronamento – un indistinto basileion – ci suggerisce di riconoscere nella figura del Codice Ferrajoli un’immagine di Isis dolens. Fin dai Testi delle Piramidi, nella letteratura religiosa egizia è attestato il ruolo di piangenti delle sorelle di Osiride, Iside e Nefti, e soprattutto della prima, che del dio è anche la sposa. Ambedue le dee sono rappresentate spesso, sia in ambito templare che funerario, mentre si portano la mano alla testa in segno di lutto. Iside šntAyt, cioè “vedova”, è protagonista dei riti di rigenerazione del mese di Khoyak, così come sono presentati dai testi di Dendera52. Le fonti, da quelle egizie fino a quelle greche e romane, narrano la ricerca intrapresa da parte di Iside per ritrovare il corpo straziato dello sposo e il suo compianto. In epoca romana, fuori dall’Egitto, si diffuse il rito dell’Inventio Osiridis, entrato nel calendario romano all’inizio del I sec. d. C.53. Isis dolens ebbe un’iconografia specifica nel periodo romano, che è stata ben analizzata da L. Bricault che ne ha raccolto le attestazioni54: un caso notevole è quello di una pregevole statua ritrovata a Fiesole, dedicata a Iside di Taposiri da due fratelli veterani che evidentemente avevano trascorso un periodo in Egitto; la scultura era affiancata da un’altra di Osiride, anch’essa dedicata dai due fratelli55. L’immagine di Iside ce la presenta seduta, mentre in 50 Napoli, Museo Archeologico Nazionale, dalla Casa del Poeta tragico. BECATTI 1971, p. 268. 51 BECATTI 1971, p. 249; CHARBONNEAUX — MARTIN — VILLARD 1981, p. 218, fig. 250. 52 CHASSINAT 1966-1968. 53 BRICAULT 2006, p. 81. 54 BRICAULT 1992; ID. 2006. 55 Per le due statue, si veda ARSLAN ET AL. 1997, pp. 480-481, cat. V.136 e V.137.
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una mano tiene delle spighe di grano e con l’altra sostiene il viso. Bricault riconosce in questa specifica iconografia quella di Iside venerata a Taposiri, città dove per tradizione si collocava una delle tombe di Osiride. Se Iside viene molto presto assimilata a Demetra, come testimoniato già da Erodoto (Hist. II.59), autori classici riconoscono un’affinità tra la ricerca di sua figlia da parte della dea greca e l’affannarsi luttuoso di Iside56. D’altra parte, la tradizione egizia riconosceva il ruolo fondamentale di Iside e del morto Osiride rispetto al ritorno della piena, e dunque alla fertilità della terra e al rinnovarsi della vegetazione57. Ancora nel XV secolo, un manoscritto illustrato conservato nella Biblioteca Reale Alberto I di Bruxelles, l’Épître d’Othéa58, presenta Iside mentre si affaccenda in occupazioni agricole. In un gioco dei ruoli e in un sovrapporsi di figure, Erodoto scrive che sugli inferi governano Demetra e Dioniso (Hist. II.123), quest’ultimo identificato con Osiride (Hist. II.42 e 144). La figura del Codice Ferrajoli testimonia un’iconografia diversa da quella di Isis dolens di Taposori: in questo caso la figura è stante e volge il viso tenendo il velo; l’immagine egizia di Iside vedova che si porta la mano sul capo è stata “tradotta” in una Isis flens, che sostituisce all’atteggiamento triste e pensoso della statua di Fiesole quello chiuso della piangente. 8.1 Le iscrizioni della figura nel Codice Ferrajoli 513 La piccola base sulla quale la figura si leva e il retro di quest’ultima sono iscritti da segni di varia natura. Difficile stabilire quanto il disegnatore abbia agevolmente potuto riconoscere o eventualmente trasformato nel copiare. Una lettura è al momento impossibile e ci si deve limitare a qualche ipotesi e riflessione: è auspicabile che rendere noto il disegno sia utile a suscitare negli specialisti un dibattito e delle risposte. Iscrizioni sulla base, da destra sinistra: La scrittura sembra sinistrorsa per il verso del G ma viene riportata di seguito in senso destrorso59: 56 BRICAULT 1992, pp. 41-42; ID. 2006, p. 80. 57 Per quanto riguarda Iside, si pensi alla sua identificazione – viva in epoca romana
– con Sothis, che porta la piena; si veda inoltre, ad esempio, la decorazione della porta di Adriano a File, nella quale Iside a testa di vacca versa acqua sulla vegetazione: JUNKER 1913, pp. 37; 58-61; KOEMOTH 1994, p. 120. 58 KOEMOTH 1999. 59 Ugualmente nelle voci successive che abbiano analogo andamento.
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L — un parallelogramma contenente tre piccoli tratti obliqui — UI(?) G Iscrizioni sul retro: Dall’alto in basso, si alternano figure (geroglifici ?) e linee di scrittura in caratteri greci. Non è chiaro il verso nel quale le figure vadano considerate, si sceglie comunque di descriverle da sinistra a destra60. 1) Figure Da un largo recipiente dalle linee tondeggianti, posto su una base, si levano delle fiamme; in basso una spada. Su un piatto, una protome bovina. 2) Lettere Il verso sembra destrorso, stando al primo segno a sinistra. NOX
IUV(a)
(a) La seconda parte della linea di lettere presenta un segno V che potrebbe essere una
grafia diversa di N. La sequenza IU è simile a quella sulla base UI: questo potrebbe forse indicare un andamento sinistrorso della seconda metà della linea.
3) Figura Un quadrupede, volto a sinistra, accovacciato su una base recante ai due lati due grandi protuberanze asimmetriche: l’animale sembra un felino, probabilmente un leone. 4) Lettere L’andamento sembra sinistrorso, in base al verso dei segni G. GLUGw(b) (b) Si noti la particolare grafia di
w.
5) Figura Un quadrupede accovacciato volto a sinistra. L’identificazione è difficoltosa ma le fattezze ricordano indubbiamente un dromedario. 60 I geroglifici egizi indicano la direzione della lettura volgendo gli esseri animati verso
l’inizio dell’iscrizione. In questo caso non sembra di poter tenere in considerazione questa regola, anche se i primi due segni animati guardano a sinistra.
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6) Lettere L’andamento sembra sinistrorso, in base al verso dei segni C e G. CwGU 7) Figure Un essere animale non identificabile (un delfino, un pesce, un rettile?) il cui corpo si incrocia con una spada. Un viso di uomo calvo e barbuto, rappresentato frontalmente. 8) Lettere Il verso potrebbe essere sinistrorso o destrorso: adottiamo una lettura sinistrorsa per analogia con le linee precedenti. OUL 9) Figure Un albero sul quale si incrociano un forcone e una falce. 10) Lettere L’andamento sarebbe sinistrorso in base al verso del C. CX
8.2 Qualche tentativo di interpretazione Siamo di fronte a iscrizioni delle quali non è possibile, al momento, fornire una lettura precisa, tanto meno una traduzione: possiamo solo avanzare qualche ipotesi interpretativa. Per quanto riguarda le iscrizioni della base, si può ricordare che i testi magici presentano talvolta sequenze di lettere che possono anche alludere a numeri61 oppure formare acrostici. In questo caso può essere interessante notare che le due lettere ai lati corrisponderebbero rispettivamente ai numeri 30 (L) e 3 (G). Le prime immagini che si trovano in alto sul retro suggeriscono un rimando all’ambito degli scongiuri e dei riti di esecrazione62. Il fuoco 61 BONNER 1930; MERKELBACH 1986. 62 SAUNERON 1970, p. 18
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compare spesso nelle formule magiche, fin da quelle di epoca faraonica63: esso rappresenta generalmente il dolore, identificato spesso con il veleno, che viene scacciato dalla dea Iside nella sua mansione di maga; così anche nella stele Metternich64. Nel papiro di Brooklyn, il veleno è scacciato dal fuoco65. Se la divinità può spegnere il fuoco, nella sua funzione benefica, essa può anche utilizzarlo per colpire i nemici. Questa mansione si trova esposta in modo eloquente nella decorazione del portale di Montu a Karnak, ingresso monumentale di epoca tolemaica, nel quale si espone una delle funzioni del sovrano che, come Horo, colpisce i nemici con una daga e li brucia in un braciere. Questo rito di esorcismo era finalizzato a propiziare il nuovo anno66. Il massacro dei nemici, eliminati nel fuoco, era una particolare competenza di Horo imy-Shenut di Sohag67. La vicinanza del braciere e della spada, nella nostra figura, sembra rimandare a riti analoghi. D’altra parte, Erodoto ricorda sacrifici di bovini in presenza del fuoco (Hist. II.38-39) e teste di bovini si trovano sulle tavole d’offerta. L’abbattimento delle forze caotiche può anche avvenire colpendo un animale che ha le forme di un bovino68. Per la prima riga in caratteri greci, si può supporre che la prima parte rimandi alla voce ANOX che si può far risalire sia all’egiziano che all’ebraico; anche il copto presenta un analogo pronome indipendente di 1° pers. sing. Per il significato “Io” oppure “Io sono”, esso viene considerato un teonimo69. La figura di felino accovacciato è ben conosciuta nei rilievi egizi e tra i geroglifici. Anche nei testi magici70, si può vedere un leone – o meglio una leonessa – accovacciato su un naos, del quale è rappresentata solo la parte superiore71: le sporgenze simmetriche della gola egizia coro63 Ad esempio nel papiro di Budapest: KÁKOSY 1991, p. 58. 64 SANDER-HANSEN 1956, pp. 40 e 42, l. 67; KÁKOSY 1991, p. 62. 65 SAUNERON 1970, p. 18. 66 AUFRÈRE 2000, pp. 271-283, 452, con bibliografia precedente. 67 CAPRIOTTI VITTOZZI 2004, con bibliografia precedente. 68 JUNKER 1958, fig. 30, p. 59. La rappresentazione con i relativi testi sono vicini a quelli dell’imprigionamento di quattro nemici, rappresentativi della totalità, in riferimento ai quattro punti cardinali: Ibid. fig. 32, pp. 62-63. 69 PGM XIII, 83, 148-149, 458; BETZ 1986, p. 174, 176 e 184; MASTROCINQUE 2004, p. 101. Una combinazione simile di segni si può trovare anche altrove, ad esempio come anagramma di parte del nome di Chnoubis oppure in Sylloge, p. 162, n. 12. 70 Ad esempio in KÁKOSY 1999, p. 66. 71 In epoca tarda, esiste anche un geroglifico raffigurante la dea leonessa accovacciata
sul segno
(N 36 della lista di Gardiner).
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nante la struttura potrebbero essere state travisate sull’oggetto o nel disegno. La figura teriomorfa sul naos, indubbiamente divina, rimanda generalmente alla dea leonessa che, conosciuta in diverse forme, rappresenta comunque una divinità feroce e distruttrice la quale, nel mito, viene poi pacificata fino a diventare benevola, identificandosi con la piena. L’iscrizione GLUGw non sembra avere un senso in quanto tale. C. Bonner ha osservato come, nelle iscrizioni magiche, i caratteri greci possano subire mutazioni morfologiche e scambiarsi le funzioni: ad esempio L può stare per A e G per T72. Sulla base di ciò, si può supporre una lettura della voce diversa da quella immediata, sempre restando nell’ambito delle semplici ipotesi. Suggestiva potrebbe essere la lettura PLUTw, considerando il segno G iniziale un fraintendimento di P e leggendo l’altro come T. La grafia per Ploýtwn sarebbe comunque anomala, ma suggestiva per il riferimento alla divinità dell’oltretomba. Il quadrupede accovacciato, se di un cammello si tratta, può alludere all’ambiente orientale, del quale divenne presto, nel Mediterraneo occidentale, uno dei simboli. Approfondire il significato della figura non è possibile: possiamo però considerare che esso compare negli Hieroglyphica (II.100) di Orapollo, con il significato di un uomo che cammina lentamente e l’anomala caratteristica di piegare la coscia. Va ricordato inoltre che, per la sua particolare funzione nell’attraversare il deserto, il dromedario poteva simboleggiare la ricerca per vie ostili e faticose73; per la sua disponibilità a inginocchiarsi su richiesta, venne considerato immagine dell’obbedienza74; infine, esso giunse nel nostro Medioevo come simbolo di pazienza75. Nell’iscrizione seguente – CwGU – non è riconoscibile al momento alcun senso. La testa calva, barbuta e frontale, ricorda da vicino il segno geroglifico
ür che tuttavia non darebbe qui alcun senso. Per l’altra figura teriomorfa, araldicamente incrociata con una spada, non è possibile produrre alcun
72 BONNER 1950, p. 13. 73 CHEVALIER — GOEERBRANT 1986, pp. 180, s.v. Cammello. 74 DE VRIES — DE VRIES 2004, p. 97-98 s.v. Camel. Si tratta comunque di una figura
ambigua: si veda anche BIEDERMANN 1992, pp. 56-57 s.v. Camel. 75 CANNUYER 2003.
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confronto diretto76: resta la possibilità che anche in questo caso si tratti dell’atto di trafiggere un’entità pericolosa. L’iscrizione OYL potrebbe essere letta OYA77: in tal caso, essa potrebbe rimandare al significato – dall’egiziano attraverso il copto – di “uno, unità”, oppure anche al termine waA “maledire” attraverso il copto oua “maledizione”. La figura dell’albero con gli attrezzi non trova confronti nei geroglifici, ma potrebbe alludere alla fecondità della terra, alla vegetazione e al raccolto. Infine, la sequenza CX non è leggibile: essa si ritrova insieme ad altri characteres in una gemma raffigurante una mummia78, ma si può anche avanzare l’ipotesi che si tratti di un crescente lunare e di una stella mal riprodotta: in questo caso si tratterebbe di un motivo astrale ben conosciuto nelle gemme magiche79. In conclusione, la base e il retro della figura del Codice Ferrajoli non sono leggibili, ma lasciano forse intravedere dei motivi legati all’ambito tematico della protezione e della fecondità, bene appropriato alla figura di una Iside-Demetra: se Iside era tradizionalmente una maga, ci si poteva rivolgere anche a Demetra per maledire un avversario pericoloso 80. 9. Conclusioni La figura del Codice Ferrajoli 513 e la lampada di Canosa fanno riferimento a credenze e rituali magici di origine egizia che erano diffusi in Italia in epoca romana. Se la lampada di Canosa è più immediatamente riconoscibile per il genere e l’iconografia che la inseriscono inequivocabilmente in una categoria – quella delle lampade mummiformi – e nell’ambito mitologico osiriaco, la figura del Codice Ferrajoli è meno chiaramente comprensibile e risulta, a mia conoscenza, un unicum; tuttavia, nonostante una più spiccata mediazione della tradizione grecoromana, ad uno studio attento, l’oggetto rivela caratteristiche che lo collocano nell’ambito mitologico riguardante Iside e Osiride e dunque la rigenerazione, presentando una nuova immagine di Iside-Demetra. 76 In epoca tarda è possibile reperire segni compositi che forse potrebbero essere stati la base per una rielaborazione e travisamento; comunque non è possibile offrire una lettura. 77 Si veda nota 72. 78 DELATTE — DERCHAIN 1964, p. 76, n. 90. 79 Sylloge, p. 386, n. 356. 80 OGDEN 2002, pp. 220-221, n. 188.
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La lampada da Canosa, proveniente da scavi regolari, è stata riferita ad un contesto più antico della datazione, piuttosto tarda, proposta per la diffusione delle lampade mummiformi81: l’ambiente domestico nel quale è stata rinvenuta è stato infatti datato all’età augustea82. Il culto isiaco nell’Italia romana si presentò inizialmente attraverso un’immagine fortemente ellenizzata; solo successivamente, in seguito ad una progressiva “egizianizzazione” dovuta soprattutto al favore di alcuni imperatori e alla circolazione di maestranze e specialisti del culto, la figura di Osiride si diffuse e si affermò83, raggiungendo una straordinaria importanza testimoniata anche dallo scritto plutarcheo84. La precoce testimonianza canosina sarebbe dunque spiegabile da un lato con i rapporti privilegiati della città e del territorio pugliese con l’ambiente alessandrino85, dall’altra forse con la funzione magica della lampada, espressa in un rituale privato. In epoca romana, la crescente importanza di Osiride nella sfera privata è espressa anche, fuori dall’Egitto e segnatamente sul territorio italiano, dalla diffusione di figurine mummiformi caratterizzate da iscrizioni, spesso illeggibili. Oltre a qualche bronzetto di Osiride, conosciamo infatti un repertorio abbastanza ampio di oggetti piuttosto rozzi, prodotti a stampo, che riproducono, spesso travisandone alcuni aspetti, gli ushabti egizi o riportano caratteristiche tipiche di Osiride, come ad esempio il coronamento. Queste immaginette sono generalmente segnate sul davanti da iscrizioni geroglifiche illeggibili oppure, talvolta, riprese da testi non pertinenti ad un oggetto del genere86. Queste figurine, nella loro povertà, espongono un fenomeno storico-religioso importante per la diffusione a livello popolare di credenze collegate ad Osiride. D’altra parte, l’uso di produrre figure osiriache a stampo con un impasto terroso riporta alla mente i riti del mese di Khoyak, che conosciamo da testi del tempio di Dendera, nei quali era prescritta la creazione annuale di figure mummiformi a stampo87: siamo evidentemente di fronte a casi completamente diversi, essendo quest’ultimo nell’ambito rituale della religione 81 GALLO 1998, p. 153. 82 CORRENTE 1992. Tuttavia, l’autrice ha successivamente datato la lucerna al II sec.
d.C.: CORRENTE 2005, p. 38. 83 CAPRIOTTI VITTOZZI 2006a, pp. 47-48. 84 BRENK 1999; BRENK 2001; BRENK 2002; BRENK 2003. 85 MALAISE 1972, pp. 52-56; BRICAULT 2001, pp. 144-145; GHISELLINI 1993; OVIDI 1998;
FRANCOCCI 2002; MANACORDA 2006. 86 Per un’ampia discussione su questo genere, talvolta ritenuto di produzione moderna,
si veda CAPRIOTTI VITTOZZI 1999, pp. 131-145. 87 CHASSINAT 1966-1968. Per una riflessione su questa liturgia come rituale di rinnovamento, si veda QUACK 2000-2001.
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ufficiale, che tuttavia sembra aver irradiato, come in altri casi, la religiosità personale diffusa in ambiente popolare. La provenienza della figura rappresentata nel Codice Ferrajoli resta invece sconosciuta: l’impegno di mons. Rossi a raccogliere le testimonianze epigrafiche marsicane la collocherebbe in quell’ambiente geografico, tuttavia le aggiunte postume al codice non ci permettono di stabilire alcun dato certo. Per quanto riguarda il territorio abruzzese, conosciamo comunque numerosi oggetti riferibili ai culti di origine egizia che potrebbero fornire un contesto all’inserimento di una statuetta magica di ambiente isiaco88: si noti in particolare un rilievo in osso raffigurante Demetra-Iside e Plutone-Serapide89. Pur nella loro diversità, i due oggetti qui analizzati farebbero dunque riferimento ad uno stesso ambito mitologico, proponendo diversi gradi di assimilazione tra tradizioni egizie ed interpretatio Graeca o Romana. Se la lampada canosina rientra in una categoria rara ed è unica per alcuni aspetti, il Codice Ferrajoli ci permette di conoscere un tipo che non ha, al momento, confronti. BIBLIOGRAFIA ARSLAN 1997 = E. ARSLAN ET AL. (a cura di), Iside. Il mito, il mistero, la magia. Catalogo della mostra a Milano, Palazzo Reale 22 febbraio — 1 giugno 1997, Milano 1997. AUFRÈRE 2000 = S. H. AUFRÈRE, Le propylône d'Amon-Rê-Montou à Karnak, Il Cairo 2000 (MIFAO 117). BAROCAS 1989 = C. BAROCAS ET AL., La Collezione egiziana del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Napoli 1989. BECATTI 1977 = G. BECATTI, L’arte dell’età classica, Firenze 1977. BERRA 1948 = F. A. BERRA Codices Ferrajoli, vol. II (codices 426-736), Città del Vaticano 1948. BETZ 1986 = H. D. BETZ, The Greek Magical Papyri in Translation Including the Demotic Spells, Chicago 1986. BEVILACQUA 1992-1993 = G. BEVILACQUA, Il papiro di Osiride in una defixio di Roma, in Scienze dell’antichità 6/7 (1992-1993), pp. 143-151. BIEDERMANN 1992 = H. BIEDERMANN, Dictionary of Symbolism, New York — Oxford 1992. BONNER 1930 = C. BONNER, The Numerical Value of a Magical Formula, in Journal of Egyptian Archaeology 16 (1930), pp. 6-9. 88 CAPRIOTTI VITTOZZI 1999, pp. 134-136; BRICAULT 2001, p. 141; CAPRIOTTI VITTOZZI 2005b. 89 MALAISE 1978, p. 637.
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GIUSEPPINA CAPRIOTTI VITTOZZI
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Tav. I — Biblioteca Apostolica Vaticana, Ferrajoli 513, f. 42v.
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GIUSEPPINA CAPRIOTTI VITTOZZI
Tav. II — Lampada bronzea mummiforme da Canosa di Puglia, Museo Archeologico di Canosa, inv. 53835 (disegno di A. Caiati).
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Tav. III — Lampada bronzea mummiforme da Canosa di Puglia, Museo Archeologico di Canosa, inv. 53835 (disegno di A. Caiati).
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PIA CAROLLA
NON DETERIORES COPISTI E FILIGRANE DI ALCUNI MANOSCRITTI DEGLI EXCERPTA DE LEGATIONIBUS 1. La tradizione del testo e una nuova ipotesi Durante la collazione degli Excerpta Constantiniana de legationibus (EL)1, di cui mi sto occupando per una nuova edizione critica del testo di Prisco di Panio2, ho dovuto misurarmi con una produzione di copie in serie, molto ravvicinate tra loro: una tradizione povera, risalente ad un unico modello medievale perito nell’incendio dell’Escorial del 1671, ed oggi ridotta a una quindicina di manoscritti, tutti cinquecenteschi, sparsi per l’Europa. I codici arrivati fino a noi risalgono, in ultima analisi, allo Scorialense B.I.43, manoscritto medievale4 un tempo posseduto da Juan Paez de 1 Il titolo De legationibus è ormai affermato sebbene, a rigore, i manoscritti presentino la dicitura Perä prevsbewn, da tradursi piuttosto con De legatis. I manoscritti ad oggi conservati: Milano, Biblioteca Ambrosiana, N 135 sup. (A), sottoscritto da Darmario all’Escorial il 24/8/1574; Cambridge, Trinity College, O.3.23 (C); Bruxelles, Bibliothèque Royale, 11301-16 (B1) e 11317-21 (B2); El Escorial, R.III.14, sottoscritto il 27/6/1574 a Madrid da Darmario (E1); R.III.21 (E2); R.III.13 (E3); München, Staatsbibliothek Bayern, graeci 185 e 267 (M12); Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticani Palatini greci 411, 410, 412, 413 (P1-4); copie parziali: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano greco 1418 (V); Napoli, Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele III”, III.B.15 (N); Paris, Bibliothèque Nationale, graecus 2463; Bruxelles, Bibliothèque Royale 8761; Milano, Biblioteca Ambrosiana, G 72 inf. 2 Di prossima pubblicazione nella Bibliotheca Scriptorum Graecorum Teubneriana. Mi è grato ricordare come maestro Fritz Bornmann che, pur desiderando dedicarsi ad una nuova edizione del testo priscano, dopo quella da lui compiuta nel 1979 (Prisci Panitae Fragmenta, a cura di F. BORNMANN, Firenze 1979), non ne ha mai avuto il tempo. Della sua morte ricorreva l’anno scorso il decimo anniversario. Spero che il mio lavoro non sia troppo inferiore alle sue aspirazioni. 3 Il codice è più noto con la segnatura Q.I.4, in vigore tra il 1613 e l’incendio del 1671; cfr. G. DE ANDRÉS, Catálogo de lo Códices Griegos Desaparecidos de la Real Biblioteca de El Escorial, El Escorial 1968, p. 43, nt. 77. 4 Il codice fu trovato a Messina, nel convento di S. Salvatore, e fu procurato a Paez de Castro da Jeronimo Zurita intorno al 1556. Che si tratti di un codice di X-XII secolo, come voleva CH. GRAUX, Essai sur les origines du fonds grec de l’Escurial, Paris 1880, p. 93, risulta Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 129-170.
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PIA CAROLLA
Castro e, dopo la sua morte, avvenuta nel 1570, entrato nella biblioteca dell’Escorial5. Nel 1573, Filippo II esaudì la richiesta di Antonio Agustín, vescovo ed umanista insigne6, dando licenza di copiare il codex antiquissimus di Paez (p)7. Dell’opera fu incaricato Andrea Darmario, il quale trascrisse il codice nel 1574 su commissione di Agustín e di seguito più volte, personalmente o tramite i suoi aiuti8. Infatti, tutte le copie di cui si ancora indimostrato, sebbene J. A. OCHOA, La transmisión de la Historia de Eunapio, Madrid 1990 (Erytheia. Estudios y Textos 1), p. 70, porti indizi convincenti in tale direzione. Pare che Paez ne fosse estremamente geloso, cosicché i testi in esso contenuti rimasero ignoti fino al 1574, quando Agustín ottenne direttamente da Filippo II il permesso speciale di farlo copiare. In ogni caso, ritengo molto improbabile che si trattasse di copia del X secolo vicina agli originali degli EL, a differenza dei testimoni conservatici degli Excerpta de Virtutibus et Vitiis (EV) e de Sententiis (ES), dal momento che l’Escorialense presentava già evidenti lacune almeno tra la sezione di Giovanni Antiocheno, bruscamente interrotta in mezzo ad un excerptum, e quella di Dionigi di Alicarnasso, acefala ed anepigrafa. Per l’attribuzione dei codici di EV ed ES al X secolo, si vedano J. IRIGOIN, Pour une étude des centres de copie byzantins (suite), in Scriptorium 13 (1959), pp. 177-209 (in particolare 177-181); ID., Les manuscrits d’historiens grecs et byzantins à 32 lignes, in V. TREU, Studia Codicologica, Berlin 1977 (TU 124), pp. 237-245; per le corruttele riguardanti Dionigi, facilmente spiegabili con la perdita di un foglio o di un fascicolo nel modello da cui lo Scorialense fu copiato ma non nello Scorialense stesso, cfr. S. PITTIA, Pour un nouveau classement des fragments historiques de Denys d’Halicarnasse (Antiquités Romaines, Livres 14-20), in Fragments d’Historiens grecs. Autour de Denys d’Halicarnasse, sous la direction de S. PITTIA, Rome 2002, pp. 85-227 (soprattutto le pp. 92-98). 5 Per l’eredità di Paez de Castro, cfr. CH. GRAUX, Essai sur les origines du fonds grec de l’Escurial, Paris 1880, pp. 92-99. 6 All’epoca vescovo di Lérida, nel 1576 fu nominato vescovo di Tarragona e vi rimase
fino alla morte, nel 1586. Su di lui cfr. Antonio Agustín between Renaissance and Counterreform, edited by M. H. CRAWFORD, London 1993 (Warburg Institute Surveys and Texts edited by J. KRAYE 24). Sulla sua biblioteca cfr. M. MAYER, Towards a History of the Library of Antonio Agustín, in The Journal of the Warburg and Courtauld Institutes 60 (1997), pp. 261-272. 7 Antonii Augustini archiepiscopi Tarraconensis Opera Omnia quae multa adhibita diligentia colligi potuerunt, Lucae 1765-1774, VII, p. 46: lettera del 12 ottobre 1573 di Agustín a Jeronimo Zurita. 8 Lo studio sistematico dell’ambito darmariano è ancora un desideratum della filologia e codicologia greca, non solo per gli studi di argomento cinquecentesco, come risulta dall’esempio degli EL. Dopo i magistrali contributi di O. KRESTEN, Statistische Methoden der Kodikologie bei der Datierung von griechischen Handschriften der Spätrenaissance, in Römische historische Mitteilungen 14 (1972), pp. 23-63; ID., Die Handschriftenproduktion des Andreas Darmarios im Jahre 1564, in Jahrbuch der Österreichische Byzantinistik 24 (1974), pp. 147-193; Der Schreiber und Handschriftenhändler Andreas Darmarios. Eine biographische Skizze, in Griechische Kodikologie und Textüberlieferung, Herausgegeben von D. HARLFINGER, Darmstadt 1980, pp. 406-419 (grazie alla gentilezza del prof. Kresten ho potuto consultare, purtroppo solo quando il presente articolo era già in bozze, anche la tesi dottorale inedita, Der Schreiber Andreas Darmarios. Eine kodikologisch-paläographische Studie. Dissertation zur Erlangung des Doktorgrades an der Philosophischen Fakultät der Universität
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NON DETERIORES
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ha notizia sono di ambito darmariano e, per motivi paleografici e codicologici, sono databili all’ultimo quarto del XVI secolo9. Su di esse deve basarsi la ricostruzione del testo degli EL, dato che il modello medievale è perito nell’incendio dell’Escorial nel 1671 insieme, a quanto pare, alla copia darmariana posseduta da Agustín (a)10. Nel 1999 Gregorio de Andrés ha rivisitato la questione, avanzando una nuova ipotesi: che, cioè, la prima copia del testo sia stata tratta non da Darmario nel 1574 all’Escorial, ma da Antonio Calosynas all’inizio del 1570, poco prima della morte di Paez, anzi proprio presso di lui, a Quer, non distante da Alcalà de Henares11. Sotto la supervisione di Jeronimo Zurita, Calosynas avrebbe fatto in tempo a confezionare solo una copia parziale, l’odierno Vaticano greco 1418 (V)12, e avrebbe affidato a Sophianos Melissenos il compito di realizzare un altro manoscritto incompleto, il Napoletano III.B.15 (N)13. In seguito, dopo aver ottenuto la copia completa di Darmario del 1574, Agustín decise di spedire V ed N a Fulvio Orsini, che ne pubblicó l’editio princeps nel 158214. Nell’ambito della sua ricca monografia sul copista, de Andrés ha attribuito alla penna di Calosynas non pochi codici degli EL, oltre a V: il
Wien. Masch., Wien 1967), cfr. M. SOSOWER, A Forger revisited: Andreas Darmarios and Beinecke 269, in Jahrbuch der Österreichische Byzantinistik 45 (1993), pp. 289-306; ID., Signa officinarum chartariarum in codicibus graecis saeculo sexto decimo fabricatis in bibliothecis Hispaniae, Amsterdam 2004; A. ESCOBAR CHICO, Codices Caesaraugustani Graeci. Catálogo de los manuscritos griegos de la Biblioteca Capitular de la Seo (Zaragoza), Zaragoza 1993. 9 Solo lo Scorialense R.III.14 degli ELR e l’Ambrosiano N 135 sup. degli ELG sono datati (al 1574, cfr. nt. 1). 10 Di quest’ultima, tuttavia, è molto probabile che si siano piuttosto perse le tracce, dopo l’acquisto nel 1651 da parte di Mattia Palbitzki per conto di Cristina di Svezia. Per le ipotesi connesse, cfr. infra il par. 8. 11 G. DE ANDRÉS, Helenistas del Renacimiento. El copista cretense Antonio Calosynas, Toledo 1999; ID., El cretense Antonio Calosinás, primer copista del códice escurialense «De legationibus», in Erytheia 11-12 (1990-1991), pp. 97-104. 12 Per la storia del manoscritto e l’antica unione di Vat. gr. 1418 e 1419 in un solo volume, poi separato, cfr. F. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini. Contribution à l’histoire des collections d’Italie et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887, pp. 125; 187; per gli EL, pp. 46-48; S. LILLA, I manoscritti Vaticani greci. Lineamenti di una storia del fondo, Città del Vaticano 2004 (Studi e testi 415), p. 27. 13 Codices Graeci mss. Regiae Bibliothecae Borbonicae descripti, atque illustrati a Salvatore Cyrillo, Tomus II, Neapoli 1832, p. 317; per la descrizione completa del codice, si rimanda al Catalogo della Biblioteca Farnese, curato da Maria Rosa Formentin, di prossima pubblicazione. 14 *Ek t§n Polubæou to™ megalopolætou ejklogaä perä t§n prevsbewn. Ex libris Polybii mega-
lopolitani selecta de legationibus; et alia quae sequenti pagina indicantur: nunc primùm in lucem edita. Ex bibliotheca Fului Ursini, Antuerpiae 1582.
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Bruxellense 11301-16 (B1), il Bruxellense 8761 e la maggior parte del Palatino greco 411 (P1)15. L’ipotesi è da prendere in seria considerazione, sia per i risvolti sullo stemma codicum, sia per una più completa comprensione dei rapporti di lavoro tra Darmario e i suoi collaboratori. Infatti, se V ed N sono stati scritti nel 1570, per la parte di testo che contengono sono testimoni preziosi in quanto copie dirette di p. Inoltre de Andrés attribuisce la produzione di B ad un accordo preciso tra Calosynas e Darmario, al quale si deve il tomo gemello di B1, ovvero il Bruxellense 11317-21 (B2), ancorché non firmato16; per N, poi, Calosynas si sarebbe avvalso a sua volta della collaborazione di Sophianos Melissenos che, tra l’altro, ha realizzato la copia di Cambridge, Trinity College O.3.23 (James n. 1195) (C)17. L’edizione critica di riferimento degli EL è tuttora quella di Carl de Boor del 1903, divisa in due parti: Excerpta de legationibus Romanorum ad Gentes (ELR) ed Excerpta de legationibus Gentium ad Romanos (ELG); per quest’ultima sezione egli eliminava tutti i manoscritti come apografi dell’Ambrosiano N 135 sup. (A), mentre tracciava uno stemma bipartito per le copie degli ELR: da un lato gli Scorialensi R.III.14(E1)18
15 Ovvero i ff. 6r-23v; 25r-224r; ma non gli ultimi due fascicoli, ff. 233r-264v, che sono evidentemente di una terza mano, rispetto al copista principale e ad Andrea Darmario che verga i ff. 1-5; 24; 224v-233r; cfr. DE ANDRÉS, Helenistas cit., pp. 60-66; 146; 151; 152; 157, dove il Palatino viene datato al 1588 ca., una data molto tarda; per B1 la data proposta è 1577 ca. OCHOA, Transmisión de la Historia de Eunapio cit., p. 72, per parte sua, sembra confonderlo con il Palatino greco 410, poiché ne attribuisce a Darmario solo l’inscriptio, la subscriptio (sic) ed i ff. 161-162r; d’altra parte Ochoa (pp. 72-73) corregge le imprecisioni di Bornmann (Prisci Panitae Fragmenta cit.) e Cresci (MALCO DI FILADELFIA, Frammenti. Testo critico, introduzione, traduzione e commentario a cura di L.R. CRESCI, Napoli 1982) al riguardo dell’estensione testuale di P1. 16 Il Bruxellense 11317-21 contiene gli Excerpta de legationibus gentium ad Romanos
(ELG). Sebbene non sia firmato, la sua attribuzione a Darmario è sicura su base paleografica. 17 DE ANDRÉS, Helenistas cit., p. 63 nt. 190. Per Melissenos, collaboratore di Darmario e di Nicola della Torre, cfr. RGK I 362; B. NOACK, Aristarch von Samos. Untersuchungen zur Überlieferungsgeschichte der Schrift perä megeq§n kaä ajposthmavtwn hJlæou kaä selÞnh", Wiesbaden 1992, tavola XXVII. Per C, cfr. M. RH. JAMES, The Western Manuscripts in the Library of Trinity College, Cambridge. A descriptive Catalogue, III: Class O, Cambridge 1902, pp. 208209. 18 Indico tra parentesi le sigle da me attribuite ai manoscritti (cfr. supra, nt. 1); de Boor si riferiva agli Scorialensi, in blocco, con E. Riguardo ad E1, si veda A. REVILLA, Catálogo de los códices griegos de la Biblioteca de El Escorial, I, Madrid 1936, pp. 178-180. Per l’identificazione di questo manoscritto con la copia fatta da A. Darmario nel 1574 per Covarrubias, oppure per Gomez de Castro, di cui Covarrubias acquistò i volumi già annotati a margine, cfr. G. DE ANDRÉS, El helenismo del canonigo toledano Antonio de Covarrubias. Un capitulo
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e i ff. 1r-12v di R.III.21(E2) che completano la sezione, dall’altro il Bruxellense 11301-1619(B1). Entrambe le parti, in realtà, presentano dei problemi di fondo: oltre a fornire un apparato spesso impreciso20, de Boor per gli ELR ignorava l’esistenza di C, mentre esso è fondamentale perché indipendente da tutti gli altri, come dimostrato nel 1914 da Mikhail N. Krasheninnikov21. Ma anche riguardo agli ELG, de Boor non appariva completamente convinto del proprio stemma, risolvendosi a malincuore a comprendere gli Orsiniani e lo Scorialense R.III.21 (E2) tra le copie di A: essi potrebbero derivare dal modello medievale (p) direttamente, oppure tramite la copia perduta di Agustín (a), la cui relazione con A non si può definire. Così pure il rapporto tra P1-3, B2 ed M1, che sono sicuramente copia di A secondo de Boor, non è chiaro nella sua dimostrazione: l’editore definisce P1-3 come copia diretta e precoce di A, B2 e M1 invece come copia indiretta, salvo poi aggiungere, in modo quasi sfiduciato: «Doch sprechen manche Stellen für einen anderen complicirteren Zusammenhang»22. Altrove egli stesso è cosciente di aver del humanismo en Toledo en el s. XVI, in Hispania sacra 40 (1988), pp. 237-313, in particolare p. 265. 19 H. OMONT, Catalogue des manuscrits grecs de la Bibliothèque royale de Bruxelles et des
autres bibliothèques publiques de Belgique, in Revue de l’Instruction publique (supérieure et moyenne) en Belgique 27-28 (1885), pp. 30-32. 20 Già Bornmann notava ben cinque errori di media per pagina, nella sezione di Prisco.
De Boor risentì della fretta impostagli dai tempi e dai mezzi limitati (cfr. BORNMANN, Prisci Panitae Fragmenta cit., p. VIII); Krasheninnikov, che non gli perdonò mai di essere arrivato prima di lui a pubblicare il testo, non perse occasione per segnalare le numerose sviste e imprecisioni dell’apparato e del metodo: cfr. ad esempio Novaja rukopis izvleçenji Perä prevsbewn &Rwmaæwn pr’" ejqnikoý", in Vizantijskij Vremennik 21 (1914), pp. 45-170; il seguito in Vizantijskoje Obozrienie 1 (1915), pp. 1-52. Per segnalazioni quantitativamente minori, ma altrettanto gravi, cfr. F. IADEVAIA, Una nota sulla tradizione manoscritta degli Excerpta de legationibus Romanorum ad gentes di Pietro Patrizio, in Problemi di civiltà 6 (1979), pp. 3-6. 21 Novaja rukopis cit., pp. 69-78. Sul filologo russo, vissuto dal 1865 al 1932, che inse-
gnò a Iuriev (l’odierna Tartu), nell’attuale Estonia, e nel 1918, dopo l’occupazione tedesca, fu trasferito con l’intera Università a Voronezh, si vedano i recenti contributi per una biografia: S. A. POPOV, Michail Nikitich Krasheninnikov (1865-1932): Materiali k biografij, in Filol. Zapiski 16 (2001), pp. 171-179; A. N. AKINSHIN-A. I. NEMIROVSKY, Michail Nikitich Krasheninnikov — Istorik literaturi i pedagog, Vestnik VGU. Seriya Gumanitarnie Nauki 1 (2003), pp. 33-47. Come bizantinista, egli studiò a fondo la tradizione manoscritta di Procopio (si veda l’edizione critica Procopii Caesariensis Anecdota quae dicuntur edidit MICHAEL KRASCHENINNIKOV, Iurievi 1899; l’articolo sui Bella, K kritik teksta vtoroi tetradi &UpeVr t§n polevmwn Prokopiya Kesaryskago, in Vizantijskij Vremennik 5, 1898) e degli EL, soprattutto per la polemica contro de Boor (cfr. nota precedente). Tuttavia l’acredine lo portò spesso a disperdersi in prolisse recriminazioni, senza arrivare ad una nuova edizione critica del testo. 22 C. DE BOOR, Zweiter Bericht über eine Studienreise nach Italien zum Zwecke handschriftlicher Studien über byzantinische Chronisten, in Sitzungsberichte der königlich preussi-
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addotto poche dimostrazioni e soprattutto non certe23. Il primo problema, chiaramente, è il metodo all’origine: si tratta di una produzione in serie, per cui gli errori sono numerosi ma poligenetici, i separativi sono scarsi e le varianti che migliorano il testo, spesso, sono solo congetture del copista. Le difficoltà aumentano laddove si notano differenze stemmatiche all’interno dello stesso manoscritto, tra un gruppo di fascicoli e il resto. De Boor segnala almeno un caso del genere in N, in una sezione di Arriano e Appiano, che presenta varianti in comune con il Palatino 411(P1) da cui, in genere, l’Orsiniano sembra indipendente; eppure l’editore prosegue sulla strada intrapresa, eliminando l’anomalia invece di spiegarla. Ciò che ora interessa, comunque, è appunto il metodo critico: come indagare più a fondo la questione, visto che la situazione di partenza non è affatto lineare? Per vagliare l’ipotesi di de Andrés e affrontare il nucleo della questione, ho ritenuto necessario esaminare di persona le filigrane dei codici e le mani dei copisti; non ho ancora avuto da pentirmi di questa intuizione, poiché ne ho potuto ricavare utili conferme e preziose smentite dello stemma codicum. Il presente contributo sintetizza una parte delle ricerche, che sono tuttora in corso24.
schen Akademie der Wissenschaften, 1902, t. I, pp. 146-164 [d’ora in poi: DE BOOR, Sitzungsberichte]; in particolare p. 157. 23 «Thatsächlich wenig und nicht absolut beweiskräftig» (p. 159) a proposito della dimostrazione che E2 sia copia precoce di A, come P1-3 ma da esso indipendente; tra l’altro gli esempi sono tratti solo dai primi 100 ff. Peraltro all’inizio dell’articolo (p. 146) de Boor asserisce di fornire solo qualche traccia per lo stemma, riservandosi una trattazione più ampia in seguito; al contrario, nella Praefatio all’edizione rimanda proprio a tale contributo e decide di sintetizzare solo «quibus haec editio fundamentis nitatur» (Praef., p. VIII). 24 La mia profonda gratitudine a tanti che, in vario modo, stanno sostenendo e incoraggiando questo lavoro: anzitutto alla Biblioteca Apostolica Vaticana, nelle persone di sua Em. il Card. Raffaele Farina, Bibliotecario della S. Romana Chiesa, del Prefetto Mons. Cesare Pasini, del Vice Prefetto, Ambrogio Piazzoni, e del Direttore del Dipartimento Manoscritti, Paolo Vian, per avermi concesso di esaminare e riprodurre le filigrane e per aver voluto ospitare il mio contributo in questa sede; il mio pensiero riconoscente va anche a Fabrizio Conca, che con la sua umanità e competenza ha dato solidità e metodo alle mie ricerche; ringrazio inoltre per il paziente ascolto e per le preziose consulenze Paul Canart, Otto Kresten, Sever J. Voicu, Nigel Wilson, Claudio Leonardi, Maria Jagoda Luzzatto, Augusto Guida, Michiel Verweij, Lucia Castaldi, Elena Giannarelli, Stefano Martinelli Tempesta, Kristine Haugen, Pierre Augustin. Naturalmente è tutta mia la responsabilità degli errori, che spero di aver limitato il più possibile.
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2. Gli Orsiniani V e N e la loro origine Per quanto riguarda V, non sarà inutile fornire un elenco del contenuto, in assenza di un catalogo completo25: 1) ff. 1r-79v [pp. 1-15826]: ELG Polyb. 1-28 (pp. 229-273, 2 de Boor); f. s.n. [pp. 159-160]: vuoto, ultimo del fascicolo 427. 2) ff. 80(sic)r-82v[pp. 161-166]: ELR, Proemio; ff. 82v-83r [pp. 166-167]: ELR, Pinax; ff. 83v-86r [pp. 168-173]: ELR, Petr. Patr.; ff. 86v-89v [pp. 174-180]: ELR, Georg. Mon.; f. 90r [p. 181]: ELR, Ioh. Ant.; ff. 90r-112v [pp. 181-226]: ELR, Dion. Hal. «addita Fulvii Ursini collatione cum Livio»28; ff. 113r-198r [pp. 227-407]: ELR, Polyb. «addita ejusdem Fulvii Ursini collatione cum Dionysio Halicarnasseo ac Livio» ff. 198r-210v [pp. 407-432]: ELR, Appian. ff. 211r-220r [pp. 433-451]: ELR, Zosim. ff. 220r-223r [pp. 451-457]: ELR, Joseph. ff. 223r-224r [pp. 457-459]: ELR, Diod. ff. 224r-238r [pp. 459-487]: ELR, Cass. D., «addita Fulvii Ursini collatione cum Livio» ff. 238r-239r [pp. 487-489]: ELR, Arrian. f. 239v: bianco; 2 ff. di guardia posteriori, moderni. Ciò significa che V è composto da due unità originarie29: i primi quattro fascicoli odierni erano, in realtà, copia dell’inizio degli ELG e 25 Per questa parte dei Vaticani greci bisogna ancora ricorrere all’inventario Amati (Vat. gr. 2664: Inventarium codicum Vaticanorum Graecorum 993-2160; facsimile in sala Cons. Mss., tomo II, 323 rosso). LILLA, Storia dei Vaticani greci cit., pp. 26-28. 26 Anche V ha due numerazioni: quella moderna, a matita, al centro del margine supe-
riore nel recto, procede per carte; quella antica, ma forse non coeva, nell’angolo superiore esterno sia del recto sia del verso, per pagine. Inoltre, nella sezione degli ELR e cioè a partire da p. 181, c’è una numerazione per pagine, coeva, forse orsiniana, costantemente barrata da altra mano con inchiostro diverso, nell’angolo superiore esterno del recto. 27 Tutti i fascicoli hanno 20 ff., secondo le preferenze di Darmario dalla metà del 1572
all’inizio del 1575 (KRESTEN, Statistische Methoden cit., pp. 45-47); A. ESCOBAR CHICO, Codices Caesaraugustani cit., pp. 41-42. 28 La distinzione dell’incipit di Dionigi di Alicarnasso è stata compiuta da Fulvio Orsini,
non dal copista. Sulla tradizione di Dionigi negli EL, cfr. la raccolta Fragments des Historiens cit., passim.
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corrispondono, anche se non esattamente, all’estensione del testo di A nei corrispettivi fascc. 1-4; la seconda parte è l’inizio degli ELR, dal Proemio ad Arriano, secondo l’ordine del modello medievale (pp. 1-90,6 de Boor). Infatti, poiché ad Orsini non interessavano gli autori tardoantichi e bizantini, pur se inediti, V non comprende gli ultimi cinque autori degli ELR, che iniziano dopo Arriano: Procopio, Prisco, Malco, Menandro Protettore e Teofilatto Simocatta. Va notato, però, che si riportano Pietro Patrizio, Giorgio Monaco, Giovanni Antiocheno e Zosimo, nell’ordine originario; non così avviene in N, che dagli ELG copia solo i classici. Paul Canart ha già individuato che il copista di V è, in realtà, Sophianos Melissenos, collaboratore di Darmario e di Nicola della Torre30, al quale si devono dunque entrambi i codici utilizzati da Orsini per l’editio princeps. La grande somiglianza tra Melissenos e Darmario è evidente31, ma è comunque possibile individuare una serie di tratti caratteristici del primo, oltre a quelli segnalati dal Repertorium der griechischen Kopisten: p con gli occhielli spesso sovrapposti in verticale32 (Tabella 1); q, quando è chiuso, a punta verso il basso33; più raramente si riscontrano anche: u con la parte destra appena accennata (simile a iota)34; ejp- con il tratto inferiore dell’epsilon chiuso ad occhiello35; ei in legatura con accento cir-
29 Cfr. supra, nt. 12. 30 Ringrazio vivamente monsignor Canart per avermi permesso di leggere le sue note
manoscritte di osservazioni al riguardo, ora in corso di pubblicazione. Per uno specimen della scrittura di Melissenos in V, cfr. infra la Tav. I; per C, Tav. VA. Per la bibliografia sul copista, in verità limitata, si veda il Repertorium der griechischen Kopisten (RGK), I 362, A, pp. 182-183; B, p. 155 e tavola 362. Tra i codici sottoscritti da Melissenos, cfr. il Monacense gr. 426, vergato a Padova e datato al 10 ottobre 1569; per un altro specimen, cfr. ad esempio l’Ambrosiano C 263 inf., sottoscritto da lui al f. 68v, in B. NOACK, Aristarch von Samos cit., tavola XXVII. 31 Tra i moltissimi aspetti in comune con Darmario (e, più in generale, con le scritture coeve), si vedano il tau “a gancio”, il sigma finale, la legatura rho-omicron, l’abbreviazione epsilon-iota, il tratteggio sigma-tau, etc. Molto più raro il rho formato da due occhielli, uno superiore ed uno inferiore, di uguale ampiezza: per Sophianos cfr. C f. 136r, 12; f. 138r, 6; f. 157r, 17; B1 f. 146r, 18; f. 151r, 11, etc. Per Darmario: Pal. gr. 413 (P4), f. 155r, 1, dove comunque i due occhielli non sono uguali, anzi quello inferiore è molto più ampio. 32 Frequentissimo, ad esempio cfr. infra, Tav. I, V f. 86r [p. 173], 1, 2, 6, etc.; per il di-
verso tratteggio di p in Darmario cfr. O. KRESTEN, Die Handschriftenproduktion des Andreas Darmarios cit., p. 181 (e tavole, passim); ID., Statistische Methoden cit., p. 43. 33 V f. 86r [p. 173], 1, 8. 34 Ad esempio in C f. 147v, 4. 35 V f. 85v [p. 172], 12; f. 84r [p. 169], 10; etc.
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conflesso che sale molto sopra il rigo36; abbreviazione di -hn molto arrotondata37; d con tratto verticale basso (simile a sigma) in legatura38; viceversa, sigma che si prolunga verso l’alto (simile a delta) in legatura39; abbreviazione di -eý"40 con sigma finale stranamente simile a n. Pertanto, il primo presupposto di de Andrés, ovvero che negli Orsiniani vi sia la mano di Calosynas, viene a cadere. Resta la questione della datazione e, soprattutto, dell’eventuale direzione di Melissenos da parte di Calosynas: è possibile anticiparla al 1570? Naturalmente, se una parte dei manoscritti fosse vergata da Andrea Darmario, si potrebbe escluderlo; ma non è così, trattandosi di copie interamente di Melissenos. Ho esaminato di persona sia V sia N, nonostante che quest’ultimo sia in precarie condizioni41, ed ho trovato un solo tipo di carta per ciascun manoscritto: in entrambi i casi si tratta di filigrane inedite, del tipo Homme (Briquet, Piccard), o meglio Pèlerin (Sosower), che è tanto comune nei manoscritti coevi, non solo spagnoli42. Le due sono notevolmente diverse tra loro (Tavv. II43 e III), ma quella di N si ritrova, identi36 C f. 153r, rigo 14; etc. 37 Ibid., fine rigo 1. Inoltre C f. 35r, a fine rigo 1 thVn ejpiboulhVn t(hVn); f. 157v, a fine rigo 1
Õ thVn ajfaireqeÔsan Õ kaä a[ll(hn); f. 160r, a fine rigo 14 thVn to™ magæstrou ajrc(hVn). La medesima forma, con curva molto più accentuata del solito (per una curva appena accennata cfr. E. MAUNDE THOMPSON, An introduction to Greek and Latin Palaeography, Oxford 1912, pp. 2689, facsimile 81 [Odissea, anno 1479]) si trova comunemente in alcune edizioni a stampa, ad esempio quella di Polibio di Casaubon del 1609 presso Jerôme Drouard. Non compare, però, nell’elenco delle abbreviazioni aldine, cfr. D.L. DRISDALL, Abréviations et lettres ligaturées utilisées dans les imprimés grecs de la Renaissance, in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance 51.2 (1989), pp. 393-403 [riproduzione della lista di Aldo dall’edizione di Tübingen 1512 dei suoi Institutionum Grammaticarum libri quatuor]. 38 V f. 86r [p. 173], 8 ajpedþqhsan. 39 Ibid., 11 (ultimo rigo) fulacqeæsh". 40 ¿ basileý" C f. 161v, a fine rigo 7; N f. 40v [p. 80], richiamo; 41r. [p. 81], 1 (dove il copista stesso corregge con un sigma aperto sopra l’abbreviazione che per lui è consueta). 41 Sono estremamente grata alla direzione della Sala manoscritti della Biblioteca Na-
zionale di Napoli per avermi consentito di visionare il manoscritto, benché in attesa di restauro; un ringraziamento particolare alla dottoressa Lucianelli per avermi assistito nella delicata operazione di sfogliarne le carte ed esaminarne scrittura e filigrane. 42 Cfr. ad es. Piccard, Homme avec bâton, au cercle, 21423-21430; SOSOWER, Signa officinarum chartariarum cit., Pèlerin 1-31, pp. 395-410. Ma nessuno dei repertori ha una forma davvero simile alle due di V ed N, né alle loro gemelle. Per le origini probabilmente spagnole del tipo Pèlerin, cfr. ad esempio M. SICHERL, Parerga zu griechischen Kopisten der Renaissance, in Studi in onore di Aristide Colonna, Perugia 1982, pp. 265-281 (in particolare pp. 279-280). 43 Nella filigrana di V si noti, in particolare, il gruppo di lettere GGA, non attestato nei repertori di Briquet, Piccard e Harlfinger, con G tracciato «ad alambicco», ovvero con un «fossile grafico» secondo le osservazioni di A. PETRUCCI, Figura e scrittura nelle filigrane, in
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ca44, nel Palatino greco 411 (P1) ai ff. 5r-24v, ovvero solo nel primo fascicolo di P1, proprio quella sezione che già de Boor segnalava per la particolarità delle varianti: solamente qui, infatti, P1 presenta errori congiuntivi con N, mentre di consueto i Palatini sono indipendenti dagli Orsiniani e viceversa45. Ora, proprio questo fascicolo di P1 ha il primo e l’ultimo foglio vergati da Darmario: dunque, è più che verosimile che anche N sia di ambito darmariano. La certezza, al riguardo, viene dalle lettere di Antonio Agustín: il 26 settembre 1574 egli informa Fulvio Orsini di aver ricevuto «già una gran parte» degli excerpta, e che «si copia il resto tuttavia»; inoltre annuncia che gli sta inviando «tutti li fragmenti, con certe mie postille in margine»46. Da queste parole, potremmo pensare che V ed N siano stati spediti insieme, mentre ciò è sicuramente da escludere in base all’epistola del 13 novembre dello stesso anno: hora vi aviso, come ho in mano l’altra parte di detti fragmenti, la quale si copia per la S.V. continuando certi quinterni mandatimi47, li quali io dissi, che mi pareano fragmenti di Polibio, e la mia opinione fu vera verissima, secondo che si trova alla fine di questi fragmenti. Io parlo di quelli che cominciano kaqülon48 t† perä taV lavfura e finiscono diaV to˜" polemæou" prüteron.
Incipit ed explicit corrispondono perfettamente al testo degli ELG di Polibio presenti in V ai ff. 1-79v (fascicoli 1-4)49; gioverà ripetere che questi ultimi formano una unità a sé, rilegata in un secondo momento insieme al resto, dal momento che al f. 79v gli ELG si interrompono a Produzione e uso delle carte filigranate in Europa (secoli XIII-XIX), a cura di G. CASTAGNARI, Fabriano 1996, pp. 123-131 (in particolare pp. 129-130). 44 Filigrana di N e P1 (Tav. IIIA): P1, ff. 8+21 = N, ff. 131+130 [pp. 262+259]. Gemella (Tav. IIIB): P1, ff. 19+10 = N, ff. 133+128 [pp. 266+255]. 45 DE BOOR, Sitzungsberichte, p. 160. 46 Augustini Opera Omnia cit., VII, p. 256. 47 Inutilmente de Boor propone qui di correggere «mandativi» (Sitzungsberichte, p.
152): Agustín lamenta di non aver ricevuto lettere da Orsini e non è sicuro che l’invio degli EL sia andato a buon fine, per cui si riferisce ancora e solo alla propria copia. 48 Sic, sebbene V legga solo qülou come doveva essere nel mutilo B.I.4. Kaqülon dunque sarà congettura di Agustín. 49 Imprecisa, al riguardo, la notizia di J.M. MOORE, The Manuscript Tradition of Poly-
bius, Cambridge 1965, pp. 143-145: V termina solo con la parola prüteron, non con prüteron ejxe-, a f. 79v; in realtà il copista ha lasciato in bianco parte del secondo rigo stesso e tutto il resto del foglio; a quanto sembra, poiché si nota chiaramente il cambio di mano e di inchiostro ed entrambi appaiono perfettamente compatibili con i marginalia, Orsini ha integrato il testo con ciò che trovava in N (ejxecþrhsan: cæou" deV). Segue l’ultimo foglio del quarto fascicolo, bianco e non numerato.
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metà di una frase, al f. 8050 seguono gli ELR e, soprattutto, la numerazione dei fascicoli ricomincia dal f. 80 in poi; per tali motivi, è certo che Agustín abbia inviato solo V il 26 settembre, e che il 13 novembre N si stesse ancora copiando, al momento in cui il vescovo di Lérida poteva già leggere la seconda parte degli ELG di Polibio nella propria copia. Infatti, N ricomincia laddove V si interrompe bruscamente: prüteron ejxecþrhsan (Polyb. ELG 28, p. 273, 2 de Boor) e riporta tutto il resto della sezione polibiana (fino al f. 154v[30851] = Polyb. ELG 119, p. 363, 31 de Boor). Pertanto, non è possibile che Agustín fosse in possesso di V ed N prima del 1574, se egli annuncia con tanta soddisfazione di aver scoperto la paternità polibiana dei primi excerpta solo il 13 novembre di quell’anno. Al riguardo, va spiegato che p era acefalo e anepigrafo, per perdita dei fascicoli iniziali, ed iniziava proprio con gli ELG di Polibio (ff. 1-70 di p) cosicché l’odierno ELG 1 proviene dal XVIII libro dell’opera completa; l’indicazione dell’autore arriva solo con il tevlo" tÏ" èstoræa" Polubæou, al termine dell’ELG 119; di qui l’esultanza di Agustín, a posteriori. Inoltre, la filigrana di N e P1 mostra che anche gli Orsiniani sono di ambito darmariano, come le altre copie pervenuteci. Infine, visto che il manoscritto è databile, anche la filigrana inedita di V ha un punto di riferimento cronologico (entro il 26 settembre del 1574); per N, tale riferimento è di poco posteriore, perché nella lettera del 28 febbraio 1575 Agustín si rallegra che Orsini abbia finalmente risposto alle lettere «fatte in Settembre & Novembre» e, riguardo agli EL, commenta: Li fragmenti ho avuto caro saper che vi siano capitati, & con questa vi mando il resto. Del stamparli, & tradurli, & farne arrosto, allesso, & in guazzetto fate a modo vostro, che la cosa è per riuscire ad ogni modo bellissima, pure in qualche parte del libro fate memoria di me, ancora che non sia nella parte d’inanti del Clypeo di Minerva.
È molto probabile che quest’ultimo invio comprenda l’intero N (ELG di Polibio, Diodoro, Cassio Dione, Arriano, Appiano), visto che nell’epistola del 13 novembre il vescovo di Lérida precisava che la seconda parte
50 Secondo la numerazione a matita, che salta la carta precedente perché bianca; in realtà quella successiva, di inizio fascicolo, dovrebbe essere l’ottantunesima. 51 Anche N, come V, ha due numerazioni: una per carta, moderna, a matita, nel margi-
ne inferiore del recto, e una per pagina, antica, coeva, verosimilmente di Orsini, nell’angolo superiore esterno, a penna, sia sul recto sia sul verso.
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di Polibio si stava ancora copiando e aggiungeva: «In altri fragmenti di Appiano, & Dione si fa gran guadagno, li quali ancora vi mandarò»52. Perciò la scrittura di N deve essere avvenuta alla fine del 1574 o al massimo, ammettendo un ritardo nella copia, entro i primi due mesi del 1575. Viste le caratteristiche codicologiche, il manoscritto si inserisce perfettamente nel gusto darmariano dell’epoca, fino all’inizio del 1575 (fascicoli di 20 fogli in-quarto minori, 13 righe per pagina, uso dei richiami, numerazione greca dei fascicoli, etc.53). Entrambi i codici sono compatti nell’uso di un solo tipo di carta per tutti i fascicoli. 3. La struttura e le mani di P1 Ai fini della verifica dell’ipotesi de Andrés e proseguendo in ordine cronologico di copia, per quanto possibile, dobbiamo occuparci ora di P1. Esso contiene una parte degli ELG, precisamente quelli di Arriano, Appiano, Malco, Prisco, Eunapio, Polibio; di quest’ultimo ha solo i primi 33 excerpta, ovvero va da una lacuna all’altra, poiché il n. 1 è acefalo, mentre il 33 è mutilo alla fine. Per di più, il copista non dà alcuna indicazione di autore all’inizio della sezione polibiana, al f. 174r, tanto che Sylburg54 ha annotato qui nel margine superiore: «Sequentia ex Diodoro vel Polybio videntur excerpta», indicazione poi barrata dal Mai che aggiunge sul margine esterno «Ex Polybio lib. XVIII.17. A. Maius». Eppure, nello stesso punto A e V inseriscono un titolo miniato, fuori dello specchio di pagina, che esplicita l’appartenenza del testo agli ELG, se non l’attribuzione allo storico di Megalopoli. P1, invece, non solo non identifica l’inizio del testo, ma lo sposta al centro del tomo; è questa la prima riorganizzazione del materiale copiato, che poi diverrà sistema-
52 Augustini Opera Omnia cit., VII, p. 257. 53 KRESTEN, Statistische Methoden cit., pp. 45-47. 54 Che la mano su P1 sia Sylburg [STEVENSON, Codices manuscripti Palatini Graeci,
Romae 1885 (Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti iubente Leone XIII Pont. Max.), p. 268] è certo nel confronto della caratteristica v, svasata e slanciata verso sinistra e, al tempo stesso, tendente a chiudersi su se stessa con un tratto curvo (Tabella 1), con l’autografo dello studioso tedesco nel Pal. lat. 429bis, f. 110r: egli acquista i codici Palatini 410-413 da Giulio Pace nel 1591. Per le segnature dei Palatini, cfr. P. CANART, Les cotes du manuscrit palatin de l’Anthologie, in Scriptorium 35 (1981), pp. 227240, in particolare p. 233: i Palatini greci degli EL, odierni 410, 411, 412, 413, avevano rispettivamente la segnatura 438 D(1), 438 A(2), 438B(3), 438C(4) nell’inventario di Sylburg redatto prima del trasporto a Roma; rispettivamente divennero i nrr. 181, 200, 201, 202 nella numerazione di Contelori, per poi tornare ai numeri di Sylburg nel 1641.
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tica nelle copie B2 ed M1 degli ELG, per evitare di iniziare il primo volume con una lacuna. Dobbiamo attribuire questa iniziativa a Calosynas? La presenza della mano di Darmario ai ff. 1-4 (Pinax)55; ai ff. 5rv e 24rv; 224v-233r; 265r266r, dove egli indica la conclusione del secondo volume degli ELG, indica chiaramente che il manoscritto è stato confezionato sotto le sue direttive. Peraltro, vi sono ancora due mani diverse nel codice: una è quella di Melissenos, che redige i ff. 6r-23r e 25r-224r, un’altra invece i ff. 233v-264v e, a quanto pare di seguito, quasi tutti i Palatini greci 410 (P2) e 412 (P3), tranne sporadiche apparizioni di Darmario56. La terza mano di P1, copista «agité», secondo la definizione di Paul Canart57, rimane per ora anonima, ma non può essere Calosynas, sia per la completa scioltezza della mano, sia per una serie di tratti caratteristici: è, invece, lo stesso ignoto collaboratore di Nicola della Torre che verga la maggior parte dello Scorialense F.II.8, erroneamente identificato con Giovanni Catelo58, pur essendo notevolmente più tardo. Oltre all’impressione d’insieme della scrittura, molto veloce, corsiva, prevalentemente inclinata a destra ed estesa in lunghezza più che in larghezza, sono assolutamente identici al nostro (Tabella 1): p minuscolo con la parte inferiore formata da unico tratto curvo che, scendendo, salendo e poi scendendo di nuovo, abbozza due occhielli ma spesso li lascia aperti, limitandosi a restringerli59; p di forma maiuscola, con i due tratti verticali che, invece di essere paralleli, sono divergenti ed hanno l’origine
55 Che egli stesso numera come primo fascicolo, salvo poi ricominciare da 1 per i fascicoli successivi, secondo un uso non infrequente nella procedura di Darmario, cfr. O. KRESTEN, Der Schreiber und Handschriftenhändler Andreas Darmarios cit., p. 119. 56 Darmario in P2: ff. 1rv; 161r-162v; in P3: ff. 1-2v. 57 Mi baso sulle note manoscritte per cui cfr. supra nt. 30. 58 G. DE ANDRÉS, Catálogo de los códices griegos de la Real Biblioteca de El Escorial, Ma-
drid 1936-1967, II, pp. 34-35 (attribuzione errata, dovuta all’interpretazione della sigla sul f. 153r). Visionando di persona il manoscritto ho potuto constatare che esso proviene indubbiamente dall’ambito di Darmario (cui si devono almeno i titoli dei ff. 1r e 150r) ed è vergato principalmente dall’«agité», ma anche da un copista più inesperto (ff. 45-46r, 3) e da un altro anonimo in stretta collaborazione con l’«agité» (ff. 51v-53, 6; 54r; 56r-v, 12; 60, 11 — 61v, 1; 66v, 16 — 67v, 6; 78v; 82v-83v; 121v-122r). Ancor oggi, lo Scorialense F.II.8 è attribuito a Giovanni Catelo nell’Album de copistas de manuscritos griegos en España, del SEMGE (Seminario para el estudio de los manuscritos griegos en España), http://www.ucm. es/ info/copistas/copista.html?num=17, dove sono pubblicati gli specimina dei ff. 1v e 153r. Sul vero Giovanni Catelo, i cui manoscritti datati risalgono al 1542, cfr. RGK II 220; III 278; chiarificatore il contributo di A. PALAU, Les copistes de Guillaume Pellicier, évêque de Montpellier (1490-1567), in Scrittura e civiltà 10 (1986), pp. 205-207; Tableau III. 59 P1f. 233v, rr. 2, 3, 4, 6 et saepissime; F.II.8, f. 1v, rr. 1, 2, 6, 7 etc.
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in comune (p molto stretto nella parte centrale)60; b con occhielli stretti, specialmente quello superiore61; g minuscolo, fortemente inclinato a destra e proteso alla lettera seguente62; t che sale molto sopra il rigo, a forma di gancio, a volte arrotondato, altre volte a punta63; q a punta verso l’alto, quando è chiuso64; s chiuso, di piccolo formato, che si lega alla vocale seguente con un tratto perfettamente orizzontale65; x slanciato, con le due curve appena accennate e molto vicine tra loro66; r, in legatura con omicron, con la parte inferiore che scende poco sotto il rigo e si piega a gomito verso la lettera successiva67; y con tratto curvo ben poco accentuato68. Si potrebbe continuare, ma forse sono sufficienti questi tratti caratteristici. Naturalmente stiamo parlando di una scrittura che ama variare la forma e la dimensione delle lettere: pertanto nessuna delle descrizioni appena riportate risulta l’unico tipo del segno in questione. In comune, però, vi è l’abitudine di appoggiare un attimo la penna prima di tracciare la lettera, cosicché in vari casi si vede un piccolo ingrossamento all’inizio di essa: ad esempio nel g minuscolo, nel k, a volte anche nel p69. Per concludere, non è possibile individuare la mano di Calosynas in P1, né nella prima sezione (ff. 6r-23v; 25r-224r), né nella seconda (ff. 233v-264v). È invece interessante notare che nella prima si avvicendano diverse filigrane: del primo fascicolo di Melissenos, ff. 5-24, abbiamo già parlato a proposito dell’identità con N, ma dobbiamo segnalare ancora due filigrane inedite, simili tra loro, del tipo Sphère70, che ritroveremo rispetti60 P1f. 233v, rr. 1, 9, 11, 13; F.II.8, f. 1v, r. 1. 61 P1f. 233v, rr. 2, 11; F.II.8, f. 1v, rr. 2, 10. 62 P1f. 233v, r. 12; F.II.8, f. 1v, rr. 6, 12, 19. 63 Arrotondato: P1f. 233v, rr. 1, 10, 12; F.II.8, f. 1v, rr. 1, 2, 4, 5, 6, etc. A punta: P1f.
233v, rr. 1, 2, 3, 4, 6, et saepissime; F.II.8, f. 1v, rr. 3, 5, 6, 10, 11, 14. 64 P1f. 263r, rr. 1, 9, 12; F.II.8, f. 1v, rr. 2 e 9. 65 P1f. 263r, r. 11; Pal. gr. 410(P2), f. 151r, rr. 4, 7, 12; F.II.8, f. 1v, rr. 1, 13,16, 17. 66 P1f. 233v, r. 5; f. 263r, r. 11; P2, f. 151r, r. 9; F.II.8, f. 1v, r. 20. 67 P1f. 233v, r. 9; f. 263r, r. 2; P2, f. 151r, r. 6; ancora più ad angolo, in legatura con c successivo, al rigo 12; F.II.8, f. 1v, r. 10; f. 153r, r. 5. 68 P1f. 233v, r. 12; F.II.8, f. 1v, r. 2. 69 Gamma: cfr. supra, ll. citt.; kappa: P1f. 233v, rr. 9, 12 (bis), 13; F.II.8, f. 1v, r. 4; pi:
F.II.8, f. 1v, rr. 8, 11, 16; f. 153r, r. 7. 70 Briquet nrr. 13995-14027, di cui però si notano sensibili differenze di forma dalle nostre. Il tipo Sphère non è attestato nei codici esaminati da Sosower, nel suo repertorio, né in quello di D. e J. HARLFINGER, Wasserzeichen aus griechischen Handschriften, 1-2, Berlin 1974, 1980. Si tratta di carta francese, tipica di Angoulême e del Périgord, prodotta già
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vamente nei manoscritti C e B1 (Tavv. VIIA e VIIIA). Dal punto di vista della tradizione, la seconda (Tav. VIIIA per l’occorrenza in B1, cui va aggiunta la sua gemella71) si trova in P1 nella sezione di Appiano-Eunapio, ovvero nei fogli che riproducono l’ultima parte degli ELG nel modello medievale (Tav. VIIIB); in B1 si trova almeno negli ultimi 3 fogli degli ELR (259-261). La prima filigrana (Tav. VIIA riguardo alla presenza in C), invece, si trova in P1 proprio nella sezione di Polibio, acefala ed anepigrafa come p, ovvero nel corrispettivo dell’inizio del modello (Tav. VIIB). L’indizio del cambio di filigrana, insieme alla riorganizzazione del materiale, fa pensare che, vergando P1, Sophianos avesse avviato una copia ordinata secondo il modello originario, verosimilmente basandosi su A oppure su a, e che sia stato Darmario a confezionare un prodotto diverso dalle premesse. Ciò conferma che P1, sebbene presenti la struttura del gruppo BM, appartiene alla prima serie di copie indirette di p. Sarà interessante poi verificare se le diverse sezioni del manoscritto hanno la stessa posizione nello stemma. Per quanto riguarda la datazione del manoscritto e delle filigrane, non possiamo arrivare a dati certi: da un lato l’uso di fascicoli da 20 fogli nella parte di Melissenos, laddove il terzo copista usa costantemente 16 ff., rende evidente che la copia è stata formata da Darmario con materiale eterogeneo, dall’altro abbiamo le 13 righe per pagina in tutti e tre i tomi di P, il formato di P1 in-quarto minori, l’impiego di richiami orizzontali, la filigrana del fascicolo 1 del 1574/5 circa. Darmario preferisce i fascicoli da 16ff. tra inizio 1570 e fine 157172, data impossibile per il nostro codice, quindi la scelta del copista anonimo potrebbe essere indipendente da lui. D’altra parte per motivi codicologici, secondo il criterio strettamente darmariano, anche P1 dovrebbe essere stato assemblato entro i primi mesi del 1575. 4. L’importanza di C per gli ELR e i cosiddetti Theodosii Parvi Excerpta Le filigrane di P1 ci introducono al Cantabrigiense degli ELR, C. Essendo perduti sia il codice di Paez (p) sia la copia di Agustín (a), è fondamentale la sua presenza, in quanto terzo testimone non descriptus. Quando Krasheninnikov riscoprì il codice, riuscì ad ottenerlo in prestito in grande quantità per l’esportazione nel periodo che ci interessa e in seguito, cfr. Briquet, pp. 689-691. 71 Ad esempio P1 ff. 45-64; 49-60; 52-57 per la forma identica agli ultimi 3 fogli di B1 (ff. 259-261); per la gemella, cfr. P1 ff. 25-44, 28-41, 30-39, 32-37, 33-36; 46-63; etc. 72 KRESTEN, Statistische Methoden cit., pp. 45-46.
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per oltre un mese e riversò poi i risultati dell’analisi in un lungo articolo in russo, apparso in due parti nel 1914-1573; esso però rimase incompiuto, interrompendosi proprio con l’analisi dei primi fogli di Prisco e dunque arrivando a coprire neanche metà del manoscritto. Dopo di lui, non tutti gli editori degli storici contenuti negli ELR hanno tenuto conto dell’esistenza del Cantabrigiense, poiché spesso si sono basati solo su de Boor74. A differenza degli altri testimoni degli EL, il codice in questione ci è pervenuto isolato, ovvero privo di un tomo gemello con gli Excerpta de legationibus Gentium ad Romanos (ELG)75. A quanto pare, anzi, esso era già “spaiato” quando si trovava nella biblioteca di Jacques-Auguste de Thou, lo storico francese cattolico tanto amico di Isaac Casaubon da introdurlo, pur se calvinista, a Parigi alla corte di Enrico IV76. È lo stesso Casaubon a menzionare per primo questo manoscritto nel 1609, nella 73 Novaja rukopis cit., in Vizantijskij Vremennik 21 (1914), pp. 45-170; il seguito in Vizantijskoje Obozrienie 1 (1915), pp. 1-52. 74 Ne ha trattato Moore riguardo alla tradizione di Polibio, (The Manuscript tradition of Polybius cit., pp. 153-154); il primo a collazionarlo per un’edizione critica è stato Fritz Bornmann per la parte di Prisco, (Prisci Panitae Fragmenta cit.), seguito da Lia Raffaella Cresci per Malco (MALCO DI FILADELFIA, Frammenti cit.). A tutt’oggi accade che l’esistenza del manoscritto sfugga agli studiosi che prendono come riferimento il solo de Boor: si vedano ad esempio i contributi, peraltro accuratissimi, di S. PITTIA, M. CASEVITZ e B. FLUSIN nella raccolta Fragments d’historiens grecs cit., pp. 85-227; 449-456; 537-559; o la pregevole edizione di Giovanni d’Antiochia curata recentemente da Umberto Roberto (Ioannis Antiocheni Fragmenta ex Historia chronica, Berlin 2005 [TU 154]). 75 Per la verità, la prima copia tratta da Darmario per Antonio Agustín dal modello Escorialense medievale era in tre tomi, come è attestato dallo stesso Agustín nella sua Bibliotheca Graeca Manuscripta; in effetti, la versione ambrosiana del Catalogo dei manoscritti dell’Escorial redatto da David Colville all’inizio del 1600 (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Q 114 sup.) segnala la presenza di una copia degli EL in tre tomi, con segnatura antica G.IV.1, 2 e 3; più nota come H.IV.6, 7 e 8. Questa dovrebbe essere perita nell’incendio dell’Escorial del 1671, insieme al modello medievale (cfr. G. DE ANDRÉS, Catálogo de los Códices Griegos Desaparecidos cit., pp. 43 e 89-90). Tuttavia è possibile che almeno un volume sia stato illecitamente comprato e portato all’estero, cfr. infra il paragrafo 8. Ad oggi, essendo i tre volumi irreperibili, non ci è possibile asserire con certezza che si trattasse della copia di Agustín visto che, nello stesso periodo, Andrea Darmario e i suoi collaboratori approntarono altre copie in tre tomi, di cui ci è conservato un esempio negli Escorialensi R.III.13, 14 e 21. Vale comunque la pena segnalare che questi ultimi hanno una diversa distribuzione del testo rispetto ai perduti H.IV.6-8 (a differenza di quanto indicato da DE ANDRÉS, Catálogo de los Códices Griegos Desaparecidos cit., pp. 89-90); de Boor notò tale differenza durante la sua collazione del catalogo colvilliano (Sitzungsberichte cit., pp. 149-150) ma trascurò di indagarne i motivi. Per una integrazione del quadro, cfr. infra il paragrafo 8. 76 Ne conseguì l’incarico di garde de la librairie du roy, che Casaubon ricoprì dal 1604 al 1610, quando si trasferì in Inghilterra. Jacques-Auguste de Thou era maistre della Bibliotheca Regia già dal 1594, oltre che presidente del Parlamento di Parigi dal 1595, per cui Casaubon prestò servizio alle dipendenze dell’amico per tutto il tempo in cui risiedette a Parigi.
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prefazione della sua edizione polibiana, sotto il titolo «De codicibus mss. quorum nobis fuit copia»77: Multa emendauimus nec pauca suppleuimus è codice ms. Perä presbei§n uiri eruditissimi Andreae Schotti: qui etiam fragmenta quaedam è Theodosii Parui Excerptis descripta ad nos misit: quae tamen vulgata prius fuerant, verum aliis locis: quaedam etiam in II. parte. Eorumpse Excerptorum tomum primum inuenimus in splendidissima librorum suppellectile viri genere illustris, dignitate amplissimi, virtute, doctrina et sapientia maximi, Iacobi Augusti Thuani, in suprema Regni Curia Praesidis. Certe in prima fronte eius libri erant haec verba, etsi diversae manus, &O ejranæsa" t’ par’n, Qeodüsio" ejstæn ¿ mikrü". de quo plura in Commentariis.
Si tratta di un brano con notizie preziose, anche se apparentemente oscure. Prima di arrivare a parlare del nostro C, cui solo da ultimo fa riferimento, Casaubon afferma di essersi servito del codice del gesuita belga André Schott78, che oggi è appunto il Bruxellense in due tomi: uno per gli ELR (B1), l’altro per gli ELG (B2)79. Poco importa, in questa sede, se Casaubon abbia consultato direttamente il codice, per prestito, oppure se si sia avvalso di una collazione fornitagli da Schott80. In ogni caso, il manoscritto gli ha consentito, secondo le sue parole, di compiere preziose correzioni e integrazioni rispetto all’editio princeps di Orsini. Passiamo alla seconda notizia fornitaci da Casaubon, sui cosiddetti Theodosii Parvi Excerpta: la frase &O ejranæsa" t’ par’n, Qeodüsio" ejstæn ¿ mikrü" si trova sia in B1 sia in C ma in nessun altro dei codici dello stemma de Boor81; fuori dei manoscritti degli EL non è assolutamente attestata. 77 Polybii Lycortae F. Megalopolitani Historiarum libri qui supersunt. Isaacus Casaubonus ex antiquis libris emendauit, Latine uertit, & commentarijs illustrauit. (…), Parisiis apud Hieronymum Drouardum 1609, p. s.n. 78 Sul quale cfr. L. CANFORA, Il Fozio ritrovato. Juan de Marana e André Schott, Bari 2001; ID., Convertire Casaubon, Milano 2002. 79 Bibliothèque Royale 11317-21, di cui mi ha fornito una dettagliatissima descrizione pro manuscripto Michiel Verweij, della Bibliothèque Royale di Bruxelles, al quale va la mia profonda gratitudine. Del codice offriva una completa collazione CH. JUSTICE, Anecdota Bruxellensia. Le «Codex Schottanus» des extraits “De legationibus”, in Recueil de travaux de la Faculté de philosophie et lettres 17, Gand 1896, risolvendo definitivamente una strana querelle sulla presunta scomparsa del codice, cfr. CH. GRAUX, Essai sur les origines cit., p. 95, nt. 4. Il contributo di Justice, praticamente introvabile in Italia, fornisce elementi tuttora indispensabili a chi si occupi degli EL; sono quindi molto grata a Michiel Verweij per avermene consentito la consultazione in situ. 80 Ovvero abbia avuto in prestito uno solo dei due tomi, visto che parla al singolare («e codice»). 81 Nel Bruxellense peraltro manca la virgola dopo par’n, come fa notare KRASHENINNIKOV, Novaja Rukopis cit., p. 63 nt. 1.
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Riguardo ai manoscritti di Schott, le questioni che si presentano sono due: a) Casaubon intende distinguere la cosiddetta silloge di Teodosio da quella degli EL? b) Quali sarebbero gli excerpta che Schott riteneva inediti e che, in realtà, sono già noti? Per il primo punto è importante ciò che segue: si dice infatti che Schott è arrivato etiam a inviargli alcuni frammenti dagli Excerpta di Teodosio il Piccolo82. Cosa significa l’etiam? Sta solo enfatizzando la gentilezza e magnanimità di Schott (che ha persino spedito il testo dei frammenti in extenso), oppure serve a distinguere tra il codice B e i cosiddetti Excerpta di Teodosio? Qualche lume si ricava dalla lettera di Schott a Casaubon del 26 ottobre 160283, dove l’invio è confermato senza dubbio: Et quoniam pridem audimus Polybium, Historicum sane egregium abs te adornari, ut una cum Theophrasto Athenaeo, Laertio, ceterisque posteritati imputes; mitto84 de meis angustijs Fragmenta quaedam Polybii inedita praetermissaque a Fuluio Vrsino, et reperta olim a me in meis codicibus Perä prevsbewn calamo exaratis, quos apud illustrem virum Marcum Velserum Augustae85 deposui cum schidis alijs, vt in Athenaeum Notis. Ea si tibi grata accident, est quod gaudeam.
82 Giustamente O. KRESTEN, Eine Sammlung von Konzilsakten aus dem Besitze des Kardinals Isidoros von Kiev, Wien 1976, (Denkschriften/Österreichische Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Historische Klasse 123), p. 56, interpreta l’attribuzione come un tentativo fallito di far risalire gli ELR addirittura a Teodosio II. Sull’origine del falso, cfr. infra il par. 9. 83 London, British Library, Burney 366, f. 145v. Cfr. Epistola 312 in Isaaci Casauboni Epistolae, insertis ad easdem Responsionibus, quotquot hactenus reperiri potuerunt, secundum seriem temporis accurate digestae. Accedunt huic tertiae editioni, (…) item, Merici Casauboni, I. F. Epistolae, dedicationes, praefationes, prolegomena, et tractatus quidam rariores. Curante Theodoro Janson. ab Almeloveen, Roterodami MDCCIX, p. 165. 84 «Mitte» nel manoscritto, corretto giustamente dagli editori in base al contesto; il lap-
sus calami è spiegabile in quanto la lettera, firmata da Schott, fu scritta da altri, come lo stesso autore si preoccupa di annotare in calce: «Oculis aeger, aliena manu utor: ne mirere». Per la grave malattia agli occhi di Schott, cfr. CANFORA, Il Fozio ritrovato cit., p. 198. 85 Schott mise a disposizione di David Hoeschel i suoi tomi degli EL affinché potesse pubblicarne gli autori tardoantichi e bizantini trascurati da Fulvio Orsini; tale editio princeps apparve di lì a poco, nel 1603, ad Augsburg, con il titolo Eclogae legationum Dexippi Atheniensis, Eunapii Sardiani, Petri Patricii et Magistri, Prisci Sophistae, Malchi Philadelphensis, Menandri Protectoris. Cum Corollario Excerptor. e libris Diodori Sic. amissis. XXIXXVI. Omnia e mss. cod. a Dav. Hoeschelio edita, Augustae Vindelicorum 1603.
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A quanto sembra, nel 1602 Schott fa riferimento per la prima volta all’edizione polibiana di Casaubon, di cui ha sentito dire da terzi86, e prende l’iniziativa di contribuirvi con dei frammenti, che egli ritiene inediti, dai suoi codici Perä prevsbewn. Poiché nella lettera è esplicita tale provenienza, non è pensabile che Casaubon distingua tra la silloge degli EL e quella di Teodosio il Piccolo87. Dunque è probabile che il suo etiam vada tradotto con «persino». Ma allora, quali sarebbero i brani inediti di Schott? Questi ha collazionato attentamente i propri manoscritti con l’edizione di Orsini, e ne ha annotato a margine le corrispondenze, oltre a numerose congetture. Possiamo quindi osservare che Schott considerava inediti quattro brani degli ELR polibiani, visto che annota di suo pugno, a margine del f. 42r: «Non est excusum in Fuluina ut tria sequentia». Si tratta dei ff. 42r-47r, 49v-51v di B1, che corrispondono agli ELR nrr. 10, 11 e 15 della raccolta de Boor, il quale raggruppa due excerpta consecutivi dei manoscritti nel suo nr. 10. In realtà, come osserva correttamente Casaubon88, nessuno di questi brani era inedito poiché il nr. 10 era già conosciuto tra i brani del libro XV e il nr. 11 si trova nell’edizione Orsini alle pp. 6-8 (excerptum III). Del nr. 15, sebbene l’inizio si trovi in Orsini, erano già note le due pagine seguenti negli Excerpta antiqua (XVII, 31-33). Per quanto invece riguarda il manoscritto posseduto da de Thou, siamo certi che esso sia stato visionato direttamente da Casaubon: derivano infatti sicuramente da aštoyæa le espressioni «tomum primum inuenimus», da cui ricaviamo la notizia che il volume fosse uno solo, e «Certe in prima fronte eius libri erant haec verba, etsi diversae manus, &O 86 Pare comunque che Casaubon vi stesse lavorando da tempo, sebbene malvolentieri; cfr. G. F. BRUSSICH, Introduzione, in I. CASAUBON, Polibio, con una nota di L. CANFORA. Testo latino a fronte, Palermo 1991, pp. 28-29. In effetti le lettere al Duca di Urbino per ottenere in prestito il codice 102 degli Excerpta antiqua di Polibio risalgono a sette anni prima. 87 Perlomeno non tra B1 e Teodosio il Piccolo; resta aperta la possibilità che Casaubon
considerasse quella di Teodosio il Piccolo come una raccolta particolare rispetto agli altri manoscritti degli EL, di cui aveva preso visione forse di sfuggita: si veda il carteggio con Hoeschel riguardo ai frammenti di Dexippo, che Casaubon ricorda di aver intravisto, molti anni prima, in un manoscritto di Andrea Darmario. «Eclogas Presbei§n, oro te per Musarum sacra, ede quantocius. Memini ante viginti amplius annos videre illa ipsa Excerpta in Darmarii Graeci hominis manibus. Non dubito, multa ibi latitare, quae ad Caesareos Scriptores meos pertineant; maxime in Dexippo, cujus mentionem toties Graeci, Latinique Historici faciunt» (Isaaci Casauboni Epistolae cit., nr. 294 p. 155 del 21 maggio 1602). Si tratta sicuramente di un codice degli ELG, perché Dexippo non è conservato negli ELR. Poiché la scritta di Teodosio il Piccolo si trova su due tomi degli ELR (B1 e C), è possibile che Casaubon fosse convinto di attingere, grazie ad essi, ad un ramo diverso della tradizione degli EL rispetto ad Orsini e Darmario. 88 «quae tamen vulgata prius fuerant, verum aliis locis: quaedam etiam in II. parte».
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ejranæsa"» etc., che ci informano sulla posizione precisa della scritta e sulle sue caratteristiche paleografiche89. L’identificazione di questo Thuaneus con il nostro Cantabrigiense è stata già acclarata da Krasheninnikov90, proprio sulla base della nota con l’attribuzione a Teodosio il Piccolo91; in effetti tale nota si trova al f. 1r, non solo anteposta al testo ma fuori dello specchio di pagina: è dunque molto probabile che sia stata aggiunta in un secondo tempo, anche se non è certo che si tratti di una mano diversa, come vedremo tra poco (Tav. VA). Ma Casaubon ebbe a disposizione C oppure si limitò a dargli un’occhiata nella biblioteca dell’amico de Thou? Ovvero, dal punto di vista del manoscritto: come è giunto il tomo da Parigi a Cambridge? 5. Un codice a lungo dimenticato ed una nuova nota autografa Dal catalogo del Trinity College di James92 ricaviamo l’ultima parte della storia del codice: infatti nel 1697 Thomas Gale, professore di greco a Cambridge, lo fece registrare nel catalogo dei suoi manoscritti93. I Galeani, tra cui il famoso Lessico di Fozio appartenuto ad Henry Estienne94, formarono poi la classe O dei codici della Wren Library, a seguito della donazione in blocco al Trinity College ad opera del munifico figlio di Thomas, Roger Gale, nel 173895.
89 Per l’infondatezza delle quali, comunque, cfr. infra il par. 9. 90 KRASHENINNIKOV, Novaja rukopis cit., pp. 47-53. 91 KRASHENINNIKOV (ibid., p. 45) rinvenne il codice grazie all’errore di VOGEL-GARDTHAUSEN,
p. 132, che menzionano un fantomatico copista Teodosio a Cambridge. Cfr. KRESTEN, Eine Sammlung von Konzilsakten cit., p. 56, nt. i). 92 M. R. JAMES, The Western Manuscripts cit., pp. 208-209. 93 Trinity College, Wren Library, O.5.38 (James 1319), f. 161 nr. 140: «Eclogae lega-
tionum pr’" ejqniko˜" auctore Theodosio parvo, editis multo auctiores lib.: Folio». Per le origini della Wren Library, e per la sostanziosa donazione dei Gale, in più tempi, cfr. D. MC KITTERICK, The making of the Wren Library. Trinity College, Cambridge, Cambridge 1995, pp. 61-64 e passim; sono assai grata all’autore per le spiegazioni che ha avuto la bontà di darmi in proposito, come pure a tutto il personale della Wren Library, in particolare a Joanna Ball e ad Adam C. Green, per la loro squisita cortesia. 94 Cambridge, Trinity College O.3.9. 95 La donazione dei manoscritti occidentali (soprattutto latini e greci, ma non solo)
avvenne nel 1738, vedi M. RH. JAMES, Preface, in ID., The Western Manuscripts cit., pp. v-xiii; MCKITTERICK, The Making of the Wren cit., p. 63. Thomas Gale aveva già donato i suoi manoscritti orientali nel 1697, quando si allontanò da Cambridge per la cattedra di Londra. In seguito, Roger aumentò notevolmente la quantità della collezione, ad esempio con numerosi manoscritti provenienti da Patrick Young (ibid.).
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Eppure, fino a Krasheninnikov, gli editori di Polibio ritennero il codice irrimediabilmente perduto quando si trovava già da tempo in possesso del Trinity College. Anzi, nel 1789 Schweighaeuser suppose addirittura che il codice non contenesse neppure Polibio e che dunque Casaubon non lo avesse collazionato ma si fosse limitato a citarlo come testimone di una fantomatica silloge di Teodosio il Piccolo96. Anche Bornmann, nella sua edizione di Prisco che per la prima volta tiene conto del Cantabrigiense, ne riassume la provenienza con queste scarne parole: «probabilmente è il codice in possesso di Jacques Auguste de Thou (1553-1617), ricordato e invano cercato da Casaubon»97. Tuttavia, mi pare che quest’ultimo, se si fosse limitato a intravederlo nella biblioteca dell’amico de Thou, difficilmente lo avrebbe menzionato sotto il titolo «De codicibus mss. quorum nobis fuit copia», alla fine della prefazione al suo Polibio del 1609. D’altra parte, è anche vero che Casaubon parla del manoscritto al passato («erant») e così ci induce a supporre che lo abbia esaminato in anni precedenti e che, nel licenziare alle stampe il testo, non lo abbia più a disposizione. Eppure subito aggiunge: «de quo plura in Commentariis», promessa che, a quanto pare98, non ha avuto
96 POLUBIOU MEGALOPOLITOU ISTORIWN TA SWZOMENA. Polybii Megalopolitani Historiarum quidquid superest, Recensuit, digessit, emendatiore interpretatione, varietate lectionis, adnotationibus, indicibus illustravit IOHANNES SCHWEIGHAEUSER Argentoratensis, II: Liber IV. et V. cum reliquiis libror. VI. et VII., Lipsiae 1789, p. XXIII, «ita de hoc codice loquitur Casaubonus, ut intelligi videatur, nihil in eo fuisse quod ad Polybium pertineret. (…) Denique, quorsum Thuaneus ille codex, qualiscumque fuit, evaserit, non magis, quam de ceteribus codicibus Legationum, compertum habeo: quem ne in Catalogo quidem Bibliothecae Thuanae, qui Parisiis anno MDCLXXIX publicatus est, diligenter licet indicem manuscriptorum Codicum perlustrans, memoratum repperi». Cfr. anche Polybius, ed. T. Büttner-Wobst, ed. altera, I, Leipzig 1905, p. IX. 97 Prisci Panitae Fragmenta cit., p. XXIII. 98 Non ha avuto esito, finora, la ricerca nel mare magnum degli adversaria casaubonia-
na alla Bodleian Library (di cui caldamente ringrazio la direzione e tutto il personale per la competenza e la collaborazione a questa “impresa”), così come nelle edizioni parziali, una curata da Meric Casaubon (Isaaci Casauboni Ad Polybij Historiarum librum primum commentarii. Ad Iacobum I. Magnae Britanniae regem serenissimum, Parisiis 1617), l’altra del 1710 (Casauboniana, Sive Isaaci Casauboni Varia de Scriptoribus Librisque judicia, Observationes Sacrae in utriusque Foederis loca, Philologicae item & Ecclesiasticae, Ut & Animadversiones in Annales Baronii Ecclesiasticos ineditae, Ex varii Casauboni MSS. In Bibliotheca Bodlejana reconditis Nunc primum erutae a O. CHRISTOPHORO WOLFIO, Prof. Publ. Philosoph. Extraordinario in Academ. Wittenberg. Accedunt duae Casauboni epistolae Ineditae, & praefatio ad librum de Libertate Ecclesiastica Cum notis Editoris in Casauboniana, Ac praefatio qua de hujus generis libris disseritur, Hamburgi 1710). Tuttavia mi riprometto di esaminare con più calma la questione.
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seguito ma che esprime l’intenzione di occuparsi ancora, in qualche modo99, dei manoscritti appena menzionati. Poco noto, anzi quasi del tutto negletto, è un breve articolo di Craster del 1926 sui manoscritti greci di Casaubon100, che nel nostro caso risolve il dilemma: infatti egli identifica C con uno dei codici appartenuti al filologo ginevrino e catalogati alla sua morte (1614) nelle liste che oggi si trovano nella Bodleian Library101. Dobbiamo quindi supporre che de Thou abbia prestato questo testo all’amico, con la consueta liberalità102, e non lo abbia più richiesto indietro. Conferma tale provenienza una scarna nota marginale del f. 35r di C, da me identificata con la mano dello stesso Casaubon (Tav. VIA). Vi si legge: «Hic incipit liber Vrsini», in corrispondenza del primo excerptum polibiano dell’editio princeps103. Per quanto le lettere siano ben poche, risaltano alcuni elementi tipici della scrittura del filologo ginevrino: si notino in particolare la legatura tra n e c, con c appena accennata e per di più tratteggiata verso l’alto104, e l’apertura della V maiuscola105. 6. La mano degli altri marginalia latini: Patrick Young Varie conseguenze si possono trarre dalla provenienza de ThouCasaubon, proseguendo nell’analisi del manoscritto.
99 Come fa giustamente notare SCHWEIGHAEUSER, Polybii Megalopolitani Historiarum cit. (cfr. supra nt. 96), nt. d): «Iam plura quidem in Commentariis, qui numquam prodierunt, [scil. Casaubonus] promittit: sed, plurane de illo Thuaneo codice, an de Theodosio isto parvo fuerit dicturus, in ambiguo relinquit». 100 H. H. E. CRASTER, Casaubon’s Greek Manuscripts, in The Bodleian quarterly record 5 (1926-1929), pp. 97-100. 101 Vi si fa menzione del codice per ben quattro volte, in altrettante liste: Oxford, Bodleian Library, Mss. Casaub. Arch. Seld. C. XXX, ff. 38, 41, 47, 128. 102 Tracce di prestiti analoghi si trovano nelle epistole e nel diario di Casaubon: cfr. ad esempio, per un Crisostomo inedito, I. CASAUBON, Ephemerides, 1850, I, p. 350, 12 maggio 1601: «Quod potuimus temporis lectioni Chrysostomi in Acta dedimus, et id pensum exegimus Dei beneficio. Liber erat Praesidis Thuani MS. neque adhuc is liber Gr. editus». Per un Avicenna, cfr. Ad Thuanum, Epistolae 308: «Esto Avicenna tuus ktÞsei, meus, si placet crÞsei». 103 Corrispondente al testo di Polyb. ELR 8, p. 31, 31 de Boor. 104 Per questi tratti caratteristici cfr. gli autografi di Casaubon conservati alla British
Library, soprattutto Add. 23.101, f. 3r; Egerton 1239, f. 22r; Egerton 1237, f. 10v. 105 Ibid.; cfr. anche l’edizione di Diodoro a stampa con note manoscritte di Casaubon,
che alla BL ha la seguente segnatura: C.75.g.11 (p. 8 et passim). Devo alla cortesia di Kristine Haugen quest’ultima segnalazione.
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Anzitutto in C si trovano alcuni marginalia di mano latina, evidentemente apposti da un utente e non da un copista, che nel catalogo di James sono erroneamente attribuiti al successivo proprietario, Thomas Gale. Si tratta delle corrispondenze tra testo manoscritto ed edizioni a stampa, derivate da attenta collazione; il dotto che le ha annotate non disponeva di un codice degli ELG e forse, addirittura, non sapeva distinguere tra ELR ed ELG poiché annota spesso l’esistenza di altri excerpta editi «quae in hoc codice desiderantur»106, come se si aspettasse di trovare in C una raccolta completa per autori e non per argomento, secondo le edizioni di Orsini ed Hoeschel che aveva sottomano. Di altri testi a stampa cita solo quello di Casaubon per Polibio (1609) e di Sylburg per Zosimo (1590107), mentre si annota di confrontare l’edizione di Procopio di Hoeschel (1607), che evidentemente non ha a disposizione. La mano è molto piccola e regolare (Tav. VIB, con ingrandimento del 150%), assolutamente inconfondibile con quella larga e varia di Thomas Gale, o con quella di suo figlio Roger108: è invece quella di Patrick Young, meglio noto come Patricius Junius, bibliotecario di Giacomo VI d’Inghilterra, editore di testi patristici e teologici, esperto di codici non solo greci109. Di lui si trova traccia in molti manoscritti galeani, come annota nella Prefazione lo stesso James; d’altra parte, una banale svista di quest’ultimo nella catalogazione di C è facilmente spiegabile con l’eterogeneità di lingua, contenuto, mano e datazione nei codici del Trinity College110. 7. Le correzioni di Young sul testo di C I marginalia di Young sono tracciati con un inchiostro molto più scuro di quello del copista, che si lascia riconoscere, nei primi fogli del 106 Così ad esempio ai ff. 72r: Appian.; 88r Cass.D.; f. 167 Malch; f. 184r Menand. 107 Historiae romanae scriptores graeci minores, qui partim ab urbe condita, partim ab
Augusto imperio, res Romanas memoriae prodiderunt, III, Francofurti 1590. 108 Per i quali si vedano, ad esempio, BL, Add. 28.167, f. 32; Cambridge, Trinity College O.2.39, f. di guardia anteriore; O.10.33, f. 205v. 109 Rimane fondamentale il lavoro di J. KEMKE, Patricius Junius, Berlin 1898
(Dziatzko’s Sammlung bibliothekswissenschaftlicher Arbeiten, 12); autografi da me confrontati: BL, Harley 374, nr. 156, f. 264; 4936 nr. 126, f. 148; Trinity College, Wren Library O.10.33, ff. 204-205, dove si vede bene la differenza con Thomas Gale. 110 Cfr. il vivace ritratto del proprio foglio di lavoro nella prefazione di James al III volume, p. xiii: «I have sometimes thought of publishing a facsimile of a page of my manuscript. It would excite a lively sympathy for the compositors, but I doubt if my reputation would stand the shock».
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codice, anche in pochissime correzioni sul testo. Ritengo importante segnalarle, per evitare che un editore critico, basandosi solo su immagini da microfilm, le confonda con le correzioni del copista stesso, molto più numerose. Si tratta di annotazioni ovvie, indicate direttamente nel rigo, talora coprendo le lettere del copista: f. 3r, rigo 7, incipit dell’excerptum nr. 1 di Pietro Patrizio (p. 3, 4 de Boor): ballerianü", con r corretto vistosamente su un probabile b del copista; ibid., r. 9 (p. 3, 5 de Boor): mauroýsioi, corretto su maroýsioi del copista (il quale peraltro riportava tale correzione a margine: maur); ibid., rr. 10 e 16: tratto orizzontale sui nomi propri sapþrin, devnaqo", sapþrhn (p. 3, 6 e 11 de Boor). f. 3v, r. 10, incipit dell’exc. nr. 3 (p. 3, 11): tratto orizzontale sul nome proprio galevrio"; f. 4r, r. 16 (p. 4, 10 de Boor): cancellazione nel rigo della dittografia basileæ(a"). A ciò si aggiungano tre indicazioni di passi: f. 7r, parentesi quadra aperta, per segnalare l’incipit di Dionigi di Alicarnasso, con rimando marginale alla pagina dell’edizione Orsini (p. 7, 1 de Boor); f. 93v, asterisco ad inizio di excerptum; f. 188r, r. 18 parentesi quadra aperta, per indicare l’incipit di un brano di Menandro Protettore omesso da B1 e quindi non pubblicato da Hoeschel nel 1603; f. 189r, r. 5 parentesi quadra chiusa, per l’explicit dello stesso brano (pp. 173, 25 — 174, 9 de Boor). 8. Il percorso di C nel Seicento e la sorte della copia di Agustín Oltre a indicarci che Young entrò in possesso del codice alla morte di Casaubon (1614), i marginalia testimoniano che, con ogni probabilità, Thomas Gale acquistò C insieme ai molti altri pezzi juniani, verosimilmente non molto dopo la morte dello stesso Young (1652)111. Così abbiamo ricostruito il percorso di C nel Seicento:
111 Sulla provenienza juniana di molti codices galeani cfr. MCKITTERICK, The Making of the Wren cit., p. 63.
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– all’inizio del secolo112 passa per prestito dalla biblioteca privata di de Thou a Casaubon; – nel 1614, alla morte di Casaubon, viene incamerato da Young113; – dopo il 1652, alla morte di Young, viene venduto a Gale insieme a molti altri codici. Ciò, a sua volta, ha un’importante implicazione. La provenienza casauboniana-juniana rende impossibile, per motivi cronologici, identificare C con il manoscritto degli ELR acquistato illecitamente dall’ambasciatore svedese Mattias Palbitzki nel 1651 all’Escorial114: senza dubbio, almeno nel 1614, alla morte di Casaubon, C si trovava già in Inghilterra, per rimanervi fino ad oggi. Inoltre sappiamo che il manoscritto di cui Palbitzki si impossessò iniziava con gli ELR, ma anche che, a differenza di C, riportava la loro attribuzione a Giovanni di Costantinopoli115; tale nota, apposta sul modello medievale al f. 187r «manu recentiori» secondo il catalogo escorialense di inizio Seicento, copiato da David Colville nell’Ambr. Q 114 sup., si trovava anche nell’incipit del manoscritto H.IV.8, volume ritenuto disperso nell’incendio del 1671116. Non si trova, invece, negli altri codici degli ELR ad oggi conservati, tra cui C. Pertanto, mi pare più che probabile che Palbitzki sia entrato in possesso proprio dello Scorialense H.IV.8, quella copia «in-quarto minori» che secondo il catalogo colvil112 Forse già prima del 1609, data della Praefatio all’edizione di Polibio; oppure subito dopo, quando Casaubon attendeva ai Commentarii. 113 Sebbene Young lamenti l’avidità della vedova di Casaubon, che sarebbe gelosissima dei manoscritti del marito, pare che il bibliotecario del re riesca a mettere le mani su più di un pezzo di valore: almeno così si evince dalle note di Meric Casaubon sulla dispersione dei beni paterni. 114 W. NISSER, Mathias Palbitzki som connoisseur och tecknare, Uppsala 1934, p. 40; de Andrés avanza dubitosamente l’ipotesi che si tratti del codice di Cambridge nella monografia su Calosynas, Helenistas cit., p. 63 nt. 190. 115 Pare che Palbitzki non fosse in grado di leggere correttamente il greco ed avesse traslitterato «Ioauoir»; ma probabilmente la difficoltà di lettura è stata del suo segretario (cfr. CHR. CALLMER, Königin Christina, ihre Bibliothekare und ihre Handschriften, Stockholm 1977, pp. 157-159), non dello stesso Palbitzki: quest’ultimo, famoso pittore, avrà comunque riprodotto il disegno delle lettere che vedeva e, nella grafia di Darmario, *Iwavnni" (itacismo) poteva essere scritto con n chiuso, simile a omicron (A, f. 665r, 9; f. 674,10 et saepe); non sono rari, inoltre, i casi di sigma finale simile a rho. 116 Indicato con la segnatura originaria (G.IV.3) in DE ANDRÉS, Catálogo de los Códices Griegos Desaparecidos cit., p. 90, nt. 193 (dove peraltro va rettificata la notizia sul contenuto di questa copia perduta: in base al catalogo colvilliano essa non conteneva affatto il testo che oggi è nello Scorialense R.III.13, bensì, semmai, quello del R.III.14 + la prima parte del R.III.21; inoltre aveva consistenti aggiunte, come vedremo tra poco). La segnatura posteriore secondo DE ANDRÉS (ibid.) è H.IV.8, sebbene Colville leggesse IV.H.8 (cfr. nt. 117)
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liano doveva essere abbastanza voluminosa: comprendeva infatti non meno di 734 fogli, a causa dell’inserzione di ampi passi dal Bellum Gothicum di Procopio, che poco riguardavano le ambascerie degli EL e che, secondo Colville, sarebbero stati aggiunti dal copista solo per aumentare il numero delle pagine e dunque il prezzo del volume117. Si badi che, secondo la maggior parte degli studiosi, lo Scorialense H.IV.8 è uno dei volumi appartenuti ad Antonio Agustín, insieme a H.IV.6 ed H.IV.7 degli ELG118. L’ipotesi è fortemente corroborata dalla testimonianza della Bibliotheca Graeca Manuscripta dello stesso Agustín, che parla di tre volumi degli EL «in quarto minori» e di Giovanni di Costantinopoli119, e dal fatto che l’intero patrimonio librario del vescovo di Lérida e Tarragona fu, alla sua morte, incamerato da Filippo II e trasferito all’Escorial nel 1591. Se veramente quella era la sua copia, Agustín non si accorse dell’imbroglio di Darmario e considerò i passi procopiani dei ff. 396-721 coerenti con il resto, nonostante l’evidente sproporzione quantitativa, l’eterogeneità del contenuto e la presenza di una ampia sezione procopiana già ai ff. 160-216? Dalla lettera del 13 novembre 1574 si vede bene che Procopio gli era noto120: è pensabile che un erudito così attento non si sia accorto dell’inganno? In ogni caso, Colville era in grado di smascherarlo. D’altra parte, è ragionevole supporre che lo scopo dell’inserzione arbitraria, per Darmario, non fosse solo quello di aumentare il prezzo ma, ben più importante, di dilazionare la consegna del volume ad Agustín per avere il tempo di trarne un numero sufficiente di copie. Sappiamo per certo, infatti, che il vescovo insistette molto per accelerarne l’iter, ma 117 Ambr. Q 114 sup., f. 289r, s.v. Procopius: «Procopii Caesarensis de Bello Gothico libri tres sed male tractati a nequissimo scriptore qui ut paginas repleret et mercedem augeret multa paragrapha inseruit in IV.H.8. pag. 396 et IV.H.7. pag. 45». Posso così completare, con questa notizia, quanto lasciato in sospeso da de Boor nel suo articolo preliminare all’edizione: egli collazionò in fretta il catalogo colvilliano, riportò l’elenco di quanto contenevano le copie degli EL, notò l’incongruenza nei numeri di pagina ma non si interessò a scoprire cos’altro il copista vi avesse inserito. Per l’esattezza, la sezione procopiana “spuria” rispetto agli EL si trovava in H.IV.8 tra Menandro Protettore e Teofilatto Simocatta, ovvero in penultima posizione nel volume, che verosimilmente terminava al f. 734. 118 DE ANDRÉS, Catálogo de los Códices Griegos Desaparecidos cit., p. 90, nt. 193; solo Krasheninnikov si è opposto all’identificazione, sostenendo che lo stesso Ambr. N 135 sup. (A) coincida con una parte della copia di Agustín. Sempre valide le obiezioni codicologiche di DE BOOR, Sitzungsberichte cit., pp. 151-2, e di Bornmann in Prisci Panitae Fragmenta cit., pp. XXVI-XXVII. 119 Antonii Augustini Opera Omnia, VII: Bibliotheca graeca ms., pp. 47-48. 120 Antonii Augustini Opera Omnia, VII, p. 257: «Noti antiqui come Herodoto, Tucidide, Arriano, Josepho, Procopio. Ignoti ma moderni, Prisco rethore il quale è citato da Jornandes scrittore Gotho, Theophylatto, Menandro, Petro Patricio, Malcho Sophista, Joanne Antiocheno, Zosimo».
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ottenne comunque le copie complete più di un anno dopo il rilascio del permesso del re121. Visto che Darmario solitamente aveva tempi di copia rapidissimi, il ritardo deve essere stato più che voluto. Vale la pena di soffermarsi un attimo sull’assenza del nome di Giovanni di Costantinopoli nelle copie sopravvissute. Nulla di strano nell’attribuzione fittizia, visto che il manoscritto fu redatto da Andrea Darmario: è ben nota la tendenza di quest’ultimo ad “integrare” le notizie mancanti con nomi inventati, senza alcun fondamento122. Quello che interessa dal punto di vista della tradizione manoscritta degli EL è l’assunto, generalmente accettato dagli studiosi moderni a partire da Graux, che la copia di Agustín sia stata il modello da cui, direttamente o indirettamente, sono derivate tutte le altre degli ELR. Se le cose stessero così, in ognuna dovremmo trovare il nome di Giovanni di Costantinopoli; è ragionevole supporre, infatti, che l’incipit sia stato copiato con cura maggiore del resto. È vero, invece, il contrario: B1 e C introducono un’attribuzione a Teodosio il Piccolo che, a quanto pare dal catalogo di Colville, non ha riscontro nel manoscritto medievale. Gli altri, compresi quelli che da B1 dovrebbero derivare, tacciono del tutto. Come spiegare questa situazione? Ferma restando la necessità di una nuova collazione completa di tutti i manoscritti, che dissipi i dubbi sull’esattezza dell’apparato e dunque anche sullo stemma di de Boor, per limitarmi a quanto è possibile in questa sede vorrei sottolineare che, poiché solo Agustín ci parla di Giovanni di Costantinopoli123, è verosimile che H.IV.8 sia la sua copia degli ELR; tuttavia tale intestazione può essere stata aggiunta alla fine del lavoro, quando il testo era stato già copiato più volte, da questo modello o da un altro. D’altra parte, con ogni probabilità B1 e C “inventano” una dicitura nuova allo scopo di collocarsi meglio sul mercato, in un periodo in cui le copie degli EL andavano a ruba e, perciò, venivano prodotte in serie. Tra l’altro, avendo ricostruito che le prime copie parziali degli EL devono essere almeno del 1574, è possibile porre dopo questa data l’indice di 121 Di cui lo stesso Agustín dà notizia il 12 ottobre 1573. 122 O. KRESTEN, Phantomgestalten in der byzantinischen Literaturgeschichte. Zu vier Ti-
telfälschungen des 16. Jahrhunderts, in Jahrbuch der Österreichische Byzantinistik 25 (1976), pp. 207-222 (in particolare pp. 213-222); SOSOWER, A Forger revisited cit., pp. 289-306. Lo stesso Darmario nel 1574 può aver aggiunto il nome di Giovanni di Costantinopoli nel manoscritto medievale, mentre lo stava copiando; oppure un lettore anche più tardo, tra il 1591 e gli inizi del Seicento, eventualmente collazionando la stessa copia di Agustín. 123 Proprio da Agustín vengono, con ogni probabilità, le citazioni del nome fatte da Orsini, visto che i suoi manoscritti non ne hanno traccia.
