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Italian Pages 881 [884] Year 2011
MISCELLANEA BIBLIOTHECAE APOSTOLICAE VATICANAE XVIII
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STUDI E TESTI ———————————— 469 ————————————
MISCELLANEA BIBLIOTHECAE APOSTOLICAE VATICANAE XVIII
C I T T À D E L VAT I C A N O B I B L I O T E C A A P O S T O L I C A V AT I C A N A 2011
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Pubblicazione curata dalla Commissione per l’editoria della Biblioteca Apostolica Vaticana: Giancarlo Alteri Marco Buonocore (Segretario) Timothy Janz Antonio Manfredi Claudia Montuschi Cesare Pasini Ambrogio M. Piazzoni (Presidente) Delio V. Proverbio Adalbert Roth Paolo Vian Sever J. Voicu
Descrizione bibliografica in www.vaticanlibrary.va
Stampato con il contributo dell’associazione American Friends of the Vatican Library
—————— Proprietà letteraria riservata © Biblioteca Apostolica Vaticana, 2011 ISBN 978-88-210-0883-2
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SOMMARIO F. BARBERINI, Artisti e artigiani al servizio del cardinal Carlo Barberini per le solenni esequie di Giacomo II Stuart. Note dalle Giustificazioni dell’Archivio Barberini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7
M. BUONOCORE, Tre note epigrafiche da codici vaticani . . . . . . . . . . . . . .
27
A. CONTESSA, A Geography of Learning: The World of the Presumed Map of Theodulphe of Orleans and Its Mid-Eleventh-Century Catalan Author . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
55
F. COSTE, « Cette lesgende auree est a moy… » marginalia et appropriations de la Légende dorée (Reg. lat. 534) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
111
M. G. CRITELLI, La leggenda del Volto Santo di Lucca nel Palatino latino 1988. Osservazioni codicologiche, paleografiche e di storia del testo .
147
F. DELLA SCHIAVA, Due inediti per il catalogo di Vincent Raymond de Lodève, miniatore papale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
189
M. DELL’OMO, Il più antico inventario dell’archivio diplomatico di Montecassino nel catalogo di papa Paolo II (Vat. lat. 3961, ff. 25r-32v). Edizione della lista e identificazione dei documenti . . . . . . . . . . . . .
203
M. DI REMIGIO – Á. NÚÑEZ GAITÁN, Il restauro del manoscritto Vat. lat. 12838: l’Ethica del minimo intervento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
265
L. FERRERI, Le dissertazioni De lingua Hellenistica di Pietro Lasena (15901636) tenute all’Accademia Basiliana (Barb. lat. 1780) . . . . . . . . . . . .
285
S. FOSCHETTI, Il Reg. lat. 256: un’insolita scoperta in fase di restauro . . . .
331
CH. M. GRAFINGER, Ein Bibliothekstransport — ein logistisches Problem. Die Organisation des Transportes der Heidelberger Bibliothek nach Rom durch Leone Allacci während des dreissigjährigen Krieges . . . .
343
M. MENGHINI, Il concerto in onore di Giovanni Pierluigi da Palestrina del maggio 1880. Documenti della Società Musicale Romana conservati nel fondo “Circolo San Pietro” della Biblioteca Apostolica Vaticana .
383
F. MUSCOLINO, Domenico Benedetto Gravina e il suo carteggio con Giovanni Battista de Rossi (dai codici Vat. lat. 14243-14245, 14247, 14249, 14251, 14258) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
441
A. RITA, Trasferimenti librari tra Sant’Uffizio e Biblioteca Vaticana. In margine al ritrovamento del manoscritto dell’Ethica di Spinoza . . . .
471
L. SCAPPATICCI, Il più antico manoscritto del Tractatus in Iohannis evangelium di Agostino (Vat. lat. 5776, f. 3) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
487
F. THOMASSON, Between Rome and the Orient: Johan David Åkerblad’s (1763-1819) Notebook, Vat. lat. 9785 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
497
P. TOMÈ, La princeps veneziana dell’Orthographia di Giovanni Tortelli (con cenni sulla fortuna a stampa dell’opera in veneto) . . . . . . . . . . . . . . .
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SOMMARIO
P. TOTARO – L. SPRUIT – P. STEENBAKKERS, L’Ethica di Spinoza in un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana (Vat. lat. 12838) . . . . . . .
583
F. TRONCARELLI, La silloge di Lorsch (Pal. lat. 833) e l’epigrafe di Helpis .
611
A. TURA, Pietro Bembo lettore del Novellino nel Vat. lat. 3214 . . . . . . . . .
627
P. VERSACE, Alcune note marginali in minuscola del codice B: l’esegesi di un lettore bizantino della seconda metà del XII secolo . . . . . . . . . . . .
639
P. VIAN, «Per le cose della patria nostra». Lettere inedite di Luigi Angeloni e Marino Marini sul recupero dei manoscritti vaticani a Parigi (18161819) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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P. VIAN, «Una cambiale scontata prima di presentarsi ufficialmente allo sportello»? Achille Ratti Prefetto della Biblioteca Vaticana (19141918) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Indice dei manoscritti e delle fonti archivistiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Indice degli esemplari a stampa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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FRANCESCA BARBERINI
ARTISTI E ARTIGIANI AL SERVIZIO DEL CARDINAL CARLO BARBERINI PER LE SOLENNI ESEQUIE DI GIACOMO II STUART NOTE DALLE GIUSTIFICAZIONI DELL’ARCHIVIO BARBERINI* Il 6 settembre del 1701 a St. Germain en Laye, nei pressi di Parigi, moriva Giacomo II Stuart, ultimo re cattolico inglese, succeduto al trono alla morte del fratello Carlo nel 1685 e deposto solo tre anni dopo a seguito della Gloriosa Rivoluzione. La morte del sovrano inglese ebbe vasta risonanza a Roma. In onore della sua memoria, per volere del pontefice Clemente XI, fu celebrata una messa il 24 gennaio del 1702 nella cappella pontificia del palazzo Apostolico, presieduta dal cardinale Carlo Barberini1, accompagnato dal nipote del pontefice don Annibale Albani2. Pochi giorni dopo, il 28 gennaio, furono tenute le solenni esequie in sua memoria nella chiesa di San Lorenzo in * Desidero ringraziare Francesco, Michela, Ludovica Orsetta, Johannes e Alice per l’aiuto, l’affetto e l’amicizia con cui mi seguono sempre. Su Giacomo II Stuart, cfr. M. ASHLEY, England in the Seventeenth Century (1603-1714), Londra 1952. Il fondo Giustificazioni dell’Archivio Barberini, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana dal 1902, è tuttora in fase di ordinamento e di inventariazione. Ringrazio l’archivista dott. Luigi Cacciaglia per avermi consentito di consultare le filze del card. Carlo, che vengono qui citate secondo gli anni, con l’avvertenza però che alla fine del lavoro di inventariazione le stesse riceveranno un numero di corda con cui più propriamente dovranno essere citate in futuro. 1 Carlo Barberini, figlio di Taddeo e Anna Colonna, nacque a Roma il primo gennaio 1630. Alla morte del padre ereditò la primogenitura, il titolo di principe di Palestrina e la carica di prefetto di Roma. Rinunciò in seguito alla primogenitura e venne eletto cardinale il 23 giugno del 1653 con il titolo di San Cesareo, conservando però la carica di prefetto di Roma. Al tempo di Clemente IX venne nominato arciprete di San Pietro in Vaticano e membro della congregazione dell’indice. Cfr. P. PECCHIAI, I Barberini, Roma 1959, pp. 214-217; A. MEROLA, in Dizionario biografico degli italiani, VI, Roma 1964, pp. 171-172. Sulle macchine funebri a Roma in età barocca: N. MARCONI, Edificando Roma barocca. Macchine, apparati e cantieri tra XVI e XVIII secolo, Roma 2004 (Ricerche, fonti e testi per la storia di Roma, 2). 2 Francesco Valesio nel suo diario romano ci informa che il sovrano inglese morì in odore di santità in quanto dicesi che dopo la morte avesse operato alcuni miracoli come “illuminare un cieco et altri simili onde Sua Beatitudine ha ordinato all’arcivescovo di Parigi di formare processo” cfr. Diario di Roma, ed. a cura di G. SCANO con la collaborazione di G. GRAGLIA, Milano 1977-1979, II, p. 38. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 7-26.
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FRANCESCA BARBERINI
Lucina3, organizzate dallo stesso Carlo, cardinale titolare della chiesa, che affidò l’incarico di progettare la macchina funebre e l’apparato decorativo all’architetto Sebastiano Cipriani4 (Tav. I). Questi non era nuovo alla progettazione di catafalchi funebri. Fu lui infatti a progettare quello per le esequie di Giorgio Bolognetti, celebrate il 19 febbraio 1686 nella chiesa romana di Gesù e Maria in via del Corso5 e pochi anni dopo, il 5 dicembre 1696, quello in onore di Giovanni III Sobieski nella chiesa di San Stanislao dei Polacchi6. Anche le esequie in onore del re polacco, grande protagonista nella guerra della Lega Santa contro i Turchi a cui si deve la vittoria nell’assedio di Vienna, furono organizzate dal cardinale Carlo Barberini protettore della nazione polacca. I catafalchi e le decorazioni progettate dal Cipriani per i due regnanti rivelano diversi elementi in comune: in entrambi gli apparati effimeri ritroviamo l’esaltazione della personalità del sovrano attraverso la decorazione della chiesa con medaglioni e targhe in cui venivano raffigurate in maniera allegorica le virtù o gli episodi salienti della vita dei due sovrani. Inoltre in occasione delle esequie di entrambi i sovrani Carlo decise di commissionare due volumi a stampa per perpetuarne il ricordo7. Le esequie in onore di Giacomo II e l’apparato decorativo della chiesa di San Lorenzo in Lucina riscossero grande successo all’epoca e ci sono noti grazie al fedele racconto di Francesco Valesio nel suo diario romano e alla dettagliata descrizione del catafalco riportata in due pubblicazioni edite a Roma per l’occasione: il “Distinto Ragguaglio del tumulo onorario 3 Corpus delle feste a Roma /2 Il Settecento e l’Ottocento, a cura di M. FAGIOLO DELL’ARCO, Roma 1997, pp. 9-10 e A. ANTINORI, L’architettura di Sebastiano Cipriani: i progetti e le opere realizzate, in A. ANTINORI – M. BEVILACQUA, Villa Savorelli a Sutri. Storia Architettura Paesaggio, Roma 2010, pp. 99-100. 4 Su Sebastiano Cipriani cfr. ANTINORI, Sebastiani Cipriani: i progetti e le opere realizzate, in A. ANTINORI – M. BEVILACQUA, Villa Savorelli cit.; M. SPESSO, Sebastiano Cipriani. Una contraddittoria attività progettuale fra innovazione e tradizione, in A. GAMBARDELLA (a cura di), Ferdinando Sanfelice, Napoli e l’Europa, Napoli 2004. Come si desume da alcuni mandati di pagamento Sebastiano Cipriani lavorava come architetto per i Barberini per piccoli lavori di restauro e manutenzione nelle proprietà di famiglia, come ad esempio al palazzo al Monte di Pietà (il palazzo di proprietà della famiglia a via dei Giubbonari) dove dipinse il camino e riaccomodò una cornice, cfr. Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1698, n. 128. 5 M. FAGIOLO DELL’ARCO, La festa Barocca, Roma 1997, p. 521. Giorgio Bolognetti fu vescovo di Rieti e venne mandato come nunzio in Francia nel 1634. Un terzo apparato effimero realizzato su progetto del Cipriani fu quello delle Quarantore alla chiesa del Gesù nell’anno 1700, cfr. FAGIOLO DELL’ARCO, La festa Barocca cit., p. 575. 6 Ibid., p. 568. 7 In occasione delle esequie di Giovanni III di Polonia fu scritta una relazione, Lettera familiare … e pubblicata l’orazione funebre del gesuita CARLO D’AQUINO, entrambe edite per i tipi Barberini “appresso” la stamperia d’Ercoli.
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ARTISTI E ARTIGIANI AL SERVIZIO DEL CARD. C. BARBERINI
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fatto innalzare nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina… dall’Eminentissimo e Reverendissimo Prencipe sig. Carlo Barberino”, edito a Roma per gli Eredi Corbelletti8 e le “Sacra exequalia in funere….”, edito da Domenico Antonio Ercoli9. In entrambi i volumi è riportata un’accurata descrizione dell’apparato decorativo della chiesa e della macchina funebre insieme ad una dettagliata spiegazione delle diverse rappresentazioni allegoriche, il cui autore è da identificare con il letterato Giovan Battista Vaccondio. Questi, grande estimatore di Sebastiano Cipriani e a lui legato da vincoli di amicizia, difese l’architetto in occasione del contrasto insorto tra Cipriani ed Andrea Pozzo a proposito del concorso indetto per la costruzione dell’altare dedicato a sant’Ignazio nella chiesa romana del Gesù10. Fu ancora Vaccondio ad elogiare, in un’opera edita a Roma nel 1706, il progetto di Sebastiano Cipriani per la cappella Altieri in Santa Maria in Campitelli11. L’amicizia tra Vaccondio e Cipriani ed una nota di pagamento indirizzata dal cardinal Carlo Barberini al letterato “per la ricognizione alla realizzazione fatta di detto funerale”, ci fanno verosimilmente supporre che fu proprio lui a dettare all’architetto i soggetti e i motivi allegorici allusivi alla figura di Giacomo II che ornavano il catafalco funebre e decoravano la chiesa di San Lorenzo in Lucina quel 28 gennaio del 170212. Sulla facciata della chiesa, coperta da spessi tendaggi neri, campeggiava un grande stemma del sovrano (Tav. II). 8 Distinto Ragguaglio del tumulo onorario fatto innalzare nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina de R.R.P.P. chierici minori regolari in Occasione delle esequie di Giacomo II re d’Inghilterra dall’Eminentissimo e Reverendissimo Prencipe Sig, Carlo Barberino, Roma, gli Eredi Corbelletti, nel 1702. Diverse copie dell’opera, già nella biblioteca Barberini, sono ora conservate presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. L’opera riporta la dettagliata descrizione dell’apparato decorativo della chiesa sia all’esterno che all’interno facendo comprendere al lettore il complesso significato allegorico. 9 Sacra exequalia in funere Jacobi II Magnae Britanniae Regis exibita ab eminentiss. et reverendiss. Principe Carolo Sanctae Romanae Ecclesiae cardinali Barberino in templo fui tituli Sancti Laurentii in Lucina Descripta A Carolo De Aquino Societatis Jesu Romae, Typis Barberinis MDCCII, Excudebat Dominicus Antonius Hercules in via Parionis Superiorum Facultate (Stamp.Barb.TTT.VI.13). 10 Giovan Battista Vaccondio scrisse un opuscolo in difesa di Sebastiano Cipriani quando questi denunciò la mancata vittoria del concorso indetto dai gesuiti per la costruzione dell’altare di Sant’Ignazio nella chiesa del Gesù, a cui il Cipriani partecipò ma perse, in favore del padre Pozzo. Altre opere di G. B. VACCONDIO sono: Las cosas meravillosas de la Santa ciudad de Roma, Roma, Bernabò, 1711 e Notizie istoriche delle quattro Basiliche di Roma, Roma 1711. 11 Giovan Battista Vaccondio elogia Sebastiano Cipriani a proposito della cappella Altieri in Santa Maria in Campitelli da lui edificata nel volume I pregi dell’architettura edito a Roma nel 1706, cfr. A. ANSELMI, Sebastiano Cipriani. La cappella Altieri e “I pregi dell’architettura oda di Giambattista Vaccondio”, in Studi sul Settecento Romano — Alessandro Albani patrono delle arti, a cura di E. DEBENEDETTI, Roma 1993, pp. 203-217. 12 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo II, fasc. 213.
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FRANCESCA BARBERINI
Entrando in chiesa ci si trovava di fronte all’imponente macchina funebre alta palmi 70 con quattro colonne tortili “alla Salomonica” (Tav. I) mentre il presbiterio era decorato da pesanti tendaggi rossi e da tre grandi medaglioni sospesi in aria raffiguranti i luoghi più significativi nella vita del sovrano: Londra sua città natale (Tav. III), Parigi dove morì (Tav. V) e Roma a rappresentare il forte legame del sovrano con la chiesa cattolica romana (Tav. IV). La navata era decorata da alti candelabri, medaglioni con lo stemma del sovrano e cartelle con emblemi allusivi alle virtù di Giacomo II, mentre nella controfacciata campeggiava una grande targa con iscrizione sorretta dalle figure allegoriche della Costanza e dell’Eternità (Tav. VI). Quest’ultima tiene in mano il simbolo della sirena vestita di stelle con le code unite a formare un cerchio, secondo i dettami iconografici di Cesare Ripa. In questa raffigurazione è da leggere un particolare omaggio alla famiglia Barberini: essa infatti deriva, come ci informa lo stesso Ripa, dai Documenti d’amore, poema scritto dal poeta Francesco da Barberino e stampato per volere del cardinale Francesco Barberini in una bella edizione nel 164013. L’allestimento della chiesa di San Lorenzo dovette quindi apparire sicuramente ricco e fastoso, ma il progetto di Cipriani non fu esente da critiche. Sebbene Francesco Valesio nel suo diario elogi l’opera dell’architetto, definendola come una delle “più nobili e insigni che si siamo vedute in questa città”14, riportando anche la spesa per attuarla di ben 7.000 scudi, egli ne mette in luce alcuni difetti: in particolare quello di essere troppo legato a modelli berniniani. Le quattro colonne tortili che sostenevano il diadema, scriveva Valesio, apparivano apertamente copiate da quelle del baldacchino in San Pietro, così come l’urna centrale con le tre figure che sorreggevano il ritratto del sovrano riproponeva la tomba di Urbano VIII. Se l’attenersi a modelli ripresi dal Bernini appare in questo caso un esplicito omaggio alla famiglia Barberini, Cipriani peccò, sempre a parere di Valesio, anche di una eccessiva esuberanza decorativa: la parte superiore con il diadema si confondeva con il soffitto della chiesa e l’utilizzo eccessivo del colore metallo, oro e argento, unito all’aggiunta di troppi festoni minuti, confondeva la vista. Il medesimo difetto si poteva riscontrare anche nei candelabri e nella decorazione lungo la navata15. È ancora Francesco Valesio a fornirci un’accurata descrizione dello svolgimento delle esequie in quel 28 gennaio 1702: esse furono accompagnate dalla musica e dal canto di quattro cori diretti dal maestro di 13 C. RIPA, Nuova iconologia di Cesare Ripa Perugino, Padova 1618, ed. a cura di P. BUSCAROLI, Torino 1986, I, pp 148-149; F. BARBERINI, Francesco da Barberino e l’edizione seicentesca
dei Documenti d’amore, in Xenia Antiqua 2 (1993), pp. 125-148. 14 VALESIO, Diario cit., p. 42. 15 Ibid., p. 51.
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ARTISTI E ARTIGIANI AL SERVIZIO DEL CARD. C. BARBERINI
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cappella don Angelo Olivieri16 e furono officiate dal padre gesuita Carlo D’Aquino17, al quale il cardinal Barberini donò come ringraziamento “un crocifisso d’avorio con cornice negra” comprato da Giovan Battista Fantoni18. Le solenni esequie, ci ricorda ancora Valesio, terminarono alle ore 20.00 e alla fine della celebrazione il cardinale Carlo, sicuramente stanco della giornata, si trattenne a mangiare con i padri nel convento, come d’altronde aveva già fatto la sera precedente. La chiesa tuttavia rimase aperta ancora a lungo per mostrare la macchina funebre e possiamo immaginare il via vai di viandanti, nobili romani o semplici popolani attratti da questa cerimonia, una tra le tante che si tenevano a Roma in quell’epoca. Il tranquillo pellegrinaggio al tumulo del sovrano inglese venne interrotto alle ore 22 dalla visita del pontefice, giunto in carrozza, accompagnato dai due cardinali palatini e preceduto da una lunga sfilata di cavalieri romani con il connestabile Filippo II Colonna tra le guardie19. Per accogliere degnamente il Santo Padre la macchina funebre fu nuovamente illuminata, facendo risplendere la chiesa di mille bagliori. Clemente XI rimase entusiasta dell’apparato e lodò l’opera proseguendo poi per la chiesa della Trinità de Monti, dove andava a celebrare i primi vespri in onore di s. Francesco di Sales, prima di far ritorno in Vaticano. Le visite ufficiali a San Lorenzo in Lucina non erano tuttavia terminate: alle 23 infatti la chiesa e la macchina furono nuovamente illuminate per l’arrivo della regina di Polonia Maria Casimira Luise de la Grange, moglie di Giovanni III Sobieski20, alla quale 16 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 18: “Giuliano Petrucci nostro computista spedirete ordine pagabile al d. Angelo Olivieri maestro di Cappella scudi sessanta di moneta per la musica del funerale che facciamo fare nella chiesa del nostro titolo di San Lorenzo in Lucina per i funerali della chiara memoria del re Giacomo II d’Inghilterra, dal palazzo alle Quattro Fontane 26 settembre 1702 / come dal conto nella lista / primo choro / sig, Floriano organista / sig, Pasqualino / Paoluccio / Francesco suo nepote / Giuseppe della Regina / sig, Gratiano / Ubaldo d. Filippo/ Michelino / Belardino di San Pietro/ Manilio / Stefano di Rospigliosi / Giuseppe Antonio / Navarra / Giovanni Antonio Aim violoncello / 2° choro / Sig, Simoncelli organista / Violini / Carluccio / Tibaldi / alfonso / Domenico Violette / Giovanni Battista di Tor de Specchi / Sig, Bartolomeo / Giuseppe de Carolis / 3° choro / Organo / Sig, Girolamo organista / Momietto ( Giovannino / Nicola d. Gio Antonio / Lodovico / Masonetti / Gabriele / Pavolo / 4° choro /organo / Giovanni organista / Pietro / Agostino/ Pavolo Felici/ Martinetti / Domenico Rossi/ Domenico Francesco / d. Giuseppe”. 17 Il padre Gesuita Carlo d’Aquino aveva celebrato anche le esequie in onore di Giovanni III di Polonia nella chiesa di San Stanislao dei Polacchi il 5 dicembre 1696, cfr. FAGIOLO DELL’ARCO, La festa Barocca cit., p. 568. 18 Arch. Barb., Comp. 305, f. 58. 19 Filippo II (1663-1714), primogenito di Lorenzo Onofrio Colonna e Maria Mancini, eredita il titolo di connestabile e le numerose cariche paterne, cfr. P. COLONNA (a cura di), I Colonna. Sintesi storico illustrativa, Roma 2010 (con bibliografia precedente). 20 Maria Casimira Louise de la Grange d’Arquien (1641-1716), moglie di Giovanni III Sobievski regina di Polonia dal 1645 al 1672.
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la macchina “piacque in estremo”21. La chiesa fu visitata anche il giorno dopo, domenica 29, quando vi accorse un “innumerevole popolo venuto a visitare il catafalco in San Lorenzo” che rimase allestito per tutta la settimana fino al successivo sabato 4 febbraio, quando macchina e chiesa furono illuminate per l’ultima volta alle ore 23 per volere del cardinal Carlo, al fine di soddisfare le numerose dame e cavalieri che non erano riusciti a vederlo il sabato precedente22. Carlo Barberini dovette avere molto a cuore le celebrazioni per le esequie di Giacomo II e, come rivelano i numerosi mandati di pagamento conservati nel volume delle giustificazioni di spese, ne seguì i lavori con costanza e passione. Così come aveva già fatto in occasione delle esequie di Giovanni III di Polonia, Carlo commissionò un bel volume a stampa per perpetuare la memoria del funerale del sovrano inglese: Sacra exequalia in funere Jacobi II Magnae Britanniae…, edito nello stesso 1702 per i tipi Barberini presso la stamperia di Domenico Antonio Ercoli. In esso viene riportata l’orazione funebre del padre Carlo d’Aquino e la descrizione dell’apparato decorativo corredata da venti splendide incisioni ad acquaforte di Alessandro Specchi su disegno di Sebastiano Cipriani23. La realizzazione del volume fu attentamente seguita nelle diverse fasi dal cardinal Carlo, che aveva ereditato dallo zio, il cardinale Francesco senior, un grande amore per l’editoria. L’edizione costituisce un bell’esempio di una tra le ultime pubblicazioni realizzate con i caratteri tipografici di proprietà della famiglia che, secondo una pratica iniziata dal cardinale Francesco anni prima, venivano dati di volta in volta alle diverse tipografie. Il cardinal Francesco, grande appassionato di libri, al quale si deve la costituzione della biblioteca Barberini, da sempre nutriva il desiderio di creare una propria stamperia per le numerose edizioni da lui commissionate; non riuscendo a realizzarla, creò tuttavia un ingegnoso sistema di caratteri tipografici mobili, che di volta in volta venivano consegnati ai diversi tipografi24. Il desiderio di Francesco fu realizzato in seguito dal cardinale Francesco junior, nipote di Carlo, che impiantò una stamperia a Palestrina25. La stampa del volume Sacra exequalia…. è documentata da diversi man21
VALESIO, Diario cit., p. 51. VALESIO, Diario cit., p. 58. 23 Su Alessandro Specchi (1666-1729) architetto e incisore ad acquaforte cfr. B. PRINCIPATO, Documenti inediti per la vita e l’opera di Alessabdro Specchi, in Palladio 3 (1990), n. 6, pp. 97-118; G. SPAGNESI, Alessandro Specchi: alternativa al borrominismo, Torino 1997. 24 F. PETRUCCI NARDELLI, Il card. Francesco Barberini senior e la stampa a Roma, in Archivio della società romana di storia patria 108 (1985), pp. 133-198. 25 F. PETRUCCI NARDELLI, Francesco Barberini junior e la “stamparia barberina” di Palestrina, in Collana trenta pagine studi, testi, documenti, 2-3, Palestrina 1985. 22
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dati di pagamento, che ci forniscono indicazioni sui vari momenti di realizzazione dell’opera. Ad Alessandro Specchi, architetto e incisore, sono indirizzati i mandati di pagamento per le incisioni ad acquaforte che lo illustrano, chiarendo come in corso d’opera si fosse deciso di incrementare l’apparato illustrativo “con l’accrescimento delli disegni et intagli”26. Sono sempre i mandati di pagamento a rivelarci il nome di Antonio Barbej, “intagliatore di lettere”, che eseguì l’intaglio a bulino delle lettere, sia per le minuscole che le maiuscole e quelle in corsivo per le iscrizioni esplicative incise nelle stampe27. Ed ancora i documenti ci rivelano il nome del fornitore del rame impiegato nella realizzazione dei rami: Giovanni Tagnoli “calderaro”, che venne pagato “per numero 19 pezzi di rame diverso di peso in tutto di libre 68 e mezzo e danari 45 consegnati ad Alessandro Specchi intagliatore per intagliare diverse imprese per il funerale di Giacomo II”28. Rinaldo Guerrini fu invece lo stampatore che “tirò” i rami con le incisioni dello Specchi realizzando su due fogli di carta “Real grande” incollati insieme, quelli per la grande incisione raffigurante la macchina funebre, su “carta Reale”, quello con l’incisione della facciata e del candelabro e su “carta Mezzana”, quello per l’incisione dell’emblema reale: il tutto per un numero di 1030 copie29. Se Guerrini eseguì la stampa dei rami, Domenico Antonio Ercoli invece si occupò della stampa dei caratteri forniti, come già anticipato, dalla famiglia, ed eseguiti in “canoncino corsivo” per i sei fogli della descrizione del tumulo, in “canoncino tondo” per i due della dedica e nel carattere “detto due righe di filosofia” per i tre fogli in cui viene riportata l’orazione30. Terminata la stampa del volume, si procedette alla rilegatura eseguita dal libraio Giovanni Valtiere, che venne pagato per la realizzazione di diverse copie, realizzate con tecniche e materiali differenti a seconda dei destinatari dell’opera. Troviamo quindi due volumi con legatura in cremisino di levante decorati una con l’arme di Nostro Signore e l’altra con quella di Filippo V di Spagna; due copie legate in cartone coperto poi di “Tabino con oro di Recamo”, da donare al pontefice e alla Regina di Polonia; le altre copie furono realizzate alcune in “carta pecora con filo d’oro à baiocchi venticinque”, altre senza filo d’oro, o in “carta dorata con suoi capitelli a baiocchi quattordici l’uno” e infine sei in carta dorata senza capitelli, le rimanenti copie presentavano probabilmente una legatura più semplice31. 26
Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 128. Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 101. 28 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 45. 29 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 183. 30 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 111. 31 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 165. 27
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Oltre alle giustificazioni e ai mandati di pagamento per il volume a stampa, numerosi sono i conti di artisti e artigiani che lavorarono alla realizzazione della macchina funebre e alla decorazione della chiesa. Questi documenti contabili ci permettono di seguire le varie fasi della messa in opera dell’apparato decorativo e gettano luce su quel mondo di artigiani che abitavano la Roma dell’epoca e che resero possibile con il loro lavoro il compimento di tante opere d’arte che, seppur ideate e progettate da artisti certamente più famosi, venivano poi realizzate proprio grazie al loro intervento. Francesco Nuzzi e Giovan Antonio Forte “festaroli” furono incaricati di organizzare la coreografia della celebrazione delle esequie, curando la disposizione dei parati e l’illuminazione della chiesa32. Essi, presumibilmente con l’aiuto di una folta schiera di aiutanti, decorarono la chiesa all’interno e all’esterno, “apparandola e poi sparandola”, con tendaggi neri fissati e adeguatamente panneggiati; ornarono la tribuna con panni pavonazzi e fregi di velluto lungo tutta la cornice; fissarono gli emblemi attorno alla navata, il grande stemma posto in cima alla macchina e quello esterno sulla facciata; da ultimo decorarono i coretti e i due cori grandi degli organi con pesanti panni negri33. I due festaroli dovettero sicuramente lavorare molto duramente ma non ricevettero probabilmente un pagamento adeguato alle loro fatiche, nel presentare il conto dei lavori essi sottolineano lamentando “il grande dispendio di energie” e la fatica di aver “acceso la cera di tutti i candelabri per più volte con la scala e cioè per le esequie, per l’arrivo di Nostro Signore e per la regina di Polonia”34. Se i “festaroli” rivestirono un ruolo importante nella realizzazione delle esequie in onore di Giacomo Stuart, il grosso del lavoro venne realizzato dallo scultore Lorenzo Ottoni e i falegnami Pietro Manfrini e Giovan Battista Vannelli, quest’ultimo anche intagliatore e “cartapistaro”, e da Ippolito Fortunati “indoratore”, che tradussero e posero in opera il progetto di Sebastiano Cipriani. Ma procediamo con ordine cercando di seguire le diverse fasi dall’ideazione del progetto del Cipriani alla messa in opera della macchina funebre. Lorenzo Ottoni, scultore già al servizio del cardinal Carlo che gli com32 Francesco Nuzzi potrebbe essere imparentato con quel Domenico Nuzzi festarolo abitante in strada Paolina citato in Artisti e artigiani a Roma dagli stati delle anime del 1700-17251750-1775, in Studi sul Settecento romano — quaderni diretti da Elisa Debenedetti, II, Roma 2004, p. 49. 33 Francesco Nuzzi e Antonio Forte noleggiarono alcuni tendaggi da un tal Felice Bionducci cimatore, cfr. Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 107. Per i mandati di pagamento a Francesco Nuzzi e Antonio Forte cfr. Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 106. 34 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 106.
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missionò una serie di ritratti di diversi personaggi della famiglia Barberini35, tradusse il progetto del Cipriani in un “modello in cera …… di sotto di legno con suoi resalti e membri, e ricoperto di cera e fattoce l’urna sopra il retratto [del re] e le tre figure che lo sostengono, fattoci tutto l’intaglio et ornamenti, e reporti, il tutto che fu dorato”, che venne poi presumibilmente utilizzato dai diversi artisti36. Oltre al modello del catafalco, Ottoni lavorò anche alla realizzazione di alcuni elementi decorativi della macchina funebre quali i quattro trofei all’antica di gesso rifiniti poi in stucco, con elmi, pennacchi, armi, corsaletti e strumenti bellici, tutti intagliati in legno e posti sopra le colonne tortili. Lo stesso artista eseguì anche il bassorilievo in stucco del ritratto del re, effigiato sul recto e sul verso della grande medaglia sopra all’urna, realizzato, come riportano i documenti, della grandezza naturale in conformità del ritratto in pittura con parrucca che gli cade dai lati delle spalle con corvatta di merletto tutta rabescata”37; di questo ritratto lo scultore realizzò prima un bozzetto. Ottoni eseguì anche le tre figure allegoriche in stucco, della grandezza e proporzione di palmi 11 che sorreggono il medaglione con il ritratto del re, rappresentanti la Religione, tutta panneggiata con la croce e il sole, “geroglifico” della verità, sul petto, la Fama in atto di suonare la tromba in parte nuda e in parte con “panneggio tutto svolazzante per denotare l’agilità di detta figura” e la Storia, che con la destra tiene un libro e una penna, nonché le quattro leonesse accovacciate che sorreggono sul dorso il peso dell’urna. Nel conto presentato dallo scultore al cardinale Carlo egli tiene a precisare che tutte le parti nude di queste figure furono eseguite in stucco e gesso e che tutto il materiale fu da lui acquistato a sue spese38. Un ruolo molto importante nella realizzazione del catafalco svolsero i falegnami Pietro Manfrini e Giovan Battista Vannelli39 che costruirono la struttura sostenente l’intero catafalco funebre; il grande basamento con i gradini su cui posava la macchina; le colonne tortili con base zoccolo e 35
Cfr. A. ROTH, A Portrait bust of Maffeo Barberini, prince of Palestrina, in Apollo 122 (1985), pp. 24-31. Su L. Ottoni cfr. anche O. FERRARI – S. PAPALDO, Le sculture del Seicento a Roma, Roma 1999. 36 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo II, fasc. 213. 37 Ibid., fasc. 213. Alla National Portrait Gallery di Londra è conservato un ritratto di Giacomo II di Sir Godfrey Kneller e diverse incisioni raffiguranti il sovrano. In un inventario del cardinale Carlo Barberini viene citato un busto ritratto di Giacomo II in marmo conservato nel Palazzo alle Quattro Fontane, nella stessa stanza si trovava anche un busto in creta di Giovanni III di Polonia (cfr. M. LAVIN, Seventheenth Century Barberini Documents and Inventories of Art, New-York 1975, IV inv. 92-04, p. 446). 38 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo II, fasc. 213. 39 Di Giovan Battista Vannelli sappiamo che abitava a Chiavica del Bufalo con la moglie e i figli, cfr. Artisti e artigiani cit., I, p. 47.
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capitello, eseguite in legno di castagno; l’architrave, la cornice e il fregio, nonché le quattro grandi volute che sostenevano la corona reale40. Ai due falegnami spetta anche la messa in opera del tumulo al centro del catafalco realizzato, specificano i documenti, seguendo un modello preparato dal maestro ebanista Baldassarre Vaghenmans41, da identificare con quel Baldassarre Vadman ebanista che abitava nella discesa di Monte Cavallo42. Opera dei due falegnami furono anche i dieci candelabri posti ai lati della chiesa, il medaglione ovale con l’impresa del re collocato sulla facciata esterna e quello con l’elogio nella controfacciata e infine le medaglie con le raffigurazioni delle città di Londra, Parigi e Roma43. Una volta realizzata la struttura in legno e terminate le opere eseguite dall’Ottoni l’intera macchina funebre fu poi arricchita da numerosi elementi decorativi realizzati ancora da Giovan Battista Vannelli questa volta al lavoro come “cartapistaro”44. Dal mandato di pagamento si riesce a capire il procedimento lavorativo dell’artigiano che a volte eseguiva prima un piccolo modello in cartapesta dei vari elementi decorativi da presentare all’architetto Sebastiano Cipriani per l’approvazione, come ad esempio nel caso della decorazione dei capitelli, in cui le rose, le due volute a “cartocci”, le foglie d’acanto e la decorazione a piccoli ovuli furono eseguite prima in un piccolo modello. In cartapesta fu realizzato anche lo scheletro, alto palmi 10, adagiato sopra all’urna la cui lavorazione fu molto complicata perché realizzato con centinaia di pezzi e piccoli tasselli di legno uniti insieme; per la stessa figura Vannelli eseguì anche le ali e i panneggi, mentre mastro Domenico Toni, stagnaro a San Luigi dei Francesi, fornì il cartiglio con l’iscrizione “… grande di latta bianca tutta saldato insieme e dato il suo garbo secondo li segni del Signor Bastiano Cipriani et imprimervi alcuni versi …”45. Opera dello stesso stagnaro furono inoltre “dieci smorzatori grandi di latta, per smorzare li fiaccolotti del detto funerale“46. Vannelli “cartapistaro” eseguì anche i quattordici scheletri con ali panneggiati e in atteggiamenti diversi che decoravano i candelabri lungo la navata, per la realizzazione dei quali l’artigiano dovette provvedere anche all’acquisto dei panni e del relativo 40
Arch Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 101. Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 116: “una cassa per il modello del funerale della felice memoria del re Giacomo alto palmi 6 largo palmi 3 e mezzo, per ogni verso a quattro facciate con li suoi cornicioni sotto sopra con uno sportello con sua chiave di ferro”. 42 Cf. Artisti e artigiani cit., II, p. 439. 43 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 101. 44 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 93. 45 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 108. 46 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 108. 41
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filo di ferro per fissarli. Sempre in cartapesta furono eseguiti i quattro scheletri senza piedi, gambe e cosce posti ai lati del basamento dell’urna e quelli sulla base delle colonne, per i quali l’artigiano realizzò delle falci con il manico in ferro. In cartapesta furono realizzate anche le decorazioni dell’urna, con “cartocci” e “fronde” che le girano tutta attorno; le cornucopie che sia sul catafalco sia attorno alla chiesa reggevano le candele, gli scudi con stemmi che decoravano le basi delle colonne e i numerosi festoni e ghirlande con ghiande e fronde cucite con filo di ferro per arricchire i vari elementi del catafalco. Impegnativa e laboriosa fu anche la decorazione della grande corona reale posta in cima al catafalco, decorata con croci, fioretti, perle e ornamenti a cartoccio, fatti per “scherzare” e adornare la corona secondo il gusto dell’architetto Sebastiano Cipriani, realizzati in carta e fissati con filo di ferro, nonché l’abbellimento delle colonne tortili decorate con foglie di ulivo, cipresso e alloro che, fissati con una corda giravano tutt’attorno. Terminata la struttura in stucco, legno e cartapesta, il tocco finale a tutto l’apparato decorativo della chiesa fu opera del pittore e “indoratore” Ippolito Fortunati47, che completò il lavoro dipingendo a finto marmo, oro o argento, lumeggiando e ritoccando a chiaro a scuro, dando così profondità e prospettiva a tutta l’opera48. Da alcune note che lamentano il disagio e le difficili condizioni in cui l’artista lavorava si capisce che Fortunati lavorò direttamente in loco, probabilmente con una schiera di aiutanti, considerati i tempi assai stretti. Una volta montata l’intera macchina funebre, Fortunati iniziò a dipingere e a dorare, operando in maniera differente a seconda dei diversi materiali. Sul legno, ad esempio sui medaglioni raffiguranti le città di Londra Roma e Parigi, e sui quattordici scudi pentagonali della navata, il decoratore dapprima stendeva e cuciva una tela sulla quale spalmava un sottile strato di colla e gesso, e in ultimo dipingeva i diversi soggetti, impreziosendo la decorazione con lumeggiature d’oro fino “… in ogni luogo dove è stato ordinato con consumo di 35 librette d’oro”49. Quando invece doveva dipingere sullo stucco o sul gesso l’artista preparava la superficie con uno strato di aglio cotto per ripararla dall’umido, come ad esempio nel caso dei corsaletti eseguiti dall’Ottoni sopra ai capitelli delle colonne, per i quali il 47
Ippolito Fortunati indoratore, originario di Todi, a Roma era residente nella parrocchia di Santa Maria in Trivio dove è registrato nel 1700, cfr. Artisti e artigiani cit., II, 381, nota 62. 48 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 102. 49 Ippoliti lumeggiò in oro “l’esalazione dei venti, i raggi del sole sopra l’ulivo rampollo del medesimo, il sole nel petto della religione, la lucerna dello Zelo, la catena dell’unicorno…” raffigurati negli scudi pentagonali che decoravano la navata della chiesa, cfr. Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 102.
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nostro decoratore si adoperò a dipingere a chiaro scuro e a rabescare le bandiere e le frange attorno alle bocche di cannone. Dalla rapidità con cui il Fortunati dovette eseguire tutto il lavoro possiamo dedurre che avesse una bottega ben organizzata e con numerosi lavoranti al suo servizio, probabilmente una delle tante attive a Roma per realizzare gli apparati decorativi così in voga in quell’epoca. Una volta montata la macchina funebre, impresa piuttosto ardua a cui lavorarono anche un muratore Mastro Pietro Jacomo Borghini, pagato per mettere “in opera la macchina del catafalco, candelabri et ornamenti attorno alla chiesa, facciata, fatture di ponti et altro”50 e il fabbro mastro ferraro Francesco Nicci che fornì staffoni, anelli, grappe e spranghe di ferro51, il catafalco venne infine impreziosito da quattro vasi in argento e quattro in oro. Su di questi, collocati sul basamento dell’urna, sembra mancare una esaustiva documentazione d’archivio. Relativo alla realizzazione di questi vasi è un pagamento all’intagliatore Sebastiano Giorgietti, che venne incaricato di eseguire il modello in legno dei vasi d’argento e dei coperchi a forma di “pire”, così infatti leggiamo nel conto presentato dall’artista: “… vasi grandi d’argento di Sua Eminenza per servizio di detto funerale intaglio due coperchi longhi (…) uno tutto finito e l’altro più della metà, e che poi fu levato l’ordine del quale servì da modello per farli d’argento si sono intagliati con foglie frapposte minute e fettuccine attorno un bastoncino e tutto il resto scannellato storto fatto a vite, e con fiamme in cima per finimento di detto vaso tutto intagliato e sopra il coperchio del detto vaso d’argento fra uno scannello e l’altro fattoci delli baccelletti piccoli intagliati di legno e centinati secondo il garbo di detto vaso …”52. È probabile ricondurre alla realizzazione dei vasi per il catafalco di Giacomo II anche il pagamento a Simone Palmieri argentiere retribuito “scudi quattro moneta per aver aggiustati et imbruniti due vasi grandi d’argento della Nostra Casa (…….) e li sudetti vasi sono quelli che S. E. Padrone ordinò che si facessero li coperchi di argento con la fiamma in 50
Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 105. Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 103. 52 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 104. I Giorgietti appartenevano ad una famiglia di artisti spesso attivi al servizio dei Barberini; Antonio e Giuseppe, scultori, lavorarono per il cardinal Francesco [cfr. J. MONTAGU, Antonio and Gioseppe Giorgietti: Sculptors to Cardinal Francesco Barberini, in The Art bulletin 52 (1970), pp. 278-298; ID., Gold, Silver and Bronze. Metal sculpture of the Roman Baroque, Princeton, New Jersey 1990, p. 50]. Sebastiano, figlio di Giovanni Maria Giorgietti, lavorava come intagliatore in legno ed eseguì una bella cornice per il cardinale Francesco Barberini (cfr. A. GONZALES PALACIOS, Il Tempio del gusto. Le arti decorative in Italia fra classicismi e barocco. Roma e il Regno delle due Sicilie, Milano 1984, VI, p. 59) egli subentrò al padre nella realizzazione di diversi lavori per la famiglia Barberini (ringrazio per questa notizia M. Dickmann, che si sta occupando dell’argomento). 51
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cima per finimento di detti e alli mascheroni delli manichi vi furono fatti li suoi anelli che fingono attaccati alla bocca di detti mascheroni”53. Simone Palmieri, maestro orefice e argentiere, figlio di Bartolomeo, sembra qui aver solamente restaurato e pulito i due grandi vasi già di proprietà della famiglia per i quali eseguì solamente i due coperchi a forma di fiamma54. Dai documenti non risulta chiaro se alla fine i vasi per cui Sebastiano Giorgietti eseguì il modello furono poi effettivamente realizzati. Probabilmente Carlo decise di non affrontare un’ulteriore spesa ma preferì utilizzare alcuni vasi in argento che aveva in casa al Palazzo alle Quattro Fontane, come si può dedurre dalla nota di spesa per i facchini incaricati di trasportare i diversi pezzi della macchina, che fecero “diversi viaggi di argenti presi dal palazzo e portati”55. Fu proprio una folta schiera di uomini organizzati da “Pasquale facchino” a trasportare in chiesa i singoli elementi decorativi del catafalco e della navata e poi, una volta terminata la settimana in cui la macchina rimase in esposizione, a sgombrare la chiesa. I lavori iniziarono il 12 gennaio quando ben 12 facchini furono impegnati per trasportare ogni colonna. Lo stesso giorno e con grande cautela portarono anche lo svolazzo di latta con iscrizione, retto dallo scheletro sopra l’urna. Il giorno 22 furono portati “li quattro morioni grandi … di Lorenzo Ottone” mentre nella giornata del 25 due facchini lavorarono tutto il giorno per “prendere i panni pavonazzi in guardaroba” dal palazzo delle Quattro Fontane; non essendo sufficienti i banchi di chiesa ne furono presi alcuni in prestito dalla vicina chiesa di San Carlo, portati grazie al lavoro di cinque facchini per una giornata intera; in seguito furono trasportati a San Lorenzo diversi paramenti e un paliotto d’altare proveniente dalla basilica di San Pietro. Tutto questo trambusto non dovette essere di gradimento ai padri della chiesa e per scusarsi dello scomodo arrecato il cardinal Carlo provvide a donar loro ben 40 fiaschi di vino presi dal palazzo e portati dagli stessi facchini a San Lorenzo in Lucina. Una volta terminata l’esposizione del catafalco e concluse le celebrazioni in onore del defunto sovrano, i facchini si misero nuovamente all’opera per sgombrare velocemente la chiesa dal catafalco funebre e da tutti gli elementi decorativi. Il 6 febbraio fu pulita la chiesa, levata tutta la cera e riposti nelle casse ben piegati tutti i panni pavonazzi; i banchi furono riportati a San Carlo e nei giorni seguenti diversi uomini furono all’opera per portare via i medaglioni, i candelabri e tutte “le altre robbe” per depositarle, alcune al palazzo “alli bastioni” e altre a quello alle 53 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo I, fasc. 84. Alla stessa commissione si può collegare il pagamento del 22 novembre 1701; cfr. Arch. Barb., Comp. 305, f. 46. 54 Per Simone Palmieri cfr. C. BULGARI, Argentieri Gemmari e orafi d’Italia, Roma 1980, II, p. 228. 55 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo II, fasc. 213.
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Quattro Fontane, dove nella “Stanza dell’ovato” furono temporaneamente depositate le colonne tortili in legno. Prima di chiudere i conti di questa laboriosa celebrazione il cardinal Carlo dovette sostenere un’ulteriore spesa: il pagamento del guardiano, tale Rocco Bertini, che dormì dieci notti nella chiesa per far “guardia agli argenti”56 e quello a favore di trenta guardie svizzere incaricate di assistere e garantire la sicurezza durante la celebrazione delle solenni esequie il giorno del funerale.
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Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, tomo II, fasc. 213.
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Tav. I – Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, CL 3192 17327 (per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).
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Tav. II – Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, CL 3192 17321 (per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).
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Tav. III – Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, CL 3192 17324 (per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).
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Tav. IV – Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, CL 3192 17337 (per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).
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Tav. V – Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, CL 3192 17342 (per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).
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Tav. VI – Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, CL 3192 17322 (per gentile concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).
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MARCO BUONOCORE
TRE NOTE EPIGRAFICHE DA CODICI VATICANI All’amico fraterno Renato Badalì un anno dopo i suoi settant’anni
1. Una silloge epigrafica tardo umanistica: dal codice BAV Barb. lat. 2163 al codice ASV Misc. Arm. II. 35 (aggiornamento ad una nota di Angelo Mercati) Angelo Mercati, scrutinando i fondi dell’Archivio Segreto Vaticano1 e sottolineando correttamente ad esordio del suo intervento quanto le ricerche di archivio potessero offrire su documenti assai interessanti per gli studi di archeologia e di storia antica, tra i numerosi inediti portò all’attenzione alcuni manoscritti sfuggiti alle meticolose ispezioni dei collaboratori del CIL: oltre al codice Fondo Bolognetti 297 del sec. XVII latore di una copia dell’opuscolo Narnia del gesuita Fulvio Corduli († 1591), si concentrò, con le consuete dotte riflessioni, su una silloge epigrafica urbana ‘quattrocinquecentesca’ che aveva fatto da antigrafo alla raccolta di 19 iscrizioni2 — in gran parte falsae — presenti, sotto il titolo Monimenta antiqua Romae reperta in quodam vetusto libro, ai ff. 225r-234v (già ff. 220r-229v) del tomo 35 dell’Armadio II dei Miscellanea della Segreteria di Stato della fine del sec. XVI (Tav. I). Tra i documenti registrati non poteva mancare il ben noto cippo sepolcrale di Atimeto e Omonea3 che tanta fortuna ebbe nel Quattrocento e nel Cinquecento e di cui proprio alcuni anni fa ho voluto verificare la presenza nei miscellanea umanistici della Vaticana4. Alla naturale domanda (scil. “Ma donde ha preso i suoi testi il nostro manoscritto”?) l’illustre autore non riuscì a dare risposta (pur sforzandosi di censire i più autorevoli codici epigrafici dei secoli XIV e XV): “Poiché dunque finora non si conosce raccolta epigrafica che abbracci tutti i nostri testi colle 1 A. MERCATI, Comunicazioni antiquarie dall’Archivio Segreto Vaticano, in RendPontAccRomArch 19 (1942-1943), pp. 407-433. 2 Ma sull’esatto numero dei tituli vd. infra. 3 CIL VI, 12652 = IG XIV, 1892 = CLE, 995 = IGUR, 1250. 4 Per cui rimando al mio M. BUONOCORE, Tra i codici epigrafici della Biblioteca Apostolica Vaticana, Bologna 2004 (Epigrafia e antichità, 22), pp. 139-144, 195-196.
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 27-53.
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relative didascalie, è giuocoforza pensare ad un liber vetustus”. Inoltre, in base ad alcune indicazioni topiche, concludeva con queste parole: “Il liber antiquus pertanto era della seconda metà del secolo XV”. Penso di essere riuscito a recuperare questo liber antiquus/vetustus da cui l’anonimo copista del documento conservato presso l’Archivio Segreto Vaticano trasse la suddetta silloge. Come vedremo tali sono le coincidenze da indirizzare la mia suggestione verso la quasi certezza. Si tratta del codice Barb. lat. 2163 (già XXXI. 48, olim 3077; cart., mm 350 u 245, ff. III. 111); conserva ancora la legatura del 1828, come risulta dalla notazione apposta all’interno del piatto anteriore, costituita da due piatti cartonati in verde con pergamena nel dorso e negli angoli (sigilli della Biblioteca Vaticana ai ff. IIr, 41r, 111r). Trasmette una miscellanea tardo umanistica5 (risultato dell’assemblaggio di fogli pertinenti a diverse unità codicologiche certificato dall’antica numerazione presente su ciascun foglio), tra cui numerose opere del bolognese Achille Bocchi (14881562), autore di una Historia Bononiensis, dei Symbolicarum quæstionum libri quinque (Bologna, 1555; 1574²), di numerose orazioni, molte delle quali ancora inedite, e fondatore a Bologna dell’Accademia ‘Bocchiana’ (o ‘Bocchiale’), per la cui sede fece costruire un palazzo progettato da Vignola, ritoccato da Sebastiano Serlio, ed affrescato da Prospero Fontana, il tutto sotto il patronato dei Farnese, papa Paolo III ed il cardinale Alessandro6. Questo codice venne posseduto dopo il 1540 da un certo Cesare Conti (il quale non poche volte intervenne personalmente con appunti ed integrazioni almeno fino agli anni 1578-1579 [cf. ff. 108r, 111v]; suo è anche l’indice al f. IIIrv); così, infatti, si legge al f. IIv: “Scritti conseruati dal resto d’un libro di quei di Achille Bocchio, Gentiluomo Fam(osissi)mo lettore di humanità e di filosofia in Bologna. Doue si come variam(en)te sua sig(nori)a raccolse cose degne, io Cesare Conti metterò alla giornata ciò 5 Una descrizione alquanto puntuale del contenuto del manoscritto rimane sempre quella di Sante Pieralisi Cat. mss. 8, ff. 86r-96v, da integrare con quanto reperibile in P. O. KRISTELLER, Iter Italicum, II, London – Leiden 1967, p. 450. Per altre specifiche citazioni vd. W. L. GRANT, Neo-Latin Materials at Saint Louis, in Manuscripta 4 (1960), p. 8; L. J. DALE, Some Political Theory Tracts in the Barberini Collection, ibid. 16 (1972), p. 158; C. GRIGGIO, Per l’edizione dei Lusus del Navagero, in AttiIstVenetoScLettArti 135 (1976-1977), p. 101; G. PARENTI, Per Castiglione latino, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, a cura di S. ALBONICO et al., Milano 1996 (Testi e strumenti di filologia italiana. Strumenti, 2), p. 197; V. DEL NERO, Note sulla vita di Giovan Battista Pio (con alcune lettere inedite), in Rinascimento 21 (1981), p. 252; C. VECCE, Maiora numina. La prima poesia religiosa e la Lamentatio di Sannazzaro, in StudiProblCritTestuale 43 (1991), pp. 67-68, 83-86; F. TAMBURINI, Giulio Antonio Santoro cardinale penitenziere ed inquisitore generale. Ricerche sulla sua biblioteca, in RömQuart 95 (2000) p. 85. 6 Traggo queste informazioni da A. ROTONDÒ, Bocchi, Achille, in Diz. Biogr. Ital. 11, Roma 1969, pp. 67-70.
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che mi piacce nelle carte bianche tra essi ancora, fin che s’empongono; et aggiungendocene et pure di ling(u)e diverse. Ci saranno ancora appresso alcuni studi, et argomenti del prefato lauoro dotto, che fu circa l’anno di N(ostro) S(ignore) M.D.XL.”). I ff. 22r-23v (già ff. 34r-35v), sono questi quelli che interessano, raccolgono i Monimenta antiqua Romae: si tratta, appunto, di 18 iscrizioni metriche7 in parte autentiche, in gran parte falsae, desunte e prioribus, con versuum divisio (solo i testi nn. 1, 3 [in parte], 10, 13, 14 e 18 sono in carattere capitale), che un anonimo copista volle trascrivere su questi due fogli, la cui filigrana (var. BRIQUET 80608) ci rimanda ad un periodo cronologico compreso fra gli anni 1469-1492 ed a un ambito geografico lombardo-veneto. Innanzitutto la sequenza dei tituli e il riferimento topico sono i medesimi di quelli trasmessi dal codice dell’Archivio. Ne offro qui di seguito il necessario riscontro (Tavv. II-V): 1) – Barb. f. 22r (già f. 34r): CIL VI, 4*e (cf. WALTHER I, 6337) [In latere hostii Cardinalis S. Marci trans Tiberim] = Misc. Arm. II, 35 f. 226r (già f. 221r); 2) – Barb. f. 22r (già f. 34r): CIL VI, 3*a (cf. WALTHER II, 12917) [In introitu secundae portae Capitolii erat figura ferocis leonis catulam humiliter iacentem ante se habentis, cum his versibus adscriptis] = Misc. Arm. II, 35 f. 226v (già f. 221v); 3) – Barb. f. 22r (già f. 34r): CIL VI, 12652 = IG XIV, 1892 = CLE, 995 = IGUR, 1250 [In fonte in ecclesia S. Angeli apud S. Petrum. Sequuntur uersus IIII graecae scripti. In latere dextro in ecclesia S. Michaelis apud S. Petrum] = Misc. Arm. II, 35 ff. 226v-228v (già ff. 221v-223v); 4) – Barb. f. 22v (già f. 34v): CIL VI, 2*g = AL 709 (cf. WALTHER I, 19369) [Epigramma a Iulio Caesare editum] = Misc. Arm. II, 35 f. 229r (già f. 224r); 5) – Barb. f. 22r (già f. 34v): CIL VI, 24* [Iuxta Portam S. Pauli ubi est meta] = Misc. Arm. II, 35 f. 2296vr (già f. 224rv); 6) – Barb. f. 22v (già f. 34v): CIL VI, 17050 = CLE, 1301 (cf. WALTHER I, 9349) [In ecclesia S. Mariae maioris de Urbe] = Misc. Arm. II, 35 ff. 229v230r (già ff. 224v-225r); 7) – Barb. f. 22v (già f. 34v): ICUR, 21306 [In ecclesia S. Agnetis de Urbe] = Misc. Arm. II, 35 f. 230r (già f. 225r); 8) – Barb. f. 22v (già f. 34v): CIL VI, 3*h (cf. WALTHER I, 16879) [In foribus S. Mariae trans Tiberim] = Misc. Arm. II, 35 f. 230v (già f. 225v); 7
Silvagni indica 19 testi, in quanto considera due unità CIL VI, 4e. Il mio grazie a mons. Paul Canart per essermi stato d’aiuto nella identificazione della filigrana. 8
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9) – Barb. f. 23r (già f. 35r): CIL VI, 1199 (add. p. 4335) (cf. WALTHER I, 15124) [In ponte Salario in honorem Iustiniani] = Misc. Arm. II, 35 ff. 230v-231r (già ff. 225v-226r); 10) – Barb. f. 23r (già f. 35r): CIL VI, 1*a [Apud S. Georgium uelum aureum] = Misc. Arm. II, 35 f. 231r (già f. 226r); 11) – Barb. f. 23r (già f. 35r): CIL VI, 3*d [Iuxta portam S. Pauli ubi est meta extra muros in quadam ecclesia] = Misc. Arm. II, 35 f. 231v (già f. 226v); 12) – Barb. f. 23r (già f. 35r): CIL VI, 2*i = AL 221 (cf. WALTHER I, 18367) [Ibidem supra statuam Veneris] = Misc. Arm. II, 35 ff. 231v-232v (già ff. 226v-227r); 13) – Barb. f. 23r (già f. 35r): CIL VI, 14* [In quadam urna semirupta in orto S. Mariae in moticellis] = Misc. Arm. II, 35 f. 232rv (già f. 227rv); 14) – Barb. f. 23r (già f. 35r): CIL X, 6127 (scr. 6271 p. 611) [Inter fundum iuxta silicum viam] = Misc. Arm. II, 35 f. 232v (già f. 227v); 15) – Barb. f. 23v (già f. 35v): CIL VI, 20* [In quodam oratorio extra urbem] = Misc. Arm. II, 35 ff. 323v-233r (già ff. 227v-228r); 16) – Barb. f. 23v (già f. 35v): CIL VI, 3*b (cf. WALTHER I, 18851) [In baside vetustissima sub tribus nymphis marmoreis alternis brachiis inter se connexis in domo Cardinalis de Columna] = Misc. Arm. II, 35 f. 233rv (già f. 228rv); 17) – Barb. f. 23v (già f. 35v): CIL VI, 13* = X, 197* [In ecclesia S. Xisti in quadam urna] = Misc. Arm. II, 35 f. 234r (già f. 229r); 18) – Barb. f. 23v (già f. 35v): CIL VI, 1*m [In antiquo Capitolio ad bruti statuam] = Misc. Arm. II, 35 f. 234v (già f. 229v). Altro particolare che indirizza verso questa identificazione è offerto dalla circostanza che in entrambi i codici sono registrate le stesse varianti. Ad esempio, confrontando i testi con le edizioni, noto almeno le seguenti: n. 4: luderet pro ludit (v. 1), abscidit tenerum pro persecuit medium (v. 4), flammis peperi pro peperi flammis (v. 6); n. 5: cupis pro subus (v. 1), Merralla pro Merrhalla (v. 3); n. 6: Veneri pro Venaeri (v. 1), coniux pro coiux (v. 2), funere pro funaere (v. 4), supremum pro suppremum (v. 5), om. hoc (v. 5), grata sepsit … chelim pro gratam scalpsit … chelyn (v. 6), laetinioque pro letihaeoque (v. 8); n. 10: oratius … opt pro horatius … optimi (v. 1), solemne pro solenne (v. 4); n. 11: hastam pro astam (v. 1), lyram pro liram (v. 2); n. 12: quamuis liber erat pro pensa dedi alcidae (v. 2); n. 13: nimiam ob pietatem pro nimia ob pietate (v. 2), in anno … ms pro in an … m (v. 4);
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n. 18: annis XXII mensibus V diebus XVI pro ann XXII mens V dieb XVI (v. 3). Il possessore Conti, tenendo fede a quanto annunciato nella nota iniziale, aggiunge di suo pugno alla fine della silloge due altre iscrizioni (f. 23v [già f. 35v]), non presenti nel codice dell’Archivio Segreto. Una rinvenuta Fuori di Bologna circa un miglio in una possessione delli Volti per una catella fedele (da Conti viene anche proposta una traduzione latina in distico): Latrai li ladri, et a gli amanti tacqui. Così a Messero e Madonna piacqui In latino mi pare che si potesse dire Latraui fures, tacuique cupidine captis. sic (mes)sero et (mes)serae grata Catella fui.
Si tratta dell’epigramma (n. XVII) riportato da Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca (1504-1584)9, nelle sue Rime burlesche10; un componimento (con numerose varianti) che ebbe diffusa circolazione in tutta Europa fin dagli inizi del sec. XVI11. La traduzione di Conti è metricamente corretta, con quel sero e serae (per messero e messerae) che ben si incastrano nel primo emistichio del pentametro, pur trattandosi di parole italiane trasformate in termini latini. Un’altra con la seguente indicazione topica Romae in facie cuiusdam domus sub Montecauallo ad effigiem nominati qui, ut Libri aiunt clare, aufugiens ab infidelibus item christianus evasit: En Scanderbeghus, Turcarum acerrimus hostis, qui tanto uictor nomine dignus erat. Nam sonat id nomen Turcarum interprete12 lingua Magnus Alexander: lector13 amice vale. 9
F. PIGNATTI, Grazzini, Antonfrancesco, in Diz. Biogr. Ital. 59, Roma 2002, pp. 33-40. Le rime burlesche, edite e inedite di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, a cura di C. VERZONE, Firenze 1882, p. 640. Vd. ora l’ampio commento in Cani di pietra. L’epicedio canino nella poesia del Rinascimento, a cura di C. SPILA; traduzioni di M. G. CRITELLI – C. SPILA, Isola Liri (FR) 2002, pp. XXII-XXIII. 11 Vd. F. PLATA PARGA, Contribución al estudio de las fuentes de la poesía satírica de Quedo: Ateneo, Berni y Owen, in La Perinola. Revista de Investigación Quevediana 3 (1999), pp. 241242. 12 interpetre cod. 13 lettor cod. 10
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È chiaro il riferimento al principe albanese Giorgio Castriota detto Scanderbeg (Gjergj Kastrioti Skënderbeu, 1405-1468), un nome assegnatogli dai Turchi che significa ‘principe Alessandro’, il quale si era fatto costruire un palazzo nella piazzetta romana che ora prende il suo nome (Piazza Scanderbeg) alle falde del Quirinale, allorché venne a Roma nel 1466 per chiedere aiuto a papa Paolo II a favore del popolo cristiano albanese in lotta contro i Turchi (famose le sue vittorie contro Maometto II a Skopjë e Krujë sua città natale)14. L’iscrizione attualmente non esiste più, ma nella seconda metà del Cinquecento doveva essere ancora ben visibile e destare curiosità ed interesse. In entrambi i casi si tratta di iscrizioni metriche, che il nostro Conti ritenne opportuno inserire in coda alla silloge ‘poetica’ epigrafica. Questo pur modesto corpus ‘barberiniano’ è in perfetta sintonia con gran parte della produzione epigrafica manoscritta coeva, che non era dettata da un solo e semplice gusto per l’antico: si era ormai capito che il documento epigrafico, se rettamente interpretato, doveva essere anche inteso come testimonianza storica e pertanto era da ritenersi un fons della massima considerazione, anche per la sua Latinitas. È frequente, ad esempio, in sillogi poetiche d’età umanistica rinvenire carmina epigraphica considerati unicamente come testimonianza poetica senza nessun interesse alla tradizione iscritta. Lo studio delle edizioni quattro-cinquecentesche dei commenti agli autori antichi, infatti, dimostra come i filologi del tempo avessero ormai acquisito piena coscienza del valore delle iscrizioni latine quale documento storico: in base ad esse, considerata la loro provenienza diretta dall’antichità, era infatti possibile correggere l’ortografia di una parola trasmessa in modo erroneo dai codici, ma anche illuminare il senso del contesto culturale ove tale termine era stato utilizzato nel mondo antico15. Mi sembra quindi di poter affermare che quel codex antiquus/vetustus, da cui l’anonimo estensore di fine Cinquecento16 volle ricopiare i testi nell’attuale codice dell’Archivio Segreto Vaticano, possa essere identificato con questi due fogli del Barb. lat. 2163, il cui autore tuttavia rimane anch’esso sconosciuto. E mi chiedo se l’anomino estensore a sua volta non abbia 14 Rimando almeno a Giorgio Castriota Scanderbeg nella storia e nella letteratura. Atti del Convegno Internazionale, Napoli 1-2 dicembre 2005, a cura di I. COSTANTE FORTINO – E. CALI, Napoli 2008. 15 Vd. ad esempio G. VAGENHEIM, Le rôle des inscriptions latines dans l’édition des textes classiques à la Renaissance, in RevÉtLat 81 (2003), pp. 277-294. 16 Così Mercati alla nota 1 di p. 410: “Il manoscritto è tutto d’una sola mano della fine del Cinquecento”.
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copiato da un altro esemplare questi testi, secondo un esercizio alquanto diffuso, oppure non abbia operato indipendentemente da altre fonti. 2. Un nuovo testimone epigrafico di Ameria: il codice Vat. lat. 6217, ff. 282r-285v Eugen Bormann nel capitolo LXXV di CIL XI dedicato alle iscrizioni di Ameria molta attenzione riservò a Cosimo Brancatelli (arciprete — tra il 1593 ed il 1600 — di Porchiano) e al suo manoscritto, ora Barb. lat. 1729, latore di circa centotrenta iscrizioni (schedate in parte, così sembra, già prima del 1564), riabilitandone quasi del tutto l’attendibilità e la credibilità a seguito del severo giudizio formulato da Mommsen nel 1849. Dopo Bormann, prima Christian Hülsen nel 1915 e poi Alexander Gaheis nel 1918 ritornarono sul personaggio, il primo allineandosi al giudizio di Mommsen, suo maestro17, il secondo, che curò con Hermann Dessau il supplemento nonché l’indice di CIL XI nel 1926, rivalutandone l’operato18. Ed anche di recente Giovanna Asdrubali Pentiti ha dimostrato quanto i giudizi negativi precedentemente esposti fossero stati troppo sommari ed errati19. Bormann, sempre nel conspectus auctorum della città umbra20, che, a differenza degli altri volumi ‘italiani’ curati da Mommsen, precede la sezione storica, si incentra anche su Bartolomeo di S. Marco/Giannantonio Dosio (o d’Osi), su Angelo Baldo e sulla silloge anonima trasmessa dal codice Barb. lat. 2019 (ff. 103r-106v) evidenziandone da un lato pregi e difetti, dall’altro le scontate interdipendenze tra le loro recensiones e quelle di Brancatelli. Alcuni anni fa indicai21 l’esistenza di un bifolio inserito nel codice Vat. lat. 8494, la ben nota copia delle Inscriptiones di Peter Bienewitz (Apianus) e Batholomäeus Pelten (Amantius) del 1534 appartenuto ad Angelo Colocci: questo bifolio cartaceo (ff. 305r-306v) è latore di numerose iscrizioni
17 CHR. HÜLSEN, Ein Skizzenbuch des Giovannantonio Dosio in der Kgl. Bibliothek zu Berlin, in Sitzungsberichte der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften 53 (1915), pp. 914-936. 18 A. GAHEIS, Brancatelli, der Epigraphiker von Amelia, ein Fälscher?, in Wiener Studien 40 (1918), pp. 53-67. 19 Suppl. It., n.s., 18, Roma 2000, p. 216 e passim. Ringrazio nuovamente Giovanna Asdrubali Pentiti per aver voluto leggere questa mia nota sul ‘nuovo’ codice vaticano. 20 CIL XI, pp. 636-638, 1368. 21 M. BUONOCORE, Un testimone inedito (o quasi) della silloge epigrafica di Giocondo, in «Est enim ille flos Italiae». Vita economica e sociale nella Cisalpina romana. Atti delle giornate di studi in onore di Ezio Buchi (Verona, 30 novembre – 1 dicembre 2006), a cura di P. BASSO - A. BUONOPANE - A. CAVARZERE - S. PESAVENTO MATTIOLI, Verona 2008, pp. 529-546.
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dell’Umbria, soprattutto di Ameria22, che, così sembra, furono esemplate sul c.d. codex Oscottiensis23. Ora posso aggiungere un nuovo testimone che ho trovato ai ff. 282r-285v del codice miscellaneo di pieno sec. XVI Vat. lat. 6217, ben noto ad esempio a coloro che si interessano di calendari liturgici24. I ff. 280r-295v trasmettono numerose iscrizioni tra cui alcune di Aquinum (ff. 290r-292v)25 e parte del Monumentum Ancyranum delle res gestae Divi Augusti (ff. 280rv, 293r-295v)26. In questa sezione si trova, appunto, un binio cartaceo (mm 220 u 150), la cui filigrana (var. BRIQUET 13899-13900) rimanda agli anni 1525-1550. Reca l’intestazione De Antiquitatibus Amerinis (in parte cancellato), a cui segue il distico Marmoreis monumenta virorum descripta sepulchris, / aedibus aspicies haec Amerina sacris (noto che l’esametro, così come è trasmesso, ha una sillaba in più. Mi sarei aspettato, ad esempio, inscripta in luogo di descripta, sì che la sinalefe tra virorum ed inscripta possa eliminare la sillaba di troppo). Sono trascritti in caratteri minuscoli trentatrè documenti di Ameria, con versuum divisio quasi sempre rispettata, secondo un preciso ordinamento topografico: prima le iscrizioni conservate In cathedrali (tra cui l’immancabile dedica alla Fortuna), a seguire quelle In sancto augustino, In aedibus geraldinis, In aedibus Archilegiis, In aedibus sandris, In sancto juvenali, In sancto roccho, In sancto petro, In sancto secundo, In sancto salvatore, In sancto laurentio, In praedis petrignanis, In sancto paulo, In sancto proculo, In sancto angelo, In predio venturello, di nuovo In aedibus geraldinis, In aedibus farratinis e In hortis naccijs (Tavv. VI-X). f. 282r: 4347 In cathedrali (1 Fortune sacrum). – 4475 (4 anime). – 4395 (3 IIII). – 4522. f. 282v: 4491 (2-3 Veranie/lae, 3-4 com/parabili, 4 vixit, 7 filiis, et om., 7-8 he/redibus). – 4399 In sancto augustino (2 Roscius). – 4398 In aedibus
22
Così nell’ordine: (f. 305r) CIL, XI, 4639, 4348, 4385; (f. 306v) CIL, VI, 12629; CIL, XI, 4491, 4522, 4347; (f. 306r) CIL, XI, 4395, 4475, 4417; (f. 305v) CIL, XI, 4450, 4453, 4351. 23 Vd. CIL, XI, p. 636. Questo codice, che da Mommsen (inde Bormann) fu schedato al St. Mary College, ad Oscott presso Manchester, ora Oscott College, situato a Sutton Coldfield nei dintorni di Birmingham, sembra irreperibile. Vd. H. SOLIN, Iscrizioni antiche di Ferentino e Alfonso Giorgi, in Epigrafi e studi epigrafici in Finlandia, a cura di H. SOLIN (Acta Instituti Romani Finlandiae, 19), Roma 1998, p. 146. 24 Ad esempio, B. BAROFFIO, Iter Liturgicum Ambrosianum. Inventario sommario di libri liturgici ambrosiani, in Aevum 74 (2000), p. 589; ID., Kalendaria Italica. Inventario, ibid. 77 (2003), p. 470. 25 BUONOCORE, Tra i codici epigrafici cit. (nota 4), pp. 96-97. 26 Z. R. W. M. VON MARTELS, The discovery of the inscription of the Res Gestae Divi Augusti, in Res publica litterarum 14 (1991), p. 154.
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geraldinis (1 Autuma). – 4527 In aedibus geraldinis (2 Spurille, 4 in versus duos divisit, 5 Spurillius, 6 Roscie, 7 filio carissimo). f. 283r: 4513 In aedibus Archilegiis (3-4 pii/entissimo). – 4515 In aedibus sandris. – 4422 In sancto juvenali (2 villicus, 3 in versus duos distinxit). – 4438 (2 Preconiae, 3 roscille, 6 artora corr. artoria. secunna, 7 om.). – 4421 In sancto roccho (2 publico). f. 283v: 4380. – 4532 (1 v om.; 3 fauste, 4 superstat iis). – 4485 (1-4 om.; 5 T om.). – 4453 In sancto petro (4 D pro L, 6 erat). – 4348 In sancto secundo (v. 1-2 conexit, 6 add. T. pettius). – 4359. – 4385 (Prattius t f rufus IIII / vir iterum mesamol). ff. 283v-284r: 4389 (v. 1-2 conexit, 3 III pro IIII, 8 coscon). f. 284r: 4454 In sancto salvatore. – 4499 (4 om., 5 bene merenti). – 4498 In sancto laurentio (3 fesiae, 4 missius). f. 284v: 4364 (7 vixit, 12 punctum non habet inter per et stitibus, III pro IIII, 13 C om.). – 4503 In praedis petrignanis (2 d d d pro Lyde, IIII pro Felix, 5 II c II pro fecit). – 4446 In sancto paulo (versus aliter distinxit; 3 venerine, qua pre pro quam prae, 7 pudice, 8 pie, 8-9 visellinus, 10-11 devote). f. 285r: 4520 In sancto proculo (1 agnacia). – 4539 In sancto angelo (1 vistillius, 3 vistillio). – 4423 In predio venturello. – 4462 In aedibus geraldinis (2-7 IOÃ+DJQHWÃIOÃDXJOLELVL/GRUXVÃFRQLXJLÃIHFLWHWVLEL/ LWHPÃIOÃS ÃURWRJHQLRIÃF/ FDOOLVWDQXVÃHXGHPRQL/ XUEDQRFDHUÃQIHFHUXQWHWVLELHW/ suis libertis libertabus posteris / TXDHÃHRUXP). – 4351 In aedibus farratinis (2 Traia, 6 puellarumquae). f. 285v: 4356 In hortis naccijs. Quindi: CIL XI, 4347 (f. 282r), 4348 (f. 283v), 4351 (f. 285r), 4356 (f. 285v), 4359 (f. 283v), 4364 (f. 284v), 4380 (f. 283v), 4385 (f. 283v), 4389 (ff. 283v-284r), 4395 (f. 282r), 4398 (f. 282v), 4399 (f. 282v), 4421 [= VI, 9986] (f. 283r), 4422 (f. 283r), 4423 (f. 285r), 4438 (f. 283r), 4446 (f. 284v), 4453 (f. 283v), 4454 (f. 284r), 4462 (f. 285r), 4475 (f. 282r), 4485 (f. 283v), 4491 (f. 282v), 4498 (f. 284r), 4499 (f. 284r), 4503 (f. 284v), 4513 (f. 283r), 4515 (f. 283r), 4520 (f. 285r), 4522 (f. 282r), 4527 (f. 282v), 4532 (f. 283v), 4539 (f. 285r). Il fascicolo si chiude con il distico di dedica: Ad sfortiam geraldinum compilatorem Gens amerina tuis debebit Sfortia curis; Abdita quae fuerant, te duce lumen habent. Sforza Geraldini, appartenuto alla potente famiglia dei Geraldini di
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Amelia27, dopo un’intensa attività diplomatica al servizio di Spaziano Colonna, fu nominato vescovo di Catanzaro il 18 agosto 1536 (morì il 28 febbraio 1550)28. Nulla vieta di pensare, quindi, che Sforza, prima del suo definitivo spostamento in Calabria, avesse voluto raccogliere i vestigia della sua città natale, annotando i trentatrè testi epigrafici. Ad eccezione di nove iscrizioni (CIL XI, 4347 [add. 1369], 4380, 4385, 4395, 4398, 4421, 4462, 4485, 4515), tutte le altre confluirono in Bormann solo attraverso la tradizione manoscritta. Non sappiamo se Sforza Geraldini abbia ispezionato direttamente i documenti, oppure se abbia costruito la silloge sulla base delle autoscopie di precedenti studiosi locali; è singolare, comunque, il fatto che, a fronte di numerose varianti presenti nelle trascrizioni di Bartolomeo di S. Marco, Angelo Baldo e Cosimo Brancatelli (lavori anch’essi basati sull’ordine topografico di conservazione dei monumenti), abbia riscontrato alcune letture non registrate nei medesimi autori (ad esempio: in 4527 r. 7 filio carissimo; in 4438 r. 3 roscille, r. 6 secunna e r. 7 om.; in 4532 r. 3 fauste; in 4499 r. 4 om.; in 4364 r. 13 C om.; in 4539 r. 1 vistillius e r. 3 vistillio; in 4351 r. 2 Traia e r. 6 puellarumquae). Ritengo, quindi, che il nostro compilator abbia operato fin dove possibile direttamente sugli originali allora esistenti nella sua città natale, prima del suo trasferimento nel 1536 a Catanzaro, e che, se mai, da questa breve silloge allora circolante i posteriori corporis inscriptionum Amerinarum conditores abbiano attinto per quelle iscrizioni non più visibili o per comodità di registrazione. Se coglie nel vero quanto fino ad ora esposto, avremmo in questo modo recuperato un utile tassello per la storia degli studi epigrafici di Ameria. Ovviamente il fascicolo in questione non è della mano di Sforza: non avrebbe senso, credo, per quanto non del tutto da escludersi, la autorappresentazione siglata dal distico finale. Penserei ad un anonimo copista che, volendo eternare quanto l’illustre concittadino aveva esperito prima del 1536, copiò dall’antigrafo la silloge epigrafica aggiungendo il distico di dedica (nel margine superiore destro di f. 285v vi è anche la notazione, sempre della medesima mano: Antiquità che si trouano in amelia): ma non saprei se gli incidenti scrittorî sopra indicati erano presenti già nell’archetipo esemplato oppure siano da attribuire all’oscitatio dell’anonimo copista; inoltre difficile sarebbe stabilire se questa operazione avvenne nel momento di trasferimento del prelato a Catanzaro o addirittura dopo 27 Vd. ad esempio J. PETERSOHN, Amelia, Roma e Santo Domingo. Alessandro Geraldini e la sua famiglia alla luce di un convegno recente e di fonti contemporanee, in QuellForschItArchBibl 76 (1996), pp. 253-273. 28 Cf. L. DE SIENA, I Geraldini e la Calabria, in RivStorCal, n.s., 8 (1987) [Studi di storia della Chiesa in Calabria offerti al padre Francesco Russo nei suoi ottant’anni], pp. 61-71 [in part. vd. p. 65].
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la sua morte, quasi ad omaggiare con il binio la figura dell’illustre concittadino e dell’intera famiglia dei Geraldini. 3. Giuseppe Cascioli e le sue Inscriptiones Basilicae Vaticanae Veteris (Arch. Cap. S. Pietro, Manoscritti vari 1-6) Nato a Poli il 24 febbraio 1854, Giuseppe Cascioli fu chierico beneficiato (22 novembre 1903) di San Pietro in Vaticano e beneficiato dall’8 novembre del 1914 fino alla sua morte avvenuta il 5 dicembre 1934. Dal 1908 al 1916 nell’ambito del Capitolo della medesima istituzione ricoprì la carica di sottoarchivista29. Molto dedicò dei suoi studi a Pierluigi da Palestrina30, alla sua città natale31 e a Tivoli32; ma soprattutto il suo interesse, motivato dalla carica ricoperta per numerosi decenni in San Pietro, si rivolse alle antichità del Vaticano: di lui sono ancora consultate la Guida illustrata del Nuovo Museo di San Pietro (Petriano) e la Guida al tesoro di S. Pietro, pubblicate a Roma nel 1924 e 1925, e numerosi lavori attinenti alla Basilica Vaticana33, alla Fabbrica di San Pietro34 e a venerandi cimeli della Santa Sede35. Ma di questo “dotto e benemerito prelato”, così lo defi29 Vd. D. REZZA – M. STOCCHI, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano dalle origini al XX secolo, Città del Vaticano 2007 (Archivum Sancti Petri. Studi e documenti sulla storia del Capitolo Vaticano e del suo clero, I, 1), p. 313. Un necrologio è in AttMemSocTibStArte, 19 (1934), pp. 371-376. 30 La vita e le opere di Giovanni Pierluigi da Palestrina, principe della musica; pubblicate nella ricorrenza del terzo centenario della sua morte avvenuta il 2 febbraio 1584, con note illustrative e ritratto del grande maestro, Roma 1894; Nuove ricerche sul Palestrina, Roma 1923 (Note d’archivio per la storia musicale, I, 6). 31 Memorie storiche di Poli con molte notizie inedite della celebre famiglia Conti di Guadagnolo, Roma 1896; Il pittore Giacomo da Poli discepolo del Beato Angelico, Tivoli 1923; Guida storico-artistica di Poli (presso Roma), con appendice di uomini illustri o degni di memoria, Roma 1933. 32 Memorie storico-critiche del santuario di Nostra Signora di Mentorella nella diocesi di Tivoli, illustrate da molte incisioni, Roma 1901; Bibliografia di Tivoli, Tivoli 1923 (Studi e fonti per la storia della regione tiburtina, 3); Codici manoscritti, stampe. Gli uomini illustri o degni di memoria della città di Tivoli dalla sua origine ai nostri giorni, Tivoli 1927 (Studi e fonti per la storia della regione tiburtina, 5). 33 Di un Crocifisso carolingio nella basilica vaticana. Memorie storico-archeologiche, Roma 1910; La basilica di S. Pietro in Vaticano. I nuovi lavori dei pilastri, Roma 1914. 34 I monumenti di Roma e la Fabbrica di S. Pietro, in DissPontAccRomArch, s. 2, 16 (1921), pp. 361-383. 35 La navicella di Giotto a S. Pietro in Vaticano; memorie storico-artistiche, in Bessarione. Rivista di studi orientali 20 (1916), pp. 118-138; Guida illustrata alle sacre Grotte vaticane e alle venerande tombe di Pio X e Benedetto XV, Roma 1925 [vd. ora V. LANZANI, Le grotte vaticane. Memorie storiche, devozioni, tombe dei Papi, Città del Vaticano – Fabbrica di San Pietro 2010]; Nuovi documenti sul modello della cupola di Michelangelo, in Roma 5, 5 (1927), pp. 205-209.
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nisce Giuseppe Zander in un articolo dedicato alla ricostruzione originale del monumento sepolcrale di Paolo II36, fino ad oggi risultano poco note, in quanto rimaste manoscritte, le Inscriptiones Basilicae Vaticanae Veteris veicolate da sei manoscritti ora conservati presso la Sezione Archivi della Biblioteca Apostolica Vaticana (Arch. Cap. S. Pietro, Manoscritti vari 1-6), che contengono le trascrizioni da lui eseguite dei tituli Basilicae Vaticanae Veteris dei secoli III-XVI. Così la ripartizione di questi sei manoscritti: 1) ISCRIZIONI PAGANE trovate nell’area Vaticana e dentro S. Pietro (ff. 1-97) 2) Inscriptiones Bas(ilicae) Vatic(anae) Veteris Secoli III-VI (ff. 1-324) 3) Inscriptiones Bas(ilicae) Vat(i)c(anae) Veteris Secoli VII-IX (ff. 1-157) 4) Inscriptiones Basilicae Vaticanae Veteris Saecula X-XIV (ff. 1-211) 5) Iscrizioni dell’antico S. Pietro Secolo XV (ff. 1-364) 6) Secolo XVI S. Pietro (ff. 1-331) Come lavorava Cascioli? Ho voluto prendere, ad esempio, il manoscritto 1, quello cioè, come recita l’intestazione, dedicato alle “ISCRIZIONI PAGANE trovate nell’area Vaticana e dentro S. Pietro” (ff. 1-97, + ff. 6a-c; mm 290 u 215). È a noi trasmesso un totale di 126 iscrizioni (alcuni documenti sono ripetuti), ma non solo ‘pagane’, di cui offro qui di seguito gli estremi identificativi37: CIL VI, 1033* (f. 9); 1557* (f. 43); 2240* (f. 55); 2355* (f. 61); 2360* (f. 39); 3206* (f. 56); 3207* (f. 58); 3269* (f. 60); 3273* (f. 60); 3281* (f. 44); 3288* (f. 43); 442 (f. 2); 497 (f. 16); 498 (f. 19); 499 (f. 66); 500 (f. 21); 501 (f. 20); 502 (f. 15); 503 (f. 22); 504 (f. 10); 709 (f. 11); 946 (f. 91); 1101 (ff. 17, 18); 1171 (f. 59); 1403 (f. 39); 1461 (f. 13); 1506 (f. 34); 2003 (f. 82); 2162 (f. 12); 2222 (ff. 5-6) [Tav. XI]; 2293 (f. 40); 2707 (f. 92); 3422 (f. 48); 3537 (f. 49); 3555 (f. 9); 8438 (f. 11); 8770 (f. 53); 9164 (f. 55); 9221 (f. 12); 9393 (f. 1); 9438 (f. 41); 9477 (f. 89); 9569 (f. 4); 9897 (f. 11); 10009 (f. 29); 10106 (f. 3); 10693 (f. 33); 11229 (f. 63); 11373 (f. 47); 11795 (f. 40); 12118 (f. 83); 12374 (f. 92); 13256 (f. 93); 13427 (f. 45); 13556 (f. 72); 14082 (f. 35); 14313 (f. 42); 14472 (f. 50); 15002 (f. 77); 15173 (f. 32); 15263 (f. 30); 15570 (f. 76); 15639 (f. 65); 16120 (f. 36 G. ZANDER, La possibile ricomposizione del monumento sepolcrale di Paolo II, in RendPontAccRomArch 55-56 (1982-1984), pp. 175-243; il riferimento a Cascioli è alle pp. 186187. 37 Ho limitato al massimo i conguagli con altre raccolte. Chi fosse interessato ad una esaustiva numerorum comparatio può consultare l’utilissimo repertorio di A. FASSBENDER, Index numerorum. Ein Findbuch zum Corpus Inscriptionum Latinarum, Berlin 2003 (Corpus inscriptionum Latinarum. Auctarium; ser. nova, 1).
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12); 16174 (f. 87); 16229 (f. 78); 16298 (f. 64); 16310 (f. 50); 16958 (f. 69); 18004 (f. 80); 18258 (f. 49); 19131 (ff. 31, 97); 19336 (f. 51); 19391 (f. 25); 20001 (ff. 42, 93); 20293 (f. 96); 20648a (f. 57); 20829 (f. 36); 20977 (f. 31); 21359 (f. 52); 21998 (f. 37); 22066 (f. 48); 22069/70 (f. 84); 22378 (f. 70); 22385 (f. 50); 22672 (f. 85); 23555 (f. 80); 24983 (f. 46); 25228 (f. 51); 25354 (f. 74); 25358 (f. 90); 26195 (f. 46); 26326 (f. 41); 27177 (f. 12); 27758 (f. 51); 27857 (f. 86); 28306 (ff. 53, 76); 29160 (f. 52); 29794 (f. 75); 30780 [= IGUR 126] (f. 67); 32716c (f. 91); 34624 (f. 47); 34816 [= ICUR 4230] (f. 28); 34917 (f. 56); 36455 (f. 95); 36491 (ff. 24, 36). CIL V, 6808 (Eporedia) (f. 38); 6811 (Eporedia) (f. 57). CIL X, 3910 (Cales) (f. 54). CIL XI, 138 (Ravenna) (f. 54); 142 (Ravenna) (f. 44); 162 (Ravenna) (f. 45). CIL XIV, 401 (Ostia) (f. 11); 2886 (Praeneste) (f. 4). CIL XV, 424, 5 (f. 94). ICUR, 43 (f. 74); 99 (f. 23); 4177 (f. 79); 4192 (f. 38); 4196 (ff. 7, 8rv); 4217 (f. 88); 4230 [= CIL VI, 34816] (f. 28). IGUR, 26 (f. 71); 126 [= CIL VI, 30780] (f. 67); 193 (f. 14); 1036 (f. 73); 1387 (f. 71). Der Campo Santo Teutonico in Rom, a cura di E. GATZ, I, Roma 1988 (Römische Quartalschrift für christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte. Supplementheft, 43), pp. 610-611 n. 59 (f. 26). Al momento non mi è stato possibile identificare le seguenti tre iscrizioni: 1) [- - -]S IOHANNI TI[- - - / - - -]ARABIA BAL[eria] [da “Vat. lat. 9074 p. 882 n. 14; Barb. lat. 2756 p. 481; Vat. lat. 9084 p. 94”] (f. 27). 2) [- - -]%9&&,',2>@'92Ã3$/>@>da “Gruterus p. 1139 n. 1”] (f. 37). 3) DESTRA / LOCVS [da “Vat. lat. 9073 n. 11”] (f. 81). Su fogli rigati (mm 290 u 215) Cascioli trascrive, sempre sul recto e lasciando in bianco il verso (uniche due eccezioni per i commenti riservati a CIL VI, 2222 [ff. 5-6] ed ICUR, 4196 [ff. 7 e 8rv]), in caratteri capitali i dettati epigrafici (offre talvolta anche le raffigurazioni là dove esistenti su determinati supporti), a cui fa seguire commenti più o meno ampi (soprattutto per le prime iscrizioni trascritte), indicando sempre le fonti manoscritte della Biblioteca Vaticana ove l’iscrizione era stata registrata: scandaglio primario venne infatti operato sui codici di Giacomo Grimaldi (Arch. Cap. S. Pietro G. 13 e Barb. lat. 2733), sui Diaria Basilicae Vaticanae (cioè i dieci manoscritti 1-10 che fino all’anno 1885 raccolgono eterogeneo materiale
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documentario relativo alla Basilica e alla sua storia, alle cerimonie ed atti vari lì svoltisi), su quelli di Gaetano Marini e la sua collezione (in particolare i codici Vat. lat. 9071-9074, 9077, 9084, 9118-9120, 9123-9125, 91299131, 9139); ma non rinuncia a consultare i manoscritti di Celso Cittadini (Vat. lat. 5253), di Giovanni Battista Doni (Barb. lat. 2756), di Claudio Menestrier (Vat. lat. 10545), di Giovanni Colonna di Tivoli (Vat. lat. 7721), di Fabio Danzetta (Vat. lat. 8324) e tanti altri testimoni ‘epigrafici’ conservati nell’istituzione pontificia (Barb. lat. 1804, 2019, 2062, 9084, Ott. lat. 2015, Reg. lat. 2064, Vat. lat. 5234, 5245, 6038, 6438, 9818). Sono codici ben noti a noi che quotidianamente abbiamo a che fare con la storia degli studi epigrafici38. Ma nei lemmi bibliografici Cascioli non si esime dall’indicare quanto da altre pubblicazioni aveva potuto escerpire per la sua silloge: così troviamo i riferimenti a Tiberio Alfarano, Francesco Cancellieri, Raffaele Fabretti, Emanuele Sarti, Giuseppe Settele e Francesco Maria Torrigio; ma su tutti ampio scrutinio viene riservato al Corpus del Grutero del 1603, che raccoglieva le iscrizioni di tutto il mondo romano, e forse anche al ‘supplemento’, vale a dire il Syntagma inscriptionum antiquitatum di Thomas Reinesius uscito postumo a Lipsia nel 1682. Solo per le iscrizioni riportate ai ff. 1 e 2 viene correttamente offerto il riferimento a Corpus inscriptionum Latinarum (rispettivamente CIL VI, 9393 e 442): è singolare che non abbia citato gli altri volumi del CIL allora disponibili, soprattutto quello del 1885 dedicato alle inscriptiones falsae Urbis Romae attributae alla cui costruzione avevano dato il proprio illuminante contributo E. Bormann, G. B. de Rossi, W. Henzen e Chr. Hülsen: avrebbe potuto accertare, così, l’origo non romana di taluni tituli e la falsità di altri, come quelli di Pirro Ligorio e Leohnard Gutensten confluiti nella silloge gruteriana39. Quantunque, come visto, le iscrizioni siano nella maggior parte ‘pagane’, non mancano documenti ‘cristiani’ (addirittura viene registrata a f. 26 un’iscrizione del 1560 conservata nel Camposanto Teutonico): interessante quello riferito a f. 88 (ICUR, 4217) dove ne viene indicata la modalità del recupero: “L’epitaffio funeratizio, mancante della parte superiore, venne alla luce dal pavimento della Basilica Vaticana dal lato dei SS. Processo e Martiniano nel luglio 1910, quando esso venne rinnovato”; così come per CIL VI, 22672 (f. 85): “Fu trovata nel 1777 nel cavare i fondamenti della nuova Sacrestia il 12 Decembre”. Alla categoria dell’instrumentum domesticum appartiene il bollo di f. 94 (CIL XV, 424, 5) di cui Cascioli offre il disegno, peraltro scorretto, desunto dal codice di Grimaldi Barb. lat. 2733 38
Vd. anche il censimento in ICUR II, pp. 3-5. Sulle inscriptiones Gutenstenianae vd. sempre le lucide pagine di TH. MOMMSEN, De fide Leonhardi Gutenstenii, EE I, Romae – Berolini 1872, pp. 67-75 [= Gesammelte Schriften, 8 (Epigraphische und numismatische Schriften), Berlin 1913, pp. 205-215]. 39
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(“Il 1607 disfacendosi la parte anteriore della vecchia Basilica, venne alla luce una tegola col suddetto sigillo, avente al centro l’insegna d’un cavallo e attorno la detta iscrizione delle figuline”). Per l’iscrizione IGUR, 126 (f. 67) offre la traduzione latina; per la dedica degli argentarii et exceptores itemque negotiantes a Q. Herennius Etruscus Messius Decius Cascioli ripercorre le varie fasi degli spostamenti museali: “Fu trovata, come dice il Grimaldi, nel fare i fondamenti del coro nuovo il 1611 e serviva di chiusura alla tomba d’un cristiano. Venne poscia infissa in una stanza della vecchia sacrestia di S. Pietro, come nota il sudd. Diario [scil. Diar. Bas. Vat. a. 1777 f. 99], dove fu tolta il 1777, e deposta temporaneamente nell’Archivio della Basilica. Fatta la nuova sacrestia da Pio VI, venne infissa nell’ala di passaggio tra la sacrestia dei Canonici e la Basilica con alcune altre iscrizioni e con i frammenti degli atti dei fratelli Arvali. Sotto Pio X, il prof. Marucchi propose al Papa di togliere di là l’iscrizione di Q. Erennio, nonché le altre dei fratelli Arvali40 e di Ursus Togatus41 per portarle al Museo Vaticano, dove infatti ora si trovano”. Per CIL VI, 15002 (f. 77) commenta: “La trascrive Celso Cittadini nel Cod. Vatic. Lat. 5253 f. 248v da un Ceppo grande dietro S. Pietro alli scarpellini. Quest’ultima denominazione fu data nel secolo XVI e XVII alla località dietro la Basilica Vaticana, dove lavoravano gli scalpellini a preparare i marmi per la fabbrica, ed è spesso ricordata nei documenti della Basilica”; analoga precisazione a proposito dell’iscrizione greca IGUR, 1387 (f. 71): “Le Murate di S. Pietro [scil. aedes monialium quas Muratas vocant] avevano la loro residenza tra le due rotonde di S. Petronilla e di S. Andrea”42. Gli interessi epigrafici maturarono in Cascioli solo in età avanzata, nel momento in cui egli cominciò a frequentare la Basilica Vaticana, a quasi cinquant’anni, quando, l’abbiamo anticipato, divenne chierico beneficiato il 22 novembre 1903 di San Pietro in Vaticano; di questo ‘tardo’ interesse d’altronde prova indiretta è anche l’assenza del suo nome tra i mittenti del ricchissimo epistolario di Giovanni Battista de Rossi, ora codici Vat. lat. 14238-1429543 (quando nel 1894 de Rossì morì, Cascioli aveva già compiu40
CIL VI, 2068. CIL VI, 9797. 42 Sulla topografia della zona vd. F. CASTAGNOLI, Il Vaticano nell’antichità classica, Città del Vaticano 1992 (Studi e documenti per la storia del Palazzo Apostolico Vaticano, 6); P. LIVERANI, La topografia antica del Vaticano (con un contributo di A. WEILAND), Città del Vaticano 1999 (Monumenta Sanctae Sedis, 2). 43 Converrà sempre ribadire quanto questo enorme raccolto documentario sia costantemente “sfruttato” da chi ha la necessità di esplorare taluni aspetti della cultura internazionale della seconda metà del XIX secolo: tanti sono, infatti, gli spunti di riflessione, tante le opportunità di approfondimento su problematiche generali o specifiche con cui l’attento lettore di questo epistolario potrà serenamente confrontarsi. Vd. anche quanto scrivo in Giovan 41
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to quarant’anni). Non si era, pertanto, potuto avvalere della scuola di un de Rossi o di un Gatti, né tanto meno di quella tedesca. Con questa paziente fatica editoriale Cascioli (la sua attività si inquadra nel primo trentennio del 1900), sull’esempio – per rimanere in àmbito romano – di Cornelio Margarini per la Basilica di San Paolo fuori le mura nel XVII secolo44, volle trasmettere un corpus completo delle iscrizioni relative alla ‘sua’ Basilica Vaticana. Il lavoro, pur con numerose imprecisioni, risulta comunque utile perché di quasi tutte le iscrizioni offre, l’abbiamo sottolineato, il luogo del rinvenimento o quello ritenuto tale ed i vari spostamenti subiti nell’ambito della Basilica Vaticana e sue adiacenze (ad esempio per ICUR, 4217 di f. 88, già ricordata, segnala con maggiore precisione, rispetto alla raccolta di Silvagni, le modalità del suo recupero: “Repertum a. 1920 in renouando pauimento basilicae”); ci offre anche il percorso bibliografico di questo raccolto documentario, tra cui si annoverano veri e propri cimeli della tradizione antica, offrendoci riferimenti a manoscritti, documenti di archivio e pubblicazioni del Seicento e Settecento che neanche le attente cure di de Rossi ed Henzen avevano potuto recuperare. Non è certo uno storico ed un raffinato epigrafista: molte delle discussioni e congetture risentono ancora dello stile antiquario ed ormai superato dell’Ottocento; non entra nel merito della corretta lettura dei testi che, così sembra, in minima parte poté vedere direttamente; la versuum divisio è molte volte scorretta. Nel complesso la sua figura, nella storia degli studi epigrafici, dovrà essere comunque tenuta in conto nei nostri percorsi di ricerca né tanto meno essere frettolosamente dimenticata.
Battista de Rossi e l’Istituto Archeologico Germanico di Roma (Codici Vaticani Latini 1423814295), in MDAI. Röm. Abt. 103 (1996), pp. 295-314. Tra i tanti contributi che hanno avuto come fonte primaria questo epistolario ricordo almeno P. SAINT-ROCH, Correspondance de Giovanni Battista de Rossi et de Louis Duchesne (1873-1894) (Collection de l’École Française de Rome, 205), Rome 1995. 44 Su cui vd. il recente monumentale lavoro G. FILIPPI – R. BARBERA, Il codice epigrafico di Cornelio Margarini e le iscrizioni della Basilica di San Paolo fuori le mura (con la collaborazione informatica di A. B. SPINETTI), Città del Vaticano 2011 (Inscriptiones Sanctae Sedis, 3.2).
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Tav. I – Archivio Segreto Vaticano, Misc. Arm. II. 35, ff. 229v-230r (già ff. 224v-225r).
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Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2163, f. 22r (già f. 34r).
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Tav. III – Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2163, f. 22v (già f. 34v).
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Tav. IV – Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2163, f. 23r (già f. 35r).
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Tav. V – Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2163, f. 23v (già f. 35v).
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Tav. VI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 6217, f. 282r.
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Tav. VII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 6217, ff. 282v-283r.
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Tav. VIII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 6217, ff. 283v-284r.
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Tav. IX– Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 6217, ff. 284v-285r.
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Tav. X – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 6217, f. 285v.
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Tav. XI - Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro, Manoscritti vari 1, f. 5r.
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A GEOGRAPHY OF LEARNING: THE WORLD OF THE PRESUMED MAP OF THEODULPHE OF ORLEANS AND ITS MID-ELEVENTH-CENTURY CATALAN AUTHOR This essay deals with a double-page world map that is displayed in a sumptuous mid-eleventh-century encyclopedia that was produced in Ripoll (Catalonia) and is actually preserved in the Queen Christina Collection at the Vatican Library (MS Reg. Lat. 123) (Fig. I).1 In the map, the circle of the Earth (fols. 143v-144) is enveloped by the circle of the ocean where the twelve personified winds blow, and this is surrounded by red flames. The surface of the Earth, marked with climatic 1 Rome,
Biblioteca Apostolica Vaticana, MS Reg. lat. 123, membr., cm 36 u 28, fols. 223, lacking folios on the first and the last quires. See a detailed description in: D. A. WILMART, Codices Reginensis Latini, Bibliotecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti, I, 1-250, II, 251-500, Vatican State 1937-45, I, pp. 289-292. See also: J. H. ALBANÉS, La Chronique de Saint-Victor de Marseille, in Mélanges d’archéologie et d’histoire, 6 (1886), pp. 64-90; J. PIJOAN, Miniaturas españolas en manuscritos de la Biblioteca Vaticana. I. El manuscrito 123 Regina Lat., in Cuadernos de travajos de la Escuela Española de Arqueologia en Roma 1 (1912), pp. 1-10; A. ALBAREDA, Els manuscrits de la Biblioteca Vaticana Reg. Lat. 123, Vat. Lat. 5730 i el scriptorium de Santa Maria de Ripoll, in Catalonia Monastica, Recull de documents i estudis referents a monestirs catalans 1 (1927), pp. 23-69; M. E. IBARBURU ASURMENDI, La pervivencia de illustraciònes sobre temas astronómicos del mundo clásico en manuscritos románicos a través del MS Vat. Reg. 123, in EAD., De capitibus et aliis figuris, Barcelona 1999, pp. 33-48; M. A. CASTIÑEIRAS GONZÁLEZ, La illustración de manuscritos en Cataluña y su relación con el centros europeos, in Cataluña en la época carolingia. Arte y cultura antes del románico (siglos IX y X), 16 diciembre 1999 – 27 febrero 2000, Museo Nacional d’Art de Catalunya, Barcelona 2000, pp. 249-253; ID., Las fuentes antiguas en el Menologio medieval hispano: la pervivencia literaria e iconográfica de las «Etymologías» de Isidoro y del Calendario de Filócalo, in Bolletín del Museo Arqueológico Nacional 12/1-2 (1994), pp. 77-100; ID., El Calendario Medieval Hispano. Textos e imágenes (siglos XI-XIV), Salamanca 1996, pp. 25-38; ID., Ripoll i les relacions culturals i artístiques de la Catalunya altmedieval, in Del Romà al Romànic. História, Art i Cultura de la Tarraconense mediterrània entre els segles IV i X, Barcelona 1999, pp. 435-343; G. PUIGVERT i PLANAGUMÀ, El manuscrito Vat. Reg, Lat. 123 y su posible adscripciòn al scriptorium de Santa Maria de Ripoll, in Roma, magistra mundi. Itineraria culturae medievalis. Parui flores, Mélanges offerts au Père L. E. BOYLE à l’occasion de son 75e anniversaire, J. HAMESSE ed., Louvain-la-Neuve 1998, pp. 285-316; G. PUIGVERT i PLANAGUMÀ, Astronomia i astrologia al monestir de Ripoll, Edicio i estudi dels manuscrits cientifìcs astronomico-astrològics del monestir de Santa Maria de Ripoll, Barcelona 2000, pp. 55-61. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 55-110.
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zones, is divided vertically by the equinoctial circle: on the left is the inhabited world, where Africa, Asia, and Europe are represented through their mountains, rivers, states, and towns (Figs. II-III). On the right are the uninhabited and unknown regions, as well as a text by Macrobius that explains, among other things, the five circles of the world (Fig. IV). The illustration is labelled: mappa mundi juxta quorundam descriptiones (world map based on several descriptions). This map is unique for many reasons: it combines texts and images from various traditions and epochs, mingling a geographic configuration of the oecumene, with an illustration of the Macrobian climatic zones; it includes, like a signature, a long poem by Theodulphe of Orleans (750-821), one of the leading theologians of the Frankish Empire, together with an antiquisant personification of the Earth. Examining the composition of the illustration and the texts assembled by the map-maker, as well as the place of the map in the codex, may help to understand how Late-Antique and Carolingian sources were interpreted and used in an early-medieval Catalonian monastery. It may also aid in catching a glimpse of the cultural context of the contemporary monastic vision of the world and its ways of learning and memorising knowledge. The codex The map is contained in an important miscellaneous manuscript, the most beautiful among the scientific codices produced in Ripoll, which includes theoretical astronomical and astrological works. It is a lavish encyclopedia produced during the years 1055-1056, and contains works by Hyginus, Pliny, Macrobius, Isidore, and Bede, which are ordained in four books: De Sole, De Luna, De natura rerum, and De Astronomia.2 The codex may be attributed to the Ripoll monastery, thanks to some interesting texts written by or to Ripoll monks, such as a letter to Abbot Oliba (d. 1046) from a Ripoll monk, also called Oliba (fols. 126r/v), and a second letter from this monk to Dalmacius.3 The author of the letters on 2 MCGURK wrongly ascribed the manuscript to the 12th century. See: P. MCGURK, Astrological Manuscripts in Italian Libraries (other than Rome), Catalogue of Astrological and Mythological Illuminated Manuscripts of the Latin Middle Ages, The Warburg Institute – University of London, London 1966, IV, p. XVII. Eastwood also dates the work to the 12th century. See: B. S. EASTWOOD, Plinian Astronomy in the Middle Ages and Renaissance, in Science in the Early Roman Empire: Pliny the Elder, His Sources and Influence, R. FRENCH and F. GREENWAY eds., London 1986, pp. 197-251, repub. in: B. S. EASTWOOD, The Revival of Planetary Astronomy in Carolingian and Post-Carolingian Europe, (Variorum collected studies series 729), Aldershot 2002, II, p. 207. 3 Incipiunt epistolae de pascae ciclo dionisiali ab Oliba Sanctae Mariae Virginis Rivipollensis Monaco editae. The letter begins: Epistola Olive monachi ad dominum Oliva episcopum de
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computus to Abbot Oliba and Dalmacius must have been the same Monk Oliba, whose name occurs in other similar letters collected in the lost MS Ripoll 37, such as that on the Pascal cycles written in 1041, where Oliba is clearly designated as a monk of Sancta Maria in Ripoll.4 These computistic letters, possibly written between 1040 and 1060, are greatly indebted to the works of Bede. In spite of this evidence accepted by almost all the researchers,5 some of the first scholars who studied this manuscript thought that it was produced in Marseille, since a chronicle of Saint-Victor de Marseille appears on it in marginal notes that were written by various hands at various times.6 The first studies of this manuscript, in fact, concerned the chronicle more than the codex itself and came to the conclusion that the origin of the marginal notes was reflected by the whole manuscript.7 Indeed, a link with Marseille and the Victorins does exist: in 1069 the Catalan abbey and its property were incorporated as part of the monastery of Saint-Victor in Marseille and were subjected to the Saint-Victor abbots until the year 1124, because the Ripoll monks had been accused of simony and excommunicated due to the intervention of Bernard, Count of Besalu. It seems possible that the Reginensis codex was written in Ripoll and later taken to Marseille by the Victorins, who added a great part of the marginal chronicle in Marseille. feria diei nativitate Christi. The second letter, written to the monk Dalmacius, begins: Epistola Olivae monachi ad Dalmacium monachum de feria diei nativitatis Christi. Both letters were copied by Villanueva from an old, now-lost Ripoll manuscript, J. VILLANUEVA, Viage literario a las iglesias de España, Madrid – València 1803-1852, VIII, pp. 222-225. See both texts in E. JUNYENT, Diplomatari d’Oliba, comte, abat i bisbe (Barcelona 1971), pp. 336-338, 414. The monk Oliba has been identified as the author of the computus tables, a chronicon, and the De Pasquali ciclo, by J. PIJOAN, Miniaturas españolas en manuscritos de la Biblioteca Vaticana, pp. 1-10; J. MARTÍNEZ GÁZQUEZ and J. GÓMEZ PALLARÈS, La Epístola De Ciclo Paschali del monje Oliba de Ripoll, in Mittellateinisches Jahrbuch 27 (1992) pp. 103-140. 4 The letter on the Pascal cycles was copied also in Bibliothèque nationale de France (hereafter BnF), MS lat. 7476 and in Vich, Archivo Episcopal, MS 167. Some of monk Oliba’s works, contained in the lost MS Ripoll 37, were reported and copied by Villanueva, such as De ponderis et misuribus, De multiplicatione vel divisione abaci numerus, and the Regulae abaci ab Oliva Sanctae Virginis Mariae Rivipollensis; VILLANUEVA, Viage literario cit., VIII, pp. 55-58; MARTÍNEZ GÁZQUEZ and GÓMEZ PALLARÈS, La Epístola De Ciclo Paschali del monje Oliba de Ripoll cit., pp. 103-140. 5 ALBANÉS, La Chronique de Saint-Victore de Marseille cit., pp. 64-90; M. E. Ibarburu Asurmendi, La pervivencia cit., pp. 33-48. CASTIÑEIRAS GONZÁLEZ, La illustración de manuscritos cit., pp. 249-253; ID., Las fuentes antiguas cit., pp. 77-100; ID., Ripoll i les relacions culturals cit., pp. 435-443; ID., El Calendario Medieval Hispano cit., pp. 25-38; PUIGVERT i PLANAGUMÀ, El manuscrito Vat. Reg, Lat. 123 cit., pp. 285-316. 6 ALBAREDA, Els manuscrits de la Biblioteca Vaticana cit., I, p. 23-69. 7 ALBANÉS, La Chronique de Saint-Victor de Marseille cit., pp. 64-90; ALBAREDA, Els manuscrits de la Bibioteca Vaticana Reg. Lat. 123 cit., pp. 23-69.
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From there the manuscript entered the collection of Queen Christina of Sweden, which was purchased by Pope Alexander VIII in 1689 for the Biblioteca Apostolica Vaticana. The analysis that I have recently been able to do on the illustrations of this manuscript, which have not yet been studied from the stylistic point of view, shows clearly that they had been repainted twice after their original production. The diagrams that illustrate the schemes of Isidore of Seville and Bede are generally done in simple, natural, earthy colours such as brown, pale ochre, and greenish crimson, sometimes highlighted by orange, pink, or violet (Figs. V-VII).8 These colours also appear in the display script used for titles, subtitles, underlined names or numbers, or as filling for individual letters at the beginnings of paragraphs, all of which would mean that they are contemporary with the writing of the text. This stage is securely dated, as reported in the Easter cycle tables on fol. 118, where the image of a little hand and the phrase eodem anno factus est liber iste point to the years around 1055 or 1056 (Fig. VIII).9 Since the hand responsible for the annotation that indicates the year the codex was written is the hand that wrote almost all the text, and since the ink and the colours that underline the writing are the same in the greater part of the codex, there is no reason to doubt its dating to the middle of the eleventh century. Some illustrations that belong to this original stage, which still reflect the style of the Abbot Oliba epoch, can still be seen. Among the most interesting of the folios that retain the original decoration are the Macrobius circles of planets (Fig. IX), and the double-page world map, in which a delicate light-brown ink drawing is still visible, outlined in pale green and blue. Faded light-brown ink is also visible under some of the lavishly decorated illustrations in blue ink, which were later added to the Aratea (Figs. X-XII].10 These images, which attest the second stage of the decoration, are outlined in a large and clear stroke, which precisely marks out the anatomical features and the details of face, dress, and drapery, shaded and decorated in the same lightened or darkened colour. But most of these 8 See the illustrations on fols. 27v, 25, 36, 78, 92v, 129, 129v, 131, 132, 146, 157, 162v, 163, 165v, 206v, 208, 209, 210, 210v, 211v, 212v, 213, 214, 214v, 215, 216, 216v, 217, 218v, 219. 9 This dating of the codex is accepted among scholars who deal with this manuscript. Nevertheless, scholars who deal with astronomy, such as McGurk and Eastwood, wrongly ascribed the manuscript to the twelfth century [see note 2]; and McCluskey wrongly labels an image of the Aratea from the Vat. Reginensis 123 as coming from a ‘Carolingian computistical collection of 809’. S. C. MCCLUSKEY, Astronomies and Cultures in Early Medieval Europe, Cambridge, 1998, fig. 19, p. 136. None of these scholars really deal with the codex itself. 10 See fols. 185, 191, 199, 200v-201, 201v-202, 204v.
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images in blue ink were later repainted in a brilliant multicoloured and shaded style, with heavy contours in black ink. The last stage of the Aratea illustrations was a repainting in thick colour, which covered the blue-ink stage (Fig. X).11 We may suppose that the later stage was executed in Marseille, where the manuscript probably spent the last part of the twelfth century.12 The red and orange flames that appear today on the map are the result of the later stages of repainting, as can be seen in places where the original brown-orange flames are still visible under the later colouring. A presumed map of Theodulphe of Orleans As said before, the map of the Reginensis codex includes a long poem by Theodulphe of Orleans (750-821); for this reason the map was seen as an illustration of his verses, and as a possible copy of an unknown and unpreserved map from his Episcopal palace in Orleans. This theory was first suggested by Alexandre Vidier in 1913. Vidier compares the image of the Reginensis codex with the description of a figure of the world made in verse by Theodulphe in one of his carmina, whose text is written on the cartouches on the right side of the map (Fig. IV). Bishop Theodulphe is mentioned in the poem as the author of the described work, ‘Hoc opus ut fieret Theodulphus episcopus egi’ (This work I, Bishop Theodulphe, brought into being). According to Vidier, this poem should be interpreted as the description of a planispherium made by Theodulphe of Orleans in the ninth century, possibly as a wall decoration for one of his rooms in the Episcopal palace, maybe copied in a lost contemporary codex. Since the Episcopal palace was destroyed a few years after Theodulphe’s death, the illustration of the Reginensis codex would be the only testimony of this lost image, not attested or described elsewhere. This hypothesis was accepted without any discussion until Marcia Kupfer’s new analysis of the poem by Theodulphe, and Gautier Dalché’s recent studies.13 Following the common practice of 11 This
is evident on fols. 164, 167, 168, 169, 176v, 177, 180v, 181. In some cases, only the background was coloured. See the illustrations on fols. 186, 186v, 188v, 189v, 190v, 191v, 192v, 193, 194v, 195, 196, 198, 199v, 203v. It is interesting to note how the blue ink emerges very clearly on the surface, under the face of the Gemini image on fol. 177, in part of Taurus on fol. 176v, and in Aquarius and Pisces on fols. 179v-180. 12 Further study of the extant manuscripts possibly produced at Saint-Victor would be required to decide the issue. I would like to thank Patricia Stirnemann for communicating to me the conclusions of the Institut de recherche et d’histoire des textes (IHRT), which suggest that the manuscript was produced in Ripoll and finished in Marseille. 13 M. KUPFER, Medieval world maps: embedded images, interpretive frames, in Word & Image 10/3 (1994), pp. 262-288. P. GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II”, in GAUTIER DALCHÉ, Géographie et culture: la représentation de l’espace du VIe au XIIe siècle, Alders-
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attributing maps to the author of the text that they appear to illustrate, many scholars after Vidier assumed that Theodulphe himself created the prototype of this map, which would have been blindly copied by the Ripoll monks during a later period.14 The Ripoll arrangement of Theodulphe’s Carmina A. 1 2 3 4 5 6 7
B. Tocius orbis adest breviter depicta figura Rem magnam in parvo corpore nosse dabis Hic Amphitrites terrarum margine longo Brachia protendit flumina cuncta vorans. Inflates buccis discordes undique fratres Insistunt orbi sunt sua cuique loca.15 Extremeque due gelide sunt ordine zone
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Hoc opus ut fierest Theodulfus episcopus egi Et duplici officio rite vigere dedi, Scilicet ut dapibus pascantur corpora latis Inspecta ei mentes orbis imago cibet Pius epulas animae qua carnis dilige visor Vivida mens illis his caro pollet hebes Celica verba sonent dapibus hec mensa redundet
hot, Hampshire 1997, IX, pp. 91-96. See also: N. A. ALEXANDRENKO, The Poetry of Theoudulphe of Orleans: A Translation and a Critical Study, Ph.D. Dissertation, Tulane University (1970), 261-70. 14 M. DESTOMBES, Mappemonds A. D. 1200-1500, Catalogue préparé par la Commission des Cartes Anciennes de l’Union Géographique Internationale, Amsterdam 1964, pp. 16-18, 48; A. D. VON DEN BRINKEN, Fines Terrae. Die Enden der Ende und der vierte Kontinent auf mittelalterlichen Weltkarten, (Monumenta Germaniae Historica. Schriften, 36), Hannover 1992, pp. 58-60; CASTIÑEIRAS GONZÁLEZ, El Calendario Medieval Hispano cit., pp. 25-38; M. A. CASTIÑEIRAS GONZÁLES, Diagramas y esquemas cosmográficos en dos misceláneas de cómputo y astronomía de la abadía de Santa María de Ripoll (ss. XI-XII), in En camino hacia la gloria. Miscelánea en honor de Mons. Eugenio Romero Pose, Compostellanum, Santiago de Compostela 1999, pp. 593-646; ID., La illustración cit., pp. 249-253; PUIGVERT i PLANAGUMÀ, Astronomia i astrologia cit., pp. 55-61; A. FREEMAN, Theodulf of Orleans: a Visigoth at Charlemagne’s Court, in L’Europe héritière de l’Espagne wisigothique, Colloque international du C.N.R.S. (Paris 14-16 Mai, 1990), ed. J. FONTAINE and C. PELLISTRANDI (Collection de la Casa de Velasquez, 35), Madrid 1992, pp. 185-194; P. RICHÉ, Abbon de Fleury. Un moine savant et combatif (vers 950-1004) Turnhout 2004, pp. 120-122. There is a short questioning of Vidier’s theory in A. GARCIA AVILES, El tiempo y los astros: arte, ciencia y religion en la Alta Edad Media (2001) p. 130. A further case of wrong attribution is that of Isidore and the Vatican map in MS Vat. Lat. 6018 (fols. 63v-64). See: E. EDSON, World Maps and Easter Tables: Medieval Maps in Context, in Imago Mundi 48 (1996), pp. 25-42 (30-32); L. S. CHEKIN, Easter Tables and a PseudoIsidorean Vatican Map, in Imago Mundi 51 (1999), pp. 13-23. 15 Carm. 47, verses 49-54, in E. DUEMMLER ed., Poetae Latini Aevi Carolini. Monumenta Germaniae Historica (1880) I, pp. 547-549. The starting verses are: Quo terrae in speciem perstabat pulchra virago. 49. Totius orbis adest breviter depicta figura / Rem magnam in parvo corpore nosse dabis / Hic Amphitrites terrarum margine longo / Brachia protendit flumina cuncta vorans. / Inflatis buccis discordes undique fratres / Insistunt orbi, sunt sua cuique loca. See: ALEXANDRENKO, The Poetry of Theoudulphe, pp. 267-270.
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8 Torrida per medium temperat una duas.16
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8 Et teneant nullum livida dicta locum.17
A new analysis of the poetic text recently done by Gautier Dalché leads to the conclusion that the Ripoll monks rearranged the order and even slightly changed Theodulphe’s verses from two different poems to adapt them to the figure they created from other sources, combining topography and cosmography.18 Theodulphe’s opening verses in the map first cartouche (A, 1-6) are the closing lines of one of his long poems that describe an image of the Earth as though it were inscribed in a circle (in modum orbis comprehensa), with flowing rivers and blowing winds. The last two verses of the first cartouche (A, 7-8) are inserted from another long poem in which Theodulphe describes personifications of the seven liberal arts as shown in a picture.19 Among the liberal arts is Geometry, who holds a globe and the measuring instruments. The verses inserted in the map are related to Geometry and deal with the five zones of the Earth: the extreme zones oppressed by cold, a torrid zone, and the two temperate ones in the middle. The last verses of the second cartouche (B, 1-8) are a description of a table with a representation of the world, which follows verses 41-48 from the first poem above mentioned; the table, mensa, is meant to be contemplated and to feed the spirit.20 The complex play between the literary depiction of a pictorial figure (depicta figura) that portrays the Earth is emphasized by the complementary allegory of a table that bears food to the mind, compared with the earth that gives its fruits as food for the body.21 Since Theodulphe’s mensa may resemble Charlemagne’s silver tables, scholars wonder whether Theodulphe’s poems describe real objects. In fact, silver plates that bear a depiction of the world and the heavens are 16 Carm. 46, De septem liberalibus artibus in quadam pictura depictis, verses 77-78 in E. DUEMMLER ed., Poetae Latini Aevi Carolini cit., I, pp. 544-547. Here the changes made by the Ripoll monk to insert this section in the poem are significant: 77. E quibus extremae geminae sunt frigore pressae / Torrida per medium temperat una duas. 17 Carm. 47, verses 41-48, in E. DUEMMLER ed., Poetae Latini Aevi Carolini cit., I, p. 548. The starting verses are: Quo terrae in speciem perstabat pulchra virago. 41 Hoc opus ut fierest Theodulfus episcopus egi / Et duplici officio rite vigere dedi / Scilicet ut dapibus pascantur corpora latis / Inspecta et mentem orbis imago cibet / 45 Plus epulas animae qua carnis dilige, visor / Vivida mens illis, his caro pollet hebes. / Caelica verba sonent, dapibus hec mensa redundet / Et teneant nullum livida dicta locum. 18 GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II” cit., pp. 91-96. See also: KUPFER, Medieval world maps cit., pp. 262-288. 19 Carm. 46, verses 77-78 in E. DUEMMLER ed., Poetae Latini Aevi Carolini cit., I, p. 546. 20 GAUTIER DALCHÉ suggests that this part of poem 47 may belong to a third, different composition, GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II” cit., pp. 91-96. 21 For an acute analysis of these carmina and their complex implications, see: KUPFER, Medieval world maps cit., pp. 266-268.
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attested in Carolingian times, when they were used as diplomatic gifts (the legs being separate from the plate of the table). A plate that portrays the world is specifically mentioned in Charlemagne’s last will together with two other plates, one that portrays the city of Rome (to be sent to the bishopric of Ravenna) and the other representing Constantinople (to be sent to St. Peter’s in Rome).22 It is difficult to say if Theodulphe’s elaborate pictorial allegories referred to such an object, or were idealised if not fabricated descriptions; they certainly gave him a good opportunity to insert classicizing symbols and to show his knowledge of the classic authors. His verses, ‘Hic Amphitrite terrarum margine longo (my emphasis) brachia protendit flumina cuncta vorans’ (Here Amphitrite stretches her arms along the extended shores of the land, swallowing all the rivers), seem to me to be very close to those of Ovid’s Metamorphoses, in which the Latin poet explains how the water rings the earth, through the image of a feminine embrace of the ocean (called Amphitrite, wife of Neptune): ‘nec brachia longo margine terrarum porrexerat Amphitrite’ (nor had the ocean — Amphitrite — stretched her arms along the far reaches of the land).23 It appears that the map is not an illustration of the verses by Theodulphe; on the contrary, his verses were chosen by the author of the map to accompany both the circle of the Earth, depicted in the double-folio with rivers, sea, and winds, and the Macrobian text, which appears on the map dealing with the five zones. Theodulphe’s verses were evidently one of the sources intended as a the label to define the chart as a ‘world map based on several descriptions’. The selection of verses dedicated to geometry among the liberal arts is due to the fact that in medieval times, geography, etymologically intended as ‘mensuratio terrae’ (mensuration of the Earth), was treated as a part of geometry. But geography was also linked to history, both belonging to the realm of secular knowledge and integrating temporal and spatial categories. Geography was, in effect, considered to be a part of such diverse subjects as history, cosmography, and geometry, but might also be linked to physica, as a part of knowledge on the nature of the world. In reality, geography lacked a clear definition and a disciplinary status in late-antique and early-medieval curricula: it was an established area of study but was not granted the position of a separate discipline.24 22 D. MAUSKOPF DELIYANNIS, Charlemagne’s Silver Tables: the ideology of an imperial capital, in Early Medieval Europe 22/2 (2003), pp. 159-178. See also: F. N. ESTEY, Charlemagne’s Silver Celestial Table, in Speculum 18/1 (1943), pp. 112-117. 23 OVID, Metamorphoses, Books 1-5, Edited with an Introduction and Commentary by W. S. ANDERSON, Norman and London, I, 13-14, and p. 154. 24 On the fluidity of geography disciplinary status, see: N. LOZOVSKY, ‘The Earth Is Our Book’. Geographical Knowledge in the Latin West ca. 400-1000, Ann Arbor 2000, pp. 6-34.
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Finally, like all secular knowledge learnt in the monastic milieu, geography was meant to serve spiritual wisdom.25 Theodulphe’s verses describing a representation of the world as ‘a great thing in a small body’ (rem magnam parvo corpore) are used by the Ripoll compiler to remind the observer that the huge vastness of the world looks small to the eyes of God. In fact, a map is the spatial signal of immensity and the temporal signal of finitude. A personification of Earth In Theodulphe’s first poem, Tellus is personified as a beautiful heroine (pulchra virago), and this can explain the presence of the personification of the Earth in our map, though this part of the poem is not written in the cartouches of our manuscript (Fig. IV). The description of the poem recalls almost word for word Isidore of Seville’s explications on Ceres-Tellus, whom he identifies with the ‘mater magna’ (great mother) and portrays as turret-crowned, with drum and cymbals and accompanying animals.26 Vidier particularly focused on the link between the personification, labelled ‘Te[r]ra’ in the manuscript, and the words of Theodulphe that describe a woman nursing two children; but this is not what is depicted in our image: the personification in the map holds a snake and a cornucopia. The image, very faded now, certainly belongs to the original stage on the map, as evidenced by comparison with the style of the illustrations in lightbrown ink on the heavenly map in the same manuscript (fol. 205).27 In the poem, the personification is called Tellus, symbol of the Earth feeding every creature.28 The verse would have been easily illustrated by an image of Earth suckling two children, as was very common in Carolingian manuscripts and ivories, where she is always opposed to a personified Ocean.29 25 GAUTIER DALCHÉ, De la glose à la contemplation. Place et fonction de la carte dans les manuscripts du haut Moyen Age, in Testo e immagine nell’alto medioevo, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 41/2, Spoleto 1994, pp. 693-771 reprinted in id., Geographie et culture, VIII. 26 ISIDORE OF SEVILLE, Etymologiae, VIII,11, 59-68, Patrologiae cursus completes. Series Latina, accurante J.-P. MIGNE (hereafter PL), 82, col. 921; for an English translation, see: S. A. BARNEY, W. L. LEWIS, J. A. BEACH and O. BERGHOF eds., The Etymologies of Isidore of Seville, Cambridge, UK 2006, VIII,11, 59-68, p. 187. The words ‘mater magna’ are attributed to Varro, for which see: ARNOBIUS, Adversus gentes, I, 16, PL 5, col. 575 B; and AUGUSTINE, Ad Marcellinum. De civitate Dei contra paganos, VIII,16 and 24, PL 41, cols. 207 and 214. 27 A doubt about the authenticity of the image was expressed by GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II” cit., pp. 99, 102. 28 Haec puerum lactat, quoniam nascentia pascit / Tellusrisque fovet cuncta creata simul. 29 Among the innumerable examples, see: the Sacramentary of Metz, c. 870, Paris, BnF, MS lat. 1141, fol. 6r; the ivory of the Victoria and Albert Museum, third quarter 9th c.; and that of the Bayerisches Nationalmuseum, late 9th c. Further examples in J. SCHWARTZ,
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Yet, an iconographical analysis of the personification in the map reveals that the figure is not a clear illustration of Theodulphe’s text. The faded figure on the codex is, in fact, a different version of the personification of Gea-Tellus, which here holds a snake and a cornucopia, similar to that represented on the Carolingian ivory book cover of the Pericopes of Henry II,30 and the Gospel Book of St. Emmeram, where Earth is a nude female figure holding two cornucopias of plenty.31 Similar personifications, constantly opposed to Ocean, also appear in Ottonian manuscripts, such as the Uta Codex (Regensburg, c. 1020), where a reclining Earth with bare breasts is entwined by a serpent,32 and the Bernward Gospel Book (Hildesheim c. 1015).33 The personified image of Earth suckling two serpents at the breast seems to be a Christian interpretation that emphasises the ctonic character of Tellus, particularly significant in the crucifixion context of the Carolingian ivories, where symbols of death and resurrection, sin and renovated life are symmetrically opposed. In the innumerable representations of Tellus in Classic and Late-Antique art, serpents are sometimes depicted as attributes of Earth, but never suckling. On the contrary, the cornucopia is her ubiquitous accompanying element.34 The Reginensis image of Tellus, depicted alone and not opposed to Ocean, with its classical attributes (a non suckling-snake and a cornucopia) seems to be taken from Late-Antique models, such as the one depicted in the fourth-century painting of the Via Latina Catacomb as a half-nude woman reclining on a field of wheat and flowers, her left arm leaning on a Quelques sources antiques d’ivoires carolingiens, in Cahiers Archéologiques 11 (1960), pp. 146162. 30 Bayerische Staatsbibliothek, MS lat. 4452. See: R. MELZAK, Carolingian Ivory Carvings of the Later Metz Group (1983), p. 116; M. C. SEPIERE, L’image d’un Dieu souffrant. Aux origines du crucifix, Paris 1994, pp. 180-184, 189-192, pls. 21a and b. 31 Munich, Staatsbibliothek, MS Clm. 14000, fol. 6. 32 Munich, Staatsbibliothek, MS Clm. 13601, fol. 89v. See H. MAYR HARTING, Ottonian Book Illumination. An Historical Study, London 1991, I, pp. 101-102, fig. 56. F. MÜTHERICH and J. GAEHDE, Carolingian Painting (1976), pp. 108-109; p. 107; P. DUTTON and E. JEAUNEAU, Verses of the “Codex Aureus” of Saint-Emmeram, in Studi medievali 3. ser., 24 (1983), pp. 9293; pl. 2b. 33 Hildesheim, Cathedral Treasury, fol. 174. W. W. S. COOK, The Earlier Painted Panels of Catalonia, in Art Bulletin 6/2 (1923-24), pp. 31-60 (53); H. MAYR HARTING, Ottonian Book Illumination cit., I, pp. 100-101, fig. 55. 34 See, for example, the personification depicted on the statue of Augustus from Prima Porta, Rome Musei Vaticani, (14 AD); a sarcophagus from Rome 290-300 AD at Rome, Musei Capitolini, or that of the New York Metropolitan Museum of Art (Rome 260-65 AD); see E. GHISELLINI, ‘Tellus’ in Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae (LIMC), Zürich, 198199, VII, 1, pp. 879-889, pls. 605-11, figs. 5, 19, 23, 24, 35, 68, 85; for the serpent, see figs. 82, 86.
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basket, and a serpent entwined around her arm.35 Further antecedents of this image of Tellus that go back to the late-fourth or early-fifth century, are the silver missorium of Theodosius, a ceremonial gift dated 387-88,36 and the Parabiago silver plate.37 In the missorium, the figure of Tellus suggests the fecundity and prosperity of the emperor’s reign. In the Parabiago plate, Tellus is part of a complex cosmic iconography that includes representations of sun, moon, earth, ocean, seasons, and the zodiac. The figure in the map appears to be an unsuccessful attempt to depict a frontal version of a reclining personification, whose protruding knees are too highly placed. The position of the head and the left arm still recall the pose of a lounging person. A Theodosian text In his analysis of the mappamundi, Vidier considered neither the title given by the map-maker, alluding to the many sources of the map, nor the text surrounding it. The text bordering the map is quite interesting because it gives the measurements in circuitu (of the circumference) of each state and province. This feature is very unusual in medieval maps, which normally give measurements of length and width but not of the outer boundaries. This method was used in antiquity for the measurement of interior seas and isles, and was employed in a text called Fabulae Hygini, whose only copy is in Beneventan script.38 Yet the text surrounding the map of the Reginensis codex is not directly linked to the Fabulae; instead it may be identified as the Divisio orbis terrarum Theodosiana (Theodosius’ division of the circle of the Earth), a short text that describes a map ordered to be prepared by Theodosius II in 435. An independent copy of this text, without an illustration, is included in a late-ninth-century codex from the Orleans area, possibly from Fleury (today Saint-Benoit-sur-Loire).39 The Ripoll monks were probably familiar with a local copy of the Theodosian 35 A. FERRUA, Catacombe sconosciute. Una pinacoteca del IV secolo sotto la Via Latina, Florence 1990, pp. 77-82, fig. 79. 36 Missorium of Theodosius I, Madrid, Real Académia de la Historia. A personification of Earth, half-nude, reclining, holding cornucopia and flanked by putti is depicted under the portrait of Theodosius I, flanked by Arcadius and Honorius Flavius or Valentinian II. B. KIILERICH, Late Fourth Century Classicism in the Plastic Arts (Kobenhaum 1993), pp. 19-26, figs. 1-2; R. LEADER-NEWBY, Silver and Society in Late Antiquity, Burlington Vt. 2004, pp. 27-31; fig. 1.1. 37 Parabiago plate, Milan, Civico Museo Archeologico. See: LEADER-NEWBY, Silver and Society cit., pp. 146-170, fig. 3.13. 38 GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II” cit., pp. 91-96. 39 Leyden, University Library, Vossianus Lat. F 12. The text (Specimen terre quam oecu-
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text, which reflects the lost cartographic enterprise of Late Antiquity. It is worth remembering here that the antecedents of the Tellus figure, which I indicated before, as well as Macrobius’s text that frames the map also seem to go back to the same epoch. All these elements show the authoritative power of Late Antiquity on the medieval mind and suggest the accessibility of sources from this epoch in the Ripoll scriptorium. Nevertheless, we cannot deny the possibility of a Carolingian intermediary. The Divisio orbis was, in fact, intentionally used and slightly changed in a geographical text written by the Irish scholar, Dicuil, who worked at the courts of Charlemagne and of Louis the Pious. His treatise, De mensura orbis terrae, redacted in 825, reflects both a concern to study and preserve Roman geography, and a wish to promote Carolingian imperial ideology, by presenting the Franks as the legitimate heirs of Roman imperial supremacy. The geographical constituent of the Roman legacy, described as the lands and people once dominated by the Romans, could support the Frankish claim to rule the world that once belonged to the Romans.40 A Macrobian map? Oriented toward the east, the map of the Reginensis codex seems to be a blend of historical and geographical information within a configuration similar to that of the so-called zonal-type mappaemundi, derived mainly from Macrobius’s early-fifth-century commentary on Cicero’s ‘Dream of Scipio’ (51 BC).41 Medieval geographical knowledge was strongly conditioned by a tradition that valued theoretical more than empirical knowledge, and attributed great importance to authoritative texts and their intellectual and conceptual information. Macrobius was certainly considered one of the leading authorities in astronomy and geography. He was a late-Roman Neoplatonic grammarian and philosopher who wrote several menem appellamus) is published by GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II” cit., pp. 105-107. 40 See N. LOZOVSKY, Roman Geography and Ethnography in the Carolingian Empire, in Speculum 81 (2006), pp. 325-364. On the relation between Roman, Carolingian, and latemedieval geographic knowledge, see: E. ALBU, Imperial Geography and the Medieval Peutinger Map, in Imago mundi 57/2 (2005), pp. 136-148. 41 W. H. STAHL, Astronomy and Geography in Macrobius, in Transaction and Proceedings of the American Philological Association, 73 (1942), pp. 232-258. Macrobian maps show the five climatic zones, and a great ocean that runs around the poles, only the northern temperate zone being known to be inhabited. These maps generally do not include images of the oecumene, as in the Reginensis codex. The map of the Reginensis codex is not mentioned in Stahl’s essay.
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eclectic works that were much read in the Middle Ages.42 In the text written on the map in the Reginensis codex are Macrobius’s explanations of the correspondence between the celestial and terrestrial zones, and the reason for the differences in temperature between the five zones of the earth, only two of which afford agreeable habitation, whereas two of them are freezing, and one is very hot around the Equator. The red flaming fire that envelopes the Earth in the Reg. 123 illumination may possibly be interpreted as ether, the purest and clearest matter composing the universe, which is akin to fire, if it is not fire itself, described by Macrobius as surrounding the Earth and setting it ablaze with raging flames.43 Triangular flames similar to those of the Reginensis world map are depicted on the Creation Gerona tapestry produced in Catalonia in the mid-eleventh century. The Macrobian text that I suggested as the source of the flames may finally explain this detail of the tapestry, which have been interpreted as clouds by Pijoan and Palol.44 The map of the Reginensis codex is unique: among the hemispheric maps, it has nothing to do with the ecumenical, schematic ‘orbis terrarum’ or T-O categories, which normally do not present geographical configurations, nor it is similar to the pure Macrobian zonal type.45 The large place accorded to text on the right side of the hemisphere anticipates later maps derived from Martianus Capella’s fifth-century encyclopedia of the seven liberal arts, such as those preserved in the twelfth-century Liber Floridus by Lambert of Saint-Omer.46 The main characteristic of the Reginensis map is 42 His
Expositio In Somnium Scipionis ex Cicerone (Commentary on the Dream of Scipio by Cicero) is an extract from the sixth book of Cicero’s De Republica. A large cosmographical section of Macrobius’s book (chapters I, 14:21- II, IX) was frequently bound separately in medieval manuscripts. Chapter II, 5-9 comprises the geographical section. MACROBIUS, Commentary on the Dream of Scipio, trans. W. Harris Stahl, New York 1952, II, 5-8, see also introduction, pp. 16-21. 43 MACROBIUS, Commentary on the Dream of Scipio, II cit., 10; see also: STAHL, Astronomy and Geography in Macrobius cit., p. 243. 44 P. DE PALOL, Une broderie catalane d’époque romane: La Genèse de Gérone. I, in Cahiers Archéologiques, 8 (1956), pp. 175-214. 45 I use the term ‘pure Macrobian zonal type’ for convenience, though these classifications have been rightly criticised by modern scholars; see: GAUTIER DALCHÉ, De la glose à la contemplation cit., pp. 693-764, part. 699-704. 46 The work of Martianus Capella was the Marriage of Philosophy and Mercury. See: J. B. HARLEY and D. WOODWARD, The History of Cartography. Cartography in Prehistoric, Ancient, and Medieval Europe and the Mediterranean, Chicago and London 1987, I, pp. 299 and 353. See, for example, Wolfenbüttel, Germany, Herzog August Bibliothek, MS Guelf. 1 Gud. Lat. Fols. 69v-70; illustration absent in Ghent, University Library, MS 92, ca. 1120. Lamberti Canonici Sancti Audomari Liber Floridus, Codex Autographus Bibliothecae Universitatis Gandavensis, ed. A. DEROLEZ, Gent 1968, LXXVI see fols. 92v-93; see also, on fol. 24, the Macrobian zones; on fol. 227v, the planets, the celestial zones, and the zones of the earth. The zonal map
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the presence of the uninhabitable zones, which implies the conception of a spherical world and invites the viewer to a wider knowledge of the globe, outside the borders of the three recognised continents.47 These qualities are shared by the maps found in the Beatus codices, which also have in common the waving boundaries of the regions.48 The vertical mid-stream of water, shown by our map and by the Beatus maps, seems to be in accordance with the theory of a supplementary ocean, which passed through the poles found in some Macrobian maps.49 It is worth considering that Late-Antique maps could have been preserved in the Iberian Peninsula and Catalonia and could have inspired not only the illustrators of the Beatus but also the author of the Reginensis composition. The oecumene The Ripoll map shows echoes of Late-Antique elements in the image of the oecumene, especially in some details such as the wider place given to Constantinople (compared to Rome), the almost exclusive mention of Italian towns in Europe, and finally the indication of an itinerary (trajectus) between Italy and Africa (Fig. III).50 Africa is parsimoniously given a place is depicted within other schemes on fols. 225 and 228. See also D. LECOQ, La Mappemonde du Liber Floridus ou la Vision du Monde de Lambert de Saint-Omer, in Imago Mundi 39 (1987), pp. 9-49. 47 DESTOMBES, Mappemonds cit., pp. 9-18; L. BAGROW, History of Cartography, Revised and Enlarged by R. A. SKELTON (London 1964), pp. 41-50. 48 See, for example, the Morgan Beatus, 940-45, New York, Pierpont Morgan Library MS M. 644, fols. 33v-34, J. W. WILLIAMS, The Illustrated Beatus. A Corpus of the Illustrations of the Commentary on the Apocalypse, London 1994-2003, II, pp. 21-29, figs. 27-28; the Valladolid Beatus, 970, Valladolid, Biblioteca de la Universidad MS 433, fols. 36v-37; WILLIAMS, The Illustrated Beatus cit., II, 38-40, fig. 154; the Gerona Beatus, Gerona, Cathedral MS Num. Inv. 7 (11), fols. 54v-55; WILLIAMS, The Illustrated Beatus cit., II, pp. 51-61, fig. 302; the Turin Beatus, 12th century, Turin, Biblioteca Nazionale, MS I.II. l. fols. 45v-46; WILLIAMS, The Illustrated Beatus cit., IV, pp. 26-28, fig. 119a-b. On the Beatus maps, see: J. VERNET and J. SAMSÓ, La Ciencias, in Historia de la España, XI, La Cultura del Románico. Siglos XI al XIII. Letras. Religiosidad. Artes. Ciencia y Vida, ed. R. MENÉNDEZ PIDAL (Madrid 1995), pp. 529597; J. W. WILLIAMS, Isidore, Orosius, and the Beatus Maps, in Imago mundi, 49 (1997), pp. 7-32. 49 This is known as the oceanic theory, which recognised two oceanic streams and was attributed to Crates of Mallos, a 5th-century-BC Greek philosopher. The ‘true’ ocean encircled the sphere, while the popularly accepted ocean, which passed through the poles, was regarded as subsidiary. These two streams, flowing at right angles to one another, divided the world into four equal land masses. See: MACROBIUS, Commentary on the Dream of Scipio cit., II, 5-8, and introduction pp. 49-50. On Macrobian maps, see: HARLEY and WOODWARD, The History of Cartography cit., I, pp. 286-304, 353-354. 50 Descriptive phrases include: ‘ad portum Cartaginis stadia II’ (two [thousand] stades to the port of Carthage); ‘ubi elephanti [nas]cuntur’ (where the elephants come from); ‘arenosa
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dominated by a mountain chain, the river Nylus, Alexandria, and Carthage. Hispania is divided into Terragonensis and Gallicia, where a non-labelled town, possibly Toledo, is depicted. There are three rivers in Gallia (Liger, Sigona, and Igona) that descend from the mountains to the sea, and one town, Senone (Sens). Two rivers in Italy, Tebere and Padus, are recorded with their affluents, and three towns are clearly identified: Ravenna, Roma, and Beneventia. As did many map-makers in medieval times, the author of the mappaemundi of the Reginensis codex aggregated biblical and historical information that he considered important with regard to his audience. Paradise is not represented, but its rivers are depicted flowing from an unidentified mountain chain. By depicting the Paradise rivers among the terrestrial ones known from the geographic tradition of antiquity, the map-maker strongly ties together biblical and classic geography, sacred and ordinary places, according to a well-accredited Isidorean practice.51 Emphasis is given to the holy biblical places, which are the best-referenced in the Asian region: five cities are recorded in Judea: Betlehem, Jerusalem, Bersabea, Herico (Jerico), and Hyebron (Hebron), as well as the Mare Mortuum, the Rubrum Mare, and the Mare Galileum. In conclusion, the map does not seem Franco-centric; none of the Carolingian centres, first of all Aachen, is mentioned, with exception of Sens, whose presence (proposed by Vidier as the very place in which the original map was created), might be simply explained by the good relations of the Ripoll monks with the Loire region, or by Sens being an important see from the fifth century on.52 The city of Sens, located in north-western Burgundy, on the river Yonne, was named after the Gaul tribe of Senons and was an important administrative city located on the main north-south Roman way.53 Sens was very early a major religious center in Gaul. The Archbishopric, founded in the fifth century, ruled the Bishoprics of Chartres, Auxerre, Paris, Orléans, and Troyes, to which Nevers and Meaux were added in the sixth century. The Archbishop of Sens had probably been the Primate of the Gallia Germanica since 876, though his pre-eminence has solitudines que discriminant Etiopiam a Mauritaniis’ (sandy deserts that separate Ethiopia from Mauritania). See: E. EDSON, Mapping Time and Space: How Medieval Mapmakers Viewed Their World, London 1999, pp. 80-86 (84). 51 LOZOVSKY, The Earth Is Our Book cit., pp. 50-67. 52 This is also suggested by GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II” cit., pp. 102-103. 53 On the connection between Roman and Carolingian geography, see: N. LOZOVSKY, Carolingian geographical tradition: was it geography?, in Early Medieval Europe 5/1 (1996), pp. 25-43; EAD., Roman Geography and Ethnography in the Carolingian Empire, in Speculum 81 (2006), 325-64.
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been controversial because of the rivalry that existed with the great and rich see of Rheims over the consecration of kings.54 The presence of Sens on the map might also simply have originated from the annexed text of the Divisio orbis terrarum Theodosiana, where Gaul is measured together with Germania and Senonica.55 The more-than-laconic treatment reserved to the Iberian Peninsula is quite problematic and rouses questions on the practical experience and knowledge of the monks who lived in that very place. Their information seems to be mainly ‘bookish’, and even the effort to update ancient maps evidenced in many medieval examples and shown by some scholars as proof of medieval creativity is not clearly seen here.56 This apparent lack of interest for pure geographic data is much more astonishing if we compare the description of Hispania in our map, where no one place is mentioned and the only depicted town is not labelled, with that appearing in another manuscript from Ripoll, Archivo de la Coruna de Aragon MS Ripoll 106, dated to the late-tenth or early-eleventh century. This miscellaneous codex includes a tenth-century copy of the Ars gromatica Gisemundi, a text of survey that Gisemundus possibly composed at the end of the ninth century in Catalonia.57 In his Descriptio Hispaniae that appears on fol. 81 (Fig. XIII), Hispania has a pentagonal shape, bounded west and south by a sea with big 54 L. HIBBARD LOOMIS, The Holy Relics of Charlemagne and King Athelstan: The Lances of Longinus and St. Mauricius, in Speculum 25/4 (1950), pp. 437-456; R. MCKITTERICK, The Carolingian Kings and the See of Rheims, 882-987, in ID., The Frankish Kings and Culture in the Early Middle Ages, Great Yarmouth 1995, IV, pp. 228-249. On the diocese of Sens, see: C. B. BOUCHARD, The Geographical, Social and Ecclesiastical Origins of the Bishops of Auxerre and Sens in the Central Middle Ages, in Church History (1977), pp. 277-295. P. RICHÉ, Ecoles et enseignement dans le Haut Moyen Age. Fin du Ve siècle – milieu du XIe siècle, Paris 1989, pp. 107, 142. 55 See the text annexed in GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II” cit., p. 105. Eleven ‘praesides’ are mentioned for the Gauls in the Notitia dignitatum (a document of the Roman imperial chanceries with details about the administrative organisation, circa 401-429 AD), among them: Senonia (XXXVII, 24-29). See also: G. CLEMENTE, La ‘notitia dignitatum’, Cagliari 1968, pp. 42-43, 304; H. CANCIK and H. SCHNEIDER eds., Brill’s New Pauly: Encyclopaedia of the Ancient World, Leiden – Boston 2006, IX, pp. 828-829. 56 P. GAUTIER DALCHÉ, Principes et modes de la représentation de l’espace géographique durant le Haut Moyen Age, in L’uomo e lo spazio nell’Alto Medioevo, Settimane di studio del Centro Italiano di studi dell’Alto Medioevo, L (2002), I, pp. 117-150. 57 CULLEN J. CHANDLER, Charlemagne’s Last March: The Political Culture of Carolingian Catalonia, 778-987, Ph.D. dissertation Purdue University, 2003, pp. 182-186; ID., ‘Ars gromatica Gisemundi: Geography and culture in the Carolingian Spanish March’, (39th International Congress on Medieval Studies, Kalamazoo, MI, May 2004), Avista Forum Journal, 14/1 (2004), p. 70. I am grateful to the author for sending me a chapter of his thesis. See also: L. TONEATTO, ‘Note sulla tradizione del Corpus agrimensorum romanorum. I. Contenuti e struttura dell’Ars gromatica di Gisemundus (IX sec.)’, Mélanges de l’Ecole Française de Rome, Moyen Age, 94/1 (1982), pp. 191-313; ID., Codices artis mensoriae: i manoscritti degli antichi
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fishes swimming in it. Beyond the northern border, delimited by stylised trees, lies Uuasconia (Gascony); opposite is the western arm of the Mediterranean, labelled Mare Terreno (Tyrrhenian Sea). In the map are several circles labelled with names of Spanish cities: Narbona, Impurias, Ierunda (Girona), Barchinona (Barcelona), Tarrachona, Cartago (Cartagena), Gades (Cadiz), Braca (Braga), and Vigrancia (Brigantia, now La Coruna). In listing the main Iberian cities, Gisemundus updated Orosius’s list, omitting cities such as Toledo and Seville, and proposed a list that reflects the geo-political changes since Orosius’s fifth century.58 In fact, Gisemundus presented a ‘Catalan-centred’ chart of Hispania that mirrored the local concern of the compiler:59 seven of the nine towns shown in the drawing lay in the north of the country and four of them (Empúries, Girona, Barcelona, and Tarragona) within the Spanish March. This group includes Narbonne, the ecclesiastical capital of the region during the Carolingian period. The contrast between the two different maps attests the existence in the Ripoll monastery of various kinds of charts, which certainly had diverse scopes and functions in the educational process. The purpose of the cosmic and highly conceptual map conceived by the Reginensis author should be comprehended in the context of the theoretical texts that frame it. The map in the Ripoll encyclopedia In order to better understand the map of the Reginensis codex and the aim of its author, it is worth knowing the manuscript in which it is contained — a miscellaneous codex which includes texts on the natural sciences along with theoretical astronomical and astrological works, accompanied by beautiful illustrations and a rich apparatus of schemes and diagrams. It is worth considering whether monk Oliba, mentioned before, was the one who conceived this encyclopedia, assembling and organizing texts, illustrations, and diagrams of various authors, such as Hyginus, Chalcidius, Macrobius, Isidore, Bede, and others. It is well known that in medieval times, authorship frequently consisted of selecting and reworking passages from the writings of respected authorities and introducopusculi latini d’agrimensura (Testi, studi, strumenti, 5), Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1994. 58 The distinction of Orosius in Hispania citerior and Hispania ulterior was already anachronistic in the 5th century and was based on the chronology of the Roman conquest of the area. P. GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “Chronica Pseudo-Isidoriana’’, in Anuarios de Estudios Medievales 14 (1984), pp. 13-32, reprinted in Géographie et culture, X, p. 26. 59 Toledo and Seville were probably less important in Gisemundus’s time. See CHANDLER, Charlemagne’s Last March cit., pp. 182-186.
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ing explicatory phrases. Monk Oliba, who wrote the letters on computus included in the codex, was probably a quadrivium master at Ripoll. He is the author of erudite treatises on computus, mathematics and music, sometimes written in epistolary or poetical form, such as his poem, the Versus de monochordo, enclosed in his Breviarum of music, a treatise on the formation of the tetrachords that collects works on music by Boethius, and a treatise on polyphonic music: De harmonica institutione.60 In a lost computistic manuscript from Ripoll, described by Villanueva before it was burned in the fire of 1835, most of the monk Oliba’s works were already collected together with complex tables and schemes.61 This lost anthology was possibly conceived by the monk himself, whose writings were largely quoted in the codex, though this cannot be demonstrated. In like manner his authorship of the Reginensis anthology, though reasonably possible, cannot be clearly established before an attentive comparison between his securely attributed works is made with the texts included in the Reginensis manuscript.62 However, the context of this map may illuminate the aim of the author, whoever he may be. If we read the map within the intellectual and pictorial program of the codex that frames it, we see that the map is placed in the third book, which includes excerpts from Isidore’s and Bede’s De natura rerum, and begins with the creation of the world and its elements 60 The original text is preserved in the Archivo de la Coruna de Aragon (hereafter ACA), MS Ripoll 42, R. BEER, Die Handschriften des Kloisters Santa Maria de Ripoll, in Sitzungberichte der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in Wien, Philosophiche-Historische Klasse 155/3, 158/2, Wien 1907-1908, transl. (Spanish) by P. BARNILS y GIOL, Los manuscrits del Monastir de Santa Marìa dè Ripoll, in Boletin de la Real Academia de Buenas Letras, IX/36 (1909), pp. 138-170, 230-320; X/39 (1910), pp. 329-365, 492-520 (261); IBARBURU, Estudis sobre l’escriptori de Ripoll, in EAD., De capitibus et aliis figuris cit., pp. 87-90; CASTIÑEIRAS GONZÀLEZ, La illustración cit., p. 252. M. DELCOR, Le scriptorium de Ripoll et son rayonnement cultural. État de la question, in Les Cahiers de Saint-Michel de Cuxa 5 (1974), pp. 45-64 (61). See also K. T. UTTERBACK, ‘Cum multimodi curiositatis’. A Musical Treatise from EleventhCentury Catalonia, in Speculum 54/2 (1979), pp. 283-296. K. W. GÜMPEL, Das Breviarium de musica und die Versus monocordi des Mönchs Oliba von Ripoll, in M. BERNHARD VERLAG ed., Quellen und Studien zur Musiktheorie des Mittelalters, III (Bayerische Akademie der Wissenchaften Veröffenlinchen der Musikhistorischen Kommission 15), Munich 2001, pp. 97-119. 61 This manuscript was number 37 of an ancient catalogue of Ripoll also seen by Villanueva. Codex 37 included a letter on the Easter cycle and an essay on the abacus, both edited by ‘Oliva Sanctae Virginis Mariae Rivipollensis monacho’; an epistle dedicated by him to Abbot Oliba on the nativity of Christ, written in 1037, and another on the same subject addressed to the monk Dalmacius by monk Oliba in 1065; many difficult tables of computus, and a treatise on ‘ponderis et mensuris’; VILLANUEVA, Viage literario cit., VIII, pp. 55-58. 62 However, some scholars surely attribute the Reginensis codex to monk Oliba, without providing any further analysis or proof. See ALBANÉS, La Chronique de Saint-Victor de Marseille cit., pp. 64-90; CASTIÑEIRAS GONZÁLEZ, La illustración de manuscritos cit., pp. 249-253.
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(excluding fire, treated in Book IV, De astronomia). This book includes 63 chapters, listed on fols. 127-127v: air, water, and earth are first treated as elements, according to their links and correlated qualities (fols. 128-129v). The rose of the winds (fols. 131-132) (Fig. XIV) and a description of atmospheric phenomena (fols. 133v-137v) are dealt with between explanations on air and water. The map is collocated after the chapter on the position and movement of the Earth, at the end of excerpts from Pliny’s Natural History, called by the compiler, De armonica mundi ratione (explanation of the harmony of the world), that deals with the division of the Earth and its size in relation to the size of the whole universe: the harmony actually concerns measurements of the parts of the globe (fols. 142-142v). The map is followed on the verso of fol. 144v by a poem that belongs to the series of the so-called ‘versus ventorum’ (winds’ poems). The poem, which starts with the words: Quatuor a quadro consurgunt limite venti, speaks about four winds rising up from a fourfold boundary, each joined on right and left by other winds, so that they surround the world with a twelve-fold blast.63 The poem was attributed in medieval handbooks to the lost De natura rerum by Svetonius, itself based on a lost text by Varro. A variant of these versions is included in Isidore of Seville’s explanation of the names of the winds.64 The poem is certainly connected with the images of the twelve winds depicted in the Reginensis map, within rectangular frames on the blue-coloured belt that surrounds the Earth, composed by two concentric circles. This belt probably represents both the atmosphere (orbis aeris) and the circle of the ocean. The winds in fact were considered to be meteorological phenomena being active between Earth and heaven. This double reading of the blue path surrounding the Earth, which invites one to look at the map surface but also at its depth, may be clearly explained in the light of Macrobius’s theories about the spherical Earth, which is at the centre and also at the bottom of the universe.65 The ocean is labelled at right oceanus meridianus (southern ocean), according to the classification made by Iulius Honorius, a Latin cosmographe of the fifth century who saw the four oceans of the world in correspondence of the cardinal directions, and called them Oriental, Western, Northern, and 63 B.
OBRIST, Wind Diagrams and Medieval Cosmology, in Speculum, 72/1 (1997), pp. 33-
84. 64 ISIDORE OF SEVILLE, De natura rerum, 37, PL 83, cols. 1006-08; the poem may be read in Migne’s notes, PL 83, 1008. See: Obrist, Wind Diagrams cit., pp. 38-40, 83-84. 65 MACROBIUS, Commentarii in Sommium Scipionis, 1.22.8-13. See: B. OBRIST, Le diagramme isidorien des saisons, son contenu physique et les représentations figuratives, in Mélanges de l’École Française de Rome, Moyen-Âge 108/1 (1996), pp. 95-164, 131.
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Southern (the Meridianus).66 In our eastern-oriented map, the Meridianus correctly appears at the right, and it is apparently the only one identified by an inscript. The personified winds in the manuscript are portrayed as nude, winged, small figures blowing horns in the same direction; no distinctions appear between the cardinal and the collateral winds. Their names are not readable, but they probably followed Isidore’s denomination.67 Since the name Aquilo may be perceived at top left, and Auster at mid-right, we may assume that the order of the winds followed the orientation of the map, with the Eastern winds at the top (Subsulanus, with Eurus and Vulturnus), the Southern winds at right (Auster with Austroafricus and Euroauster), the Western winds at the bottom (Favonius with Africus and Corus), and the Northern winds at left (Septentrio with Aquilo and Circius). The next chapter following the map is dedicated to a description of the holy places, adapted from Bede (fols. 145-151v). The account starts with the holy places of Jerusalem, followed by Tiberias, Capharnaum, Nazareth and Mount Tabor (fol. 149v), and includes also Damascus, Alexandria, the Nile and Constantinople (fol. 150). This excursus ends the third book. The fourth starts with various definitions of astronomy and the list of the 123 chapters (fols. 152-153) consecrated to the study of heaven with its stars and planets (Fig. XV). This abundantly illustrated part is an anthology of texts by Pliny, Hyginus, Macrobius, Calcidius, Isidore and Bede, visually explained by means of schemes and diagrams (Fig. XVI). The most lavish illustrations accompany the Aratea (fols. 175-204v), followed by a study of the orbits of the planets (fols. 205-219v) (Fig. XVII) and terminating with incomplete calendar pages from January to August (fols. 220-223). A multi-layered map The map of the Reginensis codex may be considered an original re-elaboration of a Late-Antique map, interpolated by other sources, including Carolingian verses, as stated in the inscribed title, which presents the map as a work based ‘on several descriptions’. It cannot be excluded that the author of the composition (which included both texts and a map) based his work on different sources, not only for the textual insertions, but also for 66 C. NICOLET and P. GAUTIER DALCHÉ, Les “quatre sages” de Jules César et la “mesure du monde” selon Julius Honorius: réalité antique et tradition médiévale, in Journal des savants (Octobre-Décembre 1987), pp. 157-218, 161. 67 ISIDORE OF SEVILLE, De natura rerum, 37, PL 83, cols. 1006-08; the poem may be read in Migne’s notes, PL 83, 1008. See also The Etymologies of Isidore of Seville cit., XIII, 11, pp. 275-276.
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the cartographic representation. It is worth noting that in eleventh-century Catalonia, Carolingian verses were considered no less authoritative than Late-Antique sources, such as Macrobius, or the author of the Divisio orbis terrarum Theodosiana. But both the Carolingian and Late-Antique sources have been edited and freely adapted by the compiler of the Ripoll codex, according to a practice adopted throughout the entire codex. The main model of the Reginensis map was possibly a local well-preserved Late-Antique source (from Italy or North Africa), or a Carolingian copy of it. Even if Theodulphe’s poem was inspired by a real map, such a chart is not necessarily faithfully reflected in the figure of the Ripoll Reginensis codex figure. It would suffice to look at the Beatus maps, some of which are very close but never identical, to understand that the medieval mapmakers did not necessarily feel the need to reproduce their models exactly.68 In addition, we should consider that the eventual map described by Theodulphe might also have been inspired by something he studied when he was in Spain. The Ripoll monks might have chosen Theodulphe’s verses and adapted them to their map to pay homage to his authority and to his Iberian origin.69 His carmina probably seemed a stylish piece that might add, together with the antiquisant personification of Terra, a touch of elegance to the composition. Short poems and erudite citations embroidered most of the letters and writing of Abbot Oliba and his monks, who knew metrical rules of poetry and composed various types of poems. Verses from various authors are here and there integrated into some extant codices. The Carmina mensium, verses on the months of the years, inspired by a Late-Antique poetical tradition, the Versus de anno et mensibus attributed to Priscianus, as well as the Carolingian Carmina salisburgensia (855-859), are incorporated into the Reginensis codex itself.70 A heavenly map The celestial parallel of our map may be seen in the fourth book of the Reginensis codex at the end of De astronomia (fol. 205). It is a heavenly 68
See: ALBU, Imperial Geography cit., pp. 136-148. On the Beatus maps: WILLIAMS, Isidore, Orosius, and the Beatus Maps cit., pp. 7-32. 69 GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II” cit., p. 103. 70 The verses are contained in MS Vat. Reg. Lat. 123, fol. 219v. See the study of CASTIÑEIRAS GONZÁLEZ, El Calendario Medieval Hispano cit., pp. 25-38 (39). Later unknown verses, which can be classified as carmina erotica, were included after the Abbot Oliba period into a 10th-century miscellaneous manuscript (ACA MS 74). P. DRONKE, Medieval Latin and the rise of European love-lyric (Oxford 1968), II, pp. 336-343. On ACA MS 74, see: M. ZIMMERMANN, Le monde d’un catalan au Xe siècle: analyse d’une compilation isidorienne, in Le métier d’historien au Moyen Âge, B. GUENÉE ed., Paris 1977, pp. 45-78.
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chart, preserved in its original preliminary drawing in pale-brown ink, which represents the hemisphaerium boreale, the circles of planets, the zodiac, and the personified figures of the stars (Fig. IX). Here again, as in the Earth map, the authority of Macrobius is equally invoked and freely interpreted. The chart in fact is labelled Macrobii Ambrosii De circuli signiferis, but the hemisphere, which presents the ecliptic of the zodiac as a double circle ex-central to the five concentric circles of the constellations, possibly follows Pliny’s planetary configuration: Macrobius, in fact, describes the planetary orbits as being concentric.71 These features of the Reginensis hemisphere, with its ecliptic of the zodiac ex-central to the concentric circles of the constellations may be compared with the National Library of Wales MS 735 C, an eleventh-century manuscript from the area of Limoges.72 Among the circles of planets that sometimes accompany Aratus manuscripts from the Carolingian period on, this one belongs to the a rarer variant that projects the zodiac on a planisphere that incorporates the boreal sky encircled by the austral constellations.73 In the Reginensis codex the chart is collocated after Hyginus’ De astronomia (or Poeticon astronomicon), illustrated by the most beautiful images of the Reginensis codex, the Aratea figures (fols. 154-204) (Figs. X-XII) and before a series of descriptions of the fixed stars and their positions and orbits illustrated by beautiful circular diagrams (fols. 205v-219v). Hyginus’s text was composed in the first century to introduce and comment on Aratus of Soli’s Phenomena (310-245 BC), which was translated 71 EASTWOOD, Plinian Astronomy cit., p. 204, note 54; B. S. EASTWOOD, Origins and contents of the Leiden Planetary Configuration (MS. Voss. Q. 79, Fol. 93v), an Artistic Astronomical Schema of the Early Middle Ages, in Viator 14 (1983), pp. 1-40, republished in ID., The revival of planetary astronomy in Carolingian and post-Carolingian Europe, Aldershot G.B. 2002, IV. 72 P. MCGURK, Germanici Caesaris Aratea cum scholiis; a new illustrated witness from Wales, in National Library of Wales Journal 18 (1973-4), pp. 197-216; EASTWOOD, Plinian Astronomy cit., p. 204, note 54; ID., Origins and contents of the Leiden Planetary Configuration cit., pp. 1-40; E. S. LOTT, The textual tradition of the Aratea of Germanicus Caesar: Missing Links in the “ì” Branch, in Revue d’Histoire des textes 11 (1981), pp. 146-58. The Reginensis codex also shares a specular upset version of the image with British Library MS Harley 647 (9th century); M. D. REEVE, Aratea, in Texts and Transmission: A Survey of the Latin Classics, ed. L. D. REYNOLDS, Oxford 1983, pp. 18-24 (pp. 22-24); GARCIA AVILES, El tiempo y los astros cit., pp. 83-103. 73 B. OBRIST, La représentation carolingienne du zodiaque. A propos du manuscrit de Bâle (Universitätsbibliothek, F III 15a), in Cahiers de civilisation médiévale, 44 (2001), pp. 3-33. According to Obrist, the most ancient exemplar and the closest to the Aratea text is in an early-9th-century manuscript from Fulda: Basel, University Library MS AN IV 18, fol. 1v. Ibid., p. 25, fig. 20.
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into Latin by Cicero (106-43 BC) and Germanicus (15 BC-37 AD). The didactic poems of Aratus were a popularization of Eudoxos’s scientific work in astronomy and had been considered authoritative on astronomy and computation since Hellenistic and Roman times. Hyginus’s work was a kind of handbook on elementary astronomy and the myths connected with the stars, chiefly based on Eratosthenes, and destined to facilitate the reading of Aratos’s Phenomena.74 It is well known that the illustration of the Aratea accompanied other related texts, such as the translations by Cicero and Germanicus, Hyginus’s work, and the De signis coeli attributed to Bede.75 In the Reginensis codex, the work called Fabula is ascribed to diverse authors: ‘Hyginus, Haratus et Isidorus’. In fact, Hyginus’s work is the main source of the composition, freely complemented with other texts. It is placed after Bede’s De astronomia and De eclissis solaris (fols. 162v-163v), De signis according to Macrobius (fol. 164), and the single illustrations of the personifications of the Sun, the Moon and principal planets in a circle (fols. 167-175). Flat representations of the heavenly vault were largely used in the medieval epoch as substitutes for the ancient globes, whose production became more and more rare.76 Images of the planispherium, in separated folios or inserted within books, had the function of a visual guide for Aratus’s poetic description of the constellations, their location, form, and trajectory. 74 On
the various stages of mythological illustration of astronomical texts, see: E. PANOFand F. SAXL, Classical Mythology in Medieval Art, in Metropolitan Museum Studies 4 (1933), pp. 228-280. 75 K. WEITZMANN, Ancient Book Illumination, (Martin Classical Lectures, 16), Cambridge, Mass. 1959, pp. 24-26; ID., Book Illustration of the Fourth Century: Tradition and Innovation, in Studies in Classical and Byzantine Manuscripts Illumination, ed. H. L. KESSLER, Chicago and London 1971, pp. 96-110; SAXL and PANOFSKY, Classical Mythology in Medieval Art cit., pp. 231-280. See the repertories collected in: F. SAXL and H. MEIER, Verzeichnis astrologischer und mythologischer illustrierter Handschriften des lateinischen Mittelalters, 4 vols., III, Handschriften in Englischen Bibliotheken, London 1953, pp. I-II; SAXL and MEIER, Catalogue of Astrological and Mythological Illuminated Manuscripts; MCGURK, Catalogue of Astrological and Mythological Illuminated Manuscripts, IV, pp. XIII-XXV. See also: M. VIEILLARD TROIEKOUROFF, Art carolingien et art roman parisiens. Les illustrations astrologiques jointes aux Chronique de Saint-Denis et de Saint-Germain-des-Prés (IXe-XIe siècle), in Cahiers Archéologiques 16 (1966), pp. 78-105; EASTWOOD, Origins and contents of the Leiden Planetary Configuration cit., pp. 1-40; B. OBRIST, Les manuscrits du “De cursu stellarum” de Grégoire de Tours et le manuscrit 422, Laon, Bibliothèque municipale, in Scriptorium, 56 (2002), pp. 335-345. A recent attempt to classify texts and images was done by R. DUITS, Celestial Transmission: An Iconographical Classification of Constellations Cycles in Manuscripts (8th-15th centuries), in Scriptorium 59 (2005), pp. 147-202. 76 B. OBRIST, La cosmologie médiévale. Textes et images. I. Les fondements antiques (Micrologus Library, 11), Florence 2004, pp. 195-226. SKY
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Aratean charts were designed to be an initiation to descriptive astronomy, giving the coordinates of stars and planets and a narrative description that helped in the memorisation of their names. The reading of the poetic text accompanied by beautiful illustrations exalting the beauty of the celestial sphere and the harmony of the paths of the stars might have given both teacher and pupils aesthetic pleasure. Barbara Obrist emphasises the poetic atmosphere of these delicately coloured illustrations or simple drawings, that were not infringed by overly technical additions and thus evoke the recommendation made by Ptolemy to limit the luxury and colouring of the drawings so as not to disturb the memorisation of the constellation. Memorisation was, in fact, the first and most important step in the study of astronomy and preceded the practical observation of the sky.77 According to the philological analysis done by Guislaine Viré of eightyeight extant versions of Hyginus’ work from the ninth to the fifteenth centuries, it emerges that the Reginensis 123 belongs to a small family of manuscripts that preserved the best version of the text, and was directly connected with the archetype.78 Our codex is particularly close to the text included in a poorly executed early-eleventh-century handbook now in Leyden (Voss. Lat. 8. 15), composed by Adémar of Chabannes (988-1034) in Saint-Martial de Limoges.79 This codex from Limoges shares with the Reginensis not only the same recension of Hyginus’s text, but also a similar iconography of the Aratea illustrations, which cannot be dealt with here and to which I will dedicate an essay that is in preparation. This double link is very important, since the two codices are among the most ancient of Hyginus’s illustrated copies and attest the effort made by Adémar and Monk Oliba to search out the most correct and pure versions of the text.80 Two other codices produced in the Limoges area present a similar iconography of the Aratea illustrations, the ninth-century BNF MS 5239 (fol. 77 OBRIST,
La cosmologie médiévale cit., pp. 224-226. VIRÉ, La transmission du De astronomia d’Hygin jusq’au XIIIe siècle, in Revue d’Histoire des textes 11 (1981), pp. 159-276. The best recensions are included in three 10th-century Carolingian codices: one from Saint-Gall (Stiftsbibliothek, MS 250), one from the Loire region (Montpellier, École de Médecine, MS H 34), and one from Freising (Munich, Bayerische Staatsbibliothek, Clm. 13084). 79 VIRÉ, La transmission du De astronomia d’Hygin cit., pp. 199-207. On the scriptorium of Limoges, see: D. GABORIT-CHOPIN, La décoration des manuscrits à Saint-Martial de Limoges et en Limousin, Paris-Genève 1969; M. BESSEYRE and M. T. GOUSSET, Le scriptorium de SaintMartial de Limoges: de l’héritage carolingien au roman aquitain, in Saint-Martial de Limoges. Ambition politique et production culturelle (Xe-XIIIe s.). Actes du colloque tenu à Poitiers et Limoges du 26 au 28 mai 2005, ed. C. ANDRAULT-SCHMITT, Limoges 2006, pp. 337-344, pl. VIXXV. 80 VIRÉ, La transmission du De astronomia d’Hygin cit., p. 205. 78 G.
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219v),81 and the above-mentioned manuscript of the Aberystwyth National Library of Wales (MS 735 C, fol. 19v), that was probably connected with the milieu of Adémar, and contains Germanicus’s version of the Aratea.82 The Aratea images in BNF MS 5239 illustrate the De signis coelis, as does a linked codex, BNF MS 5543, possibly written in Fleury in the mid-ninth century.83 A shared model, possibly Carolingian, might be supposed for these codices and the Reginensis 123, which shows the best-preserved and accurately executed iconographical version of the Aratea repertoire, though it is impossible to state a direct affiliation among the codices.84 Comparisons between these manuscripts show that intellectual exchanges occurred between Ripoll and the monasteries of Fleury and Limoges. BNF MS 5239 from Limoges shares a similar repertoire of Aratea illustrations included in the Reginensis codex; another late-ninth-century manuscript from the Orleans area, possibly from Fleury (Leyden Voss. Lat. F 12), contains a similar version of the aforementioned Divisio orbis terrarum Theodosiana, which accompanies the terrestrial map in the Reginensis codex.85 As indicated previously, the codex from Limoges (Leyden, Voss. Lat. 8. 15) contains the same recension of both Hyginus’s text and illustrations. An analysis of the Annales floriacenses, a chronology of the Frank kings contained in both the Reginensis and the Fleury codex BNF 81 On the manuscripts of Adémar of Chabannes, see: D. GABORIT-CHOPIN, Les dessins d’Adémar de Chabannes, in Bulletin Archéologiques du Comité des travaux historiques et scientifiques N.S. 3 (1967), pp. 163-224; R. LANDES, A Libellus from St. Martial of Limoges written in the time of Adémar of Chabannes (989-1034): “Un faux à retardament”, in Scriptorium 37 (1983), pp. 178-204; ID., Relics, Apocalypse, and the Deceits of History. Adémar of Chabannes, 898-1034 (London 1995), pp. 346-368 (on MS 5239, pp. 346-349); R. W. SCHELLER, Exemplum. Model-Book Drawings and the Practice of Artistic Transmission in the Middle Ages (ca. 900 – ca. 1470), Amsterdam 1995, n. 4, pp. 109-117; J. GRIER, Scriptio interrupta: Adèmar de Chabannes and the Production of Paris, Bibliothèque nationale de France MS Latin 909, in Scriptorium 51 (1997), pp. 234-250; DUITS, Celestial Transmission cit., pp. 154, 186. 82 A 12th-century manuscript in the Vatican Library, MS Lat. 643, fol. 88v, whose origin is uncertain, shows similar characteristics. M. VATTASSO and E. CARUSI, Codices Vaticani Latini, Codices manuscripti recensiti, Rome 1860–1925, I, pp. 493-494; H. SJÖSTRÖM, Magister Albericus Lundoniensis mythographus tertius vaticanus, in Classica et mediaevalia 29 (1968), pp. 248-264. (263); G. BILLANOVICH, Ancora dall’antica Ravenna alle Biblioteche umanistiche, in Italia Medioevale e Umanistica 36 (1993), pp. 107-174 (131-33). 83 Les manuscrits à peintures en France du VIIe au XIIe siècle, Bibliothèque nationale de France ed., Paris 1954, 105, p. 43. 84 On the Aratea illustrations of the Reginensis codex, see: IBARBURU ASURMENDI, La pervivencia cit., pp. 33-48; PUIGVERT, El manuscrito Vat. Reg. lat. 123, p. 310; GARCIA AVILES, El tiempo y los astros cit., pp. 129-143. 85 Leyden, University Library, Vossianus Lat. F 12. The text (Specimen terre quam oecumenem appellamus) was published by GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II” cit., pp. 105-107.
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5543 seems to confirm the closeness between the two scriptoria.86 This does not imply, however, that the source used at Ripoll came from Fleury or Limoges. In fact, textual analysis of both the geographical and astronomical texts demonstrates that the Ripoll and Fleury manuscripts are based on shared sources but are not dependent on each other.87 It is worth remembering that the Aratea illustrations of the Fleury (BNF 5543) and Limoges (Voss. Lat. 15 and BNF lat. 5239) manuscripts, as well as the map in a codex of Fleury (Berlin, Staatsbibliotheck, Preussischer Kulturbesitz, Phill. 1833 (Rose 138), fol. 39v),88 are rough and simplified in comparison with the sophisticated Reginensis images, and thus cannot be considered as one of the direct sources of our manuscript. The map of this codex from Fleury, which shares with that of the Reginensis the presence of text within the map, shows both the ecoumene and the Macrobian zones; but the supplementary ocean that pass through the poles is doubled, and the rendering of the oecumene is brief and includes only essential details in comparison with that of the Ripoll map. The text that accompanies the map in the codex from Fleury is different from that appearing in the Reginensis manuscript, though it includes some common data, such as the measurements of the circumference of the earth in 252 000 stades made by Eratosthenes, which is shared by both maps. The cultural context The closeness between Catalonian manuscripts and codices produced in Fleury and Limoges attests to a great fervour in searching and copying scientific manuscripts in the early-eleventh century and demonstrates the cultural vivacity of the monastic world at that time. Good connections between the monks of Ripoll and those of Fleury are also attested by epistolary correspondence between monks of the two monasteries. Of utmost interest is the correspondence between Abbot Oliba and Gauzlin, who was abbot of Fleury and bishop of Bourges.89 In a letter, Abbot Oliba tells about two Ripoll brothers and monks who decided to stay temporarily in Fleury and 86 On
the manuscripts from Fleury, see: SCHELLER, Exemplum cit., n. 3, pp. 98-108. La transmission du De astronomia d’Hygin, p. 205; GAUTIER DALCHÉ, Notes sur la “carte de Théodose II” cit., p. 96. 88 P. GAUTIER DALCHÉ, L’organisation du monde. Mappemonde dessinée à Fleury, in Autour de Gerbert d’Aurillac, le pape de l’An Mil. Album de documents commentés réunis sous la direction de O. Guyotjeannin and E. Poulle, O. GUYOTJEANNIN and E. POULLE eds., Paris 1996, pp. 3-5. 89 The letters were published in ANDRÉ DE FLEURY, Vie de Gauzlin, Abbé de Fleury. Vita Gauzlini Abbatis Floriacensis Monasterii, ed. R.-H. BAUTIER and G. LABORY (Paris 1969), pp. 169-180. 87 VIRÉ,
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came from Ripoll with precious gifts, such as three albs made of expensive fabrics rimmed in gold, and a Gospel book with a gold and silver binding. Another letter that was written by a Ripoll monk, Ponce, during his residence in Fleury, to John of Ripoll shows that the exchange of manuscripts between the two abbeys was a usual way to carry out the difficult search for rare texts. Ponce, in fact, asks that a rare book that he lent to John (possibly when he was still in Ripoll) be returned to him, explaining that this rare text was not found in his area and that he had to go to Pavia in order to find it. Ponce also asked him to send anything he wanted from Ripoll.90 Monk Oliba himself, in his aforementioned Breviarium de Musica (ACA, MS 42), wrote that he sent messengers to neighbouring monasteries to beg for books. The exchange of books was certainly a common practise, which scholars normally have interpreted as working in one direction, from Fleury to Ripoll. Fleury, one of the oldest and most celebrated Benedictine abbeys of Western Europe, is certainly better known than Ripoll as the centre of computus and astronomy directed by Abbo of Fleury, who reformed computistical study at the end of the tenth century.91 Ripoll was renowned, however, for the teaching of the quadrivium in the tenth and eleventh centuries, and emerges as an appealing place for scholars.92 Testimonies of a direct connection between Ripoll and Limoges are not preserved; nevertheless, Limoges is mentioned among the places to which the funerary roll announcing the death of Abbot Oliba on 30 October 1046 was sent. A rotulifer monk brought the roll from place to place and, in ev90 ANDRÉ DE FLEURY, Vie de Gauzlin, pp. 184-185. On the search for manuscripts, see: M. A. MUNDÓ, ‘Importación, exportación y expoliaciones de codices en Cataluña (siglos VIII al XIII)’, in Coloquio sobre la circulación de codices y escritos entre Europa y Peninsula en los siglos VIII-XIII, Actas 16-19 september 1982, Compostela 1988, pp. 87-134. 91 RICHÉ, Ecoles et enseignement, pp. 143-145, 357; B. S. EASTWOOD, Astronomy in Christian Latin Europe, c. 500-c.1150, in Journal for the History of Astronomy, 28 (1997), pp. 235258, repub. in EASTWOOD, The Revival of Planetary Astronomy in Carolingian and Post-Carolingian Europe (Variorum collected studies series, 729), Aldershot 2002, I, pp. 235-258; ID., Calcidius’s Commentary on Plato’s Timaeus in Latin Astronomy of the Ninth to Eleventh Centuries, in ID., The Revival of Planetary Astronomy, X, pp. 171-199. See also B. OBRIST, Les tables et figures abboniennes dans l’histoire de l’iconographie des recoils de comput, in B. OBRIST ed., Abbon de Fleury: Philosophie, science et comput autour de l’an mil, (Oriens-Occidens. Sciences, mathématiques et philosophie de l’Antiquité à l’Âge classique, 6), Paris – Villejuif 2004, pp. 141-186. 92 J. M. MILLAS VALLICROSA, Nuevos estudios sobre historia de la ciencia española, Barcelona 1960, I, pp. 93-96; C. H. HASKINS, Studies in the History of Mediaeval Science, New York 1960, pp. 3-11; RICHÉ, Ecoles et enseignement, pp. 158-161; MARTÍNEZ GÁZQUEZ, Le Monastère de Ripoll cit., pp. 239-253; M. VILADRICH, Ripoll. Ahora hace un milenio: un escritorio abierto al mondo, in Cataluña en la época carolingia. Arte y cultura antes del románico (siglos IX y X), 16 diciembre 1999 – 27 febrero 2000, Museo Nacional d’Art de Catalunya, Barcelona 2000, pp. 139-143.
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ery abbey, an answer and a prayer were added.93 Among the six encyclical rolls preserved from eleventh- and twelfth-century Catalonia, four were produced at Ripoll and almost all were linked to persons belonging to the family of the counts of Cerdagne, like Abbot Oliba.94 The tituli appearing in the roll of Oliba (1046) attest to the widespread connections of the Ripoll monastery in the mid-eleventh century: it lists eighty places and covers an itinerary of ca. 2800 km. At Limoges the monk visited the Bishop Ilduinus, and the monasteries of St. Martin, Saint-Etienne, and probably Saint-Augustine95 We may suppose that Ripoll belonged to a group of Benedictine monasteries that created an association of prayer, like Saint-Martial at Limoges, Fleury, and Solignac, which had been linked in a confraternity pact since 942.96 The creation of a complex codex like the Reginensis 123 must be seen in this cultural context of the encouragement of learning in the scientific field. In the medieval monastic world, Ripoll certainly had an important place in the transmission of culture. In Catalonia, Ripoll was especially renowned for the teaching of the quadrivium (arithmetic, geometry, astronomy, and music), and appears to have been attracting scholars from Western Europe since the late-tenth century.97 The most famous among them was certainly Gerbert of Aurillac, who became Pope Silvester II in the year 1000. According to his biographer and disciple, Richer of Reims, as a young scholarmonk, between 967 and 970 Gerbert spent three years in Catalonia, for training in the mathematico-physical disciplines. Count Borrell of Barcelona, who entrusted Bishop Atto of Vich with Gerbert’s education, accompanied Gerbert to Catalonia.98 Since the Cathedral of Vich was a centre of 93 VILLANUEVA, Viage literario cit.,VI, XXIX, pp. 302-306; E. JUNYENT, Le rouleau funéraire d’Oliba, abbé de Notre-Dame de Ripoll et de Saint-Michel de Cuixa, évêque de Vich, in Annales du Midi 63 (1951), pp. 249-263. 94 J. DUFOUR, Les rouleaux et encycliques mortuaires de Catalogne (1008-1102), in Cahiers de civilisation médiévale 20 (1977), pp. 13-48. The rolls from Catalonia were preserved only in copies executed by the foremost librarians of Ripoll, before the burning of the monastery in 1835. 95 At the death of Bishop Seniofredus of Ripoll (1008), the roll lists 37 tituli, for an itinerary of ca. 1,700 km. The rotulus of Guifredus of Cerdagne (1051) lists 95 tituli along an itinerary of 3,800 km. See: DUFOUR, Les rouleaux et encycliques cit., pp. 18-20. 96 DUFOUR, Les rouleaux et encycliques cit., p. 14; see also LANDES, Relics, Apocalypse cit., p. 50. 97 MILLAS VALLICROSA, Nuevos estudios cit., I, pp. 93-96; HASKINS, Studies in the History of Mediaeval Science cit., pp. 3-11; MARTÍNEZ GÁZQUEZ, Le Monastère de Ripoll cit., pp. 239253; VILADRICH, Ripoll cit., pp. 139-143. 98 P. RICHÉ, Gerbert d’Aurillac. Le pape de l’an Mil (Paris 1987), pp. 19-34; M. ZIMMERMANN, La Catalogne de Gerbert, in Gerbert l’Européen. Actes du colloque d’Aurillac, 4-7 juin 1996 (Aurillac 1997), pp. 79-101; P. KUNITZSCH, Les relations scientifiques entre l’Occident et
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ecclesiastical culture and education, but not a centre of scientific studies, we may suppose that Gerbert’s education was entrusted to the nearby centres of Gerona and Barcelona or, most probably, to the monastery of Ripoll, where Abbot Arnulphus (948-970) was promoting the quadrivium studies and developing the library, thanks to his trans-Pyrenean connections and the good relations between the Counts of Barcelona and the Caliphate.99 It is well known that Gerbert cultivated an interest in astronomy and, before he concentrated on papal politics, he wrote a treatise on the abacus and designed a chart to assist in the learning of logic.100 The image emerging from the study of a few preserved manuscripts and copies of inventories of the Ripoll library after the period of Abbot Oliba reveals a good level of scholarship at Ripoll in the domains of Biblical and patristic studies as well as in the quadrivium fields. The eleventh-century inventory, though incomplete, demonstrates that books concerning the seven liberal arts were available in Ripoll at the time of Abbot Oliba, although only a few of them were preserved due to the fire that destroyed the abbey in 1835. The library included trivium (grammar, rhetoric, and dialectic) and quadrivium texts. Among the books listed in the inventories of the Ripoll library is a collection of classical works of philosophy: Aristotle, Boethius, Calcidius and Macrobius, poetry (Horace, Terence, Virgil, Sedulius, Avianus and Juvenal), as well as works on grammar (Donatus le monde arabe à l’époque de Gerbert, in Gerbert l’Européen. Actes du colloque d’Aurillac, 4-7 juin 1996, Aurillac 1997, 193-203, republished in P. KUNITZSCH, Stars and Numbers, Astronomy and Mathematics in the Medieval Arab and Western Worlds, Aldershot 2004, XV, pp. 193203. According to Richér of Reims, Borrel was asked if there was a place to learn the liberal arts in Spain, and he answered positively. See transcription and translation of Richér’s text from a 10th-century manuscript in: GUYOTJEANNIN and POULLE eds., Autour de Gerbert d’Aurillac cit., pp. 242-248. See also: F. UDINA MARTORELL, Gerberto y la cultura hispanica: los Manuscritos de Ripoll, in Gerberto. Scienza, storia e mito. Atti del Gerberti Symposium (Bobbio, 25-27 luglio 1983), Bobbio, Piacenza 1985, pp. 35-50. 99 No scientific texts drawn up in that period are listed in the inventories of the Episcopal Library of Vich. See the inventory of objects and books that was done on 14 June 957, at the death of Guadamir of Vich, published by E. JUNYENT, Diplomatari de la Catedral de Vic: siegles IX-X, Vich 1980, p. 256. On the relations between Iberian scholars and the Moslem world, see: RICHÉ, Ecoles et enseignement cit., pp. 81-85; 130-33. 100 MILLAS VALLICROSA and other more recent studies have demonstrated that the role of Gerbert of Aurillac in the astronomical studies of his time was much less relevant than what was accredited to him. See: MILLAS VALLICROSA, Nuevos Estudios cit., I, pp. 58-64, II, pp. 96101; A. BORST, Astrolab und Klosterreform an der Jahrtausendwende, Heidelberg 1989, pp. 60-77; C. BURNETT, King Ptolemy and Alchandreus the Philosopher: The Earliest Texts on the Astrolabe and the Arabic Astrology at Fleury, Micy, and Chartres, in Annals of Sciences 55 (1998), pp. 329-368. On the false attribution to Gerbert of the treatises on the astrolabe, see the documents collected and commented in Autour de Gerbert d’Aurillac cit., pp. 331-334, 343-45. On the regret expressed by Gerbert about his insufficient astronomical studies, see: RICHÉ, Ecoles et enseignement cit., pp. 143; 358-359.
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and Priscianus), computus, geometry and agronomy (Arator), astronomy, (Aratea, Liber De Signis), and music.101 Investigation of the texts and diagrams of manuscripts created in Ripoll reveals a strong interest in astronomy, not only in the limited calendric framework of the Christian calculation of liturgical time, but also in that stimulated by the study of the astrolabe and classical astronomical texts translated from Arabic. This interest is attested by the theoretical astronomical works included in ACA MS Ripoll 74 and 59,102 and especially by a miscellany of scientific and astronomical matters collected in MS ACA, Ripoll 225,103 that contains a primitive rendering of parts of Ptolemy’s Planisphaerium, independent of the most famous translation into Latin made in 1143,104 probably the work 101 The no-longer-extant 1047 inventory written after the death of Abbot Oliba listed 192 volumes, as attested by Jaime Villaneuva and Benito Ribas in later periods. Ribas’s copies of the inventories are kept in a miscellaneous codex in Madrid Real Academia de la Historia. Ripoll MS 9-5937, fols. 368-369v. See: BEER, Los manuscrits, pp. 268-277. Rudolph Beer analysed the two lists and the descriptions by Villanueva and Ribas, comparing them with the extant manuscripts and observations by Prosper Bofarull (1777-1859) and Rocco Olzinelle (1784-1835). Beer’s aim was to propose a correct reconstruction of the inventoried manuscripts. In his list, he changed the order of the books and concluded that the library held 246 volumes in 1047. Nevertheless, most of the old historians and modern scholars refer to the list proposed by Beer as an authentic copy of the inventory drawn up in 1047. See the list in E. JUNYENT, Diplomatari d’Oliba cit., pp. 398-400. On the library of Ripoll, see also the recent work by M. ZIMMERMANN, Ecrire et lire en Catalogne IXe-XIIe siècle, Madrid 2003, pp. 550-557. 102 G. PUIGVERT I PLANAGUMÀ, Textes communs au manuscrit ACA Ripoll 225 et au manuscrit Avranches 235, in Science antique, science médiévale (autour d’Avranches 235) Actes du colloque International (Mont-Saint-Michel, 4-7 septembre 1998), eds. L. CALLEBAT and O. DESBORDES, Hidelsheim 2000, pp. 171-187. 103 Such as the prologue to the De mensura astrolabii (fols. 1v-7v), the Astrolabii Sententiae (fols. 24v-25v), and the De utilitatibus astrolabii PUIGVERT I PLANAGUMÀ, Textes communs au manuscrit ACA Ripoll 225 et au manuscrit Avranches 235 cit., pp. 171-187. See also: MILLAS VALLICROSA, Estudios cit., I, pp. 58-97, II, pp. 93-95. On Mont-Saint-Michel, B. M. Ms. Avranche 235, possibly produced in the monastery of Mont-Saint-Michel, see: HOLTZ, MS. Avranches, B. M. 235: Etude codicologique, in Science antique, science médiévale (autour d’Avranches 235) cit., pp. 17-61; C. BURNETT, Avranches, B. M. 235 et Oxford, Corpus Christi College 283, in Science antique, science médiévale cit., pp. 63-202. 104 MILLAS VALLICROSA, Nuevos estudios cit., I, 43-64, 93-96; ID., Assaig d’història de les idees físiques i matemátiques a la Catalunya Medieval, Barcelona 1931 (repr. 1983), p. 120; P. KUNITZSCH, Fragments of Ptolemy’s Planisphaerium in Early Latin Translation, in Centaurus 36 (1993), pp. 97-101; ID., The Role of al-Andalus in the Transmission of Ptolemy’s Planisphaerium and Almagest, in Zeitschrift für Geschichte der Arabish-Islamichen Wissenschaften 10 (1995-96), pp. 147-155, rep. in ID. Stars and Numbers, VII; B. POULLE, Le traité d’astrolabe de Raymonde de Marseille, in Studi Medievali ser. 3, 5/2 (1964), pp. 866-900, pls. 1-4; BORST, Astrolab und Klosterreform, pp. 60-77; MARTÍNEZ GÁZQUEZ, Le Monastère de Ripoll, pp. 239253. The hypothesis of a Jewish route in the transmission of Arabic knowledge to Catalonia in the 10th century has been recently suggested by M. ZUCCATO, Gerbert of Aurillac and a Tenth-Century Jewish Channel for the Transmission of Arabic Science to the West, in Speculum
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of a monk who came from Al-Andalus or of a Catalan monk who had learned Arabic.105 The tradition of compilatory books finalised for teaching had existed in Ripoll since the late-tenth century, as demonstrated by the original collection included in ACA MS 74, where essays on practical music, scholastic examples, and exercises in philology, music and grammar, glossaries, texts by Isidore of Seville, and an original summary of his Etymologiae are grouped together, apparently lacking a coherent order.106 The glossaries of Greek and Hebrew words transliterated into Latin characters and incorporated into the ACA MSS 74 and 59 (eleventh century) may attest as well the character of learning at Ripoll.107 A multi-functional map In conclusion, the production of the map of the Reginensis codex should be regarded as the fruit of just such a rich milieu of the search for, exchange and production of learning material. This map, like many others in the Middle Ages, probably had multiple functions, the main being a condensation of the comprehensive knowledge related to geography, possibly to be visualised in the process of learning and teaching. Occupying a special place in this medieval encyclopedia, the map is itself an encyclopedic masterpiece that collects texts, conceptions, and images from various traditions. The title given to the Ripoll map by its compiler, mappa mundi juxta quorundam descriptiones (world map based on several descriptions), must be understood as a way to present map and text as one composition, whose different parts have different origins. 80 (2005), pp. 742-763. This thesis is suggestive and the possibility of a Jewish channel is quite reasonable, but it is not sufficiently documented. In addition, the way the author denies the possibility that Gerbert found astronomical texts in Ripoll is wrongly based on the assumptions that the list given by Beer is that of the presumed inventory of 1047 and that the order of the books followed by Beer is not only the original one, but is also the same as that used in the previous inventories. None of these assumptions are correct. The most recent and exhaustive essay on astronomical texts from Ripoll is certainly the monumental book: D. JUSTE, Les Alchandreana primitifs. Ètude sur les plus anciens traités astrologiques latins d’origine arabe (Xe siècle), Leiden 2007, pp. 1-8, 221-257. 105 See also BORST, Astrolab und Klosterreform cit., p. 68; Kunitzsch, Les relations scientifiques cit., p. 197. 106 See the interesting analysis proposed by ZIMMERMANN, Le monde d’un catalan au Xe siècle cit., pp. 4-78. 107 J. LLAURÓ, Los glossarios de Ripoll, in Analecta Sacra Tarraconensia, Anuari de la Biblioteca Balmes 3 (1927), pp. 331-389, and ID., Los glossarios de Ripoll, in Analecta Sacra Tarraconensia, Anuari de la Biblioteca Balmes 4 (1928), pp. 271-341; JUSTE, Les Alchandreana primitifs cit., pp. 234-239.
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In this carefully planned and highly rational anthology, the map is placed between the explanation of the terrestrial elements and the description of the holy places. The subsequent fourth book, Astronomia, moves toward the heavenly sphere where a celestial map occupies a parallel role. The first purpose of the map-maker was apparently to give a scientific visualization of the entire Earth, not only the inhabited part (oecumene), but also the five zones enumerated in the text and the circumference measurements, that occur in other computus codices that deal with the reckoning of space and time. The illustration of the oecumene shows how the geographical perspective is historically related and envisioned on a worldwide scale, where Late-Antique sources are still the main authoritative foundations of learning, and Carolingian texts are the respected models of culture and style. The layering of different epochs enables the association of geographic depiction with historical knowledge. But since geography is also linked to physics — the knowledge of the natural world — the map also elucidates the links between the sphere and the inhabited earth, giving a clear visual image of the cosmographic theories that were normally known in monastic schools. As an image of the macrocosmos, the map represents earth as one of the four elements, surrounded by fire, water, and air (the winds). A further purpose of this map appears, finally, to be spiritual and theological, because it shows the Earth from creation to the incarnation of Christ, as evidenced by the presence of the biblical and Christological places. The Earth is theologically presented as the lower element, sanctified by the presence of God exemplified through the depiction of the loca sancta.108 It should not be forgotten that a map might appear to a medieval reader to contain the entire created world, as it was seen by the eyes of God. In this sense, a map served as a starting point for vision and contemplation of the cosmic order.109 Theodulphe’s words were put there conclusively to ask the reader to ponder on the cosmic image, whose harmony will nourish the spirit. Analysis of the Reginensis map shows how knowledge of the world in a medieval scriptorium passed through research into the ancient sources. The fabrication of an image of the world implied reading, summing up, and re-organizing vast material from different kinds of sources into a united project. These sources included cosmographies, erudite manuals, poetry, history, lists of topographic names, glossaries, and diagrams. The author of the Reginensis map was clearly an heir to the knowledge of Late Antiquity, with its Roman legacy of ethnic and geographic systematization, 108 EDSON,
Mapping Time and Space cit., pp. 80-86. the map as help for contemplation, see GAUTIER DALCHÉ, De la glose à la contemplation cit., pp. 761-764. 109 On
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its concepts and theories on the structure of the earth and the cosmos. But the space that he configured is not that of the potestas Romana, but that of medieval Christianity, where the Christian message spreads and envisions its holy places. This configuration was previously elaborated by Isidore of Seville, who combined the authentic works of Pliny, Virgile, Orosius, and Solinus with a geographic vision founded on the Bible, creating a very Christian geography characterised by a universal quality.110 Research on geographic matters is particularly useful for the comprehension of the intellectual process of learning in medieval times because the knowledge of geographic space is, by nature, composite.111 We should ask in which way this map also corresponded to a mental chart stored in the memory of its author, or reflected his way to represent the space and memorise names and concepts. Examination of the sources used by the Ripoll compilator allows us to understand the mental devices and the intellectual processes of learned medieval men. His geographic anthology demonstrates that he probably referred to a spatial order where regions, theories, names, and images were coherently located. The visual map he created is an original compilation that helped him to localise the entire body of information that he had collected, to clarify the structure of the oecumene, and to explain schematically the fundamental concepts linked to the climatic zones, the sea, the winds and, finally, the cosmic harmony of the elements. The main function of a medieval map was not to describe a realistic visualisation of the geographical space, but to illuminate the complex concepts related to terrestrial and cosmic knowledge. For this reason this map is at the same time a chart and a diagram, and includes text, verses, and images. It is realistic to imagine that such a chart could have functioned in the framework of the learning and teaching process to show and explain various concepts and theories, to find regions, rivers, and towns, and to recall measurements. Knowledge may be reached by means of exploring the surface of a highly conceptual painted parchment. The reiterated physical action of moving a finger across the map, in order to situate names and locations, and to remember theories and numbers, affected forever the state of the map itself that appears to be the most consumed and faded illustration in the whole manuscript.
110 One of the ways that Isidore did this is by attributing the three known continents to the territories of Noah’s sons: Asia to Shem, Africa to Ham, and Europe to Japheth. On the originality of the Isidorian work, see: GAUTIER DALCHÉ, Principes et modes cit., pp. 126-129. 111 Some important questions on the representation of space in the Middle Ages are discussed in: GAUTIER DALCHÉ, Principes et modes cit., pp. 117-150.
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Fig. II – Vatican Apostolic Library, Reg. lat. 123, f. 143v (detail of the oecumene).
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Fig. III – Vatican Apostolic Library, Reg. lat. 123, f. 143v (detail of the oecumene).
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Fig. IV – Vatican Apostolic Library, Reg. lat. 123, f. 143v (detail of Tellus).
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Fig. V – Vatican Apostolic Library, Reg. lat. 123, f. 34v.
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Fig. VI – Vatican Apostolic Library, Reg. lat. 123, f. 162v.
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Fig. VII – Vatican Apostolic Library, Reg. lat. 123, f. 169r.
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Fig. XIII – Barcelona, Archivio de la Corona de Aragon, Ms Ripoll 106, f. 82 (10th century).
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Fig. XIV – Vatican Apostolic Library, Reg. lat. 123, f. 131r.
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Fig. XV – Vatican Apostolic Library, Reg. lat. 123, f. 171r.
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Fig. XVI – Vatican Apostolic Library, Reg. lat. 123, f. 157r.
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Fig. XVII – Vatican Apostolic Library, Reg. lat. 123, f. 207r.
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« CETTE LESGENDE AUREE EST A MOY… » MARGINALIA ET APPROPRIATIONS DE LA LÉGENDE DORÉE (REG. LAT. 534) Circulation et usages de la Légende dorée La Légende dorée de Jacques de Voragine est un observatoire privilégié pour une histoire du livre et des pratiques de lecture au Moyen Âge1. Son succès que l’on sait d’emblée considérable (avec son millier de manuscrits aujourd’hui conservés) entraîna et renforça sa diffusion sur l’ensemble de l’Occident médiéval, à travers le réseau des ordres mendiants qui en fut le premier vecteur, et ce même après l’émergence de l’imprimé2. Objet mouvant et génératif3, la Légende connaît une durée de vie suffisamment longue 1
Notre travail s’inscrit dans des recherches en cours, sous la direction de Jean-Marie Fritz (Université de Bourgogne) : « Les Légendes Dorées de Jacques de Voragine. Compilation, mouvance hagiographique et édification du XIIIe siècle à la naissance de l’imprimerie (France et Italie) ». Je souhaiterais adresser mes vifs remerciements à Marie-Thérèse Lorcin pour ses conseils sur le Forez du XIVe et XVe siècles, à Monique Goullet et Stéphane Gioanni pour leurs précieux encouragements dès la première élaboration de ce travail, à Jean-Marie Fritz et Arnaud Fossier pour leurs relectures patientes et exigeantes et enfin à Paolo Cherubini pour sa généreuse disponibilité et son aide enthousiasmante, sans lesquelles ce travail n’aurait pas été possible. Je reste bien entendu seul responsable des pistes suivies et des interprétations proposées ici. 2 B. FLEITH, Studien zur Überlieferungsgeschichte der lateinischen Legenda Aurea, Bruxelles 1991 (Subsidia Hagiographica, 72) ; G. P. MAGGIONI, Ricerche sulla composizione e sulla trasmissione della Legenda aurea, Spoleto 1995 (Biblioteca di « Medioevo Latino ». Collana della «Società internazionale per lo studio del Medioevo latino », 8) ; sur les Légendes dorées imprimées, L. PAGNOTTA, Le edizione italiane della Legenda Aurea (1475-1630), Firenze 2005 (Biblioteca di Apax, 1) ; S. BLEDNIAK, L’hagiographie imprimée : œuvres en français, 1476-1550, in Hagiographies – Histoire internationale de la littérature hagiographique latine et vernaculaire en Occident des origines à 1550, G. Philippart (dir.), Turnhout 1994 (Corpus Christianorum Hagiographies, 1) pp. 359-406 ; B. DUNN-LARDEAU – D. COQ, Deux éditions lyonnaises de la Légende Dorée, in Bibliothèque Humanisme et Renaissance 44 (1982), pp. 623-635 et IIDD., Fifteenth and Sixteenth Century Editions of the Légende Dorée, in Bibliothèque Humanisme et Renaissance 47 (1985), pp. 87-101. Plus largement, Histoire de l’édition française. 1. Le livre conquérant : du Moyen Âge au milieu du XVIIe siècle, R. CHARTIER – H.-J. MARTIN (dir.), Paris 1982. 3 L’expression est d’A. BOUREAU, La Légende dorée. Le système narratif de Jacques de Voragine (†1298), préface de J. LE GOFF, Paris 1984, p. 14 : « La Légende dorée est composée comMiscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 111-145.
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pour cerner dans leur rythme propre les transformations conjointes du texte et des façons de le lire. À la suite du recensement de ses manuscrits et de la cartographie de leurs circulations dressés par Barbara Fleith, l’édition de la Legenda Aurea de Giovanni Paulo Maggioni4 a fait éclore un certain nombre de travaux sur les usages du recueil hagiographique, rendant plus encore justice à sa centralité dans les littératures médiolatines et vernaculaires5. La destination initiale de la Légende comme outil de travail pastoral6 en fait un « texte-
me un univers de signification, achevé et complet, où chaque élément renvoie à la totalité, univers qui rend compte de tout, qui trace une origine et une fin, univers où tout est dit et où tout chrétien trouve sa place, univers génératif cependant puisque la Légende dorée peut s’étendre et se compléter». 4 Pour indexer les annotations étudiées, nous nous appuierons sur l’édition suivante : Iacopo da Varazze, Legenda aurea, edizione critica a cura di G.-P. MAGGIONI, seconda edizione rivista dall’autore, Firenze 1998 2 vol. (Millennio medievale. Testi *3) (désormais éd. Maggioni) ; v. également Iacopo da Varazze, Legenda aurea con le miniature del codice Ambrosiano C 240 inf., testo critico riveduto e commento a cura di G.-P. MAGGIONI, trad. ital. di G. AGOSTI et al., coordinati da F. STELLA, premessa di C. LEONARDI, Firenze 2007, 2 vol., (Edizione nazionale dei testi mediolatini. Serie 2 *9) ; J. DE VORAGINE, La Légende dorée, édition publiée sous la direction d’A. BOUREAU, avec M. GOULLET, et la collaboration de P. COLLOMB – L. MOULINIER – S. MULA, préface de J. LE GOFF, Paris 2004 (Bibliothèque de la Pléiade) (désormais éd. Boureau). 5 Pour une vue d’ensemble, v. De la sainteté à l’hagiographie, Genèse et usage de la Légende Dorée, B. FLEITH – F. MORENZONI (dir.), Genève 2001. Pour la prédication de Jacques de Voragine, v. IACOPO DA VARAZZE, Sermones Quadragesimales, éd. G.-P. MAGGIONI, Firenze 2005 (Edizione nazionale dei testi mediolatini 13, serie I, 8), ainsi que l’édition électronique en cours des Sermones de Jacques de Voragine dirigée par N. BÉRIOU, consultable en ligne [URL] [www.sermones.net] ; autour de la question de la traduction, E. DE LUCA, Il volgarizzamento trecentesco della Legenda aurea e il suo contributo alla tradizione del testo latino, in Studi e problemi di critica testuale 77 (2008), pp. 57-99 ; P. DIVIZIA, I Quindici segni del Giudizio :appunti sulla tradizione indiretta della Legenda aurea nella Firenze del Trecento, in Studi su volgarizzamenti italiani due-trecenteschi, P. RINOLDI – G. RONCHI (dir.), Roma 2006, pp. 4764 ; B. FERRARI, « La Légende dorée dédiée à Béatrice de Bourgogne : premières hypothèses sur le modèle latin », in Quant l’ung amy pour l’autre veille. Mélanges de moyen français offerts à Claude Thiry, T. VAN HEMELRYCK – M. COLOMBO TIMELLI (dir.), Turnhout 2008 (Texte, codex et contexte, 5), pp. 403-410 ; EAD., La Légende dorée du ms. Paris, Bnf, fr. 23114, traduction anonyme pour Béatrice de Bourgogne, in Le recueil du Moyen Âge. La fin du Moyen Âge, T. VAN HEMELRYCK – S. MARZANO (dir.), Turnhout 2010 (Texte, codex et contexte, 9), pp. 125-135 ; A.-F. Labie-Leurquin (IRHT, CNRS), en collaboration avec l’université de Genève, mène un projet de constitution d’un corpus des traductions françaises de la Légende dorée. 6 F. DOLBEAU, Les prologues des légendiers latins, in Les prologues médiévaux. Actes du colloque international organisé par l’Accademia Belgica et l’École française de Rome avec le concours de la F.I.D.E.M. (Rome, 26-28 mars 1998), J. HAMESSE (dir.), Turnhout 2000 (Textes et études du Moyen-Âge, 15), pp. 345-393 ; G.-P. MAGGIONI, Parole taciute, parole ritrovate. I racconti agiografici di Giovanni da Mailly, Bartolomeo da Trento e Iacopo da Varazze, in Hagiographica 10 (2003), pp. 183-200.
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objet »7 à visée instrumentale et pragmatique8. Le recueil de Voragine s’inscrit en effet dans la culture de l’action des ordres mendiants et dans un interventionnisme spirituel qui répudiait la fuga mundi monastique tout en renouvelant la cura animarum. Si la Légende s’est initialement affirmée comme un instrument de travail pour le prédicateur, il s’est développé autour d’elle, avec la pénétration croissante du livre dans les cultures laïques au XIVe siècle, des usages alternatifs dont on peut présumer qu’ils en ont affecté le contenu, le sens et le fonctionnement : la Légende est devenu à proprement parler un livre, qui a circulé rapidement et s’est consommé hors des studia mendiantes. Or les lectures effectives et singulières de la Légende ne se laissent que rarement entrevoir9. Le ms. Reg. lat. 534 conservé à la Bibliothèque Apostolique Vaticane donne à cet égard l’occasion de cerner les usages directs et pluriels de ce recueil pastoral à travers les annotations que son propriétaire d’un temps, Louis de la Vernade, y a accolées de son écriture cursive. Il est possible à partir d’elles de reconstituer une expérience de lecture, où se croisent les puissants déterminismes d’un recueil très encadrant et les capacités d’appropriation du lecteur dans le réaménagement qu’il opère de ce texte et de ses significations. Lieu polygraphique par excellence, la marge est en effet un péritexte ambigu qui autorise de multiples chasséscroisés entre le texte et son lecteur10 : les marginalia s’envisagent comme des issues vers le hors-texte, autant que comme des surfaces où la vie du lecteur se projette dans des rapports pluriels aux vies de saints11. Ce sont 7 P. CHASTANG, L’archéologie du texte médiéval. Autour de travaux récents sur l’écrit au Moyen Âge, in Annales. Histoire, Sciences Sociales 2 (2008), pp. 245-269. 8 É. ANHEIM – P. CHASTANG, Les pratiques de l’écrit dans les sociétés médiévales (VIe-XIIIe siècle), in Médiévales 56 (2009), pp. 5-10. Ces derniers rediscutent et remettent en perspective le programme de recherche de l’École de Münster, développé notamment in Pragmatische Schriftlichkeit im Mittelalter. Erscheinungsformen und Entwicklungsstufen, H. KELLER – K. GRUBMÜLLER – N. STAUBACH (dir.), München 1992 (Münstersche Mittelalter-Schriften, 65). 9 F. MORENZONI, La Légende Dorée d’un curé du XVe siècle du diocèse de Genève, in Zeitschrift für schweizerische Kirchengeschichte 98 (2004), pp. 9-29. 10 À la suite de G. GENETTE, Seuils, Paris 1987 (Poétique), on peut définir le péritexte comme l’ensemble des dispositifs qui entourent le texte publié (titres, sous-titres, préfaces, dédicaces, exergues, postfaces, notes infrapaginales, commentaires de tous ordres, illustrations). Comme espace de transaction entre le texte et le lecteur, il présente l’intérêt de matérialiser l’usage social du texte dont il oriente la réception. Le métatexte est constitué par les divers commentaires produits autour de l’œuvre. Pour une histoire des marginalia, v. Talking to the text. Marginalia from Papyri to Print. Proceedings of a conference held at Erice, 26 september – 3 october 1998, as the 12th Course of International School for the Study of Written Records, V. FERA – G. FERRAÙ – S. RIZZO (dir.), Messina 2002 (Percorsi dei classici, 4-5), 2 vol. 11 M. CAMILLE, Images dans les marges. Aux limites de l’art médiéval, Paris 1997 (Le temps des images), pp. 218-219.
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en ce sens des espaces de transaction et de traduction entre le texte et la vie de son lecteur. Irréductible à une simple opération cognitive portant sur un support de nature strictement propositionnelle, cette lecture consiste aussi à manier un objet matériel dont les marges sont autant de prises sur lui. Il importe à cet égard de comprendre comment le manuscrit s’inscrit dans le patrimoine de son possesseur. Le ms. BAV, Reg. lat. 534 dans la bibliothèque de Louis de la Vernade Le ms. Reg. lat. 534 est parvenu dans le fonds de la Reine Christine12 selon une trajectoire erratique, mais dont il est aujourd’hui possible de reconstituer les étapes grâce au travail paléographique, codicologique et iconographique mené récemment par Paolo Cherubini13, qui nous fait bénéficier ainsi d’une radiographie fouillée de ce manuscrit. La bibliothèque de la Reine était tenue par des libraires singulièrement actifs, qui menaient des campagnes massives d’achats. Et notamment à l’endroit de la bibliothèque d’Alexandre Petau (†1672) et de son père, Paul Petau (†1614)14 : acquise en partie en 1650, elle ne comptait pas moins de 1500 manuscrits issus de collections humanistes, de collèges universitaires et de la dilapidation huguenote qu’avaient connue certains monastères durant les guerres de religion en France. Mais de précédents possesseurs ont également laissé des traces sur ce manuscrit : Odart Clepier, puis Louis de la Vernade sur lequel nous allons nous concentrer15. 12 Les bénédictins de la congrégation de saint-Maur résidant à Rome ont dressé la liste sommaire des manuscrits de la Reine Christine, entre 1680 et 1689 ; cette liste fut publiée dans le tome premier de la Bibliotheca bibliothecarum manuscriptorum nova de Montfaucon en 1793. L’ancienne cote de Montfaucon de ce manuscrit est la cote 127. V. Les manuscrits de la Reine de Suède au Vatican, réédition du catalogue de Montfaucon et cotes actuelles, Città del Vaticano 1964 (Studi e testi, 238). 13 Dans un premier temps, la notice que Paolo Cherubini a consacrée au manuscrit, in Maria Vergine Madre Regina. Le miniature medievali e rinascimentali, Roma, Biblioteca Vallicelliana dicembre 2000 – febbraio 2001, C. LEONARDI – A. DEGL’INNOCENTI (dir.), Roma 2002, pp. 404-407 avait été l’occasion d’une présentation détaillée du manuscrit. Puis, tout particulièrement : P. CHERUBINI, Un manoscritto occitanico della Legenda Aurea con note di bottega in volgare (Reg. lat. 534), in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae 13 (2006) (Studi e Testi, 433), pp. 119-166. 14 On peut lire de la main d’Alexandre Petau : Alexander Pauli filius Petavius senator Parisiensis (ms. BAV, Reg. lat. 534, f. 2v). Sur la bibliothèque de cette famille de parlementaires orléanais, cfr. infra nt. 22. 15 Il précise ainsi au ms. BAV, Reg. lat. 534, f. 254r col. A : « Ceste legende auree est a moy Loys de la Vernade chevalier conseilher et chambellan du roy et de monseigneur le duc de Borbon ; laquelle je achetay des hoirs de feu Me Odart Clepier president en Borbon ou moys
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La démonstration de Paolo Cherubini est venue combler les lacunes de cette trajectoire en pointillés, en rassemblant un faisceau convergent d’indices concluant à une datation et une origine du manuscrit, dans la région sinon toulousaine, du moins languedocienne, à la charnière du XIIIe et du XIVe siècle, là où le puissant ancrage dominicain expliquerait tout particulièrement la présence de la Légende. Un examen paléographique permet en effet d’identifier une écriture gothique élégante sous la forme de textuales formatae d’aire méridionale, tandis que des notes d’atelier en langue vernaculaire qui jalonnent les marges (ff. 30-96) semblent provenir d’un atelier d’enluminures occitan qui a dû bénéficier de collaborations et d’échanges avec les cours voisines des comtes de Barcelone et de la couronne d’Aragon16. L’appareil iconographique des initiales historiées s’appuie quant à lui sur des cadres architectoniques surmontés de flèches inspirées du gothique occitan qui rayonne autour de Toulouse17. Enfin le manuscrit est un codex hétérogène qui contient de part et d’autre de la Legenda aurea d’autres textes hagiographiques18. Parmi eux, la vie de saint Louis copiée à la suite de et de la même main que le légendier dominicain se charge d’une signification toute particulière dans ce contexte toulousain. Si la canonisation du roi voulue par Boniface VIII n’a pas eu lieu avant 1298 et nous donne ainsi un terminus post quem pour la copie du manuscrit, Toulouse connut à cette même époque un autre Louis en la personne du second fils du roi Charles II de Naples et petit-neveu de saint Louis : le futur saint Louis d’Anjou dit de Toulouse, frère mineur, consacré évêque de Toulouse en 1296. Cet écho davril mil CCCC. XXXVII » ; il ajoute au f. 254r col. B : « et chancelier de monseigneur le duc et premier president du parlement de languedoc ». 16 Ibid., p. 157. Pour un examen approfondi de ces notes d’atelier, ID., Note occitaniche di bottega dell’inizio del secolo XIV in un codice della Legenda aurea (Reg. lat. 534), in Cultura Neolatina. Rivista di filologia romanza 71 (2011), pp. 87-122. Je remercie vivement P. Cherubini de m’avoir transmis son texte à paraître. 17 ID., Un manoscritto occitanico della Legenda Aurea cit., pp. 135-142. Sur l’ornementation des manuscrits toulousains de cette période, v. M. A. BILOTTA, Images dans les marges des manuscrits toulousains de la première moitié du XIVe siècle. Un monde imaginé entre invention et réalité, in Mélanges de l’École Française de Rome Moyen-Âge 121/122 (2009), pp. 349-359 et EAD., Nouvelles considérations sur un manuscrit toulousain du Décret de Gratien reconstitué, in Le livre dans la région toulousaine, S. CASSAGNES-BROUQUET – M. FOURNIÉ (dir.), Toulouse 2010 (Méridiennes), p. 77. 18 Le codex se compose ainsi aux ff. 1r-2v de la Passion des dix mille martyrs du mont Ararat de la main de Louis de la Vernade, aux ff. 3r-242r de la Légende Dorée de Jacques de Voragine, aux ff. 242v-246r, de la vie de Louis IX roi de France, aux ff. 246v-249r de l’épitomé de la vie de saint Éloi, aux ff. 249r-252r de la vie de sainte Geneviève, aux ff. 252v-253r du Sermon sur la conception de la Vierge Marie par Anselme et aux ff. 253v-254r de la notice sur saint Athanase évêque d’Alexandrie de l’écriture gothique issu de la main du premier et principal copiste du manuscrit.
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dévotionnel à sa propre vie laisserait supposer que le manuscrit fut dans ce contexte toulousain copié avant 1307, date du début du procès canonisation de saint Louis d’Anjou19. On ignore cependant comment le manuscrit est passé de ses attaches toulousaines aux mains d’Odart Clepier, clerc originaire du Forez dont on sait qu’il fut conseiller du duc Jean I de Bourbon (en 1412), chanoine du diocèse de Lyon (au mois de septembre de la même année), prévôt de Thiers en Auvergne en 1427 et président de la chambre des comptes de Moulins dans le Bourbonnais dans les années 1426-1431. C’est en tous les cas par son intermédiaire, que le manuscrit devient la propriété de Louis de la Vernade, son principal annotateur. Né en 1408, Louis de la Vernade est docteur en droit, et devient juge ordinaire du Forez dans les années 1440. Dès ce moment, il va accumuler un certain nombre de charges dans sa région natale : chambellan du duc Jean II (en 1448 et 1457), lieutenant général du duc en Forez et Beaujolais, Président du comté du Forez (en 1457), chancelier du Bourbonnais à plusieurs reprises entre 1460 et 1473, président du Grand Conseil du duc et lieutenant général des finances du Forez en 1473. Il cumule ensuite des responsabilités dans le sud de la France après sa nomination par le roi comme premier président du parlement du Languedoc à Toulouse en 1467 puis entre 1469 et 1470. En mars 1486 ou 1487 il figure ainsi parmi les onze commissaires qui mettent en place les États de Montpellier20. Ce parcours politique solide et riche témoigne d’une vie faite de voyages incessants entre la Bourgogne, le Forez et les contrées occitanes de la France et jusqu’à Rome. Sur le dernier folio du codex (f. 254v), Louis écrit en effet un long texte riche d’informations aujourd’hui pourtant illisibles sans l’appoint d’une lampe ultraviolet : outre ses fils, Jean et Amédée, notre gentilhomme a perdu prématurément une fille du nom de Jacqueline (morte à Rome). Il a eu un quatrième fils du nom de Louis, qui fut notamment diacre en 1480 à l’église de Notre-Dame de Montbrison21. 19 Alors que son procès de canonisation débute en 1307 sous Clément V, Louis d’Anjou est canonisé en 1317 sous le pontificat de Jean XXII ; v. J. PAUL, Saint Louis d’Anjou, Franciscain et évêque de Toulouse (1274-1297), in Les évêques, les clercs et le roi (1250-1300), Toulouse 1972 (Cahiers de Fanjeaux, 7), pp. 59-90 ; A. Vauchez rappelle que sa canonisation répond à plusieurs enjeux : la promotion d’une sainteté aristocratique et dynastique susceptible d’asseoir la légitimité politique de la famille d’Anjou de Naples ; la promotion par les ordres mendiants d’une sainteté de leurs héros ; et enfin une valorisation de l’activité intellectuelle des saints, comme l’illustre également la canonisation de Thomas d’Aquin à cette époque. V. A. VAUCHEZ, La sainteté aux derniers siècles du Moyen Âge d’après les procès de canonisation et les documents hagiographiques, École Française de Rome 1988 (BEFAR, 241), pp. 397-400. 20 CHERUBINI, Un manoscritto occitano cit., pp. 158-159. 21 Ibid., p. 160. Selon la note de possesseur du ms. Paris, Arsenal, 553, on apprend qu’un de ses autres fils se prénomme Charles.
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Au regard de ses charges, on peut présumer que le patrimoine livresque de Louis de la Vernade fut assez conséquent pour permettre de dessiner son horizon culturel. La reconstitution de sa bibliothèque demeure encore parcellaire. Mais elle permet d’une part de dissiper, grâce aux marques de possession, quelques incertitudes sur la circulation du manuscrit et d’autre part d’apprécier la place qu’occupait la Légende dorée dans les lectures de Louis, entre le manuscrit et l’imprimé, le vernaculaire et le latin, le profane et le sacré 22. Il possédait, probablement, un Roman d’Athis et Prophilias d’Alexandre de Paris sous la forme d’un manuscrit de 277 feuillets (ms. Stockholm, Kungliga biblioteket, Vu 16)23. En tous les cas, la signature d’un « Loys de la Vernade », datée de 1495, semble être celle de son fils, qui meurt le 3 janvier 1499, mais qui a pu hériter de ce manuscrit de son père. Copié par Jehan Clart de Fontenoy en 1299, le manuscrit passa, après celles de Louis, dans les mains de Claude Fauchet, humaniste connu pour avoir fréquenté le cercle de Ronsard et été l’historiographe de Henri IV, puis dans celles de la famille Petau, avant d’arriver en Suède, où la reine Christine l’abandonna après son abdication et son exil24. Il est donc pro-
22 La bibliothèque d’Alexandre Petau se disperse en plusieurs temps (notamment en 1650, 1698, 1707 et 1720) et ainsi dans diverses villes et capitales d’Europe. L’acquisition par la Reine Christine du Reg. lat. 534 qui appartenait alors aux Petau se fait en 1645 sans doute par l’intermédiaire de Claude Sarrau en France et d’Isaac Vossius en Suède, érudit chargé de l’administration de la bibliothèque de la reine, v. K. A. DE MEYIER, Paul en Alexandre Petau en de geschiednis van hun handschriften (voornamelijk op grond van de Petau-handschriften in de Universiteitsbibliotheek te Leiden), Leiden 1947 ; E. NILSSON – P. VIAN, I manoscritti latini delle regina Cristina alla Biblioteca Vaticana : storia, stato e ricerche sul fondo, in Cristina di Svezia e Roma. Atti del Simposio tenuto all’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma, 5-6 ottobre 1995, B. MAGNUSSON (dir.), Stockholm 1999 (Suecoromana. Studia artis historiae Instituti Romani Regni Sueciae, 5), pp. 143-162 ; S. LECOUTEUX, Sur la dispersion de la bibliothèque bénédictine de Fécamp Partie 1 : identification des principales vagues de démembrement des fonds, in Tabularia « Études » 7 (2007), pp. 1-50 ; Bibliothèques de manuscrits médiévaux en France : relevé des inventaires du VIIIe au XVIIIe siècle, A.-M. GENEVOIS – J.-F. GENEST – A. CHALANDON (dir.), Paris 1987, n° 1464-1475 ; M. PEYRAFORT-HUIN, La bibliothèque médiévale de l’abbaye de Pontigny (XIIe-XIXe siècles) : histoire, inventaires anciens, manuscrits, Paris 2001 (Documents, études et répertoires), pp. 176-177; É. PELLEGRIN, Possesseurs français et italiens de manuscrits latins du Fonds de la Reine à la Bibliothèque Vaticane, Revue d’histoire des textes 3 (1973), pp. 271-297 ne fait pas mention de Louis de la Vernade. 23 Li Romans d’Athis et Procelias. Edition du manuscrit 940 de la Bibliothèque municipale de Tours, publié par M.-M. CASTELLANI, Paris 2006 (Classiques français du Moyen-Âge, 150), ainsi que Illuminated Manuscripts and Other Remarkable Documents from the Collection of the Royal Library, Stockholm. Catalogue of an Exhibition, June-September 1963, Stockholm 1963 (Kungl. Bibliotekets utställningskatalog, 35), p. 28. 24 M. A. GEFFROY, Notices et extraits des manuscrits concernant l’histoire ou la littérature de la France qui sont conservés dans les bibliothèques ou archives de Suède, Danemark et Norvège, Paris 1855, p. 81. Sur Claude Fauchet, v. J. GIRVAN ESPINER-SCOTT, Claude Fauchet. Sa
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bable que cette Légende dorée du fonds de la Reine ait accompagné ce roman jusque dans la bibliothèque de Fauchet avant d’intégrer les Petaviana. Louis cultive un goût pour l’histoire politique avec le manuscrit latin 6219 de la Bibliothèque nationale de France. Daté de 1453, il se compose de différents textes sur la ville d’Amboise en Touraine : un Liber de compositione castri Ambasiae, une Chronica de gestis Consulum Andegavensium et les Gesta Ambasensium dominorum25. Par ailleurs, la Bibliothèque de l’Arsenal à Paris recueille certains manuscrits qui furent la propriété de notre gentilhomme du Forez, avant de passer par la bibliothèque du collège de Navarre. Le manuscrit Paris, Arsenal, ms. 553 est un recueil de 98 feuillets de papier, que Louis de la Vernade a commandé à Thomas Poyet, le précepteur de ses enfants, en 1451, et qui contient le Libellus Samuelis Iudei super adventu Christi (ff. 1-20) traduit de l’arabe en latin par le dominicain Alphonse Bonhomme, ainsi que le Liber Petri Alphonsi Yspani contra Iudeos et Sarracenos (ff. 20-98)26. Le manuscrit Paris, Arsenal, ms. 722 contient pour sa part le Sophilogium de Jacques le Grand, frère de l’ordre des Augustins. L’ex-libris au f. 134 indique que Louis de la Vernade l’a acheté à Toulouse en 147127. Comme en témoignent les nombreuses annotations marginales, il a puisé dans ce florilège de citations une multiplicité de savoirs qui relèvent de la politique, de la poétique, de vie, son œuvre, Paris 1938 ; U. T. HOLMES – M. L. RADOFF, Claude Fauchet and His Library, in PMLA 44/1 (1929), pp. 229-242. 25 S. MADDALO, Unus Deus, una fides, unum baptisma. Il rogo dei libri : ragioni e momenti di un tema iconografico, in Medioevo : immagini et ideologie. Atti del Convegno internazionale di studi, Parma, 23-27 settembre 2002, Milan 2005 (I convegni di Parma, 9, 5), pp. 209-210, nt. 39. 26 Louis de la Vernade laisse cette trace au f. 98v : « Liber iste pertinet michi Ludovico de la Vernade, militi, quem scribi feci per manum magistri Thome Poyeti, prioris Iursacii [Joursey, Loire] ac instructoris Karoli et Ludovici de la Vernade, filiorum meorum, die et anno suprascriptis ». V. H. MARTIN, Catalogue des manuscrits de la Bibliothèque de l’Arsenal, I, Paris 1885, p. 418 ; C. SAMARAN – R. MARICHAL, Catalogue des manuscrits en écriture latine, portant des indications de date, de lieu ou de copiste, I, Paris 1959, p. 97. Sur Alphonse Bonhomme, v. TH. KAEPPELI, O. P., Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, Romae 1970, 1, pp. 48-55 ; G. MEERSSEMAN, La chronologie des voyages et des œuvres de frère Alphonse Buenhombre, O. P., in Archivum Fratrum Praedicatorum X (1940), pp. 77-108 ; et R. RICARD, Sur Fr. Alfonso Bonhome. Notes bibliographiques, in Bulletin hispanique 60-4 (1958), pp. 500-504. 27 On lit au f. 134r : « Hunc librum emi Tholose a quodam librario, certo precio convento et realiter soluto, ego Ludovicus de La Vernade, miles, primus presidens parlamenti lingue occitane, et cancellarius domini mei ducis Borbonnii et Alvergnie, in mense augusti, anno Domini M° CCCC LXXI – Ludovicus de La Vernade ». Le manuscrit a appartenu préalablement à Pierre de Foix, cardinal-évêque de Lescar et archevêque d’Arles, mort en 1464 et dont on retrouve les armes dès le f. 1. V. H. MARTIN, Catalogue des manuscrits de la Bibliothèque de l’Arsenal, II, Paris 1886, p. 63.
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la logique, de l’astrologie, de la géométrie, de la morale et où se croisent les sources patristiques et les auteurs antiques que sont Cicéron, Lactance, Sénèque… La Bibliothèque municipale de Caen conserve sous la côte ms. 33, un autre manuscrit qui fut la propriété de Louis : un exemplaire du Manipulus Florum, le recueil de citations patristiques compilé par Thomas d’Irlande28. En suivant par ailleurs la trajectoire des Petaviana, on trouve un manuscrit des Métamorphoses d’Ovide, conservé à Leyde à la côte Voss. Lat. Q. 25, qui porte, à l’instar du Reg. lat. 534 ou de l’Arsenal, 722, un certain nombre de notabilia français et latins d’un Louis29. Mais rien ne nous permet de conforter davantage cette hypothèse, sans une vérification directe du manuscrit qu’il nous reste encore à faire. Enfin Louis enrichit sa bibliothèque d’imprimés. Jean II, duc de Bourbon, comte de Clermont, lui offre un exemplaire italien de la Divine Comédie en avril 145430, tandis que Jean Fust lui fait présent en 1466 d’un incunable de grande qualité, imprimé à Mayence, du De Officium de Cicéron31. On peut toutefois présumer que la bibliothèque de Louis ne se limitait pas à ces manuscrits, et qu’elle venait probablement s’enrichir, conformément à sa formation, d’ouvrages de droit canon ou civil. Louis de la Vernade semble donc constituer sa bibliothèque à la faveur de ses réseaux de sociabilité politique, religieuse et culturelle par dons, 28 On lit au f. 111 : « Ce livre nommé liber florum, me dona à Lion mon houste messire Pre Sorel, sacristain de St-Étienne de Lion, au mois de juillet mil CCCC lxj. Loys de La Vernade. Et, longtemps depuys, recueilly en vente par maistre Jehan du Chastel, théologien l’Université de Paris. ». Sur cette oeuvre, R. H. ROUSE – M. A. ROUSE, Preachers, Florilegia and Sermons: Studies on the Manipulus florum of Thomas of Ireland, Toronto 1979 (Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Studies and texts, 47). 29 K. A. DE MEYIER, Codices Vossiani Latini, II : Codices in Quarto, Leiden 1975, pp. 68-70. 30 L. DELISLE, Cabinet des Manuscrits de la Bibliothèque Impériale, I, Paris 1868, p. 168. 31 Sous la souscription de l’imprimeur, Louis écrit : « Hic liber pertinet michi Ludovico de la Vernade, Militi, Cancellario Domini mei Ducis Borbonii et Alvernie, ac Presidenti Parlamenti lingue Occitanie, quem dedit michi Io. Fust supradictus, Parisiis, in mense Iulii, Anno Domini M. CCCC. LXVI, me tunc existente Parisiis pro generali reformatione totius Francorum regni ». L’exemplaire, passé dans la bibliothèque d’Alexandre Petau, est conservé à Genève, Bibliothèque Publique et Universitaire, ms. 154. V. Œuvres historiques et littéraires de Léonard Baulacre, recueillies et mises en ordre par Edouard Mallet, I, Genève – Paris 1857, pp. 328-329 ; P. LAMBINET, Origine de l’imprimerie d’après les titres authentiques: l’opinion de M. Daunou et celle de M. Van Praet ; suivie des établissements de cet art dans la Belgique et de l’histoire de la stéréotypie ; ornée de calques, de portraits et d’écussons, I, 1810, p. 215 ; A. LOKKÖS, Les incunables de la Bibliothèque de Genève. Catalogue descriptif, Genève 1982, p. 97. La bibliothèque de Claude Fauchet contient bien évidemment un volume de Cicéron, sans davantage de précisions, v. HOLMES – RADOFF, Claude Fauchet and His Library cit., p. 241. On ne trouve par ailleurs aucune trace de Louis de la Vernade dans les Petavania conservés à Genève dans le fonds Ami Lullin, selon H. AUBERT, Notices sur les manuscrits Petau conservés à la Bibliothèque de Genève (fonds Ami Lullin), in Bibliothèque de l’école des chartes 70 (1909), pp. 247-302 et 72 (1911). pp. 279-313.
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achats et commandes personnelles. Bibliophile sans être collectionneur, il montre un désir prégnant d’appropriation de ses livres, où se mêlent aussi assimilation de savoirs et pratique dévotionnelle32. Polyglotte, Louis s’attache à l’auctoritas de la langue latine comme au prestige culturel et politique de la langue du Royaume de France, il pratique la littérature antique, française et italienne et cultive une attention au livre d’histoire qu’il parcourt comme un « livre de morale du noble »33. Cette bibliothèque, assez conforme à celle des gens de robe et des préhumanistes que nous connaissons par ailleurs, accorde cependant une place non négligeable aux compilations : avec le Sophilogium et le Manipulus florum, les annotations dont il laisse trace dans le manuscrit Reg. lat. 534 confirment un intérêt soutenu pour ce genre dans lequel les ordres mendiants ont excellé dès le XIIIe siècle. Cette vogue de la compilation au XVe siècle avant l’émergence de l’imprimé permettait d’assurer un accès rapide et facile à une pluralité de textes. En effet, ces livres-bibliothèques présentent l’intérêt notable de satisfaire la demande croissante d’écrits et de savoirs de la part de laïcs devenus des consommateurs de plus en plus éduqués. Certaines annotations insistantes de Louis sur le ms. Reg. lat. 534 tendent en effet à édifier en son sein un panthéon bibliographique d’autorités, de la même manière que le Sophilogium est l’occasion pour lui d’édifier une galerie des grandes figures philosophiques de l’Antiquité (Socrate, Platon, Aristote, Théophraste, Protagoras ou Anaxagore, dès qu’ils sont mentionnés, retiennent son attention34). Bibliothèque en elle-même fascinante et presque inépuisable, la Légende dorée assied son autorité en se rivant aux figures médiévales de la théologie qu’elle mobilise. Si le chapitre de saint Augustin, qui confine parfois à la notice bibliographique35, est sans nul doute l’un des plus annotés du manuscrit (avec 18 interventions), Louis 32 Louis de la Vernade et sa femme Catherine du Crozet cultivaient une dévotion particulière envers saint Louis et sainte Catherine. Ils avaient fondé une chapelle du Saint Sépulcre (achevée en 1466, amenée à disparaître avec la Révolution, et où l’on pouvait apercevoir leurs portraits sur un vitrail) à l’église collégiale Notre-Dame de Montbrison dont leur fils Louis fut l’un des diacres en 1480. V. M. RELAVE, L’église paroissiale de Saint-André de Montbrison et le prieuré de Savignieu en 1423 — Indulgences concédées en vue de l’achèvement de l’église NotreDame de Montbrison en 1423 et 1442, in Bulletin de la Diana 15 (1906), pp. 51-52, nt. 2 ; CHERUBINI, Un manoscritto occitano cit., p. 160. 33 G. HASENOHR, L’essor des bibliothèques privées aux XIVe et XVe siècles, in Histoire des bibliothèques françaises. Les bibliothèques médiévales du VIe siècle à 1530, A. VERNET (dir.), 2ème édition, Paris 2008, p. 331. 34 Paris, Arsenal, ms. 772, ff. 11-12. 35 Ainsi dans le manuscrit Firenze, Biblioteca Medicea Laurentiana, Plut. 12, 12, le copiste adjoint à la Cité de Dieu qu’il contient le chapitre de la Légende dorée consacré à Saint Augustin (ff. 219-223) ; v. R. E. GUGLIELMETTI, I testi agiografici latini nei codici della Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze 2007 (Quaderni di Hagiographica, 5), 110, pp. 485-486.
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s’intéresse également à la figure de saint Jérôme, au chapitre duquel il précise en marge : in omni scientia nemo audet se comparare Ieronimum36. Ou à saint Jean Chrysostome, dont Louis sélectionne et isole fréquemment les citations37. Les grandes figures plus contemporaines de la théologie ne sont pas en reste : la Chronique lombarde, dans le chapitre de saint Pélage, balise son parcours de noms d’autorité comme Bède le Vénérable, Hugues de Saint-Victor ou Pierre Lombard, et Louis s’y arrête à chaque fois38. Ces héros de science qui font son admiration se disposent, sous l’effet de sa lecture, dans une galerie bibliographique qui confère pour Louis de la Vernade toute sa valeur à ce manuscrit et plus généralement au livre. Ainsi, cette lecture qui nous est donnée à voir relève certes d’un usage savant et encyclopédique du livre. Mais elle construit aussi un sens des livres et de l’auctoritas de l’écrit irréductible à l’exploitation d’un réservoir de ressources discursives piochés ça et là. Suivons pas à pas ce lecteur dans l’appropriation d’un de ses livres. L’activité graphique d’un lecteur Le travail que nous avons mené de relevé, de transcription et d’indexation des notes aux passages de la Légende dorée, permet de brosser un tableau des multiples attitudes de Louis de la Vernade à l’égard du texte de Jacques de Voragine. Les marges du Reg. lat. 534 ont en effet été relativement investies, et les annotations de notre lecteur, Louis de la Vernade s’intercalent parmi celles qui leur préexistaient : les réclames, les additions du copiste, les notes de précédents lecteurs, les notes d’atelier. Les marginalia dont Louis est l’auteur prouvent une lecture de la Légende dorée 36 Città del Vaticano, Bibliotheca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 534, f. 188r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXLII, De sancto Ieronimo (§ 108). 37 Dans le chapitre de l’Avent, Louis isole les citations de Jean Chrysostome convoquées par J. de Voragine : ms. cit., f. 6r col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. I, De Adventu Domini (§ 120-126) et f. 6r col. B, éd. cit., cap. I, De Adventu Domini (§ 145-149) ; f. 14v col. B, éd. cit., chap. V, De sancto Thoma Apostolo (§ 177) ; f. 206v col. A, éd. cit. cap. CLVIII, De festivitate omnium sanctorum (§119-120) ; f. 206v col. B, éd. cit. cap. cit. (§133-149). Le chapitre consacré à Jean Chrysostome est l’occasion de quatre interventions par son lecteur : ms. cit., f. 176r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXXXII, De sancto Iohanne Chrysostomo (§ 109) : « de damnaptione libris origenis » ; f. 176vb, éd. cit., cap. cit. (§142) : « Simile factum extitit de eugenio papa per concilium basiliensem » ; f. 176vb, éd. cit., cap. cit. (§149) : « Terremotus maximus ». 38 Ainsi dans le chap. CLXXVII, De sancto Pelagio papa, au f. 236r col. A (§ 171) : venerabilis beda ; f. 238r col. A, éd. cit. cap. cit. (§ 337) : « anselmus » ; f. 238v col. A, éd. cit. cap. cit. (§ 366) : « hugo de sancto victore » ; f. 238vb, éd. cit. cap. cit. (§ 380) : « magister petrus lombardus episcopus parisiensis librum sententiarum glossas psalterii et epistularum beati pauli glozavit ». Louis remplace le « compilavit » de J. de Voragine par « glozavit ».
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attentive et assidue. Sans mentionner son effort pour indexer dans le plan chaque chapitre à son folio respectif39, on peut dénombrer au total 344 interventions graphiques sur un ensemble de 98 chapitres40. Au ras du folio une expérience de la lecture à la fois extensive et intensive tente de s’organiser en personnalisant le texte et en le balisant de notifications visuelles et mnémotechniques qui fixent des points d’arrêt de la lecture. Mais si cette lecture nous est aujourd’hui partiellement visible, c’est parce qu’elle repose sur un usage spécifique de l’écrit dans la préparation et le déroulement de la lecture. À l’échelle macroscopique du recueil, notre lecteur a enrichi de sa propre main le volume de la vie des Dix mille Martyrs du mont Ararat d’Athanase le Bibliothécaire (ff. 1r-2v), récit de soldats romains qui ont préféré la crucifixion à l’apostasie41. L’ajout de cette vita est, comme nous le verrons plus bas, une probable réponse aux besoins suscités par un culte local et vient compenser un défaut de la Légende dorée. Il est possible que Louis de la Vernade se soit à cet effet fourni dans le Catalogus sanctorum de Petrus de Natalibus, O.P. (Pierre de Nadal) qui contient cette légende42. Ce recueil hagiographique, compilé entre 1369 et 1372, s’inscrit dans une refonte humaniste des legendae novae mendiantes : il s’inspire ainsi de la Légende dorée et du légendier de Pierre Calo, qu’il complète tous les deux. Il connut quelques décennies plus tard aux côtés du recueil de Jacques de Voragine un certain succès éditorial chez les libraires lyonnais, nous laissant croire que Louis de la Vernade y a eu un accès relativement facile dans le Forez de son temps43. Ce souci de se doter d’un livre bien établi et adapté à ses besoins se manifeste au demeurant par les traces d’une collation avec une autre version 39
Ms. cit. f. 3rv. Au total 90 chapitres ne sont pas annotés par Louis de la Vernade. On peut s’étonner que des vies comme celle des saints apôtres (Philippe, Jacques, Pierre aux Liens, Conversion de Paul) ou des chapitres du temporal comme l’Annonciation ou les Litanies majeures et mineures ne fassent l’objet d’aucune intervention. Pour autant rien n’indique qu’ils n’ont pas été lus. 41 Acta Sanctorum, V, Juin, p. 151. 42 On peut le lire dans le manuscrit Città del Vaticano, Bibliotheca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 225. V. A. PONCELET, Le légendier de Pierre Calo, in Analecta Bollandiana 29 (1910), pp. 5-116 et J. DUBOIS – J.-L. LEMAÎTRE, Sources et méthodes de l’hagiographie médiévale, préface de J. VAN DER STRAETEN, Paris 1993. 43 À Lyon, entre 1500 et 1550, on ne compte pas moins de 11 éditions du légendier de Petrus de Natalibus, chez les libraires suivants : É. Gueynard et J. Thomas (1510, 1514) ; J. Sacon (1514, 1519, 1520) ; C. Davost (1508) ; J. Moylin (1519) ; J. Giunta (1543); G. et J. II Huguetan (1542) ; N. Petit et H. Penet (1534) ; J. et F. Frellon (1543) ; v. S. VON GÜLTLINGEN, Bibliographie des livres imprimés à Lyon au XVIe siècle, t. 1-11, Baden-Baden – Bouxwiller 1992-2007. 40
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de la Légende, pour combler les insuffisances les plus infimes de la copie44. De ce point de vue il n’y a aucune solution de continuité entre les interventions écrites de Louis de la Vernade et le travail du copiste, dont parfois elles pallient les déficiences45. Sa lecture prend ainsi la forme d’un parcours extensif du recueil. Une annotation finale témoigne d’une attention à l’ensemble du recueil, y compris aux légendes non annotées. Louis de la Vernade procède en effet au relevé et à l’énumération de tous les saints nobles qui se trouvent dans le légendier de Voragine, associés à la foliotation respective de leur chapitre46. Cette note à vocation synoptique exhibe certes les goûts de notre lecteur pour une noblesse sainte47, mais constitue aussi un acte singulier d’écriture qui organise au sein d’un manuscrit épais ses futurs parcours par des regroupements thématiques. Cette sensibilité à la cohérence du recueil, renforcée par l’absence totale d’annotations sur les légendes greffées au corpus initial de la Légende (entre les ff. 242v et 44 Louis de la Vernade rajoute des termes oubliés par le copiste en marge. Ainsi au f. 162r col. A, au chapitre CXX, De sancto Augustino (§ 308), le terme « gaudio » ; au f. 218v col. A, au chapitre CLXIV, De sancta Elizabeth (§ 317), le terme « deus » ; au f. 225v col. A, au chapitre CLXVIII, De sancta Katherina (§ 129), le mot « vox ». Au f. 110r col. B, il ajoute même, à l’endroit d’un passage gratté qui a laissé un trou dans la ligne, « nichil defficit » au § 140 du chapitre LXXXV, De sancto Paulo apostolo. Au f. 196v col. A, dans l’entrecolonne, Louis précise au chapitre CLI, De sancto Leonardo (§12), le terme « abbate » pour corriger le mot « episcopo » de la rubrique du chapitre. 45 Louis vient parfois même suppléer le copiste dans le balisage des folios par des trèfles et des festons de sa propre main. Cela est particulièrement remarquable dans le chapitre CLIX De commemoratione omnium fidelium defunctorum, entre les ff. 207v-211v col. A. 46 Ms. cit. f. 254v col. B. Il s’agit d’une annotation qui vient de compléter la colonne B sans en respecter la réglure. Les saints indexés à la foliotation ne sont pas classés dans leur ordre d’apparition dans le légendier : « sancti et sancte qui fuerunt nobiles in hoc seculo | Item beata lucia folio ix Item beata Anastasia f. xiiii | Item beata agnes f. xxxii Item beatus sebastius miles f. xxxi | Item beatus vincentius f. xxxiii Item paula f. xxxvii | Item amandus f. xlix Item gregorius papa f. lii | Item longinus miles f. lvii Item secundus miles f. lxix | Item ambrosius f. lxx Item georgius tribunus f. lxxiii | Item vitalius miles f. lxxvi Item gordianus f. lxxxxiii | Item nereus et achileus f. eodem Item pancracius f. eodem | Item pancrassius f. lxxxxiiii Item vitus puer lxxxxvii | Item cyricius filius iulite f. lxxxxviii Item Iohannes et Paulus f. ci | Item theodora f. cxi Item margarita f. cxiii | Item alexius f. cxiii Item magdalena f. cxv | Item martha f. cxxvi Item germanus f. cxxvii | Item donatus f. cxxxviii Item bernardus f. cl | Item savinianus et saviniania f. c lxiii Item lupus f. clxv | Item egidius f. clxvi Item gorgonius et dorothea f. clxx | Item prothus et iacinthus f. clxxi Item iohannes crysostomus f. clxxiii | Item eufemia f. clxxvi Item lambertus f. clxxvi | Item mauricius (et) socium f. (c) lxxviii Item Ieronimus f. clxxxviii | Item margarita f.° clxxxxii Item crisantus f. c. lxxxxvii | Item ursula c f. Item lxxxic Item quintus f. cci | Item heustacius f. eodem Item martinus miles f.° ccix | Item helizabet f. ccxii Item cesilia f. ccxvii | Item clemens f. ccxix Item catherina f. ccxxii | Item iacobus intercisus f. ccxxv Item ludovicus rex francorum f. ccxli | Item sancta maria mater christi f. lxxxxiiii Item leonardus f. c | Item anathasius Item eligius | Item beata genovea Item mathias apostolus f. li. » 47 Sur les rapports entre noblesse et sainteté, v. VAUCHEZ, op. cit., pp. 204-215
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254r), se confirme enfin par les quelques renvois intertextuels que Louis établit entre des personnages récurrents et communs à plusieurs chapitres, comme Julien l’Apostat ou Joseph d’Arimathie48. Ces annotations, loin d’atomiser le recueil en épisodes épars, participent d’une lecture globale de la compilation pour en repérer les régularités et en accroître la lisibilité en vue de lectures à venir. Une compilation comme la Légende se confronte en effet à des paradoxes que seuls les ajustements et les réglages locaux d’un lecteur peuvent lever : parce qu’elle répond d’une ambition de totalisation, on peut lui reprocher à la fois les lacunes d’une abréviation tout comme la masse excessive d’informations à assimiler49. Simultanément incomplète et surabondante, à la fois suspecte de prolixité et de brièveté50, la Légende suscite les interventions de lecteurs qui doivent y accommoder leur œil. 48 Par exemple à propos du personnage de Julien l’Apostat, au f. 44v col. A, au chapitre XXX, De sancto Iuliano (§ 117), une accolade en forme de visage et une note en marge de gouttière indiquent : « nota ystoria Iuliani apostate et vide in decollatione Iohannis folio c.lxii », alors qu’au f. 164v col. A, une note, dans le chapitre CCXI, De decollatione sancti Iohannis Baptisti (§ 88) souligne : « de Istoria apostato iuliano vide in vita beati iuliani folio xli ». Pour le personnage de Joseph d’Arimathie, on lit au f. 71r col. A grâce à un appel de note et une note en marge inférieure au chapitre LII, De ressurectione Domini (§ 144) : « in folio lxxxiiii in vita beati Iacobi vide ystoria beati Ioseph ab aramathia » ; au f. 30r col. B, une note en marge du chapitre XVI, De sancto Remigio (§ 1) précise : « de hoc sancto remigio vide alia istoria in folio clxxxvii » ; réciproquement, au f. 188v col. A, au chapitre consacré à sa translation CXLIII, De sancto Remigio (§ 5), Louis écrit : « de hoc sancto remigio alia legenda supra f.° xxvii ». Au f. 157r col. B, dans le chapitre CXIX, De sancto Bartholomeo (§ 111), Louis inscrit : « Simile fere legitur de beato andrea », se glissant ainsi dans les indications intertextuelles que fait Jacques de Voragine lui-même. Enfin, au f. 221v col. A, au chapitre CLXVI, De sancto Clemente (§ 51), « quas vitis ystoria est de beato heustachio supra f.°cc.i. ». Les folios auxquels notre lecteur renvoie relèvent de la première foliotation en chiffres romains centrée sur la marge supérieure. 49 Bernard Gui, avec son Speculum Sanctorale, dont Béranger de Landorre se fait le commanditaire, fut l’un de ceux qui reprochèrent le plus rapidement des insuffisances à la Légende dorée. V. CHERUBINI, Un manoscritto occitano cit., p. 145 ; A. DUBREIL-ARCIN, La critique dans l’écriture hagiographique dominicaine (1250-1350 environ), in La méthode critique au Moyen Age, M. CHAZAN – G. DAHAN (dir.), Turnhout 2006 (Bibliothèque d’histoire culturelle du Moyen Âge, 3), pp. 269-288 ; EAD., Bernard Gui, un hagiographe dominicain atypique ?, in Hagiographie et culte des saints en France méridionale (XIIIè-XVè siècle), Toulouse 2002 (Cahiers de Fanjeaux, 37), pp. 145-173 ; EAD., Vies de saints, légendes de soi. L’écriture hagiographique dominicaine jusqu’au Speculum sanctorale de Bernard Gui (†1331), Turnhout 2011 (Hagiologia, 7) ; B. SÈVE, De haut en bas. Philosophie des listes, Paris 2010 (L’ordre philosophique), évoque l’un des paradoxes des listes, celui de « l’abondance pauvre » : on confectionne des listes à la fois pour aller à l’essentiel et pour se saisir d’une masse d’informations à trier et organiser. Une compilation, à l’instar d’une liste, doit concilier les exigences d’unité et de diversité pour dominer la masse d’informations qu’elle brasse. 50 Thomas de Pavie affirme dès les premières lignes de son prologue dans ses Gesta Imperatorum et Pontificum : « Scripturi gesta imperatorum sublimium nec non et pontificum Romanorum brevitatem ac prolixitatem devitare concupimus, eo quod brevitas nimis nubilum obscuritatis inducit et famem desideriumque sciendi non minuit, set incendit (…) et
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À une échelle plus microscopique, les annotations marginales sont des traces graphiques qui prélèvent des informations et instaurent des formes locales de contiguïté entre texte et hors-texte. À ce titre elles sont utiles pour reconstruire la lecture effective de Louis de la Vernade. Il nous revient de les discriminer. Qu’il s’agisse du feston, du trèfle ou de l’accolade, avec ou sans fioritures, le signe écrit quand il est non prononçable et non oralisable s’inscrit d’abord dans un dispositif visant à organiser l’attention dans la lecture. Il figure stratégiquement à côté du texte comme une extension qui a la triple fonction visuelle, cognitive et pratique de disposer des repères sur lui51. Quand le signe écrit s’articule sous la forme de mots, il peut rester étroitement corrélé au texte, sous la forme de duplications (copie d’un simple mot ou d’une simple phrase, réécriture très fidèle au texte source, paraphrase, recombinaison de mots ou résumé). Dépouillés d’un point de vue syntaxique, ces actes de nomination s’inscrivent également dans une stratégie d’appropriation de l’environnement de la lecture. Les annotations peuvent par ailleurs laisser entendre la voix de Louis de la Vernade et affleurer sa propre biographie. Le péritexte se transforme à cet égard en un métatexte et fait office de commentaire additionnel. À travers l’expression de ce sujet écrivant, l’écriture est l’occasion ici d’un surgissement du hors-texte dans le péritexte. Le rapport s’inverse : l’écriture de Louis ne se met plus au service de la lecture, et le texte vient se subordonner à la vie de Louis52. Il serait toutefois dommageable de méconnaître la dimension pragmatique des annotations : ce sont des actes à part entière — au sens où l’on parle d’actes de langage53. À énoncés similaires d’un point de vue paléographique, sémantique ou syntaxique, les inscriptions graphiques de Louis de la Vernade peuvent revêtir des fonctions différenciées, que nous proposons de détailler de la manière suivante. Certaines annotations de Louis de la Vernade délivrent un pur et simple contenu informatif. C’est le cas dans les marges de la vie de sainte Élizabeth, où Louis de la Vernade précise sous la forme d’un résumé minimal : ipsa prolixitas nimia, debito moderamine non frenata, fastidium legentibus sepe parit, quia et nimium famescente superfluus cibus sumptus nauseam generare probatur. » (Thomae Tusci Gesta Imperatorum et Pontificum, in Monumenta Germaniae Historica, SS22, p. 490, cit. par B. ROEST, Compilation as theme and praxis in franciscan universal chronicles, in Pre-modern encyclopaedic texts. Proceedings of the second Comers Congress, Groningen, 1-4 juillet 1996, P. BINKLEY (dir.), Leiden – New York – Köln 1997, p. 217). 51 M. CAMILLE, Seeing and Reading: some visual implications of medieval literacy and illiteracy, in Art History 8/1 (1985), pp. 26-49. 52 Cfr. infra « Reliques, pèlerinages et ordre du temps ». 53 B. FRAENKEL, Actes d’écriture : quand écrire c’est faire, in Langage & société 3-4/121-122 (2007), pp. 101-112.
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beata elizabeth vivebat anno domini m° cliii54. Au seuil de la vie de saint Jérôme, Louis reformule d’une rapide récapitulation qui fut le maître de Jérôme : Ieronimus Donatum habuit in grammatica doctorem55. Relevant d’une fonction que l’on pourrait caractériser d’heuristique, l’intervention écrite sert une stratégie de captation de fragments de savoirs56. Une fonction expressive peut aussi guider le geste de l’annotateur57. L’inscription, proche du signe de ponctuation exclamatif, laisse lire des expressions d’étonnement et d’admiration, qui pour convenues qu’elles soient n’en témoignent pas moins d’une focalisation singulière sur tel ou tel passage. À plus d’une reprise, Louis annote en marge d’un épisode de miracle une formule du type miraculi ou res miranda faisant office de notifications ou d’alertes58. L’acte d’écriture peut indiquer un jugement sur ce qui devrait être plutôt que sur ce qui est, et relève en ce sens de l’acte de langage exercitif59. Par son découpage et son isolement, l’annotateur canonise un passage factuel et le charge d’une force normative. Lorsque Simon le Magicien, figure gémellaire inversée de Pierre, déclare vouloir se faire adorer comme un Dieu omnipotent, Louis stigmatise en marge inférieure ces paroles d’orgueil, de 54
Ms. cit., f. 214r col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CLXIV, De sancta Elizabeth (§ 1-8). Ms. cit., f. 187r col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXLII, De sancto Ieronimo (§ 19). 56 Dans la vie de saint Georges, Jacques de Voragine précise que le nom de Georges est composé de « geos » (la terre) et « orge » (cultiver). Le discours épidictique sur le saint rebondit sur cette étymologie agricole, en s’appuyant alors sur une citation de saint Augustin, De Trinitate, Turnhout 1968 (Corpus Christianorum Series Latinae, 50-50A), 8, 3, selon laquelle « une terre est bonne en raison de l’altitude des montagnes, de la hauteur modérée des collines, du niveau bas des plaines ». Louis de la Vernade met l’accent sur ce passage par une accolade en forme de visage, sans tenir compte de l’éloge de saint Georges qui suit. Le signe graphique, qui favorise l’extraction du passage, le déconnecte de son contexte et le décharge de tout contenu axiologique. Ms. cit., f. 75v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. LVI, De sancto Georgio (§ 1-4). 57 L’acte de langage expressif a été dégagé par J. SEARLE, Speech Acts. An essay in the philosophy of language, Cambridge 1969. Incluant des actions comme les félicitations, les remerciements, les plaintes, les excuses, il se caractérise par une absence de direction d’ajustement entre le monde et le mot. 58 Ms. cit., f. 105v col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. LXXXIV, De sancto Petro apostolo (§ 22) : « miracula operi apostolorum principis » ; f. 162v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXX, De sancto Augustino (§379) : « o quale miraculum » ; f. 196v col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CLI, De sancto Leonardo (§ 4-5) : « de leone miranda » ; f. 206r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CLVIII, De festivitate omnium sanctorum (§ 90) : « miranda de apostolis et martyribus » ; f. 226v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CLXIX, De sancto Saturnino (§ 41) : « inauditum et mirabile martirium » ; f. 233v col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CLXXVII, De sancto Pelagio papa (§ 19) ; f. 237v col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. cit. (§ 277) : « o quale nobilium ». 59 J. L. AUSTIN, Quand dire c’est faire, introd., trad. et commentaire par G. LANE, postface de F. RÉCANATI, Paris 1991 (Points Essais, 235), p. 157. 55
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mégalomanie et de blasphème d’un nephanda symon magi60. L’acte graphique redécrit à la fois pudiquement et sévèrement les paroles de Simon le Magicien sous les traits d’un crime indicible. L’annotation a valeur ici de condamnation. En somme de la même manière qu’une pancarte peut servir à modifier un site (comme « pelouse interdite » ou « défense d’afficher »), l’annotation réaménage l’espace de la page et modifie l’équilibre du texte en étiquetant extraits, épisodes ou passages de caractérisations plus ou moins décalées61. En ce sens, les annotations autorisent des rapprochements intertextuels et portent des échos tout au long des colonnes du manuscrit. Il convient dès lors de suivre dans la transversalité du recueil les thématiques qui retiennent tout particulièrement l’attention de Louis de la Vernade. Lecture et réaménagement du légendier hagiographique Un regard plus surplombant sur le recueil favorise un traitement sériel des annotations qui soit capable de mettre en évidence les épisodes privilégiés de Louis de la Vernade. Loin d’être linéaire, sa lecture prend la forme d’un « braconnage » d’énoncés, de savoirs, de voix et de figures62. Mais derrière l’apparente dispersion de ses interventions, se dégagent quelques régularités. Usages de la prédication Tout laïc qu’il est, Louis n’oublie pas la vocation initiale de la Légende dorée, celle d’être une compilation de praedicabilia. La Légende prépare, programme et promeut en effet la prédication. Elle y participe en établissant une version abrégée et stabilisée des vitae du sanctoral dans laquelle puiser la matière des sermons de sanctis, et plus encore en construisant les chapitres du temporal (relatifs à la vie du Christ) comme de véritables arborescences dignes des meilleurs sermons. Mais la stimulation de la prédication par les dominicains passe également par une nette superposition entre la figure du saint et celle du prédicateur. Peut-on mieux encourager 60
Ms. cit., f. 105v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. LXXXIV, De sancto Petro Apostolo (§ 40) : nephanda symon magi. Sur la catégorie juridique du nefandum, v. J. CHIFFOLEAU, Dire l’indicible. Remarques sur la catégorie du nefandum du XIIe au XVe siècle, in Annales E.S.C. 45/2 (1990), pp. 289-324. 61 FRAENKEL, Actes d’écriture cit., pp. 106-107, propose de regrouper toute une famille d’actes d’écriture sous le verbe « étiqueter ». 62 M. DE CERTEAU, L’invention du quotidien. Arts de faire, I, Paris 1990 (Folio essais), chap. XII.
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à la prédication qu’en dépeignant le saint comme gratiosus praedicator ? Ainsi, Jacques de Voragine intègre ou sélectionne dans la logique narrative des légendes des fragments préconstitués de sermons que les saints auraient prononcés. Et en effet, s’il est amateur de distinctiones aisément exportables, Louis s’attarde sur l’ensemble des passages qui intègrent et rapportent la prédication des saints eux-mêmes. Dans les premières vies d’apôtres du légendier, celles d’André, de Thomas ou de Jean l’Évangéliste ou plus loin dans celle de Matthieu, la prédication des saints s’attèle à réfuter leurs contradicteurs par des divisions ciselées sur les mystères de la Rédemption et de l’Incarnation ou les vérités élémentaires de la foi. Louis met ainsi en exergue ces épisodes d’une accolade63, de manière à amplifier la voix du pasteur apostolique et à en accélérer l’assimilation. Louis, sans lire la Légende comme un prédicateur, s’intéresse plutôt à l’intégration scénaristique du prédicateur comme héros d’une histoire morale. La prédication le concerne quand elle est enserrée dans une dynamique dramatique et agonistique de la sainteté. Son attention ne se porte pas de manière utilitaire sur des fragments de sermons directement exportables. Elle isole plutôt des sermons mis en récit, où la parole fait office d’arme dans un conflit contre le païen éternel. Le personnel hagiographique entre providence et démonologie Plus généralement le personnage joue un rôle crucial dans l’identification et la reconnaissance générique d’un texte (il n’est pas de roman policier sans un enquêteur, pas d’hagiographie sans un saint…)64. En infléchissant la hiérarchie et la distribution des personnages, un lecteur peut affecter le statut générique d’un texte65. Or, tout recueil hagiographique qu’elle soit, la Légende se situe à la confluence deux traditions littéraires de l’exemplum : celle de la vie du grand Homme distingué par son nom propre (dans la lignée antique des Vies illustres) et celle du personnel stéréotypé et anonyme (le moine, le chevalier, le quidam, dont les recueils d’exempla 63 Ms. cit., f. 179r col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXXXVI, De sancto Matheo (§ 1821) : « de paradiso terrestri et eius gloria » (accolade sur le sermon de Matthieu). 64 PH. HAMON, Le personnel du roman. Le système des personnages dans les Rougon-Macquart d’Émile Zola, 2ème édition corrigée, Genève 1998 (Histoire des idées et critique littéraire, 211). 65 On distingue généricité auctoriale (le genre revendiqué par l’auteur) et généricité lectorale (le genre assigné par le lecteur) pour rendre justice à tous les cas de non-correspondance entre le genre d’un texte selon l’auteur et celui d’après le lecteur ; v. J.-M. SCHAEFFER, Qu’est-ce qu’un genre littéraire ?, Paris 1989 (Poétique). Pour une approche récente des genres en termes de reconnaissance, v. Le savoir des genres, M. MACÉ – R. BARONI (dir.), Rennes 2006 (La Licorne).
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font leur miel)66. Ainsi si la Légende fait reposer sa macrostructure sur les saints qu’elle inscrit dans un calendrier liturgique, elle accorde plus localement, à l’intérieur des chapitres, une place à un personnel, sans chapitre éponyme, plus proche du lecteur et sur lequel ce dernier peut s’appuyer pour s’identifier. La lecture de Louis participe à cet égard d’une redistribution personnalisée des rôles, en plaçant sur le devant de la scène certaines figures qui ne se trouvaient qu’au second plan. Louis relève par exemple certaines similarités morphologiques qui lient les ennemis du Christ. La Légende tend en effet à mettre en relief avec une certaine régularité les vitae funestes et tragiques de ces ennemis du Christ, qui sans se voir consacrer des chapitres spécifiques tiennent le haut du pavé dans ceux qui les accueillent. À l’intérieur du cycle hagiographique des vertus des saints, émerge un « grand cycle du châtiment des ennemis du Christ et de ses saints »67. Dans le plan du recueil situé au f. 3, à côté de la ligne qui indique le chapitre De sancto Iacobo apostolo (cap. LXIII), Louis note en marge de gouttière et ibi destructio Iherusalem (f. 3rb). En se reportant à ce même chapitre, au f. 86v, il précise dans la marge inférieure de destructione Iherusalem facta per Vespasianum faisant allusion à la punition dont les Juifs, peuple déicide, ont été victimes. Louis repère ainsi systématiquement ces personnages secondaires pour les placer au premier plan. Il semble donc être sensible à cette série anti-hagiographique qui, riche de récits spectaculaires, parcourt dans sa transversalité la Légende68. Ce traitement singulier de la part de Jacques de Voragine s’inscrit non seulement dans une hagiographie inversée mais aussi dans une théodicée narrative qui vient subordonner ce Mal particulièrement déviant au sort funeste qu’une inexorable Providence leur avait tragiquement réservé. Les homologies actantielles que tisse Jacques de Voragine reflètent les mécanismes de la métaphysique chrétienne qui est à l’œuvre dans la Légende.
66 P. VON MOOS, Geschichte als Topik. Das rhetorische Exemplum von der Antike zur Neuzeit und die Historiae im Policraticus Johanns von Salisbury, Hildesheim – Zurich – New York 1988 (Ordo, 2). 67 A. BOUREAU, Introduction, in J. DE VORAGINE, La Légende dorée, éd. Boureau, p. XLV. 68 Pour Julien l’Apostat, cfr. supra nt. 43 ; pour Simon le Magicien, cfr. supra nt. 55 ; pour Judas Iscarioth, ms. cit., f. 55r col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. XLV, De sancto Mathia (§ 15-32) : « De Juda Iscariot preditione » ; pour Ponce Pilate, ms. cit., f. 68r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. LI, De Passione Domini (§ 186-189) : « Pilatus », ainsi qu’au f. 68v col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. cit. (§ 205) : « Istoria apocrypha de Pilato » ; pour Néron, ms. cit., f. 107r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. cit. (§ 212) : « conscienscia Neronis perfidissimis », f. 107v col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. cit. (§ 227) : « nero senecam per sua occidi jubet » ; ms. cit. f. 109r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. LXXXV, De sancto Paulo apostolo (§ 6465): « persecutio neronis horrenda ».
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Les annotations ont à cet égard l’avantage d’en accentuer encore la prégnance dans le recueil. Louis de la Vernade concentre par ailleurs sa lecture sur des types précis de figures. La Légende dorée offre tout un arsenal narratif pour dresser le portrait du moine idéal, dont Louis prélève les traits de caractère au fil de sa lecture. Quand saint Pasteur propose une liste de critères permettant de discriminer le bon moine du mauvais, Louis note en marge sobrement super monachos69. Le chapitre de saint Antoine, réservoir figuratif s’il en est sur un tel sujet, fait l’objet de six interventions marginales sur deux folios. Louis capte et réécrit d’ailleurs une formule d’Antoine particulièrement imagée qui assimile le moine hors de sa cellule à un poisson hors de l’eau70. Enfin dans la marge inférieure du chapitre de Jean l’Aumônier, Louis souligne d’un optimus monachus l’épisode d’un moine dénommé Vitalius qui passait ses nuits dans les lupanars pour prier pour le salut des prostituées. Le moine ne craignait pas, ni ne démentait les rumeurs scandalisées qui l’accusaient de ne pas s’être contenté de prier, attendant seulement que son œuvre de conversion soit pleinement reconnue plus tard71. Que Louis appartienne à une société laïque et urbaine, ne l’interdit pas de se projeter dans un modèle monastique dont la Légende dorée, issue d’un milieu conventuel, dessine les contours et qui reste pour lui une référence quand il s’agit d’y saisir des éléments de vertus. En contrepoint de cette lecture typologique, les figures démoniaques, dont la Légende abonde, attirent très régulièrement l’attention de notre lecteur forézien. Il annote ainsi les épisodes où les démons ont voix au chapitre, comme dans la vie de saint Fursy qu’anges et démons se disputent lors d’un échange musclé72 ou dans celle de saint Dominique qui interroge et torture l’un d’entre eux73. De même Louis semble établir des échos entre 69
Ms. cit., f. 228r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CLXXI, De sancto Pastore abbate (§ 70-74). Le passage exhibé est le suivant : « Celui qui se plaint sans cesse n’est pas un moine. Celui qui garde de la méchanceté dans son cœur n’est pas un moine. Celui qui est coléreux n’est pas un moine. Celui qui rend le mal pour le mal n’est pas un moine. Celui qui est vaniteux et bavard n’est pas un moine. Le vrai moine est toujours humble, doux, plein de charité et garde toujours et partout la crainte de Dieu devant les yeux, afin de ne pas pécher. » (éd. Boureau, pp. 994-995). 70 Ms. cit., f. 33r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. XXI, De sancto Antonio (§ 69-71) : « monachus non debet esse extra cella sicut nec pisces in sico ». 71 Ms. cit., f. 39v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. XXVII, De sancto Iohanne elemosinario (§ 61-84). 72 Ms. cit., f. 183r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXL, De sancto Forseo (§ 1-17) : « dialogus angeli et demoni ». 73 Ms. cit., f. 137v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CIX, De sancto Dominico (§ 248274) : « de beato Dominico dyabolus interrogante ».
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des épisodes dispersés : ainsi l’exemplum du démon vaincu et piétiné par Marguerite, et qui avoue à cette dernière que les démons ont été enfermés par Salomon dans un vase dont ils s’échappèrent pour remplir l’air74 recoupe sous le regard de Louis le passage dans le chapitre de saint Michel selon lequel les démons volètent comme des mouches dans la partie intermédiaire de l’air qui sépare ciel et terre75. Louis donne tout son relief au grand récit de la Légende en durcissant le conflit qui le traverse entre le saint et les ennemis qui lui font provisoirement obstacle d’une part, et entre le moine et les démons qui le hantent d’autre part. Liés par une homologie, ces deux lignes de front disposent également les cadres anthropologiques de l’existence humaine. Aussi, quand Jacques de Voragine rappelle dans le chapitre de saint Michel que deux anges se disputent chaque être humain, l’un pour le tenter, l’autre pour le défendre, Louis de la Vernade ne peut manquer de le retenir76. De même souligne-t-il par des accolades et des fioritures que chaque homme verra, au moment du Jugement dernier, des témoins infaillibles (testis infallibilis) rendre justice aux actes, bons ou mauvais, qu’il a commis durant son existence. Parmi eux on trouvera Dieu (supra se), sa conscience (intra se) et l’ange qui a sa garde (juxta se)77. Par ses interventions graphiques en marges, Louis comprend et agence la matière narrative de la compilation hagiographique comme une manière d’organiser le monde et de s’y donner une place. L’arrière-plan de la croisade Il est par ailleurs possible de mettre de l’ordre dans l’éparpillement de ces annotations marginales, en repartant de la bibliothèque de Louis de la Vernade comme d’un témoignage assez sûr de ses intérêts et de l’horizon d’attente d’une noblesse de robe très cultivée. À ce titre, peut-elle nous faire lire autrement la Légende dorée de Louis de la Vernade ? Le manuscrit 553 de la Bibliothèque de l’Arsenal de Paris témoigne d’un intérêt certain pour le monde musulman. En effet l’une des œuvres qui y est contenue fut traduite par Alphonse Bonhomme, connu pour avoir été 74 Ms. cit. f. 116r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. LXXXIX, De sancta Margarita (§ 49) : « demones per salomones in vas tribulantur ». 75 Ms. cit., f. 185r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXLI, De sancto Michaele (§ 112). 76 Ms. cit., f. 185v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. cit. (§ 155) : « duo angeli cuilibet homini deputantur | unus bonus, alius vero malus ut hic ». Le texte de la Légende est le suivant : « Cuilibet enim homini dantur duo angeli, unus malus ad exercitium, alter bonus ad custodiendum ». 77 Ms. cit. f. 6v col. B, Legenda Aurea, éd. cit. cap. I, De Adventu domini (§ 188-196).
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un très proche conseiller du patriarche de Jérusalem Pierre de la Palu, puis le secrétaire de Pierre Roger, futur Clément VI et enfin évêque de Marrakech en 1344. Cet auteur dominicain, d’origine espagnole, connut autant les geôles du Caire et du Maroc que le privilège de missions à Famagouste sur l’île de Chypre. Il fut donc particulièrement sensibilisé à des terrains d’apostolat difficiles et dangereux, au contact immédiat et sans doute conflictuel de la religion musulmane. La traduction par Alphonse Bonhomme d’une épitre d’un rabbi, Samuel, qui reconnaît le christianisme comme vraie religion (Libellus Samuelis Iudei super adventu Christi) repose sur la figure du juif converti, tandis que le Liber contra Iudeos et Sarracenos, qui s’inscrit davantage dans un contexte polémique, pour ne pas dire agonistique, est l’œuvre de Pierre Alphonse, un juif andalou actif entre 1106 et 1126 et converti au christianisme. Cet ouvrage de Louis de la Vernade fait écho au Roman d’Athis et Prophilias, dont Richard et Mary Rouse ont montré qu’il était étroitement lié aux entreprises de croisade menées par l’aristocratie française entre la fin du XIIe siècle et le début du XIIIe siècle78. Si l’on peut n’y lire qu’un roman antique de l’amitié gémellaire entre la cité chevaleresque de Rome et la cité savante d’Athènes, on en comprend mieux le succès et la reproduction continus durant les XIVe et le XVe siècles, si l’on y voit les résonances de la quatrième croisade dont résultèrent la chute de Constantinople le 13 avril 1204 et, peu après, la création d’une seigneurerie d’Athènes aux mains des croisés français. Par ailleurs, le Roman que possède Louis de la Vernade en est la version Vulgate composée à l’exact moment où le bourguignon Othon de la Roche établit son fief à Athènes. Comme l’affirment Richard et Mary Rouse, ce roman satisfaisait une demande curiale assez variée : les croisés revenus en conquérants y voyaient un agréable divertissement ; ceux qui, à défaut d’y participer, ne pouvaient vivre la croisade que par procuration y trouvaient une compensation littéraire, quand on n’en faisait pas un jeu de rôle destiné à consoler de piteuses défaites79. S’il s’agit donc d’un roman qui a su se prêter à une multitude d’usages et traverser le temps, il est ainsi probable que Louis de la Vernade, qui cultivait des liens étroits avec la cour de Bourgogne, fit l’acquisition du Roman d’Athis et Prophilias dans un contexte où la chute de Constantinople en 1453 a nettement revivifié 78 R. H. ROUSE – M. A. ROUSE, The crusade as context: the manuscripts of Athis et Prophilias, in Courtly Arts and the Art of Courtliness. Selected papers from the Eleventh Triennial congress of the International courtly literature society, University of Wisconsin – Madison, 29 July – 4 August 2004, K. BUSBY – C. KLEINHENZ (dir.), Cambridge 2006, pp. 49-103. 79 « This roman filled a variety of courtly needs, from entertainment for crusaders after victory, to comfort for would-be armchair crusaders, to role-playling for incompetents after disastrous crusading defeats. » (ROUSE – ROUSE, The crusade as context cit., p. 73)
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l’idéologie et l’imaginaire de la croisade80, de sorte que, loin d’être mort, « l’esprit de la croisade […] pour de nombreux nobles de l’Europe latine, revêtait les habits de la fiction »81. Si la Légende dorée n’évoque pas la croisade directement, des enquêtes fouillées ont permis de montrer qu’à plusieurs reprises, et à des titres très différents, cette dernière a servi, elle aussi, de support à une propagande politique en faveur de la croisade durant les derniers siècles du Moyen Âge. À suivre les démonstrations de Carlo Ginzburg, le cycle de la Légende de la Vraie Croix réalisée par Piero della Francesca dans la chapelle Brancacci d’Arezzo semble s’appuyer sur une lecture de la Légende dorée et de ses chapitres de l’Invention et de l’Exaltation de la Croix, fortement imprégnée des motivations politiques du cardinal Bessarion. Protecteur de l’ordre franciscain et récent acquéreur de la relique de la Croix depuis la donation que lui en a fait Grégoire Mammas, Bessarion nourrit un rêve, qui affleure à travers les fresques de Piero della Francesca, de réconciliation des églises et de reconquête des terres désormais infidèles82. Plus récemment, on s’est rendu compte également qu’un exemplaire luxueux de la Légende dorée, imprimé par Antoine Vérard dans la traduction de Jean de Vignay révisée par Jean Bataillier, fut offert à Charles VIII en 1493 pour l’exhorter à la croisade et stimuler la revendication de l’héritage napolitain qui revenait aux Angevins83. Il semble par conséquent se constituer un horizon d’attente de Louis de la Vernade qui, en inscrivant la Légende dans une mythologie de la croisade, éclaire certaines de ses interventions d’un sens nouveau. Il témoigne d’abord d’une certaine curiosité à l’endroit de Mahomet. Dans le manuscrit du fonds de la Reine il précise au chapitre de saint Pélage, d’un « De magometo » (f. 234va) le long passage qui en raconte la vie et décrypte l’imposture du Prophète. Dans le manuscrit Paris, Arsenal, ms. 553, qu’il a bien moins annoté, Louis de la Vernade ajoute « Vita et origo Machometi » dans les marges du Contra Iudeos et Sarracenos (f. 57v) de Pierre Alphonse, source dont Jacques 80 Le manuscrit, copié non loin d’Épinal dans les Vosges, fut d’abord la propriété de Marguerite Dampierre, qui appartenait au clan des comtes de Vienne, eux-mêmes vassaux des comtes de Champagne. Sa circulation dans l’aire d’influence bourguignonne a pu se faire au moment où Jean sans Peur, en s’aventurant dans une expédition contre les Ottomans en Hongrie, alimenta la fièvre de la croisade. 81 J. PAVIOT, Noblesse et croisade à la fin du Moyen Âge, Cahiers de recherches médiévales et humanistes, 13 (2006), [en ligne], mis en ligne le 27 novembre 2009. [URL : http://crm.revues.org//751]. consulté le 06 juillet 2011. 82 C. GINZBURG, Indagini su Piero. Il Battesimo, il ciclo di Arezzo, la Flagellazione di Urbino, Torino 1981 (Microstorie, 1). 83 M. OKUBO, Antoine Vérard et la transmission des textes à la fin du Moyen Âge, in Romania 125 (2007), pp. 434-480.
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de Voragine s’inspire précisément pour brosser la vie de Mahomet84. Louis n’en a pas fait l’acquisition à la faveur de quelque rencontre opportune, et ce manuscrit issu d’une commande au maître de ses enfants qui en fera la copie constitue une réponse à un besoin spécifique de lecture sur l’Islam médiéval, et probablement à un effort d’identification des sources du légendier. Ainsi ces lectures croisées et complémentaires témoignent d’un intérêt particulier pour les figures du sarrasin et du musulman. Par ailleurs le païen gagne en infidélité à mesure qu’il s’éloigne du centre de gravité de cette géographie imaginaire : la Croix, signe et relique dont on comprend mieux que Louis réaffirme dans le sillage de Jacques de Voragine les vertus. Le signe de croix est en effet capable d’endiguer les incursions de l’esprit malin, à la façon de Justine qui chasse et liquéfie de cette manière le diable venu la séduire85. Il est l’étendard fédérateur que l’on peut revendiquer et prêcher sans crainte de la souffrance. Connu pour sa salutation à la croix sur laquelle il prêcha pendant une semaine, saint André l’affirme dans une formule de défi lancée à son bourreau Égée, que Louis recopie en marge : si crucis patibulum expavescerem crucis gloriam non predicarem (« si j’étais effrayé par le gibet, je ne proclamerais pas la gloire de la croix »)86. On trace également le signe de croix sur le front des empereurs, alors même qu’il était le signe de l’infamie apposé sur les condamnés. C’est ce que rappelle Jacques de Voragine dans le chapitre de l’Exaltation de la Croix par l’entremise de saint Augustin, dont Louis recopie en marge la citation : crux que erat supplicium latronum transiit ad frontes imperatorum87. On ne saurait oublier que la relique même de la Croix, dont Jacques de Voragine rapporte l’invention par sainte Hélène, demeure également l’objet fascinant autour duquel se cristallise le combat épique entre un christianisme authentique et universaliste et un paganisme décadent et particulariste. Louis de la Vernade s’attarde notamment sur le chapitre de l’Exaltation de la Croix, qui est l’occasion d’en souligner la puissance de rayonnement, y compris auprès du plus rétif des païens88. Dès lors, quand 84 V. la notice du chapitre de saint Pélage, in J. DE VORAGINE, La Légende dorée, éd. Boureau, p. 1478. 85 Ms. cit., f. 182r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXXXVIII, De sancta Iustina (§ 80) : « crucifixus demone maior ». 86 Ms. cit. f. 8r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. II, De sancto Andrea apostolo (§110). Légende dorée, éd. Boureau, p. 22. 87 Ms. cit., f. 172v col. A, Legenda Aurea, éd. cit. cap. CXXXI, De exaltatione sancte crucis (§ 10) 88 Ms. cit., f. 173v col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. cit., (§ 89). Louis annote en marge inférieure : « virtus crucis etiam apud infideles maxima per omnia comprobatur ».
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elle est restituée par Héraclius, après avoir été volée par Chosroès, la Croix recouvre pleinement son pouvoir thaumaturgique : « un mort, rappelle Jacques de Voragine, est rendu à la vie, quatre paralytiques sont guéris, des lépreux sont purifiés, quinze aveugles recouvrent la vue, des démons sont chassés, nombre de maladies sont guéries ». Et Louis de la Vernade ne manque pas de s’y arrêter89, attestant de l’un de ses autres intérêts, pour la médecine. Médecine, soin et salut Il importe en dernier lieu de souligner la convergence des annotations vers la question à la fois thérapeutique et sotériologique du soin. Les figures de médecins ont nettement la prédilection de Louis de la Vernade. Dans la légende de saint Pierre, un long passage est consacré aux fantaisies cruelles de Néron, qui avait notamment conçu le projet de porter un enfant pour comprendre les souffrances de sa propre mère qu’il venait d’assassiner. Il enjoint ainsi ses médecins de le mettre enceint, mais ces derniers ne manquent pas de rappeler que cela est contraire à la Nature. Louis isole et réécrit ainsi en marge l’objection même des médecins : non est possibile quod nature est contrarium, nec est scibile quod rationi non est consentaneum90. Cette confiance des médecins en la loi naturelle, rapportée au discours direct, s’atteste à un degré plus métaphorique, quand la parole devient elle-même un moyen efficace de guérison. Louis arrête sa lecture sur le medicus verborum, qui vient conseiller un prince secrètement chrétien dans le chapitre de Barlaam et Josaphat91. Louis s’intéresse alors naturellement au pouvoir de guérison du saint. Notre lecteur se focalise sur un exemplum de la vie de saint Augustin. En 912, un groupe d’une quarantaine d’hommes malades et estropiés venus de Gaule et de Germanie prend le chemin de Rome pour rendre visite au tombeau des apôtres. Les Alpes une fois franchies, ils voient apparaître sur le seuil d’une église la figure de saint Augustin qui leur indique l’église où il repose à Pavie. Leurs implorations croissantes à l’aide de saint effacent progressivement leurs propres lésions et déclenchent des pertes de sang en grande quantité, « de sorte que toute la terre en semblait couverte »92. 89
Ms. cit., f. 173r col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. cit., (§ 42-44). Ms. cit., f. 107v col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. LXXXIV, De sancto Petro apostolo (§ 229). 91 Ms. cit., f. 230r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CLXXVI, De sanctis Barlaam et Iosaphat (§ 32) : « medicus verborum ». 92 J. DE VORAGINE, Légende dorée, éd. Boureau, p. 701. 90
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Leur arrivée à Pavie achève de les guérir, inaugurant la carrière thaumaturgique des reliques de l’évêque d’Hippone. Et aux côtés de cet épisode pour le moins spectaculaire, Louis s’exclame en marge : o quale miraculum93. De nombreuses accolades servent également à mettre en relief le récit de la guérison d’un religieux particulièrement dévot envers les Onze mille Vierges94 et le chapitre de saints Simon et Jude, où les deux apôtres guérissent des magiciens qui leur faisaient pourtant souffrir le martyr. De la sorte, à travers la formule des deux saints : « Levez-vous donc et soyez guéris et repartez en ayant la libre faculté de faire ce que vous voudrez »95, Louis retient que les guérisons participent d’une libération. Enfin Louis de la Vernade s’intéresse aux vertus thérapeutiques et médicinales de certaines plantes, qu’il s’agisse du laurier qui brise les calculs et guérit de la surdité, mentionné dans l’étymologie de saint Laurent96 ou de l’arbre appelé « persidis » qui guérit tous ceux qui en portent un fragment autour du cou97. La Légende étire donc le spectre thématique de la médecine, de son sens propre jusqu’à l’acception pastorale de la cura animarum98. Et dans son sillage, Louis ne conçoit aucune solution de continuité entre la santé physiologique et le salut par le rachat du péché99 pour inscrire sa lecture dans une hygiène de l’existence et une éthique du soin. Jacques de Voragine précisait que l’évangéliste Luc préfigurait le Médecin Céleste qui avait dispensé un soin à caractère curatif, préventif et roboratif. Louis de la Vernade se focalise sur ces multiples formes de soin100 et montre que sa lecture, à la fois tournée vers le passé, le présent et le futur, recherche remèdes et consolation (finalité curative), vise à stimuler une certaine vigueur morale (finalité roborative) et prépare à affronter les maux à venir (de manière préventive). La lecture de la Légende sert une 93
Ms. cit., f. 162v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXX, De sancto Augustino (§ 379). Ms. cit., f. 201r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CLIV, De undecim milibus virginum (§ 52-58). 95 Ms. cit., f. 202v col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CLV, De sanctis Symone et Iuda (§ 98-99). 96 Ms. cit., f. 141r col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXIII, De sancto Laurentio martyre (§ 1) : « virtutes arboris lauri ». 97 Ms. cit. f. 21v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. X, De innocentibus (§ 32) : « De arbore persidis valens ad salutem si folium aut fructus aut pars corticis collo egrotantium alligetur » (note en marge inférieure). 98 N. BÉRIOU, La confession dans les écrits théologiques et pastoraux du XIIIe siècle : médication de l’âme ou démarche judiciaire ?, in L’aveu. Antiquité et Moyen Âge. Actes de la table ronde, organisée par l’École française de Rome avec le concours du CNRS et de l’Université de Trieste, Rome 28-30 mars 1984, Rome 1986, pp. 261-282. 99 Ms. cit., f. 16v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. VI, De Nativitate Domini (§ 153161) ; f. 67v col. A, éd. cit., cap. LI, De Passione Domini (§ 132-140). 100 Ms. cit. f. 199r col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CLII, De sancto Luca (§ 119-131). 94
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médecine de l’âme et aide à traverser les souffrances et les épreuves de la vie terrestre, là où le saint excelle d’impassibilité dans le martyr. Ces convergences thématiques qui émergent au fil de la lecture de Louis, si elles n’épuisent pas sa lecture, donnent toutefois une idée de la mise en ordre intéressée et personnalisée d’un recueil dont la diversité semble difficile à embrasser. Toutefois cet aménagement idiosyncrasique n’échappe pas à la structure globale du calendrier hagiographique de la Légende. Reliques, pélerinages et ordre du temps Le manuscrit BAV, Reg. lat. 534 se distingue des autres livres qui garnissent la bibliothèque de Louis par la note biographique qu’il a adjointe à la fin du codex. Il importe en ce sens de comprendre l’articulation qui se fait entre ces annotations les plus biographiques et l’ordre du temps que met en acte le légendier, et à terme entre sa propre existence et le légendier dominicain. À plusieurs reprises, Louis éprouve le besoin d’indiquer qu’il a visité telle église ou vu telle relique. Le tableau suivant fait la recension de ces événements biographiques101 : Annotation
Ms. Reg. lat. 534
Référence à la Légende dorée
f. 27v
Circoncision du Seigneur (cap. XIII), § 173-182
Carosium credo quod est abbatia de Charroux, quam fundavit Carolus Magnus, et ibi fertur preputium Christi fore, quod vidi
f. 36v
Saint Vincent (cap. XXV), § 1-44
Corpus Beati Vincencii iacet in civitate Castrensi, in ecclesia Predicatorum retro altari maiori, quod vidi
f. 149r
Assomption de la Vierge Marie (cap. CXV), § 291
Nota quod contingit Parisius aux Billet(ets) de corpore Christi in cacabo per Iudeum misso, quod comburi non potuit. Vidi in ecclesia parrochiali sancte Iohannis in Greve Parisius
f. 162vb
Saint Augustin (cap. CXX), § 379
Fui in Papia et multas audivi missas propre sepulchrum Beati Augustini in conventu et in ecclesia ipsius sancti intra cittadellam
f. 165va
Décollation de saint Jean-Baptiste (cap. CCXI), § 160
Vidi digitum in sancto Iohanne de Morianne inter Alpes, in patria Sabaudie
101
CHERUBINI, Un manoscritto occitano cit., pp. 162-164.
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f. 180va
Saint Maurice (cap. CXXXVII), § 26
Et nunc sanctus Mauricius en Chableys vocatur, ubi religiosi sunt, et in eo fui et tenui ensem quo sucisa fuerunt capita
f. 197rb
Saint Léonard (cap. CLI), § 75
De alio leonardo apud corbiacum cuius ecclesia fui
Ces événements sont en eux-mêmes trop singuliers pour délivrer des informations intéressantes102. Mais leur présence même comme inscriptions appelle une explication. L’usage de toponymes et de verbes à la première personne du parfait participe en effet d’un acte d’écriture qui vise à constituer ces pèlerinages comme des événements ponctuels mais consignés à une triple fin : autobiographique, testimoniale, et mémorielle. Il s’agit d’abord de dire qu’on a été témoin et d’affirmer une expérience personnelle. Comme a pu le montrer Roland Recht, l’art gothique a cherché à mettre en scène les qualités visuelles des objets de culte, à travers par exemple l’ostension de l’hostie. De même les scénographies de plus en plus raffinées des reliquaires exposent ces fragments minuscules et informes pour satisfaire un désir de voir103. Le tableau-reliquaire de Charroux auprès duquel Louis s’est rendu (f. 27v) repose ainsi sur un système d’enchâssement complexe : la relique se tient dans une capsule d’or, prise dans une boîte en argent doré, elle-même incluse dans un boîtier tenu par des anges ; ces derniers se trouvaient dans un cube dont les ouvertures, une fois dépliées, forment un triangle isocèle, aux angles duquel deux moines se tiennent en prière au pied d’un Christ en majesté104. Un tel dispositif construit un spectacle dévotionnel qui stimule naturellement un appétit visuel, dont l’annotation de Louis de la Vernade témoigne avec netteté105. Le lecteur affirme ses expériences pour alimenter le propos du compi102 Il est toutefois possible d’identifier certains déplacements de Louis de la Vernade et d’en comprendre les motivations. Quand ce dernier annonce dans les marges du chapitre de saint Augustin que « fui in Papia et multas audivi missas propre sepulchrum Beati Augustini in conventu et in ecclesia ipsius sancti intra cittadellam », on peut penser qu’il s’agit de la mission que lui confie en 1442 le comte Charles de Bourbon pour exposer au pape une demande de financement et une concession d’indulgences pour la réfection du clocher de Notre-Dame de Montbrison alors ravagé par un incendie accidentel. Louis de la Vernade n’a alors que 34 ans. RELAVE, L’église paroissiale de Saint-André de Montbrison et le prieuré de Savignieu en 1423 cit., p. 54. 103 R. RECHT, Le croire et le voir. L’art des cathédrales, XIIe-XVe siècle, Paris 1999 (Bibliothèque des histoires). 104 Ibid., p. 122. 105 Pour éclairer cette question de l’autopsie dans les récits de pèlerinage, on peut penser au dominicain Burchard de Mont Sion qui à la fin du XIIIe siècle dit ce qu’il a vu de ses propres yeux (« quod oculis meis vidi ») ; v. BURCHARD DE MONT-SION, Descriptio terrae sanctae version I, éd. CANISIUS et version II, éd. LAURENT ; A. GRABOÏS. Le pèlerin occidental en Terre
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lateur de suppléments d’informations. Au point même que Louis se fourvoit en affirmant avoir vu saint Vincent à Castres, alors qu’il s’agit plutôt, comme le remarque Paolo Cherubini, de saint Vincent Ferrier canonisé en 1455106. Il montre également une manie récurrente de localiser des reliques, d’identifier des lieux ou de traduire les toponymes latins employés par Jacques de Voragine. Ainsi dans le chapitre de l’Assomption, Jacques de Voragine rapporte que l’évêque de la ville de Chartres s’était protégé contre l’armée du duc des Normands qui assiégeait la ville avec la tunique de la Vierge. Louis de la Vernade précise ainsi : Vestis Marie que est in civitate Carnotensi107. Ce souci d’indexer des reliques à des lieux se retrouve également dans la lecture que fait Louis du chapitre de la Décollation de Jean-Baptiste, où il est précisé que la tête du Précurseur passa de Constantinople au Poitou. Louis annote alors : Pictavis capud Iohannis Baptiste108. Ainsi identifie-t-il le toponyme latin Abriacensis, où la seconde apparition de saint Michel a eu lieu, par sa traduction française en marge « Layne | Avranches ». De même fait-il avec la ville de Trecasina évoquée dans la vie de saints Savinien et Savine, pour expliciter dans la marge de petit-fond : idest Troysen Champanhe109. Ou, quand Jacques évoque la région de Pannonia dans les chapitres de saint Martin ou de saint Jérôme, Louis s’empresse d’inscrire : pannonia nunc dicitur ungaria110. Cet effort de localisation et de traduction topographique par un lecteur voyageur nourrit la construction d’une cartographie dévotionnelle fondée sur les appuis fournis par la Légende. Comme Louis n’a pas encore trente ans quand il en fait l’acquisition, la compilation de Jacques de Voragine a pu se prêter à un double usage : l’accompagnant tout au long de sa vie, elle lui permet de consigner les voyages spirituels au fur et à mesure de leur déroulement, en même temps qu’elle l’incite à se déplacer vers différents lieux de culte évoqués par l’archevêque de Gênes. Livre central de la bibliothèque de Louis, la Légende dorée s’infléchit au fil de la vie de son propriétaire sous la forme d’un guide sainte au Moyen Age, Bruxelles 1998 (Bibliothèque du Moyen Âge, 12) p. 126, 166 et 189-190 et N. CHAREYRON, Les Pèlerins de Jérusalem au Moyen Age, Paris 2000. 106 V. R. RUSCONI, The preacher saint in late medieval italian art, in Preacher, Sermon and Audiences in the Middle Ages, C. MUESSIG (dir.), Leiden 2002 (A new history of the sermon, 3), pp. 181-200. 107 Ms. cit., f. 147r col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXV, De assumptione beatae Mariae virgine (§ 132). 108 Ms. cit., f. 165r, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXXI, De decollatione sancti Iohanne Baptisti (§ 146). 109 Ms. cit., f. 166r col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXXIV, De sanctis Saviniano et Savina (§ 8). 110 Ms. cit., f. 187r col. A, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXLII, De sancto Ieronimo (§ 17) ; f. 221r col. A, éd. cit., cap. CLXII, De sancto Martino (§ 8).
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du pèlerin111. L’analogie peut être tissée avec le pèlerin Felix Fabri qui parcourait la Terre sainte dans les années 1480 avec le texte de Burchard de Mont Sion pour confronter le guide du dominicain aux vestiges de Jérusalem. Felix Fabri se lance dans d’interminables investigations au pied du Mont des Oliviers pour retrouver les traces des reliques du corps du Christ imprimées en creux dans la pierre112. Ensuite ces annotations cherchent à figer une expérience éphémère et à en fixer la mémoire. Il s’agit de prendre à témoin, pour que soit reconnue la grande valeur de sa foi. Multas missas audivi, écrit-il (f. 162vb) pour mettre en valeur sa piété. Bien plus ce recueil per circulum anni qu’est la Légende dorée constitue un support qui stabilise et pérennise les jalons singuliers et épars de sa vie spirituelle. Les marges de la Légende deviennent les modestes archives d’une piété en construction. Il n’est pour s’en assurer qu’à revenir à la légende des Dix mille martyrs que Louis a copiée en tête de codex. Un si grand nombre de martyrs s’est naturellement manifesté par une démultiplication de reliques à travers toute l’Europe, à Prague, Vienne, Cologne ou Rome. On peut toutefois expliquer aisément le complément que vient ajouter notre lecteur par l’existence d’un culte autour d’une relique de l’un des martyrs, saint Acace, dans la cathédrale du Puyen-Velay, non loin de Montbrison dans le Forez. Si Louis réaménage son manuscrit, c’est donc pour s’en servir comme d’un miroir et d’un guide de ses propres pratiques. La Légende dorée devient un faire-valoir livresque aux pérégrinations de son lecteur. Mais cette articulation du biographique et de l’hagiographique ne se résume pas à ces points. La transposition écrite de ses expériences spirituelles vise à les connecter à l’histoire du salut. Le contraste apparaît criant entre la singularité anecdotique d’une trajectoire biographique qui s’est arrêtée à quelques endroits et l’immense drame théologique qui se joue dans la Légende. Ce légendier cultive son universalisme en brassant un nombre considérable d’acteurs, sur des aires géographiques éclatées et sur de vastes périodes historiques. À son contact pourtant, Louis confère du sens à ses pratiques dévotionnelles. Ses inscriptions biographiques sont portées par un souci d’y trouver modestement sa place. Les notes fonc111 Les guides de pèlerin n’ont rien de neuf à cette époque. C. VOGEL, Le pèlerinage pénitentiel, in Revue des sciences religieuses 38 (1964), pp. 113-156 ; ID., La discipline pénitentielle en Gaule des origines à la fin du VIIe siècle, Paris 1952. 112 V. F. FABRI, Les errances de Frère Félix, pèlerin en Terre sainte, en Arabie et en Égypte (1480-1483), III, Quatrième traité, texte latin, introd., trad. et notes sous la dir. de J. MEYERS – N. CHAREYRON, Montpellier 2006, p. 95 ; v. J. MEYERS, L’Evagatorium de Frère Félix Fabri : de l’errance du voyage à l’errance du récit in Le Moyen Âge 114, 1 (2008), pp. 9-36 et J.-M. FRITZ, Empreintes et vestiges dans les récits de pèlerinage : quand la pierre devient cire, in Le Moyen Âge, à paraître.
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tionnent comme des agrafes vouées à résorber l’écart qui sépare l’histoire légendaire et l’histoire ordinaire. L’événement singulier n’est visible qu’en regard de l’Événement sans cesse réitéré de l’Incarnation113. Dès lors, il témoigne logiquement d’un souci de brancher les légendes à des événements historiques qui ne ressortissent pas d’un temps lointain. Le chapitre de saint Pélage, qui enserre moins une vita à proprement parler que la chronique des Lombards114, retient tout particulièrement son attention. On ne compte ainsi, entre les ff. 223va et 238vb, pas moins de 27 interventions de Louis de la Vernade, sous forme de notifications écrites, de réécritures ou de commentaires. Il s’agit du chapitre qui semble intéresser le plus Louis de la Vernade. Il se focalise notamment sur la figure royale de Charlemagne et sur la divisio imperii qui dessina les premiers contours du royaume de France. Louis lui accorde ainsi une succession de six annotations sur le seul f. 236115. Par-delà l’intérêt qu’une noblesse cultive bien légitimement pour cette figure royale forte116, Louis cherche à « délombardiser » la Chronique pour mieux la franciser. Autrement dit, le lecteur adapte le récit de la chronique à son propre horizon d’attente historique. Ces distorsions prouvent sans doute que cette écriture de la chronique sert de cheville entre l’histoire sacrée et l’histoire humaine. Ce souci d’affirmer une continuité des temps est manifeste dans la lecture de Louis de la Vernade. Ainsi quand le chapitre de saint Jean Chrysostome fait mention d’une immense sédition du peuple pour soutenir le saint en exil, Louis précise en marge : Simile factum extitit de eugenio papa per concilium basiliensem117. Cette note marginale sur les conflits entre Eugène IV et les pères du concile à Bâle, pour intéressante qu’elle soit de la part d’un lecteur bien au fait des tractations politiques de son temps, s’évertue ici à tisser une analogie entre l’événement légendaire et lointain 113
A. BOUREAU, L’Événement sans fin. Récit et christianisme au Moyen Âge, Paris 1993, pp. 10-11. 114 S. MULA, L’histoire des Lombards. Son rôle et son importance dans la Legenda Aurea, in De la sainteté à l’hagiographie cit., pp. 75-95. Il faut rappeler qu’à de nombreuses reprises, les manuscrits et les imprimés de la Légende dorée ont été intitulés « Historia longobardica » ou « Historia lombardica ». 115 Ms. cit., f. 236r col. B, Legenda Aurea, éd. cit. cap. CLXXVII, De sancto Pelagio papa (§196) : « karolus magnus » ; (§ 198) : « rex francorum intrat Papam » ; (§ 201) : « terminatur regnis longobardorum » ; f. 236v col. A, (§205) : « divisio regnorum filiis karoli magni » ; (§216) : « karolus magnus imperator coronatus ». 116 D. BOUTET, Charlemagne et Arthur ou Le roi imaginaire, Paris 1992 (Nouvelle bibliothèque du Moyen Âge, 20) ; I. DURAN-LE GUERN – B. RIBÉMONT, Charlemagne. Empereur et mythe d’Occident, Paris 2009 (Les grandes figures du Moyen Âge). 117 Ms. cit., f. 176v col. B, Legenda Aurea, éd. cit., cap. CXXXII, De sancto Iohanne Chrysostomo (§ 142).
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et l’événement historique plus proche. Il n’est pas inutile de comparer cette incursion de l’anecdote à celle que Claude Pirusset, curé de Ceyzérieu, du diocèse de Genève, introduit en copiant la Légende118. Aux bords de la description de la naissance d’un monstre dans la chronique pélagienne, ce dernier indiquait : dans la paroisse de Cully et de Béon, dans un village qui s’appelle château Cully, est né un corps qui avait deux têtes, quatre bras, quatre tibias, le sexe d’une femme. Le corps était divisé de la ceinture vers le bas et de la poitrine vers le haut. Il a été baptisé par le seigneur Monet, vicaire du seigneur Pierre régis, chanoine de Sion, l’an du Seigneur 1435, le cinquième jour de mai. Cet endroit se trouve en Savoie, dans le diocèse de Genève, dans le décanat de Ceyzérieu, prés de Seyssel, à deux lieues en descendant vers le bas, à la fin de la montagne à droite. Le dit monstre a vécu pendant vingt heures ou un peu plus. Et ce fait a été vu par plusieurs hommes dignes de foi. Gl. Pirusset, curé de Céeyzérieu, dans le diocèse de Genève, dans le décanat du même diocèse119.
Comment accorder une place à ce surgissement de l’anecdotique, sinon en considérant que la Légende dorée a cet avantage de livrer un cadre général d’intelligibilité susceptible sinon de normaliser, du moins d’intégrer les événements les plus détonants dans sa trame de sens ? La Légende propose en quantité des clés de lecture à même d’assigner un sens nouveau aux anecdotes les plus troublantes du temps présent. Si l’on peut sans mal considérer que toute littérature fournit des ressources figuratives pour organiser en son aval l’expérience troublée des lecteurs120, la Légende dorée se distingue ici par sa capacité d’accueil et d’ingestion des désordres du temps présent et par l’espace qu’elle laisse à toute forme d’appropriation personnelle. Porté par un principe de sérialité hagiographique, le légendier dispose un arsenal de ressources narratives et normatives susceptibles de structurer l’espace-temps de son lecteur et de modéliser la narration qu’il peut faire de sa propre vie. La Légende dorée se lisait bien comme une compilatio121 : non comme 118 MORENZONI, La Légende Dorée d’un curé du XVe siècle du diocèse de Genève, cit.. Les notes de Claude Pirusset se glissent dans les marges du manuscrit Lausanne, Bibliothèque Cantonnale Universitaire, 4756. 119 Ibid., p. 22. 120 J. LYON-CAEN, Une histoire de l’imaginaire social par le livre en France au premier XIXe siècle, in Revue de synthèse 1-2 (2007), pp. 165-180. 121 Louis de la Vernade précise, au-dessus du plan du recueil, dans la marge supérieure du f. 3r : « frater Iacobus de Varagine ordinis praedicatorum / et episocopus Ianuensis compilavit hanc legendam / auream infra tome in legenda beati gregorii pape / dicitur quod Iohannes diaconus hanc legendam compilavit ». Jean Diacre, en achevant la compilation de la vie de saint Grégoire, se fait lui-même personnage pour raconter comment le diable vient,
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une liste qui juxtapose des éléments hétérogènes, mais comme une ordinatio122, une mise en ordre qui tente d’exemplifier un ordo du temps et une configuratio, un arrangement de figures123. Et cet ordo, dont on pourrait rendre l’épaisseur lexicale par le mot « ordonnance », relève tout en même temps d’une organisation et d’une forme de prescription124. De là vient sa capacité à modéliser les expériences de son lecteur. La littérature pastorale et la vie On distingue généralement quatre usages de la Légende : d’abord au service de la prédication, directement pour enrichir les sermons ou indirectement pour alimenter les recueils d’exempla ; puis comme encyclopédie religieuse générale ; ensuite comme livre de lecture dévote, individuelle et/ou collective ; enfin comme objet de luxe enluminé pour les plus dotés de l’aristocratie125. Ces usages ne sont pourtant pas exclusifs les uns des autres, et ces distinctions n’interdisent pas, bien au contraire, une polyvalence de la Légende, visible à qui suit une approche plus microscopique de l’appropriation des énoncés qu’elle contient. Les annotations de Louis de la Vernade apposées à la Légende dorée conservée dans le manuscrit Reg. lat. 534 proposent opportunément une multitude de rencontres et de reconfigurations entre le monde du texte légendaire et le monde du lecteur laïc. Elles laissent entrevoir un lecteur en train de prélever des informations, qui se corroborent et se stabilisent autour de nœuds thématiques. Ces interfaces polysémiques que sont les marginalia témoignent en ce sens d’une expérience dynamique de lecture, qui se prépare, s’organise et anticipe ses futurs parcours. Elles sont signes sous des traits noircis, mettre en doute la vérité des propos qu’il rapporte sans en avoir fait l’expérience, ni été le témoin direct. Le saint dont il assemble les faits héroïques intervient pour interrompre le Malin et donner la caution ultime à l’œuvre qui lui rend grâce. Jacques de Voragine en relayant cet épisode montre combien une pratique d’écriture comme la compilation est aussi un acte de foi. Louis de la Vernade a parfaitement vu la dimension doublement réflexive de cet épisode en l’associant à la note d’attribution de la Légende à Jacques de Voragine. Qu’on me permette de renvoyer, sur cet épisode, à F. COSTE, Le travail d’un compilateur, Jacques de Voragine, in La compilation. Hypothèses. Travaux de l’Ecole doctorale d’histoire de l’Université Paris I Panthéon Sorbonne (2010), pp. 61-71. 122 M. B. PARKES, The influence of the concepts of ordinatio and compilatio on the development of the book, in Medieval Learning and Literature. Essays presented to R. W. Hunt, J. J. G. ALEXANDER – M. T. GIBSON (dir.), Oxford 1976. 123 G. DIDI-HUBERMAN, Fra Angelico. Dissemblance et figuration, Paris 1995 (Champ Flammarion). 124 V. DESCOMBES, Le raisonnement de l’ours et autres essais de philosophie pratique, Paris 2007 (La couleur des idées), pp. 135-136. 125 A. BOUREAU, « Conclusion », in De la sainteté à l’hagiographie cit., pp. 283-289.
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plus largement d’un rapport à l’écrit irréductible à une seule lecture herméneutique. À bien des égards, cette Légende dorée s’affiche comme une hybridation de l’outil pastoral dominicain, de l’encyclopédie et de l’objet de luxe. Loin d’enrichir un trésor personnel ou familial, elle reste un objet consommé et investi, plus que contemplé et bourgeoisement possédé, et sur les marges duquel coexistent sans disjonction possible des usages politiques, historiques, moraux et dévotionnelles de l’hagiographie. Louis de la Vernade fait indifféremment de la Légende une encyclopédie de savoirs, une bibliothèque d’autorités, une réserve de petits sermons à lire, un support de mise en ordre de ses propres pratiques dévotionnelles, un prisme de lecture de l’actualité, un instrument d’affirmation éthique et un outil de modélisation biographique, confortant l’hypothèse que ce manuscrit occupait une place bien singulière dans sa bibliothèque. Cet enchevêtrement d’usages pluriels, favorisé par la mutation entre le XIVe et le XVe siècles des modalités de circulation et de réception du recueil, témoigne ainsi d’une redistribution des rapports entre le texte pastoral et la vie du fidèle. La Légende dorée fut dans les premières années de sa vie un dispositif incontournable de la pastorale des ordres mendiants : au prix d’adaptations locales, de démembrements, de retraitements et de distorsions, elle nourrissait la production des frères et servait le gouvernement des âmes. Ses usages lui étaient ainsi totalement extérieurs. Ici au contraire le fidèle s’immisce directement dans les marges du manuscrit pour y déployer une pratique nomade d’écriture et de lecture qui tient à la fois de la recréativité graphique et de l’exercice spirituel, de la méditation savante et bibliophile et du jugement le plus ordinaire. Le Sophilogium de Jacques le Grand le rappelait à Louis de la Vernade : nulla est via melior ad sapientiam quam vita virtuosa126. On ne peut disjoindre, dans ce long itinéraire qui mène à la sagesse, l’acquisition de savoirs et la réforme pratique de l’existence. De sorte qu’aux façons de lire de Louis de la Vernade s’adossent des manières d’être qui leur sont indissociables127. En vertu même du gérondif qui lui confère son autorité, une legenda détermine autant ce qu’il faut lire que ce qu’il est disponible à la lecture. Elle s’impose à son lecteur, en même temps qu’elle propose de nouveaux espaces de lecture à explorer. La force normative et prescriptive du livre hagiographique n’interdit donc pas celui qui le parcourt de se l’approprier. À aucun moment, il n’a été possible pour nous de trancher entre les positions qui voudraient que le texte exerce une influence unilatérale sur le 126 127
Paris, Arsenal, ms. 722, f. 6r col. B. M. MACÉ, Façons de lire, manières d’être, Paris 2011 (NRF Essais).
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lecteur ou celles qui soutiendraient que le lecteur, totalement maître de sa lecture, doit combler les trous du texte128. Si les textes font leurs lecteurs, autant que ces derniers participent de leurs créations continuées129, une distinction d’échelles mérite cependant d’être avancée ici à titre d’hypothèse. Il semble que l’expérience de Louis se plie à la robustesse de la macrostructure du recueil (l’économie du salut intégrée au calendrier). En revanche la Légende conserve, à une échelle plus microscopique, une souplesse qui autorise les interventions de son lecteur et entretient un espace qu’il peut aménager à sa guise. Par définition justiciable de cette double échelle de lecture, une compilation comme celle de Jacques de Voragine se transforme dès lors en un instrument de cadrage et de subjectivation, d’autant plus puissant que les marges — de manœuvre — qu’il laisse appellent son lecteur à l’investir.
128 Les partisans de l’esthétique de la réception réintroduisent le lecteur sans parvenir à concevoir les transformations du sujet par la littérature ; v. W. ISER, The Implicit Reader, Baltimore 1974 ; pour une critique de ces positions, voir T. EAGLETON, The revolt of the reader, in New Literary History 13/3 (1982), pp. 449-452 et ID. Critique et théorie littéraire. Une introduction, trad. de M. SOUCHARD, avec la collaboration de J.-F. LABOUVERIE, préface de M. AUGÉ, Paris 1994 (Formes sémiotiques), pp. 74-84. L’un des représentants les plus radicaux d’une pensée de la lecture comme création démiurgique est S. FISH, Is There a Text in This Class ? The Authority of Interpretive Communities. Cambridge 1980. 129 E. H. REITER, The reader as author of the user-produced manuscript. Reading and rewriting popular latin theology in the late Middle Ages, in Viator 27 (1996), pp. 151-169.
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LA LEGGENDA DEL VOLTO SANTO DI LUCCA NEL PALATINO LATINO 1988 OSSERVAZIONI CODICOLOGICHE, PALEOGRAFICHE E DI STORIA DEL TESTO* Il manoscritto Palatino latino 1988 è un esemplare di lusso, riccamente miniato, realizzato in Francia agli inizi del sec. XV, come indicano le caratteristiche della miniatura e della scrittura. Giunse in Biblioteca Vaticana, insieme a molti altri volumi provenienti da Heidelberg, con la donazione da parte di Massimiliano I di Baviera (1597-1651) a papa Gregorio XV (1621-1623) della biblioteca degli elettori del Palatinato, in riconoscenza dell’aiuto ricevuto durante la Guerra dei Trent’anni, su desiderio dello stesso pontefice1. Contiene la leggenda del Volto Santo di Lucca, tradotta in francese dalla Relatio de revelatione sive inventione ac translatione sacratissimi Vultus del diacono Leboino — o secondo altre grafie Leobino —, a cui seguono aggiunte anonime relative ai miracoli operati dallo stesso Volto, da attribuire verosimilmente ai canonici della cattedrale di Lucca2. La traduzione * Il presente contributo è stato pubblicato in traduzione spagnola nel volume di commento all’edizione facsimilare del Pal. lat. 1988: La Leyenda de la Santa Faz. Biblioteca Apostólica Vaticana, Códice Palatino Latino 1988. Libro de estudios, [Bilbao – Città del Vaticano], CM Editores. Ediciones de arte y bibliofilia — Biblioteca Apostolica Vaticana [2009], pp. 11-35; viene qui riproposto con alcune aggiunte, nel testo e nelle note. 1 Sui fondi Palatini della Biblioteca Vaticana e la loro storia si veda: F. D’AIUTO – CHR. M. GRAFINGER in Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, a cura di F. D’AIUTO – P. VIAN, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 466), pp. 457-469, corredato da una bibliografia completa sulla storia dei fondi. Per cenni sulla storia del codice cfr. infra. 2 Cfr. W. FITZGERALD, “Ocelli nominum”: Names and Shelf Marks of Famous / Familiar Manuscripts (III), «Medieval Studies» 50 (1988), p. 343. Per l’edizione del testo di Leboino cfr. G. SCHNÜRER – J. M. RITZ, Sankt Kümmernis und Volto Santo. Studien und Bilder, Düsseldorf 1934 (Forschungen zur Volkskunde, Heft 13-15), pp. 127-133; vedi anche A. GUERRA, Storia del Volto Santo di Lucca, Lucca 1881, pp. 299-307; D. BARSOCCHINI, Ragionamento sul Volto Santo, in Memorie e documenti per servire all’istoria del ducato di Lucca, t. V, p. I, Lucca 1844, pp. 53-56; F. V. DI POGGIO, Illustrazione del SS. Crocifisso di Lucca detto volgarmente il Volto Santo, Lucca 1839, pp. 103-111 e, per la traduzione italiana, pp. 191-199. Si veda anche Bibliotheca hagiographica latina antiquae et mediae aetatis, Bruxellis 1898-1899, n. 4236. Per Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 147-188.
