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Italian Pages 322 [316] Year 1968
Tay. 1 — La Gcrgone Medusa. Rilievo in terracotta. Altezza cm 56. Circa 560 a. C. — Siracusa.
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greca dell'Italia meridionale e della Sicilia è di gran lunga meno nota e meno studiata
di quella della Grecia propriamente detta. L'intento di questo libro è perciò non solo quello
di portare a conoscenza, grazie alle nuove, eccellenti fotografie di Max Hirmer, a una più vasta cerchia di pubblico la singolare bellezza di quest'arte della Magna Grecia (come si è soliti definirla), ma anche quello di illustrarla agli archeologi stessi. Il testo tratteggierà nel loro complesso i problemi dell'arte della Magna Grecia, mettendone in luce alcuni lineamenti essenziali nell'ambito de ll a produzione architettonica, pittorica e monetaria, incentrando però particolarmente la ricerca sulla scultura in tutte le sue differenti branche. Uno schizzo sull'arte de lla Magna Grecia apparve fi n dal 1949 nella rivista «
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fascicolo secondo. Con un lavoro pluriannuale venne poi preparata per l'ENCICLOPEDIA DELL'ARTE (Roma) una sistematica documentazione del materiale sparso nei Musei d'Europa e d'America, accom-
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pagnata da un dettagliato corredo fotografico. Tuttavia, per esigenze di redazione, il testo fu ridotto e la parte illustrativa completamente trasformata. Per non sovraccaricare il testo di citazioni, í rimandi bibliografici si limitano a ll e opere generali, con l'aiuto delle quali si può facilmente risalire ai singoli studi che eventualmente interessino. Di conseguenza non ci si è preoccupati di fornire bibliografie complete. Nei numerosi viaggi che ho compiuto da quarant'anni a questa parte ho incontrato tanta indulgenza, tanta liberalità, da parte dei miei colleghi, ho avuto tanto aiuto da loro, che difficilmente mi sarà possibile ringraziarli adeguatamente. Fra questi particolarmente: D. Adamestianou, P. E. Arias, L. Bernabò Brea, M. Bernardini, A. N. Ch. Bianchi-Martini, Conte Capialbi, N. Degrassi, C. Drago, G. Foti, A. de Franciscis, P. tariffo, G. V. Gentili, G. Jacopi, A. Maiuri, I. Marconi-Bovio, M. Napoli, P. Orlandini, P. Orsi, V. Panebianco, C. Pietrangeli, N. Putortí, Q. Quagliati, C. Sestieri, V. Tusa, A. Vaccaro, C. Voza, Duchessa P. Zancani-Montuoro, G. Ziretta, che mi hanno innumerevoli volte soccorso. Ringrazio inoltre gli attuali Direttori dei Musei dell'Italia meridionale per aver concesso all'Editore il permesso di pubblicare il materiale e l'Editore stesso al quale si deve il formato delle illustrazioni, soprattutto l'utilissimo ingrandimento di alcune riproduzioni che, come nel caso delle monete, è di grande aiuto per cogliere la bellezza delle opere d'arte. Debbo il mio grazie infine anche alla Deutschen Forschungsgemeinschaft per aver appoggiato due dei miei viaggi di studio e al mio allievo P. Noelke per gli aggiornamenti della bibliografia. È doloroso per me non poter piú offrire questo libro a due amici con i quali a lungo ne discussi í problemi. Alla loro memoria lo dedico riconoscente. ERNST LANGLOTZ
Scopo della parte illustrativa di quest'opera è quello di mostrare in un'ampia panoramica le principali opere della produzione scultorea dei Greci di Sicilia e dell'Italia meridionale. Mentre il testo introduttivo espone la problematica generale dello sviluppo delle arti nell'area delle colonie greche d'occidente e perciò tiene presenti architettura, scultura e pittura della Magna Grecia, le tavole si limitano alla sola produzione scultorea, perché quella architettonica, pittorica e vascolare, al pari delle monete, ossia tutto quello che concerne l'opera creatrice dei Greci d'occidente, è già stato esaurientemente trattato i n tre altri libri della serie monografica alla quale appartiene anche questo. In tal modo si è potuto dedicare l'intero settore riservato alle illustrazioni esclusivamente alle opere scultoree della Magna Grecia in marmo, in terracotta, in bronzo, in argento e in oro, dal periodo più antico, protostorico, quasi all'inizio del primo millennio, alla decadenza delle colonie greche della Sicilia e dell'Italia meridionale sullo scorcio del millennio stesso. Nelle tavole di questo volume si è cercato di mostrare, sulla scorta di nuove fotografie commentate da uno dei più profondi conoscitori dell'arte greca d'occidente, come nel corso di questi nove secoli le correnti artistiche della madrepatria e quelle dei Greci dell'Asia Minore s i siano mescolate e intimamente fuse con la creatività artistica sviluppata dai coloni greci sul suolo della Sicilia e dell'Italia meridionale. Questa documentazione offre anche a chi non fosse specialista della materia la possibilità di istituire confronti con i