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codici di Andrea Darmario del Vat. gr. 2662 f. 2rv, segnalato da Salvatore Lilla come (forse) del 1561124. Ma, al momento, ci interessano particolarmente le somiglianze tra i due codici B1 e C. Esse non finiscono qui. Il tomo degli ELR appare vergato in entrambi da Sophianos Melissenos, che risparmia sulla carta e sul minio molto più di Darmario: evita infatti miniature e decori, come pure di andare a pagina nuova per ogni nuovo autore125. Una copia tutto sommato più “trascurata” ma pur sempre di buona qualità e che, comunque, grazie all’attribuzione al fantomatico Teodosio poteva piazzarsi bene nelle vendite. 9. Melissenos copista di C e la nota su Teodosio il piccolo Secondo Casaubon, non è stato il copista a tracciare su C «in prima fronte» la frase &O ejranæsa" t’ par’n, Qeodüsio" ejstæn ¿ mikrü". In effetti, essa è stata indubbiamente aggiunta quando il testo era già stato completato, poiché si trova fuori dello specchio di pagina del f. 1r, inoltre presenta un tratto molto più posato ed un inchiostro diverso dal resto; tuttavia non si può escludere una differenza di ductus e non di mano126 (Tav. VA). Le lettere, peraltro, sono troppo poche per svolgere un confronto paleografico convincente: lo stesso Nigel Wilson, da me consultato in proposito, ha ritenuto opportuno sospendere il giudizio in mancanza di prove più sicure. Troviamo la stessa situazione in B1, dove l’attribuzione a Teodosio il Piccolo è stata apposta a lavoro finito, con un ductus e un inchiostro diversi da quelli del testo. Qui, tuttavia, la stessa mano della frase in questione (f. 2r, Tav. VB) ha vergato sull’ultimo foglio (f. 262r) il Pænax del contenuto dell’intero tomo ELR (Tav. IX). In questo caso il testo greco è abbastanza ampio da consentire di fugare ogni dubbio. Si notino lo stesso ductus ed inchiostro tra l’intestazione &O ejranæsa" ktl. e il Pinax, in B1; per dimostrare che è la stessa mano, basti notare lo stesso tipo di r (presente al f. 2r in mikrü"), che scende con una sorta di gancio aperto verso sinistra, al f. 262r, rr. 4, 6(bis), 7(bis), 9, 11, 15, 16, 17(bis), 18, 20(ter), 22(bis), 23, 24, 26(bis), 31(bis), 32; il q aperto di qeodüsio", privo 124 S. LILLA, Spigolature dagli ultimi codici Vaticani greci, in Bollettino della Badia greca di Grottaferrata, ns 1998 (52) = *Opþra. Studi in onore di monsignor Paul Canart per il LXX compleanno, II, pp. 266-281. 125 Lo notava già KRASHENINNIKOV, Novaja rukopis, pp. 64-72 passim. 126 Per esempi analoghi di Darmario, cfr. H. HUNGER, Duktuswechsel und Duktusschwankungen. Zum Versuch einer paläographischen Präzisierung von Handgrenzen, in Bollettino della Badia greca di Grottaferrata n.s. 45 (1991), pp. 69-83.
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del tratto inferiore sinistro, al f. 262r, rr. 4,5,7,21,24,31; d che sale poco sopra il rigo in legatura con vocale seguente, sia al f. 2r in qeodüsio", sia al f. 262r, rr. 17 e 18. Inoltre l’identità di scriba tra B1 e C riguardo alla attribuzione a Teodosio è così evidente da richiedere appena una conferma, solo che si ponga attenzione ai gruppi do e kr127. Abbiamo dunque cinque elementi da considerare: il testo di C [1], il testo di B1 [2], la nota su Teodosio in C [3], quella in B1 [4] e, infine, il Pinax di B1 [5]. È possibile attribuirli tutti ad una stessa mano? Abbiamo appena visto l’identità di [3], [4] e [5]; passiamo ora ad [1] e [2], per poter completare il quadro. Sappiamo già che lo scriba di C è Sophianos Melissenos, identificato da Mark Sosower128. Peraltro, l’analisi della scrittura mi ha portato a concludere che C sia stato scritto interamente dalla stessa mano, sia per il testo sia per le correzioni a margine, a differenza di quanto sostenuto da Moore129; condivido, quindi, l’attribuzione di de Andrés130. Resta da vedere se davvero B1 è attribuibile a Calosynas, o se la mano è la stessa di C. Per fugare ogni dubbio, sono sufficienti gli esempi dei tratti caratteristici di Melissenos, già elencati a proposito del Vaticano greco 1418: p con occhielli sovrapposti131; q chiuso a punta verso il basso132; u con la parte destra appena accennata (simile a iota)133; ei in legatura con accen-
127 Per non parlare delle lettere næsa" t’ p(..)ün, -sio" ejstæn, etc. Naturalmente ci sono anche differenze di B1 da C, ad esempio nelle legature ra, par-, o nel theta (aperto ma privo del tratto iniziale a sinistra), elementi che però rientrano nelle possibili varianti di una stessa mano, magari a distanza di tempo. Per l’intervallo che deve essere trascorso tra la copia di C e quella di B1, cfr. infra la trattazione delle filigrane. 128 Sono molto grata per questa segnalazione al professor Sosower, che con squisita gentilezza mi ha informato sulle sue note di osservazione inedite. Il copista non era ancora stato identificato da KRESTEN, Eine Sammlung von Konzilsakten cit., p. 56; per l’attribuzione al medesimo copista, fino ad allora anonimo, della maggior parte del Vat. Barb. gr. 68 cfr. ID., Statistische Methoden cit., p. 44 nt. 47. 129 Egli parla di una molteplicità di mani nello stesso codice, scambiando a mio avviso le differenze di ductus, di inchiostro e, soprattutto, di corpo del carattere per diversità di mano. In effetti, le dimensioni della scrittura variano anche sensibilmente tra un fascicolo e l’altro, in particolare tra il f. 130v e 131r (almeno un mm di differenza a parità di lettera), dove cambia anche l’inchiostro, da marrone a nero; il ductus è strutturalmente corsivo e risente delle variazioni di formato tipiche delle scritture cancelleresche (in particolare sembrano diversi i ff. 62-63), pur conservando la stessa inclinazione ed impaginazione. 130 DE ANDRÉS, Helenistas cit., p. 63 nt. 190. 131 B1 f. 139r, 6, 8, 9, 11, 12, etc.; per il diverso tratteggio di p in Darmario cfr. supra
nt. 32. 132 B1 f. 130v, 3; f. 139r, 7; etc. 133 B1 f. 146r, 11; f. 148r, 11.
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to circonflesso134; abbreviazione di -hn e di -eu"135; d con tratto verticale basso (simile a sigma) in legatura136. Che dire quindi dell’ipotesi de Andrés, che attribuisce con sicurezza a Calosynas l’intero Bruxellense degli ELR, mentre concorda sull’opera di Sophianos nel Cantabrigiense137? Come prova, egli adduce la «típica letra alargada y separada» di B1. La visione diretta dei manoscritti mi ha persuaso ulteriormente del fatto che C e B1 si debbano ad una stessa mano e che questa non possa essere Calosynas: tra le caratteristiche paleografiche che lo differenziano nettamente da Sophianos, oltre alla percentuale relativamente alta di lettere maiuscole in Calosynas, laddove Sophianos predilige le minuscole, oltre ad una mano decisamente corsiva di questo e una certa rigidità dell’altro, si possono senz’altro richiamare (Tabella 1) il tratteggio di p con gli occhielli uno sotto l’altro (Calosynas non arriva mai a disporli in verticale, neanche nei casi di scrittura evidentemente piú veloce138), e q chiuso a punta verso il basso, mentre Calosynas, semmai, lo traccia a punta verso l’alto139. Peraltro B1, a differenza di C, presenta quasi tutti i titoli miniati di mano darmariana140, tranne quello di Arriano, che si deve alla penna di 134 B1 f. 143r, fine rigo 17; etc. 135B1 f. 150v, fine rigo 9; f. 157v, fine rigo 1 pr’" mavc(hn); f. 159r, fine r. 11 ašt(hVn); f.
162v, 20 ajnapempomevn(hn) (correzione marginale pro ajnaflegomevnhn); f. 168r, fine r. 20 thVn skhn(Þn) (ultima parola della pagina) Per eu" finale: ¿ basileý" B1 f. 146r, rigo 17; f. 173r, rigo 16. 136 B1 f. 148v, 2; f. 149v, 18; f. 161v, 6. 137 DE ANDRÉS, Helenistas cit., p. 65. Il nucleo dell’argomentazione era già stato esposto
nell’articolo dello stesso autore: El Cretense Antonio Calosinás cit. (cfr. supra nt. 11), pp. 97104 (in particolare alla p. 102, dove si attribuiscono a Calosynas entrambi i tomi di B, anche quello degli ELG [B2] che in seguito lo stesso de Andrés riconosce di Darmario). 138 Ad esempio nella tavola del RgK I C, 25: Madrid, Biblioteca Nacional, 4857 (Arch. Hist. Nac. 164, 8), f. 6r, rr. 1, 5, etc. 139 Ibid., rr. 5, 9, etc.; peraltro di solito qui theta è arrotondato sia nella parte inferiore che in quella superiore. 140 Ff. 4r (Pietro Patrizio); 6r (Giorgio Monaco); 8r (Giovanni Antiocheno); 22r (Poli-
bio); 77v (Appiano); 85v (Zosimo); 91r (Giuseppe Flavio); 93r (Diodoro); 94r (Cassio Dione); 103v (Procopio); 139r (Prisco); 178v (Malco); 195v (Menandro Protettore); 254r (Teofilatto Simocatta). Per il primo titolo, quelllo del proemio al f. 2r (Tav. VB), nutro qualche dubbio sulla genuinità di mano darmariana: sembra piuttosto un collaboratore che si sforzi di imitare perfettamente il maestro, specialmente per il primo rigo. Certo sarebbero tratti darmariani ben imitati: p minuscolo tipico, rr. 1 e 2; theta chiuso di piccolo formato, r. 2; u" con un tratto in comune, r. 2; n stretto e quasi chiuso al r. 2 (dopo il theta); ma non appare affatto darmariana proprio la prima parola del titolo: ›püqesi" con theta allungato ed a punta (sia verso l’alto, sia verso il basso), e ampio, con tratto mediano perfettamente orizzontale, si in legatura orizzontale anziché arrotondata, etc.
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Melissenos ed è in nero, al f. 103r. Che Darmario “firmasse” le copie con una costante apparizione nei titoli, oltre che in fogli isolati (magari ad inizio fascicolo), non è certo una novità: solo per la tradizione degli EL, accade costantemente nel Palatino greco 412. Fin qui, dunque, abbiamo visto come il testo di C e B1 (che abbiamo denominato [1] e [2]) si debba alla mano di Sophianos Melissenos; solo i titoli miniati di B1 sono di Darmario, mentre nulla fa pensare ad un intervento di Calosynas141. Riguardo poi al Pinax di B1 [5], possiamo affermare con ragionevole sicurezza che sia la stessa mano del testo, poiché al f. 262r compaiono ancora i tratti caratteristici di Sophianos: p con gli occhielli sovrapposti in verticale al r. 17; theta a punta verso il basso a rr. 3, 9, 11, 13, 15, 24, 26, 28, 31; ejp- con occhiello nella parte inferiore dell’epsilon a r. 14; oltre al rho con la caratteristica parte inferiore che abbiamo già notato per [3], [4] e [5], ma che si nota anche in [1] e [2]142. Dunque, se la dimostrazione è corretta, abbiamo lo stesso Melissenos, collaboratore di Darmario, che inserisce nel codice una sorta di “etichetta” del tutto infondata, prendendo esempio dal suo maestro o seguendo le sue istruzioni, o anche contaminando un altro modello; può darsi che uno spunto per il nome sia venuto proprio dagli excerpta di Prisco, dove ci si riferisce a Teodosio II con il convenzionale titolo di ¿ mikrü". In ogni caso, la carta usata in C è di vario tipo, poiché si contano quattro filigrane diverse, tutte inedite: oltre a quella in comune con P1 (Tav. VIIA), ve ne sono due del tipo Main, di cui una poco visibile, presente solo nel tredicesimo fascicolo, e l’altra con fiore diverso dagli specimina pubblicati nei repertori (Tav. X); infine un esempio del tipo Pèlerin, con lettere AZ (Tav. XI)143. B1, invece, è l’unico dei codici da me esaminati finora che per 7 fascicoli di seguito usa inserire un bifoglio di carta diversa in mezzo agli altri. Le filigrane variano: se ne contano 141 A meno che non sia suo il titolo del Proemio al f. 2r, su cui cfr. la nota precedente e la Tav. VB. Tuttavia non mi pare che i tratti della scrittura coincidano con quelli delle varie tavole prodotte da de Andrés nella sua monografia, pp. 158-166. Per quanto “camaleontico”, Calosynas conserva per lo più la sua rigidità di mano, di cui non vi è traccia in questo titolo; e, anche negli specimina di maggiore scioltezza, ama prevalentemente aprire a sinistra l’u iniziale, distanziare da esso il p seguente (anziché sovrapporre il tratto orizzontale del p sull’u) e arrotondare la parte inferiore del q, cfr. Madrid, BN 4793, f. 1 (in particolare a rr. 4 e 8), in DE ANDRÉS, Helenistas cit., p. 166. 142 Ad esempio in C, f. 1r, rr. 6, 8, 9, 11 (cfr. Tav. VA), 13, 15, 16, 17; B1, f. 2r, rr. 6, 8, 9
(cfr. Tav. VB), 14, 16, 18, 20. 143 Per la ricorrenza di tale coppia di lettere, veramente rara nei repertori pubblicati, cfr. solo Briquet, nr. 635, Ange (Vicenza, 1570, A. NOT.: Testamenti).
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cinque tipi diversi, di cui quello in comune con P1 compare negli ultimi tre fogli; eppure dal fascicolo 15 al 21 (ff. 142-211) c’è sempre un bifoglio del quale il bordo irregolare e la differenza di grammatura risaltano anche agli occhi di chi non abbia lo scopo di esaminare la carta. Peraltro, nessuno di questi cambi di filigrana coincide esattamente con la fine di un autore, né in B1 né in C. Entrambi sono composti regolarmente di quinioni, sono in-folio, usano i richiami orizzontali: per questo Kresten ha proposto di datarli al 1575, coerentemente con i criteri fin qui seguiti. Questo però, dal punto di vista testuale, sorprende: il testo di B1 è molto più corrotto di quello di C, che appare ancora una copia vigilata e relativamente fedele. In B1, invece, il copista sembra del tutto assuefatto al testo e incorre continuamente nei lapsus calami. Se dobbiamo datarli a pochi mesi di distanza, da un lato ci spieghiamo la presenza di carta uguale a P1, dall’altro però siamo tenuti a supporre che nello stesso anno siano state prodotte un grande numero di copie di Melissenos, ovvero che il suo “progetto editoriale” di trasformare i volumi degli ELR nei fantomatici Excerpta Theodosii Parvi abbia funzionato a meraviglia. 10. Conclusione Oltre a restituire a Melissenos le copie di V, P1, B1144, oltre ad identificare la mano anonima di P1-3 con un copista dello Scorialense F.II.8 e a ricostruire la provenienza di C, abbiamo visto alcuni risultati di uno studio che tenga conto dell’aspetto codicologico, anzitutto in base ai criteri forniti da Kresten e, in secondo luogo, mediante l’analisi delle filigrane. Ciò è di primaria importanza per distinguere i manoscritti unitari da quelli assemblati e ricostruire uno stemma più sicuro. Più in generale, molto è ancora da fare per quanto riguarda l’analisi paleografica e lo studio codicologico dei manoscritti cinquecenteschi, di cui l’ambito darmariano può essere un buon laboratorio. Per questo mi auguro di potermi dedicare all’approfondimento delle filigrane e delle mani di tali copisti nei manoscritti vaticani, con un respiro più ampio di quello dettato dalla presente esigenza editoriale. 144 Sul Bruxellense 8761, copia parziale che contiene solo gli EL di Teofilatto Simocatta, non mi pronuncio perché non ho avuto tempo di esaminarlo a fondo di persona. Ho visto che la mano è diversa da tutti gli altri copisti fin qui citati e anche dagli Scorialensi che ho visionato direttamente: è possibile che si tratti di Calosynas, come sosteneva già Kresten nella sua tesi inedita, p. 88, ma rinvio ad occasione più opportuna l’approfondimento sui codici di Schott, che merita uno spazio più ampio.
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TABELLA 1 Tratti caratteristici delle scritture esaminate a) SOPHIANOS MELISSENOS
p minuscolo u appena accennato
+ chiuso
ejp
ejpæ
t(hVn)
eÔ -dþ-sh-
pl(hVn)
-eý"
b) FRIEDRICH SYLBURG
n c) “AGITÉ”
p minuscolo
p maiuscolo
b
g
t arrotondato e a punta
+ chiuso
si
x
ro
y
d) ANTONIO CALOSYNAS
p minuscolo + chiuso
›pü-
›pe-
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Tav. I — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1418 (V), f. 86r [p. 173]; .
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A
B
Tav. IIA — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1418 (V), filigrana, ff. 84r+97v [pp. 169+188]. Mm in larghezza 36; filoni intorno alla filigrana: 22mm, 23mm; filoni esterni: 33mm, 34mm/34mm, 32mm; 21 vergelle in 20 mm]. B — filigrana gemella, ff. 124r+137v [pp. 249+268]. Mm in larghezza: 37; filoni intorno alla filigrana: 25 mm, 24 mm; filoni esterni: 34mm, 35 mm / 34 mm, 19 (sic) mm; 21 vergelle in 20 mm.
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A
B
Tav. IIIA — Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. gr. 411 (P1), filigrana, ff. 8r+21v = Napoli, Biblioteca Nazionale Centrale, III.B.15 (N), ff. 131+130 [pp. 262+259]. Mm in larghezza: almeno 37; filoni intorno alla filigrana: 30 mm, 36 mm; filoni esterni: 43 mm / 26 mm, 21 (sic) mm; 21 vergelle in 20 mm. B — Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. gr. 411 (P1), filigrana gemella, ff. 19+10 = Napoli, Biblioteca Nazionale Centrale, III.B.15 (N), ff. 133+128 [pp. 266+255]. Mm in larghezza: almeno 38; filoni intorno alla filigrana: 35 mm, 36 mm; filoni esterni: 40 mm / 29 mm, 22 (sic) mm; 22 vergelle in 20 mm.
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Tav. IV — Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. gr. 411 (P1), f. 233v: terza mano, anonima (copista «agité» dello Scorialense F.II.8).
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Tav. VA — Cambridge, Trinity College O.3.23 (C), f. 1r; . Incipit ed attribuzione a Teodosio il Piccolo. Copyright Trinity College, Wren Library, Cambridge. B — Bruxelles, Bibliothèque Royale, 11301-16 (B1), f. 2r, idem (copyright Bibliothèque Royale, Bruxelles).
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A
B Tav. VIA — Cambridge, Trinity College O.3.23 (C), f. 35r; nota autografa di Isaac Casaubon (copyright Trinity College, Wren Library, Cambridge). B — ibid., f. 3r; nota autografa di Patrick Young (Patricius Junius) (Copyright Trinity College, Wren Library, Cambridge).
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B
Tav. VIIA — Cambridge, Trinity College O.3.23 (C), filigrana, f. 36r; mm 49 u 17; filoni intorno alla filigrana: 22,5 mm; filoni esterni: 22 mm, 25 mm, 21 mm / 24 mm, 22 mm, 24 mm; 25 vergelle in 20 mm. Copyright Trinity College, Wren Library, Cambridge = Tav. VIIB — Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. gr. 411 (P1), ff. 218r + 227v (la filigrana è leggermente deteriorata nella stella, rispetto al Cantabrigiense).
A
B
Tav. VIIIA — Bruxelles, Bibliothèque Royale, 11301-16 (B1), filigrana, f. 259r; mm 45 u 18; filoni intorno alla filigrana: 23 mm; filoni esterni: 24 mm, 24 mm, 21 mm / 24 mm, 23 mm, 23 mm; 30 vergelle in 20 mm (copyright Bibliothèque Royale, Bruxelles) = Tav. VIIIB — Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. gr. 411 (P1), ff. 154v + 155r (la filigrana è leggermente deteriorata nella stella, rispetto al Bruxellense).
A
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Tav. IX — Bruxelles, Bibliothèque Royale 11301-16 (B1), f. 262r, Pinax, (copyright Bibliothèque Royale, Bruxelles).
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Tav. X — Cambridge, Trinity College O.3.23 (C), filigrana, f. 256r; mm 55 u 19; filoni intorno alla filigrana: 22 mm; filoni esterni: 22 mm, 21 mm, 24 mm / 24 mm, 21 mm; 23 vergelle in 20 mm. Copyright Trinity College, Wren Library, Cambridge.
Tav. XI — Cambridge, Trinity College O.3.23 (C), filigrana, f. 166r; mm 47 u 35; filoni intorno alla filigrana: 24 mm ciascuno; filoni esterni: 29 mm, 32 mm / 33 mm. Copyright Trinity College, Wren Library, Cambridge.
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MASSIMO CERESA
I MANOSCRITTI DEI DIARI DEL MAESTRO DELLE CERIMONIE BIAGIO BARONI MARTINELLI POSSEDUTI DALLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA Nel dicembre 1517, dopo la morte di Baldassarre Nicolai da Viterbo, socio del maestro delle cerimonie Paride de Grassi, Leone X, in ossequio alla tradizione e ad antiche disposizioni conciliari che prevedevano la presenza di almeno un “oltramontano” nell’ufficio, era orientato a nominare Bernardino Gutteri, spagnolo. Il Grassi, il quale non gradiva affatto la nomina del Gutteri1, iniziò a manovrare per far cadere quella e altre candidature2, tra le quali quella di un tedesco di nome Michele, ex assistente di Johannes Burchardt3 nell’ufficio di cerimoniere; insistette anche perché si facesse eccezione e venisse nominato un italiano. La sua scelta cadde su Biagio Baroni Martinelli da Cesena, che per lungo tempo aveva svolto l’attività di procuratore e notaio nella curia. Biagio, nato nel 1463, aveva allora 54 anni4. Grassi, nel resoconto della sua azione in favore della nomina di Biagio, lo definisce “virum doctum, antiquum curialem, honestum in habitu et aetate, et gravitate et decoro, et in arte procurandi expertum”5. La nomina, favorita anche dai cardinali Achille de Grassi, zio di Paride, e Andrea Della Valle, avvenne nei primissimi giorni del gennaio 1518 e da allora iniziò la lunga attività del Baroni nell’ufficio delle cerimonie, prima come socio e poi, alla morte del Grassi, come maestro, che durò sicuramente fino al 1540 e probabilmente, forse in maniera sempre più attenuata, anche negli anni a seguire fino alla sua morte nel 1544. 1 Nella sua narrazione dei fatti lo definisce “superbus et intollerabilis” (Barb. lat. 2683, f. 239v). Il Gutteri era stato già nell’ufficio di cerimoniere dal 1500 al 1505, come socio di Iohannes Burckhardt. 2 La narrazione dei fatti da parte di Grassi può essere letta nel Barb. lat. 2683, ff. 239-
240. 3 Johannes Burckhardt era stato maestro delle cerimonie prima del de Grassi, dal 1484
al 1506. 4 Per la biografia di Biagio Baroni Martinelli, cfr. la voce da me compilata nel Dizionario Biografico degli Italiani, attualmente in corso di stampa. 5 Barb. lat. 2683, f. 239. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 171-190.
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L’ufficio del maestro delle cerimonie prevedeva in genere una triade, cioè il responsabile vero e proprio e due assistenti o soci. Al momento della nomina di Biagio, oltre a Paride de Grassi, faceva parte dell’ufficio il nipote di questi, Ippolito de Nobili (o de Morbidi). Nel 1517 Grassi, pur rimanendo in carica, aveva rinunciato all’ufficio in favore del nipote, sperando che quest’ultimo lo sostituisse alla sua decadenza dalla carica6. Biagio, pur cooptato nell’ufficio proprio dal Grassi, non gradiva molto alcuni suoi atteggiamenti, soprattutto quando Paride vantava antichi diritti e decurtava gli emolumenti dei due soci, cosa di cui si lamenta spesso nei suoi diari7. Sembrava invece andare abbastanza d’accordo con Ippolito, il socio, col quale non ebbe mai screzi. I tre, Grassi, Biagio e de Nobili (o de Morbidi), rimasero insieme nell’ufficio fino al 1527, ma durante il Sacco, mentre Grassi e Biagio sopravvissero (il secondo quasi sicuramente era a Castel S. Angelo con il Papa e la maggior parte dei cardinali e funzionari di curia), Ippolito morì. Venne rimpiazzato quasi subito (aprile 1528) da Onofrio Pontano. Nel luglio 1528 morì anche Paride de Grassi, che doveva aver perso tutto nel Sacco, e Biagio divenne responsabile dell’ufficio, carica che avrebbe tenuto fino alla morte. Nonostante la sua opposizione, relativa al suo essere restio a dividere gli emolumenti delle cerimonie, come era d’uso, con un ulteriore collaboratore, nel 1531 venne nominato, o per meglio dire imposto, da Clemente VII un terzo “socio”, il maceratese Giovanni Francesco Firmano o Firmani, e si riformò la tradizionale triade. Firmano, con il quale, dopo la difficile accettazione iniziale, Biagio sembrò trovare un buon modus vivendi, tanto che dai Diari non emergono mai screzi tra loro, ma piuttosto collaborazione, divenne poi responsabile dell’ufficio alla morte di Biagio (1544). Biagio da Cesena, secondo la tradizione dell’ufficio, cominciò subito a lasciar memoria degli avvenimenti in Diari, inizialmente in modo succinto e irregolare, poi, con il prendere maggior pratica e possesso dell’ufficio, in modo sempre più esteso e circostanziato. I Diari di Biagio si distanziano da quelli del Grassi, più portato al resoconto di tipo letterario-umanistico, e si limitano alla pura e semplice descrizione delle cerimonie, pur a volte molto particolareggiata. Essi riguardano le liturgie, con particolare attenzione agli abiti, copricati e paramenti indossati, 6 Barb. lat. 2683: f. 222: il giorno di S. Lorenzo 1517, Grassi si dimette in favore di Ippolito, suo nipote, al quale lascia anche l’arcipresbiterato dei SS. Celso e Giuliano. 7 L’8 luglio 1523 Biagio venne a questione con il card. di Ancona, perché i cardinali
erano giunti a una cerimonia in cappe rosse, infrangendo il cerimoniale. Paris de Grassi si schierò con il cardinale contro Biagio, “more suo solito”, come commenta lo stesso Biagio.
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le canonizzazioni, le nomine di cardinali e di legati, le consacrazioni di vescovi, nelle quali il maestro delle cerimonie agiva da notaio e rogava il documento relativo, le esequie di vescovi e cardinali, la creazione di “milites Sancti Petri”, il resoconto delle processioni, nelle quali il maestro doveva prestare attenzione alle precedenze per non urtare le sensibilità dei funzionari e degli ordini, l’accoglienza degli “oratores” (rappresentanti diplomatici) delle varie nazioni. Inoltre il maestro delle cerimonie aveva grandi responsabilità nei conclavi, che organizzava e di cui deteneva le chiavi: Biagio da Cesena nei suoi Diari dà ampio spazio ai conclavi ai quali partecipò, quelli per le elezioni di Adriano VI, Clemente VII e Paolo III . Spesso Biagio certifica con varie formule la sua presenza alle cerimonie8. Il Baroni, inoltre, ebbe una parte importante nelle cerimonie relative ai viaggi tenuti dai Papi sotto i quali servì. Dal 7 ottobre 1529 all’11 aprile 1530, il viaggio di Clemente VII a Bologna per l’incoronazione di Carlo V; dal 19 novembre 1532 al 21 marzo 1533, il secondo viaggio di Clemente VII a Bologna; dal 9 settembre al 10 dicembre 1533, il viaggio di Clemente VII a Nizza per incontrare il re di Francia; dal 3 settembre all’8 ottobre 1535, il viaggio di Paolo III a Perugia per sedare dei disordini (viaggio al quale Biagio non partecipò, ma secondo accordi fu invece presente il socio Giovanni Francesco Firmano); dal 24 marzo al 24 luglio 1538, il viaggio di Paolo III a Piacenza e Nizza, per tentare una pacificazione tra l’Imperatore e il re di Francia e per ratificare una estesa lega contro i Turchi, nel corso del quale però Biagio fu inviato a Vicenza per assistere i tre cardinali legati incaricati di preparare un Concilio. I manoscritti che riportano i Diari del Baroni9 sono in varie copie e si trovano quasi tutti alla Biblioteca Vaticana. Lo scopo di questo studio è di definire meglio i periodi e i contenuti trattati da questi manoscritti e tentarne una comparazione, in vista di un possibile progetto di edizione dei Diari, di cui sono stati finora pubblicati solo parti o frammenti10. Lo stesso Baroni, nei manoscritti più completi ed estesi che riportano i suoi Diari, certifica che ne usava compilare due diversi: uno per le cerimonie che avvenivano quotidianamente a Roma e soprattutto nei sacri palazzi, e un altro riguardante i viaggi che i Papi, in particolare Clemen8 “ego interveni ex officio”, “me legente et interveniente”, “ego solus”, etc. 9 Per un quadro generale dei manoscritti che riguardano il Cerimoniale della Chiesa
Romana, cfr. P. SALMON, Les manuscrits liturgiques latins de la Bibliothèque Vaticane. III. Ordines Romani, Pontificaux, Rituels, Cérémoniaux, Città del Vaticano 1970, pp. 102-149. 10 G. B. GATTICO, Acta selecta caeremonialia Sanctae Romanae Ecclesiae…, Roma 1753, pt. I, 1-495 passim; pt. II 1-208 passim.
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te VII e Paolo III, tennero nel periodo del suo ufficio di maestro delle cerimonie. Tale ufficio comportava una grande dimestichezza con i papi, che potevano chiamare il titolare in qualsiasi momento del giorno e della notte e lo interpellavano di continuo per conoscere l’esattezza e il protocollo delle cerimonie. Il maestro era anche chiamato, in caso di cerimonia priva di precedenti, a costruirla sulla base di cerimonie simili. L’ufficio richiedeva notevoli doti diplomatiche, ma all’occasione anche una grande fermezza, che Biagio e i suoi predecessori ebbero modo spesso di dimostrare. I Diari, nella parte iniziale dell’attività di Biagio (1518-1520), presentano delle notizie piuttosto succinte; poi lentamente il Baroni prende possesso dell’ufficio e si dilunga maggiormente11. Nei primi anni spesso si trovano dei vuoti al posto dei nomi, che forse Biagio non ricordava o i copisti non avevano saputo trascrivere. Talvolta anche la grafia dei nomi delle diocesi e dei vescovi è incerta e di difficile interpretazione12, molto probabilmente perché i copisti non riuscivano a decifrare la grafia del Diario originale . Paragonati e scorsi i codici, per completezza di scrittura, precisione e leggibilità si fanno preferire i codici Chig. L.II.22 (dal 1518 al 1533), Chig. L.II.23 (dal 1533 al 1539) e Chig. L.II.24 (dal 1539 al 1540) come diari quotidiani. Per riempire la parte dei viaggi dei Papi tralasciata da quei codici, si fa preferire il Barb. lat. 2801, che è il più completo nella descrizione dei viaggi e degli eventi relativi, e che riporta in esteso anche le notizie relative al viaggio di Paolo III a Perugia per sedare dei moti in quella città, dal 3 settembre all’8 ottobre 1535. Ritrovamento singolare, perché nelle copie dei Diari quotidiani Biagio certifica di non aver partecipato a quel viaggio, recandosi invece in quel periodo nella sua casa di Civita Castellana a curare i suoi affari. Evidentemente Biagio ricavò le notizie da qualche altro Diario, forse quello del suo socio Giovanni Francesco Firmano che accompagnò il Papa a Perugia. I manoscritti originali di Biagio si trovano nell’Archivio dell’Ufficio delle Cerimonie. A illuminare la ragione delle copie e il committente, oltre che a offirire informazioni sulla qualità degli originali, è una lettera di dedica di Giovanni Paolo Mucanzio al card. Benedetto Giustiniani che si trova al f. [III] del Vat. lat. 12421. In essa il Mucanzio certifica di aver compilato la 11 La prima descrizione che colpisce, per ricchezza e completezza di particolari, è la narrazione delle esequie di Alfonsina Orsini de’ Medici, cognata di Leone X e madre di Lorenzo de’ Medici Duca di Urbino, il 14 febbraio 1520 (Chig. L.II.22, f. 30-31). 12 L’assenza, purtroppo, di un indice dei nomi nel vol. III della Hierarchia Catholica medii et recentioris aevi (1503-1592) non offre appigli in questo senso.
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copia su ordine del cardinale, che Francesco Mucanzio, che l’aveva preceduto nell’ufficio di maestro delle cerimonie di quasi venti anni, era suo fratello, e che entrambi erano discendenti di Biagio da Cesena, nipoti o pronipoti. Si lamenta poi del “charactere satis obscuro” dell’originale autografo di Biagio, difficile da leggere, e riporta di aver tolto ciò che gli sembrava piuttosto riferirisi alle vicende personali di Biagio che alla storia delle cerimonie. I codici Barb. lat. 2799, Chig. L.II.22, L.II.23, L.II.24, Vat. lat. 12308 e 12422 sono copie del diario ordinario e tralasciano i viaggi dei papi; i codici Barb. lat. 2801 e Vat. lat. 12309 e 12310 riportano soltanto i viaggi; i codici Chig. L.II.25, Vat. lat. 12276 e 12421 riportano sia la narrazione ordinaria sia i viaggi; il codice Vat. lat. 12277 riporta la narrazione ordinaria e solo alcuni dei viaggi. I codici sono consistenti nella narrazione e chiaramente tutti derivati dagli stessi originali. In nessuno dei codici dei Diari è presente alcun riferimento all’aneddoto riportato dal Vasari per il quale Biagio da Cesena è più noto, cioè l’averlo ritratto Michelangelo nel Giudizio Universale della Capella Sistina, nell’angolo inferiore destro, in figura di Minosse con la coda a forma di serpente mentre morde una certa sua parte anatomica, per punirlo del suo commento sui nudi del Giudizio, che Biagio, interpellato da Paolo III durante una visita improvvisa alla Capella, aveva giudicato più degni di bagni termali che di una capella papale13. È abbastanza strano, perché Biagio, che dopo il fatto si sarebbe lamentato a lungo con Paolo III, non è affatto avaro di note personali nei Diari. Può darsi che l’avvenimento sia stato posteriore al 1540, data nella quale Biagio cessa di continuare a scrivere i diari. Anche la figura ritratta, anziana ma piuttosto vigorosa, non sembra corrispondere a quella di Biagio da Cesena, se l’avvenimento è posteriore al 1540 come si sospetta, perché a quella data aveva 77 anni ed era parecchio malandato, con problemi alle gambe e una grave crisi che nel 1539 l’aveva portato molto vicino alla morte. Si avverte che nella descrizione dei codici che segue è stata rispettata la grafia dell’originale, anche quando manifestamente errata. 1) Barb. lat. 2799, cart., mm. 270 × 200; Diario di Biagio da Cesena dal 1518 al 1540; molto simile al Vat. lat. 12308, di cui appare una copia. Non ha annotazioni in margine. Riporta regolarmente l’anno in testa a ogni recto dei fogli. f. [1]: DIARIVM Blasij de Cesena Magistri Caeremoniarum ab anno 1518 sub Leone X. Adriano VI. Clemente VII. et Paulo III usque ad annum 1540. 13 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori…, t. VII, Firenze 1881, p. 211.
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, f. 2: In Nomine Domini Nostri et Individuae Trinitatis, Patris, et Filij et Spiritus Sancti Amen. Indictione quinta tempore Pontificatus S.mi D.N.D. Leonis Papae X Anno quinto die vero veneris prima mensis januarij...; f. 17: … et ego Blasius de Cesena Coeremoniarum magister rogatus; , f. 17v: Die prima januarij recepi ducatos 23 auri…; f. 28v: … salarius mensis consuetus 5. ducatos; , f. 29: In Christi Nomine. Anno Domini 1520. Januarij…; f. 37: … archiepiscopus Cosentinus qui est de rodolis14 de forlivio interveni et rogatus fui; , f. 37v: Die lunae 7. januarij 1521…; f. 52: … Nota omnium qui in Conclavi intervenerunt circa electionem Pontificis; , f. 52v: In Nomine Domini Nostri Jesu Christi amen Anno a Nativitate Domini 1522...; f. 71: … Die lunae 29 decembris exegi ducatos 16 et julios 9. pro divisione portionum pro magistris coeremoniarum; , f. 71v: Mutatio anni 1523. Adrianus VI Papa. Die dominica 4 januarij 1523…; f. 99v: … Die S. Jo. Card. Senensis; f. 100: Mutatio anni 1524. die prima januarij 1524…; f. 111v: … Die veneris 29 decembris tres milites Sancti Petri admissi; , f. 111v: Mutatio anni 1525. Die dominica prima januarij 1525…; f. 121: … Die ultimo decembris vesperae in capella magna; , f. 121: Mutatio anni 1526. Die prima januarij 1526…; f. 125v: … Die 25 decembris fuit dies nativitatis D.N. Jesu Christi; ff. 121-131: (dal 6 maggio al 16 febbraio 1528, Sacco di Roma; narrazione saltuaria o mancante), f. 125v: Mutatio anni 1527. Die 12 januarij 1527…; f. 131: … deinde ad ecclesiam S. Petri cum coerimonijs consuetis reversus ad cameram suam requievit; (riprende dal 16 febbr.), f. 131: Mutatio anni 1528. Die dominica 16 februarij 1528…; f. 138v: … praesentibus R.D. Laurentio capellano d. sacristae et d. Thoma clerico capellae; (fino al 7 ottobre, poi tralascia il viaggio di Clemente VII a Bologna), f. 139: Mutatio anni 1529. Die veneris prima januarij…; f. 160: … Iter Clementis Bononiam versus, Coronatio Caroli Imperatoris ac reditus ad Urbem seorsum late explicantur in alio libello; (riprende dal ritorno di Clemente VII a Roma l’11 aprile) f. 160v: S.mus D.N. Clemens postquam coronavit Ser.mum Imperatorem Carolum quintum…; f. 186: … Die ultima xbris quae fuit sabbati vesperae in capella in quibus Papa cum cardinalibus et fecit officium ut solet; , f. 186: Mutatio anni 1531. Die dominica prima januarij…; f. 216v: … Papa in paramentis albis fecit officium praesentibus cardinales in cappis rubeis; ; f.216v: Mutatio anni 1532. Die lunae prima januarij…; (si ferma al 19 novembre, partenza per il secondo viaggio di Clemente VII a Bologna) f. 246v: Die martis 19. 9mbris ego discessi Roma sequendo Papam et curiam secundum ordinationem mihi data a Pontifice et veni Rignanum in ista die ubi hospitatus fui; ff. 246v-266: (riprende dal 21 marzo 1533, suo ritorno a Roma; 9 settembre: tralascia il viaggio di Clemente VII verso Nizza per incontrare il re di Francia, scrivendo al f. 264: De diebus itinerationibus notabunt in alio libello omnia quae occurrerunt, et gesta sunt post discessum Pontificis usque ad eius reditum; riprende il 10 dicembre), f. 246v: Die veneris 21. martij 1533 ex itineratione Bononiam versus reversus Romam ingressus sum…; f. 266: … R.mus 14 L’arcivescovo di Cosenza in quel tempo era Giovanni Rufo Teodoli. È una delle molte
incertezze incontrate nelle varie copie manoscritte dei diari su nomi propri e di luogo, dovute a scarsa leggibilità dell’originale o a imperizia dei copisti.
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I MANOSCRITTI DEI DIARI DI BIAGIO BARONI MARTINELLI
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cardinalis de S. Severino celebravit et officium circa horam 6.a expletum; (morte di Clemente VII, sede vacante e conclave; elezione di Paolo III), f. 266: Mutatio anni 1534. Die 25 decembris15 in missa maiori…; f. 332: … secundum ordinem et consuetudinem cantarunt lectiones in capella parva quae dicitur Nicolai quinti; , (al f. 378 tralascia il viaggio di Paolo III a Perugia (3 settembre-8 ottobre) per sedare dei disordini in quella città, al quale non partecipò e andò invece il socio Giovanni Francesco Firmano16) f. 332: Die veneris 25 decembris in die Natali Domini…; f. 393: … Omnia expedita fuerunt circa horam 6. cum dimidio et sic omnes dormitum libenter recesserunt; , f. 393: Die sabbati 25 decembris hora statuta 15…; f. 443v: … assistenti a sinistris Papae reliqua pro ut in ordine; , f. 443v: Mutatio anni 1537. Die lunae 25 decembris 1537…; 494v: … ensis fuit benedictus per Papam in camera paramenti et portatus ante Crucem per […]; (ff. 516-517: si ferma al 23 marzo, data della partenza di Paolo III per Piacenza e poi Nizza per la pace tra l’Imperatore e il re di Francia e per favorire l’accordo di una lega contro i Turchi; spiega che ha annotato quelle vicende in un altro “manuale”; accenna anche al suo viaggio, dato che Paolo III portò con sé l’altro maestro, Giovanni Francesco Firmano, a Nizza, mentre inviò Biagio a Vicenza a collaborare con i tre legati nominati allo scopo di preparare un futuro concilio in quella città; riprende il 24 luglio, ritorno di Paolo III a Roma), f. 494v: Mutatio anni 1538. die martis 25 decembris…; f. 533: … Frater Ducis Ferrariensis portavit pluvialis caudam et in solito locum habuit; ; f. 533: Mutatio anni 1539. Die mercurij prima januarij…; 572v: … fuerunt vesperae in capella in quibus Papa cum cardinalibus interfuerunt; (si ferma al 28 nov. 1540), f. 573: Mutatio anni 1540. die jovis prima januarij…; 594v: … clericos colimbricenses et olisbonenses respicem nomen; f. 594v-595 (note sulla morte e la sepoltura di Biagio da Cesena). 2) Barb. lat. 2801, cart., mm. 270 × 200, vergato da una sola mano, corsiva, simile a quella del Barb. lat. 2799; raramente è riportato l’anno di riferimento, in testa al foglio. Narra soltanto i viaggi dei Papi nel periodo in cui Biagio da Cesena era maestro delle cerimonie a ai quali aveva partecipato, corrisponde quindi all’“altro manuale” nel quale nei diari “quotidiani” Biagio dice di aver riportato i viaggi. f. 1-154 (Viaggio di Clemente VII a Bologna per l’incoronazione di Carlo V, dal 7 ottobre 1529 all’11 aprile 1530), f. 2: Postquam Seren.mus Rex Romanorum Carolus electus imperatoris significavit D.no Nostro Clementi Papae septimi…; f. 154: … et sic Romae describam in manuali meo ordinario animo tamen illa et ista melius et seriorius extendam finem facio. f. 155-185v: “Itineratio secunda Clementis Papae VII versus Bononiam ad obuiandum Carolo Quinto Imperatori. Anno Domini MDXXXII” ([dal 19 novembre 1532 al 21 marzo 1533]), f. 156: Postquam Sereniss.mus Carolus Quintus Coronam Imperialem Bononiae a Sanctissimo Domino Nostro Clemente receperat…; 15 Spesso Biagio faceva coincidere l’inizio dell’anno con il giorno di Natale precedente. 16 Biagio Baroni si recò invece a Civita Castellana, dove possedeva una casa, per curare
i suoi affari.
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f. 185v: … Die veneris 21 martij sanus et salvus in Dei gratia Romae ingressus sum. f. 187-208: “Itineratio seu potius peregrinatio tertia Clementis Papae VII versus Galliam in ciuitatem Niciae, seu Marsiliae, ad Regem Francorum illuc accessurum pro rebus magnis et arduis etc.” (dal 9 settembre al 10 dicembre 1533), f. 188: Anno 1533. Die igitur martij nona septembris discessit ex Urbe Roma praelibatus Clemens…; f. 208: … Die Dom. 7 appulit ad Civitatem Vetulam. f. 209-222v: “Recessus Sanct.mi D.N. Pauli Papae III ex Urbe versus Perusiam ad Ciuitatem illam quietandam a seditionibus illorum. Anno 1535” (dal 3 settembre all’8 ottobre 1535; Biagio da Cesena non partecipò a questo viaggio; secondo accordi, andò invece il socio Giovanni Francesco Firmano, dal cui diario probabilmente sono ricavate le notizie), f. 210: Die Veneris 3 septembris 1535 ex palatio S. Marci in quo morabatur propter calores…; f. 222v: … et ipsum Ducem quia praesens vult firmare capitula quod fiat concistorium et in illo recipiat praefatus Dux. f. 223-248: “ITINERATIO PAULI PAPAE III versus Placentiam et Niciam pro pace concludenda inter Imperatorem et Regem Franciae. Anno 1538.” (dal 24 marzo al 24 luglio 1538; Giovanni Francesco Firmano accompagnò Paolo III da Piacenza verso Nizza, mentre Biagio da Cesena fu inviato a Vicenza dove i tre legati inviati appositamente dovevano preparare un futuro possibile Concilio), f. 224: Notatum est in quinterno meo Diari seu Annali Caeremoniarum…; f. 248: … Die 29 iunij et die sabbati in festo Apostolorum fuit missa in cathedrali Vicentina quam suffraganeus celebravit. Intervenerunt tres R.mi Cardinales legati; interveni et servivi ex officio. 3) Chig. L.II.22, cart., mm. 275 × 200. Presenta annotazioni in margine e gli anni di riferimento vengono riportati in testa ai fogli, a volte in maniera imprecisa. Numerazione dei fogli errata dal f. 132 e corretta a matita fino al termine. f. I: Blasij da Cesena ab anno 1518 usque ad annum 1533; Blasij Baronij de Cesena Diaria etc. ab anno 1518 usque ad annum 1533. Tomus primus. f. 1: In Nomine Domini Nostri et Individuae Trinitatis, Patris, et Filij et Spiritus Sancti Amen. Indictione quinta tempore Pontificatus S.mi D.N.D. Leonis Papae X Anno quinto die vero veneris prima mensis januarij...; f. 16: … Ego Blasius de Cesena Coeremoniarum magister rogatus; f. 16v: Die 29 decembris 1519 dominus archiepiscopus Antibarensis absente…; f. 28v, … Item salarium mensis consuetum quinque ducatos; f. 28v: In Christi nomine amen. Anno Domini 1520 mense januarij…; f. 40: … archiepiscopus Cosentinus qui est de Todolis de forlivio, interveni et rogatus fui; f. 40: Die lunae 7. januarij 1521 fuit consistorium solitum…; f. 58v: Nota omnium qui in Conclavi intervenerunt circa electionem Pontificis; f. 59: Anno salutis 1522. In Nomine Domini Nostri Jesu Christi amen Anno a Nativitate Domini millesimo quingentesimo vigesimo secundo…; f. 79v: … et assignavi sibi locum inter alios, fuerunt vesperae solemnes. cum […]; f. 79v: Mutatio anni 1523. Die jovis 26 decembris 1523 fuit festum nativitatis Domini…; f. 114: … ante Papam in fine gradu stans, nobis illum adiuvantibus; f. 114: Mutatio anni 1522. Die veneris 25 decembris 1524…; f. 128v: … et illi oratores osculati sunt pedem Pontificis, et recesserunt; f. 128v: Mu-
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tatio anni 1525. Die dominica vigesima quinta decembris…; f. 140: … In nocte celebravit Armelinus finitis matutinis praesente pontifice in capella parva Nicolai quinti; f. 140: Mutatio anni 1526. Die vigesima quinta decembris…; f. 146: … et dominus Hippolitus fecit officium, quia sua consecratio; f. 146: Mutatio anni 1527. Die vigesima quinta decembris…; (racconto del Sacco); f. 152v: … ad cameram suam requievit; (riprende dal 16 febbraio) f. 152v: Die dominica decima sexta februarij 1528…; f. 161v: … Missam celebravit reverendissimus dominum cardinalis Perusinus camerarius iuxta consuetudinem; f. 161v: Mutatio anni 1529. Die veneris vigesima quinta decembris…; (si ferma al 7 ottobre, partenza di Clemente VII per Bologna) f. 187v: … Die jovis septem octobris 1529 decessus Papae Clementis ex urbe versus Bononiam ad Imperatorem excipiendum et expectandum, et coronandum; (riprende il diario quotidiano dal 13 aprile, ritorno di Clemente VII da Bologna) f. 187v: Annus 1530. Sanctissimus dominus noster Clemens…; f. 218v-219: … In nocte fuerunt matutinae, intervenientibus socijs, me licentiato a Papa propter aetatem; f. 218v: Die dominica 25 decembris gloriosissimum festum Nativitatis Domini…; f. 254v: .. in missa vero, et quando Papa sub baldachino bene portatur; f. 254v: Mutatio anni millesimi quingentesimi trigesimi secundi. Die lunae vigesima quinta decembris...; f. 292v (termina il 19 novembre con la partenza di Clemente VII per Bologna) ... et veni Arignanum ista die, ubi hospitatus sum; (riprende con il ritorno di Clemente VII a Roma il 21 marzo 1533) Die veneris vigesima prima martij 1533…; (si ferma al 23 marzo) … ego vero defessus cessavi, et quievi; f. 294302v: indice generale. 4) Chig. L.II.23, cart., mm. 265 × 200. Vergato da due mani, diverse da quella del precedente codice, del quale è la continuazione; presenta pochissime note in margine e non ha data di richiamo in testa ai fogli. f. 1 [numerazione meccanica] A die 21:1533 usque ad 1539; Blasij Baronij de Cesena Diaria etc. ab anno 1533 usque ad annum 1538. Tom.3.s. f. 6-7: Indice generale; (riprende dal 21 marzo) f. 8: Die veneris XXI. Martij 1533 ex itineratione Bononiensi reversus, Romam ingressus sum…; 43v: … et officium circa horam sextam expletum; (inizia il 15 dic. 1533) f. 43v: Mutatio anno MDXXXIIII die decima quinta decembris…; f. 169v: … in capella parva qua17 dicitur Nicolai V; (inizia il 29 dic. 1534; tralascia il viaggio a Perugia di Paolo III, al quale Biagio non partecipa: 3 settembre — 8 ottobre), f. 169v: Mutatio anni MDXXXV. Die veneris 29. decembris…; f. 291: … et sic oratores dormitum libenter recesserunt; f. 291: Mutatio anni MDXXXVI. Die sabbati XXV decembris…; f. 387: … assistens a sinistris Papae reliqua prout in ordinario; f. 387: Mutatio anni MDXXXVII die lunae XXV. Decembris…; f. 486v: … et portatum ante Crucem et clericum; f. 487: Mutatio anni MDXXXVIII. Die martis vigesima quinta decembris…; f. 494v: (termina il 7 genn. 1538) … tres aliae admissiones a militum fuerunt gratis. Terminatus in anno 1538: in principio.
17 Così nel testo.
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5) Chig. L.II.24, cart., mm. 270 × 200. Dopo il 1573. Vergato dalla stessa mano del Chig. L.II.22; note in margine; notazione degli anni in testa ai fogli. f. I: Blasij de Cesena ab anno 1539 usque ad 1540; Blasij Baronij de Cesena Diaria etc. ab anno 1570 usque ad annum 1540. Tom.s 4.s. f. 1: Januarij 1539. Quia una circa dimidium mensis januarij…; f. 38: … Interfuerunt 17 cardinales, et sine sermone; f. 38: Mutatio anni 1539. Die mercurij prima januarij…; f. 74v: … in octava nativitatis fuerunt vesperae in capella, in quibus Papa cum cardinalibus interfuerunt; f. 74v: Mutatio anni 1540. Die jovis prima januarij…; (si ferma al 28 nov.) f. 95: … videlicet Georgium Pescanam, et Ludovicum Bernardi clericos Colimbricensis, et Olisbonensis respective dioecesis; f. 95r-v: note finali, ad opera di Francesco Mucanzio18, pronipote di Biagio da Cesena per parte materna, che dice di non aver trovato alcuna continuazione dei suoi Diari dopo il 1540, e riporta notizie sulla morte e sepoltura di Biagio da Cesena (lo stesso testo si trova ai ff. 656v-657 del Vat. lat. 12308). 6) Chig. L.II.25, cart., mm. 266 × 195. Dopo il 1590. Diario per gli anni 15181537. Ad opera di Giovanni Paolo Mucanzio19; scrittura differente dai due precedenti, chiara e leggibile; privo di note in margine; dal 1533 riporta la notazione degli anni in testa ai fogli. Si tratta di una scelta di passi, di un sunto, pur con andamento cronologico. Vi si trovano inseriti anche i viaggi dei Papi nel periodo preso in esame. f. [1] Blasij Baronij de Cesena Diaria selecta ab anno 1518 usque ad annum 1537. Tom.s 2.s. f. I: Singularia selecta ex diarijs Caeremoniarum D. Blasij Baronij de Martinellis de Cesena I.V.D. et caeremoniarum apostolicarum Magistri. Liber primus. 1518. f. II-VIIv: Index rerum memorabilium. f. 1: Sub Leone X. Anno MDXVIII. In nomine Domini …; f. 4v: … et in conspectu celebrantis; f. 4v: Die lunae 7 januarij fuit consistorium solitum…; f. 8v: … dominis oratoribus Poloniae et Portugalliae; f. 8v: Die prima januarij 1522 missa et scrutinium…; f. 14: … et Dux Ascanius Columna habuit locu in solio Papae; f. 14: Die 23 januarij 1523 fuit consistorium…; f. 24v: … et vibravit ante Papam fine gradus stans, nobis illum adiuvantibus; f. 24v: Die veneris 8 januarij 1524 fuit consistorium…; f. 26: … quod eis non multum placuit; f. 26: Die 16 februarij circa horam 2m noctis venit Nuntius ad Papam…; f. 27: … et publicari fecit Jubileum pro oratoribus pontificis. Finis Anni Jubilei MDCXXV; f. 27v: Die prima januarij 1526 fuit capella…; f. 28v: … et ideo consulta praetermissa sunt cum ad rem nostram non faciant. Ego Joannes Paulus Mucantius; f. 28v: Die 23 aprilis 1527 Papa dedit Rosa…; (racconto del Sacco) f. 31: … de improviso in nocte recessit versus Urbemveterem; ; f. 32: Mutatio anni 1528. Redeo ad ea quae interim contigerunt ad officium meum 18 Nipote di Biagio da Cesena da parte di madre, maestro delle cerimonie dal 1573 al 1585 circa. 19 Nipote o pronipote di Biagio da Cesena. Fu nominato Cerimoniere sotto Gregorio
XIV (1590-1591). Compilò i suoi diari sino al tempo di Paolo V. Fu Segretario della Sacra Congregazione dei Riti.
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spectantia…; f. 34: … quod uti posset paramentis pontificalibus quia non erat consecratus; ; f. 34: Die 6 Januarij in festo Epiphaniae…; (ff. 39-58v: … Compendium de rebus pertinentibus ad coronationem Imperatoris; f. 59v-82: Itinerarium Sanctiss.mi D.ni Nostri Clementis Papae VII…; f. 82: … Eadem die ultima decembris vesperae solemnes in capella celebratae fuerunt, quibus Papa cum cardinalibus intervenit, et fecit officium absente Caesare; f. 83: Die sabathi prima mensis januarij…; (ff. 96-107: Praeparamenta pro Coronatione Caesaris Imperiali diademate; ff. 107-125v: Caeremonia Coronationis Caesaris), f. 140: … et fecerunt processionem extra ecclesiam absentibus tribus cardinalibus; f. 140: Die dominica 15. januarij in anticamera Papae…; f. 149: … In nocte fuerunt matutinae iuxta solitum; f. 149: Die 16 februarij Papa volens audire advocatos in causa matrimoni Regis Angliae…; f. 159: … et alijs post reditu Pontificis ad urbem sequenti volumine explicabimus; f. 160: Singularia selecta ex Diarijs caeremoniarum D. Blasij Baronij de Martinellis de Cesena I.V.D. et caeremoniarum apostolicarum magistri. Liber secundus 1533; ff. 161-163v: Index rerum notabilium; (riporta in breve il viaggio di Clemente VII a Nizza) f. 164: Die veneris 21 martij 1533. ex itineratione Bononiensi reversus…; f. 169: … appuli Romam horas 23 non sine magna pluvia ab insula usque in Urbem; ; f. 169: Die X januarij ante diem mortuus est D. Franciottus card. Ursinus…; f.184v: … quod similiter Papa approbavit; ; f. 185: Die prima januarij Papa antequam exiret de thalamo…; f. 201v: … summo mane recessit versus Neapolim ad Caesarem; f. 201v: Die 4 januarij quattuor oratores Senenses intrarunt Urbem…; f. 218v: … Caraffa, Rodulphus, Sadolettus, Jacobatius, orator Regis Franciae et Polus; ; f. 218v: Papa in solemnitate Nat. D. N. celebravit in S. Petro…; (termina al 27 dicembre) f. 229: … de cuius vita satis dubitandum est. Finis. 7) Vat. lat. 12276, cart., mm. 345 × 235. ca. 1590. Diario per gli anni 15181532. Annotazioni in margine. Notazioni del nome del papa in carica e dell’anno sul recto di ogni foglio. Ai Diari sono accorpate le descrizioni dei viaggi, che Biagio da Cesena aveva steso in volumi differenti. f. 1 [numerazione meccanica] “Est Pauli Alaleonis”20. f. 2: “DIARIORVM CAERIMONALIVM Blasij Baronij de Martinellis de Cesena I. C. Caerimoniarum Apostolicarum Magistri Tomus Primus” (1518-1532). f. 2: In nomine Domini Nostri et Individuae Trinitatis…; (termina al 26 novembre) f. 8: … et suos vocavit ad osculandum pedem Pontificis, et omnes recesserunt; (riprende dal 22 gennaio) f. 8: Die 22 januarij 1519. R.mus Aloisius cardinalis de Aragonia…; (termina al 22 novembre) f. 10: … qua idem Hippolitus seu episcopus Pisaurensis recepit tenetur mihi consignati quinque; f. 10: Die veneris vi. Januarij 1520 in Epiphania Domini…; f. 13: … quinque cannas ad rationem 72. carlenorum pro canna, quas debeo habere a fundaco; f. 13: Die lunae 7.a januarij 1521 fecit consistorium solitum…; f. 19: … et ego Blasius una cum collega rogatus; f. 19: Die prima januarij 1522. de mane fuit post missam factum scrutinium…; f. 27v: … et omnes fere prelati palatini fuerunt prae-
20 Paolo Alaleona fu nominato Maestro delle cerimonie sotto Sisto V (1585-1590).
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sentes; f. 28: Die dominica 4 januarij 1523 D. Antonius Parpaglia unus ex oratoribus Avinionensibus factus fuit miles…; f. 41v: … et in die S. Joannis R.mus card. Senensis. Anni 1523 finis; f. 42: Die veneris prima januarij 1524 in festo Circumcisionis Domini…; f. 45v: … illi tres seu 4.or milites osculati sunt pedem Pontificis et recesserunt; f. 45v: Mutatur annus a Nativitate Domini 1525. Die dominica 25 decembris…; f. 49: … Die ultima decembris fuerunt vesperi in capella magna pro vigilia Circumcisionis. Anni Iubilei 1525, finis; f. 49v: Incipit annus a Circumcisione 1526. Die prima januarij 1526…; (si ferma al 5 novembre) f. 50v: … celebravit R.mus D. cardinalis Dertusensis. Habui julios duodecim (segue una nota di Giovanni Paolo Mucanzio, autore di questo testo dei Diari, nella quale dice di non aver trovato nessuna annotazione fino al 31 marzo 1527); f. 51: Die ultima martij 1527 in dominica Rosae fuit missa…; (narrazione del Sacco; si ferma al mese di settembre) f. 53: … reversus ad cameram suam requievit; (riprende dal 16 febbraio) f. 53: Mutatio anni videlicet 1528. Redeo ad ea quae interim contingerunt et ad officium cerimoniarum pertinent…; f. 57: … praesentibus d. Laurentio capellano r. d. sacristae et d. Thoma clerico capellae testibus; f. 57: Anno a circumcisione Domini 1529. Die veneris prima januarij 1529…; ff. 79v-100: Viaggio e permanenza di Clemente VII a Bologna per incoronare Carlo V; f. 100: … quibus Papa cum cardinalibus intervenit et fecit officium absenti Caesare. Anni M.D.XXVIII. finis; f. 100v: Die sabbati prima mensis januarij, et anni a Circumcisione Domini 1530…; (f. 100v-138: continua la narrazione della permanenza di Clemente VII a Bologna; riprende la narrazione quotidiana a Roma dal 13 aprile) f. 152: … In nocte fuerunt matutinae intervenientibus socijs, me licentiato a Papa propter aetatem; f. 152: Incipit annus a Nativitate Domini 1531. Die dominica 25. decembris…; f. 166v: … Ego fui in domo licentiatus a Papa propter aetatem, prout alias mihi concessit; f. 167: Incipit annus a Nativitate Domini 1532. Die lunae 25 decembris…; (termina al 19 novembre, partenza di Clemente VII, con Biagio al seguito, per Bologna, per incontrare Carlo V) f. 184: … Quae autem ad iter Pontificis pertinent cum reliquis Bononiae gestis et alijs post reditum Pontificis ad Urbem sequenti volumini explicabimus. FINIS Primi Tomi Diariorum Blasij Baronij de Cesena Cerimoniarum Magistri. Laus DEO. 8) Vat. lat. 12277, cart., mm. 270 × 200. Dopo il 1590. Diario per gli anni 15211538; scritto da varie mani, una prevalente; note in margine discontinue e notazione dell’anno in testa ai fogli anche discontinua e spesso confusa e imprecisa; a volte, prima della data, è citato il Papa corrente. f. 1 [Numerazione meccanica] su un cartoncino incollato: “Diaria quae prostant Blasii de Martinellis non sunt integra, sed excerpta quaedam nobis servata a Ioh. Paulo Mucantio, sicut ipsemet adnotavit in diario eiusdem Martinellii ad finem annum 1526”. f. 2: “Martinelli Diarij diuersi Tom. V” f. 4: “Decembris 1521. Diaria Sacrarum Caeremoniarum edita a Blasio Barono Martinello Cesenatense incipientia ad obitu Leonis X sub die p.a decembris 1521 usque ad Ianuarium 1538, ac comprehendentia Hadrianum VI, Clementem Septimum, et per quatuor annos Paulum 3m Romanos Pontifices”.
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[inizia dal 1 dic.] f. 4: Die dominica prima decembris 1521 in nocte circa horam septimam versus diem lunae obitus fel. rec. Leonis PP. X. Circa XII horam…; f. 8: … et ego Blasius una cum collega rogatus; f. 8: Die mercurij prima januarij 1522 de mane post missam factum scrutinium…; f. 17v: … et assignavi sibi locum inter alios fuerunt vesperae solemnes; ; f. 17v: Mutatio anni 1523. Die jovis 25 decembris 1523…; f. 30v: … qualiter vibravit ante Papam in fine gradi stans nobis illum adiuvantibus; f. 30v: Mutatio anni 1524. Die veneris 25 decembris 1524…; (si ferma al 1° agosto) f. 34: … me interveniente et ex officio rogato; (inizia al 16 febbraio) Die jovis 16 februarij 1625 quatuor admissiones militum Sancti Petri…; f. 35v: … finitis matutinis presente Pontifice in capella parva Nicolai V; f. 35v: Mutatio anni 1526. Die 25. decembris 1526…; f. 37: … et dominus Hippolitus fecit officium quia sua consecratio; f. 37: Mutatio anni 1527. Die 25 decembris 1527….; (breve narrazione del Sacco) f. 39v: … sic Papa in die Sancti Nicolai de mense decembris de improviso in nocte recessit versus Orvietum anno 1527; f. 39v: Annos Domini 1528. Isti maledicti milites continuarunt usque ad medium februarij…; f. 44: … missam celebravit r.mus d. cardinalis Perusinus camerarius iuxta consuetudinem; f. 44: Mutatio anni 1529. Die veneris 25 decembris…; (include il viaggio a Bologna per l’incoronazione di Carlo V) ff. 70v-71: … praesentibus r. d. Gabriele sacrista archiepiscopo et r. d. Castellimaris episcopo testibus, me ex officio rogato; f. 71: Annus a Natale Domini 1530. Die veneris 24 decembris…; f. 145: … me ex officio interveniente, et rogato; f. 145v: Anno Domini MDXXXI. Die sabbati 24 decembris…; il copista confonde gli anni 1531 e 1532, che praticamente fonde saltando poi al 1533; (si ferma al 19 novembre, omettendo quindi il secondo viaggio di Clemente VII a Bologna) f. 168: … et veni Arignanum dicta die ubi hospitatus sum; (riprende il 21 marzo, giorno di ritorno suo e di Clemente VII da Bologna; omette il viaggio di Clemente VII a Nizza) f. 168v: Anno salutis 162321. Die veneris 21 martij 1533 ex itineratione Bononiensi reversus Romam…; f. 182: … et officium circa horam sextam fuit expletum; f. 182: Mutatio anni 1534. Die 25. decembris in missa maiori…; f. 226v: … cantaverunt lectiones in capella parva quae dicitur Nicolai Quinti; f. 227: Mutatio anni MDXXXV. Die veneris 25 decembris…; (tralascia il viaggio di Clemente VII a Perugia) f. 271v: … et sic omnes dormitum libenter recesserunt; f. 272: Mutatio anni MDXXXVI. Die sabbati 25 decembris…; f. 304v: … assistentis à sinistris Papae, reliqua prout in ordinario; f. 305: Mutatio anni 1537. Die lunae 25 decembris…; f. 338: … et portatas ante Crucem per clericum; f. 338v: Mutatio anni MDXXXIIX. Die martis 25 decembris…; (si ferma al 7 gennaio) … f. 340v: … tres alia admissiones militum fuerunt gratis; ff. 341-345v: Notabili cavati da questo diario, e dall’altro antecedente, e che segue dall’anno 1518, fino al 1532. 9) Vat. lat. 12308, cart., mm. 275 × 200. ca. 1573-1585. Diario per gli anni 1518-1540. Copia ad opera di Francesco Mucanzio, scarse note in margine, alia manu. 21 Sic. Ulteriore testimonianza della confusione del copista, o meglio dei copisti, perché il manoscritto presenta varie mani.
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f. 1 [numerazione meccanica]: Diariorum tomus decimus. f. 2: DIARIVM Blasij de Cesena Magistri Caeremoniarum ab anno 1518 sub Leone X. Adriano VI. Clemente VII. et Paulo 3. usque ad annum 1540. f. 3 Leo X. 1518. In nomine Domini Nostri et individuae Trinitatis…; 18v: … Et ego Blasius de Caesena coerimoniarum magister rogatus; f. 19: Die prima januarij recepi ducatos 23, auri…; f. 30: … Item salarium mensis consuetum 5. ducati; f. 31: In Christi nomine amen. Anno Domini 1520. mensis januarij…; f. 41v: … qui est de Rodolis de Forlivio interveni et rogatus fui; f. 42: Die lunae 7.a januarij fuit consistorium solitum…; f. 57v: … Nota omnium quae in Conclavi intervenerunt circa electionem Pontificis; f. 58: In nomine Domini nostri Jesu Christi Amen. Anno a Nativitate Domini 1522…; f. 79: … Die lunae 29 decembris exegi ducatos 16. et julios 9. pro divisione portionum pro magistris cerimoniarum; f. 80: Mutatio anni 1523. Adrianus VI Papa. Die dominica 4.a januarij 1523…; f. 108v: … Die S. Joannis cardinalis Senensis; f. 109: Mutatio anni 1524. Die prima januarij 1524…; f. 120: … Die veneris 29 decembris tres milites S. Petri admissi; f. 120: Mutatio anni 1525. Die dominica prima januarij 1525…; f. 129: … Die ultima decembris vesperae in capella magna; f. 129: Mutatio anni 1526. Die prima januarij 1526…; f. 133: … Die 25. decembris fuit dies Nativitatis D. N. Jesu Christi; f. 133: Die 12. januarij 1527. Ab oratore Portugalliae pro regalibus ensis et cappelli dati illi in die Natalis Domini…; (breve resoconto del Sacco) f. 139: … reversus ad cameram suam requievit; f. 139: Mutatio anni 1528. Die dominica 16. februarij 1528. Redeo ad ea quae interim contigerunt, et ad officium cerimoniarum pertinent…; f. 147: … praesentibus d. d. Laurentio capellano d. sacristae, et d. Thoma clerica capellae testibus; f. 147: Mutatio anni 1529. Die veneris prima januarij 1529…; (si ferma al 7 ottobre) f. 168: … Iter Clementis versus Bononiam Coronatio Caroli VI Imperatoris ac reditus ad urbem seorsum, late explicantur in alio libello; f. 169: (riprende dal 13 aprile) Sanctissimus Dominus Noster Clemens postquam coronavit serenissimum Imperatorem Carolum V…; f. 193v: … in quibus Papa cum cardinalibus, et fecit officium ut solet; f. 194: Mutatio anni 1531. Die dominica prima januarij…; f. 226: … praesentibus cardinalibus in cappis rubeis; f. 226: Mutatio anni 1532. Die lunae prima januarij…; fino al 19 nov., tralascia il secondo viaggio a Bologna di Clemente VII per incontrare Carlo V, f. 258: … et veni Rignanum in ista die hic hospitatus sum; riprende dal 21 marzo, ritorno di Biagio da Bologna, f. 258: Die veneris 21. martis 1533. ex itineratione Bononiam versus reversus Romam ingressus sum…; f. 279: … et officium circa horam 6.am expletum; f. 279: Mutatio anni 1534. die 25 decembris in missa maiori…; f. 351: … cantarunt lectiones in capella parva quae dicitur Nicolai V.i; f. 351: Mutatio anni 1535. Die veneris 25. decembris…; tralascia il viaggio di Paolo III a Perugia, f. 423v: … et sic omnes dormitum libenter recesserunt; f. 424: Mutatio anni 1536. Die sabbati 28 decembris…; f. 482: … cardinali de Salviati assistenti a sinistris Papae reliqua prout in ordinario; f. 482: Mutatio anni 1537. Die lunae 25. decembris 1537…; f. 546v: … et portatus ante Crucem per clericum; f. 547: Mutatio anni 1538. Die martis 25. decembris…; f. 572v: Et quae successerint in progressu itineris ex Urbe usque ad civitatem Placen-
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tiae ad quam primo loco Pontifex iter suum direxit, et in diversis locis gesta fuerunt in quodammodo manuali annotatae sunt, ideo ulterius non extendam pro nunc, sed reversabo in aliud tempus magis accommodatum; f. 590v: … frater Ducis Ferrariensis portavit pluvialis caudam, et in solito locum habuit; f. 591: Mutatio anni 1539. Die mercurij prima januarij…; f. 633: … fuerunt vesperae in capella in quibus Papa cum cardinalibus interfuit; f. 633: Mutatio anni 1540. Die jovis prima januarij…; termina al 20 novembre, f. 656v: … per duos testes, videlicet Georgium Pescana, et Ludovicum Bernardi clericos Colimbriensis, et Ulixbonensis respective dioecesis. Ai ff. 656v-657, Francesco Mucanzio descrive gli ultimi anni di Biagio, che definisce “avo meo materno”, la sua malattia e il fatto che quest’ultima gli impedì forse di continuare i Diari “forsitan impeditus ulterius scribere non potuit” dopo il 1540, la morte e la sepoltura. 10) Vat. lat. 12309, cart., mm. 275 × 210, ca. 1626-1630. Diario per gli anni 1532-1565. Note in margine; raramente viene inserito l’anno di riferimento, in testa al foglio. f. 1: Diariorum t. XI. f. 3: Ex volumini secundo Diariorum Blasij de Cesena magistri Ceremoniarum. f. 4 (Numerazione meccanica): SECUNDA itineratio Clementis Pap. VII versus Bononiam ad obviandum Carolo V Rom. Imperatori anno Domini 1532. Postquam serenissimus Carolus quintus Coronam Imperialem Bononiae a domino Nostro Clemente receperat…; f. 37v: Die veneris vigesima prima martij [1533] sanus, et salvus ex Dei gratia Romam ingressus sum. f. 38: Tertia itineratio seu potius peregrinatio Clement. Papae septimi versus Galliam in civitate Niciae seu Massilie ad Regem Francorum illuc accessurum pro rebus magnis et arduis. Die igitur martis ix septembris 1533…; f. 59v: Die Dominica octava decembris [1533] appulit Ciuitatem Vetulam. Finis. f. 60: RECESSVS sanctissimi domini Pauli Papae III ex Urbe versus Perusiam ad civitatem illam quietandam à seditionibus illorum. Die […] veneris 3. septembris 1535…; f. 75: … et ipsum ducem qui praesens vult firmare capitula […] fiat concistorium, et in illo recipiatur praefatus dux. Finis f. 76: PAVLI PAPAE III itineratio versus Placentiam et Niciam pro pace concludenda inter Imperatorem et Regem Franciae MDXXXVIII; f. 115v: … Tertia die pervenit Romam. f. 116-287: Diario degli avvenimenti dal 10 febbraio 1534 al 12 luglio 1565, non ad opera di Biagio da Cesena. 11) Vat. lat. 12310, cart., mm. 270 × 200. Occasionali note in margine. f. 1 (Numerazione meccanica): Diariorum Tomus undecimus22. f. 2: Clementis Papae VII. Itineratio versus Bononiam pro coronatione Caroli V. Instructio, et coeremoniae anno 1529, f. 1. Item 1532 f. 174. Item versus Galliam
22 Al f. 4, in margine, si trova la nota “Felix Contelorius”, che forse eseguì o fece esegui-
re la copia dai mss. originali. Felice Contelori fu primo custode della Biblioteca Vaticana dal 21 nov. 1626 al 7 maggio 1630, quindi prefetto dell’Archivio Vaticano.
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1534 f. 207. Diarium Pauli Gualterij23 ab anno 1532. ad 1544. f. 333. Pauli III. Itineratio versus Perusium an.° 1535 f. 229. Versus Placentiam, et versus Niciam an. 1538 f. 243. Diarium cardinalis camerarij ab anno 1529 usque ad diem 12 octobris 1534 f. 272 f. 3: 1529. Postquam serenissimus Rex Romanorum Carolus electus Imperator…; f.175: … et sic Romae describam, animo tamen illa, et ista melius, et seriosus extendens finem facio. f. 176: ITINERATIO secunda Clementis Papae Septimi versus Bononiam ad obviandum Carolo Quinto Imperatori. Anno Domini MDXXXII. f. 177: Postquam serenissimus CAROLVS V. coronam imperialem Bononiae a sanctissimo domino nostro Clemente receperat…; f. 209: … Die veneris 21. martij sanus, et salvus Dei gratia romam ingressus sum. f. 211 ITINERATIO seu peregrinatio tertia Clementis Papae VII versus Galliam in civitatem Niciae, seu Massiliae, ad Regem Francorum illuc accessurum pro rebus magnis et arduis etc. Anno MDXXXIII. f. 212: MDXXXIII. Die igitur martis nona septembris discessit ex Urbe praelibatus Clemens…; f. 233: … Die dominica 7.a appulit ad Civitatem Vetulam. ff. 234-248v: RECESSVS sanctissimi domini nostri Pauli Papae III. ex Urbe versus Perusiam ad civitatem illam quietandam a seditionibus illorum. Anno MDXXXIIIII; f. 235: MDXXXIIIII. Die veneris 3.a septembris 1535 ex palatio S. Marci…; f. 248v: … et ipsum ducem, quia praesens vult firmare capitula, quam fiat consistorium et in illo recipiatur praefatus dux. ff. 249-278: f. 249 ITINERATIO Pauli Papae III. Versus Placentiam, et Niciam pro pace concludenda inter Imperatorem, et regem Franciae. Anno MDXXXVIII; f. 250: MDXXXVIII. Notatus est in quinterno meo Diari, seu Annali cerimoniarum…; f. 278: … intervenerunt tres rev.mi cardinales legati, interveni, et servivi ex officio. Le parti che seguono non sono opera di Biagio da Cesena: ff. 280-340v: Diarium Cardinalis Camerarij24 ab anno 1529 usque ad diem 12 octobris 1534; ff. 343382v: Diarium Pauli Gualterij Aretini de Brevibus. Ab anno 1532 ad ann. 1544. 12) Vat. lat. 12421, cart., mm. 290 × 210, 1603. Copia dei Diari di Biagio da Cesena dal 1518 al 1532, opera di Giovanni Paolo Mucanzio. Note in margine, costante indicazione dell’anno e del papa corrente in testa ai fogli. f. [I]: In questo nono Tomo, che è il primo di Biagio Baronij incominciano li Diarij dall’anno 1518 di Leone Decimo e seguitano il Pontificato di Adriano Sesto e di Clemente Settimo sino alli 19 di novembre 1532. f. [II]: Diariorum Caerimonalium Blasij Baronij de Martinellis de Caesena I.V.D. et Caerimonarium Apostolicarum Magistri Tomus primus res gestas ad sacras caerimonias pertinentes complectens ab anno 1518 usque ad annum 1532. f. [IIIr-v]: Ill.mo et R.mo in Cristo Patri et D. D.no Benedicto Justiniano Tit.i Sanctae Prischae [...] presbytero card.li amplissimo.
23 Segretario del Collegio dei cardinali dal 27 giugno 1532 al 25 giugno 1545. 24 Agostino Spinola, cardinale camerario dall’8 giugno 1528 al 18 ott. 1537.
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I MANOSCRITTI DEI DIARI DI BIAGIO BARONI MARTINELLI
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Joannes Paulus Mucantius sacrarum caeremoniarum magister perpetuam foelicitatem. Nunquam memoria excedit [??] ill.me presul quod iussisti ut scilicet exemplum Diariorum quondam Blasij de Cesena ceremoniarum magistri avunculi mei tibi excribendum iuvarem in quo ademplendo licet maiore temporis dilationem consumpserim, quam obsequium erga te meum, et debitum servitutis postularent tamen si ad continuas occupationes meas respexeris, tam publicas in officio ceremoniarum, et rebus ad sacram Rituum Congregationem pertinentibus, quam privatas, ob nimium […] alienum, quo gravatus post mortem Francisci fratris remansi; spero fore ut me non omnino accusatione indignum iudicaveris maxime cum non modicum tempus in hoc opere ad implendo consumpserim. Nam primam ex proprio originali manu auctoris charactere satis obscuro, et ad legendum difficile omnia quae in hoc volumine continentur manu mea propria descripsi resecatis quibusdam, quae potius ad rem familiarem, quam ad ceremoniarum historiam pertinebant, tum in margine summarium omnium, et singulorum, quae in eo continentur, annotavi, et demum, ut facilius omnia quae complectitur reperiri valeant indicem alphabeticum in principio voluminis addidi, eaque omnia tibi exemplanda curavi, ut non auctoris labore aliquid etiam nostri acciperes, quod tibi quem semper a primevi aetate colui, dum humanioribus litteris operum simul apud patres societatis Iesu daremus, et nunc iure venero […], iure debetur, ut sit tam animi in te mei iudicium, quam obsequij et servitutis signum. Continet hoc primum volumen annos 14 nempe ab anno 1518 usque ad annum 1532 in quo, et Leonis X obitum, et Adriani VI creationem, et obitum, ac Clementis VII initium iter eius Bononiensis Caroli Quinti Imperatoris coronationem, et eiusque Clementis reditu ad Urbem, non reliquis usque ad nonum sui pontificatus annum videre poteris. Residuum ab anno 1532 fere completo usque ad annum 1544 in 2° tomo habebis in quo describendo, et ordinando, uti de hoc p.° feci, iam tibi elaboro. Vale, et me humilissimum servum tuum in clientelam suscipe, et patrocinio tuo defende. Romae, Kal. Octobris M. D. C.III. f. 1-43: Index alphabeticum rerum, et materiarum quae in hoc p.° Blasij de Cesena Diariorum volumine continentur. Nell’indice manca il riferimento al numero dei fogli, il che lo rende inutile. f. 44v-291: f. 44v: Diariorum Coeremoniarum Blasij Baronij de Martinellis de Caesena I.C. et Coeremoniarum apostolicarum magistri tomus primus p.s Leo Papa X. MDXVIII; f. 53 (si ferma al 26 novembre) … et suos vocavit ad osculandum pedes Pontificis, et omnes recesserunt; f. 53: Die 22 januarij 1519 r.mus Aloysius cardinalis de Aragona…; f. 55v (si ferma al 22 novembre) … quos idem Hippolitus, seu episcopus Pisauriensis recepit tenetur mihi consignare quinque; f. 55v: Die 6 januarij 152° in epiphania Domini…; f. 60: … quinque cannae ad rationem 72 carlenorum pro canna, quas debeo habere a fundaco; f. 60: Die lunae 7 januarij fuit consistorium solitum…; f. 67v: … et ego Blasius una cum collega rogatos; f. 67v: Die prima januarij 1522 de mane fuit post missam scrutinium factum…; f. 78: … et omnes fere praelati palatini fuere praesentes; f. 78: Die dominica 4 januarij 1523 D. Antonius Parpaglia…; f. 97: … et in die S. Johannis reverendissimus dominus cardinalis Senensis. Anni 1523 finis;
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f. 97: Die veneris prima januarij 1524…; f. 102: … illi tres, aut quatuor milites osculati sunt pedem Pontificis, et recesserunt; f. 102: Mutatur annus a Nativitate Domini 1525. Die dominica 25 decembris…; f. 107: … Die ultima decembris fuerunt vesperae in capella magna pro vigilia circumcisionis. Anni Jubilei 1525 finis; f. 107: Incipit annus a circumcisione Domini 1526. Die prima januarij anni 1526…; f. 109 (Mucanzio si ferma al 5 novembre e inserisce una sua nota dicendo di non aver trovato ulteriori annotazioni per quel periodo nel Diario); f. 109 (riprende il 31 marzo) Die ultima martij 1527 in dominica Rosae…; (narrazione del Sacco) f. 112: … reversus ad cameram suam requievit; f. 112: Mutatio anni 1528. Redeo ad ea, quae ibi contingerunt, et ad officium cerimoniarum pertinent…; f. 117: … Laurentio capellano domini sacristae et Thoma clerico capellae testibus; f. 117r-v: Anno a circumcisione Domini 1529. Die veneris prima januarij 1529…; (qui Mucanzio accorpa i due volumi di Diari di Biagio e inserisce il viaggio di Clemente VII a Bologna per incoronare Carlo V) f. 179v: … et fecit officium absente Caesare. Anni 1529 finis; (nel codice 1529 per errore) f. 180: Die sabbati prima mensis januarij…; f. 250v: … In nocte fuerunt matutinae intervenientibus socijs me licentiato a Papa propter aetatem; f. 250: Incipit annus a Nativitate Domini 1531. Die dominica 25 decembris…; f. 269: … ego fui in domo licentiatus a Papa propter aetatem prout alias mihi concessit; Incipit annus a Nativitate Domini 1532. Die lunae 25 decembris…; f. 291 (si ferma al 19 novembre, partenza di Clemente VII per Bologna per incontrare Carlo V) … Quae autem ad iter Pontificis pertinent cum reliquis Bononiae gestis, et alijs prout reditu Pontificis ad Urbem sequenti volumine explicabimus. Finis primi thomi Diariorum Blasij Baronij de Caesena Ceremoniarum magistri. Laus Deo. 13) Vat. lat. 12422, cart., mm. 330 × 230. Annotazioni in margine; indicazione del papa e dell’anno corrente in testa ai fogli. Confusione tra gli anni 1530 e 1531. f. I: Ex codicibus Ill.mi et Excell.mi D.ni Ioannis Angeli Ducis ab Altaemps. Diariorum caeremoniarum Blasij Baroni tomus XII. Incipiens ab anno 1518. usque ad annum 1534. f. II: BLASII BARONI MARTINELLI CESENATIS CAPPELLE S.D.N. PP. CEREMONIARVM CLERICI, ET ALIORVM. DIARIORVM TOMVS DVODECIMVS. Leonis X. Hadriani VI. Clementis VII. Romanorum Pontificum tempora complectis a mense Januarij salutis anni MDXVII [ma 1518] usque ad mensem Januarium Anno D.ni MDXXXIIII. f. 1: In nomine Domini Nostri, et individuae Trinitatis, Patris, Filij, et spiritus sancti Amen…; f. 18v: … et ego Blasius de Cesena magister ceremoniarum rogatus fui; f. 18: Anno Domini MDXIX. Die vigesima nona decembris…; f. 30v: … Item salarium mensis consuetum quinque ducatos; f. 30v: Anno domini MDXX. In Christi nomine Amen…; f. 42: … Archiepiscopus Cusentinus qui est de Todolis de forlivio interveni et rogatus fui; f. 42: Anno Domini M.D.XXI. Die lunae septima januarij…; f. 62: … Actum, et ego Blasius de Cesena una cum collega rogatus…; f. 62v: Die mercurij prima januarij MDXXII…; f. 79: … pro divisionibus portionum pro magistris coeremoniarum, de quibus habui
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I MANOSCRITTI DEI DIARI DI BIAGIO BARONI MARTINELLI
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medietatem; f. 79: Die dominica quarta mensis januarij, 1523…; f. 112: … ter vibravit ante Papam cum pileo ducali, in fine gradus stans, nobis illum adiuvantibus; f. 112: Mutatio anni 1524. Die veneris vigesimaquinta mensis decembris…; f. 126: … eadem die fuit una admissio unius militis Sancti Petri; f. 126: Mutatio anni M.D.XXV. Die dominica vigesimaquinta mensis decembris…; f. 138: … finitis matutinis praesente Pontifice, in capella parva Nicolai Papae Quinti; f. 138: Mutatio anni M.D.XXVI. Die vigesimaquinta mensis decembris…; f. 143v: … et dominus Hippolitus collega fecit officium, quia sua consecratio; f. 143v: Mutatio anni 1527. Die vigesimaquinta mensis decembris…; f. 149v: (resoconto del Sacco) … reversus ad cameram suam requievit; (riprende dal 26 febbraio) f. 149v: Die dominica sexta mensis februarij…; f. 158: … Missam celebravit reverendus dominus cardinalis Perusinus camerarius iuxta consuetudinem; f. 158: Mutatio anni MDXXVIIII. Die vero veneris vigesimaquinta mensis decembris…; f. 182v: (tralascia il viaggio di Clemente VII a Bologna per incoronare Carlo V) … Die jovis septima mensis octobris 1529, recessus Papa Clementis VII ex Urbe versus Bononiam ad Imperatorem expectandum, excipiendum, et coronandum; f. 158: (riprende dal 13 aprile) Mutatio anni MDXXX. Sanctissimus dominus noster Clemens postquam coronavit serenissimum imperatorem Carolum Quintum…; f. 210v: … Die ultima mensis decembris qua fuit sabbati vespere in capella, in quibus Papa cum cardinalibus, et fecit officium ut solet. Tenor determinationis anni praeteriti MDXXX; (riprende dal 2 giugno) f. 211: Anno Domini 1530 [ma: 1531], de mensi junij, die secunda junij…; f. 228v: … In missa vero, et quando Papa sub baldachino bene portatur; f. 228v: Mutatio anni millesimi quingentesimi trigesimi secundi. Die lunae vigesima quinta decembris…; f. 260v (tralascia il secondo viaggio di Clemente VII a Bologna per incontrare Carlo V; si ferma quindi al 19 novembre) … et veni Arignanum ista die, ubi hospitatus sum; f. 260v: Anno salutis M.XXXIII [ma: 1533]. Die veneris vigesimaprima martij 1533 ex itineratione Bononiensi reversus Romam ingressus sum sanus, et salvus…; (tralascia il viaggio di Clemente VII a Nizza dal 9 settembre al 10 dicembre 1533 per incontrare il re di Francia) f. 282: … cardinalis de Sancto Severino celebravit et fecit officium, circa horam sextam expletum fuit; f. 282r-v: Mutatio anni MDXXXIIII. Die vigesimaquinta decembris…; (si ferma al 19 settembre, poco prima della morte di Clemente VII) f. 304v: … omnes fere cardinales intervenerunt. [segue in calce al foglio:] Obitus Clementis PP. VII.
Una copia dei Diari di Biagio Baroni si trova alla Biblioteca Nazionale, Gesuitico 27025. Altri codici della Biblioteca Vaticana contenenti diari dei Cerimoniali26, non di Biagio da Cesena, coprono il periodo da lui descritto e posso-
25 Diarij di Biagio da Cesena vol. 2 dall’anno 1533 sino al 1544 di sua morte. 26 Descritti in P. SALMON, Les manuscrits liturgiques cit.
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MASSIMO CERESA
no essere paragonati o supplire a eventuali mancanze: Barb. lat. 268327, il Barb. lat. 280028, il Borg. Lat. 42029, Chig. L.I.2030, Chig. L.II.2631, Ross. 71432, Urb. Lat. 63833, Vat. lat. 563634, Vat. lat. 697835, Vat. lat. 1227136, Vat. lat. 1227537, Vat. lat. 1227838, Vat. lat. 1227939, Vat. lat. 1230740, Vat. lat. 1241641, Vat. lat. 1241742, Vat. lat. 1241843, Vat. lat. 1241944.
27 Cerimoniale di Paride de Grassi annotato e completato da Ludovico de Branca (dal 1513 al 1521). 28 Diario di Giovanni Francesco Firmano, (dal 1529 al 1565). Firmano era socio di Biagio da Cesena nell’ufficio di cerimoniere e alla sua morte lo rimpiazzò. Come Biagio, inizia i suoi Diari quando viene nominato nell’ufficio, quindi procede in contemporanea con Biagio. Questo suo diario però è molto ridotto e saltuario. Anche Firmano non continua il diario negli anni 1540-1543, e riprende col 1544. Alla morte di Biagio, Firmano diventa maestro delle cerimonie. Il Diario di Firmano comprende i viaggi dei Papi insieme al resto della narrazione, sempre in modo succinto. 29 Ai f. 1-20, riporta la cerimonia dell’incoronazione di Carlo V in s. Pietro da parte di Clemente VII (1530). 30 Diario delle cerimonie di Paride De Grassi per gli anni 1513-1521. 31 Diario di Giovanni Francesco Firmano dal 1529 al 1565. 32 Diario delle cerimonie di Paride De Grassi per gli anni 1513-1521. 33 Diario di Giovanni Francesco Firmano dal 1529 al 1565. 34 Diario di Ludovico de Branca dal 1513 al 1521. 35 Rovinato ed illeggibile, è un indice per soggetti. 36 Estratti di Francesco Maria Torrigio dei Diari di Paride de Grassi e Paolo Alaleona, 1513-1588. 37 Diario di Paride de Grassi dal 1513 al 1521. 38 Diario di Giovanni Francesco Firmano dal 1533 al 1565. 39 Diario di Giovanni Francesco Firmano dal 1533 al 1565. 40 Diario di Paride de Grassi dal 1517 al 1521. 41 Diari di Paride de Grassi dal 1513 al 1521. 42 Diari di Paride de Grassi dal 1513 al 1522. 43 Diari di Paride de Grassi dal 1517 al 1520. 44 Diari delle cerimonie dal 1534 al 1538.
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MASSIMO CERESA — SANTO LUCÀ
FRAMMENTI GRECI DI DIOSCORIDE PEDANIO E AEZIO AMIDENO IN UNA EDIZIONE A STAMPA DI FRANCESCO ZANETTI (ROMA 1576) 1.* Esaminando le edizioni romane della famiglia Zanetti, sono incorso in un esemplare vaticano (R.G. Filos. III.2) che presenta frammenti greci nei rinforzi della coperta, che le cattive condizioni dell’esemplare rendono visibili (Tavv. I-III). L’esemplare, di cui si dà la trascrizione diplomatica, mi è sembrato degno di analisi: Pereira, Benedetto, 1535 ca. — 1610. BENEDICTI PERERII / SOCIETATIS IESV / De communibus omnium rerum naturalium / principijs & affectionibus, / LIBRI QVINDECIM. / Qui plurimum conferunt, ad eos octos libros Aristotelis, qui de / Physico auditu inscribuntur, intelligendos. [fregio] / Adiecti sunt huic operi, tres indices, vnus capitum singulorum / librorum; Alter Quaestionum; Tertius rerum. / CVM PRIVILEGIO, ET FACVLTATE SVPERIORVM. [vign.] / ROMAE, / Impensis Venturini Tramezini, / Apud Franciscum Zanettum, & Bartholomaeum Tosium socios. / Anno Domini. M. D. LXXVI.
Folio, [14] c., [1] 2-512, [18] c. (a-b4, c6, A-Z4, AA-ZZ4, Aaa-XXx4, YYy6); titolo corrente; marginalia; iniziali ornate; fregi. Lettere a indicare i paragrafi. In fine, registro, marca e indicazione tipografica. Privilegio decennale di Gregorio XIII a Venturino Tramezzino. Biblioteca Apostolica Vaticana: R. G. Filos. II.2 (Al front.: «Dominicus Petruccius»1; alla p. 512: «Ex libris Domini… [cassato] Dominici Petruccij»; in fine, due righe cassate, che iniziano: «Hoc liber emptus fuit…»; quindi «soluto librarum decem denariorum anno salutis nostrae 1579. Laus Deo». Esemplare foderato con ritagli di pergamena di un mano* Del § 1 è responsabile Massimo Ceresa, del § 2 Santo Lucà. 1 Riteniamo si tratti di Domenico Petrucci, di Città di Castello, vescovo di Stromboli dal 28 aprile 1582 al 1584 e di Bisignano dal 1584 alla morte (1598), corrispondente di Guglielmo Sirleto (Vat. lat. 6195, f. 572). Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 191-229.
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MASSIMO CERESA
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SANTO LUCÀ
scritto greco, coperta in pessime condizioni. Rieti, Biblioteca Paroniana; Roma, Biblioteca Nazionale, Alessandrina, Casanatense. Un esemplare della Biblioteca nazionale Centrale di Roma, con segnatura di collocazione 14.7.F.26, presenta anch’esso, a rinforzo della copertina, quattro frammenti pergamenacei, provenienti da manoscritti latini. Analogamente, nell’esemplare della Paroniana di Rieti, E.X.6, la legatura è stata rinforzata con frammenti latini in pergamena e con frammenti greci cartacei a stampa 2. Francesco Zanetti (Venezia 1530 ca. — Roma 1591), figlio secondogenito di Bartolomeo, tipografo bresciano attivo a Firenze e a Venezia, e noto per la sua conoscenza del greco, iniziò la propria attività a Venezia verso il 15633, ma pochi anni dopo si trasferì a Roma, dove a partire dal 1576 vennero pubblicate sue edizioni. Intorno allo stesso anno, egli si legò con Bartolomeo Tosi, bresciano come il padre, e i due stamparono insieme, adottando una marca raffigurante un lupo e un drago sotto un albero in attesa della caduta dei frutti, col motto VTERQUE SIMVL. Benedetto Pereira, nato verso il 1535 a Ruzafa, presso Valencia, entrò nella Compagnia di Gesù nel 1552. Insegnò retorica, filosofia, teologia e Sacra Scrittura al Collegio Romano; è annoverato nel gruppo di coloro che prepararono l’affermarsi dell’esegesi cattolica dopo il concilio di Trento. Profondo conoscitore delle scienze matematiche, fisiche e naturali del tempo, egli è considerato filosofo vicino al pensiero di Ockam, e al quale si è ispirato Leibniz. L’opera stampata da Francesco Zanetti e Bartolomeo Tosi nel 1576 – che ebbe numerose ristampe almeno sino al 1618 –, gli procurò fama. Morì a Roma il 6 marzo 16104. Da osservare che Luigi Zanetti, figlio di Francesco, pubblicò il secondo (1592) e il quarto (1598) tomo dei suoi «Commentariorum et dissertationum in Genesim…», altra sua importante opera. *
*
*
2 Dorso: I e IV) pergamena di ms. latino; II-III) carta di libro greco a stampa 3 Cfr. S. FRANCHI, Le impressioni sceniche. Dizionario bio-bibliografico degli editori e
stampatori romani e laziali di testi drammatici e libretti per musica dal 1579 al 1800, Roma 1994, pp. 782-784. 4 Sulla figura del dotto gesuita cfr. C. SOMMERVOGEL, Bibliothèque de la Compagnie de
Jésus, VI, Bruxelles — Paris 1895, coll. 499-507; Lexikon für Theologie und Kirche, VIII, Freiburg etc. 1999, coll. 27-28; Enciclopedia filosofica, IV, Venezia — Roma 1958, coll. 1485-1486.
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FRAMMENTI GRECI DI DIOSCORIDE PEDANIO E AEZIO AMIDENO
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2.* A Vittorio Peri, in memoriam
Durante una pausa di lavoro di una nervosa e intensa mattinata di studio della fine del giugno 2007, trascorsa nella sala manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana nel disperato tentativo di esaminare – quasi per esorcizzare la preannunciata e imminente chiusura per urgenti lavori di restauro della stessa Istituzione – quanti più manoscritti fosse stato possibile, al fine di completare ricerche in corso e recuperare almeno un buon numero di cimeli greci emendati o annotati dal gesuita Francisco Torres5, ho avuto modo di prendere visione di alcuni frammenti greci che il collega Massimo Ceresa aveva reperito nell’indorsatura di un libro a stampa. Al di là del valore euristico e dell’interesse intrinseco che ogni «nuova» manifestazione grafica riveste per un cultore e frequentatore di manufatti librari in lingua greca, i disiecta membra hanno destato immediatamente la mia curiosità scientifica, vuoi perché la scrittura in cui sono stati esemplati è una bella minuscola della cosiddetta «scuola niliana», vuoi perché ad una sommaria lettura mi ero reso conto che essi erano latori di testi medici. D’accordo con M. Ceresa, ho curato una prima, parziale trascrizione e, dopo aver accertato la loro singolarità contenutistica, ho pensato che fosse doveroso presentare alla comunità scientifica i frutti del nostro studio, tanto più che Paolo Vian, responsabile del Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana, nel frattempo da noi reso partecipe, ha dato subito il suo assenso, pregandomi di verificare se non fosse utile staccare i frammenti dal volume e conservarli a parte, con autonoma segnatura, fra i manoscritti greci6. * Desidero ringraziare quanti mi hanno in vario modo aiutato nell’elaborazione di queste brevi note: Marco Buonocore, Massimo Ceresa, Francesco D’Aiuto, Chiara Faia, Gianfranco Fiaccadori, Annamaria Ieraci Bio, Paolo Vian. Un grazie riconoscente anche a mons. Cesare Pasini, Prefetto della Biblioteca Vaticana, e a mons. Raffaele Farina, Cardinalebibliotecario di Santa Romana Chiesa. 5 Sull’attività di «emendator» di manoscritti, di editore e traduttore di testi del dotto ge-
suita spagnolo ho avviato da tempo una ricerca, tuttora in corso; per ora si rinvia al mio Il Casan. 931 e il copista criptense Michele Minichelli (sec. XVI). Libri, testi ed eruditi nella Roma di Gregorio XIII, in Rivista di studi bizantini e neoellenici, n.s. 41 (2004) [2005], pp. 181259: 221-231. 6 Nelle more della stampa l’operazione è stata eseguita nel Laboratorio di restauro della
Biblioteca Vaticana; i frammenti, ora custoditi in una cartella di plexiglass, hanno la segnatura Vat. gr. 2672. Ringrazio il collega Marco Buonocore per avermene dato notizia.
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MASSIMO CERESA
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SANTO LUCÀ
I frammenti, pergamenacei, dalla dimensione grosso modo di un francobollo, sono incollati con gelatina animale al dorso della legatura originale, in pergamena floscia, e risultano tagliati, forse con una forbice, in modo da poter essere adattati alla superficie dei quattro scomparti del dorso, che esibisce altrettante nervature. Ché anzi, i frammenti incollati nella parte superiore e inferiore risultano assai danneggiati dai numerosi passaggi del filo della cucitura del capitello, che rendono non solo disagevole la lettura, ma anche riducono i frammenti stessi a piccolissimi brandelli di pergamena. Presenterò i frammenti, tutti e quattro vergati da una stessa mano e appartenenti ad uno stesso codice, così come sono stati incollati nell’operazione dell’indorsatura, cominciando dall’alto del dorso del volume, e ne fornirò la trascrizione di quanto è stato possibile leggere. Per comodità, chiamerò lato a la parte a contatto con la pergamena della legatura, e lato b, invece, quella incollata al dorso negli scomparti fra le nervature. *
*
*
Fr. I Di mm 67 × 66, il frammento risulta attualmente formato da tre piccole strisce, a motivo delle spaccature che si sono prodotte a causa della piegatura della pergamena attorno al dorso. Inciso dal lato pelo (attuale lato b), esso presenta un tipo di rigatura con due verticali che delimitano lo spazio scrittorio; il margine interno è di mm 30 circa, l’interlinea di mm 5/6; le linee sono 12. Il lato a (lato carne nel fascicolo originario) è latore del seguente brano7: ejkfravt[tei deV ‚par kaä] splhvna kaä taV [kataV qþraka kaä pneýmo]na diakaqaæ[rei kaä e[mmhna protr]evpei: kaä dia [rJin§n ékethriko˜"] kaqaærei, kaä pr’" [©t§n “dýna"] / taV" hdh kecro[nismevna" poi]eÔ kataplassümenon [deV rJýptei kaä] diaforeÔ. Drimýan diaforeÔ prasa ©" kaä taV kro[mua kevk]thtai dýnamin tq_8
7 Si osservi che ad ogni integrazione fra parentesi quadre corrisponde nel frammento la
fine di rigo. Tutte le trascrizioni rispettano l’ortografia del codice. 8 La cifra è posta sul margine, dove il copista all’altezza della parola dýnamin aggiunse: cumon, oneiron.
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FRAMMENTI GRECI DI DIOSCORIDE PEDANIO E AEZIO AMIDENO
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[kaä qerm]aænei, ajnavlogwn deV [to˜" ejn ašt§ cumo˜" tevmn]ei kaä leptýnei [to˜" gliscro˜" cumo˜]" kaä tevmnei, to˜" […]do" kaä ošrhtikaV ejk[kaqaæronta t’ ai|ma… (?). Cfr. AËTII AMIDENI Libri medicinales I-IV, ed. A. OLIVIERI, Lipsiae-Berolini 1935 (Corpus medicorum Graecorum, 8.1), lib. I, capp. 332-3339.
Il lato b conserva un brano la cui prima parte risulta di difficile decifrazione, essendo stata attraversata dal filo (grezzo) occorso per la cucitura del capitello in seta della legatura cinquecentesca. Per agevolare l’eventuale identificazione del testo, trascrivo qui, rigo per rigo, quanto ho potuto leggere: a[gei f egma …to k… tloýmeno" ta k….. to f." kataV ta ai sti ma prüsw deV gr to™ton ajn. lo menetai deV ta pro ei" prosw…. thvmata…
…al
Li
Ad esso segue, contrassegnato in margine dal numero tl (?), cioè 332, il brano: Ptevreo" hJ rJæza c[rhvsimo" ajnai]reÔ gaVr e{lminqa [drac]m§n tessavrwn pl[ateÔan d_ plßqo" ejn meli]kravtw didomevnh, [kaä e[mbrua taV] meVn z§nta kteæ[nei, taV deV nekraV] ejkbavllei. kaä taV e{l[kh deV ejpitat]tomevnh xhraæ[nei ajdhvktw"… Cfr. ibid., lib. I, cap. 33610.
Di un altro brano, contraddistinto con la numerazione TLG_, ossia 333, che ancora è visibile sul margine, non si scorge più nulla.
9 Cfr. anche ORIB. Collectionum medicarum reliquiae, ed. J. RAEDER, Lipsiae 1928 (Cor-
pus medicorum Graecorum, 6.1.1), lib. II, 27, 1; ORIB., Libri ad Eunapium, ed. J. RAEDER, Leipzig 1926 (Corpus medicorum Graecorum, 6/3), lib. II.1 (k); nonché GAL., De alimentorum facultatibus libri III, ed. G. KÜHN, Lipsiae 1923 (Corpus medicorum Graecorum, 5.4.2), VI, p. 658 lin. 12ss. Che Aezio abbia sovente utilizzato Oribasio è cosa nota. Egli tuttavia non riprodusse pedissequamente il modello, ma ne rielaborò il testo ricorrendo talvolta ad altre fonti. 10 Cfr. anche ORIB., Libri ad Eunapium, ed. laud., lib. II. 1 (p).
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MASSIMO CERESA
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SANTO LUCÀ
Fr. II (tav. IV) Misura mm 107 × 74; è di mm 30 lo spazio marginale rispetto alle due verticali che delimitano la superficie scritta sul lato destro; incisione dal lato pelo, le linee sono 19. Il lato a è latore del seguente brano: to™ ›pn]otiko™ floæo", baccav[rido" f]ýlla d* e[stin ešþdh, [malabavqr]ou fýlla eJyhqevnta ejn [o¶nw~ t§n] muxwthvrwn diaVywmevnwn [krükinon, m]et* þpion kýprou a[nqh, [mandrag]ürou ¿p’" kaä rJæza kaä kar[pü", kaä m]hvkwno" ¿moæw", kastü[rion, sm]ýrna. IB_. [Pinümen]a deV œpnon poieÔ mhkw[næou h[… 2) up’ e{pa sun t(w) aim(a)t(i) opt’n esqiümenon ep eudm G gup(’" ?) kard x[… (kardiþxa" ?). Un’altra mano più tarda (sec. XIII-XIV) non si limitò soltanto ad apporre sul margine superiore del fr. II a (tav. IV) probabilmente un rimedio – …]diobo glwa" (¿müglwssa ?), brbl (= bregmata ?) metaV leuko™ o¶nou ¿ evw" ajpotrit§n [... – ma aggiunse, a margine del fr. IV b, in prossimità del capitolo dioscorideo, un riferimento a un capitolo precedente o a un’opera che conteneva quella ricetta con la numerazione cap. 41, sez. 14: ejgravfei kaä nqemi", ke(favlaion) MA_ id_ (tav. VII; il riferimento numerico è vergato in inchiostro rosso). Piace dunque supporre che il manoscritto, postillato in tempi e luoghi diversi da distinti lettori, potesse offrire anche un esempio di quell’interazione tra libro e fruitore, di cui i manoscritti, ma pure incunaboli ed edizioni a stampa del Cinquecento e Seicento, presentano numerosi esempi. Se lo specchio della scrittura, come ha scritto Michele Feo61, è lo specchio della verità, il margine diventa quasi lo specchio della mediazione della verità, strumento di critica e di dialogo che il lettore instaura di volta in volta col libro/testo oggetto di lettura. Piace altrettanto supporre, ove la nostra proposta di collocazione sia attendibile, che lo stesso manoscritto abbia costituito un tramite di interazione fra ambito monastico calabro-greco e milieu monastico campano-benedettino, che trovò, collegandosi con le figure più illuminate del patriziato laico, un punto di incontro proprio nel campo della medicina62, oltre che ovviamente nel settore della letteraura religiosa. Proprio 61 M. FEO, ‘Sì che pare a lor vivagni’. Il dialogo col libro da Dante a Montaigne, in Agnolo Poliziano poeta scrittore e filologo. Atti del Convegno internazionale di studi, Montepulciano, 3-6 novembre 1994, a cura di V. FERA — M. MARTELLI, Firenze 1998, pp. 245-294: 246. Su tali aspetti segnalo solo i saggi raccolti nei due volumi Talking to the Text: Marginalia from Papyri to Print. Proceedings of a Conference held at Erice (26 September — 3 October 1998) as the 12th Course of International School for the Study of Written Records, a cura di V. FERA — G. FERRAÙ — S. RIZZO, Messina, Centro interdipartimentale di studi umanistici, 2002. Si veda anche «Scientia in margine». Études sur les marginalia dans les manuscrits scientifiques du moyen âge à la renaissance, réunies par D. JACQUART — Ch. BURNETT, Droz 2005 (Hautes Études Médiévales et Modernes, 88). 62 Rammento che gli attuali Paris. Suppl. gr. 1297 e Laur. 75, 3, entrambi realizzati in Campania da mani calabre e latori di testi medici, conservano note in beneventana. Si rimanda al mio Greci, latini, musulmani, ebrei nell’Italia meridionale greca nel riflesso della
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in quel crocevia di incontro/scontro, interscambio, assimilazione fra le varie etnie compresenti nel Mezzogiorno d’Italia, segnatamente in Campania, del secolo X-XI, si formò, a partire dal secolo IX, la Scuola medica di Salerno, la più antica e illustre istituzione medievale dell’Occidente europeo per l’esercizio e l’insegnamento della medicina, la quale raggiunse l’acme dello splendore nel secolo XI-XII dopo che Costantino l’Africano, monaco poi nel 1086 a Montecassino, vi introdusse e diffuse le sue traduzioni latine delle opere della medicina araba. E i rapporti della Scuola medica salernitana col mondo italogreco continuarono nei secoli a venire, alimentandosi e intrecciandosi reciprocamente, dall’ età normanna sino all’età angioina e aragonese63. *
*
*
Non ci resta che accennare brevemente all’operazione di riuso compiuta nell’officina di Francesco Zanetti. A prima vista, sorprende non poco che un uomo dotto come lo Zanetti, non solo stampatore ma anche copista e interlocutore di molti eruditi della Roma del tempo64, abbia potuto acconsentire a che i resti di un codice, anche se conservati in frammenti sciolti e in pessimo stato di conservazione, potessero essere riutilizzati nell’indorsatura di una legatura per un volume a stampa. Per noi moderni che siamo feticisticamente impegnati nel recupero di ogni testimonianza antica, qualunque intervento che danneggia un manufatto avente valore di «bene culturale», provoca sconcerto. La storia, tuttavia, insegna che nel divenire degli eventi l’uomo ha adottato comportamenti non sempre omogenei, in base alle necessità più impellenti o alle temperie culturali e sociali delle diverse epoche. A ben guardare, lo «spirito del tempo» non disdegnava operazioni consimili: quanti manoscritti e opere a stampa presentano il dorso rinforzato con frammenti produzione libraria, in Greci, Latini, Musulmani, Ebrei: la coesistenza culturale in Sicilia. Atti del Convegno internazionale, Palermo, 15-19 novembre 2006, a cura di S. CARUSO, in corso di stampa. 63 Sulla Scuola medica salernitana mi limito a segnalare M. OLDONI, La cultura latina bilingue, in Storia e civiltà della Campania, II: Il Medioevo, a cura di G. PUGLIESE CARRATELLI, Napoli 1992, pp. 295-400; G. VITOLO, Dalle scuole salernitane di medicina alla Scuola medica di Salerno, in Salerno e la sua Scuola Medica, a cura di I. GALLO, Fuorni (SA) 1994, pp. 121-162; A. CUNA, Per una bibliografia sulla Scuola medica salernitana (secoli XI-XIII), Milano 1993. Si veda anche A. BECCARIA, I codici di medicina del periodo presalernitano (secoli IX, X e XI), Roma 1956 (Storia e letteratura. Raccolta di studi e testi, 53), pp. 297-303. 64 Mi limito qui a rimandare al mio Il Casan. 931 e il copista criptense cit., pp. 213-214, 228-229, 242-243 (con bibliografia)
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MASSIMO CERESA
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SANTO LUCÀ
pergamenacei o cartacei di codici più antichi! L’operazione, del resto, era usuale nelle officine manoscritte e tipografiche del Cinquecento e del Seicento. Oltre agli esempi addotti da Massimo Ceresa in questa stesso lavoro65, potrei qui menzionare a solo titolo esemplificativo il caso del Vallic. B 124 (an. 1525: f. 89v), il cui dorso venne rinforzato con frammenti di un libro latino in scrittura gotica, ovvero quello dei Vat. gr. 2349 e 2350, entrambi del sec. XVI, col dorso rinforzato con fogli cartacei di manoscritti latini. Non è da escludere che, ove si volesse intraprendere una sistematica ricerca sulle edizioni di Francesco Zanetti, un giorno si possano reperire altri frustuli del nostro codice di medicina. L’indorsatura con i resti del codex deperditus, anche se frutto di un’operazione dolorosa almeno per la nostra mentalità, ha fatto sì che giungessero sino a noi quei pochi frammenti superstiti che altrimenti, con ogni probabilità, sarebbero andati definitivamente perduti. E ancora una volta l’adagio «colligere fragmenta ne pereant» s’è rivelato quanto mai opportuno. Frustuli apparentemente di scarso significato hanno contribuito a illuminare ulteriormente, sia pure da un versante particolare (la medicina), la storia della civiltà bizantina della Calabria dei secoli X e XI. Se l’impegno che sta alla base di ogni indagine e fatica erudita è il desiderio di sostenere e nutrire con frammenti di verità, anche minimi, in apparenza trascurabili o insignificanti, la storia dell’uomo, l’esserci mossi, come ha scritto in altro contesto il compianto Vittorio Peri66, «come api virgiliane ritardatarie, girovaghe ma operose, o addirittura come tarli voraci, per estrarre quasi fisicamente dal buio di tomi polverosi, e appropriarsene e gustarne, briciole di saggezza degli uomini che li avevano scritti», ha fatto sì che potessimo conseguire qualche apprezzabile risultato, gratificandoci ampiamente per l’applicazione profusa.
65 Supra, § I (p. 192). 66 V. PERI, La pacifica milizia cristiana di Nello Vian in un secolo cruciale per la Chiesa e
per l’Italia, in Atti della commemorazione nel primo anniversario della morte di Nello Vian (Città del Vaticano, 19 gennaio 2001). Testimonianze e corrispondenza con Giovanni Battista Montini (1932-1975), Brescia 2004 (Quaderni dell’Istituto [Paolo VI], 22), pp. 1-42: 38. Il brano è citato in P. VIAN, Da Oriente e da Occidente. In memoria di Vittorio Peri (1932-2006), in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae XIII, Città del Vaticano 2006 (Studi e testi, 433), pp. 621-688: 636.