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è attribuita al carmelitano Jean Golein, professore di teologia all’università di Parigi, traduttore di opere latine per il re di Francia Carlo V il Saggio (1338-1380), morto nel 14033. Cenni sul Volto Santo e sulla tradizione manoscritta Il Volto Santo è un crocifisso ligneo che la leggenda definisce come immagine achiropita; conservato nella cattedrale di San Martino di Lucca, fu oggetto sin dal Medioevo di una diffusa venerazione in tutta Europa4. Una il contenuto di alcuni dei miracoli cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 234-243; F. P. LUISO, La leggenda del Volto Santo, Pescia 1928, pp. 13-29; P. LAZZARINI, Il Volto Santo di Lucca, 782-1982, Lucca 1982, pp. 69-78, 150-151. Al f. 3r la rubrica iniziale: «Ci commence le livre Leboin dyacre, lequel est de l’invencium, revelations, translation du saint et glorieux Voult de Luques. Et premierement le prologue» (nella trascrizione del testo si è rispettato nel modo più fedele l’originale, tranne che negli apostrofi e nella punteggiatura, inseriti con intenti interpretativi; non sono stati dunque normalizzati accenti e grafia, se non per le iniziali dei nomi sacri, personali e di luogo, rese in maiuscolo). Per la trascrizione completa del testo, ma con scelte di normalizzazione e modernizzazione, cfr. M. H. TESNIÈRE, Transcriptión del manuscrito de la Légende du Saint Voult (Biblioteca Apostolica Vaticana, Palatinus Latinus 1988), in La Leyenda de la Santa Faz. Biblioteca Apostólica Vaticana, Códice Palatino Latino 1988 cit., pp. 111-223. 3 Cfr. K. CHRIST, Die altfranzösischen Handschriften der Palatina. Ein Beitrag zur Geschichte der Heidelberger Büchersammlungen und zur Kenntnis der älteren französischen Literatur, Leipzig 1916 (Beihefte zum Zentralblatt für Bibliothekswesen, 46), pp. 100-101; J. MELSEN, Palatini latini, in Manuscripts in the Vatican Library relating to the Carmelite order, ed. by J. SMET, Roma 1994 (Bibliotheca Carmelitana Manuscripta. Series I), p. 159; si veda anche H. AUBERT, Notices sur les manuscrits Petau conservés à la bibliothèque de Genève (Fonds Ami Lullin) […], «Bibliothèque de l’École des chartes» 70 (1909), pp. 482 e ss. e, su Jean Golein, B. XIBERTA, Magistri Iohannis Golein annotationes de historia ordinis, «Analecta ordinis carmelitarum» 7 (1930-1931), pp. 69-78. Hilary Maddocks ipotizza che i fratelli Rapondi, commitenti del codice (cfr. infra), possano aver anche commissionato a Golein — cappellano di papa Clemente VII ad Avignone nel 1390 — la stessa traduzione, con l’intento di far introdurre la celebrazione del Volto Santo all’interno delle Festes nouvelles: cfr. H. MADDOCKS, The Rapondi, the Volto Santo di Lucca, and Manuscripts Illumination in Paris ca. 1400, in Patrons, authors and workshops: books and book production in Paris around 1400, edited by G. CROENEN and P. AINSWORTH, Louvain 2006 (Synthema, 4), pp. 119-120; J. C. SCHMITT, Estudio histórico de la Leyenda de la Santa Faz, in La Leyenda de la Santa Faz. Biblioteca Apostólica Vaticana, Códice Palatino Latino 1988 cit., p. 55. 4 La scultura che si trova oggi nella navata sinistra della cattedrale, in un tempietto a pianta centrale costruito da Matteo Civitali nel 1484, è ritenuta una copia dell’immagine originale. A riguardo cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 76-85, 188-195; LAZZARINI, Il Volto Santo cit., pp. 13-42; sullo sviluppo della rappresentazione iconografica del crocifisso si veda G. SCHNÜRER, Sopra l’età e la provenienza del Volto Santo di Lucca I-II, «Bollettino Storico Lucchese» 1 (1929), pp. 17-24; ID., Sopra l’età e la provenienza del Volto Santo di Lucca III, «Bollettino Storico Lucchese» 1 (1929), pp. 95-105; G. DE FRANCOVICH, Il Volto Santo di Lucca, «Bollettino Storico Lucchese» 8 (1936), pp. 3-29; M. C. FERRARI, Imago visibilis Christi. Le Volto Santo de Lucques et les images authentiques au Moyen Age, «Micrologus» 6
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lunga tradizione individua in Leboino il primo scrittore che abbia trattato la leggenda del miracoloso crocifisso5, facendone autore quel Nicodemo che, insieme a Giuseppe d’Arimatea, depose Cristo dalla croce e diede onorata sepoltura alla sua salma6. Secondo la leggenda, è durante il suo successivo ritiro a Ramla a causa delle persecuzioni che Nicodemo avrebbe scolpito il Volto Santo: dopo aver finito di realizzare il corpo, giunto al volto, fu preso dal timore di non poterlo rappresentare in modo degno e, stanco, si addormentò, ma durante il sonno un angelo completò miracolosamente l’opera. Per paura delle persecuzioni la scultura fu nascosta in una grotta fino a quando il vescovo Gualfredo, «episcopus subalpinus» pellegrino in Terra Santa, non lo ritrovò attraverso un sogno rivelatore e decise di affidarlo ad una barca priva di vele e di equipaggio, libera di navigare per raggiungere un posto sicuro. Guidata dalla Provvidenza, la barca giunse di fronte al litorale di Luni ma resistette ai tentativi di abbordaggio dei suoi abitanti; si avvicinò, invece, spontaneamente al porto quando qui giunse il vescovo di Lucca Giovanni insieme ai suoi fedeli, avvertito in sogno da un angelo dello straordinario avvento. Per non dare inizio ad una contesa con gli abitanti di Luni, che avanzavano pretese per il possesso della reliquia, i lucchesi donarono loro un’ampolla vitrea ricca del sangue di Cristo trovata all’interno del crocifisso-reliquiario, ritornando così trionfanti nella propria città con il santo simulacro. (1998), pp. 29-43; J. C. SCHMITT, Les images d’une image. La figuration du Volto Santo de Lucca dans les manuscrits enluminés du moyen âge, in The holy Face and the Paradox of Representation: Papers from a Colloquium held at the Bibliotheca Hertziana, Rome and the Villa Spelman, Florence, 1996, ed. by H. L. KESSLER and G. WOLF, Bologna 1998 (Villa Spelman colloquia, 6), pp. 205-227; M. FRATI, Il culto delle reliquie gerosolimitane in Toscana e le modifiche spaziali degli organismi architettonici medievali, in «Rivista di storia e letteratura religiosa» 37 (2001), pp. 202-204; SCHMITT, Estudio histórico cit., pp. 37-59. Un riferimento al Volto Santo di Lucca ricorre anche nella Commedia di Dante, dove, nella quinta bolgia abitata dai barattieri, un diavolo ricorda al lucchese Bonturo Dati: «Qui non ha loco il Santo Volto» (Inf. XXI, 48); per indicazioni interpretative a riguardo si veda la voce curata da A. CECILIA, Volto, Santo in Enciclopedia dantesca, V, Roma 1984, pp. 1145-1146, con bibliografia critica. 5 È, tuttavia, probabile che Leboino non sia stato il primo estensore della leggenda, ma che essa sia il risultato di nuclei leggendari diversi, fioriti intorno ad altri crocifissi, come quello di Berito in Siria: cfr. LAZZARINI, Il Volto Santo cit., pp. 55-60. In ogni caso, il testo della leggenda tramandato sotto il suo nome costituisce la fonte principale per lo studio delle origini del culto del Volto Santo. 6 Vide Pal. lat. 1988, f. 2v, linee 6-9: «[…] homme tres christien et especial ami de Dieu, lequel fu avec Ioseph de Arimathye a ensevelir le precieux corps de Nostre Seigneur Dieu, Ihesucrist, apres ce qu’il fut depose de la croix […]». Nicodemo viene per la prima volta citato come autore di un crocifisso nella traduzione degli atti del Concilio generale di Nicea dell’anno 787 (cfr. G. D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova, et amplissima collectio […], XIII, Florentiae 1767, coll. 583-584); su di lui come autore del Volto Santo cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 3-25, 269-298 e LAZZARINI, Il Volto Santo cit., pp. 85-96.
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Molto si è discusso sulla maggiore o minore antichità della Relatio di Leboino, che lo Schnürer data al sec. XII7; di poco successiva sarebbe la redazione del testo relativo ai miracoli, presumibilmente nato a seguito della diffusione del culto e della fama del Volto Santo e dei suoi prodigi, che finì poi per entrare a fare parte della stessa composizione letteraria. In questa sequenza, le due parti riflettono lo schema consueto delle biografie dei santi nel Medioevo, secondo cui ad una prima sezione riguardante la vita del santo — qui sostituita dall’esposizione della storia del crocifisso — seguiva l’enumerazione dei miracula da esso compiuti. La Relatio leboiniana è attestata in diversi manoscritti italiani e francesi, che possono essere suddivisi in due gruppi distinti8: i testimoni francesi sono privi della sezione riguardante i miracoli9, aggiunta successivamente; quelli italiani contengono il testo corredato dalle aggiunte con cui viene proposto nelle edizioni moderne10 e dai miracula11 — così come il Palatino. 7 Cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., pp. 123-143, in particolare p. 135, e SCHNÜRER, Sopra l’età […] III, cit., pp. 77-95: i testimoni manoscritti più antichi risalgono al sec. XII; inoltre nel testo si riscontrano usi di cursus leoninus, inventato da Leone dei Marsi († circa nel 1115) e introdotto nella prosa della Curia papale da un monaco di Montecassino — più tardi papa Gelasio II — cancelliere sotto papa Urbano II (1088-1099); tale uso è testimoniato nella scuola del duomo di Lucca ai tempi del vescovo Rangerio († 1112). Per una rassegna sui diversi pareri riguardanti la datazione e l’autorità della leggenda cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 307-400, che ascrive il testo leboiniano al sec. VIII considerandolo coevo agli eventi narrati; LUISO, La leggenda cit., pp. 31-40; LAZZARINI, Il Volto Santo cit., pp. 61-67; SCHMITT, Estudio histórico cit., pp. 45-46. 8 Individuati da SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., pp. 123-127; si vedano anche: SCHNÜRER, Sopra l’età […] III, cit., pp. 77-78; LUISO, La leggenda cit., pp. 31-53; LAZZARINI, Il Volto Santo cit., pp. 66-67. 9 Si tratta dei manoscritti: Paris, Bibliothèque nationale, Nouvelles acquisitions latines 369 (sec. XII), ff. 223v-227v; Chalons-sur-Marne (ora Chalons-en-Champagne), Bibliothèque municipale, ms. 217 (sec. XII), ff. 20v-26v; Cambrai, Bibliothèque municipale, ms. 804 (sec. XII), ff. 73v-75v; Valenciennes, Bibliothèque municipale, ms. 514 (sec. XII), ff. 196v-199r; Douai, Bibliothèque municipale, ms. 842 (sec. XII), ff. 64v-67v e ms. 865 (sec. XII), ff. 68v71v; Troyes, Bibliothèque municipale, ms. 1876 (sec. XIII-XIV), ff. 89r-102v; Bruxelles, Bibliothèque royal, ms. II 942 (olim Phillipps 336, sec. XIII), ff. 32v-34v e ms. 7797-806 (sec. XIII), ff. 147r-149v. I manoscritti di questo gruppo si concludono con le parole «prope valvas eiusdem basilice ad australem plagam» (cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 132; vide Pal. lat. 1988, f. 14v, linea 15). 10 Tali aggiunte — di natura devozionale, poste nella parte iniziale e in quella finale della Relatio propriamente detta, con l’intento di celebrare Lucca e il suo vescovo — sono tutte possedute dal Palatino: cfr. l’apparato critico di SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., pp. 127 a linea 13 (vide Pal. lat. 1988, f. 3v, linee 9-20), 128 a linea 2 (vide Pal. lat. 1988, f. 8r, linee 7-18), 130 a linea 3 (vide Pal. lat. 1988, f. 4v, linee 6-11), 131 a linea 1 (vide Pal. lat. 1988, f. 10v, linee 2-8), 132 a linea 8 (vide Pal. lat. 1988, f. 14v, linea 15 – 15r, linea 8). Per le altre edizioni cfr. nt. 2. 11 Si tratta dei seguenti manoscritti: Cesena, Biblioteca Malatestiana, Piana 3.150 (sec. XII), ff. 1r-34v, sul quale cfr. D. FAVA, Di un nuovo e assai antico codice della “Leggenda del
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È verosimile che il cosiddetto testo leboiniano, così come noi oggi lo leggiamo, sia il prodotto di differenti redazioni e che in esso si siano fuse parti più antiche e parti più recenti. È plausibile che una prima stesura della leggenda sia stata realizzata proprio durante il governo episcopale del beato Giovanni (780-803)12, la cui figura storica è ricordata come pia e operosa e per aver voluto arricchire la sua diocesi di reliquie di santi, che sarebbero poi divenute mete di pellegrinaggi13. Nella leggenda, il motivo della destinazione del Volto Santo alla città di Lucca viene indicato dall’angelo proprio nei meriti del suo vescovo: «Per idem tempus in Lucana Civitate preerat episcopus nomine Johannes, vir quidem Deo acceptus, auctoritate et omni honestate fultus. Hic namque in multis Lucanam decoravit Ecclesiam. In primordio fere gentis illius tam verbo quam exemplo sue melliflue predicationis feliciter irrigabat plantaria et eidem ecclesie ab urbe aliisque locis Domino faciente multa contulit sanctorum corpora, quibus in multis sue fidelissime devotionis obtulit dona plurima. Huic igitur angelus in somnis apparuit eique celesti voce locutus est: […] Quam [Salvatoris mundi imago] ut in hanc deferas Civitatem, a Domino meritis impetrasti»14. Nonostante la leggenda, così come è esposta, abbia la pretesa di essere contemporanea ai fatti narrati, è tuttavia improbabile che tali Volto Santo di Lucca”, in «Atti e memorie della Regia Accademia di scienze, lettere ed arti di Modena», ser. 4, 3 (1931), pp. 39-42; Lucca, Biblioteca Capitolare Feliniana, ms. 626 (olim Archivio Arcivescovile ms. +16; sec. XIII), ms. 497 (sec. XIV), ff. 45r-50v e ms. Tucci-Tognetti (sec. XIV), ff. 2r-15v, 20r-25v; Lucca, Archivio di Stato, ms. 110 (sec. XIV); Lucca, Biblioteca Statale, ms. 110 (sec. XIV); Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana, Archivio del Capitolo di S. Pietro E.42 (sec. XIV), ff. 3r-30r; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reginense latino 487 (sec. XIV2), ff. 1r-26r (ai ff. 27r-59r contiene il relativo volgarizzamento ad opera di «Francischus de Mediolano Ordinis Servorum Sanctae Mariae»); Roma, Biblioteca Alessandrina, ms. 93 (sec. XVII; Acta SS. Mensium maii et iunii a Const. Caietano collecta), ff. 24r-43v. Si ricordino anche i seguenti manoscritti, contenenti la leggenda: Magdeburg, Bibliothek des Dom-Gymnasiums, ms. 234 (sec. XV), una copia che il canonico Gherardo Koncken fece a Lucca nel 1420; Basel, Universitätsbibliothek, ms. A.VI.37 (sec. XIV-XV), ff. 122r124v, che contengono solo alcuni excerpta; Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano latino 4583 (sec. XVI), ff. 1r-13v. 12 Cfr. P. B. GAMS, Series episcoporum Ecclesiae catholicae, Ratisbonae 1873, p. 740. 13 La tradizione ascrive al volere del beato Giovanni la traslazione a Lucca dei corpi del vescovo martire s. Regolo, del vescovo s. Frediano e del martire s. Sensio (cfr. LAZZARINI, Il Volto Santo cit., pp. 61-65). La figura del vescovo Giovanni è lodata per le sue molte doti anche in una pergamena vaticana riguardante la traslazione a Lucca di s. Regolo, il cui testo è riportato da Ferdinando Ughelli nell’Italia sacra: «[…] Ioannes Episcopus, aspectu Angelicus, sermone nitidus, opere sanctus, fide Catholicus, consilio magnus, inter cleros potentissimus, charitate diffusus […]» (F. UGHELLI, Italia sacra; sive De episcopis Italiae et insularum adjiacentium, rebusque ab iis praeclare gestis deducta serie ad nostram usque aetatem […], I, Venetiis 1717, p. 796). 14 Cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., pp. 130-131 (vide Pal. lat. 1988, f. 10r linea 3 – 10v linea 19).
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parole di esaltazione del vescovo Giovanni e dei suoi meriti provengano da lui stesso e dalla sua scuola; così come improbabile è che Leboino si autodefinisca venerabilis, titolo solitamente concesso agli scrittori di testi letti nei divini uffizi15, il che indurrebbe dunque a ritenere che il testo si sarebbe così configurato in un momento sicuramente successivo agli eventi narrati e di più ampia diffusione del testo stesso. Di Leboino nulla si sa se non ciò che di lui viene detto nella Relatio: era un diacono che, insieme ad un vescovo subalpino di nome Gualfredo, si recò in Palestina; fu presente al ritrovamento del simulacro, udì della traslazione a Lucca16 e dei suoi prodigi. Egli si presenta nel prologo come uno scrittore contemporaneo agli eventi narrati, relativi al sec. VIII, e come testimone oculare e auricolare di ciò che racconta («Leboinus diaconus, servorum Christi minimum […]. Que oculis nostris vidimus et auribus nostris per religiosos viros audivimus»17); di seguito il compilatore, parlando alla prima persona plurale, afferma di aver iniziato a scrivere la storia del Volto Santo per appagare il desiderio dei Lucchesi che avevano sentito i suoi racconti, delle cose che lui stesso aveva visto e di quelle che aveva saputo da persone religiose e piene di fede («de revelatione sive inventione ac translatione sacratissimi vultus domini, de miraculis quoque que vel nos vidimus aut venerabilium virorum relatione comperimus […] ut […] fideles corroboret, ignorantes doceat, infideles convertat, aut convincat»18). A 15 A tale riguardo, si noti che la conclusione del testo leboiniano con le parole «Ipso adiuvante qui vivit […]» è ad imitazione delle conclusioni ordinarie delle orazioni della Chiesa, molto comune anche negli antichi lezionari contenenti gli atti dei santi (cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 308 e ss. e 325). Del resto, prima della riforma del breviario romano di s. Pio X, il testo di Leboino faceva parte della liturgia diocesana e veniva letto (per la festa del 14 settembre, l’Esaltazione della Santa Croce, e per tutta l’ottava) durante le celebrazioni, come testimonia il ms. 626 della Biblioteca Capitolare Feliniana di Lucca (sec. XIII), servito per uso del coro come Liber capellae s. crucis (cfr. SCHNÜRER, Sopra l’età […] III, cit., p. 78 nt. 1 e SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 124 nt. 1; LUISO, La leggenda cit., p. 45; LAZZARINI, Il Volto Santo cit., p. 66). 16 Per la datazione relativa alla traslazione cfr. infra p. 154 e nt. 28. 17 Cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 127 (vide Pal. lat. 1988, f. 3r, linee 4-9). 18 Cfr. ibidem, pp. 127-128 (vide Pal. lat. 1988, ff. 3v, linea ultima – 8r, linea 9; per l’errore di ordinamento relativo a questi fogli si veda infra, pp. 162-163). Secondo lo Schnürer si può parlare di una doppia prefazione: la parte iniziale (da «Leboinus diaconus» a «non reportaverit»; vide Pal. lat. 1988, ff. 3r, linea 4 – 3v, linea 20) sarebbe una tarda aggiunta di un compilatore che avrebbe voluto mettere in particolare rilievo l’autorità di Leboino quale testimone oculare dei fatti che narra, mentre la prefazione originale sarebbe quella che segue (da «Ad sancte itaque ecclesie» a «non sit onerosum»; vide Pal. lat. 1988, ff. 3v, linea 20 – 8r, linea ultima), dove Leboino non è nominato ma l’autore parla alla prima persona plurale («vel nos vidimus aut venerabilium virorum relatione comperimus»; sulla questione cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 138 e SCHNÜRER, Sopra l’età […] III, cit., p. 84, per il quale nel nos con cui si presentano i compilatori sarebbero da individuare i canonici di Lucca).
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conclusione della Relatio, in una sorta di piccola appendice relativa alle reliquie del Volto Santo, Leboino, in prima persona, riafferma di aver visto e toccato con mano quanto riferito e di aver sentito narrare i miracoli da religiosi — secondo alcune lezioni della Siria — che in Gerusalemme custodivano il S. Sepolcro («Ego quidam Leboinus, qui hec scripsi, humillimus diaconus fui venerabilis Gualefredi subalpini episcopi et, dum cum eo in Jerusalem manerem, a Syris religiosissimis viris, sepulchrum domini custodientibus, hec inferius descripta cognovi»19) e — dice poco dopo — anche da infermi che sono stati risanati. Tra la fine della Relatio e l’inizio del prologo della sezione relativa ai miracoli — presumibilmente realizzata ad opera della scuola della cattedrale di Lucca — si legge infatti: «Huc usque Leboinus. Inferiora vero eiusdem ecclesie venerabiles clerici Deum timentes, que noverunt aut veracibus viris seu etiam ab ipsis egrotis iam sanatis audierunt et pro certo cognoverunt ne diuturnitate temporis oblivioni traderentur, licteris commendaverunt»20. Il periodo funge dunque da collegamento tra la Relatio, di cui si dice autore Leboino, e la parte relativa ai miracoli, di cui sono indicati come autori «clerici Deum timentes», nei quali si devono individuare i canonici di Lucca21, che, pur non avendo sempre avuto conoscenza diretta degli eventi miracolosi riportati, ne hanno udito in prima persona i resoconti da uomini veritieri o dagli stessi miracolati. Secondo lo Schnürer tutto il periodo sarebbe un’aggiunta di un terzo compilatore — lo stesso della prima prefazione alla Relatio22 — che avrebbe voluto creare un legame, un passaggio logico tra le due parti insistendo su Leboino come autore di quanto precedeva23. Anche sulla base degli elementi forniti dalla tradizione manoscritta, lo studioso tedesco avanza l’ipotesi che Leboino come autore della Relatio non esista: essa sarebbe stata composta, come la sezione sui miracoli, dai canonici di Lucca. Nel testo originario, Leboino sarebbe figurato solo nella parte relativa alle reliquie24, di cui, in quanto testimone, risultava garante. Affidare a lui anche la paternità della 19 Cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 132 (vide Pal. lat. 1988, f. 15r, linee 11-15). 20 Cfr. ibidem, p. 133 (vide Pal. lat. 1988, f. 15v, rubrica). 21 È interessante notare come il volgarizzamento della leggenda, ad opera di «Francischus de Mediolano», contenuto nel Reginense latino 487 traduca esplicitamente il latino eiusdem ecclesie venerabiles clerici: «Le cose infrascritte sono state notificate per gli venerabili cherici de la chiesa di San Martino amatori di Dio […]» (f. 34r). 22 Cfr. supra, p. 152 e nt. 18. 23 Cfr. ibidem, pp. 137-142 e SCHNÜRER, Sopra l’età […] III, cit., pp. 82-85, dove si fa anche notare come difficilmente i canonici di Lucca si sarebbero autodefiniti venerabiles clerici Deum timentes. 24 Da «Ego quidam Leboinus» a «qui vivit et regnat in unitate spiritus sancti Deus per
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Relatio — ovvero della parte più antica della leggenda — avrebbe dunque significato aumentare la credibilità e l’autorevolezza dei fatti ivi narrati25. Un altro punto molto controverso e discusso è costituito dalla datazione dell’arrivo del Volto Santo a Lucca, che nella Relatio viene fissato nel 742: «[…] Lucanam urbem vultus domini introductus est anno ab incarnatione domini nostri Jesu Christi septingentesimo quadragesimo secundo tempore Karoli et Pipini serenissimorum regum, anno regni eorum secondo. Collocatus est autem in ecclesia sancti Martini, in qua est epischopalis sedes, prope valvas eiusdem basilice ad australem plagam»26. Nella precisazione della data viene dunque utilizzato il calendario di Dionigi il Piccolo («ab incarnatione domini nostri Jesu Christi»), diffusosi nel mondo cristiano a partire dal secolo VIII, insieme al sistema romano di datare gli eventi in base agli anni di regno di re e imperatori («tempore Karoli et Pipini serenissimorum regum, anno regni eorum secundo»). Nel 742 condividevano il governo del territorio franco i maggiordomi Carlomanno e Pipino, figli di Carlo Martello, ma in questo anno non si trova alcuna traccia di un vescovo di Lucca di nome Giovanni; il primo vescovo di Lucca a portare questo nome si ebbe negli anni 780-803, mentre nel 742 vescovo di Lucca era Walprando27. Tale considerazione ha portato molti a ritenere che vi sia stato un errore nella datazione e a formulare l’ipotesi che l’anno in questione fosse invece il 782, quando in Italia vi erano due re dagli stessi nomi: Carlo Magno, re d’Italia dal 774 all’814, e Pipino suo figlio, incoronato re d’Italia da papa Adriano I nel 781, all’età di 4 anni; se tale ipotesi fosse esatta il riferimento al secondo anno di regno sarebbe in rapporto al solo Pipino, mentre Carlo sarebbe stato al nono28. omnia secula seculorum. Amen» (cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., pp. 132-133; vide Pal. lat. 1988, ff. 15r, linea 11 – 15v, linea 20). 25 Lo Schnürer, inoltre, non esclude che originariamente Leboino potesse essere, insieme al vescovo Gualfredo, uno dei personaggi della sezione dei miracoli, alla stregua di quanto accade nel miracolo relativo a Stefano di Butrione e al patriarca di Gerusalemme, per il quale si veda la nt. 87 (cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., pp. 139-142 e SCHNÜRER, Sopra l’età […] III, cit., pp. 85-88). 26 Cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 132 (vide Pal. lat. 1988, f. 14v linea 15). 27 Walprando fu vescovo di Lucca dal 732 al 754: cfr. GAMS, Series episcoporum cit., p. 740. 28 Diverse sono state le ipotesi formulate per spiegare tale incongruenza: l’errore di un copista, che avrebbe scritto quadragesimo per octuagesimo, ma si deve considerare che nei codici la data non è espressa in cifre ma in lettere, sicché l’errore non sembrerebbe probabile né foneticamente né graficamente; un errato calcolo dell’anno dell’incarnazione; l’uso di una formulazione tratta da una fonte annalistica lucchese, forse dalla Vita di S. Frediano dove si trova una indicazione cronologica molto simile; un errore di Leboino, o comunque del compilatore della Relatio, che avrebbe lui stesso confuso Carlomanno con Carlo Magno e Pipino padre con Pipino figlio di Carlo Magno; o, ancora, si è anche ipotizzato che Leboino
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I Rapondi Il codice si apre al f. IVv con una miniatura raffigurante due oranti davanti al Volto Santo, accompagnata da una rubrica che invita chi riceve il libro in dono alla preghiera: «Vous qui cestui livre lisiez — ou il a maint enseignement — ie vous pri que pour moy priez, qui l’ay donne devotement». Sotto sono raffigurati due stemmi che, secondo l’uso medievale, devono essere relativi ai proprietari del codice. Il primo, troncato d’argento (ora ossidato) e di rosso, è lo stemma della città di Lucca, il cui stendardo bianco e rosso ricompare nella processione rappresentata nella miniatura del f. 14r. Il secondo è lo stemma dei Rapondi (Raponde), famiglia lucchese di ricchi mercanti e banchieri molto attivi in Francia per le corti di Parigi e Avignone: d’azzurro a dodici rape d’oro, accoppiate a due per due, e formanti sei coppie addossate poste 3, 2 e 1, appare finemente miniato in uno scudo gotico29. I due oranti della miniatura, riccamente vestiti e con mantelli foderati di pelliccia, sono dunque verosimilmente membri di questa famiglia. Le caratteristiche proprie della scrittura e della miniatura hanno portato a datare il codice all’inizio del sec. XV e a localizzare la sua realizzazione in ambiente parigino, dove in questo periodo lavoravano anche artisti provenienti dalle Fiandre; anche sulla base di tali osservazioni, confortate da raffronti con altre testimonianze iconografiche, i due oranti sono stati
avesse indicato i soli anni del regno di Carlo e Pipino e che qualcun altro successivamente abbia voluto aggiungere, magari in margine, il computo degli anni secondo l’era volgare, mal identificando Carlo e Pipino con i maggiordomi figli di Carlo Martello e dunque sbagliando l’indicazione dell’anno — tale annotazione sarebbe poi rifluita nel corpo del testo durante successivi lavori di copia. Sulla questione esiste una vasta bibliografia all’interno della quale si segnalano: SCHNÜRER, Sopra l’età cit., pp. 91-94; P. GUIDI, La data nella leggenda di Leboino, «Archivio storico italiano», ser. 7, 18 (1932), pp. 153-164; GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 318-321; DI POGGIO, Illustrazione del SS. Crocifisso cit., pp. 64-102; LAZZARINI, Il Volto Santo cit., pp. 97-110; FERRARI, Imago visibilis cit., pp. 29-43, in particolare 31-43. 29 Quella dei Rapondi fu una famiglia di fortune mercantili ma con schietta vocazione aristocratica, estintasi nel sec. XVIII. Alla fine del Trecento era tra le più ricche di Lucca, ebbe il titolo comitale palatino da Carlo IV (1369) e partecipò attivamente agli avvenimenti cittadini, ricoprendo le maggiori cariche pubbliche. Il ramo che si trasferì nelle Fiandre, forte della propria ricchezza, primeggiò tra le altre famiglie lucchesi che lì fondarono una popolosa colonia, dando vita ad una potente compagnia di commercio che possedeva banche a Parigi, a Bruges, ad Avignone, ad Anversa e perfino a Venezia, costruendo così un vero e proprio impero finanziario. Per lo stemma, dove sono spesso state ravvisate spighe e non rape, cfr. G. ROCCULI, Quelli delle “Rape d’oro”, in «Atti della Società italiana di Studi Araldici» 26 (2009), pp. 129-139 (con bibliografia), dove si analizza la nascita e lo sviluppo araldico dello stemma: le rape costituiscono un’arma parlante, in quanto, assunte per imprese gloriose, alludono al cognome della famiglia — si fa notare come questa caratteristica insieme alla bicromia d’azzurro e d’oro rimandi alla simbologia Guelfa.
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identificati con Dino (c. 1350-1415) e Giacomo († 1432) Rapondi30. Essi si stabilirono a Bruges e furono i principali fornitori di libri e altri prodotti di lusso (stoffe, arazzi, gioielli, materiali preziosi …) per i duchi di Borgogna, e specialmente per Filippo l’Ardito (1342-1404)31 — noto bibliofilo, fratello del grande collezionista Jean de Berry (1340-1416) nonché del re di Francia Carlo V il Saggio (1338-1380); di Filippo l’Ardito Dino fu anche consigliere personale, rivestendo importanti incarichi di carattere non solo finanzario ma anche politico-militare32. Giacomo, la cui attività si concentrò preci30
Cfr. CHRIST, Die altfranzösischen Handschriften cit., p. 102; SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 200; I. BELLI BARSALI, Le miniature della Legende de Saint Voult de Luques in un codice vaticano appartenuto ai Rapondi, in Lucca, il Volto Santo e la civiltà medioevale, Atti del Convegno Internazionale di Studi organizzato dall’Accademia lucchese di scienze, lettere ed arti (Lucca, Palazzo Pubblico 21-23 ottobre 1982), Lucca 1984, pp. 129-133. Sui Rapondi e le loro attività cfr. Rapondi, Dino, in Dizionario enciclopedico italiano, 10, Roma 1970, p. 144; V. FRIS, Raponde, Dino, in Biographie nationale, publiée par l’Académie royale des sciences, des lettres et des beaux-arts de Belgique, 18, Bruxelles, 1904, coll. 735-739; J. FAVIER, Rapondi, Dino in EAD., Dictionnaire de la France médiévale, Paris 1993, pp. 805-806; L. MIROT, Ètudes lucquoises. Chapitre III. La société des Raponde. Dine Raponde, «Bibliothèque de l’École des chartes» 89 (1928), pp. 299-389; M. J. HUGHES, The Library of Philip the Bold and Margaret of Flanders, First Valois Duke and Duches of Burgundy, in «Journal of Medieval History» 4 (1978), p. 169; P. M. DE WINTER, La bibliothèque de Philippe le Hardi, duc de Bourgogne (1364-1404). Étude sur les manuscrits à peintures d’une collection princière à l’époque du “style gothique international”, Paris 1985, pp. 104-105 e passim; B. BUETTNER, Jacques Raponde, marchand de manuscrits enluminés, in «Médiévales» 14 (1988), pp. 23-32; M. SMEYERS, Lubert Hautscilt, abt van de Brugse Eeckhoutabdij (1393-1417). Over handschriften, planeten en de toekomst van Vlaanderen, in «Academiae Analecta. Mededelingen van de Koninklijke Academie voor Wetenschappen, Letteren en Schone Kunsten van België. Klasse der Letteren» 55 (1995), pp. 78-80; H. COLE, T. COLE, C. FERRI, G. LERA, Lucca e le Fiandre, in «Rivista di archeologia storia costume» 30 (2002), pp. 9-52; L. BART, The City, the Duke and their Banker. The Rapondi Family and the Formation of the Burgundian State (13841430), Turnhout c2006. 31 I codici forniti dai Rapondi, e soprattutto da Giacomo, a Filippo l’Ardito tra la fine del sec. XIV e i primi anni del sec. XV sono accomunati dall’essere tutti manoscritti di lusso, riccamente miniati secondo lo stile franco-fiammingo. Si tratta di: una Bibbia; una Légende Dorée; un Livre des propriétés des choses (Bruxelles, Bibliothèque royal, ms. 9094), traduzione del De proprietatibus rerum composto in latino da Barthélemy l’Anglais; un Cléres et nobles femmes (Paris, Bibliothèque nationale, fr. 12420), traduzione del De claris et nobilibus mulieribus del Boccaccio; tre esemplari del Fleur des histoires de la terre d’Orient del monaco Hayton (Paris, Bibliothèque nationale, fr. 12201); un Lancelot du Lac; un Tito Livio (Bruxelles, Bibliothèque royal, ms. 9049-9050). Su questi codici cfr.: P. DURRIEU, Manuscrits de luxe exécutés pour des princes ou des grands seigneurs français, «Le Manuscrit» 2 (1895), pp. 145149, 162-181; DE WINTER, La bibliothèque de Philippe le Hardi cit., pp. 95-108; BUETTNER, Jacques Raponde cit., p. 25; BELLI BARSALI, Le miniature cit., pp. 129-133. 32 A testimonianza delle importanti disponibilità finanziarie dei Rapondi e del rapporto stretto che li legava ai duchi di Borgogna basterà ricordare che Dino anticipò a Filippo l’Ardito il riscatto richiesto dal sultano dell’impero ottomano Bayezid I per il rilascio di suo figlio Giovanni Senza Paura (1371-1419), catturato in seguito alla disfatta della battaglia di Nicopoli. Inoltre, alla morte di Filippo l’Ardito, avvenuta ad Hal in Hainaut (Vallonia), Dino fu
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puamente sul commercio, soprattutto librario, non svolse solo un ruolo di semplice intermediazione commerciale tra i desideri del committente e il lavoro delle maestranze negli ateliers dove i codici venivano confezionati, ma interveniva direttamente nella produzione dei manoscritti, come un vero imprenditore, coordinando le attività dei copisti, dei miniatori e dei legatori, controllandone l’esecuzione passo passo33. La rubrica sottostante la miniatura fa intuire chiaramente che si tratta di un dono — è stato ipotizzato — o rivolto ai fratelli Rapondi, oppure offerto dal più giovane dei due, Giacomo, al fratello Dino; quest’ultimo, più anziano, sarebbe da individuare nella figura in primo piano con i capelli striati di bianco, Giacomo sarebbe invece la figura in ginocchio di lato all’altare del Volto Santo. La data di morte del più anziano Dino, il 1415, diventerebbe dunque un terminus ante quem per la realizzazione del codice, che secondo la Belli Barsali è da datare «molto probabilmente circa al 1410» e a qualche anno prima secondo la Maddocks34. Già nella continuazione della Relatio di Leboino, si faceva sapere — probabilmente, come si è detto, ad opera dei canonici della cattedrale di incaricato del trasporto funebre fino alle tombe dei duchi di Borgogna, nella Certosa di Champmol a Digione. Proprio a Digione, nella Sainte-Chapelle fondata da Dino, gli fu eretta una statua — probabilmente come segno di gratitudine per i tanti servizi resi —, andata distrutta durante la Rivoluzione e oggi nota tramite un disegno di Jean Piron. Cfr. V. FRIS, Raponde, Dino cit., coll. 737-739; R. VAUGHAN, Philip the Bold: the Formation of the Burgundian State, Woodbridge, Suffolk 20022, pp. 73-74. Dino rimase fortemente legato nel tempo a Giovanni senza Paura, per il quale i Rapondi fecero realizzare anche altri codici. 33 La sua attività in tal senso è attestata da numerosi documenti d’archivio e inventari, citati in DURRIEU, Manuscrits de luxe cit., pp. 145-149, 162-181: cfr., ad locum, J. B. J. BARROIS, Bibliothèque protypographique, ou Librairies des fils du roi Jean, Charles V, Jean de Berri, Philippe de Bourgogne et les siens, Paris 1830 e G. DOUTREPONT, Inventaire de la “Librairie” de Philippe le Bon (1420), Bruxelles 1906. Da quanto ivi attestato, è possibile evincere anche l’elevato prezzo dei codici venduti dai Rapondi, compreso tra i 100 e i 600 franchi per i codici già citati alla nt. 31, quando a quei tempi il prezzo di un codice non miniato si aggirava intorno a pochi franchi (cfr. C. BOZZOLO – E. ORNATO, Pour une histoire du livre manuscrit au Moyen Âge. Trois essais de codicologie quantitative, Paris 1980, pp. 19-49). È stato evidenziato come il coinvolgimento diretto di Giacomo nella realizzazione dei manoscritti non trovi solo motivazioni economiche e lucrative — pur in una prospettiva di ricerca di nuove e diversificate forme di investimento —, ma rifletta piuttosto la volontà della classe mercantile di partecipare attivamente alla diffusione di un certo tipo di prodotto culturale quale è il libro di lusso, portatore di un valore simbolico che eccede largamente l’oggetto stesso: «Il demeure l’un des principaux véhicules où s’élabore, s’apprende et se transmet la vision du monde, instrument idéologique, miroir imaginaire où le pouvoir réel est à la quête de son image»; si riflette inoltre sul fatto che l’attività imprenditoriale di Giacomo «témoigne de ce que l’organisation théoriquement très stricte des métiers souffre dans la pratique des exceptions: une personne suffisamment puissante peut s’arroger des prerogatives pourtant jalousement contrôlees par la corporation des libraries dependant de l’Université» (cfr. BUETTNER, Jacques Raponde cit., p. 26). 34 Cfr. BELLI BARSALI, Le miniature cit., p. 129; MADDOCKS, The Rapondi cit., pp. 93-96.
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Lucca — che dalla Francia, dalla Germania, dalla Grecia, dalla Spagna giungevano pellegrini per visitare il Volto Santo35. A loro volta, i pellegrinaggi aumentarono la diffusione della devozione per il simulacro, che iniziò intorno al sec. XI e in Francia si diffuse particolarmente nel sec. XIV, specie in Provenza e a Parigi36, dove era presente una numerosa colonia di Lucchesi che contribuì attivamente alla diffusione del culto37. Sembra che Bianca di Navarra (1331-1398), moglie in seconde nozze del re Filippo VI di Valois (1293-1350), fosse devotissima del Volto Santo e che un suo simulacro sia stato per sua volontà collocato nella cappella di S. Ippolito all’interno della basilica reale di S. Denis, dove si trovano i sepolcri dei re di Francia; un’iscrizione posta su di un pilastro della cappella ne narrava in 35 Cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 133 (vide Pal. lat. 1988, f. 16r). Per il culto del Volto Santo fuori dall’Italia cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 175-187 e in particolare la nt. 1, dove si dice che un codice dell’Archivio arcivescovile di Lucca (Memorialis, n. 67, f. 1) riferisce di un certo Giovanni, figlio di Arnolfo, che nel 1354 da un paese chiamato Burges o Borgo nella diocesi di Tournay fu mandato in pellegrinaggio presso il Volto Santo per ottenere il perdono da persona cui aveva recato grave oltraggio — a testimonianza che i pellegrini vi si recavano non solo per semplice devozione, ma anche per spirito di espiazione o penitenza. Per una più ampia analisi sul culto del Volto Santo dal sec. XI alla fine del Medioevo cfr. SCHMITT, Estudio histórico cit., pp. 49-57. 36 È attestato che ad Avignone in onore del Volto Santo, nel sec. XIV, fu eretta una cappella nella chiesa dei Domenicani; che a Marsiglia esso era venerato nella chiesa parrocchiale della Madonna; che a Lione i mercanti lucchesi, che qui si trovavano in gran numero, in più luoghi posero immagini del Volto Santo ed eressero una confraternita intitolata a questo simulacro; che a Parigi il culto del Volto Santo si diffuse in particolar modo, come testimoniato da «un antico Processionale della Chiesa di Parigi che conteneva una speciale commemorazione de Sancto Vultu Lucensi, la quale faceasi nel Giovedì santo insieme con altre commemorazioni relative alla Passione», citato da Guerra (cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 177-182; si veda anche SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., pp. 23-26, 195202). Per le attestazioni della leggenda nella antica letteratura francese cfr.: F. GODEFROY, Dictionnaire de l’ancienne langue française, et de tous ses dialectes du IXe au XVe siècle, composé d’après le dépouillement de tous les plus importants documents, manuscrits ou imprimés, qui se trouvent dans les grands bibliothèques de la France et de l’Europe, et dans les principales archives départementales, municipales, hospitalières ou privées […], VIII, Paris 1895, p. 298; O. SCHULTZ-GORA, Zum saint Vou de Luques, «Zeitschrift für romanische Philologie» 32 (1908), p. 458; E. LOMMATZSCH, Nachtrag zum saint Vou de Luques, «Zeitschrift für romanische Philologie» 33 (1909), p. 76 e ID., Nochmals des “saint Vou de Luques”, ibidem, p. 726. 37 I Lucchesi furono tra i maggiori sostenitori e promotori, con le loro largizioni, della costruzione della chiesa del S. Sepolcro, con un ospedale contiguo per ricevervi i pellegrini che andavano in Terra Santa e vi ritornavano — lavori iniziati nel 1326; una delle cappelle di questa chiesa, innalzata dalla famiglia Belloni di Lucca, poi distrutta nel 1791, fu dedicata nel 1343 al Volto Santo, con un simulacro che era copia fedele di quello di Lucca (cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 178-179 e SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., pp. 198-199; si veda anche L. MIROT, Ètudes lucquoises. Chapitre I. La colonie lucquoise a Paris du XIIIe au XVe siècle, «Bibliothèque de l’École des chartes» 88 (1927), pp. 50-86 e H. MADDOCKS, The Rapondi cit., pp. 106-109).
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breve la storia38. Una numerosa colonia di mercanti lucchesi si era stabilita anche nelle Fiandre, e in particolare a Bruges, dove introdusse il culto del Volto Santo39. Rispetto alle altre miniature del codice, quella che raffigura i Rapondi è stata realizzata da un artista diverso, individuato nel «Maestro dell’Incoronazione della Vergine», miniatore principale del De claris mulieribus di Filippo l’Ardito40. È stato notato che la miniatura iniziale si distingue anche per le caratteristiche della decorazione: è l’unica ad avere la semplice cornicetta quadrangolare, senza gli ornati a foglie che si trovano in tutte le altre; è l’unica dove vi è impiego di argento — per lo stemma e per i calzari del Cristo; diversa è la qualità dell’oro per i bolli sul rosso dello sfondo. Si sottolinea, inoltre, come caratteristiche particolari di questo pittore siano la morbidezza nella rappresentazione dei volti e delle mani, la precisione e la padronanza nella realizzazione degli spazi in cui si collocano le figure rispetto all’altare, i raffinati impasti e gli accostamenti cromatici (rosa dell’altare), il sottile panneggio degli abiti41. È inoltre da notare che la scrittura della rubrica che accompagna l’illustrazione è di mano diversa da quella del testo e, rispetto ad essa, di poco successiva. Considerata anche la fascicolazione — si tratta di un bifoglio, rimasto bianco nelle altre pagine, che presenta le stesse caratteristiche degli altri fascicoli42 —, si può ipotizzare che la miniatura, realizzata da un altro laboratorio, sia stata aggiunta poco più tardi al codice già completato. I Rapondi avrebbero dunque voluto per sé uno di quei libri di lusso che erano soliti offrire ai regnanti: un libro nato dallo stesso raffinatissimo 38 Cfr.
J. DU BREUL, Le théatre des antiquitez de Paris, où est traité de la fondation des églises et chapelles de la cité, université, ville et diocèse de Paris […], Paris 1612, pp. 1110-1111; GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 179, 479-480 e ntt. 9 e 10; SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 198 e nt. 2. 39 Dino Rapondi visse a Bruges dopo il 1369 e vi morì nel 1415 (cfr. MIROT, Ètudes lucquoises. Chapitre III cit., p. 382). Nella chiesa detta degli Agostiniani o, meglio, nella chiesa abbaziale dei Canonici regolari professanti la regola di s. Agostino, i Lucchesi avevano la loro cappella dedicata al Volto Santo — oggi distrutta — e mandavano a Lucca le loro oblazioni; cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 180-181. 40 Cfr. M.-T. GOUSSET, Estudio artístico de las miniaturas de la Leyenda de la Santa Faz in La Leyenda de la Santa Faz. Biblioteca Apostólica Vaticana, Codice Palatino Latino 1988 cit., p. 95 e ss.; MADDOCKS, The Rapondi cit., pp. 93-96, 114-120; BELLI BARSALI, Le miniature cit., pp. 134-136; SCHMITT, Estudio histórico cit., pp. 53. Per il De claris mulieribus di Boccaccio offerto da Jacopo Rapondi a Filippo l’Ardito (Paris, Bibliothèque nationale, fr. 12420) cfr. DE WINTER, La bibliothèque de Philippe le Hardi cit., pp. 206-207; si veda anche M. MEISS, French Painting in the Time of Jean de Berry: the late fourteenth Century and the Patronage of the Duke, 1, [London and New York 1967]. 41 Cfr. BELLI BARSALI, Le miniature cit., p. 134. 42 Cfr. infra gli aspetti codicologici e la nt. 61.
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ambiente che produsse libri per la corte di Parigi, per i duchi di Berry e di Borgogna e ad essi identico in tutto — anche per il miniatore —, a imitazione dei comportamenti culturali e delle scelte estetiche dei principi e come rivendicazione di uno status sociale diverso da quello finora riconosciuto alla classe mercantile. La scelta di un codice contenente la leggenda del Volto Santo di Lucca significa, però, anche una affermazione della propria identità e delle proprie origini, come testimoniato anche dagli stemmi realizzati al f. IVv43. Aspetti codicologici Il corpo del codice, di complessivi 48 fogli (VII, 48, V; mm 347 u 242), si compone dei seguenti fascicoli, tutti membranacei: 2 bifogli (il primo numerato per ff. III-IV, il secondo numerato per ff. 1-2), 5 quaternioni (ff. 3-10; 11-18; 19-26; 27-34; 35-42); 1 binione (ff. 43-[46]). Il primo fascicolo è preceduto da 4 bifogli cartacei moderni: i primi due, bianchi, non numerati, sono stati aggiunti a protezione del codice durante un recente restauro — il primo foglio è oggi la risguardia incollata sul contropiatto anteriore; il terzo bifoglio, anch’esso privo di numerazione e con funzione di guardia, reca sul recto del secondo foglio l’attuale segnatura e, depennata, l’antica segnatura 183044; il quarto bifoglio, numerato a matita da mano recente per ff. I-II, di dimensioni poco più ridotte rispetto al codice (mm 332x226), bianco nel secondo foglio, reca sul primo un sommario in lingua tedesca del contenuto del codice intitolato «Inhalttung dieses buechs», di mano del sec. XVI45, che aggiunge in calce «in summa non credo». Le guardie finali sono costituite da tre bifogli cartacei — gli ultimi due di restauro —, tutti bianchi e non numerati; la risguardia incollata sul contropiatto posteriore è costituita dal secondo foglio del secondo bifoglio. Il primo fascicolo del codice, anch’esso un bifoglio, aveva probabilmente in origine funzione di guardia, per questo risulta numerato per ff. III-IV, da mano moderna che continua la numerazione delle precedenti guardie; coevo al manoscritto, rimane bianco nel primo foglio — dove sul recto è 43
Si noti che «tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, l’aspirazione ad un modello di vita che rispecchiasse, nei segni esteriori, quello aristocratico fa si che si diffonda presso commercianti, che si trovavano a risiedere anche temporaneamente nei territori d’oltralpe, la necessità di creare sigilli per autenticare i propri documenti. È così che hanno origine i primi contrassegni che si codificheranno, poi con l’evoluzione in senso araldico, in veri e propri stemmi familiari»: cfr. ROCCULI, Quelli delle “Rape d’oro” cit., p. 131. 44 Cfr. l’inventario realizzato da Alessandro Ranaldi con la collaborazione di Donato Lillitelli (Vat. lat. 7122, f. 288r); a riguardo si veda infra la storia del codice. 45 Christ ipotizza che si possa trattare di un bibliotecario di Heidelberg (CHRIST, Die altfranzösischen Handschriften cit., p. 100).
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annotato a penna n. 1245 — e nel recto del secondo; il n. 1245 è presente anche nell’angolo superiore esterno del f. [46v]46. Il f. IVv contiene invece la miniatura raffigurante i due oranti davanti al Volto Santo, identificati con i fratelli Rapondi, come già detto realizzata da una mano diversa rispetto a quella delle altre illustrazioni47. L’esame codicologico porta ad escludere che si tratti di un fascicolo aggiunto, in quanto il tipo di pergamena e le modalità della foratura48 appaiono i medesimi rispetto agli altri fogli; è più verosimile che il foglio, lasciato dapprima bianco — forse con funzione di guardia o forse con l’intenzione di utilizzarlo in un secondo tempo —, sia stato miniato in un momento di poco successivo alla realizzazione del codice, da un laboratorio più prestigioso. Con il secondo fascicolo, ancora un bifoglio, numerato per ff. 1-2, inizia la foliazione del codice, per ff. 1-44, apposta a penna nell’angolo superiore esterno dei fogli che contengono il testo49 da mano non tedesca, verosimilmente dopo l’arrivo in Vaticana nel 1623. Il bifoglio si presenta bianco nelle pagine interne (ff. 1v-2r)50, mentre su quelle esterne offre due ricche miniature riguardanti Nicodemo, ciascuna corredata da una lunga rubrica esplicativa (ff. 1r e 2v); esse illustrano quello che potrebbe essere definito l’antefatto degli eventi narrati dalla leggenda del Volto Santo, ovvero la realizzazione del crocifisso, fungendo così da “introduzione” al testo di Leboino e ai fascicoli che seguono, ma si succedono in una sequenza invertita rispetto a quella dettata dalla cronologia degli eventi: l’illustrazione in cui 46 Christ la considera un’antica segnatura (cfr. ibidem); si potrebbe dunque trattare di una delle segnature provvisorie assegnate durante i primi lavori di ordinamento e inventariazione che i codici provenienti da Heidelberg subirono appena giunti in Biblioteca Vaticana: «prima di assegnare ai codici l’odierno numero definitivo, furono fatte due e forse tre numerazioni provvisorie, quelle stesse che si riscontrano cancellate nell’interno dei codici medesimi» (cfr. E. STEVENSON, La raccolta Palatina dei codici e libri a stampa ed i lavori eseguiti intorno alla medesima per ordine del Sommo Pontefice Leone XIII, in Nel Giubileo episcopale di Leone XIII. Omaggio della Biblioteca Vaticana, XIX febbraio anno MDCCCXCIII [Roma 1893], pp. 1-20 [paginazione propria] e in particolare p. 10). Si può tuttavia anche ipotizzare che tale numero — presente sul recto del primo foglio membranaceo del codice e ripetuto sul verso dell’ultimo — possa essere quello progressivo assegnato ai volumi da Leone Allacci durante il trasporto dei manoscritti da Heidelberg in Vaticana — il fatto che tale numerazione non sia consecutiva all’interno del fondo rende tuttavia difficile dimostrare ogni supposizione. Sulla problematica relativa a questo tipo di numerazioni cfr. STEVENSON, La raccolta Palatina cit., pp. 1-20 e, in particolare, p. 7; si veda inoltre infra la storia del codice. 47 Cfr. supra, p. 159 e nt. 40. 48 In particolare, il bifoglio presenta il doppio foro finale che individua la linea di piede; cfr. infra e ntt. 52 e 56. 49 Il f. 44 è l’ultimo occupato dal testo; sono dunque privi di numerazione gli ultimi due fogli, rimasti bianchi (ff. [45-46]). 50 I ff. 1v e 2r, bianchi, recano entrambi il timbro circolare ad inchiostro nero della Biblioteca Vaticana, presente anche ai ff. Iv, IVv, 44v.
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l’angelo indica a Nicodemo l’albero in cui scolpire il Volto Santo (f. 2v) segue quella in cui l’angelo completa la scultura realizzando il volto (f. 1r)51. È possibile che tale sequenza sia stata causata da un errore di piegatura del bifoglio, che, forse, in origine, presentava le pagine bianche all’esterno e conteneva le due miniature all’interno (l’originaria sequenza dei fogli sarebbe, dunque, ff. 2, 1); rimane, tuttavia, singolare e da chiarire il motivo per cui, nella disposizione del testo del primo bifoglio, si era compiuta la scelta di lasciare due pagine bianche, creando un elemento di disturbo nel regolare e armonioso alternarsi dei fogli52. Il terzo fascicolo (ff. 3-10) — con il quale inizia la Relatio di Leboino — presenta un errore nell’ordinamento dei bifogli, come reso evidente, oltre che dalla incongruente successione del testo, anche dall’incoerente sequenza delle illustrazioni, il cui ordine cronologico risulta sfalsato e confuso rispetto a quanto riportato dalla leggenda. Si ricostruisce, quindi, di seguito l’esatta successione dei fogli: 3, 8, 9, 6, 7, 4, 5, 1053. I bifogli esterno (ff. 3-10) ed interno (ff. 6-7) sarebbero, dunque, in posizione corretta, mentre i bifogli mediani avrebbero subito un’inversione della posizione all’interno del fascicolo: in un corretto ordinamento il bifoglio costituito dai ff. 5 e 8 avrebbe dovuto precedere quello formato dai ff. 4 e 9; inoltre, in entrambi 51
Per la sequenza delle due miniature cfr. anche infra, p. 169 e nt. 81. A riguardo è, innanzitutto, da notare che errori di piegatura del foglio si ripetono nel primo fascicolo (ff. 3-10), per cui cfr. infra. Si osservi poi che — nonostante la differenza tra il lato-pelo e il lato-carne sia quasi impercettibile per via di una accuratissima operazione di levigatura — nell’attuale sequenza dei fogli (ff. 1-2) la regola di Gregory viene rispettata; nella sequenza che prevede la corretta successione cronologica delle illustrazioni (ff. 2-1) il bifoglio presenterebbe invece esternamente il lato-pelo ed internamente il lato-carne, contrariamente agli altri fascicoli, per i quali cfr. infra. Si noti inoltre che, nell’attuale ordine dei fogli, la miniatura degli oranti in ginocchio davanti al Volto Santo (f. IVv) e quella di Nicodemo accasciato accanto alla scultura in via di realizzazione (f. 1r) presentano notevoli analogie — nella raffigurazione del crocifisso nonché dello sfondo della scena — offrendosi al lettore in modo quasi speculare. Infine, il fatto che i richiami siano stati realizzati anteriormente alle miniature e alle rubriche (cfr. infra, p. 164) indurrebbe a riflettere ulteriormente sulla peculiarità di questo fascicolo (ff. 1-2), costituito solo da illustrazioni e rubriche e privo di testo: esso è infatti l’unico ad essere costituito da un semplice bifoglio (esclusi i ff. III-IV con la miniatura dei Rapondi); è l’unico a contenere pagine bianche (escluso il binione finale, che le ha perché il testo si conclude prima); è l’unico ad avere sotto la riga di piede un’altra linea di scrittura con relativa rettrice, al fine di consentire che la rubrica-didascalia termini nella stessa pagina dell’illustrazione, e, per lo stesso fine, reca un numero molto più alto di abbreviazioni. Esso, come già detto, non contiene il testo di Leboino, ma, tramite le miniature e le relative rubriche, ne illustra l’antefatto: in certo senso, si potrebbe dunque dire che il bifoglio ha una storia in qualche modo a sé stante rispetto al resto del codice, nei confronti del quale svolge una funzione di prologo, sia contenutistico che strutturale; in tale ottica la presenza delle due pagine bianche diventerebbe dunque più comprensibile. 53 La medesima sequenza era già stata ricostruita da CHRIST, Die altfranzösischen Handschriften cit., p. 100. 52
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i casi, il bifoglio avrebbe dovuto essere piegato nel senso opposto a quello attuale, ripetendo un fenomeno che si è già osservato nel bifoglio iniziale (ff. 1-2). Tale ricostruzione è suggerita e confortata anche da alcune lettere (a-f), affiancate da due punti, apposte a penna da mano di poco posteriore al copista proprio in corrispondenza dei luoghi che richiedono il riordinamento; seguendone dunque l’ordine alfabetico, si ricostruisce agevolmente la sequenza corretta sopra indicata: a al f. 3v, sul margine inferiore, accanto ad una croce che funge da segno di richiamo; b al f. 8r, sul margine superiore, anch’essa accanto ad una croce; C al f. 9v, sul margine inferiore; d al f. 6r, sul margine superiore; E al f. 4r, sul margine superiore; f, al f. 10r sul margine superiore. Come detto, la mano che opera tali annotazioni è di poco posteriore a quella che verga il testo: si può dunque ritenere che tale errore nella fascicolazione, se non originario, risalga comunque ad una fase molto antica della vita del codice. Risulta evidente, sfogliando il codice, l’estrema omogeneità che caratterizza le singole pagine, tanto che non è immediato, persino al microscopio, distinguere i due lati della pergamena, talvolta riconoscibili solo per la persistenza di piccole aree pilifere54 e in base al tatto. A seguito dell’analisi condotta, la regola di Gregory sembra rispettata; i fascicoli, privi di segnatura, iniziano dal lato carne55, secondo una pratica che, contestualmente all’uso della rigatura a colore e alla consuetudine di far iniziare la scrittura sotto la prima riga, si diffonde nell’Europa centro-settentrionale a partire dal sec. XIII56: sia il lato pelo che il lato carne sono estremamente levigati 54 Si veda ad esempio il f. 5v, lungo il margine esterno, in corrispondenza delle linee 5-6; a riguardo desidero ringraziare la dott.ssa Marta Grimaccia, restauratrice della Biblioteca Vaticana, e Matteo Minelli per l’aiuto fornito nell’analisi al microscopio. 55 In tutti i fascicoli le pagine baciate si presentano vis à vis con un’alternanza regolare tra il lato pelo e il lato carne, anche in quelli iniziali (ff. III-IV, 1-2, 3-10). In particolare, per quanto riguarda il primo quaternione (ff. 3-10) è da segnalare che la regola di Gregory risulterebbe rispettata anche nella successione dei fogli proposta dalla ricostruzione. 56 L’uso di far iniziare il fascicolo dal lato-carne, proprio del mondo greco, è assai inconsueto in Occidente — al di fuori dell’area insulare — fino al sec. XIII; tra le più antiche testimonianze di quest’uso vi è un codice scritto a Tours nel 1232 e il cambiamento risulta già largamente attestato intorno al 1250: cfr. M. PALMA, Modifiche di alcuni aspetti materiali della produzione libraria latina nei secoli XII e XIII, «Scrittura e civiltà» 12 (1988), pp. 119133, si veda in particolare p. 126. Palma ipotizza che i tre fenomeni — il rinnovamento della tecnica di rigatura, la discesa della scrittura al di sotto della prima rettrice e l’apparizione del lato-carne all’inizio del fascicolo — possano essere tra loro collegati: far cominciare il fascicolo con il lato-carne, solitamente più chiaro e omogeneo, rendeva più evidente il colore della rigatura e predisponeva, dal punto di vista estetico, lo specchio rigato a ricevere la scrittura del tutto al suo interno. La scrittura risulta facilitata dalla rigatura a colore, soprattutto quella realizzata con la penna mozza propria dell’età gotica, in quanto «non doveva più preoccuparsi dei solchi e dei rilievi lasciati dallo strumento incisore, ma poteva scorrere su di una superficie assolutamente piana» (cfr. PALMA, Modifiche cit., p. 127). Sulla diffusione
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e tra loro assai omogenei, i bulbi risultano poco evidenti conseguentemente al tentativo di eliminarne ogni traccia, spesso eradendo l’intero strato papillare del derma con i relativi follicoli. Tale cura è stata impiegata per realizzare un prodotto di lusso, migliorando quanto più possibile la qualità della pergamena, che, pur priva di lisières o cuciture, presenta margini irregolari e una superficie non perfettamente piana; all’interno dello stesso foglio, si possono notare difformità di spessore e piccole aree translucide causate dalla morfologia della pelle o da inconvenienti di lavorazione — ad esempio la tensione a cui la pergamena era sottoposta durante il processo di essiccazione — che l’hanno resa in alcuni punti molto sottile; ad un esame attento, sono talvolta visibili inserzioni, tramite restauro, di piccoli frammenti di pergamena, atti probabilmente proprio a rinforzare il supporto nei punti più deboli (ad esempio ai ff. 7, 9, 12, 13, 15, 31, 34). Si rileva, inoltre, che tutti i fogli sono piuttosto ingialliti e recano frequenti macchie, per lo più provocate dalla cera (ff. 3, 29, 30, 38, 43) o dall’inchiostro — nella fattispecie nel primo fascicolo, dove gore d’acqua e inchiostro nero, verosimilmente quello utilizzato per i riquadri delle illustrazioni e per il relativo decoro fitomorfico, hanno danneggiato le miniature e in alcuni casi la scrittura, rendendo illeggibili alcune lettere (f. 9r). I richiami sono apposti alla fine di ogni fascicolo a partire dal terzo (ff. 3-10), che contiene l’inizio effettivo del testo; sono disposti orizzontalmente nel margine inferiore dell’ultimo foglio, nella porzione inferiore destra (ff. 10v, 18v, 26v, 34v, 42v), da mano diversa e di poco successiva rispetto al copista. In particolare, si fa notare che per il primo fascicolo il richiamo «Lors l’evesque» (f. 10v) non corrisponde all’incipit del f. 11r — che non contiene il testo, ma un’illustrazione e la relativa rubrica — ma a quello del f. 11v, dove effettivamente il testo continua; questo indurrebbe a pensare che i richiami siano stati apposti in un momento precedente l’esecuzione delle illustrazioni e delle rubriche57. La foratura è visibile lungo i margini laterali esterni di quasi tutti i fogli, se pur talvolta parzialmente rifilati58; i fori presentano per lo più forma oblunga, parallela alle rettrici, realizzata con un coltellino (corrispondente al tipo H della classificazione fatta dalla Jones59: ff. 13, 43); nel quinto fascicolo i fori, sempre oblunghi, si presentano leggermente trasversali alle del lato carne ad inizio di fascicolo cfr. anche A. DEROLEZ, The palaeography of gothic manuscript books from the twelfth to the early sixteenth century, Cambridge 2003, p. 33. 57 Cfr. supra e nt. 52. 58 Fori di guida, lungo il margine esterno, sono presenti anche ai ff. III-IV e [45-46], che risultano privi sia di rigatura che di scrittura, ad eccezione del f. IVv. 59 Cfr. L. W. JONES, Pricking Manuscripts: the Instruments and their Significance, Cambridge (Mass.) [1946], p. 394.
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rettrici (ff. 19-26); fori di forma tondeggiante — con una sezione non perfettamente tonda —, verosimilmente realizzati con il punteruolo, si rintracciano invece nel terzo fascicolo (secondo il tipo B della classificazione fatta dalla Jones60: ff. 3-10), anche accanto a fori di forma oblunga (f. 8). È da segnalare che la riga di piede è sempre evidenziata da una foratura doppia, ovvero da due fori realizzati l’uno accanto all’altro, probabilmente al fine di conferire maggior rilievo al foro di guida per l’ultima riga; ciò accade su tutti i fogli, anche i ff. III-IV61. È inoltre visibile su molti fogli — altrove è stata rifilata — una foratura per squadratura, atta a determinare la configurazione generale dello specchio di rigatura, costituita da due fori sul margine di testa e due fori sul margine di piede, che oggi figurano sulla linea delle giustificazioni (f. 29)62. La rigatura è realizzata a colore63; nei fogli privi di miniature lo specchio di rigatura è delimitato da due righe orizzontali che si prolungano fino alle estremità del foglio e due verticali delimitanti lateralmente la giustezza e prolungate fino alle estremità superiore ed inferiore del codice (tipo Derolez 13: f. 15)64. Le righe sono sottili e realizzate in modo preciso, secondo un tracciato che rispetta per lo più rigorosamente le linee di giustificazione. Il testo si estende a piena pagina ed inizia sempre sotto la prima riga; i margini ampi concedono ariosità alla pagina, nonostante la scrittura sia piuttosto compatta e serrata all’interno dello specchio rigato (mm 222x142), con poca distanza tra le parole. Le linee di scrittura sono 25 su 26 righe, distanti tra loro 9 mm65. La mise en page La mise en page rivela un forte legame tra testo e apparato illustrativo, 60
Cfr. ibidem, p. 392.
61 Ciò confermerebbe che il foglio contenente la miniatura con gli oranti davanti al Volto
Santo non è aggiunto ma, coevo al codice, potrebbe essere stato miniato in un secondo tempo (cfr. supra, p. 159). Sulla foratura doppia cfr. DEROLEZ, The palaeography cit., p. 35. 62 Cfr. ibidem, p. 35 e fig. 1 a p. 46. 63 Non posseggono rigatura i fogli rimasti bianchi (ff. IIIr-IVr, 1v-2r, [45r-46v]). 64 Ai ff. 1r, 2v, 3r, ad esempio, in corrispondenza della base delle illustrazioni — che misurano in altezza circa 145 mm, occupando oltre la metà dello specchio rigato — si può notare una riga, sempre tracciata ad inchiostro, che si prolunga verso l’estremità dei margini, che doveva servire come guida per la realizzazione della cornice della miniatura. 65 Alcune righe rimangono bianche in alcuni fogli, per l’esigenza — legata alla mise an page — di avere un’intera pagina disponibile per l’apparato illustrativo (cfr. infra e nt. 71). Si fa inoltre notare che ai ff. 1r e 2v l’ultima linea è vergata al di sotto della riga di piede, sempre nel rispetto delle giustificazioni, probabilmente al fine di completare nella stessa pagina la rubrica relativa all’illustrazione.
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quasi come se si trattasse di una storia per immagini, tanto che seguendo le illustrazioni e le relative rubriche si ricostruiscono e seguono agevolmente gli eventi narrati dalla leggenda. L’apparato decorativo del codice si costituisce principalmente di 27 illustrazioni, che rappresentano in parte le fasi della rivelazione, del rinvenimento e della traslazione del Volto Santo narrati dalla Relatio, scandendone gli episodi, in parte sono invece dedicate ad illustrarne i miracoli. Le miniature si trovano indifferentemente sul recto o sul verso del foglio e si estendono per tutta la larghezza del campo di scrittura, per un’altezza che supera sempre la metà della pagina66; sono contenute in una cornicetta a triplo filetto, profilata in nero e riempita d’oro e blu o d’oro e rosso, da cui si diparte un fregio di foglioline aguzze — anch’esse in rosso, blu e oro, talvolta accompagnate da piccoli animali stilizzati simili a draghi — che contorna per gran parte il riquadro, terminando alle due estremità con una elegante coda, secondo uno stilema tipico della Francia dell’inizio del sec. XV67. La pagina è dunque costruita in modo accurato, secondo una suddivisione-guida in cui raffinato è il rapporto tra la dimensione del foglio, la grande miniatura quadrangolare, la lettera-incipit, la riga della scrittura e la scrittura stessa. La successione degli elementi costitutivi all’interno della pagina è fissa, sicché essi si susseguono sempre secondo la sequenza: miniatura, rubrica, lettera-incipit, testo. Nonostante il testo originale non sia suddiviso in capitoli, l’architettura della pagina, così concepita, porta a strutturarlo come se lo fosse, individuandone i nuclei tematici principali, che diventano oggetto dell’illustrazione e della rubrica. Ogni “capitolo” è, dunque, introdotto da una grande illustrazione, seguita da una rubrica — solitamente di due o tre righe — che risulta estranea al testo di Leboino e funge da didascalia dell’illustrazione e da sommario del testo che segue. Ogni “capitolo” ha inizio con una lettera-incipit riccamente miniata, con corpo di colore blu o rosso, inserita in riquadri su fondo in oro, con decori nel colore complementare della lettera e fogliami diversi da quelli del fregio di contorno, anch’essi in blu e rosso68; può o meno essere incorporata 66
La lunghezza delle illustrazioni oscilla tra i 135 mm della meno estesa (f. 8v) ai 190 mm della più ampia (f. 5r). 67 Si vedano, ad esempio, i ff. 20v, 33r. A riguardo cfr. DEROLEZ, The palaeography cit., p. 43. 68 La dimensione e la forma dei riquadri — da quadrata a rettangolare (ff. 5r, 20v) — possono subire lievi variazioni anche a seconda dello spazio rimasto disponibile nella pagina per il testo. La maggior parte delle iniziali si estende — solitamente partendo al di sotto della rubrica — per 5 (f. 3r) o 6 righe (18v); in particolare, hanno un’estensione di 6 righe quando si trovano all’inizio della pagina, mentre la relativa illustrazione e la rubrica sono realizzate in quella precedente (ff. 11v, 12v). Alcune altre si estendono per 4 (f. 13v) o per 3 righe (f. 13r).
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nella cornice vegetale che contorna l’illustrazione e decora la pagina69. La lettera che segue è sempre maiuscola, vergata nello stesso inchiostro del testo secondo la morfologia tipica gotica, come fosse un’iniziale70. L’illustrazione occupa sempre la parte iniziale della pagina e il testo viene di conseguenza disposto in base a tale criterio di mise en page; per far sì, dunque, che un’intera pagina sia sempre disponibile per l’apparato illustrativo accade spesso che, in corrispondenza della fine di un “capitolo”, alla fine di una pagina, rimangano alcune righe bianche71. Questo assetto subisce variazioni solo in pochi casi, in cui la rubrica è vergata sulla pagina che precede l’illustrazione, probabilmente al fine di evitare che il numero delle righe lasciate bianche fosse eccessivo ed esteticamente sgradevole (ff. 30v e 33v) o, almeno una volta (f. 4v), perché lo spazio rimasto bianco era esattamente sufficiente a contenere la rubrica. Rubriche non accompagnate da illustrazioni si trovano solamente nei seguenti casi: alla fine della Relatio propriamente detta, dove due rubriche introducono rispettivamente la sezione relativa alle reliquie (f. 15r) e il prologo ai miracoli (f. 16r) e una terza è costituita dal passo che immediatamente lo precede, considerato un’aggiunta (f. 15v)72; all’interno della narrazione relativa al miracolo dell’uomo semplice che impara a pregare (f. 20r: «Item de celui mesmes»); a introduzione del miracolo relativo al racconto del patriarca di Gerusalemme sulle reliquie contenute nel Volto Santo (f. 22v), forse perché anche il precedente contiene un racconto sullo stesso argomento (f. 20v)73; e, alla fine del codice, a introduzione della lettera che segue il miracolo del 1334 (f. 43v)74. In questi punti, dove dunque le porzioni di testo tra una illustrazione e l’altra sono piuttosto lunghe, sono state realizzate anche piccole ed eleganti iniziali ornate che ripropongono, in misura minore, i colori e i temi vegetali di quelle di modulo più grande poste all’inizio dei “capitoli”: inscritte in riquadri su fondo oro, sono riempite alternatamente 69 Cfr. ff. 13v, 14r, 31r e 33r; si noti come, quando le iniziali si trovano ad inizio di pagina, ricche e ampie fioriture si prolungano per tutto il margine esterno e parte di quello superiore e inferiore (ff. 11v, 12v). 70 Cfr. DEROLEZ, The palaeography cit., p. 183. 71 Rimangono bianche le seguenti righe: ai ff. 6r e 7r le ultime 4; al f. 8r le ultime 7; al f. 10v le ultime 5; al f. 11v le ultime 10; al f. 12r l’ultima; al f. 12v le ultime 7; ai ff. 18v e 20v una riga tra la rubrica e l’inizio del testo; al f. 23v le ultime 2; al f. 25r le ultime 7; al f. 29r le ultime 6; al f. 30v, privo di illustrazione, 2 righe prima della rubrica e, di seguito a questa, le 5 righe finali; al f. 32v le ultime 3; al f. 33v, privo di illustrazione, 3 righe prima della rubrica e, di seguito a questa, le 3 righe finali; al f. 35r le ultime 2; al f. 37r le ultime 2; al f. 38v l’ultima; al f. 44v l’ultima. 72 Cfr. supra p. 153 e nt. 20. 73 Cfr. infra e nt. 87. 74 Cfr. infra p. 172 e ntt. 89-91.
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di blu o rosso75. Soprattutto in questa parte del codice si incontrano segni di paragrafo — prima quasi del tutto assenti — realizzati negli stessi colori delle iniziali, con corpo in oro su fondo blu o rosso76. Si trovano poi, diffuse per tutto il manoscritto, lettere maiuscole ravvivate da colore giallo, oggi parzialmente svanito; spesso presentano al centro un sottile corridoio verticale lasciato per lo più vuoto (fig. 68) o, talvolta, riempito con lo stesso inchiostro della scrittura (fig. 69), a fine ornamentale77. Si tratta delle lettere successive a quelle di incipit e, per lo più, di iniziali di periodo78, che costituirebbero dunque un’ulteriore grado, estetico e funzionale al testo79, all’interno della classificazione gerarchica delle iniziali utilizzate nel codice. L’ultima riga di un “capitolo” o di una pagina, se non completamente occupata dal testo, viene riempita con finalini rettangolari bicolori, in rosso o blu, decorati al loro interno con piccoli triangoli o circonferenze dorate e con tratti curvilinei o rettilinei bianchi che ricorrono anche nel riquadro delle iniziali (ff. 6v, 7r, 12v); altre volte i finalini ripropongono il profilo delle cornici delle illustrazioni, spesso a triplo filetto, sempre nei medesimi tre colori, oro, blu e rosso (ff. 8r, 10r)80. Di seguito si riporta un prospetto schematico delle singole illustrazioni, posto in rapporto alla mise en page e al testo della leggenda, che — come si è già detto —, così come compare nel manoscritto, si compone di tre parti: I. il racconto attribuito a Leboino, ovvero la Relatio de revelatione sive inventione ac translatione sacratissimi Vultus (ff. 3r-15v); II. il racconto di antichissimi e miracolosi prodigi operati dal Volto Santo, o cosiddetto Libro dei miracoli (ff. 16r-38r); III. il racconto del cosiddetto miracolo del 1334 (ff. 39r-44v). 75
Cfr. ff. 15r, 16r, 20r, 23r, 43v; si estendono per due o tre righe di scrittura. I segni di paragrafo si incontrano a partire dal f. 14v, verso la conclusione della Relatio di Leboino (che termina al f. 15v), in corrispondenza di parti di testo prive di illustrazioni. 77 Si vedano, ad esempio, al f. 28r, le iniziali E (linee 1, 5, 8), U (linea 10), S (linea 14), C (linea 16, 20, 23); in particolare, si pongano a confronto tra di loro le E e le C, nelle quali i tratti ornamentali sono rimasti in alcuni casi vuoti e in altri sono stati riempiti con lo stesso inchiostro del testo; si vedano anche la G al f. 8v, linea 5 e al f. 12v, linea 14 e la E al f. 31v, linee 16 e 19. 78 Cfr., ad esempio, la O al f. 5r linea 1 e le M, E, S, P del f. 5v alle linee 2, 8, 10, 13, 14, 17, 23. 79 Le diverse tipologie di iniziali, per ricchezza di decorazione e diversità di modulo, contribuiscono a evidenziare la articolazione del testo in capitoli, facilitandone l’individuazione. 80 Pur avendo bianca l’ultima riga e la parte finale della penultima, rimane invece privo di finalino l’ultimo foglio (f. [44v]). 76
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A sua volta la prima parte, ovvero la Relatio propriamente leboiniana, si suddivide in tre sezioni: — prologo, in cui si presenta la materia trattata; — de inventione sive revelatione, ovvero la narrazione del ritrovamento della scultura del Volto Santo in Gerusalemme ad opera del vescovo Gualfredo, pellegrino in Terra Santa, e del suo tragitto miracoloso in nave dal porto di Ioppe a quello di Luni; — de translatione, ovvero la narrazione del trasporto del Volto Santo dal porto sulla terraferma e da Luni al duomo di Lucca, seguita da alcune righe conclusive sul ruolo di Leboino. Precedono l’inizio del testo leboiniano due miniature — corredate ciascuna da una lunga rubrica esplicativa, estranea al testo della Relatio —, che fungono da introduzione agli eventi successivamente narrati, illustrandone quello che può essere definito l’“antefatto”, ovvero la creazione del Volto Santo ad opera di Nicodemo (ff. 1r-2v): — f. 1r: Nicodemo dorme mentre l’angelo incorona il Volto Santo; — f. 2v: l’angelo ordina a Nicodemo di tagliare l’albero in cui scolpirà il Volto Santo. La successione delle due miniature, come si è già detto81, risulta invertita rispetto alla sequenza degli eventi narrati nella leggenda, come reso evidente anche dal contenuto dalle rubriche: quella del f. 2v ha carattere introduttivo («Cy est descripte la legende du Saint Voult de Luques, lequel est mis et pose en la grant eglise cathedral de Saint Martin de Luques, laquelle histoire est de la revelation, construccion et advenement glorieux du dit Saint Voult en la ditte cite de Luques. Et premierement comment par la grace de Dieu un ange apparut a Nychodeme […]»); la rubrica al f. 1r illustra il momento immediatamente successivo («Comment le tres christien Nychodemus […] charpenta la figure de Nostre Seigneur Ihesucrist […]»). I. RELATIO LEBOINIANA (ff. 3r-15v)82 Prologo (ff. 3r-v, 8r) 81 Cfr. supra gli apetti codicologici pp. 161-162 e la nt. 52. La Belli Barsali ipotizza che l’inversione nella successione delle due miniature sia stata voluta e abbia la funzione di «mettere in rilievo l’evento miracoloso, indicato nella miniatura dall’angelo che incorona il Volto Santo» (cfr. BELLI BARSALI, Le miniature cit., p. 124). 82 Il primo fascicolo — come già anticipato — non si presenta in un ordine corretto, dunque qui si propone la sequenza delle miniature secondo l’esatta fascicolazione ricostruita supra (ff. 3, 8, 9, 6, 7, 4, 5, 10).
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— c. 3r: Leboino narra ai fedeli la storia del Volto Santo («Ci commence le livre Leboin dyacre, lequel est de l’invencium, revelations, translation du saint et glorieux Voult de Luques. Et premierement le prologue»). — — — — —
De revelatione sive inventione (ff. 8v-9v, 6r-7v, 4r-5v) f. 8v: il vescovo Gualfredo sogna l’angelo che gli rivela dove è nascosto il Volto Santo; f. 6v: ritrovamento del Volto Santo da parte del vescovo Gualfredo; f. 7v: trasporto del Volto Santo al mare, per metterlo sulla nave che lo porterà in Italia; f. 4r: il Volto Santo è posto su una nave dai carpentieri; f. 5r: la nave porta il Volto Santo guidata in mare da due angeli.
De traslatione (ff. 10r-15v) — f. 10r: un angelo appare al vescovo di Lucca, Giovanni, e gli rivela l’arrivo del Volto Santo; — f. 11r: il vescovo Giovanni si dirige da Lucca verso Luni; — f. 12r: i vescovi di Lucca e Luni si fanno incontro alla barca guidata dagli angeli; — f. 13r: il vescovo Giovanni consegna al vescovo di Luni un’ampolla del Preziosissimo Sangue (Tav. I); — f. 13v: trasporto del Volto Santo verso Lucca su un carro tirato da giovani tori83; 83 È importante notare come il testo latino non faccia alcun riferimento al particolare del carro tirato da due giovani tori, ma sintetizzi in modo estremo il momento del trasporto del simulacro verso Lucca utilizzando il solo verbo portavit: «[…] ampullam citream Christi precioso sanguine refertam, quam ibidem repperit, Lunensi episcopo benigna caritate concessit et preciosissimum vultum ad suam urbem cum magna gloria Christo duce portavi», cfr. SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 131). L’episodio è dunque estraneo alla narrazione di Leboino e rientra invece tra quegli episodi aggiunti al nucleo originario in un secondo momento, in seguito alla diffusione del culto, e che poi sono entrati a far parte del testo stesso. Probabile frutto di una tradizione popolare trasmessasi oralmente, questo episodio si collegherebbe alla contesa tra lucchesi e lunesi per il possesso del simulacro, per risolvere la quale il vescovo Giovanni avrebbe deciso di collocare la sacra scultura su un carro guidato da due giovenchi indomiti lasciati liberi di procedere nella direzione da loro preferita. Se si fossero diretti verso Luni, il Volto Santo sarebbe appartenuto ai suoi abitanti; se avessero preso la strada per Lucca — come si racconta che fu — il prezioso crocifisso sarebbe stato dei Lucchesi, secondo il manifestarsi di un volere divino (cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 319, 338; LAZZARINI, Il Volto Santo cit., p. 50). Il testo francese narra di come il prezioso simulacro fu trasportato a Lucca — aspetto non trattato da Leboino — su un carro trainato da due giovani buoi, pur senza conferire all’episodio un ruolo nell’ambito della contesa: «Comment Iehan, evesque de Luques, fist mener par grace divine le Saint Voult a deux ieunes toriaux (rubrica). Lors le saint evesque Iehan prist le Saint Voult et precieux et le mist glorieusement et devotement sur .I. petit chariot et y fist ateler .II. ieunes toriaux et, si tost come ilz furent liez aux lymons, ilz se mistrent au chemin a aler droit a
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— f. 14r: processione del clero e del popolo lucchese verso il Volto Santo84. II. MIRACOLI DEL VOLTO SANTO (ff. 15v-38v)85 — f. 16v: un giullare suona davanti al Volto Santo e riceve in dono un calzare d’argento del Simulacro; — f. 18v: un uomo semplice impara a pregare86; — f. 20v: rivelazioni sulle reliquie contenute nel Volto Santo e mirabile racconto del Patriarca di Gerusalemme sulla composizione del Volto Santo87; — f. 24r: un giovane tedesco e sua madre fanno lavorare una tavola d’oro da offrire al Volto Santo; — f. 25v: guarigione di un fanciullo cieco per le preghiere della madre; — f. 29v e 31r: su un giovane da due anni tormentato dal demonio e la sua liberazione88; Luques» (Pal. lat. 1988, f. 13v). Se ne deduce che — sia per ciò che riguarda il testo che l’apparato illustrativo — il codice, probabilmente riflettendo il modello, deve avere necessariamente subito l’influenza di più fonti relative alla leggenda, e non solo quella del testo leboiniano. 84 Al f. 15r, slegata dalle illustrazioni, la rubrica: «Des dignes choses encloses dedenz le Saint Vult». 85 Funge da raccordo tra il testo di Leboino e il prologo ai miracoli la rubrica «Jusques cy Leboin. Ce qui vient apres ont escript les venerables clers de la ditte eglise en doubte de Dieu; lesquielx l’ont sceu de vaillans hommes ou des malades maismes qui ont este guery. Et pour ce l’ont mis en escripture, afin que par longueur de temps ne fust mis en oubliance || Cy commence a parler des miracles fais par le Saint Voult» (ff. 15v-16r), a cui segue il prologo (edito in latino in SCHNÜRER – RITZ, Sankt Kümmernis cit., pp. 133-134 ed in GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 525-526), per il quale si veda anche supra p. 153 e nt. 20. Per il contenuto dei miracoli si vedano i riferimenti bibliografici forniti alla nt. 2. 86 La rubrica «Item de celui mesmes» al f. 20r è interna alla narrazione di questo miracolo. 87 All’illustrazione di f. 20r segue la narrazione di due miracoli, introdotti ciascuno da una rubrica («Comment Dieu a volu manifester ce qui est enclos dedens le Voult», f. 20v; «Encore des choses qui sont encloses dedens le Saint Voult un merveilleux tesmoing de Ierusalem», f. 22v), entrambi relativi a racconti sulle reliquie contenute nel Volto Santo: nel primo caso la rivelazione è fatta ad un lucchese pellegrino in Terra Santa, tale Stefano di Butrione, da parte di un siro di nome Giorgio; nel secondo caso è il patriarca di Gerusalemme a fare rivelazioni ad un canonico lucchese, anch’egli pellegrino a Gerusalemme. Cfr. LAZZARINI, Il Volto Santo cit., pp. 70-71 e SCHNÜRER, Sopra l’età […] III, cit., pp. 86-87; per il testo del miracolo relativo a Stefano di Butrione, in latino, cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 526-527. 88 Le due illustrazioni, anche in questo caso ciascuna introdotta da una rubrica («D’un ieunes homs qui par .II. ans fu tormente de l’Ennemi et en la presence du Saint Voult il fu gueri et delivre par la misericorde de Dieu», f. 29v; «D’un qui avoit nom Bienvenu et fut delivre de l’Ennemi par la presence du Saint Voult», f. 30v), si riferiscono allo stesso miracolo. Cfr. LAZZARINI, Il Volto Santo cit., p. 74.
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— f. 33r: il Volto Santo nell’edicola del miracolo della fanciulla dalla mano rattrappita; — f. 34r: liberazione di una donna posseduta da tre spiriti demoniaci; — f. 35v: liberazione di una donna dal demonio, che esce in forma di carbone ardente; — f. 37v: guarigione dell’uomo dalle membra contratte e secche. III. IL COSIDDETTO MIRACOLO DEL 1334 (ff. 39r-44v) — c. 39r: miracolo dell’uomo salvato dalla mannaia del boia. Di questo prodigioso evento sono dunque precisamente circostanziati luogo e tempo: il miracolo avvenne l’11 settembre del 1334 nel territorio del Castello di Pietralunga, nella diocesi di Città di Castello, quando era podestà del luogo Branca de’ Branci89. È dunque chiaro che non può trovare posto nei manoscritti più antichi. Ai ff. 43v-44v segue, introdotta da rubrica90, la lettera con la quale il podestà di Pietralunga informò il vescovo e il clero di Lucca dell’avvenuto prodigio91. Il codice contiene, dunque, 27 illustrazioni: dodici sono relative a episodi della storia del Volto Santo (comprese tra i ff. 3r e 14r, inclusa quella che rappresenta Leboino) e dodici corredano i miracoli da esso compiuti (comprese tra i ff. 16v e 39r). Le precedono le due illustrazioni relative agli eventi iniziali della leggenda riguardanti Nicodemo (ff. 1r e 2v); la prima, che rappresenta due oranti davanti al simulacro (f. IVv), si colloca invece al di fuori della sequenza narrativa della leggenda. Un’unica volta le miniature si trovano affrontate vis à vis, quasi speculari92, per sottolineare due eventi particolarmente importanti per Lucca: il trasporto del Volto Santo col carro tirato da giovani tori e la processione del clero e del popolo lucchese (ff. 13v e 14r). Il fatto che i due episodi possano essere letti in sequenza verrebbe confermato dallo sfondo, in cui è visibile la stessa montagna; è stato inoltre notato come nella miniatura la testa del Volto Santo sia girata dal lato opposto rispetto a quello della 89 Si tramanda che un tal Giovanni del fu Lorenzo del contado di Arras, che si trovava in quei luoghi, fu ingiustamente accusato di omicidio e condannato a morte, ma, per la sua fede e la sua devozione al Volto Santo, fu salvato dalla mannaia del boia, che per tre volte non riuscì a scalfire il suo capo. Il testo in latino e la relativa traduzione italiana sono editi da DI POGGIO, Illustrazione del SS. Crocifisso cit., pp. 204-207; vedi anche LUISO, La leggenda cit., pp. 26-29. 90 «C’est la copie des lettres de messire Branche et des accesseurs dessus nommez» (f. 43v). 91 Cfr. GUERRA, Storia del Volto Santo cit., pp. 536-537; cfr. LAZZARINI, Il Volto Santo cit., pp. 77, 150-151. 92 L’illustrazione al f. 13v è seguita da 2 righe di rubrica e 6 di testo; quella al f. 14r, poco più estesa in lunghezza, è seguita da 2 righe di rubrica e 5 di testo.
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scultura, volgendosi significativamente verso i lucchesi; le due processioni sembrano volgersi l’una alla volta dell’altra — con le croci astili rivolte anch’esse l’una verso l’altra, quasi verso un immaginario punto d’incontro da porre tra le due pagine93. Riguardo ad un possibile modello iconografico, la Belli Barsali ha fatto notare che, mentre l’apparato decorativo del codice «ci riporta alla scuola di Parigi dei primi due decenni del secolo XV», l’illustrazione ha «precise citazioni dalla pittura e miniatura toscana», come viene desunto dai modi nel comporre i personaggi e dal rapporto figura — ambiente94. La studiosa suppone, dunque, che il pittore francese possa aver avuto un modello-prototipo preciso da imitare, italiano, visti anche i forti rapporti intercorrenti in quel periodo tra la miniatura francese e quella italiana95; sostiene inoltre, relativamente alla rappresentazione del Volto Santo, che «la presenza degli ornamenti più antichi convalida l’ipotesi che il codice sia copia di una più antica — trecentesca — redazione della Legende»96. A tal riguardo è da considerare come ulteriore elemento significativo il fatto che il testo riflette la tradizione manoscritta dei testimoni italiani97. La scrittura Il codice è vergato da un unico copista in una gotica francese elegante e accurata, di modulo medio-grande e omogeneo e dal ductus posato. La scrittura è alta e stretta, serrata e schiacciata lateralmente, calligrafica e regolare, con uno sviluppo armonioso, lontana dalla pesantezza che caratterizza certe scritture d’oltralpe: le lettere sono tra loro molto accostate ma le parole sono chiaramente individuabili, separate con precisione. La scrittura non poggia sulla riga, ma ne rimane sollevata secondo un allineamento accurato; si mantiene all’interno dello spazio delimitato dalle righe superiore e inferiore, con poche eccezioni costituite dalle aste discendenti, che arrivano appena al di sotto del rigo. 93
Cfr. BELLI BARSALI, Le miniature cit., p. 123. Cfr. ibidem, p. 124. 95 A riguardo è stata anche avanzata l’ipotesi che il modello possa essere stato fornito dalla storia del Volto Santo tradotta da Jean de Vignays nel 1348 per la regina Giovanna di Borgogna. Cfr. ibidem, p. 141; CHRIST, Die altfranzösischen Handschriften cit., p. 102; SCHNÜRER — RITZ, Sankt Kümmernis cit., p. 200. 96 Cfr. BELLI BARSALI, Le miniature cit., pp. 143-145. Il fatto che nella parte in cui vengono illustrati i miracoli si ripetano alcuni dettagli, come i fondi rosso a bolli d’oro per connotare gli interni delle chiese e quello esterno quadrettato, ha fatto pensare che si volesse forse riprodurre una stoffa usata per velario o paramento della cappella del Volto Santo, o che essa possa essere una stilizzazione di antiche stoffe lucchesi con motivi decorativi broccati in oro. 97 Cfr. supra la tradizione manoscritta e, in particolare, p. 150 e ntt. 10 e 11. 94
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Il corpo delle lettere prevale rispetto alle aste, che non sono molto sviluppate e sono quasi sempre caratterizzate da forcellature, che talvolta si prolungano in filetti ornamentali98; spesso sul lato sinistro dell’asta, nella parte più alta, è visibile una sorta di piccola protuberanza («spur») che Derolez considera una naturale estensione della lettera99. L’alternarsi di tratti grossi e sottili, di linee dritte e curve spezzate crea un armonioso chiaroscuro; talvolta le curve sono tratteggiate in modo meno angoloso e, in particolare nei tratti di attacco, la spezzatura tende ad addolcirsi in tratti a uncino che creano quasi una catena di lettere e un effetto meno contrastato. Le principali caratteristiche delle singole lettere sono le seguenti: — a presenta l’occhiello superiore chiuso, spesso solo da un filetto100; — d onciale presenta generalmente l’asta fortemente inclinata e l’occhiello che termina in basso con una netta spezzatura della curva o con un’ogiva pronunciata101; — f ed s minuscola non scendono sotto il rigo e terminano in basso con un trattino a uncino verso destra, simile a quello di i, n, m, r102; nella f a fine di parola, così come nella t, tale trattino si prolunga spesso in un filetto che termina congiungendosi al tratto orizzontale103; — g ha solitamente l’occhiello inferiore di forma triangolare, chiuso da un sottile filetto, in alcuni casi così leggero da sembrare assente; talvolta si può trovare anche con l’occhiello aperto104; — i ha quasi sempre l’apice, più o meno inclinato, a guisa di filetto ornamentale105; — h ha l’asta spesso forcellata, che termina in basso o con un elemento 98 Soprattutto nelle aste ascendenti, in particolare all’apice di l ma anche di i, h ed r; in minor misura si trovano anche alla base delle aste discendenti, come p e q. Si avverte che in questa analisi paleografica si rinuncia alle lievi scelte normalizzatrici esposte supra alla nt. 2. 99 Cfr. DEROLEZ, The palaeography cit., p. 81. Si riscontra principalmente nella l, specie ad inizio di parola, ma si può trovare anche nella s dritta, nella b e nella f; cfr. ad esempio: f. 11r, linee ultima e penultima: la (fig. 1), le, saint, si (fig. 2), lange (fig. 3), li, son, avision; al f. 3v, linea 2: boutillier. 100 Cfr. ad esempio: f. 3v, linea penultima: avons, declarier e aucunes (fig. 4); linea ultima: revelation (fig. 5). 101 Cfr. ad esempio: f. 3v, linea 3: de; linea 4: divines; linea 5: digne (fig. 7); linea 8: dieu; linea penultima: declarier (fig. 6). 102 Cfr. ad esempio: f. 5v, linea 6: chose (fig. 8) e furent (fig. 9); f. 38r, linea ultima: seigneur. 103 Cfr. ad esempio: f. 5v, linea 7: nef et (fig. 10). 104 Cfr. ad esempio: f. 4v, linea 19: glorieus; linea 15-16: viengne; f. 5v, linea 12: grant (fig. 11); linea 14: grant (fig. 12). 105 Cfr. ad esempio: f. 5v, linea 2: Mais; linea 3: dit lieu; linea 10: malice; linea 11: ditte cite; linea 13: Maiz (fig. 13); f. 4v, linea 18: soient.
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romboidale oppure con un trattino a uncino verso destra106; l’occhiello è piuttosto schiacciato, talvolta così compresso che il tratto a uncino dell’asta tocca quello curvilineo dell’occhiello, che poi scende sotto il rigo prolungandosi in un filetto107; l ha anch’essa l’asta che termina spesso con una forcellatura; il tratto terminale in basso è talvolta spezzato e forma un angolo, talvolta addolcito in una curva, un tratto a uncino che risale verso destra creando l’attacco con la lettera successiva108; la doppia l può essere corredata da un filetto, più o meno spesso, che unisce l’apice delle due aste109; m ed n presentano di frequente alla base dei tratti verticali un elemento romboidale; l’ultimo tratto termina spesso ad uncino verso destra, creando un attacco con la lettera successiva110; le aste di p e q scendono appena sotto il rigo o, in qualche caso, specie nella q, si fermano sul rigo stesso111; possono terminare con una forcellatura, più o meno pronunciata112; la p presenta spesso alla base dell’asta un tratto o un filetto ornamentale, che nel caso di doppia p sembra prolungarsi — nella sovrapposizione dell’uno sull’altro — in un unico tratto simile a quello che unisce la doppia l113; r dritta termina in basso con un trattino a uncino verso destra, che assume funzione di attacco alla lettera che segue e che, se a fine di parola, si prolunga in un filetto che tende a salire verso il tratto orizzontale114; r tonda ha tracciato contrastato, talvolta fortemente, e il tratto discendente da destra a sinistra che può o meno prolungarsi in un filetto or-
106
Cfr. ad esempio: f. 16r, linea 17: hystoire (fig. 14) e chaiennes (fig. 15). Cfr. ad esempio: f. 5v, linea 12: eschauffez. 108 Cfr. ad esempio: f. 4r, linee 3 e 5: la volente (fig. 16); linea 4: belle (fig. 17); f. 12v, linea 1: le e les. 109 Cfr. ad esempio: f. 17v, linea 9: esmerveillez; f. 23r, linea 12: elles ; f. 36v, linea ultima: fille; si veda anche f. 16r, linea 14: tulles (fig. 18). 110 Cfr. ad esempio: f. 32v, linea 10: saint, dove anche la i ha alla base un elemento romboidale (fig. 19); linea 12: comment (fig. 20); f. 33r, linea ultima: comme; f. 35v, linea 2 e 5: femme. 111 Cfr. ad esempio: f. 6r, linea 4: iusques. 112 Cfr. ad esempio: f. 5v, linea 18: pert (fig. 21); f. 15r, linea 14: qui; ma si veda anche al f. 34v, linea ultima: peust. 113 Cfr. ad esempio: f. 5v, linea 16: respondirent (fig. 22); linea 17: pareille; linea 18: pas; f. 6r, linea 13: depriant; f. 15r, linea 3: paroles, plus; linea 4: qui; f. 32v, linea 1: chappelle; linea 7: appert (fig. 23). 114 Cfr. ad esempio: f. 14v, linea 1: venerables; linea 4: cuer; f. 20r, linee 20 e 21: par; f. 35r, linea 1: seigner. 107
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namentale molto sottile che scende sotto il rigo115. È tonda dopo lettere con curva a destra, secondo la regola di Meyer, con alcune eccezioni116; s in fine di parola e di riga è solitamente tonda, quasi sempre con gli occhielli chiusi — talvolta da filetti —, spesso a forma di 8117; vi sono tuttavia delle eccezioni per cui si può trovare la s alta, specie quando parte della parola va a capo118; si noti anche come, a seconda dello spazio rimasto a fine riga, la s possa avere l’occhiello inferiore più ampio e filetti ornamentali più estesi o, al contrario, possa invece essere aggiunta in fine di riga oltre la giustificazione e fuori allineamento119; t ha il tratto orizzontale che si volge prevalentemente verso destra e talvolta termina tendendo verso il basso, prolungandosi o meno in un filetto120; l’asta presenta alla base un tratto a uncino verso destra, che a fine di parola, come accade nella f, si può prolungare in un filetto che talvolta è congiunto al tratto orizzontale121; x e y presentano la parte finale del tratto discendente da destra a sinistra molto sottile e prolungato sotto il rigo; in particolare, la y è sempre sovrastata da un tratto curvilineo simile al segno abbreviativo del titulus, uso caratteristico e consueto di questo periodo nell’Europa centrale122; z assume una forma particolare, con il tratto superiore ad arco, il secondo ridotto ad una breve lineetta obliqua e il terzo pure ad arco in senso inverso al primo, che talvolta termina con un filetto ornamentale curvilineo123. Si segnala inoltre la presenza di legature di origine corsiva come st e
115 Cfr. ad esempio: f. 4v, linee 22 e 23: port e efforcoient (fig. 24); linea 23: prendre (fig. 25); f. 13v, linea 3: Lors; f. 27v, linea 5: force (fig. 26); linea 12: misericorde; linea 17: uraie. 116 Cfr. ad esempio: f. 13r, linea 3: Lors; f. 11v, linea 1: Lors; f. 12v, linea 14: Gloria. 117 Cfr. ad esempio: f. 23r, linea 12: elles (fig. 27); linea penultima: apres (fig. 28); f. 36v, linea 5: mas, dove i due occhielli sono chiusi da un filetto obliquo (fig. 29); f. 39v, linea ultima: Lors; f. 41v, linea 11: pas (fig. 30). 118 Cfr. ad esempio: f. 30r, linea 6: les; f. 23r, linea 15: des|sus (fig. 31). 119 Cfr. ad esempio: f. 26r, linea 7: oroisons; linea 8: des (cui segue anche come riempitivo un tratto depennato); linee 12-13: puis|sant; linea 19: maladies (fig. 32). 120 Cfr. ad esempio: f. 3v, linea 4: grant; f. 14v, linea ultima: tout, est; f. 22r, linee 1 e 2: secret (fig. 33) e fut (fig. 34). 121 Cfr. ad esempio: f. 3v, linea 4: et (fig. 35); f. 15r, linea 17: avoit ; linea 18: avoient; linea 19: ihesucrist; f. 21v, linea 1: ihesucrist, et, sont. Cfr. DEROLEZ, The palaeography cit., pp. 82-83. 122 Cfr. ad esempio: f. 27r, linea 7: ymage; linea 15: croix. Cfr. DEROLEZ, The palaeography cit., p. 95. 123 Cfr. ad esempio: f. 4v, linea 18: gardez (fig. 36); linea 19: sanz (fig. 37); f. 27v, linea 9: demendez, vouz arez.
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ct124. La regola di Meyer sulla fusione delle curve contrapposte è rispettata125. Si possono poi trovare casi di elisione, per cui «nella successione fra un ultimo tratto sulla linea superiore di scrittura e il trattino di attacco della lettera posteriore si verifica sovrapposizione dei tratti, e quindi alterazione nella morfologia della lettera posteriore»126. In generale, la successione di tratti di attacco e tratti di stacco, talora piuttosto fitta, sembra disegnare una duplice linea, inferiore e superiore, entro cui sono contenute le lettere stesse; crea inoltre una sorta di linea continua all’interno delle lettere facenti parte della stessa parola, con l’effetto ottico di rendere queste più compatte e di conferire maggiore evidenza allo spazio bianco che intercorre tra le parole127. La sequenza degli elementi romboidali che si trovano spesso alla base dei tratti verticali — specie di m ed n, ma talvolta anche di altre lettere come la l — contribuisce a realizzare questo effetto, creando una ideale linea orizzontale che unisce tra loro le lettere128. L’elisione, la compressione laterale, la sovrapposizione delle curve contrapposte sono tutti artifici tesi ad una chiara individuazione della parola grafica e alla creazione di uno spazio bianco omogeneo tra le parole, al fine di renderle più intelligibili. L’impiego di abbreviazioni è molto limitato rispetto all’uso del tempo, sia nella tipologia che, soprattutto, nella frequenza. Si riscontrano i seguenti usi: il titulus per indicare l’omissione di nasale129; q sovrascritta da lineetta curvilinea come compendio per que130; q con i soprascritta come compendio di qui131; p con tratto diritto alla base dell’asta per indicare r 124 Cfr. ad esempio: f. 4v, linea 5: est (fig. 38); linea 9: feist (fig. 39); linea 16: protection (fig. 40). 125 Cfr. ad esempio: f. 5v, linea 12: vouloient (fig. 41); linea 16: respondirent (fig. 22); linea 17: pareille (fig. 42); f. 16r, linea 3: leboin (fig. 43); linea 4: venons; linea 8: devot. 126 Cfr. S. ZAMPONI, Elisione e sovrapposizione nella littera textualis, «Scrittura e civiltà» 12, 1988, pp. 135-176, in particolare p. 155; sul fenomeno dell’elisione si veda anche DEROLEZ, The palaeography cit., p. 78. Le occorrenze all’interno del codice riflettono le sequenze più comuni (ti, tu, ri, fi, gi, gn, ru, tr), ma se ne trovano anche altre meno attestate: f. 16r, linea 5: seigneur (fig. 44); linea 6: briefves (fig. 45); linea 8: grecs (fig. 46); linea 12: benefices; linea 16: argumens; linea terzultima: demonstrent (fig. 47) e vertus; linea ultima: conscience. 127 Cfr. in particolare: f. 11v, linea ultima: dessert; f. 15r, linea 1: translation; f. 15v, linea 8: benefices; f. 16r, linee 19-20: demostrent veritablement et clerement (fig. 48). 128 Cfr., ad esempio: f. 15v, linea 9: viennent; e allo stesso foglio, linee 13 e 14: demourerent. A riguardo si veda DEROLEZ, The palaeography cit., pp. 74-75. 129 Cfr. ad esempio: f. 2v, linea 1: sai(n)t (fig. 49); linea 4: co(n)struccio(n) (fig. 50); f. 15v, linea 12: ho(m)mes; linea 14: demourere(n)t; f. 26v, linea 5: fem(m)e; linea 7: com(m)e. 130 Cfr. ad esempio: f. 2v, linea 1: luq(ue)s (fig. 51); linea 3: laq(ue)lle; linee terzultima e ultima: q(ue) (fig. 52); f. 13r, linea 6: levesq(ue). 131 Cfr. ad esempio: f. 2v, linea 9: q(u)il (fig. 53); f. 4v, linea penultima: q(u)i (fig. 54).
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accompagnata da vocale132; p con tratto soprascritto quasi in forma di saetta come compendio di pre133; un tratto curvilineo, tracciato dall’alto verso il basso, può indicare l’omissione di una r accompagnata in genere da una e134 (la r può anche essere omessa prima di una vocale soprascritta135); un segno solitamente chiuso a formare un’asola, con un tratto finale ascendente verso destra, si individua come compendio di -ur136; il segno simile ad un 9 come compendio della desinenza -us137; s tagliata da una lineetta obliqua che si diparte da un rombo è utilizzata come segno di abbreviazione generico138; r tonda tagliata per l’abbreviazione di –rum, che ha il tratto orizzontale che diversamente dal solito termina volgendo verso il basso139; il compendio tironiano a forma di 7 nella forma tipica francese con il tratto verticale tagliato da lineetta140, per quanto sia molto più raro della forma estesa, di gran lunga prevalente; molto raramente si possono anche trovare abbreviazioni per contrazione o per troncamento141. Per quanto concerne i nomina sacra e i loro derivati, Dieu si trova sempre nella forma estesa, come spesso, ma non sempre, il nome di Cristo142. Riguardo ai segni d’interpunzione, il punto in basso è utilizzato sia per significare la pausa breve che la pausa lunga. La divisione in sillabe di una parola a fine rigo e il conseguente a capo sono spesso segnalati da una sottile linea trasversale posta oltre la giustificazione143. Più volte, inoltre, a fine rigo si trova un tratto verticale depennato, sottoscritto da un piccolo rombo, secondo un uso diffuso tra i copisti italiani e francesi tra la fine 132 Cfr. ad esempio: f. 1r, linea ultima e f. 15v, linee 7 e 16: p(ar) (fig. 55), per esteso a linea 10; f. 21v, linea 5: p(ar)tie; f. 13r, linea 6: esp(er)it, secondo la forma grafica in cui si trova per esteso, ad esempio, anche al f. 19r, linea penultima e al f. 36r, linea 22. 133 Cfr. ad esempio: f. 1r, linea terzultima: ap(re)s; f. 2v, linea 5: p(re)miereme(n)t (fig. 56); linea 8: p(re)cieux. 134 Cfr. ad esempio: f. 5r, linee 4-5: gou|v(er)nement; f. 16v, linea ultima: raco(n)t(er) (fig. 57). 135 Cfr., ad esempio, f. 19v, linee 12-13: acc(r)ois|sant. 136 Cfr. f. 1r, linea 3: seigne(ur) (fig. 58); linea 5: tousio(ur)s; f. 22r, linea 1: po(ur); f. 36v, linea 7: greigne(ur); linea terzultima: meille(ur). 137 Cfr. ad esempio: f. 1r, linea 1: nychodem(us) (fig. 59); f. 26v, linea 13: pl(us). 138 Cfr. ad esempio: f. 43v, linea 17: mess(ire); si vedano anche allo stesso foglio linea 18: dess(us) e al f. 1r, linea ultima: s(eigneur) (fig. 60), abbreviazione giustificata dallo spazio rimasto a fine di pagina estremamente esiguo. 139 Cfr. ad esempio: f. 15v, linea 19 (fig. 61) e f. 20r, linea 5: s(e)c(u)la s(e)c(u)lor(um), dove il segno abbreviativo soprascritto non è una lineetta, ma una sorta di rombo caudato. 140 Cfr. ad esempio: f. 4v, linea ultima; f. 16v, linea ultima (fig. 62). 141 Cfr., ad esempio, n(ot)re ai ff. 2v, linee 8 e 10 (fig. 63). 142 Cfr. ad esempio: f. 4v, linea 13: dieu; linea 19: ihesucrist (fig. 64); f. 1r, linea 3: ih(es) ucrist (fig. 65); si vedano anche al f. 4v, linea 15: (ch)ristien; al f. 2v, linea 6: chr(ist)ien. 143 Cfr. ad esempio: f. 5v, linee 6, 7, 11, 12 e terzultima.
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del sec. XIII e il XV, al fine di colmare piccoli spazi bianchi e ottenere una assoluta regolarità lungo il margine destro dello specchio di scrittura144. L’alfabeto maiuscolo è quello tipicamente gotico, caratterizzato da uno sviluppo esagerato delle forme onciali, con curve e rigonfiamenti calligrafici; le lettere possono presentare lievi varianti dovute all’esecuzione145, al raddoppiamento dei tratti146 o alla disposizione dei filetti o di altri elementi ornamentali147. Cenni sulla storia del codice La donazione a papa Gregorio XV della Bibliotheca Palatina — dotata di un sistema bibliotecario piuttosto articolato — comportò l’arrivo in Vaticana di materiali appartenenti a tre diverse raccolte librarie di Heidelberg: quella della Schlossbibliothek, ovvero della biblioteca privata degli elettori palatini; quella dell’università — fondata nel 1386 dal principe elettore Ruprecht I (1353-1390) — conservata nelle biblioteche della facoltà di arte e di teologia, diritto e medicina; quella della Palatina in senso proprio, ovvero della biblioteca annessa alla Heiliggeistkirche, fondata da Ludwig III (1410-1436) e messa a disposizione dell’Università148. A quest’ultimo nucleo sembra essere appartenuto il Pal. lat. 1988, che Christ individua nei relativi inventari degli anni 1555-1556 e del 1581 sotto la definizione 144
Cfr. ad esempio: f. 5v, linea 18 (fig. 66); f. 25v: linea ultima; f. 26v, linea 19; «questo uso in ultima analisi risale ad una consuetudine greco ebraica» (cfr. B. BISCHOFF, Paleografia latina. Antichità e Medioevo, edizione italiana di Palägraphie des römischen Altertums und des abendländischen Mittelalters a cura di G. P. MANTOVANI – S. ZAMPONI, Padova 1992 (Medioevo e Umanesimo, 81), p. 243. Cfr. anche DEROLEZ, The palaeography cit., p. 186. 145 Si vedano: A (f. 10v, linea 8; f. 26v, linea 19; f. 32r, linea 14); C (f. 8v, linea 1 [fig. 67]; f. 13r, linea 1 [fig. 68]); E (f. 3r, linea 3 [fig. 69] e 4 [fig. 70]; f. 7r, linea 16; f. 28v, linea 1); H (f. 27v, linea 7 [fig. 71] e 17 [fig. 72]); O (f. 5r, linea 1; f. 9v, linea 16; f. 41v, linea 20); Q (f. 9r, linea 1; f. 19r, linea 10; f. 42r, linea 8); R (f. 8v, linea 4; f. 20r, linea 6 [fig. 73]; f. 42v, linea 15 [fig. 74] e 17 [fig. 75]); S (f. 27v, linee 8 [fig. 76] e penultima [fig. 77]; f. 31v, linea terzultima [fig. 78]; f. 34v, linea 1); T (8r, linea 15 [fig. 79]; f. 14r, linea 3 [fig. 80]); U (f. 16v, linea 6; f. 19r, linea 6). 146 Si vedano: B (f. 14v, linea 4 [fig. 81]; f. 20r, linea 21 [fig. 82]); D (f. 6r, linea 6; f. 33v, linea quartultima). 147 Si vedano: I (f. 9v, linea 17; f. 13r, linea 3); L (f. 33v, linea 7 e 11); M (f. 3v, linea 1 [fig. 83]; 5v, linea 2 [fig. 84], 8 [fig. 85] e 13 [fig. 13]; f. 42v, linea 6 [fig. 86]; ma si veda anche f. 36v, linea 7 [fig. 87]); P (f. 27r, linea 18-20). 148 Cfr. D’AIUTO – GRAFINGER in Guida ai fondi manoscritti cit. Per il nostro codice cfr. anche: M. WEIS, Légende de Saint Voult de Luques (Legende des Volto Santo von Lucca) in Bibliotheca Palatina, Katalog zur Ausstellung vom 8. Juli bis 2. November 1986, HeiliggeistKirche Heidelberg, herausgaben von E. MITTLER, Heidelberg 1986, I, pp. 312, 315-316; W. BERSCHIN, Die Palatina in der Vaticana. Eine deutsche Bibliothek in Rom, Stuttgart-Zürich [1992], pp. 134, 139.
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«Nicodemi Evangelion»149. Molti furono i manoscritti francesi miniati acquistati ad Heidelberg tra la fine del sec. XV e l’inizio del sec. XVI — specie per la Scholssbibliothek —, soprattutto dopo la caduta del ducato di Borgogna (1477), ma già nel 1420 Ludwig III aveva acquisito vari volumi, tra cui il Pal. lat. 1712150. Il trasferimento dei volumi in Vaticano, coordinato dallo scriptor Graecus della Vaticana Leone Allacci, avvenne tra la fine del 1622 e l’estate del 1623 con un viaggio molto travagliato, fra varie vicissitudini151: i manoscritti, privati delle relative legature per questioni di peso e dotati di un numero progressivo152, furono collocati in casse lignee numerate per essere trasportati153. Una volta giunti in Vaticana, furono collocati «nella lunga 149 Cfr. CHRIST, Die altfranzösischen Handschriften cit., pp. 16 e 18; è tuttavia da segnalare che lo stesso Christ rileva un’incoerenza interna ai due cataloghi, avanzando qualche dubbio sull’identificazione del codice, in quanto nel primo catalogo il manoscritto è definito membranaceo, nel secondo cartaceo. 150 Cfr. ibidem, pp. 4-7 e A. MAU, Appunti per il Catalogo dei codici Palatini Latini, presi l’a. 1875 [manoscritto], vol. 7, p. 19 (l’inventario è stato ritirato dalla Sala di consultazione, dove è oggi disponibile una riproduzione fotografica con la segnatura BAV, Sala Cons. Mss. 399 (7) rosso). 151 Nell’estate del 1623 vi fu un delicato periodo di sede vacante tra la morte (8 luglio) di Gregorio XV e l’elezione (6 agosto) di Urbano VIII (1623-1644). Per le vicende e le difficoltà legate al trasferimento si vedano: L. ALLACCI, Relazione sul trasporto della Biblioteca Palatina da Heidelberg a Roma, scritta da Leone Allacci ed ora per la prima volta pubblicata da Giovanni Beltrami, Firenze 1882; C. MAZZI, Leone Allacci e la Palatina di Heidelberg, Bologna 1893; A. THEINER, Schenkung der Heidelberger Bibliothek durch Maximilian I an Papst Gregor XV. und ihre Versendung nach Rom, München 1844. 152 «Subito consegnatemi le chiave, senza perder tempo, levai le coperte di tavole dai libri ms. perché erano grandi et occupavano molto luogo, et di peso straordinario, poi, le catene et altri ferri, che erano agiunti insieme, e perché non era né ordine né altro di donde si potessero riconoscere, per non perder tempo in far l’indici, mi parve più agevole significarli per via di numero, ai greci [già catalogati da Silburgio] lasciai il numero, che loro avevano, ai latini et agli altri d’altre lingue, che non avevano nessuno, feci un mio, incominciando da 1, 2 et così insino ch’erano libri, giudicano che quei numeri doveano servire per indici» (cfr. ALLACCI, Relazione sul trasporto cit., p. 21). E ancora, dalla lettera di Allacci al card. Ludovisi, inviata da Monaco il 12 aprile 1623: lo «sgranamento delle coperte è stato tanto necessario, poiché importava tanto e con l’occupar il luogho et il peso (poiché, se si fosse fatto altrimenti, sarìa stato impossibile la condotta), poiché importava tanto quanto li doi terzi delli libri che mecho conduco. E per mia curiosità ho posto da parte tutte quelle coperte, per veder quanto luogho occupavano e quanto pesavano, e trovai che non bastavano mancho tredici carri, e fu giudicato che pesassero passa duecento centinara. Dove però la coperta non era di troppo peso, o aveva l’arme del Palatino, o era fatta d’avorio o con figure, mi parse meglio di portarli più presto con le coperte che lasciarli: e di questi saranno stati pochissimi» (dal ms. vallicelliano B 38, fol. 260r; edita in MAZZI, Leone Allacci cit., p. 25). 153 Il Pal. lat. 1988 è uno dei pochi su cui non compare il numero della cassa che lo conteneva, forse identificabile con la numero 90, per la quale è attestata la presenza di 6 manoscritti Gallici nel Vaticano latino 7762 — una raccolta di carte relative all’amministrazione della Biblioteca Vaticana di Felice Contelori (primo custode dal 1626 al 1630) che registra il
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galleria espressamente accomodata a tale scopo da Urbano VIII, a sinistra dell’aula maggiore, dopo le due stanze di Sisto V, le sole che si aprivano da principio in quel lato della biblioteca»154, ricevettero una nuova segnatura e furono nuovamente legati. Si attraversarono, tuttavia, diverse e complesse fasi di registrazione, di ordinamento sommario e provvisoria inventariazione dei codici prima di arrivare all’assegnazione dell’attuale segnatura. Il Pal. lat. 1988 si trova registrato con il numero 1830155 nel lavoro preparatorio dell’Inventario realizzato da Alessandro Ranaldi (scriptor Latinus, coadiutore dal 1602, secondo custode della Biblioteca Vaticana dal 1606 al 1645, morto nel 1649) con la collaborazione di Donato Lillitelli (scriptor Latinus e poi anch’egli secondo custode della Vaticana dal 1649 al 1660), conservato nel Vat. lat. 7122, dove è così descritto: «Anony[mi]. Historia seu revelatio (sic) de Crucifixo Civitatis Lucensis. Incipit. Comment le tres crestien Nicodemus. Gallice. Ex Pergam. In Albo. C[arthae] S[criptae]. Ant[iquus] cum aliquibus iconibus. Folio» (f. 288r). Non se ne trova invece traccia nell’Inventarium manuscriptorum Latinorum Bibliothecae Palatinae, della metà del sec. XVII, che si interrompe alla segnatura 1956156, tralasciando dunque i manoscritti di origine francese e quelli musicali157. Altro generico riferimento si trova nello Stato della Biblioteca Vaticana — contenuto nel codice Ottoboniano latino 3181, parte II, ff. 412r-421v — redatto nel sec. XVIII, all’epoca del cardinale Domenico Passionei (cardinal bibliotecario negli anni 1755-1761), dove si afferma che i codici latini, italiani e francesi sono «suddivisi in VI corpi, o vogliam numero dei volumi contenuti in ogni cassa (cfr. C. MONTUSCHI, Dai duchi di Borgogna a Heidelberg e da Heidelberg a Roma. Del Pal. lat. 1989, di alcuni manoscritti francesi e della loro inventariazione in Biblioteca Vaticana, in Miscellanea Bibliothecae Vaticanae, XVI, Città del Vaticano 2009, pp. 229-257, in particolare p. 237). 154 Cfr. STEVENSON, La raccolta Palatina cit., p. 11. La Galleria di Urbano VIII (16231644) fa oggi parte dei Musei Vaticani. 155 Cfr. supra pp. 160-161 e nt. 44. 156 L’Inventarium è corredato da un Indice che reca sul frontespizio l’indicazione dell’anno 1678 e del nome di Giacomo Vincenzo Marchesi, scriptor Latinus della Biblioteca Vaticana dal 1667 al 1713 (l’inventario è stato ritirato dalla Sala di consultazione, dove è oggi disponibile una riproduzione fotografica con la segnatura BAV, Sala Cons. Mss. 399 (1) rosso). Una mano tarda vi ha poi aggiunto sintetiche notizie sui codici recanti segnature successive al 1956, rimandando al Christ per ciò che riguarda i manoscritti di origine francese. L’ultima segnatura del fondo Palatino latino è oggi costituita dal Pal. lat. 2031. 157 L’Allacci riferisce in vari luoghi di non avere trovato ad Heidelberg né un inventario, né un indice completo dei manoscritti ivi custoditi; pertanto tra le operazioni di ordinamento realizzate in Vaticana vi fu anche quella di raccogliere i manoscritti in gruppi tematici; quelli di origine francese recano le seguenti segnature: 1957-1973, 1983-1984, 1988-1992, 1995; i musicali sono i Pal. lat. 1976-1982. A riguardo cfr. CHRIST, Die altfranzösischen Handschriften cit., p. 24 nt. 4.
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dire in VI differenti librerie […] II. Libreria chiamata Palatina contiene codici 1989»158. Un’importante testimonianza è fornita dal diario di Nicolas Maillot de la Treille (1725-1794)159, bibliotecario di corte palatino, incaricato dal principe elettore e appassionato bibliofilo Karl Theodor (1724-1799) di studiare la collezione palatina in Vaticano, al fine di redigere un catalogo di manoscritti latini e tedeschi per l’Accademia di Mannheim. Il diario reca interessanti testimonianze sui manoscritti e sulla loro collocazione, offerte da annotazioni registrate durante gli anni 1767-1768; al suo interno si rintraccia la seguente relativa al Pal. lat. 1988: «Six autres volumes in folio, dont cinq sur parchemin en lettres gothiques, contenant l’histoire fabuleuse du crucifix de Luques avec des figures […] et autres»160, ancora senza riferimento ad una precisa segnatura. Notizie sul manoscritto si ritrovano ancora nel De celeberrima quondam Bibliotheca Heidelbergensi di Carl Casimir Wundt, professore di teologia di Heidelberg, che, anche sulla base del lavoro di Maillot, redige una sorta di descrizione della Biblioteca Palatina in Vaticana e, a proposito del nostro codice, dice: «Alii ob picturarum, quibus exornati sunt, artificium atque elegantiam celebrari merentur. Huc in primis referunt: Histoire de (!) Crucifix de Lucque […]»161. Non vi sono altre tracce di consultazione del codice tra i secoli XVII e XVIII162; il fatto non stupisce considerando che esso non figura nell’Inventarium manuscriptorum Latinorum Bibliothecae Palatinae del sec. XVII (pur essendo presente, come si è visto, nella descrizione preliminare allestita da Alessandro Ranaldi). L’assenza degli studi trova dunque una spiegazione nella storia dell’inventariazione del gruppo dei manoscritti francesi Palatini, rimasti privi di segnatura, in coda ai 1956 già inventariati, fino all’anno 1885, quando fu loro attribuita la segnatura attuale, come attestato dalla «Consegna della Biblioteca Vaticana. Verifica dei manoscritti» del giugno 1885 (Arch. Bibl. 57)163. 158 Cfr. Ott. lat. 3181, parte II, f. 415r. Tuttavia, probabilmente non c’è corrispondenza tra il numero relativo all’attuale segnatura e quello citato (1989), che verosimilmente si riferisce al semplice conteggio. 159 Oggi conservato a Monaco di Baviera: Bayerisches Hauptstaatsarchiv, Geheimen Hausarchiv, n. 290b, bd. 3. 160 Cfr. CHRIST, Die altfranzösischen Handschriften cit., pp. 26-29 e in particolare p. 27. 161 Cfr. C. C. WUNDT, De celeberrima quondam Bibliotheca Heidelbergensi […], [Heidelbergae 1776], citato in CHRIST, Die altfranzösischen Handschriften cit., p. 28. 162 Cfr. CHR. M. GRAFINGER, Die Ausleihe vatikanischer Handschriften und Druckwerke (1563-1700), Città del Vaticano 1993 (Studi e testi, 360), ad indicem; EAD., Die Ausleihe vatikanischer Handschriften und Druckwerke 18. Jahrhundert. Teil I: Biblioteca Vaticana, Citta del Vaticano 2002 (Studi e testi, 406), ad indicem. 163 Sulla questione dell’inventariazione dei Palatini latini cfr. MONTUSCHI, Dai duchi di Borgogna cit., in particolare pp. 247-249.
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Per la prima descrizione a stampa e il primo studio su questo codice e sul nucleo di codici di origine francese appartenenti al fondo Palatino bisogna dunque aspettare Christ nel 1916; da questo momento le consultazioni in Biblioteca Vaticana si moltiplicano, ma seguendo un andamento relativamente modesto164. Per ciò che concerne la legatura, all’arrivo in Vaticana si dovette procedere anche a tale operazione, poiché, come si è detto, tutti i manoscritti ne erano stati privati per facilitare le operazioni di trasferimento. Il lavoro di legatura iniziò subito sotto Urbano VIII (1623-1644) e «fu terminato, o quasi terminato, sotto Alessandro VII» (1655-1667)165. Nel suo lavoro preparatorio all’inventario (sec. XVII), Alessandro Ranaldi descrive il codice legato in pergamena bianca166; nulla è invece dato di sapere sulla legatura originale. Quella attuale è di restauro, molto recente (20 novembre 2000), in pelle marrone chiaro, con due fermagli sul taglio anteriore; sul dorso reca impressi a secco gli stemmi di papa Giovanni Paolo II (1978-2005), nella prima casella di testa, e del Bibliotecario di S.R.C. Jorge María Mejía (1998-2003), nella prima di piede; nella seconda di testa è impressa l’attuale segnatura, nelle altre fregi floreali.
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Il numero delle richieste di consultazione (registrate su schedine mobili) a partire dal pontificato di Leone XIII (1878-1903) ad oggi sono in numero di 43. Più analiticamente si può segnalare che le richieste furono: sei nel primo decennio del ’900; due negli anni ’20; quattro negli anni ’40; una negli anni ’70; dieci negli anni ’80; quindici negli anni ’90; cinque dal 2000 ad oggi. 165 Cfr. STEVENSON, La raccolta Palatina cit., p. 11 e nt. 4: «La maggior parte dei codici legati sotto Urbano VIII sono coperti di pergamena verde, assai adoperata in quel tempo, e sono ornati collo stemma del Pontefice. Quelli che portano le armi di Alessandro VII si distinguono specialmente per l’uso di pelle variegata all’esterno e di carta similmente variegata nella copertura interna. Molti volumi sono legati con semplice pergamena bianca, senza stemmi che permettano di stabilire l’età precisa del lavoro, il quale appartiene però al medesimo periodo». 166 Per la definizione data da Ranaldi si veda supra, p. 181; cfr. anche I. SCHUNKE, Die Einbände der Palatina in der Vatikanischen Bibliothek, Città del Vaticano 1962 (Studi e testi, 218), p. 902, dove la legatura, descritta in pergamena bianca, priva di stemmi, su quadranti di cartone, è datata «Rom c. 1780».
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 1988, f. 13r.
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DUE INEDITI PER IL CATALOGO DI VINCENT RAYMOND DE LODÈVE, MINIATORE PAPALE* La fortuna del De rebus antiquis memorabilibus basilicae S. Petri Romae di Maffeo Vegio (1407-1458) è intimamente legata alla storia della Biblioteca Vaticana. Dei diciotto testimoni manoscritti di cui si compone la recensio dell’opera, undici sono infatti custoditi sotto le volte delle sale leonine e tra essi un gruppo ancora più circoscritto fu vergato negli anni Quaranta del Cinquecento da un unico e ben noto copista: lo spagnolo Ferdinando Ruano, scriptor Latinus dal 15411. Quella del Vegio è un’opera dal carattere apologetico, tutta impregnata com’è della difesa del primato del papa sulla Chiesa universale: la descrizione della basilica vaticana e l’esposizione delle sue vicende storiche sono per il canonico e umanista lodigiano la narrazione documentata di una supremazia indiscutibile dei pontefici su tutto l’orbe cristiano2. È forse per questo motivo che alle porte del Concilio di Trento la Biblioteca diretta da Marcello Cervini lavorò alla preparazione di una vera e propria edizione dell’opera, che venne da subito promossa tra illustri personalità della vita politica di quegli anni così delicati per la storia della Chiesa3. Ruano ne esemplò infatti una copia, oggi Chig. G.III.76, per il cardinale Francisco Mendoza y Bobadilla (1508-1566), cugino del più noto ambasciatore di Carlo V Diego Hurtado de Mendoza e stimato mediatore tra la Curia romana e gli ambienti spagnoli4, mentre * La stesura della presente comunicazione si è avvalsa di una borsa di post-dottorato della Fondazione Confalonieri di Milano. Ringrazio per i loro preziosi suggerimenti i veri professionisti della Storia dell’Arte che hanno aiutato, me semplice amatore, a dare spessore a questo intervento: Maria Alessandra Bilotta, Stefania Buganza, Katiuscia Quinci e mia moglie Madelon Verton. 1 F. DELLA SCHIAVA, Per la storia della Basilica Vaticana nel ’500: una nuova silloge di Tiberio Alfarano a Catania, in Italia medioevale e umanistica 48 (2007), pp. 257-282. 2 F. DELLA SCHIAVA, «Sicuti traditum est a maioribus»: Maffeo Vegio antiquario tra fonti classiche e medievali, in Aevum 84 (2010), pp. 617-639. 3 Il tema della fortuna del De rebus antiquis memorabilibus tra i secc. XV-XVIII sarà sviluppato in un mio articolo di prossima pubblicazione. Per ora basti il rimando a DELLA SCHIAVA, Per la storia della Basilica Vaticana cit., pp. 269-271. 4 Sul Mendoza: C. GRAUX, Essai sur les origines du fonds grec de L’Escurial, Paris 1880, pp. 43-59; J. M. FERNÁNDEZ POMAR, Libros y manuscritos procedentes de Plasencia, in HispaMiscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 189-201.
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Christopher Awer, altro copista attivo nella Vaticana di quegli anni, preparò il perduto codice destinato al cardinale francese George d’Armagnac (1500-1585), ambasciatore a Roma di Francesco I di Valois e noto bibliofilo5. E certo non poteva mancare all’elenco degli eminenti destinatari colui che della riforma tridentina fu tra i più vivi promotori: Paolo III Farnese (1534-1549), per il quale il Ruano preparò ben due copie del trattatello archeologico del Vegio che sono oggi segnate Vat. lat. 3750 e Barb. lat. 2570. Il presente contributo intende esaminare più da vicino i due manoscritti destinati al pontefice: pur essendo latori di un testo interpolato e di nessun valore ecdotico, essi meritano infatti di essere studiati per i paratesti decorativi che li impreziosiscono e che costituiscono due documenti inediti della cultura figurativa del Rinascimento romano. Il Vat. lat. 3750 è un volume membr. di mm 328 u 225, composto di 68 fogli numerati in cifre arabe, preceduti e seguiti da 5 + 3 fogli di guardia6. A causa di un restauro ottocentesco la fascicolazione si desume dai reclamantes sempre espressi, che configurano un codice di nove fascicoli di tutti quaternioni, ad eccezione dell’ultimo ternione; al primo fasc. sono stati aggiunti due bifolî di perg. e un foglio cart.; all’ultimo fasc. è stato aggiunto un bifolio di perg. e un foglio cart. Sul dorso gli stemmi di papa Pio IX (1846-1878) e del card. bibliotecario Luigi Lambruschini (1834-1853) accompagnano la segnatura di collocazione «Vat. 3750». Il taglio è dorato. Al f. 63r si legge, inquadrato in un cartiglio, il colophon: «Ferdinandus Ruano clericus pacensis bibliothecae apostolicae scriptor, scribebat Romae anno Domini MDXLIII»7. Per via della minuta cura calligrafica del copista, il nia Sacra 18 (1965), pp. 33-102; H. JEDIN, Storia del Concilio di Trento, III, Brescia 1973 ad indicem. 5 Del codice ha conservato memoria il gesuita Coenraad Janninck, che lo adoperò per allestire il testo del De rebus antiquis memorabilibus edito in Acta Sanctorum Iunii […], illustrata a C. JANNINGO, Tomus VII seu Pars II, Antverpiae 1717, 61-85. Janninck si premurò anche di trascriverne il colophon «Manu Christophori Auveri hic liber scriptus fuit Romae, ut plures alii, reverendissimo et illustrissimo D. Cardinali D’Armaignaco, patrono suo observandissimo» (ibid., p. 60F). Nel 1561 il ms. è presente nella biblioteca di George d’Armagnac: C. SAMARAN – M. L. CONCASTY, Christophe Auer copiste de grec et de latin au XVIe siècle, in Scriptorium 23 (1969), pp. 199-214: 212 ora in Une longue vie d’érudit. Recueil d’études de Charles Samaran, Genève 1978 (Hautes études médiévales et modernes, 31), pp. 847-864: 860. 6 B. NOGARA, I codici di Maffeo Vegio nella Biblioteca Vaticana e un inno di lui in onore di s. Ambrogio, in Roma e la Lombardia. Miscellanea di studi e documenti offerta al congresso storico internazionale dalla società storica lombarda, Milano 1903, pp. 43-51: 47; L. RAFFAELE, Maffeo Vegio: elenco delle opere, scritti inediti, Bologna 1909, p. 89. 7 Riproduzione in J. WARDROP, The vatican scriptors, documents for Ruano and Cresci, in Signature, n.s., 5 (1948), p. 8. Lo studioso comunica l’errata segnatura «Vat. lat. 3790» che andrà emendata.
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codice era già noto a un cultore del «bello scrivere» come James Wardrop, che vi riconobbe dei modelli esemplari di «antica tonda» e di «cancelleresca formata»8. Il foglio 1r vanta un’elegante decorazione incipitaria in cui una teoria di panoplie in grisaille è scandita da maschere ed erme dorate (Tav. I). Dorato è pure lo stemma di Paolo III Farnese che divide lo spazio della bordura inferiore e che è impreziosito dal tocco blu dei gigli farnesiani nello scudo e dal rosso del cordone che si intreccia allo stemma. Il rosso e il blu sono richiamati nelle decorazioni interne allo spazio scrittorio: il titolo dorato dell’opera si staglia su un clipeo allungato dal fondo rosso, a sua volta incastonato in un cartiglio; la lettera «M» incipitaria è rossa con stilizzati elementi fitomorfi e antropomorfi che ne ritmano i segmenti grafici ed è abitata da una testa di ariete issata a mo’ di trofeo. Date le caratteristiche del manufatto, che lo identificano come codice di lusso, e data la sua eccezionale destinazione, credo che difficilmente la Biblioteca avrebbe affidato l’esecuzione dei paratesti decorativi a un miniatore che non fosse noto e affidabile ad un tempo e il cui stile pittorico non appagasse il gusto personale del pontefice. Sfogliando La bibliothèque du Vatican au XVIe siècle di Eugène Müntz una figura più di altre pare rispondere a questo profilo: quella del miniatore provenzale Vincent Raymond de Lodève, noto ai suoi contemporanei con il nome italianizzato di Vincenzo Raimondi9. Originario della Francia e chierico della diocesi di Lodève in Linguadoca, il Raymond è documentato a Roma dal 1535 in qualità di miniatore dei libri della Cappella Sistina ma la sua attività in Curia data almeno agli anni del pontificato di Leone X (1513-1521) se non addirittura, come proposto di recente da Emilia Anna Talamo, a quelli di Giulio II (15031513)10. Nel 1548 Francisco de Hollandia lo annovera tra i cinque miniatori più famosi dei suoi tempi e l’anno dopo con «motu proprio» Paolo III 8
WARDROP, The vatican scriptors cit., p. 7. E. MÜNTZ, La bibliotheque du Vatican au XVIe siècle, Paris 1886 (= Amsterdam 1970), pp. 82, 86, 95, 96-97. 10 N. VIAN, Disavventure e morte di Vincent Raymond, miniatore papale, in La Bibliofilia 60 (1958), pp. 356-360; J. M. LLORENZ CISTERO, Miniaturas de Vincent Raymond en los manuscritos musicales de la Capilla Sixtina, in Miscelánea en homenaje a Monseñor Higino Anglés, I, Barcellona 1958-61, pp. 475-498; E. A. TALAMO, I messali miniati del cardinale Juan Alvarez de Toledo, in Storia dell’Arte 66 (1989), pp. 159-169; M. F. SAFFIOTTI DALE, Raymond de Lodève, Vincent, in Dizionario biografico dei miniatori italiani, secoli IX-XVI, a cura di M. BOLLATI, prefazione di M. BOSKOVITS, Milano 2004, pp. 899-901; TALAMO, Un codice scritto da Federico Mario Perugino con una miniatura inedita di Vincent Raymond, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XIII, Città del Vaticano 2006 (Studi e Testi, 433), pp. 613619; EAD., Los códices de la Sacristía Sixtina, in E. DE LAURENTIIS – E. A. TALAMO, Códices de la Capilla Sixtina. Manuscritos miniados en colecciones españolas. Edición del catálogo de la exposición a cargo de E. DE LAURENTIIS, Madrid 2010, pp. 1-21: 18. 9
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lo chiama a ricoprire il ruolo di miniatore papale, premiando così la sua trentennale attività a servizio dei pontefici. Morì a Roma il 10 febbraio 1557. Per il Farnese Raymond aveva decorato nel 1542 il Salterio Parigi, Bibliothèque nationale de France, lat. 8880, opera di chiara impronta manieristica considerata il capolavoro del maestro (Tav. II)11. Proprio con il Salterio di Paolo III il Vat. lat. 3750 presenta notevoli analogie stilistiche, nonché una significativa contiguità cronologica, dal momento che la copia del De rebus antiquis memorabilibus presentata al pontefice è di un solo anno più tarda del sontuoso manufatto parigino. Da un confronto tra i due paratesti decorativi si notano l’identica architettura della pagina e la combinazione degli stessi elementi ornamentali dei bordi. Analoghe sono le erme della fascia inferiore, che in entrambi i casi creano una bicromia oro/marmo con l’elemento dello sfondo; analoghi sono certi motivi antropomorfi, come quello della testa di ariete che abita, nel codice Vaticano, la bella iniziale miniata e sporadicamente la stessa teoria di panoplie. Identici sono infine gli stemmi pontifici, laddove solo piccole varianti sullo stesso tema tipizzano l’una e l’altra realizzazione. Come nel Salterio di Paolo III, anche nella copia del De rebus antiquis memorabilibus due putti sdraiati scandiscono la simmetria del bordo superiore mentre putti alati affiancano in entrambi i casi lo stemma papale. Un ulteriore elemento di conforto per questa ipotesi di attribuzione viene dall’identità stilistica della lettera miniata: caratteristica dello stile del Raymond è la frammentazione delle lettere iniziali in segmenti tenuti insieme da elementi di raccordo come bulbi floreali, becchi di uccello e maschere zoomorfe: motivi che, come più volte è stato notato, palesano il suo debito stilistico nei confronti di Matteo da Milano (Tavv. IIIa-b)12. La pagina incipitaria del Vat. lat. 3750 pare davvero essere una variante tipologica della già testata decorazione del Salterio, rispetto alla quale l’unico elemento realmente peculiare risiede nella scelta di una fitta teoria di panoplie in luogo di una decorazione 11 L. DOREZ, Psautier de Paul III. Reproduction des peintures et des initiales du manuscrit latin 8880 de la Bibliothèque nationale, précédée d’un essai sur le peintre et le copiste du Psautier, Paris 1909; J. J. G. ALEXANDER, The painted page, italian book illumination 1450-1550, München-New York 1994, nr. 129, pp. 239, 242-243. Talamo avanza non senza cautele l’ipotesi che alla realizzazione del Salterio abbia contribuito il miniatore toscano Jacopo del Giallo: TALAMO, Los códices cit., p. 15: «La hipótesis que en esto momento me parece más plausibile es, pues, la de una estrecha collaboración entre ambos miniaturistas: quizá el salterio fuese iniciado por Jacopo y completado más tarde por Vincent, a quien corresponden además los marcos moldurados con refinados ornados». 12 «Raymond [...] has a constant and peculiar method of fashioning his initials: they are composed of facetted stalks [...] springing out of white calyxes»: A Descriptive Catalogue of the Latin Manuscripts in the John Rylands Library at Manchester, compiled by M. R. JAMES, Cambridge 1921, p. 95; ALEXANDER, The painted page cit., p. 242.
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a grottesche. Il Raymond scelse d’altronde una panoplia — anche se più sobria e stilizzata — per ornare la lettera nuncupatoria della Topographia Urbis Romae di Bartolomeo Marliani († 1560), in un esemplare stampato a Roma per i tipi dei fratelli Valerio e Luigi Dorico nel 1544 e oggi Paris, Bibliothèque nationale de France, Res. J 45613. Non so dire se la scelta del medesimo motivo decorativo sia stata dettata da precise ragioni. Certo è che ad apparentare la cinquecentina di Parigi con i manoscritti testimoni del trattatello del Vegio concorrono due singolari coincidenze: l’una è la stessa natura «antiquaria» dei testi in questione, l’altra è l’interesse che George d’Armagnac, già destinatario negli stessi anni di un codice del De rebus antiquis memorabilibus, manifesta per la Topographia del Marliani, tanto da commissionare egli stesso al miniatore occitano la decorazione della stampa di Parigi14. Il Barb. lat. 2750 è un volume cart. di mm 201 u 284, composto da un foglio di guardia, 47 ff. numerati e quattro fogli bianchi non numerati15. Le filigrane riproducono una étoile simile a Briquet 6086 (Troia 1528). I sei fascicoli che strutturano il libro sono quaternioni; i fasc. 1 e 6 accusano l’aggiunta rispettivamente di 1 e 3 fogli con diversa filigrana. Sulla risguardia incollata all’asse superiore sono presenti le antiche segnature: «1738»; «2006»; «XXXIII 90». Al f. 47r si leggono la sottoscrizione e la datatio del copista: «F. Ruano scriptor bibliothecae apostolicae scribebat Rome (sic) anno domini 1544». Come il Vat. lat. 3750, anche il De rebus antiquis memorabilibus barberiniano presenta lo stemma di Paolo III: a distanza di un anno dal codice di rappresentanza, lo scriptor iberico preparò quindi una seconda copia cartacea e di piccolo formato da indirizzare nuovamente al pontefice, forse con l’obiettivo di fornirgli un più agevole volume di lettura. Alla più quotidiana destinazione d’uso si adatta bene il sobrio — ma non meno elegante — apparato decorativo di f. 1r, in cui diversi drappi blu ornano una cornice disegnata secondo i ritmi di una fantasia geometrica che lascia intravedere uno sfondo verde colorato a rigatino (Tav. IV) e che sembra anticipare, almeno nelle forme, alcune realizzazioni databili al pontifi13 Edit16 34273. Il portale «Gallica» della Bibliothèque nationale di Parigi ne riproduce diversi fogli che contengono per lo più incisioni di rilievi topografici ed architettonici, fatta salva la decorazione incipitaria in cui putti alati sorreggono l’arma regale di Francesco I a cui l’opera del Marliani è dedicata. Ad assegnare al Raymond le decorazioni della cinquecentina di Parigi provvide ancora una volta Léon DOREZ, Psautier cit., pp. 21-23 e tavv. XXVI-XXIX. 14 DOREZ, Psautier cit., p. 23. 15 NOGARA, I codici cit., p. 50 con la vecchia segnatura XXXIII 90; RAFFAELE, Maffeo Vegio cit., p. 97; I codici latini datati della Biblioteca Apostolica Vaticana. I: nei fondi Archivio S. Pietro, Barberini, Boncompagni, Borghese, Borgia, Capponi, Chigi, Ferrajoli, Ottoboni, sotto la direzione di J. RUYSSCHAERT †, a cura di A. MARUCCHI †, con la collaborazione di A. C. DE LA MARE, Città del Vaticano 1997, pp. 36-37, nr. 79 e tav. CXXXIX.
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cato di Giulio III (1550-1555)16. Come nel Vat. lat. 3750, lo stemma papale è qui chiamato a scandire la simmetria spaziale della bordura inferiore, contaminandosi ancora una volta con lo stravagante repertorio manierista fatto di piccole e grottesche maschere e di due busti di sirene-arpie adibite a sfondo. La perfetta e invero un po’ scolastica simmetria della decorazione è ulteriormente rimarcata dalla presenza di due rubini incastonati in medaglioni d’oro, dai quali pendono altre due pietre a goccia: questo elemento grafico è assente nel codice vaticano ma si ritrova, con una più complessa articolazione, nel Salterio parigino (Tavv. Va-b). Analogamente al Vat. lat. 3750, anche nel Barb. lat. 2750 il titolo dell’opera e il titolo del primo libro sono scritti in oro entro un cartiglio dal bordo dorato, per il cui sfondo il miniatore preferisce, al rosso della precedente realizzazione, un blu intenso. L’iniziale dorata, scritta in un riquadro rosso/blu filigranato, dà infine la misura del maggiore schematismo che vizia la qualità artistica del barberiniano e che fa quasi pensare ad un intervento di un allievo più che al diretto interessamento del maestro. Nella bordura superiore un ovale incornicia infine una piccola immagine raffigurante tre rigogliosi gigli sormontati da un arcobaleno. Si tratta della nota impresa papale del «giglio di giustizia», realizzata dal cameriere segreto del pontefice Eurialo Silvestri e probabile allusione all’intervento diplomatico con cui il Farnese propiziò la tregua di Nizza tra Carlo V e Francesco I (1538)17. Il Raymond riprodusse l’impresa papale nell’ormai familiare Salterio di Parigi, il cui disegno è perfettamente sovrapponibile a quello tracciato nel codice barberiniano. Tale coincidenza mi sembra un argomento forte per l’ipotesi di attribuzione: l’impresa infatti non circolava secondo un modello tipologico fisso ma era soggetta ad una certa libertà compositiva, come dimostra l’esempio delle coeve decorazioni nell’appartamento paolino in Castel Sant’Angelo (Tavv. VIa, b, c)18. Alla fine di questa sommaria presentazione credo di poter affermare che entrambe le decorazioni vadano assegnate al catalogo sempre più ricco di Vincent Raymond de Lodève. Sono anche convinto che il loro recupero, oltre a offrire nuovi spunti di indagine sull’attività del miniatore provenzale, consentirà anche un’ulteriore messa a fuoco dei motivi e delle forme 16
Mi riferisco alle decorazioni incipitarie di Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Capp. Sist. 213 e di Toledo, Biblioteca Publica del Estado – Biblioteca de CastillaLa Mancha, 167, recentemente attribuito a Raymond: TALAMO, Los códices cit., p. 19 e figg. 42-43. 17 Gli affreschi di Paolo III a Castel Sant’Angelo. Progetto ed esecuzione 1543-1548. Catalogo della mostra, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, Roma 16 novembre 1981-31 gennaio 1982, Roma 1981, pp. 42-43. 18 Gli affreschi di Paolo III cit., pp. 42-43.
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che hanno condotto alla realizzazione del libro d’ore di Alessandro Farnese (New York, Pierpont Morgan library, M 69), decorato nel 1546 da Giulio Clovio e grande capolavoro della miniatura rinascimentale romana19. Lascio dunque agli specialisti il piacere del cimento.
19
ALEXANDER, The painted page cit., p. 246. La fama del codice si deve in buona parte a Giorgio Vasari che ne scrive ammirato nella vita di Sebastiano del Piombo: G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, II, a cura di L. BELLOSI e A. ROSSI, presentazione di G. PREVITALI, Torino 1991 (Einaudi Tascabili. Classici, 72), p. 847.
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3750, f.1r.
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Tav. II – Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 8880, f. 182v.
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Tav. IIIa – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3750, f. 1r, particolare.
Tav. IIIb – Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 8880, f. 164r, particolare.
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Tav. IV – Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2570, f. 1r.
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Tav. Va – Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2570, f. 1r, particolare.
Tav. Vb – Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 8880, f. 182v, particolare.
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Tav. VIa – Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 8880, f. 183r, particolare.
Tav. VIb – Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 2570, f. 1r, particolare.
Tav. Vc – Roma, Castel Sant’Angelo, Sala Paolina, particolare (con l’aut. della Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Roma-Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo).
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MARIANO DELL’OMO
IL PIÙ ANTICO INVENTARIO DELL’ARCHIVIO DIPLOMATICO DI MONTECASSINO NEL CATALOGO DI PAPA PAOLO II (VAT. LAT. 3961, FF. 25R-32V) EDIZIONE DELLA LISTA E IDENTIFICAZIONE DEI DOCUMENTI A mia madre, in memoriam
1. Il significato del codice Vat. lat. 3961 per la storia della biblioteca e dell’archivio di Montecassino In un breve di papa Paolo II del 20 marzo 1471 indirizzato al vescovo di Modena Nicola Sandonnino, governatore dell’abbazia di Montecassino per conto dello stesso pontefice, questi esprimeva il desiderio di ricevere «nonnullos codices volumina oblationes ac privilegia in scedula presentibus introclusa ex biblyotheca vestra», avendo incaricato a tal fine Giovanni de’ Franchinis «ut ea omnia ad nos deferri faciat et ipse personaliter cum ipsis isthuc redeat»1. Appare evidente da questo documento conservato nell’Archivio di Stato di Venezia, come papa Barbo in qualità di commendatario dell’abbazia cassinese2 fosse ben informato a quella data circa codici e carte del monastero, a tal punto da segnalarne alcuni in modo specifico, a testimonianza del fatto che egli disponeva ormai di un inventario di quella biblioteca-archivio3, lo stesso che aveva ordinato di redigere qualche anno 1 R. WEISS, Un umanista veneziano. Papa Paolo II, Venezia-Roma 1958 (Civiltà Veneziana. Saggi, 4), p. 88. Il buon esito della missione affidata al de’ Franchinis è attestato dal pagamento in suo favore di sei ducati per l’effettuata spedizione di libri da Montecassino al papa: cfr. P. CHERUBINI, A. ESPOSITO, A. MODIGLIANI, P. SCARCIA PIACENTINI, Il costo del libro, in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Atti del II Seminario, Roma 6-8 maggio 1982, a cura di M. MIGLIO, con la collaborazione di P. FARENGA e A. MODIGLIANI, Città del Vaticano 1983 (Littera antiqua, 3), pp. 328-329. 2 Cfr. M. DELL’OMO, Paolo II abate commendatario di Montecassino. Note e documenti sull’abbazia cassinese e la Terra S. Benedicti fra il 1465 e il 1471, in Archivum Historiae Pontificiae 29 (1991), pp. 63-112 (ristampa: Montecassino nel Quattrocento. Studi e documenti sull’abbazia cassinese e la “Terra S. Benedicti” nella crisi del passaggio all’età moderna, a cura di ID., Montecassino 1992 [Miscellanea Cassinese, 66], pp. 207-284). 3 Per i rapporti con la biblioteca di Montecassino cfr. M. DELL’OMO, Per uno “status qua-
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 203-263.
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prima e che si conserva nel codice Vat. lat. 3961. Proprio in testa al f. 1r del manoscritto vaticano l’anonimo estensore nel rivolgersi al pontefice, giustificandosi per il tempo non breve impiegato nella redazione del catalogo, ci informa altresì indirettamente che era stato lo stesso papa a richiederlo4. Resa nota in modo del tutto parziale e personale da Angelo Mai5, la lista dei codici apparve interamente nel tomo I della Bibliotheca Casinensis6, estionis” sui rapporti tra papa Paolo II e la biblioteca di Montecassino, in Benedictina 36 (1989), pp. 165-178 (ristampa: Montecassino nel Quattrocento, pp. 311-327); ID., Cassino. Archivio dell’Abbazia di Montecassino, in I manoscritti datati delle Province di Frosinone, Rieti e Viterbo, a cura di L. BUONO – R. CASAVECCHIA – M. PALMA – E. RUSSO, Firenze 2007 (Manoscritti datati d’Italia, 17), pp. 9-10; ID., La biblioteca e l’archivio di Montecassino, in Claustrum et armarium. Studi su alcune biblioteche ecclesiastiche italiane tra Medioevo ed Età moderna, a cura di E. BARBIERI e F. GALLO, Milano – Roma 2010 (Accademia Ambrosiana. Classe di studi borromaici. Fonti e studi, 12), pp. 32-34. 4 «.M.Vc.XXXII. . Beatissime pater, post pedum oscula beatorum etc. Non potui inceptum opus tam brevi perficere, quia in eo continentur multa et varia librorum genera, que citius notare non poteram et mictere sicut cupiebam, ut infra B(eatitudo) V(estra) poterit cognoscere, laboravi tamen pro viribus ut S(anctitati) V(estrae) satisfacerem». 5 Spicilegium Romanum, V, Romae 1841, pp. 221-224. Che non si tratti di una trascrizione fedele ma solo di un raggruppamento incompleto di unità, basti questo esempio tratto proprio dall’esordio: «I. 1. Sancti Hilarii liber mysteriorum. Incipit: multiplex. 2. Eiusdem sancti Hilarii super epistolis canonicis. Inc. septem. 3. Sancti Augustini liber de natura innocentiae. Incip. innocentia» (p. 221). In realtà a questi tre numeri corrispondono i seguenti segmenti di testo nel catalogo manoscritto: «Item Expositio sancti Ylarii super Ep(isto)las canonicas, incipit Septem. Item liber misteriorum sancti Ylarii, incipit Multiplex etc.» (f. 9r). «Item liber eiusdem de natura innocentie, incipit Innocentia, cum libro Ieronimi de Viris illustribus» (f. 5v). 6 Bibliotheca Casinensis seu codicum manuscriptorum qui in tabulario Casinensi asservantur series, I, [Montis Casini] 1873, pp. LXXIV-XCIII. Luigi Tosti (p. LXXIV) così la intitola: «Catalogus Codicum MSS. quos Bibliotheca Casinensis habebat anno 1532», rinviando ad una nota nella quale riconosce il suo debito di riconoscenza per tale edizione al basiliano Giuseppe Cozza-Luzi (*1837-†1905): «Hujus catalogi exemplar cl. vir P. J. Cozza Ord. S. Basilii manu propria confecit et nobis perurbane dono misit». Altrove egli fa invece riferimento al contributo del barnabita Carlo Giuseppe Vercellone (*1814-†1869): «Ma la certezza di molti codici trasportati da Montecassino al Vaticano sotto papa Clemente VII appare dal catalogo che ancora esiste nella papale biblioteca; il quale, unito all’altro spedito a papa Paolo II, forma il codice segnato col numero 3961, secondo la lettera dell’illustre padre Vercellone, scritta al nostro non mai abbastanza rimpianto don Sebastiano Kalefati, prefetto di questo archivio» (La biblioteca dei manoscritti di Monte Cassino [Memoria letta nella Tornata del dì 1.° Aprile 1873], in Atti della Reale Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, 18741875, parte seconda, Napoli 1875, p. 29 [ristampa con il titolo: La biblioteca dei codici manoscritti di Montecassino, in L. TOSTI., Scritti vari, II, Roma 1890 [Opere complete di D. Luigi Tosti benedettino cassinese corrette ed aumentate dall’autore. Vol V], pp. 194-195]. L’erronea duplicazione del catalogo, uno inviato a Paolo II, l’altro (mai esistito) a papa Clemente VII nel 1532, originata dal Mai: Scriptorum Veterum Nova Collectio e Vaticanis codicibus edita ab Angelo Maio Bibliothecae Vaticanae praefecto, III, [pars II], Romae 1828, p. 165, fu già rilevata da Giovanni Mercati: Due supposte spogliazioni della biblioteca di Montecassino,
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e fu poi nuovamente pubblicata dall’Inguanez7 ad esclusione dei Registra monasterii Casinensis (ff. 18v-19v)8 e delle Tabule eree emnumenta perpetua bonorum sacri monasterii Casinensis (ff. 19v-20v)9, vale a dire i pannelli delle porte bronzee medievali di Montecassino, che solo nel 1535 furono nuovamente apposti sulla porta centrale della basilica cassinese rimanendovi fino al 171610. Si deve ancora al Mai per la prima volta la trascrizione, anch’essa tuttavia non rispettosa dell’integrità del testo oltre che priva di qualsiasi annotazione e riferimenti a segnature archivistiche, non solo dei già menzionati Registra monasterii Casinensis, ma anche dei documenti dell’archivio (ff. 25r-32v)11. È singolare a tal proposito il fatto che non solo la Bibliotheca Casinensis e l’Inguanez tacciano del tutto su questo, ma che lo stesso Leccisotti nel delineare a più riprese la storia archivistica di Montecassino12 non accenni neppure all’esistenza di un inventario dei documenti d’archivio nel Vat. lat. 3961, scrivendo anzi che il catalogo vaticano «enumera molti codici, ma in fine una minima sua parte riguarda materiale archivistico, ossia i registri»13, mentre già il Mercati aveva accennato ai «332 numeri dell’archivio»14. Anche il Bloch, tra i massimi conoscitori del materiale in Miscellanea di studi in onore di Attilio Hortis, Trieste, maggio MCMIX, Trieste 1910, p. 969 nt. 4 (ristampa: ID., Opere minori raccolte in occasione del settantesimo natalizio. Sotto gli auspicii di S.S. Pio XI, III. [1907-1916], Città del Vaticano 1937 [Studi e Testi, 78], p. 160 nt. 4). 7 M. INGUANEZ, Catalogi codicum Casinensium antiqui (saec. VIII-XV), Montis Casini 1941 (Miscellanea Cassinese, 21), pp. 14, 15, 16, 17-46. 8 Bibliotheca Casinensis, I, pp. LXXXVIII-LXXXIX. 9 Ibid., pp. LXXXIX-XCI. 10 Cfr. H. BLOCH, Monte Cassino in the Middle Ages, Roma 1986, pp. 486-487; ID., The Inscription of the Bronze Doors of Monte Cassino. A Contribution of Classical Archaeology to Medieval Studies, in Eius Virtutis Studiosi: Classical and Postclassical Studies in Memory of Frank Edward Brown (1908-1988). Edited by R.T. SCOTT and A. REYNOLDS SCOTT, Washington 1993 (Studies in the History of Art, 43. Center for Advanced Study in the Visual Arts Symposium Papers XXIII]), pp. 447-462; S. MORETTI, «Cum valde placuissent oculis eius...»: i battenti di Amalfi e Montecassino, in Le porte del Paradiso. Arte e tecnologia bizantina tra Italia e Mediterraneo, a cura di A. IACOBINI, Roma 2009 (Milion. Studi e ricerche d’arte bizantina, 7), pp. 159-169. 11 Spicilegium Romanum, pp. 221-223 (registri), 223-236 (carte). Da notare l’errore tipografico relativo alle cifre delle pagine, per cui a 221-224 (catalogo dei codici), segue nuovamente 221 (registri) fino a 250, ultima pagina in cifre arabe della prima sezione di questo tomo V. 12 Cfr. T. LECCISOTTI, La tradizione archivistica di Montecassino, in Miscellanea Archivistica Angelo Mercati, Città del Vaticano 1952 (Studi e Testi, 165), pp. 227-261; Abbazia di Montecassino. I Regesti dell’Archivio, I [Introduzione], a cura di ID., Roma 1964 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 54), pp. VII-LXVII. 13 I Regesti dell’Archivio, I [Introduzione], p. XXI. 14 Due supposte spogliazioni, p. 971 (ristampa: MERCATI, Opere minori, p. 162).
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documentario cassinese, pur sottolineando il valore del codice vaticano in vista di un raffronto «fra l’inventario ed i manoscritti sopravvissuti nella biblioteca di Montecassino»15, sembra ignorare la lista relativa all’archivio. Certo l’anonimo compilatore adottò lo stesso criterio di inventariazione tanto per la biblioteca quanto per l’archivio, come appare dalle cifre arabe coeve segnate nell’angolo inferiore dei singoli fogli, sostanzialmente corrispondenti al numero dei singoli pezzi che vi sono elencati16, quantificando così per ragioni pratiche il gruppo di codici o di carte o di altro materiale che egli veniva di volta in volta registrando. Ciò corrobora l’impressione immediata che le liste dei codici, dei registri, dei pannelli bronzei medievali, dei libri conservati nella sacrestia nonché dei documenti dell’archivio siano state redatte, quindi vergate da un’unica mano, nella stessa occasione e rispondano ad un unico impulso la cui fonte è lo stesso papa Paolo II. Proprio il fatto che dalla prima metà dell’Ottocento fino ad oggi l’inventario dei documenti dell’archivio, che occupa ben otto fogli del catalogo vaticano, sia stato negletto, mi ha spinto a darne un’edizione che offrisse finalmente la possibilità di identificare le singole unità, e che specialmente permettesse di verificare il modo in cui era organizzata la documentazione archivistica — almeno quella in massima parte di natura pubblica — a Montecassino a metà del sec. XV, poco prima che l’abbazia venisse aggregata alla Congregazione di S. Giustina nel 150417, evento che segna anche l’inizio di una tradizione archivistica meglio documentata18. 15 H. BLOCH, Il significato degli studi classici nella medievalistica: indagine su Montecassino attraverso le osservazioni di un classicista, in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano 94 (1988), p. 427. Di un tale rapporto aveva offerto egli stesso un saggio dimostrativo in Der Autor der “Graphia aureae urbis Romae”, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters 40 (1984), pp. 105-111. 16 Libri (ff. 1r-18v, 21r-24r), Registra monasterii Casinensis (ff. 18v-19v), Tabule eree emnumenta perpetua bonorum sacri monasterii Casinensis (ff. 19v-20v): 28 (f. 1r), 33 (f. 1v), 32 (f. 2r), 35 (f. 2v), 32 (f. 3r), 31 (f. 3v), 32 (f. 4r), 34 (f. 4v), 33 (f. 5r), 17 (f. 5v), 12 (f. 6r), 24 (f. 6v), 18 (f. 7r), 31 (f. 7v), 28 (f. 8r), 25 (f. 8v), 15 (f. 9r), 22 (f. 9v), 20 (f. 10r), 29 (f. 10v), 31 (f. 11r), 34 (f. 11v), 27 (f. 12r), 30 (f. 12v), 31 (f. 13r), 27 (f. 13v), 30 (f. 14r), 21 (f. 14v), 27 (f. 15r), 33 (f. 15v), 32 (f. 16r), 25 (f. 16v), 25 (f. 17r), 31 (f. 17v), 27 (f. 18r), 12 (f. 18v), 12 (f. 19r), 10 (f. 19v), 12 (f. 20r), 16 (f. 20v), 30 (f. 21r), 33 (f. 21v), 32 (f. 22r), 28 (f. 22v), 12 (f. 23r), 35 (f. 23v), 11 (f. 24r). Documenti d’archivio (ff. 25r-32v): 24 (f. 25r), 27 (f. 25v), 31 (f. 26r), 31 (f. 26v), 23 (f. 27r), 20 (f. 27v), 15 (f. 28r), 16 (f. 28v), 16 (f. 29r), 15 (f. 29v), 17 (f. 30r), 17 (f. 30v), 22 (f. 31r), 21 (f. 31v), 26 (f. 32r), 11 (f. 32v). 17 Cfr. M. DELL’OMO, Documenti per il V centenario dell’unione di Montecassino alla Congregazione di S. Giustina. La fine della commenda e gli adempimenti finanziari verso il futuro papa Leone X, i vescovi Pandolfini e Serapica (1504-1532), in Benedictina 52 (2005), pp. 277352. 18 A parte la Tabula ordinata per alphabetum del 1403 dovuta al bibliotecario Ignazio da Praga (sulla sua identità cfr. M. DELL’OMO, Agiografia a Montecassino nel ’400 tra nuovi testi di produzione locale e nuove raccolte di ambito universale, in Benedictina 54 [2007], pp. 77-
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Il criterio con il quale le singole unità documentarie appaiono raggruppate nell’inventario, emerge dai titoli che di volta in volta segnalano le diverse sezioni che si succedono senza soluzione di continuità, e che possono così prospettarsi, corredate della numerazione qui attribuita ai documenti stessi: Privilegiorum confirmationes per Pontifices Romanos concessae (nrr. 1-34); Confirmationes inperatorum, regum et principum (nrr. 35-108); Transumpta (nrr. 109-111); Oblationes (nrr. 112-152); Privilegia Romanorum Pontificum (nrr. 153-232); Conservatoria Romanorum Pontificum (nrr. 233-250); Oblationes inperatorum, regum et principum de particularibus (nrr. 251-299); Statuta inperatorum (nrr. 300-302); Alie oblationes (nrr. 303-316); Decem privilegia aureis sigillis munita (nrr. 317-326); Vari (nrr. 327-332).
L’ordine per categorie di atti scelto dall’anonimo redattore sembra offrire a prima vista una certa utilità ai fini di un immediato orientamento fra le tante voci dell’elenco. Nondimeno la genericità degli elementi con i quali nella lista sono espresse le singole unità documentarie, non permettendo nella maggioranza dei casi di riconoscere le stesse, ha imposto l’adozione di un criterio fondamentale, quello cioè di partire dall’unico dato più o meno certo: l’autore. D’altra parte, poiché l’estensore dell’inventario mostra di seguire e di rispettare la collocazione archivistica dei singoli pezzi, che fondamentalmente coincide, almeno per ampi blocchi, con quella odierna, è appunto quest’ultima che mi ha facilitato nell’individuare gli attuali documenti corrispondenti alle specifiche unità descritte, come si può facilmente notare dalla loro successione, in gran parte parallela a quella delle attuali segnature dell’archivio cassinese, corrispondenti alle singole capsule (d’ora in poi: caps.):
79), pervenutaci in una copia degli inizi del sec. XVI (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, caps. XCVI), recante l’elenco delle diverse chiese e dipendenze cassinesi qua e là corredate di riferimenti alla Cronaca di Leone Ostiense o ai nomi di quei pontefici i cui privilegi in favore di Montecassino menzionino quelle stesse chiese, i primi veri strumenti di consultazione dell’archivio datano a partire dal sec. XVI (cfr. LECCISOTTI, I Regesti dell’Archivio, I [Introduzione], pp. LVI-LX).
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nrr. 1-21: caps. I, nrr. 1-17, 18/19, 20-22; nrr. 22-34: caps. II, nrr. 34-46; nrr. 35-39: caps. X, nrr. 1-5**; nrr. 40-41: caps. X, nrr. 33, 49; nrr. 42-44: caps. X, nrr. 7-9; nrr. 45-56: caps. II, nrr. 22-33; nrr. 57-80: 57-63: caps. II, nrr. 1-6*, 7/8; [64-67 ?]; 68-80: caps. II, nrr. 9-21; nrr. 81-108: 81-83: caps. X, nrr. 10-12; [84 ?]; 85-86: caps. X, nrr. 14-15; [87 ?]; 88-90: caps. X, nrr. 16- 18*; [91 ?]; 92-103: caps. X, nrr. 20*-30 [104-105 ?]; 106-108: caps. X, nrr. 34-36; nrr. 109-110: caps. XVIII, nrr. 80, 47; nr. 111: caps. III, nr. 35; nrr. 112-150: 112: caps. XI, nr. 1; [113 ?]; 114-125: caps. XI, nrr. 3-14; 126: caps. XI, nrr. 15-16; 127-130: caps. XI, nrr. 17-20; 131: caps. XI, nr. 21 (?); 132-135: caps. XI, nrr. 22-25; 136: caps. XI, nr. 27; 137-140: caps. XI, nrr. 29-32**; 141-146: caps. XI, nrr. 34, 49, 3538; 147: caps. XI, nr. 60; 148-150: caps. XI, nrr. 42-44;
nrr. 151-152: caps. XII, nrr. 38, 23; nrr. 153-232: 153-156: caps. V, nrr. 1-4; [157 ?] 158-165: caps. V, nrr. 6*-13; [166 ?] 167-171: caps. V, nrr. 16-20; 172-174: caps. V, nrr. 22-24; 175-177: caps. V, nrr. 28, 26-27; [178 ?]; 179-197: caps. V, nrr. 29-47; [198 ?]; 199-229: caps. V, nrr. 49-79; 230-232: caps. V, nrr. 81-83; nrr. 233-250: 233-242: caps. VI, nrr. 11-20; 243-250: caps. VI, nrr. 22-29; nrr. 251-258: caps. XIV, nrr. 1**-8; nr. 259: caps. XI, nr. 54; nrr. 260-277: caps. XIV, nrr. 10-27 (nr. 273: già caps. XIV, nr. 23, ora caps. XCVIII, Larino, nr. 5) nrr. 278-299: caps. XIII, nrr. 1, 3 (già [aula III] caps. XIII, nr. 3, ora [aula II] caps. XVIII, nr. 5), 4-23; nrr. 300-302: caps. VI, nrr. 1-3; nrr. 303-312: caps. XIII, nrr. 27*-36; nr. 313: caps. XV, nr. 13; nrr. 314-332: 314-315: caps. VI, nrr. 10, 5; [316 ?]; 317-320: caps. X, nrr. 4/49, 50**, 38, 41; 321: caps. XII, nr. 13; 322-323: caps. X, nrr. 37, 48; 324-326: caps. XII, nrr. 26, 18, 35; [327-330 ?]; 331-332: caps. VII, nr. 50.
Le capsule interessate (caps. I, II, III, V, VI, VII, X, XI, XII, XIII, XIV, XV, XVIII), dove si conservano attualmente i documenti che corrispondono alle singole unità identificate, appartengono tutte al fondo diplomatico (oggi caps. I-XXIII), dove gli atti pubblici più rilevanti giunti fino a noi sono quelli pontifici e imperiali oltre ai molteplici rimanenti atti dei sovrani, con originali — quelli sicuramente datati — che vanno dall’810 al 1743.
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Quel che è più rilevante sottolineare, dal punto di vista dell’organizzazione archivistica, è la sostanziale coincidenza tra il modo in cui si succedono le unità documentarie nel catalogo vaticano e l’attuale sequenza degli stessi pezzi nelle singole capsule, al di là del fatto che l’estensore del nostro inventario, per fedeltà alle categorie documentarie scelte, abbia articolato la successione dei blocchi di unità e quindi delle relative capsule in modo differente da quello strettamente archivistico (caps. I, II, X, quindi nuovamente II, X; poi XVIII, III, XI, XII, V, VI, XIV, un’altra volta XI, XIV, quindi XIII, ancora VI, XIII; poi XV cui seguono di nuovo VI, X, XII, X, XII, infine per la prima volta VII). Ciò sembra provare che già a metà del sec. XV i singoli pezzi dell’archivio diplomatico erano riuniti in più serie, che la tradizione archivistica a partire dal sec. XVI ci documenta come capsule, la cui numerazione a partire da questo momento si è mantenuta sostanzialmene uguale fino ad oggi19. Tra i risultati di questa ricerca due in particolare possono qui segnalarsi: il primo di carattere negativo, costituito dalle 22 su 332 unità documentarie che non mi è stato possibile identificare (nrr. 64, 65, 66, 67, 84, 87, 91, 103, 104, 105, 113, 131, 157, 166, 178, 198, 303, 316, 327, 328, 329, 330); l’altro invece ha un significato positivo: infatti proprio il regolare susseguirsi delle unità nell’inventario in parallelo alle attuali collocazioni archivistiche dei documenti, che negli antichi regesti fino a quelli di Leccisotti risultano numerati anche se mancanti, ha permesso di restituire per la prima volta almeno il nome dell’autore a quelli che finora erano considerati genericamente documenti deperditi, e che qui sono indicati con il numero della presente edizione: 26 e 211 (Celestino III, papa), 62 (Bonifacio IX, papa), 158 (Urbano V, papa), 173 (Alessandro III, papa), 185 (Innocenzo VI, papa), 186 (Giovanni XIII ?, papa), 188 (un certo cardinale Rogerius), 224 (Martino V, papa). Attribuito agli anni del pontificato del Barbo (1464-1471), il catalogo vaticano in realtà proprio grazie alla sezione costituita dai pezzi d’archivio, come già altrove ho avuto modo di rilevare20, è più precisamene databile non oltre il settembre del 1469. Infatti al f. 32r-v appare tra l’altro l’elenco di dieci privilegia muniti di sigillo aureo (cfr. infra nrr. 317-326): ora, com’è storicamente noto21, sette di tali sigilli furono sottratti proprio nel 19 Cfr. per le capsule I-XXIII i già citati I Regesti dell’Archivio, I, e Abbazia di Montecassino. I Regesti dell’Archivio, II, a cura di T. LECCISOTTI, Roma 1965 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 56). 20 Cfr. DELL’OMO, Cassino. Archivio dell’Abbazia di Montecassino, pp. 9-10; ID., La biblioteca e l’archivio, pp. 32-33. 21 Cfr. M. INGUANEZ, Diplomi cassinesi con sigillo d’oro, Montecassino 1930 (Miscellanea Cassinese, 7), pp. 10-11.
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settembre dell’anno 1469 da due monaci, Onorato e Placido da Isernia, fuggiti con la refurtiva e, per quanto si sa, mai più rintracciati, nonostante lo stesso Paolo II avesse provveduto ad emettere un breve il 7 dicembre di quello stesso anno (Cum veridica relatione), puntualmente inserto nella lettera che il rappresentante del papa Nicola Sandonnino indirizzò il 25 maggio 1470 ai vescovi e prelati nelle cui circoscrizioni si sospettava avessero trovato rifugio quei due religiosi, con l’ingiunzione di consegnarli nelle mani dello stesso governatore22. Ne consegue, come sembra, che non essendo registrata alcuna perdita di sigilli aurei nell’inventario vaticano, quest’ultimo deve essere stato ultimato prima del fatidico settembre 1469, poiché diversamente il compilatore della lista non avrebbe certo passato sotto silenzio un particolare così grave, di cui lo stesso Paolo II era venuto a conoscenza, intervenendo tempestivamente pochi mesi dopo il fatto stesso, che costituisce perciò il terminus ante quem del catalogo vaticano. 2. Scheda di descrizione del manoscritto Cart. (ff. 1-32: Libri, ff. 1r-18v, 21r-24r; Registra monasterii Casinensis, ff. 18v-19v; Tabule eree emnumenta perpetua bonorum sacri monasterii Casinensis, ff. 19v-20v; Documenti d’archivio, ff. 25r-32v); 1464-1471 (prima del settembre 1469); f. 2: mm 282 u 215; ff. I moderno (iniziale cart.), altro cart. non numerato coevo a quelli contenenti il catalogo ma senza riscontro, 32, II moderno (finale cart.). In particolare sul recto del foglio successivo al I di guardia iniziale e privo di numero, si legge a partire dall’alto «.520.», «p(ri)me fenestre .6400.», «secunde .3840.», mentre sul verso bianco si nota qualche macchia d’inchiostro. Al f. 32v è unito il dorso della vecchia legatura floscia di pergamena, recante in alto un talloncino cartaceo ove si legge «3961» in rosso e, poco più in basso, direttamente sulla membrana, «Index librorum monasterii Montis Casini», cui segue la cifra «.504.»; della stessa legatura originaria resta inoltre la parte posteriore (mm 287 u 213), ove appare disegnato a penna sul verso, di mano come sembra cinquecentesca, lo stemma di papa Paolo II con le chiavi e la tiara. Sul dorso dell’attuale legatura (assicelle di cartone rivestite di tela di colore marrone chiaro: mm 300 u 200) si notano, a partire dall’alto impressi in oro: un fregio a rosetta con 8 petali, «Vat.», «3961», un talloncino cartaceo con la stessa segnatura meccanica del codice, infine altri due fregi ugualmente a rosetta con 8 petali visibili in quinta e sesta posizione. Fascicolazione: fasc. 1, senione, 22
L’edizione di questo documento, ritenuto perduto dall’Inguanez (Diplomi cassinesi, p. 10 nt. 1), appare in DELL’OMO, Per uno “status quaestionis”, pp. 177-178 (ristampa: Montecassino nel Quattrocento, pp. 325-327).
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ff. 1-12; fasc. 2, senione, ff. 13-24; fasc. 3, quaternione, ff. 25-32. Impaginazione: f. 29r: 31 linee scritte; A= mm 26 - B= mm 237 - C= mm 287 - b= mm 30 - h= m 190 - l= mm 21023. Il timbro rotondo a secco della Biblioteca Vaticana appare sui ff. 1r e 32v. 3. Edizione dei ff. 25r-32v A) Inventario dei documenti Si è preferito trascrivere in corsivo «et cetera».
[ff. 25r-32v] [f. 25r] PRIVILEGIORUM CONFIRMATIONES PER PONTIFICES ROMANOS CONCESSAE. Confirmatio de omnibus iuribus, bonis et prerogativis(a) monasterii Casinensis concessa per papam Zachariam. . Confirmatio de omnibus iuribus et inmunitatibus monasterii Casinensis per papam Pascalem .II. concessa. Confirmatio iurium consimilis prefato monasterio per papam Calistum .II. concessa. Confirmatio consimilis monasterio Casinensi per papam Pascasium .II. concessa. Confirmatio consimilis monasterio Casinensi per papam Victorem concessa. Confirmatio consimilis per papam Alexandrum .II.(b) monasterio Casinensi concessa. Confirmatio consimilis per papam Gregorium monasterio Casinensi concessa. Confirmatio consimilis per papam Inocentium(c) .III. concessa. Confirmatio consimilis per papam Nocentium(d) .II.(b) monasterio Casinensi concessa. Confirmatio consimilis per papam Clementem .IIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia amplior per papam Clementem .IIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio consimilis per papam Urbanum .II. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio consimilis per papam Urbanum .V. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia amplior per papam Urbanum .V. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Urbanum .V. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Urbanum .V. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Urbanum .V. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Urbanum .V. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio per papam Alexandrum monasterio Casinensi concessa. Confirmatio per papam Clementem .III. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio per papam Bonifatium nonum monasterio Casinensi concessa. Confirmatio per papam Honorium .III. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Honorium .III. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio per papam Anastagium .IIII. monasterio Casinensi concessa. [f. 25v] Confirmatio alia per papam Honorium monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Celestinum .III.(e) monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Calistum .II.(f) monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Honorium .III. monasterio Casinensi concessa. Confir23
Nel modello grafico offerto da Guida a una descrizione uniforme dei manoscritti e al loro censimento, a cura di V. JEMOLO, M. MORELLI. Contributi di B. Baroffio, M. Gentili Tedeschi, V. Pace, Roma 1990, pp. 31-32, A indica il punto in cui la riga verticale più a sinistra incontra la riga orizzontale più in alto; B quello in cui la stessa riga verticale incontra la riga orizzontale più in basso; C quello in cui la stessa riga verticale tocca l’estremo margine inferiore; b indica il punto in cui la riga orizzontale più in alto incontra la riga di giustificazione di sinistra dell’impaginazione a piena pagina; h quello in cui la stessa riga incontra quella di giustificazione di destra della medesima impaginazione; l quello in cui la stessa riga orizzontale l’estremo margine laterale esterno.
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matio alia per papam Alexandrum .III. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Bonifatium .VIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Lutium .III. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Inocentium(c) monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Bonifatium .VIII.(g) monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Martinum .V.(h) monasterio Casinensi concessa. CONFIRMATIONES INPERATORUM, REGUM ET PRINCIPUM. Confirmatio generalis per Hericum(i) inperatorem .II. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio generalis per Ottonem inperatorem monasterio Casinensi concessa. Confirmatio generalis per Ottonem inperatorem .II. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio generalis et amplior per Lotarium inperatorem monasterio Casinensi concessa. Confirmatio generalis per Corradum inperatorem monasterio Casinensi concessa. Confirmatio generalis per Ottonem inperatorem monasterio Casinensi concessa. Confirmatio generalis per Lotarium inperatorem monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia generalis per Ottonem inperatorem .II.(f) monasterio Casinensi concessa. Confirmatio de iure fisci per Herigum inperatorem monasterio Casinensi concessa. Confirmatio per Pandulfum et Landulfum principes Capuanos monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Bonifatium octavum monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Bonifatium .VIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Pascalem monasterio Casinensi concessa. Confirmatio(j) alia per papam Honorium .III. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per cardinalem Benedictum legatum monasterio concessa. Confirmatio alia per papam Honorium .III. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Honorium .III. monasterio Casinensi concessa. [f. 26r] Confirmatio alia per papam Gregorium .VIIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Pascalem .II. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Clementem .IIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Clementem .IIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Pascalem .II.(f) monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Bonifatium .VIIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Bonifatium .VIIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Bonifatium .VIIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Urbanum .II.(k) monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Bonifatium .VIIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Bonifatium .VIIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Urbanum .II.(k) monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Bonifatium .VIIII. concessa. Confirmatio alia per papam Gregorium monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Urbanum monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Urbanum .V. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Anastagium .IIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Urbanum .II. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Anastagium .IIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Inocentium(c) .III. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Alexandrum .II. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Leonem monacu(m) Casinens(i) monasterio concessa. Confirmatio alia per papam Leonem .VIIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Pascalem .II. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Leonem monacu(m) Casin(ensi) monasterio concessa. Confirmatio alia per papam Urbanum .II. concessa. Confirmatio alia per papam Gregorium .VIIII. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Alexandrum .III. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio alia per papam Calistum .II. monasterio Casinensi concessa. Confirmatio de iuribus et finibus per Pandulfum et Landulfum principes(l) Capuanos concessa. Confirmatio per sententiam de libertate monasterii per iudices inperatoris Federigi latam. [f. 26v] Confirmatio alia per Pandulfum et Landul-
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fum principes Longobardorum monasterio concessa. Confirmatio alia per prefatos Pandulfum et Landulfum monasterio concessa. Confirmatio de libertate et inmunitate vaxallorum monasterii per Landulfum concessa. Confirmatio de omnibus finibus et iuribus abbatie per Pandulfum principem concessa. Confirmatio alia per Pandulfum principem de singulis confinibus concessa. Confirmatio per Landulfum principem de platea Capuana monasterio concessa. Confirmatio generalis concessionum per Pandulfum et Landulfum principes Capuanos concessa. Confirmatio generalis per Ugonem et Lotarium reges monasterio concessa. Confirmatio generalis per prefatos Pandulfum et Landulfum principes monasterio concessa. Confirmatio de casali Saletano cum castello Falla(m) (1) apud Cetrarum(2) monasterio concessa. Confirmatio de iuribus et finibus per Alnulfum(n) principem monasterio Casinensi concessa. Confirmatio generalis de omnibus bonis et iuribus per Pandulfum principem monasterio concessa. Confirmatio alia de monasterio Sancti Agneli in Formis(1) per Ricardum principem concessa. Confirmatio per Pandulfum principem de castro Sancti Agneli in Thodicis(1) et Turre Sancti Georgii(o) (2) concessa. Confirmatio specialis de omnibus per Ottonem inperatorem concessis monasterio Casinensi. Confirmatio generalis de omnibus donationibus factis monasterio per Pandulfum principem concessa. Confirmatio de publico pertinenti ad monasterium per Ugonem et Lotarium reges(p) concessa. Confirmatio specialis de Pedemonte(1), Plumarola(2), Aquino(3) et Teremo(4) per Iordanum principem concessa. Confirmatio specialis de castro Sancti Ambrogii(1) et Sancti Andree(2) per Pandulfum principem concessa. Confirmatio generalis omnium iurium per Pandulfum et Landulfum principem concessa. Confirmatio de Sancta Maria de Cingle(1) et ceteris iuribus per Pandulfum principem concessa. Confirmatio excomunicationis contra Sangermanenses rebelles. Confirmatio de castro Cellis(1) cum pertinentiis suis et iuribus per Ottonem inperatorem concessa. Confirmatio specialis per Pandulfum et Landulfum principes concessa. Confirmatio de ecclesia Sancti Georgii de Bar[ac]i(q) (1) et Sancte Marie in Sardinia(2) per archiepiscopum legatum. Confirmatio de confinibus monasterii per Landulfum et Antenulfum(n) principes Capuanos. TRANSUMPTA. Transumptum de rebus concessis in Apulea(r), Calabria et Terra Laboris per ducem Guglelmum concessum. Transumptum speciale de rebus oblatis per ducem Rogerium. Mandatum papale et commissio Bonifatii noni de rebus monasterii alienatis sine subscriptione monacorum. OBLATIONES. Oblatio ecclesie Sancti Agneli in Valleregia(1) et confirmatio omnium bonorum infra et extra regnum per Ottonem inperatorem concessa. Oblatio de Sancta Maria in Cinglis(1) et confirmatio per Rainulfum comitem. [f. 27r] Oblatio de Sancta Maria in Valle Regia(1) cum montibus et aquarum decursibus per Pandulfum principem. Oblatio de castello quod dicitur Balneum(1) cum pertinentiis suis et de monasterio Sancte Crucis(2) per Rodulfum comitem. Oblatio per Ottonem inperatorem facta de ecclesia Sancti Agneli in Valle Regia(1). Oblatio facta per Rogerium regem de ecclesia Sancti Eustasii(1) cum pertinentiis suis in comitatu Molisii. Oblatio facta per inperatorem Federigum de multis ecclesiis et locis. Oblatio facta per Gonarium regem Turidanorum de insertis(s) ecclesiis videlicet Sancti Petri Egulsibi(1), Sancte Marie de Tergo(2), Sancti Nicolai de Solio(3), Sancti Petri de Nurchi(t) (4), Sancti Michaellis(u) de Fericeso(5) in insula Sardinie. Oblatio facta monasterio per(v) comitem Robertum de Sancta Maria de Cinglis(1). Oblatio facta per Barisonem(w) regem et ducem Alboree de Sancto Nicolao de Eburgio(1). Oblatio facta per Barisonem(x) regem Turidanorum de ecclesia Sancte Marie de Bubalo(y) (1) et Sancto Helya de Monte(2) et cetera. Oblatio facta per Constantinum regem de Sancto Michaelle(z) de Turicello(1) et Sancto Michaelle(z) de Furiceso(2) in insula Sardinie. Oblatio facta per Robertum d(om)num castelli de Sancta Inluminata(1) Triventine diocesis. Oblatio facta per dompnicellum de Sancto Petro in Nurchis(aa) (1), de Sancto Nicolao de Nugubli(bb) (2), Sancto Helia de Sitin(cc) (3) in insula Sardinie. Oblatio facta per Fortunatum(1) de Sancto Nicolao de Solio(2) cum certis bonis et iuribus in Sardinia. Oblatio facta per Gunarium
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de Sancta Maria de Tergo(1) in Sardinia. Oblatio commissa per papam Pascalem ordinario de Sancta Agata(1) diocesis Aversane(dd). Oblatio facta per episcopum Leonem de Sancto Iuliano in Frisilono(1). Oblatio per ducem Rogerium facta de ecclesia que dicitur Passari(1) cum pertinentiis suis. Oblatio facta per Pandulfum principem de ecclesia Sancti Nazarii in t(err)ito(ri)o T(e)ani. Oblatio per Pandulfum principem facta de exemptione Sancte Marie in Cinglis(1). Oblatio facta per Iohannem monachum de ecclesia Sancti Viti in monte Sancte Agate apud Feruzanum(1) cum molendinis et aquis. Oblatio facta monasterio per Iohannem comitem de monasterio Sancti Nicolai de Lupico(1) et Sancte Marie de Giptiis(2) et Sancti Lucii in pede monte(3). Oblatio facta per(ee) Landulfum et Adenulfum principes(1) de ecclesia Sancti Salvatoris(2), Sancti Rufi(3) et Nicolai(4) Capue. Oblatio facta per Landulfum et Adenulfum principes de monte Sancti Eustagii et de Archu(1) in comitatu Balvensi. [f. 27v] Oblatio facta per Richardum principem de Sancto Magno(1) dicto Ferneto diocesis Fundane et de quarte parte (ff) anguillare de lacu Sancte Anastagie et cetera. Oblatio facta per Ricardum et Iordanum principes de Sancto Agnelo in Formis(1) cum hominibus et terris ac [per]tinen(tiis)(gg) suis. Oblatio facta per Landulfum principem Capuanum de Sancta Sophia in Benevento(1) (hh). Oblatio facta per Pandulfum et Landulfum principes de exemptione Sancte Marie in Cinglis(1). Oblatio facta per Landulfum principem de Sancto Benedicto Ylarino(ii) (1), de Casa Gentiana(2), de licentia piscandi in lacu et ceteris exemptionibus. Oblatio facta per Pandulfum principem de Sancto Benedicto Ylarino(ii) (1) et de omnibus iuribus et rebus alias concessis. Oblatio facta per Rodulfum comitem de Sancta Cruce de Pessulis(1) prope Yserniam. Oblatio facta per Herigum comitem de monte Sancti Arcagneli de sinodachio posito(jj) in monte Gargano(1). Oblatio confirmata per Rainulfum comitem de Sancta Maria in Cinglis(1). Oblatio facta per comitem de Azon(kk) de Sancta Maria de Nistula(ll) (1) in Sardinia. Oblatio facta per comitem Herigum de Sancto Nicolao(1) et Sancto Archagnelo(2). Oblatio facta per comitem Rodulfum de Sancta Cruce de Peschis(1) cum casale diocesis Yserniensis. Oblatio facta per Marinum et Iohannem duces et comites(mm) Gaete de Sancto Magno(1) diocesis Fondane. Oblatio facta per Robertum ducem de monte Sancti Nicandri(1), de ecclesia Sancti Nicolai(2), de ecclesia Sancti Thome(3) in civitate Troiana. Oblatio facta per Baulunellum(nn) normandum de ecclesia Sancti Iohannis de Pantanis(1), de ecclesia Sancti Laurentii de platea montis Case Palonbi(2), de ecclesia Sancte Marie de Colle(3) cum medietate Sancti Blasii de Farneto(4), cum molendinis et aliis rebus in territorio Pontiscurvi. Oblatio de castro Pastena(1) et ecclesia Sancti Agneli in Merulano(2) et ecclesia Sancti Blasii in Picha(3). PRIVILEGIA ROMANORUM PONTIFICUM. Privilegium pape Urbani .V. quo conceditur ut conventus dimittat psalterium Romanum et utatur alio. Privilegium Urbani pape .V. quo cavetur ut monasterium Casinense non teneatur ad aliqua gravamina quamdiu in manu pontificis fuerit. Privilegium pape Inocentii(c) .III. quo cavetur ut omnes contractus alienationis nullatenus teneant sine subscriptione monacorum saltem maioris vel sanioris partis. Privilegium pape Urbani .V. quo conceditur ut singule ecclesie Casinenses per sanguinis efusionem(oo) vel seminis emissionem polute(pp) possint a quocumque sacerdote reconciliari per antistitem aqua benedicta infusa. [f. 28r] Privilegium pape Gregorii .XI.(qq) de culpa et pena abbati et conventui Casinensi concessum. Privilegium pape Urbani .V. de culpa et pena omnibus contribuentibus et iuvantibus a principio reformationis monasterii per annum continuum concessum. Privilegium abbati Casinensi concessum ut possit duodecim monachos recipere. Privilegium quo decernitur ut littere quecumque inpetrate pro beneficiis ad monasterium spectantibus, nullius sint vigoris nisi tenorem huiusmodi bulle de verbo ad verbum contineant. Privilegium Gregorii pape .XI. quo conceditur ut o[m]nes(q) tenentes beneficia monastica per collationem pape vel eiusdem legatorum, parere teneantur abbati qui illo punire valeat et privare. Privilegium pape Urbani .V. in quo continetur quod mitra, baculus et cetera que habet ad presens abbas Casinensis vel habere poterit in
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futurum ipse et successores, non sint reservata Camere Appostolice(rr) nisi fiat de illis specialis mentio. Privilegium pape Clementis .III. continens quod monaci tam in capite quam in membris in processionibus mortuorum possint deferre crucem, incensum et aquam benedictam. Privilegium pape Urbani .V. continens quod abbas Casinensis in quibuscumque monasteriis etiam sibi non subiectis in omnibus solemnitatibus possit dare benedictionem nisi sit presens ordinarius episcopus vel legatus appostolicus(rr). Privilegium pape Lucii .III. continens quod nuntii appostolici(rr) venientes ad Sanctum Germanum(1) non nisi per duos dies aut tres possint habere expensas a monasterio. Privilegium pape Urbani .V. continens quod inpetrantes beneficia monastica nisi in litteris fiat expressa mentio de exemptione ipsius monasterii nullius intelligantur esse vigoris. Privilegium pape Urbani .V. quod abbas Casinensis preminentiam habet inter ceteros abbates mundi et sedere potest ante Cluniacensem, Marsiliensem et Cisterciensem et ceteros abbates. Privilegium pape Urbani .V. qualiter monasterium Casinense fuit reductum ab episcopatu ad abbatialem dignitatem. Privilegium pape Urbani .V. quod ubi regnum Sicilie fuerit per Appostolicam(rr) Sedem interdictum, monasterium et eiusdem terre nullatenus intelligant interdictum nisi de hiis fiat specialis mentio. Privilegium pape Honorii .III. quod bona in(ss) auro, argento et vestibus nullatenus possint per quemquam alienari. Privilegium pape Gregorii .VIIII. quod bona erogata ad usus conventus non possint sine consensu maioris vel sanioris partis ad alios usus transfer[r]i(q) et littere nulle valeant sine sigillo conventus. [f. 28v] Privilegium pape Leonis continens quod naves et mercimonia omnia monasterii vendenda et emenda sunt exempta ab omni exatione in portu Romano. Privilegium pape Alexandri .III. continens quod animalia queque monasterii(tt) possint libere transire per Apuleam(r) sine pedagio(uu). Privilegium pape Clementis .III. continens quod monachi Casinenses in processionibus mortuorum tenent prerogativas. Privilegium pape Alexandri continens quod in Benevento res emende vel vendende pro monasterio iure plateatici vel passagii nihil solvant. Privilegium pape Urbani .V. quo remictitur omne debitum aut servitium per abbatem Ecclesie prestandum. Privilegium pape Urbani .V. continens translationem monacorum qui venerunt ad reformandum monasterium ex suo monasterio speciali. Privilegium pape Gregorii .VIIII. ad archiepiscopum Neapolitanum directum quod abbas et conventus Casinensis possint bona occupata de quibus probatio non habetur alienare et permutare. Privilegium pape Urbani .V. quod officium decanatus mutetur in prioratum et omnes redditus ipsius veniant ad com[m]unem(q) mensam conventus. Privilegium pape Honorii .III. quod ex donatione(vv) cuidam dominii per abbatem facta precibus ipsius pape non possit construi ecclesia in preiudicium monasterii. Privilegium pape Alexandri quod abbas possit omnes abbatissas et moniales per quemcumque facere velari et consecrari. Privilegium pape Pascalis .II. de xenodochio in monte Gargano(1): vix potest legi. Privilegium pape Urbani .V. quod omnes visitantes monasterii Casinensis in certis festivitatibus et diebus dominicis et quadragesimalibus duorum annorum et duarum quadragenarum indulgentiam consequantur. Privilegium pape Inocentii(c) .VI. quod omnes visitantes monasterii Casinensis certis festivitatibus quinque annorum indulgentiam consequantur. Privilegium pape Inocentii(c) .VI. quod omnes visitantes ecclesiam Casinensem diebus festivitatum sancti Benedicti septem annorum indulgentiam consequantur et totidem quadragenarum. Privilegium pape Iohannis .XIII. quod omnes visitantes ecclesiam Casinensem certis festivitatibus unius anni indulgentiam consequantur. Privilegium pape Alexandri quod omnes visitantes ecclesiam Casinensem in die consecrationis eiusdem et in festivitate sancti Benedicti unius anni et unius quadragene veniam consequantur. [f. 29r] Privilegium Rogerii cardinalis quod omnes peregrini mares et femine limina beati Benedicti visitantes unius anni indulgentiam consequantur et in festo ipsius unam quadragenam. Privilegium pape Urbani qualiter exemit monasterium Sancti Mauri de Francia(1) quod prius subiectum erat(ww) monasterio Fossatensi(2). Privilegium pape Inocentii(c) .III. quod omnes alienationes per abbates facte
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de possessionibus revertentur et ad solvendum decimas et terraticum conpellantur et cetera. Privilegium pape Gregorii .XI. cum insertione littere regine quod iustitiarii et capitanei in abbatia Casinensi procedere [debeant] ex officio in quatuor casibus du[mmod]o(q) no(n) legiptimus accusator appareat. Privilegium pape Bonifatii .VIIII. continens absolutionem abbatis Petri(1) monachi Casinensis et suorum famulorum et famularum qui interfuerunt obsidioni pape Urbani .VI. Privilegium pape Urbani .V. confirmans iurisdictionem temporalem et subiectionem faciendam abbati Casinensi per vaxallos et cetera. Privilegium pape Gregorii .XI. cum insertione littere regine Iohanne quo cavetur expresse quod iustitiarii non possint in abbatia ponere aliqua gravamina vel extorsiones vaxallis monasterii. Privilegium specialis confirmationis pape Gregorii cum insertione littere regine de certa taxa collectarum solvendarum per vaxallos abbatie regie maiestati. Privilegium pape Alexandri quod cause omnes criminales tractentur per officiales Casinenses. Privilegium pape Inocentii(c) .III. ad abbatem quod bona quecumque ad officia Casinensia spectantia, si alienata fuerint revocentur et ad debitum singula c(om)pellantur. Privilegium pape Bonifatii .VIIII. quod abbas et monaci Casinenses in articulo mortis possint eligere confessorem qui facultatem habet absolvendi a culpa et pena. Privilegium pape Bonifatii noni quod abbas Casinensis et omnes abbates et priores subiecti possint ecclesias violatas reconciliare per simplicem presbiterum habita prius per episcopum aqua benedicta. Privilegium pape Gregorii .IX. quod ecclesie monast(erii) et solite per monacos gubernari nullatenus possint clericis secularibus concedi aut conferri. Privilegium pape Gregorii .IX. ad abbatem Casinensem quod domus et apotece in Sancto Germano(1) quarum reditus deductus est ad emendum tunicas monacorum, nullatenus possint alienari. Privilegium pape Gregorii .VIIII. confirmans omnes concessiones factas per abbates in usum monacorum et necessitatibus(xx) infirmorum et recectione ospitum. Privilegium pape Gregorii .VIIII. quod ecclesia Sancti Pauli de Foresta(1) clericis secularibus nullatenus valeat concedi. [f. 29v] Privilegium pape Gregorii noni quod bona spectantia ad officia Casinensia nullatenus presumat alienare(yy), que alienata studeat recuperare. Privilegium pape Inocentii(c) .VII. continens revocationes omnes quas prepositi, priores et rectores ecclesiarum alienaverint. Privilegium pape Urbani .VI. continens com[m]issionem(q) factam episcopo Gaetano super expoliatione facta per d(om)num Gurellum Carraffa(1) de castro prefato. Privilegium pape Clementis .IIII. ad regem Sicilie quod ulterius non molestet vaxallos abbatie Casinensis. Privilegium pape Honorii .III. ad abbatem Casinensem quod ecclesiam Sancti Pauli de Foresta(1) clericis secularibus non concedat. Privilegium pape Honorii .III. de viginti unciis auri super Castellione(1) et quinque unciis super monasterium Sancte Marie de Cinglis(2) deputatis in vestiendis monacis Casinensibus. Privilegium pape Alexandri .III. quod abbas neque conventus teneantur ad solutionem aliam debiti contracti nomine monasterii quam si creditores probaverint non obstantibus litteris renuntiationis vel ceteris in contrarium facientibus. Privilegium pape Celestini .III. de revocatione et restitutione castri Seletane(1) monasterio Casinensi. Privilegium pape Celestini .III. de iurisdictione Roche Bandre(1) concesse monasterio per modum cambii. Privilegium confirmationis pape Clementis .III. de viginti unciis auri super Castellione(1) et quinque in Sancta Maria in Cinglis(2) in usum vestium monacorum. Privilegium ad archiepiscopos et episcopos in quorum diocesi sunt ecclesie monasterio Casinensi expectantes, quarum detentores et bonorum ipsarum semel, bis, ter moniti, si non emendaverint, per abbatem Casinensem possint vinculo excomunicationis excomunicari. Privilegium pape Inocentii(c) .III. quod omnes alienationes facte per prepositos et officiales Casinenses debeant revocari. Privilegium pape Bonifatii .VIIII. quod abbas Casinensis debeat(zz) recipere canones et pensiones de preposituris collatis per Sedem Appostolicam(rr) et visitare, corrigere et removere ipsos prepositos quotiescumque(aaa) opus fuerit cum aliis pluribus inmunitatibus. Privilegium seu bulla pape Urbani .VI. continens absolutionem omnium defensorum et recuperantium castra, bona vel iura monasterii. Privilegium
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pape Gregorii .VIIII. ad Stephanum(1) ut interveniat apud inperatorem Federicum quatenus liberam restituat monasterio Casinensi Rocham Ianulam(bbb) (2) et iudicem Sancti Germani(3) que spectant mensae Casinensi. [f. 30r] Privilegium pape Inocentii(c) .VII. quod omnia beneficia que ad monasterium spectant per Sedem Appostolicam(rr) concessa ad monasterium revertantur sine ulla contradictione. Privilegium pape Clementis continens inter cetera excomunicationem contra Iacobum(1) sacrilegum et detentorem bonorum monast(erii). Privilegium pape Honorii .III. continens libertatem et inmunitatem ecclesie Sancti Quirici(1) subiecti monasterio Sancti Agneli Vallis Lucis(2). Privilegium pape Martini .V. de rebus et bonis Sacci(1) et Cucurutii(2). Privilegium pape Bonifatii noni quod bona occupata et minus iuste detenta prescriptione centum annorum non terminentur non obstantibus quibuscumque in contrarium facientibus. Privilegium pape Martini .V. de absolutione et quietatione facta abbati et conventui Casinensi de quibusdam milibus florenorum quos debebat habere a prefato conventu pro redentione ipsius monasterii de pecuniis prefati pape facta. Privilegium pape Bonifatii .VIIII. quod abbas Casinensis possit excomunicare omnes detentores bonorum monasterii ubi ordinarii sint negligentes. Privilegium pape Lucii .III. ad abbatem Casinensem et conventum quatenus bona oblata pro usu infirmarie inlibata maneant et distracta revocentur. Privilegium pape Alexandri .III. continens quod castrum Castellion(e)(1) et ecclesiam Sancte Marie de Cinglis(2) tenentur dare annuatim uncias viginti auri pro vestibus monacorum. Privilegium pape Inocentii(c) .III. quod alienationes facte per conventum o[m]nino(q) revocentur. Privilegium pape Celestini .III. quo inhibetur ne duo candelebra argentea que ipse prefato monasterio obtulerat alienentur sub pena excomunicat[i]onis(q). Privilegium pape Bonifatii .VIIII. de concessione anni iubilei ut eadem indulgentia sit in ecclesia Casinensi. Privilegium pape Bonifatii .VIIII. de exemptione decimarum quas debebat monasterium Casinense Camere Appostolice(rr). Privilegium pape Gregorii quatenus monachi officiales teneantur bis in anno redere(ccc) rationem capitulo. CONSERVATORIA ROMANORUM PONTIFICUM. Conservatorium pape Iohannis ad archiepiscopum Neapolitanum, episcopum Casertanum et(ddd) cuilibet ipsorum. Conservatorium amplum pape Iohannis contra omnes occupa[n]tes(q) et alienantes bona monast(erii). Conservatorium pape Clementis .V. ad episcopum Calvensem quatenus occupantes bona monast(erii) moneat et monitos excomunicet. [f. 30v] Conservatorium pape Clementis ad archipresbiterum Sancti Bartholomei in Pontecurvo(1) quatenus detemtores(eee) omnes bonorum(fff) monasterii moneat et monitos excomunicare curet. Conservatorium pape Urbani quinti ad Neapolitanum, Beneventanum et Troianum archiepiscopos et quemlibet ipsorum. Conservatorium pape Urbani .V. ad Aquinatem, Verulanum et Soranum episcopos ad conservandum iura monasterii contra quocumque(ggg). Conservatorium pape Urbani .V. ad Neapolitanum et Beneventanum archiepiscopos super revocatione omnium alienationum et locationum factarum in preiudicium monasterii. Conservatorium Gregorii pape .XI. ad episcopum Suessanum super revocatione consimili. Conservatorium Gregorii pape ad Neapolitanum, Capuanum et Aversanum episcopos. Conservatorium pape Gregorii .XI. ad Neapolitanum et Beneventanum archiepiscopos et Venafranum episcopum. Conservatorium Inocentii(c) .II. ad archiepiscopos in Sardinia manentes et cetera. Conservatorium pape Bonifatii .VIII. ad episcopum Tripolitanum(1) quod causam monasterii cognoscat et defendat que mota est super Sancta Maria de Cinglis(2). Conservatorium pape Urbani .V. ad episcopum Fondanum pro recuperatione bonorum monasterii. Conservatorium pape Inocentii(c) .VI. ad archiepiscopum Neapolitanum et abbatem Vulturnensem et abbatem Sancti Laurentii de Aversa(1) pro recuperandis rebus monasterii. Conservatorium pape Bonifatii(hhh).VIIII. ad Gaetanum episcopum quod omnia bona distracta et alienata debeat restitui facere monasterio Casinensi non obstantibus quibuscumque. Conservatorium pape Bonifatii .VIIII. ad archiepiscopum Pisanum et Arborensem et Turitanum ut procurent recuperationem bonorum monast(erii) distractorum. Conservatorium pape Gregorii
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.XI. ad archiepiscopum Neapolitanum ut abbas et conventus Casinensis possint bona de quibus nulla habetur probatio alienare. Conservatorium pape Bonifatii ad archiepiscopum Neapolitanum et Gaetanum et Ferre(n)t(in)um episcopos contra occupat(ores) bonorum monast(erii). OBLATIONES INPERATORUM, REGUM ET PRINCIPUM DE PARTICULARIBUS. Oblatio facta per Ottonem inperatorem ad contemplationem pape Iohannis monasterio Casinensi de Gaieta(1), de civitate Fondana(2), de Suessa(3), de Theano(4), de Arpino(5), de castro Arcio(6), de Picinesco(7), de Ateno(8), de Vico Albo(9), de Septe Frati(10), de castro Furuli(11), Sclavi(12), Galene(13), Sora(14), Aquino(15) cum servis et ancillis et cum episcopatibus. Oblatio facta monasterio Casinensi per Herigum inperatorem de Sancto Urbano(1) et castro eiusdem et Vico Albo(2) cum omnibus pertinentiis suis. [f. 31r] Oblatio facta monasterio Casinensi de Rocha Bandre(1) per Herigum inperatorem secundum. Oblatio facta monasterio Casinensi de castro Malveti(1), Ateni(2) et Rocce Albeni(3) cum omnibus pertinentiis suis per Herigum inperatorem .VI. Oblatio facta monasterio Casinensi de Rocha Bandre(1) cum suis iuribus per Herigum inperatorem. Oblatio facta monasterio Casinensi de Pontecurvo(1) cum pertinentiis suis per Robertum comitem. Oblatio facta de Castellione in Apulia(1) et de remissione census et cetera. Oblatio facta monasterio Casinensi de Vico Albo(1) et de opido(iii) ipsius per Pandulfum et Landulfum principes. Oblatio facta de Sancto Urbano(1) et de opido(iii) ipsius cum suis pertinentiis per Pandulfum et Landulfum principes. Oblatio facta de Pontecurvo(2) per Ricardum principem Capuanum. Oblatio facta de platea que est in Capua(1) et fluvio Vulturno(2) et de castro Saracenesco(3) per Pandulfum et Landulfum Longobardorum principes. Oblatio facta monasterio Casinensi de quarta parte comitatus Traeta(1), quarta parte castri Fractarum(2) et cetera per Marinum comitem una cum uxore sua. Oblatio facta monasterio Casinensi de castro Fractarum(1) cum Crapiata(2) [per] Ricardum et Iordanum principes. Oblatio facta monasterio Casinensi de castro Subgii(1) per Iordanum principem Capuanum. Oblatio facta monasterio de castro Picha(1) per Iordanem(jjj) principem Capuanum cum confirmatione ceterorum. Oblatio facta monasterio de castro Terami(1) per Ricardum et Iordanem(jjj) principes Capuanos. Oblatio facta monasterio de castro Bandre(1) et castello Vico Albo(2), de Sancto Urbano(3), de decima parte Atini(4), de Teramo(5), de Pedemonte(6) et Mortula(7), de Cucurutio(8), de Turre a mare(9), de castro Fractarum(10), de Sancto Agnolo in Formis(11), de Scafato(12) cum confermatione(kkk) omnium finium abbatie per Iordanem(jjj) principem Capuanum. Oblatio facta monasterio de castro Cellis(lll) (1) et Sancto Agnolo Inspano(mmm) (2) cum pertinentiis suis per Landulfum(nnn) Longobardorum principem. Oblatio facta monasterio de Rocha Bandre(1) et de castello Sancti Urbani(2) et de rocha ipsius, de Vico Albo(3), de decima parte Athini(4), de Alveto(5), Carnelli(6) et de confinibus monasterii per Richardum et Iordanem(jjj) principes. Oblatio facta monasterio de castro Cetrarii(1), de Castellione in Apulia(2) et de multis ecclesiis in territorio Troye(3) et de Sancta Maria de Tropea(4) cum tunacio et piscaria castri Citrarii per Guglelmum ducem. Oblatio facta monasterio de castro Victicoso(1) cum ecclesia Sancti Petri sita in Sexto(2) et ecclesia Sancti Benedicti in Sexto(3) et ecclesia Sancti Benedicti in monte(4) per comitem Ugonem(ooo). Oblatio facta monasterio de monasterio Sancti Salvatoris in monte qui dicitur Cucurutium(1) cum omnibus iuribus et pertinentiis suis per Iordanem(jjj) principem. Oblatio facta monasterio de castro Serre diocesis Larinensis(ppp) (1). Oblatio facta monasterio de castro Subgii(1) cum certis possessionibus circa Suessam(2) per Ugonem. [f. 31v] Oblatio facta monasterio Casinensi de quarta parte Traiecti(1) et Fractarum(qqq) (2) et de medietate castri Spinei(3) per comitem Marinum cum uxore sua. Oblatio facta monasterio de alia quarta parte Traiecti(1) et Fractarum(2) et de medietate Spinei(3) et quarta parte monasterii Sancti Martini(rrr) (4) et Sancti Marini(sss) (5) in territorio Fractarum per comitem Marinum et uxorem suam. Oblatio facta de monasterio Sancti Salvatoris in monte(1) et de aquis, terris et molendinis et confinibus suis per Pandulfum et Landulfum principes Capuanos. Oblatio facta monasterio Casinensi de omnibus rebus
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que sunt in Sicilia tam possessionibus quam servitiis per Tertulium patricium patrem beati Placidi inperatorem. Oblatio seu donatio facta monasterio de multis rebus existentibus infra et extra regnum per Gregorium prothospatanorum inperatorem. Oblatio et donatio facta de quodam prato dicto Cerbarium(1) et de multis aliis possessionibus cum servis et ancillis in territorio civitatis Marsie(2) per Lotarium inperatorem. Donatio facta de Preta Molara(1) in loco ubi dicitur Pantanum(2) diocesis Beneventane. Donatio facta monasterio de fluvio Lauri(ttt) (1) in civitate Lisina(2) ut possint in eo flumine facere molendina et piscari per Pandulfum et Landulfum principes. Donatio facta monasterio de piscaria in lacu Patria(1) per Pandulfum principem. Donatio facta monasterio de piscatione in dicto lacu per Pandulfum et Landulfum. Donatio facta monasterio de(uuu) tertia parte lacus Aquini(1) per Iordanem(jjj) principem. Donatio facta monasterio de certis terris in territorio Theani(1) per Pandulfum principem. Donatio facta monasterio de massaria Flacciae(1) et de Turre que dicitur a mare(2) cum piscationibus suis per Iordanem(jjj) principem. Donatio facta monasterio de piscatione in lacu Patria(1) et remissione censuum in terris abbatie per Pandulfum et Landulfum principes. Donatio facta monasterio Casinensi de molendino quod dicitur Peccia(1) per Iordanum et Ricardum principes. Donatio facta monasterio Casinensi de multis bonis stabilibus per Robertum principem Capuanum. Donatio facta monasterio de terris existentibus in territorio Troie(1) per Rogerium ducem. Donatio facta monasterio de terris que sunt Salitano(1) per d[om]nam(q) Rocham confirmata per Rogerium. Donatio facta monasterio de certis bonis que sunt in Valle Gravata(vvv) extra territorium Castellionis de Apulia(1) per Rogerium ducem. Donatio facta monasterio in territorio Sancti Martini(1) de quibusdam terris per Robertum comitem. Donatio facta monasterio de monte Azo(1) et aliis nominatis locis per Berardum comitem. [f. 32r] Donatio facta monasterio de rebus que sunt in vico Salitano(1) cum confinibus suis per domnam Rocham et Rogerium. Donatio facta monasterio de territorio Sancti Pauli de Foresta(1) pro edificando monasterio per Guidonem comitem. Donatio facta monasterio de terris in territorio Salitano(1) cum servis, ancillis et pertinentiis per domnam Rocham. Donatio facta monasterio de molendino prope portam Mignani(1) per Ugonem domnum dicti castri. STATUTA INPERATORUM. Statutum Herigi inperatoris super exemptione monasterii et rerum ac personarum suarum. Statutum Federigi inperatoris quod ubi non est subscriptio et consensus monacorum contractus non valet. Statutum Ottonis inperatoris qui sub sua protectione(www) suscepit monasterium et inlesum preservavit. ALIE OBLATIONES. Oblatio facta monasterio de quibusdam terris et de(xxx) platea civitatis Capuane(1) per Pandulfum principem. Oblatio et confirmatio facta per Rogerium regem de omnibus bonis infra regnum oblatis. Oblatio facta de curte cum servis et ancillis et bonis in territorio Canusie(1) per quemdam nomine Iohannem Bertum(yyy). Oblatio facta monasterio de pedagiis et gabellis pro animalibus transeuntibus per Iordanem(jjj) comitem. Oblatio facta monasterio de toto lacu Aquini(1) per Adenulfum et ceteros comites Aquini. Oblatio facta monasterio de quadam starsia spatii .CVI. modiorum in territorio Suessano(1) per Guglelmum regem. Oblatio facta monasterio de quadam platea iuxta Sanctum Benedictum in Capua(1) per Iordanum principem. Oblatio facta monasterio de quadam aqua dicta Anglena(1) et de alia dicta Barca(2) per Landulfum principem. Oblatio facta de Turre que dicitur a mare constructa iuxta fauces Gariglani(1) per Pandulfum(zzz). Oblatio facta monasterio de domibus et terris in civitate Suessana(1) per Ricardum principem. Mandatum Federigi inperatoris ad omnes principes et barones ut preservent monasterium in omnibus. Constitutiones pape Clementis continentes prerogativas ecclesiarum et clericorum monasterii. Constitutiones Honorii pape .III. ad abbatem et conventum Casinensem multa continentes. Donatio facta Simoni Caracie de bonis multis inde devolutis ad monasterium. DECEM PRIVILEGIA AUREIS SIGILLIS MUNITA. Privilegium Lotarii inperatoris et cetera ad abbatem et cetera de omnibus ecclesiis, castris et cetera per reges, inperatores et cetera concessum si-
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gillo aureo munitum. Privilegium(aaaa) Herigi .III. Romanorum inperatoris ad abbatem et conventum de omnibus confinibus sigillo aureo munitum. Privilegium Herigi sexti inperatoris ad Rofredum abbatem et conventum de omnibus rebus huic monasterio datis et cetera sigillo aureo munitum. Privilegium Guglelmi regis Sicilie ad abbatem et conventum de inmunitatibus concessis cum sigillo aureo. Privilegium Guaymarii principis Salernitani de confinibus et aliis plu[r]ibus(q) castris cum aureo sigillo. Privilegium in carta crocea colore Rogerii ducis Apulie ad abbatem de omnibus rebus oblatis per multos cum sigillo aureo. Privilegium Rogerii ducis ad abbatem et conventum de multis ecclesiis et castris et terris cum sigillo aureo. Privilegium Rogerii ducis Calabrie ad abbatem et conventum de multis ecclesiis, castris et terris cum sigillo aureo. Privilegium Sycelgaite(bbbb) ducesse Calabrie de castris et locis cum sigillo aureo. Privilegium Raonis Teanensis comitis de molendinis et rebus concessis cum sigillo aureo. Privilegium de omnibus inmunitatibus monasterii et multis rebus concessis cum sigillo aureo. Privilegium comitis Guidonis de Sancto Petro a la Foresta et ceteris et cetera. Privilegium indulgentiarum diebus festivitatum Urbani quinti, Martini quarti, Gregorii(cccc) quarti valde amplum et utile. Bulla de remissione omnium peccatorum in articulo mortis. Privilegium Urbani .VI. ad abbatem Petrum Tartarum(1) ut insurgat contra Iohannam reginam(2) et Niconium de Iuvenazo(3) et alios suos sequaces qui sisma et heresim in Ecclesia Romana posuerunt. Processus abbatis Petri(1) contra rebelles. (a) Alla prima -i- segue s cancell. con un tratto di penna (b) Così: si intenda – come sembra più probabile – .III. (c) Ino-] Così (d) Nocentium] Così (e) .III. nell’interlineo (f) .II. nell’interlineo (g) Così: si intenda – come sembra più probabile – .VIIII. (h) .V. nell’interlineo (i) Hercium nel testo (j) cormatio nel testo (k) Così, ma si intenda – come sembra più opportuno, sebbene dubitativamente –: .V. (l) -s ripetuta (m) Così: si intenda Fella (n) Così: si intenda Atenulfum (o) Così: si intenda Gregorii (p) reges nell’interlineo (q) Integrazione per assenza del segno abbrev. (r) Apule-] Così (s) inss(er)tis nel testo (t) Murchi nel testo (u) Michaellis] Così (v) peer nel testo (w) P(ar)esona(m) nel testo con il tratto abbrev. della p- cancell. (x) Barasone(m) nel testo (y) Segue e superflua (z) Michaelle] Così (aa) Murchis nel testo (bb) Nugubli] Così, con segno abbrev. superfluo sul gruppo -ubli (cc) Sitim nel testo (dd) Aversane nell’interlineo a corr. di Sassaris cancell. con un tratto di penna (ee) Alla p- con segno abbrev. segue -re cancell. con un tratto di penna (ff) quarte parte] Così (gg) Ad ac segue un richiamo (segno circonfl.) integrativo ma senza riscontro (hh) Benene(n)to nel testo (ii) Ylarino] Così (jj) Segno abbrev. (lineetta orizz.) superfluo sul gruppo -to (kk) Segno abbrev. finale (lineetta orizz.) superfluo (ll) Nistula] Così (mm) -t- corr. da s (nn) Baulu(n)ellum] Così (oo) efusionem] Così (pp) polute] Così (qq) .XI. nell’interlineo (rr) App-] Così (ss) in ripetuto (tt) monasterii nell’interlineo (uu) pedalio nel testo (vv) Segue facta cancell. con un tratto di penna (ww) erat ripetuto (xx) Segue mona cancell. con un tratto di penna (yy) Nel testo -m- con il primo tratto cancell. invece che n (zz) debeat ripetuto (aaa) quotienscumque nel testo (bbb) Dianulam nel testo (ccc) redere] Così (ddd) Segue alios cancell. con un tratto di penna (eee) detemtore nel testo (fff) r prima di bcancell. con un tratto di penna (ggg) quocumque] Così (hhh) Nel testo erroneam. Inocentii (iii) opido] Così (jjj) Iordanem] Così: si intenda Iordanum (kkk) co(n)fremat(i)one nel testo (lll) Cellis] Così, con segno abbrev. (lineetta orizz.) superfluo sul gruppo -elli-: si intenda Celi (mmm) Inspano] Così: si intenda in Asprano (nnn) Landulfum] Così: si intenda Laidulfum (ooo) Libonem nel testo (ppp) Lavernensis nel testo (qqq) Fratarum nel testo (rrr) Marci nel testo (sss) Martini nel testo (ttt) Segue qui cancell. con un tratto di penna (uuu) Segue ba cancell. con un tratto di penna (vvv) Granata nel testo (www) Segno abbrev. (lineetta orizz.) superfluo sul gruppo -ione (xxx) de nell’interlineo (yyy) Ioh(ann)e(m) Bertu(m)] Così: si intenda come sembra Arnipertum (zzz) Pandulfu(m)] Così: si intenda come sembra Laidulfum (aaaa) p(ri)vilegii nel testo (bbbb) Sycelgite nel testo (cccc) Gregorii] Così: si intenda come sembra Alexandri
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B) Identificazione delle unità documentarie AAM = Montecassino, Archivio dell’Abbazia caps. = capsula I numeri arabi in neretto rinviano a quelli posti supra tra parentesi uncinate nell’edizione del testo. Manca in particolare un regesto dei singoli documenti identificati sia per non appesantire l’apparato relativo ad ogni unità, sia perché l’intento non è quello di regestare le carte dell’archivio diplomatico cassinese, opera già intrapresa da tempo e ultimata. Tuttavia si è preferito indicare almeno il contenuto dell’atto e pochi altri elementi identificativi, allorché il doc. corrispondente ha attualmente una segnatura archivistica eccentrica rispetto a quelli che lo precedono e a quelli che lo seguono nell’inventario vaticano.
1. † 748, febbraio 18. Zaccaria, papa. Pseudo-originale del sec. XII: AAM, caps. I, nr. 1. Cfr. KEHR 1935, pp. 121-122 nr. 22; LECCISOTTI 1964, pp. 5-6 nr. 1; HOFFMANN 1972, p. 98 nr. 2; CONTE 1984, pp. 211-213; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 82 nr. 2; Regesti 2002, pp. 171-172 nr. 297.
2. 1105, marzo 17. Pasquale II, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 2. Cfr. KEHR 1935, p. 158 nr. 157; LECCISOTTI 1964, p. 6 nr. 2; HOFFMANN 1972, p. 100 nr. 40; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 87 nr. 40.
3. 1122, settembre 16. Callisto II, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 3. Cfr. KEHR 1935, p. 168 nr. 201; LECCISOTTI 1964, p. 7 nr. 3; HOFFMANN 1972, p. 101 nr. 46; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 88 nr. 46.
4. 1112, febbraio 4. Pasquale II, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 4. Cfr. KEHR 1935, p. 161 nr. 170; LECCISOTTI 1964, pp. 7-8 nr. 4; HOFFMANN 1972, p. 101 nr. 44; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 88 nr. 44.
5. [1057, giugno]. Vittore II, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 5. Cfr. KEHR 1935, pp. 138-139 nr. 79; LECCISOTTI 1964, pp. 8-9 nr. 5; HOFFMANN 1972, p. 99 nr. 26; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 86 nr. 26.
6. 1159, novembre 7. Alessandro III, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 6. Cfr. KEHR 1935, pp. 183-184 nr. 273; LECCISOTTI 1964, pp. 9-10 nr. 6; BLOCH 1986, pp. 932-933.
7. 1231, aprile 11. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 7. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 747 nr. 8706; AUVRAY 1896 (I), col. 394 nr. 615; LECCISOTTI 1964, p. 10 nr. 7.
8. 1208, luglio 25. Innocenzo III, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 8. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 298 nr. 3470; LECCISOTTI 1964, pp. 10-11 nr. 8; BLOCH 1986, pp. 938-940.
9. 1208, luglio 25. Innocenzo III, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 9. Altro esemplare del doc. nr. 8 supra. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 11 nr. 9.
10. 1267, giugno 27. Clemente IV, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 10. Cfr. JORDAN 1893, p. 156 nr. 498; LECCISOTTI 1964, pp. 11-12 nr. 10.
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11. 1268, febbraio 4. Clemente IV, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 11. Cfr. JORDAN 1893, p. 195 nr. 581; LECCISOTTI 1964, p. 12 nr. 11.
12. 1097, marzo 27. Urbano II, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 12. Cfr. KEHR 1935, p. 154 nr. 141; LECCISOTTI 1964, pp. 12-13 nr. 12; HOFFMANN 1972, p. 100 nr. 36; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 87 nr. 36.
13. 1370, agosto 1°. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 13. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 13 nr. 13; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, pp. 409-410 nr. 27223.
14. 1370, agosto 1°. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 14. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 14 nr. 14; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 410 nr. 27224.
15. 1369, gennaio 18. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 15. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 14 nr. 15; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1982, p. 326 nr. 24475; BLOCH 1986, p. 940.
16. 1369, gennaio 18. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 16. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 14 nr. 16; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1982, p. 326 nr. 24476.
17. 1370, giugno 3. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 17. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 15 nr. 17; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 247 nr. 26646.
18. 1370, giugno 3, opp. 1363, giugno 28. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 18 (altro esemplare del doc. nr. 17 supra), opp. caps. I, nr. 19. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 15 nr. 18, opp. nr. 19.
19. † 1071, ottobre 1°. Alessandro II, papa. Pseudo-originale: AAM, caps. I, nr. 20. Cfr. KEHR 1935, pp. 144-145 nr. 104; LECCISOTTI 1964, p. 16 nr. 20; HOFFMANN 1972, p. 100 nr. 30; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 86 nr. 30.
20. 1188, novembre 21. Clemente III, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 21. Cfr. KEHR 1935, p. 190 nr. 305; LECCISOTTI 1964, pp. 16-17 nr. 21.
21. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. I, nr. 22. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 17 nr. 22.
22. 1223, giugno 7. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 34. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 608 nr. 7036; PRESSUTTI 1888-1895 (II), p. 140 nr. 4390; LECCISOTTI 1964, p. 39 nr. 34.
23. 1225, maggio 7. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 35. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 638 nr. 7403; PRESSUTTI 1888-1895 (II), p. 334 nr. 5467; LECCISOTTI 1964, pp. 39-40 nr. 35.
24. [1153], ottobre 31. Anastasio IV, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 36. Cfr. KEHR 1935, p. 181 nr. 263; LECCISOTTI 1964, p. 40 nr. 36.
25. 1217, maggio 20. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 37. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 488 nr. 5552; PRESSUTTI 1888-1895 (I), p. 102 nr. 587; LECCISOTTI 1964, pp. 40-41 nr. 37.
26. Celestino III, papa. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari, senza alcuna indicazione dell’autore che emerge dalla sola lista qui edita: AAM, caps. II, nr. 38*.
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Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 41 nr. 38*.
27. 1120, agosto 9. Callisto II, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 39. Cfr. KEHR 1935, p. 164 nr. 186; LECCISOTTI 1964, p. 41 nr. 39; HOFFMANN 1972, p. 101 nr. 47; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 88 nr. 47.
28. 1222, novembre 17. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 40. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 597 nr. 6892; PRESSUTTI 1888-1895 (II), p. 99 nr. 4148; LECCISOTTI 1964, p. 42 nr. 40.
29. [1172], settembre 12. Alessandro III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 41. Cfr. KEHR 1935, p. 184 nr. 277; LECCISOTTI 1964, p. 42 nr. 41.
30. 1302, marzo 23. Bonifacio VIII, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 42. Cfr. DIGARD 1921, coll. 414-415 nr. 4528; LECCISOTTI 1964, p. 43 nr. 42.
31. [1182], giugno 30. Lucio III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 43. Cfr. KEHR 1935, p. 189 nr. 296; LECCISOTTI 1964, p. 42 nr. 43.
32. 1208, luglio 25. Innocenzo III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 44. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 298 nr. 3472; LECCISOTTI 1964, pp. 43-44 nr. 44.
33. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 45. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 44 nr. 45.
34. 1427, gennaio 25. Martino V, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 46. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 44-45 nr. 46.
35. 1023, gennaio 4. Enrico II, imperatore. Originale: AAM, caps. X, nr. 1. Ed.: Dipl. Heinr. II 1900, pp. 614-617 nr. 482. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 32 nr. 1; GRAFF (– BÖHMER) 1971, pp. 1101-1102 nr. 2032; HOFFMANN 1972, p. 106 nr. 131; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 98 nr. 131.
36. 968, giugno 30. Ottone I, imperatore. Originale: AAM, caps. X, nr. 2. Ed.: Dipl. Ott. I 1879-1884, pp. 495-497 nr. 360. Cfr. OTTENTHAL (– BÖHMER) 1893, p. 212 nr. 473; LECCISOTTI 1965, pp. 32-33 nr. 2; HOFFMANN 1972, p. 105 nr. 117; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 96 nr. 117.
37. † [981, agosto 6]. Ottone II, imperatore. Pseudo-originale del sec. XII: AAM, caps. X, nr. 3. Cfr. MIKOLETZKY (– BÖHMER) 1950, p. 373 nr. 853; LECCISOTTI 1965, p. 33 nr. 3.
38. (Cfr. infra nr. 317). 1137, settembre 22. Lotario III, imperatore. Originale: AAM, caps. X, nr. 4. Ed.: Dipl. Lo. III 1927, pp. 194-202 nr. 120. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 33-34 nr. 4; PETKE (– BÖHMER) 1994, pp. 396-398 nr. 635.
39. 1038, giugno 5. Corrado II, imperatore. Doc. deperdito già prima dell’ultima distruzione di Montecassino (1944): AAM, caps. X, nr. 5**. Ed.: Dipl. Conr. II 1909, pp. 372-376 nr. 270. Cfr. APPELT (– BÖHMER) 1951, p. 136 nr. 284; LECCISOTTI 1965, p. 34 nr. 5**; HOFFMANN 1972, p. 106 nr. 133; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 98 nr. 133.
40. 998, maggio 25. Ottone III, imperatore. Originale: AAM, caps. X, nr. 33.
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MARIANO DELL’OMO
Ed.: Dipl. Ott. III 1888-1893, pp. 715-717 nr. 291. Cfr. UHLIRZ (– BÖHMER) 1956, p. 691 nr. 1280; LECCISOTTI 1965, pp. 46-47 nr. 33; HOFFMANN 1972, p. 106 nr. 125; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 97 nr. 125.
41. (Cfr. infra nr. 317). 1137, settembre 22. Lotario III, imperatore. Copia del sec. XII ex. in forma di diploma: AAM, caps. X, nr. 49. Ed.: Dipl. Lo. III 1927, pp. 194-202 nr. 120. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 54 nr. 49; PETKE (– BÖHMER) 1994, pp. 396-398 nr. 635.
42. 981, agosto 6. Ottone II, imperatore. Originale: AAM, caps. X, nr. 7 (cfr. infra nr. 112). Ed.: Dipl. Ott. II 1888-1893, pp. 289-295 nr. 254 b. Cfr. MIKOLETZKY (– BÖHMER) 1950, pp. 372-373 nr. 852; LECCISOTTI 1965, p. 35 nr. 7; HOFFMANN 1972, p. 105 nr. 120; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 97 nr. 120.
43. 1194, dicembre 25. Enrico VI, imperatore. Originale: AAM, caps. X, nr. 8. Ed.: GATTOLA 1734, p. 279. Cfr. CLEMENTI 1955, p. 130 nr. 36; LECCISOTTI 1965, pp. 35-36 nr. 8; BAAKEN (– BÖHMER) 1972, p. 160 nr. 390; HOFFMANN 1972, p. 109 nr. 167; DELL’OMO 2000, p. 104 nr. 167.
44. [959-969]. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo III, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 9. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 57-58. Cfr.VOIGT 1902, p. 67 nr. *148; POUPARDIN 1907, p. 104 nr. 107; GALLO 1937, p. 65 nr. 41; LECCISOTTI 1965, p. 36 nr. 9; HOFFMANN 1972, p. 115 nr. 218; DELL’OMO 2000, p. 114 nr. 218.
45. 1300, dicembre 9. Bonifacio VIII, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 22. Cfr. DIGARD 1904, col. 877 nr. 3813; LECCISOTTI 1964, p. 34 nr. 22.
46. 1300, dicembre 9. Bonifacio VIII, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 23. Altro esemplare del doc. nr. 45 supra. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 34 nr. 23.
47. 1101, novembre 17. Pasquale II, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 24. Cfr. KEHR 1935, p. 157 nr. 154; LECCISOTTI 1964, pp. 34-35 nr. 24; HOFFMANN 1972, p. 101 nr. 62; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 90 nr. 62.
48. 1222, ottobre 31. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 25. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 597 nr. 6887; PRESSUTTI 1888-1895 (II), p. 98 nr. 4140; LECCISOTTI 1964, p. 35 nr. 25.
49. 1206, febbraio 24. Benedetto, cardinale presbitero del tit. di S. Susanna. Originale: AAM, caps. II, nr. 26. Ed.: GATTOLA 1733, p. 491. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 35-36 nr. 26.
50. 1217, maggio 5. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 27. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 487 nr. 5541; PRESSUTTI 1888-1895 (I), p. 98 nr. 564; LECCISOTTI 1964, p. 36 nr. 27.
51. 1222, novembre 17. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 28.
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Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 597 nr. 6893; PRESSUTTI 1888-1895 (II), p. 99 nr. 4149; LECCISOTTI 1964, p. 36 nr. 28.
52. 1239, aprile 13. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 29. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 908 nr. 10728; LECCISOTTI 1964, p. 36 nr. 29.
53. 1117, agosto 17. Pasquale II, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 30. Cfr. KEHR 1935, p. 163 nr. 182; LECCISOTTI 1964, p. 37 nr. 30; HOFFMANN 1972, pp. 100101 nr. 43; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 88 nr. 43.
54. 1265, luglio 8. Clemente IV, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 31. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 38 nr. 31.
55. 1265, luglio 8. Clemente IV, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 32. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 38 nr. 32.
56. 1113, febbraio 13. Pasquale II, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 33. Cfr. KEHR 1935, pp. 167-168 nr. 8; LECCISOTTI 1964, pp. 38-39 nr. 33; HOFFMANN 1972, p. 101 nr. 45; DELL’OMO 2000, p. 88 nr. 45.
57. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 1. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 24 nr. 1.
58. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 2. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 24 nr. 2.
59. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 3. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 25 nr. 3.
60. 1370, agosto 1°. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 4. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 25 nr. 4; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 410 nr. 27226.
61. 1400, febbraio 14. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 5. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 25-26 nr. 5.
62. Bonifacio IX, papa. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari, senza alcuna indicazione dell’autore che emerge dalla sola lista qui edita: AAM, caps. II, nr. 6*. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 26 nr. 6*.
63. 1370, agosto 1°, opp. 1370, luglio 27. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 7, opp. caps. II, nr. 8. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 26 nr. 7, opp. nr. 8; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 410 nr. 27227 (caps. II, nr. 7), opp. p. 406 nr. 27211 (caps. II, nr. 8).
64-67. (Docc. non identificati) 68. 1154, gennaio 13. Anastasio IV, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 9. Ed.: BLOCH 1986, pp. 1037-1038 nr. 13. Cfr. KEHR 1935, pp. 181-182 nr. 264; LECCISOTTI 1964, p. 27 nr. 9; BLOCH 1986, pp. 997-998.
69. † 1097, marzo 21. Urbano II, papa. Pseudo-originale: AAM, caps. II, nr. 10. Ed.: BLOCH 1986, pp. 1016-1021 nr. 5. Cfr. KEHR 1935, pp. 153-154 nr. 140; LECCISOTTI 1964, pp. 27-28 nr. 10; BLOCH 1986, pp. 980-982.
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70. 1154, gennaio 13. Anastasio IV, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 11. Altro esemplare del doc. nr. 68 supra. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 28 nr. 11.
71. 1203, marzo 23. Innocenzo III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 12. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 163 nr. 1866; LECCISOTTI 1964, pp. 28-29 nr. 12; BLOCH 1986, pp. 998, 1038-1039 nr. 14.
72. [1061-1073]. Alessandro II, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 13. Cfr. KEHR 1935, pp. 145-146 nr. 107; LECCISOTTI 1964, p. 29 nr. 13; HOFFMANN 1972, p. 100 nr. 31; DORMEIER 1979, p. 41; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 86 nr. 31.
73. [1049]. Leone IX, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 14. Cfr. KEHR 1935, p. 135 nr. 65; LECCISOTTI 1964, pp. 29-30 nr. 14; HOFFMANN 1972, p. 99 nr. 24; DORMEIER 1979, p. 31; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 85 nr. 24.
74. 1052, maggio 20. Leone IX, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 15. Cfr. KEHR 1935, pp. 135-136 nr. 67; LECCISOTTI 1964, p. 30 nr. 15; HOFFMANN 1972, p. 99 nr. 22; DORMEIER 1979, p. 31; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 85 nr. 22.
75. 1101, marzo 31. Pasquale II, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 17. Cfr. KEHR 1935, p. 157 nr. 153; LECCISOTTI 1964, p. 31 nr. 17; HOFFMANN 1972, p. 100 nr. 41; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, pp. 87-88 nr. 41.
76. [1052]. Leone IX, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 16. Cfr. KEHR 1935, p. 136 nr. 68; LECCISOTTI 1964, pp. 30-31 nr. 16; HOFFMANN 1972, p. 99 nr. 23; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 85 nr. 23.
77. 1098, dicembre 8. Urbano II, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 18. Cfr. KEHR 1935, pp. 156-157 nr. 151; LECCISOTTI 1964, pp. 31-32 nr. 18; HOFFMANN 1972, p. 100 nr. 39; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 87 nr. 39.
78. 1234, febbraio 25. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 19. Cfr. AUVRAY 1896 (I), col. 990 nr. 1811; LECCISOTTI 1964, p. 32 nr. 19.
79. 1178, ottobre 30. Alessandro III, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 20. Cfr. KEHR 1913, p. 301 nr. 3; LECCISOTTI 1964, pp. 32-33 nr. 20.
80. 1123, aprile 3. Callisto II, papa. Originale: AAM, caps. II, nr. 21. Cfr. KEHR 1913, p. 301 nr. 1; LECCISOTTI 1964, pp. 33-34 nr. 21.
81. [1032], aprile 12. Pandolfo IV e Pandolfo V, principi di Capua. Originale: AAM, caps. X, nr. 10. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 131-132. Cfr. VOIGT 1902, p. 71 nr. *220; POUPARDIN 1907, p. 130 nr. 180; GALLO 1937, p. 67 nr. 82; LECCISOTTI 1965, p. 36 nr. 10; HOFFMANN 1972, p. 120 nr. 279; BLOCH 1986, p. 1348; DELL’OMO 2000, p. 123 nr. 279.
82. 1224, maggio. Federico II, imperatore. Originale: AAM, caps. X, nr. 11. Ed.: HUILLARD-BRÉHOLLES II, I, pp. 431-434. Cfr. FICKER (– BÖHMER) 1881, p. 314 nr. 1529; LECCISOTTI 1965, p. 37 nr. 11.
83. [1012], gennaio 29. Pandolfo II e Pandolfo III (II princ. di Benevento), principi di Capua. Originale: AAM, caps. X, nr. 12. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 104-105. Cfr. VOIGT 1902, p. 71 nr. *211; POUPARDIN 1907, p. 126 nr. 170; GALLO 1937, p. 67 nr. 74; LECCISOTTI 1965, p. 37 nr. 12.
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84. (Doc. non identificato) Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: 991. Aloara e suo figlio Landenolfo, principe di Capua. Originale: AAM, caps. X, nr. 13 (Ed.: SCANDONE 1909, pp. 73-77 nr. 5. Cfr. VOIGT 1902, p. 70 nr. *206; POUPARDIN 1907, p. 125 nr. 165; GALLO 1937, p. 67 nr. 68; LECCISOTTI 1965, pp. 37-38 nr. 13; HOFFMANN 1972, p. 116 nr. 234; BLOCH 1986, p. 1348; DELL’OMO 2000, p. 117 nr. 234).
85. [917], settembre 7. Landolfo I e Atenolfo II, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 14. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 46-47. Cfr. VOIGT 1902, p. 66 nr. *128; POUPARDIN 1907, p. 93 nr. 78; GALLO 1937, p. 64 nr. 22; LECCISOTTI 1965, p. 38 nr. 14; HOFFMANN 1972, p. 117 nr. 242; BLOCH 1986, p. 1348; DELL’OMO 2000, p. 119 nr. 242.
86. [963], ottobre 16. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo III, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 15. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 61-62. Cfr. VOIGT 1902, p. 67 nr. *154; POUPARDIN 1907, pp. 104105 nr. 109; GALLO 1937, p. 65 nr. 47; LECCISOTTI 1965, pp. 38-39 nr. 15; HOFFMANN 1972, p. 115 nr. 212; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 113 nr. 212.
87. (Doc. non identificato) 88. [1001], settembre 3. Landolfo V di Sant’Agata, principe di Capua. Originale: AAM, caps. X, nr. 16. Cfr. VOIGT 1902, p. 70 nr. *209; LECCISOTTI 1965, p. 39 nr. 16.
89. [944], agosto 30. Landolfo II e Pandolfo I Capodiferro, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 17. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 53-54. Cfr. VOIGT 1902, p. 66 nr. *140; GALLO 1937, p. 65 nr. 31; LECCISOTTI 1965, pp. 39-40 nr. 17; HOFFMANN 1972, p. 114 nr. 209; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 113 nr. 209.
90. Ugo e Lotario, re d’Italia. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari: AAM, caps. X, nr. 18*. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 40 nr. 18*.Non è escluso che possa trattarsi del diploma dato il 943, maggio 15, la cui copia è nel Registrum Petri Diaconi, ff. 156v-157r nr. 359 (Ed.: Dipl. Ugo e Lo. 1924, pp. 203-206 nr. 68. Cfr. HOFFMANN 1972, p. 125 nr. 359; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 2000, p. 133 nr. 359).
91. (Doc. non identificato) Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: [915-934]. Landolfo I e Atenolfo II, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 19 (Ed.: POUPARDIN 1907, pp. 144-145 nr. 8. Cfr. VOIGT 1902, p. 66 nr. 135; GALLO 1937, p. 68 nr. 93; LECCISOTTI 1965, p. 40 nr. 19; HOFFMANN 1972, p. 117 nr. 241 B; BLOCH 1986, p. 1348; DELL’OMO 2000, p. 118 nr. 241 B).
92. Guglielmo II, re di Sicilia. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari: AAM, caps. X, nr. 20*. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 40 nr. 20*; DORMEIER 1979, p. 235 nt. 143. (1) Fella (Bonifati, Cosenza). (2) Cetraro (Cosenza).
93. [943], gennaio 30. Atenolfo III, principe di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 21.
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MARIANO DELL’OMO
Ed.: GATTOLA 1734, pp. 52-53. Cfr. VOIGT 1902, p. 66 nr. *137; POUPARDIN 1907, p. 97 nr. 89; GALLO 1937, p. 65 nr. 28; LECCISOTTI 1965, p. 41 nr. 21; HOFFMANN 1972, p. 122 nr. 311; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 2000, p. 127 nr. 311.
94. [964], maggio. Pandolfo I Capodiferro, principe di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 22. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 66-67. Cfr. VOIGT 1902, p. 67 nr.*157; POUPARDIN 1907, p. 106 nr. 113; GALLO 1937, p. 66 nr. 49; LECCISOTTI 1965, p. 41 nr. 22; HOFFMANN 1972, p. 115 nr. 223; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 115 nr. 223.
95. [1072], febbraio. Riccardo I, principe di Capua. Originale: AAM, caps. X, nr. 23. Ed.: INGUANEZ 1925, pp. 43-45 nr. 15 (dalla copia del Registrum di S. Angelo in Formis [1137-1166]). Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 42 nr. 23; HOFFMANN 1972, p. 129 nr. 406; DORMEIER 1979, p. 39; LOUD 1981 a, p. 122 nr. 15; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 139 nr. 406. (1) Prepositura di S. Angelo in Formis (Sant’Angelo in Formis, fraz. di Capua, Caserta).
96. [967], giugno 7. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo III, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 24. Cfr. VOIGT 1902, p. 68 nr. *163; POUPARDIN 1907, pp. 108-109 nr. 120; GALLO 1937, p. 66 nr. 52; LECCISOTTI 1965, p. 42 nr. 24; HOFFMANN 1972, p. 115 nr. 215; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 114 nr. 215. (1) Sant’Angelo in Theodice, fraz. di Cassino (Frosinone). (2) San Giorgio a Liri (Frosinone).
97. 964, febbraio 18. Ottone I, imperatore. Originale: AAM, caps. X, nr. 25. Ed.: Dipl. Ott. I 1879-1884, pp. 374-375 nr. 262. Cfr. OTTENTHAL (– BÖHMER) 1893, p. 169 nr. 353; LECCISOTTI 1965, p. 43 nr. 25; HOFFMANN 1972, p. 105 nr. 118; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 96 nr. 118.
98. [925], febbraio 23. Landolfo I e Atenolfo II, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 26. Ed.: GATTOLA 1733, pp. 105-106. Cfr. VOIGT 1902, p. 66 nr. *130; POUPARDIN 1907, p. 94 nr. 81; GALLO 1937, p. 64 nr. 24; LECCISOTTI 1965, p. 43 nr. 26.
99. 943, maggio 15. Ugo e Lotario, re d’Italia. Originale: AAM, caps. X, nr. 27. Ed.: Dipl. Ugo e Lo. 1924, pp. 196-200 nr. 66. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 44 nr. 27; HOFFMANN 1972, p. 105 nr. 115; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 96 nr. 115.
100. 1077/1078, dicembre 12. Giordano I, principe di Capua. Originale: AAM, caps. X, nr. 28. Ed.: GATTOLA 1734, p. 186. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 44 nr. 28; HOFFMANN 1972, p. 129 nr. 413; LOUD 1981 a, p. 123 nr. 19; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 140 nr. 413. (1) Piedimonte San Germano (Frosinone). (2) Piumarola, fraz. di Villa Santa Lucia (Frosinone). (3) Aquino (Frosinone). (4) Teramo o Termine (Pignataro Interamna, Frosinone).
101. [963], ottobre 16. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo III, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 29. Ed.: POUPARDIN 1907, pp. 153-154 nr. 14. Cfr. VOIGT 1902, p. 67 nr. *155; GALLO 1937, p.
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IL PIÙ ANTICO INVENTARIO DELL’ARCHIVIO DI MONTECASSINO
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65 nr. 48; LECCISOTTI 1965, pp. 44-45 nr. 29; HOFFMANN 1972, p. 115 nr. 217; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 114 nr. 217. (1) Sant’Ambrogio sul Garigliano (Frosinone). (2) Sant’Andrea del Garigliano (Frosinone).
102. [961], luglio 10. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo III, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 30. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 59-61. Cfr. VOIGT 1902, p. 67 nr. *150; POUPARDIN 1907, p. 103 nr. 105; GALLO 1937, p. 65 nr. 43; LECCISOTTI 1965, p. 45 nr. 30.
103. (Doc. non identificato) Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: [1004], febbraio 20. Landolfo V di Sant’Agata, principe di Capua (conferma di precedenti concessioni ugualmente in favore del monastero di S. Maria in Cingla). Originale: AAM, caps. X, nr. 31 (Ed.: GATTOLA 1733, pp. 59-61. Cfr. VOIGT 1902, p. 70 nr. *210; POUPARDIN 1907, p. 126 nr. 169; GALLO 1937, p. 67 nr. 72; LECCISOTTI 1965, p. 45 nr. 31). (1) Monastero di S. Maria in Cingla (Ailano, Caserta).
104. (Doc. non identificato) Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: 1191, maggio 21. Enrico VI, imperatore (conferma del diploma di Lotario III, 1137, settembre 22, circa i beni e i diritti di Montecassino: cfr. supra nr. 38). Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari: AAM, caps. X, nr. 32* (Ed.: GATTOLA 1734, pp. 269-274 [da copia datata 1465, luglio 30: cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 55-56 nr. 51 bis]. Cfr. CLEMENTI 1955, pp. 99-101 nr. 4; LECCISOTTI 1965, p. 46 nr. 32*; BAAKEN [– BÖHMER] 1972, pp. 6465 nr. 152).
105. (Doc. non identificato) Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: 998, maggio 25. Ottone III, imperatore (conferma dei possedimenti, immunità e diritti di Montecassino). Originale: AAM, caps. X, nr. 33 (Ed.: Dipl. Ott. III 1888-1893, pp. 715-717 nr. 291. Cfr. UHLIRZ [– BÖHMER] 1956, p. 691 nr. 1280; LECCISOTTI 1965, pp. 46-47 nr. 33; HOFFMANN 1972, p. 106 nr. 125; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 97 nr. 125). (1) Il toponimo sembra rinviare a Castrum Celi (Castrocielo, Frosinone).
106. [961], luglio 10. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo III, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 34. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 58-59. Cfr. VOIGT 1902, p. 67 nr. *149; POUPARDIN 1907, pp. 102103 nr. 104; GALLO 1937, p. 65 nr. 42; LECCISOTTI 1965, p. 47 nr. 34; HOFFMANN 1972, p. 115 nr. 220; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 114 nr. 220.
107. 1135. Uberto, arcivescovo di Pisa e legato pontificio in Sardegna. Originale: AAM, caps. X, nr. 35. Ed.: SABA 1927, pp. 175-177 nr. 21. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 48 nr. 35; BLOCH 1986, p. 445. (1) Chiesa di S. Giorgio di Baraci (Sardegna). (2) Chiesa di S. Maria di Gennor (Sardegna).
108. [928], aprile 25. Landolfo I e Atenolfo II, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. X, nr. 36. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 45-46. Cfr. VOIGT 1902, p. 66 nr. *132; POUPARDIN 1907, p. 95 nr. 84; GALLO 1937, p. 64 nr. 25; LECCISOTTI 1965, p. 48 nr. 36; HOFFMANN 1972, p. 114 nr. 205; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 112 nr. 205.
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MARIANO DELL’OMO
109. 1276, ottobre 19. Copia notarile: AAM, caps. XVIII, nr. 80 (recante inserto il doc.: 1114, ottobre. Guglielmo, duca di Puglia. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 20). Ed.: LECCISOTTI 1957, pp. 85-87 nr. 23. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 249 nr. 80, anche p. 131 nr. 20; HOFFMANN 1972, p. 141 nr. 574; LOUD 1981 a, p. 136 nr. 103 a; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 161 nr. 574.
110. 1371, ottobre 22. Copia notarile: AAM, caps. XVIII, nr. 47 (recante inserto il doc.: 1090, agosto. Ruggero I [Borsa], duca di Puglia [conferma delle donazioni precedenti in favore di Montecassino da parte dei genitori di Ruggero, Roberto il Guiscardo e Sikelgaita]). Originale: AAM, caps. X, nr. 48. Ed.: LECCISOTTI 1957, pp. 69-71 nr. 15. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 53-54 nr. 48; HOFFMANN 1972, p. 136 nr. 512; DORMEIER 1979, p. 46; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 153 nr. 512).
Altre opzioni meno plausibili: A) A1: 1384, febbraio 29. AAM, caps. XVIII, nr. 68; A2: 1413, giugno 20. AAM, caps. XVIII, nr. 82; A3: 1413, giugno 26. AAM, caps. XVIII, nr. 37. Copie notarili (recanti inserto il doc.:1090, agosto. Ruggero I [Borsa], duca di Puglia [donazione di una tonnara in località Bordella di Tropea, Catanzaro]. Originale: AAM, caps. XII, nr. 26. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 204-205. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 95 nr. 26).
B) 1369, gennaio 24. Copia notarile: AAM, caps. XVIII, nr. 39 (recante inserto il doc.: 1104, dicembre. Ruggero I [Borsa], duca di Puglia [donazione di alcune terre nelle pertinenze di Troia, Foggia]. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 15. Ed.: LECCISOTTI 1957, pp. 71-73 nr. 16. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 111 nr. 15; HOFFMANN 1972, p. 136 nr. 514; DELL’OMO 2000, p. 153 nr. 514).
111. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. III, nr. 35. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 61 nr. 35 (unico mandato di Bonifacio IX nel quale si dichiarano privi di valore gli atti di alienazione dei beni cassinesi qualora siano privi della sottoscrizione della parte maggiore e più saggia della comunità).
112. 981, agosto 6. Ottone II, imperatore. Originale: AAM, caps. XI, nr. 1 (cfr. supra nr. 42). Ed.: Dipl. Ott. II 1888-1893, pp. 288-295 nr. 254 a. Cfr. MIKOLETZKY (– BÖHMER) 1950, p. 372 nr. 851; LECCISOTTI 1965, p. 57 nr. 1; HOFFMANN 1972, p. 106 nr. 123; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 97 nr. 123. (1) Chiesa di S. Angelo in Barrea (Villetta Barrea, L’Aquila).
113. (Doc. non identificato) Cfr. infra nr. 120. (1) Cfr. supra nr. 103 nt 1.
114. [1017], maggio 10. Pandolfo II e Pandolfo IV, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XI, nr. 3.
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IL PIÙ ANTICO INVENTARIO DELL’ARCHIVIO DI MONTECASSINO
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Ed.: GALLO 1933, pp. 323-325. Cfr. VOIGT 1902, p. 71 nr. *216; POUPARDIN 1907, p. 128 nr. 175; GALLO 1937, p. 67 nr. 78; LECCISOTTI 1965, p. 58 nr. 3; HOFFMANN 1972, p. 118 nr. 256; BLOCH 1986, p. 1348; DELL’OMO 2000, p. 120 nr. 256. (1) Cfr. supra nr. 112: si tratta di un lapsus non apparendo infatti documentata l’esistenza di una chiesa di S. Maria; la dittografia sembra generata dalla dedica immediatamente precedente (cfr. supra nr. 113).
115. Rodolfo II di Molise, conte di Boiano. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari: AAM, caps. XI, nr. 4* (cfr. infra nrr. 143, 148). Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 58 nr. 4*. (1) Castrum di Balneum, dipendente da S. Croce d’Isernia. (2) Monastero di S. Croce d’Isernia (Pesche, Isernia).
116. 970, maggio 25. Ottone I, imperatore. Originale: AAM, caps. XI, nr. 5. Ed.: Dipl. Ott. I 1879-1884, pp. 538-539 nr. 396. Cfr. OTTENTHAL (– BÖHMER) 1893, p. 229 nr. 522; LECCISOTTI 1965, p. 59 nr. 5; HOFFMANN 1972, p. 105 nr. 119; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, pp. 96-97 nr. 119. (1) Cfr. supra nr. 112.
117. † 1132, [luglio] 27. Ruggero II, re di Sicilia. Pseudo-originale: AAM, caps. XI, nr. 7. Ed.: TOSTI 18892, pp. 242-243. Cfr. KEHR 1902, specialmente pp. 328-330; API 1954, fasc. 60 tav. 1; LECCISOTTI 1965, pp. 59-60 nr. 7; HOFFMANN 1967, pp. 326-333; BRÜHL 1978, specialmente pp. 164-172, e tavv. XVIII-XIX; BLOCH 1986, pp. 285-286; BRÜHL 1987, pp. 57-59 nr. 21; LOUD 2009, p. 809. (1) Monastero di S. Eustasio (Arco, nel territ. di Pietrabbondante, Isernia).
118. 1221, gennaio. Federico II, imperatore. Originale: AAM, caps. XI, nr. 6. Ed.: HUILLARD-BRÉHOLLES II, I 1852, pp. 102-103. Cfr. FICKER (– BÖHMER) 1881, p. 280 nr. 1269; LECCISOTTI 1965, p. 59 nr. 6.
119. 1147, giugno 24. Gonnario II, re di Torres. Originale: AAM, caps. XI, nr. 8. Ed.: SABA 1927, pp. 183-186 nr. 26. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 60 nr. 8; BLOCH 1986, p. 439. (1) Chiesa di S. Pietro di Nugulvi (Nulvi, Sassari). (2) Monastero di S. Maria di Tergu (Tergu, fraz. di Castelsardo, Sassari). (3) Monastero di S. Nicola in Solio/di Silanos (Sedini, Sassari). (4) Chiesa di S. Pietro di Nurchi (nella Nurra, a nord di Alghero, Sassari). (5) Monastero di S. Michele di Ferrucisi (Santu Miali, nel territ. di Villanova Monteleone, Sassari).
120. 1093/1094, dicembre. Roberto, conte di Caiazzo. Originale: AAM, caps. XI, nr. 9. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 713-714. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 60-61 nr. 9; HOFFMANN 1972, p. 138 nr. 531; DORMEIER 1979, p. 47; LOUD 1981 b, p. 202 e nt. 16, tav. nr. 2; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, pp. 155-156 nr. 531; HOFFMANN 2004, p. 451 e nt. 42. (1) Cfr. supra nr. 103 nt. 1.
121. 1182. Barisone, giudice di Arborea. Originale: AAM, caps. XI, nr. 10. Ed.: SABA 1927, pp. 203-206 nr. 38. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 61 nr. 10. (1) Chiesa di S. Nicola di Gurgo o di Urgen (nel territ. di Oristano).
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MARIANO DELL’OMO
122. [1065]. Barisone, re di Torres. Originale: AAM, caps. XI, nr. 11. Ed.: SABA 1927, pp. 133-134 nr. 1. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 61 nr. 11; HOFFMANN 1972, p. 107 nr. 150; DORMEIER 1979, pp. 37, 181-182 nt. 348; BLOCH 1986, pp. 419-420, 1346; DELL’OMO 2000, p. 100 nr. 150. (1) Chiesa di S. Maria in Bubalis, oggi S. Maria in Mesu Mundu (nel territ. di Siligo, Sassari). (2) Chiesa di S. Elia sul Monte Santo (nel territ. di Siligo, Sassari).
123. 1136, maggio 20. Costantino di Athen e sua moglie Preziosa di Laccon. Originale: AAM, caps. XI, nr. 12. Ed.: SABA 1927, pp. 177-179 nr. 22. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 62 nr. 12; BLOCH 1986, p. 447. (1) Chiesa probabilmente sita nel territ. dell’antica Torricla (nei pressi di Tissi, Sassari). (2) Cfr. supra nr. 119 nt. 5.
124. 1109, giugno. Roberto Trastainil (Trostayni), signore di Limosano. Originale: AAM, caps. XI, nr. 13. Ed.: GATTOLA 1733, pp. 421-422. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 62 nr. 13; HOFFMANN 1972, p. 141 nr. 571; MÉNAGER 1975, p. 288; DORMEIER 1979, p. 50; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 161 nr. 571. (1) Chiesa di S. Illuminata (Morgia S. Illuminata, nel territ. di Limosano, Campobasso).
125. 1120, maggio 24. Gonnario I di Laccon, giudice. Originale: AAM, caps. XI, nr. 14. Ed.: SABA 1927, pp. 140-142 nr. 5. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 62-63 nr. 14. (1) Cfr. supra nr. 119 nt. 4. (2) Chiesa di S. Nicola di Nugulvi, oggi S. Nicola d’Oria Manna (nel territ. di Nulvi, Sassari). (3) Chiesa di S. Elia di Setin (Sedini, Sassari).
126. Qui sembrano riuniti insieme due distinti documenti: I) [3° decennio del sec. XII (probabilmente non oltre il 1127)]. Furato di Gitil (donazione del monastero di S. Nicola in Solio). Originale: AAM, caps. XI, nr. 15. Ed.: SABA 1927, pp. 162-165 nr. 16. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 63 nr. 15; HOFFMANN 1972, p. 142 nr. 587; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 163 nr. 587.
II) [1122 (?)], aprile 25. Furato di Gitil (donazione di beni a detto monastero di S. Nicola). Originale: AAM, caps. XI, nr. 16. Ed.: SABA 1927, pp. 153-155 nr. 12. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 63 nr. 16; HOFFMANN 1972, p. 142 nr. 586; DORMEIER 1979, p. 51; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 163 nr. 586. (1) In realtà non di Fortunato si tratta ma di Furato (di Gitil). (2) Cfr. supra nr. 119 nt. 3.
127. 1153. Gonnario II di Laccon, giudice. Originale: AAM, caps. XI, nr. 17. Ed.: SABA 1927, pp. 191-194 nr. 31. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 64 nr. 17; BLOCH 1986, p 440. (1) Cfr. supra nr. 119 nt. 2.
128. 1113, [settembre-dicembre]. Roberto, vescovo di Aversa. Originale: AAM, caps. XI, nr. 18. Ed.: INGUANEZ 1925, pp. 9-12 nr. 4. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 64 nr. 18; HOFFMANN 1971,
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p. 103; HOFFMANN 1972, p. 142 nr. 583; DORMEIER 1979, p. 78; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 162 nr. 583. (1) Chiesa di S. Agata (Aversa, Caserta).
129. 1154. Leone, vescovo di Veroli. Originale: AAM, caps. XI, nr. 19. Ed.: GATTOLA 1733, pp. 430-431. Cfr. KEHR 1935, p. 182 nr. *265; LECCISOTTI 1965, p. 65 nr. 19; BLOCH 1986, p. 932. (1) Chiesa di S. Giuliano (Frosinone).
130. 1110, novembre. Ruggero I (Borsa), duca di Puglia. Originale: AAM, caps. XI, nr. 20. Ed.: LECCISOTTI 1938, pp. 49-50 nr. 9. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 65 nr. 20; ENZENSBERGER 1971, p. 44 e nt. 70; HOFFMANN 1972, p. 141 nr. 570; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, pp. 160-161 nr. 570. (1) Si legge nel contesto del documento: «licentiam habeatis semper hospitandi, ab ecclesia que dicitur Passari usque ad Salpitanum pontem» (ed. LECCISOTTI 1938, p. 50).
131. (Doc. non identificato, a meno che non si ipotizzi un lapsus dell’estensore, essendo documentata una chiesa di S. Nazzaro nei pressi di Pietramelara [nel territ. di Teano, Caserta]: per una donazione privata relativa a tale chiesa [945, dicembre. Originale: AAM, caps. XXVII, 12], cfr. LECCISOTTI 1971, p. 295 nr. 12.) Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: [1032], aprile 12. Pandolfo IV e Pandolfo V, principi di Capua (concessione della chiesa di S. Nazzaro, nel territ. di Casalattico, Frosinone). Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari: AAM, caps. XI, nr. 21 (ne è trasmessa copia dal Registrum Petri Diaconi, f. 125r-v nr. 276). Ed.: GATTOLA 1733, p. 205. Cfr. VOIGT 1902, p. 71 nr. 221; POUPARDIN 1907, p. 130 nr. 179; GALLO 1937, p. 62 nr. 65; LECCISOTTI 1965, pp. 65-66 nr. 21; HOFFMANN 1972, p. 120 nr. 276; BLOCH 1986, p. 1348; DELL’OMO 2000, p. 123 nr. 276.
132. [969], dicembre 18. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo IV, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XI, nr. 22. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 98-99. Cfr. VOIGT 1902, p. 68 nr. *168; POUPARDIN 1907, p. 111 nr. 126; GALLO 1937, p. 66 nr. 56; LECCISOTTI 1965, p. 66 nr. 22; BLOCH 1986, pp. 245-246. (1) Cfr. supra nr. 103 nt. 1.
133. [948], gennaio. Giovanni (di Capua), monaco. Originale: AAM, caps. XI, nr. 23. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 66 nr. 23; HOFFMANN 1972, p. 114 nr. 211 A; DORMEIER 1979, p. 57 nt. 223; BLOCH 1986, pp. 784, 1347; DELL’OMO 2000, p. 113 nr. 211 A. (1) Chiesa di S. Vito, al di là del Volturno, sul Monte Tifata.
134. [1050], novembre. Giovanni Scinto, conte di Pontecorvo. Originale: AAM, caps. XI, nr. 24. Ed.: AVAGLIANO 1986, pp. 213-215 nrr. 1 (dall’originale), 8 (dalla copia del Registrum Petri Diaconi, ff. 168v-169r nr. 387). Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 67 nr. 24; HOFFMANN 1971, p. 66 nt. 256; HOFFMANN 1972, p. 127 nr. 387; DORMEIER 1979, p. 31 nt. 39; HOFFMANN 1980 [Introduzione], p. X nt. 39; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 2000, p. 136 nr. 387. (1) Monastero di S. Nicola (Pico, Frosinone: cfr. CARROCCI 2010, pp. 213-215). (2) Il toponimo de Giptiis allude, come sembra, alla chiesa di S. Maria de Aegipto nel territ. di Pico (cfr. CARROCCI 2010, pp. 148-149), mentre qui pare trattarsi di quella di S. Maria ai
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piedi del Monte Leucio (nel territ. di Pontecorvo, Frosinone: cfr. CARROCCI 2010, pp. 158160): «ecclesia que est edificata in onore Sancte Dei Genitricis Marie» e «vocabulo Sancte Dei Genitricis Marie» (ed. AVAGLIANO 1986, rispettivamente pp. 213-214 e 230). (3) Di una «ecclesia Sancti Leucii», sintagma allusivo alla chiesa di S. Maria or ora citata, si legge nella copia del Registrum Petri Diaconi (ed. AVAGLIANO 1986, p. 230), che con le sue aggiunte sembra essere una falsificazione elaborata sulla base di un documento genuino.
135. [1052], agosto. Landenolfo e Adenolfo. Originale: AAM, caps. XI, nr. 25. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 67 nr. 25; HOFFMANN 1972, p. 124 nr. 336; DORMEIER 1979, pp. 32 nt. 44, 83 nt. 364; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 2000, p. 130 nr. 336. (1) Erroneo è il titolo di principes, trattandosi di due soggetti privati, entrambi figli del fu Pietro. (2) Chiesa di S. Salvatore Maggiore a Corte (Capua, Caserta). (3) Chiesa dei SS. Rufo e Carponio (Capua, Caserta). (4) Chiesa di S. Niccolò ad Locothetam (Capua).
136. [977], marzo 12. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo IV, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XI, nr. 27. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 81-82. Cfr. VOIGT 1902, p. 68 nr. 171; POUPARDIN 1907, p. 112 nr. 130; GALLO 1937, p. 66 nr. 57; LECCISOTTI 1965, p. 68 nr. 27. (1) Oggetto della donazione è in realtà il monastero di S. Eustasio in Arco (cfr. supra nr. 117 nt. 1).
137. 1176, gennaio. Riccardo dell’Aquila, conte di Pico. Originale: AAM, caps. XI, nr. 29. Ed.: CDC 1891, pp. 300-302 nr. 355. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 69 nr. 29; BLOCH 1986, p. 210; DELL’OMO 1995, p. 60 e nt. 21. (1) Monastero di S. Magno (sulle prime falde del Monte Casareccio, a nord-ovest di Fondi, Latina).
138. 1066, [giugno-agosto]. Riccardo I e Giordano I, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XI, nr. 30. Ed.: INGUANEZ 1925, pp. 41-43 nr. 14. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 69-70 nr. 30; ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 10; HOFFMANN 1972, p. 129 nr. 407; LOUD 1981 a, p. 121 nr. 11; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 139 nr. 407. (1) Cfr. supra nr. 95 nt. 1.
139. [943], gennaio 30. Atenolfo III, principe di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XI, nr. 31. Ed.: GATTOLA 1733, p. 53. Cfr. VOIGT 1902, p. 66 nr. *138; POUPARDIN 1907, pp. 97-98 nr. 90; GALLO 1937, p. 65 nr. 29; LECCISOTTI 1965, p. 70 nr. 31; HOFFMANN 1972, p. 114 nr. 207; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 113 nr. 207. (1) Monastero di S. Sofia (Benevento).
140. Landolfo II e Pandolfo I Capodiferro, principi di Capua e Benevento. Doc. deperdito già prima dell’ultima distruzione di Montecassino (1944): AAM, caps. XI, nr. 32**. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 70 nr. 32**. (1) Cfr. supra nr. 103 nt. 1.
141. [952], maggio 6. Landolfo II e Pandolfo I Capodiferro, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XI, nr. 34.
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Ed.: GALLO 1937, pp. 33-35. Cfr. VOIGT 1902, p. 67 nr. *144; POUPARDIN 1907, p. 100 nr. 97; LECCISOTTI 1965, p. 71 nr. 34. (1) Monastero di S. Benedetto (Larino, Campobasso). (2) L’esenzione da tributi sui possessi relativi a Casa Gentiana (nel territ. dell’antica Liburia) e la concessione del diritto di pesca nel Lago di Patria sono oggetto non di questo ma di altro diploma originale ugualmente rilasciato da Landolfo II e Pandolfo I Capodiferro: AAM, caps. XIII, nr. 8 (cfr. infra nr. 284).
142. Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche sembra trattarsi unicamente del doc. seguente: [952], giugno 5. Landolfo II e Pandolfo I Capodiferro, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XI, nr. 49. Ed.: POUPARDIN 1907, pp. 148-149 nr. 11. Cfr. VOIGT 1902, p. 67 nr. 145; GALLO 1937, p. 65 nr. 36; LECCISOTTI 1965, p. 77 nr. 49; HOFFMANN 1972, p. 122 nr. 312; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 2000, p. 127 nr. 312. (1) Cfr. supra nr. 141 nt. 1.
143. 1092, marzo. Rodolfo II di Molise, conte di Boiano. Copia semplice del sec. XII: AAM, caps. XI, nr. 35. Ed.: GATTOLA 1734, p. 207. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 71-72 nr. 35; HOFFMANN 1972, p. 138 nr. 535; DORMEIER 1979, p. 46; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 156 nr. 535. (1) Cfr. supra nr. 115 nt. 2.
144. 1100, aprile. Enrico, conte di Monte Sant’Angelo. Originale: AAM, caps. XI, nr. 36. Ed.: LECCISOTTI 1957, pp. 171-173. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 72 nr. 36. (1) Xenodochio (Monte Sant’Angelo, Foggia).
145. 1122, settembre. Rainulfo, conte di Alife. Originale: AAM, caps. XI, nr. 37. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 716-717. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 72-73 nr. 37; HOFFMANN 1972, p. 141 nr. 578; DORMEIER 1979, p. 52; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 162 nr. 578. (1) Cfr. supra nr. 103 nt. 1.
146. [1120/1121 (?)], marzo 24. Comita di Azzen (nobile di Torres [Porto Torres]). Originale: AAM, caps. XI, nr. 38. Ed.: SABA 1927, pp. 149-151 nr. 10. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 73 nr. 38; HOFFMANN 1972, p. 142 nr. 590; DORMEIER 1979, p. 51; BLOCH 1986, pp. 446-447, 1352; DELL’OMO 2000, p. 163 nr. 590. (1) Monastero di S. Maria de Iscala (a nord-ovest di Osilo, Sassari).
147. Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: [1098], novembre. Enrico, conte di Monte Sant’Angelo (concessione allo zio Giovanni abate, quale rappresentante di Montecassino, di un terreno sito al di fuori della città di Monte Sant’Angelo). Originale: AAM, caps. XI, nr. 40. Ed.: LECCISOTTI 1938, pp. 29-32 nr. 1. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 74 nr. 40; HOFFMANN 1972, p. 137 nr. 520; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 154 nr. 520.
In realtà si tratta di: 1101, aprile. Enrico, conte di Monte Sant’Angelo. Originale: AAM, caps. XI, nr. 60.
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Ed.: LECCISOTTI 1938, pp. 35-37 nr. 3. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 81-82 nr. 60; HOFFMANN 1972, p. 137 nr. 521; DORMEIER 1979, p. 49; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 154 nr. 521. (1) Chiesa di S. Nicola in Tiliata (Monte Sant’Angelo, Foggia). (2) Nel doc., in cui si fa riferimento al locale xenodochio, la chiesa di S. Michele Arcangelo (Monte Sant’Angelo, Foggia) non appare come oggetto di donazione.
148. 1092, marzo. Rodolfo II di Molise, conte di Boiano. Copia semplice del sec. XII: AAM, caps. XI, nr. 42. Cfr. supra nr. 143.
149. [979], ottobre. Marino II e Giovanni III, consoli di Fondi e Gaeta. Originale: AAM, caps. XI, nr. 43. Ed.: CDC 1887, pp. 137-140 nr. 74. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 75 nr. 43; HOFFMANN 1972, p. 110 nr. 171; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 1995, p. 59 nt. 8; DELL’OMO 2000, p. 104 nr. 171. (1) Cfr. supra nr. 137 nt. 1.
150. 1080, ottobre. Roberto il Guiscardo, duca di Puglia, Calabria e Sicilia. Originale: AAM, caps. XI, nr. 44. Ed.: LECCISOTTI 1957, pp. 66-68 nr. 13; MÉNAGER 1980, pp. 116-120 nr. 37. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 75 nr. 44; ENZENSBERGER 1971, p. 41 e nt. 29; ENZENSBERGER 1982, p. 41 e nt. 29; HOFFMANN 1972, p. 130 nr. 422; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 141 nr. 422. (1) In realtà nel sintagma «monte Sancti Nicandri» deve intendersi il monastero dei SS. Nicandro e Marciano posto alle falde del Monte Maggiore (nel territ. di Troia e non lontano da Orsara di Puglia, Foggia). (2) Chiesa di S. Nicola de Gallitianis, dipendenza dei SS. Nicandro e Marciano (vicino al torrente Cervaro, nei pressi di Orsara di Puglia). (3) Chiesa di S. Tommaso, dipendenza dei SS. Nicandro e Marciano (Troia).
151. Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche può trattarsi del solo doc. seguente: 1074, giugno. Raul Novello di Roccaguglielma. Originale: AAM, caps. XII, nr. 38. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 99 nr. 38; HOFFMANN 1972, p. 125 nr. 351; DORMEIER 1979, p. 41 nt. 121; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 2000, p. 132 nr. 351. (1) Chiesa di S. Giovanni de Pantano (non localizzata, nel territ. di Pontecorvo, Frosinone: cfr. CARROCCI 2010, pp. 101-103). (2) Chiesa di S. Lorenzo di Monte Casa Palombo (non localizzata, nel territ. di Pontecorvo: cfr. CARROCCI 2010, pp. 122-123). (3) In realtà, come si legge nell’originale, si tratta della ecclesia «Sanctè Marine de ipsu Colle» (non localizzata, nel territ. di Pontecorvo: cfr. CARROCCI 2010, pp. 187-189). (4) Chiesa di S. Biagio «da ispo Farnieto» (non localizzata, nel territ. di Pontecorvo: cfr. BLOCH 1986, p. 935 nr. 96 b).
152. Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche si tratta del doc. seguente: 1065/1066, febbraio. Giovanni Scinto, conte di Pontecorvo. Originale: AAM, caps. XII, nr. 23. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 169-170. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 93-94 nr. 23; HOFFMANN 1972, p. 131 nr. 432; DORMEIER 1979, p. 37; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 143 nr. 432. (1) Pastena (Frosinone). (2) Chiesa di S. Angelo in Merulano (nel territ. di Pico, Frosinone; cfr. CARROCCI 2010, pp. 63-64). (3) Chiesa di S. Biagio (Pico: cfr. CARROCCI 2010, pp. 80-81).
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153. 1370, marzo 4. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 1. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 116 nr. 1; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 215 nr. 26519.
154. 1366, novembre 20. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 2. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 116-117 nr. 2; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1980, p. 288 nr. 20132.
155. 1216, febbraio 29. Innocenzo III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 3. Cfr. POTTHAST 1874-1875, pp. 446-447 nr. 5083; LECCISOTTI 1964, p. 117 nr. 3.
156. 1370, maggio 9. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 4. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 117 nr. 4; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 241 nr. 26622.
157. (Doc. non identificato) Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: 1400, marzo 13. Bonifacio IX, papa (concessione all’abate Enrico Tomacelli della facoltà di assolvere dalle scomuniche e dalle altre pene, monaci, conversi, presbiteri, chierici ed altri che vi siano incorsi per i reati di omicidio, mutilazione, ferimento commessi nei confronti di chi abbia usurpato terre di pertinenza cassinese). Originale: AAM, caps. V, nr. 5 (cfr. LECCISOTTI 1964, p. 118 nr. 5).
158. Urbano V, papa. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari, senza alcuna indicazione dell’autore che emerge dalla sola lista qui edita: AAM, caps. V, nr. 6*. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 118 nr. 6*.
159. 1376, gennaio 21. Gregorio XI, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 7. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 118 nr. 7.
160. 1370, maggio 7. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 8. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 119 nr. 8; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 239 nr. 26615.
161. 1373, novembre 2. Gregorio XI, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 9. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 119 nr. 9.
162. 1370, maggio 7. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 10. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 119-120 nr. 10; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, pp. 239-240 nr. 26617.
163. Clemente III, papa. Doc. deperdito già prima dell’ultima distruzione di Montecassino (1944): AAM, caps. V, nr. 11**. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 120 nr. 11**.
164. 1370, marzo 3. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 12. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 120 nr. 12; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 213 nr. 26507.
165. [1182/1183], aprile 20. Lucio III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 13. Cfr. KEHR 1935, p. 189 nr. 297; LECCISOTTI 1964, p. 121 nr. 13. (1) San Germano, oggi Cassino (Frosinone).
166. (Doc. non identificato) Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: 1369, gennaio 4. Urbano V, papa (esortazione rivolta ai vassalli e sudditi di Montecassino affinché corrispondano il consueto tributo per la nomina del nuovo abate, che ne destinerà il ricavato al restauro degli edifici di detto monastero). Originale: AAM, caps. V, nr. 15 (cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 121-122 nr. 15).
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167. 1370, marzo 3. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 16. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 122 nr. 16; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 214 nr. 26510.
168. 1367, marzo 31. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 17. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 122-123 nr. 17.
169. 1370, marzo 4. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 18. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 123 nr. 18; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 215 nr. 26518.
170. 1221, ottobre 26. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 19. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 583 nr. 6713; PRESSUTTI 1888-1895 (II), p. 7 nr. 3557; LECCISOTTI 1964, p. 123 nr. 19.
171. 1237, settembre 5. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 20. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 885 nr. 10434 (agosto 24); AUVRAY 1907 (II), coll. 759-760 nr. 3860; LECCISOTTI 1964, p. 124 nr. 20.
172. 1053, maggio 29. Leone IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 22. Cfr. KEHR 1935, p. 136 nr. 69; LECCISOTTI 1964, p. 125 nr. 22; HOFFMANN 1972, p. 99 nr. 25; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, pp. 85-86 nr. 25.
173. Alessandro III, papa. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari, senza alcuna indicazione dell’autore che emerge dalla sola lista qui edita: AAM, caps. V, nr. 23*. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 125 nr. 23*.
174. 1188, novembre 19. Clemente III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 24. Cfr. KEHR 1935, p. 190 nr. 302; LECCISOTTI 1964, p. 125 nr. 24.
175. [1176-1178], febbraio 25. Alessandro III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 28. Cfr. KEHR 1935, p. 186 nr. 282; LECCISOTTI 1964, p. 127 nr. 28.
176. 1370, aprile 3. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 26. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 126 nr. 26; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 230 nr. 26580.
177. 1370, gennaio 5. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 27. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 126 nr. 27.
178. (Doc. non identificato) 179. 1369, dicembre 13. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 29. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 127 nr. 29; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 327 nr. 26917.
180. 1222, novembre 20. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 31. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 597 nr. 6894; PRESSUTTI 1888-1895 (II), p. 100 nr. 4151; LECCISOTTI 1964, p. 128 nr. 31.
181. [1181], marzo 23. Alessandro III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 30. Cfr. KEHR 1935, p. 188 nr. 290; LECCISOTTI 1964, pp. 127-128 nr. 30.
182. [1100], gennaio 9. Pasquale II, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 32. Cfr. HOLTZMANN 1962, p. 248 nr. 1; LECCISOTTI 1964, pp. 128-129 nr. 32; HOFFMANN 1972, p. 100 nr. 42; BLOCH 1986, p. 1345; DELL’OMO 2000, p. 88 nr. 42. (1) Cfr. supra nr. 144 nt. 1.
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183. 1363, maggio 28. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 33. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 129 nr. 33; HAYEZ 1964-1972, p. 188 nr. 6312.
184. 1353, aprile 21. Innocenzo VI, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 34. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 129 nr. 34.
185. Innocenzo VI, papa. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari, senza alcuna indicazione dell’autore che emerge dalla sola lista qui edita: AAM, caps. V, nr. 35*. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 129 nr. 35*.
186. Giovanni XIII (?), papa. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari, senza alcuna indicazione dell’autore che, pur dubbio a mio avviso, emerge dalla sola lista qui edita: AAM, caps. V, nr. 36*. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 129 nr. 36*.
187. 1255, febbraio 18. Alessandro IV, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 37. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 129 nr. 37.
188. Due sono i cardinali identificabili con l’appellativo di Rogerius: R., documentato per la prima volta come card. suddiacono il 1° agosto 1089 (cfr. HÜLS 1977, p. 253); o, più probabilmente, R. (†1213), promosso card. presbitero del tit. di S. Anastasia nel 1205 (EUBEL 19132, pp. 4, 39). Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari, senza alcuna indicazione dell’autore che emerge dalla sola lista qui edita: AAM, caps. V, nr. 38*. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 130 nr. 38*.
189. 1096, marzo 31. Urbano II, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 39. Ed.: BLOCH 1986, pp. 1016-1022 nr. 5 b. Cfr. KEHR 1935, p. 153 nr. 138; LECCISOTTI 1964, p. 130 nr. 39; HOFFMANN 1972, p. 102 nr. 74; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 91 nr. 74. (1) Monastero di St-Maur-de-Glanfeuil (Le Thoureil, Maine-et-Loire, Francia). (2) Monastero di St-Maur-des-Fossés (St-Maur-des-Fossés, Val-de-Marne, Francia).
190. 1208, luglio 25. Innocenzo III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 40. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 298 nr. 3471; LECCISOTTI 1964, p. 131 nr. 40.
191. 1373, luglio 28. Gregorio XI, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 41. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 131-132 nr. 41.
192. 1390, giugno 12. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 42. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 132 nr. 42. (1) Pietro de Tartaris da Roma, abate di Montecassino (1374-1395).
193. 1370, agosto 1°. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 43. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 132 nr. 43; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 410 nr. 27225.
194. 1373, luglio 28. Gregorio XI, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 44. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 132-133 nr. 44.
195. 1373, luglio 28. Gregorio XI, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 45. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 132-133 nr. 45.
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196. 1254, dicembre 24. Alessandro IV, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 46. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 1287 nr. 15607; BOUREL DE LA RONCIÈRE 1902, p. 4 nr. 10; LECCISOTTI 1964, p. 133 nr. 46.
197. 1208, luglio 25. Innocenzo III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 47. Altro esemplare del doc. nr. 190 supra. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 134 nr. 47.
198. (Doc. non identificato) Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: 1433, maggio 26. Eugenio IV, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 48 (cfr. LECCISOTTI 1964, p. 134 nr. 48).
199. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 49. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 134 nr. 49.
200. 1234, febbraio 18. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 50. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 804 nr. 9411; AUVRAY 1896 (I), col. 991 nr. 1815; LECCISOTTI 1964, p. 135 nr. 50.
201. 1234, febbraio 15. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 51. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 803 nr. 9405; AUVRAY 1896 (I), col. 988 nr. 1806; LECCISOTTI 1964, p. 135 nr. 51. (1) Cfr. supra nr. 165 nt. 1.
202. 1231, marzo 18. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 52. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 745 nr. 8683; LECCISOTTI 1964, pp. 135-136 nr. 52.
203. 1227, aprile 6. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 53. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 682 nr. 7875; LECCISOTTI 1964, p. 136 nr. 53. (1) Chiesa di S. Paolo della Foresta (nel territ. di Pontecorvo, Frosinone: cfr. CARROCCI 2010, pp. 232-235).
204. 1234, febbraio 15. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 54. Cfr. AUVRAY 1896 (I), coll. 990-991 nr. 1813; LECCISOTTI 1964, pp. 136-137 nr. 54.
205. 1406, febbraio 1°. Innocenzo VII, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 55. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 137 nr. 55.
206. 1383, giugno 20. Urbano VI, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 56. Ed.: CDC 1955, pp. 31-32 nr. 575. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 137 nr. 56. (1) Ligorio Carafa, nobile napoletano.
207. 1268, gennaio 28. Clemente IV, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 57. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 1630 nr. 20248; LECCISOTTI 1964, p. 138 nr. 57.
208. 1227, febbraio 19. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 58. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 660 nr. 7666; PRESSUTTI 1888-1895 (II), p. 480 nr. 6246; LECCISOTTI 1964, p. 138 nr. 58. (1) Cfr. supra nr. 203 nt. 1.
209. 1224, dicembre 18. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 59. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 632 nr. 7333; PRESSUTTI 1888-1895 (II), p. 291 nr. 5228; LECCISOTTI 1964, pp. 138-139 nr. 59.
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(1) Castellio de Baroncello (nel territ. di Troia, Foggia). (2) Cfr. supra nr. 103 nt. 1.
210. 1255, febbraio 7. Alessandro IV, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 60. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 1293 nr. 15675; LECCISOTTI 1964, p. 139 nr. 60.
211. Celestino III, papa. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari, senza alcuna indicazione dell’autore che emerge dalla sola lista qui edita: AAM, caps. V, nr. 61*. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 139 nr. 61*. (1) Castrum di S. Nicola di Sellettano (oggi Sartano, fraz. di Torano Castello, Cosenza).
212. 1197, gennaio 4. Celestino III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 62. Cfr. KEHR 1935, pp. 192-193 nr. 317; LECCISOTTI 1964, pp. 139-140 nr. 62. (1) Roccadevandro (Caserta).
213. 1189, gennaio 27. Clemente III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 63. Ed.: KEHR 1899, p. 87 nr. 38; LECCISOTTI 1957, pp. 104-105 nr. 35. Cfr. KEHR 1935, p. 191 nr. 308; LECCISOTTI 1964, p. 140 nr. 63. (1) Cfr. supra nr. 209 nt. 1. (2) Cfr. supra nr. 103 nt. 1.
214. 1188, dicembre 13. Clemente III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 64. Cfr. KEHR 1935, p. 191 nr. 307; LECCISOTTI 1964, pp. 140-141 nr. 64.
215. 1216, febbraio 29. Innocenzo III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 65. Cfr. POTTHAST 1874-1875, pp. 446-447 nr. 5083; LECCISOTTI 1964, p. 141 nr. 65.
216. 1402, settembre 25. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 66. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 141 nr. 66.
217. 1379, febbraio 1°. Urbano VI, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 67. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 142 nr. 67.
218. 1232, settembre 17. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 68. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 772 nr. 9003; LECCISOTTI 1964, p. 142 nr. 68. (1) Stefano, cappellano pontificio. (2) Rocca Ianula (Cassino, Frosinone). (3) Cfr. supra nr. 165 nt. 1.
219. 1406, gennaio 25. Innocenzo VII, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 69. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 142-143 nr. 69.
220. 1352, ottobre 26. Clemente VI, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 70. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 143 nr. 70; DELL’OMO 2004, pp. 291, 295. (1) Giacomo di Pignataro, capitano di ventura.
221. 1217, giugno 20. Onorio III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 71. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 489 nr. 5565; LECCISOTTI 1964, pp. 143-144 nr. 71 (giugno 22). (1) Chiesa di S. Quirico (Ortucchio, L’Aquila). (2) Monastero di S. Angelo di Valleluce (Sant’Elia Fiumerapido, Frosinone).
222. 1420, luglio 12. Martino V, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 72. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 144 nr. 72. (1) Nelle pertinenze di Sessa Aurunca (Caserta). (2) Cocuruzzo, fraz. di Roccadevandro (Caserta).
223. 1400, marzo 14. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 73.
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Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 144 nr. 73.
224. Martino V, papa. Doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari, senza alcuna indicazione dell’autore che emerge dalla sola lista qui edita: AAM, caps. V, nr. 74*. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 145 nr. 74*.
225. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 75. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 145 nr. 75.
226. [1183], settembre 5. Lucio III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 76. Cfr. KEHR 1935, p. 189 nr. 298; LECCISOTTI 1964, p. 145 nr. 76.
227. [1181], marzo 23. Alessandro III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 77. Cfr. KEHR 1935, p. 187 nr. 289; LECCISOTTI 1964, pp. 145-146 nr. 77. (1) Cfr. supra nr. 209 nt. 1. (2) Cfr. supra nr. 103 nt. 1.
228. 1205, dicembre 9. Innocenzo III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 78. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 224 nr. 2619; LECCISOTTI 1964, p. 146 nr. 78.
229. 1197, dicembre 19. Celestino III, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 79. Cfr. KEHR 1935, p. 193 nr. 318; LECCISOTTI 1964, p. 146 nr. 79.
230. 1390, settembre 22. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 81. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 146 nr. 81.
231. 1400, febbraio 16. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 82. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 147-148 nr. 82.
232. 1228, febbraio 25. Gregorio IX, papa. Originale: AAM, caps. V, nr. 83. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 701 nr. 8134; LECCISOTTI 1964, p. 148 nr. 83.
233. 1317, marzo 18. Giovanni XXII, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 11. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 168 nr. 11.
234. 1317, marzo 18. Giovanni XXII, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 12. Altro esemplare del doc. nr. 233 supra. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 168 nr. 12.
235. 1308, marzo 28. Clemente V, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 13. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 169 nr. 13.
236. 1308, marzo 27. Clemente V, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 14. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 169 nr. 14. (1) Chiesa di S. Bartolomeo (Pontecorvo, Frosinone: cfr. CARROCCI 2010, pp. 49-51).
237. 1370, maggio 2. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 15. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 169 nr. 15; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 141 nr. 26179.
238. 1367, settembre 17. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 16. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 169 nr. 16; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, pp. 273-274 nr. 20092.
239. 1370, marzo 4. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 17. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 169 nr. 17; HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983, p. 216 nr. 26520.
240. 1372, ottobre 28. Gregorio XI, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 18.
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IL PIÙ ANTICO INVENTARIO DELL’ARCHIVIO DI MONTECASSINO
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Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 170-171 nr. 18.
241. 1375, dicembre 30. Gregorio XI, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 19. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 171 nr. 19.
242. 1373, giugno 15. Gregorio XI, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 20. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 171 nr. 20.
243. [1139], luglio 6. Innocenzo II, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 22. Cfr. KEHR 1935, p. 178 nr. 248; LECCISOTTI 1964, p. 171 nr. 22.
244. 1296, febbraio 15. Bonifacio VIII, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 23. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 171 nr. 23. (1) Bernard de Montmirat, vescovo di Tripoli, amministratore di Montecassino: cfr. DELL’OMO 1999, p. 300. (2) Cfr. supra nr. 103 nt. 1.
245. 1363, marzo 15. Urbano V, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 24. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 171 nr. 24.
246. 1354, giugno 12. Innocenzo VI, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 25. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 173-174 nr. 25. (1) Monastero di S. Lorenzo (Aversa, Caserta).
247. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 26. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 173-174 nr. 26.
248. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 27. Cfr. LECCISOTTI 1964, pp. 173-174 nr. 27.
249. Gregorio XI, papa. Doc. deperdito già prima dell’ultima distruzione di Montecassino (1944): AAM, caps. VI, nr. 28**. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 174 nr. 28**.
250. 1400, febbraio 1°. Bonifacio IX, papa. Originale: AAM, caps. VI, nr. 29. Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 175 nr. 29.
251. † 997, febbraio 20. Ottone III, imperatore. Doc. deperdito già prima dell’ultima distruzione di Montecassino (1944): AAM, caps. XIV, nr. 1**. Ed.: Dipl. Ott. III 1888-1893, pp. 872-873 nr. 436 (dalla copia del Registrum Petri Diaconi, ff. 75v-76r nr. 168). Cfr. UHLIRZ (– BÖHMER) 1956, p. 837 nr. 1471; LECCISOTTI 1965, p. 123 nr. 1**; HOFFMANN 1972, p. 109 nr. 168; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 104 nr. 168. (1) Gaeta (Latina). (2) Fondi (Latina). (3) Sessa Aurunca (Caserta). (4) Teano (Caserta). (5) Arpino (Frosinone). (6) Arce (Frosinone). (7) Picinisco (Frosinone). (8) Atina (Frosinone). (9) Vicalvi (Frosinone). (10) Settefrati (Frosinone). (11) Forlì del Sannio (Campobasso). (12) Schiavi d’Abruzzo (Chieti). (13) Calenum: Carinola (Caserta). (14) Sora (Frosinone). (15) Aquino (Frosinone).
252. 1019/1020, luglio 13. Enrico II, imperatore. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 2. Ed.: Dipl. Heinr. II 1900, pp. 514-515 nr. 400. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 123-124 nr. 2; GRAFF (– BÖHMER) 1971, pp. 1065-1066 nr. 1941; HOFFMANN 1972, p. 106 nr. 130; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 98 nr. 130.
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(1) S. Urbano, oggi Alvito (Frosinone). (2) Cfr. supra nr. 251 nt. 9.
253. 1024, aprile 19. Enrico II, imperatore. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 3. Ed.: Dipl. Heinr. II 1900, pp. 650-651 nr. 508. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 124 nr. 3; GRAFF (– BÖHMER) 1971, p. 1114 nr. 2060; HOFFMANN 1972, p. 106 nr. 132; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 98 nr. 132. (1) Cfr. supra nr. 212 nt. 1.
254. 1194, dicembre 25. Enrico VI, imperatore. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 4. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 278-279. Cfr. CLEMENTI 1955, p. 129 nr. 35; LECCISOTTI 1965, pp. 124-125 nr. 4; BAAKEN (– BÖHMER) 1972, p. 159 nr. 389. (1) Probabilmente da Mons de Albeto, in posizione più elevata rispetto al castrum di S. Urbano, poi Alvito (Frosinone): cfr. supra nr. 252 nt. 1. (2) Cfr. supra nr. 251 nt. 8. (3) Castrum di Rocca Albano (Rocca degli Alberi), nella Valle di Comino, sul versante orientale del territ. atinate.
255. 1022. Enrico II, imperatore. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 5. Ed.: Dipl. Heinr. II 1900, pp. 603-604 nr. 474. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 125 nr. 5; GRAFF (– BÖHMER) 1971, p. 1097 nr. 2022; HOFFMANN 1972, p. 106 nr. 128; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 97 nr. 128. (1) Cfr. supra nr. 212 nt. 1.
256. 1105, gennaio 13. Roberto, conte di Caiazzo. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 6. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 222-223; TOSTI 18892, pp. 238-239. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 125126 nr. 6; HOFFMANN 1972, p. 139 nr. 542; LOUD 1981 b, p. 202 e nt. 16, tav. nr. 3; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 157 nr. 542. (1) Pontecorvo (Frosinone).
257. 1126, agosto. Guglielmo, duca di Puglia. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 7. Ed.: LECCISOTTI 1957, pp. 91-92 nr. 26. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 126 nr. 7; ENZENSBERGER 1971, pp. 44 e nt. 85, 86 e nt. 94; HOFFMANN 1972, p. 141 nr. 575; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 161 nr. 575. (1) Cfr. supra nr. 209 nt. 1.
258. [1017], maggio 9. Pandolfo II e Pandolfo IV, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 8. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 106-107. Cfr. VOIGT 1902, p. 71 nr. *215; POUPARDIN 1907, p. 128 nr. 174; GALLO 1937, p. 67 nr. 77; LECCISOTTI 1965, p. 126 nr. 8; HOFFMANN 1972, p. 118 nr. 257 C; BLOCH 1986, p. 1348; DELL’OMO 2000, p. 121 nr. 257 C. (1) Cfr. supra nr. 251 nt. 9.
259. Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche qui segue: doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari: AAM caps. XIV, nr. 9*. Nella lista qui edita l’item corrisponde a: [1017], maggio 5. Pandolfo II e Pandolfo IV, principi di Capua (donazione del castello e del centro abitato di S. Urbano [Alvito]). Originale: AAM, caps. XI, nr. 54. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 106-107. Cfr. VOIGT 1902, p. 71 nr. *214; POUPARDIN 1907, pp.
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127-128 nr. 173; GALLO 1937, p. 67 nr. 76; LECCISOTTI 1965, p. 79 nr. 54; HOFFMANN 1972, p. 119 nr. 258; BLOCH 1986, p. 1348; DELL’OMO 2000, p. 121 nr. 258. (1) Cfr. supra nr. 252 nt. 1.
260. 1105, gennaio 25. Riccardo II, principe di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 10. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 223-224. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 127 nr. 10; ENZENSBERGER 1971, p. 46 e nt. 16; HOFFMANN 1972, p. 136 nr. 511; LOUD 1981 a, p. 133 nr. 79; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 153 nr. 511. (1) Cfr. supra nr. 256 nt. 1.
261. [1054], dicembre. Pandolfo V e Landolfo VI, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 11. Ed.: GATTOLA 1734, p. 151. Cfr. VOIGT 1902, p. 71 nr. *225; POUPARDIN 1907, p. 131 nr. 182; GALLO 1937, p. 68 nr. 86; LECCISOTTI 1965, p. 127 nr. 11; HOFFMANN 1972, p. 126 nr. 366; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 2000, p. 134 nr. 366. (1) Capua (Caserta). (2) Fiume Volturno. (3) San Biagio Saracinesco (Frosinone).
262. [1059/1060], ottobre. Marino, conte di Traetto. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 12. Ed.: CDC 1891, pp. 31-33 nr. 210. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 128 nr. 12; HOFFMANN 1972, p. 131 nr. 436; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 143 nr. 436. (1) Traetto, oggi Minturno (Latina). (2) Le Fratte, oggi Ausonia (Frosinone).
263. 1065, gennaio 19. Riccardo I e Giordano I, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 13. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 165-166. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 128 nr. 13; ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 7; LOUD 1981 a, p. 120 nr. 6. (1) Cfr. supra nr. 262 nt. 2. (2) Capriati al Volturno (Caserta).
264. 1078, settembre 23. Giordano I, principe di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 14. Ed.: GATTOLA 1734, p. 187. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 129 nr. 14; ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 9; HOFFMANN 1972, p. 129 nr. 415; LOUD 1981 a, p. 123 nr. 21; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 140 nr. 415. (1) Suio, fraz. di Castelforte (Latina).
265. 1125, febbraio. Giordano II, principe di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 15. Ed.: CDC 1891, pp. 223-226 nr. 306. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 129 nr. 15; ENZENSBERGER 1971, p. 46 e ntt. 29, 31; HOFFMANN 1972, p. 143 nr. 597; LOUD 1981 a, p. 140 nr. 133; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 164 nr. 597. (1) Pico (Frosinone).
266. 1066, giugno 28. Riccardo I e Giordano I, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 16. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 166-167. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 130 nr. 16; ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 9; HOFFMANN 1972, p. 129 nr. 409; LOUD 1981 a, pp. 121-122 nr. 12; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 139 nr. 409. (1) Cfr. supra nr. 100 nt. 4.
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267. 1080, settembre 19. Giordano I, principe di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 17. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 184-186. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 130 nr. 17; ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 12; HOFFMANN 1972, p. 129 nr. 412; LOUD 1981 a, p. 124 nr. 24; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 140 nr. 412. (1) Cfr. supra nr. 212 nt. 1. (2) Cfr. supra nr. 251 nt. 9. (3) Cfr. supra nr. 252 nt. 1. (4) Cfr. supra nr. 251 nt. 8. (5) Cfr. supra nr. 100 nt. 4. (6) Cfr. supra nr. 100 nt. 1. (7) Castrum di Mortola (nel territ. di Roccadevandro, Caserta). (8) Cfr. supra nr. 222 nt. 2. (9) Torre longobarda di Pandolfo I Capodiferro, alla foce del Garigliano, sulla sponda sinistra. (10) Cfr. supra nr. 262 nt. 2. (11) Cfr. supra nr. 95 nt. 1. (12) Monastero di S. Pietro di Scafati (San Pietro, fraz. di Scafati, Salerno), dipendente da S. Angelo in Formis.
268. [994], dicembre 10. Laidolfo, principe di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 18. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 89-90. Cfr. VOIGT 1902, p. 70 nr. *207; POUPARDIN 1907, p. 125 nr. 106; GALLO 1937, p. 67 nr. 69; LECCISOTTI 1965, pp. 130-131 nr. 18; HOFFMANN 1972, pp. 116-117 nr. 235; BLOCH 1986, p. 1348; DELL’OMO 2000, p. 117 nr. 235. (1) Cfr. supra nr. 105 nt. 1. (2) Chiesa di S. Angelo in Asprano (Castrocielo, Frosinone).
269. 1058, novembre 12. Riccardo I e Giordano I, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 19. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 161-163. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 131 nr. 19; HOFFMANN 1972, p. 129 nr. 405; LOUD 1981 a, p. 119 nr. 2; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 139 nr. 405. (1) Cfr. supra nr. 212 nt. 1. (2) Cfr. supra nr. 252 nt. 1. (3) Cfr. supra nr. 251 nt. 9. (4) Cfr. supra nr. 251 nt. 8. (5) Cfr. supra nr. 212 nt. 1. (6) Carnello (idronimo con il quale si indica il fiume Liri).
270. 1114, ottobre. Guglielmo, duca di Puglia. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 20. Ed.: LECCISOTTI 1957, pp. 85-87 nr. 23. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 131 nr. 20; ENZENSBERGER 1971, pp. 43 e nt. 57, 44 e nt. 70, 86 e nt. 94; HOFFMANN 1972, p. 141 nr. 574; BRÜHL 1978, pp. 169, 172 (il doc. è valutato come pseudo-originale); LOUD 1981 a, p. 136 nr. 103 a; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 161 nr. 574. (1) Cfr. supra nr. 92 nt. 2. (2) Cfr. supra nr. 209 nt. 1. (3) Troia (Foggia). (4) Chiesa di S. Maria dell’Isola (Tropea, Catanzaro).
271. [1105], settembre. Ugo I, conte di Molise. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 21. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 224-225. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 132 nr. 21; HOFFMANN 1972, p. 109 nr. 164; DORMEIER 1979, p. 50 nt. 191; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 103 nr. 164. (1) Viticuso (Frosinone). (2) Chiesa di S. Pietro (Sesto Campano, Isernia). (3) Nel doc. è del tutto assente qualsiasi riferimento ad una tale chiesa. (4) Monastero di S. Benedetto (Monteroduni, Isernia).
272. 1066, luglio 4 (cfr. LOUD 1981 a, infra). Riccardo I e Giordano I, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 22. Ed.: GATTOLA 1733, pp. 312-313. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 132 nr. 22 (giugno 28); ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 9; HOFFMANN 1972, p. 129 nr. 411; DORMEIER 1979, p. 38; LOUD 1981 a, p. 122 nr. 13; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 140 nr. 411.
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(1) Monastero di S. Salvatore (Cocuruzzo. fraz. di Roccadevandro [Caserta]).
273. 1128, giugno. Ugo II, conte di Molise. Originale: AAM, caps. XCVIII, Larino, nr. 5 (già caps. XIV, nr. 23, quindi CXII, fasc. VII, nr. 49: sulla definitiva modifica di segnatura archivistica cfr. DELL’OMO 2003, p. CCVIII). Ed.: LECCISOTTI 1947, pp. 89-90 nr. 2. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 133 nr. 23; HOFFMANN 1972, p. 143 nr. 606; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 165 nr. 606. (1) Serracapriola (Foggia).
274. 1040, aprile. Ugo, figlio di Docibile. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 24. Ed.: CDC 1887, pp. 344-346 nr. 173. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 133 nr. 24; HOFFMANN 1972, p. 124 nr. 337; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 2000, pp. 130-131 nr. 337. (1) Cfr. supra nr. 264 nt. 1. (2) Cfr. supra nr. 251 nt. 3.
275. [1060], ottobre. Marino, conte di Traetto. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 25. Ed.: CDC 1891, pp. 31-33 nr. 210. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 133 nr. 25. (1) Cfr. supra nr. 262 nt. 1. (2) Cfr. supra nr. 262 nt. 2. (3) Spigno Saturnia (Latina).
276. [1058], gennaio. Marino, conte di Traetto. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 26. Ed.: CDC 1891, pp. 17-19 nr. 204. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 134 nr. 26; HOFFMANN 1972, p. 128 nr. 392; DORMEIER 1979, p. 33; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 1995, p. 103 nt. 3; DELL’OMO 2000, p. 137 nr. 392. (1) Cfr. supra nr. 262 nt. 1. (2) Cfr. supra nr. 262 nt. 2. (3) Cfr. supra nr. 275 nt. 3. (4) Monastero di S. Martino in Aquamundula (Minturno, Latina). (5) Monastero di S. Marino (Ausonia, Frosinone).
277. [961], luglio 11. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo III, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XIV, nr. 27. Ed.: GATTOLA 1733, pp. 307-308. Cfr. VOIGT 1902, p. 67 nr. *151; POUPARDIN 1907, p. 103 nr. 106; GALLO 1937, p. 65 nr. 44; LECCISOTTI 1965, p. 134 nr. 27. (1) Cfr. supra nr. 272 nt. 1.
278. † [523/526-529], giugno 17. Tertullo, patrizio romano. Copia di pseudo-originale: AAM, caps. XIII, nr. 1. Ed.: BLOCH 1988, pp. 109-111. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 105 nr. 1; HOFFMANN 1972, p. 104 nr. 106; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 1996, p. 219; DELL’OMO 2000, p. 95 nr. 106.
279. [1000], febbraio 2. Gregorio Tracanioto, catepano d’Italia. Originale: AAM, [aula II ]caps. XVIII, nr. 5 (già [aula III] caps. XIII, nr. 3). Ed.: LECCISOTTI 1937, pp. 65-67 nr. 19. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 106 nr. 3; LECCISOTTI 1971, p. 7 nr. 5; HOFFMANN 1972, p. 107 nr. 141; BLOCH 1986, p. 1346; DANELLA 1998, pp. 367, 370 e passim; DELL’OMO 2000, p. 99 nr. 141.
280. [835], febbraio 21. Lotario I, imperatore. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 4. Ed.: Dipl. Lo. I 1966, pp. 96-98 nr. 24.; CLA 1999, pp. 38-40 nr. 5. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 106 nr. 4; HOFFMANN 1972, p. 105 nr. 111; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 95 nr. 111; Regesti 2002, p. 624 nr. S 113.
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(1) Località fra San Benedetto dei Marsi (L’Aquila) e Pescina (L’Aquila). (2) San Benedetto dei Marsi.
281. [928], aprile 25. Landolfo I e Atenolfo II, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 5. Ed.: GATTOLA 1734, p. 47. Cfr. VOIGT 1902, p. 66 nr. *133; POUPARDIN 1907, p. 95 nr. 83; GALLO 1937, p. 64 nr. 26; LECCISOTTI 1965, pp. 106-107 nr. 5; HOFFMANN 1972, p. 114 nr. 206; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 112 nr. 206. (1) Pietramelara (Caserta). (2) Pantano, casale (nel territ. di Benevento).
282. [980], gennaio 27. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo IV, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 6. Ed.: LECCISOTTI 1937, pp. 58-59 nr. 14. Cfr. VOIGT 1902, p. 68 nr. *176; POUPARDIN 1907, p. 114 nr. 135; GALLO 1937, p. 62 nr. 47; LECCISOTTI 1965, p. 107 nr. 6; HOFFMANN 1972, p. 115 nr. 213; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 113 nr. 213. (1) Fiume Lauro nei pressi di Lesina (Foggia). (2) Lesina.
283. [1023], giugno 2. Pandolfo VI e Giovanni, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 7. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 129-130. Cfr. VOIGT 1902, p. 71 nr. *218; POUPARDIN 1907, p. 129 nr. 177; GALLO 1937, p. 67 nr. 79; LECCISOTTI 1965, pp. 107-108 nr. 7; HOFFMANN 1972, p. 120 nr. 280; BLOCH 1986, p. 1348; DELL’OMO 2000, p. 123 nr. 280. (1) Lago di Patria (nel territ. di Giugliano in Campania, Napoli).
284. [951], agosto 30. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo II, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 8. Ed.: GALLO 1937, pp. 4-6. Cfr. VOIGT 1902, p. 67 nr. *143; POUPARDIN 1907, p. 100 nr. 96; LECCISOTTI 1965, p. 108 nr. 8.
285. 1081, settembre 16. Giordano I, principe di Capua. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 9. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 187-188. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 108 nr. 9; ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 12; HOFFMANN 1972, p. 130 nr. 417; LOUD 1981 a, p. 124 nr. 26; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 141 nr. 417. (1) Dei tre laghi di un tempo, quello «maggiore» (Aquino, Frosinone).
286. [968], ottobre 7. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo III, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 10. Ed.: GATTOLA 1734, p. 65. Cfr. VOIGT 1902, p. 68 nr. *166; POUPARDIN 1907, p. 110 nr. 123; GALLO 1937, p. 66 nr. 54; LECCISOTTI 1965, p. 109 nr. 10. (1) Cfr. supra nr. 251 nt. 4.
287. 1085, novembre 18. Giordano I, principe di Capua. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 11. Ed.: GATTOLA 1734, p. 192. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 109 nr. 11; ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 12; HOFFMANN 1972, p. 129-130 nr. 416; LOUD 1981 a, p. 125 nr. 32; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 140 nr. 416. (1) Nelle pertinenze di Sessa Aurunca (Caserta). (2) Cfr. supra nr. 267 nt. 9.
288. [966], agosto 11. Pandolfo I Capodiferro e Landolfo III, principi di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 12.
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Ed.: GATTOLA 1734, pp. 62-63. Cfr. VOIGT 1902, p. 67 nr. *161; POUPARDIN 1907, p. 108 nr. 118; GALLO 1937, pp. 4-6, 66 nr. 50; LECCISOTTI 1965, pp. 109-110 nr. 12. (1) Cfr. supra nr. 283 nt. 1.
289. 1067, settembre. Riccardo I e Giordano I, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 13. Ed.: GATTOLA 1733, p. 158. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 110 nr. 13; ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 9, LOUD 1981 a, p. 122 nr. 14. (1) Idronimo relativo al fiume Peccia, affluente di sinistra del Garigliano.
290. 1132, marzo. Roberto II, principe di Capua. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 14. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 245-246. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 110-111 nr. 14; LOUD 1981 a, p. 142 nr. 145.
291. 1104, dicembre. Ruggero I (Borsa), duca di Puglia. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 15. Ed.: LECCISOTTI 1957, pp. 71-73 nr. 16. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 111 nr. 15; HOFFMANN 1972, p. 136 nr. 514; DELL’OMO 2000, p. 153 nr. 514. (1) Cfr. supra nr. 270 nt. 3.
292. 1098. Ruggero I (Borsa), duca di Puglia. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 16. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 216-217; TOSTI 18892, pp. 223-224; GUERRIERI 1899, p. 66 nr. 9. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 111 nr. 16. (1) Cfr. supra nr. 211 nt. 1.
293. 1104, dicembre. Ruggero I (Borsa), duca di Puglia. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 17. Ed.: GATTOLA 1733, pp. 158-159; LECCISOTTI 1957, pp. 73-74 nr. 17. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 112 nr. 17. (1) Località presso Castellio de Baroncello: cfr. supra nr. 209 nt. 1.
294. 1113, aprile. Roberto II, conte di Loritello. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 18. Ed.: GATTOLA 1733, pp. 344-345 (parziale). Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 112 nr. 318; HOFFMANN 1972, pp. 141-142 nr. 581; DORMEIER 1979, pp. 189-190; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 162 nr. 581. (1) San Martino in Pensilis (Campobasso).
295. 1098, febbraio. Berardo II, conte di Sangro. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 19. Ed.: GATTOLA 1734, p. 218. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 112-113 nr. 19; HOFFMANN 1972, p. 138 nr. 536; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 156 nr. 536. (1) Mons Acze, nella zona montuosa tra San Donato Val di Comino (Frosinone) e Civitella Alfedena (L’Aquila), ad est di Forca d’Acero: Chronica (ed. HOFFMANN 1980), p. 488 nt. 7.
296. 1098. Ruggero I, conte di Sicilia. Copia del sec. XII in forma di originale (dal Registrum Petri Diaconi, f. 215v nr. 513): AAM, caps. XIII, nr. 20. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 113 nr. 20; HOFFMANN 1972, p. 136 nr. 513; BLOCH 1986, pp. 220
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(«a partly forged copy» del doc. edito da GATTOLA: cfr. nr. 292), 1351; DELL’OMO 2000, p. 153 nr. 513. (1) Cfr. supra nr. 211 nt. 1.
297. [998], novembre. Guido, conte di Pontecorvo. Copia semplice del sec. XI: AAM, caps. XIII, nr. 21. Ed.: GATTOLA 1733, pp. 293-294. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 113 nr. 21. (1) Cfr. supra nr. 203 nt. 1.
298. 1098 (?), febbraio. Rocca, contessa di San Benedetto Ullano. Copia del sec. XII in forma di originale (dal Registrum Petri Diaconi, f. 217r-v nr. 518): AAM, caps. XIII, nr. 22. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 215-216; GUERRIERI 1899, pp. 63-66 nr. 8. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 113-114 nr. 22; HOFFMANN 1972, p. 137 nr. 518; DORMEIER 1979, p. 89 e nt. 396; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 153 nr. 518. (1) Cfr. supra nr. 211 nt. 1.
299. 1114, aprile. Ugo Sorevo, signore di Mignano. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 23. Ed.: GATTOLA 1733, p. 159. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 114 nr. 23. (1) Mignano Monte Lungo (Caserta).
300. 1194, dicembre 25. Enrico VI, imperatore. Originale: AAM, caps. VI, nr. 1. Ed.: GATTOLA 1734, p. 280. Cfr. CLEMENTI 1955, pp 130-131 nr. 37; LECCISOTTI 1964, p. 164 nr. 1; BAAKEN (– BÖHMER) 1972, p. 160 nr. 391.
301. 1216, maggio. Federico II, imperatore. Originale: AAM, caps. VI, nr. 3. Ed.: HUILLARD-BRÉHOLLES I, II 1852, pp. 466-467. Cfr. FICKER (– BÖHMER) 1881, p. 210 nr. 864; LECCISOTTI 1964, p. 165 nr. 3.
302. 983, agosto 27. Ottone II, imperatore. Originale: AAM, caps. VI, nr. 2. Ed.: Dipl. Ott. II 1888-1893, p. 374 nr. 317. Cfr. MIKOLETZKY (– BÖHMER) 1950, p. 402 nr. 918; LECCISOTTI 1964, p. 165 nr. 2; HOFFMANN 1972, pp. 105-106 nr. 122; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 97 nr. 122.
303. (Doc. non identificato) Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche potrebbe corrispondere a: AAM, caps. XIII, nr. 27* (doc. deperdito, segnalato come tale già negli antichi regesti e inventari). Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 115 nr. 27*. (1) Cfr. supra nr. 261 nt. 1.
304. † 1147, dicembre 12. Ruggero II, re di Sicilia. Pseudo-originale: AAM, caps. XIII, nr. 28. Ed.: GATTOLA 1734, p. 255; TOSTI 18892, pp. 270-271. Cfr. KEHR 1902, p. 330 nt. 2; LECCISOTTI 1965, p. 115 nr. 28; BRÜHL 1978, specialmente pp. 169-172, tav. XX; BRÜHL 1987, pp. 211-214 nr. 74; LOUD 2009, p. 809.
305. [823], marzo. Arniperto. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 29. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 27-28; CITARELLA – WILLARD 1983, pp. 126-128; CLA 1999, pp. 33-36 nr. 4. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 115-116 nr. 29; HOFFMANN 1972, p. 111 nr. 189; BLOCH 1986, p. 1347; DELL’OMO 2000, p. 107 nr. 189; Regesti 2002, pp. 304-305 nr. 598.
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(1) In realtà non si tratta di Canosa di Puglia ma di Conza della Campania (Avellino).
306. 1115/1116, marzo 19. Giordano, conte di Ariano. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 30. Ed.: DORMEIER 1979, pp. 254-255 nr. 7; LOUD 1981 b, pp. 215-216 nr. 1 [l’A. non fa riferimento all’ed. di Dormeier]. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 116 nr. 30; HOFFMANN 1972, p. 141 nr. 579; BLOCH 1986, p. 1352; DELL’OMO 2000, p. 162 nr. 579.
307. 1083, febbraio. Adenolfo VI, Landolfo, Pandolfo e Landone III, conti di Aquino. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 31. Ed.: GATTOLA 1734, p. 188. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 116 nr. 31; HOFFMANN 1972, p. 125 nr. 346; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 2000, pp. 131-132 nr. 346. (1) Cfr. supra nr. 285 nt. 1.
308. 1176, gennaio. Guglielmo II, re di Sicilia. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 32. Ed.: KEHR 1902, pp. 442-444. Cfr. LECCISOTTI 1965, pp. 116-117 nr. 32; ENZENSBERGER 1971, p. 129 nr. 118; ENZENSBERGER 1982, p. 51 nr. 86; BLOCH 1986, p. 936; LOUD 2009, p. 809. (1) Cfr. supra nr. 222 nt. 1.
309. 1063, aprile 22. Riccardo I e Giordano I, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 33. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 163-164. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 117 nr. 33; ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 7; LOUD 1981 a, p. 120 nr. 4. (1) Monastero di S. Benedetto (Capua, Caserta).
310. [982], novembre. Landolfo IV, principe di Capua e Benevento. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 34. Ed.: GATTOLA 1734, p. 84. Cfr. VOIGT 1902, p. 69 nr. *182; POUPARDIN 1907, p. 116 nr. 142; GALLO 1937, p. 66 nr. 64; LECCISOTTI 1965, pp. 117-118 nr. 34. (1) Torrente Agnena a nord-ovest di Capua. (2) Idronimo non identificato.
311. 1102, gennaio. Laidolfo. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 35. Ed.: FABIANI 19682, p. 92 nt. 16 (parziale). Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 118 nr. 35; HOFFMANN 1972, pp. 139-140 nr. 554; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 158 nr. 554. (1) Cfr. supra nr. 267 nt. 9.
312. [1065], marzo 30. Riccardo I e Giordano I, principi di Capua. Originale: AAM, caps. XIII, nr. 36. Ed.: LOUD 1980, pp. 170-171 nr. 1. Cfr. LECCISOTTI 1965, p. 118 nr. 36; ENZENSBERGER 1971, p. 45 e nt. 8; LOUD 1981 a, p. 120 nr. 7. (1) Cfr. supra 251 nt. 3.
313. Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche si tratta del doc. seguente: [1223], febbraio 28. Federico II, imperatore (si ordina che abate, comunità, dipendenze di Montecassino e relativi uomini siano conservati nelle libertà e immunità di cui già godevano sotto re Guglielmo II). Originale: AAM, caps. XV, nr. 13. Ed.: HUILLARD-BRÉHOLLES II, I 1852, pp. 320-321. Cfr. FICKER (– BÖHMER) 1881, p. 303 nr. 1452; LECCISOTTI 1965, p. 144 nr. 13.
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314. Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche si tratta del doc. seguente: 1188, maggio 17. Clemente III, papa (si conferma la lettera di Alessandro III papa [cfr. KEHR 1935, p. 194 nr. 1; LECCISOTTI 1964, pp. 239-240 nr. 54] con la quale questi assume sotto la protezione apostolica la chiesa di S. Germano e corrobora l’esenzione dei chierici dalla giurisdizione secolare nel territ. di S. Benedetto). Originale: AAM, caps. VI, nr. 10. Cfr. KEHR 1935, p. 194 nr. 2; LECCISOTTI 1964, p. 169 nr. 10.
315. Nell’ordine delle attuali segnature archivistiche si tratta del doc. seguente: 1219, aprile 4. Onorio III, papa (si modificano le costituzioni di Innocenzo III papa per l’osservanza regolare [cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 436 nr. 4996; LECCISOTTI 1964, p. 167 nr. 8]). Originale: AAM, caps. VI, nr. 5. Cfr. POTTHAST 1874-1875, p. 528 nr. 6036; PRESSUTTI 1888-1895 (I), p. 330 nr. 1997 ;LECCISOTTI 1964, p. 166 nr. 5.