monumenti scultorei della Grecia vera e propria e delle colonie asiatiche, assai piú largamente noti, i quali, per altro, sono dettagliatamente riprodotti nel volume dedicato alla scultura greca (Griechische Plastik) di questa stessa serie. Quanto alle opere create nelle colonie greche d'occidente, site nell'odierna Francia meridionale e nella Spagna sud-orientale, si è rinunciato a riprodurle qui, giacché ne sono giunti fino a noi soltanto pochissimi resti significativi. La sezione dedicata alle illustrazioni di questo volume ha visto la luce grazie all'amichevole aiuto prestatomi dai Soprintendenti e dai Direttori dei Musei della Sicilia, dell'Italia meridonale, della Città del Vaticano e del British Museum di Londra, e dai loro collaboratori. Ancora una volta vada il mio grazie alla Soprint. Prof. Dott.ssa Jole Bovio-Marconi e al Dir. Dott. V. Tusa del Museo Nazionale Archeologico di Palermo; al Soprint. Prof. Dott. Luigi Bernabò Brea e al Dott. Gino V. Gentili del Museo Nazionale Archeologico di Siracusa; al Soprint. Dott. Pietro Griffo di Agrigento; al Dir. D οtt. Piero Orlandini, antiquario di Gela; alla Direttrice Dott.ssa A. M. Ch. Bianchi Martini del Museo Archeologico di Bari; al Soprint. Prof. Dott. Nevio Degrassi del Museo Nazionale di Taranto; al Soprint. Prof. Dοtt. Alfonso de Franciscis di Reggio Calabria; a S. Eccellenza il Soprint. Prof. Dott. Amadeo Maiuri e al Dott. M. Napoli del Museo Nazionale Archeologico di Napoli; al Soprint. Dott. Pe ll egrino C. Sestieri di Salerno; alla Duchessa Dott.ssa Paola Zancani Montuoro; al Dir. gen. Prof. Dott. Filippo Magi e alla Dott.ssa E. Seeier dei Musei Vaticani, Città del Vaticano; al Prof. Dott. E. L. Haynes del British Museum di Londra, ripartizione delle Antichità Greche e Romane. Debbo ancora una volta ringraziare di tutto cuore, per la collaborazione intelligente e pronta, mio figlio, cand. phil. Albert Hirmer, insieme al quale ho eseguito le nuove fotografie per questo volume. La Signora Julia Asen-Petzi ha lodevolmente curata la composizione definitiva della maggior parte delle riproduzioni fotografiche. MAX HIRMER
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INTRODUZIONE
COLONIE GRECHE
primo millennio a. C. i Greci fondarono colone ~n più punti lungo le coste del Mediterraneo, sia per aprire migliori possibilità di vita agli abitanti delle loro città superaffollate che -" per allargare i commerci, rendendo ~n tal modo sicure le rotte. Non nel senso d ~~ una moderna B EL
missione culturale e neppure per un esclusivo interesse economico, ma spontaneamente, inconsci della grandezza e della portata della loro azione, i Greci trasmisero la loro civiltà, soprattutto la loro capacità d~~articolare il pensiero, di poetare, di modellare, a popolazioni che nel primo millennio inoltrato vivevano ancora ignorando la scrittura e prive d ~~ storia, schiudendo loro l'adito a un più alto grado d ~~ esperienza religiosa e rivelando i nessi metafisici dell'uomo. Il nostro moderno concetto di colonia, al pari del suo immediato predecessore, la « colonia » romana, ha origini politiche e spirituali diverse da quelle della « apoikia » greca. Basta per poco riflettere su questo tipo di trasmigrazione, anche se per esso non esiste vocabolo nella nostra lingua, per intuire cosa deve essere stata una colonia inviata da una città greca con tutti gli indispensabili riti della fondazione sacra,
con la traslazione delle immagini divine e delle leggi. Si conoscono stanziamenti greci di disparata grandezza, dalle semplici basi commerciali (emporia) alle fondazioni coloniali vere e proprie (apoikiai), nell'Africa settentrionale (Cirene, Naucrati, Dafne), ~n Siria (Samaria, El Ameina), ma particolarmente a Cipro e lungo le coste del Mar Nero da Trapezunte alla Crimea, fino all'Histria e alle foci del Danubio; nella Francia meridionale (Marsiglia) e sulla costa orientale spagnola da Rhode (Las Rosas) a Malaga. Poiché intendiamo illustrare qui esclusivamente le arti fi gurative, potremo soltanto accennare agli interessi economici, assai rilevanti e a volte addirittura determinanti, che portarono alla fondazione di queste città in Spagna e mirarono a rendere sicure le rotte, da ll a Britannia e dal Rio Tinto (Andalusia) alla Grecia, per l'esportazione dello zinco e del rame. Ma l'aspetto economico della colonizzazione greca non va sottovalutato, giacché per una città greca esso rappresenta l'insopprimibile fondamento materiale. Gli stanziamenti dovuti a soli intenti idealistici e politici si limitano a un esiguo arco di tempo ed ebbero una debole in fl uenza. Un chiaro esempio ne è la fondazione d ~~ Turii (443 a. C.) Ι Naturalmente la maggior parte de lle città greche dell'Oriente e dell'Occidente non furono densamente popolate. I primi coloni erano greci d ~~ razza pura, ma attraverso la mescolanza dei ceppi etnici, .