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Tav. I — Dorso dell’esemplare R. G. Filos. III.2 (vd. p. 191).
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MASSIMO CERESA
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SANTO LUCÀ
Tav. II — Apertura del piatto anteriore con i frammenti.
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Tav. III — Apertura del piatto posteriore con i frammenti.
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MASSIMO CERESA
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SANTO LUCÀ
Tav. IV — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 2672, fr. II lato a.
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Tav. V — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 2672, fr. III lato b.
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MASSIMO CERESA
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SANTO LUCÀ
Tav. VI — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 2672, fr. III lato a.
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Tav. VII — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 2672, fr. IV lato b.
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MASSIMO CERESA
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SANTO LUCÀ
Tav. VIII — Grottaferrata, Biblioteca del Monumento Nazionale dell’Abbazia, Crypt. A. d. X (gr. 160), f. 66r.
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Tav. IX — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1542, f. 56v.
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SANTO LUCÀ
Tav. X — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1815, f. 27r.
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Tav. XI — Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. gr. 450, f. 64r.
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Tav. XII — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1966, f. 3r.
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Tav. XIII — Grottaferrata, Biblioteca del Monumento Nazionale dell’Abbazia, Crypt. A. g. IX (gr. 286), f. 46r.
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MASSIMO CERESA
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Tav. XIV — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1834, f. 36r. Tav. XIV — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1834, f. 36r.
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Tav. XV — Bibliothèque nationale de France, Paris. Suppl. gr. 446, f. 45r.
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MARIO D’ONOFRIO
UNA LAMINA D’ARGENTO LAVORATA A SBALZO E L’EVANGELIARIO DI S. MARIA IN VIA LATA Presso il Centro Europeo di Studi Normanni (CESN) che ha sede in Ariano Irpino, in provincia di Benevento, si conserva una lamina d’argento con figure a sbalzo (cm 39 × 29), fissata tramite piccole viti argentate reversibili, poste ai quattro angoli, su supporto ligneo più ampio (cm 42 × 32) leggermente incurvato (Tav. I)1. Acquistata presso un antiquario, la lamina era ricoperta, prima del recente restauro2, da uno strato di cera d’api che solo nella fascia inferiore e al centro lasciava intravedere il bianco del prezioso metallo (Tav. II). Relativamente ben conservato nel suo complesso, il manufatto appare malamente rifilato lungo i margini e mostra qua e là alcuni fori che indicano il posizionamento dei chiodini di fissaggio, del tutto improprio, riscontrato prima del restauro. Una piccola croce posta all’angolo superiore sinistro della formella introduce la scritta a caratteri cubitali e a doppio tratteggio che scorre lungo i bordi. La scritta, intercalata in alto a destra da un’altra crocetta, termina sull’angolo inferiore sinistro, dove figura un semplice motivo decorativo seguìto da una terza crocetta. Mentre le lettere su tutti gli altri margini sbalzano le une accanto alle altre senza effettiva soluzione di continuità, con base di scrittura verso il centro del piatto, quelle della scritta sul margine sinistro si dispongono verticalmente una sopra l’altra. Partendo dall’alto, la scritta così recita: + SVSCIPE CHR(IST)E ET S(AN)C(T)E CYRIACE + ATQ(UE) NICOLAE HOC OPVS Q(VO)D EGO RERTO (sic) / INCILLA (sic) D(E)I FIERI IVSSI +. Sul bordo di sinistra, esattamente nella metà superiore, si legge S(AN)C(TV)S CYRIAC(VS). Il
testo, per chi vi s’imbatte per la prima volta senza conoscerne altre versioni, suscita subito qualche perplessità circa il presunto committente dell’opera, il cui nome, Rerto, del tutto inusuale, non presenta alcuna forma di latinizzazione, così come è del tutto inusuale il termine incilla. Infatti, come avremo modo di appurare in seguito, il sospetto di anoma1 Sono grato a Ortensio Zecchino, Presidente del Comitato Scientifico del CESM, per
avermi offerto la possibilità di interessarmi di questo manufatto. 2 Il restauro è stato effettuato nel luglio del 2007 da Flavia Callori di Vignale dei Musei Vaticani, che ha depositato la relativa documentazione al CESN. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 231-251.
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MARIO D ’ ONOFRIO
lie nella scritta si rivela del tutto fondato, poiché, come vedremo da fonte più attendibile, il personaggio in questione risulterà chiamarsi Berta e non Rerto, essere quindi di sesso femminile e professare lo stato monacale (ancilla Dei). Pertanto la traduzione criticamente più corretta dell’intera iscrizione dedicatoria, sempre sulla base di quanto sarà chiarito appresso, non può essere che la seguente: Accetta, o Cristo e S. Ciriaco e S. Nicola, questo dono che io Berta, serva di Dio, ordinai di eseguire. Quanto alle immagini a sbalzo, la parte superiore della formella presenta, al centro, una croce greca a bracci espansi (non del tutto eguali) accompagnata dalle lettere A e w e, sui lati, i busti di due santi, s. Ciriaco diacono e martire e s. Nicola confessore, entrambi con aureola perlinata. S. Ciriaco regge un libro con la mano sinistra e dispiega frontalmente il palmo della destra, mentre il busto di s. Nicola, con la destra nel gesto benedicente, è caratterizzato dalla barba sul viso e dal pallio vescovile che dalla spalle gli scende sul petto, quindi con l’iconografia mediata dal più noto s. Nicola vescovo di Mira. Nell’ampio spazio restante campeggia la scena dell’Annunciazione. Sulla sinistra incede maestoso, con la veste ancora svolazzante e le ali dispiegate, l’arcangelo Gabriele che regge nella mano sinistra una lunga verga – segno di autorità – terminante a forma di anello sulle due estremità e compie con l’altra mano il gesto dell’adlocutio verso Maria. Sulla parte opposta la Vergine, seduta su uno scranno geometricamente ben delineato nella sua assoluta frontalità, esprime un senso di sorpresa e, nel contempo, manifesta di accettare il volere divino sollevando entrambe le braccia con le mani aperte. La sua lunga veste e il manto disegnano una varietà di pieghe che in corrispondenza del ventre diventano particolarmente insistenti disponendosi su fitte curve concentriche. Sulla destra del trono, in basso, è raffigurato il cesto da cui si snoda il filo di porpora che, secondo la narrazione degli apocrifi “Vangeli dell’infanzia”, la Vergine era intenta a filare3. Così, secondo la stessa tradizione apocrifa, l’edificio classico che fa da sfondo alla scena alluderebbe al Tempio del Signore presso cui la Vergine cresceva. Dalla porta del Tempio scende una tenda che, annodata al centro, è fermata lungo lo stipite di sinistra.
3 Cfr. il Protoevangelo di Giacomo 11,1, il Vangelo dello Pseudo-Matteo 9,1, e il Vangelo dell’Infanzia Armeno 5,1. Si veda poi la voce Annunciazione di A. GHIDOLI, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, II, Roma 1991, pp. 40-46, e la voce Annunciazione di F. P. MASSARA, in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di F. BISCONTI, Città del Vaticano 2000, pp. 111113. Utili appaiono anche le pagine dedicate all’Annunciazione da A. VENTURI, La Madonna. Svolgimento artistico delle rappresentazioni della Vergine, Milano 1900, pp. 139-199.
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UNA LAMINA D ’ ARGENTO DI S . MARIA IN VIA LATA
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Ebbene, dopo averlo taciuto intenzionalmente prima, va detto ora che tutti gli elementi compositivi della formella sopra evidenziati, compresa la scritta, rimandano a un’altra lamina d’argento, pressoché identica, ancora in buono stato di conservazione: quella che costituisce (o meglio costituiva) il piatto anteriore della legatura dell’Evangeliario cosiddetto di s. Luca, già in S. Maria in Via Lata, custodito attualmente, insieme al relativo piatto posteriore, nella Biblioteca Apostolica Vaticana, con la collocazione Archivio di S. Maria in Via Lata I 45a (Tav. III)4. Ma, accostati fra loro, i due esemplari d’argento, ancorché similari nel loro complesso, non coincidono affatto nelle misure: rispetto a quello di Ariano Irpino, l’esemplare del Vaticano (le cui misure sono cm 26 × 19,5, a cui va aggiunto un centimetro disposto sugli spessori laterali del supporto ligneo) risulta sensibilmente più piccolo in altezza di cm 13 e, proporzionalmente, di cm 10 alla base. Non mancano poi altre sensibili differenze, a partire dal testo dell’iscrizione, che inducono a credere immediatamente, senza alcuna ombra di dubbio, che delle due lamine quella ora al CESN di Ariano Irpino – da qui appresso denominata, solo per comodità, anche irpina – sia una copia in scala alquanto maggiorata dell’esemplare vaticano. Ma ecco il testo dell’iscrizione del manufatto originale, con lettere capitali a doppio tratteggio: + SVSCIPE CHR(IST)E ET S(AN)C(T)E CYRIACE / ATQ(VE) NICOLAE HOC OPVS Q(VO)D EGO BERTA ANCILLA D(E)I FIERI IVSSI. Segue quindi un vero e proprio fregetto, una sorta di motivo floreale, mentre anche qui sul margine destro si legge in verticale, quindi con un cambiamento della base di scrittura, S(AN)C(TV)S CYRIAC(VS). Come si constata, in questa versione vaticana l’iscrizione scorre grammaticalmente corretta in ogni sua parte, ricordando Berta serva di Dio (Berta ancilla Dei) quale diretta committente 4 Verso la fine dell’Ottocento ebbe a interessarsi dell’Evangeliario di S. Maria in Via
Lata il paleografo romano Vincenzo Federici che ne pubblicava per primo la sola coperta anteriore, con foto Danesi: V. FEDERICI, L’antico Evangeliario dell’Archivio di S. Maria in Via Lata, in Archivio della R. Società Romana di Storia Patria 31 (1898), fasc. I-II, pp. 121-139, tav. I. Mostrano poi nuovo interesse e ne ripropongono le immagini della copertura: L. CAVAZZI, La diaconia di S. Maria in Via Lata e il monastero di S. Ciriaco. Memorie storiche, Roma 1908, pp. 338-339 (con entrambe le copertine); P. TOESCA, Storia dell’arte italiana. Il Medioevo, Torino 1927, fig. 805 (con solo la coperta anteriore, con foto Sansaini), p. 1107 e p. 1110; G. DE LUCA, Le arti minori nella Chiesa: la rilegatura dei libri sacri, in L’Illustrazione Vaticana 8 (1937), p. 768 (con la stessa coperta); F. HERMANIN, L’arte in Roma dal sec. VIII al XIV, Bologna 1945 (Storia di Roma, 27), p. 367, dove viene riprodotta anche l’immagine della coperta posteriore (tavv. CLXXIV e CLXXV); Enciclopedia Cattolica, vol. V, Firenze 1950, p. 882 (con la coperta posteriore); C. CECCHELLI, La vita di Roma nel Medio Evo. I, Le arti minori e il costume, Roma 1951-1952, p. 27 (con entrambe le coperte). Quanto alla bibliografia successiva, essa verrà di volta in volta riportata nelle note che seguono; in particolare nelle pubblicazioni citate alla nota nr. 6 è possibile trovare immagini più aggiornate delle due coperte vaticane.
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MARIO D ’ ONOFRIO
del manufatto. È sciolto così il dubbio suscitato in prima battuta dal pezzo di Ariano, dove l’evidente discrepanza del nome proprio di persona rispetto all’esemplare del Vaticano induce a ipotizzare che, volendo duplicare l’originale per ragioni che poi cercheremo di capire, l’artefice della lamina irpina abbia riprodotto erroneamente il nome Berta in Rerto e abbia trasformato la a iniziale di ancilla in i. A questo riguardo non sappiamo – ma tendenzialmente lo si può escludere – se al momento della sua duplicazione la lamina vaticana presentava già due fascette metalliche di pochi centimetri applicate in parallelo, in senso verticale, ai bordi della zona inferiore, delle quali è difficile immaginare sia l’epoca della messa in opera sia l’esatta funzione, e delle quali la fascetta fissata sulla destra poteva pregiudicare in qualche modo la giusta lettura del nome di Berta ancilla Dei. Tali fascette trovano riscontro nell’analisi delle prime fotografie del pezzo vaticano apparse a partire dal saggio di Federici del 1898 (Tav. IV) fino all’intervento di Hermanin del 1945, nelle quali figurano ancora ben visibili, appunto, le due listarelle5. Altre due fascette dello stesso tipo erano poi fissate anche sul piatto posteriore. Invece nella documentazione fotografica più recente, in cui si riflette lo status odierno, entrambi i piatti vaticani appaiono già restaurati e privi delle sovrastrutture metalliche, pur mostrando le tracce che esse vi hanno lasciato impresse col tempo6. Comunque, a seguito della loro rimozione la lettura di Berta ancilla Dei nello stesso originale vaticano è diventata sicuramente più agevole ed è anche possibile scorgervi sul piano iconografico qualche dettaglio descrittivo in più, come ad esempio la parte terminale del terreno in direzione del piede destro dell’arcangelo, che prima era mascherato. Le altre differenze che, rispetto all’esemplare vaticano, si colgono nella formella irpina ne denunciano anche un’esecuzione alquanto frettolosa, con ulteriori approssimazioni interpretative, specie nel disegno. Ad esempio, per enfatizzare il valore visivo e sacrale dell’iscrizione, quell’artefice pensò bene di inserirvi, oltre alla tradizionale crocetta che introduce il testo latino, altre due piccole croci, come si è visto, laddove sono invece assenti nell’originale vaticano. Inoltre nella lamina di Ariano Irpino la lettera greca w a lato della croce greca centrale riceve una inclinazione verso l’alto, in senso diagonale, mentre nell’originale vaticano 5 Cfr. la nota precedente. 6 Cfr. Diventare santo. Itinerari e riconoscimenti della santità tra libri, documenti, imma-
gini. Catalogo della mostra, a cura di G. MORELLO — A. M. PIAZZONI — P. VIAN, Città del Vaticano 1998, scheda nr. 15 compilata da P. Vian, pp. 124-125; Libri di pietra. Mille anni della cattedrale di Ancona tra Oriente e Occidente. Catalogo della mostra, a cura di G. MORELLO, Milano 1999, pp. 52-53, con scheda al nr. 20 dello stesso Morello.
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presenta una forma e un andamento più regolari. I volti dei santi Ciriaco e Nicola sono più smunti nell’esemplare vaticano. Il terreno sotto i piedi dell’Angelo vaticano ha una definizione più accidentata rispetto al suo corrispettivo, che è invece più ondeggiante. Ugualmente la presentazione del cesto vimineo a lato della Vergine nell’esemplare irpino sortisce un esito molto più semplificato rispetto al modello vaticano che è riprodotto invece con un intreccio più fine e regolare. E ancora, nello scranno della Vergine i due ornamenti di forma rettangolare a mo’ di borchie presenti lungo il montante di sinistra (per chi guarda) sono ben definiti, nel caso di Ariano, mentre appaiono incompleti nella forma, come se fossero sprovvisti di un lato corto, nel caso del Vaticano. Osservandole attentamente, le pieghe della veste ricavate lungo l’anca destra dell’Angelo non seguono lo stesso tracciato nelle due versioni. Infine, i fori e i chiodini di fissaggio della lamina vaticana non hanno alcun riscontro visivo in quella irpina; il che costituisce un indizio molto significativo sulla tecnica di riproduzione che esclude assolutamente l’idea del calco a favore di un libero procedimento grafico o tecnografico seguìto direttamente sulla nuova lamina dall’artigiano argentiere. Insomma si tratta nel complesso di differenze apparentemente marginali e insignificanti, ma che confermano comunque con assoluta evidenza la derivazione del pezzo di Ariano da quello vaticano ad opera di un artigiano piuttosto esperto che, non curante della fedeltà al modello, ne ha alterato alcuni tratti, pur nel rispetto del disegno complessivo. Costui ha interpretato arbitrariamente le parti del modello che durante la fase di duplicazione gli apparivano poco nitide o poco leggibili, comprese alcune lettere dell’iscrizione lungo i bordi, di cui già si è detto. Pertanto è probabile che quell’artefice abbia proceduto ad una libera esecuzione della copia su mandato di una committenza che molto verosimilmente non intese dare alcuna importanza alle varie differenze ivi eventualmente apportate. Come si è accennato, la lamina originale della Biblioteca Vaticana si accompagnava, con funzione di sovraccoperta anteriore, al manoscritto dell’Evangeliario, ritenuto autografo di s. Luca ma risalente paleograficamente all’ultimo quarto del IX secolo, forse prodotto a Roma, inizialmente posseduto dall’antico monastero dei SS. Ciriaco e Nicola e successivamente passato nell’attigua diaconia di S. Maria in Via Lata, quando questa assorbì, nel marzo 1435, per volere di papa Eugenio IV, lo stesso monastero7. 7 Sul monastero dei santi Ciriaco e Nicola, cfr. F. MARTINELLI, Primo trofeo della S.ma Croce, Roma, N. Tinassi, 1655; CAVAZZI, La diaconia di S. Maria in Via Lata cit., pp. 243-270;
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L’attribuzione a s. Luca dell’Evangeliario – assunto al rango di reliquia nel corso del Medioevo8 – nasce dalla tradizione, sopìta poi con Urbano VIII (1623-1644), secondo la quale l’evangelista avrebbe abitato a Roma in una casa sopra cui successivamente sorse l’attuale chiesa di S. Maria in Via Lata, mentre la circolazione dello stesso codice all’interno del monastero dei SS. Ciriaco e Nicola spiega la presenza delle immagini dei due santi di origine orientale sia sulla sovraccoperta vaticana sia, di riflesso, anche sulla sua copia irpina. Anzi, secondo un’interpretazione piuttosto fantasiosa di Federici9, seguìto da Cavazzi10 e da Stickler11, l’edificio classicheggiante che fa da sfondo alla scena dell’Annunciazione alluderebbe persino al monastero romano intitolato a quei due santi. Intorno al 1904, quando sulla base di una convenzione del 24 aprile di quell’anno fu depositata in Vaticano dal Capitolo di S. Maria in Via Lata la parte più antica dell’archivio della chiesa, il prezioso manoscritto carolingio con tutta la sua rilegatura dovette pervenire alla Biblioteca Apostolica Vaticana12. Successivamente il codice fu affidato al Museo Sacro della Biblioteca Vaticana per poi ritornare alla Biblioteca, dove attualmente è custodito (con la collocazione Archivio S. Maria in Via Lata I 45), coperto dalle assi lignee originarie della legatura su cui è incollata la seta (uno sciamito), anch’essa originaria, ma di più antica manifattura (seconda metà dell’VIII o dei primi decenni del IX secolo)13, mentre sono conservate a parte, staccate dal codice, con la collocazione già più sopra indicata, sia la lamina del piatto anteriore, che qui più ci P. F. KEHR, Italia Pontificia, I, Roma, Berolini 1906, pp. 78-79; Ch. HUELSEN, Le chiese di Roma nel Medioevo, Firenze 1926 (ristampa Roma 2000), pp. 243-245; G. FERRARI, Early Roman Monasteries. Notes for the History of the Monasteries and Convents at Rome from the V through the X Century, Città del Vaticano 1957, pp. 112-115. 8 MARTINELLI, Primo trofeo della S.ma. Croce cit, p. 166. 9 FEDERICI, L’antico Evangeliario cit., pp. 135-136. 10 CAVAZZI, La diaconia cit., p. 341. 11 A. M. STICKLER, scheda n. 41, in Il Libro della Bibbia, Catalogo della mostra, Bibliote-
ca Apostolica Vaticana 1972, p. 23; ID., scheda nr. 274, in Quinto Centenario della Biblioteca Apostolica Vaticana 1475-1975, Catalogo della mostra, Biblioteca Apostolica Vaticana 1975, p. 106. 12 Cfr. I. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collections avec la collaboration de J. Ruysschaert, Città del Vaticano 1973 (Studi e testi 2272), p. 257. 13 Sul tessuto di copertura della legatura, cfr. W. F. VOLBACH, I tessuti del Museo Sacro Vaticano, Città del Vaticano 1942, sub n. T 120; L. D’ADAMO, La couverture de l’Evangéliaire de S. Maria in Via Lata au Vatican, in Bulletin de laison du Centre international d’étude des textiles anciens 51-52 (1980), pp. 10-17. Si veda anche G. BOZZACCHI, Il codice come prodotto e come oggetto di restauro, in Bollettino dell’Istituto Centrale per la Patologia del Libro “Alfonso Gallo” 36 (1980), pp. 312-336.
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interessa, sia quella del piatto posteriore14. Quest’ultimo (Tav. V), con un elegante decorazione a palmette lungo i bordi, presenta un riquadro centrale delimitato da pietre preziose (cabochons) su cui campeggia una croce greca in lamina d’oro percorsa da altre pietre preziose e da filigrane d’argento serpentiformi. All’incrocio dei bracci della croce si nota un’altra croce di dimensioni minori, una sorta di piccola stauroteca, oggi manomessa, che originariamente conservava all’interno una reliquia della Santa Croce. Osservando questo piatto nella sua giusta posizione, vediamo sporgere dal bordo di destra i pomelli, distanziati di 12 cm, su cui si fissavano le bindelle (forse anch’esse in metallo o cuoio) che dalle stesse posizioni partivano dal piatto anteriore15 . Entrambe le coperte dell’Evangeliario presentano un indubbio interesse storico artistico e dal punto di vista iconografico e da quello stilistico; un interesse non certo inferiore a quello paleografico suscitato normalmente dalle carte (attualmente 121) che compongono il codice ora al Vaticano. Tuttavia le datazioni proposte dalla letteratura critica sulla copertura oscillano dal IX all’XI secolo e variano spesso da piatto a piatto. Citando lo studio di Federici del 1898 in cui veniva proposto il X secolo per la scrittura e la fine dello stesso secolo per le due coperte16, Toesca optava per una datazione del piatto anteriore della legatura all’XI secolo, riscontrando il contrasto fra il disegno incerto e la composizione vivace che dimostra «l’imitazione di qualche esemplare remoto»17. Cecchelli, proponendo confronti con gli affreschi romani di S. Urbano alla Caffarella, datava invece i due piatti tra la fine del X e gli inizi dell’XI18. Hermanin, a conoscenza dell’opera di Gavazzi sulla diaconia di S. Maria in Via Lata, precisava che l’autore dell’Annunciazione raffigurata sul piatto anteriore sia stato un argentiere romano dell’XI secolo, poiché lo stile del disegno corrisponde alla tradizione locale, mista di ricordi classici e di forti accenti naturalistici, mentre sosteneva la datazione al IX secolo per 14 Ritorna sulle vicende del codice e della sua legatura F. PETRUCCI NARDELLI, L’Evangeliario di S. Maria in via Lata e la sua legatura. Nuovi dati e nuove ipotesi, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, X, Città del Vaticano 2003, (Studi e testi 416), pp. 206225: 208-210. 15 Nel piatto superiore il fissaggio delle bindelle, distanziate anche qui di 12 cm, perfet-
tamente in asse con i pomelli del piatto posteriore, ha lasciato il segno intaccando alquanto le più vicine lettere dell’iscrizione lungo il bordo. 16 FEDERICI, L’Evangeliario cit., p. 131 17 TOESCA, Storia dell’arte italiana. Il Medioevo cit., p. 1110. 18 CECCHELLI, La vita di Roma nel Medio Evo cit., pp. 26-27.
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il piatto posteriore19. Nella successiva bibliografia – in genere cataloghi di mostre – si registra un rinnovato interesse per i manufatti in questione e si propone tuttavia una generica datazione al IX-X secolo per il piatto posteriore e all’XI per il piatto anteriore20. Ugualmente sbrigativo è il giudizio di Bertelli che si limita ad anticipare al IX secolo la datazione del piatto con la croce, ritenuto di fattura orientale21. Ma secondo Supino Martini, che in un suo studio minuzioso sull’Evangeliario ne ha fissato definitivamente all’ultimo quarto del IX secolo la datazione della scrittura, respingendo la proposta di Federici di vedere in Berta colei che avrebbe anche vergato il codice, le relative lamine d’argento sarebbero state aggiunte nell’XI secolo, poiché nel frattempo il tessuto di seta avrebbe costituito l’unica copertura originale22. In particolare, secondo la studiosa, la lamina con i SS. Ciriaco e Nicola e la scena dell’Annunciazione potrebbe essere datata tra il 1012 e il 1024, grazie al nome della committente, la Serva di Dio Berta (Berta ancilla Dei), ben leggibile nell’iscrizione lungo i suoi bordi e riscontrato in alcuni documenti dell’Archivio di S. Maria in Via Lata e nel Necrologio del medesimo monastero già pubblicati nel 1895 dall’Hartmann23. La stessa Supino Martini ipotizzava poi che questa figura di committente può essere messa in relazione con i parenti del princeps Alberico che nella metà del X secolo avrebbero fondato il monastero dei SS. Ciriaco e Nicola24. Tuttavia, a giudizio di Petrucci Nardelli, le cose non sarebbero così scontate. Infatti in una sua pubblicazione di pochi anni or sono, rivelatrice peraltro della fortuna critica suscitata ai nostri giorni dall’Evangeliario vaticano, la studiosa mette in discussione le tesi di Supino Martini sostenendo, da una parte, che anche le lamine d’argento, come tutta la legatura di S. Maria in Via Lata, siano contemporanee al codice (cioè dell’ultimo quarto del IX secolo), e contestando, dall’altra, sia l’identificazione della Berta donatrice con la Berta dell’XI secolo sia la datazione della fondazione del monastero dei SS. Ciriaco e Nicola alla metà del X secolo25. Le 19 HERMANIN, L’arte in Roma cit., p. 367. 20 Cfr. Diventare santo cit., pp. 124-125; Libri di pietra cit., pp. 52-53. 21 C. BERTELLI, Codici miniati fra Goti, Longobardi e Franchi, in Magistra Barbaritas, a
cura di G. Pugliese Carratellli, Milano 1984, p. 588. 22 P. SUPINO MARTINI, L’Evangeliario di S. Maria in Via Lata, in Scrittura e civiltà 4
(1980), pp. 279-294. 23 L. M. HARTMANN, Ecclesiae S. Mariae in via Lata Tabularium, Vindobonae 1895, nr. XXXII, pp. 40 ss., nr. XXXIII, p. 42 e nr. XLVII, pp. 58-59. 24 SUPINO MARTINI, L’Evangeliario cit., pp. 290-292. 25 PETRUCCI NARDELLI, L’Evangeliario di S. Maria in via Lata cit., pp. 206-225.
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ragioni addotte sono che Berta è un nome non inusuale nel Medioevo e che anche nel corso del IX secolo potevano esistere a Roma altre Berte, tra cui una, della fine del secolo, probabile donatrice del codice26. Inoltre, in mancanza di testimonianze attendibili, vista anche la confusione dei nomi Alberto, Adalberto e Alberico di Roma, la data di fondazione del monastero rimane tuttora oscura27. Nel contesto della rassegna bibliografica, non resta che menzionare, per ragioni di completezza, una breve scheda di catalogo, rimasta ai margini del dibattito critico, a cui rinvia indirettamente un cartellino tuttora incollato sul legno di supporto della lamina vaticana con l’Annunciazione, su cui è scritto a stampa il nome della città di “Antwerpen” e successivamente “De Madonna in de Kunst”; quindi segue la voce “Werk” con la scritta a mano “Zilveren boekband Geboorte van Christus”, mentre la voce “Eigenaar” è stata riempita con le parole “Vatikaan 11° Romeins”. Sebbene nessuno finora si sia mai interrogato sul senso del cartellino, sembra piuttosto esplicito il riferimento ad una mostra tenutasi nella città belga di Anversa dedicata alla Madonna nell’arte, dove il piatto dal soggetto mariano (intitolato impropriamente “Geboorte van Christus”, ossia Nascita di Cristo) avrebbe preso parte. Infatti dal 28 agosto al 30 novembre del 1954 in quella città belga si tenne una mostra sul tema mariano, nel cui catalogo, De Madonna in de Kunst, al nr. 504, compare la seguente scheda, molto laconica, senza alcuna fotografia illustrativa di riferimento: “Boekband met Voorstelling van de Boodschap aan Maria. Zilber, 35 × 25; Rome, 11° eeuw. Vatikaan” [Coperta di codice con la rappresentazione dell’Annuncio a Maria. Argento, 35 × 25; Roma, XI sec., Vaticano]28. Salvo smentite, sembra trattarsi proprio del pezzo vaticano in questione29, anche se le dimensioni del manufatto esposto e catalogato non rispecchiano, come si constata, quelle del26 Ibid., pp. 213-214. 27 Ibid., pp. 215-216. 28 Il catalogo, stampato in Anversa in tempo utile per l’evento espositivo, appare di
scarso interesse, privo di spessore scientifico. 29 Nel catalogo di Anversa, il coinvolgimento del Vaticano in merito al pezzo esposto è indicato nelle persone di Monsignor C. Costantini, Presidente della Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia, A. M. Albareda, O.S.B., Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, F. Magi e D. Redig de Campos. Del resto una lettera dell’arcivescovo di Malines dell’11 aprile 1954 indirizzata alla Segreteria di Stato in Vaticano ringrazia per la “collaborazione” alla mostra “La Madone de l’art”. Poiché è conservata presso l’Archivio della Prefettura della Biblioteca Apostolica Vaticano, la lettera – di cui non conosco il resto del contenuto – attualmente non viene concessa in visione, essendo in corso l’inventariazione dell’Archivio stesso. Sono grato comunque a Christine Grafinger per avermela segnalata con i pochi estremi qui riportati.
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l’esemplare vaticano. Ma, poiché non sappiamo come la “Boekband” registrata in catalogo sia stata messa in mostra, l’unica spiegazione plausibile è che il pezzo vaticano sia stato esposto all’interno di una cornice di cui sarebbero state riportate impropriamente le misure. Preso atto delle differenti acquisizioni scientifiche maturate all’interno del dibattito critico, appare ora necessario, sia pure con tutte le riserve del caso, tentare di mettere meglio a fuoco il problema cronologico. Innanzi tutto, va fatta salva la presenza dello sciamito nel rivestimento della prima legatura approntata quando fu vergato l’Evangeliario. Poi, a distanza di due secoli circa, per iniziativa di Berta ancilla Dei (non ha importanza se sia la stessa Berta menzionata nei documenti citati), la copertura del codice venne arricchita, sulla fronte e sul retro, di due nuovi piatti – con anima lignea rivestita di lamina d’argento lavorata a sbalzo – sovrapposti e fissati con chiodini alla legatura originaria, assumendo così uno spessore particolarmente notevole (con punte di ca. 3 cm). La posizione dei fori presenti sulla tavole con lo sciamito trova riscontro nei chiodini più lunghi ripiegati sul retro delle tavole argentate, ora staccate, come si è detto, a seguito delle operazioni di restauro a cui sono state sottoposte30. L’indicazione cronologica agli inizi dell’XI secolo o poco più avanti per entrambi i piatti in Vaticano sembra suggerita soprattutto dai loro caratteri tecnici e stilistici. Iniziando dal piatto inferiore, in particolare dalla lamina che ne costituisce il fondo – risultante peraltro dello stesso metallo del piatto anteriore –, potrebbe apparire un elemento utile per quella datazione il motivo delle palmette poste in sequenza continua lungo i bordi, anche se trattasi di un motivo alquanto generico, attinto da un repertorio decorativo di matrice classica e diffuso con molte varianti fra le arti suntuarie e le arti figurative in genere del Medioevo a partire dall’età tardoantica fino a quella romanica. Ne sono testimonianza, tra l’altro, i bordi della placchetta eburnea di Londra facente parte del dittico dei Nicomaci e Simmaci (IV-V secolo), l’avorio Trivulzio dei Musei Civici di Milano (V secolo), con una cornice della stessa tipologia disegnata intorno alla porta del Santo Sepolcro, e la pagina miniata della cosiddetta Bibbia di S. Paolo fuori le mura (869 ca.), in cui un tipo di cornice analoga, ma alquanto più fastosa, rinchiude l’immagine di Carlo il Calvo in trono affiancato dalla moglie Richilde; ma sono altresì il segnale della persistenza in epoca successiva di quel motivo il pluteo 30 Purtroppo non esiste nessuna relazione di restauro presso l’Archivio del Laboratorio al Vaticano.
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contariniano sul matroneo ovest, lato sud, della basilica di San Marco a Venezia e un capitello dell’abbazia del XII secolo di Sant’Antimo in Castelnuovo dell’Abate, in Toscana (Tav. VI). Va poi osservato che, oltre alla lamina con le palmette sui bordi, altri elementi – su cui è opportuno richiamare l’attenzione – strutturano e qualificano l’intero piatto inferiore. Qui si avverte cioè una sorta di pastiche o, come ha intuito Petrucci Nardelli, la “riutilizzazione”, nell’area centrale, di un altro coperchio, come ben si evince dalla sovrapposizione di due lamine, una rettangolare di base ed una quadrata sovrastante31. In effetti la parte quadrata con i cordoncini perlinati e le gemme si compone di una lamina in argento dorato che, fissata con chiodini, si appoggia, senza segni di sutura, a quella argentata del fondo. Lo stesso dicasi per la crux gemmata, anch’essa dorata, su cui a sua volta è saldata la piccola croce dello stesso metallo. Insomma l’aggiunta della parte quadrata centrale lascia in evidenza, nella lamina rettangolare sottostante, il motivo delle palmette lungo i bordi verticali e vi genera, in alto e in basso, due campiture orizzontali del tutto disadorne che però pur partecipano su tre lati del motivo delle palmette. Il risultato complessivo non è di certo tra i più felici, ma riflette, sia pure molto empiricamente, l’orientamento di un gusto che concilia i criteri di simmetria ed equilibrio compositivo già diffusi comunemente tra le arti suntuarie dell’alto Medioevo e, nel contempo, denuncia quella tendenza retrospettiva di tipo classicistico che si avverte nella cultura romana tra XI e XII secolo protesa verso una “seconda rinascita” delle arti, giusta la definizione di Krautheimer 32. Invece, per quanto riguarda il piatto anteriore del nostro Evangeliario, la datazione all’XI secolo verrebbe confermata, più che dai caratteri dell’iscrizione, che comunque non sembrano estranei a quell’epoca, dal denso e mosso manierismo delle pieghe delle vesti nel gruppo dell’Annunciazione e dalla garbata partecipazione narrativa dei due protagonisti (l’Angelo e la Vergine). L’esito stilistico, potenzialmente riconducibile anch’esso al contesto romano, sembra indicare un percorso comune al mondo orientale e occidentale in virtù della circolazione dei manufatti sacri, dei testi miniati e degli oggetti santuari in genere, e, come tale, suggerisce un plausibile riscontro con un’opera di marca bizantina, qual è la placca in argento dorato con l’Angelo annunziante la Resurrezione di Cristo alle pie Donne, conservata al Louvre, ancorché del XII secolo
31 Ibid., p. 221. 32 R. KRAUTHEIMER, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma 1981, cap. VII, pp.
205 ss.
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inoltrato, secondo la datazione proposta da Durand33 (Tav. VII). In questa placca, al di là di una certa affinità nella trattazione delle vesti rispetto all’esemplare vaticano, si avverte una maggiore scioltezza del disegno, la presenza di figure più asciutte e slanciate e un più deciso accenno di ambientazione naturalistica suggerita dalla linea della roccia del Santo Sepolcro. Comunque nella coperta vaticana l’apparente eleganza dell’angelo, la grazia contenuta del suo atteggiamento, ma soprattutto l’intonazione generale di sapore alquanto retrospettivo e gli elementi iconografici del racconto evangelico non escludono anche in questo caso, come del resto suggeriva in maniera appropriata Toesca, «l’imitazione di qualche esemplare remoto». Ovvero, non è fuori luogo considerare il piatto in questione una sorta di riproposizione aggiornata e personalizzata di un modello, di cui si è inteso tramandare in qualche modo la stessa iconografia o elementi di essa fortemente evocativi. Che almeno la scena dell’Annunciazione fosse attinta da qualche esemplare del passato è ipotesi del tutto plausibile. Infatti l’iconografia della Vergine annunciata intenta a filare dinanzi al Tempio si configura come ripresa cosciente o persistenza spontanea di uno schema di marca orientale – di origine siriana e palestinese – propagatosi in Occidente a partire dall’età paleocristiana. Gli esempi anteriori non mancano. Tra questi: il mosaico dell’arco trionfale di S. Maria Maggiore, dell’età di Sisto III (432-440); una formella eburnea del dossale della cattedra di Massimiano a Ravennna (520-550 ca.); il mosaico absidale della cattedrale di Parenzo (540 ca.); il ciclo di S. Maria foris portas di Castelseprio, dato al VII-VIII secolo; un avorio carolingio (ca. 800-805) conservato nello Schnüttgen-Museum di Colonia etc34. Invece, riferendoci sempre al piatto anteriore dell’Evageliario, è difficile dire se le due figure di s. Ciriaco e di s. Nicola vi siano state introdotte ex novo o siano state “recuperate” da qualche esemplare scomparso. Anche in questo caso l’idea della figura a mezzo busto rimanda a soluzioni analoghe distribuite in un arco temporale che va dall’età antica e dal paleocristiano fino al romanico e oltre. Comunque, come si è accennato, quelle figure sono un chiaro riferimento al monastero romano a loro intitolato. In particolare la figura di s. Ciriaco può essere messa in relazione anche con la reliquia della Croce che era custodita sul piatto 33 J. DURAND, Plaque et couvercle à glissière du reliquaire de la pierre du sépulcre du Crist, in Byzance. L’art byzantin dans les collections publiques françaises, Catalogo della mostra, Paris 1992, scheda nr. 248, pp. 333-335. 34 MASSARA, Annunciazione cit., pp. 111-113. Per l’avorio carolingio si veda W. BRAUNFELS,
Die Welt der Karolinger und ihre Kunst, München 1968, fig. 193, p. 384.
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posteriore, poiché il santo, come si legge negli Acta Sanctorum, contribuì al recupero della Vera Croce di Nostro Signore da parte di Elena, madre dell’imperatore Costantino35. Ecco perché attraverso i secoli s. Ciriaco, martirizzato intorno al 132-135 e divenuto in seguito patrono della città di Ancona, è stato spesso associato iconograficamente a una croce 36. A questo punto, non resta che tentare di scoprire l’epoca di esecuzione della copia irpina. Purtroppo l’operazione che si prospetta non è affatto agevole, vista la totale mancanza di documentazione al riguardo. L’assenza di un qualsiasi marchio sull’argento potrebbe essere visto come indizio indicativo per rinviare l’oggetto all’epoca in cui ancora non era uso bollare i manufatti preziosi; ma, com’è noto, anche tra gli argenti successivi al Quattro-Cinquecento molti sono privi del bollo di garanzia. Forse più utile, ai fini della datazione, è cercare di far leva sul criterio riproduttivo adottato che, a giudicare da quanto è stato possibile scorgere sul retro della lamina, contempla un lavoro di sbalzatura ad opera di un artefice dotato di una discreta maestria, che segna con una sorta di crocette i punti chiave del disegno e utilizza sempre, in ogni parte della lamina, lo stesso strumento: il cesello. Tutti accorgimenti, questi, di antica tradizione che, per quanto perpetuatisi nel tempo, deporrebbero a favore di un’epoca che, con tutte le riserve del caso, può oscillare intorno all’incipiente XVII secolo37. Anche la composizione della lega metallica (argento-rame, con tracce di magnesio, nichel e cobalto) sembra escludere un datazione più tarda. Altro dato significativo è che la copia in questione non può essere intesa come opera medievale, cioè troppo vicina cronologicamente al pezzo vaticano, specie se si tiene conto del libero volgarizzamento del nome della committente (nella forma Rerto), presente lungo i bordi, che crea una forte discrasia rispetto al resto del testo latino, come si è già visto. Il tentativo – per la maggior parte ben riuscito – di eguagliare il modello, nonostante le leggere varianti, e soprattutto la tendenza a conferire alle pieghe delle vesti un andamento più morbido e corposo rispetto all’originale, con un’accentuazione dell’effetto scenografico complessivo, potrebbero far risalire il manufatto del CESN al periodo storico appena indicato, allorquando nella Roma tardomanierista, già proiettata verso l’esuberanza barocca, le botteghe degli 35 Acta SS. Maii, I, Venezia 1737, pp. 439-451. Si veda anche M. NATALUCCI, alla voce Ciriaco (Giuda C.), in Bibliotheca Sanctorum , Roma 1962 (ristampa 1983), coll. 1296-1297. 36 Cfr. L. ZANNINI, Iconografia di San Ciriaco, in Studia Picena 55 (1990), pp. 179-205. 37 Sono grato per i suoi suggerimenti tecnici al Dr. Stefano Scortecci, Console Camer-
lengo dell’Università e Nobil Collegio degli Orefici Gioiellieri Argentieri dell’Alma Città di Roma presso Sant’Eligio in Via Giulia.
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argentieri, patentati o meno, erano particolarmente fiorenti e – fatto non secondario – quando l’Evangeliario medievale di S. Maria in Via Lata stava ormai perdendo il suo valore di reliquia sacra, come sancìto di lì a poco da papa Urbano VIII. In quel contesto, qualcuno che ben conosceva la forza e la valenza delle immagini pensò bene di creare un doppione in scala maggiorata del piatto anteriore dell’Evangeliario, quello più suggestivo e ricco figurativamente, per preservarne, a beneficio di qualche comunità o per ricordo personale, una diretta memoria, a mo’ di nuova icona. Poi, col trascorrere del tempo, la pia intenzione sarebbe svanita e il manufatto, persa la funzione originaria, avrebbe imboccato in tempi relativamente più recenti la strada dell’antiquariato, assumendo le fattezze che sono state mantenute fino al momento del restauro, finalizzate a conferirgli, unitamente alla rimossa coloritura a cera della superficie e al supporto ligneo del tutto incongruo, la parvenza di un manufatto di ben più antica datazione38. In conclusione, la lamina di Ariano Irpino, ancorché probabile riproduzione del primo Seicento di un’opera medievale, acquista un particolare valore e significato e suscita nel contempo un indubbio interesse proprio a motivo delle suggestioni fin qui emerse che, sia pure marginalmente, ne suggellano l’interazione con una microstoria romana culturalmente molto intrigante e per alcuni versi ancora enigmatica.
38 Nell’esemplare irpino, lungo i bordi esterni, va immaginato un ampliamento di qualche centimetro, imposto tecnicamente da una normale lavorazione della lamina in funzione di un suo ripiegamento e fissaggio sui cigli di un supporto ligneo più adeguato, come di prassi. L’evidente irregolarità dell’andamento dei bordi che rasentano troppo da vicino l’iscrizione dedicatoria fa pensare quindi ad un’alterazione e a un taglio riduttivo dei margini originari.
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Tav. I — Lamina d’argento con Annunciazione e Santi, XVII secolo, Ariano Irpino, Centro Europeo di Studi Normanni.
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Tav. II — Lamina d’argento con Annunciazione e Santi, XVII secolo, Ariano Irpino, Centro Europeo di Studi Normanni (prima del restauro).
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Tav. III — Coperta anteriore dell’Evangeliario di S. Maria in Via Lata, XI secolo, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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Tav. IV — Coperta anteriore dell’Evangeliario di S. Maria in Via Lata, XI secolo, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana (da Federici 1898).
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Tav. V — Coperta posteriore dell’Evangeliario di S. Maria in Via Lata, XI secolo, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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MARIO D ’ ONOFRIO
Tav. VI — Palmette decorative: a) Evangeliario di S. Maria in Via Lata, XI secolo, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana; b) Dittico dei Simmaci, IV-V secolo, Londra, Victoria and Albert Museum; c) Dittico Trivulzio, inizio V secolo, Milano, Castello Sforzesco, Civiche raccolte d’arte; d) Bibbia di Carlo il Calvo, 869 ca., Roma, San Paolo f.l.m.; e) Pluteo, seconda metà dell’XI secolo, Venezia, San Marco, matroneo ovest, lato sud; f) Capitello, XII secolo, Castelnuovo dell’Abate, abbazia di Sant’Antimo (Rilevamento grafico C. Costantini).
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UNA LAMINA D ’ ARGENTO DI S . MARIA IN VIA LATA
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Tav. VII — Marie al Sepolcro, Lamina del reliquiario della pietra del Sepolcro di Cristo, XII secolo, Parigi, Museo del Louvre (da Durand 1992).
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ANDRÉ JACOB
LE SERMONNAIRE DU PRÊTRE ANTOINE DE PULSANO QUELQUES REMARQUES SUR LA DATE ET LE COPISTE DU VAT. GR. 1277*
Le manuscrit salentin1 dont il sera question dans les lignes qui suivent n’a guère été étudié jusqu’à présent2 si ce n’est à propos d’un petit nombre de pièces telles que, par exemple, les sentences du PseudoPhocylide3, l’Historia ecclesiastica4, une homélie isolée de Philippe-Phila* Le lecteur trouvera en annexe l’analyse du papier du ms. effectuée par Paul Canart à notre demande. 1 Le Vat. gr. 1277 fait partie du fonds Carafa, qui comprend soixante-dix mss. grecs, dont neuf au moins proviennent de la Terre d’Otrante. Il s’agit des Vaticani gr. 1221,1228, 1238, 1262, 1267, 1275, 1276, 1277 et 1287; pour les huit premiers, voir A. ACCONCIA LONGO et A. JACOB, Une anthologie salentine du XIVe siècle: le Vaticanus gr. 1276, dans Rivista di studi bizantini e neoellenici n.s. 17-19 (1980-1982), pp. 157-159; le dernier a été signalé par A. D’AGOSTINO, Osservazioni codicologiche, paleografiche e storico-artistiche su alcuni manoscritti del “gruppo Ferrar”, dans Rudiae. Ricerche sul mondo classico 7 (1995), p. 13; quelques observations à son propos dans A. JACOB, Le culte de saint Vincent de Saragosse dans la Terre d’Otrante byzantine et le sermon inédit du Vaticanus Barberinianus gr. 456 (BHG 1867e), dans Philomathestatos. Studies in Greek Patristic and Byzantine Texts Presented to Jacques Noret for his Sixtyfifth Birthday, edited by B. JANSSENS, B. ROOSEN and P. VAN DEUN, Leuven — Paris — Dudley, Ma 2004 (Orientalia Lovaniensia analecta, 137), pp. 294-295. 2 Bibliographie du ms. dans P. CANART — V. PERI, Sussidi bibliografici per i manoscritti greci della Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano 1970 (Studi e testi, 261), p. 565; M. BUONOCORE, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1968-1980), II, Città del Vaticano 1986 (Studi e testi, 319), pp. 886-887; M. CERESA, Bibliografia dei fondi... (1981-1985), Città del Vaticano 1991 (Studi e testi, 342), p. 374; IDEM, Bibliografia dei fondi... (1986-1990), Città del Vaticano 1998 (Studi e testi, 379), p. 444; IDEM, Bibliografia dei fondi... (1991-2000), Città del Vaticano 2005 (Studi e testi, 426), p. 558. 3 Sententiae, v. 1-119 (f. 1r-3v, lg. 12; le reste de la page est resté en blanc): Fwkulædou
poæhsi" ¨fevlimo". Inc. Ta™ta dækhs* ¿sæÖsi qeo™ bouleýmata faænei | Fwkulædh" ajndr§n ¿ sofþtato" –lbia d§ra. Des. pollavki" ejn biütw~ kaä qarsalevoisi a[pisto", éd. PSEUDO-PHOCYLIDE, Sententiae. Texte établi, traduit et commenté par P. DERRON, Paris 1986 (Collection des Universités de France), p. XCV, sigle Rd et pp. 1-10 (texte); cf. IDEM, Inventaire des manuscrits du Pseudo-Phocylide, dans Revue de l’histoire des textes 10 (1980), p. 246. 4 To™ aJgæou patr’" ½m§n Basileæou ajrciepisküpou Kaisareæa" Kappadokæa" iJstoræa mustagwgikhv, ejpælusi" kaä katavstasi" tß" aJgæa" leitourgæa" (f. 7r-48r): voir R. BORNERT, Les commentaires byzantins de la Divine Liturgie du VIIe au XVe siècle, Paris 1966 (Archives de l’Orient chrétien, 9), pp. 133, note 1, 140 et 143. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 253-270.
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ANDRÉ JACOB
gathos (Théophane) Kerameus5 ou l’écrit pseudo-chrysostomien sur la pauvreté et la richesse6. Mais, à vrai dire, son intérêt réside surtout dans le nombre imposant d’homélies latines en traduction grecque, qui y occupent près de 150 feuillets, soit plus de la moitié du volume, et permet de cerner certains aspects peu connus de la culture byzantine dans la Terre d’Otrante à la fin du Moyen Âge et, en particulier, de mieux mesurer l’importance des influences latines auxquelles elle était exposée à l’époque. Nous en donnerons une description détaillée, accompagnée d’une étude des sources, dans le prochain fascicule de la Miscellanea Bibliothecae Vaticanae, en y ajoutant les pièces, par ailleurs beaucoup moins nombreuses, attestées dans d’autres manuscrits originaires de l’actuelle province de Lecce7. Il nous faut au préalable – c’est l’objet de cette note – déblayer le terrain de quelques difficultés d’ordre paléographique et codicologique, dont le plus délicat regarde la datation du codex. Celui-ci est pourvu d’une souscription métrique de six dodécasyllabes, datée de 1315/168, dont René Bornert a été le premier, en 1966, à signaler la présence dans son ouvrage sur l’histoire et la tradition manuscrite des mystagogies byzantines9. Ledit colophon, encore inédit, commence à la dernière ligne du f. 51r – tout de suite après les mots Tevlo" tß" qeæa" leitourgæa", qui marquent la fin du texte de l’Historia ecclesiastica – et couvre les quatre premières lignes du verso (pl. I-II). On remarquera que le copiste a séparé les vers au moyen de “blancs”, reproduits dans la transcription qui en est donnée ici. E¶lhfe tevrma tß cavrútú to™ lügou, • n™n ¿rÃte deltæon daitumüne".
e[nwn
5 Filæppou. Inc. *EpeidhV ½ prþth parousæa Cristo™ eujtelhV" ejdükei... Des. diaV t’ genevsqai thVn fýsin fqorÃ" ajnepædekton (f. 176r-180r) = PG, 132, c. 396 D4 — 409 C10: cf. A. EHRHARD, Überlieferung und Bestand der hagiographischen und homiletischen Literatur der griechischen Kirche von den Anfängen bis zum Ende des 16. Jahrhunderts, III, Leipzig 1952 (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, 52), p. 653. 6 K.-H. UTHEMANN, Eine christliche Diatribe über Armut und Reichtum (CPG 4969).
Handschriftliche Überlieferung und kritische Edition, dans Vigiliae christianae 48 (1994), pp. 235-290, et en particulier, pp. 239 et 243-244 (sigle X). 7 Il s’agit, pour l’essentiel, des Vaticani gr. 1275 et 1276, ainsi que de l’Ottobonianus gr.
312. 8 Il ne figure pas dans le recueil des mss. datés de la Vaticane d’A. TURYN, Codices graeci Vaticani saeculis XIII et XIV scripti annorumque notis instructi, in Civitate Vaticana 1964 (Codices e Vaticanis selecti quam simillime expressi, 28), et il n’en est pas fait mention dans l’introduction, pp. VII-X. 9 BORNERT, Les commentaires byzantins cit., p. 140.
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LE SERMONNAIRE DU PRÊTRE ANTOINE DE PULSANO
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qeüntwn eJxaksciliavdwn. swrün te trad* ojktasæwn eékavda, kaä tß" teloýsh" ^ndikti§no" tüte, dekatetavrtou ejn drüm(w) lukabavntwn :–
Si l’indiction 14 correspond bien à l’année du monde 6824 et si la somme des différents chiffres qui la constituent ne pose aucun problème (6000 + 4 + 800 + 20), la manière dont les trois derniers sont insérés syntaxiquement dans la phrase après le génitif absolu des milliers (e[nwn qeüntwn eJxaksciliavdwn) reste plutôt mystérieuse (ojktavsioi au génitif, eékav" à l’accusatif, tetrav" au génitif ou à l’accusatif), de même que la signification précise du mot swrü"10, dont la fonction devrait être, à première vue, de rattacher aux milliers les derniers éléments de la date. Au début de nos recherches sur la paléographie salentine, nous n’avons pas hésité à inclure le Vat. gr. 1277, sans réserve d’aucune sorte, dans deux listes successives de manuscrits datés11. Depuis, personne n’a mis en doute la date de 1315/16 indiquée par le colophon, à l’exception de P. Schreiner, à qui, malgré sa bonne connaissance de la bibliographie, la présence de la souscription semble bien avoir échappé12. Chemin faisant, l’examen systématique des manuscrits grecs de la Terre d’Otrante et une meilleure intelligence de l’évolution de l’écriture dans la région ont rongé peu à peu notre conviction initiale. Du point de vue paléographique, en effet, les manuscrits salentins datés – ou datables avec une certaine précision – exécutés dans le premier quart du Trecento ne fournissent pas de parallèles vraiment convaincants. Qu’il nous suffise de citer ici le Yalensis 254 (an. 1301, 1312 ? )13, le Neapolita10 Elle est certainement en rapport avec le sens de «quantité», encore qu’il s’agisse de
quantité indéterminée par opposition à une quantité déterminée où à un chiffre précis, ce qui est évidemment le cas d’une date. 11 A. JACOB, Les écritures de Terre d’Otrante, dans La paléographie grecque et byzantine
(Paris, 21-25 octobre 1974), Paris 1977 (Colloques internationaux du Centre national de la recherche scientifique, 559), p. 279; ID., Culture grecque et manuscrits en Terre d’Otrante, dans Atti del III° Congresso internazionale di studi salentini e del I° Congresso storico di Terra d’Otranto (Lecce, 22-25 ott. 1976), Lecce 1980, n° 35, p. 73. 12 P. SCHREINER, Texte zur spätbyzantinischen Finanz- und Wirtschaftsgeschichte in Handschriften der Bibliotheca Vaticana, Città del Vaticano 1991 (Studi e testi, 344), p. 249 et note 123: «Verschiedentlich findet sich in der Literatur als Datum der Kopie das Jahr 1315/16. doch ohne Begründung»). 13 Illuminated Greek Manuscripts from American Collections. An Exhibition in Honor of Kurt Weitzmann, edited by G. VIKAN, The Art Museum, Princeton University 1973, n° 54, pl. 99 (f. 67v); le même feuillet est reproduit dans B. A. SHAILOR, Catalogue of Medieval and Renaissance Manuscripts in the Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University, II: Mss 251-500, New York 1987, pp. 11-12 et pl. 45. Le colophon, qui donne également le jour du mois et celui de la semaine, semble fort abîmé et le chiffre de la dizaine de l’année du
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nus ex Vindob. gr. 22 (an. 1303)14, l’Ambrosianus M 87 sup. (an. 1307)15, le Parisinus Suppl. gr. 599 (avant septembre 1307 ou 1308)16, le Vat. gr. 1228 (1320 circa)17, le Vat. gr. 1276 (avant 1320)18 ou bien encore les Parisini gr. 1087, 2019 et 206219. Ce n’est que quelque temps plus tard, dans les années 1340-1350, que plusieurs manuscrits, comme le Laurentianus 86.15 (Gallipoli, an. 1347)20, copié par Nicolas Sillavì21, ou l’Ambrosianus D 47 (Sanarica, an. 1348)22, fournissent de nombreux points de comparaison avec l’écriture du Vat. gr. 1277. L’examen de la présentation du colophon lui-même, de sa «mise en page» en quelque sorte – il serait plus juste, au vrai, de parler d’absence de présentation –, vient à son tour ébranler notre certitude. De prime abord, rien ne permet en effet de le distinguer des textes qui le précèdent ou le suivent. C’est de toute évidence la raison pour laquelle plusieurs siècles se sont écoulés avant que l’on ne s’aperçût de son existence. Pour commencer, on notera que la souscription n’est accompagnée d’aucun des éléments décoratifs ou «distinctifs» qui s’y rencontrent habituellement, tels que croix, astérisques, cadre ou lignes de toutes sortes, sans parler d’éventuels enjolivements ou de touches de couleur. Par ailleurs, l’écriture du colophon ne diffère en rien de celle qui est utilisée dans le reste du codex, alors que les copistes recourent souvent à cet endroit à monde n’est pas sûr (iota ou kappa); par ailleurs le 21 octobre tombait un samedi aussi bien en 1301 qu’en 1312. 14 A. TURYN, Dated Greek Manuscripts of the Thirteenth and Fourteenth Centuries in the Libraries of Italy, II, Plates, Urbana — Chicago — London 1972, pl. 82. 15 Ibid., pl. 84. 16 Les manuscrits grecs datés des XIIIe et XIVe siècles conservés dans les bibliothèques publiques de France, II: Première moitié du XIVe siècle, par P. GÉHIN, M. CACOUROS, Ch.
FÖRSTEL, M.-O. GERMAIN, Ph. HOFFMANN, C. JOUANNO, B. MONDRAIN, [Paris] 2005 (Monumenta palaeographica Medii Aevi. Series graeca), pl. 17-19. 17 Cf. A. JACOB, Le rite du kampanismü" dans les euchologes italo-grecs, dans Mélanges liturgiques offerts au R. P. Dom Bernard Botte O.S.B., Louvain 1972, p. 236, note 68. 18 H. FOLLIERI, Codices graeci Bibliothecae Vaticanae selecti, temporum locorumque ordine digesti, commentariis et transcriptionibus instructi, apud Bibliothecam Vaticanam 1969 (Exempla scripturarum, IV), pl. 62. 19 Pour les deux derniers, voir B. MONDRAIN, La constitution de corpus d’Aristote et de ses commentateurs aux XIIIe-XIVe siècles, dans Codices manuscripti 29 (2000), pp. 27-28 et
pl. 4, p. 33 (Paris. gr. 2019). 20 TURYN, Dated Greek Manuscripts cit., II, pl. 166. 21 Cf. A. JACOB, Le nom de famille du dernier copiste grec de Gallipoli. A propos du colo-
phon du Laurentianus 86,15 (an. 1347), dans Bollettino storico di Terra d’Otranto 2 (1992), pp. 77-83. 22 TURYN, Dated Greek Manuscripts cit., II, pl. 169.
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LE SERMONNAIRE DU PRÊTRE ANTOINE DE PULSANO
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un type d’écriture plus cursif. La division des vers au moyen de «blancs» n’est pas traditionnelle non plus dans les souscriptions métriques, où les vers sont en général transcrits ligne par ligne ou séparés par des signes divers: croix, points, points disposés en forme de losange ou d’autres figures géométriques. Enfin, d’un strict point de vue textuel, l’omission du premier iota dans eJxaksciliavdwn et la faute d’haplographie dans swrün te trad*, plus qu’à des erreurs directes, font plutôt penser à des distractions du copiste dans la transcription d’un modèle préexistant. Ajoutons ici que la souscription du Barb. gr. 288 – recopiée à coup sûr puisqu’elle porte la date de 1292 et que les filigranes et l’écriture sont à n’en pas douter de la seconde moitié du XVe siècle23 – présente des caractéristiques identiques à celle du Vat. gr. 1277, tant pour ce qui est de l’absence de «mise en page» que pour les fautes de copie (pl. III-IV). Nous en reproduisons le texte d’après l’édition de C. De Vocht24, mais sans aucune correction: tevlo" tevlo" : | tevlo" k(aä) pevra" e¶lhfen ½ paroýsa bælo"1| to™ ajgæou2 ma3 p(at)r(’)" ½m§n Maxæmou mhn(ä) | ajpril(æw) e ind(iktiwno")4 ½mevra, kÚzÚ. ¯ra" +Ú Æ | w (reste de la ligne en blanc) | «sper oè xevnoi poqoýsún èdeÔn patræda, | k(aä)_ oi _ koiduneýonte"5 limevna, ou{tw k(aä) oè || gravfonte" édeÔn tevlo" k(aä) pevra" to™ bi|blæou :– 1 sic pro bæblo"
2 sic spir.
3 canc.
4 e ind(...) sup. lin.
5 sic pro kinduneýonte"
Il est inutile de commenter en détail les erreurs de transcription, parmi lesquelles l’insertion de la première syllabe du nom Maxæmou (Maxime le Confesseur) entre les mots to™ ajgæou et p(at)r(’)" ½m§n est particulièrement significative, mais on ne manquera de remarquer aussi l’omission du trait horizontal sur les deux chiffres de l’année du monde et sur celui de l’indiction, sans parler de l’addition indue du trait oblique des milliers devant le chiffre de la centaine (w). Après cette brève digression, il est temps de revenir au colophon du Vat. gr. 1277. Il va de soi, en effet, que l’analyse du papier et de ses éventuels filigranes est susceptible, en théorie tout au moins, de confirmer ou non la date fournie par la souscription, de dissiper ou d’accentuer les singularités qui y ont été relevées et les doutes engendrés par l’examen 23 Sur le ms., voir la note précise de C. DE VOCHT, Un manuscrit du Salento non encore
signalé: le Vaticanus Barberinianus graecus 288, dans Codices manuscripti 15 (1990), pp. 5762. 24 Ibid., p. 57
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de l’écriture. Celle à laquelle P. Schreiner a soumis le codex ne peut avoir qu’une valeur toute relative puisqu’il s’est contenté de livrer ses conclusions, sans détail d’aucune sorte et sans la moindre référence aux répertoires de filigranes existants: «Die (abgeschnittenen) Wasserzeichen sprechen vom Typus her aber für das frühe 14 Jhd. Auf Grund einer in derselben Region entstandenen Parallelhandschrift (Vat. gr. 1276) ist eine Datierung um 1310 sehr wahrscheinlich»25. Limitons-nous à relever ici que cette datation, encore qu’approximative, précède de quelques années la date précise indiquée par la souscription. Pour en savoir plus sur le papier utilisé par le copiste du Vat. gr. 1277, nous nous sommes adressé à l’éminent spécialiste en la matière qu’est Mgr P. Canart. Nous le remercions d’autant plus vivement pour son expertise qu’il ne s’agissait pas d’une sinécure, étant donnés le format réduit du livre et les rognures subies au cours de la reliure. Il ne nous a pas paru inutile de la reproduire intégralement en annexe à la fin de cet article et de la mettre ainsi à la disposition des chercheurs qui auraient l’intention de s’occuper du manuscrit. Bien que les résultats de l’analyse extrêmement minutieuse de P. Canart ne soient pas absolument univoques, certains faits bien établis plaident néanmoins pour une datation postérieure à 1315/16. Il s’agit avant tout des deux filigranes formés d’une lettre R sommée d’une croix, dont il n’existe pas de témoins antérieurs à 1342 et que l’on retrouve dans plus des deux tiers du volume. La lettre M, utilisée dans les f. 207-214, renvoie à des documents datés de 1293-1297, 1298-1300, 1328. Dans l’impossibilité de trancher si la croix relevée aux f. 23, 55 et 146, est un filigrane ou une contremarque, on notera toutefois que son dessin – ou des variantes assez proches – se retrouve aussi bien dans des filigranes datés de 130126 que de 134927. Comme la conformation des pontuseaux et des vergeures exclut le dernier quart du XIVe siècle, la datation la plus probable du codex devrait se situer vers le milieu du siècle, plus ou moins entre 1340 et 1360. *
*
*
25 SCHREINER, Texte zur spätbyzantinischen Finanz- und Wirtschaftsgeschichte cit., p. 249 et note 123a. 26 G. PICCARD, Wasserzeichen Kreuz, Stuttgart 1981 (Die Wasserzeichenkartei Piccard im Hauptarchiv Stuttgart, Findbuch XI), nos 204, 205, 206. 27 V. A. MOŠIN et S. M. TRALJIÒ, Filigranes des XIIIe et XIVe ss., Zagreb 1957, nos 3510,
3513-3514.
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LE SERMONNAIRE DU PRÊTRE ANTOINE DE PULSANO
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En plus de sa souscription, le Vat. gr. 1277 renferme un bref document comptable (f. 261v-262v), qui nous fait connaître la localité où il a été utilisé au moyen âge28. Il s’agit d’une liste des quantités de vin dues par certains habitants de l’endroit à un prêtre nommé Antoine29, sous le titre suivant: O£to" ejpæsteusen ¿ èere˜" Antþnio" eé" t(o˜") ajn(qrþp)ou["] to™ cwræou Poultza(nou) (pl. V). A la fin des comptes, se trouve un titre de rappel, d’une main différente, comme le confirment du reste l’orthographe et l’accentuation incertaines: T’ tetrav(dion) to[™] pepisteumevnou oånou to™ eåerevo" *Antþnio" to™ coræou{ Poultzavnou30. Le village de Poultzanon doit être identifié avec le fief de Pulsano (Pulisano, Polesano, Plusano), situé à 6 km au sud-est de Maglie, juste au nord de Giuggianello; il s’agit sans doute d’un casale abandonné à la fin du moyen âge, sur lequel on ne possède guère d’informations31. Il y a vingt-cinq ans, nous avions imprudemment affirmé que le document en question avait été copié «dans une écriture différente de celle du manuscrit (an. 1315/16), mais pour ainsi dire contemporaine»32. Une comparaison plus minutieuse des deux écritures montre qu’elles sont en réalité fort proches l’une de l’autre et que celle de la liste des débiteurs de vin est simplement plus cursive que celle du manuscrit. En fait, les deux mains sont identiques, comme le suggère un examen paléographique attentif, qui dépasserait le cadre de cette note. En parcourant soigneusement le volume d’un bout à l’autre, on s’aperçoit que le copiste, loin de 28 Il est signalé dans ACCONCIA LONGO — JACOB, Une anthologie salentine cit., p. 159. 29 Ces comptes ont été publiés par SCHREINER, Texte zur spätbyzantinischen Finanz- und
Wirtschaftsgeschichte cit., pp. 249-251, dans l’édition duquel apparaît une dizaine de fois le mot eéshthv(rion), à propos duquel l’auteur remarque non sans raison: «Falls man eéshthvrion (LIDDELL-SCOTT: entrance-deposit) liest, bleibt trotzdem die finanztechnische Bedeutung unklar ...». Pour résoudre cette aporie, il suffit à vrai dire de reproduire fidèlement le mot tel qu’il est transcrit dans le document, soit ejgguht(hv"), dans le sens de «garant». Le reste du texte est émaillé de mélectures, dont on ne citera ici que quelques exemples empruntés au domaine de l’anthroponymie (les points d’interrogation sont de l’auteur lui-même): Rakumavnkou (?) pour &Ravou Mavnkou, Kardenavc(h") pour Kardenavle, K§nt(h") pour K§nte, !Anel (?) pour !Aggel(o"), ou bien encore Qeodþra (?) Mabæna pour maústwr Mabælla. Les noms de la plupart d’entre eux sont transcrits dans A. JACOB, L’anthroponymie grecque du Salento méridional, dans Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge 107 (1995), p. 374. 30 Il pourrait s’agir de celle du papas Pierre, fils du prêtre Antoine, auteur de plusieurs essais de plume, dont celui-ci au f. 262v: Eg§ papav" PaÔ|tro" ui§" *Antw. 31 A. FOSCARINI, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra
d’Otranto, Lecce 1903, pp. 122, 159 et 217; cf. ACCONCIA LONGO — JACOB, Une anthologie salentine cit., p. 159. 32 Ibid. SCHREINER, Texte zur spätbyzantinischen Finanz- und Wirtschaftsgeschichte cit.,
p. 249, penche, à ce qu’il semble, pour une datation postérieure: «Für eine Datierung bleibt der gesamte Zeitraum des 14 Jhd. (nach ca. 1310) offen».
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rester anonyme, a apposé par deux fois son nom en latin33, à la ligne 22 du f. 186v et à la dernière ligne du f. 215v: Antoni(us) (pl. VI et VII). Il n’y a pas lieu de douter de l’authenticité de ces signatures: l’encre ne diffère en rien de celle qui est utilisée pour la transcription du texte grec et le module des lettres grecques et latines est identique. Le Vat. gr. 1277 et le relevé des dettes de vin qu’il renferme n’ont qu’un seul et même responsable: le prêtre Antoine de Pulsano. Le prénom Antoine ne peut être celui de l’ermite égyptien, dont on ne relève aucune attestation dans l’onomastique hellénophone de la Terre d’Otrante avant le XIVe siècle et qui, du reste, n’est guère fréquent non plus comme nom monastique en Calabre et en Lucanie34. Il faut donc penser à saint Antoine de Padoue, dont la fortune s’explique aisément par la pénétration progressive et toujours plus envahissante de l’ordre franciscain dans la péninsule salentine et, en particulier, à Galatina35. Le succès du nom François, déjà présent dans la liste des débiteurs, va de pair avec celui d’Antoine36. Le fait que le prêtre Antoine de Pulsano ait préféré utiliser à deux reprises la forme latine de son prénom pour signer le Vat. gr. 1277 ne laisse pas d’étonner et constitue à coup sûr un cas exceptionnel, voire unique, au Moyen Âge. Il s’explique peut-être par le caractère spécifique du livre, dont la plus grande partie héberge des homélies latines en traduction grecque, dont il n’est pas exclu que le modèle originel soit une collection de marque franciscaine. Un texte recopié au f. 5r-v suffit à montrer par ailleurs l’intérêt que le copiste éprouvait pour la philosophie occidentale de l’époque. En voici l’incipit: † aÚ. Bavraqra gelÃte davtini qevrio darapti gerante" dariti" qapevsmon qusesomante" bÚ. geraret gamevstre" qestilo baloko. gÚ datapi qerapo disami" dalisi bokavdon qerison. *En toýtoi" toÔ" stæcoi" eésä iÚqÚ levxei" toÔ" iÚqÚ trüpoi" t§n tri§n schmavtwn diakono™nte". DiaV gaVr tß" prþth" levxew" to™ prþtou stæcou noeÔtai ¿ aÚo" trüpo"1 to™ prþtou schvmato", diaV deV tß" bÚ ¿ bÚo" kaä ou{tw nühson perä t§n loip§n. 1 schvmato" canc. praem. cod.
Bien que les vocables y soient sérieusement estropiés, parfois de manière curieuse, on reconnaît sans difficulté dans ce passage les formules 33 Cf. A. JACOB, L’anthroponymie grecque cit., p. 372. 34 Ibid. Son culte, en revanche, était loin d’y être méconnu, comme il ressort à l’éviden-
ce des nombreuses représentations figurant sur les fresques des églises et des cryptes de ces régions. 35 Ibid., pp. 372-373. 36 Ibid., pp. 372-373, 374, 375-376.
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de la logique scholastique que l’on trouve un peu partout dans les manuels médiévaux. Qu’il suffise de citer ici un exemple parmi tant d’autres, extrait des Summule logicales de Pierre d’Espagne (Jean XXI)37: Barbara Celarent Darii Ferio Baralipton Celantes Dabitis Fapesmo Frisesomorum. Cesare Cambestres Festino Barocho Darapti. Felapto Disamis Datisi Bocardo Ferison. In his quatuor versibus sunt decem et novem dictiones, decem et novem modis trium figurarum deservientes, ita quod per primam dictionem intelligatur primus modus prime figure et per secundam secundus et ita de aliis ...
Il n’est donc pas interdit de penser qu’Antoine de Pulsano avait reçu une quelconque formation philosophique auprès de maîtres, peut-être franciscains, actifs dans le Salento méridional et qu’il était fier du prénom qu’il portait au point de l’utiliser de préférence sous sa forme latine.
ANNEXE ANALYSE DU PAPIER PAR PAUL CANART
Le Vat. gr. 1277 est presque entièrement composé de quaternions, qui constituent les f. 7-262; les f. 1-6 sont un ternion (original?) restauré, les f. 263-267 un cahier restauré composé actuellement de 3 + 2 feuillets; les cahiers sont signés de réclames horizontales dans l’angle inférieur interne de la dernière page, à l’exception des f. 1-6 et 223-267, qui ne sont pas signés. Tous les cahiers présentent des vergeures horizontales et sont de pliure in 8°, comme le montrent les dimensions des folios (147 × 102 mm circa), le nombre (1) et l’emplacement des filigranes dans les cahiers (au bord supérieur de deux folios, le plus souvent consécutifs); seuls les cahiers des f. 239-246 et 255-262 présentent des vergeures verticales: en l’absence de filigranes visibles, il est difficile de dire de quelle manière les bifolia de ces deux cahiers ont été obtenus.
37 L. M. DE RIJK, Peter of Spain (Petrus Hispanus Portugalensis), Tractatus, called after-
wards Summule logicales. First Critical Edition from Manuscripts with an Introduction, Assen 1972 (Philosophical Texts and Studies, 22), p. 52. Cf. T. PESCH, Institutiones logicales secundum principia S. Thomae Aquinatis ad usum scholasticum, I, Freiburg im Breisgau 1888, p. 411.
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ANDRÉ JACOB
Le papier, de fabrication italienne, a souffert des injures du temps: les bords, marqués de taches d’humidité, s’effilochent et sa consistance n’est pas loin de celle du buvard. La pâte n’a pas été bien mélangée. Il est souvent malaisé de discerner le réseau des vergeures et des pontuseaux; l’espace occupé par 20 vergeures, mesuré sur les f. 19 et 29 est de 30 mm environ, sur les f. 84 et 85 de 38 mm environ. L’écart entre les pontuseaux, mesuré sur les f. 17 et 19, 82 et 84, 135 et 138, est de 50 ou 51 mm, plus élevé qu’on ne l’attendrait pour un manuscrit du début du XIVe siècle. La plus grande partie du volume (f. 7-166 et 175-206) présente deux variétés du même filigrane: il s’agit de la lettre R, sommée d’une croix; vu leur ressemblance et leur alternance, il s’agit probablement de deux signes jumeaux, caractéristiques de la paire de formes qui a servi à la fabrication du papier. Les parallèles sont à rechercher parmi les nos 5519 à 5569 du répertoire de Mošin — Traljiò, qui s’échelonnent de 1342 à la fin du siècle; aucun d’eux n’offre toutefois de dessin vraiment proche, et les caractéristiques des vergeures et des pontuseaux rendent invraisemblable une datation dans le dernier tiers du XIVe siècle, comme l’indiqueraient les vergeures fines. De plus, les f. 23, 55 et 146 présentent, à l’angle externe du bord supérieur, une croix faite de traits simples aux extrémités légèrement recourbées. S’agit-il d’un filigrane proprement dit ou d’une contremarque, comme il en existe dans d’autres filigranes du début du XIVe siècle ? L’absence de parallèles dans les répertoires ne permet pas de répondre à cette question. Voici le tableau complet des filigranes relevés dans les folios dont il vient d’être question; toutes les parties de filigrane sont situées sur le bord supérieur du folio, non loin du pli; i = partie inférieure, s = partie supérieure; les deux variantes du dessin sont indiquées par les lettres a et b. 7-14: 12 i, 13 s, b 103-110: 105 i, 106 s, a 15-22: 19 s, 22 i, a 111-118: 111 i, 112 s, a 23-30: 28 i, 29 s, a 119-126: 119 s, 120 i, b 31-38: 36 i, 37 s, a 127-134: 127 i, 128 s, a 39-46: 40 s, 41 i, a 135-142: 137 i, 138 s, a 47-54: 52 s. 53 i, b 143-150: 149 i, 150 s, a 55-62: 60 i, 61 s, a 151-158: 151 s, 152 i, a 63-70: 67 i, 70 s, b 159-166: 161 i, 162 s, b 71-78: 77 s, 78 i, b 183-190: 187 i, 188 s, a 79-86: 81 i, 82 s, b 191-198: 197 i, 198 s, a 87-94: 92 s, 93 i, b 199-206: 199 s, 202 i, b 95-102: 99 i, 100 s, b
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Les autres filigranes sont plus difficilement identifiables. En voici le relevé, cahier par cahier. F. 1-6 – Pas de filigrane visible. F. 167-174 — Au f. 173, partie supérieure du filigrane (lettre, R?). F. 175-182 — Aux f. 179 (inf.) et 180 (sup.), cercle traversé et prolongé par un trait (finissant en croix?); pas de parallèle sûr dans les répertoires. F. 207-214 — Au f. 212 (près du pli), filigrane presque entier: lettre M, du type Mošin — Traljiò 5333-5335, datés de 1293-1297, 1298-1300, 1328. F. 215-222 — Au f. 221 (près du pli), partie d’une lettre? Ce que l’on distingue ressemble à un cercle. F. 223-230 — Au f. 225 (près du pli), même filigrane que le précédent, à ce qu’il semble; au f. 229 (pris dans le pli), partie d’une lettre? F. 231-238 — Au f. 237, partie supérieure du filigrane (il manque une petite partie de la partie inférieure): lettre (?) sommée d’une croix, difficile à identifier malgré la netteté du dessin; on dirait un «o» accollé à un «i» (il ne s’agit pas d’un «p»). F. 247-254 — Aux f. 249 (partie inférieure) et 250 (partie supérieure), lettre (R?) sommée d’une croix; il ne s’agit pas du filigrane relevé dans la plus grande partie du codex. Comme il a été dit plus haut, les cahiers constitués des f. 239-249 et 255-262, dans lesquelles les vergeures sont verticales, ne présentent pas de filigrane visible. Dans le cahier des f. 263-267, on trouve au f. 263 la moitié inférieure, prise partiellement dans le pli, de la lettre R relevée dans la majorité des cahiers.
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Pl. I — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1277, ff. 50v-51r.
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Pl. II — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1277, ff. 51v-52r.
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Pl. III — Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. gr. 288, ff. 246v-247r.
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Pl. IV — Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. gr. 288, ff. 247v-248r.
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Pl. V — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1277, ff. 261v-262r.
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Pl. VI — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1277, ff. 186v-187r.
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Pl. VII — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1277, f. 215v-216r.
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IL “FONDO ANTICO” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA Il Fondo antico di stampe della Biblioteca Apostolica Vaticana deve essere considerato una delle grandi raccolte di opere degli “antichi maestri” a livello internazionale. Fino ad oggi è stato poco conosciuto poiché non ne era mai stato pubblicato l’inventario e non era accessibile agli studiosi della Biblioteca Apostolica poiché la schedatura delle sue opere era minima e frammentaria ed anche perché era collocato nel Gabinetto delle Stampe1. Le poche stampe note erano quelle che erano state pubblicate da Lamberto Donati2 ed alcune che erano state esposte a mostre italiane o all’estero3 (Tav. I). Questo intervento è un’anticipazione di un lavoro più ampio sull’intero fondo che è in corso di realizzazione da parte di chi scrive e che costituirà la fase finale del lavoro di sistemazione conservativa, restauro e catalogazione computerizzata sull’intera raccolta che è avvenuto nel corso degli ultimi quattro anni nel Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Apostolica Vaticana. Storia La realizzazione del Fondo antico di stampe risale al pontificato di Pio VI Braschi (1775-1799), un papa molto incline alle arti e alla grafica 1 Il Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Apostolica Vaticana si trova nell’angolo sud orientale del Cortile del Belvedere. Molto distante dalle sale di consultazioni della Biblioteca non è possibile l’accesso ai regolari studiosi poiché collocato all’interno dei magazzini degli stampati. 2 Lamberto Donati (1890-1982) ha diretto il Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Apostolica Vaticana dal 1921 al 1960 svolgendo ricerche prevalentemente sulle stampe “delle origini”. Nel 1936 fondò la rivista Maso Finiguerra, specializzata in storia della grafica, che portò avanti fino al 1940, nella quale ha pubblicato diversi articoli riguardanti le opere del Fondo antico BAV. Recentemente il suo archivio personale e alcune opere grafiche della sua collezione sono state donate dagli eredi alla Biblioteca Apostolica Vaticana. 3 Alcune opere del Fondo antico sono state esposte alle mostre Raffaello in Vaticano (Braccio di Carlo Magno, Città del Vaticano 1984-1985), Michelangelo e la Sistina, la tecnica, il restauro, il mito (Braccio di Carlo Magno, Città del Vaticano 1990) ed anche alla mostra Hochrenaissance im Vatikan: Kunst und Kultur im Rom der Päpste 1503-1534. (Kunst- und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland in Bonn 1998-1999). Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 271-301.
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BARBARA JATTA
che volle la formazione, fra il 1784 e il 1786, di una specifica Stanza delle Stampe dove venissero conservate le incisioni e le stampe sciolte che si trovavano nella Biblioteca Vaticana. Il Giornale delle Belle Arti del 1785 riporta la notizia della sua costituzione: Fra le mille maniere onde l’immortale PIO SESTO, onora, e protegge le belle Arti, convien certamente noverare la superba stanza destinata nella Biblioteca Vaticana per la riunione, e conservazione della raccolta delle Stampe più insigni tanto antiche che moderne. Queste legate in molti volumi con buon ordine, e distribuite a Scuola e per Scuola, dentro grandi scansie si custodiscono4.
La Stanza delle Stampe era ubicata allo stesso livello del Salone Sistino, verso il cortile della Pigna, dove attualmente si trova il Museo Chiaramonti. Notizie dettagliate su di essa, relativamente alla sua costruzione, alla sistemazione e alla complessa decorazione allegorica che vi si trovava, si recuperano dalle descrizioni offerte dal Guattani nel Giornale delle Belle Arti del 1785. Sappiamo inoltre che nell’impresa vennero coinvolti, come ideatore il Sottoforiere dei Sacri Palazzi, l’architetto Stefano Casali, il pittore lucchese Bernardino Nocchi, il decoratore Antonio Marini, lo scultore ligneo Pasquale Marini e il doratore Alessandro Ricchebach5. La complessa decorazione allegorica di tutta la stanza, avvenuta fra il 1784 e il 1786, voleva essere un omaggio alle arti del disegno e a quelle grafiche ma anche un modo di consacrare la memoria del suo maggior protettore, papa Pio VI Braschi. La raffigurazione principale era una grande composizione sul soffitto della stanza dove la Pittura mostrava il ritratto del Pontefice alla Fama al fine di trasportarlo al tempio della Gloria. Si vedevano inoltre le Virtù Cardinali che festeggiavano l’apoteosi del papato. In aggiunta il Nocchi aveva voluto immortalare i ritratti dei grandi incisori e disegnatori del passato e del suo presente; si riconoscevano le immagini di Raffaello, in atto di fornire il disegno preparatorio per un’incisione a Marcantonio Raimondi; i ritratti di Maso Finiguerra, Mantegna, Dürer, Luca di Leida, Parmigianino, Rembrandt, Agostino Carracci, Ribera, Pietro Testa, Giovanni Benedetto Castiglione ed anche artisti stranieri come il francese Gerard Audran, l’inglese Robert Strange, il fiammingo Gerard Edelinck, ed infine Giovanni Volpato. 4 Giornale delle Belle Arti, n. 5, 5 febr. 1785, p. 33. 5 Giornale delle Belle Arti, n. 6, 12 febr. 1785 e anche OLIVIER MICHEL, La “stanza delle
stampe” de la Bibliothèque Vaticane de 1785 à 1820. in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di archeologia, t. 41, (1968-1969) pp. 241-249.
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
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La stanza era ricca di altre decorazioni allegoriche poste in pannelli decorati a grottesche con medaglioni ovali e circolari, ed aveva quattro sovrapporte con altrettante raffigurazioni sul tema. I pannelli ovali raffiguravano Minerva circondata dagli emblemi delle Belle Arti, delle Scienze, della Musica e della Letteratura e la Matematica e i libri di Archimede, Pitagora ed Euclide. I pannelli circolari erano decorati con due putti che simboleggiavano il Disegno e l’Incisione. I quattro sopraporta raffiguravano, in chiave allegorica, alcuni episodi più significativi della storia del disegno dalle origini fino al pontificato di Leone X: Saurio che disegna l’ombra del suo cavallo, Alessandro il grande che visita lo studio di Apelle, Quinto Pedio che apprende la pittura con l’approvazione di Augusto e Leone X che esamina i progetti di Michelangelo e Raffaello per il Vaticano6.
Nella Stanza delle Stampe venne conservato il Fondo antico di stampe. L’iniziativa e l’operazione di scelta e suddivisione delle stampe per autore e soggetto fu voluta dal cardinale milanese Giovanni Archinto7, Prefetto del Sacro Palazzo Apostolico, che incaricò l’argentiere Bartolomeo Borroni di operare la selezione e la suddivisione delle opere. Tale lavoro è attestato da un documento rinvenuto nell’Archivio della Prefettura BAV8. Nel documento il Borroni fa esplicito riferimento al suo lungo lavoro, durato oltre quattro anni, dal 1775 al 1779, durante i quali egli si recò in Biblioteca per lavorare sulle oltre trentamila stampe presenti, e da queste separare le duplicate migliori per formare una serie che resti alla Libraria. Gli fu successivamente ordinato di assistere alla separatione
6 R. GIOVANNELLI, Nuovi contributi per Bernardino Nocchi, in Labyrinthos 7-8 (1985), pp. 119-199. 7 Giovanni Archinto fu un prelato di grande importanza nella Curia romana della seconda metà del XVIII secolo. Nacque nel 1736 a Milano da un’illustre famiglia. Compì gli studi a Pavia e si trasferì a Roma dal 1758. Durante i pontificati di Clemente XIII e Clemente XIV ricoprì numerose cariche di rilevo nella Curia, fu anche Governatore del conclave del 1774 dal quale uscì eletto papa Pio VI. Quest’ultimo lo creò cardinale il 15 aprile 1776. Nel 1795 passò al vescovado della Sabina. Nel 1798 venne cacciato da Roma e si ritirò nella sua città natale dove morì l’anno seguente. Si veda, E. GENCARELLI, ad vocem, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. III, Roma 1961, pp. 766-767; G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Venezia 1840, vol. II, p. 276. Per un suo ritratto si veda J. M. MEIJA, C. GRAFINGER, B. JATTA, I cardinali Bibliotecari di S.R.C. La quadreria nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Documenti e Riproduzioni 7, Città del Vaticano 2006, p. 77. 8 BAV, Arch. Bibl., n. 81, pp. 7-8.
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delli autori, si intagliatori che autori e farle collocare in tanti tomi con quell’ordine prescrito9. Il Borroni va probabilmente identificato con l’argentiere membro di una nota famiglia di specialisti nel settore10; è oltremodo interessante che fosse un argentiere, cioè un orafo, ad occuparsi della scelta qualitativa delle incisioni, operando sulla scia di una lunghissima tradizione che aveva sempre visto legate le professioni di incisore e quella di orafo e che qualificava queste maestranze quali “esperti” di stampe. Il lavoro di legatura e compilazione dei volumi richiese ancora più tempo, poiché risulta che nell’aprile del 1782 il lavoro si stava ancora effettuando11. La suddivisione fu eseguita per scuole e per autori, una sistemazione che corrispondeva ai criteri selettivi del tempo. Collezioni analoghe conservate in volumi, come quella Corsini, quella Firmian o quella Lambertini12 sono ugualmente strutturate. La linea tracciata dal volume del von Heineken, l’Idea generale di una raccolta completa di stampe (1771) o dalle Notizie istoriche degli intagliatori di G. Gori Gandellini (1771), venne seguita adattandola alle esigenze specifiche della raccolta. La Stanza delle Stampe venne purtroppo distrutta pochi anni dopo, nel 1820, per fare posto alla costruzione del “Braccio Nuovo” dei Musei Vaticani (Museo Chiaramonti), nonostante i tentativi da parte della direzione della Biblioteca di salvarla dalla demolizione13. I documenti dell’Archivio della Prefettura ci danno testimonianza di questo triste episodio per la Biblioteca ricordandoci come:
9 Ibid., p. 7. 10 Bartolomeo Boroni o Borroni nacque a Vicenza nel 1703 e fu membro di una nota
famiglia di argentieri e bronzisti attivi a Roma. Lavorò nella Città Eterna dal 1725 e nel corso della sua vita ricoprì diverse cariche in seno all’Università degli orefici. Fu per un lungo periodo argentiere dei Palazzi apostolici sotto i pontificati di Clemente XIII, Clemente XIV e Pio VI. Fra il 1774 e il 1776 eseguì le decorazioni per le cancellate della Biblioteca Vaticana che sono andate perdute con il crollo avvenuto in biblioteca nel 1931. Morì a Roma nel 1787. Si veda il Dizionario Biografico degli Italiani, ad vocem, vol. 12 p. 803-804. 11 BAV, Arch. Bibl., n. 41, p. 110. 12 Sulla collezione Corsini si veda La collezione del principe: da Leonardo a Goya. Disegni
e stampe della raccolta Corsini a cura di Ebe Antetomaso e Ginevra Mariani; coordinamento scientifico Andrea Emiliani, Roma 2004; sulla collezione Lambertini si veda La raccolta delle stampe di Benedetto Lambertini nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, a cura di A. EMILIANI e G. GAETA BERTELÀ, Bologna 1970; sulla collezione Firmian, oggi a Capodimonte, si veda R. MUZII, La collezione del conte Carlo Firmian, Napoli 1984. 13 BAV, Arch. Bibl., n. 41, p. 126 e ss.
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
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oltre l’iscrizione del Museo profano vi fu anche quella del Morcelli tolta dalla stanza delle stampe Calcografiche demolita per fare il nuovo braccio del Museo. La pittura del Nocchi a fresco, che rappresentava al vivo le immagini dè più eccellenti Artisti fù segata dal muro. Gli stipiti dell’ingresso della porta cogl’emblemi del Pontefice Pio VI furono trasferiti alla nuova stanza delle Stampe, fu coperta si colore l’iscrizione, e sostituita da altre a guazzo cancellata la targa dell’Arma di Pio VI e postavi quella di Pio VII14.
Tommaso Trenta nelle sue Memorie riporta la sorte del grande dipinto allegorico del soffitto: Tra le opre più graziose del nostro Nocchi ragion vorrebbe che si annoverassero quelle fatte nel Gabinetto delle Stampe nella Biblioteca Vaticana. Se non che essendo stato questo demolito recentemente per fabbricarvi il nuovo braccio del Museo, rimasero anch’esse distrutte a riserva del quadro della volta, il quale è stato tagliato con molta spesa e industria, e attualmente si conserva in un magazzino per collocarsi altrove alla pubblica vista15.
Oltre all’iscrizione e agli emblemi di Pio VI e alla grande pittura del Nocchi siamo a conoscenza che anche le quattro storie furono tagliate “per istanza del Camuccini”16. Purtroppo, come già lamentava Olivier Michel, non è stato possibile trovare traccia né del grande dipinto né dei quattro sovrapporta ma solamente, come si è detto, dei bozzetti preparatori conservati in una collezione privata di Lucca17. Per quanto riguarda la collezione si pensò inizialmente di spostarla nella Sala del Sansone (poi diventata Sala delle Nozze Aldobrandini) Che la Sala detta del Sansone a destra di quella del Pallone fosse ridotta a Gabinetto per collocarvi le stampe incise18; ma le si trovò poi collocazione definitiva, per tutto il corso dell’Ottocento, nella sala IX dell’Appartamento Borgia. La sua ubicazione, la conformazione della sala e la consistenza della collezione ci sono note grazie ad alcuni documenti conservati nell’Archivio della Prefettura e dagli inventari che sono stati realizzati nel corso
14 BAV, Arch. Bibl., n. 42, p. 370v. 15 T. TRENTA, Memorie e documenti per servire a l’istoria del Ducato di Lucca, t. 8, Lucca
1822 p. 174-180. 16 GIOVANNELLI, Nuovi contributi cit., p. 122. 17 Le opere sono conservate presso degli eredi del pittore e sono stati pubblicate da
GIOVANNELLI, Nuovi contributi cit. 18 BAV, Arch. Bibl., n. 7, p.162.
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del secolo19. Queste fonti permettono di valutare anche l’incremento della collezione durante il pontificato di Pio VII e le acquisizioni avvenute in epoche successive, ed in via più generale, la consistenza delle opere ma anche l’alternanza di interesse dimostrato verso questo settore della biblioteca ed i suoi curatori. Il Fondo antico Il Fondo Antico è costituito da centosessantré volumi in folio20 (Tav. II). Il fondo si presenta sotto la segnatura Stampe V. 1 — Stampe V. 163. Il totale delle incisioni contenute nei volumi è di 17.727 stampe21. Ogni volume presenta nella parte finale delle pagine vuote, a testimonianza che la raccolta era stata concepita come “aperta” cioè destinata ad essere incrementata. I tomi presentano tutti la stessa legatura in piena pelle “marmorizzata” decorata con motivi floreali in oro; i dorsi hanno ugualmente ornamenti in oro e i tagli sono marmorizzati. Il supporto della cucitura è un doppio nervo in spago e i capitelli di seta colorata (giallo e rosso) sono mozzati. All’interno di ciascun tomo i fascicoli sono composti da due fogli di carta di formato atlantico di cui uno più grande incollato sull’altro. Fin dai primi inventari, e secondo un criterio che come si è visto aveva una sua logica, i volumi della raccolta sono stati posti secondo una successione che vedeva inizialmente le opere della scuola italiana, quindi quella tedesca e fiamminga, la francese ed infine miscellanee di argomento diverso suddivise per soggetto. La scuola italiana è composta di 72 volumi, quella tedesca di 16, la scuola fiamminga e olandese di 30 volumi, quella francese di 18. Seguono le Stampe dall’antico (4 volumi), Miscellanea Sacra (4 volumi), Miscellanea Profana (2 volumi), Ritratti (2 volumi), Stampe di Paesi, Stampe di Vedute, Architetture, Vasi e ornati e Stampe miscellanee per un totale di 15 volumi.
19 BAV, Arch. Bibl., n. 7, pp. 161v-162v — 334v-400. 20 Nel formato Fondo antico sono conservati anche due volumi di incisioni, per un
totale duecentottantacinque opere di autori diversi dal XVI al XVII secolo, provenienti dalla collezione di Gregorio Acquaviva d’Aragona, donata nel 1802 alla Biblioteca, che occupano la segnatura Stampe V.1 — Stampe V.2. 21 Il lavoro di conteggio delle stampe contenute attualmente nel fondo è visibile nella
tabella presente in appendice ed è stato eseguito nel corso del 2005 dal Comm. Giancarlo Scacchia, coadiuvato dalla dott.ssa Simona De Crescenzo, e coordinato da chi scrive.
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
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I tomi riguardanti la scuola italiana sono, come anticipato, settantadue. Le opere sono ordinate per autori (intesi come inventori e incisori). Sulla base del primo inventario conosciuto, del 1811, risulterebbe che all’interno delle scuole nazionali era stata operata un’ulteriore suddivisione in scuole locali. Nell’inventario, infatti, i tomi vengono elencati con il sottotitolo di: scuola romana, scuola fiorentina, scuola veneziana, scuola lombarda, scuola spagnola e napoletana e scuola genovese. La raccolta si apre con le stampe della “scuola romana” (26 volumi), di Marcantonio Raimondi e della sua cerchia (due volumi per un totale di oltre duecentosettanta incisioni). Seguono le incisioni dei maggiori allievi del Raimondi: Agostino Veneziano, Marco Dente, Giulio Bonasone, Nicolas Beatrizet, Enea Vico, Giorgio Ghisi e quindi una serie di volumi di artisti “romani”: autori vari da Raffaello, i fratelli Zuccari, Carlo Maratti etc. Segue la scuola fiorentina (12 volumi) che inizia con un volume dedicato alle stampe della scuola di Michelangelo, uno ad Andrea del Sarto, due di Antonio Tempesta e ben quattro dedicati alla traduzione delle opere di Pietro da Cortona. La scuola veneziana (7 volumi) raccoglie tre volumi d’après Tiziano, Tintoretto, Veronese, ma anche un tomo di scuola veneziana “moderna”, cioè settecentesca (con incisioni di Joseph Wagner, Marco Pitteri etc.). Segue la scuola lombardo-emiliana con volumi dedicati alle incisioni di Andrea Mantegna (uno dei più pregiati dell’intera raccolta), Correggio, Parmigianino, Carracci, Guido Reni, Albani, Domenichino, Lanfranco, Guercino etc. Vi è quindi un volume di scuola spagnola e napoletana (con incisioni del Ribera e di Salvator Rosa) e uno di scuola genovese (con incisioni del Castiglione). Alla scuola italiana seguono quella tedesca e fiamminga che annoverano nove volumi dedicati all’opera grafica di Albrecht Dürer e alla sua scuola, sette tomi con stampe di Cornelius Cort, Bloemart, Goltzius, due notevoli delle acqueforti di Rembrandt, due volumi con incisioni di Martin de Vos, quattro tomi sulle incisioni d’après Rubens e di numerosi altri artisti fiamminghi e olandesi. Seguono le incisioni di scuola francese con tre volumi dell’opera grafica di Jaques Callot, numerosi dedicati alle opere di Nicolas Poussin, di Jean Le Pautre, di Israel Silvestre, dei Perelle e otto di miscellanea di scuola francese. Chiudono la raccolta, come già ricordato, le Stampe dall’antico, di Miscellanea Sacra, di Miscellanea Profana, di Ritratti e diversi volumi di Stampe di Paesi, Stampe di Vedute, Architetture, Vasi e ornati e miscellanee diverse.
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La raccolta è pregevole sotto diversi aspetti. Per ogni autore sono presenti le opere rappresentative della produzione artistica, con poche lacune, ed anche in numerosi casi, stampe rare e poco conosciute (Tavv. III-V). La caratteristica della collezione è quella di aver poste accanto agli originali anche varianti, copie in controparte e repliche della stessa immagine. I volumi “a soggetto”, che costituiscono la parte finale del fondo, contengono spesso opere già presenti nei volumi per autori benché ci siano anche casi nei quali stampe di un determinato autore si trovino unicamente nei volumi finali e non in quelli dedicati alla sua produzione. Non c’è dubbio, come sottolineato in apertura di questo scritto, che il fondo è molto ricco, vario ed importante per lo studio della grafica italiana e straniera dal XV al XVIII secolo. Conservazione e restauri Considerata l’importanza storica della raccolta e soprattutto le precarie condizioni conservative in cui versava si è pensato, nel corso di questi ultimi quattro anni, di portare avanti un ampio programma di sistemazione conservativa, di restauro e di catalogazione informatizzata all’intero fondo. Della raccolta esistevano soltanto dei vecchi inventari ottocenteschi e alcune schede cartacee di una selezione delle stampe, ordinate per autore e per soggetto. Si è ritenuto importante conoscere la consistenza generale attraverso un inventario sommario dei volumi con la quantità di stampe contenute in ciascuno di essi22. Alle operazioni di inventario sono seguite quelle dell’analisi dello stato di conservazione dei volumi. Questi erano conservati in posizione verticale e occupavano tredici palchi al piano terra delle scaffalature metalliche del Gabinetto delle Stampe. I danni riscontrati in ciascun volume riguardavano soprattutto le legature, che si presentavano aride e rotte in più punti con strappi, lacerazioni e abrasioni sia della pelle sia dei fogli interni. I volumi che esibivano maggiori danni erano ventisei; presentavano la cucitura rotta, capitelli spesso totalmente mancanti e legatura gravemente danneggiata. Quelli che mostravano danni rilevanti erano 36 che però non rischiavano la perdita immediata delle pagine. I volumi che presentavano minori danni erano 41 e mostravano general22 Si veda l’inventario pubblicato in appendice a questo scritto.
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
279
mente delle rotture sul dorso, in particolar modo sulle cuffie, ma i danni risultavano circoscritti e la cucitura era generalmente solida. Dei restanti, 65 erano già stati già restaurati integralmente in tempi recenti, gli altri si trovavano in buono stato di conservazione. Si è quindi programmato un intervento mirato a garantirne un’idonea conservazione e a intervenire dove fosse urgente per evitare la perdita di parti dei volumi. Il lavoro si è svolto dall’ottobre 2005 al giugno 2006 ed è stato eseguito dalla restauratrice Francesca Mancinelli, coadiuvata dal personale interno del Laboratorio di restauro BAV, in particolare del Responsabile, il Maestro Restauratore Arnaldo Mampieri e dal Restauratore Ezio Consoli. L’intervento ha comportato inizialmente una spolveratura generale, eseguita con pennello, su tutti i volumi. Dove è stato possibile (su 39 volumi) sono state incollate parti di pelle staccate utilizzando colla di amido preparata nel laboratorio di restauro con rapporto 1/5. Per questo intervento è stato impiegato un procedimento di fasciatura mediante una fettuccia alta 2 cm. Infine è stata passata un’apposita cera su tutte le coperte per ammorbidire e rinnovare le pelli. Le cere usate sono il “CIRE 213”, per i primi 123 volumi, mentre i restanti tomi sono stati trattati con il “BIBLIOBALSAMO”23. Fase conclusiva di questo lavoro è stata la realizzazione di apposite cartelle conservative finalizzate alla protezione di tutti i volumi. Per la costruzione di queste è stato utilizzato cartone accoppiato per legature di colore grigio e del peso di un chilo per garantire maggiore protezione ai volumi si sono foderati i cartoni con un cartoncino Japico a ph neutro. Per i volumi maggiormente deteriorati sono state arricchite di un “dorsetto” in tela (tela Bukram di colore marrone) a protezione dei dorsi frammentati. Per quanto riguarda i materiali utilizzati in questa fase (la tela e la fettuccia) è stata privilegiata una tonalità più vicina possibile al colore delle pelli. Due volumi sono stati restaurati integralmente allo scopo di sperimentare e sviluppare una metodologia da applicarsi poi ai restanti volumi in cattivo stato di conservazione. Si tratta del tomo Stampe.V.1, che raccoglie centocinquantatré stampe di autori diversi del XVI e del volume Stampe.V.82 che presenta 290 stampe di Albrecht Dürer (Tav. VI).
23 Il “CIRE 213”, che viene prodotto in Francia e utilizzato nella Biblioteca Nazionale francese, oltre ad avere un ph neutro possiede proprietà fungicida e insetticida. Il “BIBLIOBALSAMO” è invece prodotto in Italia a Castel Maggiore (BO), possiede un’azione anti-battericida, fungicida, che quindi interrompe il processo di degrado tipico delle legature d’epoca.
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280
BARBARA JATTA
Catalogazione Al lavoro di sistemazione conservativa ha fatto seguito quello di catalogazione informatizzata, sia generale per nuclei in volume sia per stampe singole. La Biblioteca Apostolica Vaticana ha attivato un catalogo elettronico fin dal 1986 ed è on-line in Internet già dal 1990. Dal 2002 la biblioteca ha deciso di avere, oltre all’accesso tramite la rete Urbs (Unione Biblioteche Scientifiche Romane), anche un sistema locale, cioè il catalogo delle sole opere della Biblioteca Vaticana, in versione web, all’interno del sito vaticano www.vatican.va. (www.vaticanlibrary.va). Tale operazione ha permesso una maggiore visibilità del grande lavoro di conversione retrospettiva del catalogo cartaceo dei volumi a stampa che si è svolto all’inizio degli anni Novanta su oltre un milione di volumi che sono conservati presso la Biblioteca Apostolica. Allo stesso tempo ha anche reso più evidente il lavoro di catalogazione sui diversi fondi che si è svolto in biblioteca negli ultimi 7-8 anni. Dal settembre del 2004, inoltre, nell’ambito del catalogo web della biblioteca è possibile effettuare ricerche qualificate solamente sui “materiali grafici” del Gabinetto delle stampe (quindi stampe, disegni, fotografie e matrici), attraverso un catalogo specifico intitolato Catalogo delle stampe e dei disegni. Nella versione “Web opac” il catalogo della Biblioteca Vaticana è compatibile allo Z3950 e consente legami ipertestuali ad immagini. Grazie a queste opportunità è nata la volontà di rendere fruibili opere che altrimenti (vista la natura della BAV – aperta solamente ad un limitatissimo numero di studiosi specialisti) non avrebbero avuto modo si essere messe a disposizione di un’utenza più vasta. Questa possibilità ha comportato uno sforzo specifico proprio sui fondi del Gabinetto delle Stampe della Biblioteca che presentano una tipologia di materiale che è più indicata ad essere riprodotta in immagini, il cosiddetto “materiale grafico” o “materiale visivo”. Inoltre tale tipologia di opere è più difficilmente accessibile agli studiosi perché il reparto attualmente non è una sala di consultazione e le stampe e i disegni vengono visionati dagli studiosi nelle sale di lettura generali24.
24 Notizie relative al progetto e alle sue diverse applicazioni sono state fornite da chi scrive in forma di interventi ai seguenti convegni: B. JATTA, Patrimonio iconografico e fruizione a distanza: Il “Progetto stampe on-line della Biblioteca Apostolica Vaticana”, Verona 1-2 febbraio 2002; EAD., Il nuovo catalogo per le stampe e i disegni della Biblioteca Apostolica Vaticana. Versione web e programmi futuri, Roma, Istituto centrale per la Patologia del Libro,
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
281
Si è iniziato un progetto di scansione digitale delle stampe, partendo da un formato ridotto per agevolare le fasi di avviamento del progetto. Le immagini scansite e salvate nel server della Biblioteca sono state quindi riconvertite in un formato fruibile via Internet (300 dpi, in formato jpg). La Biblioteca ha quindi scelto di acquistare un programma specifico che curasse il legame delle schede catalografiche con dati multimediali ed immissione dei dati nella rete Internet. Tale programma, il Bookline, è stato fornito da una società francese Archimed — Geac. Il lavoro di legame dei dati bibliografici con quelli delle immagini è un’ attività complessa che richiede grande precisione e che è stata svolta negli ultimi anni dal sig. Guido Zanoni ed attualmente è portato avanti dal sig. Alfonso Bracci. Ad oggi sono disponibili on line oltre 20.000 immagini relative alle stampe e ai disegni (Tav. VII). Il lavoro di catalogazione del Fondo antico ha riservato gli stessi metodi catalografici utilizzati per il fondo stampe. La catalogazione analitica viene portata avanti dalla dott.ssa Simona De Crescenzo (attualmente diverse centinaia di stampe risultano nel catalogo on line) e, nelle descrizioni generali, (“schede madri”) viene svolto da chi scrive. Si conta di ultimare entro la fine del 2008 l’immissione di tutte le schede generali del Fondo antico, contestualmente sarà portata avanti la catalogazione analitica di tutte le opere del fondo e la loro scansione digitale. Quest’ultima sarà più complessa rispetto alle stampe di piccolo e medio formato, considerando le dimensioni dei volumi della raccolta. Questo lungo lavoro sarà svolto sia con l’ausilio di forze interne sia, eventualmente, con l’utilizzo di borsisti specializzati a contratto, per rendere quanto prima questo importante fondo fruibile da parte degli studiosi.
3 dicembre 2004; EAD. Il catalogo on line dei disegni e delle stampe della Biblioteca Apostolica Vaticana, Cosenza 19 maggio 2006.
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BARBARA JATTA
INVENTARIO GENERALE DEL FONDO ANTICO DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA SEGNATURA B.A.V. STAMPE. V. 1
AUTORE
AA. VV.
STAMPE. V. 6
(Collezione Acquaviva d’Aragona) AA. VV. (Collezione Acquaviva d’Aragona) Marcantonio Raimondi Marcantonio Raimondi Agostino Veneziano Marco Dente
STAMPE. V. 7 STAMPE. V. 8 STAMPE. V. 9 STAMPE. V. 10 STAMPE. V. 11
Giulio Bonasone Nicolas Beatrizet Enea Vico Enea Vico Stefano della Bella
STAMPE. V. 12 STAMPE. V. 13 STAMPE. V. 14
Stefano della Bella Battista Franco AA. VV. / Michelangelo Giorgio Ghisi
STAMPE. V. 2
STAMPE. V. 3 STAMPE. V. 4 STAMPE. V. 5
STAMPE. V. 15 STAMPE. V. 16
STAMPE. V. 17 STAMPE. V. 18 STAMPE. V. 19
STAMPE. V. 20 STAMPE. V. 21
STAMPE. V. 22
TITOLO (indicato sul dorso della legatura)
Raffaele Schiaminossi Jacques de Stella AA. VV. / Raffaello AA. VV. / Raffaello AA. VV. / Raffaello Pietro Aquila, Cesare Fantetti, Sisto Badalocchio AA. VV. / Raffaello (autori francesi) AA. VV. / Scuola di Raffaello, Giulio Romano AA. VV. / Scuola di Raffaello, Polidoro da Caravaggio
EPOCA
N. Stampe
Sec. XVI-XVII
153
Sec. XVII-XVIII 127
Stampe di Marco Anton.
Sec. XVI
106
Stampe di Marco Anton.
Sec. XVI
176
Stampe di Agost. Venezi.
Sec. XVI
89
Stampe di Silvest. da Rave. Stampe di Buon. Nasone Stampe di Beatric. Stampe di Enea Vic Stampe di Enea Vic Stampe di Stef. della Bella
Sec. XVI
55
Sec. XVI Sec. XVI Sec. XVI Sec. XVI Sec. XVII
94 98 58 188 165
Stampe di Stef. della Bella Sec. XVII Stampe di Battist. Franchi Sec. XVI Scuola di Michel Angelo Sec. XVI-XVIII Stampe di Giorgio Mantou. Stampe Schiamin e Stella
165 105 64
Sec. XVI
95
Sec. XVI-XVII
136
Stampe di Rafael d’Vrbino Sec. Vari Stampe di Rafael d’Vrbino Sec. Vari [Manca il titolo] Sec. vari (XVII?)
128 102 231
Stampe di Rafae. D’Vrbino Sec. Vari
95
Stampe della scvola di Rafae.
Sec. Vari
88
Stampe della scvola di Rafae
Sec. Vari
140
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
STAMPE. V. 23 STAMPE. V. 24
STAMPE. V. 25
STAMPE. V. 26 STAMPE. V. 27 STAMPE. V. 28 STAMPE. V. 29 STAMPE. V. 30
STAMPE. V. 31 STAMPE. V. 32 STAMPE. V. 33
STAMPE. V. 34 STAMPE. V. 35 STAMPE. V. 36 STAMPE. V. 37 STAMPE. V. 38 STAMPE. V. 39 STAMPE. V. 40 STAMPE. V. 41 STAMPE. V. 42
AA. VV.
/ Federico Barocci Giovan Battista Cavalieri, Martino Rota, Gian Giacomo Caraglio AA. VV. / Federico e Taddeo Zuccari, Cherubino Alberti AA. VV. / Carlo Maratti AA. VV. / Carlo Maratti AA. VV. / Carlo Maratti AA. VV. / Carlo Maratti AA. VV. / Andrea del Sarto + Raccolta di stampe raffiguranti pesci ed uccelli AA. VV. / Antonio Tempesta AA. VV. / Antonio Tempesta AA. VV. / Francesco Vanni AA. VV. / Ventura Salimbeni AA. VV. / Pietro da Cortona AA. VV. / Pietro da Cortona AA. VV. / Pietro da Cortona AA. VV. / Pietro da Cortona AA. VV. / Pietro da Cortona AA. VV. / Pietro Testa AA. VV. / Tiziano Vecellio AA. VV. / Tiziano Vecellio AA. VV. / Tiziano Vecellio
283
Stampe di Barocci
Sec. XVI
47
Stampe di Cavali Rota e Caragl
Sec. XVI
100
Stampe di Zvccar. et Alberti
Sec. XVI-XVII
74
Stampe di Carlo Marat.
Sec. XVII-XVIII 76
Stampe di Carlo Maratt. e scvol. Stampe di Carlo Maratt. e scvol. Stampe di Carlo Maratt. e scvol. Stampe d. Andre. del. Sart.
Sec. XVII-XVIII 104 Sec. XVIII
89
Sec. XVIII
44
Sec. XVII
188
Stampe di Antonio Tempes. Stampe di Antonio Tempes. Stampe di Vanni Salimben et c.
Sec. XVI
235
Sec. XVI
285
Sec. XVI-XVII
136
Stampe di Pietro da Cort.
Sec. XVIII
52
Stampe di Pietro da Cort.
Sec. XVII-XVIII 54
Stampe di Pietr. da Cort. e scvol. Stampe di Pietro da Cort. e scvol. Stampe di Piet. da Cort. e scvol. Stampe di Pietro Testa
Sec. XVII
84
Sec. XVII
100
Sec. XVII
47
Sec. XVII
79
Stampe di Tiziano
Sec. XVII-XVIII 63
Stampe di Tiziano
Sec. XVII
95
Stampe di Tizian
Sec. XVII
53
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284 STAMPE. V. 43
STAMPE. V. 44 STAMPE. V. 45
STAMPE. V. 46
STAMPE. V. 47
STAMPE. V. 48
STAMPE. V. 49 STAMPE. V. 50 STAMPE. V. 51 STAMPE. V. 52 STAMPE. V. 53
STAMPE. V. 54
STAMPE. V. 55 STAMPE. V. 56
STAMPE. V. 57
STAMPE. V. 58
BARBARA JATTA
AA. VV.