316. (Doc. non identificato) 317. Qui il riferimento non può che essere ad uno dei due diplomi di Lotario già elencati (cfr. rispettivamente supra nrr. 38, 41): 1137, settembre 22. Lotario III, imperatore. Originale: AAM, caps. X, nr. 4, opp. copia del sec. XII ex. in forma di diploma: AAM, caps. X, nr. 49. La tradizione archivistica fino ad oggi ha connesso il sigillo aureo frammentario all’esemplare avente natura di copia, mentre esso appartiene all’originale: cfr. PETKE (– BÖHMER) 1994, p. 397. Ed.: Dipl. Lo. III 1927, pp. 194-202 nr. 120. Cfr. INGUANEZ 1930, pp. 5, 8 nr. 1; LECCISOTTI 1965, pp. 33-34 nr. 4, 54 nr. 49; PETKE (– BÖHMER) 1994, pp. 396-398 nr. 635.
318. 1047, febbraio 3. Enrico III, imperatore. Doc. deperdito già prima dell’ultima distruzione di Montecassino (1944): AAM, caps. X, nr. 50**. Ed.: Dipl. Heinr. III 1926, pp. 227-230 nr. 184. Cfr. INGUANEZ 1930, pp. 5, 8 nr. 2; LECCISOTTI 1965, pp. 54-55 nr. 50*[*]; HOFFMANN 1972, p. 106 nr. 134; BLOCH 1986, p. 1346; DELL’OMO 2000, p. 98 nr. 134.
319. † 1191, maggio 23. Enrico VI, imperatore. Pseudo-originale: AAM, caps. X, nr. 38. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 275-276. Cfr. INGUANEZ 1930, pp. 5, 8 nr. 3; CLEMENTI 1955, p. 102 nr. 5; LECCISOTTI 1965, pp. 49-50 nr. 38; BAAKEN (– BÖHMER) 1972, pp. 65-66 nr. 153.
320. 1158, [prima di settembre]. Guglielmo I, re di Sicilia. Originale: AAM, caps. X, nr. 41. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 259-260. Cfr. INGUANEZ 1930, pp. 5-6, 8 nr. 4; API 1954, fasc. 60 tav. 8; LECCISOTTI 1965, pp. 50-51 nr. 41; ENZENSBERGER 1996, pp. 66-67 nr. 24; LOUD 2009, p. 809.
321. [1040, giugno 12. Guaimario V, principe di Salerno e Capua. Originale: AAM, caps. XII, nr. 13. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 140-142. Cfr. VOIGT 1902, p. 71 nr. 223; INGUANEZ 1930, pp. 6, 8 nr. 5; GALLO 1937, p. 68 nr. 85; LECCISOTTI 1965, p. 90 nr. 13; HOFFMANN 1972, p. 126 nr. 363; BLOCH 1986, p. 1349; DELL’OMO 2000, pp. 133-134 nr. 363.
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322. 1129, dicembre 30. Ruggero II, duca di Puglia (futuro re di Sicilia). Originale: AAM, caps. X, nr. 37. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 243-244. Cfr. INGUANEZ 1930, pp. 6, 9 n 6;. LECCISOTTI 1965, pp. 48-49 nr. 37; ENZENSBERGER 1982, pp. 78 e nt. 13, 89 e nt. 121; HOFFMANN 1972, p. 143 nr. 602; BRÜHL 1978, pp. 164-165; BLOCH 1986, p. 1352; BRÜHL 1987, pp. 40-42 nr. 14; DELL’OMO 2000, p. 165 nr. 602; LOUD 2009, p. 809.
323. 1090, agosto. Ruggero I (Borsa), duca di Puglia. Originale: AAM, caps. X, nr. 48. Ed.: LECCISOTTI 1957, p. 69-71 nr. 15. Cfr. INGUANEZ 1930, pp. 6, 9 nr. 7; LECCISOTTI 1965, pp. 53-54 nr. 48; ENZENSBERGER 1971, p. 89 e nt. 114; HOFFMANN 1972, p. 136 nr. 512; DORMEIER 1979, p. 46; BLOCH 1986, p. 1351; DELL’OMO 2000, p. 153 nr. 512.
324. 1090, agosto. Ruggero I (Borsa), duca di Puglia. Originale: AAM, caps. XII, nr. 26. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 204-205. Cfr. INGUANEZ 1930, pp. 6, 9 nr. 8; LECCISOTTI 1965, p. 95 nr. 26.
325. 1086. Sikelgaita, duchessa, moglie di Roberto il Guiscardo. Originale: AAM, caps. XII, nr. 18. Ed.: GATTOLA 1734, pp. 192-193. Cfr. INGUANEZ 1930, pp. 7, 9 nr. 9; LECCISOTTI 1965, p. 92 nr. 18; HOFFMANN 1972, p. 130 nr. 421; BLOCH 1986, p. 1350; DELL’OMO 2000, p. 141 nr. 421.
326. 1140, marzo. Rao del fu Raele, signore di Teano. Originale: AAM, caps. XII, nr. 35. Ed.: GATTOLA 1733, p. 395. Cfr. INGUANEZ 1930, pp. 7, 9 nr. 10; LECCISOTTI 1965, p. 98 nr. 35.
327. (Doc. non identificato) 328. (Doc. non identificato) Cfr. supra nr. 297.
329. (Doc. non identificato) 330. (Doc. non identificato) 331. Doc. così identificabile: 1379, maggio 2. Urbano VI, papa (Dignum censemur). Inserto in copia notarile coeva del processo istituito dall’abate Pietro de Tartaris contro ribelli: AAM, caps. VII, nr. 50 (cfr. infra nr. 332). Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 238 nr. 50. (1) Cfr. supra nr. 192 nt. 1. (2) Giovanna I d’Angiò, regina di Napoli. (3) Nicola Spinelli da Giovinazzo (1325-1406), giureconsulto e uomo politico (cfr. ROMANO 1902).
332. 1380, marzo 17. Pietro de Tartaris, abate di Montecassino. Copia notarile coeva: AAM, caps. VII, nr. 50 (cfr. supra nr. 331). Cfr. LECCISOTTI 1964, p. 238 nr. 50. (1) Cfr. supra nr. 192 nt. 1.
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4. Bibliografia API 1954 = Archivio Paleografico Italiano, XIV, fasc. 60: I documenti originali dei re normanni di Sicilia (Diplomata regum Siciliae de gente Normannorum), a cura di F. BARTOLONI, Roma 1954. APPELT (– BÖHMER) 1951 = J. F. Böhmer, Regesta Imperii herausgegeben von der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, III. Salisches Haus: 1024-1125, Erster Teil: 1024-1056. Erste Abteilung: Die Regesten des Kaiserreiches unter Konrad II., 1024-1039 nach Johann Friedrich Böhmer neubearbeitet unter Mitwirkung von H. APPELT, Graz 1951. AUVRAY 1896-1955 (I-IV) = Les Registres de Grégoire IX. Recueil des bulles de ce pape publiées ou analysées d’après les manuscrits originaux du Vatican par L. AUVRAY (t. IV: Tables commencées par L. AUVRAY et terminées par Mme VITTECLÉMENCET et L. CAROLUS-BARRÉ), Paris 1896-1955 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome 2e série-9). AVAGLIANO 1986 = F. AVAGLIANO, Le più antiche carte di S. Nicola di Pico conservate nell’Archivio di Montecassino, in Scritti in onore di Filippo Caraffa, Anagni 1986 (Biblioteca di Latium, 2), pp. 205-233. BAAKEN (– BOHMER) 1972 = J. F. Böhmer, Regesta Imperii herausgegeben von der Kommission für die Neubearbeitung der Regesta Imperii bei der Österreichischen Akademie der Wissenschaften und der Deutschen Kommission für die Bearbeitung der Regesta Imperii, IV. Ältere Staufer, Dritte Abteilung: Die Regesten des Kaiserreiches unter Heinrich VI., 1165 (1190)-1197 nach Johann Friedrich Böhmer neubearbeitet von G. BAAKEN, Köln-Wien 1972. BLOCH 1986 = H. BLOCH, Monte Cassino in the Middle Ages, Roma 1986. BLOCH 1988 = H. BLOCH, Tertullus’ Sicilian Donation and a Newly Discovered Treatise in Peter the Deacon’s Placidus Forgeries, in Fälschungen im Mittelalter. Internationaler Kongress der Monumenta Germaniae Historica, München, 16.-19. September 1986, 4. Diplomatische Fälschungen (II), Hannover 1988 (Schriften der Monumenta Germaniae Historica, 33), pp. 97-128. BOUREL DE LA RONCIÈRE 1902 = Les Registres d’Alexandre IV. Recueil des bulles de ce pape publiées ou analysées d’après les manuscrits originaux des archives du Vatican, par CH. BOUREL DE LA RONCIÈRE, J. DE LOYE et A. COULON, I. 12541256 (Ch. Bourel de La Roncière), Paris 1902 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome 2e série-15). BRÜHL 1978 = C. BRÜHL, Urkunden und Kanzlei König Rogers II. von Sizilien. Mit einem Beitrag: Die arabischen Dokumente Rogers II. von A. NOTH, Köln-Wien 1978. BRÜHL 1987 = Rogerii II. regis diplomata latina, edidit C. BRÜHL, Köln-Wien 1987 (Codex diplomaticus Regni Siciliae. Series prima: Diplomata regum et principum e gente Normannorum, 2, 1). CARROCCI 2010 = M.C. CARROCCI, Pontecorvo sacra. Ricerche storiche. Presentazione di C.D. Fonseca, Montecassino 2010 (Archivio storico di Montecassino. Studi e documenti sul Lazio meridionale, 10).
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CDC 1887 = Codex Diplomaticus Cajetanus, pars I, editus cura et studio monachorum S. Benedicti Archicoenobii Montis Casini, Montis Casini 1887 (Tabularium Casinense, 1). CDC 1891 = Codex Diplomaticus Cajetanus, pars II, editus cura et studio monachorum S. Benedicti Archicoenobii Montis Casini, Montis Casini 1891 (Tabularium Casinense, 2). CDC 1955 = Codex Diplomaticus Cajetanus, pars III (II), editus cura et studio monachorum S. Benedicti Archicoenobii Montis Casini, Montis Casini 1955 (Tabularium Casinense, 4). CITARELLA – WILLARD 1983 = A.O. CITARELLA – H.M. WILLARD, The Ninth-Century Treasure of Monte Cassino in the Context of Political and Economic Developments in South Italy, Montecassino 1983 (Miscellanea Cassinese, 50). CLA 1999 = Chartae Latinae Antiquiores. Facsimile-Edition of the Latin Charters, 2nd Series Ninth Century, ed. by G. CAVALLO – G. NICOLAJ, Part. LIII, Italy XXV: Montecassino, Trani, Barletta. Benevento, published by F. MAGISTRALE – P. CORDASCO – C. GATTAGRISI, Dietikon-Zürich 1999. CLEMENTI 1955 = D. CLEMENTI, Calendar of the Diplomas of the Hohenstaufen Emperor Henry VI Concerning the Kingdom of Sicily, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 35 (1955), pp. 86-225. CONTE 1984 = P. CONTE, Regesto delle lettere dei papi del secolo VIII. Saggi, Milano 1984. DANELLA 1998 = P. DANELLA, Privilegi sovrani e documenti privati in lingua greca a Montecassino: un confronto, in Documenti medievali greci e latini. Studi comparativi. Atti del seminario di Erice (23-29 ottobre 1995), a cura di G. DE GREGORIO e O. KRESTEN, Spoleto 1998 (Incontri di studio, 1), pp. 367-380 e tavv. I-VIII. DELL’OMO 1995 = M. DELL’OMO, Insediamenti monastici a Gaeta e nell’attuale diocesi. Presentazione di L. Cardi, Montecassino 1995 (Archivio storico di Montecassino. Studi e documenti sul Lazio meridionale, 5). DELL’OMO 1996 = M. DELL’OMO, Le tre redazioni dell’ ‘Autobiografia’ di Pietro Diacono di Montecassino (Codici Casin. 361, 257, 450). Contributo alla storia della cultura monastica medievale, in Florentissima Proles Ecclesiae. Miscellanea hagiographica, historica et liturgica Reginaldo Grégoire O.S.B. XII lustra complenti oblata, Trento 1996 (Bibliotheca Civis, 9), pp. 145-230. DELL’OMO 1999 = M. DELL’OMO, Montecassino. Un’abbazia nella storia, Cinisello Balsamo (MI) – Montecassino 1999 (Biblioteca della Miscellanea Cassinese, 6). DELL’OMO 2000 = M. DELL’OMO, Il Registrum di Pietro Diacono (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, Reg. 3). Commentario codicologico, paleografico, diplomatico, Montecassino 2000 (Archivio Storico di Montecassino. Facsimili e commentarii, 1). DELL’OMO 2003 = Le carte di S. Liberatore alla Maiella conservate nell’archivio di Montecassino, Vol. I. Introduzione storica, paleografica e archivistica. Edizione dei documenti più antichi (†798-1000) e regesti di quelli posteriori di età medievale (1005-1499), a cura di M. DELL’OMO. Prefazione di L. Pellegrini, Montecassino 2003 (Miscellanea Cassinese, 84).
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MARIANO DELL’OMO
DELL’OMO 2004 = M. DELL’OMO, Montecassino nel Trecento tra crisi e continuità, in Il monachesimo italiano nel secolo della grande crisi. Atti del V Convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Siena), 2-5 settembre 1998, a cura di G. PICASSO e M. TAGLIABUE, Cesena 2004 (Italia Benedettina, 21), pp. 291-325. DIGARD – FAUCON – THOMAS – FAWTIER 1907-1939 (I-IV) = Les Registres de Boniface VIII. Recueil des bulles de ce pape publiées ou analisées d’après les manuscrits originaux des Archives du Vatican, par G. DIGARD, M. FAUCON, A. THOMAS ET R. FAWTIER, I (Thomas, Faucon, Digard), Paris 1907; II (Digard), Paris 1904; III (Digard), Paris 1921; IV (Fawtier), Paris 1939 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 2e Série-4). Dipl. Conr. II 1909 = Die Urkunden Konrads II. mit Nachträgen zu den Urkunden Heinrichs II., unter Mitwirkung von H. WIBEL und A. HESSEL herausgegeben von H. BRESSLAU, in Monumenta Germaniae Historica. Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser herausgegeben von der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, IV, Hannover und Leipzig 1909. Dipl. Heinr. II 1900 = Die Urkunden Heinrichs II. und Arduins herausgegeben von H. BRESSLAU und H. BLOCH unter Mitwirkung von M. MEYER und R. HOLTZMANN, in Monumenta Germaniae Historica. Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser herausgegeben von der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, III, Hannover 1900-1903. Dipl. Lo. I 1966 = Die Urkunden Lothars I. und Lothars II. bearbeitet von Th. SCHIEFFER, in Monumenta Germaniae Historica. Die Urkunden der Karolinger, III, Berlin-Zürich 1966. Dipl. Lo. III 1927 = Die Urkunden Lothars III. und der Kaiserin Richenza herausgegeben von E. VON OTTENTHAL UND H. HIRSCH, in Monumenta Germaniae Historica. Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser herausgegeben von der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, VIII, Berlin 1927. Dipl. Ott. I 1879-1884 = Die Urkunden Konrad I. Heinrich I. und Otto I., herausgegeben von TH. SICKEL, in Monumenta Germaniae Historica. Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser herausgegeben von der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, I, Hannover 1879-1884. Dipl. Ott. II/Dipl. Ott. III 1888-1893 = Die Urkunden Otto des II., herausgegeben von TH. SICKEL, in Monumenta Germaniae Historica. Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser herausgegeben von der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, II, 1, Hannover 1888. Die Urkunden Otto des III., herausgegeben von TH. SICKEL, in Monumenta Germaniae Historica. Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser herausgegeben von der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, II, 2, Hannover 1893. Dipl. Ugo e Lo. 1924 = I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, a cura di L. SCHIAPARELLI, Roma 1924 (Fonti per la storia d’Italia, 38). DORMEIER 1979 = H. DORMEIER, Montecassino und die Laien im 11. und 12. Jahrhundert. Mit einem einleitenden Beitrag Zur Geschichte Montecassinos im 11. und 12. Jahrhundert von H. HOFFMANN, Stuttgart 1979 (Schriften der Monumenta Germaniae Historica, 27).
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ENZENSBERGER 1971 = H. ENZENSBERGER, Beiträge zum Kanzlei- und Urkundenwesen der normannischen Herrscher Unteritaliens und Siziliens, Kallmünz 1971 (Münchener Historische Studien, Abteilung Geschichtl. Hilfswissenschaften, 9). ENZENSBERGER 1982 = H. ENZENSBERGER, Utilitas regia. Note di storia amministrativa e giuridica e di propaganda politica nell’età dei due Guglielmi, in Atti dell’Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo, Ser. V, I, anno accademico 1981-82, parte seconda: lettere, Palermo 1982, pp. 23-61. ENZENSBERGER 1996 = Guillelmi I. regis diplomata, edidit H. ENZENSBERGER, Köln-Weimar-Wien 1996 (Codex diplomaticus Regni Siciliae. Series prima: Diplomata regum et principum e gente Normannorum, 3). EUBEL 19132 = Hierarchia Catholica Medii Aevi sive Summorum Pontificum, S.R.E. Cardinalium, Ecclesiarum Antistitum series, ab anno 1198 usque ad annum 1431 perducta e documentis tabularii praesertim Vaticani collecta, digesta, edita per C. EUBEL, I, Monasterii 19132. FABIANI 19682 = L. FABIANI, La Terra di S. Benedetto. Studio storico-giuridico sull’Abbazia di Montecassino dall’VIII al XIII secolo, I, Montecassino 19682 (Miscellanea Cassinese, 33). FICKER (– BÖHMER) 1881 = J. F. Böhmer, Regesta Imperii, V, Erste Abteilung: Die Regesten des Kaiserreichs unter Philipp, Otto IV, Friedrich II, Heinrich (VII), Conrad IV, Heinrich Raspe, Wilhelm und Richard, 1198-1272, nach der neubearbeitung und dem nachlasse Johann Friedrich Böhmer‘s, neu herausgegeben und ergänzt von J. FICKER, Innsbruck 1881. GALLO 1933 = A. GALLO, La donazione di Barrea a Montecassino in un diploma capuano, in Convegno storico Abruzzese-Molisano, 25-29 marzo 1931. Atti e Memorie, I, Casalbordino 1933, pp. 319-325. GALLO 1937 = A. GALLO, I diplomi dei principi longobardi di Benevento, di Capua e di Salerno nella tradizione cassinese, in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano 52 (1937), pp. 1-79. GATTOLA 1733 = E. GATTOLA [GATTULA], Historia abbatiae Cassinensis per saeculorum seriem distributa, Venetiis 1733. GATTOLA 1734 = E. GATTOLA, Ad historiam abbatiae Cassinensis accessiones, Venetiis 1734. GRAFF (-BÖHMER) 1971 = J. F. Böhmer, Regesta Imperii herausgegeben von der Kommission für die Neubearbeitung der Regesta Imperii bei der Österreichischen Akademie der Wissenschaften und der Deutschen Kommission für die Bearbeitung der Regesta Imperii, II. Sächsisches Haus: 919-1024, Vierte Abteilung: Die Regesten des Kaiserreiches unter Heinrich II., 1002-1024 nach Johann Friedrich Böhmer neubearbeitet von TH. GRAFF, Wien-Köln-Graz 1971. GUERRIERI 1899 = G. GUERRIERI, Il conte normanno Riccardo Siniscalco (10811115) e i monasteri benedettini cavesi in Terra d’Otranto (sec. XI-XIV), Trani 1899. HAYEZ 1964-1972 = Urbain V (1362-1370). Lettres Communes analysées d’après les Registres dits d’Avignon et du Vatican par les membres de l’École Française de Rome sous la direction de M. HAYEZ, II (Fascicules I-IV), Paris 1964-1972 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 3e Série-5bis. Lettres Communes des papes du XIVe siècle).
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HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1980 = Urbain V (1362-1370). Lettres Communes analysées d’après les Registres dits d’Avignon et du Vatican par M. et A.-M. HAYEZ, avec la collaboration de J. MATHIEU et de M.-F. YVAN, VI, Paris 1980 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 3e Série-5bis. Lettres Communes des papes du XIVe siècle). HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1982 = Urbain V (1362-1370). Lettres Communes analysées d’après les Registres dits d’Avignon et du Vatican par M. et A.-M. HAYEZ, avec la collaboration de J. MATHIEU et de M.-F. YVAN, VIII, Paris 1982 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 3e Série-5bis. Lettres Communes des papes du XIVe siècle). HAYEZ – MATHIEU – YVAN 1983 = Urbain V (1362-1370). Lettres Communes analysées d’après les Registres dits d’Avignon et du Vatican par M. et A.-M. HAYEZ, avec la collaboration de J. MATHIEU et de M.-F. YVAN, IX, Paris 1983 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 3e Série-5bis. Lettres Communes des papes du XIVe siècle). HOFFMANN 1967 = H. HOFFMANN, Die älteren Abtslisten von Montecassino, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 47 (1967), pp. 224-354. HOFFMANN 1971 = H. HOFFMANN, Petrus Diaconus, die Herren von Tusculum und der Sturz Oderisius’ II. von Montecassino, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters 27 (1971), pp. 1-109. HOFFMANN 1972 = H. HOFFMANN, Chronik und Urkunde in Montecassino, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 51 (1972), pp. 93-205. HOFFMANN 1980 = Die Chronik von Montecassino, herausgegeben von H. HOFFMANN, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores 34, Hannover 1980. HOFFMANN 2004 = H. HOFFMANN, Die Translationes et Miracula s. Mennatis des Leo Marsicanus, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters 60 (2004), pp. 441-481. HOLTZMANN 1962 = W. HOLTZMANN, Italia Pontificia, IX. Samnium-Apulia-Lucania, Berolini 1962. HUILLARD-BRÉHOLLES I, II 1852 = Historia diplomatica Friderici Secundi ..., illustr. J.-L.-A. HUILLARD-BRÉHOLLES, I, pars II, Parisiis 1852. HUILLARD-BRÉHOLLES II, I 1852 = Historia diplomatica Friderici Secundi..., illustr. J.-L.-A. HUILLARD-BRÉHOLLES, II, pars I, Parisiis 1852. HÜLS 1977 = R. HÜLS, Kardinäle, Klerus und Kirchen Roms, 1049-1130, Tübingen 1977 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 48). INGUANEZ 1925 = M. INGUANEZ , Regesto di S. Angelo in Formis, Montecassino 1925 (Tabularium Casinense. Serie dei Regesti Cassinesi pubblicata a cura dei Monaci di Montecassino). INGUANEZ 1930 = M. INGUANEZ, Diplomi cassinesi con sigillo d’oro, Montecassino 1930 (Miscellanea Cassinese, 7). JORDAN 1893 = Les Registres de Clement IV (1265-1268). Recueil des bulles de ce pape publiées ou analysées d’après les manuscrits originaux des Archives du Vatican par É. JORDAN, Paris 1893.
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KEHR 1899 = P. KEHR, Le bolle pontificie anteriori al 1198 che si conservano nell’Archivio di Montecassino, Montecassino 1899 (Miscellanea Cassinese, 2). KEHR 1902 = K.A. KEHR, Die Urkunden der Normannisch-Sicilischen Könige, Innsbruck 1902. KEHR 1913 = P.F. KEHR, Italia Pontificia, VI, I. Liguria sive Provincia Mediolanensis. Pars I. Lombardia, Berolini 1913. KEHR 1935 = P.F. KEHR, Italia Pontificia, VIII. Regnum Normannorum-Campania, Berolini 1935. LECCISOTTI 1937 = T. LECCISOTTI, Le colonie cassinesi in Capitanata, I. Lesina (sec. VIII-XI), Montecassino 1937 (Miscellanea Cassinese, 13). LECCISOTTI 1938 = T. LECCISOTTI, Le colonie cassinesi in Capitanata, II. Il Gargano, Montecassino 1938 (Miscellanea Cassinese, 15). LECCISOTTI 1947 = T. LECCISOTTI, Antiche prepositure cassinesi nei pressi del Fortore e del Saccione, in Benedictina 1 (1947), pp. 83-133. LECCISOTTI 1957 = T. LECCISOTTI, Le colonie cassinesi in Capitanata, IV. Troia, Montecassino 1957 (Miscellanea Cassinese, 29). LECCISOTTI 1964 = Abbazia di Montecassino. I Regesti dell’Archivio, I, a cura di T. LECCISOTTI, Roma 1964 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 54). LECCISOTTI 1965 = Abbazia di Montecassino. I Regesti dell’Archivio, II, a cura di T. LECCISOTTI, Roma 1965 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 56). LECCISOTTI 1971 = Abbazia di Montecassino. I Regesti dell’Archivio, VI, a cura di T. LECCISOTTI, Roma 1971 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 74). LOUD 1980 = G.A. LOUD, Five Unpublished Charters of the Norman Princes of Capua, in Benedictina 27 (1980), pp. 161-176. LOUD 1981 a = G.A. LOUD, A Calendar of the Diplomas of the Norman Princes of Capua, in Papers of the British School at Rome 49 (1981), pp. 99-143. LOUD 1981 b = G.A. LOUD, The Norman Counts of Caiazzo and the Abbey of Montecassino, in Monastica, I. Scritti raccolti in memoria del XV centenario della nascita di S. Benedetto (480-1980), Montecassino 1981 (Miscellanea Cassinese, 44), pp. 199-217. LOUD 2009 = G.A. LOUD, The Chancery and Charters of the Kings of Sicily (11301212), in English Historical Review 124 (2009), pp. 779-810. MÉNAGER 1975 = L.-R. MÉNAGER, Inventaire des familles normandes et franques emigrées en Italie méridionale et en Sicile (XIe-XIIe siècles), in Roberto il Guiscardo e il suo tempo. Relazioni e comunicazioni nelle Prime Giornate normannosveve (Bari, maggio 1973), Roma 1975 (Fonti e studi del Corpus membranarum italicarum, 11), pp. 261-390. MÉNAGER 1980 = L.-R. MÉNAGER, Recueil des Actes des Ducs Normands d’Italie (1046-1127). I. Les premiers Ducs (1046-1087), Bari 1980 (Società di Storia Patria per la Puglia. Documenti e monografie, 45). MIKOLETZKY (– BÖHMER) 1950 = J. F. Böhmer, Regesta Imperii herausgegeben von der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, II. Sächsisches Haus: 9191024, Zweite Abteilung: Die Regesten des Kaiserreiches unter Otto II., 955 (973)983 nach Johann Friedrich Böhmer neubearbeitet von H.L. MIKOLETZKY, Graz 1950.
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MARIANO DELL’OMO
OTTENTHAL (– BÖHMER) 1893 = J. F. Böhmer, Regesta Imperii, II. Die Regesten des Kaiserreichs unter den Herrschern aus dem Sæchsischen Hause, 919-1024 nach Johann Friedrich Böhmer neubearbeitet von E. VON OTTENTHAL, Innsbruck 1893. PETKE (– BÖHMER) 1994 = J. F. Böhmer, Regesta Imperii herausgegeben von der Kommission für die Neubearbeitung der Regesta Imperii bei der Österreichischen Akademie der Wissenschaften und der Deutschen Kommission für die Bearbeitung der Regesta Imperii bei der Akademie der Wissenschaften und der Literatur Mainz, IV. Erste Abteilung: Die Regesten des Kaiserreiches unter Lothar III. und Konrad III. Erster Teil: Lothar III., 1125 (1075)-1002, neubearbeitet von W. PETKE, Köln-Weimar-Wien 1994. POTTHAST 1874-1875 = Regesta Pontificum Romanorum inde ab a. post Christum natum MCXCVIII ad a. MCCCIV, edidit A. POTTHAST (I-II), Berolini 1874-1875. POUPARDIN 1907 = R. POUPARDIN, Les institutions politiques et administratives des principautés lombardes de l’Italie méridionale (IXe-XIe siècles). Étude suivie d’un catalogue des actes des princes de Bénévent et de Capoue, Paris 1907. PRESSUTTI 1888-1895 (I-II) = Regesta Honorii papae III iussu et munificentia Leonis XIII pontificis maximi ex Vaticanis archetypis aliisque fontibus, ed. P. PRESSUTTI (I-II), Romae 1888-1895. Regesti 2002 = Regesti dei documenti dell’Italia meridionale 570-899, a cura di J.-M. MARTIN, E. CUOZZO, S. GASPARRI e M. VILLANI, Roma 2002 (Sources et documents d’histoire du Moyen Âge publiés par l’ École française de Rome, 5). Registrum Petri Diaconi = Montecassino, Archivio dell’Abbazia, Reg. 3 (cfr. supra DELL’OMO 2000). Registrum di S. Angelo in Formis = Montecassino, Archivio dell’Abbazia, Reg. 4 (cfr. supra INGUANEZ 1925). ROMANO 1902 = G. ROMANO, Niccolò Spinelli da Giovinazzo, diplomatico del sec. 14. Contributi alla storia politica e diplomatica della seconda meta del Trecento, Napoli 1902. SABA 1927 = A. SABA, Montecassino e la Sardegna medioevale. Note storiche e codice diplomatico sardo-cassinese, Montecassino 1927 (Miscellanea Cassinese, 4). SCANDONE 1956 = F. SCANDONE, Roccasecca patria di S. Tommaso de Aquino, in Archivio Storico di Terra di Lavoro 1 (1956), pp. 33-176. TOSTI 18892 = L. TOSTI, Storia della Badia di Montecassino, II, Roma 1889 (Opere complete di D. Luigi Tosti, 15). UHLIRZ (– BÖHMER) 1956 = J. F. Böhmer, Regesta Imperii herausgegeben von der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, II. Sächsisches Haus: 919-1024, Dritte Abteilung: Die Regesten des Kaiserreiches unter Otto III., 980 (983)-1002 nach Johann Friedrich Böhmer neubearbeitet von M. UHLIRZ, Graz-Köln 1956. VOIGT 1902 = K. VOIGT, Beiträge zur Diplomatik der langobardischen Fürsten von Benevent, Capua und Salerno (seit 774), mit einem Anhang: Die Fälschungen im Chronicon Beneventani monasterii S. Sophiae bei Ughelli. Inaugural-Dissertation zur Erlangung der Doktorwürde der Hohen Philosophischen Fakültät der Georg-Augusts-Universität zu Göttingen, Göttingen 1902.
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5. Indice dei nomi degli autori dei documenti I numeri rinviano a quelli della lista dei documenti Adenolfo VI, conte di Aquino 307 Adenolfo 135 Alessandro II, papa 19, 72 Alessandro III, papa 6, 29, 79, 173, 175, 181, 227 Alessandro IV, papa 187, 196, 210 Aloara, principessa 84 Anastasio IV, papa 24, 68, 70 Arniperto 305 Atenolfo II, principe di Capua e Benevento 85, 91, 98, 108, 281 Atenolfo III, principe di Capua e Benevento 93, 139 Barisone, giudice di Arborea 121 Barisone, re di Torres 122 Benedetto, cardinale presbitero del tit. di S. Susanna 49 Berardo II, conte di Sangro 295 Bonifacio VIII, papa 30, 45, 46, 244 Bonifacio IX, papa 21, 33, 57, 58, 59, 61, 62, 111, 157, 192, 199, 216, 223, 225, 230, 231, 247, 248, 250 Callisto II, papa 3, 27, 80 Celestino III, papa 26, 211, 212, 229 Clemente III, papa 20, 163, 174, 213, 214, 314 Clemente IV, papa 10, 11, 54, 55, 207 Clemente V, papa 235, 236 Clemente VI, papa 220 Comita di Azzen (nobile di Torres [Porto Torres]) 146 Corrado II, imperatore 39 Costantino di Athen 123 Enrico II, imperatore 35, 252, 253, 255 Enrico III, imperatore 318 Enrico VI, imperatore 43, 104, 254, 300, 319 Enrico, conte di Monte Sant’Angelo 144, 147 Federico II, imperatore 82, 118, 301, 313 Furato di Gitil 126 Giordano I, principe di Capua 100, 138, 263, 264, 266, 267, 269, 272, 285, 287, 289, 309, 312 Giordano II, principe di Capua 265 Giordano, conte di Ariano 306
Giovanni XIII (?), papa 186 Giovanni XXII, papa 233, 234 Giovanni, principe di Capua 283 Giovanni III, console di Fondi e Gaeta 149 Giovanni Scinto, conte di Pontecorvo 134, 152 Giovanni (di Capua), monaco 133 Gonnario I di Laccon, giudice 125 Gonnario II di Laccon, giudice 127 Gonnario II, re di Torres 119 Gregorio IX, papa 7, 52, 78, 171, 200, 201, 202, 203, 204, 218, 232 Gregorio XI, papa 159, 161, 191, 194, 195, 240, 241, 242, 249 Gregorio Tracanioto, catepano d’Italia 279 Guaimario V, principe di Salerno e Capua 321 Guglielmo I, re di Sicilia 320 Guglielmo II, re di Sicilia 92, 308 Guglielmo, duca di Puglia 109, 257, 270 Guido, conte di Pontecorvo 297 Innocenzo II, papa 243 Innocenzo III, papa 8, 9, 32, 71, 155, 190, 197, 215, 228 Innocenzo VI, papa 184, 185, 246 Innocenzo VII, papa 205, 219 Laidolfo, principe di Capua 268 Laidolfo 311 Landenolfo, principe di Capua 84 Landenolfo 135 Landolfo I, principe di Capua e Benevento 85, 91, 98, 108, 281 Landolfo II, principe di Capua e Benevento 89, 140, 141, 142, 284 Landolfo III, principe di Capua e Benevento 44, 86, 96, 101, 102, 106, 277, 286, 288 Landolfo IV, principe di Capua e Benevento 132, 136, 282, 310 Landolfo V di Sant’Agata, principe di Capua 88, 103 Landolfo VI, principe di Capua 261 Landolfo, conte di Aquino 307 Landone III, conte di Aquino 307 Leone IX, papa 73, 74, 76, 172 Leone, vescovo di Veroli 129
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Lotario I, imperatore 280 Lotario III, imperatore 38, 41, 317 Lotario, re d’Italia 90, 99 Lucio III, papa 31, 165, 226 Marino, conte di Traetto 262, 275, 276 Marino II, console di Fondi e Gaeta 149 Martino V, papa 34, 222, 224 Onorio III, papa 22, 23, 25, 28, 48, 50, 51, 170, 180, 208, 209, 221, 315 Ottone I, imperatore 36, 97, 116 Ottone II, imperatore 37, 42, 112, 302 Ottone III, imperatore 40, 105, 251 Pandolfo I Capodiferro, principe di Capua e Benevento 44, 86, 89, 94, 96, 101, 102, 106, 132, 136, 140, 141, 142, 277, 282, 284, 286, 288 Pandolfo II, principe di Capua 83, 114, 258, 259 Pandolfo III (II princ. di Benevento), principe di Capua 83 Pandolfo IV, principe di Capua 81, 114, 131, 258, 259 Pandolfo V, principe di Capua 81, 131, 261 Pandolfo VI, principe di Capua 283 Pandolfo, conte di Aquino 307 Pasquale II, papa 2, 4, 47, 53, 56, 75, 182 Pietro de Tartaris, abate di Montecassino 332 Preziosa di Laccon 123 Rao del fu Raele, signore di Teano 326 Rainulfo, conte di Alife 145 Raul Novello di Roccaguglielma 151 Riccardo I, principe di Capua 95, 138, 263, 266, 269, 272, 289, 309, 312 Riccardo II, principe di Capua 260 Riccardo dell’Aquila, conte di Pico 137
Roberto II, principe di Capua 290 Roberto, conte di Caiazzo 120, 256 Roberto II, conte di Loritello 294 Roberto, vescovo di Aversa 128 Roberto il Guiscardo, duca di Puglia, Calabria e Sicilia 150 Roberto Trastainil (Trostayni), signore di Limosano 124 Rocca, contessa di San Benedetto Ullano 298 Rodolfo II di Molise, conte di Boiano 115, 143, 148 R. (= Rogerius), cardinale 188 Ruggero II: re di Sicilia 117, 304; duca di Puglia 322 Ruggero I (Borsa), duca di Puglia 110, 130, 291, 292, 293, 323, 324 Ruggero I, conte di Sicilia 296 Sikelgaita, duchessa, moglie di Roberto il Guiscardo 325 Tertullo, patrizio romano 278 Uberto, arcivescovo di Pisa e legato pontificio in Sardegna 107 Ugo, re d’Italia 90, 99 Ugo I, conte di Molise 271 Ugo II, conte di Molise 273 Ugo, figlio di Docibile 274 Ugo Sorevo, signore di Mignano 299 Urbano II, papa 12, 69, 77, 189 Urbano V, papa 13, 14, 15, 16, 17, 18, 60, 63, 153, 154, 156, 158, 160, 162, 164, 166, 167, 168, 169, 176, 177, 179, 183, 193, 237, 238, 239, 245 Urbano VI, papa 206, 217, 331 Vittore II, papa 5 Zaccaria, papa 1
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3961, f. 25r.
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IL RESTAURO DEL MANOSCRITTO VAT. LAT. 12838: L’ETHICA DEL MINIMO INTERVENTO Introduzione Il libro, prodotto della cultura materiale, pur nascendo per veicolare un messaggio testuale, è caratterizzato dalla complementarietà tra testo e materia e, nella sua interezza, è portatore di un insieme di informazioni1 archeologiche indicatrici, non solo della tecnologia di produzione, e dunque del contesto in cui il bene è stato creato, ma anche degli sviluppi storici che ha subito. Esso, in quanto manufatto, è sottoposto al processo spontaneo, irreversibile e inarrestabile di deterioramento, causato in parte da agenti biologici e chimico-fisici, dall’instabilità intrinseca dei materiali costitutivi e dei processi di lavorazione, in parte da cause esterne legate alle condizioni di conservazione e dalle modalità di fruizione. Ogni restauro, intervenendo esclusivamente sulla componente materica, con la finalità di rallentarne l’invecchiamento naturale, comporta una perdita di informazione proporzionale all’invasività dell’intervento. Il restauro del Vat. lat. 12838, di seguito descritto, è stato condotto nel tentativo di conservare la maggior parte di informazioni, apportando minime ma necessarie alterazioni tali da consentirne la consultazione e la conseguente fruizione. L’iter di un intervento di restauro, dalla progettazione alla realizzazione, si configura solitamente quale momento di conoscenza profonda del manufatto, e in tal senso il restauro del Vat. lat. 12838 ha rappresentato un’occasione privilegiata di studio. Descrizione Il testo dell’Ethica di Spinoza era conosciuto fino ad oggi solo attraverso opere a stampa. Recente è, invece, la scoperta che ne ha portato alla luce 1
Le informazioni inerenti la cultura materiale sono state per molto tempo sottovalutate rispetto alla componente testuale. D’altro canto la sopravvalutazione della materialità del libro ignorando la sua funzione primaria di veicolo di un testo scritto, indurrebbe a cadere nello stesso errore di mancanza di visione dell’insieme. L’intervento del restauratore agisce quasi esclusivamente sulle informazioni di carattere materiale. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 265-284.
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l’unica copia manoscritta non autografa, attribuibile alla mano di Pieter van Gent, amico del filosofo2. Viene copiato intorno al 1675, probabilmente su richiesta di Ehrenfried Walther von Tschirnhaus che lo porta con sé nel suo tour europeo durato due anni. A Roma, nell’estate del 1677, passa dalle mani di Tschirnhaus a quelle del neo-cattolico Niels Stensen, il quale il 23 settembre del 1677 lo consegna alla Congregazione del Sant’Uffizio e ne denuncia la pericolosità, come si evince dalla nota apposta sul verso dell’ultimo foglio del manoscritto3. Il testo viene messo all’Indice e il codice, considerato elemento probatorio del processo contro Spinoza, viene custodito all’interno dell’archivio del Sant’Uffizio fino al 1922, quando entra a far parte della collezione dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana insieme ad altri volumi individuati nei sopralluoghi effettuati (direttamente o indirettamente) dal gesuita Franz Ehrle4. Il volume (Tav. I) dalle dimensioni relativamente ridotte (168 u 109 u 25 mm) ben si prestava a essere trasportato durante i viaggi. Il supporto scrittorio è costituito da una carta occidentale e presenta una filigrana molto articolata e difficile da rilevare, posizionata in prossimità della piega (taglio di testa), identificabile forse con uno stemma5. Lo specchio di scrittura, costituito da un’unica colonna, è circoscritto da quattro righe, tracciate a inchiostro bruno molto leggero, per una superficie media di 148 u89 mm. I margini risparmiati risultano di appena un centimetro. Per la scrittura è stato utilizzato un inchiostro metallo-gallico di colore bruno scuro. Piccoli segni a secco obliqui rispetto ai bordi di alcune carte6 sono identificabili come delle lievi deformazioni superficiali del supporto scrittorio provocate dallo slittamento sulla carta, probabilmente umida, di un qual2 Per l’informazione storica sul manoscritto si rinvia all’articolo di P. TOTARO – L. SPRUIT – P. STEENBAKKERS, L’Ethica di Spinoza in un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana, in questo stesso volume, pp. 583-610. 3 Per il passaggio da Tschirnhaus a Stensen, la denuncia al Sant’Uffizio e la condanna dei testi di Spinoza da parte della Chiesa Cattolica: P. TOTARO, Documenti su Spinoza nell’Archivio del Sant’Uffizio dell’Inquisizione, in Nouvelles de la République des Lettres 20 (2000), pp. 95-120. 4 Per tutto ciò che riguarda il trasferimento del codice dal Sant’Uffizio alla Vaticana cfr. l’articolo di A. RITA, In margine al ritrovamento del manoscritto vaticano dell’Ethica di Spinoza: trasferimenti librari tra Sant’Uffizio e Biblioteca Vaticana, in questo stesso volume, pp. 471-485. 5 Facilmente identificabili un coronamento con croce e un campo con due croci di sant’Andrea. 6 Molto evidenti sul margine dei ff. 7, 36, 42, 48, 84.
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che strumento utilizzato per marcare o tagliare le carte stesse (Tav. II). Essi confermano l’originalità delle misure del codice, che non dovrebbe aver subito nessuna rifilatura. Il volume è privo di una foliazione contemporanea alla trascrizione del testo; presenta, tuttavia, dei richiami orizzontali apposti sul margine inferiore degli ultimi fogli di ogni fascicolo, vicino alla piega. La foliazione meccanica, presente nell’angolo inferiore destro del recto dei fogli, è stata realizzata in Biblioteca Vaticana7 e comprende anche i due bifogli a stampa che avvolgono i fascicoli V e VI8 (Tav. III). La struttura fascicolare mostra delle irregolarità a partire dal fascicolo IX (ff. 107 e 108). Esso, infatti, è attualmente composto da un unico bifoglio costruito artificialmente tramite una brachetta cartacea. Analogo è il caso del fascicolo XI (ff. 117 e 118), seguito da tre carte cucite a sopraggitto (ff. 119, 120 e 121)9 (Tav. IV). Tali carte presentano dei fori sul margine del taglio davanti, riconducibili a una precedente cucitura a sopraggitto realizzata sul margine sbagliato. L’analisi della fascicolazione rivela un dato significativo: prima dell’attuale legatura10 ogni fascicolo presentava una cucitura autonoma, caratterizzata da un solo passaggio di filo attraverso due fori11 posti all’incirca al centro della piega. Ne sono testimonianza sia i fori di cucitura presenti in posizioni diverse in tutti i fascicoli12, sia i passaggi di filo blu e marrone che si conservano nei fascicoli V e VII (Tav. V). I fori di cucitura dei singoli fascicoli suggeriscono che i ff. 120 e 121, che attualmente recano una cucitura a sopraggitto, originariamente fossero le prime due carte dell’ultimo fascicolo13, e che fossero solidali a due fogli bianchi, uno dei quali è individuabile nel f. 118, mentre l’altro è andato perduto (Tav. VI). Il f. 118 (imbrachettato al f. 117), non scritto, potrebbe quindi essere stato inserito nella sua attuale posizione in un secondo mo7
Il volume è attualmente composto di 133 ff. D’ora in poi faremo riferimento a questa foliazione. 8 Bifogli 49/62 e 63/76. 9 L’attuale fascicolazione del volume: (1-4)12, (5-6)12+2, 716, 814, 92, 108, 112, [12]+3, 1314. 10 Per legatura si intende tutto ciò che serve a costituire come unità, volume, un insieme di fogli; la coperta ne rappresenta il completamento; è sufficiente la cucitura per poter parlare di legatura. 11 Sarebbe più appropriato parlare di piccole incisioni, realizzate a fascicolo chiuso trasversalmente alla piega. 12 Le distanze (in mm) dalla testa al primo foro di cucitura e al secondo, per ogni fascicolo, sono le seguenti: I fasc. 52 mm, 93 mm; II: 53, 90; III: 58, 92; IV: 58, 93; V: 62, 10; VI: 62, 112; VII: 65, 107; VIII: 60, 95; IX: 64, 104; X: 85, 119. 13 Esse presentano i fori della cucitura individuale dei fascicoli alla stessa posizione delle carte dell’ultimo fascicolo.
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mento, come divisione tra il libro quarto e il quinto dell’Ethica, unica eccezione dato che in tutto il volume non sono presenti fogli bianchi divisori tra i libri dell’opera14. È invece probabile che i ff. 117 e 119 fossero gli ultimi del fascicolo precedente, il nono, e che fossero solidali con i ff. 107 e 108. Secondo tale ipotesi di fascicolazione, il volume era composto da 10 fascicoli, per un totale di 130 carte. Tutti i fascicoli erano senioni, tranne il VII, composto da otto bifogli, l’VIII composto da sette bifogli, e il X, composto da otto bifogli, di cui gli ultimi due fogli dovevano essere bianchi15.. È plausibile sostenere che i fascicoli, prima della realizzazione della legatura, circolassero come unità separate. La cucitura autonoma dei singoli fascicoli e la presenza di bifogli provenienti da uno stampato posti a protezione dei fascicoli V e VI ne sono testimonianza. Le lettere sequenziali E ed F, manoscritte da Van Gent sul margine inferiore del recto dei fogli a stampa a custodia dei fascicoli manoscritti16, inducono a ipotizzare la presenza di altri bifogli stampati oggi mancanti e sicuramente segnati da lettere in ordine alfabetico, applicati dallo stesso Van Gent a protezione di ciascun fascicolo. Il filo della cucitura primaria del fascicolo V comprende anche il foglio a stampa. È arduo, comunque, stabilire se la cucitura primaria nei fascicoli fosse coeva all’apposizione del foglio a stampa di protezione e chi ne fosse l’artefice17. Prima della realizzazione dell’attuale legatura erano presenti danni meccanici alla piega in alcuni bifogli e fogli sciolti, ragione per cui il corpo delle carte è stato sottoposto ad alcuni interventi: il rinforzo alla piega con una brachetta in carta sul primo bifoglio del I fascicolo (ff. 1 e 12) e sul terzo del IX fascicolo (ff. 109 e 116) e la costituzione di un nuovo bifoglio a partire da due ff. sciolti adiacenti (ff. 107 e 108) e non (ff. 117 e 118). Inoltre, durante la cucitura la piega del bifoglio centrale del primo fascicolo è stata invertita (ff. 6-7), come suggerisce la mancanza di continuità testuale18 (Tav. VII). La legatura era costituita da una cucitura continua su due nervi singoli in pelle allumata passanti, come si desume dalla strozzatura dell’unica estremità dei nervi rimasta, quella posteriore di testa (Tav. VIII). La co14
Si veda, ad esempio, la divisione tra i libri terzo e quarto (ff. 86v-87r). Si ipotizza la seguente fascicolazione originale (esclusi i bifogli a stampa che avvolgevano ogni fascicolo): (1-6)12, 716, 814, 912, 1016. 16 Per la provenienza dei bifogli a stampa e l’autografia di Van Gent delle lettere cfr. nota 35 in TOTARO – SPRUIT – STEENBAKKERS, L’Ethica di Spinoza cit., pp. 592-598. 17 Van Gent, Tschirnhaus, o altri. 18 Cfr. L. SPRUIT – P. TOTARO, The Vatican Manuscript of Spinoza’s Ethica, Leiden – Boston 2011 (Brill’s Studies in Intellectual History 205), p. 27. 15
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perta, mancante, era con molta probabilità in pergamena19 floscia o semifloscia, priva di indorsatura e di adesivo sul dorso. Una tipologia assai diffusa tra le legature archivistiche, coerentemente con la duplice valenza di codice e documento che il manoscritto ha assunto all’interno del Sant’Uffizio. Non ci sono pervenute tracce di fogli di guardia né di capitelli né di cuciture intermedie, dato che gli unici fori visibili corrispondono a quelli della cucitura attuale e di quella fascicolare precedente. Risulta difficoltoso datare con precisione la legatura, ma è lecito fare delle ipotesi. La sua semplicità, infatti, ben si potrebbe adattare a una legatura da viaggio, così come a una legatura per documenti d’archivio; di conseguenza si potrebbe pensare che essa sia stata realizzata (o fatta realizzare) dal legittimo possessore, Tschirnhaus, dal proprietario temporaneo Stensen o dai funzionari del Sant’Uffizio. È provata l’esistenza di una prima fase in cui il volume non aveva ancora la consistenza fisica di unità, i fascicoli circolavano autonomamente protetti da un foglio stampato e i bifogli di ciascuno erano legati con un passaggio di filo centrale; non sappiamo se questo stadio sia coinciso temporalmente con la copiatura del manoscritto o si sia protratto nel tempo. Se la legatura fosse stata realizzata quando il manoscritto apparteneva a Tschirnhaus risulterebbe anomalo che un conoscitore del testo sottovalutasse la mancanza di continuità testuale provocata dall’errata cucitura dei ff. 6 e 7. Nella sua denuncia al Sant’Uffizio, Stensen utilizza la parola generica “manuscritto”20 che non fornisce indicazioni specifiche sulla forma in cui il testo viene trasmesso; dunque non è chiaro se egli avesse ricevuto un volume o dei fascicoli sciolti danneggiati, che avrebbe deciso di riparare e legare prima di consegnarli alla Congregazione. La nota apposta al momento dell’acquisizione da parte del Sant’Uffizio21 sul f. 133v, oggi ultimo del volume, fa supporre che al momento della sua redazione la fascicolazione attuale fosse già tale, e che quindi lo spostamento del f. 118 fosse già avvenuto, così come la perdita del secondo foglio bianco. Se accettassimo l’ipotesi di una legatura successiva all’ingresso nel Sant’Uffizio, diventerebbe improprio per questa prima fase di vita parlare persino di libro; ma la nota riporta la parola librum, e dunque è lecito pensare che le unità dei fascicoli costituissero già un volume e che il volume fosse già rilegato al momento dell’apposizione della nota. 19
Coperte con supporti di cucitura passanti erano frequenti anche in cartone alla forma, ma lo strozzamento della pelle allumata probabilmente non sarebbe stato così evidente. 20 Cfr. SPRUIT – TOTARO, The Vatican Manuscript cit., pp. 68-72. 21 23 settembre 1677.
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Non sappiamo, tuttavia, se l’apposizione della nota sia contemporanea al momento dell’acquisizione del manoscritto da parte del Sant’Uffizio o se la registrazione sia avvenuta successivamente riportando comunque la data d’ingresso. Inoltre, il deterioramento da infiltrazioni di umidità, attacchi micotici ed entomologici, è avvenuto sicuramente sul volume cucito, conservato in condizioni non idonee presso il Sant’Uffizio22. Altri suggerimenti per confermare o smentire tali tesi potrebbero essere forniti dalla nomenclatura utilizzata nei carteggi tra i protagonisti delle vicende del testo spinoziano. Quanto può risultare importante sapere quando i fascicoli sciolti sono stati rilegati a volume? Se come abbiamo dimostrato i fogli già presentavano dei danni prima della loro rilegatura, l’avallare una delle precedenti ipotesi potrebbe aiutarci, ad esempio, a rispondere a questa domanda: i danni meccanici sono stati provocati dall’incuria all’interno dei magazzini del Sant’Uffizio o sono il risultato del notevole uso23 dei dieci fascicoli come veicolo e strumento per la diffusione del testo spinoziano prima del suo passaggio al deposito della Congregazione? Stato di conservazione Lo stato di conservazione in cui il manoscritto Vat. lat. 12838 ci è pervenuto è prova dell’incuria con cui venne conservato presso il Sant’Uffizio e l’abbandono che ha subito lasciando che il tempo facesse la sua parte. L’arrivo in Biblioteca Vaticana ne migliorò parzialmente lo stato di conservazione, ma anche qui il volume venne collocato tra altri libri, privo di coperta, in condizioni che favorirono il degrado del primo e dell’ultimo foglio. Il degrado del volume è stato causato principalmente dalle infiltrazioni di umidità che hanno provocato la formazione di gore estese su tutto il blocco delle carte. In corrispondenza delle gore si è sviluppato un attacco microbiologico testimoniato dalla presenza di pigmentazioni violacee. Il supporto cartaceo si presenta feltroso, con fibre poco coese, ben visibili dalle foto effettuate allo stereomicroscopio24 (Tav. IX). Il fenomeno è stato provocato dalla perdita di collatura originale, parziale sulla superficie centrale dei fogli e quasi totale negli angoli inferiori di molti fogli e 22
In una nota autografa inedita F. Ehrle parla delle condizioni conservative in cui si trovavano i volumi al Sant’Uffizio: “sono molto danneggiati dai sorci e dall’acqua”. Per questa nota cfr. RITA, In margine al ritrovamento cit., pp. 478, 484. 23 Nei circa due anni trascorsi dalla sua creazione (attorno al 1675) alla consegna alla Congregazione (23 settembre 1677). 24 Leica M80®.
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sul primo e ultimo foglio. I danni meccanici si concentrano sui primi e sugli ultimi fogli, che presentano angoli e margini al tatto estremamente indeboliti e lacunosi. Un attacco entomatico ha interessato alcuni fogli creando delle piccole lacune nel testo; la morfologia dei camminamenti dal contorno regolare è tipica degli Anobidi. Il f. 42 presenta degli aspetti singolari in quanto perimetralmente è completamente lacunoso a causa di danni entomatici, forse causati da Lepismatidi; lacune poco estese interessano anche i ff. 40 e 43; le adiacenti risultano invece in buone condizioni. I primi e gli ultimi fogli sono maggiormente interessati dal degrado. Il primo si presenta imbrunito, feltroso, con gore soprattutto lungo i margini e con numerosi danni meccanici (lacune, strappi, pieghe). I margini superiore e destro sono lacunosi, probabilmente a causa di biodeterioramento. A colorazioni bruno-violacee si aggiunge sul margine destro del foglio una pigmentazione bruna puntiforme. L’eccessiva umidità e la continua abrasione subita hanno causato lo sbiadimento dell’inchiostro e una migrazione recto/verso, che si estende ai fogli successivi. Gli ultimi fogli sono quelli principalmente interessati dall’attacco fungino; è ipotizzabile un posizionamento orizzontale del volume e una concentrazione conseguente di umidità sugli ultimi fogli del volume (Tav. X). La cucitura risulta debole in alcuni punti, presenta un solo punto di rottura, ma è ancora funzionale. I due supporti di cucitura in pelle allumata, sebbene leggermente deformati, sono in buone condizioni, tranne per la perdita dei prolungamenti attraverso i quali il corpo del volume era ancorato alla coperta; si è conservato solo il prolungamento impiegato per assicurare il nervo di testa al piatto posteriore. La coperta è mancante. È intuibile un attacco microbiologico diffuso su di essa, che potrebbe aver indotto alla scelta di separarla definitivamente dal volume, forse nella fase in cui fu collocato sugli scaffali della Biblioteca Vaticana. Insieme al volume ci è pervenuto un frammento cartaceo manoscritto di dubbia collocazione, di dimensioni diverse dai fogli del manoscritto, degradato da imbrunimento diffuso, gore, pigmentazione violacea centrale derivante da pregresso attacco microbiologico25.
25 Il comune degrado che interessa il volume e il frammento cartaceo manoscritto inducono a ipotizzare che il frammento facesse già parte del volume quando si sono verificati i danni. Per ulteriori informazioni sulla nota, cfr. TOTARO – SPRUIT – STEENBAKKERS, L’Ethica di Spinoza cit., pp. 595-597.
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Intervento di restauro Le analisi eseguite su un manufatto consentono a un oggetto muto di narrare la propria storia e di guidare le riflessioni e le azioni del restauratore che si accinge a intervenire. Le indagini possono completare i dati storici, fornendo informazioni inerenti la caratterizzazione dei materiali costitutivi principali e il loro stato di conservazione, indirizzando la scelta dei materiali e delle metodologie conservative più opportune. Per questo, solo dopo aver interrogato il volume con gli strumenti a disposizione, hanno avuto inizio le operazioni di restauro. La documentazione fotografica, mediante fotocamera reflex26, ha accompagnato tutte le fasi27 dell’intervento. È stato effettuato un restauro del volume senza smontaggio, ossia senza rimozione della cucitura, evitando di alterare la struttura pervenutaci e le informazioni storiche che ne derivano. È seguita la pulitura a secco. Essa produce sui fogli evidenti vantaggi: allontana le sostanze potenzialmente dannose per la conservazione senza eccessivi traumi per il supporto; riduce il rischio di penetrazione dei depositi superficiali estranei all’interno della carta durante le eventuali, successive, operazioni a umido, consentendo in alcuni casi anche una migliore leggibilità del testo. È stata realizzata mediante pennelli a setole morbide e gomma naturale vulcanizzata28. Non è stato rimosso il deposito dalla consistenza cerosa presente sul verso del f. 7, poiché esso non impediva la leggibilità del testo. Le evidenze dei solchi di incisione, la feltrosità del supporto cartaceo, le manifestazioni di attacco microbiologico e gli aloni in prossimità degli inchiostri metallo-gallici sono stati osservati allo stereo-microscopio. Le condizioni conservative degli inchiostri erano discrete29: è stato rilevato, infatti, un imbrunimento dell’area inchiostrata, ma nessun principio di perforazione del supporto scrittorio. Trattamenti acquosi in presenza di inchiostri metallo-gallici possono potenzialmente determinare alterazioni nella texture della carta e nell’intensità cromatica dell’inchiostro, migrazio26
Nikon D60®. È necessario e fondamentale raccogliere una dettagliata documentazione prima di intervenire, in modo da registrare ogni minimo dettaglio che potrebbe essere alterato durante i trattamenti. Altrettanto importante è documentare le diverse fasi dell’intervento e i materiali utilizzati, favorendone una eventuale rimozione futura. 28 Smoke off sponge®. 29 Secondo il modello denominato Condition Rating System che ha evidenziato l’evoluzione visibile della corrosione degli inchiostri ferro-gallici, creando un sistema per la classificazione del grado di deterioramento. Cfr. B. REISSLAND, J. HOFENK DE GRAAFF, Condition Rating for Paper Object with iron-gall ink, in ICN-Information 1 (2001), p. 2. 27
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ne di ioni ferro e rame, ma possono allo stesso tempo rimuovere sostanze solubili in acqua in grado di catalizzare meccanismi di degrado. Nonostante quest’ultimo dato positivo, si è deciso di limitare i trattamenti di lavaggio solo al primo foglio, al frammento staccato e all’ultimo fascicolo in quanto particolarmente deteriorati, con la finalità di rimuovere le sostanze di degrado che l’umidità aveva concentrato in estese gore e di trattare l’attacco microbiologico probabilmente inattivo, ma non indagato, con soluzione idroalcolica (70% etanolo; 30% acqua). L’uso di etanolo nel restauro cartaceo è molto diffuso e trova differenti applicazioni. Viene impiegato come solvente in grado di veicolare diverse sostanze, per impacchi mescolato a eteri di cellulosa, come solvente nella rimozione di macchie, adesivi, nastri adesivi, come agente bagnante prima di un trattamento acquoso. Negli ultimi quindici anni l’etanolo è stato considerato dai conservatori un disinfettante chimico importante per controllare e affrontare attacchi fungini. Studi rilevanti su questa specifica applicazione e sulla sua effettiva efficacia sono comunque molto scarsi e persino contraddittori. Alcuni autori considerano l’etanolo efficace e sicuro, in possesso di proprietà fungicide, mentre altri lo ritengono inefficace, perché manca di proprietà sporicide; altri ancora suggeriscono che l’etanolo possa essere un attivatore della germinazione di spore. Queste contraddizioni rendono evidente che il metodo ha bisogno di ulteriori indagini; tuttavia il trattamento idroalcolico resta per il momento il miglior compromesso tra efficacia e sicurezza per l’operatore30. Prima di procedere con le operazioni a umido sono stati effettuati dei test di solubilità degli inchiostri con una soluzione idroalcolica (70 % etanolo) analoga a quella utilizzata per l’umidificazione prima del lavaggio. Il test è risultato negativo. Il primo foglio, la nota manoscritta e l’ultimo fascicolo disancorato dal volume per la rottura del filo di cucitura sono stati nebulizzati con soluzione idroalcolica e successivamente lavati per immersione31; quindi ricollati a pennello con metilidrossipropilcellulosa in soluzione acquosa al 2%32. Il restauro dei fogli è stato preceduto da una fase di ricerca preliminare finalizzata a individuare l’adesivo più idoneo da utilizzare in presenza degli inchiostri ferro-gallici per la ricollatura33 delle carte lavate e per il risarcimento delle lacune. 30 Cfr. M. NITTERÈUS, Ethanol as Fungal Sanitizer in Paper Conservation, in Restaurator 21 (2000), pp. 101-115. 31 Per 20 minuti in acqua deionizzata. 32 Culminal MHPC2000®. 33 Effettuata a pennello con Culminal MHPC2000® al 2%.
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In primo luogo è stato considerato il possibile impiego di gelatina B34, per le sue proprietà di complessare gli ioni rame e ferro degli inchiostri metallo-gallici. L’elevata porosità della carta, già testata durante la verifica della solubilità degli inchiostri, ha reso tuttavia il supporto molto assorbente e l’impiego di un adesivo in solvente acquoso avrebbe generato ulteriori gore. Per la stessa ragione non è stato impiegato amido. Si è deciso di utilizzare una metilidrossipropilcellulosa preparata in acqua deionizzata ad alta concentrazione (6%), forzandone successivamente la diluizione in alcool etilico mediante l’impiego di un agitatore fino al 3%. I gruppi propilici conferiscono idrofobicità e buona solubilità in solventi organici polari. La metilidrossipropilcellulosa è stata impiegata per la preparazione di veli precollati35 riattivati successivamente con etanolo. Due veli giapponesi36 sono stati utilizzati per il consolidamento di angoli e margini e per la sutura di strappi, a seconda del tono cromatico della carta. Un velo giapponese di bassissima grammatura37 è stato utilizzato per velare il verso del primo foglio e consolidare angoli di fogli meno danneggiati e su porzioni di supporto recante scrittura. Il risarcimento delle lacune è stato effettuato con carta38 e velo giapponese, o con un triplo strato costituito da carte giapponesi a seconda dello spessore e della tonalità cromatica dell’originale. Le lacune causate da insetti sono state risarcite solo laddove il supporto si presentava troppo fragile per la manipolazione e il danno rischiava di incrementarsi nel corso del tempo (Tav. XI). Un filo in lino tinto con acquerelli39 è stato utilizzato per ricongiungere il filo di cucitura spezzato al centro di un bifoglio (ff. 99v-100r). La logica del minimo intervento ha riguardato anche la decisione di non reintrodurre una nuova coperta a protezione del corpo delle carte, non essendoci pervenuta l’originale e avendo quale evidenza per la ricostruzione soltanto la strozzatura dell’estremità del nervo; una nuova coperta avrebbe richiesto il prolungamento dei supporti di cucitura, operazione troppo traumatica per lo stato in cui versavano i nervi originali. Sono stati aggiunti dei fogli di guardia a protezione del primo e dell’ultimo foglio, co34 Cfr. G. KOLBE, Gelatine in Historical Paper Production and as Hinibing Agent for IronGall Ink Corrosion on Paper, in Restaurator 25 (2004), pp. 26-39. 35 Cfr. A. PATAKI, Remoistenable Tissue Preparation and its Practical Aspects, in Restaurator 30 (2009), pp. 51-69. 36 Japico RL623070C/RL500623070C Kizuki Kozo, 100% kozo-Crème/Yellow 6 g/m2; Japico 70623051/R1 100% Kozo 3,8 g/m2. 37 Berlin tissue® 75% Mitsumata e 25% Kozo 2 g/m2. 38 Vangerow 25509® 22 g/m2 centrale e Japico T625252® su recto e su verso. 39 Winsor & Newton®.
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stituiti da un bifoglio in carta giapponese40 cucito con filo di lino ancorato alla catenella della cucitura originale, per proteggere il blocco delle carte41. Sul recto della seconda guardia posteriore è stato adeso, tramite una brachetta in carta giapponese e metilidrossipropilcellulosa, il foglio sciolto i cui margini irregolari non sono stati reintegrati (Tav. XII). Il volume è stato protetto ulteriormente da un contenitore semirigido in cartone conservativo42 con dorso a vista in polietilene43 (Tav. XIII). Le alterazioni minime e parziali cui il supporto cartaceo è stato sottoposto durante l’intervento di restauro consentiranno in futuro di sottoporre il manoscritto ad ulteriori indagini diagnostiche. Conclusioni La conoscenza del manufatto ci ha indirizzato verso scelte ben vagliate tra conservazione e fruizione. A differenza di altri beni culturali, dei quali è possibile una “lettura” a distanza, la fruizione del libro richiede che esso venga toccato, aperto, sfogliato. L’apparente contrasto consultazioneconservazione è, tuttavia, facilmente superabile attraverso una corretta e ponderata fruizione44. Negare la consultazione del libro, infatti, equivarrebbe alla sua inesistenza45. La consapevolezza di un’inevitabile perdita o alterazione definitiva d’informazione storica durante l’intervento di restauro ha guidato verso decisioni misurate46 ma necessarie: bisogna far attenzione, infatti, affinché la conoscenza guidi ma non limiti eccessivamente l’operatività del restauratore47 . 40
Japico 70641171 40% Kozu, 60% Zellstoff 67 g/m2.
41 Una minima reintegrazione cromatica è stata effettuata con acquerelli Winsor&Newton
sulla porzione di filo di cucitura ancorata alle catenelle originali e dunque visibili sul dorso. 42 Japico 10.120.970. 43 Mylar®. 44 La Biblioteca Vaticana ne è un chiaro esempio: della conservazione e della consultazione per lo studio ha fatto i suoi pilastri dalle origini. Già Franz Ehrle, Prefetto della Biblioteca Vaticana prima e poi Cardinale Bibliotecario, esprime il suo parere in merito al dilemma: “Vi deve esser dunque un giusto equilibrio fra la cura del conservarli e quella del lasciarli usare”; cfr. F. EHRLE, Della conservazione e del restauro dei manoscritti antichi, in Riviste delle biblioteche e degli archivi 9 (1898), p. 25. 45 Del rimanere anonimo, invisibile, inesistente per molto tempo in uno scaffale ne sa qualcosa il manoscritto spinoziano in questione. 46 La prudenza deve essere l’ispiratrice di ogni intervento per evitare che paradossalmente il restauro diventi momento di distruzione. 47 Emmanuele Casamassima individua una contraddizione insita nella natura stessa del restauro: “più si affina la conoscenza dell’oggetto, e più viene frenata l’operatività. Il problema del conservatore consiste proprio nel superare tanto il divario tra pratica e teoria, quanto,
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Restaurare seguendo un’etica del minimo intervento48 ha significato cercare un equilibrio tra l’alterazione minima degli elementi strutturali49, la minore intromissione possibile di elementi e materiali estranei50 e l’efficacia conservativa. È stata assicurata ai nostri posteri la lettura del messaggio trasmesso dalla sua componente materica: il manoscritto è circolato in fascicoli, è stato molto usato nei primi anni della sua creazione per poi essere abbandonato nei magazzini del Sant’Uffizio, quindi trasferito negli scaffali della Vaticana dove è rimasto ignorato fino alla recentissima scoperta della sua singolarità. Giunto a noi in veste umile, in veste umile lo restituiamo. Tale scelta ha consentito il ritorno alla fruizione di un manoscritto tanto singolare, senza cancellarne le tracce che fedelmente ne riflettono le vicende storiche, compresi i segni di degrado, affinché non abbia impedimento chi in futuro, mosso da spirito di ricerca attento, competente, paziente, coraggioso e curioso si appresti ad approfondire le indagini e far luce sui molti interrogativi che attendono ancora una risposta.
dialetticamente, la contraddizione, che a prima vista in fatto di restauro sembra insuperabile, tra conoscenza e operatività. Compito non facile…”; cfr. E. CASAMASSIMA, Le contraddizioni del restauro, in Oltre il testo. Unità e strutture nella conservazione e nel restauro dei libri e dei documenti, a cura di R. CAMPIONI, Bologna 1981, p. 96 48 D’obbligo è il ricordo delle parole di Franz Ehrle, figura fondamentale e indiscussa per la storia del moderno restauro librario: “Non si deve mai agire sull’originario stato dei fogli più profondamente e più fortemente di quanto sia assolutamente necessario per la loro conservazione” (cfr. F. EHRLE, Della conferenza Internazionale di San Gallo, in Riviste delle biblioteche e degli archivi 20, 1909, p. 126). Minimo intervento non è certamente sinonimo di facilità e velocità, anzi spesso è il contrario. Innanzitutto prevede da parte dell’operatore una conoscenza approfondita delle strutture librarie e delle conoscenze basilari di codicologia e bibliologia, che consentano di distinguere e riconoscere l’importanza degli elementi storici; richiede inoltre che l’operatore sia in grado di valutare e bilanciare le perdite — o alterazione storiche — e i benefici conservativi che ne derivano. Inoltre, spesso, è molto più complesso a livello operativo intervenire a libro montato, ad esempio nel ricostituire un bifoglio alla piega, come è facilmente intuibile. 49 Nel nostro caso specifico si è concretizzato con il mantenimento della cucitura. 50 Di qui la scelta di non riproporre alcuna coperta, ma di puntare soltanto sulla reintegrazione delle lacune presenti in porzioni della carta sottoposte a sollecitazioni meccaniche, dalle quali il danno avrebbe potuto estendersi nel corso del tempo, sul consolidamento di angoli e margini in cui la feltrosità della carta impediva la manipolazione, e sull’introduzione di due bifogli a protezione del primo e dell’ultimo foglio.
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 12838 prima del restauro.
Tav. II – Segni sul margine superiore, f. 84v.
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Tav. III – Bifogli a stampa che avvolgono i fascicoli V e VI.
Tav. IV – Attuale composizione degli ultimi fogli.
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Tav. V – Fili della cucitura autonoma dei fascicoli V e VII.
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Tav. VI – Ricostruzione dei fascicoli IX e X.
Tav. VII – Ricostruzione del I fascicolo.
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Tav. VIII – Estremità posteriore del supporto di cucitura di testa.
Tav. IX – Decoesione delle fibre del supporto cartaceo.
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Tav. X – Danni meccanici e microbiologici sugli ultimi fogli.
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Tav. XI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 12838 dopo il restauro, ff. 1r e 133v.
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Tav. XII – Collocazione della nota manoscritta.
Tav. XIII – Volume nel contenitore.
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LE DISSERTAZIONI DE LINGUA HELLENISTICA DI PIETRO LASENA (1590-1636) TENUTE ALL’ACCADEMIA BASILIANA (BARB. LAT. 1780) INTRODUZIONE 1. Qualche informazione su Pietro Lasena, sull’Accademia Basiliana e sulle dissertazioni De lingua Hellenistica Quanto sappiamo sul napoletano Pietro Lasena (1590-1636) deriva dalla Vita scritta dal suo amico Jean-Jacques Bouchard poco dopo la sua morte, nel 16371. Le voci dedicate a Lasena in repertori biografici o in altre sedi dipendono direttamente o indirettamente da Bouchard. Il personaggio è oggi quasi dimenticato (il DBI non ha previsto una voce a lui dedicata2), * Nelle citazioni e nei titoli ho costantemente normalizzato la punteggiatura e l’uso delle maiuscole; dove ricorre il nesso ij è sempre riprodotto con ii. Ringrazio Marco Buonocore e Sever Voicu che hanno letto il dattiloscritto della presente introduzione; la responsabilità di quanto scritto è naturalmente soltanto mia. 1 Petri La-Senae Vita, a IOANNE IACOBO BUCCARDO PARISIENSI conscibta (!) ad Urbanum VIII. Pontificem Max., Romae, Apud Vitalem Mascardum 1637. Bouchard (1606-1641), letterato, erudito, ma anche libertino e avventuriero, era giunto a Roma nel 1630, dove da Peiresc fu presentato al Card. Barberini. Nel ’32 partì per Napoli, dove conobbe Lasena, e, ritornato a Roma nel ‘34, fece stabilmente parte della familia del Cardinale. L’opera principale di Bouchard è il Journal, edito da E. KANCEFF in due volumi nel 1971 (Oeuvres de Jean-Jacques Bouchard par E. KANCEFF), e successivamente sempre in due volumi (il primo del 1976, il secondo dell’anno successivo), con un ampia introduzione che costituisce il contributo principale sul libertino francese. La parte del Journal relativa al viaggio nel regno di Napoli è stata parzialmente tradotta in italiano (Viaggio di un Francese spia e libertino nella Capri del 1600, traduzione dal manoscritto di J.-J. BOUCHARD, Capri 1987). Sull’argomento cfr. anche Un Parisien à Rome et à Naples en 1632. D’après un manuscrit inédit de J.-J. Bouchard, par L. MARCHEIX, Paris (senza data). Ulteriore bibliografia in I. HERKLOTZ, Die Academia Basiliana. Griechische Philologie, Kirchengeschichte und Unionsbemühungen im Rom der Barberini (Römische Quartalschrift, 60. Supplementband), Freiburg, 2008, s.v. 2 L’attenzione su Lasena è stata portata di recente da Nunzio Ruggiero che ha pubblicato una lettera inedita di Lucas Holste a Lasena (‘Un’epistola inedita a Pietro Lasena. Per una storia delle relazioni erudite tra Roma e Napoli negli anni Trenta del Seicento’, Aprosiana 9 [2001], pp. 169-194). Le informazioni ad oggi più complete su Lasena e sulle due dissertazioni di cui nel seguito ci si occupa sono in I. HERKLOTZ, ‘The Academia Basiliana. Greek Philo-
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 285-330.
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sebbene non sia ignoto agli studiosi del periodo che si sono occupati dei Barberini, al servizio dei quali (su iniziativa proprio di Bouchard) si era trasferito da Napoli negli ultimi anni di vita. Al momento del suo trasferimento, nel 1634, Lasena, che aveva studiato presso Pietro Arcudio, aveva già pubblicato nel 1614 il libro De’ Vergati, dedicato prevalentemente all’analisi della tradizione poetica italiana, e nel 1624 l’Homeri Nepentes, il cui tema è, giusta il titolo, la nepente, il pharmakon di cui si parla nel IV libro dell’Odissea. L’impostazione del libro, che privilegia l’interpretazione ermetica, ha indotto Antoine Adam a ritenere che Lasena facesse parte dei Rosacroce, ma l’ipotesi appare poco solida. Postumi sono invece il Cleombrotus (1637) e il Dell’Antico ginnasio napoletano (1641; 16882). La biografia di Bouchard fornisce un Index librorum Petri La-Senae diviso in Editi, Perfecti e Affecti3. Lo stesso indice è riprodotto nel postumo Cleombrotus4. L’intera produzione di Lasena meriterebbe uno studio specifico, che, per quanto io sappia, non è stato ancora svolto. Solo così si potrà inquadrare la personalità dello studioso, che senza adeguati riscontri resta ancora al di qua di una piena comprensione. La mia attenzione si concentrerà invece su due inediti di Lasena, noti però da diverso tempo agli studiosi, dei quali verrà fornita un’edizione. Si tratta delle due dissertazioni De Hellenistica lingua tenute da Lasena all’Accademia Basiliana rispettivamente il 29 novembre 1635 e il 27 febbraio 1636, contenute nel codice Barb. lat. 1780 ai ff. 1r-31r [d’ora in poi B]5. logy, Ecclesiastical History and the Union of the Churches in Barberini Rome’, in I Barberini e la cultura europea del Seicento, Atti del convegno internazionale, Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, 7-11 dicembre 2004, per cura di L. Mochi Onori, S. Schütze, F. Solinas, Roma 2007, pp. 147-154: 149-150 e ID., Die Academia Basiliana cit., s. v. 3 BUCCARDI Petri La-Senae Vita cit., p. 16. 4 PETRI LA SENA I. C. NEAP., Cleombrotus, Sive De iis, qui in aquis pereunt, Philologica Dissertatio, Romae, Typis Iacobi Facciotti, 1637, ff. a3v-a4r. 5 Sulle due dissertazioni si veda I. HERKLOTZ, ‘The Academia Basiliana’ cit. e ID., Die Academia Basiliana cit., pp. 101-107. Il Barb. lat. 1783 si compone di ff. + 1-33 + ; per i ff. 1-31 è apposta una numerazione a matita nell’angolo superiore destro del recto, ma alcuni dei primi fogli hanno una precedente numerazione a penna poi non continuata: f. 3 [= f. 1 della num. a matita], 4 [=2], 5 [= 3], 6 [sic = 5]. Nei ff. 32r-33r (numerazione a penna nell’angolo superiore destro) è contenuto un Responsum Problematis riguardante un passo di Marco Aurelio: l’imprimatur si data al 5 dicembre 1666 (così in calce al Responsum). Nei diversi volumi di bibliografie dei manoscritti vaticani, prima a cura di M. BUONOCORE, poi di M. CERESA, le cui segnalazioni giungono all’anno 2000, del codice non si fa mai menzione. La bibliografia corrente online dei codici vaticani segnala ad oggi (giugno 2011) solamente l’intervento al Convegno I Barberini e la cultura europea del Seicento di I. HERKLOTZ (‘The Academia Basiliana’ cit.). La prima menzione del codice che si conosca è in R. DE MATTEI, ‘Dispute filosofico-politiche nelle accademie romane del Seicento’, Studi Romani 9 (1961), pp. 148167, a p. 149 n. 3 (cfr. HERKLOTZ, Die Academia Basiliana cit., p. 262 n. 19 [prima che io consultassi il libro di Herklotz, l’articolo mi era stato segnalato da Thomas Cerbu, che ringrazio]).
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L’Accademia Basiliana, che era stata da poco fondata dal cardinale Francesco Barberini, sotto il patrocinio del papa, lo zio Urbano VIII (la prima seduta si tenne il 13 giugno 1635), si occupò prevalentemente di temi attinenti alla liturgia greca, alla letteratura sacra e alla storia ecclesiastica in greco6. Ebbe breve vita: l’ultima seduta (la quarantaduesima) si tenne il 13 agosto 1640. Nelle dissertazioni è costante la lode a Urbano VIII e al suo nipote Francesco perché si sono fatti promotori dello studio del greco. Ad esempio Henri Dormal nella Dissertatio tenuta il 17 agosto 1637 dal titolo Epistolam Beati Pauli Apostoli ad Romanos Graece, non Latine fuisse scriptam. Contra Salmeronem lib. p°. prol. 35. sic scribentem: Quia cum Paulus omnes linguas, et ob id, Latinam calleret (due copie: Vall. Allacc. LX, 11 e 12), dopo aver ricordato che nell’antica Roma il greco era diffusissimo e che a poco a poco i Romani erano divenuti esperti della lingua più dei Greci stessi, conclude: «Optandum erat studium huius consumatissimae linguae constantius in Urbe perdurare, sed enim, uti fieri amat, pertinacius haeserunt vitia quam virtutes, et nisi Deus ὡς ἀπὸ μηχανῆς hoc ferreo saeculo, quo omnia praeclara eviluerunt, Ecclesiae gubernaculis admovisset Urbanum Pontificem, qui et hunc in annum vivat, et plures, videbantur prorsus emoritura haec Graecae linguae studia. Ille suo exemplo et industria non solum reliquias nobilissimae gentis et linguae jam intermortuae animavit, sed et tacentem Latinam musam cythara suscitavit et in universum omnes docuit in quacunque facultate ad summum perveniri non posse, absque amica utriusque linguae conjuratione» (Vall. Allacc. LX, 11, f. 99r = Allacc. LX, 11, f. 108v)7. Lasena, dal canto suo, non esita a paragonare il card. Barberini a Tolomeo Filadelfo, promotore, secondo il leggendario racconto dello Pseudo-Aristea, della traduzione in greco della Bibbia, e ricorda la copia di testi greci di storia della Chiesa manoscritti da lui fatti raccogliere per promuoverne la pubblicazione sia del testo originale sia della traduzione latina, nonché la benemerita iniziativa di fondare l’Accademia Basiliana.
6 Sull’Accademia Basiliana è ora fondamentale HERKLOTZ, Die Academia Basiliana cit. Tra la bibliografia precedente da segnalare almeno: M. MAYLENDER, Storia delle accademie d’Italia, I, Bologna 1926, p. 434; T. MINISCI, ‘L’Accademia Basiliana di Roma (1635-1640)’, Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata 1 (1947), pp. 51-54; TH. CERBU, Leone Allacci (1587-1669): the Fortunes of an Early Byzantinist, Thesis, Harvard University Cambridge, Massachusetts, October 1986, pp. 64 e 95 n. 102; I. HERKLOTZ, ‘The Academia Basiliana’, loc. cit. (ulteriore bibliografia alla n. 2 a p. 152). 7 La foliazione è quella a matita nel margine inferiore del recto Vall. Allacc. LX, 11 presenta la lezione errata Latinum [lat-] per Latinam. Un secondo esempio, tra altri, è rappresentato dalla dissertazione del monaco basiliano Basilio Pittella recitata il 15 agosto 1640 (due copie: Vall. Allacc. LX, 5 [f. 51-r-v] e 6 [f. 58-r-v]).
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Nei Fasti dell’Accademia pubblicati da Giuseppe Carpani nel 16828 le due dissertazioni di Lasena sono così segnalate9: «Die 5. Decembris 1635. VIII. [sc. seduta dell’Accademia] D. Petrus Lasena ad Lectionem. / D. Lucas Holstenius ad Dubium»10, «Die 27. Februarii 1636. XII. D. Petrus Lasena ad Lectionem. / N. D. Abbas Carlevalius ad Dubium». Le due orazioni de lingua Hellenistica sono segnalate tra i libri perfecti nell’Index librorum Petri La-Senae aggiunto alla biografia di Bouchard, che in precedenza menziona le dissertazioni in questi termini: «Primum ergo doctrinae suae facundiaeque documentum in Graeca Basilianorum Monachorum Academia, coram eruditissimo Principe Francisco Cardinali Barberino, semel atque iterum dedit; gemina oratione, maximo docti consessus applausu, in utramque partem habita, qua nuper exortam inter criticos de lingua Hellenistica controversiam, docte atque ingeniose excussit11». Lo stesso Index, come si è già detto, è stato riprodotto nel postumo Cleombrotus12. A quest’edizione dell’indice rimanda la vita di Pietro Lasena premessa alla seconda edizione dell’Antico Ginnasio Napoletano13, dove le due orazioni sono così ricordate: «… hebbero occasione gl’huomini tutti dotti, che dimoravano in Roma di ammirare la sua eloquenza, e dottrina nelle due orazioni de lingua Hellenistica, che egli recitò nell’Accademia Basiliana, ove si era istituita una adunanza di persone letterate per promuovere lo studio delle sacre lettere con la cognizione della lingua greca»14. Più oltre15, vengono ricordate le opere edite e inedite di Lasena, sulla base dell’indice di Bouchard, e a proposito 8 Orationes IOSEPHI CARPANI ROMANI … additis Fastis Academiae Basilianae, Romae, Typis Ignatii de Lazaris, 1682. I Fasti sono contenuti alle pp. 219-46, ripartiti tra una presentazione in cui si descrive la storia dell’Accademia (pp. 219-24, ripubblicata da MINISCI, ‘L’Accademia Basiliana’ cit., p. 53), la Series Academiarum (pp. 225-42, riedita da HERKLOTZ, Die Academia Basiliana cit., pp. 261-272) e i Nomina Academicorum. 9 Rispettivamente alle pp. 228 e 229; in HERKLOTZ, Die Academia Basiliana cit., pp. 262 e 264. Lasena intervenne ad dubium durante la 19a seduta: «Die 6. Augusti 1636. XIX. D. Iacobus Accarisius ad Lectionem / D. Petrus Lasena ad Dubium» (ed. CARPANI, p. 232 = ed. HERKLOTZ, p. 266). Nell’Accademia Basiliana era previsto che ad una lectio si alternasse un dubium. Come scrive Carpani nei Fasti (op. cit.) «Munus erat: duos semper praemonere, alterum qui Lectionem haberet, alterum qui Dubium propositum solveret; sine quorum praesentia nulla Academia fuit habita» (passo citato anche in DE MATTEI, ‘Dispute’ cit., p. 149). 10 La datazione è errata, come rileva Herklotz: la prima orazione è datata nel codice III Kal. Decembris. 11 BUCCARDI Petri La-Senae Vita cit., pp. 11-12. 12 LA SENAE Cleombrotus cit., ff. a3v-a4r. 13 Dell’Antico Ginnasio Napoletano. Opera posthuma di PIETRO LASENA Dedicata al Sig.r Giuseppe Valletta, In Napoli a’ spese di Carlo Porpora. L’autore della biografia si firma con la sigla D. G. A. 14 Ibid., f. b 3v, con nota a. l.: «Veggasi il principio del Cleombroto». 15 Ibid., ff. c 1v-c 2r.
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del De lingua Hellenistica si dice: «Questo libro fu dedicato al Cardinal Barbarino, al quale il lasciò anche l’Autore, come si raccoglie dall’Eritreo; e vi haveva il nostro Pietro spiegati i suoi sentimenti intorno alla contesa, ch’ebbe Claudio Salmasio con Daniello Heinsio, facendosi a credere questi, che li Giudei, che non dimoravano nella Giudea parlassero la lingua Hellenistica, cioè una lingua ad essi particolare, quando volevano parlar greco; e all’ncontro il Salmasio costantemente affermava, che mai fosse stata nel Mondo questa lingua, ne che si parlasse da Giudei». L’Eritreo qui menzionato è Giovanni Vittorio Rossi, la cui Pinacotheca contiene una biografia di Lasena16, dove le due orazioni sono ricordate in questo modo, essenzialmente sulla base della testimonianza di Bouchard: «Fuit autem in eo [sc. in Petro La-Sena] non solum ingenium, sed oratorium etiam ingenium, quod duobus orationibus ostendit, habitis ab eo in Academia Graeca Basiliana, in quibus disputationem a criticis de lingua Hellenistica commotam, in utranque partem disserendo, docte copioseque tractavit»17. Bouchard ebbe sicuramente un ruolo decisivo nella conservazione delle due dissertazioni di Lasena. Come mi informa Thomas Cerbu — che ringrazio — le annotazioni ai margini di B sono della mano di Bouchard. Non mi sono noti autografi di Lasena, ma tenderei ad escludere che il testo di B sia autografo. Credo si tratti di una messa in pulito tratta dall’autografo, verosimilmente una brutta copia, di Lasena, fatta eseguire dopo la sua morte da Bouchard, il quale revisionò il testo apponendo i marginali. In particolare al margine del f. 26v Bouchard supplisce una parte del testo che il copista aveva omesso. Resta incerto se le annotazioni a margine, che segnalano i loci citati nel testo, fossero già tutte già nell’autografo di Lasena o se sia stato Bouchard a rintracciarle in tutto o in parte. Le due dissertazioni di Lasena si inseriscono perfettamente per argomento (la lingua in cui furono scritti la traduzione greca dei Septuaginta e il Nuovo Testamento) nel filone di ricerca promosso dall’Accademia Basiliana; ma va detto che l’autore, almeno a giudicare dalla produzione edita, non si era mai occupato di temi attinenti alla filologia biblica o comunque con implicazioni dottrinali e teologiche. Di ciò pare essere consapevole lo stesso Lasena, che in un certo senso si presenta come nuovo al campo, e, sebbene non abbia remore a muovere critiche persino a Bellarmino, aggiunge (f. 22r), con richiamo scritturistico (cf. Rom. 11,20), di non volere,
16 IANI NICII ERITHRAEI Pinacotheca Imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude Virorum, qui, auctore superstite, diem suum obierunt, Colon. Agrippinae, Apud Cornelium ab Egmond, 1643, pp. 106-108. 17 Ibid., pp. 107-108.
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in questo modo, tam altum sapere. Potrebbe non trattarsi di una formula di maniera18. 2. La «lingua ellenistica» Il passo prima citato della vita di Pietro Lasena premessa alla seconda edizione dell’Antico Ginnasio presenta un anacronismo patente. La disputa tra Claude de Saumaise e Daniel Heinsius intorno al concetto di «lingua ellenistica» ebbe luogo dopo la morte di Lasena, tra il 1639, anno della pubblicazione dei Sacrorum exercitationum ad Novum testamentum libri XX di Heinsius, e il 1642, anno in cui apparvero il De Hellenistica lingua commentarius di Saumaise, che polemizzava contro Heinsius senza mai nominarlo, e la replica di quest’ultimo, Dissertatio de Hellenistis et lingua Hellenistica. Seguiva nello stesso anno una controreplica anonima, il Funus linguae Hellenisticae, tradizionalmente attribuita a Saumaise, anche se non è mancato chi autorevolmente ha contestato la paternità salmasiana19. L’interpretazione di Saumaise fu ritenuta risolutiva da Johann Albert Fabricius e fu comunemente accolta dagli studiosi dell’Ottocento e in particolare da Johann Gustav Droysen, l’ ‘inventore’ del concetto storiografico di «ellenismo». In realtà la discussione intorno alla «lingua ellenistica» può essere fatta risalire ai primi decenni del XVI secolo, sebbene l’aggettivo «ellenistico» in riferimento alla lingua venne usato per la prima volta solamente nel 1612 da Johann Drusius (Jan van der Driesche, 1550-1616). I cenni di Drusius alla questione sono fugaci (ma lo studioso aveva preparato un lessico delle voci ‘ellenistiche’ che, per quanto io sappia, non vide mai la luce20); chi riprese il tema in modo analitico e parlò in maniera argomentata di «lingua ellenistica» a proposito della lingua del Nuovo Testamento, utilizzando il termine ‘lingua’ in un’accezione tecnica, fu Daniel Heinsius, nell’Aristarchus sacer seu exercitationes ad Nonni Paraphrasin in Johannem, la cui prima edizione è del 162721. Drusius aveva introdotto il concetto di «lingua ellenistica» commentando Marco 7,2 e lo aveva ripreso nel commento ad Atti degli Apostoli 6,1, il passo famoso dove si parla degli Ἑλληνισταί. In effetti tutta la discussione sulla lingua del Nuovo Testamento da cui si sarebbe originato il dibattito sulla «lingua ellenistica» era stata suscitata dalla menzione degli Ellenisti negli Atti (oltre che in 6,1, la parola 18
Sul passo si veda infra. R. PFEIFFER, History of Classical Scholarship. From 1300 to 1850, Oxford 1976, p. 123 n. 1. L. CANFORA (Ellenismo, Roma – Bari 1987, p. 98) non prende posizione in merito limitandosi a definire il Funus «anonimo». 20 Si veda infra. 21 Nel 1639 fu ristampato in calce alle Exercitationes Sacrae. 19
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ricorre anche in 9,29 e in 11,20). Mi sembra utile fornire alcuni cenni per meglio inquadrare il dibattito in cui si inseriscono le orazioni di Lasena. I Padri avevano interpretato il termine Ellenisti riferendolo a coloro che pur essendo Ebrei parlavano greco. L’interpretazione si trova esposta in Giovanni Crisostomo, Ecumenio e Teofilatto. Essa divenne comune a partire almeno dal XV secolo: gli Ebrei parlanti greco erano gli Ebrei della diaspora. Nicola de Lira così commentava Atti 6,1: «Omnes erant Iudei sed aliqui erant nati in Iudea, et illi dicuntur hic Hebrei, et aliqui in Grecia ex Iudeis ibidem per Antiochum dispersis, et illi dicuntur hic Greci. Et similiter illi qui de gentilitate erant ad Iudaismum conversi». Anche Erasmo fece sua l’opinione corrente. Così il commento allo stesso passo degli Atti: «Murmur Graecorum] Non est Ἑλλήνων sed Ἑλληνιστῶν, Hellenistarum. Nam Judaei Graecos appellabant omnes paganos et alienos a lege Mosaica. Et probabile est in hoc numero nondum fuisse quenquam gentium; proinde non Ἕλληνας dixit, sed Ἑλληνιστάς Judaeos qui nati fuerant aut vixerant inter gentes, ejusque gentis ubi vixerant lingua loquebantur. Itaque qui nati erant in regionibus Judaeorum Judaeos alibi natos aliaque loquentes lingua pro semipaganis ducebant, quos hic non appellat Judaeos, quod religionis erat nomen, sed Hebraeos, quod magis indicat gentem et nationem». Sfogliando i Critici sacri, una raccolta di interventi esegetici biblici prevalentemente di studiosi protestanti, edita ad Amsterdam nel 169822, si nota come la spiegazione di Erasmo «sia ripetuta sostanzialmente invariata per circa due secoli»23. Concordano con Erasmo François Vatable, Isidoro da Chiari (Clario) e Hugo Grotius24. Qualche pagina oltre nei Critici Sacri (coll. 201-202) ci si imbatte in un secondo passo erasmiano di notevole importanza riguardante la lingua parlata dagli apostoli. Mi riferisco al commento al capitolo 10,38 degli Atti. A proposito dell’episodio della glossolalia susseguente alla discesa dello Spirito santo, Erasmo afferma che all’epoca era diffusa un’unica lingua 22 Critici Sacri, sive Annotata doctissimorum virorum in Vetus ac Novum Testamentum (…) Editio nova in novem tomos distributa (…), Amstelaedami et alibi, H. & Vidua Th. Boom et alii, 1698: riferimenti nel tomo VII, coll. 132-136. Per comodità citerò spesso nel seguito dai Critici sacri [d’ora in poi CrSac] per i commenti ivi presenti, anziché dalle edizioni originarie; tuttavia in alcuni casi, come ad esempio per Drusius, ho preferito far ricorso all’edizione originaria. 23 CANFORA, Ellenismo cit., p. 87. 24 Nei CrSac, tomo cit., il commento di Erasmo è alle coll. 132-133 (da cui è presa la precedente citazione), quello di Vatable alla col. 133, quello del Clario alla col. 134 e quello di Grotius alla col. 135. Su Isidoro da Chiari si veda ora E. BARBIERI, Le edizioni della Bibbia latina di Isidoro da Chiari, in L’antiche e le moderne carte. Studi in memoria di Giuseppe Billanovich, a cura di A. Manfredi e C. M. Monti, Padova 2007 (Medioevo e Umanesimo, 112), pp. 97-134, con bibliografia.
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nell’ecumene, il greco («unica lingua fuisse locutos»), per cui non occorre parlare di miracolo («neque vero necesse est, opinor, quicquid fuit in Apostolis, protinus tribuere miraculo»). Quello degli apostoli era un «simplex» e «inconditus sermo». Si trattava di affermazioni a dir poco audaci, che innescarono notevoli polemiche. Johan Maier di Eck le contestò ad Erasmo per lettera25, ribadendo la visione tradizionale: quando accadde agli apostoli fu un miracolo dovuto alla discesa dello Spirito pentecostale. Successivamente anche Théodore de Bèze criticò duramente Erasmo26. Ad ogni modo, l’umanista olandese aveva affermato — forse per la prima volta — un concetto destinato anch’esso a notevole fortuna: la «lingua comune» (κοινή) parlata ai tempi di Gesù era una lingua rozza e popolare, notevolmente degradatasi rispetto all’eloquio greco classico. Una seconda interpretazione del termine Ellenista venne offerta circa un secolo dopo da Giuseppe Giusto Scaligero. Si tratta in verità di una ulteriore precisazione dell’interpretazione erasmiana. Nelle Animadversiones in Eusebium contenute nel Thesaurus Temporum Eusebii Pamphili (1606)27 Scaligero dopo aver chiarito che «ἑλληνίζειν significa far uso della lingua greca» aggiunge all’interpretazione tradizionale la precisazione che gli Ellenisti, cioè gli Ebrei della diaspora, nelle sinagoghe erano soliti usare esclusivamente il greco, non l’ebraico: «Nam ἑλληνίζειν est Graeca lingua uti. Et inde (…) et Ἑλληνισταί Iudaei qui Graece tantum legebant, non etiam Hebraice. Hi enim Iudaei sola Biblia Graeca in synagogis legebant per totum Aegyptum, Graeciam et Italiam: et vix in mille Iudaeis unus reperiebatur, qui Hebraice legeret. (…) Ἑλληνισταί ergo in Novo Testamento multum differunt ἀπὸ Ἑλλήνων. Ἕλληνες sunt pagani, Ἑλληνισταί Iudaei Graecis Bibliis in synagogis utentes». Lasena farà sua questa definizione citandola quasi ad litteram ma tacendo la provenienza al f. 6r-v, dove essa è integrata con la definizione di Ellenisti che sempre Scaligero dà negli Isagogicorum Chronologiae libri tres, di cui diremo più oltre28. Scaligero prosegue sottolineando le differenze tra gli Ebrei grecizzanti della diaspora e quelli di Gerusalemme. Già altre volte egli ebbe ad esporre il suo pensiero suscitando malumori in studiosi boriosi ma «male a literis parati», che 25 In Opus Epistolarum Des. Erasmi Roterodami, denuo recognitum et auctum per P. S. Allen, operam dante adsiduam H. M. Allen, III (1517-1519), Oxonii 1913, pp. 209-212, in part. p. 210. 26 Vd. infra, in questo paragrafo. 27 Thesaurus Temporum EUSEBII PAMPHILI (…), opera ac studio Iosephi Iusti Scaligeri, Lugduni Batavorum, Excudebat Thomas Basson, 1606, p. 124. Le Animadversiones in Chronologia Eusebii hanno una paginazione propria. 28 Di quest’ultimo passo Lasena riterrà la precisazione che il popolo ebraico si distingueva in Ebrei di Palestina e delle due diaspore, di Babilonia e dei Greci.
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comunque alla fine, posti di fronte all’evidenza, sposarono le sue posizioni. Ciò che preme sottolineare a Scaligero è che sebbene nelle sinagoghe nei tempi moderni non si adoperasse più il greco, certamente era utilizzato nell’antichità nelle varie comunità della diaspora. Ne è testimone Tertulliano (Apol. 18,8) quando scrive: Hodie apud Serapeum Ptolemaei bibliothecae, cum ipsis Hebraicis litteris exhibentur. Sed et Iudaei palam lectitant. Vectigalis libertas; vulgo aditur sabbatis omnibus. «Graecam enim LXX Seniorum interpretationem — commenta lo Scaligero — cum Hebraicis litteris reconditam fuisse ait in Serapeo, et eam vulgo in synagogis palam legi. Sed et quaedam synagogae Hebraica cum Graecis legebant, ut hodie Hebraica cum Targumin». Sia il passo di Tertulliano sia le parole che seguono dello Scaligero sono citati, questa volta con menzione della fonte, da Lasena nella Pro Hellenistica lingua (f. 12r). Scaligero conclude con queste parole, non prive di interesse : «Multa supersunt, quae de interpretatione LXX Seniorum dici a nobis poterant, et quam utilis sit eius translationis lectio, quamvis in multis ab Hebraicis fontibus longe recedens. Sed quia privati operis et stili hic labor est, ab eo in praesentia abstinebimus. Multa enim de hac re a nemine animadversa olim observavimus». Come ho anticipato, nel Thesaurus Temporum è contenuta un’altra definizione di Ellenisti, precisamente negli Isagogicorum Chronologiae libri tres29: «Iudaei ita distinguebantur: Ἑβραῖοι Παλαιστῖνοι, διασπορὰ Βαβυλῶνος, διασπορὰ Ἑλλήνων. Ἑβραίων mentio Actorum VI,1, διασπορὰ Ἑλλήνων Iohannis VII, 35. Ii proprie Ἑλληνισταί vocabantur, quia Graeca Biblia in synagogis legebant. Ἑλληνιστής enim est ὁ ἑλληνίζων, id est ὁ ἑλληνιστὶ διαλεγόμενος, qui Graece loquitur. Eorum mentio Act. VI,1, ubi Ἑλληνισταί vertendum Graecienses, non autem Graeci. Τῶν Ἑλληνιστῶν principes erant Alexandrini Iudaei». Tra gli studiosi che accettarono l’interpretazione di Scaligero figura Drusius, presente nei Critici Sacri30, di cui diremo. Una terza interpretazione del termine «Ellenisti», ma in realtà seconda in ordine cronologico, è quella avanzata da Théodore de Bèze. Secondo questa definizione, anch’essa famosa seppure meno acclamata, Ellenisti sarebbero stati i gentili che facendosi circoncidere aderirono al giudaismo e in seguito furono detti proseliti. Così si legge nel commento ad Atti 6,1 di Beza nell’edizione dei Biblia utriusque testamenti per i tipi di Robert I Estienne, dove il Nuovo Testamento ha un frontespizio proprio datato 1556 (ma il colophon è datato a 1 marzo 1557)31: «Graecorum, τῶν Ἑλληνιστῶν. 29
Che hanno paginazione propria. La citazione che segue è a p. 278. CrSac, loc. cit., col. 134. 31 Esemplare utilizzato: Bibliothèque Nationale de France (Paris): A-253 (2). La citazione 30
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Id est eorum qui ex peregrinis Iudaeis crediderant, qualis erat Nicolaus proselytus Antiochenus. Paganos enim seu gentiles Graecos quomodo admisissent qui multo post tempore tam difficiles se praebuerunt illis ad evangelii consortium admittendis? Deinde id etiam ostendit antithesis, quum Hebraeos istis opponit, Hebraice scilicet loquentes, iis qui Graeco, id est patrio idiomate, utebantur. Alioquin apud Paulum Graecorum appellatione intelliguntur quicunque non erant circoncisi». Questa prima edizione della traduzione latina di Beza e del commento venne poi accresciuta nelle successive32. Non le ho consultate tutte: mi sono limitato a consultare l’edizione comprensiva anche del testo greco del 1559, che ripete il testo cià citato33, e quella del 1588 per i tipi di Henri Estienne (la quarta recognitio della traduzione di Beza). In quest’ultima edizione il commento ad Act. 6,1 è notevolmente più esteso: «Graecorum, τῶν Ἑλληνιστῶν. Libenter Graecienses istos appellassem sicut salem Romanensem vocat Cato [De agric. 162,1], qui Romae venalis erat, et scimpodium Graeciense Gellius [XIX 10,1], non in Graecia, sed ad Graecorum similitudinem fabrefactum. Differunt igitur Ἑλληνισταί ab iis quos Paulus solet Ἕλληνας dictos Iudaeis opponere, et Hebraei gentium nomine significant. Sunt enim Ἕλληνες, generali appellatione desumpta ab una Graecorum gente, dicti omnes incircuncisi, iis etiam comprehensis, quandiu lex viguit qui licet non circumcisi ab idolotria tamen abhorrentes cognitione veri Dei erant imbuti, quos vocare in his libris Lucas consuevit σεβομένους, qualis fuit Cornelius, et alius ille centurio cuius fidem tantopere praedicat Christus, illi denique quorum fit mentio Ioh. 12,20. Ἑλληνιστάς vero Luc(as) hoc loco vocat genere quidem prophanos, sed in Iudaeorum gentem per circuncisionem adscitos, et proselytos propterea vocatos. Falluntur enim qui Iudaeos inter alias gentes dispersos putant Ἑλληνιστάς dici: Iudaisantes autem incircuncisos secum versari minime sustinuisset Hierosolymitana ecclesia, multo post tempore graviter offensa quod Petrus ad Cornelium esset ingressus. Paulus vero, quantumvis Tarsensis, sese Hebraeum vocat 2. Cor. 11,22. Itaque sicut religionis respectu Ἕλληνες Iudaeis, ita propter stirpis discrimen Ἑλληνισταί Hebraeis opponuntur»34. La confusione tra Ἑλληνισταί e Ἕλληνες stigmaè al f. 143r della numerazione del NT. 32 Cfr. T.H. DARLOW – H. F. MOULE (edd.), British and Foreign Bible Society. Historical Catalogue of Printed Bibles, II, London, 1903, n° 6140. ii, p. 941. 33 Novum Iesu Christi Testamentum, Latine iam olim a vetere interprete, nunc vero a Theodoro Beza versum, cum eiusdem annotationibus (…), Tuguri, 1559, p. 360. 34 Testamentum Novum sive Novum Foedus Iesu Christi D.N. Cuius Graeco contextui respondent interpretationes duae, una vetus, altera Theodori Bezae, nunc quarto diligenter ab eo recognita (…) e commento di Beza, [Genevae, apud H. Stephanum] 1588 [esemplari consultati, BAV, Palatina I 142; Bibliothèque Nationale de France (Paris): A. 1511], citazione a p. 455.
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tizzata da Beza non era stata infrequente. Ad esempio già il domenicano Nicolas de Gorran (1230-1295) aveva scritto a proposito dei Graeci di Atti 6,1: «Graeci autem vocarentur de gentibus conversi», subito dopo aggiungendo la definizione tradizionale «vel ipsi Iudaei inter Graecos conversati tempore dispersionis»35. Poco dopo Beza — e forse indipendentemente da lui — Lukas Lossius (1508-1582) identificò gli Ἑλληνισταί con i proseliti. Per essere più precisi, nelle Adnotationes ad Novum Testamentum (1558)36, Lossius sostenne che gli Ellenisti erano gli Ebrei nati in Grecia o negli altri territori dell’impero romano emigrati poi a Gerusalemme e che al loro interno andavano senz’altro annoverati anche i proseliti: «Ἑλληνιστῶν [Atti 6, 1], Iudaeorum, qui nati erant in Graecia et aliis ethnicorum oppidis et provinciis, sed Hierosolymam commigrarant, lingua Graeca utentes, inter quos haud dubie fuerunt et proselyti, hoc est qui ex gentibus religionem Iudaeorum receperant, et Mosaicas ceremonias servabant». Commentando Atti 10,46 Beza ebbe modo di aggiungere una digressione de dono linguarum et apostolico sermone che si estende per circa una pagina e mezza37, in cui viene criticata la posizione di Erasmo circa la glossolalia. È evidente — afferma Beza — che la glossolalia fu un miracolo: infatti gli Apostoli compresero e replicarono ad ognuno nella propria lingua! Contro Erasmo, va ribadito secondo Beza, che altra cosa è la «semplicità» della lingua del Nuovo Testamento — che certo va esaltata —, altra l’accusa di essere oscura, che va respinta come affermazione depravata e satanica38. Qualche anno dopo Beza, sulla singolare eleganza dello stile del Nuovo Testamento, si espresse anche Henri Estienne, nella Praefatio all’edizione del Nuovo Testamento, del 1576 (promettendo tra l’altro una dissertazione sul tema che poi non vide la luce39). Allo Stefano si ricollega anche la Diatri-
35 In Acta Apostolorum et singulas Apostolorum, Iacobi, Petri, Iohannis et Iudae Canonicas Epistulas, et Apocalypsin Commentarii, Authore R. P. F. Nicolao Gorrano Anglo (…), Antverpiae, Anno MDCXX [esemplare consultato, BAV, Barberini A. V. 82], p. 17. 36 Nel tomo III, Franc. Apud Haered. Christ. Egen. Anno M. D. LVIII, p. 243 37 Il titolo non compare nell’edizione del 1556/57 (dove il commento è ai ff. 150v-151r), né nell’edizione del 1559 (pp. 377-378); è presente invece in quella del 1588 (dove il commento va dalla fine di p. 479 a metà p. 481); le differenze tra la prima edizione e quella del 1588, un po’ più estesa, non sono significative. 38 Sull’evoluzione di questo dibattito, vivo per tutto il Seicento e il Settecento, si veda la Dissertatio theologica de miraculoso Linguarum dono super Apostolos effuso di C. H. Knebel, «Tubingae, Ex officina Christ. Godofr. Cottae» 1749 [esemplare consultato: BAV, Mai X. A. VI. 56. Int. 2]. 39 Cfr. IOANNIS A. FABRICII Bibliotheca Graeca (…), curante Gottlieb Ch. Harles, IV, Hamburgi, Apud Carolum E. Bohn, 1795, p. 892.
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be de linguae Graecae Novi Testamenti puritate (1a ed. 1629)40 di Sebastian Pfochen41. La diatriba è successiva all’Aristarchus sacer di Heinsius (1627), che, come si è anticipato, costituiva all’epoca di Lasena il momento fondamentale del dibattito. Sebbene non spetti ad Heinsius la definizione di «lingua hellenistica», di fatto egli (escludendo il lessico inedito di Drusius: vedi oltre) fu il primo ad occuparsi in maniera analitica del concetto di «lingua hellenistica», rivendicando questa definizione sia all’idioma della versione dei Settanta dell’Antico Testamento sia al testo del Nuovo Testamento. Nell’Aristarchus42 Heinsius dedica molta attenzione alla lingua del Nuovo Testamento. Questa «lingua Hellenistica» è, a suo dire, una lingua pregna di concetti ebraici e aramaici, espressi però con parole greche43 : «ex solis Foederis Antiqui Hellenisticis interpretibus Novum esse intelligendum (…) Cujus scriptores lingua conceperunt alia quae scriberent, alia scripserunt quae conceperant»44, «si quis ex me quaerat, quanam lingua scripserit Evangelista noster; Hellenistica scripsisse dicam. Si quis qua conceperit quae scripsit, Syriacam fuisse dicam»45. Le parole derivate dall’ebraico o dall’aramaico non erano comprensibili a chi conosceva il greco (l’attico), ma solo a gente che padroneggiava la lingua ellenistica. È significativo tuttavia come Heinsius, pur concordando con Erasmo nel ritenere la lingua del Nuovo Testamento molto distante dalla purezza e dall’eleganza dell’attico, non la considerasse una lingua «non pura», ed escludesse impurità o errori di sintassi (solecismi)46. Non tutti gli auto40
Io cito dalla seconda: Diatribe de linguae Graecae Novi Testamenti puritate … Autore SEBASTIANO PFOCHENIO … Editio nova, Ianssoniana multo emendatior, Amsterdami, Apud Guilielmum Blaeu, 1633. 41 La Praefatio di Estienne del 1576 viene citata da Pfochen a p. 116. 42 L’Aristarchus Sacer, giova ricordarlo, è un’edizione del testo della parafrasi di Nonno al Vangelo di Giovanni con commento. 43 I passi dell’Aristarchus di seguito citati sono tratti da H. J. DE JONGE, ‘The Study of the New Testament’, in Leiden University in the Seventeenth Century. An Exchange of Learning, edd. By Th. H. Lunsingh Scheurleer and G. H. M. P. Meyjes, with the Assistance of A. G. Bachrach et alii, Leiden 1975, p. 89. 44 DANIELIS HEINSII Aristarchus sacer sive ad Nonni in Iohannem Metaphrasin Exercitationes (…), Lugduni Batavorum, Ex officina Bonaventurae et Abrahami Elzevir. Academ. Typograph., 1627, f. r. Nell’edizione del 1639 la formulazione diventerà più chiara: «ex Hellenisticis antiqui Foederis interpretibus Novum esse intelligendum (…). Cujus autores, Hebraea cum exprimerent, Graecis ea vocibus, phrasi diversa, hoc est quae in Oriente usitata interdum imo et plerunque, ipsa vocum notione quae recepta et usitata ibi, expresserunt» (DANIELIS HEINSII Sacrarum Exercitationum ad Novum Testamentum Libri XX. [pp. (1)-(43) + 1-631] … Quibus Aristarchus Sacer [pp. 632-962], emendatior nec paulo auctior, Indicesque aliquot uberrimi accedunt, Lugduni Batavorum, Ex officina Elseviriorum, 1639, p. 667). 45 Prima ed. cit., Prolegomena, f. *****v. 46 Cfr. DE JONGE, ‘The Study’ cit., pp. 95-96.
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ri erano digiuni di greco: Paolo ad esempio lo conosceva perfettamente. Per Heinsius il linguaggio ebraizzante del Nuovo Testamento è idoneo ad esprimere il sensus e la mens della parola divina, per i quali il greco era inadeguato. Infine, faceva rilevare lo studioso, irregolarità grammaticali e deviazioni dalla norma non sono infrequenti neppure nel greco classico. La stessa insistenza, anzi maggiore, posta da Heinsius nell’Aristarchus sulla lingua del Nuovo Testamento e sul concetto di «lingua Hellenistica» ritorna nelle Exercitationes Sacrae pubblicate nel 1639. La diatriba di Pfochen non poteva trascurare il concetto di lingua ellenistica. Lo studioso articola il tema in tre questioni : 1) il testo del Nuovo Testamento è lontano dallo stile del greco profano? 2) Se Omero, Pindaro, Demostene e gli altri autori classici tornassero in vita lo troverebbero incomprensibile? 3) Forse la lingua del Nuovo Testamento piuttosto che Greca deve essere definita ellenistica, cioè grecizzante («Hellenistica seu Graeciensis, h. e. ἑλληνοειδής»)?47 Pfochen risponde negativamente alle prime due domande e da queste risposte fa discendere anche la risposta negativa data alla terza. Se il testo del Nuovo testamento non è greco ma «ad Graecum textum efformatus»48, al terzo quesito non può che essere risposto negativamente : «Namque si Hellenisticus, Graeciensis seu ἑλληνοειδής, non Graecum textum efformatum designant, sequitur ea vocabula textui Novi Testamenti exprimendo esse inepta, et proinde ἐξαγώνια. Atqui verum est prius»49. È vero cioè quanto l’autore ha sostenuto prima, che il lessico ebraizzante è non incongruo e dunque comprensibile. La visione dello Stefano di esaltazione della lingua del Nuovo Testamento, che Pfochen faceva propria, era destinata a minore successo rispetto a quella erasmiana che poneva in risalto gli elementi rudi e popolari della κοινή neotestamentaria e ne sottolineava la distanza dal greco classico. A questa prospettiva offrì un contributo essenziale Claude de Saumaise, il quale, in polemica con Heinsius, precisò come gli Ellenisti non fossero un gruppo particolare di Ebrei o una categoria del mondo giudaizzante, ma che Ellenista era chiunque parlava greco, ovunque si trovasse a vivere. Qui non ci occuperemo né del Salmasio né della sua polemica con Heinsius, se non per ricordare che la sua estensione del termine Ἑλληνιστής a tutti i non Greci d’origine parlanti in greco e non solamente alla realtà ebraica, «non faceva che rendere esplicito un presupposto già contenuto nelle formulazioni che poi confluiranno nei Critici sacri («eius gentis ubi 47
PFOCHENII Diatribe cit., pp. 8, 113. «ut Gellius scimpodium Graecense dixit, non Graecum, sed Graecorum more fabrefactum», ibid., p. 113, derivando senz’altro da Teodoro Beza. 49 Ibid. 48
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vixerant lingua utebantur [Erasmo]»)»50. Ed in effetti proprio all’interno dei Critici sacri si può recuperare la prima formulazione del concetto di lingua ‘ellenistica’, ovvero il trasferimento del termine da una realtà sociologica (il gruppo degli Ellenisti di cui parlano gli Atti) ad una linguistica. Il primo a parlare di lingua Hellenistica fu, come si è già detto, Drusius, le cui Annotationes in Novum Testamentum furono pubblicate nel 1612. Così recita il suo commento ad Acta 6,1 (in seguito ripreso dai Critici Sacri): «Graecorum] Graeciensium potius. Nam Graecorum, id est Ἑλλήνων. De Iudaeis Graeciensibus vide Scalig. Animad. Euseb. 124. I. ubi hunc locum citat; et in Cano. Isagog. 278. Iudaei sic distinguebantur, Iudaei Palaestini, qui hic Ebraei (!) vocantur, διασπορὰ Βαβυλῶνος, et διασπορὰ Ἑλλήνων, qui hic Hellenistae sive Graecienses. Hi Graeca Biblia in Synagogis legebant et Graece sciebant, peculiari dialecto utentes, quam Hellenisticam vocant, cujus frequens mentio in his libris. Fallitur enim vir doctus qui Hellenistas hoc loco dici putat genere quidem profanos, sed in Iudaeorum gentem per circumcisionem adscitos [si tratta della definizione di Beza]. Tales enim nusquam Ἑλληνισταί, quod sciam, sed ubique proselyti nuncupantur; et quia hoc nomen latius patet (nam quemvis advenam significat) addere solent justitiae, aut filius foederis, ut dictum est»51. Tuttavia, come già ho avuto modo di anticipare, questa non è la prima menzione della lingua Hellenistica nelle Annotationes in NT di Drusius. Salvo mie sviste, la prima annotazione ricorre nel commento a Mc. 7,252, dove si apprende tralaltro che lo studioso aveva già approntato un lessico delle voci di questa ‘lingua’ che era disposto a pubblicare qualora avesse trovato un tipografo disposto: «Communibus manibus] κοιναῖς χερσί, idest pollutis. Vocabulum est hoc significatu linguae Hellenisticae proprium. Qualia sunt χάρις pro gaudio, διαθήκη pro foedere, pacto; ἀνάγκη pro vexatio; ἕτοιμος pro firmus, stabilis; unde in priore Machabaeorum [1,16] ἡτοιμάσθη ἡ βασιλεία αὐτοῦ, firmatum fuit regnum ejus. De huiusmodi vocibus Lexicon mihi domi ad privatum usum a me collectum; quod publici juris facerem, si esset typographus qui talis excudere tam vellet quam posset53». Non correttamente Heinsius aveva affermato che il concetto di lingua
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CANFORA, Ellenismo cit., p. 88. I. DRUSII Annotationum in totum Iesu Christi Testamentum sive Praeteritorum libri decem (…), Sumptib. Iohannis Bibliopolae Amhemiensis, Franekerae, Excudebat Aegidius Radaeus, Ordinum Frisiae Typographus, 1612, pp. 166-167. 52 Il passo di Marco è utilizzato da Lasena nella dissertazione contra linguam Hellenisticam (f. 29r-v): vedi infra. 53 Op. cit., pp. 66-67. Cf. inoltre, sempre di Drusius, il commento ad Act 10,14, alle pp. 176-177. 51
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ellenistica risaliva a Giuseppe Giusto Scaligero54. Come si è visto, Scaligero riteneva gli Ellenisti Ebrei della diaspora che utilizzavano la traduzione greca dei Settanta nelle loro sinagoghe, ma, dal momento che essi non conoscevano l’ebraico, aveva per lui poco senso cercare nell’ebraico o nelle altre lingue semitiche il corrispondente del termine greco usato. In altri termini, l’idioma del Nuovo Testamento era per Scaligero un vero e proprio greco, non un ebraico e aramaico sotto le vesti del greco, come pensava Heinsius. Ciò spiega, come nota de Jonge, perché egli sostenesse il carattere colloquiale della lingua del Nuovo Testamento, mentre Heinsius lo negava. Tuttavia, se anche il tentativo di Heinsius di trovare antecedenti nello Scaligero era privo di fondamento, non per questo esso non è facilmente comprensibile. «It must be admitted — scrive sempre de Jonge — that if Scaliger had not concentrated attention so heavily on the category of “Hellenistae” and had not defined them so emphatically as “readers of the Septuagint”, Heinsius would probably not have described the “lingua Helelnistica” so positively as a special Judeo-Greek dialect»55. Ma, a ben guardare, l’equivoco si trova già in Drusius, il quale, nel passo del commento ad Act. 6,1 prima citato, fa sua la definizione di Ellenisti dello Scaligero e dopo aver affermato che al dialetto usato dagli Ebrei della diaspora si applica il nome di Ellenistico, aggiunge «cujus [sc. dialecti] frequens mentio in his libris», cioè nei due libri dello Scaligero, le Animadversiones in Eusebium e gli Isagogicorum Chronologiae libri tres. 3. La posizione di Lasena nel dibattito sulla ‘lingua ellenistica’ Se si considera la bibliografia specificamente dedicata al tema della lingua Hellenistica a partire dall’Aristarchus sacer di Heinsius si nota una presenza quasi esclusiva di studiosi dell’area della Riforma. Anche gli antecedenti del dibattito, di cui qui sommariamente abbiamo cercato di dare conto, si svolgono essenzialmente in area protestante. Per quanto io sappia, la dissertazione di Lasena è il primo contributo di uno studioso di area cattolica specificamente dedicato al tema e, per giunta (ma l’indagine in questo senso è ancora da svolgere, né può essere affrontata in questa sede), uno dei pochi56. Nelle prossime pagine cercherò brevemente di delineare 54
Exercitationes Sacrae cit., p. 27,30-35; cfr. DE JONGE, ‘The Study’ cit., p. 99.
55 DE JONGE, ‘The Study’, ibid. 56 Ricorderò tuttavia gli importanti
studi sulla lingua del Nuovo Testamento di Giovanni Bernardo De Rossi, «sans doute le plus éminent des hébraïsants italiens» (F. PARENTE, ‘La confrontation idéologique entre le Judaïsme et l’Église en Italie’, in ID., Les Juifs et l’Église Romaine à l’époque moderne (XVe-XVIIIe siècle), Paris 2007, pp. 93-176: 175), in particolare le dissertazioni Della lingua propria di Cristo e degli Ebrei nazionali della Palestina da’ tempi de’
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come Lasena si inserisca nel dibattito sulla lingua ellenistica, limitandomi alla sostanza per così dire storico-linguistica del problema. Avverto però che il tema non è separabile dai contenuti e dalle implicazioni più propriamente teologici e dottrinali. Di fatto il dibattito dapprima sugli Ellenisti e poi sulla lingua ellenistica non ebbe mai un’impostazione solamente erudita, e i motivi teologici e dottrinali che erano dietro i temi affrontati sono evidentissimi (da questo punto di vista la lettera di Johan Maier a Erasmo prima menzionata è molto eloquente). Nelle dissertazioni di Lasena le preoccupazioni dottrinali sono non solo presenti, ma per alcuni versi ancora più accentuate che presso altri studiosi, tanto che sembra che la discussione intorno alla lingua ellenistica sia un pretesto per una difesa della Vulgata post-tridentina condotta con argomenti nient’affatto originali. Ciò vale in particolare per la seconda dissertazione, Contra Hellenisticam linguam, in cui gli elementi storico-linguistici sono davvero tenuissimi se non inesistenti e l’argomento è di fatto usato a pretesto per una difesa del testo della Vulgata e dei Settanta contro le proposte di restaurare la vera lectio facendo ricorso alle fonti ebraiche. Certamente forti erano i timori di addentrarsi in un campo spinoso, tanto che l’Autore tiene subito a precisare, nella Pro Hellenistica lingua, che la sua attenzione al testo greco non ha affatto lo scopo di subordinargli quello latino, accreditando la tesi che quest’ultimo vada emendato secondo l’altro, come ricondotto ad fontem, essendo la Vulgata l’unica versione autentica, canonica e riconosciuta dalla Chiesa. Al contrario, l’interesse per il testo greco deve giustificarsi col fatto che era quella la versione utilizzata dai Padri greci. Anche altrove, nel corso delle dissertazioni, ricorrono giustificazioni che appaiono come preventive. Va detto inoltre che l’analisi storico-linguistico non solamente riveste un ruolo minoritario nell’economia delle dissertazioni, ma non può certo dirsi in generale molto approfondita. Eppure, essa non manca in assoluto d’interesse, in particolare su un punto, dove Lasena appare precorrere in parte l’interpretazione di Saumaise. Lasena ha chiari i termini della questione. Appena entrato in medias res, nella De Hellenistica lingua informa della magna controversia sorta tra gli eruditi intorno all’idioma con cui fu scritto il Nuovo Testamento, se cioè si tratti di un idioma greco o rappresenti una realtà linguistica differente a cui si debba applicare un nome diverso, quello cioè di lingua ellenistica. La controversia era stata suscitata da Heinsius, che, come si è visto, aveva sostenuto che quella del Nuovo Testamento era una lingua a sé, diversa sia dal greco sia dall’ebraico. Questa è anche la posizione di Lasena, che Maccabei (1772). Su De Rossi si veda la voce dello stesso F. PARENTE in DBI 39, pp. 205-214 (sulle dissertazioni citate p. 207).
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però non menziona Heinsius57, ma giustifica la sua veduta in una duplice maniera. Quanto alla definizione di lingua soccorre un passo di Clemente Alessandrino (Strom. I 21,142), secondo il quale una lingua può sorgere dalla commistione di più dialetti, essendo il dialetto la dizione che esprime il «carattere» specifico di un luogo e di un popolo58. La lingua dei Settanta e del Nuovo Testamento è da questo punto di vista effettivamente una nuova lingua, perché è riconducibile a due o più dialetti. Quanto all’aggettivo Hellenistica esso è mutuato dagli Ἑλληνισταί di cui si parla negli Atti, che Lasena giudica — aderendo all’opinione dello Scaligero, ma senza menzionare la fonte (cfr. supra) — Ebrei della diaspora parlanti in greco. «Da ciò — conclude —, essendo i Settanta vegliardi non tanto Ellenisti, ma piuttosto gli antesignani di tutti gli Ellenisti, quando si debba designare quanti sono di lingua greca [sottinteso: che però non sono di origine greca], qualunque essa sia, è ovvio che non in modo assurdo né senza ragione essa possa anche essere detta ‘ellenistica’». Quest’ultima affermazione anticipa per alcuni versi la riflessione di Saumaise, il quale, in polemica con Heinsius, aveva visto negli Ellenisti non un gruppo particolare di Ebrei o una categoria del mondo giudaizzante, ma chiunque parlava greco, ovunque si trovasse a vivere. Si può dire a questo proposito quello che già è stato detto per Saumaise (vedi supra), che cioè Lasena non faceva altro che trarre le conseguenze dalle definizioni correnti di Ellenisti (nello specifico dalla definizione dello Scaligero a cui egli aderiva). La versione dei Settanta, in lingua ellenistica, fu il testo di riferimento della Chiesa per i primi cinque secoli, fu utilizzata dagli Apostoli e dai loro successori. Merita perciò massima venerazione e rispetto, sebbene — precisa Lasena — dopo Trento il testo canonico, autorevole e «autentico» debba considerarsi quello della Vulgata geronimiana. Il carattere delle versioni non è il medesimo. Lasena distingue nel testo sacro tra l’opera dello Spirito e l’apporto dell’agente umano, l’autore storico. Quest’ultimo è concepito tradizionalmente come un συναίτιος, ovvero una secunda causa. Gli autori sacri possono essere stati più o meno capaci a seconda del loro grado di 57 Un passo dell’Aristarchus sacer viene citato alla fine della seconda dissertazione, ma per condannarne le affermazioni e ugualmente senza la menzione del nome dell’autore (vedi infra). 58 Il passo di Clemente e le riflessioni che lo precedono e lo accompagnano sono ricavati dalle Exercitationes Biblicae de Hebraei Graecique textus sinceritate (Lutetiae Parisiorum, Excudebat Antonius Vitray, 1633) di Jean Morin. Lasena cita — come farà altre volte sebbene in maniera più contenuta: vedi l’apparato — un ampio brano quasi ad litteram senza menzionare l’autore (di fatto siamo in presenza di un plagio). Sulla definizione di διάλεκτος di Clemente si veda l’apparato ad loc. dell’edizione di O. STAHLIN (neu hrsg. von L. Früchtel, 4a Auflage, Berlin 1985, p. 88).
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istruzione59 e della lingua di cui facaveno uso. La Vulgata va preferita perché è opera di un solo interprete altamente istruito che rese in uno stile elegante opere scritte in lingue rozze e barbare quali l’ebraico e l’ellenistico. Non così la pur autorevole versione dei Settanta. Le cause sono plurime. Lasena ne elenca tre. 1) La conoscenza del greco dei traduttori non era approfondita. All’epoca di Tolomeo gli Ebrei che praticavano il greco lo facevano essenzialmente per necessità di commercio. 2) I traduttori provenivano dall’interno della Palestina, e pertanto avevano avuto ancor meno contatto con i Greci di quelli della costa. 3) Infine, secondo quanto affermano Epifanio (De mens. et pond. 3, p. 155 Lagarde) e altri autori, il lavoro fu eseguito con molta fretta. A queste cause Lasena sospetta che si debba aggiungere un intento voluto di conservare una certa oscurità da parte dei traduttori nei punti più sensibili sotto il profilo della fede. Cosa che egli spiega, in termini chiaramente antigiudaici, con l’intento dei rabbini ebrei di conservare per sé il monopolio dell’interpretazione delle sacre scritture, un po’ come fece Aristotele per le lezioni acroamatiche. La versione dei Settanta non ripugnava agli apostoli, Ebrei sì, ma non ignari della lingua greca e infusi dell’afflato dello Spirito santo. In seguito però venne meno la familiarità con questa lingua derivata dalla commistione dei dialetti: ciò spiega le ulteriori traduzioni della Bibblia di cui Origene dà conto negli Exapla. Ma Lasena si concentra soprattutto sulla lingua del Nuovo Testamento, un impasto di greco, ebraico e siriaco. La lingua ebraica dopo il ritorno dall’esilio babilonese era divenuta una commistione di idiomi: all’ebraico si erano aggiunti il siriaco e il caldaico. Matteo, proponendosi di scrivere un vangelo in ebraico, ricorse a questa lingua per farsi intendere60. Secondo l’opinione di Michele Amira e di Roberto Bellarmino, 59 Ad es. Isaia, di stirpe regale, ha un’eloquenza più spiccata del pastore Amos, chiamato «dai buoi alla profezia». 60 Come è noto la testimonianza più antica circa «una raccolta di oracoli (τὰ λόγια) in lingua ebraica» di Matteo è data da Papia (fr. 5 Norelli, ap. Eus. Hist. Eccl. III 39,16). Sul passo è da tenere presente l’amplissimo commento di Norelli, di cui qui si è seguito la resa della parola λόγια (PAPIA DI HIERAPOLI, Esposizione degli Oracoli del Signore. I frammenti. Introduzione, testo e traduzione di E. Norelli, Milano 2005, pp. 315-329 n. 32). L’opera di Papia si data secondo Norelli intorno al 110, 120 d. C. Per le testimonianze successive si veda R. HANDMANN, Das Hebräer-Evangelium. Ein Beitrag zur Geschichte und Kritik des hebräischen Matthäus, Leipzig 1888, pp. 26-65; cfr. TH. ZAHN, Einleitung in das Neue Testament, Dritte, vielfach berichtigte und vervollständigte Auflage; photomechanischer Druck, II, Leipzig 1924, pp. 274-275 n. 7 [ringrazio Sever Voicu per avermi indicato l’edizione di Papia a cura di Novelli e avermi fornito copia delle pagine della Einleitung di Zahn]. Concretamente, dal momento che Lasena si rifà alle Disputationes di Bellarmino e alla Grammatica Syriaca di Amira di cui si dirà or ora [per entrambi i riferimenti bibliografici sono forniti in apparato] e dal momento che tra i due il solo Bellarmino indica le fonti che parlano del vangelo di Matteo in ebraico, le fonti da cui dipende Lasena debbono intendersi quelle segnalate da
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la lettera egli Ebrei fu scritta nella stessa lingua. Lo stesso discorso si pone globalmente per il testo greco del Nuovo Testamento. Essendo Ellenisti, gli apostoli utilizzavano il greco per il loro ministero quantunque fossero nati sotto l’ebraismo. Il loro linguaggio rifletteva però, per esigenze di chiarezze, quello parlato dal popolo e, quanto agli influssi letterari, essi erano mutati dalla versione dei Settanta, che era anch’essa piena di ebraismi e scritta nella lingua ellenistica. Ecco perché nel Nuovo Testamento si trovano termini del linguaggio popolare della Palestina, come corban, ephata, mamona, ecc., o veri e propri hapax legomena, come ἐνωτίζομαι, ἱκανόω, ὀρθρίζω, χαριτόω61. Ma soprattutto gli autori nelle loro frasi tendono non solamente ad ἑβραίζειν, ma anche a συριάζειν e a χαλδαίζειν. Per cui alcune apparenti inconguenze si spiegano in realtà individuando il particolare uso in conformità al lessico e ai concetti che si nascondono dietro le parole e le espressioni greche. La parte finale della Pro Hellenistica è occupata da un’esemplificazione di alcuni casi. Il primo esempio concerne Act. 23,10. I Sadducei — scrive Luca — negano la resurrezione, l’angelo e lo spirito; i Farisei ammettono «entrambi». Secondo Lasena τὰ ἀμφότερα sarebbe usato qui nel senso di πάντα, sotto l’influsso del siriaco, dove uno stesso vocabolo è impiegato per significare utrumque e omnia62. Segue il caso di Mt. 28,1, dove la parola μία (in latino una) sarebbe usata nel senso di πρώτη (prima) secondo l’uso ebraico, come affermava già Teofilatto (In Matth. 28,1), un uso — precisa Lasena — poi passato alla lingua ellenistica63. E infine passi
quest’ultimo, cioè Ireneo (Adv. Haer. III 1,1 [testo greco in Eus. Hist. Eccl. V 8,2]; cf. III 9; III 11,7-8), Origene (In Matth. ap. Eus. Hist. Ecc. VI 25,4, In Joh. 2,6; In Jerem. 15,4), Eusebio (a parte i passi appena citati e quello che tramanda il frammento di Papia, si veda Hist. Eccl. III 24,6; V 10,3 ecc.), Atanasio (= ps. Athan. Alex. Synopsis scrip. Sac. 155 = PG 28, 432 D), Epifanio (Haeres. 30,3; 30,6, ecc.), Girolamo (Vir. Ill. 3, Praef. in quatuor Evang. PL 29, 527 A ecc.) [per indicazioni più complete sui rimandi a questi autori si vedano le pagine di Handmann prima citate]. 61 Tutti e quattro i verbi sono usati oltre che nel Nuovo Testamento nei Septuaginta; ἱκα νόω e χαριτόω ricorrono tuttavia anche altrove (per il primo verbo, cfr. Stob. IV 39, 31 97 [= vol. III, p. 815,14 Hense = Teles. p. 39 Hense2]; per il secondo, nel senso di ‘rendere graziosi’, Liban. Descr. 30,12 [IV, p. 1071 Reiske = VIII, p. 544,10-11 Förstel]). 62 Non ho svolto, né in questo né nei casi che seguono, un’indagine esaustiva, ma mi sono limitato alla consultazione dei CrSac. Il solo tra i commenti ivi riportati che nota l’incongruenza è quello di Grotius: «Pharisaei autem utraque confitentur: Conjunxit hic opinionem de Angelis et de spiritu tanquam unam» (tomo VII, parte 1, col. 409). 63 L’affermazione che in Mt. 28,1 l’aggettivo μία si rifaccia ad un uso ebraico è ripetuta da parecchi commentatori. Si veda a. l. nei CrSac (tomo VI, parte 1) il commento di Grotius: «una sive prima Sabbatorum: (ex Hebraïsmo quem et LXX interpretes sequuntur)» (col. 984); ma cfr. anche il commento di Drusius (ibid., col. 983 [= ed. 1612, p. 56]). Già Erasmo del resto si era espresso in tal senso seppure dubitanter (ibid., col. 976).
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dell’Antico e del Nuovo Testamento in cui caro è usata nel senso di homo (Is. 40,6; Lev. 17,14; Io. 1,14)64. Nella dissertatio Contra Hellenisticam linguam i motivi storico-linguistici, come si è anticipato, vengono sostanzialmente meno. L’impostazione è qui fortemente polemica contro l’attitudine dei Protestanti a correggere il testo sacro facendo ricorso ad Hebraeos fontes. Come è noto, la Chiesa cattolica dopo il Concilio di Trento aveva proceduto ad un tentativo imponente di conversione degli Ebrei la cui strategia era quella di convincerli a credere in Cristo non solamente a partire delle Scritture, ma servendosi anche dell’interpretazione delle Scritture degli stessi Ebrei, nell’assurda presupposizione che già in questa produzione (il Talmud) ci fossero le prove della riconosciuta divinità di Cristo65. Lasena cita un esponente di primo piano di questa polemica, fra’ Sisto da Siena (1520-1569), a lungo creduto un ebreo convertito per via delle sue competenze nelle lingua ebraica espresse nella Bibliotheca sancta (prima edizione 1566)66. All’interno di questo contesto più generale si pone la polemica contro il ritorno ad Hebraeos fontes che la Riforma brandiva in particolare contro la Vulgata ogni qual volta il suo testo divergeva da quello greco dei Settanta. Lasena rileva che per i Protestanti dopo il lavoro redazionale di Esdra il testo ebraico sarebbe stato tramandato sostanzialmente integro, ed inoltre che sarebbe falso attribuire alla perfidia degli Ebrei le corruttele. Infatti né gli Ebrei avrebbero depravato il testo prima dell’avvento di Cristo, né dopo, quando la Chiesa si fece carico della cura del testo e ne custodì gelosamente la lettera. Il lavoro dei Masoreti, lungi dall’essere negativo, sarebbe stato di grande utilità per la conservazione del testo, facendo in modo che «maligne nihil in scriptura addi, adimi, mutarive possit». Se poi o a causa dell’«incuria dei tempi» o dell’«incuria degli scribi» si trovano lezioni discrepanti, tale divergenza sarebbe di due tipi: o non inficierebbe il senso oppure «aliae tales sint, ut nonnisi quae additis vocabulis in margine exprimuntur textui convenire possint». La prima divergenza può essere corretta in base all’au64
Anche in questo caso l’affermazione è più volte ripetuta. Per Is. 40,6 si veda nei CrSac il commento di Isidoro Chiari «Omnis caro foenum … Omnem scilicet hominem esse foenum…» (tomo IV, parte 2, col. 444); per Joh. 1,14, nel VI tomo, parte 2 dei CrSac i commenti di Erasmo (col. 10), del francescano Tacite Nicolas [Niklaas] Zegers [Zegerus, † 1559] (col. 22: si tratterebbe di una synecdochica locutio per indicare l’uomo nella sua integrità) e di Jacques Cappel (coll. 34-35: si tratterebbe di un idiotismo, comune a quello frequente tra gli Arabi). 65 Si veda F. PARENTE, ‘La confrontation idéologique’ cit. 66 In realtà, come ha dimostrato Fausto Parente, queste sono molto scarse e tutte di seconda mano: ‘Quelques contributions à propos de la biographie de Sixte de Sienne et de sa (prétendue) culture juive’, in ID., Les Juifs et l’Église Romaine, cit, pp. 205-232. Sull’utilizzazione del Talmud in chiave antigiudaica da parte della Chiesa romana si veda ID., ‘L’Église et le Talmud’, ibid, pp. 233-394.
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torità dei codici, la seconda necessita di «iudicium», ma comunque non tutti questi errori sono di così grande importanza perché, come affermato da Bellarmino, non attengono «ad fidem moresque pertinent». Lasena rifiuta categoricamente questa impostazione. Chi auspica un ricorso al testo ebraico persegue sotto il pretesto della «verità ebraica» un «occultum hereseos patrocinium». L’intento vero sarebbe quello di distruggere il testo latino su cui si era fondata la scolastica e in generale tutta la Chiesa. Con la conseguenza che coloro che non fossero esperti delle lingue originali per ciò stesso non sarebbero legittimati ad esporre le scritture. Trento non si era espressa sul testo ebraico, ma dichiarando sola autentica la Vulgata aveva escluso che per emendare occorresse far ricorso alle fonti ebraiche. Le fonti ebraiche — come aveva dichiarato Bellarmino — non sono autografi dei profeti, né fonti dalle acque «pure e limpide», bensì «torbide e lutulente». Ritorna qui l’argomento classico della corruzione del testo ebraico. Ma Lasena mostra addirittura di meravigliarsi di un’altra affermazione di Bellarmino, secondo il quale ci sarebbero dei casi (quattro in tutto) in cui sarebbe consentito ricorre alle fonti ebraiche per emendare il testo67. In questi casi sarebbe infatti sufficiente il ricorso ai testimoni latini per giudicare sull’integrità del testo. Ad ogni modo, forse conscio dell’audacia di essersi espresso contro Bellarmino, sia pure da un versante bellarminiano o ultra-bellarminiano, Lasena chiosa facendo professione di umiltà: «Sed cohibeo me, nolo tam altum sapere» (cfr. Rom. 11,20). Contro i fautori del testo ebraico Lasena replica con l’argomento dell’insufficienza dell’alfabeto ebraico (la lingua ebraica è priva di vocali, manca infatti nei codici la distinzione tra le parole, l’interpunzione è tarda ad opera dei Masoreti, ecc.). Se la Chiesa primitiva, che pur aveva accesso ai codici ebraici, decise di preferire loro il testo greco, è evidente che giudicava quest’ultimo migliore. A maggior ragione — incalza Lasena — l’argomento vale per il testo latino, alla cui versione Girolamo dedico molti anni di as67
Disputationes Roberti Bellarmini Politiani, S. R. E. Cardinalis, De controversiis Christianae fidei adversus huius temporis haereticos (…), Editio ultima ab ipso Auctore aucta et recognita (…), Venetiis, 1599, Apud Societatem Minimam, I, coll. 96-98: «Quatuor autem de causis licet ad Hebraeos et Graecos recurrere fontes. Primo, quando in codicibus nostris esse videtur librariorum error. Secundo, quando Latini codices variant. Tertio, quando vox vel sententia ambigua est. Quarto, propter energiam et proprietatem vocabulorum. Tertium argumentum sumunt ex variis locis in quibus videtur editio vulgata continere errorem». Nelle note si rimanda per il primo caso a diversi esempi tra cui Eccl. 45,6, dove cor va corretto sulla base del testo greco (κατὰ πρόσωπον) coram; per il secondo a Ios. 5,6 dove alcuni codici hanno ostenderet, altri non ostenderet, lezione, quest’ultima, da preferirsi sulla base del testo ebraico; per il terzo a Ps. 138,15 non est occultatus os meum, dove il testo ebraico mostra che si tratta di os, ossis; per il quarto a Ps. 138,6 mirabilis facta est scientia tua ex me, dove dal testo ebraico si capisce il significato, che cioè scientiam Dei mirabiliorem esse quam ut possit capere homo.
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siduo e diligentissimo lavoro, disponendo peraltro di manoscritti migliori di quelli dei moderni traduttori. I moderni innovatori negano di fatto che la versione geronimiana e quella dei Settanta siano ispirate. Perciò il loro intento di ritornare al testo ebraico è un attacco alla Vulgata e al Concilio di Trento che cela la volontà di subordinare la Chiesa alla Sinagoga. Ingo Herklotz68 ha fatto notare che i motivi polemici di Lasena si ritrovano già in Alonso Salmeron, in particolare nei prolegomena ai suoi 11 volumi di commento al Nuovo Testamento, apparsi postumi tra il 1598 e 1601. Salmeron, che aveva preso parte al Concilio di Trento, polemizzava contro la tradizione ebraica che avrebbe falsificato il testo della Bibbia manipolando tutti i riferimenti a Cristo. Un processo, questo, che sarebbe nato già a ridosso dell’avvento di Cristo e che si sarebbe particolarmente accentuato con la revisione del testo ad opera dei Masoreti. In tempi più vicini a Lasena la polemica contro il testo masoretico era stata ripresa dall’oratoriano Jean Morin, che tra il terzo e il quarto decennio del XVII secolo aveva pubblicato diversi studi di filologia biblica comparata, in cui esaltava il testo greco e quello latino contro quello ebraico. Entrambi gli studiosi, Salmeron e Morin, fa notare sempre Herklotz, benché non citati esplicitamente da Lasena, erano ben noti alla cerchia dei Basiliani. Per conto mio, ho avuto modo di appurare che sia nella prima sia nella seconda dissertazione diversi passaggi, anche di una certa estensione, sono ripresi ad litteram dalle Exercitationes Biblicae de Hebraei Graecique textus sinceritate (1633) di Jean Morin. Non mette conto analizzare nel dettaglio come il tema della lingua ellenistica venga piegato da Lasena ad intenti polemici; mi limiterò a pochi ragguagli. La versione dei Settanta, scrive Lasena (ff. 24v-25r), «quantumvis authentica et emendata», tuttavia «Hebraeogreca lingua scripta est, videlicet Hellenistica». I fautori della lingua ellenistica sostengono che i traduttori avrebbero espresso con termini greci concetti ebraici e, dunque, che chi conosca solamente il greco non potrebbe penetrare nel profondo della lingua dei testi sacri, che necessiterebbero di una pari conoscenza dell’ebraico e di altre lingue semitiche. Lasena replica sdegnato vedendo in ciò un aperto tentativo di screditare la Vulgata e un «bellum plusquam civile» contro la Vulgata. Infatti se senza tener conto delle Hellenisticae glossae non si potrebbe penetrare il significato autentico delle parole del Nuovo Testamento, occorrerebbe emendare il testo latino alla luce delle specifiche caretteristiche di una lingua, quella ellenistica, che, sotto una veste greca, veicola concetti ebraici. Per l’Antico Testamento la situazione sarebbe meno drammatica, essendo il testo della Vulgata tradotto da ver68
HERKLOTZ, ‘The Academia Basiliana’, p. 149; ID., Die Academia Basiliana, pp. 104-105.
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sioni ebraiche, sebbene la versione dei Settanta in uso nella Chiesa primitiva non vada considerata non autentica. Ma nel caso del Nuovo Testamento, afferma Lasena, la nuova prospettiva avrebbe come conseguenza che per comprendere gli insegnamenti di Cristo e degli apostoli non sarebbe più sufficiente la sola conoscenza della lingua greca o latina, ma occorrerebbe servirsi di interpreti dell’ebraico, siriaco e caldaico. Qualche parola in più meritano invece i tre esempi a cui si fa ricorso per illustrare gli attacchi portati dai fautori della lingua ellenistica contro la Vulgata. Il primo (ff. 27v-28r) riguarda la parola ἀλήθεια. La traduzione veritas sarebbe esatta se si trattasse di greco, ma trattandosi di ‘ellenistico’ occorre tenere presente che il termine corrispettivo ebraico indica piuttosto iustitia. Lo dimostrerebbe Is. 39,8, dove a fronte della Vulgata il cui testo è Fiat pax et veritas in diebus meis, i Settanta recano γενέσθω δὴ εἰρήνη καὶ δικαιοσύνη ἐν ἡμέραις μου. Perciò in Io. 3,21 ὁ δὲ ποιῶν τὴν ἀλήθειαν andrebbe inteso come colui che vive rettamente o che opera la giustizia. Il secondo caso riguarda il ricorrere del verbo ἀποκρίνεσθαι, alla lettera ‘rispondere’, anche quando non è stata formulata una questione (cfr. Mt. 28,5; Dan. 2,14; Deut. 26,1369), un uso che rispecchierebbe quello dell’ebraico ‘ånå, usato tanto nel senso di respondere quanto di dicere70. L’ultimo esempio riguarda la parola κοινός usata nel senso di illotus e immundus (cfr. Mc. 7,2; 1Macc. 1,50; Act. 10,14 e 28), sempre secondo l’uso ebraico, e non nel senso di communis, come traduce la Vulgata71. Nessuno dei tre casi viene però analizzato nel merito per essere confutato. Lasena si limita a replicare che sotto il pretesto della lingua ellenistica questo tipo di esegesi vuole sferrare un attacco nemmeno tanto velato alla Vulgata. Nel finale, si trova l’elemento in un certo senso rivelatore dell’accanimento contro i fautori la lingua ellenistica. Lasena riporta, senza citare l’autore, due passi dell’Aristarchus sacer di Heinsius che affermano l’opportunità nella traduzione della lingua del Nuovo Testamento di tener conto delle caratteristiche specifiche della lingua ellenistica, riconoscendo quanto in essa vada ricondotto alla matrice ebraica, a quelle caldaica e a quella siriaca. Tutto ciò per Lasena non può essere considerato che un attacco inconsulto alla Vulgata. 69 Tuttavia in Deut. 26,13 la lezione ἀποκριθείς (ma il codice barberiniano reca l’aberrante ἀποκριθεῖς) non è indicata né in testo né in apparato nell’edizione dei Septuaginta di A. RAHLFS (Duo volumina in uno, Stuttgart 1979). 70 Sulle difficoltà che pone il verbo ἀποκρίνεσθαι si hanno conferme nei CrSac. Nel commento a Mt. 28,5 Erasmo ritiene improprio l’uso di respondeo («cum illae [sc. le donne] nihil interrogassent, nisi quod ad cogitationes respondet»; tomo VI, parte 1, col. 976), ma François Vatable rileva: «Respondens: Hebr. pro verba faciens» (ibid., col. 976). 71 Si veda nei CrSac il commento a. l. di Isidoro Chiari (tomo VI, parte 2, col. 80) e il commento ad Act. 10,14 di Hugo Grotius (tomo VII, parte 1, col. 212).
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TESTO Criteri di edizione La trascrizione è stata condotta sull’originale. Indico con B il codice Barb. Lat. 1780, ff. 1r -31r e con B2 gli interventi a margine di Jean-Jacques Bouchard. Al f. 11r tradendi è corretto da un precedente traducendi tramite un pezzo di carta che copre le lettere u e c. Difficile stabilire se la correzione spetti al copista o a Bouchard. Più in generale, anche per altre correzioni non è facile stabilire se esse spettino al copista del testo o a Bouchard. Per praticità non le ho indicate, attribuendole tutte implicitamente a B; esprimo un dubbio solo per una correzione al f. 10v (si veda la n. 26). Non ho allestito un vero e proprio apparato in calce al testo, ma per praticità ho utilizzato le note a piè pagina. In esse segnalo sia le correzioni (presenti nel codice o mie) sia le annotazioni a margine di B2 sia le fonti in genere. Quest’ultime sono poste tra parentesi quadre, per distinguerle dalle annotazioni a margine di B2 che riguardano anch’esse passi citati da Lasena. Per essere più precisi, le annotazioni di B2 che segnalano loci sono seguite da mie annotazioni tra parentesi quadre in cui l’indicazione, nel caso di autori classici pagani e/o cristiani, viene esplicitata secondo le edizioni oggi in uso; nel caso di testi sacri viene meglio precisata qualora occorra la referenza; nel caso di edizioni di contemporanei o del XVI secolo citate da Lasena si danno, sempre tra parentesi, indicazioni più esaustive rispetto a quelle sommarie di Bouchard. Ugualmente figurano tra parentesi quadre le segnalazioni di passi omessi da Bouchard; in questi casi l’intera nota a piè pagina è tra parentesi. Oltre alle fonti esplicitamente indicate da Lasena segnalo la fonte quando c’è un’allusione particolarmente scoperta ovvero di carattere proverbiale se ciò sia utile per la comprensione. Per comodità segnalo per i Padri della Chiesa anche le pagine della Patrologia Graeca e Latina del Migne. Le citazioni esplicite o segnalate a margine da Bouchard, che oltre ad indicare la fonte appone a margine della citazione il segno " in uso nella stampa già nel XVI secolo*, sono in corsivo. Pure in corsivo è riportato al f. 8r la frase libros ipsos-canonicis suscipiendos, che infatti costituisce una citazione (leggermente compendiata**) come indicato dai segni posti a margine da Bouchard, il quale però in questo caso non esplicita la fonte. Si tratta del Decretum de libris sacris et de traditionibus recipiendis approvato nella sessio IV dell’aprile 1546 al Concilio di Trento. Al con* Su questo segno tipografico cfr. A. L. LEPSCHY – G. LEPSCHY, Punto e virgola. Considerazioni sulla punteggiatura italiana e europea, in Le esperienze e le correnti culturali europee del Novecento in Italia e in Ungheria, a cura di I. FRIED e A. CARTA, Budapest 2003, pp. 9-22: 2021; A. CASTELLANI, ‘Le virgolette di Aldo Manuzio’, Studi linguistici italiani 22 (1996), pp. 106-109. Ulteriore bibliografia in C. GINZBURG, ‘Descrizione e citazione’, trad. ital. dall’orig. inglese [= ‘Ekphrasis and Quotation’, Tijdschrift voor Filosofie 20 (1988), pp. 3-19], in ID., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano 2006, pp. 15-38: 35 n. 67. ** Questo il passo originario: «Si quis autem libros ipsos integros cum omnibus suis partibus, prout in Ecclesia catholica legi consueverunt et in veteri vulgata Latina editione habentur, pro sacris et canonicis non susceperit, et traditiones praedictas non sciens et prudens non contempserit, anathema sit».
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trario non ho riportato in corsivo i passi ripresi ad litteram o fere ad litteram dalle Exercitationes Biblicae de Hebraei Graecique textus sinceritate (1633) di Jean Morin, che ricorrono sia nella prima sia nella seconda dissertazione, che pure segnalo in apparato. La mancata indicazione della fonte da parte di Bouchard e il fatto che tali loci siano perfettamente integrati nel contesto rende probabile o quantomeno lascia aperta l’ipotesi che Lasena abbia volutamente omesso la citazione. Andrebbe poi accertata l’esistenza di altri plagi sia dalla stessa opera sia da altre. Le parole che in B sono sottolineate (si trovano nei ff. 17v e 18r ) vengono riprodotte tal quale. Al f. 12r ho separato con uno spazio di alcune lettere la citazione di un passo di Tertulliano e del commento che ne dà Scaligero nelle Animadversiones in Eusebium, che in B sono riportate in modo continuativo. Indico con le parentesi quadre le espunzioni e con le parentesi uncinate le integrazioni. L’interpunzione non è quella del manoscritto, ma normalizzata per rendere più fruibile il testo; ugualmente normalizzato è l’uso delle maiuscole. Ho sciolto, nel testo, le poche abbreviazioni relative a titoli di libri o a cariche (tipo Tua Eminentia) facendo uso di parentesi tonde. Per le abbreviazioni più ricorrenti e/o di uso più comune (come q per l’enclitica -que o i. e per idest [su cui vedi oltre]) ho sciolto senza dare segnalazione. Nelle note non ho sciolto alcuna abbreviazione. Nell’apparato quando mi riferisco all’introduzione uso la sigla Intr(oductio), quando alle osservazioni che seguono la sigla Obs(ervatio) accompagnata dal numero, quando ai presenti criteri di edizione la sigla CritEd. Una sola referenza bibliografica, data la sua frequenza, ricorre in forma abbreviata: Morini Exerc. Bibl. = Ioannis Morini Exercitationes Biblicae de Hebraei Graecique textus sinceritate (…), Lutetiae Parisiorum, Excudebat Antonius Vitray, 1633. Mi sono attenuto piuttosto scrupolosamente alla grafia del codice, uniformando nei pochi casi in cui figuravano divergenze. Segnalo di seguito i casi più rilevanti in cui la grafia di B si discosta dagli usi più consueti. È usata la forma staccata anziché la monoverbazione per et si, ne dum, non nisi, non nulli, pro ut, quid ni [compare una sola volta, al f. 22r], se se, si quando [un solo caso, al f. 26v], si quidem [ma al f. 23r non è agevole stabilire se sia scritto si quidem o siquidem], si quis, ut pote. Invece è scritto quinimo anziché quin im(m)o [un solo caso, al f. 16r]. Si notano divergenze nei seguenti casi: L’enclitica –met è sempre staccata dalla parola precedente tranne che al f. 21v. Ho uniformato quest’ultimo caso ai precedenti. Compare due volte la forma monoverbata quamobrem e una volta (f. 11r) quam ob rem. Scrivo sempre quamobrem. Ho scritto tanquam anziché tamquam attenendomi all’indicazione di f. 22r (in tutti gli altri casi B fa uso dell’abbreviazione). Ho scritto sempre Phalereus rispettando la forma di B (al f. 10r interpreto Phalerei come corretto da un precedente errato Phalerai e non come se fosse scritto Phaleraei).
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Ho scritto sempre Palaestina (al f. 6r è scritto invece Palestinae). Ho scritto sempre idest, come è riportato ai ff. 18r e 29r: in B è scritto id est al f. 29v e abbreviato i.e. ai ff. 7v e 15v. Non è semplice decidere tra pleru(m)que e pleru(n)que perché B usa sempre il segno di abbreviazione. Ho scelto pleru(m)que. Neppure è semplice decidere tra procul dubio (così al f. 23v) e proculdubio (così al f. 31r). Ho scritto sempre procul dubio. Per altre oscillazioni non mi è parso opportuno intervenire. Per esempio viene usato sempre la forma littera, ma al f. 15v compare illiteratorum. Per quel che concerne le citazioni in greco, ho normalizzato l’accentazione nel caso di enclitiche e in fine di parola senza segnalarlo in apparato. Conservo la forma staccata οἵ τινες al f. 6r. Ho riprodotto lo iota sottoscritto quando omesso senza segnalarlo in apparato. L’unica parola in ebraico, presente al f. 28r, è stata traslitterata.
[1r] DE HELLENISTICA LINGUA DISSERTATIONES HABITAE ROMAE IN ACADEMIA SACRO-GRAECAE LITTERATURAE APUD BASILIANOS. [2r] EMINENTISSIMO AC REVERENDISSIMO PRINCIPI FRANCISCO CARD. BARBERINO, S. R. E. VICECANCELLARIO ET URBANI PP. VIII FRATRIS FILIO, PETRUS LA SENA FELICITER. Non est vel perexiguum a quocumque proficiscatur munusculum, quod, magno principi gratum, non ipse magnum dignatione sua effecerit; ac idem de his dissertatiunculis, quas EMINENTIAE TUAE reverenter profero, non abs re mihi spon- [2v] deo, imo consecutum iam fuisse sentio, cum illas ne dum auribus admittere non sis gravatus, sed humanitatis quodam auctario etiam scripto traditas libenter annueris suscepturum. Exiguitatem operis cum tantilla rei species tum stili tenuitas et parvitas testabitur doctrinae, quamvis grande quid materia ipsi conciliet. Porro haec se se obtulit efformandam, nec ita tamen eam digessi ut absolutam agnoscam; ampliatione enim opus est. Postea vero quam haec studia tractare coepi, T(ua) E(minentia) auspicante, de illis bene mereri quotidie enitar. Interim quidquid hoc est libelli, erit saltem observantiae et venerationis aliquod testimonium. Vale, Princeps optime et purpuratorum decus. [3r] PRO HELLENISTICA LINGUA DISSERTATIO Inter antiqua de Aegyptiis monumenta, cum multa praeclara sint litteris commendata, illud prae caeteris laude dignum reperio, quod Ptolemaeo Philadelpho regi tribuitur. Hic divinas leges et sacratissima Hebraeorum mysteria summa industria, immensis sumptibus, non vulgari religione, ad commune hominum bonum Graeco idiomati tradenda curavit, et nobilissimam bibliothecam viginti librorum myriadibus, quos magnus inter Graecos et litterarum nomine celeberrimus Demetrius Phalereus conquisiverat, cum instructam et admirabilem reddidisset, tam
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pretioso atque inaestimabili thesauro extra aliorum librorum numerum locupletissimam et ornatissimam effecit. [3v] Nec est cur hoc in dubium revocari queat, cum Aristeam eiusdem regis in hac eadem procuratione ad Eleazarum Hebraicae gentis antistitem et legatum habuerit et scriptorem, cunctisque deinceps seculis variorum gravissimorum auctorum attestationibus sit confirmatum, nisi forte in meridiana luce ad tenebras offundendas malit quispiam ut Caecias nubes1 cogere et se ipsum aperte ludificari. Quod quidem Ptolemaei exemplum, cum haud dissimili imitatione, pari certe aemulatione, hac tempestate renovari animadvertam, rei admiratione captus, sin minus ut toto orbi gratuler, obstrepentium bellorum sonitus permittunt ut saltem felicitati Urbis istud tribuam, prohibere haud possunt. Conspicimus enim ingentem optimorum codicum adornari bibliothecam, Graecorum de ecclesiastica historia auctorum cum versionem tum editionem promitti, typos ad Graece imprimendum [4r] affabre concinnatos apparari et, quod propius nobis est, ad sacram Graecamque litteraturam promovendam hoc synedrium felici auspicio institutum felicioribus praesidiis in maius provehi. Quod cum mecum ipse reputem, non possum non eximiam et vere eminentissimam efferre benignitatem quae me in hunc censum admisit, dignumque ut aliquid ex hoc suggestu dicerem existimavit. Quamobrem cum huius coetus unum sit propositum, sacras Graecasque litteras quantum fieri potest eruditis exercitationibus illustrare, illud maxime commendatum agnoscere par est, ut de eadem ab Ptolemaeo procurata Antiqui Foederis translatione et de eius lingua ac de ea quae exinde in Novi Instrumenti libros emanavit potissimum disseramus. Magna etenim inter eruditos excitari coepit controversia an huiusmodi lingua dici Graeca debeat, vel Hellenistica sine alio quovis vocabulo [4v] nominari, ut quae altera et admodum a Graecorum diversa asseratur. Ego a me alienum non puto de hac re in utramque partem disputare, ut vestri integrum sit diffinitionis iudicium et, ne nimis vel prolixitudine molestus efficiar, unius solummodo opinionis, pro Hellenistica videlicet lingua, in praesentiarum argumenta ad vos referre. Sed antequam exordiar, ne sit vellicandi locus, quo aulica ut plurimum feruntur ingenia, praemonitos vos vellem me non ideo de Graeca Bibliorum lingua esse sollicitum, ut qui putem ad eam de Latinae versionis emendatione velut ad fontem esse provocandum, cum nostram vulgatam authenticam, canonicam et omnibus numeris absolutam ex approbatione Ecclesiae solummodo agnoscam, imo solam, veram et indubitatam esse regulam, in eis praesertim quae fidei et morum sunt ad omnes quoscumque cum Graecos tum Hebraicos codices [5r] emendandos; sed, cum iis qui sacras litteras tractant maxime intersit Graecos Patres, qui Graecis Biblis sunt uti, recte intelligere et ad nostri textus evidentiorem declarationem et illustrationem plurimum id conferat, haec quam propono controversia ne dum curiosa, sed utilis et digna ut ad eam animum attendatis reputari debet. Igitur qui astruunt seniorum Septuaginta et apostolorum linguam minime Graecam fuisse nec dici debere, illud in primis secum statuunt, sic intermixtum Hebraei 1 [de Caecibus nubis cf. Arist. Probl. 26,29 (p. 943 A 32 sqq.), Meteor. II 6 (p. 363 B 17 sqq.), Aul. Gell. II 22,24.]
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Syrique sermonis idiotismis esse hanc linguam adeoque cum Hellenismo coniugi τὸν Ἑβραισμὸν καὶ τὸν Χαλδαισμόν, ut hae omnes dialecti in tertiam quandam linguam coaluerint, quae cum Graeca pura non sit, cum Hebraica dici non possit, Hebraeo-Graeca2, ut aliquibus videtur, ab aliis frequentiori calculo Hellenistica nuncupatur. Haec seriatim explicanda; verum, cum diffuse de commix- [5v] tione idiotismorum sit agendum, reliqua duo quae assumpsimus breviter praenosse oportebit. Primum est ut sciamus quid ad constituendam novam linguam requiratur. Qua de re non sinit nos dubitare antiquissimi et eruditissimi Clementis Alexandrini3, quae maxima est, auctoritas. Nam loquens de linguarum generibus Ephori4 et aliorum historicorum damnat opinionem, quod putaverint linguas seu dialectos et sermones generales fuisse septuaginta quinque, cum ex vera ratione et scripturae auctoritate ad duas etiam septuaginta illae redigantur. Subdens quod huc spectat: Fiunt autem linguae per communionem duarum vel trium vel etiam plurium dialectorum. Est autem dialectus dictio quae loci proprium ostendit characterem, vel dictio quae proprium vel communem gentis characterem ostendit. Graeca auctoris verba, ut sit eis fides: Αἱ δὲ [6rr] γλῶσσαι5 αἱ πολλαὶ ἐπὶ κοινωνίᾳ διαλέκτων δύο ἢ τριῶν ἢ πλειόνων γίνονται. Διάλεκτος δέ ἐστι λέξις ἴδιον χαρακτῆρα τόπου ἐμφαίνουσα ἢ λέξις ἴδιον ἢ κοινὸν ἔθνους ἐπιφαίνουσα χαρακτῆρα. In confesso igitur erit si huiusmodi agnoscamus in Seniorum lingua duarum vel plurium dialectorum admixtione propriam, novam et peculiarem constitui linguam. Cur autem Hellenisticam dici velint? Est alterum quod praenoscere debemus. De Hellenistis mentio est in Actibus apostolorum6: Ἐν δὲ ταῖς ἡμέραις ταύταις πληθυνόντων τῶν μαθητῶν ἐγένετο γογγυσμὸς τῶν Ἑλληνιστῶν πρὸς τοὺς Ἑβραίους. Et alibi7: Ἦσαν δέ τινες ἐξ αὐτῶν
ἄνδρες Κύπριοι καὶ Κυρηναῖοι οἵ τινες εἰσελθόντες εἰς Ἀντιόχειαν ἐλάλουν πρὸς τοὺς Ἑλληνιστάς. Iudaei olim distinguebantur in Iudaeos Palaestinae, qui Hebraei proprie dicti, et διασπορὰν Βαβιλῶνος8 καὶ διασπορὰν Ἑλλήνων. [6v] Postea hi Hebraei Ἑλληνισταί vocabantur, videlicet Graecientes, quod nimirum Graece scirent et Graece loquerentur, ἀπὸ τοῦ Ἕλληνος facta inflexione, quemadmodum a Roma Ro-
manensis apud priscos auctores dicebatur qui alibi natus Romae versaretur. Ἑλληνίζειν autem est Graeca lingua uti. Sunt qui existimant Ἑλληνιστάς etiam dictos τοὺς Ἕλληνας, hoc est gentiles, cum ex paganismo ad Iudaeos per circumcisionem accederent. Sed ii propria notione προσήλυτοι audiebantur9. Ex his ne dum Hellenistae, sed Hellenistarum omnium antesignani Septuaginta senes, nominari cum debeat Graeca quanti sunt lingua, qualis qualis ea sit, Hellenistica non absone nec sine ratione consequens est ut dici etiam possit. Haec de linguae constitutione et eius nomenclatione; nunc, quod reliquum et principale 2
Hebreo-Graeca B. In mg. p(rim)o Strom. [I 21, 142,2-3 = PG 8,880A]. 4 Euphori B, correxi coll. Clem. Al. Strom. I 21, 142,1 = Ephor. FGrHist 70 F 237. 5 γλώσσαι (!) B [αἱ δὲ ἄλλαι (sc. διάλεκτοι) in Clem. Al. libris]. 6 In mg. cap. 6. 1 B . 2 7 In mg. cap. x. 20 [re vera Act. 11,20] B . 2 8 Βαβιλώνος (!) B. 9 audiebant B. 3
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propositum, de utriusque Graecae et Hebraicae [7r] linguae idiotismis agamus. Pro qua re et altius praefandum est, ne captiose quae dicturus sum excipiantur. Nulli dubium esse debet quidquid nos, post Tridentinam synodon, de vulgata Sacrorum Bibliorum Latina versione iure dicimus, hoc est libros ipsos integros cum omnibus suis partibus, pro ut in Ecclesia catholica legi consueverunt, pro sacris et canonicis suscipiendos10, idem olim de Septuaginta interpretum translatione in primordiis Ecclesiae obtinuisse, quippe eadem auctoritas illi a sanctis apostolis videtur impertita, alias enim nullo verbo Dei authentico quingentis annis usa esset universa Ecclesia, nullo apostoli apostolorumque successores, qui alia translatione nec ipsi usi sunt nec aliam Ecclesiis utendam tradiderunt11. Constat sane non tantum Patrum auctoritate, sed etiam rabbinorum omnium antiquissimorum et neotericorum [7v] traditione, divinam esse12; quod nemo in sacris auctoribus versatus negaverit, nec qui se catholicum esse meminerit. Huic axiomati et tanquam solido principio alterum ex vera theologia receptissimum adhibeamus, videlicet causam primam et divinam quae suaviter omnia disponit pro ratione causae secundae plerumque agere cum ei coniungitur. Quod Sanctus Dionysius13 mirum quam eleganter et apte ad rem nostram expressit: Οἱ δεινοὶ περὶ τὰς ἱερὰς ἡμῶν τελετάς φασι τὰς αὐτοφανεῖς τῶν θείων ἀποπληρώσεις τῶν δι’ ἑτέρων θεοπτικῶν μεθέξεων εἶναι τελειοτέρας, idest14: Qui diligentius mysteria nostra rimantur aiunt rerum divinarum effectus et communicationes, quae per se apparent nulloque interiecto medio infunduntur, iis15 quae aliorum ope et concursu fiunt perfectiores esse. Etenim pro qualitate et diversitate eorum qui tanquam συναίτιοι et secundae, ut aiunt, causae adhi- [8r] bentur, eiusdem Divini Spiritus directio et operatio diversimode deprehenditur; non secus ac solem, causarum naturalium primam, influxus suos in plantas ita moderari experimur, ut nullius virtutem peculiarem vel levissime laedat. Id quotidie in sacris oratoribus observatur. Qui modo non verbo tenus, sed re ipsa organa sint Sancti Spiritus et ad verbi Dei ministerium eligantur. Nam pro ut studia et instituta eos in diversa trahunt, alii rudes, impoliti, obstreperi et insuaves, alii suaviloquentia animos alliciunt, eruditionis elegantia detinent, doctrinarum paradoxis evehunt ad sublimiora. Rursus testatissimum est apud divinae paginae meliores interpretes Esaiam eloquentissime scripsisse, ut pote regii sanguinis prophetam nitidoque sermoni assuetum et humiliori longe dictionis charactere Amos, ut qui 10 [Decretum de libris sacris et de traditionibus recipiendis (1546), in H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, cur. P. Hünermann, Bononiae 1995, n° 1504 (p. 640), compendiose: cf. supra CritEd.] 11 [alias-tradiderunt verba sunt Ioannis Morini: ex Morini Exerc. Bibl. pp. 237-239, passim fere ad litteram, p. 183.] 12 [Constat-divinam esse verba sunt Ioannis Morini Exerc. Bibl., p. 355.] 13 In mg. De Coelest. Hier cap. 8 [8, 1 = PG 3,240C] B [cf. Morini Exerc. Bibl., pp. 238 2 sqq.] 14 [interpretatio quae sequitur hausta est ex Morini Exercitationibus biblicis, p. 238; quod sequitur usque ad initium f. 9r ex pp. 238-239 libri Morini haustum est, passim fere ad litteram.] 15 is B, iis praetuli coll. interpretatione Morini.
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a bobus ad prophetiae munus fuerit assumptus. Hinc est, ut iam ad propriora [8v] deveniamus; quod viri doctrina et linguarum peritia praecellentes, cum Latinam Sancti Hieronymi et Graecam Septuaginta interpretum ex Hebraeis fontibus translationes inter se se comparant, manifestissime deprehendunt longe elegantius et saepe luculentius hunc Latine quam eadem illos Graece reddidisse; quippe S. Hieronymus, litteris Latinis Graecis et Hebraicis cum apprime esset eruditus, oratoriis institutionibus iuvenis diligenter navaverat operam et, iubente Damaso pontifice et viris summis ad id ipsum etiam cohortantibus, in vertendis libris sacris toto fere vitae curriculo applicaverat. Unde quid mirum (liceat cum doctissimo viro de Romana et catholica editione gloriari) si Hebraica Latine, barbara eleganter, obscura perspicue, perplexa distincte, nomina animalium et plantarum propria nominibus propriis, sacra aut prophana instrumenta et ornamenta consimilibus et ἀναλόγοις, velut ad amussim et perpendiculum, reddiderit et [9r] expresserit? Septuaginta vero horum omnium cum rudes essent, id exacte et perpolite praestare haud potuerunt, et hoc accidisse creditur pluribus ex causis, quas singulas in re praesenti examinare erit operae pretium. Primum quia senes Hebraicam tantummodo linguam16 noverant, solis enim patriis litteris innutriti; cum Hebraei, maxime ante Ptolemaei aetatem, nec Graecorum monumenta percurrere nec illorum doctrinas ediscere satagerent, quod nimirum quidquid alienigenarum et gentilium esset ut impurum contemnerent et aversarentur. Graecam igitur linguam non admodum ii callebant, tantummodo ut aliqualiter eloqui et cum Graecis necessitate commercii versari possent edocti; nihil magis ac hodie apud Germanorum vulgus sit consuetum, qui Italica peregrinationis causa Latinis colloquiis instruitur. Firmat hoc Aristeas17, cum inquit Septuaginta interpretes in studia et mores Graecorum operam navasse, non aliam subdens rationem, nisi διὸ καὶ [9v] 18 τὰς πρεσβείας εὔθετοι καθεστήκεισαν καὶ τοῦτ’19 ἐπετέλουν ὅτε20 δέοι, quod ideo idonei erant ad legationes et eas obibant cum opus esset. Nec dubium Aristeae testimonium: nam tum hoc in loco tum in aliis in quibus eum laudavero (quando contrarium aliunde non constet) vel illos fidem adhibituros credo qui supposititium scriptorem existimant. Secundo, hos interpretes ex media Palaestina rex Ptolemaeus acciverat; quod si alibi Hebraei parum cum Graecis convenirent, ibi ob Graecorum infrequentiam minimum eis utebantur; et ad interpretationis opus, statim post legatorum in Hierosolymam adventum, ac sic de repente accincti sunt, ut nulla praeambula exercitatione, nullo accuratiori studio praemuniri ac se se comparare potuerint. Nec legimus, ut par erat, ex Athenis Atticis Graecae linguae peritos simul et advocatos, ut una opera mutuoque labore illi Hebraicum sensum, hi Graecas elocutiones vicissim communicarent; ut divinitus [10r] instructa Romana Ecclesia, cum in decretis Tridentinis exarandis, tum etiam in Romano catechismo adornando, 16
post linguam deletum nec etiam si alicui credimus exacte. [ps. Aristae. 122.] 18 Supplevi coll. ps. Aristaeae libris. 19 τουτ’ (!) B. 20 ὅτι B, correxi coll. ps. Aristaeae libris. 17
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simul cum theologis linguarum peritos adhibere prudenter consuevit. Sed obiiciet aliquis in huius versionis opus manus admovisse Phalereum Demetrium, qui tantum hanc interpretandi artem callebat, ut librum Περὶ ἑρμηνείας21, ab eruditis omnibus commendatum, posteritati reliquerit. Sed nec is liber est Phalerei22, cum Dionysio Halicarnassaeo vel alii23 Demetrio, ut critici observarunt, sit tribuendus. Nec Phalereus iste Septuaginta interpretibus aliud quam nudi exscriptoris munus praestitit. Quidquid enim illi ex collationibus ad consonantiam elaborabant, et ita consonum et elaboratum erat, ut dignum esset descriptione: ἀναγραφῆς, inquit Aristeas24, οὕτως ἐτύγχανε παρὰ Δημητρίου, scripto a Demetrio excipiebatur. Tertio quia interpretationem aggressi, nimis properanter illam absolvere conati sunt, ut cum singuli integrum opus seorsim interpretarentur et ex singulis diebus [10v] octonas tantummodo horas et vertendo et conferendo et dictando impenderent; post duos et septuaginta dies nihil illis superfuit quod peragerent, cum tamen ex sacris libris ne dum25 Pentateuchus26, sed reliqui prophetarum omnium ac etiam ἀπόκρυφοι, si Epiphanio27 et aliis28 credimus, fuerint una opera in Graecum sermonem versi. Et sane hac in re non est Epiphanio detrahenda fides, cum vero simillimum sit Ptolemaeum, qui ad augendam bibliothecam librorum copia inhiabat, ne dum expositorum, sed etiam apocryphorum versionem efficaciter exegisse. Lente autem erat hac in re maturandum. Festinato efficitur, non perficitur opus; exasciatur, non ad umbiculum ducitur; colore depingitur, non fulgoribus illuminatur. Hinc factum est in eorum versione ut29 Graecae linguae puritate atque elegantia insuperhabitis omnia Hebraicis idiotismis repleverint et quae commode et explicate Graeca dici [11r] potuissent maluerint Hebraica et ἀνερμήνευτα relinquere; sive quod Graeca huiusmodi memoriae non occurrerent, nec etiam Hebraice essent admodum sapientes, et quidquid ab eis ignoratum praestaret ut eos nescire non alii odorarentur30; sive quod περίερνος ista exactio ad fidem moresque instruendos parum proficeret, vel ad rem esse videretur ambiguitas ipsa atque elocutionis perplexitas; sive denique quod, cum apud Graecos huiusmodi nulla reperiri intelligerent, quae similia visa sunt usurpaverint. 21 22
ἑρμηνίας B.
Phalerei ut vid. ex Phalerai. alii ex alio. 24 [ps. Aristae. 302.] 25 ne dum lectio incerta post corr. (ex qua lectione non intelligitur). 26 Pentateuchus ex Pentateucus B (an B ?) 2 27 [Epiph. De mens. et pond. 3, p. 155 Lagarde.] 28 [De testimoniis de origine versionis LXX interpretum vd. Aristeae ad Philocratem epistula cum ceteris de origine versionis LXX interpretum testimoniis, Ludovici Mendelssohn schedis usus edidit Paulus Wendland, Lipsiae 1990, pp. 84-166, una cum Hexaplorum origines quae supersunt multis partibus auctiora, quam a Flaminio Nobilio et Joanne Drusio edita fuerint. Ex manuscriptis et ex libris editis eruit et notis illustravit D. Bernardus de Montfaucon (…), I, Parisiis, Apud Ludovicum Guerin et alii, 1713, pp. 91-102; nec non L. Canfora, Il viaggio di Aristea, Romae et Barii 1996 passim.] 29 ut ex quod. 30 odorarentur ut vid. ex intelligerent. 23
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Haec non senes tradendi31 causa a me dicta sunt: nam et eodem sensu percipi possunt, quo ab Ecclesiae doctoribus, iis in locis in quibus eorum versio a veritate Hebraicae scripturae distat — distat autem plurimis! —, non solum honorifice excusantur, sed commendantur. Quamobrem et aliam me posse adiicere observationem existimo, sane haud silentio praetereundam. Puto enim Septuaginta viros id proprie curasse ut, in iis prae- [11v] sertim in quibus fides non violatur, nihil clarum, nihil apertum Graecis innotesceret, ac proinde de industria Hebraismis omnia interturbasse, ut absque Hebraei expositoris enucleatione, hoc est non nisi eorum ope eisdemque doctoribus, aliquid manifeste inclaresceret. Notum quippe est Iudaeorum legis peritos cum in scholiis tum in synagogis docuisse et magno supercilio discipulis venditasse doctrinam, ne dum quae in sacrorum librorum interpretatione, sed quae in traditionibus et observationibus versabatur, quas, ut ait S. Hieronymus32, δευτερώσεις Graece vocabant. Rabbi enim et magistri διὰ τὴν χειροθεσίαν33 publice renunciabantur ac inter eos Dominum nostrum δωδεκαέτη et sedisse et docuisse in Evangelio constat. Prudentiae igitur horum interpretum erat non de invidenda gentibus veritate in unum communicasse consilium, quod negat pariter Augustinus34, quamvis non desint auctores qui id affirment, sed ita Hebraica arcana [12r] evulgare in aliam linguam, ut sibi ipsis quam integram possent illam explicandi facultatem conservarent et rabbinorum auctoritatem sarctam tectam custodirent. Sic Aristoteles35 suos ἀκροαματικοὺς λόγους edidit, quod scribens Alexandro regi inquit ut forent ξυνετοὶ μόνοις τοῖς αὐτῶν ἀκούσασιν, et non nisi qui eum audirent illos intelligere valerent. Res certe eis bene cessit. Nam nec in ipsa Alexandria Sacra Biblia absque Hebraicis doctoribus interpretabantur, testis antiquissimus Tertullianus36, qui de hac versione locutus subiicit: Hodie apud Serapeum Ptolemaei bibliothecae cum ipsis Hebraicis litteris exhibentur37. Sed et Iudaei palam lectitant. Vectigalis libertas; vulgo aditur sabbatis omnibus. Graecam enim (explicat Scaliger in Animadversionibus in Eusebium38) Septuaginta seniorum interpretationem cum Hebraicis litteris reconditam fuisse ait in Serapeo, et eam vulgo in synagogis palam legi. Sed et quaedam synagogae Hebraica cum Graecis legebant, ut hodie Hebraica cum Targumin. [12v] Possunt haec etiam, ut certe debent, religiose accipi: haud enim repugnat fuisse a Divino Spiritu instillata, ut primaevae et sanctissimae linguae perennis effloresceret honor. Quamobrem 31
tradendi ex traducendi (cf. supra CritEd.). [Epist. 121 = PL 22,1033; Comm. in Is. III 49 = PL 24,603C; Comm. in Ezech. XI 36 = PL 25,355A; Comm. in Evang. Matth. III 22 = PL 26,170A]. 33 χιροθεσίαν ex χεροθεσίαν B. 34 [Aug. De civ. Dei XV 11,13 = PL 41,452.] 35 [Aristot. fr. 662 Rose2, ap. Gell. Noc. Att. XX 5,12.] 36 In mg. Apol. cap. 19 [re vera Tertull. Apol. 18,8 = PL 1, 437AB] B . 2 37 exhibetur B, correxi coll. Tertull. libris. 38 In mg. p. 124 [i. e. Iosephi Scaligeri Animadversiones in Chronologica Eusebii, in Thesaurus Temporum (…), Lugduni Batavorum, Excudebat Thomas Basson, Sumptibus Commelinorum, 1606, p. 124] B2. 32
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et in crucis titulo prae caeteris adhibita et, ne obsolesceret in Ecclesia, quamplurimae eius voces in Novo Foedere retinentur et in liturgiis, sola urgente veneratione, non nullae etiam quotidie exaudiuntur. Sed huiusmodi dialectorum commixtio apostolos et Christi discipulos non remorabatur, ut de alia versione cogitare debuissent. Nam Iudaei cum essent et Graece scirent, ac divino afflati numine utriusque interpretis vices obibant. Verum quo longius ab eorum aetate Ecclesia processit, magis ac magis intelligendi difficultas invalescebat. Novas igitur et iteratas interpretationes, quamvis Ecclesia ipsa non iubente, sub Adriano imperatore Aquila Sinopensis, sub Lucio Vero Symmachus Samaritanus, sub [13r] Commodo Theodotion Ephesius39 sunt aggressi. Addita etiam quinta et sexta editio, altera temporibus Antonini Caracallae, altera Alexandri Severi reperta. Quas versiones Origenes in Exaplis (non quod omnes probaret; pleraque enim in Christianorum odium Seniorumque reprensionem in eis corrupta legebantur) inter se se comparavit atque coniunxit et cum itidem ipse propriam concinnasset, subsecuta etiam octava Luciani martyris et nona Hesychii, sub diversis temporibus editiones diversae, ut doctis viris est notum. Videtur proinde agnoscere nos debere40 in Veteri Foedere hanc idiotismorum confusionem et Hebraico-Graecam vel Hellenisticam eius linguam nuncupare. Sed quid de ea dicendum erit quam in libris Novi Instrumenti veneramur? Porro, cum μετάφρασις alterius linguae, ut pote Hebraicae non sit, quomodo aliter quam puram Graecam indigitabimus? Sunt tamen qui asserant ne dum Hellenisticam illam esse, sed, si Deo [13v] placet, Ἑλληνιστικοτάτην. Licet enim — inquiunt — phrasis Novi Testamenti originaliter Graeca dici possit, tamen non pure fluit, sed liquore Hebraei Syrique sermonis permixta, ut, quamvis verba quidem singula Graeca sint, coniunctio tamen et eloquentiae corpus, ut ab Hebraeis hominibus creatum, Hebraeam referant formam; atque adeo si quis Graecis litteris sit sufficienter instructus, linguam tamen Hebraeam ac Syriacam ignoret, illud, et si de facie agnoverit, intus tamen et in cute non noverit. Sed pro hac sententia, ut particularia aliqua argumenta in ordinem ducamus, illud in primis observatione dignum existimo, quod doctissimi sacrarum litterarum scriptores adnotarunt. Quo tempore Christus dominus inter homines versabatur, Iudaeorum lingua adeo, velut post reditum e Babylonica captivitate, aliarum linguarum admixtione corrupta et immutata reperiebatur, ut non Hebraea, sed Syro- [14r] Chaldaica dici debuisset, ut a plerisque ex nostris talis agnoscitur et nuncupatur. Nihilominus, cum evangelista Mattheus Hebraice evangelium scribere sibi proponeret41, non nisi hac eadem vulgari, corrupta et confusanea lingua, tanquam magis intelligibili et toti genti communi usus est, ut Card. Bellarminus42, 39
Ephesius ex Ephaesius. agnoscere nos debere ex quod agnoscere debeamus. 41 [de fontibus vide Intr. adn. 60.] 42 In mg. De Verb. Dei cap. 4. Lib. 2 [i. e. Disputationes Roberti Bellarmini Politiani, S. R. E. Cardinalis, De controversiis Christianae fidei adversus huius temporis haereticos (…), Editio ultima ab ipso Auctore aucta et recognita (…), Venetiis, 1599, Apud Societatem Minimam, I, coll. 76-77 (De editione Syriaca)] B2. 40
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Michael Amira43 et alii passim fatentur. Eadem lingua, nihil de puritate Hebraismi sollicitum44, contendunt ambo citati scriptores, epistolam ad Hebraeos apostolum exarasse45. Igitur si tantum in scriptoribus Hebraicis Novi Foederis observatum, idem profecto in Graecis obtinuisse par est. Nam cum apostoli Hellenistae essent, videlicet in Hebraismo nati et innutriti ac ministerii opportunitate tantummodo Graecitantes, non eorum erat puritatem linguae scrupolosa assequi diligentia, cum vulgi colloquiis pro eorum munere immiscerentur, et si quam ex libris linguae peritiam attraherent, non aliunde quam ex Septuaginta interpretum [14v] fontibus totis, ut iam diximus, Hebraeorum idiotismis fluentibus illam hauriebant. Argumento etiam sunt vernacula plerumque retentae dictiones, quae facilitate domestici idiomatis irrepserunt, ut corban, ephata, mamona, bar, maranatha, raca, rabboni, Gehenna et alia sexcenta. Item singularia quaedam, licet Graeca, tamen vulgaris notae vocabula quae nusquam leguntur, preterquam in solo Novo Testamento. Nimirum χαριτόω, gratiosum facio, ἐνωτίζομαι46, exaudio, ἰκανόω, idoneum et efficientem reddo, ὀρθρίζω, summo mane venio. At quanto facilius credendum est in ipsis phrasibus ne dum illos ἑβραίζειν, sed συριάζειν καὶ χαλδαίζειν et vulgari verborum fuligine colorari? Notat Quintilianus47 subodorasse Pollionem in Titi Livii libris quandam patavinitatem, quasi hic Romanae historiae princeps patriam exuere non potuerit, licet anxia cura puritatem Latini sectatus esset eloquii. Quid igitur ubi ipsa, ut sic dicam, patavinitas, hoc est na- [15r] turalis loquela, non modo non exploditur, sed exquiritur ex industria? Plura brevitatis causa praetereo, et alteram tantummodo admonebo argumentationem, cui materiam praebebit insignis Lucae evangelistae locus in Actibus apostolorum48: Σαδδουκαῖοι μὲν γὰρ λέγουσι μὴ εἶναι ἀνάστασιν, μηδὲ ἄγγελον μήτε πνεῦμα. Φαρισαῖοι δὲ ὁμολογοῦσι τὰ ἀμφότερα, Sadducaei enim dicunt non esse resurrectionem, neque angelum, neque spiritum. Pharisaei autem utramque confitentur. Torsit hic locus omnes interpretes, nec aliunde dubitatio quam ex grammatica. Tria certum est a Sadducaeis negari, resurrectionem, angelum et spiritum; tria haec cum confiterentur Pharisaei, et vox ἀμφότερα ad tria referri non possit. Hinc difficultas, cui ut aliqui irent obviam excogitarunt angelum et spiritum unum et idem hic significare. Explicatio subtilis potius quam tuta. Nam in articulis, ut sic dicam, professionis fidei non redundat, non luxuriatur dictio. Angelus a spiritu hic manifeste distinguitur, tantum [15v] enim haec sequentia49 important verba εἰ δὲ πνεῦμα ἐλάλησεν αὐτῷ ἢ ἄγγελος, quid si spiritus locutus est ei aut angelus. Imo 43
In mg. In Gram. Syr. [i. e. Grammatica Syriaca sive Chaldaica Georgii Michaelis Amirae Edeniensis e Libano (…), Romae, In Typographia Linguarum externarum, Apud Iacobum Lunam, 1596, Preludia auctoris in Grammaticam, par. De linguae Chaldaicae dignitate ac praestantia, f. e r ] B2. 44 sollicitus B. 45 Apostolum exarasse ex quod … Apostolus exaraverit. 46 ἐνοτίζομαι B. 47 [Quint. I 5,56; VIII 1,3.] 48 In mg. cap. 23.8 B . 2 49 [Act. 23,10.]
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hunc spiritum Πνεῦμα Ἄγιον interpretari, idest Spiritum Sanctum, manifeste docuit Epiphanius. Quid superest dicendum? Id quod gravissimi scriptores Chrysostomus, Oecumenius et Theophylactus asseruerunt, Lucam improprie hic esse locutum. Sed verba, quae subinde profert Theophylactus50, sunt animadversione digna:
Οὐ δεῖ γὰρ ἐκ τῆς ἔξωθεν ἀκριβολέκτου κυριότητος κρίνειν τὰς τῶν ἀγραμμάτων καὶ ἁλίεων51 συγγραφάς. Ἐκ τούτων γὰρ καὶ αἱρέσεις γεννῶνται, Non enim simplicium et
illiteratorum piscatorum scripta ad exactam et exquisitam locutionis proprietatem redigenda sunt. Hinc haereses oriuntur. Quid ais Theophylacte? Lucas non fuit piscator, sed professione medicus et, teste Hieronymo52, Graecis litteris egregie institutus, dictionis elegantia et Graeca eloquentia caeteros apostolos [16r] longe praecellit, quinimo notavit Ambrosius53 hunc librum ad historiae normam ab eo efformatum, et quia suis met de rebus atque periculis cum Paulo obitis scriberet, eo magis magisque acuisse stilum. Num et hoc ignorasse Theophylactum dicemus? Minime gentium. Orta enim ex Lucae verbis difficultate, velut, occasione arrepta, non tam in ipsum Lucam, quam in universam Novi Foederis linguam illud diffinivit. Et, cum apostolos et evangelistas ἀγραμμάτους dicat, hoc est litterarum rudes et indoctos, non de divinis litteris intellexisse constat, cum ab ipso Christo, qui triennium et amplius cum eis versatus fuerat, et per Sanctum Spiritum cumulatissime essent edocti. Igitur ad ea quae ἐκ τῆς ἔξωθεν, ut ipse inquit, nimirum adscriptionem et ad phrasim, tanquam ad rem extrariam referri debet. Se ipsum etiam ἰδιώτην τῷ λόγῳ, ἀλλ’ οὐ τῇ γνώσει, sermone non scientia imperitum esse, ultro apostolus54 fatetur. Dominicum item fuerat praeceptum et ab hominis prudentia longe seiunctum: Μὴ μεριμνήσετε πῶς ἢ τὶ [16v] λαλήσετε, Nolite cogitare quomodo aut quid legamini55. Imo ipse Christus, quamvis ex thesauris suae sapientiae quamlibet puriorem linguam proferre valeret, tamen — o ineffabilem humanitatem! — a vulgi sermone nec tantillum se abstinuit. Binas ipsius vernaculas voces servavit Marcus56, Thalita cumi, Puella surge; et geminas linguas expressisse constat. Priorem enim vocem Chaldaica, alteram Hebraicam esse harum linguarum periti docuerunt. Similiter et miscellam linguam arguunt quae in cruce prolata apud Matthaeum et Marcum verba retinentur. Ita enim apostolos suos Christus informaverat, ut non essent discipuli supra magistrum et simplici eloquio, humili dictione, vulgaribus vocis, breviter οὐκ ἐν σοφίᾳ λόγου57, gentilium intumescentem sapientiam comprimerent et populis legem gratiae nunciarent. Talis dialectus fuit Hellenistica, quae vel in ipsa Lucae historia, quam tantopere [17r] ob stili elegantiam laudavimus, perspicue potest deprehendi. Cuius rei observationem non imi subsellii testatur interpres; is 50 51
In mg. In Lucam [sc. In Act. 20,8 = PG 125, 804B] B2.
ἀλίεων (!) B.
52 In mg. De Script. eccl. [i. e. De vir. Ill. 7, 1 = PL 23, 649B] et Epist. ad Paulin. [i. e. Epist. 63,8 = PL 22, col. 548] B2. 53 In mg. Epist. 82. ad eccles. Vercel. [i. e. Epist. 63, 21 = PL 16, coll. 1246C-1247A] B . 2 54 [1Cor 2,13.] 55 [Mt. 10,19.] 56 [Mc. 5,41.] 57 [cf. 1Cor. 2,13.]
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est pater Lorinus, qui in Praefatione in Act(a) Apost(olorum)58 sic habet: Fieri tamen facile potuit, ut scriptor alioqui Graecus, propter Hebraeae gentis et Hebraicae59 consuetudinem scripturae, cuius etiam testimonia quaedam recitat, idiotismos sibi Hebraeos non nullos affricuerit, qui lectorem propterea et interpretem non huius ignarum linguae requirunt60. Haec Lorinus. Si igitur Hellenistice locutus est Lucas, qui non genere Iudaeus, sed proselytus, qui patrium idioma sic litterarum professione excoluerat, ut secularem redoleret eloquentiam, multo magis in alios Novi Foederis libros merita Theophylacti prolata videri potest sententia. Verum quod attinet ad Lucae quem produximus locum, si ad puritatem proprietatemque Graeci sermonis examinare libet, non est dubium improprie sanctum scriptorem esse locutum. Sed, si phrasis ad libellum Hellenisticae dialecti perpendatur, proprie ἀμφότερα in ea quam accepit notionem [17v] scripsit, hoc est ut πάντα significet. Sic enim dicendum est Hellenistas sui temporis esse locutos. Certum est in Syriaca huius loci translatione non ‘utrumque’, sed ‘omnia’ retineri. Nam velut ad pristinos et antiquos lares phrasi revocata haud insolens visum fuit, idem esse ἀμφότερα quod πάντα, ‘utrumque’ ac ‘omnia’. Sed, ut aliis etiam sit res clarior exemplis, iisque ex vulgatioribus scripturae locis desumptis, apud Hebraeos idem inquit Theophylactus61, τὸ μίαν σημαίνει πρώτην, unam significat primam. Hic Hebraismus transivit in Hellenisticam linguam, si quidem non evangelistis una sabbati et una sabbatorum dicitur, et ubique vox una pro prima capienda est, ut habet Matthaei62 Latina interpretatio, Quae lucescit in prima Sabbati, et sic facili negotio certa eruitur intelligentia, ut μία σαββάτων primus sit dies hebdomadae, feria prima, κυριακὴ ἡμέρα, hoc est noster dominicus dies. [18r] Eadem dialecto explicabitur illud Geneseos primo, Erit vespere et mane dies unus, idest primus, cuius ignoratio maximos auctores decepit, ut ἀπροσδιόνυσα63 in haec et similia loca congesserint. Exemplo etiam sit vox carnis, quae, cum praeter usum aliarum linguarum Hebraeis significet universum animantium genus, signat etiam, quod hic expendo, hominem item et corpus. Primam significationem expressit Esaias64 nimis vulgata, ut nimis vera, sententia: omnis caro foenum. Secunda habetur in Levitico65: Cuiuscumque animantis sanguinem universae carnis non commedet, quia anima carnis 58 In mg. cap. 4. [i. e. Ioannis Lorini Societatis Iesu In Actus Apostolorum commentaria (…), Recognita, correcta, restituta, locupletata, Lugduni, Apud Horatium Cardon, 1609, p. 3 (Praefatio, Cap. IV De lingua ac stylo); vide Obs. 1] B2. 59 Hebraicae B, Hebraeae Lorini ed. a. 1609 (ita etiam in edit. Lugdunense iisdem typis a. 1605). 60 requirunt B, requirant Lorini ed. a. 1609 (ita etiam in edit. Lugdunense iisdem typis a. 1605). 61 [cf. Theophyl. In Matth. 28, 1 = PG 123, 477C.] 62 In mg. Cap. 28.1 B . 2 63 [de adiectivo ἀπροσδιόνυσος ut ‘inopportunis’ cf. e. g. Cic. Att. XVI 12,1; Plut. Quaest. con. 612E; Luc. Bacch. 6]. 64 In mg. Cap. 40.6 B . 2 65 In mg. Cap. [videl. 17,14] B . 2
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in sanguine est. Hoc nescire est in rebus fidei minus quam possumus scire. Nisi enim Hellenistice iuxta sensum Ecclesiae exponatur illud evangelistae66 ὁ λόγος σάρξ ἐγένετο, hoc est homo; item illud aliud67: καὶ ὁ ἄρτος ὃν ἐγὼ δώσω ἡ σάρξ μού ἐστιν, hoc est corpus. Iam quod Theophylactus verebatur eveniet, labi in haereses oportere. Hinc etiam illud symboli dependet σαρκὸς ἀνάστασιν, hoc est corpo- [18v] ris resurrectionem. Figurate enim haud exprimitur quod purae elocutionis exigit proprietatem. Nec quidem Romanus cathechismus, ut hunc exponat articulum, ad Epicteti68, ut a non nemine factum est, sed ad Novi et Veteris Instrumenti auctoritates recurrit, ad ipsam videlicet quam astruimus Hellenisticam linguam. Haec pro huiusmodi opinione argumenta et exempla sufficiant. Pro adversa parte, si quis erit qui disserere velit, bonum factum. Sin minus, quando iterum me vestras aures fatigare patiemini, Eminentissimi Principes, fidem persolvam. Interim rogo ne praeiudicio tam nobilis controversia decidatur. Habita III. Kal. Decemb. MDCXXXV. [19r] CONTRA HELLENISTICAM LINGUAM DISSERTATIO Dicturus pro suscepti muneris ratione de ea quae iam pridem circa Hellenisticam linguam instituta est controversia, illas partes agere necesse habeo quas, ut optimi iudices et aequi aestimatores esse valeatis, intelligere ac examinare reliquum est. Credebam sane plures in tam bona causa adversus ea quae dicebamus patrocinium suscepturos et fore qui eo acrius contentionem arriperent, quod ultro etiam antagonistae personam induere pollicerer. Quod cum ad provocanda magna quae nunc Romae florere admiror ingenia pro augenda huius palestrae dignitate a me dictum sit, nollem ad iactantiae crimen trahi, et, cum tandem in hunc [19v] locum conscenderim, non patronum dici sed argutulum praevaricatorem insimulari. Porro cum nihil in litteris mihi tribuam, ut praesens de victoria periclitari, aliquo ex vestris perorante, aequo animo substinerem, sic fateor nullam dicendi ambitionem, nullum ostentationis studium ad vos praeferre. Et postquam iussus et auctoritas Eminentissimi Domini ut fidem liberarem accesserit, omni, si qua affuit, temeritatis detersa macula, parendi decus, quod semper mihi erit in votis, meam hanc dissertationem cohonestabit. Dicam igitur adversus hoc nuperum de Hellenistica lingua inventum et, cum de statu causae vel propter eximiam vestram eruditionem vel quod quae olim dicta sunt memoria contineatis vos instructissimos arbitrer, iis praetermissis, rem breviter urgebo. Sed quid me facturum aio quod exordiri iam coepi? Nuperum enim et novitium cum esse dixerim quidquid ad asserendam Hellenisticam [20r] linguam iactetur, sane quam conspicue indicasse videor haud probatum aurum in thesauros inferri, sed offuciis et adulterinae notae metallo nobis imponi. Quamobrem, ut clarius illius improbitas ad Lydium catholicae doctrinae lapidem detegatur et effi66
Ioann. Cap. [videl. 1,14] B2. Cap. [videl. 6,51] B2. 68 Epitecti (!) B. 67
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caciora reddantur quae adversus eam se se offerunt argumenta, altius origines et causas huiusmodi assertionis repetere statui, quod non minus ad rei intelligentiam pernecessarium quam vobis iucundissimum fore confido. Qui ab Romana Ecclesia desciverunt, cum in varias distracti sectas infenso odio in eam insurgerent et firmitatem catholicae fidei variis machinamentis oppugnare satagerent, validiori potissimum nisu contra receptam sacrorum librorum interpretationem perfidiae arma admovisse constat, ut vel illam abiiciendam novis editionibus evulgatis vel eius fidem elevare multiplici obiectionum genere [20v] contenderent. De qua re illud nos scire praestat, quod cum vulgatae Latinae et Septuaginta interpretum versiones plerumque inter se differre evidens sit. Huiusce diversitatis dissidiique offendiculo indignati, pro veritatis documento ad Hebraeos fontes recurrendum omnino clamitent et in hanc sententiam non nullas vendicant quae apud doctores nostros conclusiones non improbantur, non nullas etiam de suo adiicere videntur. Hebraicam, inquiunt, scripturam integram ad nos Esdrae concinnatoris industria et beneficio pervenisse, eamque sanctam, θεόπνευστον, authenticam et primariam esse, falsoque Iudaeorum perfidiae imputari quod illam studiose corruperint, cum nec ante nec post Christi adventum nec post Hieronymi aetatem id contingere potuerit, praesertim quod in custodiendis canonicis quos Hebraei numerant libris maxima semper eorum fuerit religio, nec Masoran firmissimum [21r] legis munimentum heri vel nudius tertius adinventum, cum ea vel ab Esdrae aetate adusque Tiberiensium tempus successivo studio creverit et ob incredibilem Masorethorum diligentiam singulorum librorum versus omnes, singulorum versuum vocabula omnia, singulorum vocabulorum litteras omnes dinumerando factam sit, ut maligne nihil in scriptura addi, adimi, mutarive possit, et si quae vel incuria temporum vel descriptorum incuria sphalmata irrepsere, velut varias lectiones, keri et chetib comprehensa, et huiusmodi esse ut aliae sensum non mutent dubitesque merito utra praeferenda sit lectio, aliae tales sint ut non nisi quae additis vocalibus in margine exprimuntur textui convenire possint, illas auctoritate bonae notae codicum, has necessitate etiam cum iudicio constitutas, nec omnia tanti esse momenti ut in iis quae ad fidem moresque pertinent scripturae integritas desideretur. Addunt hunc textum possessionem esse Ecclesiae eique curae semper fuisse et ad [21v] eius dignitatem pertinere, cum exinde non minus quam ex eo qui Latine conscriptus est decoris atque ornamenti accedat, imo depositum esse preciosissimum, quod huius scripturae verbis Christus Dominus disputando, docendo et interpretando non semel sit usus et ad illam perscrutandam suos in evangelio amandet. Hinc fieri quod, cum Graecos Latinosque codices ab Hebraeis supplendos emendandosque esse efflagitent, non quidem ab Ecclesia ad externos, sed ad ipsam met provocare et ab eadem sibi ipsi praesidia comparare, quod ne dum Hieronymi, Augustini et magnorum virorum consilio, ut Ecclesiae conducibili, suadetur, sed etiam gemina sacrorum canonum auctoritate praecipi notum est. Verum enimvero quid illos huiusmodi declamationibus quaerere, si dictis in speciem plausibilibus larva detrahatur, comperiemus, nisi occultum haereseos pa-
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trocinium moliri, sub praetextu69 Hebraicae veritatis Latinam editionem pessundare, sacris priscisque interpretibus [22r] cum Graecis tum Latinis velut luminibus obstruere, scholasticos auctores qui vulgari Latinae interpretationi suam fidem alligarunt flocci pendere, fidei quaesitores qui eandem tanquam certam regulam tenent illudendos propinare, quasi liceat religionis reos de linguarum non semper aspernabili ignoratione catholicos omnes indiscriminatim per ludibrium redarguere? Et quidem cum id, olim reprehensione dignum, post Tridentini Concilii definitionem asserere gravissimus evasit error et piaculum igne expiandum. Nam et si nihil de Hebraica scriptura sancta synodus expresse statuat, tamen, cum vulgatam Latinam esse authenticam in omnibus suis partibus definiverit70, iam nec etiam praetextu Hebraei fontis emendationem permitti fit manifestum, quod catholici doctores fatentur satisque enucleate Em(imentissimorum) Cardinalium Congregatio declaravit. Quid ni ita faciendum? Non enim autographa prophetarum esse qui fontium nomine ab Hebraeis codices teruntur et quando praerogativa primigenii scripti [22v] ita illos nominare libeat non puros limpidosque fluere, sed turbidos ac luculentos vel ipsorum rabbinorum id deplorantium testimoniis, nullam tamen ab Ecclesiae culpam doctis viris demonstratum. Hinc miror, ut id obiter non taceam, quod inter scriptores huius aevi doctissimus cardinalis71 ad quaesitum sub his verbis De emendatione Latinorum codicum ad Hebraeos respondens quatuor admiserit casus quibus liceat nobis ad fontes Hebraeos recurrere, cum ad finem emendandi atque interpolandi nullus sit prorsus. Etenim quae menda ob errores librariorum et variantes lectiones (quo duo e praedictis casibus versantur) erant repurganda, iam sufficienter per quam emendatissimam Ecclesiae vulgatam editionem fuerunt detersa; si quae deinde irrepant, ea nullo Hebraicae scripturae praetextu, sed tantummodo ad Romanum exemplar integritas vindicanda. Sed cohibeo me; nolo tam altum sapere. Haec igitur quae sic a me relata sunt, licet ad repri- [23r] mendam horum hominum petulantiam satis sint, tamen cum vesaniores debacchentur quo Tridentini concilii auctoritate et legum vinculis eos coerceas, opponendae erant rationes, quae in hac re non desunt efficacissimae. Si quidem cum is sit Hebraicae linguae genius, ut sui ab initio vocalium characteres non agnoverit, nec aliter divini codices primitus exarati, imo nec etiam intercapedine dictionum distincti, et cum vocalibus multifariam repleri consonantes litterae possint, punctorum enim notae, et si pridem inventae72 fuerint, eas tamen non ante sexcentos annos posteriores Masorethae, melioribus adhuc reclamantibus Hebraeis, sacro textui inscripserunt, cumque diversimode etiam contextus discriminari queat, magnaque sit litterarum affinitas ac similitudo et unius vocis non unica sed multiplex plerumque significatio, discors saepe translatoris ingenium et iudicium, item dissimilis aliarum linguarum sive73 69
praetestu (!) B. definiverit ex lectione quae non intellegi correctum. 71 [Disputationes Roberti Bellarmini lib. II cap. 11 (Solvuntur obiectiones haereticorum contra vulgatam Latinam editionem), op. laud., I, coll. 96-98.] 72 invenctae (!) B. 73 sivae (!) B. 70
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Graecae sive Latinae proprietas qua illa exprimi debeat, hinc maxima et frequentis- [23v] sima homonymia et uberrima variarum interpretationum scaturigo tot tantisque ex Hebraeis fontibus olim elaboratis versionibus non dum exhausta, nec si millies in idem opus homines incumberent exhaurienda. Si igitur post divinam Septuaginta interpretum versionem alteram pro bono Ecclesiae exorsus est Hieronymus et absolvit, an adhuc novae erit interpretationi locus? Cum Hieronymus, quantus vir, puriores procul dubio codices et peritiores Hebraicae linguae magistros nactus sit quam nostra aut praeterita aetate usquam fuerunt, assiduis multorum annorum vigiliis, incredibili studio et diligentia huic labori totus incumbens, eam explicationis varietatem, quae, salva fidei et morum regula, agnoverit probandam, in suam interpretationem admiserit, et duos sensus, quos nobis ambae hae versiones exhibent, ex multis qui erui possunt solos canonicos74 Ecclesia recipiens, iam ne dum quae ad pietatem necessaria, sed quae rationabili curiositati satisfaciant pro matris [24r] munere benigne et prudenter consuluerit, qui ulterius nova moliri cogitat, quid praeterquam Hieronymo et Senioribus antestare, cornicum, ut aiunt, oculos configere et cum novatoris nomine Giganteae temeritatis infamiam atque amentiam sibi asciscere? His argumentis cum talis farinae homines prosternentur, nolunt tamen, ut refractarii sunt, sibi deesse, eiusdemque propositi semper tenaces, dum hac non successit, alia aggrediuntur via, ac eo prolabitur ut affirment Hieronymum et Septuaginta viros haud prophetarum subiisse75 vices, in errorem potuisse labi, illum sua confessione se talem prodere, hos etiam manifeste redargui. Nihil proinde Divini Spiritus in utraque agnoscunt versione, non acciti ex Hierosolymis hi Septuaginta interpretationis auctores, non dies festus sed angaria et ieiunium ibi institutum propter legem in profanum sermonem conversam, falsa est ab Ptolemaeo rege profecta legatio, falsus est eis scriptor Aristeas, falsaque praedicatur omnium et singulorum [24v] interpretum in unum conspiratio et consensio, ac per deridiculum audimur quod vel cum miraculorum iactura eos libros, quos fatemur apocryphos, una opera simul cum reliquis eodemque temporis compendio translatos gloriemur. Sed frendeant licet, necesse tandem est affirmare solum Ecclesiae iudicium esse has vel illas canonicas versiones declarare, et ex Hieronymi interpretatione, non quod ipse auctor variis in locis magis probaverit, sed quid Ecclesiae visum fuerit probare, in editione vulgata retineri; et Graecae translationi non est cur non acquiescere debeant, cum certo certius sit ei apostolos acquievisse et universam Ecclesiam. Cum ergo his praemantur angustiis, triarios in pugnam advocant et proterviora contorquent arma, ut ad necessitatem Hebraeos fontes consulendi nos redigant, redacturi absque dubio, ni in illos impetu facto de gradu deiciamus. Est, inquiunt, Septuaginta interpretum translatio, quantumvis authentica et emen- [25r] data, Hebraeograeca76 lingua scripta [est], videlicet Hellenistica, cum ne dum Hebraeos sensus expresserint senes, sed Hebraice Graeca sunt usi loquela. Eadem Novum 74
[Duos sensus-canonicos: cf. Morini Exerc. Bibl., p. 201.] Subiise (!) B. 76 Hebreograeca B. 75
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Foedum concinnatum fuit atque adeo calleat quisque Graecam linguam egregie potis non erit hos sacros libros intelligere, nisi una simul Hebraice interpretari possit, et subinde nullum est ferme in scriptura verbum quod non sit Hellenisticum, nullum quod non ex Oriente requirere interpretem velint. Videte igitur, Auditores, quam belle isti homines nos ad Hebraismum amandent et Ecclesiam ablegent ad synagogam. Rem dicam apertius: huiusmodi Hellenisticis glossis bellum plusquam civile vulgatae Latinae editioni indictum; illas recipere est nostram versionem evertere et Ecclesiae contemptoribus iugulandam obiicere. Quam grave hoc sit et homini erga catholicam religionem bene animato detestandum, facile dignoscet qui assertionem de repurganda et emendanda Latina [25v] versione ad Hebraeos fontes, cum huiusmodi qua Hellenistica asseritur lingua invicem velit conferre. Hanc si quidem illa longe deteriorem esse affirmationem depraehendet, et a nobis iudicari erit etiam operae pretium. Etenim si Seniorum lingua tantummodo Hellenistica diceretur, fortasse aequi bonique faciendum, nec admodum id nos tangeret, ut qui Latinam translationem originariam, ab ipsis antiquitus purioribus Hebraeis fontibus haustam, satis emendatam, authenticam retineamus; et Vetus Graecum Testamentum iuxta Septuaginta, velut ecclesiasticae antiquitatis nobile monimentum, praecipue ad eiusdem Latinae vulgatae editionis (sunt Pontificis verba77) et veterum sanctorum Patrum intelligentiam nuper ab Ecclesia nescio permissum dicam potius an elargitum fuerit. Quid hoc sit quod Hellenistica lingua exaratum dicatur et quo id tendat, haud magnum nobis facesseret negotium, quamvis ignotum non sit Psalmos, Sapientiam, Ecclasiasticum et Maccha- [26r] beos non magis ad Hebraeum quam ad Graecum exemplar fuisse expressos. Tamen cum nomen Instrumentum Hellenisticum dicant et quae Christus et apostoli nos docuerunt non sufficiat nec Latine nec Graece intelligere, nisi Hebraeos, Syros et Chaldaicos interpretes nanciscamur, res est ipso occursu ad ferendum difficilis. Nam licet aequa sit utriusque Testamenti auctoritas et Veteris promissiones nobis omnibus in semine Habraae, ut Christi fidelibus, sint etiam reservatae, in Novo tamen omnia fidei nostrae fundamentum clarius enucleata agnoscimus, atque adeo magis hoc quam illud ad nostram salutem referre. Spectat autem ad Ecclesiam, penes quam veritas est scripturarum et expositionum et omnium traditionum Christanarum, eius verum sensum scire, custodire et alios edocere. Ecquis igitur affirmabit Ecclesiam catholicam pro Novi Foederis explanatione post tot seculorum caniciem repuerascentem veritatis discendae causa ad Hebraeorum scholam relegandam esse et de Christi doctrina Chri- [26v] stiani nominis atrocissimos hostes consulendos? Non enim posthac ex Graecis Latinisque Chrysostomi, Augustini et non nullorum sacrorum interpretum lectioni quam nobis docta commendavit antiquitas incumbendum. Nam cum illos Hebraicam linguam nec primoribus 77 In mg. Sixtus V. in Bulla(rio) Rom(ano) edit(o) [possis et in Bulla(rii) Rom(ani) edit(ione); cf. Bullarii sive Collectionis Constitutionum Annis Quatuor sui Pontificatus editarum, a S.mo D. N. Sixto Quinto Pont. Opt. Max. (…), Opera et Industria Pauli Bladii Impressoris Cameralis, Romae, Apud eundem Paulum Typographum Cameralem, 1590, I, p. 46 (de institutione Congregationis Pro Typographia Vaticana); cf. epistulam Sixti V in Biblia Sacra Vulgatae Editionis tribus tomis divistincta, I, Romae, Ex typographia Vaticana, 1590] B2.
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degustasse labiis constet, in scripturarum explicatione operam lusisse consequens est, ac eorum vice rabbinicam sapientiam, hoc est orrenda portentosae ignorantiae deliria, in pietatis et religionis studia derivabimus. Iam novo ausu non veritus est quidam78 dicere et docere cognitionem Thalmudis Thalmudicorumque scriptorum ad Novi Testamenti illustrationem insignem lucem afferre. Quo quid putidius?79 Doctis certe exploratum est eo potissimum consilio Ecclesiam de Hieronymiana translatione fuisse sollicitam ne ultra iam opus haberent Christiani (verba sunt Sixti Senisis80) ut Iudaeorum rabbinos consulerent et eorum opem implorarent, si quando lis de Hebraica veritate nasceretur. At quanto erit intolerabilius pro Evangelii declaratione ex eodem pistrino magistellos suscipere. Frustra idem met Hieronymus, vir sanctissimus et doctissimus, post tot in exoticis [27r] linguis et sacris vertendis libris exantlatos labores, ad eandem Novi Testamenti interpretationem ex Graeco sive, ut ipse loquitur81, ad emendationem manum admovit, cui nihil de Hellenistica doctrina suboluit! In quam spem nos solatur Ioannes82, quod lex per Moysem data, fidelibus per evangelium gratia et veritas facta sit, si ista adhuc post mille et amplius annos penes glossographos lateat orientales? Irrideamus Paulum et caeteros apostolos qui gentibus quibus Hebraica lingua prorsus barbara et ignota HebraeoGraecas dederunt litteras, ut qui eas Graece legerent, ut Graecas non intelligerent, et adunco etiam naso Aquinatem Thomam suspendamus83, qui nullo linguarum praesidio ipsas Pauli epistolas libro commentario explicavit, ac Laurentio Vallae succenturiati commentitium eiusdem apostoli testimonium reputabimus, qui illius operi, velut bene de se merentis, plausum dedit! [27v] Video, Auditores, quod haec vos ad indignationem adducant et mihi vobisque gratulor. Sed, ut plane evincam omnia ista eo tendere ut vulgatam evertant Latinam editionem, per aliqua, si libet, percurramus exempla. Vox est Graece linguae ἀλήθεια. Qui eam Latine veritatem interpretantur, recte ad Graecorum, secus ad Hellenistarum sensum, quibus haec una dictio ne dum veritatem, sed iustitiam exprimit. Id Ezechiae apud Esaiam84 locus demonstrat; nam ubi ex Hebraeo vulgatus habet interpres: Fiat pax et veritas in diebus meis, γενέσθω
78 In mg. Io. Coch in Praefat. ad Synhedrim [i. e. Duo tituli Thalmudici Sanhedrin et Maccoth (…), cum excerptis ex utriusque Gemara versa et annotationibus depromtis maximam partem ex Ebraeorum commentariis illustrate a Ioanne Coch Bremensi, Amsterodami, Apud Ioannem Ianssonium bibliopolam, Anno 1629, Typis Frederici Heynsii Typogr. in Acad. Frenekana, f. **** r] B2. 79 Iam … putidius? add. in mg. B . 2 80 In mg. Biblioth. lib(ro) ult(imo) [i. e. Bibliotheca Sancta a F. Sixto Senensi, ordinis Praedicatorum, ex praecipuis catholicae Ecclesiae autoribus collecta et in octo libros digesta (…), Venetiis, apud Franciscum Franciscium Senensem, 1566, p. 1065 (lib. VIII)] B2. 81 [agitur, ut vid., de Hieron. Praef. in quatuor Evang.; cf. PL 29,525 C-528 A passim; cf. etiam Praef. Vulg. psalm. in PL 29, 118 B, ubi de interpretatione Psalmorum agitur. Vide Obs. 2.] 82 In mg. Cap. 1. 17 B . 2 83 [cf. Hor. Serm. I 6,5.] 84 In mg. Cap. 39, 8 B . 2
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δὴ εἰρήνη85 καὶ δικαιοσύνη ἐν ἡμέραις μου, fiat, scilicet, pax et iustitia in diebus meis Septuaginta retinuerunt. Boni igitur interpretis est huiusmodi notiones inter se se distinguere et quandoque hanc recipere, alteram, cum opus est, respuere, ut apud [28r] evangelistam insigni propemodum loco86. Πᾶς γάρ, inquit Ioannes, ὁ φαῦλα
ποιῶν μισεῖ τὸ φῶς καὶ οὐκ ἔρχεται πρὸς τὸ φῶς, ἵνα φανερωθῇ87 αὐτοῦ τὰ ἔργα, ὁ δὲ ποιῶν τὴν ἀλήθειαν ἔρχεται πρὸς τὸ φῶς, ἵνα φανερωθῇ αὐτοῦ τὰ ἔργα, Omnis enim qui
male agit odit lucem et non venit ad lucem, ut manifestentur opera eius; qui autem facit veritatem venit ad lucem, ut manifestentur opera eius. Quid est hoc facere veritatem, inquiunt Hellenisticae linguae amatores, nisi tenebras lectoribus offundere? Ut enim inter eos qui cupiunt lucem et lucifugos ἀντίθεσις recurrat, sententia omnino exigit ut exponatur ὁ δὲ ποιῶν τὴν ἀλήθειαν qui autem iuste vivit vel qui iustitiam operatur. In quem sensum, aiunt, et alia Scripturae loca manifeste conspirant. Hellenisticum rursus verbum, cuique notissimum, est ἀποκρίνεσθαι. Sed quemadmodum Hebraei τῷ ‘ånå utuntur, sic Hellenistice ne dum pro ‘respondere’, quae eius propria est significatio, sed pro [28v] ‘dicere’, ‘loqui’ et ‘pronunciare’, adhuc nemine interrogante, usurpatur. Ecce locum Matthaei88 ubi angelus apparens mulieribus quae ad Christi sepulchrum advenerant respondere illis dicitur: ἀποκριθεὶς δὲ ὁ ἄγγελος εἶπει89 ταῖς γυναιξί, respondens autem angelus dicit mulieribus. Prior enim angelus cum Magdalena colloquitur. Mirum cur non hic ab interprete dicatur effatus aut locutus est, ut passim alibi ad Hebraicum sensum in Veteri Foedere observatum. Sic apud Danielem90 καὶ ἤχθησαν ἐνώπιον τοῦ βασιλέως — agit de tribus Iudaeis quos vinctos Babilonii ante regem sisterant — καὶ ἀπεκρίθη Ναβουχοδονόσορ, adducti sunt in cospectu regis, et pronuncians Nabuchodonosor. Ex quo enim nemo ipsorum quidquam dixerat τὸ ἀπεκρίθη non verbo respondendi, sed pronuntiandi rectissime interpretatur. Sic etiam in Deuteronomio91 Et loqueris in cospectu Domini Dei tui exhibet id quod Graece Seniores Hellenistae habent: καὶ ἀποκριθεὶς92 ἐρεῖ [29r] ἔναντι Κυρίου τοῦ Θεοῦ σου. Atque enim ἑβραίζειν93 apostolos ac ipsos Septuaginta viros credendum putant et fidum interpretem non verbum verbo reddere, ut ille ait94, sed sensum potius exprimere oportere, quod sacrorum omnium interpretum coryphaeus ipse met Hieronymus peculiari de hac re libello, hoc est De optimo genere interpretandi, verum non differtur. Inter Hellenisticas voces non ambigunt κοινόν reponere, cuius itidem ac He85 86 87 88 89 90
εἱρήνη (!) B. [Io. 3, 20-21].
φανεροθῇ (!) B. [Mt. 28,5.]
εἶποι B, correxi coll. Matthaei libris (cf. dicit).
In mg. Cap. 3 [vv. 13-14] B2. In mg. Cap. 26 [v. 5] B2. 92 ἀπεκριθεῖς (!) B, [ἀποκριθεὶς varia lectio, recte ἀποκριθήσῃ]. 93 ἐβραίζειν (!) B. 94 [Hieron. Epist. 67,5 = PL 22,571-572; cf. Epist. 106,3 = PL 22,935.] 91
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braicarum dictionum τὸ μεθερμηνευόμενον95 ab uno ex evangelistis96, statim quod illa usus fuit adiicitur: καὶ ἰδόντες τινὰς τῶν μαθητῶν αὐτοῦ κοιναῖς χερσί, τοῦτ’97 ἔστιν ἀνίπτοις ἐσθίοντας ἄρτους ἐμέμψαντο, et cum vidissent quosdam ex discipulis eius communibus manibus, idest non lotis, manducare panes, vituperaverunt. Non e Graecia habuit τὸ κοινόν, ut significet illotum et immundum, sed Hebraismum sapit. Itaque in hac dictione in Latinum vertenda, quem98 potius quam Marcum se ipsum [29v] diserte interpretantem sequi doctorem decet. Atque adeo Hellenistica face illud Machabeorum99 illustrabitur, ubi praecipit Antiochus οἰκοδωμῆσαι βωμοὺς καὶ τεμένη, καὶ ἰδωλεῖα καὶ θύειν ὕεια100 καὶ κτήνη κοινά, idest edificari aras et templa et idola et immolari carnes suillas et pecora communia, ut, hac postrema voce explosa, pecudes immundas reponatur. Item illud in Actibus apostolorum101, cum, animalibus cuiuscumque generis Petro per visum ad occidendum et manducandum exhibitis, ait Apostolus: Μηδαμῶς, Κύριε, ὅτι οὐδέποτε ἔφαγον πᾶν κοινὸν ἢ ἀκάθαρτον, Absit Domine quia numquam manducavi omne commune et immundum. An non rectius secundum istos omne impurum et immundum? Ut et inferius102: Ὑμεῖν ἐπίστασθε ὡς ἀθέμιτόν ἐστιν ἀνδρὶ Ἰουδαίῳ κολλάσθαι ἢ προσέρχεσθαι ἀλλοφύλῳ· καὶ ἐμοὶ ὁ Θεὸς ἔδειξε μηδένα κοινὸν ἢ ἀκάθαρτον λέγειν ἄνθρωπον, Vos scitis quomodo abominationi sit [30r] viro Iudaeo coniungi aut accedere ad alienigenam; sed mihi ostendit Deus neminem pollutum aut impurum dicere hominem, et non ut vulgata legitur neminem communem et immundum. Nolo in his congerendis immorari, ne diutius quam par est vos detineam. Satis erit monere Hellenisticae linguae praetextu non per cuniculos et occultas insidias vulgatam peti Scripturam, sed manifesta oppugnatione verberari. Quod cum satis aperte ex iam dictis innotescat, haud tamen silentio texit vir alioquin doctrina et eruditione clarus, sed huiusce dialecti ut immodicus sic merito proscriptus assertor, qui exinde normam et regulam recoquendae versionis tradere non est veritus. Nobis ergo, sunt eius verba103, id sperandum maxime ac optandum videtur, ut qui aliquem ex Novo Foedere104 interpretandum suscipit scriptorem magno animo ac studio id agat. Ac ut primo quidem omnes Hellenisticos dicendi modos secum [30v] reddat, et hos ipsos inter se distinguat. Ambiguitatem si quae est in verbis tollat. Verba primum obiter ad usum mox plenissime definiat. Quae sunt Hebraeorum, Chaldeorum ac Syrorum singulis ascribat, aut in eo operam alterius qui haec intelligit utatur. 95 96 97 98
μετερμηνευόμενον (!) B. In mg. Marc. cap. 7. vers. 2 B2.
τουτ (!) B.
sc. Hebraismum. Maccab. B || In mg. Cap. p(rim)o 50 [re vera 1Macc. 1,47] B2. 100 ὑεία (!) B. 101 In mg. Cap. X, 14 B . 2 102 In mg. Vers. 28 [= Act. 10,28] B . 2 103 [Danielis Heinsii Aristarchus sacer sive ad Nonni in Iohannem Metaphrasin Exercitationes (…), Lugduni Batavorum, Ex officina Bonaventurae et Abrahami Elzevir. Academ. Typograph., 1627, p. 229.] 104 post foedere asteriscum appinxit B , nescio qua ratione. 2 99
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Et alibi105: Ioannes Hellenistice locutus est. Quae dum non distinguuntur, multis quotidie imponunt, cum praesertim has locutiones in vulgares linguas atque idiomata transfundunt106. Neque dubitamus quin futuri aliquando sint qui plurimos in Novi Foederis interpretatione errores sic commissos esse aliquando probaturi sint; modo adsit candor et modeste de se, optime de iis sentiant, qui multa optime interpretati sunt. Hactenus hic auctor se ipsum his postremis verbis, velut inter proceres emendationis candidatos annumerans, suosque Hellenistarios congerrones Ecclesiae ad hoc opus commendat. [31r] Ne igitur quae legibus sancita, quae rationibus satis firma, quae tot seculis stabilita sunt novitatis studio e statu deiciantur, horum hominum conatibus occurrendum et, cum hactenus Ecclesia iustissimis de causis provocationem ad Hebraeos fontes, ficulneum adiumentum, constantissime reiecerit, ad eundem scopum collimans quidquid est Hellenisticae dialecti, id re et nomine contemnendum esse procul dubio consequitur. Sed cum responsiones ad proposita exempla et propriora non nulla argumenta subtexere opus sit et temporis angustiae nos praemant, satius erit si ea scriptis consignata vobis praebeam, E(minentissimi) D(omini), ut facturum propediem curabo. Habita III. Kal. Mart. MDCXXXVI.
Osservazioni 1 (cfr. f. 17r nota 58). La citazione dal commento agli Atti degli Apostoli di Giovanni Lorini è presa dall’edizione del 1609 [Ioannis Lorini in Actus Apostolorum commentaria (…), Lugduni, Apud Horatium Cardon, 1609, p. 3 (Praefatio)], non da quella del 1605 [Ioannis Lorini In Acta Apostolorum commentaria (…), Lugduni, Apud Horatium Cardon, 1605, p. 3], come dimostrano le coincidenze testuali. 2 (cfr. f. 27r nota 81). All’apparenza sembrerebbe di capire che Girolamo, secondo Lasena, abbia usato a proposito del Nuovo Testamento l’espressione ad emendationem manum admovere o che si sia riferito alla propria interpretatio del Nuovo Testamento come ad una emendatio. L’espressione ad emendationem manum admovere per quanto ho potuto appurare non ricorre in Girolamo; meglio percorrere la seconda strada. Relativamente alla sua traduzione del Nuovo Testamento Girolamo non utilizza il sostantivo emendatio, come fa per la traduzione dei Salmi in Praef. Vulg. psalm., PL 29, 122 B-123 A: Quod iam rursum videtis (…) scriptorum vitio depravatum, plusque antiquum errorem, quam novam emendationem valere … Tuttavia nella Praefatio in quatuor evangelia Girolamo parla della sua versione come una emendatio del testo latino sull’originale greco non usando il sostantivo ma o il verbo corrigere o il verbo emendare o l’espressione emendata collatione. PL 29,557 C-558 B: Quis enim, doctus pariter vel indoctus, cum in manus volumen assumpserit et a saliva quam semel imbibit viderit discrepare quod lectitat, non statim erumpat in vocem me falsarium, me clamans esse sacrilegum, 105 106
[Hensii Aristarchus sacer, op. laud., pp. 442-443.] transfundantur B, correxi coll. edit. laud.
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qui audeam aliquid in veteribus libris addere, mutare, corrigere?; 558 B- 559 A: Sin autem veritas est quaerenda de pluribus, cur non ad Graecam originem revertentes ea quae vel a vitiosis interpretibus male edita vel a praesumptoribus imperitis emendata perversius vel a librariis dormitantibus addita sunt aut mutata corrigimus?; 559 B: Praetermitto eos codices (…) quibus utique nec in Veteri Instrumento post Septuaginta Interpretes emendare quid licuit, nec in Novo profuit emendasse; 559 B-C: Igitur haec praesens praefatiuncula pollicetur quatuor tantum Evangelia, quorum ordo est iste: Matthaeus, Marcus, Lucas, Joannes, codicum Graecorum emendata collatione, sed veterum. Quae, ne multum a lectionis Latinae consuetudine discreparent, ita calamo temperavimus, ut, his tantum quae sensum videbantur mutare correctis, reliqua manere pataremur ut fuerant.
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SILVIA FOSCHETTI
IL REG. LAT. 256: UN’INSOLITA SCOPERTA IN FASE DI RESTAURO Il manoscritto Reg. lat. 256, conservato presso la Biblioteca Vaticana, è un codice membranaceo di 115 ff. con alcuni testi raccolti, nella descrizione di André Wilmart, sotto il titolo generale «De re liturgica et pastorali quaedam sylloga». Scritto da almeno due mani diverse in area tedesca nel XIII secolo, il codice appartenne poi a Cristina di Svezia che lo trasferì a Roma insieme alla sua biblioteca. Già descritto dai Benedettini della congregazione di Saint-Maur a Roma e quindi da Bernard de Montfaucon nel primo tomo della sua Bibliotheca bibliothecarum manuscriptorum nova (1739), il manoscritto entrò in Vaticana nel 1690 con gli altri manoscritti appartenuti alla regina1. Del codice non si conserva la legatura originale; al suo posto troviamo oggi una legatura in piena pelle, con impressioni dorate, frutto di due successivi interventi: quella sui piatti risale infatti all’epoca di Pio VI (fra il 1775-1799), mentre quella sul dorso a quando era cardinale bibliotecario Angelo Mai (1853-1854). Il codice è stato selezionato nel 2008 con altri manoscritti del fondo Reginense latino, per partecipare al programma di restauro promosso dall’allora ambasciatore svedese presso la Santa Sede, Frederick Vahlquist, con il patrocinio della Stiftelsen Marcus Och Amalia Wallenberg Foundation2. 1 Per ulteriori approfondimenti cfr. Les manuscrits de la reine de Suède au Vatican. Réédition du catalogue de Montfaucon et cotes actuelles, Città del Vaticano 1964 (Studi e Testi, 238), pp. 82-83; A. WILMART, Codices Reginenses Latini, Codices 251-500, Città del Vaticano 1945, pp. 19-22; A. WILMART, Poèmes de Gautier de Chatillon dans un manuscrit de Charleville, in Revue bénédictine 49 (1937), pp. 121-169, 322-365: 340; R.W. CLEMENT, A Handlist of Manuscripts Containing Gregory’s «Regula Pastoralis», in Manuscripta 28 (1984), pp. 33-44: 43; R.W. CLEMENT, Two Contemporary Gregorian Editions of Pope Gregory The Great’s «Regula Pastoralis» in Troyes MS 504, in Scriptorium 39 (1985), pp. 89-97: 93. 2 Per approfondimenti cfr. P. VIAN, Una donazione svedese per i manoscritti di Cristina di Svezia custoditi nella BAV, in L’Osservatore romano, 30 luglio 2008 consultabile anche al sito http://www.vaticanlibrary.va/home.php?pag=in_evidenza_art_00010, E. N. NYLANDER – P. VIAN, I manoscritti latini della regina Cristina di Svezia alla Biblioteca Vaticana: storia, stato e ricerche sul fondo, in Cristina di Svezia e Roma. Atti del simposio tenuto all’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma, 5-6 ottobre 1995, a cura di B. MAGNUSSON, Stockholm 1999 (Suecoromana. Studia artis historiae Instituti Romani Regni Sueciae, 5), pp. 143-162 e M. GRIMACCIA
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 331-341.
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SILVIA FOSCHETTI
Prima dell’intervento di restauro da me effettuato presso il laboratorio di conservazione e restauro della Biblioteca Apostolica Vaticana, il codice si presentava in un cattivo stato di conservazione; infatti, mentre il blocco dei fogli risultava in buone condizioni, evidenziando camminamenti da insetti solo sui primi e sugli ultimi fogli, la legatura risultava invece assai precaria. La coperta mostrava danni di natura biologica limitati ai labbri e abrasioni in corrispondenza degli angoli. Il dorso in pelle invece risultava frammentato, nonché abraso, con danni dovuti all’attacco di insetti e lacerato su entrambe le cuffie. Ma soprattutto la cucitura, su cinque nervi singoli in canapa, e i capitelli risultavano molto deboli. Il necessario intervento di restauro ha previsto quindi lo smontaggio del volume e, una volta terminate le operazioni di risarcimento sui fogli e sulla coperta, si è proceduto alla realizzazione di una nuova cucitura utilizzando i fori originali. Proprio durante la fase dello smontaggio ho potuto notare alcune insolite note manoscritte poste in verticale sulle linee di piegatura di alcuni bifogli. Tali annotazioni, che non erano ovviamente visibili a libro montato perché coperte dal filo di cucitura, sono quindi state scoperte in modo del tutto casuale nel corso dell’intervento destando da subito un certo interesse. Già da una prima analisi si è chiarito che doveva trattarsi di indicazioni tecniche del copista, ovvero di annotazioni en attente per facilitare il successivo lavoro di rubricazione. Tali annotazioni corrispondono infatti ai titoli presenti nel testo delle pagine a fianco. Si tratta di indicazioni a inchiostro nero, oggi sbiadito, che il copista ha scritto per se stesso o per il rubricatore come promemoria per un’esecuzione in differita. In letteratura è attestato che tali istruzioni, scritte in caratteri minuti, potevano trovarsi o al posto designato per le rubriche o sui margini del foglio o, infine, in apposite tavole di rubriche3. Lo stesso procedimento veniva utilizzato per le iniziali e per l’illustrazione vera e propria4. In questi casi una piccola lettre d’attente poteva in– Á. NÙÑEZ GAITÀN, Il progetto di restauro Stiftelsen Marcus Och Amalia Wallenbergs, in Conoscere la Biblioteca Vaticana. Una storia aperta al futuro, a cura di A. M. PIAZZONI – B. JATTA, Città del Vaticano 2010, p. 106. 3 M. M. SMITH, Patterns of incomplete rubrication in incunables and what they suggest about working methods, in Medieval book production: assessing the evidence, proceedings of the Second Conference of the Seminar in the History of the Book to 1500, (Oxford, July 1988), edited by L. L. BROWNRIGG, Los Altos Hills (Calif.) 1990, pp. 133–146: 133 e L. AGATI, Il libro manoscritto. Da oriente a occidente per una codicologia comparata, Roma 2009 (Studia Archaelogica, 124), p. 294. 4 J. J. G. ALEXANDER, I miniatori medievali e il loro metodo di lavoro, traduzione di L. MARIANI, Modena 2003, p. 90. In generale sulle note di bottega destinate alla decorazione del
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dicare l’iniziale da inserire. Sono molteplici i casi in cui tali lettere guida sono visibili ancora oggi accanto a quelle dipinte, oppure si intravedono in trasparenza al di sotto di esse. Così per l’illustrazione il copista lasciava il più delle volte sullo spazio ad essa riservato delle esplicite istruzioni su cosa andava dipinto o su come doveva essere realizzato5. Tali istruzioni hanno consentito in alcuni casi la lettura del testo anche qualora l’iniziale o altro non fosse stato poi realizzato. L’osservazione archeologica dei manoscritti permette quindi in molti casi di ricostruire le varie fasi e l’organizzazione del lavoro dei decoratori attraverso tracce significative ancor oggi rimaste. Va però tenuto conto che questo tipo di informazioni non sono sistematiche e che il più delle volte scaturiscono da casi di decorazione non completata o da istruzioni al rubricatore o al miniatore poi negligentemente non soppresse. Nulla infatti era affidato all’improvvisazione nella realizzazione dell’opera, ma tutto era precedentemente definito, salvo rari casi, in ogni minimo particolare6. Queste indicazioni non dovevano essere visibili a lavoro ultimato ma rifilate, se erano state apposte sui margini, o coperte dalla decorazione finale, se scritte nello spazio a essa riservato. Il Reg. lat. 256, per quanto attiene alla decorazione interna, presenta numerosi titoli rubricati ed alcune iniziali filigranate7. I titoli rubricati rientrano nell’ornamentazione monocroma che veniva eseguita con inchiostro rosso per porre in risalto, oltre ai titoli, anche eventuali cifre, iniziali, paragrafi, sottolineature e contorni di iniziali scritte a inchiostro nero. La rubricazione ha ricevuto fino ad oggi relativamente poca attenzione da manoscritto cfr. anche P. CHERUBINI, Un manoscritto occitanico della Legenda Aurea, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae XIII, Città del Vaticano 2006 (Studi e testi, 433), pp. 119-166: 147-157. 5 AGATI, Il libro manoscritto cit., p. 294. e H. TOUBERT, Fabrication d’un manuscrit: l’intervention de l’enlumineur, in Mise en page et mise en texte du livre manuscrit, sous la direction de H. J. MARTIN et J. VEZIN; préface de J. MONFRIN, Paris 1990, pp. 417-422. Qui, a p. 418, si conferma che il miniatore era guidato da indicazioni redatte per suo uso. Tali note, che definivano il soggetto, erano scritte nello spazio riservato all’immagine o sui margini — che si riconfermano quindi come la zona privilegiata — e venivano poi coperte dai colori oppure erase via o cancellate tagliando i margini. TOUBERT cita l’esempio di una copia del Pèlegrinage de l’ame (Paris, Bibliothèque Nationale de France, fr. 12466, XV sec.) dove cinque disegni furono eseguiti secondo le indicazioni riportate sui margini poi rifilate durante la rilegatura ad eccezione di alcuni frammenti di parole che non sono stati tagliati via e sono quindi pervenuti sino a noi. Una di esse in particolare ha resistito all’asportazione perché era scritta sul margine interno del f. 220v e non fu quindi rifilata. 6 AGATI, Il libro manoscritto cit., p. 338. 7 I titoli sono tutti rubricati, utilizzando una forma comune. Le iniziali a f. 1r e a f. 72r sono filigranate in azzurro e rosso. Cfr. WILMART, Codices Reginenses Latini cit., p. 22.
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parte degli specialisti a differenza dell’illustrazione. Essa viene infatti fatta rientrare nella decorazione secondaria che include più comunemente le categorie qui sopra elencate8. La rubricazione presuppone, come si è detto, l’intervento di un rubricatore, figura che può coincidere o meno con quella del copista9. L’ornamentazione non figurativa dei titoli ha uno scopo estetico e pratico, andando ad articolare le varie parti del testo. Essa è sempre concepita simultaneamente alla trascrizione e ricorre, rispetto all’illustrazione, anche con maggior frequenza. Per questo motivo, se associata anche ad altri dati, può costituire un elemento prezioso per individuare l’origine di un codice ma anche, in alcuni casi, l’identità di un copista10. Nel nostro caso, il ritrovamento di tali indicazioni consente di confrontare le tre scritture (testo, indicazioni e rubriche) e di ipotizzare che appartengano tutte alla stessa mano. L’analisi di tali scritture ci consente inoltre di rilevare il buon livello di professionalità del nostro copista nell’aver saputo prevedere con la massima abilità e precisione l’ingombro effettivo che avrebbe avuto il tracciato delle rubriche. Per quanto riguarda l’articolazione del lavoro di trascrizione del testo, il copista non ha seguito uno schema perfettamente lineare, ovvero non ha trascritto in sequenza il modello a sua disposizione, ma ha scritto prima il testo e le istruzioni a margine e solo successivamente le rubriche; in caso contrario infatti non avrebbe avuto ovviamente bisogno di tali indicazioni. Come ben indicano la Gousset e la Stirnemann11, queste indicazioni en attente rientrano in un “vocabolario del parlare tecnico degli artisti”, un vocabolario che non si trova nei testi, negli statuti, nei libri di conti, ma unicamente nei manoscritti e che rappresenta la voce intima dell’artista. Ciò conferma l’importanza che bisogna accordare all’osservazione diretta dei manoscritti nelle ricerche sulla storia delle tecniche. Questa osservazione minuziosa consiste nell’interrogarsi sul significato dei più piccoli segni, evitando comunque interpretazioni abusive12. La particolarità del nostro ritrovamento sta nella collocazione insolita di queste indicazioni per le rubriche; come si è detto, esse sono visibili infatti, oltre che sui margini di molti fogli, perché non del tutto rifilate, anche 8
SMITH, Patterns of incomplete rubrication cit., p. 133. AGATI, Il libro manoscritto cit., p. 321. 10 Ibid p. 316. 11 M. TH. GOUSSET – P. STIRNEMANN, Marques, mots, pratiques: leur signification et leurs liens dans le travail des enlumineurs, in Vocabulaire du livre et de l’écriture au moyen age. Actes de la table ronde (Paris, septembre 1987), Turnhout 1989, p. 40. 12 GOUSSET – STIRNEMANN, Marques, mots, pratiques cit., p. 50. 9
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sulla piega interna di alcuni bifogli. Nella bibliografia consultata, mentre sono molteplici gli esempi di indicazioni ancora visibili sui margini13, non si fa cenno della loro presenza sulle linee di piegatura. Questo ci porta a formulare due ipotesi entrambe plausibili: o si tratta di una peculiarità del nostro copista, un suo modo distintivo di procedere che si distacca dalla prassi corrente, oppure, più semplicemente, non sono stati ancora individuati altri casi simili a causa della posizione quasi inaccessibile di tali indicazioni, trovandosi esse nascoste dal filo di cucitura o dai bifogli sovrapposti e visibili, quindi, solo a libro smontato. Appurata la scarsità di informazioni esplicite sulle tecniche e i procedimenti di fabbricazione in uso in epoca medievale e partendo dal presupposto che le informazioni che ci mancano sono scritte implicitamente, per la maggior parte, nelle pagine dei libri che ci sono stati tramandati, si comprenderà la necessità di procedere ad un’osservazione minuziosa dei libri stessi14. Questo ritrovamento potrebbe essere un punto di partenza per un nuovo campo di indagine: il ritrovamento infatti di ulteriori esempi di questo tipo in altri volumi potrebbe andare a costituire un insieme coerente permettendo quindi di fare nuove ipotesi sulla problematica del copista al lavoro. A questo punto occorre comunque ribadire che il copista del Reg. lat. 256 effettivamente rispettava la regola invalsa comunemente di annotare sui margini; prova ne sono gli esempi di indicazioni a margine mal rifilati ritrovati su alcuni bifogli. Accanto ad essi però risultano anche le insolite indicazioni sulla piega dei bifogli. Tali indicazioni sono presenti ai ff. 81+88 (Tav. I) relativamente al terzo di quattro titoli di f. 88r, ai ff. 89+96 (Tav. II) relativamente al terzo di quattro titoli di f. 96r, ai ff. 90+95 (Tav. III) relativamente al terzo di cinque titoli di f. 90v e, infine, ai ff. 92+93 (Tav. IV) in relazione al terzo di quattro titoli di f. 92v.
13 AGATI, Il libro manoscritto cit., p. 294 e ALEXANDER, I miniatori medievali cit., p. 90. Quest’ultimo conferma che, anche riguardo alle indicazioni per le miniature, le istruzioni erano spesso scritte sui margini del manoscritto con l’intenzione di cancellarle o di eliminarle con la rifilatura. 14 E. ORNATO, Exigences fonctionelles, contraintes matérielles et pratiques traditionelles dans le livre médiéval: quelques réflexions, in La face cachée du livre médiéval: l’histoire du livre vue par Ezio Ornato, ses amis et ses collègues avec une préface d’A. PETRUCCI, Roma 1997, pp. 117-118.
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POSIZIONE DELLE
POSIZIONE
INDICAZIONE PER
RUBRICA
INDICAZIONI NELLA
DELLE RUBRICHE
LA RUBRICA
CORRISPONDENTE
PIEGATURA
CORRISPONDENTI
ff. 81 + 88
f. 88r, riga 18
Si in h(oc) t(ri)duo Si in h(oc) t(ri)duo aliq(ui)s morit(ur) aliq(ui)s morit(ur)
ff. 89 + 96
f. 96r, riga 17
De asp(er)sione aq(ue) et de p(ro)cessione p(er) estate(m)
De asp(er)sione aque et de p(ro)cessione p(er) estate(m)
ff. 90 + 95
f. 90v, riga 17
Cur baptism(us) ad VII dies tendat
Cur baptism(us) ad VII dies tendat
ff. 92 + 93
f. 92v, righe 7-8
De all(elui)a ad missa(m) et de p(re)fatio(n)e in eode(m) te(m)(por)e
De all(elui)a ad missa(m) et de p(re)fatio(n)e in eode(m) te(m)(por)e
A un più attento esame, si è potuto notare che queste indicazioni si trovano in corrispondenza di parti di testo contenenti un alto numero di titoli rubricati. Si può quindi ipotizzare che il copista sia stato indotto dall’esigenza pratica, originata dall’elevato numero di titoli, di trovare uno spazio alternativo ai margini per annotare quello che sarebbe stato scritto successivamente. Il ritrovamento delle note manoscritte sulla linea di piegatura si collega a un altro problema relativo al lavoro del copista: come fosse disposto il fascicolo durante la trascrizione del testo e in quale momento avvenisse la fase della confezione dei fascicoli rispetto alla copia del testo, se prima o dopo di esso. In letteratura si afferma che la realizzazione di un codice comportava normalmente diverse tappe: acquisizione del supporto, confezione dei fascicoli, preparazione della mise en page, trascrizione del modello, rubricazione, decorazione, legatura15. Questo ritrovamento ci consente di riflettere sulla relazione temporale esistente fra due di questi momenti, ovvero la confezione dei fascicoli e la trascrizione del modello. In generale la scrittura di un testo poteva essere effettuata in diversi modi: — su bifogli sciolti, piegati o no, ma completante a sé stanti; — su fogli ancora solidali lungo il margine, generalmente di testa, che potevano poi essere separati in bifogli man mano che procedeva la trascrizione o soltanto alla fine di essa; 15 M. MANIACI, Archeologia del manoscritto. Metodi, problemi, bibliografia recente, Roma 2002, pp. 134-135.
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— su bifogli sciolti già assemblati in fascicolo, ma indipendenti l’uno dall’altro; — su bifogli assemblati e resi solidali con dei punti di cucitura provvisori16. Nella maggior parte dei casi i codicologi si trovano nell’impossibilità di scegliere una di queste ipotesi concorrenti di fronte a un singolo manoscritto e il problema consiste principalmente nel fatto che non si dispone di fonti testuali che descrivano le modalità pratiche di trascrizione di un testo17. Il nostro caso viene invece in aiuto proprio in questo senso. Se infatti per il Reg. lat. 256 si possono accettare le prime due ipotesi, sono invece da scartare le altre. Il fatto di aver scritto sulla linea di piegatura implica infatti che la sovrapposizione dei bifogli piegati o meno non fosse ancora avvenuta al momento della trascrizione. La prima ipotesi sembra la più probabile, anche se non si può escludere neanche la seconda, la quale presuppone che la scrittura avvenisse su supporto non piegato; altrimenti si sarebbe andati incontro a continue e laboriose spiegature e ripiegature. La terza ipotesi, ovvero la scrittura su bifogli sciolti già assemblati in fascicolo, ma indipendenti l’uno dall’altro, non è impossibile ma sicuramente si sarebbe rivelata poco funzionale per il copista, mentre l’ultima non avrebbe consentito in alcun modo la scrittura sulla linea di piegatura perché coperta dal filo di cucitura provvisorio. Quanto qui affermato è in effetti in linea con una più o meno recente ridefinizione del rapporto fra il momento della confezione dei fascicoli e della trascrizione del testo effettuata da J. P. Gumbert18. Egli sostiene, sulla base di alcuni indizi indiretti, che la prassi comune fino alla fine del XII secolo sarebbe stata quella di scrivere su fascicoli provvisoriamente fissati19, mentre a partire dal XIII secolo si sarebbe imposta l’abitudine di trascrivere il testo su bifogli sciolti oppure su bifogli solidali fra loro non
16
MANIACI, Archeologia del manoscritto cit., p. 125. Ibid. 18 Cfr. J. P. GUMBERT, Skins, Sheets and Quires, in New directions in Later Medieval Manuscrits Studies. Essays from the 1998 Harvard Conference, ed. by D. A. PEARSALL, York 2000, pp. 81-90 e MANIACI, Archeologia del manoscritto cit., p. 126. 19 Anche lo studioso Vladimir Mazuga, in un suo precedente contributo, affermava che durante l’Alto Medioevo gli scribi scrivevano abitualmente su fascicoli e non su fogli separati o sulla superficie di un fascicolo non tagliato e questo sulla base dell’iconografia relativa agli scribi presente nei manoscritti dell’epoca giunti fino ad oggi. A tal proposito cfr. V. I. MAZUGA, Observations sur les techniques utilisées par les scribes latins du Haut Moyen Age, in Scriptorium 44 (1990), pp. 126-130. 17
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previamente tagliati. Il nostro esempio come possiamo notare non contraddice ma conferma quanto ipotizzato dallo studioso. Ancora, un ulteriore indizio per definire come sia avvenuta effettivamente la trascrizione ci viene dato dalla nota manoscritta a f. 97v. Dall’immagine (Tav. V) si può vedere come la scritta non cada precisamente sulla linea di piegatura ma si trovi leggermente spostata sul margine interno. Ciò può indicare che il bifoglio non fosse stato ancora piegato e che la definizione del punto dove sarebbe andata a cadere la piegatura venisse fatta dal copista più o meno ad occhio. Vorrei introdurre infine un ultimo elemento di riflessione spostando l’attenzione sul margine di testa della f. 94v (Tav. VI) dove è ancora parzialmente visibile una delle note scritte dal copista forse per aiutarsi nella successiva trascrizione delle rubriche. Questa, a differenza delle altre individuate all’interno del codice, non corrisponde ad alcun titolo rubricato scritto sulla pagina corrispondente. Vi si trova annotato infatti “… Si in vigilia venit dominica”, che si può associare, solo per le prime tre parole tra l’altro, non a quanto scritto nelle rubriche (né su quelle adiacenti, né sulle altre presenti nel testo), ma all’inizio del testo della pagina, ovvero al “6LLQYLJLOLDSHQWHFRVWpVÃIHVWû”. Si può in questo caso ipotizzare un errore di copia dell’originale e quindi un’errata trasmissione del messaggio copiato o addirittura una variazione consapevole di scrittura in corso d’opera rispetto all’antigrafo? Ovviamente si tratta solo di un’ipotesi, ma se fosse vero si porrebbe un problema di mancata restituzione rigorosa del testo originale. In effetti non possiamo neanche sapere se sui margini fossero effettivamente state annotate, perché in tal caso rifilate, le indicazioni che corrispondono ai titoli effettivamente presenti e se la scritta presente sul margine di testa non sia in realtà un’annotazione di altro tipo fatta dal copista per motivi che non possiamo conoscere. Da questo contributo emerge come la conservazione del materiale librario non possa prescindere dalla codicologia e dalle altre discipline ausiliare. Il ritrovamento delle indicazioni manoscritte sulle linee di piegatura e il momento di studio che ne è derivato hanno infatti contribuito ad affrontare l’intervento di restauro in maniera più idonea e consapevole. La conservazione deve imporsi insomma come “un metodo che racchiude in sé momenti di conoscenza consapevole della funzione, dell’uso e della storia dei documenti, consentendo in tal modo sia la salvaguardia che la ricollocazione di tali materiali della storia nella storia stessa”20. Questa ri20
Cfr. G. GUASTI – L. ROSSI, Una proposta di lavoro: il prontuario, in Oltre il testo. Unità e strutture nella conservazione e nel restauro dei libri e dei documenti, a cura di R. CAMPIONI, Bologna 1981, pp. 21-28.
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cerca dimostra quanto sia importante mantenere viva la collaborazione fra le discipline che si occupano, seppur con finalità diverse, del patrimonio librario per la raccolta e l’approfondimento di dati utili alla descrizione sia della struttura fisica di un’opera che della sua storia, oltre che al lavoro di conservazione e restauro. Ogni disciplina può recare infatti un contributo più ampio rispetto al suo specifico ambito di pertinenza andando così ad ampliare le possibilità di indagine delle altre discipline. In questo caso il ritrovamento casuale durante l’intervento di restauro di tali indicazioni tecniche potrebbe rivelarsi un utile strumento per ampliare le conoscenze relative al problema del copista al lavoro. In tal senso questo contributo vuole essere anche un invito rivolto al mondo del restauro affinché siano condivisi tutti quei ritrovamenti che siano in grado di agevolare in futuro il lavoro degli specialisti nello studio del materiale librario.
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Tav. I – Indicazione per la rubrica e rubrica corrispondente (ff. 81 + 88).
Tav. II –Indicazione per la rubrica e rubrica corrispondente (ff. 89 + 96).
Tav. III – Indicazione per la rubrica e rubrica corrispondente (ff. 90 + 95).
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Tav. IV – Indicazione per la rubrica e rubrica corrispondente (ff. 92 + 93).
Tav. V – Indicazione per la rubrica leggermente spostata sul margine interno (f. 97v).
Tav. VI – Annotazione sul margine di testa parzialmente rifilata (f. 94v).
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EIN BIBLIOTHEKSTRANSPORT — EIN LOGISTISCHES PROBLEM. DIE ORGANISATION DES TRANSPORTES DER HEIDELBERGER BIBLIOTHEK NACH ROM DURCH LEONE ALLACCI WÄHREND DES DREISSIGJÄHRIGEN KRIEGES* Nach der Einnahme von Heidelberg im September 1622 durch die kaiserlichen Truppen unter Führung Tillys1 und der Einlösung des vom bayrischen Herzog Maximilian I.2 gegebenen Versprechens — der Schenkung der pfälzischen Bibliothek an Gregor XV., dieser hatte sich bereits im Dezember 1621 dafür eingesetzt, für den Schutz der Büchersammlung Sorge zu tragen — wurde der Skriptor für die griechische Sprache Leone Allacci ausgestattet mit einer Instruktion3 des Kardinalstaatssekretärs Ludovico Ludovisi4 nach Deutschland geschickt, um die Heidelberger Bibliothek nach Rom zu transportieren. Drei Dinge sollten in erster Linie bei der Versendung berücksichtigt werden: die Sammlung ganz zu erhalten, sie sicher nach Rom zu bringen und das Vorhandensein von Nachrichten über Handschriften und Bücher zu überprüfen. In dieser Anweisung wurde ihm besonders ans Herz gelegt, sich nach der Übergabe der Schlüssel zu erkundigen, ob Handschriften ausgeliehen sind oder sich Bücher in anderen Räumen des Pfalzgrafen oder seiner Minister befinden. Außerdem sollte er darauf achten, dass beim Einpacken der Bücher keine fremden Personen anwesend sind und er sollte auch alle Schränke nach vereinzelten Schrif* Mein aufrichtiger Dank gilt meinem Kollegen Marco Buonocore, Scriptor Latinus und Direttore della Sezione Archivi, für die Kontrolle des Textes und die wertvollen Hinweise. 1 Johann Tserclaes Tilly (1559-30. IV. 1632); vgl. Lexikon für Theologie und Kirche 10 (2001), S. 39-40. 2 Maximilian I. Herzog von Bayern (17. IV. 1573-27. IX. 1651; Kurfürst ab 1623); vgl. Lexikon für Theologie und Kirche 7 (1998), S. 1. 3 BAV, Vat. lat. 7762, ff. 530r-533r: Empfehlungsschreiben Gregors XV. für Allacci; ff. 533v-535r: Schreiben Kardinals Ludovisi an Herzog Maximilian von Bayern; ff. 534r-535v: Breve Gregors XV. vom 19. Oktober an Maximilian I.; ff. 535v-537v: Schreiben Gregors XV. an Tilly; vgl. Biblioteca Palatina Katalog zur Ausstellung vom 8. Juli bis 2. November 1986 Heiliggeistkirche. Textband herausgegeben von E. MITTLER in Zusammenarbeit mit W. BERSCHIN, J. MIETHKE, G. SEEBASS, V. TROST, W. WERNER, Heidelberg 1986, S. 462-465. 4 Ludovico Ludovisi (27. X. 1596-18. XI. 1632; Kardinal: 15. II. 1621); vgl. Dizionario Biografico degli Italiani 66 (2006), S. 460-467. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 343-381.
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ten, Breven und Privilegien durchsuchen. Was den zweiten Punkt betraf, sollten die Kisten für den Transport ordentlich gepackt werden, d. h. der Größe entsprechend und gegen Wasserschäden gut vernagelt werden. Zur Verminderung des Gewichtes könnten die Holzdeckel der Bücher entfernt werden, aber nicht solche, auf denen sich Wappen oder Inschriften befanden. Die sichersten Wege sollten ausgekundschaftet und alle Kisten sollten auf einmal verschickt werden. Vor allem die Bibelhandschriften und die der kirchlichen Schriftsteller sollten nicht zusammen verpackt werden, um nicht in Gefahr zu laufen, dass alle beim Transport abhanden kommen. Zuletzt sollten alle Hinweise auf Gründung der Bibliothek und ihr Anwachsen, wenn sie nicht transportierbar sind, sorgfältig abgeschrieben werden5. Allacci sollte sich bemühen, alle Handschriften zu erhalten. Zur Erleichterung wurde ihm die in der Vatikanischen Bibliothek vorhandene Abschrift des Sylburg’schen Katalogs mitgegeben6. Weil sein Weg durch Kriegsgebiet und protestantische Länder führte, sollte er weltliche Kleidung, wie die eines venezianischen Kaufmannes, tragen. Zur Deckung der anfallenden Kosten der Versendung erhielt er tausend Scudi und einen offenen Kreditbrief, den er notfalls bei deutschen und italienischen Handelshäusern einlösen konnte7. Ausgestattet mit dem päpstlichen Segen trat er am 28. Oktober seine wegen der schlechten Straßen und Witterung beschwerliche Reise an, die ihn über Florenz, Bologna und Ferrara nach Venedig führte, wo er am 5. November eintraf8. Nach drei Tagen brach er nach Norden auf, kam durch Trient, Innsbruck und Augsburg, wo er bei den Bankiers Palaggi und Falconieri seine Wechselgeschäfte abwickelte, und traf am Abend des 26. November in München ein. In der vom Herzog gewährten Audienz überreichte Allacci Maximilian I. das päpstliche Breve und das Schreiben des Kardinal Ludovisi. Der Herzog riet ihm auch wegen der durch herumziehende Soldaten unsicheren Straßen sich über Eichstätt und Würzburg nach Heidelberg zu begeben9. Ab Eichstädt änderte er auf Anraten des Bischofs die längere und gefährliche Straße über Würzburg zugunsten der über Ellwangen führenden. Doch auch diese war nicht ohne Gefahren: Er musste in Wimpfen zwei Tage warten bis Pferde und Wagen zur Weiterreise zur Verfügung standen und in Neckarsulm wäre er von den 5 BAV, Vat. lat. 7762, ff. 530r-533r; A. THEINER, Schenkung der Heidelberger Bibliothek durch Maximilian I. Herzog und Curfürsten von Bayern und ihre Versendung nach Rom mit Originalschriften, München 1844, S. 6-8. 6 BAV, Vat. lat. 3956 auf dessen Vorblatt Allacci vermerkte, dass diese Kopie von Gaspar Schoppius angefertigt worden ist. Vgl. Biblioteca Palatina Katalog (wie A. 3), S. 466-467. 7 THEINER, Schenkung (wie A. 5), S. 13. 8 C. MAZZI, Leone Allacci e la Palatina di Heidelberg, Bologna 1893, S. 11-12. 9 Ibidem, 12-15; THEINER, Schenkung (wie A. 5), S. 14-17.
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Bewohnern fast ermordet worden. Am 13. Dezember traf er endlich in Heidelberg ein und begab sich sogleich ins Schloss10. Nachdem ihm die Schlüssel der Bibliothek vom Sekretär des Grafen Tilly, Viktor Gigli aus Imola, ausgehändigt worden waren, machte er sich ein erstes Bild von der Sammlung. Beeindruckt von der Quantität der Bücher in den verschiedensten Sprachen begann er die Ausgaben zu sichten und auszuwählen. Die Kontrolle der griechischen Handschriften war weniger problematisch wegen der mitgebrachten Kopie des Verzeichnisses, für die lateinischen Manuskripte gab es allerdings kein Inventar, sie waren mit fortlaufenden Nummern in den jeweiligen Schränken eingeordnet. Darunter befanden sich auch Schriften von Martin Luther und Philipp Melanchton11. Die Sichtung der Handschriften führte er mit besonderer Sorgfalt durch und stieß dabei auch auf einige Exemplare, die ausgeliehen waren. Trotz vorhandener Quittungen war es schwierig die entlehnten Handschriften unverzüglich zurückzubekommen12. Unter den Druckschriften waren zahlreiche Werke in mehren Auflagen — verschiedene Drucker oder Erscheinungsorte — vorhanden, es fehlte allerdings das entsprechende Inventar. Um das Gewicht der Bücherkisten in Grenzen zu halten, entfernte Allacci teilweise die schweren Einbände, vor allem der in der privaten Bibliothek des Pfalzgrafen vorhandene Bände, allerdings solche mit Wappen und besonderer künstlerischer Ausstattung ließ er unversehrt13. In der Bibliothek der Universität fand er noch wichtige Handschriften, wie Konzilsakten von Basel und Konstanz14. Die Herstellung der für den Transport vorgesehenen Kisten gestaltete sich alles andere als einfach: erstens fehlte das dafür erforderliche Material — Holz, Pech und Hanf für die Herstellung der Seile — und die in der Stadt ansässigen Tischler verweigerten ihre Mithilfe und hatten außerdem Verständigungsschwierigkeiten. Einige Personen, die in Frankfurt die notwendigen Rohstoffe besorgen sollten, wurden im feindlichen Gebiet überfallen und ausgeraubt. Daher wurden andere nach Speyer und Worms geschickt, um dort alles Fehlende aufzutreiben. Allacci half sich auch dadurch, dass er Bretter durch das Zerlegen der vorhandenen Schränke erhielt15. Zusammen mit seinem aus Rom mitgebrachten Diener, der allerdings von der feindseligen Bevölkerung vergiftet wurde, war er bis zum durch einen Sturz vom Pferd verzögerten Eintreffen Tillys am 14. Januar 1623 täglich mit dem Einpacken der Bücher beschäftigt. In der 10
THEINER, Schenkung (wie A. 5), S. 19-29. Vgl. unten Brief vom 16. Januar 1623, S. 351-355. 12 THEINER, Schenkung (wie A. 5), S. 25. 13 Vgl. unten Brief vom 16. März 1623, S. 360-365. 14 MAZZI, Leone Allacci (wie A. 8), S. 36-37. 15 Vgl. unten Brief vom 24. Dezember 1622, S. 349-351. 11
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Audienz übergab er dann das Schreiben des Kardinal Ludovisi mit der Bitte um Unterstützung für das Unternehmen und das päpstliche Geschenk und einige Gedenkmünzen zur Verteilung an die Soldaten, die den Transport begleiten sollten16. Für diesen mussten nicht nur Maultiere und Wägen aufgetrieben werden, sondern auch Begleitpersonal zum Schutz der Bücherkisten. Tilly forderte die Behörden der bayrischen Besatzungsstädte der Umgebung auf, Allacci bei seinem schwierigen Unternehmen weitgehend zu unterstützen. Schreiben mit derselben Aufforderung wurden an die Bischöfe von Speyer, Regensburg und Straßburg, den Offizial des Deutschen Ordens, den Propst von Ellwangen und Leopold, den Erzherzog von Österreich geschickt17. Als Route für den Konvoi boten sich zwei Möglichkeiten: Die längere aber weniger kostspieligere Variante war der Wasserweg am Rhein über Breisach nach Tirol führte und auf dem nur Straßburg als einzige feindliche Stadt passiert werden musste. Keinesfalls wollte er jedoch Basel berühren. Doch diese Möglichkeit ließ sich wegen der ungewöhnlichen Kälte, die teilweise ein Gefrieren des Flusses zur Folge hatte, nicht realisieren18. So sollte der Weg durch das protestantische Württemberg in Richtung München genommen werden. Nachdem die zum Transport erforderlichen Wagen, Gespanne (60 Maultieren) und das Begleitpersonal in Heidelberg eingetroffen waren, wurden 50 Frachtwägen mit den Bücherkisten beladen und am 14. Februar verließ der Konvoi die Stadt südwärts. Zwei Tage später traf er in dem von den Kriegswirren verwüsteten Neckarsulm ein und dort war Proviant nur mit äußerster Schwierigkeit aufzutreiben. Gemäß der Aufforderung Tillys hatte der Propst von Ellwangen 20 weitere Wagen, die den Weitertransport garantieren sollten, zur Verfügung gestellt. Es waren ihm dadurch auch keine weiteren Unkosten entstanden, weil damit die Zusage, dass die Wagen für den Rückweg mit Salz beladen werden, verbunden war. Zum Schutz vor Überfällen wurden Soldaten aufgeboten, die Allacci allerdings, nachdem er Tübingen passiert hatte, bei Nördlingen entlassen musste, weil ihm die Stadt sonst den Durchzug verweigert hätte. Trotz der feindlichen Haltung der protestantischen Bevölkerung passierten Wagen und Begleitung unversehrt19. Doch die restliche Strecke bis München war nicht ohne Gefahren, einerseits war ständig mit feindlichen Übergriffen zu rechnen und anderseits war die Reise auf den durch die schlechte Witterung in Mitleidenschaft gezogenen Straßen sehr beschwerlich. Die Wagen versanken teilweise auf den schlam16
Vgl. unten Brief vom 16. Januar 1623, S. 351-355; MAZZI, Leone Allacci (wie A. 8), S. 29. THEINER, Schenkung (wie A. 5), S. 32-33. 18 Vgl. unten Brief vom 26. Januar 1623, S. 355-356; MAZZI, Leone Allacci (wie A. 8), S. 47-48. 19 Vgl. unten Brief vom 8. März 1623, S. 358-360; MAZZI, Leone Allacci (wie A. 8), S. 59-61. 17
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migen Straßen, die Pferde stürzten auf den vereisten Wegen und Allacci bemühte sich vor allem um die Ladung, denn die Bücherkisten sollten nicht durch diese Hindernisse oder eindringendes Wasser beschädigt werden20. Nachdem Allacci mit den Büchern am 27. Februar in München eingetroffen war, bat er unverzüglich den Herzog, der sich auswärts im Feldlager bei Regensburg aufhielt, Anweisungen für die Versendung der Kisten nach Rom zu erteilen21. Für die Weiterreise musste er allerdings die beschädigten Kisten reparieren und die Bücher in kleinere Kisten umpacken, die dem Gewicht, das Maultiere tragen konnten, entsprachen. Er musste sich auch um Spediteure kümmern, die den Transport der Bücher nach Italien durchführten. Es handelte sich um die in Augsburg ansässigen italienischen Händler Marcantonio Benivieni und Cosimo Sini. Diese erhielten von den ausgehandelten 3.00 Talern ein Drittel in der bayrischen Hauptstadt, der Rest sollte ihnen bei der Übergabe des Transportgutes ausgehändigt werden, da eine Bezahlung in Augusburg aber vor allem in Venedig für die Apostolische Kammer mit weniger Schwierigkeiten verbunden war22. Die Finanzierung bis zu diesem Zeitpunkt war keineswegs problemlos gewesen: so hatte Allacci bereits in Heidelberg von Heinrich von Metternich23 500 Taler für die Strecke bis Neckarsulm erhalten und der Probst von Ellwangen hatte nur die Wagen zur Verfügung gestellt, weil ihm zugesagt worden war, diese auf dem Rückweg mit Salz zu beladen. Der bayrische Herzog hatte darüber hinaus befohlen, Futter und Material für den Münchner Aufenthalt zur Verfügung zu stellen und für die Weiterreise eine Befreiung von Zölle und Abgaben in Aussicht gestellt24. Am 12. April verließen die letzten der 196 Bücherkisten — einige hatte Allacci schon vorausgeschickt — München Richtung Mittenwald25. Zwischen Reuthe und Lermoos wurde der Konvoi überfallen und Allacci konnte sich im letzten Ausgenblick der drohenden Gefahr ausgeraubt zu werden durch die Vertreibung der Angreifer entziehen. Durch einen neuerlichen Wintereinbruch wurde er gezwungen im Tal von Klösterle fast zwei Wochen zu warten bis er den Alpenpass überschreiten konnte und am 25. Mai in Colico eintraf, wo das gesamte Frachtgut auf zwei Schiffen über den See nach
20
Vgl. unten Brief vom 16. März 1623, S. 360-365. Vgl. unten Brief vom 1. März 1623, S. 357-358. 22 Vgl. unten Brief vom 20. März 1623, S. 365-366. 23 Heinrich von Metternich († 1654 Dekan von Wimpfen); vgl. Neue Deutsche Biographie [NDB] 17 (1994) S. 234. 24 Ch. BAEHR, Zur Geschichte der Wegführung der Heidelberger Bibliothek nach Rom im Jahre 1623, in Heidelberger Jahrbücher der Literatur 31-32 (1872), S. 511. 25 Vgl. unten Brief vom 19. April 1623, S. 373-374. 21
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Como gebracht wurde26. Dann wurde der Weg zu Lande auf Wagen bis Mailand fortgesetzt, dort war Allacci allerdings wieder mit Zollfragen konfrontiert. Abgaben dieser Art wurden auch auf der Weiterreise von Cremona verlangt27. Von Pavia aus wurde die Ladung Richtung Ferrara zu Wasser verschickt, dieser Strecke war störungs- und abgabenfrei. Allerdings konnten die Kisten vorerst nicht auf dem Wasser transportiert werden, weil im Kanal zu wenig Wasser vorhanden war. In Bologna betrat Allacci schließlich das Gebiet des Kirchenstaates. Die in Malalbergo zwischengelagerten Kisten wurden als genügend Wasser im Kanal vorhanden war, unverzüglich nach Bologna überstellt. Bei der Organisation des Weitertransports wurde Allacci vom Vizelegat tatkräftig unterstützt28. Der Wasserweg über Pesaro wurde wegen möglichen Wassermangels zugunsten des Landeweges über Florenz aufgegeben. Da keine größeren Hindernisse zu erwarten waren, reiste Allacci dem Transport nach Rom voraus, wo er am Tag von Peter und Paul (29. Juni) eintraf. Da seine Vorgesetzten allerdings der Ansicht waren, er sollte auch die letzte Wegstrecke die Bücherkisten begleiten, kehrte er unverzüglich nach Florenz zurück. Eine neuerliche Verzögerung trat durch den Tod des Papstes ein, weil die vorgesehenen Zahlungen ausblieben. So begab sich Allacci nochmals nach Bologna, um alles Notwendige an Ort und Stelle zu regeln, denn die Wechsler hatten sich geweigert, das erforderliche Geld auszuzahlen. So war ein Teil der Kisten noch in Bologna geblieben, ein anderer Teil auf der Strecke nach Florenz aufgehalten worden29. Nachdem auch dieses letzte Hindernis beseitig worden war, übergab Allacci nach seinem Eintreffen in Rom die Bücherkisten am 9. August dem ersten Kustos der Vatikanischen Bibliothek Niccolò Alemanni30. Editionskriterien Die Minuten und Konzepte zu diesen an den Kardinalstaatssekretärs Ludovico Ludovisi gerichteten Briefe werden zusammen mit den Entwürfen weiterer Schreiben an andere Persönlichkeiten — wie etwa den Kardinalbibliothekar Scipione Cobeluzzi, den ersten Kustos der Bibliothek Niccolò Alemanni, an den Grafen Johann Tilly oder die Händler Marcantonio Benivieni und Cosimo Sini — in der Handschrift B. 38 der Biblioteca 26
THEINER, Schenkung (wie A. 5), S. 39. Vgl. unten Brief vom 9. Juni 1623, S. 347-375. 28 Vgl. unten Brief vom 9. Juni 1623, S. 347-375. 29 BAEHR, Zur Geschichte (wie A. 23), S. 513-514. 30 THEINER, Schenkung (wie A. 5), S. 40 mit der Edition der Empfangsbestätigung Alemannis. 27
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Vallicelliana verwahrt. Da die vorliegenden Originalbriefe der Handschrift Barb. lat. 6456 (olim LXXIV.2) ein einzigartiges Dokument der Organisation und der Durchführung der Transportes der Bibliotheca Palatina nach Rom sind, erschien es angebracht diese im vollen Wortlaut zu edieren. Auf eine Modernisierung des Textes wurde verzichtet, um die Einmaligkeit der Quelle zu erhalten, Abkürzungen wurden allerdings zum Verständnis aufgelöst. Daher fehlen entsprechend dem Italienischen der Epoche zahlreiche Akzente und viele Worte weisen eine andere Schreibweise auf wie haver und nicht avere. Sprachliche Vereinheitlichungen wurden auch deshalb unterlassen, um den persönlichen Stil des Briefschreibers nicht zu beeinträchtigen, der bisweilen innerhalb eines Berichtes die Schreibweise änderte wie libraria oder libreria. Zur leichteren Lesbarkeit des Textes wurden nur die Worte nach einem Punkt mit großem Anfangsbuchstaben geschrieben. Die in chronologischer Reihenfolge geordneten Briefe sind am unteren linken Rand numeriert, die Briefnummer findet sich in der Edition neben der Folienangabe. Leone Allaci Lettere (Barb. lat. 6456, ff. 1r-47r) f. Ir L’argomento delle prime 22. è il trasporto della Biblioteca Palatina d’Heidelberga a Roma, affidato a Leone Allaci da Gregorio XV. (del 4. decembre 1622 al 17 giugno 1623) Le due ultime 7. luglio 1646, e 25. febbraio 1647 sono scritte al cardinale Francesco Barberini31. ff. 1r-2v [n. 1] Secondo l’ordine et indrizzo del Signor Duca di Baviera hò cercato d’arivare nel campo delli soldati, che servono al Signor Conte di Tilli, che altrimente saria stato impossibile senza dar in mano d’inimici, ò d’assassini il che è stato anchora difficilissimo per la penuria che vi è d’ogni cosa. Poiche per questo viaggio non c’è pane, non vino, non cavalli, non altra commodità, mancho d’andar a piedi per la malagevolezza della strada. Gionto nelli presidij non era nuova certa dove fosse il Signor Conte. E chi diceva fosse in Vuomartia32, chi in Franconia, chi in altro luogho. Manco che intanta poccho certezza mi parse meglio d’andar in Hidelberga, dove ero certo che egli non era, e di là poi col consoglio, et agiuto delli suoi andar dove esso si fosse. Ma poiche in detta città tanto il Governatore che è il Decano della Città di Vinfen33, quanto il Secretario Cavalier Vittorio Gigli34 per la molta 31
Diese Vorbemerkung wurde vom Bibliothekar Sante Pierelisi geschrieben. Es handelt sich um die Stadt Worms. Bischof war Georg Friedrich von Greiffenclau zu Vollraths (8. IX. 1573 – 6. VII. 1629; Bischof: 31. VI. 1617); vgl. Deutsche Biographische Enzyklopädie der Theologie und Kirche [DBETK] I (2005) S. 530. 33 Es handelt sich um Bad Wimpfen in der Nähe von Stuttgart. 34 Vittorio Gigli stand in den Diensten von Tilly, vgl. MAZZI, Leone Allacci (wie A. 8), S. 35. 32
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difficolta di trovar il Signor Conte mi consegliorno che io mi fermessi in Hidelberga e che fra tanto s’aviseria il Signor conte, e pronti mi consegnavano le chiave della libraria, c’e parso espediente di pigliarmi questa commodita è cosi intrato dentro rimasi alla prima quasi perso per la quantità delli libri, e numero loro che pare infinito. Con tutto ciò senza perdervi tempo considerando che nel portar li libri, era più di bisogno poccho peso e solecitudine che altro mi diedi a ricognoscere li libri scritti a mano di varie lingue, e vedendo che le coperte di tavole erano grosse, e per li ferri agiunti di peso grandissimo, non senza qualche faticha hò levato quelle coperte che non mi parevano di molto conto, è cosi ordinati posta nella cassa per questo effetto già accomodate. E già hò piene di libri manuscritti casse settanta una che sarano a presso pezzi tre milla, e poi hò cominciato a sciegliere li stampati fra quali non mancherà cosa da portarsi a Roma. Il Signor Conte rispose che io non mi movesse d’Hidelberga, ma che attendesse a metter in ordine, et agiustare, che esso fra poccho sarebbe in Hidelberga, dando ordine alli [f. 1v] suoi ministri che mi dovessero agiutare, e soccorrere. È cosa da non credere, che in questa città cosi fiorita altre vuolte, hora per la guerra non si truovi cosa nissuna. E primo si duro faticha di trovar li maestri, li quali ò non indendevano ò non volevano intendere il far delle casse a modo che potessero due di loro esser peso sufficiente a un mulo perche quà caricano in altra maniera. Trovati li maestri non erano tavole, onde bisogno che si pigliassero le scanzie della Libraria, le quali non bastando il Signor Decano diede delle tavole che nel Castello servivano per fodre delle Camere del Palatino. Fatte le casse non c’era ne pece, ne canavazzo, ne corde, per complir di saldar le casse. Si mando a Francoforti alcuni Cittadini acciò facessero la provisione, furno presi da quelli di Fracandal35, e posti carcerati e dopò haverli spogliati di denari che arivavano vicino a quindeci milla toleri e d’ogni altra cosa, con gran difficoltà li lasciorno andare. E però di nuovo gia che quella via era intercetta si mando a Spira, ma ivi non si trovò tanto canavazzo, che potesse bastare a casse quoranta, pero di nuovo si manda a Vormus36, anchora non son tornati. Insino il canape per far le corde s’è mandato a pigliar di fuori. Siamo ridotti a tale che non vi è senon un aco grosso che chiamano sacoraffe, ne s’è possuto haver più in tutta questa citta per cuscir il cavazzo sopra le casse. E mentre sto aspettando il Signor Conte acciò con la sua presenza et authorita faciliti queste cose, che certo non ci voleva meno, ecco che viene nuova che cavalcando è caduto col cavallo, e sebene non s’era fatto danno notabile niente dimeno sentiva grandissimi dolori nelli fianchi, e che molti medici andavano per soccorrerlo. Insin hora si dice che stia bene, ma in Hidelberga non è venuto, sebene s’aspetta d’hora in hora. Et io fra tanto non perdo tempo, ma con ogni diligenza attendo al meglio che posso ordinar le casse, le quali bisogna che io solo le ordini col servitore, per non poter trovar persona, alla quale si possa l’huomo fidare, et in particolare a quello che appartiene alla Libraria, essa è grandissimo, e vasta di vaso piena di scanzie, e di libri, sebene con poccho ordine, e chi la volesse condurre intiera non li basteriano cinquecento carri. [f. 2r] E la condotta sarebbe superfrua per esser trenta o quoranta vuolte, et alle volte cento 35 36
Es handelt sich um Frankenthal. Es handelt sich um die Stadt Worms.
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l’istesso libro stampato, nell’istesso luogho, tempo, e forma, che certo non posso imaginarmi a che effetto si facesse simil racolta. È vero che d’uno auttore sono l’istesse opere stampate in varij luoghi, et anni, e da diversi stampatori. E sarebbe cosa curiosa l’haver in una libreria insieme unite tutte l’impressioni d’uno auttore. Ma l’haverli a condurre da Hidelberga a Roma non riesce nella spesa, nella fatiga. E di questi libri si come non vi è ordine cosi anchora non è indice che mostri il tutto. Et il volerli confrontare sarebbe fatiga di più, e più mesi. Cosi scielgo il meglio, e quello che non mi pare aproposito lo lascio. Tanto più che la metà di detta libreria contiene tutto libri d’heretici, e loro seguaci, e quelli istessi infinite volte. Tutto questo pare che possa passare, e superarsi in qualche maniera, ma la maggior difficoltà è, che non si truova carro in sorte alcuna, e per acqua non si ponno mandare, per esser agiacciati i fiumi, e quando anchora si potessero navigare, finito il viaggio dell’acqua, sarebbe dimestrire di carri, si quali ne acho si potriano trovare in quel luogho. Di questo credo che si pigliera il pensiero il Signor Conte di Tilli. Del viaggio che s’hà a tenere per condurla secura tutti questi di qua si confrontano con l’opinione del Signor Duca di Baviera che è condurla pervia d’Herbipoli37, poiche si passa per mezzo di paesi inimici, se bene non in tutto, e si cercherà d’andar con la guardia che parerà necessaria. Io mi lascierò condurre da questi Signori che sono pratichi delli camini, e sano dove puol esser pericolo. Che quando la libreria poi si conducesse a Monacho secondo tutti affermano saria secura. Et io cercheria poi indrizzar il camino a Roma sempre per paesi delli Austriaci. Anchora della lettera di credenza di mille toleri non hò ricevuto niente, ma sto su il credito di questo, e di quello e le spese per metter in ordine le casse, et alcune altre cosicelle sono grande. Mi dubito che quando ancho ricevessi li mille toleri, non si potrebbe andar più inanzi che Monacho. Poiche qua è una usanza che bisogna pagare l’accesso, e recesso. Di più bisognerà far le [f. 2v] spese alli soldati che accompagnano, poi darli il denaro per il ritorno, e le spese sono eccessive, non si trovando a mala pena pane da potersi levare la fame, e quello poccho che vi è si compra a peso d’oro. È neccessario che a Monacho io habbia un’altra lettera di credenza per avalermi in quello che occorrerà, e lasciar stare il sopra più. Cosa certa delle spese non si può dire per la mala stagione, e pessima constitutione del paese, e dell’agiuto delli soldati, che sempre l’anderà crescendo, ò scemando secondo l’occorrenza, et il paese de prencipi per il stato di quali hò da passare. Non vorria che il mancamento del denaro m’havesse a tardare il camino, che io con tanta celerità, e solecitudine, et efficace diligenza non mancho di procurare che sia è sicurissimo, e curtissimo per metter questa libreria, più speditamente in Italia. E li fò umilissima reverenza. Da Hildeberga li 24 di Decembre 1622. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio. ff. 3r-4v [n. 2] [Tavv. I-II] Alli 14 di Gennaro al tardo è arivato qui in Hidelberga il Signor Conte de Tilli, doppo esser stato aspettato un pezzo. È certo io m’era rissoluto senz’altro andarlo 37
Es handelt sich um Würzburg.
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atrovare, senon che mi sopravennero lettere di esso, dove si certificava questa sua venuta frà tre di, ma questi di, quasi che non divennero settimane, per li grandi affari che li sopravennero. A me questa tardanza non hà impedito niente del mio negotio, anzi mi hà tuttavia agiutato, perche io non hò perso dieci, ò dodeci giorni in andar, venir, e trattare, mà hò atteso continuamente a disbrigarmi, et incassar, et accomodar li libri, intanto che quasi sono al fine. Mi hà anchora giovato, perche in questo mezzo hò possuto con qualche commodità, è considerar le scritture, e cercar meglio li repostigli, d’onde m’è venuto fatto, che io hò trovato morte ricevute, e qualche antichità, e quello che più importa alcuni originali di Lutero, e di Melantone, che se io mi fosse partito da qui, et andato vagando per trovar il Signor Conte senza dubio non l’haverei trovati. Con le ricevute si spera di poter recuperare qualche cosa, anchor che pocchi ò nissuno si trovi di quelli scritti, perche gli huomini non vi sono, e se vi è qualcheduno dice che non può restituire che li soldati hanno posto sotto sopra ogni cosa. Questo è certo che non si può perdere, perche s’userà ogni diligenza. L’antichità è un mazzo di palme secondo che io m’imagino scritto anticho, ma io non sò ne che lettere siano l’antiche cosi scritte, ne che materia si contengano. Un volume assai lungo scritto in lingua syriaca, un’altro in lingua Moschovitica. L’Originali di Lutero sono, alcune sue lettere, prediche, e trattateli, di Melantone sono li Commentarij sopra i Salmi insino al Salmo 50. Non si può esplicare quanto sia grande difficoltà di trovar le cose neccessarie per l’accomodamento delle casse. Con la gratia d’Iddio si supererà ogni cosa. Il di seguente la mattina fui ammesso all’audienza, dove doppo haverli esposto quanto mi disse il Signor Duca di Baviera, che le lettere già gliele havevo mendate per Corriero a posta, li presentai il breve di Nostro Signore e le lettere di Vostra Signoria Illustrissima e li esposi ampiamente à mente di Sua Santità e sua conforme il tenor della sua lettera, e m’allargai nel mostrarli che per grande che sia il suo valore noto a tutto il mondo, e la stima che della sua persona tengono, e dell’obligho che li hanno a nome della religione catholica, non lo stimano niente meno per sua singolare pietà Christiana, e devotione, per la quale Sua Beatitudine l’abbracciava sotto la protettione delli Santi Apostoli, e di quella Santa fede, eli dava largamente la sua benedittione, e lo raccomandava alla maestà divina, per beneficio bublico. E per alcun picciolo segnale di ciò io li portavo da presentare alcune cose spirituali che Sua Beatitudine li mandava. È cosi li presentai il quadro della Madonna, la corona d’Agata, le quatro medaglie due d’oro, e dui d’argento, al quanti agnus Dei et al fine il numero consegnatomi delle medaglie, acciò che col mezzo dei padri religiosi che sono nell’esercito, li distribuisse fra li soldati, eli esortasse aguadagnare l’indulgenze. E li diedi nota dell’indulgenze che tenevano. Li sogiunsi che essendo inteso che esso desiderava [f. 3v] certe gratie spirituali da Sua Santità se si sapesse più in particolare il desiderio suo che lo consolarebbe prontamente per la paterna volonta, et affettione che li porta. Indi a nome di Vostra Signoria Illustrissima mi distesi con largezza di parole, al possibile affettuose, nel renderli testimonio dal suo desiderio di servirlo. Venni poi al particolar della Bibliotheca, dove l’esposi quanto havevo havevo* operato fra questo, e quanto mi pareva neccessario per condurla fuora di qua insino a * havevo zweimal geschrieben.
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Monacho. Mi rispose che sommamente ringratiava Nostro Signore che s’era degnato di ricordarsi di lui, e favorirlo non solo della Sua Santa benedittione ma anchora di quelli regali che esso stimava più assai che ogni altra cosa, li quali l’havevano da servire per maggiormente inanimirlo contra l’inimici della religione, e di quella Santa Sede, per la quale esso stimava si dolce il faticare, e spargere il proprio sangue. E che le vittorie sue sono state mere volonta d’Iddio, e non sua forza, et ingegno per il grande avantaggio dell’inimici in ogni cosa, e che in quanto alla Libraria li sarebbe stato di Sommo gusto quando pensasse che in essa s’havesse atrovar cosa che fosse di gusto a Nostro Signore e dicendoli d’alcune ricevute che havevo in poter mio ordinò che si vedesse di fare in maniera che quelli libri si rihavessero, non sò quello che seguirà perchè ò quelli che l’hanno havuti sono fuora, e fugitivi di questa Città, ò se visono dicono esserli stati tolti, come tutti li altri dalli soldati. Ma la ricuperatione di detti libri, mi pare che sia il meno, poiche non sono in gran quantità, e molti di loro sono stampati, e delli quali ci sono altri esemplari in Libraria. La difficoltà è delli Carri da poterla condure per non esservi cavalli per tutto questo paese, li quali devono esser gagliardi per le strade cosi triste, dove ci rimangono li cavalli, e li carri per dir cosi affocati, ne ponno andar inanzi, come è successo in alcuni carri, che conducevano l’altegliaria di Sua Altezza è cosi dopò esser stato sospeso un pezzo, chiamati anchora molti colonelli si discorse del modo di poter trovar questi Carri, il quale assolutamente pare impossibile. Io pur instando che da me era fatto quello che m’aparteneva, ma che li carri senza loro agiuto, et authorità non li potevo trovare, si rissolse unitamente che s’havesse a tenere uno di questi modi. Primo di scrivere a Spira38, Magonza39, et altrove, acciò che ogni uno in questo servitio di Nostro Signore s’impiegasse a trovare, uno o dui, ò quello che potesse, nel quale poccho si spera, perche quasi si tiene per certo che non faranno altro. Il secondo mandar nelle Città anchor che non sogette, e cercar con il buono indurli adar li carri, quando che non pigliarli perforza. Il terzo saria promettere a quello di Virtemberg40 che conducendo queste robbe a Monacho, ivi poi soli daria commodità per il ritorno caricar sale, ma non si sà di certo, se sua altezza lo permetterà. Perche pur s’è data l’istessa parola a quelli che conducono l’altegliaria che passano li cento. E non si sà se vi sarà tanto del sale, e noi non habbiamo di bisogno forse trenta. E già che il Signor Conte è per andar a Ratisbona dice che cercherà d’indure il Duca à contentarsi. E nell’andar farà diligenza dove li trovera e li mandera. È cosi hà fatto far ordine per molte città acciò provedano. Quello che seguirà [f. 4r] anchor non si sà, ma credo che loro faranno il possibile per trovarli. Io frà tanto m’andero sbrigando, e se si sgelerà niente il Necar41 li manderò contr’acqua a Vinfen, dove farr** la radunanza delli carri, le quale sebene è città Imperiale, non dimeno il presidio è del Signor Duca di Baviera, et intorno per tutti quelli paesi sono soldati di Sua Altezza. Io insin’hora sarei poccho men che sbrigato, e quasi in ordine se 38
Es handelt sich um Speyer. Es handelt sich um Mainz. 40 Es handelt sich um Baden-Würtemberg. 41 Es handelt sich um den Fluss Neckar. ** Lücke im Papier. 39
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fossero li carri. Ma essendomi mostrato nel castello la Bibliotheca privata del Conte dove sono molti libri di molto buona anchor che di non pretiosa ligatura, e parecchi libri manuscritti belli, et antichi mi sono sfacciato a domandargliela per unirla con quest’altra, e m’andai si maneggiando nel mio parlare, e raggioni che mi concesse che io la pigliassi, et in conformità di ciò ordinò a chi teneva le chiavi che me la consegnasse. Andai subito a pigliar il possesso, e già hò dato la legna per far le casse. Cosi anchora vedendo molti quadri, dove erano varie effigie delli Conti, e Contesse Palatine vecchie domandai se fosse possibile me ne fosse fatta parte, acciò in memoria di tal fatto si mettessero dove erano detti libri, ordinò che pigliassi quel che mi pareva. Troppo m’aggirai fra li quadri, ma li trovai manchi, perche uno il di inanzi era entrato è fattosene scielta. Pure vidi alcune teste d’Imperatori che anc mi parevano assai buone, e belle, e potria essere che mi gabassi. Provai staccharne una dalle cornice per volglierla, e subito per l’antichita la tela si rompeva in minutissimi pezzetti come se fosse hostia, e cosi mi rissolsi lasciarli. Pigliarò però alcuni Palatini vecchi, e li primi di questa casa li quali credo che non faranno simil effetto, e sono curiose da vedere per la varietà dell’habiti. Mi si conteranno qui per ordine del Signor Tilli li mille toleri, li quali già si sono cominciati aspendere e si tiene conto. Et io farò l’ordine al Signor Cosmo Sini, che li paghi a Monacho. Dove desidererei di ritrovar l’altra rimessa acciò senza molto tardare potessi proseguire il mio viaggio. Domani il Signor Conte si parte per Ratsibona, questa sera li hò parlato, et hò già statuito il modo che hà da tenere il Signor Henrico di Metternich Decano di Vinfen per trovare li carri, il quale userà ogni diligenza, si come hà fatto il tutto il rimanente, che certo senon fosse stato questa persona, io non haverei possuto insin’hora far niente del fatto mio. Esso con le sue persone et animali hà mandato qua in la molte e molte leghe lontano, per trovar canavazzo, paglia, stuppa per far le corde et altre cose neccessarie. Di più hà trovato, et forzato li maestri che lavorassero. E dove sono manchate le tavole esso le hà soministrate di quelle del Castello, e tutta via s’affaticha di procurar che li libri tolti dalla Libraria si restituiscano. Il Signor Conte nel suo raggionamento doi, e tre volte espressamente m’ha detto che sarebbe bene che io scrivessi a Vostra Signoria Illustrissima eli proponessi questo soggetto, acciò lo favorisca apresso Nostro Signore per esser riconosciuto, perche in questa guerra, e conquisto del palatinato hà fatto più solo lui, che molti e molti altri, e con l’arme, e con la prudenza. Intanto che di questo stato si rimette alui in ogni cosa il maneggio. E che di più era persona nobile, per esser parente, e nepote dell’Arcivescovo di Treveri42. Queste et altre cose simili mi torno ad inculcare tre volte in più raggionamenti l’istesso di. Io scrivo questa cosa a Vostra Signoria Illustrissima per haver cognosciuto che in beneficar questo si farebbe cosa gratissima al Signor Conte, tanto più che questo è alievo di questa Santa Sede, [f. 4v] per esser stato alunno del Collegio Germanico, qui tutta via si va dubidando della restitutione et il Signor Conte m’hà detto, che se questo succedesse sarebbe infalibilmente l’ultima ruina della religione in queste parti. Et il suo desiderio sarebbe che si come questa Città è stata la principal causa di tutte l’heresie di Germania, cosi anchora 42 Lothar von Metternich (8. VIII. 1551-7. IX. 1623; Bischof: 13. X. 1599); vgl. DBETK II (2005) S. 927-928; NDB 15 (1987) S. 225-227.
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dovesse rimaner schola delli Catholici perche da questo solo dependerebbe l’estirpatione di tutte l’heresie di queste parti. La sospensione delle armi già è seguita, e levato l’assedio di Fracandal per ordine dell’Infanta43. Il quale non haverebbe havuto difficoltà di pigliar esso Conte. E lo potrà havere ogni volta che se gli comanderà sono poi le copie delle lettere del Re di Spagna44 all’infanta sopra questo negotio. Cose che tutte accrescono la sospittione. Io in ogni modo lavoro come se s’havesse da fare d’hora in hora questa restitutione e mi sbrigherò prestissimo, se li carri non mi tratengono. Li fò humilissima reverenza da Hildebergha li 16 di Gennaro 1623. Questa è la terza lettera che scrivo da Hildebergha. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 5rv [n. 3] Con l’ultima mia ho dato minutissimo conto del raggionamento havuto col Signor Conte de Tilli, e dell’ordini per la cosa della Libraria. Questa servirà per esprimer il seguito dall’hora in quà. Io da canto mio sono spedito, et in ordine di partirmi hora, per hora, ne mi rimane cosa che mi possa dar tratenimento. Perche li libri da portarsi sono tutti incassati, le casse vestite, e ligate, e poste a luogho fuor della Libraria, d’onde facilmente si potranno carricare. E questo tanto per la libraria publica che stà nella Città, quanto per la privata che stà nel Castello, che di quella anchora mi trovo disbrigato. Ne posso dir quanto gusto ne sento d’haverla chiesta, et havuta tanto ci hò trovato delli manuscritti, e dicose anchora che rilievano. Hò trovato assai più di quello che m’imaginavo. Iddio sia quello che mi feliciti per l’avenire, come in questo m’hà fatto somma gratia. Doppo la partità del Signor Conte da Hidelberga per Ratisbona, hò procurato che si eseguissero i suoi ordini alle Città per trovare i carri li quali ordini furno rigorosissimi, et accompagnati con lettere del Governatore, et io mi credevo che in tant’abondanza di Città, e territorio, se ne fosse possuto havere sopra il bisogno. Ma al fine sono tornati li ordini, è carro non è venuto nissuno. Perche si dice che veramente non ne siano. Hò scritto per qualche agiuto sopra di cio al Vescovo di Spira45, all’Arcivescovo di Magonza46, al Luogotenente dell’ordine Theutonico, ed altri; insino al campo delli Spagnuoli, pregandoli sommamente che di gratia vedessero di trovar tre, doi, uno. Non è stato 43 Vermutlich ein Hinweis auf Elisabeth (Isabella Clara; 12. VIII. 1566-1. XII. 1633; ab 8. V. 1598 mit Albrecht VI. von Österreich verheiratet und führte ab 1621 als Infantin die Regierungsgeschäfte); vgl. C. WURZBACH, Biographisches Lexikon des Kaiserthums Oesterreich, enthaltend die Lebensskizzen der denkwürdigen Personen, welche seit 1750 in den österreichischen Kronländern geboren wurden oder darin gelebt und gewirkt haben, VI, Wien 1860, S. 177-178. 44 Philipp IV. (8. IV. 1605-17. IX. 1665; ab 1621 König); vgl. WURZBACH, Biographisches Lexikon VII (1861) S. 122-125. 45 Philipp Christoph von Soetern (11. XII. 1567-7. II. 1652; Bischof: 9. XII. 1609); vgl. DBETK II (2005) S. 1263. 46 Johann Schweikhard von Kronenburg (15. VII. 1553-17. IX. 1626; Bischof: 2. VIII. 1604); vgl. DBETK II (2005) S. 1240.
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possibile. Hò ricevuto carta per carta. In tanto che secondo vedo questa cosa non si potra mai arrivare. Perche oltre la carestia, che non si può negare che sia, sono li Commissarij Generali dell’Altezza di Baviera che vanno raccogliendo assolutamente, tutti li cavalli per mandar l’Altegliaria a Monacho che ne tenghono impediti passa cinquecento, e gia vanno mettendo li altri in ordine. E se in qualche presidio de soldati, è qualche d’uno sene servono i capitani, e colonelli, per mandar via robba. Intanto che io rimangho fuor d’ogni speranza di poterli havere, perche non posso procedere manu regia, come fanno loro. E tali pregho, mi dicono esser impossibile, e che loro faranno, e diranno, fra tanto li mettono insieme per altro. Intanto che sono rissoluto di scrivere al Signor Duca, et esporli quanto passa, forsi si moverà a dar qualch’ordine. Perche io ne vuoglio cavar le mani, stimando ogni mio tratenimento esser dannoso, gia che publicamente si dice che il Palatino arrabia più per la perdita di questa libraria che di tutto il resto del stato, non potendo patire che s’habbia da condurre [f. 5v] a Roma. A me mi pare più espediente per hora e mi sono anchora consultato con questi Signori già che non si può havere questi carri, condur le casse alla fortezza di Spira et ivi assicurarli, frà tanto scrivere all’Arciduca Leopoldo, che mi favorisca d’un passa porto, dove dica che queste robbe sono sue, e per ciò comandi alli suoi soldati secondo il bisogno che l’accompagnino. Il che havuto l’imbarcherò nel Reno contr’acqua e li condurò sino a Brisach47 dove sta il detto Arciduca, insino qui sempre si passa per paesi d’amici, e loro soldati, ne ci sarebbe cosa, che potesse ostarre senon Argentina48, ma dove è il passa porto, tutti mi dicono, e m’assicurano, che non impedirano il passo. Da Brisach poi mi governerei secondo l’opportunità, dove credo arivato d’haverli assicurati, essendo sù il Tirolo, ne nissuno mi forza passer per Basilea. Questo camino pare lungho, ma è di minor spesa perche si conduce per acqua, è più securo perche non s’hà da passare se non per una sola Città inimica che è Argentina, dove se s’havesse da far per Augusta49 ò Monacho, s’haveria da passar per più di quatro paesi d’inimici, e perfidi, delli quali l’huomo non si può fidare niente. è più solecito, perche in tutto quello tempo, che bisogna che s’aspettano a unirsi detti carri, i quali forse ne ancho mai si uniriano io saria sul Milanese. Pure considerato meglio, e mi consiglierò di quello che hò da fare per eseguire presto è securo senza risparmiar faticha. E per far meglio ciò domani, ò posdomani anderò di persona al Vescovo di Spira se pur haverò commodità di cavalli, et aviserò il tutto. Quà non siamo securi di mandar una lettera, che vengano quasi tutti intercette. E non passa di che non piglino qualcheduno di quelli cheli porta, per ciò temo d’estendermi in dar particolar notitia di qualche cosa, acciò non vengha incognitione delli altri. Li fò humilissima reverenza da Hidelberga li 26 di Gennaro 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio
47
Es handelt sich um Breisach am Rhein. Es handelt sich um Straßburg. 49 Es handelt sich um Augsburg. 48
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f. 6r [n. 4] Con questo ordinario haveria da scriver più, e più cose a Vostra Signoria Illustrissima intorno al negotio che si tratta ma sono tanto castigato da questi, che non posso scriver cosa nissuna, poiche tutte le lettere venghono intercette, e da dieci, ò dodeci corrieri che si mandano, non torna a mala pena uno, e quello anchora e maltrattato, e spogliato. Ne io haverei a caro per adesso che qualche inimico mentre io son qui sapesse li fatti miei. Questa solo servirà per aviso, che le cose di qua tutte sono accommodate, e van bene, et io hò havuto quanto hò saputo cercare, ne hò cercato se non libri, ò cosa appartenente a libri. M’è stata data buona intentione di carri, e già mi sono accordato per la vettura. Il modo, e quanto, et altri seguiti mi riservo di scriver fra pocchi di d’altro luogho, d’onde potro scrivere minutissimamente ogni cosa. Se bene anchora hò scritto una buonissima parte a Vostra Signoria Illustrissima non sò se haverà ricevute le lettere. Non perdo tempo e solecito, intanto che per me non mancherà. E li fò humilissima reverenza. Da Hidelberga li 10 di febraro 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilisimo Servitore Leone Allacio f. 9r [n. 5] Questa sera sono in Elvan50 con le robbe, e quasi mezzo assicurato perche mi trovo in paesi di Catolici. Ne hò da passare più per heretici, se non un loco solo. Se Iddio m’agiuterà lò passerò. Questi tra di sono stato in continuo pericolo, poiche m’è bisognato pigliar il camino per il paese d’inimici, et ivi alloggiare la sera. E tanto più mi si cresceva il pericolo, quanto che il bibliothecario Grutero51 si stava in Tubinga città di Virtemberg per dove io pigliavo il camino, che haverebbe possuto di facile movere quello prencipe inimico a tentar, ò innovar qualche cosa. Hò fatto la mia diligenza, e con l’agiuto delli soldati sono passato securo. Il Signor Preposito d’Elvan si come m’hà provisto delli carri delli suoi sudditi, per questo negotio, cosi anchora mi favorisce, e promette di non mancharmi insin’al fine. Certo hà fatto assai, poiche senon fosse stato esso io sarei anchora in Hidelberga, ò mi sarebbe bisognato, che io contr’acqua per il Rheno havesse pigliato il camino, cosa longissima, e fastidiosissima. Adesso camino a gran giornate, e secondo che mi si concede dalli carri e spero frà sei, o sette giorni, esser a Monacho, d’onde mi sbrigherò quanto prima, e m’invierò verso il Tirolo, e la Voltellina. E li fò humilissima reverenza. Da Elvan li 26 di Febraro 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 10r [n. 6] La Libraria e a Monacho sana, e salva doi di fà. Hò scritto a Sua Altezza in Ratisbona e supplicatala che volesse concedere facoltà alli Carrettieri di poter estraere 50 51
Es handelt sich um Ellwangen in Baden-Württemberg. Jan Gruter (3. XII. 1560-20. IX. 1627); vgl. NDB 7 (1966) 238-240.
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la biava da Baviera per il Tirolo dove e grandissima carestia, che altrimente saria impossibile che volesse venire alcuno. Fra tanto viene l’ordine io incasserò li libri che qui lasciai, e farò rissarcire le casse venute da Hidelberga che hanno un poccho mal partito. Mi credevo di trovar qualche rimessa di denari qui in Monacho per pagar in parte la condotta da Hidelberga e sodisfar aqualche altro debito che hò fatto. Non hò trovato niente, intanto che bisogna che viva su il credito. Supplico Vostra Signoria Illustrissima di favorirmi del denaro, della cui quantità io non posso sapere cosa certa, ne mancho altri pratichi di queste cose, si per la carestia estrema, si per la mutatione di tutte le cose. Io però non mi movo a nissuna cosa senza il conseglio di quelli che maneggiano queste cose. E con tutti li avanzi che si ponno havere. E li fò humilissima reverenza. Da Monacho il primo di Marzo 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio ff. 11r-12v [n. 7] Alli 6 di Marzo hò ricevuta una di Vostra Signoria Illustrissima scritta delli 18. di Febraro, dove mi dice da Hidelberga non haver ricevute delle mie lettere senon doi, anchor che io dica che sia la terza, non mi meraviglio che l’altra non sia capitata, ma mi meraviglio come siano capitate queste, tanti sono stati li sospetti e tante le difficolta, in mandar secura una lettera. Poiche non solo io ma tutti questi Signori con tanti, e tanti Corrieri che mandavano, non potevano assicurare senon pocchissime. Io sempre hò scritto, et in particolare quando occorreva qualche cosa di nuovo e l’ho consegnato a persone secure, e che erano d’authorità se poi sono capitate male io non hò colpa nissuna. E quello istesso che patirno queste lettere di qua nel venir a Roma patirno quelle di Roma nel venir in Hidelberga. Perche in tutto quel tempo che io son stato là non hò ricevuta senon una sola di Vostra Signoria Illustrissima scrittami delli 12 di Novembre del 1622. E l’hò ricevuta alli 14 di Febraro mandatami da Ratisbona, et un’altra simile quatro di fà qui in Monacho. Per il che son stato molte vuolte in grandissima confusione non sapendo ne che rissolvere, ne che fare. E queste sole pero quelle lettere che di Roma sono venute in Hidelberga, e nissun’altra ne di Vostra Signoria Illustrissima ne d’altri. Ne posso credere che in tanto tempo non m’habbia scritto nissuno da Roma. Hò visto quello che in essa si contiene dell’ordine di mill’altri toleri. Hò scritto in Augusta che mi si rimettano, eserviranno per pagar li debiti che hò fatto tanto per metter in ordine la Bibliotheca incassarla, quando per la spesa della condotta è convoia insin’a Monacho. Ringratio poi infinitamente Vostra Signoria Illustrissima del favore che s’hà degnato farmi in quell’istesse lettere dove scrive che non lasci manchare il denaro ne a me, ne al negotio, che in verità n’havevo di bisogno, e gia mi trovavo intrigato, et andavo cercando qualche persona che m’imprestasse un poccho di moneta per il mio vitto, e viaggio. Anchora [f. 11v] aspetto la risposta di Sua Altezza senza la quale io non mi posso partire perche m’è neccessaria la facolta di poter estrahere la biava perl’animali nel Tirolo dove è grandissima carestia, e senza quella non sarebbe chi volesse movere un passo. Hò unito li altri libri che erano rimasti qui, e sono tre casse, e già no trattando con li mercanti per la condotta con ogni avantaggio
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per la camera insino al Milanese, per portermi servire della Commodita dell’acqua. Se bene mi si propone qualche pericolo per la neve che s’incomincia li que fare nelle montagne della Voltellina52, che dicono che alle vuolte sono rimasti cento, e doicento cavalli con tutti quelli che li conducevano. Non m’atterisco, perche sò che Iddio agiuta la sua causa, e perciò solecito quanto posso, che non vedo l’hora esser a Roma. Per il Tirolo si caminerà securo, perche non vi sarà tanto impedimento delle nevi. Et io quando ero in Hidelberga hò havuto questa avertenza di scriver al Serenissimo Arciduca Leopoldo che si trovava all’hora a Brisach, dove li cercavo il suo agiuto, e favore, poiche mi credevo di far il viaggio contr’acqua per il Rheno nei suoi stati, e li ricercavo che m’assicurasse il passo d’Argentina, dove e non senza causa sospettavo di trovar intoppo. Quello Signore mi promisse ogni cosa, e mi mando il passaporto amplissimo, dove senza nominar me ne altri, dice solo queste robbe esser dell’Imperatore53, e sue e perciò da tutti dover esser agiutate in ogni modo e servate franche. Non feci quel viaggio, perche inanzi che venisse la risposta io havevo concluso il partito con quelli d’elvan, disuaso anchora da Monsignor di Spira, che giudicava quest’altro e più presto, e più securo. Intanto che con questo passaporto non hò paura d’haver molestia da nissuno. È vero che il Signor Preposito d’elvan hà mandato vinti carri a Necrosulmo54, che tanti bastavano per condur le casse a Monacho ma s’è pagato molto bene, et hà voluto il suo avanzo nel caricare il sale in Baviera [f. 12r] che si guadagna il doppio. E se questo non li fosse stato promesso haveria fatto l’orechie sorde, come faceva per il passato. Poiche più di quoranta giorni inanzi, si tratto con esso lui questo negotio dal Signor Conte di Tilli, e sempre l’ando prolongando insin’a questa promessa. Li suoi villani l’hà accordati per tre toleri il censo, e lui ha voluto pagato da me tre toleri, e tre terzi. M’e bisognato bevere, ò affogare, che non vi era altra commodita, la quale fù bonissima per questo effetto per non esserci altra. L’indusse a ciò fare il Signor Conte di Tilli, quando passo per quel stato, et andava a Ratisbona, e di nuovo nel ritorno lo sforzo con l’autorità, e l’eletto con la promessa di far lo caricare sale a Monacho. Che difficilmente si concede. E questo melo scrisse il Signor Conte da Ratisbona, e da Hornich Mospach55. E questo Signor Preposito per interesse di poccho conto de suoi sudditi fece che io mi trovassi in un grande impiccio. Perche mi promisse di darmi soldati insino al stato del Duca, mentre havevo da passare per luoghi heretici, e sospetti, e cosi mi fé licentiare tutta la gente di Sua Altezza inanzi che arrivassero al stato suo. Quando poi sono sopra Neslinghen56 Città libera dell’Imperio, dove sono tutti Luterani, e Calvinisti, e le genti sono, secondo che m’informorno in Hidelberga, acciò io mi guardassi, inique e perfide, mi dicono li soldati che si volevano tornare perche non potevano intrare in quel stato, altrimente sarebbono stati presi, e carcerati. Pensi Vostra Signoria Illustrissima, come io mi trovassi all’hora, in paese d’inimici senza agiuto, e senza compagno. Ne mi volse gridar, e 52
Es handelt sich um das Veltlin (Tal der Adda mit Seitentälern). Ferdinand II. (9. VII. 1578-15. II. 1637; Kaiser ab 1619), vgl. NDB 5 (1961) S. 83-85. 54 Es handel sich um Neckarsulm in der Nähe von Stuttgart. 55 Zu Heinrich Mospach konnte kein Hinweis gefunden werden. 56 Es handelt sich um Esslingen am Neckar. 53
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protestar che loro non vollero venir più inanzi. Dove se fossero stati li soldati di Sua Altezza sarebbono intrati nella Città, e passati. E tutto questo tratto mi fé non per altro solo acciò non intrassero li soldati di Baviera nel suo stato, e pigliassero qualche gallina alli suoi villani. E per questo poccho interesse hà voluto che io a rissicassi, e ponessi in man d’inimici tutta la libraria. Ringratio Iddio che la cosa è passata bene; [f. 12v] quando che non, non so se esso haveria rifatto questo danno irreparabile, in cose così zelose, che quando quello m’havesse esposto, e promesso il vero io mi sarei provisto in altra maniera, come mi son provisto in tutte le altre cose. Hò scritto questo per significar quelli che m’hanno agiutato nel negotio, et in che maniera si sono adoperati nel servitio di Nostro Signore. Con questi libri della Libraria Palatina venghono anchora li libri manuscritti del Collegio della Sapienza57 che sono stati parecchi, et antiquissimi. Li hò acquistati non senza qualche travaglio, perche bisogno che io negotiassi con li professori di quel studio, e con l’università d’Hidelberga la quale n’era patrona, tutti calvinisti pessimi, et atroci inimici del nome Pontificio, e che gia arrabbiavano e per quell’altra che se li levava. Me l’hanno dati. Et io in ricompensa del servitio fatto li hò dati altri libri stampati della libraria publica, li quali mi conveniva lasciar in Hidelberga, e di pocco conto. Siamo rimasti tutti doi contenti cosi, io con li manuscritti, quelli con li stampati. Mi dispiace che non habbia possuto haver nova d’altri libri manuscritti in quelli paesi, perche mi dice l’animo che l’haverei impetrati dalli Patroni. Il tempo e la solecitudine non mi concedeva mancho più. Non mancherò per l’avvenire d’avisare Vostra Signoria Illustrissima delli luoghi dove si potra il successo del negotio. M’affretto quanto più posso. E li fò humilissima reverenza. Da Monacho li 8. Marzo 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio. ff. 15r-17v [n. 8] Alli 9 del presente per via di Ratisbona mi sono state mandate due di Vostra Signoria Illustrissima l’una delli 4 di Febraro, l’altra delli 11. Hò letto attentamente quello che mi s’ordinava, e fattone reflessione per potermene poi valere nell’occasioni. Quando ero in Hidelberga più vuolte col Signor Governatore consultammo sopra questo negotio, di quello che s’havesse da fare delli libri heretici, e convenivamo in questo d’abbrucciarli, e già si sarebbe eseguito. Ma vedendo la malvagità di Cittadini et il non potersi in tutto fidare nelli soldati, la maggior parte delli quali erano heretici, giudicammo meglio per all’hora il trattenersi. Tanto più che a me mentre tenevo la libraria in Hidelberga non riuscivano li tumulti per ogni cosa che potesse nascere. Et io per dir la verità non volevo che altri havesse pigliato esempio, et havesse tentato nelli miei libri, quello che io havevo fatto in quelli d’altri. Il che sarebbe stato cosa facile, perche li libri bisognava che stessero in Chiesa, per non capir nella Sacrestia, et erano più pericolosi per la paglia, che li era legata intorno. E questo fù il maggior travaglio che m’habbia havuto in queste parti non solo in Hidelberga, ma anchora nel viaggio quando tornavo, il dubio che qualche d’uno 57
Hinweis auf die 1386 gegründete Universität von Heidelberg.
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non li desse fuocho e cosi più vuolte di notte andavo avisitarli. Adesso che sono assicurati questi, si può ordinare di quell’altri quello che commanderà Vostra Signoria Illustrissima che s’eseguirà. Perche io non li hò consegnati in poter di nissuno, acciò n’habbia a disponere, ma sigillate tutte le porte col mio sigillo hò consegnate le chiavi di esse al Signor Governatore che li tengha ad instanza di Nostro Signore mi duole non haver possuto esser io instromento di questo incendio in honore di Dio. Se bene mi consolo che quelli che hò lasciati li hò talmente strapazzati, delli legati parlo, e posti in confusione li sciolti, che non pare più libraria ma ruina. Hò mandato a male doi libri sciolti heretici che essi da tutte le parti del mondo andavano raccogliendo, e che non havevano havuto tempo di farli legare passa la valuta di molte e molte migliaia di Tolleri, tanti ne erano. E li hò talmente aconci, che sarà impossibile che mai più sene possa mettere uno insieme. Di queste carte disperse n’hò data una buona parte a molti soldati per quando carichano li loro moschetti, et in questi fredi eccessivi molti delli legati di di, e di notte m’hanno tenuta calda la stufa. Delli manuscritti ò sia stato d’heretici, ò di Catolici non è andato male nissuno, ma tutti se ne vengono alli piedi di Nostro Signore acciò sentano la loro sentenza. Et in questo n’hò havuto gusto particolare, perche si vede [f. 15v] l’infamia di questi manigoldi. Io credo che in lingua Italiana ò latina pocche pasquinate siano fatte contro la Chiesa, ò contro il Sommo Pontefice che non siano state raccolte qui. L’hò poste tutte insieme, e se venghono a Roma, cosi anchora molti e molti avisi e molte lettere le quali l’hò trovate non solo nella Bibliotheca publica ma nella privata del Palatino. Nella scielta delli libri stampati hò havuto riguardo alli authori più segnalati, alle materie più curiose, alle stampe più belle, e forestiere, e se fra questi fosse alcuno stampato in carta pecora che sono stati parecchi. Et in quelli delli heretici alli più antichi, li quali secondo che mi si riferiva dall’istessi heretici l’havevano più, e più vuolte mutati nelle altre edizioni. E dove in questi libri trovavo sottoscritto il nome dell’authore di propria mano, Che presentava quel libro, ò al palatino ò ad altra persona, perche mi pareva che quel libro havesse fede, come se fosse l’originale dell’istesso authore l’hò condotto meco e di questi hò trovato assai. Li altri l’hò lasciati insieme con quelli delli Catholici, accio si habbia da eseguire quello che se li ordinerà. Il sgravamento delle coperte, e delle Catene estato tutto neccessario, poiche importava tanto e con l’occupar il luogho, et il peso, che se si fosse fatto altrimenti saria stata impossibile la condotta. Poiche importava tanto quanto li doi terzi delli libri che meco conduco e per mia curiosità hò posto da parte tutte quelle coperte per veder quanto luogho occupavano, e quanto pesavano, e trovai che non bastavano mancho tredici Carri, e fù giudicato che pesassero passa doicento centinaia. Dove pero là coperta non era di troppo peso e haveva l’arme del Palatino, ò era fatta d’avorio58, ò con figure mi è parso meglio di portarli più presto con le coperte che lasciarli, e di questi saranno stati pochissimi. Le casse hò cercato che fossero in modo che doi di loro fossero giusto peso d’una mula, ma non s’e possuto in tutto servar questa misura parte per il mancamento delle tavole che non erano abastanti, e bisognava che di quelli che fossero se ne servissimo come erano, ò grandi, ò piccole. E cosi ne mancho bastavano, onde mi 58
Es handelt sich um das Lorscher Evangeliar: Pal. lat. 50.
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bisogno che guastassi. Li dipartimenti di detta Bibliotheca fatti di tavola, e che le separavano dalla Chiesa e cosi in un’ istesso tempo hò soccorso mè, e restituito alla Chiesa il suo pristino vaso che era stato impedito da costoro per far questa Bibliotheca. Se bene è stato qualcheduno che mostro de non haverlo a caso. Non meno son curato, hò cercato il fatto mio. Le casse le [f. 16r] volevo vestire col canavazzo impegolato. Ma non lo trovando, ne essendo commodita di farlo di nuovo per mancamento della resina, e della pece e quando fosse stata la commodità la spesa era intolerabile che non mi bastavano seicento ò settecento tolleri. Col conseglio di qualche praticho s’ è rissoluto intorno intorno** alle casse far un strato di paglia lungha, alto tre ò quatro detta, e poi cuscirvi sù il canavazzo, e legarlo con funi forti e cosi sarebbon state assicurate dall’acqua. Non dimeno s’è usato questo che dove le tavole pareva che non s’unissero bene si poneva la stuppa, e sopra quella la pece. M’hanno assicurato che quello basterebbe, e da quello che hò visto in sin’hora, anchora ame pare che basterà. S’anderà rimediando di mano in mano secondo il bisogno. Le casse piene sempre stavano in libraria insino che fossero inchiodate, il che si faceva in mia presenza, e da un solo, non volendomi in questo fidar d’altri. Cosi poi si calavano giù nella Chiesa, si rimettavano dentro in una cancellata di ferro indietro il Choro et ivi s’accommodava il resto non permettendo che intrasse nissun’altro se non il Maestro et un soldato chel’agiutava. Essendo in ordine ogni cosa, vedendo che carri non si potevano havere dopo tutte le diligenze usate, et ordini mandati dal Signor Conte, e considerando che si trattava dell’impossibile, mi fù proposta la via per il Rheno contr’acqua. Per mia maggior cautela andai a Spira e parlatone di questo negotio col Monsignor e discorso delli pericoli che v’erano, et in particolare d’Argentina, dove erano concorsi li peggiori Calvinisti che fossero in Hidelberga, si determino che si scrivesse all’Arciduca Leopoldo di questo negotio. Fra questo che s’aspettava la risposta venne quello di Elvan col quale accordai il partito insino a Monacho. E questo col Consiglio di Monsignor di Spira al quale havevo scritto sopra questo negotio per saper appigliarmi al meglio. E per facilitare e solecitare questo rimasimo d’appuntamento, che fra tanto esso andava a Elvan. E se ne tornava, io haverei anticipato camino, e mi sarei conferito con le casse a Necrosulmo. Con questo ordine quello si parti. Io a procurar qualche carretta. Se ne trovorno al quanti con li cavalli tanto stracchi che non potevano tirare a Mala pena due casse, ne meno bastavano. Iddio che sempre favori questa causa fece che in quell’istesso di, venissero carri diciotto del Aëlbron59 Città inimica che portavano vino, et altre bagattelle. Con preghiere l’indussero a [f. 16v] condur alcune casse. E cosi in una vuolta tutte insieme, il che mai m’haveria creduto conl’agiuto dell’istessi inimici uscirno da Heidelberg. Li carri fra piccioli, e grandi erano al numero di quoranta otto, se bene era una decina che non portava senon due casse. Era una bellezza di videre nella campagna li carri, e li soldati che l’accompagnavano o pareva un’esercito che marciasse insino a Necrosulmo posimo tre di, per le strade triste e per li cavalli stracchi che non potevano tirare. Sempre stemo male e di di e di notte, di di per li pessimi tempi, di notte pernon esser ne pane, ne altro per noi, ** “intorno” zweimal geschrieben. 59 Es handelt sich um Heilbronn in der Nähe von Stuttgart.
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ne biava ne paglia perli cavalli. L’ultimo di anticipamo un poccho il luoghotenente delli soldati et io, e doi servitori, per far che Necrosulmo si preparasse il luogho per le casse, e mentre credevamo andar per la via dritta, che per la neve non si discerneva troppo la strada, oltre le cadute con tutti li cavalli dentro le fosse delle nevi, che ogni cosa pareva piana, smarrimo il viaggio, et in cambio di Necrosulmo trovammo un’altra terra dove era il presidio del Duca di Virtemberg inimico vicino Aelbron. Ne cen’ accorsimo se non quando eravamo dentro le sbarre nell’intrar la porta. Non sò come quelli si scopersero nel parlare esser di Virtembergh. Senza più aspettar io fatto cenno al mio servitore, perche portavamo un poccho di moneta saltamo le sbarre, et a fugire per quelle campagne. Li nimici fra tanto si rissolvevano che cosa fosse, e che dovevano fare, ò avisare dentro la terra, avanzamo un poccho di camino et hebbino che fare, e che caminare per arrivar nella strada dritta, sempre dubitando di qualche Imboscata, e traboccando con li cavalli dentro le fosse delle nevi. Un villano dell’inimici a forza per minaccia ce ne caricò, e ci pose su la strada di Necrosulmo. Procurai che si desse l’ordine a Necar al barcaruolo che passasse li carri li quali havevano fatto un’altra via. E cosi tutti insieme arrivamo a Necrosulmo. Dove aspettai li carri d’Elvan insino a Sabbato. Coi quali Domenica mattina a buonissim’hora con cento cavalli in arme e cento moschettieri che perciò erano venuti in quelle parti caminamo per il paese di Virtemberg. Tutte quelle terre, e città davano aviso, facevano fuochi, e sparavano. Io credo che s’imaginavano che fosse un’esercito fornito d’inimici. Nelli casali passavamo per mezzo, nelle terre murate non ci volevano ricevere se non a patti, che l’huomini a cavallo stessero fuora. Ma li carri passassero per dentro con cinquanta Moschettieri li altri andassero di fuora dove [f. 17r] non era strada sufficiente per li carri la sera perche non si poteva andar più inanzi ci fermamo in un casale piccolo di Virtemberg, cioè li carri, e li pedoni. Li cavalli passorno inanzi in un altro casale, e perche non era sufficiente si spartirno, et una parte ando in un casale bello quanto possa essere di Mansfelt60, dove il capitano dette ordine che stassero allegramente, e non si lasciassero mal patire. Fù più la robba che buttorno, e mandorno a male che quella che mangiorno. Non ci rimase gallina, ne piccioni il vino lasse pensare a simil gente. Li altri soldati furo provisti da quelli di Virtemberg in ogni cosa. Quello di Holach61 mando doi, e tre a pregar il Capitano delli soldati, che per amor d’Iddio havesse riguardo. Tutti passorno commodamente fuor che il Casale di Mansfelt, il quale non fù posto a fuocho, ma hebbe tutti li altri mali, intanto che l’inimici hanno a dispetto loro nudrito li soldati, e cavalli che guardavano, e conducevano questo tesoro a Nostro Signore. L’altro di tutto si camino per il paese del detto prencipe allegramente, e per quello d’Ala62, insino a Damberg63, da Damberg a Elvan il terzo di, e cosi proseguimo insino a Monacho senza però li soldati che si lasciorno come in un’ altra mia l’accennai. M’hò fatto rimettere li altri mille tolleri li quali bastano 60 Peter Ernst von Mansfeld (1580-29. XI. 1626) Heerführer auf der Seite des Kurfürsten Friedrich V. von der Pfalz; cfr NDB 16 (1990), pp. 80-81. 61 Es handelt sich um die Grafschaft (Dorf) Holach oder Hohenlohe in Württemberg. 62 Es handelt sich um die Stadt Aalen, sog. Tor zur Schwäbischen Alp. 63 Es handelt sich um die Ortschaft Damberg in Adelsheim im Kreis Neckar-Odenwald.
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insino a Monacho. Perche quelli di Elvan da Necrosulmo insino a Monacho hanno vuolsuto poccho men che mille doicento li altri sono spesi in metter in ordine la libraria, e condotta da Hidelberga a Necrosulmo, e qualche regalo alli soldati. Poccho ò niente mi resta adesso con questi tolleri posso uscir di debito ma mi vo trattenendo in pagar per servirmene per il resto del viaggio insino che posso, poiche voglono tanto per cento che pare cosa incredibile et insin a quest’hora hò contrastato con quello che sta qua in Monacho per li Signori Antonio Bonivieni e cosmo Sini64 il quale s’era offerto di far questa Condotta e non vuole mancho che nove tolleri il cento, io l’hò offerto otto in sin’al lago di como. Non vuoglino in nissun modo. Cercherò per altra via se potro facilitare questo negotio, e che gia sto su questo. Il quale sarebbe sbrigato, se non fosse stata la dardanza della facolta d’hestrahere biava da Baviera, la quale non è gionta, et hò scritto gia quatro vuolte a Signor Aurelio Gigli in Ratisbona65 non m’hà risposto cosa nissuna, e pur doveva rispondere, et il tempo lo comportava, che hò la facoltà s’havrebbe, ò non, ò che si trattava il ne / [f. 17v] gotio, quando che non s’haveria ricesco altra via. M’ha tenuto sospeso insin’hora e non m’hà rissoluto niente. Talmente che son rissoluto se mi posso accommodare per la condotta partirmi, che è quello che importa, e non curarmi d’altro. Perche ogni hora che tardo ò ogni momento sempre m’accresce nova difficoltà, e novo dispendio mandato un Corriero a posta di nuovo a Ratisbona, e poi hò eseguito il debito mio ne son obligato ad altro perche mentre camino, e porto meco la libraria mi pare d’haver sodisfatto a pieno ad ogni cosa, ne io hò da attendere ad altro che a questo. Con l’altra avisero a Vostra Signoria Illustrissima del successo, e spero anchora, se pero non mi s’atraversasse ogni cosa della partita. A quest’hora perche vedevo che le cose andavano a lungho, e le difficoltà crescevano, et ogni momento cresceva la carestia, e s’incarivano le cose, e per mia maggior fortuna s’atraversava la fiera di Bolzano, che tiene impedita una buona quantità di carri, e la rissolutione di Ratisbona non viene, et io non posso più aspettare, hò tirato e stirato, e mi sono al meglio che hò possuto accordato con li Signori Antonio Benivieni, e Cosmo Sini. E cosi li hò promesso nove tolleri per centinato insino al lago di Como dove si rimettono le mercantie che vengono da queste parti, che arrivano al numero di tolleri doi milla ottocento ottanta incirca, e per non havermi a impacciare in casse che l’havessero a rifare, ò altri dispendij che non me ne mancherano tanto nel viaggio, quanto per mantener le casse in ordine, e di far quelle che hanno di bisogno li hò promesso in tutto e per tutto sotto sopra talleri tre milla, dalli quali mille li consegno a Monacho di quelli che hò havuto dall’istessi mercanti, e lascio il debito di quelli mille tolleri che hò preso in Hidelberga, li altri doi mille ò il valor di quelli li hò promesso di farceli pagare dalla Camera ò in Venetia ò in Augusta dovunque sarà più commodo alla Camera. Mando il sbozzo del Contratto a Vostra Signoria Illustrissima il quale anchora non è sottoscritto da questi Signori Mercanti, ma hoggi si manda in Augusta per sottoscriversi, acciò veda il modo della mia obligatione. Supplico Vostra Signoria Illustrissima che si 64 Antonio Bonivieni e Cosimo Sini führten den Büchertransport von München nach Italien durch. 65 Aurelio Gigli war Bankier in Regensburg, vgl. MAZZI, Leone Allacci (wie A. 8), S. 35.
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degni di ordinar che si facci questo sborso secondo che hò promesso. Et ordinar la commodità che s’hà d’havere da Como per Bologna. Si solecitarà di far radunare li carri e mi partiro quanto prima. Et avisero il tutto. E li fò humilissima reverenza. Di Monacho li 16 di Marzo 1623 Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio ff. 18rv, 21r [n. 9] S’è concluso il contratto della Condotta con li Signori Benivieni e Sini da Monacho insino al lagho di Como per tre milla talleri, e già l’hanno sottoscritto dove io non m’hò da impacciar in nissuna cosa di spesa senon ricevar le casse, quando saranno al luogho destinato. Et io consegnarli il resto del denaro secondo che dall’istesso contratto vedra Vostra Signoria Illustrissima hò pagato mille Tolleri, il resto di doi milla li hò promesso di pagharli, ò in Augusta, ò in Venetia dove sarà più commodo per la Camera e m’hò pigliato per ogni cautela quindeci di di tempo dopo l’arrivo. Questi Signori m’hanno scritto che quando il sborso s’havesse da far in Venetia si facesse al Signor Andrea Fioravanti66. Supplico Vostra Signoria Illustrissima che mi favorisca che questi denari si paghino presto per non esser trattenuto, e mandar altra Commodita per il resto del viaggio almeno insino a Bologna. In Hidelberga lascio mille Talleri di debito, non me l’hò levato per applicar questo denaro alla nova condotta. Io credevo che qui in Monaco le cose fossero più chiare, e più commode, per condur via e qui si truova quasi quasi l’istessa difficoltà, perche non sono ne cavalli, ne carri, che tutti sono impiegati a portar la provisione nel Palatinato. E per questo negotio non bastano ne vinti, ne trenta, ma ci bisognano al meno cento da tirare, e passa quorenta da condur la biava e la vettovaglia. Si sono mandate le persone per radunarli, quando verrano non si perdera tempo. Chi havesse voluto mandare hora quindici casse, hora vinti ogni settimana sarebbe stata forse qualche commodita. Ma non mi par bene a dissepararle casse da me, e fidarli in mano d’altri, e cosi vuoglio che si movano tutte insieme, acciò io possa vedere il fatto mio, e rimediare a qualche inconveniente che potesse nascere, oltre che andando tutte insieme vanno più secure. A me non mi basta l’animo separarle da me, ò porli in luogho che non li possa vedere facilmente, se prima non li presento inanzi li piedi di Nostro Signore che sarà prestissimo quanto si può. Perche non riesce ne per me, ne per li mercanti l’aspettare, che ogni di crescono li travagli, e le difficolta, e quello che hoggi s’hà per dieci domane non si può havere per vinti. Di più questo ne / [f. 18v] gotio l’hà difficoltaso non poccho l’assenza di Sua Altezza e la tardanza della facolta d’estrahere la biava senza la quale è impossibile potersi movere, perche saria portar li cavalli a manifesta morte senza poter condur le casse. Sabbato è venuto l’ordine di Sua Altezza dove ordinava che mi si provedesse in ogni cosa. Questa mattina hò domandato la provista mi risposero che carri, ò cavalli assolutamente non mi potevano dare, ma mi dariano licenza che io per il staso comprassi ducento cinquanta sacchi di Biava che tanti bisognano per questo 66
Konnte bislang nicht nachgewiesen werden.
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viaggio, questo pero aspesa di Mercanti, e li estrahesi di Baviera. Li feci rispondere che non cerchavo questo, ma volevo che loro mi vendessero la biava della Camera in Monaco, che se io volessi andar per il staso cerchando, bisogneria che consumassi tempo assai, et io volevo spedirmi. Dissero insomma che non volevano far altro, ho tornato di nuovo a scriver a Sua Altezza e supplicarlo che almeno qui in Monacho mi si vendesse sacchi cento cinquanta. Credo che me lo concederà, starò aspettando nova risposta. Fra tanto si cercharanno li cavalli. E li dico in verità che per questo si sono mandate persone a posta insino alla Voltellina, et in altri luoghi vinticinque e trenta leghe lontane, tanta è la carestia in queste parti. Non dubito che con gratia d’Iddio l’haveranno anchora questi, coi quali non ci fermeremo ma proseguiremo il nostro viaggio insino al lagho di Como. Perche di qua insino a Mintebolt67 si conduranno con li carri, poi a schena di cavalli a Selfelt68, a Umest69, a Londech70, a Funt71, a Onoder,72 a Ichel73, a Sernez74, a Coz75, a Pontalta76, a Sernada77, a Cheavena78, a lagho di Como. Intanto che la difficoltà di questo viaggio consiste in cominciarlo. La machina e grande, e tanta che fà meraviglia a ogni uno che la vede, e fà spaventar solo a pensarci di trovar cavalli per condurla. Da qui la moveremo tutta unita alla Voltellina se non si potra haver cavalli per tutte, si potevano in una ò doi vuolte, il che credo che non succederà perche sono le persone che cerchano li cavalli. E tanto maggior e la difficoltà di questi carri quanto che adesso si prepara la fiera di Bolzan, e quella di francofurti, e li mercanti li vanno cerchando*** [f. 21r] con le candelle, e non si trovano. Io non poso mai in solecitar il mercante, e lui le persone che hà mandate fuori per questo effetto. Avisero quello che succedera, e li fò humilissima reverenza. Da Monacho li 20 Marzo 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio ff. 19r-20r [n. 10] Questa Settimana per sollecitare la Condotta m’è stato neccessario che corra verso Augusta, dove hò talmente affrettato questo negotio che m’hanno promesso fra otto di esser in ordine per pigliar la via verso Mintebolt. E per ciò fare di nuovo hanno mandata una persona a posta alla Voltellina per agiuto dell’altra mandata 67
Es handelt sich um den oberbayrischen Ort Mittenwald. Es handelt sich um Seefeld in Tirol. 69 Es handelt sich um Imst im Oberinntal. 70 Es handelt sich um Landeck im Tiroler Oberland. 71 Es handelt sich um Pfunds im Bezirk Landeck. 72 Konnte nicht nachgewiesen werden. 73 Es handelt sich um Ischgl an der Silvrettastraße. 74 Es handelt sich um Zernez in Graubünden. 75 Es handelt sich um Coz in der Schweizer Gemeinde Mesocco. 76 Vermutlich handelt sich es um Punt-Chaumes im Oberengadin. 77 Vermutlich handelt es sich um Castasegna in Graubünden. 78 Es handelt sich um Chiavenna bei Sondrio. *** Am unteren Rand mit anderer Hand due carte dopo si legge la fine di questo vermerkt. 68
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sono al quanti di in racogliere li cavalli, acciò si trovino pronti a Mintebolt per proseguire il viaggio e non aspettare, poccho più in la la potranno tirare, se però la cosa della biava senza la quale in nissun conto non ci possiamo movere, non ci trattenesse, non perche l’animo di Sua Altezza sia secondo che m’imagino per negarla, che già haveva dato ordine, sebene li ministri l’esplicavano in altra maniera, ma perche di di in di sospetta qui in Monacho, e cosi non si spediscono più negotij in Ratisbona, ma il tutto si riferisce alla sua venuta, la quale vorria che fosse presto, che con l’auttorità spronerebbe, et ordinerebbe l’esequutione di questo negotio. E perche qua a Monacho non era persona praticha che mi potesse informare del viaggio della Voltellina in Augusta mi sono informato per non dar nell’estremi, e fuori che una terra che era mutato il nome il resto ma l’hanno lodato, et assicurato secondo che con la passata mia l’hò scritto. E per non haver occasione di stentare, e questo senza nissuna utilità nelli paesi deserti della Voltellina, dove nissuno mi potria soccorrere. Hò fatto di nuovo ripesare qui le casse mentre hò questo tempo a veder s’era peso giusto ò sproportionato per li cavalli et hò trovate alcune le quali eccedono il peso che ponno portare li cavalli per la montagne in questi tempi, sebene mi si dice che per le mule saria giusto. E cosi a spese di Mercanti secondo l’accordo si sono fatte casse di nuovo, e s’anderanno agiustando le vecchie, che passano li termini. E questo inconveniente è nato che non s’è possuto talmente agiustare il peso, che tutte havessero l’istesso per causa delli libri che in alcuni saranno incassati meglio, et ancho per la materia, che in alcuna saranno cosi meglio batuti, e cosi havera capito più, in altra saranno stati di Pergameno, che io poi per la stretezza [f. 19v] del tempo non hò possuto rimediare, dove hò atteso a incassare. Questo peso non impedisce, ne ritarda il camino, che quando si potesse partire domani, pure sarei in ordine anzi mi pare che leva l’impedimento che potesse nascere nella strada, dove non si potrebbe rimediare. Ne in questo occorre spesa nissuna di nuovo perche tanto le casse, quanto li canavazzi, et altri neccessarij corrono a spesa delli mercanti, che si sono obligati per la condotta. Non vi sarà altro se non la faticha mia che bisognerà maneggiarli di nuovo et accommodarli perche non vuoglio che altri ci metta le mani senon io. Ma questo lo fò cosi volentieri che mi serve per spasso, e ricriatione, acciò che il negotio riesca bene, e come si deve, et agusto di Vostra Signoria Illustrissima qui in sin’hora non è gionto altro ordine di denari che di tallari doi mille, et io hò speso vicino a tre insertivi però li mille che hò pagati alli Mercanti per la nova condotta alla Voltellina, in tanto che rimangho debitore delli mille Tallari che hò havuti in Hidelberga li quali me l’hà conti il Signor Henrico di Metternich Governatore di quella Città. Il Signor Aurelio Gigli voleva che io li facessi ricevuta in persona di suo fratello, sotto pretesto che suo fratello Vittorio beneficato da Nostro Signore si fosse operato, et impiegato la sua parola, acciò mi si sborsassero quelli denari dalli ministri di Sua Altezza io risposi che mentre ci era una significatione in persona del Signor Henrico, non potevo fare un’altra dell’istesso debito in faccia di suo fratello. Non sò perche hanno cominciato molestare, e minacciare li mercanti Benivieni, e Sini e pretendono d’essere pagati da loro, dicono perche a richiesta loro essi Gigli si sono adoperati in questo sborsamento, e li mercanti me. È vero che in sin’hora non s’è venuto ad atto giuridico nissuno, ma senza dubio si verrà, secondo che il Signor Aurelio con una sua a questi mercanti
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li scrive. E pure con una semplice dichiaratione del Signor Henrico che m’hà conto il denaro si poteva chiarire questo negotio, e senza tanti fastidij veder il vero, e farsi girare quello mio debito, se è come essi pretendono, non si vuol far altro, ma si viene alla peggio. Intanto che i mercanti non cessano tutto il di d’inculcarmi [f. 20r] che io trovi il modo per levar di Molestia loro. Io attendo dire che d’un debito non vuoglio far significatione a doi persone, ma solo achi m’hà conto il denaro. È quando havesse il denaro non lo consegnerei in poter d’altro che inpoter di chi me l’hà consegnato, quello poi lo consegnerà da chi l’hà ricevuto, e se l’ha ricevuto dal Signor Vittorio lo darà ad esso. In somma non si vuonno a quietare. E quel che è peggio per questo perturbano il negotio della Condotta. Desidereria che quando questi mille Tallari l’havessero da rimettere non si rimettessero se non in poter delli ministri di Sua Altezza ne si consegnassero, senon achi li rende la mia significatione se li Signori Gigli hanno poi pretensione facciannosi girar la partita dal Signor Henrico, e cosi s’agiusterà questo negotio. Supplico Vostra Signoria Illustrissima che nell’arrivo mio a Como siano pronti li denari convenuti per la condotta ò in Augusta, ò in Venetia in mano del Signor Andrea Fioravanti ad instanza delli Mercanti Benivieni, e Sini acciò non m’havesse a ritardare. Et ivi trovar qualche altro ricapito per proseguire inanzi. Sempre è con ogni occasione hò scritto a Vostra Signoria Illustrissima dandoli raguaglio di quanto occorreva, e le lettere mandate in Augusta alli Mercanti Benivieni acciò l’inviassero a Roma, hò appresso di me le loro ricevute. Non sò se siano arrivate a Roma, e dubito molto, mentre che in tanto tempo non hò ricevuta nissuna risposta di quelle, ne d’altre. Et assolutamente da nissuno. Io non ho manchato, ne mancherò per l’avenire d’avisare. E li fò humilissima reverenza da Monacho li 27 di Marzo 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 23rv [n. 11] Per solecitar il negotio della Condotta, et informarmi del Camino sono andato in Augusta. Li mercanti m’han detto che frà otto di saranno in ordine per Mittebolt, e gia hanno mandato un’altro alla Voltellina per agiutare a radunare li cavalli, e condurli in detto luogho. Fra tanto io fò racommodare alcune casse che erano riusciti più gravi delle altre, non per la grandezza che erano uguali alle altre, ma per li libri che a quelle saranno forsi entrati libri in Pergameno, o forse più battuti. Questo pero non ritarda. Il Signor Gigli molesta li mercanti per li mille tolleri per la causa che hò scritto con l’ordinario passato, e li mercanti me. Io hò detto che farò la significatione etiandio in faccia del suo fratello per farlo quietare, pure che il suo fratello si facci girare il debito dal Signor di Metternich. Non vuole intendere altro, credo che proprio vadano cerchando causa per disgustarmi. Et io, Iddio lo sà, li hò fatti mille servitij. Ogni uno mi soccorre almeno con buone parole, e questi mi molestano con fatti, e dove non ponno direttamente, mi perseguitano indirecte. Io non hò havuto ordine senon di doi mille Talleri, hò speso vicino atre inclusi pero li mille che hò dato a buon conto alli mercanti per la condotta insino al lago di Como. Intanto che lascio solo il debito di mille Tolleri che hò ricevuti in Hidelbergha sopra
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quali e il contrasto. Supplico Vostra Signoria Illustrissima mi favorisca ordinare per il pagamento che rimane da farsi, et anchora per quello d’avenire da Como insino a Bologna, ò a Roma. Anchora non s’è havuta la ressolutione della biava, non si spedendo negotij a causa che il Signor Duca sta di partenza, et ogni cosa si rimette alla sua venuta. Quanto più presto verrà, tanto anchora io mi sbrighero più presto. Le lettere che sempre hò scritto con ogni ordinario dopo che sono a Monacho ne hò manchato mai sono indirizzate alli Signori Paleggi e Falconieri. Non sò se le ricapitano. Io credo di non perche non vedo che nissuno mi scriva. L’incluse arme m’agiutano un poccho a ritardare che non [f. 23v] sono finite. Se le parerà neccessario le potrà mandare. Sempre avisero quando occorre cosa di nuovo intorno a questo negotio. E li fò humilissima reverenza. Da Monacho li 28 di Marzo 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 24rv [n. 12] Nascono tante nove difficoltà ogni giorno per causa di questa condotta, che pare cosa incredibile, et a mala pena superata una nascono delle altre, ne tutte le cose si ponno agiustare insieme, ma quando v’è l’una mancha l’altra, e questo non per altro, che per l’insolita, et estrema penuria d’ogni cosa. E se c’e qualche ressiduo, bisogna che serva ad altri. Troppo hò tentato, et affatighatomi per far che le casse andassero tutte insieme, acciò con la mia assistenza si potesse rimediare a cosa che potesse succedere. Mi sono andato trattenendo forsi domani sarà, forsi verrà, tutto è stato vano. È bisognato all’ultimo che mi rissolvessi di mandar una parte, e cosi questa mattina a punto sono inviate per Mintebolt casse ottanta con buon ricapito. Il resto si partirà questo lunedì, ò martedì, et io con loro. Perche si come vedo è meglio moversi, anchor che l’avanzi poccho, che star fermo. Da Mintebolt poi partiremo se sarà possibile tutti uniti. Ma mi dubito che anchora là bisognerà che una parte arrivi la mattina in un luogho, l’altra la sera per poter haver commodità per li cavalli. Hò havuto l’ordine per pigliar una parte della biava del resto si cercherà haver la licenza d’estraherla, la quale m’è stata promessa e questo a spese et interessi di Mercanti, che io non m’hò d’impacciare in cosa nissuna. Mi vergogno haver da ripetere tante vuolte li fastidij che mi dà il Signor Aurelio Gigli intorno alli mille Tolleri che hò ricevuti in Hidelberga. E sebene lui dice che non hà da fare niente con me, con tutto ciò minaccia li Mercanti ad instanza dei quali suo fratello, secondo che esso dice s’è operato che questi denari mi si contassero in Hidelberga. Intanto che doppo tanto beneficio ricevuto da Nostro Signore e da Vostra Signoria Illustrissima non per altro che per questo negotio, e da me portatoglielo, m’è convenuto haver bisogno di mezzo di Mercanti per conseguire questo effetto. Li mercanti poi ricchieghono dame il denaro, e vuogliono esser disobligati. Io non l’hò, ne so dove pigliarlo quel che è peggio. Li hò domandato più vuolte, che s’acquietasse di gratia fra tanto che vanno, [f. 24v] e vengono le lettere da Roma. Hò parlato a un sordo. Insiste pure che per accommodamento di questo negotio io trovi qualche amico, e da quello pigli imprestito questo denaro, e lo depositi in poter d’un terzo,
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e poi se lo piglierà il Signor suo fratello. Io non potevo sperare d’haver altro amico meglio che lui in questo negotio. Tanto più che io non hò havuto il denaro da suo fratello, ma dal Signor Henrico di Metternich, se non fosse il molestamento delli mercanti, li quali non vorria che havessero mala sodisfattione del fatto mio, io lo lascierei sbattere. Ne vuoglio che per questa causa mi si ritardi il negotio della Condotta. Il denaro desidererei che si depositasse in poter delli ministri di Sua Altezza li quali lo pagheranno a chi m’hà fatto il sborso. Se li Signori Gigli poi pretendono alcuna cosa lo ponno repetere dal Signor Henrico, al quale dicono che havevano dato quello denaro, cosa che a me non costa, perche di ciò non men’ha fatto mai parola il Signor Vittorio. Adesso bisogna che per questo mio negotio vada mendicando l’agiuto di questo, e di quell’altro, li quali certo e per amor di Nostro Signore e di Sua Altezza che sanno che favorisce questo negotio, non mi manchano, già che da questi non si può havere una gratia. Sarebbe stata troppo grande la mia felicità, se in questo negotio fossero concorse più persone per effettuarlo, e solecitarlo, perché sarebbe facilitata la mia faticha. Iddio vuole che si cognosca che è lui solo che lo guida, e lo conduce, e non forza humana. Perche chi considera il negotio e per la qualità, e quantità da una parte, e le mie forze dall’altra, è neccessario che concluda, che non è stata senon la mano d’Iddio che hà operato tutto questo. Un amico mio d’Augusta m’hà mandata questa Charta. Credo che sia pazzia, si puo però vedere l’animo di questi heretici, che non può esser peggiore, poiche quanto più si vedono sogiogati, tanto più arrabiano. E li fò humilissima reverenza. Da Monacho li 3. d’Aprile 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 25rv [n. 13] Questa mattina hò mandato verso Mintebolt casse ottanta di libri, non potendo mandarle tutte insieme, anchor che io habbia usata ogni diligenza per far che andassero unite. Non s’è possuto, che in queste parti non si può, ne per dritto, ne per riverso conseguire cosa alcuna, e questo per l’estrema penuria, e carestia del tutto. M’è parso questo meglio per haverla a spedire una vuolta. Hò ben procurato che vadino con le loro sicurezze, e requisiti, acciò non malpatischino per il viaggio ò trovino altro impedimento. Questo lunedì, ò al più lungo martedi andarò io con il resto che già li carri si vanno radunando per all’hora, acciò sortisca questo effetto a Mintebolt poi a schena di Cavalli si ridurano su il milanese per la Voltellina, ne si partirano senza di mé. Hieri hò havuto un ordine dal Consiglio di Sua Altezza per la biava di Zefel79 settantacinque, non bastano, non si puo far altro, questo pure agiuta a qualche cosa. Cercherò almeno d’haver la licenza di poter estrahere la biava, li mercanti poi a spese dei quali si conducono haveranno cura di comprarsi il loro bisogno, doi di sono è venuta la Serenissima s’aspetta di di in di anchora Sua Altezza. Iddio volesse che venisse presto, perche con la sua venuta s’agevolarebbe ogni cosa, et in particolare il negotio del Signor Aurelio Gigli, del quale già 79
Es handelt sich um Seefeld in Tirol.
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n’hò scritto a Vostra Signoria Illustrissima perl’ordinario passato. Questo Signore è venuto da Ratisbona, ne posso indurlo che s’acquieti di non molestare i mercanti insino tanto che vengha ordine di Roma per il sborsamento delli mille tolleri, che hò havuto in Hidelberga, non da suo fratello ma del Signor Henrico di Metternich. In somma dice che non molesta me, ma solo i mercanti, ne vuole intendere, che quel molestamento tutto rissulta in interesse mio, perche li mercanti all’incontro, molestano me. Più vuolte li hò detto che io sono pronto a darli sodisfattione purche non ridondi in detrimento della Camera e mi pare di non esser obligato far ricevuta infaccia di suo fratello dal quale non hò havuto quello che essi pretendono. Dice rissoluto che io depositi questo denaro e che trovi qualche amico che me l’impresti. Hò detto che mentre c’è lui, non sò [f. 25v] a quel altro amico io debba riccorrere trattandosi il negotio di Nostro Signore dal quale sua casa è stata tanto benificata, e non per altro, solo per questo servitio. Torna al primo vuole che io trovi in tutti i modi questo denaro. E se non lo vuoglio pagare a lui, lo depositi, e scrive tuttavia alli mercanti, e li minaccia, che vuol esser pagato da loro perché ad instanza loro suo fratello s’è operato, che si pagasse questo denaro. Io non sò che farmi a lui lo lascierei dire, perche non hà nissuna raggione al mondo contro di me. Mi dispiace delli Mercanti, che s’inquietano, et attendono ad inquietare me. Quest’altra cosa mai me la cridevo che dovesse succedere da simil persone, dalle quali io m’haverei promesso ogni agiuto, e favore, e quando il denaro fosse manchato in tutto il resto, haverlo abondante appresso di loro. Io però attendo tutta via a solecitar la condotta, e nel mio bisogno mi vuolto alli altri ministri di Sua Altezza per poterne haver servitio. Se venisse Sua Altezza inanzi che mi partissi s’acquietarebbe ogni cosa perche all’hora sarebbe neccessario che il Signor Gigli s’accommodasse anchor esso alle cose del dovere. Suplico Vostra Signoria Illustrissima per la rimessa insino a Como e per il resto, acciò li mercanti non mi trattenessero. Se della Voltellina si potra haver commodità di scrivere non manchero d’avvisare tutto quello che succede, e li fò humilissima reverenza. Da Monacho li 5**** d’Aprile 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 26rv [n. 14] Mai dopo partito da Roma mi sono trovato in maggior intricho di quello in che mi sono trovato questa settimana, poiche li Signori Gigli hanno talmente attizzati li mercanti per il negotio di mille Talleri che pretendono che io habbia havuti in Hidelberga per mezzo loro, che non c’era ne quiete, ne remissione. E la cosa andò tanto inanzi che gia li mercanti havevano dato ordine, che quando le casse fossero a Mintovalt, s’impedissero insino che essi fossero dissobligati, e si rimandassero indietro li cavalli a spese, et interessi miei e sebene la cosa non haverebbe possuto sortir a modo loro niente di meno ci sarebbe andato per mezzo, e tempo e fastidij. Non è andata cosi secreta la cosa, che io non habbia havuto nova di ciò, e delle loro lettere. E cosi hieri che parlai a Sua Altezza l’esposi il mio bisogno di questi mille Talleri, e l’impedimento della condotta che poteva nascere, e tutto in genere senza **** Die Zahl 6 wurde durchgestrichen und durch 5 ersetzt.
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venir a nissuno particolare, ne delli Signori Gigli, ò d’altri. Quello Prencipe non solo in questo, ma in ogni altra cosa mi si professa prontissimo, havendo a sommo gusto che questa Bibliotheca arrivi presto a Roma. Li hò fatto il memoriale, e presentatoglielo questa mattina. Aspettero l’esito. Io non mi posso partire da qua se non sbrigho questo debito, perche hò da fare con persone, che Iddio ne guardi. Non ci vale ne honore, ne autthorità, ne beneficio, ne altro appresso di loro, e quando hanno havuto quello che ponno sperare, vuoltano le spalle, e mostrano di non cognoscere le persone, ne per questo cesseranno di far il peggio che sanno, e ponno. Io mi credeva in questo debito, haver qualche equità, non che mi lasciassero il loro, che di questo non hò di bisogno, ma d’aspettare fin tanto che venisse il ricapito di Roma, cosa che non li poteva pregiudicare in conto nissuno. Mancho questo servitio hò possuto havere se Iddio vuole che una vuolta n’esca da simil gente, mai più mi ci vuoglio impacciare con loro. E non hanno tanto senno d’avertire, che questo servitio non si fà a me, ma a Nostro Signore dal quale e sono stati beneficati, e non per altro senon per questo, e sperano di riceverne servitio. Havuto il denaro lo depositerò in poter delli Ministri di Sua Altezza e poi si dij a quello di qui era quello denaro che mi fù consegnato in Hidelberga, che io non [f. 26v] vuoglio liti. Io mi saria partito hieri insieme con il resto delle Casse, ma questa cosa m’hà trattenuto, subito sbrigato m’invierò, e l’arriverò, e forsi sarà domani, et aviserò ogni particolare. Fuor che questi inquietamenti di cervello, io sto con gratia d’Iddio bonissimo. E desideroso più che mai d’affatigharmi, e servire, e da canto mio non mancho mai di preghar Iddio per la felicità, et esaltatione di Vostra Signoria Illustrissima alla quale fò humilissima reverenza. Da Monacho li 12 d’Aprile 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 31r [n. 15] Sabbato al tardi arrivò Sua Altezza a Monacho, per li molti affari, et impedimenti. Non li hò possuto parlare prima che hieri al tardo. Lo ringratiai infinitamente dell’agiuto, e favori che m’haveva somministrati in Hidelberga, e per tutto per facilitare la Condotta, e lo preghai che in questi tempi cosi difficoltosi con la sua autthorità soccorresse nel resto. Mi rispose cortesissimamente, che si come era stato prontissimo per il passato, ne haveva manchato in cosa, che li fosse stata richiesta intorno a questo negotio, cosi proseguirebbe per l’avenire, e li dispiaceva molto, che esso stesso non poteva servir per instrumento di condur, e dar questa consolatione a Nostro Signore si come anchora che questa condotta fosse cosi ritardata se bene ne godeva havendo inteso che in questa Bibliotheca fosse cosa grata al Sommo Pontefice e che questo mio sollecitar, et incassar era stato molto neccessario, perche molti Prencipi ci havevano aperti li occhi, e gli l’haveano chiesta. Fra quelli uno fù l’imperatore che li domando alcuni pezzi di libri, che haveva inteso che fossero in quella. Si scusò con dirli che era per il Sommo Pontefice il quale gia haveva mandato persona a posta per questo, e che già l’era horamai incassata ogni cosa. Io poi vedessi quello che m’occorreva per questo effetto, che esso haveria ordinato ogni cosa. Ringratiai dell’affetto, poi l’esposi la neccessità che m’occorreva
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della biava per li cavalli, e di più il debito di mille Talleri che havevo in Hidelberga, e come li mercanti volevano esser sollevati da me per l’obligho che si trovavano havere in detto sborsamento, e che già andavano mormorando d’impedirmi le casse a Mintovalt, o in altro luogho, e poi col protestarsi rimandar indietro li cavalli a spese et interessi miei. Mi disse che li facessi uno memoriale, che si provederebbe al tutto, l’hò fatto, ci l’hò fatto presentare. Aspetterò la rissolutione. Hieri si partì il resto delle casse per Mintovalt con li debiti ricapiti, acciò non mal patissero. Io subito disbrigato di questo negotio, acciò non ne nasca qualche inconveniente m’invierò appresso per sollecitar la condotta, che senza dubio credo d’arrivarli inanzi che loro siano a Mintovalt, se però mi potrò spedire presto da qua, che all’hora subito pigliarò il camino per quella via, et aviserò ogni particolare, e li fò humilissima reverenza. Da Monacho li 12. d’Aprile 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 32rv [n. 16] Hò estinto il debito di mille Talleri che havevo in Hidelberga, e per il quale ero molestato dalli Signori mercanti, e Gigli, che volevano in tutti li modi rimaner disobligati, e questo con un altro debito di mille Talleri havuti qui in Monacho dal Pagatore di Sua Altezza in persona del quale hò fatta la significatione e promesso di farli rimetter di Roma, adesso le Mercanti instano che vuoglino securtà per altri doi milla che è il resto della Condotta insino al Lagho di Como, e sono tanto inanzi in questo negotio, che secondo hò possuto cavare dal loro fattore qui in Monacho, mettono in ambiguo la cosa della Condotta, sotto pretesto che un certo di Roma, il nome non me l’hà detto, li hà scritto che in rimettersi questo denaro s’andava freddo. Intanto che a mala pena sono fuori d’un ballo, en’entro in un’altro. E qui l’huomo bisogna metter l’animo in pace, che non trova persona che lo vuoglia soccorrere d’un tallero. Ma tutti dicono che se ciò fosse intentione di Vostra Signoria Illustrissima haverebbe avisato, ò mandatomi qualche lettera di credenza. Li mostro la lettera dove s’è degnato scrivermi che non lasci manchare il denaro ne a mé, ne alla Condotta, dicono che non basta, e cosi si ritirano, et io mi trovo non solo molestato per le spese della Condotta, ma in grandissima neccessità per il mio vitto. Troppo mi sono andato ragirando, se fosse possibile che qualcheduno, mi prestasse almeno cento Tolleri, non li hò trovati. E me ne doglio che in questo negotio non ci sia persona che mostra che li prema e per quest’altra cosa non mi pare cosa infastidire Sua Altezza mentre l’hò infastidita nelli primi mille Talleri. Alla quale pur n’haverei fatto molto, quando havesse saputo che li mercanti havessero da fare quest’altra difficoltà. Hoggi s’aspetta il Signor Cosmo Sini, vedrò a che raggione si mette, e poi faro il meglio che posso. Dicono che dubitano, perche in tanto tempo che fù scritto l’accordo non è venuta nissuna risposta, che trattasse di questo, almeno alloro. Non val scusa, rispondono che il denaro è una cosa zelosa. Supplico Vostra Signoria Illustrissima che favorisca il negotio acciò questi tali non m’habbiano sempre con qualche novo protesto impedire, e prolongar questo negotio, perche ci corre interesse senza nissuno utile, e soccorrirmi anchora a me con qualche recapito più certo, già che questi non si vonno impacciare senza ordi-
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ni espressi. Le casse sono tutte [f. 32v] a Mintovalt, e questa mattina hò mandato il mio servitore appresso, per veder insieme di solecitar la venuta delli Cavalli. Io sono rimasto a Monacho per sicurta alli Mercanti, di questo pagamento della Condotta, li quali m’hanno domandato per il loro fattore espressamente che io gia che da Roma non ci viene ordine rimanesse a Monacho, fra tanto che venisse l’ordine, e loro haveriano condotte le casse al Lagho di Como. Non potteti far altro che ridermene di questa loro domanda, con dirli che io non mi volevo assolutamente allontanar dalle casse. Perche io dovevo di presenza veder il bisogno. E che non dubitassero, che fra tanto verebbe qualche espedittione, vedro di rissolverla anchora questa al meglio che potrò. Io non sò se le mie lettere habbino ricapito, e dubito per non haverne havuta mai risposta. Io sempre con qualsivoglia ordinario hò scritto, e tengho appresso di me le lettere delli Signori Mercanti, che dicono haver ricevute le mie lettere, et inviatele a Roma. In quelle davo minutissimo conto d’ogni successo, e supplicano che in questa neccessita soccorresse Vostra Signoria Illustrissima alla quale fò humilissima reverenza da Monacho li 19 d’Aprile 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 46r Con la benigna lettera di Vostra Signoria Illustrissima delli 8 corrente haviamo ricevuto l’ordine che ci manda de cotesti Signori Palagio e Falconieri per li tolleri Duemila Imperiali, che il Signor Dottor Leone Allacio ci era in obligo di pagare per retto del prezzo della condotta delle robbe che si devano condurre alla Ripa del Lago di Como; In conformità del quale c’intenderemo di detta somma con essi Palagio e falconieri e resterà questo negotio aggiustato si come al medesimo Signore Allacio che si trova a Monaco, si è fatto rifferire; Intanto noi bramiamo occasione di posserci impiegare nelli benignissimi comandamenti di Vostra Signoria Illustrissima alla quale humilmente c’inchiniamo, augurandoli dall’altissimo Iddio continua felicità. In Augusta li XXI Aprile 1623. Di Vostra Illustrissima e Reverendissima Devotissimi servitori Antonio Benivieni e Cosimo Sini f. 33rv [n. 17] Con un’altra mia scritta da Milano hò dato conto a Vostra Signoria Illustrissima di quanto m’era occorso insino a quel termine, ne vi è stata altra commodita di poter scrivere. Questo servira per dar raguaglio di quanto m’è intravenuto insino a Ferrara dove hoggi sono arrivato sano, e salvo con tutta la robba benissimo conditionata stentai non poccho per la difficoltà del datio in Milano, poiche bisognó che sene facesse parola al presidente, il quale vuolse che si proponesse nel magistrato, e questa tanto più accresceva, quanto che in quello istesso tempo, passorno una gran quantità di colli d’arme per Nostro Signore e chi s’haveva pensiero pretendeva anchora esso di passarle franche, é cosi pareva strano a quelli datieri di lasciar tanta robba senza poterne havere una minima particella. Quello che succedesse di
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quell’altro non lo sò per mé usci un decreto, che fossero franche le casse non solo nel datio di Milano, ma in tutti li altri subordinati al Milanese. E perche il datio di Cremona era cosa separata bisognò che di nuovo se ne facesse parola per quello. E cosi usci la seconda provista simile alla prima. Giovò assai questa franchitia perche con suo esempio mi facilito un pocchetto il resto. E cosi da Milano, insino a Ferrara non hò pagato datio nissuno, se non qualche honoranza alli serventi, più e meno secondo la qualità del datio, adesso per l’avenire non troverò nissuna difficoltà. E cosi ringratio Iddio Nostro Signore che doppo tanti travagli al fine s’è degnato di restituirmi un’altra vuolta alla terra della Chiesa, dove non credevo d’haverci arrivare mai più, e quello che più importa con la robba intiera senza un minimo danno, e già le hò inviate per bologna dove arriverano prestissimo seperò non saranno trattenute per il mancamento dell’acqua del Canale, che è stata levata. Il Signor Cardinal Serra80 hà scritto a Bologna che l’acqua si dij. Non sò che faranno. Per me sono rinasciuto, et accomincio a respirare, e quanto più mi vedo vicino, tanto più sono impatiente. Nel Pò non hò trovato altro che abondanza di datij, e quelli fastidiosissimi non solo per le genti che sono appropriate per tal esercitio ma anchora per la lontananza [f. 33v] dal fiume, poiche alle vuolte per spedirmi d’un datio fra l’andare nel luogho, e girare qua è la per sbrigarsi hò caminato cinque e sei miglia. E m’hanno castigato di tal sorte che ogni vuolta che adesso vedo qualche persona di cera un poccho fuora dell’ordinario m’imagino che sia datiero, e che vengha all’incontro per domandarmi il datio. Io sto bene di sanita e mi raccomando a Vostra Signoria Illustrissima alla quale fò humilissima reverenza da Ferrara li 9 di Giugno 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 34r [n. 18] Hoggi sono arrivato a Ferrara insieme con tutte le casse sano, e salvo, e già le hò inviate per Bologna, intanto tarderano arrivare, in quanto che si tornerà l’acqua al Canale che n’è stata levata per fabricar non sò ché. Mi sono defeso quanto hò possuto, e saputo per non far naufragio, adesso che sto in poter della Chiesa spero in Dio che non lo farò, ma mene verro securo a Roma. Non hò pagato nissuno datio, li quali erano, et assaissini, e rigorosissimi se non qualche cortesia più ò meno secondo che mi pareva più opportuno. Qui a Ferrara hò trovati tutti li ricapiti neccessari per la Condotta, perché dal Signor Cardinal Serra hò havuto ogni agiuto, e favore, e m’offeriva denari se mi bisognavano. Io non hò voluto perche mi trovavo di quelli, che presi dal Signor Marc’ Antonio Monti et a Bologna piglierò quel poccho che bisognerà. Detto Signor Cardinale e per più prestezza, e mancho spesa era d’opinione che si mandassero per acqua insino a Pesaro. Io dubitavo della sicurezza e del pericolo del mare all’ultimo considerando le lettere di Vostra Signoria Illustrissima 80 Giacomo Serra (1570-19. VIII. 1623; Kardinal: 17. VIII. 1611; Legat in Ferrara: 16. IX. 1615); vgl. P. GAUCHAT, Hierarchia catholica medii aevi, sive Summorum Pontificum, S. R. E. cardinalium, ecclesiarum antistitum series a pontificatu Clementi PP. VIII (1592) usque ad pontificatum Alexandri PP. VIII (1667), Monasterii 1935, S. 12.
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sebene teneva che non fosse pericolo, vuolse che si conducessero a Bologna. Io già che li hò posti in luogho securo in quanto apparteneva a mé, e aspetterò quello che comandera Vostra Signoria Illustrissima alla quale fò humilissima reverenza da Ferrara li 9 di giugno 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 39r [n. 19] Le casse sono state in sin’hora impedite al Malalbergo81 per il trattenimento dell’acqua del Canale. Io sono arrivato in Bologna per solecitar che si dij l’acqua, hieri s’e data, al più lungho domani mattina, se non m’inganno saranno qua. Quest’altro mi manchava, per trattenermi quatro, ò cinque di di più. Vò procurando d’inviarle per Roma, tutte insieme. Mi si dice esser impossibile per non potersi unire tanti muli insieme, tanto più in questa congiontione della partita del Signor Cardinal Legato82, e Monsignore Vicelegato, e la venuta del Signor Duca di Fiano che s’aspetta hoggi, li quali tenghono impedita una buona parte. Mi sono rimesso nelle mani di Monsignor Vicelegato nuovo, il quale se bene non hà ordine nissuno mostra di voler abbracciar questo negotio, e di supplire a qualsivoglia cosa. Se vedrò che la cosa andrà in lungho, io m’invierò con le prime casse verso Fiorenza, e Roma lasciando però li debiti recapiti per fare mancho interessi che si può alla Camera, poiché non andando tutte insieme non potrò assistere, e cosi tanto è che io mi stij a Roma, quanto a Bologna, e Fiorenza. Sia ringratiato Dio che le hà condotte al luogho, dove non li bisogna più mia assistenza. Inanzi però che si charichino vedrò in ogni maniera di rissarcire quelle che haveranno di bisogno e di usar ogni diligenza che si ricercherà da canto mio. Se però in questo non trovassi alcuno ordine incontrario di Vostra Signoria Illustrissima alla quale fò humilissima reverenza. Da Bologna li 14 di giugno 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 40r [n. 20] Se non fosse stato il mancamento dell’acqua nel Canale di Bologna, doi di fà le casse sariano a Bologna, e forse inviata qualche parte per Roma. Ma essendo solito come mi si referisce che ogni anno in questi tempi la levano per accommodar il guasto, hò lasciate le casse a Malabergho in buona custodia, e sono venuto in Bologna per sollecitar acciò si dasse detta acqua. Hieri sera al tardi s’è data, domani al più lungho aspetto le casse, le quali con prima commodità, s’invieranno per Roma non tutte che misi dica impossibile per la carestia di muli, ma quelle che si può lasciando ordine per il resto. Qui per la partita di Monsignor Cesis83 non hò trovato 81
Es handelt sich um eine Gemeinde in der Provinz Bologna. Roberto Ubaldini (1581-22. IV. 1635; Kardinal: 2. XII. 1615; Legat: 23. V. 1623); vgl. Legati e governatori dello Stato Pontificio (1550-1809), Roma 1994, S. 956. 83 Angelo Cesi (1602-1657; Vicelegat: 5. I. 1622-4. VI. 1623); vgl. Legati cit., S. 572. 82
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ordine nissuno, e fattane di ciò parola con Monsignor Vicelegato nuovo, esso s’è offerto ad ogni cosa. Se bene si truova non poccho impedito per esser venuto di frescho. In Ferrara hò trovati li ordini appresso il Signor cardinal Serra, ma non hò voluto pigliar denari, risserbandomi di far una somma, e per la condotta da Ferrara a Bologna, e da Bologna a Roma senza far tanti spezzoni di debiti. Si computerà con Monsignor Vicelegato84 quello che importerà, al quale, et a suoi officiali mi sono in tutto rimesso come più pratichi di me, e cosi mi costituirò debitore. Io credo in sin’hora haver assicurata la robba con la gratia d’Iddio, il quale non cesso di preghare per la continua Felicità, et esaltatione di Vostra Signoria Illustrissima alla quale fò humilissima reverenza da Bologna li 14 di Giugno 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 41r [n. 21] Subito restituita l’acqua nel canale di Bologna sono venute le casse, et a quest’hora a punto hora vintitre sono inviate casse trentatre per Roma, che si trovano cosi bene proportionate per cariaggi che non si può dir di più. L’accordo del pagamento insino a Roma, perche non ero d’accordo con li condottieri, ne meno c’acquietavamo in quello che diceva uno constituito da Monsignor Vicelegato, si siamo al fin rimessi a quello che determinerà detto Monsignore intanto che in ogni cosa s’hà a mente l’interesse della Camera. Monsignore hà abbracciato questo negotio. Non puol andar senon bene. Io mi saria partito con queste prime casse, ma perche sono alquante rotte, e fraccassate bisogna che mi fermi per accomandarle, acciò che nissuno terzo ci metta la mano, insino che non saranno alla presenza di Vostra Signoria Illustrissima. Il Signor Cardinal Serra, m’hà consegnato un quadro, che lasciò in testamento Monsignor Monterrentio85 che si dovesse dare a Vostra Signoria Illustrissima l’hò condotto a Bologna n’haverò cura particolare, e l’invierò con le seconde casse con le quali mi partirò anchora io che credo che sarà martedì, o mercordi, quando havero agiustati talmente i negotij, e per la douana, et altri che non haveranno più bisogno del fatto mio. E li fò humilissima reverenza da Bologna li 17 di giugno 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 45r [n. 22] Quanto più considero le difficoltà che ci sono in questi paesi, e le spese per caminare inanzi dove sono paesi di Nostro Signore, e pieni d’ogni bene, tanto più m’assicuro che sia stato mero miracolo d’haver trovata commodita di levar le casse dalli luoghi dove erano. E questo non si può attribuire ad altro Santo, che a Santo 84 Giulio Sacchetti (18. XII. 1587-28. VI. 1663; Kardinal: 19. I. 1626; Vicelegat: 23. V. 1623-24. X. 1623); vgl. Enciclopedia Cattolica 10 (1953) S. 1527. 85 Giulio Monterenzi († 23. V. 1623; Bischof: 1. X. 1618; Vicelegat in Ferrara: 1623); Legati cit., S. 788.
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Pietro, mentre vuole che le prime casse arrivino in Roma il di suo, ò la vigilia. Chi l’haveria mai creduto trovar tanti e tanti viluppi per conservarli a suoi giorni. Hoggi hò inviate casse trentatre secondo che verra la commodità s’invieranno l’altre. Con le seconde mi partirò anchora io per Roma inviarle tutte insieme hà dell’impossibile. Il prezzo della condotta da Bologna insino a Roma. L’hò rimesso in poter di Monsignore Vicelegato, acciò che la camera habbi tutti li suoi avanzi, et interessi. L’ordine per quelle d’appresso non mancheranno. Ma ne vengho allegrissimo mi racomando alla buona gratia di Vostra Signoria Illustrissima alla quale fo humilissima reverenza. Da Bologna li 17 di giugno 1623. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima Humilissimo Servitore Leone Allacio f. 47r [Tav. III] (Giudizio fatto dopo la Palatina entrò nella Vaticana) I libri manoscritti della Biblioteca Palatina così latini come greci ascendono alla somma di 2300 de quali 1950 sono latini, et 400 greci. In tutta questa quantità di Volumi quelli che sono degni di qualche consideratione tutti insieme possano arrivare alla quantità di cento, ma di questi le dui parti sono Sermonarij de Frati, Letture di Sommisti, Espositioni di Scolastici moderni sopra la Sacra Scrittura, ò vero libri di Heretici86. La terza parte che resta ben che sia di buoni Autori non dimeno ò è in frammenti come certi esposizioni brevissime di Prudentio87 sopra li Evangeli una Colletion di Canoni88, certe Regole de Canonici della Chiesa di Metz del tempo di Pipino89, ò vero non contiene cosa di molto relievo come certe brevi declamationi attribuite à S. Fulgentio90, in ogn’una delle quali à bel studio si lasciar una lettera dell’Alfabeto, et il libro fu mostrato alla Santità di Nostro Signore l’ultima volta che discese in Libraria; Un volume di Instituti Monastichi di cinquecent’anni fa, Un libro di Epistole di Vescovi Germani91 et in particolare del Vormatiense al tempo di Carlo Calvo, delle quali il Grottero Bibliotecario ne scrisse il giudicio nel libro di propria mano cosi, Pauca bona. La scrittura de i più boni cosi sacri come profani difficilmente ariva all’antichità di cinquecent’anni; et rarissimi toccano li settecento. Li manoscritti greci non hanno cosa di gran consideratione che prima non fosse in Libraria Vaticana; anzi non si possono comparare con quelli Centocinquanta che Monsignor Solino ha donati à Nostro Signore li quali sono scelti et singolari. 86 Die hier angeführten Handschriften konnten wegen ungenauer Angaben nicht indentifiziert werden. 87 Vermutlich handelt es sich um Pal. lat. 1715: In Prudentii Carmina glossae antiquae. 88 Vermutlich handelt es sich um Pal. lat. 580 oder 581: Canonum antiqua collectio. 89 Vermutlich handelt es sich um Pal. lat. 555: Canonicorum regula Chrodegangi Episcopi Metensis. 90 Vermutlich handelt es sich um Pal. lat. 244: S. Fulgentii Episcopi et Confessoris libri obiectionis Regis Africanae. Trasamundi, De Mysterio Mediatoris, De immensitate Filii Dei, De Sacramento Dominicae Passionis. 91 Die beiden Handschriften konnten bislang nicht nachgewiesen werden.
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 6456, f. 3r.
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Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 6456, f. 3v.
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EIN BIBLIOTHEKSTRANSPORT
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Tav. III – Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 6456, f. 47r.
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MAURA MENGHINI
IL CONCERTO IN ONORE DI GIOVANNI PIERLUIGI DA PALESTRINA DEL MAGGIO 1880 DOCUMENTI DELLA SOCIETÀ MUSICALE ROMANA CONSERVATI NEL FONDO “CIRCOLO SAN PIETRO” DELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA* Con questo contributo si intende ricostruire l’iter attraverso il quale fu organizzato, dalla Società Musicale Romana, il Grande Saggio Pubblico in onore di Giovanni Pierluigi da Palestrina nel maggio 1880. L’analisi dei documenti dell’archivio della Società Musicale Romana, acclusi al fondo “Circolo San Pietro”1 della Biblioteca Apostolica Vaticana * Doverosi e sentiti ringraziamenti al dottor Marco Buonocore, Scriptor Latinus e Direttore della Sezione Archivi della Biblioteca Apostolica Vaticana, che ha reso possibili le mie ricerche e che ha sostenuto la realizzazione del presente articolo. Si ringrazia altresì la professoressa Jacqueline Hamesse per aver supervisionato le lettere in lingua francese accluse all’appendice documentaria e la dottoressa Barbara Di Odoardo per avermi assistito nella descrizione tecnica del busto di Giovanni Pierluigi da Palestrina. Questo contributo presenta in appendice la trascrizione di lettere autografe che sono state presentate uniformandone in minima parte l’aspetto, inevitabilmente eterogeneo perché di autori diversi. Si è scelto di allineare in alto a sinistra le date, le intestazioni dei mittenti, i nomi dei destinatari e, dopo il corpo della lettera, in basso — a destra o a sinistra — le firme (con in basso a sinistra le date quando nell’originale lo scrivente ha preferito mettere la data in calce). Sono state tralasciate le correzioni dell’autore (solo in alcuni casi significativi se ne è dato conto in nota). Le abbreviazioni non sono state sciolte e le sottolineature sono state rese con il corsivo; le virgolettature sono state uniformate alle virgolette alte anche quando nell’originale erano basse. Le parole arcaicizzanti sono state trascritte fedelmente, mentre quelli che sono stati considerati errori minimi dell’autore nella scrittura dei testi sono stati trascritti con la giusta grafia. Le lettere scritte in lingua francese sono state presentate secondo l’ortografia francese corrente. Gli interventi redazionali sono stati aggiunti tra parentesi quadre e i cambi di foglio sono stati segnalati con una barra. Ogni documento è identificato tramite la propria segnatura. In alcuni casi si è deciso di attuare le seguenti abbreviazioni: BAV = Biblioteca Apostolica Vaticana, CSP = fondo “Circolo San Pietro”, SMR = Società Musicale Romana. 1 Il Circolo San Pietro fu fondato nel 1869 da Pio IX, alla vigilia del tramonto dello Stato Pontificio. In quegli anni Roma vide il definitivo affermarsi non solo delle ideologie liberali e patriottiche, ma anche di decise e aperte posizioni anticlericali. Con la stessa forza, ma in opposta direzione, si costituirono gruppi, associazioni e giornali a sostegno dei princìpi cattolici. Il Circolo San Pietro nacque per iniziativa di alcuni giovani romani, il cui fervente spirito religioso e la fedeltà verso il pontefice si concretizzarono attraverso la realizzazione di opere caritatevoli a beneficio di numerose categorie di bisognosi (furono create mense e Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 383-439.
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ha reso possibile la ricostruzione dei passaggi fondamentali della vita di questo consorzio culturale, la cui attività, iniziata nel 1874, si protrasse fino al 1890 e di cui il concerto del 1880 fu l’iniziativa meglio riuscita. In particolare, l’esame della corrispondenza tra i dirigenti della Società Musicale e gli importanti musicisti coinvolti nelle prestigiose accademie da essi organizzate, ha svelato aspetti inediti dell’attività concertistica di questa filarmonica che si distinse per essere una delle più attive associazioni musicali di Roma alla fine del XIX secolo2. La Società Musicale Romana si costituì in un periodo di forte crisi dell’Accademia Filarmonica Romana, associazione musicale con alle spalle un cinquantennio di attività e che, dopo l’arrivo dei piemontesi a Roma nel 1870, aveva raccolto intorno a sé numerosi soci di estrazione filomonarchica3. Questo nuovo indirizzo dell’Accademia Filarmonica non piacque a quella parte di soci ancora sostenitori del vecchio regime, cosicché alcuni di essi decisero di dimettersi e fondare la Società Musicale Romana, di stampo clericale, con lo stesso assetto statutario dell’Accademia Filarmonica4, ma con il non troppo soggiaciuto intento di esserne l’antagonista. La prima adunanza generale della Società Musicale Romana ebbe luogo il 22 febbraio 1874 e vi aderirono settantacinque soci contribuenti (intellettuali e persone provenienti dal ceto aristocratico e alto borghese) e dormitori per i poveri, si diede supporto ai pellegrini, fu promossa l’istruzione popolare, fu data assistenza ai minori e ai malati). Il Circolo S. Pietro, fra i poveri e gli emarginati, Roma 2006, pp. 13-29. Quando la Società Musicale Romana interruppe la propria attività, intorno al 1890, passò il testimone al Circolo San Pietro, che si impegnò nella realizzazione di alcuni concerti di beneficenza. A. DE ANGELIS, Domenico Mustafà, la Cappella Sistina e la Società Musicale Romana, Roma 1926, p. 164, nt. 4. È probabilmente questo il motivo per il quale l’archivio del Circolo San Pietro custodì per molti anni la parte contabile e amministrativa dell’archivio della Società Musicale Romana. Nel 1969, tutto l’archivio antico del Circolo — compreso il materiale della Società Musicale Romana — fu affidato alla Biblioteca Apostolica Vaticana. Queste vicende sono un valido motivo per ritenere che i documenti della Società siano inediti. Dopo la pubblicazione di Alberto De Angelis del 1926 (cfr. supra), infatti, la Società Musicale Romana non è stata più argomento d’indagine musicologica approfondita; i suoi documenti, una volta affidati al Circolo San Pietro sono rimasti in giacenza senza più essere esaminati (così riferiscono i soci responsabili dell’archivio del Circolo) e anche dopo il trasferimento alla BAV nel 1969 (come conferma il dott. Marco Buonocore, Scriptor Latinus e Direttore della Sezione Archivi della Biblioteca Apostolica Vaticana), non erano stati ancora consultati fino ad ora. 2 L’appendice che segue (cfr. infra pp. 400-423) è costituita da una selezione dei documenti dell’archivio della Società Musicale Romana, quelli cioè ritenuti più utili a ricostruire le fasi dell’organizzazione del concerto dedicato a Giovanni Pierluigi da Palestrina. 3 A. QUATTROCCHI, Storia dell’Accademia Filarmonica Romana, Roma [1991], p. 85. 4 Una copia della Statuto della Società Musicale Romana è conservato alla BAV, CSP, XVI, 4, ff. 3r-10v.
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novantuno esercenti (dilettanti e professionisti di musica che avrebbero partecipato esibendosi nelle accademie)5. Il Presidente della Musica, quello che oggi chiameremmo il “direttore artistico”, fu affiancato da un Principe Presidente (il primo fu don Emilio Altieri) e fu coadiuvato da un Presidente della Finanza oltre che da un segretario (incarico ricoperto per lunghi anni da Alberto Antonini). Il maestro Domenico Alari, Presidente della Musica, dopo aver inaugurato nel maggio 1874 l’attività sociale con il Mosè di Rossini6 in forma oratoriale, lasciò ben presto il suo compito (perché allontanatosi da Roma) affidando la guida artistica della Società a Domenico Mustafà7. 5
DE ANGELIS, Domenico Mustafà cit., p. 112. Per il saggio pubblico del maggio 1874, fu presa in subaffitto per un mese la Sala Dante in via della Stamperia nr. 4, allora sede della Società Orchestrale Romana. 7 Domenico Mustafà (Sterpare, Sellano 16.4.1829 – Montefalco 17.3.1912). Soprano, direttore di coro, direttore d’orchestra e compositore. Dopo un apprendistato di tre anni a Roma, sotto la guida del suo maestro e tutore Giovanni Tubilli, al quale la famiglia lo aveva affidato, nel 1842, a tredici anni, Mustafà fu assunto come soprano presso la cattedrale di Anagni. Nonostante si fosse già messo in evidenza nella composizione, le sue accresciute capacità nel canto lo riportarono a Roma nel 1848, questa volta cantore nel Collegio dei Cappellani Cantori Pontifici: la Cappella Sistina. Presto fu considerato il migliore soprano di quella illustre compagine e, dopo aver ricoperto per alcuni anni il ruolo di direttore dei solisti, nel 1881 fu nominato “direttore perpetuo”, carica che nella secolare istituzione della Sistina era stata conferita solo al maestro Giuseppe Baini. La sua forte personalità e la sua competenza professionale, ben presto non limitata solamente al canto, lo portarono ad essere considerato uno dei personaggi di spicco nella Roma del passaggio dallo Stato della Chiesa allo Stato Monarchico Italiano. Fu maestro di celebri cantanti (Emma Calvé, Antonio Cotogni, Alessandro Moreschi) e i compositori più importanti dell’epoca tennero in gran conto le sue esibizioni e le sue iniziative musicali. Alla guida della Società Musicale Romana dal 1875, prima del concerto del 1880, ebbe il merito di promuovere la riscoperta di grandi capolavori del passato (La Vestale di Spontini, il Messia di Händel, ecc.). L’innegabile valenza delle sue composizioni, grazie alla quale alcuni lo soprannominarono “il Verdi della musica sacra”, non lo sottrasse tuttavia alle severe analisi operate dai fautori del Cecilianesimo, che auspicavano un ritorno alla musica sacra rigorosa e completamente asservita alla solennità del Rito. Le musiche di Mustafà, restate nel repertorio della Cappella Sistina per decenni, furono accantonate perché considerate troppo legate allo stile ottocentesco, mentre la musica sacra destinata alle esecuzioni dei Sistini iniziava ad esprimersi attraverso una maggiore aderenza allo stile dalla polifonia classica della Scuola Romana. Su Mustafà vd.: Cenni biografici del Comm. Mustafà, in La Vera Roma (4 luglio 1897); FAMULUS (pseud. di R. BUCCHI), Gli uomini del giorno, Mustafà, in La Patria [ex Corriere d’Italia] (6 febbraio 1903); G. M. BRUNI, Il Maestro Domenico Mustafà, in Ars et Labor (15 gennaio 1910), pp. 12-16; DE ANGELIS, Domenico Mustafà cit.; L. PICONE, Un famoso soprano della Cappella Sistina, Domenico Mustafà, in Lazio ieri e oggi 30 (1994), pp. 33-35; L. LUCIANI, Il musicista Domenico Mustafà, cantore, compositore e direttore, in ,QPHPRULDGHO0Ý'RPHQLFR0XVWDIj16/I (2002), pp. 7-17; S. NESSI, Cronologia della vita e dell’attività artistica di Domenico Mustafà, in In memoria del 0Ý'RPHQLFR0XVWDIj16/I (2002), pp. 19-60; M. MENGHINI, Domenico Mustafà. Una voce di passaggio, tesi di laurea in lettere moderne, Facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli Studi di Perugia, a.a. 2009-2010. 6
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Con l’arrivo del nuovo maestro8 l’attività della Società Musicale Romana ebbe una svolta e, nei primi mesi del 1875, Mustafà si mise al lavoro per preparare il secondo grande saggio pubblico con l’opera La Vestale di Gaspare Spontini9. Alla prima, alla Sala Dante a Palazzo Poli, intervennero i più illustri nomi dell’ambiente musicale di Roma: Filippo Marchetti, Luigi Mancinelli, Achille Lucidi, Giovanni Sgambati, Giuseppe Libani, Adolf Berwin, Filippo Sangiorgi, Eugenio Terziani, Cesare De Sanctis, Francesco Paolo [?] Tosti, Giuseppe Mililotti e molti altri maestri, tutti concordi nel decretare il successo dell’esecuzione10 . L’anno successivo, il 1876, la Società Musicale Romana, per il suo terzo saggio pubblico cambiò indirizzo scegliendo di eseguire per la prima volta in Italia la versione integrale del Messia di Georg Friedrich Händel11. Questa fu anche l’occasione per inaugurare la nuova sede della Società che dalla Sala Dante, presso la Fontana di Trevi, era passata per un breve periodo a Palazzo Altemps a piazza Sant’Apollinare e che da allora si sarebbe stabilita definitivamente a Palazzo Doria-Pamphilj a piazza Navona (chiamata ancora Circo Agonale). Tutti i grandi saggi annuali, dal 1875 ideati e organizzati da Domenico Mustafà12, raccolsero unanimi consensi, ma l’attività di quest’ultimo come Presidente della Musica della Società Musicale Romana ebbe il suo apice nel Grande Saggio Pubblico in onore del Palestrina che nel maggio 1880 ebbe luogo a Palazzo Doria-Pamphilj. 8
Domenico Mustafà è registrato per la prima volta come Presidente della Musica nel verbale del 10 gennaio 1875. BAV, CSP, XVI, 4, f. 394r. 9 L’opera La Vestale, mai eseguita fino allora a Roma, fu presentata in forma oratoriale. 10 A questa lista, pubblicata nella biografia di Domenico Mustafà di Alberto De Angelis, sono stati aggiunti i nomi di battesimo dei maestri che intervennero alla serata. Il Tosti che compare potrebbe essere il musicista abruzzese Francesco Paolo Tosti oppure il musicista Enrico Tosti. DE ANGELIS, Domenico Mustafà cit., p. 117. 11 La prima non integrale (senza la terza parte) del Messia, in Italia, si era avuta a Venezia al Teatro San Gallo a San Benedetto il 22 febbraio 1818. G. ROSTIROLLA, La ricezione di Händel a Roma nell’Ottocento, con note istituzionali sulla Società Musicale Romana, in Musica tra storia e filologia: studi in onore di Lino Bianchi, Roma 2010, pp. 427-546. 12 L’allegato nr. 2 al verbale dell’adunanza del 4 aprile 1875 è uno scritto (probabilmente sono gli appunti del discorso del Principe Presidente) in cui, in riferimento alla dipartita di Domenico Alari e alla rinuncia al suo incarico, si legge: «[...] Ma oggi non vaca più quella presidenza. Valendosi delle facoltà che accordava lo Statuto della cessata Accademia Filarmonica, che nella prima Assemblea conveniste che reggesse la Società nascente sino alla compilazione del nuovo, il Consiglio Direttivo, dopo matura disamina, rivolse i suoi voti sopra il chiarissimo Sig. Prof. Mustafà. La sua gentile annuenza ad entrare nel numero dei Socii, ed assumere il grave incarico di Presidente, benignamente a ciò facoltizzato dai Superiori dai quali dipende il rispettabile ceto, cui egli appartiene, serva di sprone a tutt’i membri esercenti della Società a rendergli il compito facile ed operoso [...]». BAV, CSP, XVI, 4, f. 370r.
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L’archivio della Società Musicale Romana custodisce le lettere con le quali si presero gli accordi necessari ad organizzare questo importante concerto, in occasione del quale si inaugurò anche un busto marmoreo raffigurante il celebre compositore prenestino13. Le lettere, accluse al fondo “Circolo San Pietro” della Biblioteca Apostolica Vaticana, riguardano personaggi tra i più importanti del panorama musicale dell’epoca, italiano ed estero, che avrebbero dovuto comporre brani inediti per l’occasione. Tra i mittenti spiccano i nomi di Giuseppe Verdi, Arrigo Boito, Amilcare Ponchielli, Franz Liszt, Charles Gounod, Ambroise Thomas e Cosima Wagner che rispose per conto del marito. Secondo le fonti bibliografiche14, il maestro Domenico Mustafà decise di costruire un programma in cui fossero presenti brani di nuova composizione dei succitati musicisti, alternati a pezzi della polifonia sacra del Palestrina. Negli anni in cui iniziò a collaborare con la Società Musicale Romana, il maestro Mustafà già godeva di ottima stima nell’ambiente musicale e con la sua abilità nell’intessere relazioni interpersonali, in lui feconda quanto le sue capacità tecniche e artistiche, riuscì a convincere nomi così importanti a partecipare al suo progetto. Domenico Mustafà, arrivato a Roma ancora bambino come evirato cantore, apprendista presso la Cappella Giulia, era stato, negli anni ’50 del secolo XIX, il più stimato soprano del Collegio dei Cappellani Cantori Sistini. Per questa compagine, nota ai più come Cappella Sistina, si produsse anche come compositore (sin dal 1855) e, ottenuto col tempo anche il ruolo di “direttore perpetuo dei solisti”, nel 1881 fu nominato da papa Leone XIII “direttore perpetuo” della secolare istituzione pontificia. Forte del suo decennale servizio in Sistina e ora anche illuminato organizzatore in seno alla Società Musicale Romana, il 29 giugno 1879, Mustafà accompagnato dal Principe Presidente don Paolo Borghese e dal marchese Pietro Marini, si recò a Milano per incontrare personalmente Giuseppe Ver13 I soci si impegnarono a raccogliere i fondi necessari alle spese di realizzazione dell’opera. DE ANGELIS, Domenico Mustafà cit., p. 134. Il monumento fu progettato dall’architetto Andrea Busiri e realizzato in marmo dallo scultore Giuseppe Sciomer: «[...] il Consiglio dispone, che vengano subito ordinati al Sig. Cav. Busiri Architetto, ed al Sig. Scultore Sciomer i lavori del monumento, basati sulla spesa di £ 3800». BAV, CSP, XVI, 4, f. 563v. Tra gli stessi documenti della Società Musicale c’è un appunto su un foglio (f. 558rv) che spiega il significato delle figure simboliche che accompagnano il busto del Palestrina (due putti che simboleggiano la musica vocale e quella strumentale, una fanciulla che rappresenta la dolcezza della musica, due teste di leone, due delfini, fiori e frutta) e il bozzetto dell’opera scultorea (f. 559r) apparso anche nel programma di sala del concerto (Tav. I). 14 DE ANGELIS, Domenico Mustafà cit., p. 133; P. MANGANELLI, Onoranze a Pierluigi da Palestrina per opera della Società Musicale Romana, in App. a Pubblicazione Periodica di Musica Sacra 2/XII (1880), p. 1.
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di e convincerlo a partecipare al concerto palestriniano con una sua composizione. I tre delegati della Società Musicale Romana furono accolti da Verdi con il massimo rispetto, tanto che ebbero il raro privilegio di assistere alla prova generale della Messa da Requiem alla Scala che si sarebbe tenuta a favore dei danneggiati del Po e dell’Etna15. Sembra che Verdi abbia approvato ed elogiato il progetto senza però dare conferma formale di una sua partecipazione16. Il proposito di unire al nome del Palestrina quello di Verdi, che aveva pronunciato il celebre motto «tornate all’antico e sarà un progresso»17, purtroppo rimase irrealizzato perché nel febbraio del 1880 il Maestro bussetano, ringraziando per il diploma di Socio Presidente onorario che la Società gli aveva inviato, e accettando la carica — cosa assai rara in Verdi — si dichiarava impossibilitato a prodursi in una nuova composizione destinata alle celebrazioni palestriniane della Società. I suoi impegni, come spiegò 15
Ibid., p. 2. Ibid., p. 2; BAV, CSP, XVI, 5, ff. 604r-605r. Cfr. infra App. doc. nr. 8. 17 Lo storico della musica e compositore Francesco Florimo (San Giorgio Morgeto 1800 – Napoli 1888), in qualità di archivista e direttore della biblioteca del Conservatorio di Napoli, scrisse a Verdi per invitarlo ad assumerne la carica di direttore. Il Maestro da Genova, il 5 gennaio 1871, gli rispose dicendo di non poter accettare; fu in quella lettera che Verdi, confermando le sue idee sull’importanza dello studio del Palestrina e della musica antica, pose come suggello la famosa frase: «[…] immaginate se io sarei fiero di occupare quel posto, dove sedettero fondatori di una scuola Alessandro Scarlatti, e poscia Durante e Leo. Mi sarei fatta una gloria (né in questo momento sarebbe un regresso) di esercitare gli alunni a quegli studii gravi e severi, e in un così chiari, di quei primi padri. Avrei voluto, per così dire, porre un piede sul passato e l’altro sul presente e sull’avvenire;… ché a me non fa paura la musica dell’avvenire. Avrei detto ai giovani alunni: — Esercitatevi nella fuga costantemente, tenacemente, fino alla sazietà, e fino a che la mano sia divenuta franca e forte a piegar la nota al voler vostro. Imparerete così a comporre con sicurezza, a disporre bene le parti ed a modulare senz’affettazione. Studiate Palestrina, e pochi suoi coetanei; saltate dopo a Marcello, e fermate la vostra attenzione specialmente sui recitativi. Assistete a poche rappresentazioni delle opere moderne, senza lasciarvi affascinare né dalle molte bellezze armoniche ed istrumentali, né dall’accordo di settima diminuita, scoglio e rifugio di tutti noi, che non sappiamo comporre quattro battute senza una mezza dozzina di queste settime. Fatti questi studii, direi infine ai giovani: Ora mettetevi una mano sul cuore; scrivete; e (ammessa l’organizzazione artistica) sarete compositori … in ogni modo non aumenterete la turba degli imitatori e degli ammalati dell’epoca nostra, che cercano, cercano e (facendo talvolta bene) non trovano mai. Nel canto avrei voluto pure gli studii antichi uniti alla declamazione moderna. Per mettere in pratica queste poche massime, facili in apparenza, bisognerebbe sorvegliare l’insegnamento con tanta assiduità, che sarebbero pochi, per così dire, i dodici mesi dell’anno. Io che ho casa, interessi, fortuna, tutto, tutto qui, domando a voi stesso, come potrei farlo? Vogliate dunque, mio caro Florimo, essere interpetre del mio grandissimo dispiacere presso i vostri colleghi ed i tanti musicisti della vostra bella Napoli, se io non posso accettare questo invito tanto onorevole per me. Auguro troviate un uomo, dotto soprattutto e severo negli studii. Le licenze e gli errori di contrappunto si possono ammettere e sono belli talvolta in teatro, in conservatorio no!… Tornate all’antico e sarà un progresso [...]». F. FLORIMO, Riccardo Wagner ed i wagneristi, Ancona 1883, pp. 107-108. 16
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nella sua lettera di rinuncia, e la sua prossima dipartita dall’Italia non erano conciliabili con le richieste della Musicale Romana18. Tuttavia, il completamento del Pater noster a cinque voci e dell’Ave Maria per soprano e orchestra d’archi19, che si fa cadere nell’ottobre del 187920, porta a qualche congettura. Un’altra associazione filarmonica, la Società Orchestrale di Milano, nell’aprile di quell’anno aveva offerto a Verdi la presidenza onoraria, ma il Maestro, che non amava ricevere queste cariche, l’aveva rifiutata. Nei mesi successivi a quel rifiuto, la Società Orchestrale di Milano fece al Maestro la proposta di partecipare, con un pezzo sacro, ad un loro concerto. Si potrebbe ipotizzare che Verdi, dopo il rifiuto della presidenza, avesse pensato di offrire ai milanesi i due pezzi sacri già pronti o in corso d’opera per la Società Musicale Romana, e poi, resosi conto di non disporre di altro tempo per un nuovo lavoro, avesse scritto il 9 febbraio 1880 ai romani, declinando l’invito. Sottolineando che questa ipotesi scaturisce dalla coincidenza della proposta della Società Musicale Romana di comporre un pezzo di ispirazione religiosa con la composizione da parte di Verdi di due brevi pezzi sacri, decisamente rari nella sua produzione, non crediamo che le parole di rammarico espresse da Verdi nella sua lettera, presente nell’archivio della Società, siano insincere ma che il Maestro, come scrive chiaramente, abbia avuto poi impegni assai più gravi a cui prestare attenzione. Il Pater noster e l’Ave Maria furono eseguiti alla Scala di Milano il 18 aprile 1880, diretti da Franco Faccio, in occasione del secondo concerto della Società Orchestrale di Milano, un mese prima del concerto a Roma in onore del Palestrina21. Non è improbabile che, avendo ricevuto dalle due associazioni una proposta pressoché identica, il Maestro Verdi abbia preferito questa volta non deludere i milanesi, dopo il rifiuto della presidenza onoraria qualche tempo prima. È possibile però che i vertici della Società Musicale Romana avessero cercato di insistere per ottenere una qualche partecipazione di Verdi e deve esserci stato un momento in cui si prospettò l’ipotesi di una replica a Roma del Pater noster confluito nel concerto della Società Or18
BAV, CSP, XVI, 5, f. 406rv. Cfr. infra App. doc. nr. 33. Giuseppe Verdi, come i suoi contemporanei, attribuiva a Dante Aligheri le parafrasi del Pater noster e dell’Ave Maria da lui musicate. In realtà tali “volgarizzazioni” del testo latino risalgono alla fine del XIV sec. e sono state successivamente attribuite ad Antonio de’ Beccari da Ferrara. Carteggio Verdi-Ricordi 1880-1881, a cura di P. PETROBELLI et alii, Parma 1988, p. 5, nt. 2. 20 C. GATTI, Verdi, Milano 1951, p. 643. 21 Il concerto di Milano, come quello imminente a Roma, prevedeva solo musiche di ispirazione religiosa di autori classici (Palestrina, Cherubini, Stradella) e di autori moderni (Bazzini, Rossini, Verdi, ecc). Il coro di trecento voci era formato dalle alunne del Conservatorio, dai cori della scuola popolare di musica e delle principali società cittadine e dagli artisti del coro della Scala. Ibid., pp. 649-650. 19
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chestrale di Milano. Scriveva infatti Giuseppe Verdi a Giulio Ricordi il 28 aprile 1880 da Genova: «[...] Caso mai vi domandassero il Pater per Roma credo sarebbe bene di facilitare l’esecuzione in quei due punti veramente difficili alla pagina 8a ed alla 11a 22. Il numero delle battute è eguale e poco il cambiamento di note. È facile, anche troppo come vedrete [...]»23. Qualche settimana dopo, all’amico d’infanzia Giuseppe Piroli, confidava in una lettera: «[...] Ho mandato un telegramma a D’Arcais in risposta ad uno segnato da diversi Maestri tra i quali, indovinate! Sgambati: ma che! Niuno può impedire di eseguire per le feste a Palestrina il Pater, che è stampato. Io però non verrò a Roma (resti fra noi) [...]»24. Sebbene Giuseppe Verdi avesse rinunciato a partecipare al saggio di Roma, l’invito rivolto ad altri illustri maestri ebbe esito positivo e per l’inizio del 1880, la Società poté cominciare a definire la portata dell’iniziativa. Le lettere spedite furono accompagnate da un diploma d’onore per i maestri invitati che furono, oltre Giuseppe Verdi: Lauro Rossi, Filippo Marchetti, Richard Wagner, Franz Liszt, Charles Gounod, Ambroise Thomas, Amilcare Ponchielli, Arrigo Boito, Eugenio Terziani, Carlo Pedrotti, Antonio Bazzini, Teodulo Mabellini, Pietro Platania, Salvatore Meluzzi, Gaetano Capocci e Settimio Battaglia25. Meluzzi, Capocci e Battaglia, maestri delle tre basiliche patriarcali di Roma26 e invitati in qualità di successori del Palestrina, decisero di comporre insieme una cantata su un unico testo, musicalmente tripartita, dal titolo O Pierluigi, italo genio salve!, scritta da padre Enrico Valle in cui, con versi colmi d’enfasi — perfettamente in linea con le poesie celebrative dell’epoca — si offriva un ritratto del Palestrina Maestro, padre e genio immortale27. Franz Liszt, la cui vita fu fortemente legata alla città di Roma, com22 Le pagine a cui si riferisce Verdi sono quelle dell’edizione a stampa (ed. Ricordi) del Pater noster. L’autografo verdiano riporta una versione alternativa delle battute 85-90 e 112118 che il compositore scrisse per facilitarne l’intonazione. Carteggio Verdi-Ricordi a cura di P. PETROBELLI et alii cit., p. 42, nt. 1. 23 Ibid., pp. 41-42. 24 La fonte bibliografica consultata riporta solo un estratto della lettera a Piroli, e non ne fornisce la data. Tuttavia, nella lettera si fa riferimento ad una visita all’Esposizione di Torino che i coniugi Verdi fecero nel maggio 1880. F. ABBIATI, Giuseppe Verdi, Milano 1959, pp. 125-126. 25 BAV, CSP, XVI, 5, ff. 607r-608r; 609r. Cfr. infra App. docc. nrr. 9, 10. Franz Liszt, Salvatore Meluzzi, Gaetano Capocci e Settimio Battaglia ricevettero una lettera diversa da quella inviata agli altri maestri perché erano gli unici ad essere già soci della Società Musicale Romana. Ibid., f. 610r. Cfr. infra App. doc. nr. 11. 26 Le basiliche di San Pietro, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore. 27 BAV, CSP, XVI, 5, ff. 374r, 392r, 394r, 410rv. Cfr. infra App. docc. nrr. 26, 22, 23, 38.
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ponendo per questo concerto, dimostrò ancora una volta il suo interesse a partecipare alla vita musicale della capitale. Socio dal 29 aprile 187928, Liszt offrì un Cantantibus organis per contralto, coro e orchestra e diede un contributo economico di cento lire a favore delle raccolta fondi per la realizzazione del busto marmoreo raffigurante Palestrina che si sarebbe inaugurato in quella occasione29. Eugenio Terziani, Carlo Pedrotti, Antonio Bazzini, Teodulo Mabellini, Pietro Platania, Lauro Rossi, considerati oggi autori minori, furono stimati all’epoca come valenti musicisti e furono impegnati nelle realtà musicali dei maggiori capoluoghi d’Italia; invitati a partecipare, si mostrarono tutti onorati di offrire loro composizioni che, seppure conformi alle disposizioni date dalla Società, ossia di avere in sé un carattere sacro, furono assai diverse per organico e ispirazione30. L’operista Filippo Marchetti, i cui sentimenti di amicizia che lo legavano a Mustafà furono rinnovati nel frontespizio del suo Salve Regina31, 28
Ibid., f. 515r. Cfr. infra App. doc. nr. 6. Ibid., f. 616rv: minuta della lettera in cui il consiglio della Società rende nota la delibera di erigere un busto a Giovanni Pierluigi da Palestrina; ibid., f. 620r: convocazione della riunione per la raccolta fondi per erigere il busto firmata dal principe Paolo Borghese, 1 dicembre 1879; ibid., f. 622r: stampato della circolare che invita a sottoscrivere quote per la sua realizzazione. Sistemato nel fondo di una grande sala del Palazzo Doria-Pamphilj — da quella occasione in poi nominata Sala Palestrina — nel lato opposto alla porta d’ingresso, il busto recava la seguente iscrizione: A GIOVANNI PIERLUIGI DA PALESTRINA / LA SOCIETÁ MUSICALE ROMANA / MDCCCLXXX. Nel 1900 (in concomitanza dello sfratto per morosità dell’Accademia Filarmonica Romana, subentrata nell’utilizzo della Sala dopo la fine delle attività della Società Musicale Romana) l’opera fu donata da Alfonso Doria Pamphilj alla Regia Accademia di Santa Cecilia e sul nuovo basamento che servì ad accogliere il busto decontestualizzato, fu iscritto: QUESTO BUSTO / DI / GIOVANNI PIERLUIGI / DA PALESTRINA / INAUGURATO / DALLA SOCIETÁ MUSICALE ROMANA / QUANDO NELL A MDCCCLXXXV [sic] / DIRETTORE DOMENICO MUSTAFÁ / COMMEMORAVA / IL PRINCIPE DELLA MUSICA / DA D ALFONSO DORIA PAMPHILY / FU DONATO / ALLA R ACCADEMIA DI S CECILIA / A DI XXXI OTTOBRE MCM. In questa nuova epigrafe si evidenzia la cancellatura della colorazione del numerale V nel tentativo di rimediare a un errore di datazione. Attualmente la scultura si trova nell’atrio della sede legale dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia a Roma in via Vittoria 6. La sistemazione può certamente considerarsi inadeguata: è stato modificato il punto di vista dell’osservatore e l’opera è stata privata della cornice che arricchiva la nicchia ospitante il busto eliminando così un importante complemento carico di valori simbolici. Il busto è stato privato poi della sua basetta originale, fatto che contribuisce all’aberrazione della lettura dell’opera (Tavv. I, II, V). 30 Ibid., ff. 372rv, 376r, 378r-379r, 380rv, 382rv, 384r-385r, 408r-409r, 609r, 629r-630v, 650rv, 675rv, 683r, 685rv, 698r. Cfr. infra App. docc. nrr. 25, 13, 14, 15, 16, 18, 34, 10, 17, 28, 35, 36, 37, 41. 31 Il frontespizio dell’autografo, presente nel fondo musicale dell’Accademia Filarmonica Romana recita: All’amico mio carissimo / Domenico Mustafà / F. Marchetti / Milano 10 aprile 80 / Salve Regina / per Barittono [sic] / e coro di donne. M. CASINI – CORTESI, Il genio dell’armonia. Manoscritti ed edizioni musicali dell’Accademia Filarmonica Romana, Roma 2006, p. 134. 29
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fu il più celebre degli italiani che parteciparono al progetto32. Arrigo Boito decise di non accettare e in una breve lettera — con lo stile pungente che lo caratterizzava — dichiarò: «[…] non oso accettare l’invito che mi si fa di scrivere un componimento musicale in omaggio a Pier Luigi da Palestrina. Il tema è troppo alto perch’io ardisca affrontarlo e s’anco non mi mancasse l’audacia il tempo mi mancherebbe a un simile lavoro […]»33. Amilcare Ponchielli scrisse alla Società motivando così il suo rifiuto: «[…] dovrò assistere alla messa in scena della mia nuova opera Il figliuol prodigo che oggi vado ultimando e istrumentando. Non avrei quindi tempo di preparare un lavoro per la grande circostanza per cui sono dalla S.V. invitato, e che richiederebbe tempo ed ogni mia attenzione […]»34. I francesi Gounod e Thomas invece accettarono, persuasi a scrivere per l’occasione dal marchese De’ Cinque, intermediario della Società a Parigi. Gounod, in un primo momento, il 28 dicembre 1879, scrisse al marchese dicendo di non avere il tempo necessario per comporre un pezzo degno di quella importante commemorazione, ma il marchese, pur di ottenere una vittoria, fece in modo di coinvolgerlo ugualmente e accettò di ricevere dal maestro un Miserere già scritto per un’esecuzione da tenersi nel marzo 1880 in una chiesa francese. Il Principe Presidente Paolo Borghese, accettò il compromesso proposto dal suo intermediario a patto che il Miserere fosse eseguito per la prima volta in Italia dalla Società Musicale Romana35. Ambroise Thomas, che compose un Preludio per organo stimato dallo stesso autore assai breve, espresse la ferma convinzione di voler partecipare alla commemorazione: «Je suis donc confus de ne vous adresser que peu de lignes; mais j’ai essayé de les écrire dans un style sévère, afin de vous témoigner que je m’associais à vos sentiments […]»36. L’invito fatto all’ultimo grande, Richard Wagner, merita un discorso a parte. Come agli altri compositori, la Società aveva inviato a Wagner la lettera col diploma d’onore e la richiesta di partecipare alla celebrazione «[…] inviando una sua preziosa composizione di soggetto sacro o relativo a Palestrina, con parole latine o italiane, ad una o più voci o coro sempre con accompagnamento di orchestra, ovvero una composizione a sola orchestra, con riguardo di evitare musica senza accompagnamento, dovendo la massa corale eseguire alcuni dei più celebri mottetti di Palestrina […]»37. 32
BAV, CSP, XVI, 5, ff. 372rv, 609r. Cfr. infra App. docc. nrr. 25, 10. Ibid., ff. 390r, 391r. Cfr. infra App. doc. nr. 21. 34 Ibid., ff. 388r-389r, 609r. Cfr. infra App. docc. nrr. 20, 10. 35 Ibid., ff. 400r-401r, 607r-608r, 665rv, 668rv, 667r. Cfr. infra App. docc. nrr. 27, 9, 32, 40. 36 Ibid., ff. 404r-405r, 607r-608r, 665rv, 668rv, 666r. Cfr. infra App. docc. nrr. 31, 9, 32, 39. 37 Ibid., ff. 607r-608r. Cfr. infra App. doc. nr. 9. 33
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Tutti i musicisti, anche Giuseppe Verdi, Arrigo Boito e Amilcare Ponchielli che non aderirono, dimostrarono di aver compreso il genere di richiesta fatta dalla Società, che chiedeva pezzi sacri, anche di stile non osservato, ma comuni nell’ispirazione religiosa dei testi e delle musiche. Con Wagner la Società e il suo presidente si trovarono di fronte ad una sorta di incidente diplomatico. Intanto, la lettera di risposta fu scritta da Cosima, la moglie del Maestro, che spiegava di essere costretta a fare le veci del marito malato; di questo chiedeva venia. Questo particolare sarebbe passato inosservato se Wagner avesse delegato la moglie a porre un rifiuto, come fecero altri, spiegando le sue ragioni. Cosima Wagner invece allegò alla lettera lo Stabat Mater a otto voci per doppio coro del Palestrina che Wagner aveva fatto pubblicare con dei segni dinamici che ne trasferivano sulla carta la sua visione interpretativa: questa era la sua offerta38. Che da Bayreuth si inviasse una tale lettera a Roma, patria elettiva del Palestrina e città detentrice della sua tradizione esecutiva, e che il compositore tedesco si ponesse nella condizione di suggerire a Mustafà come eseguire quella musica, non passò inosservato39. I romani, per non parlare di Mustafà, acclamato direttore dei solisti40 della Sistina, si considerarono offesi, nella migliore delle ipotesi fraintesi, nel ricevere questa risposta. Mustafà, molto dispiaciuto della singolare iniziativa di Wagner, gli rispedì la partitura dichiarando di non poterla accettare perché ritenuta «evidentemente arbitraria»41. Eppure il Presidente della Musica avrebbe avuto molto piacere nel vedere Wagner tra i compositori aderenti alla sua iniziativa. A proposito di questo episodio, ma anche del rifiuto di Verdi poc’anzi narrato, esiste un articolo pubblicato nel 1939 in un periodico di Montefalco che, nonostante alcune gravi imprecisioni, va tenuto in considerazione42. 38
Dice Carlo Schmidl nella sua enciclopedia: «Questa composizione [lo Stabat Mater di Giovanni Pierluigi da Palestrina] che la Cappella Pontificia non tralasciò mai di eseguire la domenica delle Palme, suscitò l’ammirazione di Wagner che ne riprodusse gli accordi iniziali all’evocazione del Venerdì Santo nel Parsifal differenziandolo dall’originale solo col presentare il primo accordo in modo minore. Wagner volle curare anche un’edizione del Miserere peraltro poco felice e niente affatto conforme, perché in vari casi, con segni dinamici e posposizioni azzardate, svisò la purezza della prima concezione palestriniana». Voce “Palestrina” in C. SCHMIDL, Dizionario universale dei musicisti, II, Milano 1929, p. 218. 39 La pubblicazione di cui si parla fu stampata dall’editore Khant (Lipsia, 1878) dopo essere stata eseguita per la prima volta a Dresda l’8 marzo 1848 (Königlich Sächsisches Hoftheater). Voce “Wagner” in Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, a cura di A. BASSO, VIII, Torino 2004, p. 367; DE ANGELIS, Domenico Mustafà cit., p. 134, nt. 2. 40 Mustafà, all’epoca di questo episodio, non era ancora stato nominato direttore perpetuo della Sistina ma da tempo era la più forte autorità musicale dell’istituzione vaticana. 41 DE ANGELIS, Domenico Mustafà cit., p. 134, nt. 2. 42 A. CIMATTI, Domenico Mustafà, in Bollettino mensile della Pro Montefalco 3/III, IV (1939): III, pp. 19-20; IV, pp. 26-29. L’autore dice di aver conosciuto e frequentato il maestro
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Archimede Cimatti, amico del maestro Domenico Mustafà, scrisse nel suo articolo che questi gli parlò spesso degli screzi sorti con i due titani, Verdi e Wagner, in occasione di una celebrazione palestriniana. Il primo dubbio sorge sulla data dei fatti che Cimatti fa risalire al 1894, terzo centenario della morte del Palestrina. Un concerto organizzato da Mustafà in onore del Palestrina si tenne il 26 aprile 189443 nella Sala Clementina in Vaticano ma le fonti non parlano di musiche di Verdi e di Wagner. Che le loro musiche siano state eseguite dai Sistini è un’ipotesi inverosimile, non è escluso quindi che il concerto di cui parla Cimatti possa essere stato quello organizzato dalla Società Musicale Romana nel 1880. Su ciò che riguarda Verdi, Cimatti aggiunge: «Egli mandò una composizione a sole voci che per eseguirla con sicurezza d’intonazione, Mustafà reputò indispensabile l’ausilio di un armonium. Verdi si ostinò con l’opporsi al consiglio di Mustafà; questi non volle avventurarsi in una esecuzione malsicura, di conseguenza il pezzo non figurò in programma. Da qui l’urto. Però il Maestro Mustafà ebbe piena soddisfazione perché fu lo stesso Verdi che, dopo due anni di evitati incontri a Montecatini, lo avvicinò per dirgli che era stato eseguito a Milano quel famoso pezzo, ma in qualche punto fu indispensabile l’intervento di … un armonium! Questa riconciliazione con Verdi servì a far sorprendere Mustafà dall’obiettivo fotografico che egli aveva sempre abilmente sfuggito! Infatti Verdi, d’accordo con uno dei tanti fotografi che nella stagione opportuna s’installano a Montecatini, mentre l’operatore stava nascosto tra la folla, tenne a conversazione Mustafà fino a presa eseguita […]» (Tav. III)44. Viene da supporre che la composizione di cui si parla nell’articolo sia il Pater noster a cinque voci, di cui Verdi aveva fatto nel manoscritto una versione semplificata perché di difficile intonazione alle battute 85-90 e 112-11845. Le fonti testimoniano che Mustafà e Giuseppe Verdi ebbero più contatti nel corso degli anni ed è anche possibile che il litigio di cui parla Cimatti non sia avvenuto nemmeno per il concerto del 1880 (la cosiddetta foto della riconciliazione è della fine del secolo XIX). D’altra parte la lettera Mustafà a Montefalco. Gli aneddoti ascoltati dalla viva voce del maestro furono trasferiti su carta molto tempo dopo — l’articolo è stato pubblicato ventisette anni dopo la morte di Domenico Mustafà — con errori e incongruenze. 43 L. M. KANTNER – A. PACHOVSKY, Storia della Cappella Musicale Pontificia, VI: L’Ottocento, Roma 1998, p. 53. 44 CIMATTI, Domenico Mustafà cit. p. 27 [IV]. Una copia della foto di Verdi con Mustafà a Montecatini, cui fa riferimento Archimede Cimatti, è presente nell’Archivio Fotografico dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia ed è datata sul verso 1896. 45 Cfr. supra p. 390, nt. 22.
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di Giuseppe Verdi acclusa al fondo del Circolo San Pietro (datata 9 febbraio 1880), non accenna ad alcuna questione ed è molto chiara: il Maestro è rammaricato ma ha troppi impegni e non parteciperà46. Del compositore tedesco, invece, Archimede Cimatti dice: «[...] Wagner non rispose nemmeno un rigo ai reiterati inviti di Mustafà il quale peraltro teneva molto alla sua adesione. L’ostinato silenzio di Wagner rese ancor più viva l’insistenza di Mustafà, il quale di fronte all’inutilità dello scrivere, pensò recarsi di persona a Venezia da Liszt per officiarlo a intercedere presso suo genero in merito alla adesione più volte richiesta. Dato che Mustafà non conosceva personalmente Liszt, di cui invece era amico Mercadante, pregò questi di accompagnarlo e così fu stabilito. Qui potrei concludere col dire che Liszt, premettendo di non poter assicurare un esito felice dato il carattere strano di Wagner, s’impegnò d’interessarsene subito [...]». C’è da rilevare un’altra grande imprecisione che mette in dubbio anche l’eventuale spostamento agli anni ’80. Se Mustafà avesse voluto convincere Wagner a partecipare al concerto palestriniano del 1880, come avrebbe potuto incontrare Liszt a Venezia facendosi accompagnare da Saverio Mercadante, già morto nel 1870? Cimatti dice anche che Mercadante accompagnò Mustafà perché quest’ultimo non conosceva Franz Liszt, in realtà una cronaca giornalistica dell’epoca47 documenta che Liszt nel 1865 era presente a Roma ad un concerto diretto da Mustafà e il Maestro ungherese lo aveva sicuramente ascoltato più di una volta in Sistina. Cercando di ordinare i dati forniti da Cimatti, l’incontro a Venezia è avvenuto prima del 1870 se l’accompagnatore fu davvero Mercadante (in questo caso il motivo della visita fu diverso rispetto al coinvolgimento di Wagner al concerto del 1880), oppure Cimatti, oltre a sbagliare la data, ha sbagliato anche il nome del musicista che accompagnò Mustafà a Venezia e il nome di Mercadante, certo presente nei racconti che il maestro Mustafà amava fare agli amici di Montefalco (cittadina alla quale era molto legato e dove possedeva una villa di campagna), può essere stato scambiato con quello di qualche altro illustre suo amico. Maggiori acquisizioni documentarie permetteranno di sciogliere i dubbi sorti dalla lettura dell’articolo di Cimatti, che tuttavia non può essere ignorato. 46 I carteggi personali di Mustafà non sono stati ancora riportati alla luce; l’Istituto Nazionale di Studi Verdiani di Parma non possiede nelle proprie banche dati lettere tra Verdi e i vertici dellla SMR (ossia Domenico Mustafà, il principe don Paolo Borghese e il segretario avvocato Alberto Antonini). 47 L’occasione di cui parla il corrispondente del giornale catalano La Gazeta Musical Barcelonesa fu un funerale in cui fu eseguita una messa di Eugenio Terziani: il 19 maggio del 1865, alla chiesa di S. Andrea della Valle, Domenico Mustafà diresse il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia alla presenza di Franz Liszt. Banca dati digitale RIPM (Retrospective Index to Music Periodicals), http://www.ripm.org; accesso eseguito il 9.3.2011.
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La macchina organizzativa del concerto, nonostante le importanti defezioni, andò avanti e il materiale raccolto fu sufficiente per costituire un nutrito programma. Dopo il 1 marzo 1880, termine ultimo per la presentazione dei lavori, Mustafà e i suoi collaboratori48 iniziarono le prove, alle quali i soci erano tenuti a partecipare con la massima serietà e puntualità. Furono invitati ad assistere critici musicali della stampa nazionale ed estera49, ciò a conferma del fatto che la Società volle dare alla serata l’allure del grande evento. Tutti gli intervenuti si rivelarono entusiasti della musica, degli esecutori e del direttore Domenico Mustafà, che dimostrò a quell’importante parterre di essere in grado di eseguire con successo anche la musica moderna oltre al repertorio tradizionale affrontato in Sistina. Il pubblico fu così numeroso che molta gente non riuscì a entrare (Tav. IV). Il programma della serata fu il seguente50: PARTE PRIMA51
Antonio Bazzini Preludio per Orchestra G. P. da Palestrina Sanctus a 6 voci della Messa detta di Papa Marcello. Coro Cantata in onore di Pierluigi da Palestrina scritta dai tre Maestri delle Patriarcali Basiliche di Roma Poesia del P. E. Valle: Settimio Battaglia, I parte, Solo per Tenore, Salvatore Meluzzi, II parte, Quartetto per Contralto, Tenore, Tenore, Baritono, Gaetano Capocci, III parte, Coro G. P. da Palestrina Tota pulchra – Cantica – Coro a 5 voci Teodulo Mabellini Lux aeterna – Terzetto per Tenore, Baritono, Basso Charles Gounod Miserere – Concertato a quattro, per Soprano, Contralto, Tenore, Basso, Coro con accompagnamento di Harmonium Antonio Bazzini Parafrasi del Salmo LVI – Terzetto per Tenore, Baritono, Basso Pietro Platania Laudate pueri – Solo per Soprano e Coro
48 Mustafà, direttore del concerto, fu coadiuvato nella preparazione da Leopoldo Bellotti, Ernesto Boezi, Adele Cacchiatelli, Filippo Mattoni, Alessandro Parisotti, Remigio Renzi. DE ANGELIS, Domenico Mustafà cit., p. 134. 49 La Società invitò i critici: Biaggi di Firenze, Filippi di Milano, Reyer del Journal des Débats di Parigi, Scheller di Vienna, Michele Ivanoff del Novoje Wremja di Pietroburgo, Otto Lesmann di Berlino. Ibid. 50 Una copia del programma di sala si trova alla Bibliomediateca dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: AS, B, 133/17. 51 Si riportano i titoli delle musiche così come compaiono nell’originale.
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PARTE SECONDA
G. P. da Palestrina Veni Domine52 – Coro a 6 voci Franz Liszt Cantantibus organis – Solo per Contralto e Coro Carlo Pedrotti Agnus Dei – Solo per Tenore e Coro di Tenori e Bassi G. P. da Palestrina Lamentazione53 – Soprano, Soprano, Contralto, Tenore Soli Eugenio Terziani Inno Sinfonico – Poesia di Ferdinando Santini I parte Coro d’Angeli II parte Preludio Sinfonico sul Mottetto “Tu es Petrus” di Palestrina III parte Coro Ambroise Thomas Preludio per Organo Filippo Marchetti Salve Regina – Solo per Baritono e Coro di Soprani e Contralti Lauro Rossi Adoramus te Domine – Coro Tutte le partiture del concerto, tranne quelle dei lavori di Mabellini e di Gounod, sono tra le musiche superstiti della Società Musicale Romana, oggi conservate presso il fondo musicale dell’Archivio dell’Accademia Filarmonica Romana54. Il busto marmoreo raffigurante il Principe della Musica (Tav. V), col permesso del principe Doria, fu collocato nel mezzo della grande parete dell’aula che fino ad allora recava lo stemma della Casa Pamphilj55. Le cronache più dettagliate della serata furono: quella redatta dal socio Pacifico Manganelli56 su L’Aurora del 18 e 19 maggio 1880, quella sulla Roma Artistica, nrr. 14-1557 a firma di Adolf Berwin, gli articoli apparsi su Il Popolo Romano del 18 maggio 1880, su L’Osservatore Romano del 19 maggio 1880 e su L’Opinione del 24 maggio 1880, dove la serata fu re-
52
Veni Domine et noli tardare a 6vv. Incipit lamentatio Jeremiae Prophetae a 4vv. 54 Nel catalogo dei documenti presenti nel fondo musicale dell’Accademia Filarmonica Romana, al nr. 2049 sono indicate 12 partiture con 13 pezzi del concerto: A / GIOVANNI PIERLUIGI / DA PALESTRINA / LA SOCIETÀ MUSICALE ROMANA / (SAGGIO PUBBLICO DEL MDCCCLXXX) / Partiture originali. Di molti brani il fondo conserva anche parti staccate per coro, soli, strumenti dell’orchestra. CASINI – CORTESI, Il genio dell’armonia cit., pp. 298; 408. 55 Così come testimonia il verbale della decima adunanza del Consiglio della SMR (12 gennaio 1880). BAV, CSP, XVI, 4, 562r. 56 Articoli confluiti in: MANGANELLI, Onoranze a Pierluigi da Palestrina cit., pp. 1-8. 57 G. TONETTI, La Società Musicale Romana in La Rassegna Italiana 2/I (1882), p. 11 [estratto]. 53
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censita da Michele Carlo Caputo, a cui il curatore della rubrica musicale marchese Francesco D’Arcais, in quella occasione cedette il suo spazio58. I pezzi che suscitarono maggiori consensi furono l’Inno Sinfonico di Terziani, il Laudate Pueri di Platania, il Lux aeterna di Mabellini, il Laudamus te Domine di Rossi59. Di Gounod, Pacifico Manganelli scrisse: «Del Miserere del Gounod stimiamo superfluo parlare. È forse ancora discutibile la musica del Gounod, specialmente se di genere sacro? Discutibile forse potrebbe essere la scelta per una tale serata accademica: ma pensi altri ciò che vuole a tal proposito, la Società non doveva, non poteva esitare sopra un lavoro di tanto Autore. Malgrado le difficoltà enormi a cui si dovetter sobbarcare e Direttore e cantanti, l’esecuzione fu degna dell’opera; e chi sa di musica ben comprese il pregio dell’una e dell’altra. A molti, dopo quella esecuzione sì piana, sì facile, sì dolce e spontanea, parranno esagerate quelle difficoltà enormi … Si provino!». Lo stesso giornalista scrisse: «Delicato, soave, tranquillo e sobriamente affettuoso il Cantantibus organis del Liszt, non potea in una prima udizione essere pienamente gustato, massime fra composizioni di stile tanto più strepitoso. Né per questo ha colpa il pubblico o mancò di pregio l’autore. Ma per chi ha osservato ieri sera ed osserverà nelle seguenti esecuzioni con quale arte finissima ha saputo l’autore imitar l’organo colle voci, dica se solo questo pregio non ne val mille! Dicasi il medesimo del Preludio per organo del Thomas; qui poi si aggiungano le osservazioni fatte sull’opportunità del Miserere del Gounod: e tutto insieme darà una spiegazione adequata del perché questo gioiello di musica non abbia potuto maggiormente emergere. Il giovane Maestro Boezi lo eseguì stupendamente all’harmonium». La maestria di Mustafà nell’affrontare i pezzi del Palestrina fu evidente; continua Manganelli: «[...] La quale [esecuzione] del resto — senza far torto ad alcuno, ché tutti volentieri lo confessano — come può riuscire sotto la direzione del Mustafà, valentissimo maestro di canto e celebre cantante egli stesso, e cresciuto e nutrito fin dall’infanzia colla musica del Palestrina, non riuscirebbe davvero sotto la guida di nessun altro direttore né qui né altrove [...]»; e più avanti: «[...] Resterebbe a dir qualche cosa del Cav. Mustafà e della sua direzione. Ma che scrivere che già negli anni trascorsi non siasi già scritto? O che dire più che non dica il risultato colossale da lui ottenuto? Egli coll’indurre a scrivere per la Società Musicale Romana i 58
DE ANGELIS, Domenico Mustafà cit., pp. 134-139. Dei pezzi di Eugenio Terziani e di Pietro Platania (presenti in sala), il pubblico chiese subito il bis che però Mustafà non concedette per non affaticare troppo gli esecutori. Il concerto, suddiviso in due parti, iniziò alle ore 21 e si concluse oltre le ore 24. Anche Gaetano Capocci, presente in sala come Terziani e Platania, ebbe grandi applausi. Ibid., pp. 135-137. 59
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primi e i più grandi Maestri viventi, e coll’avere interpretato i loro svariati lavori a tal punto di giustezza da trarne quell’effetto immenso, ha menato la Società e se stesso a tale altezza che qualunque più sfolgorata onoranza sarebbe inadeguata al suo merito. E vorrem tentare di onorarlo con un articolo da giornale? Sarebbe un impicciolirne e quasi offenderne l’animo grande. S’abbia pertanto la nostra più illimitata ammirazione e riverenza; ché ad esprimere quale e quanta essa sia noi non sapremmo trovare parole che bastino. Meritano elogio speciale tutti i solisti che non ci venne fatto di nominare in questa superficialissima relazione. Sono essi le signore Elena contessa Soderini in Cotogni, Ciccognani e Ciuffetti Cecilia ed i signori Alessandroni, Calzanera, Mattoni e Viviani. Il riscuotere applauso fra cori talmente eccezionali è quanto di più lusinghiero si possa bramare. L’orchestra fu degna emula dei cori e il Mustafà ha questa volta mostrato all’evidenza come e quanto valga anche nella direzione strumentale!»60. Il Principe Presidente, in segno di gratitudine, fece dono ai compositori di una medaglia d’oro recante l’effige di Giovanni Pierluigi da Palestrina. La stessa fu offerta agli esecutori in argento e ai soci in bronzo; sul recto, oltre l’immagine fu impressa la scritta: PETRVS ALOIS. PALESTRINA e sul verso SOCIETAS ROMANA / CVLTORVM / ARTIS MVSICAE / A. MDCCCLXXX (Tav. VI)61. Difficile ripetere un successo come quello del concerto al Palestrina del maggio 188062. Dopo quell’evento la collaborazione di Mustafà si fece sempre più sporadica. Il Principe Presidente Paolo Borghese, il 22 novembre di quell’anno rassegnò le proprie dimissioni e il segretario Alberto Antonini lo seguì qualche anno dopo (11 luglio 1886). Il 12 gennaio 1881 Mustafà aveva raggiunto, anche grazie ai suoi risultati alla Società Musicale Romana, il sommo traguardo di direttore generale in perpetuo alla Cappella Sistina e da quella data aveva cominciato ad allentare i legami con l’associazione. La prima proposta di dimissioni fu avanzata da Mustafà nel 1882, ripresentate nel 188363, furono accettate solo nel 1885; si concluse così, dopo dieci anni, la collaborazione del maestro Mustafà come Presidente della Musica. Di lì a poco la Società Musicale Romana avrebbe concluso il suo glorioso corso. Ci furono enormi difficoltà nel trovare personaggi che potessero sostituire degnamente i vertici sociali dimissionari e ciò ebbe un immedia60
MANGANELLI, Onoranze a Pierluigi da Palestrina cit., p. 5. BAV, Medagliere, Md. U. I. XX. 73. 62 Ci furono due repliche, il 21 e il 24 maggio. Il 30 maggio la Società organizzò, presso le sale della sua sede, una serata in onore dei maestri. Alla festa di ringraziamento parteciparono, oltre a Platania, Marchetti, Terziani, Meluzzi e Battaglia, molti esecutori e soci. DE ANGELIS, Domenico Mustafà cit., pp. 140-141. 63 Ibid., p. 146. 61
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to riflesso sulle esecuzioni, in particolare quelle degli anni ’82-84. I concerti non furono più all’altezza del prestigio conquistato negli anni precedenti; molti soci decisero di tornare all’Accademia Filarmonica Romana facendola risorgere dopo un lungo periodo di crisi, mentre la Società Musicale Romana interruppe definitivamente la sua attività nel 1890.
APPENDICE Documenti
1. BAV, CSP, XVI, 5, f. 84rv [Minuta della SMR di una lettera per Domenico Mustafà] Al Maestro Mustafà Monte Falco [sic] Roma 11. Marzo 1878. Pregiat.mo Sig.r Maestro Tanta in me, e nell’intero Consiglio Direttivo, era la certezza che per la nostra Società fosse un inapprezzabile vantaggio di avere Lei a Presid.te della Musica, che non potevamo risolverci a mandarle buone le ragioni, ch’Ella adduceva per dimettersi da quella carica. Altrettanto però si credeva indispensabile ch’Ella, non risiedendo in Roma, si facesse rappresentare da persona che potesse applicarsi al buon andamento della Società meglio che non l’ha potuto fare sin qui il Prof. Cappelloni. Non avendo però Ella creduto di decampare dal sistema sin qui tenuto, il Consiglio nella riunione di venerdì ultimo dové, a grande suo malumore, decidersi a venire alla nomina / di altro Presid.te. È certo ben doloroso che, dopo essere stati portati tant’alto sotto la sua provvida direzione, abbiamo oggi a trovarci così smarriti! Convinto tuttavia, quale io sono, e come me ne sono reso garante in pieno Consiglio che, ritirandosi Ella dalla Presidenza, non si ritirerà per questo, in qualunque circostanza, la sua assistenza benevola e con l’opera e col consiglio, ci riteniamo in sommo grado favoriti di conservarla fra i Maestri della Società; ed io poi in particolare di poterle professare la mia più sincera e distintissima stima in me prodotta dal primo momento ch’ebbi il piacere di avvicinarla. Accolga, La prego, queste cordiali espressioni e mi abbia sempre ecc.
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2. BAV, CSP, XVI, 5, f. 203r [Lettera di Domenico Mustafà alla SMR] Ill.mo ed Ecc.mo Signore Sig. Cav.e Alberto Avv.to Antonini Segretario della Società Musicale Romana Corso N°300 Roma Montefalco (Umbria) 2 Maggio 1878 Ill.mo Signore Sono assai grato a tutti gli Ecc.mi Soci della Società Musicale Romana per l’alto onore che ancora una volta, benché immeritevole, hanno voluto accordarmi eleggendomi a Consigliere della stessa Società. Però la mia duratura assenza da Roma e per conseguenza l’impossibilità di potere intervenire ai Consigli mi impone di rinunziare a tale onorificenza, ritenendomi assai felice se ancora potrò essere solo meritevole di appartenere nell’Albo della sud.tta come semplice socio. Voglia V.S. Ill.ma farsi interprete verso l’Ecc.ma Società dei sentimenti di mia incancellabile gratitudine, nel mentre che con la più alta stima passo al piacere di protestarmi Di V.S Ill.ma Um.mo ed Aff.mo Servitore Domenico Mustafà
3. BAV, CSP, XVI, 5, f. 356rv [Minuta della SMR di una lettera per Domenico Mustafà] Egregio Signor Mo Cav. Domenico Mustafà Foligno per Montefalco Roma 20 Febbraio 1879 Il Consiglio della Società Musicale Romana nell’ultima sua adunanza preoccupandosi delle gravi condizioni in cui versa la Società stessa per la parte musicale nominava una Commissione composta dai sottoscritti Consiglieri allo scopo di proporre al Consiglio un efficace rimedio. Sarebbe qui inutile riferire quali e quanto svariate siano le cause del malessere della Società; queste cause però si riassumono tutte in una, la mancanza di un Direttore della Musica. Sì, manca un uomo il quale, sorgendo sovrano, riunisca volenterosi i Soci esercenti ad un comune intendimento, ad un solo scopo, la gloria della Società. Quest’uomo non può essere altrimenti che lei. Il solo Suo nome, del quale la Società è stata così orgogliosa, può far rivivere questa istituzione, la quale, non giova dissimularlo, è ora sull’orlo della tomba.
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I sottoscritti, i quali con le loro forze si adoperarono per fondare / la Società Musicale Romana, ora che la vedono presso a perire, si rivolgono fiduciosi all’illustre Maestro il quale seppe in poco tempo condurla all’apice della gloria, scongiurandolo a non lasciarla morire. Possa il sacro amore dell’arte ricondurre fra noi quell’uomo che l’invidia o la malignità di qualche individuo ha fatto per somma disgrazia allontanare. I momenti della Società sono supremi e i sottoscritti confidano che una pronta parola della S.V. giunga in tempo a salvarla. I sottoscritti colgono questa circostanza per confermarle i sensi della più chiara stima con la quale hanno il piacere di dichiararsi Della S.V. Dev.mi Servitori firmati Avv. G. Pediconi Avv. A. Forani Avv. C. Pirri
4. BAV, CSP, XVI, 5, f. 363rv [Lettera di Domenico Mustafà alla SMR] Montefalco (Umbria) 23 Febbraio 1879 Preg.mo Signore Avvocato Antonio Forani Roma In replica al preg.mo foglio del 20 corr.e mese col quale V.S. e gli Ecc.mi Suoi Colleghi, componenti la Commissione eletta dal Consiglio della Società Musicale Romana mi propongono di ritornare ad occupare l’onorifica Carica di Presidente della Musica nella stessa Società, devo significare Loro, con il cuore addolorato, che la mia salute in questi ultimi mesi è deperita molto a causa di altri malori sopravvenutimi, e perciò non mi sento forte per potere accettare l’onorifica proposta che con tanta espressione mi è stata fatta. Non nascondo però che sento sommo dispiacere per la situazione in cui si trova la Società, e tutto farei per questa se avessi le forze, giacché ho in cuore sempre quelle dolci ed artistiche soddisfazioni, che la / perfidia di qualcuno volle avvelenarmi è vero, ma però senza lasciare in me traccia di rancore con veruno. Anzi se la mia salute in un giorno risorgesse e mi permettesse di potere sostenere forti fatiche sarò pronto ad unire la mia cooperazione per la gloriosa esistenza della sempre a me cara Società Musicale Romana. Prego V.S. a presentare i miei ringraziamenti all’Ecc.ma Commissione facendosi interprete dei miei sentimenti di riconoscenza e gratitudine, coi quali passo al piacere di protestarmi con ogni stima e considerazione Della S.V. Ill.ma Dev.mo Servitore Domenico Mustafà
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5. BAV, CSP, XVI, 5, f. 493r [Minuta della SMR di una lettera per Domenico Mustafà] Roma 28 Marzo 1879 Ill.mo ed Ecc.mo Signore Maestro Cav. Domenico Mustafà Riuniti in Assemblea generale i Soci della Società Musicale Romana nella sera del 27 corrente, avendo proceduto all’annua rinnovazione delle cariche a forma dello Statuto, eleggevano a grandissima maggioranza di voti la S.V. Ill.ma ed Ecc. ma alla carica di Presidente della Musica nella Società stessa, pel corso del sesto anno sociale. Il sottoscritto Segretario etc. Della S.V.
6. BAV, CSP, XVI, 5, f. 515r [Minuta della SMR per Franz Liszt] Roma 29 Aprile 1879 Ill.mo ed Ecc.mo Signore Maestro Francesco Listz [sic] Il Consiglio della Società Musicale Romana nell’adunanza del giorno 28 corrente, presieduto da S.E. il Principe di Sulmona, sulla proposta del Consigliere Marchese Don Filippo Theodoli, ad unanimità di voti nominava Socio di Onore la S.V., il cui nome risuona chiarissimo tra i grandi Maestri. Nel rimetterle annesso alla presente il relativo diploma, il sottoscritto Segretario con i sensi del più distinto ossequio si dichiara Della S.V.
7. BAV, CSP, XVI, 5, f. 564r [Lettera di Antonio Cotogni alla SMR] Ill.mo Sig. Alberto Antonini Segretario della Società Musicale Romana Ill.mo Signore La prego di rendersi interprete presso questa Illustre Società Musicale Romana, dei miei sensi di perfetta gratitudine per la grande onorificenza impartitami col nominarmi Socio d’onore. Della S.V. Ill.ma Dev.mo Servo A. Cotogni Londra, 5. Luglio 1879
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8. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 604r-605r [Minuta della SMR di una lettera per Giuseppe Verdi] Roma, 28 Novembre 1879 Ill.mo ed Ecc.mo Signore Maestro Giuseppe Verdi In omaggio alla scienza, ad onore del merito, in attestato della profonda stima, da cui la Società Musicale Romana è compresa verso la S.V. Ill.ma, il Consiglio, nell’adunanza del giorno 22 corrente nominava ad unanimità di voti Socio di Onore la S.V., il cui nome circondato di gloria, sublime s’innalza tra i più grandi Maestri, e conferirle al tempo stesso il titolo di Presidente di Onore della Musica nella Società stessa, altiera di avere a suo capo un personaggio tanto illustre, e che le inspirate composizioni del suo genio immortale elevarono al supremo prestigio dell’Arte. / Nel compiere l’onorevole incarico di darle di ciò comunicazione e di trasmetterle il relativo Diploma, i sottoscritti sono a partecipare alla S.V., come già ebbero il piacere di accennarle a voce nell’abboccamento avuto a Milano, che la Società Musicale Romana nel Maggio dell’anno prossimo procederà alla inaugurazione nella grande aula sociale del busto decretato in onore del Principe della Musica Giovanni Pier Luigi da Palestrina. Essendo vivo desiderio di tutti i Soci di celebrare tale inaugurazione con una festa artistica musicale, per la quale sono stati invitati a scrivere i principali Maestri, così i sottoscritti tornano a fare viva preghiera alla S.V., perché voglia concorrervi / inviando qualche sua preziosa [sic] lavoro64, che oltre ad alcune più celebri composizioni65 di Palestrina, verrebbe eseguita nel grande saggio che sarà dato dalla Società in tale circostanza. Degnandosi di scrivere la S.V. vorrà avere la gentilezza d’inviare alla Presidenza la partitura non più tardi del 1 Marzo 1880, onde avere il tempo di prepararne l’esecuzione. Nella fiducia che la S.V. vorrà accettare l’invito ed onorare con una Sua composizione la memoria del grande Maestro di Palestrina, facendo paghi in tal modo i voti della Società, come ci lasciò sperare, i sottoscritti con i sensi della più distinta stima ed ossequio si dichiarano Della S.V. Devotissimi
9. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 607r-608r [Minuta della SMR per Richard Wagner, Charles Gounod, Ambroise Thomas] Roma 28 Novembre 1879 Ill.mo ed Ecc.mo Signore 64 Il termine «lavoro» è stato scritto al posto del termine «composizione», tralasciando la correzione di «sua preziosa» ed «eseguita». 65 L’espressione «ad alcune più celebri composizioni» ha sostituito «ai più celebri mottetti».
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Maestro Riccardo Wagner Ill.mo ed Ecc.mo Signore Maestro Carlo Gounod Ill.mo ed Ecc.mo Signore Maestro Ambrogio Thomas In omaggio alla scienza, ad onore del merito, in attestato della profonda stima, da cui la Società Musicale Romana è compresa verso la S.V. Ill.ma, il Consiglio della Società stessa, nell’adunanza del giorno 22 corrente, nominava ad unanimità di voti Socio di Onore la S.V., il cui nome circondato di gloria, sublime si eleva tra i grandi Maestri. Nel compiere l’onorevole incarico di trasmetterle annesso alla presente il relativo diploma, i sottoscritti a nome del Consiglio stesso hanno il piacere di partecipare alla S.V. Ill.ma, che la Società Musicale Romana nel Maggio dell’anno prossimo procederà alla inaugurazione nella grande aula sociale di un busto decretato / in onore del Principe della Musica Giovanni Pier Luigi da Palestrina. Essendo vivo desiderio di tutti i Soci, di celebrare tale inaugurazione con una festa artistica musicale, per la quale sono stati invitati a scrivere i principali Maestri, così i sottoscritti fanno viva preghiera alla S.V. perché voglia concorrervi, inviando una sua preziosa composizione di soggetto sacro o relativo a Palestrina, con parole latine o italiane, ad una o più voci o coro sempre con accompagnamento di orchestra, ovvero una composizione a sola orchestra, con riguardo di evitare musica senza accompagnamento, dovendo la massa corale eseguire alcuni dei più celebri mottetti di Palestrina. Tale composizione verrebbe eseguita nel grande Saggio che la Società darà in tale occasione. Degnandosi di scrivere la S.V. vorrà avere la gentilezza d’inviare alla Presidenza la partitura non più tardi del / 1 Marzo 1880, onde avere il tempo di prepararne l’esecuzione. Nella lusinga di una favorevole risposta, fiduciosi che la S.V. Ill.ma vorrà concorrere ad onorare la memoria del grande Maestro di Palestrina e far paghi i voti della Società, i sottoscritti con i sensi della più distinta stima ed ossequio si dichiarano Della S.V. Devotissimi
10. BAV, CSP, XVI, 5, f. 609r [Minuta della SMR per Eugenio Terziani, Filippo Marchetti, Antonio Bazzini, Arrigo Boito, Pietro Platania, Lauro Rossi, Amilcare Ponchielli, Carlo Pedrotti, Teodulo Mabellini] Roma 28 Novembre 1879 Ill.mo ed Ecc.mo Signore Maestro Eugenio Terziani Maestro Filippo Marchetti
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Maestro Antonio Bazzini Maestro Arrigo Boito Maestro Pietro Platania Maestro Lauro Rossi Maestro Amilcare Ponchielli Maestro Carlo Pedrotti Maestro Teodulo Mabellini In omaggio alla scienza, ad onore del merito, in attestato della profonda stima, da cui la Società Musicale Romana è compresa verso la S.V. Ill.ma, il Consiglio della Società stessa, nell’adunanza del giorno 22 corrente, osservate le disposizioni dello Statuto, nominava ad unanimità di voti Socio di Onore la S.V., il cui nome risuona chiarissimo tra i grandi Maestri. Nel compiere l’onorevole incarico di trasmetterle il relativo diploma, i sottoscritti etc. come alla lettera N66
11. BAV, CSP, XVI, 5, f. 610r [Minuta della SMR per Franz Liszt, Salvatore Meluzzi, Gaetano Capocci, Settimio Battaglia] Roma 28 Novembre 1879 Ill.mo ed Ecc.mo Signore Maestro Francesco Liszt Maestro Salvatore Meluzzi Maestro Gaetano Capocci Maestro Settimio Battaglia Il Consiglio della Società Musicale Romana nell’adunanza del giorno 19 Giugno scorso, deliberava di erigere nella grande aula sociale un busto in onore del Principe della Musica Giovanni Pier Luigi da Palestrina, che ricordasse ai posteri il grande Maestro. Essendo vivo desidero di tutti i Soci di celebrare tale inaugurazione con una festa artistica musicale, per la quale sono stati invitati a scrivere i principali Maestri, così i sottoscritti fanno viva preghiera alla S.V., che la Società ha il piacere di annoverare fra i Soci di Onore, perché voglia concorrervi inviando una sua composizione etc. come al N67
66 Chi ha redatto la minuta a questo punto l’ha interrotta facendo un richiamo al doc. nr. 9 (ff.607r-608r), da qui in poi di uguale contenuto. 67 Anche questa minuta,come la precedente, fa un richiamo al doc. nr. 9 (ff.607r-608r), da qui in poi di uguale contenuto.
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12. BAV, CSP, XVI, 5, f. 614r (Tav. VII) [Lettera di Franz Liszt alla SMR] Mon Prince, Je vous suis bien reconnaissant de l’honneur que m’accorde la “Societa Musicale romana” pour le diplôme signé à votre nom. Mon désir constant de servir l’art musical n’est pas inconnu: puisse-je le réaliser par des oeuvres valables: et veuillez agréer, Prince, l’expression de mon très respecteux dévouement F. Liszt 29 Novembre, 79 – Roma.
13. BAV, CSP, XVI, 5, f. 376r [Lettera di Lauro Rossi alla SMR] Napoli lì 30 Novembre 1879 Alla onorevole Direzione della Società Musicale Romana Col più grato animo ho ricevuto l’ufficio, 28 corrente, che mi nomina Socio di onore di codesto illustre sodalizio. L’invito poi di scrivere una composizione per concorrere con le poche mie forze alla festa artistica in commemorazione del grande Maestro italiano, Pier Luigi da Palestrina, che la Società medesima darà nel Maggio del prossimo anno 1880, è immensamente riuscita lusinghevole al mio amor proprio, e tutta la mia premura porrò in opera per eseguire il datomi incarico il meno male che per me si potrà. A tempo debito prometto dunque d’inviare il mio lavoro, ed intanto vivissimamente ringraziando la Direzione ed il Consiglio della Società musicale Romana per l’onore di cui, contro i miei meriti, ha voluto fregiarmi, con pieno ossequio mi pregio segnarmi Devotissimo Lauro Rossi
14. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 378r-379r [Lettera di Pietro Platania alla SMR] Palermo 3 Dicembre 1879 Il Direttore Maestro di Contrappunto e Composizione Del Real Collegio di Musica detto del Buon Pastore
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Illustrissimo Sig.r Presidente della Società Musicale Romana Illustrissimo Sig.r Presidente, Mi affretto a ringraziare, come è mio debito, cotesto illustre Consiglio della Società Musicale Romana per avermi nominato suo Socio d’onore inviandomi a mezzo della S.S.I. relativo diploma; come ancora per la speciale attenzione usatami nel darmi l’onorevole incarico di scrivere un pezzo musicale per le Feste dell’immortale Palestrina. Ambedue queste distinzioni mi esaltano grandemente, e sono davvero lieto di potere rispondere affermativamente su l’incarico avuto. Quanto al pezzo, che io potrei / offrire per tale Fausta solennità, desidererei conoscere se si potrà disporre di una massa corale molto numerosa, giacché in tal caso avrei da poter mandare il mio Salmo inedito a 24 parti reali (6 cori) sul testo biblico “Exurgat Deus” (Salmo 67o) con accompagnamento di grande orchestra. In ogni modo sarei anche lieto di dar mano alla composizione di altro pezzo appositamente per lo scopo indicato. Torno a ringraziare nuovamente cotesta illustre Presidenza e l’onorevole Consiglio con tutta la Società per ambe le distinzioni accordatemi, e coi sensi del/la più alta considerazione e del più profondo rispetto mi pregio di essere Suo devotissimo P. Platania
15. BAV, CSP, XVI, 5, f. 380rv [Lettera di Carlo Pedrotti alla SMR] Torino 3/12 79 Illustriss.mo Presidente Egli è colla più viva compiacenza che ricevo una lettera segnata dalla S.V. Illustrissima, non che da altri egregi Signori, più il diploma in cui mi viene partecipata la mia nomina a Socio di onore della tanta rinomata Società musicale Romana. La mia riconoscenza è dunque grandissima verso il Consiglio che mi volle rendere un così segnalato onore. Per mia parte farò / del mio meglio per accondiscendere al desiderio della benemerita Società, inviandole all’epoca stabilita una composizione sacra, per la solenne circostanza dell’inaugurazione del busto del nostro grande Palestrina. Accolga, Illustre Principe i devoti ossequi di chi ha l’onore di dirsi di V.S. Illustrissima Carlo Pedrotti
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16. BAV, CSP, XVI, 5, f. 382rv [Lettera di Eugenio Terziani alla SMR] Eccel.mo Principe Grato oltremodo all’attestato di stima offertomi da codesta benemerita Società, ascrivo a mio alto onore l’appartenervi. Si è quindi con molto aggradimento, che aderisco di buon grado all’invito fattomi allo scopo di contribuire alle onoranze del Centenario68 del Principe della Musica Palestrina. La pochezza del mio merito, non mi permetterà opera di lui degna. Ma per quel più che mi sarà dato, porgerò in tal modo il tributo di omaggio, ch’ogni musicista deve a sì grande Genio che stabilisce il primato della nostra Musica Italiana. Rendendo nuovamente infinite / grazie al Consiglio dalla E.V. tanto onorevolmente presieduto: passo a dichiararmi coi sensi della più alta considerazione, Della E.V. Ill.ma Dev.mo Servo Eugenio Terziani Roma questo di 6 Decembre 1879
17. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 629r-630v [Minuta di una lettera della SMR per Pietro Platania] Roma 7 Decembre 1879 Ill.mo Signor Maestro Pietro Platania È con vero piacere che nella mia qualifica di Segretario della Società Musicale Romana adempio l’onorevole incarico datomi dal Principe Presidente Don Paolo Borghese di rispondere alla preg.ma lettera della S.V. diretta al Principe stesso in data del 3 corrente. Siamo veramente sensibili alla bontà che ella ha avuto, di accettare l’invito di concorrere alla festa, che la Società celebrerà nel Maggio dell’anno prossimo, in onore del Principe della Musica Pier Luigi da Palestrina e sono fortunato di esprimerle per ciò a nome della Società le più sentite obbligazioni, / la scienza musicale di cui è adorna la S.V. e i meriti speciali che la distinguono, ci fanno altamente apprezzare un tale concorso, come merita la S.V. che la Società ha il piacere di annoverare tra i suoi Soci di Onore. Per ciò che riguarda la esecuzione del suo Salmo a 24 parti reali (6 cori) sul testo biblico Exurgat Deus, che ella propone nella sua preg.ma lettera, ne fu subito 68 In realtà la festa in onore di Giovanni Pierluigi da Palestrina non celebrava un suo centenario.
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tenuto discorso col Sig. Maestro Cav. Domenico Mustafà Presid. della Musica. Per quanto potesse lusingarsi di eseguire un lavoro così grande, siamo tuttavia obbligati dalle circostanze a rinunciare a tale onore. La massa corale infatti non essendo maggiore di 120 persone, risulterebbe forse sproporzionata per una grande esecuzione divisa in sei cori di 4 voci ciascuno e non avrebbe il lavoro quella esecuzione grandiosa, che a tali composizioni si addice69. / Di qui essendo vari i Maestri invitati a prender parte alla festa musicale in onore di Palestrina, l’esecuzione di un intiero Salmo riuscirebbe soverchiamente lunga per una serata. A ciò si aggiunge la difficoltà del locale per la distribuzione dei cori come si converrebbe per ottenere l’effetto che merita una composizione di tal genere; dovendo la musica eseguirsi nel salone della Società, al Palazzo Doria Pamphilj, per quanto questo sia uno dei più grandi di Roma, non potrebbe mai ricavarsi l’effetto, che una esecuzione di tal genere potrebbe avere da una grande massa con le necessarie distanze in un tempio. Per tali ragioni, che spero la S.V. troverà giuste, preferiamo di accettare la sua gentile offerta di scrivere qualche altro lavoro, che dietro le riferite notizie possa essere più adatto alla circostanza. Nel presentarle, Signor Maestro tanti complimenti per parte del Principe Presi/ dente, come per parte del Maestro Mustafà la prego di gradire i sensi del mio più distinto ossequio, con cui ho il piacere di segnarmi Suo D.mo A. Antonini
18. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 384r-385r [Lettera di Antonio Bazzini alla SMR] Alla nobile Presidenza della Società Musicale Romana Nel porgere a codesta Illustre Presidenza le più sentite grazie pella segnalata distinzione conferitami colla nomina a Socio di Onore della cospicua Società Musicale Romana aggiungo la preghiera di volermi perdonare l’involontaria tardanza a riscontrare la cortese ed onorificentissima comunicazione 28 Novembre ultimo scorso. Le mie occupazioni in questi giorni sono tali che difficilmente mi rimane un quarto d’ora disponibile; e siccome, oltre l’onore impartitomi colla spontanea ed unanime deliberazione summentovata, vi ha pure la gentile richiesta d’una mia composizione da eseguirsi nella solenne inaugurazione del busto decretato da codesta / Illustre Società all’immortale Pier Luigi da Palestrina, così ho dovuto, prima di poter dare una risposta, rovistare nella mia musica ancora in disordine pel recente sgombero. Questa la causa precipua del ritardo. 69 Corretto: «e per le quali si chiederebbe un numero molto maggiore di esecutori». La minuta contiene altre correzioni che non ne hanno modificato il sostanziale contenuto.
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Se il gentile desiderio dell’Ill.ma Presidenza, fosse venuto a mia cognizione prima o durante le vacanze autunnali certo avrei posto ogni mia cura nel corrispondere il meno indegnamente che per me si potesse a tanto invito. Ma ora, l’assoluta mancanza di tempo e della quiete necessaria per condurre a termine convenientemente una composizione — anche breve — appositamente scritta per così solenne circostanza, mi costringe a limitare la mia debole offerta a qualcuno dei pezzi inediti seguenti — tutti di genere sacro — e che per lo stile e la non difficile esecuzione mi sembrano rispondere alle indicazioni contenute nella prelodata lettera. Metto perciò a disposizione dell’Ill.mo Maestro Presidente della Musica partitura ed anche parti staccate di Canto e d’Orchestra, di quello fra i pezzi che a Lui parrà più adatto, / ed attenderò un cenno per farne la spedizione. Eccone i titoli: 1o Frammento del Salmo 56mo di David (parafrasi italiana) per Coro a 3 Voci — Soprani, Tenori e Bassi — con brevi soli. Di codesto Salmo potrebbe eseguirsi tanto il 1o Coro quanto, e forse meglio, il No 8 della 2a Parte che a Firenze si ripeteva sempre. Qui non occorre che l’orchestra d’archi. 2o Coro No 2 della 1ma cantata (inedita) “ La resurrezione del Cristo” qui il Coro è a 4 voci (miste) con accomp.to d’Orchestra, però senza trombe, tromboni etc. (stile fugato) 3o Pezzo Concertato (piccioli Soli — Soprano e Baritono) e Fugato per Coro a 4 voci e grande Orchestra nella Sinfonia-Cantata — (questa composizione è pubblicata dalla Casa Lucca per Piano e Canto; ma la Signora Lucca è dispostissima a mandare partitura e parti senza aggravio di sorta) Rinnovando i sensi della mia più viva gratitudine all’Illustre Presidenza della rinomata Società musicale Romana, tanto benemerita dell’arte, e colla più alta stima ed osservanza ho l’onore di dirmi Dev.mo Obbl.mo Servo A. Bazzini Milano 10 Dicembre 1879. 2. Corso di P.ta Romana
19. BAV, CSP, XVI, 5, f. 386rv (Tav. VIII) [Lettera di Cosima Wagner alla SMR] Monsieur le Prince, retenu au lit par une forte indisposition, mon mari me charge de vous transmettre ses remerciements et de vous prier de vouloir bien être son interprète auprès des Membres de l’Acadèmie qui lui a fait l’honneur de le recevoir. Il prend en outre la liberté de vous envoyer / un exemplaire du Stabat Mater de Palestrina qu’il a
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publié il y a de cela quelques années, et il espére que cet envoi correspond au souhait que vous lui exprimez. Je joins aux compliments que mon mari me remet pour vous, monsieur le Prince, l’expression de ma considération haute et distinguée. C. Wagner Bayreuth 10 Decembre 1879.
20. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 388r-389r (Tavv. IX-X) [Lettera di Amilcare Ponchielli alla SMR] 11. Dicembre 1879 Milano. Ill.o Sig.r Presidente. Mi rivolgo alla S.V. Illustrissima compreso d’alta riconoscenza per l’onore a me tanto cortesemente impartito. L’esser creato Socio d’onore d’un’Istituzione illustrata dai nomi che la presiedono, e dai brillanti risultati artistici ch’ebbe finora, e che otterrà sempre, mi renderebbe maggiormente orgoglioso se potessi concorrere almeno in piccola parte a renderle l’omaggio dell’opera mia benché debolissima. Ma pur troppo le mie attuali occupazioni per l’impegni da me contratti colla casa editrice Ricordi e coll’impresa del Teatro alla Scala, mi vietano di partecipare alla festa del grande Musicista, poiché sullo scorcio del mese di Febbraio p.v. dovrò assistere alla messa in scena della mia nuova opera / Il figliuol prodigo che oggi vado ultimando e istrumentando. Non avrei quindi tempo di preparare un lavoro per la grande circostanza per cui sono dalla S.V. invitato, e che richiederebbe tempo, ed ogni mia attenzione. La S.V. potrà facilmente immaginare con quanto dispiacere dovrò privarmi di concorrere a tanta festa, e non poter attestare nello stesso tempo tutta la mia riconoscenza all’Illustre Società Musicale Romana. Mi lusingo perciò che vorrà tenere franche e leali le ragioni che mi spingono a rimanere inoperoso in una congiuntura di tanto rilievo. Accuso anche le mie occupazioni del ritardo con cui ho risposto alla cortese di Lei lettera del 28 trascorso mese, e mentre rivolgo a Lei, non che all’Illustre Consiglio la mia gratitudine per l’alto onore di cui si piacque / fregiarmi, colla massima venerazione e altissima stima ho l’onore d’essere Della Signoria V. obb.mo e riconoscentissimo Amilcare Ponchielli
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21. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 390r, 391r (Tav. XI) [Lettera di Arrigo Boito alla SMR] Alla Illustre Presidenza della Società Musicale Romana. Ringrazio questa Illustre Presidenza pel garbato modo col quale mi annunciò il risultato della votazione Sociale riguardante il mio nome. Accetto con grato animo di far parte dei soci onorarii di questo insigne consorzio artistico, ma non oso accettare l’invito che mi si fa di scrivere un componimento musicale in omaggio a Pier Luigi da Palestrina. Il tema è troppo alto perch’io ardisca affrontarlo e s’anco non mi mancasse l’audacia il tempo mi mancherebbe a un simile lavoro. / Spero che sarò perdonato dai miei cortesi colleghi e da questa Illustre Presidenza. Col massimo ossequio Dev.mo Arrigo Boito Milano 12/12.79
22. BAV, CSP, XVI, 5, f.392r [Lettera di Salvatore Meluzzi alla SMR] A S.E. D. Paolo Borghese Principe di Sulmona 12. Decembre 1879. Eccellenza Sono ben penetrato dell’onorevole incarico che V.E. degnò di offrirmi. Contribuirò come potrò all’onore, che giustamente si renderà alla memoria del Principe della Musica Giovanni Pier-Luigi da Palestrina. Pieno di gratitudine, e di stima verace mi confermo Di V.E. U.mo Dev.mo servitore Salvatore Meluzzi
23. BAV, CSP, XVI, 5, f. 394r [Lettera di Settimio Battaglia alla SMR] 15 Decembre 1879. Eccellenza Accetto l’Incarico che V.E. mi ha affidato, cioè di comporre un pezzo di Musica
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in occasione del Monumento da erigersi al Celebre Maestro, e Compositore Pier = Luigi da Palestrina. Farò quello che le mie forze mi permetteranno, e sono sicuro che V:E: gradirà il mio buon volere. Colla più sincera stima ho l’onore di professarmi Di V:E: U.mo e Dev.mo: Servo Settimio Battaglia.
24. BAV, CSP, XVI, 5, f. 398rv (Tav. XII) [Lettera di Franz Liszt alla SMR] Mon Prince, J’ai déjà répondu de fait à l’honorable invitation du Comité de la “Società musicale romana”. Un membre distingué de cette Société, Mr. Manganelli, aura l’honneur de vous remettre prochainement la copie de l’Antiphone: “Cantantibus Organis” que j’ai composée pour Orchestre et Voix, à l’intention designée. Permettez-moi d’y / ajouter ma modeste quote-part de 100 Lire (ci-jointes) à la souscription du buste de Palestrina; et veuillez bien agréer, Prince, l’expression de mon très sincère et respecteux dévouement F. Liszt 19 Décembre, 79 Rome.
25. BAV, CSP, XVI, 5, f. 372rv [Lettera di Filippo Marchetti alla SMR, databile intorno al 28 dicembre 1879] Illustre Presidenza della Società Musicale Romana Signori! Insieme al relativo diploma ricevo (col ritardo d’oltre un mese!) il Loro pregiatissimo foglio in data del 28 Novembre 1879, col quale mi annunziano la mia nomina a Socio d’Onore della Società Musicale Romana. Oltremodo lusingato dallo spontaneo tratto di distinzione a cui mi veggo fatto segno, prego le SS.LL. a voler accogliere e far accogliere al Consiglio ed all’intera Società i sentimenti della mia più viva riconoscenza. / Quanto al cortese invito che le SS.LL. hanno la bontà di farmi, di prendere cioè, anche io parte alla festa che la Società prepara, ad onorare il gran Palestrina, scrivendo appositamente qualche cosa, scrivo al Presidente della Musica, e mio buon amico, Cav. Mustafà, onde intendermi con lui e vedere se, malgrado la ristrettezza
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del tempo e le mie occupazioni, vi sarà modo di attuare il Loro gentile desiderio, che è anche il mio. Delle SS.LL. D.mo F. Marchetti
26. BAV, CSP, XVI, 5, f. 374r [Lettera di Gaetano Capocci alla SMR, senza data] Eccellenza L’esser stato invitato dalla Società musicale romana a comporre insieme ai più illustri Maestri di Musica per l’occasione in cui essa ergerà nella sua sala un monumento all’immortale Giovanni Pier Luigi da Palestrina è un onore al quale rispondo rendendo i più vivi ringraziamenti alla Eccellenza Vostra ed al Consiglio Direttivo della Società. Tuttavia dichiarando di accettare quest’onorevole incarico, l’ E.V. si compiacerà di far noto che io procurerò colle mie deboli forze di fare il meglio possibile. Gradisca i miei sinceri ossequi e mi creda Dell’E.V. Ill.ma Dev.mo Servo Cav. Gaetano Capocci
27. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 400r-401r (Tavv. XIII-XIV) [Lettera di Charles Gounod al marchese De’ Cinque, presumibilm. Ermenegildo De’ Cinque Quintili] 28 Xbre /79 [Paris,] 20, Place Malesherbes Monsieur Le Marquis, Je ne sais [pas] comment s’est égarée chez moi la lettre que j’ai reçue en effet de la Société Musicale Romaine. Toujours est-il que cette disparition m’a mis jusqu’ici dans l’impossibilité de rédiger une réponse conforme à l’objet de la dite lettre. Grâce a vous, Monsieur le Marquis, je puis sortir de ce mauvais pas; je / m’empresse donc de vous prier de vouloir bien être mon interprète vis à vis de la Société et de son honorable Président le Prince Paul Borghèse en le priant de recevoir, avec mes exuses, mes remerciements pour l’honneur qui m’est offert de faire partie de la Société comme Membre Honoraire. Quant à l’envoi d’un morceau de musique à l’occasion de la fête pour l’inauguration du Buste du divin Palestrina, je ne saurais, à mon regret, en prendre l’engagement; / je suis, en ce moment, absorbé par un travail de grande étendue dont il importe que je ne sois pas détourné, et j’ai pour le Grand et Sublime Maître en question une vénération trop profonde pour lui consacrer une simple distraction. Veuillez bien, Monsieur le Marquis, être, auprès de la Société Musicale Ro-
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maine, l’interprète de mes sentiments et reçevoir l’assurance de ma plus respecteuse consideration. Ch. Gounod de l’Institut.
28. BAV, CSP, XVI, 5, f. 650rv [Minuta di una lettera per Lauro Rossi e Carlo Pedrotti] Roma 5 [gennaio] del 1880 St.mi Signori Maestri Lauro Rossi e Carlo Pedrotti È con vero piacere, che la Società Musicale Romana ha ricevuto la comunicazione della lettera della S.V. Ill.ma con cui cortesemente accettava l’invito direttole di prender parte con una sua composizione alla festa musicale, che verrà celebrata dalla Società, in onore del Principe della Musica Pier Luigi da Palestrina. Interprete il Consiglio dei sentimenti dei Soci, incaricava il sottoscritto Segreta/rio di parteciparle fin da ora in attesa dei suoi favori le più sentite obbligazioni ed i più vivi ringraziamenti. Nell’adempire con la presente all’incarico ricevuto il sottoscritto, con i sensi della più distinta stima si dichiara Suo D.mo A. Antonini
29. BAV, CSP, XVI, 5, f. 402r [Telegramma del marchese De’ Cinque] 23/1 1880 Paris Principe Sulmona Palazzo Borghese Roma Parlai Thomas scusa silenzio ringrazia mercoledi mi consegnera pensiero musicale espressamente scritto, Gounod impossibile vedere sinora telegrafero — Decinque —
30. BAV, CSP, XVI, 5, f. 403r [Telegramma del marchese De’ Cinque] 24/1 1880 Paris Principe Sulmona Palazzo Borghese Roma Gounod dara Miserere quattro voci e coro ma non prima 20 febbrajo scrivero particolari — Decinque —
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31. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 404r-405r [Lettera di Ambroise Thomas alla SMR] Conservatoire National de Musique et de Déclamation Cabinet Du Directeur Paris, le 27 Janvier, 1880 Monsieur Le Prince, Ma longue et gráve indisposition m’a privé du plaisir de vous remercier plus tôt de l’honneur que la Società Musicale Romana, que vous présidez, a bien voulu me faire en m’offrant le titre de membre honoraire. Permettez-moi, en vous priant d’excuser mon silence involontaire, de vous dire combien je suis touché et reconnaissant de cette précieuse marque de sympathie. / Je suis flatté, aussi, du désir qui m’est exprimé au sujet de votre fête en l’honneur du grand Palestrina. Si le temps ne m’eût fait défaut, j’aurais voulu composer une oeuvre importante qui, pour l’intention du moins, ne fût pas trop indigne de l’hommage que vous allez rendre à ce Maître Immortel. Je suis donc confus de ne vous adresser que peu de lignes; mais j’ai essayé de les écrire dans un style sévère, afin de vous témoigner que je m’associais à vos sentiments. Je vous dois mille grâces encore, Monsieur le Prince, pour les termes / si aimables de votre lettre qui vient de m’être remise et dont je vous suis très reconnaissant. Veuillez bien être mon interprète auprès de Messieurs les Membres de votre jeune Académie, et agréez, je vous prie, avec l’assurance de ma haute considération, l’expression de mes dévoués sentiments. Ambroise Thomas
32. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 665rv, 668rv [Lettera del marchese De’ Cinque] Parigi, 29 gennaio 1880 Principe rispett.mo Ier sera M.r Thomas mi consegnò la musica e una lettera per lei. Egli credeva ch’io partissi subito, e quando sentì che avrei dovuto trattenermi ancora qualche
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altro giorno, e che le avrei spedito tutto per la posta, mi pregò di fare un pacco raccomandato, e così farò subito. Quanto a M.r Gounod debbo dirle che, non potendo scriver nulla espressa/mente perché troppo occupato, mi promise di farmi avere un miserere che ha composto per una chiesa della Francia, non ricordo quale, ove deve essere eseguito nel mese di marzo; e mi ha fatto una lettera per l’editore, il quale dovrà consegnarlo non più tardi del 20 febbraio prossimo. Il miserere,come le telegrafai, è per quattro voci e coro. Però M.r Gounod desidera sapere se la Società può avere un coro numeroso e quanto numeroso. Le sarei grato se potesse farmi avere questa notizia / a pronto corso di posta, ovvero con telegramma, giacché a me poco più resta a fare qui. Gli domandai se la spesa per l’editore sarebbe stata forte, e mi rispose che sarebbe piccolissima. Nel farmi la lettera o il telegramma per Gounod, avrei piacere vi fosse qualche bella frase per lui, che mi pare ambizioso abbastanza. Io intanto non mancai d’incensarlo quanto potei, e così riuscii a strappargli qualche cosa. Anche per Thomas ci vorrebbe una bella lettera, di quelle che lei / sa fare assai meglio di me. Questi mi ha promesso la sua fotografia, che gli ho dimandato in suo nome, e che dissi sarebbe stata collocata nella sala della Società. A queste parole vidi la gioia nel suo viso, e così il preludio per organo venne più facilmente. Spero di essere in breve di ritorno. Non verrò col sacco pieno, ma neppur vuoto del tutto. L’affare è iniziato abbastanza bene, almeno mi pare, ma non può risolversi molto presto. Devo tutto alle sue raccomandazioni, e specialmente al Cardinale Bonnechose. La carta termina. La riverisco, e con alta stima mi segno Suo D.mo Obb.mo E. De’ Cinque
33. BAV, CSP, XVI, 5, f. 406rv (Tavv. XV-XVI) [Lettera di Giuseppe Verdi alla SMR] Sig.r Secretario Della Società Musicale Romana Mi è d’uopo fare, prima di tutto, le mie scuse, se non ho risposto finora alla lettera del 28 Novembre passato, che accompagnava il Diploma col quale vengo nominato Socio Presidente onorario della Società Musicale Romana. L’involto diretto a Busseto, quand’io n’era già partito, vi rimase giacente, e non lo ricevetti che pochi giorni or sono, facendo di volo una gita al Paese. Sono gratissimo alla Società / Musicale Romana per l’onore che volle farmi nominandomi a Suo Socio Presidente onorario; e sono in pari tempo dolente non poter rispondere, secondo i loro desiderj, a quella parte della lettera che tratta della Festa a Palestrina. Oltre al dovermi assentare dall’Italia, ho altri impegni gravissimi, che mi mettono nell’impossibilità di prender parte, in nessun modo, alle Feste che si preparano in onore di quel Grande Maestro.
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Nel pregarla, Egregio Sig. Secretario, a voler porgere le mie scuse, ed i miei vivi ringraziamenti alla Società Musicale Romana Ho l’onore di dirmi Dev.mo G. Verdi Genova 9 Febbraio 1880.
34. BAV, CSP, XVI, 5, ff. 408r-409r [Lettera di Teodulo Mabellini a Domenico Mustafà] All’Illustre Maestro Signor Domenico Mustafà Presidente e Direttore della Musica nella Società Musicale Romana Firenze 12. Febbraio 1880. Pregiatis.mo Maestro, ed amico. Fino dal giorno 30 Novembre del decorso anno ricevei dagli Egregi Rappresentanti l’onorevole Società Musicale Romana una lettera con la quale, oltre ad annunciarmi esser’io stato eletto Socio onorario della medesima ed inviarmi gentilmente il relativo Diploma, mi si affidava l’incarico di prender parte con un mio componimento alla inaugurazione nella grand’aula sociale del busto, rappresentante il Principe della Musica, il celebre Giovanni Pier Luigi da Palestrina. Gratissimo di sì splendida dimostrazione di stima, ben superiore al tenue merito che posso essermi acquistato negli studi delle musicali discipline, temeva essere in me temerario ardire accettare nella mia tarda età un così arduo ed onorevole incarico; tanto che rimasi per qualche tempo esitante. Ritenendo per altro che l’astenermi dal dimostrare con i fatti la mia riconoscenza a tanta gentilezza usatami, sarebbe sembrata scortesia inescusabile, mi accinsi all’opera musicando in / un Terzetto per Tenore, Baritono e Basso, con accompagnamento di grand’Orchestra il Mottetto = Lux aeterna luceat ei Domine =. Questa composizione di carattere Sacro è già presso al suo termine, e tra pochi giorni sarò in grado di rimetterne la partitura; e sarei molto tenuto alla compiacenza dell’Onorevole Comitato se potesse indicarmi un qualche mezzo particolare per consegnare in mani sincere la partitura medesima. Ho diretto la presente a Lei cui mi unisce una preziosa e antica amicizia, sicuro che avrà la bontà di trasmettere a tutti i rappresentanti l’illustre Società Musicale Romana i miei sinceri ringraziamenti, e gli attestati di ossequio e gratitudine per tante gentilezze prodigatemi. Nel tempo stesso raccomando alla Sua tutela, ed alla ben cognita perizia Sua nell’Arte, il debole parto della mia mente, ormai stanca per le lunghe fatiche e l’avanza/ta età. E salutandola cordialmente, ho il piacere di confermarmi
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Suo Aff.mo e Devotis.mo T. Mabellini
35. BAV, CSP, XVI, 5, f. 675rv [Minuta della SMR di una lettera per Carlo Pedrotti] Roma 21 Febbraio 1880 St.mo Signor Maestro Carlo Pedrotti Ho ricevuto la sua preg.ma lettera del 18 corrente e successivamente il plico assicurato contenente la musica, che ella ha avuto la bontà di scrivere e d’inviare alla Società Musicale Romana, per l’inaugurazione del monumento al grande Maestro Giovanni Pier Luigi da Palestrina. Siamo veramente obbligati alla gentilezza e alla premura, con / cui la S.V. Ill. ma ha corrisposto all’invito direttole di onorare col suo concorso il Principe della Musica, e col più grande piacere adempio l’onorevole incarico di ringraziare la S.V. di tale favore a nome della intiera Società, e specialmente del Principe Presidente Don Paolo Borghese e del Maestro Mustafà, Direttore della Musica, cui ho subito rimesso la sua preziosa composizione. Accolga Signor Maestro i sensi del più distinto ossequio, con cui ho il piacere di segnarmi Suo D.mo Servo Alberto Antonini Segr.
36. BAV, CSP, XVI, 5, f. 683r [Lettera di Pietro Platania] R. Collegio di Musica in Palermo Direzione Palermo, 27 Febbraio 1880 Ill.mo Sig. Presidente Mi pregio inviarle in pari data l’originale della Composizione chiestami per l’occasione della Festa al Sommo Palestrina, che avrà luogo costà nel prossimo Maggio. Credo superfluo raccomandare alla gentilezza della S.V. Ill.ma il d.to mio lavoro, conoscendo quanta coscienza e passione si abbia per l’Arte cotesta Società Musicale da Lei degnamente presieduta. Gradisca, Egregio Sig.r Principe, l’attestato della mia piena osservanza Dev.mo P. Platania
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37. BAV, CSP, XVI, 5, f. 685rv [Minuta della SMR a Theodulo Mabellini] Roma 27 Febbraio 1880 St.mo Signor Maestro Theodolo [sic] Mabellini Come Segretario della Società Musicale Romana sono con la presente a parteciparle che abbiamo ricevuto la sua composizione musicale, che per mezzo del Signor Marchese Gerini ella ha avuto la bontà d’inviarci per l’inaugurazione del Monumento al grande Maestro Giovanni Pierluigi da Palestrina. Siamo veramente obbligati alla gentilezza e alla premura con cui la S.V. Ill.ma ha corrisposto all’invito direttole di onorare col suo concorso il Principe della Musica, / e col più grande piacere adempio l’onorevole incarico di ringraziare la S.V. di tale favore a nome dell’intera Società e particolarmente del Principe Presidente Don Paolo Borghese e del Maestro Mustafà, Direttore della Musica, a cui fu subito consegnata la sua preziosa composizione. Colgo con piacere stimatissimo Signor Maestro questa occasione per protestarle i sensi del mio più distinto ossequio, con cui passo a segnarmi Suo D.mo Servo A70
38. BAV, CSP, XVI, 5, f. 410rv [Lettera dei maestri delle tre basiliche patriarcali di Roma alla SMR] 27. Febbraio 1880. Preg.mo Signore Abbiamo con piacere adempiuto l’onorifico incarico affidatoci dai Presidenti della Società Musicale romana, cioè, di comporre un pezzo di Musica in occasione della solenne inaugurazione del Busto ad onore del Principe della Musica Giovanni Pierluigi da Palestrina, che la Società medesima celebrerà nel prossimo futuro mese di Maggio. Siccome quel Grande fu successivamente Maestro nelle tre Patriarcali Basiliche, così noi, benché indegni suoi successori, credemmo sarebbe per riuscire più adatta una composizione copulativa. A tale scopo pregammo il R.P. Valle a comporre una Poesia divisa in tre parti71. Nella prima, accennasse alla sue opere principali, ed alla scuola romana da lui fondata nei suoi discepoli i fratelli Nannini. Nella seconda, si rilevasse l’affezione 70
Minuta scritta dal segretario della SMR Alberto Antonini. Il programma di sala del concerto, consultabile alla Bibliomediateca dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (AS, B, 133/17), acclude il testo della poesia. 71
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sua verso i suoi figli / e scolari, (tre di essi riuscirono valenti compositori) e i buoni consigli che egli da Padre pio, e religioso dava loro. Nella terza, comparisse la Società musicale, Roma, e l’arte plaudenti, che sciolgono un Inno di gioia e di gloria. Il P. Valle vi è riuscito mirabilmente: noi ci dividemmo una parte per ciascuno; procurammo secondo le nostre deboli forze, di adattarvi note corrispondenti. Consegnammo già le composizioni al Presidente della Musica; ora preghiamo Lei Sig.r Segretario di parteciparlo al Consiglio, e coi sensi della più alta stima ci professiamo Di Lei Preg.mo Signore U.mi Dev.mi Servitori Cav. Gaetano Capocci Maestro della Ven. Cappella Pia Latera/nense. Cav. Salvatore Meluzzi Maestro della V. Capp. Giulia Vaticana. Settimo Battaglia Maestro della V. Capp. Liberiana di S. Maria Maggiore.
39. BAV, CSP, XVI, 5, f. 666r [minuta di telegramma del principe Paolo Borghese, senza data] Marchese De’ Cinque Hotel du Louvre Paris Ricevuto preludio Thomas unanime soddisfazione e riconoscenza; si pregherebbe illustre autore volere strumentare per quartetto o altrimenti, non avendo organo conveniente nella sala Paolo Borghese
40. BAV, CSP, XVI, 5, f. 667r [minuta di telegramma del principe Paolo Borghese, senza data] Marchese De’ Cinque Hotel du Louvre Paris Generale contentezza per notizia partecipazione Gounod festa Palestrina massa corale cento trenta si prega esser primi eseguire Miserere in Italia Esprima nostra vivissima gratitudine ed ammirazione Paolo Borghese
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41. BAV, CSP, XVI, 5, f. 698r [Lettera di Carlo Pedrotti alla SMR] Torino addì 18.3.1880 Città di Torino Liceo Musicale Via Porta Palatina (Edificio delle Torri) Onorevole Signore Ella riceverà a mezzo ferrovia un piccolo involto contenente un pezzetto che io offro alla Società Musicale Romana, dolente di non potergli inviare qualche cosa di più importante, stante le mie molte occupazioni. Colla più distinta stima mi chiamo di Lei Devotissimo Carlo Pedrotti
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Tav. I – Roma, Bibliomediateca dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, AS, B, 133/17, f. 559: dal programma di sala del concerto in onore di G. P. da Palestrina; disegno del busto commemorativo.
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Tav. II – Epigrafe dell’attuale basamento del busto di G. P. da Palestrina, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Roma, via Vittoria 6.
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Tav. III – Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Archivio Fotografico, Giuseppe Verdi e Domenico Mustafà, Montecatini (1896?).
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Tav. IV – Da L’illustrazione italiana 7, 26 (27 giugno 1880), p. 412.
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Tav. V – Busto di G. P. da Palestrina, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Roma, via Vittoria 6.
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Tav. VI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Medagliere, Md. U. I. XX. 73.
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Tav. VII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Circolo S. Pietro XVI, 5, f. 614r.
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Tav. VIII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Circolo S. Pietro XVI, 5, f. 386rv.
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Tav. IX – Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Circolo S. Pietro XVI, 5, f. 388r.
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Tav. X – Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Circolo S. Pietro XVI, 5, ff. 388v-389r.
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Tav. XI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Circolo S. Pietro XVI, 5, ff. 390r, 391r.
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Tav. XII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Circolo S. Pietro XVI, 5, f. 398rv.
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Tav. XIII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Circolo S. Pietro XVI, 5, f. 400r.
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Tav. XVI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Circolo S. Pietro XVI, 5, f. 406v.
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DOMENICO BENEDETTO GRAVINA E IL SUO CARTEGGIO CON GIOVANNI BATTISTA DE ROSSI (DAI CODICI VAT. LAT. 14243-14245, 14247, 14249, 14251, 14258)* Notizie biobibliografiche su Domenico Benedetto Gravina Francesco Gravina (1807-1886)1 nasce da Giuseppe Gravina, principe di Comitini e Santa Maria di Altomonte2, e da Teresa Requesens dei principi di Pantelleria; compiuti i primi studi a Palermo con i padri dell’Oratorio, passa presso i Benedettini di Monreale, vestendo l’abito religioso nel 1818 con il nome di Domenico Benedetto. Dal 1834 insegna fisica e filosofia nel monastero di Monreale; a questo periodo risale il resoconto di un viaggio a Segesta e Selinunte, ricco di osservazioni e di dati sui monumenti antichi ma anche di considerazioni sui paesi attraversati3. Nel 1839 si trasferisce a Montecassino, dove insegna filosofia e contribuisce ad allestire la tipografia del monastero; è poi priore nei monasteri di Santa Maria del Monte a Cesena e di San Pietro a Perugia. Al periodo * Ringrazio sentitamente il dott. Marco Buonocore, Scriptor Latinus e Direttore della Sezione Archivi della Biblioteca Vaticana che, con grande liberalità, mi ha segnalato le lettere di Domenico Benedetto Gravina nel carteggio de Rossi e mi ha stimolato a scrivere questo studio, offrendomi anche preziosi suggerimenti bibliografici su de Rossi. 1 Per dati biografici, v. soprattutto le notizie pubblicate, vivente ancora Gravina, da G.M. MIRA, Bibliografia siciliana, Palermo 1875-1881, I, p. 454. 2 Tre volte pretore di Palermo, gentiluomo di camera, cavaliere di San Gennaro e dell’ordine di Malta, morto di colera nel 1837; Michele, fratello di Domenico Benedetto, è, sotto i Borbone, gentiluomo di camera, ministro, segretario e consigliere di stato, cavaliere di San Gennaro; il figlio di questi, Giuseppe, è ministro plenipotenziario del Regno delle Due Sicilie presso la Santa Sede (F. SAN MARTINO DE SPUCCHES, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai giorni nostri, Palermo 1924-1941, III, pp. 77-78); per Michele, dedicatario di una pubblicazione del fratello, e Giuseppe junior, a volte intermediario tra lo zio e de Rossi, v. anche infra, nt. 27 e 53-54 e contesto. Sul palazzo di famiglia a Palermo, in via Maqueda, v. G. SALVO BARCELLONA, Il Palazzo Comitini sede dell’Amministrazione Provinciale di Palermo, Palermo 1981. 3 D. B. GRAVINA, Alcune ore sulle antichità di Sicilia, in Il progresso delle scienze, lettere ed arti, n.s., VIII, 22 (1839), pp. 124-135 (anche come estratto: Napoli 1839). Sull’estratto conservato presso la Biblioteca Civica “Ursino-Recupero” di Catania e proveniente verisimilmente dalla Biblioteca dei Benedettini, è la dedica: «Al R(everendissi)mo P(ad)re Priore D(on) / Filippo Coltrera in segno / di rispetto / L’Autore». Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 441-469.
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trascorso a Cesena è legato lo studio Su l’origine ed i ristauri della Chiesa di S. Maria del Monte presso Cesena4, mentre a Perugia collabora all’illustrazione del coro ligneo della chiesa abbaziale5. Nel 1850 è, con quattro abati, membro della «Commissione dei cinque» nominata da Pio IX e installatasi a Cava de’ Tirreni per condurre un’inchiesta su vari monasteri, in particolare della provincia siciliana6. Tornato a Monreale nel 1852, è nominato abate e, in questa veste, il 4 marzo 1860 è il primo firmatario della lettera inviata a Pio IX dai Benedettini monrealesi a sostegno della sua sovranità temporale7. Dopo un breve scritto del 1855 (Sopra una antica immagine della Immacolata che esiste nel Duomo di Monreale)8, Gravina inizia nel 1859 la pubblicazione della sua opera più celebre, Il Duomo di Monreale illustrato e riportato in tavole cromo-litografiche, che lo occupa per un decennio9 ed
4 D. B. GRAVINA, Su l’origine ed i ristauri della Chiesa di S. Maria del Monte presso Cesena, riflessioni e ricerche, Monte Cassino 1847 (ringrazio la Biblioteca Civica “A. Saffi” di Forlì per avermi inviato una riproduzione di questo scritto). Le piante (tavv. I, II, IV) e la sezione (tav. III) dell’edificio sono disegnate da Gravina. 5 La notizia è in MIRA, Bibliografia siciliana cit., p. 454. Negli anni del soggiorno di Gravina a Perugia, il coro della chiesa di San Pietro è oggetto di due pubblicazioni: Gli ornati del coro della chiesa di S. Pietro dei monaci cassinesi di Perugia intagliati in legno da Stefano da Bergamo sopra i disegni di Raffaelle Santi da Urbino ora per la prima volta tutti raccolti incisi a contorno e pubblicati, Roma 1845 (non vidi) e l’anonimo Cenno critico-descrittivo degli ornati del coro della basilica di S. Pietro di Perugia dei Monaci Cassinensi che accompagna la grande edizione di detti ornati pubblicati per cura di que’ rr. monaci l’anno 1846, Roma s.d. (ringrazio la Biblioteca Classense di Ravenna per avermi inviato una riproduzione di questo scritto). Tra le pubblicazioni più recenti sul monumento, v. M. SICILIANI, Opere lignee dell’abbazia di San Pietro in Perugia. Il coro della basilica. Arte, teologia e simbologia, Perugia 2000. 6 P. CAROSI, La provincia sublacense (1851-1867), in Pietro Casaretto e gli inizi della Congregazione Sublacense (1810-1880): Saggio storico nel I° centenario della Congregazione (18721972), Montserrat 1972 (Subsidia monastica, 3), pp. 405-459: 406. 7 La sovranità temporale dei romani pontefici propugnata nella sua integrità dal suffragio dell’orbe cattolico, p. I, vol. II, t. II, Roma 1862, pp. 37-39. 8 D. B. GRAVINA, Sopra una antica immagine della Immacolata che esiste nel Duomo di Monreale, Palermo 1855 (ringrazio la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana di Palermo per avermi inviato una riproduzione di questo scritto). Il testo è chiaramente connesso con la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione da parte di Pio IX l’8 dicembre 1854. A p. 13, nt. 1, Gravina preannunzia che «l’autore della presente memoria darà in appresso una descrizione completa del Duomo di Monreale, e del vasto piano biblico che esiste nella rappresentazione dei suoi mosaici». 9 Su quest’opera, v. infra. La bibliografia su Monreale è vastissima; v. almeno E. KITZINGER, I mosaici di Monreale, Palermo 1960; I mosaici di Monreale: restauri e scoperte (19651982), Palermo 1986 (Quaderno nr. 4 del Bollettino «B.C.A.» Sicilia); E. KITZINGER, I mosaici del periodo normanno in Sicilia, V: Il duomo di Monreale. I mosaici delle navate, Palermo 1996 (Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici. Monumenti, 5); D. ABULAFIA, M. NARO, Il duomo di Monreale. Lo splendore dei mosaici, Milano 2009.
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è certamente tra i prodotti più importanti dell’editoria siciliana dell’Ottocento10. Per le sue competenze in campo artistico, egli è scelto dalla Commissione di Antichità e Belle Arti di Palermo come membro di un «Comitato di esame de’ lavori di belle arti»11; dal 1858 al 1860, inoltre, è tra i componenti della stessa Commissione, assumendo il ruolo di presidente dopo lo sbarco dei Mille12 e fino al dicembre 186013. Nelle prime due riunioni del 186114 è assente, ma è ancora considerato come presidente; nelle successive sedute non compare più, forse perché, consolidatosi il governo italiano, Gravina non ritiene opportuno ricoprire incarichi ufficiali. Il 18 giugno 1863, tuttavia, la Commissione si rivolge a lui nel tentativo di evitare che una parte del complesso di Monreale fosse destinata ad altri usi15. Il monastero, però, è soppresso nel 1866 e, nel settembre dello stesso anno, Gravina e altri confratelli, con l’arcivescovo Benedetto D’Acquisto16, partecipano al comitato insurrezionale di Monreale nel corso di un moto di protesta 10
Su quest’opera, v. infra. G. LO IACONO, C. MARCONI, L’attività della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia, III: 1852-1860, Palermo 2000 (Quaderni del Museo archeologico regionale “Antonino Salinas”, suppl. 5), pp. 61-62, nr. 42, verbale del 21 maggio 1856: il «Reverendo Padre Don Domenico Benedetto Gravina Cassinese» è scelto tra i «quattro individui conoscitori delle materie» (gli altri sono Lucio Mastrogiovanni Tasca conte di Almerita, Gaspare Peranni e Rocco Nicoletti) per il «Comitato di esame de’ lavori di belle arti». 12 Il 25 giugno 1860 un decreto dittatoriale riconferma e potenzia la Commissione di Antichità e Belle Arti; v. V. O. MAZZOLA, Archivio del Museo Archeologico di Palermo, in Gli Archivi non statali in Sicilia, Palermo 1994 (Soprintendenza Archivistica per la Sicilia, Studi e ricerche, 2), pp. 33-104: 33 e 43, nt. 16 e G. LO IACONO, C. MARCONI, L’attività della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia, III: 1852-1860 cit., p. 8. 13 G. LO IACONO, C. MARCONI, L’attività della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia, III: 1852-1860 cit., pp. 105-118, nrr. 71-81; Gravina partecipa come componente a tutte le sedute dal 10 novembre 1858 al 29 febbraio 1860, presiedendo le riunioni del 9 e 23 luglio e del 17 e 28 dicembre 1860. 14 G. LO IACONO, C. MARCONI, L’attività della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia, IV: 1861-1863, Palermo 2002 (Quaderni del Museo archeologico regionale “Antonino Salinas”, suppl. 6), pp. 9-10, nrr. 1-2, riunioni del 7 e 14 gennaio 1861. 15 La Commissione delibera di scrivere «all’Abate Gravina in Monreale dicendogli che la Commissione ha presentito esistere un progetto probabilmente di quel Municipio secondo il quale talune stanze contigue ed in comunicazione col Chiostro di quel monastero si vorrebbero destinare ad uso militare e di carcere, e perché questa Commissione possa trovarsi in caso d’impedire tutto ciò che di questo progetto riuscisse di danno ad un monumento d’arte sì importante lo si prega a voler far conoscere con precisione lo stato delle cose» (G. LO IACONO, C. MARCONI, L’attività della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia, IV: 1861-1863 cit., pp. 58-59, nr. 55). 16 Vescovo di Monreale dal 1858 alla morte (1867); v. R. RITZLER, P. SEFRIN, Hierarchia Catholica medii et recentioris aevi, VIII: a pontificatu Pii PP. IX (1846) usque ad pontificatum Leonis PP. XIII (1903), Patavii 1978, p. 394. 11
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contro il governo; sedata l’insurrezione, non vi sono, a quanto pare, strascichi giudiziari particolarmente gravi17. Nel 1867 Gravina è contattato dalla Commissione di Antichità e Belle Arti, non è noto con quali esiti, per assicurare la custodia del complesso monumentale18 e, nel 1869, chiede al governo la restituzione dei suoi libri personali depositati nella biblioteca dell’ex Monastero19. Terminata nel 1869-1870 la pubblicazione della sua opera maggiore, Gravina, dal 1877 membro della Società Siciliana per la Storia Patria20 e dal 1879 socio corrispondente della Pontificia Accademia Romana di Archeologia21, si dedica anche a studi teologici e scientifici. La sua dissertazione Su la origine della anima umana e talune verità teologiche che
17
P. ALATRI, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra (1866-74), Torino 1954 (Biblioteca di cultura storica, 51), p. 127, nt. 2. Secondo i documenti per l’istruzione del processo, il comitato monrealese aveva come presidente l’arcivescovo e come vice-presidente Gravina. Già nei primi mesi del 1867 l’arcivescovo, che muore nell’agosto dello stesso anno, è incluso in un’amnistia, e forse anche Gravina ottiene un analogo beneficio. Sulla rivolta del 1866 e sulle sue complesse motivazioni, nonché sui provvedimenti di assoluzione con cui in genere si concludevano in quel periodo avvenimenti analoghi, v. ALATRI, Lotte politiche cit., pp. 105-150. 18 C. MARCONI, L’attività della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia, V: 18631871, Palermo 2004 (Quaderni del Museo archeologico regionale “Antonino Salinas”, suppl. 8), pp. 54-55, nr. 54, verbale del 23 dicembre 1867: «Lettasi una ministeriale colla quale s’invita questa Commessione a proporre cinque de’ Padri Benedettini di Monreale, con un tra loro che la faccia da Capo, che vadano ad abitare in quel Monastero, e che lo curino, e lo custodiscano, ha la medesima incaricato il suo Presidente ad aprire delle trattative con l’Abate Don Benedetto Gravina e riferirne». 19 C. MARCONI, L’attività della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia, V: 18631871 cit., pp. 84-85, nr. 82, verbale del 2 maggio 1869: «Il Padre Abate Domenico Benedetto Gravina de’ Principi Comitini Cassinese chiede la restituzione di taluni libri di di lui esclusiva proprietà, che tenea in deposito nella Biblioteca dell’ex Monastero de’ Padri Benedettini di Monreale, che potrebbero riconoscersi da una bolletta agli stessi attaccata così concepita (spazio vuoto) e la Commessione delibera d’istruire quella dimanda a’ sensi della legge 7 luglio 1866», cioè il Regio decreto 7 luglio 1866, nr. 3036 per la soppressione degli ordini e delle corporazioni religiose. Secondo A. DANEU LATTANZI, I manoscritti ed incunaboli miniati della Sicilia, Palermo 1984 (I manoscritti miniati delle biblioteche italiane, 2), p. 221, nr. 126, il codice miniato XXV.F.17 dei Vaticinia Pontificum (XIII-XIV sec.) della Biblioteca Comunale di Monreale, proveniente dalla biblioteca dell’ex monastero benedettino, aveva un cartellino a stampa con indicazione: «Est monasterii sanctae Mariae Novae Montis Regalis ad usum D. Domenici B. Gravina». 20 Gravina è elencato tra i nuovi membri della Terza Classe («Archeologia e Belle Arti») in Archivio Storico Siciliano n.s. 2 (1877), p. 267. 21 C. PIETRANGELI, La Pontificia Accademia Romana di Archeologia. Note storiche, Roma 1983 (Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, s. III, Memorie in 8°, vol. IV), p. 77.
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ne dipendono22, del 1870, causa le critiche de La Civiltà Cattolica23, che lo inducono a ribattere con un altro scritto24. Il minore conventuale Angelo Trullet, consultore della Congregazione dell’Indice, nel 1875 si pronunzia a favore dell’ortodossia di entrambe le dissertazioni25. In campo scientifico, Gravina pubblica nel 1881 lo studio sulla Nuova teoria della luce e del calorico diurno26, dedicata al fratello maggiore Michele27. Per completare il profilo della sua multiforme personalità, si deve ricordare anche il suo interesse per l’omeopatia, da lui praticata con fiducia e con slancio umanitario («degli aiuti che l’omiopatia presta alla egra umanità, io mi valgo a pro’ della gente povera: e mercé la chiarezza de’ suoi precetti calcolo, che 22 D. B. GRAVINA, Su la origine della anima umana e talune verità teologiche che ne dipendono. Dissertazione fisico-teologica, Palermo 1870. 23 Recensione anonima in La Civiltà Cattolica, a. XXII, vol. III, s. VIII, fasc. 510 (1871), pp. 706-719. 24 D. B. GRAVINA, Su la origine della anima umana. Seconda dissertazione in cui si ribattono gli attacchi della Civiltà Cattolica, Palermo 1872. Sulla copia della Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano, in copertina, vi è la seguente dedica autografa: «All’Esimio Istoriografo / Sig(nor) Cav(alie)r Cesare Cantù / in attestato di rispetto / l’autore». 25 A. TRULLET, Intorno agli scritti del reverendissimo P. Domenico Gravina abate cassinese sulla origine dell’anima umana, in ID., Parere intorno alle dottrine ed alle opere di Antonio Rosmini-Serbati e sugli scritti del P. Domenico Gravina abate cassinese circa l’origine dell’anima umana, Modena 1882, pp. 385-417. Al termine del suo parere, datato 2 marzo 1875, Trullet scrive: «Conchiudo pertanto, non esservi agli occhi miei ragione sufficiente per la proibizione delle due dissertazioni del chiaro e venerando P. Abate Gravina, ma esservi al contrario ogni motivo ed ogni ragione per dimetterle» (pp. 416-417). All’inizio del suo parere (p. 387), Trullet definisce Gravina «abate benedettino di Palermo, già noto e chiaro nella repubblica delle lettere per una splendida illustrazione del Duomo di Monreale scritta da essolui e pubblicata in Palermo anni fa». 26 D. B. GRAVINA, Nuova teoria della luce e del calorico diurno, Palermo 1881; nell’opera, per sua stessa ammissione, Gravina espone una teoria concepita in gioventù (p. 6: «attesa la mia età avanzata, e le pressioni ricevute da qualche amico […] mi fo ardito affidare alle stampe, ciò ch’io sin dal 1826 avevo ideato sopra l’azione solare a riguardo della luce e del calorico diurno»). 27 Su Michele Gravina, v. supra, nt. 2. La dedica, a p. 3, recita: «A S. E. / D. Michele Gravina / principe di Comitini. / A te, che mio fratello maggiore mi hai sempre stimato con affetto più che fraterno, dedico l’ultima delle mie produzioni letterarie. Dessa siccome fatta tra i dolori del male che mi travaglia, e la snervatezza degli anni già di molto innoltrati (sic), è lavoro di piccola mole, e toccato di volo. Pure basta a mostrati la mia riconoscenza. Accettalo dunque, oggi siccome strenna del tuo onomastico ed aggiungi dei molti anni agli 83, che sin’oggi il cielo ti ha conceduti. / Palermo 29 settembre 1881. / Il tuo aff.mo fratello / Domenico-Benedetto». Nel suo testamento (20 luglio 1883), Michele destina tremila lire al fratello Domenico Benedetto «se si trova vivente alla epoca della mia morte»; come si ricava dal certificato di designazione dei cespiti ereditari di Michele, Domenico Benedetto aveva rinunziato nel 1827 alla sua parte di eredità materna a favore dei fratelli (riproduzione anastatica dei documenti in SALVO BARCELLONA, Il Palazzo Comitini cit.).
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tra dieci ammalati, nove sono sempre curati con grande facilità»28). Frutto delle sue esperienze è lo scritto Virtù curativa del lino e maniera probabile di agire dei medicamenti29; egli è anche presidente onorario dell’Accademia Omeopatica di Palermo30. Il Duomo di Monreale illustrato e riportato in tavole cromo-litografiche L’opera maggiore di Gravina, Il Duomo di Monreale illustrato e riportato in tavole cromo-litografiche, edita in quaranta fascicoli tra il 1859 e 186931, consiste, nella sua forma finale, in due volumi di notevoli dimensioni (cm 71 x 52), uno di testo e l’altro di tavole, approntati nei primi mesi del 187032 28 D. B. GRAVINA, in Rivista Omiopatica 11, nr. 9 (15 novembre 1865), pp. 65-67: 65; a p. 66 Gravina continua affermando che «quantunque io non sia medico, tuttavia mi accade parecchie volte dare rimedj omiopatici a qualche amico, ovvero a qualche infelice senza mezzi, ed averne delle guarigioni così rapide ed inaspettate, da fare impallidire qualunque degli allopatici». 29 D. B. GRAVINA, Virtù curativa del lino e maniera probabile di agire dei medicamenti, Palermo 1855; è il testo di una conferenza tenuta il 23 aprile 1855 presso l’Accademia Omiopatica di Palermo (ringrazio la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana di Palermo per avermi inviato una riproduzione di questo scritto). Anche in questo caso, soprattutto alle pp. 3-4, vi è una chiara professione di fiducia nell’omeopatia: «Incontratomi una volta più anni or sono in taluni libri omipatici, […] li misi nelle mani siccome un romanzo, ma poscia la forza della verità mi colpì così profondamente, che volli a me stesso render ragioni della virtù specifica degli atomi, e saggi fatti […], lungi dal dare dei risultati negativi od incerti, corrisposero al segno, che io sin d’allora stimai quel ritrovato, siccome scienza di fatto, vera, reale, incontrastabile, e posi ad occupare i momenti che la mia professione mi lasciò liberi a pro di taluno dei miei confratelli, non credendo in ciò disonorare il mio abito. Io vidi dei portenti tutti nuovi, […] e rimasi meravigliato al considerare la società chiudere gli occhi a non vedere tanta luce, e camminare ostinando nelle tenebre, cercando di opprimere i spanditori della face novella». E, alle pp. 10-11, Gravina conclude: «Debbo poi rendere grazie all’Altissimo che una scoverta di sì alta importanza venga oggi affidata a Voi profondi estimatori della dottrina di Hahnemann […]. Fu il pensiere di rendermi utile ai miei simili, che mi trasse oggi qui innanzi a voi, e convinto come sono profondamente della mia ignoranza domando a voi stessi compatimento se mai le mie idee alcun poco si fossero scostate dai principî di una scienza, per la quale l’uomo se non può aver la vita può di certo migliorarla e prolungarla, e che dovrebbe per questo esser cara ad ogni uomo che à senno ed amor di se stesso». 30 Hahnemann o Annali di medicina omeopatica per la Sicilia, s. II, 1 (1869), p. 38. 31 D. B. GRAVINA, Il Duomo di Monreale illustrato e riportato in tavole cromo-litografiche, Palermo 1859(-1870). Tavole tratte dall’opera di Gravina sono riproposte in M. NARO (ed.), Anelli tutti di una sola catena. I santi nei mosaici del Duomo di Monreale, Caltanissetta 2006 (Scrinia, 1); ID., Gioirono al vedere il Signore. Icone del Risorto nel Duomo di Monreale, Caltanissetta 2007 (Scrinia, 3); D. B. GRAVINA, Il Duomo di Monreale illustrato e riportato in tavole cromo-litografiche, presentazione di M. Naro, testo di C. Naro, Caltanissetta 2007 (Scrinia, 4). 32 La lettera del 28 gennaio 1870 (nr. 8) offre un chiaro contributo per datare al 1870 la conclusione effettiva della pubblicazione, come peraltro indicato da MIRA, Bibliografia sici-
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ma con i rispettivi frontespizi recanti la data del 1859. Il testo inizia con una dedicatoria a Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, datata «Napoli li 10 Ottobre 1858», che onora il sovrano sia come promotore di vari restauri del Duomo di Monreale sia, soprattutto, come primo sostenitore dell’ambizioso e costoso progetto editoriale33. Sebbene Ferdinando muoia pochi mesi dopo (il 22 maggio 1859), e nonostante l’opera sia stata completata quando i Borbone avevano perso il trono da quasi un decennio, l’autore mantiene la dedicatoria, con la data del 1858, ribadendo nella «Ragione dell’opera», datata al dicembre 1869, la sua gratitudine nei confronti del sovrano: «ancora prima che si fosse messo mano all’opera, la munificenza di Ferdinando II, re delle Due Sicilie, avea ascoltato il piano di essa, e grandemente lodatolo, somministrava i primi mezzi, senza dei quali sarebbe stato impossibile ad un claustrale intraprendere cosa di tanta mole. In riconoscenza di ciò, si ebbe Egli dallo autore la dedica dell’Opera, la quale accettò manoscritta, ma, toltolo precocemente ai viventi, non vide data alla stampa». Il contributo del nuovo Re d’Italia è riconosciuto solo in un addendum prima del frontespizio: «A completare ciò ch’è detto nella Ragione dell’Opera, l’autore dichiara, che la presente Opera non sarebbe arrivata al suo compimento se fosse stata priva degli aiuti prestati dal Governo del Re d’Italia, che nel 1862 sottoscrisse per 100 copie, delle quali ha liana cit., p. 454. Sull’opera di Gravina v., in particolare, E. DOTTO, Il Duomo di Monreale illustrato di Domenico Benedetto Gravina, in Ikhnos. Analisi grafica e storia della rappresentazione (2009), pp. 73-104. 33 GRAVINA, Il Duomo di Monreale cit.: «A Voi che emulando la pietà dei vostri padri avete cotanto innoltrata la difficile e munificentissima opera della restaurazione del Duomo di Monreale, a Voi unicamente si compete la dedica di questo mio lavoro, qualunque esso siasi. Per opera della M.V. si videro in quel tempio rimessi i superbi soffitti, restaurati i mosaici, ricostrutte le orchestre, rifatte le sedie del presbiterio, incrostate di marmo le basse pareti, ed ogni cosa ricondotto all’antico splendore. Il genio per le arti belle, e per le opere monumentali, che lasciò grande il nome del vostro proavolo Carlo, visse tutto intero nelle generazioni che lo seguirono, ed arrivato a Voi, lungi di affievolirsi, si mostrò ancora più seducente e robusto. Ovunque nel Regno i monumenti dalla M.V. restaurati od eretti, ne danno perenne testimonianza alle etadi venture. Ancora a questa mia opera vi degnaste volgere lo sguardo, allorch’io ve ne accennai il pensiero. Fu quella la scintilla, che ravvivò e spinse d’un tosto il lavoro; fu l’egida che si distese a difenderlo da ogni straniera e nociva influenza. Tale è la natura degli umani prodotti, ed in particolar modo delle belle arti; elleno vengono a vita, allorché solo grandi e potenti Mecenati verso loro s’inchinano. Le arti Greche ebbero l’usbergo del genio nazionale, che le tutelò; le Romane, la potenza illimitata dei Cesari; le Itale, all’era del risorgimento, l’amore infinito dei Medici; le Sicule, al declinare del medio evo, la pietà dei Normanni; ed oggi a me venuto unicamente a fare conoscere al mondo un periodo, di ciò che questi guerrieri fecero a pro delle arti in Sicilia, non resta che il favore di colui, che siede oggi sul trono medesimo, ha l’animo informato della stessa pietà, ed il cuore aperto ad opre altrettanto religiose e magnifiche. Permettete, ch’io deponga le prime pagine del mio lavoro d’illustrazione del Duomo di Monreale ai piedi del vostro Real trono, e l’opra andrà alacremente e senza altro impulso alla sua fine».
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fatto generosamente dono a tutte le Biblioteche Nazionali del Regno, agli Istituti di Belle Arti, ed a varî personaggi illustri per sapere, che ne hanno potuto apprezzare il valore»34. Così, un po’ paradossalmente, un’opera la cui pubblicazione termina nel 1869-1870 con il contributo del nuovo Re d’Italia, è dedicata a un sovrano preunitario morto da un decennio. Pur non mancando ripetute professioni di modestia35, Gravina non esita a presentare la sua opera come il culmine degli studi su Monreale, esprimendo giudizi riduttivi sugli studiosi che se n’erano occupati, alcuni dei quali ancora vivi quando, nel 1859, inizia la pubblicazione36: Il Duomo di Monreale, per più titoli, meritava una illustrazione. Non è che per lo addietro vari scrittori non se ne siano occupati, ma nessuno raggiunse il segno […]. Furono opere fatte in fretta, e talune di esse sono specie di articoli di opere collettizie. M. Hittorf37 ne parla in unione di tutte le costruzioni, raccolte sotto il titolo di Architettura moderna della Sicilia. Il Duca di Serradifalco38 vi dedica talune pagine nei suoi creduti monumenti Sicoli-Normanni, non avendo in esso veduto nulla al di là del periodo normanno. Michele del Giudice39, scrittore anteriore, riproduce ed aumenta l’opera del Lello40 sul tempio di 34
Ad esempio, sul volume del testo nell’esemplare della biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna è l’indicazione: «Dono / di S. E. il Sig. Comm. Bargoni / Ministro della P. Istru/zione». Su Angelo Bargoni (1829-1901), ministro della Pubblica Istruzione nel terzo governo Menabrea (13 maggio-14 dicembre 1869), v. N. CALVINI in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 353-356. 35 Si veda, in particolare, quanto Gravina afferma alla fine dell’opera (pp. 215-216): «Il mondo letterario poi, ed i teologi, e gli archeologi ci avranno per iscusati nelle pecche, che potranno trovare, ognuno pel proprio ramo, dappoiché abbiamo scritto non essendo né architetti, né archeologi, ma solo un cenobita confinato nella propria cella, e raccolto nei suoi pensieri. Badino però i dotti ad andar piano nei loro giudizi, allorché si troveranno dinanzi le mura di un così vetusto ed augusto monumento, mentre abbiamo veduto allo spesso uomini di grande ingegno, e di non mediocre istruzione fallare, allorché hanno voluto emettere e sostenere dei giudizî, che lungi dall’essere cavati dal monumento, aveano per iscopo assoggettare il monumento medesimo alle loro preconcepite idee […]. Ma i monumenti non sono cera, essi non si prestano a ricevere le impronte delle idee degli ammiratori; sono al contrario acciaio robustissimo, che può senza perdere nulla, modificare le idee delle grandi intelligenze, migliorarle, arricchirle di nuova luce, e di non fallaci cognizioni». Professioni di modestia sono presenti anche nelle lettere trascritte infra. 36 È il caso di Serradifalco e Hittorf che muoiono, rispettivamente, nel 1863 e nel 1867. 37 J. I. HITTORF, Architecture moderne de la Sicile, Paris 1835. 38 D. LO FASO PIETRASANTA DI SERRADIFALCO, Del Duomo di Monreale e di altre chiese siculo normanne, Palermo 1838. 39 M. DEL GIUDICE, Descrizione del real tempio e monasterio di santa Maria Nuova di Morreale, vite de’ suoi arcivescovi, abbati, e signori, col sommario dei privilegj della detta Santa Chiesa di G. L. Lello, ristampata [...] con le osservazioni sopra le fabriche, e mosaici della chiesa, la continuazione delle vite degli arcivescovi, una tavola cronologica della medesima istoria, e la notizia dello stato presente dell’arcivescovado, Palermo 1702. 40 G. L. LELLO, Historia della chiesa di Monreale, Roma 1596.
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Monreale, e ne dice con molta dottrina, con poca critica, con assai mal concepite osservazioni. Ecco la necessità di uno studio più profondo, di un’analisi più veridica, più coscienziosa41.
L’opera di Gravina, oltre ad avere una decennale gestazione editoriale, è chiaramente frutto di una lunga preparazione e, come l’autore afferma nella «Ragione dell’opera», gli è stata affidata dai suoi confratelli in un periodo nel quale, grazie anche a Ferdinando II, si era risvegliato un notevole interesse per il monumento42. Gravina è uno studioso particolarmente indicato per il suo lungo legame con il monastero, per le sue competenze artistiche e tipografiche, per le sue capacità organizzative. L’edizione dei fascicoli e delle tavole subisce un rallentamento durante gli avvenimenti che portano all’Unità d’Italia («le tristi vicende de’ tempi» delle quali parla de Rossi43), ma una cesura ben più seria, tale da incidere sostanzialmente sulla compiutezza dell’opera, è la soppressione del monastero nel 1866. Per questo motivo, tutta la parte sul chiostro è omessa, se si eccettuano poche tavole fotografiche; per ammissione dello stesso Gravina, inoltre, i capitoli IV, V e VI, realizzati «lungi dal monumento», sono meno elaborati rispetto ai precedenti, in particolare il ricco e articolato capitolo III44. Il carteggio di D. B. Gravina con G. B. de Rossi Gravina ha verisimilmente conosciuto Giovanni Battista de Rossi45 du41
GRAVINA, Il Duomo di Monreale cit., «Ragione dell’opera». Delle più recenti opere di restauro e consolidamento Gravina parla nel II capitolo («Storia del tempio dal secolo XII all’anno 1858», pp. 6-22), oltre che nella dedicatoria a Ferdinando II. 43 V. infra, nt. 90. 44 GRAVINA, Il Duomo di Monreale cit., p. 215: «Chiudiamo questa nostra illustrazione con far conoscere, che l’attuale nostro lavoro va a compirsi tre anni dopo da che noi siamo stati espulsi e tenuti lontano dal monumento, al cui servizio avevamo consumato la più parte dei nostri giorni. Ed erano appunto questi gli anni, che ci avevamo riserbati per portare a compimento questa nostra illustrazione, mentre il primo periodo della pubblicazione era stato impiegato nel grande lavoro delle tavole, e nella parte spettante all’architettura. In effetto il capitolo terzo è ancor meglio elaborato che i seguenti, dei quali la più parte fu scritta lungi dal monumento, e quindi mutilata in più luoghi, ed in altri mancante di quel calore, che solo può dare la presenza dell’originale. A questa lontananza è dovuta ancora la mancanza d’illustrazione del chiostro annesso al Duomo; cosa che sarebbe stata di grave interesse, e che noi con rammarico non lieve, abbiamo dovuto sopprimere, dietro avere di esso pubblicate quattro tavole». Sul chiostro di Monreale v., in particolare, R. SALVINI, The Cloister of Monreale and Romanesque Sculpture in Sicily, Palermo 1962. 45 Su G. B. de Rossi (1822-1894), v. almeno N. PARISE in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 201-205 e, tra gli studi successivi, A. BARUFFA, Giovanni Battista de Rossi. L’archeologo esploratore delle catacombe, Città del Vaticano 1994; S. REBENICH, 42
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rante un soggiorno a Roma, forse nel periodo in cui vive fuori dalla Sicilia46. Le lettere di Gravina conservate nel carteggio de Rossi si datano tra 1863 e 187747, sono spedite da Monreale prima del 1866, poi da Palermo. È probabile che la corrispondenza tra i due studiosi sia cominciata, o si sia “riannodata”, dopo l’inizio dell’edizione dell’opera di Gravina su Monreale48. Il primo contatto è testimoniato dalla «Nota / di Giuseppe Spithöver49 Negoziante di libri e stampe / Piazza di Spagna», datata «Roma 26 Settembre 1859», che accompagnava il primo fascicolo dell’opera sul Duomo di Monreale inviato «in dono dal autore (sic)» all’«Illustrissimo / Signore il Si-
Giovanni Battista de Rossi und Theodor Mommsen, in R. STUPPERICH (ed.), Lebendige Antike. Rezeptionen der Antike in Politik, Kunst und Wissenschaft der Neuzeit. Kolloquium für Wolfgang Schiering, Mannheim 1995 (Mannheimer historische Forschungen, 1), pp. 173-186; P. SAINT-ROCH, Correspondance de Giovanni Battista de Rossi et de Louis Duchesne (1873-1894), Rome 1995 (Collection de l‘École Française de Rome, 205); M. BUONOCORE, Giovan Battista de Rossi e l‘Istituto Archeologico Germanico di Roma (Codici Vaticani Latini 14238-14295), in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung 103 (1996), pp. 295-314; ID., Le lettere di A. Noël des Vergers a G. B. de Rossi nei codici della Biblioteca Apostolica Vaticana, in R. COPIOLI (ed.), Adolphe Noël des Vergers (1804-1867). Un classicista eclettico e la sua dimora a Rimini. Atti del convegno internazionale (Rimini, 30 settembre-1 ottobre 1994), Rimini 1996 (Adolphe Noël des Vergers. Testi, 1), pp. 401-416; S. FRASCATI, La collezione epigrafica di Giovanni Battista De Rossi presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 1997 (Sussidi allo studio delle antichità cristiane, 11); M. BUONOCORE, Theodor Mommsen e gli studi sul mondo antico. Dalle sue lettere conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Napoli 2003 (Pubblicazioni dell’Istituto di diritto romano e dei diritti dell’Oriente mediterraneo. Università di Roma “La Sapienza”, 79), pp. 3-10, 65270; D. MAZZOLENI, Giovanni Battista de Rossi. Apporti e progressi negli studi d’epigrafia cristiana, in Bollettino dei monumenti, musei e gallerie pontificie 25 (2005), pp. 385-395; G. VAGENHEIM, Portraits et travaux d’érudits au XIXe siècle: la correspondance inédite de Giovanni Battista de Rossi (1822-1894) et Eugène Müntz (1845-1902) sur les mosaïques d’Italie, in Académie des Inscriptions et Belles-Lettres. Comptes Rendus (2009), pp. 515-532; PH. FORO, Giovanni Battista de Rossi, entre archéologie chrétienne et fidélité catholique dans l’Italie de l’Unité, in Anabases 9 (2009), pp. 101-112; M. BUONOCORE, Giuseppe Gatti, Angelo Silvagni e le schede ICR di Giovanni Battista de Rossi: nuovi tasselli per la storia della loro “acquisizione”, in PH. PERGOLA – O. BRANDT (edd.), Marmoribus vestita. Miscellanea in onore di Federico Guidobaldi, Città del Vaticano 2011 (Studi di antichità cristiana, 63), pp. 305-329. 46 Che i due si siano conosciuti personalmente lo si ricava dalle lettere, in particolare dalla nr. 1: «spero venire in Roma un’altra volta pria di morire, riabbracciarla e godere della sua persona per qualche giorno» (corsivo mio). 47 1863 (due lettere); 1864 (due); 1865 (una); 1868 (una); 1870 (una), 1872 (una), 1877 (una). Tra le lettere del 1868 è conservata una lettera di Gravina a D. Salazaro. 48 Nella lettera del 14 febbraio 1863 (nr. 1) Gravina afferma che «la mancanza di reciprocanza letteraria dalla mia parte deve addebitarla alla persuasione ch’Ella non abbia tempo da consumare per me, ed alla cognizione della mia nullità, la quale non può rendere interessante la mia penna a Lei». 49 Su Josef Spithöver (1813-1892), v. E. OFENBACH, Josef Spithöver: Ein westfälischer Buchhändler, Kunsthändler und Mäzen im Rom des 19. Jahrhunderts, Regensburg 1997.
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gnor professore Rossi»50. Dalla prima lettera conservata (14 febbraio 1863, nr. 1) si deduce che varie missive di de Rossi non sono pervenute a Gravina «sia che sieno state spedite in momenti in cui la corrispondenza postale è stata mal sicura», evidentemente a causa della spedizione dei Mille e delle vicende successive, «sia che l’indirizzo non sia stato indovinato»51. Mediatore tra i due studiosi, in questo come in altri casi, è un nipote di Gravina, Giuseppe52, già ministro plenipotenziario del Regno delle Due Sicilie presso la Santa Sede, che vive a Roma53, forse anche perché rimasto fedele al deposto sovrano Francesco II di Borbone54. Argomento principale del carteggio, sin dalla prima lettera, sono le opere nelle quali i due studiosi sono impegnati: per Gravina l’illustrazione del Duomo di Monreale, per de Rossi soprattutto il Bullettino di archeologia cristiana e La Roma sotterranea cristiana. Diversa, secondo Gravina, è però la situazione nella quale essi operano, perché, se de Rossi ha per sé «il cuore di Pio IX, e tutti i grandi mezzi che presenta la capitale del mondo cattolico», egli invece vive «abbeverato tutti i giorni di fiele, in uno scoglio55 che non mi presenta che povertà da tutti i lati; povertà di disegnatori, povertà di stabilimenti litografici, povertà di commercio, povertà di relazioni, e quel ch’è peggio povertà d’incoraggimento (sic)». In una lettera del 1864 (nr. 4) prega de Rossi di «compatire gli errori, che avrà potuto incontrare nella mia opera. Lavoro con elementi contrarii, ed avanzo a grandissima pena». Come ricorderà nella «Ragione dell’opera», Gravina ha ovviato alla «povertà di disegnatori» formando una “squadra” di giovanissimi artisti locali, tanto che nel 1857 si avanza addirittura il progetto di creare un «alunnato di architettura pel Duomo di Morreale», con il coinvolgimento di Gravina, «conoscendo lo stesso più di ogni altro quel Tempio, essendo d’altronde molto versato in lavori di simil natura»56. Alla «povertà di stabilimenti li50
Vat. lat. 14243, f. 560r. A disguidi postali fa riferimento anche la lettera del 15 luglio 1868 (nr. 7). 52 SAN MARTINO DE SPUCCHES, La storia dei feudi cit., III, p. 78. 53 Lettere del 14 febbraio 1863 (nr. 1), del 27 ottobre 1864 (nr. 4), dell’11 febbraio 1865 (nr. 5). 54 Non si spiegherebbe altrimenti, nella lettera nr. 4, la precisazione «mio nipote […] credo che abiti tuttora il palazzo Farnese» che, dal 1861 al 1870, è residenza di Francesco II di Borbone e della sua corte in esilio; v., in particolare, S. SARLIN, I Borboni di Napoli, in F. BURANELLI (ed.), Palazzo Farnèse. Dalle collezioni rinascimentali ad Ambasciata di Francia, Firenze 2010, pp. 271-275. 55 L’immagine dello «scoglio» ritorna anche in GRAVINA, Il Duomo di Monreale cit., «Ragione dell’opera»: «Noi auguriamo scrittori di maggior polso ai monumenti cristiani dell’Italia continentale. Chiusi dalle onde del mediterraneo, limitiamo a questo scoglio i nostri studi». 56 G. LO IACONO, C. MARCONI, L’attività della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia, III: 1852-1860 cit., pp. 86-88, nr. 55, verbale del 10 marzo 1857. 51
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tografici», Gravina rimedia prima rivolgendosi alla litografia Richter di Napoli, poi facendo trasferire in Sicilia uno dei cromolitografi57. Le altre motivazioni (povertà di commercio, di relazioni e di incoraggiamento) sono probabilmente da ricondurre alla situazione non facile nella quale, dopo l’Unità, si trova a operare Gravina, che non nasconde i suoi legami con i Borbone e la sua diffidenza verso la politica del nuovo Regno. La prima lettera si conclude con l’auspicio di tornare a Roma oppure di accogliere de Rossi in Sicilia, dove «potrebbe trovarsi del pabulo archeologico sufficiente» e dove, come scrive in un’altra lettera, «i nostri monumenti le farebbero piacere» e «la sua venuta potrebbe essere utile alla Sicula archeologia»58. Nella lettera del 16 giugno 1863 (nr. 2), Gravina ringrazia 57 GRAVINA, Il Duomo di Monreale cit., «Ragione dell’opera»: «Tuttavolta la cromolitografia per essere eseguita ha bisogno di originali cavati sul luogo; ed ecco la necessità di artisti abili, che valessero a copiare e riportare l’antico sulla carta. Fu questa la maggiore difficoltà, che io abbia incontrata. Nessuno dei nostri artisti era atto a quel lavoro […]. Fu necessità quindi trarre partito dalla naturale, e vergine disposizione di taluni giovanotti, i quali bisognai mano mano addestrare […]. Varî furono i giovani che vi si addissero nella loro tenera età dai 12 ai 20 anni, e di cui ne taccio i nomi a non suscitare gelosie fra viventi, non potendo essere tutti ugualmente rammentati. Costoro ebbero, è vero, una guida […], ma ciò nulla tolse al proprio merito, mentre i lavori furono fatti di loro mano, ed onorarono il paese natio. Alla difficoltà di formare i disegnatori, si aggiunse l’altra della mancanza in Sicilia di una litografia, che potesse portare alla fine un lavoro così arduo, e complicato. Dovetti quindi rivolgermi sulle prime in Napoli alla litografia Richter, la quale contava allora tra i suoi artisti Giorgio Frauenfelder, e Corrado Grob. Costoro presero l’opera su di loro, ed in seguito mi riuscì ottenere il signor Frauenfelder, il quale venne a Palermo, ed installò qui una litografia, al solo scopo di portare a fine l’opera di illustrazione del Duomo di Monreale. I suoi lavori non bisognano di commento, ogni amatore può da sé giudicarne, ponendo sott’occhio le nostre tavole». I nomi dei disegnatori che si ricavano dalle tavole sono: Achille Albanese, Giovanni Cammarata, G. Ciaccio, P. Di Giovanni, G.C. Giarrizzo (indicato anche come G. Giarrizzo e C. Giarrizzo), Michelangelo Giarrizzo, G. Patricola, Giuseppe Patricolo (non è chiaro se si tratti dello stesso personaggio o di due quasi omonimi), A. Terzo; il nome di Gravina appare come direttore dei lavori («D. B. Gravina dir.»), e, in qualche caso, anche come disegnatore. La maggior parte delle tavole hanno l’indicazione «Litografia Frauenfelder, Palermo», alcune l’indicazione «Litografia Richter e C. in Napoli». Sulla cromolitografia, che ha la sua maggiore diffusione tra 1850 e 1870, si veda, con particolare riferimento all’opera di Gravina, G. ZAPPELLA, Il libro antico a stampa. Struttura, tecniche, tipologie, evoluzione, Milano 2001-2004 (I manuali della biblioteca, 3/1-2), II, p. 258. 58 Lettera del 16 giugno 1863 (nr. 2). Nella lettera del 10 ottobre 1864 (nr. 3) Gravina offre consigli per un eventuale viaggio in Sicilia. De Rossi, secondo quanto risulta, non si sarebbe mai recato in Sicilia; si veda, ad esempio, quanto scrive P. M. BAUMGARTEN, Giovanni Battista de Rossi fondatore della scienza di archeologia sacra, Roma 1892, p. 20: «Una cosa potrà destare negli archeologi qualche maraviglia, come mai tra tanti e lunghi viaggi […] non si ritrovi pur una visita alla Sicilia, Grecia, Palestina ed Africa. I grandissimi tesori di classiche e cristiane antichità che colà si trovano, farebbero naturalmente credere, che altresì in quelle regioni sarebbesi recato il de Rossi. La ragione del non essere avvenuto così, è che il de Rossi nelle piccole traversate […] ebbe a soffrire tanto per il mal di mare, che dové rinunziare del tutto a questi e molto più ai lunghi tragitti. I monumenti e documenti che sono di
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de Rossi, che ha ricambiato con il Bullettino di archeologia cristiana l’invio di fascicoli dell’opera su Monreale, anche se, ammette Gravina, «assai diversi mi sembrano oggi i ricambii, mentre la mia opera per quanto sia vistosa a Lei nulla può interessare per la povertà dello scrittore, mentre che il suo bollettino per la vasta erudizione di cui è cosparso è un giojello. […] Non ho parole a ringraziarlo di simile dono, il quale vale più che il mio» e, ancora, nella lettera del 27 ottobre 1864 (nr. 4), ringraziando de Rossi per l’invio del primo volume de La Roma sotterranea cristiana, scrive che «la mia opera serve per appagare le donne e divertirle a sfogliare quelle cose dorate, le sue sono un tesoro di erudizione, e la sacra archeologia ne riporterà utile grandissimo. Terrò il suo donativo come la cosa più cara che io mi abbia». Gravina, inoltre, comunica a de Rossi la sua volontà di sottoscrivere l’associazione a La Roma sotterranea cristiana e lo informa sul progredire della sua opera, chiedendogli di farne un cenno nel Bullettino. De Rossi, puntualmente, annunzia che «la splendida e fedelissima edizione del Duomo di Monreale illustrato e riportato in tavole cromo-litografiche dal ch. D. Domenico Gravina Abate Cassinese, rallentata per le tristi vicende de’ tempi, ha ripreso il suo corso»59. Per questa notizia Gravina lo ringrazia nella lettera del 10 ottobre 1864 (nr. 3) («ho trovato un cenno sulla mia opera d’Illustrazione di questo Duomo […]. Io ho capito che Ella quello articolo lo abbia fatto anco a mio riguardo personale, e per questo glene (sic) esterno i miei più sentiti ringraziamenti»). In questa lettera, come anche nella precedente (nr. 2) e nella successiva (nr. 4), Gravina si sofferma su uno degli assunti più “innovativi”, ma anche più caduchi, dei suoi studi su Monreale. Lo studioso, infatti, riconosce nel Duomo due fasi costruttive, delle quali la più tarda è sicuramente quella “normanna”; la fase precedente, secondo lui, andrebbe ricercata non nel periodo arabo ma in quello bizantino, e più precisamente nel VI secolo. De Rossi è naturalmente sorpreso da questa affermazione e, non casualmente, vi si sofferma nel Bullettino scrivendo che «nel Duomo di Monreale […] troviamo anche quello, che veramente non aspetteremmo; cioè un monumento non del secolo XII, ma del VI». Egli non respinge le idee sulla datazione del Duomo e sull’origine dell’arco a sesto acuto, ma invita gli studiosi a «farvi sopra seria e matura considerazione», avendo presenti «le sagaci osservazioni fatte dal Conte di Vogüé sull’arco a sesto acuto nelle chiese di Gerusalemme, e negli arabi edificii di tutta la Siria». De Rossi deve aver chiesto a Gravina novità sui monumenti cristiani della Sicilia, forse per pubblicarle nel Bullettino, là dal Mediterraneo, e che gli parvero necessari a’ suoi studi, procurò di avere per mezzo degli amici e dotti di sua conoscenza». 59 V. infra, nt. 90.
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ottenendo una risposta evasiva60 in questa lettera, negativa in quella successiva («di archeologia sacra non è a parlare fra noi, in questi momenti, in cui le chiese si convertono in quartieri, in ospedali, in pubblici licei, e basta qua»61). Gravina promette invece di interessarsi alla diffusione del Bullettino e, in seguito, ha anche un ruolo di mediatore nell’acquisto de La Roma sotterranea cristiana da parte delle due principali biblioteche palermitane e nella diffusione dell’opera62. Nella lettera del 27 ottobre 1864 (nr. 4), Gravina, che ha letto l’opera di de Vogüé, dice di non avervi trovato nulla che contraddicesse la sua teoria, perché, anche se l’arco a sesto acuto fosse stato introdotto dai crociati nella Terra Santa, come sostiene de Vogüé, ciò non toglierebbe credibilità all’ipotesi che esso sia nato in Sicilia nel VI secolo, sia passato agli Arabi nel IX e si sia poi diffuso in tutta Europa. Meno convinto si dimostra su un altro assunto di de Vogüé, che ciò la forma dell’arco (a tutto sesto o a sesto acuto) sia sostanzialmente indifferente, perché non altera la struttura dell’edificio, ma rifiuta di entrare in «polemiche estranee al mio scopo». Come è possibile constatare, dunque, le lettere di Gravina trattano di alcuni temi che in quel periodo occupano la sua riflessione e che trovano nell’opera ampio svolgimento. Emerge, in particolare, il forte ridimensionamento dell’apporto arabo all’architettura e alla civiltà siciliana63, nonostante il diverso atteggiamento dimostrato in precedenza64. Non è da esclu60
Lettera del 10 ottobre 1864 (nr. 3): «Intorno a notizie sopra monumenti cristiani io attualmente non saprei cosa dirle, giacché qui poche ricerche si fanno all’uopo. Però è da dire che in atto la Commessione di Antichità si occupa molto dei nostri monumenti sì antichi, che del medio evo, se si avranno dei risultati qualunque, che potessero interessare l’archeologia cristiana, io non mancherò tenernela informata». 61 Lettera del 27 ottobre 1864 (nr. 4). È probabile che Gravina si riferisca anche al progetto di utilizzare come caserma e carcere alcuni ambienti del Monastero di Monreale (v. il verbale della Commissione di Antichità e Belle Arti del 18 giugno 1863 cit. supra, nt. 15). 62 Lettere dell’11 febbraio 1865 (nr. 5), del 15 luglio 1868 (nr. 7), dell’8 agosto 1877 (nr. 10). 63 Si vedano, soprattutto, la «Ragione dell’opera», le conclusioni e il § 5 del cap. III (pp. 30-32). Nella «Ragione dell’opera» si legge, ad esempio, che «la storia dell’araba dominazione in Sicilia, che da molti per istudio di parte s’è voluta levare troppo a cielo, tacque a segno sull’arte del costruire del paese durante quell’èra, che poco o nulla di essa se ne conosca. Nessun grande edificio ce ne rivela la esistenza. Non abbiamo di questa, che dei brani stentatamente accollati alle anteriori costruzioni. Gli Arabi ugualmente che i Romani lavoravano per sé; usufruttavano le forze dei soggetti in favore del loro paese natio» e ancora: «ai nostri dì […] troppo si idolatra l’araba civiltà». 64 In Alcune ore sulle antichità di Sicilia cit., p. 126, Gravina, infatti, osserva che «i Saraceni non furono de’ popoli così barbari come il volgo a torto il crede; perciocché mentre l’Europa involta era nelle tenebre dell’ignoranza, essi popolavano le regioni, fabbricavano città, fecondavano i campi; né le lettere eran loro ignote, come lo addimostrano i loro codici; conoscevano le arti liberali, e con particolarità l’incisione e l’architettura che presso di loro
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dere che il mutato giudizio nei confronti degli Arabi, e anche le opinioni fortemente critiche sulla dominazione romana, siano frutto dell’accentuarsi di un atteggiamento “nazionalista” percepibile in più parti dell’opera65. I Greci, poi i Bizantini, e infine i Normanni emergono, invece, come forze positive nella storia siciliana; questi ultimi, in particolare, conquistata la Sicilia e «sostituiti ai Mori la francarono da una schiavitù, e le diedero un’impronta di nazionalità, che in faccia al mondo durò per più secoli»66; sul giudizio positivo nei confronti dei Normanni può aver influito anche la continuità che Gravina istituisce tra la monarchia normanna e quella borbonica67. Tolta agli Arabi qualsiasi originalità, e riconosciuta nel Duomo di Monreale una fase anteriore a quella normanna, Gravina, con ferrea quanto fallace logica, colloca la prima fase della costruzione in età anteriore all’arrivo degli Arabi, più precisamente sotto Gregorio Magno68, riconoscendo alla Sicilia una notevole priorità rispetto al resto d’Europa69. Secondo Gravina l’arco a sesto acuto, lungi dall’essere un’invenzione dell’architettura gotica, sarebbe stato per la prima volta utilizzato in Sicilia nel VI secolo, in quella peculiare forma di architettura che egli propone di definire «siculo-bizantina»70, e dalla Sicilia si sarebbe irradiato in tutta Europa. non erano prive di merito; così Sicilia onorevole posto occupava ne’ fasti dell’Europa». Nello scritto Sopra una antica immagine della Immacolata cit., p. 12, inoltre, definisce «arabo-sicula» l’architettura del Duomo di Monreale che invece, nell’opera maggiore, diventa «siculobizantina» (v. infra, nt. 70). 65 Si veda, ad esempio, proprio la teoria di Gravina sull’origine siciliana dell’arco a sesto acuto. 66 GRAVINA, Il Duomo di Monreale cit., «Ragione dell’opera». 67 Si veda la dedicatoria dell’opera a Ferdinando II di Borbone, cit. supra, nt. 33. 68 GRAVINA, Il Duomo di Monreale cit., «Ragione dell’opera»: «Certi che il nostro monumento risalga all’epoca tra il sesto ed il nono secolo, che furono gli anni in cui i Bizantini dominarono nell’isola, abbiamo creduto ritrovare le tracce storiche della primitiva costruzione del Duomo di Monreale nel secolo sesto […]. Il tempio di Monreale risale ai tempi di Papa Gregorio il Grande». Gravina approfondisce l’argomento nel cap. III, § 9 (pp. 34-35), ipotizzando che il monastero di Monreale sia il Lucusianum monasterium citato da Gregorio Magno nel suo epistolario, lettere IX, 28 e XI, 48-49 [Patrologiae cursus completus. Series Latina, accurante J.-P. MIGNE, 77, Parisiis 1896, coll. 966-967 e 1167-1169]. 69 Nella conclusione si ribadisce che «i raziocinî successivi svolti sul Duomo di Monreale, ci hanno condotti a conseguenze di gravissimo momento, mentre le arti del disegno in Sicilia si trovarono aver preceduto almeno di un secolo quelle del continente; l’architettura dell’isola si vide aver messo in opera l’arco aguzzo, quale sistema generale di costruzione, e ciò quasi tre secoli pria, che nol conobbero l’Italia e le altre contrade d’Europa. La storia dell’araba architettura fu parimenti rettificata nella sua genesi, e ricondotta al punto vero di sua partenza. Queste idee tratte in parte dal Duomo di Monreale, ed in parte confrontate con lo stesso, sottrassero la sua erezione ai Normanni […]. La prima costruzione del monumento risalì al secolo sesto» (GRAVINA, Il Duomo di Monreale cit., p. 213). 70 Fondamentale, al riguardo, il cap. III, § 10, «Origine dell’architettura siculo-bizantina»
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Nella lettera dell’11 febbraio 1865 (nr. 5) Gravina si dichiara debitore del «riscontro della data di una iscrizione Greca» pubblicata su un «giornaletto». Da un appunto di de Rossi nel Vat. lat. 1052971, si deduce che l’iscri(GRAVINA, Il Duomo di Monreale cit., pp. 35-37). In particolare, alle pp. 36-37 si legge: «Non fu quindi al X secolo, e neppure al IX, come la più parte degli scrittori asserisce, che vennero fuori le costruzioni ad arco acuto, ma nel corrente del VI, e precisamente in Sicilia, allorquando la bizantina sapienza si fe’ vedere nell’isola, e ridestò l’attutito genio dei Siciliani […]. Malauguratamente piacque ai secoli posteriori, quello stile chiamarlo gotico, perché creduto che i Goti l’avessero introdotto, ma ciò non fu; né i Goti che dominarono in Sicilia, veruna traccia lasciarono di costruzioni di tale genere, ed i Bizantini venuti dopo, eressero al loro arrivo delle fabbriche, che neppure ebbero l’arco a sesto acuto. È quindi indubitato, che tale sistema nacque tra gli anni intermedii alla venuta di Belisario in Sicilia (535) che costrusse ad arco circolare, ed il Papato di Gregorio il Grande (590), che costrusse ad arco acuminato. E che questo nuovo sistema sia stato realmente una specie d’innesto fatto dai Siciliani su la bizantina architettura, lo mostrano ad evidenza parecchie costruzioni, che storicamente si devono riferire a quei tempi, ove l’arco aguzzo, impiegato come sistema generale, vedesi unito alle piante di tipo bizantino, ed a tutte quelle caratteristiche, che parimenti ad esso appartengono. Dopo ciò che abbiamo detto sull’impiego dell’arco a sesto acuto, chiaro ne sorge, che quel genere di architettura, che non fu gotico, perché i Goti non lo conobbero, e neppure arabo, perché esistente pria dell’arrivo di questi popoli in Sicilia, dovrebbe ragionevolmente dirsi siculo, e se si vuole tener conto della parte, che vi ebbero i Bizantini, e di ciò che i Siciliani ritennero della loro architettura, si potrà a rigore chiamarlo siculo-bizantino». Nelle conclusioni, a p. 213, in polemica con chi sosteneva l’origine nordica dello stile gotico e la sua introduzione in Italia da parte dei Normanni, Gravina ribadisce che «i Normanni […] non ebbero arti proprie, ma le importarono dall’Italia in Francia; e lo stile aguzzo misto di Bizantino e di Moresco, fu ciò che trovarono in Sicilia, la quale era stata successivamente sotto i Bizantini, e sotto i Mori. L’arco aguzzo detto in seguito Gotico, nacque in Sicilia sotto i Bizantini al secolo sesto, e quindi sei secoli avanti dell’arrivo dei Principi Nomanni». Importante anche la sintesi offerta da Gravina nella «Ragione dell’opera»: «La costruzione materiale fu provata essere di due epoche assai discoste l’una dall’altra, della quale ai Normanni non poteva appartenere che la più recente. Della preesistente nessuna ricordanza ne diè la storia; era quindi naturale che si dovesse ricercarla in epoca anteriore ai Normanni, e primo sotto la dominazione Araba, il cui periodo ebbe la lunga durata di tre secoli circa. L’analisi fe’ vedere, che la costruzione non era araba, ma preesistente agli Arabi. Ed eccoci, senza volerlo, entrati necessariamente nell’aringo di provare, che non solo Monreale, ma tutti i sicoli monumenti del medio evo, la cui architettura presenta i dati medesimi di Monreale, siano anteriori agli Arabi, e che anzi gli Arabi venuti in Sicilia non conoscessero quel genere di costruzione, ma qui lo apparassero, e lo trasportassero dappoi sulle riviere dell’Africa. […] Sottratti i sicoli monumenti dalla mano degli Arabi, indietreggiando, la storia ci fa tosto incontrare in Sicilia la dominazione dei Bizantini, ai quali non è dubbio che non appartenga l’architettura del Duomo di Monreale non solo, ma anche di moltissimi altri edifici sparsi per l’isola. Tuttavolta taluni dati strettamente architettonici, tra i quali l’impiego dell’arco aguzzo, siccome a sistema generale, fanno deviare questi monumenti dai bizantini. Messe a calcolo codeste deviazioni, siamo stati indotti dare a questo stile particolare il nome di sicolobizantino». 71 G.B. DE ROSSI in Vat. lat. 10529, f. 23r: «La cronologia vuole πρὸ εʹ εἰδῶν etc. […]. Ho scritto al P. Gravina per verificare la cosa. Ma sopra questa difficoltà di cronologia vedi Bormann, Bull. dell’Ist. 1868 p. 172 v. Salinas nel Bull. di Palermo fasc. 2.°». Le pubblicazioni cui si riferisce de Rossi sono, rispettivamente, E. BORMANN, Iscrizioni di Marsala e Taormina, in
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zione in questione è un’epigrafe funeraria rinvenuta a Taormina (IG XIV 444) e pubblicata da Giuseppe de Spuches principe di Galati nel giornale palermitano Diogene e poi nel Bullettino della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia72. Poiché de Rossi cita quest’ultima pubblicazione, il riscontro di Gravina dovrebbe riguardare la prima edizione, su un giornale locale non facilmente reperibile. Nelle successive lettere conservate, però, Gravina non ritorna più sull’argomento. In occasione della pubblicazione del secondo volume de La Roma sotterranea cristiana (1867), de Rossi, oltre alla copia donata a Gravina, invia altri due esemplari destinati alle due biblioteche pubbliche di Palermo. Il pagamento effettuato da Gravina, però, non giunge a destinazione, per cui il 15 luglio egli scrive sia a Demetrio Salazaro73 (nr. 6), sia a de Rossi (nr. 7), rinnovando a quest’ultimo i ringraziamenti «per lo splendido dono ch’Ella mi fa di opera così interessante, non che del caro Bollettino, pieno di erudizione, e di gravissime dilucidazioni, che lo rendono imprezzabile» ed esponendogli le circostanze dell’involontario disguido. La lettera del 28 gennaio 1870 (nr. 8) è un’interessante testimonianza sul completamento, dopo un ventennio, de Il Duomo di Monreale. Il volume delle tavole è già pronto, quello del testo è ormai a uno stadio molto avanzato, e Gravina chiede a de Rossi di assicurarsi che l’opera abbia una sistemazione confacente nell’Esposizione Cattolica organizzata a margine del Concilio Ecumenico Vaticano I, appena iniziato. Gravina, inoltre, esprime il desiderio, non sappiamo se realizzato, di recarsi a Roma. Dopo una breve commendatizia per Ciro Visconti, un editore e tipografo che «ha impresa la pubblicazione a Cromolitografia della Cappella Palatina di Palermo» (lettera del 2 marzo 1872, nr. 9), il carteggio si conclude con una lettera dell’8 agosto 1877 (nr. 10), nella quale Gravina si congratula per la pubblicazione del III e ultimo volume de La Roma sotterranea cristiana, «opera di tanta mole, che sola basterebbe a dare nome immortale ad un uomo». Egli, «tra’ minimi nella repubblica dei sacri archeologi», non si limita a ringraziare de Rossi per un dono «assai superiore ad ogni mio Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica (1868), pp. 168-173 e Lettera indirizzata dal sig. A. Salinas al Presidente della Commissione intorno agli articoli contenuti nel 1° numero del presente Bullettino, in Bullettino della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia 2 (1864), pp. 9-13. 72 G. DE SPUCHES, Illustrazione d’alcune epigrafi inedite e d’altri oggetti archeologici, in Bullettino della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia 1 (1864), pp. 12-17. A p. 12 De Spuches precisa di aver già parlato dell’epigrafe «nel Diogene dell’anno passato»; tale annata della rivista palermitana mi è rimasta inaccessibile. 73 Su Demetrio Salazaro (1822-1882), uomo politico e storico dell’arte, v. almeno M. MANDALARI, Demetrio Salazaro, in Archivio storico delle province napoletane 7 (1882), pp. 628-647 e M. A. ROMEO, Demetrio Salazaro (1822-1882). Profilo storico-biografico, Gerace Marina 1891.
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merito», ma gli rivolge parole che sintetizzano la loro lunga amicizia: «io sono assai ammiratore delle cose sue, abbenché pocho (sic) parli, e poco scriva per naturale indole, che non si può formare ad artificio, e formata non si corregge. I miei attuali quindi ringraziamenti non sono, che un ombra (sic) lontanissima di quel che sento di riconoscenza, di rispetto, di venerazione, siccome ad amico, a protettore, a mecenate, a splendido e gratuito donatore». Descrizione di D. B. Gravina, Il duomo di Monreale illustrato e riportato in tavole cromo-litografiche, Palermo 1859-(1870)74 Volume I — Frontespizio: Il duomo / di / Monreale / illustrato / e riportato in tavole cromo-litografiche / da D. Domenico-Benedetto Gravina / abate cassinese, Palermo, Stabilimento tipografico di F. Lao, 1859. — Dedicatoria «A sua maestà / Ferdinando secondo / re del regno delle Due Sicilie», datata «10 Ottobre 1858». — «Ragione dell’opera», datata «Dicembre 1869». — Capitolo I: «Descrizione del tempio», pp. 1-6. — Capitolo II: «Storia del tempio dal secolo XII all’anno 1858», pp. 6-22. — Capitolo III: «Architettura del tempio», pp. 23-8375. 74 La descrizione è condotta sulla base dell’esemplare della Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna. Non è da escludere che, essendo l’opera uscita in fascicoli, vi possano essere differenze di rilegatura tra i vari esemplari. Ad esempio DOTTO, Il Duomo di Monreale cit., pp. 86-87 menziona un elenco dei sottoscrittori allegato all’esemplare da lui consultato ma non presente nella copia dell’Archiginnasio. In quest’ultima copia, nel volume delle tavole, è rilegato invece il manifesto di associazione, nel quale, dopo aver esposto i contenuti del testo, si annunzia che «l’opera sarà corredata da un atlante non minore di ottanta tavole in gran foglio imperiale e sopra carta di canape a bella posta costruita dal sig. Miliani di Fabriano. […] I disegni sono stati eseguiti in parte dallo stesso autore, ed in parte da abilissimi artisti, che onorano le arti di Sicilia. L’opera verrà distribuita in quaranta fascicoli, di cui il costo è fissato a duc. 3,60 per uno. Ne sarà pubblicato un fascicolo ogni due mesi che gli associati pagheranno alla consegna». Le tavole in realtà sono ottantanove, e il tempo di pubblicazione un po’ più lungo del previsto (dieci anni invece di sei/sette). 75 È l’unico capitolo suddiviso in paragrafi, secondo il seguente prospetto: § 1: «Dubbî sulla storia, e la diplomatica, che trattarono dell’origine del duomo di Monreale, e di tutte le costruzioni normanne in Sicilia», pp. 23-24; § 2: «L’analisi, unico mezzo a conoscere la vera data de’ monumenti», p. 24; § 3: «La costruzione del duomo di Monreale è di due epoche», pp. 24-27; § 4: «Talune parti del fabbricato del duomo di Monreale sono dell’epoca normanna», pp. 27-30; § 5: «La siciliana architettura del medio evo non è araba», pp. 30-32; § 6: «La parte del duomo di Monreale anteriore ai Normanni preesisteva agli Arabi», p. 32; § 7: «Dominazione bizantina, ed introduzione della sua architettura in Sicilia», pp. 32-33; § 8: «Il duomo di Palermo e quello di Monreale al VI secolo», pp. 33-34; § 9: «Storia della costruzione, e de’ cambiamenti subiti dal duomo di Monreale dal VI al XII secolo», pp. 34-35; § 10:
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— Capitolo IV: «Sacra iconografia del duomo di Monreale», pp. 85-139. — Capitolo V: «Usi, e costumi sacri e profani tratti dai mosaici del duomo di Monreale», pp. 141-190. — Capitolo VI: «La simbolica del duomo di Monreale», pp. 191-212. — «Conclusione / aggiunzioni e correzioni», pp. 213-216. — «Indice delle cose notevoli», pp. 217-224. — «Indice delle materie», pp. 225-226. Volume II — Tavole76. — «Indice ragionato delle tavole / Sistema generale adottato per la loro formazione e distribuzione». — «Indice delle tavole / Guida pel legatore».
«Origine dell’architettura siculo-bizantina», pp. 35-37; § 11: «Si enumerano varii monumenti di cui l’architettura è siculo-bizantina», pp. 37-43; § 12: «Influenza degli Arabi sull’architettura siculo-bizantina», pp. 44-45; § 13: «Paragone dei monumenti arabi esistenti in varie regioni con le costruzioni siculo-bizantine», pp. 45-47; § 14: «Influenza dei Normanni sulla siculo-bizantina architettura. Greco elemento», pp. 47-48; § 15: «Riflessioni particolari su l’architettura del duomo di Monreale», pp. 48-51; § 16: «Studii geometrici sul duomo di Monreale», pp. 51-54; § 17: «Liturgica disposizione del duomo di Monreale», pp. 54-68; § 18: «Esame della parte decorativa del tempio di Monreale», pp. 68-82; § 19: «Confronto dell’architettura aguzza del secolo XIII, con l’architettura siculo-bizantina», pp. 82-83. 76 Tavola non numerata: interno del Duomo; tav. 1: «Pianta generale / Duomo e monastero de’ PP. Benedettini / di Monreale»; tav. 2: «Pianta del Duomo di Monreale»; tav. 3 A: «Prospetto a Mezzogiorno / stato attuale»; tav. 3 B: «Dettaglio del chiostro»; tav. 3 C: «Bracci dell’antico monastero attorno al chiostro»; tav. 3 D: dettagli dell’esterno; tavv. 4 A-B: sezioni dell’interno; tav. 5 A: porta maggiore; tav. 5 B: dettagli della porta maggiore e della porta minore; tavv. 5 C-D: dettagli della porta maggiore; tav. 5 E: porta minore; tav. 6: «Pianta liturgica al secolo XII°» e due dettagli; tavv. 7 A-B: soffitti; (la tav. 8 A è stata soppressa, come si ricava dall’indice); tav. 8 B: pavimento del coro; tav. 9: «Dettagli di decorazioni in marmo»; tav. 9 A: capitello; tav. 10 A: San Nicola; tav. 10 B: «Arabeschi»; tavv. 11 A-B: «Mosaici rotati»; tav. 12: prospetti e vari dettagli di chiese medievali di Palermo e Siracusa; tav. 13: «Ciborio in marmo del secolo XVI»; tavv. 14 A-C, C bis, D-F: abside, santuario e solea; tavv. 15 A-L: mosaici della navata centrale; tav. 16: vari dettagli di mosaici; tavv. 17 A-F, 18 A-D: mosaici del presbiterio; tavv. 19 A-E: mosaici delle navate minori; tavv. 20 A-D: mosaici del presbiterio (lati sinistro e destro); tavv. 21 A-D: mosaici del diakonikon; tavv. 22 A-D: mosaici della prothesis; tav. 23: mosaici di sottarchi e piedritti; tav. 23-bis: mosaici del presbiterio; tav. 24 A-E: mosaici dei sottarchi, dei piedritti e altri dettagli; tavv. 25 A-B: arabeschi delle finestre; tavv. 26 a-d: «Sacra iconografia del Duomo di Monreale»; tavv. I-IV: chiostro.
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Trascrizione delle lettere77 1. Lettera di D. B. Gravina a G. B. de Rossi (Monreale, 14 febbraio 1863)78 [558r] Stim(atissimo) Sig(nor) Professore Sarà circa due mesi, che il mio nipote, Principe di Altomonte79, mi scrivea di averla incontrata, e ch’Ella gli disse di avermi scritto più di una volta, ma senza riscontro. Potrà bene persuadersi, che io non solo per legge di educazione, ma più ancora pel rispetto che nutro verso la sua persona, non avrei mancato di rispondere. Disgraziatamente questo piacere mi è mancato; non ho ricevuta nessuna sua, sia che sieno state spedite in momenti in cui la corrispondenza postale è stata mal sicura; sia che l’indirizzo non sia stato indovinato. Ella se vorrà in seguito onorarmi di un suo rigo, dovrà dirigerle al P(ad)re D(on) Domenico Gravina Cassinese = Palermo per Morreale. Ho veduto dai fogli che la dotta sua opera80 vada avanti, e me ne congratulo di cuore. Le auguro che vada sempre innanzi senza difficoltà. Fortunatamente ha per Lei il cuore di Pio IX81, e tutti i grandi mezzi che presenta la capitale del mondo cattolico. Non è così per me abbeverato tutti i giorni di fiele, in uno scoglio che non mi presenta che povertà da tutti i lati; povertà di disegnatori, povertà di stabilimenti litografici, povertà di commercio, povertà di relazioni, e quel ch’è peggio povertà d’incoraggimento (sic). Le dico solo, e vale per tutto, che le mie negoziazioni col Governo durano da due anni e 4 mesi senza positivo risultato. In carta mi hanno dato molto, in fatto neppure un quattrino. Se Iddio vuole, ora che avvi la strada ferrata da [558v] Napoli in Roma, spero venire in Roma un’altra volta pria di morire, riabbracciarla e godere della sua persona per qualche giorno, giacché io abbenché non abbia mantenuto una relazione letteraria, tuttavolta non ho mai dimenticata la sua persona, verso la quale nutro sempre un rispetto uguale, ed una affezione al di là di quello ch’Ella potrebbe credere. La mancanza di reciprocanza letteraria dalla mia parte deve addebitarla alla persuasione ch’Ella non abbia tempo da consumare per me, ed alla cognizione della mia nullità, la quale non può rendere interessante la mia penna a Lei. D’altra parte la strada ferrata come darebbe agio a me da Napoli per Roma, potrebbe darlo 77
Si rispettano tutte le particolarità dell’ortografia, indicando tra parentesi tonde gli scioglimenti delle abbreviazioni. Le sottolineature sono presenti nell’originale; il corsivo è invece utilizzato per indicare i titoli. 78 Vat. lat. 14243, ff. 558-559, nr. 35. 79 V. supra, nt. 2, 52-54 e contesto. 80 Gravina potrebbe riferirsi o alle Inscriptiones christianae Urbis Romae septimo saeculo antiquiores, il cui primo volume esce a Roma tra 1857 e 1861, seguito da un secondo volume solo nel 1888, o a La Roma sotterranea cristiana, la cui pubblicazione, iniziata nel 1864, era forse già annunziata. Il fatto che Gravina parli dell’opera come ancora in corso («ho veduto dai fogli che la dotta sua opera vada avanti» e «capisco che la sua pubblicazione poco le permette allontanarsi») induce a propendere per la seconda ipotesi. 81 Il primo volume delle Inscriptiones christianae Urbis Romae è consacrato «honori et nomini / Pii IX P. M. / cuius providentia et iussu / haec […] monumenta / in lucem prodeunt» e La Roma sotterranea è «pubblicata per ordine della Santità di N. S. Papa Pio nono» e a lui dedicata come «alteri Damaso».
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anco a Lei da Roma per Napoli. Potrei sperare di vederla in Sicilia? Questa sì che sarebbe vera consolazione per me. E mi creda che questo suolo potrebbe non essere inutile alla vasta erudizione di Lei, e che Ella potrebbe trovarsi del pabulo archeologico sufficiente. Capisco che la sua pubblicazione poco le permette allontanarsi, ma tutte le letterarie fatighe abbisognano d’interpellati riposti, ed un modesto villeggiare serve ad aumentar la lena per nuova fatica. La Sicilia discosta da Roma da una passeggiata in istrada ferrata, e da una notte sul Vapore, non sarebbe che un succedaneo alla Villa pel Maggio o pel Settembre. Vorrei che questo mio desiderio non resti senza effetto. Per ora mi contento non restar privo di un suo riscontro, e vorrei, che contenesse qualche comando per me. Mi permetta intanto che rispettosamente lo abbracci e mi creda Di Lei Monreale li 14 Febb(raio) 1863. Sig(no)r Cav(alier) D(on) Giov(an) B(attista) Rossi (sic) Um(ilissimo) div(otissimo) servo Domenico-Benedetto Gravina Cassinese.
2. Lettera di D. B. Gravina a G. B. de Rossi (Monreale, 16 giugno 1863)82 [799r] Preg(iatissimo) Sig(nor) Cavaliere Ebbi pochi giorni in addietro il Bollettino archeologico83 di unita ad una sua carissima, nella quale mi esprime la sua gratitudine per l’opera del Duomo di Monreale. Assai diversi mi sembrano oggi i ricambii, mentre la mia opera per quanto sia vistosa a Lei nulla può interessare per la povertà dello scrittore, mentre che il suo bollettino per la vasta erudizione di cui è cosparso è un giojello. Io l’ho letto con molta avidità, e lo reputo per me una fonte ove attingere in avvenire. Non ho parole a ringraziarlo di simile dono, il quale vale più che il mio, e quindi Ella per la Roma sotterranea84 mi potrà notare come uno degli associati. La mia opera progredisce. Si è già pubblicato il fascicolo 15, che ho già spedito in Roma, e spero nel Luglio pubblicare il 16°. S’Ella ne facesse un cenno nel bollettino mi farebbe cosa grata. Nella parte già pubblicata troverà al capitolo III85, che le Sicule costruzioni, credute sin’oggi normanne, rimontano al secolo VI, e quindi l’arco aguzzo non data dal IX secolo come credesi, ma rimonta al VI; che gli Arabi non diedero a noi l’architettura ma la ricevettero; che il Duomo di Monreale è costruito sopra calcoli puramente geometrici, lo che fa vedere l’immenso studio che i nostri padri portavano nell’erezione dei loro sacri edificii. La pubblicazione della rappresentazione biblica dei mosaici, e della sacra simbo[799v]lica avrà luogo dopo tre o quattro fascicoli86. 82
Vat. lat. 14243, ff. 799-800, nr. 192. Il Bullettino di archeologia cristiana. 84 G. B. DE ROSSI, La Roma sotterranea cristiana, Roma 1864-1877. 85 GRAVINA, Il Duomo di Monreale cit., pp. 23-83. Il capitolo III è intitolato «Architettura del tempio». 86 Nei capitoli IV, V e VI (v. infra). 83
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S’Ella facesse una corsa in Sicilia, i nostri monumenti le farebbero piacere. Eglino non rimontano all’età di quei Roma in generale, ma sono interessantissima reminiscenza delle arti cristiane del medio evo. Non è però che dell’altra età cristiana non si abbia nulla. A Palermo abbiamo delle catacombe poco conosciute perché non studiate, dei sepolcri cristiani che indicano l’arte Romana ecc: In Siracusa la Chiesa di S(an) Marciano del 2° o 3° secolo, e le magnifiche ed immense catacombe ancor esse abbandonate. S’Ella si determinasse a farvi una corsa io mi credo che in questo momento la sua venuta potrebbe essere utile alla Sicula archeologia. Avvi oggi un elemento a voler fare, ma manca chi accenda la scintilla. Gradisca i sentimenti della più alta venerazione, e mi creda Monreale li 16 Giugno 1863 Il di lei servo ed amico Domenico B(enedett)o Gravina [800v] All’Insigne Archeologo Sig(no)r Cav(alier) Giov(an) Batt(ist)a de Rossi Palazzo Bolognetti al Gesù87 Roma
3. Lettera di D. B. Gravina a G. B. de Rossi (Monreale, 10 ottobre 1864)88 [334r] Monreale li 10 Ottobre 64. Stim(atissim)o Cav(alier)e In riscontro alla sua carissima dei 21 Settembre, io ho ricevuti tutti i numeri del suo pregiato e dotto Bollettino archeologico89, opera sotto tutti i riguardi utilissima, e di cui Roma mancava. Nel penultimo numero ho trovato un cenno sulla mia opera d’Illustrazione di questo Duomo90. Ella sagacemente ne ha colto direi 87
Palazzo Cenci-Bolognetti al Gesù, piazza del Gesù, nr. 46. Vat. lat. 14244, f. 334rv, nr. 224 89 Il Bullettino di archeologia cristiana. 90 Bullettino di archeologia cristiana, I, nr. 8 (1863), p. 64: «La splendida e fedelissima edizione del Duomo di Monreale illustrato e riportato in tavole cromolitografiche dal ch. D. Domenico Gravina Abate Cassinese, rallentata per le tristi vicende de’ tempi, ha ripreso il suo corso. Questo volume contiene un vero tesoro e un intero ciclo di cristiana iconografia ne’ mosaici, de’ quali da capo a fondo è tutto coperto quel Duomo. Né perché essi sono opera del secolo XII poca è la loro utilità a chi illustra i monumenti primitivi. L’antica tradizione dell’arte cristiana in quel secolo era tuttora viva; ed i mosaici di Monreale mi sembrano un monumento italo-bizantino, nel quale sono fusi in uno i tipi della iconografia sacra dell’Oriente e i tipi di quella dell’Occidente. Ma nel Duomo di Monreale, quale ce lo mostra il sagace suo illustratore, il P. Gravina, troviamo anche quello, che veramente non aspetteremmo; cioè un monumento non del secolo XII, ma del VI. Il dotto Cassinese dimostra, che i Normanni trovarono quell’edificio già esistente, che gli Arabi non ne furono gli autori, e che esso è il monastero de’ Santi Massimo ed Agata, quod Lucusianum dicitur, ricordato in molte epistole di S. Gregorio il Grande. E dimostrato questo, egli s’accinge a definire la grande quistione sull’origine dell’arco a sesto acuto, che il Troya con poco buon successo ha preteso 88
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quasi il punto culminante della parte pubblicata sin’oggi, cioè l’arco a sesto aguzzo riportato in Sicilia nel secolo sesto e quindi di assai anteriore a quello conosciuto in Europa che rimonta appena al secolo nono. Non conoscendo l’opera di Vogüé91 da Lei citata, l’ho tosto commessa a Parigi, ed appena avutala, ne confronterò le idee con le mie92, onde ritrattarmi se il bisognasse, ovvero riconfermarmi in quelle, e ne scriverò apposito articolo se fa d’uopo. Nei seguenti fascicoli, Ella troverà delle altre novità anco d’interesse, siccome è la scoverta che il tempio sia edificato sopra basi di misure geometriche unite alle linee di prospettiva, cosa di non lieve interesse per lo studio analitico delle costruzioni, che appartiene agli architetti. Indi seguirà la parte Cristiana, cioè la liturgica disposizione della pianta, e la rappresentazione sacra dei mosaici sotto lo scopo biblico, e simbolico. Io ho capito che Ella quello articolo lo abbia fatto93 anco a mio riguardo personale, e per questo glene (sic) esterno i miei più sentiti ringraziamenti. [334v] Intorno a notizie sopra monumenti cristiani io attualmente non saprei cosa dirle, giacché qui poche ricerche si fanno all’uopo. Però è da dire che in atto la Commessione di Antichità94 si occupa molto dei nostri monumenti sì antichi, che del medio evo, se si avranno dei risultati qualunque, che potessero interessare l’archeologia cristiana, io non mancherò tenernela informata. In riguardo al suo periodico io me ne occuperò, e se si potrà avere un numero di associati, come spero, sarà mia cura pensare a stabilire un deposito a Palermo. Non è dubbio che lo stato della Sicilia non sia il migliore. Se si trattasse di vedere solamente Palermo, Siracusa, Catania, Girgenti od altro sul littorale, il viaggio è senza nessun pericolo. Se però si volesse internarsi, lo stato dell’isola non è sicurissimo. I giornali però hanno sempre colori alquanto più vivi del vero. Rimetta tuttavolta l’affare a primavera. Mi comandi, e coi sensi della più alta stima mi creda Di Lei Sig(nor) Cav(alier)e Giovan Batt(ist)a de Rossi Um(ilissim)o div(otissimo) servo ed am(ico) Domenico B(enedetto) Gravina P: S: Abbiamo in Congregazione fatta una grande perdita nella persona del P(ad)re Kalefati95 archivario di Monte Cassino che so ch’Ella conosceva. sia stata veramente architettura propria de’ Goti, come il volgo la chiama. Il Gravina asserisce ch’essa nacque al secolo VI in Sicilia nell’intervallo che corse tra la venuta colà di Belisario ed il pontificato del magno Gregorio. Questa sentenza, ed i fatti monumentali, sui quali essa poggia, sono di tanta novità ed importanza nella storia dell’arte, che gli studiosi di essa dovranno farvi sopra seria e matura considerazione. Ma non si perdano di vista le sagaci osservazioni fatte dal Conte di Vogüé sull’arco a sesto acuto nelle chiese di Gerusalemme, e negli arabi edificii di tutta la Siria (Les églises de la Terre Sainte, pp. 224, 225)». 91 M. DE VOGÜÉ, Les Églises de la Terre Sainte, Paris 1860. 92 Parola aggiunta nell’interlinea superiore. 93 Parola aggiunta nell’interlinea superiore. 94 La Commissione di Antichità e Belle Arti, con sede a Palermo, della quale Gravina era stato membro e poi presidente prima dell’Unità (v. supra, pp. 443-444). 95 Sebastiano Kalefati.
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4. Lettera di D. B. Gravina a G. B. de Rossi (Monreale, 27 ottobre 1864)96 [357r] Stim(atissim)o Sig(no)r Cav(aliere) Può credere s’io gradisca il donativo che Ella mi offre della sua grand’opera La Roma sotterranea97. La mia opera serve per appagare le donne e divertirle a sfogliare quelle cose dorate, le sue sono un tesoro di erudizione, e la sacra archeologia ne riporterà utile grandissimo. Terrò il suo donativo come la cosa più cara che io mi abbia, ed Ella accetterà i miei vivi e sinceri ringraziamenti. Il volume potrà farlo arrivare al mio nipote Principe di Altomonte, il quale credo che abiti tuttora il palazzo Farnese98; egli penserà farmelo arrivare. Il suo bollettino io lo leggo ogni volta con grande avidità. Sento la cagione del ritardo del bollettino di Agosto che poi giunse puntualmente. Sono dolentissimo della disgrazia ch’Ella ha sofferta99, e spererei che il Signore ne lo compensi con altro simile pegno, tanto per alleviare il dolore dell’animo suo, quanto quello della desolata consorte100. Anch’io vengo di recente da soffrire la perdita di una cara sorella. Sia benedetto Iddio. Allorch’Ella si compiacque, nel num(ero) 8 del primo anno del suo bollettino, scrivere un cenno sulla Illustrazione del Duomo di Monreale101, citò le rifles[357v] sioni del Sig(no)r Vogüé sull’introduzione dell’arco aguzzo in Europa. Non esistendo qui quell’opera su le Chiese della terra santa, io la feci venire da Parigi. Avendola letta, non trovo nulla che contradica positivamente, la mia opinione. Egli inclina a credere che l’arco aguzzo nei monumenti della terra santa, siavi importato dai crociati; ciò a me non nuoce il quale dico che nacque in Sicilia nel secolo 6°, che passò agli Arabi nel 9° e che in seguito si diffuse per l’Europa, la quale non lo conobbe prima del 9° secolo. Vogüé poi dice che la forma dell’arco sia in architettura cosa secondaria, mentre non altera l’insieme del fabbricato. Io non saprei uniformarmi a questa proposizione, ed avrei voluto anzi scrivere qualche cosa su di ciò; ma me ne sono astenuto per non entrare in polemiche estranee al mio scopo102. Di archeo96
Vat. lat. 14244, ff. 357-358, nr. 240. Più precisamente il primo volume, edito nel 1864. 98 V. supra, nt. 54. 99 Con ogni probabilità la morte della figlioletta Marianna, nata nel 1863. 100 Costanza Bruno di San Giorgio, sposata nel 1861. 101 V. supra, nt. 90. 102 DE VOGÜÉ, Les Églises de la Terre Sainte cit., pp. 224-225: «Supposons un instant que, dans l’église du Saint-Sépulcre […] on remplace partout l’ogive par le plein cintre […]. Eh bien, je le demande, en quoi ce changement altère-t-il la structure du monument? […] l’apparence générale peut, suivant les goûts, avoir perdu de son élégance, mais on n’a rien ôté au monument de ce qui fait son caractère propre […]. Ainsi, la question de l’ogive, je le répète, est une question secondaire; je ne puis, en effet, donner une place capitale et prépondérante à un membre d’architecture si peu inhérent au monument, si peu nécessaire à sa forme générale qu’on puisse l’enlever et le remplacer par un autre, sans pour cela détruire ses conditions d’être. Ainsi posée, la question de l’ogive perd beaucoup de son importance; cette forme d’arc descend du premier rang au rôle d’un détail, d’un ornement. Peu importe alors d’où elle tire son origine […]. L’ogive était connue et employée accidentellement en France à cause de sa solidité, dés le Xe siècle, et par conséquent avant les croisades. Dès le commencement du 97
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logia sacra non è a parlare fra noi, in questi momenti, in cui le chiese si convertono in quartieri, in ospedali, in pubblici licei, e basta qua. Spiacemi non potermi a lungo trattenere con Lei per le mie molte occupazioni. Mi permetterà che la preghi compatire gli errori, che avrà potuto incontrare nella mia opera. Lavoro con elementi contrarii, ed avanzo a grandissima pena. Spero nel Gennaro venturo pubblicare l’interno in prospettiva del nostro Duomo, il quale pare che rieschi magni[358r]fico lavoro. Da esso Ella avrà idea completa dell’importanza di questo monumento in riguardo al colpo d’occhio che presenta, giacché dai miei scritti poco si potrà ricavare. Un tale monumento avrebbe dovuto avere ben altro scrittore. Mi dico con piacere Monreale li 27 Ott(obre) 1864. Sig(no)r Giov(an) Batt(ist)a de Rossi Di Lei div(otissimo) servo ed amico Domenico B(enedetto) Gravina
5. Lettera di D. B. Gravina a G. B. de Rossi (Monreale, 11 febbraio 1865)103 [73r] Monreale li 11 Febbraro 1865 Stim(atissimo) Signore De Rossi Roma La copia della dotta e magnifica di lei opera, La Roma sotterranea, è stata già locata alla Biblioteca Nazionale di Palermo104, la quale ha versato nelle mie mani il costo della stessa nella somma di Lire 65,50. Nell’entrante settimana sarò a Palermo e cercherò cambiare per Roma, e così le farò tenere questa somma che le appartiene, o direttamente, ovvero pel mezzo del mio nipote. Spero poi nel Marzo passare taluni giorni a Palermo, allora mi proverò, se mi riesce locarne qualche altra copia. Debbo ancora a Lei il riscontro della data di una iscrizione Greca105, ma su di ciò non ho potuto servirla, giacché non ho potuto avere il giornaletto nella quale essa è pubblicata. Non l’ho però dimenticato. Mi comandi e mi conservi la sua cara amicizia Div(otissimo) servo ed amico Domenico B(enedett)o Gravina XIIe, avant que leur influence ait pu se faire sentir, elle était d’un usage très-fréquent; enfin, vers 1180, elle était presque exclusivement employée […]. Un mouvement analogue s’est fait en Orient, mais un peu plus tôt […]. Avant le XIe siècle, l’ogive est d’un usage général au Caire, et nul doute qu’au moment des croisades, elle fût universellement employée en Syrie. Rien de plus simple alors que les architectes croisés rencontrant, dans les habitudes locales, une forme vers laquelle les portaient leurs tendances et qu’ils savaient déjà appliquer à leurs monuments, l’aient exclusivement adoptée, sans rien sacrifier de leurs propres idées et de leur propre originalité. Mais cet emprunt, si emprunt il y a, n’a modifié sensiblement, ni leurs procédés de construction, ni le style de leurs œuvres». 103 Vat. lat. 14245, f. 73rv, nr. 49. 104 Oggi Biblioteca Centrale della Regione Siciliana 105 Verisimilmente IG XIV 444 (v. supra, pp. 456-457).
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6. Lettera di D. B. Gravina a D. Salazaro (Palermo, 15 luglio 1868)106 [277r] Palermo li 15 Luglio 1868 Preg(iatissimo) Signore In riscontro al di Lei foglio, del quale mi tengo onorato, sono a dirle, che non capisco come vada la cosa. Io ebbi tutte due le lettere del Cav(alier) G(iovan) B(attista) De Rossi, in seguito ricevei il pacco contenente tre copie del 2° Volume della Roma sotterranea107, e due fascicoli della Storia Cronologica ecclesiastica del Mozzoni108. Consegnai tutto a chi si doveva, ed in data 22 Giugno scrissi al Rossi lettera raccomandata, ove acclusi Lire centosettanta in biglietti di Banca Nazionale. Di questa lettera ne ho inutilmente atteso riscontro, finché mi [277v] arriva la sua, che mi rende certo, non averla il Sig(nor) De Rossi ricevuta. Pria di fare i dovuti reclami allo Ufficio delle Poste, ho scritto oggi stesso al De Rossi, e ne attendo riscontro. Ringrazio poi Lei della premura che si è data in questo affare, e pronto ai suoi comandi mi dico Di Lei Sig(nor) Demetrio Salazaro Div(otissimo) servo Domenico B(enedetto) Gravina
7. Lettera di D. B. Gravina a G. B. de Rossi (Palermo, 15 luglio 1868)109 [283r] Palermo li 15. Luglio 1868 Stim(atissimo) Sig(nor) Cav(aliere) Ebbi a suo tempo le di Lei venerate lettere; posteriormente mi arriva il pacco che conteneva tre copie del 2° Volume della sua Roma sotterranea, di unita a due fascicoli del Mozzoni. Fui subito sollecito a spedire a Lei lo importo dei due fascicoli destinati alle due Biblioteche pubbliche di Palermo110, ed in data 22 Giugno ultimo le ho spedite in lettera raccomandata Lire centosettanta. Ho atteso inutilmente un di Lei riscontro. Finalmente mi arriva lettera del Sig(nor) Demetrio Salazaro da Napoli, dalla quale comprendo ch’Ella non abbia avuta la mia lette[283v]ra. Non capisco come ciò accada. Pria di fare i miei reclami allo Ufficio postale, prego Lei a fare le indagini regolari alla posta in Roma, e farmene un cenno al più presto possibile. Non è a dirsi intanto ch’io rinnovi i miei ringraziamenti per lo splendido dono ch’Ella mi fa di opera così interessante, non che del caro Bollettino111, pieno di erudizione, e di gravissime dilucidazioni, che lo rendono imprezzabile. 106
Vat. lat. 14247, ff. 277-278, nr. 196. Edito nel 1867. 108 I. MOZZONI, Tavole cronologiche critiche della storia della chiesa universale, VeneziaRoma 1856-1867. 109 Vat. lat. 14247, ff. 283-284, nr. 199. 110 La Biblioteca del Senato, oggi Biblioteca Comunale, e la Biblioteca Nazionale, oggi Biblioteca Centrale della Regione Siciliana. 111 Il Bullettino di archeologia cristiana. 107
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Ugualmente bramo conoscere quale sia il prezzo dei due fascicoli del Mozzoni, cosa che io non ho più presente, e cosa si perda in Roma con la carta [284r] del Regno d’Italia, a fine di potere supplire la differenza. Mi conservi la sua cara amicizia e mi creda Di Lei Sig(nor) G(iovan) B(attista) de Rossi Um(ilissimo) div(otissimo) servo ed amico Domenico B(enedetto) Gravina
8. Lettera di D. B. Gravina a G. B. de Rossi (Palermo, 28 gennaio 1870)112 [37r] Stim(atissimo) Sig(nor) Cavaliere Mi avvalgo dell’amicizia ch’Ella mi accorda per farle conoscere di avere da più tempo fatta la domanda, onde potere esporre la mia Opera sul Duomo di Monreale nella Esposizione Cattolica113. Il P(ad)re Liberati di S(an) Callisto si è presa la briga di fare costruire un leggio, il quale so che già sia nel suo compimento. Conoscendo ch’Ella faccia parte della Commissione addetta per la Esposizione mi fo lecito raccomandare a Lei, che la detta Opera abbia una buona collocazione, e che non venghi tradita dalla luce cattiva. Della sopradetta opera ne sono già pubblicati fascicoli 37, e credo ch’Ella li avrà ricevuti in regola. Il 40° ed ultimo è presso alla sua fine. Le tavole che formeranno un volume a parte con suo frontespizio, ed indice particolare sono già finite [37v] e consegnatane una copia ad un legatore, e spero che arrivi in Roma pria del 15 Febbraro. Mi è spiaciuto non avere potuto ottenere una bella legatura, mentre i nostri incisori per lavorarmi un ferro in un sol pezzo di un bellissimo disegno, hanno avuta la sfrontatezza di domandarmi Lire 500, la quale cosa mi ha scoraggito (sic). Il testo poi che formerà altro volume sarà ultimato nella stamperia nella ventura settimana. E siccome per potersi cilindrare i fogli bisogna che asciughino per qualche giorno, così credo, che difficilmente si potrà arrivare ad avere il volume compito per 15 Febbraro. Esso potrà essere esposto qualche giorno dopo. Mi persuado però che il testo sia di minore interesse per la esposizione. Io spero essere in Roma nei primi giorni di Marzo, giacché la stagione è tuttora troppo rigida, e la mia salute mal ferma. Allora avrò il bene di abbracciar[38v]la. Oggi bisogna che mi contenti ossequiarla di lontano. Porgo al suo fratello114 i miei distinti complimenti. Mi perdoni dell’arditezza e mi creda Di Lei 112
Vat. lat. 14249, ff. 37-38, nr. 32. Manifestazione legata al Concilio Ecumenico Vaticano I, convocato da Pio IX nel 1868 e iniziato l’8 dicembre 1869. 114 Michele Stefano de Rossi (1834-1898), v. P. CORSI in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 230-235; A. BARUFFA, Michele Stefano de Rossi, geologo, vulcanologo e studioso delle catacombe romane (1898-1998) (Nel centenario della morte dell’illustre scienziato), in Rivista di archeologia cristiana 75 (1999), pp. 379-384; A. ROMANI, L’archeolo113
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Sig(nor) Cav(alier) Giovan Batt(ista) de Rossi Da Palermo li 28 del 1870 Vico Salvatore Meccio n° 1 Div(otissimo) servo ed amico Domenico B(enedetto) Gravina
9. Lettera di D. B. Gravina a G. B. de Rossi (Palermo, 2 marzo 1872)115 [112r] Palermo 2 Marzo 1872. Sti(matissimo) Sig(no)r Comm(endatore) Si presenterà a Lei il Sig(nor) Ciro Visconti116 latore della presente. Il medesimo ha impresa la pubblicazione a Cromolitografia della Cappella Palatina di Palermo117. È un lavoro ben fatto, e che merita di essere agevolato. Io mi prendo la libertà raccomandarlo a Lei, non sapendo a chi meglio dirigerlo, onde le apra qualche strada da fare qualche buono affare in Roma. Sicuro ch’Ella farà a mio riguardo tutto il fattibile, ne lo ringrazio anticipatamente, e chiedo scusa della libertà Sig(nor) Comm(endatore) Giovan Batt(ist)a De Rossi Div(otissimo) servo Domenico B(enedetto) Gravina
10. Lettera di D. B. Gravina a G. B. de Rossi (Palermo, 8 agosto 1877)118 [366r] Gentilissimo Sig(nor) Commendatore Ho ricevuti i tre manifesti del 3° Volume già pubblicato della Roma sotterranea119. Ne ho prevenuti i due bibliotecarî, della Nazionale, e del Senato120, e siamo gia preistorica di Michele Stefano de Rossi (1834-1898) nella Roma postunitaria, in Documenta albana 28 (2006), pp. 7-27. 115 Vat. lat. 14251, f. 112rv, nr. 80; al f. 701r è incollato, come nr. 597, un biglietto da visita con stampato: «Domenico B. Gravina / Abate Cassinese». 116 Editore e tipografo attivo a Palermo nell’ultimo trentennio dell’Ottocento. Tra le sue realizzazioni più significative, V. PALIZZOLO GRAVINA, Il blasone in Sicilia, ossia raccolta araldica, Palermo 1871-1875; A. TODARO DI GALIA, Hortus botanicus Panormitanus sive plantae novae vel criticae quae in horto botanico Panormitano coluntur descriptae et iconibus illustratae, Panormi, 1876-1892; H. ROSS, Icones et descriptiones plantarum novarum vel rariorum horti botanici Panormitani, Panormi 1896. 117 Dovrebbe trattarsi del progetto poi concretizzatosi con l’editore A. Brangi ne La cappella di S. Pietro nella reggia di Palermo dipinta e cromolitografata da A. Terzi ed illustrata da M. Amari, S. Cavallari, G. Meli, I. Carini e L. Boglino, Palermo 1889. 118 Vat. lat. 14258, ff. 366-367, nr. 311. Sul f. 366r, in alto a sinistra annotazione «Risp. 22 Ag.». 119 Il III volume è pubblicato appunto nel 1877. 120 V. supra, nt. 110.
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rimasti di accordo pregare Lei, che voglia avere la gentilezza farci spedire le tre copie riunite in una cassetta per mezzo di uno spedizioniere, e ciò alla mia direzione — Via Stabile, Vico Salvatore Meccio num(ero) 1. ult(imo) piano. Ogni spesa sarà da me pagata, siccome sarà mia cura esiggere (sic) dalle due biblioteche il dare loro, e spedirlo alla Direzione di Lei. In quanto a me particolarmente presento di cuore in primo luogo le mie congratulazioni pel compimento da Lei dato, e di una maniera così ampla (sic), come indica [366v] il manifesto, ad una opera di tanta mole, che sola basterebbe a dare nome immortale ad un uomo. Io sono tra’ minimi nella repubblica dei sacri archeologi, e quindi il suo donativo lo riconosco come un fatto assai superiore ad ogni mio merito, come un tratto di un amicizia senza pari. Non so cosa dire; se non che, che lo terrò come una cosa la più cara, che abbia. Io sono assai ammiratore delle cose sue, abbenché pocho (sic) parli, e poco scriva per naturale indole, che non si può formare ad artificio, e formata non si corregge. I miei attuali quindi ringraziamenti non sono, che un ombra (sic) lontanissima di quel che sento di riconoscenza, di rispetto, di venerazione, siccome ad amico, a protettore, a mecenate, a splendido e gratuito donatore. [367r] Spiacemi non potere far nulla a mostrarle la sincerità delle mie parole, ma sono sicuro che Ella non ne dubiterà, e mi avrà sempre quale Sig(nor) Comm(endatore) Giovan Batt(ista) De Rossi Palermo li 8 Agosto 1877. Suo div(otissimo) servo Domenico B(enedetto) Gravina Cassinese
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TRASFERIMENTI LIBRARI TRA SANT’UFFIZIO E BIBLIOTECA VATICANA* In margine al ritrovamento del manoscritto dell’Ethica di Spinoza Fino alla primavera scorsa, l’unico manoscritto sinora noto dell’Ethica di Spinoza era sostanzialmente sconosciuto, perché nascosto sotto la segnatura Vat. lat. 12838, indicativa dell’inclusione del codice nel fondo Vaticano latino della Biblioteca Vaticana. Un fondo che, tecnicamente parlando, si definisce aperto, in cui cioè si sono raccolti e si continuano ad aggiungere manoscritti in alfabeto latino, eterogenei per contenuti, datazione e provenienza, stratificati per lo più secondo la cronologia di acquisizione, a partire dal cosiddetto fondo antico, posto all’inizio, la cui costituzione fu avviata nella metà del Quattrocento da Niccolò V Parentucelli1. All’interno del fondo Vaticano latino sono identificabili vari gruppi di materiali provenienti dal Sant’Uffizio, trasferiti in Vaticana in epoche diverse, la cui appartenenza originaria non sempre è evidente, e talvolta solo ricostruibile attraverso attente ricerche. Alcune di queste sono ancora in corso; tutte hanno considerato esclusivamente fonti conservate nella Biblioteca Vaticana. In realtà i primi scambi di materiali librari tra le due istituzioni di curia — siamo nel secolo XVI — furono in senso contrario e portarono libri dal* Il presente lavoro costituisce la stesura elaborata, ampliata, corredata da fonti e riferimenti bibliografici del contributo I manoscritti del Sant’Uffizio e la Biblioteca Apostolica Vaticana, offerto in occasione della presentazione del volume di L. SPRUIT – P. TOTARO, The Vatican Manuscript of Spinoza’s Ethica, Leiden 2011 (Brill’s Studies in Intellectual History, 205; Brill’s Texts and Sources in Intellectual History, 11), organizzata dal CNR-ILIESI (Roma, Sala Marconi, 18 ottobre 2011). Ringrazio per suggerimenti e confronti mons. Cesare Pasini, prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, Antonio Manfredi, Ambrogio M. Piazzoni e Paolo Vian. 1 Il fondo Vaticano latino conta oggi oltre 15.392 segnature. Il fondo antico comprende fino alla segnatura Vat. lat. 4888. In generale per la storia della Vaticana delle origini e sulle sue collezioni: Le origini della Biblioteca Vaticana tra Umanesimo e Rinascimento (1447-1534), a c. di A. MANFREDI, Città del Vaticano 2010 (Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, 1); in particolare una schematica descrizione del fondo antico in Scheda 2: Il fondo antico della Vaticana, in A. DI SANTE, La Biblioteca rinascimentale attraverso i suoi inventari, p. 312. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 471-485.
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la Biblioteca Vaticana al Sant’Uffizio. Tali trasferimenti sono attestati da fonti d’archivio, ma anche da annotazioni su antichi inventari. Per esempio nell’inventario topografico della Vaticana redatto tra il 1549 e il 1555 dallo scriptor latinus Ferdinando Ruano — uno dei più stretti collaboratori di Marcello Cervini — ora segnato Vat. lat. 3967-3969. A margine di alcune descrizioni, una mano diversa da quella che allestisce il repertorio annota: in cambara, inter prohibitos2 aggiungendo in almeno un caso, poi al S. Officio3. L’annotazione, oltre a documentare il trasferimento di materiali dalla Vaticana al Sant’Uffizio, attesta che intorno alla metà del Cinquecento, nella cosiddetta cambara parva secreta4, era stata allestita una sezione destinata a raccogliere i libri proibiti, distinta dalle restanti raccolte5. In un secondo momento, alcuni — o forse tutti — i libri di quella sezione furono portati al Sant’Uffizio. Evidentemente questi trasferimenti librari si connettono alla pubblicazione dell’Index librorum prohibitorum, promulgato da Paolo IV Carafa e dato alle stampe in varie città italiane — e non solo — dal dicembre 1558 almeno fino all’agosto 15596, quando il papa morì. Rispondono dunque a una logica di controllo, propria dell’Inquisizione, istituzionalmente finalizzata alla tutela dell’ortodossia. Infatti in quegli anni il Sant’Uffizio si poneva come unica autorità competente in materia di censura, previa e successiva alla stampa. In tale contesto, il 2 giugno 1559, all’indomani della pubblicazione del catalogo dei libri proibiti redatto dall’Inquisizione romana, i custodi della Vaticana presentavano e portavano al Sant’Officio di SS. Inquisitione di Roma, per ordine del papa, cinque sacchi grandi di libri prohibiti, che erano nella libraria apostolica7. Il contenuto dei sacchi non è noto, perché finora 2
Cfr. a titolo di esempio: Vat. lat. 3969, f. 58v, nr. 3095. Cfr. a titolo di esempio: Vat. lat. 3968, f. 28v, nr. 2641; Vat. lat. 3967, f. 49v, nr. 703. 4 Sul nuovo ambiente concesso nel 1513 da Leone X ai custodi della Biblioteca: A. RITA, Per la storia della Vaticana nel primo Rinascimento, in Le origini della Biblioteca Vaticana cit., p. 283. 5 Accanto alla citazione del Nicodemi Evangelium, il custode della Vaticana Federico Ranaldi annota sottoscrivendo: posui inter prohibitos. Fed. (Vat. lat. 3967, f. 54v, nr. 180). 6 Per un rapido inquadramento storico, con riproduzione anastatica e trascrizione dell’elenco dei libri proibiti, cfr. Index de Rome: 1557, 1559, 1564. Les premiers index romains et l’index du Concile de Trente, par J. M. DE BUJANDA, avec l’assistance de R. DAVIGNON – E. STANEK, Sherbrooke 1990 (Index des livres interdits, 8), pp. 37-50, 241-346, 752-787. 7 Cfr. la ricevuta in Arch. Bibl. 9, f. 248r, sulla quale G. MERCATI, Per la storia della Biblioteca Apostolica, bibliotecario Cesare Baronio, in Per Cesare Baronio. Scritti vari nel terzo centenario della sua morte, Roma [1911], p. 114, riedito in ID., Opere minori raccolte in occasione del settantesimo natalizio, III (1907-1916), Città del Vaticano 1937 (Studi e testi, 78), p. 223; ID., Scritti ecclesiastici greci copiati di Giovanni Fabbri nella Vaticana, App. B: Per la storia del codice Vaticano dei libri Carolini, in Bessarione 37 (1921), pp. 118-119, riedito in ID., Opere minori raccolte in occasione del settantesimo natalizio, IV (1917-1936), Città del Vaticano 1937, 3
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non è stato individuato un elenco relativo a quei materiali. Certamente tra quei volumi erano inclusi i Libri carolini (Carolus Magnus Rex de imaginibus)8 e la Monarchia sive Tractatus de potestate imperatoris et papae del giurista aretino Antonio Roselli (1380-1466)9; lo annota puntualmente, in calce alla ricevuta sottoscritta dal coadiutore del Sant’Uffizio Serafino Cavalli10, il custode della Vaticana Federico Ranaldi, curatore del trasferimento, che indicò anche il numero d’inventario relativo alle due opere11. Circa 20 anni dopo, il 26 maggio 1579, veniva trasferito un esemplare del Talmud, probabilmente uno di quelli sopravvissuti al rogo del 9 settembre 1533, consumato a Roma in Piazza Campo dei Fiori. Il Talmutto in questione, in nove pezzi, legato in assi con catene e fornimenti d’ottone12, (Studi e testi, 79), pp. 141-142, con la trascrizione del documento, qui riproposta in Appendice documentaria, nr. 1. 8 Nel 1533 il volume era collocato nel terzo armadio della parva secreta: cfr. Librorum Latinorum Bibliothecae Vaticanae index a Nicolao de Maioranis compositus et Faustus Sabeo collatus anno MDXXXIII, a c. di A. DI SANTE – A. MANFREDI, Città del Vaticano 2009 (Studi e testi, 457; Studi e documenti sulla formazione della Biblioteca Apostolica Vaticana, 7), nr. 2736 e nt. 820, con bibliografia. Nell’inventario del Ruano una nota, a margine della descrizione dell’opera, ne ricorda il trasferimento al Sant’Uffizio (cfr. nt. 11), avvenuto appunto nel giugno 1559. Sull’identificazione del codice, che da quella data sembrerebbe mancare dalla Vaticana: MERCATI, Scritti ecclesiastici greci copiati cit., pp. 141-142. 9 L’opera uscì da torchi tipografici veneziani di Hermannus Liechtenstein, il 23 giugno 1487 [BAVI R-123; IGI 8441]. La Vaticana probabilmente possedeva anche il testo manoscritto, cartaceo, legato con tavole, che nell’agosto 1494 fu dato in prestito al canonista Felino Sandeo (1444-1503), che lo restituì nello stesso mese: M. BERTÒLA, I due primi registri di prestito della Biblioteca Apostolica Vaticana: codici Vaticani Latini 3964, 3966 pubblicati in fototipia e in trascrizione con note e indici, Città del Vaticano 1942 (Codices e Vaticanis selecti, 27), pp. 66-67. Nell’inventario del 1533 il volume risulta collocato nel quinto banco della parva secreta: Librorum Latinorum Bibliothecae Vaticanae index cit., nr. 1032 e nt. 69. Per la nota relativa al trasferimento tracciata nell’inventario del Ruano, cfr. nt. 11. 10 Sul bresciano Serafino Cavalli (1521-1578), che dapprima fu socius dei commissari Tommaso Scoto (1557) e Vincenzo Giustiniani (1559), poi procuratore (1569-1571) e in seguito magister generalis dell’Ordine dei Predicatori (1571-1578): I. TAURISANO, Hierarchia ordinis Praedicatorum, Romae 1916, editio altera, pp. 11, 23, 70, 101; anche A. FAPPANI, Cavalli, Serafino, in Enciclopedia bresciana, II [s.d.], pp. 157-158, senza bibliografia. 11 Rispettivamente i numeri 2586 e 2641, corrispondenti all’inventario del Ruano, dove una mano corsiva e successiva rispetto a quella principale, registra a margine della descrizione — spesso depennata — il trasferimento dei volumi al Sant’Uffizio. Per i Libri carolini, Vat. lat. 3969, f. 28r: in cambara inter prohibitos, poi al Santo Officio; per il Roselli, Vat. lat. 3696, f. 32r: nel margine sinistro, inter prohibitos, in quello destro, Al Santo Officio per ordine del card. Sirleto. Il riferimento del passaggio al Sant’Uffizio è annotato a margine di altre descrizioni: si vedano per esempio i titoli segnati 2115-2117 con descrizione della Geomantia di Bartolomeo da Parma: portati a l’inquisitione per ordine de’ superiori (Vat. lat. 3968, f. 72r), sui quali cfr. Librorum Latinorum Bibliothecae Vaticanae index cit., nr. 1107 e nt. 89. 12 Probabilmente si trattava di un esemplare a stampa, anche se al momento sembra impossibile identificare l’edizione. Per le prime stampe del Talmud: M. J. HELLER, Earliest Print-
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venne tolto dalla Biblioteca per essere conservato nel S. Offizio fino a novo ordine de superiori13. Forse si pensava di emendarlo, secondo quanto prescritto nel nuovo Indice tridentino del 1564, dove il libro ebraico compare tra gli espurgabili14. In seguito, il 2 maggio 1615 il custode della Vaticana Niccolò Alemanni (1583-1626)15 consegnò al domenicano Michelangelo Seghizzi (15651625)16, commissario generale dell’Inquisizione romana, sei pezzi di libri, tra cui il quinto tomo di Martin Lutero in folio, il Catechismus Ecclesiae del Vicelius (Georg Witzel), la Conciliatio Patrum et conciliorum di Bartholomaeus VVesthemerus (Bartholomäus Westheimer)17. Probabilmente la richiesta di questi volumi era connessa a specifiche e particolari questioni teologico-dottrinali, dato che molte di quelle opere già da tempo erano incluse nell’Indice dei libri proibiti. Nel 1625 si registrava il primo passaggio al Sant’Uffizio di molti volumi della Bibliotheca Palatina18, raccolta a Heidelberg nella chiesa del Santo Spirito dai principi elettori, e in particolare da Federico V, e donata a Gregorio XV dal duca di Baviera Massimiliano I, nuovo signore del Palatinato, dopo la capitolazione della città durante la Guerra dei Trent’anni. Dagli anni ’60 del Cinquecento quella collezione libraria aveva assunto un ings of the Talmud, in Printing the Talmud: from Bomberg to Schottenstein, a c. di S. L. MINTZ – G.M. GOLDSTEIN, New York 2005, pp. 61-78. 13 Cfr. la ricevuta a firma di Tommaso Zobbio († 1589), commissario del S. Offizio di Roma, con in calce l’annotazione di Federico Ranaldi, che precisa di aver ricevuto l’ordine di trasferire i volumi dal card. Sirleto, a sua volta incaricato dal papa: Arch. Bibl. 9, f. 249r, citato da MERCATI, Per la storia della Biblioteca cit., p. 223, qui trascritto in Appendice documentaria, nr. 2. Sul bresciano Zobbio, commissario del Sant’Uffizio e poi Maestro del Sacro Palazzo: TAURISANO, Hierarchia cit., pp. 54, 71. 14 F. PARENTE, Talmud, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. PROSPERI con la collaborazione di V. LAVENIA – J. TEDESCHI, Pisa 2010, pp. 1557-1559. 15 G. S. MERCATI, Alemanni, Nicolò, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma 1960, pp. 148-149; per la sua attività in Vaticana: J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collections de manuscrits, avec la collaboration de J. RUYSSCHAERT, Città del Vaticano 1973 (Studi e testi, 272), ad indicem. 16 Sul domenicano Seghizzi o Segizzi, inquisitore di Milano e Cremona, e dal 1616 vescovo di Lodi, noto per la sua partecipazione come commissario del Sant’Uffizio al processo a Galileo Galilei, da ultimo: I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (1611-1741). Nuova ed. accresciuta, rivista e annotata da S. PAGANO, Città del Vaticano 2009 (Collectanea Archivi Vaticani, 69; Pontificiae Academiae Scientiarum scripta varia, 112), p. XXXVIII nt. 73, che riprende indicazioni da L. SAMARATI, I vescovi di Lodi, Milano 1965, pp. 233-236. Bibliografia anche in TAURISANO, Hierarchia cit., p. 73. 17 Arch. Bibl. 9, f. 252r, citato da MERCATI, Per la storia della Biblioteca cit., p. 223 e qui trascritto in Appendice documentaria, nr. 3. 18 Cfr. Arch. Bibl. 9, f. 272v, con copia delle dicontro ricevute, a firma dell’archivista Felice Marioni, redatte per la consegna al Sant’Uffizio di 160 (18 novembre 1625) e 945 libri (19 novembre 1625) della Palatina.
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carattere confessionale ed era considerata il simbolo della cultura riformata. Proprio per la connotazione prettamente protestante, molti dei volumi a stampa della Palatina, propriamente considerati eretici o sospetti di non conformità alla dottrina cattolica, furono trasferiti dalla Vaticana al Sant’Uffizio19. Poi, in epoche successive, la collezione fu recuperata dalla Biblioteca Vaticana, dove tuttora si conserva20. Poco documentati, almeno relativamente alla Biblioteca Vaticana, e quindi poco indagati, risultano anche i trasferimenti di volumi dalla Congregazione alla Biblioteca, databili in gran parte a epoche moderne. Poco indagati forse perché l’opinio communis voleva che dal Sant’Uffizio, e in generale dall’Inquisizione — se si eccettua il caso del trasferimento degli archivi a Parigi imposto da Napoleone all’inizio dell’Ottocento — non fossero mai usciti documenti e/o libri, detentori di chi sa quali scabrosi segreti, che la Chiesa poteva avere interesse a mantener nascosti e che per questo custodiva in totale riservatezza e inaccessibilità. Ma i fatti dimostrano una realtà diversa, già prima dell’apertura alla pubblica consultazione dell’Archivio dell’attuale Congregazione per la Dottrina della Fede, apertura avvenuta alla fine del Novecento (1998)21. Un trasferimento di libri, a stampa e manoscritti, dal Sant’Uffizio alla Vaticana è documentato nel novembre 1812. Siamo in piena età napoleonica: la Biblioteca Vaticana è amministrata dalla Corona francese e dichiarata Biblioteca Imperiale. In quanto tale riceve i manoscritti e il meglio dei libri conservati nelle raccolte librarie di 56 case religiose romane, soppresse per legge imperiale. La scelta dei volumi da trasferire viene effettuata dai conservatori della Vaticana — quegli stessi impiegati che lavoravano nella Biblioteca papale prima di Napoleone e che vi continueranno a lavorare anche dopo la caduta dell’imperatore e il ritorno del papato. Il tra19 Vennero portati al Sant’Uffizio tutti i libri d’heretici, che trattano de religione et contra fidem […] e anche levate e spezzate con questa occasione diverse editioni della Scrittura sacra in hebreo, caldeo, greco, latino et altre lingue […], come anche diversi libri d’historia et antichità ecclesiastica, et alcuni d’eruditione meramente profana: Arch. Bibl. 9, f. 250r. Sul passaggio della Bibliotheca Palatina alla Vaticana e sulle vicende successive, con indicazioni storiche e riferimenti bibliografici: F. D’AIUTO – M. CH. GRAFINGER, [Palatini], in Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, a c. di F. D’AIUTO – P. VIAN, Città del Vaticano 2011, I (Studi e testi, 466), pp. 457-463. 20 Il recupero avvenne in più tranches. Per il periodo seicentesco, si veda a titolo di esempio l’elenco di libri della Palatina passati al Sant’Uffizio e poi riportati in Vaticana dall’archivista Giovanni Lupi che li consegnò a L. Holste nel marzo 1657: Arch. Bibl. 9, ff. 260r-261v, già citato da MERCATI, Per la storia della Biblioteca cit., p. 223. 21 Sulle motivazioni e sulla storia, che portarono all’apertura degli archivi dell’Inquisizione, si veda il volume celebrativo di quell’evento: L’apertura degli archivi del Sant’Uffizio romano, Roma 1998 (Atti dei convegni lincei, 142).
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sferimento librario risponde all’ideale napoleonico dell’accentramento e, almeno teoricamente, è motivato dall’intento di raccogliere — secondo una concezione illuminista — il meglio del patrimonio in luoghi ufficialmente designati, destinati a custodire la summa del sapere, per offrirla al pubblico godimento, in funzione di una pubblica utilità. Tra le biblioteche soppresse e requisite compaiono anche la libraria comune e la libraria segreta della soppressa Inquisizione del S. Offizio. Sulla distinzione tra biblioteca comune e segreta, al momento attestata solo in questa epoca, tornerò più avanti. La confisca napoleonica, eseguita il 23 e 24 novembre 1812, trasferì dal Sant’Uffizio alla Vaticana almeno 664 opere a stampa, fra cui 16 incunaboli e 42 manoscritti: questo attestano i processi verbali che documentano la requisizione libraria, fornendo anche l’elenco dei libri confiscati22. Per inciso, alla Casanatense — altra biblioteca romana conservata dai francesi, con il titolo di Municipale, e accresciuta grazie alle confische librarie degli ordini religiosi soppressi — nello stesso periodo (dicembre 1812) furono portate almeno altre 500 opere del Sant’Uffizio23 e forse altrettante vennero in seguito trasferite alla biblioteca di Propaganda Fide. Dopo la caduta di Napoleone, nel settembre 1814, con rescritto pontificio, la biblioteca del Sant’Uffizio venne ricostituita. I libri requisiti dalla Vaticana furono formalmente restituiti ai precedenti proprietari: lo attestano due ricevute datate al 1816 a firma di Giuseppe Lelli24, che si sottoscrive come archivista del S. Officio25. Tuttavia, nonostante le 22 Sull’intera vicenda delle confische librarie napoleoniche: A. RITA, Biblioteche e requisizioni librarie a Roma in età napoleonica. Cronologia e fonti romane, in corso di stampa nella collana Studi e testi; in particolare per le biblioteche del Sant’Uffizio, con fonti e bibliografia: pp. 153-159, 389-391. Il processo verbale della confisca della libraria comune eseguita a favore della Vaticana è trascritto a p. 451 nr. 6. 23 Fu allestito un unico verbale relativo alla libreria di S. Offizio, senza distinzione tra comune o/e segreta; un testimone del verbale, con sottoscrizioni autografe, si conserva in Vat. lat. 10362, pp. 629-649. Per la trascrizione del testo: RITA, Biblioteche e requisizioni librarie cit., pp. 451-452 nr. 7. 24 M. G. CERRI, Lelli, Giuseppe, in Dizionario storico biografico del Lazio: personaggi e famiglie nel Lazio (esclusa Roma) dall’antichità al XX secolo, coordinamento e cura di S. FRANCHI – O. SARTORI, con la collaborazione redazionale di M. BUCCHI, II, Roma 2009, pp. 1091-1092; per l’attività svolta al Sant’Uffizio, con indicazioni bibliografiche: H. WOLF, Prosopographie von Römischer Inquisition und Indexkongregation 1814-1917, Paderborn 2005 (Römische Inquisition und Indexkongregation. Grundlagenforschung, III: 1814-1917), p. 857; anche RITA, Biblioteche e requisizioni librarie cit., ad indicem. 25 Ibid., pp. 158, 390-391. Furono stilate a distanza di un giorno e furono distinte forse perché ciascuna corrispondeva a una delle due raccolte librarie del Sant’Uffizio, anche se i titoli libraria comune e/o libraria secreta non compaiono in nessuno dei due documenti. Tuttavia nelle ricevute le due biblioteche sono identificate con nomi diversi: probabilmente le due nomenclature sono riferibili a realtà diverse; la libreria della Sacra Inquisizione potrebbe forse corrispondere alla libraria secreta. La trascrizione delle ricevute qui in Appendice do-
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ricevute rinvenute, alcuni incunaboli e vari manoscritti tra quelli requisiti e poi formalmente restituiti sono identificabili in Vaticana, nel fondo Incunaboli e tra i Vaticani Latini, dove vennero inseriti all’inizio dell’Ottocento e dove sono rimasti fino a oggi. Per esempio il Vat. lat. 8593, con l’opera del mistico spagnolo Miguel Molinos (1628-1696), direttore spirituale attivo a Roma dal 1664, che il Tribunale dell’Inquisizione processò, condannò per quietismo e costrinse all’abiura formale celebrata pubblicamente in Santa Maria sopra Minerva nel 168726. Il manoscritto requisito dal Sant’Uffizio è descritto con autore e titolo nell’elenco di confisca napoleonico relativo alla libraria segreta. In seguito, all’inizio del XX secolo, in un contesto storico-culturale totalmente diverso, maturarono altri trasferimenti di libri tra le due istituzioni vaticane. Furono tutti autorizzati dal Santo Padre. Siamo in una stagione diversa: la Vaticana di Leone XIII e del prefetto Franz Ehrle (1845-1934), gesuita tedesco, si avvia a grandi passi verso un profondo rinnovamento, caratterizzandosi come luogo di conservazione ma anche come attivo centro di studi storici e filologici che, a partire da quegli anni, è aperto con maggior larghezza agli studiosi. In quel periodo la Vaticana è dunque “particolarmente percepita” come il luogo deputato a ricevere libri — a stampa e manoscritti — provenienti da altre istituzioni della Santa Sede e non solo; il luogo dove per eccellenza i libri vengono conservati al meglio e al tempo stesso messi a disposizione della ricerca e dello studio. Tra questi libri, anche parte di quelli della Congregazione del Sant’Uffizio. Un esplicito riferimento all’acquisizione da parte della Vaticana di alcuni volumi conservati al Sant’Uffizio si trova in una minuta autografa27 e inedita di Ehrle, che, come già accennato, fu tra i maggiori artefici del rinnovamento della Biblioteca Apostolica, dapprima come semplice gesuita, poi come prefetto e infine come cardinale bibliotecario. Sollecitato dal card. Lucido Maria Parocchi (1833-1903), segretario della Romana e Universale Inquisizione, nei primissimi anni del Novecento fece e fece fare vari sopralluoghi al Sant’Uffizio per verificare la tipologia, le condizioni e l’interesse che i volumi lì conservati avrebbero potuto avere per la Vacumentaria, nrr. 5-6. La ricevuta che attesta il ritorno al Sant’Uffizio dei volumi trasferiti in Casanatense non è stata finora individuata. Tuttavia è nota una lettera, datata 4 ottobre 1814, con cui Alessandro Malvasia (1748-1819), assessore della Congregazione, prende contatto con il bibliotecario della Casanatense, per organizzare la restituzione dei libri in precedenza confiscati. 26 Una descrizione del codice in M. MOLINOS, Guía espiritual. Edición crítica, introducción y notas de J. I. TELLECHEA IDÍGORAS, Madrid 1976, pp. 68-69. 27 Arch. Bibl. 191, f. 2v, qui in Appendice documentaria, nr. 7. La fonte non è datata, ma il riferimento al cardinal Parocchi, morto nel gennaio 1903, e il contenuto del recto del foglio, la collocano agli inizi del Novecento (1900-1901).
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ticana. Ehrle coinvolse nel suo progetto i cardinali Alfonso Capecelatro (1824-1912), allora bibliotecario, e Mariano Rampolla del Tindaro (18431913), segretario di Stato di Leone XIII, e ottenne dal Santo Padre l’autorizzazione al trasferimento. Fu l’inizio di un processo che non solo riportò in Vaticana numerosi esemplari della Palatina, che erano stati smembrati e che furono individuati in quel contesto, ma fece anche acquisire alla Biblioteca una cospicua quantità di stampati e manoscritti strettamente attinenti all’attività processuale dell’Inquisizione. Si trattava di libri utili o di decoro, spesso preziosi e rari per la ricerca — rarità bibliografiche, li definirà Ehrle — il cui stato di conservazione materiale era però piuttosto precario, come puntualmente evidenziato: sono molto danneggiati dai sorci e dall’acqua. Il primo trasferimento dovette avvenire intorno al 1902, ma non sembrerebbe esservene traccia nell’Archivio della Biblioteca Vaticana, nel quale invece si trova menzione di un successivo passaggio di volumi. La memoria si deve alla mano dell’allora prefetto Giovanni Mercati che, l’11 maggio 1922, registrò nel Registro delle accessioni da lui tenuto: portati in Biblioteca dal S. Offizio circa 185 opere. Fra esse 2 incunaboli, 3 aldine che non avevamo e alcuni rari stampati28. Le 185 opere trasferite, tranne gli stampati esplicitamente menzionati, erano in gran parte libri manoscritti. In tempi molto rapidi essi furono numerati, descritti e resi disponibili alla consultazione. La maggior parte fu collocata in un unico blocco, identificabile nei Vat. lat. 12703-12847; tra essi anche il piccolo codice cartaceo secentesco latore dell’Ethica di Spinoza. Forse per motivi gestionali, alcuni dei restanti manoscritti versati — poco più di una trentina — furono collocati nelle segnature vicine, ma non contigue, tra codici con provenienze diverse; lo si deduce dalla minuta del catalogo, rinvenuta tra le carte dello scriptor latinus Enrico Carusi (1878-1945)29, autore dell’inventario (anche se il suo nome non compare nella copia dattiloscritta) disponibile nella sala di consultazione dei manoscritti della Vaticana (Sala Cons. Mss. 315(6) rosso)30. 28
Arch. Bibl. 115, f. 23r; Mercati chiude la nota rinviando a un indice (v. l’indice), forse un elenco di versamento, finora non individuato. 29 Deposito B 223; per un profilo del Carusi: A. PETRUCCI, Carusi, Enrico, in Dizionario biografico degli italiani, XX, Roma 1977, pp. 817-819. 30 In questo inventario dattiloscritto e non nell’Indice Alfabetico dei Manoscritti su schede (IAM), detto anche Schedario Bishop, come erroneamente sostenuto in SPRUIT – TOTARO, The Vatican Manuscript cit., p. 26, si trova la descrizione del manoscritto dell’Ethica. In mancanza del primo foglio, con indicazione dell’autore e del titolo, e di altri elementi identificativi, come il titolo corrente, il Carusi considerò l’opera anonima e, dato l’incipit (Pars prima de Deo. Definitione), le attribuì un titolo congruente, ma estremamente generico: Tractatus theologiae. Ebbe però cura di trascrivere integralmente la nota apposta dal Sant’Uffizio in calce al volume: nella descrizione del codice destinata al catalogo, la trascrizione non era in realtà
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La stessa minuta suggerisce una probabile datazione approssimativa del catalogo, altrimenti ignota: la stesura preparatoria sembrerebbe infatti essere già completa prima del 1930, quindi a pochi anni dall’acquisizione. Nel luglio 1929 furono portati dal Sant’Uffizio in Vaticana altri 5 codici: non si trattava in questo caso di un trasferimento definitivo, ma di un prestito, richiesto dal Mercati per motivi di studio. In pratica però quei volumi non vennero restituiti: nel maggio 1934, Pio XI ne sancì il possesso della Vaticana. Proviene dal Sant’Uffizio, ma finora non se ne conosce la data d’ingresso in Vaticana, anche un altro gruppo di circa 120 manoscritti, di cui non è noto neppure l’elenco di versamento e che confluiranno nel fondo Vaticano latino. Come ha dimostrato la loro catalogazione, attualmente in corso, questi manoscritti sono affini per datazione, contenuti e caratteristiche estrinseche ai Vat. lat. 12703-12847, al punto da poter ipotizzare che i due gruppi di volumi siano stati, in un momento della loro storia, parte di un unico corpus. Si tratta prevalentemente di codici cartacei moderni, databili tra il XVI e la prima metà del XIX secolo, tutti attinenti, tranne alcuni scritti astrologico-cabalistici, ad argomenti teologico-religiosi, spesso con connotazione mistica. Tra gli altri vi si trova ad esempio, con la segnatura provvisoria di S. Offizio 74, la primitiva stesura della più nota opera del Molinos, la Guía espiritual, che ebbe una complessa genesi compositiva31. E l’affaire Molinos, e più in generale la questione della “mistica della quiete”, è il contesto culturale cui concettualmente si riconduce una gran parte dei circa 900 esemplari a stampa che costituiscono il fondo Stampati S. Offizio della Vaticana, trasferito forse nel 193432. Il fondo sembrerebbe frutto di una “selezione tematica”, condotta al Sant’Uffizio. La presenza di numerosi esemplari dello stesso testo, anche nella stessa edizione, ma con diverse note di possesso, suggerisce che almeno alcuni di quei volumi siano stati raccolti in seguito a requisizioni, probabilmente successive alla conindispensabile; sarebbe bastato segnalare la presenza della nota, il cui contenuto si è dimostrato invece fondamentale per la prima identificazione dell’opera. 31 Sul manoscritto: A. RITA, Per un nuovo testimone della Guía espiritual di Miguel Molinos, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, VI, Collectanea in honorem Rev.mi Patris Leonardi Boyle, O.P. septuagesimum quintum annum feliciter complentis, Città del Vaticano 1998 (Studi e testi, 385), pp. 549-567, ristampato in J. I. TELLECHEA IDÍGORAS, El proceso del doctor Miguel Molinos, con un saggio di A. RITA, Roma 2005 (Temi e testi, 54; Tribunali della fede), pp. 98-116; A. RITA, Il processo del Sant’Uffizio a Molinos: la documentazione custodita nella Biblioteca Apostolica Vaticana, in Visita del Santo Padre Benedetto XVI alla Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 25 giugno 2007, pp. 33-35. 32 La data d’ingresso in Biblioteca non è certa; si conosce tuttavia un inventario topografico del fondo in cui è annotata a matita la data 1934: A. RITA, Stampati del S. Offizio, in Guida ai fondi manoscritti, numismatici cit., II (Studi e testi, 467), pp. 867-869.
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danna del Molinos, ratificata da Innocenzo XI nella bolla Coelestis pastor (20 novembre 1687). Sempre nel 1934, precisamente il 5 maggio, fu concluso il passaggio in Biblioteca di circa 2100 opere a stampa e 23 manoscritti della Congregazione. Il contenuto di questi stampati risulta però totalmente diverso da quello dei materiali precedentemente trasferiti in Vaticana, in parte descritti dal Carusi e in parte in corso di descrizione. Si tratta per lo più di fonti canonistiche e di repertori teologici, e infatti quei libri provengono non genericamente dalla Congregazione, ma piuttosto dalla biblioteca della Congregazione. Una biblioteca di impianto domenicano e di carattere specialistico, a disposizione degli officiali e delle loro necessità tecniche; essa fu istituita all’interno del Tribunale dell’Inquisizione a partire dal Seicento, sembrerebbe anche con alcuni stampati duplicati richiesti alla Vaticana33. Quei libri costituivano il riferimento canonistico e teologico per il lavoro dei padri inquisitori. Nel tempo, la biblioteca del Sant’Uffizio è stata incrementata, con maggiore o minore sistematicità, fino ai nostri giorni. Tuttavia nel 1934 molti dei volumi del fondo più antico, probabilmente ritenuti di minore utilità pratica, furono appunto trasferiti in Vaticana con autorizzazione del papa. Non venne presa la raccolta in toto, ma la Biblioteca scelse i libri da trasferire, escludendo in primo luogo le edizioni già possedute. La selezione fu effettuata dal prefetto Giovanni Mercati che condusse lo spoglio su un inventario alfabetico34 allestito ad hoc in Vaticana da Alessandro Ramadori (1910-1994)35 — che in seguito divenne economo della Biblioteca — sulla base dello schedario dell’intera raccolta libraria del Sant’Uffizio. Quei materiali non furono conservati come “fondo”, ma distribuiti, secondo il loro argomento, nelle varie sezioni della Raccolta Generale, dove ancora oggi si trovano. I volumi entrati in Vaticana dalla biblioteca del Sant’Uffizio sono quindi 33 Cfr. la supplica al Santo Padre, priva di data, ma collocabile, per il riferimento a Holste, tra il 1653-1661, trasmessa da Arch. Bibl. 9, f. 251r, qui in Appendice documentaria, nr. 4. 34 Il volume, oggi segnato Arch. Bibl. 229, in epoche passate era identificato come Inventari degli Stampati 100; è di mano del Ramadori che copiò, dopo averle ordinate alfabeticamente, le schede catalografiche della biblioteca del Sant’Uffizio redatte da mons. Domenico Facchini. I libri scelti dal Mercati per essere trasferiti in Vaticana sono segnati a margine. Sulla vicenda, finora sconosciuta, la nota dello stesso Giovanni Mercati nel Registro delle accessioni, aperto da Ehrle, proseguito da Ratti e poi continuato da Mercati (Arch. Bibl. 115, f. 51rv), qui in Appendice documentaria, nr. 8. 35 Fu inserito nei ruoli della Biblioteca Vaticana nel 1932, come soprannumerario; nel 1939 fu nominato economo.
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totalmente diversi per contenuto sia da quelli che ora costituiscono il fondo Stampati S. Offizio, sia dai manoscritti provenienti dalla Congregazione e confluiti tra i Vaticani latini. Questi ultimi due gruppi, estremamente affini tra loro, sembrerebbero piuttosto costituiti da libri — manoscritti e stampati — estrapolati dagli incartamenti processuali di cui costituivano la parte istruttoria e probatoria: prove, indizi o allegati a denunce, come dimostra il caso del manoscritto dell’Ethica di Spinoza. Non solo libri proibiti, ma soprattutto libri requisiti nelle fasi procedurali del processo; oppure libri scritti, letti e posseduti dagli inquisiti (potrebbe esser questo il caso delle diverse stesure dell’opera del Molinos, probabilmente conservate tra i libri dell’autore). Materiale librario dunque — e per questo forse fu inviato alla Biblioteca Vaticana — ma allo stesso tempo, materiale d’archivio, incluso nelle pratiche processuali e certamente conservato per un certo periodo nell’archivio dell’Inquisizione. Proprio questi libri, o meglio questi materiali archivistici in “forma di libro”, in un dato momento, forse nel corso di una riorganizzazione dell’archivio del Sant’Uffizio, potrebbero essere stati estrapolati dalle posizioni archivistiche e sistemati in biblioteca. Ma non nella biblioteca comune, dove non avevano ragione di essere, non essendo strumenti di lavoro per gli inquisitori, ma in una libraria segreta, che potesse garantire la totale riservatezza, così come la garantiva l’archivio, per sua natura segretissimo. Dunque — ma è solo un’ipotesi36 — la libraria segreta si configura come una raccolta costituita da libri estrapolati dall’archivio dell’Inquisizione, accanto al quale all’inizio fu fisicamente collocata; poi, mutando tempi e prospettive, fu in parte e in più sezioni trasferita in Vaticana. E quest’ultima è una certezza.
36
Un’ipotesi plausibile, che potrebbe trovare ulteriori conferme e/o sviluppi nella documentazione conservata nell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede — non indagata in questo lavoro.
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APPENDICE DOCUMENTARIA 1 [Arch. Bibl. 9, f. 248r: ricevuta a firma del coadiutore del Sant’Uffizio per la consegna di cinque sacchi di libri proibiti provenienti dalla Biblioteca Vaticana]
Per questa presente si fa fede dal Sacr’Officio dell’Inquisitione di Roma, come sono statti presentati et co’ effetto portati cinque sacchi grandi di libri prohibiti, dalli Custodi della Libraria apostolica, hoggi il 2° di Giugno 1559, quali libri erano in detta Libraria, et per ordine di N. S. son stati portati. Io f. Serafino Cavalli coadiutore del S. Officio scrissi et sottoscrissi di propria mano [in calce aggiunto dal custode della Biblioteca Vaticana Federico Ranaldi] Il protonotario Sirleto37 l’ordinò da parte di N. S. et tra li altri furono portati Carolus Magnus Rex de imaginibus, n. 2586, Antonii De Rosellis n° 2641 et altri scritti. Federicus
2 [Arch. Bibl. 9, f. 249r: ricevuta a firma del commissario del Sant’Uffizio per la consegna di un Talmud proveniente dalla Biblioteca Vaticana]
Io f. Thomaso Zobbia commissario del S. Officio di Roma, ho ricevuto dal s. Federico custode della libraria vaticana di N. S., tutto il Talmutto in nove pezzi, legato in assi con le catene, e fornimenti d’ottone, conservato nel S. Officio fin a novo ordine de superiori. In fede dicio di mia mano ho fatto il presente scritto, alli 26 di maggio 1579 F. Thomaso Zobbia sudetto [in calce aggiunto dal custode della Biblioteca Vaticana Federico Ranaldi] Il cardinal Sirleto ordinò come di sopra di ordine di N. Signore Federicus Ranaldus manu propria
3 [Arch. Bibl. 9, f. 252r: ricevuta a firma del commissario del Sant’Uffizio per la consegna di sei opere provenienti dalla Biblioteca Vaticana]
A di 2 di maggio 1615 Io Fra Michel’angelo Seghizzi da Lodi dell’ordine de’ Praedicatori, Commissario generale dell’offizio della Santa Inquisizione Romana, ho ricevuto dal signor Nicolò Alemanni, custode della libraria Vaticana [cinque depennato] sei pezzi di libri, cioè il quinto tomo di Martino Lutero in foglio, Annotationes in librum 37
Guglielmo Sirleto (1514-1585), custode della Biblioteca Vaticana e poi cardinale bibliotecario (1572). Fu nominato protonotario apostolico da Paolo IV; su di lui: cfr. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., ad indicem.
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Job, Commentaria Johannis Oecolampadii in Isaiam, la confrontatione d’Ecolampadio manoscritta, Cathechismus Georgii Wicelii, in 8°, et Conciliatio Patrum Conciliorum, in 8°, come più diffusamente si contiene nell’Inventario di essi che resta in questo S. Officio. In fede ho fatto la presente ricevuta in Roma, nel Palazzo del Santo Officio, questo di et anno suddetto F. M. Angelo Seghizzi di Lodi Commissario Generale Santa Inquisitione […]
4 [Arch. Bibl. 9, f. 251r: supplica al Santo Padre per la concessione alla biblioteca del Sant’Uffizio dei libri duplicati della Biblioteca Vaticana, priva di data38]
Beatissimo Padre, Ritrovandosi nella Biblioteca Vaticana molti libri impressi di varii Professioni, quali per esser ivi dupplicati, pensa Monsignor Holstenio vendere. Si supplica umilmente la Santità Vostra farne donativo alla nuova Biblioteca, quale nel S. Offitio hora si instituisce per ordine della santità Sua, et ordinare al detto Monsignore Holstenio li consegni alli Ministri del Sant’Offitio.
5 [Arch. Bibl. 37, f. 168r: ricevuta a firma dell’archivista del Sant’Uffizio per la restituzione dei volumi requisiti in epoca napoleonica a favore della Biblioteca Vaticana]
Io sottoscritto attesto d’aver avuta la consegna di tutti li libri trasportati nella Biblioteca Vaticana nel tempo dei Francesi, spettanti alla libreria del S. Offizio, da mons. Baldi39, come nell’ordine dato da Nostro Signore Pio Papa VII. In fede Roma, questo di 29 aprile 1816 Giuseppe Lelli archivista del S. Officio
6 [Arch. Bibl. 38, f. 72r: ricevuta a firma dell’archivista del Sant’Uffizio per la restituzione dei volumi requisiti in epoca napoleonica a favore della Biblioteca Vaticana]
Io sottoscritto attesto d’aver ricevuta dall’illustrissimo e reverendissimo mons. Baldi40, Bibliotecario della Vaticana, la consegna di molti libri di pertinenza alla libreria della Sacra Inquisizione, che ivi si ritenevano trasportativi nelle passate 38
Per la datazione del documento cfr. supra nt. 33. Francesco Antonio Baldi (1755-1826), primo custode della Vaticana dal maggio 1814 all’agosto 1818; una sintesi bio-bibliografica in RITA, Biblioteche e requisizioni librarie cit., p. 370 e nt. 72. 40 Cfr. supra nt. 39. 39
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vicende Francesi; e ciò per ordine della Santità di Nostro Signore Pio Papa VII che ne ha commessa a me sottoscritto la ricupera dei medesimi. In fede etc. Roma, questo di 30 aprile 1816. Giuseppe Lelli archivista del S. O. [In calce nota archivistica di mano dello stesso Lelli: Reg. f. 78]
7 [Arch. Bibl. 191, f. 2v: minuta di lettera autografa di F. Ehrle senza indicazione di data41 e di destinatario]
Dietro l’avviso avuta da Sua Em. il card. Parocchi per il mezzo dell’archivista del S. Uffizio mi sono recato al palazzo di detta S. Congr. e ho esaminato alcune migliaia di volumi stampati separati da poco dall’archivio. Hanno bastato pochi minuti per ritrovar in quella massa accatastata una trentina di palatini appartenenti alla bibl. di Heidelberga colle loro legature caratteristiche e le segnature delle casse iscritte dal Alacci (!) prima del trasporto. Non dubito che un esame completo ci darà alcune centinaia di detti volumi. Credo comunque il mio dovere di pregare V. Em. di poter trasferire alla Bibl. Vatic. a) Tutti gli stampati palatini. b) Tutti gli altri che possono essere provenienti dalla Vaticana. c) Finalmente tutti gli altri libri, i quali come rarità bibliografiche possono essere di valore o di utilità alla bibl. della S. Sede. Debbo aggiungere che molti dei libri, anche di valore ed anche palatini sono molto danneggiati dai sorci e dall’acqua. Appena che avrò l’autorizzazione necessaria per il trasporto, mi sottometterò con alcuni degli scrittori atti a ciò al fastidioso lavoro di spartire.
8 [Arch. Bibl. 115, f. 51rv: nota autografa di Giovanni Mercati sul trasporto della biblioteca del Sant’Uffizio alla Biblioteca Vaticana]
1934 Mag. 5: è stato terminato il trasporto di un gruppo di mss. e stampati prelevati col permesso del S. Padre dalla Biblioteca del S. Offizio. Il chiarissimo e reverendissimo Mons. Le Grelle42, il lunedi 11 dicembre 1933 seppe da mons. Domenico Facchini43 che egli aveva preparato un catalogo su schede di tutta la 41
Per la datazione approssimativa del documento cfr. supra nt. 27. Il belga Stanislas Le Grelle (1874-1957) fu scriptor onorario della Biblioteca Vaticana; su di lui cfr. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., ad indicem; N. VIAN, Figure della Vaticana e altri scritti: uomini, libri e biblioteche, a c. di P. VIAN, Città del Vaticano 2005 (Studi e testi, 424), ad indicem. 43 Fu archivista dapprima di Propaganda fide (1918), e in seguito dal 1920 al 1946 della S. Congregazione del S. Offizio: cfr. Annuario pontificio, Città del Vaticano, ai rispettivi anni. 42
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biblioteca e potè esaminare le dette schede. Interrogato il S. Padre, Sua Santità permise che le schede venissero portate per esame in Biblioteca. Furono disposte secondo l’ordine alfabetico da Alessandro Ramadori44, e sulla copia, che dà lo stato della Biblioteca del S. Offizio prima della nostra scelta, l’Illustrissimo e Reverendissimo Mons. Giovanni Mercati45 fece la scelta. Verificati i titoli già possieduti si fece una copia in schede dei titoli da estrarre e queste schede furono messe in ordine secondo il numero degli scaffali. La scelta ed il trasporto furono eseguiti i giorni 2.3.4.5. maggio con l’aiuto di Amedeo Facchini46. Sono venuti in Biblioteca 2092 volumi stampati e 24 ms. […]. I volumi incunaboli erano in numero di 12 (diversi non furono trovati), dei quali uno solo non si trovava ancora nella B.V. cioè Vergerius, P.P. Venezia, Ioh. Tacuinus 1497 (H. 15999)47. […]
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Cfr. supra nt. 35. È curioso che il Mercati parli di se stesso in questi termini; l’impressione è che l’annotazione sia di fatto copia di una ricevuta forse rilasciata al Sant’Uffizio. 46 Su di lui: N. VIAN, Figure della Vaticana, in L’Urbe 49 (1986), pp. 123-124, riedito in ID., Figure della Vaticana e altri scritti cit., pp. 354-355. 47 BAVI V-72; IGI 10171. 45
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LEANDRA SCAPPATICCI
IL PIÙ ANTICO MANOSCRITTO DEL TRACTATUS IN IOHANNIS EVANGELIUM DI AGOSTINO (VAT. LAT. 5776, F. 3) Il manoscritto Vat. lat. 5776, ultimo per numero di segnatura del blocco dei ventotto codici provenienti dal monastero di San Colombano di Bobbio e oggi conservati nel fondo Vaticano latino della Biblioteca Apostolica Vaticana, con le segnature da 5748 a 5776, racchiude tra le carte di guardia un reperto di indubbia importanza per un concorso di più fattori, in primis per l’attribuzione cronologica alta del frammento, VI secolo, e inoltre per l’identificazione del testo, che corrisponde ad Agostino, In Iohannis evangelium tractatus LXXIII e LXXIV, di cui emerge così un ulteriore testimone. Il frammento costituisce la quinta guardia del codice Vaticano, contrassegnata come f. 3 perché computata nella foliazione meccanica moderna posta nell’angolo inferiore esterno dei centootto fogli del manoscritto. Il Lowe aveva già descritto il frammento nei Codices latini antiquiores, lasciandone inidentificato il testo e ipotizzandone una origine italiana, a fronte di una disamina paleografica seppur limitata alla sopravvivenza esigua di poche righe di scrittura semionciale1. La guardia, in realtà costituita da due piccoli frammenti incollati, risulta essere il più antico testimone del Tractatus, di fatto il più attiguo al periodo in cui Agostino si occupò di redigerne il testo, intorno al 4162. L’identificazione ora avanzata permette 1 E. A. LOWE, Codices latini antiquiores: a Palaeographical Guide to Latin Manuscripts prior to the Ninth Century, I-XI, Oxford 1934-1966, I, 49 (CLA). 2 Sulla cronologia delle opere di Agostino si rimanda almeno alla bibliografia presente nell’edizione SANCTI AURELII AUGUSTINI In Iohannis evangelium tractatus CXXIV, Turnhout 1954 (Corpus Christianorum. Series latina, 36. Aurelii Augustini opera, 8), p. VIII, XV (d’ora in poi CC Sl 36); vd. inoltre S. ZARB, Chronologia tractatuum S. Augustini in evangelium primamque epistulam Ioannis Apostoli, Romae 1933. Il periodo di redazione dell’opera viene fissato intorno al 416, sulla base dei dati storici disseminati nel testo, tra cui la menzione, dall’omelia cinquantatreesima in poi, dell’eresia pelagiana che appare in Africa dopo il 411, oltre alla presenza della questione donatista il cui decreto risale al 414 e alla citazione del rinvenimento del corpo di s. Stefano, avvenuto nel 415. La predicazione iniziò nell’inverno del 416, secondo quanto attestato nella sesta omelia, e durante il periodo pasquale fu momentaneamenta interrotta, per esigenze liturgiche, dalla compilazione del commento dell’Epistola di s. Giovanni: SANT’AGOSTINO, Commento al Vangelo e alla prima epistola di san Giovanni, testo latino dell’edizione maurina, introduzione a cura di A. VITA, traduzione e
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 487-495.