/ Antonio Allegri detto Correggio AA. VV. / Paolo Veronese AA. VV. / Paolo Veronese e Tintoretto AA. VV. / Andrea Mantegna, Antonio del Pollaiolo AA. VV. / Scuola Veneziana Paolo Farinati, Jacopo Palma, Jacopo Bassano, Girolamo Muziano AA. VV. / Scuola Veneziana Pietro Monaco, Antonio Zucchi AA. VV. / Parmigianino AA. VV. / Carracci AA. VV. / Carracci De Poilly, Mitelli AA. VV. / Carracci Sadeler AA. VV. / Carracci Benoist Fariat, Jacob Frey, Camillo Procaccini AA. VV. / Carracci, Francesco Polanzani, Nicolas Cochin AA. VV. / Carracci, Jacob Frey AA. VV. / Carracci, Nicholas Mignard, Pietro Aquila, Carlo Cesio AA. VV / Carracci Antonio Tempesta, François De Wit AA. VV. / Guido Reni C.B. Bolognini, Benoist Farjat, J. Aubert, Jacob Frey
Stampe del Corregio
Sec. XVIII
85
Stampe di Paolo Verones.
Sec. XVII
44
Stampe di Tintoret. e Paolo Verones.
Sec. XVIII
54
Stampe di Manteg.
Sec. XVI-XVII
83
Stampe della Scvola Venezia
Sec. XVI-XVIII
95
Stampe della Scuola Venezian. moderna
Sec. XVIII
91
Stampe del Parmig.
Sec. XVI
131
Stampe delli Caracc. Stampe delli Caracci
Sec. XVII Sec. XVII
74 169
Stampe delli Caracci
Sec. XVII
179
Stampe delli Caracci
Sec. XVI-XVIIXVIII
61
Stampe delli Caracc.
Sec. XVII
117
Stampe delli Caracci
Sec. XVI-XVII
110
Stampe delli Caracci
Sec. XVI
74
Stampe del.art.di Bolog. e Caric.
Sec. XVII-XVIII 197
Stampe di Gvido
Sec. XVII-XVIII 80
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
STAMPE. V. 59
STAMPE. V. 60
STAMPE. V. 61
STAMPE. V. 62 STAMPE. V. 63
STAMPE. V. 64
STAMPE. V. 65
STAMPE. V. 66
STAMPE. V. 67
STAMPE. V. 68
STAMPE. V. 69
AA. VV.
/ Guido Reni Giovanni Maria Mitelli, Simone, Cantarini, Edelinch AA. VV. / Guido Reni Carlo Cesio, P. A. Cotta, G.Battista Coriolano, Jacob Frey AA. VV. / Primaticcio Betton, Boyvin AA. VV. / Guido Reni AA. VV. / Francesco Albani, Girolamo Frezza, Cornelis Bloemaert, Jacob Frey AA. VV. / Francesco Albani, Giovanni Lanfranco, Francesco Aquila, Benoist Farjat AA. VV. / Giovanni Lanfranco, F. de Lannemont, Tommaso Crueger AA. VV. / Giovanni Lanfranco, Guercino, Pietro Aquila, Johann Friedrich Greuter AA. VV. / Guercino F. De Bonis, N. Pitan, G.Battista Pasqualini AA. VV. / Domenichino, Robert Audenaert, Etienne Picart, F. Bruni, Benoist Fariat, Jaob Frey AA. VV. / Domenichino, Girolamo Frezza
285
Stampe di Gvido e Scvol.
Sec. XVII
Stampe di Guido e Scvola
Sec. XVII-XVIII 120
Stampe di Primat.
Sec. XVI
120
Stampe di Gvido e Scvol.
Sec. XVII
79
Stampe di Frances. Albani Sec. XVIII
138
44
Stampe di Franc. Albani e Lanfr.
Sec. XVII-XVIII 53
Stampe di Lanfra.
Sec. XVII-XVIII 77
Stampe di Lanfran. e Gverc.
Sec. XVII
92
Stampe di Gvercin.
Sec. XVII
90
Stampe di Domeni
Sec. XVII
68
Stampe di Domeni.
Sec. XVII
36
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286
BARBARA JATTA
STAMPE. V. 70
AA. VV.
/ Adamo Scultori Diana Scultori
Stampe di Adam. Scult. e Diana Mantou.
Sec. XVII-XIX
132
STAMPE. V. 71
AA. VV.
/ Salvator Rosa D. Simon, I. Offenbeeck, Pietro Monaco AA. VV. /Giovanni Benedetto Castiglione, Pietro Monaco, Cornelis Galle AA. VV. / Scuola Tedesca, Marco Sadeler, Adrien Collaert, F. Sadeler AA. VV. / Scuola Tedesca Egidio Sadeler, J. Muller, Jean Matham AA. VV. / Scuola Tedesca C. de Passe, I. Sadeler AA. VV. / AA. VV. / Scuola Tedesca C. Sadeler, F. Muller, Jean Matham AA. VV. / Scuola Tedesca Adrien Collaert, H. Wierx AA. VV. / Scuola Tedesca O. Gatt, J.A. Psesfel, Cornelis Bloemaert, P. Manetti
Stampe di Sal. Ros. e Scvol. Nap.
Sec. XVII
118
Stampe di Castig. e Scvol. Genov.
Sec. XVII
99
Stampe della Scvola Tedes.
Sec. XVI
147
Stampe della Scvola Tedesc.
Sec. XVI-XVII
100
Stampe della Scuola Tedesc.
Sec. XVI-XVII
99
Stampe della Scvola Tedesc.
Sec. XVI-XVII
115
Stampe della Scvola Tedesc.
Sec. XVI-XVII
173
Stanpe Scola Tedesc. profan.
Sec. XVII
87
STAMPE. V. 79
Albrecht Dürer
Stampe d’Alber Duro
Sec. XV-XVI
127
STAMPE. V. 80
Albrecht Dürer
Stampe d’Alber Duro
Sec. XV-XVI
75
STAMPE. V. 81
Albrecht Dürer
Stampe di Alber. Duro
Sec. XV-XVI
94
STAMPE. V. 72
STAMPE. V. 73
STAMPE. V. 74
STAMPE. V. 75
STAMPE. V. 76
STAMPE. V. 77
STAMPE. V. 78
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
STAMPE. V. 82
STAMPE. V. 83
STAMPE. V. 84
STAMPE. V. 85
STAMPE. V. 86 STAMPE. V. 87 STAMPE. V. 88
STAMPE. V. 89 STAMPE. V. 90 STAMPE. V. 91 STAMPE. V. 92 STAMPE. V. 93
STAMPE. V. 94
STAMPE. V. 95
Albrecht Dürer, Marcantonio Raimondi, Hans Baldung Grien, Luca di Leyden, Martin Schongauer AA. VV. / Scuola di Albrecht Dürer Hans Burgkmair, F. Brun, H. Brosamer, I. Brinck, L. Cranack, H. Aldengrever, H. S. Beham AA. VV. / Scuola di Albrecht Dürer H. Aldengrever, Samuel Beham, George Pencz, A. Aldofer, Hans Baldung AA. VV. / Scuola di Albrecht Dürer Goltzius, Samuel Beham AA. VV. /Scuola di Albrecht Dürer AA. VV. /Scuola di Albrecht Dürer AA. VV. / Giovanni Francesco Grimaldi William Baur Küssell Adrien van Ostade AA. VV. C. Visscler Cornelis Cort AA. VV. AA. VV. Bloemaert, Sadeler AA. VV. Bloemaert, Sadeler, I. Saenredam, C. Pass, Matham AA. VV. J. Saenredam, Jean. Matham, J. Muller AA. VV. / Goltzius I. Saenredam, Greuter, Matham
287
Albert Durer B.C.F.A.
Sec. XV-XVI
290
Scuola d’Alber Duro
Sec. XV-XVI
92
Scuola d’Alber Duro
Sec. XV-XVI
246
Scuola d’Alber. Duro
Sec. XV-XVI
268
Scuola d’Alber Duro
Sec. XVI
70
Scuola d’Alber Duro
Sec. XV-XVI
87
Stampe di Genoel Grim. & Sec. XVII C
114
Stampe di Bavr e Floris
Sec. XVI-XVII
178
Stampe di Van Ostade
Sec. XVII-XVIII 114
Stampe di Cornel. Corti
Sec. XVI-XVII
64
Stampe paesi d. Fedel. e Bloem Stampe di Bloema. e Spran.
Sec. XVI-XVII
143
Sec. XVII
125
Stampe di Bloema. e Spran.
Sec. XVII
79
Stampe di Goltzio
Sec. XVI-XVII
142
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288 STAMPE. V. 96
STAMPE. V. 97
STAMPE. V. 98
STAMPE. V. 99
BARBARA JATTA
AA. VV.
/ Goltzius Jean Matham, Raphael Sadeler, G.B. Mazza, I. Saenredam AA. VV. N. de Bruijn, J. Londersalius, Schelte Adams Bolswert Rembrandt AA. VV. M. Küssell, J. Van Vliet
Stampe di Goltzio e Scvol. Sec. XVI-XVII
Rembrandt W.P. Leeuw, B. Pinart, J. Van Vliet, P. de Baillu, M. Mozijn Berghem AA. VV. I. Visscher, F. De Widt, D. Dancherts AA. VV. G.F.Boec, De Witt, I. Wisscher, I. Dancherts, B. Stopendaert AA. VV. Sadeler, C. de Passe AA. VV. I. Fyt, A. e J. Schmuzer, Perelle, S.Offenbeek AA. VV. Sadeler, C. Passaeus, I. Sadot, Henrich Goltzius AA. VV. Hieronimus Cock, C. De Pass, Martin De Vos, L. Collaert, Sadeler AA. VV. Adrien Collaert, I. De Bye, C. Galle, Sadeler AA. VV. Philippe Galle, Jilles Sadeler, Hieronimus Cock, C. de Mallery AA. VV.
STAMPE. V. 100
STAMPE. V. 101
STAMPE. V. 102 STAMPE. V. 103
STAMPE. V. 104
STAMPE. V. 105
STAMPE. V. 106
STAMPE. V. 107
79
Stampe di Bruilin e Fiammi.
Sec. XVII
Stampe di Rembrte e Scola Fiammin tom. I
Sec. XVII-XVIII 153
Stampe di Rembrte e Scuola Fiammin tom. II
Sec. XVII
Stampe di Berghe.
Sec. XVII-XVIII 70
Stampe di Wower. e scvol. Sec. XVIII
58
135
53
Stampe della scvola fiammin. Stampe dell’ scvola fiammi.
Sec. XVII
107
Sec. XVI-XVII
112
Stampe dell’ scvola. fiammin.
Sec. XVI-XVII
164
Stampe di Lamber Lombar.
Sec. XVI
40
Stampe di Martin. de Vos
Sec. XVI
217
Stampe di Martin de Vos
Sec. XVI
115
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
STAMPE. V. 108 AA. VV. Philippe Galle, Jilles Sadeler, Hieronimus Cock STAMPE. V. 109 AA. VV. Philippe Galle, Hironimus Cock STAMPE. V. 110 AA. VV. Sadeler, Van de Pass, P. Costodis STAMPE. V. 111 Rubens AA. VV. C. Danckertz, C. Galle, I. Meyssens, Schelte Adams Bolswert, Paul Pontius STAMPE. V. 112 AA. VV. / Rubens Schelte Adams Bolswert, C. Galle, F. Ragot, R. Van Orley STAMPE. V. 113 AA. VV. / Rubens Paul Pontius, I. Muller, Schelte Adams Bolswert, Van Meulen STAMPE. V. 114 AA. VV. / Rubens Paul Pontius, Lucas Vorstermans, Schelte Adams Bolswert, H. Withane, G. Edelinck, Bernard Audran STAMPE. V. 115 AA. VV. / Jordaens Schelte Adams Bolswert, C. Galle, P. Baillu, I. Witdoeck, J. Ness, Paul Pontius STAMPE. V. 116 AA. VV. / Van Dyck C. Van Caukercken, C. Vaumans, A. Rousselet, Vorstermann, P. de Jode, W. Vaillant, F. Ragot
289
Stampe di Giovann Strada.
Sec. XVI
135
Stampe d’arch. di Cock et altr.
Sec. XVI
129
Stampe di Bril ed altr.
Sec. XVI-XVII
130
Stampe di Rvbens
Sec. XVII
37
Stampe di Rvbens
Sec. XVII
40
Stampe di Rvbens
Sec. XVII
31
Stampe di Rvbens
Sec. XVII
37
Stampe di Iordae. e scvol.
Sec. XVII
44
Stampe di Van Dyck
Sec. XVII-XVIII 91
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290
BARBARA JATTA
STAMPE. V. 117 AA. VV. / Tenier, Van de Velde, Philippe. Le Bas, Jean Tardieu filius, I. Vanden Bruggen, R.E. Lépiciér STAMPE. V. 118 Jaques Callot Israel Henriet STAMPE. V. 119 Jaques Callot AA. VV. / Jaques Callot Israel Henriet, Moncornet, Sebastien Le Clerck, Philippe Thomassin, Perelle STAMPE. V. 120 Jaques Callot AA. VV. / Jaques Callot Israel Henriet, S. Saury, A. Parigius STAMPE. V. 121 AA. VV. / Nicolas Poussin Audran, Jean Pesne STAMPE. V. 122 AA. VV. / Nicolas Poussin, M. Mitellius, I. Connay, Jacob Frey, C. Stella
Stampe di Tenier. e Van de. Velde
Sec. XVII-XVIII 54
Stampe di Callot
Sec. XVII-XVIII 159
Stampe di Callot
Sec. XVII
308
Stampe di Callot
Sec. XVII
129
Stampe di Possino
Sec. XVII
20
Stampe di Possino
Sec. XVII-XVIII 32
STAMPE. V. 123 Jean Le Pautre
Stampe di Mr. Le Pavtre
Sec. XVII
214
STAMPE. V. 124 Jean Le Pautre
Stampe di Mr. Le Pavtre
Sec. XVII
200
STAMPE. V. 125 Jean Le Pautre
Stampe di Mr. Le Pavtre
Sec. XVII
163
STAMPE. V. 126 Israel Silvestre, Claude Lorrain, Dominique Barriere
Stampe di Silves e Gellee
Sec. XVII
138
STAMPE. V. 127 Perelle
Stampe di Perelli
Sec. XVII
150
STAMPE. V. 128 Perelle
Stampe di Perelli
Sec. XVII
251
STAMPE. V. 129 AA. VV. N. Bazin, J. Cunnay, C. Tardieu, Bausselet, F. Baillu STAMPE. V. 130 AA. VV. Claude Mellan, P. Daret, Gerard Audran, Jean Boulanger
Stampe della scvola frances
Sec. XVII
41
Stampe della scvola frances.
Sec. XVII
149
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
STAMPE. V. 131 AA. VV. Jean Baptiste de Poilly, N. Dupis jr., Claude Mellan, Nicholas Dorigny, Gerard Audran STAMPE. V. 132 AA. VV. B. Kilian, G. Edelinck, N. Pitan, François Poilly, I. Boulanger STAMPE. V. 133 AA. VV. Rousselet, Schuppen, L. Desplaces, C. Audran, J. Baptiste Poilly STAMPE. V. 134 AA. VV. P. van de Berge, C. Duflos, De Poilly STAMPE. V. 135 AA. VV. B. Winckler, I. Ferdinand, Guélard, I. Rigard, Rousselet, Jacques Bellange STAMPE. V. 136 AA. VV. Robert, A. Loire, J. Le Mayne STAMPE. V. 137 AA. VV. Creuerdinus, Philippe Galle STAMPE. V. 138 AA. VV. (Gaspare Ruina, Giambologna STAMPE. V. 139 AA. VV. Giovanni Battista Galestruzzi STAMPE. V. 140 AA. VV. Francesco Aquila, Cornelis Bloemaert, Francois du Quesnoy, J.Baptiste Poilly STAMPE. V. 141 AA. VV. Sadeler, Cesare Fantetti, Antonio Faldoni, François Spierre, A. Guiducci, Girolamo Frezza, Jacob Frej
291
Stampe della scvola frances
Sec. XVII
96
Stampe della scvola frances
Sec. XVII
58
Stampe della scvola frances
Sec. XVII
28
Stampe della scvola frances.
Sec. XVII-XVIII 29
Stampe della scvola frances.
Sec. XVII-XVIII 148
Stampe di camin. di diver. Sec. XVIII France.
60
Stampe di avtori antich.
Sec. Vari
79
Stampe di avtori antich.
Sec. XVI
45
Stampe di divers. antich.
Sec. XVI
153
Stampe statue antich.
Sec. XVI-XVII
95
Stampe miscel. sacra
Sec. XVII-XVIII 108
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292
BARBARA JATTA
STAMPE. V. 142 AA. VV. Jacob Frej, Carlo Gregori, Francesco Villamena, Francois Spier STAMPE. V. 143 AA. VV. George Valet, Benoist Fariat, Francesco Polanzani, Teresa del Po, Girolamo Frezza STAMPE. V. 144 AA. VV. Jacob Frej, G.A. Lorenzini, Rocco Pozzi, Michele Sorellò, Girolamo Frezza, Cornelis Cort STAMPE. V. 145 AA. VV. Jacob Frej, Le Pautre, Cornelis Bloemaert, Girolamo Frezza, Pietro del Po STAMPE. V. 146 AA. VV. Girolamo Rossi, Robert Nanteuil, P. van Gunst, Philippe Thomassin, Jacob Frej STAMPE. V. 147 AA. VV. Smith, S. Simon, Kenckel, Francesco Polanzani, Edelinck STAMPE. V. 148 AA. VV. Francois de Poilly, Robert Nantueil, Raphael Sadeler, Pavillon, Cornelis Bloemaert
Stanpe miscel. sagra
Sec. XVII-XVIII 203
Stampe miscel. sacra
Sec. XVI-XVIII
90
Stampe miscel. sagra
Sec. XVI-XVIII
123
Stampe miscel. profan.
Sec. XVII
115
Ritratti diversi
Sec. XVI-XVIII
112
Ritratti diversi
Sec. XVII-XVIII 103
Ritratti diversi
Sec. XVII-XVIII 43
STAMPE. V. 149 Famiglia Terzi
Terzi famiglia avstriac.
Sec. XVI-XVII
86
STAMPE. V. 150 AA. VV. Joseph Vernet, Nicolas de Poilly, Remigio Cantagallina, Joseph Wagner, Nicolas Cochin
Stampe di paesi
Sec. XVII
128
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
STAMPE. V. 151 AA. VV.
293
Stampe di paesi diuersi
Sec. XVII
150
Stampe di vedut di vari autori
Sec. XVII-XVIII 118
STAMPE. V. 153 AA. VV. Giovanni Battista Galestruzzi
Stampe d’arch. diverse
Sec. XVII-XVIII 54
STAMPE. V. 154 AA. VV.
Stampe di archit. antich.
Sec. XVI-XVII
Stampe di chiese diverse
Sec. XVII-XVIII 72
Stampe di depos. del Rag.
Sec. XVII-XVIII 92
Nicolas Visscher, Jean Le Pautre, Claude Goyrand, Adrien-Frans Baudewyns, Francesco Antonio Grue, Johannes Meyssens, Giovanni Maggi STAMPE. V. 152 AA. VV. Paolo Anesi, Pierre Duflos, Herman van Swaneuelt, Giovanni Battista Piranesi, Claez Jans Visscher, Dominique Barrière
180
Grechi Michele detto Lucchese STAMPE. V. 155 AA. VV. Pieter Hendricksz Schut, Hubert Vincent, F. Delin, Giovan Francesco Venturini, Giovanni Girolamo Frezza, Francesco Aquila STAMPE. V. 156 AA. VV. Sebastiano de Fulcaris, François de Poilly, Jérôme David / Bernardino Radi STAMPE. V. 157 AA. VV.
Stampe di vasi et altr F. Damery, Nicolas ornati Robert, Hieronymus Cock, Jacob-Andreas Friderich, Huquier, Du Vivier, Stefano Della Bella
Sec. XVI-XVIII
69
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BARBARA JATTA
STAMPE. V. 158 AA. VV.
STAMPE. V. 159
STAMPE. V. 160
STAMPE. V. 161
STAMPE. V. 162
STAMPE. V. 163
Francesco Corduba, Pierre Le Pautre, Michele Sorellò, Pierre Parrocel, François Hutin, Giuseppe Vasi, Giovanni Battista Falda, Alessandro Specchi AA. VV. Johann-Wilhelm Baur, Sante Manelli, Kraeusin, Louis Desplaces AA. VV. Jean Conrad Reiff, Friedrich Paul Lindner, Gottfried Stein, Karl Remshard AA. VV. François de Poilly, Gilles Sadeler, Cornelis Galle, Matthäus Greuter AA. VV. Agostino Mitelli, Francesco Aquila AA. VV. Nicolas Robert, Francesco Curti
Stampe miscel.
Sec. XVII-XVIII 55
Stampe ornati divers.
Sec. XVII-XVIII 115
Stampe d’ornat. Chinesi
Sec. XVIII
78
Stampe miscel. d. diver. Frontes.
Sec. XVI-XVII
120
Stampe di cart. di vari autori
Sec. XVII
141
Stampe miscel. de fiori
Sec. XVII
90
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Tav. I — Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Apostolica Vaticana. Veduta d’insieme.
IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
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BARBARA JATTA
Tav. II — Veduta d’insieme dei volumi del Fondo antico di stampe della Biblioteca Apostolica Vaticana.
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
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Tav. III — A. Dürer, Angelo con il sudario, incisione all’acquaforte 1516 (Biblioteca Apostolica Vaticana, Stampe.V.81, 1-5). Apostolica Vaticana, Stampe.V.81, figg. 1-5) Tav. III – A. Dürer, incisioni figg. (Biblioteca
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BARBARA JATTA
Tav. IV — Incisioni d’après Guido Reni (Biblioteca Apostolica Vaticana, Stampe.V.59, figg. 13-18).
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Tav. V — Marcantonio Raimondi, La strage degli innocenti, da Raffaello, incisione a bulino (Biblioteca Apostolica Vaticana, Stampe.V.1,figg. fig 22). Stampe.V.1,
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BARBARA JATTA
Tav. VI — Ugo da Carpi da Parmigianino, Diogene, chiaroscuro a più legni (Biblioteca Apostolica Vaticana, Stampe.V.1, fig. 61).
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IL “ FONDO ANTICO ” DI STAMPE DELLA BIBLIOTECA VATICANA
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Tav. VIIa-b — Scheda di catalogo relativa alla stampa raffigurante il ritratto del card. Francesco Barberini eseguita da Guillaume Vallet con la relativa immagine (www. vaticanlibrary.vatlib.it). ).
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FRANCESCO SFERRA — VINCENZO VERGIANI
DUE MANOSCRITTI SANSCRITI PRESERVATI NELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA: VAT. IND. 76 E VAT. IND. 77 Nel luglio del 2005 il Dr Delio Proverbio, della Biblioteca Apostolica Vaticana (BAV), mi contattò per l’identificazione di due manoscritti sanscriti da poco acquisiti dalla BAV. In quell’occasione ebbi modo di verificare che la biblioteca conserva un piccolo gruppo di manoscritti sanscriti e di origine indiana ancora non identificati, di cui varrebbe la pena redigere un catalogo. Quello che segue è il primo contributo in questa direzione, limitato alla descrizione dei due manoscritti da me studiati nel luglio del 2005 (Vat. ind. 76 e 77). Ringrazio il Dr Proverbio e le autorità della BAV per la loro preziosa collaborazione e il Dr Vincenzo Vergiani (University of Cambridge) per aver accettato di scrivere con me questa breve nota. FS Abbreviazioni e simboli: r v {{ }} < > { } ( ) […] . | (?)
recto verso racchiudono parole o segni di interpunzione non richiesti dal senso racchiudono integrazioni al testo racchiudono commenti rendono conto della paginazione racchiudono una porzione di testo non trascritta nel presente articolo segno di interpunzione presente nel ms. segno di interpunzione presente nel ms. sillaba non trascritta perché di incerta lettura.
Vat. ind. 76 TITOLO: Sârasvatavyâkara%a. AUTORE: Anubhûtisvarûpâcârya (XIII sec.). LINGUA: sanscrito. SUPPORTO: carta di riso. GRAFIA: devanâgarí. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 303-310.
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304
FRANCESCO SFERRA
— VINCENZO VERGIANI
DATAZIONE: il ms., di fattura nepalese, risale verosimilmente alla prima metà del XX sec. MISURE: 11,2 cm × 24,6 cm ARGOMENTO: fonetica e grammatica. Il Sârasvatavyâkara%a è una grammatica sanscrita, composta probabilmente fra il XIII e il XV secolo, e tradizionalmente attribuita a un asceta chiamato Anubhûtisvarûpa1, al quale sarebbe stata rivelata da Sarasvatí, dea del linguaggio e della sapienza (da qui il titolo dell’opera, alla lettera “Grammatica di Sarasvatí”). Questa è l’attribuzione che si incontra nella maggior parte dei manoscritti. Tuttavia, sulla base delle indicazioni contenute nella strofa propiziatoria con cui si apre il testo, dei colofoni di alcuni dei manoscritti pervenuti e di alcuni commenti all’opera, è stata avanzata l’ipotesi che l’autore dei sûtra sia un certo Narendra o Narendrâcârya, mentre Anubhûtisvarûpa sia stato solo il sistematizzatore del nucleo originario di regole (sûtra)2, da lui disposte in ordine tematico e arricchite di glosse per rendere chiaro il processo di derivazione delle parole, che nella terminologia grammaticale indiana va sotto il nome di prakriyâ3. Il Sârasvatavyâkara%a sembra aver goduto di particolare favore alla corte di diversi sovrani musulmani dell’India, che ne avrebbero patrocinato lo studio. Pare probabile, anzi, che questa grammatica, che si caratterizza per la semplicità e la concisione, sia stata commissionata da un re musulmano che desiderava conoscere i testi della letteratura sanscrita. Significativamente, il più antico dei numerosi commenti e subcommenti è di un certo Pu%yarâja, ministro brâhma%a di Ghiâth al-Dín Khaljí, re del Mâlava (regione corrispondente all’incirca alla parte occidentale dell’odierno stato del Madhya Pradesh) tra il 1469 e il 1500. L’impostazione didattica, da manuale, del Sârasvatavyâkara%a, che non dà spazio alle disquisizioni teoriche, è all’origine della popolarità di cui questa grammatica ha goduto nell’India tardo-medievale, soprattutto nel 1 O Anubhûtisvarûpâcârya, ossia il maestro (âcârya) Anubhûtisvarûpa. Per informazioni più dettagliate, si vedano S. K. BELVALKAR, An account of the different existing systems of Sanskrit grammar being the Vishwanath Narayan Mandlik gold medal prize-essay for 1909, Aryabhushan Press, Poona 1915 (ristampa Bharatiya Book Corporation, Delhi 1997, pp. 7687) e R. S. SAINI, Post-Pâ%inian Systems of Sanskrit Grammar, Parimal Publications, Delhi, 1999, pp. 179-191. 2 Queste sarebbero state non più di settecento, da cui l’altro titolo con cui l’opera è anche conosciuta, Sûtrasaptaùatí (“Le sette centinaia di sûtra”); si conosce un unico manoscritto che ha preservato questa recensione originaria. 3 Alcuni studiosi distinguono infatti il testo dei sûtra dall’opera di Anubhûtisvarûpa, chiamando quest’ultima (cioè la versione “estesa” del Sârasvatavyâkara%a) Sârasvataprakriyâ. Il testo rientra nel genere delle prakriyâ, opere che espongono le regole per la formazione e la flessione delle parole.
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DUE MANOSCRITTI SANSCRITI PRESERVATI NELLA BAV
305
nord e nell’est, testimoniata dai numerosi manoscritti che ci sono pervenuti. Fra i sovrani che ne hanno patrocinato lo studio figurano anche l’imperatore moghul Jahângír (prima metà del Seicento) e Salím Shâh, reggente di Delhi intorno alla metà del Seicento, come anche alcuni principi hindû. NOTA BIBLIOGRAFICA: Del testo esistono diverse edizioni a stampa: 1) l’editio princeps, che risale al 1926, fu pubblicata a Bombay (od. Mumbai) per i tipi della Nir%aya Sâgara Press con il titolo Sârasvatavyâkara%am a cura di Ùivadatta Ùarmâ4. Questa edizione, che ha goduto di numerose ristampe (la quarta fu corretta da Vasudeva Ùarmâ), comprende anche il commento Subodhikâ di Candrakírtisûri. 2) Una seconda edizione, che oltre alla glossa di Candrakírtisûri è corredata dal commento Prasâda di Vâsudevabhaýýa, è stata pubblicata in due volumi a Benares (od. Varanasi) nel 1935 con il titolo Sârasvata Vyâkara%am of Anubhûtisvarûpâchârya With Two Commentaries, The Subodhikâ Commentary of Chandrakírti and The Prasâda Commentary of Vâsudevabhaýýa. Questa edizione, che ha visto la luce per i tipi della Chaukhambha Sanskrit Sansthan nella prestigiosa Kashi Sanskrit Series (vol. 111), è accompagnata da una glossa moderna (Manoramâ) a cura dell’editore, il pa%¬it Nava Kiùora Ùâstrí (alias Nava Kishora Kara Ùarmâ). Nella terza edizione, del 1985, il frontespizio riporta erroneamente “[…] The Chandrakírti Commentary of Chandrakírti […]”). 3) Ancora a Benares, nel 1955, il testo è stato pubblicato con ulteriori commenti in sanscrito e hindi per la Chowkhamba Sanskrit Series: Ùrímadanubhûtisvarûpâcâryapra%íta# Sârasvatavyâkara%am: pûrvârddham. Bâlabodhiní, Indumatí Sa#sk)tahindiýíkâdvayopetam. Sa#sk)taýíkâkâraü-Narahariùâstri Pendase; Hindiýíkâkâraü-Ramacandrajha vyâkara%âcâryaü. 4) R. S. Saini, cita anche un’edizione a cura di Narayana Ram Acharya, pubblicata a Bombay nel 19525. NOTE: il ms., acefalo e mutilo, conta 27 carte e presenta numerose varianti rispetto al testo edito. Le carte mancanti sono: 1rv (NB il f. 1 recto è normalmente bianco), 27r-29v, 32r-? Lo spazio scrittorio di ciascuna pagina è articolato in sette righe. Il ms. è relativamente curato fino al f. 12r; fino a questo punto, infatti, sono stati applicati con inchiostro rosso i segni di interpunzione, da%¬a (= ||), e sono state colorate le linee laterali che delimitano la parte scritta. Il ductus rivela l’azione di almeno due copisti. I margini superiore e inferiore contengono all’occorrenza delle
4 Cf. SAINI, Post-Pâ%inian Systems cit., p. 247. 5 Idem.
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FRANCESCO SFERRA
— VINCENZO VERGIANI
correzioni, talora con grafia diversa da quella del copista. Sui margini destro e sinistro del verso ci sono delle abbreviazioni; a sinistra si legge: sârasu (oppure sâra.su) (2v 3v 4v 5v 6v 7v 8v 10v 11v 12v 13v 14v 15v 16v 17v 18v 19v 23v 24v 25v 30v 31v), sâra (9v), sa.sva.su (20v 21v), sa.pra.su (22v), sâ.su (26v); a destra: guruü (12v 13v 14v 15v 16v 18v 19v 20v 21v) oppure râmaü (2v 3v 4v 5v 6v 7v 8v 9v 10v 11v 17v 22v 23v 24v 25v 26v 30v 31v). CONTENUTO: Dopo aver stabilito la misura (mâtra) delle vocali (svara) e delle consonanti (vyañjana) (2r) e le regole per formare i pratyâhâra (un tipo di abbreviazione su cui si veda sotto la trascrizione della carta iniziale) (2v), il testo passa a descrivere il sandhi delle vocali (3v-6v), il passaggio, ad es., da e ad ay e da o ad av, con alcuni esempi: || o av {il grassetto, non presente nel manoscritto, evidenzia il testo dei sûtra} || okâro av bhavati svare pare || bho ati || bhavati || (4v = ed. Kara Ùarmâ vol. 1, p. 34) […] go ajina# || gavâjina# || go akúaü || gavâkúaü (4v, cf. ed. cit. vol. 1, p. 42) […] || dadhi iha || dadhíha || bhânu udaka# || bhânûdaka# || (5r = ed. cit. vol. 1, p. 37) […] tava )ddhiü || tavarddhiü || (5v = ed. cit. vol. 1, p. 40) […] tava audana# | tavaudana# || tava aunnatya# || tavaunnatya# || (6r = ed. cit. vol. 1, p. 41) […]. Il ms. prosegue con la descrizione del sandhi tra consonanti (7r-9v), del sandhi con il visarga (= ü) (9v-11v), delle desinenze (vibhakti) (11v e segg.) e della declinazione di alcune parole; ad es. godhuk (30v2 e segg.): godhuk || godhug || goduhau {goduho ante correctionem} || godhuhaü || godhuha# || godhuhau || goduhaü || goduhâ || (= ed. cit. vol. 1, p. 128) […]. INIZIO (= f. 2rv; cf. ed. cit. pp. 13-19): (2r1)r%â bha%ya#te || lokâc cheúasya siddhir iti vakúyati tato lokata eva hrasvâdvisa#jñâ {sic âdvi per âdi} (2r2) jñâtavyâ || ekamâtro hrasvaü || dvimâtro dírghaü || trimâtro {sic per trimâtraü} plutaü || vya#jana# cârdha(2r3)mâtraka# || eúâm anye ’py udâttâdibhedâü sa#ti || uccair upalabhyamâna udâttaü || ní(2r4)cair anudâtta || samav)tyâ svaritaü || e ai o au sa#dhyakúarâ%i || eúâ# hrasvâ na sa#ti (2r5) || ubhaya {sic per ubhaye} svarâü || akârâdayaü pa#ca catvâra ekârâdaya ubhaye svarâ ucyate || avarjâ (2r6) nâminaü || avar%avarjâü svarâ nâmina ucyante || anukrâ#tâs tâvat svarâü || pratyâ(2r7)hâra# {sic per pratyâhâra°} jigrâhayiúayâ vya#janâny anukrâmati || ha ya va ra la . ña %a na ,a ma . jha ¬ha dha gha bha (2v1) ja ¬a da ga ba . kha pha cha ýha tha . ca ýa ta ka pa . ùa úa sa || âdya#tâbhyâ# || pratyâhâra# jigh)kúatâ (2v2) || âdya#tâbhyâm eta {sic per ete} var%â grâhyâü || âdivar%o ntyena saha g)hyamâ%as tannâmâ pra(2v3)tyâhâraü || tathâ hi || akâro bakâre%a saha g)hyamâ%o abapratyâhâraü || sa ca || (2v4) a i u ) / . e e {sic per ai} o au . ha ya va ra la . ña %a na ,a {{.}} ma . jha ¬ha dha gha
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DUE MANOSCRITTI SANSCRITI PRESERVATI NELLA BAV
307
bha . ja ¬a da ga ba || ity etâ(2v5)vat sa#khyâkaü sa#padyate6 || ca ýa ta ka pa ity capapratyâhâraü || ja ¬a da ga ba iti jabapratyâ(2v6)hâraü {aggiunto nel margine inferiore: || eva# yatra yatra yena yena pratyâhâre%a} k)tya# sa sa tatra tatra grâhyâü || sa#khyâniyamas tu nâsti || hasâ vya#janâni (2v7) || hakârâdayaü sakârâ#tâ var%â h)sâ {sic per hasâ} vya#janâni bhava#ti || svarahína# vya#jana# || te(3r) […]. FINE (cf. ed. cit. p. 129): (31r6) ho ¬haü || khase capâ jha(31r7)sânâm iti ýaü || madhuliýsu || {da questo punto in poi il ms. prosegue con parole che non sono presenti nell’edizione cit.; si veda tuttavia la nota dell’editore a p. 130, ove si riporta una lunga citazione da un manoscritto del testo che presenta numerosi passi paralleli al brano che segue} bhâra# vahatíti {vahâtíti ante correctionem} || bhârav⬠|| bhâravâhùabda(31v1)sya bhedaü || vâho vau || vâho vâùabdasyaukârâdeùo bhavati ùasâdau ùvare pare (31v2) || bhârauhaü || bhârauhâ || bhâravâ¬bhyâm || bhâravâ¬bhiü || bhârauhe || bhâravâ(31v3)¬mâm || bhâravâ¬bhar ityâdi || eva# p)útavâhaùabdaü || p)sthauhaü || p)sthauhâ(31v4)ü || p)sthavâ¬bhyam || p)úýhavâ¬bhír ityâdi || vârivâhaùabdasyabhedaü || || (31v5) anavar%âd uü || avar%avarjjâd var%ât parasya vâho vâùabdasya ûtva# bhavati || ùa(31v6)sâdau svare pare || vâryyûhaü || vâryyûhâ || vârivâ¬bhyâm || vârivâ¬bhir ityâ(31v7)di || turâsâhûùabdasya bhedaü || saheü úaü so¬hi || saheü sakârasya úakârâdeùo.
Vat. ind. 77 TITOLO: Gítagovinda e altri inni anonimi di ispirazione k)ú%aita. AUTORE: Jayadeva (XII sec.). LINGUA: sanscrito. SUPPORTO: carta di riso. GRAFIA: devanâgarí. DATAZIONE: il ms., di fattura nepalese, risale verosimilmente alla prima metà del XIX sec., come suggerisce la data presente nel colofone del f. 175v (si veda sotto). MISURE: 16,7 cm × 22,1 cm
6 La frase ity etâvat sa#khyâkaü sa#padyate non ricorre nel testo edito, che legge iti | abapratyâhâraü; tuttavia si veda il commento di Candrakírtisûri: sa ca abapratyâhâraü ity etâvat sa#khyâka ity amunâ prakâre%aitâvatâ ekonatri#ùadvar%apramâ%â sa#khyâ yâvat sampadyate bhavati (ed. p. 19).
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FRANCESCO SFERRA
— VINCENZO VERGIANI
Tav. I — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. ind. 76, ff. 9v-10r.
ARGOMENTO: poesia o letteratura d’arte (kâvya). Il codice contiene opere poetiche k)ú%aite, di cui era prevista la recitazione cantata. La prima, l’unica identificabile con sicurezza, corrisponde al celebre Gítagovinda di Jayadeva (seconda metà del XII sec.) (carte 2r-20v), sebbene manchino in essa alcune strofe presenti nelle edizioni correnti del testo. Nella prima parte, ad esempio, mancano le strofe 16, 26 e 27. NOTA BIBLIOGRAFICA: Il testo è stato pubblicato numerose volte. L’editio princeps risale al 1836: Christianus Lassen, Gita Govinda. Jayadevae poetae indici. Drama lyricum, Bonnae ad Rhenum. Ne esistono svariate traduzioni, a partire dal 1792: W. JONES, “Gîtagovinda; or, The Songs of Jayadeva”, in Asiatic Researches, 3, pp. 185-207. Fra le traduzioni più recenti segnaliamo quella di L. Siegel, che contiene anche una riproduzione del testo sanscrito: Sacred and Profane Dimensions of Love in Indian Traditions as Exemplified in The Gítagovinda of Jayadeva, Oxford 1978 (repr. 1990). In italiano si veda: JAYADEVA, Gítagovinda. A cura di Giuliano Boccali. Con un saggio di Marguerite Yourcenar, Adelphi Edizioni, Milano 1982 (19912).
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DUE MANOSCRITTI SANSCRITI PRESERVATI NELLA BAV
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NOTE: il ms., incompleto, è composto da 171 carte che contengono di norma 11 linee ciascuna. Le carte mancanti sono: 1rv, 10rv, 46rv, 121rv, 179r-?. Metà del f. 98 (corrispondente alla metà superiore del f. 98r e alla metà inferiore del f. 98v) è stata tagliata e non è presente nel codice. Non ci sono abbreviazioni che indichino il titolo dell’opera; nel margine sinistro di ogni verso, come di regola, è scritto il numero di pagina: i margini presentano talora brevi indicazioni. Il f. 1 recto presenta al centro una miniatura molto danneggiata che occupa poco meno della metà dello spazio totale. La parte scritta contiene una lode a Vasundhara. Il numero delle linee (10), la misura (15,5 cm × 23 cm) e il ductus non corrispondono a quelli del resto del ms. Questo emifolio, che doveva originariamente afferire ad altro codice (come dimostra il fatto che la frase dell’ultima linea si interrompe bruscamente e non prosegue col f. 2r), potrebbe essere stato aggiunto in un secondo momento a mo’ di copertina. Le prime tre linee e mezzo del f. 2r, che trascriviamo senza apportare modifiche (il testo è molto scorretto), recitano: (1) o# namoü ùrígubhe namo || o# namo vaùu#dharâya (2) namo || || ùrívaùu#dhârâ# sadâ natvâ drâridrâ(3)r%avatârari nidesayâmiü manuúyârthaü sa(4)rvadukhaü pramocani || […]. Il ductus del ms. rivela l’azione di almeno tre copisti. Le carte 47v49r, 55r, 89v-90r, 99v-100r, 112r, 127r, 155v, 156r, ad es., sono chiaramente scritte da una mano molto poco esperta, forse di qualcuno che ha riempito successivamente gli spazi lasciati in bianco tra un canto e un altro. Le prime carte sono alquanto sporche per il contatto prolungato con le mani. In tutto il codice sono presenti indicazioni sulla melodia (râga) e la ritmica (tâla), spesso evidenziate in rosso. Quasi tutti i canti hanno un ritornello (dhruvapada) che è posto all’inizio e, talora, evidenziato con la sillaba dhru. Il f. 177r presenta linee scritte con colori diversi. Alcune carte sono tenute assieme da una legatura assai rozza con filo di cotone nero. Ad esclusione del primo testo (2r-21r), che si conclude con un colofone, e il f. 175r, che riporta una frase di chiusura con indicazioni sulla data di copiatura del testo in base al calendario nepalese, avvenuta nel mese di vaiùâkha (= aprile-maggio) del 1836 o 1837 (linee 610: ùrík)ú%o jayati || ùubha# sa#vat 957 vaiùâúa{sic per vaiùâkha}k)ú%at)tíyâ budhavâra [...] || ùubha# bhûyât || O ||), le altre canzoni non hanno, a quanto ci è dato vedere, note che ne rivelino il titolo e l’autore. Segue qui la suddivisione delle carte in base ai singoli componimenti: 2r-21r (= Gítagovinda); 21v-34r; 34v-47r; 47v-48r; 48v-52r; 52v-55r; 55v-60r; 60v66r; 66v; 66v-67r; 67v; 67v-68r; 68v-73r; 73v-75r;75v-77r; 77v-78r; 78v80r; 81v-81r; 81v-82r; 82v-84r; 84v-88r; 88v-90r; 90v-96r; 96v-98r; 98v99r; 99v-100r; 100v-102r; 102v-106r; 106v-108r; 108v-112r; 112v-116r; 116v-119r; 119v-123r; 123v-125r; 125v-127r; 127v-131r; 131v-133r; 133v-
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FRANCESCO SFERRA
— VINCENZO VERGIANI
134r; 134v-139r; 139v-140r; 140v-145r; 145v-146r; 146v-147r; 147v-152r; 152v-154r; 154v-155r; 155v-156r; 156v-160r; 160v-169r; 169v-175r. INIZIO (2r; = ed. Lassen p. 2, linea 15): pa jaya jagadíùa hare || 3 || || {7 || in Lassen} tava karakamale {contra metrum; ed. tava karakamalavare} nakham adbhu(2r2)taù)#ga# . dalitahira%yakaùiputanubh)#ga# || keùava dh)ta(2r3) […]. FINE (178v): [...] kapûrakesaliü taruru(?) a#mbarasariraki ârati || 1 || indrakotira(?)kotikâmaccha.
Tav. II — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. ind. 77, f. 148r.
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TEDROS ABRAHA
MÄLKÉ’A ÙÉLLASE — L’EFFIGIE DELLA TRINITÀ DI ABBA SÉBÜAT LÄAB Analisi storica, letteraria, teologica Testo e traduzione annotata*
Premessa Il Mälké’a Ùéllase1 è un’opera di Abba Sébüat LäAb, un monaco del monastero di Ýana Qirqos, morto a Däbrä Bérhan il 3 di Näüase 1694 AM (9 Agosto 1702 AD), ossia il ventesimo anno del regno di Iyyasu I. La cronaca della sua morte narra: ëÑK : ◊ D{G[Ú : ÑóS : Ñl : ]mkGq : DÑmk : K{å] : ô«| : ô©S[ : KFãÑ : QDÍ] : e™Í] : k©mkS : mkXA} ; ëwô{ : }≤ÈQ : Ü]K : πc : œcÎT : ëë[¨ : Ü]â : «| : ©[Úo : e™Í] : cÒXf] : ëkB¢ : ckXî = «il 3 di Näüase (9 Agosto) riposò Abba Sébüat LäAb, monaco di Úana che aveva composto l’effigie del Trino Santo, a Däbrä Bérhan. Il re si addolorò profondamente perché gli era assai caro e lo portò fino a Úana, all’isola di San Qirqos e là lo seppellirono»2. *
Ringrazio Philippe Luisier (SJ) che ha letto con cura il manoscritto e mi ha aperto alcuni orizzonti molto interessanti. Un grazie speciale e la mia sincera venerazione per gli illustri Liqawunt, i Dotti etio-eritrei della Chiesa Ortodossa Täwaüdo menzionati nel corpo del presente lavoro, per la loro preziosa collaborazione. Ovviamente di ogni imprecisione ed errore risponde soltanto il sottoscritto. Dedico questo studio a Patrizia, Michele, Giorgia, Francesco ed Elisa, maestri semplici, discreti e fattivi dell’amore Trinitario. 1 CHAINE 1913, n. 20. 2 BASSET 1881, p. 367; CONTI ROSSINI 1910, p. 585; GETATCHEW HAILE 1994, pp. 371.373; VOHD 206, p. 35. Iyyasu I (Adyam Säggäd), “il Grande” (1682-1706), è un regnante
di grande spessore, sia come uomo politico che come stratega militare. Ha il merito di essere riuscito con successo a frenare il declino del regno e le rivalità interne che lo flagellavano. Interessante il resoconto sulla figura di Iyyasu I, scritto da un testimone oculare, il medico francese Poncet, che oltre a esaltarne la prestanza fisica, tesse lodi sperticate anche a riguardo del suo umorismo, della sua prodezza e del suo profondo senso di giustizia, cf. PONCET 1949, pp. 130-131. Il regno di Iyyasu I si è concluso tragicamente con la sua destituzione per mano del suo stesso figlio Täklä Haymanot e il suo assassinio nel 1706. Dopo aver abdicato, Iyyasu si rinchiuse in un cenobio nel lago Ýana dove però fu perseguito da due sicari probabilmente assoldati da Gondär. Iyyasu fu fatalmente colpito da arma da fuoco e da colpi di lancia e la sua salma fu data alle fiamme. Cf. CONTI ROSSINI 1943, p. 120. L’uscita dalla scena politica di Iyyasu segna l’inizio di un lungo periodo di instabilità e di Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 311-398.
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TEDROS ABRAHA
L’Effigie della Trinità è una raffinata composizione lirica che professa la fede nel Dio uno e trino. Nei testi teologici e catechetici etiopici, la Trinità è il primo capitolo della fede, la prima delle cosiddette “cinque colonne del mistero”3. L’Effigie della Trinità consta di quarantasette strofe4 e molte di esse vengono inserite in un ampio ventaglio di canti liturgici, soprattutto nelle cosiddette “Feste del Signore”, della “Nostra Signora Maria”, degli “Angeli” e dei “Santi”. Da rilevare, per inciso, che l’integrazione di varie parti dell’effigie nell’innario etiopico noto come Déggwa5 è un’eloquente testimonianza che la liturgia gé’éz non soffre poi così tanto di immobilismo. Se si tiene conto del livello di venerazione che gli Etiopici hanno nei confronti del Déggwa, apportarvi aggiunte è un clamoroso gesto di ricettività. Le strofe interessate e le date del loro impiego nel corso dell’anno liturgico saranno segnalate nelle note a pie’ di pagina. Testimoni del Mälké’a Ùéllase di Abba Sébüat LäAb 1) BC 6, XVII sec. Cf. BC, p. 3. 2) BC 60, XVIII/XIX sec. Cf. BC, p. 16. 3) BC 63, XVII sec. Cf. CHAÎNE, p. 17. 4) BnF 147, 4, XVII sec. Cf. BnF, p. 249. 5) Cerulli Etiopici 3, XIX sec. Cf. CERULLI, p. 22. 6) Cerulli Etiopici 22, XIX sec. Cf. CERULLI, p. 33. 7) Cerulli Etiopici 41, XIX sec. Cf. CERULLI, p. 43. 8) Cerulli Etiopici 103, XVII sec. Cf. CERULLI, p. 80. 9) Cerulli Etiopici 146, XIX sec. Cf. CERULLI, p. 104. 10) Comboniani Etiopici 124 II IV, 1958 (AD). Cf. RaiCom, p. 125. 11) Comboniani Etiopici 132, 1, XX sec. (?). Cf. RaiCom, p. 136. 12) Comboniani Etiopici 140, 1, XIX-XX sec. Cf. RaiCom, p. 142. 13) Comboniani Etiopici 162, XX sec. Cf. RaiCom, pp. 159-60. 14) Comboniani Etiopici 165, II IV, XIX sec. (?). Cf. RaiCom, p. 163. violenza che durerà un secolo e mezzo, i.e. fino all’ascesa al trono di Teodoro II (1855-68). I regnanti fiaccati da pressioni esterne ma soprattutto da intrighi di corte e lotte intestine, più che protagonisti attivi saranno spettatori inetti della vita politica e la loro autorità non si estenderà oltre Gondär e immediati dintorni. 3 Per “cinque colonne del mistero” si intendono i cinque articoli fondamentali della fede
cristiana: la Trinità, l’Incarnazione, il Battesimo, l’Eucarestia e la Resurrezione dalla morte. Cf. MOGÄS UQBAGIYORGIS 1955 (AM). 4 È l’effigie stessa nell’ultima stanza a dichiarare il numero delle strofe, per l’appunto 47. 5 Un testo liturgico di capitale importanza per la chiesa etiopica, attribuito a Yared, se-
condo la tradizione nato ad Aksum nella prima metà del VI secolo circa. Cf. SERGEW HABLESELLASE1972, p. 164.
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15) Comboniani Etiopici 278, 2, 1779-1801 (AD). Cf. RaiCom, p. 273. 16) DBM LXII (senza data). Cf. DBM, p. 566. 17) EMML 47,7 metà del XIX sec. Cf. EMML Vol. I, p. 51. 18) EMML 155,7 datato 20 Génbot 1871 (AM), 27 Maggio 1879 (AD). Cf. EMML Vol. I, p. 158. 19) EMML 498,3 inizio del XX sec. Cf. EMML Vol. II, p. 228. 20) EMML 659,21 XVIII o XIX sec. Cf. EMML Vol. II, p. 410. 21) EMML 659,22 XVIII o XIX sec. Cf. EMML Vol. II, p. 4107. 22) EMML 659,23 XVIII o XIX sec. Cf. EMML Vol. II, p 4108. 23) EMML 843,2 XX sec. Cf. EMML Vol. III, p. 164. 24) EMML 872,2 1951/55 (AD). Cf. EMML Vol. III, p. 196. 25) EMML 914,2 XX sec. Cf. EMML Vol. III, p. 240. 26) EMML 937,7 XVIII sec. Cf. EMML Vol. III, p. 264. 27) EMML 976,2 datato 1934 (AM). Cf. EMML Vol. III, p. 310. 28) EMML 1007,2 XX sec. Cf. EMML Vol. III, p. 343. 29) EMML 1034,1 datato 1916/28 AD. Cf. EMML Vol. III, p. 373. 30) EMML 1060,23 tardo XVII o inizio XVIII sec. Cf. EMML Vol. III, p. 401. 31) EMML 1097,3 inizio XIX sec. Cf. EMML Vol. III, p. 443. 32) EMML 1169,15 XX sec. Cf. EMML Vol. IV, p. 100. 33) EMML 1212,4 XX sec. Cf. EMML Vol. IV, p. 191. 34) EMML 1338,2 XVIII sec. Cf. EMML Vol. IV, p. 375. 35) EMML 1537,2 XX sec. Cf. EMML Vol. V, p. 38. 36) EMML 1671,2 XX sec. Cf. EMML Vol. V, p. 148. 37) EMML 1690,3 XX sec. Cf. EMML Vol. V, p. 156. 38) EMML 1701,3 XIX/XX sec. Cf. EMML Vol. V, p. 169. 39) EMML 1733,17 datato 1909 (AM), 1916/17 (AD). Cf. EMML Vol. V, p. 183. 40) EMML 1736,12 XVIII/XIX sec. Cf. EMML Vol. V, p. 194. 41) EMML 1762,12 datato 1832 (AM), 1839/40. Cf. EMML Vol. V, p. 209. 42) EMML 1817,2 XX sec. Cf. EMML Vol. V, p. 263. 43) EMML 1880,1 XIX sec. Cf. EMML Vol. V, p. 391. 44) EMML 1950,2 XVII/XVIII sec. Cf. EMML Vol. V, p. 465. 45) EMML 2097,2 Mäskäräm 1, 7310 (AM), Settembre 10, 1817 AD. Cf. EMML Vol. VI, p. 185. 46) EMML 2139,9 XIX sec. Cf. EMML Vol. VI, p. 248. 47) EMML 2293,4 XIX/XX sec. Cf. EMML Vol. VI, p. 362. 48) EMML 2621, 5 XX sec. Cf. EMML Vol. VII, p. 50. 49) EMML 2747,1 XVIII/XIX sec. Cf. EMML Vol. VII, p. 124. 50) EMML 2846,5 XVIII sec. Cf. EMML Vol. VII, p. 193. 51) EMML 2848,4 XVIII/XIX sec. Cf. EMML Vol. VII, p. 196. 52) EMML 2850,11 XIX sec. Cf. EMML Vol. VII, p. 199. 53) EMML 2995,2 XX sec. Cf. EMML Vol. VII, p. 291. 6 La descrizione dice: «Salam ad Trinitatem. Constat e 45 strophis». 7 La descrizione dice: «another image of the Trinity». 8 «A third image of the Trinity».
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54) EMML 3073,2 XVIII sec. Cf. EMML Vol. VIII, p. 69. 55) EMML 3132,3 XIX sec. Cf. EMML Vol. VIII, p. 112. 56) EMML 3248,2 XIX sec. Cf. EMML Vol. VIII, p. 170. 57) EMML 3271,5 XIX sec. Cf. EMML Vol. VIII, p. 181. 58) EMML 3359,2 XIX sec. Cf. EMML Vol. VIII, p. 221. 59) EMML 3530,2 XIX sec. Cf. EMML Vol. IX, p. 20. 60) EMML 3541,5 XIX sec. Cf. EMML Vol. IX, p. 29. 61) EMML 3548,8 XIX sec. Cf. EMML Vol. IX, p. 33. 62) EMML 3906,3 XIX sec. Cf. EMML Vol. IX, p. 224. 63) EMML 3938,2 XIX/XX sec. Cf. EMML Vol. IX, p. 245. 64) EMML 3961,10 XIX/ XIX sec. Cf. EMML Vol. IX, p. 254. 65) EMML 4001,33 XVIII/XIX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 2. 66) EMML 4038,1 XIX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 21. 67) EMML 4089,1 XVIII sec. Cf. EMML Vol. X, p. 41. 68) EMML 4239,2 XIX (?) sec. Cf. EMML Vol. X, p. 83. 69) EMML 4316,9 XIX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 111. 70) EMML 4413,3 XX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 141. 71) EMML 4420,6 XVIII/XIX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 144. 72) EMML 4431,2 XVIII/XIX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 148. 73) EMML 4646,5 XX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 250. 74) EMML 4674,2 XX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 262. 75) EMML 4712,2 XX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 275. 76) EMML 4728,2 XVIII sec. Cf. EMML Vol. X, p. 279. 77) EMML 4825,21 XX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 328. 78) Griaule 23 (Éthiopien 327) III. XIX sec. Cf. GRIAULE, p. 152. 79) Grottaferrata, Crypt. aet 1 V, senza data. Cf. GROTTAFERRATA, p. 479. 80) MV 18,2. Pergamena XIX sec. Cf. MV, p. 10. 81) LO, O Etiop. 8 (Uppsala 14, E 1). XVII/XVIII sec. Cf. LO, p. 45. 82) Orient. 579, CXXVI, 4. XVIII sec., p. WRIGHT 81. 83) CLXIII, 5 (non c’è Orient.). Ultima parte del XVII sec. WRIGHT, p. 109. 84) Orient. 582, CLXXXVI, a. Verso la fine del XVIII sec. WRIGHT, p. 119. 85) Orient. 574, CLXXXIX, 30. Ultima parte del XVII sec. WRIGHT, p. 123. 86) RaiVat 14 IV, senza data. Cf. RaiVat, p. 494. 87) StreANL Caet. 376, (XX sec.). Cf. StreANL, p. 3479.
Codici collazionati Per l’edizione del testo dell’effigie, il presente lavoro si è servito di alcuni codici della Biblioteca Apostolica Vaticana. Essi sono:
9 Ci sono anche un paio di testimoni nella collezione di Turaiev, descritti in lingua rus-
sa. Essi sono: B. TURAIEV, Manuscrits éthiopien de Saint-Pétersbourg, 1906, III, p. 33; P IV, p. 12.
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1) Cerulli Etiopici 103 = A Pergamena, ff. 1r-19v. Una sola colonna. Cf. CERULLI, p. 80. Data: il catalogo colloca il manoscritto nel XVII sec., ma il codice di dimensioni molto piccole (7 × 7,5 cm.) appartiene ad un’epoca posteriore. La grafia è elegante ed uniforme (Tavv. I-IV). Il testo risente di una promiscuità cronica delle gutturali, e.g. ÑDM, KGS per ñDM, K@S, Ñmk¢ per ïmk¢ (strofa 42), ecc. Oppure fenomeni come oQÕ per o]Õ (strofa 33). Ci sono morfemi inusitati (inesistenti), e.g. strofa 32 ôkìB¨. Spesso, quando si discosta da B, I e V, A presenta una lezione più accettabile, e.g. strofa 32 A legge: @Èâo : [lF®] : x©ˆÑ : ôÜâß : FL™Í, mentre I: @Èâo : l]F£] : ylÜ : ëÑå : FL™Í; V: @Èâo : [lF®] : Ñy©ˆÑ : ôÑå : FL™Í. I e V non sono stati in grado di trascrivere correttamente. 2) Comboniani 278, 2 (S6) = B Ff. 37ra-45ra. Cf. RaiCom, p. 273. Pergamena: due colonne. Data: 1779-1801 (AD). La grafia è eccellente ed omogenea (Tavv. V-VI). Ci sono abbondanti rubricature. Il testo di questo codice presenta diverse omissioni e ci sono parecchi termini che difettano di una o più lettere. Alcuni lemmi sono scadenti, e.g. nella strofa 13 Fn| (uguale all’amarico e al tigrino) invece di FkÈ|. DL 44, qualifica questa forma male. 3) Vat. Aeth. 193 = I Cf. Borg. et. I, p. 659. Ff. 1r-15v. Data: XIX sec. La pergamena non è stata lavorata con cura e alcuni fogli sono stati rammendati. Anche se gli errori non mancano, il testo, a livello di grammatica, è più presentabile di e.g. “V”. Da rilevare fenomeni ortografici come ôÑÔo : DeG (strofa 31) che in realtà doveva essere un unico termine. Nonostante l’interpolazione in amarico dopo la trentesima strofa, ci sono alcuni lemmi che fanno supporre che lo scriba sia stato di lingua madre tigrina. Ad esempio, l’impiego del settimo ordine invece del primo. Ciò accade nella seconda strofa ôÜ´ãKÈ : oåD˜ anziché ôÜ´ãKÈ : oâD˜. Il tigrinismo sta nel å di oåD˜. Nell’explicit si legge
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D≤mkXä invece di D≤mkXâ: la forma del suffisso possessivo è esattamente come il tigrino. Diverse volte le approssimazioni e gli errori danno l’impressione che lo scriba non fosse ben consapevole di ciò che stava trascrivendo. E. g. nella strofa 32 si legge oâœG (che per altro non fa alcun senso) per o{œG e ancora l]F®] invece di [lF®]. Oppure nella strofa 40, eXmko per qXmkóo. Queste ed altre simili imprecisioni sono troppe per poterle giustificare come lacune imputabili a momenti di stanchezza fisica dell’amanuense10. A parte l’indicazione del nome dello scriba, Wäldä-Üanna, anche questo codice non offre elementi utili per fissarne la datazione. 4) Vat. Aeth. 89 = V Cf. Borg. et. I, p. 357. Ff. 29ra-33vb. Il catalogo assegna questo codice pergamenaceo al XV secolo, ossia, tre secoli prima della nascita dell’effigie. I criteri usati da Grébaut e da Tisserant per stabilire11 una tale datazione non sono chiari, soprattutto se si tiene conto della paleografia del manoscritto che è ben lontana da quella del XV secolo. Le misure del codice sono quelle dei manoscritti della fine del XIX secolo (Tavv. VIII-IX). Oltre alle dimensioni e al ductus delle lettere e all’ampiezza delle colonne che non appartengono all’epoca formulata, nel nostro codice manca tutto l’apparato ornamentale, tipico del XV secolo, e.g. le cruces ansatae, i cristogrammi, e altre decorazioni12. Il margine di differenza fra la stima dei catalogatori e l’età reale del codice è di quattro secoli abbondanti. Di fronte all’imponente e generoso lavoro svolto dai catalogatori si può concedere il beneficio del dubbio: che la datazione non sia dovuta ad un errore di stampa? Detto questo, è necessario constatare che nella descrizione del medesimo manoscritto non mancano altre inesattezze. Ad esempio, mentre il numero delle righe non è omogeneo e oscilla dalle diciassette alle ventitrè unità, il conteggio presentato nella descrizione indica diciotto righe. Il testo è stato copiato da uno scriba non particolarmente dotato, con una preparazione grammaticale piuttosto mediocre. Oltre alle parti che ha saltato e che poi ha cercato di recuperare mettendole tra le righe, il 10 Suggestiva l’interpolazione in amarico nel f. 10r dopo la strofa n. 30, (l’inchiostro è più sfocato rispetto al resto della pagina): “Come mai intorno qua non scrivo? Cosa mi è successo? Ordunque riprendi da qui!” (Tav. VII). 11 Ho detto “stabilire” e non “ipotizzare” perché la datazione non è accompagnata da nessun punto interrogativo. 12 Per esemplari di manoscritti del XV sec. Cf. UHLIG 1988, pp. 177-299.
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codice contiene delle lezioni che non hanno alcun senso, e.g. la strofa 2: Ü}ô : ÜMoâœD˜ : ÑMEã : ôÑÔßq≥ló : ÜMoâœD˜; strofa 10 kñKo : I}« : }ëÈ : DÔc : {©eq : ]mkGo invece di kñKo : I}« : }ëÈ : DÔc : {©eq : M√ˆìo. Non mancano situazioni in cui il copista trascrive l’opposto di ciò che il poeta ha detto, e.g. strofa 13 [EM : DÑ]|{ãKÈ : Ñ]||o : Q≥ : ÜD : å| per [EM : DÑ]|{ãKÈ : Ñ]||o : Q≥ : ôÑÔå|. Ci sono molti errori grammaticali, e.g. nella strofa 4, ÑÔßqDÌD£ per ÑÔqDÌF£; strofa 7, ôÜ}kD : Ü\o : Ü\o (doppio accusativo) per ôÜ}kD : Ü\q : Ü\o; strofa 16, Ü]K : Ñ}o : oGômkãî per Ü]K : Ñ{ : oGômkãî; strofa 27, S]£{ : G™Ô] (non usa l’accusativo) per S]£{ : G™Ô[. Il manoscritto non ha colofone. Una nota sulla paleografia dei codici con l’effigie di Abba Sébüat LäAb Alcune ipotesi e conclusioni cronologiche a riguardo dei manoscritti con l’effigie della Trinità espresse dai catalogatori, quasi tutti autorevoli professionisti nel campo della codicologia, mettono ancora una volta in luce la difficoltà di diagnosticare con “ragionevole precisione” le date dei codici. Nel caso dell’effigie di Abba Sébüat LäAb, stabilirne il termine post quem non doveva essere uno scoglio particolarmente insormontabile perché si usufruisce del privilegio di conoscere l’autore, l’epoca e le circostanze della composizione del carme. Ci sono elementi interni ed esterni che confermano che la costruzione della splendida chiesa di Däbrä Bérhan Ùéllase, dedicata alla Trinità abbia fornito ad Abba Sébüat LäAb l’occasione propizia per comporre il poema che esalta la Trinità, ma anche il sovrano (e amico) Iyyasu I. Ne parlano esplicitamente la quarta e la penultima strofa dell’effigie. Lasciano dunque perplessi considerazioni come quelle che accompagnano la descrizione del codice di Uppsala del Löfgren: «die Erwähnung des Negus Iyâsu macht es warscheinlich, daß dieses Gedicht entweder in den Jahren 1682-1706 (Iyâsu I.) oder 1730/55 (Iyâsu II.) verfaßt wurde»13. Dinanzi ai dati storici certi che si evincono dall’interno e dall’esterno del poema, molte delle date suggerite dai cataloghi non reggono, cadono da sé. Il quadro che emerge dalle descrizioni dei codici con l’effigie della Trinità di Abba Sébüat LäAb invita quindi a fare una riflessione di carattere generale. Molti cataloghi non devono essere considerati lavori definitivi. Ci sono diversi elementi che sollecitano una loro revisione. Oltre alla problematica legata alla cronologia, nel caso della nostra effigie vari cataloghi non met13 Cf. LO, p. 45.
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tono né l’incipit del poema né il rimando al prezioso repertorio numerato delle effigi e delle salutazioni, redatto con cura da Chaîne14. Sicchè la generica dicitura “Effigie della Trinità” non aiuta a capire a quale delle diverse effigi trinitarie si riferisca la descrizione. Nel faticoso (ma non ingrato!) lavoro di catalogazione è decisivo leggere per intero i contenuti di ciascun testo15 e confrontarsi con tutta la bibliografia relativa ad esso. Su questo non ci dovrebbero mai essere sconti. È una questione di rispetto per la scienza e per gli utenti. Si potrebbero menzionare diversi casi di codici descritti per sommi capi, in maniera abbastanza disinvolta16. Nell’arido esercizio di redazione di cataloghi, uno dei peggiori nemici dell’acribia, da cui il catalogatore deve scrupolosamente guardarsi, è la fretta che è spesso la madre dell’approssimazione e degli errori. Edizioni Ci sono varie edizioni di questa effigie che purtroppo non sono della stessa qualità. Alcune di esse contengono errori e imprecisioni di vario genere. Un esempio di (ri)edizione17 lacunosa è quello di Täsfa G., Mälk’éa Guba’e, Addis Ababa 1970 (AM). E.g., il terzo stico della strofa n. 19 recita: ™Ôk : K}kXãKÈ : [mkÑ : ÑG™Í : ^k : ÑMEã : {√T. È una lezione che presenta due difetti notevoli: la prima mancanza è di carattere grammaticale. Il testo non tiene conto della necessità di usare l’accusativo e anziché [mkÑ : ÑG© dice [mkÑ : ÑG™Í. Giustamente poi, in altre edizioni la voce ÑG™Í non compare. Si tratta infatti di un peso morto che oltretutto incrina lo scorrimento ideale della melodia. Inoltre, nell’edizione di Täsfa ci sono lezioni crude, come e.g. il primo stico della strofa n. 17: [EM : D≤ˇXñÛãKÈ : ]oı : Ñ}mkï : ©M : ôwOO. Questa lezione che è indubbiamente la lectio antiqua e difficilior, in altre edizioni sarà sostituita con un’espressione più morbida: [EM : D≤ˇXñÛãKÈ : ]oı : Ñ}mkï : [mkÜ : ôwOO.
14 Cf. CHAÎNE, 1913. 15 Dovrebbe essere un passaggio obbligato, perché senza leggere tutto il codice, non si
può mai essere sicuri dell’integrità del testo in questione, della correttezza della sequenza, di eventuali interpolazioni, ecc. 16 Di fronte ad alcuni cataloghi mi tormenta il dubbio che nel catalogatore frettoloso non ci sia stata la tentazione di pensare: “Intanto chi andrà a verificare?”. A pensar male si pecca, però spesso si indovina. 17 Da notare che il medesimo editore nel 1942 (AM) aveva pubblicato l’effigie della Trinità, un testo senza le lacune qua menzionate.
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Come testo base per il lavoro presente è stata quindi scelta la versione del Maæbärä Üawaryat Fére Haymanot18, pubblicata ad Asmara nel 1991 (AM). Si tratta di una recensione che ha corretto le lacune grammaticali delle edizioni precedenti. Altre effigi della Trinità Si conoscono effigi dedicate alla Trinità, diverse dal Mälké’a Ùéllase di Abba Sébüat LäAb19 e anteriori ad essa. C’è un’effigie che nel repertorio di Chaîne è il n. 189, e appare nei seguenti cataloghi: 1) EMML 2637,4 XVIII sec. Cf. EMML Vol. VII, p. 60. 2) EMML 2824,1 regno di Iyyo’as (1755-1769) sec. Cf. EMML Vol. VII, p. 168. 3) EMML 3000,5 1632-1661. Cf. EMML Vol. VII, p. 300 4) EMML 3138,2 tardo XV sec. Cf. EMML Vol. VIII, p. 122. 5) EMML 3997,31 XVII sec. Cf. EMML Vol. IX, p. 283. 6) EMML 4883,6 XX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 347. 7) W. XII, 2. XVII sec. circa. Cf. W, p. 35. L’effigie riportata in questo codice ha quindici strofe quinarie e inizia: [EM : DõãS : ]MãKÈ : ôÜMe©ˆK : ñDM : BFëÈ: D]ÜXqãKÈ : [EM : ëDXÜ]ãKÈ : »ó©ˆëÈ: Ñmk : ëëF©ˆ : ëK} ] : e™Í] : QE[ÚãKÈ : ¥»ëÈ: l’ultima strofa comincia: ]mkGq : DãKÈ : QDÍ] : e™Í] : kÑ : âËDÍ : ôQ≥ ;
C’è un’altra effigie ancora dedicata alla Trinità. Nel repertorio di Chaîne è il n. 347. Si conoscono esemplari registrati nei seguenti cataloghi: 1) Abb. 90, IX, XVII (?) sec. Cf. Abb., p. 123. 2) BnF 77,7. XVII sec. Cf. BnF, p. 84. L’incipit dice: Ü]K : mkôÍx} : ÜKÈ}oÎ : ÜD : ÑwôÍ : ß√ˆGÀ ; AßL~o : e©ˆ]q : QE[Ú : Ü}o : o\oÀ ; K√ˆG : LyDÌq : O|ß : ôÜD : ÑqSÀ: âK : Ü]mkã : Ñ}[ : ëÜ}¥X : DõEÀ: Ñ}c√ : ]mkGq : ÑXló : e©ˆLÙ¢ : ßyFÀ ; 18 Il titolo del libretto è √D˜o : Ü¥õÜq{ : LX•M : ô[{Û : μFμp ; kKdmkS : Ü¥ôÔÜ{ :
ÑÔ¢[È] : ãX]r] : M]D : KFãï : Ñ≥Üõo : ñDM : QE[Ú ; owqK : kfië›ÁÊë’ : ñKo : MISq : kkÚo : LyoM : åâk : √ˆlI : LykS : GìX•q : œW : AßL~q : ÑQKV ; La parte con l’effigie della Trinità comprende le pp. 27-42. 19 L’esistenza di molteplici effigi sullo stesso personaggio non è una novità. Ci sono diverse effigi dedicate a Gesù, alla Madonna, ma anche a santi, e.g. Giorgio.
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3) EMML 2799,1. XVIII sec. Cf. EMML Vol. VII, p. 140 4) EMML 4208,10 XIX sec. Cf. EMML Vol. X, p. 73. 5) Orient. 573, CXC, 9. Ultima parte del XVII sec., WRIGHT, p. 126. 6) Orient. 582, CXCII, g. Prima parte del XVIII sec., WRIGHT, p. 130. 7) W. XX, 10. XVII sec. Cf. W, p. 62. 8) Cerulli Etiopici 66. Cf. CERULLI, p. 60. ff. 1ra-4ra Data: XVII sec.
Sono due bifolii attaccati al resto del pesante e voluminoso codice, con legatura e rinforzo piuttosto fatiscenti. La grafia, poco elegante e di altra mano, suggerisce una data posteriore rispetto a quella del resto del manoscritto (Tavv. X-XI). I catalogatori (Cerulli e Raineri) non mettono l’incipit dell’effigie e non dicono che si tratta di un’effigie differente da quella composta da Abba Sébüat LäAb. Cerulli dice: «Malke‘ alla Santissima Trinità; mutilo in principio (in basso, alla colonna 2 del f. 4r è stata aggiunta la prima strofa ed il primo verso della seconda strofa dell’inno mariano ...)»20. Raineri riscrive ad litteram quanto il Cerulli aveva annotato21. Seguono le prime e le ultime due strofe dell’effigie e l’explicit: Ü]K : mkôÍx} : ÜKÈ}oÎ : ÜD : ÑxôÍ : ß√ˆGÀ ; AßL~o : e©ˆ]q : QE[Ú : Ü}o : o\oÀ: K√ˆG : LyDÌq : O|ß : ôÜDÍ : ÑqSÀ: âK : Ü}¥X : Ñ}[ : ëÜ}¥X : DõDÍÀ: Ñ}c√ : ]mkGq : ÑXkó (sic!) : e©ˆLÙ¢ : ßIFÀ ; [EM : DBEìıãKÈ : ôÑÔßqÑëe : π}oÎ: ëôÑÔßqÑKX : oœƒLÙoÎ: ]DÍ (sic!) : e™Í] : ôÑÔqKëÈoÎ: Ü}ô : ◊’ ëÜ}ô : ’◊: DÜk¢ãKÈ : QE[Ú : ônoÎ: [EM : DKDåqãKÈ : ôëÈÜoÎ : }≤ÈQ: Ñmk : ëF©ˆ : ëëF©ˆ : ëK} ] : e™Í]: Ü}ô : AD˜ : ÑmkXAM : pIo : ó∆ : ©ˆX] ; Ñ]oXÑßåKÈ : k[Ño : óDq : ]™Í]: k[ño ; kOXe : Vmkó ; ëXy : ëÑå : GM] ; [EM : DMISqãKÈ : kâK : KƒIœq : •{kÈ ; Ü]â : ßqŒPI : noÎ : DmkÜ[Ô : x∑ÔÑo : FkÈ: 20 Cf. E. CERULLI, Cerulli Etiopici 1-239, Inventario redatto da Enrico Cerulli, ed. fotografica 1978, Biblioteca Apostolica Vaticana, p. 99. 21 Cf. CERULLI, p. 60. Questo era un caso ideale da “integrare”.
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QDÍ] : e™Í] : ôÑã| : MISq : qSkÈ: Ñå{Í : áWq ; QE[ÚãKÈ : qDÌkÈ : kLykS : Ñß@È©ˆ : Ñmk™} : LÜôÚ : ß∑kÈ ; Explicit [EM : [EM : DoìI¨ : e©ˆ]q : QE[Ú : cìÒK¢ : e©ˆK : QE[Ú : Ü}kD : |œf: ÑÜMY : IDÔ|¢ : QE] ; ¥ƒìıCKÈ : QE[Ú ; ëÑäD˜KÈ : QE[Ú: ëe™[ÚCKÈ ; âL@È : QE[Ú ; xßF¢ : QE[Ú : AßL~q¢ : QE[Ú : k]K : [D[Ú (sic!) : Üc∑eπ ; âß[Ú ;
Dalla presente rassegna dei testimoni le cifre parlano chiaramente: il numero schiacciante dei codici con il poema di Abba Sébüat dimostra l’altissimo indice di gradimento che essa ha potuto raccogliere. Una popolarità che ha spiazzato e quindi rimosso completamente dall’orizzonte le effigi precedenti. Stile del Mälké’a Ùéllase di Abba Sébüat LäAb L’effigie della Trinità è un prodotto di un letterato provetto, con un’ottima padronanza delle norme delle composizioni poetiche e dei sottili meandri della lingua gé’éz. Nel comporre l’effigie della Trinità, Abba Sébüat LäAb ricalca i paradigmi classici di questo genere letterario, sia per quanto concerne la struttura generale del poema, sia a livello di scelte lessicali e semantiche. Essa si articola in strofe monorimiche quinarie e come in quasi tutte le effigi il compositore loda tutte le parti del corpo della Trinità: dai capelli alle unghie dei piedi. Pur trattandosi della realtà trinitaria, l’interrogativo sulla questione della “corporeità” di Dio non si pone neanche. L’autore ha le spalle coperte da autorevoli testi patristici e teologici, con tanto di testimoni biblici, nei quali si legge che Dio ha “occhi, orecchi e tutto il resto”22. 22 Sull’argomento, cito solo due testi per essere conciso. Il Haymanotä Abäw che dice: ëôßkÚDÍ : KƒIœq : âKn : DÜ¥ôÔÑmkGÌX : Ñóß}q : ëÑÜö} : ëâËDÍ : ôomkBD : ÜD : oXÀ : kÜ}o : Ü¥ôÔÑmkGÌX : {ÑM} : âK : ÜKÈ} : ë√ˆ©ˆe : ëÈÜoÎ : ëlIoÎ : ÑÔßqSâmk : ëÑÔßqGÌDß : ëâËDÍ : [mkÜ : ôkÑXÑ• : Ü¥ôÔÑmkGÌX : ëkÑM\DÍ : ÜKÈ}oÎ : o πT : Kõ 34 (33) : 15| 16 : 1√¬Ìπ 3 : 12 ; ™} 7 : 9-14 : VÜ 1 : 13-16 ; A.Ñ. Mó 19 : cˇ.33 : ≤√ˆ 54 = «quanto dicono i Libri e anche altri sostengono su Dio, che Dio ha occhi, orecchi, è degno di fiducia e crediamo che è vero e giusto, anche se non è possibile raggiungerlo né sondarlo. E ogni persona è stata creata a immagine e somiglianza di Dio. Sal 34 [33],15-16; 1Pt 3,12; Dn 7,9-14; Ap 1,13-16», HA 54. Nella sua confutazione contro Sabellio, il Libro del Mistero
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Polisemia La tecnica fondamentale su cui poggia buona parte dell’impianto letterario dell’effigie è la polisemia23, un’arte che caratterizza diversi generi letterari nelle lingue gé’éz, amarico e in tigrino. In Etiopia la polisemia è conosciuta come “[M| ëXe = la cera e l’oro”24. Esiste anche ymkX, un termine tecnico alternativo e complementare a quello tradizionale appena menzionato. ymkX significa, “combinazione, associazione, concordanza, termine che può avere più di due significati, metafora, la somiglianza tra padre e figlio, tra il timbro e la sua impressione, tra la sagoma e il prodotto finito”25. La polisemia è un espediente che permette all’autore di servirsi di un termine, e nel caso della nostra effigie, di molti binomi che rappresentano due livelli di significati: il senso materiale, immediatamente riconoscibile, e in secondo luogo, il significato meno appariscente, volutamente velato, nel quale si annida il senso traslato, che è poi il nocciolo del messaggio. Il termine o i binomi dei quali l’artista si serve possono essere paragonati ad un prisma che sotto il riflesso della luce assume i colori più variegati, secondo la posizione di chi osserva. Il compositore utilizza l’armamentario biblico, patristico e le altre cognizioni di cui ha fatto tesoro durante la sua prolungata ed estenuante formazione scolastica. Ricorre al suo bagaglio accademico per ispirarsi a personaggi e a fatti del passato, non soltanto per esprimere e promuovere il sensus fidei tramite la lode del soggetto di cui la composizione si occupa, ma anche per valutare, esaltare, attaccare persone e situazioni del presente. Si tratta dunque di un genere letterario per sua natura sfuggente, intenzionalmente sibillino. La polisemia è un’arte che ha esercitato e continua ad esercitare un fascino irresistibile fra i letterati etiopici e nella psiche degli etiopici in generale. Ma è anche opportuno riconoscere che questo genere letterario non è scevro da eccessi e limiti. evoca diversi passi della Scrittura e conclude: «Ecco dunque, ti abbiamo portato delle testimonianze dalle Scritture (che provano) che Dio ha perfetta figura umana» LM (1) traduzione, p. 17. 23 Per sgomberare il campo da eventuali equivoci, bisogna precisare che c’è una differenza importante fra il genere letterario “effigie” e i qéne. Questi ultimi sono molto più complessi sia per quanto riguarda la loro fisiologia che per la loro varietà: infatti i tipi di qéne ammontano a diverse decine. Resta fermo però che hanno una parentela di fondo che è appunto la polisemia. 24 Una terminologia che rimanda alla tecnica dell’orefice che usa la cera come forma o modello provvisorio per creare i gioielli. La cera è uno strumento di lavoro temporaneo destinato a squagliarsi. È quanto sostengono i maestri: [M ßcF∏F : ëXe ßcVF = “la cera si squaglia mentre l’oro rimane”. 25 Cf. TLK, p. 13.
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Di questo sono consapevoli i diretti interessati; i periti dell’innodìa. È una considerazione che riguarda anche l’effigie della Trinità. Almeno in un paio di occasioni, sembra che Abba Sébüat LäAb, pur di far uso della polisemia sacrifichi il sacro per il profano. La sedicesima strofa dice: «Salute al vostro respiro, vita di ogni creatura vivente, o Trinità, sacerdoti del cielo il cui sangue è remissione, col vostro sangue aspergete gli stipiti della mia casa, poiché io ho già valutato e provato il debole e incapace sangue degli animali».
Lo scopo dell’autore è quello di tracciare un parallelismo antitetico tra i sacrifici antichi e il sangue della Nuova Alleanza che rappresenta un impareggiabile salto di qualità soteriologica. La strofa vuole esaltare il valore inestimabile del sangue del Dio fatto uomo e in questo sforzo di far emergere la portata enorme del sacrificio del Figlio di Dio, l’autore chiama in causa tutta la Trinità. Ciò nondimeno, ci sono interrogativi che il linguaggio di Abba Sébüat LäAb necessariamente spinge a sollevare. Innanzitutto è difficile capire in quale modo la Trinità possa essere associata al ministero sacerdotale ed è ancora più problematico il significato dell’aspersione con il sangue delle Persone Divine come espressione di tale servizio. Infatti i sacerdoti non aspergono con il proprio sangue. Tutt’al più offrono incenso, presentano vari tipi di sacrifici, animali inclusi, ma mai il proprio sangue. I testi teologici etiopici sottolineano con forza e con coerenza il fatto che la redenzione a prezzo dell’oblazione della propria vita è opera del Figlio, l’unico delle tre Persone che si è incarnato ed ha versato il suo sangue. È vero che la liturgia canta che «Dio è stato appeso sul legno della croce»26, ma la croce come storia trinitaria27 è una nozione estranea al pensiero teologico etiope. Un’altro esempio di uso discutibile della polisemia è la strofa n. 21: «Salute alla vostra schiena che fu flaggellata prima dei secoli con la verga nascosta dell’eternità come è stato scritto nel libro: o Trino Santo che sempre vi unite,
26 Molto significativo il canto della vigilia della solennità del Mädæane ‘Aläm = Salvatore del mondo, e.g. il 27 di Génbot (4 Giugno): «Sei stato schiaffeggiato in mezzo all’assemblea per amore della Chiesa, per santificarla con il tuo sangue prezioso. Per amore della Chiesa ha sopportato i legacci delle catene e pur non avendo commesso peccato ha accettato lo sputo impuro. Dio è stato appeso sulla croce», cf. Mäúüafä Ziq, p. 153. 27 “La croce come storia trinitaria” è il titolo di un paragrafo nel volume di FORTE 19884, pp. 35-42.
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proteggete dalle cadute e rendete luogo di riposo il mio edificio interiore il cui esterno è grasso».
È una strofa del tutto singolare per la sua arditezza, a cominciare dal primo stico. Anche se altrove la liturgia riconosce che «Dio non ha una schiena»28, la schiena è una parte somatica che il poeta difficilmente poteva schivare perché essa figura costantemente nell’ossatura delle effigi. È altrettanto comprensibile che lo scopo di questa strofa sia quello di esprimere l’ineguagliabile eternità della Trinità in termini più che incisivi. Tuttavia parlare del «dorso della Trinità flagellato ... con la verga» suona decisamente al di sopra delle righe. Lo ammettono anche diversi maestri con i quali ho avuto modo di discutere questo passaggio dell’effigie. Da una lettura attenta della strofa, risulterà lampante che in ultima analisi la scelta del linguaggio, vicino all’ossimoro29, dev’essere stata condizionata dalla necessità di far combaciare la rima (ottenere la lettera finale — ). Gli esperti dei qéne30 hanno i loro criteri di valutazione con cui giudicano la qualità delle loro composizioni. Le due strofe 28 E.g. il passo dell’anafora mariana Eructavit che dice: Ñå : ônoÎ : DKDåq : Ü}¥©ˆñ : ëœ√ˆM : ëôl} : Ü}o : ©ˆyX : kôßqSÑß = «non è che la divinità abbia un petto o una fronte o una schiena sul retro, che è possibile contemplare» in MQ, p. 246. 29 Potrebbero essere dei pallidi termini di paragone, espressioni come “montagne spazzate dal vento”, “un gioiello tempestato di gemme”. 30 Ricci definisce i qéne come segue: «... la tecnica riguarda non solo la disposizione dei
termini, il ritmo di ogni singolo verso e la struttura unitaria, verbale e melodica, del componimento, ma anche il modo di costruire con abilità e arte adeguate, attingendo alle nozioni della scienza sacra, i sottili concetti e le figure allusive, entro le quali annidare, spesso mascherato con allegoria esasperatamente lambiccata il voluto riferimento al fatto o idea che si ha di mira e il personale giudizio su di essi». RICCI 1969, p. 830. Interessante l’analisi filologica del termine qéne di Admasu Óämbäre, una delle massime autorità di questo genere letterario. Innanzitutto Admasu sostiene con vigore che questo genere letterario appartiene esclusivamente all’Etiopia. Fa poi derivare il sostantivo verbale qéne da qänäyä = sottomettere (DL, col. 447, II). Qéne è un composizione impromptu che non può mai essere ripetuta (altrimenti diventa immediatamente plagio) che esprime la sottomissione della creatura, una lode fresca volta a ringraziare il Creatore. In secondo luogo il qéne serve a sottomettere gli organi esteriori e le facoltà interiori per entrare nella sfera della contemplazione. Admasu conclude con una definizione che sintetizza il concetto di qéne: e{Û LDq [ëÈ âV[È Ñ}er DÜ¥ôÔÑmkGÌX Ñ™Ô] M]≥| EeXmk lD ≤ÔôÚ M\DÌ K]D˜ MQ∑ÔX Ñ`aD˜ ¥πM kK¥∑M ¢FkÈ|ëÈ} ÜëÈcq ¢ÑÜMYëÈ} Xcq ¢L≤F√ˆkq ¢ÜëÈcoÎ} ©SÆ ¢L•]pëÈekq ¢[L}M FkÈ| ¢L•{ddkq| ¢L•Veekq ©ˆX[q {ëÈ = «qéne è una composizione che si sprigiona liberamente (dal cuore), quando l’uomo decide di presentare a Dio una lode fresca. In esso il compositore si serve di analogie, affina il mistero, allestisce la rima e in questo modo esprime la conoscenza del suo intelletto, la sottigliezza del suo sapere e trasmette il livello delle sue cognizioni, sollecita e raffina la mente dell’ascoltatore». Cf. ADMASU ÓÄMBÄRE 1963, p. 9. Per una buona sintesi recente sul genere letterario qéne, in lingua europea, cf. CHAILLOT 2002, pp. 87-90.
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appena analizzate e soprattutto la seconda, entrano nel novero di quelle produzioni che i maestri chiamano âÍ_q kušät31: una qualifica tutt’altro che allettante. Si tratta di un epiteto che valuta poco pregiato, inverosimile, se non addirittura banale “l’oro”, ossia il senso nascosto e ultimo della composizione. La tradizione supplisce alcuni “campioni standard” di kušät. Uno dei più noti è il seguente: ≤õ : ëF©ˆ : MDÍÑ : mkôÍy : √≥: ÜKÈ : ©ˆ}¥F : Ü]K : ÑmkFñr : Q≥ ; «Il figlio, ricolmo di grazia abbondante è ingrassato (cresciuto) perché la sua vergine madre lo ha nutrito di carne» 32.
Il segreto, “il messaggio cifrato” di questi versi è che il Figlio immateriale si è rivestito dell’umanità con la partecipazione attiva della Vergine Madre. I maestri giudicano dozzinali questi versetti, soprattutto quello che dovrebbe essere “l’oro”, ossia, “lo ha nutrito di carne”. Troppo crasso! Lo stesso verdetto vale per «il dorso flaggellato della Trinità». Simbolismo numerico Nella sua succinta ma minuziosa disamina dell’effigie di Abba Sébüat LäAb, Gabré Yesus ipotizza la presenza di un simbolismo aritmetico che ruota intorno al numero tre ed ai suoi multipli. Egli sostiene che la profondità del mistero della Trinità viene espressa nelle prime tre strofe; l’imperatore Iyyasu è menzionato per tre volte: nella quarta, nella ventitreesima e nella quarantatreesima strofa. Si dimostrano l’irreversibilità dei meriti e l’inefficacia degli intercessori per tre volte. Il compositore chiama in causa: Michele e Gabriele (strofa 17), Elia (strofa 28), Giorgio 31 Cf. HABTÄMARYAM WÄRQNÄH, p. 201. A proposito di âÍ_q, TLK, p. 1412 dice: «a type of qéne-poetry containing wild exaggerations and statements contrary to common sense». 32 Si possono citare altri due esempi di âÍ_q, che i maestri spesso chiamano in causa:
G©≤ : ëF©ˆ : kcD : Ñ™M : ∆T : / e}ìq : ÑóT¥ : ÑM∏{ : 멈cÎ : kÜ¥T ; = «il Figlio ha desistito dal vendicarsi su Adamo suo nemico, quando gli anziani (ossia quando) le stimmate caddero ai suoi piedi». Un poema considerato âÍ_q per via dell’accostamento troppo palese degli anziani (= pacieri) al valore delle stimmate: le ferite per le quali l’umanità ha ottenuto la riconciliazione. Un giudizio analogo è stato riservato al seguente poema: kcV}® : o≤mkS : ô•]oñ√ˆmk : FAc : / Ü}ô : ©M : ÑFn : åâmk : ô멈c : / ôÑÔ멈c : ëXy : ÑM∏{ : k©M : o∑Mc : = «sul Cranio è stato compiuto qualcosa che ha tormentato l’adulto: mentre non si è visto sangue sulla stella che è caduta, è invece intrisa di sangue la luna che non è caduta”. Il messaggio nascosto è che tra due persone che hanno avuto una colluttazione quello che è caduto (sottinteso Adamo) non è sanguinato mentre ha perso sangue colui che non è caduto (Gesù Cristo l’innocente)». La mia fonte di questi inni è il Mäggabe Mésýir Mäbrahtu Mäba che ringrazio cordialmente.
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e Täklä Haymanot (strofa 35). Si citano tre eretici: Tadra (strofa 20), Sabellio (strofa 32) e Ario (44). Il termine luce e il verbo illuminare sono citati per sei volte33. Sintassi e melodia: un connubio spinoso Per la modulazione canora delle effigi, la liturgia normalmente usa la melodia ‘ézl34, una prassi che riguarda anche la nostra effigie. Nella complessa tessitura della poesia che deve tenere conto non solo della rima ma anche delle esigenze della metrica (in vista del canto), l’artista deve fare tutto il possibile per “stare nelle misure”. Un paio di lettere in più o in meno possono rendere la composizione inagibile per il canto. Sono esigenze che non lasciano spazio a compromessi e che di conseguenza possono risultare in passi difficilmente decifrabili, per via di sequenze lessicali impossibili da afferrare, soprattutto per i profani. Si tratta di uno scoglio che appare fin dall’esordio dell’effigie della Trinità. Gli ultimi due stichi della prima strofa dicono: KDåo : DDÑG™Í : ôôÔÑãKÈ : ≤ƒo : Ü}kD : q©ˆMXq : Ü[L : ëÜ@Èmk : q©ˆMXo. Per comprendere il contenuto di questi due versetti, espresso con un lemmario in ordine sparso e con almeno una forzatura sintattica è necessario riordinare ed emendare come segue: DDÑG™Í : ≤ƒo : ôÔÑãKÈ : Ü}kD : q©ˆMXq : KDåo : Ü[L : ëÜ@Èmk : q©ˆMXq. Lo stesso discorso vale per il quarto versetto della diciottesima strofa: ô@Dë : pIo : ÑÔ•[È : âK : kxßFãKÈ : ãBD. Esso deve essere riordinato: âK : ãBD : kxßFãKÈ : ÑÔ•[È : ô@DëÈ : pIo. Questi e simili stravolgimenti del corretto flusso del discorso non sono una novità. Sono una caratteristica ben nota delle composizioni poetiche e i maestri hanno creato un termine tecnico che
33 Cf. GABRÉ YESUS HAYLU 1970, p. 279. 34 Nel canto etiopico ci sono tre tipi di melodie, “divinamente ispirate” al già menziona-
to fondatore dell’innodia etiopica Yared. Esse si chiamano: gé‘éz, ‘ézél, araray. La prima viene designata gé‘éz, una melodia difficile, piuttosto arida, che secondo gli esperti del campo “impegna molto la gola” si utilizza soprattutto durante i periodi penitenziali. Cf. K. K. SHELEMAY, Gé‘éz in Encyclopaedia Aethiopica 2, Wiesbaden 2005, pp. 735-736. Il secondo tipo di melodia, l’‘ézél è più elaborato del gé‘éz. Il significato del termine è poco chiaro e quindi suscettibile a svariate letture. Si utilizza per il canto di festività annuali e negli Inni della Settimana Santa. Cf. K. K. SHELEMAY, ‘Ézél in Encyclopaedia Aethiopica 2, pp. 480481. Abbiamo infine l’araray, un canto dolce, che viene fatto derivare dal verbo gé‘éz, araæræa che significa “intenerire, commuovere”, cf. DL, col. 292; HABTÄMARYAM WÄRQNÄH 1972, p. 76; K. K. SHELEMAY, Araray in Encyclopaedia Aethiopica 1, Wiesbaden 2003, p. 312. Un’eccezione alla prassi di cantare le effigi secondo la melodia ‘ézél è il tempo della Quaresima e le due settimane di digiuno e di suppliche in preparazione all’Assunta o Zämänä Félsäta. Durante questi periodi la melodia prevista è l’araray.
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la illustra: œXee35 che significa “crepe, fratture” per indicare appunto le voci sfrattate dalla loro debita collocazione e mandate in esilio. La strofa n. 43 dice: [EM : ÜmkF : DôôÔÑãKÈ : fM. La forma sintattica normale doveva essere DfK : ôÔÑãKÈ. La grammatica tradizionale chiama ∑Möü la particella ô in ôôÔÑãKÈ perché scombina quello che doveva essere l’assetto ordinario dello stico. Ancora una volta il compositore ha dovuto ripiegarsi a questa formula piuttosto tortuosa per restare nei parametri della melodia. Sono trasgressioni grammaticali di cui gli artisti sono perfettamente consapevoli e che accettano di buon grado, come un inevitabile dazio da pagare nell’ardua impresa di far quadrare il cerchio, i.e. conciliare i diversi elementi quali la polisemia, la rima, la sintassi e la melodia. Contenuti teologici dell’Effigie della Trinità Lex Orandi est lex Credendi: l’Effigie della Trinità è una sintesi magistrale fra dottrina, letterarietà e pietà. Abba Sébüat LäAb riesce a creare una simbiosi fra quella che Karl Rahner ha voluto specificare come la Trinità «immanente» e la Trinità «economica»36. L’autore canta all’esistenza ineffabile della Trinità. «La vostra esistenza non si è fatta prestare consigli da estranei» (strofa 31). L’effigie inneggia all’eternità di Dio. Un’eternità senza termini di paragone, come canta l’incipit del carme: «Salute alla vostra esistenza che vince le (altre) esistenze» oppure la quattordicesima strofa: «Salute alla vostra lingua che ha parlato prima di qualsiasi parola». Un’eternità misteriosa: «O Trinità, la vostra pre-esistenza non ha richiesto la spiegazione di un inizio» (strofa 7). La Trinità permea la creazione anche se è ontologicamente distinta da essa. La strofa 43 dice: «O Trinità voi siete gli universi dell’universo pur senza aver universo». Detto ciò, bisogna comunque prendere atto che in questo poema la Trinità non appare come una realtà astratta, avulsa dal creato ma sempre intimamente intessuta con esso, in particolare modo con l’uomo concepito come il sostituto dell’angelo della luce e corona della creazione (strofa 5). La metamorfosi, l’assimilazione dell’uomo alle tre Persone divine è un topos sul quale il compositore insiste molto. Da «uomo essere chiamato dio» (strofa 38), diventare «il luogo» della gloria trinitaria è l’agognata meta del carme come si legge nella strofa 45: 35 Cf. TLK, p. 2282. 36 Cf. RAHNER 1969, pp. 401-507.
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«O Trinità la vostra Trinità mi renda (vostra) località poiché dopo che mi sono unito alla luminosità della Trinità, tutto il mio essere è divenuto qua il vostro Giordano, non ho bisogno della vostra testimonianza sicura sul Giordano e non bramo il Tabor perché il Tabor sono io».
Da rilevare, per inciso, che la strofa 45 riflette l’ideale di un misticismo proteso a stabilire una comunione piena e senza mediazioni fra Dio e il credente. Si tratta di un misticismo che l’autore esprime con un linguaggio ancora più determinato nella strofa 23: «Salute al vostro seno mensa dei suoi servitori giusti, o Trinità, acque di Iyyasu che fluite dal suo pensiero 37, Voi al suo esterno eravate e Voi al suo interno, (perciò) non ha contemplato verso la tenda come suo padre Abramo 38 né ha voluto aprire la finestra del profeta Daniele» 39.
La strofa sottolinea la natura del rapporto che intercorre fra Iyyasu e la Trinità. Un legame di assoluta intimità, di gran lunga superiore a quello di Abramo che pur ha visto con i suoi occhi i tre ospiti misteriosi e a quello del profeta Daniele che tre volte al giorno, dal pertugio della sua stanza si volgeva verso Gerusalemme per unirsi a Dio nella preghiera. Nella strofa 19 il cantico abbozza una simultaneità fra la distruzione del diluvio e la glorificazione dell’uomo: «Salute ai vostri omeri che hanno supportato le fondamenta del mondo, quando i rematori di Noè e i legni della sua grande nave, 37 Cf. Gv 7,38. Il compositore non specifica, sicuramente di proposito, se si riferisce a Giosuè figlio di Nun oppure al monarca. 38 Gen 18,1-15. Giubilei 16,1. 39 Cf. Dn 6,11. L’accostamento della triplice preghiera di Daniele con il mistero della
Trinità si riscontra anche in altri testi, e.g. il HA cap. 90, n. 3, p. 389, nel passaggio attribuito al patriarca copto Giovanni di Alessandria (i.e. Giovanni IV, 776-799, cf. GRUMEL 1958, p. 445). Nella sua epistola (cf. GRAF 1937, n. 209, p. 395) a Ciriaco patriarca giacobita di Antiochia (793-817, cf. V. GRUMEL, ibidem, p. 449) in un contesto che tratta la dottrina della Trinità, scrive: ëD{A : ß©Fë{ : }ãQq : Ñóß}o : ÑFlkÔ{ : k◊oÎ : e™[Ú•q : âK : ™}ÑÌF : ôÑXwë : K]åo : kÚoÎ : k◊oÎ : √D˜pq = «anche noi dobbiamo aprire gli occhi dei nostri cuori con la triplice proclamazione della santità di Dio, come Daniele che aprì la finestra della sua dimora con le tre preghiere». Interessante il commento di Gabré Yesus a questa strofa: «L’Empereur Yassu donc, et comme lui tous les autres chrétiens est envahis dans leur intime par la présence de la Trinité; ils se trouvent dans l’état de perméabilité spirituelle», GABRÉ YESUS HAYLU 1970, p. 275. Il contenuto di questa strofa riflette il pensiero di Gv 4,20-24, e in particolare del versetto 24.
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hanno contemplato sul vostro trono un uomo divenuto Dio, i Cherubini e i Serafini si sono prostrati ai suoi piedi, perché lui ha comandato e loro sono stati creati».
La riabilitazione ed elevazione dell’uomo è un dono gratuito, come inneggia la strofa 29: «Salute alle vostre dita che non si separano dalle unghie o Trinità, mai si esaurisce la ricchezza della vostra casa: quando arricchiste l’uomo dopo che il suo errore l’aveva spogliato, gli angeli del cielo videro ciò che prima di oggi mai avevano visto e gli angeli furono nominati schiavi dell’uomo».
Infine, accanto alle affermazioni di carattere dogmatico, c’è un reiterato richiamo alla fede accompagnata dalle opere. Il carme lancia a più riprese il tema riguardante il valore dell’elemosina e delle altre opere di misericordia. Antropomorfismo L’effigie descrive la Trinità sia in sé come anche nelle sue attività in relazione con le creature con metafore e in termini antropomorfici molto audaci40. La ventiseiesima strofa dice: «O Trinità, aratori che mai vi stancate! poiché avete reso semente l’amore, il frumento della vostra casa che fa precedere la stagione della semina e fa seguire (quella del)la messe, nell’uomo, vostro terreno arabile, si è dilettato il frutto della giustizia».
Non si può tacciare di irriverenza espressioni di questo tenore. Il Dillmann nella descrizione del codice con l’effigie della Trinità (DBM LXII) dice: «per anthropomorphiam crassam in hoc carmine Trinitati omnia fere illa membra, quae in annotatione ad codicem LVII, enumerata sunt, attribuuntur, et in singulis strophis singulis membris salus 40 Questo tipo di approccio nei riguardi di Dio non è un contributo originale di questa effigie. Oltre alla matrice biblica, che in moltissime circostanza attribuisce a Dio fattezze e comportamenti umani, ci sono diversi passi nella liturgia che parlano di Dio che appare e agisce alla stessa stregua degli umani. Nella preghiera eucaristica mariana Eructavit si legge: «Veramente Dio Padre, dal cielo guardò a oriente e ad occidente, nel settentrione e nel meridione e verso tutti i confini. Respirò e annusò ma non trovò nessuno come te, si compiacque del tuo odore e amò la tua bellezza e inviò a te il Figlio suo che amava», MQ, p. 226.
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dicitur». «Antropomorphiam crassam» è un giudizio di sapore iconoclasta che non si addice alle effigi. Il punto di partenza nelle lodi delle effigi è un organo del corpo umano ma l’evocazione della parte somatica è un mero trampolino di lancio che ha lo scopo di immergersi pienamente nel mistero divino. Si può citare la settima strofa come esempio illustrativo: «Salute ai vostri occhi che hanno creato ad arte gli occhi, o Trinità, la vostra pre-esistenza non ha richiesto la spiegazione di un inizio: mi sia alimento interiore e veste preziosa all’esterno la vostra sapienza che senza fuoco ha acceso il fuoco e che senza acqua ha raffreddato le acque».
Un altro aspetto da tenere presente per comprendere correttamente la scelta di iniziare la lode da ciascuna parte somatica è la tanto sospirata deificazione dell’uomo, il corpo incluso, a cui i compositori di questi carmi guardano. L’esimio biblista Dillmann, specialista dell’Antico Testamento, conosce bene quell’antropomorfismo vetero-testamentario che rappresenta Dio come un vasaio che modella il primo uomo dall’argilla (Gen 2,7). Un Dio che permette a Mosè di vedere soltanto le sue spalle (Es 33,23). Oppure il Dio tessitore del Salmista (Sal 139,13-16) che assembla i vari organi per creare l’uomo41. Per poter capire il linguaggio di questa strofa è importante tenere conto dell’habitat culturale nel quale questa composizione è nata: un mondo profondamente rurale. L’autore usa le categorie concettuali e l’armamentario semantico a sua disposizione che è poi quello immediatamente accessibile ai suoi interlocutori. In questo senso l’impiego della figura del contadino per descrivere l’attività della Trinità è una scelta felice, capace di mediare efficacemente il messaggio dell’artista. Pienamente condivisibile la riflessione di Gabré Yesus Haylu a proposito dell’antropomorfismo dell’effigie: «... son essence n’a pas de limite où elle se borne ... il n’est donc pas question d’une conception anthropomorphique de Dieu: au contraire c’est la considération des effets en leur Cause efficiente. Tout ce qui est dans les créatures, doit être absolument, par raison ontologique, chez leur Cause suprême, dont elles sont des figures imitatives ... »42.
41 Un’attenuante che può forse aiutare a comprendere la valutazione negativa del Dillmann è il suo retroterra religioso e l’epoca in cui è vissuto. 42 Cf. GABRÉ YESUS HAYLU 1970, pp. 272-273.
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L’Effigie della Trinità e l’iconografia43 Ci sono alcuni passaggi nell’Effigie della Trinità che danno l’impressione di essere la descrizione di pitture che l’autore aveva dinanzi. A mio avviso, ne abbiamo un esempio nei primi due stichi della ventesima strofa: 20. «Salute alle vostre ali, ali infuocate, quelle che stanno in mezzo e quelle che stanno sull’orlo».
Non è stato possibile riscontrare pitture che rappresentano le Persone della Trinità con le ali ma ritengo legittimo ipotizzare che questi due versetti non sono un prodotto della mera fantasia artistica del poeta. Annequin suggerisce che la pittura della Trinità nella chiesa di Däbrä Bérhan Ùéllase a Gondär sia stata fatta proprio da Abba Sébüat44. L’Effigie della Trinità: una provocazione? Ci sono alcuni elementi di questa composizione, impressionante per la sua audacia, che non possono passare inosservati. Innanzitutto l’uso di alcuni termini teologici. L’autore, non certo uno sprovveduto, che anzi in questo poema dà prova di grande finezza ed erudizione sembra deciso a muoversi sul filo del rasoio. Nella quarta strofa, parlando della Trinità utilizza il termine Ñ≥Üõq. I maestri esprimono un profondo disagio per la scelta del compositore di usare il plurale di Ü¥ôÔÜ e molti di loro sostengono che tale scelta deve essere trattata come una sfida alla tradizione45. Ancor più seriamente, nella trentanovesima strofa si riscontra il termine ÑLFãq. I testi teologici si guardano bene dall’impiego di 43 Per un ottimo contributo sull’iconografia etiopica, cf. S. CHOJNACKI, Major Themes in
Ethiopian Painting. Indigenous Developments, the Influence of Foreign Models and their Adaptation from the 13th to the 19th Century, Wiesbaden 1983 (Äthiopistische Forschungen 10). La parte che riguarda l’iconografia trinitaria si trova nelle pp. 101-170. Un altro corposo lavoro (più recente) del medesimo autore in collaborazione con C. GOSSAGE è: Ethiopian Icons, Catalogue of the Collection of the Institute of Ethiopian Studies. Addis Ababa University, Milan 2000. 44 Cf. ANNEQUIN 1976, pp. 215-226. 45 Non si può sorvolare la curiosa considerazione morfologica di Kidanä-Wäld Kéfle.
Egli sostiene che la forma Ñ≥Üõq è erronea, perché a suo avviso Ü¥ôÔÜ non ha plurale (KWK, p. 307). Esiste la forma Ñ≥óõq, dal verbo Ñ¥ïô. Ñ≥óõq sarebbe il nome di una schiera angelica (KWK, p. 328). Ad ogni modo, anche a volerlo impiegare, Ñ≥Üõq rimane sempre un problema perché il plurale di Ü¥ôÔÜ è Ñ≥õÜq.
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Ñ≥Üõq e di ÑLFãq in riferimento alle Persone Divine. Citano il Credo Niceno per sottolineare che si può parlare di ÑMEã : ôÜMÑMEã = «Dio da Dio» e non già di ÑLFãq = «più divinità», altrimenti si rischierebbe di proiettare una visione politeista di Dio. Ritornando alla sedicesima strofa che dice: «Salute al vostro respiro, vita di ogni creatura vivente, o Trinità, sacerdoti del cielo il cui sangue è remissione, col vostro sangue aspergete gli stipiti della mia casa, poiché io ho già valutato e provato il debole e incapace sangue degli animali»,
non si può evitare di pensare che il Sangue associato alla remissione dei peccati e intimamente collegato con il sacrificio eucaristico è il sangue di Gesù Cristo. Mt 26,27-28 dice: «... Quindi prese il calice, rese grazie e lo passò a loro dicendo: “Bevetene tutti: questo infatti è il mio sangue della alleanza, che sarà versato per molti in remissione dei peccati”». Nessun cenno all’Eucarestia nel carme di Abba Sébüat. Un altro campo minato nel poema di Abba Sébüat LäAb è l’angelologia e il culto dei santi. L’effigie sottolinea con forza che la soteriologia è opera della Trinità. E sembra voler escludere qualsiasi rivale. In questo senso le strofe 17 e 35 sono estremamente chiare: 17. «Salute alla vostra gola che ha desiderato le lacrime umane quale bevanda, o Trinità ricchi di grazia, non spogliatemi della grazia! Se voi mi trascurate e mi lasciate nell’indigenza, è stato forse Michele ad andare a portare la mia carne o è stato Gabriele a darmi l’anima!». 35. «Dico: “Salve!” alle viscere, la vostra misericordia, o Trinità, poichè sovrabbondanza voi siete, siate per me pienezza nel (mio) poiché quando sono andato a partecipare al loro agone, [agone: Giorgio non mi ha donato neanche la misura di una stilla di rugiada dal suo e Täklä Haymanot mi ha negato un frammento del suo osso». [sangue,
Le posizioni di queste due strofe che non lasciano spazio ad equivoci, sono molto singolari perché suonano come uno scontro frontale con la tradizione. Il culto mariano, l’attaccamento agli angeli e ai santi e il persistente ricorso alla loro intercessione è una caratteristica fondamentale, se non l’orgoglio della teologia e della spiritualità etiopica46. Il pre46 Che si esprime attraverso la pittura (= il catechismo visuale), la letteratura, l’osservanza puntuale e meticolosa delle feste (che hanno un’influsso determinante nella quotidia-
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supposto teologico che ha plasmato tale religiosità e devozione (che resiste egregiamente all’usura del tempo che scorre) è il convincimento che la Trinità e il Risorto sono nella gloria e non devono essere scomodati. Devono essere raggiunti tramite la Madonna, gli Angeli e i Santi47. I contenuti delle due strofe menzionate sono, per dir poco, «rivoluzionari». Sono posizioni, lo ripeto, che vanno decisamente contro corrente rispetto al pensiero teologico tradizionale e soprattutto contro la prassi devozionale etiopica. C’è da domandarsi seriamente come mai queste strofe48 non siano incappate nelle maglie della censura (normalmente attentissima alle “devianze” e difficilmente restia a prendere misure) e non abbiano attirato nessuna scomunica ma che anzi siano entrate nella liturgia con tutti gli onori49. Il linguaggio e le affermazioni considerate in questo paragrafo che sfidano platealmente il magistero ufficiale della Chiesa Etiopica hanno indotto molti maestri etiopici a supporre che l’autore di questa effigie possa essere stato l’Aqqabe Sä‘at Käbte, nativo del Goóóam e morto a Gondär nel 1780 AM. Un esegeta di grande fama, con vedute e stile di vita “liberali”50. Controversie teologiche collegabili all’effigie della Trinità Premessa È ben noto che la multiforme comprensione51 del mistero di Gesù Cristo e le dottrine che si sono proposte di spiegarlo sono state motivo di lacerazioni profonde a partire dalle comunità cristiane della prima ora. È sufficiente pensare alle lotte dottrinali all’interno delle cosiddette comunità paoline e giovannee52. Seppur “a scoppio ritardato” anche nità, e.g. vietato lavorare nei campi nei giorni in cui si celebra la festa di un angelo o di un santo), ecc. 47 Per lo “status” del Risorto, cf. TEDROS ABRAHA 2001, pp. 697-698. 48 Di “odore protestante”. 49 Ironia della sorte, la liturgia canta la strofa n. 17 in occasione delle feste dei due angeli menzionati: di Michele il 12 e di Gabriele il 19 di ogni mese. 50 Cf. R. COWLEY 1986, pp. 41-46; BLUNDELL 1922, p. 65. 51 È un dato di fatto che anche il Nuovo Testamento, a cominciare dai vangeli, non pre-
senta una visione monolitica della persona di Gesù Cristo. È una multiformità che si percepisce persino all’interno dei sinottici stessi. 52 Cf. e.g. 2Gv 1,11: “Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo; perché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse”, oppure Gal 1,8: “Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema!”. Sono solo un paio di esempi
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l’Etiopia ha dovuto attraversare la medesima prova di fuoco a cui il resto del mondo cristiano è stato sottoposto53. Per tre secoli abbondanti l’Etiopia cristiana ha vissuto conflitti spesso violenti, suscitati da posizioni cristologiche contrastanti54. Tuttavia, contrariamente ad alcuni luoghi comuni che si sono convinti che la cristologia è stato l’unico o almeno il più importante tormento religioso dell’Etiopia, un’indagine meno sbrigativa dimostra che le tematiche teologiche controverse sono state molteplici55. I contenuti e i protagonisti delle dispute intorno al mistero della Trinità, testimoniati da testi teologico-apologetici classici quali il Libro del Mistero e il Libro della Luce sono abbastanza noti56. Non saranno pertanto ripresi in questa sede perché esulano dallo scopo dell’argomento che si sta considerando. Questa ricerca si concentra piuttosto su un’annosa rissa condotta da due fazioni rivali che erano (e sono ancora) conosciute come i sostenitori di ’ : KDåq (una divinità) e ◊ : KDåq (tre divinità). È una pagina controversa che, a quanto pare, non ha attirato l’attenzione degli studiosi: anzi dal confronto fatto con alcuni di essi, sembra che ne siano completamente all’oscuro. È ovvio che questo vuoto di informazione sia in gran parte dovuto alla scarsità di fonti di prima mano57. La mancanza di una documentazione primaria può eclatanti delle divergenze dottrinali che avevano raggiunto altissimi livelli di parossismo e di rifiuto reciproco già nelle chiese nascenti. Sono divisioni che per quanto concerne la Cristologia, sono state affrontate in un contesto universale nei concili ecumenici di Nicea (325) e di Calcedonia (451). 53 “Le prime discussioni teologiche in Etiopia risalgono al secolo XV e precisamente al tempo di Zar’a Ya‘qob (1434-1468)”, YAQOB BEYENE 1976, p. 1. Vale a dire che c’è uno stacco di un millennio tra il Concilio di Calcedonia (451) e l’inizio dei dibattiti teologici in Etiopia, cf. PIOVANELLI 1995, pp. 189-227. Cf. anche la recensione di P. LUISIER sul lavoro di Piovanelli in Orientalia Christiana Periodica 62 (1996), pp. 461-464. 54 Le dispute cristologiche sono esplose in concomitanza con la fallita missione cattolica in Etiopia (1555-1634) e sono state messe a tacere dal Concilio di Boru Meda nel 1878; un sinodo pilotato dal re Yoüannés IV (1872-1889). Nella sua sintesi delle diatribe cristologiche Guidi dice che “... la questione cominciò ad agitarsi, per così dire, ufficialmente, fin dal 15mo o 16mo anno di Susneos (1607-1632)”, cf. GUIDI 1922, p. 187. 55 R. BEYLOT ha giustamente puntato l’indice contro questo pregiudizio prevalente in Occidente: una prevenzione che riguarda non solo l’Etiopia ma anche le chiese orientali in generale, cf. BEYLOT (1974), p. 31. Prima di Beylot, Guidi notava che “al di fuori del ristretto cerchio degli specialisti, vi sono ancora alcuni - e forse non dei minori - che sono pur oggi troppo prigionieri del luogo comune della stasi ed irrigidimento del pensiero degli Orientali, luogo comune che per forza di cose viene ad avere il massimo suo valore per i nostri Etiopi ‘eschatoi andron’ ”, GUIDI 1946, p. 48. 56 Per una loro sintesi, si veda il già menzionato lavoro di Piovanelli. 57 Nessuna traccia di questa controversia e.g. nell’Appendice II di BLUNDELL 1922, pp.