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LEANDRA SCAPPATICCI
così di annoverare l’eccezionalità di tale testimonianza che, seppur sopravvissuta in due lacerti, viene a costituire non solo il reperto più vetusto del Tractatus, ma anche l’unico testimone ad oggi rinvenuto che sia vergato in semionciale, la scrittura del resto privilegiata per la trascrizione dei testi patristici. Il Vat. lat. 5776, pervenuto alla Biblioteca Apostolica nel 1618 grazie all’interesse e all’azione di papa Paolo V (1552-1621)3, fu rilegato successivamente, durante i pontificati di Pio IX (1800-1823) e Leone XIII (18781903) — stando alla presenza degli stemmi dorati sul dorso — con una nuova coperta in pelle di color rosso marocchino, sicuramente realizzata con ogni accorgimento per salvaguardare e ripristinare le carte di guardia nella stessa posizione in cui erano state ritrovate4. Di piccolo formato (mm 147 u 104 [104 u 65]), acefalo e mutilo, di centootto fogli in pergamena consunti negli angoli esterni dall’uso frequente e prolungato nel tempo, il codice contiene due sezioni utili alla celebrazione della liturgia delle Ore, Regula canonicorum et decretales (ff. 1-60) e Hymnarium (ff. 61-105)5. Orinote di E. GANDOLFO, revisione di V. TARULLI, indici di F. MONTEVERDE, 2 ed., I-II, Roma 1985, I, p. XV. 3 G. MERCATI, M. Tulli Ciceronis De Re Publica libri e codice rescripto vaticano latino 5757 phototypice expressi. Prolegomena de fatis bibliothecae monasterii S. Columbani Bobiensis et de codice ipso Vat. lat. 5757, Città del Vaticano 1934 (Codices e Vaticanis selecti quam simillime expressi, 6), pp. 139-142. 4 Contestualmente alla realizzazione della legatura vaticana venne inserita una prima guardia cartacea, mentre furono consolidate quelle già presenti: la seconda sempre cartacea, originariamente posta sul contropiatto della legatura più antica, ora incollata su una carta in pergamena moderna, reca l’annotazione ottocentesca Hic liber antiquissimus est ante Alexandrii III tempora, nam in hymnis atque in rubricis nulla mentio de S. Thoma Cantuariense, nec de sancto Francisco supra quingentos annos scriptus esse videtur vel circa; la terza — numerata come f. 1 — riporta, sul recto, l’attuale segnatura del codice, mentre la quarta e la quinta — attuali ff. 2 e 3 comprese nella cartulazione del codice —, esaminate da Lowe, racchiudono rispettivamente un frammento con una sola riga parzialmente leggibile sul recto in scrittura onciale del V-VI (CLA I, 48) e il reperto qui esaminato. Sulle legature vaticane si rimanda a J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collections de manuscrits, Città del Vaticano 1973 (Studi e Testi, 272), pp. 102-107; vd. inoltre Legature papali da Eugenio IV a Paolo VI. Catalogo della mostra, Città del Vaticano 1977. 5 Per una descrizione complessiva del codice si rimanda a L. SCAPPATICCI, Codici e liturgia a Bobbio. Testi, musica e scrittura (secoli X ex.-XII), Città del Vaticano 2008 (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica, 49), pp. 416-420 (scheda 36); della bibliografia relativa al manoscritto si segnala qui: H. EHRENSBERGER, Libri liturgici Bibliothecae apostolicae Vaticanae manu scripti, Freiburg 1897, p. 40; J. MEARNS, Early latin hymnaries. An index of hymns in hymnaries before 1100, with an appendix from later sources, Cambridge 1913; P. SALMON, Les manuscrits liturgiques latins de la Bibliothèque Vaticane, I: Psautiers, Antiphonaires, Hymnaires, Collectaires, Bréviaires, Città del Vaticano 1968 (Studi e Testi, 251), p. 54, nr. 104; K. GAMBER, Codices Liturgici Latini Antiquiores, I-II, Freiburg 19682 (Spicilegii Friburgensis
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IL PIÙ ANTICO MSS DEL IN IOHANNIS EVANGELIUM
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ginario di Tortona secondo un’ipotesi concordemente avvalorata ormai da indizi tanto testuali, tra cui la presenza dell’inno Audi presul Marciane dedicato al vescovo tortonese Marciano (ff. 88rv), oltreché da dati relativi alla decorazione e alla notazione musicale, entrambe di tipologia differente rispetto a quanto rilevato nella tradizione di certa origine bobbiese6, il manoscritto, recentemente assegnato all’ultimo trentennio dell’XI secolo7, giunse successivamente a Bobbio, ove fu annoverato, nel 1461, al numero 133 dell’inventario stilato dal monaco Cristoforo Valsassina8: 133. Regula quedam canonicorum sine principio et fine. Decreta quedam et auctoritates contra symoniam. Hymni tam de tempore quam de sanctis per circulum anni. Valde parvi vol. asser.
Lo stesso Cristoforo, inviato a Bobbio per conto della Congregazione di Santa Giustina di Padova, in sede di riordino dell’intera biblioteca, annotò inoltre la consueta nota di possesso Liber sancti Columbani de Bobio nel margine superiore del recto del primo foglio del manoscritto (attuale f. 4r), oltre ad elencare brevemente, sul verso della quinta carta di guardia (attuale f. 3v), il contenuto: In hoc volumine Regula canonicorum Decretales quedam contra symoniam. Hymni tam de tempore quam de sanctis per circulum anni, titoletto in tutto rispondente all’inventario e forse redatto per l’allestimento catalografico. Sulla base di questa ultima traccia della mano di Cristoforo è assai probabile che il rimpiego del foglio agostiniano Subsidia, 1), II, p. 605, n. 1676. La sezione dell’Innario è stata oggetto di studi mirati sulla liturgia e la notazione musicale: H. M. BANNISTER, Monumenti Vaticani di paleografia musicale latina raccolti ed illustrati, Lipsia 1913 (Codices e Vaticanis selecti phototypice expressi, 12), p. 93, n. 265; C. A. MOBERG, Die liturgischen Hymnen in Schweden. Beiträge zur Liturgieund Musikgeschichte des Mittelalters und der Reformationszeit, I, Quellen und Texte. Text- und Melodieregister, Kopenhagen 1947, p. 196; M. LOKRANTZ, L’opera poetica di san Pier Damiani. Descrizione dei manoscritti, edizione del testo, esame prosodico-metrico, discussione delle questioni d’autenticità, Stockholm – Göteborg – Uppsala 1964 (Studia Latina Stockholmiensia, 12), p. 25; G. BAROFFIO – A. DODA – R. TIBALDI, Musim Musicae Imagines. Gli studi di paleografia musicale e l’esigenza di nuovi strumenti di ricerca, in Scrittura e Civiltà 22 (1998), pp. 419-472: 465, n. 311; U. FACCHINI, San Pier Damiani: l’eucologia e le preghiere. Contributo alla storia dell’eucologia medievale. Studio critico e liturgico-teologico, Roma 2000 (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae. Subsidia, 109), pp. 152, 171, 518, 487; S. BOYNTON, Orality, Literacy, and the Early Notation of the Office Hymns, in Journal of the American Musicological Society 56 (2003), pp. 99-168: 118, 146. 6 SCAPPATICCI, Codici e liturgia a Bobbio cit., pp. 51, 94-95. 7 Il dato cronologico è confortato anche dal terminus post quem del 1069, anno in cui Pier Damiani si dedicò alla stesura degli inni dedicati a san Benedetto, Invenzione ed Esaltazione della Croce (ff. 85r-86v, 100v-102v): SCAPPATICCI, Codici e liturgia a Bobbio cit., pp. 95-96. 8 Sull’inventario conservato in Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, F IV 29, si veda ibid., pp. 48, 51, 53, 89, 96.
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non sia avvenuto a Tortona, diocesi adiacente ai possedimenti terrieri del monastero di San Colombano, ma quasi certamente a Bobbio nel momento in cui lo stesso monaco si occupò attivamente tanto del complessivo riordino, quanto del restauro dei volumi ritrovati nella Biblioteca già da tempo depauperata. Era difatti pratica attestata e diffusa tra i membri della Congregazione subentrata a Bobbio a partire dal 1448, quella di realizzare nuove legature reimpiegando carte di codici caduti in disuso o usurati nel corso del tempo: gli stessi monaci, difatti «legarono quasi tutti i codici scritti o suppliti da loro, e li legarono ordinariamente con assi o tavole di legno, secondo l’uso di quel tempo, mettendovi a guardia anche fogli d’antichi manoscritti smessi, de’ quali s’erano pur valsi per scrivervi di nuovo sopra»9. Il f. 3 è il risultato dell’assemblaggio di due piccoli frammenti incollati l’uno sull’altro sul recto — l’uno inferiore (d’ora in poi indicato con “A”), di mm 79 u 131, leggibile anche sul verso della medesima carta, l’altro superiore (“B”) di mm 66 u 103 — e integrati con uso di pergamena moderna a costituire un unico foglio di dimensioni di poco inferiori rispetto a quelle dell’intero codice. La scrittura, una semionciale disposta su due colonne, di un’unica mano del VI secolo e di probabile origine italiana, di piccolo modulo e non sempre costante nell’allineamento, mostra qualche caratteristica significativa, seppur limitatamente rappresentata sia per l’esiguità, sia per il cattivo stato di conservazione dei due frammenti: a tonda, leggermente aperta in un caso (f. 3v, fr. A, r. 8, manna); elementi corsivi per il disegno di e costituita da due tratti curvi che si congiungono (f. 3v, fr. A, r. 9, p
e), e per il falso legamento or (f. 3r, fr. A, r. 9, porcu(m); nessi us (f. 3r, r. 11, primatus) e Nt (f. 3r, fr. A, r. 4, rent e r. 7, f. 3v, fr. A, r. 9 hbebant) a fine rigo; abbreviazioni: non visibile ma presumibilmente presente è il trattino per la nasale, nomen sacrum per Chr(istu)s (f. 3r, fr. B, r. 6); il punto sollevato dal rigo per l’interpunzione. Finora il foglio era stato descritto da Lowe come un unico frammento, in base alla sola considerazione di A, trascurando dunque la presenza del secondo lacerto, B, ed era stato identificato genericamente come frammento patristico. La lettura parziale e faticosa dei due reperti, per undici e nove righe dei rispettivi frammenti A e B, spesso agevolata dall’utilizzo della 9
Mercati auspicava che tali frammenti fossero sottoposti ad un esame complessivo: «onde gioverebbe rivedere bene tutti i codici provenienti da Bobbio, specialmente quelli dell’Ambrosiana che per buona fortuna conservano quasi tutti, se ben rammento, l’antica legatura, allo scopo preciso di riconoscere quanti furono i codici usati nel secolo XV come materia di scrittura e di legatura, badando se frammenti di un medesimo codice si trovino sparsi in diversi manoscritti, e anche in tal caso guardandosi dal creder tosto che il codice intero si conservasse tuttora nel secolo XV»: MERCATI, M. Tulli Ciceronis cit., pp. 70-71.
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lampada di Wood e in rari casi confortata dalla successione di parole intere, ha permesso, ad un vaglio approfondito solo ora compiuto, di identificarne il testo e l’esatto ordine dei due lacerti. I due frammenti A e B recano brevi lacerti dei trattati LXXIII, 1 (proinde si hoc … peterent; parva erat … Esau primatus) e LXXIV, 1 (carissimi quod … mea servate) del Tractatus in Iohannis evangelium. Essi sono stati molto presumibilmente attinti da due distinte carte in successione: un’ipotetica ricostruzione della carta integra si avvale tanto del conteggio delle parti di testo mancante, quanto delle dimensioni attuali dei due lacerti. Stando all’edizione del Corpus Christianorum, tra A e B vi è uno scarto di centodieci linee di testo (dal trattato 73, paragrafo 1, linea 32 all’omelia 74, paragrafo 1, linea 12) e tenendo inoltre conto di una media di sei linee contenute in un frammento di altezza 79 mm, per una disposizione della scrittura su due colonne, si può presumere che i due frammenti non siano stati attinti da una medesima carta. L’ordinata lettura dei due frammenti, qui di seguito editi, inizia con il verso di A, a seguire con il recto di A e B, per cui l’attuale verso del f. 3 risulta essere in realtà l’originario recto. Le righe attestate riportano i contenuti del commento a Gv 14, 12-17 con una predicazione mirata alla necessità di ricerca del bene, alla fuga dalla cupidigia e all’obbedienza dei comandamenti quale veicolo per il conseguimento dello spirito di verità. Frammento A (f. 3v):
5
tur magis me est posset non dare pitius . An non v suo ipetpiscentia petier enim carnibus vesci ur manna de caelo. p
e quod hbebant pudenter tebant quasi non melius os [CC Sl 36, tract. LXXIII, § 1, p. 510, linn. 10-15]. 3 inpetrasse] ms.
Frammento A (f. 3r):
5
a erat offensio repd dabat sapientia et repebat concupisrent rent. m dienrdinata(m) er porcu(m) sed propter pomum m>ortem homo Esau primatus [CC Sl 36, tract. LXXIII, § 1, p. 510, linn. 26-31]. 1 repetere] petere ed. — 5 homo primus] primus homo ed.
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Frammento B (f. 3r): carissi>mi quod poss umite et ab illo quod non m posciacle Christus omisit apostolis qtem m(o)do promiserit mus si d me inta mea servate [CC Sl 36, tract. LXXIV, § 1, p. 512, linn. 13-16].
Il testo non differisce di molto dall’edizione maurina10 registrata dal Corpus Christianorum: le tre varianti qui rilevate non si rintracciano altrove e non permettono di stabilire legami con il resto della tradizione. Per i testimoni registrati dalla compagine di studi e di edizioni si constata una maggiore sopravvivenza di fonti dell’VIII, con un picco di attestazioni per il IX e X secolo11. Il più antico manoscritto, in stato frammentario, finora tenuto in considerazione era Engelberg, Stiftsbibliothek 59 + Carlsruhe, Landesbibliothek Ettenheim-Münster, 46212 in scrittura onciale del VI-VII e più propriamente del VII secolo; successivo a questo è poi il fragmentum Casinense, Montecassino, Archivio della Abbazia, 523, sempre in scrittura onciale ma attribuibile al VII e VIII secolo13. Alla tradizione finora individuata si viene dunque ad aggiungere il foglio conservato nel Vat. lat. 5776, testimone esemplare per antichità e per essere l’unico, nella tradizione finora nota del Tractatus, fitta di testimonianze in onciale o in semicorsiva o in carolina, vergato in semionciale, scrittura in prevalenza riservata ai testi di studio e di lettura in uso nelle comunità e nelle scuole religiose, quali padri della Chiesa, autori cristiani, 10 Sancti Aurelii Augustini Hipponensis episcopi operum tomus tertius … opera et studio monachorum ordinis S. Benedicti e Congregatione S. Mauri. Pars secunda complectens exegetica in novum testamentum, Parisiis, excudebat Franciscus Muguet regis, cleri gallicani et illustrissimi archiepiscopi parisiensis typographus, 1690, coll. 687, 688, 689. 11 «Traditio, quantumvis abundans, antiquis exemplaribus deficiantibus, revere tenuis. Quod libris multum lectis saepius evenit, antiquis exemplaribus tantopere tristis, ut non iam servarentur quam primum transcripta erant. Ita factum est ut huius libri pervolutati, praeter fragmentum Montis Angelorum (Engelberg) saec. VII (quod legi fere non potest) et fragmentum Casinense aliquantulum recentius solummodo quatuor codices manci exstent forsan saec. VIII orti (Berolin. Philipps 1662; Parisienses BN 1959 et 11638; Stuttgart B.H.VII Patres 17) et unus solus codex uncialibus letteris exaratus saec. VIII-IX (Romanus Vallicel. A XIV). Carolini demum codices saec. IX-X numero plures supersunt»: CC Sl 36, p. X. L’elenco complessivo dei testimoni si trova sempre in CC Sl 36, pp. VIII-X, nel quale figurano anche i frammenti ritrovati da Morin: G. MORIN, Deux nouveaux sermons retrouvés de St. Augustin, in Revue Bénédictine 36 (1924), pp. 181-199; vd. inoltre M. OBERLEITNER, Die handschriftliche Überlieferung der werke des heligen Augustinus, Band I: Italien, I-II, Wien 1969-1970. Per gli esemplari più antichi CLA III, 380; IV, 429; V, 538; V, 595; V, 613; VII, 883; VIII, 883; VIII, 1055; VIII, 1202; IX, 1293; IX, 1307; E. A. LOWE, Codices latini antiquiores: a Palaeographical Guide to Latin Manuscripts prior to the Ninth Century, Supplement, Oxford 1971, nr. 1769. 12 CLA VII, 883. 13 CLA III, 380.
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raccolte canonistiche. Il reperimento di questo testimone, di cui non si rintracciano per ora altri membra disiecta14, costituisce dunque un tassello fondamentale per ridisegnare la storia della trasmissione dell’opera agostiniana In Iohannis evangelium tractatus, una delle opere agostiniane più lette e attestate nel corso del Medioevo per gli studi ecclesiastici, teologici e patristici.
14 OBERLEITNER, Die handschriftliche Überlieferung cit.; sono stati inoltre vagliati tutti i manoscritti presenti nei volumi dei CLA.
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 5776, f. 3r.
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Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 5776, f. 3v.
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FREDRIK THOMASSON
BETWEEN ROME AND THE ORIENT: JOHAN DAVID ÅKERBLAD’S (1763-1819) NOTEBOOK VAT. LAT. 9785* Johan David Åkerblad was born in Stockholm in 1763 and died in Rome in 1819.1 He studied history and oriental languages in Uppsala. He was employed in the Swedish foreign service and arrived at his first foreign posting in Constantinople 1784. The following decades he travelled extensively in the Ottoman Empire. In 1801 Åkerblad left Sweden for the last time and lived first in Paris, where he in 1802 published a dissertation on the Demotic part of the Rosetta inscription that made him immediately famous in orientalist circles all over Europe.2 He later corresponded with the major protagonists in the decipherment of the hieroglyphs and is known as one of Jean-François Champollion’s predecessors. In 1804 he was forced to leave France as a consequence of the wars. He lived in Italy from 1805 until his death in 1819. Vat. lat. 9785 is a leather-bound notebook, size 240 u 185 mm, with 75 numerated ff. It was, together with a smaller notebook, Vat. lat. 9784, sold to the library in 1873 by G. Battista de Rossi as “appunti epigrafici greci e latini e disegni di monumenti e notizie di viaggi in Oriente del dotto Akerblad.”3 We have little news on the survival of Åkerblad’s manuscripts after his death in Rome in 1819. He died in penury, and the estate inven* My warm thanks go to Dott. Marco Buonocore, Direttore Sezioni Archivi and Scriptor Latinus at the Biblioteca Apostolica Vaticana who greatly facilitated my research, to prof. Giulia Maria Amadasi Guzzo, Rome, to Birsel Karakoç, Uppsala University, Mikael Persenius, Uppsala University Library, the Swedish Inst. of Classical Studies, Rome, and the Fondazione Famiglia Rausing that generously supported me. Fredrik Thomasson, Uppsala University, Dep. of History, Research fellow at The Royal Swedish Academy of Letters, History and Antiquities. E-mail: [email protected]. 1 For a full treatment of Åkerblad and his accomplishments see my monograph: The Life of J. D. Åkerblad: Egyptian Decipherment and Orientalism in Revolutionary Times, Leiden 2012. 2 J. D. ÅKERBLAD, Lettre sur l’inscription égyptienne de Rosette, Adressée au C.en Silvestre de Sacy…, Paris 1802. 3 Vatican City, Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Bibl. 14, f. 183r. For a description of Vat. lat. 9784: M. BUONOCORE, Tra i codici epigrafici della Biblioteca apostolica vaticana, Ravenna 2004 (Epigrafia e antichità, 22), pp. 137-39. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 497-516.
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FREDRIK THOMASSON
tory made by the Swedish consul in Rome, Ulisse Pentini, lists few possessions and only states that there were some papers and books. Åkerblad’s close friend Francesco Cancellieri (1751-1826) wrote about the difficulties after the end of the French occupation in 1814: “Akerbland va vendendo tutti i libri per campare.”4 But the situation of Åkerblad’s personal papers might have been different. Åkerblad had been competing for the Swedish consulship in Rome and the business brought by Swedish travellers, thus the words of the consul should be read with circumspection: Il est cependant bien singulier que parmis les papiers du dit défunt, [Åkerblad] excepté une petite partie, tout le reste ne regarde que des correspondance avec des femmes, je serais d’avis de tout remettre aux flammes pour ne pas compromettre la tranquillité de différent familles, et l’honnheur même des personnes qui ont été assé imprudents pour écrire, et pour conserver des documents de ce qui devait être consacré au plus rigoureux silence.5
It appears probable that Pentini burned the correspondence; apart from drafts in the possession of the senders, no missives to Åkerblad have been preserved. Some papers did survive, however, and the Vat. lat. 9785 is the most important example. According to the correspondence between de Rossi and Mommsen the notebooks came from a collection of a cardinal Pantini (sic).6 Ulisse Pentini obviously took the notebooks and after his death in 1820 they became the property of his son Francesco Pentini (17971869, created cardinal deacon in 1863) and eventually bought by de Rossi. Other pieces of Åkerblad’s papers were bought by a Swedish scholar who went searching for them in Rome in the 1880s and who donated them to the Royal Library in Stockholm.7 The notebook is an interesting document and, together with letters from Åkerblad, it is the major source for understanding his readings and intellectual interests. While the notebook at some points served as a travel 4 Cancellieri to Aubin-Louis Millin, Rome 28 October 1815, Paris, Bibliothèque nationale de France, MS FR 24680, f. 317. 5 Pentini to Chancery Board, Rome 15 May 1819, Stockholm, Swedish National Archives, Kabinettet, UD, Huvudarkivet, E2FA: Skrivelser från konsuler, vol. 66, no. 973. 6 M. BUONOCORE, Theodor Mommsen e gli studi sul mondo antico. Dalle sue lettere conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Naples 2003 (Istituto di Diritto Romano e dei Diritti dell’Oriente Mediterraneo, 69), p. 128 7 K. PIEHL, Quelques mots sur la vie et les œuvres de l’illustre orientaliste suédois J.-D.Akerblad, in Actes du Huitième Congres International des Orientalistes Tenu en 1889 à Stockholm et à Christiania, Section Africaine, Leiden 1892, pp. 59-65. The papers, N71-N72, consist of various Mss, a Coptic dictionary Åkerblad made, notes on inscriptions, printing proofs etc.
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diary it is impossible to date most of the entries and it was used over several decades. The first entry (at the back of the first flyleaf, opposite f. 1) is dated January 1789 and describes a voyage from Tunis to Marseille. Further on there are entries predating this, but it is not possible to establish a chronology within the notebook, neither is any thematic order discernable. Åkerblad continued to use the notebook until his death, and there are entries from his last years in Rome. Åkerblad’s fame was based on his vast and varied language knowledge and the notebook is a testimony to his abilities. While living in Rome he was compared with the famous polyglot Giuseppe Mezzofanti (1774-1849) in Bologna by travellers who visited him: “I also became acquainted with Signior Akerblad at Rome, who is another of these extraordinary linguists — his knowledge [of languages] is confined to twenty-three.”8 Åkerblad wrote in a large number of tongues and scripts: a tentative count exceeds twenty: Albanian, Aramaic, Arabic (various dialects), Coptic, Dutch, English, Ethiopic (Ge’ez and Amharic), Etruscan, French, German, Ancient Greek, Modern Greek, Hebrew, Italian, Kurdish, Persian, Phoenician, Portuguese, Spanish, Syriac, Swedish, Samaritan, Tatar, Turkish etc. The notebook contains drawings and maps, but the most common illustrations are Åkerblad’s inscription copies. Examples will be shown below. The aim of this brief article is to present examples from the manuscript, and to convey its importance for the study of Åkerblad’s interests and biography. The notebook is a document that gives an insight into a tradition which has largely been lost during the process of specialization of academic disciplines. This is not meant to be a nostalgic complaint, rather a recognition of the changes in knowledge that it is possible, and desirable, to obtain during the lifetime of a single individual. Travels in the Eastern Mediterranean Åkerblad left Sweden for the first time in 1783 at the age of 20. He would end up spending more than 30 of his remaining 36 years abroad. The notebook is an important source for especially his early travels and contain several sections that resemble a diary. In 1786 he toured Lebanese monasteries looking for manuscripts (Fig. 1). The results were meagre but he did find things that were yet not widely known or published. Two such examples were extracts from a historical work by Ibn Asbâý, Üamzah ibn Aümad (d. 1520) and a medical tract 8 Henry Salt to William R. Hamilton, Malta 28 January 1816, in J. J. HALLS, The life and correspondence of Henry Salt, London 1834, 1:441.
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by Anýâkî, Dâ’ûd ibn ‘Umar (d. 1599), (f. 24r).9 But he also took time to see natural curiosities and searched for inscriptions. In the company of two monks he descended from the monastery on 22 October 1786: The descent from St. Michael is quite steep, after which follows a plain that extends to the sea. We took the road southwards. We arrived at the Lycos [Nahr-elKalb] … On the north side are remains of an Arabic inscription which I copied. We passed the river on foot. … Here the road cut through the mountain begins. A Latin inscription is readable on square tablet hewn out in the rock. It is mentioned by all travellers … In several places there are hewn tablets on the rock face, as if they were destined for inscriptions (f. 57r).10
Fig. 1. Map of the Lebanese coastal area, some of the monasteries Åkerblad visited are marked out (f. 33r).
A few days later he went towards the coast: The 30 October. Rode to the Loeiza monastery to assist at the ordainment of a bishop. It is the Patriarch and two Bishops that officiate. I found the ceremonies of little interest, and an appalling noise of some wild instruments … insufferable for all but Maronite ears, made me almost leave before the end. Then we ate in a long corridor spanning the monastery. More than 400 persons were fed in the way that when the first comers at the table were satisfied, they 9 For Ibn Asbâý see C. BROCKELMANN, Geschichte der arabischen Litteratur, II suppl. vol., Leiden 1938, p. 42, no. 15. Åkerblad had copies made of the manuscript. For Anýâkí see ID. Geschichte der arabischen Litteratur, vol. II, Berlin 1902, p. 364, no. 3, 2nd title. 10 “Nedstigningen ifrån St. Michael är ganska brant, efter hvilken följer en slätt. som sträcker sig till hafvet. Vi togo vägen åt söder. Kommo till Lycus. … På norra sidan äro lämningar af en arabisk inscription, som jag afskref. Vi passerade floden till fots. … Här börjar vägen uthuggen i berget. En latinsk inscription läses på en fyrkantig inhuggning i berget till vänster. Den är anförd af alla resande … På flera ställen äro fyrkantiga planor inhuggna i klippan, likasom ämnade til inscriptioner.”
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left their places for new hungry. This kind of corridor is called Ruad (f. 57r).11
Åkerblad’s appreciation of Christian rites was minimal. There are many indications of his lack of religion. In Rome he once answered a seminary student that: “I have not been made an infidel by Voltaire, but I have been made an infidel by you divines.”12 Like many of his contemporaries he was well versed in both pagan mythology and Christian history but showed no personal interest in faith. Nevertheless, he always underlined that the hospitality of the various orders was exemplary. When he took lodgings in a Catholic nunnery the next day he stressed this: 1. November 2 o’clock in the afternoon mounted mules to make a trip to a place called Fahra, were I was assured that there were antiquities to be found. Rode past Antura, Ageltun and came after a couple of hours to a place where the shape and the way the stones were piled up resemble castles and forts. Saw several villages on the way. Passed a wide valley Vadi el Salib the Cross Valley and came after 6 1/2 hours ride to Deir el Nia a Greek-Catholic nunnery. It is quite an imposing edifice. The nuns treated us the best they could and we stayed the night (f. 57r).13
Another interesting section is his description of a visit to the Holy Land in 1788. On Cyprus Åkerblad boarded a French ship bound for Jaffa. On 15 June he wrote: “[I] went ashore in the afternoon and immediately took quarters with Mr Damien V. Consul for, I believe, all European Nations and Knight of Christ’s Sepulchre. In the evening I wandered in the gardens that surround Jaffa where people watered the crops in the same ways as in Egypt and Syria” (f. 41r-v). Everyday observations and linguistic comments abound: “The wheel that turns up the water is here called not Naura
11
“Den 30. October. Red til klostret Loeizia för at se en Biskopsinvigning. Det är Patriarchen och tvenne Biskopar, som förätta denna act. Jag fant ceremonierna ganska lite märkvärdiga; och et ohyggligt buller af några vilda instrumenter … odrägeligt för alla andra än maroniternas öron, gjorde, at jag så när ej quarblifvit til slut. Man spisade sedan i en lång corridor som traverserar klostret. Öfver 400 personer spisades på det sättet at då de som först satt sig till bords voro förnöjde, intogs deras rum af andra som åter lämnade dem för nya hungriga. Denna slags corridor kallas Ruad.” 12 J. WOLFF, Travels and Adventures of the Rev. Joseph Wolff, London 1860-61, I:96. 13 “1. November kl. 2 eftermiddagen steg på mulor för at göra en resa til et ställe kallat Fahra, där man försäkrade mig funnos antiquiteter. Red förbi Antura, Ageltun och kom efter et par timar til et ställe där stenarnes form och upstapling likna slott och fästningar. Såg på vägen flere byar. Genomfor en djup dal Vadi el Salib Korsdalen och kom efter 6 och 1/2 timars ritt til Deir el Nia et grekiskt catholskt nunnekloster. Det är en tämeligen ansenlig bygning. Nunnorna låta undfägna oss så godt de kunde och vi blefvo där öfver natten.”
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but Byara. The watermelons here are excellent” (f. 41v).14 Examples of little-known scripts always attracted his attention (Fig. 2).
Fig 2. Åkerblad’s description of the drawing: “J’ai en vu à St. Jean d’Acre une pierre gravée avec l’inscription ci dessous. Les lettres paroissent être Sasaniennes. Le propriétaire de la pierre un négociant François établi à St. Jean d’Acre étoit persuadé que la figure est celle de Nabuchadenazer métamorphosé en bête” (f. 30v).
Before leaving Jaffa Åkerblad trusted the Franciscans with his money. The fear of banditry was all prevailing and the pilgrims made good targets: [June] 16. Deposited my money with the prefect of the Franciscan monastery against his receipt. Mounted in the afternoon. Accompanied by the Consul and several others we rode to Ramle. We saw several tobacco plantations at the roadside. The country is well cultivated. Lydd ancient Diospolis is mostly in ruins. Remains of a mediaeval church are visible. In Ramle I was received in the monastery. I had supper in the refectory, rested until midnight, when I again mounted accompanied by a little boy on foot and two mounted Arabs, armed with lances. These Arabs, always fighting among themselves, choose to travel at night to avoid meeting their enemies. The terrain was flat for a couple of hours. Then the ground got rough, but the darkness prevented me from getting a clear notion of the district. At the first break of dawn we arrived at the foothills. I had agreed with my Arabs that they should accompany me to Jerusalem but they explained that now the danger was over and went their way. I continued the voyage with my companion on foot through the most worrying mountainous district I ever saw. In a few places remains of buildings could be seen, but not old ones. The road is utterly uncomfortable. We found a spring that gave us some refreshment (f. 41v).
He continued by describing his entry into the Holy City: The heat was becoming unbearable. In a village we passed through the peo14 “eftermiddagen gick iland och inquarterade mig genast hos Herr Damien V. Consul för
jag tror alla europeiska nationer och riddare af Christi graf. Om aftonen vandrade omkring i trädgårdarna som omgifva Jaffa, där man var sysselsatt at vatna på samma sätt som i Egypten och Syrien.” “Hjulet som vrider up vatnet kallas här ej Naura utan Byara. Vattenmelonerna äro här förträffliga.”
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ple demanded Caffar, but I said I was Turk. We saw Jerusalem and lost sight of it two or three times before we arrived. All Christians are made to dismount from their horses when they arrive at the gates of Jerusalem. But as no one considered me Christian I rode all the way to the monastery of the Saviour, to which I was directed. It was midday when I arrived and the heat had all but suffocated me. A large glass of lemonade that was offered me was such an indescribable delight that I cannot remember anything like it (ff. 41v-42r).15
Caffar was the local duty that non-Ottoman subjects had to pay before approaching the city. Åkerblad knew both Turkish and Arabic well enough to travel in disguise; he also spoke Modern Greek well, the writer Mario Pieri from Corfu admitted that Åkerblad spoke it better than he did himself.16 Another voyage in disguise occurred when Åkerblad set out towards Alexandria later in 1788: J’étois à cheval accompagné d’un seul homme monté sur un chameau. Nous partîmes vers le coucher du soleil après quelques heures de marche nous passâmes une branche du Nil. Nous nous réparâmes ensuite pendant quelques heures sur la sable tout près de la mer. Nous côtoyâmes ensuite la mer pendant tout le lendemain et ne vîmes que dans l’après midi un seul misérable village consistent de quelques huttes des joncs (43r).
Åkerblad visited Egypt several times and spent four months in Cairo in 1786. He was taken with a passion for Coptic studies a few years later. 15 “16. Öfverlämnade mina penningar åt prefecten för Franciscanerklostret emot des reçu. Eftermiddagen satte mig till häst. Åtföljd av Consulen och en hop andra reste vi till Ramle. Vi sågo flera tobaksplanteringar på vägen. Landet är väl brukat. Lydd fordna Diospolis är mäst ruinerat. Man ser lämningar af en kyrka ifrån medeltiden. I Ramle blef jag mottagen i klostret. Souperade i refectorium, hvilade sedan til midnatten, då jag åter satte mig til häst, åtföljd af en liten gosse til fots samt af tvenne Araber till häst, beväpnade med lanzar. Desse Araber som alltid äro i strid sins emellan, välja derföre natten til deras resor för at ej möta sina fiender. Landet var et par timmar slätt. Sedan började ojämnheter, men mörkret hindrade mig at fatta et klart begrepp om dessa trakter. Vid första dagningen kommo vi til foten af bergen. Mina araber, med hvilka var överenskommit at beledsaga mig til Jerusalem, förklarade at numera ej voro någon fara och redo sin väg. Jag fortsatte resan med min följeslagare til fots, genom de ängsligaste bergstrakter jag någonsin sedt. På några ställen syntes lämningar efter bygnader men ej gamla. Vägen är högst oangenäm. En källa funno vi som upfriskade oss något. Hettan började blifva odrägelig. I en by som vi genomforo, fodrade folket Caffar, men jag sade mig vara Turk. Vi sågo Jerusalem och förlorade det åter ur sigtet två eller tre gånger, innan vi där anlände. Alla Christna nödgas stiga af sina hästar, då de komma til Jerusalems portar. Men som ingen ansåg mig för Christen, red jag ända till Frälsarens kloster, til hvilket jag var adresserad. Det var middagstiden, då jag ankom, och hettan hade alldeles förqvaft mig. Et stort glas limonade, som man lät gifva mig, var en så outsägelig njutelse, at jag aldrig påminna mig en dylik.” 16 M. PIERI, Opere, Florence 1850, I:240.
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He came into contact with both Copts and the Coptic Church while in Egypt and noted down differences in how they spoke Arabic: “Les habitans d’Egypte et surtout les Coptes prononciant le Kaf presque comme un gain” (f. 14v).
ȁ
Manuscripts, libraries and collecting Åkerblad often commented on the libraries and institutions he visited: “The library in Berlin supposedly has 200,000 vols., something I do not believe. It holds a few hundred Manuscripts, also some Oriental. Work is being done on the Catalogue. Of all books that are published in Prussia two copies are sent to the library, one is kept there and the other is sold, thus a fund is created for the acquisition of other books” (f. 1r). He paid particular attention to whether libraries had any oriental manuscripts. The Leipzig library did, for instance, not appeal to him, it “looks dusty and contains few books — 20,000 volumes altogether” (f. 1r).17 Åkerblad mentioned his acquisitions on several occasions. He never had enough money to make any substantial purchases of antiquities or rare manuscripts. Nonetheless, he acquired a number of oriental manuscripts. Most of them seem to have been bought during his travels in the East; he acquired a Samaritan fragment in Jaffa (Fig. 3) as well as a wide range of Arabic, Turkish and Persian manuscripts, many of them bought in Constantinople. Several of his Coptic manuscripts bear the mark of the Coptic church in Rome and may have been acquired already during Åkerblad’s 1798-99 sojourn in the city.
Fig. 3. A Samaritan alphabet with its corresponding Hebrew letters below as noted down by Åkerblad in Jaffa 1788 where he visited the Samaritan community and bought a manuscript (f. 12r).
The list of his oriental manuscripts (ff. 73r-75r) — in Latin as customary — comprises 4 vellum manuscripts; 6 Coptic manuscripts, religious texts and hymns; 5 Ethiopian, religious texts; 23 Arabic manuscripts, some geo17
16 June 1791: “Bibliothequet i Berlin skall bestå af 200000 vol. som jag ej tror. Det har några hundrade Msc. äfven några Österländska. Man arbetar på Cataloguen. Af alla böcker som utkomma i Preussen skickas två exemplar till bibliothequet; det ena förvaras där, det andra säljes, hvaraf upkommer en fond till andra böckers köpande.”; 24 June 1791: “Bibliothequetet i Leipzig ser dammigt ut, få nya böcker – 20000 band vid pass inalles.”
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graphical works, bibliographies, sermons, medicinal, e.g. a treatise of Avicenna, Korans, anthologies of poetry, history, logic, astronomy, Christian hymns; 17 Persian manuscripts with likewise mixed content, astronomy, history, several works of poetry, mirrors for princes; 27 Turkish manuscripts of various content including grammars and dictionaries and a collection of treaties between the Porte and France and another of treaties between Russia and the Porte, a catalogue of the manuscripts of the S. Sofia library; 3 Tataric titles, a dictionary, a life of poets and a history of Alexander. There is also a list of printed books which includes books of reference, such as Golius’ and Castell’s dictionaries, grammars, bibles and other religious texts. Åkerblad’s manuscript collection had in some way been transported to Stockholm before his death. They ended up in the vast collection belonging to the Russian envoy to Sweden, the Dutchman Jan Pieter van Suchtelen (1751-1836), which was sold to the Russian state after his death. It is now divided between several Russian institutions.18 Inscriptions, language studies and reading notes A large part of the material in the notebook are wordlists, inscription copies and annotations related to the study of languages and scripts. Åkerblad’s interest in various forms of writing defined his career. The notebook is proof of these interests, and Åkerblad not only studied single languages but strove to understand their connections and development. In this sense
Fig. 4. A wordlist in Arabic, Hebrew, Coptic, Persian and Greek (f. 9r). 18 O. VASILYEVA and F. THOMASSON, Åkerblad’s Collection and Suchtelen’s Orientalia: From the Middle East via Sweden to Russia, forthcoming.
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he was part of the burgeoning discipline that would lead to major methodological developments in linguistics in the nineteenth century. An example is how he often listed words in different languages (f. 9r) (Fig. 4). Below I only give a few samples of this material. Greek and Latin. Christian Callmer’s 1952 essay, the only longer work on Åkerblad previous to my monograph, covered Åkerblad’s activities as a Greek and Latin epigrapher. Åkerblad is known for the accuracy of his inscription copies. Most of the inscriptions in the two notebooks, Vat. lat. 9785 and Vat. lat. 9784, have been published in the standard corpuses. Other inscriptions Åkerblad had collected himself in Greece eventually entered the corpuses that were formed in the first half of the nineteenth century.19 The routes of Åkerblad’s travels can sometimes be identified by the inscriptions he copied. He did not for instance write a diary during his visits to Athens but inscription copies proves that he visited the Acropolis (Fig. 5).
Fig. 5. A view of Acropolis and the so-called Cimonian Sepulchres (f. 61v). 19 C. CALLMER, Johan David Åkerblad: Ett bidrag till hans biografi, in Lychnos (1952), pp. 130-85; reprinted with minor changes in ID. In Orientem: Svenskars färder och forskningar i den europeiska och asiatiska Orienten under 1700-talet, Stockholm 1985, pp. 169-221; M. BUONOCORE, Ida Calabi Limentani e la stora degli studi epigrafici. Riflessioni su un metodo da seguire, in Acme: annali della Facoltà di filosofia e lettere dell’Università statale di Milano 52 (1999), p. 60: “quelli accuratissimi di Johan David Åkerblad nel Vat. Lat. 9785;” ID. Prime esplorazioni sulla tradizione manoscritta delle iscrizioni greche pagane di Roma antica attraverso i codici della Biblioteca Apostolica Vaticana, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae VI (1998) (Studi e testi, 385), pp. 29, 32; ID. Mommsen cit., p. 128. On Åkerblad’s, “dem erudito stupendo,” Greek knowledge see e.g. B. G. Niebuhr’s letter to the Berlin science academy, Rome 10 December 1816, in B. G. NIEBUHR, Briefe: neue Folge, 1816-1830. Band 1:1, Briefe aus Rom (1816-1823), edited by E. VISCHER, Bern 1981, pp. 108-9. Åkerblad’s inscriptions in the Corpus Inscriptionum Graecarum, no. 2156, 2158, 2160, 2217, 2221, 2222, 2228, 2237.
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Åkerblad was considered a great authority on Ancient Greek while in Rome and many travellers went to him to have their inscriptions read and commented upon. The notebook contains e.g. inscriptions from Charles Robert Cockerell’s (1788-1863) (ff. 62r-64r) and William Gell’s (1777-1836) (f. 60r-v) collections (Fig. 6).20
Fig 6. Greek inscriptions from William Gell’s collection (f. 60r).
Phoenician. Åkerblad was the first Swede to show antiquarian interest in Phoenician matters. He copied inscriptions in Cyprus which he defined as Phoenician: “1788. à Larnaca en Chypre. Dans le mur de l’église aux Salines il y a plusieurs inscriptions Phéniciennes dont j’ai copie les deux 20 E. A. GARDNER, Inscriptions Copied by Cockerell in Greece, in The Journal of Hellenic Studies 6 (1885), p. 144.
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Fig. 7. The two inscriptions to the left are the texts Åkerblad interpreted as Phoenician (f. 29v).
suivantes” (f. 29r) (Fig. 7). Several inscriptions from Kition (the Phoenician settlement preceding modern Larnaca) were copied and published by Richard Pococke in 1743-45. All but one of those were destroyed, Åkerblad would later publish a reading of the surviving inscription. Åkerblad possibly copied these two as they were not published. The inscriptions have yet not been identified or understood and the copies may be considered early examples of how Åkerblad tried to understand letter shapes and languages that he was not yet thoroughly familiar with. Åkerblad continued to pursue his Phoenician interests as quotations and other copies of inscriptions (e.g. ff. 2v, 31r, 66v) and several publications testify.21 Albanian. Åkerblad’s interest in languages was wide. While in Greece he visited some Albanian villages and came into contact with Albanian — and as usual with a new language — made some efforts to pick it up. He noted that: “L’albanois dans son origin ne paroit ressembler à aucune autre langue, aumoin je ne trouve aucun rapport entre cette langue et autres que 21
J. D. ÅKERBLAD, Inscriptionis Phœniciæ Oxoniensis nova interpretatio, Paris 1802; ID. Lettre sur une inscription phénicienne trouvée à Athènes, Rome 1817. Wilhelm Gesenius lauded Åkerblad’s authoritative readings of difficult texts: “Akerbladius, reliquis omnibus ingenii doctrinaeque elegantia iudiciique acumine facile praestans”. W. GESENIUS, Scripturae linguaeque phoeniciae monumenta quotquot supersunt edita et inedita…, Leipzig 1837, I:5.
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je connais.” He added an Albanian wordlist to this judgment (f. 19r). It is not surprising that he could not find any similarities. Only in the 1850s was it proven that Albanian belongs to the Indo-European language family, and its exact relations to other languages are still debated. Coptic. He studied with Georg Zoëga (1755-1809) in Rome and soon become one of the foremost Coptic scholars in Europe. His knowledge of Coptic was crucial for his work on the Rosetta inscription in 1802 and during his later work on the Egyptian language. A bibliography testifies to his knowledge of his predecessors (f. 3v).22 Arabic, Turkish, and Persian. Åkerblad knew Arabic and Turkish already before leaving Sweden and according to several testimonies he soon spoke both languages well. There are frequent quotations in all the three languages, mostly in Arabic script, but also some Turkish texts written in Latin script, e.g. a love song (f. 2r). He was interested in Arabic dialects and often noted regional differences (Fig. 8). The annotations in Arabic script are
Fig. 8. Wordlist in three different Arabic dialects, from Tunis, Aleppo, and Egypt respectively (ff. 32r-33r). 22 Le P. Kircher etoit un des premières qui se sont occupé de la langue Copte il publia, Lingua Ægyptica Restituta, il fut suivi par Bonjurius /Bonjour/ auteur de Exerctation monumenta Coptico-Aegyptica bibl. Valie, Elementa lingua Aegyptica, et d’un autre ouvrage qui n’a jamais été imprimé sur les Dynasties Egyptiennes. En Angleterre Wilkins publia le Nouveau Testament en copte, en 1716, et une Dissertation sur cette langue adressée à Chamberlayne. Avant Wilkins, Bernard et Marshall avoient déjà écrit sur la littérature Egyptienne. Voyez Commercium Literarium p. Picquassius publié par Wincher à Leipzig en 1750. Wilkins donna son Pentatauch Copte en 1731. Renandont les Liturgies Egyptiennes en 1716 et La Croze en Allemagne compila son dictionnaire Copte en 1720 publié par Weide. Schlotzius composa une grammaire. Walpurga en Didymus Tauriensis un Rudimentum Literatura Coptica. En Danemarc Hwideus, Birch et Schow se sont occupé de la littérature copte à Rome, Basschau Turkius publia un Missal et une grammaire.
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examples of Åkerblad’s varied interests in languages, history and literature, and cover a range of subjects as a few examples show: lists of tribes in the Alexandria area noted during a visit in 1788 (f. 11v); a copy of a 1799 letter by the Pasha of Tripoli, Yûsuf Bâshâ al-Qaramânlí, to the Swedish king (f. 72r-v); sepulchral inscriptions (ff. 12r, 13r-v), Persian poetry (ff. 5r, 12v, 36r), Arabic poetry (ff. 7r, 11v, 56r) Turkish poetry (f. 18r), quotations from Arabic authors, e.g. the historian ‘Abd al-Laýîf (1160?-1231) (f. 8v) and the geographer Ibn al-Wardí (d. 1457) (f. 15v) as well as rather more prosaic lists of names of trees and plants (f. 22r) While in Rome Åkerblad retained his interests in oriental languages, and wrote to a friend: “Vous savez, Madame, que je suis un peu levantin, et que tous les Arabes, Grecs, Chaldéens, Ethiopiens &c de Rome me regardent presque comme leur compatriote et viennent souvent me voir.” Åkerblad began taking lessons in Aramaic from one of these: “Depuis ce jour, c’est à dire depuis un mois, adieu grec, antiquités, copte, sociétés, amusmens, je ne m’occupe plus que de chaldéen [Aramaic]. Je sais bien que c’est une grande folie, mais que voulez vous, je me suis laissé entrainer, et l’on ne redevient pas sage quand on veut.”23 Another major number of annotations concern Åkerblad’s readings. A large number of printed titles are referred to, and quoted from. Sometimes the content of the work is summarized: such a title is Louis Duten’s influential Recherches sur l’origine des découvertes attribuées aux modernes… (Paris 1766). Åkerblad’s comments run over two folios (ff. 10r-11r). Other examples are bibliographies, e.g. a list of Greek inscription collections (f. 11r) and the Coptic bibliography cited above. Åkerblad’s literary interests were eclectic, from listing Latin authors classified according to Johann Albert Fabricius criteria (ff. 7v-8r) to a long list of Portuguese writers (ff. 64v-67r). Politics Though it might appear that Åkerblad’s main interests were scholarly, he did comment on the politics of the day. He was, at least in the beginning of his career, a strong supporter of the French Revolution and looked upon the increasing despotism in Sweden with dismay. He was well aware of the political machinations during his years in Constantinople. When the Vizier Halil Hamid Pasha was executed in 1785 after having been accused of partaking in a conspiracy to depose Sultan Abdul Hamid I, Åkerblad 23 Åkerblad to Friederike Brun, Rome 7 February 1810, Copenhagen, The Royal Library, NKS 1992, f. 147r-v.
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copied the Turkish words justifying his punishment hung beside his cut-off head (f. 14v). The ambitions of the powers that fought for influence at the Porte, the Ottoman court in Constantinople, were sceptically observed by Åkerblad. It is in this context that a certain passage in the notebook should be understood. He wrote about how the British gained a foothold in the Caspian Sea during the War of the Austrian Succession: Pendant la guerre de 1744 entre la France et l’Angleterre, celle-ci profita de ses liaisons avec la Russie pour obtenir la permission d’établir un commerce direct et une navigation anglais en Perse par la mer Caspienne — Les capitaine Elton et Woodrof faisait construire dans le Wolga des navires … Il [Nadir Shah] prit à son service la Capitaine Elton, que construisait pour Nadir une flotte sur cette mer et en fut l’Amiral. Politique de tous les Cabinets de l’Europe (f. 16v).
The final phrase — and the beginning of the title of the book where he found the information — is the key in our context; all European countries were striving for commercial and territorial gains to secure trade and communications in the East.24 The diplomatic rivalry in Constantinople made it obvious to everyone what was at stake. Another annotation with a connection to the territorial expansion of one of these empires is a list of Tatar words. Åkerblad served as translator in Finland during the Russo-Swedish war of 1788-90 and was instructed to interrogate Turkic speaking Russian prisoners. The wordlist was compiled during conversations with a Tatar captain, Aümad Âghâ al-Qarîmî, “a good Muslim” as Åkerblad put it, who had been captured by the Swedish forces (f. 13v). A few years later Åkerblad, on the grounds of his exceptional language skills, was invited to join the French invasion of Egypt in 1798. He declined, but followed with great interest the news from Egypt. His work with the Demotic script was only made possible by the discovery of the Rosetta Stone by French troops. It is a truism to assert that Åkerblad’s, and many other scholars’ careers, were largely determined by the French Revolution and the 25 years of wars that followed. Åkerblad’s interest in politics remained but after rumours of his revolutionary sympathies had a detrimental effect on his career as a Swedish diplomat he became more guarded. There are still other examples of a political nature in the notebook. While he lived in Florence in two reprises between 1805 and 1809 he became a close friend of Louise von Stolberg (1752-1824), the Countess d’Albany (Fig. 9). She was in Paris from 24 J.-L. FAVIER, Politique de tous les cabinets de l’Europe pendant les règnes de Louis XV et de Louis XVI..., Paris 1793-94, 1:342f.
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Fig. 9. Åkerblad drew a section of the walls of Fiesole, still easily identifiable, during his sojourn in Florence (f. 42v).
1788 together with the Italian poet and playwright count Vittorio Alfieri (1749-1803); they fled to Florence in 1792. Åkerblad had access to Alfieri’s books, and copied a few verses of Euripides that Alfieri had translated into Italian. The verses seemed particularly well fit to the political climate: Deh, perché l’uom non porta in fronte scritto o il buono, o il tristo? Ond altri ivi scorgesse qual sia verace e qual fallace amico. Perché non ha due voci? Onde la buona smentisce ognor cio´che tesse la iniqua, né l’uomo dall’uomo fosse ingannato mai (f. 67v).25
Alfieri’s translation is a fine rendering of the disillusioned speech of Theseus in Hippolytus. Åkerblad also copied Alfieri’s mockery of the French law that imposed the wearing of the cockade on the same pages: “Se Euripide avesse scritto a’ tempi nostri, non avrebbe più desiderato questo segnale per riconoscere i buoni dai cattivi; stante che i francesi l’han trovato coll’appor la coccarda ai veri Francesi, per distinguerli dagli uomini tutti, 25 Euripides, Hippolytos. Alfieri wrote in Samuel Musgrave’s Oxford edition of 1778, lines 938-44, Florence, Biblioteca Medicea Laurenziana, Alf. 39/1, pp. 303-4.
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e massimamente dai liberi” (f. 67v). The little tri-coloured button or band, first used in support of the revolution, became a compulsory national symbol during the wars. Alfieri knew that in times of war it was especially difficult to know who was friend or foe; it was not written on the forehead who could be trusted. Åkerblad had long been critical of the removal of antiquities from Ottoman Greece. To what extent this can be labelled a political viewpoint may be discussed, nevertheless he published a strong critique already in 1800 and repeated it later in print.26 An example of this standpoint in the notebook is a copy of Byron’s Childe Harold verses on the plunder of Athens by Lord Elgin and others (ff. 70v-71r). History and geography Åkerblad was, along with many of his colleagues, interested in the geography of especially the classical world. While in Tunis in 1789 he made an effort to understand where the famous places of Punic history had been located: “Le lac de Tunis était le port de Cartage, cela paroit indubitable par un passage de Polybe L.1.C. 73.” He cited Polybius in the original Greek and continued his speculations: “On a prétendue qu’un endroit qui se nomme Marsa étoit l’ancien port de Cartage, mais le passage ci-dessus prouve le contraire” (f. 44r). Similarly he was interested in the location of Troy. While being stationed in Constantinople he visited the Troad several times and participated in the debate on its location and history. A map that was made during a visit in 1797 is testimony to this interest (f. 28r) (Fig. 10). Åkerblad’s hypothesis that the Roman city Ilion, the successor of Homeric Troy, was to be found at Hisarlìk was later proven right. What he did not know was that Homeric Troy itself lay hidden under the Roman remains.27 Åkerblad’s interest in oriental history is also evident; there are, for example, lists of Indian emperors (ff. 4v, 6v), Ottoman sultans (f. 71v) and Arab astronomers (f. 21r). Much of the literature referred to is also historical.
26 For an in-depth treatment of this subject see my: Justifying and Criticizing the Removals of Antiquities in Ottoman Lands: Tracking the Sigeion Inscription, in International Journal of Cultural Property 17 (2010), pp. 493-517 (DOI 10.1017/S0940739110000238). 27 CALLMER, Åkerblad cit. (1985 ed.), pp. 190-92, 194-99; J. M. COOK, The Troad. An Archaeological and Topographical Study, London 1973, pp. 24, 94, 146, 164.
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Fig 10. Map of the Trojan area. The numbers on the map refers to the descriptions below while the list on the right details the distances — in travelling time — between the different places on the map (f. 28r).
Rome Åkerblad lived in Rome 1805-6 and established himself permanently in the city in 1809. He associated both with the foreign community as well as being unusually integrated in learned Roman circles. He undertook archaeological digs at the Forum Romanum during the French occupation — the via Sacra was first identified by Åkerblad in 1811. From 1816-19 he led the work around the Phocas column with support by the fifth Duchess of Devonshire, Elizabeth Cavendish. A range of entries in the notebook are from Rome. He copied inscriptions and surveyed manuscripts in the Vatican collections (ff. 47r-55v). Such work had its problems. He was almost attacked: “[Åkerblad] a manqué d’être maltraité par les maçons y employés” when he tried to copy some inscriptions in the Vatican museum.28 An edition of the inscriptions was in preparation and the publisher 28 George Zoëga to Herman Schubart, Rome 16 July 1806, in Personalhistorisk Tidsskrift 64 (1943), p. 19.
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wanted to stop Åkerblad from copying them to avoid competition for the future book. Åkerblad continued to visit libraries and collections. There are annotations from e.g. the Barberini Library, where manuscripts on Roman antiquities and Greek travels caught his attention (f. 47r). The most important source for Åkerblad’s Roman years is the correspondence in Italian with Sebastiano Ciampi (1769-1847) who was a professor in Pisa when Åkerblad met him in Rome.29 Before they met, Åkerblad was more than dubious about Ciampi’s knowledge of Greek. When Åkerblad wrote about a Greek inscription found in Fiesole, he commented on Ciampi’s explanation of it: “Il professore Ciampi ne ha pubblicata una precisa spiegazione che prova solamente la sua incredibile ignoranza” finishing off his own reading of the inscription with: “O che dotto professore”! (f. 45v) Another close friend in Rome — they met almost every Sunday morning — was Girolamo Amati (1768-1834), scriptor Graecus at the BAV and whose knowledge of Greek was well attested by his contemporaries.30 Conclusion The Vat. lat. 9785 exemplifies how several of the disciplines which interested Åkerblad were in a period of transition. Åkerblad belonged to both an erudite tradition of earlier centuries as well as being a “modern” scholar in the way he approached the study of languages and their history. An example is his dissertation on Greek magical inscriptions, a pioneering essay on what we today call curse tablets.31 These Greek texts were not thoroughly investigated again until the beginning of the twentieth century. The Vat. lat. 9785 is also a testimony to a foreign scholar who was unusually well integrated in the learned circles where he lived. Åkerblad’s almost 15 years in Italy is an interesting example of the vivacity of the debates and polemics that involved both local and foreign scholars on the peninsula. The Vat. lat. 9785 is only one of the documents that show the extent of Åkerblad’s involvement in the social and learned life of Florence 29 Åkerblad’s letters in Stockholm, The Royal Academy of Letters, History and Antiquities [Kungliga Vitterhets Historie och Antikvitets Akademien] and some letters in Pistoia, Biblioteca Comunale Forteguerriana. On Ciampi see Dizionario Biografico degli Italiani; G. BONACCHI GAZZARINI, Sebastiano Ciampi nella storiografia artistica tra il settecento e l’ottocento, Pistoia 1970; M. SOLLECITI, Le carte di Sebastiano Ciampi nella biblioteca comunale Forteguerriana, Pistoia 1984. 30 On Amati see Dizionario Biografico degli Italiani. Åkerblad left traces in Amati’s collections. M. BUONOCORE, Codices Vaticani Latini. Codices 9734-9782 (Codices Amatiani), Vatican City 1988, pp. 7, 66, 107. 31 J. D. ÅKERBLAD, Iscrizione greca sopra una lamina di piombo trovata in un sepolcro nelle vicinanze di Atene, Rome 1813.
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FREDRIK THOMASSON
and Rome. His notebooks and correspondence provide another example that the often pessimistic view of Italian scholarship in this period, as recent efforts have shown, can be nuanced.32
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I only cite two works as examples: a comparative study of three Italian cities indicates new directions of research: J. BOUTIER, B. M ARIN, and A. ROMANO, editors, Naples, Rome, Florence: une histoire comparée des milieux intellectuels italiens, XVIIe-XVIIIe siècles, Rome 2005; on the particular Roman antiquarian milieu see: A. M ARCONE, Le opere di carattere storiografico nelle Dissertazioni della Pontifica Accademia Roma di Archeologia dell‘800, in I duecento anni di attività della Pontificia Accademia Romana di Archeologia (1810-2010), edited by M. BUONOCORE, Rome 2010 (Memorie in 8°, VIII), pp. 1-25.
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PAOLA TOMÈ
LA PRINCEPS VENEZIANA DELL’ORTHOGRAPHIA DI GIOVANNI TORTELLI (CON CENNI SULLA FORTUNA A STAMPA DELL’OPERA IN VENETO)* Due sono le edizioni a stampa dell’Orthographia di Giovanni Tortelli a contendersi il ruolo di princeps: la Romana per i tipi di Han e Cardella, datata dopo il 10 Agosto 1471 e già studiata da Luisa Capoduro1, e la Veneziana, stampata anch’essa nel 1471 da Nicolas Jenson, ma priva di data nel colophon2. Quest’ultima, di per sé mai finora indagata, è stata recentemente oggetto d’attenzione da parte di J. L. Charlet3 che ha rilevato alcune caratteristiche peculiari del testo tramandatone4. Scopo del presente lavoro è * A Massimina, Rossella, Elisabetta e Gustavo, con affetto: «Nihil tamen aeque oblectauerit animum quam amicitia fidelis et dulcis». Grazie ad Antonio Manfredi per la competente e puntuale supervisione di queste pagine, e per tutta la disponibilità prestata in questi mesi di lavoro: gli errori purtroppo rimasti sono solo i miei. 1 L. CAPODURO, L’edizione romana del ‘De Orthographia’ di Giovanni Tortelli (Hain 15563) e Adamo Da Montaldo, in Scritture, Biblioteche e Stampa a Roma nel Quattrocento. Atti del 2. seminario, 6-8 maggio 1982, a cura di M. MIGLIO, Roma 1983, pp. 37-56. 2 Notizie su alcuni esemplari noti di questa edizione in G. DONATI, L’Orthographia di Giovanni Tortelli, Messina 2006, p. 214 nt. 1; elenco delle stampe ivi alle pp. 249-251. Si tratta del primo studio condotto sulla tradizione manoscritta dell’opera e ad esso si farà d’ora innanzi costantemente riferimento. 3 J. L. CHARLET, Le De Orthographia de G. Tortelli provenant de la Malatestiana de Cesena (Nicolas Jenson, Venise 1471: B.N.F. Rés Vélins 526), in Il dono di Malatesta Novello. Atti del Convegno, Cesena 21-23 marzo 2003, a cura di L. RIGHETTI – D. SAVOIA, Cesena 2006, pp. 335-346: l’incunabolo pergamenaceo miniato proveniente dalla Biblioteca Malatestiana è ora conservato alla B.N.F. Charlet, procedendo su di esso al controllo delle lezioni segnalate in apparato da Luisa Capoduro in G. TORTELLI, Roma antica, ed. L. CAPODURO, Roma 1999, («RR inedita», 20), ne ha registrate un centinaio non rilevate o mal segnalate dalla studiosa, tra cui errori propri e lacune, ma anche alcune varianti di un certo peso. 4 In BMC V, 170-171 sono registrate due diverse impressioni, entrambe cartacee, della medesima stampa (IC 19647, proveniente dalla Old Royal Library, e IC 19648, copia appartenuta a Re Giorgio III). Per le loro caratteristiche cfr. infra. Almeno tre diverse varianti sarebbero finora state individuate dallo Charlet incrociando i dati provenienti dai cataloghi con l’esame autoptico: una variante A (definita ‘primitiva’) in cartaceo, di cui si conoscono due impressioni, stando al BMC; una variante B, pergamenacea, con ricomposizione dei f. [x]1 / [x]10, di cui sono noti solo due esemplari, entrambi eleganti edizioni miniate; una variante C che, oltre alla ricomposizione dei f. [x]1 / [x]10, presenta una composizione tipografica diversa dei f. [g]2 / [g]9. L’esemplare studiato da Charlet (B.N.F. Rés. Vélins 526) Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 517-581.
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da un lato proporne un esame dettagliato e dall’altro ricostruire almeno in parte la fortuna di cui l’opera godette in Veneto tra XV e XVI secolo grazie all’avvento della stampa. I. Le caratteristiche del testo 1. L’esemplare esaminato e le caratteristiche generali dell’edizione L’esemplare su cui ho condotto il presente studio è un incunabolo conservato presso la Biblioteca Comunale di Treviso5 con segnatura 13732, già appartenuto alla biblioteca del canonico Giovan Battista Rossi6: di formato presenta alcune correzioni e integrazioni manoscritte di due mani diverse, mentre non sono stati colmati alcuni spazi bianchi lasciati al posto delle parole greche: cfr. CHARLET, Le De Orthographia, pp. 337 e 340. 5 Notizie sulle vicende della biblioteca in L. PANI, I codici datati della Biblioteca Comunale di Treviso, Udine 1991, pp. 15-17, cui si rinvia per la bibliografia precedente; segnalo inoltre C. FAVARON, Luogo della memoria locale o public library? La storia della Biblioteca comunale di Treviso e del suo ruolo culturale, tesi di laurea, rel. Prof. D. RAINES, Un. di Venezia, 2005; P. DE RIZ, ‘Impressum Tarvisii’. Stampa e cultura umanistica nella Treviso del Quattrocento, tesi di laurea, rel. Prof. G. VOLPATO, Un. di Verona, 2008. Oltre ai contributi fondamentali di Luciano Gargan, disseminati di notizie su numerosi codici della B.C.T., vari sono gli studi susseguitisi sul suo patrimonio a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, specie sotto la guida di Paolo Eleuteri: F. COLÒ, Catalogo dei manoscritti classici latini nella Biblioteca comunale di Treviso, tesi di laurea, rel. Prof. P. ELEUTERI, Un. di Venezia, 1990; G. MOLENA, Catalogo dei manoscritti dei secoli 13. e 14. appartenenti alla Biblioteca comunale di Treviso, tesi di laurea, rel. Prof. B. PAGNIN, Un. di Padova, 1994 (?); A. COLETTO, I manoscritti delle corporazioni religiose soppresse nella Biblioteca comunale di Treviso, tesi di laurea, rel. Prof. P. ELEUTERI, Un. di Venezia, 1993; M. MICHIELETTO, I manoscritti latini di Aristotele e dei suoi commentatori nella Biblioteca comunale di Treviso (s. 14.-17.), tesi di laurea, rel. Prof. P. ELEUTERI, Un. di Venezia, 1994. Non ho potuto consultare lo studio condotto sui mss. della B.C.T. da Marina Molin Pradel, purtroppo inedito: ringrazio tuttavia Paolo Pellegrini per avermene segnalato l’esistenza nelle more delle bozze. 6 In buono stato di conservazione, fatto salvo per alcune tracce di umidità nelle carte terminali, è rilegato in cartone con dorso in pergamena, ha spazi per capilettera con lettere rubricate in rosso e blu, e una bella iniziale miniata in rosso lacca, blu e verde inquadrata in arabesco; la lettera iniziale presenta tracce d’oro, ora molto ossidato. La sua misura originaria, stando al BMC, doveva essere 409 × 288 mm, quella attuale è invece 325 × 215 mm. I margini sono stati dunque ampiamente rifilati e la rilegatura, non coeva, risale probabilmente al XVIII secolo; il volume fu evidentemente rifascicolato all’atto della nuova rilegatura e non è più riconoscibile l’antica fascicolazione. Nel margine superiore, sopra il timbro della Municipalità di Treviso, si legge manoscritta la nota di possesso «Loci Capuccinorum Tarvisii». Nel contropiatto anteriore traccia di antiche segnature: spicca il cartiglio (N. IV 3) della Biblioteca Rossi da cui l’esemplare provenne alla B.C.T., al quale corrisponde in rubricato il n. 2659 dell’inventario. Altre due antiche segnature si riferiscono probabilmente alla collocazione dell’incunabolo nella Biblioteca del Convento dei Cappuccini di Treviso, mentre quella del Comune di Treviso era invece “Camera 4. Scaff. 6 lett. B”. Per la storia dei Cappuccini in Treviso, cominciata nel 1541 e cessata con la soppressione del 1810, cfr. DAVIDE M. da Portogruaro – ARTURO M. da Carmignano di Brenta, Storia dei cappuccini veneti. Gli inizi (1525-
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in folio, cartaceo e stampato su una sola colonna di 47 righe, riporta caratteri latini e greci (115R e 115Gk), ed è privo di numerazione delle pagine7. Riconducibile al modello IC 19647 del BMC8, presenta nella voce Rhoma tutte le varianti già segnalate da Charlet, cui si possono aggiungere un paio di ulteriori lacune di cui rendo notizia in nota9. Un primo contributo alla storia del testo viene dagli esiti della collazione tra l’indice dei lemmi recentemente curato da Gemma Donati10 e la successione lemmatica presente nella princeps Veneziana (d’ora in poi PV)11, 1560), I, Mestre 1941, pp. 187 e ss. L’incunabolo fu acquisito dal canonico G. B. Rossi di Noale (1737-1826) nella sua raccolta personale probabilmente nella fase della soppressione dei conventi cittadini e di qui provenne alla B.C.T. nel 1811, quando il Comune acquistò in blocco la cospicua collezione della biblioteca Rossi: cfr. PANI, I codici datati, pp. 15-17. 7 Rendo di seguito tutti i riferimenti ai principali cataloghi: ISTC it00395000; Goff T395; HC 15564* = HC 15568; Pell Ms 11128; CIBN T-290; Hillard 1980; Arnoult 1429; Jammes T-8; Delisle 1897; IBE 5696; IGI 9681; IDL 4460; Madsen 3974; Voull(B) 3653; Schmitt I 3653; Sack(Freiburg) 3486; Walsh 1562, 1563; Bod-inc T-221; Sheppard 3252; Pr 4081; BMC V 170; BSB-Ink T-384; GW M47219. 8 Le impressioni segnalate in BMC V, 170-171 (IC 19647, proveniente dalla Old Royal Library, e IC 19648, copia appartenuta a Re Giorgio III) differiscono in alcuni punti per la stampa del greco nel fascicolo q (ff. 145-150) dove s.v. Haematites, Haemorrois, Heresis, Halcyones in IC 19647 il greco αιμα – αιρουμαι appare senza spiriti né accenti e θάλατταν di THEOC. Id. VII, 57 (a fondo pagina) è confuso in λάλταταν, mentre s.v. Heptamemeris ed Heptaporus è correttamente reso l’etimo («επτα quod est septem et μέριζω (sic) quod est divido», «ab επτα quod est septem et πορος meatus») che in IC 19648 appare confuso. La copia da me esaminata corrisponde a IC 19647 in ciascuno di questi punti. 9 Le omissioni riguardano due diversi passi di Livio (XXXV,9,3 e XLI,16,6), per cui cfr. TORTELLI, Roma antica, p. 27, righi 28-30 e p. 28, righi 11-14 (i righi non sono segnati a margine nell’edizione). 10 DONATI, L’Orthographia, pp. 345-383, specie p. 345 per i criteri seguiti: nell’Appendice la studiosa trascrive le principali articolazioni dell’opera come si presentano nel ms. Vat. lat. 1478, il manoscritto rivisto dall’autore, compreso l’indice dei lemmi della sezione alfabetica (pp. 354-383). L’autografia del codice è stata ricusata da Donati e da A. MANFREDI, Giovanni Tortelli e il suo copista: riflessioni sul Vat. lat. 1478, in I luoghi dello scrivere da Francesco Petrarca agli albori dell’età moderna, Atti del Convegno internazionale dell’Associazione Italiana dei Paleografi e Diplomatisti (Arezzo, 8-11 ottobre 2003), a cura di C. TRISTANO – M. CALLERI – L. MAGIONAMI, Spoleto 2006 (Studi e ricerche CISAM, 3), pp. 221-242. Il ms. Vat. lat. 1478 giunse in Vaticana solo sotto Giulio II; le sue caratteristiche complessive spingono a considerarlo piuttosto come la copia di lavoro messa da Tortelli a disposizione della nascente biblioteca vaticana e non come una copia di dedica a Niccolò V. Della copia di dedica il codice non ha le caratteristiche materiali, mentre reca traccia marcata degli interventi di revisione operati da Tortelli e da Pietro Odo da Montopoli: su tutto questo si veda anche DONATI, L’Orthographia, pp. 232-34; 188-89; 307-309 ed EAD., Pietro Odo da Montopoli e la biblioteca di Niccolò V (con osservazioni sul De Orthographia di Tortelli), Roma 2000, pp. 159-179. 11 Si veda qui l’ Appendice (s.v. Indice dei lemmi della princeps veneziana). Un indice completo a stampa dei lemmi dell’Orthographia fu già curato negli anni ’90 da J. L. CHARLET – M. FURNO, Index des lemmes du De Orthographia de Giovanni Tortelli, Aix en Provence 1994, di cui DONATI, L’Orthographia, p. 67 nt. 1 segnala la poca affidabilità «dovuta all’utilizzo come testo
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in cui le varianti12 complessive rispetto all’ordine e alla grafia dei lemmi annoverati nel ms. Vat. lat. 1478 raggiungono le 140 unità. Le caratteristiche proprie di PV in relazione alla tradizione manoscritta saranno qui esaminate in base ai parametri generali già resi da Gemma Donati nella sua recente monografia, cui si farà costantemente riferimento13: si è concentrata l’indagine sui manoscritti coi quali PV ha dimostratato di avere maggiore attinenza (A e i manoscritti da esso derivati, ovvero G, T, V), senza tuttavia trascurare l’esame almeno di parte della restante tradizione (quella non discendente da A). I mss. da me esaminati a tal scopo sono stati in tutto dieci: A, B, G, O, R, U, T, V, X, Z, per la cui identificazione si veda lo specimen e la descrizione offertane da Gemma Donati ai luoghi citati. Resta da definire in quale ramo della tradizione andrebbe collocato un importante testimone contenente il testo integrale dell’Orthographia sfuggito alla recensio attuata da Gemma Donati: si tratta del cod. lat. 489 della Széchényi-Nationalbibliothek di Budapest. Il codice (cartaceo del XV sec.), fu composto dopo il 1449 in Italia, conta 588 fogli, misura 335 × 220 mm. ed è vergato da una sola mano; presenta inoltre eleganti iniziali miniate14. di base della stampa romana, che presenta un testo fortemente interpolato». In realtà, nemmeno l’indice prodotto dalla studiosa è reso in forma critica. Redatto in base al ms. Vat. lat. 1478 (A), si configura come la semplice trascrizione in ordine alfabetico dei lemmi ivi presenti, con l’aggiunta di 16 voci contenute, a detta dell’autrice, in tutta la restante tradizione manoscritta e a stampa, mentre sono indicate tra parentesi quadre, ma senza numero progressivo, 9 voci che sarebbero presenti nel ms. Vat. lat. 1477 (G) e nel ms. 89 della B.C.T. stessa (T) e nella tradizione a stampa veneta. L’esame della princeps Veneziana e di alcune delle restanti stampe venete ha permesso di identificare alcune incongruenze nei controlli eseguiti dalla studiosa che necessitano di essere segnalate, poiché solo nove delle sedici voci integrabili compaiono nella princeps Veneziana e solo due delle nove espungibili. Le voci integrabili passano a 14 progressivamente nelle altre edizioni e ristampe per ora esaminate, oltre alla princeps Veneziana, che sono: Treviso 1477, Vicenza 1479, Venezia 1488, Venezia 1493 e 1495. Per tutto questo cfr. infra il presente studio. 12 Intendendo con ciò le varianti grafiche rispetto ad A, compresi gli errori, volta per volta segnalati; le altre caratteristiche o devianze (spazi vuoti, omissioni, alterazioni nell’ordine etc.) sono trattati a parte nelle osservazioni proposte in Appendice (s.v. Indice dei lemmi della princeps veneziana), lettera per lettera. Le difformità di trascrizione della Donati sono indicate tra parentesi quadre nell’elenco delle varianti. 13 Per le sigle adottate e la descrizione dei testimoni cfr. DONATI, L’Orthographia, p. XVII; pp. 216-249. 14 Cfr. P. O. KRISTELLER, Iter Italicum, IV, Leiden 1989, col. 296b e A. VITZEKELETY, Mittelalterliche lateinische Handschriften der Széchényi-Nationalbibliothek, Budapest 2007, pp. 115-116. Ringrazio il Dr. Balázs Kertész della Széchényi Nationalbibliothek di Budapest per aver eseguito in mia vece i controlli sul manoscritto. Rendo di seguito alcune brevi note sui manoscritti derivanti da A cui PV è singolarmente accostabile: G = Vat. lat. 1477 è un testimone di origine romana entrato in Vaticana tra il 1475 e il 1481 che si contraddistingue perché annovera vari richiami al magistero di Gaspare da Verona. T = Biblioteca Comunale di Treviso ms. 89, appartenuto a Biagio Pilosio di San Daniele del Friuli e alla Biblioteca Rossi, transitò forse a Treviso da Udine per il tramite di Gherardo da Lisa, prototipografo
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I tratti qualificanti PV sono, in sintesi, i seguenti: MANOSCRITTI DISCENDENTI DA A (GTV)
MANOSCRITTI NON DISCENDENTI DA A
1– non hanno 16 voci che secondo G. Donati figurerebbero in tutta la tradizione manoscritta e a stampa 2– presentano tre voci aggiunte da Tortelli in margine ad A 3– presentano varie integrazioni di Pietro Odo da Montopoli
1– hanno le 16 voci (G. Donati non precisa se tutte in blocco o solo alcune di esse) 2– non hanno le tre voci aggiunte da Tortelli in margine ad A 3– non presentano le integrazioni di Pietro Odo da Montopoli
Così si comporta invece PV: PRINCEPS VENEZIANA
1– ha solo 9 delle 16 voci 2– presenta le tre voci del Tortelli 3– presenta le integrazioni di Odo
PV sembra dunque contenere in generale un testo contaminato; resta da definire a che altezza della tradizione sia avvenuta tale contaminazione e quali siano le sue caratteristiche rispetto ad A, G, T, V, e all’altro ramo della tradizione, considerato che presenta solo nove delle sedici voci caratterizzanti i manoscritti non discendenti da A. Il problema di queste aggiunte estranee ad A, del trattamento riservato in PV ai numerosi spazi bianchi e a citazioni mancanti o difettose presenti in A sarà preso in esame in seguito, tenendo costantemente a raffronto la situazione testuale di G, T, V (gruppo di manoscritti che presenta notevoli somiglianze col testo di PV) e, ove possibile, anche quella dell’altro ramo della tradizione con cui pure la nostra princeps presenta dei contatti, se non altro per annoverare alcuni dei sedici lemmi aggiuntivi in esso tramandati. In calce al presente studio è stata predisposta un’Appendice con l’indice dei lemmi di PV, le osservaziotrevigiano (l’ipotesi è formulata da Paolo Pellegrini in G. BOLOGNI, Orthographia, a cura di P. PELLEGRINI, Messina 2010, p. 30). V = Vat. lat. 5229 e 5230, appartenuto a Lorenzo Zane, è considerato da Gemma Donati come un unico testimone trascritto da due diversi copisti e materialmente suddiviso in due parti (Vat. lat. 5229 e 5230): V1 (Vat. lat. 5229 da f. 1r. a 170v.) e V2 (Vat. lat. 5229 da f. 171r. a fine + Vat. lat. 5230). L’ornamentazione e la scrittura mi inducono a ritenere quest’ultimo testimone più tardo dei precedenti, forse risalente all’ultimo ventennio del XV secolo; inoltre, esso sembrerebbe derivare nel suo complesso da due antigrafi diversi, sia pur entrambi discendenti da A. Non essendo possibile rendicontare qui le numerose motivazioni adducibili (alcune si trovano comunque elencate infra, mentre su altre tornerò a breve in altra sede), distingueremo per ora Va (Vat. lat. 5229 da f. 1r. a 170v.) da Vb (Vat. lat. 5229 da f. 171r. a fine + Vat. lat. 5230) ogni volta che ciò si renderà necessario, mantenendo la dicitura V quando ci si riferisca al testo complessivamente tramandato nei due mss. Vat. lat. 5229 e 5230.
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ni sulle varianti grafiche e su tutte le altre caratteristiche notevoli del testo, nonché varie tabelle rendicontanti alcuni tratti specifici di G, T, V, e della stampa stessa15; infine, a coronamento delle riflessioni proposte circa la fortuna editoriale veneta dell’opera, sono presentati i documenti editoriali annessi all’edizione trevisana del 1477 dal suo curatore, Gerolamo Bologni. A seguire si propongono i tratti specifici qualificanti il testo di PV (paragrafo 2); si esamineranno quindi i tratti condivisi con A e coi manoscritti da esso derivati (paragrafo 3), quelli in cui PV si accorda in errore con G, T, V (paragrafo 4), quelli in cui si mantiene invece fedele ad A contro di essi (paragrafo 5) e, infine, gli aspetti per cui si accorda piuttosto coi manoscritti dell’altro ramo (paragrafo 6). Il paragrafo 7 affronta invece lo studio dettagliato dei fenomeni di indefinitezza testuale ravvisabili in A in relazione al loro trattamento in PV e nei manoscritti G, T, V che con essa risultano imparentati per vari aspetti. Chiude questa prima parte del lavoro il paragrafo 8, contenente le valutazioni e i bilanci conclusivi. 2. Caratteristiche peculiari della princeps Veneziana non riconducibili ad A e ai manoscritti da esso derivati (G, T, V) 1– Distribuzione del testo nella pagina a stampa
Osservazioni:
a) linee di testo bianche tra una voce e l’altra nella lettera A e Z; b) mancata sporgenza di alcuni lemmi dallo specchio di scrittura della pagina a stampa (es. Acidalia, Icarius e Latymnus).
1-a) Fino ad Agricola, specie da Aethra ad Aglauros (24 casi nella lett. A) e dopo le voci Zeno, Zephyrus, Zeusis;
2– Incongruenze nell’ordine dei lemmi a) omissioni: Cybele, Cicones, Cichesus b) conglobamenti: Chersius in Chersydros c) alterazioni: – lettera C: Chelonophagi è inserito tra Chelidonia e Celtiberi; – lettera E: tra Echemmon ed Eetion si legge: Ecbasis, Ectasis, Echtlipsis, Edo, Edyia, Eythales;
2-a) In Va è caduta la sequenza di lemmi compresa tra Chersonesus e Cybele, ma sono presenti Cicones e Cichesus (cfr. qui l’Appendice), mentre in G e T i tre lemmi sono tutti presenti18. 2-b) In T la voce Chersius è addirittura omessa, in Va sono omessi entrambi i lemmi, a causa della lacuna di cui si è detto. In G invece i lemmi appaiono registrati distintamente, come in A.
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Alle caratteristiche di T non si è dedicato spazio in tabella in quanto questo testimone tende a sopprimere le situazioni di indefinitezza del testo: si veda a tal proposito in particolare la nt. 70 del presente studio. Sono stati inoltre segnalati via via, in nota e a testo, nei casi corrispondenti, tutti i luoghi in cui le lacune e le sospensioni sono mantenute o integrate da T in modo significativo.
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– lettera H: dopo Hebe si legge: Hebraeus, Hebrus, Hecate, Hecatombe, Hecatonphylon, Hector; – lettera P: tra Poeta e Polycletus c’è un’inversione, perché Pogoma precede Polemo. 3– Turbamenti grafici – lettera H: Hyppagines, Hypparchus, Hyppasus, Hypparchia, scritti con Y anziché con I16. – lettera L: Lapihthae per Laphithae17. 161718
Caratteristica peculiare di PV sono alcune incertezze nella distribuzione del testo, forse connesse con l’impaginazione o comunque con la realizzazione materiale della stampa; si tratta di linee bianche (di norma un paio, tra un lemma e l’altro) concentrate all’inizio e alla fine della sezione alfabetica. Nella lettera A compaiono con una certa frequenza sino ad Agricola, specie tra Aethra ed Aglauros, mentre analoghi spazi bianchi, in proporzione meno numerosi, si trovano alla lettera Z, che consta di soli 15 lemmi, dopo le voci Zeno, Zephyrus, Zeusis. In secondo luogo, accade che alcune voci non sembrino messe a lemma, perché non sporgenti dallo specchio di stampa al pari degli altri vocaboli (si vedano a titolo di esempio Acidalia, Icarius e Latymnus). Tali particolarità non ricorrono nelle altre stampe venete esaminate. Per quanto attiene alle incongruenze nell’ordine dei lemmi, ben tre voci, consequenziali in A, risultano omesse in PV (Cybele, Cicones, Cichesus), mentre figurano in A e nelle stampe da noi controllate. A questa casistica si accosta Chersius, che è conglobato in Chersydros. Un turbamento analogo, ma di entità maggiore (omissione di undici lemmi, da Cherronesus a Cybele) appare nel manoscritto Va; si trova collocato però nel punto di sutura con l’inizio della lacuna di PV, dove risultano caduti l’intera voce Cybele e le due voci successive (Cicones, Cichesus): in Va, invece, Cybele figura conglobata per metà in Cherronesus, mentre Cicones e Cichesus sono presenti per intero. 16
Alcune stampe riprendono l’errore di PV, altre no. In G, T, Vb questo turbamento non c’è. Lapihthae è un errore generatosi per metatesi di posizione delle due lettere contigue che potrebbe aver facilmente generato la lectio facilior Lapithae. Su questo lemma e sulle varianti in cui esso appare in G, T, Vb si veda qui l’Appendice e il presente studio. 18 Tuttavia la lacuna in Va comincia alla fine della voce Chersonesus («ob excellentiam nonnunquam») e vi congloba la voce Cybele a partire da «nam in eo monte», in modo tale che la parte rimanente di Cybele figura conglobata in Chersonesus. 17
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3. Caratteristiche di A e dei manoscritti da esso derivati (G, T, V) attestate nella Veneziana192021 1– Integrazioni e correzioni d’ ‘autore’
Osservazioni:
a) aggiunte: ci sono le tre le voci integrate da Tortelli nel margine di A, varianti redazionali utili a stabilire che un testimone discende da A stesso (casi 27-29). b) correzioni: ci sono tutte quelle del Tortelli in margine ad A (casi 31-3233-34-37)
1–b) nel caso 37 manca però l’attribuzione a Guarino della grafia dittongata di Foelix che figurava in G e T. Ne consegue che, tra tutte le varianti registrate dalla Donati (pp. 272-73) per questa voce presso i vari testimoni, PV concorda qui pienamente col testo di Vb20.
2– Interventi e correzioni esterne (Pietro Odo da Montopoli) a) correzioni: prescrizione ortografica del lemma Aegeus b) interventi: prescrizione ortografica di Aegeum mare; altri tre interventi significativi di Pietro Odo (casi 41-4243)
2–a) si tratta di una caratteristica rimasta isolata rispetto alla restante tradizione che A dimostra quindi di condividere solo con PV, stando ai risultati resi da Gemma Donati21. 2–b) A condivide la prescrizione di Aegeum mare con G e T e non con Va, che si discosta innovando secondo le modalità che gli sono proprie22.
3– Incongruenze nell’ordine dei lemmi a) omissioni: manca la citazione di Catullo (LXIV, 213)19 alla voce Aegeus; manca una delle due occorrenze della voce Cercopithecus, secondo la prescrizione data da Tortelli stesso (cfr. a fianco le osservazioni)
3–a) Cercopithecus è tra Cercyon e Cerinthus, in accordo con T, mentre G e Va mantengono la situazione di A. La correzione può derivare da un modello corretto oppure originarsi autonomamente in base alle indicazioni fornite dal Tortelli e non è pertanto utile a collocare PV all’interno della tradizione23.
19
Inserisco questo caso qui perché condiviso da A, G, T, Vb e dalla Veneziana, ma torneremo ad esaminarne il peso anche all’interno delle citazioni difettose o mancanti. 20 La princeps Veneziana si trova qui in accordo con V in quanto accoglie l’integrazione finale della voce aggiunta da Tortelli in un secondo momento, mentre nella parte iniziale PV segue la versione originaria di A: «Foelix cum OE diphthongo scribitur et ut quidam putant a foenus deducitur, conversione N in L, quasi beatus, hoc est dives, foenore plenus, qui foelix est esse dicatur, ». 21 DONATI, L’Orthographia, p. 279: «In A Pietro Odo ha corretto con modalità sue dando origine alla formulazione: “Aegeus cum ‘ae’ diphthongo in prima, in secunda cum ‘eu’ diphthongo scribitur” rimasta isolata rispetto alla restante tradizione». Questa è la lezione che si legge anche in PV.
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4– Turbamenti grafici (cfr. tabelle 3 e 4) a) Oebaliam (sic) per Oebalia
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4–a) In A si legge Oebaliam, rettificato in Oebalia da Gemma Donati nella sua trascrizione dell’indice dei lemmi di A. L’unico ms. discendente da A a condividire questo tratto è Vb: ciò ne conferma la parentela con PV rilevabile pure in altri casi.
Le caratteristiche di A e dei manoscritti da esso derivati già rilevate da Gemma Donati figurano tutte pure in PV, tranne i casi 35 e 36 che non possono costituire allo stato attuale degli studi elemento probante di distinzione24. La valutazione complessiva dei tratti di A e di G, T, V condivisi dalla Veneziana ha escusso due occorrenze (il caso 37 s.v. Diphthongus – Foelix e la lemmatizzazione di Oebaliam) attestanti una maggiore vicinanza di PV a V e una comprovante invece invece la parentela con G e T (s.v. Aegeum mare). Dall’esame di queste peculiarità si evince non solo che PV presenta molti tratti dei manoscritti discendenti da A, ma anche che contiene almeno una prerogativa (la correzione di Pietro Odo di cui al punto e) condivisa solo con A. 2223
4. Caratteristiche ed errori propri di G, T, V che figurano nella Veneziana 1– Incongruenze nell’ordine dei lemmi a) omissioni: Lysius/Lysippus, Myrmillo, Procris
Osservazioni: 1– a) e c) La situazione di G, T, V in Procris, Lysius/Lysippus e alla voce
22 DONATI, L’Orthographia, pp. 279-80. Questo caso è un ulteriore elemento a conforto della nostra ipotesi che Va derivi da un antigrafo diverso da Vb e che le innovazioni che lo caratterizzano non possano essere attribuite al suo copista. I tre interventi di Pietro Odo registrati dalla Donati ai casi 41-42-43 costituiscono un tratto specifico caratterizzante i manoscritti discendenti da A, secondo la studiosa (cfr. supra). 23 Come già osservato da DONATI, L’Orthographia, pp. 273-74 ai casi 38 e 39, a proposito degli altri testimoni che presentano caratteristica analoga. 24 Si tratta di due sauts du même au même commessi durante la copia di A e rimasti privi di emendamento che non compaiono sanati in G, T, Vb; essi furono considerati da DONATI, L’Orthographia, pp. 270-71 come qualificanti l’opposizione tra A e i manoscritti da esso derivati e ‘il resto della tradizione’, che li avrebbe invece integrati. Purtroppo non è così, visto che, nel novero pur esiguo dei manoscritti non discendenti da A che ho potuto esaminare (cinque in tutto), Z non annovera l’integrazione del caso 35; ciò mi ha indotto a ridimensionare per ora la rilevanza di questo dato nel costruire la riflessione sulle caratteristiche della princeps Veneziana, la quale contempla in effetti per parte sua entrambe le integrazioni indicate dalla Donati. Mi riservo di riesaminare il dato dopo aver eseguito un controllo puntuale su un numero maggiore di testimoni.
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b) conglobamenti e scissioni: Eurymachus in Eurilochus; Aeolia diviso in Aeolia e Aegaeae c) alterazioni: Maenalus precede Maenades; s.v. Diphthongus, Scaevola precede Saevus d) aggiunte: sono presenti solo due lemmi (cfr. Donati casi 19 e 20, s.v. Fabii e Fumus) dei nove presenti in G e T che l’autrice dice presenti in tutta la tradizione a stampa25.
Diphthongus è piuttosto mobile (cfr. infra)
2– Turbamenti grafici (cfr. tabelle 3 e 4) 25
Una parte di questi dati, già documentata da Gemma Donati come caratteristica propria di G, T, V, è stata messa a raffronto con la situazione di PV; ne sono emerse alcune caratteristiche comuni a G, T, V (e a PV) che si discostano in parte dalla rendicontazione della studiosa: in special modo Lapithe è la lezione di G e T, ma non di V (in questo caso Vb), che legge Lapithae in modo simile, anche se non perfettamente identico, a PV, mentre Ogygius, invece, è lezione di G e Vb, ma non di T, che lo omette26. Gli esiti delle collazioni esplorative operate da Gemma Donati in G, T, V27 trovano invece quasi tutte riscontro anche in PV. Mi pare opportuno segnalare un’ulteriore discrepanza presente in G, T, V (in questo caso Va) nel trattamento riservato a un intervento operato da Tortelli stesso in A (caso 31): si tratta di un salto da antecedens ad antecedens colmato in A da una correzione a margine operata da Tortelli stesso, correzione che, assente in G e T, appare invece in Va e in PV28. Speciale attenzione meritano infine i casi a) e c) della tabella qui proposta. Nel ms. T la sequenza dei lemmi in corrispondenza di Procris (tra Proceleusmaticus e Proetus) è a sua volta alterata: si legge infatti Procyon, Procris, Prochyta contro Procyon, Proconessus, Prochyta, Procris di A. Dunque in T c’è Procris, ma è caduto Proconessus, 25
DONATI, L’Orthographia, pp. 261-62. 26 Oltre alle già citate tabelle 3 e 4, rinvio a tal proposito anche le osservazioni conclusive; per un confronto si veda inoltre DONATI, L’Orthographia, p. 310, che dà Lapithe (sic) e Ogygius come lezioni genericamente comuni ai testimoni citati. 27 Cfr. DONATI, L’Orthographia, pp. 310 e s. 28 A proposito dei casi 31, 32, 33, accomunati dal fatto di presentare in margine ad A delle correzioni effettuate dal Tortelli per sanare dei sauts du même au même, così si esprime DONATI, L’Orthographia, p. 269: «Il resto della tradizione riporta la versione più ampia, senza la quale nel caso 31 il testo rimarrebbe privo di senso compiuto». L’integrazione operata da Tortelli in A è invece assente almeno in due dei tre testimoni discendenti da A stesso, ovvero G e T, e per quanto attiene il nostro studio conferma una maggiore vicinanza di PV a V piuttosto che a G o a T.
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e inoltre tra Procris e Prochyta è presente un’inversione. Ciò testimonia che in questo punto una parte della tradizione manoscritta discendente da A presentava delle compromissioni e che la successione dei lemmi aveva subito dei turbamenti29. Quanto a Lysippus, in realtà il suo contenuto sostituisce quello di Lysius, che risulta solo formalmente messo a lemma, mentre la voce è di fatto omessa; la medesima situazione si trova in V, mentre in G un originario Lysius è stato palesemente corretto in Lysippus, per cui c’è per lo meno corrispondenza tra contenuto e lemmatizzazione, fermo restando che il contenuto di Lysius è caduto30. L’ordine alfabetico è alterato anche s.v. Diphthongus, dove Scaevola precede Saevus. Anche in G, T, Vb accade lo stesso, ma con delle differenze sensibili. Mi soffermo sulla situazione generale del testo in questi tre testimoni alla voce Diphthongus, aggiungendo altre note all’utile disamina condotta sulle caratteristiche di questa voce in G e T da parte di Gemma Donati31: buona parte dei lemmi non vi si trova infatti organizzata alfabeticamente, ma scritta in modo continuativo all’interno di alcuni di essi che funzionano da collettori; si notano interpolazioni, omissioni, e altre discrepanze rispetto ad A. La sequenza alterata tra Raete e Vae ne è un esempio: dopo Raete T legge Taeda anziché Raeda, così che Taeda è annoverato due volte; Saenium (sic) anziché Saeculum (il contenuto è brevissimo e del tutto diverso da quello di A e di PV); Saedo; Scaevola (in cui omette l’auctoritas di Varrone presente in A), all’interno del quale è annoverato Saevus, il cui testo diverge radicalmente da quello di A. Esaminiamo il contenuto di Scaevola in T: «Scaevola cum AE diphthongo scribitur a scaeva, id est sinistra; quae enim sinistra sunt bona auspicia existimantur. Unde saevum omen, idest bonum, et sinister in bonam partem accipiebantur apud veteres. Saevus id est magnus, asper et crudelis». In T, dunque, l’articolazione del testo comporta che Scaevola preceda Saevus, il che è dovuto al fatto che esso è qui parte del lemma Scaevola. Anche in G e Vb Scaevola precede Scaevus; in G la distribuzione della materia ricalca in parte quella di T e molte parole, anziché essere messe a lemma, sono conglobate in altre con numerose devianze e interpolazioni. In Vb invece i lemmi sono disposti alfabeticamente in modo molto più regolare e le devianze sono meno marcate: in particolare in Vb Praes precede Praeripio, Caelsus contiene Caelebs (mentre il contenuto di Caelsus è stato omesso); nella sequenza tra Raete e Taeda quest’ultimo lemma è di nuovo computato due volte, essendo anche qui Raeda letto Taeda. Il contenuto della voce Scaevola, in ogni caso, coincide in Vb con quello di A e di PV, rispetto alle diverse formulazioni presenti in G e T. 29
Nelle altre stampe venete visionate il lemma è annoverato. I due lemmi sono invece presenti entrambe in T e nelle stampe venete. 31 DONATI, L’Orthographia, pp. 317 e s. 30
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Infine, per quanto attiene alle aggiunte, sono presenti solo due dei nove lemmi tipici di G e T assenti in A che Gemma Donati voleva presenti in tutte le edizioni a stampa, tranne la princeps Romana32. La collazione attuata sul testo delle due voci (Fabii e Fumus) denuncia la parentela di PV con G piuttosto che con T, benchè si discosti da esso per una lezione singolare. Il testo di PV, dunque, non si giustifica in questo punto col solo ricorso a G, col quale condivide comunque numerose varianti rispetto a T, ed è per contro evidente che discende da un altro testimone. Riguardo ai turbamenti grafici nell’indice alfabetico dei lemmi, sono una cinquantina su 140 complessivi i casi di coincidenza in errore di PV con almeno uno dei manoscritti G, T, V, tra cui figurano delle varianti anche significative; una quindicina di esse trova in accordo tutti e tre i manoscritti con PV, per i rimanenti casi la convergenza riguarda, invece, due o un solo manoscritto. Di questi dati è stata resa ragione dettagliata nelle tabelle 3 e 4 riportate in Appendice. Nella tabella 4, dedicata alle varianti assimilabili, ma non perfettamente coincidenti con quelle di PV, si ravvisano alcune aberrazioni o devianze grafiche dovute all’incerta lettura di alcune lettere o nessi grafici, che sembrerebbero accomunare in particolar modo PV con V nella decodificazione di un ipotetico antigrafo, se non comune, per lo meno imparentato, considerato che ognuna di queste parole si discosta dalla forma presente in A per almeno un altro tratto condiviso33: per esempio lo scambio N-U in Caemeus di PV e in Claemeus di Va rispetto a Claemens di A, quello I-Y e CL-D in Hemyciclus di PV (Hemycidus di Vb, ma Hemicyclus in A), quello CL-D e L-D in Marclylas (Veneziana) – Marclydas (Vb) (Mardylas in A), quello C-T in Parectateni (Veneziana) – Paratecteni (Vb) per Parectaceni di A, o ancora la grafia Opthalamos di Vb (dove la prescrizione ortografica è poi detta ‘cum PH e TH aspirato’) e Ophthalamos di PV contro Ophthalmos di A, o infine quella Lapihthae (Veneziana) – Lapithae (Vb) (Laphythae in A) di cui si è detto. Condivise con altri testimoni risultano invece le incertezze nella resa del nesso RI in Nyctotris/Nyctortis/Nictoricis rispetto a Nyctoris, forma di per sé già aberrante documentata in A, o lo scambio I-Y di Hyarba (Veneziana) – Hyarbas (Vb T) rispetto a Hiarbas di A; testimonierebbe invece un’affinità con G la forma Epiphonenia di PV, che figura corretta successivamente Epiphonema in questo testimone, mentre indizio di vicinanza a T sembrerebbero Amyclon e Thurinus di PV (Amyclo e Thuninus in T) contro Amydon e Thunnus di A. Il bilancio sin qui condotto permette di constatare che sono complessi32
Sono i casi 19 e 20, cioè Fabii e Fumus. Per rendere chiare le reciproche interrelazioni indico in grassetto le devianze disgiuntive e in sottolineato quelle congiuntive, ovviamente in riferimento alle singole lettere o nessi. 33
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vamente presenti in PV numerosi errori congiuntivi che ne confermano la parentela con G, T, V, mentre altre caratteristiche e tratti peculiari escludono la sua diretta o esclusiva discendenza da uno in particolare tra questi testimoni. Tre i dati più significativi: l’omissione di Procris condivisa solo con G e V, la situazione del testo in Lysius/Lysippus (con alterazione identica in Vb, parzialmente simile in G e del tutto assente in T), l’articolazione generale della voce Diphthongus (e la situazione testuale nei suoi sublemmi Scaevola e Saevus) confermano tutti la più marcata corrispondenza del testo di PV con V, in misura minore con G, e la sua maggior distanza da T per ciascuno dei tratti individuati. 5. Caratteristiche ed errori propri dei manoscritti discendenti da A assenti nella Veneziana 1– Incongruenze nell’ordine dei lemmi a) omissioni: sono presenti Heptaphos e Stratrocles, è assente Omelanchrus b) conglobamenti e scissioni: Laconia non è inclusa in Lacenus c) alterazioni: non sono presenti il turbamento dei lemmi della lettera O dopo Ocha che riflette analogo fenomeno segnalato in A da Pietro Odo da Montopoli né il salto da antecedens ad antecedens che caratterizza G e T ( ma non Va) nel caso 31, 10-1234
Osservazioni: 1-c) il ripristino della corretta sequenza dopo Ocha può derivare da un modello corretto oppure originarsi autonomamente in base alle indicazioni fornite esplicitamente dal Montopolitano e non è pertanto utile a collocare PV all’interno della tradizione (cfr. punto 3 s.v. Cercopythecus).
d) aggiunte: non sono presenti le interpolazioni tipiche di G e T s.v. Diphthongus, le osservazioni di Gaspare da Verona che connotano G in particolare, e le correzioni e i miglioramenti propri di T35. 2– Turbamenti grafici: Cinabari è letto secondo la grafia di A. 3435 34
Si veda DONATI, L’Orthographia, pp. 310 e s. e infra il presente studio. Tutte queste caratteristiche sono dettagliatamente esaminate da DONATI, L’Orthographia, pp. 316-317, cui rinvio. Nessuno dei tratti elencati sembra trovare riscontro in PV, che si dimostra di norma fedele ad A. La studiosa, alle pp. indicate, offre anche l’elenco completo delle voci di G annoveranti a testo gli interventi di Gaspare da Verona, assenti in PV. 35
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Appare dunque plausibile che PV fotografi una situazione testuale in cui si trovano contaminati solo alcuni dei tratti di G, T, V, come testimoniano: – la presenza solo di due (Fabii e Fumus) delle nove voci interpolate che connotano G e T (casi 17-25, segnatamente 17 e 18); – l’assenza di altre interpolazioni tipiche di G, delle correzioni di T e dei riadattamenti che connotano Va; – l’assenza di vari errori tipici di G, T, V (cfr. supra); – il mantenimento, in un caso, di una correzione operata da Pietro Odo da Montopoli in A che non appare nel resto della tradizione. 6. Caratteristiche condivise col gruppo dei testimoni non discendenti da A Si è già accennato che la contaminazione di PV col ramo della tradizione costituito dai manoscritti non discendenti da A è deducibile dalla presenza di alcune delle sedici voci aggiuntive in essi annoverate36; il che suggerisce di valutare meglio due eventualità, la prima delle quali, già considerata da Gemma Donati, che si trattasse di aggiunte successive alla confezione di A, come comproverebbe il fatto che ben 13 delle 16 voci aggiunte riguardino parole inizianti con T37. L’assenza di sette voci in PV impone però di esaminare una seconda eventualità: questa discrepanza rispetto alla princeps romana e alle restanti stampe venete potrebbe dimostrare non solo che PV fu probabilmente composta prima o comunque a prescindere dalla Romana, ma che le voci non annoveratevi o erano assenti nel/nei testimone/i a disposizione del curatore oppure furono da esso considerate spurie e, pertanto, espunte. 36 A proposito dei lemmi estranei ad A si pone un altro problema: non figura messa a lemma in A anche un’altra voce, annoverata da Gemma Donati nell’indice dei lemmi desunto da A senza renderne razione: si tratta di Himeridon/Himeridion, oscillante quanto a grafia nella restante tradizione. Il lemma figura per lo meno in tutte le stampe venete, nella princeps Veneziana e Romana, in B, T, G, Vb, O, R, U, X (in B, T, G, Vb, O si trova tra Hymnus e Hymen, mentre in R, U, X, Z tra Hieronymus e Hilarus). Il contenuto di questo lemma in A è di fatto conglobato nella voce Hymnus, dove è attribuito però al sostantivo imeridon, privo di aspirazione iniziale. Si può inferire che questa voce si formò da Hymnus e si scorporò in punto molto alto della tradizione, visto che figura in entrambe i rami di essa, o che forse era al contrario presente già nell’antigrafo stesso di A, il cui copista potrebbe averlo conglobato per errore in Hymnus. Un altro tratto che sembrerebbe comprovare la contaminazione di PV coi manoscritti non discendenti da A è la presenza di due integrazioni (casi 35 e 36) inserite per sanare dei salti commessi durante la copia di A che non figurano in G, T, V, ma che apparirebbero nei manoscritti non discendenti da A, stando a DONATI, L’Orthographia, pp. 27071 (ma l’integrazione del caso 35 è omessa per esempio anche in Z, come si è detto sopra). 37 Cito quasi testualmente da DONATI, L’Orthographia, pp. 259-260. Questo ragionamento potrebbe valere forse anche per alcune voci presenti per esempio in V di cui proporrò lo studio in altra sede e più in generale suggerirebbe di non escludere dal novero delle voci di dubbia o incerta paternità alcuni lemmi confluiti nell’alveo della tradizione in modo non sempre chiaro, in attesa che lo studio delle fonti permetta di trarre conclusioni più certe in merito.
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Una riflessione previa a ogni altra riguarda l’indice dei lemmi della sezione alfabetica in PV. Posto in relazione col resto della tradizione manoscritta, è risultato privo degli errori accomunanti certi raggruppamenti di manoscritti non discendenti da A isolati da Gemma Donati38. Il controllo autoptico di Z, il manoscritto marciano dell’Orthographia contenente le note di Pietro da Montagnana39, ha confermato la lontananza dal testo di PV non solo in generale per tutte le caratteristiche esaminate, ma anche nel novero dei sedici lemmi estranei ad A, che è escluso provenissero alla stampa da questo testimone. Z, infatti, a sua volta non annovera tutti e sedici i lemmi: è assente Tibareni e Topochia (sic) contiene di fatto il lemma Topothesia, che è dunque omesso; inoltre legge Tragomata, Thrasymodes e Uphesus anziché Tragemata, Thrasymedes, Uphens come appare per contro nel testimone (non esplicitato) da cui trascrive la Donati. Quanto all’aspetto più qualificante PV (ovvero la presenza di solo nove dei sedici lemmi aggiuntivi estranei ad A, G, T, V), il confronto con gli esiti del lavoro condotto da Gemma Donati ha di nuovo posto ulteriori criticità, poiché l’edizione della studiosa non rende noti il/i testimone/i da cui è tratta la trascrizione proposta (si veda qui la nota 42). Dovendo dirimere se PV potesse a tal proposito dipendere dalla Romana o da qualche altro tra i testimoni noti, si è tentato di procedere ad un esame più approfondito almeno di alcuni tra gli esemplari più facilmente raggiungibili, manoscritti e a stampa. Ho pertanto eseguito un controllo mirato su cinque (R, U, X, B, Z) dei sedici manoscritti completi non discendenti da A utilizzati da Gemma Donati40 e, tra le stampe, sulla Romana del 1471 (Ro), sull’edizione trevisana 38
Cfr. DONATI, L’Orthographia, specie pp. 325-331. PV mette a lemma Helops per Helopos di A e Antiphates per Anthiphates, correggendo, come del resto vari altri testimoni, degli evidenti errori di A (cfr. DONATI p. 330). Ricorrono in PV anche Peripleroma per Periploroma di A, forma che qualificherebbe B, E, F, K, P, Z e GRo, secondo la Donati (pp. 330-331): ma la lezione si legge anche in G e T, fatto che riconduce comunque queste varianti nell’alveo di quelle comuni ai mss. discendenti da A. PV riporta Stlata per Stlatta di A, come in B, D, E, F, K, O, P, R, S (cfr. DONATI p. 331), testimoni di per sé lontani da A, ma l’oscillazione con cui le due forme figurano impiegate nei lessici d’uso comune in epoca medievale ed umanistica sembra suggerire l’ipotesi che si trattasse di varianti generatesi anche indipendentemente l’una dall’altra: cfr. UGUCCIONE DA PISA, Derivationes, ed. E. CECCHINI – G. ARBIZZONI 2004, S 311,17; PAPIAS Vocabularium, Mediolani, Dominicus de Vespolatis, 1476, s.v. Stlata; e inoltre FEST. 313 e PS.CAPER Orth. in GL VII,107,1. In PV viene inoltre corretta in Hippolyta la corrispondente incerta lezione di A, la cui ortografia è però data da Tortelli stesso s.v. Hippolytus (cfr. anche DONATI, p. 327 nt. 1), per cui pure in questo caso la variante potrebbe essersi generata a prescindere dal contatto con un testimone corretto. Mancano infine in PV tutti gli errori accomunanti C, D, E, F, P, R, S, X individuati da DONATI, L’Orthographia, alle pp. 336 e ss. 39 Descrizione e note ulteriori su questo manoscritto in DONATI, L’Orthographia, pp. 23839 e 338-39. 40 In tutto i manoscritti completi esaminati dalla Donati sarebbero 18, ma due (H e L) non sono stati resi disponibili dagli enti preposti: cfr. DONATI, L’Orthographia, p. 222 nt. 1 e
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del 1477 (Tv), sulla ristampa vicentina del 1479 (Vi) e veneziana del 1488, e infine sull’edizione veneziana del 1493 e sulla sua ristampa del 1495; ho rinvenuto nei pur pochi (un terzo del totale) manoscritti menzionati numerose varianti inedite, un minimo drappello delle quali presenti pure in PV; più netta la situazione rilevata nelle stampe venete, con alcuni tratti davvero qualificanti, per i quali rinvio all’Appendice41. Le varianti finora individuate all’interno delle nove voci estranee ad A preservate in PV sono una decina, la maggior parte delle quali ritornano nella successiva edizione trevigiana e in varie sue ristampe (cfr. supra e infra); solo in tre casi la lezione coincide con quella di altri testimoni manoscritti e/o con la princeps Romana (murmura, significant e color), oltre che con tutte le stampe venete: murmura è condiviso con U, B e con la princeps Romana (che fu esemplata a partire da B), significant con R e di nuovo con la princeps Romana, color col solo U. I restanti errori (in special modo la lezione Pola per Phla, che si ritrova in tutte le stampe venete che ho esaminato) non si giustificano con la dipendenza esclusiva da nessuno dei testimoni manoscritti attualmente controllati. Allo stato attuale degli studi non è possibile stabilire con assoluta certezza con quale specifico manoscritto del ramo opposto sia avvenuta la contaminazione del testo di PV in relazione ai nove lemmi dei sedici aggiuntivi assenti in A e in G, T, V, sebbene la persistenza di alcuni errori congiuntivi suggerisca aleatoriamente una contaminazione con U e con la Romana (ma cfr. infra). Un primo dato certo è che le sedici voci estranee ad A, G, T, V non sono affatto presenti in blocco ‘in tutta la restante tradizione manoscritta e a stampa’, come affermato da Gemma Donati, mentre solo circa la metà di esse figura in PV e complessivamente solo quattordici nelle stampe venete, a partire dall’edizione del Bologni (Treviso 1477); nemmeno i manoscritti contenenti il testo completo dell’Orthographia appartenenti all’altro ramo della tradizione che ho potuto finora controllare contengono del resto tutti e sedici i lemmi e annoverano per ciascuno di essi varianti ben più numerose da quelle indicate dalla studiosa, come si è 224 nt. 1. Dunque i testimoni noti che per certo annoverano le sedici voci assenti in A sono complessivamente sedici, allo stato attuale degli studi. Resta da definire quale sia la situazione del testo nel cod. lat. 489 della Széchényi-Nationalbibliothek di Budapest, omesso nella recensio dei testimoni attuata da G. DONATI. 41 Ho rendicontato le varianti rilevate nell’Appendice al presente studio (tabella 5). Annovero tra le varianti provenienti dalle stampe essenzialmente quelle di Venezia 1471 (Ve), Roma 1471 (Ro), Treviso 1477 (Tv) e Vicenza 1479 (Vi), mentre ragioneremo in seguito della configurazione della ristampa successiva (Venezia 1488) e della edizione seguente (Venezia 1493 e ristampa Venezia 1495), entrambe discendenti dal testo fissato dal Bologni nel 1477 e ripreso nelle successive ristampe, specie quella del 1488, come denunciano alcuni errori, per cui cfr. infra. Anticipo qui che alcune di queste ristampe (per es. Vicenza 1479) furono molto probabilmente in realtà nuove edizioni.
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visto42. Una seconda osservazione inerisce il fatto che la selezione presente in PV (ben sette lemmi omessi contro i due soli delle altre stampe venete) è molto radicale e non trova corrispondenza nelle indagini finora variamente condotte sulla tradizione manoscritta. PV fotograferebbe forse una fase del diatesto in cui alcune voci non erano ancora confluite nell’esemplare in movimento da cui tutta la tradizione dell’Orthographia sembra discendere, ma va considerata pure l’eventualità che, su quelle comunque disponibili, fosse stato applicato dal curatore dell’edizione un vaglio molto selettivo, le cui maglie si allargarono in seguito alla revisione operata di lì a poco da Gerolamo Bologni43, per propagarsi quindi alle stampe successive. Ho dunque tentato un ulteriore sondaggio sulle voci successivamente accolte nelle stampe venete e anche su quelle già computate in PV, allo scopo di comprendere quale inter-dipendenza sia tendenzialmente ravvisabile nelle une rispetto alle altre; i dati raccolti confermano il persistere di errori tipici di PV nelle successive edizioni venete44: si tratta di errori non riconducibili per ora a nessun manoscritto dell’altro ramo tra quelli da me visionati (che sono tuttavia solo un terzo del totale) e per certo non ascrivibili alla princeps Romana45. 42 La studiosa ha sì fornito la trascrizione di ciascuno di essi, ma senza precisare quale testimone tenesse a base e indicando solo per una voce (s.v. Triton) delle varianti, di fatto piuttosto contraddittorie: per la parola Pallas è proposta addirittura una variante presente in A (!), ms. in cui i sedici lemmi non compaiono: cfr. DONATI, L’Orthographia, p. 258 nt. 1: «La lezione è incerta nei manoscritti, oltre a Pallas di D K M O Q W si trova Palatii fort. Pallam corr. in Pallatii A – sic –; Pallam corr. in Palla B». Per contro, a pp. 328-329 del suo studio, dopo aver segnalato gli esiti della collazione tra l’indice dei lemmi di A e quello di B, nel proporre il prodotto del confronto tra campioni testuali dei due testimoni, i primi otto esempi addotti provengono dai lemmi n. 6, 7, 10, 11, 14 del gruppo dei sedici estranei (!) ad A (cfr. pp. 254-259) e di nuovo senza precisare quale sia il testimone tenuto a base per la collazione. Ne consegue un inevitabile disorientamento nel lettore, non essendo chiaro con quale testo B venga collazionato nei primi otto casi di confronto proposti, visto che in A i sedici lemmi non ci sono. 43 Gerolamo Bologni fu editore dell’edizione trevigiana del 1477 (la prima successa a PV) e autore a sua volta di un’ Orthographia, opera in cui condensò anche materiali tortelliani, ora edita da P. Pellegrini. Sul suo conto cfr. qui infra la nt. 104 (BOLOGNI, Orthographia cit.). 44 Nove devianze su undici tra quelle riscontrate (s.v. Saurus, Tragemata, Triton (fluvius), Triton (deus) ) sono presenti in Treviso 1477 e Vicenza 1479 e, in misura leggermente minore, con numerose altre devianze aggiuntive, in Venezia 1493 e 1495. Questi gli errori congiuntivi comuni a tutte le stampe venete esaminate nelle voci condivise: s.v. Triton (fluvius): Pola, unde Lucanus, color; s.v. Triton (deus): Neptuni filius atque Salathiae, exterens, murmura (quest’ultima lezione comune, però, anche ad alcuni testimoni del ramo opposto, e per cui cfr. qui l’Appendice e supra). 45 L’indipendenza è confermata in particolare dalla collazione operata sul lemma Tlepolemus: tutte le stampe venete condividono la lezione ait (presente originariamente in B e poi corretta in dixit, come si legge nella princeps Romana) e classique, mentre Astyoches di Ve, Tv, Vi, è letto Astiocles in Venezia 1488 e quindi Asthiocles in Venezia 1493 e 1495. Le varianti Lycimnion/Lycimnii dell’ignoto testimone utilizzato dalla Donati si leggono invece Lycam-
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Si può dunque affermare che PV fu molto probabilmente concepita a prescindere dalla contemporanea edizione romana, con la quale condivide un numero davvero esiguo di errori congiuntivi e rispetto alla quale annovera un numero nettamente inferiore di voci. L’estraneità della tradizione a stampa veneta dalla linea che generò la stampa romana sembrerebbe confermata dal fatto che i lemmi aggiunti a partire dall’edizione del Bologni non contengono nessuna delle varianti che qualificano le voci presenti nella princeps Romana, mentre sono in genere accomunate tra di loro da alcune caratteristiche proprie46. 7. L’indefinitezza del testo: omissioni e incertezze Resta da affrontare il comportamento di PV in relazione ai punti di indefinitezza del testo caratterizzanti il ms. Vat. lat. 1478 (A), segnalati e studiati da Gemma Donati47; in PV i numerosi spazi bianchi ivi presenti si riducono a meno della metà. Affronteremo lo studio del problema confrontando il modo in cui ciascuno di essi è trattato in PV rispetto a G, T, V, aspetti per cui rinvio sin d’ora alle tabelle 1 e 2 dell’Appendice al presente studio. Accenneremo inoltre ad un secondo fattore connesso con l’indefinitezza del testo, di cui per ragione di spazio non sarà possibile rendicontare qui nel dettaglio. In PV la formula di transizione tra una lettera e l’altra del repertorio alfabetico appare solo in corrispondenza della fine delle lettere H, I, K nel punto di passaggio alla lettera successiva, con la medesima formulazione di A, e poi non più nel resto della stampa. Lo stesso accade nelle altre stampe venete esaminate48. Alla lettera I è dedicato il XII dei XXIV ‘libri’ in cui si articola l’Orthographia: ci troviamo, dunque, a metà nion/Lycamnii in Tv e Vi, mentre in Venezia 1488, 1493 e 1495 il nome è scritto difformemente (Lycomnion all’acc. e poi Lycamnii al gen.); qum simul ac di Tv, Vi e Venezia 1488 diventa qui simul ac in Venezia 1493 e 1495, e infine aedificarat di Vi e Venezia 1488 diventa aedificaret in Venezia 1493 e 1495. 46 Non essendo chiaro allo stato attuale degli studi sulla tradizione manoscritta quali testimoni presentino complessivamente determinate voci aggiuntive tra le sedici segnalate e con quali varianti, mi vedo costretta per ora a sospendere il giudizio, in attesa di ulteriori riscontri e accertamenti più rigorosamente condotti su tutta la restante tradizione manoscritta e, in parallelo, su quella a stampa. 47 I ‘casi’ che citeremo d’ora innanzi corrispondono alla numerazione con cui sono rendicontati gli spazi bianchi o le finestre di testo da DONATI, L’Orthographia, pp. 283-301, da nr. 44 a nr. 88). 48 In G e T, invece, la formula di transizione è sempre coerentemente assente. DONATI, L’Orthographia, p. 304 accenna al fatto che in A manca la formula di transizione tra R e S, ma, qualificando i testimoni che del pari ne sono privi, omette T, senza per altro distinguere tra i mss. in cui sono sempre assenti tutte le formule di transizione (per es. G, T, O, U) da quelli che le presentano solo in parte (per es. Vb o R); estremamente incerta e varia, stando
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dell’opera e non sarebbe troppo azzardato ipotizzare che questo costituisse il punto di sutura in qualche attività connessa alla realizzazione materiale del manoscritto da cui fu tratta la stampa o del suo antigrafo (per esempio il punto di assemblaggio di due diverse fasi di copia o del lavoro di due diversi copisti). Per questo motivo forse fu apposta l’indicazione di transizione da un ‘libro’ all’altro solo in questi tre casi, fermo restando che il libro XIII (lettera K), coprendo appena quindici righe, comporta l’immediata adiacenza delle formule di transizione tra I e K e tra K e L, che era inevitabile riprodurre coerentemente una dopo l’altra. Conferma quest’ipotesi una situazione simile che si registra in V, dove le fasi di copia nei due codici che compongono il manoscritto sono addirittura cinque e due le mani coinvolte. La presenza parziale delle formule di transizione o addirittura la loro assenza costituiscono dei tratti qualificanti anche vari altri testimoni: questo specifico aspetto, assieme allo stato piuttosto incerto della sottotitolazione di alcune parti della sezione teorica premessa al repertorio alfabetico, saranno oggetto di uno studio specifico da parte di chi scrive. Per quanto attiene l’impiego delle formule di transizione da una lettera all’altra nel repertorio alfabetico, la situazione di PV si discosta radicalmente sia da quella di A (formule sempre presenti, tranne per la lettera S), che di G e T (formule sempre assenti), che di Va (formule presenti limitatamente alla sezione di copia, ma con una veste unica nel suo genere) e si avvicina solo parzialmente a quella di Vb, dove la formula di transizione è registrata, oltre che tra H/I, I/K, K/L, pure tra T e V e tra V e Z. Gli spazi bianchi sono mantenuti in PV in appena una dozzina di ricorrenze che coinvolgono in sei casi citazioni lasciate in sospeso perché problematiche o di incerta identificazione; talora traducono delle aporie connesse al confezionamento delle schede e alla tecnica schedografica utilizzata dall’autore, come chi scrive ha dimostrato per il caso 73, 67, 4649. In tre casi (50, 56, 68) è lasciato lo spazio per la menzione del libro o di un termine greco, in altri tre (66, 77, 82, 86) lo spazio è variamente ampio e paragonabile a quello rinvenibile in A50, mentre nel caso 68 è di appena mezza riga. Per quanto attiene gli spazi eliminati (la maggior parte) l’intento è quello di normalizzare il più possibile la patina generale della pagina a stampa. Sono per esempio cassati tutti gli ampi spazi lasciati in A al termine di numerose voci (Philosophia, Pythagoras, Poeta, Prologus, Rhoma, alla breve nota della Donati, anche la modalità in cui la formula di transizione appare in generale nella tradizione manoscritta, di cui non vengono però resi esempi ulteriori. 49 Mi permetto di rinviare a tal proposito a un mio contributo di prossima pubblicazione: P. TOMÈ, Metodo compilativo e stratificazione delle fonti nell’Orthographia di Giovanni Tortelli. 50 Caso 66 s.v. Oscylla sono 4 righe, caso 77 s.v. Rhoma 1 riga, caso 82 s.v. Sicilia 4 righe; caso 86 s.v. Sparta 7 righe.
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Sostratus, Xerses), senza alcuna ulteriore segnalazione e senza intervento alcuno. Nel caso 53 lo spazio di otto linee presente in A è tolto, ma più sotto in PV si legge una variante significativa in corrispondenza di quella che, nella composizione della pagina a stampa, è una finestra bianca di circa due terzi di rigo; vi appare un rinvio a «dicente Ovidio libro primo» (Ov. Fast. III, 87), attribuita erroneamente a Lucano in A, la cui identificazione è stata parzialmente rettificata in PV51. Nove, invece, le occorrenze in cui lo spazio vuoto presente in A viene eliminato con un tentativo più o meno radicale di integrazione; in almeno un caso (il 51) è restituita per esteso la stessa citazione che appare in G, T, V (CIC. Off. I,8)52. Alla voce Magus la lacuna di A (caso 64) inerente un passo dell’ottava Egloga virgiliana viene così colmata: Qua de re53 Aeschylum antiquum poetam graecum dixisse puto Italiam herbarum potentem. Unde etiam Virgilius in Moeri .
Questa stessa interpolazione appare in Vb esattamente nella stessa forma di PV, mentre in G si legge solo «quaedam quae lege foeliciter»54. In realtà è molto probabile che il verso lasciato in sospeso fosse tratto da una precisa sequenza virgiliana (VERG. Ecl. VIII,95-99)55, dal momento che poco sotto nella medesima voce appare un richiamo, in questo caso esplicitato, all’ultimo verso di essa: Nonne etiam Plinius, Seneca et Cicero certissime affirmaverunt messes in varios agros magorum praestigiis traduci posse? Unde etiam apud Virgilium in 51 In A si legge «dicente Lucano libro primo», mentre in PV e nelle stampe venete «dicente Ovidio libro primo». Ho controllato in questo punto anche la princeps romana che qui rettifica con «dicente Ovidio», eliminando il rinvio al primo libro, in effetti incongruente: la formulazione assunta dalla correzione in PV in questo caso diverge dunque da quella della stampa romana. Tra i mss. discendenti da A la stessa correzione di PV è presente anche in T. In questo manoscritto, però, la lacuna iniziale della voce è stata colmata con una citazione da OV. Fast. III, 361-372, esattamente il passo che precede il verso da cui prende le mosse la voce Ancyle in A, negli altri manoscritti da esso derivati e nelle stampe, con l’intento evidente di integrare il vuoto corrispondente all’«Ovidio in loco praefato» da cui partiva l’enarratio di Tortelli. 52 DONATI, L’Orthographia, p. 287 e p. 303 la vorrebbe presente solo in G e T: la citazione appare però anche in V. 53 Si tratta della magia. 54 T integra in modo del tutto diverso: «dicit nonnulla». 55 Cfr. anche DONATI, L’Orthographia, p. 292. Nel passo si legge: «Has herbas atque haec Ponto mihi lecta venena ipse dedit Moeris; nascuntur plurima Ponto. His ego saepe lupum fieri et se condere silvis Moerim, saepe animas imis excire sepulchris atque satas alio vidi traducere messes».
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Moeri: «Atque satas alio vidi traducere messes».
Interessante la sistemazione cui la lacuna viene sottoposta nel caso 83; Tortelli sta trattando di Sicyon, città situata in una zona montuosa al confine tra Acaia e Argolide, regione, quest’ultima, confinante a sua volta con la Laconia; la città è detta appunto civitas Laconicae in SERV. Georg. II,519, da cui forse derivò la sovrapposizione dei due toponimi (Achaiae urbs in Laconia) operata da Tortelli56. Poco sotto l’umanista passa a discorrere di un’isola dell’Egeo il cui nome sarebbe lo stesso, secondo l’autorità di Plinio; in realtà l’isola è Sicinus, una delle Sporadi, menzionata da Plinio in Nat. IV,70,2, e questo è il modo in cui la lacuna appare ricomposta in PV: Sicyon fuit, teste Plinio libro IV Naturalis Historiae57, Achaiae urbs in Laconia unde et Laconia quandoque Sicyonia vocata fuit, refertissima olivetis, ob quod ait Virgilius in II Georgicorum (II,519) teritur Sicyonia bacca trapetis; de qua Cicero in V De Officis. eodem nomine ostendit Plinius esse in mari Aegeo insulam […]
In A il libro menzionato del De officis è ovviamente il II, non certo il V, e manca l’elemento di raccordo aliam con cui in PV viene risolta la lacuna, una volta eliminato lo spazio vuoto. La medesima integrazione (aliam) appare in G e in Vb, mentre T espunge radicalmente. Il caso 75 consiste nell’integrazione del numero del libro di Gellio (XVI), mentre nel caso 70 è integrata una parola greca (πυραιευς, sic): entrambe queste integrazioni figurano in G, il caso 70 anche in T58. Mi soffermo 56 L’Argolide confina con la Laconia, termine con cui appare talora denominata degli autori l’intera regione peloponnesiaca. 57 DONATI, L’Orthographia, p. 299 ipotizza si tratti di PLIN. Nat. IV,12. 58 Il caso 70 annovera una finestra presente s.v. Pyraeus, parola che secondo Tortelli «prima cum Y graeco, sequens cum AE diphthongo a nostris scribitur. Ab Homero vero et nonnullis poetis graecis cum additione alterius E in penultima syllaba ante U, videlicet Pyraeeus [sequitur spatium vacuum]». L’etimo inserito in G, T e in PV è evidentemente costruito in modo artificiale allo scopo di giustificare la forma Pyraeeus, mentre il termine in realtà sotteso cui alludeva Tortelli (Πειραιεύς) non ricorre mai in Omero o in altri poeti greci. La forma invalsa presso gli autori latini era Piraeus/Piraeea: si veda CIC. Att. VII,3,10: «reprehendendus sum, quod homo Romanus ‘Piraeea’ scripserim, non ‘Piraeum’ – sic enim omnes nostri locuti sunt», mentre non esistono in latino attestazioni di Pyraeus (tanto meno di Pyraeeus), stando al ThLL, di cui non c’è traccia nemmeno nei glossari e nei lessici medievali. È plausibile che Tortelli intendesse distinguere il toponimo (porto degli Ateniesi) dal nome proprio Piraeus (Πείραιος, amico fidato di Telemaco), lemmatizzato poco sotto, dove l’umanista richiama esplicitamente HOM. Od. XV, 539 e 544. Alcuni passaggi diffusi, però, negli Etymologica e nei testi grammaticali greci (soprattutto Cherobosco, ma anche Erodiano) alludono all’uso attico di applicare la sineresi nei nomi terminanti in –ευς nel caso il dittongo non sia preceduto da consonante e nei canoni nominali proposti annoverano sempre Πειραιεύς (Πειραιᾶ al posto di
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ora in particolare sul caso 62: vi si trova un elenco corrotto di quattordici personaggi di nome Eraclide in cui risulta omesso il quarto e il nono nome, quest’ultimo seguito da spazio bianco che in G, Vb e in PV è sanato da «nonus». L’integrazione, di fatto, non risolve l’aporia, non essendo comunque precisato chi fossero il nono (e il quarto) Eraclide59. Questo caso costituisce un bell’esempio del contributo che lo studio della tradizione a stampa potrebbe fornire alla definizione del testo dell’Orthographia: l’elenco degli Eraclidi, infatti, non è opera del Tortelli, come supposto da Gemma Donati, ma compreso in un rinvio a Diogene Laerzio nella traduzione latina del Traversari (DIOG. LAERT. V, 93-94), che nella stampa vicentina dell’Orthographia, uscita per i torchi del Viennese Stephan Koblinger nel 1479, appare restituito nella sua integrità60. Πειραιέα): cfr. per esempio ETY. MAGN. ed. Gaysford 189,50-57, informazione presente in effetti anche nei commentari di Eustazio all’Iliade di Omero (EUST. ad Il. I,429,16). Tuttavia, l’osservazione di Tortelli, sebbene viziata dal lapsus della citazione (Y per I nella prescrizione grafica, Omero e i poeti greci, anziché piuttosto la scoliastica o i commentatori omerici, nel corpo della voce) è a mio avviso giustificabile piuttosto da un altro punto di vista, dal momento che di norma i nomi in -ευς della terza declinazione greca, essendo qualificati da un tema in Ƒ (digamma), non applicavano nel dialetto ionico-eolico e nella lingua omerica la metatesi quantitativa agente invece in attico ed erano soggetti a iato prosodico, il che comportava per l’appunto la permanenza aggiuntiva di una vocale H (per es. nel nom. pl. βασιλῆƑες nella lingua omerica, βασιλεῖς in Attico). Ciò in greco non coinvolge mai, a rigore, Πειραιεύς, che sottostà all’altra regola cui si accennava e che non ricorre nemmeno mai in poesia (tanto meno omerica). Tortelli, però, non avendo a sua disposizione trattati di fonetica greca e contando solo sulle risorse (fallibili) della memoria, nello scrivere questa nota sovrappose forse due ordini di considerazioni diverse, applicando delle riflessioni valevoli per la lingua omerica e per la prosodia greca in generale (permanere dello iato a causa del digamma nella lingua poetica) a una parola che in Omero non ricorreva affatto: lo dimostrerebbe non solo il dettato della voce Pyraeus, ma ancor più il contenuto del De V littera nella sezione teorica iniziale, dove tale fenomeno, sulla scorta di Prisciano (GL II,17,6-17), è preso in esame mettendo a confronto iato prosodico greco e latino in relazione all’incidenza del digamma e della U consonantica nelle due lingue. A questo punto il motivo del permanere della finestra in A trova la sua corretta motivazione: Pyareeus era un maldestro tentativo di traslitterazione del greco Πειραιεύς che non poteva trovare ovviamente riscontro in greco, e la forma πυραιευς (sic) un’altrettanto maldestra ricostruzione che qualsiasi copista non indotto di greco sarebbe stato in grado di esemplare a partire dall’aberrazione del Tortelli. 59 DONATI, L’Orthographia, pp. 291-292 segnala entrambe le incongruenze del testo di A in questo punto (quarto e nono Eraclide) senza però rendere notizia dell’integrazione presente in G e Vb, e dando anzi per inteso che l’assenza in particolare del quarto Eraclide non sarebbe «in alcun modo segnalata non solo in A, ma anche nel resto della tradizione». La stessa integrazione qualificante PV appare invece anche in G e in Vb e si presenta così: «Septimus dialecticus Barzileites qui contra Epicurum scripsit, octavus medicus Tarentinus, decimus poeta, undecimus sculptor Phocensis etc.». Manca invece nei manoscritti da me esaminati la rettifica relativa al quarto Eraclide, che apparirà per la prima volta nella stampa vicentina del 1479 (cfr. infra). 60 Cito dal ms. Vat. lat. 1891, c. 98r. dove si legge, come nell’edizione di Koblinger: « […] octavus medicus Icesius, nonus medicus Tarentinus, decimus poeticus qui praecepta con-
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Per le ricorrenze 54, 60, 61 lo spazio bianco necessario ad integrare il numero del libro è eliminato, e in sua vece, è inserito un solo termine allo scopo di rendere variamente intellegibile il testo61: caso 54: […] ex Latinis vero Ovidius in Metamorphoseon etc. caso 60: […] Statius in Thabaidos dixit etc. caso 61: […] dixit Homerus in Iliados semel vulneratum etc.
Accanto a questi interventi normalizzanti vanno considerati quelli in cui all’eliminazione della lacuna consegue l’espunzione della porzione di testo correlata, indicata di seguito tra parentesi quadre62: caso 47: […] similiter omutesco absque B scribitur [ut Virgilius]. Si vero etc. caso 48: […] unde dixit Virgilius «qualis saepe viae deprehensus in aggere serpens» [et libro Georgicum]. Sane si cum etc. caso 52: […] tractam puto mensam etiam pro prandio et eduliis, ut [et] Iuvenalis in prima Satyra etc. caso 58: […] simili modo Tydeus [ut]. Et haec de AU etc. scripsit, undecimus sculptor Phocensis […]»; la lacuna permane, nella stessa veste in cui appare in PV, anche nell’edizione curata dal Bologni (Treviso 1477) di cui in teoria la successiva edizione del 1479 a Vicenza dovrebbe essere solo una ristampa. Stanti così le cose, ne consegue che quella del 1479 a Vicenza per i tipi di Koblinger non fu forse una semplice ristampa dell’edizione trevigiana del 1477, ma una nuova edizione riveduta e corretta: vi è del pari sanata anche la precedente aporia circa il ‘quarto’ Eraclide, il cui nome era pure lasciato in sospeso nei manoscritti e nelle stampe fino a quel momento, e compaiono anche altri interventi in altre voci che divergono nettamente dalle scelte attuate dal Bologni e sui quali per ora soprassiedo, per ragioni di spazio. Per il manoscritto Vat. lat. 1891 cfr. A. MANFREDI, I codici latini di Niccolò V, Città del Vaticano 1994 («Studi e Testi» 359), pp. 219-220 n. 350, e non p. 73 n. 118 come affermato da DONATI, L’Orthographia, p. 80 nt. 4; la studiosa offre ivi un elenco di nomi tratti da Diogene Laerzio menzionati da Tortelli, tra cui figura anche un Heraclides, salvo poi non identificare nel caso 62 (p. 291) il persistere della medesima traduzione del Traversari nell’elenco difettoso resone in A. In effetti, a p. 80 nt. 4, la studiosa, pur dichiarando di aver usato il ms. Vat. lat. 1891 per la comparazione col testo dell’Orthographia, ne rende indicazioni bibliografiche confuse, riferendosi al codice n. 118 dell’elenco di Manfredi (un manoscritto disperso di Agostino) e attribuendo al Vat. lat. 1891, appartenuto forse al cardinal Orsini, le vicende del Vat. lat. 1892 (un Diogene Laerzio sì, ma appartenuto al cardinal Filippo Calandrini e giunto in Vaticana solo nel XVI secolo); il Vat. lat. 1892 è infatti del tutto escluso sia appartenuto alla raccolta di Niccolò V, come indicato da MANFREDI, I codici latini, pp. 219-220. 61 G ai nn. 54, 60, 61 mantiene la lacuna; Va la elimina al n. 54, mentre Vb la mantiene al 60 e 61. Il caso 62 è trattato sopra. 62 Questo il comportamento di G: ai nn. 47, 48, 52, 53 mantiene la lacuna, al n. 58 integra con «et sic Tydeus»; Va invece elimina la lacuna nel caso 48 e 53, e la integra nel 47 e 52. Le integrazioni sono siffatte: «similiter omutesco sine B Virgilius» e «Iuvenalis etiam in prima satyra […]», con espunzione di ‘et’. Vb mantiene per parte sua la lacuna al n. 58.
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caso 63: […] ut Iuvenalis [in]: «imperii fines Tyberinum virgo natavit» etc.
Vediamo infine quale trattamento venga riservato in PV alle lacune per cui in A non viene lasciato invece nessuno spazio e il testo si arresta bruscamente (DONATI, L’Orthographia, pp. 304 e sgg.): Espunzione della lacuna
Integrazione della lacuna
Caso 89 Caso 92
Caso 90 Caso 91 Caso 93
Mantenimento della lacuna come in A Caso 94 Caso 95
Nei casi 89 e 92 il testo viene in qualche modo ‘normalizzato’ espungendo l’elemento di disturbo: il caso più eclatante è l’89 s.v. Clepsidria: «a κλέπτω, quod est furor, et udria quod est vas aqueum componitur quasi aquam furetur. [unde ait Iuvenalis in satyra quae incipit]» dove l’intero passo compreso tra parentesi quadre è espunto in PV63; nel caso 92 s.v. Hyphen è invece espunto il nome Virgilius cui doveva seguire la citazione mancante64. Nelle ricorrenze 94 s.v. Parrhasius e 95 s.v. Pharmacum è mantenuta la lacuna così come si trova in A65. Importa ora notare il modo in cui la lacuna venga integrata nei casi sopra indicati in tabella: s.v. Comma (caso 90), subito dopo la sospensione «et derivatur», è inserito l’etimo greco ἀπὸ τοῦ κόπτω (sic)66; s.v. Hibex (caso 91) analoga sospensione «et dicitur a nostris» è integrata con «capreolus proprie»67; s.v. Musa (caso
63
Qui T espunge, G mantiene la sospensione, mentre Va integra così: «Iuvenalis eius rei est testis». 64 Qui T espunge, Vb mantiene invece la sospensione, mentre G integra «Virgilius in IV ante malorum», citazione che sembrerebbe piuttosto attribuibile al primo libro (VERG. Aen. I, 198): «O socii (neque enim ignari sumus ante malorum)». Circa la possibile integrazione di questo passo cfr. TOMÈ, Metodo compilativo cit., il rinvio sarebbe qui in effetti a VERG. Aen. IV,90 («Quam simul ac tali persensit peste teneri») per il tramite di Diomede (GL I,435,8-10), unico tra i grammatici a proporre simul ac come caso di hyphen. Si veda anche infra il presente studio a tal proposito. 65 Lo stesso accade in G e in Vb; in T invece il caso 94 è risolto con un’espunzione, mentre nel 95 compare un’interpolazione che costituisce tratto distintivo di questo manoscritto; dopo aver eliminato del tutto: «Admonet summus apud eos poetarum Homerus sic dicens», cui in A segue la sospensione, T sostituisce: «Qua differentia utitur Homerus saepissime». 66 Il medesimo etimo compare anche in Va, ma all’interno di una spiegazione che suona così: «significat partem et digressionem. Lucanus ‘plus mihi comma placet’ a κόπτω». La citazione, stando a ThLL, III, p. 1817, 36-38 si legge in EPITHAPH. Lucan. Anth. 668,4: «continuo numquam derexi carmina ductu, quae tractim serpant: plus mihi comma placet». In T il lemma Comma è omesso. 67 In G si legge «haedus proprie», in Va «campolus (sic) proprie», in T «edus».
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93) dopo la sospensione «dicitur teste Herodiano a μῶσις quod est» appare l’integrazione «inquisitio»68. Resta ora da indagare come vengano complessivamente trattati gli spazi bianchi e i punti di indefinitezza del testo in G, T, V, ovvero nei manoscritti discendenti da A coi quali PV appare per vari tratti imparentata. Una caratteristica fondamentale per cui T si contrappone a G e Vb (ma non a Va) è la coerente eliminazione di moltissimi spazi bianchi, pure qui talora con alcune piccole espunzioni conseguenti all’eliminazione della finestra (casi 47, 48, 52, 58, 63, 67, 77, 80)69. Solo in pochi casi gli spazi bianchi vengono integrati (per esempio casi 46, 51, 53, 65, 70)70. Anche in Va gli spazi bianchi che connotano invece G e PV nella sezione copiata (parte teorica e repertorio alfabetico sino a Cotula), ammontanti a sedici in A, 68 Vb concorda con A, mentre in G si legge «a μοσσια (sic)» e il resto coincide con A; T innova così: «Musa a λιαομαι (sic) quod est inquisire». 69 Le espunzioni che si estendono ad altre parti di testo contigue si hanno in T ai casi 58 s.v. Diphthongus, dove è del tutto omessa e risistemata la parte compresa tra parentesi quadre: «ut Virgilius in Bucolicis ‘Orpheus in silvis’ [inter delphinas Arion’; simili modo’Tydeus’ ut] et sic Tydeus» e al caso 63 s.v. Hetruria dove, oltre a espungere la lacuna, è omesso anche il rimando interno «ut vidimus in dictione Cloelia». 70 La situazione degli spazi bianchi di G, V e di PV è rendicontata in Appendice nella tabella 1 e 2. Rendo notizia qui, invece, del contenuto delle integrazioni presenti in T, valutandole assieme a quelle di G e V in relazione al testo di PV: 1) il caso n. 46 è integrato col verso di VERG. Georg. IV, 195 che già Gemma Donati individuava come pertinente in questo passo. In PV e in G lo spazio è mantenuto, in questo caso, mentre Va integra a suo modo espungendo una parte del testo di A: «[…] sed potius unico [B] scribendum putamus quia brevis eius prima [ab auctoribus nostris ponitur] Lucanus similiter: “fluctuque latente saburra”»); 2) il caso 51 è risolto in T con la citazione di CIC. Off. I,8 segnalata dalla Donati, che ricorre anche in V, oltre che in PV; 3) nel caso 53, in corrispondenza di una finestra di otto linee in A, T inserisce una citazione che copre sette righe di testo ed è tratta da OV. Fast. III, 361-371; si tratta di una soluzione non condivisa da nessuno degli altri due testimoni discendenti da A e distante anche dalla Veneziana, che, assieme a Va, elimina la lacuna, mentre G la mantiene. L’intervento testimoniato in T agisce secondo un’indicazione implicita dell’autore, poiché in effetti, subito dopo la fine della lacuna, Tortelli riporta i versi ovidiani immediatamente successivi (OV. Fast. III, 373-374), introdotti dall’indicazione «ut dixit Ovidius in loco praefato»; 4) nel caso 65 la lacuna è colmata in T con una spiegazione che ricorre pure in G, come segnalato e poi giustificato dalla Donati a p. 303; PV invece elimina la lacuna, mentre Vb la mantiene; 5) nel caso 70 T inserisce un termine greco (πυραιεῦς, sic) a giustificazione della forma Pyraeeus (sic) che riapparirà anche in G e in PV, dove Vb mantiene invece la lacuna. Il testo di T si accorda dunque con le soluzioni adottate da PV in due casi su cinque, una volta (caso 51) in accordo con tutti i manoscritti discendenti da A, l’altra (caso 70) integrando in modo analogo a G. Questa seconda ricorrenza, però, consiste nel ripristino dell’etimo greco di Pyraeeus (sic) e potrebbe motivarsi anche per deduzione logica, senza necessariamente ipotizzare a monte l’esistenza di un testimone che contenesse la forma greca restituita. Dei due casi d’integrazione in cui T si discosta del tutto dagli altri testimoni discendenti da A, mi sembra particolarmente significativa al fine della definizione del testo in prospettiva ecdotica la soluzione adottata nel caso 53 (s.v. Ancyle), per i motivi sopra esposti.
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secondo l’elenco resone dalla Donati, sono completamente eliminati. Del tutto diversa la configurazione di Vb nelle restanti fasi di copia e di G nel suo complesso, di cui si veda il prospetto nell’Appendice. Balza agli occhi l’azione normalizzante attuata da Va, T, e PV rispetto a G e Vb nel trattamento delle situazioni di indefinitezza testuale. Valutiamo infine i casi in cui le lacune di A non presentano spazi bianchi e il testo si arresta bruscamente senza apparente motivo: G e V integrano entrambi in tre casi su sette, ma solo una volta in coincidenza, e con scelte del tutto diverse (caso 91 s.v. Hibex)71. In PV i casi di integrazione sono tre su sette72: nel caso 90 l’integrazione proposta presenta il medesimo etimo di Va, in cui è tuttavia aggiunta una spiegazione assente in PV, e così nel caso 91 nuovamente l’integrazione «capreolus proprie» di PV è molto vicina al «campolus (sic) proprie» di Va, mentre nel caso 93 la soluzione «inquisitio» di PV sembrerebbe piuttosto vicina a «inquisire» di T, se non fosse che quest’ultimo innova radicalmente proponendo per Musa un etimo da λιάομαι. 8. Valutazioni e conclusioni I dati fin qui raccolti confermano che PV discende da un antigrafo imparentato con G, T, V e al contempo da essi indipendente, come dimostrano errorri separativi e caratteristiche non riconducibili univocamente a uno di questi manoscritti. Per qualificare meglio la facies di questo testimone perduto, fermo restando che il testo di PV fu di certo contaminato in qualche modo anche con l’altro ramo della tradizione, è necessaria una certa cautela. Nello stilare un bilancio complessivo dei dati raccolti si profila anzitutto la necessità di distinguere la coincidenza generica in errore dai casi di devianza o di interpolazione che hanno un peso oggettivamente maggiore o comunque più significativo di altri. In tal senso si potrebbe affermare sin d’ora con relativa certezza che PV dimostra contatti più significativi con V e con G rispetto a T, col quale condivide molti errori di
71 Nel caso 91 G inserisce «haedus proprie» e V «campolus proprie (sic)». Quanto a G, le altre due integrazioni sono le seguenti: la prima (caso 92 s.v. Hyphen, dove in G si legge: «Virgilius in IV ‘ante malorum’»), piuttosto ambigua, come si è visto, va letta all’interno di sistema di riferimento più ampio che ho illustrato in altra sede (cfr. supra e inoltre TOMÈ, Metodo compilativo cit.); la seconda è costituita da una parola greca (caso 93 s.v. Musa dove appare μοσσια, forse storpiatura di μοῦσα). In Va le due inserzioni si hanno alla voce Clepsydria (caso 89) e Comma (caso 90): nella prima la sospensione è risolta con «Iuvenalis eius res est testis» e nella seconda con una spiegazione:«significat partem et digressionem. Lucanus ‘plus mihi comma placet’ a κόπτω», per cui cfr. supra. 72 Cfr. la tabella riportata sopra a p. 540 e le note corrispondenti.
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trascrizione per errato scioglimento di lettere e nessi, e altri tratti meno significativi. Oa procediamo a valutare sistematicamente i dati. Tra le caratteristiche di A condivise da G, T, V presenti in PV spicca il caso 37 s.v. Diphthongus – Foelix, in cui esso concorda pienamente col solo Vb; non vale lo stesso per Aegeum mare, dove PV non accoglie l’innovazione proposta in Va, e condivide con A, G e T la correzione su rasura di Pietro Odo di cui si disse73. Il che conferma l’ipotesi della distanza intercorrente tra Va e Vb, non riconducibile a mio avviso a semplici interpolazioni di un copista dotto: ciò non toglie che i due testimoni da cui discese nel suo complesso il testo di V dimostrino entrambi vari tratti vicini ad A che indubbiamente li accomunano. Utile a stabilire la parentela di PV in particolare con un testimone dei tre menzionati è la lemmatizzazione di Oebaliam (sic), tratto che accomuna specialmente A, Vb e PV, come del resto l’omissione del salto da antecedens ad antecedens nel caso 31, 10-12 (discusso in DONATI, L’Orthographia, pp. 310-11) presente in G e T, ma non in A e Va. Particolarmente significative per stabilire le direzioni dei contatti che contribuiscono a delineare l’assetto del testo tramandato in PV appaiono le integrazioni o le rettifiche cui sono sottoposte in essa alcune situazioni di indefinitezza del testo di A; fermo restando che PV per lo più espunge od omette i numerosi spazi bianchi o le finestre vuote presenti in A, si segnalano una decina di casi di integrazione o rettifica testuale di importanza indiscussa; in uno solo di questi (il n. 53 s.v. Ancyle) appare la rettifica di una citazione di Ovidio («dicente Ovidio libro primo»), scambiato per Lucano in A, condivisa con T e con le stampe venete74; degli altri nove tre (casi 54, 60, 61) si risolvono in PV in modo piuttosto banale (con l’aggiunta di ‘libro’) e comunque con una soluzione non condivisa da nessuno dei manoscritti discendenti da A. Tra i rimanenti sei, il caso 51, presente in tutti e tre i manoscritti citati, consiste nell’integrazione di una citazione di CIC. Off. I,8 e dovette inserirsi in una posizione alta della trasmissione del testo in questo ramo, visto che figura anche in PV, oltre che in G, T, V; due casi (70 s.v. Pyraeus e 75 s.v. Propylaea) coinvolgono l’uno l’eplicitazione di un etimo greco relativo a Pyraeeus (la parola greca aggiunta è πυραιευς) e l’altro l’inserzione del numero esatto del libro di Gellio menzionato (il XVI): entrambi figurano in G e, limitatamente al caso 70, anche in T; si tratta però di soluzioni che potrebbero essere state operate anche a prescindere dal loro ricorrere in qualche ipotetico antigrafo comune o manoscritto in qualche modo imparentato, per deduzione logica dell’etimo l’una, attraver73 74
Cfr. supra e soprattutto DONATI, L’Orthographia, pp. 279-80. Si tratta di OV. Fast. III, 87: si veda supra il presente studio.
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so il controllo di un esemplare gelliano l’altra75. I tre casi più significativi rimangono pertanto i nn. 62, 83 e 64: i primi due sono condivisi da G e Vb, l’ultimo è presente solo in Vb. Il caso 62 s.v. Heraclides presenta l’integrazione ‘nonus’ all’interno del lacunoso e problematico elenco dei quattrodici Heraclides tratto da DIOG. LAERT. V, 93-94 di cui si è ampiamente dibattuto e che venne sanato nella stampa vicentina del 1479; il caso 83 s.v. Sycion contempla l’integrazione ‘aliam’ che accompagna l’identificazione dell’isola Sicinus come omografa della città di Sicione (Sycion), nel Peloponneso. Il caso 64 s.v. Magus è forse il più significativo tra quelli qui esaminati: richiamo per chiarezza il luogo e le varianti riscontrabili: Qua de re Aeschylum antiquum poetam graecum dixisse puto Italiam herbarum potentem. Unde etiam Virgilius in Moeri .
Questa stessa interpolazione appare in Vb esattamente nella stessa forma in cui è in PV, mentre in G si legge «quaedam quae lege foeliciter», con espunzione di «de his talibus»76. Sembra abbastanza chiara, per quanto attiene la coincidenza nell’interpolazione di questi tre passi, la preponderante dipendenza di PV da Vb. Passiamo infine a valutare le devianze grafiche presenti nell’indice dei lemmi della sezione alfabetica; si è detto che PV condivide con G, T, V approssimativamente un terzo (una cinquantina) delle circa 140 varianti in essa attestate (cfr. tabelle 3 e 4, e indice dei lemmi). Pare opportuno valutarle non solo in base al numero, ma anche al peso. Dovendo necessariamente partire dai dati numerici, emerge, leggendo le tabelle allegate, che nella concordanza 2/3 PV si sposa 12 volte con V e 10 con G e con T; la coincidenza univoca si ha 9 volte con T, 7 con V, 6 con G. Dunque complessivamente PV si troverebbe algebricamente in coincidenza d’errore 19 volte con T e V e 16 volte con G, il che confermerebbe comunque la rilevanza dell’interrelazione con V, al di là di ogni ulteriore considerazione. Se passiamo tuttavia a valutare il peso di queste devianze, si traggono ulteriori considerazioni spendibili in un bilancio complessivo e mirato del problema; a tale scopo ho considerato esclusivamente le devianze che vedevano concordi due o un manoscritto su tre (tabella 3, colonne terza e quarta) e ho provveduto anzitutto ad eliminare tutte le grafie oscillanti nella prescrizione stessa del Tortelli e quelle (corrette) che potevano essere oggetto di ripristino autonomamente, senza giustificarsi per l’esclusiva de75 Rammento che G e T, nell’integrare le lacune di A, concordano pure nel caso 65, in cui PV cassa invece del tutto le due righe rimaste bianche in A. 76 T integra in modo del tutto diverso: «dicit nonnulla».
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rivazione da un testimone a sua volta corretto. Selezionando e sottraendo ulteriormente da questo totale parziale le devianze dovute all’errata lettura di una lettera o nesso e attribuendo una valenza comunque relativa anche allo scambio Y-I, pur importante77, ne sono emersi i casi che propongo di seguito all’analisi: Brasiadas (G Va), s.v. Diphthongus – Aequus (T), Myrmilon (Vb), Ogygius (G Vb), Scorpus (Vb), Theatrides (G Vb). Queste occorrenze, particolarmente probanti a mio avviso, confermano la preponderante concordanza in errore di PV con G e V, benché più qualificanti appaiano sotto il profilo delle devianze grafiche i tratti condivisi con V, in particolare Myrmilon per Myrmidolon; letti assieme a quelli già rilevati ad altro proposito, ne confermano la speciale vicinanza col testo di PV. I tratti più significativi che PV condivide invece con G, assieme alle due occorrenze Fabii e Fumus in cui si sono ravvisate lezioni riconducibili a G piuttosto che a T, sono la grafia Scylurus (Scilurus in A) e Parclyus (Pardyus in A): se la prima potrebbe essersi forse ingenerata autonomamente, il persistere della seconda potrebbe non giustificarsi solo con un banale scambio CL-D operato indipendentemente da due diversi copisti, dal momento che entrambe le forme Parclyus/Pardyus sono l’aberrante trasposizione di un nome proprio femminile (Πάρμυς, Πάρμους ἡ in HDT. III, 88 e VII,78) non altrimenti attestato in latino in questa veste. Un errore analogo di PV coinvolge infatti la trasposizione di un altro grecismo di cui si è detto, ovvero Marclylas (PV)/Marclydas (Vb) rispetto a Mardylas di A, in cui il confronto con la fonte greca (Μαρδύλας, il ladrone la cui storia è narrata in SCHOL. ad Od. XIV,327,11) permette di dare senza dubbio ragione ad A. I casi di coincidenza in errore con T coinvolgono per lo più l’errato scioglimento di singole lettere o nessi che potrebbero motivarsi ipotizzando a monte la presenza di un esemplare di difficile decodificazione, ma non garantiscono che queste devianze potessero essersi generate in modo esclusivo o peculiare. Analogamente la rettifica della citazione di Ovidio (e non di Lucano) al caso 53 o l’eliminazione della seconda occorrenza di 77
Si veda qui la tabella 3 dell’Appendice e l’indice dei lemmi per le osservazioni che hanno indotto a scartare le devianze aderenti alla prescrizione del Tortelli o che ripristinano la corretta grafia anche a prescindere dall’impiego di un modello corretto. Le devianze così selezionate, in cui si ravvisa soprattutto il fraintendimento di CL-D, C-T, A-CI, E-AE, N-U, N-V, M-N, E-I, A-O, M-NI/IN, sono: Agonotheca (T), Alcinaeon (T), Apiscion (Va), Athene (T), Bathani (V T), Castimira (V T), Cymaetha (V G), Hieropicra (G V), s.v. De aspiratione – Heritius sive Herinatius (G), ibidem – Herma (Vb), Mynaeus (G), s.v. Prosodia – Incus (G T), Tisiphone (T). Le devianze in cui appare invece lo scambio I-Y sono: Azimus (T), Hypermnestra (G V), Marsya (V), Scylurus (G). Le forme omesse dall’elenco proposto si rinvengono comunque tutte nella tabella 3 e i motivi dell’esclusione si desumono scorrendo in Appendice le osservazioni allegate all’indice dei lemmi della princeps, lettera per lettera.
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Cercopithecus (casi 38-39) di per sé non postulano necessariamente alle spalle la disponibilità di un testimone corretto. Richiamo infine le conclusioni cui siamo giunti in merito alle caratteristiche generali dei manoscritti G, T, V, a prescindere dalle pure divergenze grafiche. In particolare l’omissione di Procris, comune ai soli G e V, la situazione del testo in Lysius/Lysippus con alterazione identica in Vb, parzialmente simile in G e del tutto assente in T, o ancora l’articolazione generale della voce Diphthongus e la situazione del testo ivi tramandato nei sublemmi Scaevola e Saevus, e infine l’assenza in G e T di un’integrazione operata da Tortelli stesso nel margine di A (caso 31) che appare invece in V e PV, confermano tutti la più marcata corrispondenza del dettato di PV con V, in misura minore con G, e una sua maggior distanza da T per ciascuno dei tratti individuati. Per quanto attiene ai contatti con l’altro ramo della tradizione manoscritta (quello dei manoscritti non discendenti da A), non è stato per ora possibile stabilire con assoluta certezza con quale specifico testimone sia avvenuta la contaminazione del testo di PV in relazione ai nove lemmi dei sedici aggiuntivi assenti in A e in G, T, V78: è certo, però, che le sedici voci estranee a questi ultimi non sono presenti in blocco ‘in tutta la restante tradizione manoscritta e a stampa’, come affermato da Gemma Donati, poiché solo circa la metà di esse figura in PV e complessivamente solo quattordici nelle stampe venete, a partire dall’edizione del Bologni (Treviso 1477). Accanto all’ipotesi che il/i testimoni utilizzati nella realizzazione di PV non annoverassero tutte le voci aggiuntive, va considerata l’eventualità che su essi fosse stato applicato dal curatore di PV un vaglio molto più selettivo, le cui maglie potrebbero essersi allargate in seguito alla revisione operata dal Bologni, propagandosi di qui alle stampe successive. Un ulteriore dato emerso dalle collazioni effettuate suggerisce che PV fu molto probabilmente concepita a prescindere dalla contemporanea edizione romana79, con la quale condivide un numero davvero esiguo di errori congiuntivi e rispetto alla quale annovera un numero nettamente inferiore di voci. L’estraneità della tradizione a stampa veneta dalla linea che generò la stampa romana sembrerebbe confermata, pur senza certezza assoluta, dal fatto che le voci aggiunte a partire dall’edizione del Bologni non contengono nessuna delle 78 Una blanda contaminazione con U e con la Romana sembrerebbe attestata, ma non va molto oltre le tenui corrispondenze indicate. 79 Rammento che la princeps Romana fu esemplata a partire da B (ms. Vat. lat. 3319) e che pertanto va considerata alla stregua degli altri testimoni non discendenti da A; la situazione del testo della princeps romana in relazione a B è stata studiata dettagliatamente da CAPODURO, L’edizione romana del ‘De Orthographia’, per cui cfr. supra.
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varianti che qualificano le voci presenti nella princeps Romana, mentre sono in genere accomunate tra di loro da alcune varianti proprie. Non è stato possibile analizzare qui nel dettaglio alcune caratteristiche peculiari di PV assenti in A e del pari nei manoscritti da esso derivati: si tratta della singolare distribuzione delle formule di transizione tra una lettera e l’altra del repertorio alfabetico, tutte presenti in A, eccezion fatta per la lettera S, e del tutto assenti, invece, in G e T. Diversa è la situazione di PV, che si dimostra da questo punto di vista vicino piuttosto a Vb, tra i vari testimoni discendenti da A. In secondo luogo, resta pure da esaminare nel dettaglio la situazione di estrema mobilità con cui sono trattati in numerosi testimoni i titoletti e le sotto partizioni del libri III e IV nella sezione teorica iniziale, che risultano vistosamente aggiunti in margine al rigo in un secondo momento in A, in modo radicalmente diverso dagli altri testimoni da esso discendenti, ma con una formulazione analoga a quella assunta nelle stampe venete a partire dalla princeps. Per contro, l’omissione dei tre lemmi Cybele, Cicones e Cichesus che qualifica, tra gli altri dati, il testo di PV, contrappone nettamente questo testimone non solo a G e T, dove i lemmi sono tutti e tre coerentemente presenti, ma anche a tutte le successive stampe venete. Il salto si colloca in prossimità del luogo in cui in Va erano caduti ben undici lemmi e il cui punto di sutura era, appunto, la voce Cybele. Questi tratti, sia pur non perfettamente sovrapponibili alla situazione testuale di V, contribuiscono a rafforzare il quadro dei già numerosi suoi punti di contatto con PV, e confermano un dato ulteriore: Gerolamo Bologni, approntando l’edizione trevigiana del 1477, integrò le tre voci Cybele, Cicones e Cichesus, assenti in PV, oltre a portare da nove a quattordici i lemmi assenti in A qualificanti il ramo opposto della tradizione manoscritta. II. La fortuna a stampa dell’Orthographia in Veneto Nei due paragrafi successivi sono proposte alcune riflessioni circa l’innegabile contributo reso alla storia della tradizione a stampa da PV, per cui Jenson, contrariamente a quanto finora affermato da Proctor e da altri studiosi dopo di lui, coniò il suo carattere greco destinato a grandissima fortuna nella stampa degli incunabuli latini. Non è escluso che, per l’edizione di PV, egli si fosse avvalso della consulenza di Ognibene Leoniceno, curatore anche di altre opere uscite per i suoi torchi in quello stesso anno, il primo di attività in Venezia (paragrafo 1). Secondariamente viene ricostruita la vicenda editoriale connessa alla stampa della seconda edizione dell’Orthographia in Veneto (paragrafo 2). Curata dall’umanista trevigia-
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no Gerolamo Bologni, quest’edizione venne ripresa in varie successive (ri)stampe assieme ai documenti editoriali allegativi dal suo curatore, dei quali è data trascrizione in Appendice. In particolare la dedicatoria a Costantino Robegano mette a fuoco i motivi che spinsero a dare di nuovo ai torchi quest’opera destinata a tanta fortuna e contiene giudizi sulla figura di Giovanni Tortelli rimasti finora in ombra negli studi a lui dedicati. 1. Ipotesi per una datazione della princeps Veneziana Secondo Martin Lowry la princeps Veneziana dell’Orthographia potrebbe collocarsi cronologicamente dopo il 21 maggio 1471, data della pubblicazione del Quintiliano curato da Ognibene, ancora privo di caratteri greci; vi apparirebbe il primo elegante tipo greco fuso appositamente in quell’occasione dallo stampatore francese su un modello fornito probabilmente dal Filelfo80. Stando a Lowry, la prima stampa con caratteri greci apparve a Venezia nei primi mesi dell’estate sia presso Vindelino da Spira (Cicerone De finibus) che presso Jenson (Tortelli Orthographia); il carattere greco utilizzato per l’Orthographia (Gk 115) sarebbe il primo di tal genere fuso da Jenson, come le date stesse delle sue edizioni a stampa confermerebbero81. Notizie diverse si leggono però nel Layton che, pur citando nella bibliografia generale il testo di Lowry, non ne considera i contenuti 80 Questa l’opinione espressa da M. LOWRY, Nicolas Jenson e le origini dell’editoria Veneziana nell’Europa del Rinascimento, tr. it. Roma 2001, pp. 135 e ss.; a p. 363 lo studioso riporta lo specimen dei caratteri di Vindelino e Jenson, raffrontati con la grafia del Filelfo. Sulle forme scrittorie di greco circolanti a Venezia e sugli alfabeti diffusi in Italia all’epoca si vedano A. PONTANI, Le maiuscole greche antiquarie di Giano Lascaris. Per la storia dell’alfabeto greco in Italia nel ’400, in Scrittura e civiltà 16 (1992) pp. 77-227, e ancora E. BARILE, ‘Littera antiqua’ e scritture alla greca. Notai e cancellieri a Venezia nei primi decenni del Quattrocento, Venezia 1994. Infine segnalo anche S. RIZZO, Gli umanisti, i testi classici e le scritture maiuscole, in Il Libro e il testo. Atti del convegno internazionale, Urbino, 20-23 settembre 1982, a cura di C. QUESTA – R. RAFFAELLI, Urbino 1984, pp. 225-241, tavv. 12 e A. PETRUCCI, Scrivere alla greca nell’Italia del Quattrocento, in Scritture, libri e testi nelle aree provinciali di Bisanzio. Atti del seminario di Erice (18-25 settembre 1988), a cura di G. CAVALLO – G. DE GREGORIO – M. MANIACI, Spoleto 1991, pp. 499-517. 81 Queste, in ordine, le edizioni jensoniane cui mi riferisco: 1– Rhetorica ad Herennium (ed. princeps), a cura di OGNIBENE, s.d. 1470 (priva di caratteri greci); due emissioni, solo la seconda firmata dall’umanista. 2– QUINTILIANO, De Institutione Oratoria, a cura di OGNIBENE, 21 maggio 1471 (priva di caratteri greci). 3– LORENZO VALLA, Elegantiae s.d. 1471 (priva di caratteri greci): probabile princeps concorrenziale assieme all’ed. romana, pure del 1471 (situazione simile a quella dell’Orthographia). 4– GIOVANNI TORTELLI, Orthographia s.d. 1471: primo carattere greco fuso da Jenson; princeps concorrenziale assieme all’ed. romana, pure del 1471 (cfr. il caso delle Elegantiae).
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in corrispondenza della classificazione dei primissimi caratteri greci stampati in Venezia, attenendosi piuttosto al manuale di Proctor. Quest’ultimo riconosce come primo esempio di testo latino in cui appaiano citazioni greche estese il Gellio stampato da Jenson nel 147282. Un semplice raffronto tra gli specimina offerti da Lowry e la riproduzione di Layton lascia chiaramente intendere l’originale qualità dei tipi fusi da Vindelino da Spira e Jenson per le loro edizioni veneziane, parimenti datate al 1471, rispetto a quelli adottati in quello stesso anno da Ammergau per il primo libro stampato a Venezia interamente in greco (gli Erotemata di Crisolora tradotti da Guarino)83. In sintesi, possiamo concludere che a Venezia entro il 1471 furono introdotti almeno tre diversi tipi di caratteri per il greco da tre diversi editori; due di questi, i meglio rifiniti, tennero a modello un carattere greco che Lowry attribuisce a Filelfo e quello jensoniano fu speso la prima volta dopo il maggio del 1471 per stampare l’Orthographia di Tortelli84. Dobbiamo dunque ammettere col Lowry e in forza delle informazioni tratte dai cataloghi (cfr. qui supra) che la prima opera a stampa dello Jenson a contenere caratteri greci fu proprio l’Orthographia del Tortelli, ma non possiamo
82 E. LAYTON, The sixteenth-century Greek book in Italy: printers and publishers for the Greek world, Venice 1994, pp. 3-5 e pp. 48-49; R. PROCTOR, The printing of Greek in the 15th Century, Oxford 1900, pp. 31-35. 83 Non sono molti gli studi specifici sugli erotemata: segnalo P. IPPOLITO, Una grammatica greca fortunata: gli ‘Erotemata’ di Manuele Moscopulo, in Rendiconti dell’Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli n.s. 56 (1981), pp. 199-227; A. ROLLO, Erotemata crisolorini alla scuola di Giorgio Antonio Vespucci, in Studi Medievali e Umanistici 3 (2005), pp. 359-65. Per la stampa degli erotemata nel XV sec. rinvio al sempre fondamentale A. PERTUSI, Erotemata. Per la storia delle fonti delle prime grammatiche greche a stampa, in Italia Medioevale e Umanistica 5 (1962), pp. 321-351. L’edizione di Ammergau è in realtà un compendio; la princeps, destinata a rivoluzionare l’apprendimento del greco in Italia, fu stampata a Vicenza tra 1475 e 1476, dove trovarono la loro prima edizione anche gli erotemata del Lascaris per i tipi di Leonardo Achates tra 1489 e 1490. 84 Anche J. IRIGOIN, Les origines de la typographie greque, in Dotti bizantini e libri greci nell’Italia del secolo XV. Atti del Convegno Internazionale – Trento 22-23 ottobre 1990, a cura di M. CORTESI – E. V. MALTESE, Napoli 1992, pp. 13-28 (con tavole conclusive) nuovamente non nomina l’Orthographia del 1471 come primo esempio di impiego del carattere greco jensoniano a stampa in Venezia, e cita piuttosto il Gellio del 1472. N. BARKER, Aldus Manutius and the development of Greek script and type in the fifteenth century, New York 1992, pp. 21-42 sottolinea il ruolo fondamentale svolto dal carattere tipografico greco da Spira-Jenson, preso a modello dagli stampatori successivi non solo a Venezia, dove fu secondo solo a Manuzio, ma anche in alcune città dell’entroterra (Treviso e Vicenza); l’autore ne descrive nel dettaglio le caratteristiche formali, ma non indica per quale opera dello Jenson tali caratteri furono incisi la prima volta. Infine anche K. SP. STAIKOS, Charta of Greek printing: the contribution of Greek editors, printers and publishers to the Renaissance in Italy and the West, 1 Fifteenth century, Cologne 1998, pp. 24-26 non indica del pari per quale opera, tra quelle edite da Jenson, furono per la prima volta fusi i suoi splendidi caratteri greci.
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convenire che tali caratteri fossero davvero stati esemplati dal Filelfo85. Credo molto più probabile che modelli di scritture ‘alla greca’ circolassero comunque nell’entourage grecofilo veneziano a prescindere dal contributo di quest’ultimo: per esempio lo stesso Andrea Contrario, perito calligrafo e traduttore dal greco, che nel 1454 chiese copia dell’Orthographia a Pietro Odo da Montopoli, possedeva competenze di certo spendibili nella creazione di specimina per la stampa86 e nulla vieta pertanto di ritenere che circolassero in Venezia copie manoscritte dell’Orthographia contenenti caratteri greci da cui sarebbe stato facile per i calligrafi e gli scribi greci presenti in loco trarre gli specimina minuscoli utilizzabili nella stampa. Inoltre Barker mette piuttosto in relazione i primissimi caratteri greci coniati da Vindelino da Spira con la donazione del Bessarione, ipotizzando che il carattere greco fosse stato fornito da un suo emissario già nel 146987. Si tratta in ogni caso di grafie dai tratti talmente formalizzati da poter a stento essere attribuite ad un’unica persona. Non possiamo quindi stabilire con certezza né da chi né quando fu fornito a Jenson il carattere greco destinato a tanta fortuna, ma resta fermo un dato: la prima opera a stampa per cui lo stampatore lo coniò fu l’Orthographia di Giovanni Tortelli, il che avvenne verosimilmente dopo il 21 maggio 1471, data in cui fu licenziato il Quintiliano che ne era ancora privo. Il 1471 è del resto un anno particolarmente importante per la stampa in Venezia: fu il primo di attività per Jenson e uno dei primissimi per Vindelino da Spira, intestatario del famoso privilegio di stampa per lui espressamente erogato dalla Serenissima88. Nicolò Jenson si avvalse tra 1470 e 1471 della collaborazione d’eccezione di Ognibene Leoniceno per l’edizio-
85 Non ho potuto fino ad ora rintracciare la lettera di Filelfo al Foscarini che LOWRY, Nicolas Jenson, p. 135 e ss. menziona come esistente a riprova della sue riflessioni, senza però darne rinvio bibliografico preciso. Per ora posso solo indicare quella più aderente alle affermazioni del Lowry (per data e contenuto), che si legge in FRANCISCI PHILELPHI Epistolarum familiarium libri XXXVII, Venetiis, Joannis et Gregorii de Gregoris fratres 1502, c. 231v.: datata «XI Kal. Iunias 1471»; la lettera contiene le congratulazioni del Filelfo per l’elezione di Foscarini a procuratore di San Marco, ma non vi si trova cenno alcuno di caratteri greci spediti in allegato, nè ve n’è menzione nelle altre lettere di quell’anno. 86 BARILE, ‘Littera antiqua’ e scritture alla greca, specie pp. 124-137: vi si ragiona, tra le altre cose, del contributo di Andrea Contrario al definirsi dei modelli di scritture ‘alla greca’ nella prima metà del XV sec. a Venezia. 87 BARKER, Aldus Manutius, p. 24. 88 Rinvio a N. POZZA, L’editoria Veneziana da Giovanni da Spira ad Aldo Manuzio. I centri editoriali di terraferma, in Storia della Cultura Veneta, a cura di G. ARNALDI – M. PASTORE STOCCHI, III/2, Vicenza 1980, pp. 215-244 per una panoramica generale sul problema e a G. B. GASPARINI, La natura giuridica dei privilegi per la stampa in Venezia, in La stampa degli incunaboli in Veneto, a cura di N. POZZA, Vicenza 1984, pp. 103-120.
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ne delle Rhetorica ad Herennium e delle Institutiones di Quintiliano89; non sappiamo chi furono i curatori delle Elegantiae e dell’Orthographia, uscite a stampa in quel medesimo anno dai torchi di Jenson, ma siamo certi che nel 1470/71 costui si spese in quattro opere a carattere grammaticale e retorico, queste ultime due per certo curate da Ognibene Leoniceno90. Altri nomi, tra cui quello di Benedetto Brugnoli, potrebbero essere avanzati come possibili curatori di opere a carattere specificamente grammaticale (Orthographia ed Elegantiae) in quel torno d’anni a Venezia; la stampa, pressoché contemporanea, di quattro opere a carattere retorico-grammaticale, non dovette essere casuale, considerato che Ognibene, erede spirituale di Vittorino da Feltre e docente in una delle più prestigiose scuole umanistiche del Nord Italia, vi insegnava proprio grammatica e retorica, latina e greca, e che Benedetto Brugnoli dal 1466 al 1502 tenne ininterrottamente scuola presso la cancelleria ducale a Venezia con larghissimo consenso91. D’altro canto, che Ognibene non fosse estraneo al progetto editoriale sotteso all’azione di Jenson è confermato dalla sua firma impressa, tra 1470 e 1471, sul Quintiliano e sulla Rhetorica ad Herennium: correttori ed editori quattrocenteschi di testi classici erano per lo più dotti, eruditi o maestri di scuola che, pur ‘firmando’ una sola edizione, dominavano di fatto per anni la produzione libraria di un solo editore, col quale stringevano vere 89 LOWRY, Nicolas Jenson, pp. 97-103 per la collaborazione con Ognibene Leoniceno. Su Ognibene e la sua attività si vedano: R. SABBADINI, Lettere inedite di Ognibene da Lonigo con una breve biografia, Lonigo 1880; ID., Nuove notizie e nuovi documenti di Ognibene de’ Bonisoli Leoniceno, Feltre 1900; C. LEITNER – M. DE RUITZ, Contributo alla biografia dell’umanista Ognibene Bonisoli da Lonigo, in Archivio Veneto s. V 125 (1985), pp. 121-134. 90 Già menzionate sopra: Rhetorica ad Herennium (ed. princeps), a cura di OGNIBENE, s.d. 1470; QUINTILIANO, De Institutione Oratoria, a cura di OGNIBENE, 21 maggio 1471; LORENZO VALLA, Elegantiae s.d. 1471; GIOVANNI TORTELLI, Orthographia s.d. 1471. 91 Benedetto Brugnoli fu il primo editore di Prisciano nel 1470; già discepolo di Ognibene e di Giorgio Trapezunzio, fu maestro di lettere umane presso la scuola della cancelleria ducale a Venezia dal 1466 al 1502. In città svolse intensa attività editoriale; stando a C. CASTELLANI, La stampa in Venezia: dalla sua origine alla morte di Aldo Manuzio seniore, Venezia 1889, rist. anast. Lint 1973, p. 22, Jenson si servì di lui, Ognibene da Lonigo, Antonio Cornazzano e Francesco Colucia come correttori delle sue prime opere a stampa. Considerato che Cornazzano tra 1470 e 1471 sembra più impegnato ad editare presso Jenson opere volgari (Vita della Vergine Maria, da lui stesso composta) e che Francesco Colucia firma assieme a Merula nel 1472 l’edizione jensoniana degli Scriptores rei rusticae, possibile revisore di Elegantiae e Orthographia, considerate le sue competenze e gli interessi professionali, potrebbe essere stato forse proprio il Brugnoli che l’anno prima (1470) aveva curato per Vindelino da Spira una fortunatissima edizione di Prisciano. Sul suo conto si veda E. MIONI, Brugnoli (Brugnolo, Prunulus), Benedetto, in D.B.I, XIV, Roma 1972, pp. 501-503; M. KING, Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, II, tr. it. Roma 1989, pp. 494-95 e infine R. CHAVASSE, Humanism Commemorated: the Venetian Memorials to Benedetto Brugnolo and Marcantonio Sabellico, in Florence and Italy. Renaissance Studies in Honour of Nicolai Rubinstein, a cura di P. DENLEY – C. ELAM, London 1988, pp. 455-61.
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e proprie società92. L’insegnamento del latino prevedeva all’epoca diversi livelli e diversi compensi; le lezioni meglio retribuite erano ovviamente quelle destinate alla lettura e interpretazione dei classici ed è a questo livello dell’istruzione che dobbiamo immaginare si collocasse l’acquisto di uno strumento di un certo costo, adatto all’esegesi e all’interpretazione dei testi, com’era l’Orthographia del Tortelli93. Il suo impiego assolveva ad una triplice funzione: vi si potevano trovare indicazioni sulla retta grafia di grecismi trasposti in latino (non sempre riportati nei dizionari d’uso comune), ampie notizie di varia erudizione ed estese citazioni tratte dagli autori, utili a contestualizzare e commentare i passi oggetto di studio, ed un efficace excursus contenente principi ortografico-grammaticali uniti a nozioni di fonetica storica nella sezione teorica premessa al tratto. Così concepita l’Orthographia costituiva un comodo sussidio integrativo alle grammatiche e ai dizionari comunemente utilizzati94. Del resto non si giustificherebbero a prescindere da un ben preciso piano editoriale legato alla scuola i costi sostenuti per riprodurre opere così consistenti e dispendiose95: come già osservato da Lowry in merito alle stampe di testi di con92 In certi casi la stampa è per loro un secondo lavoro oppure occasione di affermare il proprio nome, dal momento che la retribuzione percepibile come correttori non è elevata, mentre la dedica di un’edizione a un personaggio potente o la sua semplice menzione poteva comportare lucro e prestigio ben maggiore. Rinvio per i dettagli a P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto: la stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna 1991, pp. 61 e ss. per il ruolo e la fisionomia dei correttori quattrocenteschi; alle pp. 53-59 sono nominati Ognibene, Barnaba da Celsano, Bologni, Enea Volpe, come correttori ed editori di opere classiche a Vicenza, Venezia, Treviso. Inoltre si veda A. COLLA, Tipografi, editori e libri a Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Trento, in La stampa degli incunaboli nel Veneto, Vicenza 1984, pp. 37-80, specie pp. 41-47 per le retribuzioni dei correttori, nonché per la dipendenza degli stampatori dagli editori e promotori del commercio librario. 93 Del resto, nel complesso circa l’ottanta per cento degli incunaboli scritti in latino sono testi ecclesiastici, universitari, o destinati alla scuola di ‘humanità’. Il latino era la lingua dell’apprendimento linguistico e due gli ordini solastici in cui lo si studiava: le scuole d’abaco e quelle di ‘humanità’, non comunicanti tra loro e indirizzate a categorie di alfabetizzati adusi persino a grafie tra loro affatto diverse (mercantesca e umanistica). Un quadro generale sul curriculum scolastico in epoca medievale e umanistica (specie a Firenze) è offerto in R. BLACK, Humanism and education in Medieval and Renaissance Italy, Cambridge 2001, specie pp. 124-170 per gli studi grammaticali; pp. 238-272 per la lettura degli autori latini; pp. 331365 per la retorica. 94 Una buona sintesi per ‘leggere’ il fenomeno della relazione latino-scuola-tipografia si trova in P. TROVATO, Latino e volgare tra scuola e tipografia, in Storia della lingua italiana. Il primo cinquecento, a cura di F. BRUNI, Bologna 1994, pp. 19-27. 95 Per i costi complessivi di un incunabolo in Veneto all’epoca rinvio nuovamente a COLLA, Tipografi, editori e libri, pp. 41-47. Un’interessante disamina circa il rapporto stampatorelettore-mercato è fornito anche da LOWRY, Nicholas Jenson, pp. 271-320 del suo studio a partire da documenti d’archivio, in particolare da un attento esame del libro mastro del libraio veneziano Francesco de Madiis. I dati coprono un periodo di tempo che va dal 1484 al
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tenuto medico-scientifico e come si vedrà nel caso dell’edizione trevigiana dell’Orthographia datata 1477 e delle sue successive (ri)stampe, nel sostenere un simile sforzo editoriale fu complice una scelta precisa, orientata a un pubblico di certo legato al mondo delle numerose scuole private veneziane e dell’entroterra veneto, nonché alla nascente istituzione della Scuola di San Marco in Venezia, auspicata dal Bessarione stesso, donatario illustre appena tre anni prima della sua prestigiosa biblioteca, con l’intento di renderla pubblica e fruibile alle nuove generazioni96. Negli anni in cui venne composta la prima delle numerose edizioni venete dell’Orthographia, l’entourage veneziano esercitava forti ascendenti in Curia, ed è probabile che alcuni manoscritti di pregio dell’Orthographia, oggi scomparsi o introvabili, fossero ormai giunti in Veneto o a Venezia97, eletta da Bessarione patria 1488: vi si apprede che al vertice dello smercio librario vi erano i classici con 2.171 copie vendute, seguiti da testi liturgici e teologici (che sommati davano comunque più di tremila unità). L’impiego dell’Orthographia da parte di maestri, professori ed eruditi nella fase della sua tradizione manoscritta sembrerebbe documentato anche da G. DONATI, La prospettiva ortografica nell’evoluzione della cultura, umanistica: il ‘De Orthographia’ di Giovanni Tortelli, in I Classici e l’Università umanistica. Atti del Convegno internazionale, Pavia 22-24 novembre 2001, a cura di L. GARGAN – M. MUSSINI SACCHI, Messina 2006, pp. 375-417, specie pp. 390-417; se non che la studiosa, a p. 417, conclude sorprendentemente il suo contributo affermando che l’opera, pur nata da esigenze scolastiche, non fu in realtà a suo avviso destinata al mondo della scuola. Il caso editoriale di cui l’Orthographia fu protagonista in Veneto nella fase della sua diffusione a stampa sembrerebbe invece confermare il contrario, per lo meno per quanto attiene lo scorcio del secolo XV e i primi anni del successivo. 96 Sui rapporti tra la nascente scuola di San Marco e le prime edizioni a stampa di testi grammaticali e classici cfr. sempre LOWRY, Nicholas Jenson, pp. 41 e ss. Va detto, però, che da sola la scuola di San Marco non avrebbe giustificato una simile impresa editoriale. A Venezia e nell’entroterra agivano numerose istituzioni scolastiche, per lo più private, ma anche comunali, come si è visto per Vicenza. Per espressa decisione della Serenissima, Venezia rimarrà nei secoli di nostro interesse (XV-XVI) priva di uno studio universitario, ma servita da scuole pubbliche gestite da privati, e soprattutto centro di riferimento per la produzione libraria anche della terraferma, attività che essa provvedette a tutelare e controllare attraverso la concessione di specifici privilegi. Sul mondo della scuola a Venezia si vedano M. PASTORE STOCCHI, Scuola e cultura umanistica tra due secoli, in Storia della Cultura Veneta, III/1, pp. 93-121 e V. BRANCA, L’umanesimo Veneziano alla fine del Quattrocento. Ermolao Barbaro e il suo circolo, ivi, pp. 123-175; in seguito ID., Introduzione a La sapienza civile. Studi sull’Umanesimo a Venezia, Firenze 1998, pp. VII-XVI e ancora ID., Ermolao Barbaro e il suo circolo tra azione civile, fede religiosa, entusiasmo filologico, presperimentalismo scientifico, ivi pp. 59127. Da ultimo C. GRIFFANTE, L’umanesimo a Venezia. Note critiche per un aggiornamento bibliografico del capitolo ‘Ermolao Barbaro e il suo circolo’, ivi, pp. 197-226. 97 I tipografi Han e Cardella, accingendosi ad approntare la princeps Romana, furono costretti a procurarsi in fretta un manoscritto dell’Orthographia proprio dal veneziano Marco Barbo, congiunto del papa e cultore di antichità: cfr. A. MANFREDI, L’‘Orthographia’ di Giovanni Tortelli nella Biblioteca Vaticana, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, VI, Collectanea in onorem Rev.mi Patris Leonardi E. Boyle. O. P. septuagesimum quintum annum feliciter complentis, Città del Vaticano 1998 («Studi e testi», 385), pp. 265-298. Il manoscritto che servì alla stampa romana fu identificato da A. Campana nel Vat. lat. 3319. Manoscritto e
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adottiva della propria biblioteca. Non va dimenticato che l’arrivo in Italia dei primi stampatori fu propiziato appunto dal Niceno, e che Venezia fu certo città privilegiata in tal senso, anche a motivo dello stretto legame ideale istituito dal Cardinale con la Scuola di San Marco nella diffusione della cultura, di cui resta inteso la stampa dovesse essere strumento fondamentale98. Allo stesso modo non va sottovalutato il ruolo che Niccolò Volpe, fautore al pari di Ognibene della diffusione della stampa in Vicenza, potrebbe aver giocato nel primo tentativo veneziano di editare l’opera, alla cui redazione egli tanto aveva contribuito e alla cui diffusione si adoperò sicuramente. L’entusiastica accoglienza vicentina dell’edizione trevigiana del Bologni fu seguita a breve dalla stampa in città di una nuova emissione dell’opera; questa riedizione dell’Orthographia di Tortelli, del 1479, fu in assoluto il primo libro ad essere stampato a Vicenza e vari elementi inducono a sospettare che fosse stata a sua volta sottoposta a una revisione editoriale di un certo peso99. stampa furono studiati da CAPODURO, L’edizione romana del ‘De Orthographia’, specie pp. 3756. DONATI, L’Orthographia, pp. 201-202 e pp. 235-236 riassume i termini della vicenda di un lettera di mano di Tortelli indirizzata a papa Martino V e allegata al Vat. lat. 3319 appartenuto al Barbo; composta prima della morte di Martino V, avvenuta nel 1431, tale missiva, scomparsa, fu sostituita da un’altra, inserita nel ms. e non autografa: questa lettera, datata al 1454, è appunto quella in cui Andrea Contrario inoltra a Pietro Odo da Montopoli richiesta di ottenere una copia dell’Orthographia, ma la sottoscrizione del ms. è antecedente al 1458. Un piccolo giallo che conferma almeno un dato: una copia dell’Orthographia poteva essere dunque essere circolata sin dal 1454 nel gruppo umanistico di Francesco Barbaro, di cui Andrea Contrario faceva parte. Veneta è pure la miscellanea a carattere ortografico contenuta nel Par. lat. 7553 (DONATI, L’Orthographia, p. 206), e veneti furono vari eruditi che possedettero copie dell’opera: rinvio per questi aspetti alla dissertazione della Donati, alle pp. 196-202 (vi sono nominati possessori veneti di esemplari esistenti dell’Orthographia quali Marco Barbo, Pietro da Montagnana, Gaspare da Verona, Biagio Pilosio etc.). La documentatissima rassegna dell’autrice offre informazioni preziose anche su testimoni oggi scomparsi e pure appartenuti a uomini di cultura veneti: se ne evince che, oltre a Contrario, Marcanova e allo stesso Volpe (della cui attività in Vicenza negli anni dell’avvento della stampa si è detto) pure Franceso Diana, discepolo del Valla attivo in Friuli, disponeva di una copia dell’opera di cui oggi non abbiamo più notizia: cfr. DONATI, L’Orthographia, p. 322 e 240 per il Diana e passim per il Volpe. 98 Rinvio anzitutto allo studio di C. BIANCA, Da Bisanzio a Roma. Studi sul Cardinale Bessarione, Roma 1999 («RR inedita» saggi 15). Sul Bessarione, la biblioteca e la stampa si vedano inoltre in particolare M. ZORZI, Cenni sulla vita e sulla figura di Bessarione, in Bessarione e L’Umanesimo. Catalogo della mostra, a cura di G. FIACCADORI, Napoli 1994, specie pp. 15 e ss. per l’azione in favore della stampa a Venezia; ID., Bessarione e Venezia, ivi, pp. 200 e ss. per le relazioni col patriziato veneziano e pp. 220-224 per la donazione in relazione alla scuola e alla stampa; ID., La libreria di San Marco. Libri, lettori, società nella Venezia dei Dogi, Venezia s.d.; ID., Bessarione e i codici greci, in L’eredità greca e l’Ellenismo Veneziano, a cura di G. BENZONI, Firenze 2002, pp. 93-121, in particolare pp. 109 e ss. 99 Cfr. D. E. RHODES, La tipografia nel secolo XV a Vicenza, Santorso e Torrebelvicino, Vicenza 1990, specie pp. 22-23 per l’Orthographia di Tortelli, il primo libro stampato a Vicenza.
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Infine, ulteriori lumi si accendono sull’inverno del 1470/71 in Curia, a Roma, dove ambasciatore veneziano presso la corte pontificia del compatriota Pietro Barbo, papa col nome di Paolo II, era proprio Lodovico Foscarini, amico di Bessarione, suo ospite in Friuli di rientro dalla missione in Germania nel ’59, uno degli intellettuali e degli umanisti veneziani di più alto profilo all’epoca. Non è forse un caso se, pochi mesi dopo il suo ritorno, tante opere ‘romane’ trovano la stampa in Venezia e, tra queste, quasi contemporaneamente, le Elegantiae del Valla e l’Orthographia del Tortelli, entrambe per i tipi di Nicholas Jenson100. II. La stampa trevigiana del 1477: un caso editoriale d’eccezione101 Un tratto fondamentale della tradizione del testo dell’Orthographia di Giovanni Tortelli fu innegabilmente affidato alla stampa ed è conchiuso, Ho già espresso la mia ipotesi, supportata per ora solo da alcuni indizi, che in particolare la ristampa vicentina del 1479 esemplata da Koblinger fosse in realtà una nuova edizione; mi riservo di indagarne meglio le caratteristiche in altra sede, anche in considerazione del fatto che in quel medesimo torno d’anni cooperava attivamente all’avvento della stampa in Vicenza Niccolò Volpe. Di seguito il ragguaglio sui cataloghi che annoverano questa edizione: ISTC it00397000; Goff T397; HC 15566*; GfT 1862; Pell Ms 11130; CIBN T-293; Polain(B) 3792; IBE 5698; IGI 9684; IBP 5379; Sallander 2470; Madsen 3976; Günt(L) 3919; Voull(B) 4594; Walsh 3503; Bod-inc T-223; Sheppard 5926; Oates 2681; Pr 7160; BMC VII 1043; BSBInk T-386; GW M47233. 100 KING, Umanesimo e patriziato, II, pp. 545 e ss. per Ludovico Foscarini, e pp. 388-418 per le interrelazioni tra umanisti veneziani e cariche politiche rivestite. Sul ruolo di Ludovico Foscarini, ambasciatore a Roma, in relazione alla stampa di opere di provenienza ‘romana’, tra cui Elegantiae e Orthographia, rinvio a LOWRY, Nicholas Jenson, pp. 105 e ss.: le Elegantiae furono stampate a Roma prima del 26 luglio 1471 e l’Orthographia dopo il 10 Agosto, ma da due stampatori diversi. È dunque facile supporre, alla luce delle successive vicende editoriali che coinvolsero l’Orthographia, che la pubblicazione così ravvicinata da parte del medesimo stampatore in Venezia di queste due opere affini per spirito e intenti, utilizzabili l’una come manuale per lo studio del latino a livello avanzato e l’altra come dizionario enciclopedico, facessero parte di un unico ben architettato progetto editoriale da più parti e per diversi motivi sostenuto in Veneto. 101 Su questa stampa in particolare si veda D. E. RHODES, La stampa a Treviso nel secolo XV, Treviso 1983, n. 69 p. 50; rendo di seguito i rinvii ai cataloghi noti: ISTC it00396000; Goff T396; HC 15565; Pell Ms 11129; CIBN T-292; Arnoult 1430; Frasson-Cochet 270; Polain(B) 3791; IBE 5697; IGI 9683; IBP 5378; Sajó-Soltész 3331; Voull(B) 3598 = 3604,5; Madsen 3975; Bod-inc T-222; Sheppard 5513; Rhodes(Oxford Colleges) 1730; Pr 6469 = 6480; BMC VI 887, 891; BSB-Ink T-385; GW M47213. Sulla stampa a Treviso si sono succeduti negli anni ’80 vari successivi contributi di P. Scapecchi, A. Contò e D. E. RHODES, Gli incunaboli di Treviso hanno superato le cento edizioni, in Schede Umanistiche n.s. 1 (1993), pp. 185-86. Nuovi documenti e altri contributi composti a partire grosso modo dagli anni ’90 sono raccolti in A. CONTÒ, Calami e Torchi. Documenti per la storia del libro nel territorio della Repubblica di Venezia (sec. XV), Verona 2003; un quadro generale e recente in ID., La nascita dell’attività tipografica a Treviso, in Greci e Veneti: sulle tracce di una vicenda comune. Convegno
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come si è detto, in un cronotopo ben definito: Venezia e l’entroterra veneziano, tra 1471 e 1504, con ben tre edizioni e nove (ri)stampe102. L’Orthographia è anzitutto il testo con cui essa è circolata, una sorta di diatesto103 materializzatosi col convergere di spunti esterni molteplici, che trovò sua Internazionale – Treviso 6 ottobre 2006, a cura di C. DE VECCHI – A. FURLANETTO, Treviso 2008, pp. 81-95. 102 Per l’elenco delle stampe e la loro sintetica descrizione si veda DONATI, L’Orthographia, pp. 249-251; inoltre pp. 213-216 per le osservazioni sulla tradizione a stampa dell’opera; la brevissima trattazione riservata alle stampe è giustificata dall’autrice in quanto ‘non controllate dall’autore’. In verità quest’osservazione potrebbe valere anche per buona parte della tradizione manoscritta: tra i manoscritti dell’Orthographia, infatti, solo sette sono datati o databili (cfr. DONATI, L’Orthographia, pp. 211-213). Tre di essi furono compilati dopo la morte del Tortelli, e due sono di certo successivi l’avvento della stampa. Non sono infrequenti i casi di mss. derivanti da stampe in quest’epoca: valga un esempio per tutti, studiato da G. C. ALESSIO, Per la biografia e la raccolta libraria di Domenico della Rovere, in Italia Medioevale e Umanistica 27 (1984), pp. 175-231. Si tratta del ms. E. II. 20 della Biblioteca Nazionale di Torino, esemplato nel 1493 da Gian Rinaldo Mennio per Ferdinando d’ Aragona e finito nella biblioteca del cardinal Domenico della Rovere; contenente gli Opuscula atanasiani nella versione latina di Ognibene Leoniceno, è risultato descriptus dalla princeps vicentina del 1482 per i tipi di Leonardo Achates di Basilea. Per altri esempi e considerazioni sempre valido G. PASQUALI, Storia della tradizione e critica del testo, Milano 1974, pp. 49-101 del capitolo Recentiores non deteriores. Coloro che fino ad oggi hanno curato l’edizione critica di singole voci del trattato, o ne hanno trascritto parti, non hanno tralasciato mai almeno il riferimento alle due principes concorrenziali del 1471. A tal risoluzione si attenne la stessa Capoduro che, studiata la stampa romana, per prima ne mise in luce i limiti. Si vedano O. BESOMI, Dai ‘Gesta Ferdinandi Regis Aragonum’ del Valla al ‘De Orthographia’ del Tortelli, in Italia Medioevale e Umanistica 9 (1966), pp. 75-121; G. TORTELLI, Roma antica cit.; e infine l’indice dei lemmi dell’Orthographia curato da CHARLET – FURNO, Index des lemmes, redatto a partire dalla princeps Romana. La stampa romana del 1471 è in effetti caratterizzata da massicci interventi del Montaldo, il che spingerebbe, più che a escluderla, a ridimensionarne l’affidabilità in prospettiva ecdotica: cfr. CAPODURO, L’edizione romana del ‘De Orthographia’, pp. 37-56. J. L. Charlet, auspicando l’avvento dell’edizione critica dell’Orthographia, suggeriva di valutare non solo le due prime edizioni a stampa, ma anche la trevigiana del 1477 e la veneziana del 1493 che generarono rispettivamente altre quattro e cinque ristampe in un arco cronologico compreso tra il 1477 ed il 1504 (cfr. J. L. CHARLET – M. FURNO, Index de lemmes, p. 11). Grazie al paziente lavoro di Gemma Donati, oltre che di Antonio Manfredi, disponiamo oggi di dati più precisi circa i sette manoscritti datati o databili dell’Orthographia, e circa le oscure sorti del Vat. lat 1478, riapparso in Vaticana solo dopo il 1512; se ne desume che per tutto il periodo cruciale nella definizione della tradizione manoscritta e a stampa la Vaticana ebbe a disposizione un solo manoscritto e nemmeno quello rivisto dall’autore: cfr. MANFREDI, L’‘Orthographia’, pp. 265-298, specie pp. 286-298. 103 Prendo a prestito questa definizione, a mio avviso abbastanza utile a qualificare il testo e le modalità di trasmissione di un’opera aperta qual è l’Orthographia, da V. CITTI, Dialogues d’histoire ancienne, in Année 12/1 (1986), pp. 315 – 333; il concetto è stato recentemente riveduto e felicemente applicato a casi di variantistica testuale da L. MONDIN, Appunti per una critica (inter)testuale della poesia latina, in Poesia latina, nuova E-filologia. Opportunità per l’editore e per l’interprete. Atti del Convegno internazionale, Perugia, 13-15 settembre 2007, a cura di L. ZURLI – P. MASTANDREA, Roma 2009, pp. 73-105.
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ulteriore definizione grazie all’avvento della tecnologia libraria e grazie alla paziente revisione di un editore della levatura di Gerolamo Bologni, umanista trevigiano che contribuì massimamente alla divulgazione dell’opera. Personalità connotata da ingegno vivido e inesauribile passione per l’antichità classica, nelle sue opere si trovano testimoniati interessi antiquari, epigrafici, ortografici e linguistico letterari104. Fu soprattutto l’editoria di testi classici e di opere umanistiche, tra le quali quella monumentale del Tortelli, l’attività in cui egli si distinse per acume critico e intelligenza filologica105. Ad indirizzare il ventritreenne Gerolamo verso il trattato dell’umanista Aretino furono alcuni fattori concomitanti: il recente soggiorno romano, dove la memoria del Tortelli era di certo ancora viva tra la cerchia degli umanisti romani, primo tra tutti il Perotti; la passione per la civiltà classica che l’aveva portato ab ipsa adulescentia106 a collezionare epigrafi e antiche iscrizioni; la certezza del successo editoriale di un’opera destinata agli uomini di cultura e al mondo veneto della scuola107, che usciva sotto 104 Notizie sull’umanesimo trevigiano sono offerte da M. PASTORE STOCCHI, La cultura umanistica, in Storia di Treviso, III, L’età moderna, a cura di E. BRUNETTA, Venezia 1992, pp. 137-157. Per la vita del Bologni ancora valido A. SERENA, La cultura umanistica a Treviso nel secolo decimoquinto, Venezia 1912, pp. 149-178, integrato da G. CESERANI, Bologni, Girolamo, in D.B.I., XI, Roma 1969, pp. 327-31; altre notizie nelle edizioni di HIERONYMI BONONII Candidae libri tres, ed. C. GRIFFANTE, Venezia 1993 e HIERONYMI BONONII TARVISINI Antiquarii libri duo, ed. F. D’ALESSI, Venezia 1995. Più di recente si è occupato del Bologni P. PELLEGRINI, Dagli studi alla marca: echi del mondo accademico nell’Orthographia di Gerolamo Bologni, in I classici e l’Università Umanistica, pp. 419-430 e ID., Livio e la biblioteca di Gerolamo Bologni. Libri e Umanesimo a Treviso nei secoli XV e XVI, in Studi Medievali e Umanistici 5-6 (2007-2008), pp. 125-162. Bologni, nipote di Francesco Rolandello, umanista trevigiano non insigne, ma dotto, iscrittosi al collegio notarile poco più che ventenne fu al servizio di Lorenzo Zane a Roma sotto il Pontificato del veneziano Paolo Barbo; qui conobbe il Platina, Pomponio Leto, Niccolò Perotti, e altre personalità di spicco dell’Umanesimo romano da cui fu profondamente influenzato. Tornò a Treviso al seguito dello Zane, che di quella città fu nominato Vescovo nel 1475, e qui rimase per il resto della vita, sempre attivo nell’entourage locale. Nonostante i redditi ecclesiastici, esercitò infatti anche il patrocinio forense e fu alle dipendenze del Comune; per le sue benemerenze «quibus, ne dum personam suam, sed totam civitatem tarvisinam decoravit» (SERENA, La cultura umanistica, p. 158) gli fu garantita pubblica sepoltura: del resto, tra le sue ultime volontà, aveva testato di far istituire la condotta di un maestro di grammatica a vantaggio della comunità cittadina. 105 Menzione del Bologni correttore ed editore d’eccezione non solo di testi classici, ma anche volgari, si ravvisa in TROVATO, Con ogni diligenza corretto, pp. 109-112. Notizie sulla sua attività editoriale a Treviso in P. TOMÈ, Le latinizzazioni dal greco a Treviso sullo scorcio del secolo XV. Tra memoria manoscritta e novità della stampa, in Atti dell’Istituto Veneto di Lettere, Scienze e Arti 169 (2011), pp. 143-249, specie pp. 152-156. 106 HIERONYMI BONONII TARVISINI Antiquarii, V, 4-5. 107 Non è di questo avviso DONATI, La prospettiva, pp. 375-417: dopo aver citato un discreto numero di casi in cui l’Orthographia appare utilizzata da maestri di scuola come Volpe, Ognibene, Gaspare Veronese, Pietro da Montagnana o da eruditi e professori come Fonzio e Biagio Pilosio, l’autrice conclude a p. 417: «Il De orthographia certamente non era diretto alla
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l’egida del ricco cartaro Michele Manzolo da Parma e del perito stampatore Hermann Liechtenstein. E il successo vi fu, grandissimo: ripresa in quattro (ri)stampe, non più a Treviso, ma a Vicenza e a Venezia, ingigantì nel Veneto e per tutta l’Europa la fama del suo editore, che la siglò non solo con una lettera di dedica a Costantino Robegano, ma con un carme inneggiante all’invenzione della stampa108. All’edizione curata dal Bologni è legata una vicenda editoriale rimasta finora in ombra negli scritti dedicati all’Orthographia e che testimonia in presa diretta l’interesse maturato nell’ambiente veneto — vicentino in particolare — per l’opera del Tortelli sullo scorcio degli anni ’70, quando ancora operavano come promotori della stampa e curatori di opere classiche Niccolò Volpe (ora priore di Santa Croce in Vicenza, col nome di Enea Volpe) e Ognibene Leoniceno, che qui tenne cattedra pubblica finanziata dal Comune fino alla morte109. In data 5 dicembre 1476 “Marcus q. Christani de Bruges” nomina suo procuratore un certo “Antonium Baptiste de scuola e neppure all’università, ma nasceva comunque da un’esigenza di tipo scolastico e di didattica del latino ad un livello superiore […]». Il numero delle edizioni e la diffusione a stampa dell’opera in Veneto sembrano confermare che qui essa fu invece destinata alle scuole di varie città vicine e tra loro culturalmente collegate, come Treviso, Vicenza, Venezia e Padova: cfr. a tal proposito infra. 108 HIERONIMUS BONONIUS, Carmen in primi impressoris commendationem, in JOHANNIS TORTELLIUS, Orthographia, Treviso, H. Liechtenstein 1477, cc. 343r-344v, dove si accompagna a ID., Dedicatoria a Costantino Robegano. I due documenti sono trascritti qui nell’Appendice conclusiva; in particolare la dedicatoria non è finora stata oggetto di divulgazione e dibattito critico, diversamente dal carme che la accompagna, del quale già R. HIRSCH, Hieronymus Bononiensis Carmen in primi impressoris commendationem, Treviso, 1477, in The Library Chronicle 14/2 (1947), pp. 17-20, specie pp. 18-19 segnalava la forte valenza pubblicitaria, indice di una speciale adesione del curatore al progetto editoriale in atto. 109 Due le scuole più importanti a Vicenza: quella riservata ai chierici presso la cattedrale e quella istituita dal Comune agli inizi del Quattrocento per la pubblica lettura dei classici; quest’ultima acquistò grande fama in tutta Italia da che, nel 1443, incominciò a insegnarvi grammatica e retorica latina e greca Ognibene da Lonigo. Egli fu seguito nel magistero dagli allievi Barnaba da Celsano, umanista vicentino, e Francesco Maturanzio, perugino d’origine, segretario del Perotti e studioso di greco a Costantinopoli; quindi, dopo breve intervallo, la condotta fu retta da Giano Parrasio fino alla crisi segnata nel 1509 dalla battaglia di Agnadello: cfr. F. FIORESE, Cultura preumanistica e umanistica, in Storia di Vicenza. L’età della Repubblica Veneta (1404/1797), III/2, a cura di F. BARBIERI – P. PRETO, Vicenza 1989-90, pp. 27-38; inoltre G. PELLIZZARI, Continuità e trasformazioni di un sistema scolastico cittadino, ivi, pp. 69-88. Della vita di Niccolò Volpe si hanno poche notizie relative al periodo in cui fu insegnante presso lo studio bolognese: cfr. L. QUAQUARELLI, Umanesimo e lettura dei classici alla scuola di Niccolò Volpe, in Schede Umanistiche n.s. 1 (1999), pp. 97-120. Sul contributo del Volpe alla diffusione della stampa in Vicenza rinvio ad A. COLLA E COLLABORATORI, Tipografi, editori e librai, in Storia di Vicenza cit., III/2, pp. 109-162, specie pp. 116 e ss. Notizie ulteriori, per esempio circa il carme dedicato a Volpe e a Liechtenstein dal Pagello, insigne umanista vicentino, nel colophon all’edizione delle Historiae di Orosio curate dal Volpe nel 1474-75, si trovano in ID., Tipografi, editori e libri, pp. 71-72.
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Gallo” «ad recuperandum a mag. Michele Chartario omnem partem librorum Tortelli qui nunc imprimuntur in domo dicti Michaelis»110. Si tratta evidentemente dell’edizione trevisana dell’Orthographia curata dal Bologni. Chi sono i protagonisti della vicenda e qual è l’antefatto? Pochi mesi prima (il 2 settembre 1476) due umanisti vicentini, Bartolomeo Pagello e Barnaba da Celsano, cercavano accordi con lo stampatore Giovanni del Reno allo scopo di mettere in piedi una stamperia in una casa da acquistarsi: Giovanni avrebbe preparato matrici per la stampa dei libri voluti dai due maestri in cambio di vitto, alloggio e di una certa quantità di volumi stampati. Mancava solo la carta, e non era dir poco, visti i suoi costi elevati; il 31 ottobre 1476 Bartolomeo Pagello nomina procuratore Barnaba da Celsano a stringere società col cartaro trevigiano Michele per imprimere libri. Quest’ultimo altri non è che quel Michele Manzolo di Parma cartaro trevigiano che figura nominato in alternativa al Liechtenstein nelle varianti dei colofoni come stampatore dell’edizione trevisana del 1477 dell’Orthographia curata dal Bologni. Manzolo risulta sin dal gennaio 1459 comproprietario di una cartiera situata a Vicenza nei pressi del ponte degli Angeli (allora di S. Pietro) sul Bacchiglione ed è quello stesso Michele Chartaro a cui viene inviato Antonio Battista de Gallo a recuperare a Treviso i volumi dell’Orthographia che egli stava stampando in casa. Dobbiamo dunque immaginare che allo spostamento in Vicenza delle due successive (ri)stampe dell’Orthographia curata dal Bologni a Treviso, una del 1479 per i torchi del Koblinger e una del 1480 a opera del Liechtenstein111, abbia concorso un accordo di tipo editoriale simile a quello stretto dal Manzolo coi due umanisti citati, al cui centro vi fu, da un lato, la richiesta dell’opera da parte dei maestri ed umanisti attivi in loco, dall’altra l’offerta di materia prima ivi prodotta sempre dallo stesso cartaro-stampatore (Manzolo), che della prima edizione era stato artefice in prima persona. Manzolo, attivo a Treviso dal 1475 al 1482, si avvalse di Gerolamo Bologni come revisore e presentatore delle sue pubblicazioni a carattere umanistico. Da subito si ravvisa la sua stretta collaborazione col Liechtestein, presente a Treviso solo nel 1477, ma attivo in quel torno d’anni a Vicenza e successivamente a 110 Le informazioni che adduco sono tratte da G. MANTESE, 1474 Le origini della stampa a Vicenza, Vicenza 1974, pp. 41-50; inoltre POZZA, L’editoria Veneziana, pp. 215-244; COLLA E COLLABORATORI, Tipografi, editori e librai, pp. 109-162; ancora RHODES, La tipografia nel secolo XV a Vicenza, pp. 22-23 per Tortelli; e infine ID., La stampa a Treviso nel secolo XV, Treviso 1983, p. 69 per il Tortelli. 111 In particolare sulla ristampa vicentina del 1480 uscita per i tipi di H. Liechtenstein si veda E. H. GOMBRICH, Eastern Inventions and Western Response, in Daedalus 127/1 (1998), pp. 193-205 che la cita in riferimento al carme in lode della stampa attribuito a Gerolamo Bologni che vi è allegato; in realtà la prima impressione in cui esso apparve fu quella del 1477 a Treviso. Il carme è trascritto nell’Appendice al presente studio (Documento 2).
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Venezia. Nel colophon dell’Orthographia che Manzolo stampava in casa, il nome dello stampatore è seguito dalla sigla S.S.F.C., ovvero «suis sumptis faciendum curavit»; ma varianti nei colophoni nominano come stampatore ora Manzolo, ora Leichtenstein. Tutto questo lascia chiara traccia dell’accordo editoriale in corso e del business connesso alla stampa di quest’opera richiestissima, al punto che copie di essa sono già recuperate al mercato vicentino mentre è ancora in corso di stampa a Treviso. I due stampatori si erano probabilmente spartiti le copie da produrre con la carta del Manzolo: si evince dallo studio dei repertori e dei documenti d’archivio lo stretto rapporto imprenditoriale che legava Liechtenstein, Manzolo e Giovanni da Colonia, suo compatriota e compare. Del resto, non si spiegherebbe altrimenti come mai nel 1481, mentre ancora Manzolo opera a Treviso, escano contemporaneamente a Venezia degli incunaboli stampati a suo nome, né l’estemporaneo transito del Liechtenstein da Vicenza a Treviso per il solo 1477 in occasione della stampa dell’Orthographia e la duplice dicitura riportata nei colophoni si giustificherebbero senza l’urgenza di tener fede a un preciso accordo editoriale112. Un’ultima osservazione riguarda i caratteri greci utilizzati per le stampe dell’Orthographia del Manzolo e del Liechtestein: in esse apparirebbe ancora il carattere jensoniano autentico, che risulta invece malamente riprodotto nell’edizione veneziana del 1493 e nelle sue ristampe, curate da Giovanni Taccuino e poi da Filippo Pincio113. Ciò può forse costituire una primissima avvisaglia di quel decadimento progressivo e inesorabile della stampa veneziana (ovviamente escludendo l’aurea parentesi costituita dalla fortunatissima vicenda di Aldo Manuzio), il cui pregio intrinseco fu sempre legato alla qualità della carta e alla nitidezza del carattere, poiché già nel 1537 il Senato Veneziano emana un decreto in materia di stampa per preservare la qualità del proprio marchio tipografico; lo stesso Aldo accamperà diritto alla concessione del privilegio di stampa proprio in forza 112 Si veda la segnalazione di alcuni documenti d’archivio da parte di M. P. ARNAULDET, Bulletin de la Société des Antiquaires de France, 1897, pp. 355-358; inoltre B. BRUNORO, La cultura umanistica negli incunaboli trevigiani, Università di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, tesi di laurea, a.a. 1975/76, rel. Prof. M. Pastore Stocchi, pp. 101-104: ampia la documentazione tratta dai repertori dello Scholderer, Hain, Accurti, Fumagalli, Ascarelli. Sulla questione complessa dei rapporti intercorsi in queste ‘primitive’ società editoriali a stampa si è ampiamente speso di recente CONTÒ, Calami e torchi cit., con trascrizioni di documenti d’archivio, tra cui anche alcuni di quelli segnalati con qualche inesattezza da Arnauldet. 113 Così si esprime BARKER, Aldus Manutius, pp. 24-25. Barker tiene anche nettamente distinto il carattere di Vindelino da Spira, introdotto per primo, da quello di Jenson, tagliato meglio e dotato di più lettere, e individua nel modello da Spira-Jenson quello che farà scuola per le citazioni greche in incunaboli latini.
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del pregio dei suoi caratteri a stampa di greco, i migliori che mai si fossero potuti apprezzare114. Dal momento che addirittura metà delle officine librarie attive a Vicenza possedevano punzoni per il greco e si distinsero per il nitore e la correttezza dei testi, la stampa dei caratteri greci in questo piccolo centro costituisce una cartina di tornasole per comprendere quale interesse meritarono qui le opere a carattere linguistico-grammaticale: a Vicenza videro la luce due volte l’Orthographia di Tortelli, due volte i Rudimenta grammatices del Perotti, tre volte gli Erotemata del Crisolora con la traduzione del Guarino (tra cui la princeps), o ancora la princeps degli Erotemata del Lascaris, e successivamente anche la Grammatica dello stesso Lascaris nella ristampa dell’edizione milanese comprensiva della traduzione del Crastone115. Vorrei infine segnalare una curiosità, connessa con la storia della tradizione della stampa trevigiana curata dal Bologni, che ha costituito lo spunto per indagare le vicende della famiglia Tortelli successive alla scomparsa dell’illustre antenato. Non ci sono noti manoscritti dell’Orthographia connessi alla famiglia Tortelli, ma nella Biblioteca Comunale di Arezzo (già Fraternita dei Laici), sono conservati vari incunaboli dell’Orthographia116; attiro l’attenzione su due in particolare, il n. 156 e il n. 10: il primo è una copia dell’edizione trevigiana del 1477 donata dalla signora Anna Castellani vedova Tortelli117, il secondo è una copia dell’ultima ristampa dell’edizione trevigiana del ’77, uscita a Venezia nel 1488 per i tipi di Andrea de Paltasichis di Cattaro. Questo esemplare appartenne ad un certo Gerolamo Tortelli, aretino, vissuto nel sec. XVI, molto probabilmente imparentato con Giovanni, nelle cui note di possesso si legge: «Iste liber est Hieronimi Tortelli Civis Aretinus et Suorum» e «Hieronimus Tortellius Aretinus Civis»118. 114
Si veda in merito T. PLEBANI, Venezia 1469. La legge e la stampa, Venezia 2004, pp.
53-65. 115
Notizia di ciò si legge in COLLA, Tipografi, editori e libri, pp. 68-71. Rinvio a M. G. NICO PAOLINI, Gli incunaboli della Biblioteca della Città di Arezzo (già Fraternita dei Laici) – Catalogo, Milano 1989, pp. VII-XXI. 117 La donazione avvenne nel 1861. Su questa e le altre copie del trattato presenti nella Biblioteca si veda NICO PAOLINI, Gli incunaboli, ai nrr. indicati. Ulteriori notizie inerenti la donazione di un esemplare della princeps Romana dell’opera in G. F. GAMURRINI, Nota di alcuni doni fatti alla città di Arezzo ed altri luoghi d’Italia da Gian Francesco Gamurrini, Arezzo 1910, pp. 33-39: a p. 36 tra i libri a stampa della biblioteca del Gamurrini è ricordata una copia della princeps Romana già appartenuta alla libreria ‘Senesi’ di Perugia. 118 Note e interventi manoscritti del XVI sec. si leggono in quasi tutte le carte dell’esemplare; l’esame autoptico ha consentito di appurare che si tratta di semplici note di lettura e non di varianti testuali. Notizie ulteriori sulla famiglia Tortelli in Arezzo si ottengono da F. A. MASSETANI, Dizionario biografico degli Aretini ricordevoli nelle lettere, scienze, arti e religione, Arezzo 1936-1942 (dattiloscritto), V, pp. 2-4. Si ricava che la famiglia Tortelli ottenne 116
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APPENDICE L’INDICE DEI LEMMI DELLA PRINCEPS VENEZIANA Riporto di seguito, lettera per lettera, il numero dei lemmi di PV accompagnato dalle varianti grafiche rispetto ad A e da osservazioni circa la presenza di altri tratti caratteristici (spazi vuoti, ordine, turbamento, omissione e inserzione di lemmi). Sono indicate tra parentesi quadre nell’elenco delle varianti le discrepanze o le sviste nella trascrizione di A da parte di Gemma Donati. La U consonantica non viene distinta in PV con l’apposito segno grafico, cosa che peraltro non accade nemmeno in A, ma, dal momento che il grafonema è trasposto a tratti da Gemma Donati con alcune difformità di trascrizione, ho preferito indicare con un asterisco tutti i lemmi che lo contengono, accompagnandovi le rettifiche del caso, ove necessario. Il numero complessivo delle voci di PV, compresi quelli contenuti nel De aspiratione e nelle voci Diphthongus e Prosodia, è di circa 3650 unità. Le varianti grafiche rispetto ad A sono 140, una trentina delle quali da accogliere, in quanto applicano la prescrizione del Tortelli, travisata da A, o restituiscono la ratio etimologica indicata, o rettificano evidenti distorsioni grafiche; numerose di queste varianti di PV sono attestate in uno o più tra i manoscritti discendenti da A e costituistono ulteriore riprova del forte legame tra la princeps veneziana a questo ramo della tradizione manoscritta119:120
Lettera A Voci 566 (1 ad.)
Varianti 21 Abrotontium Achademia Acanthylis Aegyra Aesyrmus Aeuum* Agasides Agasthocles Agonotheca
Osservazioni Varianti120 La maggior parte delle discrepanze di PV nella lettera A sono errori di trascrizione o di interpretazione di toponimi, di nomi propri, di tecnicismi o di termini di linguaggi settoriali e di grecismi della lingua d’uso. In pressoché tutti i casi sono corrette le grafie di A, mentre risultano oscillanti in latino, stando al ThLL, le forme Amphitrite/Amphitrites e Artocreas/ Artocrea. Nel caso di Antiphates, invece, è corretta la grafia proposta da PV, che ricorre del resto anche in G, T, Va e B (cfr. DONATI p. 326 nt.2). Le devianze Agasides, Agonoteca,
dal 1485 il secondo grado di nobiltà e il gonfalonierato nel 1596. L’arme nobiliari presentavano «in campo giallo con quattro teste di leone inquartato da croce azzurra con tre mezzelune bianche e stelle d’oro»; vi è ricordato per il sec. XV, dopo il nostro umanista, un Tortelli Carlo che lasciò un volume di lettere. Nel sec. XVI è annoverato tra gli altri un Girolamo di Fabio, ecclesiastico, dottore in sacra teologia, canonico benefiziale della Cattedrale, che fu probabilmente il proprietario dell’incunabolo citato. 119 Si vedano a tal proposito qui le tabelle 3 e 4, cui si rinvia per i riscontri. 120 Si intendono con questo nome le varianti grafiche divergenti da A, di qualunque genere esse siano: cfr. supra.
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Alchatus Alcinaeon Amyclon Amphitrite Antiphates Apiscion Antheum Antiphates Aracintus Aristomynus Artocrea Aruisium* Athene Azimus
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noteca, Alcinaeon, Athene, Azimus, Apiscion sono tutte variamente condivise almeno con uno tra i manoscritti discendenti da A. Quanto alle aberrazioni proprie di A, rinvio in generale allo studio condotto da Gemma Donati: vale la pena di richiamare in questa sede almeno la coincidenza in errore di PV con A per la ricorrenza di Amphistos (cfr. DONATI p. 330 nt. 1). Spazi vuoti Tra un lemma e l’altro sono lasciate due righe bianche (si tratta di circa 24 ricorrenze) sino ad Agricola, specie da Aethra ad Aglauros; potrebbe trattarsi di spazi appositamente lasciati nell’impaginazione: conferma la nostra ipotesi il fatto che analoghi ‘bianchi’, in proporzione meno numerosi, si trovino alla lettera Z, che consta di soli 15 lemmi (cfr. infra). Ordine dei lemmi Aegeae risulta messo a lemma, mentre, per la presenza di uno spazio vuoto, va invece annoverato come parte del precedente Aeolia, ove appare un elenco di città tratto da HDT. I,149 di cui Aegeae fa parte (cfr. DONATI, p. 309). Viceversa, al lemma Aegeus non appare la citazione di Catullo (LXIV,213) che la Donati (p. 277 e sgg.) affermava essere assente in A (e in gruppo di altri manoscritti, tra cui GTV) e presente invece in tutta la restante tradizione. PV, oltre a non presentare la citazione, accoglie la grafia Aegeus (correzione di Pietro Odo da Montopoli), come GTV (DONATI p. 278-79 e supra). Acidalia non sembrerebbe per parte sua messo a lemma (non appare cioè sporgente dallo specchio della pagina a stampa al pari degli altri vocaboli), ma sono propensa a considerare questo come un difetto di composizione della forma per il torchio (cfr. analoga situazione per es. in Icarius e Latymnus).
Lettera B Voci 128
Varianti 6 Bacchiadae Balista Bathani Bootes Brasiadas Bulchar
Osservazioni Varianti Anche qui la massima parte delle varianti coinvolge nomi propri o di popolo. In almeno un caso (Bacchiadae) la variante proposta dalla PV sembra quella corretta. Le varianti Balista, Bathani, Brasiadas, Bulchar, appaiono variamente attestate anche nei manoscritti discendenti da A.
Lettera C Voci 468 (4 om.)
Varianti 12
Osservazioni
Varianti Caconsyntheton Sono in tutto dodici, alcune delle quali (per es. Crocylos, Caecias Caecias, Caeneus) corrispondono in effetti alla prescrizione Castiamira ortografica del Tortelli, evidentemente travisata dal copista di
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Caeneus Cymaetha Cythereis Clystrium Colaphus Collyiusta* Chorasmi Crisis Criticus Crocylos
A. Segnalo inoltre il caso di Collyiusta (Collyvista in A), tratto da HIER. Matt. 21,12, la cui forma corretta sarebbe Collybista (cioè il nummularius). Le varianti Castiamira e Cymaetha figurano variamente anche nei manoscritti discendenti da A. Segnalo qui per completezza documentaria la forma Crocyllus in luogo di Crocylos, testimoniata in T, anch’essa contrastante l’evidente aberrazione di A, dove si legge Crouyllus. Omissioni Ben tre lemmi, consequenziali in A, risultano omessi: Cybele, Cicones, Cichesus; essi figurano in tutte le altre stampe visionate, mentre un turbamento collocato in prossimità di questi lemmi si intravede in questo punto anche in Va e in T, sebbene secondo modalità del tutto diverse (cfr. supra e infra). Ordine dei lemmi Chelonophagi è inserito tra Chelidonia e Celtiberi, rispettando l’ordine alfabetico. Chersius non è posto a lemma, ma viene conglobato nel precedente Chersydros. Cercopythecus non è ripetuto dopo Circes e prima di Circus, e ne è eliminata la seconda occorrenza (come accade in T), per cui cfr. DONATI p. 276. (Dopo Coeus e prima di Colaphus/Colaphum manca Colaphizo, assente anche in A: si tratta di uno dei 16 lemmi indicati da G. Donati come presenti in tutte le stampe che risultano assenti in PV).
Lettera D Osservazioni Le voci censite sono circa 242; 132 appartengono alla sezione alfabetica, 110 c.ca fanno invece parte della voce Diphthongus, trattatello a sé stante dedicato alla grafia delle parole latine Damasithynus dittongate di cui viene reso un elenco alfabetico diviso in due Deiphyle gruppi (dittongo iniziale e interno di parola). Deiphylus Varianti Dori Sono in tutto otto, cinque nella sezione alfabetica e tre nei lemDryidae mi della voce Diphthongus. In alcuni casi ripristinano la forma corretta, specialmente Dryidae (Dryude in A), che applica la s.v. Diphthongus: prescrizione ortografica di Tortelli; anche per Deiphyle (Deipyle in A) si dovrebbe ritenere corretta la variante di PV, poiché nel Aequus De B littera Tortelli dice la parola aspirata in latino. Baelua e Aerrium Vae sono le forme presenti di fatto anche in A (Baelva e Uae in Aeuum* DONATI p. 364 sono difformità di trascrizione dell’autrice: nel [Baelua] ms. Vat. lat. 1478 si legge Baelua (con U vocalica) e Vae, che Caemeus al pari dei successivi Vaeneo, Vaenundo, appare coerentemente Saeuus* scritto col grafonema indicante la U consonantica maiuscola). Scaeuola* Le varianti Damasithynus, Deiphyle, Deiphylus, Dryidae si leg[Vae] gono variamente distribuite anche nei manoscritti discendenti da A, mentre la forma Aequus s.v. Diphthongus è in T.
Voci Varianti 242 c.ca 8 (132+110) (5+3)
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Ordine dei lemmi Vi è turbamento dell’ordine alfabetico s.v. Diphthongus dove Scaevola precede Saevus; questo tratto è presente in tutti i mss. discendenti da A.
Lettera E Voci 205 (1 om.)
Varianti 4 Empiricus Epiphonenia Erichtheus Ephrosina Euan*
Osservazioni Varianti Si tratta di soli quattro casi, uno dei quali (Empiricus) applica la prescrizione di Tortelli. Il gruppo dei composti di EU-, quando il prefisso è seguito da vocale, impiega sempre coerentemente il segno grafico distinto (da Euan a Euander), mentre in A è impiegato il grafema V della U consonantica. In G, sotto la correzione Epiphonema, si intravede un Epiphonenia, mentre Erichtheus vi è per certo attestato con la medesima grafia di PV. Omissioni Manca il lemma Eurymachus, il cui contenuto figura sotto Eurylochus; il contenuto della voce Erylochus è omesso. Anche questa caratteristica accomuna PV ai manoscritti discendenti da A. Ordine dei lemmi L’ordine dei lemmi è mutato tra Echemmon ed Eetion in questo modo: Ecbasis, Ectasis, Echtlipsis, Edo, Edyia, Eythales. (Mancano Epigonos ed Epistalma, due dei nove lemmi espungibili che la Donati p. 260 voleva presenti in G, T e in tutte le stampe, tranne che nella princeps Romana).
Lettera F121 Voci 2
Varianti 2 (lemmi non presenti in A)
Osservazioni Vi sono annoverati solo i due lemmi Fabii e Fumus. Tali lemmi non figurano in A, ma solo in G, T e nelle stampe venete. Si tratta degli unici tra i nove lemmi espungibili, chiusi dalla Donati nel suo indice tra parentesi quadre, a essere presenti in PV, in cui si legge: «[G]abii qui fuerunt lege historias longas et praesertim Plutarchi. Fumus latine, graece [spatium vacuum] dicitur. At fimus dicitur laetamen. Sed iam ad G littera transeamus. Nam F nullam fere habet difficultatem, nisi quam in principio libri diximus». Sembra proprio che in questo punto PV sia molto vicina a G piuttosto che a T, come attestano le lezioni fuerunt, historias, longas, libri che sono tutte in G e non in T121.
121 Al posto della F maiuscola iniziale della sezione corrispondente, nell’esemplare della BCT da me utilizzato si legge G come iniziale di entrambe le sezioni: Gabii (al posto di Fabii, primo dei due lemmi componenti la lettera F) e Gabii (primo lemma della lettera G). Ciò è evidente conseguenza del fatto che per entrambi i capilettera era indicata la piccola ‘g’ minuscola a lato che ingenerò l’errore all’atto della rubricatura delle iniziali delle singole sezioni. Trascrizione dei due lemmi in DONATI, L’Orthographia, pp. 261-262.
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Lettera G Voci 81
Varianti 2 Gynaeconitus Githeus
Osservazioni Si tratta di due aberrazioni grafiche, come conferma nel primo caso il ricorrere della forma Gynaeconitis nel corso della voce, nel secondo la stessa prescrizione del Tortelli. (Manca il lemma Gillo, uno dei nove espungibili che dovrebbero essere presenti nelle stampe venete secondo la Donati).
Lettera H Voci Varianti 306c.ca 25 (235+71) (20+4) Heresis Helichrysos Helops Hemyciclus Hemispaerium Herinus Hexameron Hyarba Hieropicra [Himeridon] Hypermnestra Hypericles Hyppagines Hypparchus Hyppasus Hypparchia Hippolyta Hipolochus Hipsicratea Hyriae Homoesis s.v. De aspiratione -in initio dictionis Haue* Heritius (sive Herinatius) Herma Hiuleus -in medio dictionis Lachryma
Osservazioni Varianti È una delle sezioni in cui si concentrano il maggior numero di varianti, che non riguardano però l’aspirazione in se stessa, quanto la grafia di alcuni composti o nomi propri, toponimi, nomi di pianta etc. In un paio di casi la lezione di PV riporta la forma prescritta da Tortelli (Hipsicratea e Hippolyta, la cui ortografia è data s.v. Hippolytus e Hipsicratea) contro evidenti errori di A (cfr. anche DONATI, p. 327 nt. 1); in altri casi, in mancanza della prescrizione dell’autore, sembrerebbe corretta la grafia proposta dalla PV nel caso di Hemispaerium (Hemisperium in A) e di Helops (Helopos in A, per cui cfr. anche DONATI, p. 329 nt.2: la forma, presente anche in B e altri mss. distanti da A, potrebbe discendere autonomamente dal raffronto col nome greco ed essere stata restituita nella sua forma corretta indipendentemente dai singoli copisti). Per Helichrysos (Heliochrysos), Hypermnestra (Hypermestra), Hexameron (Hexaimeron) si pongono dei problemi di oscillazione grafica ben più complessi, o perché le forme risultano entrambe variamente attestate nel ThLL e negli autori, o perché, nel caso di Hexameron (Hexaimeron in A), è ambigua la prescrizione stessa del Tortelli, oscillante tra Heximeron ed Hexemeron, sebbene il contenuto di essa voglia di fatto a lemma Heximeron. Tra i turbamenti grafici significativi va menzionata la sequenza Hyppagines, Hypparchus, Hyppasus, Hypparchia, tutti lemmi per cui Tortelli prescrive coerentemente la grafia «cum I latino», al pari dei successivi Hippo, Hippodamus, Hippodamia. Segnalo che le varianti Hemispaerium, Hexameron, Hyarbas (sic), Hieropicra, Hypermnestra, Hippolyta, Hipsicratea, Hyriae sono tutte variamente distribuite nei manoscritti discendenti da A, così come Heritius sive Herinatius e Herma s.v. De aspiratione. Himeridion/Himeridon Gemma Donati inserisce Himeridion (lettera H n. 140) nel suo ‘Indice dei lemmi’ riprodotto dal ms. Vat. lat. 1478. La voce non compare messa a lemma in A, mentre il suo contenuto, conglobato nella voce precedente (Hymnus), è qui associato piuttosto alla parola disaspirata imeridion, che indicherebbe il ‘diurnale’, il breviario contenente le preghiere del giorno in forma abbreviata. La questione è problematica, perché la parola risulta in effetti messa a lemma in molti manoscritti di entrambi i rami,
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come vedremo a suo luogo, sia pure con grafie e ordine vari, ma assolutamente non risulta lemmatizzata in A. Ordine dei lemmi La sequenza lemmatica diverge da A dopo Hebe, per cui in PV appare mutata in questo modo: Hebraeus, Hebrus, Hecate, Hecatombe, Hecatonphylon, Hector. (Manca Halys, uno dei nove lemmi che dovrebbe apparire nelle stampe venete secondo la Donati).
Lettera I Voci 103
Varianti 2 Idathyrsus Iphinassa
Osservazioni In apertura della lettera I appare la formula di transizione che in PV manca di norma nell’incipit dei ‘libri’ corrispondenti alle singole lettere dell’alfabeto e che è invece presente in A; essa riapparirà per separare la lettera I dalla K (che contiene solo due lettere), la K dalla L e poi non più nel resto della stampa. Il ‘libro’ corrispondente alla lettera I è il dodicesimo dei ventiquattro complessivi: ci troviamo a metà dell’opera e non sarebbe azzardato ipotizzare che questo costituisse il punto di sutura in qualche attività connessa alla realizzazione materiale del manoscritto da cui fu tratta la stampa o del suo antigrafo (per esempio punto di assemblaggio di due diverse fasi di copia o del lavoro di due diversi copisti) e che per questo motivo fosse stata apposta l’indicazione di transizione da un ‘libro’ all’altro solo in prossimità di esso, ovvero nel passaggio dal libro XI al XII, dal XII al XIII (consistente di fatto in due soli lemmi), e quindi dal XIII al XIV. Varianti Nessuna delle due varianti è corretta; in special modo Idathyrsus in PV e Indathyrsus in A, nome proprio figurante in HDT. IV,76,27; 120,13; 127,1, in nessuno dei due casi corrisponde pienamente alla parola greca di cui vorrebbe essere la trasposizione, cioè Ἰδάνθρσος, ma la collocazione alfabetica conferma che la forma prescelta da Tortelli è Indathyrsus. Quest’ultima corrisponde a una variante attestata nei mss. A, B, C della tradizione erodotea (Laur. LXX.3, Angel. 83, Laur. Conv. sopp. 207).
Lettera K122 Voci 1
Varianti —
Osservazioni In apertura della lettera K appare la formula di transizione di norma mancante in PV. La nota è brevissima, in quanto K vale per C, come già osservato in merito alla lettera C e K nei precetti teorici premessi al repertorio alfabetico e come sostenuto da Prisciano (GL II,12,5 e sgg.), Quintiliano (inst. I,7,10) e Nigidio Figulo. Nel De K littera l’auctoritas di Nigidio Figulo era fatta derivare da Papiriano; essa, priva però del nome del grammatico, ricorreva anche in Mario Vittorino (ed. Mariotti 1967, p. 71,11)122.
122 Si veda in merito P. TOMÈ, Papiri(an)us, Paperinus, Papirinus e l’Orthographia di Giovanni Tortelli, «Revue d’Histoire des textes» n.s. VI, 2011, pp. 167-210.
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L’unico lemma registrato per la lettera K è Kyrieleison.
Lettera L Voci 138 (1 om.)
Varianti 4 Lacaedaemonia Lapihthae Laodonia Lethaeus
Osservazioni Varianti Le varianti sono per lo più dovute a sviste nella trascrizione, poiché a conferma della grafia corretta Lacedaemonia vi è la prescrizione del Tortelli, mentre all’interno delle voci corripondenti in PV è attestata la grafia Laphithae e Laodamia. Letheus è attestato in T, che al pari di G congloba però la parola sotto Lethargus; una forma Lapithae si legge in Vb e una Lapithe in T. Omissioni Una delle devianze di maggior peso nella lettera L, e in generale nella collazione dei lemmi di PV, è Lysius per Lysippus. Il lemma Lysippus non appare nell’elenco alfabetico di PV, mentre figura non solo in A, ma anche nell’edizione del 1477 curata dal Bologni e in quelle successive. Tale errore è dovuto al fatto che il contenuto del lemma scomparso è stato trascritto per errore nel lemma precedente Lysius, il cui contenuto risulta pertanto omesso. Osservazioni Tra K ed L appare per l’ultima volta la formula di transizione.
Lettera M Voci 230 (1 om.)
Varianti 8 Mactrochir Marclylas Mily Minyaeus Minturne Myophones Myrmilon Misis
Osservazioni Varianti La maggior parte delle varianti coinvolge toponimi, nomi geografici e nomi propri derivanti dalla schedatura in particolare di Omero, Erodoto, e degli Scoli all’Odissea. Alcune di esse meritano un breve esame. Marclylas (Mardylas in A) è aberrazione grafica di un termine mai attestato in latino e che è un hapax assoluto in greco: si tratta di Μαρδύλας, il ladrone la cui storia è narrata esclusivamente in SCHOL. ad Od. XIV,327,11; Mily (Milye in A) è, secondo Tortelli, un toponimo «fuit, teste Herodoto, locus in Asia qui antea Solima vocabatur, quem Lycii incolunt»: l’oscillazione grafica qui è forse dovuta alla sovrapposizione tra il toponimo Milyas (HDT. I,173) e l’etonimo Milyae che ricorre subito dopo nel medesimo passo (HDT. I,173, ma anche VII,77), mentre dal nome della catena del Solyma (tra Panfilia e Tauro) si denominavano in effetti talora gli abitanti della zona. La grafia Myrmilon è condivisa solo con Vb, quella Minyaeus con G, mentre Minturne, Mily, Misis sono comuni a tutti i manoscritti discendenti da A. Quanto a Marclylas (Mardylas in A), G legge Maclyus, Vb Marclydas e T omette.
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Omissioni È omesso Myrmidolon, il cui contenuto è compreso sotto Myrmilon. In A, invece, sono presenti due lemmi distinti: Myrmidolon, il cui contenuto corrisponde a Myrmilon di PV e delle altre stampe venete, e Mirmillio (sic) considerato come nome proprio maschile. Ordine dei lemmi Maenalus precede Maenades alterando l’ordine alfabetico, esattamente come in A e nei manoscritti da esso derivati; l’indice curato dalla Donati registra invece Maenades prima di Maenalus. (È accolto Mirmix, uno dei tre lemmi aggiunti da Tortelli in margine ad A che la Donati pone anch’esso tra parentesi uncinate, anziché numerarlo progressivamente come annunciato nella breve premessa all’Appendice).
Lettera N Voci 71 (1 om.)
Varianti 3 Navigium Neophytus Nyctoris
Osservazioni Varianti Due delle varianti grafiche proposte dalla PV sono corrette (Navigium e Neophytus), in quanto rispettano la prescrizione ortografica del Tortelli, travisata da A; sono entrambi attestate anche in G, T, Vb e altri mss. (cfr. DONATI, p. 328 nt.1 per Neophytus, che però annovera la forma come presente solo in G, tra i mss. discendenti da A) . La variante Nyctoris (Nyctotris in A) trasporrebbe Νίτωκρις di HDT. I,185,1: le forme risultano entrambi aberranti. Omissioni Non c’è Nessus, lemma presente solo in A e in altri due manoscritti (DONATI, pp. 264-65). Esso manca del pari anche nelle altre stampe venete.
Lettera O Voci 124
Varianti 5
Osservazioni
Varianti In due casi (Oegrius, Ophthalamos) la parola all’interno della voOcaleae ce viene scritta correttamente (Oeagrius, Ophthalmos), cioè riOegrius spettando la prescrizione del Tortelli o l’etimologia. La forma [Oebaliam] prescritta dall’autore per Ocaleae è Ocalee, attestata in A. Per Ogygius Otrieus (Otreus in A) la forma corretta è quella di A, da Ὀτρεύς. La Ophthalamos variante Ogygius, come si vedrà, è una di quelle che PV condivide Otrieus coi mss. discendenti da A. Oebaliam si legge sia in A che in PV e Ouum* in Vb: la Donati corregge Oebalia, ma va segnalato che Oebaliam è Ouis* invece un caso di coincidenza in errore di A, Vb, e PV che non va sottovalutato; la lezione Ogygius è in comune con G e Vb, mentre Vb mette a lemma Opthalamos, ma riporta la prescrizione ‘cum
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PH et TH aspiratis’, in modo simile a quanto accadeva in PV. Ordine dei lemmi Nella Veneziana compare ampio spazio bianco (4 righe) dopo Oscylla, in corrispondenza di un’ampia lacuna presente anche in A, per cui cfr. DONATI, p. 293. (Nella sequenza lemmatica della lettera O di PV è inserito Ostracismus, uno dei tre lemmi aggiunti da Tortelli in margine ad A).
Lettera P123124 Voci 441c.ca 395+45 (1om.)
Varianti 16 (12+4)
Osservazioni
Varianti Le varianti comprese nella lettera P coinvolgono al solito nomi composti, toponimi, etonimi, nomi propri e tecnicismi. In alcuni Parasceue* casi la grafia di PV coincide con quella proposta dall’autore o (1ad.)123 Parclyus asseconda l’etimo della parola (Pelasgi, Peripleroma, Proselytos, Parectateni Phaethusa), in altri sei pare corretta la forma di A (Parectaceni, Parthenopaeus Parthenopaeus, Peripetasma, Permessus, Pirus, Purpurissa). Per Pelasgi due lemmi si pongono incertezze: il primo è Parclyus (Pardyus Peripleroma in A), derivante da HDT. III, 88 o VII,78 (Πάρμυς, Πάρμυος ἡ), le Peripetasnia cui varianti in A e in PV sono entrambi delle aberrazioni graParmissus fiche (né è questo l’unico caso di corruttela inerente la grafia Phaethusa di nomi erodotei trasposti in latino); il secondo è Plemmyrium Pyrus (Plemyrium in A) la cui oscillazione grafica dipende da Tortelli Plemmyrium stesso che, pur mettendo a lemma la variante scempia di A, nel Proselytos corso della voce ammette la variante geminata ipotizzando un Purpirissa etimo da πλεμμυρῶ. Segnalo che Parclyus, Pelasgi, Peripleroma, Phaethusa sono tutte varianti attestate almeno in uno dei s.v. Prosodia manoscritti discendenti da A; si legge invece Parectatoni in G e Attentim T, Paratecteni in Vb. In particolare Peripleroma si legge anche in Gaetulus G e T, e non solo nel gruppo dei mss. distanti da A individuato Incus da DONATI alle pp. 330 e s. Marsya [Praemodum] Le quattro varianti comprese nella voce Prosodia rendono ragione a PV in due casi (Gaetulus, Incus). Sono sviste della Do[Quando] nati la trascrizione Premodum e Tribulus, così come la dupli[Tribulis] cazione di Quando124; in particolare segnalo qui che Attentim, Incus e Marsya sono tutte forme variamente attestate anche nei manoscritti discendenti da A. Omissioni È omesso in PV il lemma Procris, che oltre ad essere presente in A, compare anche nelle altre stampe venete. 123 Si veda qui la nota successiva: un lemma risulta aggiunto per errore nell’indice curato da Donati. 124 Nell’indice della Donati Quando è ripetuto due volte: dopo Ergo (dove va espunto, perché non è messo a lemma) e dopo Proceres, dove va mantenuto (cfr. DONATI, L’Orthographia, p. 378). Quanto alle forme Praemodum e Tribulis (trascritte Premodum e Tribulus dalla Donati), in A si legge Praemodum e Tribulis, come in PV; fanno fede in particolare le ulteriori testimonianze addotte su Tribulis (MART. IX,49,7 e HOR. epist. I,13,15) dove la parola appare scritta coerentemente come sopra.
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Ordine dei lemmi La prima osservazione inerisce il lemma Palaemon, non inserito da Gemma Donati nel suo indice: Palaemnon compare in A, in PV e in tutte le stampe venete (e anche nella princeps Romana) e in tutti i manoscritti che ho potuto controllare. In PV compare inoltre un’inversione tra Poeta e Polycletus, perché Pogoma precede Polemo. (C’è Petalismus, uno dei tre lemmi aggiunti da Tortelli in margine ad A. Mancano Palinodia, Pyropus e Pyrgo, tre dei nove lemmi che dovrebbero apparire nelle stampe secondo la Donati).
Lettera R Voci 31
Varianti 1 Rhynitalcus
Osservazioni La variante Rhymitalcus (PLUT. Rom. XV,207) proposta da A è corretta; nei manoscritti discendenti da A si legge invece tendenzialmente Rhynitalchus, con l’aggiunta dell’aspirazione.
Lettera S125 Voci 225
Varianti 10 Sannites Satagytae Scylurus Scyrus Scombrus Scorpus Scotonia Sphinx Stlata Strategemata
Osservazioni Varianti Parecchie delle varianti afferiscono termini dalla grafia oscillante in latino (Scyrus/Scyros; Scombrus/Scombrum; Stata/Stlatta), dove Scombrus sembra più corretta trasposizione di σκόμβ ρος, al maschile indicante in greco il pesce, al neutro un monte della Macedonia. La variante Sannites (Sannitae in A) darebbe ragione a PV, mentre per Sphinx/Spinx si pone il problema dell’ambigua prescrizione datane dal Tortelli, che giustificherebbe entrambe le forme, a partire, però, dalla formulazione disaspirata che era probabilmente quella voluta a lemma. Scylurus (Scilurus in A) è errore di PV a fronte della prescrizione del Tortelli (cum I latino), mentre Sattagitae di A sembra trasposizione più fedele del greco Σατταγύδαι in HDT. III,91,4. Quanto a Scotonia (Scotomia in A), termine non attestato nel ThLL, grafia corretta è per certo quella di A. La fonte sono i lessici medievali di Uguccione e Balbi. Significativo che nell’Orthographia il lemma Scotomia sia seguito da Scutulata, che appare come derivato di Scuta, al pari di Scotomia, anche in Uguccione (s.v. scutulatus, a, um)125. Di tutte queste varianti parecchie figurano variamente testimoniate nei manoscritti discendenti da A: Sannites, Scylurus, Scombrus, Sphinx, Strategemata. Il ricorrere di Stlata e Scotonia potrebbero permettere di ipotizzare (ma non di provare) la vicinanza di PV ad alcuni testimoni non discendenti da A in cui esse appaiono (cfr. supra); tuttavia, l’oscillazione
125
UGUCCIONE DA PISA, Derivationes, S 271,2 e 1 (Scutomia a testo, ma Scotomia variante in apparato); inoltre BALBUS JOHANNES, Catholicon seu summa prosodiae, Venetiis, Hermann Liechtenstein 1483, s.v. Scotomia.
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con cui le forme figurano impiegate nella lingua latina e nei lessici d’uso comune non le rende un tratto distintivo fondante, perché potrebbe trattarsi di forme generate a prescindere dalla loro dipendenza da un testimone comune. Spazi bianchi All’interno della voce Sparta appare un ampio spazio bianco di otto righe per completare un citazione di Giustino. Come si è visto per Oscylla, anche in questo caso lo spazio corrisponde ad analoga situazione in A (DONATI, p. 300). Ordine dei lemmi È presente Saurus, una delle sedici voci assenti in A che caratterizzano i manoscritti a esso estranei.
Lettera T Voci 245
Varianti 12 Tantologia Theatrides Thesmophorea Tisiphone [Tyana] Tyestes Timoetas Thoota Trapezita Trieterica Thrioessa Trochistus Thurinus
Osservazioni Varianti In alcuni casi le varianti proposte da PV sono preferibili perché rispettano la prescrizione del Tortelli (Thoota), o perché traspongono correttamente il greco (Trapezita < τραπεζίτης), o perché trovano conferma nella forma attestata in latino (Trieterica); le altre varianti rendono di norma ragione ad A. Merita una riflessione Tisiphone (Tessiphone in A), perché nessuna delle due forme rispetta l’indicazione del Tortelli, oscillante essa stessa, come in vari altri casi: «cum T exili et non cum duplicato S, sequente I latino, scribitur … Nonnulli vero, servantes ipsum I parvum in prima, nec in E apud nos convertentes, dicunt Tisiphone». La forma proposta da Tortelli a lemma era dunque Tesiphone, con S scempia. Tyana è la forma che si legge anche in A; trascritta erroneamente Tyaria dalla Donati, è tenuta a base dalla studiosa nel redigere le collazioni con altri mss. (cfr. DONATI, p. 331 e nt. 1: la studiosa afferma che «in luogo di Tyaria la lezione Tyana è in BDEFGKOPRSW con la variante Tiaria in Z», ma segnalo che anche T e V leggono Tyana). L’esame autoptico del ms. Vat. lat. 1478 ha confermato che anche in A è scritto Tyana, visto lo specifico ductus di N e R seguite dalla I caratterizzante in generale i gruppi -nia e -ria nel ms. e in particolare nel medesimo foglio. Le varianti condivise dai manoscritti discendenti da A sono Theatrides, Tisiphone, Tyana; segnalo anche la forma Thuninus di T per Thunnus di A, molto vicina a Thurinus di PV. Ordine dei lemmi Sono presenti solo 8 delle voci assenti in A che sarebbero attestate nel resto della tradizione manoscritta e a stampa nella lettera T: Tile, Tilos, Tragelaphus, Tragemata, Tralles, Triton, Triton, Troezen.
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Lettera V Voci 15
Varianti — Vesuuius*
Osservazioni Varianti Come già osservato per tutti i lemmi accompagnati da asterisco, caratteristica di PV è quella di non scrivere la U intervocalica per mezzo del distinto segno grafico. Ordine dei lemmi Manca Uphens, uno dei 16 lemmi di cui si è detto.
Lettera X Voci 13
Varianti 1 Xanto
Osservazioni L’oscillazione grafica è forse dovuta all’incerta attribuzione del nome: potrebbe trattarsi tanto di Ξανθώ nome generico di donna menzionato anche da VERG. Georg. IV, 336, che di Ξάνθη un’Oceanina ricordata per es. in HES. Theog. 356. Il contenuto della voce non consente di capire a quale entità mitologica vada attribuito il nome e quindi quale sia la veste grafica preferibile.
Lettera Z Voci 15
Varianti
Osservazioni
—
Sono presenti spazi bianchi dopo Zeno, Zephyrus, Zeusis. Questo fatto ci riporta ad analoga situazione presente nella lettera iniziale del trattato che abbiamo attribuito alla composizione delle forme per la stampa.
TABELLE Tabella n. 1: Spazi bianchi nella princeps Veneziana (PV) Spazi bianchi mantenuti
Spazi bianchi eliminati
Spazi bianchi eliminati e integrati
Caso 45 Caso 46 Caso 50 Caso 55 Caso 56 Caso 66 Caso 67 (addirittura due) Caso 68 Caso 73 Caso 77 Caso 82 Caso 86
Caso 44 Caso 49 Caso 53 [Caso 57 (è omessa la voce)] Caso 59 Caso 65 Caso 69 Caso 71 Caso 72 Caso 74 Caso 76 Caso 78 Caso 79 (licet per libet)
Caso 51 Caso 54 Caso 60 Caso 61 Caso 62 Caso 64 Caso 70 Caso 75 Caso 83
Tot. 12
Tot. 9
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Caso 80 (non espunge quae) Caso 81 Caso 84 Caso 85 Caso 87 Caso 88 Tot. 18
Eliminati con parziali espunzioni Caso 47 Caso 48 Caso 52 Caso 58 Caso 63 Tot. 5
Tabella n. 2: Spazi bianchi nei mss. G e V126 Spazi bianchi mantenuti
Spazi bianchi eliminati
Ms. G
Ms. V (solo Vb)
Ms. G
Ms. V (Va + Vb)
Caso n. 44 Caso n. 45 Caso n. 46 Caso n. 47 Caso n. 48 Caso n. 49 Caso n. 50 Caso n. 52 Caso n. 53 Caso n. 54 Caso n. 55 Caso n. 56 Caso n. 60 Caso n. 61 Caso n. 62 Caso n. 72 Caso n. 73 Caso n. 75 Caso n. 76 Caso n. 77 Caso n. 78 Caso n. 79 Caso n. 80 Caso n. 81 Caso n. 82 Caso n. 84 Caso n. 85 Caso n. 86 Caso n. 88
Caso n. 58 Caso n. 60 Caso n. 61 Caso n. 62 Caso n. 63 Caso n. 65 Caso n. 66 Caso n. 67 Caso n. 68 Caso n. 69 Caso n. 70 Caso n. 71 Caso n. 72 Caso n. 75 Caso n. 76 Caso n. 77 Caso n. 78 Caso n. 79 Caso n. 80 Caso n. 81 Caso n. 82 Caso n. 84 Caso n. 85 Caso n. 86 Caso n. 87 Caso n. 88
Caso n. 66 Caso n. 67 Caso n. 69 Caso n. 71 Caso n. 74
Caso n. 44 Caso n. 48 Caso n. 49 Caso n. 50 Caso n. 53 Caso n. 54 Caso n. 55 Caso n. 56 Caso n. 59 Caso n. 73 Caso n. 74
Tot.26126
Tot. 10
Tot. 6
Va (8 casi: 44-56)
Vb (3 casi: 59-74)
Tot. 11 (8 Va + 3 Vb) Con integrazioni Con integrazioni Caso n. 51 Caso n. 58 Caso n. 59 Caso n. 63 Caso n. 64 Caso n. 65 Caso n. 68 Caso n. 70 Caso n. 75 Caso n. 83
Caso n. 45 Caso n. 46 Caso n. 47 Caso n. 51 Caso n. 52 Caso n. 64 Caso n. 83
Va (5 casi: 45-52) Vb (2 casi: 64-83)
Tot. 7 (5 Va + 2 Vb)
Tot. 29
126
Rammento che questo totale è però computato per Vb su un numero di occorrenze inferiore (16 in meno), per cui in proporzione il numero di spazi bianchi mantenuto da Vb è decisamente superiore a quello di G.
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LA PRINCEPS VENEZIANA DELL’ORTHOGRAPHIA
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Tabella n. 3: Devianze proprie di G, T, V riscontrabili nella princeps Veneziana (PV) Nella prima colonna è riportata la lezione di A, mentre nelle restanti sono distribuite le devianze di PV in base ai testimoni in cui si trovano del pari annoverate; nella seconda colonna compaiono i casi in cui la forma indicata si presenta identica in tutti e tre i mss. discendenti da A (G, T, V), nella terza e nella quarta i casi in cui solo due o uno dei testimoni si accordano con PV; alcune varianti e omissioni sono indicate in calce, altre, radunate nella tabella successiva, sono parse degne di nota e pertanto raggruppate distintamente: Lezione di A
3/3
Agasicles
Agasides
2/3
Agonotheca T
Agonotheta
Alcinaeon T
Alcmaeon Anthiphates
1/3
Antiphates
Apisaon
Apiscion Va
Athenae
Athene T
Azymus
Azimus T
Ballista
Balista Va T G
Bathavi
Bathani Va T Brasiadas Va G
Brasidas Buchar
Bulchar
Castianira
Castiamira Va T
Cynaetha
Cymaetha Va G
Damasithymus
Damasithynus
Deipyle
Deiphyle
Deipylus
Deiphylus G T
s.v. Diphthongus: Aequs
s.v. Diphthongus: Aequus T
Dryude
Dryidae G
Erechtheus
Erichtheus G
Hemisperium
Hemispaerium T
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PAOLA TOMÈ
Hexameron G T Hieropicra G Vb Hypermnestra G Vb Hippolyta Vb T
Hexaimeron Hierapicra Hypermestra Hippolita Hippsicratea Hyrie s.v. De aspiratione: Hericius sive Herinacius; Hernia
Hipsicratea T Hyriae Vb s.v. De aspiratione Heritius sive Herinatius G Herma Vb
Milye Minyeus Minturnae Myrmidolon Mis
Mily
Navagium Neophithus Ogygis
Navigium Neophytus
Minyaeus G Minturne Myrmilon Vb Misis
Ogygius G Vb
Pardyus
Pelasgia Periploroma Phaetusa s.v. Prosodia: Actentim; Intus; Marsia Sannitae Scilurus Scombrum Scorpius Spinx Stratagemata Thearides Tessiphone
Parclyus G
Pelasgi Vb
s.v. Prosodia: Attentim
Peripleroma G T Phaethusa Vb T s.v. Prosodia: Incus GT
s.v. Prosodia: Marsya Vb
Sannites Scylurus G Scombrus Scorpus Vb Sphinx Strategemata Theatrides G Vb Tisiphone T
Varianti: Aposcion G, om. T; Bathanii G; Brasiades T; Erchtheus Vb; Hieropicra om. T; Hipsicrata G; Ogygius om. T; Paraclyus Vb, Paralyus T; Stranguria continet Strategemata Vb; Theatrides om. T.
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LA PRINCEPS VENEZIANA DELL’ORTHOGRAPHIA
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Tabella n. 4: Devianze della princeps Veneziana accostabili a G, T, V Si riportano i casi di alcune devianze di PV accostabili, tuttavia non perfettamente identiche, a quelle ravvisabili in G, T, V e che potrebbero testimoniare una prossimità, se non una coincidenza assoluta in errore con questi mss. Nella prima colonna la lezione di A, nella seconda quella di PV, nella terza le lezioni di G, T, V che a quest’ultima sembrano accostabili e per ciascuna delle quali rinviamo anche alle osservazioni contenute a testo e nell’indice dei lemmi alla lettera corrispondente: Lezione di A
Lezione di PV
Lezione di G, T, V
Amydon
Amyclon
Amyclo T
s.v. Diphthongus: Claemens Caemeus
Claemeus Va
Epiphonema
Epiphonenia
Epiphonenia corr. Epiphonema G
Hemicyclus
Hemyciclus
Hemycidus Vb
Hiarbas
Hyarba
Hyarbas Vb T
Laphythae
Lapihthae (sic)
Lapithe G T; Lapithae Vb
Mardylas
Marclylas
Maclyus G; Marclydas Vb; om. T
Nyctotris
Nyctoris
Nyctotus G; Nictoricis Vb; Nyctortis T
Ophthalmos
Ophthalamos
Opthalamos Vb
Otreus
Otrieus
Otrius G T
Parectaceni
Parectateni
Paractatoni G T; Paratecteni Vb
Rhymitalcus
Rhynitalcus
Rhynitalchus G T Vb
Sattagytae
Satagytae
Sattagite G; Sattagyte Vb T
Scyros
Scyrus
Scyro G
Thesmophoria
Thesmophorea
Thesmophora G
Thunnus
Thurinus
Thuninus T
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PAOLA TOMÈ
Tabella n. 5: Varianti presenti nei sedici lemmi aggiuntivi assenti in A Il numero delle righe fa riferimento all’edizione datane dalla Donati alle pp. 254-259 del suo studio, mentre sono contrassegnati con un asterisco i nove lemmi annoverati in PV e col doppio asterisco i due lemmi dei sedici che sono assenti nelle restanti stampe venete. Con le sigle B (Vat. lat. 3319), R (Urb. lat. 303), U (Urb. lat. 302), X (Pal. lat. 1772), Z (Marc. lat. XIII 38) sono indicati i mss. esaminati, mentre le stampe sono menzionate così: PV (Ve), princeps Romana (Ro), Treviso 1477 (Tv), Vicenza 1479 (Vi): 1) Colaphizo Nomen tantum habet Colaphizo, re vera Colaphum continet R *2) Saurus: Riga 2 prima: om. Ve Tv Vi; lacertus: lacernis Z; Riga 3 naturalis historiae: historiae naturalis Ve Tv Vi 3) Theta Riga 1 cum ‘th’ aspirato: cum ‘th’ aspirato scribitur R Riga 2 quae vim: quae videlicet Z Riga 3 aspiratum: aspiratam Z; de qua: et de qua U; huius: om. Z; ‘t litterae’: et litterae B Ro 4) Tibareni Omittit vox Z Riga 1 Tibareni: Tebareni R Riga 2 fluvius est Italiae add. X *5) Tile Riga 1 Tile: Thyle Z; ‘t’ exili: ‘th’ Z; ‘i’ latino: ‘y’ graeco Z Riga 2 descenditque a τηλόθεν, id est longe: om. Z; τηλόθεν: om. U Riga 3 septentrionalem et occidentalem plagam: septentrionalem plagam et occidentalem Z Riga 5 simul ac: simulcac X Riga 6 quaecumque: quaeque X 7) Tlepolemus Riga 2 antepenultima: an U, ante penultima R; fuit: et fuit U Riga 3 Astyoches: Astioches Z Riga 4 rebus: de rebus U Riga 5 Homerus dixit: Homerus ait Tv Vi; Homerus [ait exp.] dixit B; cum simul ac: quum simul ac U Tv Vi, quom simul atque Z Riga 6 Lycimnion: Lycimnien U, Lycimnium Z, Lycamnion Tv Vi; ultionem: ultione Z, oltione Ro Riga 8 cum: quum U Riga 9 classeque: classique Tv Vi; comparata: comperata U Ro; ingenti: viginti U; comitum: comitu Z Riga 10 aedificaverat om. U; adificaverat: aedificarat: Tv Vi Riga 11 Rhodum: Rhodium Z Riga 13 benivolentiam: benevolentia Z
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LA PRINCEPS VENEZIANA DELL’ORTHOGRAPHIA
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Riga 14 affluentesque: affluentes Z; tandem cum: tandem quum U Riga 15 Sarpedone: Sarpedono U ** 8) Toparchia Riga 1 Toparchia: Topochia Z sequitur Topothesia, non Toparchia; ‘th’: ‘ch’ U Riga 2 nam: uam Ro Riga 3 et om. R *9) Tragelaphus Riga 1 ‘ph’: ‘th’ Z Riga 2 scribitur om. R; elaphus: eliphus Z Riga 4 tantum: tamen U, iamen Vi *10) Tragemata Riga 1 tragomata Z Riga 2 et: est B Riga 3 significat: significant R Ro Ve Tv Vi Riga 3-4 et ut parum supra dixit significat autem bellaria: om. Z *11) Tralles Riga 2 in Minori: inminori R 12) Thrasymedes Riga 1 Thrasymedes: Thrasimedes U, Thrasymodes Z *13) Triton Riga 5 Phla: Pola Ve Tv Vi; alia om. Z Riga 6 quin: quum U; Ogygii: Ogigii R Z; Pallas: Pallatii B, Pallati R X, Palla corr. Pallas Ro Riga 8 unde et Lucanus: unde Lucanus Ve Tv Vi Riga 9 Libyen: Libyem R U; patrio: primo U Riga 10 calor: color U Ve Tv Vi Riga 11 proclivius: pondus Z; quieta: quietem Ve Riga 12 quod om U; minus: avius Z; eius om. Z Riga 14 dedignatam: delignatam R; Tritonidos om. Z; se om. Z Riga 15 filiam om. Z; cum: quom Z Riga 16 adinvenerint: adinvenerunt Z *14) Triton Riga 2 Neptuni atque Salathiae filius: Neptuni filius atque Salathiae Ve Tv Vi Riga 3 exterrens: exterens Ve Tv Vi Riga 4 hispida nanti: hispidananti R Riga 5 ut etiam dixit: etiam ut dixit U Riga 6 marmora: murmura B U Ro Ve Tv Vi Riga 8 cum: eum Ve *15) Troezen Riga 2 unde om. R ** 16) Uphens Riga 1 Uphens: Upheus R, Uphesus Z Riga 2 est: fuit Z
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PAOLA TOMÈ
Documento n. 1 HIERONIMUS BONONIUS, Lettera a Costantino Robegano, in TORTELLI, Orthographia, Tarvisii 1477, cc. 341r-341v127.
Primario litterarii ordinis viro Constantino Robegano notario Tarvisano Hieronimus Bononius S.P.D. Quorundam hominum istis temporibus vaniloquentias, qui dum caeteris detrahunt sibi plurimum ascribere opinati neminem virum doctum cui non allatrent intactum relinquunt aequo animo ferre non possum, Constantine vir optime. Neque enim ingratitudine, qua isti hac in re potissimum coarguntur, quicquam mihi stultius videtur. Siquidem Guarinus ille Veronensis, Laurentius Vallensis, Arretini, Georgius Trapenzuntius compluresque alii doctissimi, qui Romanam linguam maiorum incuria tamquam aedificium putre vetustate collapsum oblitteratam prope exstinctamque magno cum labore ac studii diligentia restituere, ut, his ducibus, quicquid boni in re litteraria habemus simus maxime consecuti, caninis morsibus undique dilaniantur. Nec est qui magnis saltem nominibus parcat. O stoliditatem insulsissimam! Caeteros tacebo, de Ioanne Arretino pro loco tantum loquar. Quae ante laboriosissimum hoc opus Orthographiae apud Latinos, inquam, habebatur ratio? Nulla prorsus. Latinitas Graecitatis commercio egebat usque adeo ut neutram merito nosse putaretur qui alteram tantum sciret. Graecae dictiones ex cuiusque arbitrio scribebantur nec ullus rationi aderat modus, parum id quidem. Atqui codices corruptissimos depravatissimosque, Ciceronem, Livium, Plinium, Quintilianum, Gellium, auctores eloquentissimos, vix loquentis habebamus. Historiarum vero Graecarum, Strabonis, Herodoti, Thucydidis ignari omnino eramus. Quae impraesentia apud Tortellium diligentissimum auctorem pro locis aperta, ut nunc discipuli praeceptoribus olim doctiores sint effecere. Gratiae habendae huic reliquisque qui difficiles nobis aditus monstrarunt, gratiae habendae essent, non litteras ignorasse, quod de Tortellio audivi quosdam obloqui ausos publicandi. Qui tamen si nonnunquam aliquid — ut eorum loquamur more — insipidum aliquid minus gratum promunt quandoque bonum Homerum dormitasse etiamnum recensendum (HOR. Ars, 359). Non omnis porro posse omnia, non omnia eidem deos dedisse, ut Hannibali Maharbal versandum foret (LIV. XXII,51,2-3). Caeterum, quia temeritatis atque ignorantiae fronti meae indelebile stigma inustum iri praemonitus sum, quippe qui castigandi operis in quo, ut aiunt, plurima errata ac perperam dicta sunt, gravem et viribus meis longe imparem provinciam audacter subierim. Unum profiteor: novisse me censurae meae non esse tanto operi addere necessaria, aut demere supervacanea, neque novum opus conficere voluisse; verum operam potius dedisse ut ea archetypa haberent in exemplar quae auctor ipse, subtegiminis alieni haud indigus, intexuerat. Cuius rei Blasium Lignaminium Patavinum, virum sane integerrimum nec doctum minus tibique admodum familiarem, Constantine, sincerum testem appello. Is Tortelli sui, pro solita in omnes humanitate, mihi co127 Lettera postfatoria di dedica al notaio trevisano Costantino Robegano dell’edizione curata da Bologni a Treviso nel 1477; la dedica è posta subito dopo il colophon. Nelle more delle bozze appuro che il testo è stato trascritto anche da Paolo Pellegrini in BOLOGNI, Orthographia cit., pp. 27-29.
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piam cum fecisset, omne hac in re consilium meum plane intellexit: nolle quicquam pervertere, procurantem utique ut Tortellius non ut Hieronymus scriberetur. Siqui tamen caracteres inversi, litterae duplicatae ubi simplices debuissent poni, aut e contra alia pro alia exilis pro densa, repetita syllaba aut praetermissa inter legendum occurrerint non meae inscitiae verum celeritati librariorum tribuatur. Nec tamen tales hi erunt errores ut non facillime castigaturus sim culpam in me nullam relaturus benignus interpres. Tu interim bene vale et, quod facis, me ama.
Documento n. 2 HIERONIMUS BONONIUS, Carmen in primi impressoris commendationem, in TORTELLI, Orthographia, Tarvisii 1477, cc. 341v-342v128.
Tingere dispositis chartas quicumque metallis Coepit et insignes edidit aere notas Mercurio genitore satus, genitrice Minerva Praeditus aethereae semine mentis erat. Non illum Cereris, non illum cura Lyaei Terrenae tenuit non opis ullus amor. Copia librorum cupidis modo rara Latinis Cum foret auspiciis illius ampla venit. Improbus innumeris librarius ante talentis Quod dabat exigua nunc stipe vendit opus. Historiae venere Titi, se Plinius, omni Gymnasio iactant, Tullius atque Maro. Nullum opus, o nostri felicem temporis artem! Celat129 in arcano bibliotheca situ. Quem modo rex, quem vix principes modo rarum habebat Quisque sibi librum pauper habere potest. Redditus hac etiam nuper Tortellius arte Plurimus escribas qua ratione docet. Hunc eme qui lingua cultus cupis esse latina, Hunc eme grammaticus qui cupis esse bonus: Quae geminanda notis fuerit tibi syllaba, simplex Quaeve sit, exili densave, doctus eris. Postmodo qui fuerit grato si commodus usu Has memor assiduis plausibus ede preces: Artifici semper faveant pia numina sancto Utilis effluxit cuius ab arte liber. 128 Si tratta di tredici distici elegiaci inneggianti all’invenzione della stampa collocati dopo la lettera di dedica al Robegano. A proposito di questo carme si veda HIRSCH, Hieronymus Bononiensis Carmen in primi impressoris commendationem cit. e GOMBRICH, Eastern Inventions and Western Response cit.; inoltre RHODES, La stampa a Treviso nel secolo XV, p. 50. La prima trascrizione ne fu data tuttavia da D. M. FEDERICI, Memorie Trivigiane sulla tipografia del XV secolo, Venezia 1805, pp. 70-71; si veda da ultimo anche BOLOGNI, Orthographia, pp. 27-29. 129 A testo si legge cellat (sic), qui rettificato in celat come già in FEDERICI, Memorie Trivigiane cit., p. 71.
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PINA TOTARO – LEEN SPRUIT – PIET STEENBAKKERS
L’ETHICA DI SPINOZA IN UN MANOSCRITTO DELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA (VAT. LAT. 12838) Non esistono manoscritti delle opere di Spinoza ad eccezione di alcune lettere e di due copie, seicentesca l’una e settecentesca l’altra, della Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand, la traduzione nederlandese di un testo che il filosofo lasciò incompiuto e che non fu inserito nell’edizione degli Opera posthuma del 1677. Il filosofo pubblicò in vita a suo nome il solo Renati Des Cartes principiorum philosophiae pars I & II nel 1663; il Tractatus theologico-politicus uscì anonimo e con falsa indicazione del luogo e del nome dell’editore (Hamburg, H. Künraht; in realtà: Amsterdam, J. Rieuwertsz) nel 1670. Tutte le altre sue opere furono pubblicate, a cura di una ristretta cerchia di amici, nel volume degli Opera posthuma e, nella versio belgica, in De nagelate schriften; ovvero, nell’ordine: l’Ethica, il Tractatus politicus, il Tractatus de intellectus emendatione, le Epistolae, & ad eas responsiones e il Compendium grammatices linguae Hebraeae1 (Tavv. I-III). La trascrizione dell’unico manoscritto conosciuto dell’Ethica, con un’ampia introduzione e diversi apparati, è stata ora pubblicata con il titolo The Vatican Manuscript of Spinoza’s «Ethica» presso la casa editrice Brill, a cura di Leen Spruit e Pina Totaro. La scoperta si deve a Leen Spruit, il quale ha rinvenuto il manoscritto Vat. lat. 12838 tra le carte della sezione manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il codice fa parte di un cospicuo gruppo di testi provenienti dalla Biblioteca della Congregazione per la dottrina della fede, trasferito poi a partire dal 1922 nella Biblioteca Vaticana2. Il manoscritto, composto di 133 fogli, costituisce l’unico esemplare, seppure non autografo, dell’opera spinoziana più nota, redatto in epoca precedente alla pubblicazione degli Opera 1 B.D.S., Opera posthuma, quorum series post Praefationem exhibetur, [Amsterdam, J. Rieuwertsz], 1677 (rist. anast. a cura di P. TOTARO, Macerata, Quodlibet, 2008); De nagelate schriften van B.d.S., [Amsterdam, J. Rieuwertsz], Gedrukt in ’t Jaar 1677. 2 Desideriamo ringraziare ancora, per l’assistenza prestata nel rinvenimento dei vari documenti archivistici qui presentati, il Prefetto, Mons. Cesare Pasini, il Viceprefetto, Dottor Ambrogio M. Piazzoni, il Direttore del Dipartimento dei manoscritti, Dottor Paolo Vian, e il personale della Biblioteca Apostolica Vaticana [BAV], il Direttore, Mons. Alejandro Cifres, e il personale dell’Archivio della Congregazione per la dottrina della fede [ACDF].
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 583-610.
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PINA TOTARO – LEEN SPRUIT – PIET STEENBAKKERS
posthuma. Scritto interamente in latino, il testo non era mai stato correttamente identificato. Esso si presenta acefalo e — senza alcuna indicazione riguardante il suo autore — è registrato nel catalogo dei manoscritti vaticani con il titolo generico di Tractatus theologiae, forse a causa dell’indicazione De Deo che costituisce l’incipit stesso della Pars prima dell’opera (Tav. IV). Nell’inventario dei manoscritti Vat. lat. 12345-12847, conservato nella Biblioteca Vaticana, il codice viene infatti così descritto3: «Saec. XVII, chart., mm. 170 u 17 [sic, forse 107] ff. 133. / Tractatus theologiae. / Inc. Pars prima de Deo: Definitiones. / 1. Per causam. / Des. tam difficilia quam rara sunt. / Finis partis quintae. / F. 133v notula: Die 23 Septembris 1677 Illustrissimus et Reverendissimus D. Nicolaus Stenonus Episcopus Titiopolitanus et / Vicarius Apostolicus in Ducatu Luneburgensi exhi-/buit presentem librum et dixit esse librum expositum [?] in eius memoriali S. Congregatio-/nis [sic] S. Officii porrecto». Dei contenuti del testo, delle numerose varianti rispetto all’edizione a stampa e di altre notizie relative al manoscritto è dato conto nel volume pubblicato da Spruit e Totaro. In questa sede, è importante sottolineare la storia della redazione e della trasmissione del testo, nonché ricostruire, sulla base della documentazione in nostro possesso, le vicende che ne hanno determinato la presenza nell’Archivio storico della Congregazione del S. Uffizio, oggi Congregazione per la dottrina della fede, ove è rimasto conservato per secoli. Alcuni anni fa, Pina Totaro aveva rinvenuto nell’Archivio storico della Congregazione per la dottrina della fede la denuncia contro Spinoza presentata in data 4 settembre 1677 dallo scienziato e teologo danese Niels Stensen alla Congregazione del Sant’Uffizio4. Sulla base di alcune indicazioni contenute nel memoriale, l’autrice aveva ipotizzato che un manoscritto dell’Ethica (o almeno di una parte di essa) o di un’altra opera spinoziana potesse essere ancora conservato nelle collezioni di una biblioteca storica romana o della Città del Vaticano. A partire da questa testimonianza e da altri documenti archivistici già noti o recentemente individuati, è possibile ora stabilire una precisa relazione tra la denuncia di Stensen e il 3 Codices manu scripti Vaticani Latini 12345-12847 ex Archivio in Bybliothecam Vaticanam translati anno 1920, manoscritto consultabile alla segnatura Sala cons. Mss rosso 315(6). Si precisa qui che la descrizione del manoscritto dell’Ethica non compare nell’indice cartaceo IAM o «Bishop card catalogue» della BAV, come è stato indicato nel volume The Vatican Manuscript of Spinoza’s «Ethica»; ringraziamo la dottoressa Andreina Rita per le utili informazioni in proposito. 4 Cfr. P. TOTARO, Documenti su Spinoza nell’Archivio del Sant’Uffizio, in Nouvelles de la République des Lettres 20 (2000), pp. 95-120. Il documento, conservato in ACDF (segnatura: S.O. C.L. 1680-82, Folia extravagantia n. 2), è inserito in una carta di formato più grande su cui è scritto «Libri prohibiti circa la nuova filosofia dello Spinosa».
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L’ETHICA DI SPINOZA IN UN MANOSCRITTO DELLA BAV
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manoscritto dell’Ethica appena scoperto, ricostruire l’itinerario percorso e la storia stessa della trasmissione del codice, nonché conoscere, con un ampio margine di probabilità, il possessore. La storia della redazione del testo dell’Ethica è stata descritta in anni recenti da Fokke Akkerman e Piet Steenbakkers. Sulla base della documentazione in nostro possesso si può datare ai primi anni ’60 del Seicento un’iniziale elaborazione da parte di Spinoza della prima parte dell’Ethica, insieme alla definizione di una terminologia specifica. Dall’epistolario del filosofo si apprende inoltre che Spinoza inviava ai suoi amici, mentre veniva componendole, le diverse parti dell’opera, e che essi leggevano e discutevano collegialmente i testi, trasmettendo poi a Spinoza le osservazioni emerse nel corso della lettura5. Nel maggio/giugno 1665 l’opera aveva ormai assunto una consistenza quasi definitiva: la terza parte dell’Ethica comprendeva in quella fase ben ottanta proposizioni e così venne spedita a Johannes Bouwmeester nell’estate del 16656, prima che Spinoza interrompesse, almeno parzialmente, la stesura dell’opera per dedicarsi alla redazione del Tractatus theologico-politicus. L’Ethica fu poi completata negli anni successivi al 1670, anche se la distribuzione interna e la sistemazione della struttura more geometrico furono oggetto di continua revisione da parte dell’autore. A partire dalla fine del 1674 alcune copie di un manoscritto dell’Ethica cominciarono a circolare in una ristretta cerchia di amici del filosofo, nella quale erano compresi certamente il nobile tedesco Ehrenfried Walther von Tschirnhaus e Georg Hermann Schuller. Il 5 luglio del 1675, Spinoza fa riferimento al suo Tractatus quinque-partitus come a un’opera ormai definitivamente completa e si accinge a intraprendere un viaggio ad Amsterdam per promuoverne la pubblicazione. Tuttavia, già prima dell’autunno dello stesso anno, egli comunica a Henry Oldenburg la decisione di procrastinare per motivi di opportunità e prudenza7 la stampa dell’opera ormai definitiva8. La gran parte dei materiali manoscritti rinvenuti in casa di Spinoza dopo la sua morte fu pubblicata nell’edizione degli Opera posthuma con 5 Una traduzione nederlandese della prima e seconda parte dell’Ethica, sempre a cura di alcuni amici di Spinoza, fu inserita più tardi nella versione completa redatta dal traduttore professionale J. H. Glazemaker, che la mise a punto per De nagelate schriften del 1677. 6 Ep. XXVIII secondo la numerazione di SPINOZA, Opera, Im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, hrsg. von C. GEBHARDT, 4 voll., Heidelberg, C. Winter, 1975 [19251] [d’ora in avanti: G] (G IV, 163, 19-24). 7 Cfr. G IV, 299, 7-17. 8 Cfr. l’Ep. XLII di Oldenburg a Spinoza del 22 luglio 1675 (G IV, 273, 7-13) e la risposta di Spinoza (Ep. LXVIII; G IV, 299, 7-28).
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la data 1677, ma in realtà tra la fine di quell’anno e i primi mesi del 1678. La versione nederlandese dovette essere messa a punto nello stesso arco di tempo se uscì quasi contemporaneamente all’edizione latina, presso il medesimo editore Jan Rieuwertsz. È noto da diversi documenti che manoscritti di opere spinoziane circolassero in Europa9 e che la cerchia di amici che ne aveva reso possibile la pubblicazione aveva certamente avuto accesso al manoscritto originale dell’Ethica. Da tale originale dovette essere redatta anche la copia appena scoperta e conservata nella Biblioteca Vaticana. Dai documenti rinvenuti nell’Archivio storico dell’attuale Congregazione per la dottrina della fede10, così come dalla nota apposta sul f. 133v del Vat. lat. 12838 (e copiata nella scheda registrata nell’inventario dei manoscritti Vat. lat. 12345-12847 della Biblioteca Vaticana) si può stabilire che il manoscritto fu consegnato alla Sacra Congregazione del S. Uffizio dallo scienziato e teologo danese Niels Stensen durante il periodo della sua permanenza a Roma nel settembre del 1677. Dopo essersi convertito al cattolicesimo, Stensen attendeva infatti a Roma la nomina di vicario apostolico dell’Europa del nord e di vescovo in partibus di Titiopolis, per essere poi trasferito dapprima a Hannover, presso la corte del duca Giovanni Federico di Brunswick, quindi a Münster, ad Amburgo e infine a Schwerin, dove morì il 25 novembre (5 dicembre) del 1686. Il nome di Stensen è strettamente legato alla storia del manoscritto dell’Ethica e questa, a sua volta, alle censure di Spinoza da parte della Chiesa di Roma e all’inserimento di tutte le sue opere nell’Index librorum prohibitorum. La consegna dell’Ethica alla Congregazione del Sant’Uffizio da parte di Stensen e la sua successiva messa all’indice spiegano anzitutto la presenza del manoscritto nella Città del Vaticano, in quanto la procedura di censura determinava la necessità da parte dei membri del Dicastero di prendere visione dei contenuti del testo ai fini della pubblicazione dei decreti di bando. 9 Dalla Voorreeden alle Nagelate Schriften si conosce, tra l’altro, che già prima della pubblicazione degli scritti postumi di Spinoza circolavano vari apografi delle sue opere: «It is manifest that apographs of other works, too, had been given to several people» (P. STEENBAKKERS, Spinoza’s «Ethica» from Manuscript to Print. Studies on Text, Form and Related Topics, Assen, Van Gorcum, 1994, p. 38. Cfr. anche ID., The Textual History of Spinoza’s Ethics, in The Cambridge Companion to Spinoza’s Ethics, ed. by O. KOISTINEN, Cambridge, CUP, 2009, pp. 26-41). Cfr. anche l’epistola di W. E. Tschirnhaus a Spinoza del 2 maggio 1676 (Ep. LXXX; G IV, 331, 9-10). 10 Tra i documenti conservati nell’ASDF, si veda anche il testo di una breve confutazione del sistema filosofico di Spinoza, contenuto nella censura del De tribus impostoribus di Chr. Kortholt, in C. CARELLA, L’aetas galileiana in Sapienza, in Galileo e l’acqua: guardare il cielo per capire la terra. Atti del Convegno, Roma, 17-18 dicembre 2009, a cura di L. UBERTINI – P. MANCIOLA – A. PIERLEONI, s.l. [Perugia] 2010, pp. 47-81: 53-54.
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L’Ethica fu inserita nell’Index librorum prohibitorum con due successivi decreti, il primo emanato dalla Sacra Congregazione dell’Indice dei libri proibiti il 13 marzo del 1679 sotto il pontificato di Innocenzo XI, a firma del domenicano Giacomo Ricci, il secondo emesso il 29 agosto del 1690 durante il pontificato di Alessandro VIII e sottoscritto dal padre Giulio Maria Bianchi, con il quale si ribadiva la condanna del Tractatus theologico-politicus e si censuravano tutte le opere contenute negli Opera posthuma11. Numericamente assai limitati appaiono i documenti a testimonianza di una presa di posizione tanto decisa contro Spinoza da parte di un Dicastero tra i più importanti della Chiesa romana e i cui decreti erano da considerarsi diretta espressione dell’autorità papale. Dell’attività di censura restano, oltre ai documenti rinvenuti nell’Archivio storico della Congregazione per la dottrina della fede, i materiali documentari conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana e pubblicati da Gisbert Brom nel 1911, nel secondo volume dei suoi Archivalia in Italië, e quelli custoditi nell’Algemeen Rijksarchief de L’Aja e riprodotti da Jean Orcibal nel 194912. Tra questi si segnala, in particolare, una lettera del 18 settembre 1677 (e dunque in data successiva alla morte di Spinoza), nella quale il cardinale Francesco Barberini chiede al vicario apostolico nelle Province Unite, Johannes van Neercassel, di raccogliere informazioni «attorno un libro manoscritto in materia di Ateismo del Spinosa, che fù di natione Ebreo, dal quale qui si suppone, sijno anche state composte altre opere stampate, molto pregiudiziali alla purità della nostra S. fede cattolica»13. Neercassel invierà poi nel 1678 al Barberini un esemplare degli Opera posthuma, nei quali Spinoza insegna ex professo, a suo giudizio, non tanto «Atheismus sed Deismus»14. Un’ulteriore testimonianza dei rapporti di Niels Stensen con Spinoza è la lettera a stampa pubblicata da Stensen15 a Firenze nel 1675, durante il 11 Cfr. P. TOTARO, La Congrégation de l’Index et la censure des oeuvres de Spinoza, in Disguised and overt Spinozism around 1700, ed. by W. VAN BUNGE and W. KLEVER, Leiden – New York – Köln, Brill, 1996, pp. 353-378, in cui sono riprodotti i due decreti di censura (pp. 377-378). 12 G. BROM, Archivalia in Italië, belangrijk voor de geschiedenis van Nederland, 2 vols., ’sGravenhage, M. Nijhoff, 1911, II, pp. 151-155; J. ORCIBAL, Les Jansénistes face à Spinoza, in Revue de littérature comparée 23 (1949), pp. 441-468. Alcuni dei documenti pubblicati sono stati riproposti anche in: H. J. SIEBRAND, Spinoza and the Netherlanders. An inquiry into the early reception of his philosophy of religion, Assen, Van Gorcum, 1988; W. KLEVER, Letters to and from Neercassel about Spinoza and Rieuwertsz, in Studia Spinozana 4 (1988), pp. 329-338. 13 J. ORCIBAL, Les Jansénistes face à Spinoza cit., p. 460. 14 Ivi, p. 467. 15 N. Steno, Ad novae philosophiae reformatorem de vera philosophia epistola, Florentiae, ex typographia Nicolai Nauesij, 1675. La lettera di Stensen è stata pubblicata anche in G IV, 292-298 (Ep. LXVII bis).
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granducato di Cosimo III. L’Epistola ad novae philosophiae reformatorem sancisce il definitivo distacco dalla religione luterana e l’abbandono della ricerca «des merveilles de la nature» da parte di Stensen. Con la conversione al cattolicesimo nel novembre del 1667, l’antico frequentatore di Spinoza e della sua cerchia negli anni trascorsi in Olanda, come studente di medicina presso l’università di Leida, rinuncerà progressivamente agli studi di anatomia e fisiologia, che lo avevano reso precocemente noto, per dedicarsi unicamente al ministero ecclesiastico, ispirando così a Leibniz l’amaro giudizio: «Il étoit grand Anatomiste, et fort versé dans la connoissance de la nature, mais il en abandonna malheureusement la recherche, et d’un grand Physicien il devint un Theologien mediocre»16. Nella denuncia presentata da Stensen17, pochi mesi dopo la morte di Spinoza e prima ancora della pubblicazione degli Opera posthuma, lo scienziato danese si sofferma sull’amicizia e la frequentazione con il filosofo negli anni trascorsi in Olanda tra il 1661 e il 1663 («studiando io nell’università di Leida in Olanda, ebbi occasione di pratticar familiarmente detto Spinosa di nascita Hebreo, ma di professione senza ogni religione»). Egli accenna, in particolare, a manoscritti spinoziani dei quali è venuto in possesso durante il periodo trascorso a Roma e che dichiara di conservare presso di sé («Porto sempre appresso di me il manuscritto»)18. 16
Essais de théodicée (G. W. LEIBNIZ, Die philosophischen Schriften, hrsg. von C. I. GER7 vols., Berlin, Weidmann, 1875-1890; rist. anast.: Hildesheim – New York, Georg Olms, 1978, VI, p. 158). Insistendo sul radicalizzarsi delle scelte religiose di Stensen, Leibniz osserva ancora: «Il ne vouloit presque plus entendre parler des merveilles de la nature, et il auroit fallu un commendement exprès du Pape “in virtute sanctae obedientiae”, pour tirer de luy les observations que Monsieur Thevenot luy demandoit». Dopo aver intrattenuto rapporti epistolari con Stensen, G. W. Leibniz conoscerà personalmente a Hannover il convertito danese al quale rimprovererà spesso di aver trascurato la ricerca scientifica: cfr., ad esempio, la lettera a H. Conring del 13 gennaio 1678 in cui Leibniz lamenta l’abbandono da parte di Stensen degli studi di scienze naturali (ivi, I, pp. 184-185). Sempre a Conring, il 19 marzo dello stesso anno scrive: «Stenonium Episcopum doleo nunc a physiologicis studiis averti ad theologica vel ideo quia in his facilius quam in illis habebit parem» (ivi, p. 193). 17 Il documento è stato riprodotto anche in copia anastatica in P. TOTARO, Documenti su Spinoza nell’Archivio del Sant’Uffizio cit., pp. 27-34. 18 Il coinvolgimento di Stensen nelle vicende relative alla censura cattolica di Spinoza testimonia di un suo personale intervento diretto ad arginare la diffusione dello spinozismo, considerato alla stregua di una pestilenziale epidemia. Su questi temi sia consentito ancora rinviare a: P. TOTARO, Da Antonio Magliabechi a Philip von Stosch: varia fortuna del «De Tribus Impostoribus» e de l’«Esprit de Spinosa» a Firenze, in Bibliothecae selectae da Cusano a Leopardi, a cura di E. CANONE, Firenze, L. Olschki, pp. 377-417; EAD., Niels Stensen e la prima diffusione della filosofia di Spinoza nella Firenze di Cosimo III, in L’Héresie spinoziste. La discussion sur le «Tractatus theologico-politicus», 1670-1677, et la réception immédiate du spinozisme, Actes du Colloque internationale de Cortone, 10-14 avril 1991, publiés par P. CRISTOFOLINI, Amsterdam-Maarssen, APA-Holland University Press, 1995, pp. 147-168. HARDT,
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Secondo un linguaggio improntato a una concezione epidemica della diffusione delle idee, la «nova filosofia» di Spinoza è descritta come un «male» pestilenziale, e di tale «gravezza» che appare indispensabile intervenire con «oportuni rimedii» per arginare «il pericolo della propagazione dell’istesso male», sia al fine di evitare che altri «non se n’infettino», sia pure «in curazione» di quanti ne sono già «avvelenati». Nel memoriale consegnato alla Congregazione, Stensen dichiara di aver ricevuto solo poche settimane prima un manoscritto contenente dottrine della più estrema gravità da parte di «un forastiero Luterano». Nell’estate di quell’anno, dunque, un «Luterano» incontrò Stensen a Roma, ove il danese si trovava dal 22 maggio in attesa di essere ordinato vescovo, e gli consegnò l’inedito spinoziano. Nel clima di intense trattative diplomatiche in corso alla corte papale di Innocenzo XI, Stensen ebbe frequenti occasioni di incontro con dotti e scienziati di diversa nazionalità e, come già aveva fatto a Firenze nei confronti di altri stranieri19, tentò certamente di convertire al cattolicesimo anche quel «forastiero» con il quale aveva avuto non poche «conferenze sopra il negozio della religione». Da quanto si evince dalla descrizione riportata da Stensen, il misterioso «forastiero» era in possesso di manoscritti spinoziani che possono essere identificati con il testo dell’Ethica e forse anche con alcune lettere20. Fi19 Circa l’attività di ‘persuasione’ esercitata da Stensen e i tentativi operati per «estorcere» conversioni agli stranieri, tra i quali J. Gronovius e A. Burgh, cfr. P. TOTARO, Niels Stensen e la prima diffusione della filosofia di Spinoza nella Firenze di Cosimo III cit., passim. Lo stesso Stenone afferma nella denuncia di voler «provare la presenza della divina mano nella fede catholica dalla conversione de’ viziosi da un estremo all’altro e questa delle volte momentanea». La particolare ‘capacità’ di Stensen nell’opera di conversione dei non cattolici, è sottolineata in diverse fonti a stampa e manoscritte. In una lettera del card. Nerli, arcivescovo di Firenze, in risposta alla richiesta di informazioni da parte di Innocenzo XI si legge: «Il Sig. Stenone Danese […] abiurò nel Tribunale della Santa Inquisizione la sua nativa Eresia […] Tanto era il suo zelo della gloria di Dio, e della salute dell’anime, che cercava ogni occasione d’insinuarsi nell’amicizia degli Ebrei, e degli Eretici, che per loro affare venivano in questa Città; e con le sue dolci maniere, e con l’efficacia della sua persuasione, la quale veramente è mirabile, gli è riuscito convertirne alcuni di quelli, e molti di questi; alcuni de’ quali ancora di qualità, per non esporsi a pericolo col ritornare al Paese di apostatare, si son fermati in Firenze, accolti benignamente, e largamente provveduti dalla munificenza del Principe» (D. M. MANNI, Vita del letteratissimo Monsig. Niccolò Stenone di Danimarca vescovo di Titopoli e vicario apostolico scritta da Domenico Maria Manni Lettore di Lettere Toscane nel Seminario Arciv. Fior. e accademico della Crusca, Firenze, nella stamperia di Giuseppe Vanni, 1775, pp. 263-265). 20 Diverse copie di scritti spinoziani circolavano nelle trascrizioni eseguite da P. van Gent per G. H. Schuller (P. STEENBAKKERS, Spinoza’s «Ethica» from Manuscript to Print cit., pp. 39 e 60). Sulle relazioni di Schuller con Tschirnhaus e Leibniz, oltre che con Spinoza, si vedano i documenti pubblicati in J. FREUDENTHAL, Die Lebensgeschichte Spinoza’s in Quellenschriften, Urkunden und nichtamtlichten Nachrichten, Leipzig, Von Veit, 1899, p. 202, doc. 22;
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ducia nella ragione; esistenza di una sostanza infinita ed eterna che è Dio e della quale si conoscono solo i due attributi dell’«estensione infinita» e della «cogitazione infinita»; coincidenza di necessità e libertà e negazione di castighi o di premi ultraterreni; la disubbidienza civile come unico peccato: questi i contenuti sacrileghi rinvenuti negli scritti in possesso di Stensen, e da lui denunciati, insieme all’indicazione di un progresso nel cammino della conoscenza che procede per «notizie adeguate» e che mira a rendere gli uomini «da schiavi liberi». Di particolare interesse la parte conclusiva del documento che ha consentito a Pina Totaro di identificare l’ignoto «forastiero Luterano». La cerchia degli amici e frequentatori di Spinoza era costituita infatti, riferisce Stensen, da esperti «nelle matematiche e nella filosofia des Cartes», che avevano studiato in Olanda o in Inghilterra, ove si erano necessariamente ‘imbevuti’ degli «errori» trasmessi dal filosofo, divenendone a loro volta se non proprio sostenitori, quanto meno «partecipi». I veri seguaci della «infedeltà» o «apostasia» spinoziana, inoltre, amanti dei piaceri dei sensi quanto di quelli dell’intelletto, erano studiosi di «verità naturali e matep. 203, doc. 25; pp. 205-207, docc. 27-28, 30, 32. Da una lettera inviata a Leibniz da Roma il 10 aprile del 1678, si apprende che Tschirnhaus era certamente in possesso di almeno un manoscritto che gli era stato trasmesso da Schuller: «Hoc quidem mihi persuasi et certus sum, nos posse in rebus philosophicis ad veritates incognita indagandas eadem ratione calculo uti simili Algebraico; sed hic primo definitiones rerum tradendae, quae satis perspicax ingenium desiderant, nec ad eas formandas praestantiora praecepta unquam vidi, quam quae habet Dn. Spinoza de Emendatione intellectus, quod manuscriptum a Dn. Schulero mihi transmissum penes me habeo; utinam omnia reliqua ejus opera!» (G. W. LEIBNIZ, Mathematische Schriften, hrsg. von C. I. GERHARDT, 7 vols., Halle – Berlin, Asher, 1849-1863; rist. anast.: Hildesheim-New York, Georg Olms, 1971, IV, p. 451). A tale lettera Leibniz replicò intorno alla fine di maggio del 1678, commentando: «Spinosae opera posthuma prodiisse non ignorabis. Extat et in illis fragmentum de Emendatione intellectus, sed ubi ego maxime aliquid expectabam, ibi desinit. In Ethica non ubique satis sententias suas exponit, quid sic satis animadverto» (ivi, p. 461). E Tschirnhaus di rimando, riflettendo sul proprio metodo di ricerca scientifica: «quapropter Cartesius et Dn. Spinoza mihi ultra modum placent, quod a talibus abstinuerint, nam haec efficiunt, ut multi homines tales libros legere negligant, atque sic sapientiae augmentum damnum patitur et praeterea memoria oneratur superfluis» (ivi, pp. 469-470). Lo stesso Schuller, che in una prima lettera a Leibniz del 16/26 febbraio 1677 gli aveva offerto il manoscritto dell’Ethica di Spinoza morto da pochi giorni, nella lettera successiva del 29 marzo 1677 gli annuncia invece il progetto di pubblicazione degli scritti inediti: «Gaudeo sane, quod de coëmenda Ethica nihil adhuc Principi Tuo dixeris; nam plane animo mutatus sum, ut, (licet possessor pretium adauxerit) de illo commercio instituendo jam tibi author esse nolim. Ratio est, quod amicorum animos plane dissentientes ita ad consensum disposuerim, ut non solum Ethicam, verum etiam omnia manuscripta fragmenta (quorum potior pars, nimirum 1. de emendatione intellectus, 2. de nitro, 3. de politia, 4. epistolae variae, in autograph͖ ad manus meas devoluta est) in commune bonum typis publicare constituerim, quod Tibi confidenter communico, cum nullus dubitem, Te id, quominus propositum hoc impediatur, omnes, etiam amicos, celaturum» (cfr. J. FREUDENTHAL, Die Lebensgeschichte Spinoza’s cit., pp. 202-203, docc. 24-25).
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matiche», attraverso le quali pretendevano di «ridurre la loro filosofia a perfezzione». A uno di tali stranieri egli accenna come a persona disposta a tenere «conferenze sopra il negozio della religione» e come «Luterano» versato nelle discipline matematiche, che ha avuto contatti personali con Spinoza o con la sua cerchia, certamente in possesso di manoscritti del filosofo. E, soprattutto, che si trovava a Roma nell’estate del 1677. L’insieme delle testimonianze raccolte consente di ritenere che l’ignoto «forastiero Luterano» di cui parla Stensen è da identificarsi con il fisico e matematico tedesco Ehrenfried Walther von Tschirnhaus, che proprio in una lettera da Roma a Leibniz dell’agosto 1677 sembra aver quasi vacillato dinanzi alla forte capacità di persuasione esercitata da Stensen nel tentativo di «portarlo» al cattolicesimo21. A Roma, ove in quegli anni Cristina di Svezia aveva fondato una famosa Accademia scientifica22, Tschirnhaus fa21 «Niemand hat jemals mich zu solcher Religion zu bringen so grosse Macht angewandt, als dieser man, und habe niehmalen dergleichen starcken persuasorem und so artlich gegruendet gehoeret» (G. W. LEIBNIZ, Textes inédits d’après les manuscrits de la Bibliothèque provinciale de Hannover, publiés et annotés par G. GRUA, Paris, Puf, 1948, p. 164). Già il 1 ottobre 1675 Tschirnhaus aveva trasmesso a Leibniz alcune riflessioni sulla conversione di Stensen. Tschirnhaus giunge a Roma dopo un lungo viaggio che lo aveva portato da Parigi a Lione, Torino, Milano e Venezia. È a Roma il 17 aprile del 1677, come si evince da una sua lettera a Leibniz, e ancora, sempre da Roma, il 27 gennaio dell’anno successivo, trasmette a Leibniz alcune riflessioni circa la messa a punto definitiva del suo metodo, dando anche chiarimenti sui suoi rapporti con Stensen e con Oldenburg: «Porro circa Metaphysica quoque quaedam erunt ibi exposita, sed rudiora forte quam quae Tibi placere possint. Interim gaudeo quod Virum offenderis, ex cujus conversatione satisfactionem circa talia habere possis, sed nescio sane, ob quam rationem nomen ejus mihi retices, quod mihi utique pergratum esset cognoscere, uti et aliquando quae circa haec inter Vos peracta. Stenonem cognovi Virum admodum religiosum esse et certe ingenio pollentem, interim tamen non miror, quod Te disserentem haud assecutus fuerit, cum aliquatenus interiora ejus penetrare mihi licuit et ratio Tua circa haec allata praeprimis Ipsi conveniens esse videtur. In Oldenburgero nostro utique multum perdidimus, et vellem libenter per Te addiscere, quis ei successurus sit, uti et alia quae in Anglia jam curiosa occurrunt, quia literarum commercium inter me et illos hac ratione interruptum» (ivi, IV, p. 433). Sulla biografia di Tschirnhaus, cfr. tra l’altro: E. W. von Tschirnhaus und die Frühaufklärung in Mittel- und Osteuropa, hrsg. von E. WINTER, Berlin, Akademie-Verlag, 1960; E. WINTER, Der Freund B. Spinozas, E. W. van Tschirnhaus: die Einheit von Theorie und Praxis, Berlin, Akademie-Verlag, 1977. Per un approccio più generale, si veda: W. SCHRÖDER, Spinoza in der deutschen Frühaufklärung, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1987; R. OTTO, Studien zur Spinozarezeption in Deutschland im 18. Jahrhundert, Frankfurt am Main, Lang, 1994 e i saggi di questi due ultimi autori pubblicati in W. VAN BUNGE – W. KLEVER, Disguised and Overt Spinozism Around 1700 cit., pp. 157-188. 22 Cfr.: S. ROTTA, L’accademia fisico-matematica Ciampiniana: un’iniziativa di Cristina?, in Cristina di Svezia. Scienza e alchimia nella Roma barocca, Bari, Dedalo, 1990, pp. 99-186; M. P. DONATO, Accademie e accademismi in una capitale particolare. Il caso di Roma, secoli XVIII-XIX, in Mélanges de l’École française de Rome 111 (1999), pp. 415-430. Sulle relazioni scientifiche di Tschirnhaus a Roma in quegli anni, si veda M. AGOSTINETTI, E. W. von Tschirnhaus e la scienza dei galileiani, in Discorsi 8 (1988), pp. 29-57.
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ceva opera di proselitismo insieme ad altri scienziati «oltramontani», «colla speranza — insinua Stensen — di ridurre la loro filosofia a perfezzione se più persone di certo vi si applicassero». Nel circolo di eruditi e scienziati che animava la vita culturale della città, il matematico tedesco poteva trovare terreno fertile per far segretamente circolare gli scritti spinoziani non ancora pubblicati e che egli aveva ricevuto in copia manoscritta da Georg Hermann Schuller23. Immatricolatosi all’Università di Leida l’8 giugno del 166924, Tschirnhaus si accostò alla cerchia degli amici di Spinoza tramite Pieter van Gent25, nel quale può sicuramente identificarsi il copista del manoscritto scoperto ora nella Biblioteca Vaticana, e G. H. Schuller, con cui stabilì 23
Dell’amicizia con Schuller, Tschirnhaus darà conto in varie occasioni: cfr. in particolare la lettera a Leibniz posteriore al maggio 1678: «Deinde cum in cognitionem pervenissem Dn. Spinosae, Dn. Schullerum rogavi ut ab ipso inquireret in veram methodum investigandi veritatem (quia tunc temporis domum eram ex Hollandia reversus), sed mihi in responsione retulit, quod ipsius praecipua cura fuerit, ideam veram ab omnibus aliis ideis, falsa, ficta et dubia distinguere, et hinc se incredibilem facilitatem in progressu veritatis acquirendae ostendisse; cum demum in Hollandiam reversus, ipsum accessi et post varia, quoque ostensa Cartesii epistola, quid de illa sentiret, rogabam, sed ille ridendo respondebat: credisne, mi Amice, omnia quae Cartesius dixit, vera esse? dixi: non; bene dum replicavit, res itaque haec nobis non magnam solicitudinem causabit, et sic alia uti solebat» (G. W. LEIBNIZ, Mathematische Schriften cit., IV, p. 475). Schuller era anche in stretto contatto con Leibniz, al quale potrebbe aver trasmesso, a sua volta, manoscritti non ancora pubblicati. In alcune annotazioni alla lettera di Stensen a Spinoza (De vera philosophia, ad novae philosophiae reformatorem) immediatamente successive alla morte dello stesso Spinoza, Leibniz afferma di aver preso visione di alcuni suoi manoscritti: «On me mande qu’il [Spinoza] a laissé quelques ecrits pleins de sentimens assez extraordinaires, à juger de ce qui reste par ce que nous avons de luy» (ivi, p. 159). E, sempre nel 1677, a proposito della lettera di Stensen a Spinoza annota: «Je ne sçay, si vous avez veu les lettres de controverse de Mons. Stenon; il y en avait une qui estoit adressé à M. Spinosa. Spinosa est mort cet hiver. Je l’ay veu en passant par la Hollande, et je luy ay parlé plusieurs fois et fort long temps. Il a une étrange Metaphysique, pleine de paradoxes» (Die philosophischen Schriften cit., I, p. 118, e Mathematische Schriften cit., I, p. 179). L. Stein ha sottolineato, inoltre, che Leibniz aveva redatto per Giovanni Federico II un commento della risposta di Spinoza alla lettera di A. Burgh prima ancora che questa venisse pubblicata negli Opera posthuma (L. STEIN, Leibniz und Spinoza: ein Beitrag zur Entwicklungsgeschichte der Leibnizschen Philosophie, Berlin, G. Reimer, 1890, p. 76). 24 Sullo Studio di Leida in quegli anni, cfr. il volume curato da TH. H. LUNSINGH SCHEURLEER e G. H. M. POSTHUMUS MEYJES, Leiden University in the Seventeenth Century. An exchange of Learning, Leiden, Brill-Universitaire Press, 1975. 25 Utili informazioni su Van Gent possono leggersi in P. STEENBAKKERS, Spinoza’s «Ethica» from manuscript to print cit., passim. L’autore ha studiato, in particolare, il coinvolgimento di Van Gent nell’edizione degli Opera di Spinoza giungendo a stabilire congetture molto probanti. In una lettera a Tschirnhaus del 23 marzo 1679, Van Gent riferisce di aver copiato per Schuller la gran parte delle opere di Spinoza: «Ego tanta in illum contuli beneficia, invitando ad mensam, Spinosae opera maximam partem describendo et commendando apud amicos nostros, ut videre nequeam, quaenam illum impulerit malitia, ut me apud te tanquam ebriosum traduxerit» (il passo dell’epistola pubblicata da C. Reinhardt, in Briefe an
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rapporti di amicizia all’epoca in cui erano entrambi studenti a Leida26. Certamente, Spinoza aveva riposto piena fiducia nel giovane studioso e questi portò con sé, come sembra ormai dimostrato, l’Ethica manoscritta del filosofo27, raccomandandolo presso Christiaan Huygens a Parigi. Di quel viaggio in Francia, che Tschirnhaus intraprese di ritorno dall’Inghilterra, si conservano preziose testimonianze nella lettera di Schuller al «Praestantissimo Acutissimoque Philosopho B. D. S.»28. Vi si apprende, tra l’altro, che a Parigi Tschirnhaus aveva stretto particolare amicizia con Leibniz, il quale definiva «Virum insigniter eruditum, inque variis Scientiis versatissimum ut et a vulgaribus Theologiae praejudicijs liberum», e che riteneva estremamente competente nelle discipline morali, fisiche e metafisiche. Come è noto, Spinoza non acconsentì alla richiesta di Schuller di trasmettere a Leibniz i suoi scritti, pur ritenendolo «homo liberalis ingenii, et in omni scientia versatus»29. Con ogni probabilità, contravvenendo ai desideri del filosofo, Tschirnhaus comunicò invece a Leibniz alcuni scritti spinoziani, così come fece anche a Roma con Stensen, forse perché, come ha scritto efficacemente Jean-Paul Wurtz, «il brûlait manifestement du désir de faire
Ehrenfried Walther von Tschirnhaus von Pieter van Gent, è tratto dal volume di P. Steenbakkers sopra citato). 26 J.-P. Wurtz ha mostrato in numerosi studi che Tschirnhaus «connut la philosophie de Spinoza et fut introduit dans le cercle de ses amis» (J.-P. WURTZ, Un disciple «hérétique» de Spinoza: Ehrenfried Walther Tschirnhaus, in Cahiers Spinoza 6, 1991, pp. 111-143: 112). Dello stesso autore si veda anche: Tschirnhaus et l’accusation de spinozisme: la polémique avec Christian Thomasius, in Revue Philosophique de Louvain 78 (1980), pp. 489-506; Tschirnhaus et Spinoza, in Studia Leibniziana Supplementa 20 (1981), pp. 93-103; Die Tschirnhaus-Handschrift «Anhang An Mein so genantes Eilfertiges bedencken», in Studia Leibniziana 15 (1983), pp. 149-204; L’éthique et le concept de Dieu chez Tschirnhaus: l’influence de Spinoza, in Spinoza’s Political and Theological Thought, éd. par C. DE DEUGD, Amsterdam – Oxford – New York, North Holland Publ. Company, 1984, pp. 230-242; La théorie de la connaissance de Tschirnhaus: l’influence de Spinoza, in Spinoza, science et religion, éd. par R. BOUVERESSE, Paris, Vrin, 1988, pp. 123-139; Über einige offene oder strittige, die «Medicina Mentis» von Tschirnhaus betreffende Fragen, in Studia Leibnitiana 20 (1988), pp. 190-211, con bibliografia su Tschirnhaus relativa agli anni 1963-1988. Al 1980 risale l’edizione francese della Médecine de l’esprit di Tschirnhaus curata da Wurtz. Per lo spinozismo di Tschirnhaus, si veda anche S. WOLLGAST, Ehrenfried Walther von Tschirnhaus, der erste deutsche Spinozist: einige Aspekte, in Marxismus und Spinozismus, hrsg. von H. SEIDEL, Leipzig, K. Marx Universität, 1981, pp. 138-175. Cfr. ancora H. J. DE VLEESCHAUER, De Briefwisseling van E. W. von Tschirnhaus met Benedictus de Spinoza, in Tijdschrift voor filosofie 4 (1942), pp. 345-396. 27 «Lorsqu’en 1675 Tschirnhaus se rendit de Hollande à Londres, pour rejoindre ensuite Paris, il était porteur d’une copie de l’Ethique, ou du moins d’une partie de cette oeuvre […] Il ne fait donc aucun doute que ces écrits inédits confiés à Tschirnhaus consistaient en une copie de tout ou partie de l’Ethique» (J.-P. WURTZ, Tschirnhaus et Spinoza cit., p. 93). 28 G IV, 301-303 (Ep. LXX). 29 G IV, 305, 20-21 (Ep. LXXII).
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connaître […] la pensée du maître»30. La fama di seguace di Spinoza dovette accompagnare Tschirnhaus anche al suo ritorno in patria se, ancora nel marzo del 1688, Christian Thomasius lo accusava di voler introdurre in Germania il ‘veleno’ dello spinozismo31. È dunque evidente, sulla base della documentazione qui sommariamente esposta, che il manoscritto dell’Ethica che si conserva anonimo e privo del frontespizio nella Biblioteca Vaticana è senza dubbio il testo che Niels Stensen ricevette da Tschirnahus a Roma nell’estate del 1677 e che consegnò prima della sua partenza per Hannover ai Consultori della Congregazione del S. Uffizio affinché si procedesse il più rapidamente possibile alla censura e alla messa all’indice dell’opera. Altrettanto certa pare anche l’attribuzione della stesura del manoscritto a Pieter van Gent, la cui mano può essere facilmente riconoscibile sulla base di un semplice confronto paleografico (Tav. V). Sussistono ancora molti dubbi intorno alla storia degli scritti originali e della pubblicazione delle opere di Spinoza, ma il rinvenimento del manoscritto dell’Ethica nella Biblioteca Vaticana costituisce senz’altro un contributo essenziale alla loro definizione e soluzione, a partire da alcuni dati che possono considerarsi ora definitivamente acquisiti. Si può senz’altro ritenere che il Vat. lat. 12838 sia il manoscritto copiato per Tschirnhaus da Pieter van Gent prima della pubblicazione degli Opera posthuma, sulla base dei seguenti dati certi: 1) Secondo l’indicazione apposta sul f. 133v del manoscritto vaticano, Stensen consegnò il manoscritto al S. Uffizio il 23 settembre 1677, specificando che si trattava del libro che egli aveva descritto nel memoriale già presentato alla medesima Congregazione del S. Uffizio (Tav. VI). 2) In quel memoriale, datato 4 settembre 1677, Stensen afferma di aver ricevuto il manoscritto a Roma, alcune settimane prima, da un «forastiero Luterano». 3) Tschirnhaus, un luterano, era a Roma esattamente in quella stessa epoca ed egli era in possesso di una copia dell’Ethica di Spinoza. Noi possiamo escludere la possibilità che a Roma potesse esserci un altro luterano (o persona di altra religione) che avrebbe potuto possederla. 4) Lo stesso Tschirnhaus riferisce di aver avuto delle discussioni su temi di religione a Roma con Stensen. 5) La grafia del manoscritto Vat. lat. 12838 è quella di Pieter van Gent, il 30
J.-P. WURTZ, Tschirnhaus et Spinoza cit., p. 94. I documenti della controversia sono stati analizzati da J.-P. WURTZ, Tschirnhaus und die Spinozismusbeschuldigung: Die Polemik mit Christian Thomasius, in Studia Leibnitiana 13 (1981), pp. 61-65 e ivi, 15 (1983), pp. 149-204. 31
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quale ha svolto il ruolo di segretario personale e di copista per il suo amico Tschirnhaus in diverse occasioni. 6) Alla mano di Tschirnhaus può invece essere attribuita una nota in margine al f. 22v così come molte altre correzioni presenti nel manoscritto. Incerta resta l’epoca in cui Van Gent potrebbe aver copiato il manoscritto. Poiché esso contiene l’intero testo dell’Ethica (Tav. VII), esso è certamente stato trascritto solo dopo che Spinoza vi appose la mano conclusiva. Nella sua risposta non datata alla lettera di Oldenburg del 22 luglio 1675 (Ep. LXII), Spinoza comunica la sua decisione di rinviare la pubblicazione dell’opera ormai definitiva32. Tschirnhaus menziona i lemmi della seconda parte dell’Ethica nella sua lettera del 5 gennaio 167533, ma ciò non consente di stabilire con certezza che egli potesse disporre a quell’epoca dell’intero testo completo. Poiché Tschirnhaus comincia certamente il suo Grand Tour prima del luglio del 167534, sembra altamente probabile che egli fosse entrato in possesso del manoscritto copiato per lui da Van Gent nei primi quattro mesi del 1675. I fascicoli V e VI di cui si compone il manoscritto sono avvolti in due bifogli provenienti da un catalogo a stampa di vendita di libri. Questi fogli stampati sono stati contrassegnati da Van Gent con le lettere E e F, cosicché si può ritenere che essi siano coevi al manoscritto stesso35. Un elemento di grande interesse del Vat. lat. 12838 è che esso contiene un cospicuo numero di correzioni che non possono sicuramente attribuirsi alla mano di Van Gent. Nel caso di correzioni di minor conto è spesso impossibile stabilire chi ne sia l’autore, ma ci sono almeno cinque annotazioni di maggiore lunghezza che sono state inserite da Tschirnhaus, sui ff. 43r, 56r, 74r, 81r, 95v36 (Tavv. VIII-X). Ciò significa che in un momento 32
Ep. LXVIII (G IV, 299, 7-22); cfr. Ep LXII (G IV, 273, 7-9): «ex responsione tua 5. Julii ad me datâ, intellexerim, animo sedere tuo, Tractatum illum tuum Quinque-partitum publici juris facere». 33 Ep. LIX (G IV, 268, 21-22): «noscitur ex Lemmatibus Parti secundae Ethices adjectis». 34 Cfr. S. WOLLGAST, Ehrenfried Walther von Tschirnhaus und die deutsche Frühaufklärung, Berlin, Akademie Verlag, 1988, p. 23. Tschirnhaus soggiornò in Inghilterra dall’inizio di maggio ai primi di agosto del 1675, secondo A. Rupert Hall e M. Boas Hall (The Correspondence of Henry Oldenburg, ed. and transl. A. R. HALL and M. BOAS HALL, London, Mansell, 1977, XI, p. 324; p. 400; p. 437). Schuller riferisce che Tschirnhaus si trova in Inghilterra nell’Ep. LXIII (G IV, 274, 15; 276, 7), datata 25 luglio. 35 Si veda in proposito, in questo stesso volume, l’articolo di M. DI REMIGIO – Á. NÚÑEZ GAITÁN, Il restauro del manoscritto Vat. lat. 12838: L’Ethica del minimo intervento, pp. 265284. Per il trasferimento del manoscritto dal S. Uffizio alla Biblioteca Vaticana cfr., sempre in questo volume, A. RITA, Trasferimenti librari tra Sant’Uffizio e Biblioteca Vaticana. In margine al ritrovamento del manoscritto dell’Ethica di Spinoza, pp. 471-485. 36 L’appunto inserito sul f. 95v è errato ed è stato cancellato in un secondo momento, ma la scrittura può comunque essere identificata come quella di Tschirnhaus. Resta invece in-
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successivo alla redazione della copia da parte di Van Gent, Tschirnhaus stesso ha collazionato l’apografo con l’originale. Tale confronto deve essere avvenuto quando il nobile tedesco soggiornava ancora nei Paesi Bassi, tra la fine del 1674 e il maggio del 1675. In conclusione, Tschirnhaus aveva con sé una copia del testo completo dell’Ethica nel corso dei suoi viaggi in Gran Bretagna, Francia, Italia e Malta37. Dalla sua corrispondenza con Spinoza apprendiamo che Tschirnhaus ha studiato il testo con grande attenzione38. In una delle sue lettere, indirizzata a Schuller, Spinoza fa esplicito riferimento alla copia (exemplar) del manoscritto in possesso di Tschirnhaus39. Perché, dunque, Tschirnhaus si separa dal prezioso manoscritto, dopo averlo conservato con cura per almeno due anni? E come ha potuto consegnarlo volontariamente a Stensen, sapendo che questi non glielo avrebbe restituito? Poiché non abbiamo testimonianze a questo proposito oltre al memoriale di Stensen, probabilmente a queste domande non verrà mai data una risposta soddisfacente. Un altro interrogativo riguarda il fatto che il manoscritto, che Tschirnhaus ha certamente studiato con avidità, mostri così poche tracce di lettura: a parte un breve appunto, nessuna nota a margine, nessun punto interrogativo, né altri segni analoghi. Se osserviamo il manoscritto, possiamo ipotizzare tuttavia una qualche spiegazione. Si tratta anzitutto di un opuscolo di dimensioni modeste, che presenta pagine densamente scritte e margini molto stretti. Vi è una sola nota di lettura, di mano di Tschirnhaus, sul f. 22v, che deve essergli costata una certa fatica: sebbene si tratti di una breve annotazione, essa appare suddivisa su nove righe estremamente corte che talora si sovrappongono al testo stesso40. Noi possiamo solo forcerto se anche le correzioni apposte sui fogli 10r et 47v siano state scritte da Tschirnhaus. Esse non possono tuttavia attribuirsi alla mano di Van Gent. 37 Cfr. J.-P. WURTZ, Introduction, in E. W. VON TSCHIRNHAUS, Médecine de l’esprit, introd., trad., notes et appendices par J.-P. WURTZ, Paris, Éds. Ophrys, 1980, pp. 6-7. 38 Ep. LXIII, LXV, LXX, LXXX, LXXXII. 39 Ep. LXII (G IV, 305, 9-17): «Sed ut verum fatear, tuae epistolae sensum hac in re non satis assequor, et vel in tua epistola, vel in ipsius exemplari errorem festinantis calami esse credo. Nam scribis, in prop. 5. affirmari, ideata esse causam efficentem idearum, cum tamen hoc ipsum in eadem propositione expresse negetur; atque hinc omnem confusionem oriri, nunc existimo, ac proinde frustra in praesentiarum de hac materia prolixius scribere conarer, sed expectandum mihi est, donec ipsius mentem mihi clarius explices, et sciam an satis emendatum habeat exemplar». Come si può ora vedere, tuttavia, la copia di Tschirnhaus era corretta nella sua lettura di Ethica II, prop. 5, cosicché non può esservi stata confusione su questo punto. 40 La nota, che si riferisce a un passo dell’Appendix alla prima parte dell’Ethica (G II, 81. 37, «imaginantur») suona così: «& in-/tellectus/ affirmat/ & ne-/gat res/ mini-/mè ve-/rò ima-/ ginatio».
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mulare delle ipotesi circa il motivo per cui Van Gent ha copiato l’opera di Spinoza in questo formato, senza lasciare alcuno spazio per le annotazioni: forse il motivo consiste nel fatto che Tschirnhaus voleva portare in viaggio con sé un codice assai piccolo. Egli deve essersi reso conto molto presto che non poteva esservi trascritta alcuna nota a margine. Il manoscritto stesso contiene l’indicazione che Tschirnhaus ha fatto ricorso a un altro sistema per le sue note, inserendo una striscia di carta oblunga delle dimensioni di 75 per 196 millimetri (Tav. XI-XII). Questo foglietto deve essere rimasto incluso nel codice per molto tempo, poiché entrambi mostrano le stesse macchie di umidità. La grafia è così confusa che è alquanto difficile decifrare il testo, ma si tratta presumibilmente della stessa persona che ha redatto gli inserti a margine e quelli interlineari fra le righe dei fogli 22v, 43r, 56r, 74r, 81r e 95v. Deve cioè ritenersi che il foglietto slegato sia stato scritto da Tschirnhaus. L’appunto apposto sul foglietto contiene alcune citazioni (riadattate) dal testo di Spinoza, riprese per lo più dall’Appendice della Parte I, seguite da una nota di accordo o di disaccordo. È possibile che Tschirnhaus abbia inserito nel manoscritto diverse strisce di carta contenenti note simili a quella rinvenuta, ma, se lo ha fatto, esse non ci sono pervenute. In conclusione, ancora un’ultima annotazione. Sino a oggi, la sola fonte per il testo dell’Ethica di Spinoza era costituita dall’edizione latina stampata negli Opera posthuma e dalla traduzione olandese (basata non sulla versione a stampa, ma su manoscritti perduti) in De nagelate schriften. Ora che finalmente abbiamo accesso a un manoscritto del testo latino che è precedente e indipendente dalle versioni pubblicate, possiamo mettere a confronto questi diversi testimoni per cercare di individuare implicazioni ed elementi utili alla ricostruzione della storia del testo. Sebbene ci siano centinaia di differenze, esse non modificano sostanzialmente il testo. I curatori degli Opera posthuma hanno corretto alcuni errori evidenti, hanno anche controllato e talora alterato dei riferimenti incrociati, armonizzando alcune formule note. Basti citare, a titolo di esempio, il modo in cui essi hanno rimaneggiato le conclusioni delle dimostrazioni. Negli Opera posthuma, queste ultime sono date sempre nella formula consueta Q.E.D. («Quod erat demonstrandum»). La versione olandese per lo più traduce la frase («gelijk te betogen stond»), ma ci sono anche altre formule, come ad esempio «gelijk voorgestelt wierd». In molti casi, la copia stesa da Van Gent offre un’ulteriore variante, ad esempio «ut proponebatur». Questo indica che le conclusioni delle dimostrazioni variavano anche nello stesso manoscritto di Spinoza: è del tutto probabile che i curatori degli Opera posthuma abbiano deciso di uniformare queste formule, mentre Van Gent e Glazemaker hanno semplicemente trascritto e tradotto il testo così come
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si presentava. Un confronto della versione a stampa con il manoscritto rivela inoltre alcuni errori introdotti dallo stesso compositore degli Opera posthuma. Ma per un elenco delle varianti e un’analisi dei diversi testi, si rinvia al volume The Vatican Manuscript of Spinoza’s «Ethica» e, per un confronto esaustivo, all’edizione critica dell’Ethica che sarà pubblicata nel 2012 presso l’editore Puf di Parigi, a cura di Fokke Akkerman e Piet Steenbakkers.
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Tav. I – Frontespizio degli Opera posthuma di Spinoza ([Amsterdam, Rieuwertsz] 1677).
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Tav. II – Frontespizio dell’Ethica nell’edizione degli Opera posthuma del 1677.
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Tav. III – Prima pagina del testo dell’Ethica nell’edizione degli Opera posthuma.
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Tav. IV – Biblioteca Apostolica Vaticana, primo foglio del Vat. lat. 12838 contenente il testo dell’Ethica.
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Tav. V – Copia di mano di Pieter van Gent della lettera 79 (nella numerazione dell’edizione degli Opera di Spinoza del 1883, a cura di Van Vloten et Land) di Henry Oldenburg a Spinoza, Londra, 11 febbraio 1676 (Amsterdam City Archives, Inv. 169, Nº 457, 1, fol. 1r).
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Tav. VI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 12838, f. 133v, nel quale si legge che Niels Stensen consegnò il manoscritto alla Congregazione del S. Uffizio il 23 settembre 1677.
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Manca la foto
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Tav. VII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 12838, ff. 132v-133r.
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Tav. VIII – Vat. lat. 12838, f. 56r, contenente alcune note di mano di Ehrenfried Walther von Tschirnhaus.
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Tav. IX – Vat. lat. 12838, f. 74r, contenente alcune note di mano di Ehrenfried Walther von Tschirnhaus.
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Tav. X – Lettera di Ehrenfried Walther von Tschirnhaus a Christian Huygens, 11 settembre 1682 (Biblioteca dell’Università di Leida: MS Hug. 45). Si tratta con ogni evidenza della stessa mano che ha apposto alcune note a margine del Vat. lat. 12838.
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Tav. XI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 12838r, foglietto sciolto, contenente una nota di Ehrenfried Walther von Tschirnhaus.
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Tav. XII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 12838v, foglietto sciolto, contenente una nota di Ehrenfried Walther von Tschirnhaus.
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FABIO TRONCARELLI
LA SILLOGE DI LORSCH (PAL. LAT. 833) E L’EPIGRAFE DI HELPIS Il Pal. lat. 833, noto come Corpus Laureshamense («Silloge di Lorsch»), è un codice composito di età carolingia, che raccoglie ai ff. 26r-82r un cospicuo numero di epigrafi scritte tra l’821 e l’835. Gli studiosi hanno sottolineato che: “la silloge è suddivisa in quattro specifiche sezioni: la prima (ff. 27r-35r) con iscrizioni cristiane delle basiliche di Roma, la seconda (ff. 36r-41r) con tredici documenti di pontefici sepolti nell’atrio della basilica vaticana, la terza (ff. 41r-54r) con trentasei tituli pertinenti a città dell’Italia settentrionale, tra cui documenti di Pavia, la quarta (ff. 55v-82r), scritta da mano diversa da quella che aveva redatto le prime tre sezioni, consegna una ricca raccolta di iscrizioni metriche, in gran parte cristiane, di monumenti soprattutto di Roma (non mancano tuttavia riferimenti alle città di Ravenna e Spoleto)”1. Le due mani principali che hanno scritto i testi vengono da due ambienti diversi: la prima trascrive le epigrafi in un centro grafico di area lotaringia e la seconda è attiva nell’Abbazia di Lorsch2. In ogni caso ambedue i copisti riprendono, a loro volta, precedenti antologie epigrafiche che risalgono almeno al sec. VII. Tra questi presumibili archetipi ha certamente una posizione di rilievo quello che è alla base della seconda sezione del Pal. lat. 833: la collezione di epigrafi di pontefici sepolti a S. Pietro, vissuti tra la fine del V e la fine del VII secolo, intitolata Epitaphia Apostolicorum in Ecclesia Beati Petri, che dipende, come ha messo in luce de Rossi3, da una raccolta preparata nel 686-687. A conclusione di tale raccolta, ai ff. 40v-41r (Tav. I) figura inaspettatamente l’epigrafe di un personaggio che non sembra avere titolo 1
M. BUONOCORE, Antiquaria, archeologia, filologia e storia dell’arte tra manoscritti e documenti di archivio nelle pubblicazioni della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, in Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, serie III, Memorie 8 (2010), pp. 373-453, in particolare p. 407. 2 B. BISCHOFF, Die Abtei Lorsch im Spiegel ihrer Handschriften, Lorsch 19892, pp. 42, 51, 126. 3 Sull’argomento si veda il recente contributo di C. VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae of BAV, Palatinus Latinus 833, in Roma, magistra mundi. Itineraria culturae medievalis. Mélanges offerts au Père L. E. Boyle à l’occasion de son 75e anniversaire, a cura di J. HAMESSE, Louvain-la-Neuve 1998 (Textes et études du moyen âge, 10, 1-3), pp. 975-990. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 611-626.
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FABIO TRONCARELLI
per essere ricordato insieme ai pontefici: un poema di dodici versi in distici elegiaci dedicato a una donna chiamata Helpis sepolta nel porticato di S. Pietro. Il carme è stato giudicato “fuori posto”4 dagli studiosi, ma la sua collocazione, apparentemente anomala, non sembra in realtà frutto del caso: lo ritroviamo infatti dopo l’epigrafe di Gregorio Magno e del re del Wessex Cædwalla, ambedue sepolti a S. Pietro5, in un’altra celebre raccolta epigrafica conservata nel manoscritto di San Pietroburgo Rossijskaja Nacional’naja Biblioteka F.XIV.1, da Corbie, dell’VIII-IX secolo. Il copista di questo codice ricorda che Helpis era tumulata nel portico di S. Pietro e la definisce “femina peregrina”, ma una qualifica così anonima non fa che rendere ancor più fitto il mistero della sua presenza nelle sillogi accanto a personaggi di così alto rango e della sua stessa sepoltura a S. Pietro. Non è questo l’unico enigma che aleggia intorno a questa donna. Il testo dell’epigrafe viene infatti copiato in calce a molti manoscritti della Consolatio Philosophiae di Anicio Manlio Severino Boezio6, che specificano che Helpis sarebbe stata la moglie del filosofo. La presenza di questa donna a fianco dell’Ultimo dei Romani non è stata messa in dubbio dalla maggioranza di coloro che si sono occupati della biografia boeziana tra XV e XVII secolo, anche se non sono mancate precoci perplessità. Ben presto, tra Sei e Settecento, le perplessità si sono trasformate in aperto scetticismo: molti autori hanno messo in discussione il matrimonio di Helpis, sottolineando che il nome della moglie di Boezio era Rusticiana, come afferma Procopio di Cesarea (Goth., III, 20). Senza contare che Rusticiana è sopravvissuta al marito, mentre nell’epigrafe di S. Pietro ci sono versi che fanno pensare che Helpis sia morta prima del marito. Di fronte a queste obiezioni i fedeli di Helpis sostennero che la donna, morta in giovane età, era stata la prima moglie del filosofo e Rusticiana la seconda, come attesterebbe un passo di ambigua interpretazione della stessa Consolatio Philosophiae7. Ma i loro avversari ebbero buon gioco a dimostrare che la Consolatio non autorizzava una simile interpretazione e
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VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae cit., p. 988. M. LAPIDGE, The Career of Aldhelm, in Anglosaxon England 36 (2007), pp. 15-69, in particolare 59-60. 6 A. M. S. BOETII Philosophiae Consolatio, ed. R. PEIPER, Lipsiae 1871, p. XX. 7 Boezio (Phil. Cons. II, 3,6) parla di “splendor socerorum” al plurale. L’espressione può voler dire sia che Boezio abbia avuto la fortuna di avere due coppie di suoceri diversi, molto illustri, sia che abbia avuto solo una coppia di suoceri illustri, definiti complessivamente “suoceri”, senza distinguere il marito dalla moglie, secondo l’uso attestato di alcuni scrittori latini. 5
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che, anzi, forniva prove in senso contrario, alle quali, poi, si aggiunsero in seguito altre testimonianze dello stesso tenore di altra fonte8. In considerazione di questa discussione, dell’antichità delle sillogi epigrafiche che riportano il carme e dell’attestazione tarda del matrimonio di Helpis e Boezio nei codici della Consolatio, il de Rossi giudicò che esso fosse un’invenzione del XIII-XIV secolo, nata dal fraintendimento di un’epigrafe del VI-VII secolo: riprendendo la suggestione di qualche erudito del passato, il grande epigrafista romano ritenne che la donna fosse stata sposata a un parente di Boezio e che ciò avesse indotto in errore i lettori medievali9. L’opinione di de Rossi è stata successivamente accettata nell’autorevole Prosopography del Martindale10, secondo cui l’illustre dama sepolta a S. Pietro potrebbe essere stata sposata al figlio del filosofo romano che si chiamava Boezio come il padre. Tuttavia un simile tentativo di mettere d’accordo le esigenze della ragione e il peso della tradizione non ha incontrato molto favore. Gli studiosi non hanno concesso a Helpis neppure il beneficio del dubbio e parlano, senza mezzi termini, della sua “leggenda”: una “leggenda” destituita di fondamento, ormai morta e sepolta11. Un giudizio così categorico sconsiglierebbe di occuparsi ancora di questo argomento. Ma come sempre la furia è una cattiva consigliera. E ancor di più è cattiva consigliera la scarsa attenzione verso le “pruove filologiche”. Infatti, se ripartiamo da zero e ritorniamo alla diligenza nei confronti dei manoscritti, che professavano gli eruditi cinquecenteschi e seicenteschi, siamo costretti a osservare che la vera leggenda destituita di fondamento è il luogo comune di una tardiva attestazione del matrimonio tra Helpis e Boezio. Di esso troviamo infatti esplicita testimonianza tra la 8 L’idea di un duplice matrimonio di Boezio era congruente all’opinione che Boezio fosse vissuto molto più a lungo di quanto riteniamo noi, poiché gli eruditi del Cinquecento e del Seicento confondevano eventi della sua vita e quelli della vita di suo padre. Quest’errore, comprensibile in base a una documentazione insufficiente, è stato definitivamente corretto nel XVIII secolo con la scoperta del dittico di Brescia, commissionato per celebrare il consolato del padre di Boezio, una carica che fino a quel momento si credeva essere stata occupata dal figlio. 9 I. [= G.] B. DE ROSSI, ICUR, II 1, p. 79 e nota 6; p. 130 e nota 14; pp. 426-427 e nota 63. Della stessa opinione erano stati nel passato altri autori come per esempio S. CAPSONI, Memorie storiche della città di Pavia e suo territorio antico e moderno, Pavia 1782, p. 119 e Antonino Amico, in una memoria manoscritta menzionata dal Mongitore (A. MONGITORE, Bibliotheca sicula, Panormi 1707, p. 172). 10 J. R. MARTINDALE, The Prospography of the Later Roman Empire (395-527), II, Cambridge – London – New York – New Rochelle – Sidney – Melbourne 1986, pp. 537-538 (vedi anche p. 961). 11 Citiamo a puro titolo di esempio D. NORBERG, L’oeuvre poetique de Paulin d’Aquilée, Stockolm 1979, p. 76; P. DRONKE, Women Writers of the Middle Ages: A Critical Study of Texts from Perpetua to Marguerite Porete, New York 1984, p. 288.
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fine del X e gli inizi dell’XI secolo in codici boeziani estremamente autorevoli, chiaramente influenzati da modelli tardoantichi, come il manoscritto di Cambridge Trinity Coll. O. 3. 7 (f. 52v) e il Paris BNL lat. 640112. Traditio Ma non è questa l’unica “leggenda” moderna: un’altra “leggenda”, ancor più tenace della prima, è quella di una sicura trasmissione del testo. Contrariamente a ciò che si crede il carme non ha un assetto fisso ed è tramandato in modo estremamente variabile, oscillando da un massimo di quattordici versi a un minimo di quattro. Una simile instabilità testuale ci dovrebbe indurre a leggere questa testimonianza con molta prudenza e ci suggerisce almeno un’osservazione: è piuttosto singolare smentire l’identità di Helpis in base a presunte incongruenze tra i versi dell’epigrafe e la biografia boeziana, come quelli che alluderebbero alla sua morte prima del marito, senza tenere conto che simili obiezioni cadono da sole se mancano i versi su cui sono fondate. Abbiamo svolto una piccola indagine, certo non sistematica, della tradizione del carme dalla quale si ricavano risultati, che, per quanto provvisori, sono già sufficienti a rimettere in discussione l’idea che il testo sia tradito in modo uniforme. Ricapitolando i risultati cui siamo pervenuti, possiamo affermare che esistono diverse versioni del carme, così suddivise: 1: Versione lunghissima, 14 versi con qualche variante molto particolare: in questa versione l’inizio è lo stesso dell’epitafio di Bonifacio V. Il carme è stato pubblicato da de Rossi, a partire da silloge di epigrafi nel codice di San Pietroburgo Rossijskaja Nacional’naja Biblioteka F.XIV.1 da Corbie dell’VIII-IX secolo (f. 123r)13. 2: Versione lunga, 12 versi: Il testo, riportato nella silloge di Lorsch e in antologie epigrafiche di epoca successiva, ricorre abitualmente nei codici medievali della Consolatio. Trascritto da autorevoli umanisti come Pontano o Perotti14, compare anche nelle edizioni degli Opera omnia di Boezio 12
F. TRONCARELLI, Cogitatio mentis. L’eredità di Boezio nell’Alto Medioevo, Napoli 2005 (Storie e Testi, 16), pp. 154-157, 190-191. Anche il repertorio di D. SCHALLER – E. KÖNSGEN – J. TAGLIABUE, Initia carminum Latinorum saeculo undecimo antiquiorum, Göttingen 2005, segnala a p. 177 che il più antico codice che riporti il testo è dell’XI secolo: il manoscritto citato è il Basel UB AN IV 11, f. 75r. 13 ICUR, II, p. 79. 14 G. GERMANO, L’epigrafia nel De Aspiratione del Pontano, in Filologia e critica. Per Gianvito Resta, a cura di V. FERA – G. FERRAÙ, Padova 1997 (Medioevo e Umanesimo, 95), p. 976.
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del Glareanus e del Vallinus ed è stato più volte edito tra XVI e XIX secolo da molti autori, tra i quali ricordiamo, a titolo d’esempio, Wegelin, Gruter, Fabricius, Burman, Meyer15. Il poema è stato pubblicato anche in diverse antologie di carmi o di epigrafi, come ad esempio i Carmina latina epigraphica e l’Anthologia Latina16, la raccolta di iscrizioni del Diehl. Un’edizione critica, confrontando diversi manoscritti, è stata fatta prima da Rudolf Peiper e poi da Angelo Silvagni17 (Appendice 1). 3: Versione intermedia, 10 versi (mancano i versi 12-13 della versione lunga): il testo è stato pubblicato da Silvestro Maurolico, Romualdo di Santa Maria (Romualdo Ghisoni), Antonino Mongitore, Iohannes Baptista Ferretius, Johann Jacob Hofmann, Girolamo Tiraboschi18. 4: Seconda versione intermedia, 8 versi, con significative trasposizioni e rielaborazioni: in questa forma il carme ricorre solo nella raccolta di
15 A. M. S. BOETHII, De differentiis topicis, ed. J. WEGELIN, Augusta 1604, pp. 271-272; J. GRUTER, Inscriptiones antiquae totius orbis Romani, Heidelberg 1602, f. MCLXV n. 26 (vedi anche G. FLEETWOOD, Inscriptionum antiquarum sylloge, Londini 1691, p. 1603); J. FABRICIUS, Bibliotheca Latina mediae et infimae aetatis, a cura di CH. SCHOETTGEN – J. MANSI, II, Florentiae 1858 (ma la prima edizione è del 1754 che ripubblicava in edizione riveduta e corretta quella originale del 1697), p. 505; P. BURMAN, Anthologia veterum Latinorum epigrammatum et poematum sive catalecta poetarum Latinorum II, Amstelaedami 1759, p. 138; Anthologia veterum Latinorum epigrammatum et poematum, a cura di H. MEYER, I, Lipsiae 1833, pp. 256-257. 16 Carmina Latina Epigraphica, ed. F. BÜCHELER, Leipzig 1895, p. 683; Anthologia Latina, edd. F. BUECHELER – A. RIESE, 2, 2, Lipsiae 1897, p. 683 n. 1432; E. DIEHL, Inscriptiones latinae christianae veteres, II, a cura di J. MOREAU – H. I. MARROU, Berolini 1985, n. 3484, p. 217. Cfr. Clavis patrum latinorum: qua in novum corpus christianorum edendum optimas quasque scriptorum recensiones a Tertulliano ad Bedam, a cura di E. DEKKERS, Turnhout 1961, p. 339; SCHALLER – KÖNSGEN – TAGLIABUE, Initia carminum cit., p. 177 17 Inscriptiones christianae urbis Romae, nova series, a cura di G. B. DE ROSSI – A. SILVAGNI, II, Roma 1935, p. 79 n. 4209. 18 S. MARULI (MAUROLICUS), Historia sacra, Messina 1613, p. 271; J. J.HOFMANN, Lexicon Universale Historico-Geographico-Chronologico-Poetico-Philologicum, Lugduni Batavorum 1698, II, p. 15; ROMUALDO DI SANTA MARIA (ROMUALDO GHISONI), Flavia Papia Sacra, Ticini 1699, p. 99; I. B. FERRETIUS, Musa lapidaria. Antiquorum in Marmoribus Carmina sculpta, III, Verona 1672, p. 216; G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, 3, 1, Modena 1773, pp. 60-61. Va ricordato che il Maurolico e il Ghisoni affermano che il carme era inciso su una lapide in S. Pietro in Ciel d’oro a Pavia, ma le loro affermazioni, peraltro confuse e contraddittorie (il primo sostiene che il poema era nell’inesistente vestibolo della chiesa; il secondo davanti alla presunta tomba di Boezio) non sono credibili. Dell’esistenza della lapide a Pavia dubitava apertamente già il Tiraboschi che aveva cercato la lapide o, quanto meno una sua memoria, senza alcun successo.
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epigrafi di Adrian Beverland († 1716)19. È possibile che si tratti di una rielaborazione personale del Beverland spacciata come autentica20. 5: Versione breve, 5 versi (ma in realtà 6, perché il verso 4 è caduto per lacuna materiale): in questa versione manca ogni allusione alla morte di Helpis prima del marito (Appendice 2). Il testo è stato pubblicato dal Bert († 1629) nella sua prefazione alla Consolatio21, ripresa in seguito da altri autori come il Ridpath22. Bert non è del tutto chiaro a proposito della consultazione dell’epigrafe, ma lascia intendere che essa è stata controllata direttamente a S. Pietro e che presentava una lacuna materiale: è verosimile che l’esame diretto della lapide sia merito di Giusto Lipsio, intimo amico e protettore del Bert, che discusse spesso con l’amico dei temi culturali che più lo interessavano. All’epigrafe romana aveva comunque già fatto riferimento Lilio Gregorio Giraldi, che aveva vissuto molti anni a Roma: l’umanista affermò esplicitamente che la lapide era databile al VI secolo e che presentava delle “mende”, che forse potrebbero essere le stesse lacune materiali cui accenna il Bert23. 19
Oxford, Bodleian Library Rawl. 175, ff. 1r-10v. Il testo dell’epigrafe di Helpis è stato pubblicato in appendice alla prefazione di Thomas Hearne alla cronaca del Langtoft: Peter Langtoft’s chronicle, improved by Robert of Brunne, a cura di T. HEARNE, Oxford 1725, p. CLXXXV. 20
Peter Langtoft ‘s chronicle cit., p. L. ANICII MANLII TORQUATI SEVERINI BOETHII De Consolatione Philosophiae Libri. Ad optimarum Editionum fidem recensuit Petrus Bertius, Lugduni Batavorum 1620, ripubblicato nel 1721, in una versione riveduta e corretta, con il titolo BOETHIUS, ANICIUS MANLIUS TORQUATUS SEVERINUS. De Consolatione Philosophiae Libri V. Ad optimarum editionum fidem recensiti. Accessere Petri Bertii Praefatio, Boethii Vita a Mariano Rota conscripta, Theodori Pulmanni de Metris Boethianis Libellus, nec non Elpidis, Boethii uxoris, Hymni duo, Patavii 1721 (rist. 1754), p. XXVII. 22 BOETHIUS, The Consolation of Philosophy, ed. P. RIDPATH, London 1785, p. XIX. 23 L. G. GYRALDUS, Historia poetarum tam Graecorum quam latinorum dialogi, V, Basileae 1545, pp. 650-651: “Et quidem hodie legitur in eius sepulchro carmen, quod eius saeculi videtur, sed quod mihi videre contigit, non sine mendis est”. La parola “menda” può naturalmente indicare difetti di stile o di grammatica, ma significa anche “danno materiale” che può e deve essere “restaurato”: cfr. C. du FRESNE DU CANGE, Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, IV, Lugduni 1762, p. 361: “MENDUM, Damnum”. Il termine è stato usato spesso nel senso di “difetto fisico” fino al secolo scorso da autori che descrivono monumenti o raffigurazioni artistiche sottolineando i difetti del supporto su cui le opere d’arte erano state eseguite: cfr. G. POZZOLI, Dizionario storico-mitologico di tutti i popoli del mondo, Livorno 1829, p. 271: “Ma queste restaurazioni concernono … le mende del marmo”; Venezia e le sue lagune, II, Venezia 1847, p. 44, “Maraviglioso è lo sfarzo di marmi preziosi posti a decoro del prospetto, le poche mende del quale, rispetto alla prisca integrità, ci auguriamo di vedere pur tolte”. Va sottolineato che “menda” ha significa fino all’Ottocento anche “ritocco” e “congiunzione di parti rotte”: cfr. A. F. LANTERI, Vocabolario italiano-latino, Vocabula latini italique sermonis, II, Torino 1833, p. 367: “Mendo: … rifacimento, refectio, reparatio, restauratio.”; 21
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6: Versione brevissima: 4 versi, con qualche variante e un errore evidente che deriva probabilmente da un guasto sul supporto che rende difficile la lettura [invece di “Siculae” è stato letto Stirule (Appendice 3)]. In questa versione manca ogni accenno alla morte di Helpis prima del marito. Il testo, conosciuto da Jacopo da Voragine, da Giovanni de Matociis e dal “Boezio di Ghent”24, è stato pubblicato dal Pithou25. È stato letto agli inizi del XVI secolo direttamente da un’epigrafe da Giovanni Bembo († 1563) come testimonia il manoscritto della München Bayerische Staatsbibliothek, CLM 10801, f. 105v e in seguito da Daniele Tomitano († 1658)26, come mostra il codice della Biblioteca Civica di Trieste ̿ CC 19, f. 15v. Il Mommsen, nel quinto volume del CIL, menziona l’epigrafe27, relegandola tra le testimonianze false, in aperto contrasto con esplicite asserzioni del Tomitano sull’antichità delle lettere dell’epigrafe (“litteris antiquis”). La ragione di una simile scelta è la presunta autenticità del carme nelle edizioni del Burman e del Meyer, che pubblicano la versione lunga interpolata. Recentiores non deteriores La confusa tradizione testuale esemplificata dai testimoni che abbiamo citati è senza dubbio sconcertante. E tuttavia non possiamo trascurare un punto fermo che permette di orientarci in questo labirinto: anche se tutte le diverse versioni circolano attraverso manoscritti, alcuni di veneranda antichità, solo le versioni “breve” e “brevissima” (numero 5 e numero 6 del nostro elenco) sono state effettivamente lette da testimoni degni di fede ed esperti di paleografia e di epigrafia, su due lapidi antiche, una delle quali esplicitamente attribuita al secolo VI. Non possiamo affrontare in questa sede il complesso problema dell’esistenza di ben due epigrafi che riportano lo stesso carme e che potrebbeG. BOERIO, Dizionario del dialetto veneziano, Venezia 1867, p. 410: “Menda: rimendatura, rammendo, congiunzione di parti rotte”. Nel caso del Giraldi si può forse supporre che “mendis” equivalga a “difetti materiali” e/o “restauri” ben visibili a occhio nudo, dal momento che l’autore sottolinea di avere “visto” il sepolcro e l’epigrafe con i suoi occhi e di avere costatato che il sepolcro o l’epigrafe presentava “mende” (“sed quod mihi videre contigit, non sine mendis est”). È naturalmente anche possibile che il Giraldi alluda alle “mende” linguistiche o stilistiche dei versi. 24 M. GORIS, Boethius in het Nederlands: studie naar en tekstuitgave van de Gentse, Hilversum 2000, p. 226. 25 P. PITHOU, Epigrammata et poemata vetera, III, Lugduni 1596, p. 96. 26 Le informazioni del Tomitano dipendono in parte da quelle raccolte intorno al 1509 da Domenico Montecchi nel cosidetto codex monticulanus, oggi disperso. 27 CIL V, 1, a cura di E. BORMANN – E. W. JORY – W. HENZEN – D. W. G. MOORE, Berolini 1888-1926 (ma la prima edizione è stata fatta dal Mommsen nel 1872), p. 62*, n. 661.
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ro testimoniare l’esistenza di un sepolcro e di un cenotafio di Helpis. In ogni caso, restando nei limiti della semplice constatazione delle diverse modalità di trasmissione del testo, senza ulteriori approfondimenti, viene il sospetto che le versioni di cui non si può determinare in modo certo l’origine epigrafica siano frutto di una rielaborazione che nasce in ambito esclusivamente manoscritto, lontana dalla realtà concreta delle epigrafi. E tale sospetto è avvalorato da due considerazioni: la prima è che del processo di rimaneggiamento abbiamo una prova diretta poiché nella versione “lunghissima” (numero 1 del nostro elenco) sono stati inseriti, come si è detto, i primi due versi dell’epitafio di Bonifacio V; la seconda è che nelle versioni più lunghe i versi in soprannumero sembrano posticci. Infatti essi sono zeppi di stereotipi dell’arte funeraria, malamente incollati da altri carmi28, con l’unico scopo di allungare un testo scarno e guarnirlo di espressioni pompose e altisonanti. L’operazione è simile a quella che possiamo supporre in altre lapidi29: il testo di un’epigrafe, piuttosto semplice, viene abbellito e “migliorato” con un’amplificatio retorica ridondante, scritta da un poeta di buona educazione letteraria. Si può immaginare che sia accaduto qualcosa di simile nella versione breve del carme di Helpis: originariamente l’autore del testo, pur pagando un debito nei confronti di qualche scrittore latino, si è limitato a minime reminiscenze rielaborandole e riadattandole per esprimere una vicenda individuale30; successivamente qualcun altro ha rielaborato il tutto con citazioni esplicite dalla tradizione letteraria dei carmi epigrafici. È spontaneo chiedersi se ci sia stata una ragione o quanto meno un’occasione che giustificasse il processo di interpolazione. A mio parere la risposta ci viene proprio dalla silloge del Pal. lat. 833. Come abbiamo visto, 28 Cito a puro titolo d’esempio: “servandus nunc pro thalamo tumulus” (Carmina Latina Epigraphica, a cura di P. COLAFRANCESCO – M. L. RICCI, Bari 1986 = CLE 1139); cfr. con Ep. Helpis vers. Lunga, 10: “Ut thalami tumulique comes”; “coniugio aeterno hic quoque nunc remanet” (CLE 1325) cfr. con Ep. Helpis vers. Lunga, 6: “tali remanente marito”; “post fata superstes fama” (CLE 423) cfr. con Ep. Helpis vers. Lunga, 5: “superstes ero”; “pars maior in pugna perit” (CLE 1248) cfr. con Ep. Helpis vers. Lunga, 6: “maiorique animae parte”; “te socium vitae”(PROP. III, 2, 15) cfr. con Ep. Helpis vers. Lunga, 12: “et socios vitae”. 29 Citiamo a titolo d’esempio il caso di un’epigrafe ritoccata dal Pollidori per cui vedi M. BUONOCORE, CLE 1321 e Tac. Ann. 3, 1, 4; 3, 2, 2. Un ‘lusus’ letterario del Pollidori, in Giornale italiano di filologia 53 (2001), pp. 125-129. Ringrazio l’amico Marco Buonocore per avermi segnalato questo suo articolo. 30 “Siculae regionis” è una formula che si trova in Plinio (Nat. hist. III, 1, 1: mel Siculae regionis); l’espressione “egit amor” richiama Orazio e Properzio (HOR. Carm. IV, 4, 12: “Egit amor dapis”; PROP. I, 10, 20: “non nihil egit Amor”). Quanto ad “alumnus” e “testificor”, essi hanno ovviamente riscontri nei carmi epigrafici e nel lessico cristiano, ma in contesti diversi (per esempio per il primo termine CLE 430, 5; 1123, 3; 1432 e per il secondo, ovviamente, Tim. 2, 4.).
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all’inizio il carme di Helpis conclude una serie di epitafi di pontefici sepolti a S. Pietro, compresi tra la fine del V e la fine del VII secolo31. Le lunghe composizioni metriche sono naturalmente ricche ed esuberanti dal punto di vista retorico, come si addice a poemi dedicati ai papi. Abbiamo già detto che il carme di Helpis sembra a prima vista piuttosto incongruo in questo contesto: se esso fosse stato solo di quattro versi piuttosto semplici sarebbe risultato ancora più incongruo rispetto ai lunghi e complessi panegirici dei pontefici che lo precedono. È dunque possibile che per attenuare il senso di estraneità della composizione si sia pensato di arricchirla e rielaborarla, prendendo a prestito sintagmi e stereotipi dal repertorio delle epigrafi funerarie. Un’impresa che come ha ipotizzato de Rossi daterebbe nell’ultimo quarto del VII secolo, visto che l’ultimo papa menzionato nella raccolta è Giovanni V, morto nel 686: il fascicolo del Pal. lat. 833 che abbiamo esaminato sarebbe stato ricavato in seguito da un codice del VII preparato in questa circostanza. Se le nostre osservazioni sono giuste avremmo trovato una spiegazione delle vistose interpolazioni del carme di Helpis: originariamente esso era molto breve e circolava nelle due versioni molto simili che erano ancora incise in due diverse epigrafi, una delle quali attribuita al VI secolo, viste da testimoni diversi e attendibili nel XVI secolo; tale versione, troppo semplice e schematica, venne arricchita e amplificata nel VII secolo per conferire al carme una veste adeguata alla bisogna, in occasione dell’allestimento di una di quelle raccolte devozionali di epigrafi cristiane che circolarono ampiamente nell’Alto Medioevo32. Porticibus sacris Pur ammettendo che il problema dell’interpolazione possa essere chiarito dalla nostra ipotesi, restano ancora molte domande senza risposta. A cominciare da quella più semplice: perché l’epigrafe di Helpis è stata associata a quelle dei papi? Senza dubbio si potrebbe osservare che la donna era stata sepolta accanto ai pontefici nella basilica di S. Pietro e che di conseguenza il suo epitafio è stato riportato solo perché era contiguo fisicamente a quello dei pontefici. Ma la risposta sarebbe insufficiente: la con31
ICUR, II, pp. 126-130. P. TESTINI, Archeologia cristiana: nozioni generali dalle origini alla fine del secolo VI, Bari 19802, pp. 32-33. Ha scritto a riguardo BUONOCORE, Antiquaria cit., p. 407: “Come si sa a complemento delle descrizioni della città di Roma, dei cataloghi regionari, dei breviari, redatti già in epoca costantiniana e successivamente nei Mirabilia Urbis Romae ad uso dei pellegrini, è abbastanza comune che venissero trascritti documenti epigrafici, così come l’osservatore li aveva letti e capiti”. 32
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tiguità fisica tra epigrafi non basta a spiegare per quale ragione il ricordo di una sconosciuta “peregrina” fosse degno di essere tramandato assieme alla memoria di personaggi illustri come Gregorio Magno. E d’altro canto, una simile questione ne genera automaticamente un’altra: perché un’oscura “femina” come Helpis è stata tumulata a S. Pietro, visto che non era certo facile ottenere di essere seppelliti in questa chiesa? Certo, se la donna fosse stata veramente la moglie di Boezio, come vuole la tradizione, tutto acquisterebbe un senso. Anche perché, com’è noto, Gregorio Magno (che alcuni ritengono di stirpe Anicia) ha intrattenuto una fitta corrispondenza proprio con la nipote di Boezio, Rusticiana, che si chiamava Rusticiana come la nonna33 e risiedeva a Costantinopoli, con i figli e con il fratello Simmaco. Il papa ricevette da questa dama illustre doni da esporre proprio a S. Pietro, alla cui protezione la donna venne raccomandata. A ciò si aggiunga che in onore di Rusticiana la giovane fu composto un carme, in distici elegiaci come quello di Helpis, riportato nella silloge di Lorsch (Pal. lat. 833, f. 70rv: Tav. II) attribuito dalla tradizione a Gregorio Magno stesso, probabilmente trascritto da un’epigrafe, che circolava anch’esso in due versioni alternative con un diverso finale, ambedue databili all’epoca stessa della sua composizione e alla stessa committenza34. Avremmo dunque anche in questo caso una duplice redazione ab origine, motivata dalla diversa destinazione dello stesso carme: un fenomeno che appare del tutto simmetrico alla duplice versione breve e brevissima che si direbbe essere esistita ab origine dell’epitafio di Helpis. Quaestiones Nonostante ciò, restano ancora questioni aperte per l’identificazione di Helpis con la moglie di Boezio. Caduta l’obiezione che essa sarebbe morta prima del marito, poiché i versi che accennerebbero a quest’evento sono interpolati35, resta egualmente il problema onomastico: se la moglie di Boezio si chiamava Rusticiana come faceva a chiamarsi Helpis? 33
GREGORI MAGNI Registrum Epistolarum, a cura di a cura di P. EWALD – L. M. HARTin MGH, Ep., II, Berolini 1891-1899, pp. 23-24, cfr. Prosopographie chrétienne du Basempire 2. Italie (313-604), a cura di C. PIETRI – L. PIETRI, Rome 1999, pp. 1948-1950. 34 A. CAMERON, A nativity poem of the sixth century a.d., in Classical Philology 74 (1979), pp. 222-232. 35 Va comunque sottolineato che l’idea della morte prematura di Helpis non è affatto sicura neppure attraverso i versi interpolati. Contrariamente a quanto molti studiosi hanno sostenuto l’espressione “tali remanente marito” non significa “restando in vita mio marito”, ma piuttosto “durando in eterno la fama di mio marito”. Remanere in vitam è infatti una formula medievale che non ha riscontri nel latino classico e tardoantico che userebbe in questo caso manere in vitam, riservando il “remaneo” a forme di sopravvivenza molto più
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A mio parere il problema è solo apparente: se accogliamo un suggerimento ventilato da qualche erudito del passato e riconsideriamo la questione alla luce dell’onomastica tardoantica possiamo formulare l’ipotesi che la donna si chiamasse Helpis Rusticiana così come si chiamava Rustico Elpidio il medico di Teodorico36. Né suscita problema il fatto che il doppio nome sia stato taciuto da Procopio: capita sovente che personaggi famosi siano menzionati in una forma semplificata in documenti o testi storici, come ad esempio Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore che il papa Vigilio chiama solo Senatore o Quinto Aurelio Memmio Simmaco che Boezio chiama familiarmente Simmaco. Dunque non è strano che Procopio chiami la moglie di Boezio solo Rusticiana, invece che Rusticiana Helpis, visto che non la chiama neppure Anicia Rusticiana, come pure doveva chiamarsi. Quanto all’origine siciliana della donna essa non desta meraviglia visto che in Sicilia gli Anicii e i Simmaci avevano vasti possedimenti e visto che proprio i discendenti di Boezio e Rusticiana avevano ancora estese proprietà in Sicilia all’epoca di Gregorio Magno37. Un altro problema, che potrebbe essere sollevato da molti studiosi moderni, è il fatto che ad Helpis sono stati attribuiti nel Medioevo due inni religiosi, oggi giudicati di altro autore: l’attribuzione era infatti favorita dalla fama di poetessa della donna garantita dal carme della sua epigrafe. A mio avviso i due problemi non hanno relazione tra loro: ammesso che l’attribuzione dei due poemi a Helpis non abbia alcuna ragion d’essere (cosa su cui ci sarebbe molto da discutere), in ogni caso essa non ha rapporto con il carme di cui ci occupiamo. Il fatto che qualche autore medievale abbia accomunato i presunti inni di Helpis e il suo carme sepolcrale non deve riguardarci: la donna menzionata nell’epigrafe può essere stata la moglie di Boezio senza per questo essere l’autrice né del suo epitafio, né dei poemi che la tradizione, a torto o a ragione, le assegna. Helpis è sicuramente esistita, come testimoniano i versi a lei dedicati: dal nostro punto di vista il problema fondamentale è questo, non quello delle sue presunte capacità poetiche, che potrebbero non essere vere senza togliere nulla al fatto che essa sia vissuta nell’epoca di Boezio. stabili come ad esempio quella dell’anima dopo la morte o quella della fama nei secoli (cfr. LVCR. 3, v. 403; CIC. Tusc. I, 12, 26). 36 Sulla compresenza nel VI secolo di personaggi con questo nome e sulla differenza tra coloro che appartengono alla gens dei Flavi Rustici e coloro che si chiamano Elpidio Rustico di nome si veda F. ERMINI, Storia della letteratura latina medievale dalle origini al secolo VII, Spoleto 1960, p. 313. Vedi pure MARTINDALE, Propography cit., pp. 568-569; Prosopographie cit., p. 537. 37 GREGORI MAGNI Registrum Epistularum cit., 9, 83, p. 98.
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Più seria appare invece un’altra possibile obiezione. Pur non avendo molte informazioni su Rusticiana, attraverso il poco che sappiamo da Procopio è verosimile pensare che dopo il 546 fosse ormai molto anziana: risparmiata miracolosamente da Totila in persona, ma odiata dai Goti per la sua fiera opposizione ai barbari la donna sarebbe scampata agli orrori della guerra riparando in esilio a Costantinopoli38. Ciò spiegherebbe la presenza in questa città di sua nipote insieme ad altri discendenti di Boezio all’epoca di Gregorio Magno. Se si accetta l’ipotesi dell’esilio costantinopolitano di Rusticiana e quello della sua possibile morte in questa città, come spiegare la sua tumulazione a S. Pietro? A mio parere la difficoltà non è insormontabile. Se è vero che Rusticiana è andata in esilio a Costantinopoli, forse è proprio a questo che allude il secondo verso del carme che recita: “procul a patria coniugis egit amor”. La donna è costretta ad andare “lontano dalla patria” perché l’amore per il marito l’ha messa in contrasto con i Goti e le ha reso impossibile vivere in Italia. Anche ammettendo che Rusticiana non sia tornata a Roma dopo la fine della guerra gotica ed abbia finito i suoi giorni in esilio, perché dobbiamo rifiutare di credere che la sfortunata “peregrina” abbia potuto finalmente tornare a Roma dopo morta e trovare finalmente pace nella basilica di S. Pietro che aveva costituito l’ultimo scampo per i senatori romani quando la città cadde in mano a Totila? Lacrimis ac dolore tabescit Nei quattro versi della versione breve del carme, che forse possono essere sembrati scarni ai retori di professione, si nascondono due allusioni a Boezio. La prima è nel secondo verso “procul a patria coniugis egit amor”, che richiama un passo della Consolatio nel quale la filosofia dice a Boezio che non deve sentirsi “procul a patria … pulsus”, ma che invece deve farsi guidare dai vincoli imposti dalla divinità, perché “agi frenis … libertas est” (Phil. Cons., I, 5, 3). In sostanza chi si sente procul a patria deve abbandonarsi nelle mani di Dio che, imponendogli limiti e frustrazioni, lo guiderà (agi): ma questo è appunto ciò che fa Helpis, che procul a patria viene guidata (egit) dall’amore. Per la donna è l’Amore che “guida” e che impone la sua legge e dunque “libertas” è obbedire ai suoi vincoli39. Il secondo richiamo a Boezio è l’allusione nell’ultimo verso al “giudice eterno” di fronte al quale bisogna rendere testimonianza: che è appunto 38 F. TRONCARELLI, Boezio a Costantinopoli: Testi, contesti, edizioni, in Litterae Caelestes 3 (2008-2009), pp. 191-225. 39 Si vedano a questo riguardo i versi 24-25 di Phil. Cons. 2, c. 8, in cui Boezio canta l’amore di Orfeo per Euridice: “Hic et coniugii sacrum/castum nectit amoribus”.
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ciò che Boezio invita a fare concludendo la Consolatio, esortando a essere sempre degni del “giudice ai cui occhi nulla sfugge”. Conclusio Ricapitolando quello che abbiamo visto nelle pagine precedenti non possiamo esimerci da una serie di osservazioni. Molti manoscritti di età medievale e umanistica, i più antichi dei quali rimontano alla fine dell’VIII secolo, ci hanno tramandato l’epigrafe metrica di una sconosciuta, chiamata Helpis, sepolta inaspettatamente nel porticato di S. Pietro. Nei codici della Consolatio Philosophiae di Boezio l’epigrafe è stata attribuita alla moglie di Boezio, che si chiamava, per quanto ne sappiamo, Rusticiana. Si è pensato che la testimonianza dei codici fosse tardiva, ma invece le prime attestazioni esplicite del matrimonio di Helpis e Boezio risalgono alla fine del X secolo e non al XIII-XIV. Il testo dell’epigrafe si presenta in uno stato estremamente variabile, oscillando da quattordici a quattro-cinque versi: tuttavia solo la duplice versione breve e brevissima sembra genuina. È degno di nota che tale versione abbia un’intrinseca compiutezza e sembri scevra dagli stereotipi delle composizioni funerarie più diffuse. Altrettanto degno di nota è che in pochi versi esistano ben due richiami alla Consolatio di Boezio. Tutto ciò sfata la leggenda moderna che vuole che la storia di Helpis sia frutto di una elaborazione tardomedievale e depone a favore di un’ipotesi che, naturalmente, va formulata con la dovuta cautela, in attesa di ulteriori riscontri: è possibile che la tradizione relativa ad Helpis sia fondata e che la donna avesse due nomi e altri non sia che la fiera moglie dell’ultimo dei Romani descritta da Procopio.
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APPENDICE 1) Versione lunga (secondo l’edizione di R. Peiper) Helpis dicta fui Siculae regionis alumna quam procul a patria coniugis egit amor, quo sine maesta dies, nox anxia, flebilis hora; nec solum una caro, spiritus unus erat. Lux mea non clausa est tali remanente marito maiorique animae parte superstes ero. Porticibus sacris iam non peregrina quiesco Iudicis aeterni testificata thronum. Nulla manus bustum uiolet, nisi forte iugali Haec iterum cupiat iungere membra suo Ut thalami tumulique comes nec morte reuellar Et socios uitae nectat uterque cinis. 2) Versione breve (secondo l’edizione di P. Bert) Helpis dicta fui Siculae regionis alumna quam procul a patria coniugis egit amor. quo sine maesta dies, nox anxia, flebilis hora […: lacuna materiale: manca il verso 4] Porticibus sacris iam non peregrina quiesco Iudicis aeterni testificata thronum. 3) Versione brevissima (secondo la trascrizione di G. Bembo) Helpis dicta fui Stirule (= Siculae) regionis alumna quam procul a patria coniugis egit amor. Porticibus sacris iam nunc tumulata quiesco Iudicis aeterni testificata thronum.
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 833, ff. 40v-41r.
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FABIO TRONCARELLI
Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 833, f. 70rv.
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ADOLFO TURA
PIETRO BEMBO LETTORE DEL NOVELLINO NEL VAT. LAT. 3214 Il Vat. lat. 3214, cartaceo, contenente il Novellino (ff. 1r-87v della più recente cartulazione) e una raccolta d’impronta stilnovistica di liriche volgari dugentesche (ff. 88v-170v), è la copia, fedele sin nel mantenimento delle forme grafiche, che Giulio Camillo Delminio fece eseguire a Bologna da un antico esemplare in suo possesso oggi perduto. Il codice, la cui confezione si deve al calligrafo Pierantonio Sallando, mostra una minuziosissima revisione ad exemplar operata dallo stesso Camillo1: il tutto, sappiamo, per compiacere Pietro Bembo. Questi l’ebbe a Padova, per mano di Romolo Amaseo, nel novembre 1523, quando già era compiuta la stesura delle Prose della volgar lingua, ma nondimeno se ne giovò per aggiunte e modifiche, come attesta l’autografo di quelle, Vat. lat. 3210. Che la lettura del Vat. lat. 3214 fatta dal Bembo sia stata prevalentemente orientata verso uno scrutinio linguistico a riscontro delle Prose è ciò che già inferì Giulio Bertoni considerando il tenore delle rade postille apposte ai rimatori del Duecento2. Nell’esaminare il manoscritto si rischia di non dare alcun peso a una successione di punti d’inchiostro nei margini esterni di molte pagine. Essi si susseguono tanto discretamente da passare facilmente inosservati o da 1 Cfr. C. BOLOGNA, Bembo e i poeti italiani del Duecento, in ‘Prose della volgar lingua’ di Pietro Bembo. Atti del convegno di Gargnano del Garda (4-7 ottobre 2000), a cura di S. MORGANA – M. PIOTTI – M. PRADA, Milano 2000, p. 105. Se ne avvide per primo, ch’io sappia, Aldo Aruch: cfr. A. ARUCH, rec. de Le cento novelle antiche, a cura di E. SICARDI, Straßburg 1909 (Bibliotheca Romanica, 71-72), in Rassegna della letteratura italiana 18 (1910), p. 38. Sbaglia, attribuendo a Bembo stesso la revisione del testo, M. DANZI, La biblioteca del cardinal Pietro Bembo, Genève 2005, p. 331; ID., Pietro Bembo, in Autografi dei letterati italiani. Il Cinquecento, I, a cura di M. MOTOLESE – P. PROCACCIOLI – E. RUSSO, Roma 2009, p. 47 (ove il codice è detto recare «correzioni» di Bembo nelle sue due parti). 2 Cfr. G. BERTONI, Il Bembo e il codice di rime antiche V2 (= Vat. lat. 3214), in Giornale storico della letteratura italiana 99 (1932), p. 192: «i notamenti sono tutti fatti in servigio o in appoggio alle osservazioni delle Prose». Sulla sezione poetica del Vat. lat. 3214 come fonte delle Prose si veda ora M. TAVOSANIS, Le fonti grammaticali delle Prose, in ‘Prose della volgar lingua’ di Pietro Bembo. Atti cit., pp. 55-76.
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 627-638.
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ADOLFO TURA
sembrare trascurabili come cosa praticata forse dal copista, se non dal revisore, per un suo scopo. C’è anzitutto da accorgersi che tali punti furono intenzionalmente distribuiti e non già dovuti a un inavvertito contatto della penna sul foglio, benché il loro allineamento (quando più d’uno giaccia sulla stessa pagina) sia di per sé un indizio. Ulteriore indizio della loro intenzionalità si ha nel fatto che ad essi s’accompagna rarissime volte un trattino orizzontale, così da formare una sorta di semicolon coricato: che, in tutti questi casi, nelle righe in tal modo contrassegnate ricorra una medesima parola (per es. f. 35v, l. 11; f. 36r, ll. 5, 16), basta a rivelarne la natura di note segnaletiche3. Si giustifica con ciò il tentativo di interpretare anche i semplici punti alla stessa stregua di note segnaletiche; e per questa via si arriva agevolmente ad accertare che essi si devono tutti alla mano di Bembo: della cosa si è avveduto Carlo Pulsoni, che ne dà fuggevolmente notizia in uno scritto del 19994. Ne danno piena dimostrazione i seguenti esempi (nei quali il testo del Vat. lat. 3214 viene riprodotto senza sciogliere le univerbazioni)5. 1) Un punto è posto in corrispondenza di f. 13r, l. 4 (novella 7): la torrà a figliuolto & così dimostra i gui[derdoni
Bembo scrive nelle Prose6, f. XLr [II xxi 9, p. 105 Vela]: «Voi dovete M. Hercole sapere usanza della Thoscana essere con alquante così fatte voci congiugnere questi possessivi MIO, TUO, SUO, in modo che se ne fa uno intero, trahendone tuttavia la lettera del mezzo, cioè la I e la U, in questa 3 Derivo la nomenclatura «notes signalétiques» da R. MEYENBERG – G. OUY, Alain Chartier lecteur d’Ovide, in Scrittura e civiltà 14 (1990), p. 83. Si veda in proposito A. TURA, Essai sur les marginalia en tant que pratique et documents, in Scientia in margine. Études sur les marginalia dans les manuscrits scientifiques du Moyen Âge à la Renaissance, réunies par D. JACQUART – CH. BURNETT, Genève 2005 (Hautes Études médiévales et modernes, 88), pp. 273-276. 4 Cfr. C. PULSONI, Per la ricostruzione della biblioteca bembiana: I. I libri di Dante, in Critica del testo 2 (1999), p. 744: «Non mi risulta che in Vat. lat. 3214 sia mai stata notata la presenza di alcuni puntini apposti da Bembo per rimarcare le parti di testo che gli interessavano per le sue ricerche linguistiche». A sostegno della sua asserzione Pulsoni pone il fatto che un punto si trova a fianco di ognuna delle citazioni che nelle Prose si fanno del Novellino: si tratta, tra gli esempi che porto di séguito nel testo, di quelli numerati 4 (il primo dei tre) e 5-8. 5 Per la numerazione delle novelle mi tengo a quella dello stesso testimone. 6 Qui ed in séguito cito le Prose direttamente dalla prima edizione, stampata a Venezia da Giovanni Tacuino nel settembre 1525, facendo seguire, tra parentesi quadre, il rinvio all’edizione curata da Claudio Vela. Cfr. PIETRO BEMBO, Prose della volgar lingua. L’editio princeps del 1525 riscontrata con l’autografo Vat. lat. 3210, edizione critica a cura di C. VELA, Bologna 2001.
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guisa: signórso, signórto in luogo di signor suo e signor tuo, e fratélmo in luogo di fratel mio; e pátremo e mátrema in luogo di patre mio e matre mia, e mógliema e móglieta, et alcuna volta figliuólto. E così d’alcune altre; alle quali voci tutte non si dà l’articolo, ma si leva». Si noti che «et alcuna volta figliuolto» è apposizione aggiunta in un secondo tempo da Bembo nel Vat. lat. 3210, f. 82r, sulla base dunque del passo del Novellino. 2) Un punto contrassegna f. 24v, l. 13 (novella 20): il corpo è infermo non avreste omai di me
Si legge nelle Prose, f. LXXXIIv [III lxi 2, p. 223 Vela]: «Et è HOGGIMAI et HORAMAI voci solamente delle prose et HOMAI delle prose e del verso altresì». Anche in questo caso l’autografo mostra un intervento di Bembo (Vat. lat. 3210, f. 155r), che sovverte il senso del testo primitivo, nel quale si leggeva «et HOMAI del verso»: la fonte sembra così essere la prosa del Novellino. 3) Si consideri il caso di due righe contrassegnate dal punto, rispettivamente f. 32r, l. 16 (novella 28) e f. 33r, l. 15 (novella 29): forsennato per amore della reina Ginevra via più matto e forsennato colui che pena
Si legge nelle Prose, f. LXXXVIIv [III lxviii 15, p. 237 Vela]: «FORSENvoce antica e non più del verso che delle prose». Forsennato è parola per tre volte estratta a postilla da Bembo nei margini delle rime che compongono la seconda sezione del codice (ff. 117r, 118v, 128r), ma proprio l’occorrenza del vocabolo nel Novellino decise Bembo a mutare la prima redazione (Vat. lat. 3210, f. 162r), nella quale forsennato si sanzionava «voce più del verso che delle prose». NATO
4) Si considerino le tre righe contrassegnate da punto f. 32v, l. 2 (novella 28); f. 39v, l. 19 (novella 38); f. 67v, l. 8 (novella 72): vanno ora su a sollazzo: oi mondo erran[te chadu]to innuna fossa. Oi cattivo disse la femina non sarebbe ragione. Oi quanti piccioli figliuoli ò da
La prima riga coincide con una delle pochissime citazioni del Novellino cui è fatto luogo nelle Prose, aggiunta nel Vat. lat. 3210, f. 163r. Cfr. Prose, f.
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LXXXVIIIr [III lxx 3, p. 239 Vela]: «Dissesi oltre acciò la OI anticamente in vece della Ahi, che poi s’è detta et hora si dice: Oi mondo errante et huomini sconoscienti di poca cortesia». Le altre due righe recano esempi cònsoni a quello citato. Un punto si trova anche f. 87r, nella sezione poetica, l. 6, a fianco di un verso di Cavalcanti7: Oi bocie sbigottita edebolecta kesci piangen[do
5) Un punto è in corrispondenza di f. 39r, l. 12 (novella 37): essere. Io avea tre cotanti gente dilui et
Anche questo è un passo citato. Cfr. Prose, f. LXXXIIIv [III lxiii 3-4, p. 227 Vela]: «Et è DUECOTANTO e TRECOTANTO, che sono ‘due volte tanto’ e ‘tre volte tanto’ e fassene alle volte nomi e sono del numero del più; e sono voci delle prose: Io havea trecotanti genti di lui, cioè tre volte più gente di lui» (si noti che, giusta l’apparato critico di Vela, nel Vat. lat. 3210, f. 156v, nella citazione si legge gente, come nel Vat. lat. 3214). 6) Un punto è a contrassegnare f. 52r, l. 15 (novella 59): da]marlo così vicarebbe viemeno di me. Alhora
Si legge nelle Prose, f. LXXVIIr (per errore LXXVI) [III li 11, p. 208 Vela]: «et antichissimamente CARREBBE, in vece di calerebbe». L’avverbio «antichissimamente» è un’aggiunta sulla prima stesura (Vat. lat. 3210, f. 148r), dovuta appunto al reperimento della forma in quest’unico passo del Novellino8. 7) Si considerino le tre righe segnate da un punto f. 57r, l. 2 (novella 63); f. 57v, l. 9 (nov. 63); f. 63v, l. 15 (nov. 67): dichaval]leria quale migliore chavaliere tralbuono fosse migliore chavaliere tralbuono re Meliadus tennero consiglio qualera meglio tra che gli
La seconda e la terza di queste righe coincidono colla terza ed ultima citazione del Novellino nelle Prose (aggiunta nel Vat. lat. 3210, f. 167r). Cfr. 7 Cfr. GUIDO CAVALCANTI, Rime, a cura di G. FAVATI, Milano – Napoli 1957, p. 269 (Perch’i’ no spero di tornar giammai). 8 Cfr. VELA, Introduzione, in BEMBO, Prose della volgar lingua cit., p. XLVII.
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Prose, f. XCIr [III lxxiv 13-14, p. 248 Vela]: «Dissesi [scil. TRA] oltre acciò da molto antichi alcuna volta etiandio in vece della O conditionalmente posta: E que’ mi domandaro per la verità di cavalleria, ch’io dicessi qual fosse migliore cavaliere tra’l buono Re Meliadus o’l cavaliere senza paura; et altrove: Li Romani tennero consiglio, qual era meglio che tra gli huomini havessero due mogli o le donne duo mariti». 8) Un punto è a fianco della prima riga di f. 69v (novella 75): ilgiullare andò alle nozze e satollosi e reddì
Nelle Prose, f. LXXVIIr (per errore LXXVI) [III li 7-9, p. 208 Vela]: «ma questa [scil. la voce REDIRE] pose Dante etiandio nelle sue prose e Pietro Crescenzo altresì; et oltre acciò REDIRO in vece di tornarono nell’historia di Giovan Villani e REDÌ in vece di tornò in più antiche prose anchora di queste si leggono». Si noti che «e REDÌ in vece di tornò in più antiche prose anchora di queste» è aggiunto in un secondo tempo da Bembo nel Vat. lat. 3210, f. 147v, sulla scorta del passo del Novellino9. 9) f. 73v, l. 16 (nov. 79): nul]la dallui etandò caendo colui acui lavea
Si raffrontino le Prose, f. IXr-v [I x 10-11, p. 22 Vela]: «Sì come è da credere che si pigliasse chero, quantunque egli latina voce sia, essendo etiandio thoscana voce cerco; perciò che molto prima da’ provenzali fu questa voce ad usar presa che da’ thoscani: la qual poi torcendo dissero cherere e cherire, e chaendo molto anticamente, e chesta». Gli esempi riportati provano sufficientemente che i punti in questione si devono alla mano di Bembo; tuttavia, potendosi ipotizzare che una simile pratica rispondesse a un’abitudine, ho voluto verificare l’assunto ispezionando due altri codici volgari a lui appartenuti, cioè il Villani identificato alcuni anni fa da Claudio Vela10 (Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1534) e la Fiammetta (Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 29 inf.): nell’uno e nell’altro ho di fatto riscontrato gli stessi punti, sempre sfuggiti, ch’io sappia, all’attenzione degli studiosi11. Il sondaggio espletato in questi ma9
Cfr. ibid., p. XLVII. Cfr. C. VELA, Il Villani del Bembo, in ‘Prose della volgar lingua’ di Pietro Bembo. Atti cit., pp. 255-275. 11 Sugli interventi di Bembo nel codice ambrosiano cfr. E. CURTI, L’Elegia di Madonna Fiammetta e gli Asolani di Pietro Bembo. Alcune osservazioni sulle postille bembesche al codice 10
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noscritti e lo studio del Vat. lat. 3214 mi portano a ritenere che i punti non valgano a segnalare questo o quel passo a qualsiasi proposito, ma siano immancabilmente in relazione con alcunché di rilevante, per Bembo, sotto l’aspetto linguistico, confermando con ciò la giustezza dell’osservazione di Pulsoni12. Si tratta di un segno assai specifico e di ciò si ha a tener conto quando, come nel Ricc. 1534, molti altri segni e di tipo svariatissimo gremiscono i margini delle pagine (si capisce che un testo come quello del Villani potesse suscitare l’interesse di Bembo a più riguardi). Una volta ammessa tale valenza specifica, è giustificato e assieme doveroso sforzarsi di determinare precisamente, per ogni punto che s’incontra, quale parola o locuzione nella riga abbia richiamato l’attenzione di Bembo. Ciò che forse il fuggevole accenno di Pulsoni non lascia indovinare è che i punti del Vat. lat. 3214 restituiscono interamente la lettura che Bembo fece del Novellino. Questi non pare essersi troppo interessato agli esiti morfologici che vi si trovano documentati: a parte i casi di plurale in -ora (gradora, luogora, palcora)13 e le forme caendo, carebbe sopra riferite, ad essere rilevati sono il nesso pronominale lile, assai frequente, ed i pochi casi di glile e gliele14 (nelle Prose Bembo stabilisce normativamente che si debba preferire quest’ultima forma ad ogni altra)15. Segnalata è pure la combinazione lo ti (f. 49r, l. 10 lo ti prometto – novella 54). Si tratta insomma di poche curiosità antiquarie; del resto s’intende come la lingua arcaica delle Cento novelle avesse poco o nulla da conferire ad un volgare — per riprendere la bella espressione di Cian — «risorgente sui modelli del Boccaccio e del Petrarca»16. Ancor più sparuti paiono gli spunti sintattici: oltre all’uso di tra «in luogo della O conditionalmente posta», Bembo, se non m’inganno, Ambrosiano D 29 inf., in Studi sul Boccaccio 30 (2002), pp. 247-297, specialmente pp. 268276 e Tra due secoli. Per il tirocinio letterario di Pietro Bembo, Bologna 2006, pp. 48-56, 228240. Per il Villani renderà conto di ogni cosa Claudio Vela dando l’edizione delle postille, come si auspica. 12 Si veda supra, nota 4. 13 Gradora: f. 6v, l. 4 (nov. 2); luogora: f. 32r, l. 18 (nov. 28); palcora: f. 84v, ll. 13, 16 (nov. 97). Cfr. Prose, f. XLVIr [III vi 9, p. 118 Vela]: «Quantunque gli antichi thoscani un altro fine anchora nel numero del più in segno del loro neutro assai sovente usarono nelle prose et alcuna volta nel verso: sì come sono arcora, ortora, luogora, borgora, gradora, pratora, et altri». 14 Lile: f. 36v, l. 7 (nov. 34); f. 36v, l. 10 (nov. 34); f. 40r, l. 15 (nov. 39); f. 58v, l. 14 (nov. 64); f. 70r, l. 7 (nov. 75); f. 78v, l. 1 (nov. 84); f. 81v, l. 2 (nov. 91); f. 81v, l. 4 (nov. 91). Glile: f. 69r, l. 1 (nov. 74); f. 71v, l. 11 (nov. 77). Gliele: f. 71r, l. 2 (nov. 76); f. 82v, l. 15 (nov. 95); f. 84r, l. 9 (nov. 96). 15 Cfr. Prose, f. LVIIr [III xxii 7-14, pp. 157-158 Vela]: «sempre nelle prose diciate a questa maniera GLIELE, et altramente non mai». 16 V. CIAN, Contro il volgare, in Studi letterari e linguistici dedicati a Pio Rajna nel quarantesimo anno del suo insegnamento, Firenze 1911, p. 270. Sulla questione dell’antichità del Novellino e dell’atteggiamento di Bembo si veda A. TURA, Il Duecento in tipografia: Pietro
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nota solamente l’occorrenza di un impiego transitivo del verbo somigliare e la costruzione di f. 48r, ll. 17-18: un giorno avenne che uno c’avea ma un piede (novella 53). Rilevato anche l’uso genitivo di colui (f. 51r, l. 15: in colui scambio – novella 59)17. I segnali puntiformi hanno per la maggior parte oggetti lessicali e fraseologici. In non pochi casi è possibile fissare corrispondenze (immediate o per analogia) con le forme trattate nelle Prose (utilissimo in ciò l’indice allestito da Vela a corredo della sua edizione); ma, superata la questione dell’attribuzione dei punti alla mano di Bembo, sono forse più preziosi gli altri casi, quelli delle molti voci che pur attirarono Bembo e delle quali, per non essere state convogliate nelle disquisizioni delle Prose della volgar lingua, nulla altrimenti sapremmo. Mi pare perciò di far cosa utile facendo qui seguire una lista in cui sono ordinate alfabeticamente pressoché tutte le forme marcate da Bembo nel Novellino con un punto a margine18. Acambiare [a prostetica] f. 40r, l. 17 (acambierebbe) (nov. 39) acciò19 f. 8r, l. 16 (nov. 3); f. 13r, l. 13 (nov. 7); f. 28v, l.5 (24); f. 12r, l.19 (nov. 6); f. 16v, l. 12 (nov. 9); f. 46r, l. 9 (nov. 49); f. 51r, l. 15 (nov. 59); f. 55r, l.3 (nov. 61); f. 70v, l. 14 (nov. 76) ad arnese f. 9r, l. 4 (poveramente ad arnese) (nov. 4); f. 9r, l. 8 (nobilemente ad arnese) (nov. 4) ad assai f. 85v, l. 7 (nov. 99) agura/algura («vaticinio») f. 35v, l. 11 (alghura) (nov. 33); f. 36r, l. 5 (alghure) (nov. 33); f. 36r, l. 16 (agura) (nov. 33) al postutto20 f. 4v, l. 14 (nov. 2); f. 5v, l. 17 (nov. 2); f. 12r, l. 6 (nov. 6); f. 26v l. 2 (nov. 22); f. 39r, l. 6 (nov. 37); f. 47r, l. 7 (al postuto) (nov. 50) Bembo e il Novellino, di prossima pubblicazioni negli atti del convegno Pietro Bembo e le arti (Padova, 24-26 febbraio 2011). 17 Cfr. Prose, f. XLIXr-v [III xi 9-19, p. 127 Vela]: «Oltra che alcuna volta etiandio il segno medesimo si leva via di questo secondo caso, sì come levò il Boccaccio che nelle sue prose disse al colei grido; per lo colui consiglio; per lo costoro amore et altre. (…) Quantunque non solamente in queste voci, che in luogo di nomi si pongono: colui, costui, loro, coloro, cui, altrui e somiglianti, è ita innanzi questa usanza di levar loro il segno del secondo caso, ma etiandio ne’ nomi medesimi alcuna fiata». 18 Vi sono casi, non troppi (e sono qui tralasciati), nei quali davvero si può dubitare dell’intenzionalità di un punto — per la tenuità o la posizione di questo, insieme alla scarsa evidenza di qualche forma notevole — o nei quali si può sospettare che un punto sia accidentalmente caduto a fianco della linea sbagliata. 19 Cfr. Prose, f. XLVIIIv [III x 3, p. 125 Vela]: «Tutto che la particella A, che AD etiandio si dice, è cagione che anchora ad altre voci, e non pur agli articoli, la consonante molte volte si raddoppia a cui ella sta dinanzi: sì come è LUI, che ALLUI si dice; e CIÒ, ACCIÒ (…)». 20 Ibid., f. LXXXVIv [III lxvii 1, p. 234 Vela]: «Leggesi AL TUTTO; che i più antichi dissero AL POSTUTTO, forse volendo dire ‘al possibile tutto’».
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altressì f. 30v, ll. 4-5 (io sarei altressì sguardata com’ella perché io sono altressì bella)21 (nov. 26) altrettale f. 81v, l. 8 (nov. 91) ambidue f. 28v, l. 17 (nov. 24) amistà f. 74v, l. 18 (nov. 81)22 ammannare f. 42v, l. 9 (ammannato) (nov. 42) a motto a motto23 f. 14r, l. 13 (nov. 7); f. 16r, l. 3 (nov. 8) appiccolare f. 12v, l. 2 (appiccolò) (nov. 6) a prode f. 4r, l. 11 (a prode et a piacere) (proemio) arredare («allestire») f. 75v, l. 15 (aredata) (nov. 82) a uno a uno24 f. 69r, l. 1 (nov. 74) avere mercato f. 55r, l. 2 (di costui avremo noi grande mercato) (nov. 61) avisare («guardare») f. 5r, l.1 (avisarete) (nov. 2); f. 7r, l. 3 (avisa [imper.]) (nov. 3); f. 7v, l. 1 (avisò) (nov. 3); f. 15r, l. 10 (avisassero) (nov. 8); f. 22v, l. 18 (avisò) (nov. 20); f. 23r, l. 7 (avisò) (nov. 20); f. 27v, l. 19 (avisò) (nov. 27); f. 54v, l. 18 (avisarlo [contrazione di avisarolo]) (nov. 61); f. 60r, l. 3 (avisarlo [contrazione di avisarolo]) (nov. 64) bamboleggiare f. 11v, l. 18 (bambolleggiare) (nov. 5) *bambolità f. 11r, l. 19 (bambolitadi) (nov. 5) barlione f. 27v, ll. 15, 19 (nov. 23), f. 28r, l.11 (nov. 23) beghino f. 52v, l. 15 (nov. 60) bellore25 f. 20v, l. 4 (nov. 14) berbice f. 34r l. 18 (berbici) (nov. 31) boccola f. 38v, l.1 (nov. 36) burbanza f. 60v, l. 10 (nov. 64) camangiare f. 83r, l. 11 (nov. 96), f. 83r, l. 13 (nov. 96) caro («carestia»)26 f. 79r, l. 14 (nov. 85); f. 79v, l. 10 (nov. 85) 21 Ibid., ff. LXXXVIv-LXXXVIIr [III lxvii 12, p. 235 Vela]: «Leggesi ALTRESÌ la qual vale comunemente quanto anchora, ma vale alcuna volta etiandio quanto così». 22 Bembo non rileva bensì alcuna occorrenza di amistade. 23 Si pensi al passo delle Prose che riguarda le «voci che si dicono compiutamente due volte» (f. XCIIIr [III lxxviii 10, pp. 254-255 Vela]), per le quali Bembo cita a pena a pena, a punto a punto, a randa a randa, a mano a mano, ad hora ad hora e qualche altra. 24 Si veda la nota precedente. 25 Cfr. Prose, f. XVIr [I xvii 10-11, p. 42 Vela]: «Era il nostro parlare ne gli antichi tempi rozzo e grosso e materiale; e molto più oliva di contado che di città. (…) perciò che e blasmo e placere e meo e Deo dissero assai sovente; e bellore e fallore e lucore et amanza e saccente e coralmente, senza risguardo e senza consideratione alcuna havervi sopra, sì come quelli che anchora udite non haveano di più vaghe». 26 Ibid., f. XLVIIr [III viii 6, p. 120 Vela]: «Usarono nondimeno i detti antichi alcune di queste voci pure in luogo di voci che da sé si reggono, sì come CARO in vece di caristia».
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catuno27 f. 42v, l. 17 (katuna) (nov. 42); f. 68r, ll. 10 (chatuno), 16 (chatuno), 17 (nov. 73); f. 77v, l. 9 (chatuno) (nov. 84); f. 85r, l. 17 (chatuna) (nov. 98) chente («di che qualità»)28 f. 56r, l. 4 (domandò chente fu la torta) (nov. 62) cogliere cagione («incolpare») f. 67v, l. 17 (cogliesse cagione) (nov. 73); f. 68v, l. 4 (coglierli cagioni) (nov. 73) colombaio («cassetta per le elemosine») f. 82r, l. 6 (93) *corniglia f. 36r, l. 8 (cornille) (nov. 33) corredo («convito») f. 74r, l. 7 (nov. 80) corteare («stare in compagnia delle donne») f. 56r, l.3 (nov. 62) dibonarità f. 12v, l. 9 (nov. 6) dischesta f. 38r, l. 18 (nov. 36) donneare29 f. 56r, l. 18 (nov. 62) donno f. 71r, ll. 15, 18 (nov. 77); f. 71r, l. 18 (nov. 77); f. 72r, l. 8 (nov. 77) fare cruccio f. 54r, l. 8 (fecie cruccio) (nov. 60) favolare f. 34r, l. 12 (nov. 31) feristo f. 79r, l. 10 (nov. 84) fedire30 f. 53r, l. 15 (feggia) (nov. 60) fibbiaglio f. 38v, l. 2 (nov. 36) fine appetito f. 40r, l. 12 (nov. 39) forsennato f. 32r, l. 16 (nov, 28); f. 33r, l. 15 (nov. 29) gaio31 f. 58v, l. 2 (ghai) (nov. 64) giucolare f. 10v, l. 6 (nov. 4) guastada f. 43v, l. 3 (nov. 43) guillare f. 69r, l. 15 (nov. 75) incontanente32 f. 60r, l. 3 (nov. 64) 27 Ibid., f. LIXv [III xxv 17, p. 165 Vela]: «E questo CIASCUNO, che si dice anchora CIASCHEDUNO, anticamente CATUNO si disse». 28 Ibid., f. LXXXVIr [III lxvi 11, p.
233 Vela]: «Nel qual luogo si vede che la voce CHENTE vale non solamente quello che val quanto, sì come la fe’ valere il medesimo Boccaccio in moltissimi luoghi, ma ancora quello che val quale. (…) Anzi la presero i più antichi quasi sempre a questo sentimento». 29 Ibid., f. IXr [I x 2, p. 22 Vela]: «Conciosiacosa che poggiare, obliare, rimembrare, assembrare, badare, donneare da gli antichi thoscani detta, e riparare, quando vuol dire ‘stare’ et ‘albergare’, e gioire sono provenzali; e calere altresì». 30 Cfr. L. SERIANNI, ‘Fiedere’ e ‘riedere’, in Studi linguistici italiani 20 (1994), pp. 161-162. 31 Prose, f. IXv [I x 12, p. 23 Vela]: «È medesimamente quadrello voce provenzale et onta e prode e talento e tenzona e gaio et isnello e guari e sovente et altresì e dottare e dottanza». 32 Ibid., f. LXXXIIr [III lx 32, pp. 222-223 Vela]: «(…) et è INMANTENENTE et INCONTANENTE altresì. Ma quella è più del verso e questa è delle prose».
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ingaistara f. 43r, l. 14 (ingaistare) (nov. 43) incorare f. 69r, l. 7 (incorato) (nov. 74) in Ispagna33 f. 7r, l. 8 (nov. 3) istabilire34 f. 7v, l. 10 (istabilìo) (nov. 3) luffo f. 22v, l.4 (nov. 19) malleveria f. 78v, l. 5 (maleveria) (nov. 84) masnada f. 23r, l. 2 (nov. 20) mazzero f. 27v, l. 10 (nov. 23) medaglia (moneta in uso a Firenze) f. 83v, l. 10 (nov. 96) meslea f. 44r, l.11 (nov. 45) milenso f. 55v, l. 13 (nov. 62) misfatto35 f. 6v, l. 10 (nov. 3); f. 51r, l. 4 (nov. 59); f. 57v, l. 2 (nov. 63) mulina [pl.] («moine») f. 11r, l. 19 (nov. 5) neente36 f. 31r, l. 1 (nov. 26) nesciente f. 43v, l. 12 (nescente) (nov. 44) nonana f. 56r, l. 11 (nonane) (nov. 62) oi (partic. esclam.) f. 32v, l. 2 (nov. 28); f. 39v, l. 19 (nov. 38); f. 67v, l. 8 (nov. 72) olorare f. 74r, l.12 (oloravano) (nov. 80) omai f. 24v, l. 13 (nov. 20) onire f. 42v, l. 16 (onite [part. pass.]) (nov. 42); f. 62r, l. 12 (unita) (nov. 65); f. 62r, l. 16 (unisse) (nov. 65) onta37 f. 57v, l. 16 (nov. 63); f. 74v, l. 15 (nov. 81) otriare f. 53r, l. 18 (otriò) (nov. 60) paraggio f. 26r, l. 6 (nov. 21); f. 32v, l. 1 (nov. 28); f. 53v, l. 2 (nov. 60); pedaggere f. 48r, l. 18 (pedaggiere) (nov. 53) per convento f. 27v, l. 15 (nov. 27) periglio f. 51v, l. 12 (perillio) (nov. 59) peritoso f. 15v, l.10 (peritosa faccia) (nov. 8) petronciano f. 37r, l. 14 (nov. 35) piastra f. 76v, l. 12 (piastre) (nov. 83) 33 Ibid., f. XIr [I xi 24 p. 28 Vela]: «E come che il dire IN HISPAGNA paia dal latino essere detto, egli non è così, percioché quando questa voce alcuna vocale dinanzi da sé ha, SPAGNA le più volte et non Hispagna si dice». 34 Per l’attenzione alla i prostetica cfr. ibid., f. Xv [I xi 19-20, p. 28 Vela]. 35 Cfr. VELA, Introduzione cit., p. XLVII. 36 Prose, f. LXXXVIv [III lxvii 2, p. 234 Vela]: «Leggesi NIENTE, che anticamente NEENTE si disse». 37 Si veda supra, nota 23.
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piazzeggiare f. 40v, l. 6 (piazzeggiavano) (nov. 40) poltrone f. 27v, ll. 3, 6, 19 (nov. 23) postura («intesa») f. 14v, l. 13 (posture) (nov. 7) procianamente f. 59v, l. 8 (nov. 64) prosciogliere f. 10v, l. 13 (prosciolsero) (nov. 4); f. 81r, l. 15 (nov. 91) provedere («guardare») f. 39v, l. 13 (nov. 38) pulire (toscanismo per punire) f. 13r, l. 6 (pulite [part. pass.]) (nov. 7); f. 14v, l. 5 (pulirai) (nov. 7) putta f. 43r, l. 6 (nov. 42) raccontare38 f. 5r, l. 2 (raccontarete) (nov. 2); f. 5v, l. 2 (raccontaro) (nov. 2); 14r, l. 13 (irraccontò) (nov. 7) rampogna f. 50v, l. 12 (rampognie) (nov. 57) redire f. 69v, l. 1 (reddì) (novella 75) repente39 f. 25v, l. 12 (nov. 21) ribaldo f. 79r, l. 15 (ribaldi) (nov. 85) ricogliere40 f. 48r, ll. 16 (nov. 53); f. 78v, l. 1 (nov. 84) rigagnolo f. 61v, l. 8 (nov. 65) rimpetto41 f. 86r, l. 18 (nov. 89) rinomea f. 54r, l. 14 (nov. 60) riscuotersi («riscattarsi») f. 68v, l. 3 (risquotersi) (nov. 73) rivenire f. 18r, l. 9 (rivenisse), l. 12 (rivenne) (nov. 10); f. 52v, l 8 (rivenuto) (nov. 59) romeaggio f. 18r, ll. 6, 12 (nov. 10) roncione f. 86r, l. 6 (nov. 99) scialacquare f. 33v, l. 11 (scialacquando) (nov. 30) sguardare42 f. 30v, l. 2 (sguardata) (nov. 26); l. 5 (sguardata) (nov. 26) smemorato43 f. 84r, l. 16 (smemorate) (nov. 96) 38 È forse il raddoppiamento ad essere notato. Cfr. Prose, f. XLVIIIv [III x 6, p. 125 Vela]: «Usasi ciò fare etiandio con la particella RA, che RACCOGLIERE, RADDOPPIARE, RAFFORZARE, RAPELLARE e degli altri si leggono». 39 Cfr. Prose, f. LXXXIIr [III lx 35, p. 223 Vela]: «È oltre a queste REPENTE solamente del verso». 40 Ibid., f. XLVIIIv [III x 8, p. 125 Vela]: «Onde ne viene che quando si dice RICOGLIERE la C non si raddoppia». 41 Ibid., f. LXXXVv [III lxvi 1-2, p. 232 Vela]: «Et è RIMPETTO et A RIMPETTO e DIRIMPETTO solamente delle prose; e vagliono non quello che vale a l’incontra, ma quello che vale di rincontro e per iscontro et affronte». 42 Ibid., f. XCIv [III, lxxv, 3-4, pp. 249-250 Vela]: «Come che altri verbi et altre voci sono, nelle quali la S nulla può, ma giugnevisi e lasciavisi, secondo ce altrui giova di fare (…) GUARDO SGUARDO (…)». 43 Ibid., f. XCIv [III lxxv 2, p. 249 Vela]: «Sì come s’usa SGANNARE, SDEBITARE e molti
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somigliare (usato transitivamente) f. 68r, l. 13 (una pietra che somigli questa) (nov. 73) sofracta f. 62v, l. 11 (nov. 65) sor («sopra»)44 f. 31v, l. 10 (nov. 26) sorprendere45 f. 43r, l. 2 (sorpreso) (nov. 42); f. 57r, l. 7 (sorpresero) (nov. 63); f. 63r, l. 7 (sorpreso) (nov. 65) sovvenire («soccorrere») f. 14r, l. 5 (soverrai) (nov. 7) squilletto («foro di una botte») f. 84v, l. 19 (squillecto) (nov. 97) stallo f. 71v, l. 8 (nov. 77) tamerice f. 27v, l. 9 (tamericie) (nov. 23) taschetto f. 85r, l. 9 (nov. 97) tragione f. 57r, l. 8 (nov. 63) tre cotanti f. 39r, l. 12 (nov. 37) troscia f. 63r, l. 14 (nov. 65) ventaglia (dell’elmo) f. 60r, l. 5 (nov. 64) voglioso f. 38v, l. 10 (vogliosi) (nov. 36)
nomi anchora, SMEMORATO, SCOSTUMATO, et infiniti altri, ne’ quali la lettera S molto adopera in quanto al sentimento». 44 Ibid., f. LXXXVIIv [III lxviii 7, pp. 236-237 Vela]: «e degli altri scrittori antichi anchora lo posero nelle lor prose». Un punto si trova pure f. 89v, l. 10 a fianco di un verso di Guinizzelli (nel Vat. lat. 3214 attribuito a Cavalcanti): diric]tura sorvostra potestate ne posso unqua sentire (Madonna, il fino amore: cfr. GUIDO GUINIZZELLI, Rime, a cura di L. ROSSI, Torino 2002, p. 101). 45 Ibid., f. LXXXVIIr [III lxviii 5, p. 236 Vela]: «E SOT e SOR in vece di sotto e di sopra, ma queste tuttavie congiunte con altre voci, sì come sono SOTTERRA, SOMMETTERE (…) e SORPRENDERE (…)».
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ALCUNE NOTE MARGINALI IN MINUSCOLA DEL CODICE B: L’ESEGESI DI UN LETTORE BIZANTINO DELLA SECONDA METÀ DEL XII SECOLO Ѩ͎̿͒͋͑ ̓͑ـҼ͏ ͎͓̺́̿͏, ҙ͇͑ ҡ͊̓̓͑ل͈͍̓͂ ͏ل Ѩ͋ ̿Ҡ͖͑̿̈́ ͏لӀ͋ ͇͍̿҄͛͋͋ Ѭ͔͇̘̓͋ ͈̿ӂ Ѩ͈͇̓̿͐ن͍͎͎͒͑̿͊ ҅̿ ͇͋͐҄̓ ̽̿͋ل ͎̓ӂ Ѩ͍͊( نGiovanni 5, 39)
Un campo di ricerca non ancora esplorato: i marginalia del codice B Sul celebre codice biblico B (Vat. gr. 1209) molto è stato detto e scritto: si tratta infatti, come è noto, del più antico esemplare a noi giunto dell’intera Bibbia in greco (Antico e Nuovo Testamento), databile alla metà del IV secolo (per antichità e importanza gli si può accostare soltanto il codice Sinaiticus — London, British Library, Add. MS. 43725 —, copiato all’incirca negli stessi anni)1.
* Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato nella stesura di questo articolo, offrendomi suggerimenti e correzioni: Carlo Maria Mazzucchi, Mons. Cesare Pasini, Francesco D’Aiuto, Timothy Janz, Marco Buonocore, Paolo Vian ed Enrico Cattaneo, docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Napoli). Un grazie particolare a Sever J. Voicu, per il tempo che mi ha dedicato. 1 La bibliografia riguardante il codice B è vastissima, e non è questo il luogo per presentarla. Si veda P. CANART – V. PERI, Sussidi bibliografici per i manoscritti greci della Biblioteca vaticana, Città del Vaticano 1970 (Studi e testi, 261), pp. 556-557. Un’ampia rassegna bibliografica, più recente, è contenuta in P. ANDRIST, Le manuscrit B de la Bible (Vaticanus graecus 1209). Introduction au fac-similé. Actes du Colloque de Genève (11 juin 2001). Contributions supplémentaires, Lausanne 2009 (Histoire du texte biblique, 7), pp. 282-304. Segnalo anche i seguenti nuovi contributi: G. GIURISATO, Nestle-Aland27 versus Codex B nel vangelo di Luca: concordanza e variazione, in Liber Annuus 59 (2009), pp. 111-137; U. SCHMID, Diplés im Codex Vaticanus, in Von der Septuaginta zum Neuen Testament. Textgeschichtliche Erörterungen, herausgegeben von M. KARRER, S. KREUZER und M. SIGISMUND, Berlin – New York 2010 (Arbeiten zur Neutestamentlichen Textforschung, 43), pp. 99-113; M. SIGISMUND, Die Diplé als Zitatmarkierung in den “grossen” Unzialcodices — Versuch eines Fazits, in Von der Septuaginta zum Neuen Testament cit., pp. 149-152; G. GIURISATO – G. M. CARLINO, I segni di divisione del Codex B nei vangeli, in Liber Annuus 60 (2010), pp. 137-154; P. HEAD, The Marginalia of Codex Vaticanus: Putting the Distigmai (Formerly known as “Umlauts”) in Their Place, http://evangelicaltextualcriticism.blogspot.com/2009/11/sbl-new-orleans-2009-i-peter-head. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 639-691.
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Il testo, in scrittura maiuscola senza separazione di parola2, è disposto su tre colonne per pagina, tranne nei libri sapienziali, dove le colonne sono soltanto due. Nel X secolo, forse a Reggio Calabria3, fu interamente ripassato con nuovo inchiostro, ricevette un incremento della punteggiatura e venne fornito di spiriti e accenti. Successivamente andarono perduti alcuni fogli all’inizio e alla fine del codice, insieme a un fascicolo centrale4, che furono restaurati con una scrittura minuscola nella prima metà del XV secolo5. Nel dicembre 1999, in occasione dell’apertura dell’anno giubilare, la Biblioteca Apostolica Vaticana con la collaborazione dell’Istituto poligrafico e Zecca dello Stato pubblicò una nuova e pregiata edizione facsimile di B, accompagnata da un volumetto di Prolegomena a cura di Paul Canart, Pierre-Maurice Bogaert e Stephen Pisano6. Nello stesso anno Theodore Skeat, in un articolo apparso sul Journal of Theological Studies, rendeva note le html, (24 ottobre 2011); P. B. PAYNE, Do the Marginalia of Vaticanus Support or Undermine the Originality of its Distigmai?, http://www.box.net/shared/uz2jds515x (24 ottobre 2011). 2 Si suole indicare con il termine di «maiuscola biblica» il tipo di scrittura caratteristico dei codici Vaticanus e Sinaiticus. Il codice Alexandrinus (London, British Library, Royal MS. 1 D V-VIII; V secolo) rappresenta una fase di decadenza del canone. Vedi G. CAVALLO, Ricerche sulla maiuscola biblica, Firenze 1967 (Studi e testi di papirologia, 2), pp. 1-4. 3 Vedi C. M. MAZZUCCHI, Per la storia medievale dei codici biblici B e Q, del Demostene Par. gr. 2934, del Dione Cassio Vat. gr. 1288 e dell’Ilias picta ambrosiana, in A. BRAVO GARCÍA – I. PÉREZ MARTÍN, The legacy of Bernard de Montfaucon: three hundred years of studies on Greek handwriting. Proceedings of the Seventh International Colloquium of Greek Palaeography (Madrid-Salamanca, 15-20 September 2008), edited with the assistance of J. SIGNES CODOÑER, Turnhout 2010 (Bibliologia: elementa ad librorum studia pertinentia, 31 A-B), pp. 133-141. Per l’Autore, B e altri codici celebri quali il Marchalianus (Vat. gr. 2125; Q), il Dione Cassio Vat. gr. 1288 e l’Ilias picta ambrosiana (Ambros. F 205 inf.; gr. 1020) erano nella zona di Reggio nel X secolo (qui — si sa — nel 941 fu copiato il Patm. 33, esemplare delle orazioni di Gregorio Nazianzeno e unico codice greco in minuscola su tre colonne a noi noto), dove furono oggetto di un’attenta lettura critica. Con l’arrivo dei Normanni, B, Q e il Patm. 33 (insieme ad altri manoscritti sacri ed integri) vennero portati a Bisanzio, dove ancora si trovavano alla fine del XII secolo nelle mani di un unico proprietario (identificabile, per Mazzucchi, con Giovanni Camatero: cfr. infra), che possedeva anche il famoso Demostene Par. gr. 2934. Dopo la IV crociata (1204) Q finì in mani francesi, e fu conservato a Saint-Denys. Il Demostene, e probabilmente il Vaticanus, trovarono rifugio nella biblioteca del monastero, e mausoleo imperiale, di Sosandra, presso Magnesia, fondato da Giovanni Duca Vatatze. 4 Se il danno fosse più antico sarebbe stato risarcito all’epoca del ripasso, almeno per la lacuna interna. 5 Vedi P. CANART, P.-M. BOGAERT, S. PISANO, Prolegomena (vedi infra nt. 6), pp. 6, 27. ANDRIST, Le manuscrit B de la Bible cit., pp. 26, 77. I fogli suppliti contengono Genesi 1 – 46, 27; Salmi 105, 27 – 137, 6; Ebrei 9, 14 – 13, 24; tutta l’Apocalisse. Nel codice B non compaiono i libri dei Maccabei, la Lettera a Filemone, la Prima e la Seconda Lettera a Timoteo e la Lettera a Tito. 6 Codex vaticanus B bibliorum sacrorum graecorum. Bibliothecae apostolicae vaticanae Codex vaticanus graecus 1209, 2 voll., Roma 1999 [Vol. 1: Facsimile; vol. 2: Prolegomena].
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sue idee circa le origini del codice7. Come segno del rinnovato interesse della comunità scientifica verso il prezioso manoscritto l’11 giugno 2001 si svolse a Ginevra un convegno ad esso interamente dedicato8. Nell’alveo di questo rinnovato interesse si è sviluppata la mia ricerca. Essa esamina il codice B da un punto di vista non ancora esplorato, quello dei marginalia. Le note di lettura, apposte in numero considerevole lungo i margini da mani diverse (si tratta perlopiù di semplici «͖͇͐͊̓̽͐̿ͅ», «ҭ͎͍̿͋لҙ͉͍͋͑ӄ͔͖͎͍̽͋», «̼͇̈́͑̓», «ҡ͙͇͂̓́͊̿», «»͍̻̿͑͐͂ ذ, «̓Ҡ͔̼», «̓҄͏ ̵͎͇͙͐͑͋», «ј͎͔̼», «̻͉͍͑͏»; ma vi sono anche glosse sinonimiche, trascrizioni di nomi o argomenti, brevi commenti) non erano ancora state oggetto di uno studio sistematico9, pur costituendo una fonte importante sia per conoscere gli interessi di quanti, lungo i secoli, ebbero fra le mani il manoscritto, sia per far luce sulla sua storia. Lo scoliasta del XII secolo Dopo avere esaminato, nella tesi di laurea, le annotazioni presenti nell’Esodo10, ho proseguito la ricerca negli anni di dottorato limitandomi a studiare un’unica mano, la più appariscente e interessante quanto ad ampiezza e contenuto delle note, i cui interventi si concentrano nell’Esodo, all’inizio del libro di Daniele (attorno all’episodio di Susanna), e, in misura 7 T. C. SKEAT, The Codex Sinaiticus, the Codex Vaticanus and Constantine, in The Journal of Theological Studies 50 (1999), pp. 583-625. 8 Al convegno parteciparono i seguenti relatori: Stephen Pisano, J. Keith Elliott, PierreMaurice Bogaert, Christian-B. Amphoux, Barbara Aland. Il cardinale Jorge M. Mejía espose alcune considerazioni conclusive. Gli Atti sono pubblicati in ANDRIST, Le manuscrit B de la Bible cit. Il volume ripropone inoltre, parzialmente ampliati e corretti, i Prolegomena al facsimile del 1999, e contiene due contributi supplementari scritti da Philip B. Payne (in collaborazione con Paul Canart) e Patrick Andrist. Attualmente è l’opera più recente e ampia dedicata al codice B. 9 Soltanto nel sesto tomo dell’edizione facsimilare di B curata da C. Vercellone e G. Cozza-Luzi furono pubblicate, più di un secolo fa, le annotazioni marginali del codice (C. VERCELLONE – G. COZZA-LUZI, Bibliorum sacrorum graecus Codex Vaticanus, 6 voll., Roma 1868-1881; il sesto tomo, complectens prolegomena, commentarios et tabulas, uscì nel 1881 a cura di E. FABIANI e G. COZZA-LUZI). Si tratta tuttavia di un lavoro poco accurato (agli editori premeva pubblicare il testo biblico di B), nel quale l’esame stratigrafico delle mani è condotto in maniera approssimativa, vi sono errori di trascrizione e in molti luoghi, per incapacità di lettura, gli editori lasciarono dei puntini di sospensione (all’epoca, del resto, non si disponeva di strumenti come la fotografia a raggi ultravioletti, che oggi permette di leggere abbastanza comodamente anche le parti di pergamena nelle quali l’inchiostro è sbiadito). Questa pubblicazione inoltre è del tutto priva di un commento che spieghi il significato delle annotazioni e ne indichi, ove è il caso, la fonte. 10 P. VERSACE, Gli annotatori bizantini del codice Vaticanus della Bibbia (libro dell’Esodo), diss., Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2006.
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molto minore, nel Primo e nel Secondo libro dei Re, nel libro di Giuditta e nei Vangeli di Matteo e Luca (delle 1536 pagine numerate di cui consta attualmente il codice, quelle annotate dallo scoliasta sono circa 40)11. È una minuscola di colore bruno intenso, dall’andamento fluido, con poca distanza fra i gruppi di lettere e una tendenza ad arrotondare gli angoli, ricca di compendî12. Gli studiosi, sulla base di considerazioni paleografiche, la collocano nella seconda metà del XII secolo13. In questo articolo presento i risultati della mia indagine di dottorato, illustrando il pensiero dello scoliasta quale emerge da alcune sue annotazioni più significative14. L’indifferenza con cui il Nostro ha «sfigurato per sempre», con note ad uso personale (così si spiegherebbe il loro aspetto disordinato, nonostante i segni di rimando), un manoscritto così antico, fa supporre che siamo di
11 P. VERSACE, Gli scolî in minuscola del codice B: note di un erudito bizantino in dialogo con un Ebreo, diss., Università degli Studi di Napoli «Federico II», 2010. Attualmente la mia ricerca sui marginalia del Vaticanus prosegue all’interno di un progetto complessivo di studio sul codice B promosso dalla Biblioteca Apostolica Vaticana. 12 Vedi MAZZUCCHI, Per la storia medievale cit., p. 134. 13 CANART – BOGAERT – PISANO, Prolegomena cit., p. 5. ANDRIST, Le manuscrit B de la Bible cit., pp. 26, 33. 14 Rispetto alla tesi di dottorato l’interpretazione di alcune note è stata migliorata. Esse sono state trascritte rispettando la loro ortografia e interpunzione. Soltanto ho adeguato l’uso della maiuscola e ho omesso il trema sopra iota e ypsilon, ove superfluo, e i tratti ondulati sopra i nomi proprî. Un numero arabo, in grassetto, evidenzia la successione degli scholia all’interno del manoscritto. Il testo biblico citato è sempre quello del codice B (così come appare in seguito al ripasso del X secolo), la traduzione italiana dei passi è mia. Per quanto riguarda l’interpunzione, chi ha ripassato le lettere del codice ha adottato il sistema ternario tradizionale composto da ͉͑̓̓̽̿, μ̻͐ͅ ed ҡ͍͇̼͐͑́͊: la ͉͑̓̓̽̿ (̘) rappresenta la pausa forte e marca la fine dei periodi (spesso, al posto del punto in alto, troviamo nel codice due punti sovrapposti :); la ̻͊͐ͅ GD PH LQGLFDWD FRQ LO VLPEROR q XQ·LQWHUUX]LRQH EUHYH GL VROLWR corrispondente alla nostra virgola, usata soprattutto per separare i ͈( ͉̿وin molti casi, tuttavia, sembra che lo scriba ponga una ̻͊͐ͅ laddove ci aspetteremmo una ͉͑̓̓̽̿); l’ҡ͍͇̼͐͑́͊ (.), piuttosto rara, serve a «introdurre la frase principale, ovvero l’elemento completivo, “rematico” del periodo» (C. M. MAZZUCCHI, Per una punteggiatura non anacronistica, e più efficace, dei testi greci, in Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata 51 (1997), pp. 129-143: 137). Il sistema ternario è stato adottato anche dallo scoliasta, il quale però, non di rado, chiude lo scolio con un punto basso o con il simbolo :– e scrive l’ҡ͍͇̼͐͑́͊ a forma di virgola o di punto e virgola. Sull’argomento si veda MAZZUCCHI, Per una punteggiatura cit., e A. L. GAFFURI, La teoria grammaticale antica sull’interpunzione dei testi greci e la prassi di alcuni codici medievali, in Aevum 68 (1994), pp. 95-115. Nell’edizione delle note ho racchiuso fra parentesi quadre […] le lettere probabilmente cadute con la rifilatura del codice, fra parentesi tonde (…) le lettere mancanti di parole abbreviate (nella traduzione, invece, sono fra parentesi tonde le parole da me aggiunte necessarie al senso in italiano); un puntino sottostante (a.) indica le lettere di lettura incerta; fra due apici (ÓaÜ) si trovano le parole scritte dallo scoliasta in un secondo momento. Nei testi di confronto le parentesi graffe {…} racchiudono le lettere o le parole da espungere, quelle uncinate < > le lettere o le parole da integrare.
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fronte a una personalità importante, alla quale il codice apparteneva15. All’epoca esso si presentava sciolto, «poiché alcuni scholia si estendono senza difficoltà fino alla piegatura del bifolio»16. L’esegesi è di tipo allegorico: nei personaggi, negli avvenimenti, nelle istituzioni dell’Antico Testamento (in particolare dell’Esodo) lo scoliasta vede prefigurati Cristo e la Chiesa. La maggioranza delle note non ha una fonte: sono brevi postille che esprimono il pensiero del loro autore. In alcuni casi invece la fonte esiste, ma il Nostro non la indica in maniera esplicita. Le note apposte nel libro dell’Esodo 1. a Esodo 1, 15 (p. 47: ͈̿ӂ ̓ ͋̓ةҕ ͇͉̀̿͐̓ӆ͏ ͑͋و͑ ͏͇̿̽̿͊ ͏ل̿͑ ͖̠͋̽͑͒́҄ ͋و ѯ͎͖̀̿̽͋͑̿ ـ͇͊ قҠ͑ ئ ͋وҘ͍͋͊̿ ̱͓͎͈̓͛̿̿ӂ ͑ӄ Ҙ͍͋͊̿ ͑)̴͚͍̿ ͏͎̻̿͑͒̓͂ ͏ق:
ҙ͇͑ ̱͓͙͎͈̓̿̿ӂ ̴͍͚̿͑Ҽ ͑ ͋و͇̿͊ ͋وҔ͙͋͊̿͑̿17 Il primo scolio ricorda il nome delle levatrici alle quali il faraone ordinò di uccidere ogni figlio maschio che nasceva agli Ebrei. Secondo un’etimologia antica, attestata da Filone di Alessandria, «Sepfora» significa «passero», Fua «rossa». Origene (e con lui — credo — lo scoliasta) vide nelle due levatrici una figura dei due Testamenti: Sepfora rappresenterebbe la Legge «che è spirituale» (come il passero si eleva da terra, così il senso mistico si eleva al di sopra del significato letterale); Fua i Vangeli, «che rosseggiano per il sangue di Cristo»18. 2. a Esodo 2, 1 (p. 47: ͏͇͑ ̻͂ ͋اѨ͈ ̪͑̓͒̓ ͏ق͉͓͒ ͏قӂ җ͏ Ѭ͉̿̀̓͋ ͑̿́͒͆ ͋و̻͎͖͑͋ ̪̓͒̓ӂ ͈̿ӂ Ѩ͋ ͎́̿͐͑ӂ Ѭ͉̿̀̓͋ ͈̿ӂ Ѭ͈͑̓̓͋ ќ͎͐̓͋):
ҙ͇͑ Ѩ͈ ̪͑͒̓ ͏ق͉͓͒ ͏قԚ ̫͖̘͐͘͏ق19 È questa la prima di una serie di note riferite alla figura di Mosè. Secondo una tradizione ebraica, accolta dai cristiani, Mosè è prototipo del Messia (in Deuteronomio 18, 15 Mosè stesso esclama: ̯͎͍͓̼͑͋ͅ Ѩ͈ ͑͋و 15
Vedi MAZZUCCHI, Per la storia medievale cit., pp. 134-135. Ibid., pp. 133-134. 17 «Sepfora e Fua sono i nomi delle levatrici». 18 Cfr. F. X. WUTZ, Onomastica sacra. Untersuchungen zum Liber interpretationis nominum hebraicorum des hl. Hieronymus, II: Texte der Onomastika und Register, Leipzig 1915 (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, 41), pp. 676, 738739, 744, 747. PHILO ALEXANDRINUS, Quis rerum divinarum heres sit, 128 [M. HARL, Philon d’Alexandrie. Quis rerum divinarum heres sit, Paris 1966 (Les œuvres de Philon d’Alexandrie, 15), pp. 228-230]. ORIGENES, Homiliae in Exodum, II, 2 [M. BORRET, Origène. Homélies sur l’Exode, Paris 1985 (Sources chrétiennes, 321), p. 74. Patrologiae cursus completus. Series Graeca, accurante J.-P. MIGNE (d’ora in poi: PG), 12, Lutetiae Parisiorum 1857, col. 306 C]. 19 «Mosè è della tribù di Levi». 16
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ј͉͓͂̓ ͍͒͐ ͋وҭ͏ Ѩ͊Ҿ ј̼͇͋̿͐͑͐̓ ̩͚͎͇͍͏ ҕ ͙͆̓͏ ͍͐͒ ͍͐ӂ ̿Ҡ͍͑ نј͈͍͚͐̓͐͆̓)20; il sacerdozio mosaico, tuttavia (che deriva dall’appartenenza alla tribù di Levi), è inferiore a quello messianico21. Il Cristo infatti, dice il Salmo 109, 4, è «sacerdote nei secoli secondo il modo di Melchisedech». Melchisedech è un personaggio misterioso, menzionato in Genesi 14, 18-20: re di Salem e sacerdote del Dio Altissimo, privo di genealogia, portando pane e vino andò incontro ad Abramo, di ritorno dalla guerra, e lo benedisse. Il patriarca, in cambio, gli offrì la decima dei proprî averi. L’analogia fra Melchisedech e Cristo apparve subito evidente ai cristiani: il suo nome — dice l’autore della Lettera agli Ebrei — significa «Re di Giustizia», e «re di Salem» vuol dire «Re di Pace»; egli è sacerdote del Dio Altissimo (cioè del vero Dio) pur non appartenendo alla tribù di Levi (cui era affidato il ministero: Levi in realtà non era ancora nato, essendo uno dei figli di Giacobbe), come Cristo, che nacque dalla tribù di Giuda; non ha genealogia, cioè non ha principio di giorni né fine di vita, come il Figlio di Dio; infine porta pane e vino, interpretati, dalla tradizione cristiana, come un’allusione all’Eucaristia. Se dunque Abramo, pur depositario della Promessa, riceve la benedizione da questo strano personaggio (e una benedizione può essere conferita soltanto da un superiore nei confronti di un inferiore), cui offre poi la decima dei proprî averi, quest’ultimo sorpassa tutti i discendenti del patriarca, in particolare Levi, cui si rifanno tutti i sacerdoti ebrei22. 3. a Esodo 2, 8 (p. 48: Ѩ͉͍͆͂ ̿͐نҾ ѵ ̺͇͋̓͋͏23 Ѩ͈̺͉̓͐̓ ͑Ӏ͋ ̻͎͊͑̿ͅ ͍͇͑̿ ن͍͂̽͒):
ҙ͎̿ Ҍ͍͒͂̿ ̓لҙ͇͑ ѵ ̺͇͋̓͋͏ ͎̻͍̿͆͋͏ Ѩ̘͐͑̽͋24 Viene qui richiamato uno degli argomenti più ricorrenti nella secolare controversia fra Giudei e cristiani: l’esatta traduzione di Isaia 7, 14. Questo passo è ricordato da Matteo come profezia della concezione verginale di Gesù: Ҍ͍͂ӆ ѵ ͎̻͍̿͆͋͏ Ѩ͋ ͎́̿͐͑ӂ ѭ͇͌̓ ͈̿ӂ ̻͇͑͌̓͑̿ ͒҅ӄ͋ ͈̿ӂ ͈͉̻͍͇̿͐͒͐ ͑ӄ Ҙ͍͋͊̿ ̿Ҡ͍͑ نѮ͍͊͊̿͋͒Ӏ͉25. Nei primi secoli dopo Cristo gli Ebrei contestarono la traduzione dei Settanta, affermando che il termine ebraico ‘almâh non
20 Atti 3, 22-23; 7, 37. Si veda anche J. DANIÉLOU, Sacramentum futuri. Études sur les origines de la typologie biblique, Paris 1950 (Études de théologie historique), pp. 137-138. 21 Ebrei 7, 11. 22 Cfr. Ebrei 7 e il commento in La Bibbia: testo integrale C. E. I. con note e illustrazioni, realizzazione di P. VANETTI S.I., Roma 1988, p. 2169, nota. 23 Per l’accento acuto cfr. M. REIL, Zur Akzentuation griechischer Handschriften, in Byzantinische Zeitschrift 19 (1910), pp. 476-529: 481. 24 «Vedi Giudeo che la ̺͇͋̓͋͏ è una vergine». 25 Matteo 1, 23.
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significa ͎̻͍̿͆͋͏, bensì ͋̓͏͇͋ـ, «ragazza»26. Il vaticinio di Isaia non alluderebbe pertanto a un evento miracoloso, ma alla nascita di Ezechia, il pio re di Giuda figlio di Achaz27. A questa obiezione i cristiani risposero facendo notare che nella Scrittura si trova spesso usato il termine «ragazza» per indicare una vergine. Nella Bibbia si osserva una tendenza ad appiattire le sfumature di significato, a usare parole generiche al posto dei termini specifici28. Quando i Settanta, che conoscevano la particolarità del linguaggio biblico, dovettero tradurre il versetto di Isaia, ritennero più appropriato rendere ‘almâh con «vergine» piuttosto che con «ragazza». La profezia, infatti, letta nel suo insieme, non avrebbe alcun senso se non annunciasse qualcosa di straordinario29. In questo passo dell’Esodo Miriam, 26 Cfr. le traduzioni di Aquila, Simmaco e Teodozione negli Esapla di Origene (F. FIELD, Origenis Hexaplorum quae supersunt sive veterum interpretum Graecorum in totum Vetus Testamentum fragmenta, II, Oxonii 1875, p. 443). 27 Cfr. IUSTINUS MARTYR, Dialogus cum Tryphone Iudaeo, 67, 1 [P. BOBICHON, Justin martyr. Dialogue avec Tryphon. Édition critique. I: Introduction, texte grec, traduction. II: Notes de la traduction, appendices, indices, Fribourg 2003 (Paradosis. Études de littérature et de théologie anciennes, 47/1-2), vol. I, p. 364. PG, 6, Lutetiae Parisiorum 1857, col. 629 A]. 28 Cfr. J. H. DECLERCK, Anonymus Dialogus cum Iudaeis saeculi ut videtur sexti, Turnhout – Leuven 1994 (Corpus Christianorum. Series Graeca, 30), p. 42 [capitolo V, linee 276-277]: ̩̿ӂ ͍ҥ͖͑͏ ͍͇͐ ͑ӄ ͔͎҄͐͒ӄ͋ ј̻͍͐͆̓͋͐͑̿͑͋ ͈͇̘͂̓̽͋͒͑̿ ̺͇͋̓͋͏ ́Ҽ͎ ͈̿ӂ ѵ ͎̻͍̿͆͋͏ Ѩ͋ ͇̻͉͑̿͑̓́ ك͓͎̿́ ك. Quest’opera anonima, scritta probabilmente nella seconda metà del VI secolo, è conservata nel codice Athonensis Vatopedinus 236 (fine XII – inizi XIII secolo), ff. 166r-200v. 29 Nel ̣͇̺͉͍͍́͏ ͎ӄ͏ Ҍ͍͍͒͂̿̽͒͏ pubblicato da J. H. Declerck (vedi nt. precedente), pp. 4142 [capitolo V, linee 263-288], si legge: қ ͂Ҿ (scil. ҕ Ҍ͍̮͒͂̿« ̘̓͊͏͙͎ ͏͍لҠ͈ Ѭ͔͇̓ ͑Ҽ ͎̿’ ѵ͊͋ل ј͎͓̘͋͑̽́̿̿ Ҍ͍͂ӆ ѵ ͎̻͍̿͆͋͏, ј͉͉’ Ҍ͍͂ӆ ѵ ̺͇͋̓͋͏̘ ͍ҥ͖͑ ́Ҽ͎ ͈̿ӂ ͑ӄ ѯ͎͈̀̿͗ӄ͋ ͈̿ӂ Ѡ͈͚͉̿͏ ͈̿ӂ ̱͚͔͍͊͊̿͏ Ѩ͈͈͇͂̓͂͛̿͐͋». ̤͂ ͍͋ةҾ ͎ӄ͏ ̿Ҡ͙̘͑͋ «̱͚͋̓͏ ќ͎͖͋͆̓, ͈̿ӂ ͑Ӏ͋ ј͉̼͇͆̓̿͋ ̼͇̈́͑̓ ͎͔̥͑̽̿̿ ىӽ ͇͙͍̓͆͊̓͋͏ (cfr. Zaccaria 8, 16), ͈̿ӂ ͊Ӏ ͍҈͍͒ ͇͂Ҽ ͉͙͖́͋ Ѩ͇͈͎͚͇͑̓͐͆̿ ͍͑Ҿ ͑Ӏ͋ ј͉̼͇͆̓̿͋. ̯͎͊ ͍͋͑وҾ͋ ́Ҽ͎ ͑ӄ ͑ ͏͍͇̺͂͋̓͋ ͏قҘ͍͋͊̿ ͎̺̿ ͑̓ ̻͍͍͑͑͆͊͋ ىԌ ̫͖͈͐̓̿ لӂ ͎̿’ ѩ̻͎͍͇͑͏ љ͍͇́̽͏ Ѩ͋
͉͍͇̓̽͐ ͑ ͏ق͓͎̿́ ͏قѨӂ ͑ ͏قҕ͍͉͍͍̻͖͊́͒͊͋͏ ͎̻͍̿͆͋͒ ̓ҥ͎͍͇͏ ͉͙͍̘̓́͊̓͋͋ ͈̿ӂ ͑Ӏ͋ ́Ҽ͎ ѩ̻͎͑Զ ̻͊̓͊͋͐͑̓͒͊͋͋ͅͅ ͈̿ӂ ҡ͓’ ѩ̻͎͍͑͒ ͇͍̻̀̿̈́͊͋͋ͅ ͈̿ӂ ͇͎͍̻͂̿̿͆̓͋̓͒͊͋͋ͅ ͑ ͏͍͇̺͂͋̓͋ ͏ق͑ ىҔ͙͇͋͊̿͑ ͎͍͈͈͉͈̻͇͐̓͋̿ͅ ̓ҥ͎͇͑̿ͅ (cfr. Deuteronomio 22, 25-27), ͈̿ӂ ͑Ӏ͋ Ա̓{̀}̻͈̀̿͋ ҭ͚͖͐̿͑͏ (cfr. Genesi 24, 16: in realtà Rebecca è detta ͎̻͍̿͆͋͏, non ͋̓ !͏͇͋ـL’ebraico tuttavia ha ‘almâh), ͈̿ӂ ͑Ӏ͋ ͑ ̻͋͋͊͒͋́͒̓̈́ͅ ل͎̓̓҅ ىҕ͍͖͊̽͏ (cfr. Giudici 19, 1-9: qui però è difficile credere, dal contesto, che ͋̓ ͏͇͋ـindichi una vergine!), ͈̿ӂ ͑Ӏ͋ Ѡ͈̀͐͐̿ͅ ـӂ ҭ͚͖͐̿͑͏ (cfr. III Re 1, 2-4). ̩̿ӂ ͍ҥ͖͑͏ ͍͇͐ ͑ӄ ͔͎҄͐͒ӄ͋ ј̻͍͐͆̓͋͐͑̿͑͋ ͈͇̘͂̓̽͋͒͑̿ ̺͇͋̓͋͏ ́Ҽ͎ ͈̿ӂ ѵ ͎̻͍̿͆͋͏ Ѩ͋ ͇̻͉͑̿͑̓́ ك͓͎̿́ ك. ̮Ҡ͈ Ѩ͇̺͍̀͐̿͋͑ ͍͑ ͋حӄ ј͈͎͇̀Ҿ͏ ͍҅ ͑Ӏ͋ ͎̿’ ѵ͓͎͊̿́ ͋لӀ͋ ѩ͎͚͊͋̓͐̿͋͑̓ͅ͏, ͍̻͇͑͒͑͐͑͋ ͍҅ ѯ͍̼͈͍̀͂͊͋͑̿, ј͉͉Ҽ ̓ҡ͎͙͋͑̓͏ ҙ͇͑ ѵ ̺͇͋̓͋͏ ͑Ӏ͋ ͎̻͍̿͆͋͋ Ѩ͋ ͍͉͉͍ ͏͇͍͙͑ ͏لҡ̻͎͓́̿̓, ͍͇͑̽͋̿͂ كӽ ͍͚͇͑̓͑͐ ͍̻͍͓͍͎͒͋͊͒̓͑ͅ ن͐̿͋͑̓͏, ҙ͇͑ ͐͊̓ͅ ͍͋لҕ ͆̓ӄ͏ ͈͑҈͍ ىԶ ̣̿͒Ԛ͂ Ѩ͉͍́́̓̽̿͑ͅ, ҡӄ ͍͑ ͏͍͚͑̿͊̓͋ ͍͒̽̓͆ نҕ͍͚͍͇͂́͊̓͋ͅ ͍͑ ͍͑نѨ͙͋͐̿͋ͅ, ҙ͇͑ ‘̯͍ ͍͙͇͋͋̓͊͋́ ن͍̓͆ ͏ـ͎͖͍͉̓͂̿́̓͊ ͇̼̿͑̓͐͋̓́ ͍͋ل̓͊͐ͅ ͍͋لќ͇͍͌͋; ̲ӄ ͈͑̓̓͋ل ́͒͋̿’͇̺̿͂͋̓͋ ͈̿ل. ̲̻͇͈͆̓̿͋ ͍͑̽͋͒͋ ͑ӄ ҥ͎͍͐͑̓͋ ͙͍́̓͋͐͊̓͋͋ͅ, ͑ӄ Ҍ͍͂ӆ ѵ ͎̻͍̿͆͋͏ ͈̿ӂ ͑Ҽ ͉͍͇̺, ѝ͎̓ ѵ ͆̓̽̿ ͔̺͎͇͏ ͇͂’̿Ҡ͑ ͋وҡ̻͎͕́̿̓, ͍͑͑ ͏͍͚͎͈̓͑͋͑͑ͅ ͍͒̽̓͊͐ͅ ͍͙͎͒͌͂̿̿ نӀ͋ ј͉̼͇͆̓̿͋». Argomentazioni analoghe erano state addotte da EUSEBIUS CAESARIENSIS, Demonstratio Evangelica, VII, 1, 36 [I. A. HEIKEL, Eusebius. Die Demonstratio evangelica, Leipzig 1913 (Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, 23; Eusebius Werke, 6), pp. 304305. PG, 22, Lutetiae Parisiorum 1857, col. 500 A]; ID., Eclogae propheticae, IV, 4 (T. GAISFORD, Eusebius Pamphili. Eclogae propheticae, e codice manuscripto Bibliothecae caesareae
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sorella di Mosè, indicata col termine ̺͇͋̓͋͏, spia da lontano la sorte del fratello, abbandonato, ancora in fasce, fra i giunchi lungo la riva del Nilo. Giunta la figlia del faraone per fare il bagno nel fiume, nota il cestello con dentro il neonato: Miriam allora esce dal nascondiglio e chiede alla figlia del faraone il permesso di andare a cercare una nutrice fra le donne ebree che allatti il bambino. Una volta svezzato, glielo avrebbe riconsegnato. Se Miriam avesse avuto il latte — pensa lo scoliasta — non avrebbe chiesto il permesso di andare a cercare una nutrice. Dal momento che ciò avviene, bisogna credere che era vergine. Siamo dunque di fronte a un nuovo caso in cui, nella Scrittura, il termine ͋̓ ͏͇͋ـdesigna una vergine, e lo scoliasta immagina di additarlo a un interlocutore ebreo. 4. a Esodo 2, 21-22 (p. 48: ͈͖͈̿͑̽͐͆ͅ ͂Ҿ ̫͖͎͐̿͘ ͏قҼ ͑ وј͎͖͈͋͆͛̿ӂ
Ѩ̻͍͍͌͂͑ ̱͓͎̓͛̿͋ ͑Ӏ͋ ̻͎͆͒́̿͑̿ ̿Ҡ͍͑ ̘͈̿ل̿͋͒́ ق͖̫͐͘ نѨ͋ ͎́̿͐͑ӂ ͂Ҿ ͉͍̿̀̿͐ن ѵ ́͒͋Ӏ Ѭ͈͑̓̓͋ ͒҅ӄ͈͋̿ӂ Ѩ͖͙͋͊̿͐̓ ̫͖͐͑͘ ͏قӄ Ҙ͍͋͊̿ ̿Ҡ̢͍͖̻͉̺͎͑͋́͊͐ͅ ن ҙ͇͑ ̺͎͍͇͈͙͏ ͇̓҄͊ Ѩ͋ ́ قј͉͉͍͎͑̽̿): ͐ͅ(͖͇͊̓̽͐̿)̘ ͑Ӏ͋ ̫͖̻͖͐͏ ͎͓̱́͒͋̿͋̿͛̓ ͈̿ل30͈̿ӂ ̢͎̺͐͊ͅ (sic) ͑ӄ͋ ͒҅ӄ͋ ̿Ҡ͍͑ن31 Mosè, divenuto adulto, vide un Egiziano percuotere un Israelita: indignato, dopo essersi assicurato di non avere attorno testimoni, uccise il colpevole e lo seppellì sotto la sabbia. Il giorno dopo gli capitò di assistere a una scena analoga, ma questa volta a percuotersi erano due Israeliti. Mentre tentava di conciliarli, i due lo minacciarono di diffondere la notizia dell’omicidio. Mosè allora, intimorito, lasciò l’Egitto e si rifugiò nel paese di Madian. Qui prese in moglie Sepfora, figlia del sacerdote Jetro, da cui ebbe un figlio, Ghersam. La tradizione cristiana ha riconosciuto in Sepfora una figura della Chiesa: come Mosè, rifiutato dai suoi connazionali, fuggì dall’Egitto e sposò una donna straniera, così Cristo, rifiutato da quelli della sua stirpe (cioè dagli Ebrei), si rivolse a un altro gregge, i gentili32. Per vindobonensis nunc primum edidit, Oxonii 1842, pp. 177-178. PG, 22 cit., col. 1204 A B); BASILIUS CAESARIENSIS (?), Enarratio in prophetam Isaiam, VII, 202 [P. TREVISAN, San Basilio. Commento al profeta Isaia, II, Torino 1939 (Corona Patrum Salesiana. Series graeca, 5), pp. 209-213. PG, 30, Lutetiae Parisiorum 1857, col. 464 A – 465 B]. A favore dell’autenticità dell’opera attribuita a Basilio si è espresso alcuni anni fa N. A. Lipatov. N. A. LIPATOV, The Problem of the Authorship of the Commentary on the Prophet Isaiah attributed to St. Basil the Great, in E. A. LIVINGSTONE, Papers presented at the Eleventh International Conference on Patristic Studies held in Oxford 1991. Cappadocian Fathers, Greek Authors after Nicaea, Augustine, Donatism, and Pelagianism, Leuven 1993 (Studia patristica, 27), pp. 42-48. 30 Il nome ̱͓͎̓͛̿, nello scolio nr. 1, era stato scritto con omicron: ̱͓͙͎̓̿. 31 «Bada bene: la moglie di Mosè è Sepfora, e Ghersam è suo figlio». 32 Cfr. THEODORETUS CYRENSIS, Quaestiones in Exodum, Interrogatio IV [J. F. PETRUCCIONE – R. C. HILL, Theodoret of Cyrus. The Questions on the Octateuch, I: On Genesis and
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Cirillo di Alessandria il nome «Sepfora» può significare tre cose: «visita» (Ѩ͈͕͇̽͐̓͏), «bella» (ҭ͎̿̽̿), e «grazia dello spirito» (͔̺͎͇͏ ͍͋)͏ق: la Chiesa, che sola può essere detta con verità «bella», è stata «visitata» dall’Oriente — Cristo33 —, e ha ricevuto la «grazia dello spirito», cioè è stata fatta partecipe dello Spirito Santo. Ghersam, invece, significa «straniero», come il popolo dei credenti, che non ha patria su questa terra, ma nel cielo34. 5. a Esodo 3, 7-8 (p. 49: ̤͂ ̓ةҾ ̩͚͎͇͍͏ ͎ӄ͏ ̫͖͐͘ ̘͋قҌ͂ӈ͋ ͑ ͍͋͂ةӀ͋ ͈̺͈͖͇͐͋ ͍͑ ن͍͑ ͍͒͊ ن͍͉̿ نѨ͋ ̠͚͖͈҄́͑̿ӂ ͑̿ ͏ق͎͈́͒̿ ͏قҠ͑ ͋وј͈̼͈͍̿ јӄ ͑͋و Ѩ͎͍͇͖͈́͂͑́ ̿͂ة͍͋وҼ͎ ͑Ӏ͋ Ҕ͚͂͋͋ͅ ̿Ҡ͈͑̿͋وӂ ͈̻̿͑̀͋ͅ Ѩ͉̻͇͌̓͐͆̿ ̿Ҡ͍͑ӆ͏ Ѩ͈ ͔͇͎̓ӄ͏ ̠͖͈҄́͒͑̽͋̿ӂ Ѩ͌̿́̿́̓̿ ͋لҠ͍͑ӆ͏ Ѩ͈ ͑ ͏ق́ ͏قѨ͈̓̽͋ͅ͏):
ҙ͎̿ Ҍ͍͒͂̿ ̓لҙ͖͏ ͇͂Ҽ ͑Ӏ͋ ͐Ӏ͋ ͈̺͈͖͇͐͋ ͉̻͇́̓ ͆̓ӄ͏ ͈͈̿͑̿̀̿ ͇̿͋قӂ Ѩ͉̻͇͌̓͐͆̿ ͐̓ ͍ ͋ح͍ ͏وҠ ̻͔͂ͅ ̿Ҡ͑ӄ͋ ͈̺̿͑̿̀͋͑̿ ҡҾ͎ ͍͑͑͋̿ نӄ͏ ј͎͋͆͛ ͍͒ј͉͉Ҽ ͉̻͇́̓͏ ҙ͇͑ ͍͚͍̿͋͑͂͋̿͊͏ Ү͋ Ó͈̿ӂ ͎͈͖͐̿͛͐̓͏ ͔͂̽̿ ͑Ӏ͋ ͇̺͉͉͇͂̿͌͋ ͈͉̻͇̿͑̿̀̿͐͆̿ ̺͍͂͒͋͊̓͋͏.Ü ͇͂Ҽ ͑̽ Ѩ͎͈̘͐̿͛͆ͅ35 La condizione degli Israeliti in Egitto si può paragonare a quella degli uomini sulla terra, schiavi del peccato e della morte. Dio non resta indifferente di fronte alla loro afflizione, ma decide di «scendere» dal cielo Exodus, Washington D. C. 2007 (The Library of Early Christianity, 1), p. 224. PG, 80, Lutetiae Parisiorum 1860, col. 228]. MICHAEL GLYCAS, ̤҄͏ ͑Ҽ͏ ј͍͎̽̿͏ ͇͉̺͓͈͑̿̿̓ ͏ق̢͓͎̿ ͏̧̿̽̓ ͏ق, XVI [S. EUSTRATIADES (̤Ҡ͎͇̺͐͑̿͑͂ͅ͏), ̫͇͔̿Ӏ͉ ͍͑͑ ͏҄̓ ـ̢͈͉͒ نҼ͏ ј͍͎̽̿͏ ̺͓͈͑̓ ͏ق̢͓͎̿ ͏̧̿̽̓ ͏ق͉͇̿̿, I, Ѯ͋ Ѡ̼͇͆͋̿͏ 1906, ̡͇͉͇͍̼͈̀͆ͅ ̫͎͉̿̿͐ق, ͉͉͍͐͒́Ӏ Ѩ͈͈͎͖̽͑͋ Ѩ͇͍͇͈͐͑͊͋ͅ ̓͑ ͖̻͋͋͌ ͋وѨ͋ ѩ͉͉͇͈͈͋̿ͅ ͇̺͎͓̓͐̿͑̓͊ كӂ ͎͖͍͚͖͑͑͋ ͎̺͖͐͒́́̿͊͊͑͋, p. 206; anche PG, 158, Lutetiae Parisiorum 1866, coll. 884 D – 885 A]. Cfr. anche ORIGENES, Homiliae in Numeros, VI, 4 [L. DOUTRELEAU, Origène. Homélies sur les Nombres, I: Homélies I-X. Texte latin de W. A. Baehrens (G.C.S.), Paris 1996 (Sources chrétiennes, 415), pp. 156-160. PG, 12, Lutetiae Parisiorum 1857, coll. 610-611]. 33 Luca 1, 78. 34 CYRILLUS ALEXANDRINUS, Glaphyra in Exodum, I, 8 [cfr. F. PETIT, La chaîne sur l’Exode. Édition intégrale. II: Collectio Coisliniana. III: Fonds caténique ancien (Exode 1,1-15,21), Lovanii 2000 (Traditio exegetica graeca, 10), nrr. 60, 62, pp. 87-89. PG, 69, Lutetiae Parisiorum 1859, coll. 408 D – 409 A. WUTZ, Onomastica sacra cit., pp. 1059-1060]: ̱͇͒͊̀̿̽͋̓ ͂Ҿ ұ͎͐̓ ̓҄͏ ͍͈͇͙҄̓͑͑̿ͅ ͑Ӏ͋ ҭ͏ ͎ӄ͏ ̿Ҡ͑ӄ͋ ͚͓͋͊͋ͅ, ͍͇͎͑͐̿ ̺͉͉͈͇͎͋͑͑͐̓̿̓ͅ ͇̿͋͑ ̺تҼ͏ ̿Ҡ͑͑ ىӀ͋ Ѩ͌ Ѩ͆͋ ͋وѨ͈͈͉͐̽̿͋ͅ, ѷ ͇͂Ҽ ͇͑̿͑ل͍̓͋ ͏͎͓̱̿͛̓ ͏ق. ̣͇͎͚͇̓͊͋̓̓͑̿ͅ ́Ҽ͎ «Ѩ͈͕͇̽͐̓͏» Ѷ «ҭ͎̿̽̿», ͈̿ӂ ̻͍͇͊͋͑ ͈̿ӂ «͔̺͎͇͏ ͍͋»͏ق. Ѯ͈̻͕͍̓͐̿͑ ́Ҽ͎ ј͍͉͋̿͑Ӏ Ѩ͌ ҥ͕͍͒͏ ͑Ӏ͋ ј͉͆ͅ ͏وѨ͈͎͈̓̿ قӂ ҭ͎͇͍̺̿͑͑͋ͅ,
͓͊ͅӂ ͂Ӏ ͑Ӏ͋ Ѩ͈͈͉̘͐̽̿͋ͅ ͈̿ӂ ͂̿ ͍͎͋وҠ͈͑̿ كӂ ̻͇͍͌͋͋ ͍Ҡ͎͍̿͋ ͏ق͑ ͇͇͎̺͔͈̿͑͐̓ نѩ͍̿͒͑͑ ͏ق͍͋ نӀ͋ Ѩ͍͇̽͂͐͋, ͓͊ͅӂ ͂Ӏ ͑Ӏ͋ ͍͑ نљ͍́̽͒ ͚͍͋̓͊̿͑͏ ͔̺͎͇͋. T̻͍͈͑̓ ͂Ҿ ̿Ҡ͑͑ ىӄ͋ ̢͎̺͐͊ͅ, ͓͊ͅӂ ͂Ӏ «͉̿ӄ͋ ͑ӄ͋ ̺͎͍͇͈͍͋» ј͉͆̽̓͆ͅ ى͑ ͇͍͑ ͎̺́ ͍҅ ̘͏وԶ ͈͓͎͇̻͍͇̿͑̓͐̿́͐͊͋ ͚͇͋̓͊̿͑, ͈̿ӂ ͑ ͏قќ͖͋͆̓͋ Ѩ͇͈͍͐͏ق ј͇͍͚͍͇͌͊̓͋, ͈̿ӂ ̓҄͏ ҭ͎͇͙̿͑͑̿ͅ ͇͉̻͍͇͂̿̓̿͐͊͋ ͑Ӏ͋ ҭ͏ ͎ӄ͏ ͙͒҅͋, ̺͎͍͇͈͍͇ ͈̿͑Ҽ ͑ӄ ј͉̻͆ͅ͏ ͇̓҄͐͋ Ѩ͋ ͙͈͑͊͐ ى͑ ̓͂ىԶ.
35 «Vedi Giudeo come a causa della tua oppressione Dio dica di scendere a liberarti. Perché dunque non ammetti che sia disceso per la salvezza di ogni uomo, ma dici: “Essendo onnipotente e potendo stabilire la riconciliazione senza incarnazione, perché si incarnò?”?». Vedi Tavv. I e Ia.
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per salvarli. Proprio il verbo ͈͖̿͑̿̀̿̽͋ dovette attirare l’attenzione dello scoliasta: ai suoi occhi esso non indica semplicemente che Dio «scese» nel roveto ardente, ma allude, in maniera chiara e più profonda, all’Incarnazione. Tale evento si trova dunque annunciato nella Scrittura. L’obiezione messa in bocca all’Ebreo è tradizionale: perché Dio, per salvarci, avrebbe dovuto farsi uomo? Non avrebbe potuto trovare un mezzo più comodo, che gli evitasse di sperimentare la debolezza umana e la morte? Non sarebbe bastato inviare una creatura santa, esente da colpa, anziché se stesso? Nel ̣͇̺͉͍͍́͏ ͎ӄ͏ Ҍ͍͍͒͂̿̽͒͏ pubblicato da J. H. Declerck (seconda metà del VI secolo), l’interlocutore ebreo formula così la domanda: ̲̽͏ ͎͔̿̽̓ ͋إҙ͉͖͏ ͍͑ نѨ͎͖͙͋̿͋͆͋̓͆ ͇̿͐ق, ͈̿ӂ ͊Ӏ ұ͎͐̓ ͑ӄ ͎ӂ͋ ͇͂Ҽ ̫͖̻͖͐͘͏ ͈̿ӂ ͑͋و͇͍͉ ͋و љ͖́̽͋ ͑ӄ ̻͍́͋͏ ͑ ͋وј͎͖͋͆͛͋ ͇̻͖͂͐͐̓͋, ͍ҥ͖͑ ͈̿ӂ ͋ ͋نѭ͋̿ ͇͑͋Ҽ ͑ ͋وј͖͌̽͋ ͍͑;͍͉̺͍͎͑̓̀̓ ͏͍̺͎͑̿͊́ ن36. In epoca più tarda (fine XIV sec.) il tema sarà ripreso all’interno del trattato La vita in Cristo di Nicola Cabasila37 e nei dialoghi di Manuele II Paleologo con un dottore islamico. Quest’ultimo, in un passo, afferma: ̯͉Ӏ͋(͂̓́لҼ͎ ͑ ͏قј͉͆̓̽̿ͅ͏ ̺͋͑̿ ͚͎͂̓͑̓̿ ͇͑̽͆̓͐͆̿) ͍͉͉ى
͍͎̻͎͙͆̓̓͐͑̓͋ ͍͇͊ ͍͈͂̓ لѨ͑ ͇̿͐ـӄ͋ ̧̓ӄ͋ ͍͈͍҄̓͑ ͋لӆ͏ ͍Ҡ͎͍̿͋ӆ͏ ͈ј͈̺͎̓͑ ͋̓͆ل͇͑̓͋ ͑Ҽ ̻͍͂͋͑̿ ͈̿ӂ ͑Ҽ ͈̿͆’ѵ͊͋ل͈͇͍͇̓͂ ͏ـ, ҭ͏ ͖͙̓҄͆͏ Ѩ͇͐͑͋ ̿Ҡ͑ى, Ѷ ͈̿͑̿́̿́̓͋ل ̿Ҡ͑ӄ͋ ̓҄͏ ͑Ӏ͋ ͈́̿ ͋قӂ ҭ͏ ј͎͋͆͛Զ ͍͙͇́̓́͋͑ ͑Ҽ ͑ ͋وј͎͖͋͆͛͋ ͈͈̿Ҽ ͎͍͎͇͐͑̽̀̓͋, Ѩ͋͑̓͂ ͋̓͆نҾ ͈̿ӂ ј͈̺͇͋̿́̈́̓͐͆̿ ͈̿ӂ ѹ͖͑͑ ͍͇̻͉͑͋̓́ ͍̺͒͑͋̿͆ ͍͋͑ن, ͍͔͕̿͒ خӂ ͈̿ӂ ќ͉͍͇́́̓ ͑͊ ىӀ ̓ ͈̿͑̿͊͐̽͑ ͇͍͈͑̽̿ ͚̿͑̓͆͋͐ ͇̿͋ةҘ͋͑̿ ͈͉͇̿͑̿́̓͐و. ̫Ӏ ́Ҽ͎ ͍Ҡ͈ Ѩ͚͍͂͋̿͑ ̧̓ӄ͏ ͑ӄ͋ ͍Ҡ͎̿͋ӄ͋ ͊Ӏ ͉͇ӈ͋ ͊͂ͅҾ ͍́̓́͋ӈ͏ ͈̿͆’ѵ͇͊̿͋͑ ͚͋̽͊̿͋͂ ͏ـ ͈̿ӂ ͔̺͎͇͋ ͑ ͋و͑ ىј͎͖͋͆͛͋ ̻͇́͋̓ ͖͎̼͇͂͐̿͐͆̿ ͍҉̿͋ ͑̓ ͍͋ن͍͎͉ͅ ̺̿͑͋ ͋̿͐ح Ѩ͈̓̿͋ل, ѝ͎̓ њ͋ ̓҄ ̿Ҡ͑ӄ͏ ͎͍͖͇͈͐͏و, ҭ͏ ͇͚͐͑̓̓͑̓, ͈͉̼͉̿͑̓͒͆̓͋ ̓҄͏ ͑Ӏ͋ ͑ ͏قј͎͍͋͆͛͒ ̻͎́̿͐͑̿, ҡҾ͎ ͑ ͏͍̻͒͋́ ن͍͑ ͏قѨ͉͎̓͒͆̓̽̿͏;38. A tali ragionamenti (immaginando di discutere con un Ebreo) il Nostro risponde non 36
DECLERCK, Anonymus Dialogus cit., p. 31 [capitolo IV, linee 41-44]. NICOLAUS CABASILAS, De vita in Christo, I, 43-53 [M.-H. CONGOURDEAU, Nicolas Cabasilas. La vie en Christ, I: Livres I-IV, Paris 1989 (Sources chrétiennes, 355), pp. 116-124; PG, 150, Lutetiae Parisiorum 1865, coll. 512 D – 516 C]. 38 MANUEL II PALAEOLOGUS, Dialogi cum Mohametano, XXIII [E. TRAPP, Manuel II. Palaiologos. Dialoge mit einem “Perser”, Wien 1966 (Wiener byzantinistische Studien, 2), pp. 271-272]. Un secolo prima del nostro scoliasta, in Occidente, S. Anselmo aveva affrontato lo stesso argomento nell’opera Cur Deus homo. ANSELMUS CANTUARIENSIS ARCHIEPISCOPUS, Cur Deus homo, I, 1 [R. ROQUES, Anselme de Cantorbéry. Pourquoi Dieu s’est fait homme, Paris 1963 (Sources chrétiennes, 91; Série des Textes Monastiques d’Occident, 11), p. 210. Patrologiae cursus completus. Series latina, accurante J.-P. MIGNE (d’ora in poi: PL), 158, Lutetiae Parisiorum 1863, col. 361]: Quam quaestionem solent et infideles nobis, simplicitatem Christianam quasi fatuam deridentes, obiicere, et fideles multi in corde versare: qua scilicet ratione vel necessitate Deus homo factus sit, et morte sua, sicut credimus et confitemur, mundo vitam reddiderit, cum hoc aut per aliam personam, sive angelicam sive humanam, aut sola voluntate facere potuerit. Con il termine infideles, ricorrente nell’opera, Anselmo si riferisce quasi certamente agli Ebrei. Vedi R. NARDIN, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta. Indagine storico37
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con argomentazioni, ma appellandosi all’autorità della Scrittura: è in essa che, ai suoi occhi, si trova annunciato l’evento dell’Incarnazione39. 6. a Esodo 3, 10 (p. 49: ͈̿ӂ ͋ ͍͎ن̓͂ ͋نј͍͉͖͐͑̓̽ ͐̓ ͎ӄ͏ ̴͎̿̿ӈ ͇͉̻̀̿͐̿ ̠͚͍͈҄́͑͒̿ӂ Ѩ̺͇͌͌̓͏ ͑ӄ͋ ͉͙̿͋ ͍͊͒ ͍͑ӆ͏ ͍͒҅ӆ͏ Ҍ͎͐̿Ӏ͉ Ѩ͈ ́)͍͚̠͒͑́҄ ͏ق40:
͈̿ӂ ͈͙͖̓҄͑͏ ͓͐ͅӂ ̫͖͐͘ ͖͚͓͍͎͋̓͑ͅ ͏قҙ͇͑ ͎͍͓̼͑͋ͅ ј̼͇͋̿͐͑͐̓ ̩͚͎͇͍͏41 Mosè, mandato da Dio a liberare Israele dalla condizione servile, non è in realtà il vero «inviato», ma soltanto un precursore. Un altro profeta porterà la salvezza, che Mosè indica esclamando, in Deuteronomio 18, 15:
̯͎͍͓̼͑͋ͅ Ѩ͈ ͑ ͋وј͉͓͂̓ ͍͒͐ ͋وҭ͏ Ѩ͊Ҿ ј̼͇͋̿͐͑͐̓ ̩͚͎͇͍͏ ҕ ͙͆̓͏ ͍͐͒ ͍͐ӂ ̿Ҡ͍͑ن ј͈͍͚͐̓͐͆̓. 7. a Esodo 3, 12 (p. 49: Ѭ͍͇͐͊̿ ͊̓͑Ҽ ͍͐)ن42:
ҙ͎̿Ҍ͍͒͂̿͑̓͊ ͋ح͍ ҄̓̓لҼ ͍͑ ͏͖̻͖̫͐͘ نҕ ͆̓ӄ͏ Ѩ̻͉͉͇̿́́̓͑̿ ͇̓̿͋ة, ͙͖͐ ͍͊ ͍͉͉͋ـҠ͈ Ѭ͇͐͑̿ ͊̓͑Ҽ ͍͑ نҕ͍͍͍͊͒͐̽͒ ̿Ҡ͍͑ ن͍҅͒ نј͍͉̻͍͐͑̿͋͑͏ ͇͐̿͐و ͑ӄ͋ ќ͎͖͍͋͆͋43 Di nuovo uno scolio legato alla controversia con gli Ebrei. Questi pensavano che i miracoli di Cristo fossero opera del demonio. Nei Vangeli i farisei affermano: ̮͍ ͏͍͑خҠ͈ Ѩ͈̺͉͉͇̀̓ ͑Ҽ ͇͙͇͂̿͊͋̿ ̓҄ ͊Ӏ Ѩ͋ ̡͍͑̀̓̈́̓̓ وӆ͉ ќ͎͔͍͇͋͑ ͖͍͇͑͋̽͋͊̿͂ ͋و44. Ora — si chiede lo scoliasta — se Dio era con Mosè (come qui viene detto e come i prodigi avvenuti in Egitto dimostravano), che pure non era ancora il Salvatore, perché non sarebbe dovuto essere a maggior ragione con il Cristo, da Lui inviato a salvare gli uomini? Origene, nel Contra Celsum, tramanda una leggenda ebraica sulla vita di Cristo: nato ermeneutica e orizzonte tri-prospettico di una cristologia, Roma 2002 (Corona Lateranensis, 17), p. 95. 39 Nella Disputatio Iudaei cum Christiano di Gilberto Crispino [GISLEBERTUS CRISPINUS, Disputatio iudaei cum christiano de fide christiana. Cfr. B. BLUMENKRANZ, Gisleberti Crispini Disputatio iudei et christiani et anonymi auctoris Disputationis iudei et christiani continuatio, Ultraiecti – Antverpiae 1956 (Stromata patristica et mediaevalia, 3), pp. 43-44. PL, 159, Lutetiae Parisiorum 1865, col. 1018 B D] l’Ebreo domanda: Que me ratio, que me scripturarum cogit auctoritas, ut credam, quod Deus homo fieri queat vel homo factus iam existat? E poco oltre afferma: Unde fatemur quia nullo modo fas est de Deo talia excogitare, nedum dicere aut predicare, quoniam nec ratio id posse fieri sinit, nec ulla Scripture auctoritas occurrit, que huic errori vestro assentanea seu vicina sit. 40 Il segno di rimando ( ) è sopra ͍͎͂̓ن. 41 «E giustamente dice Mosè profetando: “Il Signore susciterà un profeta”». Vedi Tavv. I e Ib. 42 Il segno di rimando, a forma di mezza luna ( ), è sopra il verbo Ѭ͍͇͐͊̿. 43 «Vedi, Giudeo: se dunque Dio promette di essere con Mosè, quanto più non sarà con il Suo Figlio consustanziale, mandato a salvare l’uomo». Vedi Tavv. I e Ic. 44 Matteo 12, 24.
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in un villaggio della Giudea da una povera filatrice che aveva commesso adulterio, e che per questo era stata scacciata dal marito, falegname di professione, Gesù, divenuto adulto, a causa della povertà si sarebbe trasferito in Egitto, dove avrebbe trovato lavoro come salariato. Qui avrebbe appreso certi poteri magici (l’Egitto era considerato la patria della magia) e, tornato nella sua terra, pieno di orgoglio per questi poteri, si sarebbe proclamato Dio45. 8. a Esodo 3, 13-15 (p. 49: Ҍ͍͂ӆ Ѩ́ӈ Ѩ͉͚͍͇͌̓̓͐͊̿ ͎ӄ͏ ͍͑ӆ͏ ͍͒҅ӆ͏ Ҍ͎͐̿Ӏ͉ ͈̿ӂ Ѩ͎͎ وӄ͏ ̿Ҡ͍͚͑͏ қ ͆̓ӄ͏ ͑ ͖͎̻͋͑̿ ͋وѵ͊ ͋وј̻͉͈̻͐͑̿ ͊̓ ͎ӄ͏ ҡ͊͏ـ Ѩ͎͖̼͍͑͐͒͐̽ ͊̓ ̲̽ Ҙ͍͋͊̿ ̿Ҡ͑ ̲̽ وѨ͎͎ وӄ͏ ̿Ҡ͍͚͑͏̘ ͈̿ӂ ̓ ͋̓ةҕ ͆̓ӄ͏ ͎ӄ͏ ̫͖͐͘¦͖̻͉͋́͋قѮ͇́͛̓҄͊ҕҮ͈͋̿ӂ̮̓¦͋̓ةҥ͖͑͏Ѩ͎̓͏ل͍҅͒͏ل͍͑͏لҌ͎̼͉͐̿¦ қҬ͋ј̻͉͈̻͎͐͑̿͊̓ӄ͏ҡ͈͊̿¦͏ـӂ̓͋̓ةҕ͆̓ӄ͏̺͉͇͎͋ӄ͏̫͖̮͒͐ ͋قҥ͖͑͏ Ѩ͎̓ ͏ل͍҅͒ ͏ل͍͑ ͏لҌ͎̼͉͐̿ ̩͚͎͇͍͏ ҕ ͆̓ӄ͏ ͑ ͖͎̻͋͑̿ ͋وҡ͊̓͆ ͋وӄ͏ ѡ͎̀̿Ҽ͊46 ͈̿ӂ ͆̓ӄ͏ Ҍ͐̿Ҽ͈ ͈̿ӂ ͆̓ӄ͏ Ҍ͈̿ӈ̀ ј̻͉͈̻͐͑̿ ͊̓ ͎ӄ͏ ҡ͊ ͍͒͊ ͙͑ن͍͑ ͏ـѨ͇͐͑͋ Ҙ͍͋͊̿ ͇͍̿҄͛͋͋ ͈̿ӂ ͙͍͊͋͊͐͒͋͋ͅ ́̓͋̓)͏ل̿̓͋̓́ ͋و47:
ҙ͇͖͇͙͍͑̿҄͋͑͑ͅ͏͇͈͐͊̿͋͑ͅӄ͋͑ӄ ¦ҕҰ͋48 La frase ͍͑ ͍͒͊ ͙͑نѨ͇͐͑͋ Ҙ͍͋͊̿ ͇͍̿҄͛͋͋ spiega, agli occhi dello scoliasta, il significato dell’espressione ҕ Ұ͋, che significherebbe pertanto «colui che è da sempre, che è eterno». Il passo era diventato rilevante nella controversia con gli ariani. Questi affermavano che Cristo non era vero Dio, non era della stessa sostanza del Padre (ҕ͍͍͚͇͍͊͐͏, termine usato dallo scoliasta nella nota precedente): non era quindi eterno come il Padre. In Esodo 3, 2 si dice che «un angelo del Signore apparve a Mosè in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto» (Ұ͓͆ͅ ͂Ҿ ̿Ҡ͑ وќ͉͍́́̓͏ ̩͎͍͒̽͒ Ѩ͋ ͎͒ӂ ͓͉͍́ӄ͏ Ѩ͈ ͍͑ن ̺͍̀͑͒). Questo «angelo», poco oltre, si presenta come il Dio di Abramo, 45 ORIGENES, Contra Celsum, I, 28 [M. BORRET, Origène. Contre Celse, I: Livres I et II, Paris 1967 (Sources chrétiennes, 132), pp. 150-152. PG, 11, Lutetiae Parisiorum 1857, col. 713]: ̫̓͑Ҽ ͑̿( ل͇͍͍͖͍͎̓͐ ̿͑نscil. Celso) Ҍ͍͒͂̿̿ ͍͋لҠ͑ ى͑ ͍͙͉͇͋͋̓͊́̓̿͂ ىҌ͍͈͐̿ͅ نӂ Ѩ͉̻͔͍́͋͑̿ ̿Ҡ͑ӄ͋ ͎̓ӂ ͍͉͉̻͋͊ ͋و, ҭ͏ ͍҈͇̓͑̿, ͎͂ ͍͋͑وҾ ҭ͏ ͉̻͍̿͐̿͊͋͒ ̿Ҡ͍͑͑ نӀ͋ Ѩ͈ ͎̻͍̿͆͋͒ ̻͇̘́͋̓͐͋ Ҕ͇͇͋̓͂̽̈́̓ ͂’ ̿Ҡ͈͑̿ ىӂ Ѩӂ ͑ ىѨ͈ ͈͛͊ͅ͏ ̿Ҡ͑ӄ͋ ͍̻͇́̓́͋͋̿ ͍͈͈҄͒͂̿͗̿ ͏قӂ јӄ ͇͈́͒͋̿ӄ͏ Ѩ͔͖͎͍́̽͒ ͈̿ӂ ͇͔͎͈̓͋̿ ͏ـӂ ͔͎̼͇͍̓͋͑͂͏. ̴͐ͅӂ ͂’ ̿Ҡ͑Ӏ͋ ͈̿ӂ ҡӄ ͍͑͏͍̼͑͋̿͊́ ن, ̻͈͍͍͑͑͋͏ ͑Ӏ͋ ̻͔͑͋͋ͅ Ҙ͍͋͑͏, Ѩ͇͌̓̿͆͐و Ѩ͉͔̓́͆̓ ͋̿͐لҭ͏ ͍͇͔̻͊̓͊̓͒͊͋͋ͅ. ̤ ͇̻͉̓́ ̿͑ةҭ͏ Ѩ͈͉̀͆̓ͅ ̿͐لҡӄ ͍͑ نј͎͋͂ӄ͏ ͈̿ӂ ͉͖̻̿͋͊͋ͅ ј͖͑̽͊͏ ͈͙͐-
͇͍͑͋ Ѩ̻́͋͋͐̓ͅ ͑ӄ͋ Ҍ͍͈͐̿ͅ ̘͋نӂ ҙ͇͑ ͍͇͂ ͏͍͑خҼ ̓͋̽̿͋ ̓҄͏ ̠҈͍́͒͑͋ ͇͎̼͊͐͆̿͋͐̿͏ ͈ј͈͖͇̓͋͋͑ ̺͋͛̓͊͋͒͂ ل ͇͎̓̿͆̓̽͏, Ѩ͓’ ͇͍͚̿̿͑͋͋͋͊̓͐ ͇͍͇͚̠͑́҄ ͏ت, Ѩ̿͋ ͉͋̓͆قѨ͋ ͑̿͋و͍͎͓͋ ̻̿́͊ ͇̺͐̓͊͋͒͂ ͏ل, ͈̿ӂ ͇͂’ ̿Ҡ͑Ҽ͏ ͆̓ӄ͋ ̿ҡ͑ӄ͋ ј͙͎͋́̓͒͐̓ͅ. Cfr. anche R. TRAVERS HERFORD, Christianity in Talmud and Midrash, London 1903, pp. 35-96. Sulla magia come opera del diavolo cfr. M. LODS, Étude sur les sources juives de la polémique de Celse contre les chrétiens, in Revue d’Histoire et de Philosophie religieuses 21 (1941), p. 14. 46 Così nel codice B, al posto di Ѡ͎̺̀̿͊ (passim). 47 Il segno di rimando ( ) è sopra il pronome ͍͍͑͑ن. 48 «È indicativo di eternità il “Colui che è”». Vedi Tavv. I e Id.
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ALCUNE NOTE MARGINALI IN MINUSCOLA DEL CODICE B
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di Isacco e di Giacobbe, e alla domanda di Mosè «Qual è il tuo nome?» risponde: Ѯ́͛ ͇̓҄͊ ҕ Ұ͋ 49. Chi è dunque questo angelo che è nello stesso tempo Dio, come Lui vivente ab aeterno? I Padri vi hanno riconosciuto la Persona del Figlio, che comunica con gli uomini già nell’Antico Testamento. Non è un caso che Isaia, parlando del Messia, lo definisce «angelo del grande consiglio» (̺͉͊̓́ͅ͏ ͍͉̀͒ ͏قќ͉͍́́̓͏)50. L’espressione Ѯ́͛ ͇̓҄͊ ҕ Ұ͋, pertanto, confuta la dottrina ariana. Infine, proprio Gesù, in un dialogo coi Giudei, dice di sé: ͎ӂ͋ ѡ͎̀̿Ҽ͊ ̻͇́̓͋͐͆̿ Ѩ́͛ ͇̓҄͊51. 9. a Esodo 3, 19-20 (p. 50: Ѯ́ӈ ͂Ҿ ͍ ̿͂ةҙ͇͑ ͍Ҡ ͎͍̼͇͐̓͑̿ ҡ̴͎͊̿̿ ͏ـӈ ͇͉̀̿͐̓ӆ͏ ̠͚͍҄́͑͒ ͍͎͇̓͒͆̿͋ق. ѨҼ͋ ͊Ӏ ͊̓͑Ҽ ͔͇͎̓ӄ͏ ͈͎͇͈̿͑̿̿͏ـӂ Ѩ͈͑̓̽͋̿͏ ͑Ӏ͋ ͔͍̓͑ ͖̺͌͑̿ ͎̿لӆ͏ ̠͍҄́͒͑̽͒͏)52:
̓҄ ͂Ҿ ̠҈͍́͒͑͏ ѵ љ͎͊̿͑̽̿ ͎͉̺͇̿̿̿͊̀͋̓͑̿, ҙ͎̿ ҕ Ѩ͓̺͎͍͊̿͑͏ ҉͋̿ ͊Ӏ ͔̿͑̿͆̓ӂ͏. ҡӄ ͍͑ نј͈͎͍͖͇͍́͋̿̽͒ ͉͍̽͆͒ ͎͇͈͐͒͋͑̀̿ ̓͑ ͏قӂ ͉͇͈͇͊͐͆ ͏قҙ͏ Ѩ͇͐͑ ͔̓ӂ͎ ͈͎͇̿͑̿Ҽ ͍͑ن͍̓͆ ن:–53 ͔̿͑̿͆̓ӂ͏ ex ͔̿͑̿͆ ͏قab eadem manu correctum. ͎͇͐͒͋͑̀ ͏قex ͔̿͑̿͆( ͏ق- ͏قex -̓ӂ͏) ab eadem manu correctum. ͉͇͈͇͊͐͆ ͏قex ͎͇͐͒͋͑̀̓̽͏ ab eadem manu correctum.
Si mescolano in questo scolio reminiscenze bibliche e patristiche. L’E-
49
Esodo 3, 6 e 3, 14. Isaia 9, 5. 51 Giovanni 8, 58 (per lo spirito aspro in ѡ͎̀̿Ҽ͊ vedi supra, nt. 46). Cfr. BASILIUS CAESARIENSIS, Adversus Eunomium, II, 18 [B. SESBOÜÉ – G.-M. DE DURAND – L. DOUTRELEAU, Basile de Césarée. Contre Eunome, suivi de Eunome Apologie, II, Paris 1983 (Sources chrétiennes, 305), pp. 72-74. PG, 29, Lutetiae Parisiorum 1857, coll. 609-612]: ̲̽͏ ͍ ͋حҕ ̿Ҡ͑ӄ͏ ͈̿ӂ ќ͉͍́́̓͏ ͈̿ӂ ̧͙̓͏; ͍ ͎̿أҠ͔ӂ ͎̓ӂ ͍ ͈̼͋̓͊̿͆̿͊̓͊ خҙ͇͑ ͈͉̿̓͑ ͇̿͑لӄ Ҙ͍͋͊̿ ̿Ҡ͍͑͏ق͉͍͒̀ ͏͉̺́̓͊ͅ« ن ќ͉͍́́̓͏»; (…) ̯̿͋͑ӂ ͍ ͍͉͋ق͂ ͋حҙ͇͑ Ѭ͋͆̿ ͈̿ӂ Ѥ͉͍́́̓͏ ͈̿ӂ ̧̓ӄ͏ ҕ ̿Ҡ͑ӄ͏ ͎͍͙͎͇͐́̓͒͑̿ͅ, ҕ ̫͍͍̼͋́̓͋͏ Ѩ͇͐͑ ͉͍͚͍͂͊̓͋ͅ͏, Ѩ͓͖͊̿͋̽̈́͋ ѩ̿͒͑ӄ͋ ͈̿͑Ҽ ́̓͋̓Ҽ͋ ͍͑ ͏لј͎͍͇͋͆͛͏ ͈̿ӂ ͑ӄ ̻͉͆͊̿ͅ ͍͎̯͑͑̿ نӄ͏ ͍͑ ͏لљ͍͇́̽͏ ѩ͍͖͉͉̻͇̿͒͑͋́́̿͂ ن. ҹ͐͑̓ ͈̿ӂ Ѩӂ ͍͑ ͏͖̻͖̫͐ نҘ͋͑̿ ѩ̿͒͑ӄ͋ Ҕ͍̺͋͊͐̿͏, ͍Ҡ͈ ќ͉͉͍͏ ͇͑͏ њ͋ ͎̿Ҽ ͑ӄ͋ ̧̓ӄ͋ ̪͙͍́͋, ͑ӄ͋ Ѩ͋ ј͎͔ كҘ͋͑̿ ͎ӄ͏ ͑ӄ͋ ̧͙̓͋, ͍͋͆̓̽ͅͅ. Cfr. anche IUSTINUS, Apologia prima pro Christianis, 63 [C. MUNIER, Justin. Apologie pour les chrétiens, Paris 2006 (Sources chrétiennes, 507), pp. 294-300. PG, 6 cit., coll. 424-425]; EUSEBIUS CAESARIENSIS, De ecclesiastica theologia, II, 21 [E. KLOSTERMANN, Eusebius. Gegen Marcell; Über die kirchliche Theologie; Die Fragmente Marcells, zweite Auflage durchgesehen von G. C. HANSEN, Berlin 1972 (Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten Jahrhunderte; Eusebius Werke, 4), p. 130. PG, 24, Lutetiae Parisiorum 1857, col. 956]: ҙ͑̓ ͈̿ӂ ̺͖͆̿͒͊̿͐͋͑͋ Ѩӂ ͙͉͑́ ىԶ ͎͍̻͈͐͆̓͋ͅ ͑ӄ «͎ӂ͋ Ѡ͎̀̿Ҽ͊ ̻͇́̓͋͐͆̿ Ѩ́͛ ͇̓҄͊», ͑Ӏ͋ ͎͍Ԩ͎͇̿͌͋ ѩ͍͇͎̿͒͑͑͐̿ نҼ͏ ͉͈͙̓͒͑̿͑̿. ̲̽ ͂Ӏ 50
͍ ͇͋͐͑͐̽͋͒͐ͅ ͋حҕ ͉͙͍́͏ Ѷ ̿ҡ͑ӄ͋ ̓͑ ͇̿͋ةӄ͋ ͒҅ӄ͋ ͍͑͑ ن͍̓͆ نӄ͋ ͔͎͊̿͑̽͐̿͋͑̿ͅ ͈͑̿ ل͖̫̓͐ ىӂ ͎͈͙̓҄͑̿ͅ «Ѯ́͛ ͇̓҄͊ ҕ Ұ͋»; THEODORETUS CYRENSIS, Quaestiones in Exodum, Interrogatio V (PETRUCCIONE – HILL, Theodoret of Cyrus cit., p. 226. PG, 80 cit., coll. 228-229). 52 Il segno di rimando ( ) è accanto alla parola ͔͇͎̓ӄ͏. 53 «Se l’Egitto è preso come simbolo del peccato, guarda, tu peccatore, di non essere frantumato e disperso come pula al vento colpito dalla pietra angolare, che è la mano forte di Dio». Vedi Tav. II.
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PIETRO VERSACE
gitto è simbolo del peccato54. La «mano forte» di Dio che colpisce l’Egitto con le dieci piaghe è Cristo. Egli è infatti ѵ ͍͚͍̿͋͑͂͋̿͊͏ ͈̿ӂ ͈͎͇̿͑̿Ҽ ͔̓ӂ͎ ͍͑͏͙͎̯͑̿ ن55. All’immagine della «mano forte» lo scoliasta associa quella della «pietra angolare», anch’essa figura del Messia. Nel Vangelo di Matteo, dopo aver ricordato le parole del Salmo 117, versetti 22-23, Gesù, riferendosi a chi non crede, afferma: ̩̿ӂ ҕ ̓͐ӈ͋ Ѩӂ ͑ӄ͋ ͉͍̽͆͋ ͍̼͉͑̓͐͆͐̿͆͋͒͐ ͍͋͑ن͇͑̿ Ѩ͓’ җ͋ ͂’ њ͋ ̻͐ͅ ͉͇͈̼͇͊͐̓ ̿Ҡ͙͑͋56. Il verbo ͎͖͐͒͋͑̽̀ è utilizzato in Salmo 2, 9 per esprimere la potenza del «Figlio»: ̯͍͇͊̿͋̓̿ ͏لҠ͍͑ӆ͏ Ѩ͋ Ԫ̺͖̀͂ ͇͎͐͂ͅـ ҭ͏ ͈͐̓̿ ͏͇͕͎̓̽͑͋͒͐ ͏͖̻͎͈͊̿̓ ͏͍نҠ͍͑ӆ͏57. Lo scoliasta esorta il peccatore a convertirsi, se non vuole fare la fine del faraone e del suo popolo. 10. a Esodo 4, 2-3 (p. 50: ̓͂ ̓ةҾ ̿Ҡ͑ ͙͑ن͍͑ ̲̽͏͍͇͎͚̩ وѨ͇͐͑ ͑ӄ Ѩ͋ ͇͔͑̓ ق͎̽ ͍͐͒ ҕ ͂Ҿ ̓ ̓ةԱ̺͍̀͂͏̘ ͈̿ӂ ̓ ̓ةԱ͕͍̽͋ ̿Ҡ͑Ӏ͋ Ѩӂ ͑Ӏ͋ ͈́̿ ͋قӂ Ѭ͎͎͇͕̓͋ ̿Ҡ͑Ӏ͋ Ѩӂ ͑Ӏ͋ ͈́̿ ͋قӂ Ѩ̻͍́͋̓͑ Ҙ͓͇͏):
Ҙ͓͇͏58 Per confermare l’elezione di Mosè Dio compie tre prodigi. Il primo è la trasformazione del suo bastone in serpente.
54 ORIGENES, Selecta in Ezechielem, XXX (PG, 13, Lutetiae Parisiorum 1857, col. 825): ̮҅ ̠͚͇͍͇҄́͑ ͂Ҿ ͚͍͉͙͐͊̀͋ ͇̓҄͐ ͑ ͋وѨ͋ љ͎͇͊̿͑̽̿͏ ͇͍͚͖̀͋͑͋ ј͎͖͋͆͛͋. ̠҈͍́͒͑͏ ͂Ҿ ͈͙͍͐͊͏ Ѩ͐͑ӂ͋ ҕ Ѩ͋ ͑͏͍͈͋̓͊̽̓ ى͎͍͋ͅ ى, Ѷ ͈̺͇̿͑͐͑̿͐͏ ͑͏͈͈̿̽̿ ͏ق.
55 METHODIUS OLYMPIUS, De creatis, IX [G. N. BONWETSCH, Methodius, Leipzig 1917 (Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, 27), p. 498. PG, 18, Lutetiae Parisiorum 1857, col. 341 A]. Cfr. anche CYRILLUS ALEXANDRINUS, Commentarii in ̨ohannem, VII, 10, 29 (P. E. PUSEY, Sancti patris nostri Cyrilli archiepiscopi Alexandrini in D. Ioannis Evangelium. Accedunt fragmenta varia necnon tractatus ad Tiberium diaconum duo, II, Oxonii 1872, p. 253. PG, 74, Lutetiae Parisiorum 1859, col. 21 A): Ѯ͋ ͍͉͉͍́ ͏لҼ͎ ͑͏ق ͎͓́̿͏͇͍͙͑ ͏ق, ҕ ̵͎͇͐͑ӄ͏ ͔̓ӂ͎ Ҕ͍̺͇͋͊̈́̓͑̿ ͈̿ӂ ͇͂̓͌Ҽ ͍͑ ̘͏͙͎̯͑̿ نҙ͎̓ ͇͐͊̿̽͋̓ͅ ͑Ӏ͋ ͚͇͂͋̿͊͋. PROCOPIUS GAZAEUS, In Isaiam prophetam commentationum variarum epitome, XLIX (PG, 87/2, Lutetiae Parisiorum 1860, col. 2480 D): ͔̓͑ ͋و͉͈̿ ͎̿لӀ͋ ҄͂̽̿͋ ͔͚҄͐͋ ͑̓ ͈̿ӂ ͚͇͂͋̿͊͋, ͑ӄ͋ ̵͎͇͙͐͑͋. Nella Catena Palestinese sul Salmo 118, in riferimento al versetto 173 (̢̻͖̓͋͐͆ ѵ ͔͎̓̽ ͍͐͒ ͍͑ · ̓͊ ͇̿͐و͐ نҙ͇͑ ͑Ҽ͏ Ѩ͍͉̺͋͑͏ ͍͐͒ ѵ͎͇̺̓͑͐͊͋ͅ), si trova questa spiegazione del termine ͔͎̓̽, attribuita a Origene: ̥͎͑̿ͅل͔̓« وo͍͑ن͍̓͆ ن, ͎̓ӂ ̓ ͏ئҤ͔͇̓͑̿ ͖̻͉͑̿͋́ ̿͑ن. Ѯ͋ ͔͇͎̓ӂ ͈͎͇̿͑̿ف Ѩ̼͌́̿́̓͋ ҕ ͆̓ӄ͏ ͑ӄ͋ Ҍ͎͐̿Ӏ͉ Ѩ͈ ͍͚̠͑͒͑́҄ ͏ق. ̲̽͏ ͂Ҿ ̿ҥ͑ͅ; ̵͎͇͐͑ӄ͏ Ҍ͍͐̿ͅ ̘͏نҥ͑ͅ ̺͎́ Ѩ͇͐͑ ͈̿ӂ «͔̓ӂ͎o͈̿ӂ͇͂̓͌Ҽ ͍͑ن͍̓͆ ن. Cfr. M. HARL – G. DORIVAL, La chaîne palestinienne sur le Psaume 118 (Origène, Eusèbe, Didyme, Apollinaire, Athanase, Théodoret), I, Paris 1972 (Sources chrétiennes, 189), p. 466. 56 Matteo 21, 44. 57 Si può notare che Gregorio Palamas (1296-1359) — come il nostro scoliasta sembra fare — cita il versetto di Matteo usando entrambi i verbi ͎͖͐͒͋͑̽̀ e ͉͇͈μ̺͖: қ ̓͐ӈ͋ ͍ ͋حѨ’ ̿Ҡ͑ӄ͋ ͎͇̼͇͐͒͋͑̀͐̓͑̿, ͈̿ӂ Ѩ͓’ җ͋ њ͋ ̻͐Ԍ, ͉͇͈̼͇͊͐̓ ̿Ҡ͙͑͋. GREGORIUS PALAMAS, De Hesychastis, Trias II, 3, 46 [J. MEYENDORFF, Grégoire Palamas. Défense des saints hésychastes, II, Louvain 1959 (Spicilegium Sacrum Lovaniense. Études et Documents, 31), p. 483]. 58 «Serpente».
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ALCUNE NOTE MARGINALI IN MINUSCOLA DEL CODICE B
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11. a Esodo 4, 6 (p. 50: ̓͂ ̓ةҾ ̿Ҡ͑͑ ͍͈̻̤͋́̓͋͐҄ ͇͉̺͋ ͏͍͇͎͚̩ وӀ͋ ͔̺͎̓ل ͍͐͒ ̓҄͏ ͑ӄ͋ ͈͙͉͍͋ ͍͈͐͒̿ӂ ̼͈̓҄͐͋̓́̓ ͑Ӏ͋ ͔̓̿ ͎̿لҠ͍͑͑ ͏҄̓ نӄ͋ ͈͙͉͍͋ ̿Ҡ͍͑ن ͈̿ӂ Ѩ̼͈͌͋̓́̓ ͑Ӏ͋ ͔̓̿ ͎̿لҠ͍͑ نѨ͈ ͍͑̿ ͍͉͙͈͒ نҠ͍͈͑̿ نӂ Ѩ̼́̓͋͆ͅ ѵ ͔̓ӂ͎ ̿Ҡ͍͑ن ҭ͐̓ӂ ͔͇͛͋):
͔̓ӂ͎ ͉͎̺̓.59 Il secondo è la comparsa della lebbra sulla sua mano. 12. a Esodo 4, 9 (p. 50: ͉̼͕ͅ јӄ ͍͑ نҥ͍͂̿͑͏ ͍͈͑̿ ͍͍͒͊̿͑ نӂ Ѩ͈͔̻͇̓͏ Ѩӂ ͑ӄ ͎͙͈͌͋̿ͅӂ Ѭ͇͐͑̿ ͑ӄ ҥ͖͎͂ җ ѨҼ͋ ͉̺̀ͅ͏ јӄ ͍͑ ̿͊ت̿ ن͍͍͊̿͑ نѨӂ ͍͑)ن͍͎͌ͅ ن:
ҥ͖͎͂ ̓҄͏ ̻͉̿͋͆̀̿͑̓͊ͅ ̿͊ت60 L’ultimo è la conversione in sangue di un po’ di acqua attinta dal Nilo. 13. a Esodo 4, 11 (p. 50: ̲̽͏ Ѭ͖͈͂̓ ͙͐͑͊̿ ј͎͖͋͆͛ ͈̿ӂ ͑̽͏ Ѩ͍̽͐̓ͅ ͚͈͖͓͍͈͂͐͋̿ӂ ͈͖͓͙͉̻͍͈͋̀͋͑̿̿ӂ ͓͉͙͍͑͒͋Ҡ͈ Ѩ́ӈ ҕ ͙͆̓͏)61:
ҙ͎̿ ҙ͇͑ ͈̿ӂ ͑Ҽ ͑ ͏͖͚͓̓͐ ͏قѨ͉̿͑͑͛͊̿͑̿. ͑ ͇͋͐҄̓ ͏ق͉͍͒̀ ͏̿̽̓͆ ͏قѨ͔͙̘͌̓͊̓͋̿62 All’obiezione di Mosè, che si schermisce affermando di non essere un buon parlatore, Dio risponde ricordando la propria signoria su tutte le cose: è per volontà di Dio che un uomo nasce sordo e un altro muto, che uno è cieco e un altro è vedente. Lo scoliasta trova qui smentita la credenza ebraica secondo cui le malattie fisiche sarebbero delle punizioni per dei peccati commessi (cfr. Giovanni 9, 2), e addita la scoperta all’ipotetico suo interlocutore giudeo. 14. a Esodo 4, 15 (p. 50: ͈̿ӂ Ѩ́ӈ ј͍͖͋̽͌ ͑ӄ ͙͐͑͊̿ ͍͐͒ ͈̿ӂ ͑ӄ ͙͐͑͊̿ ̿Ҡ͍͑)ن63:
ҭ͏ ͈̿ӂ ͍͑ ͍͉̺͉͇͍͒́́͊ نҕ Ѩ͊ӄ͏ Ҍ͍͐ͅ͏ن64 Dio stesso «aprirà la bocca» di Mosè e quella di suo fratello Aronne quando saranno al cospetto del faraone. Anche Gesù — pensa lo scoliasta — compì un’azione analoga, quando «aprì la bocca» del muto (cfr. Matteo 9, 32-33). Perché dunque i farisei non lo riconobbero come mandato da Dio, ma affermarono, dopo che ebbe guarito il muto indemoniato: Ѯ͋ ͑و ќ͎͔͍͇͋͑ ͑ ͖͍͇͋̽͋͊̿͂ ͋وѨ͈̺͉͉͇̀̓ ͑Ҽ ͇͙͇͂̿͊͋̿65? 59
«Mano lebbrosa». «Acqua trasformata in sangue». 61 Il segno di rimando ( ) è sopra il secondo ͑̽͏. 62 «Vedi che anche i difetti fisici dipendono dalla volontà divina». Vedi Tav. III. 63 La frase, omessa per errore dal copista, è stata scritta da un antico correttore in calce alla terza colonna di p. 50. 64 «Come anche (la bocca) del muto il mio Gesù». 65 Matteo 9, 34. Cfr. supra il commento allo scolio nr. 7. 60
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PIETRO VERSACE
15. a Esodo 7, 17 (p. 54: ̺͉̻͇̩͚͎͇͍͑͂̓́̓͏¦Ѯ͍͚͖͋͑͑́͋͛͐ͅҙ͇͑Ѩ́ӈ̩͚͎͇͍͏ ¦͍҄͂ӆѨ́ӈ͚͖͑͑͑قԪ̺͖̀͂͑قѨ͍͎͇͔͋͑͒͊̽̓قѨӂ͑ӄҥ͖͎͂͑ӄѨ͈͋͑̿¦و͍͊̿͑وӂ ͉͊̓͑̿̀̿̓)̿͊ت̿͏҄̓ل:
͍͉͊̓͑̿̀Ӏ͑͋وҡ̺͖͂͑͋̓҄͏̿̿͊ت66 Inizia, con il capitolo settimo, il racconto delle dieci piaghe con cui venne colpito l’Egitto. La prima piaga — ricordata a margine dallo scoliasta — fu la trasformazione in sangue di tutte le acque del Paese. 16. a Esodo 8, 5 LXX (p. 55: ̓͂̓ةҾ̩͚͎͇͍͏͎ӄ͏̫͖͍͐͋͘ة̤͋قѠ͎̿ӈ͋͑و
ј͉͓͍͂̓͒͐وѲ͈͇͍͎͇͔͑̓͋͋͑̓قӂ͑Ӏ͋Ԫ̺͍͍̀͂͋͐͒Ѩӂ͍͑ӆ͏͍͍͑̿͊ӆ͏͈̿ӂѨӂ͑Ҽ͏ ͇͎͂͛͒́̿͏͈̿ӂѨӂ͑Ҽѭ͉͈̿ͅӂј̺͍͋́̿́̓͑ӆ͏͎̺͔͍̀̿͑͒͏): ј͖͋̿́́Ӏ ͎̺͔͖̘̀̿͑͋67 La seconda piaga fu un’invasione di rane. 17. a Esodo 8, 16 LXX (p. 56: ̤͂̓ةҾ̩͚͎͇͍͏͎ӄ͏̫͖̤͐҄͘¦͋قӄ͋Ѡ͎̿ӈ͋ Ѳ͈͇͍͑̓͋͋ ͎͇͔͑̓ قӂ ͑Ӏ͋ Ԫ̺͍̀͂͋ ͍͐͒ ͈̿ӂ ̺͍͑̿͌͋ ͑ӄ ͔͈̿ ͏ق́ ͏ق͑ ̿͊وӂ Ѭ͍͇͐͋͑̿ ͈͐͋͏͓̓لѬ͍͋͑̓͑͏لј͎͍͇͋͆͛͏͈̿ӂѨ͍͈͇͍̺͎͋͑̿͐͑̓͑͏لӂѨ̺͋͐́ͅ)͍͚̠͒͑́҄ق:
͈͓͐͋̽̓͏:– Ѩ͓’ ͍ ͍҅ ͏تѨ͍͇͍̿͂ӂ Ѵ͉̻͔́͆͐̿͋ͅ:–68 La terza piaga è significativa perché i maghi d’Egitto, con i loro incantesimi, non riuscirono a riprodurla. I prodigi di Mosè dunque (come i miracoli di Cristo) non si possono ritenere opera di magia69, devono avere un’origine divina. 18. a Esodo 8, 20-21 LXX (p. 56: ̤͂̓ةҾ̩͚͎͇͍͏͎ӄ͏̫͖͐͘¦͋قҞ͎͎͇͍͆͐͋ ͑ӄ ͎͖Ԛ ͈̿ӂ ͐͑ ͇͆قѨ͍͋̿͋͑̽͋ ̴͎̿̿ӈ ͈̿ӂ ͍҄͂ӆ ̿Ҡ͑ӄ͏ Ѩ͉͚͇͌̓̓͐̓͑̿ Ѩӂ ͑ӄ ҥ͖͎͂ ¦ ͈̿ӂѨ͎͎̓͏لӄ͏̿Ҡ͙̘̲̺͉̻͇̩͚͎͇͍͑͋͂̓́̓͏¦Ѯ͙͇͉͍͌̿͐͑̓͋͑ӄ͉͙͍͋̿͋͊͒҉͍͇͋̿͊ ͉͎͚͖͇̿͑̓͐͐͋Ѩ͋͑قѨ͎̼͖͊¦ѨҼ͋͂Ҿ͊Ӏ͍͚͉̀ͅѨ͍͇͉͌̿͐͑̓͑̿لӄ͉͙͍͍͋̿͋͊͒҄͂ӆ Ѩ́ӈѨ͍̻͉͉͖̿͐͑Ѩӂ͐Ҿ͈̿ӂѨӂ͍͑ӆ͏͎̺͍̺͆̓͋͑͏͍͈͐͒̿ӂѨӂ͑ӄ͉͙͍͈͋̿͋͐͒̿ӂ Ѩӂ͍͑ӆ͏͍҈͈͍͒͏ҡ͊( ͚͙͈͋̿͗͊͋͒͋وsic)):
͈͙͇̘͒͋͊͒̿Ѩ͚͍͋͑̿͑͐ͅ͏وҡ̴͈͉͎̓̽͆̿̿͛ͅ–70 Lo scoliasta rivolge particolare attenzione al progressivo cedere del faraone sotto i colpi della «pietra angolare, che è la mano forte di Dio» (cfr. supra lo scolio nr. 9). Con la quarta piaga, un devastante dilagare di tafani, 66
«Trasformazione delle acque in sangue». «Fuoriuscita di rane». 68 «Zanzare. Con esse gli incantatori furono confutati». 69 Cfr. supra, nt. 45. 70 «Tafani. Con questa piaga il faraone un poco fu piegato». 67
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«il faraone un poco fu piegato». Dice infatti a Mosè: Ѯ́ӈ ј͍̻͉͉͖͐͑ ҡ͊͏ـ ͈̿ӂ ͚͆͐̿͑̓ ͑ و̓͆ وҡ͊ ͋وѨ͋ ͑ قѨ͎̼͖͊ ј͉͉’ ͍Ҡ ͈͎͊̿Ҽ͋ ј͍͇͑̓͋̓̿͋ق͎͍͆͒̓ ̓͑ل ̓Ҥ͌̿͐͆̓ ͍͎̓ ͋حӂ Ѩ͍͎͊ نӄ͏ ̩͚͎͇͍͋71. 19. a Esodo 9, 1-3 (p. 57: ̤͂̓ةҾ̩͚͎͇͍͏͎ӄ͏̫͖͎͉͐̓͆̓͐͘҈̤͋قӄ͏̴͎̿̿ӈ ͈̿ӂѨ͎̓̿͏لҠ͑͏͍͇͎͚̩͇̻͉̺̲̘̓́̓͂وҕ͆̓ӄ͏͑͋وѯ͎͖̀̿̽͋¦Ѯ͙͇͉͍͌̿͐͑̓͋͑ӄ͉͙͋̿͋ ͍͊͒҉͍͇͉͎͚͖͇͋̿͊̿͑̓͐͐͋¦̓҄͊Ҿ͍͋͊͋حӀ͍͚͉͇̀̓Ѩ͍͇͉͌̿͐͑̓͑̿لӄ͉͙͍͋̿͋͊͒ј͉͉ Ѭ͇͑Ѩ͈͎́̿͑̓̿͏لҠ͍͍͑͂҄نӆ͔̓ӂ͎̩͎͍͒̽͒Ѩ̻͇͐͑̿Ѩ͍͋͑͏ل͍͍̼͈͑͒͐̽͐̓͋͑͏لѨ͍͋͑͏ل ͍͇̓͂̽͏Ѭ͍͈͋͑̓͑̿͏͇͍҉͏لӂѨ͍͋͑͏لҡ͍͍͇̈́͒́̽͏͈̿ӂ͈͑̿̿͏͇͍͉̼͈͊̿͏لӂ͍̀͒͐ӂ͈̿ӂ ͎͍̺͍͇̀͑͏̺͍͆͋̿͑͏̻͊́̿͏͓͙͎͐͂̿):
͓͍͎͆Ҽ ͖̈́͛͋:–72 La quinta piaga fu lo sterminio di tutto il bestiame degli Egiziani. 20. a Esodo 9, 8-9 (p. 57: ̤͂̓ةҾ̩͚͎͇͍͏͎ӄ͏̫͖͈͐̿͋͘قӂѠ͎̿ӈ͉̻͖͋́͋ ̪̺̀̓͑̓ҡ͊̓͑͏͇͎̼͉̓͏لҼ͏͔͈̓̿͏͇͈̿̽̿͋͊̿͏͉̺͆҄̿ͅ͏͎̿لӂ̺͖̫͖̿͐͑͐͑͘͏҄̓͏قӄ͋ ͍Ҡ͎̿͋ӄ͋Ѩ̴͍͎͋̿͋͑̽͋̿̿ӈ͈̿ӂѨ͍͖͙͎͋̿͋͑̽͋͑̿͋͑͋̿̓͆͋وҠ͍͈͑̿نӂ̼͖́̓͋͆͑ͅ ͈͍͇͍͎͋͑ӄ͏ Ѩӂ ͑ ͋̿͐ـӀ͋ ͈́̿ ͍͚̠͒͑́҄ ͋قӂ Ѭ͇͐͑̿ Ѩӂ ͍͑ӆ͏ ј͎͍͋͆͛͒͏ ͈̿ӂ Ѩӂ ͑Ҽ ͎̺͍͑̓͑͂̿ ѭ͉͈ͅ ͓͉͈͒͑̽͂̓͏ ј̻͍͇͋̿̈́͒͐̿ Ѭ͋ ͑̓ ͍͑ ͏لј͎͍͇͋͆͛͏ ͈̿ӂ Ѩ͋ ͍͑͏ل ͎̺͍͇͈͑̓͑͐̿ӂ̺͐́ͅ)͍͚̠͒͑́҄ق:
ѭ͉͈ͅ ͈̿ӂ ͓͉͈͒͑̽͂̓͏̘73 La sesta piaga fu un pulviscolo diffuso che produsse, sugli uomini e sugli animali, un’ulcera con pustole. 21. a Esodo 9, 13-18 (p. 57: ̓͂̓ةҾ̩͚͎͇͍͏͎ӄ͏̫͖͍͐͂҄͘§͋قӆѨ́ӈҥ͖ ͚͑̿͑͋͑ͅӀ͎͋͋̿رP®B ̿Ҥ͎͇͍͔̺͉͍͉͉͋̿̈́̿͋Ӏ͓͙͎͋͐͂̿ѹ͇͑͏͍͇͚͍͑̿͑ͅҠ̻͍́́͋̓͋ Ѩ̠͚͖͋҄́͑ј͓͏ئѵ̻͎͊̿͏Ѭ͈͇͇͑͐͑̿ѭ͖͏͑͏قѵ̻͎͊̿͏͚͑̿͑ͅ͏):
͔̺͉̘̿̈́̿74 La settima piaga fu una grandine violentissima mista a vampe di fuoco che abbatté tutto ciò che si trovava nei campi: uomini, animali, piante. 22. a Esodo 9, 27 (p. 58: ј͍͉͐͑̓̽̿͏͂Ҿ̴͎̿̿ӈѨ͈̺͉̫͖͈̓͐̓͐̿͋͘قӂѠ͎̿ӈ͋ ͈̿ӂ ̓̿ ͋̓ةҠ͍͑ ͏لѽ̺͎͈͊͑̿ͅ ͑ӄ ͋ ͋نҕ ̩͚͎͇͍͏ ͈͇͍͂̽̿͏ Ѩ́ӈ ͂Ҿ ͈̿ӂ ҕ ͉͙̿͏ ͍͊͒ ј͐̓̀̓)͏ل:
ҙ͎̿ ҙ͖͏ Ѩӂ ͈͑̿ ̺͉͔̈́̿ͅ قӂ ͎͑͒ وӂ ͎͐͒͋̓͑̽̀ͅ ̴͍͎͐͛̿̿ ͏و75 71
Esodo 8, 28 LXX. «Mortalità del bestiame». 73 «Ulcere e pustole». 74 «Grandine». 75 «Vedi come con la grandine e il fuoco il faraone un poco fu frantumato». Vedi Tav. IV. 72
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Di nuovo l’attenzione dello scoliasta è rivolta al progressivo «frantumarsi» del faraone (cfr. supra scolio nr. 18). 23. a Esodo 9, 31-32 (p. 58: ͑ӄ ͂Ҿ ͉͇͋ӄ͋ ͈̿ӂ ѵ ͈͎͇͆Ӏ Ѩ͉̼́ͅ ѵ ́Ҽ͎ ͈͎͇͆Ӏ ͎͈̿̓͐͑͒͑̿ͅلӄ ͂Ҿ ͉͇͋ӄ͋ ͎͍͐̓͊̿͑̽̈́͋ҕ ͂Ҿ ͎͒ӄ͏ ͈̿ӂ ѵ Ҕ͉͎͒̿ ͍Ҡ͈ Ѩ͉̼́͐̿͋ͅ Ҙ͕͇͊̿ ́Ҽ͎ )͋إ:
͐͊ͅ(͖͇̓̽͐̿)̘ҕ͍ ͖̺͎͋͑͊̓͐ ͋و͑ ̿لѨ͉̼̘́͐̿͋ͅ76 Per lo scoliasta è importante l’indicazione delle piante che furono colpite dalla piaga della grandine: si tratta infatti dell’unica informazione che il testo biblico offre per identificare il periodo dell’anno in cui avvengono i fatti narrati. Quando gli Israeliti escono dall’Egitto «l’orzo ha la spiga e il lino è in fiore» (ѵ ́Ҽ͎ ͈͎͇͆Ӏ ͎͈̿̓͐͑͒͑̿ͅلӄ ͂Ҿ ͉͇͋ӄ͋ ͎͍͐̓͊̿͑̽̈́͋). Il «primo mese dell’anno», dunque, nel quale si dovrà celebrare la Pasqua77, corrisponderà all’epoca in cui queste piante sono mature78. Il quattordicesimo giorno di questo mese lunare79 coinciderà con la data del plenilunio80. 24. a Esodo 10, 3 (p. 58: ͉̓҄͐͂̓͆قҾ̫͖͈͐̿͘͏قӂѠ͎̿ӈ͋Ѩ̴͍͎͋̿͋͑̽͋̿̿ӈ
͈̿ӂ ̓̿ ͋̿ةҠ͑ ͏͍͇͎͚̩ ͇̻͉̓́ ̺̲̓͂ وҕ ͆̓ӄ͏ ͑ ͋وѯ͎͖̀̿̽͋ ѳ͖͏ ͍͑̽͋͏ ͍Ҡ ͍͚͉͇̀̓ Ѩ͎͋͑̿̓͊̽̿͋قѨ͙͇͉͍͌̿͐͑̓͋͑ӄ͉͙͍͋̿͋͊͒҉͉͎͚͖͍͇͋̿̿͑̓͐͐̽͊ѨҼ͋͂Ҿ͊Ӏ̻͉͆ͅ͏ ͐ӆѨ͍͇͉͌̿͐͑̓͑̿لӄ͉͙͍͍͋̿͋͊͒҄͂ӆѨ́ӈѨ̺͖͚́͑̿͑͋͑ͅӀ͋( ͎͋̿رsic)̿Ҥ͎͇͍͋ ј͈͎(̿͂لsic)͍͉͉Ӏ͋Ѩӂ̺͋͑̿͑Ҽҙ͎͇͍̿͐͒): ј͈͎̽͂̓͏̘81 L’ottava piaga fu un’invasione di cavallette. 25. a Esodo 10, 7 (p. 59: ͈̿ӂ͉̻͍͇͍͎̺͍́͒͐͋҅͆̓͋͑̓͏̴͎̿̿ӈ͎ӄ͏̿Ҡ͙͑͋¦ ѳ͖͏ ͍͑̽͋͏ Ѭ͇͐͑̿ ͍͑ ͍͑نѵ͊ ͍͉͋و͈͐ ͋لѨ͙͇͉͍͌̿͐͑̓͋ ͍͑ӆ͏ ј͎͍͋͆͛͒͏ ҙ͖͏ ͉͎͚͖͇̿͑̓͐͐͑̿و̓͆وҠ͑͋وѶ̻͇͍͚͉͇̓҄͂͋̿̀̓ҙ͇͑ј͙͉͖͉̠̓͋҈͍́͒͑͏): 76
«Bada bene: quali colture furono colpite». Esodo 12, 2. 78 Si legga tuttavia il seguente commento: «Es wird nämlich allgemein der chodeš-haabib mit “Monat der Fruchtreife” oder “Ährenmonat” identifiziert und übersetz. Motiviert wird diese Interpretation mit Exodus IX 31 (…). Die Plage des Hagels, die siebente der vorbereitenden Plagen, auf welche eben Exod. IX 31 Bezug hat, war gewiß nicht im Monat Nisan (…). Und wenn wir der Tradition Rechnung tragen, derzufolge die Plagen mit 1. Ab begannen und in monatlichen Intervallen aufeinander folgten, dann fiel die siebente Plage auf 1. Šebat, d. i. mit Rücksicht auf das Jahr des Exodus (1335 v. Chr.) der 13. Januar d. J. 1335 v. Chr.» (E. MAHLER, Handbuch der jüdischen Chronologie, Hildesheim 1967, pp. 79-80). 79 Cfr. Esodo 12, 6. 80 Sulla «questione pasquale», trattata in particolare al primo concilio ecumenico di Nicea, cfr. I. ORTIZ DE URBINA, Nicée et Constantinople, Paris 1963 (Histoire des conciles œcuméniques, 1), pp. 93-95. 81 «Cavallette». 77
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ҙ͎̿ ҙ͖͏ ͎͍͇̺͍͇͐̀̈́͋͑̿ ͈̿ӂ ͍҅ ̴͎̿̿ӈ ͎̺͍͆̓͋͑̓͏ ͑Ӏ͋ ͑ ͋وҌ͍͖͒͂̿̽͋ ј͙͉͇̘͒͐͋82 Dopo la piaga delle cavallette furono gli stessi ministri a supplicare il faraone di lasciare partire gli Israeliti. 26. a Esodo 10, 21 (p. 59: ̤͂ ̓ةҾ ̩͚͎͇͍͏ ͎ӄ͏ ̫͖͐͘ ̘ ͋قѲ͈͇͍͑̓͋͋ ͑Ӏ͋ ͔̓͑͏͍̺͎҄̓͒͐لӄ͍͋Ҡ͎̿͋ӄ͈͋̿ӂ̼͖͈͙͍́̓͋͆͑͐͑ͅ͏Ѩӂ͓͉͕͍͚̠́͑̿͒͑́҄͋ͅͅقӄ͋ ͈͙͍͐͑͏).
͈͙͍͐͑͏ ͎͇̼͎͍̘͑͊̓͋83 Con la nona piaga dense tenebre ricoprirono tutto l’Egitto per tre giorni. 27. a Esodo 10, 28 (p. 60: ͈̿ӂ ͉̻͇́̓ ̴͎̿̿ӈ Ѥ͉̓͆̓ ј’ Ѩ͍͔͙͎͊̓̓͐ ن ͐̓̿͒͑ وѬ͇͑ ͎͍͐͆̓͑ ͍͒͊ ͋ل̓͂҄ ͇̿͋لӄ ͎͙͖͍͐͋ ’͂ ئњ͋ ѵ̻͎͊̿ Ҕ͓͆ ͇͍͊ ͏قј͍̺͆͋ͅ (sic)):
Ҕ͎́Ӏ ͓͍͎͐͂Ҽ ̴͎̿̿ӈ ͈̿͑Ҽ ̫͖̻͍͐͘͏84 Dopo la piaga delle tenebre il faraone diede a Mosè il permesso di lasciare l’Egitto insieme col popolo: soltanto gli armenti sarebbero dovuti rimanere nel Paese. Di fronte al dissenso di Mosè il sovrano andò in collera. 28. a Esodo 11, 4-5 (p. 60: ̩̿ӂ͎̯̓̓͏͍͇͎͚̩͇̻͉̺̲̓́̓͂͏ق͖̫͐̓͘ةӂ̻͊͐̿͏ ͚͈͋͑̿͏Ѩ́ӈ͍͎͚͍͇̓҄͐̓͊̿̓҄͏̻͍̠͚͍͈͊͐͋҄́͑͒̿ӂ͉̼͇͍͈͍͙͖͎͑̓̓͒͑͐̓͋͑͑͋ـ Ѩ͖͚̠͋́͑́҄قјӄ̴͎͖͍͙͈͍͎͑͑͒̿̿ӈҗ͏͈̺͇͆͑̿ͅѨӂ͍͈͍͙͎͑̿͒͋͆نӂѭ͖͏͎͖͍͙͈͍͎͑͑͒͑̿͏ق͑͏͎͋̽̿̿̓͆ͅ͏قҼ͑ӄ͋͊( ͍͉͋نsic)͈̿ӂѭ͖͏͎͖͍͙͈͍͑͑͒̿͋͑ӄ͏ ͈̼͍͑͋͒͏):
͓͍͎͆Ҽ ͎͖͍͙͈͖̘͑͑͋85 La decima piaga fu la più terribile: morirono tutti i primogeniti degli Egiziani, uomini e bestie. 29. a Esodo 12, 1-3 (p. 60: ̤͂̓ةҾ+͚͎͇͍͏͎ӄ͏̫͖͈͐̿͋͘قӂѠ͎̿ӈ͋Ѩ͋́ق ̠͚͍͉̻͖҄́͑͒́͋қ͊Ӏ͍͋͏͍͑خҡ͊͋لј͎͔Ӏ͊͋ͅ͏͍͑و͎͋وѨ͐͑ӂ͋ҡ͊͋لѨ͍͋͑͐͊ͅ͏لӂ ͍͑نѨ͇͍͎͍͉̺͉͋̿͒͑͋͐ͅنӄ͏͖́́̿͋͒͐͋̿͐ـӀ͋͒҅͋وҌ͎͐̿Ӏ͉͉̻͖̲̺͈́͋͑̓͂ͅق ͍͑͋͊ͅنӄ͏͍͚͍͉̻͖͑͑͒̿̀͑͐̿͋ѭ͈͍̿͐͑͏͎͙͍͈͍̀̿͑͋̿͑҈͈͍͒͏͎͇̿͑͋وѭ͈͍̿͐͑͏ ͎͙͍͈͍͈̀̿͑͋̿͑҄̽̿͋): 82 «Vedi come anche i ministri del faraone pretendono con forza la liberazione degli Ebrei». 83 «Tenebre per tre giorni». 84 «Veemente collera del faraone contro Mosè». 85 «Morte dei primogeniti».
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ҙ͎͎̿̓ӂ͍̺͍͎͑͒͑̀ن͍͑͏͖͕̼͉̓͏ق86 Nel capitolo XII viene narrata l’istituzione della festa di Pasqua. Il Nostro interpreta il rito come una prefigurazione del banchetto eucaristico (cfr. infra). L’agnello immolato è in realtà Cristo, secondo l’immagine di Isaia: ҭ͏ ͎͙͍̀̿͑͋ Ѩӂ ͓͐̿́Ӏ͋ Ѹ͔͆ͅ ͈̿ӂ ҭ͏ ј͊͋ӄ͏ Ѩ͍͋̿͋͑̽͋ ͍͑͏͍͍͎͈͑͋̽̓ ن ќ͓͖͍͋͏ ͍ҥ͖͑͏ ͍Ҡ͈ ј͍͇͋̽́̓ ͑ӄ ͙͐͑͊̿ ̿Ҡ͍͑ن87. 30. a Esodo 12, 31 (p. 62: ͈̿ӂ Ѩ͈̺͉̓͐̓͋ ̴͎̿̿ӈ ̫͖͈͐̿͘ ͋قӂ Ѡ͎̿ӈ͋ ͈͋͒͑ӄ͏ ͈̿ӂ ̓̿ ͋̓ةҠ͍͑ ͏لѠ̺͋͐͑͑̓ͅ ͈̿ӂ Ѩ̻͉͌͆̿͑̓).
̱͊ͅ(͖͇̓̽͐̿)88 Lo scoliasta evidenzia il momento in cui, finalmente, dopo la morte di tutti i primogeniti d’Egitto, il faraone cedette89. 31. a Esodo 12, 43-44 (p. 62: ̤͂ ̓ةҾ ̩͚͎͇͍͏ ͎ӄ͏ ̫͖͈͐̿͘ ͋قӂ Ѡ͎̿ӈ͋ ͉̻͖̮́͋͏͍͑خҕ͙͍͋͊͏͍͑͏ـ͔̿͐̿نј͉͉͍́̓͋Ӏ͏͍Ҡ͈Ѭ͇͂̓͑̿ј̿Ҡ͍͈͑̿نӂ̺͋͑̿ ͍͈̻҄͑͋ͅѶј͎͎͍͎͇̻͇́͒͛͋͑͋̓͑͊̓ͅ͏ (sic) ̿Ҡ͑ӄ͈͋̿ӂ͙͓̺͇͑͑̓́̓͑̿ј̿Ҡ͍͑)ن:
͂̓́ لҼ͎ Ѩ͈ ͑ ͏قљ͎͊̿͑̽̿͏ Ѩ͉͎͖͈̓͒͆̓͆̿ ͇̿͋قӂ ͍ҥ͖͑͏ Ѩ͋ ͉̼͕͇͊̓͑̿̓ ͑͋و љ͇̺͖́̿͐͊͑͋ ̻͇̘́̓͋͐͆̿90 Il testo biblico prosegue indicando le norme per la celebrazione della Pasqua. Nessuno straniero potrà mangiare le carni dell’agnello. Il servo o lo schiavo comprato con denaro dovrà prima essere circonciso, poi potrà accostarsi alla mensa. Queste parole alludono, per lo scoliasta, al Sacramento del Battesimo: come anticamente era necessaria la circoncisione per mangiare la Pasqua, così, nella Nuova Alleanza, solo dopo essere stati liberati dal peccato attraverso il Battesimo si può ricevere l’Eucaristia. L’analogia fra la circoncisione e il Battesimo viene così illustrata da Eutimio Zigabeno (Costantinopoli, XII secolo): ̱͊̓̿͐ͅح͍͋ح͍͍͋لѵ͎͇͍̼̓͑͊ ͍Ҡ
͔͎͇̓͏͍͉̻͊͏̓͂وј͍̻͇͍͑͊͋̓͑ ͏͍͑̿͊͛͐نј͉͉Ҽ͎͖̓̽͑͑͊̿ќ͔͎͍̘͍͐͑͋ͅҥ͖͇͑͂Ҽ͍͑ن ͍̀̿͑̽͐͊̿͑͏͑Ӏ͋љ͎͎͇͙͊̿͑̽̿͋̓͑̓͊͋͊̓͆̿ѽ͂Ҿљ͎͍͉͊̿͑̽̿͂͋قҭ͏͎͖̓̽͑͑͊̿ Ѩ͇͆͒͊̽̿͏Ѩ͐͑̽ ͈̿ӂ͍Ҡ͔͎͇̓͛͂ͅ͏Ѩ͇͆͒͊̽̿91. 86
«Guarda (ciò che si dice) sul prendere l’agnello». Isaia 53, 7. Cfr. anche Geremia 11, 19 e IUSTINUS, Dialogus cum Tryphone Iudaeo, 40, 1 (BOBICHON, Justin martyr cit., vol. I, p. 282. PG, 6 cit., col. 561 B): ̲ӄ ̼͎͇͍͊͒͐͑͋ ͍͍͎ ن͍͑ ͋ح̺͍̀͑͒, җ ͑ӄ ̺͔͐̿ ͚͇͆̓͋ Ѩ̻͉͇͋͑͑̿͑̿ ҕ ͙͆̓͏, ͚͍͑͏ ن̵͍͇͎͑͐ ن͍͑ ͋إ. 88 «Bada bene». 89 Nessuna potestà di questo mondo può resistere alla potenza di Cristo. Cfr. supra lo scolio nr. 9. 90 «Bisogna infatti essere liberati dal peccato e così prender parte alle cose sante». Vedi Tav. V. 91 EUTHYMIUS ZIGABENUS, Panoplia dogmatica, Titulus VIII (PG, 130, Lutetiae Parisio87
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32. a Esodo 12, 46 (p. 62: Ѩ͋ ͍͈҄̽̿ ͇͊)͇̼͖͎̿͑̓͐͆̀ ـ92:
Ѩ͋ ͈͎̿͂̽̿ ͈͎̿͆̿ ̘ـѵ ́Ҽ͎ ј͋̿͊ӂ͌ ͑Ҽ ͈͉̿Ҽ ͊̓͑Ҽ ͑ ͋و͈͈̿ ͋وѬ͔͍͒͐̿, ͍Ҡ ͊̽̿ ͍Ҡ ́Ҽ͎ ͍͙͎͍͍͊͋͑͏:–93 L’agnello andrà consumato «in un’unica casa». Per lo scoliasta la casa «unica» significa il cuore puro, non contaminato dal male. Solo chi ha un cuore così può ricevere la Santa Comunione94. 33. a Esodo 12, 46 (p. 62: ͍Ҡ͈ Ѩ͍͌̽͐̓͑̓ Ѩ͈ ͑ ͋و͎͈̓ ͋و͑ ͏͈͍̿̽҄ ͏قѬ͖͌)95:
͍Ҡ ̼͊ (sic) ́Ҽ͎ ͍͑ ͏لѨ͔͎͍͆͑ ͍͒͐ ͏لӄ ̼͎͇͍͊͒͐͑͋ ̓҈͖96. Questo breve scolio è un frammento del celebre inno liturgico «̲͍ن ͍͂̓̽͋͒ ͍͐͒ ͍͑»ن͍͈͇͑͐͒͊ ن97, ancora oggi cantato alla Comunione nel rito bizantino98:
̲͍ن͍͈͇͑͐͒͊ن͍͍͍͑͒͐͒͋̽̓͂ن ̼͎͍̳͐͊̓͋҅Ҿ̧͍̓ن ͈͍͇͖͙͎̺͉̘͋͋͋͊̓̿̿̀̓ ͍Ҡ͊Ӏ́Ҽ͎͍͑͏لѨ͔͎͍͍͆͒͐͏ل rum 1865, col. 305 A). In questo passo Zigabeno cita IOHANNES DAMASCENUS, Expositio fidei, IV, 25, «͎̓ӂ ͑[ »͏ق͍͇͎͊͑̓ ͏قB. KOTTER, Die Schriften des Johannes von Damaskos, II: Ѳ͈͍͇͂͐͏ ј͈͎͇̀Ӏ͏ ͑ ͏قҔ͎͍͙͍͆͂͌͒ ͖̽͐͑̓͏, Berlin – New York 1973 (Patristische Texte und Studien, 12), p. 231. PG, 94, Lutetiae Parisiorum 1860, col. 1213 C]. 92 Il segno di rimando ( ) è sopra la parola ͍͈҄̽̿. 93 «In un cuore puro. Il cuore infatti che ha in sé promiscuamente bene e male non è uno: non è infatti d’un solo genere». Vedi Tav. V. 94 Questa interpretazione di Esodo 12, 46 è singolare (non ho trovato precedenti). Già Giustino, però, assimilava «la casa» in cui era consumato l’agnello al credente. IUSTINUS, Dialogus cum Tryphone Iudaeo, 40, 1 (BOBICHON, Justin martyr cit., vol. I, p. 282. PG, 6 cit., col. 561 B): ̲ӄ ̼͎͇͍͊͒͐͑͋ ͍͍̺͍͎͒͑̀ ن͍͑ ͋ح, җ ͑ӄ ̺͔͐̿ ͚͇͆̓͋ Ѩ̻͉͇͋͑͑̿͑̿ ҕ ͙͆̓͏, ͚͍͑͏ ن͍͑ ͋إ ̵͎͇͍͐͑ن, ͍͈͑̿ ͇͑̿͊҉̿ ى͑ خҼ ͑ӄ͋ ͉͙͍́͋ ͑̿ ͏҄̓ ͏قҠ͑ӄ͋ ͖̽͐͑̓͏ ͔͎͍͇̽͋͑̿ ͍͑ӆ͏ ͍҈͈͍͒͏ ѩ̿͒͑͋و, ͍̻͇͑͒͑͐͑͋ ѩ͍͚̿͒͑͏, ͍҅ ͇͚͍͐͑̓͋͑̓͏ ̓҄͏ ̿Ҡ͙͑͋. Origene (ORIGENES, Selecta in Exodum), commentava così il versetto: ̤҄ ́Ҽ͎ Ѩ͋ Ѯ͈͈͉͐̽ͅӽ Ѩ͇͐͆̽̓͏ ͉͙͍́͒͏ ̧͍̓ن, Ѩ͇͐͆̽̓͏ ͂Ҿ ͈̿ӂ Ѩ͋ Ҍ͍͖͒͂̿̽͋ ͖͐͒͋̿́́ك, ͎͇̿̿̀̿̽͋̓͏ ͑Ӏ͋ ͉̻͍́͒͐̿͋ Ѩ͍͉͋͑Ӏ͋, «Ѯ͋ ͍͈҄̽ӽ ͇͊»͇̼͖͎̿͑̓͐͆̀ ف. ̤҄ ͂Ҿ ͉̺͇͊̓͑̿̿͊̀͋̓͏ ͉͙͖́͋ ̧͍̓ن, Ѩ͋ ͍͈҄̽ӽ ͇͊ ك͑ فѮ͈͈͉͐̽ͅӽ̘ ͇͉͈̓̿͑̿ ̿͑ةӈ͋ ̿Ҡ͑Ӏ͋, ҡ͍͉̺͇̿͊̀͋̓͏ ͉̺͇͊̓͑̿̿͊̀͋̓͋ ̧͍̓ نѨ͋ ͎͇͈̿҅̓͑ك͖́́̿͋͒͐ ك, ͉͍͚̓́͐ͅ͏ ͑ ͏قѨ͍͉͋͑« ͏قѮ͋ ͍͈҄̽ӽ ͇͊»͇̼͖͎̿͑̓͐͆̀ ف, ͐ӆ ͍Ҡ͈ Ѩ͇͐͆̽̓͏ Ѩ͋ ͍͈҄̽ӽ ͇͊ف. ̫̽̿͋ ͍͑ ͈͍͋̿̽҄ ͇̿͐ق͍͋ ͋حӀ͋ Ѯ͈͈͉̘͐̽̿͋ͅ ͍͊͂̿͊ͅ ͋ح͍ نѬ͇͐͆̓ ͍͑ ͍̺͍͎͒͑̀ نѬ͖͌ ͙͍́̓͋͊̓͋͏ ͑͏ق Ѯ͈͈͉͐̽̿ͅ͏ (PG, 12 cit., coll. 285 D – 288 A). 95 Il segno di rimando ( ) è sopra la parola ͍͈҄̽̿͏. 96 «Non c’è da temere infatti che io dica ai tuoi nemici il mistero». Vedi Tav. V. 97 Per tale informazione sono grato al Professor Enrico Cattaneo S. I., Ordinario di Patrologia presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sezione san Luigi, Napoli. 98 Cfr. ҍ͎͇͈͙̓̿͑͋, ͎͇̻͔͍̓͋ ͑Ҽ͏ Ѡ͈͍͉͍͒͆̽̿͏ ͍͑ نѯ͎͇͍͈͐̓͋̿ نӂ ͍͑ نҞ͎͎͍͆͒, ͑Ҽ͏ ͆̓̽̿͏ ͈̿ӂ ͎҅̓Ҽ͏ ̪͇͍͎̓͑͒́̽̿͏ Ҍ͖̺͍͋͋͒ ̵͍͍͙͍͎͑͒͊͑͐͐͒ ن, ̡͇͉͍̿͐̓̽͒ ͍͈͑̿ ͍͉̺̫͒́̓ نӂ ͖̻͇͍͎̯͑͋͋͊͐̿́ͅ ͋و, ͊̓͑Ҽ ͑͋و͈͍͎͆͐ͅ ͖̼͋͆͋͒͐ ͋و, Ѩ͋ ̰͛͊Ԍ 1950, p. 148.
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PIETRO VERSACE
͑ӄ̼͎͇͍͊͒͐͑͋̓҈͖̘ ͍Ҡ͓͉̺͍͇͖̽͊͐͂͛͐ͅ ͈̺͎̿͆̓ҕҌ͍͚͂̿͏̘ ј͉͉ҭ͏ҕ͉Ԍ͐͑Ӏ͏ҕ͍͉͍̘͇͍͊́͐و ̫̼͍͋͐͆͑̽͊͒ͅ ̩͚͎͇̓ Ѩ͉͇͋͑̽̓͐̿̀كӽ͍͐͒. All’epoca dello scoliasta esso era conosciuto pressoché ovunque in ambito greco99 (ne esisteva persino una traduzione latina usata come antifona Post-Evangelium nel rito ambrosiano100), ma godeva di favore soprattutto a Costantinopoli, dove era cantato tre volte nella Messa serale del Giovedì Santo: all’Offertorio (al posto del Cheroubikon101, l’inno che di norma accompagnava la processione con cui si portavano i doni all’altare), alla Comunione, e di nuovo al termine della Comunione come canto di ringraziamento (al posto dell’Apolytikion: ̯͉͎͖̼͖͆͑ͅ ͑ӄ ͙͐͑͊̿ ѵ͊͋و102 …)103. Non stupisce quindi che il Nostro l’avesse in mente, mentre interpretava in chiave eucaristica il rito della Pasqua ebraica. Riguardo al nesso tra «portare le carni fuori di casa» e «comunicare ai nemici il mistero» si confronti 99 In C. HÖEG – G. ZUNTZ, Prophetologium, I, fasc. IV, Hauniae 1960 (Monumenta Musicae Byzantinae. Lectionaria, 1:1), p. 391, sono indicati (con il simbolo ̱) una serie di codici dei secoli X e XI, provenienti da diverse regioni, che contengono l’inno. Si veda anche K. LEVY, A Hymn for Thursday in Holy Week, in Journal of the American Musicological Society 16 (1963), pp. 129-132 e nt. 22. 100 Coenae tuae mirabili / hodie, Filius Dei, / socium me accipis: / non enim inimicis tuis / hoc Mysterium dicam: / non tibi dabo osculum / sicuti et Iudas; / sed sicut latro / confitendo Te: / memento mei, Domine, / in Regno tuo. Cfr. M. NAVONI, «Antiphona ad crucem». Contributo alla storia e alla liturgia della Chiesa milanese nei secoli V-VII, in Archivio ambrosiano 51 (1983), pp. 49-226: 130-133. La versione ambrosiana di questo antico tropario greco mi è stata segnalata da mons. Cesare Pasini, che vivamente ringrazio. 101 ̮҅͑Ҽ̵͎͍̓͒̀ӂ͇͈͊͊͒͐͑§͏͍͍͈̓͑͋̈́̽͋҄̓͏وCfr. R. F. TAFT, The Great Entrance. A history of the transfer of gifts and other preanaphoral rites of the Liturgy of St. John Chrysostom, Roma 1975 (Orientalia Christiana Analecta, 200), pp. 53-118. 102 Cfr. R. F. TAFT, A history of the liturgy of St. John Chrysostom, V: The precommunion rites, Roma 2000 (Oriantalia Christiana Analecta, 261), pp. 288-300 e ID., A history of the liturgy of St. John Chrysostom, VI: The communion, thanksgiving, and the concluding rites, Roma 2008 (Orientalia Christiana Analecta, 281), pp. 454-494. 103 Per queste notizie cfr. LEVY, A Hymn for Thursday in Holy Week cit., pp. 127-175, in particolare p. 129. J. MATEOS, Le Typicon de la Grande Église: Ms. Sainte-Croix n. 40, Xe siècle, II: Le cycle des fetes mobiles, Roma 1963 (Orientalia Christiana Analecta, 166), pp. 76-77. R. F. TAFT, A history of the liturgy of St. John Chrysostom, V: The precommunion rites cit., pp. 307-13. Giorgio Cedreno (XI-XII secolo) ci informa che fu Giustino II a prescrivere, nell’anno 573/574, che l’inno fosse cantato nella Liturgia del Giovedì Santo. GEORGIUS CEDRENUS, Compendium Historiarum [I. BEKKER, Georgius Cedrenus Ioannis Scylitzae ope suppletus et emendatus, I, Bonnae 1838 (Corpus scriptorum historiae Byzantinae), pp. 684-685; PG, 121, Lutetiae Parisiorum 1864, col. 748 B]: ̲ ̑͆ ىѬ͇͑̓ … Ѩӂ ͍͚͍͑͑͒ (Giustino II) Ѩ͑͒͛͆ͅ ͕̺͉͉͇̓͐͆̿ ͉̺͑́̓͊ كԌ ̓̑ «͍͑»ن͍͈͇͑͐͒͊ ن͍͑ ن͍͐ ͍͒͋̽̓͂ ن.
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l’esegesi di Origene al medesimo passo: Ѯ͈͈͉͇͇͈͐̿͐͑ͅӄ͋ ͉͙͍́͋ ͍Ҡ ͂̓ لѬ͖͌ ͑ ͏قѮ͈͈͉͐̽̿ͅ͏ ͎͚͇̓͐̀̓̓͋, ҭ͏ Ѭ͖͌ ͑͊ ͏͈͍̿̽҄ ͏قӀ Ѩ͈͓̻͎͇̓͋ ͑Ҽ ͈͎̻̿, ͓͊ͅӂ ͂Ӏ ̓҄͏ ͖͐͒͋̿́́Ӏ͋ Ҍ͍͖͒͂̿̽͋ Ѷ ͎͇͈̿҅̓͑ ̘͋وҙ͍͇͍͊͋ ̺͎́ Ѩ͇͐͑͋ ͑ ىԪ͍͑« ͇͕̿لӆ͏ ͎͎͊̿́̿̽͑̿͏ Ѭ͎͍͊͐͆̓͋ ͖͎͍͔͑͋̽ ͋و104»105. 34. a Esodo 13, 15 (p. 63: ѵ͈͋̽̿͂ҾѨ̴͈͉̼͎͎͐͒͋̓̿̿ӈѨ͍͇͉͌̿͐͑̓̿لѵ͊͏ـ ј̻͈͇͍͈͍͙͖͎͑̓͋̓͋͑͑͋ـѨ͖͚̠͋́͑́҄قјӄ͎͖͍͙͈͖͑͑͋ј͎͖͋͆͛͋ѭ͖͏͎͖͍͙͈͖͈͍͑͑͋͑͋͑ͅن͍͇͑̿͂͋وѨ́ӈ͚͖͍͆͋́ل͍͇͋̿͂͋ـ͖͎̩̽͒و͍͈͍͙͖͎͑͋͑͑͋ـ ͊(͎͋̿͑قsic) ͑Ҽј͎͇͈͐̓͋Ҽ͈̿ӂ)͇͍͎͉͍̿͊͐͛͑͒͒͊͋و҅͒͋و͍͈͍͙͖͎͑͋͑͑͋ـ:
ҙ͇͑ ͇͂Ҽ ͑Ӏ͋ ͎͍͓͑͆ ͖͈͋]͙͑[͍͖͎͑ ͖̠͋̽͑͒́҄ ͋وҼ͋ ͈̿ӂ ҕ Ҍ͎͐̿Ӏ͉ ͑Ҽ ͎͖͙͍͈͑͑̿ Ѭ͆͒̓͋.106 Quando il faraone si ostinava a non lasciare partire gli Israeliti, il Signore uccise ogni primogenito d’Egitto, dal primogenito dell’uomo al primogenito del bestiame. Per tale motivo — nota lo scoliasta — anche Israele sacrificava i suoi primogeniti107. 35. a Esodo 17, 8-13 (p. 68: ͂ ͉̓͆إҾ Ѡ͉͊̿Ӏ͈ ͈̿ӂ Ѩ͍͉̻͇͊̓ Ҍ͎͐̿Ӏ͉ Ѩ͋ Ա͓͇͈̿͂̓̿ … ͋لӂ Ѩ͍̽͐̓͋ͅ Ҍ͍͐̿ͅ ͋̓ة̓ ͎̺͈̓͆̿ ͏نҠ͈͑̿͏ق͖̫͐͘ وӂ Ѩ͉͌̓͆ӈ͋.
͎̺͍̿̓͑͌̿͑ ͑ وѠ͉͊̿Ӏ͈ ͈̿ӂ ̫͖͈͐̿͘ ͏قӂ Ѡ͎̿ӈ͋ ͈̿ӂ Ҷ͎ ј̻͋̀͐̿͋ͅ Ѩӂ ͑Ӏ͋ ͈͍͎͓͒Ӏ͋ ͍͈͑̿ ̘ن͍͍͋͒̀ نӂ Ѩ͍́̽͋̓͑ ҙ͑̿͋ Ѩ͑ ͏ق͖̫͐͘ ͎̓قҼ͏ ͔͔͈̓͋̓͒͐̽͑̿ ͏͎̿ل Ҍ͎͐̿Ӏ͉ ҙ͑̿͋ ͂Ҿ ͈̿͆͑ ͈̓قҼ͏ ͔̓ ͔͈͋̓͒͐̽͑̿ ͏͎̿لѠ͉̼͈͊̿ …): ͎̓ӂ ͑ ͏قѨ͈̺͖͑͐̓͏ ͑͏͍̻͖̫͐͘ ͋و͎͇͔̓ ͋و108 Questo breve scolio, scritto sopra la terza colonna di p. 68, riassume un episodio celeberrimo, che i Padri utilizzarono nella controversia con gli Ebrei per il suo significato cristologico. Mentre marciava nel deserto, Israele giunse ad una località chiamata Refidim. Qui, guidato da Giosuè, affrontò in guerra un popolo bellicoso, gli Amaleciti. L’esito della battaglia dipendeva da Mosè, che vi assisteva dalla cima di un’altura: quando il patriarca teneva le braccia distese, Israele vinceva. Quando, al contrario, le abbassava, prevaleva il popolo di Amalek. Per consentire a Mosè di stare con le braccia distese senza stancarsi, Aronne e Or (uno degli anziani) lo fecero sedere sopra una pietra, sorreggendolo uno da una parte e uno 104
Matteo 7, 6. ORIGENES, Selecta in Exodum (PG, 12 cit., col. 288 A). 106 «A causa dello sterminio dei primogeniti egiziani anche Israele sacrificava i primogeniti». 107 Mentre i primi parti degli animali venivano sacrificati, i primogeniti degli uomini venivano riscattati. Sull’origine di questa usanza si veda però B. S. CHILDS, Il libro dell’Esodo. Commentario critico-teologico, Casale Monferrato 1995, pp. 206-207. 108 «Sull’estensione delle braccia di Mosè». Vedi Tav. VI. 105
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dall’altra, fin quasi a sera. In tal modo Israele riuscì a sconfiggere il nemico. La posizione assunta da Mosè è stata interpretata dai Padri della Chiesa come una prefigurazione della croce. Per la forza salvifica della croce gli Israeliti abbatterono Amalek, simbolo del male109. Trovare nell’Antico Testamento figure della croce (si pensi anche al serpente di bronzo, collocato sopra un’asta, che aveva il potere di guarire chiunque lo guardava110) era di fondamentale importanza per gli apologisti. Era infatti l’unico modo per rispondere all’obiezione giudaica secondo cui, sulla base di Deuteronomio 21, 23, non era ammissibile che il Messia subisse un simile supplizio. In quel passo si dice che un uomo condannato a morte e appeso a un albero è una «maledizione di Dio». Può dunque il Cristo essere un maledetto da Dio?111 Benché Isaia 53 e il Salmo 21 siano stati interpretati come un annuncio dei patimenti e della morte del Giusto, in nessun luogo dell’Antico Testamento viene esplicitamente profetizzata una morte in croce112. 109 Cfr. IUSTINUS, Dialogus cum Tryphone Iudaeo, 90, 4-5 (BOBICHON, Justin martyr cit., vol. I, p. 432. PG, 6 cit., coll. 689 C – 692 A): ҟ͑̓ ҕ ͉͙̿͏, ͓͊̽ͅ, Ѩ͍͉̻͇͊̓ ͑ ىѠ͉͊̿Ӏ͈ ͈̿ӂ ҕ ͍͑ن ̬̿͒͏͙҅͒ ق, ҕ Ѩ͍͍͋͊̿͐͆̓ӂ͏ ͑ ىҌ͍͐ͅ نҔ͙͇͋͊̿͑, ͔͎͑͋̓إ ͏͔̺͊ͅ ͏ق, ̿Ҡ͑ӄ͏ ̫͖͐ͅ ͏قҤ͔͍̓͑ ͑͑ ى̧̓ ىҼ͏ ͔̓ ͏͎̿لѩ͈̻͎͖̿͑͐ Ѩ͈̺̓͑͐̿͏, Ҷ͎ ͂Ҿ ͈̿ӂ Ѡ͎̿ӈ͋ ҡ̺͍̓̀͐͑̿̈́͋ ̿Ҡ͑Ҽ͏ ͎̿͋̿͊ق, ҉͋̿ ͊Ӏ ͈͍͖̻͍͆͋͑͏ ̿Ҡ͍͇͑͋͐و͉͔͆͐̿̿ ن. ̤҄ ́Ҽ͎ Ѩ͈͇͋̓͂̓͂͛̓ ͇͑ ͍͑͑ ن͍͑ ͍͚͍͒͑͑ ͏͍̼͔͑̿͊͐ نӄ͋ ͎͐͑̿͒ӄ͋ ͇͍̻͍͊͊͒͊͋͒, ҭ͏ ̻͎͇́́̿͑̿ Ѩ͋ ͑̿ ͏ل͓͎̿̿́ ͏͖̻͖̫͐ ͏لҕ ͉̿ӄ͏ ѵ͑͑͂ ҄̓ · ͍͑ـҾ Ѩ͋ ͑ ͇̺̓͌͑ كѬ͊̓͋̓ ͚͑̿͑Ԍ, Ѡ͉͊̿Ӏ͈ Ѩ͇͈͍͋͑ـ ͍͍͍͑͐͋͑ن, ͈̿ӂ ͔͚͖҄͐͋ ͇͂Ҽ ͍͔͑͋̓͒͐҈ ن͍͎͒̿͑͐ ن. ̮Ҡ ̺͎́, ҙ͇͑ ͍ҥ͖͑͏ ͅҤ͔͍̓͑ ̫͖͐͏ق, ͇͂Ҽ ͍͎͈͑͐̽̓ ͍͑ن͖͐͋ ҕ ͉̿ӄ͏ Ѩ͍́̽͋̓͑, ј͉͉’ ҙ͇͑, Ѩ͋ ј͎͔ ن͍͑ ͏͔̺͊ͅ ͏ق͑ كҔ͙͍͋͊̿͑͏ ͍͑ نҌ͍͐ͅ نҘ͍͋͑͏, ̿Ҡ͑ӄ͏ ͑ӄ ͍͐͊̓͋ͅل ͍͑ ن͍͎͒̿͑͐ نѨ͍͇̽̓. Si veda anche Barnabae epistula, XII, 2-4 [F. SCORZA BARCELLONA, Epistola di Barnaba, Torino 1975 (Corona Patrum, 1), p. 108] e CYRILLUS ALEXANDRINUS, De adoratione et cultu in spiritu et veritate, III [cfr. F. PETIT, La chaîne sur l’Exode. Édition intégrale. IV: Fonds caténique ancien (Exode 15,22-40,32), Lovanii 2001 (Traditio exegetica graeca, 11), p. 43. PG, 68, Lutetiae Parisiorum 1864, col. 276 D]. In realtà in Esodo 17, 11 si dice che Israele vinceva quando Mosè «alzava» (Ѩ )͎͋̓قle mani, non «le distendeva». Per questo motivo Origene spiega in maniera diversa il significato della posizione assunta da Mosè, precisando che egli «alza le mani, non le distende» (Moyses quidem elevat manus, non extendit). Cfr. ORIGENES, Homiliae in Exodum, XI, 4 (BORRET, Origène cit., pp. 332-336. PG, 12 cit., coll. 377-378). Giustino trae il verbo Ѩ͈̺̓͑͐̿͏ da Isaia 65, 2 (BOBICHON, Justin martyr cit., vol. II, pp. 813-814: Notes du chapitre 90, nt. 13), testo citato anche dall’Epistola di Barnaba (SCORZA BARCELLONA, Epistola di Barnaba cit., p. 108). L’espressione «͑ ͏قѨ͈̺͖͑͐̓͏ ͑»͋و͎͇͔̓ ͋و, usata dallo scoliasta, compare in IUSTINUS, Dialogus cum Tryphone Iudaeo, 112, 2 (BOBICHON, Justin martyr cit., vol. I, p. 484. PG, 6 cit., col. 733 B). 110 Numeri 21, 4-9. 111 Cfr. l’obiezione di Trifone nel Dialogo di Giustino. IUSTINUS, Dialogus cum Tryphone Iudaeo, 89, 2 (BOBICHON, Justin martyr cit., vol. I, p. 430. PG, 6 cit., coll. 688-689): ̤҄ ͂Ҿ ͈̿ӂ ј͖͑̽͊͏ ͍ҥ͖͑͏ ͎͖͐͑̿͒͆͑ ͇̿͋قӄ͋ ̵͎͇͙͐͑͋, ј͍͎͍ · ͋̓͊نѨ͇͈̺͎͍̿͑̿͑͏ ́Ҽ͎ ҕ ͎͍͚͍͐͑̿͒͊̓͋͏ Ѩ͋ ͑ى ͙͋͊Զ ͉̻͇́̓͑̿ ̓ ͇̿͋ةlұ͐͑̓ ͎ӄ͏ ͍͑ ͍͑نј͈͊Ӏ͋ ͖͂͒͐̓̽͐͑͏ Ѭ͔͖. ̯̿͆͑ͅӄ͋ ͊Ҿ͋ ͑ӄ͋ ̵͎͇͐͑ӄ͋ ҙ͇͑ ̿҅ ͎͓́̿̿ӂ ͈͎͚͍͇͐͐͒͐ͅ, ͓͎͙̿͋̓͋ Ѩ͇͐͑͋ · ̓҄ ͂Ҿ ͇͂Ҽ ͍͑ نѨ͋ ͙͑͊͋ ىԶ ͈͈͎̻͍̓̿͑̿͊͋͒ͅ ̺͍͆͒͏, ͍͉͙̀͒͊̓͆̿ ͊̿͆̓͋ل, ̓҄ Ѭ͔͇̓͏ ͈̿ӂ ͎̓ӂ ͍͚͍͑͑͒ ј͍͇͂̓̿͌ل. Cfr. San Paolo in Galati 3, 13: ̵͎͇͐͑ӄ͏ ѵ͊ ͏ـѨ͙͎͌́̿͐̓͋ͅ
Ѩ͈ ͑ ͏͍͙͋̓͊͋̓́ ͍͙͒͊͋ ن͍͑ ͏͎̺͈̿͑̿ ͏قҡҾ͎ ѵ͊ ̘͎̺͈̿͑̿ ͋وҙ͇͑ ̻͎͇́́̿͑̿ Ѩ͇͈̺͎͍̿͑̿͑͏ ͏ـҕ ͈͎̺͍̓͊͊̓͋͏ Ѩӂ ͚͉͍͌͒. 112
Quanto è stato detto a commento di questo scolio si può leggere in M. SIMON, Verus
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36. a Esodo 25, 9 LXX (p. 77: ͚͍͂ ͔̻͖͋ͅ ͈̿ӂ ѵ͊̽͐͒͏ ͑ӄ ͈͊̿ ͏͍͈قӂ ̼͔͍̓͏ ͈̿ӂ ѵ͊̽͐͒͏ ͑ӄ ͉̺͍͑͏ ͈͇̿ ̼͔͍̓͏ ͈̿ӂ ѵ͇͊͐͒͏ ͑ӄ ҥ͕͍͏113):
ҙ͎̿ ͑ӄ ̘͍͎͎͊͒̽͒͑̿͊ ن͍͑ ن͍͖͇͈͑̀ ͏ق͑ ͏͍͈ق114 Nei capitoli 25-30 dell’Esodo Dio dà a Mosè le istruzioni per l’edificazione del Santuario e dei suoi arredi. Esso è soltanto «figura del vero Santuario»115, come sembra affermare Dio stesso quando ordina a Mosè di fare tutto secondo il modello che gli verrà mostrato116. Nel suo insieme e nelle sue singole parti il Tabernacolo è stato dunque variamente interpretato dai Padri come un simbolo di Cristo, della Vergine e della Chiesa117. Il primo scolio del Nostro si riferisce alle misure dell’Arca118. Forse egli trova in esse l’annuncio della data della nascita di Cristo. La loro somIsrael. Étude sur les relations entre chrétiens et juifs dans l’Empire romain (135-425), Paris 1948 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 166), pp. 190-191. Nella battaglia contro Amalek si possono leggere altri due simboli cristologici: il nome di Giosuè, in greco e in ebraico identico a quello di Gesù (cfr. supra, nt. 109), e la pietra su cui Mosè è seduto. Cfr. IUSTINUS, Dialogus cum Tryphone Iudaeo, 90, 5 (BOBICHON, Justin martyr cit., vol. I, p. 432. PG, 6 cit., col. 692): Ѳ͔͇̓ ͂Ҿ ͈̿ӂ ҕ ͉͍̽͆͏ ͚͍͉͍͐͊̀͋, ҭ͏ ј̻͇͂̓͌̿, ͎ӄ͏ ͑ӄ͋ ̵͎͇͙͐͑͋. 113 Trascrivo esattamente il testo del codice B, benché vi siano errori di ortografia e accentazione. L’ultimo ͈͍͉͋و, saltato per errore dal copista, è riportato in calce alla colonna. 114 «Osserva le misure dell’Arca della Testimonianza». 115 Ebrei 8, 2; 8, 5; 9, 9; 9, 23-24. 116 Esodo 25, 8 LXX; 25, 40. 117 Un’altra tradizione, di origine ebraica, ma accolta da alcuni Padri della Chiesa, vedeva nel Santuario e nei suoi arredi un simbolo dell’universo e dei suoi elementi. Per Filone di Alessandria, ad esempio, le dodici pietre preziose incastonate nel pettorale del giudizio, ripartite in quattro file di tre, sono simbolo del cerchio dello zodiaco, ripartito in quattro zone di tre segni zodiacali ciascuna. PHILO ALEXANDRINUS, De vita Mosis, II, 124 [R. ARNALDEZ – C. MONDÉSERT – J. POUILLOUX – P. SAVINEL, Philon d’Alexandrie. De vita Mosis I-II, Paris 1967 (Les œuvres de Philon d’Alexandrie, 22), p. 246]. Giuseppe Flavio vedeva nelle sette lucerne del candelabro l’immagine dei sette pianeti. IOSEPHUS FLAVIUS, De bello iudaico, V, 217 [A. PELLETIER, Flavius Josèphe. Guerre des Juifs, III: Livres IV et V, Paris 1982 (Collection des Universités de France), p. 139]. Per Teodoro di Mopsuestia (di cui si conservano frammenti nelle catene) e Teodoreto di Ciro la tavola con i dodici pani dell’offerta rappresenta la fecondità della terra, mentre il candelabro i sette giorni della settimana. Cfr. F. PETIT, La chaîne sur l’Exode. Édition intégrale. II: Collectio coisliniana cit., p. 38 e THEODORETUS CYRENSIS, Quaestiones in Exodum, Interrogatio LX (PETRUCCIONE – HILL, Theodoret of Cyrus cit., p. 318. PG, 80 cit., col. 284). È interessante anche l’interpretazione complessiva del Tabernacolo che offre Teodoreto: esso è diviso in due parti separate da un velo: la parte al di là del velo, detta «Santo dei Santi», dove è collocata l’arca dell’Alleanza, rappresenta il cielo; la parte al di qua del velo, detta «Santo», dove sono il candelabro, la tavola e l’altare dei profumi, rappresenta la terra; il velo è il firmamento (ibid.: PETRUCCIONE – HILL, Theodoret of Cyrus cit., pp. 314316. PG, 80 cit., col. 281). 118 In realtà il termine μ͏͍͈ق, in questo contesto, dovrebbe indicare soltanto la «lunghezza» dell’arca (per portare l’attenzione sulle dimensioni complessive sarebbe stato più appropriato scrivere: ҙ͎̿ ͑ӄ μ̻͍́̓͆͏ …). Ma che senso ha evidenziare la lunghezza da sola?
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ma dà infatti 5, 5 cubiti, come i 5500 anni che separano la creazione del mondo dall’Incarnazione119. È la stessa esegesi che si legge nel Commentario a Daniele di Ippolito (inizi del III secolo): Ѡ͉͉Ҽ ̺͖͋͑͏ Ѩ͎̓͏و ̘͏͇͑ ل ͍͇͊ ј͍͇͂̓̽͌̓͏ ̓҄ ͈͇͔͇͉͇͍͈̓͋͑̿͐͐͑̿ ىӂ ͈͍͇͍̓͋͑̿͐͐͑ ىѬ͇͑̓ Ѩ̼́̓͋͋͆ͅ ҕ ͖̼͎͐͑; (…) ͓͐ͅӂ͋ ́Ҽ͎ ͎ӄ͏ ̿Ҡ͙̘͑͋ «͈̿ӂ͍͇̼͇͐̓͏ ͑Ӏ͋ ͈͇͖̀͑ӄ͋ Ѩ͈ ͚͉͖͌͋ ј̼͖͐͑͋», «͈̿ӂ͈͔͎͇̿͑̿͒͐͛͐̓͏ ̿Ҡ͑Ӏ͋ ͔͎͒͐̽Զ ͈͎̿͆̿ ىѬ͖͐͆̓͋ ͈̿ӂ Ѭ͖͌͆̓͋, ͈̿ӂ ͍͇̼͇͐̓͏» «͑ӄ ͊̿ »͏͍͈قҠ͈͑̿ ͖͔̼͋̓ ͍͚͂« ͏قӂ ѵ͖͊̽͐̓͏» ͈̿ӂ ͑ӄ ̓̿ ͏͍͎حҠ͈͑̿ ͏͖͔̼̓« ͏قӂ ѵ͖͊̽͐̓͏» ͈̿ӂ «͑ӄ ҥ͕͍͏» ̿Ҡ͈͑̿ ͏͖͔̼̓« ͏قӂ ѹ͇͊͐͒»̘ ҙ͎̓ ͙͍͐͒͋̿́͊̓͋͋ ͑ӄ ̻͎͍͊͑͋ ͍͇̓ ̻̓͑͋ ͏͇͔̼̓ لѹ͇͊͐͒, ҉͋̿ ͇͔͂̓͆͑ كҼ ͈͇͔͉͇̓͋͑̿͐̽̿ ͈͙͇̓͋͑̿͐̿ Ѭ͑ͅ, Ѩ͋ ͙͎͔͋ ؽԶ ͎̿ӈ͋ ҕ ͖͐͑Ӏ͎ Ѩ͈ ͑͑ ͍̻͎͒͋͆̿ ͏قӀ͋ ͈͇͖͙̀͑͋, ͑ӄ ҈͇͍͂͋ ͐̿͊و, Ѩ͋ ͑ى ͈͙͐͊Զ ͎͍̼͈͐͋̓́̓͋ {Ѩ͋} ͔͎͒͐̽Զ ͈͎̻͖͎͔͈̿͆̿͋͋͊͐͒̓ͅ ى, Ѭ͍͋͂͆̓͋ ͊Ҿ͋ ͙͉͑́ ىԶ, Ѭ͖͌͆̓͋ ͂Ҿ ͑ ى͑ ͇͚͑̿͊̓͋ ىљ́̽Զ, ұ͐͑̓ ј͍̻͇͈͇͂͂̓͑̿ ѵ ј͉̼͇͆̓̿ ͈̿ӂ ͓̻͎͖͇̓̿͋͑̿ ѵ ͈͇͖͙̀͑͏120. 37. a Esodo 25, 22 LXX (p. 78: ͈̿ӂ ͍͇̼͇͐̓͏ ͎̺͑̓̈́̿͋ ͔͎͍͎͔͒͐͒̽͐͒ ͋ق ͈͎͍̿͆̿ ن
͈͈̿͑̿͐̓͒Ӏ͑͏̻͎̈́̿͑ͅ ͏ق121 Fra gli altri oggetti del Tabernacolo, il Nostro dà rilievo in particolare alla tavola, al candelabro e al pettorale del giudizio indossato dal sommo sacerdote (cfr. infra). La tavola, con i pani dell’offerta collocati sopra di essa ed i suoi accessori (piatti, coppe, anfore e tazze per le libazioni), può essere vista come una prefigurazione dell’altare cristiano, o, meglio, della ͎͙͇͆̓͐͏, la mensa sopra la quale, nel rito bizantino, erano deposte le of119
La tradizione che colloca la nascita di Cristo nell’anno 5500 dalla creazione del mondo è molto antica e conosciuta nel Medioevo. GEORGIUS SYNCELLUS, Ecloga Chronographica, 616, 15 [A. A. MOSSHAMMER, Georgii Syncelli Ecloga chronographica, Leipzig 1984 (Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana), p. 395] la fa risalire a Sesto Giulio Africano (II-III secolo). Cfr. H. GELZER, Sextus Julius Africanus und die byzantinische chronographie, I: Die chronographie des Julius Africanus, Leipzig 1880, pp. 46-47. Cfr. anche GEORGIUS CEDRENUS, Compendium Historiarum cit., p. 7. Negli anni del nostro scoliasta è attestata da Michele Glica (EUSTRATIADES, ̫͇͔̿Ӏ͉ ͍͑ ـ̢͈͉͒ نcit., p. 183). Ricordo che nell’Oriente ortodosso, fino alla caduta dell’impero e anche oltre, gli anni si computavano a partire dalla creazione del mondo, che si credeva fosse avvenuta nel 5508 avanti l’era cristiana. Cfr. A. CAPPELLI, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo: dal principio dell’era cristiana ai nostri giorni, settima edizione riveduta, corretta e ampliata a cura di M. VIGANÒ, Milano 1998 (Manuali Hoepli), p. 16. 120 HIPPOLYTUS ROMANUS, In Danielem, IV, 24 [G. N. BONWETSCH, Hippolyt Werke. Kommentar zu Daniel, zweite, vollständig veränderte Auflage von M. RICHARD, Berlin 2000 (Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten Jahrhunderte, Neue Folge 7), pp. 246248.]. Cfr. anche Evangelium Nicodemi, II, 12 (C. VON TISCHENDORF, Evangelia apocrypha, adhibitis plurimis codicibus graecis et latinis maximam partem nunc primum consultis atque ineditorum copia insignibus, 2a ed., Lipsiae 1876, pp. 409-412). 121 «Costruzione della tavola».
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ferte che poi (durante il cosiddetto Grande ingresso) venivano portate in processione all’altare122. Essa fu interpretata anche come una figura della Vergine, che reca al mondo il Pane della vita: ̫̼͎͑ͅ ̧͍͈̓̿ نӂ ͎̺͑̓̈́̿ ͇͈͊͒͐͑Ӏ ј͔͋̓͂̓̽͆ͅ͏, ќ͔͎̿͋͑̓ ͍͙͈͆̓͑̓ љ̼́͋, ͑ӄ͋ Ѩ͍͎̺͇͍͒͋͋ ќ͎͍͑͋ ͓̻͎͍͒͐̿, ̵͎͇͙͐͑͋, ͑Ӏ͋ ͖̈́Ӏ͋ ͍͑͏͙͑͋̿ ن123. 38. a Esodo 25, 30 LXX (p. 78: ͈̿ӂ͍͇̼͇͐̓͏͉͔͒͋̽̿͋Ѩ͈͔͎͍͈͎͍͒͐̽͒̿͆̿ن ͍͎͑̓͒͑Ӏ͍͇̼͇͋͐̓͏͑Ӏ͉͔͋͒͋̽̿͋
͈͈̿͑̿͐̓͒Ӏ͑͏͔͉̿̽͋͒͏ق124 Nel candelabro i Padri hanno visto unallegoria di Cristo̵͎͒͐͊قҾ͋ѵ ͉͔͒͋̽̿ ͚͍͑͋Ѩ̻͔͍͍͒͐̿͑ ن̵͍͇͎͑͐نscrive Cirillo di Alessandria125 ma anchedellaVergine̵̿͑ ͔͉̿̽͋͒ ͎̓لӄ͔͎͍͈͒͐̿͏͍ن͈̓͐͏͎̿̽͋̓͆̿͏ق͑͋نӂ̓Ҥ͎͇͍̈́͋ ͍͉͉͎̿͒͆خӂ͏ѵ͔̺͎͇͏͍͈͑̿ ͏͍͚̯͑̿͊̓͋نӂѬ͉͇͍̿͋͑ӄѨ͌ј͔͎̺͖͎͈͓͉͋͑͋͐̿͆͋ͅوҾ͋ ͐̿͊وѝ͇͍́͋ Ѩ̵͇͎͌͑͐͏و͓͋رӄ͏͑ӄј͍̘͋̓̽͂͒͑͋ѵ͍͑͏لѨ͈͙͇͈͋͐͑̓̿ӂ͈͇͍̺͐͒͑͋̿͆ف ͈̻͍͇̿͆͊͋ͅ͏͑Ӏ͋јԛ͇͍͖͂͋̈́Ӏ͎̺͕͋̿̿͐̿126 edelloSpiritoSanto127 39. a Esodo 28, 15 (p. 82: ͈̿ӂ͍͇̼͇͐̓͏͉͍͍͖͎͈́̽͋͑͋̓͐̽͋وѬ͎͍͍͇͈͇͉͍́͋͑ن ͈̿͑Ҽ͑ӄ͋Ԫ͒͆͊ӄ͋͑͏قѨ͖͊͏͍͂لP®B ͍͇̼͇͐̓͏̿Ҡ͑ӄѨ͈͔͎͍͈͒͐̽͒̿ӂҡ͈͍͈̿̽͋͆͒̿ӂ ͍͎͓͚͎̿͏͈̿ӂ͈͍͈͈͍͈͈͉͖̻͍̽͋͒̓͐͊͋͒ ¦͈̿ӂ͚͍͈͈͉͖̻̀͐͐͒̓͐͊͋ͅ͏͍͇̼͇͐̓͏̿Ҡ͑ӄ ͎̺͖͍͑̓͑́͋͋Ѭ͇͇͉͍͐͑̿͂͑͏ق͇͊̿͆͐͋نӄ͊̿͏͍͈قҠ͍͈͑̿نӂ͇͐͆̿͊͑͏قӄ̓ ͏͍͎ح
͐ͅ(͖͇͊̓̽͐̿)͎̓ӂ͍͍͍͉͑͒̽́ن128 Per Cirillo di Alessandria le dodici pietre preziose incastonate nel pettorale del giudizio (͉͍͍́̽͋͑ )͖͎͈͋̓͐̽͋وsimboleggiano i santi, che come pietre scelte e splendenti poggiano sul cuore di Cristo, prefigurato dal som122 Cfr. CYRILLUS ALEXANDRINUS, De adoratione et cultu in spiritu et veritate, IX (PETIT, La chaîne sur l’Exode. IV: Fonds caténique ancien cit., nrr. 785, 790, pp. 178, 180 e PG, 68 cit., col. 604 B C). 123 Cfr. I. SCHIRÒ, Analecta hymnica Graeca e codicibus eruta Italiae Inferioris, VI: Canones Februarii, E. TOMADAKIS collegit et instruxit, Roma Istituto di studi bizantini e neoellenici, Università di Roma 1974, p. 384 [Canon XXVIII, 2 (24 febbraio)]. 124 «Costruzione del candelabro». 125 CYRILLUS ALEXANDRINUS, De adoratione et cultu in spiritu et veritate, IX (cfr. PETIT, La chaîne sur l’Exode. IV: Fonds caténique ancien cit., nr. 792, p. 181. PG, 68 cit., col. 605 C). 126 THEODORUS STUDITA, Homilia in nativitatem beatae Mariae virginis, VII (PG, 96, Lutetiae Parisiorum 1891, col. 696 C D). A differenza di quanto si credeva un tempo, l’omelia probabilmente non è di Giovanni Damasceno (come ancora pensava il Migne) ma di Teodoro Studita. Vedi J. M. HOECK, Stand und Aufgaben der Damaskenos-Forschung, in Orientalia Christiana Periodica 17 (1951), pp. 5-60: 38 nr. 85. 127 GREGORIUS NYSSENUS, De vita Moysis, II, 181 [M. SIMONETTI, Gregorio di Nissa. La vita di Mosè, Milano 1984 (Scrittori greci e latini), p. 167]. 128 «Bada bene. Sul pettorale».
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mo sacerdote129. In un’omelia attribuita a Giovanni Damasceno (la cui autenticità è però dubbia) la Vergine è salutata come ͔͎͍͒͐Ԩ͓͍̿͋͑͋ ͉͙͇͍́͋: ̵͎͍͇̿̽͏, ͑ӄ ͔͎͍͈͒͐̿ ͍͇͉̺͇͋͆͂ ͋نӂ ͔͎͍͒͐Ԩ͓͍̿͋͑͋ ͉͙͇͍́͋130. 40. a Esodo 36, 15-16 LXX (p. 94: ͈̿ӂ Ѩ͍̽͐̿͋ͅ ͉͍͍́̽͋ Ѭ͎͍́͋ ҡ͓̿͋͑ӄ͋ ͍͇͈͇͉̽̿ ͈̿͑Ҽ ͑ӄ Ѭ͎͍́͋ ͑ ͏قѨ͖͊͏͍͂ل131 Ѩ͈ ͔͎͍͒͐̽͒ ͈̿ӂ ҡ͈͍̿̽͋͆͒ ͈̿ӂ ͍͎͓͚͎̿͏ ͈̿ӂ ͈͍͈͈͍̽͋͒ ͇̻͍͂̿͋̓͋͐͊͋͒ͅ ͈̿ӂ ͚͍̀͐͐͒ ͈͈͉͖̻̓͐͊͋ͅ͏ ͎̺͖͍͑̓͑́͋͋ ͇͉͍͂͋ن Ѩ͍̽͐̿͋ͅ ͑ӄ ͉͍͍́̽͋ ͇͐͆̿͊͑ ͏قӄ ͈͊̿ ͏͍͈قӂ ͇͐͆̿͊͑ ͏قӄ ̓)͏͍͎ح:
ҙ͎̿͑Ӏ͍̼͈͈͍͍͉͋͑͋͒̓͐̿͑̿͒̽́ن132 Con il capitolo 36 inizia il racconto dell’edificazione del Santuario, secondo le istruzioni date da Dio a Mosè (cfr. Esodo 25-30). Lo scoliasta porta nuovamente l’attenzione sulla costruzione del pettorale del giudizio. 41. a Esodo 37 LXX (p. 95):
ҙ͎̿ Ѩ͍͋͑̿͒͆͑ لӀ͋ ͚͇͐͋͑̿͌͋ ̘͍͎͎͑͒̽͒͑̿͊ ن͍͑ ͏ق͈͋͐ͅ ͏ق133 Il Santuario, nel suo insieme, è stato interpretato dalla tradizione cristiana come una figura della Chiesa134. Cirillo di Alessandria (sulla scia di Origene) ha fornito un’interpretazione complessiva del Santuario in cui ogni elemento è messo in relazione al mistero di Cristo e della Chiesa135. 42. a Esodo 38, 9 LXX (p. 96: ͈̿ӂѨ͍̽͐̓͑ͅӀ͎̺͋͑̓̈́̿͋͑Ӏ͎͍͈͇̻͋̓͊͋͋ͅ
Ѩ͈͔͎͍͈͎͍͒͐̽͒̿͆̿ ن136 129 CYRILLUS ALEXANDRINUS, De adoratione et cultu in spiritu et veritate, XI (cfr. PETIT, La chaîne sur l’Exode. IV: Fonds caténique ancien cit., nr. 867, p. 221. PG, 68 cit., col. 740 B C). 130 (Ps.) IOHANNES DAMASCENUS, Sermo in annuntiationem beatae Mariae virginis (PG, 96 cit., col. 649 C). Cfr. HOECK, Stand und Aufgaben cit., p. 40 nr. 96. 131 Cfr. supra scolio nr. 39. 132 «Guarda la costruzione del pettorale». 133 «Osserva qui la struttura della tenda della Testimonianza». Lo scolio è scritto nel margine superiore di p. 95, sopra la seconda colonna di testo, e si riferisce genericamente a Esodo 37 LXX, dove viene descritta la struttura del Santuario (la sua estensione, i suoi tendaggi, il numero delle sue colonne e i metalli di cui sono rivestite). 134 METHODIUS OLYMPIUS, Convivium decem virginum, V, 8 [H. MUSURILLO – V.-H. DEBIDOUR, Méthode d’Olympe. Le banquet, Paris 1963 (Sources chrétiennes, 95), p. 160. PG, 18 cit., col. 112 A]: ѵ ͊Ҿ͋ ͈͐͋ͅӀ ͚͍͉͍͐͊̀͋ ͏ق͑ ͋إѨ͈͈͉͐̽̿ͅ͏. 135 CYRILLUS ALEXANDRINUS, De adoratione et cultu in spiritu et veritate, IX (cfr. PETIT, La chaîne sur l’Exode. IV: Fonds caténique ancien cit., nrr. 752, 754-756, 765, 769-770, 772, 777, 780-782, 785, 790, 792, 795, 797, 801-803, 808-809, 812-814, 819, 825-826, 831-832, pp. 167205. PG, 68 cit., coll. 588-649). ORIGENES, Homiliae in Exodum, IX (BORRET, Origène cit., pp. 278-304. PG, 12 cit., coll. 361-369). 136 Secondo la suddivisione della Vulgata, riprodotta con numeri romani nel codice B da una mano verosimilmente del XVI secolo, questo versetto appartiene al capitolo 37. Sulla differenza fra il testo greco e il testo ebraico (e latino) degli ultimi sei capitoli dell’Esodo cfr.
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͐ͅ(͖͇͊̓̽͐̿) ͑Ӏ̼͈͈͋͑͋͒̓͐̿͑̿͏̻͎̈́̿͑ͅ͏ق137 Di nuovo lo scoliasta porta l’attenzione sulla costruzione della tavola (cfr. supra lo scolio nr. 37). 43. a Esodo 39, 21 LXX (p. 97: ̻͎͂͊̿͑̿ ͈͎͇ ͋وѴ͎͎͍͖̻͈͒͆͂̿͋͊͋̿̿ӂ ͑Ҽ ͈͉͚̿͊͊̿͑̿ ̻͎͂͊̿͑̿ ҡ͈͇̿̽͋͆͋̿):
̱͊ͅ(͖͇̓̽͐̿) Le pelli tinte di rosso e di violetto (giacinto) che ricoprono il Santuario possono simboleggiare Cristo, protettore della Chiesa, e i colori rosso e violetto alludere alle sue due nature, umana e divina138. Le note attorno all’episodio di Susanna Tralasciando alcune annotazioni poco significative che il Nostro ha scritto nei primi due libri dei Re e all’inizio del libro di Giuditta139, si giunge alle pagine 1206140 e 1207 del codice, dove un fitto commento incornicia la storia di Susanna, nella versione di Teodozione, collocata, come di consueto avviene nei testimoni che ci sono pervenuti, all’inizio del libro di Daniele141. Tale commento è la prima parte (riguardante, appunto, la storia di Susanna) della catena esegetica su Daniele attribuita a Giovanni Drungario, un ignoto autore del VII-VIII secolo che compilò una catena per ciascuno dei quattro Profeti maggiori142. Essa è l’unica catena in greco su Daniele che possediamo143. Il Nostro ha trascritto le ecloghe omettendo J. W. WEVERS, Text history of the Greek Exodus, Göttingen 1992 (Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften in Göttingen. Philologisch-historische Klasse, 3 Folge, 192; Mitteilungen des Septuaginta-Unternehmens, 21), pp. 117-146. 137 «Bada bene alla costruzione della tavola». 138 CYRILLUS ALEXANDRINUS, De adoratione et cultu in spiritu et veritate, IX (cfr. PETIT, La chaîne sur l’Exode. IV: Fonds caténique ancien cit., nr. 803, p. 188. PG, 68 cit., col. 636 B C). 139 Cfr. pp. 311, 355, 357, 908 del codice. 140 Vedi Tav. VII. 141 Per il libro di Daniele e le sue appendici («La storia di Susanna» e «Bel e il drago») la versione di Teodozione soppiantò molto presto quella dei Settanta (già ai tempi di S. Girolamo circolava soltanto il testo di Teodozione). Cfr. H. ENGEL, Die Susanna-Erzählung. Einleitung, Übersetzung und Kommentar zum Septuaginta-Text und zur Theodotion-Bearbeitung, Freiburg, Schweiz – Göttingen 1985 (Orbis biblicus et orientalis, 61), pp. 10-11. Anticamente (come ci testimonia la Vulgata, dove l’episodio è inserito alla fine come capitolo 13) il racconto seguiva il libro di Daniele (ibid., p. 12). 142 Su Giovanni Drungario cfr. M. FAULHABER, Die Propheten-Catenen nach römischen Handschriften, Freiburg im Breisgau 1899 (Biblische Studien, 4/2-3), pp. 55-58 e 190-202. 143 M. GEERARD, Clavis Patrum Graecorum, qua optimae quaeque scriptorum patrum
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l’indicazione delle fonti. Solo davanti a due brevi scholia negli intercolumnî di p. 1207 si legge l’acronimo del Crisostomo ( )144. Non è questa la sede per un dettagliato commento di tutte le ecloghe della catena. Per il nostro scopo (comprendere il pensiero dello scoliasta) credo sia sufficiente ricordare l’interpretazione allegorica fondamentale del racconto, espressa in un’ecloga tratta dal Commentario a Daniele di Ippolito, la fonte principale nella catena: 44. a Susanna 7 (p. 1206: ͈̿ӂ͎͇̺͇̓̓͑̓ Ѩ͋ ͑ ن͍͑ ͖͎͐̽̓͂̿̿ وј͎͋͂ӄ͏ ̿Ҡ ͑)͏ق145:
ѵ ̱͖̺͐͋͋̿ ͎͍͍̓͑͒͑ ͏҄̓ ͍͑نӀ͋ Ѩ͈͈͉̘͐̽̿͋ͅ Ҍ͖͈̿̓ӂ͊ ͂Ҿ ҕ ј͋Ӏ͎ ̿Ҡ͑͏҄̓ ͏ق ̵͎͇͙̘͐͑͋ѵ͂Ҿ̿ ˢ ͎ˢ ̺ ˢ ͂ˢ ͇͍̓͐͏ ѵ͈͉͖̠͋̽͑͒́҄͋و͑͏͇͐قҭ͏̻͎͖͈͎͍͓͙͎͖͂͋͂͋̿͋ Ѩ͋Ѩ̡͈͈͉͓̻͖̘͉͐̽̿̓͒͑̓͒͊͋͋̿̀͒ͅӈ̻͋͂Ѩ͇͐͑͋ҕ͈͙͍͐͊͏̘͍ˢ҅ˢ͂Ҿ͚͍͎͚͎͍͇͂̓͐̀͑̓̓҄͏͚͍͑͋̓ˢ҄͐ӂ͑͋ر̘͋و͉͍͚̿͂͋وѨ͇͍͉͙͖̀͒̓͒͋͑͋͑قѨ͈͈͉͐̽̿̓͊ͅ͏تҾ͋ ˢ ҕѨ͈͎͇͍͈̓͑͊̿͏قӂҕ̓͏تҕѨ͌Ѩ͆͋͋و146. graecorum recensiones a primaevis saeculis usque ad octavum commode recluduntur, IV: Concilia. Catenae, Turnhout 1980 (Corpus Christianorum. Series Graeca), pp. 220-222. 144 L’attribuzione al Crisostomo è errata. Queste due ecloghe sono tratte da un De Susanna sermo (PG, 56, Lutetiae Parisiorum 1859, coll. 589-594) scritto da un anonimo cappadoce attorno all’anno 400 (l’intero corpus omiletico di questo autore — 37 omelie — circolava sotto il nome di Crisostomo già nel secondo quarto del V secolo). Vedi S. J. VOICU, Tracce origeniane in uno pseudocrisostomo cappadoce, in Origene e l’alessandrinismo cappadoce (IIIIV secolo). Atti del V Convegno del Gruppo Italiano di ricerca su «Origene e la tradizione alessandrina» (Bari, 20-22 settembre 2000), a cura di M. GIRARDI e M. MARIN, Bari 2002 (Quaderni di «Vetera Christianorum», 28), pp. 333-346. 145 Le parole ͈̿ӂ ͎͇̺͇̓̓͑̓ … si leggono nella seconda colonna di p. 1206, ll. 35-37. L’ecloga di Ippolito inizia nel margine superiore della medesima pagina e prosegue nel margine esterno, a fianco della prima colonna di testo. 146 «Susanna prefigurava la Chiesa. Ioakim, suo marito, Cristo. Il giardino la chiamata degli Egiziani, come alberi fruttiferi piantati nella Chiesa. Babilonia è il mondo. I due anziani sono immagine dei due popoli che tramano contro la Chiesa. Di questi uno è il popolo dei circoncisi, l’altro è quello dei pagani». Questo è il testo dell’ecloga come appare nel codice B, a p. 1206. Nei codici catenari e nel Commentario a Daniele di Ippolito si legge: ѵ ̱͍̺͒͐͋͋̿ ͎͍͍̓͑͒͑ ͏҄̓ ͍͑نӀ͋ Ѩ͈͈͉͐̽̿͋ͅ, Ҍ͖͈̿̓ӂ͊ ͂Ҿ ҕ ј͋Ӏ͎ ̿Ҡ͑͑ ͏҄̓ ͏قӄ͋ ̵͎͇͙͐͑͋. ҕ ͂Ҿ ͎̺͇͍̿͂̓͐͏ ѵ ͈͉ ͋و͑ ͏͇͐قљ͖́̽͋, ҭ͏ ̻͎͖͂͋͂͋ ͈͎͍͓͙͎͖̿͋ Ѩ͋ Ѩ͈͈͉͐̽ͅӽ ͓̻͖̓͒͑̓͒͊͋͋. ̡͉̿̀͒ӈ͋ ̻͂ Ѩ͇͐͑͋ ҕ ͈͙͍͐͊͏. ͍҅ ͂Ҿ ͚͍͂ ͎͚͎͍͇̓͐̀͑̓ ̓҄͏ ͚͍͑͋ ͈͇͂̓̽͋͒͋͑̿ ͑ ͋و͑ ͋و͉̿ ͍͚͂ ͋وѨ͇͍͉͙͖̀͒̓͒͋͑͋ ͑ك Ѩ͈͈͉͐̽ͅӽ, ̓͊ ͏تҾ͋ ҕ Ѩ͈ ͎͇͍͈̓͑͊̿ ͏قӂ ̓ ͏تҕ Ѩ͌ Ѩ͆͋͋و. Cfr. HIPPOLYTUS ROMANUS, In Danielem, I, 15 (BONWETSCH, Hippolyt Werke. Kommentar zu Daniel cit., p. 36). La variante ̠͖҄́͒͑̽͋ (che sembrerebbe un inspiegabile errore) può forse rappresentare un piccolo sfoggio di erudizione dello scoliasta, che sapeva che all’epoca di Ippolito moltissimi furono i santi martirizzati in Egitto, dove più feroce fu la persecuzione di Settimio Severo. Cfr. EUSEBIUS CAESARIENSIS, Historia ecclesiastica, VI, 1 [E. SCHWARTZ, Eusebius. Die Kirchengeschichte, II: Die Bücher VI bis X über die märtyrer in Palästina. Die lateinische Übersetzung des Rufins bearbeitet im gleichen Auftrage von T. MOMMSEN, Leipzig 1908 (Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, 9/2; Eusebius Werke, 2/2), p. 518. PG, 20, Lutetiae Parisiorum 1857, col. 521]. Cfr. VERSACE, Gli scolî in minuscola del codice B cit., p. 129.
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All’epoca dello scoliasta non si può certo parlare di una «persecuzione» contro la Chiesa da parte degli Ebrei (neppure, ovviamente, da parte dei «pagani»). Tuttavia, in un contesto di disputa, si potrebbe chiamare così il tentativo tenace di alcuni rabbini di dimostrare ai cristiani che le Scritture non dicono ciò che loro pensano, non annunciano Gesù di Nazareth147. L’aspetto d’insieme di queste note è alquanto disordinato. Confrontando il testo catenario riportato nel codice B con quello tramandato dai principali testimoni della catena148, si nota che lo scoliasta ha omesso alcune ecloghe, ha trascritto altre solo parzialmente, non si è fatto scrupolo, talvolta, di rielaborarle, mantenendo il significato degli enunciati ma modificando la sintassi, come avviene ad esempio in quest’altra ecloga tratta dal Commentario a Daniele di Ippolito, dove una proposizione interrogativa è diventata affermativa: 45. a Susanna 9 (p. 1206: ͈̿ӂ ͇̻͎͕͂͐͑̓̿͋ ͑ӄ͋ ѩ͈̿͒͑̿ ͋ن͍͋ ͋وӂ Ѩ̻͈͉͇͌͋̿͋ ͍͑ӆ͏ Ҕ͓͉͍͆̿͊ӆ͏ ̿Ҡ͑͊ ن͍͑ ͋وӀ ͉̻͇̀̓͋ ̓҄͏ ͑ӄ͋ ͍Ҡ͎̿͋ӄ͋ ͊Ӏ ͂Ҿ (sic) ͍͚͇͊͋͊͋̓̓͋ͅ ͈͎͇̺͖͊͑͋ ͇͈͖͂̿̽͋)149:
̮҅ ́Ҽ͎ Ѩ͍͉͍͇̽̀͒ ͈̿ӂ ͓͍͎͆̓ و͑ ͋و͉͈̿ ͋و͑ ͏لќ͎͔͍͇͋͑ ͍͍͚͍͑͒͑͑ ͏͍͋و҄̿ ن ͍͉͖̻͍͇͂̓͂͒͊͋; ͍Ҡ͎̺͇͍͋͋ ͓͎͍͍͋ ͇̿͐قҠ ͚͇͂͋̿͋͑̿:–150 147 Nell’ambito di un confronto con interlocutori ebrei la storia di Susanna poteva interessare anche per un altro motivo: non è compresa nel loro canone biblico. Cfr. lo scambio di lettere fra Sesto Giulio Africano e Origene [M. HARL – N. DE LANGE, Origène. Philocalie, 1-20. Sur les Écritures. La lettre à Africanus sur l’histoire de Suzanne, Paris 1983 (Sources chrétiennes, 302), pp. 469-573] e EUSEBIUS HIERONYMUS, Commentaria in Hieremiam prophetam, V, 67 [S. REITER, S. Hieronymi presbyteri in Hieremiam prophetam libri sex, Turnholti 1960 (Corpus christianorum. Series latina, 74), pp. 283-285. PL, 24, Lutetiae Parisiorum 1865, col. 896]. Del resto, a p. 908 (cfr. supra nt. 139), il Nostro sembra iniziare un commento (subito interrotto) del libro di Giuditta, anch’esso escluso dalla Bibbia ebraica (cfr. EUSEBIUS HIERONYMUS, Divinae bibliothecae pars secunda. Praefatio Hieronymi in librum Iudith, PL, 29, Lutetiae Parisiorum 1865, col. 39). 148 Nel secondo capitolo della mia tesi di dottorato (VERSACE, Gli scolî in minuscola del codice B cit., pp. 104-172) ho collazionato il testo catenario riportato nel codice B con quello di sette testimoni della catena: il codice Ottob. gr. 452 (XI sec.), ff. 238r-239r, il Chig. gr. 45 (X sec.), ff. 447v-449r, il Vat. gr. 1153 (XVI sec.), ff. 331v-334v, il Par. gr. 159 (XIII sec.), ff. 332r-333v, il Par. gr. 174 (XI/XII sec.), f. 69v, il Laur. Plut. 5. 9 (X sec.), ff. 307v-309r, il Laur. Plut. 11. 4 (X sec.), ff. 392v-394v. 149 Le parole ͈̿ӂ ͇̻͎͕͂͐͑̓̿͋ … si leggono nella terza colonna di p. 1206, ll. 1-7. L’ecloga è scritta nella medesima pagina, nello spazio rimasto vuoto sotto la prima colonna di testo. 150 «Infatti gli insidiatori e corruttori delle cose belle, asserviti al principe di questo mondo, non riescono a pensare alle cose celesti». Nei codici catenari e nel Commentario a Daniele di Ippolito si legge: ̮҅ ́Ҽ͎ Ѩ͍͉͍͇̽̀͒ ͈̿ӂ ͓͍͎͆̓ ͏ق͑ ͏لѨ͈͈͉͐̽̿ͅ͏ ͙͍͇́̓͋͊̓͋ ̽͂ ͇͚̿͑͋̿͋͂ ͏و͈͇̿̿ ͈͎͇̽͋̓͋ Ѷ ͈͎͎͈̿͆̿̽͂̿ فӽ ј͉̻͇͋̿̀̓͋ ̓҄͏ ͑ӄ͋ ͍Ҡ͎͙̿͋͋, ͑ ىќ͎͔͍͇͋͑ ͍͍͚͍͑͒͑͑ ͏͍͋و҄̿ ن ͍͉͖̻͍͇͂̓͂͒͊͋; Cfr. HIPPOLYTUS ROMANUS, In Danielem, I, 16 (BONWETSCH, Hippolyt Werke. Kommentar zu Daniel cit., pp. 36-38). Si noti nell’ecloga del Nostro la presenza del termine «͑ »͋و͉͈̿ ͋وal posto di «͑ ͏قѨ͈͈͉͐̽̿ͅ͏» e l’uso del punto e virgola per indicare l’ҡ͍͇̼͐͑́͊.
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PIETRO VERSACE
Talora il Nostro ha persino aggiunto parole proprie: 46. a Susanna 18-19 (p. 1207: ͈̿ӂ ͍Ҡ͈ ̓҈͍͂͐̿͋ ͍͑ӆ͏ ͎̻͎͍̓͐̀͒͑͒͏ ҙ͇͑ ͋̿͐إ ͈͈͎̻͍͇̓͒͊͊͋ ͈̿ӂ Ѩ̻͍́͋̓͑ ҭ͏ Ѩ̼͉͍͌͆͐̿͋ ͑Ҽ ͈͍͎̺͇͐̿)151:
ұ͎͐̓ ́Ҽ͎ ͙͑͑̓ Ѩ͋ ͎͖̿̿͂̓̽͐ Ѩ͈͎͚̀ͅ ҕ ͇̺͍͉͍͂̀͏ Ѩ͋ ͑ وҘ͓͇̓, ͍ҥ͖͑ ͈̿ӂ ͋͋ن Ѩ͋ ͍͑ ͏͇͍͎̻͎͑͒̀͐̓ ͏لѨ͈͎́͒̀̓ӂ͏ ͑Ӏ͋ ѩ͍̿͒͑ نѨ͈͋̓̽͐͐͐̓͋ͅ Ѩ͇͆͒͊̽̿͋ ҉͋̿ ̺͉[͇͋] Ѩ͈ ̻͎͍͂̓͒͑͒ ͇͓͎͂̿͆̓̽ͅ ͑Ӏ͋ ̤Ҥ̿͋:– ͇͂Ҽ ͑ ͏قј͍͙͍́͋͒ ̿Ҡ͑͏ق, ͑͏ق ̱͖̺͐͋͋ͅ͏:–152 Le parole ͇͂Ҽ ͑ ͏قј͍͙͍́͋͒ ̿Ҡ͑͏ق, ͑ ͏̺͖̱͋͋͐ͅ ͏قnon compaiono né nei codici catenari né nel Commentario a Daniele di Ippolito, dove si legge soltanto: ұ͎͐̓ ́Ҽ͎ ͙͑͑̓ Ѩ͋ ͎͑͐̽̓͂̿̿ ىԶ Ѩ͈͎͚͋̓̀ͅ ҕ ͇̺͍͉͍͂̀͏ Ѩ͋ ͑ ىҘ͓͇̓, ͍ҥ͖͑ ͈̿ӂ ͋ ͋نѨ͋ ͍͑ ͏͇͍͎̻͎͑͒̀͐̓ ͏لѨ͈͎́͒̀̓ӂ͏ ͑Ӏ͋ ѩ͍̿͒͑ نѨ͈͋̓̽͐͐͐̓͋ͅ Ѩ͇͆͒͊̽̿͋, ҉͋̿ ̺͉͇͋ Ѩ͈ ̻͎͍͂̓͒͑͒ ͇͓͎͂̿͆̓̽Ԍ ͑Ӏ͋ ̤Ҥ̿͋153. 47. a Susanna 28 (p. 1207: ̩̿ӂ Ѩ̻͍́͋̓͑ ͑ قѨ͚͎͇͍̿͋ ҭ͏ ͐͒͋ ͉͋̓͆قҕ ͉̿ӄ͏ ͎ӄ͏ ͑ӄ͋ ќ͎͋͂̿ ̿Ҡ͑ ͏قҌ͖͈̿̓ӂ͊ ( ͏͎̼͉ͅ ͇͚͎̿͑̀͐̓ ͍͚͂ ͍҅ ͍͉͋͆إsic) ͑ ͏قј͙͍͋͊͒ Ѩ͍͋͋̽̿͏ ͈̿͑Ҽ ̱͍̺͒͐͋͋̿͏ ͍͑͒ ͆̿͋̿͑̿ ͇̿͐وҠ͑Ӏ͋)154:
̵͎͍͙͍̘͒͐͐͑͊͒ ͍Ҡ͂Ҿ ́Ҽ͎ Ѹ͂̓͐̿͋ ͑̽ Ѩ͎͍͆̓͛͒͋Óјӄ ͍͑ ͏͍̺͒͆ نѨ͈͍͖̻͍͇͐͑͊͋ ͍҅Ü ͂Ҿ Ѩ͋ ͍Ҡ͎̿͋ وѨ͖͈͍́̽͋͐͋ ͑ӄ ͎̿͊́ـ:–155 јӄ ex ͍҅ ab eadem manu correctum.
In questa ecloga tratta dal De Susanna sermo dello Ps. Crisostomo156, la frase јӄ ͍͑ ͏͍̺͒͆ نѨ͈͍͖̻͍͇͐͑͊͋, aggiunta dallo scoliasta in un secondo momento, non compare in alcuno dei codici catenari. Questi elementi da un lato confermano che siamo di fronte a note destinate ad un uso personale (non c’era l’intenzione di tramandare esattamente una catena esegetica), dall’altro potrebbero essere segno di una personalità Cfr. supra nt. 14 e C. M. MAZZUCCHI, Ambrosianus C 222 inf. (Graecus 886): il codice e il suo autore, Parte prima: il codice, in Aevum 77 (2003; 2), p. 274. 151 Le parole ͈̿ӂ ͍Ҡ͈ ̓҈͍͂͐̿͋ … si leggono nella prima colonna di p. 1207, ll. 15-19. L’ecloga (di Ippolito) è scritta nel margine superiore della pagina, l. 2. 152 «Come infatti allora in Paradiso il diavolo si nascose nel serpente, così anche ora nascosto nei due vecchi suscitò il desiderio di sé, per far perire di nuovo, una seconda volta, Eva, attraverso la sua discendente Susanna». 153 HIPPOLYTUS ROMANUS, In Danielem, I, 19 (BONWETSCH, Hippolyt Werke. Kommentar zu Daniel cit., p. 46). 154 Le parole ͈̿ӂ Ѩ̻͍́͋̓͑ ͑ قѨ͚͎͇͍̿͋ … si leggono nella seconda colonna di p. 1207, ll. 20-27. L’ecloga è scritta a fianco, lungo il margine di sinistra (primo intercolumnio). 155 «Del Crisostomo: non sapevano infatti che cosa vedevano, ottenebrati dal sentimento. Ma quelli in cielo conoscevano l’accaduto». 156 PG, 56 cit., col. 592. Cfr. supra nt. 144.
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ALCUNE NOTE MARGINALI IN MINUSCOLA DEL CODICE B
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con un’alta considerazione di sé, che non aveva soggezione degli antichi auctores ma si poneva, per così dire, al loro stesso livello. Le note nei Vangeli di Matteo e Luca Commento ora, in conclusione, le note apposte nei Vangeli di Matteo e di Luca. 48. a Matteo 5, 19 (p. 1239: җ͏ ѨҼ͋ ͍ ͋و͑ ͋̿̽͊ ͚͉͐ͅ ͋حѨ͍͉͖͚͍͋͑͋͑͑ ͋و ͑ ͋وѨ͉͔͖̿̽͐͑͋ ͈̿ӂ ͇̺͂͂͌ͅ ͍ҥ͖͑͏ ͍͑ӆ͏ ј͎͍͋͆͛͒͏ Ѩ͉̺͔͇͍͐͑͏ ͈͉̼͇͆͐̓͑̿ͅ Ѩ͋ ͑ق ͇͉̀̿͐̓̽̿ ͍͑ ͋وҠ͎̿͋)͋و:
Ѩ͉͔̿̽͐͑̿͏ ͈͉̿̓͑ لҼ͏ ͍͈҄̓̽̿͏ Ѩ͍͉͋͑Ҽ͏ ҕ ̩͚͎͇͍͏ ͇͂Ҽ ͖͇͑̿̓̽͋͐͋ ҉͋̿ ͈̿ӂ ͐Ҿ ͇͚̿͂̓͐ͅ ͎͇͍͓͎͍͊̓͑͋̓ ͋لѨ͋ ͑̿͏͇͉͈͇̿̽̿͐̿͂͂ ͏ل:–157 Questo scolio, insieme ai due seguenti158, è tratto dal Commentario al Vangelo di Matteo di Teofilatto di Ocrida (1050/1060 – dopo il 1126)159. Nel capitolo quinto di Matteo, versetti 17-48, Cristo promulga la nuova legge, che non si oppone all’antica, ma la compie160. Il parallelismo con quanto viene narrato nell’Esodo è dato anche dal luogo in cui Gesù si trova: su un’altura. Su un monte infatti (il Sinai) Dio aveva dato la legge a Mosè161. Io credo che lo scoliasta si sia accostato al testo di Matteo per questo suo legame con l’Antico Testamento. Avendo incontrato, nel corso della lettura, passi che richiedevano un chiarimento interpretativo (in questo caso: perché il Signore chiama «minimi» i proprî comandamenti?), avrà attinto la spiegazione dal Commentario a Matteo che aveva a disposizione, e cioè quello di Teofilatto. 157
«Il Signore chiama minimi i propri comandamenti per umiltà, per educare anche te a essere modesto negli insegnamenti». 158 Vedi Tav. VIII. 159 Lo scoliasta, anche qui, non si è premurato di indicare la fonte. Cfr. THEOPHYLACTUS BULGARIAE ARCHIEPISCOPUS, Enarratio in Evangelium Matthaei, V, 19 [PG, 123, Parisiis 1883, col. 193 A (il Nostro rielabora leggermente il testo)]: Ѯ͉͔̿̽͐͑̿͏ Ѩ͍͉͋͑Ҽ͏ ͉̻͇́̓, ћ͏ ̻͉͉͇͊̓ ̿Ҡ͑ӄ͏ ͎͍͍̿̿͂ ̘͇̿͋نҠ ́Ҽ͎ ͑Ҽ͏ ͍͇͈̺͋͊͏. Қ͍̺͇͋͊̈́̓ ͂Ҿ ̿Ҡ͑Ҽ͏ Ѩ͉͔̿̽͐͑̿͏, ͇͂Ҽ ͖͇͑̿̓̽͋͐͋, ҉͋̿ ͈̿ӂ ͐Ҿ ͇͚̿͂̓͐Ԍ ͎͇͍͓͎͍͊̓͑͋̓ ͋لѨӂ ͑̿͏͇͉͈͇̿̽̿͐̿͂͂ ͏ل. 160 Ѽ͈͍͚͐̿͑̓ ҙ͇͑ Ѩ͎͎̼͆ͅ ͍͑ ͏لј͎͔͍͇̿̽͏ ͍Ҡ ͓͍͚͇͋̓͐̓͏ (cfr. Esodo 20, 13) … Ѩ́ӈ ͂Ҿ ͉̻͖́ ҡ͊͋ل … Ѽ͈͍͚͐̿͑̓ ҙ͇͑ Ѩ͎͎̼͆ͅ ͍Ҡ ͍͇͔͚͇͊̓͐̓͏ (cfr. Esodo 20, 14) Ѩ́ӈ ͂Ҿ ͉̻͖́ ҡ͊ … ͋لѮ͎͎̼͆ͅ ͂Ҿ җ͏ њ͋ ј͍͉͚͐ͅ ͑Ӏ͋ ́͒͋̿̿ ͈̿لҡ͍͑̿ ͖͙͑͂ نҠ͑ قј͍̺͇͍͐͑͐͋ (cfr. Deuteronomio 24, 1) Ѩ́ӈ ͂Ҿ ͉̻͖́ ҡ͊͋ل … ̯̺͉͇͋ Ѵ͈͍͚͐̿͑̓ ҙ͇͑ Ѩ͎͎̼͆ͅ ͍͑ ͏لј͎͔͍͇̿̽͏ ͍Ҡ͈ Ѩ͇͍͎͈̼͇͐̓͏ (cfr. Levitico 19, 12) … Ѩ́ӈ ͂Ҿ ͉̻͖́ ҡ͊ … ͋لѼ͈͍͚͐̿͑̓ ҙ͇͑ Ѩ͎͎̼͆ͅ Ҕ͓͉͆̿͊ӄ͋ ј͋͑ӂ Ҕ͓͉͍͈͆̿͊̿ نӂ Ҕ͙͂͋͑̿ ј͋͑ӂ Ҕ͙͍͂͋͑͏ (cfr. Esodo 21, 24) Ѩ́ӈ ͂Ҿ ͉̻͖́ ҡ͊ … ͋لѼ͈͍͚͐̿͑̓ ҙ͇͑ Ѩ͎͎̼͆ͅ ј̼͇́̿͐̓͏ ͑ӄ͋ ͉͍͐̽͋ͅ ͍͐͒ (cfr. Levitico 19, 18) ͈̿ӂ ͇̼͇͊͐͐̓͏ ͑ӄ͋ Ѩ͔͎͙͆͋ ͍͐͒ Ѩ́ӈ ͂Ҿ ͉̻͖́ ҡ͊… ͋ل 161 Cfr. DANIÉLOU, Sacramentum futuri cit., p. 137 e H. J. SCHOEPS, Theologie und Geschichte des Judenchristentums, Tübingen 1949, p. 93.
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PIETRO VERSACE
Teofilatto di Ocrida162 nacque in Eubea, probabilmente a Calcide, tra il 1050 e il 1060. Si trasferì a Costantinopoli per compiere gli studi superiori (la cosiddetta Ѩ͈͚͈͉͇͍́͏ ͇̿͂̓̽̿, che comprendeva grammatica, retorica, filosofia e matematica), ed ebbe fra i suoi maestri Michele Psello. Rimase quindi nella capitale, dove venne ordinato diacono del clero di S. Sofia. Presso la Scuola Patriarcale ricoprì per alcuni anni l’incarico di Ԫ̼͖͎͑, per poi essere nominato μ̿ԛ͖͎͐͑ ͑ ͋وԪ͙͎͖͑͋ͅ. Fra i suoi allievi il più insigne fu Costantino Duca, figlio del defunto imperatore Michele VII e della principessa caucasica Maria di Alania. La carriera ecclesiastica di Teofilatto culminò con la nomina, tra il 1088 e il 1089, ad arcivescovo di Bulgaria, con sede ad Ocrida, in Macedonia (un arcivescovado molto potente, autocefalo, il cui titolare si collocava ai massimi livelli della gerarchia ecclesiastica orientale). Morì dopo il 1126. Fra le sue opere vanno ricordati anzitutto i Commentarî ai quattro Vangeli (una rielaborazione delle Omelie sui Vangeli di Giovanni Crisostomo)163, che risalgono probabilmente al periodo in cui era arcivescovo di Bulgaria e gli furono commissionati dall’ex basilissa Maria di Alania, la quale, salito al trono Alessio I Comneno, si era ritirata in monastero. Scrisse inoltre Commentarî sui Profeti, sugli Atti degli Apostoli, sulle Lettere di San Paolo, sulle Lettere Cattoliche, un’opera agiografica su S. Clemente di Bulgaria e un ampio corpus di lettere. Su richiesta di un ex allievo di nome Nicola, diacono di S. Sofia, emanò un decreto dal titolo ̯͎̓ӂ ͋رѨ͈͉͍́̿ ͍͇̪̽͋͑̿ ͇̿͑͋نin cui esaminava tutte le principali questioni oggetto di discordia fra Chiesa greca e Chiesa latina (pochi anni prima c’erano state le reciproche scomuniche del 1054). Quando era maestro di retorica alla Scuola Patriarcale pronunciò un ͉͙͍́͏ ͇͉͇͈͙̀̿͐͏ per l’imperatore Alessio (probabilmente il 6 gennaio 1088) in cui lodava le imprese militari e diplomatiche del sovrano e ricordava i servigi da lui resi alla Chiesa. 49. a Matteo 5, 22 (p. 1239: җ͏ ͂’ њ͋ ̓҈ͅ ͑ وј͉͓͂̓̿ وҠ͍͑ نԪ͈̿ـ164 Ѭ͍͔͍͋͏ Ѭ͇͐͑̿ ͑)͖͎̽͂̓͋͒͐ و:
͑ӄ Ԫ͈̿ـ, ј͋͑ӂ ͍̘͚͑͐ ن165 162 Così chiamato dal nome della città di cui fu arcivescovo. È noto anche con il patronimico ҕ ҁ͓͇͍̿͐͑͏. Cfr. P. GAUTIER, L’épiscopat de Théophylacte Héphaistos archevêque de Bulgarie. Notes chronologiques et biographiques, in Revue des études byzantines 21 (1963), pp. 159-178: 165-168. Su Teofilatto si veda inoltre H.-G. BECK, Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich, München 1959 (Handbuch der Altertumswissenschaft, XII, 2, 1; Byzantinisches Handbuch, II, 1), pp. 649-651 e D. OBOLENSKY, Ritratti dal mondo bizantino, Milano 1999 (Già e non ancora, 349; Complementi alla Storia della Chiesa diretta da H. Jedin, 12), pp. 47-94. 163 PG, 123 cit. e PG, 124, Parisiis 1879, coll. 9-317. 164 Ա͈̿ ـpro Ԫ͈̺̿, sia nel testo che nello scolio. 165 «“Ԫ͈̿”ـ, invece di “tu”». Cfr. THEOPHYLACTUS BULGARIAE ARCHIEPISCOPUS, Enarratio
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ALCUNE NOTE MARGINALI IN MINUSCOLA DEL CODICE B
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Il secondo scolio, tratto da Teofilatto, è un semplice chiarimento lessicale: il termine aramaico Ԫ͈̺̿ corrisponde alla parola greca ͚͐ «ehi tu» (che esprime disprezzo verso qualcuno). 50. a Matteo 5, 25 (p. 1239: ҈͇͐͆ ̓Ҡ͍͋ و͑ ͋وј͇͈͖͋͑͂̽ ͍͐͒ ͔͑̿ӆ ѩ͖͙͍͐͑͒ ̓̿’͑̓͊ ةҠ͍͑ نѨ͋ ͑ قҕ͂ و͎͂̿̿ ̓͐ ̻͍̼͑͊ وҕ ј͇͈͍͋͑̽͂͏ ͈͑̿ ق͇͎͈͑ وӂ ҕ ͈͎͇̼͑͏ ͐̓ ͎̿̿͂ و͑ وҡ͎̻͑ͅͅ ͈̿ӂ ̓҄͏ ͓͉͈͒̿Ӏ͋ ͉̼̀͆͐ͅͅ Ѡ͊Ӏ͋ ͉̻͖́ ͍͇͐ ͍Ҡ ͊Ӏ Ѩ̻͉͌͆ͅ͏ Ѩ͈̓ ͋̓͆لѭ͖͏ њ͋ ј͍͂͑ ͏وӄ͋ Ѭ͔͍͐̿͑͋ ͈͍͎̺͂͋͑͋ͅ):
̲͇͋Ҿ͏ ͍͍͇͋͊̽̈́͒͐͋, ј͇͈͍͋͑̽͂͋ ͉̻͇́̓͐͆̿ ͑ӄ͋ ͇̺͍͉͍͂̀͋ ҕ͂ӄ͋ ͂Ҿ ͑ӄ͋ ͍͎͇̀̽͋̿̿ ͋̓͂ ͋لҾ ͑ӄ͋ ̩͚͎͇͍͋ ҙ͇͑ ѭ͖͏ ͍ ة̓ خѨ͋ ͑ ͇͚͉͇͑͆̿͂ͅ ͖͚͍͑͑ ͖̽̀ وј’ ̿Ҡ͍͑ن ҉͋̿ ͊ͅ Ѭ͔ͅ ҥ͎͍͐͑̓͋ Ѩ͉̻͔͇́̓͋ ͐̓ ͎̓ӂ љ͎͊̿͑̽̿͏ ҭ͏ Ѭ͔͍͋͑̿ ͑̽ ͑ ͋وѨ͈͍̓̽͋͒ ͈̿ӂ ͙͑͑̓ ͎͍̿̿͂͆̓ӂ͏166 ͑ ͇̺͉͍͈̓͐ قќ͔͎͇ ͈̿ӂ ͑ ͋وѨ͔̺͖͐͑͋ љ͎̺͖͊̿͑͊͑͋ͅ ̓Ҡ͙͍͆͒͋͊̓͋͏ ͈͍͎̺͂͋͑ͅ͏ ̺͎́ Ѩ͇͐͑, ͚͍͂ ͉̺̘̓͑ ͐ӆ ͂Ҿ ͙͇͋̓ ҙ͇͑ ͈̿ӂ ͎̓ӂ ͑͋و Ѩ͋͑̿ ̿͆نј͇͈͖͋͑͂̽͋ ͍͑͊ ͋و͇͎͇̻͉͋̿̿̓́ ͍͑نӀ ͇͈̺͇͂̈́̓͐͆̿ ͈̿ӂ јӄ ͑̽̓͆ ͋و͖͋ Ѭ͎͖́͋ ͎͇͈͇̓͐̿͆͐ـњ͋ ́Ҽ͎ Ѵ͇͈̼͂͆ͅ͏, ͓ͅ[͐̽] …167 L’ultimo scolio di questa pagina spiega il significato delle parole: «Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui …». 51. a Luca 4, 2 (p. 1310: ͈̿ӂ ͉͇͐͒͋͑̓̓͐͆̓͐̿ ͋وҠ͑͋و168 Ѩ̓̽͋̿͐̓͋):
ҙ͇͑͊̓͑Ҽ͑Ҽ͏֚͊ѵ̻͎͊̿͏͇̺̓͋͐̿͏ҕ̩͚͎͇͍͏Ѩ͇͎̺̘̓͐͆ͅ169 in Evangelium Matthaei, V, 22 (PG, 123 cit., col. 193 D): ̲ӄ ̻͂, «Ա͈̺̿», ͇͐͊̿̽͋̓ͅ ј͋͑ӂ ͍͑ن, ͚͐. 166 Probabile un errore di itacismo: ͎͍̿̿͂͆͏ك. 167 «Alcuni ritengono che “avversario” sia detto il diavolo, e “via” la vita (terrena), e che il Signore esorti: “Fin quando sei in questa vita separati da lui, perché non abbia poi ad accusarti di peccato, avendo tu qualcosa di suo, e allora tu venga consegnato al castigo, per render conto fino ai peccati minimi”; un quadrante corrisponde infatti a due spiccioli. Ma tu sappi che (il Signore) dice questo anche in riferimento agli avversari di quaggiù, esortando a non entrare in lite (con nessuno) e a non distogliersi dalle opere divine. Quand’anche infatti tu abbia subito un’ingiustizia — dice — … ». Le ultime parole dello scolio sono state asportate con la rifilatura del codice. Cfr. THEOPHYLACTUS BULGARIAE ARCHIEPISCOPUS, Enarratio in Evangelium Matthaei, V, 25 (PG, 123 cit., col. 196 C D): ̲͇͋Ҿ͏ ͍͍͇͋͊̽̈́͒͐͋ ј͇͈͍͋͑̽͂͋ ͉̻͇́̓͐͆̿ ͑ӄ͋ ͇̺͍͉͍͂̀͋, ҕ͂ӄ͋ ͂Ҿ ͑ӄ͋ ͍̘̀̽͋ ͎͇̿̿͋̓͂ ͋لҾ ͑ӄ͋ ̩͚͎͇͍͋ ͍ҥ͖͑͏̘ ѳ͖͏ ҙ͍͑͒ ̓ ةѨ͋ ͑̽̀ ىԶ ͍͚͑͑Զ, ͇͉͚͇͂̿͆͑ͅ ͎ӄ͏ ͑ӄ͋ ͇̺͍͉͍͂̀͋, ҉͋̿ ͊Ӏ Ѭ͔Ԍ ҥ͎͍͐͑̓͋ Ѩ͉̻͔͇́̓͋ ͐̓ ͎̓ӂ љ͎͊̿͑̽̿͏, ҭ͏ Ѭ͔͍̺͋͑ ͇͑ ͑͋و Ѩ͈͍̓̽͋͒, ͈̿ӂ ͙͑͑̓ ͎͍͇̺͉͍͈̿̿͂͆̓͐ ك͑ ͏ك, ќ͔͎͇ ͈̿ӂ ͑ ͋وѨ͔̺͖͐͑͋ љ͎̺͖͊̿͑͊͑͋ͅ ̓Ҡ͙͍͆͒͋͊̓͋͏. ̩͍͎̺͂͋͑ͅ͏ ̺͎́ Ѩ͇͐͑ ͚͍͂ ͉̺̓͑. ̱ӆ ͂Ҿ ͙͇͋̓ ҙ͇͑ ͈̿ӂ ͎̓ӂ ͑ ͋وѨ͋͑̿ ̿͆نј͇͈͖͋͑͂̽͋ ͉̻͇́̓ ͍͍͑͑ن, ͎͇̿̿͋͋و ͊Ӏ ͇͈̺͇͂̈́̓͐͆̿, ͈̿ӂ јӄ ͑ ͖͋̽̓͆ ͋وѬ͎͖́͋ ͎͇͇̓͐̿͆͐ـ. ̩њ͋ ́Ҽ͎ Ѵ͇͈̼͂͆ͅ͏, ͓͐̽ͅ, ͊Ӏ ј̻͉͆Ԍ͏ ̓҄͏ ͇͈̼͎͇͍̘͂̿͐͑͋ ј͉͉’ Ѩ͋ ͑ كҕ͇͚͉͇͂͑͆̿͂ͅ ى, ̼͍͊͑̓ ͔͎͍̓̽͋̿ ̺͆Ԍ͏ ͇͂Ҽ ͑Ӏ͋ ͂͒͋̿͐͑̓̽̿͋ ͍͑ نј͇͈͍͋͑͂̽͒. Con le parole ̲͇͋Ҿ͏ ͍͍͇͋͊̽̈́͒͐͋ ј͇͈͍͋͑̽͂͋ ͉̻͇́̓͐͆̿ ͑ӄ͋ ͇̺͍͉͍͂̀͋, ҕ͂ӄ͋ ͂Ҿ ͑ӄ͋ ͍̀̽͋ Teofilatto (ma la fonte è l’Omelia XVI In Matthaeum di Giovanni Crisostomo, cap. 11: PG, 57, Lutetiae Parisiorum 1860, col. 253) allude a Origene. Cfr. E. BENZ – E. KLOSTERMANN, Origenes. Matthäuserklärung, III/1: Fragmente und Indices, Leipzig 1941 (Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, 41; Origenes Werke, 12), pp. 57-58. 168 Scil. i quaranta giorni nel deserto. 169 «Dopo i quaranta giorni, avendo fame, il Signore fu messo alla prova».
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Gesù, dopo il battesimo nel Giordano, fu condotto dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, per essere tentato dal diavolo. Il nesso tra questo episodio della vita di Cristo e i fatti narrati nell’Esodo è apparso evidente a tutta la tradizione cristiana. Gesù trascorse quaranta giorni nel deserto dopo il battesimo nel Giordano come l’antico Israele, dopo il passaggio del Mar Rosso, camminò quarant’anni nel deserto170. Gesù, tentato dal diavolo, si mostrò fedele al Padre, contrariamente all’antico Israele che, messo varie volte alla prova, dubitò dell’aiuto divino. Cristo stesso sembra suggerire il parallelismo, quando risponde a Satana. Alla prima tentazione (̤҄ ͒҅ӄ͏ ̓҄̓ ن̧͍̓ ن͍͑ ةҾ ͑ ͇̻̿͑͋́ͅ ̿͋҉ ͖͚͍͑͑ ͖͉͆̽ وќ͎͍͑͏) egli replica: ̢̻͎͇́̿͑̿ ҙ͇͑ ͍Ҡ͈ Ѩ’ ќ͎͖͑ ͙͖͊͋ ̼͇̈́͐̓͑̿ ҕ ќ͎͖͍͋͆͏171, citando così Deuteronomio 8, 2-4, dove Mosè dice: ̩̿ӂ̼͊͋͐͆͐ͅͅ ͑ ͋̿͐ـӀ͋ ҕ͂ӄ͋ ѷ͋ Ѹ̻́̿́ ͐̓ ̩͚͎͇͍͏ ҕ
̧͙̓͏ ͍͐͒ Ѩ͋ ͑ قѨ͎̼͖̘͊ ҙ͖͏ њ͋ ͈͈̿͛͐ͅ ͐̓ ͈̿ӂ Ѩ͈͇͎̺̓͐ͅ ͐̓ ͈̿ӂ ͇͖͂̿́͋͐͆ق ͑Ҽ Ѩ͋ ͑͑ ̺͉͓͌͒ͅ ҄̓ ͍͒͐ ͎͈̿̽͂̿ قҼ͏ Ѩ͍͉͋͑Ҽ͏ ̿Ҡ͍͑ نѴ ͍Ҥ̘ ͈̿ӂ Ѩ͈̺͈͖̻͐ ͐̓ ͈̿ӂ Ѩ͉͇͔͙̻͊̿́͋͐ͅ ͐̓ ͈̿ӂ Ѩ͕͇̻͛͊͐ ͐̓ ͑ӄ ̺͊͋͋̿ {Ѩ͋ ͑ قѨ͎̼͖͊}172 җ ͍Ҡ͈ ̓҈͂͐̿͋ͅ ͍҅ ̻͎̿͑̓͏ ͍͐͒ ҉͋̿ ј͉͋̿́́̓̽ͅ ͍͇͐ ҙ͇͑ ͍Ҡ͈ Ѩ’ ќ͎͖͑ ͙͖͊͋ ̼͇̈́͐̓͑̿ ҕ ќ͎͖͍͋͆͏ ј͉͉’ Ѩӂ ̿͋͑ӂ Ԫ̼͇͊̿͑ ͑ وѨ͈͍͎͍̻͖̓͒͊͋ ͇͂Ҽ ͙͍͐͑͊̿͑͏ ̧͍̓ ͇̼̿͑̓͐̈́ نҕ ќ͎͖͍͋͆͏. Quando il diavolo promette di dargli tutti i regni della terra in cambio di un atto di adorazione, Gesù ripete il comandamento che Dio aveva dato sul monte Sinai (̻͎͇́́̿͑̿ ̩͚͎͇͍͋ ͑ӄ͋ ̧͙̓͋ ͍͐͒ ͎͍͈̼͇͐͒͋͐̓͏ ͈̿ӂ ̿Ҡ͖͙͑͋͊ و ͉͎͚͇̿͑̓͐̓͏)173, mentre Israele, ai piedi della montagna, stava adorando il vitello d’oro. Quando infine il diavolo lo porta sul pinnacolo del tempio di Gerusalemme e gli dice di buttarsi giù, perché certamente, secondo le parole del Salmo 90, Dio lo avrebbe soccorso174, Gesù, citando ancora il Deuteronomio (̓҈͎͇͑̿ͅ ͍Ҡ͈ Ѩ͈͇͎̺͇̓͐̓͏ ̩͎͇͍͒͋ ͑ӄ͋ ̧͙̓͋ ͍͐͒), fa allusione all’episodio di Massa, quando gli Israeliti nel deserto mormorarono contro Mosè e contro il Signore perché non avevano acqua da bere175. 52. a Luca 11, 52 (p. 1327: ̮Ҡ̿ӂ ҡ͊ ͏ل͍͈͇͍͊͋ ͏ل͍͑ ͋لҙ͇͑ Ѹ͎̿͑̓ ͑Ӏ͋ ͈͉̓̿͂ل ͑)͏͖̓͐͛͋́ ͏ق: 170 Quaranta sono pure i giorni durante i quali Mosè digiunò sulla cima del Sinai, mentre parlava con Dio. 171 Luca 4, 3-4. Nel passo parallelo di Matteo (4, 4) la citazione dal Deuteronomio è completa: ̢̻͎͇́̿͑̿ ͍Ҡ͈ Ѩ’ ќ͎͖͑ ͙͖͊͋ ̼͇̈́͐̓͑̿ ҕ ќ͎͖͍͋͆͏ ј͉͉’ Ѩӂ ̿͋͑ӂ Ԫ̼͇͊̿͑ Ѩ͈͍͎͍̻͖̓͒͊͋ ͇͂Ҽ ͙͍͐͑͊̿͑͏ ̧͍̓ن. 172 Integrazione da espungere, aggiunta a fianco della linea di testo da un correttore e ripassata nel X secolo (cfr. codice B, p. 203). 173 Luca 4, 8. Cfr. Esodo 20, 3. 174 Salmo 90, 11-12. 175 Luca 4, 12. Cfr. Deuteronomio 6, 16 e Esodo 17, 1-7. Luca inverte l’ordine della seconda e della terza tentazione (cfr. Matteo 4, 1-11), per finire a Gerusalemme. Ciò che è stato detto a commento di questo scolio si può leggere in DANIÉLOU, Sacramentum futuri cit., pp. 136-137.
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̱͊ͅ(͖͇̓̽͐̿)176 Credo che nessuno scolio possa concludere meglio questa nostra analisi come i due ͖͇͐͊̓̽͐̿ͅ che il Nostro appose alle pagine 1327 e 1328 del codice. In essi si condensa infatti tutto il pensiero dello scoliasta. «I dottori della legge» (afferma questo versetto del Vangelo di Luca) «si sono presi la chiave della scienza», ritenendosi gli unici autorizzati a interpretare le Scritture, in virtù dei loro studi. Tuttavia non le hanno comprese, e hanno così impedito al popolo di comprenderle (il testo evangelico prosegue: ̿Ҡ͍͑ӂ ͍Ҡ͈ ̼͉̓҄͐͆̿͑̓ ͈̿ӂ ͍͑ӆ͏ ͎͔͍̻͍̓҄͐̓͊͋͒͏ Ѩ͈͖͉͚͐̿͑̓). Se le avessero lette in profondità avrebbero riconosciuto il Cristo. 53. a Luca 12, 12 (p. 1328: ͑ӄ ́Ҽ͎ ѝ͇͍́͋ ͋̓ ͇̺͇̓͌͂͂ ̿͊نҡ͊)͏ـ:
̱͊ͅ(͖͇̓̽͐̿)177 Il secondo ͖͇͐͊̓̽͐̿ͅ, estrapolato dal contesto, può significare che è lo Spirito Santo a suggerire ai credenti il significato autentico dell’Antico Testamento. Conclusioni 1. L’identità dello scoliasta Dall’indagine mi sembra si possano trarre le seguenti conclusioni. Il Nostro conosceva molto bene la Bibbia, come dimostrano i richiami, all’interno degli scholia, a diversi passi dell’Antico e soprattutto del Nuovo Testamento. Che fosse un ecclesiastico parrebbe confermato dalla citazione dell’inno liturgico «̲͍»ن͍͈͇͑͐͒͊ن͍͍͍͑͒͐͒͋̽̓͂ن. La lettura allegorica di oggetti e avvenimenti (l’Egitto è il peccato, la mano forte di Dio è la pietra angolare, le braccia distese di Mosè simboleggiano la croce, etc …) rivela la conoscenza dell’esegesi patristica, mentre da alcune note si desume una familiarità con i principali argomenti della secolare controversia fra cristiani ed Ebrei (non manca neppure, come abbiamo visto, un implicito riferimento all’eresia ariana). Era probabilmente una personalità importante (essendo proprietaria di un manoscritto così antico), con un’alta opinione di sé (tale aspetto del carattere emerge dall’assoluta indifferenza con cui il Nostro ha osato «sporcare» con note personali il codice178 e — a mio avviso — dalla disinvoltura con cui ha rielaborato le ecloghe della catena su Susanna, ponendosi, per così dire, sullo stesso piano degli an176
«Bada bene». Vedi Tav. IX. «Bada bene». Vedi Tav. X. 178 MAZZUCCHI, Per la storia medievale cit., p. 135. 177
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tichi auctores). Riguardo all’area geografica in cui collocarlo, è plausibile pensare a Costantinopoli179. Già prima di iniziare il lavoro l’autorevolezza di cui il Nostro doveva godere poteva far pensare alla capitale dell’impero. Al termine dell’indagine mi sembra che l’ipotesi di partenza sia stata confermata da alcune prove. Nella catena su Susanna (sappiamo che l’uso delle catene esegetiche nell’insegnamento teologico alla Scuola Patriarcale di Costantinopoli, soprattutto tra XI e XII secolo, era molto comune; non è un caso che l’ultimo grande compilatore di catene sia Niceta di Eraclea, ͍͈͍͇͈҄͒͊̓͋ӄ͏ ͇̺͈͉͍͂͂͐̿͏ alla fine dell’XI secolo180) l’unico autore menzionato, davanti a due ecloghe, è Giovanni Crisostomo181. Egli era molto venerato nella capitale (ricordiamo che fu vescovo della città dal 398 al 404, e che le sue spoglie, prima di essere trasportate a Roma all’epoca della IV crociata, erano custodite nella chiesa dei SS. Apostoli). Gilles Dorival, che ha dedicato un ampio studio alle catene esegetiche sui Salmi, rileva, come caratteristica delle catene di provenienza costantinopolitana, la predominante presenza, fra le fonti, di Giovanni Crisostomo e Teodoreto182. I Commentari ai Vangeli di Teofilatto di Ocrida, vissuto per gran parte della vita a Bisanzio, sono un’epitome delle Omelie del Crisostomo. In secondo luogo è significativa, a p. 62, la citazione di una parte dell’inno liturgico «̲͍̽̓͂ ن͍͋͒ ͍͐͒ ͍͑»ن͍͈͇͑͐͒͊ ن. Conosciuto, all’epoca dello scoliasta, un po’ ovunque in Oriente, era noto soprattutto a Costantinopoli, dove — come si è detto — veniva cantato tre volte nel corso della Messa del Giovedì Santo183. Circa l’identità dello scoliasta faccio mia la proposta di Carlo Maria Mazzucchi a favore di Giovanni Camatero184. Fra le personalità ecclesiasti179
Cfr. ibid., p. 134. Cfr. BECK, Kirche und theologische Literatur cit., pp. 651-653. Sulla Scuola Patriarcale cfr. R. BROWNING, The Patriarchal School at Constantinople in the Twelfth Century, in Byzantion 32 (1962), pp. 167-202 e in Byzantion 33 (1963), pp. 11-40. 181 Cfr. però supra nt. 144. 182 G. DORIVAL, Les chaînes exégétiques grecques sur les Psaumes. Contribution a l’étude d’une forme littéraire, I, Leuven 1986 (Spicilegium Sacrum Lovaniense. Études et documents, 43), p. 29 e pp. 33-34. 183 Robert Taft, dopo aver mostrato che il «͍͑ »͍͒͐ ͍͒͋̽̓͂ نsi trova menzionato soltanto come secondo di due koinonika per il Giovedì Santo nel codice Sinait. georg. 37 del 982, e come uno dei koinonika del Giovedì Santo nel Typicon dell’Anastasis di Gerusalemme tramandato dal codice ̱͎͍͑̿͒ ن43 (ivi è citato anche come canto per il Grande Ingresso), così conclude: «So we see an earlier and stronger tradition for the chant in Constantinople, over against the later, gradual introduction of it into the Holy Thursday liturgy of the Holy City around the 10th century, at a time when it is generally agreed that Constantinople was influencing the liturgy of Palestine. Its presence in the liturgy of Jerusalem should probably be attributed to the gradual Byzantinization of that rite» (TAFT, The Great Entrance cit., pp. 6970). 184 Cfr. MAZZUCCHI, Per la storia medievale cit., p. 135. 180
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che più illustri e dotte di Costantinopoli nell’ultimo quarto del XII secolo, Giovanni Camatero era legato alla famiglia imperiale, in quanto parente di Eufrosine, moglie di Alessio III Angelo Comneno185. Dopo avere svolto per diversi anni varie mansioni a servizio della Grande Chiesa (fu Ԫ̼͖͎͑ e poi ͊̿ԛ͖͎͐͑ ͑ ͋وԪ͙͎͖͑͋ͅ presso la Scuola Patriarcale, fino ad assurgere alla carica di ͔͎͍͓͚͉̿͑̿͌, cioè di vicario generale dell’allora patriarca Giorgio II Xifilino), il 5 agosto 1198 venne eletto patriarca di Costantinopoli. Rimase sul soglio patriarcale fino ai primi mesi del 1206, poco prima della morte, che lo colse in esilio all’indomani della conquista crociata della capitale. I contemporanei ne elogiavano la cultura186. Niceta Coniata (che era in lite con lui per questioni teologiche riguardanti il corpo eucaristico) lo rappresenta «come un docente e un intellettuale arrogante e superbo», che amava «impressionare gli allievi presentandosi come “il più grande dotto dell’epoca”»187. Tale descrizione, certamente di parte, non doveva essere molto distante dalla realtà se «Camatero, quando ancora era ͔͎͍͓͚͉̿͑̿͌, in una sottoscrizione del 1197 si fregiava del titolo di ҡ̻͎͇͍͑͊͏, dignità concessa dall’imperatore soltanto ai metropoliti a partire dal 1173»188. I tratti caratteriali delineati da Niceta Coniata si conciliano bene con la personalità del nostro scoliasta. La prova però decisiva a favore di Camatero ci pare venga offerta dal retore Niceforo Chrysoberge. In un encomio indirizzato al patriarca nell’aprile 1202 Chrysoberge ricorda le sue ͎ӄ͏ ѯ͎͍̀̿̽͒͏ ј͇͉͍͋͑́̽̿͏ ͑Ҽ͏ ͇͉͇͔͍͊̓̽͒͏ ͈̿ӂ ͉͎̺҅̿͏ («melliflue e ilari discussioni con gli Ebrei»), a noi non pervenute189. Un’«attenzione dialogante verso il Giudai185
Un’ampia bibliografia su Giovanni Camatero è contenuta in J. SPITERIS, La critica bizantina del primato romano nel secolo XII, Roma 1979 (Orientalia Christiana Analecta, 208), pp. 251-255. 186 Il cronografo Efrem (XIII/XIV sec.) lo definiva ҈͎͇͂͏ ͍͓͐̽̿͏ ͍͈̿͋͑͂̿̿ ͏قӂ ͉͙͖́͋, Ѩ̼͍͉͙̀͏ ͑̓ ͍̺͖͂́͊͑͋ ͑ ͋وѨ̻͖͋͆͋. EPHRAEMIUS, Imperatorum et patriarcharum recensus, vv. 10230-10231 [I. BEKKER, Ephraemius, Bonnae 1840 (Corpus scriptorum historiae Byzantinae), p. 410. PG, 143, Lutetiae Parisiorum 1865, col. 373 B]. L’edizione di O. LAMPSIDES, Ephraem Aenii. Historia Chronica, Athenis 1990 (Corpus fontium historiae Byzantinae, 27; Series Atheniensis), s’interrompe alla fine della serie degli imperatori (v. 9588 – v. 9564 dell’edizione di Bekker). 187 C. M. MAZZUCCHI, Ambrosianus C 222 inf. (Graecus 886): il codice e il suo autore, Parte seconda: l’autore, in Aevum 78 (2004; 2), p. 436. Queste le parole usate da Niceta: ͑ӄ͋ ќ͈͎͍͋ ͍͇͂́͊̿͑͐͑Ӏ͋ ͈ј͋ ͑̿ ͏لѵ̻͎͇͊̿͏ ͚͇͑̿͑̿͏ ͎͈̿ ͍͋͑وӂ ҥ͍͐͑̿͑͋ ͉͙͇͍́͋ ͍͈͇͍͚͍҄̓͊̓͋͏. NICETAS CHONIATES, Orationes, VIII [I. A. VAN DIETEN, Nicetae Choniatae orationes et epistulae, Berolini et Novi Eboraci 1972 (Corpus fontium historiae Byzantinae; Series Berolinensis, 3), p. 76, ll. 16-17]. 188 Vedi MAZZUCCHI, Ambrosianus C 222 inf. Parte seconda cit., p. 422 nt. 64. Cfr. V. GRUMEL, Titulature de métropolites byzantins. II. Métropolites hypertimes, in Mémorial Louis Petit: mélanges d’histoire et d’archéologie byzantines, Bucarest 1948 (Archives de l’Orient chrétien, 1), pp. 152-184: 163. 189 R. BROWNING, An Unpublished Address of Nicephorus Chrysoberges to Patriarch John
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smo», quale emerge dall’esame degli scholia190, non pare sia attestata, all’epoca del Nostro, per altre personalità di Bisanzio191. Punti di contatto, poi, si possono stabilire tra la figura di Camatero e quella di Teofilatto di Ocrida: entrambi, in periodi diversi, furono ͊̿ԛ͍͎͐͑̓͏ ͑ ͋وԪ͙͎͖͑͋ͅ alla Scuola Patriarcale; entrambi si occuparono dello scisma con la Chiesa latina192. 2. I rapporti fra cristiani ed Ebrei a Bisanzio nella seconda metà del XII secolo Rimane da considerare, da ultimo, quali potessero essere i rapporti fra cristiani ed Ebrei a Costantinopoli sul finire del XII secolo. Fortunatamente abbiamo la testimonianza di un contemporaneo, Benjamin da Tudela, che visitò la capitale intorno al 1165 (quindi, verosimilmente, soltanto due o tre decenni prima che il Nostro scrivesse le sue annotazioni)193. Egli racconta che gli Ebrei erano stati espulsi dall’interno della cinta muraria e trasferiti al di là del braccio di mare (Corno d’Oro), nel sobborgo di Pera (dove, nel 1203, i Crociati metteranno il loro quartier generale)194. Per commerciare con gli abitanti della città dovevano usare le imbarcazioni. La comunità X Kamateros of 1202, in Byzantine Studies / Études Byzantines 5 (1978), pp. 37-68: 61 [ristampato in R. BROWNING, History, language and literacy in the Byzantine world, Northampton 1989 (Variorum Collected studies, CS 299)]. Il testo di Chrysoberge è contenuto in un unico testimone della fine del XIII / inizi XIV secolo, il Vindob. phil. gr. 321, ff. 246-253v. 190 Non troviamo mai in essi espressioni come ͈͖͓͍ӂ ͎́̿͊͊̿͑̓« ͏لstolti scribi» [cfr. il trattato contro i Giudei di Niceta Stetato: J. DARROUZÈS, Nicétas Stéthatos. Opuscules et lettres, Paris 1961 (Sources chrétiennes, 81), p. 438] o parole dispregiative come quelle usate, ad esempio, da Michele Glyca, all’incirca negli stessi anni (EUSTRATIADES, ̫͇͔̿Ӏ͉ ͍͑ـ̢͈͉͒ ن cit., p. 194): ґ͋̿ ͑̽ ͉͍͇ӄ͋ ͇̺͇͊̿͑̿̈́̓͏ ͈̿ӂ Ѩӂ ͈͍̓͋ ;͏ل͎͍͈͈̓́͒̿ ͏لґ͋̿ ͑̽ ͑Ҽ͏ ͉̻͇͌̓͏ ҡ͉͉̺͇̿͑͑̓͏, ͈̿ӂ ͋̓ ͇͋͋ـј͋͑ӂ ͎̻͍̿͆͋͒ ј͇͈͇͋̿́͋͛͐̓͏, ͉̺͈͇͑͐̿͂͂ ى͐ ىԶ ͈ј͋ ͍͚͍͇͑͑͏ ј͈͍͉͍͒͆͋و, Ѡ͈͚͉ӽ ͉̻͖́ ͑ ;͇͍͎͓͙͇͋̿͑̿͊ ىSi direbbe piuttosto che il Nostro voglia evidenziare la continuità e l’unità che esiste fra Antica e Nuova Alleanza. 191 MAZZUCCHI, Per la storia medievale cit., p. 135. Sulla polemica fra cristiani ed Ebrei cfr. H. SCHRECKENBERG, Die christlichen Adversus-Judaeos-Texte (11.-13. Jh.): mit einer Ikonographie des Judenthemas bis zum 4. Laterankonzil, 3. Aufl., Frankfurt am Main 1997 (Europäische Hochschulschriften. Reihe 23, Theologie, 335). 192 Appena eletto patriarca di Costantinopoli Giovanni Camatero scrisse due lettere a Innocenzo III (in risposta ad altrettante missive a lui inviate dal pontefice) in cui affrontava tutte le principali questioni oggetto di dibattito fra cattolici e ortodossi, e offriva una sintesi del pensiero bizantino sul problema del primato pontificio. Cfr. SPITERIS, La critica bizantina cit., pp. 251-299. Si veda anche A. PAPADAKIS – A. M. TALBOT, John Camateros Confronts Innocent III; An Unpublished Correspondence, in Byzantinoslavica 33 (1972), pp. 26-41. 193 L. MINERVINI, Benjamin da Tudela. Libro di viaggi, Palermo 1989 (La diagonale, 37), pp. 50-52. 194 Cfr. D. JACOBY, Mémoires et documents. Les quartiers juifs de Constantinople à l’époque byzantine, in Byzantion 37 (1967), pp. 167-227. Jacoby pensa che questo allontamento degli Ebrei dal nucleo cittadino, avvenuto probabilmente prima del 1061, sia dovuto a uno sgradi-
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contava circa duemila e cinquecento persone, divise fra Rabbaniti (duemila) e Karaiti (cinquecento). Fra gli studiosi vi erano parecchi uomini saggi, guidati da R. ’Abýalion, il rabbino, R. ‘Obadjah, R. ’Aharon Bekhor Šoro, R. Josef Šir Giru e R. ’Elijaqim, il parnas195. Molti praticavano la mercanzia e l’arte della seta. Benchè in buone condizioni economiche gli Ebrei erano tuttavia spesso vittime di violenze e di forme di discriminazione (come il divieto di montare a cavallo, che non valeva soltanto per Šelomoh l’Egiziano, medico dell’imperatore Manuele I Comneno, — «unico caso conosciuto di Ebreo occupante una posizione di autorità o di confidenza con l’élite dominante nel mondo bizantino»196). Per Benjamin la causa principale dell’odio nei confronti degli Ebrei erano i conciatori di pelle: questi gettavano le loro acque sporche davanti alle porte delle case, generando odori nauseanti che insozzavano l’intero quartiere e infastidivano i vicini. «Così i Greci» — conclude il visitatore spagnolo — «detestano gli Ebrei, buoni e cattivi, li opprimono, li picchiano per le strade, ed in ogni maniera li trattano con durezza. Tuttavia gli Ebrei sono ricchi e buoni, gentili e caritatevoli, e sopportano il loro destino con serenità». A proposito dei conciatori di pelle mi sembra interessante far notare una curiosità: a p. 97 del codice, III colonna, accanto alla linea 28 («͑Ҽ͏ ͇͓̻͎͂͆̿͏ ̻͎͂͊̿͑̿»197) il Nostro scrive: )͍̻̿͑͐(͂ ذ198. Un’esclamazione di sconcerto dovuta al ricordo della lite e alla constatazione che pelli conciate tinte di rosso e di violetto erano usate per la copertura del Tabernacolo? Nell’ambiente costantinopolitano descritto da Benjamin da Tudela (dove Ebrei e cristiani, benché stanziati in quartieri diversi, avevano relazioni di natura commerciale e rapporti frequenti, anche se non sempre pacifici) non è inverosimile pensare che ci fossero realmente dispute teologiche fra esponenti delle due religioni (come farebbero credere i nostri scholia). Del resto lo stesso Crysoberge parla di «͎ӄ͏ѯ͎͍̀̿̽͒͏ј͇͉͍͋͑́̽̿͏». Lo spirito con cui un cristiano di allora poteva avvicinare un Ebreo mi pare sia descritto da un altro documento coevo, il racconto dell’arcivescovo di Novgorod, Antonio, che visita Costantinopoli nel 1200199. Nella sua testimonianza si avverte un desiderio forte, un anelito da parte dei cristiani ad to «espandersi» di costoro all’interno di Costantinopoli, con la costruzione di sinagoghe al di fuori del quartiere che era stato loro assegnato (la cosiddetta Iudeca). Cfr. ibid., p. 178. 195 Termine che designa, molto probabilmente, il capo della comunità (JACOBY, Mémoires et documents cit., p. 184). 196 Cfr. MINERVINI, Benjamin da Tudela cit., p. 105, nt. 51. 197 Esodo 39, 21 LXX. Sotto l’annotazione vi è un ͐͊ͅ(͖͇̓̽͐̿) — cfr. supra scolio nr. 43. 198 «Oh Signore!». 199 Cfr. B. DE KHITROWO, Itinéraires russes en Orient, Genève 1889 (Société de l’Orient latin. Série géographique, 5), pp. 87-111.