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essere spiegata dalla perenne strategia dei regnanti etiopici che pur di tenere uniti i loro sudditi, non solo a livello politico ma anche religioso, cercavano di contenere al massimo il divampare delle polemiche. Oltre che a decretare pene capitali, esili, consegna alle fiamme di scritti reputati eretici, una delle misure a cui i sovrani facevano ricorso per limitare e sopprimere dispute religiose era quella di togliere l’ossigeno della pubblicità ai personaggi ritenuti più scomodi58. “I perdenti” dovevano essere isolati e ridotti al silenzio. Questa è verosimilmente la ragione per la quale i protagonisti del dissidio “una divinità”/ “tre divinità” e le loro argomentazioni, sono rimasti nella penombra. Certamente essi stessi hanno contribuito alla loro sorte di anonimato per il fatto che sono stati piuttosto restii ad esporre e men che meno a diffondere le loro dottrine. Era una scelta dettata dal timore di sanzioni penali. C’è una tradizione leggendaria secondo la quale la disputa che ruota intorno agli slogan “una divinità” e “tre divinità” sia nata da letture contrapposte degli ultimi due stichi della prima strofa dell’effigie della Trinità, cioè KDåo : DDÑG™Í : ôôÔÑãKÈ : ≤ƒo ; Ü}kD : q©ˆMXq : Ü[L : ëÜ@Èmk : q©ˆMXo = «divinità ogni vostro volto (persona) senza mescolarli io chiamo e predico la loro unità59».
Si tratta di una polemica svolta non solo sul piano intellettuale ma di una diatriba che è poi degenerata in scismi scandalosi, anàtemi reciproci, deportazioni dei “perdenti” e addirittura l’incendio doloso di una chiesa di cui si parlerà più avanti. La tradizione aggiunge che questa disputa è una scheggia della ben più ampia e grave crisi cristologica che ha polarizzato e insanguinato la chiesa etiopica a partire dall’inizio del diciasettesimo secolo. I campi di battaglia di questo scontro sono state soprattutto le regioni settentrionali dell’Etiopia, a partire dal cosiddetto Zämänä Mäsafént = Era dei Principi (1769-1855) e ben oltre.
58 Un grande professionista della repressione dei dissidenti è stato il re Zär’a Ya‘éqob
(1434-68). Ricorreva a qualsiasi punizione pur di tacitare coloro che osavano cantare fuori dal coro, cf. la sintesi nella recensione, TEDROS ABRAHA 2004, pp. 471-477. 59 Il secondo stico letteralmente dice: “senza mescolanza io chiamo e do la congiunzio-
ne”. Da rilevare che questi due versetti sono stati e rimangono una fonte di grandi perplessità e motivo di discordia fra i maestri etiopici, a prescindere dai loro schieramenti teologici.
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1) Diatribe trinitarie nel romitorio di Waldébba a) La leggenda La leggenda narra che la miccia è stata innescata nell’austero romitaggio di Waldébba60. Il re Iyyasu I, nel contesto più vasto delle controversie intorno all’unzione di Cristo, agli anacoreti di Waldébba insieme ad altri scritti, avrebbe inviato anche l’effigie della Trinità perché ne esaminassero i contenuti61. Abunä Minas, un intellettuale di grosso calibro, espresse una riserva importante a proposito del linguaggio della prima strofa e in particolare sui versetti che dicono: «divinità ogni vostro volto (persona) senza mescolarli io chiamo e predico la loro unità».
La preoccupazione del monaco era che tale formulazione poteva dare adito ad una interpretazione fuorviante del concetto di divinità. Chiese quindi una revisione del testo per non cadere nell’errore di ipotizzare tre divinità anziché una soltanto. D’altro canto, Abunä Ýa‘émä Kréstos, un confratello di Abunä Minas, anch’egli con una solida preparazione accademica, giudicò favorevolmente gli stichi dell’effigie della Trinità sotto scrutinio e disse che non vi era nulla da eccepire nel poema. Come di consueto, entrambi gli eremiti cercarono di suffragare le proprie posizioni con argomenti tratti dai libri sacri. Abunä Ýa‘émä Kréstos sosteneva che alla fine del mondo le tre Persone della Trinità sarebbero apparse in 60 Secondo la versione di WALDÉBBA 1993, p. 18, il nome Waldébba sarebbe stato dato dalla Vergine durante una sua visita nel luogo (Wali) e si riferirebbe ad una pianta (dubba) che fiorisce al mattino e dà il frutto il pomeriggio. Waldébba è un enorme romitorio, con diversi insediamenti di eremiti che si estendono su una vasta area delle regioni del Tégray e di Gondär. Occorrono almeno quattro giornate di cammino per percorrerlo. La fondazione di Waldébba è associata al monaco Abba Samu’el (XIV secolo), ma si racconta che già prima che egli organizzasse il romitorio vi fosse stata una presenza di eremiti. La fama di Waldébba è legata soprattutto al rigore ascetico che vi regna. Fra le altre severe pratiche di penitenza, vige il divieto di mangiare i prodotti di cereali e la carne. Il tipo di alimentazione (sempre uguale) si chiama qwaréf, radici amare (cf. GuV, col. 267) che possono essere consumate da sole oppure con qualche altro piccolo condimento, come le banane che i monaci coltivano, oppure con semi oleosi. Il luogo, inospitale per il caldo e la malaria che vi imperversano per buona parte dell’anno, è stato anche un rifugio in momenti di pericolo o semplicemente per ritirarsi in solitudine e preghiera per i potenti, inclusi re (e.g. il tre volte re Täklä Giyorgis della fine del XVIII secolo). Cf. BLUNDELL 1922, p. 542. 61 La cronaca del re Iyyasu I registra una sua visita ad Abräntant nel Mäggabit del 1690, durante la quale oltre che andare a caccia di elefanti il sovrano ha chiesto la preghiera dei monaci e il giorno della festa di Kidanä Méürät (Madonna del Patto della Misericordia) ha ricevuto l’eucarestia, cf. GUIDI 1961, p. 165.
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tre Persone, tre volti, nel pieno splendore della loro divinità e si sarebbero assise su tre seggi per decretare il loro giudizio. Anche i segni dell’Incarnazione e della Passione del Figlio sarebbero apparsi trasformati dalla gloria della divinità. In difesa della sua argomentazione, Abunä Ýa‘émä Kréstos si appellava al Salmo 121,5 [122,5] che dice: «Poiché là hanno stabilito i loro seggi per il giudizio»62, così come il passo dell’anafora mariana Eructavit che dice: «Il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo giudicheranno. Il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo interrogheranno»63. Totalmente diversa la posizione di Abunä Minas, ovviamente, anch’essa supportata da testimoni scritturistici. Basandosi su testi come Mt 25,31 e soprattutto su Gv 5,22 che dice: «il Padre infatti non giudica nessuno ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio», Abunä Minas affermò che alla fine del mondo il giudice dei retti e dei reprobi sarebbe stato solo il Figlio. A motivo di questa divergenza si è creato uno strappo non ancora ricucito, fra gli anacoreti di Waldébba, tra quelli che si riconoscono in Abunä Ýa‘émä Kréstos e in Abunä Minas64. È curioso notare che si tratta di una frattura teologica che non ha mai inficiato la loro comune regola di vita nota come “Sémrät = Concordia”, ma che comunque divide in due fami-
62 Chiamare in causa questa citazione per dimostrare che le tre Persone presiederanno il giudizio finale è una forzatura enorme, se non addirittura un’autentica mistificazione del testo biblico. Si tratta di un versetto che non può essere assolutamente letto in chiave trinitaria. Neppure i commentari (gli andémta) che non si fanno grandi scrupoli nell’allegorizzare, nell’interpretazione di questo passo non si spingono tanto, cf. TEWOFLOS 1982, p. 601. 63 MQ, p. 248. È molto interessante la versione diglotta (gé’éz-amarico) del Messale del 1993 (AM) che offre una variante di questo passaggio. L’editore in primo luogo presenta quello che si può definire il Textus Receptus, ossia: “Il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo giudicheranno. Il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo interrogheranno”. Poi aggiunge: ën ôßkÚ (termine tecnico impiegato dagli interpreti che significa “e c’è chi dice”, i.e. una lezione alternativa). Nella colonna a fianco c’è la sua traduzione amarica Ü}™ÔBM ¢LF ÑD. Segue la variante: Ñmk ß{mkX : ëF©ˆ ßâ˜}} : ëK} ] e™Í] ¢Gqq. Nella colonna parallela, l’amarico: Ñmk ßcK∏F : ëF©ˆ ß X™F : K} ] e™Í] ßKSMVF = il Padre si siede, il Figlio giudica e lo Spirito Santo interroga, cf. GÄBRÄÙÉLLASE BÉRHANU 1993, p. 175. Sono due testi diversi. La seconda lezione è chiaramente il risultato di una riflessione approfondita del testo ricevuto. Una riflessione sfociata in una recensione che si è proposta di emendarlo, tenendo fortemente conto dei dati biblici, a riguardo di chi alla fine dei tempi dovrà presiedere il giudizio universale. 64 Cf. J. PERSOON; D. NOSNITSIN, Däbrä Abräntant in Encyclopaedia Aethiopica 2, Wiesbaden 2005, pp. 8-9. Da rilevare che questa voce dell’Encyclopaedia Aethiopica non fa nessun accenno alle acrimoniose lotte che hanno afflitto Däbrä Abräntant per diversi secoli. Identico è il comportamento (irenico) di CHAILLOT 2002, pp. 160-163. Pur dedicando circa tre pagine al monastero di Waldébba, nella sua descrizione idilliaca del romitorio, la Chaillot si astiene dal riferire il dramma della divisione che lo tormenta.
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glie (rivali)65 il celebre romitorio. Ciò che è stato detto sinora è in gran parte una leggenda che il Märigäta Bérhanämäsqäl ha personalmente raccolto in loco66. b) Dati storici67 In realtà la controversia sulla Trinità è di epoca molto più recente soprattutto rispetto ad Abunä Minas. La tradizione racconta che Abunä Minas, un monaco di origini nobili, è arrivato a Waldébba dal monastero di Däbrä Libanos68 nello Šäwa. È stato abbate del romitorio per trentacinque anni. Si è poi dimesso dalla sua carica e passato il testimone ad Abba Zä»äraqliýos. Si è quindi ritirato a vita eremitica per vent’anni, in una caverna ad Agidar, sempre all’interno di Waldébba, ed è deceduto nel 1583 (AM)69. Abunä Ýa‘émä Kréstos nato a Bäggé‘a-Maryam, nel 65 Per esempio ogni volta che un ospite arriva al romitorio per farne parte questi non potrà più lasciare lo schieramento che lo ha accolto e lavato i piedi, cf. BÉRHANÄMÄSQÄL TÄSFAMARYAM 1996, p. 242. 66 Cf. BÉRHANÄMÄSQÄL TÄSFAMARYAM 1983, pp. 56-58. Il contributo di GIRMA 1977, è anch’esso una cronaca che riporta quanto i monaci hanno raccontato ed è interessante notare che sulla disputa trinitaria ci sono solo due accenni fugaci nelle pp. 105 e 106. 67 Le mie fonti principali in questo lavoro sono tre volumetti polemici in lingua ama-
rica, composti, ciascuno “per tirare acqua al proprio mulino”. Seppur in maniera piuttosto sottile, il lavoro di Bärihun parteggia per la “casa di Minas”. D’altro canto, WALDÉBBA 1993, senza autore, prodotto dalla “comunità” di Abunä Ýa‘émä Kréstos e GÄBRÄÉGZIABÜER ABRAHA 1995, che peraltro denunciano con risentito disprezzo l’opuscolo di Bärihun, sono un’apologia ad oltranza in difesa ed esaltazione della casa di Ýa‘émä Kréstos. Sebbene il volume di Bärihun sia stato pubblicato con l’imprimatur della Chiesa Etiopica, viene squalificato da WALDÉBBA 1993, p. 132, come un testo storicamente inattendibile, calunnioso e di parte (ahimè “etnica”). Cf. anche GÄBRÄÉGZIABÜER ABRAHA 1995, p. 51. I testi della famiglia di Ýa‘émä Kréstos non lesinano invettive anche contro il libro di GORGOYOS (Abba), YäItyo»»ya Ortodox Täwaüdo Betä Kréstyan Tarik (Storia della Chiesa Ortodossa d’Etiopia), Addis Ababa 1974 (AM), perché a p. 106 avrebbe fatto affermazioni ai danni della casa di Ýa‘émä Kréstos, “per sentito dire”, cf. WALDÉBBA 1993, p. 132. I tre volumetti, soprattutto i due della famiglia di Ýa‘émä Kréstos portano tutti i connotati di un forte rigurgito di “identità reattiva”. Sono un tentativo esasperato di affermare la propria storia, purtroppo platealmente a discapito dell’oggettività. Date e fatti rimangono dunque da verificare con meticolosità. Occorre un’indagine scientifica condotta da professionisti al di sopra delle parti per stabilire la verità, in base a documenti originali. 68 Däbrä Libanos in precedenza si chiamava Däbrä Asbo, fu rinominato Däbrä Libanos dal re Zär’a Ya‘éqob nel 1445. Si trova a circa centoventi chilometri a Nord di Addis Ababa. È stato fondato da Abunä Täklähaymanot all’inizio del XIV secolo, M. L. DERAT, Däbrä Libanos in Encyclopaedia Aethiopica 2, Wiesbaden 2005, pp. 25-28. 69 Cf. BÄRIHUN KÄBBÄDÄ 1983, pp. 82-83. Girma in un viaggio ad Abräntant ha raccolto
altre cifre, i.e. “Abba Minas received the anointment and remained as an abbot for 40 years, as a hermit for 40 years and at the age of 120 years he died”, cf. GIRMA ELIAS 1977, p. 103.
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Tämben (Tégray) e “occultato” (= morto) nel 1701 (AM), è entrato a Waldébba nel 1638 (AM) ed ha accolto l’ordinamento monastico del romitorio (il Sémrät) nel 1642 (AM). Abunä Ýa‘émä Kréstos nel 1646 (AM) è diventato abbate di un famiglia eremitica all’interno di Waldébba, per l’esattezza della cosiddetta Bete Ésýifanos succedendo ad Abba Näkkuto Lä’Ab70. Non ci sono testimonianze di suoi coinvolgimenti in polemiche teologiche; anzi egli è ricordato come un uomo di pace71. Infatti la configurazione chiara di due famiglie monastiche che si riconoscevano nella paternità di Abunä Minas e di Abunä Ýa‘émä Kréstos inizia nel 1680 (AM)72. Le lizze sono però avvenute dopo la morte di Abunä Ýa‘émä Kréstos. Dopo il decesso di Ýa‘émä Kréstos, il numero dei suoi discepoli ha subito un calo drammatico e nel 1886 (AM) lo sparuto gruppo avrebbe accettato, sotto giuramento, di abdicare alla propria autonomia non esigendo di avere un proprio abbate. Si sottomisero così alla “casa di Minas”. Sette anni dopo, quando le sorti dei monaci che si riconoscevano in Abunä Ýa‘émä Kréstos migliorarono, essi vollero avere una loro campana, un loro tabot73 e un loro abbate. La casa di Minas si oppose con vigore a questo cambiamento di rotta repentino, invocando il solenne giuramento fatto dai discepoli di Abunä Ýa‘émä Kréstos. Le parti non riuscirono a risolvere il contenzioso e si appellarono a Ménélik II (18891913). Intervenne la potente moglie di Ménélik, la regina Ýaytu Béýul: essa tentò invano di ottenere una riconciliazione delle parti e, vista la determinazione dei seguaci di Ýa‘émä Kréstos a riprendersi la propria autonomia, li congedò invitandoli “a vivere come prima”, i.e. ognuno per conto suo. Ciò avvenne nel 1910 (AM)74. Le due parti si sono in seguito spartite i beni e da allora ci sono due famiglie, note come “Bete Minas” e 70 WALDÉBBA 1993, p. 79. Ésýifanos è uno di sei monaci illustri, partiti dallo Šäwa e approdati a Waldébba nel 1397 (AM). Con l’arrivo di questi monaci, il romitorio di Waldébba ha conosciuto una grande crescita numerica che è poi risultata nella creazione di quarantaquattro comunità eremitiche (secondo il numero dei Tabot e delle campane presenti nel vasto eremo) ciascuna di esse amministrata da un abbate. Cf. BÄRIHUN KÄBBÄDÄ 1983, p. 72. 71 La versione di Bärihun dice che Abunä Ýa‘émä Kréstos è originario del Tämben (Tégray), che era già monaco quando è entrato a far parte del romitorio nel 1823 (AM). Cf. BÄRIHUN KÄBBÄDÄ 1983, pp. 82-83. Quanto al rebus intorno alle date è sulla stessa lunghezza d’onda WALDÉBBA 1993, p. 80. Il volume è molto vago sull’identità di Abunä Minas (= il padre dei rivali). Non dice nulla sulla sua affiliazione monastica. Solo poche righe che riportano un maltrattamento subito dal pio monaco. 72 WALDÉBBA 1993, p. 80. 73 Tabot è: 1) l’arca dell’alleanza che secondo la credenza tradizionale fu portata da Ge-
rusalemme ad Aksum. 2) È una tavoletta di pietra o di legno duro come l’ebano, che si mette sull’altare. Cf. GuV, col. 364. 74 Cf. BÄRIHUN KÄBBÄDÄ 1983, p. 123 (e pp. seguenti); GIRMA ELIAS 1977, p. 106.
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“Bete Ýa‘émä Kréstos” ciascuna governata da un proprio abbate. È vero dunque che la casa di Minas accetta lo slogan “una sola divinità” e quella di Ýa‘émä Kréstos “la divinità in tre persone”75 ma nel contesto generale delle battaglie condotte nell’eremo, la diatriba sulla Trinità non è il motivo principale della divisione. Rimane fuori dubbio che esiste un nucleo di verità sulla disputa dottrinale intorno al mistero della Trinità, un nucleo intorno al quale però è stato costruito parecchio. La polemica ha avuto ulteriori sviluppi ed è stata causa di alterchi cronici. Merita poi di essere interamente pubblicata una lettera di Ménélik II, datata Miyazya 6, 1899 (AM) = 14 Aprile 1906/7 indirizzata agli abitanti del “Tégre”76. In essa il re li invitava a mettere da parte le posizioni teologiche che li avevano divisi: gli uni che pretendevano che la “divinità è una” e gli altri che la “divinità è tre”. La missiva imperiale richiedeva la riconciliazione fra le correnti rivali ma affrontava anche la questione dell’unità e della trinità di Dio con argomentazioni tratte dalla Scrittura e dai Padri. Ménélik concludeva la sua lettera con una richiesta di aderire a quanto la sua maestà aveva scritto e minacciava sanzioni fisiche da parte sua e la scomunica da parte di Abunä Matewos77 contro i disobbedienti78. Segue il testo della lettera imperiale79. 75 Pur riconoscendo che c’è stata una disputa religiosa che la moglie di Ménlik ha cer-
cato di dirimere, WALDÉBBA, pp. 88-89, nega in maniera categorica che la casa di Ýa‘émä Kréstos abbia parlato di “tre divinità”. Anzi cercano di dissociarsi da questo linguaggio sostenendo di non aderire alla posizione di Yoüannés Tä‘aqabi, Giovanni Filopono, che parla di tre divinità, cf. GÄBRÄÉGZIABÜER ABRAHA 1995, pp. 32; 107-108, ecc. Su Giovanni Filopono (prima metà del sesto secolo), conosciuto in arabo come Yaüyâ an-naüawí (“il grammatico”), al-askulâ’í (“lo scolastico”), cf. GRAF 1944, p. 417 § 117. Nonostante le proteste e i distinguo, la strategia difensiva della casa di Ýa‘émä Kréstos non regge. Li contraddicono le loro stesse dichiarazioni emesse durante il processo di Däbat (Gondär) nel 1920 (AM), cf. GÄBRÄÉGZIABÜER ABRAHA 1995, pp. 34-35. 76 I.e. la regione del Tégray. GÄBRÄÉGZIABÜER ABRAHA 1995, p. 22, sostiene che nella copia della lettera depositata nell’archivio di Waldébba, non c’è la parte iniziale che dice: “(Questa missiva) giunga ai fedeli che stanno nel Tégre, ai dotti ed ai notabili. Come state? Grazie a Dio, io sto bene”. 77 Abunä Matewos (1843-1926) è un metropolita egiziano, influente capo della chiesa d’Etiopia dal 1889 al 1926, cf. S. TEDESCHI, Ethiopian Prelates in Coptic Encyclopaedia, pp. 1038-40. 78 SÄYFÄ, pp. 85-88. 79 La nota n. 8 a pie’ della p. 88 di SÄYFÄ dice: ë©
Ñã[ÈM oƒ√ˆŒ"âcı] ≤kõ oãDAßL~q âL≤ÄëÈ ©mk™kÚ ¢oEâFÇ ¥Flø; = «questa è una copia della lettera che ho ottenuto per corrispondenza dall’arciprete Täklä Haymanot da Aksum». La riproduzione (molto sfocata) dell’originale di questa lettera si trova in BÄRIHUN KÄBBÄDÄ 1983, pp. 14144. Bärihun (pp. 145-49) propone una edizione con qualche taglio e con emendamenti degli errori ortografici e grammaticali, insieme ad una sua traduzione in amarico. Interessante notare che anche la famiglia di Ýa‘émä Kréstos, che si proclama estranea alle dispute teolo-
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Lettera di Ménélik Nñ Ñ}k\ ôÜM{≤© ß@È™ ™¥LìÒ M{DÔã }≤ÈO {≤Qq ôÑÔq®√¬ˆ• : âq¥W äDÍ MÜK|} âDÔdëÈ}oÎM âKä˙}}oÎM ; Ü}´q ß©ˆS] [}mkpuw˚F Ü{Û Ü¥ôÔÑmkGÌX ßK]≤} ©y| {Ç ; kAßL~q {≤X Ñ}©ˆ KDåq R]q KDåq kLDq ÜX] kV\u@È ]Do∏Eu@Èkq {≤X Ñlrtu} GìX•q : R]q Kr DÔdëÈ}q : âƒÀq K√ˆGœ Ñë∏πo} Ü}√ˆœEuw˚D} dDÍM ßB {ëÈ ; Ñmk ëE™Ô : ëF©ˆ oëE™Ô : K} ] e™Í] OV«Ô ; ëE™Ô KDåq : oëE™Ô KDåq : OV«Ô KDåq : kÑäF k¥mkX k]M R]q |sëÈ ; (p. 85) ¢¥mkX R]q{psëÈ kKëÈD©ˆ kKëD©ˆ kKQS» {ëÈ ; kKDåq klIXß k d©ˆ : kDÌEëÈ @ÈDÍ Ñ}©ˆ |sëÈ ; Ü}Æ R]q KDåq mkD˜ kÑwõ Ñß{≤XM ; /kÑQV Ñ}©ˆ Ñ}c√ˆ/ ]DôÔB M]ãX ¢LC} Ñ¥|∑Ôî] ¢Ñ}[• (sic!) DÔc ƒ¬ƒ\ ¬ q öoÒ QE[Ú óUq ôÜ}kD œF∑q ëôÜ}kD ëÈE∑Ú kOD]oÎ ÑäEq ëkÑG™Í KDåq80 mkE˙F ; @ÈDoÅM ÜD OD]oÎ81 œ√ÍL} ™Ôk K}kS ]mkGq ëÜwÍö} k√ˆMSq ÑG™Í KDåq ôëÈÜoÎ ÑG™Í mkXA} ôßOXe ÜM{Û@È QE[Ú ëßKFÜ âÍDÍ œπSq82 mkE˙F /A• ô∑Ç/ Ñq|oÒî] (sic!) GìX•ëÈ ¢Ü]ã}©ˆX• DÔc ƒ¬ƒ\ ¬ q ÑMEã ëÈÜoÎ Ñmk ÑMEã ëÈÜoÎ ëF©ˆ ÑMEã ëÈÜoÎ K} ] e™Í] ëÑÔßqk@DÍ OD]oÎ ÑLFãq ÑE ÑG™Í ÑMEã83 mkE˙F ; @ÈDoÅëÈ ëKƒIœqA e™Í\q •kÚß| âK ÑG™Í KDåq âQDÍ]84 e™Í] ôëÈÜrKÈ Ñmk ëëF©ˆ ëK} ] e™Í] ÜM]85 ÑG™Í ëÈÜoÎ KDåq oìó¨rKÈ ëÈóoÎ86 KDåq DÑmk ëëF©ˆ ëK} ] e™Í] kõ}oÎ87 ÑÜKX{ âK ÑG™Í ëÈÜoÎ KDåq OD]oÎ88 ëëÈÜoÎ óTß M\DÌ@È (sic!) kKDåoÎ89 QDÍ] œ√ÍM OD]oÎ ÑäF90 Ü}ô ÑG™Í KDåq ôÑÔ•qDÌãß91 (sic!) ëÑÔ}ãI©ˆ OD]o ÑäEo âK –∑Ô~] KëXe DÍ]92 (sic!) X≤ÈL} ÜD
giche, pubblica la lettera di Ménlik (con una datazione diversa, i.e. 24 Génbot 1902 = 1 Giugno 1906/ 1907 AM) traducendo in amarico le citazioni e sottolineando le parti che sostengono che non è lecito parlare di “tre divinità”, cf. WALDÉBBA 1993, pp. 89-91. 80 HA cap. 11, n. 5, p. 37. 81 HA: ÜDÍ : ◊ ÑäEq. 82 HA cap. 11, n. 8.9, p. 37 ha la lezione grammaticalmente corretta, i.e. âËD˜ : œπSpo. 83 HA cap. 25, n. 4, p. 74. 84 HA: ôQDÍ]. 85 HA: Ü]K. 86 HA: oìI¨rKÈ : ëÈÜoÎ. 87 HA: ëkõ}oÎ. 88 HA: ô◊oÎ. Cf. HA cap. 25, n. 5. 6, p. 74. 89 HA: M]DÌ@È : kKDåq. 90 HA: k◊oÎ : ÑäEq. 91 HA: ôÑÔßqDÌDß. Cf. HA, cap. 25, n. 12, p. 75. 92 HA: ëKXeD˜].
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ÑÔ¢ÑM{Í kÑ]Lo OD]oÎ Ñ äEq ëÑÔ|[qq ÑG™Í KDåq93 ôODÍ] e™Í]94 ôâK ãI© ÑX®] mkE˙F ; l]F®] ¢cÒ\X• ƒ¬ƒ] ¬ e≈¬]M (sic!) ß©Fë{ |ÜMX ymkSo oìB¨o KDåq OD]oÎ95 ÑäEq ë|]oìI©ˆ kÑymkY kôôÔÑCKÈ96 ÑG™Í KDåq }ÑM}97 kAßL~q âK ßqëG©ˆ KDåq kÑmk Ü]K ÜMÑmk oëF© ëF©ˆ ëK} ] e™Í]{98 ë»Ñ ÜM{Û@È Ü}ô ÑÔßc©ˆN99 ÑG™Í ÜMäFïÍ ëäF@È ÜM\DF[È100 ëkF©o ëF©ˆ ë∆ño101 K} ] e™Í] QE[Ú@È DÑMEã{103 mkE˙F ; cıXD˜]M ÜMÑmk ßqëG©ˆ KDåq102 ¢Ü]ã}©ˆX• DÔc ƒ¬ƒ\ ¬ q Ñmk ÑG™Í œ√ÍM kÑäDÍ ëF©ˆ104 ÑG™Í œ√ÍM kÑäDÍ# K} ]105 e™Í] ÑG™Í œ√ÍM kÑäDÍ ëÑå âK ÜD KñS≤106 K}¥Qq ÑE ÑG™Í KDårKÈ107 mkE˙F ; k[l ]M}q Ñ}c√ˆ ®G}]M ¢ÑÔ¢T\DÌM ƒ¬ƒ] ¬ f≈¬] (sic!) ë{ÑM} âK ÜKÈ}oÎ OD]oÎ ÑäEq œ√ÍL} k≤ƒq ëóT•} kKDåq108 mkE˙F ; ô∑| ]©ˆ]q Ñ}c√ˆ μXμX®]M ôÜ}ô|ôÍ109 ßkÚ kÜ}o óU| e©ˆ]q QE[Ú Ke©ˆK âËDÍ {ÑM} kQE[Ú óT¢ ëe™Í[ Ñmk ëëF©ˆ ëK} ] e™Í] QE[Ú koìB¨o ëKDåq ôÑÔßqDÌDß ÑäEq[ ED (sic!) ÑG™Í œ√ÍM ëÈÜoÎ k≤√Í ëkKFãïÍ ôÑÔßqDÌD® (sic!) ; kR]q Kr ô∑| ô∑Ç Ñ}c√ˆ kKDåq mkE˙F ; (p. 86) ®G}]M ¢Ü]ã}©ˆX• DÔc ƒ¬ƒ\ ¬ q }I{[ }qÑK} âK ëF©ˆ ßqëG©ˆ kKDåq M]D Ñmk ëK} ] e™Í] ëÜKn ôÑÔ¢ÑM} âK ÑG™Í KDåq ôQE[Ú110 }I{ kKr ô∑| ]M}q
93 HA cap. 25, n.13, p. 74, ha la lezione grammaticalmente corretta, i.e. ’© : KDåo. 94 HA: e™Í]. 95 HA: ô◊oÎ. 96 HA: ôôÔÑCKÈ. 97 HA: ’© : KDåo : {ÑM}. 98 HA: e™Í]A. 99 HA: ÑÔßc©ˆM. 100 HA: ÜMäFÑÍ : ëäFïÍ : ÜMPF[È. 101 HA: ë∆Ño. 102 HA: KDåo. 103 HA cap. 32, n. 5.6, p. 107. 104 HA: ëëF©ˆ. 105 HA: ëK} ]. 106 HA add.: ëÑå : ÜDÍ : âK : KñX≤. 107 HA cap. 71, n. 2, p. 259. L’apologeta si ferma a metà della citazione prendendo solo
la parte che interessa la sua argomentazione. Cirillo procede: ë’ : MâË|~KÈ : ë’™Í : QMSrKÈ : ë’™Í : d¨KÈ : ë’™Í : MFã|CKÈ : ë’™Í : ëÈÜoÎ : Ü¥ôÔÑmkGÌX : ∏W : [L•q : ëM©ˆX : ëlIX : ëâËD˜ : ôëÈ]oırKÈ ; 108 HA cap. 52, n. 3, p. 167. 109 HA cap. 59, n. 2, p. 210, propone un testo leggermente diverso e grammaticalmente
più accurato ßkÚ : kÜ}o : óU| : e©ˆ]q : QE[Ú : ëoìI¨o : KDåq : ôÑÔßqDÌDß ; Ke©ˆK : âËDÍ : {[mkã : QE[Ú : óT¢ : ëe™Í[ : ôëÈÜrKÈ : Ñmk : ëëF©ˆ : ëK} ] : e™Í]& QE[Ú : koìI¨o : KDåq : ôÑÔßqDÌDß# ëÑäEq[ : DD : ’™Í : ÑäF : œ√ÍM : ëÈÜoÎ : kk≤√Í : ëkkKFãïÍ : Ü}ô : ÑÔßqDÌDß : kKDåq ; 110 HA: ôe©ˆ]q : QE[Ú.
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Ñ}c√ˆ ë¥ú mkE˙F111 ; mk}•M ¢Ü]ã}©ˆX• DÔc ƒ¬ƒ¬\q ë}kF }I{112 {ÑM} kÑk113 (sic!) ëëF©ˆ ëK} ] e™Í] QDÍ] e™Í] óTß ë[mk∏114 (sic!) OD]oÎ ÑäEq óT•} kâËDÍ ¥mkX ëM¥lX ë}lmk R]q115 ≤™q116 (sic!) ëkKDåq117 mkE˙F ; l]F®] ¢Ñ}¨âÔ•118 (sic!) DÔc ƒ¬ƒ\ ¬ q ÑÑM} ëÜqÑK} âK ÜKÈ}oÎ KDåq ëBEìÒ ëÑÔßkF âK ÑäEq e™Í\q äFÜq ÜKÈ}oÎ ÜM{ BEìÒ KDåpìÒ KDåq[ ëÈÜoÎ ÑäEq ôëÈóoÎ ≤ƒq e™Í\q119 mkE˙F k@ÈDq Kr [lq Ñ}c√ˆ/Ñl KdX]M ¢Ü]ã}©ˆX• DÔc ƒ¬ƒ\ ¬ q }I{[ {ÑMX Ü]K DKDåo QE[Ú ÑG™Í ãmkT ëÑÔßSãn I∆o DBEìÒ KDåq QE[Ú KDåo{120 ÜKÈX âK ëÈÜoÎ ¢xmkX121 OD]oÒCKÈ122 \ìY]} M]ãX Ñ©ˆXμ Ü}™ÔB mkE˙F kKr ÑQV ]M}q Ñ}c√ˆ ; ®G}]M ¢Ñ}©ˆã•123 111 Il testo (che peraltro mischia indiscriminatamente l’amarico con il gé’éz) di HA afferma che in realtà Giovanni cita Atanasio. Cf. HA cap. 90, n. 15. p. 391 dice: ëÑq|oıî]A : ôßqLÙ[D˜KÈ : DGìX•q : k{≤S : QXë : AßL~q : áXr¨ã\ìÒq : kïD : {eï : L¢ : Ißëq : [Lóq : mkôÍx : ≤ÔôÚ•o : ôÜ}kD : ãóëo : ©M : ßmkF : kK√ˆGÀ : ô©S[ : kÜ}o : AßL~q : }I{[ : }qÑK} : âK : ëF©ˆ : ßqìG©ˆ : kKDåq : M]D : Ñmk : ëK} ] : e™Í] : ëÜKn : ôÑÔ¢ÑM} : âK : ’™Í : KDåq : ôe©ˆ]q : QE[Ú : }I{ : |ë¥ú = «e Atanasio che assomiglia agli Apostoli nel proclamare la radice della fede ortodossa, padrone della sorgente della vita, molte volte martire senza versamento di sangue, nel suo libro sulla fede che ha scritto dice: noi crediamo che il Figlio si unisce (è pari) al Padre ed allo Spirito Santo nella divinità e se c’è qualcuno che non crede che la divinità della Santa Trinità è una, noi lo scomunichiamo». 112 HA omette. 113 HA: kÑmk. 114 HA: ]kÈI : ëe™Í]. 115 HA: ◊oÎ. Il testo usa il numerale amarico R]q! 116 HA: ≤ƒq. 117 HA: ë’™Í : KDåq : ë’™Í : ÑM\F& ëÑGoÒ : QMSq. Cf. HA cap. 89, n. 3, p. 381. 118 HA: ôÑ}≈âÔ•. 119 HA cap. 96, n. 5, p. 420 dice: ÑÑM} : ëÜqÑK} : âK : ÜKÈ}oÎ : ëBEìı : ëÑÔßmkF : âK : ÑäEq : e™Í\} : äFÑ} : ÜKÈ}oÎ : ÜM{ : BEìı : KDåpìÒ : KDåq[ : ëÈÜoÎ : ÑäEq : ôëÈÜoÎ : ≤ƒq : e™Í\q. 120 HA: I√q : DBEìı : KDåo : QE[Ú : ëKDåq{. 121 HA: •wmkX. 122 HA cap. 98, n. 7, p. 436. 123 HA: ¢Ñ}≈âÔ•. Il testo di HA cap. 103, n. 2, p. 463 dice: ßqâ DÍ : kÑäEq :
ëßqëG™Í: kKDåq : kâK : ßkÚ : μXμX®] : {lkÚ : KDåq : ’™Í : ëÈÜoÎ : KDåq : ôOD]oÒCKÈ : ëOD]oÒCKÈ : ’™Í : ÜKÈ}oÎ : kKDåq. Tutto il paragrafo è di capitale importanza per la teologia trinitaria. La parte che precede il nostro brano dice: Ñmk{ : Ñmk : ëÈÜoÎ : ëëF©ˆ{ : ëF©ˆ : ëÈÜoÎ : ëK} ] : e™Í]{ : K} ] : e™Í] : ëÈÜoÎ : oìI¨ : kQE[Ú : ëQE[Ú : koìI¨ : ëâMõ : ñ™Ô : óT•} : QE[Ú : kBEìı : ëkK}¥Qq : ë]lGÌ : ëk ∑ÔS : âËDÍ : œπSq : ëkâËDÍ : ¥mkX : ôß©DÍ : DÜ¥ôÔÑmkGÌX = “E anche il Padre è il Padre e anche il Figlio è Figlio e anche lo Spirito Santo è Spirito Santo, unità nella trinità e trinità nell’unità. E così dunque la Trinità è co-eguale nell’essenza e nel regno e nella glorificazione e nel creare ogni creatura ed in ogni azione che si addice a Dio”. I passi di questo tenore nel HA sono semplicemente innumerevoli, cf. HA, il Sinodicon di Giovanni, Patriarca di Antiochia e dell’Oriente, missiva a Zaccaria Patriarca di Alessandria e dell’Egitto e di quelle insieme
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(sic!) DÔc ƒ¬ƒ] ¬ ßqâ DÍ kÑäEq ìßqë@™Í (sic!) kKDåq kâK ßkÚ μXμX®] {lkÔ KDåq ÑG™Í KDåq OD]oÒCKÈ ëOD]oÒCKÈ ÑG™Í ÜM{oÎ kKDåq mkE˙F ; @ÈDoÅëÈM âp®]124 M]ãX ÑMπr }I{[ |]qq dD˜KÈ DñEëÈ•} ÜD ßqÑK{Í mkôÍx} ÑLFão ëBEìÒ•o œDÍ∏o kÜ}ôÔÑmkGÌX (sic!) ôÑÔßqâ F lBEìÒ (sic!) KDåoÎ ë|ë¥õ ñ™Ô ÜD ßkDÍ OD]oÎ KDåq Ü}o ôÑmk ëëF©ˆ ëK} ] e™Í] mkE˙F k@ÈDq Kr OE] ; ¬ q }kF Ñmk Ißëq ëF©ˆ Ißëq ®G}]M ¢Ñ©âÔ•125 (sic!) DÔc ƒ¬ƒ\ ëK} ] e™Í] Ißëq lBEìÒ126 KDåq ëäók ßqk@F Ñmk ÑG™Í ëF©ˆ ÑG™Í K} ] e™Í] ÑG™Í ëÈÜoÎ ëkÑD127 (ëlóD?) ÑG™Í ÜMÑäEq ÑG™Í BEìı ëÑG™Í ÑMEã ÜKÈ}oÎ ëÑÔßqk@DÍ OD]oÎ ÑLEãq ëÑå ÑM{q}128 kOD]oÎ ó©ëÈ OD]oÎ ÑLFãq ëÑÔä OD]oÎ129 KDåq ÑE }qÑK} kOD]oÎ ÑäEq ëkOD]oÎ ≤™q œE∏q130 ëkÑG™Í ÑMEã ÑG™Í BEìı ëkÜ}o ÑäEq[ OD]oÎ ë◊oÎ ≤ƒq Ü}o ôÑG™Í lIX£ KDåq k]K ëkM¥lX {ÑM} ë}qÑK} mkE˙F ; Ü}¥™ÔB koƒ ëÈ dF ∆}r K~X {ëÈ ßB}} ÑœX^ kDÌE ¢L•]oMX [ëÈ Ñlpu}M ÑkÈ{ Loıî] ÑëÈ¥ôìF kQ≥ëÈM ßc∏F ; L•õ• 6 c} 1899 ñ.M. ; Ha vinto il leone della tribù di Giuda, Ménélik II, re dei re dell’Etiopia. (Questa missiva) giunga ai fedeli che stanno nel Tégre, ai dotti ed ai notabili. Come state? Grazie a Dio, io sto bene. Vi scriviamo attingendo dal libro che i nostri padri Apostoli e i trecento dotti hanno scritto, a riguardo del vostro litigio causato dal vostro parlare di una divinità e tre divinità. E il (nostro) discorso è questo. Il Padre è il generante, il Figlio è il generato e lo Spirito Santo è il procedente. Il generante è divinità, il generato è divinità e il procedente è divinità. Sono tre nelle persone, nell’azione e nel nome. La loro trinità nell’azione consiste nel generare, nell’essere generato e nel procedere. Sono uno nella divinità, nella natura, nella volontà e in tutto il resto. Altrimenti non si parla di tre divinità quantificando in (tre) numeri. Per questo può essere testimone nell’undicesimo capitolo Ignazio, patriarca di Antiochia. Ha detto: «Questa Trinità è co-eguale, senza separazione e senza cambiamento, in tre Persone e in una divinità». In secondo luogo ha detto: «Questi tre sono perfetti nel trono della gloria e tenuti nella congiunzione, una (sola) divinità che è una sola luce da cui spunta la Trini-
ad essa, cap. 107, n. 5, p. 481: ... ÑGoÒ : KDåq : Ü}kD : oâœD˜ : ëÑÔœF∑q : Ü}ô : ’™Í : ◊oÎ : ëÜ}ô : ◊oÎ : ’™Í : oìI¨ : kQE[Ú : ëQE[Ú : koìI¨. 124 Il testo di HA cap. 103, n. 4, p. 464 dice: }I{[ : |Ñqq : dD˜KÈ : DïEëÈ•} : ÜD :
ßqÑK{Í : ÑLFão : mkôÍx{ : ëBEìı•o : œDÍ∏o : k’ : Ü¥ôÔÑmkGÌX : ôÑÔßqâ F : kBEìı: KDåoÎ : ë|ë¥õ : ñ™Ô : ÜD : ßmkDÍ : ◊o : KDåo : Ü}o : ôÑmk : ëëF©ˆ : ëK} ] : e™Í]. 125 HA: ôÑ}≈âÔ•. 126 HA: kBEìı. 127 HA: ëDD. 128 HA: AßL~q{. 129 HA: ëÑÔ : kO”. 130 HA: ≤ƒq : œDÍ∏q.
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tà e riempie ogni creatura» /ventinove/. L’apostolo Atanasio131, patriarca di Alessandria, ha detto: «Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio e non sono chiamati tre dei ma un solo Dio». Il secondo (testimone) ha detto: «E anche i libri sacri illustrano che la divinità del Santo Trino è soltanto una, ossia il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Poiché la divinità è una sola, la divinità è l’unione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Per questo abbiamo saputo che la divinità dei tre è una sola e che egli è co-eguale con lui nella divinità, il Trino perfetto, tre persone pur essendo una divinità che non si può separare. E non neghiamo le tre Persone allo stesso modo dei maledetti Fotino e Marcello132 che non credono nei nomi delle tre Persone e non disprezziamo l’unica divinità del trino santo, come ha rinnegato Ario». Anche Basilio episcopo di Cesarea ha detto: «È d’uopo che noi riconosciamo l’assoluta comunione133 della divinità delle tre persone e rendendola una, unifichiamo l’unica divinità che appartiene a loro. Crediamo per la fede che la divinità si unisce nel Padre, poiché dal Padre è nato il Figlio e anche lo Spirito Santo è proceduto da lui senza che il primo precedesse il secondo, né che il secondo (precedesse) il terzo. E con la nascita del Figlio e con la processione dello Spirito Santo dal Padre si unifica la divinità del nostro Dio». Anche Cirillo patriarca di Alessandria ha detto: «L’unico Padre è perfetto nella sua Persona, l’unico Figlio è perfetto nella sua Persona, l’unico Spirito Santo è perfetto nella sua Persona. E non è come le gerarchie del regno ma una è la loro divinità». Nel capitolo settantotto, Giovanni patriarca di Gerusalemme ha detto: «E crediamo che queste tre Persone sono perfette nel volto134 e co-eguali nella divinità». Sulla co-eguaglianza della santa Trinità, Gregorio di Nazianzo nel capitolo 96 dice: «Innanzitutto crediamo nella Trinità co-eguale e santa: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, la Trinità nell’unità e la divinità che non si separa. Quanto alle persone, ognuna di esse è perfetta nel suo volto e nella sua sembianza, che da essa (la divinità) non si separa». Nel capitolo 99 dice: “nella divinità”. Giovanni patriarca di Alessandria ha detto: «Quanto a noi, noi crediamo che il Figlio si unisce con il Padre nella divinità e (con) lo Spirito Santo. E se ci fosse chi non crede che la divinità della Trinità è una (sola), noi nel capitolo 98, anatematizzalo» hanno detto.
131 Atanasio di Alessandria (nato nel 295 ca. e morto nel 373) è conosciuto con l’epiteto “l’Apostolico”, cf. W. WITAKOWSKI, Athanasius in Encyclopaedia Aethiopica 1, Wiesbaden 2003, pp. 392-393. 132 Si tratta di Marcello (= Marcellus, cf. DL, col. 1409) di Ancira nato nel 280 e che morì nel 374. Per salvaguardare l’unità di Dio, arrivò a negare la sussistenza eterna di Cristo e l’eternità della sua incarnazione, cf. K. SEIBT, Marcell von Ancyra in Theologische Realenzyklopädia (20), Berlin 1991, pp. 83-89. 133 Il testo usa un’endiadi per rafforzare il concetto: la comunione dell’unità. 134 Nel linguaggio trinitario “volto” è sinonimo di “persona”.
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Beniamino arcivescovo di Alessandria ha detto: «Noi crediamo nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo, trino santo glorificato, le tre Persone, co-eguali in ogni azione e opera, e parola, tre volti ed una [unica] divinità». Basilio arcivescovo di Antiochia nel capitolo 208, ha detto: «Credo ed ho fiducia che essi sono divinità ed esistenza e non dico che le Persone sante sono diverse dall’esistenza divina. Quanto alla divinità sono le Persone, ossia i santi volti». Anche Amba Macario, arcivescovo di Alessandria, ha detto: «Noi sappiamo che la divinità della Trinità ha un unico onore e che l’esistenza della Trinità non è intaccata dal difetto, e anche che la divinità unisce i tre» (afferma ciò) portando a testimone Severo nel capitolo 118. E Giovanni patriarca di Alessandria ha detto: «Si separano nelle persone ma si uniscono nella divinità come ha detto Gregorio, il teologo135: una è la divinità di tutti e tre e tutti e tre sono un’unità nella divinità». In secondo luogo, porta un testimone da Teodosio e nel (capitolo) 230 ha detto: «Quanto a noi, noi disprezziamo la parola degli apostati che credono in molti dei e nelle esistenze separate in Dio, la cui essenza non si divide. Piuttosto noi scomunichiamo coloro che dicono tre divinità quella del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Anche Giovanni patriarca di Antiochia ha detto136: «Diciamo: “Il Padre è vita, il Figlio è vita e lo Spirito Santo è vita nell’essenza divina e di nuovo si dice che il Padre è uno, il Figlio è uno e lo Spirito Santo è uno e per ciascuna persona c’è una essenza e sono un solo Dio e non si descrivono come tre divinità. E la nostra fede137 non è in tre uomini, in tre dei e non sono tre divinità ma crediamo in tre persone e in tre volti separati e in un solo Dio, una sola essenza. Ma quanto alle persone (esse) sono tre e tre volti di un’unica natura divina nel nome e nell’azione. Crediamo fermamente in questo”». Bisogna dunque vivere attenendosi a quanto (ho) scritto. Chiunque insegnerà infrangendo ciò (che ho scritto) incorrerà nella scomunica del nostro padre Abunä Matewos e subirà anche punizioni corporali. Miyazya 6, 1889 AM.
135 Letteralmente: locutore della divinità. Si tratta di Gregorio di Nazianzo (nato nel 329 ca.), chiamato appunto “il Teologo” per l’importanza dei suoi scritti dogmatici, cf. W. WITAKOWSKI, Gregory of Nazianzos in Encyclopaedia Aethiopica 2, Wiesbaden 2005, pp. 891892. 136 Questo rimando non è stato identificato. 137 Il termine ÜM{q = fides a) quae creditur, religio; b) confessio (DL, col. 738), un so-
stantivo che deriva dal verbo ÑM{, non ricorre mai nella Bibbia e i maestri non apprezzano molto questo lemma. Anzi lo definiscono mkqã = scadente, scorretto (TLK, p. 919). La forma più comune per fede è AßL~q = 1) fides qua creditur; fidelitas; 2) fides quae creditur (religio, confessio) (DL, col. 14).
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2) Disputa fra Aksum e Däbrä Abbay138 La lettera di Ménélik non sortì l’effetto sperato dal sovrano e fu ben lungi dal placare gli animi delle fazioni opposte. Invece di una ricerca di un dialogo che portasse al consenso teologico, i postumi della missiva furono ancora una volta strascichi di polemiche che nel 1907 (AM = 1914/15 AD), risultarono in uno scontro, sempre sullo stesso argomento, il mistero della Trinità, fra Aksum139 e il prestigioso monastero di Däbrä Abbay140. I contenuti e le formulazioni del contenzioso erano identiche a quelle che già avevano diviso in due compagini il romitorio di Waldébba. Gli Aksumiti sottolineavano l’unità della divinità ed evitavano di soffermarsi sulla distinzione delle tre Persone. Dal canto loro, quelli di Däbrä Abbay propugnavano l’assioma che la divinità sussiste in tre persone. Da rilevare, per inciso, che l’appartenenza all’una o all’altra veduta teologica non divideva gli Aksumiti da quelli di Däbrä Abbay in maniera asettica. Si potevano incontrare aderenti o simpatizzanti delle due posizioni in entrambi i campi. Ci fu un’assemblea sollecitata soprattutto da quelli di Däbrä Abbay per ascoltare le due parti e dirimere la questione. L’incontro ebbe luogo a Däse nel Wällo nel Ýéqémt 1907 (AM = Ottobre 1914 AD), alla presenza del vescovo egiziano Abunä «eýros141. Il dibattito fu 138 Anche per quanto riguarda questa vicenda, i già menzionati testi apologetici della famiglia di Ýa‘émä Kréstos, i.e. WALDÉBBA 1993 e GÄBRÄÉGZIABÜER ABRAHA 1995, sostengono che non hanno mai né proposto né professato la formula “tre divinità” e gridano di essere stati vittime di intrighi “non-teologici”. Ripeto che si tratta comunque di una linea difensiva che non convince molto perché è un semplice trincerarsi dietro un solo argomento: «Siamo vittime di un complotto di carattere etnico!» senza nessun’altra argomentazione teologica. 139 Aksum è la sede tradizionale del Néburä Éd, il responsabile della chiesa di Maryam Úéyon dove erano custodite le tavole dell’Alleanza trafugate da Ménélik I da Gerusalemme. Donde il peso e l’autorevolezza di Aksum. 140 Il monastero di Däbrä Abbay si trova a sud-ovest di Aksum. Il fondatore è Abba Samuel che ha vissuto durante il regno di Dawit I (1379/80-1413). Däbrä Abbay dispone della cattedra più prestigiosa di Liturgia (Mäzgäbä Qéddase), cf. J. PERSOON; D. NOSNITSIN, Däbrä Abbay in Encyclopaedia Aethiopica 2, Wiesbaden 2005, pp. 7-8. 141 Abunä «eýros è uno dei quattro vescovi inviati in Etiopia, con grandi riserve e dopo aver ricevuto abbondanti regali, dal Patriarca Copto Cirillo V (1875-1927) su richiesta del re Yoüannés IV (1871-1889). Era la prima volta che l’Etiopia aveva quattro vescovi in una volta (anche se all’epoca di Zär’a Ya‘éqob c’è stata la presenza di tre vescovi, cf. TADDESSE TAMRAT 1972, p. 228) e la richiesta del re era dettata dalla sua convinzione che il numero dei fedeli e loro esigenze spirituali rendeva necessaria la presenza di più di un vescovo. Gli altri prelati erano Abunä Matewos per lo Šäwa, Marqos per il Bägämädér e per il Sämän e Luqas per i territori sotto il Nägus Täklähaymanot. Abunä «eýros giunse a Mäqäle alla fine del 1881 e stabilì la sua sede nel feudo tradizionale dei vescovi del Tégray ad ‘Addi ’Abun, vicino ad Adwa. Seguì il re a Mätämma e lo assistette in punto di morte per le ferite riportate il 10 Marzo 1889. Della sua comitiva solo lui e Matewos raggiunsero il rango di Metropo-
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presieduto da Mämhér Akalä Wäld, mentre i portavoci erano: Néburä Éd Gäbrä Üéywät per Aksum e il Néburä Éd Abraha per Däbrä Abbay. La fonte principale che riferisce su questo evento è un grande intellettuale del secolo scorso, il Mälé’akä Bérhan Admasu Óämbäre (1885-1962 AM), il quale sostiene di avere assistito al dibattito e di aver perfino recitato un inno qéne142 per l’occasione. I moderatori della diatriba avevano nutrito la speranza di risolvere le divergenze tramite una conciliante formula di compromesso, evitando scontri frontali. Ma le parti vollero il confronto ed esposero i loro argomenti. Gli Aksumiti si attennero alla loro formula “una divinità” e i rappresentati di Däbrä Abbay non ritrattarono nulla della loro dottrina “una divinità in tre Persone”. Abunä «eýros era favorevole al credo degli Aksumiti ma la scarsa conoscenza delle lingue locali, più la posizione tradizionale dei metropoliti egiziani che non concedeva loro il necessario spazio per intervenire in materie dottrinali, risultò in una vittoria del partito di Däbrä Abbay che sembra godesse dell’appoggio del presidente dell’assise, Akalä Wäld. È comunque interessante rilevare come al termine del dibattito, entrambi gli schieramenti cantarono vittoria. 3) “Una divinità”/ “tre divinità” nel Bizän143. Ci sono alcuni autori che associano la formula “tre divinità” al monastero eustaziano di Däbrä Bizän144. Mi riferisco in particolar modo all’autorevole figura di Kidanä-Wäld Kéfle e a Bérhanu Abbäbe. Quest’ultimo, che appartiene alla stessa scuola di pensiero di Kidanä-Wäld Kéfle accusa i maestri del Bizän e del Tämben di essere corifei della dottrina “delle tre divinità”145. In una raccolta eterogenea di Kidanä Wäld Kéfle, catalogata in EMML 1558 f. 121rv146, c’è una lettera scritta il 15 génbot 1899 AM (= 23 maggio 1907 AD) dai monaci di Däbrä Bizän al clero di Aksum. La missiva, redatta dalla comunità monastica, difende e giustifica la propria lita. Cf. GUÈBRÈ SELLASIÉ 1930, pp. 303-306; 1931, pp. 627-630; S. TEDESCHI, Ethiopian Prelates in Coptic Encyclopaedia, p. 1038. 142 L’inno è riportato da SÄYFÄ, p. 89. 143 Per le vicende trattate in questo paragrafo una delle mie fonti è BÉRHANÄMÄSQÄL
TÄSFAMARYAM 1996, pp. 242-43. 144 Il monastero è situato a 25 km. di distanza dalla capitale eritrea, Asmara. Fu fondato nel 1373/74 da Abunä Fili»»os, cf. G. LUSINI, Däbrä Bizän in Encyclopaedia Aethiopica 2, Wiesbaden 2005, pp. 15-17. 145 Cf. KWK, p. 595 e BERHANU ABBÄBÄ 1986, pp. 76-105, specialmente p. 91. Inoltre, cf. YAQOB BEYENE 1994, pp. 299-331. 146 La numerazione, in fondo alle pagine in cifre arabe, è di altra mano.
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posizione teologica e si auspica un incontro chiarificatorio e di riconciliazione con la controparte. La lettera non porta nessun sigillo, né vi risultano firmatari. Non specifica nessun nome eccetto l’Abuna Peýros, il metropolita copto giunto in Etiopia alla fine del 1881. Questo potrebbe sollevare interrogativi sull’autenticità di questo documento. Una cosa è certa: la grafia è diversa dal resto del manoscritto e sembra che buona parte del f. 121v sia stato raschiato. Rimane comunque irrisolta la questione della provenienza della lettera e il motivo per cui Kidanä Wäld Kéfle abbia voluta inserirla nei suoi scritti. Il testo della lettera [f. 121r.] öoÒ : ∫LS : KFÜãq : qmkƒI : wk : XÜ[ : @≤S : ÑkgÒ{ : ÑÔq®√¬ˆ• : Ñâ˘[ÈM : e©ˆ]q : ÜN} : DÑB≤ÈX : ñkßq : ómk{ : Lós}q : yUq : ëãmkXq : ësÑM{ : loÒ : ÑÔßqw X : ëwk : â˘D˜KÈ : LykX : ©cÒc : √ˆ®} : ãkÈV} : ëFkÈ\} : XoÎï{ : AßL~q : áXr¨ã\ëÈ•} : ÑóL™ÔA : DkÚo : ãX]oÒ•} : [EM : DãKÈ : ëxßD : X©ˆÑÌp : DÜM{ : √ˆ®}147 : ¢@DÍ : M]DÌãKÈ ; ÑLÙ} ; Ü|zM : kÜ¥sÒÑmkGÌX : ohX{q : kÜKkÚpu} : ÑLE∞{q : ©y| : {{ ; Ü¥sÒÑmkGÌX : ßK]≤} ; {≤X : ¥} : Ü|z : KDåq : kÑäF : R]q : klBXß : Ñ}©ˆ : mkD} : L]oLVu} " V\u{} : Ü|]pëÈdD} " ]Lu{} : Ü|]∑VD} " â@ÈDÍ : kEß : Ü}C|D} : mkD} : Ñß©DM ; âR]oÎ : ÑäEq : ëF©ˆ : KDåq : koD¢ : ÑäDÍ : [ëÈ : C{ " kQ≥ : o[cD : No " mk}F : K|œd} : Ü}™ÔB] : äEuw˘ : KDåq : R]oÎ} : ÑäEq : Ñ}©ˆ : ¢L•©X¥ : {ëÈ| : R]oÎM : oëD™Í " R]oÎM : o[cDÍ " R]oÎM : NoÎ : kDÍ " ÑDÍ} ; DsÒB : MEa : KDåq : kÑäF : R]q " klBXß : Ñ}©ˆ : {ëÈ : mkD} : Ñ]oLX} ; {≤X : ¥} : KDåq : kÑäF : R]q " klBXß : Ñ}©ˆ : äEF} : @ÈDq : lBXß : âLDÍ : [»u : ≥V : Ñ}©ˆ : Ü}™Ô•©X≤} : ßpëc : {ëÈ ; Ü¥sÒÑmkGÌX : •\•uw˘ : Ñ@È}M : ÑkÈ{ : √¬ÌπY] : q}PÑÌ} : ëÈEu@È : Ü}≤|Ç : mkDëÈ : cπSëÈ|F| : aL¥DÌ : lDkq : Ñ≤X : {≤X : Ñß[kX " ≤ÈFL\ : lDkq : Ñ≤X : âmkq : ÑßëSX " Ü}™ÔDÍ : ¢AßL~q : M]ãX : KOSq : Ü|}o : |uw˘ ; ©¥NM : AßL~q : â S[ : ëÈx : â [[ : Ñßp ]M| : {≤X : \ßkEa : [ëÈ : @ÈDÍ : Ü}™Ô]LL : Ñ©ˆX≤È ; Ü]K : [f. 121v] âÔ•ãKÈ : ÑF@c : Ü¥sÒÑmkGÌX : ÜMâ˘DÍ : [mkÜ ; |MIDãKÈ : kÜ¥sÒÜ{ : p}mkmkg : DöoÒ : KFÜãq : kkÚo : ãX]oÒ•} ; ßkÚDÍ : LykX : s©mkS : mks} ; o√ˆI : k©mkS : kÔs} : fiŸ : D¥}nq : kfi‹ÁÊ› : ñKo : MISq ;
Traduzione (letterale) lettera148
Questa giunga al capo della città dei nostri padri, l’Etiopia, la santa Aksum, madre delle grandi città, |pietra angolare prescelta e preziosa, e colui che in essa crederà mai si vergognerà149, e (giunga) a tutta la comunità dei figli di Sion, onorati e rivestiti, dalla retta fede, Ortodossi, colonne della Chiesa. Salute a voi e la 147 Sal 87,1. 148 Il testo usa un’endiadi che potrebbe essere tradotta: una lettera missiva. 149 1Pt 2,6; Is 28,16.
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potenza dell’aiuto della nostra madre Sion, sia con voi. Amen. Anche noi per la bontà di Dio, per intercessione della nostra Signora stiamo bene. Dio sia ringraziato. Tuttavia, quando noi insegniamo che la divinità è tre nella persona e una nella natura, non lo facciamo né in cerca di riconoscimento, né di fama, né per essere superiori a tutti. Delle tre Persone, il Figlio, la divinità nella sua persona distinta, è diventato uomo; sosteniamo che è stato crocefisso ed è morto nella carne. Per questo gli eretici ci hanno detto: “Se affermate ciò, dite: ‘I tre150 sono nati, che i tre sono stati crocifissi, che i tre sono morti!’. Infatti è la divinità che unisce le tre Persone”. Rispondendo a questo abbiamo insegnato: “La divinità è tre nella persona; una nella natura”. Infatti, è risaputo che se non sosteniamo che “la divinità è tre nella persona; una nella natura” ci identificheremo con le persone che professano le due nature151. “Che Dio vi faccia vedere!152”, anche ora, siccome Abunä Peýros ci ha dato appuntamento dopo Pasqua, come si suole dire: “In un paese dove c’è l’anziano non una questione si spezza; in un paese dove c’è l’adulto non viene saccheggiato il bestiame”, voi siete testimone e fondamento della fede. Inoltre, poiché “se frana la fede e se l’acqua si versa non è più possibile raccoglierla”, fate in modo che tutti possano accordarsi prima che la questione vada male. “Poiché Iddio vi ha reso più grandi di ogni uomo”153. Vi scongiuriamo nel nostro Signore affinché leggiate questa lettera in chiesa. Hanno detto [ciò] la comunità di Däbrä Bizän. Scritto a Däbrä Bizän il 15 Génbot 1899 AM.
I dati sinora raccolti portano a escludere senza alcun tentennamento il Bizän come luogo di nascita del credo “delle tre divinità”. Vi è stato semmai esportato. La dottrina delle “tre divinità” avrebbe infatti raggiunto il Bizän all’epoca di Däóóazmaç Wube (ca. 1800-1866/7) il potente signorotto del Sämen, tramite Abba Kidanämaryam Gäbrä, originario del distretto del Karnäšém nel Üamasen, e che si era aggregato al monastero del Bizän fin dalla sua giovane età. Si recò poi nel Goóóam per proseguire i suoi studi religiosi. Passò successivamente al romitorio di Waldébba, assumendo il nome di Mämhér Óéra Wärq: vi trascorse un decennio e durante questo suo soggiorno a Waldébba aderì alla formula delle “tre divinità”. Il regime di vita del rigorosissimo romitorio e soprattutto la dieta, basata esclusivamente sul già menzionato qwaréf, intaccò la salute di Abba Kidanämaryam, tanto che decise di ritornare al Bizän. Continuò comunque a condurre una vita piuttosto eremitica anche nel 150 Padre, Figlio e Spirito Santo. 151 Il riferimento è chiaramente rivolto al credo calcedonense secondo il quale Gesù
Cristo è una persona con due nature. La lettera non elabora il nesso fra la terminologia trinitaria e quella cristologica dei concetti “persona e natura” e la loro valenza in rapporto con i due articoli di fede: Trinità e Cristologia. 152 Il senso è: “Che Dio vi illumini!”; “Che Dio vi aiuti a valutare rettamente!”. 153 Cf. Dn 13,50.
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Bizän ma riuscì ugualmente a fare proseliti per la dottrina delle “tre divinità” che aveva appreso nel romitorio di Waldébba. Abba Kidanämaryam ebbe un seguito consistente fra i monaci e fra membri del clero sposato. Il serpeggiare del nuovo insegnamento spinse Abba ‘Amdämaryam Üagos originario di ‘Addi Qwitta (nei pressi di May Säraw in Eritrea), abbate del Bizän dal 1900 al 1923 (AM), a richiedere l’intervento delle autorità di occupazione italiana (in Eritrea dal 1882 al 1941) perché allontanassero i discepoli di tale dottrina dal Bizän e da tutto il territorio eritreo. L’amministrazione italiana accolse la petizione dell’abbate e tutti coloro che si riconoscevano nella formula delle “tre divinità” furono espulsi dall’Eritrea. Molti di essi si rifugiarono nel Tégray. L’esperto del Nuovo Testamento, Kénäfä Régb Marqos, e altri maestri della Chiesa Ortodossa Täwaüdo dell’Eritrea affermano che i monaci espulsi dal Bizän erano una sessantina e sostengono anche che un provvedimento così drastico è stato l’epilogo di un dibattito dal quale i sostenitori delle “tre divinità” erano usciti sconfitti154. Fra le personalità di spicco colpite dal verdetto di espulsione, figurava in primo piano Abba Täklämaryam di Amhur seguito da Abba Gäbrä-Wäld di ‘Addi Üabiša nel Qolla Särayä. Ci sono stati anche preti, per esempio, sacerdoti della cittadina di Émba Dorho (poco distante da Asmara), che hanno ricevuto la medesima sanzione. Sono stati consultati vari membri del monastero del Bizän e altri studiosi locali, nella speranza di rintracciare cronache scritte sulla vicenda, magari nei margini o in coda a qualche manoscritto. Per il momento tutti gli sforzi non sono stati premiati. Non è emerso nulla neanche degli atti del dibattito che si è tenuto nel Bizän fra i due schieramenti, né dei decreti o date di espulsione dei dissidenti. Concludendo bisogna comunque sottolineare di nuovo che non c’è nessun documento che attesti che il Bizän sia stata la culla della nozione delle “tre divinità”. La linea ufficiale del Bizän si esprime nella formula: Ñmk : KDåq : ëÈÜoÎ & ëF©ˆ : KDåq : ëÈÜoÎ & K} ] : e™Í] : KDåq : ëÈÜoÎ & ÑG™Í : ëÈÜoÎ : KDåq = «il Padre è divinità, il Figlio è divinità, lo Spirito Santo è divinità. Una è la divinità». Questo tipo di linguaggio indica chiaramente la volontà di soddisfare le due parti rivali.
154 Ringrazio il maestro Kénäfä Régb Marqos, studioso e docente del Nuovo Testamen-
to ad Asmara, Qäši Bärhä Wäldämaryam, da oltre mezzo secolo, membro attivo del Maæbärä Üawaryat, e fedele gestore della tipografia Kokäbä Úébaü, Fére Üayamanot, e diversi altri monaci e preti della Chiesa Ortodossa Täwaüdo per le informazioni datemi sulla vicenda.
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Conclusione La polemica trinitaria cristallizzata nelle due formule ’ : KDåq (una divinità) e ◊ : KDåq (tre divinità) è una partita ancora aperta. Lo scontro dottrinale, oltre a permanere nel romitorio di Waldébba, negli anni ’50 (AM) ha avuto ricadute anche a Däbrä Libanos, i.e. nel cuore dell’Etiopia155 con interventi da parte del Patriarcato. Lo status questionis di tale diatriba è difficile da enucleare. Parlare di “tre divinità” è inaudito e senza nessun appoggio scritturistico, né patristico. Nessuno dei manuali di catechesi ha mai dichiarato l’esistenza di ◊ : KDåq (tre divinità). È semplicemente difficile “vedere” dove sussista il problema perché pur nella sua nebulosità l’assioma trinitario è lapidario e chiaro allo stesso tempo: un solo Dio in tre Persone distinte. È molto verosimile che nel conflitto teologico lo spettro delle eresie abbia giocato un ruolo importante. La formazione che non era totalmente gratificata dalla prima parte dell’assioma trinitario, ossia, “un solo Dio” era probabilmente esagitata dal fantasma degli errori di carattere sabelliano, secondo cui: «il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un’unica ipostasi ed un unico aspetto, tre persone ed un unico Dio, tre nomi ed un unico Signore ...». È sintomatica l’insistenza dei sostenitori delle “tre divinità” durante i dibattiti nel domandare: «Possiede la divinità il Padre? Possiede la divinità il Figlio? Possiede la divinità lo Spirito Santo?». Alla risposta affermativa che seguiva a ciascuno di questi interrogativi, essi concludevano compiaciuti: KDåq kÑäF R]q {ì ! = «ordunque la divinità è trina nelle Persone!». Un’altra possibile preoccupazione assillante degli alfieri delle “tre divinità” era quella di non creare gerarchie nell’essenza della Trinità, soprattutto per il fatto che «il Padre è il generante, il Figlio il generato dal Padre e lo Spirito procedente dal Padre». Quest’ultima formulazione avrebbe potuto creare la visione di un Padre «più grande del Figlio e dello Spirito»156. D’altro canto i maestri dell’altro 155 Per una cronaca sulla vicenda, cf. SÄYFÄ, pp. 93-97. 156 Cf. HA, il Sinodicon di Giovanni Patriarca di Antiochia e dell’Oriente, missiva a
Zaccaria Patriarca di Alessandria e dell’Egitto e di quelle insieme ad essa, cap. 107, n. 3, p. 481: ë^kA : }kÚ : âK : Ñmk : ÑÔoëF© : ëëF©ˆA : oëF© : ÜM{Û@È : ëBFëÈ : M]DÌ@È : ëK} ] : e™Í]A : ë√ˆÑ : ÜM{Û@È : ÑÔoGDÔ : âK : ëF©ˆ : ¢G√ˆ√ˆ : ÜMÑmk : ëK } ] : e™Í]A : ÜMëF©ˆ : âK : F©o : ÑkëÈ : ÑmkXAM : ßQGe : ë•ófmk : ÑE : óT•} : ÜKÈ}oÎ : ke©ˆM| : ëkMFã| : ëk ∑ÔS : âËDÍ : œπSpq: ëkâËDÍ : ¥mkX : ôß ©DÍ : DÜ¥ôÔÑmkGÌX = «E quando diciamo che il Padre non è nato e anche che il Figlio è nato da lui ed esiste insieme a lui e che anche lo Spirito Santo è uscito da lui, non pensare che il Figlio sia inferiore al Padre ed allo Spirito Santo e che lo Spirito Santo (sia inferiore) al Figlio, come la nascita dei Padri, Abramo, Isacco e Giacobbe, ma sono co-eguali nella priorità, nel potere e nel creare ogni creatura e in ogni azione che compete a Dio».
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schieramento, che sono la maggioranza schiacciante e che rappresentano la posizione ufficiale della Chiesa Ortodossa, ripudiavano categoricamente la formula “tre divinità”. La dottrina ufficiale della Chiesa Etiopica ha sempre insegnato che c’è un unico mäläkot157, che “mäläkot = divinità” è un principio di unità delle tre persone. Il Libro del Mistero sostiene che «il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono uniti nella sostanza e uniti nel regno, uniti nella natura, uniti nella divinità, uniti nel pensiero, uniti nell’essenza e nella condizione; è una la loro volontà, uno il loro desiderio, una la loro legge e la loro norma e una la loro potenza. Essi non si chiamano tre dei, come le divinità dei pagani che hanno diverse leggi, ma sono detti un solo Dio nella Trinità: il primo non segue il secondo e il secondo non segue il terzo, come Abramo, Isacco e Giacobbe che si sono preceduti nell’esistenza l’un l’altro. Il Padre non ha priorità di esistenza rispetto al Figlio, né il Figlio ha priorità di esistenza rispetto allo Spirito Santo, né quanto l’apparire dei lampi, né quanto il movimento rapido delle palpebre158». Il ben noto testo Méùýirä Ùéllase (Mistero della Trinità) dice: «La loro unità è nella divinità, nel potere, nella volontà. Ma sono tre nelle Persone»159. Significativa la spiegazione di Kidanä-Wäld Kéfle che peraltro colloca l’espressione “tre divinità” nell’ambito delle dispute cristologiche160. Egli definisce “novelli Karra161” i maestri delle “tre divinità”. Prova ad illustrare con un paio di analogie in 157 Per una disquisizione dettagliata sull’unicità della divinità, con il supporto di citazioni bibliche ma soprattutto di numerosi testimoni patristici (in particolare il HA), cf. la corposa monografia di MÄSÄRÄT SÉBÜAT 1996, in particolare, pp. 86-93; pp. 286-294. 158 LM (1) traduzione, pp. 89-90. Questo passo proviene dalla sezione del Libro del Mistero nella quale l’autore si scaglia contro Origene perché avrebbe stabilito una gerarchia fra le persone della Trinità. 159 Pubblicato ad Addis Ababa nel 1960 AM (prima edizione 1903 AM), p. 31. Si tratta di un manuale che si occupa non solo del mistero della Trinità ma anche delle altre quattro “colonne del mistero”. Significativa quindi la scelta del titolo del libretto, perchè la parte che concerne la Trinità comprende le pp. 24-32 appena. È stato elaborato sotto gli auspici e con il coinvolgimento del già menzionato potente metropolita egiziano Abunä Matewos, quindi con un occhio attento ai diverbi teologici dell’epoca. 160 KWK, p. 595. 161 “Karra = coltello” è un epiteto dispregiativo dato alla corrente che invece si ricono-
sceva come Täwaüdo (unionista) oppure Hulät Lédät (due nascite). Gli slogan dei “Karra” erano: “Wäld qéb‘é = il Figlio è l’unguento”; “bätäwaüdo käbbärä = onorato per via dell’Unione”. Secondo loro l’umanità del Figlio è stata “nobilitata” in virtù dell’unione della divinità con l’umanità nel seno della Vergine. Di conseguenza un’eventuale unzione da parte dello Spirito Santo sarebbe stata superflua e lesiva alla dignità del Figlio. Cf. YAQOB BEYENE 1981, p. 206. Donde la reazione delle correnti opposte che accusano i “Karra” di aver escluso lo Spirito Santo dal processo di “nobilitazione dell’umanità” oppure di aver tagliato l’umanità.
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quale modo le tre Persone partecipano in misura uguale alla divinità. Dice: QT Ñ}©ˆ DC{ E}©ˆ kcF öœ âEß R]q Ñó√Íe kÔ~Tq QT| ≤ˇ}™Í ëßM öœ{oÎ kÑó√Íe Mã}•q R]q DÔlF| âR]q DÔâ F Ü}™ßtF ; ÷ÅM E}©ˆ M}ø ëÈA âpu R]q KqSmk kÔ~SëÈ ëÈAëÈ kR]q KqSmk oâœD˜ kÔçÚ©ˆ# {cÎ kKqSnsÎ Mã}•q R]q DÔlF| âR]q DÔâ F Ü}™ßtF & KDåqM DR]q ÑäEq Ü}© QX Ü}© {e {ëÈ| & kÑG™Í{oÎ ÑäEq} ÑG™Í ÑMEã kÔ•[Ç Ü}Æ# ÑäEq kR]q{psëÈ Ü[È} Ñ}™Í} {e R]q KDåq DÔ•[ÄÏq# âR]q DÔä DÍq ÑßtFM “un albero con tre rami non può essere qualificato come tre alberi, perché la radice e il tronco sono un’unica radice e un unico tronco. E in secondo luogo, se la sorgente, sotto, ha tre rigagnoli e l’acqua scorre in tre rigagnoli non si può parlare di tre sorgenti per via dei tre rigagnoli; alla stessa maniera anche la divinità è radice e sorgente per le tre persone. Per la sua unità è possibile parlare di un solo Dio, ma la trinità delle persone non consente di designare l’unica sorgente tre divinità, non possono dividerli in tre». Cita alcuni Padri in difesa dell’assioma “una sola divinità”162.
Venendo all’effigie di Abba Sébüat LäAb: se la causa scatenante delle polemiche finora prese in considerazione erano gli ultimi due stichi della prima strofa, il nodo teologico non doveva esistere neanche. È vero che il termine mäläkot, un sostantivo verbale che deriva da mäläkä = dominare, avere potere (DL 150), può essere reso con “divinità”. Ma questo non è né il suo primo né l’unico significato. Con mäläkot si intende: potere, autorità (DL 151). È in questo senso che il Sal 102[103],22 dice: ëÈ]o : âËDÍ : kGëÈXq : KDåoÎ = “in tutti i luoghi c’è il suo dominio”. Così anche 2Pt 1,3: ôkwßD : KDåoÎ : ë@k : D{ : âËD˜ : M¥lS : ôßë]©ˆ : wk : Ißëq : ë√ˆ©ˆe = “che con la sua potenza divina ci ha donato ogni opera che conduce alla vita e alla giustizia”163. Le incompresioni di natura semantica potevano dunque essere superate senza grandi fatiche. Si poteva raggiungere un’intesa con il presupposto che la prima strofa dell’Effigie voleva semplicemente sottolineare il fatto che ognuna delle tre persone divine detiene il potere. Non è fuori posto ipotizzare che, come al solito, dietro le dispute trinitarie di cui ci siamo occupati, si nascondano anche motivi e interessi di natura meno teologica. Come è accaduto a Waldébba. Una lotta per il potere, eloquentemente esemplifi-
162 I.e. Ignazio, Atanasio, Dionisio, KWK, p. 595. 163 MÄSÄRÄT SÉBÜAT, p. 86.
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cato dagli scismi per le campane164, e per la gestione dei beni a cui si è accodata la disputa sulla Trinità.
TESTO Abbreviazioni e sigla: add. = aggiunge om. = omette ( ) = mie aggiunte 1. |[EM : DBEìıãKÈ165 : ôßKëÈÜ166 : BEìı•o: DSâÔk : ]KÈ : ykÈÜ167 : ÑK : ë∑}âÍ : oM{Ûo: ÜM¥mkXãKÈ : QE[Ú : ^k : SâmkâÍ : Ñ]Lo: KDåo : DDÑG™Í : ôôÔÑãKÈ : ≤ƒo: Ü}kD : q©ˆMXq : Ü[L : ëÜ@Èmk : q©ˆMXo ; 2. [EM : |DõãS : ]MãKÈ168 : ôÑÔßq≥lÜ169 : ÜMoâœD˜ ; ëôÜMoâœD˜ : ßq≥lÜ : Do[M® : ÑMEã : ëôßK]D˜170: QDÍ] : e™Í] : [Ú]£{171 : koPBD˜172: œW : √ˆ©ˆe : âXäóãKÈ : ôÜ´ãKÈ : oâD˜173 : ëœW : ëß}ãKÈ : Xqó174 : ô•√¥mk : âËD˜ ;
164 Cf. WALDÉBBA 1993, p. 86 dove si legge che le differenze teologiche erano soltanto un pretesto per fomentare divisioni. Ci sarebbero state risse e appelli alla corte del re Ùärúä Déngél (1563-97) a causa di tentativi di riforme dietarie, cf. WALDÉBBA 1993, pp. 74-76. Si registra anche l’incendio doloso di una chiesa nel 1938 (AM), cf. WALDÉBBA 1993, p. 98. Per quanto riguarda i riflessi della fede nel Dio trino ed uno nella politica, si veda l’interessante contributo di V. Twomey, “The political implications of faith in the triune God: Eric Peterson revisited” in V. TWOMEY; L. AYRES (edd.), The Mystery of the Holy Trinity in the Fathers of the Church. The Proceedings of the Fourth International Patristic Conference, Maynooth, 1999, Dublin 2007, pp. 118-130. 165 A rubricato ma è illeggibile. 166 A ôßKFó 167 V ykó 168 B D]MãKÈ 169 I Ü}ô : ÑÔß” 170 A Ü]K : ÜMoâœD˜ : ßq≥ló : Do[M® : ÑMEã : ôßK]D˜ B Ü}ô : ÜMoâœD˜ :
ßq≥lÜ : ko[M® : ÑMEã : ëôßK]D˜ I Ü}ô : ÜMoâœD˜ : ßq≥lÜ : Do[M® : ÑMEã : ôßK]D˜ V Ü}ô : ÜMoâœD˜ : ÑMEã : ôÑÔßq≥ló : ÜMoâœD˜ 171 A [Ú]£ 172 I [Ú\ß{ : ÜMoPBD˜ V q[]£{ 173 I oåD˜ 174 V XoÎó
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3. [EM : DQóXo175 : XÜ]ãKÈ176 : ô√ˆó™ìı : kS©ˆ : √ˆED˜oÎ: {≤Qo : lIpìÒ177 : QE[Ú : ô≥™ãKÈ : √D˜oÎ: QE[ÚãKÈ : K@T178 : e™[Ú•q179 : OD]oÎ: ëmkAD : kôë[âÍ : Ü¥ôÔÑ : xßEq : õ}oÎ: DìI©ˆ|ãKÈ : M]∑ÔY : âOoÎ180 ; 4. [EM : DXÜ]ãKÈ : ôÑ]oì©© : XÜ[: Ñ≥óõo : Q≥ : QE[Ú : Ü}ô : ÑÔqDÌF£181 : {œ[: kXÜ[ : ÑÔ•[È : Ñ}mkT : ÑãDÔDãKÈ : N≤[: k]MãKÈ : ÑG™Í : Ü]K182 : •KFã : QDÍ[183: ëk]MãKÈ184 : G{√ : Ke©[ ; 5. [EM : D≤√ˆãKÈ : ÜMïß{ : œ∑ÍV} : ôowmkÑ: ]mkGoÒãKÈ : QE[Ú : ëÈ]o : Ñ 185 : âËDÍ : ôKFÑ: ÑG™Í : KFÑã : ^k : ÜMkÚqãKÈ : ë»Ñ: ™Ôk : œ∑ÍV}186 : âK : ß[Kß : Ü¥ôÔÑ: kÑM\DÔãKÈ : ∑XãKÈ : [mkÑ ; 6. [EM : DcV}mkoÒãKÈ : ÜD : ¢Gqp : ïL«Û: œ™ : ïK«@È187 : mkôÍy : Ü]â : ßSãn188 : ©ˆ}≥«Û: Kö¥mkq¢ : QE[Ú189 : ô¢wœSãKÈ190 : ««Û: ßâÍ{{191 : MISqãKÈ : ÑK : óDo œ™ : Gì«Û: ôÜ\o : [Lß : •∑œÜ192 : ëßcqF : ó«Û ; 7. [EM : DÑóß}oÒãKÈ : ÜD : oâÚ{ì : Ñóß}o: e©ˆM|ãKÈ : QE[Ú : ôÑÔ•Kã{¢193 : π}o194: 175 A D]Xo B D]óXqãKÈ
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ëÈ]o : ë\∏ìÒq : FkÈ| 216 B I V “oo 217 A Iõk 218 A √ˆ®} 219 B I ëDIõmkãKÈ V ëDImkãKÈ 220 B w©≤ 221 A: questo stico viene dopo quello successivo. 222 B e©ˆK I om. 223 A ^k : ÑDë : e©ˆK : ëo≤˜GDëãKÈ : MãS V ÑDëÈãKÈ (sic!) : I≤ : ë≤˜GDëÈãKÈ :
ãmkS 224 V om. 225 A oëÈ™] I V “ëÈ™” 226 I œqG 227 TG QDÍ] : e™Í] : }ì•o : ñDM : {≥™Ô V QDÍ] : e™Í] : {ì¢ : ñDM : {≥™Ô 228 B “F© 229 A “IS
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äB|o : [Lß230 : QE[Ú : ô©MãKÈ : ]X¢q231: ÜM©MãKÈ : }õwÍ : V¥öo232 : {œ]¢ : kÚq233: Ü]K : Ñ{234 : oGômkãî235 : ë o}ãî : qäq: D©K236 : Ü}]\ : ©ˆâÍM : ë√ˆ{Í] : ∏òq ; 17. [EM : D≤ˇXñÛãKÈ : ]oı : Ñ}mkï : [mkÜ237 : ôwOO: mkïÍE{ : N≤]238 : QE[Ú : ÑÔp}©ˆ£{ : N≤[: ÜK : qqw¢£{[ : ëow©ˆ≤È{239 : √ˆ{Í[: LäÑÌF{Í : DÑM√ˆá : Q≥¢ : ≤ÛO: |ëÜK : Ñå240 : ≤mkXÑÌF : ë@k{ : {œ[ ; 18. [EM : DãP©ˆãKÈ : ãP© : Ñ™M : ôOïD: ÜMwßFãKÈ241 : QE[Ú : Ñ]o\qÀ{ : wßD: k∑ S : Q≥¢ : ÑeKÈ : ∆G¢ : ÑX\}®] : ≤©ˆD242: ô@Dë : pIo : ÑÔ•[È : âK : kxßFãKÈ : ãBD243: ÑeN244 : ∆Gß245 : ô@Dë : EóD ; 19. [EM : DKpãœoÒãKÈ : KOSo : ñDM : ÜD : ≈T: ~q•o : ~y : QE[Ú : ëó∆ë : ïlß : GKT: ™Ôk : K}kXãKÈ : [mkÑ : ^k : ÑMEã : {√T246: âÔTkÚF : ë[ÈVŒF : pIo : Ü≤U@È : ≤ST : Ü]K : DDÔ@È : Ñôô : ëÜDÍ : o πT ; 20. [EM : DÑã|ÃãKÈ247 : Ü\pëÈ•} : Ñã|œ: ÜD : kLÜâF248 : @Dí : ëÜD249 : @Dí : k√ˆ}œ: 230 B [EM 231 A ]Wq 232 A kV¥” 233 B kÚ¢ 234 V Ñ}o 235 A “ãKÈ 236 A k©K 237 A I TG V ©M 238 A I TG V ñDM 239 V ÑÔqq” : ëÑÔqw©ˆ≤È{ 240 A V ëLK 241 A V kwß” 242 A B I TG k[Lß : {œ]¢ : ñeM : ∆G¢ : ÑX\}®] : ≤©ˆD V k[L¢ : {œ]¢ : ñeM : ∆G¢ :
ÑX\}®] : ≤©ˆD 243 A Ü}ô : @D˜ I ô@Dë : pIo : ÑÔ•[È : ãK : xßFãKÈ : ãBD V wßD 244 A V ÑôÔú B Ñõú 245 A ∆G¢ 246 TG ™Ôk : K}kXãKÈ : [mkÑ : ÑG™Í : ^k : ÑMEã : {√T 247 I ÜmkF 248 A B V ëÈ]o : LóâF 249 B ÜD
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ÑDmkí{ : QE[Ú : cqD : K]o≥©ˆF250 : K√ˆGœ: âK : ëqS : ßqìQÑ{ : qMß}o : dDÍ : qTœ251: ë≤ˇIDÍo : p©ˆV : M]DÌ¢ : ßöìó : kÑœ ; 21. [EM : Dôl}ãKÈ252 : ÜMe©ˆK : ñDLq253 : ôocQ : kkqS : e©ˆM| : ykÈÜ254 : âK : ëÈ]o : K√ˆGœ : o√ˆI : QDÍ]255 : e™Í] : ÜD : qqìG™Í256 : ôF : ócmkî : ÜM©ˆcpq : ëS]ßî : MóV : DëÈ\∏ìÒ257 : I}ƒ¢258 : ÑœÑ@È : ô≤õ ; 22. [EM : DÜ}¥©ˆñãKÈ : qóß}o : }≤ÈQ : MãX259: QDÍ] : e™Í] : KFIdo260 : [Lß261 : GKX: ^k262 : ß´¥{{ : lÜ] : KFÑâ : e}ÑoÎ : D∆X: M]D : xßF : ßlFG{ : lIS : MISqãKÈ : œeX: âK : DÜ]VÑÌF : e©ˆK263 : lFJKÈ : lIX ; 23. [EM : DI»}ãKÈ : MXÕc : ƒ©ˆd} : Ñ¥mkXoÒ@È: L•o : ÑÔ•[È : QE[Ú : ÜD : qëÈIôÍ264 : ÜMyDÔ|@È: Ü}ô265 : kÑœÑ@È : Ñ}qKÈ : ëÑ}qKÈ : këÈ\∑Ú@È: ÑÔ{√S : wk : GßKq : âK : ÑmkXAM : ÑkÈ@È: ëK]åo : {kÔß266 : ™}ÑÌF : ÑÔ c© : •XwÍ ; 24. [EM : DÑÜ™ìÒãKÈ : ÜD : oâÚ{ì : mkÜ[Ú: á : wÛV} : Ñ≥óõq¢ : QE[Ú : ©ˆyS : √G : áUo : DÔc : {kÔ•q : KÈ[Ú:
250 TG V K]odqF 251 A âK : ëqS : ßqìc] : qMß}o : DÍd : qTœ B âK : ëqS : ßqìc[{ : qMßo :
DÍd : qTœ I âK : ëqX : ßqìQÑÍ{ : qóßXo : DÍd] : qTœ TG âK : ëqS : ßqìQÑ{ : qMß}o : DÍd : qTœ V âK : ëqX : ßqìc[{ : qMß}o : DÍd] : qTœ 252 B Dôl|oÒãKÈ 253 B I TG V ñDM 254 A ôykÈó 255 B QE[Ú 256 B “ëG” V oì@™Í 257 I “∏ìı V Dë” 258 I B«}¢ 259 I ëMãX 260 B KEBeo V “po 261 B I [EM 262 A ÑK 263 B c©Mq 264 I ôqëÈyô TG ôqëÈIôÍ V ôßëÈyõ 265 TG Ü]K 266 B ñkÔß
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K@S{267 : QE[ÚãKÈ : K√ˆG : KMBT268 : DÑëÈ[Ú269: ëF©270 : {≤˜©ˆ∂©ˆ271 : ®G}] : ôKFá272 : ëÈ™[Ú273 ; 25. [EM : DKõVóqãKÈ : KõVóo : Ñ™M : ôÑ√ˆ}ï274: |ÜMÑ√ˆ| : M©ˆX275 : QE[Ú : ÜD : q]óT : √mkÑ: ëÈ]o : Fmk¢ : ÑmkÑÍ : @mko : {\I•} : KlÑ: âK : ÑmkÜ : D}¥QãKÈ276 : √lIo : Ñóß}q : Ñ}mkï: ëkœeXãKÈ277 : âK : ÑQMX : [mkÑ ; 26. [EM : DâËX|óãKÈ : âËX|ï : ©ˆäM : ô[kS: GS\ëÈ•} : QE[Ú : ôÑÔqƒMí278 : ëqS: ÑM∏{ : S[ßãKÈ : ôXÑ : QX|¢ : kÚqãKÈ : œeS: ô•c©ˆM279 : ëXw : ôXÜ280 : |ëô•oDÍ : LÜSS281: ëÈ]o282 : ≤VBqãKÈ : [mkÜ283 : œW : √ˆ©ˆe : OMS ; 27. [EM : DÜKpoÒãKÈ284 : K] Xpo285 : M©ˆX : ë[Lß: ÑOX¥í{ : QE[Ú286 : kc∑}o : M√ˆìq : O|ß: ëS]£{ : G™Ô[287 : ÜM{ : FL™Í : mkDÍß : DlóF : ôoPFf : ëôo∂IFî : }ìß288: Ü}ô : k´´@È : ߥóX : ÑFÑöX : {™ß ; 28. [EM : DÜVxoÒãKÈ289 : ÜD : Ñwö : ñDK: 267 A B KG” I KGS TG “T{ 268 A “IT 269 A B I e™[Ú 270 I V Dë” TG ëë” 271 B {∂©ˆ 272 A ôKXJ B ô XC I ôß XC 273 V e™[Ú 274 A I [EM : DKöXÑÔãKÈ:... V [EM : DKöXÑÔãKÈ : KõVÜo : Ñ™M : ô√}ñ 275 V kxßFãKÈ 276 I F}≤ÈQãKÈ 277 A I ëkœeS : [mkÜ V add. [mkÜ 278 A B I V ëÜD : q«MëÈ 279 I ôßc©ˆM 280 A B I V LóSX 281 A ëô•c©ˆM : LóSS I om. 282 V œW 283 A Xqó B [mkÑ I œeX 284 B DÜKqãKÈ 285 A B V “Xo 286 I om. 287 V G™Ô]
288 A V DlóF : ôo\Df : ëo≤˜@Dë : }ìß 289 A DÜVyãKÈ
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©xVëÈ•} : QE[Ú : ëÜD : {kXãKÈ290 : e©ˆK: ëÈ]o : Fmk¢ : Ñõ}KÈ : õ|KãKÈ : [EK291: ÑÌF•][ : ÑÔë@k{292 : õ|K: ÜM{ : ÑG™Í : ≤VBq : ô•SìÒ : qFK293 ; 29. [EM : DуmkñãKÈ : ÜD : ÜMÑ√ˆÕX294 : ÑÔßqDÌD£: DkÚqãKÈ : QE[Ú : ôÑÔ¢wFe : }ì£: ÑK295 : ÑmkïFãKÈ : [mkÑ : ©ˆyS : Ñ}©® : ≤Û≥£: ôÑÔXÜ£ : ÜMe©ˆK : ®M : KEÜâo : [Lß : XÜ£296: ëÑ¥mkXo : [mkÜ : KEÜãq : o[M£297 ; 30. [EM : D≤kìoÒãKÈ : ÜD : óTd} : ÜMFmk[ : ëXe: QDÍ] : e™Í] : QX¥ì{ : KœXB298 : KmkSe299: K}≤D300 : œ~oÎ : M√ˆìq : DfX{DÌî] : ƒ©ˆe301: ßMXG{ : ë}≤ÛFãKÈ302 : Ü¥ôÔÑ : œ~q : ScÒe: ô√•GÔ@È : ®G}] : KπMe303 ; 31. [EM : DâXQãKÈ : âXO304 : œ∑ÍV} : ô ∑S: y™ÍV{305 : [Lß : QE[Ú : ëÜD306 : |qKFÑÍ : M©ˆS307: BEìıãKÈ : ÜMló©ˆ308 : ôÑÔoDeG309 : MãS: ßPXX310 : KOSpo : Ü}ô : ß√Ìï}311 : cKS:
290 I q{mkT 291 A ëÈ]o : Fmk¢ : ëÈ©ˆ£ : õ|LoÒãKÈ : [EK 292 B ÑÔß@Èk{ 293 V ë]o : ≤VBqãKÈ : [mkÜ : ô•SìÒ : qFK 294 A M]D : Ñ√ˆ” 295 I om. V ^k 296 A ôÑÔXÜ®KÈ : e©ˆK : ®M : KEÜão : [Lß : XÜ£ 297 A ëÑ≥óõo : âËDÍ : QE[Ú : o[M£ 298 B KmkTB 299 I om. 300 B wk 301 A DÔe V K}≤D : M√ˆìoÎ : œ~q : DfX{ÛDÌî] : ƒ©ˆe 302 A “Dã” 303 I add. ÜôÔI : ¥©ˆM : M{ëÈ : ÑF√ˆœ : M} : êÅD@È : kF : Ü}¥™ÔB : oôÔB : ßôB : ÑÔ©ˆ 304 I ÜMâXO 305 I ™V{ 306 I ÜD 307 B qx©ˆT : M©ˆS V q«MëÈ : ëqS 308 A “ó© 309 I ôÑÔo : DeG 310 A B V ¢G}√ˆ 311 B ß√ëÈX
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ëÜ}ô : ß√ëÈX : ©ˆ© : ß{mkX : ∑ S312 ; 32. [EM : DFmkãKÈ : ôÑÔßqDÌDß313 : d™Í: koìI¨314 : QE[Ú : ÜD315 : q[≤™Í316: Ñ™M : å{ : ÜM{Û{317 : ÑG™Í318: cX{319 : }¥QãKÈ320 : ^k : o{œG321 : kïëÈ™Í: @Èâo : [lF®] : @©ˆÑ : ë∑œÑ : N≤™Í322 ; 33. [EM : DâËF•oÒãKÈ : ÜD : óT•}323 : kÑäF324: ñDKãKÈ : QE[Ú325 : ÑK : Gë√ : kPBF326: ÜM{ÛãKÈ : ÑG™Í : Ü¥ôÔÑmkGÌX : dF: o √K : o]Õ : ÑkëÈ : kLX•M : ©ˆ}¥F: ëkcV}® : ooãD327 : K©ˆx{q328 : K]cF ; 34. [EM : DyDÔ|ãKÈ : kâìÒ{ : wÛX329 : ôoGM¢330: ÜMâEëÈ´î}331 : ÑmkXAM : ôM©ˆS : äV} : wS¢332: QE[ÚãKÈ : QE[Ú : ^k333 : ß{Û√ˆX : óT¢: OD]o : ó©ë : DÔDÍ•{ : ëÈ]o : XÜ[ : wßKq : XÜ¢334: ëDÑG™Í335 : {≤Y : S[¢ ;
312 TG ß√ëÈX : ©ˆ© : ëß{mkX : ∑ S 313 A add. ÜM I ôßq” 314 A ôkìB¨ 315 A I Ü}ô 316 A p[¥™Í 317 A B “{ÛãKÈ : âK TG V add. âK 318 A ’ I om. 319 I âK : kcX{ 320 A ãmkXãKÈ B TG lIFãKÈ I kñFãKÈ V lIFãKÈ : QE[Ú 321 I oâœG 322 A @Èâo : [lF®] : x©ˆÑ : ôÜâß : FL™Í B TG @Èâo : [lF®] : x©ˆñ : ëÑFn : FL™Í I @Èâo : l]F£] : ylÜ : ëÑå : FL™Í V @Èâo : [lF®] : Ñy©ˆÑ : ôÑå : FL™Í 323 A “•{ 324 B kÑM\F 325 I om. 326 A Gë≈ : DPBF I TG V DPBF 327 I “âD 328 B “x{ 329 B XwÛ 330 B ôoGX¢ I “[M” 331 B “î] 332 V GX¢ 333 A âK B om. I V Ü}ô 334 V ◊o : Ü©î : DÔDÍ•{ : …p : ëÈ]o : XÜ[ : GßKq : Xó¢ 335 V ë’
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35. [EM : ÜmkF : D}ì¢ : ëÈ]π : MISqãKÈ : |qTÕo : ≤©ˆF336 : âÍ{Í{ : QE[Ú : ÑM∏{ : qTÕ} : Ñ}qKÈ: ^k337 : JXâÍ[ : âK : Ü\oœ338 : ≤©ˆD˜KÈ339 : ≤Ô®X≤Ô] : ÑÔë@k{ : K∑{ : {πk340 : ∑F : ÜM©KÈ: ëoãD : AßL~q : âFÑ{ : ]lS : ÜMñ√ˆKÈ ; 36. [EM : DGc¯ãKÈ : ôe|o : wTq : e|oÎ341: DÔDÍ•{ : ≈p : QE[Ú342 : ÜMÑMEâ343 : kDñM : â}oÎ : wk : K] XqãKÈ : √ˆ©ˆe : Ü]K : •k√ˆI : qÜMXoÎ344: o©Dí : âK : ßGÍT : MIìS : óDpq345 : OD]oÎ: kñD346 : KQìóq : ÑmkXAM : ëß]Ge : KQìóoÎ ; 37. [EM : DÑcˇ•√ÔãKÈ : ÜD : owmkÑ : ÜMïß}: Ñ|M•{@È : QE[Ú : DLÙEo : [Lß : mkXA}: Fmk[ : [Lóq| : ßâÍ{{347 : MISqãKÈ : ã™}348: EóDÌ¢349 : Ü]K350 : ÑÔ@D˜ : Fmk[ : Ü]∑ÔÕ~] : Ümk}: ë]X≥ìı@È351 : Ü\q : DcÒXf] : I«} ; 38. [EM : DÑmkVâÔãKÈ : ÜD : Ñ]≤™352 : ÑmkVâ: ëÜD : ÑÔ•mkÑ353 : MóS : EBK : [LX• : oëÈ\â: QDÍ] : e™Í] : Ü}ô : qW]£{354 : ïXâ: ÑmkGÍ{ : D≤mkXãKÈ : âK : |Üâ˜}} : KFÑâ355: ëâK : ÜM[mkÜ : Ü[Kß : ÑMEâ ;
336 A I V “Õ{ : ≤” B “Õ{ : {œ[ 337 A ÜK 338 B I V ÜqDdI 339 A ]NKÈ 340 A {∑k 341 I [EM : DGc¯ãKÈ : ôe}Ño : KìÒó : e|oÎ V [EM : DGc¯ãKÈ : ôe}ño : KìÒó : e}ñoÎ 342 V add. ÜMÑK 343 A ÜMÑMFå : ∏òq 344 A wk : KQ XqãKÈ : √ˆ©ˆc : âK : •k√ˆI : qÜMXoÎ B œ~oÎ I wk : K] XqãKÈ :
√ˆ©ˆe : Ü}ô : mkôÍy : qÜMXoÎ V wk : K] XqãKÈ : √ˆ©ˆe : âK : •mk√ˆI : q©ˆMXoÎ 345 B óDq 346 A ëk” V DkÑD 347 B 㩈{Í{ 348 I âÔ™} 349 V “D¢ 350 B ÜK 351 B “≥ìı 352 A •[¥™ 353 V ëÑÔ•mkñ 354 A ÑÔqW” B ôqW]£ I ôqW]£{ V ÜD : qS]£{ 355 A V ÜâÍ}ãKÈ : DÜâ
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39. [EM : DÑÜ≥UãKÈ : ÜD : ëÈ]o : ≤{q : Ñ}^[ì: QDÍ] : e™Í] : ÑLFão356 : Ñ™M357 : ëGÌì: ©ˆäK : ∏òpq358 : NÑ359 : wßFãKÈ : ¥óö{ : «Ûì: ©ˆäM[ : Dó∆ : x∑ÔÑq : QXì360: EóD : ÑX∑ÚM] : ëôÚëÈ] : {ì361 ; 40. [EM : D[ä˙}ìÒãKÈ : ôoS[•362 : mkXA|o: MISqãKÈ : QE[Ú : •Dmkë{363 : MISo: D{™•}364 : |âK : ë@k365 : K} c : }ì£ : M√ˆìo: ë ©¢ : DôïK… : B¢}o : ÑG™Í : qXmkóo366: DÔc : K√mkG} : ôâÚî] : ôß@Èmk : √lIo ; 41. [EM : DK⢩ˆãKÈ : ÜD : ßâß™ : KmkSc: ÑÔpyπÑÍ{ : QE[Ú : }ì¢ãKÈ : ScÒc: ^k : Ü© : •q : {QÑ{367 : πUo : kÚqãKÈ : √ˆ©ˆc368: ôßkâÔ : kÜ}oÒÑ¢ : ëô•]oGMM : πc: oK\DÌ : Ñl : ß]U}369 : Ü]K : wÛX : wFc ; 42. [EM : DуmkñãKÈ : ÜD : M]D370 : Ñ√ˆÕX : oì©™Í371: kwßFãKÈ : QE[Ú : ôÑÔß©ãM : FL™Í : ÜM}≤ÈO : lkÔD˜}372 : ïmk¢373 : {kÔßãKÈ374 : ÑG™Í : |ëD[mkÜ : GìX•q375 : [mkÑ : F]πV} : [≤™Í: |Ü]â : DÜDÍ376 : ÑFBMo : OìÒï : c™Í ; 356 V ÑMFão 357 I om. 358 B I ∏òq 359 A [kS 360 V [Xì 361 V EóD : ÑX∑ÚLÙî] : ëôÔkÈ] : {ì 362 A B V ÜD : oS” I ÜD : ßqW[• 363 B •DÌmk” 364 A B I TG D{™•{ : M©ˆX 365 A B I TG V ë@k : Ñå{Í 366 I eXmko V MÜo 367 V {]ÑÍ 368 A I ]}c V ëXc 369 V ß[U 370 I V ÜM 371 B oëG™Í 372 A om. 373 B ñkÔ¢ I ñmk© 374 A add. âK 375 A ëDGìX•q{ 376 A Ü]â : DÜFãoÎ I ëÜDÍ
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43. [EM377 : DôôÔÑãKÈ : fM: ñDLo : ñDM : QE[Ú : ôÑFmkãKÈ : ñDM: ÜM{ÛãKÈ : ÑG™Í378 : kÜ}o : ÑG™Í : Ñ™M : ÜK{379 : kM©ˆX : oëã– : D{¥©380 : √¬ÔE∫] : ILM381: CPó| : kÑX•M : |CPó| : kÑX•M : CPó| : kÑX•M382 ; 44. [EM : DKFãÜãKÈ383 : ôÑÔw©≤ : ÑM\D384: ÜM≈p : âËDÍ385 : KFãÜ : âK386 : ëÈ]o : K√ˆGœ387 : omkBD: ìI©ˆ|ãKÈ : QE[Ú388 : ^k : ÑX®] : â D: |[ßœãKÈ : }ì¢389 : ëÈ]∑Í : âK : ßœ©ˆ® : kcD: ôÜ}kD : [ßœ390 : âÔ•@È : coD ; 45. QE[ÚãKÈ : QE[Ú : ßS]¢{ : Kä{: |©ˆyS : oìG©ˆâÍ[391 : ôQE[Ú@È392 : mkXA{: ®X™~]ãKÈ : õ¢ : Ü]K : âËD}p¢ : å{: ÑÔ¢wQQ : ÜM®X™~] : [LóoãKÈ : MÜK{393 : ëÑÔßqLÙ{®394 : DpnX : Ü]K : pnX : Ñ{ ; 46. QDÍ] : e™Í] : ÜD : Fmk[ : πkmk : qDmk[È :
kFmkãKÈ395 : √GÀ : ]K : ëF© : wTq396 : ÑÔ•[È397: kñKo : GTX398 : {œ\ìÒ : ©ˆyS : {≤Qo : M©ˆX : {¥OÈ:
377 A V add. ómkF B I TG add. ÜmkF 378 A å{ 379 I om. 380 V D{≤© 381 V add. ßmkDÍ 382 V ◊ kF 383 V DKFãÑoÒãKÈ 384 I KM]D 385 V âËD˜} 386 A ÑK B ô 387 B KƒIœq 388 I om. 389 A ]F∏}ãKÈ : D}ì¢ B “ ã” : }ì¢ 390 V KπlIq 391 I ©ˆâÍ[ 392 A k]MãKÈ V kQE” 393 A ÜKÈ{ 394 V ôÑÔß” 395 TG V kFmk]ãKÈ 396 I TG V }≤ÈQ 397 A kFmk]ãKÈ : √G : Ü]K : ëF© : wTq : ÑÔ•[È 398 I add. }ëÈ
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ô•SìÒ : L¢ : I¢ëq : I}ƒ : ©mkS : mkXA} : Ke©[È399: Ü]K400 : D√ˆKÈÑ} : ÑëÈGô : {eóãKÈ : âXOÈ ; 47. Dôk{≤Ô©ˆ401 : ÑeSmkâÍ : KäF¢ : F\} : ]mkGpo: K∑{ : |Vmkó : ñQX402 : Ü}ô : ÑoDÍ : [mkïo: B¢}o : ÑG™Í : QE[Ú : ÜD : q ©ˆ£ : MÜo403: √¥í{ : ÜM≤√ˆãKÈ404 : }ì¢ : ≤√ˆ405 : qœQIo: ë™Ôk : ïOXoÎ : ÑB≤ÈX : @kÈ{ : PKo406 ;
TRADUZIONE ANNOTATA 1. Salute alla vostra esistenza che vince 407 le (altre) esistenze408, quando ho iniziato a desiderare di trovare il suo 409 nome nascosto, giacchè dalle vostre proprietà410, o Trinità, ho rinvenuto i nomi, ogni vostra Persona411 senza mescolarle io chiamo divinità e predico la loro unità412. 399 I ô•SìÒ : √ˆKÈñ : lIX : I}« : ©mkS : mkXA} : Ke©[È V ô•SìÒ : I}« : ©mkS : I}« :
©mkS : mkXA} : Ke©[È 400 B: om. 401 A QE {≤Ô©ˆ B Dôk[≤Ô©ˆ I QE[Ú : k{≤Ô©ˆ 402 B ñQX : ÑXló I ñQX : ëVmkó V fiXmkó 403 A V ÜD : q ©ˆ£{ : QE[Ú : B¢}o : ’ : Móo 404 A I ÜM√≥ãKÈ TG V D≤mkXãKÈ 405 B √¥ëÈ{ : }ì¢ : ≤√ˆ : ÜM≤√ˆãKÈ I √≥ 406 I add. kõ : dFãKÈ : óckÈ{ : ëÑ©ˆy{Í{ : ÜKâV : Q≥ : ë{œ] : D≤mkXä (sic!) mkT : ë≈AÃ@È : ëF© : G| ; V: l’ultima riga è illegibile. 407 A: riempie. 408 Il senso di questo stico è che, mentre ogni creatura è destinata a passare, la Trinità rimane in eterno. Il termine BEìı (così come gli equivalenti: BDÍ| : @Fî : @Fîq) da @Dë può avere almeno due significati: 1) l’essere, l’essenza, l’esistenza e 2) sostanza, natura, cf. l’ampia e dettagliata spiegazione in KWK, pp. 370-372; cf. anche DL, coll. 6-7. Ludolf 1661, col. 4, rileva giustamente che BEìı può assumere il significato di ipostasi o persona. Il duplice senso (essenza, natura) che il termine BEìı trasmette è presente nel Déggwa, nel canto del Mädæane ‘Aläm (= Salvatore del mondo) del 27 di Taæùaù (= 5 Gennaio): BEìı : ôÑmk : BEìı : ôëF©ˆ : BEìı : ôK} ] : e™Í] : ’ : ëÈÜoÎ : ykÈS : BEìı = l’esistenza (oppure la Persona) del Padre, l’esistenza del Figlio, l’esistenza dello Spirito Santo: una sola è la comune esistenza. Si canta la medesima espressione nell’Abun del giorno successivo (solennità dell’Emmanuele), i.e. 28 Taæùaù (= 6 Gennaio), cf. Mäúüafä Ziq, 103-04. È chiaro che questo passo della liturgia usa il termine BEìı come indice di distinzione delle Persone divine e come il principio della loro unità. 409 Il suo = della Trinità. 410 Ogni Persona della Trinità possiede proprietà specifiche non interscambiabili: il Padre genera e fa procedere lo Spirito Santo, il Figlio è generato e lo Spirito Santo procede. 411 Letteralmente: ogni vostro volto. 412 Letteralmente: e do la congiunzione. Negli ultimi due stichi, il compositore si sforza di affermare la distinzione delle Persone divine e la loro unità. Come sovente accade nelle
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2. Salute alla memoria del vostro nome che non si riunisce dal separarsi e che dal separarsi si riunisce per essere chiamato Dio e con nomi simili 413: o Trino santo! nutritemi con la misericordia, la vostra noce414, il frutto della giustizia415 che la vostra mano ha piantato, e il frutto della vostra vite, la verità che tutti sazia. 3. Salute ai capelli del vostro capo la cui ombra416 è la bianchezza della neve417, o Trinità, sovrani dell’anacoreta, la cui preghiera è un’offerta per voi, i tre volte «santo!» hanno insegnato la vostra Trinità, e quando hanno aggiunto: «Questo è il Dio delle potenze» hanno svelato il mistero della vostra unità 418. 4. Salute al vostro capo che ha creato 419 il capo o Trinità, padroni420 del corpo senza escludere l’anima, sul capo di Iyyasu ponete la vostra corona, la grazia, poiché nel vostro unico nome adora il (Dio) trino e nel vostro nome ha edificato un tempio 421. traduzioni, anche in questo caso, trasferire la sottigliezza del pensiero e l’armonia della rima da una lingua all’altra rimane un’impresa tutt’altro che facile. 413 Un riferimento ai sinonimi di ÑMEã, i.e. Ü¥ôÔÑmkGÌX. 414 Il compositore usa il termine âXäó che può significare noce, cf. DL col. 839, ma an-
che DëÈõ = mandorlo, come sembra essere il senso del K]omkcˇó : ôK]cF: (Supplica della Croce) kqS : ÑY}[ : ôOS∆q : ë S¢q : âXäï : ôÜ}kD : oãF : Ü}ô : qcëÈM : kÑœÑ : ÑÔ•©ˆx{q : ƒ©ˆc : ëÑÔkÚôëq : xπÑ : Ü]K : ÑFloÒ : ãAF : ëÑÔKìÒï ; K]cD : ãX]r][ : kÚö{ : ëxßF{ : Ñ¥ñô : ƒ©ˆd{ : ëxπÑ{ : ÜM¥mkX|o : [ß∏} : √EÑÔ{ : {Pá : QF∏{ : ÜMwk : Ü¥ôÔÑmkGÌX : ÑMEã{ = “ma la verga di Aronne che è germogliata e ha fruttato la mandorla, senza (che avesse) pianta, mentre stava in piedi all’esterno, non ha salvato il giusto e non ha riscattato il peccatore perché non aveva né il potere né la vittoria. Mentre la croce di Cristo, nostro riscatto e nostra forza, assumendo l’autorità dal Signore nostro Dio, ha liberato i giusti e i peccatori dalla schiavitù di Satana, nostro nemico”, cf. MOGÄS ‘UQBAGIYORGIS 1957, pp. 292-293. I filologi etiopici amano tradurre âXäó con “limone”, âXäó : ô : D˜L cf. DL, col. 839; KWK, p. 547. 415 V: il frutto verace. 416 Sarebbe stato preferibile √™F = splendore, anziché √ˆED˜q = ombra, che fa meno
senso. 417 Cf. Dn 7,9; Ap 1,14. 418 Il riferimento è a Is 6,3; cf. anche Ap 4,8. 419 Letteralmente: che ha posto (con arte). 420 Oppure: signori. 421 A: per amore vostro ha edificato un tempio.
Il compositore si riferisce alla chiesa Däbrä Bérhan Ùéllase (della quale poi parlerà nella strofa 46), una delle più belle chiese di Gondär, consacrata durante il regno di Iyyasu I. Segue uno stralcio dalla cronaca su Iyyasu che racconta la solenne consacrazione del tabot: “Ýer commença (1693). Le 11 de ýer, le roi célébra la fête du Baptème (Épiphanie), se plongeant dans le fleuve Qâhâ. Le 26 de ýer, le roi consacra, célébra la consécration du tâbot de l’église de Sellus Qeddus ... Le roi arriva à la porte de l’édifice de l’église et, descendu de cheval, il porta le tâbot sur sa tête et l’introduisit dans l’armoire qui sert d’autel, où abbâ Mârqos, métropolite d’Éthiopie, consacra le tâbot”, cf. GUIDI 1961, pp. 176-177.
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5. Salute al vostro volto nascosto dagli occhi delle creature: o Trinità, la vostra lode è ripiena nella bocca di tutti, quando un angelo è uscito dalla vostra casa 422, affinchè fosse nominato sovrano sulle creature, a vostra immagine creaste l’uomo 423. 6. Salute alle vostre palpebre che interrogheranno il malvagio, molteplice sarà la pena della sua malvagità tanto che lo raggiungerà il terrore: o Trinità, mio tesoro di cui la tignola ha ritegno 424, durante il giorno della retribuzione mi visiti il vostro perdono che spegne il fuoco del cielo e uccide il verme425. 7. Salute ai vostri occhi che hanno creato ad arte gli occhi, o Trinità, la vostra pre-esistenza non ha richiesto la spiegazione di un mi sia alimento interiore e veste preziosa all’esterno [inizio426: la vostra sapienza che senza fuoco ha acceso il fuoco e che senza acqua ha raffreddato le acque 427. 8. Salute alle vostre orecchie porte della preghiera soave, o Trinità, misteri dell’ascolto a cui segue il vedere 428,
422 I trattati sulla creazione parlano della caduta in disgrazia del diavolo che era un an-
gelo luminoso e della sua espulsione dalla presenza di Dio: essa sarebbe avvenuta il giorno di mercoledì. A lui sarebbe subentrato l’uomo, creato il venerdì successivo. Per la caduta del diavolo e l’intronizzazione dell’uomo al posto suo, cf. GRÉBAUT 1911, 82; MOGÄS ‘UQBAGIYORGIS 1955, pp. 68-82. 423 Gli ultimi due stichi si riferiscono a Gen 1,27-28. 424 A: che non avete fruttificato formiche. Allusione a Mt 6,19.20. Il termine per tesoro è “mäzgäb”. Nella preghiera eucaristica chiamata “del nostro Signore e nostro Dio” (oppure Libro del Testamento) leggiamo: {ÑâËoâ : ÑMEã{ e™Í]" ƒLÙ : {œ]{" ëAkÚ : Ißëq{" ôÑÔßL]} : Kõ≤mk = “ti ringraziamo, nostro Dio Santo, perfezionatore delle nostre anime, dispensatore della nostra vita, tesoro incorruttibile” MQ, p. 168; cf. Mc 9,48. 425 L’escatologia biblica prevede “il fuoco che non si estingue e il verme che non muore” come alcuni degli elementi usati per punire i reprobi, cf. Mc 9,48. 426 È un linguaggio mutuato dalla professione di fede nota come ÑKã}® = “spiegazione”, il credo che sarebbe stato formulato dagli Apostoli a Gerusalemme e che si trova nella Didascalia. Esso recita: Ü]K : ÑFn : ëÈ]o : BEìı@È : ÑKã}® = “poichè non vi è spiegazione per la sua esistenza”, MQ, p. 103-104. 427 Nella preghiera eucaristica attribuita ai 318 (Padri Niceni) si legge: ôÜ}kD : Ü\q : Ñ}©© : ëôÜ}kD : Lß : ÑmkS© = “ha acceso senza fuoco e ha raffreddato senz’acqua”, cf. MQ, p. 286. 428 Se l’allusione riguarda i fenomeni che hanno accompagnato il Battesimo di Gesù, il compositore non ne ha rispettato la sequenza. Durante il Battesimo la visione dei cieli che si aprono e dello Spirito Santo che scende sotto la forma di colomba, precede l’ascolto della voce del Padre, cf. Mt 3,16-17.
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nelle verghe di Giacobbe429 rifulse il sole430 della vostra Trinità, e le pecore di Labano e l’acqua somigliarono agli esploratori (che additavano) verso le pecore di oggi e il grande battesimo. 9. Salute alle vostre guance che rifulsero prima dei luminari: o Trino santo! liberatemi dall’afflizione, dalla mutevolezza (che è) il sovrano e del mondo le cui truppe sono le preocmentre la sua invidia è fuoco e la maldicenza è il suo verme [cupazioni, perché essa (la mutevolezza) è la Geenna sulla terra 431. 10. Salute alle vostre narici che odorarono432 le lodi, o Trinità, la vostra sapienza che si è rivelata nelle sue azioni, nell’anno dell’edificazione inviate il capomastro, l’elemosina 433 che impegna come scalpellini gli indigenti e i poveri perché (l’elemosina) costruisca una casa per l’anima mia 434. 11. Salve dico alle vostre labbra, o Trinità, siatemi clementi con la clemenza della vostra dimora 435, l’amore436, poiché venuta meno è la mia fede437 dalla sua vita che è l’opera: 429 Cf. Gen 30,37ss. L’accostamento usufruisce della metamorfosi del bestiame alla vista dei rami mostrati da Giacobbe e viene letta come una profezia del battesimo cristiano nel nome della Trinità, apportatore della trasformazione in figli di Dio. Si canta questa strofa l’11 di Ýér (= 19 Gennaio), la solennità del Battesimo di Gesù.
430 Il sole come metafora della Trinità è un motivo diffuso nei testi liturgici. L’anafora mariana Eructavit canta: “il Padre è sole, il Figlio è sole, lo Spirito Santo è sole: uno è il sole di giustizia che è al di sopra di tutti”, cf. MQ, p. 249. 431 Le categorie escatologiche sono sempre le stesse: la Geenna, il fuoco e il verme come sorte infelice dei dannati, Mc 9,48. Da rilevare che i sentimenti espressi in questa strofa corrispondono alle angosce ed ai grandi disagi politici che l’Etiopia ha vissuto all’epoca della nostra composizione. 432 B: odorano. 433 V: la lode (!). 434 A: affinchè a nome vostro mi edifichino una casa.
Questa strofa che riconosce un valore importante all’elemosina si ispira, fra l’altro alla trentaduesima Ammonizione di Giovanni Crisostomo, soprattutto al passo che dice: ëÜK[ : å{ : âKõ : KœqëÈ : D{ : {@mk : âËD˜ : }ì¢{ : Ü}kß{ : öoÒ : I}« : Ü}o : ÑÔq e©ˆ : ∆Smko : ëK]o≤mkV{ : ëÑ¥mkXo : ÑE : lIoÎ : ÑÜ™ë : ©ˆâÍL} : ¢G}« : ÜD˜}o : Ñmk•o ... ëG}ä\}A : ëIKÈL} : ¢G}∆Í : ñ™Ô : ô}o : I}« = “se così è, conviene che noi diamo la nostra ricchezza per questo edificio che non necessita di carpentieri né di lavoratori, né di schiavi ma sono soltanto le mani deboli che costruiscono queste case ... e ancora, sono gli zoppi e gli ammalati che costruiscono questo edificio”, YAT, p. 370; JOHANNES CHRYSOSTOMUS, In Epistulam ad Hebraeos Hom. 32, Patrologia Graeca, accurante J.-P. MIGNE 63, 223, 2-7. 435 V: misericordia. 436 L’amore come “il luogo” nel quale abitano le Persone della Trinità è un linguaggio di
matrice giovannea, cf. e.g. Gv 15,9-10. 437 Letteralmente: è morta. Lo stico rimanda a Gc 2,26.
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pur avendo un calice di acqua fresca che infonde speranza all’assetato e il piede per visitare la persona ammalata 438. 12. Salute alla vostra bocca la cui porta è la pace: o Trinità, armonia del fiore del campo439, verso l’unico Dio che è il bene del mondo venturo440: con la vostra grazia perfetta, cambiate il mio culto dal culto dell’idolo scolpito con un denaro. 13. Salute ai vostri denti che non sono denti carnali 441, o Trinità, voi siete la pioggia dell’armoniosa nuvola 442, quando poneste la legge nell’intelletto vivente443, è stata rimossa insieme ai Giudei, la legge del tenebroso monte Sinai 444 ed ha ceduto il suo posto alla vostra legge 445. 14. Salute alla vostra lingua che ha parlato prima di qualsiasi parola, il vostro seggio, o Trinità, che incute timore su(gli altri) seggi, quando ha trasgredito la vostra legge ed ha raggirato il vostro consiglio, Teuda ha visto in faccia la rovina che si meritava e il Galileo Giuda si è incamminato nella strada della morte 446. 438 Sono le opere di misericordia menzionate in Mt 25,37.39.42.43. Un’altra fonte che ha sicuramente ispirato questa strofa è la trentunesima Ammonizione di Giovanni Crisostomo che dice: ëÜK[ : odëK{ : K]odX} : Ü}ô : ßmkF : ëDÜK : ÑFmk¢ : ôÜK√ëÈq : M}o : ÜâëÈ} ; ëÑ{A : ÜmkD˜ : ÑÔqãF{Í : kÜ}o : Ñ]q® : Lß : c¯UX ; ëÑFmkâ{Í : Ü¥X : DGëÈ≈ : ©ˆëÈß : ëKÈcÎI ; ÑëÈ : ÑFmkâ{Í : ∑ S : kÚq : DÑy©ˆY : {¥©ˆ : ëÜK[ : ÑÔKGXâ : kÜDÍ : ÑFmkâ : MISo ; = «... se un avversario dovesse contrastarmi dicendo: “Cosa sarà di me se non ho nulla da offrire in elemosina?”. E io gli dirò: “Non puoi forse dare da bere dell’acqua fresca? Non hai forse piedi per visitare l’ammalato e il prigioniero? Oppure, non hai un tetto per alloggiare il forestiero? Se non fai misericordia in queste cose non avrai misericordia!”», cf. YAT, p. 365; JOHANNES CHRYSOSTOMUS, In Epistulam ad Hebraeos Hom. 31, Patrologia Graeca accurante J.-P. MIGNE 63, 218, 34-40. 439 La liturgia canta questa strofa durante la stagione liturgica nota come ôK{ : √ˆ≤Û = “il periodo dei fiori” che ha luogo dal 26 Mäskäräm = 6 Ottobre, al 5 di Æédar = 14 Novembre. 440 Questo stico rielabora Is 40,10: ÑMEããKÈ : ßK√ˆÜ : M]D : xßDÍ : ëßâ˜}} : kKõVóoÎ & {ì : óPÙoÎ : M]DÌ@È : ëM¥lT{ : e©ˆK : ≤√Í = «il vostro Dio viene con la sua potenza e dominerà con il suo braccio, ecco il suo premio è con lui e la sua opera è davanti al suo volto (davanti a lui)». 441 V: che sono denti carnali. 442 La nube come topos della divinità è un motivo biblico molto frequente, cf. Es
13,21.22; 19,9; Mt 17,5; 24,30. 443 Per il dono della legge all’interno del cuore, cf. Ger 31,33; 2Cor 3,3. Sulla rimozione del velo, cf. 2Cor 3,16. 444 A: Sion.
Allusione a Es 19,18 e soprattutto Eb 12,18. 445 B I V: al vostro popolo. 446 Per Teuda e Giuda il Galileo, cf. At 5,36-37.
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15. Salute alla vostra voce che taglia il fuoco bruciante, Trino Santo! ricchezza del pellegrino indigente, quando per la vostra grazia generativa, con il pentimento (ri)nacquero, la destra traditrice di Pietro ricevette la chiave del cielo447, e il persecutore Paolo divenne maestro del Vangelo448. 16. Salute al vostro respiro, vita di ogni creatura vivente 449, o Trinità, sacerdoti del cielo450 il cui sangue è remissione, dal vostro sangue aspergete gli stipiti della mia casa, poiché io ho già valutato e provato il debole e incapace sangue degli animali451. 17. Salute alla vostra gola che ha desiderato le lacrime umane 452 quale bevanda, o Trinità ricchi di grazia, non spogliatemi della grazia! Se voi mi trascurate e mi lasciate nell’indigenza, è stato forse Michele ad andare a portare la mia carne o è stato Gabriele a darmi l’anima 453! 18. Salute al vostro collo che ha disegnato il collo di Adamo, o Trinità, dalla vostra potenza partecipatemi potenza: sul soffitto della mia carne elevate il sole dell’agone di Arsenio 454, come con la vostra potenza, Iyyasu che stava in basso è riuscito 447 Cf. Mt 16,19. 448 Cf. Gal 1,13-6; 1Cor 15,9-10. La liturgia canta questa strofa il 5 Üamle, festa degli
Apostoli Pietro e Paolo.
449 Circa il soffio di Dio come alito di vita effuso sulle creature viventi, cf. Gen 2,7. 450 B: della pace. 451 Sull’inefficacia dei sacrifici antichi, cf. Eb 10,1ss. 452 A I TG V: le lacrime di sangue.
Le lacrime gradite a Dio sono quelle che sgorgano da un cuore pentito. Molto illustrativo, a questo proposito, il commento (andémta) al passo dell’Anafora di Giovanni Figlio del Tuono che dice: «Nutri tutti senza far mancare». L’interprete spiega: «Mosè ha chiesto al Signore: “Mangi?”. Il Signore disse: “Sì”. (Quegli ancora) “Bevi?”. “Certo!”. Quando (Mosè) gli domandò: “Che cosa mangi e che cosa bevi?”. (Il Signore rispose) “Se il peccatore fa penitenza (quello) è il mio cibo e se geme (quella) è la mia bevanda”», MQ, p. 188. 453 La liturgia canta questa strofa in occasione delle feste dei due angeli menzionati: di
Michele il 12 e di Gabriele il 19 di ogni mese. 454 A: nel cielo della mia anima innalzate ...; B I: nel cielo la mia anima innalza ....; V: nel cielo della mia anima innalza ... Arsenio “il Grande” è con Poemen uno dei monaci egiziani più illustri del V secolo. La collezione alfabetica degli Apophtegmata Patrum ha conservato una lunga serie di 44 logia o aneddoti a lui attribuiti. Cf. J.-M. SAUGET, Arsenio il Grande in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane 1, Casale Monferrato 1983, p. 386. Il Sinassario commemora Arsenio il 13 di Génbot (Budge 1928, pp. 885-887) e lo esalta come uomo di virtù ascetiche e di sapienza. Il Sinassario racconta che Arsenio apparteneva ad una nobile famiglia romana che lo aveva mandato ad Atene a studiare. Arsenio avrebbe imparato filosofia, astronomia, il percorso del sole, della luna, delle stelle e delle rispettive stagioni.
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a fermare il sole che sta in alto455. 19. Salute ai vostri omeri che hanno supportato le fondamenta del mondo 456, quando i rematori di Noè e i legni della sua grande nave, hanno contemplato sul vostro trono un uomo divenuto Dio, i Cherubini e i Serafini si sono prostrati ai suoi piedi, perché lui457 ha comandato e loro sono stati creati. 20. Salute alle vostre ali, ali infuocate, quelle che stanno in mezzo e quelle che stanno sull’orlo o Trinità insegnatemi il libro che addestra alla battaglia, perché sempre mi contraddice con la sua sovrabbondate parola di malizia e la perfidia di Tadra con la sua bocca si intrattiene con me 458. 21. Salute alla vostra schiena459 che fu flaggellata prima dei secoli con la verga nascosta dell’eternità come è stato scritto nel libro 460: o Trino santo che sempre vi unite, proteggete dalle cadute e rendete luogo di riposo 461 il mio edificio interiore il cui esterno è grasso462. 22. Salute al vostro petto, del consiglio accampamento regale 463, o santo Trino, àncore della nave464 che è il cielo465 quando mi perseguita la contesa, emissario invidioso del nemico 455 Cf. Gs 10,12-13. 456 Si canta questa strofa per la festa delle miriadi di Angeli (A’élaf Mäla’ékt) il 13 di
Æédar e per il 3 di «agumen, festa dell’arcangelo Raffaele. L'immagine della Trinità che regge sui propri omeri le fondamenta del mondo è molto suggestiva e rievoca il mito di Atlante. 457 Cf. Gv 1,3; Col 1,15-20; Eb 1,1-3. 458 Tadra (come Tadris) è l’equivalente del nome proprio Teodoro (DL, col. 1415), ma
nel contesto di questa strofa già di per sè astrusa, è difficile stabilirne l’identità esatta. La natura delle effigi, così come quella dei qéne è volutamente sfuggente. Con l’impiego della tecnica della cera e dell’oro, la creatività del compositore spesso rievoca figure che appartengono al firmamento biblico oppure a quello della storia ecclesiastica per esaltare o attaccare personaggi viventi. 459 B: alle vostre schiene. 460 Un’allusione a testi come Sal 101 [102],26-29. 461 Cf. Gv 14,23. 462 Una contrapposizione (volutamente) stridente tra la realtà spirituale della persona
umana e quella corporale. La visione etiopica di quest’ultima è sempre negativa. 463 Il petto come sede del consiglio è una nozione desunta da 4Esdra 14,40 ripresa anche da altre composizioni analoghe, come e.g. il Mälké’a Wuddase (l’Effigie della Lode) che si canta il giorno di sabato: LX•M : ©ˆ}¥F : ëDo : ÑÔ•cıM : ëG| ; ™Ôk : Ü}¥©ˆñ¢ : Ñãmk™Ô : FkÈ| = «Maria vergine, figlia di Gioachino ed Anna, sul mio petto infondi l’intelligenza». Cf. TÄSFA GÄBRÄ ÙÉLLASE, Mälké’a Guba’e (Silloge dell’Effigie) Mé‘élladä Úälot (Raccolta delle preghiere), Addis Ababa 1983 (AM), p. 15. 464 B I: pace. 465 Letteralmente: àncore della nave, il cielo, i.e. “siete voi che tenete fermo il cielo!”.
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mi liberi con potenza l’amore, il mare della vostra misericordia come in antico liberò Israele dal mare466. 23. Salute al vostro seno mensa dei suoi servitori giusti 467, o Trinità, acque di Iyyasu che fluite dal suo pensiero 468, Voi al suo esterno eravate e Voi al suo interno, (perciò) non ha contemplato verso la tenda come suo padre Abramo 469 né ha voluto aprire la finestra del profeta Daniele 470. 24. Salute alle vostre mani che hanno creato ad arte l’uomo, o Trinità, miei buoni signori, dopo che Mosè il capo dei profeti scrisse la legge il libro del maestro di Awse471, mi ha insegnato la vostra Trinità (così anche) il Figlio del Tuono, Giovanni ricolmo di lode472. 25. Salute al vostro braccio che ha rafforzato il braccio di Adamo, o Trinità che fate cessare la guerra dai confini della terra 473: nel mio cuore fate entrare l’offerta, ricchezza dei penitenti perché possa presentare alla vostra regalità, le lacrime 474, tributo degli occhi e per amore vostro possa servire il prossimo. 26. Salute al vostro avambraccio che ha spezzato l’avambraccio della debolezza o Trinità, aratori che mai vi stancate! poiché avete reso semente l’amore, il frumento della vostra casa che fa precedere la stagione della semina e fa seguire (quella del)la messe,
466 Cf. Es 14,29. 467 Si canta questa strofa per le solennità dei santi. 468 Cf. Gv 7,38. 469 Gen 18,1-15. Giubilei 16,1 dice: «Il primo giorno del quarto mese, apparimmo ad
Abramo presso la quercia di Mamre. Parlammo con lui e gli dicemmo che gli sarebbe stato dato un figlio da sua moglie Sara». 470 Cf. Dn 6,11. Il contenuto di questa strofa riflette il pensiero di Gv 4,20-24, e in parti-
colare del versetto 24. 471 Awse è una forma di Osea o di Giosuè come nel caso presente, cf. DL, col. 1419. Il maestro di Giosuè che ha insegnato sulla Trinità è Mosè. Il riferimento è ai numerosi passi del Pentateuco, della Genesi in particolare (e.g. Gen 2,26; Gen 3,22; Gen 11,7; Es 3,6), che la tradizione ha interpretato come testimoni della dottrina della Trinità. 472 Ci sono molti passi della letteratura giovannea che sono letti in chiave trinitaria, a
cominciare dal Prologo, ma cf. anche Gv 12,27-28; 1Gv 5,7-8. 473 Sal 45[46],10. 474 Per le lacrime come espressione salutare di pentimento, cf. Mt 26,75 («Pietro ...
uscito all’aperto, pianse amaramente»). Anbé‘a Nésséüa = “lacrime della penitenza” è la quarta delle dieci tappe, lungo il cammino della penitenza che conduce alla perfezione, cf. il commento a 1Pt 2,8 in MÄÜARI TÉRFE 1951, pp. 256-257.
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nell’uomo475, vostro terreno arabile476, si è dilettato il frutto della giustizia. 27. Salute ai vostri cubiti477, misura della terra e del cielo, o Trinità, adornatemi con le vesti fini e preziose dell’elemosina, e riscattatemi478 dalla vecchia abitudine del ricco, che la ricchezza ha schernito e frodato quando il povero Lazzaro gridava presso il suo atrio 479. 28. Salute ai vostri palmi che tengono480 il mondo i posteri481 voi siete e quelli che dapprima eravate: sul mio cuore fate piovere la vostra pioggia, la pace, infatti Elia non mi ha dato482 pioggia che disseta il solco di un campo483. 29. Salute alle vostre dita che non si separano dalle unghie, o Trinità, mai si esaurisce la ricchezza della vostra casa: quando484 arricchiste l’uomo485 dopo che il suo errore l’aveva spogliato gli angeli del cielo videro ciò che prima di oggi mai avevano visto 486 e gli angeli furono nominati schiavi dell’uomo487. 30. Salute ai vostri fianchi, spogli di vesti auree o Trino santo, adornati di folgore che spaventa: verso la via dell’elemosina di Cornelio il giusto mi conduca il vostro vangelo, signore della via sottile che Giovanni Battista ha spianato 488. 475 A: la giustizia. 476 Questa espressione dell’uomo come “campo di lavoro di Dio” suona come una nota
positiva. 477 B: al vostro cubito. 478 Letteralmente: rendetemi nuovo. 479 C’è una sottile ironia in questa strofa che rielabora Lc 16,19-31. Oltre alla legge del
contrappasso che capovolge il destino dei due protagonisti, già dichiarata dall’evangelista, il compositore si permette di osservare che le vesti preziose autentiche sono l’apertura al disagio del prossimo, a differenza delle vesti del ricco epulone, emblema dell’egoismo e dell’auto-annientamento. 480 Letteralmente: che hanno tenuto. 481 Coloro che continueranno ad esistere anche quando il creato sarà passato. 482 B: non mi dà. 483 Allusione a 1Re 18,41-46. 484 A: lo stico appare ai margini ed è pressochè illeggibile. 485 Cf. 2Cor 8,9. 486 Cf. Lc 2,9-14; 1Tm 1,16. L’innario canta questa strofa nella solennità del Natale, il
29 Taæùaù (7 Gennaio). 487 Per il ministero degli angeli, cf. Gv 1,51. 488 Cornelio è chiamato in causa in collegamento con le elemosine secondo l’informa-
zione di At 10,2. Interessante l’attribuzione del vangelo a tutta la Trinità.
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31. Salute al vostro ventre che ha creato il ventre delle creature, o Trinità, inquilini del cielo e che |riempite la terra489, la vostra esistenza non si è fatta prestare consigli da estranei 490, getta le fondamenta pur essendo assiso sulla volta e mentre supporta la base, sta sul firmamento 491. 32. Salute al vostro cuore la cui volontà non si divide, o Trinità che venite adorati unitamente quando tutt’intorno è stato suonato il corno della vostra regalità 492 (che ha decretato): «Adamo è divenuto uno di noi493!» è taciuto il tumulto di Sabellio e sono stati distrutti i suoi flutti 494. 33. Salute alle vostre reni di proporzioni uguali495
489 V: sempre vi affaticate. 490 “Dio che non ha bisogno di consiglieri” è un motivo biblico ben noto, cf. Is 40,13;
Rm 11,34; 1Cor 2,16. La liturgia ha mutuato questo concetto e lo canta, ad esempio, per la festa di Michele arcangelo il 12 Säne (19 Giugno): ÑÔß√ˆIe : ôßKãY : ëÑÔ¢xQQ : ôßS©ˆá : ÑFnoÎ : π}q : ëÑÔoœƒLÙq : ÑÔ¢xFe : K}¥QoÎ : ëÑFn : ôßãF : KìÒñ : xßDÍ = «non desidera chi lo consiglia e non cerca chi lo aiuta, non ha inizio né fine, il suo regno non termina e non vi è chi vince la sua forza», cf. Mäúüafä Ziq wäMäzmur, p. 188. Cf. anche l’Anafora attribuita ai 318 (Padri Niceni) che dice: ëÑK : ∑S : [L•o : ëM©ˆS : ÑFn : ôS©ˆá : Ü]K : âADÔ : ëÈÜoÎ = «e quando creò i cieli e la terra, nessuno lo ha aiutato perché è l’(onni)potente», cf. MQ, p. 281. 491 Gli ultimi due stichi appaiono pressoché ad litteram nella preghiera eucaristica attribuita ai 318 (Padri Niceni) che dice: ß√Ìï} : cKS : ë¢G}√ˆ : KOSo"ß√ëÈX : ©ˆ© : ëß{mkX : ∑ S = «siede sulla volta (celeste), edifica le fondamenta, supporta la base e sta sul firmamento», cf. MQ, pp. 281-282. Ci sono motivi analoghi anche nelle preghiere eucaristiche che portano il nome di Giovanni Figlio del Tuono, di Epifanio ecc. L’Anafora Mariana Eructavit, spiega poi: Ñå : âL@È : ônoÎ : DKDåq : ôkEóDÍ : ∑ S : ëôkpIoÎ : KOSo" ÑE : ∑ X : ëÈÜoÎ : ëKOSq : ëÈÜoÎ = «non così la divinità, la quale non ha il firmamento al di sopra di sè, né fondamenta al di sotto di sè, ma il firmamento è lui stesso e lui il fondamento», cf. MQ, p. 245. Si tratta di preghiere che sono ispirate da testi biblici come Is 66,1-2; At 17,24-26. 492 A: gloria. 493 Gen 3,22. 494 A: è taciuto il tumulto di Sabellio la cui abitudine è la malvagità; B TG: è taciuto il tumulto di Sabellio e non c’è (più) la sua abitudine; I: nascondi il tumulto di Basilio e non la sua abitudine; V: ha placato il tumulto di Sabellio che non è sua abitudine. Sabellio è uno degli eresiarchi aspramente criticati da molti testi teologici etiopici, e.g. dal Libro del Mistero che lo redarguisce come segue: «Sabellio dice: “il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un’unica ipostasi ed un unico aspetto, tre persone ed un unico Dio, tre nomi ed un unico Signore” ...», cf. LM (1) traduzione, p. 2. Il senso degli ultimi due stichi è che quando Dio ha parlato di sé stesso al plurale, ha rivelato la Trinità delle Persone. 495 óT•} : kÑäF preso alla lettera significa: uguali nel corpo, nella statura. In questo caso è più opportuno scegliere justa statura vel magnitudo, DL, col. 783. La tradizione orale ha una variante di questo testo, e.g. óT•} : kÑM\F = “uguali nell’apparenza”. La liturgia canta questa strofa in occasione di varie solennità, e.g. Bä‘alä Maryam = la festa della
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quando o Trinità, il vostro mondo visitò con la clemenza, uno di voi, il Verbo Dio496 si è adempiuta nella vergine Maria la promessa dei padri 497, e sul Cranio è stata piantata la croce salvatrice 498. 34. Salute al vostro pensiero, di cui si è sparlato perché è buono 499, (esso) ha prescelto dalla Caldea Abramo della terra di Carran 500: o Trinità, quando ha contemplato501 parimente la vostra Trinità, vide tre persone separate in cima alla tenda, ma ha conversato soltanto con un uno 502. 35. Dico: «Salve!» alle viscere, la vostra misericordia, o Trinità, poichè sovrabbondanza voi siete, siate per me pienezza nel (mio) [agone: poiché quando sono andato a partecipare 503 al loro agone504, Giorgio505 non mi ha donato neanche la misura di una stilla di rugiada dal Madonna (il 21 di ogni mese), Mädæane ‘Aläm = il Salvatore del mondo (il 27 di ogni mese), Bä‘alä Égziabüer = la festa del Signore (il 29 di ogni mese).
496 Gv 1,1. 497 Allusione a Is 7,14. 498 Il Cranio (Gv 19,17-18) è il medesimo luogo dove secondo le tradizioni orientali fu
creato Adamo, e dove fu anche sepolto. Il legno della croce fu piantato sul Cranio. Il sangue e l’acqua sgorgati dal costato trafitto di Cristo sono penetrati sulla terra fino a raggiungere i resti di Adamo e “lo hanno battezzato per introdurlo (in cielo) come cristiano adulto”, cf. La Caverna dei Tesori, in GRÉBAUT 1911, pp. 169-170; MOGÄS ‘UQBAGIYORGIS 1955, p. 68; COWLEY 1988, p. 261; LM (1) traduzione, p. 210. Cf. anche GINZBERG 1995, pp. 304-305 (specialmente il n. 136). 499 B: ... che è stato prescelto perché è dal soave odore; I: ... che è stato menzionato per
la sua bontà. Da notare l’ossimoro: il messaggio è che anche a voler parlare male di Dio non si potrà mai criticarlo se non per la sua bontà. 500 Gen 12,5. 501 Letteralmente: contempla. 502 La strofa si riferisce all’episodio di Gen 18, l’apparizione di Mamre, un “luogo clas-
sico” addotto per provare la Trinità (18,2) e l’Unità delle persone (18,3). L’ultimo stico è indifendibile a livello sintattico. L’autore conosce alla perfezione le regole della sintassi ma si concede la licenza di farne a meno per ottenere la rima. Il testo dice: ëDÑG™Í : {≤Y : S[¢ = «ma ad uno ha reso la sua parola». È quindi doveroso emendare: ë{≤Y[ : M]D : ÑG™Í : S[¢ = «ma la sua conversazione con uno soltanto ha reso». A questo proposito, cf. il HA cap. 90, n. 2, p. 388, nel passaggio attribuito al patriarca Giovanni di Alessandria. Nella sua epistola (cf. GRAF 1937, n. 209, p. 395) a Ciriaco patriarca di Antiochia scrive: Ü]K : ÑmkXAM : XÜ¢ : OD]o : ó©ë : k’™Í : MFã| = «perché Abramo ha visto tre uomini in un’unica Signoria». 503 V: prendere in prestito. 504 A: nome. 505 Il Sinassario ricorda Giorgio tre volte. Il 7 di Üédar (12 Novembre) fa memoria della dedicazione del luogo in cui fu riposto il suo corpo (qéddase betu), cf. BUDGE 1928, pp. 212-213. Per la dispersione delle sue ossa (zérwätä ‘aúmu), il 18 di Ýér (26 Gennaio), cf. BUDGE 1928, p. 513. Il Sinassario del 23 di Miyazya (1 Maggio) inizia il racconto del marti-
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e Täklä Haymanot mi ha negato un frammento del suo osso 506.
[suo sangue,
36. Salute ai vostri lombi, la cui cintura è cintura di bontà, o Trinità che differite dal genere del vano dio di Bala’am 507. Poiché la sua indicazione fa giungere alla misura vostra, la giustizia, si prepararono a fare il cammino di tre giorni, Abramo il latore del sacrificio e il suo sacrificio Isacco508. 37. Salute alle vostre tibie, nascoste agli occhi, o Trinità! tessitori della luce, la veste fine e preziosa del cielo, la vostra misericordia veste, sia per me veste del martirio, poiché su di me non c’è la pietra, veste di Stefano 509 né il fuoco, l’ornamento del bambino Ciriaco510. 38. Salute alle vostre ginocchia che hanno fatto piegare le ginocchia, e che neanche una volta hanno presentato quale aggiunta la mucca della Sao santo Trino mentre mi rendete amico, [maria511: 512 autorizzate me vostro servo di sottomettere l’angelo perché possa da umano essere chiamato dio 513.
rio di Giorgio introducendolo come “la grande stella dell’oriente”, cf. BUDGE 1928, pp. 825828. L’elenco delle torture subite da Giorgio è interminabile. In un passaggio leggiamo: «lo percossero settecento volte sicché si squarciò il suo ventre e caddero per terra le sue interiora. Lo colpirono sulla testa ripetutamente con una mazza di metallo con denti, per cui il suo cervello fluì come latte dal suo naso e dalla sua bocca». Cf. Gädlä Giyorgis, p. 23. 506 Un santo originario della regione etiopica dello Šäwa vissuto nel XIII sec. (-1313). Lo commemora il Sinassario del 24 Näüase (30 Agosto), cf. BUDGE 1928, pp. 1241-1246. Täklä Haymanot gode la stima di essere la figura più influente del monachesimo etiopico. È il fondatore del monastero di Däbrä Libanos (in precedenza Däbrä Asbo). Il santo monaco avrebbe trascorso gli ultimi sette anni della sua vita recluso in una cella, rimanendo ritto su un solo piede in seguito alla frattura del femore dell’altra gamba: donde il riferimento “al frammento del suo osso”. 507 A: ... dalla vana idolatria di Bala’am.
Per Bala’am, cf. Nm 22-24. 508 Gv 22,1-14. 509 At 7,55-60. Ricorda la lapidazione di Stefano il Sinassario del 15 Mäskäräm, cf.
BUDGE 1928, pp. 52-54. 510 Sulle torture subite da Ciriaco, cf. il Sinassario del 15 Ýér, BUDGE 1928, pp. 497-500
e quello del 19 Üamle, BUDGE 1928, pp. 1130-1131.
511 Il riferimento è al sacrificio di vitelli offerto da Geroboamo che dopo la morte di Salomone e l’immediata scissione del regno era diventato il capo di Israele, cf. 1Re 12,32. 512 Cf. 1Cor 6,3. La lotta tra un essere umano e un angelo rievoca il racconto di Genesi
32,22-30 in cui Giacobbe lotta con un essere soprannaturale. 513 La divinizzazione dell’uomo è un motivo ben noto, cf. e.g. la preghiera del Testamento (Kidan) che dice: ô ∑Xâ : yDÔ|o : XoÎño : DÜD : ¢ÑM{Í : mkâ : âK : ÜM[mkÜ : ßâÍ{Í : ÑLFão = «... che hai creato coscienze rette per coloro che credono in te affinché da umani possano diventare divini», MQ, p. 38. Cf. anche Sal 81[82],6.
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39. Salute ai vostri piedi che si sono mossi nel paradiso 514 o santo Trino! Dei di Adamo ed Eva: il vostro potere, liberazione del prigioniero, ha sconfitto la debolezza degli [idoli, infatti la debolezza è la radice della pianta del peccato 515 ecco (che si è manifestata) su Artemide e Zeus 516. 40. Salute ai vostri calcagni che sono stati adornati con i luminari, la vostra misericordia o Trinità mi faccia comprendere la misericordia, come diede in elemosina la metà della sua ricchezza, e rese il quadruplo517 per l’uno che aveva frodato, il capo degli esattori Zaccheo che diede la tassa 518. 41. Salute ai vostri piedi che calpestano la folgore, o Trinità! non fatemi mancare la vostra sottile ricchezza, quando la mano del predone strappa da me la ricchezza della vostra casa, la non vi è infatti chi piange per me né chi riflette molto [santità: come (fece) Abba Yésrin519, poiché i buoni non esistono più520. 42. Salute alle vostre dita521, assortite con le unghie per la vostra potenza o Trinità, mai abituata a stancarsi, un vostro profeta è diventato più grande del re di Babilonia 522 e gli uomini di Listra hanno adorato gli Apostoli (pur essendo essi) uomini, fino a voler sacrificare per essi le mucche 523. 43. Alla vostra statura dico: «Salve!», o Trinità! Voi siete gli universi dell’universo pur senza aver universo, quando uno di voi per il solo Adamo 514 Gen 3,8. 515 La debolezza come una “ragione” base del peccare si riallaccia, fra l’altro al testo
etiopico di Rm 7,5: Ü]K : ©ˆâÍM : oÎ]Io : {œ[qãKÈ = «poiché è fragile la composizione del vostro corpo». Cf. TEDROS ABRAHA 2001, p. 88. 516 Su Artemide e su Zeus si vedano rispettivamente At 19,23ss.; At 14,12 e l’introduzione al commentario dell’Apocalisse che ha una versione singolare sull’identità di Artemide e di Zeus. Artemide sarebbe la figlia di Efeso, il primogenito dei sette fratelli Yonanawyan e Zeus sarebbe il figlio di Artemide, cf. COWLEY 1983, pp. 175-176; cf. anche RAINERI 1998, pp. 187-193. 517 V: il centuplo. 518 Lc 19,1-10. 519 Personaggio che non ho potuto identificare. 520 Cf. Sal 11,2 che letteralmente dice: «Mio Signore salvami perché il buono è finito». 521 Da notare che le dita vengono lodate per la seconda volta. La prima nella strofa 29. 522 Allusione al profeta Daniele. Ci sono molti passi del libro di Daniele che illustrano lo spessore della personalità del profeta, superiore a quella del re. Interessante ad esempio la valutazione che riguarda il re in, Dn 5,27: «... tu (il re) sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato manchevole». 523 At 14,13.
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sulla terra accolse l’ospite di Pilato, la Passione: Osanna nelle alture! Osanna nelle alture! Osanna nelle alture 524! 44. Salute alla vostra immagine che non ha abbandonato nessuna somiglianza, né si è allontanata da qualunque immagine come è stato detto nel libro 525: o Trinità! quando Ario ha diviso la vostra unità 526, la vostra spada527, ossia le sue interiora, per retribuirgli la vendetta lo hanno ucciso senza spada 528. 45. O Trinità, la vostra Trinità mi renda (vostra) località poiché dopo che mi sono unito alla luce della Trinità529, tutto il mio essere è qua divenuto il vostro Giordano, non ho bisogno della vostra testimonianza sicura (resa) sul Giordano e non bramo il Tabor perché il Tabor sono io530. 46. O Santo Trino che vi rivestite della veste di sapienza sul vostro cuore scrivete Iyyasu, figlio della bontà 531, quando regnarono i sovrani terreni all’epoca dell’aridità dell’anima l’edificio di Däbrä Bérhan dal suo ventre, la cui fonte siete voi, sta sprigionando acqua viva che rinfresca l’assetato. 47. A me che ho compiuto il pellegrinaggio presentando i talenti orali della lode, aggiungendo sette alla misura di quattro volte dieci 532, 524 Il compositore traccia un parallelismo antitetico tra la sofferenza terrena di Gesù Cristo per opera di Pilato che però aveva una valenza soteriologica espressa dal triplice grido «Osanna!» che, nell’originale ebraico significa appunto «salvaci !». 525 L’autore sostiene che dopo che la prima volta Dio ha detto: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gn 1,27), questo decreto è rimasto immutato. Tutte le persone che sono state create dopo il primo uomo sono portatrici dell’immagine della Trinità. 526 La dottrina di Ario secondo la quale il Figlio è una creatura opererebbe una scissione all’interno delle Tre Persone che partecipano in misura uguale alla Divinità. 527 A: potenza. Le interiora di Ario, creatura di Dio, diventano strumento punitivo nelle
mani di Dio. 528 La fine di Ario assomiglia a quella di Giuda. Il Libro del Mistero dice: «... nel giorno della domenica, venne in Chiesa, ornato di vesti preziose e stette un po’ durante il tempo della preghiera, e poi le sue viscere si sconvolsero e uscì privatamente e andò in latrina e vi si sedette per soddisfare alle sue necessità; ma vennero fuori i suoi intestini e si effusero tutte le sue viscere», LM (1) traduzione, pp. 29-30; MARTIN 1989, pp. 297-333. 529 A: del vostro nome. La Trinità concepita come luce è un linguaggio usato di frequente nella liturgia. L’anafora mariana Eructavit canta: «il Padre è aurora, il Figlio è aurora, lo Spirito Santo è aurora, con lo splendore della sua luce si è allontanata la tenebra», cf. MQ, p. 250. 530 Il Giordano (Mt 3,13-17) e il Tabor (il riferimento è alla Trasfigurazione, cf. Mt 17,1-
8) sono i due luoghi nei quali si è manifestata la Trinità. Si canta questa strofa per le feste del Battesimo l’11 di Ýér (= 19 Gennaio), e per il Däbrä Tabor, il 13 Näüase (= 19 Agosto). 531 A I TG: sulla vostra veste ... ; V: sul vostro cuore scrivete Iyyasu, figlio del re. 532 I: c’è una trasposizione. Questa riga viene dopo quella seguente.
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o Trinità che rendete il centuplo per l’uno533, elargitemi dal vostro volto l’offerta della letizia534 e costituitemi capo su dieci città535.
ABBREVIAZIONI E BIBLIOGRAFIA Abb. = C. CONTI ROSSINI, Notice sur les manuscrits éthiopiens de la collection d’Abbadie, extrait du: Journal Asiatique (1912-1914), Paris 1914. ADMASU ÓÄMBÄRE 1963 = ADMASU ÓÄMBÄRE, Mäúüafä qéne (Il libro del qéne) (Zékrä Liqawunt) (Memoria dei Dotti), Addis Ababa, 1963 (AM). AM = ‘Amätä Méürät (Calendario Gé’éz). ANNEQUIN 1976 = G. ANNEQUIN, De quand datent l’église actuelle de Dabra Berhan Sellase et son ensemble de peintures? in Annales d’Éthiopie 10 (1976), pp. 215-226. BAHRU ZEWDE 2002 = BAHRU ZEWDE, A History of Modern Ethiopia 1855-1991, Addis Ababa 20022. BC = M. CHAÎNE, Inventaire sommaire des manuscrits éthiopiens de Berlin, acquis depuis 1878, extrait de ROC XVII, 1912, n. 3, Paris 1912. BÄRIHUN KÄBBÄDÄ 1983 = BÄRIHUN KÄBBÄDÄ, YäWaldébba Gädam Tarik (Storia del monastero di Waldébba), Addis Abäba 1983 (AM). BASSET 1881 = R. BASSET, Études sur l’histoire d’Éthiopie in Journal Asiatique, 7.17 (1881), p. 315-434. BÉRHANÄMÄSQÄL TÄSFAMARYAM 1982.83 = BÉRHANÄMÄSQÄL TÄSFAMARYAM, Béza‘éba ’é}li zäybäl‘u baütawyan Waldébba (Sugli anacoreti di Waldébba che non mangiano (prodotti di) grano), prima parte, Adveniat Regnum Tuum n. 40, 1°, 2° semestre 1982, 39-44; seconda parte, Adveniat Regnum Tuum n. 41, 1° semestre 1983, 46-55; terza parte536, Ad-
Si riferisce alle quarantasette strofe della sua presente effigie. 533 Cf. Mt 19,27-30. 534 Lo stico ricalca l’espressione del Sal 15[16],11: ëÑ√ˆ≤mkâ{ : GPÙo : M]D : ≤√ˆâ &
ëqœQIq : ëÈ]o : ¢L}â : DõDÍÀ = «e mi hai saziato di letizia insieme al tuo volto, e la gioia alla tua destra per sempre». 535 Lc 19,17. I add.: con questa vostra parola proteggetemi e riscattate dalla prova della corpo e dello spirito me, il tuo servo (sic!) Bérru e il suo scrivano Wäldä Üanna.
536 È la puntata che si occupa della controversia sulle “tre divinità” e “una divinità”, non solo a Waldébba, ma anche nel Bizän e ad Aksum, pp. 56-59. L’autore ha travasato i contenuti di questa puntata nel suo lavoro (Tarik Gädamat = Storia dei monasteri, Asmara 1996, pp. 238-243), senza cambiare nulla. È un dato di fatto che il Märigäta Bérhanämäsqäl Täsfamaryam sia stato a Däbrä Abbay e Waldébba per fare ricerche. Molte informazioni pubblicate nelle sue opere sono state raccolte in loco: non sono quindi da scartare a priori. Se ciò va al suo attivo, d’altra parte questo suo prezioso contributo non garantisce la necessaria certezza che uno studioso desidererebbe. Innanzitutto il Märigäta Bérhanämäsqäl Täsfamaryam non cita documenti, mancano alcune indicazioni fondamentali, quali dati biografici di protagonisti di rilievo, come date di nascita e di morte, dei periodi di servizio, etc. Non offre nessuna cronologia dei dibattiti, e i fatti non sono circostanziati. Tutto questo è ovviamente una fonte di grandi perplessità. Ciò significa che anche se non è corretto ignorarle completamente, le sue informazioni non possono essere usate come dati scienti-
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Tav. I — Biblioteca Apostolica Vaticana, Cerulli etiop. 103, f. 1r.
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Tav. II — Biblioteca Apostolica Vaticana, Cerulli etiop. 103, f. 1v.
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Tav. III — Biblioteca Apostolica Vaticana, Cerulli etiop. 103, f. 2r.
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Tav. IV — Biblioteca Apostolica Vaticana, Cerulli etiop. 103, f. 2v.
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Tav. V — Biblioteca Apostolica Vaticana, Comb. S.6, f. 37r.
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Tav. VI — Biblioteca Apostolica Vaticana, Comb. S.6, f. 37v.
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Tav. VII — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. etiop. 193, f. 10r.
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Tav. VIII — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. etiop. 89, f. 29r.
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Tav. IX — Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. etiop. 89, f. 29v.
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Tav. X — Biblioteca Apostolica Vaticana, Cerulli etiop. 66, f. 1r.
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Tav. XI — Biblioteca Apostolica Vaticana, Cerulli etiop. 66, f. 1v.
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Tav. XII — Biblioteca Apostolica Vaticana, Cerulli etiop. 173, f. 3r, miniatura: «bakama nabaru ùéllâse diba ’arabâ’éttu ’énsésâ [la Trinità e i quattro animali (incorporei)].
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PAOLO VIAN
LE CARTE DI GIULIO SALVADORI ALLA BIBLIOTECA VATICANA: VICENDE E CONSISTENZA DEL FONDO* Agli inizi degli anni Ottanta dell’Ottocento, nella Biblioteca Vaticana da poco aperta con nuova larghezza da Leone XIII ai ricercatori, accanto a studiosi famosi come Theodor Mommsen e Pierre de Nolhac, sedeva il giovane Giulio Salvadori1. In un articolo della Domenica letteraria del 4 febbraio 1883 il poco più che ventenne studente universitario si ritrasse tra le mura di quell’austera dimora del sapere. «Ricordo. Parecchi mesi sono, alla luce d’una splendida mattina di primavera che pel finestrone disegnato dal Bramante dilagava nella piccola sala dipinta da non so chi a grande sfoggio di colori e di muscoli, io scorrevo lentamente le pergamene ingiallite d’un canzoniere antichissimo»2. L’incanto della stagione * Testo dell’intervento pronunciato il 26 aprile 2007 ad Arezzo, presso l’Accademia Petrarca, nell’ambito di un incontro su Giulio Salvadori organizzato dal Centro di studi «Giulio Salvadori». 1 Non ho individuato la domanda di ammissione in Biblioteca Vaticana di Salvadori nel faldone dell’Archivio della Biblioteca che conserva le lettere di Ammissione allo studio, 1881-1885 (in esso è invece presente la lettera al segretario di Stato card. Lodovico Jacobini del fratello di Salvadori, Olinto, che il 20 settembre 1882 chiese di essere ammesso «per alcuni studi importantissimi che egli deve compire»). Sulla base dei registri posteriori, si può affermare che, durante il pontificato leonino, Salvadori frequentò la Biblioteca Vaticana nell’anno 1885-1886 («70. Giulio Salvadori, professore, (…), Roma, Banco S. Spirito 42»), nell’anno 1893-1894 («47. Salvadori, Giulio, italiano, professore, Roma, Balestrari, 17, 20 ott. 1893, Letterat. ital.»), nell’anno 1894-1895 («19. Salvadori, Giulio, italiano, professore, Roma, Lungotevere Vallardi, 2, 2 ottobre [1894], Vita di s. Francesco») [cfr. Biblioteca Vaticana, Archivio della Biblioteca, Registro degli estranei ammessi allo studio nella Biblioteca Vaticana, ottobre 1885 a giugno 1895], nell’anno 1900-1901 («15, Giulio Salvadori, Italia, insegnante di lettere, Roma, Circo Agonale, 14, 2° p., 5 ottobre 1900, Letteratura italiana») e nell’anno 1902-1903 («Giulio Salvadori, Insegnante, Italia, Roma, Circo Agonale, 14, 22.XII.’902») [ibid., (…), 1 ottobre 1895 a giugno 1907]. 2 Il brano è citato in N. VIAN, La giovinezza di Giulio Salvadori. Dalla stagione bizantina al rinnovamento, prefazione di B. TECCHI, Roma 1962 (Storia e letteratura. Raccolta di studi e testi, 89), p. 80. L’articolo, pubblicato con lo pseudonimo di Florizel (tratto dalla Novella d’inverno di Shakespeare), è: Le confessioni d’una donna, in Domenica letteraria, an. II, nr. 5, 4 febbraio 1883, p. 1 [ripubblicato in G. SALVADORI, Scritti bizantini, a cura di N. VIAN, Bologna 1963 (Biblioteca dell’Ottocento italiano, 4), pp. 76-80; cfr. F. BONALUMI, Bibliografia degli scritti a stampa di Giulio Salvadori, in Otto/Novecento 9 (1985), pp. 151-192: nr. 70]. La sala in cui avveniva la consultazione era il cosiddetto «vestibolo del salone SistiMiscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 399-419.
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contrastava col triste alito delle cose morte che da quei fogli promanava. «Attorno alle pagine gialle o in capo alle canzoni e ai sonetti, non correvano tralci di rabeschi eleganti, non fiorivano alluminature splendide, di minio e d’oro; pur troppo; ma la scrittura notarile correva per le lunghe righe fitta, eguale, minuta, com’acquerugiola di gennaio sui vetri; ma i versi e i concetti dei rimatori di scuola correvano, come la scrittura, fitti, uguali, monotoni; mi pareva come una gran distesa d’erbe secche, che avesse a poco a poco ingombrato e inselvatichito tutto il verziere deserto della poesia provenzale»3. Attratto in quel Vaticano assediato dal nuovo corso inaugurato da Porta Pia più dalla natura che dall’arte, sempre in bilico tra la severità degli studi filologici guidati da Ernesto Monaci e la seducente attrattiva della grazia poetica, Salvadori dedicò di fatto parte significativa del suo impegno in quei primi anni Ottanta, contesi dalle fervide esperienze nella Roma «bizantina» e sommarughiana, agli studi sui manoscritti per i quali Carducci riconobbe, in una relazione ufficiale del 1895, la sua piena conoscenza degli strumenti e dei metodi necessari4. In particolari momenti, come studiando nel codice Vaticano latino 3793 il testo della famosa tenzone Tapina ahimè, ch’amava uno sparvero, attribuita a un’innominata poetessa duecentesca, capitò a Salvadori di percepire la vita, preservata e miracolosamente restituita attraverso il tempo dai «gelidi volumi»5. «A un tratto, per entro a una serie di sonetti, tutti tessuti di sottigliezze sull’eterna questione della natura d’amore si levò sù dalla scrittura fitta e sbiadita un grido d’amor vero e profondo (...). Io conoscevo il sonetto, come di donna; lo conoscevo e l’avevo semno» o «sala degli scrittori». Per i problemi di spazio e di luminosità che presentava, superati solo dopo il 1885 con un ampliamento ad altri locali, cfr. R. FARINA, «Splendore Veritatis gaudet Ecclesia». Leone XIII e la Biblioteca Apostolica Vaticana, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XI, Città del Vaticano 2004 (Studi e testi, 423), pp. 285-370: 368; P. VIAN, Leone XIII e Theodor Mommsen: un incontro mancato in Biblioteca Vaticana, in Strenna dei Romanisti, [LXVI], Roma 2005, pp. 765-779: 770-772. 3 VIAN, La giovinezza di Giulio Salvadori cit, ibid. 4 La relazione ufficiale di Carducci al Consiglio superiore della pubblica istruzione per
il conferimento a Salvadori della libera docenza in letteratura italiana è ricordata da VIAN, La giovinezza di Giulio Salvadori cit., pp. 89 nt. 53, 141. Copia di essa in Biblioteca Vaticana, Carte Salvadori [d’ora in poi, semplicemente: Carte Salvadori] 65 (6). Con Carducci facevano parte della commissione giudicatrice Angelo De Gubernatis, Luigi Ceci, Giuseppe Cugnoni, Ernesto Monaci, Giuseppe Dalla Vedova. 5 L’articolo nel quale Salvadori narrò l’impressione provata durante la consultazione del Vat. lat. 3793 è ancora FLORIZEL, Le confessioni d’una donna cit., cfr. VIAN, La giovinezza di Giulio Salvadori cit., p. 134. La tenzone è al f. 158v del manoscritto, nel fascicolo XXIV, cfr. I canzonieri della lirica italiana delle origini, I: Il Canzoniere Vaticano. Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3793. Riproduzione fotografica a cura di L. LEONARDI, Firenze 2000 (Biblioteche e archivi, 6/1), pp. LVIII, XCVIII, CIX.
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pre ammirato: ma lì, in quel momento, io n’ebbi un’impressione più viva. Quel pianto dell’abbandono, fra tutte le lacrime false dei rimatori che cercavano rime e non amore, diveniva più doloroso e vero; era un accento umano di quelli che erompono dal fondo del petto e trovano l’anima di tutti pronta a rispondere, perduto fra il vano discordare delle strimpellature di scuola. È naturale, pensai, che sia d’una donna; un uomo avrebbe fatto gelare quel pianto»6. Nel gennaio 1884 proprio al giovane ricercatore accadde di scoprire nello stesso manoscritto Vaticano rime che attribuì a Dante e Cavalcanti; fu l’inizio di una lunga serie di lavori che si protrassero quasi sino al termine della vita, anche in difesa dell’attribuzione, da alcuni accolta e da altri contrastata7. Difficilmente Salvadori avrebbe pensato che le sue carte sarebbero un giorno finite proprio tra quelli che un suo compagno di quegli anni, Gabriele d’Annunzio, definiva «gli esatti scaffali della Biblioteca Vaticana»8. E fu, quel passaggio, un momento decisivo per la sua memoria. Poco si riflette sul fatto che il ricordo e l’immagine di un intellettuale o di un letterato sono strettamente legati al destino delle sue carte. La perdita o la dispersione di esse possono radicalmente compromettere la possibilità che le generazioni successive conoscano in maniera seria e autentica quanto della sua esistenza e della sua opera va al di là di ciò che lui stesso ha pubblicato in vita. La stessa comprensione dell’opera a stampa dipenderà dalla possibilità di ricostruire nei suoi diversi aspetti – dalle corrispondenze alle stesure preparatorie dei testi – le fasi della vita in cui quell’opera ha preso corpo. Vi sono dunque momenti, persone, decisioni e circostanze nelle quali, spesso fortuitamente, si gioca il futuro della memoria di una determinata figura. Sarebbe interessante seguire le vicende di intellettuali e letterati, anche celebri, dei secoli scorsi alla luce della fortuna o della sfortuna delle loro carte e quindi della loro memoria. Giulio Salvadori non è sfuggito a questo inevitabile snodo, che per lui, come vedremo, fu clemente. Nel corso della sua attività egli accumulò una massa di carte che rimase raccolta e ordinata nel suo appartamento di Piazza Navona sino all’autunno 19239; chiamato all’insegna6 Il brano è citato in VIAN, La giovinezza di Giulio Salvadori cit., pp. 134-135. 7 VIAN, La giovinezza di Giulio Salvadori cit., pp. 140-141. 8 L’espressione dannunziana è in un articolo degli ultimi anni, versione dal francese: G.
D’ANNUNZIO, Dal messaggio ai latini di Francia. Guglielmo Oberdan e le due Gesta, in Corriere della sera, 6 settembre 1935; cfr. VIAN, La giovinezza di Giulio Salvadori cit., pp. 76 nt. 14, 93. 9 Per le vicende delle carte, N. VIAN, I manoscritti di Giulio Salvadori nella Biblioteca Vaticana, in Miscellanea di scritti di bibliografia ed erudizione in memoria di Luigi Ferrari, Firenze 1952, pp. 505-519.
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mento all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano10, lasciò Roma e portò con sé una parte dei manoscritti che potevano servire per i corsi sui poeti dello Stil Novo, sulla vita di Dante e Manzoni; altro materiale estrasse nel corso dei frequenti ritorni a Roma; l’ordine antico fu così alterato, carte nuove si mescolarono alle vecchie, mentre altro, specialmente di carattere personale, fu da lui distrutto nel suo progressivo distacco dal mondo delle realtà terrestri. Nel testamento del 1926, Salvadori lasciò i manoscritti «alla Carità fraterna del padre Mariano Cordovani»11, domenicano, casentinese di Serravalle, dal 1936 Maestro dei Sacri Palazzi, cioè il teologo ufficiale del papa, ma anche docente alla Cattolica e legato alle esperienze della Federazione Universitaria Cattolica Italiana e in seguito dei Laureati Cattolici, colui che fu l’amico spirituale più intimo di quell’ultimo tempo12. Alla morte di Salvadori, il 7 ottobre 1928, le carte milanesi tornarono a Roma e il 27 novembre Cordovani diede procura a Igino Righetti13, che abitava a Piazza Navona, 14, cioè nello stesso Palazzo Doria Pamphili ove risiedeva Salvadori, di entrare in possesso dell’eredità letteraria dello scrittore e di compiere tutti gli atti connessi. La designazione di Righetti quale incaricato della presa di possesso delle carte di Salvadori è il primo momento fondamentale della nostra vicenda. Motivata probabilmente dalla presenza di Righetti nello stesso edificio in cui si trovavano le 10 Per la fase immediatamente precedente il quinquennio milanese di Salvadori, l’ultimo della sua vita, N. VIAN, Giulio Salvadori prima della sua «ultima milizia», in Studium 86 (1990), pp. 831-860. 11 Il testamento (vergato il 1° aprile 1926, finito e confermato il 7 novembre successivo e firmato il 10 novembre) è edito in S. MONTICONE, Giulio Salvadori, il poeta dell’umile Italia, Alba 1947, pp. 250-253; E. MASCHERPA, Giulio Salvadori, prefazione di N. VIAN, Milano 1966, pp. 251-255. Nella lettera a Giovanni Mercati del 22 marzo 1937 (cfr. infra nt. 30) padre Cordovani citò il passo del testamento del 1926 più rilevante per il destino delle carte: «I diritti di proprietà sulle mie pubblicazioni lascio, insieme coi manoscritti di lavori incompiuti e di appunti per lavori, a custodire alla carità fraterna del Padre Mariano Cordovani dei Predicatori, perché ne disponga come crede bene, correggendo gli scritti dove lo crede necessario e insieme consacrandone i proventi quali essi siano alla nostra santa e dolce Madre la Chiesa per il decoro del culto divino ecc. ecc.». Copie di testamenti di Salvadori sono in Carte Salvadori 66 (1). 12 Per la biografia di Mariano Cordovani (1883-1950), R. SPIAZZI, P. Mariano Cordovani
dei Frati Predicatori, prefazione di G. B. MONTINI, I-II, Roma 1954; A. RICCARDI, Cordovani, Mariano, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, 1860-1980, II: I protagonisti, diretto da F. TRANIELLO e G. CAMPANINI, Casale Monferrato 1982, pp. 124-128; G. IGNESTI, Cordovani, Felice (in religione Mariano), in Dizionario biografico degli italiani, XXIX: Cordier-Corvo, Roma 1983, pp. 35-39. 13 Per la biografia di Igino Righetti (1904-1939), N. ANTONETTI, in Dizionario storico cit., II, pp. 540-545.
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carte, la scelta fu gravida di conseguenze perché in realtà finì per inserire Salvadori e la sua eredità letteraria in un preciso orizzonte spirituale e culturale. Righetti era allora presidente nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana e con l’assistente ecclesiastico nazionale Giovanni Battista Montini stava segnando una stagione che sarebbe divenuta storica dell’associazione14. Nulla di sorprendente se Salvadori e la sua opera si trovarono così inseriti nella cerchia della F.U.C.I. e della sua editrice, Studium15, alla ricerca di maestri di una fede che pensa e di un’intelligenza che alla luce della fede considera il mondo, la letteratura, la storia. Chi osservi la bibliografia degli scritti salvadoriani si rende facilmente conto che, accanto all’editrice milanese dell’Università Cattolica, Vita e Pensiero16, l’altro centro intellettuale ed editoriale che subito raccolse l’eredità salvadoriana fu proprio Studium, che incominciò prestissimo a seguire questo filone, sin dal 1929, con la pubblicazione della raccolta di 14 G. FANELLO MARCUCCI, Storia della F.U.C.I., Roma 1975; N. ANTONETTI, La Fuci di Montini e di Righetti. Lettere di Igino Righetti ad Angela Gotelli (1928-1933), presentazione di M. AGNES, Roma 1979 (Fonti e studi di storia dell’Azione Cattolica, 2); R. MORO, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna 1979; M. C. GIUNTELLA, La FUCI tra modernismo, partito popolare e fascismo, Roma 2000 (Religione e società, 39). 15 Per la storia dell’editrice Studium, creata il 17 giugno 1927 per iniziativa di Montini e di Righetti con l’intento di dare agli studenti fucini la possibilità di pubblicare la loro tesi di laurea e di avviarsi così alla carriera universitaria e alla ricerca, F. MALGERI, La stampa quotidiana e periodica e l’editoria, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, 1860-1980, I/1: I fatti e le idee, Casale Monferrato 1981, pp. 273-295: 289-290. L’editrice traeva nome dal titolo di una rivista nata nel 1906 a Firenze (poi stampata a Bologna e infine, dal 1925, trasferita a Roma) come periodico della Federazione Universitaria Cattolica Italiana. Dal 1933 Studium divenne l’organo del nascente Movimento Laureati di Azione Cattolica. 16 Sin dall’anno di morte di Salvadori, il 1928, l’editrice Vita e Pensiero, ma anche l’omonima rivista e altri periodici dell’Università Cattolica, dedicarono particolare attenzione al poeta. Limitandoci al periodo fra gli anni Venti e Quaranta, le due grandi direttrici furono l’edizione degli scritti e le analisi e le ricostruzioni della sua personalità. Si segnalano: Giulio Salvadori, in Vita e Pensiero 14 (1928), pp. 643-644; P. BONDIOLI, In memoria di Giulio Salvadori, in Vita e Pensiero 14 (1928), pp. 711-724; C. CALCATERRA, Giulio Salvadori, in Aevum 2 (1928), pp. 401-422; M. STICCO, Conversazioni intime. Un maestro: Giulio Salvadori — Giulio Salvadori e l’Università Cattolica del Sacro Cuore — Giulio Salvadori e «Fiamma viva», in Fiamma viva 8 (1928), pp. 646-651; C. CALCATERRA, Giulio Salvadori e la letteratura del suo tempo, in Annuario della Università Cattolica del Sacro Cuore, anno accademico 192829, Milano s.d., pp. 61-84; P. BONDIOLI, Ritratto religioso di Giulio Salvadori, Milano 1929; S. VISMARA, Lettere che mi ha scritto Giulio Salvadori, in Fiamma viva 9 (1929), pp. 606-612; C. CALCATERRA, Salvadori e Carducci, in Aevum 7 (1933), pp. 189-243; G. SALVADORI, Liriche e saggi, a cura di C. CALCATERRA, I-III, Milano 1933; C. CALCATERRA, Per la biografia del Salvadori, in Aevum 9 (1935), pp. 255-257; G. SALVADORI, Vita breve di san Francesco d’Assisi, con un saggio di N. VIAN su Giulio Salvadori e Paul Sabatier, Milano 1941.
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scritti su Giulio Salvadori17, accompagnata nello stesso anno dall’edizione delle Lettere aperte (di cui Montini farà «incondizionata raccomandazione»)18 e poi, nel 1932, dal volumetto di Tommaso Gallarati Scotti su Il rinnovamento di Giulio Salvadori19 e poi ancora, fermandosi agli anni Quaranta, da Lezioni dal Vangelo (1936)20 e Per la pace (1944)21. L’incontro tra Salvadori e questo gruppo di giovani universitari cattolici animati da Montini avveniva sotto il segno del culto, del servizio della Verità. Salvadori aveva scritto il 19 settembre 1928, pochi giorni prima di morire, a Giovanni Gentile che lo invitava a partecipare all’Enciclopedia Italiana: «(...) come potrei io, in coscienza, dare la collaborazione ad un’opera, dove la filosofia dominante nega Dio vivo e vero per adorare la divinità dell’uomo? (...) formato per rendere testimonianza alla Verità, ho cercato di renderla nella scuola e negli scritti come ho potuto. Sono alla vigilia della morte, e vorrebbe che smentissi in questo breve scorcio di vita mortale la testimonianza data con le parole?»22. Solo qualche 17 Giulio Salvadori. Scritti del P. Cordovani O.P., di P. P. Trompeo, A. Fattori, P. V. Ceresi,
C. Cadorna, G. Zannone. Scritti rari del Salvadori e appunti autobiografici, e documenti, Roma 1929. 18 La brevissima presentazione, siglata g.b.m., uscì in Azione fucina, 24 novembre 1929,
p. 3. I toni erano entusiastici: «Non saremo abbastanza grati al carissimo P. Cordovani d’aver raccolto in un aureo volumetto questi documenti di pensiero, di arte, di anima del Salvadori. Sono questi i libri di cui i giovani hanno maggior bisogno: attraenti, brevi, profondamente pensati, occasionati dalle più vitali questioni, splendidamente scritti, incomparabilmente buoni e cristiani. (…) Nessun fucino, nessun giovane cattolico intelligente, ed anche nessun buono studioso italiano dovrebbe ignorare questo volumetto». Lo scritto è ripubblicato in G. B. MONTINI, Scritti fucini (1925-1933), a cura di M. MARCOCCHI, Brescia — Roma 2004 (Quaderni dell’Istituto Paolo VI, 24), pp. 334-335. Una «nuova raccolta» delle Lettere aperte, a cura di Cornelio Villani e Nello Vian, con prefazione di Mariano Cordovani, vide la luce a Roma nel 1939. 19 T. GALLARATI SCOTTI, Il rinnovamento di Giulio Salvadori, Roma 1932. 20 G. SALVADORI, Lezioni dal Vangelo, introduzione e note di M. CORDOVANI, Roma
1936. Una prima edizione, sempre con introduzione e note di Cordovani, aveva visto la luce a Roma nel 1930 per i tipi dell’editrice «Italia e fede» (ma il deposito era presso Studium); una terza edizione riveduta, con un prologo nuovo di Cordovani, fu pubblicata da Studium nel 1948 [BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nrr. 479, 489, 504]. 21 G. SALVADORI, Per la pace, a cura di N. VIAN, Roma 1944 [BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 499]. 22 G. SALVADORI, Lettere aperte, introduzione e note del p. CORDOVANI, Roma 1929, pp. 129-131: 130; leggerissime varianti (non sostanziali) nel testo pubblicato in G. SALVADORI, Lettere, II (1907-1928), a cura di N. VIAN, Roma 1976, pp. 1036-1037, che presenta un’ulteriore, definitiva stesura. La lettera, pubblicata quasi per intero da Arnaldo Frateili secondo la prima stesura nel primo numero della rivista Pegaso, fu letta in questa forma da Salvadori a Cordovani negli ultimi giorni di settembre; il domenicano suggerì a Salvadori una correzione, per evitare l’impressione di eccessivo rigorismo e di rimprovero a quei cattolici che legittimamente credevano lecita e anzi opportuna la collaborazione all’Enciclopedia.
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anno dopo, nel 1931, Montini stampava anonimo, come bozze di stampa, un testo che sotto il titolo Spiritus Veritatis (espressione giovannea che torna centinaia di volte nelle lettere salvadoriane23), si apriva con queste parole: «Voglio che la mia vita sia una testimonianza alla verità per imitare così Gesù Cristo, come a me si conviene (Giov. XVIII, 37)»24. Lo scambio fra i due mondi è certo. Come ha scritto Vittore Branca, «Nel Palazzo Pamphili a Piazza Navona, dove Salvadori abitava, abitava pure Igino Righetti, presidente di quella FUCI di cui Montini era assistente: Righetti uno dei più veri discepoli di Montini. E casa Salvadori nella continua frequentazione dei bresciani padre Bevilacqua e padre Caresana [n.d.r.: maestri e ispiratori del giovane Montini], di don Brizio Casciola e don Primo Vannutelli, e anche di padre Genocchi e di padre Cordovani (...) era uno di quei fuochi di ascetismo culturale al servizio della verità che G. B. Montini stava meditando e proponendo quale anima della sua FUCI»25. E in questo ambiente montiniano, all’insegna della «carità intellettuale» di ascendenze rosminiane, nel 1931 giunse da Milano, ove era stato allievo per due anni di Salvadori alla Cattolica, Nello Vian, che della raccolta, dell’ordinamento, dell’incremento, della pubblicazione delle carte di Salvadori fu il silenzioso artefice nei decenni successivi26. Se si è insistito sul rapporto che lega Salvadori, Cordovani, Righetti, Montini e Vian è perché solo in questo quadro si possono comprendere le vicende successive, che non sono semplici passaggi di documenti e dislocazioni di carte ma acquistano pieno senso e significato nell’orizSalvadori accettò l’osservazione ma non fece in tempo a correggere il testo della lettera, della quale però ribadì lo spirito: «Io non intendo di rimproverare nessuno, ma soltanto ripetere una verità e fare un’affermazione che sento doverosa prima di morire». La lettera diede comunque origine a una risentita replica di Gentile nel Giornale critico della filosofia italiana; Gentile aveva invitato Salvadori a stendere per l’Enciclopedia italiana la voce «Degola, Eustachio» (che fu poi redatta da Giuseppe Salvatore Manfredi). 23 V. BRANCA, Un comune incontro ideale con Giulio Salvadori, in Atti della commemorazione nel primo anniversario della morte di Nello Vian (Città del Vaticano, 19 gennaio 2001). Testimonianze e corrispondenza con Giovanni Battista Montini-Paolo VI (1932-1975), Brescia — Roma 2004 (Quaderni dell’Istituto Paolo VI, 22), pp. 65-71: 68. Per l’espressione «Spiritus veritatis» cfr. Gv 16, 13. 24 Il testo è pubblicato in G. B. MONTINI, Colloqui religiosi. La preghiera dell’anima. Le
idee di s. Paolo, con prefazione di G. B. SCAGLIA, Brescia — Roma 1981 (Quaderni dell’Istituto Paolo VI, 1), pp. 81-84. 25 BRANCA, Un comune incontro cit., p. 68. 26 Per la biografia di Vian, cfr. Atti della commemorazione cit., ove anche, alle pp. 235-
259, è ripubblicato con aggiunte l’articolo di P. VIAN, Per una biografia di Nello Vian, precedentemente uscito in Rivista di storia della Chiesa in Italia 55 (2001), pp. 175-199.
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zonte di chi se ne fece promotore e artefice. Salvadori non era amato da tutto il mondo cattolico. Don Giuseppe De Luca, uno dei maîtres à penser della cultura cattolica italiana del Novecento, lo riteneva «diafano e inconcludente» e pensava che i suoi sforzi di avvertire ricerche spirituali negli autori anche apparentemente più lontani fossero fuori luogo e insensati27. Dall’altra parte, il regime fascista (per il quale Cordovani non nutriva alcuna simpatia28) non poteva certo apprezzare il poeta evangelico dell’«umile Italia», della forza della mitezza, del coraggio della misericordia. Nei mesi della Conciliazione, Righetti entrò in possesso in sette successive consegne da parte di Olinto Salvadori fra il 3 dicembre 1928 e il 12 giugno 1929 delle carte, che furono consegnate al Cordovani29. Per assicurarne durevolmente la conservazione e facilitarne la consultazione agli studiosi, nel 1937 Cordovani decise (è l’altro passaggio decisivo della nostra storia) di offrire le carte alla Biblioteca Vaticana30, ove dal 1931
27 G. DE LUCA — G. B. MONTINI, Carteggio, 1930-1962, a cura di P. VIAN, Brescia — Roma
1992 (Quaderni dell’Istituto Paolo VI, 12), pp. 37-38 (De Luca afferma, in lettera del 2 maggio 1932, di non amare né Salvadori né Tommaso Gallarati Scotti); G. DE LUCA — F. MINELLI, Carteggio, I: 1930-1934, a cura di M. RONCALLI, Roma 1999, p. 345 (lettera del 4 febbraio 1933, con valutazione a proposito di Salvadori «diafano e inconcludente»). Ma si ricordi che fu De Luca a voler pubblicare nel 1956 e nel 1962 nella collana «I fuochi» da lui diretta presso Morcelliana testi salvadoriani (Editrice Morcelliana. Catalogo storico, 19252005, a cura di D. GABUSI, Brescia 2006, pp. 118, 145); fu ancora De Luca a ospitare nel 1962 (anno della morte), nelle sue Edizioni di Storia e Letteratura, il volume di VIAN, La giovinezza di Giulio Salvadori cit.; e furono infine le Edizioni di Storia e Letteratura, adempiendo un’antica intenzione di don Giuseppe, a pubblicare nel 1976 i due volumi delle Lettere di Salvadori. Ma non è forse casuale che la Morcelliana mostri interesse per Salvadori solo dopo il 1942, cioè dal momento in cui l’influsso, forte e decisivo, di De Luca sulle sue scelte si attenuò, cfr. Editrice Morcelliana cit., p. 79. Le Lettere aperte, pubblicate nel 1939 da Studium, erano state in un primo momento offerte alla Morcelliana ma la risposta fu negativa e Nello Vian lamentò in lettera a Montini del 27 dicembre [1938] l’«antipatia di cattolici colti» verso un «Uomo di autentica grandezza morale e spirituale», G. B. MONTINI-PAOLO VI — N. VIAN, Corrispondenza, 1932-1975, a cura di P. VIAN, in Atti della commemorazione cit., pp. 85-232: 127-128. 28 RICCARDI, Cordovani, Mariano cit., pp. 125-126; IGNESTI, Cordovani, Felice cit., pp.
36-37. 29 Gli elenchi del contenuto delle diverse consegne (con funzione di ricevuta), con la procura di Cordovani a Righetti ad agire in suo nome, sono in Carte Salvadori 95 (1), fogli non numerati [= f.n.n.]. La prima consegna avvenne il 3 dicembre 1928, la seconda l’8 dicembre 1928, la terza il 31 dicembre 1928, la quarta l’8 gennaio 1929, la quinta il 22 febbraio 1929, la sesta il 26 aprile 1929, la settima il 12 giugno 1929. 30 Fondamentali, per la ricostruzione delle vicende del fondo, sono i documenti raccolti in Carte Salvadori 95 (1). La lettera di Cordovani a Mercati, Città del Vaticano, 22 marzo 1937, è ibid., f.n.n. Non è invece conservata documentazione sulla donazione in Biblioteca Vaticana, Carteggi del card. Giovanni Mercati, cont. 54, an. 1937; prova che alcune lettere
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lavorava appunto Vian e dove, dal 1907, era «scrittore latino» Enrico Carusi, legato da personale conoscenza con Salvadori31, ben noto anche al cardinale Bibliotecario e Archivista Giovanni Mercati32. Il 22 marzo 1937 Cordovani scrisse appunto al card. Mercati illustrando il «tesoro di lavoro e di memoria» che in Vaticana sarebbe stato custodito e messo a disposizione degli studiosi, anche nella speranza «che le virtù del grande letterato abbiano un giorno trionfale proclamazione» e che la destinazione a una biblioteca inducesse i privati (anche membri della famiglia) ancora in possesso di carte salvadoriane a versarle33. In lettera privata a Mercati della stessa data Cordovani sottolineava la necessità di ristampare alcuni scritti con correzioni e, più esplicitamente, faceva notare che, se Salvadori fosse stato dichiarato santo, i suoi manoscritti sareb-
venivano estratte dalla serie delle lettere ricevute per essere conservate in piccoli dossiers relativi a particolari questioni 31 Enrico Carusi (1878-1945), di Pollutri (Chieti), «scrittore» aggiunto dal 16 novembre 1907, effettivo (per la lingua latina) dall’8 luglio 1909, J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collection de manuscrits, avec la collaboration de J. RUYSSCHAERT, Città del Vaticano 1973 (Studi e testi, 272), pp. 257, 268 nt. 13. La conoscenza personale fra Carusi e Salvadori è ricordata da padre Cordovani nella lettera privata a Giovanni Mercati del 22 marzo 1937 (cfr. infra nt. 34); ma al momento non si sa precisarne aspetti particolari. Tre lettere di Salvadori a Carusi furono donate dal destinatario alla Vaticana nell’agosto 1941 (cfr. l’elenco di «Lettere e autografi» cit. infra alla nt. 37). 32 Anche in questo caso, a proposito della conoscenza personale fra Mercati e Salvadori, testimoniata da Cordovani nella lettera del 22 marzo 1937, non si hanno ulteriori notizie. Nei Carteggi del card. Giovanni Mercati non sono conservate lettere di Salvadori. Ma si può forse ipotizzare che la conoscenza sia nata nel comune impegno per la revisione del catechismo di Pio X; si tenga poi conto che un fratello maggiore, di Salvadori, Enrico (1860-1926), era un ecclesiastico, ordinato nel 1883, preside del Liceo Apollinare, dantista, custode d’Arcadia; su di lui cfr. G. SALVADORI, Ricordi di mons. Enrico Salvadori, Arezzo 1926 [BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 424]. 33 Nel testo Cordovani fra l’altro affermava: «Quei manoscritti non pervennero tutti nelle mie mani, come gli amici sanno; ma il blocco posseduto è così rilevante che per me significa un tesoro di lavoro e di memorie. Il modo migliore per custodire questi manoscritti, secondo le intenzioni del Poeta, penso che sia quello di depositarli e consegnarli alla Biblioteca Apostolica Vaticana, dove sono custoditi più diligentemente e dove gli studiosi potranno consultare con più facilità. Tanto più questo mi sta a cuore in quanto considero fondata la speranza che le virtù del grande letterato cristiano abbiano un giorno trionfale proclamazione. Quelli che posseggono manoscritti del Poeta, e che forse avrebbero avuto difficoltà a consegnarli ad un particolare, saranno lieti di farne dono alla Biblioteca, accrescendo così questo tesoro che diventerà sempre maggiore. E per la Biblioteca Apostolica Vaticana sono lieto di consegnare tutto nelle mani di V. Eminenza, Bibliotecario di S. Romana Chiesa, che ha conosciuto il Prof. Giulio Salvadori e ne apprezza i meriti di scrittore e le virtù altissime di cristiano in tutto coerenti alla sua fede riconquistata. Prendendo questa determinazione intendo eseguire il testamento e di conformarmi al suo spirito».
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bero divenuti «preziosi e quasi reliquie»34. Il 24 marzo 1937 Mercati rispose a Cordovani accettando il dono dei manoscritti, che «sono un tesoro di lavoro il più sagace e coscienzioso e di memorie le più care e sacre, vere reliquie di un laico santo, in cui la fede, la carità e ogni altra virtù assursero all’eroismo superando di gran lunga l’alto ingegno, la dottrina eletta e la perfezione dello scrivere riconosciutegli anche dal mondo profano»35. Difficile dire cosa sarebbe accaduto se quella decisione non fosse stata presa; probabilmente le carte avrebbero avuto un destino affatto diverso e meno felice.
34 Cordovani a Mercati, 22 marzo 1937, Carte Salvadori 95 (1), f.n.n. Nella lettera, che reca in alto l’indicazione Privata, il domenicano precisava che i manoscritti relativi a Dante erano nelle mani dell’avv. Giuseppe Folchieri (Viale Giulio Cesare, 9), che preparava un volume di studi danteschi [alla morte di Folchieri, 29 maggio 1939, i manoscritti furono riconsegnati dalla famiglia a Cordovani, che li trasferì alla Vaticana nel giugno 1940, cfr. infra]; quelli relativi alla Riforma Cattolica erano in mano del prof. Eugenio Masucci (Via Montebello, 9), insegnante all’Istituto Cabrini (Via Aldrovandi, 11). Altri manoscritti erano presso i Missionari del Sacro Cuore a Piazza Navona, mentre la nipote Lisa Salvadori in Togna aveva sottratto altra parte dei manoscritti, disordinando il complesso ordinato da Salvadori. Cordovani così concludeva: «Spero che questa consegna sia di gradimento del S. Padre, al quale V. Em. darà le informazioni opportune. Nel Testamento del Prof. c’è il proposito che i suoi lavori (specialmente quelli giovanili) non siano ristampati senza correzione da parte dell’autorità ecclesiastica, e questo deve estendersi anche ai manoscritti. “Altrimenti (dice il Testatore) si ritengano come non miei”. Se un giorno avverrà che la Chiesa faccia il processo sulle virtù di questo Suo Figlio, e il Signore lo vorrà glorificare, questi manoscriti di un grande artista santo, saranno preziosi e quasi reliquie. Io sono contento di averli messi in buone mani, e quasi di averli consegnati al Santo Padre nella persona di V. Em. Reverendissima. Mons. Carusi che fu amico del Professore, e tanto premuroso per tutto quello che si riferisce a Giulio Salvadori, può informare di tutto V. Em. Reverendissima. Con la coscienza di aver compiuto un dovere, baciando la S. Porpora (…)». 35 Della lettera di Mercati a Cordovani sono conservati l’originale autografo (24 marzo 1937) e copia dattiloscritta (dal Vaticano, il 24 marzo 1937), Carte Salvadori 95 (1), f.n.n. Nel testo Mercati affermava: «Quale Cardinale Bibliotecario ringrazio vivamente la Riverenza Vostra di avere deposto nella Biblioteca Apostolica Vaticana, affinché vi siano più diligentemente custoditi e con facilità maggiore studiati i manoscritti del ven. Servo di Dio Giulio Salvadori, onore e lume della Università Cattolica del Sacro Cuore, lasciati a Lei per testamento dall’autore. Essi invero sono un tesoro di lavoro il più sagace e coscienzioso e di memorie le più care e sacre, vere reliquie di un laico santo, in cui la fede, la carità e ogni altra virtù assursero all’eroismo superando di gran lunga l’alto ingegno, la dottrina eletta e la perfezione dello scrivere riconosciutegli anche dal mondo profano. Il Santo Padre senza dubbio ascolterà con molto piacere l’annuncio del dono, e non con minore piacere l’udiranno quanti ebbero la ventura di conoscere il Salvadori. Io spero che dagli altri amici e corrispondenti di lui la raccolta sarà col tempo completata, e così sia per diventare nota al possibile quella bella vita, quella bella anima e in sé e nelle sue relazioni». Mercati segnalò l’arrivo delle carte nel suo registro delle accessioni sotto la data del 16 giugno 1937, Biblioteca Vaticana, Arch. Bibl. 115, f. 59v.
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LE CARTE DI GIULIO SALVADORI ALLA BIBLIOTECA VATICANA
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Dal momento della donazione alla Vaticana, annunciata il 10 aprile 1937 da L’osservatore romano con un appello all’incremento dei versamenti per evitare «quelle dispersioni che rendono faticosissima qualunque biografia, e impossibile la ricostruzione di un’attività molteplice, come fu quella del Salvadori»36, incominciarono effettivamente a moltiplicarsi le donazioni di privati (in misura minore, gli acquisti), soprattutto di lettere, che proseguirono per tutti gli anni Quaranta e oltre37; il fondo Vaticano rappresentò effettivamente un polo d’attrazione che calamitò largamente i documenti, evitandone o almeno riducendone la dispersione. Le scomparse di alcuni tra i più fedeli discepoli – Giuseppe Folchieri38 nel maggio 1939, Giovanni Zannone39 ed Eugenio Masucci40
36 Le carte di Giulio Salvadori raggiungono nella Biblioteca Vaticana gli scritti di Contardo Ferrini, in L’osservatore romano, 10 aprile 1937, p. 2. La notizia della presenza delle carte salvadoriane in Vaticana fu ripresa, anche in anni successsivi, da diversi giornali: L’osservatore romano della domenica, 18 aprile 1937 [è lo stesso articolo pubblicato nel quotidiano]; N. VIAN, Manoscritti di Giulio Salvadori alla Biblioteca Vaticana, in L’osservatore romano, 16 ottobre 1940, p. 3; Manoscritti di Giulio Salvadori alla Biblioteca Vaticana, in Messaggero, 24 ottobre 1940; Manoscritti di Giulio Salvadori alla Biblioteca Vaticana, in La tribuna, 24 ottobre 1940; La maschera di Giulio Salvadori alla Bibloteca Vaticana, in L’osservatore romano, 13 dicembre 1940, p. 3 [a proposito della maschera mortuaria ripresa sul cadavere la mattina dell’8 ottobre 1928 da Mario Barberis, e offerta alla Vaticana dal vicario generale dei Somaschi, Luigi Zambarelli, nel 1940; nel corso degli anni Ottanta, anche per interessamento di alcuni antichi discepoli di Salvadori (il card. Giovanni Colombo, Giuseppe Lazzati, Nello Vian) la maschera fu consegnata all’Università Cattolica del Sacro Cuore]. 37 In Carte Salvadori 95 (1), f.n.n., è conservato un elenco di «Lettere e autografi diversi di Giulio Salvadori entrati nella Biblioteca Vaticana dopo il fondo principale delle carte dato dal p. Mariano Cordovani». Fra i donatori si segnalano: il somasco Luigi Zambarelli, Mario Pelaez, Angelo Silvagni, Pietro Paolo Trompeo, il salesiano Eugenio Ceria, Antonio e Giulio Barluzzi, Enrico Possenti, Paolo Guerrini, Agostino Fattori. 38 Il romano Giuseppe Folchieri (1881-1939) conobbe Salvadori nella scuola e a lui rimase legato con lunga amicizia; fu avvocato, giurista e libero docente di filosofia del diritto, G. SALVADORI, Lettere, I (1878-1906), a cura di N. VIAN, Roma 1976, p. 424 nt. 1 alla lett. 250. Lettere e autografi diversi (1903-1928) a Folchieri furono donati alla Biblioteca Vaticana dalla sorella e dalla nipote nel febbraio 1943. Insieme furono depositate le circa 400 lettere alla marchesa Cristina Honorati Colocci, per le quali cfr. infra. 39 Il piemontese Giovanni Zannone (1879-1944) fu «uno dei discepoli più fedeli del Salvadori. Ne assimilò l’intimo spirito e fino alcune forme esterne della personalità, in ammirevole umiltà di dedizione (tra altro, ne esemplò la scrittura con mimetismo spontaneo, in maniera da riuscire difficilmente distinguibile). Di animo delicato, fu per suo conto informato studioso, specialmente della letteratura francese, e poeta di gentile ispirazione. Dopo la scomparsa del maestro, se ne fece versatissimo custode delle memorie. Le lettere scrittegli dal Salvadori sono improntate da un tono di affetto, quasi di padre a figliuolo», SALVADORI, Lettere, I, cit., p. 298 nt. 1. Le carte salvadoriane già appartenute a Zannone, includenti numerosi autografi e 29 lettere (1898-1925) di Salvadori a Zannone, furono acquistate dalla Biblioteca presso la famiglia Zannone nell’agosto 1944.
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tra febbraio e luglio 1944, Giulio Carcani41 nel maggio 1960, Emilio Re42 nel gennaio 1967 – furono l’occasione per il recupero di carte e lettere da loro conservate. Fra il 22 e il 25 giugno 1949 la Vaticana, nel ventennio della morte, promosse una mostra di manoscritti salvadoriani43, mentre quasi vent’anni dopo, nel 1978, vide la luce, a cura di Nello Vian, l’inventario dattiloscritto del fondo44, che metteva così a disposizione degli studiosi, come era nelle intenzioni di padre Cordovani, l’eredità letteraria di Salvadori, ormai definitivamente costituita in fondo autonomo dopo un’iniziale destinazione al fondo principale dei manoscritti latini della Biblioteca Vaticana, il Vaticano latino 45. Proprio il destino ultimo e quindi il significato delle carte di Salvadori fu al centro di una piccola controversia insorta all’inizio degli anni Qua40 Il romano Eugenio Masucci (1889-1944) fu pupillo e discepolo di Salvadori; dopo la prima guerra (nella quale cadde prigioniero degli Austriaci) fu bibliotecario alla Biblioteca Italo-Americana a Palazzo Salviati e quindi insegnante nell’istituto femminile «Francesca Saverio Cabrini», SALVADORI, Lettere, II, cit., p. 881 nt. 1. Carte e stampe salvadoriane già appartenute a Masucci, includenti autografi e 79 lettere (1922-1928) di Salvadori a Masucci, furono acquistate dalla Biblioteca presso la famiglia Masucci nel gennaio 1945. 41 Il romano Giulio Carcani (1882-1960), figlio di un patriotta del Risorgimento e difensore di Roma nel 1849, fu scolaro di Salvadori al ginnasio-liceo «Mamiani» e ne divenne poi fedele amico; entrato al servizio dello Stato, lavorò nel Ministero dei Lavori pubblici e nella Corte dei conti ma continuando a coltivare gusti letterari e pubblicando tra l’altro prose narrative, spesso ispirate alla natura e al paesaggio ascolano, SALVADORI, Lettere, I, cit., p. 345 nt. 1 alla lett. 188. 42 Il romano Emilio Re (1881-1967), anche lui alunno di Salvadori al «Mamiani», entrò nel 1908 nell’amministrazione degli archivi di Stato e ne percorse la carriera; durante il secondo conflitto mondiale si adoperò per la tutela del patrimonio archivistico, opera continuata nel dopoguerra come capo della delegazione italiana per la ripartizione degli archivi con la Jugoslavia, SALVADORI, Lettere, I, cit., p. 446 nt. 1 alla lett. 271. 43 Mostra di autografi di Giulio Salvadori nel ventesimo annuale della morte, s.l., s.d. Il 22 giugno 1949 il prefetto della Vaticana, il benedettino Anselm M. Albareda invitò all’inaugurazione della mostra il Ministro Generale dell’Ordine dei Frati minori, Pacifico M. Perantoni: evidentemente un gesto distensivo dopo la crisi con la Postulazione generale dell’Ordine avvenuta nel 1941 (cfr. infra). 44 Biblioteca Vaticana, Carte di Giulio Salvadori. Inventario e indice redatti da Nello VIAN, 1978 (dattiloscritto; Biblioteca Vaticana, Sala Cons. Mss., 221 rosso). 45 L’iniziale destinazione delle carte salvadoriane al fondo dei Vaticani latini è testimo-
niata dalle indicazioni impresse sul dorso (ora, per lo più, ricoperte da recenti talloncini cartacei con la segnatura attuale del fondo); i volumi rilegati recano sul dorso, nella quasi totalità, gli stemmi di Pio XII (1939-1958) e del cardinale Bibliotecario Giovanni Mercati (1936-1957). Ma cfr. anche la relazione di Anselm M. Albareda, Cinque anni nella prefettura della Biblioteca Apostolica Vaticana (1936-1941), Biblioteca Apostolica Vaticana MCMXLI, che così terminava la nota sugli autografi salvadoriani: «Dopo l’ordinamento e la legatura, tutt’ora in corso, la ventina di volumi che ne risulterà sarà inserita nella serie dei Vaticani latini» (Biblioteca Vaticana, Arch. Bibl. 120, f. 17r).
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LE CARTE DI GIULIO SALVADORI ALLA BIBLIOTECA VATICANA
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ranta, dunque a pochi anni di distanza dalla donazione di Cordovani, tra l’Ordine dei frati minori, che dagli anni Venti si occupava della causa di beatificazione del poeta46, e la Biblioteca Vaticana. In una conversazione con Vian, avvenuta nella casa romana di Folchieri, in Viale Giulio Cesare, 9, il 10 luglio 1941, il Postulatore generale dell’Ordine, Fortunato Scipioni47, fece notare che in vista della causa sarebbe stato necessario raccogliere presso la Postulazione tutta la documentazione possibile, per facilitarne l’uso, alleviare le spese relative all’esame e alle trascrizioni richieste dal processo e disporre così auspicabilmente in futuro di una larga messe di reliquie; si lamentava dunque la costituzione di un fondo presso la Vaticana e si manifestava l’intenzione di proseguire nella formazione di un altro fondo presso la Postulazione. Motivata e articolata fu la risposta di Vian. In primo luogo, il fine della Postulazione, per quanto elevatissimo, appariva limitato in confronto del più vasto interesse che la figura di Salvadori rivestiva, in sé e nelle sue relazioni, per quanti lo facevano e lo avrebbero fatto in futuro oggetto di studio; in secondo luogo, l’utile della Postulazione era limitato anche nel tempo, in quanto riguardava principalmente lo svolgimento del processo; in terzo luogo, per agevolare le ricerche diverse e assicurare con vincolo rigoroso e perpetuo la conservazione del materiale manoscritto e bibliografico, meglio avrebbe provveduto un istituto come una pubblica biblioteca, che ha per fine proprio la custodia, l’ordinamento e l’uso da parte degli studiosi di manoscritti e stampati, in confronto di un ente per sua natura speciale e riservato come la postulazione di un Ordine religioso. In conclusione Vian faceva notare «l’utilità da tutti riconosciuta che si raccolgano possibilmente in un solo luogo le carte e i documenti relativi a un singolo e (...) l’inopportunità che si prosegua contemporaneamente da due parti diverse alla ricerca delle carte, in particolare quelle autografe, del Salvadori: il che potrebbe, alla fine, dare occasione a malintesi e forse a spiacevoli contrasti e creare l’idea di ingiustificate rivalità» 48. 46 La causa di beatificazione di Salvadori, ripresa fra gli anni Settanta e Ottanta, era stata avviata poco dopo la morte del letterato di Monte San Savino. 47 Fortunato Scipioni († 1958), per lunghi anni postulatore generale dell’Ordine dei Frati minori. Tutta la vicenda si può ricostruire sulla base di una copia dattiloscritta di una lettera di Nello Vian a padre Scipioni, Città del Vaticano, 23 luglio 1941, e da un appunto dattiloscritto, siglato N.V. e datato al 10 luglio 1941, conservato insieme alla lettera in Carte Salvadori 95 (1), f.n.n. 48 Poco prima Vian aveva notato che «allo stato presente e come elemento di fatto il fondo esistente presso la Vaticana, il quale raccoglie tutte le carte legate dal Salvadori al Rev.mo P. Cordovani quale suo erede letterario e le numerose altre aggiunte posteriormente, è di gran lunga il più copioso e che è nell’interesse comune completarlo. Tale voto appunto espresse l’Em.mo Cardinale Bibliotecario, nella lettera scritta in occasione dell’offer-
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La Vaticana non perse tempo; sulla base di un appunto di Vian, dieci giorni dopo, il 20 luglio 1941 il card. Mercati espose il problema a Pio XII nell’udienza ordinaria49. Il papa, rievocando la sua conoscenza personale di Salvadori e l’ammirazione serbata per la sua memoria, manifestò il desiderio che il fondo di autografi e carte si accrescesse e per quanto possibile completasse, che l’eredità letteraria venisse conservata in un unico luogo e che questo luogo fosse la Biblioteca Vaticana, «certo come è in pari tempo che in tale modo si provvede alla perpetua conservazione di esse [scil.: delle carte] e al più libero e facile uso di quanti si occuperanno sotto i vari aspetti possibili della figura di Salvadori»50. Il gruppo di lettere alla marchesa Cristina Honorati Colocci (evidentemente il casus belli accesosi a casa Folchieri) avrebbe dovuto essere affidato alla Vaticana, che dal canto suo avrebbe fatto di tutto per venire incontro alle richieste della Postulazione51. La disputa del 1941 è interessante perché mostra il confronto fra due ottiche: da una parte, quella francescana, che annovera Salvadori tra le figure esemplari da additare a esempio del popolo cristiano, dall’altra, quella vaticana che, senza negare questo fondamentale aspetto della figura del letterato di Monte San Savino, ne evidenzia l’appartenenza al mondo e all’orizzonte degli studi. Il destino delle sue carte non poteva essere vincolato all’esperienza transitoria e per sua natura riservata di una causa di beatificazione ma doveva essere legato alla conservazione non effimera in un luogo aperto alle ricerche e agli studi. ta fatta dal Rev.mo P. Cordovani, e tale è la persuasione di numerosi amici, tra i più intimi, del Salvadori, i quali hanno salutato con gioia la raccolta delle sue carte presso la Vaticana, dimostrando il loro consenso con vari presenti finora fatti e col destinare in seguito al fondo stesso altri numerosi gruppi di carte, specie lettere». 49 Dell’udienza di tabella di Mercati con Pio XII del 20 luglio 1941 è conservata, come per numerose altre udienze, la «scaletta» che il cardinale preparava in vista dell’incontro; al punto 5, con duplice lapsus ortografico, è indicato: «Carte Salvatori — Forchieri» (Biblioteca Vaticana, Carteggi del card. Giovanni Mercati, cont. 58, an. 1941, f.n.n.). 50 Copia dattiloscritta di lettera di Nello Vian a padre Fortunato Scipioni, postulatore
generale dei Frati minori, Città del Vaticano, 23 luglio 1941, in Carte Salvadori 95 (1), f.n.n. Nel margine superiore Vian ha indicato a matita: «Inviata su carta non intestata, in forma di comunicazione privata, per suggerimento di Mons. Carusi, 26.VII.41». Salvadori aveva regalato personalmente a Pacelli un esemplare della sua recensione alla vita di s. Francesco del Sabatier, cfr. la lettera di Montini a Vian del 17 settembre 1943, in MONTINI-PAOLO VI — VIAN, Corrispondenza cit., pp. 145-146. 51 Le circa 400 lettere di Salvadori a Cristina Honorati Colocci furono trasmesse, alme-
no secondo l’appunto citato supra alla nt. 37, solo nel febbraio 1943. Le lettere sono ora in due volumi rilegati, Carte Salvadori 56 (per gli anni 1907-1911) e 57 (per gli anni 19121928). Un album di poesie autografe di Salvadori appartenuto alla stessa Honorati Colocci è in Carte Salvadori 97.
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LE CARTE DI GIULIO SALVADORI ALLA BIBLIOTECA VATICANA
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L’eredità contesa rimase quindi alla Vaticana52. Raccolto e in qualche modo difeso con questi intenti, il fondo delle Carte Salvadori (98 elementi, fra volumi rilegati e cartelle con fascicoli sciolti, quasi nove metri lineari di scaffali con decine di migliaia di fogli manoscritti e a stampa, ritagli di giornali, stampati) riflette con straordinaria completezza le diverse fasi della vita e dell’opera di Salvadori. In Vaticana il fondo fu organizzato con una sostanziale bipartizione in due grandi articolazioni, dedicate alle opere (Carte Salvadori 1-53) e alla biografia (Carte Salvadori 54-98), anche se alcuni elementi della seconda parte perterrebbero alla prima, alla quale probabilmente non furono ricollegati perché pervenuti quando i volumi rilegati o le cartelle erano già costituiti53. La prima parte, sulle opere, è a sua volta suddivisa, sulla base degli argomenti trattati, in dodici gruppi già definiti nel 1952 e ordinati in linea di massima cronologicamente. Il primo gruppo (Carte Salvadori 1-3) raccoglie appunti di letteratura e storia, dagli scritti della stagione caratterizzata con l’aggettivo del titolo della rivista Cronaca bizantina pubblicata da Edoardo Scarfoglio a produzioni del periodo degli studi universitari (1880-1885) e dell’insegnamento ginnasiale ad Albano Laziale (18851890), sino ad articoli degli ultimi anni, come Il segreto di Petrarca (1927). Sono almeno da segnalare qui trascrizioni di poesie popolari, profane e religiose, anche della Val di Chiana e della regione ascolana54. Il secondo gruppo (Carte Salvadori 4-10) è dedicato al tema più lungamente coltivato da Salvadori, la poesia antica italiana, con ricerche e corsi universitari su Guittone d’Arezzo, Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti, anche con trascrizioni da codici. Qui sono conservati l’originale autografo della tesi di laurea presentata nel novembre 1885 all’Università di Roma con il titolo «Studio sulla lirica del Dolce stil nuovo» e gli appunti relativi alla scoperta nel ms. Vaticano latino 3793 di rime che, come abbiamo visto, Salvadori attribuì a Dante e Cavalcanti55. Il terzo 52 Per l’uso, in verità piuttosto esiguo, delle Carte Salvadori nelle ricerche cfr. M.
BUONOCORE, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1968-1980), I, Città del Vaticano 1986 (Studi e testi, 318), p. 675; M. CERESA, Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1981-1985), Città del Vaticano 1991 (Studi e testi, 342), p. 284. 53 Così Carte Salvadori 97, con un esemplare personale interfogliato e fittamente postillato del Canzoniere civile, pervenuto dall’eredità di padre Cordovani. 54 Il segreto del Petrarca [BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 446] è in Carte Salvadori 2. 55 L’originale autografo della tesi di laurea, «Studio sulla lirica del Dolce stil nuovo», Università di Roma, novembre 1885, è in Carte Salvadori 8. Il manoscritto dell’articolo «Sopra due serie di sonetti adespoti del canzoniere Vaticano 3793» (1905) [BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 276], con tre successive correzioni di bozze, l’estratto a stampa
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gruppo (Carte Salvadori 11-14) è focalizzato sui temi francescani, dal manoscritto, bozze ed esemplare a stampa postillato del saggio Su S. Francesco d’Assisi, a proposito d’una sua vita recente (1895), scritto per correggere delicatamente il libro di Paul Sabatier, ai Ricordi di san Francesco d’Assisi (1926), all’autografo e alla dattilografia corretta di un discorso preparato per essere pronunciato alla Verna nel 1926 dal ministro Pietro Fedele56. Il quarto gruppo (Carte Salvadori 15-21) conserva i manoscritti danteschi, con note e appunti per un nuovo commento della Divina Commedia, che riprendesse e integrasse quello di Tommaseo, e il saggio Della vita giovanile di Dante (1901, 1906)57. Il quinto gruppo (Carte Salvadori 22-25) riunisce i frutti dello studio del Cinquecento religioso italiano condotto dal Salvadori per individuarvi quei moti di rinnovamento religioso e caritatevole che dovevano produrre la vera riforma della Chiesa, da Caterina da Genova a Ettore Vernazza, da Gaetano da Thiene a Marco Antonio Flaminio, da Gasparo Contarini a Michelangelo e Vittoria Colonna sino ad arrivare al card. Federico Borromeo e a Galileo Galilei58. Il sesto gruppo (Carte Salvadori 26-29) raduna i lavori sulla letteratura italiana moderna, con evidente predilezione per l’Ottocento e marcata attenzione – a proposito di autori come Foscolo,
postillato e accresciuto dell’articolo, e molti appunti sulla scoperta delle rime attribuite dal Salvadori a Dante e a Cavalcanti sono in Carte Salvadori 9-10. 56 Il manoscritto dell’articolo «Su s. Francesco d’Assisi, a proposito d’una sua vita recente» (1895; BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 171), con bozze ed esemplare a stampa postillato, sono in Carte Salvadori 11. I «Ricordi di san Francesco d’Assisi» (BONALUMI, nr. 423; manoscritto; due copie dattiloscritte con molte correzioni, aggiunte a margine e fogli inseriti; bozze di stampa impaginate e ampliate con nuove aggiunte) sono in Carte Salvadori 13-14. L’autografo e la dattilografia corretta del discorso per Pietro Fedele sono in Carte Salvadori 12. 57 Note e appunti per un nuovo commento della Divina Commedia sono in Carte Salva-
dori 15-16. Le varie redazioni del Saggio sulla vita giovanile di Dante (1901, 1906; BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nrr. 253, 283) sono in Carte Salvadori 17. L’esemplare a stampa con aggiunte manoscritte è in Carte Salvadori 18; i corsi danteschi in Carte Salvadori 19; articoli e scritti vari danteschi in Carte Salvadori 20; varie dantesche in Carte Salvadori 21. 58 Più analiticamente: Carte Salvadori 22 sulla storia della Riforma cattolica (con
appunti su s. Caterina da Genova ed Ettore Vernazza); Carte Salvadori 23 su s. Gaetano da Thiene (fra queste note, appunti per il rifacimento della biografia del santo pubblicata in francese da R. Maulde La Clavière e tradotta con molte integrazioni da Salvadori nel 1911; BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 324); Carte Salvadori 24 sulla letteratura della Riforma cattolica (con appunti e note su Marco Antonio Flaminio e il card. Gasparo Contarini); Carte Salvadori 25 sulla letteratura della Riforma cattolica (con note, lezioni e appunti su Francesco Berni, Michelangelo, Vittoria Colonna, Galileo Galilei, il card. Federico Borromeo).
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LE CARTE DI GIULIO SALVADORI ALLA BIBLIOTECA VATICANA
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Leopardi, Poerio, Nievo, Carducci – per i fatti psicologici e morali59, privilegiati anche nelle numerose ricerche su Manzoni (ottavo gruppo, Carte Salvadori 30-35)60 e su Tommaseo (nono gruppo, Carte Salvadori 36-40)61. Ancora a figure dell’Ottocento – da Amiel a Ozanam, da Monaci a Gamurrini, da Leone XIII a Mussini – sono dedicati i ritratti dell’undicesimo gruppo (Carte Salvadori 46-47)62, mentre il nono gruppo (Carte Salvadori 41-42) ospita gli appunti relativi alla stilistica, titolo della cattedra retta per molti anni da Salvadori63. Con i manoscritti religiosi e filosofici del decimo gruppo (Carte Salvadori 43-45)64 ci si avvicina al cuore della produzione letteraria di Salvadori rappresentato dal dodicesimo gruppo (Carte Salvadori 48-53) dedicato alla produzione poetica, dal Canzoniere civile (1889) ai Ricordi dell’umile Italia (1918), a poesie sparse e frammentarie, per larga parte inedite e ulteriormente suddivise sulla base delle circostanze di composizione, del contenuto, dei destinatari (personali e familiari; per amici; intime; dalla contemplazio-
59 Sono dedicati in particolare: a Ugo Foscolo Carte Salvadori 26 (con il corso universitario «Ugo Foscolo e il cristianesimo eterno», tenuto negli anni 1927-1928; BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 449); a Giacomo Leopardi Carte Salvadori 27; ad Alessandro Poerio Carte Salvadori 28; a Ippolito Nievo e Giosuè Carducci Carte Salvadori 29 (con manoscritto e bozze di uno scritto su «Il Carducci poeta religioso», 1928; BONALUMI, nr. 456). 60 Per l’opera, pubblicata postuma nel 1929, su Enrichetta Manzoni Blondel e il Natale del ’33 [BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 467], manoscritti, dattiloscritti, bozze corrette in Carte Salvadori 30-32; articoli e scritti vari sul Manzoni in Carte Salvadori 33; lezioni e materiali vari sul Manzoni in Carte Salvadori 34-35. 61 Il manoscritto e tre serie di bozze di stampa, con intercalate aggiunte manoscritte, de Le idee sociali di Niccolò Tommaseo e le moderne [BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 331] in Carte Salvadori 36; alle Memorie poetiche di N. Tommaseo [BONALUMI, nr. 343] sono dedicate Carte Salvadori 37-39; lezioni e altri scritti sul Tommaseo (fra i quali La giovinezza di Niccolò Tommaseo, 1909; BONALUMI, nr. 304) in Carte Salvadori 40. 62 La giovinezza di A. F. Ozanam, 1907 [BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 292], in Carte Salvadori 46; E. F. Amiel, 1906 [BONALUMI, nr. 282], in Carte Salvadori 46; Luigi Mussini, 1894 [BONALUMI, nr. 163], in Carte Salvadori 46; Leone XIII sommo pontefice e poeta, 1928 [BONALUMI, nr. 457], in Carte Salvadori 46; G. F. Gamurrini, 1924 [BONALUMI, nr. 393], in Carte Salvadori 47; Ernesto Monaci, 1920 [BONALUMI, nr. 354], in Carte Salvadori 47. 63 Sulla cattedra di stilistica retta da Salvadori nei primi anni del Novecento presso
l’Università di Roma e sui contrasti che vi incontrò, MONTICONE, Giulio Salvadori cit., pp. 173-181; MASCHERPA, Giulio Salvadori cit., pp. 169, 190-200. 64 Fra questi scritti si segnalano, «Pater noster», «Il Discorso del Monte. Il Pater. Pen-
sieri» (1898, bozze corrette; BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 246), «Sull’ufficio sociale della Chiesa» in Carte Salvadori 44.