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essere finalmente una cosa sola con gli Ebrei. La mattina di domenica 21 maggio 1200200 — racconta Antonio —, festa dell’imperatore Costantino e di sua madre Elena, prima dell’inizio della santa Messa nella cattedrale di Santa Sofia si verificò un miracolo: la croce d’oro, alta un cubito e mezzo, fatta costruire da Giustiniano, si sollevò improvvisamente da terra, insieme alle tre lampade accese che brillavano alle estremità dei suoi bracci. Poi ricadde dolcemente al suolo, senza che il fuoco delle lampade si spegnesse. Alla vista di tale prodigio il popolo esclamò con gioia: «Dio nella sua grande misericordia ci ha visitato, grazie alle preghiere della Santissima Vergine, di Santa Sofia, la Sapienza divina, dell’imperatore Costantino e di sua madre Elena. Dio vuole farci vivere ora come sotto il regno di Costantino, e meglio ancora; Dio condurrà al Battesimo i maledetti Ebrei, ed essi vivranno in una santa unione con i cristiani; non si farà la guerra se non contro coloro che non vorranno ricevere il Battesimo, e ancora, con le buone o con le cattive, Dio li obbligherà a farsi battezzare; ci sarà abbondanza di beni sulla terra; gli uomini cominceranno a vivere in maniera vera e santa, e non si faranno più del male a vicenda; la terra, per ordine di Dio, produrrà miele e latte, come ricompensa della buona vita dei cristiani». Il miracolo avvenne — conclude l’arcivescovo — «sotto il regno di Alessio e del patriarca Giovanni»201. Al VII Colloquio Internazionale di Paleografia greca Carlo Maria Mazzucchi propose una ricostruzione della storia medievale di alcuni codici celebri, fra cui il nostro202. La conferma (o la smentita) delle sue tesi verrà soltanto da uno studio approfondito, che prenda in considerazione e collochi in successione tutte le mani intervenute nel Vaticanus (a tale ricerca mi sto dedicando ora). Interessante è l’ipotesi, da lui formulata, secondo cui lo scoliasta di B (Giovanni Camatero) sarebbe il medesimo studioso che corredò di un fitto commento i margini del codice Q (Vat. gr. 2125, noto anche come Marchalianus), contenente i Profeti203. L’amplissima glossatura di questo codice è ancora tutta da studiare e potrebbe fornirci nuove informazioni sugli interessi del Nostro, oltre che, forse, regalarci testi ancora inediti di Padri della Chiesa.
200 «Dieu fit ce saint miracle l’année six mille sept cent huit, durant ma vie, au mois de mai, le jour de la fête de l’empereur Constantin & de sa mère Hélène, le dimanche vingt & un, …». 201 Cfr. ibid. pp. 94-95. La traduzione italiana è mia. 202 Cfr. supra nt. 3. 203 L’unico Profeta non glossato in Q — nota l’Autore — è Daniele, che ha invece il suo commento nel codice B (almeno per la storia di Susanna).
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POST-SCRIPTUM L’articolo era già concluso quando Carlo Maria Mazzucchi mi contattò per comunicarmi una sorprendente scoperta: trovandosi fra le mani una riproduzione del codice Vat. gr. 1594 (IX sec.), contenente l’«Almagesto» di Tolomeo e frammenti di altre sue opere minori, vide con stupore che l’ampia glossa marginale (quella — s’intende — non attribuibile al copista del codice) pareva scritta esattamente dalla stessa mano che appose gli scolî nel codice B. Sono andato a controllare e ho avuto la medesima impressione204. La sorpresa crebbe oltre misura quando, poco tempo dopo, egli si accorse che anche un altro codice, l’Ambros. L 93 sup. (gr. 490), uno dei testimoni più antichi delle opere logiche di Aristotele (prima metà del X secolo), conteneva un fittissimo commento attribuibile, per l’aspetto grafico, al medesimo scoliasta205. Benché finora nessuno abbia trascritto integralmente questa imponente mole di scolî, sembra evidente che, in entrambi i casi, l’autore abbia voluto riunire escerti di vari commentatori 204 Esaminando, in seguito, il codice originale, Carlo Maria Mazzucchi formulò, in sintesi, le seguenti osservazioni: al f. 1r, sul margine superiore, Niceforo Gregora scrisse +
̧̻͖͍͋͏͈̿ӂѩ̻͎͖͍͓͈͑͋͐̿͋وӂ͇͈͊̿͆͊̿͑͋ͅوј͎͋͂͑͏͙͉͍͎҄̓̿͋̓͊́̓͋وӀ̺͉͚͇͍͋͊̓́͋͐͋͑̿͌͋͑ͅن ̯͍͉͍͑̓͊̿̽͒. L’erudito, inoltre, restituì il testo di Tolomeo, svanito, nelle ultime quattro linee della II colonna, e ripassò gli scolî di «Camatero» (stesso procedimento nel codice Parigino di Diodoro Siculo, dove Gregora ripassò gli scolî di Giovanni Grasso: cfr. C. M. MAZZUCCHI, Diodoro Siculo fra Bisanzio e Otranto (cod. Par. gr. 1665), in Aevum 73 (1999; 2), pp. 385-421: 399). Un suo intervento è anche al f. 272r. I ff. 66-67 furono inseriti da «Camatero» per rimpiazzare il foglio caduto dopo il 65 (faceva bifolio col 72). Egli stesso scrisse il testo di Tolomeo, accrescendo progressivamente il corpo della scrittura per riempire lo spazio sovrabbondante, e aggiunse gli scolî. In una noterella sul margine esterno dell’ultimo foglio recto (284) si era appuntato di cercare la parte perduta: ̼͇̈́͑̓͑ӄ̈́(͍͚͍͑͊̓͋͋ͅ) [?] ̢͍͍͉͇͑͒̽̀̀ن. La sua mano mostra una certa variabilità: talora appare più corposa (ad es. ff. 4v-5r); occasionalmente impiega un calamo più largo (f. 23v); utilizza sulla stessa pagina inchiostri diversi per intensità di colore (ad es. f. 24r). Qualche volta, come avviene anche nel codice Parigino di Demostene e nel Marchalianus, egli incornicia uno scolio antico (o uno suo precedente) per separarlo dai propri (ff. 25r, 45r, 60r, 64v, 74r). La nota al f. 263v + ͍͑ن ј͎͍͍͇͈͖̺͍̪̻͍͍͐͑͋͊͑͑͒͋͑͏ѵ͉͍̀̽̀͏ : è di una mano crisolorina dell’inizio del XV secolo. Sulle note marginali del Vat. gr. 1594 cfr. anche J. MOGENET, Sur quelques scolies de l’«Almageste», in Le monde grec; pensée, littérature, histoire, documents. Hommages à Claire Préaux, édités par J. BINGEN, G. CAMBIER, G. NACHTERGAEL, Éditions de l’Université de Bruxelles. Deuxième tirage 1978 (Université libre de Bruxelles. Faculté de Philosophie et Lettres, 62), pp. 302-311; ID., Une scolie inédite du Vat. gr. 1594 sur les rapports entre l’astronomie arabe et Byzance, in Osiris 14 (1962), pp. 198-221. 205 Mi riferisco alla mano che Giuseppe De Gregorio collocava verosimilmente nella prima metà del XIII secolo. Cfr. G. DE GREGORIO, Osservazioni ed ipotesi sulla circolazione del testo di Aristotele tra Occidente e Oriente, in Scritture, libri e testi nelle aree provinciali di Bisanzio. Atti del seminario di Erice (18-25 settembre 1988), a cura di G. CAVALLO, G. DE GREGORIO e M. MANIACI, vol. II, Spoleto 1991 (Biblioteca del «Centro per il collegamento degli studi medievali e umanistici nell’Università di Perugia», 5), pp. 475-498: 484.
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per erudizione personale (la finalità «privata» si deduce dall’aspetto disordinato delle note), proprio come nel codice B trascrisse la catena esegetica attorno alla storia di Susanna (pp. 1206-1207). Avremmo dunque altri due codici (oltre al Vaticanus, al Marchalianus, al Patm. 33 e al Demostene Par. gr. 2934 – cfr. supra nt. 3) appartenuti a Giovanni Camatero. L’attribuzione è di nuovo del tutto plausibile. Eletto patriarca nel 1198, egli divenne direttore a Costantinopoli della scuola dei SS. Apostoli, un’istituzione culturale sui generis dove l’apprendimento non avveniva attraverso lezioni frontali, ma tramite la libera discussione fra allievi e maestri: in tale scuola si coltivavano la grammatica, la retorica e la dialettica, ma anche la fisica, la medicina, l’aritmetica, la geometria e la musica206.
206 La scuola annessa alla chiesa dei SS. Apostoli è stata descritta da Nicola Mesarite (XII
sec.). Cfr. A. HEISENBERG, Grabeskirche und Apostelkirche; zwei Basiliken Konstantins. Untersuchungen zur Kunst und Literatur des ausgehenden Altertums, II, Leipzig 1908, pp. 90-95.
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ALCUNE NOTE MARGINALI IN MINUSCOLA DEL CODICE B
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 49. Esodo 3, 1 - 3, 19 (Scholia nrr. 5, 6, 7, 8).
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PIETRO VERSACE
Tav. Ia – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 49, col. I, linea 34. Scholium nr. 5, a Esodo 3, 7-8.
Tav. Ib – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 49, col. II, linea 15. Scholium nr. 6, a Esodo 3, 10.
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ALCUNE NOTE MARGINALI IN MINUSCOLA DEL CODICE B
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Tav. Ic – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 49, col. II, linea 27. Scholium nr. 7, a Esodo 3, 12.
Tav. Id – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 49, col. III, linea 12. Scholium nr. 8, a Esodo 3, 13-15.
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Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana,Vat. gr. 1209, p. 50, col. I, linea 4. Scholium nr. 9, a Esodo 3, 19-20.
Tav. III – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 50, col. III, linea 9. Scholium nr. 13, a Esodo 4, 11.
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ALCUNE NOTE MARGINALI IN MINUSCOLA DEL CODICE B
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Tav. IV – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 58, col. I, linea 39. Scholium nr. 22, a Esodo 9, 27.
Tav. V – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 62, col. III, linee 19-30. Scholia nrr. 31, 32, 33, a Esodo 12, 43-44; 12, 46.
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Tav. VI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 68, col. III, linea 7. Scholium nr. 35, a Esodo 17, 8-13.
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ALCUNE NOTE MARGINALI IN MINUSCOLA DEL CODICE B
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Tav. VII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 1206. Ezechiele 48, 32-35; Susanna 1-16 (catena su Susanna).
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Tav. VIII – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 1239, col. II, linea 40; col. III, linee 22 e 38. Scholia nrr. 48, 49, 50, a Matteo 5, 19; 5, 22; 5, 25.
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ALCUNE NOTE MARGINALI IN MINUSCOLA DEL CODICE B
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Tav. IX – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 1327, col. III, linee 14-15. Scholium nr. 52: ͐͊ͅ(͖͇̓̽͐̿), a Luca 11, 52.
Tav. X – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1209, p. 1328, col. II, linee 12-13. Scholium nr. 53: ͐͊ͅ(͖͇̓̽͐̿), a Luca 12, 12.
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«PER LE COSE DELLA PATRIA NOSTRA». LETTERE INEDITE DI LUIGI ANGELONI E MARINO MARINI SUL RECUPERO DEI MANOSCRITTI VATICANI A PARIGI (1816-1819) 1. Luigi Angeloni per la «ricupera» dei manoscritti vaticani a Parigi: un ruolo da precisare. – 2. Le lettere inedite della Raccolta Ferrajoli degli Autografi Ferrajoli (1816-1817). – 3. Dell’Italia, uscente il settembre del 1818: la polemica (1818-1837) con Marino Marini e le risposte (1819-ca.1824) di Marini ad Angeloni. – 4. Conclusioni: due percorsi differenti. – Appendici. I. Note di Luigi Angeloni, Giulio Ginnasi e Marino Marini in manoscritti vaticani requisiti sulla base del Trattato di Tolentino (1797) e recuperati nel 1815. – II. Cronologia essenziale degli eventi relativi alla requisizione e al recupero dei manoscritti vaticani (17961824 ca.). – III. I manoscritti cinesi della Biblioteca Vaticana trasferiti a Parigi. – IV. Numero complessivo dei manoscritti vaticani requisiti sulla base del Trattato di Tolentino.
1. «I giorni seguenti, mentre il Marini con l’aiuto di un certo Angeloni ricercava nella Biblioteca [scil.: Reale di Parigi] i codici vaticani, l’abate Canova era alle prese con le astuzie e con le gentilezze dei conservatori del Gabinetto di Parigi»1. Se un secolo fa Stanislas Le Grelle poteva ancora mostrare di ignorare Luigi Angeloni, negli ultimi decenni la sua figura ha assunto il rilievo che merita e a pieno titolo le compete nella storia dell’emigrazione politica italiana tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX, nelle tormentate vicende del settarismo antibonapartista, ma anche nel profilo del pensiero politico al quale recò, con la sua «morale della forza», un contributo nuovo e originale. I numerosi studi venuti alla luce sembrano però aver lasciato in ombra il ruolo che l’Angeloni svolse fra il 1815 e il 1817 collaborando con i tre artefici del recupero dei manoscritti e delle opere d’arte vaticane e italiane asportate dai francesi, Antonio Canova, il suo fratellastro Giovanni Battista Sartori2 e 1 S. LE GRELLE, Saggio storico delle collezioni numismatiche vaticane, in C. SERAFINI, Le monete e le bolle plumbee pontificie del Medagliere Vaticano (…), I: Adeodato (615-618)-Pio V (1566-1572), Milano 1910 (Collezioni archeologiche, artistiche e numismatiche dei Palazzi Apostolici, 3), pp. XV-LXXIX: LVII. 2 Giovanni Battista Sartori (1775-1858), nato dal secondo matrimonio della madre di Canova, Angela Zardo, risposatasi con Francesco Sartori dopo esser rimasta vedova di Pietro Canova (morto quando il piccolo Antonio non aveva ancora quattro anni), si trasferì a Roma (1800), dopo gli studi nel Seminario di Padova; da allora Giovanni Battista fu costantemente
Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 693-799.
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Marino Marini3. Non a caso nella puntuale ricostruzione biografica dedicata all’Angeloni nel 1961 Renzo De Felice4 poté citare, a proposito di questo aspetto della vita angeloniana, solo l’edizione delle lettere di Canova al card. Ercole Consalvi dovuta ad Alessandro Ferrajoli (1888)5 e l’articolo di Annibale Campani uscito nel 18926. Né, su questo particolare argomento, recano notizie nuove ed esaustivamente soddisfacenti la pur accurata ricostruzione della biografia e del pensiero dell’Angeloni dovuta, vent’anni dopo l’articolo di De Felice, a Giuseppe Sperduti7, e i più recenti interventi che testimoniano comunque un vivo e costante accanto al fratellastro come assistente e segretario, seguendolo nei viaggi a Parigi, a Vienna e a Londra. Importante fu il ruolo da lui svolto accanto a Canova nel recupero delle opere d’arte italiane trafugate dai Francesi, in particolare dei manoscritti e delle monete. Fonte di polemiche e critiche fu l’operato dell’abate Sartori (eletto vescovo titolare di Mindo nel 1826 da Leone XII) per l’esecuzione del testamento di Canova; tornato in Veneto, Sartori si adoperò per la conclusione del Tempio di Possagno e per la costruzione, sempre a Possagno, della Gipsoteca Canoviana. Nella corrispondenza è spesso citato come «abate Canova»; cfr. M. PAVAN, Canova, Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 197219: 197 e passim. 3 Marino Marini (1783-1855), nipote di Gaetano e suo assistente dal 1803, collaborò con lo zio negli archivi vaticani dal 18 marzo 1809, assumendo la carica di prefetto, con Callisto Marini dal maggio 1815 al gennaio 1822 e con Pier Filippo Boatti dal 1822 al 1855; cfr. J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collections de manuscrits, avec la collaboration de J. RUYSSCHAERT, Città del Vaticano 1973 (Studi e testi, 272), pp. 193 nt. 27, 204 nt. 57, 205 nt. 58, 214, 221 nt. 33, 230; G. CASTALDO, Marini, Marino, in Dizionario biografico degli italiani, LXX, Roma 2008, pp. 472-475. Per un inquadramento generale della missione dei Canova e di Marini per la «ricupera», L. BERRA, Opere d’arte asportate da Roma e dallo Stato pontificio e restituite nel 1815, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia 27 (1951-1954), pp. 239-246; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 189; PAVAN, Canova, Antonio cit., pp. 212-214; F. NANNI, Accenni alla restituzione dei beni artistici, tra legittimità e variabili di gusto, in L’arte contesa nell’età di Napoleone, Pio VII e Canova [catalogo della mostra, Biblioteca Malatestiana, Cesena, 14 marzo – 26 luglio 2009], a cura di R. BALZANI, saggi di R. BALZANI [et alii], Cinisello Balsamo – Cesena 2009, pp. 47-50: 47-48. Il viaggio transalpino della missione pontificia durò dall’agosto 1815 al gennaio 1816 (ma comprese anche un viaggio a Londra di Canova e del fratellastro per esaminare gli «Elgin Marbles»). 4 R. DE FELICE, Angeloni, Luigi, in Dizionario biografico degli italiani, III, Roma 1961, pp. 242-249: 244. 5 A. FERRAJOLI, Lettere inedite di Antonio Canova al cardinale Ercole Consalvi, Roma 1888; le quattordici lettere pubblicate sono ora in Biblioteca Vaticana, Autografi Ferrajoli, Raccolta Ferrajoli, ff. 2448r-2469r, cfr. Le Raccolte Ferrajoli e Menozzi degli Autografi Ferrajoli. Introduzione, inventario e indice a cura di P. VIAN, Città del Vaticano 1992 (Studi e testi, 351; Cataloghi sommari e inventari dei fondi manoscritti, 3), pp. 93-94 (sub nr. 1457). 6 A. CAMPANI, Sull’opera di Antonio Canova pel ricupero dei monumenti d’arte italiani a Parigi (Corrispondenza Canova-Angeloni), in Archivio storico dell’arte, ser. I, 5 (1892), pp. 189-196. 7 G. SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate, Tecchiena 1981 (Biblioteca di studi storici e sociali). Il volume è stato preceduto da una nutrita serie di contributi angeloniani dello stesso autore segnalati nella Bibliografia (p. 132). Ma dello stesso anno, sempre di Sperduti, è l’arti-
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interesse per la figura del patriota frusinate8, che naturalmente compare, con cinque lettere ricevute (di cui una inedita) e cinque lettere inviate (di cui quattro inedite), nell’edizione, curata da Hugh Honour e Paolo Mariuz, dell’epistolario canoviano nel biennio 1816-18179. Da esse si può ricavare un quadro piuttosto completo e fedele delle relazioni fra Canova e Angeloni e degli sforzi compiuti dal secondo per agevolare l’impegno del primo. Nel frattempo è andata maturando la consapevolezza che in Angeloni l’esaltazione del primato linguistico italiano è espressione del suo credo patriottico10; si spiega così il solo apparente paradosso della convivenza nella stessa persona dell’«indomito giacobino e materialista» con l’«altrettanto indomito purista, che dall’esilio incita gli italiani alla rivoluzione e alla repubblica democratica in uno stile tutto intessuto di riboboli trecenteschi», colo L. Angeloni e il Canova per la restituzione delle opere d’arte, in Ottocento nel Lazio, a cura di R. LEFEVRE, Roma 1981 (Lunario Romano, 11), pp. 253-272. 8 Fra i contributi più recenti si segnalano: B. DI SABANTONIO, Luigi Angeloni tra liberismo e democrazia, in Rassegna storica del Risorgimento 64 (1977), pp. 3-21; T. IERMANO, Il giacobinismo e il Risorgimento italiano: Luigi Angeloni e la teoria della forza, Napoli 1983 (Studi e testi di letteratura, 18); Luigi Angeloni frusinate: 15 dicembre 1990. Atti del primo convegno di studi storici frusinati, Frosinone 1991. Cfr. anche: A. DE FRANCESCO, Verso una nuova Europa, in Storia della letteratura italiana diretta da E. MALATO, VII: Il primo Ottocento, 1: Tra neoclassicismo e romanticismo, Milano 2005, pp. 5-53: 40; P. TRIFONE, La lingua: difesa della tradizione e apertura al nuovo, ibid., pp. 199-240: 203; M. CERRUTI, Letteratura e politica tra giacobini e restaurazione, ibid., pp. 241-287: 259 e nt.; M. CERRUTI – E. MATTIODA, La letteratura del neoclassicismo: Vincenzo Monti, ibid., pp. 289-378: 312 nt.; D. RICCIOTTI, Nicola Ricciotti e il Risorgimento nazionale: il caso Frosinone, Frosinone 2004 (L’archivio della memoria, 1), pp. 94-110. 9 A. CANOVA, Epistolario (1816-1817), I-II, a cura di H. HONOUR – P. MARIUZ, Roma 20022003 (Edizione nazionale delle opere di Antonio Canova, 18: 1-2), pp. XVI, XXXV-XXXVI (ove viene tracciato un sintetico profilo delle relazioni fra Angeloni e Canova sulla base della corrispondenza), e passim. Le lettere pubblicate sono le seguenti: Canova ad Angeloni, 5 febbraio 1816: ibid., I, p. 75 (già edita da CAMPANI, Sull’opera cit., pp. 190-191); Angeloni a Canova, 27 febbraio 1816: ibid., I, pp. 114-116 (già edita da G. CONTARINI, Lettere inedite tratte dagli autografi canoviani nel Museo Civico di Bassano per nozze Chiminelli-Bonuzzi, Bassano 1891, pp. 71-72); Canova ad Angeloni, 18 marzo 1816: ibid., I, p. 149 (già edita da CAMPANI, Sull’opera cit., p. 191); Angeloni a Canova, 6 aprile 1816: ibid., pp. 187-188 (già parzialmente edita da CONTARINI, Lettere inedite cit., p. 72); Canova ad Angeloni, 9 maggio 1816: ibid., I, pp. 242-243 (inedita); Angeloni a Canova, 29 agosto 1816: ibid., I, pp. 382-384 (inedita); Angeloni a Canova, 6 settembre 1816: ibid., I, pp. 416-418 (inedita); Canova ad Angeloni, 1° ottobre 1816: ibid., I, p. 448 (già edita, ma con alcuni errori, da CAMPANI, Sull’opera cit., pp. 192-193); Angeloni a Canova, 25 dicembre 1816: ibid., I, pp. 580-581 (inedita); Canova ad Angeloni, 12 gennaio 1817: ibid., II, pp. 622-623 (già edita da CAMPANI, Sull’opera cit., p. 193). 10 L. RICCI, Critici del primo Ottocento legati alla questione della lingua, in Storia della letteratura italiana diretta da E. MALATO, Appendice, XI: La critica letteraria dal Due al Novecento, coordinato da P. ORVIETO, 1: Dal Duecento al primo Ottocento, Milano 2005, pp. 603-623: 609 e nt.
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visto che — sempre secondo Sebastiano Timpanaro — un certo fanatismo linguistico si apparenta facilmente con il «patriottismo reazionario, tradizionalista e antifrancese»11 che fu di Angeloni. Il ruolo di Angeloni nella «ricupera» dei manoscritti vaticani a Parigi fa anch’esso parte di questa strategia di rivendicazione nazionale e rimane, dunque, tutto da precisare12: e se bisogna guardarsi da sopravvalutanti esagerazioni, quale sembra essere quella di ritenere il patriota frusinate addirittura alle origini della missione vaticana dei Canova e Marini13, non si deve cadere nel pericolo opposto di una minimizzazione che non renderebbe giustizia all’operato di Angeloni, non solo in grado, con la sua vasta cultura di intelligente e appassionato autodidatta, di muoversi nell’arduo campo dell’individuazione dei manoscritti, ma anche capace, in ragione dell’ampia rete delle sue conoscenze parigine, di supplire all’inesperienza sul campo dei commissari vaticani14. Proprio in una lettera di Canova a Consalvi, scritta da Parigi il 28 otto11 S. TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 19692, pp. 10-11. Il purismo di Angeloni fu stigmatizzato da Giuseppe Mazzini in un articolo, pubblicato il 15 aprile 1842 ne L’apostolato popolare, in morte dell’esule frusinate: «Scrittore, publicò in Francia e in Inghilterra, oltre a un libro importante intitolato L’Italia uscente il 1818, più opere voluminose, poco giovevoli alla gioventù educata d’Italia, perdute per le moltitudini a cagione del pregiudizio letterario che gli faceva rivestire il pensiero della lingua de’ morti e d’uno stile pedantesco tanto da toccare spesso il ridicolo, ma piene d’ottime idee, d’affetto all’Italia, d’abborrimento alla influenza straniera, di fede nella vita, nelle capacità, e nelle forze della propria Nazione», SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., p. 32 (cfr. anche infra, ntt. 26, 259). Valutazione non molto diversa è quella di G. GAMBARIN, Antifoscoliani maligni, in Ateneo veneto 152 (1961), vol. 145, fasc. 2, pp. 71-95: 75, quando considera la prosa di Angeloni «prolissa, e resa soprattutto di noiosa e faticosa lettura dal suo stile contorto e pieno di pedantesche circonlocuzioni». Sempre di Gambarin, ibid., p. 71, è il poco benevolo giudizio complessivo su Angeloni, «uomo bizzarro, angoloso, vanitoso, con uno strano miscuglio di stantio tradizionalismo e di idee nuove (…)». 12 BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 189, forse sulla scorta della citazione iniziale di Le Grelle, si limita a notare che «Marino Marini, aidé de Luigi Angeloni, s’occupa à retrouver les manuscrits à la Bibliothèque Nationale». 13 «Egli [Angeloni], […] con vari esposti e servendosi dell’amico Dottor Prelà, sollecitò il Cardinal Consalvi ad inviare a Parigi commissari pontifici per il recupero delle opere d’arte che Napoleone aveva strappato all’Italia e trasportato in Francia», SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., p. 21; SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., p. 266; cfr. anche CAMPANI, Sull’opera cit., p. 189. In realtà era stato lo stesso Angeloni, nell’ultima sua opera, intitolata Alla valente ed animosa gioventù d’Italia, esortazioni patrie così di prosa come di verso, Londra, appresso l’autore, 1837, p. 400 nt., a rivendicare esplicitamente a sé il merito di aver indotto Consalvi, attraverso l’amico Prelà, all’invio dei commissari (cfr. infra). Per una più plausibile ricostruzione del quadro politico-diplomatico all’origine dell’opera di recupero, PAVAN, Canova, Antonio cit., p. 212. 14 Fu Antonio D’Este, nelle Memorie di Antonio Canova (1864), a ridimensionare drasticamente il ruolo di Angeloni nella collaborazione con Canova, accusando il frusinate di appropriarsi della gloria del recupero e di aver sparlato dell’eccessiva condiscendenza dello
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bre 1815, l’operato di Angeloni fu descritto e rappresentato in termini non equivoci: Ora mi bisogna invocare la sua generosità e grato animo inverso del signor Angeloni, letterato di gran fama, e che io conobbi qui per mezzo del nostro particolar proteggitore cav. Hamilton15 il quale me lo raccomandò vivamente. Questo signor Angeloni si è prestato moltissimo con l’opera e con la penna al vantaggio del buon esito del nostro affare, e io gli professo grandissime obbligazioni, e il signor abate Marini ancora si valse di lui per 13 giorni e più nella scelta e confronto dei manoscritti ricuperati da questa reale biblioteca. Mi par dunque necessario che l’Eminenza Vostra gli sia cortese di qualche segno di gradimento e soddisfazione dei suoi servigi, accompagnando il dono con una lettera che testifichi la di Lei compiacenza. Quest’atto gli sarà carissimo tanto più che fece e fa tutto questo per mero spirito di amore patrio e per il decoro e utilità dell’Italia e di Roma16.
La richiesta di Canova fu ascoltata se poco più di tre mesi dopo, il 5 febbraio 1816, lo stesso scultore poté annunciare ad Angeloni l’invio di alcuni doni; ma quel che più importa all’avviso si accompagnava la manifestazione della disponibilità della corte di Roma a «riaverla fra noi», cioè a porre fine all’esilio francese riaccogliendo il patriota frusinate a Roma: Roma, 5 febbraro 1816 Signore, Ho consegnato al signor Lavaggi banchiere17, e in nome [della] dell’Eminentissimo segretario di Stato una scatola d’oro, con sopra un grande cameo rapprescultore nel lasciare troppe opere alla Francia, SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., pp. 253-254, 260 nt. 5. 15 William Richard Hamilton (1777-1859), diplomatico inglese, viaggiò in Italia, Grecia (ove sovrintese alla spedizione delle sculture del Partenone in Inghilterra) ed Egitto (ove si adoperò per assicurare la Stele di Rosetta al British Museum); nel 1809 fu nominato sottosegretario di Stato per gli affari esteri; in tale veste accompagnò Lord Castlereagh a Parigi e conobbe Canova; Hamilton ebbe un ruolo fondamentale nella restituzione delle opere d’arte trafugate dai Francesi (il 1° settembre 1815, durante la missione della delegazione vaticana, fece pubblicare a Londra una lettera aperta che chiedeva la restituzione spontanea delle opere al papa e fu uno dei motori dell’atteggiamento filo-papale assunto dagli Inglesi nella questione); a riconoscimento dell’opera svolta, Canova volle che accanto a una lunetta, dipinta da Francesco Hayez, nel «braccio nuovo» Chiaramonti dei Musei Vaticani, con la scena del rientro a Roma del convoglio delle opere d’arte, fosse rappresentata, monocromata, la testa di Hamilton; nel 1822 Hamilton fu nominato ministro britannico a Napoli; cfr. PAVAN, Canova, Antonio cit., pp. 213, 215; CANOVA, Epistolario cit., I, p. 84 nt. 2 e passim. Cfr. anche quanto scrive L. ANGELONI, Dell’Italia, uscente il settembre del 1818. Ragionamenti IV, II, Paris 1818, pp. 221-232. 16 FERRAJOLI, Lettere inedite cit., pp. 25-26; SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., pp. 255 nt. 1, 267. 17 Domenico Lavaggi, banchiere che aveva incominciato ad arricchirsi sotto la prima Repubblica Romana, compare di frequente (talvolta con la grafia Lavagni) nell’epistolario
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sentante Alessandro dinanzi a Diogene, ed una catena d’orologio con onici orientali antichi, per esser l’una e l’altra spedite alli signori Caccia e Blommaert che avranno cura di farle ricapitare in mano di Lei, a cui il cardinal Consalvi attesterà con propria lettera i suoi particolari sentimenti di stima e gradimento per tutto ciò ch’Ella operò in favore della ricupera de’ nostri monumenti. Io son molto lieto di questa ben meritata prova di onore, e di riconoscenza, che le viene dimostrata dalla corte romana, sensibile e grata a’ suoi talenti, e alle di Lei cure amorevoli prestate in tal circostanza. Ma una cosa che mi reca maggior piacere, si è, il desiderio, e la volontà manifestatami di riaverla fra noi. Se questo può farle diletto, e soddisfazione, come io credo che sia, conviene ch’Ella mi appalesi e distingua con qualche precisione il carattere dell’offizio che le si affarebbe meglio a renderla contento. Poiché vi sarebbe qui giustamente il disegno di giovarsi de’ suoi talenti, e della sua penna. Quindi sarò in attenzione de’ suoi riscontri, onde regolare i miei passi, e determinare le ottime disposizioni che mi si fanno conoscere a di Lei vantaggio18.
Angeloni rispose prontamente al Canova il 27 febbraio 1816: Di Parigi, a’ 27 di febbraio 1816 Chiarissimo signor marchese Canova, Dopo avere io messa in via una mia lettera pel signor abate Canova, suo degnissimo fratello, mi pervenne la lettera che gentilmente Ella mi scrisse a’ 5 dell’uscente mese. Alla quale rispondo, primieramente io le dico che le sono e sarò sempre oltremodo conoscente e grato di tutte le onorevoli e buone cose le quali io so ch’Ella di me costà dice; il che per opera mi dimostra quello ch’io, qui personalmente conoscendola, ebbi già saldamente in animo, cioè esser tale e così fatta la bontà la gentilezza e la cortesia sua, che sa Ella trovare molto maggior merito che realmente non è, nelle opere altrui. Molto tenuto io poi le sono dell’annunzio ch’Ella mi dà, del dono d’una scatola d’oro, ornata di cammeo, e d’una catena per oriuolo d’onici orientali antiche, il quale si degna farmi Sua Eminenza il signor cardinale Consalvi, segretario di Stato. Or senza punto attendere la lettera che da lei mi si dice volermi scrivere Sua Eminenza stessa, io per questo medesimo corriere ad essa ne rendo le debite grazie; e priego oltracciò lei che voglia anche a voce far di nuovo quest’uficio in nome mio. Intanto, perciocché nella sopraddetta lettera da me scritta al suo signor fratello, io toccai un motto intorno a ciò che mi avea significato il mio caro ed ottimo amico monsignor Prelà19, io estimo che a lei parlare io or ne debba più esplicitamente che allor ne canoviano; cfr. CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 149, 176, 278 e nt., 306, 339, 358, 376-377; II, pp. 626 e nt., 914, 926 e nt., 936. 18 Il testo completo della lettera in CANOVA, Epistolario cit., I, p. 75; cfr. SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., pp. 268-269. 19 Tommaso Prelà, nato a Bastia, si stabilì a Roma e fu uno dei medici onorari al seguito di Pio VII a Parigi nel 1804; nel 1809 divenne sovrintendente generale dei medici, chirurghi e speziali dei quattordici rioni di Roma ed elemosiniere del papa; in seguito fu primario dell’Arciospedale di Santo Spirito e, nel 1814, fu nominato da Pio VII archiatra pontificio e cameriere segreto; zio del futuro cardinale Michele Viale-Prelà, morì nel 1846; cfr. CANOVA,
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feci. Sappia Ella dunque che monsignor Prelà aveva a me scritto che il Governo pontificio voleva darmi una retribuzione per quello che aveva io qui operato, per recuperare i capolavori rapiti allo Stato romano. Or poiché questa parola retribuzione m’aveva indotto a credere che dar mi si volesse alcuna cosa in denari, e quasi come pagamento di quello che realmente io fatto non avea, se non che mosso da amor patrio; io perciò risposi in modo a monsignor Prelà che bensì dee aver conosciuto, che mai a questo io avrei consentito. Ma, il fatto avendomi poi apertamente mostrato ch’io m’era ingannato nella mia credenza, io molto di grado ora accetto quello che mi si dà, siccome cosa testificante gratitudine, e non pagamento. Ben di altro tuttavia, da sollecitarsi per me appresso cotesto Governo mi diede ciò il destro di parlare a monsignor Prelà; ad una ora rammemorandogli che infin dal tempo ch’egli fu qui con Sua Santità io ne lo avea di ciò pregato, ed egli promessomi sua cooperazione; e soggiungendogli che, se si fosse dovuto ricorrer per questo alla valevolissima cooperazione ancor di lei, io viveva pur sicuro ch’Ella mi avrebbe gentilmente in ciò favorito; ma io non so se monsignor Prelà potrà o vorrà pigliarsi questo carico, e perciò non istarò a dire altro intorno a questo20. Venghiamo ora all’altra parte della sua graziosa lettera, cioè a quello ch’Ella mi dice del desiderio che avrebbesi costà ch’io mi ripatriassi; perciocché commetter mi si vorrebbe lo scrivere alcuna cosa. Or io senza titubazione alcuna ancor le dico che assai di grado io accetto questo carico. Quello tuttavia che mi dà molta noia, è che per due ragioni ciò recare io non potrò ad effetto con quella speditezza ch’io avrei pur voluto. La prima è che sto scrivendo, e voglio qui pubblicare (il che certo non potrei fare costà) un’altra mia operetta sopra la nostra misera Italia21; nella quale io parlerò ancora de’ vilipesi diritti della Santa Sede, e dello Stato romano. Ed è l’altra Epistolario cit., I, p. 115 nt. 1. Cfr. anche G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica (…), XLIV, in Venezia 1847, pp. 112, 138-140; M. L. SAN MARTINI, Il soccorso a domicilio dei malati poveri. Le spezierie rionali di Roma, in Roma fra la restaurazione e l’elezione di Pio IX: amministrazione, economia, società e cultura. Atti del convegno di studi di Roma, 30 novembre – 2 dicembre 1995, a cura di A. L. BONELLA, A. POMPEO, M. I. VENZO, Roma 1997, pp. 277-281: 278-279. 20 Non è chiaro a quale richiesta presso il governo pontificio (per la quale Angeloni faceva conto sull’appoggio di Prelà e di Canova) qui si faccia riferimento; forse si trattava di qualcosa che non riguardava la persona del patriota frusinate, ma la sua famiglia o alcuni suoi amici. Forse l’aiuto per il «vecchio cugino Gabrielli» al quale si accenna nella lettera di Angeloni a Consalvi dell’11 dicembre 1817 (cfr. infra)? Comunque la ricostruzione dei fatti offerta in questa lettera del 1816 è del tutto coerente con quanto Angeloni scrisse più di vent’anni dopo, nel 1837, in Alla valente ed animosa gioventù d’Italia cit., p. 400 nt.: «E così molto grata di ciò [scil.: dell’opera prestata per il recupero delle opere sottratte] mi fu, non meno la Popolazione di Roma, che il Romano Pontificio Governo. Ed anzi il governo stesso mi fe’ graziosamente profferire un’annua pensione, la quale accettar non volli, per tema che non si avesse a dire, che l’interesse mio particolare m’avesse mosso a così operare, e non punto l’amor patrio. Non parvemi tuttavia di poter decentemente non accettare il bel presente che far mi volle Pio VII, siccome mostra l’onorevol lettera che mi scrisse il cardinal Consalvi […]». Segue il testo della lettera di Consalvi ad Angeloni, Roma, 4 marzo 1816, cfr. infra. 21 Si tratta della già ricordata opera Dell’Italia, uscente il settembre 1818. Ragionamenti IV, che avrebbe visto la luce a Parigi nel 1818 (cfr. SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., pp. 36, 76-89). L’«operetta» è «altra» rispetto a Sopra l’ordinamento che aver dovrebbono i governi
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ragione ch’io, per quello che scrissi nell’altro mio libriccino22, non credo che sarei del tutto sicuro in cotesti paesi, insino a tanto che le benedette aquile andranno svolazzando pel regno di Napoli23. Ella, che dee pur sapere come io fossi mal concio da quelle che avevano un solo becco24, non si maraviglierà punto ch’io temer più debba ancora queste altre che n’hanno due. Del resto io ben la priego intanto che render per me voglia le debite grazie a chi costà render si dovranno, per la bontà che verso me si dimostra, ed alla quale a me duole infino all’anima di non potere render cambio con prontezza. Ella affermar potrà tuttavia che, se mentre io qui mi rimarrò, l’opera mia si reputasse buona a qualche cosa, io farò sempre presto a far lealmente tutto ciò che per me si potrà, per dar compimento a quello che imporre anche qui mi si volesse25.
Angeloni aveva dunque rifiutato l’offerta di una «retribuzione» in denaro per la sua opera, che gli era stata presentata, a nome del governo pontificio, da Tommaso Prelà; ma accettava di buon grado i doni annunciati, «siccome cosa testificante gratitudine, e non pagamento»26. Nel frattempo, d’Italia, pubblicata, sempre a Parigi, nel 1814 (cfr. SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., pp. 35-36, 65-76). 22 Nell’appena ricordato Sopra l’ordinamento che aver dovrebbono i governi d’Italia, nel quale Angeloni proponeva per gli Stati della penisola un’organizzazione confederale, sul modello della Svizzera e degli Stati Uniti; il libro, che ottenne un larghissimo consenso tra gli esuli a Parigi, conquistò ad Angeloni una posizione di rilievo nella comunità italiana sulle rive della Senna; cfr. SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., p. 21. 23 Con le «aquile con due becchi» Angeloni allude all’influsso austriaco che si andava affermando nella penisola dopo il Congresso di Vienna. 24 Il riferimento è qui alle aquile imperiali francesi. 25 Il testo completo della lettera in CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 114-116; cfr. SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., pp. 269-270. Dopo questa lettera Angeloni scrisse a Londra ad Augusto Bozzi Granville (1783-1872, medico, patriota, esule in Inghilterra ove fu precettore dei figli di William Richard Hamilton; cfr. S. FURLANI, Bozzi Granville, Augusto, in Dizionario biografico degli italiani, XIII, Roma 1971, pp. 585-587; CANOVA, Epistolario cit., II, p. 84 nt. 1), manifestando gioia per i doni ricevuti, come riferì lo stesso Bozzi Granville a Canova in lettera da Londra del 12 marzo [1816]: «L’Angeloni mi scrive con un eccesso di gioia ch’egli avea ricevuto dal cardinale Consalvi in ricompensa di quanto anch’egli procurò come noi tutti, di fare, una scattola d’oro ed una catena d’oriuolo, attestandomi allo stesso tempo ch’ei non dubitava dover ciò alle belle istanze del “sommo e caro nostro artefice”. Mi riescì questa prova di liberali sentimenti nel Cardinal ministro di diletto estremo e molto più quando ebbi a leggere più oltre che il nostro Angeloni era stato invitato a ripatriarsi con promesse d’impiego. Niuno uomo più di lui capace di rendere allo Stato del bene», CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 136-137. Non è chiaro dal passo se la promessa di impiego ad Angeloni fosse stata rivelata dallo stesso Angeloni al Bozzi Granville o fosse stata resa nota da altra fonte. Angeloni ricorderà l’efficace influsso su Hamilton in favore della «ricupera» esercitato dal «valente sig. dottor Bozzi Granville, pregiato medico milanese stanziato a Londra, il quale era allora in Parigi» in Dell’Italia cit., II, pp. 231-232. 26 Il nobile gesto della ricusazione della «retribuzione» pontificia da parte di Angeloni nel 1816, accanto a quello del rifiuto di un impiego offertogli nel 1810 da Fouché «chiamato al governo di Roma», rimase nella memoria a onore del patriota frusinate. Lo ricorda Mazzini
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il 4 marzo 1816, Consalvi scrisse ad Angeloni la lettera di accompagnamento dei doni che Canova aveva anticipato: Illustre Signore, il Signor Marchese Canova non ha lasciato ignorare a Sua Santità lo zelo con cui lo ha assistito nella ricupera dei Monumenti, e dei Codici, e le cure che si è date per contribuire co’ suoi lumi, e colla sua opera al felice successo della commissione addossatagli. Grato il Santo Padre alla di lei cooperazione, mi ha ordinato inviarle, in attestato del suo gradimento, una Tabacchiera d’oro con un Cammeo rappresentante Alessandro e Diogene, ed una Catena di Niccoli Orientali Antichi, legati in oro, i quali oggetti riceverà per mezzo del sig. conte Lavaggi. Nell’eseguire le intenzioni di Sua Santità, la ringrazio vivamente nel mio particolare dell’assistenza prestata al degnissimo sig. Marchese Canova in un momento così importante, e l’assicuro che ne conserverò sempre una particolare memoria. Intanto le dichiaro i sentimenti della mia sincera stima con cui sono Di V.S. Illustrissima affezionatissimo per servirla E. Card. Consalvi Roma, 4 marzo 1816 Sig. Luigi Angeloni Rue du Rampart S. Honoré, no. 4 a Parigi27
Ai chiarimenti della lettera di Angeloni del 27 febbraio 1816 Canova rispose il 18 marzo 1816: Roma, 18 marzo 1816 Signore, Ella non mi deve alcun ringraziamento per li sentimenti di verace stima e di affezione, che io nutro per Lei. Se nel render giustizia ai [di] Suoi veri meriti e talenti, io feci a Lei cosa grata, ho adempiuto un mio dovere, e assecondato insieme il desiderio del mio cuore. Spero che a quest’ora le sarà pervenuta la lettera del Cardinale e quindi la scatola ancora, la quale fu data a questo banchiere Lavaggi perché la rimettesse a Lei per nell’articolo scritto per l’Apostolato popolare in morte di Angeloni (cfr. supra): «Sappiamo che, offertagli, caduto l’Impero, una pensione annua da Pio VII, per le cure da lui prese intorno alla restituzione degli oggetti d’Arte derubati dalla Francia all’Italia, la ricusò non accettandone che un ricordo», SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., p. 32; e divenne quasi un topos spesso richiamato, cfr. T. CASINI, Il Parlamento della Repubblica Romana del 1798-99, in Rassegna storica del Risorgimento 3 (1916), pp. 517-572: 533-534; DE FELICE, Angeloni, Luigi cit., p. 244; SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., p. 22. 27 Il testo della lettera in SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., p. 22. Ma fu lo stesso Angeloni a pubblicare la lettera in ANGELONI, Alla valente ed animosa gioventù d’Italia cit., p. 400 nt. (si riprende il testo offerto da Sperduti, che offre leggerissime varianti rispetto a quello di Angeloni).
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occasione sicura, e col mezzo de’ signori Caccia e Blommaert. Godo sommamente che gradisca questa onorevole dimostrazione della sovrana compiacenza, e stima verso di Lei: e sarò sempre lieto qualunque volta in seguito Ella ne possa avere delle prove più generose ed evidenti. Prosiegua intanto liberamente l’incominciato lavoro, ed altri se n’ha. Mia intenzione speciale era di significarle quello che io avea detto di Lei al Cardinale; e le disposizioni vantaggiose che ho qui risvegliate in suo favore e quindi, dopo aver inteso dal signor abate Marini la sua volontà o desiderio di ripatriarsi, mi piaceva di aggiungere, che il Governo l’avrebbe accolta con soddisfazione e contento. E in tal caso la invitava di precisarmi il carattere dell’impiego ch’Ella stimasse a Lei più convenevole, onde in appresso, a tempo e luogo, adoperar potesse in utilità dello Stato li suoi talenti, e la dotta sua penna. Ma s’Ella non ha fretta, e teme i due becchj, ha ragione28.
Era stato dunque Marini a intercettare il desiderio di «ripatriarsi» di Angeloni ed era stato Canova a farsene interprete presso le autorità pontificie, che l’avevano accolto. Il ripensamento ora di Angeloni costringeva a un mutamento nella disponibilità alla manifestazione di gratitudine. Il 6 aprile 1816 gli oggetti inviati attraverso Caccia e Blommaert non erano però ancora pervenuti a Parigi; Angeloni ne scrisse quindi a Canova, cogliendo ancora l’occasione per esprimere la sua gratitudine per la lettera di Consalvi del 4 marzo 1816, per i doni e per il ruolo che, nella genesi dell’una e degli altri, intuiva avervi svolto Canova: Di Parigi, a’ 6 di aprile 1816 Chiarissimo signor Marchese, L’altra sua graziosissima lettera, che mi è pervenuta a questi dì, vie più mi mostra la gentilezza e la bontà somma dell’animo suo, e la fortuna che io ho di sentire in me, e così largamente come a Lei piace, tutto il valore di questi suoi inestimabili pregi. Sia pur Ella certa, veneratissimo signor Marchese, che io mai non dimenticherò né tutto ciò che con tanta cordialità Ella adoperò in pro di me infino a ora, né quello che ha pur in animo di fare nel tempo avvenire. E se con l’opera io non potrò forse mai far cosa che sia rispondente a tutto questo, con le parole almeno io dar dovrò debito segno della mia sincera gratitudine. Ai signori Caccia e Blommaert ancor non pervennero le cose a me donate, ma ciò sarà senza fallo in brieve. Ma ben altra cosa a me assai più cara io ebbi a’ dì passati, e ciò fu una gentilissima lettera dell’Eminentissimo signor Cardinal segretario di Stato, nella quale mi si dice che que’ doni mi vengon direttamente da Sua Beatitudine. Or questa particolarità a me li rende d’un valore senza stima. Ed io poi per altra mia caldamente pregai Sua Eminenza che volesse degnarsi di renderne per me le più umili grazie a Sua Santità; ma poiché il signor Cardinale mi dice ancora ch’Ella stessa aveva di me parlato al Santo Padre, io perciò priego anche Lei, qualora l’opportunità Le ne venisse, che rinnovar gli voglia i miei ringraziamenti i 28 Il testo completo della lettera è in CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 149-150. La minuta, di mano di Giovanni Battista Sartori, ibid., p. 176; cfr. SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., p. 270.
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più ossequiosi, e la certificazione della mia divota filiale venerazione ed obbidienza verso di Lui29.
Angeloni si era dunque accontentato nobilmente della tabacchiera d’oro e aveva evitato di chiedere altro. Quando anzi, nei mesi successivi, Giulio Ginnasi30 si mosse per lui chiedendo qualcosa (ma non sappiamo precisare cosa), Angeloni ne prese risolutamente le distanze sconfessando l’operato dell’amico. Il 29 agosto 1816 Angeloni comunicò infatti al Canova che avrebbe scritto nei prossimi giorni al card. Consalvi per precisare che della domanda avanzata a suo nome dal Ginnasi alla corte romana egli non sapeva nulla e che anzi se ne era molto lamentato con lo stesso Ginnasi31. Il 1° ottobre 1816 Canova rispose dicendosi a sua volta dispiaciuto per l’iniziativa, non concordata, di Ginnasi ma dicendosi certo «che Egli abbia ciò fatto per puro sentimento di affezione al di Lei bene e su questo riflesso merita scusa e perdono»32. Gli ottimi rapporti fra Angeloni e Canova sono testimoniati dalle ultime due lettere che ci sono pervenute della loro corrispondenza33. Il 25 dicembre 1816 Angeloni, non «dimentico» di «alcune belle costumanze patrie, e massime» di «quelle che da’ nostri maggiori par che fossero istituite per vie meglio annodare a tener sempre mai congiunti i dolci legami dell’amicizia», presentava a Canova gli auguri per il nuovo anno e coglieva l’occasione per rendere nota l’aspettativa di Augusto Bozzi Granville di riconoscimenti da parte del governo pontificio per l’opera anche da lui svolta nella «ricupera»: 29
Il testo completo della lettera è in CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 187-188. Il conte Giulio Ginnasi così viene presentato da Marino Marini: « (…) Patrizio Imolese[,] uomo di probità e assai colto nella storia naturale», M. MARINI, Memorie storiche dell’occupazione, e restituzione degli Archivi della S. sede e del riacquisto de’ Codici e Museo Numismatico del Vaticano, e de’ manoscritti, e parte del Museo di Storia Naturale di Bologna; (…). MDCCCXVI, in Regestum Clementis papae V ex archetypis vaticanis (…) cura et studio monachorum Ordinis S. Benedicti, Romae 1885, pp. CCXXVIII-CCCXXV: CCXLIII. Giulio, a Parigi con la delegazione pontificia per il recupero delle opere d’arte, non va confuso con Domenico Ginnasi, che nel 1806 compare come «guardaroba» fra i camerieri segreti di Pio VII (Notizie per l’anno 1806 […], in Roma 1806, p. 83); sarebbe Domenico l’autore della lettera scritta a Canova l’11 settembre 1817, da Palazzo, raccomandando il giovane Cincinnato Baruzzi che intendeva entrare nello studio dello scultore di Possagno, CANOVA, Epistolario cit., II, p. 1018 (inesatta dunque l’identificazione proposta ibid., I, p. 448 nt. 1). 31 CANOVA, Epistolario cit., I, p. 384. 32 CANOVA, Epistolario cit., I, p. 448. 33 Il 1° ottobre 1816 Canova aveva concluso la sua lettera chiedendo informazioni sulla situazione di Angeloni e mettendosi a disposizione per aiutarlo: «Io La prego di favorirmi l’ulteriori notizie della sua persona, e di ciò che la riguarda; perché non posso mirare [?] senza un vivo interesse la sua presente situazione. In tutto quello che io valgo, mi adoperi liberamente, e si accerti, che mi ritroverà costantemente pieno di attaccamento, e di premura verso di Lei, che io stimo e venero oltremodo», CANOVA, Epistolario cit., I, p. 448. 30
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Come che sia, io non ho voluto lasciar di toccarlene qui un motto, perché m’è paruto che ciò esser non dovesse ignorato da Lei, la quale sa pur bene come caldamente dié anche mano il signor dottor Granville, acciocché avesse effetto, siccome ebbe, quello che si chiedeva. Non le dirò io dunque altro34.
Il 12 gennaio 1817 Canova rispose ad Angeloni ricambiando gli auguri per il nuovo anno e spiegando i motivi per cui quanto si era pensato, quale ricompensa per Bozzi Granville, non era andato a effetto. Ma il marchese coglieva anche l’occasione per mostrare come lui stesso aveva direttamente cercato — di fronte all’inerzia governativa — di compensare quanti lo avevano aiutato nella missione transalpina e, soprattutto, per affermare come da essa suo fratello Giovanni Battista non avesse ricavato neanche una «spilla, anzi né una parola sola di ringraziamento: onde si conosca che non si vuole arricchire per questa via». La lettera è dunque interessante, quasi come una sorta di bilancio da parte di Canova del suo disinteressato impegno per la «ricupera», e merita dunque di essere qui parzialmente ripresa: Seppi già dal signor Hamilton che il signor dottor Granville erasi trasferito in Parigi onde perfezionarsi nella ostetricia; e bramo sommamente che l’onesto intendimento a cui dirige li nuovi suoi studj abbia il desiderato effetto. Riguardo poi a ciò ch’Ella mi tocca sull’esser egli solo stato dimenticato nei regali che questo Governo ha fatti a quello di Londra, piacemi essere invitato da lei ad entrare in dettaglio su tale articolo. Dev’Ella dunque sapere, aver io, subito ritornato qua, parlato più volte al cardinal Consalvi per fargli addottare il progetto di deputare un agente di Roma a Londra nella persona del signor dottor Granville del quale non mancai rilevare i talenti e meriti. Ma i miei buoni uffizi non sortirono felice successo; perché erasi già in prevennienza incamminata fra il Cardinale e il signor visconte di Castelreagh35 l’intelligenza di mandare quando che fosse un prelato. Tutto questo ed altro io scrissi all’amico nostro, al quale, per non vederlo fraudato di un qualche segno di gradimento, mi sono creduto dover supplire io stesso al debito altrui, mandandogli un ritratto dipinto da Tiziano, e che mi costò in Venezia più di 100 zecchini36: come pure di mia sola volontà manderò al duca di Wellington, a cui il 34
Il testo completo della lettera in CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 580-581. Robert Stewart (1769-1822), secondo marchese di Londonderry, noto come il visconte di Castlereagh, rappresentò, quale ministro degli affari esteri, il Regno Unito al Congresso di Vienna; fu il promotore del cosiddetto «sistema del Congresso», formula (poi fallita) che prevedeva una sorta di amministrazione comune degli affari europei da parte delle nazioni più importanti; nella questione delle restituzione delle opere d’arte assunse una posizione favorevole ai diritti del Papa, cfr. PAVAN, Canova, Antonio cit., p. 213. 36 Si trattava di un presunto ritratto dell’anatomista Andreas Vesalius, attribuito a Tiziano; del dono di Canova (che, più o meno contemporaneamente e con le stesse finalità, aveva donato a William Richard Hamilton un quadro, in parte di Tiziano, raffigurante Girolamo e il cardinale Marco Cornaro) il Bozzi Granville fece menzione nella sua Autobiography; l’ubicazione attuale del quadro è sconosciuta, cfr. CANOVA, Epistolario cit., I, p. 316 nt. 1. 35
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Governo non ha pensato di mandare alcun regalo, un busto ideale marmoreo37, un secondo al signor visconte di Castelreagh38, e un terzo al signor Hamilton39, oltre ad un bello e conservatissimo quadro di Tiziano: regali che faccio io proprio e del mio peculio. Ella potrà leggere ne’ publici foglj l’uso da me fatto di quell’annua pensione accordatami dal Santo Padre; e voglio ch’ella pure sappia, come a mio fratello non fu data una spilla, anzi né una parola sola di ringraziamento: onde si conosca che non si vuole arricchire per questa via. È ciò noto a lei particolarmente, affinché sia bene informato della cosa, e della mia leale condotta verso del nostro comune amico; troppo standomi a cuore di purgarmi dinanzi a lui, e a Lei d’ogni ombra di poco affetto, e di colpevole negligenza, del che mi scusano abbastanza tutte le lettere scritte al medesimo su tal proposito. Ma di ciò non più oltre40.
«[…] di mia sola volontà […] a cui il Governo non ha pensato di mandare alcun regalo […] regali che faccio io proprio e del mio peculio». Fra le righe del testo del prudentissimo Canova pare d’intuire un senso di malcelata delusione e forse di sottile polemica. La professione di totale disinteresse da parte di Canova poteva però essere pienamente compresa e condivisa da chi, come Angeloni, si era mosso senza nessun intento di tornaconto personale, «per mero spirito di amore patrio e per il decoro e utilità dell’Italia e di Roma», come aveva scritto Canova a Consalvi il 28 ottobre 1815. Appare infatti certo che quanto Angeloni fece per coadiuvare a Parigi l’opera di Marini e dei due Canova non era estraneo alla sua concezione politica e al suo amore per la patria; e se può apparire curioso vedere Angeloni, che riteneva «favolacce» tutte le dottrine delle religioni rivelate41, collaborare attivamente con gli agenti della Restaurazione e della Sede Apostolica, non va dimenticato che per lui si trattava di restituire al suo paese monumenti di storia e di civiltà che per diritto gli appartenevano e che solo la rapace volontà spogliatrice del Bonaparte, traditore della Rivoluzione e violatore della sovranità dei popoli, gli aveva senza alcuna giustificazione sottratto. 37 Arthur Wellesley (1769-1852), dal 1814 duca di Wellington, militare e statista inglese, protagonista della battaglia di Waterloo (18 giugno 1815); nel 1815 svolse un ruolo fondamentale nel recupero delle opere d’arte dalla Francia, assumendo anch’egli una posizione favorevole ai diritti del Papa; il «busto ideale» donatogli da Canova si trova attualmente a Londra, Wellington Museum, Apsley House; cfr. PAVAN, Canova, Antonio cit., p. 213; CANOVA, Epistolario cit., II, p. 623 nt. 3. Sull’opera dei diplomatici inglesi (Wellington, Castlereagh, Hamilton), ritenuta essenziale per la «ricupera», cfr. ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 216-233. 38 Il «busto ideale» donato da Canova è ora di proprietà dell’attuale marchese di Londonderry; cfr. CANOVA, Epistolario cit., II, p. 623 nt. 4. 39 Il «busto ideale» donato ad Hamilton è ora all’Ashmolean Museum di Oxford; cfr. CANOVA, Epistolario cit., II, p. 623 nt. 5. 40 Il testo completo della lettera in CANOVA, Epistolario cit., II, pp. 622-623; cfr. SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., p. 271. 41 Sulle idee religiose dell’Angeloni, SPERDUTI, Luigi Angeloni cit., pp. 95-100.
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L’offerta della «retribuzione» papale e poi il ripiego sui doni della lettera del 4 marzo 1816 nascevano dunque, forse, da un equivoco, dall’incomprensione di questo profondo movente del tutto coerente con la personalità dell’Angeloni. 2. A illuminare, per quanto parzialmente, l’opera dell’Angeloni a Parigi in quei cruciali mesi in cui si giocarono le sorti dei manoscritti, delle monete e delle opere d’arte vaticani giungono tre sue lettere raccolte dalla dispersione dall’inesausta passione collezionistica di Gaetano Ferrajoli, che fu attento lettore e studioso anche delle opere a stampa del frusinate42. Due lettere sono indirizzate a Marino Marini (Paris, 10 febbraio 1816; Paris, 6 aprile 1816), la terza al card. Ercole Consalvi (Paris, 11 dicembre 1817); per quanto io sappia, sono le prime che testimoniano direttamente l’operato del patriota per la «ricupera» dei codici e converrà quindi ora seguirne da vicino il contenuto. Non prima di aver notato che esse potrebbero essere i relitti di corrispondenze più vaste, che andrebbero ricercate in luoghi diversi. Questa nota non pretende naturalmente di assolvere tale compito ma solo di presentare le lettere possedute dalla Biblioteca Vaticana sollecitando auspicabili indagini in altre biblioteche e archivi che in futuro potranno, probabilmente, offrire un quadro più completo e preciso dell’opera dell’Angeloni in questo campo43. 42 Su Gaetano Ferrajoli, La «Raccolta prima» degli Autografi Ferrajoli. Introduzione, inventario e indice a cura di P. VIAN, Città del Vaticano 1990 (Studi e testi, 336; Cataloghi sommari e inventari dei fondi manoscritti, 2), pp. VI-XIII; Le Raccolte Ferrajoli e Menozzi degli Autografi Ferrajoli cit., pp. X-XXI. Negli stampati Ferrajoli sono sostanzialmente presenti tutte le opere dell’Angeloni, molto rare nelle biblioteche, spesso con note di Gaetano Ferrajoli: Sopra la vita, le opere ed il sapere di Guido d’Arezzo, restauratore della scienza e dell’arte musica. Dissertazione (…), Parigi, appresso l’autore (stampò Charles), 1811 [Stamp. Ferr. IV.3660 (int. 1); dell’opera la Vaticana possiede altri tre esemplari: Mai XI.L.III. 45 (int. 1); R.G. Storia IV.460; Ronga IV.2008]; Sopra l’ordinamento che aver dovrebbono i governi d’Italia. Ragionamento, Parigi, appresso l’autore, 1814 [Stamp. Ferr. IV.3616; Stamp. Ferr. IV.8191 (int. 21)]; Dell’Italia, uscente il settembre del 1818. Ragionamenti IV (…) dedicati all’italica nazione, I-II, Parigi, appresso l’autore, 1818 [Stamp. Ferr. IV.2677 (1-2); dell’opera la Vaticana possiede un altro esemplare in R.G. Storia IV.8510]; Della forza nelle cose politiche. Ragionamenti quattro, I-II, Londra, [per le stampe di G. Schulze], 1826 [Stamp. Ferr. IV.2674 (1-2)]; Alla valente ed animosa gioventù d’Italia, esortazioni patrie così di prosa come di verso, Londra, appresso l’autore, 1837 [Stamp. Ferr. IV.4021]. Sulla rarità delle opere di Angeloni, M. PARENTI, Le opere di Luigi Angeloni, in ID., Rarità bibliografiche dell’Ottocento. Materiali e pretesti per una storia della tipografia italiana nel secolo decimonono, I, Firenze 19533 (Contributi alla Biblioteca biografica italica, 3), pp. 289-304. 43 In Biblioteca Vaticana, Autografi Patetta, 15, ff. 256-277, sono presenti: una lettera a mons. Basti, Paris, 28 giugno 1819; 7 lettere al dott. Fossati, 10 ottobre 1827 – 29 ottobre 1833; alcune note tratte da Della forza nelle cose politiche; e un’incisione con ritratto, cfr. Inventario degli autografi e documenti Patetta, I: 1-28 (A), a cura di G. MORELLO, 1977 [dattiloscritto; Biblioteca Vaticana, Sala Cons. Mss., 440 (1) rosso], ff. 89-90. Per l’incisione cfr. tav. II. L’inci-
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La prima lettera di Angeloni a Marini44 è del 10 febbraio 1816. Marini era rientrato a Roma il 23 dicembre 181545, mentre Canova vi era giunto poco dopo, il 3 gennaio 181646; e dieci giorni dopo, il 13 gennaio 1816, Giovanni Battista Sartori comunicò ad Angeloni l’arrivo a Roma suo e del fratello Antonio e dei «monumenti spediti per terra, i quali si vanno già collocando al loro antico sito». Dopo aver ricordato di aver già scritto ad Angeloni da Londra, Sartori gli ripeteva «i sensi della nostra gratitudine per le molte cure, e attenzioni a noi donate durante il nostro soggiorno a Parigi, e nella circostanza che si sono ricuperati quegli oggetti d’arte, che ora stan qui in parte, e in parte verranno nella prossima primavera». Canova notava poi che «Il segretario di Stato e Sua Santità hanno conosciuto i meriti di Lei in tal occasione, ed io credo che siesi già scritto, o che si scriva a Lei per testificarle la sovrana soddisfazione»47. Probabilmente negli stessi termini si doveva essere espresso il Marini in una lettera alla quale, appunto, Angeloni rispose: Di Parigi, a 10 di febbraio 1816 Amico carissimo, La vostra mi pervenne più giorni sono già passati, ma io soprastetti infino a ora a rispondervi, perché, rispondendo, avrei io pur voluto darvi il mi rallegro, se così come quì si seppe essere state costà generosamente rimunerate le opere altrui48, così inteso avessimo che fossero state eziandio le vostre49. Ma perciocché questa novella, che per l’amore e per la stima che ho per voi stata sarebbe per me gratissione è cronologicamente anteriore a quella che apre il volume Alla valente ed animosa gioventù d’Italia cit., che ritrae Angeloni nel 1821, all’età di sessantatré anni, a opera di Bianca Milesi, su disegno di Chiara Piaggio, inciso a Londra nel 1837 da B. Eyles. 44 Biblioteca Vaticana, Autografi Ferrajoli, Raccolta Ferrajoli, ff. 478r-v, 478av; cfr. Le Raccolte Ferrajoli e Menozzi degli Autografi Ferrajoli cit., p. 20 (nr. 280). Un bifoglio di cui sono scritte la prima, la seconda e la quarta facciata. 45 MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXLVIII. Consalvi non gradì il rientro dell’ecclesiastico romagnolo (che aveva preferito seguire da vicino l’itinerario del convoglio con le carte degli archivi) perché avrebbe invece voluto che rimanesse a Parigi per continuare nell’opera di recupero e per seguire altre vicende. 46 Come annunciò immediatamente Canova al Consalvi, CANOVA, Epistolario cit., I, p. 3; cfr. anche PAVAN, Canova, Antonio cit., p. 214. 47 CANOVA, Epistolario cit., I, p. 32. 48 Angeloni allude probabilmente ai riconoscimenti riservati a Canova dopo il suo ritorno: Pio VII il 6 gennaio 1816 gli conferì il titolo di marchese d’Ischia e lo fece iscrivere nel libro d’oro del Campidoglio; Canova rifiutò invece l’assegno relativo di 3.000 scudi annui destinandoli a sovvenzioni all’Accademia Romana di Archeologia, all’Accademia dei Lincei, a premi per gli artisti, PAVAN, Canova, Antonio cit., p. 214. 49 In realtà il 28 gennaio 1816 Consalvi aveva comunicato a Marini la nomina a Cameriere segreto d’onore, per lo «zelo» e per l’«attività» mostrate «pel ritorno degli Archivi, e per la ricupera dei Codici manoscritti, e Medaglie, de’ quali erano state private la Biblioteca ed il Gabinetto numismatico Vaticano», MARINI, Memorie storiche cit., p. CCLXX. Ma il fatto era
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sima, quì non si ebbe ancora; sì mi diliberai io di rispondervi, senza metter più lungo indugio a far questo. Ben io vi dico tuttavia che starò sempre attendendo con impazienza, che quello che non ebbe luogo infino a quì, si rechi ad effetto quando che sia, cioè che il vostro zelo e la vostra diligenza somma per le cose della Santa Sede abbiano finalmente il debito guiderdone. Piacquemi molto che foste da Monsignor Prelà, il quale senza fallo dee esservisi mostrato gentile, perché egli è veramente un garbatissimo uomo. E se alcuna volta voi aveste bisogno dell’opera sua, voi potete pur ricorrere a lui con ogni fiducia, essendo egli anche molto serviziato e cortese. Dimorano in cotesta città due miei carissimi amici, e ciò sono i sigg. Domenico Miconi50 e Giacinto Scifelli51; amendue della mia provincia, ed anzi il secondo della stessa mia patria. Se per avventura venisser essi talvolta in coteste vostre vaticane stanze, e vi parlasser di me, molto caro per certo mi sarebbe che lor faceste buona cera, essendo ancor essi e gentili, e cortesi, ed onestissimi uomini. Il nostro messer Ginnasi è sempre in espettazione di risposta da costà, per rispetto alla proposta ch’egli fece, pel trasporto delle rimanenti cose degli archivj romani. Voi intanto non dimenticate che fummo e siamo ancora in forse intorno al manuscritto di Plinio52, il quale ci si fe’ sospettare che dovesseci esser renduto. Anche il processo del Galilei53 è cosa molto cara, e che non dovrebbe esser qui evidentemente ancora ignoto ad Angeloni; cfr. anche la recensione di L. DELISLE alle Memorie storiche di Marini nel Journal des savants année 1892, pp. 429-441, 489-501: 492. 50 L’avvocato Domenico Miconi fu l’amico che si occupò dell’amministrazione dei beni di Angeloni: «Il Miconi non solo curerà i beni dell’Angeloni, ma, quando questi dovrà recarsi in esilio, gli invierà sempre in danaro le rendite, che ne ricava», SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., pp. 9-10. 51 Il 6 aprile 1816 Angeloni scrisse da Parigi ad Antonio Canova: «Io sono molto grato ed a Lei, ed all’amabilissimo suo signor fratello (che di cuore saluto) della gentile accoglienza che fecero al mio caro ed ottimo amico signor Scifelli», CANOVA, Epistolario cit., I, p. 188. Un Gaetano Scifelli (probabilmente si tratta dell’amico di Angeloni) compare nel 1840 tra i Consiglieri della Congregazione governativa della Delegazione di Frosinone, Notizie per l’anno M.D.CCC.XL, Roma 1840, p. 407. 52 Si tratta del Vat. lat. 3533, splendido esemplare quattrocentesco della Naturalis Historia, riccamente miniato, poi appartenuto al card. Antonio Carafa (1538-1591) e consultato dal Winckelmann, cfr. Recensio manuscriptorum codicum qui ex universa Bibliotheca Vaticana (…) procuratoribus Gallorum iure belli, seu pactarum induciarum ergo, et initae pacis traditi fuere (…), Lipsiae 1803, p. 98 (sub n° 371); Les manuscrits classiques latins de la Bibliothèque Vaticane, Catalogue établi par E. PELLEGRIN, III: 2: Fonds Vatican latin, 2901-14740, édité par A.-V. GILLES-RAYNAL, F. DOLBEAU, J. FOHLEN, Y.-F. RIOU et J.-Y. TILLIETTE, avec la collaboration de M. BUONOCORE, P. SCARCIA PIACENTINI et P.-J. RIAMOND, Cité du Vatican – Paris 2010 (Documents, études et répertoires publiés par l’Institut de Recherche et d’Histoire des Textes), p. 312 (una riproduzione a colori del f. 1r è pubblicata ibid. nella tavola che precede il frontespizio). 53 Sulla vicenda del manoscritto del processo di Galileo (Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Misc., Arm. X 204), cfr. MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXXXVII-CCXXXVIII, CCLIV-CCLVII (nr. 13). Marini afferma di essersi molto adoperato per recuperarlo «giacché smentisce le falsità sparse da alcuni contro l’Inquisizione»; e conclude sostenendo che «Il sistema di Copernico non fu mai condannato e neppur quello di Galileo dovea esserlo; si con-
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lasciata. Deeci oltracciò esser renduto il manuscritto d’Euclide54, e que’ due grossi volumi che ha il sig. Haze55, de’ quali conviensi che voi ci facciate sapere anche il titolo, che fu da me notato in uno di que’ fogli da voi servati. Mi fu grato assai d’intender per la sopraddetta vostra che vennevi fatto di fuggire un grave pericolo da Pontefelice56 a Roma. Attendete ora star sano, non lasciando mai di amarmi Il vostro Angeloni A Monsieur Mons. l’Abbé Marin Marini, Archiviste au Vatican. à Rome57 dannò adunque non la dottrina, ma la maniera d’insegnarla»; ma Marini aveva giustamente intuito che il manoscritto era rimasto nelle mani del conte di Blacas, come afferma esplicitamente nella lettera di commiato al duca di Richelieu del 13 settembre 1817, ibid., p. CCC. Una recente ricostruzione della storia del manoscritto dal trasferimento a Parigi, nel 1810, al recupero a Roma nel 1843 e alla consegna nelle mani dello stesso Marini da parte di Pio IX l’8 maggio 1850, con copiosa bibliografia anche sul trasferimento e sul recupero degli archivi della Santa Sede, in S. PAGANO, I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (1611-1741). Nuova edizione accresciuta, rivista e annotata, Città del Vaticano 2009 (Collectanea Archivi Vaticani, 69), pp. CCXIX-CCXXXIV. 54 Si tratta del Vat. gr. 1038, che fu effettivamente recuperato solo in un secondo momento (comunque prima del completamento dell’inventario di Girolamo Amati, avvenuto intorno al 1818-1819), perché era stato concesso in prestito per motivi di studio a François Peyrard da Bon-Joseph Dacier, «conservateur-administrateur» del Dipartimento Manoscritti della Bibliothèque Nationale (cfr. la documentazione relativa alla restituzione in Biblioteca Vaticana, Arch. Bibl. 52, ff. 164r, 168r, 170r), cfr. S. LILLA, I manoscritti Vaticani greci. Lineamenti di una storia del fondo, Città del Vaticano 2004 (Studi e testi, 415), pp. 88-89. Sul Dacier cfr. infra, nt. 192. 55 Charles-Benoît Hase (1780-1864); figlio di un vescovo luterano, studiò il greco e l’arabo nelle università tedesche; nel 1801 si trasferì a Parigi e nel 1805 entrò nel dipartimento dei manoscritti della Bibliothèque Impériale, ove si occupò soprattutto dei manoscritti greci (nel 1832 divenne «conservateur en chef» dei manoscritti greci); dal 1815 ricoprì l’insegnamento di greco moderno e di paleografia greca all’École des langues orientales, ove rimase per oltre mezzo secolo, mentre nel 1824 fu eletto all’Académie des inscriptions et belles-lettres; fu prolifico autore di pubblicazioni scientifiche, molte delle quali uscite nelle Notices et extraits des manuscrits de la bibliothèque du roi; T. DE MOREMBERT, Hase (Charles-Benoît), in Dictionnaire de biographie française, XVII, Paris 1989, coll. 698-699. 56 Allo scampato pericolo fa esplicito riferimento Marini: «Arrivai a Roma il 23 decembre [1815], e se vi giunsi vivo, il debbo a miracolo piuttosto, anzi che no, poiché il giorno antecedente per tre volte avea lottato colla morte, e non sempre con sicura speranza di trionfarne: ahimè! ove trovai io scampo? nella bontà di quel Dio che mi avea già sostenuto contro l’impeto de’ flutti minacciosi [scil.: del fiume Taro, durante il suo attraversamento col convoglio dei beni recuperati]», MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXLVIII. Il riferimento dovrebbe essere a Ponte Felice, sul Tevere, edificato nel 1589, nei pressi di Civita Castellana, in provincia di Viterbo; a esso accenna A. COPPI, Annali d’Italia dal 1750, II: dal 1797 al 1800, in Roma 1824, pp. 214-215, come teatro di un evento bellico nel 1798. 57 L’indirizzo è al f. 478av, ove anche un sigillo cartaceo, due timbri (Decimes / 27 (?) Feb.) e, a penna, i numeri 126 (depennato) e 26; nel margine superiore del f., di altra mano,
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Marini era dunque rientrato a Roma ed era scampato a un grave pericolo in un trasferimento fra Ponte Felice e Roma; Angeloni esprime impazienza perché riceva «il debito guiderdone» e, dopo aver raccomandato a Marini due conterranei, ricorda alcune questioni ancora aperte che attendono di essere definite e risolte, anche con chiarificatrici istruzioni da Roma. Ma la risposta e le istruzioni non giunsero e la seconda lettera segue di quasi due mesi la precedente, con un tono che sembra lievemente incresparsi58: Di Parigi, a’ 6 di aprile 1816 Amico carissimo Io non ebbi infino a quì vostra risposta alla mia lettera de’ 10 del passato febbraio; ma ben seppi altronde che voi foste debitamente rimeritato dal Santo Padre59, di che cordialmente con voi mi congratulo, e vi auguro molto migliori cose, che sono ben da voi meritate. Anche me volle Sua Santità far presentare d’una scatola d’oro, ornata di cammeo, e d’una catena per oriuolo. Non potrei dirvi quanto io sia grato e conoscente di questa benignità somma di Sua Beatitudine. Il nostro Monsig. Prelà si è meco doluto, che voi non gli abbiate ancor dati i tre libriccini che a voi io per lui diedi la notte stessa che voi da qui vi partiste, ed communicata da Mgr. Marini. Nella lettera le sette righe con le parole da costà, per rispetto sino a de’ quali conviensi, sono affiancate da un tratto di penna, probabile segno di lettura da parte del destinatario o di altra persona. 58 Biblioteca Vaticana, Autografi Ferrajoli, Raccolta Ferrajoli, ff. 479r, 479av; cfr. Le Raccolte Ferrajoli e Menozzi degli Autografi Ferrajoli cit., p. 20 (nr. 280). Un bifoglio di cui sono scritte la prima e la quarta facciata. 59 Come si è accennato supra, il 28 gennaio 1816 Consalvi aveva annunciato a Marini la sua nomina fra i Camerieri Segreti d’onore e il 23 febbraio successivo gli era stato comunicato anche il conferimento di una pensione annua di 120 scudi «sua vita natural durante», MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCLXX-CCLXXI (nrr. 57-58); dal luglio 1816 Marini compare nel «ruolo» di Pio VII sotto la rubrica «Signori della corte». La gratitudine del Papa per Marini e la volontà di «esserle utile» erano comunque state precedentemente manifestate all’ecclesiastico romagnolo da Consalvi con lettera del 6 ottobre 1815 (quindi quando Marini era ancora a Parigi). In seguito (come si è appena detto), «Il Santo Padre per atto di clemenza ebbe de’ nuovi riguardi ai passati meriti di mio zio, e alle meschine fatiche mie in servigio della Santa Sede, e mi annoverò fra i suoi Camerieri Segreti, e hammi ancor conceduta un’annua pensione di cento venti scudi: le espressioni de’ due biglietti co’ quali mi si fanno sapere queste grazie sovrane non poteano non lusingar di vantaggio il mio amor proprio. Grande sarà sempre la mia riconoscenza verso Sua Santità; è somma bontà l’aver degnato riguardare con parzialità il poco che ho fatto per il ricuperamento degli Archivi Romani. Sarò sempre grato a Mg.r de Gregorio [scil.: Emanuele De Gregorio, 1758-1839, cardinale dall’8 marzo 1816] ora Cardinale amplissimo di Santa Chiesa, per la confidenza ch’ebbe in me nel farmi dal Governo francese affidare tutti gli Archivi di Roma, e le cose preziose della Cappella Pontificia: trascrivo due sue lettere, le quali conserverò gelosamente fra le mie carte come attestato dell’estrema bontà sua verso di me», ibid., p. CCXLVIII. Le due lettere di De Gregorio (arrestato a Parigi nel gennaio 1811, poi liberato nell’aprile 1814 ma rimasto nella capitale francese per seguire il recupero dei beni sottratti alla Santa Sede) sono pubblicate ibid., p. CCLXXI (nrr. 59-60). Resta il fatto che Marini non ebbe mai la nomina episcopale che invece nel 1826 onorò il Sartori (cfr. supra).
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in presenza del nostro conte Ginnasi60, che ben se ne ricorda. Or io vi priego che vogliate più diligentemente investigare fra le cose che da quà costà portaste, che senza fallo voi li troverete, e potrete darglieli. Io vorrei sapere se è vero che il Beauharnais, già vicerè d’Italia, oltre a molte terre che ha nel Bolognese di valore inestimabile, e che furono a lui date dall’Austria, or voglia averne anche altre nel Ducato d’Urbino. Or se voi mi direte tutto ciò che voi saprete intorno a questo, mi farete cosa gratissima, perché nell’opera mia ne vorrei dire alcuna cosa in pro dello Stato Pontificio61. Ben altre cose vi dissi per la sopraddetta mia, ed attendo vostra risposta. Intanto procacciate di star sano, ed amatemi sempre Il vostro Angeloni A Monseigneur Mons. Marin Marini, Préfet des Archives du Vatican. à Rome62
Marini non aveva dunque risposto alla lettera del 10 febbraio 1816; ma Angeloni aveva saputo del premio alle fatiche di Marini e se ne compiaceva; al tempo stesso chiedeva notizie di «libriccini» che, in presenza di Ginnasi, aveva consegnato a Marini perché fossero trasmessi a Prelà. Il riferimento 60
Si tratta della stessa persona che, di sua iniziativa, aveva chiesto qualcosa per Angeloni alla corte di Roma, suscitando la sua successiva, ferma disapprovazione (cfr. supra). 61 La figura di Beauharnais, spesso accostata a quella di Murat, compare di frequente in Dell’Italia; cfr., per esempio, il seguente passo del Ragionamento III: «Tentaron lor fortuna in Italia il Beauharnais, ed il Murat, e se felice evento non v’ebber le imprese loro, non poteron essi perdervi nulla di quello che certamente non aveanvi recato. Patteggiò il primo l’arrendimento del suo capitanato, e, oltre che per questo ebbe egli agio di menar seco la doviziosissima messe che aveva raunata, gli furon concedute vaste e ricche possessioni nell’italico suolo», ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 84-87. «Or della predetta magnanimità, e generosità italica verso i Francesi in tanto è più da pigliarne ammirazione, in quanto dal Beauharnais più eran vituperati, ed oppressi, e straziati, non meno i guerrieri, che’ cittadini italici; sì perché con impudentissima sfacciatezza egli sovente chiamava gli uni codardi e vili, quantunque a bella posta per loro sempre riserbasse le più micidiali belliche imprese; sì perché impoveriva, e sperperava al tutto gli altri con rovinose imposte, e accatti, e balzelli», ibid., I, p. 323 nt. 51. Nel marzo 1815 a Vienna, con l’art. 64 del protocollo «separato e segreto» del Trattato, nonostante le rimostranze del card. Ercole Consalvi che partecipò al Congresso in qualità di osservatore in rappresentanza dello Stato Pontificio, le potenze vincitrici stabilirono che Eugenio Beauharnais continuasse a usufruire dei beni ricevuti nel 1810 come «appannaggio» in qualità di viceré d’Italia: si trattava di 2.300 tenute agricole e 137 palazzi urbani nelle Marche. Solo nel 1845 il governo pontificio, che mal sopportava la presenza di questo Stato nello Stato, riuscì a riscattare i beni del cosiddetto «appannaggio Leuchtenberg» (dal nome del ducato che era stato affidato al Beauharnais dal suocero Massimiliano I di Baviera). Cfr. recentemente M. FRATESI, Il principe e il papa. L’appannaggio Beauharnais e lo Stato Pontificio, Camerata Picena 2004. 62 L’indirizzo è al f. 479av, ove anche un sigillo cartaceo, tre timbri (Decimes / Aprile 23 / […]) e, a penna, i numeri 26 e 15 (?).
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alla presenza «del nostro conte Ginnasi, che ben se ne ricorda», mostra che Angeloni non ha piena fiducia nella memoria (e forse non solo in quella) di Marini. I rapporti appaiono così meno cordiali di quanto non facesse supporre la lettera precedente. Angeloni domandava infine notizie sicure su alcune pretese del Beauharnais su terre del ducato di Urbino; esse servivano all’Angeloni per parlare «in pro dello Stato Pontificio» nell’«opera mia», allora evidentemente in gestazione, cioè in quel Dell’Italia, uscente il settembre del 1818, che sarebbe uscito di fatto più di due anni dopo suscitando la reazione di Marini e compromettendo definitivamente i rapporti fra i due. Ma procediamo con ordine. La terza lettera è invece di più di un anno e mezzo posteriore alla precedente, perché risale quasi alla fine del 1817: il destinatario, questa volta, è lo stesso Consalvi, Segretario di Stato di Pio VII. Nel frattempo erano però avvenuti non pochi fatti nuovi. Il trasferimento a Roma degli archivi non era stato completato nel 1815; essendo rientrato a Roma il Marini, della questione era stato incaricato Ginnasi che, oltre ad avviare ad alienazione o distruzione parte dei documenti ritenuti meno importanti, protrasse l’esecuzione dell’operazione al punto che Pio VII decise nel maggio 1817 di rinviare a Parigi Marini, che vi giunse il 7 giugno63. Nei tre mesi del suo ultimo soggiorno nella capitale francese, l’archivista vaticano si occupò in particolare del tentativo di recupero delle carte del card. Caprara e del processo di Galilei64, districandosi nel labirinto e nei trabocchetti dei diversi 63 Sull’alienazione e sulla distruzione di carte avvenute a Parigi per iniziativa del Ginnasi, cfr. PAGANO, I documenti vaticani cit., pp. CCXXIX-CCXXXI. Anche Marini critica l’operato di Ginnasi: «Fu veramente fatale l’alienazione delle carte fatta dal Conte Ginnasi, non solo per averci privato di molti volumi di Bolle, ma anche perché servì di pretesto al Governo francese, per dare un’apparenza di verità al deperimento delle carte, ch’esso affacciava, e con che si schermiva dai reclami che glie n’erano fatti», MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXCIII (sul punto Marini torna spesso, quasi che ai suoi occhi l’operato di Ginnasi fosse più dannoso per i pretesti che offriva alle ricusazioni francesi che per le effettive perdite provocate; cfr. ibid., pp. CCXCVI, CCXCVII, CCXCVIII-CCXCIX, CCC). Ma subito dopo, quasi a giustificare il suo operato (che comprese, con il recupero, anche l’eliminazione di parte della documentazione), Marini si sofferma, con rinvio a una lettera inviatagli da Domenico Sala, sui documenti, «che poteansi senza danno de’ Romani Archivii distruggere in Francia», ibid., p. CCXCIII. Severo appare anche il giudizio di DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 492, sull’operato di Ginnasi, «qui n’était nullement préparé à une mission aussi délicate. Il remplit très médiocrement la tâche qui lui incombait, à tel point que, pour simplifier sa besogne et épargner la dépense, il vendit au poids des séries entières de documents. L’expédition des caisses subissait, en outre, des retards considérables. Impatientée de ces néglicences et de ces lenteurs, la cour romaine résolut, pour en finir, de donner une nouvelle mission à Marino Marini (…)». Ancora Delisle nel 1892, ibid., afferma di aver recuperato per la Bibliothèque Nationale documenti vaticani improvvidamente dispersi più di ottant’anni prima; su quanto anche Marini lasciò o distrusse a Parigi, con l’approvazione di Consalvi, ibid., pp. 492-493. 64 DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 493.
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uffici e competenze, insinuandosi e sfruttando, quando possibile, rivalità e gelosie fra personalità e uffici governativi. I risultati furono solo parzialmente soddisfacenti: «Dubito se maggiori ingiustizie si usassero mai ad altro governo, — scrive sconsolato Marini nella seconda parte delle sue Memorie storiche — quante al Pontificio usò la Francia, nel negare la restituzione di que’ documenti. E la mia costanza nel reclamarli, e la mia pertinacia nel convincere di aperta menzogna coloro che ne negavano l’esistenza, non bastarono a vincere la fermezza del Ministero nel ricusarli»65. Ai primi di agosto Marini poté spedire il materiale che era riuscito a riottenere. Le funzioni dell’ecclesiastico romagnolo non riguardarono però soltanto il recupero dei documenti: nei colloqui con personalità ecclesiastiche e civili si occupò anche del nuovo Concordato del 28 luglio 1817, dei cardinali francesi creati nel concistoro dello stesso giorno (e confrontandosi con i diffusi spiriti gallicani), della traduzione francese del Nuovo Testamento di Sacy edita dalla Società Biblica per iniziativa di Friedrich Leo coi torchi della Reale Stamperia di Firmin Didot66. Marini lasciò definitivamente Parigi dopo il 22 settembre67. Di quasi tre mesi successiva è la terza lettera di Angeloni, indirizzata a Consalvi. L’impressione è che, di fronte alle mancate risposte di Marini, Angeloni abbia deciso di rivolgersi all’autorità superiore, anche tornando su punti già sollevati nelle due precedenti lettere a Marini68: Parigi, agli 11 di dicembre 1817 Eminenza Reverendissima Al sig. Rosati69 io stesso ho debitamente consegnati, non meno i due codici greci, segnati co’ numeri 163 e 30270, che sei volumi di scritture moderne romane, l’uno de’ quali fu già più che ammazzato da’ pizzicagnoli appo i quali era dovuto 65
MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXCI. MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCLXXI-CCCXXV. Le Nouveau Testament traduit par [Louis-Isaac Lemaistre de] Sacy (1613-1684), con incisioni e disegni di Moreau il giovane, aveva già visto la luce a Parigi nel 1808; se ne stava però preparando una nuova edizione (che di fatto avrebbe visto la luce solo nel 1838), suscitando l’allarme della Santa Sede. 67 In quella data Marini scrive ancora da Parigi una lettera al barone Étienne-Denis Pasquier, ministro degli affari interni, cfr. MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXCIV-CCXCV. 68 Biblioteca Vaticana, Autografi Ferrajoli, Raccolta Ferrajoli, ff. 480r-480av; cfr. Le Raccolte Ferrajoli e Menozzi degli Autografi Ferrajoli cit., p. 20 (nr. 281). Un bifoglio, di cui sono scritte le quattro facciate. Nel margine superiore del f. 480av, Al per parlarmi di queste lettere // di altra mano: poi a Meniccocci; tra la data e la firma, nota su quattro righe: torna a raccomandare il suo vecchio cugino Gabrielli, e gli è stato risposto assicurandolo, che non sarà dimenticato. 69 Si tratta di Marco Panvini Rosati, per il quale cfr. infra. 70 Sulle vicende del fondo dei manoscritti Vaticani greci fra il Trattato di Tolentino e la Restaurazione, cfr. LILLA, I manoscritti Vaticani greci cit., pp. 87-89. 66
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andare a ripescarli l’ottimo Monsig. Marini, che a me lasciolli. Egli è già alcun tempo ch’io aveva fatto delle sollecitazioni, al sig. Rosati, non tanto per questi codici che appresso di me io gelosamente teneva a serbo, quanto pel codice egregio del testo d’Euclide, che dovea ritrarsi dalla persona privata cui fu quì lasciato; ma egli mi fece rispondere che non eragli pervenuto alcun ordine che a ciò far l’autorizzasse. Ora però che l’Eminenza Vostra gli ha intorno a ciò scritto, io non dubito punto ch’egli non rechi ad effetto questa commessione con l’usata diligenza sua. E perciocché egli non sapeva ben precisamente a chi dovesse far capo per riavere l’Euclide, sì non ho io lasciato di dirgli ciò che faceva luogo intorno a questo. Che non solamente io so tutte queste cose per la parte che vi ebbi nel 1815, ma altresì perché nella ultima dimora che qui fece Monsig. Marini, essendo egli tutto il dì occupato per ricuperare i codici delle bolle e per altro, io stesso mi tolsi71 il carico di portare una lettera di lui al sig. Haze che aveva i sopraddetti due codici greci, e che puntualmente a lui poi gli rendé. E se altro sarà necessario che io faccia perché il sig. Rosati dia tosto compimento all’opera commessagli, io il farò con tutto quel piacere, e quella sollecitudine che io ebbi, e sempremai avrò per le cose della patria nostra. Anche pel codice de’ Troubadours72 io dissi alcuna cosa a Monsig. Marini, da doversi ripetere all’E. V. Se di far ciò avess’egli dimenticato, Ella si compiaccia di farglielo rammentare. Oltre a questo gli faccia eziandio Vostra E. ridurre a memoria che, quando in questa regia biblioteca de’ manuscritti ci si renderono i volumi nostri, alcuni di que’ bibliotecarj (i quali sono veramente ottima gente, poiché ci furon anche da lor renduti più codici de’ quali noi non avevamo alcuna contezza), ci parlarono d’un manuscritto di Plinio che lor pareva che ci si dovesse rendere, e che non potutosi allor rinvenire, si convenne che Monsig. Marini avrebbe fatto per questo delle investigazioni nella Vaticana, e che, laddove quel codice quivi mancasse, sarebbonsi qui fatte più sottili ricerche per ritrovarlo, e renderloci. Si metta dunque all’opera per questo Monsig. Marini, che, se realmente un codice di Plinio costà manca, io per me credo che si potrebber farne novelle inchieste a’ sopraddetti ottimi bibliotecarj. Nelle gazzette inglesi di questi dì passati, io lessi, e con sommo piacer mio, di molti, e begli, e ben debiti encomj di V. E. Non pur vi si diceva ch’Ella regge lo Stato nostro con quella liberalità che a’ tempi presenti si pur conviene, ma (che è molto più) che ciò fa V. E., non ostante le noie e le amarezze che tutto dì le vengono, per la 71 Le due parole, con le quali termina il f. 480r, sono ripetute all’inizio del verso e quindi depennate. 72 Si tratta del celebre canzoniere provenzale segnato Vat. lat. 5232, del secolo XIII, che presenta inoltre le immagini dei trovatori nelle iniziali; appartenne ad Aldo Manuzio e poi a Fulvio Orsini, cfr. P. DE NOLHAC, La bibliothèque de Fulvio Orsini. Contributions à l’histoire des collections d’Italie, et à l’étude de la Renaissance, Paris 1887, pp. 315-317; E. LANGLOIS, Notices des manuscrits français et provençaux de Rome antérieurs au XVIe siècle, in Notices et extraits des manuscrits de la Bibliothèque Nationale et autres bibliothèques, XXXIII: 2, Paris 1889, pp. 275-276; Portraits de troubadours. Initiales du chansonnier provençal A (Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 5232), publiées par J.-L. LEMAITRE et F. VIELLIARD, avec la collaboration de L. DUVAL-ARNOULD et le concours du Centre Trobar, Città del Vaticano 2008 (Studi e testi, 444).
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caparbietà di73 alcune non volgari persone, le quali par che non possano più vivere, se, per volere ricondur le cose a’ vecchi rancidumi, non pervengano a turbar la quiete pubblica. Anche de’ maneggi che contro V. E. si tentano appresso il S. Padre era apertamente parlato nelle gazzette medesime; ma eziandio da questo prendevasi argomento di commendar maggiormente la fermezza, ed il valor suo. In somma il vedere così far plauso da per tutto alle virtù di V. E. fu per me sì cara cosa, che io non ho potuto tenermi di non toccarlene quì un motto alla sfuggita. Io non so se V. E. ignori che quì non si sa più che si faccia messer Ginnasi. Chiamato alle adunanze degli altri arbitri, egli né più va, né altramente dà risposta veruna. Or se per le cose di costà fosse da mettere alcuna cosa a partito, l’arbitro romano non sarà dunque tra i giudicanti? Questa non sarebbe certo, né vantaggiosa, né onorevol cosa pel governo pontificio. Buon per noi che verrà qui in brieve, siccome mi si scrive di costà, Monsig. Zen74, il quale essendo valoroso e sagace uomo, porrà senza fallo il debito riparo a tutto questo. Il Sig. Rosati, ch’è uomo molto rattenuto, come dee egli essere nell’uficio suo, non le scriverà forse nulla sopra il Ginnasi, ma Ella può rendersi pur sicuro che questo ch’io le ne scrivo, è infino a quì cosa di fatto. Mi pervenne già la gentilissima lettera de’ 15 del passato mese di ottobre, per la quale si degnò significarmi che avrebbe Ella favoreggiato la domanda del mio vecchio cugino Gabrielli75. Io le ne rendo dunque le maggiori grazie ch’io posso, e le ne sono e sarò sempre tenutissimo. Terminando questa lettera, io lasciar non debbo di augurare a V. E., siccome io fo con tutto l’animo, non men felicissime le prossime sante feste del Natale, che l’imminente novello anno con moltissimi altri susseguenti. E, per non più fastidirla, io di nuovo reverentemente me le proffero, e raccomando. Di Vostra Eminenza Reverendissima Umilissimo Servitore Obbligatissimo Luigi Angeloni Rue du Rempart. St Honoré, nº 4 73
La parola, con la quale termina il f. 480v, è ripetuta all’inizio del f. 480ar. Carlo Zen (1772-1825), ordinato nel 1803, arcivescovo titolare di Calcedonia (1816), era stato dal 14 agosto 1816 nunzio apostolico in Svizzera e dal 26 novembre 1817 era stato nominato nunzio apostolico presso il re di Francia (ma la nomina non ebbe effetto); fu dal 1819 segretario della Congregazione dei vescovi e regolari; morì a Roma il 29 giugno 1825; cfr. G. DE MARCHI, Le nunziature apostoliche dal 1800 al 1956 (…), Roma 1957 (Sussidi eruditi, 13), pp. 125, 243; R. RITZLER – P. SEFRIN, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi (…), VII, Patavii 1968, p. 147; Ph. BOUTRY, Souverain et pontife. Recherches prosopographiques sur la Curie Romaine à l’âge de la Restauration (1814-1846), Rome 2002 (Collection de l’École Française de Rome, 300), pp. 650-651. 75 Non sembra possibile (soprattutto per la definizione di «vecchio») identificare il personaggio col prete secolare (1775-1837) che, deportato in Corsica durante l’occupazione francese di Roma, fu nominato prima del 15 ottobre 1817 esaminatore del clero romano, divenendo in seguito consultore della Congregazione delle Indulgenze, teologo della Dataria apostolica e censore dell’Accademia teologica e infine curato di S. Tommaso in Parione, BOUTRY, Souverain et pontife cit., p. 698. 74
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La lettera è interessante, non solo perché Angeloni espone all’autorità superiore (Consalvi) tutte le questioni sulle quali non aveva avuto soddisfazione dall’autorità inferiore (Marini), ma anche perché il quadro che l’esule frusinate presenta al Segretario di Stato alla fine del 1817 (cioè a proposito dell’ultima fase delle «ricupere», per certi versi la più delicata perché relativa ai manoscritti sfuggiti alle prime, più facili operazioni) è inequivocabile e per certi versi sorprendente: i bibliotecari francesi — «i quali sono veramente ottima gente» — rendono agli emissari pontifici più codici di quanti questi ultimi attendano; dal canto loro gli inviati della Santa Sede — Ginnasi, che pur si era mosso perché Angeloni avesse un riconoscimento per l’opera svolta — non fanno quanto devono e mancano ai loro più elementari doveri non frequentando le «adunanze degli altri arbitri» per far valere i loro diritti; vi è poi fra di loro una sorta di omertosa complicità di modo che il Rosati non denuncia Ginnasi probabilmente perché a sua volta sa bene di aver qualcosa da farsi rimproverare. Tutte le speranze appaiono dunque riposte nell’arrivo di monsignor Zen, «valoroso e sagace uomo» in grado di recare il «debito riparo a tutto questo». 3. Marini non aveva dunque risposto alla lettera di Angeloni del 10 febbraio 1816 e non sappiamo se rispose a quella del 6 aprile, nella quale il patriota frusinate lo richiamava con garbo sul punto. Nel corso dei quasi due anni intercorsi fra la prima lettera di Angeloni a Marini e quella a Consalvi, il rapporto è evidentemente cambiato. Dall’iniziale (almeno apparente) cordialità, che forse risentiva dell’opera comune svolta a Parigi nel 1815, si passa (sempre da parte di Angeloni) a una maggiore diffidenza che sfocia nel rivolgersi a Marini attraverso Consalvi: «[…] io dissi alcuna cosa a Monsig. Marini, da doversi ripetere all’E. V. Se di far ciò avess’egli dimenticato, Ella si compiaccia di farglielo rammentare». Non è infondato pensare che da parte dell’ecclesiastico Marini vi fosse un certo sospetto, una mal celata prevenzione nei confronti dell’esule frusinate, che era stato coinvolto nei fatti della prima Repubblica Romana e che certo agli occhi di molti non era, soprattutto nel mutato clima della Restaurazione, persona del tutto raccomandabile. Da rilevare è poi quanto Angeloni scrive nel quartultimo capoverso, con valutazioni esplicitamente politiche, a proposito della «liberalità» del Consalvi, «che a’ tempi presenti si pur conviene», e delle resistenze e dei «maneggi» contro l’opera di Consalvi da parte di persone «non volgari», «le quali par che non possano più vivere, se, per volere ricondur le cose a’ vecchi rancidumi, non pervengano a turbar la quiete pubblica»76. Ma tornando alla questione principale Angeloni denun76
R. REGOLI, Ercole Consalvi. Le scelte per la Chiesa, Roma 2006 (Miscellanea Historiae
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cia l’inerzia di Ginnasi e la sua latitanza nelle adunanze degli arbitri, con grave pregiudizio «pel governo pontificio». La situazione è insomma scabrosamente paradossale. Un esule, che aveva lasciato lo Stato Pontificio dopo le vicende della prima Repubblica Romana e che era stato fieramente avverso alla deriva dispotica del bonapartismo almeno quanto era contrario al ritorno degli antichi monarchi, denuncia al Segretario di Stato di Pio VII l’infedeltà, la passività, lo scarso rendimento degli officiali pontifici; un nemico delle religioni rivelate che denuncia l’operato di un ecclesiastico e dei suoi colleghi nell’opera di recupero delle opere d’arte, dei manoscritti e delle monete vaticani. È quanto appunto Angeloni fece, in punta di penna, con movenze sicuramente più morbide di quanto non siano quelle della lettera a Consalvi dell’11 dicembre 1817, senza mai eccedere nei toni e nei contenuti, nel secondo volume della sua opera Dell’Italia, uscente il settembre del 1818. Conviene dunque affrontare il testo di Angeloni nella sua ultima parte, nel Ragionamento IV: De’ capolavori di scultura e di pittura, e delle altre cose dalla Francia rendute all’Italia77. Dopo aver esaminato l’ordinamento dei governi italiani («ragionamento» I) e il «viver civile» al quale erano allora sottomessi gli Italiani («ragionamento» II), dopo aver concluso, nel «ragionamento» III, la disamina sullo stato presente dell’Italia, nel «ragionamento» IV affronta con attenzione di storico e passione di testimone la vicenda delle spoliazioni delle opere d’arte da parte dei Francesi e della loro restituzione78. E naturalmente giunge al «caso romano», il più clamoroso e il più doloroso: Richieditore di ciò che si tolse a Roma, fu dunque, siccome esser dovea, il Santo Padre, Pio VII, cui fu in questo coadiutator diligentissimo il venerato sig. Cardinal Consalvi, segretario di stato. E pontificj commessarj a Parigi furono, cioè per le statue, pe’ quadri, ed altro il nostro sommo statuario sig. marchese Canova (il quale avea a coadiutore il sig. Abate suo fratello); e pe’ romani archivj, e codici manuscritti, e libri stampati, e medaglie, ed altro l’ottimo Monsignor Marino Marini, prefetto Pontificiae, 67), pp. 337-424 (sul Consalvi al tempo del Congresso di Vienna; in particolare, pp. 362-372, per i rapporti fra Santa Sede e Corte di Francia). Sulle «aperture» di Consalvi, cfr. Memorie del cardinale Ercole Consalvi, a cura di M. NASALLI ROCCA DI CORNELIANO, Roma 1950, pp. 147-148; G. MARTINA, La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo, del totalitarismo, III: L’età del liberalismo, Brescia 19866, pp. 104, 150 nt. 4. 77 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 182-292. Un’analisi del «ragionamento» IV (e dell’ampia nota di Alla valente ed animosa gioventù d’Italia) in SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., pp. 260-266. 78 Sulle requisizioni di opere d’arte, manoscritti e stampati, cfr. ora F. RIZZOLI, Geografia e cronologia delle requisizioni d’opere d’arte in Italia dal 1796 al 1799; F. NANNI, Requisizione di dipinti; P. ERRANI, Requisizione di libri, rispettivamente in L’arte contesa cit., pp. 43-46, 124, 144.
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degli archivj vaticani, e nipote del defunto Monsignor Gaetano Marini, autore di molte belle opere, tra le quali quella che ha per titolo: Gli atti, e i monumenti de’ Fratelli Arvali79.
L’intervento dell’«italico Fidia, che intermette i placidi lavori delle sue immortali opere, che lascia le pacifiche tiberine rive, e corre a sollecitare in lontana romorosa terra la restituzione delle pregiatissime cose crudelmente tolte alla vera patria delle più esimie arti»80, fu decisamente utile per il raggiungimento dell’obiettivo, anche in ragione del grande prestigio che internazionalmente circondava lo scultore di Possagno. Ottenuta dunque la restituzione delle opere d’arte, Canova si adoperò per il loro effettivo recupero, incalzato e in qualche modo condizionato dall’attenzione e dalle attese di molti: […] e certamente non lasciò egli in Parigi né il Laocoonte, né l’Apollo, né il Mercurio di marmo pario81, né la tavola maravigliosa della Trasfigurazione82, né l’altra forse più perfetta della Vergine detta di Fuligno83, né quella sì esprimente,
79 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 245-246. L’opera di Gaetano Marini alla quale Angeloni fa riferimento è: Gli atti e monumenti de’ fratelli Arvali scolpiti già in tavole di marmo ed ora raccolti, decifrati e commentati all’Eminentissimo e Reverendissimo Signore, il Signor Cardinale Luigi Valenti Gonzaga, vescovo di Albano, I-II, in Roma, presso Antonio Fulgoni, 1795. 80 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, p. 246. 81 I tre capolavori della scultura antica (il Laocoonte, l’Apollo di Belvedere, il Mercurio), trasferiti a Parigi sulla base del Trattato di Tolentino, sono ora conservati nei Musei Vaticani. Durissime parole sul Trattato («infame accordo», «iniquo patto») in ANGELONI, Dell’Italia cit., I, pp. 225-231; non dissimili le valutazioni di Consalvi: «ladroneggio di Tolentino», «pace infaustissima di Tolentino», «gran sacrificio di Tolentino», cfr. Memorie del cardinale Ercole Consalvi cit., pp. 31, 33, 34. Sulle vicende del Laocoonte cfr. ora F. RIZZOLI, Il ritorno delle opere d’arte. Roma. Il caso del Laocoonte, in L’arte contesa cit., p. 166. 82 La Trasfigurazione, dipinto a olio su tavola, eseguita da Raffaello fra il 1518 e il 1520, fu l’ultima opera realizzata dall’artista e venne collocata nella chiesa romana di S. Pietro in Montorio; solo dopo il ritorno da Parigi, venne conservata nella Pinacoteca Vaticana. 83 La Madonna di Foligno, dipinto a olio su tela realizzato da Raffaello tra il 1511 e il 1512 su commissione di Sigismondo de’ Conti, fu inizialmente collocata sull’altare maggiore della chiesa romana di S. Maria in Aracoeli e passò nel 1565 nella chiesa di S. Anna presso il monastero delle Contesse a Foligno; solo dopo il ritorno da Parigi, fu conservata nella Pinacoteca Vaticana. Il Laocoonte, l’Apollo di Belvedere, la Trasfigurazione e la Madonna di Foligno di Raffaello fecero parte del primo convoglio di opere recuperate, partito da Parigi il 25 ottobre 1815 e giunto a Roma il 4 gennaio 1816, cfr. C. PIETRANGELI, I Musei Vaticani. Cinque secoli di storia, Roma 1985, p. 129. Su quanto accaduto nei Musei pontifici dopo la depredazione del 1797, cfr. P. LIVERANI, L’evoluzione della collezione vaticana di antichità tra il trattato di Tolentino e il congresso di Vienna, in Ideologie e patrimonio storico-culturale nell’età rivoluzionaria e napoleonica. A proposito del trattato di Tolentino. Atti del convegno, Tolentino, 18-21 settembre 1997, Roma 2000 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 55), pp. 339354.
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e sì toccante della Comunion di San Girolamo84, né altri simiglianti inimitabili capolavori; perciocché lo scompagnare così fatte cose, senza esser grandissimo profitto al museo parigino, stato sarebbe grandissimo detrimento all’universale, ed impareggiabile scuola patente in Roma a tutte le nazioni della terra. E io dirò anche più innanzi. Il sig. Canova non avrebbe né altresì potuto lasciar volontariamente alcune di quelle primarie cose (siccome pareva che si volesse in Parigi), senza che a lui ne venisse grandissimo biasimo85.
A Roma, infatti, quale «la centrale, e migliore scuola delle arti», erano confluiti i più insigni artisti europei (primo fra tutti Bertel Thorwaldsen); e a Roma erano stati inviati anche gli artisti francesi «(quantunque in Parigi avesser essi rammontati pressoché tutti i più belli capolavori di scultura, e di pittura che sieno in Europa)»86, perché solo nell’Urbe «potevan questi aggiugnere alla perfezione»87: […] quivi l’apparenza de’ luoghi, la quiete, la meditazione da romorose cure non distratta, la naturalezza del vivere, e l’indole, e altresì le sembianze degli abitatori [dicevano que’ preclari artefici] porgere agli uomini un placido, e puro godimento delle cose alle arti pertinenti; e quivi in somma la natura gareggiar con l’arte pel vicendevole lor perfezionamento88.
Chiarito questo concetto, già sottolineato dal Winckelmann nel terzo capitolo del primo libro della sua Storia delle arti del disegno, e fondamentale per motivare l’intollerabilità di qualunque estrazione di opere d’arte dal teatro romano, Angeloni nota che, ciononostante, Canova fece molti doni alla Francia89, invero non pressato «da coloro appo i quali in Parigi era di que’ tempi la somma potestà»90, perché erano essi stessi a riconoscere che tutto il maltolto, sottratto «contro agli usi inviolabilmente servati di lunghissimi tempi davanti tra le incivilite nazioni europee»91, andava restituito a Roma, dando al mondo un bell’esempio di moralità. Ma il dolcissimo ed amenissimo artefice nostro, senza mai commuoversi a queste calde sollecitazioni, e senza mai mostrare alcun risentimento verso i toglitori 84 La Comunione di s. Girolamo, dipinto a olio su tela eseguito fra il 1611 e il 1614 dal Domenichino ispirandosi a un quadro di identico soggetto realizzato dieci anni prima dal suo maestro Agostino Carracci, è ora conservata nella Pinacoteca Vaticana. 85 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, p. 247. 86 Ibid., II, p. 248. 87 Ibid., II, p. 248. 88 Ibid., II, p. 248. 89 Cfr. ibid., II, pp. 249-250. Sulle opere lasciate dal Canova in Francia, SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., p. 257. 90 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, p. 250. 91 Ibid., II, p. 250.
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delle romane cose, e sempre nelle spalle ristrignendosi, e sempre facendo bocca da ridere, con quella sua natia italica piacevolezza, e modestia sempremai rispondeva, lui voler senza fallo far ricondurre a Roma tutto ciò che aveva ella necessario e per meglio rabbellir se stessa, e meglio favoreggiare ogni gente negli amenissimi studj delle arti più pregiate; ma che nondimeno di tutte quelle cose ch’ella aveva altre del tutto pari, o simiglianti, egli non intendeva in alcuna maniera di privar Parigi, posciaché quelle già v’erano; questa essendo altresì la volontà del Santo Padre per sua deferenza verso il legislatore, e dotto re di Francia, Luigi XVIII. E così come il Canova disse, così recò l’opera ad effetto, secondoché dinanzi fu per me mostrato. Or se fu discortesia il parlar contro lui come si fece a que’ tempi in Parigi, ognuno il può, per le predette cose, troppo ben giudicare92.
«[…] e sempre nelle spalle ristrignendosi, e sempre facendo bocca da ridere, con quella sua natia italica piacevolezza […]». Come si vede, Angeloni è sottilmente perfido e con parole dolci e garbate lancia accuse gravissime, del tutto coerenti col tenore della lettera a Consalvi dell’11 dicembre 1817; in questa oggetto del discorso erano i manoscritti, mentre in Dell’Italia il discorso si allarga anche alle opere d’arte, ma la situazione è la stessa: gli inviati pontifici sembrano meno interessati degli stessi Francesi alla restituzione degli oggetti requisiti. Appare evidente che l’esule frusinate non condivide le concessioni di Canova, anche mosse dall’intento della Santa Sede di rendere più diplomaticamente facili i rapporti con la restaurata monarchia francese. Questa accondiscendenza pontificia appare evidente nella vicenda dell’Ascensione del Perugino93, ove le pressioni delle comunità locali si innestano sulle disponibilità della «grande politica», con esiti disastrosi per il recupero del maltolto: Ed è da soggiugnere a tutto questo che, cedendo tutte le sopraddette cose il sig. Canova in nome di Pio VII, aveva pattovito che si renderebbe a Roma la tavola più pregiata del Perugino, rappresentante l’ascension di Cristo, la quale era in Lione; ma i Lionesi fatti di ciò scorti, e tosto supplicato il Santo Padre che lor volesse concederla, Sua Santità generosamente lor fu cortese di sì pregiata cosa, la qual sarà sempre uno de più begli ornamenti di quella città94.
La vicenda della tavola dell’Ascensione del Perugino, trattata nel «ragionamento» IV, è esemplare del corso degli eventi ed è interessante confrontare quanto Angeloni pubblicava sul punto specifico nel 1818 con quanto 92
Ibid., II, pp. 250-251. Pannello centrale di un polittico rimosso nel 1797 dalla chiesa di S. Pietro di Perugia, trasferito a Parigi e in seguito inviato a Lione, dove ancora attualmente si trova, nel Musée des Beaux-Arts. «Si tratta di uno dei tanti dipinti inviati nei musei di città di provincia anziché essere stati incorporati nel Musée Napoléon», CANOVA, Epistolario cit., I, p. 188 nt. 1. 94 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 251-252. 93
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emerge dalla corrispondenza fra lui e Canova nel 1816. Sulla vicenda Angeloni si era, infatti, espresso in termini assolutamente chiari e coerenti con la sua successiva presa di posizione in una lettera ad Antonio Canova, scritta da Parigi il 6 aprile 1816: Mi fu detto qui ier l’altro che al Santi95, ito a bella posta a Lione, non erasi voluto dare il quadro del Perugino, che pure render si dovea, secondo i patti. E mi si disse anche che i rettori di quella città aveano intorno a ciò scritto al signor Cardinal segretario di Stato. Or ecco le usate arti di questi paesi: quando non si può più chiedere dalle persone principali, si fanno uscir fuori i subalterni. Io non so che risponderà Sua Eminenza; ma, quanto è a me, io crederei che non si dovesse condiscendere alla dimanda di lasciar qui quel quadro, che è veramente un capolavoro. Questi signori hanno avuto tanto, che il nostro signor Quatremère, che non è certamente come son tanti altri suoi compatrioti, diceva a’ dì passati che la generosità del Governo pontificio e quella delle persone che qui vennero per le cose romane, dovrà esser sempre commendata in Francia96. Altro io non aggiugnerò a tutto questo, se non che, se costà si credesse che io qua far dovessi con la debita decenza i debiti richiami intorno a ciò, io sarò sempre presto al servigio del Santo Padre97.
Il 9 maggio 1816 Canova aveva risposto ad Angeloni, dandogli sostanzialmente ragione su tutta la linea ma scaricando su altri la responsabilità dell’accaduto e chiedendo ancora aiuto per «governare» «in miglior modo» la vicenda, peraltro ormai compromessa, della tavola del Perugino: Il suo presentimento fu avverato. La politica di codesto Governo, e la pusillanime trascuratezza dell’architetto De Sanctis98 ci privò del quadro del Perugino, 95 Su Dionisio Santi, architetto di origine senese attivo a Roma nel 1809 per il card. Joseph Fesch, che nell’ottobre 1815 in qualità di commissario del principe Carlo Albani era stato autorizzato dal Metternich a trasferire le antichità della collezione Albani al Louvre, CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 153 e nt. 2, 154, 166-167, 188, 301, 383-385, 416-418, 448; II, pp. 1212-1213. 96 Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy (1755-1849), il celebre autore del Dictionnaire d’architecture (il cui primo volume uscì nel 1788, dopo lunghi soggiorni in Italia), aveva pubblicato nel 1796 le Lettres sur les préjudices qu’occasionnerait aux arts et à la science le déplacement des monuments de l’art de l’Italie, che sarebbero apparse nel tempo una clamorosa e argomentata condanna della logica poi prevalsa col Trattato di Tolentino. Angeloni definì le Lettres «bellissime», Dell’Italia cit., II, p. 203; ed ebbe per il Quatremère parole di aperto elogio: «dotto e sagace» (ibid., II, p. 203), «valoroso» (ibid., II, p. 206), «onorato» (ibid., II, p. 208), «probo, onesto, e lealissimo uomo» (ibid., II, p. 212), «franco, gentile, e leale uomo» (ibid., II, p. 259), «quel valentuomo» (ibid., II, p. 287); cfr., anche ibid., I, p. 252; II, pp. 203-212. Al momento della pubblicazione dell’opera di Angeloni, Quatrèmere — dal 1785 in corrispondenza col Canova al quale dedicò un volume nel 1834 — era segretario perpetuo dell’Académie des beaux-arts. Sul personaggio e sulle Lettres cfr. ora R. BALZANI, Antoine Chrysostôme Quatremère de Quincy, in L’arte contesa cit., p. 176. 97 CANOVA, Epistolario cit., I, p. 188. 98 L’«architetto De Sanctis», non identificato in nota da Honour e Mariuz, va identifica-
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che fu lasciato a Lione, dopo le replicate istanze fattene al Papa dai Lionesi. Ma il peggio si è che il commissario signor De Sanctis, a cui erane affidata la ricupera, ci vuole addebitare del conto e delle spese del viaggio, ritorno, e incasso del quadro. Veda stravaganza meravigliosa ch’è questa! Egli non si ricorda che Alessandro D’Este99 lo incaricò di partire subito verso la metà di novembre al compimento della sua missione, ed invece prolungò la partenza al mese di marzo: ritardo che portò la rovina della operazione. […] Pare quindi che la cosa meriti di essere governata in miglior modo; e di ciò mi raccomando alla di Lei benevolenza; giacché per l’ultima Sua Ella si offerisce pronto a favorirmi in qualunque occasione si abbisognasse della di Lei opera, e consiglio. […] Io non entrerò in ulteriori dettagli su tal articolo; mi basta d’averglieli toccati brevemente, per assicurarmi ch’Ella ne caverà materia chiara e sufficiente onde governare questa faccenda, e condurla al suo fine con quella discrezione e prudenza, e interesse, che suole esser [a Lei] propria di Lei. Io non Le domando scusa della briga, che Le arreco, perché conosco a prova il gentile animo Suo […]100.
Il 29 agosto 1816, quindi con un certo ritardo, Angeloni rispose da Parigi alla lettera di Canova, esordendo con una spiegazione dei gravi motivi che gli avevano impedito una più sollecita risposta. Essi sono persuasivamente indicativi della precarietà della situazione di Angeloni a Parigi in quegli anni: Di Parigi, a’ 29 di agosto 1816 Chiarissimo signor Marchese, ella è troppo gentile e troppo cortese verso di me da dovere io credere che m’abbia ella incolpato di negligenza, perché infino a qui io soprastetti a rispondere alla sua de’ 9 del passato maggio. Or ella dee sapere, se tuttavia già nol sa, che alcuni dì dopo che m’era pervenuta quella sua, io fui qui arrestato e tenuto poi così per due mesi e più. Cagione furon di questo alcune lettere politiche di cui mi dié carico il signor Hamilton, le quali non piacquero punto al Governo francese. Io non istarò per ora a dirlene altro, ma ben la certificherò che non ebbi io punto a lodarmi in
to, senza dubbio alcuno, ancora con Dionisio Santi (cfr. supra), come si deduce dalla risposta di Angeloni a Canova del 29 agosto 1816, cfr. infra. 99 Alessandro D’Este (1783-1826), figlio di Antonio, al seguito del padre cominciò a frequentare giovanissimo l’atelier di Canova, che fu in seguito il suo protettore e più importante committente; accompagnò Canova a Parigi nel 1815 e alla sua partenza per Londra rimase nella capitale francese «a fare le sue veci — come si espresse il padre Antonio nelle Memorie di Antonio Canova — e a condurre a fine quella faccenda secondo le istruzioni dategli»; raggiunto poi Canova a Londra, ottenne un contributo finanziario dal governo britannico per il trasporto in Italia dei beni recuperati, sovraintendendo al loro imballaggio, P. MARIUZ, D’Este, Alessandro, in Dizionario biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 424-425. 100 CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 242-243; cfr. SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., p. 270.
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questo del signor Hamilton. Ciò a lei parrà senza fallo molto strano, ma l’opera sta pur così come io le dico101. Venendo ora a quella sua lettera, io le dirò da prima che avevo io già, quando fui arrestato, messo mano ad esseguire quello ch’ella voleva ch’io facessi, per rispetto alle spese fatte per ricuperare il quadro del Perugino ch’è in Lione, e di cui il Santo Padre fece poi dono a quella città; ma nulla io potei poscia mandare ad effetto nello stato in cui era. Tornato io però in libertà, come io era, mi son messo tosto ad investigare come stesse ora questa faccenda e per una lettera del signor D’Este che mostrommi questo signor Larcher102, io ho veduto che de’ secento franchi che per quelle spese ebbe l’architetto Santi non era il Larcher stato ancor rimborsato, poiché il signor D’Este gli dice di trar sopra lui lettera di cambio di essa somma. Io ho dunque pregato il Larcher che volesse soprastare a far questo insino a tanto che avessi io risposto alla lettera che volevo io scrivere al podestà di Lione, ed egli mi ha promesso di farlo. Or io ho tosto scritto a quel podestà e qui allegata le mando copia della mia lettera103, acciocché Ella sappia ciò che gli scrivo, e collimar possa ella meco, laddove da Lione le si scrivesse intorno a questo. Io le comunicherò poscia ciò che di colà mi sarà risposto e vedremo se a una domanda così giusta come è quella che si fa, troveransi appicchi per non consentirvi. Il Santi mi dice di avere già a lei scritto e certificatola che oltre ai secento franchi che intascò egli bellamente, non presume punto di aver altra cosa. E quanto all’avere egli indugiato ad andare a Lione, il che cagion fu della perdita di quell’insigne quadro, egli mette innanzi cento bugiarde scuse; ma fatto sta che per certa cosa ch’egli avesse l’intesa in tutto questo perciocché qui si afferma che dagli amministratori di questo Museo egli avesse avuto un boccon di dinari e che perciò col sussidio di lui ci si sottrasse anche qui il quadro del Caracci104, ed altre cose. Oltre di che aveva il Santi a que’ tempi altre più utili faccende alle mani, e tra le altre 101 Il 1° ottobre 1816 Canova rispose esprimendo la sua gioia per la notizia della liberazione di Angeloni, naturalmente non raccogliendo la denuncia di Angeloni a proposito del comportamento di Hamilton e limitandosi ad affermare che la notizia dell’arresto lo aveva afflitto «moltissimo, e più ancora per le cagioni, ch’Ella me ne accenna», CANOVA, Epistolario cit., I, p. 448. L’arresto era conseguenza del nuovo corso inaugurato dalle risoluzioni del Congresso di Vienna, che aveva avuto un pesante impatto anche sulla comunità dei fuoriusciti italiani a Parigi, DE FELICE, Angeloni, Luigi cit., p. 244. 102 Becquemis Larcher, spedizioniere, incaricato di numerosi trasporti di oggetti, compare di frequente nell’epistolario canoviano, cfr. CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 167-168, 242, 417-418, 448. 103 Il testo della lettera di Angeloni al podestà di Lione, monsieur Gadinot, Paris, 28 agosto 1816, è pubblicato in CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 384-385. In essa Angeloni faceva notare che la pala dell’Ascensione rappresentava per il Perugino quello che la Trasfigurazione era per Raffaello; proseguiva sottolineando che le spese dei 600 franchi sostenute dal Santi per il viaggio e per il soggiorno a Lione dovevano essere rimborsate dalla città francese, «qui vient de faire une acquisition si précieuse». 104 Tre dipinti di Annibale e uno di Ludovico Carracci erano stati trasferiti in Francia e furono compresi fra le opere per le quali si concesse l’autorizzazione alla non restituzione; essi si trovano ora al Louvre, CANOVA, Epistolario cit., I, p. 383 nt. 1.
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quella della vendita delle statue della casa Albani105, per le quali col Zeloni106 e con un altro sen ordirono sì bella tresca, e seppero sì bene operare, che qui eziandio si afferma che partissero essi per terzo da quaranta mila franchi. Oh vacci scalzo! Non maraviglia poi che messer Santi col Zeloni, i quali non volevan punto aver dappresso oculati investigatori delle belle opre loro, procacciasser con false lettere che facevano anche venire dall’ambasceria austriaca di svillaneggiare il povero Fiordeponti…107.
Fra sfacciati interessi privati in atti d’ufficio, clamorose infedeltà agli obiettivi prescritti, autentici tradimenti a favore della controparte, negligenze e stupidità dei commissari pontifici si trascinò così e giunse al suo innaturale termine la vicenda della pala del Perugino108. Ma torniamo ora a Dell’Italia, uscente il settembre del 1818. Dopo aver trattato di statue e quadri (provocando una garbata ma ferma reazione di Canova)109, Angeloni passa quindi all’esame de «le altre cose»110 delle quali la cura principale era affidata a Marino Marini. E anche a suo riguardo Angeloni esordisce con una dichiarazione positivamente esplicita: Io dico dunque innanzi innanzi che egli, e senza il sussidio d’alcuna altra persona, adoperò quanto il più per lui si poté, che fosser compiutamente riportati a 105 La ricchissima collezione di sculture antiche che Carlo Albani (1749-1817) aveva ereditato dallo zio cardinale Alessandro (1692-1779) era stata per una cospicua parte sequestrata dai Francesi e trasferita a Parigi; nel 1815, il principe Albani, sostenuto dal Metternich, chiese la restituzione delle opere ma, per far fronte alle sue difficoltà finanziarie, cominciò — con l’aiuto di Santi (cfr. supra) — a venderne una parte, alcune al Louvre, altre (il numero più cospicuo) al principe ereditario Ludwig di Baviera, cfr. CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 152 nt. 1, 166, 211. 106 Personaggio non meglio identificato. 107 Il testo completo della lettera è in CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 382-384. Il reatino Benedetto Fiordeponti, che aiutò i commissari pontifici nel recupero delle opere di scultura e pittura e sarà ricordato da Angeloni anche in Dell’Italia, cfr. infra. 108 Il 6 settembre 1816 Angeloni scrisse nuovamente a Canova sulla vicenda della pala del Perugino: comunicava il testo della lettera che il sindaco di Lione, Jean-Joseph de Méallet, conte de Fargues, gli aveva inviato in risposta alla sua del 28 agosto (accettando quanto proposto); presentava nuove pretese del Santi (che ora desiderava avere un suo onorario) e trasmetteva il testo di una nuova lettera al sindaco di Lione; concludeva con una severa critica dell’operato di Ennio Quirino Visconti, CANOVA, Epistolario cit., I, pp. 416-418; Canova gli rispose il 1° ottobre 1816 convenendo con Angeloni che il Santi, «quel galantuomo», aveva «giovato gl’interessi suoi splendidamente in quella circostanza» e ringraziandolo per quanto aveva ottenuto dal sindaco di Lione: «sicché mi parrebbe ora affare finito, senza più parole dall’una parte, né dall’altra», ibid., p. 448; cfr. SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., p. 271. 109 La reazione di Canova è espressa in una sua lettera ad Angeloni del 31 dicembre 1818; più virulenta e turbata essa appare negli echi che compaiono in una lettera di Pietro Giordani a Vincenzo Monti dell’ottobre 1818, cfr. CAMPANI, Sull’opera cit., p. 196; SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., pp. 258-259. 110 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, p. 252.
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Roma gli archivj stati già trasportati in Francia, per saziare l’oltraggiosa, ed inenarrabile avidezza del Buonaparte, e de’ consiglieri suoi; i quali pareva, non dovere esser mai satolli del voler tutto da tutta Europa ammontare in Parigi, se non quando, mortalmente invelenito l’odio delle nazioni, fosser quelle pressoché violentate ad insieme congiurarsi di venire a ritorre le già tolte cose111. Più volte venne per questo di Roma a Parigi il diligente Monsig. Marini, e non dubito io punto che sempre grata verso lui sarà la corte pontificia della sollecitudine, della fedeltà, ed altresì della parsimonia da lui usata per recar l’opera ad effetto. Senzaché in ispezialità conoscente la stessa corte esser gli dee dello averle egli preservati dalla dispersione più centinaia di codici, contenenti le autentiche copie delle bolle romane, i quali da incauta italica persona erano stati imprudentissimamente venduti a’ pizzicagnoli parigini, a peso e prezzo di cartaccia112. In somma recarsi a molta gloria sempre dovrà l’onestissimo Monsig. Marini l’avere egli, con istudiosa sollecitudine, saputo racquistare e far ricondurre alla nostra romana patria, pressoché tutte le preziose scritture degli archivj che eranle stati rapiti113.
Vi furono — riconosce Angeloni — alcune perdite di documenti dell’Archivio, peraltro segnalate dallo stesso Marini; ma esse non furono, almeno quantitativamente, così gravi e, soprattutto, offrono il destro all’Angeloni per una scontata rivendicazione della «temperata natura» degli Italiani, al confronto con gli altri popoli europei, e, più sorprendentemente, per una difesa della mitezza del governo pontificio: E nel vero altro non mancò di questi archivj (secondoché lo stesso Monsig. Marini a me disse) che alcune cose dell’antico carteggio tra la corte pontificia e la francese, e massime per rispetto a’ Templari; ed oltracciò gli scritti della legazione del defunto cardinal Caprara114, ed il processo del Galilei, stato portato in Parigi con 111 A mostrare «l’oltraggiosa, ed inenarrabile avidezza del Buonaparte» Angeloni cita a questo punto il caso del Vat. lat. 3199, aggiungendovi alcune considerazioni: «Tra i manuscritti della biblioteca vaticana n’era uno (ed è or tuttavia) del poema di Dante scritto diligentissimamente, ed in bellissima manuale scrittura dal Boccaccio, che n’avea fatto presente al Petrarca. Questo egregio testo, preziosissimo per gl’Italiani, esser dovea pressoché disutile pe’ Francesi, che generalmente si danno poca briga di studiare le lingue straniere. E pure anche questa preziosa cosa tor si volle all’Italia. Or non si può negare che gli uomini i quali operarono così fatte crudeltà, non avean per certo in animo d’affezionar gli stranieri alla Francia. E’ pare anzi ch’essi andasser cercando col fuscellino, e mettendo in atto tutto ciò che potesse muoverle contro l’odio universale. E nel vero cosa odiosissima fu questa. Che avrebbon detto i Francesi, se gli stranieri, stati due volte a questi anni passati in Parigi, avesser lor tolto i manuscritti autentici de’ loro migliori scrittori? Puossi affermare (se così vergognosamente da coloro si fosse allora operato) che i Francesi non avrebbon mai rifinito (e per certo con somma ragione) di gridare a testa, e dir loro di questo ogni sorte villania», ANGELONI, Dell’Italia cit., II, p. 253 nt. 43. 112 Il riferimento di Angeloni è all’operato di Ginnasi, cfr. supra. 113 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 252-254. 114 Sui registri della legazione del card. Giovanni Battista Caprara, solo parzialmente recuperati, MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXXXVIII, CCLVII (nr. 14). Il Caprara (1733-
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le altre scritture del sant’ufizio115. Ma eziandio per la recuperazione di tutte queste cose, che diconsi smarrite, o sottratte da private persone, fece il medesimo Marini iterate, e calde istanze al governo francese; né certo per diffetto suo non furon quelle scritte infino a quì recuperate. Al fatto però del processo del Galilei, creder forse si potrebbe che sia sollecita la romana corte a voler riaverlo, per tor via la pruova delle sevizie già verso lui operate, siccome in tanti pubblici scritti asseverantemente affermossi. Or l’opera sta tutto altramenti, poiché Monsig. Marini mi certificò che la corte medesima, non per altra ragione desidera di recuperarlo, se non per potere, per via di quello, mostrar sempre tutti contrarj fatti. Di che troppo ben mi viene in concio il dover quì notare alla sfuggita, gl’Italiani esser generalmente in ogni cosa di più temperata natura che le stranie genti non soglion dire, per dar loro mala voce. E in effetto, avvegnaché sempre si ripeta ne’ paesi d’oltremonti che stien essi tutto ’l dì con in mano uno stilo, per iscannarsi rabbiosamente, e trucidarsi a vicenda; cosa è tuttavia di fatto che, né altresì nelle gare religiose, le quali soglion pur tanto accendere gli animi umani, mai non si discorse in Italia a certe crudeltà, a certi barbari eccessi. Cosi radissime furon quivi ne’ tempi andati le arsioni degli uomini, né mai (tacendo il resto) fu bruttata la nostra terra per istragi pari a quelle che, in alcune contrade europee, e massime ne’ dì che furon elle barbaramente asseguite, destano anche oggidì una funestissima rammemorazione116.
Esaurito l’argomento degli archivi, Angeloni viene a trattare della «ricupera» dei manoscritti, degli stampati e delle medaglie, ambiti diversi nei quali si ebbero esiti molto dispari nelle restituzioni: Fu eziandio lo stesso Monsig. Marino Marini (col sussidio però di altri suoi compatrioti)117 sollecitator diligente della restituzione de’ codici vaticani, e de’ libri 1810) era stato il legato incaricato dell’esecuzione del Concordato con la Francia (15 giugno 1801) e, pur non avendo «il carattere di un lottatore», sino al 1809 (anche se trasferito alla sede di Milano nel 1802) aveva dunque svolto un ruolo delicatissimo, P. PASCHINI, Caprara, Giovanni Battista, in Enciclopedia cattolica, III, Città del Vaticano 1949, coll. 718-719; cfr. Memorie del cardinale Ercole Consalvi cit., pp. 184 e nt. 2, 341 e nt. 1 e passim. 115 Le valutazioni di Angeloni sostanzialmente coincidono con quelle di Marini, indicato da Angeloni come fonte della notizia. 116 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, p. 254 nt. 44. 117 Angeloni ricorda in nota, per le opere di scultura e di pittura, l’impegno del reatino Benedetto Fiordeponti, «onesto, e diligente», «il quale con somma cura, e zelo, ed amor patrio recò ad effetto l’uficio a lui commesso», e quello dell’«ottimo sig. Panvini Rosati, stato commessario pontificio in Parigi», ANGELONI, Dell’Italia cit., II, p. 256 nt. 45. Fra i nomi dei collaboratori di Marini, evidentemente per modestia, tace il suo. Il Fiordeponti («il povero Fiordeponti») era stato ricordato da Angeloni nella lettera a Canova del 19 agosto 1816 come vittima dei maneggi di Dionisio Santi e dello Zeloni, cfr. supra; anche Marini definisce Fiordeponti «già onestissimo impiegato nella stessa Legazione [scil.: di Francia]», ove aveva ricoperto l’incarico per otto anni, MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXCIII (sul ruolo da lui svolto nel tentativo di Marini di recuperare le carte della legazione Caprara, cfr. ibid., pp. CCXCV-CCXCVI); nel 1817 era anche «Secretaire de la Commission générale de la liquidation des Commissaires étrangers» (ibid., p. CCXCV). Marco Panvini Rosati, di Olevano Romano, morto nel 1826 e se-
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di antichissime e rarissime edizioni, e delle medaglie, e di altro. Le quali tutte cose essendo in gran parte servate nella doviziosissima principal libreria parigina, furon da’ conservator di quella anche in gran parte rendute. Ma quantunque fosse certissimamente assai più grande il numero delle rendute, che delle non rendute cose, io per me non saprei dire se così stia veramente l’opera, quanto al pregio delle une a rispetto delle altre. E nel vero, senza parlare di alcun codice, o libro, o altra cosa rara gentilmente ceduta; io, per mostrar che forse non del tutto alieno dal vero è il dubbio mio, toccar voglio di solo un capo sopra tutto questo118.
Angeloni insinua dunque un dubbio: che, cioè, il criterio quantitativo non conti nella valutazione dei recuperi effettuati quanto quello qualitativo, facendo così balenare la possibilità che il poco non restituito valesse molto più del molto recuperato. La conferma più evidente sembra provenire dall’ambito numismatico: Tra le più pregiate cose tolte da’ Francesi al museo vaticano, era una serie pregiatissima di cinquecento medaglioni antichi, raccolti quivi con grande spesa, ed indagine, e diligenza nello spazio di centinaia d’anni119. Or per questo stavano veramente in gran pensiero que’ conservatori, e temevan forte non si volesse ad ogni partito ritorli; il che grandissimo detrimento, e sconcio sarebbe stato alla copiosa, e ben ordinata serie delle medaglie loro. Ed andavano essi perciò ravvolgendosi in cento guise, e menando le cose per la lunga, acciocché si potesse veder modo come schifar questa restituzione. Ma alla per fine, strignendoli le istanze che loro eran fatte, furon costretti ad accontarsi per questo con Monsig. Marini, e col sig. Abate, fratello del sig. Canova (dalla volontà de’ quali la cession dipendeva); e cominciatisi dal far mille querimonie, e sollecitazioni, e prieghi intorno a ciò, essi ne vennero a questa conclusione: che cosa molto discara sarebbe stata al re di Francia che gli fosse guasta la preziosa serie delle sue medaglie. Or, quantunque fosse grandissimo il desiderio di que’ due commessarj romani di addur di nuovo alla loro bella patria quelle sue insigni cose; non pertanto, come ebber eglino udito profferire il nome del re, non bisognò più avanti. Ristrettisi nelle spalle, e non facendo più cuor duro per questa restituzione, non una terza parte, non una metà, ma interi interi essi cederono i cinquecento rarissimi medaglioni. E certissimamente fu questa, niuno il mi potrà negare, una italica generosità da dovere esser sempre rammemorata120. polto nella tomba gentilizia nella chiesa romana di S. Giovanni dei Fiorentini: «(…) essendo giureconsulto, dotto, probo e prudente meritò che Pio VII lo destinasse nel 1816 commissario speciale della santa Sede presso il governo di Francia, acciò coi commissari delle corti d’Europa liquidasse i crediti a carico di quel regno; locchè eseguito egregiamente, il Papa lo nominò a far parte della missione diplomatica unita in Milano per lo stralcio di quel monte tra i sovrani interessati, indi consultore della direzione generale del debito pubblico», G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica (…), XXVIII, in Venezia 1844, p. 213. 118 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 255-257. 119 Sulla mancata restituzione dei medaglioni antichi severe le valutazioni di LE GRELLE, Saggio storico cit., pp. LVII-LVIII. 120 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 257-258.
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Anche in questo caso Angeloni si muove con cautela e si esprime con garbo, ma la sostanza è dura, quasi icasticamente rappresentata in quel gesto di «restringersi nelle spalle», di «fare spallucce», dei due commissari pontifici, proprio lo stesso che poco prima il patriota frusinate aveva segnalato anche in Canova. L’«italica generosità» appare allora essere, trasparentemente, quella che, agli occhi di Angeloni, è, pura dabbenaggine e ignavia, come si conclude valutando il ricevuto contraccambio, decisamente modesto: Egli è vero che si vollero lor dare, per mostrar loro gratitudine di tanto dono, alcune medaglie ch’eran di soperchio alla numerosa serie di quelle di Parigi; ma i medaglisti romani, razzolatele poscia diligentemente, conobber di leggieri, quelle essere proprio una beffe a rispetto della preziosità, e del valore de’ vetusti medaglioni del Vaticano, stati tutti generosamente ceduti. Alla qual cessione asseguire (ogni ragion vuole ch’io anche il dica) molto valsero verso i romani commessarj i cortesi modi e gentili di alcuni di que’ conservatori, ed altri uficiali della parigina libreria, e massime de’ gentilissimi ed onestissimi sigg. Van-praet121, Chezy122, e Hase123; il primo de’ quali è uno de’ più periti conoscitor di pregiati libri che mai furono, e gli altri due son di lingue orientali dottissimi professori. E, per la stessa ragione del dover dare a ciascuno il suo dovuto, io dir debbo similmente che, dopo tanta liberalità de’ romani commessarj, si trovò veramente dura la renitenza di due di 121 Joseph-Basile-Bernard van Praët (1754-1837), di Bruges; figlio di un tipografo, si trasferì a Parigi, consacrandosi a ricerche e pubblicazioni di bibliografia che gli meritarono la chiamata nel 1784 alla Bibliothèque Royale, ove si occupò di manoscritti e stampati e ne divenne una delle figure principali e più rappresentative; fu il protagonista del nuovo assetto delle biblioteche parigine in epoca post-rivoluzionaria, occupandosi anche dei cospicui incrementi per la soppressione di monasteri e conventi; cfr. M-G-N [= Magnin], Praet (JosephBasile-Bernard Van), in Biographie universelle ancienne et moderne. Nouvelle édition, XXXIV, Paris s.d., pp. 283-286; P. BERGMANNS, Praet (Joseph-Basile-Bernard van), in Biographie Nationale (…) de Belgique, XVIII, Bruxelles 1905, coll. 154-163; D. VARRY, Joseph Van Praët, in Histoire des bibliothèques françaises, III: Les bibliothèques de la Révolution et du XIXe siècle, 1789-1914, sous la direction de D. VARRY, Paris 1991, pp. 302-303. Van Praët aveva svolto un ruolo nella stesura delle istruzioni per i commissari francesi in vista della requisizione dei manoscritti vaticani nel 1797, Ch. M. GRAFINGER, Der Transport der vatikanischen Handschriften nach Paris im Jahre 1797. Promemoria zur Auswahl der klassischen Handschriften (La Porte du Theil, Niebuhr, Münter), in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 79 (1999), pp. 421-443; cfr. anche EAD., Le tre asportazioni francesi di manoscritti e incunaboli vaticani (1797-1813), in Ideologie e patrimonio cit., pp. 403-413: 404 e nt. 11. 122 Antoine-Léonard de Chézy (1775-1832), figlio del celebre ingegnere Antoine, ebbe l’incarico di ordinare e analizzare alla Bibliothèque Nationale di Parigi i manoscritti inviati da Bonaparte dall’Egitto; incaricato dal 1807 dell’insegnamento del persiano all’École des langues orientales, ottenne nel 1815 la cattedra di sanscrito al Collège de France; ma le sue speranze di ottenere nel 1824 l’incarico di conservatore al dipartimento dei manoscritti della Bibliothèque Royale furono frustrate; cfr. M. PREVOST, Chézy (Antoine-Léonard), in Dictionnaire de biographie française, VIII, Paris 1959, coll. 1132-1133. 123 Cfr. supra.
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que’ signori della libreria stessa alla restituzione di alcuni rimasugli della cospicua serie di cammei già tolti al museo vaticano. E dico rimasugli, perché non fur più rinvenuti, né quel cesareo rinomatissimo cammeo ch’era di tanto pregio, né altri anche pregiati molto, i quali adornavano il museo stesso124.
Non tutti i Francesi, per la verità, si comportarono così, come mostra il caso dell’abate Haüy, «dottissimo, e rinomatissimo professore nelle più recondite scienze naturali»125, a proposito dei «sacri arredi lauretani» depredati e non restituiti da Napoleone126. «No, non mancan certo alla Francia uomini lealissimi, ed onestissimi, e di questi son per certo due specchiati esempli i sigg. Haüy, e Quatremère de Quincy», la cui superiore imparzialità stride con la ormai comprovata «generosità» dei «romani commessarj»127 e del pontefice stesso a proposito del caso dei cosiddetti «vasi etruschi»128 e delle statue della galleria di casa Borghese129. 124
ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 258-259. 125 Ibid., II, p. 261. René-Just Haüy (1743-1822), fratello di Valentin (che si occupò dell’educazione di ciechi, sordi e muti), fu il fondatore della cristallografia e mineralogia moderne; nel 1808 fu nominato da Napoleone (che all’Elba rilesse il suo Traité de physique) docente dell’École normale supérieure e, nel 1811, alla Facoltà di scienze; cadde in disgrazia nella seconda Restaurazione, quando gli fu tolta la «rosette» della Legion d’onore che gli era stata conferita da Bonaparte, T. DE MOREMBERT, Haüy (René-Just), in Dictionnaire de biographie française, XVII, Paris 1989, coll. 775-776. 126 Cfr. ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 260-262. 127 Ibid., II, p. 262. 128 Ibid., II, p. 262. I «vasi etruschi» sono così descritti nella Recensio manuscriptorum cit., p. 146: «Di prima grandezza numero 6. Di seconda grandezza numero 7. Patera etrusca in terra cotta una. Tutti con figure elegantissime». Sulla vicenda dei «vasi etruschi» Angeloni aveva scritto a Canova da Parigi il 6 settembre 1816, con una durissima critica dell’operato di Ennio Quirino Visconti, il cui nome era invece, almeno esplicitamente, taciuto in Dell’Italia («per artificio d’un nostro stesso Italiano, il qual poi ne menava vanto»): «Or voglio toccarle un motto di un’altra bell’opera di questo egregio signor Visconti. Egli, ogni volta che il destro gliene viene, fa delle grasse risate, perché dice che nel renderci i vasi, così detti, etruschi del Vaticano, non ci mise mica innanzi i veri che sono pregevolissimi, ma altri di molto minor conto; e, così ridendo, egli si vanta d’averci in questo bellamente ingannati. E quest’uomo ebbe pure il suo natale in Roma! Chi è colui che, non conoscendolo, il crederebbe capevole di tanto? Per certo, niuno», CANOVA, Epistolario cit., I, p. 418. Esplicita la critica a Visconti in ANGELONI, Alla valente ed animosa gioventù d’Italia cit., p. 400 nt. Sull’ostilità, costante e motivata, di Angeloni per Visconti («perfido, già defunto antiquario», «iniquo traditor della patria»), cfr. SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., p. 22; ID., L. Angeloni e il Canova cit., p. 264. Sul percorso di Visconti (per certi versi parallelo a quello di Angeloni, dalla comune esperienza nella prima Repubblica Romana alla militanza antibonapartista con Giuseppe Ceracchi, ma con esiti infine diversissimi) e sul suo ruolo a Parigi, cfr. gli accenni in La Raccolta e la Miscellanea Visconti degli Autografi Ferrajoli. Introduzione, inventario e indice a cura di P. VIAN, Città del Vaticano 1996 (Studi e testi, 377; Cataloghi sommari e inventari dei fondi manoscritti, 5), pp. XX-XXIII (con la bibliografia relativa segnalata). 129 ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 263-264, 265-267.
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Così, tutta la vicenda delle restituzioni mancate o solo parziali, parabola del prevalere della prepotenza contro ogni diritto, insegna, secondo Angeloni, qualcosa di prezioso: Ma le proteste, e i richiami contro la forza e la violenza non son da cosa veruna. E gl’Italiani anche quì avranno una novella pruova di quello che, in questi miei RAGIONAMENTI, io cento volte dissi, e ripetei; cioè che, se non si porrann’essi una volta in cuore di volere esser tutti d’unanime sentimento, per tosto dover mandare ad esecuzione una patria colleganza, mai non saranno eglino tanto forti, quanto lor si convenga, per fuggir le prepotenze, e le ingiurie delle genti oltramontane130.
Con questo appello all’unità nazionale per far fronte alle prepotenze oltremontane si conclude nel quarto «ragionamento» la trattazione delle restituzioni mancate o parziali di quanto sottratto dai Francesi alla città di Roma. E questo è, in definitiva, il «succo di tutta la storia» del discorso di Angeloni, che trascende la specifica vicenda della «ricupera» per trasformarsi in un appello morale e politico all’Italia e agli Italiani. In esso il ruolo dei singoli finisce allora per perdere rilevanza se non come specchio di quell’italica mancanza di «patria colleganza» che è all’origine di tanti mali. Non a caso le critiche di Angeloni appaiono garbate, fra il detto e il non detto, soprattutto se confrontate con quanto lui stesso aveva più esplicitamente scritto a Consalvi l’11 dicembre 1817. Ma la sostanza non mutava e le dramatis personae chiamate in causa non poterono fare a meno di reagire. Qualche mese dopo la diffusione dell’opera di Angeloni, Marino Marini, il 24 giugno 1819, scrisse da Roma una minuta per un’argomentata risposta. Eccone il testo131: 130 Ibid., II, pp. 264-265. Un’ennesima prova della debolezza italiana di fronte alle «prepotenze» e alle «ingiurie delle genti ultramontane» è offerta ad Angeloni dal passaggio di manoscritti veneti alla Bodleian Library di Oxford: «Nelle due più rinomate gazzette inglesi (cioè nel Morning Chronicle, e nel Courier, fogl. de’ 25 di marzo di quest’anno [scil.: 1819]), io lessi che un’immensa quantità di manuscritti veneti, comperati da’ curatori della britanna libreria Bodleian, eran pervenuti in Inghilterra. Or io non so che manuscritti sien quelli, ma questo io so troppo bene che, se l’antichissima e veneratissima veneta signoria non fosse stata sovvertita per acconcio de’ forestieri, o mai non si sarebber que’ manuscritti venduti, o, se pur fossero stati, certissimamente n’avrebb’ella stessa fatto l’acquisto», ibid., II, p. 281 nt. 55. Angeloni si riferisce all’acquisto (1817) da parte della Bodleian Library della vasta collezione del gesuita veneziano Matteo Luigi Canonici (1727-1805/1806) per la somma di £ 5.444, «a purchase unprecedented in greatness in the history of the Library», W. D. MACRAY, Annals of the Bodleian Library Oxford with a notice of the earlier library of the University, Oxford 18902, pp. 299-302. 131 La minuta della lettera di Marino Marini è conservata in Biblioteca Vaticana, Arch. Bibl. 52, f. 167r-v. La minuta è preceduta, al f. 166r, da un foglietto, di formato minore (mm 194 u 134), con le seguenti note di tre mani diverse: 1819 / 24 giugno // . //
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di Roma 24 giugno 1819 Carissimo Signor Angeloni, Nel secondo volume dell’ultima opera vostra relativa all’Italia fate così132 onorevole menzione di me,133 che ben date134 a divedere aver parlato piuttosto con parzialità, anzi che resa giustizia alla verità. Tuttavia vi professo somma riconoscenza, non perché il mio amor proprio debba essere lusingato135 dall’aver voi136 cosi scritto, ma perché quelle vostre espressioni, tratti di benevolenza,137 mi assicurano essere138 l’animo vostro139 assai ben disposto verso di me140. Mi141 permetterete, però,142 che senza ledere l’amicizia, e la riconoscenza143 faccia alcune osservazioni su quanto diceste relativamente alla ricupera degli Arch.,144 de’ Codici, e del145 Museo Numismatico del Vaticano, giacché niente è più facile, quanto in materia di fatto prendere equivoci, e quindi sovente146 anche gli uomini più illuminati147 cadono in errori, quando de’ fatti non ebbero esatta notizia. Sembra148 che voi siate persuaso che gran parte de’ documenti degli Archivi Romani, e molti codici della Minuta di lettera o brano (?) perche mancante scritta dal 1° Cust. di quel tempo al Sig. Angeloni con la quale cerca di persuaderlo a non metter campo a rumore intorno alla ricupera dei codici e del Museo Numismatico Vaticano esistenti nella [soprascritto a: fatta dalla] Biblioteca Reale di Parigi. Chi ha vergato la nota più antica non ha individuato l’autore della lettera, di fatto mutila e senza firma; di qui l’errore di attribuirla al primo custode «di quel tempo», carica che inoltre in quel momento era vacante, visto che Francesco Baldi aveva rassegnato le sue dimissioni il 23 agosto 1818 (cfr. infra), mentre Angelo Mai venne nominato solo il 20 ottobre 1819; cfr. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 341. Marini non fu mai custode della Biblioteca Vaticana. L’indicazione fra parentesi uncinate, a matita, è di una mano successiva. 132 Aggiunto nell’interlineo. 133 Segue e con tali espressioni, depennato. 134 ben date: nell’interlineo è soprascritto chiaramente, depennato. 135 il mio amor proprio debba essere lusingato: scritto nell’interlineo sopra mi piaccia che voi abbiate, depennato. 136 dall’aver voi: scritto nell’interlineo sopra di quanto vo (a sua volta scritto nell’interlineo), depennato. 137 quelle vostre espressioni, tratti di benevolenza,: scritto nell’interlineo sopra quelle cose vi sono forse sta voi vi siete tutto intento a come dettate da un animo io come dettate da un cuore ben fatto, quale è il vostro, depennato; prima di quelle è depennato ricevo, soprascritto nell’interlineo; prima di tratti è depennato come; benevolenza è soprascritto su amore vo, depennato; sopra dettate da un cuore è scritto certamente animo, depennato. 138 Scritto nell’interlineo sopra che, depennato. 139 Seguito da e (sul rigo) ed essere (nell’interlineo), entrambi depennati. 140 verso di me: scritto nell’interlineo sopra in mio per me a mio riguardo, depennato. 141 Nell’originale minuscolo perché preceduta da Voi, depennato. 142 Però,: aggiunto nell’interlineo. 143 Seguito da io vi, depennato. 144 degli Arch.: aggiunto nell’interlineo. 145 Aggiunto nell’interlineo. 146 Seguito da una virgola, depennata. 147 Seguito da una virgola, depennata. 148 Preceduto da Voi, depennato.
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Bibl. Vatic., servano149 tuttavia di ornamento alla Biblioteca reale di Parigi. Eppure, amico carissimo, la cosa150 è ben altramente, né voi, che in tutte le cose vostre aveste sempre per fida scorta la face della verità, doler vi dovete che io vol151 mostri152 apertamente tra noi ché diceste153 cose, che erano154 forse come voi le esprimeste, quando di esse voleste dare contezza all’Europa,155 ma che ora156 sono157 al contrario, giacché degli ottocento158 quaranta sette codici, de’ quali era rimasta priva la Vaticana ne’ passati anni, ritornar159 ad essa e nell’1815160, e successivamente se non l’intero numero, cosi però poco diminuito, che quasi non sia da metter campo a romore per la perdita de’ soli tre codici, de’ quali161 si trova162 ora mancante163 la Biblioteca, e per indennizzo164 di cui165 si ebbe un bellissimo codice di pergamena166 in foglio del sec. X167 contenente le opere di Platone. Or se cosi stia168 la cosa169 rilevatelo170 dalle ricevute, che mi furono rilasciate dai passati Custodi della Vaticana Monsignor Francesco Baldi171, e Canonico Angelo Battaglini172, e
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Scritto nell’interlineo, in parte sopra e molte medaglie ad s, depennato. Seguito da non, depennato. 151 Corretto da vi. 152 Preceduto da di-, depennato. 153 Scritto nell’interlineo sopra aver voi preso equivoco [nell’interlineo: abbaglio, depennato], se pure equivoco possa dirsi l’aver detto, depennato. 154 Preceduto da quando le scriveste, depennato. 155 Seguito da intera, depennato. 156 Seguito da virgola, depennata. 157 Seguito da ben, nell’interlineo, depennato. 158 Seguito da cinq, depennato. 159 Preceduto da due parole, depennate, e seguito da -ono e ad essa, depennati. 160 Preceduto da nella prima, depennato. 161 Soprascritto nell’interlineo a o pi che de quali, depennato. 162 Seguito da -no, depennato. 163 Corretto da mancanti e seguito da il nun, depennato. 164 Preceduto da ind e seguito da della quale perdita, depennati. 165 Seguito da fu, depennato. 166 di pergamena: aggiunto nell’interlineo. 167 Soprascritto, nell’interlineo, a in , depennato. 168 Soprascritto a sta, depennato. 169 Seguito da sentite, depennato. 170 Seguito da questo (quanto nell’interlineo), depennati. 171 Francesco Baldi († 1826), primo custode della Biblioteca Vaticana dal 27 maggio 1814 al 23 agosto 1818; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 341. Sul singolare personaggio, N. VIAN, Tra il Marini e il Mai … Francesco Antonio Baldi, in Almanacco dei bibliotecari italiani, [XVII], Roma 1968, pp. 159-166 [ripubblicato in ID., Figure della Vaticana e altri scritti. Uomini, libri e biblioteche, a cura di P. VIAN, Città del Vaticano 2005 (Studi e testi, 424), pp. [21]-[28]]. 172 Angelo Battaglini (1759-1842), secondo custode della Biblioteca Vaticana dal 2 settembre 1800 e primo custode (contemporanemente messo in pensione) il 12 luglio 1818; A. CAMPANA, Battaglini, Angelo, in Dizionario biografico degli italiani, VII, Roma 1965, pp. 222150
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dall’attuale173 Secondo Custode Canonico Giuseppe Baldi174, delle quali vi trascrivo esattamente il contenuto; dicono adunqu’essi, che …
Forse perché incompleto o forse perché intrinsecamente debole, il testo di Marini non appare in definitiva convincente. Di fronte alle argomentazioni di Angeloni, che riguardavano complessivamente l’operato dei commissari romani a proposito dei quadri, delle sculture, dei manoscritti e degli oggetti numismatici, la replica del prelato romano si concentra solo ed esclusivamente sui manoscritti, con una stima numerica poi che ancora non tiene conto di quel dubbio che Angeloni aveva avanzato sulla fallacia di stime puramente quantitative. Il tormento della scrittura rivela forse il disagio di chi era ormai consapevole delle polemiche che avevano accompagnato e seguito la missione dei commissari romani, tanto più che a esso si univa l’umana delusione per riconoscimenti che non vennero. In realtà Marini aveva già spiegato tutto quanto a suo avviso andava spiegato in un accurato memoriale, corroborato da una copiosa documentazione, redatto nel 1816 e ulteriormente integrato intorno al 1824, conservato in Archivio Vaticano e parzialmente pubblicato solo settant’anni dopo, nel 1885, nel primo volume del Regestum Clementis V175. È ora il 224; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 202 nt. 39; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., p. 413 e nt. 70. 173 Seguito da sotto, depennato. 174 Giuseppe Baldi († 1831), secondo custode della Biblioteca Vaticana dall’11 settembre 1818 al 9 agosto 1831; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 341. 175 MARINI, Memorie storiche cit.; il testo è alle pp. CCXXVIII-CCXLIX, i documenti (60) sono alle pp. CCL-CCLXXI; segue, alle pp. CCLXXI-CCCXXV, un’appendice di ricostruzioni e documenti relativi agli eventi del 1817 (ma con pubblicazioni di documenti anche anteriori). Le motivazioni delle integrazioni (redatte dopo il 20 agosto 1823, perché Pio VII è definito di «santa memoria» e, come si preciserà infra, più precisamente intorno al 1824, per la citazione di un volume di Angelo Mai uscito in quell’anno) sono espresse chiaramente all’inizio: «Alla posterità tramando queste Memorie, appendice delle compilate nel 1816, sull’occupazione e restituzione degli Archivi della Santa Sede, giacché le circostanze col torre il potere liberamente rendere pubblici alcuni avvenimenti, impediscono che alla generazione presente se ne diriga la narrazione. Niuna buona fede sullo eseguire i voleri di un Re, che erano richiesti dal diritto; indebite sottrazioni di documenti; incoerenze, ed animosità nel Ministero; ingratitudini nel Sacerdozio; vendite riprovevoli; false dottrine protette; queste sono cose che non possono preterirsi nel racconto, che imprendo di quello che fu operato a Parigi nel 1817 nello adempiere io gli ordini di Pio VII di S.M., e le quali siccome la prudenza vorrebbe coprire quasi con impenetrabile velo, così giustificano la riserva dello scrittore in conservarne alla sola posterità la notizia», ibid., p. CCLXXI. L’appendice fu scritta «ad insinuazione del vigilantissimo primo ministro di Sua Santità il Signor Cardinale Giulio Maria della Somaglia, Decano del Sacro Collegio, e Segretario di Stato, il quale si compiacque ancora di farmi osservare per mezzo dell’erudito, e urbanissimo Signor Abbate Luigi Armellini Minutante nella stessa Segreteria di Stato, che essendo state le Memorie dedicate a Pio VII di s.m., era convenevole che l’Appendice fosse al successore di Lui [scil.: Leone XII] dedicata», ibid., p. CCC. A proposito
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caso di volgersi ad esso perché «audiatur et altera pars» e per dare almeno sommariamente voce, come una sorta di controcanto, alla ricostruzione di Marini. Secondo la sua testimonianza, Marini si mosse subito per il «ricuperamento» dei codici trasportati a Parigi sulla base del Trattato di Tolentino176; scrisse per questo a Consalvi il quale rispose che in realtà la questione era indipendente dal Decreto di restituzione (19 aprile 1814), che doveva quindi essere trattata separatamente e che i reclami dovevano di conseguenza essere sospesi177. In realtà solo dopo i «cento giorni» (20 marzo – 8 luglio 1815), Waterloo (18 giugno 1815), la definitiva sconfitta di Napoleone e la seconda restaurazione, la questione che Marini aveva già presentato a Consalvi tornava naturalmente a riproporsi. E Marini, confessando umanamente la sua paura, presenta subito la strategia adottata, ritenuta non compromissoria ma realistica e soprattutto in linea con i desideri del Papa: Eccomi immerso in un nuovo pelago d’inquietudini: gli Affari della Santa Sede mi stavano a cuore, lo zelo, e la moderazione con cui convenia trattarli, mi faceano temere che l’opera mia non sarebbe stata di gran vantaggio a Roma, e sebbene mi paresse di essere da zelo animato, tuttavia i pericoli ai quali era esposto mi scoraggiavano, e principalmente nel non vedermi di un carattere così moderato e dolce che mi rendesse quasi insensibile ai rifiuti che io era per ricevere in reclamare ciò che per ogni giustizia apparteneva a questa nostra Città. Mi presentai alla Biblioteca Reale per chiedere i Codici trasportati in Francia per l’ingiusto trattato di Tolentino, che mi furono negati, adducendosi per motivo di tal rifiuto l’ordine supremo di non cederli che alla forza: i Conservatori però della suddetta Biblioteca mi accolsero con gentilezza, ed io mi partii senza aver voluto ricorrere alla Forza alleata, che a tutti i Commissarii si offria per metterli in possesso delle cose spettanti ai rispettivi loro Sovrani. Mi persuasi, conoscendo da quai sentimenti era mosso l’animo di Sua Santità, che non le avrei fatto cosa discara, se non mi fossi innoltrato a passi che potessero anche apparentemente offendere Sua Maestà Cristianissima: e veramente non m’ingannai, giacché il Sig. Cardinal Consalvi mi rispose, che io avea fatto benissimo di non ricorrere alla forza pel ricuperamento delle cose nostre, mentre la Santità Sua non avea mai avuta intenzione di obbligar con violenza il Governo di Francia alla restituzione di esse, ma che le avea chieste amichevolmente, ed alle Potenze alleate ricorso come ad intercessori presso il Re. Il motivo per cui il Papa non poteva omettere tali reclami è chiaramente espresso del testo di Marini, cfr. anche DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit.; lo studioso francese considera «un peu prolixe» il racconto del «consciencieux archiviste du Vatican», ibid., p. 497, che pur costituisce una fonte di eccezionale interesse, la cui prima parte era destinata, per informazione e ragguaglio, a Pio VII, ibid., p. 431. 176 GRAFINGER, Le tre asportazioni cit. 177 MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXXXVIII, CCLVII (nr. 15).
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in questa lettera, la quale rimarrà perpetua e sincera testimonianza de’ sentimenti di conciliazione e di pace che animarono il Santo Padre in quella occasione178.
Rinunciando programmaticamente alla forza, facendo appello solo alla generosità e alla giustizia, l’unica speranza è riposta in un favorevole appoggio esterno che è poi quello che a un certo punto rende possibile, quasi insperatamente, il recupero: Mentre io stava perplesso su ciò che doveasi fare per ricuperare codesti Codici, alla restituzione de’ quali il Sig. Principe di Talleyrand179 non sarebbesi mai prestato, siccome quegli, che non volle accettare l’amichevole accordo offertogli da Canova, né a me volle accordare udienza allorché ai 4 di settembre glie la chiesi per parlargli di molte altre cose oltre l’affare degli Archivii, il Sig. Barone di Ottenfels180 Commissario Austriaco reclamò per ordine di Sua Maestà l’Imperatore Francesco I i Codici e le Medaglie Vaticane, e disse di volerle rendere a Canova, e a me quando ci fossimo presentati alla Biblioteca. Io però ne prevenni il Ministro dell’Interno, perché si piegasse a renderci amichevolmente tali cose, e non apparisse mai che il Commissario pontificio avesse invocata la Forza alleata, anziché chiederle ai Ministri di Francia181. Il malcontento de’ Parigini, che vomitavano villanie, ingiurie, imprecazioni contro gli Alleati, mi rendea circospetto a non esporre il Capo della Chiesa ad essere il bersaglio di quelle lingue: la Politica Romana non è estranea alle massime del Vangelo, come a torto credeva in que’ momenti un Ministro di una grande Nazione, e sa temperare il vigore colla dolcezza, anzi il più delle volte della sola dolcezza si gloria; tali tracce calcavano i Commissarii pontifici nell’eseguire le loro incumbenze. La lettera al Ministro dell’Interno fu ai 5 di ottobre alla quale egli fece rispondere dal Segretario Generale M.r Le Barante182 ai 10 dello stesso 178 Ibid., pp. CCXLI-CCXLII. Alle pp. CCLXIV-CCLXV (nr. 38) è pubblicato il testo della lettera di Consalvi a Marini, Paris, 5 ottobre 1815, nella quale è esposta la linea adottata: non ricorso alla forza ma appello alla generosità e alla giustizia per riottenere quanto richiesto anche dal popolo romano (il tono è però di rinuncia, quasi che in quel momento non si ritenesse più possibile ottenere il recupero). 179 Charles-Maurice principe di Talleyrand-Périgord (1754-1838) era allora presidente del Consiglio; cfr. Memorie del cardinale Ercole Consalvi cit., p. 81 nt. 2 e passim. 180 Il diplomatico Franz Freiherr von Ottenfels-Gschwind (1778-1851), cfr. A. BREYCHAVAUTHIER, Ottenfels-Gschwind Franz Frh. von, in Österreichisches Biographisches Lexikon 1815-1950, VII, Wien 1978, p. 269. Fu Ottenfels a occupare militarmente la Bibliothèque Nationale a nome delle potenze alleate il 5 ottobre 1815, DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 496. 181 Il testo della lettera di Marini al Ministro dell’Interno, s.d. [ma Paris, 5 ottobre 1815], è pubblicato in MARINI, Memorie storiche cit., p. CCLXV (nr. 39): in essa Marini annuncia l’intenzione di recarsi alla Bibliothèque Royale per riottenere quanto spetta alla Santa Sede, ma senza ricorrere ad alcuna via coercitiva. 182 Amable-Guillaume-Prosper Brugière, baron de Barante (1782-1866), era allora segretario generale del Ministero degli affari interni; cfr. M. PREVOST, Barante (Amable-GuillaumeProsper Brugière, baron de), in Dictionnaire de biographie française, V, Paris 1951, coll. 177181.
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mese, e m’invitava ad aprire una trattativa su quest’affare col Duca di Richelieu183 Ministro degli affari esteri, come si rileva da queste poche parole: «Vous pouvez Monsieur, ouvrir une negotiation avec Monsieur le Duc de Richelieu, sur l’objet de votre demande». La tardanza del Ministro dell’Interno, M.r de Vaublanc184, in avermi risposto mi fece temere, che la negoziazione col Duca di Richelieu non avrebbe avuto alcun buon successo, laonde allo stesso Duca di Richelieu scrissi, premessa la narrativa del mio operato sino a quel momento, che altra negoziazione io non richiedea che l’esecuzione de’ suoi ordini, relativamente al reintegro di quanto si dovea alla Santa Sede185. Aspettai qualche giorno risposta, e non la veggendo fui astretto di accettare dal Commissario Austriaco i Codici, e le Medaglie Vaticane, giacché se io non dovea compromettere il mio Governo colla Corte di Francia, non potea però rinunziare ai diritti della Santa Sede rivendicati dagli Alleati, anzi della mediazione loro io dovea valermi, secondo gli ordini dell’Eminentissimo Consalvi, e principalmente a Lord Wellington io dovea ricorrere, come al Ministro di quella Nazione la cui protezione mi era espressamente inculcato d’invocare186. Prima di rendermi alla Biblioteca Reale, ne andai da Canova, e dopo di essermi trattenuto a lungo seco lui su la maniera di ricuperare gli oggetti di scienza, io fui di sentimento di far precedere all’accettazione della forza offerta dall’Austria e dalle altre Potenze, una protesta dalla quale apparisse che non si era richiesta da Noi, ma che offertaci, si era accettata, e che gli oggetti suddetti eransi ricevuti come dalle mani degli Alleati187. Tale protesta fu scritta da Luigi Angeloni, uomo assai caro alla Repubblica letteraria, ed autore della memoria che Canova presentò agli Alleati per reclamare gli oggetti di Belle Arti188; ma Canova fu di Avviso che prima di eseguirla 183 Armand-Emmanuel-Sophie-Septimanie Du Plessis, duca di Richelieu (1766-1822), presidente del Consiglio e ministro degli affari esteri; cfr. E. ASSE, Richelieu (Armand-Emmanuel-Sophie-Septimanie du Plessis, duc de), in Nouvelle biographie générale (…), XLI, Paris 1866, coll. 239-243. 184 Vincent-Marie Viénot, conte di Vaublanc (1756-1845), ministro degli affari interni; cfr. E. ASSE, Vaublanc (Vincent-Marie Viénot, comte de), in Nouvelle biographie générale (…), XLV, Paris 1877, coll. 1014-1019. 185 Il testo della lettera di Marini al duca di Richelieu, Paris, 16 ottobre 1815, è pubblicato in MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCLXV-CCLXVI (nr. 40). 186 Ibid., p. CCLXVI (nr. 41), è pubblicato il testo della lettera di Consalvi a Marini, s.d., di trasmissione «in un tomo in foglio legato» dell’elenco dei cinquecento codici asportati dalla Biblioteca Vaticana in forza del Trattato di Tolentino e degli stampati, medaglie e cammei rubati durante la seconda invasione. Per riaverli Marini era autorizzato a chiedere l’aiuto di Lord Wellington. 187 Il testo della dichiarazione, Paris, 6 ottobre 1815, è pubblicato in MARINI, Memorie storiche cit., p. CCLXVI (nr. 42). 188 Nel settembre 1815 Angeloni preparò la nota diplomatica che Canova doveva presentare a Castlereagh per chiedere la restituzione dei beni sottratti, CAMPANI, Sull’opera cit., pp. 189-190; SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., p. 267. Il testo è pubblicato da G. CONTARINI, Canova a Parigi nel 1815. Breve studio storico condotto su documenti e manoscritti originali inediti, Feltre 1891, pp. 30-32; secondo Sperduti, ibid., p. 267 nt. 8, la nota «tradisce lo stile un po’ declamatorio dell’Angeloni». Il testo della dichiarazione, del 6 ottobre 1815, redatta da Angeloni, a nome di Canova e Marini, in DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., pp. 497-498.
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si dovesse sottoporre al sentimento del Ministro d’Inghilterra, e siccome Hamilton Segretario generale di quella Legazione la credé soverchia, così neppure di essa fu fatto cenno ai Ministri Inglesi Wellington, e Castelreagh. I Conservatori della Biblioteca Reale mi rendettero finalmente in virtù della forza del Commissario Austriaco i Manoscritti già ricordati, i quali riscontrati da me coll’opera del conte Giulio Ginnasi Patrizio Imolese uomo di probità e assai colto nella storia naturale, e del ricordato Luigi Angeloni, trovai che niuno de’ principali mancava; e ciò apparisce evidentemente dalle ricevute fattemi dai Custodi della Vaticana, Monsignor Baldi e Canonico Battaglini189.
Angeloni dunque, oltre a riscontrare con Marini e Ginnasi i codici finalmente restituiti con gli elenchi nelle mani dei commissari pontifici, aveva steso il testo della memoria presentata da Canova agli alleati per riavere gli oggetti d’arte (settembre 1815) e il testo della «protestation» secondo la quale gli oggetti restituiti erano stati ricevuti «come dalle mani degli Alleati» (6 ottobre 1815). Direttamente a sé Marini ascrive invece il merito di aver superato con abilità e scaltrezza le insistenze dei bibliotecari parigini per conservare alla Bibliothèque Nationale il Virgilio Romano (Vat. lat. 3867) e il Terenzio Vaticano (Vat. lat. 3868), merito tanto più rilevante considerando il fatto che le autorità romane erano inclini a lasciare a Parigi il Virgilio Romano: Fui richiesto di far dono alla Biblioteca Reale de’ due famosi Codici Virgilio, e Terenzio; siccome io non era autorizzato di cederne alcuno, vi lasciai il Virgilio in deposito, e il Terenzio il portai meco sino a che mi fosse manifesta la volontà del Santo Padre sulla domanda che a nome della Real Biblioteca io era per fargli. Scrissi dunque all’Eminentissimo Consalvi, e lo pregava di non cedere in alcun modo il Terenzio, codice rarissimo per le miniature190, ma non così gli parlai del 189 MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLII-CCXLIII. Probabilmente in questa fase, di ricevimento dei codici restituiti agli inviati della Santa Sede, si colloca la nota che Angeloni appose su uno dei primi fogli di un codice recuperato. Al f. 1r dell’Ott. lat. 2229 (poesie di Torquato Tasso con correzioni autografe dell’autore), accanto al timbro della Bibliothèque Nationale, è infatti indicato: «Ritolto alla Biblioteca parigina il dì 16 ottobre 1815. L. Angeloni, frusinate». Per un quadro più completo delle note di Angeloni su manoscritti recuperati cfr. infra, Appendici. I. Note di Luigi Angeloni, Giulio Ginnasi e Marino Marini in manoscritti vaticani requisiti sulla base del Trattato di Tolentino (1797) e recuperati nel 1815. 190 A questo proposito Marini in nota soggiunge: «Il medesimo abbaglio presero i Commissarii francesi nel chiedere il Terenzio in cui erano già incorsi nell’usurparsi il Virgilio. I due mss. di Terenzio ch’esistono nella Biblioteca Vaticana, l’uno d’essi fu sempre riputato da mio zio il più antico Codice ch’egli avesse veduto, e non esitava a farlo ascendere al quarto secolo [n.d.r.: si tratta del Terenzio Bembino, Vat. lat. 3226]: il secondo poi, e fu quello che i Commissarii portarono in Francia, è posteriore di cinque secoli. Quando la truppa del Re di Napoli occupò la Libreria Vaticana, fuvvi un soldato di essa che aperto l’armadio ove l’antico Terenzio si conserva, il prese, addescato da alcun ornamento di metallo dorato a cui era raccomandato, e uscito dalla libreria scarpì il metallo, e gittò il Codice per istrada, il quale
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Virgilio, di cui la cessione non pareami dovesse ritornare a grave svantaggio della Biblioteca Vaticana, essendo che altro Virgilio, che il precede forse di tre secoli, esista in essa, e che fu risparmiato dall’avidità repubblicana per mero sbaglio, e non per volontà di far cosa grata a Roma: egli mi rispose ai 6 novembre, che il Santo Padre acconsentiva di cedere il Virgilio, che il Terenzio però non potea lasciarlo senza incontrare il disgusto di tutti i letterati di Roma, ai quali la cessione non solo di questo codice ma del Virgiliano medesimo rincrescea all’estremo191. Rilevando da questa lettera che la perdita di questi due Manoscritti dispiacea a Sua Santità non meno, che a tutti quelli i quali sanno pregiare cotali preziosi avanzi del tempo, ripresi il Virgilio dalla Real Biblioteca con tale pretesto che non compromisi alcuno, e il riportai a Roma. Non feci mai sapere ai Signori Dasier192, e Langlais193 rinvenuto da persona che poté conoscerne il pregio, il portò a mio zio, che, sorpreso di tale acquisto, il collocò nuovamente nel suo armario», MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXLIII nt. 1. Le vicissitudini del codice nel 1799 sono segnalate al f. 4v del manoscritto dallo zio di Marino, Gaetano, che vi ha apposto la seguente nota: «Furto sublatus Mense Octobr. A. MDCCXCIX, sed multa a me diligentia perquisitus beneficio Egregii Viri Dominici Salae Bibliothecae restitutus idibus Dec. eiusdem Anni. Cai. Marini e Bibliotheca Vatic.». Domenico Sala (cit. anche supra), «amministratore generale delle componende, depositario generale de’ vacabili» (G. MORONI, Indice generale alfabetico delle materie del Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica […], V, Venezia 1879, p. 528), era il fratello del più celebre card. Giuseppe Antonio (1762-1839); «sotto cinque pontificati, fu l’anima della dataria apostolica per le sue estese cognizioni, somma onestà, attività, e diligenza, con cui disimpegnò sino alla morte, accaduta in gennaio 1832, i quattro rilevanti officii (…)», ibid., XIX, (…) 1843, p. 157; cfr. anche ibid., LX, (…) 1853, p. 239; LXII, (…) 1853, p. 311; LXXXVII, (…) 1858, p. 75. 191 Il testo della lettera di Consalvi a Marini, Roma, 6 novembre 1815, è pubblicato in MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCLXVI-CCLXVII (nr. 43). Consalvi vi afferma che il Papa avrebbe accondisceso volentieri alle richieste francesi, «ma è stato spaventato dalle rimostranze di tutti i nostri Letterati, i quali animati in favore della Biblioteca Vaticana del medesimo zelo, che muove il Sig. Dacier in favore della Biblioteca di Sua Maestà Cristianissima gli hanno rappresentato, che alienando questi due Codici verrebbero a privare Roma di due de’ monumenti più preziosi, e che i suoi sudditi vedrebbero con infinito rammarico questa perdita irreparabile. In questo disgustoso bivio, fra la necessità di dover dar luogo alle doglianze di Roma, ed il secondare quei sentimenti di affetto dai quali Sua Santità è animato verso la Francia ha risoluto Nostro Signore di condiscendere almeno in parte ai desiderii del sopradetto Sig. Amministratore, senza ricusarsi totalmente alle istanze dei nostri Letterati, prendendone l’opportunità dall’avere Ella già lasciato nella Real Biblioteca come in luogo di deposito, il prezioso Codice di Virgilio. Vuole quindi Sua Santità, ch’Ella lasciando il nominato Virgilio nella Reale Biblioteca, partecipi al Sig. Dacier Amministratore della medesima, che Nostro Signore ne fa un dono a codesto Reale stabilimento, assicurandolo del dispiacere che prova nel non potergli concedere anche l’altro Codice di Terenzio per gli esposti motivi». 192 Bon-Joseph Dacier (1742-1833), erudito e filologo; cfr. D. LYON, Dacier (Bon-Joseph), in Dictionnaire de biographie française, IX, Paris 1961, coll. 1464-1465; Ch. M. GRAFINGER, Marino Marinis Bemühungen um die Rückgabe des Vergilius Romanus, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, IX, Città del Vaticano 2002 (Studi e testi, 409), pp. 227-236: 230 e nt. 18. 193 Louis-Matthieu Langlès (1763-1824), cfr. S. BALAYÉ, La Bibliothèque nationale pendant la Révolution, in Histoire des bibliothèques françaises, III, cit., pp. 71-83: 78; J.-F. FOUCAUD, L’organisation et le personnel de la Bibliothèque nationale, ibid., pp. 299-309: 299; S.
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Conservatori dei Manoscritti Regi, che io fossi autorizzato far loro cessione del Virgilio, il quale Codice essi molto desideravano, e perché alcun manoscritto di Virgilio non vi è in Francia, che ascenda al sesto, o settimo secolo come il nostro, e perché pretendeano che anticamente appartenesse all’Abazia di San Dionigi. Il Terenzio era già stato sino dai 12 di ottobre mandato da me a Roma, per la qual cosa arrivò troppo tardi la seconda lettera del Sig. Cardinal Consalvi in data de’ 6 novembre, dalla quale poteasi rilevare che forse Sua Santità sarebbe condiscesa anche alla cessione di questo Codice, se il non farla avesse da noi alienato gli animi de’ Ministri francesi194.
A questo punto Marini può stilare un bilancio complessivo dell’opera di recupero, che abbraccia anche gli incunaboli (riservando parole non chiarissime a proposito del comportamento di van Praët, molto lodato invece da Angeloni): I famosi Manoscritti Vaticani erano già in mie mani: io mi vedea finalmente possessore della Bibbia Sistina del secolo V [scil.: Vat. gr. 1209], e del Pentateuco Samaritano [scil.: Vat. sam. 2] e del Persiano [scil.: Vat. pers. 61], de’ Fragmenti di Dione Cassio [scil.: Vat. gr. 1288], de’ Virgilii [scil.: Pal. lat. 1631; Vat. lat. 3867]195, e di altri molti che i Signori Monger, Barthélemy, Moitte, Finet e Wicard196 ComBALAYÉ, Le développement des collections à la Bibliothèque nationale, ibid., pp. 311-327: 316; L. NORMAND, Langlès (Louis-Matthieu), in Dictionnaire de biographie française, XIX, Paris 2001, coll. 743-744. 194 MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXLIII; il testo della lettera di Consalvi a Marini, Roma, 6 novembre 1815 (recante dunque la stessa data della lettera citata alla nt. precedente), con l’invito a Marini a far conoscere se la negazione ai bibliotecari parigini del Terenzio Vaticano producesse «gravissimo disgusto nella Corte» (evidentemente in vista di una possibile riconsiderazione del problema), è pubblicato ibid., p. CCLXVII (nr. 44). Per tutta la complessa vicenda, cfr. DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., pp. 499-500, e soprattutto GRAFINGER, Marino Marinis Bemühungen. 195 I cinque manoscritti, fra i più preziosi della Vaticana, conservati in un primo momento in Archivio Vaticano, vennero requisiti solo nella seconda asportazione francese (1798) e per tale motivo compaiono in un elenco a parte della Recensio manuscriptorum cit., p. 145; cfr. DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., pp. 435-436; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., pp. 410-411. 196 Marini deforma talvolta le grafie. Si tratta di: Gaspard Monge (1746-1818), conte di Péluse, matematico [a proposito del quale, cfr. L. PEPE, Gaspard Monge e i prelievi nelle biblioteche italiane (1796-1797), in Ideologie e patrimonio cit., pp. 415-442, ma con abbondanti indicazioni sul suo operato anche in Vaticana]; Étienne-Ambroise Berthelmy (1764-1841) [cfr. R. D’AMAT, Berthelmy (Etienne-Ambroise), in Dictionnaire de biographie française, VI, Paris 1954, pp. 191-192; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., p. 404 e nt. 4]; lo scultore Jean-Guillaume Moitte (1746-1810) [cfr. G. de F., Moitte (Jean-Guillaume), in Nouvelle biographie générale (…), XXXV, Paris 1861, coll. 780-781]; il pittore Jacques-Pierre Tinet [cfr. GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., p. 404 e nt. 6; C. GALASSI, Le requisizioni francesi a Perugia di Jacques-Pierre Tinet (1797): le opere «che degne saranno di essere raccolte per poi trasportarsi in Francia nel Museo della Repubblica», in Les cahiers d’histoire de l’art 1 (2003), pp. 141-154]; il pittore JeanBaptiste Wicar (1762-1834), allievo di David [cfr. GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., p. 411 e
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missarii della Repubblica Francese trasportarono in Parigi. Dovrò sempre lodarmi del Sig. Cav. Dacier, che questa restituzione fecemi con modi assai cortesi. I libri stampati del quattro cento, che M. Wicard tolse alla Vaticana per ordine del suo Governo mi furono restituiti dal Sig. Vanpraet, custode di essi, di cui se dovrò ricordare i tratti gentili nel rendermeli, non posso però conservare grata ricordanza della eseguita restituzione197.
Più sommario è in verità il resoconto di Marini per quanto riguarda il Gabinetto numismatico (e addirittura sbrigativo finisce per apparire l’accenno ai cinquecento medaglioni di bronzo che tanto avrebbero invece occupato l’attenzione di Angeloni): Ero io stato incumbenzato da Nostro Signore di reclamare il Museo numismatico Vaticano; tale incumbenza fu data anche a Canova, come egli mi assicurò, per la qual cosa il ricuperamento delle Medaglie debbesi all’opera sua; egli per atto di gentilezza, siccome amendue eravamo Commissari pontifici, volle che io approvassi il Trattato da lui conchiuso; lo sottoscrissi e in virtù del Decreto degli Alleati e della Nostra Convenzione, la Vaticana nuovamente possede le sue Medaglie, all’eccezione di cinque cento Medaglioni di bronzo, pe’ quali si ottennero de’ compensi198.
Decisamente meno brillante è il consuntivo a proposito del recupero dei cammei, anche se esso offre a Marini l’occasione per un significativo (e in realtà non del tutto positivo) accenno al comportamento di Angeloni: Conviene che io parli ora del reclamo de’ Cammei, de’ quali erano custodi i signori Cav. Millin, e Gosselin199. Accolsero essi le mie richieste con somma urbanità, e ne diedonmi subito alcuni, come caparra di quelli che avrebbonmi poi nt. 55; Jean-Baptiste Wicar et son temps, 1762-1834, éds. M. T. CARACCIOLO – G. TOSCANO, Villeneuve d’Ascq 2007]. Solo i primi quattro furono i commissari che firmarono la ricevuta dei manoscritti vaticani prelevati sulla base del Trattato di Tolentino, Roma, 23 messidoro dell’anno V della Repubblica Francese (= 13 luglio 1797), cfr. Recensio manuscriptorum cit., p. 136. I manoscritti più preziosi, insieme a un cospicuo numero di incunaboli e medaglie, vennero requisiti, come si è appena detto, dal Wicar nel 1798, ibid., pp. 137-151. Sulla figura di Monge e sul ruolo da lui svolto nelle requisizioni, cfr. anche M. CARMINATI, Il David in carrozza, Milano 20102 (Il cammeo, 519), pp. 153-156 (pp. 144-204, per l’intera vicenda delle spoliazioni napoleoniche). Le lettere di Monge alla moglie Catherine Huart e ad alcune personalità negli anni 1796-1798 sono tradotte e presentate in G. MONGE, Dall’Italia (1796-1798), a cura di S. CARDINALI e G. PEPE, Palermo 1993 (La diagonale, 75). 197 MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXLIV. Va notato come Marini nella stesura più tarda del testo (ca. 1824) sia molto più esplicitamente negativo nei confronti di Van Praët, definito «per così di poca buona fede, anzi per così grande ingannatore quanto altri mai possa esistere», cfr. infra. 198 MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXLIV. 199 Aubin-Louis Millin (1759-1818), noto anche come Millin de Grand-Maison, botanico, storico e antiquario; cfr. Millin (Aubin-Louis), in Nouvelle biographie générale (…), XXXV, Paris 1861, coll. 537-541. Pascal-François-Joseph Gossellin (1751-1830), numismatico, geo-
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renduti. Nel giorno stabilito per la totale restituzione di essi non trovai l’animo loro così disposto come per lo innanzi, e dissero che i principali cammei erano in Russia, che nel Museo loro pochi e di poco prezzo ne restavano ancora, e che di essi era stato fatto dono al Gabinetto numismatico dal Generale Alessandro Berthier200, perciò non credeansi tenuti renderli al Commissario di Sua Santità. Un parlare così ingiusto, e scortese, e una mancanza così manifesta alla parola data mi provocò a tale sdegno, che io feci una protesta colla quale distrussi l’accordo stabilito per la restituzione delle Medaglie201, e con parole aspre, che il dispregio, e mala fede di quelli rintuzzavano, dissi, che il rispetto solo per S. M. Cristianissima mi ritenea dal non mettere a soqquadro colla forza Prussiana quel Gabinetto. Il Ministro dell’Interno col quale mi dolsi di tal procedere, ordinò al Cav. Dacier di far sì, che tutto finisse all’amichevole; Luigi Angeloni, che meco si trovava nel Museo Numismatico fu ricoperto di villanie da M. Millin, siccome quegli che le ragioni della Santa Sede sostenea con incredibile zelo. Ventisei Cammei furono restituiti, fra quali un Augusto solo, illustrato dal Bonarroti202 è pregevole. Questi due Conservatori dissero che altri Cammei del Vaticano non aveano fra le loro serie, il che io volli credere, e risparmiare qualunque violenza, per non abbandonare que’ sentimenti di moderazione, che io volli sin da principio addottare203.
L’«incredibile zelo» di Angeloni, soprattutto se confrontato con la «moderazione» e con la «dolcezza» con le quali era necessario procedere in simili frangenti, agli occhi di Marini non è probabilmente una virtù. Ma l’ecclesiastico romagnolo tiene soprattutto a sottolineare che la sua condotta a Parigi si muove sulla falsariga di precise indicazioni di Consalvi, al quale va dunque in ultima analisi ascritta la responsabilità della linea di moderazione assunta: Quando a Roma pervenne la notizia che vi erano speranze di ricuperare i monumenti di scienze e d’arti, l’Eminentissimo Consalvi in tutte le sue lettere non fece trasparire che sentimenti di moderazione, e desiderii di fare amichevoli convenzioni per quelle cose che il violento Trattato di Tolentino avea rapite a Roma: in una mi scrisse: «Se per la restituzione de’ Codici, e degli altri oggetti volesse farsi una qualche Convenzione, come si suppone che possa essersi fatta per i monumenti di grafo e storico; cfr. L. TRENARD, Gossellin (Pascal-François-Joseph), in Dictionnaire de biographie française, XVI, Paris 1985, coll. 657-658. 200 Louis-Alexandre Berthier (1753-1815) occupò Roma nel 1798 cogliendo per pretesto la morte (28 dicembre 1797) di Léonard Duphot, ambasciatore francese a Roma, colpito da una fucilata di un soldato pontificio; cfr. Memorie del cardinale Ercole Consalvi cit., p. 38 nt. 1. 201 La Protestation di Marini, «faite à Paris, avec le consentement de M. le Baron d’Ottenfels Commissaire Autrichien, et acceptée par le Chev. Dacier Administrateur de la Bibliothèque Royale, le 28 Octobre 1815», è pubblicata in MARINI, Memorie storiche cit., p. CCLVIII (nr. 47). 202 Il fiorentino Filippo Buonarroti (1661-1733), autore delle Osservazioni istoriche sopra alcuni medaglioni antichi pubblicate a Roma nel 1698. 203 MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXLV.
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Arte, ignorandolo io positivamente fino a tutt’oggi, Ella è autorizzata a prestarvisi… Quel che è certo si è che non può cadere il minimo dubbio sulla restituzione di quegli oggetti, che l’arbitrio, e la forza asportò dalla Biblioteca e dai Musei anche quando si pretendesse, che debba aver vigore il distrutto Trattato di Tolentino. Della invalidità, o distruzione di questo Trattato si è detto tanto finora che non può dirsi di più, e se non si valutano le ragioni che lo rendono nullo in origine, o almeno di niun valore dopo essere stato rotto da quello stesso Governo che lo avea fatto, bisognerà rinunziare a tutti i principii. Io confido nella di lei attività, e vigilanza pel conseguimento di ciò che Roma avea tanto indebitamente perduto». In altra de’ 9 Decembre approva egli, che il Cav. Canova abbia avuto dei riguardi alla Francia, e siasi effettuato il ricuperamento degli oggetti di Belle Arti d’accordo con quel Governo204. Dice poi a me nella medesima lettera: «Lo stesso dico per i concerti presi da Lei nella ricupera delle cose appartenenti alle Scienze, approvando Nostro Signore ch’Ella siasi diretta a chi ne avea la custodia come incaricato da codesto Governo, e facendo tutto con uno zelo temperato dai dovuti riguardi, e scevro affatto da qualunque dose censurabile d’indiscretezza»205.
Esaurito il tema delle «cose romane», Marini passa poi alle vicende del recupero di manoscritti e stampati spettanti a Bologna e Loreto206, degli oggetti del Museo di storia naturale di Bologna207, dei caratteri della tipografia di Propaganda Fide208, mentre troppo tardi, cioè dopo la partenza dei due commissari pontifici da Parigi, giunse la lettera di Consalvi per il reclamo degli stampati della Biblioteca Casanatense di Roma e della chiesa dei Domenicani di Pesaro, che dunque non fu eseguito209. Giunto quasi al termine della sua serrata, precisa, documentatissima ricostruzione Marini tesse un elogio di Canova, difendendo lui (e, implicitamente, se stesso) dalle critiche che subito si erano levate sull’operato dei commissari pontifici a Parigi: Canova fu chiamato a Londra. Se Roma fra i suoi monumenti rivede quelli, che per contemplarli alle sponde della Senna accorsero i Brittanni, lo deve al valor sommo di quest’uomo. L’Imperadore Austriaco, quando in Parigi con distinzione lo accolse, per vie più onorarlo gli disse; a voi imputar debbesi, o Canova, il grido insorto per la restituzione de’ monumenti. Cotal parlare ad onor si rivolge del nostro Scultore, poiché sembra che tutti i Sovrani di Europa al voler di lui condiscendessero. E per verità se i Prussiani, e gli Olandesi aveano rivendicate le cose loro, lo fecero essi per diritto di conquista, e di giustizia, né a tale atto da Decreto 204 Il testo della lettera di Consalvi a Marini, s.d. [ma 9 dicembre 1815], è pubblicato in MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCLXVII-CCLXVIII (nr. 46). 205 Ibid., p. CCXLIV. 206 Ibid., p. CCXLV. 207 Ibid., pp. CCXLV-CCXLVI. 208 Ibid., pp. CCXLVI-CCXLVII. 209 Ibid., p. CCXLVII.
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di tutte le Potenze alleate erano stati sin da quel momento autorizzati. Fu dunque Canova, o piuttosto la celebrità del suo nome, e le sue dolci maniere, che fecero una forte violenza sull’animo di Lord Castelreagh, e Wellington, e del Ministro Prussiano Humboldt210, e li decisero a favore della restituzione de’ monumenti: di essa era stato egli lusingato più volte, e non poche fiate di ogni speranza privato. Mi rallegrai seco lui un giorno di questa restituzione, la quale falsamente asserivasi per Parigi; egli mi ringraziò delle mie espressioni, e mi accorsi che dalla sua lettera non traspariva, che incertezza e timore211. Finalmente con man vittoriosa trass’egli dall’Oeuvre l’Apollo, e de’ suoi emuli, e di due grandi Potenze trionfò più colla modestia, che coll’ottenuta vittoria. Il Tevere212, la Melpomene213, e alcun altro pezzo di Scultura lasciò nel Museo Parigino: ne fu ringraziato da S. M. Cristianissima con lettera del Conte di Pradet214. Alcuni han voluto censurare questo dono, ma fu approvato da Sua Santità, e i Commissari Lombardi lasciarono la Cena di Paolo Veronese215, e altri quadri di sommo pregio: così fecero gli Austriaci, così i Toscani: Canova poteva egli fare altramente?216.
Marini è dunque perfettamente consapevole delle censure per la disponibilità alle concessioni dei commissari pontifici; e l’intero suo testo costituisce un’implicita reazione alle critiche. Nulla di sorprendente se sino all’ultimo appaia l’abnegazione per la «ricupera» di Marini che, anche scontentando Consalvi, decide di lasciare Parigi per seguire il convoglio dei beni recuperati in mezzo ai mille problemi creati dai varchi doganali e dalle conseguenze del passaggio delle truppe di scorta al convoglio; decisivo appare il suo intervento per salvare le carte degli archivi durante l’attraversamento del fiume Taro217. Al termine, Marini pone una riflessione finale con una citazione terenziana, estremamente significativa: 210 Il diplomatico prussiano Wilhelm Freiherr von Humboldt (1767-1835); cfr. G. MASUR – H. ARENS, Humboldt, Wilhelm, in Neue Deutsche Biographie, X, Berlin 1974, pp. 43-51. 211 Il testo della lettera di Canova a Marini, Paris, 19 settembre 1815, è pubblicato in MARINI, Memorie storiche cit., p. CCLXX (nr. 55). 212 La statua del Tevere (il Tevere del Belvedere) è ora al Louvre, mentre a Roma, ai Musei Vaticani, è rimasta la statua gemella del Nilo (il Nilo del Belvedere). 213 La colossale (quasi 4 m di altezza) statua in marmo della musa, proveniente dal Teatro di Pompeo a Roma, dà oggi il nome a una galleria del Louvre. 214 Jules Jean-Baptiste-François Chardeboeuf (1779-1857), conte di Pradel, era il direttore generale del «Ministère de la Maison du Roi». 215 A proposito de La Cena in Emmaus, opera di Paolo Caliari detto il Veronese, degli anni 1559-1560, ora al Louvre, Angeloni noterà che «delle più pregiate milanesi, e venete cose» gli Austriaci lasciarono a Parigi solo la Coronazione di spine di Tiziano e, appunto, le Nozze di Cana di Paolo Veronese, ANGELONI, Dell’Italia cit., II, p. 273. 216 MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXLVII. Secondo PIETRANGELI, I Musei Vaticani cit., p. 130, dei 506 quadri requisiti dai Francesi sulla base del Trattato di Tolentino, 249 furono recuperati, 248 rimasero in Francia, 9 furono considerati dispersi. 217 MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLVII-CCXLVIII; DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., pp. 491-492.
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Altri certamente potea servir meglio di me la Santa Sede, ed io avrei voluto fare più di quello che feci, ma nell’eseguire le incumbenze datemi, ripetei sovente a me stesso le parole di Terenzio: … quoniam non potest id fieri quod vis, velis id quod possit218.
Il testo redatto da Marini nel 1816 fu integrato, come si è anticipato, intorno al 1824219. Sono passati alcuni anni, le polemiche hanno più volte lambito l’operato dei commissari pontifici; ma la goccia che pare aver fatto traboccare il vaso della pazienza dell’ecclesiastico romagnolo sembra proprio rappresentata dagli attacchi di Angeloni in Dell’Italia, uscente il settembre del 1818 (a giudicare dallo spazio riservato nella replica). Il tono di Marini sembra divenuto più aspro ed esplicito, in taluni punti addirittura polemico. È il caso delle repliche ad Angeloni e ad Angelo Mai, gli unici esplicitamente citati come obiettivi della replica. E si può ipotizzare che proprio il coinvolgimento dell’allora primo custode della Biblioteca Vaticana (lo era divenuto nell’ottobre del 1819) abbia indotto Marini a non pubblicare le Memorie storiche. Or giacché de’ Codici Vaticani ho dovuto intrattenermi, non incresca, che a mia difesa, o piuttosto della verità, parli contro il ch. Luigi Angeloni, che nell’opera sua dell’Italia uscente il settembre del 1818, più cose sul ricuperamento di essi scrisse, che scrivere non dovea. Ma a scrivere così non fu indotto da malevolenza, ma da soverchio timore, siccome egli è grande amatore dell’italica gloria, che le nostre Biblioteche, e i nostri Musei si rimanessero spogliati de’ loro preziosi monumenti. Anche il ch. Mons. Angelo Mai della restituzione de’ Codici Vaticani parlò sempre in modo non grato a chi di rivendicarli fu intento. E che la cosa sia ben altra di quella ch’eglino la volean far credere, mi faccio a dimostrarlo sino all’evidenza. La Biblioteca Vaticana, che in seguito del violento trattato di Tolentino, e delle due invasioni francesi, erasi veduta spogliata di ottocento quaranta sette manoscritti, che sebbene non tutti pregevolissimi, pure nella maggior parte preziosissimi ed unici, fu di tanta perdita ristorata in virtù del decreto delle Potenze Alleate di rendere tutto a tutti, colla ricupera di ottocento quaranta cinque; e de’ due mancanti, che sono piuttosto frammenti, e non molto pregevoli, l’un de’ quali ha per titolo Via regia ad Ludov. Imperatorem, del secolo undecimo e di sole pagine ottanta; l’altro De dissidiis filiorum Ludovici Pii, parimente del secolo undecimo, e di mi218
MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXLIX. Il passo terenziano è dall’Andria II, 305-306. 219 La datazione, approssimativa, si fonda sulla citazione da parte di Marini del volumetto I vicendevoli uffici della religione e delle arti. Meriti di Pio VII e del clero verso la letteratura, pubblicato da Mai a Roma, per i tipi del Bourlié, nel 1824. In esso Mai aveva raccolto il testo di due discorsi tenuti il primo «in Campidoglio nella solenne distribuzione de’ premi di concorso delle tre arti il dì 5 ottobre 1824» e il secondo «nella adunanza dell’accademia di religione cattolica» (ibid., pp. XII, XXIX). Ancora per la datazione si tenga conto che in MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCLXXIII, CCXC, l’ascesa al trono del conte di Artois col nome di Carlo X (16 settembre 1824) sembra un fatto recente.
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nori pagine del primo220, fu essa abbondevolmente ristorata col rarissimo codice greco del secolo decimo, scritto sù pergamena in gran foglio, contenente le opere di Platone221. Il qual codice, che accresce splendore alla splendidissima Pontificia Biblioteca, a cui in niun modo, o tenuissimamente cospiravano i due suddetti frammenti, è sovente consultato dai dotti, che ne sanno il vero pregio conoscere. Che può adunque volersi la Vaticana Biblioteca, o piuttosto perché non deve rallegrarsi di avere emerso gloriosamente dal naufragio, che ad altre Biblioteche costò perdite irreparabili? Che se le furono renduti, manchi, o di edizioni meno rare, alcuni libri stampati, non sono queste benché gravi, perdite irreparabili, come se di uno de’ rarissimi suoi codici fosse rimasa priva222. Certamente ho creduto ben meritare di essa col restituirle tante dovizie letterarie, che anche in minor copia renderebbon celebre qualunque biblioteca. E che tutti siensi ricuperati i suoi codici, non è mestieri altra prova arrecarne che le ricevute, le quali indubitata fede ne fanno, rilasciatemi dai Custodi Mg. Baldi, Canonico Battaglini, e Canonico Giuseppe Baldi, che scritte sull’elenco de’ Codici renduti si leggono ed il quale è alla lettera (E.)223 come adunque Angeloni si avvisò di dire, che solo in gran parte i Vaticani Codici furono renduti, e dubitar perfino se dei non renduti il pregio a quello de’ renduti sia superiore? Così scrive (Italia usc. tom. 2, pag. 255)[:]224 […]. Si fa poi egli a parlare 220
I due manoscritti ai quali Marini fa riferimento recavano in Vaticana rispettivamente le segnature Reg. lat. 190 e 1964; cfr. Recensio manuscriptorum cit., pp. 105 (n° 397), 119 (n° 456). I primi quarantasei fogli del secondo costituiscono ora il ms. Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 9768, cfr. E. NILSSON NYLANDER – P. VIAN, I manoscritti latini della regina Cristina alla Biblioteca Vaticana: storia, stato e ricerche sul fondo, in Cristina di Svezia e Roma. Atti del Simposio tenuto all’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma, 5-6 ottobre 1995, a cura di B. MAGNUSSON, Stockholm 1999 (Suecoromana, 5), pp. 143-162: 146-147 e ntt. 20-21. L’olim Reg. lat. 1964 era nelle mani di Joseph-Théophile Meymi-Lanaugarie de Mourcin (1784-1856), che avrebbe pubblicato nel 1815 a Parigi un volume sui giuramenti di Strasburgo dell’842 estratti dall’opera di Nitardo, cfr. DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., pp. 498-499. 221 Si tratta del celebre manoscritto, con il testo delle Leggi e di alcuni scritti spuri di Platone, che reca ora in Vaticana la segnatura Vat. gr. 1; secondo Giovanni Mercati, esso non era precedentemente appartenuto alla Vaticana ma proveniva dalla biblioteca Sforziana, ove sarebbe rimasto almeno sino alla metà del Seicento, entrando poi in possesso (con altri codici Sforziani) del card. Francesco Saverio de Zelada che, durante l’occupazione francese di Roma, lo avrebbe nascosto, per preservarlo, in qualche istituto ecclesiastico dal quale i Francesi lo avrebbero prelevato per inviarlo a Parigi, cfr. LILLA, I manoscritti Vaticani greci cit., pp. 90-91. DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 499, riteneva invece che provenisse dalla biblioteca privata di Pio VI. 222 Secondo Marini, dunque, degli 847 manoscritti requisiti dalle tre asportazioni francesi (1797, 1798, 1813) solo due non tornarono in Vaticana. Diverse sono in realtà le valutazioni di BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 189, secondo la quale i manoscritti non recuperati furono complessivamente 36 (lo stesso numero indica già I. CARINI, La Biblioteca Vaticana proprietà della Sede Apostolica. Memoria storica, Roma 18932, p. 131). 223 Non ho individuato questa raccolta delle ricevute rilasciate da Baldi e Battaglini; sicuramente non si trova nell’Archivio della Biblioteca Vaticana, come mi assicura Christine M. Grafinger; ma potrebbe trovarsi fra le carte di Marino Marini in Archivio Vaticano, per le quali cfr. CASTALDO, Marino, Marini cit., p. 474. 224 Segue la citazione del testo di Angeloni (Dell’Italia cit., II, pp. 255-257) già ripreso
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delle medaglie. Ma se i Codici Vaticani, o altra cosa rara, si rimasero in gran parte nella parigina real biblioteca, perché egli, siccome fece delle statue, dei quadri, e delle medaglie, quali si fossero e non ricuperati, o i «gentilmente ceduti» non accennò? Che se di due Codici di poeti provenzali, scritti nel decimo quarto, e decimo quinto secolo, fu fatto dono per ordine di Pio VII, alla parigina real biblioteca225, la perdita loro non è di così grave detrimento all’Apostolica Libreria, che meriti di essere rammemorata con tanto cordoglio, come se due de’ rarissimi Codici del quinto, sesto, o settimo secolo, o alcun’altro che le opere de’ Santi Padri, o la Bibbia contenga, fossero stati ceduti, come io ero autorizzato di fare. Anche Mons. Mai nel deplorare la perdita di molte cose, sembra aver avuto nell’animo di mentovarci un giorno quella pure de’ Codici, e delle stampe. Scrive (Vicendev. uffici, p. VI)[:] «e già tornando sul proposito delle cose perdute (senza ora far menzione de’ codici, né di stampe …»)226[.] Potrebbe egli certamente pubblicare un’elenco de’ Codici Vaticani, che non fece (sic) ritorno all’antica lor sede, che buon grado gliene saprebbe il Pontificio Governo, perché non avendoli fatto cedere alla Francia, ogni buon diritto avrebbe di reclamarne il ricuperamento. Che se poi egli allude alla perdita de’ Codici palatini, dirò, che come Pio VII pressato dalle vive istanze della Prussia, dové cedere all’Università di Heidelberga trenta nove di essi, che erano in Parigi fra i ceduti col Trattato di Tolentino, così dové soffrire che di tutti gli altri Codici della palatina (sic) fosse spogliata la Vaticana dal professor Wilxen, che ad Heidelberga li recò227. Non erano però i Codici palatini di così impareggiabile rarità, che, messi al confronto de’ Vaticani, non facessero conoscere non essere stata per essi di documenti preziosissimi ed unici spogliata l’Apostolica Libreria. Ma tali perdite ascrivere non debbonsi a colpa del Pontificio Commissario. Io piuttosto de’ Codici ricuperati, che doveano per cessione fattane da Pio VII restarsi in Parigi, e di quelli avuti oltre il numero che ne perveniva, tessere posso un veritiero elenco. Dico adunque, che il Virgilio Vaticano era stato ceduto (Memorie par. XXVIII), e che non meno il Terenzio delle rarissime miniature dovea io lasciare in Parigi. Che il Virgilio Palatino era uno de’ trenta nove codici ceduti ad Heidelberga. E con quale industria fossero conservati alla Vaticana questi tre celeberrimi manoscritti non è mestieri il dirlo228. […] supra, inc. Fu eziandio lo stesso Monsig. Marini expl. toccar voglio di solo un capo sopra tutto questo. Ma laddove Angeloni aveva scritto (col sussidio però di altri suoi compatrioti), citando in nota i nomi di Benedetto Fiordeponti e Marco Panvini Rosati, Marini, limitandosi ai manoscritti (che nel punto Angeloni aveva esplicitamente omesso), chiosa: «io stesso pregai Angeloni, e il Conte Ginnasi che dell’opera loro mi fosser cortesi nello riscontrare i rivendicati codici». 225 Si tratta dei Vat. lat. 3204 e 3794, ora alla Bibliothèque Nationale de France, con le segnature français 12473 e 12474, cfr. GRAFINGER, Marino Marinis Bemühungen cit., p. 233 nt. 28. Cfr. Recensio manuscriptorum cit., pp. 93 (n° 347), 96 (n° 366); DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 498. 226 A. MAI, I vicendevoli uffici della religione e delle arti. Meriti di Pio VII e del clero verso la letteratura, Roma 1824, p. VI nt. 227 Cfr. infra. 228 Grazie al recupero del Virgilio Palatino, i codici consegnati all’Università di Heidel-
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Monsignor Mai volendo essere imparziale, dovrà, nell’indicare la perdita de’ Codici Vaticani distinguere i ceduti dai non ricuperati. Ora espedito ciò che io dir dovea per rintuzzare le querele del Signor di Cazes rapporto alle statue, e ai quadri, de’ quali tanta copia si lasciò alla Francia229; e per dimostrare quanto ingiuste si fosser quelle de’ chiarissimi Mai ed Angeloni rapporto ai Codici, alcun’altra cosa mi resta a dire della cessione delle medaglie, e dello spoglio del Museo profano e del sagro, che conservavansi nella Biblioteca Vaticana. Dico innanzi tratto (sic), che Angeloni, testimonio come io dovetti acconsentire alla cessione de’ cinquecento medaglioni di Carpegna, dovea esporre la cosa con più verità, e non far credere, che da me dipendea il cederli, o il conservarli. Riporto le stesse sue parole tratte dalla pag. 257 dell’indicata sua opera dell’Italia, tom. 2230[:] […] Abbiamo dallo stesso Angeloni udito la storia della cessione de’ cinquecento medaglioni; ma che la cosa non istia per mia parte, siccome egli la descrive, mi faccio a dimostrarlo. Primieramente dico, ch’io, non conoscitore certamente di numismatica, mi ritrassi dal mandare ad effetto la commissione di richiedere le medaglie, e proposi ad Antonio Canova, che avea per coadjutore nello eseguire i reclami suo fratello Abate, ora Vescovo, di far venire a bella posta di Roma un qualche perito in questa scienza, e indicai il ch. Filippo Visconti231, dubitando io forte non dovessimo essere per la mia imperizia della doviziosissima e celebre suppellettile del Vaticano medagliere defraudati. Ristrettosi Canova nelle spalle, lasciò al fratel suo, che intelligente in numismatica si dicea, che su ciò meco si accontasse, il quale al far venire alcuno da Roma, mostrossi contrario, e che egli avrebbe la commissione da se adempiuta, giacché anche Antonio Canova era a tali reclami autorizzato, come egli disse. Ed avendo poi egli accomodata la faccenda alla meglio che per lui far si seppe, e conchiusione accordo coi Conservatori del Gabinetto numismatico, essi, ch’erano ben contenti di quanto avea operato il Sig. Ab. Canova, furono solleciti che la stipolata convenzione fosse della mia approvazione corroborata. E venutisi nella camera della libreria, in cui Angeloni ed io riscontravamo i Codici, presentaronmi lo stabilito accordo, e instantemente richiesermi della mia sottoscrizione. Ma eglino tanto fecero, tanto insistettero, tanto si adoperarono unitamente col Sig. Barone di Ottenfels, il quale, per aver voluto noi evitare nel ricuperamento degli oggetti reclamati, ogni atto di violenza, avevamo chiesto a mediatore per quelli che erano nella reale biblioteca, che finalmente dopo di aver berg (fra quelli trasferiti a Parigi dopo il Trattato di Tolentino) furono dunque 38 (26 greci, 12 latini). Marini rivendica poi di aver recuperato all’Università di Bologna, oltre agli stampati, ventiquattro codici in più rispetto a quelli richiesti (435 rispetto a 411). 229 Élie Decazes (1780-1860), ministro di polizia, dell’interno e poi (dal novembre 1819) presidente del Consiglio; caduto dopo pochi mesi, fu ambasciatore a Londra (1820-1821); cfr. J. S. de SACY, Decazes (Élie, duc), in Dictionnaire de biographie française, X, Paris 1965, coll. 472-474. 230 Segue la citazione del testo di Angeloni (Dell’Italia cit., II, pp. 257-259) già ripreso supra, inc. Tra le più pregiate cose tolte da’ Francesi expl. altri due son di lingue orientali dottissimi professori. 231 Filippo Aurelio Visconti (1754-1831), fratello di Ennio Quirino (1751-1818), e figlio di Giovanni Battista (1722-1784), cfr. La Raccolta e la Miscellanea Visconti cit., pp. XXIII-XXV.
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sentito io, non «che cosa molto discara sarebbe stata al Re Francia, che gli fosse guasta la preziosa serie delle sue medaglie» ma che al ricuperamento degli oggetti reclamati era stato dalle Potenze Alleate fissato il termine perentorio, a cui non mancavano che pochissimi giorni, spirati i quali, ogni diritto perdevamo a nuovi reclami, dopo di aver inteso dal Sig. Ab. Canova, che i compensi dati per la cessione de’ cinquecento medaglioni di Carpegna, e di altre medaglie, ristoravano bastantemente il medagliere Vaticano; e dopo di aver riguardato Angeloni, che fino a quel punto fissi avea tenuti gli occhi sopra di me, e caldo di amor patrio mi avea con energiche parole tenuto fermo a non firmare quell’accordo, e vedutolo ristringersi nelle spalle, non proferir più parola, e altrove aver rivolto lo sguardo, mi arresi, e feci la chiesta sottoscrizione. Or, Messer Angeloni, non veniste voi ad approvare col vostro silenzio la mia adesione a quell’accordo, a cui fui astretto per ricuperare in parte il medagliere Vaticano, che di perdere interamente eravamo minacciati, come voi stesso ne foste testimonio? E perché poi mi trattaste così male nella vostra Italia? Grato vi sono degli elogi che mi prodigaste in essa, di ottimo, di diligente, di onestissimo, ma più grato vi sarei stato se più veritiero nella esposizione del fatto vi foste dimostrato. A dir vero più curo il mio onore, che i vostri elogi, coi quali vi credeste, Messer mio, di più facilmente denigrarlo. Ma poi voi non chiamaste onestissimo il Sig. Van-Praet, uomo, che nella restituzione de’ libri stampati nel quattrocento, si dié a conoscere per così di poca buona fede, anzi per così grande ingannatore quanto altri mai possa esistere? Dunque, Messere, riprendetevi quegli elogi che mi faceste, coi quali mi uguagliaste ad un tal’uomo. Io pregio quelle lodi, che mi sono comuni cogli uomini probi, e leali. E se io mi abbia nel racconto della cessione delle medaglie di un sol apice alterata la verità, voi che vivete sotto un cielo libero, liberamente potete farlo conoscere. Arguitemi di menzogna se vi pare l’animo. Il Conte Giulio Ginnasi, che, come ho detto, era presente, venutosi a Roma, mi lasciò un attestato da cui apparisce la verità, se mai qualche indiscreto ne dubitasse, di quanto ho asserito. Voi foste zelantissimo nel prestarmi l’utilissima opera vostra, la cui mercé potei ricuperare tanti Codici che forse sarebbero alle mie indagini sfuggiti; e di ciò vi fu grato il Pontificio Governo non meno che dello avere scritto la memoria, che Canova presentò a Castlereagh232. Ora, Monsignor Canova, a voi mi rivolgo, non domandandovi ragione di quell’accordo, che pur troppo potrei dolermi che m’induceste a sanzionarlo, ma eccitandovi a difendere il vostro onore dalle accuse dell’Angeloni, dalle quali, poiché a me pure le volle render comuni, mi discolpai come meglio da me il far si potea. Voi risponderete senza meno, che essendo debitrice Roma al fratel vostro defunto dello averle riabellito il suo Vaticano Museo de’ capolavori di statuaria e pittura, il voler ora riprender voi della cessione delle medaglie, cosicché ne doveste venire alla difesa, sarebbe alla memoria dell’immortale Canova mostrarsi ingrato, poiché il solo simulacro di Apollo compensa ad esuberanza la perdita delle medaglie. Egli è verissimo, che la Romana Corte grata esser debbe agli uffici di Antonio Canova 232
Cfr. infra. Solitamente Marini utilizza, per il nome del diplomatico inglese, la grafia fonetica (Castelreagh); qui e nell’occorrenza successiva, eccezionalmente, adotta invece la forma corretta.
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del ricuperamento delle statue e de’ quadri; ma tenutissima non meno debb’esserne al valente medico Bozzi Granville, che moltissimo a prò di lei sollecitò il Sig. Hamilton, e agli artisti stranieri che erano in Roma, in capo de’ quali fu il Danese Cavalier Thorwaldsen233, che ai Sovrani collegati ne fecero reclamo per la comune patria delle belle arti. Tuttavia onorevole ed onestissima sarebbe quell’apologia, la quale e voi, e il fratel vostro da tante cessioni fatte giustificasse non solo appo la Pontificia Corte, la quale la gratitudine sola rattenne di non citarvi a renderne conto, ma presso le nazioni tutte civilizzate che di esse vi faranno continui rimproveri. Né potrete certamente addurre a vostra difesa il tacito consenso de’ collegati Principi, che molti degli oggetti romani rimanessero in Parigi, poiché in seguito de’ reclami fatti agli 11 di Settembre del 1815 dal Sig. Castlereagh, ai 23 dello stesso mese dal Duca di Wellington e dall’impareggiabile Sig. Guglielmo Hamilton, tanto tenero dell’italica gloria essendo stata finalmente di comune accordo acconsentita la restituzione delle cose, di cui la Francia avea i legittimi lor possessori spogliati, furono gli stessi collegati Principi, massime il re Prussiano, con parentevole sollecitudine intenti, che tutte fossero le ricuperate cose alla pristina loro patria ricondutte. Ed a mandare ad effetto la determinazione de’ Collegati, non paravasi innanzi alcun’ostacolo dalla Russia, la quale solamente pregava che i capolavori romani di belle arti continuassero lor Sede in Parigi. E dal pregare cessò poi essa che finalmente col tenere valida la decisione del Congresso, venne medesimamente ad approvare, che il Museo parigino, di tanti oggetti, di cui con patente ingiustizia era stato adorno, fosse privo. Ma facendo punto sul ricordare cose, che meno increscevoli da minore generosità poteansi rendere, passiamo dello spoglio a ragionare de’ Musei sagro e profano, che Mgr. Mai a ragione compassiona, e che avrebbe voluto, quando delle altre cose romane fu fatto reclamo, fosse stato ristorato. Questo illustre Prelato scrive nel suo ragionamento sui Vicendevoli uffici della religione e delle arti, «rivolgeremo piuttosto a compassionare (con più ragione che non ha il nostro Aristarco) la perdita incalcolabile, che nello spoglio francese ha sofferto questo Museo: danno che per terribile fatalità non fu ristorato, quando si ricuperarono gli altri oggetti romani»234. Ma questa terribile fatalità la ripete fors’egli dall’incuria del Commissario Pontificio, che tali oggetti dovesse reclamare, e non li reclamasse, o dalle circostanze che ogni reclamo ne rendeano soverchio e forse inopportuno? E siccome fra gli oggetti, di cui deplora la perdita, annovera i medaglioni in bronzo di Carpegna, che è patente ad ognuno doversi imputare al volere di chi li ridomandò, così onestissima cosa sembrava, onde di maggior colpa non aggravare colui, che con tanto sconcio del romano medagliere mandò ad effetto il suo reclamo, non lasciare incerto il lettore se un medesimo giudizio si avess’egli a pronunziare sulla perdita degli oggetti del Museo sagro e del profano. Così del pari onestissimo sarebbe stato nel mentovare la perdita de’ Codici Vaticani, ricordare i compensi ottenuti, che a soperchio, tenuissima essendo quella, come ve233 A proposito di Bertel Thorwaldsen, per più volte e per lunghi periodi a Roma, Angeloni noterà: «[…] in capo de’ quali [scil.: i più valenti artefici stranieri] è il danese sig. Thorvvaldson [sic], or divenuto italico, perciocché sì valente statuario lui rendé la romana scuola, ch’emulatore egli è già de’ più valenti artefici nostri», ANGELONI, Dell’Italia cit., II, p. 248. 234 MAI, I vicendevoli uffici cit., p. V nt.
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demmo, ne rinfrancano la Pontificia Biblioteca. Ma certamente il dotto Mgr. Mai, uomo religiosissimo, non ha creduto colla espressione terribile fatalità offendere il Pontificio Commissario. E valga il vero, come mai poteansi ricuperare quegli oggetti, quando le altre cose romane furono reclamate, se essi non furono ceduti con alcun Trattato, ma servirono di esca all’avara cupidigia degli Uffiziali dell’esercito francese che invase Roma? Laonde la perdita di quegli oggetti cagionata da depredazione, che il diritto di conquista, sebbene ingiusta, sembrava autorizzare, in qual modo poteasi ristorare? Né si credea che i Conservatori del Gabinetto numismatico, che tanto restii eransi mostrati a rendere gli oggetti ceduti con un Trattato, che di comune consenso delle Potenze Europee veniva infranto, pieghevoli sarebbero stati, mercé il comune adagio o piuttosto sentenza morale res clamat ad dominum, si acquistarono, o ch’ebbero in dono, come alcun suppose, ed io lo indicai nelle Memorie, che fra essi annoverar si dovessero i camei ed altro de’ quali l’elenco riporto in fine235. Ma senza pregiudizio di vantaggio in questa discussione se doveansi sì o nò reclamare quegli oggetti, dico essere incontrastabile che le cose ingiustamente rapite si possono giustamente ridomandare; ma che la restituzione de’ camei sagri e profani non poté corrispondere al reclamo, che, a fronte de’ motivi accennati, i quali esponevanci a ricusa, pur se ne volle da noi fare, poiché la minor parte di essi, e non de’ più pregevoli, era in Parigi, altri, e certamente i più rari furono portati in Russia, siccome dicemmo; ed altri donati a private persone in Parigi, che da quelle offerti a Pio VII non volle accettare. Tuttavia ne ricuperammo ventisei. Ma eccoci di nuovo alle prese coll’Angeloni, per lo scambio de’ vasi etruschi. Dopo di aver egli detto, che il Sig. Abate Haüy Conservatore del parigino Gabinetto mineralogico, rendette le cose spettanti al Santuario di Loreto, le quali tutte furono interamente rendute, e quelle appartenenti alla collezione di storia naturale dell’Istituto di Bologna, la mancanza di alcuna delle quali quel lealissimo e cortesissimo uomo abbondevolmente con liberale sollecitudine compensò, soggiunge alla pag. 262 l.c. tom. 2[:] […]236. Ma quale menzogna più potente di questo racconto! De’ celebratissimi vasi etruschi romani aveano i Francesi adorno il Museo parigino di pittura e di scultura, e a chiederli si presentò Antonio Canova. E siccome nel diametro, e nell’altezza quelli che gli furon dati ai richiesti corrispondevano, così fu facil cosa al nostro statuario, che non conosceva i vasi etruschi di Roma, di essere ingannato, e ad Ennio Quirino Visconti, uomo rinomatissimo, d’ingannarlo, e questi dello inganno fatto menò vanto, e quegli tacersene, arrossendo forse che un romano lo avesse deluso. Perché dunque Angeloni trasporta i vasi etruschi al Museo di storia naturale, ne fa me richieditore, che due essendo allora in Parigi i Commissari Pontificii, io fui il solo, che ne andai al Museo di storia naturale a reclamare ogni altra cosa fuori di que’ vasi, che non vi stettero mai? Né lo avere io de’ miei reclami fatto testimone questo valoroso letterato uomo onestissimo, 235 L’elenco non è pubblicato nell’edizione del 1885 delle Memorie che, come si è detto, è parziale. 236 Segue la citazione del testo di Angeloni (Dell’Italia cit., II, p. 262) già ripreso supra, inc. Del resto tanto furono conoscenti expl. dieder segno in alcuna maniera. Ma dopo le parole romani commessarii/commessarj Marini fra parentesi aggiunge: «io fui quegli che reclamai i suddetti oggetti, e solo, accompagnato però dall’Angeloni».
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ma infelice e capriccioso ordinatore di governi, e fervido, ma incauto, banditore d’italica indipendenza, e confederazione, bastò a mettermi a riparo dalla non solo intemperante, ma ingiusta sua censura, contro la quale però lo stesso mio operato mi è di schermo237.
Come si è visto, la difesa di Marini contro Angeloni e Mai è ampia e circostanziata, a tratti dura e vibrante. I codici vaticani sono stati recuperati nella quasi totalità (845 su 847) e le minime perdite, numeriche e di valore, sono state compensate con l’acquisto di un codice che per pregio le supera. Marini rivendica anzi nuovamente il merito di aver salvato tre manoscritti preziosissimi che le autorità romane avevano già ceduto ai Francesi e ai Prussiani (il Virgilio Romano, il Terenzio Vaticano e il Virgilio Palatino). Per la vicenda dei «vasi etruschi», Marini si dichiara completamente innocente perché di essi si occupò (essendo ingannato da Ennio Quirino Visconti) direttamente Antonio Canova al Museo parigino di pittura e di scultura, e non al Museo di storia naturale (ove si era recato Marini). Un tono severo è assunto anche nei confronti di Giovanni Battista Sartori (Antonio era morto da poco, nel 1822), chiamato a giustificarsi per una cessione di oggetti numismatici in contraddizione con la disponibilità dei «collegati Principi» a procedere al recupero di tutto. La questione del Medagliere era stata condotta proprio dall’abate Sartori che, impedendo la chiamata a Roma dell’esperto Filippo Aurelio Visconti, pose le premesse per la disfatta. Marini fu chiamato solo a corroborare, sotto il ricatto del tempo, gli accordi già presi dal Sartori e Angeloni, in quelle circostanze, non disse parola (Marini, anzi, gli attribuisce quel fatale gesto di «fare spallucce», confessione al tempo steso di impotenza e di menefreghismo, che lo stesso Angeloni aveva ripetutamente rimproverato ad Antonio Canova). Il riconoscimento dello zelo di Angeloni nel prestare l’opera preziosa nel recupero dei codici non impedisce la critica severa all’alterazione della verità nella ricostruzione dei fatti. E nella difesa dalle accuse di Angeloni Marini fa appello allo stesso Sartori. Al di là del garbo dei modi, anche nei confronti di Mai, che aveva lamentato la «terribile fatalità» del mancato recupero degli oggetti dei Musei sacro e profano, Marini non nasconde un’irritazione mista a stupore: come si poteva ottenere la restituzione di oggetti non ceduti in base a un trattato ma trafugati dall’«avara cupidigia» degli ufficiali francesi che avevano invaso Roma e dispersi per l’Europa? Marini, come si è detto, non pubblicò la sua apologia, che quindi rimase 237 MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCLXXXIII-CCLXXXVII. Nell’ambito della ricostruzione di Marini il lungo estratto citato appare una digressione, come mostra la frase di chiusura: «Ma, lasciato finalmente il domicilio delle Muse, ritorniamo ai gabinetti ministeriali, e de’ reclami del 1817 l’interrotto racconto riprendiamo».
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ignota all’Angeloni. L’ultima parola della polemica è però proprio dell’esule frusinate ed è consegnata a una lunga nota di Alla valente ed animosa gioventù d’Italia, esortazioni patrie così di prosa come di verso, pubblicate a Londra nel 1837 e in vendita «appresso l’autore» a Soho, 18, Wardour Street. In essa Angeloni non smentisce quanto ha scritto nel «ragionamento» IV di Dell’Italia ma spiega che esso era condizionato dalla situazione in cui allora scriveva: Al fatto di questi spogli delle più scelte cose di statuaria e dipintura (senza noverar punto quegli altri immensi di pecunia, e di altre preziose cose), operati da’ Francesi in Europa, e soprattutto in Italia, con barbarica avidezza di rubare, sotto la capitananza d’un côrso ladrone, ed anzi d’una côrsa genía; un intero Ragionamento io dettai, e pubblicai poi nel secondo volume della mia parigina politica opera; e, se colà scrivendo allora, sotto la borbonica francese verga, tutto e di tutto ogni particolarità dir non potei, tanto tuttavia di vero ed irrepugnabile io ne dissi, quanto ebbe concitatomi l’aversione e l’odio di que’ rubatori; i quali con isfacciata, ma ridicola arroganza si danno a credere che, per via de’ vani escogitati nomi di nobile ambizione, di militare onore, e patria gloria, possan essi velare, e fare anche altrui applaudire le più scellerate opere loro238.
I Borboni, «quantunque fossero della napoleonica razza acerrimi nimici», erano «tuttavia avidissimi, e punto del mondo scrupolosi di servar le cose da colui [scil.: Napoleone] rapite». Sotto la minaccia di «una persecuzione borbonica» Angeloni aveva dunque dovuto moderare i toni; ma ora che si trova in Inghilterra, «in paese dove gioisco una libertà molto maggiore che non facessi allora in Francia, e massime per cose che oltremodo adizzavano l’avidità francese», Angeloni può scrivere con tutta franchezza, contro i due Canova e contro Marini: Sopraggiugnerò quì un’altra particolarità, per rispetto alle cose rapite alla nostra Roma; ciò si è che, quanto io pur m’adoperassi verso il nostro Canova, ed a sollecitazione altresì d’alcuni de’ subalterni operaj nelle cose di statuaria, i quali aveva egli con seco menati a Parigi, non vennemi fatto d’indurlo a far ricondurre a Roma la colossale egregia statua della Melpomene. E, veggendol così in questo ostinato, quegli operaj stessi mi fecer presentire, ch’egli non voleva ritorla per non far disfavore con quella maravigliosa antica colossale statua all’altra di pari grandezza che, nel diffetto di quella, era stata da lui fatta in Roma, rappresentante La Religione239. Or io, per me, non potrei per certo affermare, questa veracemente essere stata la cagione che movesse quel sommo Artefice nostro a così men che 238
ANGELONI, Alla valente ed animosa gioventù d’Italia cit., p. 400 nt. «Tornato a Roma con il fratellastro Giovambattista, Canova si impegnò nella realizzazione di una colossale statua della Religione che avrebbe voluto collocare in San Pietro, quale simbolo rinnovato della fede; tuttavia, osteggiato dai canonici della basilica che gli rifiutavano questa possibilità, l’artista utilizzò la cifra che avrebbe dovuto impiegare nell’im239
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generosamente operare; ma, come che ciò fosse, siccome nelle cose patrie sono io sempre zelosissimo, ed, ove faccia luogo, tutto dico senza riserva e rattenimento alcuno; così ho voluto notar quì apertamente tutto questo […]. E così non vo’ lasciar di far quì apertamente sentire che far non potei in quel mio sopraddetto ragionamento, che una grandissima perdita per le cose d’antiquaria fece la mia bella Roma, ne’ cinquecento preziosissimi medaglioni antichi i quali, per difetto di fermezza o piuttosto per dabbenaggine, furon senza veruna repugnanza ceduti alla Francia da’ due commessarj di Roma; cioè da Monsignor Marino Marini, e dall’abate fratello (uterino, se non erro) del Canova. Ed avendo io dovuto, e certo con ragione, di ciò toccare un motto nello stesso mio ragionamento (facc. 258), non potei tenermi di non far conoscere a’ miei Romani Compatriotti come in questo erano stati deficienti que’ romanj commessarj. Inorpellai tuttavia per sì fatta guisa la pillola, che al tutto mi credeva che, non men l’uno che l’altro, mi avessero a esser grati del modo con che io, la verità dicendo, di quella pur non mi valsi (siccome nullo negotio fare avrei potuto) per trar loro de’ sassi in fronte, come avrebbero certamente meritato. Non me ne fece perciò alcun richiamo il buon fratello del nostro sommo statuario. Ma il Marini avendo poi letto quel mio ragionamento, e sentito i rabbuffi che gliene facevano i Romani, mi scrisse di Roma a Parigi, ch’egli voleva scagliarmisi contra con un suo scritto in istampa e fare in somma il diavolo, e peggio. Rispondendogli, non l’esortai certo a disvolere egli così operare, anzi il vi confortai il più ch’io mi potessi. Sol tanto però gli dissi, che stesse in sull’intesa del non doversi egli poi crucciare, se le mie risposte sarebbero state pungenti, quello che punto non era ciò che in quel mio ragionamento io aveva verso lui scritto. E così il Marini cautamente infino a quì si tacque; e fece, a mio parere, gran senno a far così, perché niuna valevole apologia avrebbe potuto egli fare della supina negligenza sua, al fatto della perdita inestimabile di que’ cinquecento preziosissimi Medaglioni antichi, che tutti, senza menomamento alcuno, sarebbonsi potuti recuperare, e rabbellirne il romano museo. E così dico anche più perché il valente, ed onorato general prussiano Muffling240, il qual militarmente allora presedeva all’esecuzione de’ mandati de’ collegati reggitori europei in Parigi, molto dolevasi di quella supina negligenza de’ commessarj nostri, nel ritorre le cose romane. E peggio che verso me, siccome più anziano, veggendomi con esso loro e credendomi un terzo commessario, più particolarmente egli volgeva le sue doglienze; di che però io, piuttosto che rammapresa per realizzare una nuova chiesa a Possagno», E. CASTELLANI, La vita e l’arte, in Canova, presentazione di J. STAROBINSKI, Milano 2005 (I classici dell’arte, 67), pp. 21-65: 61. 240 Il generale prussiano Karl Müffling (1775-1851), cfr. J. NIEMEYER, Müffling, Karl, in Neue Deutsche Biographie, XVIII, Berlin 1997, pp. 266-267; nell’ottobre 1815 era governatore di Parigi per le potenze alleate, DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 496. A proposito del Müffling e degli altri ufficiali austriaci Angeloni avrà parole di elogio e gratitudine: «Particolarissima menzione io quì debbo anche fare, non meno del general Muffling, che di altri guerrieri dell’oste prussiana, la quale, del tempo che le cose romane furono alla per fine restituite, era a campo in Parigi. Io dunque dico ch’essi ogni sostegno, e ogni parentevole assistenza allor porsero a’ commessarj romani, e che ogni commendazione da noi essi meritan per questo», ANGELONI, Dell’Italia cit., II, pp. 234-235.
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ricarmi, mi compiaceva anzi molto, perché così porgevamisi anzi novella cagione di stimolarli. Ma, non essendo io realmente commessario, nulla poteva autorevolmente determinare. Tanto tuttavia operai, e con alcun mio scritto, e appresso gl’Inglesi in uficio, i quali erano a quel tempo a Parigi, che primieramente la domanda del governo romano per le cose a Roma rapite, fu finalmente consentita, e poi di molte più cose, e di molto maggior pregio che le già da me menzionate nel mio sopraddetto ragionamento, sarebbe stata Roma perditrice, senza l’imperterrita insistenza mia. Senzaché io medesimo anche fui quegli che, per via del mio caro amico, il valente Dottor Prelà, feci sollecitare il defunto ottimo cardinal Consalvi a voler tosto mandare de’ commessarj a Parigi a far debito richiamo per le insigni cose a Roma rapite. E anche più a me pareva avere ogni ragione d’insistere sopra questo, da che anch’io medesimamente, in un mio politico libriccino241, dato fuori in Parigi dopo, e durante la prima dedizione di quella città; aveva già fatto richiamo pe’ capolavori, e per le altre pregiate cose state barbaramente tolte all’Italia da’ tanti predoni francesi, i quali, all’uscente del passato secolo, a un tratto nel suo bel suolo inondarono, e lei crudelmente misero a ruba, e massime sotto la capitananza del rio Buonaparte. E, quanto è a me, se altamente e quasi che con orgoglio io quì parlo di quella mia patria opera, alcun carico, pare a me, non è da darmene, perciocché, se cosa veramente onorata e commendevole io recare ad effetto mai potei nel lungo corso della vita mia, l’avere io procacciato e conseguito che le più delle cose rapite all’Italia, e soprattutto a Roma, fosser rendute, è certissimamente dessa quella242.
Le valutazioni di Angeloni sono esplicite e implacabili e, senza più alcun timore di conseguenze, non risparmiano nessuno, da Canova (accusato di lasciare alla Francia la statua di Melpomene per non compromettere la sua statua de «La Religione» che di quella sottratta doveva prendere il posto) al fratellastro Giovanni Battista, a Marino Marini. Angeloni interpreta il silenzio di quest’ultimo di fronte alle accuse mosse in Dell’Italia, uscente il settembre del 1818 come un acquiescente riconoscimento di colpa; naturalmente ignora la seconda parte delle Memorie storiche che Marini lasciò inedite certo più per riguardo ad altri che ad Angeloni. Ma ancora più inte241 Il riferimento di Angeloni è alla già ricordata opera Sopra l’ordinamento che aver dovrebbono i governi d’Italia (pubblicata a Parigi nel 1814), che anche nella lettera a Canova del 27 febbraio 1816 aveva definito «libriccino» (effettivamente è di meno di cinquanta pp.), cfr. supra. Gli accenni all’esigenza del recupero delle opere d’arte trafugate sono ibid., pp. 43-46. L’esemplare vaticano del volumetto [Stamp. Ferr. IV.3616] reca una significativa dedica dell’Angeloni alla Biblioteca Vaticana (f. [I]v: «L’Autore alla Libreria Vaticana»), che plausibilmente risale al momento della pubblicazione del volumetto e dunque mostra l’attaccamento angeloniano all’istituzione vaticana ancora prima della sua collaborazione all’opera di «ricupera». Alla Vaticana però il volumetto non pervenne o da questa ne uscì perché fu poi acquistato da Gaetano Ferrajoli «alla vendita dell’avv. Bruti nipote che fu di Luigi Biondi. 20 maggio 1879», come indica la nota vergata dallo stesso Ferrajoli ibid. La dedica autografa di Angeloni è riprodotta alla tav. I. 242 ANGELONI, Alla valente ed animosa gioventù d’Italia cit., p. 400 nt.
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ressante nel testo dell’ormai vecchio esule (giunto sulla soglia degli ottanta anni), che rivendica il suo ruolo nella stesura dell’appello alle potenze alleate243 e addirittura la prima ispirazione dell’invio dei commissari romani a Parigi, è il complessivo bilancio di una vita nel quale l’opera per il recupero dei beni trafugati dalla razzia predatrice dei Francesi è ascritta tra i fatti degni di ricordo. È l’ultima parola di una polemica che comunque non si sarebbe esaurita neanche con la morte dei protagonisti244. 4. Non sappiamo se la minuta della lettera di Marini del 24 giugno 1819 sia stata completata, perfezionata e poi spedita in forma di lettera all’Angeloni (ma dalla citata nota di Alla valente ed animosa gioventù d’Italia si deduce che Marini ha effettivamente scritto ad Angeloni annunciando una pubblica replica che poi non venne). Essa (che peraltro non aggiunge nulla a quanto Marini aveva e avrebbe scritto nelle due fasi della redazione delle Memorie storiche) è comunque, per il momento, l’ultimo documento di un rapporto diretto e di una collaborazione che anni prima aveva unito Marini e Angeloni per il perseguimento degli stessi scopi. Le ricostruzioni che si ricavano dagli scritti di Angeloni e Marini non sono in definitiva contraddittorie e rivelano in realtà l’incrocio di logiche e quindi di modi operativi profondamente diversi. Angeloni, di cui Marini aveva ricordato l’«incredibile zelo» con cui sostenne le ragioni della Santa Sede, ebbe forse il torto di non comprendere che Marini, come Canova, si muovevano tenendo necessariamente conto anche delle ragioni politiche e diplomatiche, solo all’interno delle quali la vicenda delle rivendicazioni romane e delle restituzioni francesi poteva acquistare un senso245. Come non ricordare che proprio nello stesso periodo, fra l’aprile e il maggio 1816, sulla base della stessa logica e delle stesse motivazioni, Pio VII rese all’Università di Heidelberg 38 manoscritti fra Palatini latini e greci prelevati dai Francesi, cinque manoscritti Palatini latini che non avevano mai lasciato Roma e 243
Cfr. supra. Bilanci positivi dell’operato per la «ricupera» offrono (non a caso) le ricostruzioni di matrice vaticana, cfr. D. ZANELLI, La Biblioteca Vaticana dalla sua origine fino al presente, Roma 1857, pp. 98-99 (che cita Angeloni ma senza accennare alle polemiche innescate dai suoi giudizi); CARINI, La Biblioteca Vaticana cit., p. 131; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 189. Valutazioni critiche, con prospettive più o meno angeloniane, invece in FERRAJOLI, Lettere inedite cit., p. VIII, e SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., p. 260. CAMPANI, Sull’opera cit., p. 196, ritiene Angeloni «scrittore troppo politico per essere storico imparziale». 245 Sulla missione di Canova a Parigi in prospettiva diplomatica cfr. F. ZUCCOLI, Le ripercussioni del trattato di Tolentino sull’attività diplomatica di Antonio Canova nel 1815 per il recupero delle opere d’arte, in Ideologie e patrimonio cit., pp. 611-631 (a p. 611 nt. 1 sono raccolte indicazioni bibliografiche sul soggetto). 244
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l’intero fondo (ben 847 elementi) dei manoscritti Palatini germanici246? Una restituzione così imponente, per certi versi senza precedenti e senza paralleli successivi nella storia della Vaticana, si spiega solo col prevalere delle ragioni della diplomazia e delle relazioni internazionali su quella della bibliofilia, nella piena consapevolezza della fondamentale debolezza della Santa Sede uscita stremata da una prova terribile e destinata nei decenni successivi ad affidare la sua indipendenza all’appoggio di potenze straniere. La realistica considerazione storico-politica, che implicitamente suggerisce di non fare la voce grossa e di non battere i pugni sul tavolo se non si è in condizioni per farlo, si coniuga poi e prende forza da riflessioni di altra origine e natura: «la Politica Romana non è estranea alle massime del Vangelo […] e sa temperare il vigore colla dolcezza, anzi il più delle volte della sola dolcezza si gloria». Ecco perché i «sentimenti di moderazione» ai quali sin dal principio Marini aveva fatto appello e ricorso erano i più adatti per muoversi nelle circostanze in cui i commissari pontifici si erano trovati. La citazione terenziana dell’Andria, con la quale Marini aveva concluso la prima parte delle sue Memorie storiche, la dice lunga su questo senso, molto sviluppato nell’ecclesiastico romagnolo, del possibile hic et nunc rispetto all’ideale. Marini in questo si rivela un perfetto interprete della linea consalviana, di intelligente duttilità ma al tempo stesso di fedeltà a tutta prova nel conseguimento dei risultati possibili247. A ben 246 BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 189, 205 nt. 59; F. D’AIUTO – CH. GRAFINGER, [Palatini], in Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, a cura di F. D’AIUTO e P. VIAN, I: Dipartimento Manoscritti, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 466), pp. 457-463: 460-461. Cfr. MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLIIICCXLIV, CCLXVII (nr. 45). La richiesta dei codici era stata presentata da Friedrich Wilken, pro-rettore dell’Università di Heidelberg; la lettera di Marini al generale Karl Müffling, Paris, 17 novembre 1815, fa cenno solo ai 39 manoscritti Palatini asportati in forza del Trattato di Tolentino; ma Marini nelle sue Memorie ricorda che i Prussiani avrebbero in realtà desiderato la restituzione dell’intera Biblioteca Palatina. Sulla vicenda, Ch. M. GRAFINGER, Die Rückgabe der deutschen Handschriften der Bibliotheca Palatina an die Heidelberger Universität, in Bibliothek und Wissenschaft 33 (2000), pp. 33-49. 247 Anche DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 498, insiste sulla moderazione di Canova e Marini, esecutori di precise disposizioni di Consalvi e, ancora prima, di Pio VII, intenzionato a non entrare minimamente in contrasto con Luigi XVIII; e offre un giudizio decisamente positivo dell’operato di Marini, «qui prit l’affaire [scil.: della restituzione] à cœur et n’épargna pas sa peine pour arriver à une solution que les amis du Saint-Siège appelaient de tous leurs vœux», ibid., p. 490. L’accusa di Angeloni è dunque considerata «fort injuste. Marini défendit bien, trop bien pour nous, hélas! les intérêts dont il était chargé», ibid., p. 499. Il giudizio di parte francese appare interessante e non va trascurato per una valutazione equanime della vicenda. Per una ricostruzione degli eventi della restituzione delle opere d’arte trafugate in una prospettiva capovolta, quella di parte francese, cfr. E. MÜNTZ, Les invasions de 1814-1815 et la spoliation de nos musées, in La nouvelle revue (1897), t. 105, pp. 603-715; t. 107, pp. 194-207, 420-639.
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vedere, allora, la differenza nelle ricostruzioni di Angeloni e di Marini non consiste tanto nei fatti rievocati ma nel diverso spirito col quale i due valutarono e affrontarono le stesse circostanze. Lo «zelo temperato dai dovuti riguardi, e scevro affatto da qualunque dose censurabile d’indiscretezza» di Consalvi e Marini e l’«incredibile zelo» di Angeloni, la morbidezza dei primi, la rigida intransigenza del secondo: erano logiche profondamente diverse e per taluni versi non conciliabili. Ma i due — Angeloni e Marini — provenivano in realtà da esperienze troppo diverse e seguivano cammini affatto particolari. Cosa avevano a che fare l’ecclesiastico romagnolo, cresciuto all’ombra dello zio erudito, negli sconvolgimenti della Rivoluzione e nel precipitoso riassetto della Restaurazione, con l’esule e patriota ciociaro che scontava con l’esilio la radicale rottura a un tempo con il mondo dell’ancien Régime e con la bufera che lo aveva spazzato via? Cosa avevano a che fare Marini e Angeloni, «questo valoroso letterato uomo onestissimo, ma infelice e capriccioso ordinatore di governi, e fervido, ma incauto, banditore d’italica indipendenza, e confederazione»? A Parigi, in quel breve periodo fra il 1815 e il 1817, le strade si erano per un attimo incrociate, per recuperare alla Santa Sede per l’uno, a Roma e all’Italia per l’altro quanto di diritto spettava loro. Ma dopo il momentaneo, quasi fortuito incontro le strade tornarono a divergere: l’ecclesiastico romagnolo sarebbe rimasto a Roma sino alla morte, nel 1855, forse in attesa di ricompense che non ebbe, in parte schiacciato dall’«esprit de domination» di quel Mai248 di cui aveva già maltollerato le critiche e dedicandosi, quasi per compensazione, a un’intensa attività erudita e di pubblicazioni, trattando della nativa Santarcangelo di Romagna249, ma anche del grande zio, Gaetano250, e della serie degli abati farfensi251, di diplomatica pontificia252, di Galileo di fronte all’Inquisizione253,
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BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 205 nt. 57. Memorie storico-critiche della città di Santo Arcangelo, Roma 1844. Sempre relative alla storia romagnola sono le Osservazioni critiche (…) sulle Memorie storiche intorno a Francesca da Rimini, pubblicate nel 1852 dal dott. Luigi Tonini, Roma 1853; Appendice alle Osservazioni critiche intorno a Francesca da Rimini, Roma 1854. 250 Degli aneddoti di Gaetano Marini. Commentario, Roma 1822; cfr. L’arte contesa cit., pp. 254-255. 251 Serie cronologica degli abati del monastero di Farfa, Roma 1836. 252 Diplomatica pontificia, ossieno Osservazioni paleografiche ed erudite sulle bolle de’ papi, Roma 1841; sempre nell’ambito diplomatistico: Nuovo esame dell’autenticità de’ diplomi di Ludovico Pio, Ottone I, e Arrigo II sul dominio temporale dei romani pontefici. Dissertazione, Roma 1822. 253 Galileo e l’Inquisizione. Memorie storico-critiche dirette alla Romana Accademia di Archeologia, Roma 1850. 249
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ma non disdegnando scritti più di occasione254. Fino al 1819 continuò a occuparsi del recupero dei beni sottratti, intervenendo nella preparazione del celebre «editto Pacca» (7 aprile 1820) sulla tutela dei beni culturali e recuperando manoscritti e carte d’archivio presso bottegai e banchieri parigini255. Fu lui, il nipote di Gaetano Marini, a pronunciare il 15 luglio 1849, al termine della breve esperienza della seconda Repubblica Romana, il discorso di fronte al generale Oudinot per salutare la restaurazione del potere temporale256, quasi simbolicamente a concludere una tormentata stagione incominciata più di mezzo secolo prima, con la Repubblica Romana del 1798-1799, e della quale era stato privilegiato e assiduo testimone e, a tratti, attivo protagonista. Il patriota frusinate, sempre al centro di una vasta rete di relazioni con emigrati politici, continuò invece sino al 1823 a vivere a Parigi, sino alla partenza per l’Inghilterra, ove rimase sino alla fine indefettibilmente fedele ai suoi ideali rivoluzionari e patriottici, entrando in contatto, fra i molti, con Giuseppe Mazzini (ma polemizzando con Ugo Foscolo257). I suoi ultimi anni furono di isolamento e di penosa chiusura, anche a causa di un carattere divenuto, con la vecchiaia, difficile258. Così lo ricordò appunto, subito dopo la morte, Mazzini in un vibrante articolo, con molti particolari biografici, ne L’apostolato popolare del 15 aprile 1842, sottolineandone al tempo stesso la coerenza mai venuta meno, anche al costo di personali sacrifici:
254 Opinioni, Siena 1845; Un partito, Siena 1845. Marini scrisse anche della devozione dei Romani a s. Pietro: Il giorno 29 di giugno, ossia i Romani al sepolcro di S. Pietro, s.l., s.d. Nel Capitolo della basilica di S. Pietro Marini fu chierico beneficiato dal 19 giugno 1803, beneficiato dal 7 aprile 1805, canonico dal 23 settembre 1832; nel capitolo ricoprì anche gli incarichi di sindaco (1834, 1842-1844) e segretario (1846-1855), cfr. D. REZZA – M. STOCCHI, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano. Dalle origini al XX secolo, I: La storia e le persone, Città del Vaticano 2008 (Archivum Sancti Petri, I:1), p. 359. 255 Cfr. le due lettere di Marini, del 3 marzo 1819 (al Tomassini) e del 22 luglio 1819 (al card. Bartolomo Pacca), pubblicate da D. TAMBLÉ, Il ritorno dei beni culturali dalla Francia nello Stato pontificio e l’inizio della politica culturale della Restaurazione nei documenti camerali dell’Archivio di Stato di Roma, in Ideologie e patrimonio cit., pp. 457-513: 512-513; cfr. anche ibid., p. 489. 256 BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 230. 257 Verso la fine del 1823, Angeloni, Urbano Lampredi e Augusto Bozzi Granville accusarono Foscolo di aver scritto e pubblicato nella rivista The Museum un articolo anonimo in lode di se stesso e di critica a Vincenzo Monti, SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., p. 60 (ibid., pp. 57-64, per i problematici rapporti di Angeloni con Foscolo). La critica angeloniana rimproverava a Foscolo anche le sue valutazioni negative del ruolo di Boccaccio nella letteratura italiana, cfr. GAMBARIN, Antifoscolani maligni cit., pp. 71-78. 258 SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., p. 32. Poco prima, il 10 febbraio 1842, Mazzini aveva scritto a sua madre della morte di Angeloni («Povero vecchio! morto mezzo arrabbiato, per non trovarsi altro che facce straniere d’intorno»), ibid.
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Sappiamo che esule dall’Italia, cacciato di Francia nel 1823, e ricovratosi in Inghilterra, mantenne canuto, colla condotta e cogli scritti, le opinioni ch’egli aveva da giovine professato. La costanza, così rara a’ dì nostri, fu la caratteristica di Luigi Angeloni. […] Le opinioni ch’ei professava in certe questioni di filosofia religiosa non sono le mie; ma ei le manteneva con tanta sincerità di convincimento che potevano eccitare dolore, non collera. Visse in Londra, sino all’età di ottantatré anni, insegnando l’Italiano agli Inglesi, serbando e manifestando le sue credenze repubblicane, amando e sperando: quand’ei parlava d’Italia e d’un avvenire ch’egli credeva esser prossimo, l’occhio semispento dalla vecchiaia gli scintillava d’un ardore di gioventù. Benedetta sia per questo la sua memoria! Luigi Angeloni, scrittore, patriota, ed onesto, finì la vita, forse nei tormenti della disperazione, il dì 5 febbraio 1842, nell’Workhouse (casa di lavoro) d’Union Covent Garden in Cleveland Street, dove lo trascinò, con inganno, la sordida avarizia d’un uomo, e la colpevole indifferenza d’altri pochissimi che si dicevano amici suoi. I molti Italiani viventi in Londra ignorarono il caso. Così muoiono, o Italiani, i vostri esuli259.
Forse anche per una sorta di risarcimento postumo, la sua generosa e disinteressata opera «per le cose della patria nostra» meritava allora di essere ricordata in questa sede, come un nobile gesto nella più grande vicenda delle spoliazioni francesi e della «ricupera» vaticana.
259 L’articolo è pubblicato in G. MAZZINI, Scritti editi e inediti. Edizione diretta dall’autore, IV, Milano 1862, pp. 335-337; è integralmente ripubblicato in SPERDUTI, Luigi Angeloni frusinate cit., pp. 31-32 (il passo qui ripreso è a p. 32). Brani dello stesso articolo sono citati supra, ntt. 11 e 26.
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APPENDICI I. Note di Luigi Angeloni, Giulio Ginnasi e Marino Marini in manoscritti vaticani requisiti sulla base del Trattato di Tolentino (1797) e recuperati nel 1815 L’opera di recupero dei manoscritti vaticani requisiti dai Francesi fra il 1797 e il 1813 avvenne nei pochi giorni che vanno dal 6 ottobre 1815 (quando i commissari pontifici dichiararono solennemente di ricevere i codici dalle mani degli Alleati ma di non aver mai voluto far ricorso alla forza, estranea allo spirito di pace e di conciliazione che animava il Papa) al 28 ottobre successivo (quando il barone di Ottenfels riconobbe di aver ricevuto tutti i manoscritti requisiti dai Francesi in esecuzione del Trattato di Tolentino, che nello stesso giorno furono ufficialmente consegnati a Marini). In quelle tre settimane — scrive Marini — «i Conservatori della Biblioteca Reale mi rendettero finalmente in virtù della forza del Commissario Austriaco i Manoscritti già ricordati, i quali riscontrati da me coll’opera del Conte Giulio Ginnasi Patrizio Imolese uomo di probità e assai colto nella storia naturale, e del ricordato Luigi Angeloni, trovai che niuno de’ principali mancava; e ciò apparisce evidentemente dalle ricevute fattemi dai Custodi della Vaticana, Monsignor Baldi e Canonico Battaglini»260. I tre — Angeloni, Ginnasi e Marini — apposero in alcuni manoscritti una nota di attestazione del recupero eseguito; e l’esame dei manoscritti elencati nella Recensio manuscriptorum (non prendendo dunque in considerazione i manoscritti della terza asportazione) ha permesso di ritrovarne le tracce. Nella prima colonna è indicata la segnatura del manoscritto, nella seconda la descrizione che ne offre la Recensio manuscriptorum cit., mentre nella terza viene trascritta la nota.261 Ott. lat. 2229
«Cod. Chartac. in fol. constans pagg. 196. exarat. saec. XVII. Continet Torquati Tassi Carmina varia Italica autographa» (Recensio manuscriptorum, p. 127, sub n° 483)261.
f. 1r: «Ritolto alla Biblioteca parigina il dì 16 ottobre 1815. L. Angeloni, frusinate». Cfr. tav. IV.
260
MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLII-CCXLIII. Come è noto, il manoscritto fu misteriosamente sottratto alla Vaticana e subito dopo recuperato (insieme al Canzoniere del Petrarca Vat. lat. 3195) nel novembre 1965, cfr. N. VIAN, Il Petrarca sul prato, in Strenna dei Romanisti 35 (1974), pp. 464-472 (ripubblicato in ID., Figure della Vaticana cit., pp. 249-259). 261
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Vat. lat. 3199
«Cod. Membr. in fol. constans pagg. 78. exarat. saec. XIV. Continet Dantis Aligherii Comoediam Iohannis Boccaccii manu descriptam. Praeit Epistola ipsius Boccaccii ad Franciscum Petrarcham versibus Latinis et in fine Dantis et Petrarchae Icones calamo delineatae exhibentur» (Recensio manuscriptorum, p. 92, sub n° 344)262.
f. br: «ricuperato ai 14 8bre 1815 / M[arino].M[arini]. [quasi eraso] // Dalla Biblioteca parigina / Angeloni, frusinate».
Vat. lat. 3202
«Cod. Chartac. in quart. oblungo constans pagg. 67. exarat. saec. XIV [sic]. Continet Iacobi Sanazarii Arcadiam in fine mutilam ab auctore propria manu descriptam» (Recensio manuscriptorum, p. 92, sub n° 345)263.
f. 1r: «ricuperato ai 14 8bre 1815 / Ginnasi // Dalla Bibliot. parigina Angeloni frusinate».
Vat. lat. 3203
«Cod. Membr. in fol. exarat. saec. XIV. constans pagg. 151. Continet Brunetti Latini Florentini opera prisca Gallorum lingua composita, quibus titulus, le Tresor, cum picturis» (Recensio manuscriptorum, p. 93, sub n° 346).
f. [ii]r: «ricuperato ai 14. 8bre 1815 / Ginnasi // Dalla Biblioteca parigina / Angeloni frusinate». Cfr. tav. VI.
262263
262 Al f. cr è incollato un cartiglio con la seguente nota in francese, di descrizione del manoscritto: «en tête / le poesie / del Boccac una / epistola sua in verso latino / diretta al Petrarca; con / la mano d’esso Petrarca / in alcuni luoghi, in foglio / Fulv. Urs. // Ces notes manuscrites imputées / à Petrarque sont très courtes / et très peu nombreuses / A la fin du volume on / trouve: 1° Une note en latin / sur la date de la publication du poëme / du Dante et sur celle de / sa mort. 2° Les Portraits / de Dante et de Pétrarque / à la plume, sur papier / encadré. 3° Deux épi- / taphes latines pour le Dante, / et ses armoiries. / Epitaphe / latine pour Petrarque / Epitaphe latine pour A. / Seneque». Alla nota francese fa riferimento anche Franz Ehrle nella descrizione (vergata sulla risguardia posteriore) dello stato del manoscritto esaminato il 15 febbraio 1895 (poco dopo la nomina a primo custode della Biblioteca Vaticana). 263 Al f. 1ar (ove anche un cartiglio con la nota «V / 3202 / Iacobi Sannazarij / Arcadia / autographum») e al f. 67v sono incollati due cartigli, della stessa mano e del medesimo contenuto, con una nota in francese, di descrizione del manoscritto. Ecco il testo della nota: «Vatican, / quoté 3202. / Sannazaro l’Arcadia, / scritta di mano sua. / Cette note [scil.: si fa riferimento, qui come supra e infra, alla consueta nota che compare nei manoscritti appartenuti a Fulvio Orsini] fait le titre du / Volume, qui n’en a pas d’autre; / elle est écrite sur le feuillet / blanc etant en tête, et signée / Fulv. Urs. // A la fin du volume est un / feuillet dont le recto contient / quelques vers italiens, étran- / gers à l’ouvrage de Sanna- / zar // Outre la quote principale / 3202, etant au dos du / volume, et qui est celle de / l’ouvrage dans le Catalogue / manuscrit venu du Vatican, / le même feuillet initial / qui porte la note de Fulvius / Ursinus, porte une quote / ancienne, II / I vol. petit in fol.». Cfr. tav. V.
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olim Vat. lat. 3204 [nunc Paris, Bibliothèque Nationale, français 12473]
«Cod. Membr. in fol. constans pagg. 185. exarat. saec. XIV. Continet Carmina selecta centum viginti Poetarum Provincialium cum eorum Iconibus pictis coloribus expressis. Occurrunt passim ad margines notulae Francisci Petrarchae et Petri Bembi manu descriptae» (Recensio manuscriptorum, p. 93, sub n° 347).
«Ricuperato ai 14 ottobre 1815. Ginnasi // Dalla Biblioteca parigina. Angeloni frasinate (sic) // Riconosciuto non utile a l’Italia e prezioso p. la Francia; fu restituito alla Biblioteca, ai 17 ottobre 1815. Ginnasi»264.
Vat. lat. 3731A265 «Cod. Chartac. in quart. constans (f. 16v) «ricuperato dalla pagg. 16. exarat. saec. XVI. Conti- Biblioteca Reale di Parigi / net Henrici VIII. Anglorum Regis ai 14 8bre 1815. / Ginnasi». Epistolas Amatorias Autographas Gallice et Anglice» (Recensio manuscriptorum, p. 96, sub n° 365). Vat. lat. 3868
«Cod. Membr. in fol. quadrato constans pagg. 92. exarat. saec. X. Continet Terentii Comoedias cum depictis figuris personatis» (Recensio manuscriptorum, p. 98, sub n° 373).
f. [vi]r: «Questo Codice fu ricuperato dalla Biblioteca Regia / di Parigi, ove per ordine della Repubblica Francese / era stato collocato l’an. 1797. / Parigi 14 ottobre 1815»266.
264265266
Le note descrittive, redatte da bibliotecari francesi durante il periodo di conservazione dei manoscritti vaticani alla Bibliothèque Nationale, individuate nei manoscritti Vat. lat. 3199 e Vat. lat. 3202, appaiono essere, nell’ambito dei manoscritti in alfabeto latino, casi piuttosto rari (molte di esse possono però essersi perdute perché forse vergate su cartigli volanti); nei manoscritti indicati nella Recensio manuscriptorum le ho individuate (oltre che nei manoscritti prima citati) solo in altri quattro manoscritti latini: nell’Ott. lat. 1120, sul f. di risguardia anteriore; nell’Ott. lat. 2736, sul f. [i]r (ma a proposito degli Ott. lat. 2736-2741, «Registro di lettere del Cardinale Mazzarino»); nel Reg. lat. 767 (olim Reg. lat. 751), al f. [ii]r; 264
DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 498 nt. 1. Le note si trovano «au bas de la page qui contient deux lignes de la note de Fulvius Orsini». 265 Nella Recensio manuscriptorum cit., p. 96, il numero indicato è IIIDCCXXXI (refuso per IIIMDCCXXXI); ma il manoscritto trasferito a Parigi è quello attualmente segnato Vat. lat. 3731A, con le lettere di Enrico VIII ad Anna Bolena, mentre il Vat. lat. 3731 contiene, sempre di Enrico VIII, l’Assertio septem sacramentorum. 266 La nota, molto calligrafica, non è firmata e sembra essere una riscrittura posteriore; poco sotto se ne intravede infatti un’altra quasi totalmente evanida; in essa in una riga si legge (con l’ausilio della lampada di Wood ma con sicurezza) Marini, mentre in quella sottostante appaiono chiaramente le parole Giulio Comm. (?) Ginnasi.
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nel Vat. lat. 4820, al f. [i]v. Più numerose sono invece tali note descrittive in manoscritti orientali. Le ho infatti individuate in 42 manoscritti, tutti del fondo Vaticano arabo: nel Vat. ar. 29, al f. 1r; nel Vat. ar. 109, sul f. di guardia posteriore; nel Vat. ar. 142, sul f. di risguardia anteriore; nel Vat. ar. 166, al f. Ir; nel Vat. ar. 167, al f. Iv; nel Vat. ar. 183, al f. IIv: nel Vat. ar. 250, al f. Iv; nel Vat. ar. 251, al f. IIr; nel Vat. ar. 255, al f. 2v; nel Vat. ar. 258, al f. 1r-v; nel Vat. ar. 267, al f. IIIr267; nel Vat. ar. 268, al f. IIv; nel Vat. ar. 269, al f. 1r; nel Vat. ar. 270, sul f. di risguardia anteriore; nel Vat. ar. 271, al f. Iv; nel Vat. ar. 272, al f. 1r; nel Vat. ar. 275, al f. 1r-v; nel Vat. ar. 277, al f. Iv; nel Vat. ar. 278, al f. 1v268; nel Vat. ar. 279, al f. Iv; nel Vat. ar. 282, al f. Iv; nel Vat. ar. 285, al f. 1ar; nel Vat. ar. 286, ai ff. 1v-1ar-v; nel Vat. ar. 292, ai ff. IIv-IIIr-v; nel Vat. ar. 293, al f. 1v; nel Vat. ar. 306, al f. Iv; nel Vat. ar. 307, al f. IIv; nel Vat. ar. 308 (p. 1), al f. 1ar; nel Vat. ar. 309, al f. IIv; nel Vat. ar. 310, ai ff. 1av-1br-v; nel Vat. ar. 312, al f. 1r-v; nel Vat. ar. 317, ai ff. 1v-1ar-v; nel Vat. ar. 318, ai ff. Iv-IIr-v; nel Vat. ar. 324, al f. 1r; nel Vat. ar. 328, al f. IIv; nel Vat. ar. 329, al f. 1r; nel Vat. ar. 330, al f. 1r; nel Vat. ar. 342, al f. Ir; nel Vat. ar. 345, al f. 1r; nel Vat. ar. 358, sulla risguardia anteriore; nel Vat. ar. 362, al f. Ir; nel Vat. ar. 368, al f. IIIv. Tali note, nel loro complesso apparentemente riconducibili almeno a tre mani diverse che non sarà forse impossibile identificare fra quelle di bibliotecari attivi alla Bibliothèque Nationale negli ultimi anni del Settecento e nel primo quindicennio dell’Ottocento269, si trovano dunque solo 267
La nota descrittiva è molto essenziale, riducendosi all’indicazione della segnatura e del contenuto del manoscritto (n° 267. Terrier d’Egypte); ma il Vat. ar. 267 è l’unico manoscritto trasferito a Parigi che presenta ora una legatura allestita durante il soggiorno francese del codice, con stemmi dorati con l’aquila imperiale al centro dei piatti anteriore e posteriore, due stemmi con la N napoleonica sul dorso, ove anche il titolo impresso (Terrier / d’Egypte) e un talloncino con l’indicazione manoscritta Arabe Vat. / 267. Il manoscritto fu utilizzato da Antoine-Isaac Silvestre de Sacy (1758-1838) per l’État des provinces et des villages de l’Égypte, pubblicato a Parigi, de l’Imprimerie Royale, nel 1810, in coda alla Relation de l’Égypte par Abd-allatif, médecin de Bagdad (…); cfr. E. TISSERANT, Adresse [pour la commémoraison de Antoine-Isaac Silvestre de Sacy], in Comptes-rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, année 1938, volume 82, n° 1, pp. 97-99: 97-98. La legatura napoleonica fu preparata in occasione del lavoro dell’orientalista francese, che al manoscritto così si riferisce (p. 588): «Un manuscrit Arabe qui a passé de la bibliothèque du Vatican dans la Bibliothèque impériale, et qui est coté Ass. 44, nov. CCLXVII, m’a fourni une liste alphabétique de tous les villages d’Égypte (Voyez Bibl. Or. Clem. Vat. tom I, pag. 627, n.° 44; Recensio manuscr. cod. qui ex univ. bibl. Vatic. … procurat. Gallorum traditi fuere, pag. 22, n.° 91)». Cfr. tav. III. 268 Nella nota al f. 1v si fa riferimento a un parere di Silvestre de Sacy che effettivamente ha vergato un appunto di sette righe a proposito del codice al f. 2r. Il manoscritto, che al f. 3r reca il titolo «Chronicon / Samaritanicum / Arabice, / Archetypon à Scaligero / Academie Leidensi / donatum characte- / re Samaritano / constat», appartenne alla collezione dell’orientalista olandese Adriaan Reeland (1676-1718), acquisita dalla Vaticana nel 1763. 269 Una di queste mani, quella che compare per esempio nei cartigli dei manoscritti Ott.
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in manoscritti latini e arabi, mai in quelli greci. Quelle nei manoscritti arabi, come si è visto, sono numerose, talvolta ampie ed estese, segno di un interesse francese particolarmente vivo per le discipline orientali che è poi all’origine di una così cospicua presenza di manoscritti orientali fra quelli requisiti sulla base dell’armistizio di Bologna e del Trattato di Tolentino270. È raro (ma può accadere) che i manoscritti non rechino i timbri della Bibliothèque Nationale (circolari, con inchiostro rosso), solitamente apposti sul primo e sull’ultimo f. dei manoscritti (prescindendo dai ff. di guardia e dalle tabulae)271; fu il trauma di questa timbratura francese a provocare, dopo il ritorno dei manoscritti a Roma, la timbratura vaticana, una pratica prima affatto sconosciuta. Ricapitolando. Sui cinquecentouno codici requisiti in base al Trattato di Tolentino (in realtà un numero minore perché, come già spiega la Recensio manuscriptorum, diversi manoscritti compositi potevano essere conteggiati secondo il numero degli elementi che li compongono272) dunque solo cinque presentano note apposte da Angeloni (una volta da solo, una volta con Marini, tre volte con Ginnasi, che in un solo caso l’appose da solo), fra il 14 e il 17 ottobre 1815 (come si è visto, la nota ora leggibile sul Terenzio Vaticano Vat. lat. 3868 non si può ricondurre con sicurezza ad Angeloni ma la presenza dei nomi di Ginnasi e Marini in quella quasi del tutto evanida legittima l’ipotesi che in essa potesse comparire anche il suo nome). Il fatto, che sistematicamente esclude non solo i manoscritti orientali e greci ma anche i latini (classici e medievali), non sembra casuale e non si può solo lat. 1120 e Ott. lat. 2736 (diversa da quella che compare nel Reg. lat. 767), presenta analogia con la scrittura di Pierre-Claude-François Daunou un cui specimen compare in L. MORELLE, Aspects des bibliothèques de dépôts d’archives (Archives nationales, archives départementales), in Histoire des bibliothèques françaises, III, cit., pp. 398-402: 399. Sul Daunou (1761-1840), che ebbe un ruolo particolarmente importante nella fase del trasferimento degli archivi vaticani a Parigi, cfr. R. LIMOUZIN-LAMOTHE, Daunou (Pierre-Claude-François), in Dictionnaire de biographie française, X, Paris 1965, coll. 287-288. 270 Sulla base della Recensio manuscriptorum le quantità dei manoscritti ripartiti per alfabeti sono le seguenti: 191 orientali (di cui 80 arabi, 49 siriaci, 20 ebraici, 19 copti, 12 etiopici, 11 cinesi), 176 latini e 134 greci. Dunque, nel complesso 501. Cfr. anche GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., pp. 408-409 (ma con cifre leggermente diverse). Per il numero dei manoscritti effettivamente requisiti dai Francesi ripartiti per fondi, cfr. infra, Appendici. IV, in particolare pp. 785-786. 271 Non presentano i timbri della Bibliothèque Nationale, per esempio, l’Ott. lat. 1, il Pal. lat. 854, il Reg. gr. 17, il Vat. lat. 630, il Vat. sir. 21. Nessun Vaticano etiopico reca timbri francesi, mentre li recano tutti i Vaticani ebraici (tranne il rotolo Vat. ebr. 453). 272 Recensio manuscriptorum cit., pp. 130-135; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., pp. 406-407. Secondo Delisle i manoscritti (intesi come unità inventariali) requisiti furono in realtà 459, cfr. DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 434. Ma sull’intera questione cfr. infra, Appendici. IV: Numero complessivo dei manoscritti vaticani requisiti sulla base del Trattato di Tolentino.
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ascrivere alle concitate fasi del recupero. In realtà basta pensare agli autori rappresentati nei manoscritti (Dante, Brunetto Latini, Jacopo Sannazaro, Torquato Tasso) per comprendere che essi occupano un posto particolare nel personale e consapevole pantheon dei riferimenti culturali di Angeloni quali momenti importanti e decisivi nella maturazione della civiltà letteraria italiana. L’apposizione della nota da parte di Angeloni evidentemente significava per lui legare con soddisfazione il suo nome a un recupero che riteneva di particolare importanza. Si può aggiungere che tre degli autori delle opere tràdite nei manoscritti — Brunetto Latini, Sannazaro, Tasso — hanno soggiornato per un certo periodo in Francia (per un periodo più lungo i primi due); non si può quindi escludere che nell’apposizione della nota scattasse, per Angeloni, un più o meno consapevole meccanismo di identificazione con i celebri letterati di cui recuperava i codici per la Biblioteca Vaticana.
II. Cronologia essenziale degli eventi relativi alla requisizione e al recupero dei manoscritti vaticani (1796-1824 ca.) 1796, 23 giugno
L’art. 8 dell’armistizio di Bologna stabilisce la consegna da parte del Papa alla Repubblica Francese di 100 quadri, statue e vasi con 500 manoscritti, scelti da commissari francesi appositamente inviati a Roma [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., pp. 431-432; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., p. 403, che però indica la data del 28 giugno 1796].
1797, 19 febbraio
Sulla base dell’art. 13 del Trattato di Tolentino si stabilisce l’immediata esecuzione delle disposizioni dell’armistizio di Bologna [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 432; GRAFINGER,
1797, 13 luglio
Le tre asportazioni cit., p. 403].
Partenza da Roma del convoglio con nove casse con i manoscritti requisiti [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 434; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., p. 409].
1798, 13 maggio
Sottoscrizione dell’elenco di 136 incunaboli e di altri cinque manoscritti vaticani, scelti fra i più preziosi della Biblioteca, requisiti dai Francesi [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., pp. 435-436; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., pp. 410-411].
1798, luglio
Arrivo a Parigi dei manoscritti requisiti a Roma nel luglio 1797 [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 435; GRAFINGER,
Le tre asportazioni cit., p. 410].
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1799, 24 luglio
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Arrivo a Parigi del secondo convoglio con i 136 incunaboli e i cinque manoscritti [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 436; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., p. 411].
1809, 6 luglio
Deportazione da Roma di Pio VII [MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXVIII].
1810, 2 febbraio
Decreto di requisizione degli archivi vaticani [MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXIX].
1810, 17 febbraio
Partenza da Roma alla volta di Parigi del primo convoglio dei documenti requisiti dell’Archivio Vaticano [DELISLE, rec. a MARINI,
Memorie storiche cit., p. 438, che indica la data del 18 febbraio 1810; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., p. 412].
1810, 23 febbraio
Il governo francese ordina a Marino Marini e Carlo Altieri di «aver cura in Francia degli Archivi», ingiungendo loro il trasferimento a Parigi; a essi si unisce anche Gaetano Marini che in un primo momento aveva ottenuto il permesso di rimanere a Roma [MARINI, Degli aneddoti di Gaetano Marini cit., p. 201; MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXX].
1810, 11 aprile
Arrivo a Parigi degli archivisti e bibliotecari vaticani Gaetano Marini, Marino Marini, Carlo Altieri; nella capitale francese i Marini sono ospiti per sedici mesi del card. Antonio Dugnani, a Parigi dal 1809; ricevono per il loro servizio quindicimila franchi annui dal governo francese [MARINI, Degli aneddoti di Gaetano Marini cit., pp. 134-135; MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXX; DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 438].
1811, 27 febbraio
Arrivo a Parigi, al Palazzo Soubise, del primo convoglio di documenti dell’Archivio Vaticano [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 438; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., p. 412].
1813, 28 luglio
Consegna a mons. Luigi Martorelli di altri documenti di carattere archivistico destinati a Parigi, fra i quali 355 manoscritti della Biblioteca Vaticana [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 439; GRAFINGER, Le tre asportazioni cit., pp. 411-412].
1813, 28 agosto
A nome di Pio VII (detenuto a Fontainebleau) il card. Dugnani fa sapere a Gaetano Marini che non deve lasciare Parigi perché non è bene che si allontani «dalla sposa (gli Archivii) che vi è stata affidata» [MARINI, Degli aneddoti di Gaetano Marini cit., pp. 135-136; MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXXIV].
1814, 31 marzo
Entrata in Parigi degli Alleati [MARINI, Degli aneddoti di Gaetano Marini cit., p. 136; MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXXV].
1814, 19 aprile
«Decreto di restituzione degli Archivj, degli arredi sagri della Pontificia Cappella, de’ Triregni, e di tutte le pergamene, libri, e carte trasportate da Roma a Parigi dopo l’ultima inva-
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sione» [MARINI, Degli aneddoti di Gaetano Marini cit., pp. 136-137; MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXXV; cfr. DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., pp. 489-490]. 1814, 28 aprile
In ottemperanza al decreto del 19 aprile, consegna nelle mani di Emanuele De Gregorio, dei due Marini e di Dugnani degli archivi vaticani e di quanto è stato restituito alla Santa Sede; poco dopo spedizione in sedici casse, a spese del governo francese, degli «arredi sacri» recuperati (fra i quali il triregno donato da Bonaparte a Pio VII nel giorno della sua incoronazione imperiale) [MARINI, Degli aneddoti di Gaetano Marini cit., p. 137; MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXXV; DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 490].
1814, 19 novembre Luigi XVIII mette a disposizione del delegato di Sua Santità 60.000 franchi per il trasporto a Roma degli archivi vaticani [MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXXVII].
1815, 20 marzo – 8 luglio
«Cent-Jours»; fra il ritorno di Napoleone a Parigi e il suo definitivo esilio all’isola di Sant’Elena, nell’Oceano Atlantico; brusca interruzione delle operazioni di recupero [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 491].
1815, 17 maggio
Morte a Parigi di Gaetano Marini; poco dopo, eseguendo ordini del card. Bartolomeo Pacca (26 aprile 1815), Marino Marini lascia Parigi e si ferma a Santarcangelo di Romagna, in attesa di indicazioni da parte del card. Ercole Consalvi [MARINI, Degli aneddoti di Gaetano Marini cit., p. 137; MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXXIX; DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 491].
1815, 12 agosto
Consalvi ordina a Marini di tornare a Parigi per dare corso alla spedizione degli archivi e per occuparsi «della restituzione dei Codici della Biblioteca Vaticana»; la lettera è spedita a Santarcangelo ma nel frattempo Marini è rientrato a Roma e, lì informato delle disposizioni, riparte per Parigi [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXXXIX, CCLVIII; DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 491].
1815, settembre
Luigi Angeloni stende il testo della nota diplomatica presentata da Antonio Canova a Lord Castlereagh per chiedere la restituzione ai legittimi proprietari dei beni sottratti dai Francesi [CAMPANI, Sull’opera cit., pp. 189-190; SPERDUTI, L. Angeloni e il Canova cit., p. 267].
1815, 3 settembre
Arrivo di Marini a Parigi [MARINI, Memorie storiche cit., p. CCXXXIX].
1815, 5 ottobre
Occupazione militare della Bibliothèque Nationale da parte delle potenze alleate e ingiunzione ai Francesi di restituire gli oggetti d’arte e di letteratura da essi requisiti; nello stesso
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giorno Marini fa sapere al ministro francese degli affari interni di voler recuperare quanto spetta alla Santa Sede ma senza fare ricorso alla forza; poco dopo però decide di accettare «dal Commissario Austriaco i Codici, e le Medaglie Vaticane» [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLII, CCLXV; DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 496].
1815, 6 ottobre
«Protestation» dei commissari pontifici (ma redatta da Luigi Angeloni) che, di fronte ai rifiuti francesi, affermano di ricevere dalle mani degli Alleati codici e medaglie della Santa Sede; ma di non aver mai voluto ottenere tali restituzioni, giuste nella loro essenza, con atti di violenza, estranei nelle modalità allo spirito di pace e di conciliazione che anima il Papa [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLII, CCLXVI; DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., pp. 497-498].
1815, 12 ottobre
Marini invia a Roma il Terenzio Vaticano (Vat. lat. 3868); non giunge in tempo la lettera di Consalvi del 6 novembre 1815, con la quale era autorizzato alla cessione del codice «se il non farla avesse da noi alienato gli animi de’ Ministri francesi» [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLIII, CCLXVI-CCLXVII].
1815, 25 ottobre
Partenza da Parigi alla volta di Roma del primo convoglio di opere d’arte recuperate (fra esse il Laocoonte, l’Apollo di Belvedere, la Trasfigurazione e la Madonna di Foligno di Raffaello [PIETRANGELI, I Musei Vaticani cit., p. 129].
1815, 28 ottobre
Il barone di Ottenfels riconosce di aver ricevuto dai Francesi tutti i manoscritti requisiti in esecuzione del Trattato di Tolentino, che nello stesso giorno sono ufficialmente consegnati a Marino Marini [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., pp. 496-497].
1815, 30 ottobre
Consalvi comunica a Marini la decisione del Papa di cedere al governo prussiano, per riconoscenza per gli aiuti offerti alla Santa Sede, 39 manoscritti Palatini (che facevano parte del gruppo dei codici requisiti dai Francesi sulla base del Trattato di Tolentino), come richiesto da Friedrich Wilken; Marini comunica (17 novembre 1815) la notizia al generale Karl Müffling ma non ottiene risposta «perché forse Sua Santità non aveva interamente condisceso alla richiesta del Ministro Prussiano, che tutta la Biblioteca Palatina volea fosse trasportata a Heidelberga» [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLIII-CCXLIV, CCLXVII].
1815, fine ottobre
Marino Marini trasmette a Roma 700 casse con manoscritti e documenti recuperati; poco dopo, informato delle difficoltà del viaggio, Marini lascia improvvisamente Parigi per accompagnare il convoglio [MARINI, Memorie storiche cit., pp.
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CCXLI, CCXLVII-CCXLVIII; DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit.,
p. 491].
1815, 23 dicembre Arrivo a Roma di Marini, con disapputo di Consalvi che avrebbe preferito che rimanesse a Parigi [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLVII-CCXLVIII].
1816, 4 gennaio
Arrivo a Roma del primo convoglio di opere d’arte, partito da Parigi il 25 ottobre 1815 [PIETRANGELI, I Musei Vaticani cit., p. 129].
1816, 28 gennaio
Marini viene nominato cameriere segreto d’onore di Sua Santità [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLVIII, CCLXX; DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 492].
1816, 23 febbraio
A Marini viene concessa una pensione annua di 120 scudi [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCXLVIII, CCLXXI].
1816
Stesura della prima parte delle Memorie storiche (…) di Marino Marini, per spiegare e giustificare il suo comportamento a Pio VII [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 431 (ma si corregga l’affermazione secondo cui la parte principale delle Memorie storiche fu redatta nel 1817; lo fu invece nel 1816, come esplicitamente indicato in Memorie storiche cit., p. CCXXVIII, cioè dopo il ritorno a Roma di Marini].
1817, 18 maggio
Consalvi accredita presso il duca di Richelieu, ministro degli affari esteri di Luigi XVIII, Marini, «incaricato da Sua Santità di attendere alla trasmissione degli Archivii Pontificii, che rimangono ancora a trasportarsi, e per la ricupera di alcuni oggetti, che fanno parte dei medesimi» [MARINI, Memorie storiche cit., p. CCLXXII; DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 492].
1817, 19 luglio
Il duca di Richelieu accorda udienza a Marini, che reclama documenti rimasti nelle mani francesi [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCLXXIII, CCLXXIV].
1817, 24 luglio
Con lettera al chevalier de La Rue Marino Marini riconosce di avere riavuto a disposizione gli archivi pontifici requisiti [DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 493].
1817, ante 5 agosto Marini spedisce a Roma la documentazione sino a quel momento recuperata [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCLXXXIX]. 1817, 18 agosto
1817, 24 agosto
Il conte di Cazes, ministro di polizia, accorda udienza a Marini, che gli chiede la collaborazione di tutte le autorità interessate, per riottenere la documentazione vaticana non ancora recuperata [MARINI, Memorie storiche cit., p. CCLXXXI]. Nuova udienza del duca di Richelieu a Marini [MARINI, Memorie storiche cit., pp. CCLXXXIX-CCXC].
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1817, 13 settembre Appena ricevuta una lettera di Consalvi — che, considerata l’inutilità di ulteriori reclami, ordina il rientro —, Marini scrive una lettera di commiato al duca di Richelieu e poco dopo (comunque dopo il 22 settembre perché in quella data scrive ancora da Parigi al ministro della Giustizia Pasquier) lascia Parigi per tornare a Roma; la partenza doveva avvenire prima dell’arrivo a Parigi del nuovo nunzio Carlo Zen, al quale (secondo le intenzioni di Consalvi) Marini non doveva recare intralcio [MARINI, Memorie storiche cit. pp. CCC-CCCI; cfr. ibid., pp. CCXCII, CCXCIV-CCXCV, CCXCVII].
1818
Pubblicazione a Parigi di Dell’Italia, uscente il settembre del 1818 di Luigi Angeloni, ove sono mosse critiche all’operato dei commissari pontifici a Parigi.
1824 ca.
Stesura della seconda parte delle Memorie storiche (…) di Marino Marini, con la risposta alle valutazioni critiche di Luigi Angeloni e di Angelo Mai.
III. I manoscritti cinesi della Biblioteca Vaticana trasferiti a Parigi Secondo la Recensio manuscriptorum cit., pp. 42-44, undici furono i manoscritti cinesi (o di soggetto sinologico) della Vaticana trasferiti a Parigi sulla base del Trattato di Tolentino (sono gli item contraddistinti dai numeri 181-191)273. A differenza di quanto accade per gli altri quindici fondi interessati al trasferimento274, i «Sinici» non hanno conservato le segnature che avevano al momento della requisizione e con le quali compaiono nella Recensio: a giudicare dalle sue indicazioni essi sfioravano 273 I dati sostanzialmente coincidono con quelli offerti dal «Confronto dei Codici Manoscritti della Biblioteca Vaticana fatto nell’Atto della Consegna dei medesimi, data dall’Illustrissimo Signor Canonico Angelo Battaglini, all’Illustrissimo Monsignor Francesco Baldi nei Mesi di Giugno 1814» (Biblioteca Vaticana, Arch. Bibl. 60, ff. 139r-188v), ove al f. 152v è indicato: «Codici Cinesi Vaticani. N°. 371, [303, aggiunto a matita in margine], 378 al 383 inclusive, 385, 390, 391, 392: Dati ai Francesi. Dopo il numero 396 che era una volta fra i Codd. Vaticani Latini N° 3612 si hanno varii libri, e mazzi senz’ordine, e numero. L’Inventario non è esatto». 274 I fondi sono (in ordine alfabetico, non quello di presentazione nella Recensio manuscriptorum): Ottoboniani greci (Recensio manuscriptorum cit., p. 86), Ottoboniani latini (ibid., pp. 124-130), Palatini greci (ibid., pp. 76-85), Palatini latini (ibid., pp. 120-123), Reginensi greci (ibid., pp. 85-86), Reginensi latini (ibid., pp. 104-120), Urbinati ebraici (ibid., p. 6), Urbinati latini (ibid., p. 130), Vaticani arabi (ibid., pp. 17-34), Vaticani copti (ibid., pp. 35-40), Vaticani ebraici (ibid., pp. 3-6), Vaticani etiopici (ibid., pp. 40-41), Vaticani greci (ibid., pp. 44-76), Vaticani latini (ibid., pp. 86-104), Vaticani siriaci (ibid., pp. 7-17).
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almeno i quattrocento elementi. Come è noto, non esiste oggi un fondo di Vaticani cinesi. Nella descrizione di Angelo Mai, pubblicata nel 1831, dunque dopo il recupero dei manoscritti trasferiti in Francia, i manoscritti allora raggruppati sotto la definizione di «Sinici» raggiungevano appena i dieci elementi, evidentemente quale frutto di una prima riconsiderazione del problema. Mai infatti considerava solo i manoscritti in caratteri cinesi escludendo quelli di argomento sinologico ma in alfabeto latino275. Il fondo «cinese» fu poi ulteriormente ristrutturato in occasione del soggiorno in Vaticana del sinologo francese Paul Pelliot (1878-1945): dopo la sua venuta, partendo dai manoscritti «cinesi», fu infatti costituito, nel 1922, il fondo dei Vaticani estremo-orientali (che conta oggi 147 segnature, ma 144 elementi), con una denominazione geografica, linguistica e culturale più ampia della precedente suddivisione. Ma ecco il quadro dei manoscritti cinesi trasferiti a Parigi:276 Segnatura Descrizione in Recensio ma- Segnatura indicata in nuscriptorum cit. attuale Recensio manuscriptorum cit.
Descrizione
«Ex Sinicis. CCLXXI» [n° 181]
«Dictionarium Sinico-Latinum. Belle copie exécutée à Canton en 1726 par Filippo Telli, puis remaniée et achevée par lui à Rome en 1733, du Dictionarium Sinico-Latinum de Basilio Brollo, de Gemona, dit Basillio da Glemona (sic). Cette copie est précédée d’un “mode d’emploi” dû au P. Matteo Ripa. La note initiale du P. Cerù, Rome, 25 décembre 1733, fait savoir que, d’ordre du Souverain Pontife, lui et Ripa avaient dû faire imprimer à Canton le Dictionnaire du P. Basile; mais le projet avorta»276.
«Cod. Chartac. in fol. exarat. Vat. saec. XVIII. Continet Lexicon estr.Sinico-Latinum absolutissi- or. 2 mum auctore Fratre Basilio a Glemona Italo Sacrae Congregationis de Propaganda Fide apud Provinciam Xensinensem Missionum Vicario Apostolico, plerisque in fine adjectis, quae ad faciliorem illius linguae captum, et numerandi rationem conducunt» (p. 42).
275 «Codices sinici, ipsis Sinensium litteris scripti, perpauci in bibliotheca vaticana sunt: nam illos, qui vel de rebus sinicis latine agunt, vel Sinensium scripta nonnisi latine exhibent, omittendos interim censeo: quandoquidem ad seriem codicum orientalium, vel certe orientalibus linguis loquentium, nequaquam pertinent», A. MAI, Scriptorum veterum nova collectio e Vaticanis codicibus edita, V/2, Romae 1831, pp. 112-113: 112. Lo stesso numero di manoscritti cinesi viene indicato nelle statistiche pubblicate da A. NIBBY, Roma nell’anno MDCCCXXXVIII: Parte seconda moderna, Roma 1841, p. 252. 276 Inventaire sommaire des manuscrits et imprimés chinois de la Bibliothèque Vaticane. A Posthumous Work by P. PELLIOT, revised and edited by T. TAKATA, Kyoto 1995 (Italian School of East Asian Studies. Reference Series, 1), p. 63. Come è noto, il francescano Basilio Brollo
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«Ex Sinicis. CCCLXXVIII» [n° 182]
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«Cod. Chartac. in fol. numero Vat. lat. sex complectentes Sinarum 12855 varias Historias a clarissimo Claudio Visdelovio Episcopo Claudiopolitano277 latine redditas. Tomus primus continet historiam illius Gentis ad annum usque CCCXXIV ante undecimam Aeram, constatque paginis 720» (p. 42).
«(p. 1) Historia Sinica latine versa a Cl. de Visdelou, ab initio usque ad annum ante XI aeram, t. I (…) Sec. XVIII, pp. 1-720»278.
277278
lo da Gemona (1648-1704) fu autore di due dizionari cinese-latino composti a Nanchino nel 1694 e nel 1699 (il primo ordinato secondo il numero delle chiavi o radicali, il secondo secondo la pronuncia dei caratteri) che godettero di una certa fortuna (cfr. G. BERTUCCIOLI, Brollo, Basilio, in Dizionario biografico degli italiani, XIV, Roma 1972, pp. 454-456). Matteo Ripa (1682-1746) è invece il noto fondatore del Collegio dei Cinesi in Napoli. 277 Inviato in Francia nel 1685, nominato vicario apostolico (1708) dal legato della Santa Sede in Cina card. Charles Thomas Maillard de Tournon e poi vescovo di Claudiopoli in partibus, il gesuita francese Claude Visdelou (1656-1737) assunse (a differenza di altri suoi confratelli) un atteggiamento contrario ai riti cinesi e fu infine costretto (1709) a lasciare la Cina al seguito del legato, stabilendosi a Pondichéry ove morì, cfr. C. SOMMERVOGEL, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus (…), Bibliographie: VIII, Bruxelles – Paris 1898, coll. 838-843; Bibliotheca Missionum (…), VII: Chinesische Missionsliteratur 1700-1799, Aachen 1931 (Veröffentlichungen des Internationalen Instituts für Missionswissenschaftliche Forschung), pp. 105107; J. DEHERGNE, Répertoire des Jésuites de Chine de 1552 à 1800, Roma – Paris 1973 (Bibliotheca Instituti Historici S.I., 37), pp. 294-295. Per il ruolo di Visdelou accanto al Tournon e per le polemiche con i confratelli della Compagnia cfr. L. von PASTOR, Storia dei papi nel periodo dell’assolutismo (…), XV: Dall’elezione di Clemente XI sino alla morte di Clemente XII (1700-1740), Roma 1933, pp. 331-332, 342, 346, 373-374, 833, 843; Ph. LÉCRIVAIN, La fascination de l’Extrême-Orient, ou le rêve interrompu, in L’âge de la raison (1620/30-1750), sous la responsabilité de M. VENARD, Paris 1997 (Histoire du christianisme des origines à nos jours, sous la direction de J.-M. Mayeur, Ch. et L. Pietri, A. Vauchez, M. Venard), pp. 759, 777-778, 780, 830; J.-P. DUTEIL, Visdelou (Claude de), in Catholicisme hier aujourd’hui demain (…), XV, Paris 2000, coll. 1203-1205. 278 Inventario dei codici Vaticani latini 12848-13725, 15-VI-1957 [dattiloscritto; Biblioteca Vaticana, Sala Cons. Mss., 316 rosso], f. 4r. H. CORDIER, Bibliotheca Sinica. Dictionnaire bibliographique des ouvrages relatifs à l’empire chinois, Supplément et Index, Paris, 1922, col. 3686, pubblica a proposito di questa serie di Vaticani latini una nota di Paul Pelliot: «Les mss. de Visdelou, Foucquet et Maigrot décrits par Neumann [cfr. infra] (col. 1101) sont ceux qui sont conservés dans les archives de Lisbonne, mais ce ne sont ni des originaux, ni même des copies faites sur les originaux. Les mss. de Visdelou avaient été envoyés à Rome, peut-être à la Propagande. Foucquet [scil.: il gesuita Jean-François Fouquet (1665-1741), missionario in Cina e conoscitore della lingua e della cultura cinesi] les fit copier en même temps que quelques autres œuvres vers 1736, et légua ces copies au pape, qui les fit placer à la Vaticane, le 15 mars 1741. Dans ce lot provenant de Foucquet, aujourd’hui numéroté Vat. lat. 12851 à 12870 (mais 12868-12869 sont une copie du traité de Maigrot), deux volumes seulement (Lat. 12862 et 12867), sont les originaux envoyés des Indes; encore ne sont-ils que partiellement autographes. C’est après l’entrée des copies à la Vaticane en 1741 que les mss. de Lisbonne ont été executés d’après elles, à une date jusqu’ici indeterminée; ce sont donc des copies de copies (Pelliot)».
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«PER LE COSE DELLA PATRIA NOSTRA»
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«Ex Sinicis. CCCLXXIX» [n° 183]
«Tomus 2. continet Historiam Vat. lat. ab anno ante undecimam 12856 Aeram CCCXXIV. ad CCVI. constatque pagg. 513» (p. 42).
«(…) Historia Sinica latine versa a Cl. de Visdelou, ab anno ante XI aeram 424 usque ad annum 206, t. II (…). Sec. XVIII, pp. 1-513»279.
«Ex Sinicis. CCCLXXX» [n° 184]
«Tomus 3. continet Historiam Vat. lat. a praefato ann. CCVI. ante 12857 undecimam Aeram ad CXL. constatque pagg. 587» (p. 42).
«(p. 1) Historia Sinica latine versa a Cl. de Visdelou ab anno ante XI aeram 206 usque ad annum 140, t. III (…). Sec. XVIII, pp. 1-587»280.
«Ex Sinicis. CCCLXXXI» [n° 185]
«Tomus 4. continet Historiam Vat. lat. a supradicto anno ante unde- 12858 cimam Aeram CXL. ad an-
«(p. 1) Historia Sinica latine versa a Cl. de Visdelou, ab anno ante XI aeram 140 usque ad annum
279280
Sui manoscritti ricollegabili a Fouquet in Biblioteca Vaticana entrati per lascito il 15 marzo 1741 e collocati nel fondo Vaticano latino, cfr. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 166-167, 176 nt. 92; J. W. WITEK, Controversial ideas in China and in Europe: a biography of Jean-François Foucquet, S.J. (1665-1741), Roma 1982 (Bibliotheca Instituti Historici S.I., 43), pp. 453-460; Ch. M. GRAFINGER, Die Handschriften des Chinamissionars Jean François Foucquet S.I. an der Vatikanischen Bibliothek, in Archivum historicum Societatis Iesu 63 (1994), pp. 161-173. Il Vat. lat. 12855 (legatura, mm 280x205) presenta sul dorso le seguenti indicazioni: VIII (a matita) || Historia Sinica / Latine versa / ab illustrissimo domino / Visdelou / ab initio / usque ad annum / ante XI aeram / 424 tom. Ius (a penna) || LXXVII (a matita) || B bbb / 378 (a penna, su un talloncino cartaceo nell’ultimo scomparto). Sulla risguardia anteriore è incollato un cartiglio con l’indicazione a penna: Sin. VIII. Nella parte superiore del f. Ir sono indicati a penna i numeri 378 (per due volte; una volta depennato) e VIII; subito sotto la nota: «S.S. D. N. Benedictus PP. XIV / Bononiensis / Bibliothecae Apostolicae Vaticanae / D.D. / die XV. Martii MDCCXXXXI / Pontificatus Sui Anno Primo». Al f. Iv, a penna, è indicato: «Joannis Francisci E S.J. Episcopi Eleutheropolitani» (Jean-François Fouquet fu dal 21 marzo 1725 vescovo titolare di Eleuteropoli in Macedonia). Alle pp. 1 e 720 timbri della Bibliothèque Nationale de Paris. 279 Inventario dei codici Vaticani latini 12848-13725 cit., f. 4r. Il Vat. lat. 12856 (legatura, mm 277 u 200) presenta sul dorso le seguenti indicazioni: IX (a matita) || Historia Sinica / Latine versa / ab illustrissimo domino / Visdelou / tom. 2us / ab anno / ante XI aeram / 424 / usque / ad annum / 206 (a penna) || LXXVIII (a matita) || C ccc / 379 (a penna, impressione di un talloncino cartaceo, ora scomparso, nell’ultimo scomparto del dorso). Sulla risguardia anteriore è incollato un cartiglio con l’indicazione a penna: Sin. IX. Nella parte superiore di p. 1 sono indicati a penna i numeri 379 (per due volte; una volta depennato) e IX; subito sotto la nota: «S.S. D. N. Benedictus PP. XIV (…)» (a penna). A p. 2 è indicato: «Joannis Francisci E S.J. (…)» (a penna). Alle pp. 3 e 514 timbri della Bibliothèque Nationale de Paris. 280 Inventario dei codici Vaticani latini 12848-13725 cit., f. 4r. Il Vat. lat. 12857 (legatura, mm 282 u 205) presenta sul dorso le seguenti indicazioni: X (a matita) || Historia Sinica / Latine versa / ab illustrissimo domino / Visdelou / tom. 3us / ab anno / ante XI aeram / 206 usque / ad annum / 140 (a penna) || LXXIX (a matita) || D ddd / 380 (a penna, su un talloncino incollato nell’ultimo scomparto del dorso). Sulla risguardia anteriore è incollato un cartiglio con l’indicazione a penna: Sin. X. Nella parte superiore del f. ar sono indicati a penna i numeri 380 (per tre volte; due volte depennato) e Cod. X; subito sotto la nota: «S.S. D. N. Benedictus PP. XIV (…)» (a penna). Al f. Iv, è indicato: «Joannis Francisci E S.J. (…)» (a penna). Alle pp. 1 e 588 timbri della Bibliothèque Nationale de Paris.
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num post Christum natum XXV. constatque pagg. 798» (pp. 42-43).
Christi 25, t. IV (…). Sec. XVIII, pp. 1-798»281.
«Ex Sinicis. «Tomus 5. continet Historiam Vat. lat. CCCLXXXII» a praefato Christi ann. XXV. 12859 [n° 186] ad CCXIV. constatque pagg. 722» (p. 43).
«(p. 1) Historia Sinica latine versa a Cl. de Visdelou, ab anno aerae Christianae 25 usque ad annum 214, t. V (…). Sec. XVIII, pp. 1-722»282.
«Tomus 6. complectitur Chro- Vat. lat. «Ex Sinicis. CCCLXXXIII» nicon Imperatorum Sinen- 12860 [n° 187] sium, resque a singulis praeclare gestas: estque veluti repetitio, et Synopsis praecedentis Historiae. Auctor per multos annos in Sinarum Regno est commoratus, praefuitque sacris Missionibus, quas Congregatio de Propaganda Fide in illis partibus instituerat, ubi hanc, et sequentes Historias elucubravit» (p. 43).
«(p. 1) Historiae Sinicae latinae versae a Cl. de Visdelou, libr. VI-X ab an. ante Christum 246 ad an. 48 a. Chr. (…). Sec. XVIII, pp. 1-318»283.
281282283 281 Inventario dei codici Vaticani latini 12848-13725 cit., f. 4r. Il Vat. lat. 12858 (legatura, mm 276 u 198) presenta sul dorso le seguenti indicazioni: XI (a matita) || Historia Sinica / Latine versa / ab illustrissimo domino / Visdelou / ab anno ante / XI aeram 140 / usque ad annum / Christi 25um / tom. 4us (a penna) || LXXX (a matita) || indicazione non chiarissima impressa da un talloncino, ora scomparso, incollato nell’ultimo scomparto del dorso. Sulla risguardia anteriore è incollato un cartiglio con l’indicazione a penna: Sin. XI. Nella parte superiore del f. Ir, sono indicati a penna i numeri 381 (per due volte; una volta depennato) e Cod. XI; subito sotto la nota: «S.S. D. N. Benedictus PP. XIV (…)» (a penna). Al f. Iv, è indicato: «Joannis Francisci E S.J. (…)» (a penna). Alle pp. 1 e 798 timbri della Bibliothèque Nationale de Paris. 282 Inventario dei codici Vaticani latini 12848-13725 cit., f. 4r. Il Vat. lat. 12859 (legatura, mm 275 u 198) presenta sul dorso le seguenti indicazioni: XII (a matita) || Historia Sinica / Latine versa / ab illustrissimo domino / Visdelou / tom. 5us / ab anno / aerae Christianae / 25° / usque ad annum / 214um (a penna) || LXXXI (a matita) || LXXXI (a penna, ma quasi svanita) || indicazione non chiarissima (ma sembra la consueta segnatura alfanumerica) impressa da un talloncino cartaceo, ora scomparso, nell’ultimo scomparto. Sulla risguardia anteriore è incollato un cartiglio con l’indicazione a penna: Sin. XII. Nella parte superiore del f. Ir, le indicazioni 382 (per due volte, una depennata) e Cod. XII (a penna); subito sotto la nota: «S.S. D. N. Benedictus PP. XIV (…)» (a penna). Al f. Iv, è indicato: «Joannis Francisci E S.J. (…)» (a penna). Alle pp. 1 e 722 timbri della Bibliothèque Nationale de Paris. 283 Inventario dei codici Vaticani latini 12848-13725 cit., f. 4r. Il Vat. lat. 12860 (legatura, mm 273 u 200) presenta sul dorso le seguenti indicazioni: XIII (a matita) || Tom. VI (a penna) || LXXXV (a matita) || indicazione numerica in cifre romane, non chiara || indicazione di segnatura alfanumerica, non chiara [G ggg / 383 (?)], impressa da un talloncino, ora scomparso, nell’ultimo scomparto. Sulla risguardia anteriore, oltre all’indicazione a penna 383 (depennata), è incollato un cartiglio con l’indicazione a penna: Sin. XII. Nella parte superiore del f. Ir le indicazioni a penna 383 (per due volte, una depennata) e Cod. XIII; subito sotto la
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«PER LE COSE DELLA PATRIA NOSTRA»
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«Ex Sinicis. «Miscellanea, variae qualita- Vat. lat. CCCLXXXV» tis ac formae, continent, quae 12862 [n° 188] sequuntur 1. Canones duos Chronologicos ex charta serica Sinicis characteribus typis impressos, quibus Visdelovius expositiones, et notulas propria manu interposuit: Primum desinit in ipso Aerae Christianae initio: Alterum ad ann. MDCCXXXVI. deducitur. 2. Tractatum de antiquitatibus Sinarum Libros quatuor ab eodem propria manu exarat. queis praefationis loco jungendum monet superiorem libellum de Sinarum antiquitatibus, quem jampridem Romam se mississe testatur»284 (p. 44).
«(f. 1) Canon Chronologiae Sinicae usque ad annum I aerae christianae». (f. 1) Canon Chronologiae Sinicae ab an. I. p. Chr. ad an. 1736. Subsequuntur Chronolgiae diversae in lingua sinica redactae (…). (f. 53) De antiquitate Sinarum et mundi authore Cl. de Visdelou (…). (f. 103) Chronologia Sinica latine versa a Cl. de Visdelou (…). Sec. XVIII, ff. 1-243»285.
«Miscellanea in fol. in quibus Vat. lat. haec continentur 1. Tractatus 12867 de Religione Sinico-Brachmanica, Claudio Visdelovio Gallice reddita, et animadversionibus illustrata. 2. MongoloSinicae Historiae Epitome Fastorum, quam idem Visde-
«(f. 1) De religione Sinico-Brachmanica seu Foto-nis ex magnorum promptuariorum compendiosa Sylloge abs Chin Xe Fototanae sectae cultore compilata, atque anno Xristianae aerae 1430 in lucem edita excerpta. Tractatus latine versus a Cl. de Visdelou (…).
«Ex Sinicis. CCCXC» [n° 189]
284285
nota: «S.S. D. N. Benedictus PP. XIV (…)» (a penna). A p. 1, è indicato: «Joannis Francisci E S.J. (…)» (a penna). Alle pp. 1 e 320 timbri della Bibliothèque Nationale de Paris. Per l’opera in sei volumi del Visdelou cfr. NEUMANN, Claude Visdelou und das Verzeichniss seiner Werke, in Zeitschrift der Deutschen Morgenlandischen Gesellschaft 4 (1850), pp. 225-242: 227-228; SOMMERVOGEL, Bibliothèque cit., VIII, coll. 841 («Historia Sinica latine versa. VI Tom.), 842843 («Une histoire de la Chine traduite du chinois en latin, avec des Notes. 6 vol., ff. 720, 513, 610, 800, 700, 318»); e Bibliotheca Missionum, VII, cit., p. 106. 284 NEUMANN, Claude Visdelou cit., p. 234; SOMMERVOGEL, Bibliothèque cit., VIII, col. 842; Bibliotheca Missionum, VII, cit., p. 106 (sub n° 10). 285 Inventario dei codici Vaticani latini 12848-13725 cit., ff. 4r, 5r. Il Vat. lat. 12862 (legatura, mm 397 u 263) presenta sul dorso le seguenti indicazioni: XV (a matita blu) || ̱ (a penna) || un’indicazione numerica a penna, non chiara, e, oltre a due talloncini cartacei, un talloncino con l’indicazione a penna di una segnatura alfanumerica: I iii / 385. Nella parte superiore del f. Ir le indicazioni a penna XV, 385 (depennata), 369 (depennata), 386 (diversi numeri compaiono spesso all’inizio dei diversi elementi del manoscritto composito); sempre al f. Ir è incollato un foglietto con descrizione manoscritta di un «Sacerdotale, et Rituale Maronitarum», sotto il numero CXL, che però non sembra avere rapporto col codice. Al f. 243v (ove compare anche un timbro della Bibliothèque Nationale de Paris), firma autografa del Visdelou, vergata trasversalmente rispetto al testo («Verti Claudius Episcopus Claudiop.»).
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«Ex Sinicis. CCCXCICCCXCII» [ni 190-191]
lovius in latinum vertit»286 (p. 44).
(f. 54) Edit de l’Empereur de Chine mourant. Remarques sur le précédent édit, du P. Cl. de Visdelou (…). (f. 73v) Premier Edit de Youm Tchim empereur de Chine ordonnant des largesses à son avènement à la couronne. Remarques (f. 76) sur le précédent édit du P. Cl. de Visdelou (…). (f. 77) Second Edit de l’empereur Youm Tchim ordonnant une nouvelle amnistie. Remarques (f. 79v) sur le précédent édit du P. Cl. de Visdelou (…): (f. 80v) Testament de l’Imperatrice mère de l’empereur Youm Tchim (…). (f. 86) Mongolo-Sinicae historiae Epitome fastorum, latine versa a Cl. de Visdelou (…). Sec. XVIII, ff. 1-120v»287.
«Codices duo in fol. quorum Vat. lat. primus constat pagg. 599. Al- 12868ter 82. Continent Caroli Epi- 12869 scopi Cenonensis Vicarii Apostolici Fokiensis288 de Sinica
«(f. 1) Maigrot, Carolus, ep. Cononensis, vicarius apostolicus Fokiensis, De Synica religione dissertationes quatuor. Dissertationes I et II (…). Dissertationes III
286287288 286 NEUMANN, Claude Visdelou cit., p. 234; SOMMERVOGEL, Bibliothèque cit., VIII, col. 842;
Bibliotheca Missionum, VII, cit., p. 106 (sub n° 9). 287 Inventario dei codici Vaticani latini 12848-13725 cit., f. 6r. Il Vat. lat. 12867 (legatura, mm 322 u 212) presenta sul dorso le seguenti indicazioni: ̱ (a penna) || XX (a matita blu) || e la segnatura alfanumerica O ooo / 390 (per due volte, a penna; in un caso si tratta dell’impressione lasciata da un cartiglio ora quasi totalmente scomparso). Al f. Ir le indicazioni a penna: Cod. XX e 390. Al f. 1r il numero 389 (depennato). Ai ff. 2r e 120v timbri della Bibliothèque Nationale de Paris; al f. 120v, firma autografa del Visdelou («Verti Claudius Episcopus Claudiop.»). 288 Charles Maigrot (1652-1730) fu dal 1680 membro della Société des Missions Étrangères de Paris; partito per la Cina nel 1681, dal 1687 vicario apostolico della provincia del Fu-kien, dal 1696 vescovo titolare di Conone, fu espulso nel 1706 e morì a Roma, ove trascorse i suoi ultimi anni; sul Maigrot e sul suo importante ruolo nella questione dei riti (soprattutto per il celebre mandato del 1693 con severe proibizioni per i missionari e i cristiani cinesi), cfr. L. von PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo (…), XIV: Storia dei Papi nel periodo dell’Assolutismo dall’elezione di Innocenzo X sino alla morte di Innocenzo XII (16441700), parte I: Innocenzo X, Alessandro VII, Clemente IX, Clemente X (1644-1676) (…), Roma 1932, p. 433; (…), parte II: Innocenzo XI, Alessandro VIII, Innocenzo XII (1676-1700) (…), Roma 1932, pp. 477-479; C.I., Maigrot (Charles), in Catholicisme hier aujourd’hui demain (…), VIII, Paris 1979, coll. 172-173; LÉCRIVAIN, La fascination cit., pp. 771, 780, 799-800, 830. Del Maigrot la Vaticana possiede inoltre, fra i manoscritti, un catechismo, all’interno del composito Borg. cin. 345 (elemento VI), cfr. PELLIOT-TAKATA, Inventaire sommaire cit., p. 30.
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«PER LE COSE DELLA PATRIA NOSTRA»
«Ex Sinicis. CCCXCICCCXCII» [ni 190-191]
Religione Dissertationes qua- Vat. lat. tuor»289 (p. 44). 1286812869
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et IV»290.
289290
L’identificazione del primo manoscritto dell’elenco col Vat. estr.-or. 2 merita qualche parola di spiegazione. Del secondo dizionario cinese-latino di Basilio Brollo da Gemona, quello ordinato secondo la pronuncia dei caratteri che fu composto a Nanchino nel 1699, la Vaticana possiede attualmente quattro esemplari manoscritti291. Che il manoscritto del Dictionarium descritto nella Recensio manuscriptorum sia proprio il Vat. estr.-or. 2 (che non presenta timbri della Bibliothèque Nationale, come peraltro altri manoscritti trasferiti a Parigi) è mostrato da un esame delle note in esso presenti. Ecco il testo per esteso della nota, al f. 2r: «Io infrascritto faccio fede, qualmente l’Opera intitolata, Dictionarium Sinico latinum Reverendissimi Patris Fratris Basilij à Glemona f. manoscritta dal Signore Filippo Telli, che ancor esso è stato, ed hà dimorato per alcuni anni in Cina nella Corte dell’Imperatore292, è una fedele Copia dell’Originale del 289 NEUMANN, Claude Visdelou cit., pp. 235-242; cfr. anche K. J. RIVINIUS, Maigrot, Charles, in Lexicon für Theologie und Kirche, VI, Freiburg – Basel – Rom – Wien 19973, coll. 12021203: 1202. Altri testimoni dell’opera in Roma, Biblioteca Casanatense, mss. 2452-2455. 290 Inventario dei codici Vaticani latini 12848-13725 cit., f. 6r. Sulla risguardia anteriore del Vat. lat. 12868 (legatura, mm 320 u 215; coperto con tela colorata con motivi vegetali e animali) è incollato un cartiglio con le indicazioni LVIII (a matita) e Sin. XXVI (a penna). Nella parte superiore del f. 1r, i numeri 391, XXIII (depennato), XXVI (tutti a penna) e la nota «Benedictus XIII Pont. Max. / Bibliothecè Vaticanè / D.D. / Anno Domini 1727» (a penna). Ai ff. 2r e 385v, timbri della Bibliothèque Nationale de Paris. Sulla risguardia anteriore del Vat. lat. 12869 (legatura, mm 320 u 215; coperta con tela colorata con motivi vegetali e animali) è incollato un cartiglio con le indicazioni LVIIII (a matita) e Sin. XXII (a penna). Nella parte superiore del f. 1r, i numeri 317, 391 (depennato), Cod. XXII (tutti a penna) e la nota «Benedictus XIII Pont. Max. (…)» (a penna); al f. 1v, il numero 318 (a penna). Ai ff. 2r e 207v, timbri della Bibliothèque Nationale de Paris. 291 Oltre al Vat. estr.-or. 2 (legatura, mm 315 u 220), testimoni del secondo dizionario (1699) sono i Vat. estr.-or. 3 e 8 e il Borg. cin. 423; mentre i testimoni vaticani del primo dizionario (1694) sono i Borg. cin. 406 e 475 (considerato autografo) e il Vat. estr.-or. 7, cfr. BERTUCCIOLI, Brollo, Basilio cit., p. 455, ove anche indicazioni sui tentativi settecenteschi (falliti) di pubblicare a stampa il dizionario del francescano. Per gli altri esemplari (oltre al Vat. estr.-or. 2), cfr. anche PELLIOT-TAKATA, Inventaire sommaire cit., pp. 44 (per il Borg. cin. 406), 45 (per il Borg. cin. 423), 51 (per il Borg. cin. 475), 63-64 (per i Vat. estr.-or. 3, 7 e 8); YU DONG, Catalogo delle opere cinesi missionarie della Biblioteca Apostolica Vaticana (XVI-XVIII sec.) (…), Città del Vaticano 1996 (Studi e testi, 366), p. 17 (ma con indicazioni non coincidenti con quelle di Pelliot-Takata e Bertuccioli). 292 Filippo Telli, allora laico, faceva parte del gruppo guidato da Carlo Ambrogio Mezzabarba, legato pontificio in Cina, che partì alla volta del Celeste Impero verso la fine del 1719, cfr. G. DI FIORE, Mezzabarba, Carlo Ambrogio, in Dizionario biografico degli italiani, LXXIV,
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suddetto Dizionario composto dal sopranominato Reverendissimo Padre da Glemona; e ciò lo sò, per avere io véduta, e considerata detta Copia del suddetto Dizionario, del quale communemente si servono li Missionarij di Cina, e si doveva per ordine di Sua Santità da me infrascritto, e dal Signore Don Matteo Ripa assistere alla stampa di detta Opera, che poi non seguì; e per essere tutto ciò la verità, hò scritto, e sottoscritto la presente di mia propria mano, in Roma questo dì 15 Xbre 1733. Giuseppe Cerrù de C.R.M. Protonotario Apostolico, e Procuratore Generale delle Missioni Orientali per la S. Congregazione de Propaganda Fide293». Il manoscritto appartenne (difficile stabilire se prima o dopo la nota di Cerù) al card. Giovanni Antonio de Via (Davia) (1660-1740), come indica una nota subito al di sotto della nota precedente («ex dono Card. de Via an. 1734»)294. Al f. 5r vi è invece quello che potremmo definire il frontespizio dell’opera: «Dictionarium Sinico-Latinum / Reverendissimi Patris Basilij à Glemona Itali, / Missionarij Sacrae Congregationis de Propaganda / Fide / necnon Vicarij Apostolici Provinciè Xensinensis / Cum Indice copioso characteribus inueniendis accomodato, / eorumque Sinicis Elementis, ac linearum varie compo- / nentium Elencho. / His accessere Sinensium Antithetorum, Particu- / larum numeralium, Vocum, quibus additur particula / Tà, atque Cognominum accuratè collectiones, Cum Cyclo / Sinico. / Constantia / et / Labore / Cantone / anno Domini M.D.CCXXVI». Il testo di Matteo Ripa è ai ff. 9r-14r Roma 2010, pp. 61-64: 61. Cfr. anche M. RIPA, Storia della fondazione della Congregazione e del Collegio de’ Cinesi (…), II, Napoli 1832, p. 150 e passim. 293 Il caracciolino Giuseppe Cerù fu procuratore generale per le missioni orientali della Congregazione di Propaganda Fide dal luglio 1710 al dicembre 1721, con residenza a Kwangchow; cfr. J. METZLER, Propaganda und Missionspatronat im 18. Jahrhundert, in Sacrae Congregationis de Propaganda Fide memoria rerum (…) 1622-1972, II: 1700-1815, RomFreiburg-Wien 1973, pp. 180-235: 202-203; F. MARGIOTTI, Le missioni cinesi nella tormenta, ibid., pp. 991-1023: 1003-1004, 1012; C. ALONSO, La Sagrada Congregación de Propaganda Fide y Filipinas: relaciones sólo en la primera parte del siglo XVIII, ibid., pp. 1036-1049: 1044. 294 Dal settembre 1727 il Davia fu prefetto della Congregazione dell’Indice, G. P. BRIZZI, Davia, Giovanni Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, XXXIII, Roma 1987, pp. 127130: 129. Il fatto potrebbe essere una spiegazione del possesso da parte sua del manoscritto del dizionario del Brollo (che si intendeva pubblicare), poi donato nel 1734. Rimane anche da stabilire chi e dove abbia vergato la nota. La stessa mano scrive una nota analoga al f. VIIr del Vat. estr.-or. 3 («ex dono Abbatis Mezzafalce 1732»), con riferimento a Giovanni Donato Mezzafalce (1661-1720), di Bitonto (Bari), beneficiato del Capitolo di S. Pietro, che aveva seguito il Tournon nella sua missione in Cina. In occasione della sua morte (20 agosto 1720) il Chracas infatti notava: «È passato all’altra vita quasi all’improviso il Sign. Abbate Mezzafalce, quale fu alla Cina con il fu Sig. Card. di Tournon, & al presente era Beneficiato di S. Pietro», Diario ordinario, num. 492, in data delli 7 settembre 1720, in Roma, nella Stamperia di Gio. Francesco Chracas, 1720, p. 8. Sul Mezzafalce, cfr. REZZA-STOCCHI, Il Capitolo di San Pietro cit., p. 365. Nel 1893 CARINI, La Biblioteca Vaticana cit., p. 108, ricorda due «libri cinesi» con la nota «ex dono Card. De Via. 1734». Essi recavano allora «i numeri 36-37 (arm. I)».
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(«De huius Lexici usu / Dissertatio / Iussu Clementis XII. Pontificis Maximi elucubrata / ab Abbate D. Matthèo Ripa in Regno Sinarum, / Regnisque ei adiacentibus Missionario Apostolico / per annos duodeviginti»), mentre al f. 14v un’altra nota illustra il ruolo di Telli nella trascrizione del testo: «Philippus Telli Clericus Piscien. I.U.D., qui san. mem. Clementis XI. Pontificis Maximi iussu per annos sex, et amplius moratus est in Sinarum Imperio, hoc opus maximo labore cuiusdam Literati Sinensis assiduo adiumento, post Linguè illius agnitionem, ex Archetypo Reverendissimi Patris Basilij a Glemona diligentissime, et perfideliter collationatum, transcripsit, aliqua addidit, atque Clementis XII. Pont. Max. nutu in hanc elegantiorem formam iterato labore redegit. Anno Domini M.D.CCXXXIII»295. La corrispondenza dei dati fra la descrizione della Recensio manuscriptorum, che definisce il manoscritto «absolutissimum» e precisa la presenza in esso di sussidi per l’apprendimento della lingua e della numerazione, e il contenuto del Vat. estr.-or. 2 appare chiara. Ma la certezza dell’identificazione proviene dalla presenza della segnatura con la quale il manoscritto era conservato in Vaticana sino al 1797 e con la quale fu dunque registrato nella Recensio manuscriptorum. Nella parte superiore del f. 1r sono infatti depennate alcune segnature: Cod. 371, 370, 361 (corretto in 363), dello stesso genere di quelle che compaiono nei manoscritti di Visdelou e Maigrot prima esaminati; poco al di sotto è indicato il numero XXVIII. Il numero 371 compare anche in una nota a penna su una etichetta rettangolare nel penultimo scomparto del dorso verso il basso: Sss / 371, mentre nell’ultimo scomparto vi è un’etichetta circolare con l’indicazione a penna «Dict. / Sinico-lat. / v. 1» (indicazione analoga nel tassello con doratura nel secondo 295 L’attuale Vat. estr.-or. 2 viene descritto da Mai, fra i «Codices sinici», sotto il n° IX: «Eiusdem lexici glemoniani aliud exemplar in charta europaea anno 1726. scriptum, cum praevia de huius lexici usu dissertatione Matthaei Ripae missionarii, iussu Clementis XII. scripta. Hunc ipsum codicem Parisiis vidit, deque eo loquitur vir cl. Klaprothus in supplem. ad sinicum Guinii lexicon p. 9», MAI, Scriptorum veterum nova collectio cit., p. 113. Per riferimenti al manoscritto del dizionario del Brollo, che fu oggetto del plagio di Chrétien-LouisJoseph de Guignes (1759-1845) per il suo Dictionnaire chinois, français et latin (Paris 1813), poi denunciato da Jean-Pierre Abel-Rémusat nel 1814 e da Julius Klaproth nel 1819 (cfr. BERTUCCIOLI, Brollo, Basilio cit., pp. 455-456), cfr. Ch.-L.-J. de GUIGNES, Dictionnaire chinois, français et latin publié d’après l’ordre de Sa Majesté l’empereur et roi Napoléon le Grand, à Paris 1813, pp. IV, VII («Le Dictionnaire du P. Basile, fait en 1726, c’est-à-dire, long-temps après l’arrivée des premiers missionaires à la Chine (…)»); J. KLAPROTH, Supplément au Dictionnaire chinois-latin du p. Basile de Glemona (imprimé, en 1813, par les soins de m. de Guignes) publié d’après l’ordre de Sa Majesté le roi de Prusse Frédéric-Guillaume III, à Paris 1819, pp. VIII, 2, 9 («La copie qui appartenait à la Bibliothèque de Paris, et qui est connue sous le nom de Manuscrit du Vatican, porte en effet la date de 1726; mais nous en avons sous les yeux un autre commencée en 1714 et terminée en 1715»). Appare dunque certo che il manoscritto utilizzato da Guignes sia il Vat. estr.-or. 2, l’unico a recare la data del 1726.
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scomparto dall’alto: «Dictionar: / Sinico-Lat»). Si può dunque ipotizzare che la segnatura CCLXXI con la quale il manoscritto compare nella Recensio manuscriptorum sia semplicemente una corruzione della segnatura 371. Per concludere, una parola sul numero dei manoscritti «Sinici» quale compare nella Recensio manuscriptorum. Colpisce infatti il loro numero davvero molto elevato, per quanto alla fine del secolo che aveva visto divampare la questione dei riti cinesi296. Tenuto conto del fatto che sulla base del Trattato di Tolentino solo undici manoscritti cinesi furono trasferiti dalla Vaticana a Parigi (e furono poi tutti recuperati) e considerato il modestissimo numero dei manoscritti cinesi catalogati dal Mai nel 1831, dobbiamo ipotizzare che quelli che nella Recensio manuscriptorum sono definiti «Sinici» e vengono contraddistinti da un preciso numero d’ordine facessero in realtà parte di un insieme piuttosto vasto ed eterogeneo di manoscritti (e forse di stampati) nel quale si mescolavano manoscritti/ stampati cinesi e manoscritti/stampati di soggetto cinese. Tale insieme eterogeneo scomparve fra il 1814 (anno del ricordato passaggio di consegne fra Battaglini e Baldi) e il 1831, anno di pubblicazione della catalogazione di Mai. Fu l’allora primo custode della Vaticana a distinguere nettamente i manoscritti/stampati propriamente cinesi da quelli di argomento sinologico, riducendo così drasticamente il numero dei primi e accantonando probabilmente i secondi che solo più tardi (a giudicare dalle segnature assegnate) furono fatti confluire nel fondo Vaticano latino: fu il destino, con altri, dei manoscritti del Visdelou e del Maigrot.
IV. Numero complessivo dei manoscritti vaticani requisiti sulla base del Trattato di Tolentino Per quanto venga talvolta affermato che i manoscritti asportati sulla base del trattato di Tolentino furono 500297, il numero effettivo dei ma296 Ma già nello «Stato della Biblioteca Vaticana», che risale al 1751 ca., i manoscritti cinesi costituivano uno dei sei «corpi», il quinto, nei quali erano suddivisi i manoscritti vaticani (gli altri erano: «Latini, Italiani, Francesi»: I; «Greci»: II; «Ebraici»: III; «Siriaci, Armeni, Arabici, Illirici»: IV; «Tedeschi»: VI; cfr. Biblioteca Vaticana, Ott. lat. 3181, p. II, f. 414r); ai manoscritti cinesi era riservato un armadio particolare lungo le pareti del Salone Sistino: «Libreria di Codici Cinesi: Una libreria particolare di tutti i Codici Cinesi è nella Vaticana, e occupa tutto l’Armario L del Vaso grande della Libreria», ibid., f. 414r. 297 In realtà i manoscritti selezionati furono 501 perché alla fine all’elenco fu aggiunto il Vat. gr. 16, con gli Anecdota di Procopio, cfr. Recensio manuscriptorum cit., p. 132. L’affermazione relativa ai 500 manoscritti requisiti è frequente anche in sedi seriamente divulgative, cfr., per esempio, E. DUFFY, La grande storia dei papi. Santi, peccatori, vicari di Cristo, Milano
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noscritti sequestrati dai Francesi nel 1797 fu di fatto minore. Il motivo è chiaramente spiegato (non senza esiti di involontario umorismo) dalla Recensio manuscriptorum298: «Quoniam ex selectis hucusque, recensitisque Mscptis Codicibus plerique plura argumento, scriptione atque aetate diversa inter se opera continent, quae non ob aliud a Bibliothecae Ministris deprehendebantur in unum volumen fuisse congesta, quam quod multiplicium consarcinationum sumptus cohercerentur, indignum existimatum est, eos pro singulis haberi, ne Vaticana Bibliotheca ex oeconomicis curis suis damnum quaesisse videretur. Quapropter rogati Procuratores Gallorum, ut eorum, sicuti par erat, rationem haberi sinerent, ultro annuerunt, ut quae memoratis in Manuscriptis diversa inter se argumento, scriptione ac aetate essent, ea quamvis uno, eodemque simul concluderentur volumine, pro sejunctis, distinctisque Codicibus haberentur. Quoniam vero clarissimi Mongii caeterorumque in Vaticanam Bibliothecam humanitas aliqualem animi testificationem exigere videbatur, ex compluribus, quos divisioni hujusmodi subesse compertum erat, sequentes tamtummodo communi sententia seligere placuit, qui, vel ut bini, vel ut terni, prout apicum, argumentorum et auctorum expostulabat diversitas, numerarentur». Dunque, a tutela degli interessi della Vaticana, i procuratori francesi ritennero di dover considerare alcuni manoscritti compositi come manoscritti doppi o addirittura tripli. I manoscritti così considerati furono complessivamente 37 (di cui 33 «ut bini» e 4 «ut terni»); eccone l’elenco (in ordine alfabetico per fondo, che modifica quello in cui vengono indicati nella Recensio manuscriptorum)299: Manoscritti vaticani selezionati dai Francesi computati come compositi 300
Ott. lat. 259 Pal. gr.
40300
Pal. gr. 360
«ut binus» «ut ternus» «ut binus»
2001 [ed. originale: New Haven 1997], p. 305; J. O’MALLEY, Storia dei Papi, Roma 2011 (Campo dei fiori, 6) [ed. originale: Lanham [MD] etc. 2010], p. 248. 298 Recensio manuscriptorum cit., pp. 130-131. Cfr. anche il passo della lettera di Monge, Berthollet, Berthelemy e Tinet al ministro degli affari esteri Talleyrand-Périgord, Venezia, 26 termidoro dell’anno V [= 13 agosto 1797], in MONGE, Dall’Italia cit., p. 251. 299 Recensio manuscriptorum cit., pp. 132-133. Dei manoscritti nella prima colonna viene indicata la segnatura, nella seconda come venivano considerati («ut binus» / «ut ternus»). Un sommario esame dei codici induce a credere che talvolta gli elementi che costituiscono il composito siano più di due o tre; ma in qualche caso manoscritti considerati compositi potrebbero essere invece unitari. 300 Ora ad Heidelberg, Universitätsbibliothek.
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Pal. lat. 1080301
«ut ternus»
Reg. lat. 733
«ut binus»
Reg. lat. 1424
«ut binus»
Reg. lat. 1616
«ut binus»
Reg. lat. 1659
«ut binus»
Reg. lat. 1914
«ut binus»
Vat. ar. 13
«ut binus»
Vat. ar. 293
«ut binus»
Vat. ar. 317
«ut binus»
Vat. gr. 100
«ut binus»
Vat. gr. 116
«ut binus»
Vat. gr. 152
«ut binus»
Vat. gr. 163
«ut binus»
Vat. gr. 224
«ut binus»
Vat. gr. 292
«ut binus»
Vat. gr. 321
«ut binus»
Vat. gr. 704
«ut binus»
Vat. gr. 723
«ut binus»
Vat. gr. 896
«ut binus»
Vat. gr. 922
«ut binus»
Vat. gr. 1004
«ut binus»
Vat. gr. 1077
«ut binus»
Vat. gr. 1302
«ut binus»
Vat. gr. 1341
«ut binus»
Vat. gr. 1357
«ut binus»
Vat. gr. 1379
«ut binus»
Vat. gr. 1950
«ut ternus»
Vat. lat. 3101
«ut binus»
Vat. lat. 3339
«ut binus»
Vat. lat. 3343
«ut binus»
Vat. lat. 4455
«ut binus»
Vat. lat. 12867 [= «Ex Sinicis CCCXC»] «ut ternus» Vat. sir. 145
«ut binus»
Vat. sir. 160
«ut binus»
301 301
Ora ad Heidelberg, Universitätsbibliothek.
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Per rispettare il numero dei 500 manoscritti, stabilito dall’armistizio di Bologna, i procuratori francesi decisero quindi di restituire un certo numero di manoscritti, considerati come singoli o come doppi302, scegliendoli in parte (9) dall’elenco dei «bini» appena steso, in parte (24) dall’elenco generale dei «singuli». I manoscritti così scartati (che dunque non partirono per Parigi) furono 33 (o, in una considerazione di «singuli» e «bini», 42). Eccone la lista, sempre sulla base della Recensio manuscriptorum ma in ordine alfabetico per fondi che modifica il suo ordine di presentazione303: Manoscritti vaticani restituiti dai Francesi nel 1797 e quindi non trasferiti a Parigi Pal. gr. 360
«ut binus»
Reg. gr. 117
«ut singulus»
Reg. lat. 1281
«ut singulus»
Reg. lat. 1456
«ut singulus»
Reg. lat. 1488
«ut singulus»
Vat. ar. 169
«ut singulus»
Vat. ar. 276
«ut singulus»
Vat. ar. 323
«ut singulus»
Vat. ar. 343
«ut singulus»
Vat. gr. 18
«ut singulus»
Vat. gr. 22
«ut singulus»
Vat. gr. 172
«ut singulus»
Vat. gr. 224
«ut binus»
Vat. gr. 240
«ut singulus»
Vat. gr. 292
«ut binus»
Vat. gr. 294
«ut singulus»
Vat. gr. 321
«ut binus»
Vat. gr. 711
«ut singulus»
Vat. gr. 791
«ut singulus»
302 «His addito Cod. Graeco Vaticano No. XVI. complectente Procopii Anecdota, qui post expletam recensionem requisitus et traditus fuit, subductisque rationibus, deprehensum est, enumeratos antea Codices pactorum Quingentorum summam quadraginta et duabus unitatibus excedere. Quamobrem ut justus numerus constaret, praefati Gallorum Procuratores, novo examine instituto, ex Codicibus in universali Recensione, tam ex iis, qui ut singuli, quam ex iis, qui ut bini designati fuerant, sequentes selectos Vaticanae Bibliothecae reddi curarunt», Recensio manuscriptorum cit., p. 133. 303 Recensio manuscriptorum cit., pp. 133-135.
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Vat. gr. 889
«ut singulus»
Vat. gr. 1004
«ut binus»
Vat. gr. 1077
«ut binus»
Vat. gr. 1302
«ut binus»
Vat. gr. 1357
«ut binus»
Vat. lat. 1042
«ut singulus»
Vat. lat. 3211
«ut singulus»
Vat. lat. 3214
«ut singulus»
Vat. lat. 3393
«ut singulus»
Vat. lat. 3533
«ut singulus»
Vat. lat. 3839
«ut singulus»
Vat. lat. 4455
«ut binus»
Vat. lat. 4613
«ut singulus»
Vat. lat. 5319
«ut singulus»
Secondo i calcoli francesi ai 501 manoscritti andavano dunque aggiunti 33 elementi «ut bini» e 8 (4u2 = 8) elementi «ut terni»; ma alla cifra così raggiunta di 542 elementi (501+33+8 = 542) venivano sottratti 42 elementi (24 «ut singuli», 18 «ut bini»), raggiungendo così la cifra perfetta e desiderata di 500 (542-24-18 = 500). I manoscritti Vaticani trasferiti nel 1797 a Parigi furono dunque, se ci riferiamo alle unità inventariali, 468 (501-33 = 468), numero che in realtà non coincide con quello indicato da Léopold Delisle nel 1892304, mentre corrisponde a quello segnalato nel commentario vaticano del facsimile del Vat. lat. 3225305. Tale cifra è dunque quella da ritenere corretta per le perdite subìte dalla Biblioteca Vaticana nel 1797 sulla base dell’armistizio di Bologna e del Trattato di Tolentino. Anche alla luce dei «redditi» si può 304 «Cependant une difficulté se présenta quand le choix des manuscrits à envoyer en France était déjà arrêté. Les répresentants du souverain pontife firent observer que, pour économiser les frais de reliure, on avait souvent réuni en un volume deux ou trois manuscrits de même format, qui, indépendants les uns des autres, ne pouvaient pas être considérés comme formant un seul et unique manuscrit. Ils demandaient, en conséquence, que les 500 volumes déjà triés fussent soumis à un nouvel examen, afin de voir ceux qui devaient être comptés pour plusieurs articles. Le bien fondé de la réclamation fut reconnu, et les commissaires se contentèrent de 459 volumes, comme devant, en bonne justice, représenter les 500 manuscrits auxquels le texte du traité de Tolentino leur donnait droit de prétendre», DELISLE, rec. a MARINI, Memorie storiche cit., p. 434. 305 Fragmenta et picturae Vergiliana Codicis Vaticani Latini 3225 phototypice expressa consilio et opera curatorum Bibliothecae Vaticanae, in Vaticano 19453 (Codices e Vaticanis selecti quam simillime expressi, 1), p. 20.
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quindi stilare la seguente tabella per le consistenze dei manoscritti asportati ripartite per i singoli fondi (nel complesso, 16):306307308309310311312 Manoscritti vaticani effettivamente asportati dai Francesi nel 1797 ripartiti per singoli fondi Ott. gr.
2
Ott. lat.
26
Recensio manuscriptorum cit., pp. 124-130
Pal. gr.
26306
Recensio manuscriptorum cit., pp. 76-85
Pal. lat.
12
Recensio manuscriptorum cit., pp. 120-123
Reg. gr.
2307
Recensio manuscriptorum cit., pp. 85-86
Reg. lat.
67308
Recensio manuscriptorum cit., pp. 104-120
Urb. ebr.
1
Recensio manuscriptorum cit., p. 6
Urb. lat.
1309
Recensio manuscriptorum cit., p. 130
Vat. ar.
76310
Recensio manuscriptorum cit., pp. 17-34
Vat. copt.
19
Recensio manuscriptorum cit., pp. 35-40
Vat. ebr.
19
Recensio manuscriptorum cit., pp. 3-6
Vat. estr.-or.
1311
Recensio manuscriptorum cit., p. 42 (fra i «Sinici»)
Vat. et.
12
Recensio manuscriptorum cit., pp. 40-41
Vat. gr.
87312
Recensio manuscriptorum cit., pp. 44-76, 130
Recensio manuscriptorum cit., p. 86
306
Ai 27 manoscritti selezionati ne va sottratto uno, «redditus». Ai tre manoscritti selezionati ne va sottratto uno, «redditus». 308 Ai 70 manoscritti selezionati ne vanno sottratti tre, «redditi». 309 Dell’unico manoscritto del fondo Urbinate latino prelevato dai Francesi non viene indicata la segnatura perché scelto «ex iis, qui adhuc in Indicem non sunt relati, ex Biblioth. Urbinatis». La sua descrizione («Cod. Membr. in quart. constans pagg. 289 uncialibus litteris elegantissime exarat. saec. VI. Continet opus Grammaticum, quod nonnulli Grobo, alii Palaemonii tribuunt; sed quum in plerisque ab utroque discrepet, vel existimandum est, ex utroque conflatum fuisse, vel neutri esse adscribendum», Recensio manuscriptorum cit., p. 130) permette però di identificarlo con l’Urb. lat. 1154, testimone degli Instituta artium di Probo, in onciale, della fine del V secolo; sul quale cfr., fra l’altro, Codices Latini Antiquiores. A Palaeographical Guide to Latin Manuscripts prior to the Ninth Century, ed. by E. A. LOWE, I: The Vatican City, Oxford 1934, p. 35, n° 117; Survie des classiques latins. Exposition de manuscrits Vaticans du IVe au XVe siècle, 14 avril-31 décembre 1973, Bibliothèque Apostolique Vaticane 1973, p. 18 (n° 33); Quinto centenario della Biblioteca Apostolica Vaticana, 14751975. Catalogo della mostra, Biblioteca Apostolica Vaticana 1975, p. 71 (n° 183). 310 Agli 80 manoscritti selezionati ne vanno sottratti quattro, «redditi». 311 Il manoscritto è descritto fra i «Sinici», sotto il n° CCLXXI [= Vat. estr.-or. 2], cfr. supra. 312 Ai 101 manoscritti selezionati ne va aggiunto uno (il Vat. gr. 16, con gli Anecdota di Procopio), individuato in un secondo momento, ma ne vanno sottratti 15, «redditi». 307
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Vat. lat.
68313
Recensio manuscriptorum cit., pp. 42-44 (fra i «Sinici»), 86-104
Vat. sir.
49
Recensio manuscriptorum cit., pp. 7-17
313
Un’ultima notazione. Oltre alla segnalazione dei «bini» e dei «terni», nelle descrizioni della Recensio manuscriptorum per un cospicuo numero di manoscritti (90) era stata indicata la divisibilità in parti. Eccone l’elenco in ordine alfabetico per segnature (che modifica quello della Recensio manuscriptorum), con l’indicazione della configurazione attuale dei manoscritti e, sempre nella terza colonna, la consistenza in «pagg.» (che corrispondono ai nostri ff.) offerta dalla Recensio (essa non viene però indicata in sei casi):314315316 Manoscritti considerati divisibili secondo la Recensio manuscriptorum Ott. lat. 259
«Divisibilis in partes quatuor», «constans pagg. 111»; manoscritibid., p. 124 to oggi unico
Ott. lat. 2056
«Deliberandum, an dividi de- «[…] pagg. 247»; manoscritto oggi beat», ibid., p. 126 unico
Ott. lat. 2284
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 114»; manoscritto oggi ibid., p. 127 unico
Pal. gr. 40
«Divisibilis in partes quatuor», «[…] pagg. 252»; ora ad Heidelibid., p. 77 berg, Universitätsbibliothek314
Pal. gr. 132
«Deliberandum, an dividi de- «[…] pagg. 258»; ora ad Heidelbeat», ibid., p. 79 berg, Universitätsbibliothek315
Pal. gr. 360
«Divisibilis in partes decem», «[…] pagg. 345»; manoscritto oggi ibid., p. 83 unico
Pal. gr. 375
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 283»; ora ad Heidelibid., p. 83 berg, Universitätsbibliothek316
313 Ai 67 manoscritti selezionati ne vanno sottratti nove, «redditi», ma ne vanno aggiunti dieci (allora considerati «cinesi»). Il secondo dei manoscritti Vaticani latini selezionati, corrispondente al n° 326 dell’elenco, non presenta segnatura: «Numerus hic in Msto Roma misso desideratur», Recensio manuscriptorum cit., p. 86; privo anche di descrizione, non appare oggi identificabile. 314 Codices Manuscripti Palatini Graeci Bibliothecae Vaticanae (…), recensuit et digessit H. STEVENSON senior, Romae 1885 (Bibliotheca Apostolica Vaticana codicibus manuscriptis recensita), p. 40. Dalla descrizione non si deduce se il manoscritto, di 252 ff., sia composito e, nel caso positivo, di quanti elementi. 315 Codices Manuscripti Palatini Graeci cit., pp. 63-64. Dalla descrizione non si deduce se il manoscritto, di 258 ff., sia composito e, nel caso positivo, di quanti elementi. 316 Codices Manuscripti Palatini Graeci cit., p. 242. Dalla descrizione non si deduce se il manoscritto, di 283 ff., sia composito e, nel caso positivo, di quanti elementi.
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Pal. gr. 398
«Deliberandum, an et in quot «[…] pagg. 331»; ora ad Heidelpartes dividi debeat», ibid., pp. berg, Universitätsbibliothek317 84-85
Pal. lat. 1080
«Deliberandum, in quot partes «[…] pagg. 300»; ora ad Heidelberg, Universitätsbibliothek318 dividi debeat», ibid., p. 121
Pal. lat. 1914
«Deliberandum, in quot partes [consistenza non indicata]; ora dividi debeat», ibid., pp. 122- ad Heidelberg, Universitätsbiblio123 thek319
Reg. lat. 507
«Divisibilis in quatuor partes», [consistenza non indicata]; manoscritto oggi in due parti [ff. 75 ibid., p. 108 + 40]; la prima, Reg. lat. 507 (1), reca sul dorso gli stemmi di Leone XIII (1878-1903) e del card. bibliotecario Jean-Baptiste Pitra (1869-1889)
Reg. lat. 733
«Divisibilis in partes quinque», «[…] pagg. 55»; manoscritto oggi ibid., pp. 110-111 in due parti; con legature che recano sul dorso gli stemmi di Leone XIII e del card. bibliotecario Jean-Baptiste Pitra
Reg. lat. 1424
«Deliberandum, in quot partes «[…] pagg. 98»; manoscritto oggi dividi debeat», ibid., p. 115 unico
Reg. lat. 1587
«Divisibilis in tres partes pagg. «[…] pagg. 80»; manoscritto oggi vid. 1. 51. 66», ibid., p. 117 unico
Reg. lat. 1616
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 124»; manoscritto oggi ibid., p. 117 unico
Reg. lat. 1659
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 100»; manoscritto oggi ibid., p. 118 unico
Reg. lat. 1864
«Deliberandum, in quot partes «[…] pagg. 80»; manoscritto oggi dividi debeat», ibid., pp. 118- unico 119
317318319
317
Codices Manuscripti Palatini Graeci cit., pp. 254-257. Dalla descrizione non si deduce se il manoscritto, di 331 ff., sia composito e, nel caso positivo, di quanti elementi. 318 Manoscritto composito di cinque elementi; dal 1977 suddiviso in tre parti, cfr. Die medizinischen Handschriften der Codices Palatini Latini in der Vatikanischen Bibliothek, beschrieben von L. SCHUBA, Wiesbaden 1981 (Kataloge der Universitätsbibliothek Heidelberg, 1), pp. 3-7. 319 Manoscritto composito di 23 elementi, che furono raccolti in un’unica legatura (l’attuale) in Biblioteca Vaticana nel XVII secolo, cfr. Die humanistischen, Triviums- und Reformationshandschriften der Codices Palatini latini in der Vatikanischen Bibliothek, beschrieben von W. METZGER mit Beiträgen von V. PROBST, Wiesbaden 2002 (Kataloge […], 4), pp. 350-361.
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PAOLO VIAN
Reg. lat. 1964
«Divisibilis in duas partes», [consistenza non indicata] ibid., p. 119
Vat. ar. 13
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 178»; manoscritto ibid., p. 17 oggi unico
Vat. ar. 258
«Deliberandum, an dividi de- «[…] pagg. 258»; manoscritto beat», ibid., pp. 21-22 oggi unico
Vat. ar. 266
«Deliberandum, an dividi de- «[…] pagg. 168»; manoscritto beat», ibid., p. 22 oggi unico
Vat. ar. 267
«Deliberandum, an dividi de- «[…] pagg. 88»; manoscritto oggi beat», ibid., p. 22 unico
Vat. ar. 292
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 145»; manoscritto ibid., p. 26 oggi unico
Vat. ar. 317
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 141»; manoscritto ibid., pp. 28-29 oggi unico
Vat. ar. 318
«Deliberandum, an dividi de- «[…] pagg. 156»; manoscritto beat», ibid., p. 29 oggi unico
Vat. ar. 361
«Deliberandum, an dividi de- «[…] pagg. 55»; manoscritto oggi beat», ibid., p. 32 unico
Vat. gr. 14
«Deliberandum, an dividi pos- «[…] pagg. 152»; manoscritto oggi unico sit», ibid., p. 44
Vat. gr. 18
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 169»; manoscritto ibid., p. 45 oggi unico
Vat. gr. 20
«Divisibilis in partes quatuor, «[…] pagg. 132»; manoscritto pagg. videlicet 1. 86. 95. 121», oggi unico ibid., p. 45
Vat. gr. 22
«Divisibilis in partes quatuor», «[…] pagg. 360»; manoscritto oggi unico ibid., pp. 45-46
Vat. gr. 87
«Priora quatuor folia sunt se- «[…] pagg. 564»; manoscritto parabilia. De Philostrato deli- oggi unico berandum, an dividi debeat», ibid., p. 47
Vat. gr. 100
«Divisibilis in sex partes pagg. «[…] pagg. 297»; manoscritto videlicet 1. 59. 100. 181. 216, et oggi in due parti; con legature che recano sul dorso gli stemmi di Pio 264», ibid., pp. 47-48 IX (1846-1878) e del card. bibliotecario Jean-Baptiste Pitra
Vat. gr. 116
«Divisibilis in quatuor partes», «[…] pagg. 232»; manoscritto oggi unico ibid., p. 48
Vat. gr. 117
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 113»; manoscritto ibid., pp. 48-49 oggi unico
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«PER LE COSE DELLA PATRIA NOSTRA»
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Vat. gr. 140
«Divisibilis in quatuor partes», «[…] pagg. 288»; manoscritto oggi unico ibid., p. 49
Vat. gr. 152
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 379»; manoscritto ibid., p. 50 oggi unico
Vat. gr. 154
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 215»; manoscritto ibid., p. 50 oggi unico
Vat. gr. 163
«Divisibilis in quinque partes», «[…] pagg. 303»; manoscritto ibid., pp. 50-51 oggi unico
Vat. gr. 165
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 262»; manoscritto ibid., p. 51 oggi unico
Vat. gr. 167
«Deliberandum, an dividi pos- «[…] pagg. 168»; manoscritto sit», ibid., pp. 51-52 oggi unico
Vat. gr. 172
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 186»; manoscritto ibid., p. 52 oggi unico
Vat. gr. 190
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 340»; manoscritto ogibid., p. 52 gi in due parti; con legature che recano sul dorso gli stemmi di Leone XIII e del card. bibliotecario Jean-Baptiste Pitra
Vat. gr. 191
«Quamobrem deliberandum, «[…] pagg. 397»; manoscritto an et in quot partes dividi de- oggi unico beat», ibid., p. 53
Vat. gr. 224
«Divisibilis in partes septem «[…] pagg. 305»; manoscritto oggi pag. videlicet 1. 55. 70. 121. unico 147. 221. 243», ibid., pp. 54-55
Vat. gr. 240
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 85»; manoscritto oggi ibid., p. 55 unico
Vat. gr. 292
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 282»; manoscritto oggi ibid., p. 56 unico
Vat. gr. 305
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 209»; manoscritto oggi ibid., p. 57 unico
Vat. gr. 321
«Divisibilis in quatuor partes», «[…] pagg. 259»; manoscritto oggi ibid., pp. 57-58 unico
Vat. gr. 483
«Divisibilis in partes quinque», «[…] pagg. 185»; manoscritto oggi ibid., p. 58 unico
Vat. gr. 704
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 205»; manoscritto oggi ibid., p. 59 unico
Vat. gr. 711
«Deliberandum, in quot partes «[…] pagg. 321»; manoscritto oggi dividi debeat», ibid., p. 59 unico
Vat. gr. 723
«Divisibilis in partes quinque «[…] pagg. 270»; manoscritto oggi pagg. videlicet 1. 99. 117. 212. unico 239», ibid., p. 60
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PAOLO VIAN
Vat. gr. 867
«Divisibilis in partes duas», «[…] pagg. 187»; manoscritto oggi ibid., p. 61 unico
Vat. gr. 871
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 182»; manoscritto oggi ibid., p. 61 unico
Vat. gr. 878
«Deliberandum, an sit divisibi- «[…] pagg. 181»; manoscritto oggi lis», ibid., pp. 61-62 unico
Vat. gr. 895
«Divisibilis in partes novem «[…] pagg. 215»; manoscritto oggi pag. videlicet 1. 31. 68. 115. 220. unico 243. 251. 259. 283», ibid., p. 63
Vat. gr. 896
«Divisibilis in partes tres», «[…] pagg. 236»; manoscritto oggi ibid., pp. 63-64 unico
Vat. gr. 922
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 212»; manoscritto oggi ibid., pp. 64-65 unico
Vat. gr. 924
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 88»; manoscritto oggi ibid., p. 65 unico
Vat. gr. 925
«Deliberandum, an dividi de- «[…] pagg. 202»; manoscritto oggi beat», ibid., p. 65 unico
Vat. gr. 949
«Divisibilis in partes duas vide- «[…] pagg. 173»; manoscritto oggi licet 1. et 168», ibid., pp. 65-66 unico
Vat. gr. 977
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 209»; manoscritto oggi ibid., p. 66 unico
Vat. gr. 1004
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 206»; manoscritto oggi ibid., p. 67 unico
Vat. gr. 1011
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 50»; manoscritto oggi ibid., p. 67 unico
Vat. gr. 1038
«Divisibilis in partes tres», «[…] pagg. 384»; manoscritto oggi ibid., p. 68 unico
Vat. gr. 1077
«Divisibilis in partes quatuor», «[…] pagg. 201»; manoscritto oggi ibid., p. 69 unico
Vat. gr. 1085
«Divisibilis in partes tres pagg. «[…] pagg. 276»; manoscritto oggi videlicet 1. 141. et 197», ibid., unico p. 69
Vat. gr. 1302
«Divisibilis in partes quatuor», «[…] pagg. 218»; manoscritto oggi unico ibid., p. 71
Vat. gr. 1341
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 207»; manoscritto oggi ibid., p. 72 unico
Vat. gr. 1357
«Divisibilis in partes duas», «[…] pagg. 113»; manoscritto oggi ibid., p. 73 unico
Vat. gr. 1379
«Divisibilis in tres partes», «[…] pagg. 114»; manoscritto oggi ibid., p. 74 unico
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«PER LE COSE DELLA PATRIA NOSTRA»
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Vat. gr. 1444
«Divisibilis in quatuor par- «[…] pagg. 287»; manoscritto oggi tes, paginis videlicet 1. 45. 92. unico 176», ibid., pp. 75-76
Vat. gr. 1950
«Divisibilis in partes quinque», «[…] pagg. 541»; manoscritto ibid., p. 76 oggi in due parti; con legature che recano sul dorso gli stemmi di Paolo VI (1963-1978) e del card. bibliotecario Eugène Tisserant (1957-1971)
Vat. lat. 1042
«Divisibilis in partes quinque», «[…] pagg. 199»; manoscritto oggi ibid., p. 86 unico
Vat. lat. 1984
«Priores et posteriores paginae «[…] pagg. 202»; manoscritto oggi videntur posse separari», ibid., in due parti; con legatura che reca pp. 88-90 sui piatti gli stemmi di Urbano VIII (1623-1644) e del card. bibliotecario Scipione Cobelluzzi (16181626); il Vat. gr. 1984 A [ff. 8] presenta invece una legatura otto- o novecentesca, senza stemmi
Vat. lat. 1998
«Divisibilis in partes duas», «[…] pagg. 219»; manoscritto oggi ibid., p. 90 unico
Vat. lat. 3101
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 72»; manoscritto oggi ibid., pp. 91-92 unico
Vat. lat. 3102
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 111»; manoscritto oggi ibid., p. 92 unico
Vat. lat. 3339
«Divisibilis in partes quatuor», «[…] pagg. 278»; manoscritto oggi ibid., p. 95 unico
Vat. lat. 3343
«Divisibilis in partes duas», «[…] pagg. 125»; manoscritto oggi ibid., p. 95 unico
Vat. lat. 4455
«Divisibilis in partes quatuor», «[…] pagg. 137»; manoscritto oggi ibid., p. 99 unico
Vat. lat. 4613
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 135»; manoscritto oggi ibid., p. 100 unico
Vat. lat. 4820
«Divisibilis in sex partes», [consistenza non indicata]; maibid., pp. 100-101 noscritto oggi unico [ff. 116]
Vat. lat. 12862 «Deliberandum an, et in quot [consistenza non indicata]; ma[= «Ex Sinicis partes dividi debeat», ibid., noscritto oggi unico [ff. 243] CCCLXXXV»] pp. 43, 44 Vat. lat. 12867 «Deliberandum an, et in quot [consistenza non indicata]; ma[= «Ex Sinicis partes dividi debeat», ibid., noscritto oggi unico [ff. 120] p. 44 CCCXC»]
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Vat. sir. 107
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 135»; manoscritto oggi Recensio manuscriptorum cit., unico p. 9
Vat. sir. 145
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 106»; manoscritto oggi ibid., p. 14 unico
Vat. sir. 160
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 239»; manoscritto oggi ibid., p. 15 unico
Vat. sir. 166
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 421»; manoscritto oggi ibid., p. 16 in due parti; con legature che recano sul dorso gli stemmi di Leone XIII e del card. bibliotecario Jean-Baptiste Pitra
Vat. sir. 167
«Divisibilis in duas partes», «[…] pagg. 181»; manoscritto oggi ibid., p. 16 unico
I dati raccolti, confrontati con la consistenza dei manoscritti indicati e con il loro attuale assetto, permettono di stabilire che la valutazione di divisibilità in parti dei manoscritti vaticani, proposta e registrata nella Recensio manuscriptorum, non è collegata alle consistenze dei manoscritti o alle loro nature di compositi; si tratta piuttosto di interventi che idealmente miravano a individuare, isolare, mettere in evidenza testi all’interno di compagini manoscritte anche unitarie e non particolarmente cospicue. Dunque una misura biblioteconomica squisitamente francese (probabilmente resa possibile da una larga disponibilità di mezzi), che però di fatto non fu realizzata nei quasi vent’anni di permanenza dei manoscritti alla Bibliothèque Impériale/Royale e che non fu ripresa — tranne sette casi — dai bibliotecari vaticani quando i codici rientrarono a Parigi, rimanendo così un progetto sulla carta. Il contrasto fra le due mentalità, quella dei bibliotecari vaticani e quella dei bibliotecari francesi, era d’altronde già apparso evidente nella meraviglia che sembra possibile intuire nella Recensio manuscriptorum di fronte ai codici compositi creati in Vaticana per ridurre le spese delle molteplici legature. L’intervento a proposito dei «bini» e «terni» non sarebbe però stato l’unico a modificare i piani originari delle requisizioni francesi. Il 12 luglio 1798, dunque a qualche tempo dagli eventi, Giuseppe Antonio Sala nel suo Diario notava: Fra li molti Codici preziosissimi, che li Commissarj Francesi scelsero dalla Libreria Vaticana, per mandarli a Parigi, ve n’erano ancora non pochi di quelli de’ SS. Padri. Il Sacerdote Giuseppe Lelli, addetto al servizio della Biblioteca medesima, fece rilevare ai Commissarj, che quanto potevano esser utili per Loro li Codici de’ Poeti e degli altri Autori Profani; altrettanto sarebbero stati inutili quelli degli Auto-
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ri sacri. Un tal discorso fu trovato giusto dai Francesi, e tornato uno di detti Commissarj, che mostra di esser buon Cattolico, disse al Lelli, che facesse la divisione de’ Codici, e che portasse seco quelli de’ SS. Padri ecc. per conservare questi monumenti, che interessano anco la Religione. Così è riuscito a salvare tali insigni scritti, e il Lelli, che vuol partire per tornarsene alla sua Patria nell’Abbazia di Subiaco, li consegnerà secondo gli ordini di Mons.r Di Pietro, acciò se ne abbia cura320.
Il sacerdote Giuseppe Lelli citato da Sala va sicuramente identificato con l’archivista del S. Offizio, originario di Gerano, «comune dell’abbazia di Subiaco», ricordato a più riprese da Gaetano Moroni nel suo Dizionario, anche come autore di ricerche sui sigilli pontifici321. Ma, anche alla luce del contenuto dei manoscritti requisiti ricostruibile sulla base della Recensio manuscriptorum, si può dubitare della fondatezza della notizia offerta dal Sala sul suggerimento di Lelli, accolto dai Francesi, di trascurare nelle requisizioni i manoscritti patristici (e, in senso lato, di interesse ecclesiastico) limitandosi ai «Codici de’ Poeti e degli altri Autori Profani»; una notizia che forse ha origine solo da un «wishful thinking», dalla patetica e confortante illusione del mondo vaticano di aver governato e di potere ancora in qualche modo governare il disastro, cercando, se non di evitare, almeno di attutire il devastante impatto dell’intervento francese sulle collezioni depredate.
320
G. A. SALA, Diario romano degli anni 1798-99. Ristampa con premessa di V. E. GIUNe indice analitico di R. TACUS, parte II: dal 1° luglio al 31 dicembre 1798, Roma 1980 (Miscellanea della Società Romana di Storia Patria, 2; Scritti di Giuseppe Antonio Sala pubblicati sugli autografi da Giuseppe Cugnoni, 2), p. 23. Stando superficialmente alle biografie, difficile individuare, fra i quattro commissari francesi (Berthelmy, Moitte, Monge, Tinet; cfr. supra, nt. 196), colui «che mostra di esser buon Cattolico». 321 G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica (...), LXX, in Venezia 1854, p. 217; cfr. anche (...), LIII, in Venezia 1851, p. 238; (...), LXVI, in Venezia 1854, pp. 87, 90, 95, 96. Lelli era morto da diversi anni nel 1836, cfr. G. MAROCCO, Monumenti dello Stato Pontificio e relazione topografica di ogni paese (...). Lazio e sue memorie, X, Roma 1836, p. 9. Su di lui, a Roma dal 1769, dal 1810 archivista del S. Uffizio dal quale fu giubilato nel 1820, impegnato nel riordino della documentazione della Congregazione recuperata da Parigi nel 1815, cfr. H. WOLF, Prosopographie von Römischer Inquisition und Indexkongregation 18141917, Paderborn 2005, p. 857; M. G. CERRI, Lelli, Giuseppe, in Dizionario storico biografico del Lazio. Personaggi e famiglie nel Lazio (esclusa Roma) dall’antichità al XX secolo, coordinamento e cura di S. FRANCHI e O. SARTORI, con la collaborazione redazionale di M. BUCCHI, II, Roma 2009, pp. 1091-1092 (entrambi con ulteriore bibliografia). Ringrazio la collega Andreina Rita per indicazioni sul personaggio. TELLA
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Tav. I – Biblioteca Apostolica Vaticana, Stamp. Ferr. IV.3616, p. 2: dedica autografa di Luigi Angeloni alla Biblioteca Vaticana di un esemplare di Sopra l’ordinamento che aver dovrebbono i governi d’Italia, Paris 1814.
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Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, Autogr. Patetta, 15, f. 277r: incisione con ritratto di Luigi Angeloni.
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Tav. III – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. ar. 267, dorso e piatto anteriore. L’unico manoscritto vaticano trasferito a Parigi che presenta ora una legatura allestita durante il soggiorno francese del codice, con stemmi dorati con l’aquila imperiale al centro dei piatti anteriore e posteriore, due stemmi con la N napoleonica sul dorso, ove anche il titolo impresso (Terrier / d’Egypte) e un talloncino con l’indicazione manoscritta Arabe Vat. / 267. Il manoscritto fu utilizzato da Antoine-Isaac Silvestre de Sacy (1758-1838) per l’État des provinces et des villages de l’Egypte, pubblicato a Parigi nel 1810.
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Tav. IV – Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 2229, f. 1r: nota di Luigi Angeloni a proposito del recupero del manoscritto, 16 ottobre 1815.
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Tav. V – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3202, f. 1ar: nota di un bibliotecario francese con descrizione del manoscritto.
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Tav. VI – Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3203, f. IIr: nota di Giulio Ginnasi, 14 ottobre 1815, e Luigi Angeloni a proposito del recupero del manoscritto.
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«UNA CAMBIALE SCONTATA PRIMA DI PRESENTARSI UFFICIALMENTE ALLO SPORTELLO»? ACHILLE RATTI PREFETTO DELLA BIBLIOTECA VATICANA (1914-1918)* 1. La prefettura vaticana di Ratti: un periodo poco noto. – 2. Ratti viceprefetto della Vaticana con diritto di successione. – 3. La Biblioteca Vaticana all’inizio della prefettura di Ratti (1914). – 4. Ratti prefetto della Vaticana. – 5. «L’Accademia per me è finita». – 6. Raptim transit: il senso di un passaggio. – Appendici. – I. Dichiarazione di Achille Ratti al Congresso della Biblioteca Vaticana (26 gennaio 1915). – II. Presentazione delle Pubblicazioni della Biblioteca Apostolica Vaticana (1915). – III. Personale della Biblioteca Vaticana negli anni 19141919. – IV. Ammissione di studiosi in Biblioteca Vaticana negli anni 1914-1919.
1. Nella vicenda biografica di Achille Ratti gli anni trascorsi nella prefettura della Biblioteca Vaticana, dal settembre 1914 al maggio 1918, rappresentano una parentesi importante e sempre ricordata; dopo gli anni dell’Ambrosiana (novembre 1888 – settembre 1914), prima del breve periodo diplomatico (maggio 1918 – giugno 1921), essa rappresentò lo snodo fondamentale, l’autentico punto di svolta nella vita di Ratti; se egli allora non si fosse trasferito a Roma, se non fosse stato così proiettato su uno scenario e in un orizzonte infinitamente più ampio di quello milanese, se non fosse stato in questo modo conosciuto dagli ambienti curiali e dal papa stesso, difficilmente il bibliotecario ambrosiano sarebbe poi stato scelto per la missione in Polonia e sarebbe quindi divenuto arcivescovo di Milano e pontefice romano. Ma proprio questa finalità provvidenzialmente ulteriore ha finito per deviare l’interesse da quei quattro anni che rappresentano, e per più di un motivo, un periodo poco noto. Jeanne Bignami Odier, nella sua classica storia della Vaticana, si limita a ricordare l’«action très importante» da lui esercitata in Biblioteca nonostante le vicissitudini della prima guerra mondiale1, ma finisce poi per dedicare tutta la sua attenzione
* Testo, ampliato e annotato, della relazione presentata a Desio l’11 febbraio 2006 nell’ambito della quarta edizione del convegno «Pio XI e il suo tempo», promosso nei giorni 10-11 febbraio 2006 dal Centro Internazionale di Studi e Documentazione Pio XI. 1 J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collections de manuscrits, avec la collaboration de J. RUYSSCHAERT, Città del Vaticano 1973 (Studi e testi, 272), p. 257. Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVIII, Città del Vaticano 2011, pp. 801-870.
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all’opera di Pio XI, e non a quella di Achille Ratti, per la Vaticana2. Anche la bibliografia alla quale nel 1973 la studiosa francese rinviava, esimendosi così da ricostruzioni più analitiche, a ben vedere appare tutta, tranne qualche eccezione, gravata dallo stesso difetto di impostazione, quello cioè di concentrare la rievocazione del rapporto fra Ratti-Pio XI e la Vaticana3 al periodo pontificale, a quei diciassette anni che davvero rappresentarono la seconda modernizzazione della Vaticana dopo la prima, intrapresa per volere di Leone XIII a opera del gesuita Franz Ehrle. Sull’altro versante, quello rattiano, la situazione non appare diversa; Giovanni Galbiati dedica, nel suo volume su Pio XI, poco spazio alla prefettura vaticana4; così in linea di massima fanno gli altri, spesso accuratissimi biografi o memorialisti, ma non di rado ripetendosi, spesso solo attirati dal fatto che la prefettura vaticana mise Ratti in condizioni di frequenti contatti con il papa e con le autorità vaticane, che proprio sulla base di questa conoscenza lo avrebbero scelto per la missione polacca5. Anche coloro che più direttamente si sono 2 Ibid., pp. 258-266; si noterà che lo spazio dedicato al pontificato di papa Ratti è il quadruplo di quello riservato ai pontificati di Pio X e Benedetto XV, ibid., pp. 256-258. 3 In ordine cronologico, gli articoli citati sono i seguenti: G. BORGHEZIO, Pio XI e la Biblioteca Vaticana, in La bibliofilia 31 (1929), pp. 211-229; E. TISSERANT, The Vatican Library, Jersey City 1929, pp. 5-14 [poi in Recueil Cardinal Eugène Tisserant «Ab Oriente et Occidente», II, publié par S. POP, avec la collaboration de G. LEVI DELLA VIDA, G. GARITTE et O. BÂRLEA, Louvain [1955] (Travaux publiés par le Centre international de dialectologie générale près l’Université Catholique de Louvain, 2), pp. 573-578]; I. GIORDANI, La Biblioteca nuova e l’opera di Pio XI, in L’illustrazione vaticana 3 (1932), coll. 1139-1142; E. TISSERANT, Bibliothèques pontificales, in Dictionnaire de sociologie, Paris 1936, pp. 3-31 [poi in Recueil Cardinal Eugène Tisserant cit., II, pp. 589-607]; E. CARUSI, Mgr. Achille Ratti e il restauro dei codici nella Vaticana, in Bollettino del R. Istituto di Patologia del Libro 1 (1939), pp. 12-14; E. TISSERANT, Pius XI as Librarian, in The Library Quarterly 9 (1939), pp. 389-403 [poi in Recueil Cardinal Eugène Tisserant cit., II, pp. 609-619]; F. KREFT, Papst Pius XI. als Bibliothekar, in Festschrift Eugen Stollreither zum 75. Geburtstage gewidmet von Fachgenossen, Schülern, Freunden, hrsg. von F. REDENBACHER, Erlangen 1950, pp. 105-116; N. VIAN, Rituale in biblioteca, in Almanacco dei bibliotecari italiani 1955, Roma 1954, pp. 165-168 [ristampato in ID., Figure della Vaticana e altri scritti. Uomini, libri e biblioteche, a cura di P. VIAN, Città del Vaticano 2005 (Studi e testi, 424), pp. 123-126]; ID., Achille Ratti bibliotecario, in Almanacco dei bibliotecari italiani 1957, Roma 1956, pp. 141-148 [ristampato in VIAN, Figure della Vaticana cit., pp. 127-134]; ID., Una illustre successione alla Biblioteca Vaticana: Achille Ratti, in Mélanges Eugène Tisserant, VII: Bibliothèque Vaticane. Deuxième partie, Città del Vaticano 1964 (Studi e testi, 237), pp. 373439 [ristampato in VIAN, Figure della Vaticana cit., pp. 135-203]; E. TISSERANT, Seventy-five years of the Life of the Vatican Library, in Manuscripta 9 (1965), pp. 3-11; A. PAREDI, L’attività scientifica di Achille Ratti bibliotecario, in Pio XI nel trentesimo della morte, Milano 1969, pp. 165-175. 4 G. GALBIATI, Papa Pio XI, Milano – Bologna – Brescia – Genova – Monza – Pavia – Trento 1939 (Le grandi figure della storia), pp. 45-46, 250, 305-316 (ma le ultime pp. nella sezione bio-bibliografica del volume). 5 A. NOVELLI, Achille Ratti arcivescovo di Milano, Milano 1921, pp. 38-42; Pio XI (Achille Ratti). Ricordi, episodi, biografia, Roma 1922, p. 7; M. BIERBAUM, Papst Pius XI. Ein Lebens-
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occupati di Ratti bibliotecario sono stati naturalmente più attratti dal più lungo e significativo periodo ambrosiano che da quello vaticano6. Diversi possono essere i motivi addotti per spiegare tale silenzio o, per lo meno, la scarsità di indicazioni sul periodo della prefettura vaticana: in primo luogo, l’esiguità della durata cronologica della prefettura, la più breve del Novecento, meno di quattro anni che inoltre puntualmente coincisero, come si è detto, con la grande guerra, quando Marte prese prepotentemente il posto di Minerva rallentando e riducendo a ben poco le attiund Zeitbild, Köln 1922, pp. 113-120; G. BORGHEZIO, Il nuovo papa Pio XI, Torino 1922 (Serie storica, 1), pp. 18-19, 20; G. GALBIATI, Zur Personlichkeit Pius XI. Zwei Hauptmomente in Achille Ratti Gelehrtenlaufbahn, Köln 1922 (Sonderabdruck aus der Kölnischen Volkszeitung), pp. 18-19; V. TERRET, Monseigneur Achille Ratti aujourd’hui Sa Sainteté le Pape Pie XI. Ses travaux d’érudition et de critique d’art à l’Ambrosienne de Milan, Autun 1922, p. 9; A. NOVELLI, Pio XI (Achille Ratti): MDCCCLVII-MXMXXII, Milano 1923, pp. 72-77; G. FUMAGALLI, Achille Ratti, Roma 1925 (Medaglie), pp. 16, 54-57; L. FARRUGIA, Vitae et rerum gestarum a Pio XI pontifice maximo epitome, Melitae 1926, pp. 24-26; [G. GALBIATI], Bio-bibliografia di Achille Ratti, Milano 1927, pp. 12-14; G. DE FELICE, La vita aneddotica di S.S. Pio XI. In appendice: il papa e l’Italia (come fu preparata e conclusa la conciliazione tra lo Stato e la Chiesa), Firenze 1929, pp. 22-27; R. FONTENELLE – R. STINATI, Sua Santità Pio XI, il papa della conciliazione, Milano 1929, pp. 18-19; G. FREDIANI, Pio XI (…), Roma 1929, pp. 17-19; A. GUILL, Papst Pius XI, Freiburg 1929 (Kleine Lebensbilder, 19), pp. 16-18; G. HASSL, Unser heiliger Vater Papst Pius XI. Der Jubelspriester auf Petri Thron, Rottenburg a. N. 1929, pp. 34-35; P. HOBEIKA, Notre Saint Père le pape Pie XI glorieusement régnant. Notice biographique publiée à l’occasion des noces d’or sacerdotales de Sa Sainteté (1878-1928), Beyrouth 1929, p. 17; F. von LAMA, Papst Pius XI. Sein Leben und Wirken (…), Augsburg 1929, p. 14; T. MULCAHY, Pius XI, Dublin 1929, pp. 10-11; P. PEZZALI, S.S. Pio XI. Biografia popolare, Vicenza 1929, pp. 13-14; B. WILLIAMSON, The story of pope Pius XI, London 1931, pp. 44, 49; D. R. GWYNN, Pius XI, London 1932 (Makers of the modern age), pp. 63-73; P. G. BRENNA, Il papa della vittoria (Pio XI), Firenze 1934, pp. 12-13; P. L. VENEZIANI, Pio XI, Roma 1935, pp. 25-27; W. C. J. P. J. P. H. CLONMORE, Pope Pius XI and World Peace. An Authentic Biography, London 1937, pp. 29-30, 43, 45-46; E. V. DAILEY, Pius XI Pope of the People, Chicago 1937, pp. 16-17; G. GOYAU, Sa Sainteté le Pape Pie XI, Paris 1937, pp. 22-23; Ph. HUGHES, Pope Pius the Eleventh, London 1937, pp. 18-19; L. LAZZARINI, Pio XI, Milano 1937, pp. 63-66; A. PEREIRE, Vie de Pie XI, Paris 1937, pp. 33-34; W. TEELING, The Pope in politics. The Life and Work of Pope Pius XI, London 1937, pp. 57-58; L. BROWN-OLF, Pius XI Apostle of Peace, New York 1938, pp. 66-81; R. FONTENELLE, Sa Sainteté Pie XI, Paris 1938, pp. 23, 57; G. GUIDA, Pio XI, Milano 1938, pp. 80-82; M. ANDRIANOPOLI, Pio XI, Roma 1939, pp. 43-46; C. CONFALONIERI, Pio XI visto da vicino, Torino 1957, pp. 235-237; Y. CHIRON, Pio XI. Il papa dei Patti Lateranensi e dell’opposizione ai totalitarismi, Cinisello Balsamo 2006 [ed. originale: Paris 2004], pp. 86-92; U. DELL’ORTO, Pio XI, un papa interessante (…), Cinisello Balsamo 2008 (I protagonisti, 89), pp. 33-36. 6 Oltre ai già ricordati TISSERANT, Pius XI as Librarian cit.; KREFT, Papst Pius XI. als Bibliothekar cit.; VIAN, Rituale in biblioteca cit.; ID., Achille Ratti bibliotecario cit.; PAREDI, L’attività scientifica di Achille Ratti cit., cfr. ora N. MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library and the Carnegie Endowment for International Peace. The history, impact, and influence of their collaboration (1927-1947), Città del Vaticano 2009 (Studi e testi, 455), pp. 24-27; C. PASINI, Achille Ratti bibliotecario, in 1929-2009. Ottanta anni dello Stato della Città del Vaticano, a cura di B. JATTA, Città del Vaticano 2009 (Studi e documenti per la storia del Palazzo Apostolico Vaticano, 7), pp. 49-62 (in particolare, pp. 56-57, per la prefettura vaticana).
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vità della Vaticana; in secondo luogo, la mancanza di un approfondimento delle fonti documentarie, che solo ora, lentamente, vengono alla luce e divengono disponibili; in terzo luogo, la collocazione stessa della prefettura di Ratti, intermedia fra i vent’anni di quella di Ehrle7 e i diciassette di quella di Giovanni Mercati8, due figure di protagonisti che in modo diverso hanno attirato, quasi monopolizzato l’attenzione delle ricostruzioni. Stretta, quasi schiacciata fra due direzioni fortemente caratterizzanti, quella di Ratti ha così finito per essere trascurata, con certo pregiudizio della comprensione di quell’indirizzo, generale e progressivo, di modernizzazione che da Leone XIII in poi segna la storia della biblioteca dei papi. Scopo di questo intervento è appunto quello di cogliere i tratti peculiari del governo della Biblioteca Vaticana da parte di Ratti, cercando di ricostruire la particolarità del suo contributo allo sviluppo storico moderno dell’istituzione, domandandosi in che misura il veloce passaggio sia in linea con il precedente periodo ambrosiano e, in definitiva, quale sia il senso di questa parentesi romana. 2. La lunga, a tratti complessa e tormentata gestazione della nomina di Ratti a prefetto della Vaticana il 1° settembre 1914 è ben nota9. Qui basterà sommariamente ricordare che già negli ultimi mesi del 1910 e nei primi del 1911 circolavano voci di un suo passaggio a Roma10. In realtà anche 7
BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 238-240 e passim. Ibid., pp. 259-260 e passim. 9 M. BATLLORI, El pare Ehrle, prefecte de la Vaticana, en la seva correspondència amb el cardenal Rampolla, in Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. card. Albareda a Bibliotheca Apostolica edita, I, Città del Vaticano 1962 (Studi e testi, 219), pp. 75-117: 105-106 [poi in ID., Cultura e finanze. Studi sulla storia dei gesuiti da s. Ignazio al Vaticano II, Roma 1983 (Storia e letteratura. Raccolta di studi e testi, 158), pp. 367-413: 400-402; ID., Obra completa, XVI: Del Vuit-Cents al Nou-Cents: Balmes, Ehrle, Costa i Llobera, Casanovas, Edició a cura d’E. DURAN (dir.) i J. SOLERVICENS (coord.), Pròleg de R. CORTS, València 2002 (Biblioteca d’estudis i investigacions, 33), pp. 153-209: 194-196]; VIAN, Una illustre successione cit.; C. PASINI, Il Collegio dei Dottori e gli studi all’Ambrosiana sotto i prefetti Ceriani e Ratti, in Storia dell’Ambrosiana. L’Ottocento, Milano 2001, pp. 77-127: 117-119. A integrazione della ricostruzione presentata si aggiungano ora anche i documenti editi da A. M. DIEGUEZ – S. PAGANO, Le carte del «sacro tavolo». Aspetti del pontificato di Pio X dai documenti del suo archivio privato, I-II, Città del Vaticano 2006 (Collectanea Archivi Vaticani, 60: 1-2); I, pp. 484-491. I documenti dell’archivio particolare di Pio X mostrano la preoccupazione del papa di far notare agli interlocutori milanesi che la nomina di Ratti non fu imposta per obbedienza ma accettata dall’interessato. 10 VIAN, Una illustre successione cit., pp. 385-400 [147-162]. Il 3 marzo 1911, scrivendo (presumibilmente da Roma) a madre Félicité Rostaing, Ratti le confidava: «Mes affaires un peu bien un peu mal, comme toujours dans ce monde. C’est pour moi que tout est mal tombé, ou pour mieux dire, contre mon désir et mon espoir: le St. Père me veut ici = fiat voluntas Sua! C’est le sacrifice de tout ce qui me reste de plus cher sur la terre», Lettere di Achille Ratti alle sue figlie spirituali del Cenacolo [1884-1921], a cura di F. CAJANI, Besana Brianza 2010 (Quaderni della Brianza, 176), p. 171. Il 2 giugno 1911 don Achille scrisse da Milano a madre Marie 8
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negli anni precedenti, almeno dalla primavera 1901 e più volte in seguito, il nome di Ratti era stato avanzato come possibile successore di Ehrle, senz’altro a disagio nel clima del pontificato di Pio X11. Nella designazione, operata dallo stesso Ehrle, aveva giocato un ruolo non secondario, oltre alla conoscenza personale di Ratti da parte del gesuita tedesco, la presenza in Vaticana di due amici di don Achille, l’emiliano Giovanni Mercati, in Ambrosiana dal 1893 al 1898, e il laghée Bartolomeo Nogara12. Nelle ricorrenti crisi di Ehrle nei suoi rapporti con l’ambiente vaticano il nome di Ratti riemergeva così periodicamente; egli cercò, dal canto suo, di evitare in tutti i modi la nomina, sentendo il passaggio a Roma come «penitenza de’ miei peccati»13, «dolorosa e dura prova»14, «naufragio»15 e «tempesta»16. Ma riuscì solo a guadagnare tempo prima che la temuta «spada di Damocle»17 Aimée Lauthier: «Il s’agit d’une détermination [scil.: la nomina papale alla viceprefettura della Vaticana] d’une telle gravité pour moi et ayant de telles conséquences, que j’espère toujours pouvoir y échapper sans savoir pourtant de quel côté pourrait me venir la libération. Mais la volonté du bon Dieu soit faite: Vous comprenez qu’à mon âge un tel changement de toute la vie ne peut avant tout signifier que la volonté du bon Dieu sur la manière dont je dois me préparer à la mort. Priez donc et faites prier pour moi: rarement j’en ai eu un plus grand besoin», ibid., p. 172. 11 I rapporti di Ehrle con l’Ambrosiana erano stretti e frequenti: il gesuita aveva visitato la biblioteca milanese nella primavera del 1898 e nello stesso anno si era adoperato per il trasferimento di Mercati in Vaticana; successivamente collaborò alla costituzione di un laboratorio di restauro dei manoscritti in Ambrosiana e nell’agosto 1906 vi si recò a visitarne «i più malati». Nel quadro di questi rapporti, probabilmente per iniziativa di Mercati, fu ipotizzata la possibilità di un trasferimento di Ratti a Roma (forse caldeggiato anche da Nogara). Dopo la morte di Antonio Ceriani (2 marzo 1907) Mercati escogitò una complessa manovra che prevedeva il passaggio a Roma di Ratti, che sarebbe stato sostituito in Ambrosiana da Mercati; in tale quadro Ehrle nel marzo 1907 propose il suo ritiro e la sua sostituzione con Ratti. All’insorgere di nuove difficoltà di Ehrle, che nell’aprile 1910 aveva già avuto il «congedo» da Pio X, il tedesco ripropose la sua sostituzione con Ratti. Nell’estate 1910 il nome di Ratti come futuro successore di Ehrle (attraverso la formula di una viceprefettura con diritto di successione) circolava fra pochi ben informati, mentre Mercati non rinunciava alla realizzazione del suo piano di scambio. Il 18 ottobre 1910 Pio X chiese al card. Andrea Carlo Ferrari se fosse disposto a rinunciare al Ratti per la Biblioteca Vaticana, VIAN, Una illustre successione cit., pp. 402-403 [164-165]. Di fatto le visite a Roma di Ratti incominciarono a moltiplicarsi: vi si recò nel dicembre 1910 e vi tornò alla fine dell’inverno e nell’agosto del 1911. 12 Su Bartolomeo Nogara (1868-1944), scrittore dal 17 luglio 1900, BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 257, 268 nt. 11; VIAN, Figure della Vaticana, in L’urbe 49 (1986), pp. 104-124: 114 [poi in VIAN, Figure della Vaticana cit., pp. 331-355: 345]; M. BONGHI JOVINO, Bartolomeo Nogara: dall’Accademia alla direzione generale dei Musei e delle Gallerie Pontificie, in Quaderni di Acme, nr. 47, 2001, pp. 775-779. 13 VIAN, Una illustre successione cit., p. 410 [172]; cfr. anche ibid., p. 404 [166]. 14 Ibid., p. 410 [172]. 15 Ibid., p. 414 [176]. 16 Ibid., p. 416 nt. 79 [178 nt. 79]. 17 Ibid., p. 403 [165].
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si abbattesse su di lui con la nomina a viceprefetto con diritto di successione, comunicata dal papa al pro-Bibliotecario card. Mariano Rampolla il 9 novembre 191118. Si era allora disposto che fino all’estate successiva Ratti conservasse il suo posto in Ambrosiana, venendo ogni mese per una settimana a Roma19. Il 20 febbraio 1912 la nomina venne pubblicata20; e poco più di due anni e mezzo dopo, la viceprefettura, inutilmente fuggita, si trasformò nella pienezza del titolo e della funzione21. 18 Ibid., p. 424 [186]; in GALBIATI, Papa Pio XI cit., p. 305, la data indicata è l’8 novembre 1911. CHIRON, Pio XI cit., p. 86, ipotizza che gli interventi di Ratti a favore dell’arcivescovo di Milano Andrea Carlo Ferrari abbiano «potuto ritardare l’annuncio ufficiale della sua nomina a Roma senza comunque rimetterla in causa». Non vi sono però prove documentarie che suffraghino l’ipotesi. 19 VIAN, Una illustre successione cit., p. 424 nt. 89 [186 nt. 89]. 20 Ibid., p. 426 [188]. Così Ratti annunciò e commentò la nomina all’amico bollandista François van Ortroy, in lettera da Milano del 27 febbraio 1912: «Ecco dunque come stanno le cose: io sono stato nominato viceprefetto della Vaticana con diritto di "successione”; finché la successione effettivamente si eseguisca, mi obligo di dedicare ogni mese una settimana alla biblioteca Vaticana pur restando al governo dell’Ambrosiana. È la combinazione che io stesso ho proposto fino dal passato autunno; al Card. Rampolla è piaciuta, il S.to Padre l’ha approvata e finalmente la Segreteria di Stato le ha dato forma ufficiale. L’unico ad esserne poco contento è P. Ehrle; ma tutti gli altri ne sono (per quanto mi consta da molte parti) contentissimi: io credo di esserlo più di tutti gli altri insieme. Mi ripugnava profondamente di in qualche modo cooperare a privare la Vaticana di un uomo del valore di P. Ehrle; mi rincresceva anche molto di lasciare l’Ambrosiana con nessuna successione abbastanza preparata; P. Ehrle avrebbe anche consentito ad una temporanea prefettura di Msgr. Mercati all’Ambrosiana; l’Ambrosiana ci guadagnava di certo, ma che facevo io alla Vaticana senza Mercati? nessuno la conosce meglio di Lui, massimamente pei mss. greci. Con la mia combinazione (salvo imprevedibili sorprese dell’avvenire che è in mano di Dio) tutto rimane pressapoco apposto e se qualche cosa di definitivo dovrà avvenire, c’è tempo di prepararsi con una certa tranquillità. Ma io spero che così possiamo tirare avanti fino … alle calende greche: se no bisognerà dire che mi perseguita davvero la sorte non invidiabile di successore agli ottimi», Lettere di Achille Ratti, II: 1882-1922, a cura di F. CAJANI (…), Besana Brianza 2006 (Quaderni della Brianza), p. 328. 21 VIAN, Una illustre successione cit., pp. 437-439 [199-203]. Ma ancora il 21 febbraio 1914, scrivendo da Milano a Giovanni Mercati, Ratti cercò di dirottare la scelta del futuro prefetto della Vaticana su altri nomi: «P. Tacchi Venturi non andrebbe? Calmo, santo, noto e provato a’ dotti e studiosi … Se hic et nunc gli nuoce esser gesuita, P. Quentin è benedettino, bravo, buono, giovane, eppure sperimentato studioso e organizzatore: potrebb’essere la fortuna della Vaticana. Provi a buttar là l’idea. Per me, trovato l’uomo che vada a Loro e che quadri al posto, scriverò subito al S.to Padre dando le mie dimissioni, pregando di accettarle ed indicando la via d’uscita. Ci pensi davvero, ne parli con P. Ehrle; mi dica — con comodo e calma — qualche cosa», ibid., p. 435 [197]. Poco meno di due mesi dopo, il 18 aprile 1914, scrivendo da Milano a van Ortroy, Ratti manifestava però la consapevolezza che la «venuta a Roma» fosse ormai inevitabile («Sulla fine del prossimo autunno. Ottobre e Novembre sarebbero buoni mesi secondo Lei, che ora deve saperlo egregiamente?»), Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 376. Ma ancora un senso di incertezza trapela nella lettera di Ratti a Félicité Rostaing, [Roma], 29 giugno 1914, in Lettere di Achille Ratti alle sue figlie spirituali del Cenacolo cit., p. 181.
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3. La Biblioteca Vaticana al termine della prefettura di Ehrle presentava il singolare aspetto di un cantiere nel quale gli operai, accaldati e sudati, si domandavano se vi fossero i mezzi e la volontà per conseguire l’obiettivo prefisso; o, per rimanere nel campo delle metafore, quello di una nave in cui l’equipaggio, piuttosto agitato e nervoso, si chiedeva se vi fossero le condizioni per giungere alla meta stabilita avendo ormai lasciato ineluttabilmente alle spalle il porto di partenza. La ventennale direzione del gesuita tedesco si era svolta sempre in bilico fra le aspirazioni alla creazione di una grande biblioteca, che non fosse puro deposito di tesori ma centro di studi in grado di valorizzarli, e la penuria di mezzi che si rivelavano continuamente insufficienti alla realizzazione dell’ambizioso progetto. Nell’adunanza del Congresso del 29 marzo 1905 Ehrle aveva denunciato senza mezzi termini la mancanza di denaro, per ordinare ed etichettare centinaia di codici orientali e per la legatura dei volumi22. Le contemporanee, grandi accessioni delle biblioteche Barberiniana e di Propaganda Fide nel 1902, proprio al termine del pontificato di Leone XIII, se avevano straordinariamente arricchito i fondi manoscritti e stampati della Vaticana, avevano però anche lasciato una pesante eredità pratica da smaltire. L’apertura della Sala di consultazione degli stampati (23 novembre 1892), la vera, grande novità della Vaticana di Leone XIII, era poi stata solo l’inizio di un processo che esigeva continui e impegnativi perfezionamenti, per essere semplicemente all’altezza delle aspettative generate. In realtà tutto il nuovo corso impresso da papa Pecci all’Archivio Segreto e alla Biblioteca Apostolica era stato, appunto, il primo passo di un cammino che ne comportava necessariamente altri, per gli spazi da occupare, per le cure da prestare ai volumi e alla loro sicurezza, per i mezzi umani ed economici di cui fornire le due istituzioni, ormai implicate in una dinamica di «pubblicità» che non ammetteva stalli, ripensamenti o ritorni indietro: un’intenzione, un proposito, una promessa che attendevano, dunque, un adempimento e una realizzazione. E l’impressione è che Ehrle abbia vissuto in costante disagio, a tratti con vivo malessere, il suo ruolo di prefetto durante il pontificato di Pio X, assecondato e aiutato dal card. Mariano Rampolla (facente funzione di Bibliotecario nell’assenza del card. Alfonso Capecelatro), unanimemente apprezzato dagli studiosi anche laici di cui si fece in particolari circostanze autorevole portavoce e prezioso tramite presso la Santa Sede23, 22 Biblioteca Vaticana, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 139; 29 marzo 1905], f. 57r. 23 Cfr. lo scambio di lettere fra Bressan, Ehrle e Corrado Ricci dell’ottobre 1909 a proposito della tutela dei beni culturali ecclesiastici in DIEGUEZ – PAGANO, Le carte del «sacro tavolo» cit., II, pp. 575-581. Per la considerazione di Ehrle fra gli studiosi e i rapporti con loro cfr. M. BATLLORI, Tras la apertura del Archivo Vaticano. Historiadores de toda Europa acuden al
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ma apparentemente isolato sullo sfondo del Vaticano piano24. Il caso forse più clamoroso di queste difficoltà di Ehrle col mondo vaticano, che lo portò quasi a un gesto di aperta rottura, fu quello degli Indirizzi ai pontefici, un genere di documenti sorto nella seconda metà dell’Ottocento nel clima dell’assedio al papato da parte di forze ostili, molto considerato come testimonianza ecclesiale di corale devozione al pontefice romano e raccolto in Biblioteca Vaticana a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento. Dopo la morte di Leone XIII tutti gli Indirizzi del pontificato di Pio IX, conservati nella piccola cappella detta di Pio V, quasi all’intersezione fra il cosiddetto «corridore di ponente» e la Torre Pia, furono riuniti a quelli del suo successore e trasportati nel casino di Pio IV, nei Giardini vaticani, ove però, in mancanza di meglio, furono disposti in terra, «alla peggio». Il prefetto aveva chiesto per anni la costruzione di alcuni scaffali, per eliminare il «grave sconcio» deplorato anche dall’estero; ma per anni non aveva ottenuto nulla. Il 22 dicembre 1909 Ehrle comunicò al Congresso che all’inizio di gennaio avrebbe fatto un nuovo tentativo ma se anche questo fosse rimasto infruttuoso avrebbe riconsegnato alla Floreria Apostolica le chiavi del Casino, «per togliersi di dosso ogni responsabilità». Rampolla, pur ritenendo che la domanda per gli scaffali andasse rinnovata energicamente, non approvò l’idea della riconsegna delle chiavi, «la quale avrebbe per conseguenza certissima il completo abbandono e la definitiva rovina degl’Indirizzi. Ciò, per l’onore della S. Sede, si deve cercar di evitare ad ogni costo»25. La questione degli Indirizzi venne in seguito risolta26 ma è esemplare dell’isolamento e dell’insofferenza di Ehrle. Sintomi di un cerpadre Ehrle, in Il libro del centenario. L’Archivio Segreto Vaticano a un secolo dalla sua apertura, 1880/81-1980/81, Città del Vaticano 1981, pp. 31-54 [trad. italiana in ID., Cultura e finanze cit., pp. 343-366]. 24 Cfr., per esempio, la richiesta di Ehrle a Pio X di affrettare la nomina di Ratti come suo successore, anche per placare, con la sua partenza, i contrasti avuti con alcuni prelati per i quali si sente come «una spina nell’occhio», A. M. DIEGUEZ, L’archivio particolare di Pio X. Cenni storici e inventario, Città del Vaticano 2003 (Collectanea Archivi Vaticani, 51), p. 141. Per documenti relativi a Ehrle nell’archivio particolare di Pio X, che a tratti mostrano la difficoltà dei rapporti del gesuita con l’ambiente a lui prossimo, cfr. ibid., pp. 3, 9, 26, 41, 54, 62, 77, 87, 131, 143, 177, 200, 204, 219, 235, 318. 25 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 157; 22 dicembre 1909], f. 94r-v. 26 Il 15 aprile 1910 Ehrle poté annunciare al Congresso di avere finalmente ottenuto quattro scaffali che avevano permesso la sistemazione almeno della prima sala, con gli Indirizzi di Leone XIII; ormai entro la prefettura di Ratti, il 9 novembre 1915, fu annunciata la sistemazione degli Indirizzi di Leone XIII e di Pio X negli scaffali nei quali erano prima esposti i quadri del Rinascimento, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, ni 158 e 174; 15 aprile 1910 e 9 novembre 1915], ff. 96r, 141v. Cfr. anche GALBIATI, Papa Pio XI cit., p. 314; TISSERANT, Pius XI as Librarian cit., pp. 613-614 [per comodità i riferimenti sono solo alla paginazione del Recueil Cardinal Eugène Tisserant].
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to malessere non erano peraltro mancati prima e non sarebbero mancati dopo. Il 30 ottobre 1905 Ehrle aveva sottolineato i limiti del Regolamento del 1888 e la necessità della stesura di un nuovo testo27, un cui progetto relativo ai «bidelli» venne presentato al Congresso il 15 maggio 190728 ma rimase lettera morta29. Il 21 aprile 1906, scrivendo a Giovanni Bressan, segretario particolare di Pio X, per perorare nuovamente la causa in favore di una pensione o di un canonicato per lo scrittore Marco Vattasso, Ehrle usò termini molto severi, nei quali è trasparente la polemica con gli interlocutori del «Palazzo» incapaci di comprendere la natura del lavoro scientifico richiesto appunto agli «scriptores»: Gli scrittori non sono mica copisti o scrivani, sono scienziati colla qualifica di professori d’università e sono quei pochi scrittori e loro soli i quali per le loro pubblicazioni mantengono nei circoli scientifici d’Italia e dell’estero la reputazione scientifica del clero romano e della Santa Sede. Dovendo essi lavorare alla Biblioteca dalla mattina alla sera non possono aiutarsi, come è l’uso e l’abuso, con altri impieghi. Ciò dico unicamente perché, come nel clero romano non si leggono le loro pubblicazioni piuttosto costose, non di rado si credono gli scrittori semplici scrivani o copisti30. 27 Il Regolamento era considerato «vago e imperfetto», non in grado di permettere la distinzione fra lavori ordinari e straordinari dei bidelli, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 141; 30 ottobre 1905], f. 61r. 28 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 148; 15 maggio 1907], f. 75r-v. 29 Il 29 gennaio 1908 e il 26 febbraio 1908 Ehrle lesse un nuovo progetto di Regolamento per i bidelli; il 23 giugno 1908 «[…] il Prefetto accenna alle difficoltà che gli impediscono di dare l’ultima mano al nuovo Regolamento per i bidelli. Il Congresso ritiene che, senza preoccuparsi punto degli altri uffizî di Palazzo, la Biblioteca cerchi frattanto di ottenere l’approvazione del Suo regolamento speciale, salvo a tornarci sopra quando si siano prese norme generali in tutti i dicasterî palatini». Il 28 ottobre 1908 Ehrle comunicò che il Segretario di Stato avrebbe voluto che il nuovo Regolamento fosse compiuto quanto prima, dovendo servire di norma per gli altri Regolamenti palatini; ma non era stato possibile ottenere i Regolamenti governativi, dai quali quelli vaticani non potevano discostarsi per la facoltà e l’obbligo della giubilazione, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, ni 150, 151, 152, 153; 29 gennaio 1908, 26 febbraio 1908, 23 giugno 1908, 28 ottobre 1908], ff. 79r-v, 81v-82r, 83r, 84r. Del nuovo Regolamento si tornò a parlare anche successivamente ma senza approdare a nulla. 30 DIEGUEZ – PAGANO, Le carte del «sacro tavolo» cit., I, p. 478. Già il 2 febbraio 1906 Ehrle aveva inutilmente scritto a Bressan per chiedere una pensione per Vattasso (il 21 aprile 1906 la richiesta riguardava un canonicato alla Rotonda), del quale si offrivano valutazioni particolarmente elogiative, ibid., pp. 475-477, 477-478; la sua situazione di salute e le cure necessarie gli rendevano impossibile vivere con il modesto stipendio vaticano. Pio X fece inviare 500 lire, cfr. ibid., p. 478, provocando un ringraziamento di Ehrle ma al tempo stesso ulteriori richieste (anche per Enrico Carusi), alla fine esaudite per entrambi con benefici a S. Pietro, cfr. ibid., pp. 479-483. Su Vattasso (1869-1925), allievo di Carlo Cipolla, scrittore aggiunto dal 25 dicembre 1897, effettivo dal 1° gennaio 1899, BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque
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Il 30 maggio 1906 il prefetto Ehrle aveva lamentato di fronte al Congresso il grave squilibrio creatosi a danno della Biblioteca con gli aumenti di stipendio concessi agli impiegati della Floreria, dell’Archivio, del Museo31; e il 9 gennaio 1907, sempre nel Congresso, quasi a sfogo di una situazione sempre più intollerabile, si era auspicato lo studio del modo «di decentralizzare la Direzione della Biblioteca senza pregiudizio dell’unità, apparendo manifesto che il Prefetto, sopra cui grava intiera la responsabilità, non può, oppresso dall’enorme lavoro, tener dietro a tutto da solo»32. In maniera più che esplicita il 19 giugno 1909 Ehrle aveva deplorato «l’insufficienza di questo personale rispetto alla grandezza e all’importanza della Biblioteca. Ad essa [scil.: all’insufficienza] si deve se non possono esser compiuti lavori indispensabili ed urgenti, primo fra tutti il catalogo generale degli stampati, la cui mancanza rende lunghissima e penosissima la ricerca dei libri. Aumentare il personale, d’altronde, ci è vietato dalla scarsezza dei mezzi»33. Un altro grave attrito fra le autorità della Biblioteca e quelle vaticane era insorto nel giugno 1912 per la decisione di aprire a pagamento una parte della Biblioteca, che comprendeva il Museo Sacro, il Museo Profano, il Salone Sistino e la Sala delle Nozze Aldobrandini. Giovanni Mercati si disse risolutamente contrario, per il gravissimo danno morale che ne sarebbe derivato alla Santa Sede «e che in nessun modo potrà esser compensato dall’aumento degl’incassi»; Rampolla replicò che la decisione era stata presa da altri e non vi era possibilità di opporsi ma solo «di regolare le cose nel modo più vantaggioso per la S. Sede e per la Biblioteca»34. Dal canto suo Generoso Calenzio fece notare che la Biblioteca non dipendeva dalla Prefettura dei Sacri Palazzi Apostolici ma direttamente dal papa, per cui le misure adottate andavano respinte. Realisticamente, ancora una volta, Rampolla ribadì che la decisione ormai era stata presa e a quel punto andavano fatti tutti i possibili sforzi per renderla vantaggiosa35. Vaticane cit., pp. 257, 268 nt. 10. A proposito di questi interventi per i suoi scrittori, poco dopo (18 marzo 1909) Ehrle scrisse ancora a Bressan: «Faccio lavorare più che assai gli scrittori, ed essi lavorano da se stessi, che la sera gli [sic] debbo cacciar via dalla Biblioteca, perché si guastano gli occhi, ma debbo anche pensare ai loro bisogni. Non raccomanderò mai un ozioso o incapace», DIEGUEZ – PAGANO, Le carte del «sacro tavolo» cit., I, p. 483. 31 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 145; 30 maggio 1906], f. 69r. 32 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 147; 9 gennaio 1907], ff. 73v74r. 33 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 155; 19 giugno 1909], f. 88v. 34 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 166; 21 giugno 1912], ff. 112v113r. 35 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 167; 25 giugno 1912], f. 114r. Quasi a consolazione, il 20 aprile 1916 il vice-prefetto dei Sacri Palazzi Apostolici, mons.
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I ritardi denunciati dal prefetto non erano solo nella catalogazione dei manoscritti, per la quale Ehrle aveva steso le celebri Leges che avrebbero animato gli sforzi dei primi decenni del Novecento, ma anche in quella degli stampati. Col loro trasferimento dagli Appartamenti Borgia alla nuova Biblioteca Leonina e con l’allestimento in essa di una Sala di consultazione Ehrle aveva compiuto un’opera di fondamentale importanza; si trattava però, come si è accennato, solo di un primo passo perché i volumi, spesso appartenenti a collezioni dotate di antichi inventari manoscritti, andavano ora schedati in un catalogo unico e in modo uniforme. Se per la Sala di consultazione le concise regole stilate da Ehrle sulla base delle indicazioni di Léopold Delisle avevano posto le premesse per una catalogazione, se non soddisfacente, almeno accettabile36, la catalogazione dei volumi non in consultazione diretta comportava una duplice difficoltà: la mancanza di personale adeguato per il compito e l’assenza di una sede definitiva per gli stampati che rischiava di rendere obsolete le segnature, strettamente connesse a sistemazioni topografiche in continua evoluzione perché legate ai movimenti di un’istituzione alla ricerca di nuovi spazi nella progressiva occupazione dei piani inferiori dell’edificio innalzato da Sisto V37. Una novità importante nell’occupazione di questi spazi si era intanto consumata nell’ottobre 1909. Il 18 ottobre, nella stessa seduta del Congresso in cui si prese atto (forse non senza rammarico) della volontà del papa di creare la biblioteca del neonato Pontificio Istituto Biblico con stampati della Vaticana38, il Congresso direttivo fu chiamato a decidere «se convenga proseguire a tener i codici, come sono stati tenuti fin qui, e cioè disseminati per la lunghezza di oltre un chilometro nel Salone di Sisto V e nelle gallerie, ovvero raccoglierli in più angusto spazio. In questo caso, quali saran-
Luigi Misciattelli, trasmise al prefetto Ratti le tessere di libero ingresso ai Musei, alle Gallerie Pontificie e all’Appartamento Borgia per gli scrittori della Vaticana, Arch. Bibl., Corrispondenza 1915-1916, aprile 1916, f.n.n. 36 TISSERANT, Pius XI as Librarian cit., pp. 612-613. 37 L’esigenza di individuare una sede definitiva per gli stampati, evitando peregrinazioni che modificavano continuamente le segnature, era stata messa in evidenza da Giovanni Battista De Rossi nel 1885, cfr. P. VIAN, «Una sede conveniente, commoda, definitiva degli stampati». Un progetto di Giovanni Battista De Rossi per l’ampliamento della Biblioteca Vaticana (7 maggio 1885), in Vaticana et mediaevalia. Études en l’honneur de Louis Duval-Arnould, réunies par J. M. MARTIN, B. MARTIN-HISARD et A. PARAVICINI BAGLIANI, Firenze 2008 (Millennio medievale, 71. Strumenti e studi, n.s., 16), pp. 472-486. 38 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 156; 18 ottobre 1909], ff. 90r-91v. Rampolla nell’occasione aveva chiesto un «ordine pontificio scritto» e aveva insistito sulla necessità di far apparire la biblioteca del nuovo Istituto una sezione della Vaticana, nella quale i volumi trasferiti erano solo prestati e sulla quale il prefetto Ehrle avrebbe dovuto avere autorità, con la presenza fissa di un addetto della Biblioteca.
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no i locali da destinare alla custodia dei codici?»39. Alla prima domanda il Congresso rispose che «sia per la comodità del servizio, sia specialmente per la sicurezza, i codici devono essere trasferiti in locali più raccolti e più sicuri»40. Quanto ai locali, si profilarono due possibilità. Nella prima, i manoscritti sarebbero stati conservati in parte nel piano superiore alla sala di studio (che dunque sarebbe rimasta al livello del Salone Sistino) e in parte da basso nella «sala dei compositori», sgombrata dal trasferimento della Tipografia Vaticana deliberato dal papa poco prima; ognuno dei due ambienti di deposito sarebbe stato servito da un impiegato e un piccolo ascensore avrebbe trasmesso i manoscritti nella sala di studio. Nella seconda possibilità, a essere convertita in sala di studio sarebbe stata proprio la «sala dei compositori», mentre ai codici sarebbero stati riservati i due piani superiori. A questa nuova sala di studio si sarebbe giunti passando dallo «stradone» che conduce ai Musei e attraversando il cortile della Stamperia; dalla sala di studio si sarebbe passati facilmente nella Sala di consultazione (quella inaugurata nel novembre 1892) attraverso una porta, allora murata in fondo alla «sala dei compositori», che immetteva nella cosiddetta «Sala biblica»41. Fu questo secondo scenario a imporsi42, probabilmente per l’incomparabile vantaggio, subito avvertito, di collocare allo stesso livello la Sala di consultazione degli stampati e quella dei manoscritti, con gli innumerevoli e graditissimi benefici che ne sarebbero derivati, rendendo così obsoleto il piccolo edificio costruito sotto Leone XIII nell’angolo del cortile della Stamperia con la scala interna che permetteva di passare dalla Sala di consultazione dei manoscritti (al livello del Salone Sistino) a quella degli stampati (al piano inferiore). Nell’adunanza del 25 giugno 1910, «il Congresso (dopo diligente e ripetuto esame dei due progetti possibili, fatto dai singoli membri anche sulla faccia dei luoghi)» si trovò «pienamente d’accordo nel preferire» la soluzione «che trasferisce la sala di studio nella sala già dei compositori, come più capace, meglio arieggiata e prossima alla bibl. di consultazione, mentre riserva alla custodia dei codici i piani superiori che non lasciano nulla a desiderare per asciuttezza, sicurezza e comodità»43. Ehrle avrebbe redatto una memoria che Rampolla avrebbe 39
Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 156; 18 ottobre 1909], f. 91v. Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 156; 18 ottobre 1909], f. 91v. 41 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 156; 18 ottobre 1909], ff. 91v92r. Il 19 gennaio 1912 si notò che il nuovo ingresso aveva il vantaggio di evitare l’attraversamento del palazzo da parte di «tanta gente estranea, né sempre educata», ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 164; 19 gennaio 1912], f. 109r. 42 Apparentemente solo con l’opposizione di padre Generoso Calenzio, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 158; 15 aprile 1910], f. 97r. 43 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 159; 25 giugno 1910], f. 98r-v. 40
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consegnato al papa, «del resto già informato della cosa e benissimo disposto ad ordinare l’esecuzione dei lavori»44. Si prevedeva che nell’autunno 1911 la Biblioteca avrebbe potuto presentare il nuovo assetto, «che, oltre al porre in sicuro il tesoro inestimabile dei nostri codici, tornerà di molto decoro alla S. Sede e di comodità grandissima agli studiosi»45. Come sempre accade, i tempi di conclusione dei lavori subirono ritardi. Ma nel 1912 la nuova Sala, servita dai relativi depositi, era ormai pronta46. Intorno ai tesori manoscritti della Vaticana, allora considerati come la parte veramente importante della Biblioteca, anzi l’unica a essere ordinariamente offerta in consultazione47, ruotava un personale scientifico-amministrativo piuttosto esiguo48. Nel 1914, vacante il ruolo di Bibliotecario, oltre al prefetto Ehrle e al viceprefetto Ratti, esso era composto dai tre prefetti e custodi del Gabinetto Numismatico, del Museo Cristiano e del Museo Profano49, da nove scrittori50, da cinque scrittori
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Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 159; 25 giugno 1910], f. 98v. Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 159; 25 giugno 1910], f. 98v. 46 BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 257-258. Lo attesta l’epigrafe che domina l’attuale Sala di consultazione dei manoscritti dalla parete laterale destra: PIVS X P.M. / CODICIBVS MANV SCRIPTIS / BIBLIOTHECAE VNIVERSIS / TVTIVS CONSERVANDIS / EXPEDITIVS AD VSUM EXHIBENDIS / CONCLAVIA SVPERIORA / COMMVNIVIT INSTRVXIT / ANNO MCMXII (il testo dell’epigrafe è già pubblicato da BORGHEZIO, Pio XI e la Biblioteca Vaticana cit., p. 215). 47 «È da notarsi, peraltro, che la Biblioteca è destinata allo studio dei manoscritti, e solo per eccezione a quello di libri a stampa, non facilmente reperibili altrove», Biblioteca Apostolica Vaticana, in Annuario pontificio per l’anno 1915 (…), Roma 1915, p. 553. 48 I dati sono ricavati dal Registro del personale della Biblioteca Vaticana, dal 1885 al 1925 (Arch. Bibl. 103), ff. 28v-30r, 38r-40r [cfr. infra, Appendici. III. Personale della Biblioteca Vaticana negli anni 1914-1919]. Essi non coincidono del tutto con quelli offerti in Annuario pontificio per l’anno 1914 (…), Roma 1914, pp. 580-581. Si è data la preferenza alla prima fonte, considerata più vicina alla realtà; ma, ove è apparso utile, si sono indicate le discrepanze. 49 Custode del Gabinetto Numismatico era Camillo Serafini (1864-1952), prefetto del Museo Cristiano Rodolfo Kanzler (1864-1924; figlio di Hermann, che era stato comandante supremo dell’esercito pontificio, anche al momento della breccia di Porta Pia), mentre custode del Museo Profano era Bartolomeo Nogara, che però ricopriva anche l’incarico di scrittore. 50 Scrittori erano, nell’ordine del Registro, Bartolomeo Nogara, Generoso Calenzio (18361915), Orazio Marucchi (1852-1931), Cosimo Stornajolo (1849-1923), Giovanni Mercati (1866-1957), Marco Vattasso, Enrico Carusi (1878-1945), Michele Cerrati (1884-1925), Angelo Mercati (1870-1955). L’Annuario pontificio precisa per Calenzio e Marucchi l’impegno per la lingua latina, per Stornajolo e Giovanni Mercati quello per la lingua greca, mentre per gli altri non vi era specificazione. L’Annuario considera inoltre Stornajolo «emerito» e Cerrati «aggiunto». Su Calenzio, Marucchi, Stornajolo, Carusi, Cerrati e Angelo Mercati, cfr. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 252 nt. 88, 251 nt. 87, 249 nt. 78, 268 nt. 13, 269 nt. 16, 269 nt. 15. Per Carusi cfr. anche VIAN, Figure della Vaticana cit., pp. 105-106 [332-333]. 45
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onorari51, da due scrittori emeriti52, da sei assistenti53, da un segretario titolare di fatto sostituito da un vicesegretario54, da undici bidelli55, da quattro legatori56 e da un facchino57: in tutto, 44 persone. Un numero di poco superiore agli impiegati della Vaticana durante il pontificato
51 Scrittori «onorari» erano Pio Franchi de’ Cavalieri (1869-1960), Stanislas Le Grelle (1874-1957), Auguste Pelzer (1876-1958), Eugène Tisserant (1884-1972) e Paul Liebaert (1883-1915). L’Annuario pontificio considera invece Pelzer «onorario aggiunto», Tisserant «aggiunto per le lingue orientali»; non vi compare Liebaert. Sui cinque «onorari», prime indicazioni bio-bibliografiche in BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 267 nt. 9, 268 nt. 12, 269 nt. 14, 271 nt. 30, 269 nt. 17. 52 Scrittori «emeriti» erano Filippo Tolli (1843-1924) e Ulisse De Nunzio (1857-1915); su di essi cfr. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 236-237, 252 nt. 89. Tolli e De Nunzio erano divenuti «emeriti» alla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, dopo la «grande crisi» sopravvenuta con l’entrata in vigore del nuovo Regolamento e la ridefinizione del ruolo degli scrittori, cfr. R. FARINA, «Splendore veritatis gaudet Ecclesia». Leone XIII e la Biblioteca Vaticana, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XI, Città del Vaticano 2004 (Studi e testi, 423), pp. 285-370: 295; VIAN, «Una sede conveniente» cit., pp. 475-479. 53 I sei assistenti (la figura nuova nata sotto il pontificato leonino per garantire lo svolgimento di un ruolo di concetto, soprattutto, ma non esclusivamente, nell’ambito degli stampati) erano Mariano Saraceni, Francesco Torriani, Ernesto Feron, Nicola Franco, Alfredo Monaci (fratello minore del filologo romanzo Ernesto, 1844-1918). L’Annuario pontificio, che non registra i gradi inferiori agli scrittori, aggiunge però «Mons. Auad Nehmatalla», con la qualifica di «Assistente onorario». Sulla compilazione degli indici del decimo tomo dell’Inventario dei manoscritti Vaticani latini da parte di Monaci, sotto la guida di Giovanni Battista De Rossi, cfr. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 231. Il 19 giugno 1909 nella seduta del Congresso direttivo si era notato che gli assistenti avevano uno stipendio più basso di quello dei bidelli di modo che nessuno dei bidelli voleva divenire assistente, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 155; 19 giugno 1909], f. 88v. Sullo squilibrio fra bidelli e assistenti cfr. ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 167; 25 giugno 1912], ff. 115v-116r: «Circa i nuovi stipendî mensili (art. 8), Mons. Mercati rileva il fortissimo squilibrio che essi vengono a stabilire fra bidelli ed assistenti. Il guaio nasce dall’essersi fissate le paghe degli addetti ai musei senza tenere alcun conto né delle paghe degli altri dicasteri vaticani, né di quelle dello Stato. Gli stipendî degl’impiegati al Museo (superiori a quelli che lo Stato assegna agl’impiegati dello stesso grado) sono divenuti in Vaticano come il punto di partenza per tutti gli altri stipendî, con gravissimo danno della S. Sede. Ora bisognerebbe riconoscere lealmente di avere sbagliato e ricominciare da capo su basi più modeste e più ragionevoli. Bisognerebbe però introdurre negli stipendî gli aumenti sessennali». 54 Segretario titolare era (dal 1882) Licurgo Zucchetti; sarebbe divenuto emerito solo nel 1918 ma di fatto, dal 1888, era stato autorizzato a farsi sostituire; vice segretario era allora Domenico Presutti. Su Zucchetti, cfr. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 240. 55 Gli undici «bidelli», guidati dal decano Paolo Federici, erano Achille Bizzarri, Luigi Rossi, Settimio Silli, Luigi Morganti, Augusto Volpi, Giuseppe Faggiani, Bartolomeo Bignoli, Gioacchino D’Amati, Achille Del Re e Mariano Labella. 56 I quattro «legatori» erano Augusto Castellani, Enrico Castellani, Alfredo D’Agostini e Renato Castellani (che era «legatore apprendista»). 57 Dino Casadei.
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leonino, entro il quale molti erano stati assunti58. Così il numero degli studiosi ammessi nel 1914-1915, 161 persone, non si distanzia molto dai numeri del pontificato di papa Pecci, rappresentando anzi una leggera flessione rispetto alla sua ultima fase59. Anche le iniziative scientifiche della Biblioteca proseguivano, all’inizio della prefettura di Ratti, le linee operative che si erano andate profilando sotto il pontificato leonino: la redazione dei cataloghi scientifici dei fondi manoscritti e, a essa collegata, la pubblicazione dei volumi della collana «Studi e testi» (destinata a ospitare edizioni dei testi e analisi particolari sorte dalla catalogazione dei manoscritti ma che, per motivi di estensione, i cataloghi non potevano ospitare); l’edizione di riproduzioni facsimilari dei manoscritti più celebri, con introduzioni storico-critiche e illustrazioni dei rispettivi codici, e le riproduzioni delle piante maggiori di Roma dei secoli XVI-XVII, della veduta della basilica di S. Pietro e del palazzo Vaticano, della mappa della Campagna Romana (ambito, questo, particolarmente caro al prefetto Ehrle, che vi si era personalmente impegnato); infine, le pubblicazioni relative alle collezioni archeologiche, artistiche e numismatiche sia della Biblioteca, sia dei Musei, delle Gallerie e degli appartamenti pontifici. Come vedremo, tutte le imprese scientifiche in corso soffrirono delle ristrettezze del periodo di guerra, in modo particolare le riproduzioni fototipiche e le pubblicazioni relative alle collezioni museali, che per la grandezza dei formati, la veste tipografica, l’allestimento esteriore comportavano disponibilità e spese che la Biblioteca non poteva affrontare. In realtà, anche la catalogazione dei manoscritti doveva incontrare particolari difficoltà, non solo per l’arduo impegno del lavoro scientifico ma per gli ostacoli tecnici a comunicarne i risultati. Già il 29 gennaio 1908 Ehrle si era pubblicamente domandato se una parte dei lavori della Biblioteca non si potesse stampare presso la Tipografia del Senato, essendo la Tipografia Vaticana, da sola, assolutamente insufficiente60. Il lamento non sarà isolato. Il 15 aprile 1910 il prefetto notò che, soprattutto dopo l’annessione della Poliglotta alla Tipografia Vaticana, la stampa delle pubblicazioni «procede con una lentezza veramente favolosa», per la mancanza di tipi e 58 Nel 1883 il personale della Vaticana (fra ordinari e straordinari) era composto da 21 elementi, nel 1885 da 40, nel 1895 da 36, nel 1903 da 38; cfr. i dati raccolti in FARINA, «Splendore Veritatis gaudet Ecclesia» cit., pp. 346-349. 59 Per le ammissioni, cfr. infra, Appendici. IV. Ammissione di studiosi in Biblioteca Vaticana negli anni 1914-1919. Per un confronto con i dati del pontificato leonino cfr. i dati raccolti in FARINA, «Splendore Veritatis gaudet Ecclesia» cit., pp. 351-367. Nell’anno 1900-1901 si erano registrate 219 ammissioni, nel 1901-1902 203, nel 1902-1903 214. 60 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 150; 29 gennaio 1908], f. 79v.
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per la carenza di personale61. Ancora nel novembre 1920 si lamentava che la scarsità di caratteri greci della Tipografia Vaticana comprometteva il progresso del lavoro di Joseph Fischer sul Tolomeo Urb. gr. 8262. E dopo tanto penare per portare alla luce volumi di faticosa e difficile gestazione vi era poi la difficoltà, in mancanza di una promozione esperta e capillare, di farli circolare nelle biblioteche e fra gli studiosi63. Così, anche nell’ambito dei lavori scientifici, venivano alla luce le difficoltà denunciate da Ehrle e derivanti dal contrasto fra le ricchezze della Biblioteca e la penuria di forze e di mezzi per amministrarle e valorizzarle. In particolare la Vaticana si trovava quasi serrata fra l’affluenza crescente e quasi febbrile di richieste esterne con progetti di catalogazioni, edizioni e riproduzioni di manoscritti e la costante volontà di coinvolgere l’istituzione, per salvaguardarne l’onore e il buon nome, nella realizzazione delle imprese. E poiché spesso non vi erano all’interno del personale scientifico della Biblioteca persone competenti per i diversi soggetti e lo sparuto gruppo degli scrittori risultava già impegnato nella stesura dei cataloghi dei manoscritti, si creavano situazioni di tensione e difficoltà spesso risolte con compromessi. Può essere utile fare alcuni esempi. Nel 1905 la Henry Bradshaw Society, fondata nel 1890 a Londra per pubblicare edizioni e facsimili di rari testi liturgici64, chiese la facoltà di riprodurre il Messale 61 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 158; 15 aprile 1910], f. 96r-v. Il direttore della Tipografia, Giovanni Pasquale Scotti, si dichiarò pronto all’acquisto di una monotype, che avrebbe risolto i problemi, ma chiese alla Vaticana il prestito di 4.000/5.000 lire. La Biblioteca si disse disponibile a patto che la nuova macchina fosse sempre a disposizione della Vaticana, i cui lavori dovevano avere la precedenza sugli altri. L’acquisto della monotype poi sfumò; Scotti promise però di adattare una linotype alle esigenza della Biblioteca e di acquistare nuovi caratteri per soddisfare «le nostre troppo giuste pretese», cfr. ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 159; 25 giugno 1910], f. 98r. Ma ancora il 6 dicembre 1910 si notò che la povertà dei caratteri della Tipografia Vaticana poteva intralciare la stampa del catalogo dei manoscritti copti preparato da Adolphe Hebbelynck, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 160; 6 dicembre 1910], f. 100r-v. 62 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, s.n°; 25 novembre 1920], f. 161r-v. 63 Il 22 giugno 1904 fu deciso il deposito presso Hoepli degli «Studi e testi» con lo sconto del 40%, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 137; 22 giugno 1904], f. 54r; il 29 marzo 1912 si discusse delle trattative con la Tipografia Vaticana per la diffusione delle pubblicazioni, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 165; 29 marzo 1912], f. 110r-v. Il 28 gennaio 1914 si trattò l’invio di alcune pubblicazioni all’esposizione di Lipsia (ma al proponente Stornajolo si obiettò che le copie inviate non sarebbero più tornate e che la Biblioteca aveva a sua disposizione un numero scarsissimo di copie), ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 170; 28 gennaio 1914], f. 125v, mentre il 26 gennaio 1915 si parlò dell’invio di pubblicazioni al gesuita Joseph Dahlmann (1861-1930; il noto missionario e orientalista tedesco) per l’Università cattolica di Tokio, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 172; 26 gennaio 1915], f. 130v. 64 A. WARD – C. JOHNSON, The Henry Bradshaw Society: Its Birth and First Decade 1890-
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Gotico (Reg. lat. 317); si rispose che la pubblicazione sarebbe stata fatta dalla stessa Biblioteca ma poiché non vi era persona competente in materia per la stesura dell’introduzione si incaricò del lavoro Henry Marriot Bannister [1854-1919], membro della Società, che avrebbe fornito i dati per il testo65. Nel 1906 Franz Wickhoff [1853-1909], direttore della sezione di storia dell’arte dell’Institut für Österreichische Geschichtsforschung, propose la realizzazione per la Vaticana di un catalogo dei manoscritti miniati, sull’esempio di quello che nel 1905 aveva preso avvio per l’Austria66. All’interno della Vaticana, che non poteva condurre in proprio il lavoro, la proposta aprì un ampio dibattito: il Congresso dichiarò che l’opera doveva essere pubblicata in italiano, mentre Mariano Ugolini avrebbe voluto che l’espressione «col concorso del Ministero austriaco della P.I.» venisse modificata in «a cura della Bibl. Vat.». Di fronte alle obiezioni di chi ragionevolmente pensava «che non convenga pretender troppo da chi sostiene le spese dell’opera», Cosimo Stornajolo avrebbe addirittura voluto che l’opera fosse stampata in Italia e di fronte all’impossibilità dell’accoglimento della richiesta (Ehrle osservò che «un Ministero non dà denari se non a patto ch’essi vengano spesi nello Stato») notò «che il moltiplicarsi di lavori come questo, che ora ci si propone dall’Istituto austriaco, divide le forze degli scrittori ed intralcia necessariamente le altre nostre pubblicazioni, sopra tutto quella urgentissima dei Catalogi. Con ciò egli non intende di disapprovare la decisione del Congresso, ma soltanto di deplorare la necessità delle cose»67. In un’adunanza successiva ancora Stornajolo, per mostrare quanto la Vaticana avesse a cuore la scienza, propose una soluzione di compromesso: i codici sarebbero stati descritti in latino, da parte degli scrittori vaticani, mentre le miniature sarebbero state descritte in tedesco, a cura dei membri dell’Istituto austriaco68. Il progetto, come è noto, non si realizzò ma la vicenda, nella quale si riflettevano anche gli umori politici del momento, è significativa: dopo l’apertura leonina la febbre dell’oro ha contagiato l’Europa dotta e tutti vorrebbero condurre ricerche in quella sorta di Eldorado per secoli precluso agli eruditi che è la Vaticana ma la Biblioteca non intende ridursi a mero teatro dei lavori altrui; vorrebbe, se non condurli in proprio, almeno collaborarvi, per mostrar così che la Santa Sede (e la Chiesa cattolica) non devono imparare da altri il far ricerca. In gioco, ancora un volta, è il rapporto tra fede e storia o, in 1900, in Ephemerides Liturgicae 104 (1990), pp. 187-200. 65 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 139; 29 marzo 1905], f. 58r. Accenni a cortesie di Bannister nei confronti dell’Ambrosiana e della Vaticana in lettera di Ratti a Gramatica, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1° ottobre 1917, in Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 498. 66 Il primo volume del Beschreibendes Verzeichnis der illuminierten Handschriften, edito da Franz Wickhoff, aveva visto la luce nel 1905 per i tipi di Hiersemann di Leipzig; riguardava i manoscritti del Tirolo e fu curato da Hermann Julius Hermann. Per il progetto, non realizzato, cfr. Ch. M. GRAFINGER, Das österreichische Projekt einer Herausgabe illuminierter Handschriften in Zusammenarbeit mit der Biblioteca Apostolica Vaticana, in Römische Historische Mitteilungen 32/33 (1990/1991), pp. 337-349. 67 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, ni 142, 143; 19 gennaio 1906, 26 gennaio 1906], ff. 63v, 65r-v. 68 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 144; 14 marzo 1906], f. 67r.
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altri termini, la ragionevolezza della fede. Nella stessa riunione del 14 marzo 1906 nella quale si discusse della proposta di Wickhoff, Ehrle domandò al Congresso se convenisse, alla luce di quanto stabilito dal Regolamento, permettere a studiosi esterni pubblicazioni di codici interi che la Biblioteca Vaticana non avrebbe potuto fare direttamente. Il Congresso replicò che il Regolamento andava fatto rispettare ma che qualche facilitazione andava concessa a specialisti di sicura competenza, ai quali si sarebbe potuto affiancare un collaboratore addetto della Biblioteca. Quando il lavoro fosse affidato interamente a un estraneo, si sarebbe indicato nel frontespizio «a cura della B[iblioteca]. V[aticana]. con una prefazione del tale»; in questo caso l’autore avrebbe potuto scrivere nella sua lingua69. Il 30 maggio 1906, per l’introduzione alla riproduzione fototipica del codice di Giuliano da Sangallo (Barb. lat. 4424), il Congresso decise che «non essendoci in Biblioteca persona adatta si affiderà al prof. Hülsen» [Christian Hülsen, 1858-1935]70; similmente l’introduzione al Tolomeo (Urb. gr. 82), sarebbe stata stesa dal gesuita Joseph Fischer [1858-1944], specialista in cartografia. Ma entrambe le introduzioni sarebbero state tradotte in italiano71. Il 31 ottobre 1906 si espresse la preoccupazione che la pubblicazione ufficiale, da parte della Santa Sede, del tesoro del «Sancta Sanctorum» finisse per essere monopolizzata da Philippe Lauer [1874-1953]72; nella stessa data si concesse al gesuita Albert Poncelet [1861-1912] il permesso di compilare il catalogo dei codici agiografici della Vaticana73, ma si chiese in cambio ai Bollandisti di completare la copia Barberiniana degli Analecta e degli Acta Sanctorum, pervenuta incompleta74. Il 9 gennaio 1907 si decise di non affidare altri lavori a Giuseppe Fumagalli [18631939], avendo egli dato per il Petrarca e per il Cosma prove di inesattezze e di lungaggini75; contemporanemente si decise di rispondere negativamente a Charles Meunier, che aveva chiesto di pubblicare «il codice di Giacomo monaco» (Vat. gr. 1162), con la motivazione che ad altri era stata negata la possibilità di riprodurre 69
Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 144; 14 marzo 1906], f. 68r-v. Il facsimile vide la luce a Lipsia nel 1910, per i tipi di Harrassowitz, con introduzione e note (in italiano) di Hülsen. 71 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 145; 30 maggio 1906], f. 70r. Per un’ordinazione di riproduzione fotografica di un codice ambrosiano eseguita da Ratti il 25 giugno 1914 per conto di Fischer, cfr. Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 384. 72 Lauer aveva già pubblicato nel 1900, nei Mélanges d’archéologie et d’histoire dell’École Française de Rome, un articolo dedicato a Les fouilles du Sancta Sanctorum au Latran; nello stesso 1906 pubblicò, nei «Monuments et mémoires» dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres, Le trésor du Sancta Sanctorum. Seguirono nel 1908 il volume del gesuita Hartmann Grisar e, più tardi, nel 1941 quello di Fritz Volbach; ma una «pubblicazione ufficiale, da parte della Santa Sede» non vide mai la luce. 73 Il catalogo fu pubblicato nel 1910, l’anno dopo del catalogo dei manoscritti agiografici delle biblioteche romane. 74 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 146; 31 ottobre 1906], f. 71r-v. 75 Fumagalli deve aver prestato qualche collaborazione alle riproduzioni fototipiche del Canzoniere del Petrarca (Vat. lat. 3195), pubblicata nel 1905, e delle miniature della Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste (Vat. gr. 699), pubblicata nel 1908 con introduzione di Cosimo Stornajolo. 70
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codici per intero e perché non era stimato specialista di riconosciuta competenza76. Il 28 ottobre 1908, di fronte alla richiesta di Aaron Freimann [1871-1948] di pubblicare un catalogo sommario dei manoscritti ebraici (traendo le descrizioni dagli Assemani e aggiornandole sulla bibliografia), si considerò che nessuno in Biblioteca poteva compiere quel lavoro e che dunque era bene non opporsi (chiedendo alcune copie del catalogo, stampato che sia). Mercati propose però che Freimann pubblicasse il suo catalogo presso la Vaticana e che lo estendesse sino a comprendere tutti i manoscritti ebraici (non limitandosi, cioè, alle descrizioni dei manoscritti già considerati dagli Assemani)77. Il 25 giugno 1910, infine, alla richiesta di Alinari di fotografare tutti i cimeli della Biblioteca si decise di rispondere che la Biblioteca si riservava di pubblicare quanto era inedito78.
Proseguivano poi le tensioni che potremmo definire di carattere ideologico, fra la Vaticana e il mondo esterno, pesante eredità della breccia del 1870 e di tutto ciò che l’aveva preceduta e seguita. Molto vivaci negli anni Ottanta e Novanta del secolo XIX, tali tensioni (che comportavano anche un dibattito sulla proprietà della Biblioteca Vaticana, rivendicata dallo Stato italiano come era avvenuto per le altre biblioteche romane «nazionalizzate» dopo il 20 settembre) continuarono a covare in realtà sotto la cenere ravvivandosi improvvisamente in momenti particolari, come si era verificato in occasione del principio d’incendio scoppiato proprio all’inizio del pontificato piano, il 1° novembre 190379. Il 6 novembre 1907 il Congres76 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 147; 9 gennaio 1907], f. 73r-v. Meunier doveva essere piuttosto specialista di legature; nel 1914 pubblicò Cent reliures de la Bibliothèque nationale, testo di una «causerie» tenuta all’École des hautes études sociales. Una riproduzione fototipica delle miniature del Vat. gr. 1162 e dell’Urb. gr. 2, con breve e sommaria descrizione di Cosimo Stornajolo, fu pubblicata nel 1910. 77 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 153; 28 ottobre 1908], ff. 84v-85r. Nel verbale dell’adunanza il cognome di Freiman è corrotto in Friedmann. Il progetto riemerse nella discussione dell’adunanza del 28 gennaio 1914 (quando dunque Ratti era ormai viceprefetto). Freimann aveva chiesto la collaborazione di un rabbino di Firenze (Umberto Cassuto?) ma si decise di affiancargli invece Eugène Tisserant, che «si è dimostrato più che capace, come di sorvegliare la stampa del catalogo dei codd. armeni, così di collaborare a quello dei mss. ebraici»; il catalogo sarebbe uscito sotto i due nomi, sempre che il Freimann avesse ottenuto ufficialmente l’incarico da parte della Biblioteca dopo l’esame delle schede che avrebbe inviato in esame, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 170; 28 gennaio 1914], f. 125r-v. Il progetto di Freimann rimase incompiuto e le schede allora elaborate (a proposito dei Vat. ebr. 30-605 e degli Urb. ebr.) sono disponibili in fotocopia in Biblioteca Vaticana, Sala Cons. Mss., 578 (1-6) rosso. Su Umberto Cassuto (1883-1951), antico rabbino capo di Firenze, che poi effettivamente divenne collaboratore scientifico della Vaticana e autore di ricerche e cataloghi nelle sue pubblicazioni, cfr. VIAN, Figure della Vaticana cit., p. 117 [348]. 78 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 159; 25 giugno 1910], f. 99r. 79 P. VIAN, Un discusso incendio nella Vaticana di un secolo fa, in Strenna dei Romanisti 63 (2002), pp. 673-693. Ancora il 18 ottobre 1909, in occasione del trasferimento di volumi della Vaticana alla neonata biblioteca del Pontificio Istituto Biblico, in seno al Congresso
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so stigmatizzò severamente Amedeo Crivellucci per le «volgari insolenze contro la Chiesa ed i preti nel discorso inaugurale all’Università di Pisa» e incaricò Ehrle di scrivere all’arcivescovo di Pisa Pietro Maffi per esprimergli la costernata indignazione della Biblioteca, «tanto larga di aiuti e di facilitazioni al Crivellucci stesso»80. 4. In tale quadro, segnato dalla contraddizione fra grandi ambizioni e modeste possibilità, fra le pressioni esterne che derivavano ineluttabilmente dall’apertura leonina degli anni Ottanta e le difficoltà interne ad assecondarle, in uno scenario ove appare evidente la ferma volontà dell’istituto di caratterizzarsi come centro di studi e di ricerche e non come mero deposito di libri alla mercé di progetti altrui, si colloca l’avvento di Ratti inizialmente alla viceprefettura, poi alla prefettura vaticana. In realtà la prima comparsa di Ratti nei verbali delle adunanze del Congresso direttivo della Vaticana81 risale curiosamente a prima della sua nomina a viceprefetto (e si spiega forse con questa designazione ufficiosa alla direzione della Vaticana, precedente quella effettiva). Nella riunione del 31 marzo 1911 l’opinione di Ratti a proposito della localizzazione della «burbera», una sorta di ascensore che doveva collegare la nuova Sala di consultazione dei manoscritti ai depositi soprastanti, addirittura prevalse in maniera determinante su quella del prefetto in carica Ehrle82: un sintomo del riasdirettivo si era raccomandato di parlarne e scriverne il meno possibile, «atteso che per le leggi vigenti non essendo la S. Sede proprietaria della Bibl. Vat., ma semplice depositaria, il solo fatto del trasporto di alcune opere fuori del Vaticano potrebbe dar origine a guai, forse in tempi non lontani», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 156; 18 ottobre 1909], f. 91r. 80 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 149; 6 novembre 1907], f. 78r. «Nel 1907, chiamato a tenere il discorso inaugurale per l’anno accademico, [Crivellucci] scelse di parlare su La tirannide sacerdotale (edito poi nell’Annuario universitario di quell’anno), esprimendosi con una violenza polemica straordinaria. Esordiva riprendendo il voto guicciardiniano di vedere l’Italia liberata “dalla tirannide di questi scellerati preti”, e concludeva vedendo nel cristianesimo, per la sua volontà di conquistare le anime, un’irresistibile tendenza al dominio e all’abbrutimento degli uomini. Di fronte a questo violento attacco l’arcivescovo di Pisa, il cardinal Maffi, fece pervenire, come indiretta risposta, a tutti i professori un opuscolo in cui erano ricordate le origini religiose dell’università pisana e i relativi incoraggiamenti pontifici», M. TANGHERONI, Crivellucci, Amedeo, in Dizionario biografico degli italiani, XXXI, Roma 1985, pp. 162-168: 166. 81 Il Congresso direttivo della Biblioteca era previsto dal Regolamento del 1888, cfr. FARINA, «Splendore Veritatis gaudet Ecclesia» cit., p. 295. I verbali delle riunioni del Congresso, dai quali si è sinora attinto largamente, sono conservati in Arch. Bibl. 162. 82 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 161; 31 marzo 1911], f. 102v. Si prevedeva che la nuova sala di consultazione dei manoscritti (quella ancora utilizzata) fosse pronta per il 1° luglio 1911 (mentre per i magazzini dei manoscritti si sarebbe dovuto attendere ancora qualche tempo; ma già nell’adunanza del 23 giugno 1911 si prese atto dell’impossibilità di rispettare questi tempi). Nella sala di studio si era deciso (sulla base
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sestamento in corso degli equilibri interni all’istituzione. Nel marzo 1911 il parere del prefetto dell’Ambrosiana (peraltro assente alla riunione) pesava dunque in maniera così determinante in una decisione non di poco conto per il nuovo assetto degli spazi recentemente occupati dalla Biblioteca. Si dovrà però aspettare quasi un anno, il 29 marzo 1912, per la prima partecipazione fisica del nuovo viceprefetto a un’adunanza del Congresso: il suo intervento, realista e concreto, sulla percentuale richiesta dalla Tipografia Vaticana per la vendita delle pubblicazioni della Biblioteca Vaticana rivela già un’ottima conoscenza della situazione vaticana83. Similmente nella riunione del 9 ottobre 1912, di fronte alla richiesta della chiave del portone di ferro sulla Galleria lapidaria da parte del prefetto dell’Archivio Vaticano del parere di alcuni membri del Congresso) di abbassare il davanzale dei finestroni ma quando venne presa questa determinazione l’intelaiatura di ferro era in parte già stata fatta. «La burbera per i manoscritti sarebbe piaciuta al P. Ehrle nella parete di contro a quella nella quale si aprono le finestre, di rimpetto cioè alla cattedra del Prefetto; ma avendo alcuni membri del Congresso e specialmente Mons. Ratti, preferito che s’impiantasse nella parete di fondo, alla sinistra di chi siede nella cattedra, si farà così». Delle tre specie d’ascensori in uso, a braccia, a elettricità, ad acqua, fu scelta l’ultima, perché meno pericolosa della prima per gli impiegati e meno soggetta della seconda ai guasti; l’ascensore ad acqua presentava però qualche pericolo per i codici che, se sporgenti, rischiavano di essere tagliati; si decise di evitare il rischio inserendoli in cassette e collocandole nell’ascensore. Per quanto riguarda le dimensioni, qualcuno avrebbe voluto che l’ascensore potesse ospitare anche gli stragrandi; ma, tenuto conto che le richieste di essi erano rarissime, si decise di non oltrepassare le misure proposte da Ehrle (cm 55x55; la burbera della Biblioteca Nazionale di Parigi misurava 50 cm.; alla fine, nella riunione del 23 giugno 1911, le dimensioni della burbera furono ridotte a cm 55x45, per proporzionare il peso alla forza, limitata, dell’acqua). Per mettere in comunicazione i magazzini dei manoscritti, su tre piani, si riattivò un’antica scala a chiocciola; per collegare il livello superiore (sala del Cardinale, sala d’ingresso) col piano inferiore si decise di ripristinare un’altra antica scaletta. Dalla sala attigua alla sala di studio, «che potrà anche servire al Prefetto per ricevere», si deliberò di innalzare una chiocciola di ferro fino al piano superiore. Da essa sarebbe stato facile accedere, mediante un piccolo uscio, al ballatoio della prossima biblioteca Barberini. Per quanto riguarda le scaffalature in ferro nei magazzini dei manoscritti, Ehrle presentò due piante: una nel caso si volesse mantenere in piedi il muro di contro alla finestra della Stanza del cardinale, l’altra nel caso che si volesse abbattere tale muro. Ehrle si disse propenso per il secondo progetto, che avrebbe permesso di guadagnare 20 m di scaffali, spazio utilissimo per eventuali nuove accessioni; sulla decisione però si decise di riflettere ancora. La sala di consultazione dei manoscritti fu inaugurata nel 1912, come testimonia la lapide che ancora la domina dalla parete destra (cfr. supra). 83 Il direttore della Tipografia Vaticana, il già ricordato Giovanni Pasquale Scotti, si era offerto di diffondere le pubblicazioni della Biblioteca Vaticana, prelevando per il deposito e per la vendita il 35% del ricavato (chiedendo qualcosa di più per la pubblicità); secondo Ratti, tale percentuale poteva valere per i libri venduti a esclusivo vantaggio della Biblioteca; per gli altri, i cosiddetti «palatini», il cui provento andava diviso con l’amministrazione della Santa Sede, era stata fissata una percentuale del 40%, così vantaggiosa (per la Tipografia Vaticana) che, a parere di Ratti, si poteva esigere uno sforzo per la pubblicità. Alla fine si decise comunque di prendere tempo, cfr. Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 165; 29 marzo 1912], f. 110r-v.
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(problema che in realtà coinvolgeva i rapporti, secolarmente problematici, con l’istituzione vicina), Ratti si rivela — per esempio in confronto alla posizione assunta da Giovanni Mercati — fermo nei princìpi ma senza sterili e controproducenti intransigenze84. Il 10 giugno 1914, Ratti partecipò a Oxford all’inaugurazione, presieduta da Lord Curzon, della statua di Ruggero Bacone nel VII centenario della nascita; e nell’occasione lesse una comunicazione latina sulla scoperta, da parte degli scrittori Nogara e Pelzer, della seconda parte, manoscritta e inedita, di un trattato baconiano85. La solenne uscita pubblica precedette di poco più di due mesi l’assunzione, il 1° settembre 1914, alla prefettura. La data della nomina segue di appena un mese l’invasione tedesca del Belgio che scatenò la prima guerra mondiale. Anche il mondo degli studi ne 84 La questione aveva avuto origine dalla chiusura del portone di ferro nella Galleria lapidaria (come conseguenza dell’apertura del nuovo ingresso alla Biblioteca dallo stradone dei Musei, discussa e deliberata nella riunione del 29 marzo 1912). Il ruolo di prefetto dell’Archivio Vaticano in quel momento in realtà era vacante; le autorità superiori erano il sottoarchivista (Mariano Ugolini) e il primo e il secondo custode, rispettivamente Angelo Melampo e Giovanni Miozzi; dunque uno dei tre (forse Ugolini, che era stato scrittore della Vaticana dal 1883 al 1909) aveva chiesto la chiave. Ehrle riteneva che non vi fosse motivo di negare una decima chiave (nove erano state riservate per gli scrittori), «atteso che questa ci si presenta come una condizione sine qua non per mantenere con l’Archivio le indispensabili relazioni di buon vicinato». Dal canto suo Ratti fece notare che se il prefetto dell’Archivio avesse ricevuto la chiave doveva anche assumersi la responsabilità della custodia della Biblioteca. Mercati si disse allora risolutamente contrario, perché mai un estraneo aveva posseduto la chiave di una qualsiasi collezione e mai l’Archivio Segreto aveva detenuto le chiavi della Biblioteca. Ratti, pur approvando le osservazioni di Mercati, fece notare che una posizione di netta ripulsa avrebbe accresciuto «le difficoltà del momento»; meglio sarebbe stato che il Congresso declinasse ogni responsabilità, esponendo l’insussistenza dei fatti asseriti dall’Archivio e denunciando gli inconvenienti che sarebbero derivati dalla consegna della chiave. Sulla base del parere di Ratti venne dunque approvato all’unanimità un ordine del giorno sulla questione in cinque punti, inoltrato alle autorità competenti, mentre la chiave contesa veniva trasmessa «a Mons. Archivista», con la dichiarazione del Congresso «di non poter quind’innanzi assumere l’intiera responsabilità della custodia della Biblioteca stessa», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 168; 9 ottobre 1912 ], ff. 117r-118v. Sui rapporti fra l’Archivio e la Biblioteca, cfr. V. PERI, Progetti e rimostranze. Documenti per la storia dell’Archivio Segreto Vaticano dall’erezione alla metà del XVIII secolo, in Archivum historiae pontificiae 19 (1981), pp. 191-237. 85 L’invito era stato rivolto al prefetto Ehrle, che aveva declinato per motivi di salute e aveva quindi designato al suo posto Ratti, cfr. il verbale dell’adunanza del Congresso direttivo del 23 maggio 1914, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 171; 23 maggio 1914], f. 127v. Il testo latino dell’indirizzo augurale di Ratti all’Università di Oxford è pubblicato in Lettere di Achille Ratti, II, cit., pp. 382-383. Il 26 gennaio 1915 nel Congresso direttivo si notò con compiacimento che «A Oxford, in occasione delle solennità centenarie per R. Bacone, l’inviato della Biblioteca Mons. Ratti ebbe accoglienze veramente onorifiche e cordiali», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 171; 26 gennaio 1915], f. 130v. Cfr. anche GALBIATI, Papa Pio XI cit., pp. 312-313; VIAN, Una illustre successione cit., p. 437 [199].
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uscì stravolto e ne risentì un luogo eminentemente internazionale come la Vaticana. La corrispondenza del primo periodo della prefettura risente dell’angoscia del momento, ad esempio nel problema della protezione delle pergamene dell’arcivescovado di Ravenna, minacciate dalle bombe incendiarie lanciate dagli aeroplani86, o nella richiesta collaborazione della Vaticana agli sforzi per la ricostituzione della Biblioteca Universitaria di Lovanio, incendiata il 26 agosto 1914 dalle truppe tedesche87. La guerra s’insinua anche nelle comunicazioni private di eruditi come Léon Dorez88 e Johannes A. F. Orbaan, che il 27 gennaio 1916 prevedeva che Ratti si accorgesse «anche nella pacifica sala di studio del riflesso degli avvenimenti mondiali. Più che mai silenziosi e raccolti in se stessi sono ora i paladini della scienza, sparsi, lontani dalla Vaticana, che li riuniva», come lo stesso Orbaan aveva sottolineato qualche mese prima in un necrologio di Oskar Pollak, l’amico di Franz Kafka ucciso, non ancora trentenne, su un campo di battaglia nel 1915, appena agli inizi di una promettente carriera di storico dell’architettura89. Per quanto impoverita del suo personale (gli scrittori non italiani dovettero lasciare l’Italia, richiamati negli eserciti dei loro paesi ma con la partecipazione italiana alla guerra, dichiarata il 24 maggio 1915, il problema investì anche gli italiani90) e del pubblico dei suoi studio86
Arch. Bibl., Corrispondenza 1914-1915, maggio 1915, f.n.n. Ibid., maggio 1915, f.n.n. Nell’adunanza del Congresso del 10 giugno 1915 si decise, in ossequio alla volontà del papa, di partecipare alla restituzione della biblioteca belga con l’invio di tutte le pubblicazioni della Biblioteca e di tutti gli stampati duplicati considerati cedibili, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 173; 10 giugno 1915], f. 137r. Cfr. anche TISSERANT, Pius XI as Librarian cit., p. 614. 88 Il 21 agosto 1915 Dorez scrisse a Ratti, notando fra l’altro che ai tempi del Grande Scisma «l’Europe ne subissait pas alors des déchirements aussi effroyables que ceux présent. Il faut espérer qu’après cette cruelle épreuve un peu plus de charité refleurira dans le monde européen, en même temps qu’un sens plus clair et plus juste des droits respectifs de chaque nation. Jamais nous n’aurions cru que l’Allemagne caressait un pareil rêve d’hégémonie et que le petit chapeau de Napoléon reparaitrait si tôt sous la forme d’un casque pointu. Bel effet du matérialisme où se plaisait par trop la société contemporaine! Dieu veuille nous délivrer, une fois pour toutes, de cet abominable cauchemar!», Arch. Bibl., Corrispondenza 1915-1916, agosto 1915, f.n.n. 89 Arch. Bibl., Corrispondenza 1915-1916, gennaio 1916, f.n.n. 90 «A proposito della guerra il Congresso fa voti vivissimi per la incolumità e il felice ritorno fra noi dei due Scrittori, così preziosi per la Biblioteca, Mons. Legrelle e Prof. Tisserant», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 171; 26 gennaio 1915], f. 130v. TISSERANT, Pius XI as Librarian cit., p. 614, accenna a tre scrittori in Belgio (forse Le Grelle, Liebaert e Pelzer) e agli sforzi di Ratti per ricondurli in Italia (per uno di essi il ritorno fu possibile solo dopo un periodo di detenzione a Freiburg im Breisgau). Dall’aggressione tedesca alla Francia anche Tisserant era mobilitato nell’esercito francese; cfr. VIAN, Achille Ratti bibliotecario, p. 146 [132]. Secondo L. BERRA, La Biblioteca Vaticana negli anni 87
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si91, la Vaticana continuò però la sua vita. Nel periodo di guerra la Biblioteca rimase sempre aperta, anche se il numero delle ammissioni progressivamente diminuì92: 161 nel 1914-1915, 129 nel 1915-1916, 139 nel 1916-1917, 104 nel 1917-1918, 117 nel 1918-1919. In questo numero assai limitato, che rappresentava una significativa contrazione rispetto alle ammissioni dell’ultimo periodo della prefettura di Ehrle93 ma, come si è accennato, anche rispetto a quelle del pontificato leonino94, in un pubblico nel quale una cospicua fetta è ancora costituita da ecclesiastici e religiosi (168 su 650, cioè il 25,85%, cioè poco più di un quarto) ma in cui si osserva anche un significativo aumento delle studiose (74 su 650, cioè l’11,38%), appaiono chiaramente definibili i flussi per nazionalità: la parte del leone la fanno sempre gli Italiani (443 su 650, cioè il 68,15%) seguiti a grande distanza dai Francesi (57), dagli Statunitensi (22), dagli Spagnoli (18) e dagli Inglesi (12). A giudicare da questi dati, le vicende della guerra si riflettono certo nelle sale della Vaticana95, ma di guerra, in Vita e pensiero 5 (1919), vol. IX, pp. 558-565: 559-560, la guerra comportò la mobilitazione anche di Franchi de’ Cavalieri e di Cerrati. Il 20 maggio 1915 Ratti aveva comunicato che il numero minimo al quale si potevano ridurre gli addetti al servizio della Biblioteca e degli annessi Musei era di sette persone (erano poi stati aggiunti i nominativi di Enrico Carusi e Angelo Mercati), Arch. Bibl., Corrispondenza 1914-1915, maggio 1915, f.n.n. Pochi giorni dopo, il 23 maggio 1915, Ratti scrisse da Roma a Gramatica che «qui [scil.: in Biblioteca Vaticana] credo ne partiranno almeno sei o sette [scil.: di impiegati] nonostante pratiche che sembravano ben avviate, ma forse di troppo differite; dicendo qui, intendo la Vaticana: in tutti i dicasteri avverrà lo stesso e peggio», Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 439. Ancora a Gramatica scrisse il 7 novembre 1915: «Come va la vita costì? Qui ancor più solitaria che non l’anno scorso, quando l’Italia ancora non era entrata nella sanguinosa partita», ibid., p. 454. 91 VIAN, Achille Ratti bibliotecario cit., p. 146 [132]. 92 Per i dati qui analizzati cfr. infra, Appendici. IV. Ammissione di studiosi in Biblioteca Vaticana negli anni 1914-1919. Cfr. anche BERRA, La Biblioteca Vaticana negli anni di guerra cit., pp. 564-565. 93 Nel periodo precedente le ammissioni erano state decisamente più numerose, sempre fra i duecento e i trecento ammessi: 284 nel 1907-1908, 250 nel 1908-1909, 239 nel 1909-1910, 235 nel 1910-1911, 212 nel 1911-1912, 278 nel 1912-1913, 285 nel 1913-1914; cfr. Arch. Bibl. 103. 94 FARINA, «Splendore Veritatis gaudet Ecclesia» cit., pp. 351-367. 95 Di fatto pochissimi sono gli studiosi austriaci, bavaresi e tedeschi, in tutto 11, e nessuno dopo il 1914-1915, tranne un’unica eccezione nel 1916-1917. Il fatto è già segnalato da BERRA, La Biblioteca Vaticana negli anni di guerra cit., p. 564: «La biblioteca vaticana pertanto continuò ad aprire i suoi battenti a tutti gli studiosi di ogni parte, senza distinzioni di fedi politiche o nazionali, catene funestissime del progresso: naturalmente non ci vennero né prussiani né austriaci, né il Pastor né il Beloc [sic per Julius Beloch, 1854-1929, uno dei maestri di Gaetano De Sanctis], né tanti altri che, appartenendo all’uno od all’altro dei gruppi belligeranti, o ebbero chiuse le frontiere d’Italia o disertarono Pallade per il crudo Marte». Gli studiosi statunitensi scompaiono dopo l’entrata in guerra del loro paese (6 aprile 1917). La situazione muterà completamente dopo la guerra. Sulla base delle statistiche per gli anni 1918-1925, elaborate da Tisserant e pubblicate in MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit.,
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con una particolare, morbida delicatezza, senza esasperazioni, come attenuate, filtrate e decantate attraverso i grandi finestroni delle sale96. Certo Ratti, pur animato da sentimenti patriottici, mostra un netto distacco dall’eccitazione bellica. Il 23 maggio 1915 (dunque all’apice del «maggio radioso», alla vigilia della discesa in campo italiana) scrive da Roma a Luigi Gramatica (che nel settembre 1914 gli era succeduto nella prefettura dell’Ambrosiana) prevedendo che «la morte mieterà tanta messe di giovani vite e porterà il lutto quasi per ogni casa»97. Non vi è, nelle lettere sinora pubblicate, mai un accenno, uno spunto che tradisca ostilità o avversione contro alcuno dei belligeranti. L’amor patrio coesiste con uno sguardo realistico e impietoso sulla follia della guerra e sulle sue tragiche conseguenze in perdite umane, senza mai tradursi in una scelta di campo a favore o contro qualcuno. Esemplare del suo atteggiamento appare quanto Ratti scrisse a madre Rostaing, dunque una francese, il 27 gennaio 1915 (quindi prima dell’entrata in guerra dell’Italia, quando ancora qualcuno auspicava un suo intervento a fianco dell’Intesa), dopo aver lamentato la difficoltà della corrispondenza in quei mesi già difficili: Et la guerre n’a pas éclaté! Voilà une raison de plus pour désirer qu’elle n’éclate pas; nous ne recevrions plus rien! Et pourtant les voix les plus contradictoires remplissent toujours les journaux et les conversations … Dieu, Lui seul, sait ce que l’avenir, un prochain avenir, nous réserve. Pour moi, je comprends très bien que la France et les français désirent voir l’Italie entrer dans la mêlée européenne, mais comme italien, comme homme, comme prêtre je ne peux désirer et prier que la paix. Au reste: les hommes se sont agités et à présent ce n’est que Dieu qui les conduit98.
pp. 68-69, gli studiosi austro-tedeschi costituiscono il gruppo nazionale più numeroso dopo l’Italia, prima di Francia e Belgio, Inghilterra e Stati Uniti. 96 «Conviene però avvertire che la maggior parte di costoro [scil.: le persone ammesse in Biblioteca] più che frequentatori furono visitatori a differenza dei tempi della pace, quando vedevamo proni sulle ingiallite carte dei codici gli Steffens, gli Zabughin, i Cipolla, i Bannister, ecc., per settimane e mesi. Comparse frequenti ci fecero tuttavia Vittorio Rossi dell’Università di Roma, il prof. Feliciangeli, Pio Raina, il dott. Silvagni, il dott. Carbonelli ed il Buzzi, valorosissimo giovane che prometteva moltissimo agli studî ed alla scuola italiana, mietuto, come il Bannister, dalla pandemia dell’estate scorsa! Assidui il p. Alberto Vaccari, il p. Grossi Gondi ed il p. Ambrogio Amelli. La quiete delle aule dovette dunque essere solenne in questi anni di guerra; né la turbò un gaio gruppo di signorine della scuola romana di magistero, che vi adirono con lodevole costanza», BERRA, La Biblioteca Vaticana negli anni di guerra cit., p. 565. 97 Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 439. 98 Ratti a Félicité Rostaing, [Roma], 27 gennaio 1915, in Lettere di Achille Ratti alle sue figlie spirituali del Cenacolo cit., p. 189. Per accenni alle vicende della guerra, con un senso profondo di pena e compassione per le vittime degli eventi («les pauvres mourants de chaque jour») e senza mai un accenno di nazionalismo o di partigianeria, cfr. ibid., pp. 191 (a Félicité
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Ma anche l’Italia, alla fine, entrò nella «sanguinosa partita»99 e le biblioteche ne furono coinvolte100. La preoccupazione di possibili bombardamenti indusse a prendere alcune misure di protezione anche in Vaticana, mentre la Biblioteca nel 1917 si aprì a ospitare cimeli «in deposito di custodia» dall’Italia settentrionale (quasi una prova generale di quello che sarebbe avvenuto con maggiore larghezza nel corso del secondo conflitto mondiale)101. Ratti, quasi a presidio dell’istituzione, scrisse a Gramatica il 6 luglio 1915 che «io sino … a guerra finita probabilmente non mi muoverò»102. Il 26 gennaio 1915, nella prima adunanza del Congresso alla quale Ratti partecipò come prefetto, egli fece verbalizzare una significativa dichiarazione iniziale. Dopo essersi definito «una cambiale scontata prima di presentarsi ufficialmente allo sportello», affermò di non aver voluto la successione a Ehrle, che anzi aveva cercato da parte sua d’impedire, «non perché non ne sentissi come bibliotecario tutto il fascino e, come sacerdote, tutta la nobile attrattiva, ma perché — oltre i distacchi che mi costava — mi esponeva un’altra volta al pericolo di succedere a un ottimo, io misero, e al pericolo ancor più grave di cooperare, sia pure passivamente, a mal provRostaing, 14 febbraio 1915), 196 (a Madeleine des Cordes, Roma, 19 luglio 1915), 201 (a Rostaing, 18 febbraio 1916), 202 (a Rostaing, 29 maggio 1916). 99 È l’espressione utilizzata da Ratti per definire la guerra nella già citata lettera a Gramatica, 7 novembre 1915, in Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 454 (cfr. supra). 100 Sulle misure prese dalle biblioteche italiane per la protezione dei fondi manoscritti e a stampa cfr. F. CRISTIANO, I piani di protezione: le origini, in Le biblioteche e gli archivi durante la seconda guerra mondiale. Il caso italiano, a cura di A. CAPACCIONI, A. PAOLI, R. RANIERI, con la collaborazione di L. TOSONE, Bologna 2007, pp. 1-32: 4-11. 101 Il 19 giugno 1915 Ratti scrisse da Roma a Gramatica: «Anche qui s’è in qualche — non grave davvero — preoccupazione di accidenti aerei e qualche impresa si viene prendendo; ma con molta calma», Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 440. In lettera da Roma a Gramatica dell’8 novembre 1917 (quindi poco dopo la rotta di Caporetto), dando consigli su misure di protezione da adottare per i cimeli dell’Ambrosiana, Ratti formulava la possibilità di portare in Vaticana «le cose più pregevoli tra le pregevoli»; e così concludeva il messaggio: «Non per incoraggiare, ma per esemplificare, da ieri ho cominciato a ricevere cimeli in deposito di custodia provenienti dalla zona invasa», ibid., pp. 499-500. Per l’accoglienza di cimeli dell’Ambrosiana e di altre istituzioni, cfr. ibid., pp. 501 (Ratti a Giuseppe Confalonieri, Roma, 10 novembre 1917), 502 (Ratti a Confalonieri, Roma, 13 novembre 1917), 504 (Ratti ad Alessandro De Giorgi, Roma, 23 novembre 1917), 505 (Ratti a Gramatica, Roma, 26 novembre 1917), 506 (Ratti a Gramatica, Roma 30 novembre 1917), 507 (Ratti a un Caro signore, 30 novembre 1917), 515 (Ratti a Confalonieri, Roma, 3 gennaio 1918), 516-517 (Ratti a Confalonieri, Roma, 8 gennaio 1918), 518 (Ratti a Gramatica, Roma, 19 gennaio 1918), 519 (Ratti a Gramatica, Roma, 15 febbraio 1918), 520 (Ratti a Gramatica, Roma, 8 marzo 1918), 521 (Ratti a Gramatica, Roma, 15 marzo 1918), 523 (Ratti a Gramatica, Roma, 6 aprile 1918). 102 Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 444. Ma non mancarono brevi, non infrequenti viaggi in Lombardia, cfr. ibid., pp. 448 (maggio 1915), 455 (dicembre 1915), 456 (gennaio 1916), 466 (aprile 1916), 473 (agosto 1916), 491, 493, 495-496 (agosto 1917), 497 (settembre 1917).
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vedere a una istituzione così importante, ricca di così gloriose tradizioni e così gloriosamente avviata». Come era accaduto nel 1907 al momento della successione ambrosiana ad Antonio Ceriani, Ratti sette anni dopo si trovava in Vaticana nella stessa, infelicissima situazione di dover succedere a un grande, quale era stato subito riconosciuto Ehrle, con tutti i rischi, anzi i sicuri pericoli che questo comportava. Ma erano stati «l’acquisita certezza della volontà di Dio», la benevolenza dei bibliotecari vaticani e, appunto, «il magnifico avviamento» dell’istituzione a infondergli il coraggio di cui aveva bisogno per il futuro, nella consapevolezza che per il passato l’escamotage della viceprefettura con diritto di successione aveva almeno permesso per quasi tre anni di conservare alla Vaticana la presenza, il prestigio e l’opera di Ehrle103. Con una lieve chiusa manzoniana il breve testo di Ratti si rivela un piccolo capolavoro, evidentemente a lungo pensato, che abilmente intreccia understatement e professione di estraneità all’iter che lo aveva condotto alla responsabilità finalmente assunta. Ma fra le righe s’intuisce già una ferma volontà e un progetto preciso. Ratti ha avuto tutto il tempo di studiare la situazione, farsi delle idee ed elaborare dei piani; sa muoversi subito con destrezza nel non facile ambiente vaticano e mette subito in riga, addirittura ricorrendo al papa, il sotto-foriere dei Sacri Palazzi Apostolici, Federico Mannucci, che fa il difficile per alcune questioni relative al sistema elettrico della Biblioteca104. Lo stretto rapporto con l’entourage ambrosianolombardo della Vaticana — Mercati e Nogara — gli offre la sicurezza di un appoggio ai suoi programmi, in un momento di profondi cambiamenti nel quadro vaticano, con i quasi contemporanei avvicendamenti del papa — Benedetto XV al posto di Pio X —, del segretario di Stato — Pietro Gasparri al posto di Rafael Merry del Val —, del cardinale bibliotecario — Francesco Cassetta al posto di Mariano Rampolla105. Ratti sente dunque di poter 103 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 172; 26 gennaio 1915], f. 129r-v. Il testo della dichiarazione è pubblicato integralmente infra in Appendici. I. 104 Ratti a Mercati, 24 luglio 1915; Biblioteca Vaticana, Carteggi Mercati, cont. 22, ff. 4866r-4867v. L’ingegnere Federico Mannucci (1848-1935) era dal 1882 sotto-foriere dei Sacri Palazzi Apostolici; ma coltivò anche una personale e competente passione per le osservazioni astronomiche, collaborando con la Specola Vaticana; cfr. S. MAFFEO, Mannucci, Federico, in Dizionario biografico degli italiani, LXIX, Roma 2007, pp. 135-136. 105 È Ratti stesso a sottolineare la contemporaneità della sua nomina alla prefettura vaticana con i tre importanti cambiamenti. In ordine cronologico: Francesco Cassetta era divenuto cardinale bibliotecario il 3 gennaio 1914; Benedetto XV era stato eletto il 3 settembre 1914; Pietro Gasparri era stato nominato segretario di Stato il 13 ottobre 1914. In seguito Ratti si adoperò per il ritratto del card. Rampolla, affidato all’esecuzione del lombardo Luigi Cavenaghi (1844-1918), col quale Ratti era in relazione dai tempi dell’Ambrosiana (cfr. la lettera di Ratti a Cavenaghi, B.A., 15 dicembre 1911, in Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 320). Sul ritratto cfr. anche gli accenni in lettera a Gramatica del 20 luglio 1915 (ibid., p. 446): «I
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giocare la sua partita in uno scenario nuovo in cui l’eccellente rapporto con Ehrle106 gli consente la libertà di scelte anche diverse da quelle del predecessore. Se Ehrle nell’adunanza del Congresso del 28 gennaio 1914, rivolgendosi all’appena nominato Cassetta, aveva lucidamente sostenuto la necessità di non limitarsi alla «sola custodia e conservazione dell’importantissimo tesoro letterario, affidato dalla Provvidenza alla S. Sede» e sottolineato il dovere di farlo «fruttare» «per il progresso della scienza e (con ciò stesso) per il decoro e il vantaggio della S. Sede»107, Ratti sembra postumi del povero Card. non sono davvero fortunati …». Cfr. anche Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 172, 26 gennaio 1915], f. 130v. Sul ritratto, che reca la data del 1915, J. MEJÍA – CH. GRAFINGER – B. JATTA, I cardinali Bibliotecari di Santa Romana Chiesa. La quadreria nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2006 (Documenti e riproduzioni, 7), pp. 302-303. 106 Anche dopo la partenza per la Germania Ehrle continuò a conservare rapporti con la Vaticana raccogliendo fondi nel collegio di Feldkirch poi inviati al prefetto, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 176; 16 aprile 1916; n° 177, 26 giugno 1916], ff. 144r, 146r. L’8 febbraio 1916 si decise «all’unanimità di dedicare al P. Ehrle, che ha compiuto felicemente il suo settantesimo, i tre prossimi fascicoli dei nostri Studi e testi, il primo di Mons. Mercati, l’altro di Mons. Carusi, il terzo del Comm. Nogara», ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 175; 8 febbraio 1916], f. 143r. Effettivamente il primo volume delle Lettere inedite di Gaetano Marini, a cura di Carusi (Studi e testi, 29; 1916) e Se la versione dall’ebraico del codice Veneto Greco VII sia di Simone Atumano arcivescovo di Tebe (Studi e testi, 30; 1916) furono dedicati a Ehrle; il volume di Nogara, Scritti inediti e rari di Biondo Flavio (Studi e testi, 48; 1927), uscì invece parecchi anni dopo e fu dedicato a Pio XI. Ma dopo la guerra, nel 1922, prese avvio l’iniziativa all’origine dei sei volumi dei Miscellanea Francesco Ehrle, cfr. P. VIAN, Collaborazione degli istituti prima dell’Unione: i «Miscellanea Francesco Ehrle» (1924), in Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma. Annuario, 41: 1999-2000, Roma 1999, pp. 191-208. A testimonianza della venerazione e stima di Ratti per Ehrle, si aggiunga la minuta dell’elogio di Ehrle scritto da Ratti nel 1914 di cui GALBIATI, Papa Pio XI cit., p. 288/289, pubblica un facsimile. 107 Le parole di Ehrle a Cassetta sono indicative dell’acuta coscienza della necessità, per la Biblioteca Vaticana, di non essere un mero deposito di libri ma di divenire un centro di studi all’altezza dei tesori che conservava: «Il Congresso Dir. della Bibl. Vat., adunato oggi per la prima volta da V. Em., crede suo dovere di esprimere anzi tutto i sensi della sua filiale gratitudine verso il S. Padre per la scelta fatta e quelli di viva riconoscenza verso la Em. V. per la prontezza con cui ha accettato il peso non indifferente del governo di questa Bibl. Apostolica, peso irto di sollecitudini e di lavori, peso grave di responsabilità. Se già la sola custodia e conservazione dell’importantissimo tesoro letterario, affidato dalla Provvidenza alla S. Sede, richiede una vigilanza continua e la più intensa oculatezza contro le insidie degli uomini degli animali degli elementi, che ne minacciano l’esistenza, l’obbligo di far fruttare questo tesoro per il progresso della scienza e (con ciò stesso) per il decoro e per il vantaggio della S. Sede, esige l’opera solerte e varia di collaboratori capaci e devoti. Purtroppo noi non possiamo vantarci di essere collaboratori così fatti, ben però possiamo e vogliamo promettere a V. Em. che ci sforzeremo di divenirlo di più in più, aiutandoLa, ciascuno al suo posto, a disimpegnare quel duplice dovere contenuto nel governo della Biblioteca e imposto, insieme con tale governo, alla Em. V. E questa promessa facciamo tanto più volentieri, perché siamo convinti che si tratta di salvaguardare grandi interessi della S. Sede nella luce della maggiore pubblicità. La Bibl. Vat. o sarà quel che deve essere, non inferiore cioè ad alcun’altra, e sarà di non piccolo
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avvertire che la frontiera di questo impegno, pur proseguendo la tradizionale attenzione per i manoscritti, è ora rappresentata dagli stampati. Proprio nel 1915, a pochi mesi dall’assunzione della prefettura, Ratti dà alle stampe il primo catalogo delle pubblicazioni della Vaticana108. Si tratta di un modesto fascicolo di poche pagine, quasi totalmente ignorato da quanti si sono occupati della prefettura vaticana di Ratti109, ma invece di grande significato. Nella breve introduzione, non firmata, Ratti si rivela lucido e fedele interprete del programma di Leone XIII nell’apertura alla consultazione degli studiosi dell’Archivio Segreto e della Biblioteca Apostolica110; per la prima volta le pubblicazioni che nell’arco di quasi trentacinque anni erano venute disordinatamente, quasi caoticamente alla luce vengono ricondotte a un piano organico che le ordina, le suddivide, le raccoglie, delineando un programma laddove era forse solo il concorso di molti e poco riflessivi entusiasmi. Nello stesso anno, le notizie storiche che accompagnano l’organigramma della Biblioteca nell’Annuario pontificio vengono completamente rinnovate e ampliate111. Negli anni della prefettura Ratti prosegue inoltre (come vedremo in seguito più analiticamente), vantaggio e di lustro alla S. Sede, o non lo sarà, e diverrà oggetto di odiosi confronti e di critiche vergognose. Speriamo che con l’aiuto del Signore, sotto il governo prudente e caritatevole della Em. V., la Bibl. non solo rimanga incolume, ma frutti il centuplo per gl’interessi della S. Sede», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 170; 28 gennaio 1914], f. 124r-v. 108 Pubblicazioni della Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1915. Il fascicolo comprende 16 pp. A esso Ratti fa riferimento nel suo intervento nell’adunanza del Congresso del 26 gennaio 1915: «[…] il catalogo delle pubblicazioni della Vaticana riordinato, stampato a parte e largamente distribuito», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 172; 26 gennaio 1915], f. 130r; ne aveva spedita una copia a Luigi Gramatica già il 13 marzo 1915 (cfr. Ratti a Gramatica, Roma, 13 marzo 1915, in Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 429). 109 Il fascicolo è stato invece segnalato da GALBIATI, Papa Pio XI cit., p. 314; I libri editi della Biblioteca Vaticana MDCCCLXXXV-MCMXXXXVII. Catalogo ragionato e illustrato, [a cura di N. VIAN], Città del Vaticano 1947, p. 162; Nel cinquantesimo di Studi e testi, 19001950, [a cura di N. VIAN], Biblioteca Apostolica Vaticana 1950, p. 12. 110 Il testo delle parole introduttive al catalogo è pubblicato infra in Appendici. II. 111 Annuario pontificio per l’anno 1915 cit., pp. 553-556. Rispetto all’edizione del 1914 le notizie storiche si arricchiscono e divengono più analitiche, offrendo addirittura notizie su alcuni fondi manoscritti e sulle loro consistenze (p. 553); notizie storiche particolari vengono introdotte per il Museo Cristiano (pp. 554-555), per il Museo Profano (p. 555) e per il Gabinetto Numismatico (pp. 555-556). Un ulteriore miglioramento, con informazioni più specifiche e articolate, si registra in Annuario pontificio per l’anno 1919 (…), Roma 1919, pp. 664666, con l’inserimento inoltre delle presentazioni dei Musei Sacro e Profano e del Gabinetto Numismatico nell’introduzione generale. L’attenzione di Ratti per queste forme di presentazioni pubbliche della Vaticana è mostrata anche dalle sue correzioni al testo relativo alla Biblioteca nella Guida Monaci per il 1916, Arch. Bibl., Corrispondenza 1915-1916, novembre 1916, f.n.n. Già in Ambrosiana, nel 1893, Ratti aveva redatto una breve nota relativa alla Bi-
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fra difficoltà internazionali e domestiche (soprattutto connesse alle insufficienze della Tipografia Vaticana), le pubblicazioni. Nella stessa adunanza del Congresso direttivo del 26 gennaio 1915, quella della dichiarazione sulla «cambiale scontata», Ratti mette subito in tavola le carte del suo programma. A suo avviso «il lavoro più urgente di tutti» è la sistemazione della Sala di consultazione degli stampati112, la realizzazione più significativa del pontificato leonino ma che in realtà, dopo l’inaugurazione del 1892, aveva rappresentato, come si è accennato, più l’inizio di un processo che il raggiungimento di un traguardo113: essa rappresenta il volto, la frontiera pubblica, il teatro dei possibili «odiosi confronti» e «critiche vergognose» di cui aveva parlato Ehrle. Prima ancora di proseguire il catalogo unico di tutti gli stampati vaticani (il cui inizio era stato deciso il 28 gennaio 1914114), ritenuto prematuro perché in realtà per essi ancora mancava una sede definitiva, come mostrano i continui spostamenti di quegli anni115, Ratti s’impegna sulla Sala di consultazione, ove sono numerose le sezioni prive di schedatura. E questo intraprende all’interno di una più vasta opera di razionalizzazione biblioteconomica dell’organizzazione interna, dall’introduzione della tessera personale per gli studiosi ammessi116 all’istituzione di un tavolo riservato per le studenblioteca per le statistiche ufficiali delle biblioteche italiane, TISSERANT, Pius XI as Librarian cit., p. 611 nt. 2. 112 Il riordino avrebbe compreso inizialmente il riassetto della Sala biblica e la nuova disposizione dei ritratti dei cardinali bibliotecari, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 172; 26 gennaio 1915], f. 131v. 113 FARINA, «Splendore Veritatis gaudet Ecclesia» cit., pp. 317-318. 114 Ma per l’impresa non si pensava a un intervento particolarmente qualificato. Per il lavoro dei «bidelli» nei giovedì si era infatti stabilito di mettere mano all’ordinamento dell’archivio Barberini «e di cominciare a preparare il catalogo definitivo unico, di tutti i libri a stampa», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 170; 28 gennaio 1914], f. 126r. 115 Nell’adunanza del Congresso del 26 gennaio 1915 si considerò esplicitamente prematuro uno schedario unico per gli stampati (di cui si era parlato altre volte), con le motivazioni che parecchie sezioni della Sala di consultazione mancavano ancora di qualsiasi schedatura e che non si era ancora provveduto a una collocazione definitiva degli stampati, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 172; 26 gennaio 1915], f. 132r. 116 L’istituzione di una tessera personale per gli studiosi era ritenuta necessaria (insieme alla «bollatura» degli stampati e al rigore nelle ammissioni), per meglio assicurare i periodici e la Sala di consultazione dai furti, cfr. Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 172; 26 gennaio 1915], f. 132r. Per rendersi conto della situazione della sicurezza degli stampati (e del clima anche ideologico in cui si consumavano gli eventi), va ricordato che nel dicembre 1911 si era verificato un episodio (discusso nell’adunanza del Congresso del 19 gennaio 1912) che aveva evidenziato la fragilità della sorveglianza in atto e aveva dato luogo ad ampie discussioni. Uno studioso tedesco era stato escluso dalla Biblioteca perché il 20 dicembre 1911 aveva portato via (pare per errore), l’«inventario dei codici di Grottaferrata»; lo riportò il giorno dopo, senza che nessuno se ne accorgesse. Informato del
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tesse, il cui numero era in crescente aumento117, all’adozione di cartoni da collocare al posto degli stampati prelevati per la consultazione118. Nel riordinamento organizzativo, che continua e perfeziona l’opera di Ehrle, Ratti individua sin dal gennaio 1915 una figura strategica nel fratello di Giovanni Mercati, Angelo, il futuro prefetto dell’Archivio Vaticano119, che assume il titolo e il ruolo, del tutto inediti in Vaticana, di «scrittore per gli stampati»120; Angelo Mercati viene inserito nel Congresso diretfatto, Ehrle scrisse a chi aveva raccomandato il giovane avvertendo che lo studioso non sarebbe più stato ammesso e che in futuro non sarebbero più state accolte presentazioni di chi per lui aveva garantito. Il giovane si presentò allora a Ehrle, chiedendo la riammissione, e il prefetto lo rinviò al papa o al card. Mariano Rampolla del Tindaro (al quale effettivamente si rivolse). Si fece notare che l’esclusione recava un danno serio allo studioso e che la colpa era soprattutto di sbadataggine e di irriflessione. «Siccome però nei protestanti di Germania è sconfinato il disprezzo per tutto ciò che appartiene alla S. Sede (onde non solo [non] si peritano di portare libri e codici in casa, a dispetto di tutti i regolamenti, ma giungono perfino a vantarsene in pubblico) sembra necessario dare un esempio di giusta severità». Ehrle propose una misura di mezzo fra l’immediata riammissione e l’esclusione a vita. Calenzio si disse per il perdono immediato; Stornajolo per la riammissione ma previa nuova garanzia da parte dell’ambasciatore o di un direttore d’istituto. Mercati si disse propenso per una delle due soluzioni estreme, lasciando la scelta a Ehrle, «che conosce meglio uomini e cose di Germania», mentre Franchi de’ Cavalieri era per un provvedimento di rigore. Alla fine Rampolla rimise a Ehrle la decisione finale, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 164; 19 gennaio 1912], ff. 108r-109r. L’«inventario dei codici di Grottaferrata» dovrebbe essere identificato con il volume di A. ROCCHI, Codices Cryptenses seu Abbatiae Cryptae Ferratae in Tusculano digesti et illustrati, Tusculani 1883 (attualmente segnato: Catal. Italia. II. Grottaferrata. 1. Cons.). 117 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 176; 16 aprile 1916], f. 144v. 118 La decisione riguardava l’allestimento di «tavolette sulle quali verranno incollati altrettanti cartelli contenenti il titolo del libro ed il nome di chi lo ha preso in prestito», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 176; 16 aprile 1916], ff. 144v145r. 119 Per la personalità di Angelo Mercati, cfr. P. VIAN, Mercati, Angelo, in Dizionario biografico degli italiani, LXXIII, Roma 2009, pp. 596-599, con numerose indicazioni bibliografiche. 120 Nell’adunanza del Congresso del 26 gennaio 1915 Ratti precisò che Angelo Mercati era stato chiamato in Biblioteca Vaticana col titolo e con l’ufficio di «scrittore per gli stampati» e di «soprastante alla sala di consultazione e agli stampati in genere». Il secondo titolo era rimasto in ombra e andava ora valorizzato, come richiesto dal Mercati stesso e «dal buon andamento della Biblioteca di consultazione» (l’esemplare dell’Annuario del 1916 della Biblioteca Vaticana, Ann. Pont. I.1916, reca a matita un intervento che accanto al nome di Mercati corregge l’«idem», cioè «scrittore», in «scrittore degli stamp.»). Mercati, che avrebbe avuto la scrivania in Sala, doveva dunque «curare immediatamente la suppellettile scientifica e la disciplina della Consultazione», secondo le norme e le pratiche vigenti e gli ordini del prefetto. La «sistemazione della Sala di consultazione» era considerata «il lavoro più urgente di tutti» perché la Sala era la più esposta alle critiche e alle sottrazioni. «Converrà pertanto sfollare la sala di non poche pubblicazioni inutili e riordinare alcune sezioni». Si sarebbe dovuto poi compilare un elenco sistematico dei periodici posseduti e, per renderli più disponibili agli studiosi ed evitare furti, riservare alla loro consultazione il tavolo vicino alla scrivania di Mer-
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tivo121 e nel giro di alcuni mesi realizza una completa revisione di tutti gli stampati della Sala di consultazione122. Nonostante l’impreparazione del personale, Ratti mobilita poi tutti gli impiegati con grafie accettabili nel lavoro straordinario di trascrizione su schede delle registrazioni degli antichi inventari, spesso manoscritti, delle singole collezioni che erano confluite ad alimentare le raccolte vaticane123. Per incrementare la produttività il 10 febbraio 1918 ai copisti fu richiesto di portare ogni sera a casa i cataloghi da trascrivere124. Con tutti i limiti di una catalogazione che non poteva ancora disporre di personale preparato, di regole stabilite e di spazi definitivi per le collocazioni, l’impulso dato nella lunga marcia verso il catalogo unico degli stampati vaticani fu di singolare importanza. Ma il prefetto Ratti non trascura altri aspetti, in primo luogo a proposito dei manoscritti. Il 9 marzo 1915 viene ricevuto in udienza da Benedetto XV e ottiene dal papa l’assicurazione di migliorare il trattamento economi-
cati. Nella metà rimasta bianca del verso del penultimo foglio del verbale, in corrispondenza con le parole del verbale relative a Mercati, Ratti il 31 gennaio 1915 vergò una nota precisando, secondo le deliberazioni del Congresso, «doversi il titolo e l’ufficio di “Scrittore per gli stampati” interpretare nel senso che, come il principal dovere degli “Scrittori per i manoscritti” è di attendere alla catalogazione di questi, così il principal dovere dello “Scrittore per gli stampati” è di attendere alla loro catalogazione ed a tutte le operazioni di registrazione, bollatura, collocazione, schedamento, legatura ecc. che vi si connettono secondo le buone norme e la buona pratica bibliotecaria, valendosi, ben s’intende, delle cooperazioni messe a sua disposizione ed alla dipendenza, sempre salva ed integra quella del Prefetto», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 172; 26 gennaio 1915], f. 131r-v. Cfr. tav. I. 121 La nomina di Angelo Mercati a membro del Congresso venne proposta nell’adunanza dell’8 febbraio 1916, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 175; 8 febbraio 1916], f. 143r. Mercati partecipò per la prima volta alle adunanze del Congresso il 16 aprile 1916, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 176; 16 aprile 1916], f. 144r. 122 Nel corso dell’adunanza del Congresso del 16 aprile 1916 venne comunicato che era stato condotto a termine il lavoro di revisione della biblioteca di consultazione, mentre era assai progredito il lavoro di schedatura delle diverse raccolte, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 176; 16 aprile 1916], f. 144v. Poco dopo, nell’adunanza del 26 giugno 1916, il Congresso fu informato che la «revisione accuratissima» della biblioteca di consultazione condotta da Angelo Mercati aveva permesso di ridurre «pressoché a nulla» le mancanze che prima si ritenevano numerosissime. Mercati aveva inoltre rintracciato dodici manoscritti greci che da tempo si ritenevano perduti e un manoscritto cinese scomparso da molti anni, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 177; 26 giugno 1916], f. 146r. 123 TISSERANT, Pius XI as Librarian cit., pp. 612-613 (anche a proposito della preparazione, assai discutibile, dei copisti). L’idea del «catalogo unico» non era stata dunque abbandonata, ma semplicemente subordinata alla più urgente esigenza di schedare i volumi della Sala di consultazione. 124 Ibid., p. 613.
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co degli scrittori125; per due di loro — Giovanni Mercati ed Enrico Carusi126 — viene addirittura ottenuto il particolare privilegio di appartamenti nel Palazzo Vaticano127, mentre per tutti i membri del collegio si assicura la facoltà di detenere in Biblioteca manoscritti dell’Archivio Segreto128; e nello stesso anno, il 1915, Ratti riesce a conquistare, nel mese di novembre, ben tre nomine, quella di Eugène Tisserant a scrittore per le lingue orientali129, quella di Auguste Pelzer a scrittore onorario130, quella di Michele Cerrati a scrittore latino131. Anche per altri indizi132, si ha l’impressione che Ratti 125 Ratti informò il Congresso delle intenzioni del papa nell’adunanza del 10 giugno 1915, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 173; 10 giugno 1915], ff. 135r. 126 Mercati era scrittore dal 14 aprile 1898, Carusi dal 16 novembre 1907 (aggiunto) / 8 luglio 1908 (effettivo), BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 257, 259. 127 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 173; 10 giugno 1915], ff. 135r, 136r. «I f.lli Mercati hanno fatto S. Michele e sono ormai extraterritoriali», scrisse allora Ratti a Gramatica da Roma il 15 ottobre 1915 (Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 452). «Fare S. Michele» è espressione dialettale lombarda, ricorrente nella poesia di Carlo Porta, per indicare il trasloco in ambito urbano, perché il 29 settembre, festa appunto di s. Michele, era la scadenza abituale dei contratti d’affitto ed era dunque il giorno tradizionale degli sgomberi. In campagna, l’espressione equivalente era «fare S. Martino» perché i traslochi avvenivano al termine dei lavori agricoli, l’11 novembre, festa di s. Martino di Tours, cfr. F. BREVINI, Fare San Michele: il trasloco in Lombardia, in Corriere della sera, 16 gennaio 2001, p. 56. La conquista di due appartamenti per gli scrittori della Vaticana fu un successo così clamoroso che ancora anni dopo, ricevendo Ratti ormai nunzio in Polonia, verso la fine del 1919, il papa gli aveva detto scherzando che nel 1915 il prefetto della Vaticana gli aveva tirato addosso molti guai per quei due appartamenti e che, se non fosse stato subito occupato, uno sarebbe andato a comodo dei malcontenti (Ratti a Mercati, 25 novembre 1919; Carteggi Mercati, cont. 26, ff. 5532r-5533v). Con l’assunzione alla prefettura Mercati si trasferì infatti nell’appartemento del prefetto e Tisserant subentrò nell’appartamento prima occupato dai Mercati. 128 Si trattava della conferma dell’antica prassi per cui gli scrittori potevano disporre in Biblioteca Vaticana, a seguito di una richiesta del prefetto della Biblioteca al sotto-archivista, di manoscritti dell’Archivio Vaticano, senza recarsi in Archivio a consultarli, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 173; 10 giugno 1915], f. 136r. 129 Secondo BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 260, la nomina di Tisserant a scrittore per le lingue orientali risale al 22 ottobre 1908; in realtà la pienezza del titolo giunse solo nel 1915. 130 Secondo BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 269 nt. 14, la nomina di Pelzer (in Biblioteca Vaticana dal novembre 1907) a scrittore onorario aggiunto risale al 12 settembre 1910, quella a scrittore latino al 1915. 131 Secondo BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 257, la nomina di Cerrati a scrittore soprannumerario risale al 12 ottobre 1910, quella a scrittore all’11 novembre 1915. 132 Nell’adunanza del Congresso dell’8 febbraio 1916 Ratti comunicò che il papa aveva deciso che i residui dell’assegno annuo non venissero più lasciati all’Amministrazione Generale ma fossero rimessi alla Biblioteca stessa (le circa 4.000 lire avanzate nel 1915 erano state depositate dal prefetto in due libretti, l’uno al Monte di Pietà, l’altro alla Cassa di Risparmio), Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 175; 8 febbraio
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stabilisca col papa un rapporto diretto133 e in questo modo superi le difficoltà che avevano intralciato la prefettura di Ehrle nel pontificato piano. Nel frattempo Ratti cura, anche «in questa tristezza di condizioni generali»134, l’incremento delle collezioni librarie, manoscritte e a stampa. Promuove, per esempio, fra il 1915 e il 1916 un cospicuo acquisto di volumi dall’Ambrosiana135, si preoccupa di stabilire rapporti di cambio di pubblicazioni con altre istituzioni scientifiche136 e, fra l’altro, nel giugno 1917 segue il passaggio dalla soppressa Congregazione dell’Indice di 61 codici, con preziosi elenchi, redatti fra il 1598 e il 1603, di biblioteche religiose italiane137. Ma non riesce invece ad assicurarsi, per quanto ci provi, 1916], f. 142r. Nell’adunanza del 16 aprile 1916 venne comunicato l’acquisto di una moneta di Gregorio XV, coniata a Bologna e di estrema rarità, grazie al «munifico concorso» di Benedetto XV, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 176; 16 aprile 1916], f. 145r. Il 23 settembre 1916, nel corso di un’udienza, il papa trasmise al prefetto Ratti per la Vaticana un manoscritto del 1591 ad uso del monastero di S. Geminiano di Modena (ora Vat. lat. 11248), Arch. Bibl. 115, f. 18r. 133 Numerosi incontri di Ratti con Benedetto XV sono testimoniati nelle lettere del periodo; essi avvennero l’8 gennaio 1915 (lettera di Ratti a Gramatica, Roma, 9 gennaio 1915, Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 415), nel maggio 1915 («pochi giorni or sono», Ratti a Gramatica, Roma, 23 maggio 1915, ibid., p. 439), nel dicembre 1915 (Ratti a Gramatica, 18 dicembre 1915, ibid., p. 455), nel novembre 1917 (Ratti a Gramatica, Roma, 8 novembre 1917, ibid., p. 499). Ma le udienze devono essere state ben più numerose perché nella lettera del 18 dicembre 1915 Ratti scrive di «ricevimento usato». Cfr. anche le valutazioni, particolarmente positive, di Ratti a proposito del papa e gli accenni ai suoi incontri con lui nelle lettere, tutte da Roma, a madre Rostaing e alla madre Madeleine des Cordes del 7 agosto 1914 (Rostaing / des Cordes), 2 dicembre 1914 (des Cordes), 18 maggio 1915 (Rostaing / des Cordes), 6 gennaio 1918 (Rostaing), in Lettere di Achille Ratti alle sue figlie spirituali del Cenacolo cit., pp. 184, 185, 188, 193, 194, 214. 134 Ratti a Gramatica, Roma, 14 febbraio 1916, in Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 458. 135 Arch. Bibl. 115, f. 17r; Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 176; 16 aprile 1916], f. 144r. Si trattava di una collezione di classici italiani, di circa 130 volumi (ma se ne aggiunsero un’altra quarantina), che costituivano dei doppioni per l’Ambrosiana e pervennero fra il 13 marzo e il 4-5 aprile 1916. Il soggetto ricorre spesso nella corrispondenza di Ratti con Gramatica fra il 1915 e il 1916, cfr. Lettere di Achille Ratti, II, cit., pp. 416 (Roma, 23 gennaio 1915), 418 (31 gennaio 1915), 421 (7 febbraio 1915), 422 (11 febbraio 1915), 427 (22 febbraio 1915), 428 (Roma, 5 marzo 1915), 429 (Roma, 13 marzo 1915), 436 (1° maggio 1915), 437 (7 maggio 1915), 440 (19 giugno 1915), 441 (1° luglio 1915), 446 (Roma, 20 luglio 1915), 459 (Roma, 18 febbraio 1916), 461 (Roma, 16 marzo 1916), 462 (Roma, 17 marzo 1916), 464 (Roma, 5 aprile 1916), 465 (Roma, 7 aprile 1916), 466 (Roma, 17 aprile 1916), 467 (Roma, 3 maggio 1916), 468 (Roma, 17 maggio 1916), 471 (Roma, 27 maggio 1916), 472 (Roma, 10 giugno 1916). Per lo scambio di incunaboli, sempre con l’Ambrosiana, nel 1919, cfr. infra. 136 Per lo scambio di pubblicazioni con la Società Storica Lombarda, cfr. la lettera di Ratti a Emilio Motta, segretario della Società, 2 marzo 1916, Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 460. 137 Nel registro delle accessioni Ratti indicò: «1917 Giugno 13. Al Palazzo della Cancelleria Apostolica ricevo dalle mani del Reverendissimo P. Esser n° 61 volumi mss. (55 in formato piccolo, 4 in 8°, 1 in 12°, 1 in 16°, tutti legati in pergam. parecchi più o meno deteriorati da
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la biblioteca Chigiana, che peraltro sarà offerta qualche anno dopo a Pio XI da Benito Mussolini138. Ratti mostra comunque una grande attenzione al registro delle accessioni dei manoscritti, prendendo scrupolosamente nota di doni del papa ma anche di consegne da Congregazioni della Curia Romana e da altri organismi del governo centrale e di acquisti, presso antiquari e privati. Fra le accessioni più rilevanti vanno segnalati (in ordine cronologico) gli atti della Commissione pontificia per la riforma del Salterio, del Breviario e del Messale Romano istituita da Pio X (novembre 1915; ora Vat. lat. 14969-14993), il diario di Giuseppe Antonio Sala destinato alla Vaticana da Giuseppe Cugnoni (7 febbraio 1916; ora Vat. lat. 1094910950), l’archivio delle monache agostiniane romane di S. Marta, con un certo numero di stampati (30 maggio 1916; ora in Archivio Vaticano), i vecchia umidità) contenenti i catalogi di libri a stampa esistenti presso le comunità dei diversi Ordini e delle diverse Congr. religiose d’Italia sulla fine del sec. XVI al XVII. Ieri l’altro P. Esser veniva in Bibl. a comunicarmi la destinazione fattane dal Santo Padre alla Vaticana dietro sua proposta: ieri il Santo Padre me la confermava in privata udienza approvando che subito andassi a levare i volumi ed anche che la sera stessa io andassi anche da parte Sua a renderne informato S.E. il Card. Merry d. V. [Rafael Merry del Val]. Secondo l’antica numerazione dorsuale mancano i voll. XXVIII, LIX, LX, LXII; si ripete su due voll. (js, iis) il numero XX; le targhette con la lettera L ricordano il trasporto dei voll. in Francia», Arch. Bibl. 115, f. 19r. Cfr. anche le notizie in Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, s.n°; 26 giugno 1917], f. 155r: «Il Santo Padre ha destinato alla Vaticana 61 volumi mss. dell’ex-Indice, in gran parte catalogi dei libri stampati presso le Comunità Religiose nell’epoca post-tridentina. In questo dono molto si deve alla iniziativa del P. Esser». Il domenicano tedesco Thomas Esser (1850-1926) era stato chiamato a Roma nel 1894 per l’edizione del nuovo Index librorum prohibitorum, divenendo in seguito docente di Diritto canonico all’Università S. Tommaso d’Aquino; dal 1900 era segretario della Congregazione dell’Indice e nel 1917 fu eletto vescovo titolare di Sinide. 138 Il 12 dicembre 1916, nell’adunanza del Congresso direttivo, Ratti ricordò le trattative passate e in corso ma si notò che la Chigiana probabilmente sarebbe stata acquistata dal governo italiano, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, s.n°; 12 dicembre 1916], f. 151v. Ma ancora l’11 gennaio 1920, scrivendo a Giovanni Mercati da Warszawa, Ratti ricorderà quanto si era cercato di fare, anche contra spem, per la Chigiana (Carteggi Mercati, cont. 27, ff. 5571r-5572v). Cfr. TISSERANT, Pius XI as Librarian cit., p. 616; M. C. MISITI, La strenna della conciliazione: la biblioteca Chigiana nel Novecento, in Culture del testo 5 (1999), nr. 13, pp. 41-57; EAD., «Strena ad Petrum» (la Chigiana e il Vaticano). Storia e documenti inediti, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, VII, Città del Vaticano 2000 (Studi e testi, 396), pp. 245-302. Alla documentazione lì raccolta si aggiungano ora i documenti dell’archivio particolare di Pio X. Già il 10 gennaio 1914 Ehrle aveva sottoposto a Pio X la questione della «compra eventuale della Biblioteca Chigi»; ma il papa non si disse persuaso dalle motivazioni addotte, con dovizia di particolari e di argomentazioni, dal gesuita affermando che «di fronte ai mille bisogni che si impongono della erezione di chiese e di seminari e del pane quotidiano ai poveri sacerdoti, alle monache e ad altri istituti religiosi, non mi sento di distrarre le elemosine dei fedeli in altre opere pur decorose per la Santa Sede, ma non necessarie», DIEGUEZ – PAGANO, Le carte del «sacro tavolo» cit., II, pp. 599-603; a proposito dello scambio epistolare fra i due cfr. anche P. VIAN, Il papa e il suo bibliotecario. Pio X, Franz Ehrle e la Chigiana, in Strenna dei Romanisti 73 (2011), pp. 715-729.
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cinque papiri copti pubblicati da Agostino Ciasca nel 1881 (15 novembre 1916; ora Borg. copt. 136-137)139 e i quattro volumi dell’opera di Joseph Wilpert sui mosaici e sulle pitture degli edifici sacri di Roma dal secolo IV al XIV, donati al papa dall’imperatore tedesco Guglielmo II (22 febbraio 1917; ora Roma Folio 20 [1-4] Cons.)140. Ma il prefetto registra anche i volumi, che, sulla base di rescritti papali, padre Ehrle può portare con sé all’Istituto Biblico141 e dei manoscritti e stampati dati in prestito, grazie a permessi particolari, all’esterno142. 139 Sotto le segnature Borg. copt. 136 (1-5) e 137 (1-3), aggiunte in coda al fondo dopo la catalogazione (1924) ad opera di Adolphe Hebbelynck, sono riuniti rispettivamente copie e originali di papiri copti già appartenuti all’ex-alunno del Collegio Urbano Marco Kabis, portati dall’Oriente nel 1879 da Agostino Ciasca (1835-1902), allora scriptor orientale della Vaticana (dal 1876), e donati a Propaganda nel 1882 (papiri e copie furono dunque trasmessi alla Vaticana solo il 15 novembre 1916). Ciasca aveva già pubblicato i testi, con traduzione e commento, cfr. A. CIASCA, I papiri copti del Museo Borgiano della S.C. de Propaganda Fide, Roma 1881; cfr. anche D. A. PERINI, Catalogo dei codici manoscritti ed oggetti portati dall’Oriente nel 1879 dal P. Agostino Ciasca agostiniano, in Bessarione 8 (1903-1904) [ser. II, 6 (1904)], pp. 58-71, 258-281: 276-281 nr. XX. 140 Nel registro delle accessioni (Arch. Bibl. 115) inaugurato da Ehrle, che fra il 1898 e il 1914 vi aveva stilato una trentina di registrazioni, quelle di Ratti incominciano il 17 novembre 1914 (f. 15v) e proseguono sino al 13 maggio 1918 (f. 20r). Immediatamente sotto l’ultima nota, Giovanni Mercati ha indicato: «Partenza di Mons. Prefetto A. Ratti per una visita apostolica della Polonia» (f. 20r). Le registrazioni di Ratti sono in tutto 64 (3 nel 1914, 16 nel 1915, 14 nel 1916, 18 nel 1917, 13 nel 1918). Gli atti della Commissione per la riforma del Salterio, del Breviario e del Messale Romano, ordinati e legati per cura di Henri Quentin, erano stati donati da Pietro Lafontaine, che della Commissione era stato il segretario, cfr. Arch. Bibl. 115, f. 17r; Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 174; 9 novembre 1915], f. 141r Accanto a queste accessioni ne vanno ricordate altre, che non compaiono nel registro delle accessioni ma che conosciamo da altre fonti: l’acquisto del cartulario del monastero di S. Maria in Campo Marzio (ora Vat. lat. 11391-11413) proposto da Stornajolo (Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, ni 172 e 176; 26 gennaio 1915 e 16 aprile 1916], ff. 130r, 145r; il dono da parte dei Ferrajoli della corrispondenza (ora Vat. lat. 14238-14295) di Giovanni Battista De Rossi (ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 172; 26 gennaio 1915], f. 132r-v). Cfr. anche ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 174; 9 novembre 1915], f. 141v. 141 Arch. Bibl. 116. Il piccolo registro era stato inaugurato da Ehrle che vi aveva apposto un titolo su un’etichetta apposta sul piatto anteriore della legatura: «Libri della Biblioteca Vaticana presi in prestito dal P. Ehrle S.J. secondo il rescritto pontificio del ottobre 1899 e quello del 1904 e iscritti nel registro tenuto dal Rev.mo Mgr. Mercati». La mano di Ratti compare ai ff. 10v (primo prestito: 12 maggio 1914) e 11r; poi interviene solo quella di Mercati. Oltre ai libri presi in prestito da Ehrle, in seguito sono registrati anche quelli prelevati da Mercati (dal 1919) e da Tisserant. 142 Arch. Bibl. 160: «Registro dei codici dati fuori della Biblioteca e presi in deposito» (inaugurato da Ehrle del quale è la scrittura della nota su un’etichetta apposta sul piatto anteriore della legatura). Le note di Ratti sono al f. 6r; i casi (di manoscritti e stampati) sono in verità ridottissimi: il 7 marzo 1914 venne registrato un prestito al gesuita Johann Georg Hagen, della Specola Vaticana; il 2 ottobre 1915 il benedettino Ambrogio M. Amelli restituì il manoscritto Urb. lat. 471, servito ai lavori della Commissione per l’edizione della Vulgata.
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Lo spirito pratico dell’uomo si manifesta poi nell’attenzione, già ehrliana e dello stesso Ratti all’Ambrosiana143, per il restauro dei manoscritti e per i problemi di conservazione144. Per contrastare il degrado di alcuni manoscritti, soprattutto di quelli cinque- e seicenteschi corrosi dall’inchiostro, Ratti esamina tutti i codici escludendo dalla consultazione con apposite etichette quelli più precari145. La Biblioteca continua poi ad agevolare, come abbiamo visto, gli studi con prestiti di manoscritti e stampati a istituzioni ecclesiastiche, come la Commissione per la Volgata e la Specola Vaticana146. Anche le pubblicazioni, per quanto a un ritmo rallentato, non s’interrompono. Come si è accennato, a soffrire maggiormente sono le pubbli143 Per il restauro (con l’aiuto del chimico Luigi Gabba e del restauratore dell’Ambrosiana Virginio Ripamonti) dei manoscritti della Fabbrica del Duomo, vittime dell’incendio dell’Esposizione del 1906, trasportati in Ambrosiana nel luglio 1912 e riconsegnati nel luglio 1914, cfr. Lettere di Achille Ratti, II, cit., pp. 388-395, 397, 400. Cfr. anche altri spunti ibid., p. 453 (Ratti a Gramatica, Roma, 24 ottobre 1915). 144 CARUSI, Mgr. Achille Ratti e il restauro dei codici nella Vaticana cit. Rivelatore della sensibilità di Ratti per il restauro dei manoscritti, e al tempo stesso del livello raggiunto dall’«officina» di restauro della Vaticana al termine della prefettura di Ehrle, è il pro-memoria indirizzato da Ratti all’Elemosineria Apostolica per soccorrere i familiari di Augusto Castellani († 25 aprile 1914) che, come Ratti aveva potuto accertare de visu, «fanno veramente pietà». Castellani, secondo Ratti, «appassionato dell’arte sua, dotato da natura di facoltà specialissime, sotto la sorveglianza e la direzione del R.mo P. Ehrle», era divenuto «il più abile e stimato restauratore. Moltissimi capi e tra i più pregevoli della suppellettile manoscritta della Bibl. Vaticana che avevano più sentito l’azione del tempo e degli elementi tanto da non [?] apparire manifestamente arrivati a rapida rovina e per questo quasi sottratti allo studio vennero dal Castellani ripuliti, riparati, rafforzati ed insieme sterilizzati ed immunizzati in modo da essere ridonati senza danno all’uso degli studiosi e ad essere assicurati per un lungo periodo. Il valore teorico del Castellani venne largamente riconosciuto ed apprezzato che da varie parti vennero mandati nell’officina Vaticana degli apprendisti per formarsi all’arte del restauro, e poi non solo all’Ambrosiana, ma anche in biblioteche ed archivi dello Stato sorsero a somiglianza della Vaticana officine di restauro che già hanno reso e rendono preziosi servigi. Si deve in gran parte al Castellani, se anche da parte governativa più volte si ricorse alla Vaticana per consiglio ed aiuto in cose attinenti all’arte sua rimanendo con molta soddisfazione», Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 378. Nel maggio 1917 Ratti offrì a Gramatica per l’Ambrosiana scampoli di pergamena «utilissimi per i piccoli restauri», cfr. Ratti a Gramatica, Roma, 19 maggio 1917, ibid., p. 490; cfr. anche le lettere, sempre di Ratti a Gramatica, Roma, 14 maggio 1917; Roma, 6 dicembre 1917; Roma, 11 dicembre 1917, ibid., pp. 489, 509, 511. 145 TISSERANT, Pius XI as Librarian cit., p. 613. Ancora oggi numerosi manoscritti vaticani recano sul dorso etichette con l’indicazione dattiloscritta «Da restaurare» (il fenomeno si risconta in diversi fondi; cfr., per esempio, Barb. lat. 1349, Borg. ar. 112, Borg. sir. 54, Reg. lat. 1906, Vat. lat. 10132, Vat. pers. 52, Vat. sir. 435). La pratica fu formalizzata e prescritta dal Regolamento del 1923. Il problema era comunque da tempo considerato. Già nell’adunanza del Congresso direttivo del 21 giugno 1912 si era deciso l’acquisto di una macchina ideata dal chimico della fabbrica d’inchiostri Leonhardi a Dresda, per neutralizzare gli acidi corrosivi degli inchiostri nei codici dei secoli XVI-XVII, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 166; 21 giugno 1912], f. 112v. 146 Cfr. supra.
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cazioni più impegnative da un punto di vista di allestimento editoriale, di grande formato o di lenta e difficile elaborazione (come i cataloghi dei manoscritti). Di fatto, durante la prefettura di Ratti non vengono pubblicati né cataloghi di manoscritti147 né riproduzioni fototipiche di manoscritti e di piante di Roma. Ma nel periodo si semina per una raccolta futura: la grande edizione fototipica della Geografia di Tolomeo (Urb. gr. 82) venne preparata durante la sua prefettura anche se fu divulgata anni più tardi148. Al tempo stesso Ratti fa progredire la collana «Studi e testi», che durante la sua prefettura si arricchisce di ben otto volumi, quasi due all’anno, con titoli anche impegnativi come le edizioni dei libb. I-XII del Τιπούκειτος di Michele Patzes, a cura di Contardo Ferrini e Giovanni Mercati (1914), del De basilicae Vaticanae antiquissima et nova structura di Tiberio Alfarano, a cura di Michele Cerrati (1914), delle lettere inedite di Gaetano Marini, a cura di Enrico Carusi (1916), dell’Hortus deliciarum del card. Giovanni Bona, a cura di Marco Vattasso (1918)149. Ma è soprattutto nell’allargamento a una cerchia più vasta di collaboratori, rispetto al nucleo originario e sempre costitutivo degli scrittori della Vaticana, che la collana vive un fondamentale momento di snodo nella storia del suo sviluppo150. Vi è poi un altro ambito che va almeno evocato a proposito del futuro papa della Conciliazione, quello della cordiale collaborazione con le istituzioni e i bibliotecari italiani, del tutto aliena da intransigenze nostalgiche, dalla Reale Commissione Vinciana, per la riproduzione fototipica dell’Urb. 147 BERRA, La Biblioteca Vaticana negli anni di guerra cit., pp. 563-564, con polemici confronti fra gli sforzi catalografici vaticani e quelli italiani: «[…] tredici volumi nutritissimi in possesso già delle biblioteche per la consultazione dei ricercatori e degli studiosi e cinque volumi in corso di stampa!». 148 Nel cinquantesimo di Studi e testi cit., pp. 11-12. 149 Tavole e indici generali dei primi cento volumi di «Studi e testi», [a cura di N. VIAN], Città del Vaticano 1942 (Studi e testi, 100), pp. XII-XIII, 17-21 (per un’analisi dei volumi pubblicati); Nel cinquantesimo di Studi e testi cit., pp. 12, 42-44. Cfr. anche BERRA, La Biblioteca Vaticana negli anni di guerra cit., pp. 561-563. Il 22 maggio 1917, durante una seduta del Congresso, si notò che era quasi pronta la stampa di due nuovi volumi di «Studi e testi» (Flavio Biondo di Nogara e Bona di Vattasso) e che era inoltrata la stampa di un volume di Pelzer con l’edizione di scritti baconiani, molti dei quali inediti; la morte di Bishop avrebbe ritardato il lavoro di edizione dell’Eucologio barberiniano (Barb. gr. 336), che ricadeva ormai tutto sulle spalle di Giovanni Mercati; nel frattempo Stornajolo aveva terminato il catalogo dei codici Urbinati; «così si renderà possibile un importante esperimento con la tipografia Vaticana, la quale richiedeva un ms. voluminoso e completo», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, s.n°; 22 maggio 1917], f. 153v. 150 I libri editi della Biblioteca Vaticana cit., p. XXXVII. Già verso la fine della prefettura di Ehrle, il 19 gennaio 1912 fu deciso di accogliere nella collana i lavori di alcuni ecclesiastici, come Ermenegildo Pellegrinetti e Pietro Guidi, estranei alla Biblioteca ma considerati cultori seri di studi storici, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 164; 19 gennaio1912], f. 109v.
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lat. 1270151, a Carlo Frati, allora bibliotecario della Palatina di Parma152, ad Albano Sorbelli, impegnato nella Commissione per la Storia dell’Università di Bologna153. In questi anni, con queste azioni, Ratti, ambrosiano divenuto romano, si radica profondamente nella realtà della Vaticana e stabilisce col suo personale, anche nei gradi più umili, una solidarietà profonda, improntata alla più sincera umanità: il prefetto visita gli impiegati malati e reca loro viveri di conforto154; s’interessa premuroso degli scrittori richiamati nei rispettivi paesi di appartenenza155; organizza, il 26 ottobre 1916, una memorabile gita nei Castelli Romani con quelli che allora erano definiti «bidelli»156, per i quali ottiene dal papa il 15 dicembre 1917 la concessione di trasformare in orto il giardino del cortile interno della Vaticana, per sollevare le famiglie nelle strettezze della guerra157. 5. Il 25 aprile 1918 Benedetto XV nominò Ratti visitatore apostolico per la Polonia e la Lituania allargando, un mese più tardi, l’ambito di competenza a tutte le regioni già facenti parte dell’Impero russo158: è la sterzata di timone. Il prefetto della Vaticana, il bibliotecario sino ad allora sempre vissuto tra i libri parte da Roma per Varsavia il 19 maggio ed è improvvisamente catapultato in uno scenario difficile e intricato in cui la fine della guerra, il disfacimento dell’Impero zarista, la ricostituzione di uno Stato nazionale sinora smembrato con le conseguenti tensioni etniche e nazionalistiche che si scatenano presentano ardui problemi politico-ecclesiastici159. In Vaticana rimane Giovanni Mercati che, anche per indicazione di 151
Arch. Bibl., Corrispondenza 1914-1915, maggio 1915, f.n.n. Corrispondenza con Carlo Frati nei mesi fra giugno e agosto 1916, in Arch. Bibl., Corrispondenza 1915-1916, giugno-agosto 1916, ff.n.n. 153 Corrispondenza con Albano Sorbelli in Arch. Bibl., Corrispondenza 1917-1920, ff.n.n. 154 TISSERANT, Pius XI as Librarian cit., p. 614. 155 Ibid., p. 614; VIAN, Achille Ratti bibliotecario cit., p. 146 [132]. 156 TISSERANT, Pius XI as Librarian cit., p. 614. 157 Ibid., p. 613; VIAN, Achille Ratti bibliotecario cit., p. 146 [132]; PASINI, Achille Ratti bibliotecario cit., p. 57. 158 GALBIATI, Papa Pio XI cit., p. 315. «Arraché de la manière la plus inattendue à la silencieuse et tranquille activité de la bibliothèque […]», Ratti a madre Rostaing, Warszawa, 19 ottobre 1919, in Lettere di Achille Ratti alle sue figlie spirituali del Cenacolo cit., p. 227. 159 Poco prima di partire, il 6 maggio 1918, Ratti aveva scritto a Paolo Àlbera, Rettore Magnifico dei Salesiani, di essere «in procinto di un lungo viaggio che mi terrà assente dalla Vaticana per un tempo forse non breve»; riteneva la missione «un momento certo transitorio, ma del quale non posso al presente misurare ed approssimare la data, pur avendo positive e serie ragioni per ritenerla e sperarla breve (…)». Copia della lettera di Ratti ad Àlbera, di mano di Mercati, è in Carteggi Mercati, cont. 25, an. 1918, ff. 5135r-5136v. La lettera era stata consegnata a Mercati dal salesiano Giovanni Battista Borino (1881-1966), dal 1919 scriptor latino della Biblioteca Vaticana. 152
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Ratti, viene nominato nel maggio 1918 pro-prefetto e merita presto tutto il suo convinto apprezzamento160, anche se realisticamente teme che ne possano soffrire i suoi studi161. Tra Roma e la Polonia si stabilisce allora una serrata corrispondenza. Ratti chiede continuamente notizie di Mercati, «della Biblioteca e de omnibus habitantibus in ea»162 e sente che esse hanno in lui il benefico «effetto di una finestrata di sole, proprio una delle grandi finestre della nostra Vaticana attraverso la quale Ella mi ha fatto vedere tante cose». Sa di aver lasciato la Biblioteca «in mani altrettanto valorose che amorose» e, con espressione ricorrente, saluta tutti, secondo l’uso già di Ehrle, dal cardinale Bibliotecario al custode soprannominato, in ragione della sua origine, «il Romagnolo»163. Questo insieme, percepito come re160
BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., pp. 259, 347 (in realtà la data vulgata potrebbe essere stata retrodatata successivamente, perché ancora il 29 gennaio 1919 e il 6 febbraio 1919 Ratti, da Warszawa, comunica a Mercati di aver pregato Benedetto XV di nominarlo pro-prefetto o reggente con pieni poteri, Carteggi Mercati, cont. 26, ff. 5284r-v; 5288r-5289v, 5290r). Accenni in lettere di Ratti a Mercati mostrano che Ehrle avrebbe preferito per la successione Tisserant (cfr. le lettere di Ratti a Mercati da Warszawa in data 11 gennaio 1920; 23 febbraio 1920; 18 luglio 1920; ibid., cont. 27, ff. 5571r-5572v; 5610r-5611v; 5724r-5725v). La soddisfazione di Ratti per la successione di Mercati trapela invece nella lettera del nunzio in Polonia a madre Rostaing, Warszawa, 8 dicembre 1919, Lettere di Achille Ratti alle sue figlie spirituali del Cenacolo cit., p. 230. Il 9 novembre 1918 Ratti scrisse da Warszawa a Mercati, esortandolo a prendere decisioni senza attendere il suo ritorno: «Ella sta in luogo e stato mio, dunque deve poter fare e fare tutto quello che io potrei fare e farei, colla differenza (felice per la Bibl.) che Lei farà anche e molto meglio» (Carteggi Mercati, cont. 25, ff. 5229r-5232v, 5233r-v). Poco dopo, il 14 dicembre 1918, a proposito delle vicende della Biblioteca Ratti, sempre da Warszawa, afferma di non avere che «da applaudire e da dire: sempre avanti … Mercati!» (ibid., cont. 25, ff. 5251r-5252v). 161 Secondo Ratti la Biblioteca Vaticana avrà sicuro beneficio dal governo di Mercati, ma ne soffriranno i suoi studi: «È la gran legge … del ciabattino: non può andare in suola quello che va in tomaja ma per la scarpa sia si vuole e l’una e l’altra … e lei troverà lena e tempo, per essere e l’una e l’altra e di 1° qualità garantita», Ratti a Mercati, Warszawa, 1° aprile 1919; Carteggi Mercati, cont. 26, ff. 5335r-5339v, 5340r. La preoccupazione per gli studi di Mercati torna nella lettera di Ratti, Warszawa, 11 gennaio 1920, ove si dice certo che in breve tempo Mercati riuscirà a ritagliarsi uno spazio per il suo lavoro personale, ibid., cont. 27, ff. 5571r5572v. Il 9 marzo 1920, sempre da Warszawa, Ratti prevederà che in Vaticana Mercati diventerà addirittura un «Pater patriae», ibid., cont. 27, ff. 5624r-5625r. 162 Ratti a Mercati, Warszawa, 8 luglio 1918. Don Achille desidera notizie «di Lei, della Biblioteca e de omnibus habitantibus in ea (…). E Mons. Le Grelle prepara le notizie per l’Annuario di M. Battandier? E il Biondo? E il card. Bona? E Roger Bacon? e lo schedario unico? e gli Urbinati di Mons. Stornajolo», Carteggi Mercati, cont. 25, an. 1918, f. 5168r-v. I riferimenti di Ratti sono a questioni aperte, a ricerche e a pubblicazioni in corso, a imprese avviate. Il 26 giugno 1917 il Congresso aveva incaricato il prefetto di fornire ad Albert Battandier le notizie sulla Biblioteca che il sacerdote francese intendeva pubblicare nel suo Annuaire pontifical catholique. 163 Ratti a Mercati, Warszawa, 7 agosto 1918; Carteggi Mercati, cont. 25, an. 1918, f. 5183rv. Mercati si è ormai sistemato nell’appartamento di Ratti ma quest’ultimo spera che il primo vada via per agosto e faccia dormire (secondo una prassi già adottata da Ehrle) un bidello in
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altà organica e unitaria, Ratti sente come la sua famiglia; e dopo la morte della madre, Teresa Galli, arriverà a scrivere che, ora che «il meglio della famiglia naturale è perduto», lo consola l’affetto di quella d’adozione164. A tratti don Achille prova una struggente nostalgia per gli amici scomparsi, Paul Liebaert, François van Ortroy165; ma, quasi a consolazione, Dio gli fa sentire «che, come tutta Sua è la terra, così in qualunque parte ci troviamo, siamo sempre nella stessa casa paterna»166. Ma il visitatore apostolico s’interessa ancora di questioni minute, di etichette e di schede167, manifesta preoccupazione per la Sala di consultazione dopo il passaggio di Angelo Mercati in Archivio Vaticano168; in essa propone a Mercati di costituire una una stanza per garantire la sorveglianza notturna della Biblioteca. Il «Romagnolo» era il soprannome di Dino Casadei, assunto nel 1910, sotto la prefettura di Ehrle. «Dal successore Ratti, questo Dino Casadei era detto antifrasticamente, o per ragione più metafisica, il più dotto della biblioteca, perché non sapeva leggere. Era atticciato e robusto, di mediocre statura, ma prestava ormai solo qualche leggero servizio, che andò gradualmente abbandonando per la vecchiezza. Cessò di vivere il 15 novembre 1938, ultimo probabilmente a non sapere decifrare i libri maneggiati per suo mestiere», VIAN, Figure della Vaticana cit., p. 122 [353]; PASINI, Achille Ratti bibliotecario cit., p. 57. I saluti all’intera Biblioteca, dal primo all’ultimo, riprendendo anche qui la pratica di Ehrle, sono ricorrenti, cfr. per esempio le lettere di Ratti a Mercati, rispettivamente da Rho e da Warszawa, del 1° settembre 1917 e del 4 giugno 1918 (Carteggi Mercati, cont. 25, ff. 5097r-v; 5149r-v). Ed era pratica di Ratti già nella corrispondenza con Gramatica a proposito dell’Ambrosiana, cfr., per esempio, Lettere di Achille Ratti, II, cit., pp. 404, 407 (Roma, 9 ottobre 1914; 26 ottobre 1914) e passim. 164 Ratti a Mercati, Warszawa, 24 ottobre 1918; Carteggi Mercati, cont. 25, ff. 5217r5218v, 5219r-v. Mercati aveva espresso le condoglianze, sue e della Biblioteca, all’«amato superiore» il 3 ottobre 1918 (copia o minuta della lettera in Carteggi Mercati, cont. 25, f. 5212r). La madre di Achille Ratti, Teresa Ratti Galli, era morta il 29 settembre 1918, NOVELLI, Pio XI (Achille Ratti) cit., pp. 102-103. Gli stessi sentimenti affettuosi Ratti aveva manifestato nei riguardi dell’Ambrosiana e del suo personale, come mostra la lettera da Roma a Luisa Melzi d’Eril del 3 novembre 1914: «E sento sempre più che il cuore sarà sempre là, con l’Ambrosiana cara e preziosa in se stessa, e con tutto quello insieme di persone, di memorie, di affetti ben altrimenti più caro e prezioso ancora», Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 409. 165 «Se fossero qui! Ma vedono dall’alto … meglio», Ratti a Mercati, Warszawa, 9 novembre 1918; Carteggi Mercati, cont. 25, ff. 5229r-5232v, 5233r-v. 166 Ratti a Mercati, Warszawa, 28 dicembre [1918]; ibid., ff. 5260r-5262v. 167 Ratti a Mercati, Warszawa, 2, 3, 6, 7 gennaio 1919; ibid., cont. 26, ff. 5268ar-5268dr, 5268er. Il 4 giugno 1918 Ratti domanda da Warszawa a Mercati: «E il telefono fu messo?» (ibid., cont. 25, f. 5149r-v). Al termine di una raffica di domande, il 5 settembre 1918, Ratti da Warszawa nota: «ogni risposta sarà non (Ella lo sa) una curiosità cavata ma una carità usata» (ibid., cont. 25, f. 5195r-v). Il 24 ottobre 1918, sempre da Warszawa, scrive che le informazioni e le notizie sono per lui «vero e largo conforto in questa lontananza dalla nostra cara Vaticana» (ibid., cont. 25, ff. 5217r-5218v, 5219r-v), che gli permettono di «vivere anche da lontano la vita della Vaticana» (Ratti a Mercati, Warszawa, 9 novembre 1918; ibid., cont. 25, ff. 5229r-5232v, 5233r-v), che gli danno «la dolce illusione d’essere per alcuni momenti con Lei, con loro tutti nella nostra cara Vaticana» (Warszawa, 30 novembre 1918; ibid., cont. 25, ff. 5245r-5246v, 5247r). 168 Ratti a Mercati, Warszawa, 29 gennaio 1919; ibid., cont. 26, f. 5284r-v. Angelo Merca-
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sezione dedicata alla Polonia169; ed esorta persino Mercati a «stringere un poco i freni [scil.: col personale] per ottenere almeno l’esattezza dello stretto dovere se non quello della generosa diligenza»170. Anche sulla questione della coltivazione del cortile interno Ratti invita Mercati all’intransigenza: la concessione non deve nuocere al decoro dell’ambiente, altrimenti si torni risolutamente all’antico; anzi, in vista di questa reintegratio in pristinum, offre indicazioni per un cordone di fiori da disporre intorno alla fontana e per macchie di fiori da disporre al centro dei riquadri171. Ratti però sa che ormai il suo ritorno in Vaticana diviene progressivamente sempre più difficile; per lui «ormai morire qui, o in Siberia o in un altro luogo mi sarà — o mi sembra — poco differente, purché sia in osculo Domini e facendo il dover mio»172. Ma alla morte del cardinale Bibliotecario Cassetta ipotizza — e poi propone al Segretario di Stato — la successione del cardinale inglese Aidan Gasquet, allora Archivista della Santa Sede, ideale per introdurre l’unione personale fra Archivio Segreto e Biblioteca Apostolica, superando così i secolari problemi di relazioni interne che lui ti era passato in Archivio Vaticano nel dicembre 1918. E Ratti tornerà più volte con Mercati sul problema della successione di Angelo in Biblioteca. 169 Ratti a Mercati, Warszawa, 21 marzo 1919; ibid., cont. 26, ff. 5332r-5333v. 170 Ratti a Mercati, Warszawa, 9 novembre 1918; ibid., cont. 25, ff. 5229r-5232v, 5233r-v. Il consiglio si inserisce in una serie di considerazioni sullo stato della Biblioteca, nella quale nota un affievolimento di dedizione al lavoro: «Davvero che se tutti la servissero con tanta coscienza (ora non parlo che di quella) come Lei sarebbe non la prima bibl. del mondo, ma la bibl. ideale». D’altra parte, anche per Ehrle la «distrazione del personale» era una tribolazione, come per lo stesso Ratti che aveva notato, «e non certo con piacere», una diminuita frequenza degli scrittori nel pomeriggio e nei giorni di vacanza. «Ma che farci? Tutti i fervori tendono a sbollire e gli anni passano per tutti … e cfr. gli altri malinconici riflessi dello stesso genere, che anche P. Ehrle sull’ultimo, osservando, faceva. Spero bene che riesciremo a mettere insieme i regolamenti che Ella tanto giustamente desidera, non saranno la panacea, ma qualche cosa faranno e rimedieranno». 171 Ratti a Mercati, Warszawa, 10 marzo 1919; ibid., cont. 26, ff. 5319r-5320v, 5321r-v. Il 4 maggio 1919 Ratti ribadirà l’affermazione: «quanto al decoro del cortile-orto tenga forte e ne getti pur l’odio sopra di me», ibid., ff. 5359r-5360v, 5361r-v. E tornerà nuovamente sulla necessità di tornare allo status quo ante nella lettera del 16 maggio 1919, ibid., ff. 5363r5365v, 5366r-v. Intransigenza nei confronti dei «portinai» dell’Ambrosiana Ratti aveva già consigliato, «per quanto a malincuore», a Gramatica, in lettera da Roma del 6 luglio 1915, Lettere di Achille Ratti, II, cit., pp. 443-444. 172 Ratti a Mercati, Warszawa, 1° aprile 1919; Carteggi Mercati, cont. 26, ff. 5335r-5339v, 5340r. Ma la giornata di Ratti trascorre impelagata in mille beghe: «(…) ben presto diventerò un idiota … purché sia propter regnum caelorum» (Ratti a Mercati, Warszawa, 4 maggio 1919; ibid., cont. 26, ff. 5359r-5360v, 5361r-v). Commentando poi la recente morte del cardinale bibliotecario Francesco di Paola Cassetta, avvenuta il 23 marzo 1919, Ratti darà malinconicamente ragione a sua sorella: se va avanti così Ratti al suo ritorno non troverà più nessuno. Sulla morte di Cassetta, BERRA, La Biblioteca Vaticana negli anni di guerra cit., p. 560.
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stesso aveva dovuto fronteggiare173. Sarà la soluzione che prevarrà, con una formula che da allora e sino ad oggi è stata sempre seguita174. Anche dopo la nomina di Ratti a nunzio apostolico (6 giugno 1919)175, il carteggio prosegue fitto e particolareggiato; ma Ratti ha definitivamente capito che non tornerà più nell’antico theatrum e compreso che la volontà di Dio è tanto più manifesta quanto meno gli eventi corrispondono alle previsioni e ai desideri umani176. La prima benedizione episcopale del nuovo arcivescovo di Lepanto sarà però riservata alla Vaticana, «a quanto quaggiù mi resta di più caro e diletto»177. Ormai si è consumato un distacco, non affettivo ma di competenze178. Al momento della presentazione delle 173 Già nella lettera a Mercati del 1° aprile 1919 (cfr. supra), Ratti aveva ipotizzato la successione di Gasquet, ideale per introdurre l’unione personale fra Archivio Segreto e Biblioteca Apostolica. Nella lettera a Mercati del 15 aprile 1919 Ratti affermò di aver insinuato al segretario di Stato l’opportunità di riunire «in via di esperimento e puramente ad personam Arch. e Bibl. in un Cardinale protettore»; doveva trattarsi anche del parere di Mercati e non solo di lui; Carteggi Mercati, cont. 26, ff. 5352r-v, 5353r. Nella lettera a Mercati del 5 giugno 1919 (ibid., ff. 5378r-5379v) Ratti tornò sulla nomina di Gasquet a Bibliotecario-Archivista, esprimendo la speranza che fosse per il meglio dei due istituti. Ma il 6 novembre 1919 Ratti manifestò stupore per aver visto nell’Osservatore romano che Gasquet ha il titolo di «Pres. degli Archivî» e avanzò l’ipotesi che si trattasse di un’insignificante omissione tipografica (ibid., ff. 5513r-5514v). L’idea dell’unione della direzione suprema dei due istituti nella persona d’un unico cardinale era comunque diffusa in ambito vaticano e Ratti l’ha probabilmente fatta propria giungendo a Roma; essa è già esplicitamente formulata in lettera di Ehrle a Bressan del 22 ottobre 1909, DIEGUEZ – PAGANO, Le carte del «sacro tavolo» cit., II, p. 580. 174 Di fatto, Aidan Gasquet, nominato Bibliotecario di Santa Romana Chiesa il 9 maggio 1919, ebbe la nomina ad Archivista di S.R.C. solo l’11 novembre 1920 (cfr. Acta Apostolicae Sedis, XI, Romae 1919, p. 253; XII, Romae 1920, p. 579): a dimostrazione del fatto che la novità dell’unione personale dei due titoli stentava ad affermarsi. Da Gasquet sino a oggi i titoli di Bibliotecario e Archivista sono sempre stati uniti nella stessa persona. Va comunque ricordato che il titolo di «Archivista» ha origini recenti e si ricollega alla particolare congiuntura venutasi a creare in Archivio Vaticano dopo la crisi legata alla vicenda di Augustin Theiner (1804-1874) e della comunicazione da parte sua del regolamento del concilio Tridentino alla minoranza antiinfallibilista del Vaticano I. Rimanendo l’oratoriano nominalmente prefetto dell’Archivio, gli fu preposto come Archivista Giuseppe Cardoni, arcivescovo titolare di Edessa e presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica, cfr. L. PÁSZTOR, Per la storia dell’Archivio Segreto Vaticano nei secoli XIX-XX. La carica di Archivista della Santa Sede, 1870-1920. La prefettura di Francesco Rosi Bernardini, 1877-1879, in Archivum historiae pontificiae 17 (1979), pp. 367-423: 366-386. 175 GALBIATI, Papa Pio XI cit., p. 316. 176 Ratti a Mercati, Warszawa, 29 giugno 1919; Carteggi Mercati, cont. 26, f. 5401r-v. 177 Ratti a Mercati, Warszawa, 29 giugno 1919; ibid., f. 5401r-v. L’elezione ad arcivescovo di Lepanto era avvenuta il 3 luglio 1919; la consacrazione episcopale era seguita il 28 ottobre, GALBIATI, Papa Pio XI cit., p. 316. 178 Anche dopo aver lasciato definitivamente l’Ambrosiana, Ratti continuò a occuparsi e a interessarsi di questioni che la riguardano, come mostrano tutte le lettere a Gramatica dal settembre 1914 in poi pubblicate in Lettere di Achille Ratti, II, cit., ove abbondano consigli, pareri, giudizi. Similmente la partenza per la Polonia e la stessa nomina a nunzio non troncarono i rapporti di Ratti con la Vaticana. Quasi che il futuro Pio XI non abbandonasse mai il
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credenziali, Ratti si sente «completamente cucinato»179 e il 10 settembre affida al suo segretario Ermenegildo Pellegrinetti istruzioni dirette a Mercati per la distribuzione di carte, schede, bozze, oggetti, libri, mobili180. Una sorta di «testamento del capitano»: un capitano che il 1° ottobre 1919, al momento della riapertura della Vaticana, scrive a Mercati che «passerà» con lui, «con loro tutta questa giornata scambiando i saluti coi reduci … ma io non sono tra essi […]». All’inizio dell’anno accademico, Ratti constata allora che «ahimè! L’Accademia per me è finita; e vedo adesso meglio che mai quanto di bello e di buono c’è in un poco di accademia nella vita»181; il 20 agosto 1920 ripeterà ancora con nostalgia che «[…] codesta vita di Bibl. mi sembra ora più che mai quella bella vita che è; se non torno — seppur torno — coi capelli bianchi, bisognerà dire che furono a suo tempo molto bene e tenacemente tinti»182. Ma ancora si adopera per assicurare alla Vaticana la definitiva successione di colui che ritiene il migliore, Mercati183; al quale presenta le congratulazioni per la nomina il 6 novembre 1919184. Il 12 novembre le ribadisce, perché più ci pensa e più ne è contento, grato a Dio che anche in questo particolare ha scoperto così graziosamente i Suoi disegni: [… ] la Prefettura devolutale dal Santo Padre, dice chiaramente a che mirassero quei disegni; e questo, di trovarsi dove la mano di Dio l’ha portata, deve darle una gran pace ed ispirarle una fiducia certissima nel Suo aiuto. E di questo aiuto Ella ha già e dentro e fuori di se i pegni anzi la realtà stessa: dentro nelle doti e naturali ed acquisite delle quali Dio l’ha arricchita, fuori tutto l’ambiente unanime e animato a Lei così noto e benevolo e il P. Ehrle che proprio per Lei sembra avere Iddio buono conservato e ricondotto a Roma185. campo in cui aveva più o meno a lungo operato: il distacco è di competenze, mai sentimentale e affettivo. 179 Ratti a Mercati, Warszawa, 29 luglio 1919; Carteggi Mercati, cont. 26, ff. 5437r-5438v. 180 Ibid., f. 5457r-v. Le istruzioni hanno un «parallelo», destinato a Marco Magistretti, ora conservato in Biblioteca Ambrosiana (faldone M 1 inf., f. 2), cfr. PASINI, Achille Ratti bibliotecario cit., pp. 49, 60 nt. 4; ID., Un foglietto di istruzioni di Achille Ratti Nunzio in Polonia e il suo addio agli studi, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XVI, Città del Vaticano 2009 (Studi e testi, 458), pp. 325-367. 181 Ratti a Mercati, Warszawa, 1° ottobre 1919; Carteggi Mercati, cont. 26, f. 5480r-v; cfr. PASINI, Un foglietto di istruzioni cit., p. 363. 182 Ratti a Mercati, Warszawa, 20 agosto 1920; Carteggi Mercati, cont. 27, ff. 5759r-5760v. 183 Il 1° ottobre 1919 Ratti scrive a Mercati di aver fatto tutto il possibile per indicare il candidato migliore alla sua successione (cioè Mercati); ora bisogna lasciar fare alla Provvidenza; Ratti a Mercati, Warszawa, 1° ottobre 1919; ibid., cont. 26, f. 5480r-v. 184 Ratti a Mercati, Warszawa, 6 novembre 1919; ibid., ff. 5513r-5514v. La nomina di Mercati a prefetto della Vaticana reca la data del 23 ottobre 1919, BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 347. 185 Ratti a Mercati, Warszawa, 12 novembre 1919; Carteggi Mercati, cont. 26, ff. 5520r-
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Forse non tutto l’ambiente era così unanime nei confronti di Mercati se l’11 gennaio 1920, di fronte alle frustrate aspirazioni alla prefettura di Tisserant, Ratti sentirà il bisogno di esprimere una risoluta preferenza per le prefetture italiane: «Ma c’è tempo e luogo per tutti come per tutto; e credo fermamente che per un poco di tempo — un bel poco — è necessario, tra l’altro, che il prefetto della Vaticana sia un italiano; e forse sarà sempre meglio non uscire dal bel paese che Appen. parte, il mar circonda e l’Alpe. Non l’ho mai capito tanto bene come uscendo e stando fuori d’Italia»186. Evidentemente su questo punto Pio XI la pensò diversamente da Achille Ratti, perché fu proprio lui, dopo Mercati, a chiamare un non italiano alla prefettura della Vaticana, il benedettino catalano Anselm Albareda nominato il 18 giugno 1936187. Il 26 giugno 1917 il Congresso si riunì per l’ultima volta prima della sospensione delle riunioni durante l’estrema fase della guerra, nei mesi della grande paura dopo la «rotta» di Caporetto, della resistenza italiana sul Piave, dell’ormai insperata vittoria finale. Le adunanze ripresero solo più di tre anni dopo, il 25 novembre 1920, con una seduta nella quale si gettò una sguardo retrospettivo sugli eventi del periodo trascorso che risulta prezioso per comprendere il clima e le situazioni nel trapasso tra la fine della prefettura di Ratti e l’inizio di quella di Mercati. Può quindi essere utile ripercorrerne i lavori188. Il prefetto Mercati espose inizialmente i mutamenti avvenuti recentemente nel personale. Nel 1919 Aidan Gasquet era subentrato al posto di Cassetta quale cardinale bibliotecario. Il 1° gennaio 1919 (in realtà già nel dicembre 1918) Angelo Mercati era passato in Archivio Segreto Vaticano; nel giugno 1919 il prefetto Ratti era stato nominato nunzio a Varsavia, lasciando definitivamente la Biblioteca; nel settembre 1920 Michele Cerrati era stato eletto vescovo e Bartolomeo Nogara nominato Direttore generale dei Musei e delle Gallerie pontificie; Angelo Mercati era stato sostituito nell’ottobre 1919 da Giovanni Battista Borino; ma rimanevano vacanti tre scrittorie. A Mariano Saraceni (morto nel maggio 1918) era subentrato Cirillo Korolevskij; a Licurgo Zucchetti il segretario-economo Domenico Presutti189. 5521v; si corregga la data della lettera erroneamente indicata in Carteggi del card. Giovanni Mercati, I: 1889-1936, introduzione, inventario e indici a cura di P. VIAN, Città del Vaticano 2003 (Studi e testi, 413; Cataloghi sommari e inventari dei fondi manoscritti, 7), 223 (sub n° 3436: 12 ottobre 1919). 186 Ratti a Mercati, Warszawa, 11 gennaio 1920; Carteggi Mercati, cont. 27, ff. 5571r5572v. «(…) il bel paese / Ch’Appennin parte e ’l mar circonda e l’Alpe», Petrarca, Canzoniere, CXLVI, 13-14. 187 BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 347. 188 Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, s.n°; 25 novembre 1920], ff. 157r-164v. 189 Ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 174; 9 novembre 1915], f. 141r.
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Per quanto riguarda i mutamenti fra i «bidelli» e i restauratori, si segnalava la novità della riunione del laboratorio dell’Archivio Segreto con quello della Biblioteca Apostolica e l’aumento dell’organico: da tre a cinque e prossimamente a sei. Per quanto riguarda i locali, in continuazione del cosiddetto «grottone» contiguo alla Sala della Raccolta ne erano stati adattati altri due, capaci di oltre 10.000 volumi, ben aerati e illuminati e divenuti di accesso molto comodo in seguito all’apertura nel 1919 della nuova scaletta per il magazzino dei manoscritti. Sempre nel 1919 «si è costruito il nuovo laboratorio per il restauro e la fotografia dei codd.», arredandolo, mentre il vecchio laboratorio sarà trasformato in «camera di sicurezza dei cimelî più preziosi, che avrà l’accesso unicamente dal magazzino dei mss.»190. Permanevano le difficoltà del commercio librario (per i sovra-prezzi imposti dalla Germania, per lo svilimento della moneta italiana; nonostante tale situazione si fecero buoni acquisti). Andavano lentamente riprendendo i cambi delle pubblicazioni (nel 1919 si era verificato un cambio straordinario di incunaboli doppi con l’Ambrosiana, che aveva arricchito la Vaticana di oltre 180 incunaboli, alcuni preziosissimi). Per quanto riguarda le donazioni, si segnalavano quelle pervenute dalla biblioteca Cassetta, da Tito Molinari191, dal Seminario Vaticano, dal papa (schede epigrafiche del Gatti192, lettere di Jean-Baptiste Pitra a Henry Stevenson senior193). Nel quadro dei rapporti più stretti fra Archivio e Biblioteca, agevolati dalla presenza al vertice di un unico cardinale Archivista e Bibliotecario, nel maggio 1920 per disposizione di Gasquet erano stati trasferiti in Biblioteca dall’Archivio oltre 1.000 manoscritti, mentre la Vaticana aveva trasferito in Archivio fondi archivistici di recente acquisto, come quelli di S. Prisca, S. Marta, Ss. Domenico e Sisto. Erano poi stati recuperati due ff. del Vat. lat. 3195, il Canzoniere autografo del Petrarca, asportati dal «famigerato Rapisardi» «40 anni or sono» e restituiti nel settembre 1920 dalla biblioteca civica di Trieste, che li aveva comperati nel 1888 per £ 2.000194. I lavori scientifici erano stati naturalmente ritardati dalle situazioni personali: per la chiamata alle armi erano stati assenti Franchi de’ Cavalieri (per oltre due anni), Cerrati e Tisserant 190 L’intenzione era precedente. Già il 6 novembre 1907 si era annunciato al Congresso il futuro allestimento di una «camera forte» per i manoscritti più preziosi, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 149; 6 novembre 1907], f. 77r-v. 191 I volumi dello studioso di economia politica Gustave de Molinari (1819-1912), promessi alla Biblioteca dalla vedova sin dal 1917, giunsero in Vaticana il 16-17 settembre 1919. Tito Molinari era il figlio di Gustave, direttore della Banca Italiana di Sconto di Roma. 192 Sulla complessa vicenda, cfr. M. BUONOCORE, Giuseppe Gatti, Angelo Silvagni e le schede ICR di Giovanni Battista De Rossi: nuovi tasselli per la storia della loro “acquisizione”, in Marmoribus vestita. Miscellanea in onore di Federico Guidobaldi, a cura di O. BRANDT – Ph. PERGOLA, Città del Vaticano 2011(Studi di antichità cristiana, 63), pp. 305-329. 193 Sono ora conservate nel Vat. lat. 11377, cfr. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 279 nt. 85. 194 Il «famigerato Rapisardi» dovrebbe essere Giovanni Rapisardi, le cui sottrazioni da manoscritti miniati vaticani fu all’origine della crisi che portò alla morte l’allora primo custode Isidoro Carini; ma gli eventi si consumarono nel 1894 (cfr. G. BATTELLI, Carini, Isidoro, in Dizionario biografico degli italiani, XX, Roma 1977, pp. 102-106: 105). Se l’indicazione di Mercati è esatta (e non vi è motivo di dubitarne) si deve allora credere che Rapisardi avesse già colpito in precedenza in Vaticana e in un manoscritto celeberrimo.
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(per un quinquennio), mentre si segnalavano «lunghe assenze d’impiegati inferiori o per malattie o per licenze, espresse o tacite, di mons. Ratti in riguardo delle circostanze eccezionali della guerra». Ma si era proseguita la copia in schede dei vecchi cataloghi della Mai, della Cicognara e della Capponiana, come pure la copia delle schede recenti della Prima Raccolta e di alcune sezioni della Raccolta Generale «a preparazione dello schedario alfabetico generale degli stampati dei varî fondi, finché apparsi i gravi difetti di moltissime schede e le difformità grandi dei vecchi cataloghi, si sospese quella copiatura che rappresentava uno spreco non lieve di denaro e di lavoro». Si continuò però l’ordinamento e la catalogazione dei nuovi acquisti, segnatamente delle sezioni non catalogate della Sala di consultazione, che si sperava di completare entro l’anno prossimo. Tisserant aveva diviso e ordinato le molte migliaia di stampati che giacevano confusi e non catalogati negli armadi della lunga galleria; nell’occasione Lamberto Donati aveva redatto un «buon catalogo» della piccola ma preziosa raccolta delle stampe. Camillo Serafini aveva proceduto alla sistemazione e all’inventario del Medagliere, mentre Franchi de’ Cavalieri aveva proseguito la revisione del Museo Cristiano. «Durante i lavori sopra detti furono osservate diverse incongruenze e lacune nelle regole e nella pratica di ordinare e schedare i libri, ciò che indusse a rifondere il regolamento». Le pubblicazioni erano state rallentate e ridotte non solo per la mobilitazione dei tre scrittori e l’occupazione di un quarto in altro servizio ma anche per la scarsità dei tipografi prima e poi per l’enorme rincaro di tutto. Nell’aprile 1919 si era ottenuto il raddoppio dell’assegno e nell’estate successiva, non bastando quello, era pervenuta la promessa del papa di colmare anno per anno il deficit emergente. Si intendeva però ridurre al minimo le pubblicazioni in corso, per evitare che si intralciassero vicendevolmente. Dopo la partenza di Ratti, erano stati pubblicati alla fine del 1918 l’Hortus deliciarum del cistercense card. Giovanni Bona edito e illustrato da Vattasso e nel luglio 1920 il catalogo dei manoscritti Vaticani latini 10301-10700, redatto da Marco Vattasso ed Enrico Carusi. Era prossima l’uscita dell’ultimo volume del catalogo degli Urbinati latini, redatto da Cosimo Stornajolo195, e del sesto fascicolo delle Note agiografiche di Franchi de’ Cavalieri196. Era ripresa o stava per riprendere la stampa della ricerca di Guidi e Pellegrinetti sugli inventari della cattedrale di Lucca197, del catalogo dei manoscritti Vaticani greci 1-330198, del Flavio Biondo di Nogara (mancava solo la stampa dell’introduzione). Erano poi ricominciati i lavori di catalogazione di Pelzer (per i manoscritti scolastici)199, di Tisserant (per i manoscritti armeni)200, di Vattasso (per i manoscritti dell’Orsini, già descritti da lui, per 195 Il terzo volume del catalogo di Stornajolo, relativo agli Urb. lat. 1001-1779, uscì nel 1921. 196
Il sesto fascicolo delle Note agiografiche di Franchi de’ Cavalieri fu pubblicato nel 1920 (Studi e testi, 33). 197 P. GUIDI – E. PELLEGRINETTI, Inventari del vescovato, della cattedrale e di altre chiese di Lucca, Roma 1921 (Studi e testi, 34). 198 Il catalogo dei Vat. gr. 1-329, descritti da Giovanni Mercati e Franchi de’ Cavalieri, fu pubblicato nel 1923. 199 Il catalogo dei Vat. lat. 679-1134, descritti da Pelzer, fu pubblicato negli anni 19311933. 200 Il catalogo dei manoscritti armeni, descritti da Tisserant a partire da schede di
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un terzo, 24 anni fa)201, di Carusi (dal Vat. lat. 10700 in poi e per gli oltre 2.000 manoscritti aggiunti al fondo Vaticano latino nell’ultimo ventennio)202. Anche sotto la pressione delle case editrici Danesi e Molfese, si era inoltre cercato di riprendere le edizioni fototipiche, sospese nel 1915: Bannister era morto senza lasciare l’introduzione al Missale Gothicum (il già prima ricordato Reg. lat. 317)203; André Wilmart rinviava il termine del lavoro per il Missale Francorum (il Reg. lat. 257)204. Era invece pronto il testo del Tolomeo Urb. gr. 82 (ma la Tipografia Vaticana scarseggiava di caratteri greci)205. Nessuna novità si segnalava per il Registro di Innocenzo III de negotio imperii (Peitz)206 e per altre edizioni fototipiche, per le quali sono pronte le tavole da anni (Terenzio Bembino207, de re publica208); mentre stava per partire la riproduzione delle miniature vaticane della Commedia dantesca (Alfieri-Lacroix)209. Nel 1918 Benedetto XV aveva affidato alla Pontificia Accademia Romana di Archeologia la pubblicazione dei «Monumenti di arte dei palazzi pontifici» (sottraendo quindi alla Biblioteca la riproduzione e lo studio delle collezioni archeologiche, artistiche, numismatiche dei palazzi apostolici, degli avori, delle Nozze Aldobrandini e delle altre pitture murali dell’antichità); ma nella commissione accademica sarebbe entrato un rappresentante della Biblioteca Vaticana e dei musei annessi e a parità di condizioni sarebbero stati scelti per l’illustrazione dei monumenti funzionari della Biblioteca. I restauri dei manoscritti «furono continuati alla meglio, nonostante i rincari e talvolta la scomparsa delle materie prime», fino a quando il papa ordinò (settembre 1919) di riprendere e completare a qualunque costo il restauro dei codici copti del Morgan (si sperava di ultimarli entro l’anno prossimo)210. In compenso la Biblioteca aveva ottenuto l’ampliamento del laboratorio (sotto la direzione di Tisserant, che si occupava direttamente dei manoscritti Morgan) e l’aumento dei restauratori. Si segnalava poi un significativo aumento
Frederick Cornwallis Conybeare (1856-1924), fu pubblicato nel 1927. 201 Il catalogo non vide mai la luce, anche per la morte prematura (1925), a cinquantesei anni di età, di Vattasso. 202 Gli annunciati cataloghi non furono pubblicati. 203 Il facsimile non è stato pubblicato. 204 Il facsimile non è stato pubblicato. 205 CLAUDII PTOLEMAEI Geographiae Codex Urbinas graecus 82, phototypice depictus, I-II, Lugduni Batavorum – Lipsiae 1932 (Codices e Vaticanis selecti quam simillime expressi, 19). 206 Il facsimile del Regestum D.ni Innocentii tertii PP. super negotio Romani Imperii (Archivio Vaticano, Reg. Vat. 6) fu pubblicato nel 1927, con introduzione del gesuita Wilhelm Peitz. 207 Il facsimile del Terenzio Bembino, Vat. lat. 3226, non è stato pubblicato. 208 Il facsimile del celebre palinsesto del De re publica ciceroniano, Vat. lat. 5757, fu pubblicato nel 1934. 209 I codici istoriati di Dante nella Biblioteca Vaticana pubblicati ed illustrati, I: Dante e l’iconografia d’oltre tomba. Arte bizantina-romanica gotica, per V. ZABUGHIN, Milano – Roma 1921 (Codices e Vaticanis selecti quam simillime expressi, 13). 210 Dal 1912 il laboratorio di restauro della Vaticana, sotto la supervisione di Tisserant, si occupava di un gruppo di manoscritti copti del collezionista John Pierpont Morgan senior (1837-1913), cfr. MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit., pp. 140-141.
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degli studiosi: nell’ anno 1918-1919 erano stati 118; nel 1919-1920, 200; dal 1° ottobre al 24 novembre 1920, erano già stati 92. Si moltiplicavano anche le consultazioni orali e scritte e le richieste di fotografie. Non pochi problemi erano stati causati dal deposito delle pergamene di Ravenna, dei codici greci e arabi e dei quadri dell’Ambrosiana, dalla raccolta dei libri per l’Università di Lovanio, dalla concessione di libri all’Istituto Orientale e ai seminari. Questi erano, secondo Mercati, i principali fatti e mutamenti verificatisi nell’ultimo triennio. In futuro si attendeva l’arrivo dell’intero catalogo del Museo Britannico. Mercati faceva poi notare che gli era stato impossibile, all’atto della sua nomina, «di prendere debitamente le consegne della Biblioteca da Mons. Ratti partito quasi all’improvviso. Nell’estate prossima egli farà eseguire una revisione completa dei mss. e degli stampati che sono catalogati; ma per gli altri? Il Congresso ritiene che Mons. Mercati debba soltanto, in calce alla Revisione, porre una nota nella quale spieghi le ragioni della mancata consegna»211. Era stata manifestata disponibilità per altre edizioni fototipiche: quelle di Stornajolo per l’illustrazione del S. Giorgio dello Stefaneschi212 e di Vattasso per l’Album paleografico Vercellese213. Per il Tolomeo Urb. gr. 82 si prospettavano due ipotesi: o servirsi dei tipi degli Artigianelli oppure condurre rapidamente a termine il catalogo dei Vaticani greci per riservare tutti i caratteri al Tolomeo. Fra le carte di Paul Liebaert era stato rinvenuto uno studio quasi ultimato sullo scriptorium di Autun che si intendeva pubblicare negli «Studi e testi»214; ma se ne sarebbe dovuto occupare Wilmart che non terminava il lavoro, come non 211 Anche al momento della successione di Luigi Gramatica in Ambrosiana, Ratti non aveva potuto fare una consegna «molto particolareggiata», cfr. la lettera di Ratti a Gramatica, Roma, 16 novembre 1914, in Lettere di Achille Ratti, II, cit., p. 410. 212 La riproduzione del manoscritto Arch. Cap. S. Pietro C.129 (noto come «codice di S. Giorgio») non è stata pubblicata. 213 Anche questo progetto rimase tale. 214 Paul Liebaert era morto, poco più che trentenne, il 25 agosto 1915, nella cittadina di Pallanza, sul Lago Maggiore (cfr. BERRA, La Biblioteca Vaticana negli anni di guerra cit., p. 560). Il 9 novembre 1915, al Congresso direttivo, Ratti auspicò che l’eredità letteraria e artistica del prete lussemburghese venisse raccolta e valorizzata nel modo migliore; operativamente propose che due futuri fascicoli di «Studi e testi» raccogliessero i suoi scritti editi e inediti e che il suo schedario venisse inserito fra i manoscritti vaticani. All’uopo venne costituita una commissione (composta da Ratti, Maurice Vaes, Stanislas Le Grelle, «amico del defunto e che spesso lo aiutò nelle ricerche artistiche», Enrico Carusi, «che fu con lui in intimità e ne seguì i lavori», con l’aiuto di Marco Vattasso e Cosimo Stornajolo) ma più di un anno dopo, il 12 dicembre 1916, Ratti dovette riconoscere che non si era fatto molto per l’eredità Liebaert, perché mancava ancora il consenso della famiglia e perché i membri della Commissione erano stati molto occupati; Ratti aveva però esaminato «per ben tre volte tutto il materiale letterario lasciato dal Libaert [sic], anche per soddisfare alle richieste del prof. Lindsay [scil.: il filologo e paleografo britannico Wallace Martin Lindsay, 1858-1937] con cui il defunto aveva preso speciali impegni», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 174; 9 novembre 1915; s.n°, 12 dicembre 1916], ff. 140r-v, 151r-v. Sulla morte e sui meriti di Liebaert Ratti scrisse un rapporto al papa, che lo conosceva appena e ne fu molto «touché», cfr. Ratti a madre Rostaing, Roma, 19 settembre 1915, in Lettere di Achille Ratti alle sue figlie spirituali del Cenacolo cit., p. 198 (ove va corretto il cognome del personaggio, infelicemente interpretato come «Dr. Liclaest»). Ma i diversi progetti rimasero incompiuti.
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aveva terminato l’introduzione al Missale Francorum. Mercati, Vattasso, Carusi, Pelzer e Tisserant si erano infine occupati degli aggiornamenti dei prezzi delle pubblicazioni, divenuti nel tempo davvero irrisori.
Come mutò la Vaticana durante la prefettura di Achille Ratti? Per quanto riguarda il personale, un confronto fra la situazione al momento dell’inizio del suo mandato e quella da lui lasciata alla partenza per la Polonia suggerisce qualche considerazione. Al termine della prefettura Ratti il personale appare diminuito di sei elementi. Più in particolare, il confronto fra gli organigrammi del 1914 e del 1919 permette di stabilire che le decurtazioni avvengono nell’ambito degli scrittori onorari ed emeriti (rispettivamente scesi da 5 a 3 e da 2 a 1), dei legatori (scesi da 4 a 3) e soprattutto degli assistenti (la grande novità del pontificato leonino, scesi da 6 a 3), decimati dalle dimissioni di Antonio Sacco (nel 1915), poi dalle morti di Ernesto Feron (24 maggio 1916)215 e Nicola Franco (31 ottobre 1916)216 e dal pensionamento di Mariano Saraceni (nel 1917); le perdite sono solo in minima parte reintegrate dall’assunzione di Luigi Santi (28 ottobre 1916)217. Il motivo è probabilmente semplice: il grande sforzo sugli stampati, incominciato sotto Leone XIII, era giunto in qualche modo ai limiti delle sue possibilità sulla base delle premesse di partenza. Riportata sotto controllo la Sala di consultazione, si era compreso che era inutile continuare nella direzione di un catalogo unificato facendo copiare schede dai molteplici cataloghi, senza una preliminare, adeguata preparazione professionale dei bibliotecari, senza una meditata codificazione di regole descrittive, senza un deposito in qualche modo definitivo e permanente per gli stampati218. Fu quanto Ratti comprese durante la sua prefettura e 215 A proposito della morte di Feron, Ratti (curiosamente nel registro delle accessioni) sotto la data del 27 maggio 1916 scrisse: «Funerali e trasporto a Campo Verano (reparti sacerdoti poveri) del povero nostro assistente don Feron, trovato morto nella sua dimora a S. Pancrazio nel pomeriggio di ieri l’altro. La Bibl. ha provveduto alle spese funerarie coll’amico concorso di D. Pucci parr. di S.a Maria in Trastevere. V. Cronaca», Arch. Bibl. 115, f. 17v. Durante il pontificato di Pio X, mons. Enrico Pucci era passato dalla Congregazione dell‘Indice alla parrocchia di S. Maria in Trastevere, cfr. F. IOZZELLI, Roma religiosa all’inizio del Novecento, Roma 1985 (Biblioteca di storia sociale, 22), p. 177. 216 Il papas Nicola Franco fu commemorato nell’adunanza del Congresso direttivo del 14 novembre 1916, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 178; 14 novembre 1916], f. 148r. 217 Luigi Santi, «giovane sacerdote di pronto ingegno», era stato presentato dall’arcivescovo di Modena, Natale Bruni, e da Angelo Mercati, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 178; 14 novembre 1916], f. 148r. Santi collaborò con Angelo Mercati nella schedatura degli stampati della sala di consultazione, occupandosi in particolare (con l’aiuto del decano dei bidelli Paolo Federici) delle miscellanee, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, s.n°; 22 maggio 1917], f. 153r. 218 Non a caso nell’udienza con Benedetto XV del marzo 1915 Ratti aveva fatto notare
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fu il problema che papa Pio XI provvide a risolvere attraverso la decisiva collaborazione con la biblioteconomia americana. È piuttosto nell’ambito degli scrittori che gli sforzi di Ratti sembrano concentrarsi: dopo le morte di Ulisse De Nunzio (5 marzo 1915) e di Liebaert (25 agosto 1915), poco prima di quella di Calenzio (10 dicembre 1915)219, l’11 novembre 1915 Ratti riuscì a ottenere contemporaneamente le nomine di Cerrati e Tisserant a scrittori e quella di Pelzer a scrittore onorario (ma poco dopo, cioè dal 21 dicembre, anche Pelzer ricevette lo stipendio). Si tratta di un passo importante per il corpo scientifico della Biblioteca, contemporaneamente onorato da condizioni economiche e logistiche più decorose e confortevoli. Per quanto esso fosse presto destinato a subire di nuovo cambiamenti considerevoli (nel maggio 1918 Giovanni Mercati divenne pro-prefetto, Cerrati venne nominato vicario del «vescovo da campo» per l’Italia Lorenzo Angelo Bartolomasi220, in dicembre Angelo Mercati passa all’Archivio Vaticano, mentre Tisserant è in Francia per obblighi militari), le nomine del novembre 1915 assicurano all’istituzione due personalità, Pelzer e Tisserant, che si riveleranno diversamente importanti nella vita dell’istituzione, sia per la catalogazione dei manoscritti sia per il suo governo. Anche nell’attenzione all’ambito dei manoscritti Ratti mostrava di essere fedele all’intuizione ehrliana che considerava la Vaticana essenzialmente una «biblioteca di manoscritti», come il prefetto Ratti aveva esplicitamente scritto nella notizia relativa alla Vaticana nell’Annuario pontificio del 1915. 6. Il 10 giugno 1919, nella minuta dell’indirizzo di congratulazione indirizzato a Ratti appena nominato nunzio apostolico, Mercati scrisse: «Adoriamo i disegni di Dio il quale L’ha condotta nella Vaticana per tutt’altro scopo da quello che si proposero gli strumenti della chiamata […]»221. Rispondendo un mese dopo, il 4 luglio, Ratti affermò quasi di non sentire Mercati nella prefettura della Vaticana come successore di se stesso, «che vi sono passato come breve meteora, voglio sperare, innocua»222. Evidentemente la scarsa considerazione degli anni della prefettura vaticana di che il numero degli assistenti (3) era ritenuto sufficiente per le esigenze del momento, ibid. [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 178; 14 novembre 1916], f. 148r. 219 BERRA, La Biblioteca Vaticana negli anni di guerra cit., p. 560. 220 Ibid., p. 560. Il 15 settembre 1920 Cerrati fu poi consacrato vescovo titolare di Lidda e dal 2 marzo 1923 alla morte (21 febbraio 1925) divenne ordinario militare (ma con la sola nomina ecclesiastica). 221 Minuta dell’indirizzo di congratulazioni rivolto da Mercati a Ratti nominato nunzio apostolico, 10 giugno 1919; Carteggi Mercati, cont. 26, f. 5403r-v. 222 Ratti a Mercati, Warszawa, 4 luglio 1919; ibid., ff. 5411r-5412v, 5413r.
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Ratti, di cui si è detto all’inizio, risale in una certa misura agli stessi protagonisti degli eventi. Ma se è vero che quegli anni servirono a proiettare Ratti in uno scenario più vasto di quello ambrosiano, divenendo in qualche modo un decisivo svincolo biografico ed esistenziale, sarebbe un errore, ragionando in un’ottica puramente interna all’evoluzione storica dell’istituzione vaticana, svalutarli. Certo in quegli anni, in ragione del mutato scenario e della particolare congiuntura storica, Ratti si mosse per certi versi analogamente, per altri versi diversamente dal prefetto dell’Ambrosiana223; non cercò e trovò fondi per acquisire manoscritti e stampati e accantonò quegli aspetti più marcatamente sociali, di radicamento nella realtà cittadina, che avevano contraddistinto il suo operato in Ambrosiana224. Ma anche in Vaticana fu e continuò a essere un bibliotecario moderno225 che, senza rinunciare alla sua vocazione erudita226, si dedicò all’organizzazione su basi nuove, più rispondenti all’evoluzione dei tempi, della vita della secolare istituzione. Ebbe poco tempo e in anni difficili; ma la sua attenzione per gli stampati e in particolare per la Sala di consultazione rappresentò un approfondimento e un perfezionamento dell’opera di Ehrle, costituendo una tappa significativa di un cammino che sarebbe proseguito. Anche perché in quegli anni il prefetto, che non esitò a «sporcarsi le mani» e a occuparsi degli aspetti più prosaici e concreti della vita della Vaticana227, si rese conto di problemi ed esigenze — innanzitutto quelle degli spazi per una sede definitiva degli stampati e di una preparazione professionalmen223 Per le analogie, per quanto in proporzioni più modeste, cfr. la lettera di Ratti alla Commissione di Beneficenza della Cassa di Risparmio [di Milano], Milano, [3 marzo] 1914, in Lettere di Achille Ratti, II, cit., pp. 373-374, ove si ricorda l’impegno per il restauro dei manoscritti e per la catalogazione «di circa 200 volumi, e [scil.: per la redazione di] 150.000 schede di repertorio ed i relativi volumi di inventario», sempre fronteggiando una fondamentale scarsità di mezzi. 224 Per una caratterizzazione del ruolo svolto da Ratti in Ambrosiana, VIAN, Achille Ratti bibliotecario cit., pp. 144-145 [130-131]; PASINI, Il Collegio dei Dottori cit., pp. 100-106, 114119; ID., Achille Ratti bibliotecario cit., pp. 50-56. 225 VIAN, Un’illustre successione cit., p. 375 [137]; PASINI, Achille Ratti bibliotecario cit., 52; ID., Un foglietto di istruzioni cit., pp. 362-363. 226 Per le pubblicazioni di Ratti nel periodo della prefettura vaticana, cfr. GALBIATI, Papa Pio XI cit., pp. 314-315. Ratti intervenne alla Pontificia Accademia Romana di Archeologia nel 1917 su «Luca Holste e (…) un interessante documento che lo riguarda» (ma il testo non fu pubblicato) e nel 1918 su un documento relativo alla basilica di S. Sebastiano (il testo pubblicato nel 1920 fu seguito e curato da Giovanni Mercati). Cfr. anche PASINI, Achille Ratti bibliotecario cit., pp. 54, 61 nt. 26. 227 Il 22 maggio 1917, nel corso di una seduta del Congresso, si notò che Ratti, con la collaborazione di Angelo Mercati e Luigi Santi, aveva terminato «una rassegna a fondo di tutti i locali e di tutti gli scaffali della Biblioteca, constatando che c’è ancora del posto utilizzabile», Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, s.n°; 22 maggio 1917], f. 153v.
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te adeguata per gli artefici del catalogo unico — che il pontefice, da una posizione nuova e determinante, avrebbe contribuito a risolvere e soddisfare, in primis attraverso il rapporto con la biblioteconomia americana con i finanziamenti del Carnegie Endowment for International Peace228. Se dunque le opere della prefettura vaticana possono apparire un sentiero interrotto (ma non vi è dubbio che «la fusione dei numerosi cataloghi degli stampati» sia «la maggiore opera da lui intrapresa»229), si dovrà considerare che per buona parte esse furono riprese e completate nel periodo pontificale. Con Pio XI veramente la Vaticana entra nella modernità e chiude il ciclo di rinnovamento inaugurato da Leone XIII. In questa seconda fase della modernizzazione della Vaticana Pio XI affiancò al bibliotecario erudito Giovanni Mercati, riproposizione del modello «all’antica» di Antonio Ceriani, un altro bibliotecario, «moderno», Eugène Tisserant, diverso da Mercati quanto Ratti lo era stato da Ceriani. Puntò su entrambi, sentendoli diversamente ma ugualmente necessari allo sviluppo dell‘istituzione. Ma forse, con la preferenza manifestata per il primo nella successione del 1919, Achille Ratti mostrò ancora una volta la sua idea di Vaticana, biblioteca di manoscritti, istituzione erudita e assolutamente unica e particolare anche nel «moderno» consesso mondiale delle biblioteche. La «cambiale scontata prima di presentarsi ufficialmente allo sportello», la «breve meteora» nella prospettiva della storia appare più realisticamente un’ulteriore, importante tappa nello sviluppo della Vaticana. La quale certo rimase sempre nel cuore di Ratti o, meglio, lo catturò per sempre. Remigio Sabbadini riferisce un aneddoto narratogli da Gerardo Molfese, uno dei protagonisti delle riproduzioni fototipiche dei manoscritti vaticani nei primi decenni del XX secolo. A un gruppo di persone che domandava la consegna di alcuni fogli di un manoscritto virgiliano in parte in Vaticana in parte in altra biblioteca, per riunirne i disiecta membra, Ratti avrebbe risposto: «Impossibile. Tutto ciò che entra qui non n’esce più. Ci sono entrato anch’io e non n’esco più»230. Entrato in Vaticana nel 1912, Ratti in qualche modo non ne è veramente più uscito, rimanendo per sempre inserito nella storia del suo moderno sviluppo.
228 Sulla vicenda è ora fondamentale il volume di MATTIOLI HÁRY, The Vatican Library cit. 229
Nel cinquantesimo di Studi e testi cit., p. 11. GALBIATI, Papa Pio XI cit., pp. 81-82. Il manoscritto dovrebbe essere il Virgilio Augusteo, Vat. lat. 3256, del quale quattro ff. sono conservati in Vaticana, mentre altri tre sono a Berlino (Berlin, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, Lat. fol. 416). Del manoscritto fu allestito un facsimile nel 1926, con prefazione di Sabbadini; si può quindi ipotizzare che l’episodio risalga circa a quell’anno. 230
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APPENDICI I. Dichiarazione di Achille Ratti al Congresso della Biblioteca Vaticana (26 gennaio 1915) Il testo è in Biblioteca Vaticana, Arch. Bibl. 162 [verbali delle adunanze del Congresso direttivo, n° 172; 26 gennaio 1915], f. 129r-v.
«Sebbene la prima volta che ho l’onore di sedere in questo posto al Congresso, non ho bisogno di presentazione né di autopresentazione. Sono una cambiale scontata prima di presentarsi ufficialmente allo sportello. Nulla dirò nel merito di una successione che io non ho voluto, che ho cercato, quanto era in me, d’impedire e di allontanare, non perché non ne sentissi come bibliotecario tutto il fascino e, come sacerdote, tutta la nobile attrattiva, ma perché — oltre i distacchi che mi costava — mi esponeva un’altra volta al pericolo di succedere ad un ottimo231, io misero, e al pericolo ancor più grave di cooperare, sia pure passivamente, a mal provvedere a una istituzione così importante, ricca di così gloriose tradizioni e così gloriosamente avviata. Ma appunto il magnifico avviamento — dopo l’acquisita certezza della volontà di Dio e la benevolenza con la quale gli scrittori e tutti gli addetti alla Vaticana secondarono quella del P. Ehrle che mi proponeva, del S. Padre che mi chiamava e di due E.mi Bibliotecari — il compianto card. Rampolla e S.E. il card. Cassetta — che gareggiavano meco di paterna bontà, questa benevolenza m’infuse il coraggio di cui avevo tanto bisogno. E questa benevolenza — dopo l’aiuto di Dio, in cui confido — mi è anche il migliore affidamento per l’avvenire, come mi assicura della più valida cooperazione. Dico per l’avvenire, perché per il passato, per questo passato di ormai tre anni, sento di aver fatto qualche cosa per la Vaticana: le ho conservato per tre anni la presenza del P. Ehrle e, con la presenza, il beneficio dell’opera e del prestigio. Se non ostante tutta quella benevolenza e quella cooperazione non sarò riuscito a far altro, prego col mio, col nostro Manzoni, di credere che non l’ho fatto apposta».
231 Il pericolo della successione a un «ottimo» era già stato messo in luce da Ratti nella lettera, da Milano, a Giovanni Mercati, del 10 marzo 1907: «Pensi: non è un’ora che anche a Lei [scil.: la mia buona vecchia Mamma], a costo di menomarle il gaudio materno, ripetevo che pur troppo, dopo tutto, alla sciagura del perdere un tale padre vero mi si aggiungeva quella del succedere minimo ad un sommo [...]», VIAN, Una illustre successione cit., p. 387 [149]. Ringrazio mons. Cesare Pasini, prefetto della Biblioteca Vaticana, per avermi ricordato il significativo parallelo/anticipazione. Il motivo era comunque ricorrente, come mostra la già citata lettera di Ratti a van Ortroy del 27 febbraio 1912 (cfr. supra, nt. 20).
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II. Presentazione delle Pubblicazioni della Biblioteca Apostolica Vaticana (1915)232 Il testo è anonimo ma è sicuramente riconducibile ad Achille Ratti per lo stile, per motivi cronologici, e già per precedenti attribuzioni233. Dell’opuscolo esistono edizioni in due formati; si tratta del primo catalogo delle pubblicazioni della Vaticana; precedentemente esistevano solo foglietti di annunzi bibliografici (l’originale di uno di questi, del 1902, apparentemente il primo in assoluto, si trovava in Posizione Scambi presso la Segreteria dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 14 giugno 1902; informazione dedotta da nota dattiloscritta acclusa all’opuscolo Pubblicazioni; ma anche nota manoscritta su opuscolo del 1911). Seguiranno altre realizzazioni analoghe (1918, 1921, 1924, 1929, con annunci bibliografici cumulativi o singoli; una serie di questi, con le due copie di Pubblicazioni, si trova in Biblioteca Apostolica Vaticana, Z810.R75B) ma nessuna di esse presenterà un’introduzione ragionata come quella di Ratti; che rappresenta un unicum nel panorama delle iniziative editoriali della Vaticana, almeno sino al volume del 1937 (Pubblicazioni della Biblioteca Apostolica Vaticana, [a cura di N. VIAN], Città del Vaticano 1937). Ciò che colpisce, nella lucida introduzione di Ratti, è la capacità di dare un ordine e un senso a iniziative che erano probabilmente nate senza un coordinamento, solo dalla volontà di rendere di pubblico dominio i tesori della Biblioteca e di altri istituti vaticani.
Il Sommo Pontefice Leone XIII di f.m., che schiudeva ai cultori della scienza storica l’Archivio Segreto Vaticano, provvedeva pure, a vantaggio generale dei buoni studi, alla riorganizzazione della Biblioteca Apostolica (da lui arricchita delle collezioni Borghese e Barberiniane), e la dotava di una scelta sala di consultazione, prezioso strumento di lavoro per lo studio così de’ manoscritti della Biblioteca come dei documenti dell’Archivio; non contento di questo, ordinava che venissero pubblicati per le stampe i Cataloghi de’ manoscritti ed altre opere atte a far conoscere ed illustrare i tesori letterari, scientifici, artistici della Biblioteca e ciò mercè lo studio e l’opera degli Scrittori della Biblioteca stessa, dei quali volle accresciuto il numero e migliorata la scelta. Come Leone XIII aveva rinnovata e continuata l’opera di molti tra i suoi predecessori (segnatamente Paolo III, Pio IV, Sisto V, Benedetto XIV) che intrapresero grandiose pubblicazioni appoggiandole alla Biblioteca Vaticana ed ai suoi ufficiali, così i successori di Leone, Pio X di s.m. e Benedetto XV felicemente regnante, hanno voluto e vogliono continuata e sviluppata l’opera provvida del glorioso predecessore facendola propria e largamente favorendola. Frutto di quest’opera sono le pubblicazioni, delle quali le seguenti pagine danno l’elenco e lo stato presente. Il frutto comparirebbe anche maggiore, se fin dal principio gli istituti pontifici avessero assunte e coordinate non poche pubblicazioni cu232 Pubblicazioni della Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1915, pp. 16. 233 Già GALBIATI, Papa Pio XI cit., p. 314; I libri editi della Biblioteca Vaticana cit., p. 162; e Nel cinquantesimo di Studi e testi cit., p. 12, avevano ricondotto alle cure di Ratti il catalogo dei libri editi dalla Vaticana, ove «i criteri e i programmi dei diversi gruppi di pubblicazioni erano chiaramente esposti», ibid. Cfr. supra.
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PAOLO VIAN
rate dal loro personale, che precedettero le odierne, come ad esempio: i Regesti234, lo Spicilegio Vaticano235, il Muratori236, l’Appartamento Borgia237 e varie edizioni fototipiche anteriori al 1900238. Le pubblicazioni sono elencate in ordine cronologico e distribuite in sei gruppi, secondo la varietà dei soggetti e del modo di pubblicazione. Vuol essere subito notato che delle pubblicazioni del II gruppo l’iniziativa venne condivisa dalla Direzione de’ Musei e delle Gallerie Pontificie e dalla Prefettura dei Sacri Palazzi Apostolici. Ed è pur giusto e grato ricordare che parecchi illustri scrittori estranei alla Biblioteca hanno concorso e concorrono alle sue pubblicazioni: il loro nome e la loro competenza onorano l’opera della Vaticana e ne attestano il credito scientifico, mentre sono l’omaggio più bello all’opera provvida e liberale della Santa Sede. Il I gruppo comprende riproduzioni fototipiche dei codici manoscritti più famosi e più importanti per la loro antichità, per il pregio singolare del testo o delle miniature. Ogni riproduzione è accompagnata da una introduzione storico-critica e da una illustrazione del rispettivo codice e del suo contenuto. Il gruppo, prestante
234 Dopo l’apertura leonina dell’Archivio Segreto alla consultazione degli studiosi, molteplici furono le iniziative di pubblicazione di regesti di documenti pontifici, cfr. le indicazioni raccolte in O. PONCET, Les entreprises éditoriales liées aux Archives du Saint-Siège. Histoire et bibliographie (1888-2000). Préface de L. FOSSIER, Rome 2003 (Collection de l’École française de Rome, 318), pp. 187-266 (per il periodo medievale). Un primo bilancio già in Leone XIII e la pubblicazione dei regesti vaticani, in La civiltà cattolica, ser. XII, 8 (1884), pp. 32-51. 235 Spicilegio Vaticano di documenti inediti e rari estratti dagli archivi e dalla biblioteca della Sede Apostolica. Fondata da alcuni archivisti e bibliotecari vaticani con l’approvazione del card. Joseph Hergenröther, prefetto degli Archivi Vaticani, uscita con periodicità irregolare nel 1890, la rivista, edita a Roma da E. Loescher, era eminentemente rivolta alla pubblicazione di documenti inediti. Ne curavano la redazione Isidoro Carini, il benedettino Gregorio Palmieri, Giuseppe Salvo Cozzo. Fu continuata da Il Muratori, cfr. O. MAJOLO MOLINARI, La stampa periodica romana dell’Ottocento, II, Roma 1963, p. 902; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., p. 250 nt. 83. 236 Il Muratori. Raccolta di documenti storici inediti o rari tratti dagli archivi italiani pubblici e privati. Bimestrale (ma senza osservare la norma periodica), la rivista si ricollegava all’esperienza dello Spicilegio Vaticano e contava quindi sull’opera di archivisti e bibliotecari vaticani, fra i quali Isidoro Carini, Giuseppe Cozza-Luzi, Alfredo Monaci, Gregorio Palmieri. Fu pubblicata a Roma, dalla Tipografia Vaticana, fra il 31 maggio 1892 e il 1° ottobre 1895. Il periodico doveva essere assorbito dalla Rivista di scienze ecclesiastiche che Carini andava preparando ma che non uscì per la morte improvvisa dell’ecclesiastico siciliano (25 gennaio 1895), cfr. MAJOLO MOLINARI, La stampa periodica romana cit., II, p. 638; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque cit., p. 250 nt. 83. 237 L’Appartamento Borgia, che Leone XIII aveva aperto alla pubblica fruizione, era stato oggetto di diverse pubblicazioni illustrate: a cura di Angelo Mazzoni (1881), Salvatore Volpini (1887, 1897), Alessandro Ghignoni (1907). 238 Per le diverse edizioni fototipiche promosse dalla Vaticana e dalla Santa Sede prima del 1900, cfr. Guida ai fondi manoscritti, numismatici, a stampa della Biblioteca Vaticana, a cura di F. D’AIUTO e P. VIAN, I: Dipartimento Manoscritti, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 466), pp. 306-307, 318-320.
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anche per la grandezza dei formati e per la veste tipografica, conta già 15 numeri e 4 sono in preparazione. Il II gruppo è di pubblicazioni destinate a far conoscere ed illustrare con opportune riproduzioni ed introduzioni le collezioni archeologiche, artistiche e numismatiche come della Biblioteca così de’ Musei, delle Gallerie e degli Appartamenti Pontifici. Il gruppo veramente monumentale anche nell’allestimento esteriore delle pubblicazioni, è al suo 8° numero e 3 si preparano. Nel III gruppo si vengono pubblicando, riprodotte da esemplari unici e rari, sei piante maggiori di Roma del secolo XVI e XVII, la grande veduta del Tempio e del palazzo vaticano di Maggi-Mascardi (1615) e la Mappa della Campagna Romana del 1547; le riproduzioni sono accompagnate da studiate ed esaurienti introduzioni. Vengono nel IV gruppo i Cataloghi dei manoscritti, la più vasta, la più difficile e la più laboriosa delle pubblicazioni qui elencate; sarà certamente la più lunga, ma anche la più necessaria e la più profittevole all’uopo di rendere noti ed utili agli studiosi i materiali conservati nella Vaticana; estesa con metodo uniforme e rigorosamente scientifico a tutti i fondi e a tutta le serie, questa pubblicazione viene fondendo in un corpo unico e di gran lunga perfezionando i numerosi e varî cataloghi manoscritti e stampati già esistenti. Si sono pubblicati 15 volumi, 5 altri sono in lavoro. Il V gruppo, Studi e testi, è riservato alle pubblicazioni di documenti e testi inediti che nei cataloghi non potrebbero venire se non troppo sommariamente o troppo tardi indicati e che d’altra parte meritano di essere conosciuti e studiati nella loro integrità. Sono usciti 26 volumi. Il VI gruppo accoglie le pubblicazioni di carattere occasionale e che non fanno parte di lavori sistematici come le precedenti.
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Serafini Comm. Camillo
Kanzler B.ne Rodolfo
Nogara Comm. Bartolomeo
Calenzio P. Generoso
Marucchi Comm. Orazio
3.
4.
5.
6.
7.
fu Raffaela Improta fu Virginia Cecconi
fu Temistocle
fu Giulia Vitali
fu Giovanni
fu Antonio
fu Laura Vannutelli
fu Costanza Di Pietro
fu Ermanno
fu Luigi
Ratti Mons.r fu Francesco di Teresa Galli Achille
fu Berta Frölich
2.
fu Francesco
Cognome e Nome della Madre
Ehrle P. Francesco
Paternità
1.
Cognome e Nome
10 novembre 1852
30 ottobre 1836
28 aprile 1868
7 maggio 1864
21 aprile 1864
31 maggio 1857
17 ottobre 1845
Data Nascita
Roma
Napoli
Bellano
Roma
Roma
Desio
Isny
Luogo di nascita
Anno 1914
Via S.ta Maria in Via, 7A
Via Chiesa Nuova, 14
Via Vittoria Colonna, 40
P.zza Sforza Cesarini, 46
Corso Vittorio Em.le, 24
Vaticano
Vaticano
Domicilio
"
Scrittore
Custode Museo Profano Scrittore
Prefetto del Museo Cristiano
Custode del Gabinetto Num.co
Viceprefetto
Prefetto
Grado nell’Ufficio
Osservazioni
Per rappresentare la composizione del personale, scientifico ed esecutivo, della Biblioteca Vaticana durante la prefettura di Ratti, sono qui pubblicati gli organigramma del primo e dell’ultimo anno della prefettura, ricavandoli da Arch. Bibl. 103 (Registro del personale della Biblioteca Vaticana, dal 1885 al 1925), ff. 28v-30r, 38r-40r.
III. Personale della Biblioteca Vaticana negli anni 1914-1919
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di Gio. Battista
fu Filippo
fu Pasquale
fu Domenico
Vattasso Mon. Marco
11. Carusi D.r D. Enrico
12. Cerrati Prof. D. Michele
Mercati Prof. D. Angelo
Franchi de’ Cavalieri Comm. Pio
Legrelle Mons. Stanislao
Pelzer Ab.te Augusto
Tisserant Ab.te Eugenio
10.
13.
14.
15.
16.
17.
di Maria Giuseppa Demoulin di Ottavia Connard
di Augusto
d’Ippolito
24 marzo 1884
28 dicembre 1876
12 giugno 1874
di Adelaide, C.ssa de Villegas de S.t Pierre Fette
fu C.te Stanislao
6 ottobre 1870
11 maggio 1884
1 febbraio 1878
20 maggio 1869
17 dicembre 1866
Nancy
Aquisgrana
Anversa
Veroli
Villa Gaida
Alessandria
Pollutri
Trinità
Villa Gaida
Via S.ta Chiara, 42
Via del Sudario, 40
""
"“
""
Scrittore onorario
P.zza Cairoli N. 113 Salita S. Onofrio, 37
"
"
"
"
"
"" [Scrittore]
Salita S. Onofrio, 37
Viale Angelico, 100
Salita S. Onofrio, 37
P.zza Rusticucci, 18
Salita S. Onofrio, 37
28 febbraio 1849 Secondiglia- Canonica di no S. Pietro
31 agosto 1869
fu Giuseppina Montipò
di Clara Fornaro
di Gaetanina Giuliani
di Maria Quaranta
fu Giuseppina Montipò
fu Maria Giuseppa Murolo
fu Polissena Borgogelli
fu Gio. Andrea
fu Domenico
Mercati Mons. Giovanni
9.
fu Angelantonio
Stornajolo Mons. Cosimo
8.
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Féron D. Ernesto
Franco D. Nicola
Monaci Alfredo
21.
22.
23.
25.
fu Caterina Ammaccapane
fu Rosa Panunzi
fu Anastasia Pravatà
23 luglio 1859
24 febbraio 1858
21 gennaio 1836
Via Vittoria, 20
Borgo S. Angelo, 112
Via del Sudario, 40
S. Arsenio
Castel S. Pietro
Mezzoiuso
Via degli Appennini, 32
Via Porta Angelica, 1
Via Bresciani, 36, p. 1240
Via Tritone, 61
S. Quentin Vicolo S. des Près Pancrazio, 7239
Roma
Roma
Courtrai
Indicazione numerica corretta, con espunzione fra parentesi di quella precedente: 4.
fu Arsenio
fu Anacleto
fu Salvatore
8 dicembre 1849
agosto 1836
7 maggio 1846
25 settembre 1883
Dimessosi da Assistente V. Lettera Prefettura dei SS. PP. 6 aprile 1914 Nominato 28 giugno 1882 Autorizzato a farsi supplire - 23 maggio 1888
Segretario
Nominato 29 marzo 1914 Scrittore onorario aggiunto V. Lett. Segr. di Stato N. 70255
"
"
"
"
Assistente
Assistente
"" [Scrittore onorario]
240 Indicazione supplita nella colonna delle Osservazioni con depennamento, in quella del Domicilio, della precedente: Via Condotti, 75.
239
Zucchetti Licurgo
24. Sacco Mons. Antonio
fu Clementina Gosuel
fu Antonio
Torriani Cav. Francesco
20.
fu Teresa Fournier
fu Geltrude Fidanza
fu Gioacchino
Saraceni Cav. Mariano
19.
fu Carlo
di Francesca Vinkenbosch
di Alberto
18. Liebaert Ab. Paolo
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Rossi Luigi
Faggiani Giuseppe
35.
fu Angelo Maria
fu Alessandro
di Vincenzo
fu Geltrude Regis
fu Carolina Celsi
di Lucia Casini
fu Caterina Deutsch
fu Maria Rulli
Ma l’indicazione è depennata.
Volpi Augusto
34.
241
Morganti Luigi
33.
32. Silli Settimio fu Francesco
fu Michele
fu Giovanna Trenta
5 settembre 1876
8 agosto 1868
5 settembre 1875
13 marzo 1881
27 agosto 1873
2 aprile 1850
Via delle Mura Gianicolensi, 19 Via Sebastiano Veniero, 5
Capodimonte
Via Tordinona, 25
Borgo Vittorio, 81
Borgo Nuovo, 33
Via Ottaviano, 122
Via del Villano, 6241
Roma
Roma
Roma
Roma
Roma
Roma
31.
fu Rinaldo
24 maggio 1873
Bizzarri Achille
fu Anna Reggiani
""""
""""
""""
""""
""""
Bidello di 1a classe
Decano dei Bidelli
V. Segretario
30.
fu Cesare
P.zza Farnese N. 101
Federici Paolo
Riofreddo
29.
25 marzo 1859
Presutti Domenico
28.
fu Rosa DiPietro
""
Viale Garibaldi, 33 (Bosco Parrasio)
De Nunzio Comm. Ulisse
27.
fu Francesco
Scrittore emerito
Via Gesù e Maria, 7
26. Tolli Comm. Filippo
V. Rescritto della Prefettura dei SS. PP. del 23 dec.bre 1914
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D’Amati Gioacchino Del Re Achille Labella Mariano
Castellani Augusto
Castellani Enrico
D’Agostini Alfredo
37.
40.
41.
42.
fu Giulio
fu Alessandro
fu Alessandro
di Angelo
di Nicola
di Filippo
fu Giovanni
fu Maria Rubeo
fu Adelaide Coletti
fu Adelaide Coletti
di Lucia Labella
di Agnese Pietrantoni di Luisa Seni
di Natalina Turella
8 gennaio 1887
31 dicembre 1874
14 aprile 1863
1 settembre 1883
31 ottobre 1881
16 marzo 1875
24 ottobre 1889
Roma
Roma
Roma
Vindoli di Leonessa
Roma
Roma
Roma
Via della Sapienza 32a Via Attlio Regolo 19 – Int. 13244
"
"
Via " " IIIa " Famagosta [Bidello di N. 8 scala 5a IIIa classe] Int. 2242 """" P.zza S. Marta, 4 Via Banchi """" Vecchi, 22 """" Pal.zzo Vaticano (presso M.r Caccia Dominioni) Legatore243 Via Santamaura, 46 V. Lettera della Prefettura dei SS. PP. AA. N. 950 - 28 novembre 1913 (Aumento stipendio)
242 Indicazione supplita nella colonna delle Osservazioni per sostituire l’indicazione Borgo Vecchio, 4A, depennata nella colonna del Domicilio. Nella colonna delle Osservazioni in un primo momento era stato indicato: Via Santamaura 86, Int. 4 Scala A. 243 In calce, con un segno di richiamo, è indicato: Morto il 25 aprile 1914. 244 Indicazione soprascritta a una precedente (Via della Sapienza, 32 e), depennata.
39.
38.
Bignoli Bartolomeo
36.
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7.
6.
5.
4.
3.
2.
1.
Casadei Dino
44.
d’ignoti
di Augusto
di Giulia Gualdi 22 settembre 1856
29 ottobre 1897
Cognome e Nome della Madre fu Francesco fu Teresa Galli
Paternità
Data di Nascita
Ratti Mons. 31 maggio 1857 Achille Serafini fu Luigi fu Costanza Di 21 aprile 1864 Comm. Pietro Camillo Kanzler B.ne fu Ermanno fu Laura 7 maggio 1864 Rodolfo Vannutelli Nogara fu Giovanni fu Giulia Vitali 28 aprile 1868 Comm. Bartolomeo Marucchi fu fu Virginia 10 novembre Comm. Temistocle Cecconi 1852 Orazio fu Maria 28 febbraio 1849 Stornajolo fu Angelantonio Giuseppa Mons. Murolo Cosimo Mercati fu Domenico fu Giuseppina 17 dicembre Mons. Montipò 1866 Giovanni
Cognome e Nome
Rimini
Roma
Vaticano
Canonica di S. Pietro Vat.
Secondigliano Villa Gaida
S.ta Maria in Via N. 7.A
Corso Vittorio Em.le, 24 P.zza Sforza Cesarini, 46 Via Vittoria Colonna, 40
Vaticano
Domicilio
Custode Gabinetto Num.co Id. Museo Cristiano Id. Museo Profano e Scrittore
Prefetto
Grado nell’Ufficio
Visitatore Apost.co in Polonia
Osservazioni
Via legatore fin d’ottobre 1913 Santamaura, apprendista 46 Borgo Facchino Nuovo, 122
Roma
Bellano
Roma
Roma
Desio
Luogo di nascita
Anno 1919
1914. 3 gennaio - L’E.mo Cassetta nominato Bibliotecario.
Castellani Renato
43.
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Carusi Mons. Enrico
9.
18. Torriani Cav. Francesco
fu Antonio
fu Clementina Gosuel
fu Rosa DiPietro
agosto 1836
25 marzo 1859
Roma
Riofreddo
Via Vittoria, 20
P.zza Farnese, 101
Presutti Domenico
17.
fu Francesco
Via degli Appennini, 32
Zucchetti Licurgo
Via Sta Chiara, 42
Via del Sudario, 40
Salita S.t’Onofrio, 37
P.zza Cairoli N. 113
Viale Angelico N. 100
Vaticano
P.zza Rusticucci, 18
16.
Nancy
Aquisgrana
28 dicembre 1876 24 marzo 1884
Anversa
Veroli
12 giugno 1874
31 agosto 1869
Alessandria
Pollutri
Trinità
Via Gesù e Maria, 7
Ottavia Connard
di Maria Giuseppe De Moulin
di Adelaide C.ssa de Villegas de S.t-Pierre-Fette
fu Polissena Borgogelli
11 maggio 1884
1° febbraio 1878
20 maggio 1869
15. Tolli Comm. Filippo
fu Ippolito
14. Tisserant Ab. Eugenio
fu Conte Stansilao
di Augusto
Le Grelle Mons.re Stanislao
12.
fu Giov. Andrea
" Clara Fornaro
di Gaetanina Giuliani
fu Filippo
fu Pasquale
fu Maria Quaranta
fu Gio. Battista
13. Pelzer Mons. Augusto
Franchi de’ Cavalieri Pio
11.
10. Cerrati Prof. D. Michele
Vattasso Mons. Marco
8.
Assistente
Segretario Econ.
Segretario emerito
V. (c.s.) Lett. Pref. 30 maggio N. 288
Giubilato - V. Pref. SS. PP. - 30.V. N. 288 † Morto in Roma 11 gennaio 1922
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Santi D. Luigi Federici Paolo Bizzarri Achille
Rossi Luigi
20.
23.
fu Michele
fu Rinaldo
fu Cesare
di Giuseppe
fu Anacleto
Faggiani Giuseppe D’Amati Gioacchino Del Re Achille Labella Mariano
27.
245
30.
29.
di Angelo
di Nicola
fu Angelo Maria di Filippo
fu Alessandro
di Vincenzo
di Lucia Labella
fu Geltrude Regis di Agnese Pietrantoni di Luisa Seni
fu Carolina Celsi
fu Caterina Deutsch di Lucia Casini
fu Maria Rulli
fu Elisabetta Cesari fu Anna Reggiani fu Giovanna Trenta
fu Rosa Panunzi
1° settembre 1883
31 ottobre 1881
5 settembre 1876 16 marzo 1875
8 agosto 1868
5 settembre 1875
13 marzo 1881
27 agosto 1873
2 aprile 1850
24 maggio 1873
26 aprile 1874
24 febbraio 1858
Via " Bresciani, [Assistente] 36, p.p. zza P. Scossa" cavalli, 18245 Via della Decano dei Zecca, 3 Bidelli Via Bidello di Ia Giordano Bruno, 9, pp Borgo """ Nuovo, 31
Vindoli di Leonessa
Roma
Roma
Borgo Nuovo, 81 Via Banchi Vecchi, 22 Vaticano
""""
""""
" " II. Cl.
Via Fabio """ Massimo, 72 Roma Via del Bidello di I. Governo Cl. Vecchio, 9 Roma Via Mura """" Gianicolensi N. 14 Capodimonte Vaticano """"
Roma
Roma
Roma
Roma
Fiumalbo
Castel S. Pietro
Giubilato col 1° Dicembre V. nota Pref. SS. PP. - 29 Nov. N. 567
Indicazione aggiunta nella colonna delle Osservazioni dopo aver depennato, in quella del Domicilio: Canonica S.to Spirito in Sassia.
Volpi Augusto
26.
28.
Morganti Luigi
25.
24. Silli Settimio fu Francesco
22.
21.
Monaci Alfredo
19.
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Facchini Amedeo
Castellani Enrico
D’Agostini Alfredo
32.
33.
34.
fu Giulio
fu Alessandro
fu Egisto
di Paolo
Karalevskyi P. Cirillo
Borino D. Gio. Batt.
37.
38.
di Vincenzo
fu Paolo
d’ignoti
di Maria Facchini
fu Maria (Eugenia) Harmond
fu Maria Castellani
fu Maria Rubèo
fu Adelaide Coletti
di Francesca Baldassari
di Angela Gianginguanta
8 dicembre 1881
16 dicembre 1878
22 settembre 1856
7 giugno 1882
8 gennaio 1887
31 dicembre 1874
13 marzo 1884
4 febbraio 1879
Palestro (Pavia)
Caen (Francia)
Rimini
Roma
Roma
Roma
Lugo (Rav.)
Vindoli di Leonessa
Via Marsala, 42
Via Vespasiano, 10 - Sc. IV Int. 10
Borgo Nuovo, 122
Via Bodoni, 82
Via Vespasiano, 12 - Scala 7a
Via della Sapienza, 32A
Via Germanico, 216
Viale della Regina, 87
N.B. 23. marzo 1919 - † Morte dell’E.mo Card.l Cassetta Bibliotecario di S.R.C. 9 maggio 1919 Nomina dell’E.mo Card.l Aidano Gasquet a Bibliotecario di S.R.C.
Casadei Dino
36.
35. Magliocchetti fu Benedetto Arbo
Pasquali Giuseppe
31.
Assistente
Facchino
"
"
Legatore
""""
" " III. " [Bidello di IIIa classe]
Nominato Scrittore 29 ott. 1919 Segr.ia di Stato N. 98011
Nominato 28 marzo 1919, con decorrenza dal 1° (V. Lett. Pref. N. 131)
Nominato 27 genn. 1919 - (V. Pref. 42) con diritto alla precedenza su Facchini
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«UNA CAMBIALE SCONTATA»
IV. Ammissione di studiosi in Biblioteca Vaticana durante la prefettura di Achille Ratti (1914-1918) I dati sono ricavati da Arch. Bibl., [Registri di ammissione allo studio], 3-4. Le denominazioni delle nazionalità riflettono in linea di massima quelle indicate dagli studiosi. 239240241242
Nazionalità
1914-1915 1915-1916 1916-1917 1917-1918 1918-1919 N u m e r o complessivo per nazionalità
Abissinia
–
–
1
–
–
1
Albania
1
–
1
–
–
2
Armenia
–
3
–
1
1
5
Austria
2246
–
–
–
–
2
Baviera
1
–
–
–
–
1
Belgio
2
1
2
3
1
9
Brasile
–
–
1
–
–
1
Boemia
–
–
–
–
1
1
Bulgaria
–
–
1
1
–
2
Caldea
–
1247
1248
2249
–
4
Canada
1
–
–
–
–
1
Dalmazia
1
–
–
1
–
2
Danimarca
–
1
–
–
–
1
Egitto
–
–
–
–
1
1
Estonia
–
–
–
–
1
1
Finlandia
2
1
1
–
1
5
Francia
14
8
11
8
16
57
Germania
7
–
1
–
–
8
Grecia
–
–
–
–
1
1
Inghilterra
3
3
–
2
4
12
Irlanda
–
2
2
1
–
5
246 I due studiosi qui considerati austriaci, Onorio Fasiolo e Guglielmo Bertagnolli, si presentano in realtà come italo-austriaci. 247 Così si presenta Paolo David, ammesso il 24 gennaio 1916. 248 Così si presenta Paolo David, ammesso il 10 ottobre 1916. 249 Così si presentano Jacques Manna, ammesso il 3 dicembre 1917, e Paolo David, ammesso il 20 febbraio 1918.
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PAOLO VIAN
Nazionalità
Italia
1914-1915 1915-1916 1916-1917 1917-1918 1918-1919 N u m e r o complessivo per nazionalità 104
89
95
75
80
443
Libano
4
1
–
1
–
6
Lituania
–
1
–
–
–
1
Olanda
2
3
2
–
1
8
Polonia
1
–
–
–
1
2
Portogallo
–
–
1
–
–
1
Romania
–
–
–
–
1
1
Russia
1
2
2
1
2
8
Scozia
1
–
–
–
–
1
Serbia
1
1
1
–
–
3
Siro-Maronita
–
1250
–
–
–
1
Slesia
1
–
–
–
–
1
Slovenia
–
–
1
–
1
2
Spagna
3
3
4
7
1
18
Stati Uniti d’America
4
7
10
1
–
22
Svezia
–
–
–
–
1
1
Svizzera
2
1
1
–
1
5
Turchia
1
–
–
–
–
1
Ungheria
2
–
–
–
–
2
Totale
161
129
139
104
117
650
Uomini
161
114
120
80
101
576
40
38
25252
31
34253
168
–
15
19
24
16
74
[Sacerdoti o religiosi]251 Donne 243244245246 250 251
Così si presenta Giorgio Shallita, ammesso il 25 ottobre 1915. Quando il dato è esplicitamente dichiarato o altrimenti noto al compilatore della ta-
bella. 252 A essi può essere in qualche modo aggiunto il rabbino Salomone Perugia, di Roma, ammesso il 21 novembre 1916, per lo studio dei «Manoscritti ebraici». 253 A essi può essere in qualche modo aggiunto il rabbino Gustavo Calò, di Firenze, ammesso il 3 giugno 1919, per lo studio dei «Codici Ebraici».
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Tav. II – Biblioteca Apostolica Vaticana, R.G. Storia III.4002 (int. 7): pagina iniziale del primo catalogo delle pubblicazioni della Biblioteca Vaticana (1915), con testo riconducibile ad Achille Ratti.
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INDICE DEI MANOSCRITTI E DELLE FONTI ARCHIVISTICHE
Aberystwyth, National Library of Wales 735 C 76, 78 Amsterdam, Stadsarchief Inv. 169, n. 457, 1
594, 603 tav. V
Athos, Μονὴ Βατοπεδίου 236
645
Barcelona, Arxiu de la Corona de Aragô olim Ripoll 37 57, 72 Ripoll 42 72 Ripoll 59 84, 85 Ripoll 74 84, 85 Ripoll 106 70-71,106 tav. XIII Ripoll 225 84 Basel, Universitätsbibliothek AN IV 11 AN IV 18 AN VI 37
614 76 151
Berlin, Staatsbibliothek-Preussischer Kulturbesitz Lat. fol. 416 853 Phill. 1833 (Rose 138) 80 Bruxelles, Bibliothèque royale 7797-806 9049-9050 9094 II 942 (olim Phillipps 336)
150 156 156 150
Budapest, Széchényi-Nationalbilbiothek lat. 489 520, 532 Caen, Bibliothèque municipale ms. 33
119
Cambrai, Bibliothèque municipale 804
150
Cambridge, Trinity College O.3.7
614
Cesena, Biblioteca Comunale Malatestiana Piana 3.150 150 Châlons-sur-Marne (ora Châlons-en-Champagne), Bibliothèque municipale 217 150
Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano Diaria Basilicae Vaticanae 1-10 39-40, 41 Fondo Bolognetti 297 27 Misc. Arm. II.35 27-33, 43 tav. I Misc. Arm. X 204 708 Reg. Vat. 6 848 – Biblioteca Apostolica Vaticana Arch. Barb., Comp. 305 11, 19 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1698, n. 128 8 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 18 11 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 45 13 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 84 19 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 93 16 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 101 13, 16 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 102 17 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 103 18 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 104 18 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 105 18 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 106 14 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 107 14 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 108 16 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 111 13 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 116 16 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 128 13 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 165 13 Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. I, fasc. 183 13
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INDICE DEI MANOSCRITTI
Arch. Barb., Giust. card. Carlo 1702, t. II, fasc. 213 9, 15, 19, 20 Arch. Bibl. 9 472, 474, 475, 480, 482, 483 Arch. Bibl. 14 497 Arch. Bibl. 37 483 Arch. Bibl. 38 483 Arch. Bibl. 52 730 Arch. Bibl. 57 182 Arch. Bibl. 60 770 Arch. Bibl. 103 813, 824, 858 Arch. Bibl. 115 478, 480, 484, 834, 836, 850 Arch. Bibl. 116 836 Arch. Bibl. 160 836 Arch. Bibl. 162 807, 808, 809, 810, 811, 812, 813, 814, 815, 816, 817, 818, 819, 820, 821, 822, 823, 827, 828, 829, 830, 831, 832, 833, 834, 835, 836, 837, 838, 845, 846, 849, 850, 852, 854, 869 Arch. Bibl. 191 477, 484 Arch. Bibl. 229 (olim Inventari degli Stampati 100) 480 Arch. Bibl., Corrispondenza 19141915 823, 839 Arch. Bibl., Corrispondenza 19151916 811, 823, 829, 839 Arch. Bibl., Corrispondenza 19171920 839 Arch. Bibl., [Registri di ammissione allo studio], 3-4 867 Arch. Cap. S. Pietro C.129 849 Arch. Cap. S. Pietro E.42 151 Arch. Cap. S. Pietro G.13 39 Arch. Cap. S. Pietro, Manoscritti vari 1 37-42, 53 tav. XI Arch. Cap. S. Pietro, Manoscritti vari 2 38 Arch. Cap. S. Pietro, Manoscritti vari 3 38 Arch. Cap. S. Pietro, Manoscritti vari 4 38 Arch. Cap. S. Pietro, Manoscritti vari 5 38 Arch. Cap. S. Pietro, Manoscritti vari 6 38 Arch. Circolo S. Pietro XVI, 4 384, 386, 387, 397 Arch. Circolo S. Pietro XVI, 5 383-423, 430-439 tavv. VII-XVI Autogr. Ferr., Racc. Ferr., ff. 478r-v, 478av 707 Autogr. Ferr., Racc. Ferr., ff. 479r, 479av 710
Autogr. Ferr., Racc. Ferr., ff. 480r480av 713 Autogr. Ferr., Racc. Ferr., ff. 2448r2469r 694 Autogr. Patetta 15, ff. 256-277 706 Autogr. Patetta 15, f. 277r 795 Barb. gr. 336 838 Barb. lat. 1349 837 Barb. lat. 1729 33 Barb. lat. 1780 285-330 Barb. lat. 1804 40 Barb. lat. 2019 33, 40 Barb. lat. 2062 40 Barb. lat. 2163 27-33, 44-47 tav. II-V Barb. lat. 2570 190, 193-194, 199 tav. IV, 200 tav. Va, 201 tav. VIb Barb. lat. 2733 39, 40 Barb. lat. 2756 39, 40 Barb. lat. 4424 818 Barb. lat. 6456 349-381, tavv. I-III Barb. lat. 9084 40 Borg. ar. 112 837 Borg. cin. 406 777 Borg. cin. 423 777 Borg. cin. 475 777 Borg. copt. 136 (1-5) 836 Borg. copt. 137 (1-3) 836 Borg. sir. 54 837 Capp. Sist. 213 194 Carteggi Mercati, cont. 22 827 Carteggi Mercati, cont. 25 839, 840, 841, 842 Carteggi Mercati, cont. 26 833, 840, 841, 842, 843, 844, 851 Carteggi Mercati, cont. 27 835, 840, 844, 845 Chig. G.III.76 189 Chig. R.VIII.54 (gr. 45) 669 Dep. B 223 478 olim Inventari degli Stampati 100 (nunc Arch. Bibl. 229) 480 Ott. gr. 452 669 Ott. lat. 1 764 Ott. lat. 225 122 Ott. lat. 259 781, 786 Ott. lat. 1120 762, 763 Ott. lat. 2015 40 Ott. lat. 2056 786 Ott. lat. 2229 737, 760, 797 Ott. lat. 2284 786 Ott. lat. 2736 762, 763
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INDICE DEI MANOSCRITTI
Ott. lat. 2736-2741 762 Ott. lat. 3181 (pars II) 181, 182, 780 Pal. gr. 360 781, 783, 786 Pal. lat. 50 361 Pal. lat. 244 378 Pal. lat. 555 378 Pal. lat. 580 378 Pal. lat. 581 378 Pal. lat. 833 611-626, tavv. I-II Pal. lat. 854 764 Pal. lat. 1631 739, 746, 751 Pal. lat. 1715 378 Pal. lat. 1772 578-579 Pal. lat. 1957-1973 181 Pal. lat. 1976-1982 181 Pal. lat. 1983-1984 181 Pal. lat. 1988 147-188, tav. I Pal. lat. 1988-1992 181 Pal. lat. 1995 181 Pal. lat. 2031 181 Reg. gr. 17 764 Reg. gr. 117 783 olim Reg. lat. 190 745 Reg. lat. 123 55-87, 88-105 tavv. I-XII, 107-110, tavv. XIV-XVII Reg. lat. 256 331-341, tavv. I-VI Reg. lat. 257 848 Reg. lat. 317 817, 848 Reg. lat. 487 151, 153 Reg. lat. 507 787 Reg. lat. 534 111-145 Reg. lat. 733 782, 787 olim Reg. lat. 751 (nunc Reg. lat. 767) 762 Reg. lat. 767 (olim Reg. lat. 751) 762, 763 Reg. lat. 1281 783 Reg. lat. 1424 782, 787 Reg. lat. 1456 783 Reg. lat. 1488 783 Reg. lat. 1587 787 Reg. lat. 1616 782, 787 Reg. lat. 1659 782, 787 Reg. lat. 1864 787 Reg. lat. 1906 837 Reg. lat. 1914 782 olim Reg. lat. 1964 745, 788 Reg. lat. 2064 40 Sala Cons. Mss. 315 (6) rosso 478, 584 Sala Cons. Mss. 399 (7) rosso 180 Sala Cons. Mss. 440 (1) rosso 706 Sala Cons. Mss. 578 (1-6) rosso 819 S. Offizio 74 479
873
Urb. gr. 2 819 Urb. gr. 82 816, 818, 838, 848, 849 Urb. lat. 302 578-579 Urb. lat. 303 578-579 Urb. lat. 471 836 Urb. lat. 1001-1779 847 Urb. lat. 1154 785 Urb. lat. 1270 838-839 Vat. ar. 13 782, 788 Vat. ar. 29 763 Vat. ar. 109 763 Vat. ar. 142 763 Vat. ar. 166 763 Vat. ar. 167 763 Vat. ar. 169 783 Vat. ar. 183 763 Vat. ar. 250 763 Vat. ar. 251 763 Vat. ar. 255 763 Vat. ar. 258 763, 788 Vat. ar. 266 788 Vat. ar. 267 763, 788, 796 Vat. ar. 268 763 Vat. ar. 269 763 Vat. ar. 270 763 Vat. ar. 271 763 Vat. ar. 272 763 Vat. ar. 275 763 Vat. ar. 276 783 Vat. ar. 277 763 Vat. ar. 278 763 Vat. ar. 279 763 Vat. ar. 282 763 Vat. ar. 285 763 Vat. ar. 286 763 Vat. ar. 292 763, 788 Vat. ar. 293 763, 782 Vat. ar. 306 763 Vat. ar. 307 763 Vat. ar. 308 763 Vat. ar. 309 763 Vat. ar. 310 763 Vat. ar. 312 763 Vat. ar. 317 763, 782, 788 Vat. ar. 318 763, 788 Vat. ar. 323 783 Vat. ar. 324 763 Vat. ar. 328 763 Vat. ar. 329 763 Vat. ar. 330 763 Vat. ar. 342 763 Vat. ar. 343 783
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07-Mar-12 12:34:51 AM
874
Vat. ar. 345 Vat. ar. 358 Vat. ar. 361 Vat. ar. 362 Vat. ar. 368 Vat. ebr. 30-605 Vat. ebr. 453 Vat. estr.-or. 2 Vat. estr.-or. 3 Vat. estr.-or. 7 Vat. estr.-or. 8 Vat. gr. 1 Vat. gr. 1-329 Vat. gr. 1-330 Vat. gr. 14 Vat. gr. 16 Vat. gr. 18 Vat. gr. 20 Vat. gr. 22 Vat. gr. 87 Vat. gr. 100 Vat. gr. 116 Vat. gr. 117 Vat. gr. 140 Vat. gr. 152 Vat. gr. 154 Vat. gr. 163 Vat. gr. 165 Vat. gr. 167 Vat. gr. 172 Vat. gr. 190 Vat. gr. 191 Vat. gr. 224 Vat. gr. 240 Vat. gr. 292 Vat. gr. 294 Vat. gr. 305 Vat. gr. 321 Vat. gr. 483 Vat. gr. 699 Vat. gr. 704 Vat. gr. 711 Vat. gr. 723 Vat. gr. 791 Vat. gr. 867 Vat. gr. 871 Vat. gr. 878 Vat. gr. 889 Vat. gr. 895 Vat. gr. 896 Vat. gr. 922 Vat. gr. 924
INDICE DEI MANOSCRITTI
763 763 788 763 763 819 764 771, 777, 779, 785 777, 778 777 777 745 847 847 788 780, 783, 785 783, 788 788 783, 788 788 782, 788 782, 788 788 789 782, 789 789 782, 789 789 789 783, 789 789 789 782, 783, 789 783, 789 782, 783, 789 783 789 782, 783, 789 789 818 782, 789 783, 789 782, 789 783 790 790 790 784 790 782, 790 790 790
Vat. gr. 925 790 Vat. gr. 949 790 Vat. gr. 977 790 Vat. gr. 992 782 Vat. gr. 1004 782, 784, 790 Vat. gr. 1011 790 Vat. gr. 1038 709, 714, 790 Vat. gr. 1077 782, 784, 790 Vat. gr. 1085 790 Vat. gr. 1153 669 Vat. gr. 1162 818, 819 Vat. gr. 1209 639-692, tavv. I-X, 739 Vat. gr. 1288 640, 739 Vat. gr. 1302 782, 784, 790 Vat. gr. 1341 782, 790 Vat. gr. 1357 782, 784, 790 Vat. gr. 1379 782, 790 Vat. gr. 1444 791 Vat. gr. 1594 681 Vat. gr. 1950 782, 791 Vat. gr. 2125 640, 680, 681, 682 Vat. lat. 630 764 Vat. lat. 643 79 Vat. lat. 679-1134 847 Vat. lat. 1042 784, 791 Vat. lat. 1477 520-581 Vat. lat. 1478 519-581 Vat. lat. 1891 538-539 Vat. lat. 1892 539 Vat. lat. 1984 791 Vat. lat. 1998 791 Vat. lat. 3101 782, 791 Vat. lat. 3102 791 Vat. lat. 3195 818, 846 Vat. lat. 3199 725, 761, 762 Vat. lat. 3202 761, 762, 798 Vat. lat. 3203 761, 799 olim Vat. lat. 3204 (nunc Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 12473) 746, 762 Vat. lat. 3210 627, 629, 630, 631 Vat. lat. 3211 784 Vat. lat. 3214 627-638, 784 Vat. lat. 3225 784 Vat. lat. 3226 737, 848 Vat. lat. 3256 85 Vat. lat. 3319 546, 553-554, 578-579 Vat. lat. 3339 782, 791 Vat. lat. 3343 782, 791 Vat. lat. 3393 784 Vat. lat. 3533 708, 714, 784 Vat. lat. 3731 762
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Vat. lat. 3731A 762 Vat. lat. 3750 190-193, 194, 196 tav. VI, 198 tav. IIIa olim Vat. lat. 3794 (nunc Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 12474) 746 Vat. lat. 3839 784 Vat. lat. 3867 737, 739, 746, 751 Vat. lat. 3868 737, 739, 746, 751, 762, 764, 768 Vat. lat. 3956 344 Vat. lat. 3961 203-220, 263 tav. I Vat. lat. 3964 473 Vat. lat. 3966 473 Vat. lat. 3967 472 Vat. lat. 3968 472, 473 Vat. lat. 3969 472, 473 Vat. lat. 4455 782, 784, 791 Vat. lat. 4583 151 Vat. lat. 4613 784, 791 Vat. lat. 4820 763, 791 Vat. lat. 4888 471 Vat. lat. 5229 521-581 Vat. lat. 5230 521-581 Vat. lat. 5232 714 Vat. lat. 5234 40 Vat. lat. 5245 40 Vat. lat. 5253 40, 41 Vat. lat. 5319 784 Vat. lat. 5748-5776 487 Vat. lat. 5757 848 Vat. lat. 5776 487-495, tav. I-II Vat. lat. 6038 40 Vat. lat. 6217 33-37, 48-52 tavv. VI-X Vat. lat. 6438 40 Vat. lat. 7122 181 Vat. lat. 7721 40 Vat. lat. 7762 343, 344 Vat. lat. 8324 40 Vat. lat. 8494 33 Vat. lat. 8593 477 Vat. lat. 9071-9074 40 Vat. lat. 9073 39 Vat. lat. 9074 39 Vat. lat. 9077 40 Vat. lat. 9084 39, 40 Vat. lat. 9118-9120 40 Vat. lat. 9123-9125 40 Vat. lat. 9129-9131 40 Vat. lat. 9139 40 Vat. lat. 9785 497-516, figg. 1-10 Vat. lat. 9784 497, 506
875
Vat. lat. 9818 40 Vat. lat. 10132 837 Vat. lat. 10301-10700 847 Vat. lat. 10362 476 Vat. lat. 10529 456 Vat. lat. 10545 40 Vat. lat. 10700 848 Vat. lat. 10949-10950 835 Vat. lat. 11248 834 Vat. lat. 11377 846 Vat. lat. 11391-11413 836 Vat. lat. 12703-12847 478, 479 Vat. lat. 12838 265-276, 277-278 tavv. I-III, 279 tav. V, 281-284 tavv. VIII-XIII, 471, 479, 481, 583-598, 602 tav. IV, 604-607 tavv. VI-IX Vat. lat. 12855 772 Vat. lat. 12856 773 Vat. lat. 12857 773 Vat. lat. 12858 773, 774 Vat. lat. 12859 774 Vat. lat. 12860 774 Vat. lat. 12862 775, 791 Vat. lat. 12867 775, 776, 782, 791 Vat. lat. 12868 777 Vat. lat. 12868-12869 776, 777 Vat. lat. 12869 777 Vat. lat. 12345-12847 584, 586 Vat. lat. 14238-14295 41, 836 Vat. lat. 14243 450, 451, 452-453, 460-462 Vat. lat. 14244 450, 451, 453-454, 462-465 Vat. lat. 14245 450, 456-457, 465 Vat. lat. 14247 450, 457, 466-467 Vat. lat. 14249 450, 457, 467-468 Vat. lat. 14251 450, 457, 468 Vat. lat. 14258 450, 457-458, 469 Vat. lat. 14969-14993 835 Vat. pers. 52 837 Vat. pers. 61 739 Vat. sam. 2 739 Vat. sir. 21 764 Vat. sir. 107 792 Vat. sir. 145 782, 792 Vat. sir. 160 782, 792 Vat. sir. 166 792 Vat. sir. 167 792 Vat. sir. 435 837
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– Congregazione per la Dottrina della Fede, Archivio storico S.O. C.L. 1680-82, Folia extravagantia n. 2 584 Douai, Bibliothèque municipale 842 865
150 150
Engelberg, Stiftsbibliothek 59
492
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana Conv. Sopp. 207 567 plut. 5.9 669 plut. 11.4 669 plut. 12.12 120 plut. 70.3 567 – Biblioteca Riccardiana 1534
631, 632
Genève, Bibliothèque publique et universitaire 154 119 Gent, Bibliotheek der Rijksuniversiteit 92
67
Gerona, Cathedral Inv. 7 (11)
68
Heidelberg, Universitätsbibliothek Pal. gr. 40 781, 786 Pal. gr. 132 786 Pal. gr. 375 786 Pal. gr. 398 787 Pal. lat. 1080 782, 787 Pal. lat. 1914 787 Karlsruhe, Landesbibliothek EttenheimMünster 462 492 København, Det kongelige Bibliotek NKS 1992
510
Leiden, Bibliotheek der Rijksuniversiteit Hug. 45 595, 608 tav. X Voss. Lat. 8 78, 79 Voss. Lat. 15 78, 79, 80 Voss. Lat. F 12 65-66, 79 Voss. Lat. Q 25 119 London, British Library Add. 43725
639
Harley 647 Royal 1 D. V-VIII Lucca, Archivio di Stato 110
76 640 151
– Biblioteca Capitolare 497 151 626 (olim Archivio Arcivescovile, ms. +16) 151, 152 ms. Tucci-Tognetti 151 – Biblioteca Statale 110 Madrid, Real Academia de la Historia Ripoll ms 9 – 5937
151 84
Magdeburg, Bibliothek des Dom-Gymnasiums 234 151 Milano, Biblioteca Ambrosiana C 240 inf. D 29 inf. F 205 inf. (gr. 1020) L 93 sup. (gr. 490)
112 631 640 681
Montecassino, Archivio dell’Abbazia caps. I, 1 208, 221 caps. I, 2 208, 221 caps. I, 3 208, 221 caps. I, 4 208, 221 caps. I, 5 208, 221 caps. I, 6 208, 221 caps. I, 7 208, 221 caps. I, 8 208, 221 caps. I, 9 208, 221 caps. I, 10 208, 221 caps. I, 11 208, 222 caps. I, 12. 208, 222 caps. I, 13 208, 222 caps. I, 14 208, 222 caps. I, 15 208, 222 caps. I, 16 208, 222 caps. I, 17 208, 222 caps. I, 18 208, 222 caps. I, 19 208, 222 caps. I, 20 208, 222 caps. I, 21 208, 222 caps. I, 22 208, 222 caps. II, 1 208, 225 caps. II, 2 208, 225 caps. II, 3 208, 225 caps. II, 4 208, 225
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caps. II, 5 caps. II, 6* caps. II, 7 caps. II, 8 caps. II, 9 caps. II, 10 caps. II, 11 caps. II, 12 caps. II, 13 caps. II, 14 caps. II, 15 caps. II, 16 caps. II, 17 caps. II, 18 caps. II, 19 caps. II, 20 caps. II, 21 caps. II, 22 caps. II, 23 caps. II, 24 caps. II, 25 caps. II, 26 caps. II, 27 caps. II, 28 caps. II, 29 caps. II, 30 caps. II, 31 caps. II, 32 caps. II, 33 caps. II, 34 caps. II, 35 caps. II, 36 caps. II, 37 caps. II, 38* caps. II, 39 caps. II, 40 caps. II, 41 caps. II, 42 caps. II, 43 caps. II, 44 caps. II, 45 caps. II, 46 caps. III, 35 caps. V, 1 caps. V, 2 caps. V, 3 caps. V, 4 caps. V, 5 caps. V, 6* caps. V, 7 caps. V, 8 caps. V, 9
208, 225 208, 225 208, 225 208, 225 208, 225 208, 225 208, 226 208, 226 208, 226 208, 226 208, 226 208, 226 208, 226 208, 226 208, 226 208, 226 208, 226 208, 224 208, 224 208, 224 208, 224 208, 224 208, 224 208, 224-225 208, 225 208, 225 208, 225 208, 225 208, 225 208, 222 208, 222 208, 222 208, 222 208, 222-223 208, 223 208, 223 208, 223 208, 223 208, 223 208, 223 208, 223 208, 223 208, 230 208, 237 208, 237 208, 237 208, 237 208, 237 208, 237 208, 237 208, 237 208, 237
caps. V, 10 caps. V, 11** caps. V, 12 caps. V, 13 caps. V, 15 caps. V, 16 caps. V, 17 caps. V, 18 caps. V, 19 caps. V, 20 caps. V, 22 caps. V, 23* caps. V, 24 caps. V, 26 caps. V, 27 caps. V, 28 caps. V, 29 caps. V, 30 caps. V, 31 caps. V, 32 caps. V, 33 caps. V, 34 caps. V, 35* caps. V, 36* caps. V, 37 caps. V, 38* caps. V, 39 caps. V, 40 caps. V, 41 caps. V, 42 caps. V, 43 caps. V, 44 caps. V, 45 caps. V, 46 caps. V, 47 caps. V, 48 caps. V, 49 caps. V, 50 caps. V, 51 caps. V, 52 caps. V, 53 caps. V, 54 caps. V, 55 caps. V, 56 caps. V, 57 caps. V, 58 caps. V, 59 caps. V, 60 caps. V, 61* caps. V, 62 caps. V, 63 caps. V, 64
877 208, 237 208, 237 208, 237 208, 237 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 238 208, 239 208, 239 208, 239 208, 239 208, 239 208, 239 208, 239 208, 239 208, 239 208, 239 208, 239 208, 239 208, 239 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240 208, 240-241 208, 241 208, 241 208, 241 208, 241 208, 241
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caps. V, 65 caps. V, 66 caps. V, 67 caps. V, 68 caps. V, 69 caps. V, 70 caps. V, 71 caps. V, 72 caps. V, 73 caps. V, 74* caps. V, 75 caps. V, 76 caps. V, 77 caps. V, 78 caps. V, 79 caps. V, 81 caps. V, 82 caps. V, 83 caps. VI, 1 caps. VI, 2 caps. VI, 3 caps. VI, 5 caps. VI, 10 caps. VI, 11 caps. VI, 12 caps. VI, 13 caps. VI, 14 caps. VI, 15 caps. VI, 16 caps. VI, 17 caps. VI, 18 caps. VI, 19 caps. VI, 20 caps. VI, 22 caps. VI, 23 caps. VI, 24 caps. VI, 25 caps. VI, 26 caps. VI, 27 caps. VI, 28** caps. VI, 29 caps. VII, 50 caps. X, 1 caps. X, 2 caps. X, 3 caps. X, 4 caps. X, 5** caps. X, 7 caps. X, 8 caps. X, 9 caps. X, 10 caps. X, 11
INDICE DEI MANOSCRITTI
208, 241 208, 241 208, 241 208, 241 208, 241 208, 241 208, 241 208, 241 208, 241-242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 250 208, 250 208, 250 208, 252 208, 252 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242 208, 242-243 208, 243 208, 243 208, 243 208, 243 208, 243 208, 243 208, 243 208, 243 208, 243 208, 243 208, 253 208, 223 208, 223 208, 223 208, 223, 252 208, 223 208, 224 208, 224 208, 224 208, 226 208, 226
caps. X, 12 caps. X, 13 caps. X, 14 caps. X, 15 caps. X, 16 caps. X, 17 caps. X, 18* caps. X, 19 caps. X, 20* caps. X, 21 caps. X, 22 caps. X, 23 caps. X, 24 caps. X, 25 caps. X, 26 caps. X, 27 caps. X, 28 caps. X, 29 caps. X, 30 caps. X, 31 caps. X, 32* caps. X, 33 caps. X, 33 caps. X, 34 caps. X, 35 caps. X, 36 caps. X, 37 caps. X, 38 caps. X, 41 caps. X, 48 caps. X, 49 caps. X, 49 caps. X, 50** caps. XI, 1 caps. XI, 10 caps. XI, 11 caps. XI, 12 caps. XI, 13 caps. XI, 14 caps. XI, 15 caps. XI, 16 caps. XI, 17 caps. XI, 18 caps. XI, 19 caps. XI, 20 caps. XI, 21 caps. XI, 22 caps. XI, 23 caps. XI, 24 caps. XI, 25 caps. XI, 27 caps. XI, 29
208, 226 208, 227 208, 227 208, 227 208, 227 208, 227 208, 227 208, 227 208, 227 208, 227-228 208, 228 208, 228 208, 228 208, 228 208, 228 228 208, 228 208, 228-229 208, 229 208, 229 208, 229 208, 223 208, 229 208, 229 208, 229 208, 229 208, 253 208, 252 208, 252 208, 253 208, 223-224 208, 252 208, 252 208, 230 208, 231 208, 232 208, 232 208, 232 208, 232 208, 232 208, 232 208, 232 208, 232-233 208, 233 208, 233 208, 233 208, 233 208, 233 208, 233-234 208, 234 208, 234 208, 234
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INDICE DEI MANOSCRITTI
caps. XI, 3 caps. XI, 30 caps. XI, 31 caps. XI, 32** caps. XI, 34 caps. XI, 35 caps. XI, 36 caps. XI, 37 caps. XI, 38 caps. XI, 4* caps. XI, 40 caps. XI, 42 caps. XI, 43 caps. XI, 44 caps. XI, 49 caps. XI, 5 caps. XI, 54 caps. XI, 6 caps. XI, 60 caps. XI, 7 caps. XI, 8 caps. XI, 9 caps. XII, 13 caps. XII, 18 caps. XII, 23 caps. XII, 26 caps. XII, 26 caps. XII, 35 caps. XII, 38 caps. XIII, 1 caps. XIII, 3 (olim) caps. XIII, 4 caps. XIII, 5 caps. XIII, 6 caps. XIII, 7 caps. XIII, 8 caps. XIII, 9 caps. XIII, 10 caps. XIII, 11 caps. XIII, 12 caps. XIII, 13 caps. XIII, 14 caps. XIII, 15 caps. XIII, 15 caps. XIII, 16 caps. XIII, 17 caps. XIII, 18 caps. XIII, 19 caps. XIII, 20 caps. XIII, 21 caps. XIII, 22 caps. XIII, 23
208, 230-231 208, 234 208, 234 208, 234 208, 234-235 208, 235 208, 235 208, 235 208, 235 208, 231 208, 235-236 208, 236 208, 236 208, 236 208, 235 208, 231 208, 244-245 208, 231 208, 235-236 208, 231 208, 231 208, 231 208, 252 208, 253 208, 236 208, 230 208, 253 208, 253 208, 236 208, 247 208, 247 208, 247-248 208, 248 208, 248 208, 248 208, 235, 248 208, 248 208, 248 208, 248 208, 248-249 208, 249 208, 249 208, 230 208, 249 208, 249 208, 249 208, 249 208, 249 208, 249-250 208, 250 208, 250 208, 250
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caps. XIII, 27* 208, 250 caps. XIII, 28 208, 250 caps. XIII, 29 208, 250-251 caps. XIII, 30 208, 251 caps. XIII, 31 208, 251 caps. XIII, 32 208, 251 caps. XIII, 33 208, 251 caps. XIII, 34 208, 251 caps. XIII, 35 208, 251 caps. XIII, 36 208, 251 caps. XIV, 1** 208, 243 caps. XIV, 2 208, 243-244 caps. XIV, 3 208, 244 caps. XIV, 4 208, 244 caps. XIV, 5 208, 244 caps. XIV, 6 208, 244 caps. XIV, 7 208, 244 caps. XIV, 8 208, 244 caps. XIV, 9* 208, 244-245 caps. XIV, 10 208, 245 caps. XIV, 11 208, 245 caps. XIV, 12 208, 245 caps. XIV, 13 208, 245 caps. XIV, 14 208, 245 caps. XIV, 15 208, 245 caps. XIV, 16 208, 245 caps. XIV, 17 208, 246 caps. XIV, 18 208, 246 caps. XIV, 19 208, 246 caps. XIV, 20 208, 230 caps. XIV, 20 208, 246 caps. XIV, 21 208, 246 caps. XIV, 22 208, 246-247 caps. XIV, 23 (olim) 208, 247 caps. XIV, 24 208, 247 caps. XIV, 25 208, 247 caps. XIV, 26 208, 247 caps. XIV, 27 208, 247 caps. XV, 13 208, 251 caps. XVIII, 5 208, 247 caps. XVIII, 37 208, 230 caps. XVIII, 39 208, 230 caps. XVIII, 47 208, 230 caps. XVIII, 68 208, 230 caps. XVIII, 82 208, 230 caps. XXVII, 12 208, 233 caps. XCVI 208, 207 caps. XCVIII, Larino, 5 208, 247 Reg. 4 (Registrum di S. Angelo in Formis) 208, 228 Reg. 3 (Registrum Petri Diaconi) 208, 228, 233, 234, 243, 249-250
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INDICE DEI MANOSCRITTI
– Biblioteca del Monumento Nazionale 523 492
nouv. acq. lat. 369
150
Patmos, Μονὴ τοῦ Ἁγίου Ἰωάννου τοῦ Θεο
λόγου
Montpellier, Faculté de médecine H 34
78
33
640, 682
München, Bayerisches Hauptstaatsarchiv, Geheimen Hausarchiv n. 290b, bd. 3 182
Roma, Archivio della Società Musicale Romana 2049 397
– Bayerische Staatsbibliothek clm. 4452 clm. 10801 clm. 13084 clm. 13601 clm. 14000
– Biblioteca Alessandrina 93
151
– Biblioteca Angelica 83
567
64 617 78 64 64
New York, Pierpont Morgan Library 69 644
195 68
Oscott, St. Mary’s College olim Codex Oscottiensis
34
Oxford, Bodleian Library Rawl. 175
615-616
Paris, Bibliothèque de l’Arsenal 553 116, 118, 131-133 722 118, 119, 120, 144 – Bibliothèque nationale de France fr. 12201 156 fr. 12420 156, 159 fr. 12466 333 fr. 12473 (olim Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana, Vat. lat. 3204) 746 fr. 12474 (olim Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana, Vat. lat. 3794) 746 fr. 24680 498 gr. 159 669 gr. 174 669 gr. 1665 681 gr. 2934 640, 681, 682 lat. 1141 63 lat. 5239 78, 70, 79, 80 lat. 5543 79, 80 lat. 6219 118 lat. 6401 614 lat. 7476 57 lat. 7553 554 lat. 8880 192, 197 tav. II, 198 tav. IIIb, 200 tav. Vb, 201 tav. VIa lat. 9768 745
– Biblioteca Vallicelliana B.38 Allac. LX.5 Allac. LX.10 Allac. LX.11
180, 348-349 287 287 287
Sankt Gallen, Stiftsbibliothek 250
78
Sankt Peterburg, Rossijskaja Nacional’naja Biblioteka F.XIV.1 612, 614 Sinai, Μονὴ τῆς Ἁγίας Αἰκατερίνης Sinait. georg. 37
676
Stockholm, Kungliga Biblioteket N71-N72 Vu 16
498 117
– Riksarkivet Kabinettet, UD, Huvudarkivet E2FA Skrivelser från konsuler, vol. 66 n. 973
498
Toledo, Biblioteca Publica del Estado – Biblioteca de Castilla-La Mancha 167 194 Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria E.II.20 556 F.IV.29 489 I.II.l 68 Treviso, Biblioteca Comunale 89
520-581
Trieste, Biblioteca Civica α CC 19
617
Troyes, Bibliothèque municipale 1876
150
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INDICE DEI MANOSCRITTI
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Valenciennes, Bibliothèque municipale 514 150
Vich, Museu Episcopal 167
Valladolid, Biblioteca de la Universidad 433 68
Yerushalayim, Πατριαρχικὴ Βιβλιοθήκη Σταυροῦ 43 676
Venezia, Archivio di Stato Collezione Podocataro, b. I, n. 158
203
Wien, Österreichische Nationalbibliothek Phil. gr. 321 678
578-579
Wolfenbüttel, Herzog-August-Bibliothek Gud. Lat. 1 67
– Biblioteca Nazionale Marciana lat. XIII 38
57
INDICE DEGLI ESEMPLARI A STAMPA Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Ann. Pont. I.1916 831 Catal. Italia. II. Grottaferrata. 1. Cons.831 Mai XI.L.III.45 (int. 1) 706 R.G. Storia III.4002 (int. 7) 870 R.G. Storia IV.460 706 R.G. Storia IV.8510 706 Roma Folio 20 [1-4]. Cons. 836 Ronga IV.2008 706 Stamp. Barb. TTT.VI.13 9 Stamp. Ferr. IV.2674 (1-2) 706 Stamp. Ferr. IV.2677 (1-2) 706 Stamp. Ferr. IV.3616 706, 754, 794 Stamp. Ferr. IV.3660 (int. 1) 706 Stamp. Ferr. IV.4021 706 Stamp. Ferr. IV.8191 (int. 21) 706 Stamp. S. Offizio 479 Z810.R75B 855
Paris, Bibliothèque nationale de France Rés Vélins 526 517-518
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana Alf. 39/1 512
Treviso, Biblioteca Comunale Inc. 13732
Roma, Archivio Fotografico dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia s.n. 394, 426 tav. III – Bibliomediateca dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia AS, B, 133/17 396, 424 tav. I, – Istituto Nazionale per la Grafica CL 3192 17327 10, 21 tav. I CL 3192 17321 9, 22 tav. II CL 3192 17324 10, 23 tav. III CL 3192 17337 10, 24 tav. IV CL 3192 17342 10, 25 tav. V CL 3192 17322 10, 26 tav. VI
518-581
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TIPOGRAFIA VATICANA
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