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ne della natura; religiose; per bambini; varie)65. Alla parte del fondo dedicata alle opere segue la sezione sulla biografia ove spiccano le lettere (Carte Salvadori 54-64), di Salvadori a destinatari diversi, autografe e in copia, e, in piccola parte, di mittenti diversi a Salvadori66. Circa 2.000 nel 195267, le lettere, che vanno dal 1887 al 1928, rilegate in volumi o in cartelle, sono ordinate per corrispondenti e quindi cronologicamente; la loro raccolta presso i diversi destinatari costituisce il risultato più rilevante di una faticosa e complessa opera di individuazione e recupero. Chi ha letto Il carteggio Aspern (1888) di Henry James, storia letteraria delle peripezie di uno studioso del poeta Jeffrey Aspern per riuscire a ottenere le sue lettere d’amore inviate a Juliana Bordereau, può immaginare la complessità delle operazioni di riscatto delle corrispondenze di un personaggio dalla probabile, facilissima dispersione e distruzione. Una conferma di tale difficoltà proviene da una constatazione: la Vaticana possiede altri cospicui carteggi di storici e intellettuali, da Giovanni Battista De Rossi68 a Pasquale Villari69, da Giuseppe Toniolo70 a Ludwig von Pastor71. Ma si tratta, per la massima parte, di corrispondenza pas65 Per il Canzoniere civile [BONALUMI, Bibliografia degli scritti cit., nr. 122], Carte Salva-
dori 48; per i Ricordi dell’umile Italia [BONALUMI, nr. 349], Carte Salvadori 49; poesie sparse e varia in Carte Salvadori 50-53. 66 Fra i nuclei più cospicui, oltre a quello delle lettere a Cristina Honorati Colocci (cfr.
supra, nt. 51), si segnalano le lettere ad Agostino Fattori in Carte Salvadori 58. Carte Salvadori 59-62 raccolgono invece lettere a corrispondenti diversi, in originale e in copie. Carte Salvadori 63-64 comprendono carteggi vari; fra questi, in Carte Salvadori 63, le lettere del somasco Lorenzo Cossa (1838-1916), che fu per un trentennio direttore spirituale di Giulio, alla famiglia (cfr. N. VIAN, Lorenzo Cossa e i Salvadori, in L’urbe 51 (1988), nr. 2, marzoaprile, pp. 8-19; nr. 4, maggio-agosto, pp. 10-22; ripubblicato in Somascha 14 (1989), pp. 6598), il carteggio con le suore Calasanziane (Carte Salvadori 63) e numerose lettere ricevute (Carte Salvadori 64). 67 Così le calcolava VIAN, I manoscritti di Giulio Salvadori cit., p. 519. 68 Col suo testamento del 3 febbraio 1890, De Rossi destinò alla Vaticana le sue carte
che vi furono trasferite il 26 novembre 1894 e vennero inventariate da Cosimo Stornajolo. I Vat. lat. 14238-14295, che ora raccolgono le circa 26.000 lettere ricevute da De Rossi fra il 1842 e il 1894, furono però allestiti solo successivamente, durante il pontificato di Pio XI (1922-1939). 69 I Carteggi Villari furono lasciati alla Vaticana con disposizione testamentaria del figlio dello storico, Luigi (1876-1959), e furono consegnati alla Biblioteca fra gli ultimi mesi del 1959 e i primi del 1960. 70 Il fondo Carteggi Toniolo è essenzialmente costituito dalla documentazione epistolare sottoposta all’esame della Congregazione dei Riti per la causa di beatificazione e canonizzazione di Toniolo; le lettere furono depositate presso la Vaticana dal postulatore della causa Guido Anichini (1875-1957) prima del 1956. 71 I documenti che costituiscono il fondo Lascito Pastor furono offerti alla Santa Sede dalla moglie di Pastor, Constanze, e dal figlio Ludwig in un arco cronologico che va dal
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siva, di quella cioè ricevuta dal personaggio, più facile da reperire perché già raccolta in un solo luogo ma anche meno significativa perché non contiene gli ipsissima verba della personalità ma ciò che i suoi corrispondenti le scrissero. A questa documentazione, dunque singolare e straordinariamente importante per seguire l’impegno di Salvadori nei suoi molteplici aspetti e solo parzialmente edita nei due volumi delle Lettere pubblicati nel 1976, si congiungono naturalmente le carte biografiche, personali e familiari di Salvadori (Carte Salvadori 65-98), l’insieme più vasto ed eterogeneo, anche in ragione della progressiva accessione al fondo: dai componimenti liceali72 a carte e carteggi dei fratelli Olinto ed Enrico e della sorella Giuseppina73, dalle carte scolastiche e universitarie74 a un consistente nucleo di pubblicazioni di Salvadori con dediche autografe a familiari, amici e discepoli75, da bozze di stampa anche con correzioni76 a stampati postillati77, dalle dispense universitarie78 a tesi dirette da Salvadori e a lui dedicate79, dagli articoli della stampa periodica80 a testimonianze su Salvadori81, da documenti sulla costituzione 1931 al 1951. Un piccolo incremento, per dono da parte della Facoltà Teologica di Innsbruck di un manipolo di lettere, biglietti e cartoline indirizzati a Pastor, è avvenuto nel 1986. 72 Risalenti agli anni 1878-1880; Carte Salvadori 65 (1). 73 Carte Salvadori 66. 74 Carte Salvadori 68-69. 75 Carte Salvadori 70-74, 93-94. Vasto e diversificato è il numero dei dedicatari rappre-
sentati; essi sono (nell’ordine di presenza nei contenitori) la madre, il fratello Enrico, il fratello Olinto, la sorella Giuseppina, la sorella Francesca e il cognato Pio Spezi, il nipote Dino (Bernardo) Salvadori, il nipote Renato Salvadori, Michele Carcani, signori e signorine Carcani, Vittorio Carcani, Giulio Carcani, Luigi Costantini, Alfredo Magnanelli, Raffaele Magnanelli, Giulio Natali, «gentildonna italiana», Tommaso Barbolani di Montauto, Antonio Barluzzi, card. Gaetano Bisleti, Raffaele Bonacelli, Vittorio Puntoni, Giovanni Zannone, padre Mariano Cordovani, Eugenio Masucci, Adriano Colocci, F. Verde, la nipote Lisa Salvadori Togna, padre Innocenzo Taurisano, Emilio Re, Lucy Bartlett Re. Altre dediche autografe in Carte Salvadori 75. 76 Carte Salvadori 76-77. In Carte Salvadori 76 (3) le bozze di stampa, con qualche correzione, del catechismo di s. Pio X, testimonianza del ruolo svolto da Salvadori nelle diverse fasi dell’impresa. 77 Stampati salvadoriani postillati dallo stesso autore in Carte Salvadori 74, ove anche alcuni stampati salvadoriani postillati da Eugenio Masucci. 78 Dispense universitarie litografate, risalenti sia al periodo romano che a quello mila-
nese, in Carte Salvadori 78. 79 Cinque tesi dirette da Salvadori in Carte Salvadori 86; tre tesi dedicate a Salvadori in Carte Salvadori 87. 80 Articoli della stampa periodica dedicati a Salvadori dal 1928 al 1936 in Carte Salva-
dori 89; altri ritagli di giornali, raccolti da Giulio Carcani e di provenienza varia, in Carte Salvadori 88.
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PAOLO VIAN
del fondo82 alle lettere di accompagnamento degli invii della documentazione per arricchirne la consistenza83. Effettivamente, a differenza di altri archivi personali, le Carte Salvadori non sono un insieme di documenti pervenuto al luogo di conservazione una volta per tutte, in una forma definita, chiusa e immodificabile. Inventariate, come si è visto, nel 1978, le Carte Salvadori hanno per quasi quarant’anni, dal 1937 al 1978 appunto, subìto incrementi e riordinamenti, per buona parte riflesso delle ricerche di Vian su Salvadori. Anzi, l’ultima (almeno sinora) accessione al fondo risale al luglio 1984, sei anni dopo la pubblicazione dell’inventario, e riguarda le lettere di Salvadori al francescanista protestante Paul Sabatier e al benedettino Cornelio Villani (Carte Salvadori 98)84. Tale caratteristica eminentemente dinamica del fondo, stratificazione di uno sforzo critico e di approfondimento intorno al Salvadori, è a ben vedere già inscritta nella considerazione che lo stesso letterato aretino ebbe delle sue carte: eliminatene alcune, come si è detto, molte altre conservò ma come testimonianza di fasi della sua vita e del suo pensiero che intendeva superate. Proprio nei manoscritti religiosi e filosofici del decimo gruppo non sono rare le note apposte posteriormente dal Salvadori: «In questi fogli sono 81 Testimonianze su Salvadori (di G. Cellini, famiglia Colabona, Ugo Ojetti [in lettera], Olinto Salvadori, Augusto Sterlini, Nello Vian, Giovanni Zannone) in Carte Salvadori 95 (35). 82 È il già ricordato fascicolo in Carte Salvadori 95 (1). 83 Accompagni e giustificativi degli invii in Carte Salvadori 90 (6-9). Accanto al ricor-
dato elenco (cfr. supra nt. 37), questi documenti permettono di seguire vie e modalità del progressivo accrescimento del fondo. 84 Una scheda manoscritta incollata sul f. 35v dell’inventario e indice delle Carte Salvadori (cfr. supra nt. 44) testimonia l’accessione. Per quanto riguarda Paul Sabatier, in Carte Salvadori 98 (1) sono conservate lettere di e a Salvadori, cfr. N. VIAN, Francescana amicizia con Paul Sabatier, in ID., Amicizie e incontri di Giulio Salvadori, Roma 1962, pp. 108-141. Trasmesse a suo tempo dalla vedova di Sabatier a Roma per la loro pubblicazione, le carte rimasero in deposito fiduciario presso Vian che le consegnò alla Vaticana l’11 settembre 1981; furono collocate nel fondo il 23 luglio 1984. Per quanto riguarda Villani, in Carte Salvadori 98 (2) sono conservate lettere a lui indirizzate da Salvadori con altre carte relative a Salvadori appartenute a Villani e minute di lettere di Villani. Ferdinando Villani (18671954) crebbe nel Collegio degli Orfani a S. Maria in Aquiro, diretto allora dal somasco Lorenzo Cossa; fu indirizzato nella vita e negli studi (in particolare storici) da Salvadori; divenne monaco benedettino, assumendo il nome di religione Cornelio, nell’abbazia romana di S. Paolo fuori le mura, ove dimorò sempre, SALVADORI, Lettere, I, cit., p. 98 nt. 1. Come si è detto, Villani fu, tra l’altro, curatore con Nello Vian di una nuova raccolta delle Lettere aperte di Salvadori, cfr. supra nt. 18. Le lettere al Villani in parte erano state trasmesse direttamente dal Villani alla Vaticana, in parte dall’abbazia di S. Paolo fuori le mura; rimaste in deposito fiduciario a Vian, furono consegnate alla Vaticana e collocate nel fondo nelle stesse date delle precedenti.
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LE CARTE DI GIULIO SALVADORI ALLA BIBLIOTECA VATICANA
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appunti buoni, da correggere, e cattivi: si considerino i secondi e gli ultimi come obiezioni»85. Oppure: «Non giusto: da rivedere – contiene molti errori»86. Nell’affidamento delle carte al teologo Cordovani era chiaramente decisivo anche l’intento di sottoporre al vaglio della più sicura ortodossia il travaglio letterario, ma ancora prima umano ed esistenziale di una vita. In questo senso le Carte Salvadori della Biblioteca Vaticana sono uno specchio, in qualche modo, duplice, della vita di Salvadori nelle sue diverse fasi e del lavorìo critico che intorno a essa si è nel tempo esercitato. A chi sappia dunque interrogare quelle carte con intelligenza potrà forse capitare l’esperienza occorsa a Salvadori nello studio del manoscritto della poesia Tapina ahimé, ch’amava uno sparvero, quella cioè di cogliere la vita attraverso le carte o, per usare le parole di un componimento di Salvadori liceale, il sorriso della Verità «che lampeggia / tra le pallide carte, si come fior tra l’erba»87.
85 VIAN, I manoscritti di Giulio Salvadori cit., p. 517. 86 VIAN, I manoscritti di Giulio Salvadori cit., p. 517. 87 VIAN, La giovinezza di Giulio Salvadori cit., p. 63.
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ADRIANA VILLANI
I BOZZETTI DI GIAN LORENZO BERNINI NELLA COLLEZIONE CHIGI I. Il Cardinale Flavio I Chigi e il collezionismo romano nel Seicento I. 1. La rapida carriera di un «Cardinal Nepote» Come tutti gli altri cardinali nepoti del Seicento (Scipione Borghese, Francesco Barberini, Camillo Pamphilj, Pietro Ottoboni), anche Flavio Chigi, grazie ai favori dello zio papa Alessandro VII, brucia rapidamente le tappe della carriera ecclesiastica, cumula una quantità notevole di rendite derivanti da benefici e costituisce un consistente patrimonio immobiliare e fondiario1. Come è noto, la rapida ascesa della famiglia Chigi nella grande nobiltà pontificia ebbe luogo solo dopo il trasferimento a Roma, nel 1657, dei parenti di Fabio divenuto Papa Alessandro VII; nonostante il pontefice avesse sempre dimostrato a parole una certa ostilità verso la pratica del nepotismo, alla fine anche i membri della famiglia Chigi conseguirono le più importanti cariche sia civili sia ecclesiastiche. Nato a Siena l’11 maggio 1631 da Mario e da Berenice della Ciaia2, Flavio fu avviato alla carriera ecclesiastica all’età di diciannove anni, quando, nel maggio del 1650, accompagnò lo zio Fabio a Colonia, in Germania. Fin da allora l’interesse del giovane Flavio per l’arte era evidente, giacché annotò in un taccuino tutti i luoghi e le città in cui ave-
1 Questa ricerca è nata presso la Facoltà di Conservazione dei beni culturali dell’Univer-
sità degli Studi della Tuscia in Viterbo. Ringrazio il dott. Luigi Cacciaglia, archivista alla Biblioteca Apostolica Vaticana per la segnalazione del materiale nell’Archivio Chigi, ma soprattutto per la disponibilità e la collaborazione mostrate in ogni occasione durante le ricerche e per i preziosi suggerimenti fornitimi per la stesura del testo stesso. Inoltre esprimo gratitudine al dott. Marco Buonocore, direttore della Sezione Archivi della Biblioteca Vaticana, per la revisione dell’intero elaborato. 2 U. FRITTELLI, Albero genealogico della nobil famiglia Chigi patrizia senese, Siena 1922,
pp. 65-68; E. STUMPO, Chigi Flavio, in Dizionario biografico degli Italiani, XXIV, Roma 1980, pp. 747-751. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 421-495.
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ADRIANA VILLANI
vano sostato3. Un anno dopo, nel maggio del 1651, ricevette gli ordini minori. A Siena intraprese, come lo zio, gli studi presso i gesuiti, laureandosi in diritto e filosofia il 9 aprile 1656. Giunto a Roma assieme al resto della famiglia per volontà dello zio, il 3 giugno 1956, prese il sacerdozio e l’anno seguente, il 9 aprile, Alessandro VII lo elevò al cardinalato, conferendogli il titolo presbiterale di Santa Maria del Popolo e la carica di legato di Avignone4. Le cospicue rendite assegnategli dallo zio gli permisero, già nel 1658, di acquistare il feudo di Farnese per il cugino Agostino, che sposò una Borghese, figlia di primo letto di Olimpia Aldobrandini Pamphilj. Fu presidente di Fermo, governatore di Tivoli, legato ad Avignone, prefetto della Segnatura di Giustizia e della Congregazione dei Confini e del Concilio, arciprete della Basilica Lateranense, e nel 1659 bibliotecario della Vaticana; infine, con Innocenzo XI Odescalchi, ottenne il vescovato di Albano, celebrò il Sinodo e ne pubblicò il volume. È noto che il cardinal Flavio non esercitò alcuna influenza negli affari più o meno rilevanti della Sede Apostolica, sia per la scarsa fiducia del pontefice nei confronti del nipote sia per la personalità stessa di Flavio. L’evento più importate di tutto il suo cardinalato, per quanto attiene alla politica, fu il ruolo che ricoprì durante la legazione presso la corte di Francia nel 1664, in seguito all’incidente dei Corsi a Roma con l’ambasciatore francese. In questa missione dimostrò di possedere doti di serietà e dignità. Con l’impegno diplomatico Flavio riuscì a distendere quella tensione che da un po’ di tempo si era venuta a creare tra Roma e la Francia. Flavio pensò anche ai doni da offrire a Luigi XIV: portò con sé alcune «battaglie» di Salvator Rosa, Tiziano, Guercino, Guido Reni, e soprattutto una gran quantità di medaglie benedette su cui erano impresse le maggiori «fabbriche» commissionate dallo zio a Roma, che servirono a fare propaganda della città di Roma, capitale della Cristianità5. Oltre agli aspetti politico-diplomatici questo viaggio in Francia riveste anche una notevole importanza culturale: il cardinale, infatti, portò con sé il pittore Giovanni Angelo Canini, incaricato di disegnare i luoghi e le 3 Il taccuino manoscritto è conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in poi BAV), Chig. E. I. 14: Libro di città vedute da me Flavio nel viaggio di Germania Fiandra e altre parti e anco alcune d’Italia fatto e cominciato nel 1650 ai 25 di maggio. Nelle annotazioni delle cose viste spesso Flavio fa riferimento all’architettura e alla scultura; f. 7r: «di bello vi è il palazzo e i sepolcri degli arciduchi, essendovi quattordici statue tutte di metallo più grandi assai del naturale». 4 G. GIGLI, Diario romano (1608-1670), Roma 1958, p. 485: «A dì 9. Aprile (1657) furono
creati sei Cardinali, li quali furno Flavio Ghisi Nipote del Papa, Camillo Meltio Milanesi». 5 A. ANGELINI — M. BUTZEK — B. SANI, Alessandro VII Chigi (1599-1667). Il Papa Senese di Roma Moderna, Roma 2000, p. 209.
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I BOZZETTI DI BERNINI NELLA COLLEZIONE CHIGI
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cose più interessanti. In tal modo, come già nel viaggio in Germania, il cardinale dimostra ancora una volta la sua grande sensibilità artistica; un gusto tutto particolare, lo stesso che, come vedremo in seguito, lo spinse a raccogliere nel Casino alle Quattro Fontane una ricca collezione d’arte. Si rafforzarono anche i rapporti con Cosimo III granduca di Toscana, il quale nel 1677 gli offrì il feudo di San Quirico d’Orcia6. Come già detto, Flavio non ottenne incarichi di responsabilità e di rilievo nell’ambito della politica e dell’amministrazione della Chiesa, ma si distinse nella vita artistica e culturale della città, come committente, come collezionista e come sovrintendente ad alcune importanti opere artistiche volute dallo zio. In quegli anni, infatti, si eseguivano a Roma i lavori per i portici e la cattedra di S. Pietro, a Siena quelli per la decorazione della cappella del Voto, a Castelgandolfo quelli per la costruzione della chiesa dedicata a San Tommaso da Villanova, e ad Ariccia, infine, quelli per il Palazzo Chigi, la piazza antistante e la Chiesa dell’Assunta: tutte opere affidate al genio del Bernini. In ognuno di questi cantieri Flavio aveva l’incarico di rappresentare il papa e mantenere i rapporti con gli artisti. I. 2. L’origine della collezione nel Casino alle Quattro Fontane Per capire i gusti e le scelte di Flavio Chigi, il tipo di cultura a cui diede origine e che diffuse attorno a sé, bisogna tener presente l’influenza che esercitò su di lui il Papa. Alessandro VII concorse personalmente alle sue ricchezze, dividendo fra i due nipoti (il cardinale Flavio e il principe Agostino) ciò che possedeva in materia d’arte. Questa distinzione avvenne anche negli affari della vita quotidiana tra i due cugini: a Flavio spettarono i due compiti più difficili, gli impegni di rappresentanza pubblica, come quello di esprimere un modello di politica culturale degno della tradizione romana, e l’impegno a formare il nucleo più consistente di beni preziosi e opere d’arte. Questo nucleo in un primo momento si distingueva dai beni del cugino Agostino, ma con la ratifica nel 16627 da parte del pontefice dell’atto di maggiorascato, Flavio e il padre Mario
6 Chig. A. IV. 5, f. 30: «13 settembre 1677. Questo medesimo giorno il Cardinale Chigi
prende possesso del territorio di San Quirico d’Orcia con il nipote Bonaventura Zondadari». 7 Archivio Chigi 9238 (d’ora in poi Arch. Chig.): la primogenitura fu rogata la prima
volta il 9 giugno del 1662 agli atti del Paluzzi, Notaio della A.C., e confermata con «Breve» dal Papa il 20 settembre 1622. Si veda in Appendice il documento nr. 10.
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ADRIANA VILLANI
vincolavano ad Agostino, primogenito della famiglia, la successione dei feudi acquistati in comune e tutti gli altri beni posseduti a Roma8. Il collezionismo nel Seicento si sviluppa grazie all’ascesa dei ceti borghesi e all’affermarsi di una nuova figura: l’amatore-collezionista, che non colleziona più solo per il prestigio sociale, ma anche per un proprio diletto. I palazzi romani erano frequentati quasi esclusivamente dalla nobiltà, ma in questi anni la crescente affluenza di «forestieri» e «virtuosi» ne comportò l’apertura al pubblico, favorendo al contempo la letteratura dei ciceroni e la produzione di guide per i visitatori. Tra gli esempi più diffusi abbiamo la Nota delli Musei, Librarie, Gallerie, e ornamenti di Statue, e Pitture, né Palazzi di Roma, di G. Pietro Bellori, come pure la più tarda Descrizione delle Pitture, Sculture e Architetture esposte al pubblico in Roma, di Filippo Titi. Si passò così da quello che poteva essere considerato un collezionismo «privato» ad un collezionismo «pubblico», e così la stanza delle meraviglie, la Wunderkammern9, da luogo chiuso e riservato ad una stretta cerchia di fruitori, si smembra, e nasce l’esigenza di mettere a disposizione dei visitatori, sempre più numerosi, le collezioni, che vengono ora disposte ordinatamente e ripartite in diversi spazi. Le guide diventeranno in questo modo il mezzo più appropriato attraverso il quale «pubblicizzare» ciò che si trovava in quei luoghi10. È altrettanto noto che il collezionismo nella Roma seicentesca era fondamentalmente legato alla nobiltà ecclesiastica, che trovava in essa «motivazioni estetiche ma nel contempo autopromozionali»11. Adesso anche questi luoghi apriranno le loro porte al pubblico, che potrà ammirare dal vivo tutte le meraviglie in essi contenute. È proprio in questo clima culturale di rinascita delle collezioni romane che il cardinale Flavio Chigi cominciò a costruire poco a poco il suo Museo. Un giudizio complessivo sul cardinale quale committente e mecenate risulta difficile. F. Haskell12 giudica le sue collezioni non molto 8 Flavio Chigi, nel testamento aperto agli atti Franceschini il 13 settembre 1693, vincolava tutti i beni di Roma al cugino Agostino, il primo ad essere investito dalla primogenitura, e per fidecommesso a tutti i figli maschi della famiglia; i beni di Siena venivano assegnati in eredità alla sorella Agnese, vedova di Antonino Zondadari. Si veda in Appendice il documento nr. 10. 9 Termine utilizzato per rappresentare collezioni di tipo non specialistico, tese ad offrire una visione riassuntiva del mondo. Per approfondimenti si veda: C. DE BENEDICTIS, Per la storia del collezionismo italiano. Fonti e documenti, Milano 19982. 10 D. L. SPARTI, Le collezioni dal Pozzo. Storia di una famiglia e del suo museo nella Roma Seicentesca, Modena 1992, pp. 77-91. 11 Ibid., p. 71. 12 F. HASKELL, Mecenati e pittori, Firenze 1966, pp. 224-246.
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I BOZZETTI DI BERNINI NELLA COLLEZIONE CHIGI
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ricche rispetto alle collezioni dei precedenti cardinali nepoti e limitati i suoi interventi artistici. Ma è verosimile che tale autore si lasci in parte fuorviare dal suo stesso prevalente interesse per la pittura. In realtà, infatti, l’interesse di Flavio era rivolto più all’architettura e alla scultura e ovviamente il suo stesso ruolo di committente ne fu profondamente influenzato. D’altra parte si occupò anche delle arti minori e per i suoi palazzi e le sue ville utilizzò largamente mosaicisti, miniatori, incisori, arazzieri, medaglisti, intagliatori. A Roma possedeva, all’angolo delle odierne via Nazionale e via Depretis tra le Quattro Fontane e Santa Maria Maggiore, un giardino con Casino13, in seguito distrutto per la costruzione del quartiere umbertino. Ne rimane il ricordo in un’incisione del Falda e in un acquerello di Franz Roesler14, che lo ebbe prima in enfiteusi per il canone annuo di centodieci scudi15, e poi fu da questi affrancato nel 1871 per diecimila lire16. È qui che nascerà il primo nucleo del Museo di curiosità naturali17, dove emergerà l’interesse del cardinale per le arti attraverso l’ampia raccolta di quadri, sculture e soprattutto curiosa, che non mancava mai di ampliare con l’acquisto, durante i suoi viaggi, di oggetti unici e rari18. Si trattava di utensili diversi e peregrini, reperti archeologici, abbigliamenti esotici, piccole opere d’arte provenienti da diverse civiltà. Non è un caso che Athanasius Kircher19, organizzatore del più importante museo di naturalia e curiosa della città, allestito nel Collegio Romano, non solo era 13 Solitamente il Casino era una villa, di piccole dimensioni, all’interno di una «vigna». Quest’ultima era generalmente ubicata fuori le mura, dove spesso i collezionisti raccoglievano sculture e anticaglie. 14 B. CACCIOTTI, La collezione di antichità del cardinale Flavio Chigi, Roma 2004, p. 56, nt. 7. 15 Arch. Chig. 14834: «Istromento di enfiteusi perpetua del Casino alle 4 fontane a favore del Sig. Pietro Roesler Franz fatta dal P.pe D. Agostino Chigi per annui scudi 110. Roma atti Luggiani Serafini. 1831. 28. gennaro». 16 R. LANCIANI, Storia degli scavi di Roma, Roma 1902, p. 154. 17 Va rilevato però, che il primo vero nucleo della collezione del cardinale fu il palazzo
di Formello. Si veda G. B. BELLORI, Nota delli Musei, Roma 1664, p. 17: «Il Cardinale Flavio Chigi … col Museo delle curiosità naturali, peregrine, ed antiche: nel suo castello di Formello». Questo feudo, assieme a quelli di Campagnano, Sacrofano e Cesano, fu acquistato nel 1661, allora di proprietà degli Orsini (cfr. Arch. Chig. 18337), mentre il Casino alle Quattro Fontane passò al cardinale Flavio solo nel 1664. 18 Il Museo di curiosità del cardinale era ubicato nel palazzo alle Quattro Fontane, cfr. G. INCISA DELLA ROCCHETTA, Il Museo di curiosità del Cardinale Flavio I Chigi, in Archivio della Società Romana di Storia Patria, 89 (1966), pp. 141-192. 19 Il gesuita Athanasius Kircher (1610-1680) collocò il suo museo nel palazzo dei gesuiti del Collegio Romano. Cfr. SPARTI, Le collezioni dal Pozzo cit., pp. 68-69.
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un grande estimatore della collezione di Flavio, ma gli faceva anche da tramite con i venditori: «nel museo del cardinale, dunque, si respirava un’aria di transizione fra le cinquecentesche Wunderkammern e i dettami della Nuova Scienza»20. Nel palazzo si snodavano diverse stanze21 divise per tema: la galleria, la libreria, gli studi di glittica e numismatica, i laboratori e le officine per i restauri delle sculture antiche; è la presenza di questi ultimi che ha messo in evidenza l’interesse non solo per i curiosa, ma anche l’intento pedagogico-didattico e insieme il metodo-scientifico dei nuovi «musei». I. 2. 1. La quadreria Anche se non è questa la sede per approfondire il vastissimo repertorio dei dipinti appartenuti alla collezione del cardinale, un accenno è d’obbligo per completare la figura di questo importante collezionista della Roma seicentesca22. La quadreria chigiana non passava inosservata, anzi le guide dell’Urbe già dal 166423 esaltavano le pitture in essa presenti. Negli elenchi dei numerosi inventari, conservati nell’Archivio Chigi presso la Biblioteca Apostolica Vaticana24, tra le opere di maggior prestigio appaiono le tele dell’artista napoletano Salvator Rosa. Flavio era senza dubbio entusiasta di quest’artista, dato che, nel viaggio a Parigi, donò a Luigi XIV alcuni 20 Ibid. 21 Della divisione del palazzo in più stanze possiamo trovare conferma in una guida di
Roma, anonima, che descrivendo l’edificio afferma che: «ha il difetto comune a molti altri di avere diverse sale e anche le scale molto scure, ma a parte questo è riccamente ammobiliato e ha molti più appartamenti di quanto non sembri. Una delle stanze è arredata alla francese; la si visitava molto all’inizio perché piaceva agli Italiani, che devono concedere ai francesi il primato per la ricchezza e l’eleganza degli arredi, quanto per il loro gusto di acconciarsi e vestirsi meglio di qualunque nazione d’Europa. Gli ornamenti degli Italiani sono piuttosto semplici. Spesso ammassano sulla stessa parete una gran quantità di quadri, che fanno un effetto molto meno elegante che se fossero solo tre o quattro appesi su una tappezzeria al modo nostro». Si veda: J. CONNORS — L. RICE, Specchio di Roma Barocca. Una guida inedita del XVII secolo, Roma 1991, pp. 107-109. 22 Si vedano soprattutto: A. TANTILLO MIGNOSI, I Chigi ad Ariccia nel ’600, Roma 1990, pp. 79-86; F. PETRUCCI, Nuovi contributi sulla committenza nel XVII secolo. Alcuni dipinti inediti nel Palazzo Chigi di Ariccia, in Bollettino d’arte, 73 (1992), pp. 107-126. 23 BELLORI, Nota delli Musei cit., p. 17: «Nel palazzo a Santi Apostoli, con ornamenti di pitture di chiari artefici. Principe D. Agostino Chigi. Con gli altri pregi di Statue, e pitture, che adornano il palazzo di questo Signore, conservasi in esso, uno studio di medaglie, & medaglioni antichi di gran rarità». 24 Cfr. Arch. Chig. 700, ff. 249-267; Arch. Chig. 703, ff. 276-292; Arch. Chig. 14259.
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suoi dipinti, tra cui una Battaglia e Democrito e Protagora; tra le opere conservate al palazzo ricordiamo invece Vita umana e le due tele con Cristo che predica ai pastori e Cristo che libera un indemoniato. Negli inventari sono elencati altresì numerosi artisti moderni, come Pietro da Cortona con Santa Martina, L’Angelo custode, Arcangelo Raffaele, il Baciccio con la Pietà, Carlo Maratti con la Natività, e poi ancora Giacinto Brandi e il Borgognone. La scuola bolognese era rappresentata da Annibale Carracci, Guido Reni, Lanfranco e Guercino. Per la pittura di paesaggio possedeva due grandi tele di Claude Lorrain, mentre per la pittura più antica ricordiamo la scuola del Cinquecento veneziano e in particolare Veronese, Tiziano, Palma e Bassano; per chiudere due sole tele di soggetto sacro: una in rappresentanza della pittura naturalistica caravaggesca dello Spagnoletto e l’altra, la Madonna con Bambino, San Giovanni e paese, di Andrea del Sarto per la pittura del Cinquecento toscano25. Appare evidente da questa rapida rassegna che la collezione aveva uno straordinario valore e può essere senz’altro inserita tra le più ricche della nobiltà romana: Colonna, Borghese, Doria Pamphili, Barberini, Sciarra, Corsini. Nel 1692, infatti, furono esposte circa quaranta opere, scelte tra le più belle, nel chiostro della chiesa di San Salvatore in Lauro26. Alla morte di Flavio, alcuni quadri saranno donati, per volontà dello stesso, agli amici cardinali, tutti gli altri andranno in blocco a far parte della raccolta del cugino-erede Agostino27 nel palazzo al Corso in Piazza Colonna, e le guide dell’Urbe continueranno a parlarne. Va rilevato, infine, che fin dai primi anni del cardinalato, Flavio collezionava anche molti libri, così come già aveva fatto lo zio Agostino il Magnifico, e ciò non sfuggì ad un turista che, in visita per i palazzi romani, descrive così la biblioteca Chigiana: «il Cardinale ha una Biblioteca che non è ancora molto fornita, ma che è nata molto bene con una scelta di buone
25 Una completa e accurata trascrizione dell’inventario del 1 maggio 1692, conservato nell’Archivio Chigi presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, del Casino alle Quattro Fontane è stata pubblicata da F. PETRUCCI, Le collezioni berniniane di Flavio Chigi tra il Casino alle Quattro Fontane e la villa Versaglia, in C. BENOCCI (a cura di), I giardini Chigi tra Siena e Roma dal Cinquecento agli inizi dell’Ottocento, Siena 2005, pp. 464-492. Alle pp. 476-492 ritroviamo l’elenco dei quadri in possesso del cardinale Flavio nel suo museo; oltre agli artisti sopra citati ovviamente non mancano i numerosi disegni eseguiti «per mano del Cavalier Bernino». 26 Si veda per la mostra in San Salvatore in Lauro G. DE MARCHI, Mostre di quadri a
San Salvatore in Lauro (1682-1725), Roma 1987, pp. 42-44. 27 Si veda per le disposizioni testamentarie Arch. Chig. 717, f. 14r: «Stato dell’eredità del cardinale Flavio Chigi, 1693». Cfr. in Appendice il documento nr. 5.
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edizioni e alcuni manoscritti. Non ha mancato di aggiungere i volumi dell’edizione del Louvre, regalatagli dal Re»28. I. 2. 2. Le statue antiche Per la raccolta di statue antiche del cardinale, l’unico punto di riferimento rimaneva lo studio di V. Golzio29, che, pur ricostruendo la storia dell’alienazione, non dava notizie riguardo alla formazione della raccolta né riguardo agli scultori né ai restauri eseguiti. Bisognerà attendere gli studi di Livia Donatella Sparti per la pubblicazione dell’inventario delle sculture antiche della collezione Chigi, conservato nell’Archivio Chigi nella Biblioteca Apostolica Vaticana30. Come per la quadreria, anche le sculture del cardinale Flavio hanno un’importanza non indifferente. Erano circa 150 le statue conservate nella residenza del cardinale presso il palazzo dei SS. Apostoli (oggi Odescalchi), vendute dal principe Augusto Chigi nel 1728 al re di Polonia Augusto II e trasferite al Museo di Dresda31; la collezione era inoltre arricchita dai numerosissimi reperti trovati negli scavi eseguiti in quegli anni, come il torso del Galata morente da Tivoli. Il re contemporaneamente acquistò anche la collezione Albani, e per l’occasione l’agente che fu incaricato di venire in Italia ad incontrare le due famiglie compilò il catalogo illustrato, pubblicato nel 1733; questo riporta le incisioni delle sculture acquistate ma è privo di qualsiasi informazione sulla collezione di provenienza, ragion per cui non è semplice scindere quelle acquistate dai Chigi da quelle degli Albani.
28 Nel 1975 la Avery Library della Columbia University di New York acquistò da un libraio parigino il manoscritto settecentesco di una guida di Roma (n. AA1115 D456). Di provenienza ignota, il manoscritto è incompiuto e composto in francese e reca il titolo Description de Rome moderne. Non vi sono registrati né il nome dell’autore né l’anno in cui fu scritto, ma in base alle testimonianze interne è possibile datare il testo tra il 1677 e il 1681. Cfr. CONNORS — RICE, Specchio di Roma Barocca cit., pp. 107-109. 29 V. GOLZIO, Documenti artistici sul Seicento nell’Archivio Chigi, Roma 1939, pp. 305-
327. 30 L. D. SPARTI, Tecnica e teoria del restauro scultoreo a Roma nel Seicento, con una veri-
fica sulla collezione di Flavio Chigi, in Storia dell’Arte, 92, 1988, pp. 119-124; cfr. Arch. Chig. 700, ff. 45r-49r. 31 Arch. Chig. 7394: «Statue vendute dalla primogenitura Chigi, come da istromento in
atti Vitali 19 dicembre 1729, al re di Polonia. Dette Statue principalmente appartenevano al Card. Flavio Chigi».
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Erano stati i Benzoni a costruire il palazzo quando, giunti a Roma nel ’400, fissarono la loro residenza di fronte alla chiesa dei SS. Apostoli32. In seguito il palazzo passò ai Colonna principi di Gallicano, i quali nel 1622 lo vendettero ai Ludovisi, e questi successivamente lo rivendettero ai Colonna. Nel 1661, per testamento di Pompeo Colonna, passò in usufrutto al cardinale Flavio Chigi, anche se già dal 1657 i Colonna l’avevano dato in affitto al Papa Alessandro VII come dimora a Roma per il fratello don Mario e il nipote don Agostino; nel 1662 Flavio lo acquistò definitivamente33. La residenza fu inizialmente sistemata da Felice della Greca, poi l’intervento di Bernini la restituì nel modo in cui oggi si presenta. Con l’acquisto da parte di Flavio Chigi ha inizio la raccolta di statue antiche con scopo forse puramente di arredo degli appartamenti berniniani34. Tra le sculture moderne è da ricordare il celebre «S.Gio. Batta à sedere di Francesco Mochi»35, oggi conservato a Dresda, scultore che influenzerà un allievo di Bernini, Giuseppe Mazzuoli, artista particolarmente vicino al cardinale. Flavio abbracciò il gusto corrente del restauro integrativo, affinché l’occhio del fruitore non fosse disturbato dai corpi mutili ma si posasse 32 F. LOMBARDI, Roma. Palazzi, Palazzetti, Case. Progetto per un inventario, 1200-1870, Roma 1992, p. 82: «I Benzoni, originari di Crema trasferitisi a Roma nel ’400 fecero costruire, di fronte alla basilica dei SS. Apostoli, un turrito palazzo di famiglia che nel 162023 fu completamente ristrutturato, secondo un progetto di Carlo Maderno (1556-1629). Nella metà del ’600 fu acquistato dal cardinale Fabio Chigi che, nel 1664, lo fece riedificare dal grande architetto del barocco romano G. Lorenzo Bernini (1598-1680) con il padre collaborò Carlo Fontana (1634-1714)». 33 Arch. Chig. 14419: «Roma, Palazzo in Piazza SS. Apostoli. Copia autentica della vendita del palazzo ai SS. Apostoli per 29 mila fatta da D. Pompeo colonna Duca di Bassanello erede dell’Ecc.mo principe di Gallicano D. Pompeo Colonna al Card. Flavio Chigi. Atti Paluzzi 29-12-1662». 34 F. TITI, Descrizione delle Pitture, sculture e architetture esposte al pubblico in Roma,
Roma 1763, pp. 316-317: «Resta questo palazzo in faccia alla chiesa de’ SS. Apostoli, e fu edificato dal cardinal Flavio Chigi, fu la pianta, che avea fatta Carlo Maderno, ma la facciata fu architettata dal Cavaliere Bernini, che prese molto da’palazzi laterali di Campidoglio. Consisteva essa in una rinchiera sopra il portone, e tre finestre per parte, ed era bella, e proporzionata, e l’altezza corrispondeva all’estenzione. Il Duca Baldassarre Odescalchi lo comprò nel 1745 e col disegno di Nicola Salvi lo prolungò più del doppio, seguitando però il disegno del Bernini, onde è variata la proporzione, quando non si rialzi nel mezzo in esso sono molti quadri di valenti professori, e una tappezzeria fatta su i cartoni di Raffaello, di Giulio Romano, ed Rubens, ma più singolare è il museo di medaglie, intagli, e cammei, tra’quali uno è singolarissimo in agata orientale, alto tre quarti di palmo, e largo mezzo palmo, in cui sono le teste d’Alessandro e d’Olimpia sua madre». 35 Arch. Chig. 7394, ff. 28-36: «n. 27 un S. Gio. Batta à sedere alto pal. 8. di Francesco Mochi, con piedistallo, come sopra».
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su un ambiente uniforme di decoro antico. I pezzi, infatti, dopo l’acquisto, erano trasportati nelle botteghe dei restauratori, mentre altre restavano nel palazzo presso il laboratorio temporaneo, che Flavio stesso aveva allestito nella sua residenza, secondo un costume assai comune in quei tempi. I restauratori scelti dal cardinale erano i migliori della città: primi fra tutti Baldassarre Mari e Francesco Antonio Fontana, i quali, come appare dai vari pagamenti, erano i favoriti36. Vi lavorò anche il figlio di Orfeo Boselli, Ercole. Tra gli scultori: Sillano Sillani, Antonio Raggi, Giuseppe Mazzuoli, Melchiorre Caffà e il fonditore Giovanni Artusi, i quali riceveranno da Flavio committenze di opere moderne a «imitazione dell’antico». Anche in quest’occasione Gian Lorenzo Bernini ebbe un ruolo tutt’altro che secondario: oltre al restauro dell’intero complesso architettonico, fin dal 1663 fu incaricato da Flavio di soprintendere come perito ai restauri. Alla morte di Flavio, il cugino Agostino principe di Farnese, erede universale, ed il figlio primogenito Augusto37, restano in possesso del palazzo per circa un cinquantennio; nel 1745, tuttavia, dopo essersi trasferiti nel palazzo in Piazza Colonna, lo vendono al Principe Baldassarre Odescalchi, pronipote di Papa Innocenzo XI Odescalchi (1676-1691)38. II. I bozzetti in terracotta nella Collezione Chigi II. 1. I bozzetti all’origine nel Casino alle Quattro Fontane I documenti esistenti nell’Archivio Chigi riguardanti il Casino alle Quattro Fontane sono insufficienti per una ricostruzione dettagliata della storia di questo giardino con Casino, così come aveva già evidenziato Giovanni Incisa della Rocchetta39 nei suoi studi sul Museo di Curiosità del cardinale Flavio Chigi, dislocato in questo palazzo. Indubbiamente anche per il Casino alle Quattro Fontane lo studio condotto da Vincenzo Golzio nel 1939 resta l’unico riferimento rilevante ed impareggiabile per ricchezza d’informazioni, ma siamo comunque di fronte ad una moltitudine di documenti, date e conti che vanno studiati e confrontati con gli studi fatti successivamente per tentare di ricostruirne la sto36 GOLZIO, Documenti artistici cit., pp. 312-314 37 Arch. Chig. 717, f. 14r: «Stato dell’eredità del cardinale Flavio Chigi». Si veda in Ap-
pendice il documento nr. 5. In questo testo si sottolineano anche l’anno e la data: 20 settembre 1662, in cui il Papa Alessandro VII conferma la Primogenitura attraverso un «Breve»». 38 LOMBARDI, Roma. Palazzi, Palazzetti, Case cit., p. 82. 39 INCISA DELLA ROCCHETTA, Il museo cit., p. 141.
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ria. Tentativo brillantemente riuscito a Carla Benocci40, la quale, col suo recente lavoro, ha cercato di ricostruire attraverso i numerosissimi documenti presenti in Vaticana nell’Archivio Chigi una visione completa del complesso architettonico e non solo, inserendolo in un ben più ampio contesto, quello seicentesco, dove primeggiavano altri grandi esempi di giardini: la villa Pamphilj, il giardino di Pompeo de Angelis, situato sulla strada di Santa Maria Maggiore e prossimo a quello Chigi, e ancora sulla stessa strada Felice lo splendido palazzo con giardino di Alessandro Sforza, acquistato nel 1625 dal cardinale Francesco Barberini. Un periodo, potremmo dire, molto fiorente per questa tipologia di casino con giardino, dove entrambi gli spazi assumono un’importanza fondamentale: l’uno trasformato in un vero e proprio museo d’arte, l’altro in un insieme di piante, fiori e frutti che somigliano a un dipinto dalle svariate forme e colori. Il giardino fu acquistato, mobili compresi, dal principe don Mario Chigi nel 1660 per quattromila scudi41, a favore dell’abate Domenico Salvetti. Il 6 luglio del 1664 l’abate lo lasciò in eredità a don Mario Chigi42 e più tardi, il 13 luglio 1669, suo figlio, il cardinale Flavio, ottenne in enfiteusi perpetua dalle monache barberine il terreno confinante, sul quale poté ampliare il suddetto giardino43. Analizzando con attenzione i pagamenti già resi noti da Golzio, possiamo dedurre che il giardino già dal 1669 è arricchito di sculture in peperino44, fino a tutto il 1674, quando 40 C. BENOCCI, I Chigi e la loro cerchia in età barocca a Roma: Domenico Salvetti, il prin-
cipe Mario e il cardinale Flavio Chigi nel giardino alle Quattro Fontane, in I giardini Chigi tra Roma e Siena cit., pp. 117-146. 41 Cfr. GOLZIO, Documenti artistici cit., p. 194: Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi
ASR), Atti del Notaio A.C. Tomaso Paluzzi, 1660, vol. 4977, p. 963, Strumento di vendita a D. Mario Chigi del giardino alle Quattro Fontane: «Leonarda Canigiani del fu sen. Tomaso, vedova del marchese Ferrando de Rossi, vende a D. Mario Chigi per persona da nominarsi (abate Domenico Salvetti) un giardino con casa in via Felicia a Roma (sc. 4.000). Rogato in atti Francesco de Rossi a Firenze, in data 29 aprile 1660». 42 Arch. Chig. 717, f. 14v: «Casino con giardino alle quattro Fontane nella strada per andar a S.a M.a Maggiore». Questo documento chiarisce il passaggio dal mons. Domenico Salvetti a don Mario Chigi e poi alla morte di quest’ultimo al figlio Flavio che lo ingrandì verso l’orto delle monache Barberine con il pagamento dell’annuo canone di 39,90 scudi. Cfr. in Appendice il documento nr. 5; inoltre cfr. ASR, Atti del Notaio A.C. Tomaso Paluzzi, 1664, vol. 4998, pp. 374 e 472: «Testamento dell’abate Domenico Salvetti». 43 Arch. Chig. 14808: «Giardino alle 4 fontane, Roma 1669. Pianta del sito del giardino alle 4 fontane (via Felice)». In questa pianta è evidenziata la zona con l’orto delle monache data in enfiteusi al cardinale Flavio nel 1669, situata a sinistra della palazzina già proprietà del cardinale. Cfr. ASR, Atti del Notaio A.C. Girolamo Simoncelli, 1669, vol. 6729, p. 77. 44 Arch. Chig. 538: Registro dei mandati 1669-1672, n. 527: «SS.ri Nerli li piacerà pagare a Francesco Antonio Fontana scultore scudi vinticinque m.ta, sono p. prezzo et intiero pa-
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viene costruita la fontana dei Delfini «adorna di un tritone e di cinque delfini»45, di cui però, non si conosce il nome dello scultore. Furono questi gli anni in cui si eseguirono i lavori per l’aggiunta di una nuova parte del giardino e per la costruzione di numerose fontane e giochi d’acqua46. Numerosi gli interventi di pitture e di «indorature» realizzati nel palazzo; tra gli artisti più spesso impiegati: Vincenzo e Francesco Corallo, Giovanni Momper, Francesco Grimaldi47, Paolo Albertoni, Niccolò Stanchi, Giovanni Battista Lorenzi, Giuseppe Chiari48; l’intera direzione dei lavori fu affidata a Carlo Fontana. Non è possibile stabilire con precisione quando ebbe inizio la raccolta del Museo alle Quattro Fontane; possiamo però affermare con certezza che tra il 1663-1664, quando Bellori scrisse la sua guida per Roma49, Flavio possedeva già nel palazzo ai SS. Apostoli il primo nucleo di quell’importante raccolta che riuscirà a formare negli anni e che probabilmente più tardi trasferirà nel casino alle Quattro Fontane, dov’erano quadri, statue antiche e libri. Nella villa di Formello, invece, sappiamo che aveva formato un Museo di curiosità naturali, peregrine ed antiche. Analizzando i pagamenti, infatti, notiamo che ve n’è uno di 24,20 scudi a Gio. Domenico Zoni per aver portato delle statue nel giardino alle Quattro Fontane e nel palazzo ai SS. Apostoli del 23 gennaio 167150. Probabilmente erano gam.to di un leone di peperino da lui a tutta sua robba fatto alto p.mi 5 ½ p. serv. Del Giardino delle 4 Fontane dell’Em.mo Sig.r Card.l Chigi. 21 dicembre 1669»; Arch. Chig. 457, Giornale B del S.r Cardinale Flavio Chigi, 1663-1670, f. 352. Cfr. GOLZIO, Documenti artistici cit., p. 196. 45 Ibid. 46 Ibid. 47 Giovanni Francesco Grimaldi detto il Bolognese, pittore, incisore, scenografo e archi-
tetto (Bologna 1606 — Roma 1680). Allievo dei Carracci, si trasferì a Roma nel 1626; fu soprattutto noto come frescante e architetto: gli affreschi nella villa Doria Pamphilj, nel Palazzo Borghese e al Quirinale a Roma. 48 Giuseppe Chiari, nasce a Roma nel 1654, seguace di C. Maratta, nuore nel 1727. 49 BELLORI, Nota delli Musei cit., pag. 17: «Cardinale Flavio Chigi. Biblioteca celebre di
ottimi autori in ogni studio d: lettere numerosissima, & scelta delle migliori impressioni, nel palazzo a Santi Apostoli, con ornamenti di pitture di chiari artefici, & di statue antiche, e col Museo delle curiosità naturali, peregrine, ed antiche: nel suo castello di Formello. Principe D. Agostino Chigi. Con gli altri pregi di Statue, e pitture, che adornano il palazzo di questo Signore, conservasi in esso, uno studio di medaglie, & medaglioni antichi di gran rarità». 50 Arch. Chig. 538 (mandato n. 1182): «Sig.ri Provisori del S. Monte di Pietà di Roma lì piacerà pag.re a Gio. Domenico Zoni scudi ventiquattro, e b. 20 m.ta, sono p. saldo et intiero pagamento d’un conto di fatiche diverse da lui con suoi Compagni fatte in portar statue al n.ro Giardino alle 4 Fontane e tramutarli in diversi luoghi nel Cortile del n.ro Palazzo a SS.ti Apostoli nel mese di Dicembre pros.to. Et con sua ric.a saranno ben pagati Dal n.ro
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proprio quelle conservate nel Museo di Formello, come conferma l’inventario datato al 1666, il quale, descrivendo i vari ambienti del palazzo, riferisce di «Camera del Museo» con diversi oggetti, statue e quadri riscontrabili poi nel casino alle Quattro Fontane51. La collezione del cardinale Flavio era preziosa perché, oltre alle statue in marmo antiche, argomento già ampiamente trattato da Livia Sparti, aveva raccolto anche numerosi bozzetti e modelli in terracotta di tanti lavori noti e commissionati dal Papa stesso, Alessandro VII Chigi; tra cui alcuni bozzetti di Gian Lorenzo Bernini, giunti fino a noi e oggi conservati nella Sala dei Papiri ai Musei Vaticani in Roma. Ritengo opportuno a questo punto fare una distinzione tra bozzetto e modello in terracotta: il primo, più spontaneo e veloce, serviva all’artista stesso per abbozzare con la materia quello che può essere definito il «primo pensiero», l’idea che realizzerà in seguito nel modello in scala 1:1; questo infatti sarà più dettagliato anche nell’esecuzione, con un alto grado di rifinitura della materia, e servirà per la trasposizione nel blocco di marmo. Va subito precisato, peraltro, che negli inventari che esamineremo questa distinzione, di bozzetto e di modello, non è presente: spesso si parlerà, infatti, di modelli, statuette o terrecotte indistintamente; vanno considerati, tuttavia, quasi sempre come bozzetti in argilla cotta. Attraverso gli inventari conservati nell’Archivio Chigi è possibile ricostruire, anche se solo in parte, la storia dei bozzetti nel casino alle Quattro Fontane. Nell’esporli abbiamo scelto, per comodità nostra, l’ordine cronologico degli inventari, dando per scontato che l’attribuzione delle date, per alcuni di loro, sia esatta. Il primo inventario, Arch. Chig. 702, mancante di data e firma, descrive 34 «statouine e bassorilievi di terra cotta»52, dislocati nei vari appartamenti del palazzo ai SS. Apostoli. Concordiamo con Olga Raggio53 e Almamaria Mignosi Tantillo54 nel datarlo intorno al 1666, giacché i loro studi hanno evidenziato che, oltre ad essere dettagliato, l’inventario suddivideva gli appartamenti del palazzo così come probabilmente erano Palazzo a SS.ti Apostoli. 23 gennaio 1671». Questo conto è stato vistato da Carlo Fontana. Cfr. GOLZIO, Documenti artistici cit., p. 197. 51 Arch. Chig. 702 ff. 95-104: «Inventario del palazzo SS.ti Apostoli, Giardino alle 4o
Fon.e, Ariccia, Formello, Villa Versaglia, Magliano. S.r. Card. Flavio Chigi». 52 Arch. Chig. 702: «Inventario del palazzo ai SS. Apostoli, Giardino alle 4 Fontane, Ariccia, Formello, Villa di Versaglia, Magliano. S.R. Card. Flavio Chigi». Ai ff. 115-128 è descritto il Casino alle Quattro Fontane. 53 O. RAGGIO, Bernini and the Collection of Cardinal Flavio Chigi, in Apollo, 117 (1983), p. 379, nt. 20. 54 A. MIGNOSI TANTILLO, I Chigi ad Ariccia nel ’600, vol. II, Roma 1990, p. 80.
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prima dei lavori di ristrutturazione del 1669; per di più risulta senz’altro esteso dalla stessa persona che ha compilato l’inventario del palazzo di Formello, datato proprio nel 1666, poiché presenta una medesima grafia. Ritorneremo in seguito su questo punto. Continuando l’analisi, incontriamo nell’inventario Arch. Chig. 70155, né firmato né datato, la descrizione delle 30 «statuette diverse di terra cotta» – tra cui alcuni bassorilievi e molte altre «tinte a bronzo, colorite di metallo, tinte di porporina e dorate» – elencate nel medesimo ordine dell’inventario precedente. Lo stesso avviene nell’ultimo inventario, il 70356, somigliante agli antecedenti, che oltre ad essere identico a Arch. Chig. 701, alla voce «Statuette diverse» riferisce 30 bozzetti in terracotta seguendo anch’esso il medesimo ordine. Resta da chiarire dunque gli anni in cui potrebbero essere collocati questi due ultimi inventari, Arch. Chig. 701 e 703 e che relazione esiste tra loro e quello di Arch. Chig. 702, dato che sono quasi del tutto identici. C’è un ultimo inventario, Arch. Chig. 700, firmato e datato da Tomaso Zanorvi guardarobiere e datato al 22 gennaio 169457, redatto quindi dopo la morte del cardinale, quando i beni passarono al cugino Agostino, erede universale. Qui vengono elencati 26 «modelletti, modelli e statuette di creta cotta», di cui uno è il «modello del Danielle di terra cotta del Popolo fatto, dal Bernino», che si trovava nella seconda stanza del secondo piano. Dobbiamo notare che i bozzetti sono dislocati in ambienti diversi rispetto a com’erano disposti nell’Arch. Chig. 702: è da supporre quindi che questa sia la nuova divisione dopo i lavori d’ampliamento del palazzo. Possiamo intuire che durante il trasferimento da una stanza all’altra alcuni dei bozzetti, ormai non più rintracciabili negli inventari posteriori a questa data, abbiano subito dei danni, e che per questo motivo sono dimezzati in quantità. Si tenga presente che negli inventari del 1666 erano ben 34 i bozzetti58. Bisogna citare, infine, l’ultimo inventario, re55 Arch. Chig. 701, ff. 230-231: «Statuette diverse». Si veda in Appendice il documento
nr. 2. 56 Arch. Chig. 703: «Inventario del palazzo ai SS. Apostoli S.r. Card. Flavio Chigi». Ai ff. 268-270 è presente la voce «Statuette diverse». Quest’inventario è molto simile al 701 tanto da sembrare una copia, ma la grafia è diversa. Si veda in Appendice il documento nr. 4 da confrontare con il documento nr. 2. 57 Arch. Chig. 700 f. 143v: «Io sottoscritto Guardarobba dell’Ecc.mo principe Agostino
Chigi nel Casino delle quattro fontane dichiaro con la presente che tutte le partite. In fede questo dì 22 Gennaro 1694. Io Tomasso Zanorvj mi obligo come sopra M. pp.a». Ai ff. 270279 segue l’elenco del palazzo con la divisione degli ambienti. Si veda in Appendice il documento nr. 1. 58 Cfr. Arch. Chig. 702 e in Appendice il documento nr. 3.
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datto nel XVII secolo, Arch. Chig. 180559, dell’anno 1698, che elenca i beni del principe Agostino Chigi, firmato dal guardarobiere Tomaso Pellegrini: non c’è alcun accenno ai bozzetti in terracotta. Alle giuste intuizioni della Raggio, la quale data l’inventario Arch. Chig. 702 all’anno 1666, si può aggiungere che non a caso in questo sono presenti, oltre ai beni di Formello e del casino alle Quattro Fontane, anche i beni dei feudi di Cesano, Magliano, Sacrofano, Ariccia. Ma c’è un altro dato che non dobbiamo trascurare e che confermerebbe la data del 1666: abbiamo detto, ricapitolando brevemente, che nel 1661 Flavio acquistò i feudi di Formello, Cesano e Sacrofano e che nel 1664 ottenne una parte confinante con il suo giardino dalle monache barberine; dal 1669 al 1674 si eseguirono i lavori d’ampliamento dello stesso casino: se ciò fosse vero potremmo supporre che gli inventari siano stati compilati proprio in occasione di un successivo trasferimento delle raccolte del cardinale, dopo il 1669, nell’ormai ampliato casino alle Quattro Fontane; le stesse raccolte che fino a quel momento erano rimaste dislocate nei diversi palazzi di sua proprietà. In particolare intendo riferirmi al possibile trasferimento del Museo di curiosità dal castello di Formello nel Casino di Roma, presumibilmente con l’intento di voler riunire in una sola sede tutta la collezione. Per quanto riguarda la vernice nera, che ricopriva i bozzetti di Bernini prima degli ultimi restauri del 1980-1981, e che ancora oggi riveste gli altri di diversa attribuzione, dobbiamo subito osservare che era una pratica molto comune a quel tempo; anche se rimane difficile comprenderne il motivo. Olga Raggio ipotizza che si tratti di un’imitazione dei bronzi seicenteschi fiorentini, assenti nella collezione del cardinale e quindi in qualche modo sostituiti dalle terrecotte60. L’ipotesi tuttavia non può ritenersi corretta, poiché è vero che negli inventari compaiono alcuni bozzetti «tinti color metallo», vale a dire color bronzo, ma non sono quelli di Bernini, che al contrario sono descritti specificatamente di terracotta; questo almeno fino a quando, nell’inventario del 1770 redatto dopo la morte di Agostino II Chigi, compaiono in un camerino sopra dei credenzini del secondo piano, del Palazzo Chigi in Piazza Colonna, come: «Num. 8 statue di terra cotta tinte color di bronzo che diconsi fatte
59 Arch. Chig. 1805: «Inventario del P. pe Agostino I Chigi, contenente anche gli oggetti
dell’eredità del card. Flavio I Chigi», firmato e datato 1698 da Tomaso Pellegrini Guardarobiere. Cfr. in Appendice il documento nr. 7. 60 Cfr. RAGGIO, Bernini and the Collection cit., p. 377.
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dal Bernini»61. Va chiarito che prima di questa data (1770) gli unici bozzetti tinti di bronzo (negli inventari datati prima del 169362) erano: «una statuina di terra cotta di Papa Urbano alta doi pal: colorita di metallo», un «S. Agostino tinto di porporina», ecc…. Nell’inventario del 1694 c’erano invece i «due modelli delli fiumi per la fontana di piazza navona tinti à bronzo», che Raggio suppone possano avere un legame con quelli oggi conservati a Venezia63; «due statue di creta cotta indorate rapresentanti Celere, con Bacco, e l’altra una S. Agata», infine, due «Bacchetti» di creta cotta tutti dorati64. Per chiudere, giunti al 1745 circa, erano descritti un «puttino a sedere» con il camauro del papa tutto dorato e una «venere colca» dorata65. Appare dunque chiaro che non ci sono riferimenti che possano in qualche modo confermare le supposizioni della Raggio, per giustificare quella patina nera che copriva i bozzetti. È mai pensabile che un gran collezionista, ma soprattutto un uomo sensibile alla conservazione delle sue stesse opere d’arte, abbia acconsentito a tale azione? Sembra più probabile invece che il cardinale, proprio perché uomo di cultura che conosceva bene il valore artistico di questi piccoli lavori, li abbia raccolti e conservati nella sua preziosa collezione senza alcuna vernice, finché, sopraggiunta la morte, gli eredi inesperti, pensarono di attribuire loro, attraverso una tinta che imitasse un metallo più prezioso come il bronzo, maggior importanza, proprio perché considerati di poco interesse artistico. Nel momento in cui il Casino passò in eredità al nipote di Flavio, Augusto66, primogenito di Agostino, che conservò il palazzo per lo meno fino al 172667, fu redatto un inventario dal guardarobiere Antonio Flo61 Arch. Chig. 9534, f. 146v: «Inventario dei mobili, quadri ed altro, ritrovato nel palazzo di Roma e suoi annessi, dopo seguita la morte del Principe D. Agostino Chigi, fatto nel 1770». Cfr. in Appendice il documento nr. 12. 62 Cfr. Arch. Chig. 701, ff. 230-231: «Statuette diverse». Cfr. in Appendice il documento
nr. 2. 63 Cfr. RAGGIO, Bernini and the Collection cit., p. 367. 64 Cfr. Arch. Chig. 700, ff. 270-279: «Inventario del palazzo ai SS. Apostoli, 1 maggio
1692. Francesco Corallo Guardarobbiere». 65 Arch. Chig. 9449: «Inventario dei Mobili in consegna a Vincenzo Carducci Guarda-
robba. Firmato Vincenzo Carducci». Si veda in Appendice il documento nr. 11. 66 Arch. Chig. 719: «Eredità Della Ch: m: del Sig: Cardinal’ Flavio Chigi», si veda in Appendice il documento nr. 6. 67 INCISA DELLA ROCCHETTA, Il Museo cit., pp. 141-192. Cfr. Arch. Chig. 14414: «Con-
segna al guardarobba Antonio Floridi di tutto ciò che contiene il detto giardino. 1726 15 gennaio».
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ridi, da confrontare con quello del 1706 redatto dal Notaio A.C. Francesco Franceschini per il principe Agostino Chigi68: in entrambi gli inventari non c’è nessun riferimento ai modelli in terracotta. Alla morte di don Augusto, l’antiquario Antonio Borioni, nel 1745, effettuò una stima per ripartire equamente il Museo fra i due figli del defunto: Agostino II e Flavio II. Quanto toccò ad Agostino II, che viveva al Corso, fu riportato nella lista ricevuta dal guardarobiere Vincenzo Carducci il 12 febbraio 1745; in essa sono rintracciabili 4 bozzetti in terracotta: un Mosé, due terrecotte per i modelli dei fiumi per la fontana di Piazza Navona e il Daniele con leone del Bernini69. Esiste un altro inventario conservato nell’Arch. Chig. 9449, in cui i beni esistenti nel casino alle Quattro Fontane vengono consegnati ugualmente al guardarobiere Vincenzo Carducci. Ma non è datato70. Facendo un confronto con Arch. Chig. 700, sia la divisione degli ambienti che la dislocazione delle opere all’interno di esso coincidono; ma nell’elenco dell’Arch. Chig. 9449 si notano sostanziali differenze: manca il modello del Mosé, il modello del Daniele con il leone e i modelli dei fiumi per Piazza Navona del Bernini; d’altra parte sono descritti altri modelli, assenti nell’Arch. Chig. 700 ma rintracciabili nell’Arch. Chig. 701-702. Se al 1745 i nostri bozzetti sono ancora tutti nel palazzo alle Quattro Fontane e negli inventari del 1767 e 1770 alcuni di essi sono già al palazzo in Piazza Colonna71, dobbiamo supporre che proprio in questi anni, cioè dopo la divisione del Museo del Casino tra i due nipoti, i bozzetti, assieme a tutta la parte di eredità spettante ad Agostino II, vengono trasferiti nel palazzo in Piazza Colonna. Per questa stessa ragione mancano nell’inventario Arch. Chig. 9449, redatto probabilmente dopo il trasferimento dei beni nel palazzo in Piazza Colonna, dove sono registrati come «8 statuine color bronzo … che diconsi fatte dal Bernini» e così continueranno a chiamarsi in seguito. Va infatti rilevato che nel 1759 il giardino con casino era stato già consegnato in affitto al cardinale Duca di York e svuotato da tutto quello che conteneva72.
68 ASR, Notai A.C., b. 324: «Ecc.me Domus Chisie /1705-1706/ Fran. Franceschinus/
Not.». 69 Arch. Chig. 14815: «Consegna della porzione spettante al Principe Chigi della robba esistente nel Museo di detto giardino al guardarobba Vincenzo Carducci. 1745. 12 Febbraio». 70 Cfr. Arch. Chig. 9449. Si veda in Appendice il documento nr. 11. 71 Cfr. Arch. Chig. 9534. Si veda in Appendice il documento nr. 12. 72 Arch. Chig. 14818: «Affitto e consegna di detto giardino al Card. Duca di York. 30 set-
tembre 1759».
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Un’altra conferma proviene dai tre estratti degli inventari Chigi, pubblicati a Roma nel 1879-1880, dei quali il primo, risalente al 1705, fa riferimento al Museo ancora nella vecchia sede alle Quattro Fontane e la divisione degli ambienti coincide con l’inventario del 1692 (Arch. Chig. 700); il secondo, del 1770, si riferisce alla raccolta conservata già nel palazzo in Piazza Colonna; infine il terzo ed ultimo, del 1793, è privo di qualsiasi riferimento ai bozzetti in terracotta73. Con la lettera datata 23 maggio 1795 si contrattava per un’eventuale vendita del giardino74. II. 2. I bozzetti a Palazzo Chigi Alla morte del cardinale Flavio I Chigi, nel maggio del 1693, tutti i suoi beni romani passarono alla primogenitura; dunque Agostino I Chigi si trovò erede di un vasto patrimonio, che comprendeva: il Palazzo Grande davanti ai SS. Apostoli a Roma, il castello di Magliano, il casale della Casaccia e il Palazzo in Piazza Colonna, che divenne la sua abitazione nel momento in cui sposò Maria Virginia Borghese. Il principe nel 1694 decise di affittare il palazzo ai SS. Apostoli, già dimora del cardinale Flavio, agli Odescalchi, che più tardi lo acquisteranno definitivamente. L’affitto del palazzo comportò lo spostamento di tutta la collezione di opere d’arte, della quale il cardinale Flavio amò circondarsi durante la sua vita, dal palazzo dei SS. Apostoli al Palazzo Chigi in Piazza Colonna, residenza del principe Agostino. Anche dopo la morte del papa e del cardinale i lavori del palazzo continuarono e tra il 1694 e il 1696 G. Battista Contini progettò e realizzò il piano attico sopra il cornicione75. Alla morte di Agostino, il 22 ottobre 1705, gli eredi Augusto, figlio primogenito, e il fratello di quest’ultimo, l’abate don Mario, si trovarono a gestire una vastissima eredità, così come ci testimonia il dettagliato inventario redatto il 2 dicembre 1705 dal notaio di famiglia Francesco Franceschini, che elenca i beni del palazzo ai SS. Apostoli, del casino alle Quattro Fontane a Roma, come pure quelli fuori città, ad Ariccia, Far-
73 Documenti inediti per servire alla storia dei Musei d’Italia, IV voll., Firenze — Roma
1879-1880. Si veda in Appendice il documento nr. 15. 74 Arch. Chig. 14823: «Roma. Giardino alle 4 Fontane. Lettera relativa alla probabile vendita di detto giardino. 1795. 23 Maggio». 75 In quest’occasione il coronamento a giorno di Felice della Greca fu sacrificato per la
costruzione del piano attico dove sarà sistemata la Biblioteca e tutta la collezione di opere d’arte del defunto cardinale Flavio Chigi.
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nese, Campagnano, Formello, Cesano e Magliano76. Augusto sposò Maria Eleonora Rospigliosi il 14 febbraio 1707 ed ereditò tutto il patrimonio. Ben presto, però, la vendita nel 1728 della collezione di statue antiche ereditate dal cardinale Flavio I Chigi al re di Polonia, segnerà negativamente il suo passaggio nella storia della famiglia. Il 9 novembre 1744, alla morte di Augusto, il patrimonio passò al primogenito Agostino II (1710-1769) che, sposando Giulia Augusta Albani, ne acquisì anche il nome, aggiungendolo al proprio. Sarà questi a vendere definitivamente agli Odescalchi il Palazzo Grande ai SS. Apostoli77, e a trasferire, come già detto, il Museo di curiosità nel palazzo in Piazza Colonna. Quando nel 1767 Sigismondo I Chigi (1736-1793), principe di Campagnano, prende in sposa Maria Flaminia Odescalchi, per quest’occasione, tra il 1765-1767, furono eseguiti i lavori per il Salon d’Oro al secondo piano del palazzo, diretti da Giovanni Stern, con la collaborazione di Luigi Vanvitelli. Nell’inventario del palazzo redatto nel 1770, dopo la morte di Agostino II, sono riportati alcuni bassorilievi in terracotta e alcune statue di «creta cotta» e nel «camerone fatto di recente da S.Ecc:za il Sig.r Pn.pe D. Sigismondo (forse si riferisce ai lavori eseguiti in occasione del matrimonio), Numero 8 statue di terra cotta tinte a bronzo che diconsi fatte dal Bernini»78. Con Sigismondo la famiglia tornò a possedere una nuova collezione anche grazie agli scavi del 1777-1780; ma per breve tempo: infatti, nel 1798 il figlio Agostino III (1771-1855) alienò al mercante inglese Fagan e a Thomas Hope la collezione. Agostino era giovanissimo quando nel 1790 dovette rientrare a Roma da Siena per riottenere il possesso del patrimonio di famiglia in precedenza confiscato al padre, il quale, accusato di essere un eretico facente parte della setta degli «Illuminati», era dovuto fuggire da Roma. Compare in questi anni, esattamente nel 1793, un inventario compilato dopo la morte di Sigismondo Chigi79, in cui è possibile rintracciare diverse statue in terracotta, ma di Bernini troviamo solo il modello per il Moro della fontana dei Fiumi e un bassorilievo rappresentante l’arme della casa dei Chigi. Nel 1794 Agostino sposa Amalia Carlotta Barberini, dalla 76 ASR, Not. A.C. n. 3242, f. 682-840: «Inventario di Agostino Chigi, rogato dal notaio F.
Franceschini 2 dicembre 1705». 77 Arch. Chig. 14433: «Roma, Palazzo in Piazza SS. Apostoli. Carte varie riguardanti la vendita di detto palazzo fatta al Duca Odescalchi 1749». 78 Cfr. Arch. Chig. 9534. Si veda in Appendice il documento nr. 12. 79 Arch. Chig. 9738: «Inventario tanto dei Beni Fideicommissi che liberi trovati in essere
dopo la morte della Ch.me: Pnpe D. Sigismondo Chigi seguita l’Anno 1793». Cfr. in Appendice il documento nr. 13.
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quale ebbe due figli, ma l’epidemia di colera che si abbatté su Roma nel 1836 causò la morte della moglie e del figlio Augusto. Superato il difficile periodo di lutto, Agostino tornò a far parlare di sé: nel 1853 circa, essendo nipote e successore ereditario di donna Giulia Albani, che aveva sposato il nonno di Agostino, Agostino II Chigi, assunse anche la Casata Albani, estintasi nel 1852. Alla morte di Agostino III, il 10 novembre 1855, ad ereditare i territori di Farnese, Campagnano, Soriano, il ducato di Ariccia e Formello, e ad assumere il titolo di Maresciallo perpetuo di S. R. C., di custode del conclave, di principe romano del S. Romano Impero, fu il 55enne don Sigismondo II Chigi della Rovere Albani, vedovo di Leopolda Doria Pamphilj, con due figli maschi, don Mario e don Carlo. II. 3. La vendita del Palazzo Chigi allo Stato Dal 1850 Palazzo Chigi diventò anche sede diplomatica di un certo riguardo: vi si susseguirono prima il ministro d’Inghilterra Wolkonsky, poi l’ambasciatore d’Austria-Ungheria, i quali risiedettero, assieme alla famiglia Chigi, nei piani superiori. Nel 1877, alla morte di Sigismondo, prende il suo posto il figlio Mario, il quale sarà eletto al Consiglio Comunale di Roma nel 1879. Un inventario del 1883 descrive nei vari appartamenti diverse statuette in terracotta e «gesso colorate di bronzo», ma non compare nessuna attribuzione al Bernini, che probabilmente è da individuare nelle «8 piccole figure di terra cotta color bronzo»80. Morto don Mario, nel 1914, il successore della casata, Luigi Ludovico Chigi della Rovere Albani (18661951), con la carica di Maresciallo e Custode del conclave, diverrà Gran Maestro del Sovrano Ordine Militare di Malta. Ma le cose vanno cambiando rapidamente: non è più possibile per i Chigi come per le altre famiglie nobili romane gestire patrimoni dalle dimensioni anacronistiche: per far fronte ai sempre crescenti debiti, don Ludovico Chigi decise di alienare il palazzo Chigi in Piazza Colonna, perché oramai troppo costoso e per di più in cattivo stato di conservazione. Il 15 novembre 1916 la famiglia Chigi cedeva, dunque, il palazzo alla Banca Italiana di Sconto, in cerca di una sede più centrale, per quattro milioni di lire81. Lo 80 Arch. Chig. 1837: «Inventario di tutti gli effetti mobili esistenti nel Palazzo in Piazza
Colonna di proprietà dell’Ecc.ma casa Chigi eseguito il 20 gennaio 1883». 81 M. C. MISITI, Strena ad Petrum (La Chigiana e il Vaticano). Storia e documenti inediti, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, 7 (2000) (Studi e testi, 396), pp. 245-302.
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Stato, venuto a sapere della vendita, decise di esercitare il diritto di prelazione in base all’art. 6 della legge 20 giugno 1909 n. 364 sugli immobili di interesse storico ed artistico, per i quali appunto ogni operazione di vendita era subordinata al diritto di prelazione da parte dello Stato, che inviò l’atto di notifica ai proprietari82. Ovviamente tutte le opere conservate, le suppellettili e la Biblioteca erano state escluse dal contratto di compravendita tra i Chigi e la Banca Italiana di Sconto, di conseguenza erano esclusi anche dalla prelazione dello Stato, nel tentativo di non dividere e disperdere la collezione. Ciò comportava però il trasferimento dell’intera Biblioteca e delle opere d’arte in esso conservate, che occupavano quattro grandi stanze all’ultimo piano83. Ma l’11 aprile 1918, con una convenzione d’acquisto, lo Stato e i Chigi giunsero ad un accordo: al prezzo di 1.800.000 lire, furono vendute tutte le opere d’arte e l’intero patrimonio librario. La biblioteca rimase in loco, insieme alle terrecotte berniniane, mentre i quadri, le sculture, gli arazzi e i mobili furono trasferiti in varie gallerie e musei, tra cui quello Nazionale Romano e il Museo di Villa Giulia, nonché nelle varie sedi governative e diplomatiche. II. 4. La biblioteca Chigiana e i bozzetti in terracotta dallo Stato alla Biblioteca Vaticana Divenuto Palazzo Chigi, nel 1918, sede del Ministero delle Colonie, nel 1922 proprio Mussolini vi sposterà quello degli Affari Esteri, che prima si trovava al Palazzo della Consulta84. Nel medesimo anno, il 28 dicembre, per assicurarsi la benevolenza del Papa e della Chiesa, ma soprattutto per riconciliare quel rapporto da tempo interrotto, Mussolini compirà un gesto che rimarrà nella storia e che si concluse con un atto politico di portata internazionale, che andava ben al di là dei semplici risvolti culturali: donò la Biblioteca Chigiana al Vaticano85. 82 Legge 20 giugno 1909 n. 364, art. 6: «Il governo avrà il diritto di acquistare la cosa al
medesimo prezzo stabilito nel contratto di alienazione. Questo diritto dovra essere esercitato entro due mesi dalla data della denuncia; il termine potrà essere prorogato fino a quattro mesi quando per la simultanea offerta di più cose il Governo non abbia in pronto le somme neccessarie agli acquisti. Durante questo tempo il contratto rimane sottoposto alla condizione risolutiva dell’esercizio del diritto di prelazione e l’alienante non potrà effettuare la tradizione della cosa» 83 Cfr. MISITI, Strena ad Petrum cit., p. 255. 84 D. CAVALLERO GALLAVOTTI, Palazzi di Roma dal XIV al XX secolo, Roma 1989, pp. 66-
67. 85 MISITI, Strena ad Petrum cit., p. 245 e R. LEFEVRE, Il Palazzo Chigi, Roma 1973, pp. 211-222. Nella Biblioteca Apostolica Vaticana attualmente si trovano anche i documenti
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Salito al soglio pontificio Pio XI, Achille Ratti, il 6 febbraio 1922, fin da subito reagì con circospezione al tentativo di avvicinamento di Benito Mussolini. Ma grazie all’intervento diplomatico di Padre Tacchi Venturi, allora Segretario Generale della Compagnia del Gesù, il quale era in buoni rapporti sia con la famiglia Chigi sia con il Governo Italiano, tutto ebbe buon fine. Come è noto, i grandi patrimoni principeschi come quelli dei Chigi erano legati ai vincoli del fidecommesso, cioè all’obbligo di conservare e trasmettere i beni ai primogeniti discendenti; è fuori dubbio, inoltre, che nel 1843 il principe Sigismondo Chigi e i suoi fratelli si erano accordati affinché la biblioteca fosse incorporata fra i beni della primogenitura86. Fu appunto fin dalla nascita dello Stato Pontificio che al fidecommisso si attribuì un valore normativo, riconoscendone la validità ad infinitum87. Da quel momento non solo i grandi patrimoni potevano essere conservati ma – per quello che qui ci interessa – soprattutto le grandi raccolte d’arte delle nobili famiglie poterono essere preservate dalle dispersioni future. La prima collezione legata dal vincolo fidecommissario fu quella del cardinale Francesco Barberini nel 1678. Seguirono poi le collezioni Doria Pamphilj e Spada. I fidecommessi costituirono pertanto un tentativo «familiare» di conservazione del patrimonio e delle opere d’arte, un divieto di alienazione che si poteva tramandare di generazione in generazione e che sarà abolito, una prima volta, da Napoleone e, in seguito, dalla Repubblica Romana nel 1848. Terminato il breve periodo della Repubblica Romana, lo Stato Pontificio ristabilì il fidecommesso, ma nel 1870 le polemiche si riaprirono dopo che, con la Breccia di Porta Pia, fu esteso a Roma e provincia il Codice Civile sardo, che aboliva definitivadell’Archivio Chigi (circa 25000 unità, secc. XVI-XX, con documenti dei secc. XII-XV). Conservato fin dall’inizio in Palazzo Chigi a piazza Colonna, dopo la vendita del palazzo al Governo Italiano fu portato dai Chigi al palazzo di Ariccia e di lì giunse alla Vaticana nel 1944, al riparo delle ultime violenze belliche, insieme a una raccolta di disegni del Bernini. Cfr. L. CACCIAGLIA, Note sugli archivi di famiglie nella Biblioteca apostolica vaticana, in Archivi e archivistica a Roma dopo l’Unità. Genesi storica, ordinamenti, interrelazioni, Atti del convegno, Roma 1990, pp. 380-403. 86 Arch. Chig. 8823: «Copia del consenso dato il 7 settembre 1843»; cfr. MISITI, Strena ad Petrum cit., pp. 245-302. 87 Dal latino fidei commissum, affidare a qualcuno sulla fiducia, e quindi con l’obbligo
di rispettare i vincoli collegati. Nato come raccomandazione o esortazione rivolta dal testatario al suo erede, si trasformò in un vero e proprio vincolo consistente nel lasciare il patrimonio familiare ad un solo erede, in genere primogenito. Al tempo di Giustiniano si fermava alla IV generazione, nel medioevo assunse dimensioni temporali più vaste, fino a trasformarsi in un vincolo perpetuo senza limiti di tempo. Si veda M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni. Fidecommessi e primogenitura nei secoli XVII-XVIII, Roma 1999.
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mente i vincoli fidecommissari. Si sentì tuttavia l’esigenza di creare una norma di tutela generale e nazionale per le collezioni d’arte e si giunse così ad approvare la legge 286/1871 che dichiarava «indivise e inalienabili fra i chiamati alla risoluzione del fidecommesso, loro eredi e aventi causa … le gallerie, biblioteche ed altre collezioni di arte o di antichità … finchè non sia per legge speciale altrimenti provveduto»88. La legge, che doveva essere presentata successivamente, non verrà più approvata; fu infatti, solo di recente, riconfermata dall’art. 14 del D.lgs 490/99, rimanendo in vigore quella del 1871, con le successive modifiche apportate nel 1883, nel 1891 e infine nel 1892. In vista della possibile vendita del patrimonio librario i Chigi, il 30 novembre del 1903, consultarono un avvocato per stabilire se la biblioteca Chigiana dovesse ritenersi fidecommissaria oppure libera da vincoli testamentari. La conclusione fu che l’iscrizione del vincolo sulla biblicoteca Chigiana non era legittima, pertanto poteva ritenersi libera89. Probabilmente risale a questi anni l’inventario Arch. Chig. 14389, compilato con la stima dei mobili esistenti nel palazzo Chigi, in occasione di una possibile vendita della Biblioteca, giacché ora era libera da qualsiasi vincolo. Ed è appunto in questo inventario che ricompaiono alcune delle statuette in terracotta e precisamente: – «Quattro statuette rappresentanti Apostoli, modelli originali in terra cotta dorata, di quelli esistenti nella Cappella in bronzo; scuola del Bernini» – «Il Moro del Bernini nella Fontana della Piazza Navona: figurina in terracotta attribuita allo stesso Bernini» (fig. 1). – «Busto di giovane Ciociara, scultura moderna in terra cotta di grandezza naturale»90.
Molto interessante è la presenza di quattro modelli originali degli Apostoli, finora mai citati come della «scuola del Bernini», ma rintracciabili negli inventari come «quattro statouine» o «Santi» indicati sempre in gruppo91. Su questo punto torneremo in seguito; va in ogni caso notato che manca qualsiasi riferimento alle 8 terrecotte in precedenza attribuite al Bernini. 88 D. JALLA, Il museo contemporaneo. Introduzione al nuovo sistema museale italiano,
Torino 2000, pp. 40-43. 89 Arch. Chig. 8845: «Parere dell’avvocato Giacomo Formichi». 90 Arch. Chig. 14389: «Roma. Palazzo in Piazza Colonna. Stima dei mobili esistenti ne-
gli appartamenti (minuta) principio del secolo XX». Cfr. in Appendice il documento nr. 14. 91 Cfr. Arch. Chig. 702, f. 125v: «quattro statuine di terra cotta alte p.mi doi tutte
dorate»; Arch. Chig. 9738, f. 85v: «Altro tavolino di noce […] con sopra trè statuette di gesso tinto di metallo rappresentanti Santi».
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1. Camera dei Disegni, 2o piano Palazzo Chigi, Roma (prima del 1918). Sulla sinistra, sopra il camino, è visibile il bozzetto in terracotta per il Moro del Bernini [Arch. Chig. 25150].
Successivamente fu compilato un nuovo inventario, datato 10 giugno 1918 e firmato da Ignazio Giorgi e Giuseppe Baronci, dei mobili, soprammobili ed altre suppellettili, che si trovavano nella Biblioteca, escluso il patrimonio librario92, ed ora pubblicato da Maria Cristina Misiti. È in questo che riemergono i bozzetti del Bernini: – «2. N. 9 bozzetti in gesso di statue e gruppo a mano del Bernini, alcuni dei quali mancanti di qualche parte» – «42. Una statua mutila in terra cotta» – «44. Putto di terracotta che sorregge un triregno» – «46. Statua di Mosè in terracotta rossa, alta 0,67»93.
92 Per la Biblioteca si veda: Chig. T.IV.1: Verbale riassuntivo della ricognizione della
Biblioteca Chigiana (dattiloscritto del 29.10.1917), pubblicato in Appendice da MISITI, Strena ad Petrum cit., p. 287. 93 Ibid.
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I BOZZETTI DI BERNINI NELLA COLLEZIONE CHIGI
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Fig. 2. Salone degli stampati, Biblioteca Chigiana, 3o piano Palazzo Chigi, Roma (19191923). Sono visibili sul tavolo i bozzetti tinti di bronzo, compresi quelli di Bernini [Arch. Chig. 25175].
Le foto conservate nell’Archivio Chigi e datate prima del 1918, quando i bozzetti erano ancora nel Palazzo Chigi in Piazza Colonna insieme alla biblioteca Chigiana, confermano l’esattezza dell’inventario, poiché sono ben visibili i bozzetti verniciati di nero, sopra un tavolo tondo all’interno del Salone degli stampati94 (fig. 2). Il 18 gennaio 1923 la Chigiana, insieme ai bozzetti, entrava ufficialmente nella Biblioteca Vaticana: il trasporto, che impegnò varie giornate, fu ultimato la mattina del 10 febbraio95. Solo di recente, nell’ottobre del 1999, le gallerie della Biblioteca Vaticana, con alcune opere d’arte e i bozzetti, sono passate alle gestione dei Musei Vaticani; con questo trasferimento le terrecotte, in particolare, passarono dalla Sala Clementina alla Sala del Museo Profano e attualmente si trovano in quella dei Papiri (figg. 3-4), sistemazione quest’ultima, 94 Arch. Chig. 25175: «Biblioteca Chigiana, 3 piano di palazzo Chigi Salone degli stam-
pati (foto 1919-1923)»; Arch. Chig. 25176: «foto della seconda veduta del Salone degli stampati»; Arch. Chig. 25178: «foto III Sala degli stampati (foto 1919-1923)». 95 Cfr. MISITI, Strena ad Petrum cit., pp. 245-302.
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come afferma il curatore della collezione Guido Cornini, da non considerare definitiva, poiché è in progetto una nuova collocazione all’interno dei musei che li restituisca tutti assieme ai visitatori; infatti al momento, per mancanza di spazio, l’Abacuc e l’Angelo unitamente al Daniele e il leone, non sono visibili al pubblico.
Fig. 3. Sala dei Papiri, Musei Vaticani, Città del Vaticano. Parete destra rivolta a est. Da sinistra: il Battesimo di Cristo attr. ad Algardi e le due Carità di G.L. Bernini.
Fig. 4. Sala dei Papiri, Musei Vaticani, Città del Vaticano. Parete sinistra rivolta a ovest. Da sinistra: la Liberalità attr. ad Algardi; figura femminile, la Verità, figura maschile, Angioletto con tiara attr. a Luigi Bernini.
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I BOZZETTI DI BERNINI NELLA COLLEZIONE CHIGI
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III. I bozzetti in terracotta di G. L. Bernini della Collezione Chigi ai Musei Vaticani III. 1. Gian Lorenzo Bernini. I bozzetti e i modelli di sua «invenzione» Gian Lorenzo Bernini impersonerà totalmente i caratteri dell’arte barocca e riuscirà a primeggiare su tutti gli altri artisti per un periodo lunghissimo: dall’elezione di Maffeo Barberini (Urbano VIII 1623-1644) fino alla morte dell’artista, sopraggiunta il 28 novembre 1680. Già il Cicognara nella sua Storia della Scultura sottolineava il «monopolio» artistico che esercitò Bernini e disse, a proposito dei pontificati di Urbano VIII e Innocenzo X, che entrambi amavano le arti in genere, non trascurando mai nessuna occasione per mostrare la loro magnificenza attraverso esse96. La genialità del Bernini caratterizzò anche l’esecuzione dei bozzetti in terracotta. Irving Lavin esprime con chiarezza e precisione le innovazioni apportate dall’artista nella realizzazione di questi piccoli capolavori d’arte, che a causa dell’intrinseca fragilità del materiale di cui sono composti, l’argilla, che come ben sappiamo è poco resistente, ci sono giunti solo in piccola parte rispetto al numero assai più consistente che sicuramente Bernini aveva realizzato nella sua lunghissima carriera97. Lo testimoniano i numerosi bozzetti e modelli giunti fino a noi. Già è stato precedentemente accennato alla differenza che corre tra il bozzetto, da intendersi come un’esecuzione in argilla in scala minore rispetto all’opera realizzata successivamente, il modello, ossia l’esecuzione in scala 1:1, ed infine i bozzetti «finiti», da considerare come realizzazioni in argilla di piccole dimensioni, ma con un alto grado di rifinitura, che l’artista eseguiva per poi darli ai suoi collaboratori affinché ne realizzassero il modello in scala 1:1 per la trasposizione nel marmo oppure, in caso di fusioni in bronzo, per la realizzazione dei modelli in cera o in gesso. Possiamo concludere, dunque, che si possono avere diverse e svariate fasi di finitura: da quello appena abbozzato nei «primi pensieri» a quello più dettagliato per un’elaborazione compiuta; pertanto, come sosteneva Winckelmann, la modellazione in argilla è per lo scultore ciò che il disegno è per il pittore98, di conseguenza non saranno mai tutti uguali. 96 L. CICOGNARA, Storia della scultura. Dal suo Risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, 6 voll., 2a ediz. Prato 1824, pp. 11-12. 97 I. LAVIN, Calculated Spontaneity. Bernini and the Terracotta Sketch, in Apollo, 107 (1978), pp. 398-405. 98 B. BOUCHER, Earth and Fire: italian terracotta sculpture from Donatello to Canova, New Haven, Yale University Press, London 2001.
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Lo stesso Bernini, in una lettera del 30 dicembre 1669 in risposta a Colbert, specificò, riferendosi al monumento equestre per Luigi XIV, che per prima cosa avrebbe eseguito personalmente il modello di terracotta99. Gli studiosi concordano nel ritenere che si tratti dell’unico modello rimasto per il monumento equestre al re di Francia (alt. 76 cm, Roma, Galleria Borghese), per l’esecuzione definitiva da realizzare in marmo. Possiamo notare, infatti, come il modellato non sia spontaneo ma sembri seguire un’idea già ben studiata e ben definita, come se l’artista avesse già eseguito altri numerosi abbozzi per poi giungere a quello finale. Inoltre eseguì ben 22 bozzetti in terracotta per il San Longino, di cui uno conservato oggi al Fogg Art Museum di Cambridge (alt. 52,7 cm) e l’altro rinvenuto frammentario nel Museo di Roma100; 11 per gli angeli di ponte Sant’Angelo di cui, quello con la corona di spine misura 44,9 cm. e quello con il cartiglio 27,2 cm, entrambi conservati al Fogg Art Museum di Cambridge. Infine per la cappella del Sacramento, oltre ai 5 bozzetti oggi tutti al Fogg Art Museum, si conservano i modelli a grandezza naturale degli angeli (alt. 168 e 185 cm) nei Musei Vaticani101. Anche le biografie a lui dedicate testimoniano la pratica di eseguire numerosi bozzetti: il Baldinucci, a proposito dei lavori per la Cattedra di San Pietro, scrive che: «è da ammirarsi in questo luogo l’insuperabil pazienza del Bernino, il quale avendo di questo gran lavoro fatto di tutta sua mano i modelli di terra»102.
99 R. WITTKOWER, Bernini. Lo scultore del Barocco romano, Milano 1990, p. 293 (scheda 74). 100 E. B. DI GIOIA, Un bozzetto del S. Longino di G. Lorenzo Bernini ritrovato nella bottega di Francesco Antonio Fontana, in Antologia di Belle Arti, 22-23 (1984), pp. 65-69. 101 M. G. BARBERINI, Base or Noble Material? Clay Sculpture in Seventeenth- and Eighteenth-Century Italy, in Earth and Fire cit., p. 55. 102 F. BALDINUCCI, Vita del Cavaliere Giò. Lorenzo Bernino scultore, architetto, e pittore,
Firenze 1682, p. 39. Anche Filippo Baldinucci nelle pagine della vita di G.L. Bernini fa riferimento, quasi certamente, ai modelli a grandezza reale in terracotta, come ad esempio la testa di Sant’Atanasio (alt. 93 cm) e San Giovanni Crisostomo (alt. 100 cm) assieme agli Angeli ai lati della Cattedra (alt. 225 e 227 cm) nei Musei Vaticani, realizzati in argilla mista a paglia e ricoperti con argilla liquida. Più avanti, nelle pagine, troviamo un altro riferimento all’esecuzione dei bozzetti che Bernini fece per il monumento funebre ad Alessandro VII: «Aveva il Cavalier Bernino fino in vita d’Alessandro VII, fatto il disegno, e modellato tutto di sua mano il Sepolcro di lui, per situarlo in San Pietro, ed aveane avuta l’approvazione, non solo dall’Eminentiss. Cardinal Nipote, ma dal medesimo Alessandro»; in questo caso Baldinucci si riferisce al bozzetto per la Carità oggi conservato nell’Istituto di Belle Arti di Siena e a quello per la figura del Papa che oggi si trova al Victoria and Albert Museum di Londra (entrambi alti ca. 40 cm).
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L’altra fonte è il diario stesso di Fabio Chigi103 il quale annota al 14 aprile del 1658 quanto segue: «Ci porta il Cav. Bernino il modello dela Catedra di S. Pietro di creta alto due palmi [oggi conservato nell’Institute of Arts di Detroit e che misura 58,5 cm]104 e la Domenica passata portò il 2 S. Ambrogio per compagno al Santo Agostino»105. Non possiamo non citare infine le numerose volte in cui lo Chantelou, conversando con il maestro in Francia, annotò che in occasione del ritratto di Luigi XIV ordinò «della creta per fare degli abbozzi sul movimento da dare al busto, in attesa di lavorare al ritratto»106. Infatti, dal 24 giugno al 12 luglio, Bernini eseguì alcuni piccoli modelli appositamente per chiarire il suo progetto generale al Re, di cui però non abbiamo notizie.107 Infine, tra le pagine della biografia di Bernini, scritta dal figlio, riscontriamo che, parlando ancora del busto di Luigi XIV, scrisse: «Onde a S. Germano fè ritorno per ritrarre in disegno la Regia effige, e due formònne, una di profilo, l’altra in faccia. Doppo questi ne formò molti in creta, e finalmente incominciòllo nel Marmo»108. Quindi, concludendo, la prima differenza è il numero elevato di bozzetti che Bernini realizzò per i suoi monumenti, da aggiungere a quello sconfinato di disegni che si sono conservati in quantità maggiore109. L’altra innovazione è il procedimento esecutivo: generalmente si usavano eseguire i bozzetti attraverso l’aggiunta di materia, poi lavorata a 103 Chig. O.IV.58: Diario di Alessandro VII. Anche se non datato fu probabilmente iniziato pochi mesi dopo l’elezione al pontificato, 1655. Scritto quasi con cadenza giornaliera si ferma sei giorni prima della morte del Papa il 16 maggio 1667. Il manoscritto, costituito da 428 fogli, è redatto in due colonne. Cfr. G. MORELLO, Documenti berniniani nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Bernini e i lavori a S. Pietro nel «Diario» di Alessandro VII, estratto da Bernini in Vaticano, Roma 1981, pp. 321-322. 104 BARBERINI, Base or Noble Material? cit., p. 54. 105 Cfr. Diario di Alessandro VII. 1658, marzo: Bernini entra nel vivo del lavoro della
Cattedra di San Pietro. Peter Verpoorten, insieme ad Antonio Raggi, Lazzaro Morelli, Ercole Ferrata, lavora alle figure a grandezza naturale per la Cattedra. Il falegname Cosimo Carcani riceve dal Cavalier Bernino il modello in terracotta, con le sue belle storie e i due angeli che la fiancheggiano. Il 14 aprile Fabio Chigi annota sul suo diario: «Ci porta il Cav. Bernino il modello della cattedra di S. Pietro di creta alto due palmi». 1658 Roma, f. 96v, 2. col.: «5 Agosto, Lunedì, hieri fu da noi il Cav. Bernino … col modello di creta per l’arme sopra a’ Portici». 106 Cfr. F. DE CHANTELOU, Viaggio del Cavalier Bernini in Francia, a cura di G. BILANCIONI,
Palermo 1988, p. 63.
107 Cfr. WITTKOWER, Bernini cit., p. 286 (scheda 70). 108 D. BERNINI, Vita del Cavalier Gio. Lorenzo Bernino, descritta da Domenico Bernini
suo figlio, Roma 1713, p. 133. 109 Per i disegni si cfr. BRAUER-WITTKOWER, Die Zeichnungen des Gianlorenzo Bernini, Berlin 1931.
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piccoli tocchi per realizzare una superficie uniforme. Bernini proseguì su questa strada ma con un procedimento che potremmo dire inverso: non aggiungeva, ma toglieva materia all’ammasso d’argilla, come se si trovasse dinanzi ad un blocco di marmo che, diventato malleabile, scalfiva e graffiava attraverso mirette e stecche di diverse forme110, e spingendo con le dita creava infiniti effetti nella realizzazione di quelli che erano gli elaborati per i primi pensieri111. Ciò è riscontrabile nel primo bozzetto realizzato per la Carità, con quattro bambini, per il monumento funebre di Urbano VIII, su cui in seguito torneremo, dove il modellato fresco e spontaneo confermerebbe questo metodo. Ma non fu sempre così: ad esempio il bozzetto del Daniele, anche se si presenta ben definito, potrebbe non considerarsi il modello definitivo che Bernini elaborò successivamente nel blocco di marmo, in quanto, come vedremo, compaiono molte differenze con esso; non è da escludere però che il Bernini vi abbia potuto lavorare a più riprese, tanto da giungere ad una quasi perfetta rifinitura del modellato così come oggi si presenta e che, sotto la superficie apparentemente levigata e sicura nel modellato, vi sia in verità, l’aggiunta di materia e non l’eliminazione come afferma Lavin; eliminazione, quest’ultima, che comporterebbe già un’idea ben chiara nella mente dell’artista: di conseguenza non saremmo più di fronte ad un «primo pensiero» ma ad un bozzetto «finito». III. 2. I bozzetti per il Daniele e Abacuc nella cappella Chigi in Santa Maria del Popolo La cappella Chigi in Santa Maria del Popolo fu realizzata nel 1513 per volere di Agostino Chigi su progetto di Raffaello. Nel 1655 dopo l’elezione al pontificato, grazie al maggior potere economico che ne derivò, Fabio estese il programma di restauro non solo alla cappella di famiglia ma a tutto il complesso e alla piazza antistante e nel 1656 Bernini fu incaricato di dirigerne i lavori112. Nel progetto era 110 Gli utensili per lavorare l’argilla erano solitamente le mirette e o fuselli e le stecche. I primi erano delle bacchette in forma di fuso con estremità in filo di ferro piegato a cappio in modo vario: ad occhiello, a staffa, dentato, ecc. …, utilizzate per scavare o regolare le superfici eliminando materia; le stecche, invece, anch’esse di varie forme (dentate, arrotondate, appuntite, ecc. …), venivano usate per spingere in dentro la materia. Cfr. La scultura in terracotta: tecniche e conservazione, a cura di M. G. VACCARI, Firenze 1996, pp. 73-74. 111 Cfr. LAVIN, Calculated Spontaneity cit., pp. 348-405. 112 Gli interventi berniniani e il costo dei lavori promossi dal Cardinale risultano da
una descrizione della cappella, anonimo, successiva al 1653 (Cugnoni 1878).
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compreso anche il completamento della cappella di famiglia, dove le due nicchie poste diagonalmente a quelle con le statue di Giona e di Elia saranno completate dalle due statue in marmo bianco con il Daniele e il leone e Abacuc e l’Angelo, rispettivamente a sinistra dell’ingresso e a destra dell’altare113. Di questi due gruppi marmorei si sono conservati due bozzetti in terracotta, oggi nei Musei Vaticani. I due profeti dovevano completare quello che può essere considerato un «vasto programma religioso» voluto da Alessandro VII, facendo realizzare nella cappella il momento in cui l’angelo prese Abacuc per i capelli e lo portò da Daniele «affinché possa dargli il cibo che Abacuc intendeva portare ai contadini che lavoravano nel campo»114. Nei gesti e nei movimenti delle quattro figure, che sembrano dialogare tra loro, si riscontra quella «teatralità berniniana» che coinvolge lo spettatore come se fosse un protagonista diretto della scena. La conservazione di questi bozzetti fino ad oggi, nonostante l’estrema fragilità della materia di cui sono composti, li rende ancora più singolari. Questi, assieme a pochissimi altri, sono fortunatamente pervenuti fino a noi in condizioni integre e non frammentarie e lacunose; ciò ha reso possibile da un lato lo studio di una delle tante fasi che comprendeva la messa in opera di grandi capolavori del Seicento all’interno dell’organizzazione della bottega di Bernini e di tanti altri artisti suoi contemporanei, e dall’altro consente lo studio del manufatto da un punto di vista tecnico-artistico attraverso l’esame visivo e, quando è possibile, tattile. Daniele e il leone Il gruppo marmoreo del Daniele e il leone, collocato a sinistra dell’ingresso nella cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, fu scolpito da Bernini su commissione di Alessandro VII tra il 1655 e il 26 giugno 1657. Nell’agosto del 1655 leggiamo nel diario del papa: «D. Flavio vada dal Bernino a veder il Daniel, a dimandar dell’Abacuc, ad intonar circa la n.ra Sepoltura, a parlar del portico esterior di S. Pietro»115.
113 O. FERRARI — S. PAPALDO, Le sculture del Seicento a Roma, Roma 1999, p. 317. 114 Secondo ogni probabilità, Abacuc visse al principio del regno di Joakim, re di
Giuda. S. Girolamo crede essere stato questo profeta che, trasportato miracolosamente da un angelo a Babilonia, diede il nutrimento a Daniele, rinchiuso nella fossa dei leoni. Si veda WITTKOWER, Bernini cit., p. 57. 115 Diario di Alessandro VII: 9 agosto 1655 f. 19, 2 col.
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Gian Lorenzo Bernini Terracotta giallo-chiara rossiccia, alt. cm 41,6 Ultimo restauro 1980-1981 Provenienza: Roma Palazzo Chigi, poi Biblioteca Vaticana, Galleria Clementina Attualmente: non esposto al pubblico
Il bozzetto in terracotta non è stato mai citato nel Diario di Alessandro VII; ciò fa supporre che l’opera sia stata commissionata prima dell’elezione al pontificato del 1655, anno in cui comincia a scriverlo, e probabilmente prima di quella cardinalizia del 1652; pertanto possiamo ritenere che sia stato elaborato tra il 1652 e il giugno 1657116. Il Daniele è indicato per la prima volta nell’inventario del 1694 (Arch. Chig. 700), come «un modello di Danielle di terra cotta del Popolo, fatto dal Bernino», poi nell’inventario del 1705, in quello del 1770 tra le otto terrecotte tinte di bronzo del Bernini, e infine nell’inventario del 20 gennaio 1883 (Arch. Chig. 1837) dove nella Sala Alessandrina sono «8 piccole figure di terracotta color bronzo» molto probabilmente da riferire ai nostri bozzetti, così come ci testimoniano le foto conservate nell’archivio Chigi datate prima del 1918117. Come vedremo più avanti la vicenda di questo bozzetto e di quello dell’Abacuc è piuttosto contorta, giacché i due bozzetti non compaiono mai insieme negli inventari. Francesco Petrucci ritiene di poter identificare «un modello di muisè di terracotta», citato la prima volta nell’inventario del 1694 (Arch. Chig. 700) con il bozzetto del Daniele118, ma va osservato che tale identificazione risulta piuttosto dubbia poiché nello stesso inventario sono citati entrambi i bozzetti, e dunque dovevano riferirsi a due manufatti diversi. Il Mosè (fig. 5) invece, spesso presente
116 Gian Lorenzo Bernini regista del barocco catalogo della mostra cit., p. 338 (scheda
77). 117 Arch. Chig. 25175: «Biblioteca Chigiana, 3 piano di palazzo Chigi Salone degli stampati» (foto 1919-1923); Arch. Chig. 25176: foto della seconda veduta del Salone degli stampati; Arch. Chig., 25178: foto III Sala degli stampati. 118 F. PETRUCCI, Gian Lorenzo Bernini per casa Chigi: precisazioni e nuove attribuzioni, in Storia dell’Arte, 90 (1977), pp. 176-177.
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Fig. 5. III Sala degli stampati, Biblioteca Chigiana, 3o piano Palazzo Chigi, Roma (19191923). Sulla destra il bozzetto in terracotta copia del Mosè di Michelangelo [Arch. Chig. 25178].
negli inventari, sembra essere sfuggito a Francesco Petrucci nella trascrizione dell’inventario del 1692119. Copia del capolavoro di Michelangelo, è al momento conservato all’ultimo piano della Biblioteca Apostolica Vaticana, nell’anticamera dell’ufficio del Card. Bibliotecario. Alto circa 60 cm si presenta in discrete condizioni: in terracotta grigio-rossastra, sul retro è abbondantemente scavato e sotto la base presenta delle tracce di vernice nera, probabilmente risalenti allo stesso periodo di quella che ricopre tutte le altre, oggi nei Musei Vaticani, e di recente restaurato nei Laboratori Vaticani.
119 Cfr. PETRUCCI, Le collezioni berniniane di Flavio Chigi cit., p. 490. Nella trascrizione dell’inventario di Petrucci manca il riferimento al f. 275r di un «Un modello di muisè di terracotta» e «Due scabelloni intagliati, finti di pietra, con due modelli delli fiumi per la fontana di piazza navona tinti à bronzo». Cfr. in Appendice il documento nr. 1.
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Abacuc e l’Angelo Gian Lorenzo Bernini Terracotta giallo-chiara rossiccia, alt. cm 52 Ultimo restauro 1980-1981 Provenienza: Roma, Palazzo Chigi, poi Biblioteca Vaticana, Galleria Clementina Attualmente: non esposto al pubblico
Il complesso marmoreo di Abacuc e l’Angelo è molto simile, forse identico, al nostro bozzetto: sono pochissime le differenze, quasi impercettibili, quindi può essere considerato un bozzetto «finito» per la scultura in marmo da realizzare120. Benché, come affermano Cugnoni e Montagu, la volontà del futuro Papa fosse di affidare una statua al Bernini ed una all’Algardi, sappiamo bene che dopo la morte di quest’ultimo (1654) l’esecuzione delle due statue fu affidata al solo Bernini. La scultura in marmo, terminata nel 1658, sarà collocata in situ solo il 30 novembre del 1661, quando nel documento pubblicato da Golzio121 risulta autorizzato il pagamento per la messa in opera della statua di «Abacucch»122 e confermato nel Diario del Papa che riporta al 10 luglio 1661 «Domenica, a 18 ¼ col Cav. Bernino circa l’Abacuch» giorno in cui, lo riceve per parlare della collocazione della statua di marmo a Santa Maria del Popolo123. Oramai tutti gli studiosi sono concordi nel ritenerlo autografo di G. L. Bernini124. Fagiolo dell’Arco è concorde nel considerarlo, oltre che autografo, un modello definitivo per il marmo nella cappella Chigi, proprio 120 Il primo ad attribuirla a Bernini fu Brinckmann in disaccordo con il Wittkower, dubbiosi Lavin e Kauffmann. In occasione della mostra Bernini in Vaticano a Roma nel 1981, Raggio e Worsdale riconsegnano la paternità al maestro Bernini. Si veda F. PETRUCCI, Gian Lorenzo Bernini regista del Barocco, Roma 1999, p. 358. 121 V. GOLZIO, Documenti berniniani, in Archivi d’Italia, 1 (1933-34), p. 140. Si veda anche MORELLO, Documenti berniniani cit., pp. 321-322. 122 ASR, Camerale I, Registro de’ Chirografi dall’anno 1661 all’anno 1664, tomo XIV, p.
102. 123 Diario di Alessandro VII, f. 200v, 2 col. 124 V. MARTINELLI, Gian Lorenzo Bernini e la sua cerchia. Studi e contributi, Napoli
1994, p. 384. Martinelli intravede nel modellato il tipico «contrasto barocco di moto alternato, di tipi e di espressioni, la preziosa traduzione per la Cappella Chigi nel marmo cereo, morbido e lucente, carico di valori cromatici di natura rubensiana».
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perché si presenta «perfetto», definito in tutti i minimi particolari: tutto levigato con il dito125. Seguendo l’ordine cronologico degli inventari conservati nell’Archivio Chigi alla BAV, così come precedentemente elencati, il modello in terracotta è citato la prima volta nell’inventario del 1666 (Arch. Chig. 702), dove è descritta «Una figura di terra cotta alta pal: doi e mezzo in circa che rappresenta un Vecchio con un’Angelo che lo tiene per gli capelli», e in seguito nell’Arch. Chig. 701 e 703 dove nell’elenco corrispondente alla voce «statuette diverse» troviamo tuttora descritto «una statuetta di terra cotta alta p.mi 2 e mezzo’in.ca rapre.ta un Vecchio con un Angelo, che lo tiene per i capelli». Da questo momento in poi, tuttavia, il bozzetto non è più citato e ricompare tra le «8 statue in terra cotta tinte di bronzo che diconsi fatte dal Bernini», risalente al 1770 (Arch. Chig. 9534) in cui, anche se non abbiamo nessun riferimento specifico, risulta essere l’unico dato che confermi la presenza del nostro bozzetto, oggi nei Musei Vaticani. Il volume datato 1 maggio 1692 (Arch. Chig. 700) e firmato da Francesco Corallo riporta un inventario dei mobili del casino alle Quattro Fontane redatto due anni più tardi, nel 1694, e firmato da Tomaso Zanorvi guardarobiere; in questa occasione non c’è nessun riferimento all’Abacuc; al contrario, è riportato per la prima volta, e così nei successivi inventari, il Daniele e il leone. Questa dissonanza suscita perplessità e riflessioni, tanto da chiedersi se non esistano documenti che ci testimonino quale tra i due bozzetti sia stato eseguito per prima, e perché non siano mai citati assieme negli inventari ma separatamente. Tuttavia, ci si chiede perché il Daniele compare negli inventari solo dopo il 1694. Sappiamo che lo zio di Flavio I, Alessandro VII, aveva sicuramente contribuito in larga misura all’accumulo di opere d’arte del nipote. Potremmo supporre che con la divisione dei beni tra i due nipoti, i bozzetti in particolare, giunti al Papa probabilmente tramite un regalo fatto dal Bernini, in seguito siano passati al nipote, probabilmente prima l’Abacuc quando il pontefice era ancora in vita, e poi alla sua morte anche il bozzetto del Daniele; infatti gli inventari, in cui manca qualsiasi riferimento a quest’ultimo, sono considerati anteriori alla morte del pontefice. Un’altra spiegazione potrebbe essere che il Daniele sia stato inizialmente regalato 125 Cfr. Bernini in Vaticano, catalogo della mostra cit., p. 127. Dopo i restauri del 1981
sotto lo «spesso strato di vernice a olio color bronzo», sono state rese evidenti, in alcune zone, le impronte digitali e quelle lasciate dal panno umido che si usava porre sopra l’argilla per tenerla morbida il più a lungo possibile e per permettere, in un secondo tempo, all’artista di continuare a lavorare migliorando e definendo il modello. Sotto questo strato nero è comparsa un’altra tinta, forse originaria, che è simile a quella della Carità con tre bambini.
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dal pontefice all’altro nipote Agostino, cugino di Flavio, per poi passare a quest’ultimo, che volle riunirli nel suo casino alle Quattro Fontane. Infine un’ultima ipotesi potrebbe essere che Flavio abbia conservato inizialmente i due bozzetti in sedi diverse per poi riunirli dopo il 1669, quando ingrandì il casino alle Quattro Fontane. Infatti, l’inventario dove compare il Daniele è del 1694. Tutto ciò però non giustifica l’esclusione da questa data in poi dell’Abacuc. Nel recente lavoro di Francesco Petrucci126 si sostiene che l’Abacuc debba essere riconosciuto, nell’inventario del 1692, alla voce «N. Tre scabelloni d’Albuccio tinti color’ di noce filettati d’oro, con sop.a tre modelli di terra cotta, cioè uno rappresentante la Carità, l’altro il Batt. mo di S. Giò: Batta e l’altro il Bacucco»127 (quest’ultimo sarebbe il nostro bozzetto!). Il che potrebbe essere; ma resta il fatto che negli anni a seguire i bozzetti non compaiono più insieme e a volte sono completamente assenti. Al momento sono solo ipotesi: forse con ulteriori esami dei documenti conservati nel fondo Chigi, presso la BAV, si potrebbero completare queste mancanze. III. 3. I due bozzetti della Carità per il sepolcro di Urbano VIII in S. Pietro La tomba di Urbano VIII sarà un modello utilizzato per tutta l’epoca barocca, in cui, riproponendo il modello di Michelangelo per i Medici, torna la forma a piramide scandita da figure: le due allegorie diventano gli estremi della base, e la figura del papa l’apice di essa, il tutto distribuito su piani diversi. Sappiamo che il Papa Urbano VIII chiese a Bernini di progettare il suo sepolcro pochi anni dopo la sua elezione, nel 1623, e decise fin da subito il luogo in cui collocare la sua salma: nella nicchia destra dell’abside di San Pietro, di fronte al sepolcro di Paolo III Farnese. L’esecuzione dei lavori si divise in due tempi: il primo per la realizzazione in piccolo e poi in marmo della figura del pontefice intorno al 1627, che fu poi colata in bronzo tra il 1630-1631 e collocata nel 1639 sul suo piedistallo in Vaticano ancora incompleta, come ci testimonia il Baglione. Dopo un’interruzione seguì la successiva ripresa dei lavori a tutto ritmo nella primavera del 1639 con la continuazione e fusione in bronzo
126 Cfr. PETRUCCI, Le collezioni berniniane di Flavio Chigi cit., pp. 204-205. 127 Arch. Chig. 700, f. 271r. Cfr. in Appendice il documento nr. 1
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delle altre figure fino al 1644128. Ma il Papa morì nel maggio di quello stesso anno e Bernini terminò il lavoro tre anni più tardi, il 9 febbraio 1647. Filippo Baldinucci nella biografia del Bernini descriveva così la Carità in marmo in San Pietro: «Dalla destra scorgesi la Carità, che à in seno un lattante fanciullo, ed un altro maggiore appresso, che accennando anch’egli all’insù dirottamente piange la perdita di quel gran Padre mentre ella con pietoso sguardo volta verso di lui, pare, che gli dia testimonianza del proprio dolore e mostra di compatire al suo pianto»129. La Carità con quattro bambini Gian Lorenzo Bernini Terracotta giallo-chiara rossiccia, alt. cm 39 Ultimo restauro: 1980-1981 Provenienza: Roma, Palazzo Chigi, poi Biblioteca Vaticana, Galleria Clementina Attualmente: Musei Vaticani, Sala dei Papiri, vetrina a destra
Questo bozzetto, eseguito per l’allegoria della Carità del monumento funebre ad Urbano VIII, è da considerare il «primo pensiero» in terracotta realizzato da Bernini per Urbano. Considerato autografo già da Martinelli, anche Montanari vede «nel volto dolcissimo di popolana, oltreché nel pianto stravolto del bambino», oltre che un residuo caravaggesco, una matrice rubensiana.130 Bernini al 25 marzo 1630 non aveva ancora deciso se le allegorie, la Carità a sinistra e la Giustizia a destra del sepolcro, dovevano essere accompagnate da due o tre bambini e lo dimostra proprio l’esistenza di questi due bozzetti: il primo qui descritto con quattro bambini e il secondo con due. Entrate a far parte entrambe della raccolta della Biblioteca Vaticana nel 1922 in occasione del dono fatto alla Chiesa dal governo, la Carità fu restaurata tra il 1980 e il 1981 in vista della mostra «Bernini in Vaticano». Prima dell’intervento era ricoperta da uno spesso strato di tinta 128 FERRARI — PAPALDO, Le sculture del Seicento cit., pp. 357-358. 129 BALDINUCCI, Vita del Cavaliere cit., p. 17. 130 T. MONTANARI, Gian Lorenzo Bernini, Roma 2004 (Grandi Scultori, 1) p. 114.
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nera destinata a dare alla materia l’aspetto del finto bronzo. La tinta era stata data a più riprese probabilmente a partire dal XIX secolo; sotto di essa si nascondeva un’altra «patina», probabilmente anch’essa ottocentesca e molto rovinata, di cui si è preferito conservare le tracce superstiti e che era evidentemente destinata a togliere alla statua la connotazione di bozzetto e darle quella di soprammobile131. Si trattava di una finta doratura in porporina data su una preparazione in terra rossa, mentre i bordi del panneggio erano dorati con foglia d’oro e alcune tracce si sono conservate fino ad oggi; la patinatura ricopriva solo le parti modellate e non il retro. Tipico bozzetto eseguito tutto di prima intenzione: fresco e spontaneo nella realizzazione dell’anatomia dei corpi e nella fisionomia dei volti. La Carità con due bambini Gian Lorenzo Bernini Terracotta giallo-chiara rossiccia, alt. cm 41,5 Ultimo restauro 1980-1981 Provenienza: Roma, Palazzo Chigi, poi Biblioteca Vaticana, Galleria Clementina Attualmente: Musei Vaticani, Sala dei Papiri, vetrina a destra
Tra i due bozzetti conservati attualmente nei Musei Vaticani, nella Sala dei Papiri, questo è senza dubbio il più vicino all’opera in marmo per il monumento funebre di Urbano VIII che, benché sbozzato nel 1634, non fu scolpito che dopo il 1639132; in possesso della famiglia Chigi da molto tempo, forse fin da quando Alessandro VII commissionò a Bernini la cappella Chigi133, i due bozzetti furono considerati autografi dello scultore sia da Brinckmann sia da Wittkower quando erano ancora ricoperti dalla patina scura. La terracotta compare la prima volta nell’inventario del 1666 (Arch. Chig. 702) in cui troviamo «una figura di terra cotta alta pal: doi in circa 131 Bernini in Vaticano, catalogo mostra cit., pp. 108-109. 132 J. POPE-HENNESSY, Il Cinquecento e il Barocco, Milano 1966, p. 117. 133 A. E. BRINCKMANN, Barok-bozzetti, Frankfurt am Main, 1923-1924.
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che representa la Carità», e successivamente con la stessa citazione nell’Arch. Chig. 701 e 703. Nell’inventario del 22 gennaio 1694 (Arch. Chig. 700 f. 276r) è citata così: «due modelletti di creta cotta, rappresentanti la Carità, e l’Abondanza». La troviamo ancora nell’Arch. Chig. 9449 (1745 ca.) riportata come «trè Sgabelloni tinti color di noce filettati d’oro con sopra trè modelli, cioè uno rappresentante la Carità, l’altro il Battesimo di S.Gio.Batta., e l’altro…». In seguito, nel 1770, potremmo affermare quasi con certezza che fosse assieme alle «otto statue di terra cotta tinte di bronzo». Nel 1793 è da considerarsi compresa tra le «quattro statuette di terra cotta tinte a bronzo» in un camerino del palazzo Chigi in Piazza Colonna; infine nel 1883 nella sala Alessandrina sempre del palazzo Chigi è probabilmente tra le «otto figure color di bronzo». Questa sarebbe la corretta ricostruzione se nell’inventario dell’Arch. Chig. 9449 non comparisse anche la voce «due Sgabelloni di Albuccio contornati, e dipinti lumeggiati d’oro con sopra due modelli di terra cotta, rapresentanti la Carità fatti dal Cav. Bernini» e inoltre un’altra di «pietracotta» sempre per la Carità134; dovremmo supporre dunque che vi erano a questa data ben quattro bozzetti per la Carità e non due. Infatti, facendo un passo indietro ed esaminando gli inventari precedenti, troviamo: – «doi statouine di terra cotta simili alte pal. doi»135 – «due statuette di terra cotta simili alte p.mi 2»136 – «due scabelloni di noce filettati d’oro, con due modelli di creta cotta sop.a»137.
In tutti e tre i casi si possono riconoscere le nostre due terrecotte ai Musei Vaticani per il sepolcro di Urbano VIII, che oltre ad essere citate sempre come «due», sono definite «simili» proprio perché sono dei bozzetti realizzati per la stessa opera. Va sottolineato inoltre che nell’inventario Arch. Chig. 9449 probabilmente del 1745, i due bozzetti si trovano nella stessa stanza così com’erano già dislocati nel 1694. Negli altri inventari138, invece, alla voce che ricorre spesso di «una figura di terra cotta alta pal: doi incirca che rappresenta la Carità» si può probabilmen134 Nell’inventario possiamo leggere «n. trè Sgabelloni tinti color di noce filettati d’oro con sopra trè modelli, cioè uno rappresentante la Carità l’altro il Battesimo di S. Gio. Batta» e poi «un modello di pietracotta rapresentante la Carità». Cfr. in Appendice il documento nr. 11 135 Arch. Chig. 702, f. 116v. 136 Arch. Chig. 701, ff. 230-231 137 Arch. Chig. 700, f. 275r. 138 Cfr. Arch. Chig. 700-702.
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te riconoscere un modello per la Carità del monumento funebre di Alessandro VII; infatti, anche se i pagamenti risultano essere stati avviati il 16 dicembre 1671139, e i nostri inventari vengono considerati dagli studiosi del 1666, non è improbabile che a quella data i bozzetti fossero già pronti, o ancora più probabile che gli inventari, anonimi e non datati, potrebbero essere successivi di qualche anno, e la presenza di un eventuale modello per la Carità del monumento ad Alessandro VII potrebbe aiutarci a datarli con certezza. IV. I bozzetti in terracotta di attribuzioni varie nei Musei Vaticani IV. 1. Bernini e i suoi collaboratori «Haveva egli moltii Allievi, che sotto la sua direzione procurarono inderettamente di avantaggiarsi nell’Arte»140. Ancora una volta Baldinucci, nelle pagine della biografia di Bernini, conferma ciò che è palese anche ai nostri occhi: i grandi capolavori di Bernini richiedevano, oltre che una grande capacità organizzativa, anche un numero sconfinato di collaboratori, che eseguivano, sotto l’attento sguardo del maestro, tutti i suoi progetti – elaborati con disegni, bozzetti, legnetti – da trasportare sul marmo. Questo perché, con il passar degli anni, Bernini aveva acquistato una gran fama e di conseguenza le opere a lui commissionate da parte non solo di pontefici ma anche di personaggi illustri dell’alta società romana crescevano di giorno in giorno. A tal proposito il viaggio in Francia presso la corte del Re Luigi XIV, ci offre la testimonianza dei numerosi collaboratori di cui Bernini si circondò, tra i quali il figlio Paolo e l’architetto Mattia de’ Rossi, che eseguiranno i disegni per il progetto del Louvre. Veniamo a sapere, infatti, che nel giugno del 1665, quando Chantelou manifesta al maestro il desiderio del Re di farsi ritrarre appena Bernini avesse terminato il disegno per il progetto del Louvre, Bernini gli rispose che: «ciò non gli era di ostacolo, perché egli si sarebbe preparato [ad eseguire il ritratto del Re] mentre Mattia attendeva a ricopiare i suoi disegni»141. La coordinazione dell’intero lavoro nella bottega di Bernini è stata ricostruita in modo eccellente da Jennifer Montagu che ci consente di se139 Cfr. WITTKOWER, Bernini cit., pp. 296-297. 140 Cfr. BALDINUCCI, Vita del Cavaliere cit., p. 24. 141 CHANTELOU, Viaggio cit., p. 63.
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guire tutti i passaggi che conducevano alla realizzazione dei grandi capolavori del maestro, e in cui il «bel composto» berniniano raggiungeva l’apice dell’armonia tra le tre arti: pittura, scultura e architetura142. L’esempio più mirabile è costituito dalla cappella Cornaro a Santa Maria della Vittoria a Roma, definita dallo stesso Bernini, con ironia, «la men cattiva Opera»143. Per tale eccezionale macchina di progettazione ricoprono una notevole importanza i bozzetti e i modelli in terracotta. Nei Musei Vaticani, infatti, sono conservati nella Sala dei Papiri, assieme ai quattro modelli in terracotta autografi del Bernini, altri bozzetti in terracotta di attribuzioni varie. Questi ultimi non hanno ancora subito i restauri per essere liberati dalla vernice nera che li ricopre e ciò, se per un verso rende difficile la lettura dell’opera e la qualità del modellato, dall’altro è la testimonianza di come poteva essere l’aspetto dei bozzetti berniniani prima dei restauri. In occasione dei restauri eseguiti sui bozzetti della Collezione ChigiSaracini a Siena, l’esame di alcuni documenti conservati nell’Archivio Comunale di Siena testimonia l’acquisto di «gesso scagliolo», che serviva per riunire le parti rotte dei bozzetti, e di «polvere detta porporina per colorire le statue a bronzo» oppure, presumibilmente, per imitare l’oro, metallo ancor più prezioso, attraverso la doratura con porporina144. Molto probabilmente i nostri stessi modelli hanno subito la medesima procedura. Da sempre, inoltre, gli incollaggi delle parti staccate erano praticati a caldo con cera-resina o colofonia e le imperniature in legno e metallo erano quasi sempre fermate a gesso; le stuccature erano spesso approssimative e debordanti in corrispondenza di fessurazioni e rotture; infine la gamma di patine stesa sulle terrecotte non fingeva solo il bronzo ma anche il marmo, oppure serviva per uniformare le superfici degradate delle opere145. A differenza dei bozzetti berniniani già esaminati, quelli che ci accingiamo ad analizzare sono stati scarsamente studiati e, pertanto, le notizie a disposizione sono insufficienti per tentare una ricostruzione della loro storia all’interno della collezione di Flavio I Chigi; ma è possibile 142 J. MONTAGU, La scultura barocca romana. Un’industria dell’arte, Milano 1991, pp. 1-
125. 143 O. FERRARI, Bernini, in Arte e Dossier, Firenze 1991, p. 40. 144 Collezione Chigi-Saracini. La scultura. Bozzetti in terracotta, piccoli marmi e altre
sculture dal XIV al XX secolo, catalogo della mostra a cura di G. GENTILINI — C. SISI, Siena 1989. pp. 537-539. Si veda anche Archivio Comunale Siena S/48, ins. E, f. 31r. 145 Ibid.
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tentare, attraverso uno studio minuzioso degli inventari conservati nell’Archivio Chigi, di riconoscere quali potrebbero essere negli elenchi i nostri bozzetti. Innanzitutto va specificato che attualmente anch’essi sono conservati nei Musei Vaticani, per un totale di ben 10 terrecotte: il Battesimo di Cristo di Alessandro Algardi, i quattro di Bernini già analizzati, non tutti esposti nella Sala dei Papiri – attualmente manca l’Abacuc e il Daniele e il leone, tutti restaurati nel 1981 – più altri cinque ancora ricoperti dalla tinta nera ad olio del XIX secolo. I bozzetti che ci apprestiamo ad esaminare sono da considerare tutte esercitazioni di bottega; attualmente esposti nella vetrina a sinistra della Sala dei Papiri, anche se di piccole dimensioni, si presentano tutti di buona fattura: panneggi classicheggianti ed elegantemente adagiati e fascianti i corpi ben proporzionati e dalla postura altrettanto classica. Tra questi, alcuni sono stati attribuiti ad artisti come Algardi e Luigi Bernini, fratello di Gian Lorenzo e suo stretto collaboratore, mentre agli altri non è stata ancora attribuita alcuna paternità. Eseguite con stecche, sono stati definiti in tutti i minimi particolari, nulla viene lasciato al caso: dall’espressione dei volti, all’abbigliamento, alle calzature. Alessandro Algardi: il Battesimo di Cristo Terracotta giallo chiara, cm 48,7 Ultimi restauri: 1980-1981 Provenienza Roma: Palazzo Chigi, poi Biblioteca Vaticana Galleria Clementina Attualmente Musei Vaticani, Sala dei Papiri: vetrina a destra
Il bozzetto in terracotta grigia-rossastra poggia su una base di legno, entrambe le figure sono inginocchiate su piccoli cumuli di terra con rami di arbusti. Eseguito a tutto tondo si presenta ben definito non solo anteriormente ma anche nel retro. L’intero bozzetto però,
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presenta molte parti aggiunte dovute a fratture varie: le braccia e i piedi del Battista, la testa e i piedi di Cristo; inoltre una grossa frattura, ricongiunta, si presenta alla base del bozzetto dividendolo in due. I restauri eseguiti nel 1981 hanno liberato, così come per i bozzetti berniniani, la superficie del manufatto dalla tinta nera data ad olio che lo ricopriva e fatta risalire al XIX secolo Presente nell’inventario del 1666 (Arch. Chig. 702) della collezione Chigi, è descritto come «un Battesimo di S. Gio. Batta. di terra cotta alto pal: doi» e ugualmente indicato negli inventari Arch. Chig. 700, 701 e 703 come «una statuetta di terra cotta d’un Battesimo di S. Gio. Batta. alto palmi due». Fin dall’inizio, dunque, il bozzetto era presente nella raccolta e soprattutto, a questa data, non era stato ancora verniciato. Non compare, invece, nell’inventario del 1705; riemerge nell’inventario firmato da Vincenzo Carducci, probabilmente del 1745, posato sopra un piedistallo assieme al bozzetto della Carità e ad un Bacchetto146. Da questo momento non verrà più menzionato fino a quando, nel 1793, lo ritroviamo citato come «un gruppo di gesso tinto a metallo rappresentante S. Gio. Batta, che Battezza il Salvatore al Giordano con piede di legno scantonato tinto simile» e infine, presumibilmente, tra gli 8 bozzetti attribuiti al Bernini. Come possiamo dedurre dalla descrizione, a questa data il bozzetto risulta già verniciato e la tinta rese difficile il riconoscimento del materiale stesso dell’oggetto: l’argilla cotta è stata confusa dall’autore dell’inventario con del gesso. Quindi la vernice nera, documentata nei recenti restauri del 1981, dovrebbe essere fatta risalire agli anni compresi tra il 1745 ca. e il 1793 e non al XIX secolo. Olga Raggio e Jenifer Montagu hanno restituito la paternità ad Alessandro Algardi dopo che, nel 1923, Brinckmann147 l’aveva attribuita ad Antonio Raggi, sulla base del confronto con il gruppo marmoreo in San Giovanni dei Fiorentini; altri ancora avevano pensato a Melchiorre Cafà148.
146 Cfr. Arch. Chig. 9449: Inventario dei Mobili in Consegna a Vincenzo Carducci Guardarobba. Firmato Vincenzo Carducci: «n. trè Sgabelloni tinti color di noce filettati d’oro con sopra trè modelli, cioè uno rappresentante la Carità l’altro il Battesimo di S. Gio: Batta., e l’altro Baciccio». 147 Cfr. BRINCKMANN, Barock-Bozzetti cit., pp. 90-91, tav. 44. 148 Cfr. FERRARI, Bernini cit., p. 588.
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Alessandro Algardi: Liberalità Terracotta, cm 26,5 Superficie ricoperta da vernice bruna rossastra Provenienza: Roma, Palazzo Chigi (?) poi Biblioteca Vaticana, Galleria Clementina Attualmente: Musei Vaticani, Sala dei Papiri, vetrina a sinistra
Il primo ad attribuire ad Alessandro Algardi questo bozzetto per la figura allegorica della Liberalità, che si trova a sinistra del monumento funebre di Leone XI a S. Pietro, fu Irving Lavin149, seguito poi da Olga Raggio150 e successivamente confermato da Oreste Ferrari e Serena Papaldo151. Commissionata dal Cardinal Roberto Ubaldini nel 1634, e terminata il 26 dicembre 1644, fu posta in sito solo nel 1652152; l’intera opera in marmo è autografa. Filippo Baldinucci aveva affermato che i modelli e la statua della Liberalità spettavano al Ferrata, mentre Giovan Battista Passeri aveva sostenuto che questa fosse stata scolpita da Giuseppe Peroni e la Magnanimità da Ercole Ferrata. Questa terracotta, mutila in diverse parti, è la più lacunosa di tutto il gruppo: mancano la testa e la mano destra alla figura femminile, come pure la testa e il braccio del puttino in basso a sinistra. Nella mano sinistra sorregge qualcosa di incerta identificazione, a causa di un’esecuzione assai approssimativa. L’identificazione di questo bozzetto negli inventari è difficile, poiché non è presente nessun riferimento che si possa in qualche modo associare ad esso. Allo stesso tempo la presenza di quel bambino in basso a destra fa riflettere sull’eventualità che si tratti di un bozzetto per la Carità, da identificare con uno dei quattro presenti nell’inventario Arch. Chig. 9449: «una figura di terra cotta alta pal: doi in circa che representa 149 Cfr. I. LAVIN, The bozzetti of Gian Lorenzo Bernini, Harvard University, 1955, pp. 5960, 116-117. F. MANCINELLI — M. T. DE LOTTO, in Bernini in Vaticano cit., Roma 1981, schede nn. 88, 89, 105, 106. F. PETRUCCI, Gian Lorenzo Bernini per casa Chigi: precisazioni e nuove attribuzioni, in Storia dell’Arte, 90 (1997), pp. 176-200. 150 Cfr. RAGGIO, Bernini and the Collection cit., p. 377-378. 151 Cfr. FERRARI — PAPALDO, Le sculture del Seicento cit., pp. 570-571. 152 Ibid.
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la Carità». Un bozzetto, quest’ultimo, che tutti gli studiosi sono concordi nel riconoscere come quello per la Carità del Bernini per il monumento funebre di Urbano VIII; ma che, come già largamente spiegato, varrebbe la pena di essere ulteriormente studiato153. Luigi Bernini (attr.): l’Angioletto con la tiara
Terracotta, cm 20 ca. Superficie ricoperta da vernice bruna rossastra Provenienza: Roma, Palazzo Chigi, poi Biblioteca Vaticana, Galleria Clementina Attualmente: Musei Vaticani, Sala dei Papiri, vetrina a sinistra
Citato nell’inventario di Flavio Chigi del 1666, Irvin Lavin e Olga Raggio ritengono che sia uno dei bozzetti eseguiti per gli angioletti che erano a lato della prima Cattedra di S. Pietro (1630-1637) e lo attribuiscono quindi a Luigi Bernini. Presente in tutti gli inventari fin qui descritti, doveva essere accompagnato da altri angioletti simili che forse con esso facevano da pendant alla Cattedra di San Pietro. Analizzando gli inventari vediamo che nell’Arch. Chig. 702 è presente: – «un puttino di terra cotta alto pal: uno» – «altro simile con un’ Regno e chiavi in mano» – «un puttino alato alto pa: uno di terra cotta con un regno in mano». Quest’ultimo è sicuramente il nostro, in quanto «alato». Andando avanti vedremo che anche nell’Arch. Chig. 701-703 sono presenti tre puttini come nel precedente.
Nell’inventario del 1694 è presente al f. 271r «un modello di terra cotta, con un Puttino à sedere che tene in mano il camauero del Papa il tutto dorato». Erroneamente, a mio avviso, viene identificato da France153 Cfr. supra, cap. 3 e contesto.
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sco Petrucci154 con il nostro bozzetto, poiché è in «un Angelo di terracotta, che tiene in mano il regno del Papa»155 che bisogna identificare il nostro bozzetto; per due semplici ma innegabili ragioni: innanzitutto perché siamo di fronte ad un angelo, e in secondo luogo perché è sorretta una tiara e non un camauro156. Non è da escludere che anche questo bozzetto possa aver fatto parte del gruppo di 8 statuette attribuite al Bernini e tinte color bronzo. Nell’ultimo inventario, redatto in occasione della vendita del palazzo allo Stato, ritorna infatti un «putto di terracotta che sorregge un triregno». Il bozzetto è ben rifinito in tutte le sue parti, ha subito delle prove di restauro sul retro, ancora visibili, per eliminare la vernice nera che lo ricopre risalenti senz’altro al XVIII secolo, come per tutto il resto del gruppo, oggi nei Musei Vaticani. Entrambe le ali, quantunque la sinistra attualmente manchi, e la base erano state ricongiunte. La Verità di autore ignoto, da G. L. Bernini Terracotta, cm 60 ca. Superficie ricoperta da vernice bruna rossastra Provenienza: Roma, Palazzo Chigi (?) poi Biblioteca Vaticana, Galleria Clementina Attualmente: Musei Vaticani, Sala dei Papiri, vetrina a sinistra
L’opera in marmo, lasciata in eredità alla famiglia, venne trasferita nel palazzo Barberini, dove vi rimarrà fino al 1924, anno in cui passò definitivamente nella Galleria Borghese. La Verità fu un tema molto caro a Bernini che da sempre la considerò come una delle virtù più importanti da perseguire nella vita terrena. Se la scultura in marmo fu eseguita dall’arti154 Cfr. PETRUCCI, Le collezioni berniniane di Flavio Chigi cit., p. 204. 155 Cfr. Arch. Chig. 701-703, 9449, 9738; Chig. T.IV.8. 156 Il camauro è il berretto tipico del papa in velluto o raso rosso; il nostro angioletto,
invece, sorregge una tiara, vale a dire la corona del Papa formata da tre anelli che si sovrappongono e che rappresentano i tre regni: celeste, terreno e degli inferi; denominata anche triregno, negli inventari è più volte citata come sorretta da un puttino o da un angelo.
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sta tra il 1646-1652157, bisogna considerare questa data come termine ante quem per il nostro bozzetto. Del blocco di marmo esistono tre bozzetti, tutti non autografi: uno al Louvre (Parigi, alt. 57 cm), uno nel Landesmuseum (Schwerin, Germania, alt. 48 cm), nel quale è rappresentato anche il tempo alla sinistra della figura stesa, e quello preso in esame in questa sede, conservato nei Musei Vaticani158. La statuetta della Verità può essere considerata un bozzetto «finito». Difatti, oltre all’alta definizione del modellato, lisciato in tutte le sue parti, sia anteriormente sia nel retro, definito e curato, scavato profondamente con un attrezzo tagliente, essa presenta delle differenze trascurabili rispetto all’opera in marmo, solo nelle pieghe del panneggio. Potrebbe trattarsi, infatti, di un’esercitazione, eseguita nella bottega di Bernini da parte di un suo allievo, come già affermato dal Brinckmann nel suo saggio dedicato ai bozzetti berniniani159. Ci imbattiamo in ben due modelli per la Verità del Bernini nell’inventario del 1694 al f. 271r160. Dopo tale data non ne abbiamo più notizia. Francesco Petrucci ritiene che non si tratta di due diversi bozzetti realizzati dal Bernini per la Verità, ma che si tratti del gruppo Cronos che scopre la Verità, così come attestano le foto dei bozzetti nella Biblioteca Chigiana quando era al Palazzo Chigi161. Noi saremmo propensi ad azzardare una duplice identificazione: una nel bozzetto descritto nell’inventario Arch. Chig. 702162 con «una figura di terra cotta di una donna ignuda che dorme dorata», la seconda in quello nell’Arch. Chig. 9449 di un «modello di creta dorato di una venere colca, che dorme»163.
157 Cfr. WITTKOWER, Bernini cit., p. 268. 158 Ibid. Si veda anche BRINCKMANN, Barock-Bozzetti cit., p. 51. 159 Ibid. 160 Arch. Chig. 700 f. 271r: «Due scabelloni d’Albuccio, contornati e dipinti lumeggiati
d’oro, con sopra due modelli di creta cotta, rappresentanti la verità, fatti dal S. o Cav.re Bernino». 161 Cfr. PETRUCCI, Le collezioni berniniane di Flavio Chigi cit., p. 203. 162 Cfr. Arch. Chig. 702, f. 122v 163 Cfr. Arch. Chig. 9449.
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Figura femminile di autore ignoto Terracotta, cm 35 ca. Superficie ricoperta da vernice bruna rossastra Provenienza: Roma, Palazzo Chigi (?) poi Biblioteca Vaticana, Galleria Clementina Attualmente: Musei Vaticani, Sala dei Papiri, vetrina a sinistra
Questa piccola terracotta, panneggiata e alta poco più di 35 cm, si conserva ancora discretamente e presenta solo alcune scheggiature, che lasciano intravedere il colore chiaro dell’argilla sottostante. Il modellato si presenta dettagliato e definito nei minimi particolari. Da notare l’aderenza del panneggio: sembrerebbe più un bozzetto eseguito come esercitazione, o tutt’al più per una fusione in bronzo, proprio per la sua alta definizione tipica di un modello finito. La completa assenza in studi precedenti ha reso difficile qualsiasi tipo di riferimento ad autore e data; di conseguenza potremmo identificarla nella terracotta di: «una statouina alta pal: uno e mezzo di una donna in terra cotta», presente negli inventari già citati164. Figura maschile di autore ignoto Questo bozzetto, così come quello precedente, si conserva integro in tutte le sue parti e anche la vernice nera presenta pochissime lacune. Una grande fessura percorre tutto intorno il bozzetto nella parte alta. È raffigurato, probabilmente, un santo che sfoglia un libro, anche se il copricapo e i calzari fanno pensare più ad una figura orientale. In basso a sinistra sono presenti una pisside e molti serpenti.
164 Cfr. Arch. Chig. 700-703. Si vedano rispettivamente in Appendice i documenti 1-4.
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I BOZZETTI DI BERNINI NELLA COLLEZIONE CHIGI
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Terracotta, cm 40 ca. Superficie ricoperta da vernice nera rossastra Provenienza: Roma, Palazzo Chigi (?), poi Biblioteca Vaticana, Galleria Clementina Attualmente: Musei Vaticani, Sala dei Papiri, vetrina a sinistra
Altrettanto difficile è identificarlo negli inventari finora esaminati, dove non è descritta nessuna figura maschile, se non «una statouina di terra cotta d’un S. Agostino alto pal. doi tinto di porporina», nell’inventario databile al 1666; in quest’ultimo sono presenti anche «quattro statuine di terra cotta alte p.mi doi tutte dorate»165. Non più citate, torneranno nell’inventario del 1793 come «trè statuette di gesso tinto a metallo rappresentanti Santi»166. Nell’inventario degli inizi del XX secolo sono citate nella stanza del guardaroba «quattro statuette rappresentanti Apostoli, modelli originali in terra cotta dorata, di quelli esistenti nella Cappella in bronzo dorato; scuola del Bernini»167. Questo bozzetto potrebbe aver fatto parte dei quattro bozzetti di Santi, ed eventualmente un restauro che liberi la superficie dalla vernice nera potrebbe rivelarci sotto di essa tracce di doratura. È opportuno soffermarci, pur se brevemente, su alcuni altri bozzetti di terracotta della collezione presenti negli inventari analizzati. Prima di tutto il modello per il Moro della fontana in piazza Navona di Bernini. È presente fin dall’inventario del 1666 come «una statouina di terra cotta che posa sopra una lumaca con un delfino trà le gambe alta pal: tre», descritto successivamente nell’Arch. Chig. 701 e 703; nell’Arch. Chig. 700 è definito come «un tritone di terra cotta, con sua basa di Portasanta»; e ancora nell’inventario del 1745 come «un tritone di terracotta con Base 165 Arch. Chig. 702, f. 116v; 701, ff. 230-231; 703, ff. 268-270. 166 Arch. Chig. 9738, f. 85r 167 Arch. Chig. 14389: «Roma. Palazzo in Piazza Colonna. Stima dei mobili esistenti
negli appartamenti principio del secolo XX».
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di Portasanta». Sarà poi dal 1767 che verrà posto nella stanza dei Disegni di Palazzo Chigi, poi Camera degli arazzi (1883), e in ultimo nella Sala da pranzo (inizi del XX secolo), in una piccola nicchia sopra il camino al lato destro, e mai più tolto fino alla vendita del palazzo allo Stato. È presente in tutti i successivi inventari sempre nella medesima nicchia. Anche questo bozzetto nell’inventario del 20 gennaio del 1883 è stato confuso con «gesso color bronzo». Le foto conservate nell’Archivio Chigi testimoniano la presenza di questo bozzetto nella camera dei Disegni. Altri due modelli in terracotta, citati spessissimo fino all’inventario del 1767168, quando vengono assegnati al Bernini, sono «due bassi rilievi di Creta sotto i due lati del tremò di palmi uno e ½, e con sua cornice intagliata, e dorata senza vetro, uno rappresentante l’arma dell’Ecc.ma Casa, del Bernini, ed altro un Cameo Antico», quest’ultimo rappresenta il ritratto di Alessandro VII, così come specifica l’inventario antecedente del 1666: «un basso rilievo di terra cotta con la medaglia di Papa Alessandro dedicato da Jaconacci con cornice di pero nera» e «un basso rilievo di terra cotta con impresa di Casa Chigi con cornice nera»169. Lo troviamo ancora nell’inventario del 1770170 sempre nel Gabinetto dei Disegni proprio sotto le due nicchie ai lati del camino di cui una delle due era occupata dal Moro di Bernini, mentre l’altra da una sant’Agata in metallo che però fu confusa con una «Santa Lucia sopra base di pietra gialla»171. Giunti alla fine di questo breve excursus della storia dei bozzetti all’interno della collezione del Cardinale Flavio I Chigi, vogliamo ribadire e sottolineare la varietà e la ricchezza di informazioni che troviamo negli inventari. Ma non mancano lacune e imprecisioni: non sono quasi mai presenti, ad esempio, i nomi degli artisti, le date di alcuni inventari sono incerte e spesso la descrizione dei bozzetti stessi è troppo sintetica, tanto da rendere spesso difficile ogni tentativo d’identificazione dei nostri bozzetti. Nonostante tutte queste carenze, tuttavia, ci pare di poter affermare che uno studio accurato di questi bozzetti, unitamente a quello di altre fonti complementari e ancora inedite conservate nell’Archivio Chigi, potrebbe far luce su alcuni punti ancora oscuri sopra denunciati.
168 Cfr. Arch. Chig. 1817. 169 Cfr. Arch. Chig. 702, ff. 119r, 122r. 170 Cfr. Arch. Chig. 9534, f. 129r. 171 Cfr. Arch. Chig. 1837.
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FONTI I. Arch. Chig. 700: «Inventario del Palazzo ai SS. Apostoli, 1 maggio 1692» (redatto dal guardarobiere Francesco Corallo). Al f. 143v ha inizio l’inventario del Museo del casino alle Quattro Fontane, firmato e datato 22 gennaio 1694 dal guardarobiere Tomaso Zanorvi. Al f. 171 si interrompe e prosegue con i beni di Formello, Versaglia, ecc… per poi riprendere con l’elenco dei quadri del casino alle Quattro Fontane al f. 249 e dei mobili al f. 270. [f. I] Io In:to Guard:a dell’Em:mo Sig.r Card.l Chigi P.rone, dichiaro con la p:nte, che tutte le robbe, che stanno in q:to p:nte Libro sottoscritte da me con F., e con C: nel, fine d’ogni partita, facciata, et Inventarij, sono tutte in mie mani. Pero m’obligo di renderne fedelis: mo Conto ad’ogni richiesta di S. E. ò suoi Minis.ri nella più ampla forma della R. C. A. Et in fede. Q.to dì il p.mo Maggio 1692 Franc: Corallo Guard. Afermo quanto di Sopra M.o pp.a L’inventario di mobili descritti nel presente Libro, essendo Stato fatto per obligare il Guardarobba à renderne conto prima della morte del Sig.re Card.e Flavio Chigi, fù trovato svariare in molte cose al tempo di detta morte, e però fù fatto altro Inventario Giuditiale nell’anni 1705=, e 1706= rogato p. gl’atti del Franceschini Not. A. C., qual’Inventario Giuditiale come fatto accuratamente di tutto quanto esistente nel tempo della morte di detto Sig.re Cardinale dovrà attendersi, e non già il presente contenuto in questo libro, p. il qual’effetto se ne fà la presente memoria per notizia de Successori. Augusto Chigi f. 143v Io sottoscritto Guardaroba dell’Ecc.mo Principe Agostino Chigi nel Casino delle quattro | fontane dichiaro con la presente che tutte le partite del sud.o. Casino che | sono sottoscritte con T. e Z. sono tutte robbe che io ho in mano; pero m’obligo | di renderne fedelissimo conto ad ogni richiesta di S. E. e suoi ministri nella | più ampla forma dalla R. C. A. et in fede questo dì 22 Gennaro 1694. Io Tomasso Zanorvj mi obligo come sopra M: o pp. a Segue l’elenco dell’Inventario del Museo, che stà nel Casino alle quattro fontane con la rispettiva divisione degli ambienti e vengono descritte 26 terrecotte:
Inventario dei mobili del Casino alle quattro Fontane […]
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Prima stanza a pianterreno à mano dritta […] f. 270v Un tritone di terra cotta, con sua basa di Portasanta […] Nel principio della scala […] f. 271r Una statua di un Ciclope à sedere di terracotta. […] Prima stanza del p. mo Appartamento […] Due scabelloni d’Albuccio, contornati e dipinti lumeggiati d’oro, con sopra due modelli di creta cotta, rappresentanti la verità, fatti dal S. o Cav.re Bernino. […] Una cassetta di noce intagliata e dorata, di p.mi 2, con sop.a un modello di terra cotta, con un Puttino à sedere che tene in mano il camauero del Papa il tutto dorato. Seconda stanza […] N. Tre scabelloni d’Albuccio tinti color’ di noce filettati d’oro, con sop.a tre modelli di terra cotta, cioè uno rappresentante la Carità, l’altro il Batt. mo di S. Giò: Batta e l’altro il Bacucco. Terza stanza del p.mo appartamento […] f. 275r Una statuetta di terra cotta rappresentante una donna. Due piedistalli, con sop.a ad’ uno, un Papa di terra cotta, che da la Benediz.ne, con piedi di marmo nero, e nell’altro un Vescovo, tutti dorati, mano del Bernino. […] Prima stanza del secondo appartamento […] f. 275r Due scabelloni di noce filettati d’oro, con due modelli di creta cotta sop.a […] Un modello di muisè di terracotta. Due scabelloni intagliati, finti di pietra, con due modelli delli fiumi per la fontana di piazza navona tinti à bronzo […] Un modello del Danielle di terra cotta del Popolo, fatto dal Bernino. […]
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Seconda stanza f. 276r […] Due modelletti di terra cotta, con due base dorate, rappresentanti due capre. […] Un crocifisso di creta cotta alto 3 p.mi con sua croce di legno tinta di noce, e con filetto tinto di rame. […] Due modelletti di creta cotta, rappresentanti la Carità, e l’Abondanza. Quarta stanza f. 277r […] Due statue di creta cotta indorate rappresentanti Celere, con Bacco, e l’altra una S.Agata. […] Due modelletti di creta cotta tutti dorati rappresentanti due Bacchetti.
II. Arch. Chig. 701: «Inventario non completo simile al precedente [ff. 230-231, 1666-1674 circa]». Questo volume non ha data né firma; riporta alla voce Statuette diverse un elenco dov’è possibile rintracciare 30 terrecotte come qui di seguito: Statuette diverse – Trè statuette d’alabastro con suo piedè simile. – Una statuetta di metallo d’uno, chè nà’ à […]. – Due statuette antiche di metallo alte un palmo inc.ca l’una. – Due statuette antiche di metallo alte un palmo l’una in circa. – Diverse figure d’alabastro con un foro con suo piedistallo con armi di S. Emin.za. – Una statuetta d’alabastro d’un vecchio, che regge il mondo alta p.mi trè. – Due statuette d’alabastro con piedistallo alto un palmo l’una. – Una statuetta d’alabastro con una frezza in mano alta palmi due. – Due statuette simili alte un palmo l’una. – Una statuetta d’alabastro con una frezza in mano alta palmi 2. – Una statuetta di legno intagliata chè stà’à sedere sopra un Drago con armi di S.Emin.za. – Due statuette di legno intagliata, chè rappresentano due Paggi alte p.mi 4: inc.ca tinte di rosso, et oro, che reggono in mano una Canestrà con frutti di cera finti.
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– Due statuette intagliate di due moretti pinti di verde, rosso, e nero alte p.mi 4: con due Canestrà di frutti di cera finti. in mano. – Una statuetta di legno contornato d’un Giovane del male, che sona la Chitarra. – Sei statuette di legno alte un palmo. – Due statuette di terra cotta alte p.mi uno, e mezzo l’una. – Due statuette di terra cotta simili alte p.mi 2. – Una statuetta di terra cotta, che posa sopra una lumaca con un delfino fra le gambe alta p.mi trè. – Una statuetta di un Puttino di terra cotta alto p.mi uno. – Un’altra statuetta di un Puttino di terra cotta con un Regno, e chiavi in mano. – Una statuetta di terra cotta d’un Battesimo di S. Gio: Batta. alto palmi due. – Una statuetta di terra cotta alta p.mi 2 ìn.ca chè rappresenta la Charità. – Una statuetta di terra cotta alta p.mi 2 e mezzo’ inc.ca rappre.ta un Vecchio con un Angelo, che lo tiene per i capelli. – Una statuetta di terra cotta di Papa Urbano alta p.mi 2 colorita di metallo. – Una statuetta di terra cotta d’un S. Agostino alta p.mi 2 tinta di porporina. – Una statuetta alta p.mi uno, e mezzo d’una donna di terra cotta. – Una statuetta d’un Puttino alta p.mi uno di terra cotta con un Regno in mano. – Quattro statuette di terra cotta alte p.mi 2 tutte dorate. – Trè statuette di terra cotta alte p.mi 2 inc.ca colorite di color di bronzo. – Due statuette di terra cotta alte poco più d’un palmo. – Una statuetta di terra cotta longa p.mi uno dorata con un Aquila. – Una statuetta d’un Bacco di terra cotta alta p.mi 1 con un puttino, et una capra con uno peduccio dorato. – Due statuette di due capre di terra cotta con suo peduccio dorato. – Una statuetta d’un X.to incroce di terra cotta colorito di met.lo alto 3 p.mi con sua croce nera e col.re di met.lo. – Una statuetta d’un Giovane in tavola contornato del naturale. – Un ritratto di terra cotta ò medaglia di Papa Alessandro cornice tonda intagl.ta, e dorata. – Due teste di imperatore di Gepo dipinte di color di metallo sopra un camino. – Trè ceste di cernio con sue Armature. – Un Busto di Pietra d’Etiopia, che rappresenta un imperatore con suo piedistalletto simile col suo manto d’oro massiccio alto tutto da testa fin al piedistalletto mezzo p.mo inc.ca collocato in una cassettina coperta di velluto paonazzo. – Un vecchietto della pietra d’etiopia capace di mezza foglietta di figura tonda ligata con oro tondo nel piede quanto nel labro con suo manico pure d’oro smaltato di bianco di vari colori con la sua casetta coperta di cerame rosso dorato.
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III. Arch. Chig. 702: «Inventario del palazzo ai SS.ti Apostoli, Giardino alle 4 Fon.e, Ariccia, Formello, Villa Versaglia, Magliano. S.r Card. Flavio Chigi». Datato da A.M. Tantillo (1990, p. 80) al 1666-1676, anche in questo volume ai ff. 115-128 è presente un elenco dei beni del casino alle Quattro Fontane e possiamo rintracciare 34 terrecotte: f. 1v Inventario delli Argenti, Mobili, e Robbe esistenti nel Palazzo dell’Em.mo e R.mo Sig.r Cardinal Flavio Chigi à SS.ti Appostoli. Inventario delle robbe esistenti nel Casino del Giardino alle quattro Fontane. Prima saletta à mano manca f. 115v Doi statuine di terra cotta alte pal: uno e mezzo l’una. – Un quadro in tela da Testa con un ritratto di papa Alessandro VII con cornice color di noce et oro. Un ritratto di terra cotta o medaglia di Papa Alessandro VII con cornice tonda intagliata e dorata. Sala grande f. 116v – Doi statouine di terra cotta simili alte pal. doi. – Una statouina di terra cotta che posa sopra una lumaca con un delfino trà le gambe alta pal: tre. Anticamera à mano manca verso la strada f. 116v – Un puttino di terra cotta alto pal: uno. – Un altro simile con un’ Regno e chiavi in mano. – Un Battesimo di S. Gio: batta di terra cotta alto pal: doi. – Una figura di terra cotta alta pal: doi in circa che rappresenta la Carità. – Una figura di terra cotta alta pal: doi e mezzo in circa che rappresenta un Vecchio con un’Angelo che lo tiene per gli capelli. Segue l’elenco dei quadri. […] Stanza che segue verso il Giardino f. 118r – Una statuina di terra cotta di Papa Urbano alta doi pal. colorita di metallo. – Una statouina di terra cotta d’un’ S.Agostino alto pal: doi tinto di porporina.
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Seguono i quadri. […] f. 119r Un basso rilievo di terra cotta con impresa di Casa Chigi con cornice nera. Seguono i quadri. Camera che segue verso il Giardino […] f. 120r – Una statouina alta pal: uno e mezzo di una donna di terra cotta. – un Cagnolo che dorme di terra cotta. – Un puttino alato alto pal: uno di terra cotta con un Regno in mano. […] f. 122r Un basso rilievo di terra cotta con le medaglie di Papa Alessandro dedicato da Jaconacci con cornice di pero nera. Per le scale – Una cassettina d’albuccio tinta di nero con una figura di terra cotta sopra di una donna ignuda che dorme dorata. […] Prima camera à man manca dove è la ringhiera nell’appartam.to di sopra f. 125r Quattro statuine di terra cotta alte p.mi doi tutte dorate Stanza detta la Sala f. 125r – Tre statuine di terra cotta alte p.mi doi in c.a colorite di color di bronzo. – Doi statuine di terra cotta alta poco più d’un’pal: Camera à mano dritta verso il Giardino f . 126r – Una figurina di terra cotta longa p.mi uno dorata con un’Aquila. – Un Bacco di terra cotta alto un p.mo con un puttino e una capra con suo peduccio dorato. – Doi capre di terra cotta con suo peduccio dorato. – Un cristo in croce di terra cotta colorito di metallo altto tre palm. con sua croce nera e color di metallo.
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IV. Arch. Chig. 703: «Inventario del Palazzo ai SS. Apostoli S.r. Card. Flavio Chigi [1666-1676 circa]». Anche in questo volume ai ff. 268-270 è presente la voce «Statuette diverse» e l’elenco è uguale a quello trasmesso da’Arch. Chig. 701, non firmato. Un elenco di numerosi quadri si trova dal f. 251 al f. 342. ff. 268-270 Statuette diverse — Tre statuette d’Alabastro con suo piede simile. – Una statuetta di metallo di uno chè na à caccia di […]. – Due statuette antiche di metallo alte un p.mo incirca l’una. – Due statuette antiche di metallo alte p.mi uno in circa. – Diverse figure d’alabastro con un foro con suo piedistallo con armi di S.E. – Una statuetta d’alabastro che […] sopra una palla alta p.mi due e un velo. – Due statuette d’alabastro con piedistallo alto un p.mo l’una. – Una statuetta d’alabastro con una frezza in mano alta p.mi due. – Due statuette simili alte un p.mo l’una. – Una statuetta d’alabastro con una frezza in mano alta palmi 2. – Una statuetta di legno intagliata chè sta à sedere sopra un Drago con armi di S.Emin.za. – Due statuette di legno intagliate, chè rappresentano due Paggi alte p.mi 4 incirca tinti di rosso e oro che reggono in mano una canestra con frutti di cera finti. – Due statuette intagliate di due moretti tinti di verde, rosso, e nero alte p.mi 4 con due canestri di frutti di cera finti in mano. – Una statuetta di legno contornato d’un giovane del male, che sona la chitarra. – Sei statuette di legno alte un p.mo. – Due statuette di terra cotta alte p.mi uno e mezzo l’una. – Due statuette di terra cotta simili alte p.mi 2. – Una statuetta di terra cotta, che posa sopra una lumaca con un Delfino fra le gambe alta p.mi tre. – Una statuetta di un puttino di terra cotta alto p.mi uno. – Un’altra statuetta di un puttino di terra cotta con un Regno, e chiavi in mano. – Una statuetta di terra cotta d’un Battesimo di S.Gio: Batta. alto palmi due. – Una statuetta di terra cotta alta p.mi 2 ìn.ca chè rappresenta la Carità. – Una statuetta di terra cotta alta p.mi doi e mezzo in.ca rappresenta un Vecchio con un Angelo, che gli tiene gli capelli. – Una statuetta di terra cotta di Papa Urbano alta p.mi 2 colorita di metallo. – Una statuetta di terra cotta d’un S. Agostino alta p.mi 2 tinta di porporina. – Una statuetta alta p.mi uno e mezzo d’una donna di terra cotta. – Una statuetta d’un Puttino alta p.mi uno di terra cotta con un Regno in mano. – Quattro statuette di terra cotta alte p.mi 2 tutte dorate.
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– Trè statuette di terra cotta alte p.mi 2 inc.ca colorite di color di bronzo. – Due statuette di terra cotta alte poco più d’un p.mo. – Una statuetta di terra cotta longa p.mi uno dorata con un Aquila. – Una statuina d’un Bacco di terra cotta alta p.mi uno con un puttino e una capra con suo peduccio dorato. – Due statuette di due capre di terra cotta con suo peduccio dorato. – Una statuetta di un Cristo in croce di terra cotta segue al f. 270v – colorito di metallo alto 3 p.mi con sua Croce nera e colori di metallo. – Una statuetta di un giovane in tavola contornato del naturale. – Un ritratto di terra cotta, ò medaglia di Papa Alessandro con cornice tonda intagliata e dorata.
V. Arch. Chig. 717: «Stato dell’eredità del cardinale Flavio Chigi» f. 14r Stat | Dell’Eredità della glo.me del S.re Card.le | Flavio Chigi Vescovo di Porto e Nepote | della S.a Em.a di Papa Aless.ro VII il quale pass | o da questa à meglior vita il 13 sett. Re | 1693 — con testamento chiuso e sigillato a gl’atti del Franceschini Not. A. C. lì 17 | Mag.o 1692 — et aperto il dì 13 sett. bre sud. o | nel quale istituì suo erede di tutti i suoi | Beni Stabbili, giurisditionali, et allodia | li Mobili, Semoventi, Ragioni, e nomi de | Debitori esistenti ne Territori di Ro-|ma, ò in altra parte fuori però dello Stato | Del Ser. mo Gran duca di Toscana l’Ecc.mo S.re | D. Agostino Chigi Principe di Farnese | suo cugino e doppo la sua morte quando | cumque li chiamati nella Primogenitura | rogata sotto lì 19 Giugno 1662, per gl’atti del Pa|luzzi all’ora Not. A. C. e confermata per | Breue della Sa.me : di PP. Aless.ro VII | sopradetto lì 20 Sett.bre del med. o anno | Havendo sottoposto a tutte le leg|gi conditioni, sostitutioni, proibitioni, | Pesi, e dispositioni esposte nella sud.a | Primogenitura tutti e singoli suoi Be|ni sopradetti, quali sono stati descritti | nel presente Stato da […] sino a | […]. | Come segue qui di contro | 17 maggio 1692. segue al f. 14v: Casino con giardino alle quattro fontane nella strada per andar a S.a M.a Maggiore Il Casino sudetto con il suo Giardino apprò suoi noti confini fù lasciato alla ch:me: di Mons. Dom.o Salvetti come nel suo testam.o chiuso agli atti del Paluzzi Not: A. C. sotto lì 6 luglio 1664 et aperto il 16 del med. mese di lug.o; essendo poi rimasto alla ch:me: del S.r Card. Flavio Chigi per morte del S.r D. Mario suo padre fù dal med.o S.r card.e accresciuto di fabbrica di detto Casino nel sito verso l’orto del Monastero delle Monache della SS.ma Incarnazione del quale gli fu concesso il detto sito per annuo Canone di 39,90 come nelli med.i atti del Paluzzi e Simoncelli Not. A. C. Sotto lì 3 lug.o 1669
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BENEDICTA SIT SEMPER SANCTA ET INDIVIDVA TRINITAS, | VNVS DEVS AMEN | TESTAMENTVM | FLAVII S. R. E. C Cardinale Chisij Episcopi Portuen | a.c. san. Mem. Alexandri Papae VII. ex Frate. | Germano Nepotis | Anno salutis 1693 | Romae 1694
VI. Arch. Chig. 719: in questo fascicolo è conservato il documento che attesta il passaggio dei beni dal Cardinale Flavio Chigi al principe Augusto Chigi 1705-1706. EREDITÀ | Della Ch:me: del Sig: Cardinal’ | Flavio Chigi | Conto del Dar, et Avere | dell’Ere | dità della ch.me: dell’Emo:Sig.re: Card:le Fla|vio Chigi in mano dell’E.mo: Sig.re Pri.pe D. | Augusto Chigi dalli 25 Genn.o dell’Anno | 1706, che ne fù fatto Inventario a gl’| atti del Franceschini Not. A. C. hoggi | Vitali à tutto lì 19 7mbre 1721, che ne | fù fatto Istromento di rendimento di Conto | con Surrogatione de Beni, come gli mede.mi | Atti. Segue: Adì 8 agosto 1729 |Ecc:mo P.ncipe D. Augusto Chigi, Dare all’eredità | della ch:me: del Sig.re Cardinal Flavio Chigi per | effetti ereditarj dal medesimo alienati, e denari | pervenutili, in mani, come in appr.o cioè | per il prezzo di tutte le statue ereditarie descritte nell’Inventario | de Beni ereditarij del detto Sig.re Cardinal Chigi, rogato | per gl’atti del Franceschini, Not. A. C. Lì 8 agosto 1706 | alienate dal detto Sig. re Principe D. Augusto attese la | facoltà nel di lui Testamento, e vendute al Sig.re Baron Raimondo Leplat per Sarvitio della Maestà del Rè di | Polonia 37/m come per Istromento di detta vendita rogato | p. atti del Vitali Not. A. C. Lì 6 Xmbre 1728, dalli quali | defalcati 200 per alcune statue, et altro comprende in detta, | vendita spettante al detto Sig.re P.pe D. Augusto, come si esprime in | detto Istromento restano a detta eredità scudi Trentatrèmilaottocento | 33.800
VII. Arch. Chig. 1805: «Inventario del P.pe Agostino I Chigi, contenente anche gli oggetti dell’eredità del card. Flavio I Chigi, [firmato e datato1698] da Tomaso Pellegrini Guardarobiere». Io Guardarobba dell’Ecc.mo Sig.re Prin.pe Agostino Chigi, dichiaro con la seguente che tutte le Robbe chi stanno in questo p.te libro sotto.to dà mè T. Pellegrini nel fine d’ogni partita, facciata, et Inventarij sono tutte in mie Mani; Però m’obbligo di renderne fedelissimo conto ad’ogni richiesta di S: Ecc.za, ò fuori Ministri nella più ampla forma. Nella R. da Camera Ap.lica. Et in fede 1698 Tomaso Pellegrini m. pp.a Guardarobiere
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L’inventario dei mobili, tanto ereditarij della ch:me: del Sig.re card. Flavio Chigi, quanto anche quelli ereditarij dalla ch:ma del sig.re Principe Agostino Chigi Registrati nel presente libro, essendo stato fatto di obbligare il guardaroba à renderne conto, non debba attendersi di formare lo stato di detta eredità, ma solamente si debbono attendere li due inventarij giuditiali dell’una, e d’altra eredità fatti nell’anni 1705, e 1706 con gli atti del Franceschini Not. A. C., per essere questi stati fatti con tutta accuratezza, e diligenza, essendo in essi descritto tutto quello che si trovò esistenza nel tempo della morte di detti Sig.ri Cardinale, e Principe, e per notizia dei successori, se ne fa la presente memoria. Augusto Chigi
VIII. Arch. Chig. 1817: «Inventario de Mobili ed altro di S. Ecc.za il Sig.re d.Sigismondo Chigi Pn.pe di Campagnano 1767». Inventario delli Mobili, Argenti, Rami, Biancherie, Livree, Carrozze, Finimenti, ed altro, il tutto esistente tanto nel secondo Appartamento, quanto nella Guardaroba. Stanze della Sig.ra D.ma. Credenza, Rimesse, stalla, e consegnato dal Sig.re Gio: Anto Marchesi Guardaroba di sua s. Ecc.za P.ne al Sig:re Filippo Fulgenti m.ro di casa dell’Ecc.mo Sig:re D. Sigismondo Chigi Pri.pe di Campagnano. Questo dì 15= Ottobre 1767 […] 4. Seconda Anticamera= «Un Piedistallo di legno intagliato, e brunito color perla, e dorato nelle scorniciature, con due fogliami, e trè stelle di Metallo dorato. Sopra di esso un Busto di Marmo bianco rapp.te la S.M. di Papa Alessandro VII. […] 10. Gabinetto dei Disegni= – Due piccole Statue ai lati del Cammino, una di metallo rapp.te. S. Agata, ed altra di creta rapp.ta il Modello della statua del Moro della Fontana di piazza Navona, del Bernini. – Due bassi rilievi di Creta sotto i due lati del tremò di p.mi uno 1/n, e con sua cornice intagliata, e dorata senza vetro, uno rapp.te: l’arma dell’Ecc.ma Casa, del Bernini, ed altro un Cameo antico. – Quattro bassi rilievi di creta sopra li Pilastri della facciata con sue Cornici dorate, rapp.ti: uno la Nascita della B.ma Vergine, altro la Presentazione al Tempio, altro la Visitazione, ed altro il transito della Madonna, del Valle, Bracci, Righi, e Melchiorri. […]
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IX. Arch. Chig. 1837: «Inventario di tutti gli effetti mobil esistenti nel Palazzo in P.zza Colonna di proprietà della Ecc.ma casa Chigi eseguito il 20 gennaio 1883». 1. Sala 1 Busto in marmo rappresentante Alessandro VII sopra colonna di legno dorata e verniciata. […] 10. Salone parato di stoffa verde 1 Busto di terra cotta, rappresentante una ciociara. […] 18. Camera del Cammino della Sig. P.pssa 1 Statua in terra cotta rappresentante S. Teresa. […] 21. Camera degli arazzi 2 Consolide di legno dorato ed intarsiato con piano di pietra impellicciate, sopra alle medesime ad una un cuscino di pietra di paragone con guarnizioni di metallo dorato e sopra un teschio in pietra, all’altra, un uguale cuscino con sopra un bambino in marmo ( è stato aggiunto successivamente a matita: di Bernini). 22 Gabinetto del Sig. Principe. 16 Oggetti in bronzo rappresentanti vari Oggetti. Due Statue in due nicchie separate esistenti ai lati del camino una rappresentante un moro in gesso color bronzo base di pietra a forma di lumaca ed altra in bronzo rappresentante S. Lucia sopra base di pietra gialla. 23 Cameretta da fumo del Sig. Principe: 2 cassette di legno contenenti vari bronzi antichi e terre cotte. […] Ultimo piano 1. Camera di toletta di Don Luigi 8 statue di gesso colorate bronzo 2. Salotto di D. Agostino Tavolino di legno dorato intagliato con piano di pietra impellicciato. Sopra al Suddetto 1 Busto di terra cotta […] Biblioteca 1. Ingresso= 2 Busti in marmo uno rappresentante Alessandro VII, altro incognito, sopra base di legno. […]
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4. Primo ripiano 1 piccola Scansia sopra sudd.a una piccola statua in gesso rappresentante il Mosé di Michelangelo. 1 Lupa di terra cotta. 5. Sala Alessandrina 8 Piccole figure di terra cotta color bronzo. […] 9. Camera superiore2 piccole statue di gesso verniciate color bronzo. […]
X. Arch. Chig. 9238: «13 settembre 1693. Testamento del Card. Flavio Chigi nipote di Alessandro VII, aperto in atti Franceschini lì 13 settembre 1693». […] f. 8v «In tutti, e singoli miei Beni presenti, e futuri, tanto stabili, giurisdizionali, & allodiali, quanto mobili, semoventi, ragionevoli, Nomi de Debitori & ogni altra cosa à me spettante nel tempo della mia morte esistenti nel Territorio di Roma, ò in altra parte, fuori però dello Stato del Serenissimo Gran Duca Di Toscana istituisco mio Erede, e di mia propria mano scrivo il Signor Principe Don Agostino Chigi mio Cugino, e doppo la sua morte quando quandocumque, li Chiamati nella Primogenitura rogata sotto lì 9 di Giugno 1662. per gl’ atti del Palazzi all’hora Notaro A. C. e confermata per Breve della Sa:me di Papa Alessandro VII. Sotto lì 20 Settembre de medesimo anno, sottoponendo tutti, e singoli Beni suddetti, e particolarmente il Castello di Magliano, Pecorareccio, il Casale chiamato della Casaccia, il Palazzo, e suoi annessi nella Piazza de’SS. Apostoli, e tutti gli altri Beni, e Terre da me comprati da’ Signori Barberini, e da altri…» […]
XI. Arch. Chig. 9449: «Inventario dei Mobili in Consegna a Vincenzo Carducci Guardarobba». Firmato Vincenzo Carducci. Inventario de Mobili esistenti nel Palazzo a Piazza Colonna dell’Ecc.ma Casa Chigi, e sono come appresso cioè Inventario dei mobili esistenti nel Casino alle quattro fontane Loggia a Pianterreno Stanza della Bottiglieria
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Prima stanza a Pianterreno a mano dritta […] Un tritone di terracotta con Base di Portasanta. Seconda stanza a Pianterreno contigua. Nel principio delle Scale […] Una statua di Ciclope a sedere di terracotta. Prima stanza del Primo Appartamento […] Due Sgabelloni di Albuccio contornati, e dipinti lumeggiati d’oro con sopra due modelli di terra cotta, rappresentanti la Carità fatti dal Cav. Bernino.
[…] Una cassetta di noce intagliata, e dorata di palmi due con sopra un modello di terracotta con un Puttino a sedere, che tiene in mano il Camauro del Papa, tutto dorato. […] Seconda stanza contigua […] n. trè Sgabelloni tinti color di noce filettati d’oro con sopra trè modelli, cioè uno rappresentante la Carità l’altro il Battesimo di S. Gio. Batta., el’altro Baciccio. […] Terza stanza contigua alla d.a Due piedistalli di legno con sopra ad uno un Papa di terracotta, e nell’altro un Vescovo, del Bernino. Quarta stanza […] Un altro Piedistallo tinto color di noce intagliato, e dorato con sopra una […] di terracotta. Un Angelo di terracotta, che tiene in mano il regno del Papa sopra il Camino. Quinta stanza Sesta stanza Mezzanino a mano dritta Mezzanino a mano manca Un modello di creta dorato di una Venere colca, che dorme, e due […] […] Prima stanza del Secondo Appartamento
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Seconda stanza contigua a detta […] Un crocifisso di terracotta alto palmi 3. con croce di legno tinta di noce con filetto tinto di rame. […] Un modelletto di Pietracotta rappresentante la Carità. Terza stanza di d.o Appartamento Camerino Quarta stanza […] Due Statue di Terra cotta dorate rappresentanti Cerere, e Bacco in una, el’altra S. Agata. […] Due modelletti di Terracotta dorati rappresentanti due Bacchetti. Soffitto […] Un gatto et un cane di terracotta.
XII. Arch. Chig. 9534: «Inventario dei mobili, quadri ed altro, ritrovato nel palazzo di Roma e suoi annessi, dopo seguita la morte del Principe D. Agostino Chigi, fatto nel 1770». […] Nelle due stanze in detti mezzanini dette Guardarobba degli Argenti […] Stanza che siegue f. 93v Una piccola statuetta di mezzo palmo in circa rappresentante Gesù Cristo legato alla Colonna di metallo dorato sopra piedistallo di fico d’India con guarnizione di metallo simile […] Appartamento de Mezzanini, ch’era di uso al Sig.r Pnpe Defunto per dove si và per la scaletta corrispondente alla stanza di Udienza verso Piazza Colonna. Prima stanza f. 100r – Un modello di terra cotta di circa tré palmi per alt.a in basso rilievo, originale del Bernino dorato, rappresentante l’Arma dell’Ecc.ma Casa in Castello con Cornice negra.
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– Altro in miniatura rappresentante S.Antonio di Padova con Cornice intagliata, e dorata. – Piccola testina disegnata in tondo originale del Bernino con cornice in legno. – Altro tondo simile con basso rilievo in argento rappresentante il Ritratto di Alessandro VII con cornice come sopra. […] Secondo appartamento del Sud.tto Palazzo= Quarto per uso dell’Ecc.za Loro Sig.r Pnpe Don Sigismondo e Sig.ra Pn.pessa Sua Consorte […] Gabinetto dei Disegni f. 129rv – Due piccole statue ai lati del Cammino, una di metallo rappresentante S. Agata, e l’altra di creta rappresentante il Modello della Statua del Moro alla Fontana di Piazza Navona del Bernini. – Due Bassorilievi di creta cotta ai due lati del «» di palmi uno, e mezzo, col uno con sua cornice intagliata, e dorata senza «», una rappresentante L’Ch.ma dell’Ecc.ma Casa del Bernini ed altro un Cammeo antico […] f. 129v: Sopra dei medesimi= Due disegni per alto con Cornici dorate e vetro annessi, rappresentanti uno la Cattedra di S. Pietro ed altro un Campanile del Bernini. […] Nella Facciata di rimpetto alle Finestre […] f. 130v: Quattro bassi rilievi di creta sopra i Pilastri della facciata con sue cornici dorate, rappresentanti uno la Nascita della B. ma Vergine, altro la Presentazione al tempio, altro la Visitazione, ed altro il transito della Madonna di Valle, Bracci, Righi, Melchiorri. […] Nella facciata tra le due finestre […] f. 133r: Sopra li due Pilastri = Due quadri di palmi 2 e ½ con cornici intagliate e dorate suoi Vetri avanti rappresentanti due disegni, cioè uno S. Girolamo, e l’altro S. Sebastiano di Bernini. […] Anticamerone corrispondente alla Sala, e Stanza dello Spogliatore […] f. 142v: Altra statuetta di stucco rapp.te Mosé
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Camerone contiguo al primo descritto Camerino= […] Il tutto fatto di recente da S. Ecc.za il Sig.r Pnpe D. Sigismondo Sopra SS. Credenzoni, e Cantoniere= […] f. 146v: Numero 8 statue di terra cotta tinte di bronzo che diconsi fatte dal Bernini.
XIII. Arch. Chig. 9738: «Inventario tanto dei Beni Fideicommissi che liberi trovati in essere dopo la Morte della Ch.Me: Pnpe D. Sigismondo Chigi seguita l’Anno 1793». Rubricella | dell’Inventario delli Beni | tanto Fidecommissarij | che liberi trovati in es/sere| doppo la Morte | della ch:me: | Pnpe D. n Sigismondo Chigi | seguita l’Anno 1793 f. 1v De Beni tanto Primogeniali che Fidecommissarj e liberi, si mobili, che stabili, e semoventi, Gioie, Luoghi de Monti, ed altro ritrovati in essere doppio la morte della Ch:me: P.npe Don Sigismondo Chigi seguita il dì 23. maggio prossimo passato fatto per li Atti del Paleani Not.o A. C. ad istanza di Sua Ecc.za il Sig.r P.npe D.n Agostino Chigi. […] Palazzo in Roma posto in piazza Colonna ove abita l’E.S. […] Anticamera grande a mano dritta di detta Sala corrispondente al cortile […] Sopra di essi= (tavolini di pietra) Due cuscini di pietra nera, con sopra ad uno la nascita del Bambino in marmo bianco, nell’altro un teschio di marmo bigio, le fascie di detti cuscini e fiocchi sono di metallo. […] f. 8r Sopra di esso Busto di marmo con suo piedistallino simile rappresentante la Ca:me di Alessandro PP. VII. […] f. 18v Sopra di esso= Un Busto di marmo bianco rappresentante la S. M. di Alessandro PP. VII. […]
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Stanza che segue ove al presente dorme Sua Ecc.za il Sig.r Pnpe Don Agostino […] f. 22v Sopra al medesimo= Un busto di terra cotta. […] Gabinetto dei Disegni […] Due piccole statue ai lati del cammino una di metallo rappresentante S. Agata e l’altra di creta rappresentante il modello della statua del Moro della fontana di Piazza Navona del Bernini. Due Bassorilievi di Creta sotto i due lati del Tremò [sic] di palmi uno e mezzo ed uno con sua cornice intagliata, e dorata senza vetro, uno rappresentante l’arma dell’Ecc.ma Casa del Bernini, ed altro Cameo antico. […] Camerino consecutivo […] f. 85r Sopra di esso= Due Busti rappresentanti due uomini, in gesso. Un gruppo di gesso tinto a metallo rappresentante S. Gio. Batta, che Battezza il salvatore al Giordano con piede di legno scantonato tinto simile. Altra statuetta di gesso con treregni in mano. f. 85v Altro tavolino di noce più piccolo rabescato bianco… Sopra del medesimo= trè statuette di gesso tinto a metallo rappresentanti Santi. Camerino consecutivo con tramezzo […] Sopra del medesimo quattro statuette di terra cotta tinte a bronzo e diversi libri di Divozione. […] Camerone, o sia anticamera grande contigua alla sala grande […] f. 86v Sopra l’altro= una statua di terra cotta rappresentante Mosé. […] f. 92r Sopra altro un Piedistallo di Pietra con cane sopra di creta che dorme. […]
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f. 45r Stanza che una volta servì di credenza per la ch: me: Card. Flavio Giuniore incui ora si conservano Sculture, Plastiche, musaici, ed altro come appresso. […] Plastiche antiche f. 149v Numero ventidue frammenti di terre cotte a bassorilievo, collocati sulle tavole, che sono sospesi alle pareti della stanza. ff. 369v-371r Descrizione e confronto del Casino, e Giardino posto nella strada che dalle quattro Fontane conduce a S.M. Maggiore. Casino Nell’ingresso di d.o Casino vi è un Corridorello a mano destra del quale vi sono due stanze laterali, ed a mano sinistra altre due stanze, una delle quali è formata Cucino in essa vi sono trè tavole al muro di Castagno con suoi modelli per riporvi Piatti, vi è ancora commodo di una fontanella con bocca d’acqua, e Chiave di metallo: contiguo alla suddetta cucina, e stanziala vi è una Rimessa grande, in cui vi sono diversi marmi bigi, che servirono di guarnizione a qualche Cammino, un Bassorilievo di marmo rappresentante quattro figure, e diverse […] di Travertino per la Colonna de Cavalli. Proseguendo il detto Corridorello viene in ripiano un stanzone grande a guisa di […] tutto ornato di stucchi è dipinto a rabeschi con trè finestroni a mezza altezza con testo. Lateralmente vi è una porta che introduce in due stanze, la prima ad uso di Cappella, e l’altra per uso di Sagrestia tutte spogliate. Nel Primo Piano tutte le Bussole di panno verde che di legno sono sguarnite di serrature e maniglie di metallo alle finestre molti Cristalli rotti. Nelli mezzanini sopra d.o E.mo Piano similmente alcune Bussole sguarniti di serrature e maniglie come sopra. Nel secondo piano= Gran Camerone tutto messo a stucchi, e dipinto a rabeschi, ed altre camere consecutive che formano detto Piano con Bussole sguarnite come sopra. Mezzanini superiori con Bussole similmente sguarnite, le quali Bussole tutte dal maestro di Casa essere state sguarnite da un certo Papi, a cui furono date le Chiavi dal passato uditore dell’Ecc.ma Casa. Nelle finestre di detto Casino vi sono le Persiane con suoi necessari finamenti. Nella scala che conduce alli sotterranei vi è una nicchia la quale serve per il Cane di Guardia.
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Nelli sotterranei gran Cucinone, con Cammino e Fornelli e[…] Altra Cucina al ripiano del Cortiletto con forno e fornelli. Rimessa e stalletta nuda con Camera superiore. In d.e stanze di Casino non vi furono trovati mobili di sorta alcuna. Nel Giardino vi è un piccolo Romitorio dipinto a grotte con genuflessorio e sedile. Intorno al limite superiore d.o giardino e lateralmente alle scalette vi sono li Parapetti di ferro e rabeschi. In d.o Giardino e Casino vi sono sette bocche d’acqua. […] Beni stabili […] ff. 656v-657r Casino con Giardino alle quattro Fontane nella strada di andare a S. M. Maggiore confinante da una parte cccon l’orto del Ven. Monastero e Rev. Monache della SS.ma Incarnazione, e dall’altra con il Ven. Collegio di S.[…]. con il Giardino de Sig. Strozzi, e la strada pubblica qual Casini e Giardino fu lasciato alla Ch:me del P.pe D.n Mario Chigi dalla Ch.me Pn.pe Domenico Salvetti in Conformità del di lui testamento rogato negl’atti del Palazzi oggi di me Notaro sotto lì 6 luglio 1664 essendo poi rimasto alla ch.me del Card. Flavio Chigi per morte di d.o Principe D.N Mario suo Padre fu da esso S.e Cardinale accresciuto col sito concessogli dal monastero Sud.o nella parte dell’Orto del med.o Mon.o per Annuo canone di scudi 39 e novanta, come i Istr.o rogato negli atti del Palazzi, e Simoncelli ambedue Notari A. C.[…]sotto lì 3 luglio 1669= presentemente d.o Giardino resta sfittato.
XIV. Arch. Chig. 14389: «Stima dei mobili esistenti negli appartamenti (minuta). Principio del secolo XX». Guardaroba […] 36. Quattro statuette rappresentanti Apostoli, modelli originali in terra cotta dorata,di quelli esistenti nella Cappella in bronzo dorato; scuola del Bernini. 240," Sala del Trono […] 51. Busto in marmo bianco rappresentante il Papa Alessandro VII Chigi. Scultura del XVIII sec. 1200," Seconda Anticamera […]
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58. Due sculture originarie del Bernini. La Ia rappresenta la Nascita ed è un bambino nudo, in marmo bianco che riposa sopra un cuscino di nero antico, granito di bronzo 3000," La IIa è una testa di morto, posata sopra un cuscino compagno al precedente. 1000," (tot.) 4000," Sala da Pranzo […] 75. il Moro di Bernini nella fontana di Piazza del […] Agonale: figurina terracotta attribuita allo stessa. 500," Salone delle Marine […] 214. Busto di Giovane Ciociara, scultura moderna in terra cotta di grandezza naturale. 80," […]
XV. Documenti inediti per servire alla storia dei Musei d’Italia, voll. I-IV, Firenze — Roma 1879-1880 Vol. II, pp. 175-181 «Bonorum liberorum Clar: mem: Principis D. Augusti Chisij, degli anni 1705 e 1706 per notar Francesco Franceschini, che ne dà notizia di molte statue esistite nella casa dell’illustre patrizio, vendute il 6 dicembre 1728 da suo figlio Augusto al barone Raimondo Le Plat.» Questo elenco non comprende bozzetti o modelli in terra cotta ed è lo stesso già pubblicato da Incisa della Rocchetta e recentemente da D. L. Sparti. Vol. IV, pp. 399-407 I. Inventarium Exe.me Domus Chisie a. 1705 Inventario della robba di Roma Questo primo inventario pubblicato nel vol. IV è datato: 2 dicembre 1705 dal Not. A. C. F. Franceschini. Contiene molti monumenti non compresi nell’altro inventario dello stesso anno, e che dicesi fù fatto per mandato dei fratelli Principe Augusto e l’abate Mario, dei beni liberi e allodiali del loro padre Agostino (pp. 3 e ss.). Inventario del Museo che sta nel giardino alle quattro Fontane Stanza del museo, angolo A […]
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pp. 407-408. Modello di creta dorata d’un Ganimede con l’Aquila […] Inventario dè mobili del casino alle quattro fontane Nel perincipio della scala […] pp. 407-408. Una statua d’un Ciclopo a sedere, di terra cotta […] Prima stanza del secondo appartamento […] Un modello del Daniele di terra cotta, del Popolo, fatto dal Bernino Quarta stanza […] Due statue di creta cotta indorate, rappresentante una Cerere e bacco, e l’altra una Santa Agata. Due modelletti di creta cotta tutti dorati, rappresentanti due Bacchetti. Vol. IV, pp. 408-413 I. Inventarium Exe.me Domus Chisie a. 1770 Inventario de’mobili ect. esistenti nel palazzo di Roma Il secondo inventario è datato 20 febbraio 1770, compilato dal Principe Sigismondo Chigi, allora possessore della primogenitura ordinata fin dall’anno 1662 e confermata con «Breve» nel medesimo anno dal papa Alessandro VII. […] Camerino contiguo al primo descritto camerino Sopra detti credenzini e cantoniere Num. 8 statue di terra cotta tinte color di bronzo che diconsi fatte dal Bernini. […] Vol. IV, pp. 413-417
Inventarium Exe.me Domus Chisie a. 1793 Palazzo in Roma posto in Piazza Colonna, ove abita l’Eccllenza Sua Il terzo, e ultimo inventario, pubblicato nel quarto volume è datato: il 27 giugno 1793, per lo stesso notaio, e riguarda non solo tutti i beni dell’antico fide-
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commesso, ma quelli altresì dell’eredità del Principe Agostino II, incorporati nella medesima primogenitura. Credenzone n.11 Stanza che una volta servì di credenza per la ch:me: Card. Flavio giuniore, in cui ora si conservano sculture, plastiche, mosaici ed altro. Plastiche antiche
XV. Chig. T.IV.8: «Inventario dei mobili, sopramobili ed altro, che si trova nella Biblioteca Chigiana, tranne i codici, i libri, gli armadi e le scansie» (elenco manoscritto datato 10.6.1918, firmato congiuntamente Ignazio Giorgi e Giuseppe Baronci). Camera A […] 2. N. 9. bozzetti in gesso di statue e gruppi a mano del Bernini, alcuni dei quali mancanti di qualche parte. 12. Busto in marmo rappresentante il Card. Flavio Chigi, con base in legno 0.98 × 0.39 × 0.39. […] Camera C 42. Una statua mutila in terra cotta. 44. Putto di terracotta che sorregge un triregno. 46. Statua di Mosé in terracotta rossa, alta 0.67. 48. Terracotta circolare con busto di donna, diametro 0.17 57. Ritratto in bronzo rappresentante la testa di Papa Alessandro VII, in cornice circolare di legno dorato, diametro 0.57. 73. Busto di guerriero in terracotta. Roma 10 giugno 1918
Giuseppe Baronci Ignazio Giorgi
Arch. Chig. 700: «Inventario del Cardinale Flavio I Chigi, firmato 1 maggio 1692, da Francesco Corallo con l’obbligo di render conto degli oggetti elencati». Arch. Chig. 701: «Inventario non completo simile al precedente». Arch. Chig. 702: «Inventario del Palazzo ai SS. Apostoli, Giardino alle 4 Fontane, Ariccia, Formello, Villa Versaglia, Magliano. Sr. Card. Flavio Chigi». Arch. Chig. 703: «Inventario del Palazzo ai SS.ti Apostoli Sr. Card. Flavio Chigi».
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Arch. Chig. 717: «Stato dell’eredità della glo.me del Sr. Card.le Flavio Chigi. [1693-1704. Allegato il testamento del Cardinale, a stampa. Roma. Stamperia della R. C. A.; 1694]». Arch. Chig. 719: «Conto del dare et havere dell’eredità della ch.me. dell’E.mo Sig.r Card.le Flavio Chigi, in mano dell’Ecc.mo Sig.r Pn.pe D. Augusto Chigi, 15 gennaro dell’anno 1706». Arch. Chig. 1805: «Inventario del P.pe Agostino I Chigi, contenente anche gli oggetti dell’eredità del Card. Flavio I Chigi, firmato 1698 [manca mese e giorno], da Tommaso Pellegrini guardarobba, coll’obbligo di render conto degli oggetti elencati». Arch. Chig. 1817: «Inventario de Mobili ed altro di S. Ecc.za il S.re D. Sigismondo Chigi P.npe di Campagnano. 1767». Arch. Chig. 1837: «Inventario di tutti gli effetti mobili esistenti nel Palazzo in P.zza Colonna di proprietà della Ecc.ma casa Chigi eseguito il 20 gennaio 1883». Arch. Chig. 3306-3307: «Genealogia dei Chigi di Roma». Palazzo Chigi a Piazza Colonna. Fotografie varie (Arch. Chig. 25145-25184) Arch. Chig. 25150: «Palazzo Chigi, 2o piano, Camera dei Disegni poi da pranzo, dalla parete del camino, ( foto prima del 1919). [Nella nicchia sopra al camino, a destra, c’è il tritone su un delfino tenuto per la coda sopra una conchiglia da G.L. Bernini, in terracotta e base in pietra]». Arch. Chig. 25154: «Palazzo Chigi, 2o piano, Camera degli arazzi ( foto)». [Sopra i due camini, uno di fronte l’altro, sono visibili la Vita e la Morte di Bernini in marmo e bronzo]. Arch. Chig. 25175/76: «Biblioteca Chigiana, 3o piano due vedute del Io Salone degli stampati (foto 1919-1923)». [Sono visibili i bozzetti di Bernini verniciati di nero posti tutti insieme sopra un tavolino rotondo di legno]. Arch. Chig. 25177: «Biblioteca Chigiana, IIa Sala degli stampati, (foto 19191923)». Arch. Chig. 25178: «Palazzo Chigi, Biblioteca Chigiana, 3o piano, IIIa Sala degli stampati, (foto 1919-1923)». [Si vede il Mosé in terracotta con piedistallo, copia da Michelangelo, posto sopra uno scaffale del XVII sec. in legno con i libri della Biblioteca Chigiana]. Arte e antichità Arch. Chig. 7394: «Statue vendute dalla Primogenitura Chigi, come da istromento in atti Vitali 19 dicembre 1729, al Re di Polonia. Delle statue principalmente appartenevano al Card. Flavio Chigi. Note di statue e stime del Ficoroni, Bigieri, Moderati (8 luglio 1726)». Arch. Chig. 7412: «1798. Nota in doppio originale, uno firmato Agostino Chigi, l’altro Luigi Mirri, di marmi scolpiti e intagliati ed altri frammenti». Biblioteca Chigiana Arch. Chig. 8852: «Corrispondenza relativa al passaggio della Biblioteca allo Stato (1912-1918-1923)».
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ADRIANA VILLANI
Arch. Chig. 8853: «Documenti e Memorie relative alla cessione della Biblioteca Chigiana fatta dal Governo Italiano alla Santa Sede (Dicembre 1922- Gennaio 1923)». Roma Arch. Chig. 9238: «13 settembre 1693. Testamento del Card. Flavio Chigi, nipote di Alessandro VII, aperto in atti Franceschini lì 13 settembre 1693». Arch. Chig. 9449: «1749. Inventario dei Mobili in Consegna a Vincenzo Carducci Guardaroba». Arch. Chig. 9534: «Inventario di cose trovate nel palazzo dopo la morte del P.pe D. Agostino 1770». Arch. Chig. 9738: «Inventario tanto dei Beni Fidecommessi che Liberi trovati in essere dopo la Morte della ch.me: P.npe D. Sigismondo Chigi seguita l’anno 1793». Arch. Chig. 13460: «1869. 1 Ottobre. Note varie di oggetti esistenti nelle soffitte e in guardaroba». Arch. Chig. «14389: Roma Palazzo in Piazza Colonna. Stima dei mobili esistenti negli appartamenti (minuta) principio del secolo XX». Palazzo Chigi in Piazza Colonna Arch. Chig. 14248: «Vendita del Palazzo in piazza Colonna fatta da D. Olimpia P.ssa Aldobrandini Pamphilj a favore di D. Mario e D. Agostino Chigi per 41.314 scudi. Lì 29 settembre 1659». Arch. Chig. 14248 bis: «Breve di Alessandro VII col quale conferma l’acquisto del Palazzo in Piazza Colonna. 1659 24 novembre». Arch. Chig. 14258: «Inventario dei mobili esistenti nel palazzo a Piazza Colonna. 5 novembre 1753». Palazzo ai SS. Apostoli Arch. Chig. 14416: «Testamento di D. Pompeo Colonna P.pe di Gallicano prima del 1662». Arch. Chig. 14417: «Breve col quale Alessandro VII conferma l’acquisto che di detto palazzo fece il Card. Flavio Chigi 1662. 24 Giugno». Arch. Chig. 14418: «Acquisto che il Card. Flavio Chigi fece di detto palazzo dei Sig.ri Colonna lì 29 Dicembre. 1662». Arch. Chig. 14419: «Copia autentica della vendita del palazzo ai SS. Apostoli per 29 mila fatta da D. Stefano Colonna Duca di Bassanello erede dell’Ecc.mo principe di Gallicano D. Pompeo Colonna al Card. Flavio Chigi. Atti Paluzzi 29121662». Arch. Chig. 14433: «Carte varie riguardanti la vendita di detto palazzo fatta al duca Odescalchi 1749». Roma. Giardino alle quattro Fontane Arch. Chig. 14804: «Notizie sul giardino alle 4 fontane lasciato in testamento al Principe Mario Chigi dall’Abate Domenico Salvetti lì 6 luglio 1664».
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I BOZZETTI DI BERNINI NELLA COLLEZIONE CHIGI
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Arch. Chig. 14810: «Concessione enfiteutiche di un terreno aratro adiacente al sud del giardino per l’annuo canone di 39 90 fatto dalle Monache Barberine del Monastero della Ill.ma Incarnazione al Card. Flavio Chigi». Arch. Chig. 14814: «Consegna al guardaroba Antonio Floridi di tutto ciò che contiene il detto giardino, 15 gennaro 1706». Arch. Chig. 14815: «Consegna della porzione spettante al Principe Chigi della robba esistente nel Museo di detto giardino al guardarobba Vincenzo Carducci».
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KLAUS HERBERS PIUS-STIFTUNG FÜR PAPSTURKUNDENFORSCHUNG
RAPPORTO PER L’ANNO 2006 Gli sforzi per salvaguardare il posto di Göttingen, dei quali si è fatta menzione nell’ultimo Rapporto, sono stati coronati da successo nel corso della seconda metà del 2006. L’Unione delle Accademie ha approvato un progetto della durata di 15 anni che prevede il finanziamento di due posti a tempo pieno e di un altro a part-time per collaboratori scientifici. Oltre alle pontificiae periferiche (Iberia, Bohemia-Moravia, DalmatiaCroatia, Polonia) è previsto anche un rifacimento dello Jaffé sotto forma di un elenco integrato in versione stampata ed elettronica con l’aiuto di una banca dati da allestire ex novo. In linea di massima l’impresa nel suo complesso, con la sede di lavoro esistente sin dal 1996, e il progetto dell’Accademia resteranno in rapporto tra loro integrandosi a vicenda, tuttavia con alcune necessarie diversificazioni. I riflessi di questa situazione saranno percepibili anche nei futuri rapporti. Quanto alle pubblicazioni, nel lasso di tempo coperto dal presente rapporto è uscito il volume III/1 della Gallia Pontificia: Provincia Viennensis. 1. La sede di lavoro a Göttingen La signora Vera Isabell Schwarz M.A. ha potuto lavorare solo discontinuamente, e, in questi periodi, ha proseguito l’inserimento di nuovi materiali, soprattutto ha contribuito a redigere l’ultima versione della istanza per il programma delle Accademie, e ha rielaborato la Homepage. Il suo lavoro è stato finanziato in parte con risorse della Università di Erlangen, affinché si potesse garantire almeno un minimo di continuità. Dal 1° aprile al 30 settembre 2006 la signora Vera Schwarz ha avuto un posto part-time di assistente a Erlangen e, entro tale attività, si è pure occupata, in misura limitata, del lavoro di Göttingen. Durante gli ultimi mesi del periodo coperto dal presente rapporto grazie alla collaboratrice Andrea Neutag sono stati eseguiti alcuni lavori di copiatura (copie di sicurezza) a Göttingen. Il Prof. Rudolf Hiestand (Düsseldorf) riferisce che la raccolta di nuove edizioni di documenti pontifici si è ampliata di 300 pezzi, provenienti soprattutto dall’Ile-de France, Anchin e dalla Francia meridionale. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XV, Città del Vaticano 2008, pp. 497-503.
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2. Italia Pontificia Il volume XI della Italia Pontificia continua a rimanere fermo. Nuovi orientamenti sono emersi nel corso del Congresso organizzato insieme al DHI nell’ottobre 2006 (Das Papsttum und das vielgestaltige Italien – Integration und Desintegration im frühen und hohen Mittelalter. Hundert Jahre Italia Pontificia, Roma 25-28.10.2006). In particolare occorrerà organizzare meglio il volume XI nonché ulteriori fascicoli di appendici. È in fase di preparazione una pubblicazione, che rientra nell’ambito degli interessi anche dell’Accademia. 3. Germania Pontificia Il volume V/2 (Magonza 6) del prof. Hermann Jacobs, di cui si è data informazione nella relazione precedente, è stato presentato in una cornice solenne il 16 marzo 2006 a Hildesheim. La manifestazione, che ha avuto luogo grazie alla collaborazione del Museo diocesano e della Deputazione storica della diocesi di Hildesheim, può ritenersi un successo, dato che ha avuto una vasta eco nella stampa e ha richiamato molto pubblico. Entro questa presentazione si è parlato anche delle future prospettive della Germania Pontificia, in particolare riguardo alle suffraganee di Treviri e alla provincia ecclesiastica di Magdeburgo. Per ciò che concerne i lavori in corso: il dott. Wolfgang Peters (Colonia) ha continuato a lavorare al volume VIII per la diocesi di Liegi ultimando le sezioni relative alla fondazione premostratense di Floreffe, all’ospedale di Wanze e ai Conti di Namur. Grazie all’aiuto dell’ex-segretario disponiamo anche delle versioni latine delle introduzioni storiche. Sono stati inoltre completati i capitoli sulla fondazione dei canonici regolari di Klosterrath e sull’abbazia premostratense di Heylissem. Si progetta di redigere regesti per due abbazie della città vescovile di Liegi. Per il volume XI (suffraganee di Treviri) non abbiamo alcun rapporto del prof. Egon Boshof (Passavia). Il lavoro al volume su Magdeburgo è proseguito lentamente (volume XII); il dott. Jürgen Simon (Amburgo) ha iniziato con la stesura dell’elenco cronologico. Il prof. Hans-Heinrich Kaminsky (Giessen) desidera ricevere ulteriori istruzioni sull’impostazione da dare al volume XIII (Regnum et Imperium). Il nuovo volume Germania XIV Supplementum I procede lentamente (prof. Rudolf Hiestand, Düsseldorf). Un volume comune con gli studi e i lavori preliminari alla Germania Pontificia (Wolfgang Petke/Hermann Jakobs) è attualmente in corso di stampa presso l’editore Böhlau. Per IP e GP si sta lavorando ad un nuovo
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RAPPORTO PER L ’ ANNO 2006
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indice generale da parte del prof. Rudolf Hiestand, e per questo volume sono stati fatti nuovi rinvii interni (volumi RI dal dott. Karl Augustin Frech, Dott. Ulrich Schmidt, dott.ssa Katrin Baaken e Gallia Pontificia dalla dott.ssa Beate Schilling). Il prof. Rudolf Hiestand ci ha comunicato di aver terminato il volume con l’elenco degli incipit e dei destinatari di GP. 4. Gallia Pontificia (sotto la direzione del prof. Dietrich Lohrmann/ Aquisgrana) I/2 (suffraganee di Besançon): per Losanna (prof. Jean-Daniel Morerod, Neuchâtel) il collaboratore si è offerto di presentare entro la fine dell’anno le sezioni ultimate, e la proposta è stata accolta. Per la diocesi di Basilea (Direttori d’Archivio Jean-Luc Eichenlaub, Colmar, e JeanClaude Rebetez, Porrentruy/Pruntrut) non si registra alcun progresso e neanche alcun rapporto. La diocesi di Belley (padre Bernard de Vregille, Lione, Institut des Sources chrétiennes) è già da molto tempo pronta. Si pensa ad una pubblicazione preliminare nella Revue Mabillon – II/1 (arcidiocesi di Lione): in occasione di un incontro avvenuto il 15.10.05 a Lione con i professori Michel Rumellin e Denise Riche e con il padre Bernard de Vregille S.J. si è parlato soprattutto dei punti di contatto con i regesti per l’arcidiocesi di Vienne e della trattazione (limitata) dei priorati di abbazie esterne. L’ampia sezione dedicata all’abbazia di SaintClaude, a cura del direttore d’archivio Gérard Moyse (Digione) e del professore a riposo René Locatelli (Besançon) è stata trasmessa alla Revue Mabillon, secondo quanto comunicato oralmente. – II/2 (suffraganee di Lione, in particolare la diocesi di Maçon con l’Abbazia di Cluny): il dott. Franz Neiske (Münster) ha manifestato la sua disponibilità a lavorare attivamente ai regesti del Fondo Cluny a partire dal 2007. Il dott. Gunnar Teske (Münster) lo aiuterà. – II/1 (Arcidiocesi di Vienne): il volume curato dalla dott.ssa Beate Schilling (Monaco) è pronto. – III/2 (suffraganee di Vienne, soprattutto le diocesi di Grenoble e Valence): la dott.ssa Beate Schilling (Monaco) ha terminato tutti i fondi conventuali delle diocesi di Grenoble, Valence, Viviers e Die, in particolare anche l’ampio fondo della Grande-Chartreuse nella diocesi di Grenoble (80 regesti). – IV/1-2 (arcidiocesi di Arles e suffraganee): il libero docente dott. Stefan Weiß (al momento a Parigi) ha raccolto materiale relativo ad Arles ed è stato di aiuto nel lavoro di esame della bibliografia. Inoltre ha potuto constatare che i racconti di Wiederhold devono essere controllati e integrati da ricerche negli archivi e nelle biblioteche provenzali. Un
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suo saggio esporrà a sommi capi il lavoro già fatto e quello ancora da espletare. – VIII/1-2 (Arcidiocesi di Narbona e suffraganee): lo scorso anno la dott.ssa Ursula Vones-Liebenstein (Colonia) ha lavorato soprattutto ai regesti dell’abbazia benedettina di Psalmodi e ha iniziato con l’esame della bibliografia sulla diocesi di Nîmes in generale e sui rapporti tra i suoi vescovi ed il Papato. Anche il prossimo anno Nîmes sarà al centro dei lavori. Per i volumi delle Papsturkunden in Frankreich si registrano pure progressi. Ad es. il rapporto d’archivio per la diocesi di Reims (dott. Ludwig Falkenstein, Aquisgrana) è molto avanti, per quanto risulti in parte troppo ampio; in parecchi casi le osservazioni preliminari sugli altri destinatari devono ancora essere completate. La parte editoriale (a oggi circa 380 numeri) si è ingrandita grazie al ritrovamento di tre nuovi documenti originali di Celestino III. Per la diocesi di Parigi (libero docente dott. Rolf Grosse, Parigi) è stato innanzitutto ultimato il lavoro a PUF 10 (N.F.), molto vasto soprattutto per i fondi dei capitoli delle collegiate di Saint-Marcel e di Saint-Denis-du-Pas; il curatore ha iniziato con gli ampi fondi della abbazia di Saint-Maur-des-Fossés. Per la diocesi di Langres, dopo il suo pensionamento dell’autunno 2007 il prof. Benoit Chauvin, Devecey curerà le appendici al volume Meinert, lavorando sui fondi dell’Archiv départ. de la Haute-Marne. Per la diocesi di Thérouanne, abbazia di Saint-Bertin (prof. Laurent Morelle, Parigi) non abbiamo rapporti. 5. Anglia Pontificia La dott.ssa Julia Barrow (Nottingham) non ci ha inviato alcun rapporto sui progressi della Anglia Pontificia. Entro il periodo di tempo coperto dalla presente relazione non è stato possibile proseguire l’Anglia Pontificia (collana dei Subsidia), curata dal prof. Rudolf Hiestand (Düsseldorf) e dal dott. Stefan Hirschmann. 6. Iberia Pontificia (sotto la direzione del prof. Klaus Herbers/Erlangen) Si registrano taluni progressi, dato che il vecchio materiale, risalente ancora ai tempi di Kehr e integrato dal prof. Odilo Engels (Colonia), si trova nel frattempo nelle mani del segretario. Una copia di sicurezza è stata approntata sia per i professori Odilo Engels e Ludwig Vones, sia per la sede di Erlangen, affinché i materiali originali della raccolta a
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RAPPORTO PER L ’ ANNO 2006
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Göttingen potessero essere incorporati. Inoltre, il 17 e 18 febbraio 2006, a Madrid, si è tenuto un convegno, finanziato dalla Fritz-Thyssen-Stiftung, volto a organizzare e sostenere il lavoro di studiosi spagnoli. Tale convegno ha riunito soprattutto i ricercatori che, in Spagna, lavorano allo studio dei documenti pontifici. Si prevede di tenere un’altra riunione, di seguito a quella spagnola, a Göttingen, il 16 e il 17 febbraio 2007, ponendo però le questioni di interesse spagnolo in un contesto più ampio. I risultati verranno pubblicati in un volume. – Il prof. Ludwig Vones (Colonia) ha fatto ulteriori studi bibliografici in particolare su Barcellona e Girona, e, nel corso di una settimana di ricerche archivistiche, ha confrontato i materiali di Kehr con documenti conservati nella Bibliothèque Nationale di Parigi. – Con l’aiuto del dott. Ingo Fleisch (Erlangen), finanziato dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG), il segretario ha potuto continuare a lavorare alla preparazione del volume Galicia Pontificia. La maggior parte dei regesti si riferisce all’arcidiocesi di Santiago. A febbraio del 2006, nel corso di una viaggio in biblioteche e archivi a Madrid, il dott. Ingo Fleisch è riuscito a chiarire alcune questioni ancora aperte relative alla tradizione e a esaminare nuova bibliografia. Il lavoro alla preparazione dei regesti per il periodo fino al 1140 si concluderà probabilmente entro la fine del 2006. Per il periodo dal 1140 al 1198 si è potuto ampliare il fondo dei regesti. Nel complesso disponiamo di circa 300 pezzi, che sono stati uniformati grazie all’aiuto della signora Vera Isabell Schwarz, M.A., la quale vi ha lavorato per un mese con il finanziamento della DFG. Tuttavia si è ancora dato inizio alla redazione delle vaste e complesse Introductiones. 7. Scandinavia Pontificia Il prof. Andreas Winroth (Yale) ci ha comunicato solo limitati progressi. Grazie al lavoro sulle antiche Sagas si sono scoperti alcuni contatti con Roma, in parte fittivi, che riguardano in particolare l’arcidiocesi di Trondheim. Il prof. Andreas Winroth ha potuto chiarire ulteriormente l’appartenenza del monastero di Rushen, e si è procurato il testo di JL 16794 dal microfilm della raccolta Stefan Kuttner. 8. Polonia Pontificia Il lavoro del dott. Przemysáaw Nowak (Varsavia) alla Polonia Pontificia è rimasto fermo per le ragioni già ricordate nel rapporto del 2005. Il
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collaboratore ha comunque potuto tenere una conferenza al convegno romano presso il DHI. 9. Bohemia-Moravia Pontificia (sotto la direzione del prof. Werner Maleczek/Vienna) La situazione non è cambiata rispetto all’anno precedente. 10. Hungaria Pontificia (sotto la direzione del prof. Werner Maleczek/ Vienna) Si dispone ora di un nuovo collaboratore, il dott. Zsolt Hunyadi, che nel frattempo ha reso di nuovo disponibili alla fondazione i materiali ed il manoscritto del prof. James Ross Sweeney (Pennsylvania State University), affinché il lavoro prosegua. 11. Dalmatia-Croatia Pontificia (sotto la direzione del prof. Werner Maleczek/Vienna) Non disponiamo di nuovi rapporti. 12. Africa Pontificia Non disponiamo di nuovi rapporti. 13. Oriens Pontificius Il prof. Jochen Burgtorf (Fullerton/California) si dedicherà all’Oriens durante l’anno sabbatico 2007. Il prof. Rudolf Hiestand ha individuato nelle Crociate e nei pellegrinaggi a Gerusalemme i due principali ambiti del lavoro e ha presentato due saggi sulla crociata di Federico Barbarossa e sulle delegazioni del clero degli Stati crociati ai grandi concilii dei secoli XII e XIII. 14. Varia Nel frattempo sono stati analizzati quasi tutti i documenti editi recanti sottoscrizioni cardinalizie nei privilegi solenni del sec. XII ricavandone
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RAPPORTO PER L ’ ANNO 2006
importanti deduzioni riguardo ad alcune tesi fino ad ora formulate sui cardinali Erlangen, aprile 2007
Il Segretario Klaus Herbers
Pubblicazioni: Gallia Pontificia. III: Provincia Viennensis. 1: Diocesis Viennensis, congessit Beata Schilling, Göttingen 2006. In corso di stampa: Studien und Vorarbeiten zur Germania Pontificia. IX: Papsturkundenforschung und Historie. Aus der Germania Pontificia Halberstadt und Lüttich: Hermann Jakobs, Spätottonische Klosterfreiheit. Die Privilegien “Creditae speculationis” Johannes’ XIII. und Benedikts VII. für Thankmarsfelde/Nienburg, Alsleben und Arneburg; Wolfgang Petke, Reimser Urkunden- und Siegelfälschungen des 12. und 13. Jahrhunderts für Priorat und Pfarrei Meerssen. Mit einem Originalbrief von 1136 und einem Urkunden- und Regestenanhang. Volumi di prossima pubblicazione: Germania Pontificia. XIV: Supplementum I, congessit Rudolfus Hiestand Anglia Subsidia I: Pars I-III. Lanfranci Cantuariensis archiepiscopi, S. Anselmi Cantuariensis archiepiscopi, Gilberti Foliot Gloecestraie abbatis et Heresfordiensis, dein Londoniensis episcopi epistolae, bearbeitet von Rudolf Hiestand und Stefan Hirschmann. Chronologisches Gesamtverzeichnis für Italia und Germania Pontificia, zusammengestellt von Rudolf Hiestand und Mitarbeitern. Römische Zentrale und kirchliche Peripherie. Das universale Papsttum als Bezugspunkt der Kirchen von den Reformpäpsten bis zu Innozenz III. Materialien der Giornata di studi, Rom 20. Januar 2006, hrsg. von Jochen Johrendt und Harald Müller. Traduzione: Anna Maria Voci
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INDICE DEI MANOSCRITTI E DELLE FONTI ARCHIVISTICHE Il presente indice dei manoscritti non include i testimonia citati da Tedros Abraha nel suo contributo, per i quali l’Autore ha utilizzato un repertorio di acronimi e sigle cui si rinvia. Berlin, Deutsche Staatsbibliothek-Preussischer Kulturbesitz Ham. 254 69-72, 77 Bruxelles, Bibliothèque Royale 8761 129, 132, 160 11301-16 129, 132-133, 136, 143, 145, 147, 152, 155-160; Tavv. VB, VIIIA, IX 11317-21 129, 132-133, 145, 158 Cambridge, Trinity College O.2.39 151 O.3.9 148 O.3.23 129, 132-133, 137, 143-145, 148, 150-153, 155-160; Tavv. VA, VIA-B, VIIA, X, XI O.10.33 151 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Arch. Bibl., Ammissione allo studio 1881-1885 399 Arch. Bibl., Registro degli estranei ammessi allo studio nella Biblioteca Vaticana, ottobre 1885 a giugno 1895 399 Arch. Bibl., Registro degli estranei ammessi allo studio nella Biblioteca Vaticana, 1 ottobre 1895 a giugno 1907 399 Arch. Bibl. 115 408 Arch. Bibl. 120 410 Arch. Cap. S. Pietro H 45 209 Arch. Chig. 457 432 Arch. Chig. 538 431, 432 Arch. Chig. 700 426, 428, 434, 436, 437, 452, 455, 456, 459, 463, 467, 468, 469, 471-473, 492 Arch. Chig. 701 434, 436, 437, 455, 459, 463, 465, 466, 468, 469, 473-474, 492
Arch. Chig. 702 433, 434, 435, 437, 443, 455, 458, 459, 463, 465, 466, 467, 468, 469, 470, 475-476, 492 Arch. Chig. 703 426, 434, 455, 463, 465, 466, 468, 469, 477-478, 492 Arch. Chig. 717 427, 430, 431, 478-479, 493 Arch. Chig. 719 436, 479, 493 Arch. Chig. 1805 435, 479-480, 493 Arch. Chig. 1817 470, 480, 493 Arch. Chig. 1837 440, 452, 470, 481-482, 493 Arch. Chig. 3306-3307 493 Arch. Chig. 4594 436 Arch. Chig. 7394 428, 429, 493 Arch. Chig. 7412 493 Arch. Chig. 8823 442 Arch. Chig. 8845 443 Arch. Chig. 8852 493 Arch. Chig. 8853 494 Arch. Chig. 9238 423, 482, 494 Arch. Chig. 9449 436, 437, 459, 463, 466, 467, 482-484, 494 Arch. Chig. 9534 437, 439, 455, 470, 484-486, 494 Arch. Chig. 9738 439, 443, 466, 469, 486-489, 494 Arch. Chig. 13460 494 Arch. Chig. 13489 494 Arch. Chig. 14248 494 Arch. Chig. 14248bis 494 Arch. Chig. 14258 494 Arch. Chig. 14259 426 Arch. Chig. 14389 443, 469, 489-490 Arch. Chig. 14414 436 Arch. Chig. 14416 494 Arch. Chig. 14417 494 Arch. Chig. 14418 494 Arch. Chig. 14419 429, 494 Arch. Chig. 14443 439, 494 Arch. Chig. 14804 494
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506 Arch. Chig. 14808 Arch. Chig. 14810 Arch. Chig. 14814 Arch. Chig. 14815 Arch. Chig. 14818 Arch. Chig. 14823 Arch. Chig. 14834 Arch. Chig. 18337 Arch. Chig. 25150 Arch. Chig. 25154 Arch. Chig. 25175 Arch. Chig. 25176 Arch. Chig. 25177 Arch. Chig. 25178
INDICE DEI MANOSCRITTI
431 495 495 437, 495 437 438 425 425 444 fig. 1, 493 493 445 fig. 2, 452, 493 445, 452, 493 493 445, 452, 453 fig. 3, 493 Barb. gr. 288 257, 266-267; Tav. III Barb. lat. 2683 171-172, 190 Barb. lat. 2799 175-177 Barb. lat. 2800 190 Barb. lat. 2801 174, 175, 177-178 Borg. lat. 420 190 Carte Salvadori 1-3 413 Carte Salvadori 2 413 Carte Salvadori 4-10 413 Carte Salvadori 8 413 Carte Salvadori 9-10 413 Carte Salvadori 11 414 Carte Salvadori 11-14 414 Carte Salvadori 12 414 Carte Salvadori 13-14 414 Carte Salvadori 15-16 414 Carte Salvadori 15-21 414 Carte Salvadori 17 414 Carte Salvadori 18 414 Carte Salvadori 19 414 Carte Salvadori 20 414 Carte Salvadori 21 414 Carte Salvadori 22 414 Carte Salvadori 22-25 414 Carte Salvadori 23 414 Carte Salvadori 24 414 Carte Salvadori 25 414 Carte Salvadori 26 415 Carte Salvadori 26-29 414 Carte Salvadori 27 415 Carte Salvadori 28 415 Carte Salvadori 29 415 Carte Salvadori 30-32 415 Carte Salvadori 30-35 415 Carte Salvadori 33 415 Carte Salvadori 34-35 415
Carte Salvadori 36 Carte Salvadori 36-40 Carte Salvadori 37-39 Carte Salvadori 40 Carte Salvadori 41-42 Carte Salvadori 43-45 Carte Salvadori 44 Carte Salvadori 46 Carte Salvadori 46-47 Carte Salvadori 47 Carte Salvadori 48 Carte Salvadori 48-53 Carte Salvadori 49 Carte Salvadori 50-53 Carte Salvadori 54-64 Carte Salvadori 56 Carte Salvadori 57 Carte Salvadori 58 Carte Salvadori 59-62 Carte Salvadori 63 Carte Salvadori 63-64 Carte Salvadori 64 Carte Salvadori 65 (1) Carte Salvadori 65 (6) Carte Salvadori 65-98 Carte Salvadori 66 Carte Salvadori 66 (1) Carte Salvadori 68-69 Carte Salvadori 70-74 Carte Salvadori 74 Carte Salvadori 75 Carte Salvadori 76 (3) Carte Salvadori 76-77 Carte Salvadori 78 Carte Salvadori 86 Carte Salvadori 87 Carte Salvadori 88 Carte Salvadori 89 Carte Salvadori 90 (6-9) Carte Salvadori 93-94 Carte Salvadori 95 (1)
415 415 415 415 415 415 415 415 415 415 416 415 416 416 416 412 412 416 416 416 416 416 417 400 417 417 402 417 417 417 417 417 417 417 417 417 417 417 418 417 406, 408-409, 411-412, 418 Carte Salvadori 95 (3-5) 418 Carte Salvadori 97 412-413 Carte Salvadori 98 418 Carte Salvadori 98 (1) 418 Carte Salvadori 98 (2) 418 Carteggi del card. Giovanni Mercati, cont. 2 (an. 1895) 41 Carteggi del card. Giovanni Mercati, cont. 3 (an. 1896) 9, 11, 32
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INDICE DEI MANOSCRITTI
Carteggi del card. Giovanni Mercati, cont. 4 (an. 1897) 10-16, 18-17, 34, 47 Carteggi del card. Giovanni Mercati, cont. 5 (an. 1898) 19-21, 23, 31, 33, 35-38, 40-42, 45 Carteggi del card. Giovanni Mercati, cont. 54 (an. 1937) 406 Carteggi del card. Giovanni Mercati, cont. 58 (an. 1941) 412 Chig. A.IV.5 423 Chig. E.I.14 422 Chig. L.I.20 190 Chig. L.II.22 174, 175, 178-179 Chig. L.II.23 174, 175, 179 Chig. L.II.24 174, 175, 180 Chig. L.II.25 175, 180-181 Chig. L.II.26 190 Chig. O.IV.58 449 Chig. T.IV.1 444 Chig. T.IV.8 466, 492 Ferr. 513 101-127; Tav. I Ott. gr. 174 202 Ott. gr. 312 254 Ott. gr. 450 200; Tav. XI Pal. gr. 199 204 Pal. gr. 410 129, 132-134, 140-142, 160 Pal. gr. 411 129, 132-134, 138-143, 160; Tavv. IIIA-B, IV, VIIB, VIIIB Pal. gr. 412 129, 133-134, 140-141, 159-160 Pal. gr. 413 129, 136, 140 Reg. lat. 450 49-99; Tavv. I-VI Ross. 714 190 S. Maria in Via Lata, I.45 231-251; Tavv. III-VI Urb. gr. 64 209 Urb. gr. 102 147 Urb. lat. 638 190 Vat. gr. 300 205, 209 Vat. gr. 866 200, 202 Vat. gr. 1216 202 Vat. gr. 1221 253 Vat. gr. 1228 253, 256 Vat. gr. 1238 253 Vat. gr. 1262 253 Vat. gr. 1267 253 Vat. gr. 1275 253, 254 Vat. gr. 1276 209, 253, 254, 256, 258 Vat. gr. 1277 253-270; Tavv. I-II, IV-VII Vat. gr. 1287 253
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Vat. gr. 1418 129, 131, 133, 135-140, 160; Tavv. I, IIA-B Vat. gr. 1419 131 Vat. gr. 1516 202 Vat. gr. 1542 200, 202; Tav. IX Vat. gr. 1582 202 Vat. gr. 1815 200; Tav. X Vat. gr. 1834 204; Tav. XIV Vat. gr. 1966 200, 202; Tav. XII Vat. gr. 2005 209 Vat. gr. 2254 209 Vat. gr. 2349 214 Vat. gr. 2350 214 Vat. gr. 2662 156 Vat. gr. 2672 193-214; Tavv. I-VII Vat. ind. 76 303, 304-307 Vat. ind. 77 303, 307-310 Vat. lat. 3340 65 Vat. lat. 3793 400, 401, 413 Vat. lat. 5636 190 Vat. lat. 6163 203 Vat. lat. 6195 191 Vat. lat. 6978 190 Vat. lat. 12271 190 Vat. lat. 12275 190 Vat. lat. 12276 175, 181-182 Vat. lat. 12277 175, 182-183 Vat. lat. 12278 190 Vat. lat. 12279 190 Vat. lat. 12307 190 Vat. lat. 12308 175, 180, 183-185 Vat. lat. 12309 175, 185 Vat. lat. 12310 175, 185-186 Vat. lat. 12416 190 Vat. lat. 12417 190 Vat. lat. 12418 190 Vat. lat. 12419 190 Vat. lat. 12421 174, 175, 186-188 Vat. lat. 12422 175, 188-189 Vat. lat. 14238-14295 416 El Escorial, Real Biblioteca de San Lorenzo R.III.1 207, 208 R.III.13 129, 144, 153 R.III.14 129, 131-132, 144, 153 R.III.21 129, 133-134, 144, 153 B.I.4 (Q.I.4, deperditus) 129, 138, 143, 155 H.IV.6 (G.IV.1, deperditus) 143-144, 154-155 H.IV.7 (G.IV.2, deperditus) 143-144, 154
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INDICE DEI MANOSCRITTI
H.IV.8 (G.IV.3, deperditus) S.II.10 T.III.7 F.II.8 X.III.10 X.IV.6 Y.IV.2
143-144, 153-155 209 209 141-142, 160; Tav. IV 209 208, 209 200
B 56 sup. C 263 inf. D 47 sup. G 72 inf. M 87 sup. N 135 sup. Q 114 sup.
200 136 256 129 256 129, 131-132, 134-135, 140 143, 153-154, 144, 153
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana Plut. 11.9 202 Plut. 74.17 209 Plut. 75.3 209, 212 Plut. 86.15 256
München, Bayerische Staatsbibliothek gr. 185 129, 133 gr. 267 129 gr. 426 136 lat. 337 206
— Biblioteca Riccardiana gr. 91
Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” gr. 1 206, 208 gr. 22 255-256 lat. 2 207 III.B.15 129, 131-140, 142, Tav. IIIA-B
208
Grottaferrata, Biblioteca del Monumento Nazionale dell’Abbazia A. a. VI (gr. 181) 200 A. g. I 202 A. g. IX (gr. 286) 200; Tav. XIII A. d. X (gr. 160) 200; Tav. VIII B. a. XIX (gr. 215) 200 B. a. XX (gr. 216) 200 B. b. I (gr. 217) 200 Hagion Oros, Lavra 275
205
London, British Library Add. 23101 Add. 27860 Add. 28167 Egerton 1237 Egerton 1239 Harley 4936 Harley 374
150 202 151 150 150 151 151
Madrid, Biblioteca Nacional 4857 (Arch. Hist. Nac. 164,8)
158
Messina, Biblioteca regionale (già universitaria) gr. 43 199 gr. 84 204 gr. 111 209 gr. 114 209 gr. 118 199 Milano, Biblioteca Ambrosiana A 45 sup.
209
Oxford, Bodleian Library Arch. Seld. C.XXX Auct. T inf. 1. 4 Clark. 12
150 202 204
New York, Avery Library — Columbia University ms. AA1115 D456 428 Paris, Bibliothèque nationale de France gr. 1053 200 gr. 1087 256 gr. 2019 256 gr. 2062 256 gr. 2179 206 gr. 2463 129 lat. 6128 73-74 Suppl. gr. 446 211; Tav. XV Suppl. gr. 599 256 Suppl. gr. 1262 199 Suppl. gr. 1297 208, 209, 211, 212 Reggio Emilia, Biblioteca Comunale C 398 72-74, 77 Roma, Archivio di Stato Atti del notaio A.C. Francesco Franceschini, an. 1705, vol. 3242 438-439 Atti del notaio A.C. Francesco Franceschini, an. 1706, vol. 324 437
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INDICE DEI MANOSCRITTI
Atti del notaio A.C. Tomaso Paluzzi, an. 1660, vol. 4977 Atti del notaio A.C. Tomaso Paluzzi, an. 1664, vol. 4998 Atti del notaio A.C. Girolamo Simoncelli, an. 1669, vol. 6729 Camerale I, Registro de’ Chirografi dall’anno 1661 all’anno 1664, vol. XIV
509
431
— Biblioteca Vallicelliana B 124
214
431
Siena, Archivio Comunale S/48 ins. E
461
431
Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana gr. 273 206, 208, 209 gr. 288 209
454
Yale, University Library 254
— Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” Gesuitico 270 189
255
Wien, Österreichische Nationalbibliothek Med. gr. 1 206, 208
INDICE DEGLI ESEMPLARI A STAMPA Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana R.G.Filos. III.2 191-192; Tavv. I-III
London, British Library C.75.g.11
150
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TIPOGRAFIA VATICANA
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