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inevitabile in alcune città, si formò gradualmente, nelle successive generazioni, quel sostrato che diede alla politica, all'arte e a ll a cultura di ogni colonia la sua caratteristica impronta. Questo fenomeno fece si che spesso lo spirito greco e le sue realizzazioni nelle arti figurative non si conservassero così puri da poterli sempre isolare completamente, sotto il profilo umano e religioso e anche sotto quello artistico, dall'influsso dei barbari, rimasti ancora allo stadio preistorico, che abitavano nei pressi delle città. Ma proprio attraverso questa fusione e attraverso l'assimilazione delle popolazioni autoctone il seme dello spirito greco è divenuto particolarmente fecondo nell'ambito delle loro città e ha determinato il sorgere di nuove civiltà: s i pensi solo agli Sciti nella Russia meridionale, ai Traci nei Balcani e a i Celti in Gallia, nuovi ambiti culturali affermatisi particolarmente nei secoli successivi all'inizio dell'era cristiana.
MAGNA GRECIA Le più importanti colonie greche d'occidente sono que ll e dell'Italia meridionale e de ll a Sicilia, anche se tuttora poco conosciute. Grazie alla vicinanza con la madrepatria, all'identità del clima e alle condizioni esterne di vita di gran lunga più favorevoli, poté svilupparsi qui, nel ντ e nel v secolo a. Cr., un nuovo mondo greco il quale, anche se costantemente minacciato da ll e popolazioni autoctone dell'entroterra, elaborò una propria cultura di grande valore e, per il suo patrimonio d i pensiero, di vasta influenza. I suoi poeti (Stesicoro, Ibico, Epicarmo), i suoi filosofi (Senofane, Parmenide, la Scuola Eleatica), le sue sette religiose (si pensi a Orfeo, a Zaleuco, a Pitagora), i suoi scenziatí, soprattutto i suoi matematici (Pitagora, Archimede) e i suoi medici (Alcmeone, la scuola di Crotone), rivestono per la storia dell'intera antichità greco-romana un'importanza mai abbastanza sottolineata. t stato il Z anotti-Bianco a richiamare nuovamente l'attenzione in maniera illuminante sulle grandi creazioul, finora per lo più dimenticate o sottovalutate, dello spirito greco in Italia e in Sicilia 2 Oggi conosciamo con sicurezza soltanto l'arte figurativa, che in questo angolo del mondo antico ha dato vita a una delle manifestazioni più grandiose dello spirito creativo dei Greci. Nelle sue opere migliori essa non è per nulla provinciale, come l'arte di Cipro, de ll a Scizia e de ll a Tracia, ma è espressione di un particolare atteggiamento dello spirito e del carattere greco, la cui influenza sull'occidente fu più forte e più duratura di quella stessa dell'arte della madrepatria. In Italia essa influì in maniera essenziale sull'arte degli Etruschi, un popolo che proveniva dall'Anatolia occidentale, e su quella di Roma. Quest'ultima, che si era andata gradualmente formando da lla fusione di varie culture italiche, fi n dallo inizio del primo millennio si era nutrita spiritualmente e artisticamente di suggestioni greche. L'arte degli Etruschi e dei Romani è impensabile, sia sotto il profilo iconologico che formale e tecnico, senza le acquisizioni artistiche dei Greci e senza quel continuo riversarsi in It al ia d i divinità e di eroi greci con tutti i loro miti e le innumerevoli forme conferite loro da ll a poesia e da ll e arti figurative. A partire dall''ut secolo l'influenza dei Greci si espande dal sud dell'Italia verso il nord seguendo quella legge della importanza cultur al e delle varie regioni, che è cosi bene illustrata dalla diffusione del nome di Italia su tutta la penisola. L'aspetto più durevole di questa in fluenza dei Greci si coglie nel fatto che essa abbia portato popoli, culturalmente primitivi, a un più alto grado di esperienza religiosa e di consapevolezza metafisica. La .
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epifania de lle diνinità greche in forma umana, originatasi dalla fede dei Greci in queste potenze cosmiche e soprattutto attraverso il culto, la preghiera e l'offerta, modificò l'intima essenza di tutti í popoli, che vennero a contatto con la civiltà greca, tanto profondamente quanto, più tardi, la modificarono le fil οsofie greche che privarono quegli stessi di del loro potere. L'opera più radicale e piU duratura dell'arte greca consiste appunto nell'aver dato figura umana a tutti gli spiriti, numina e demoni delle culture primitive, grazie a questa nuova e intensa educazione religiosa. Di qui nasce l'immagine religiosa, spirituale e politica della libertà e della dignità umana che giunge fino al nostro xx secolo. Di qui tutti i popoli attinsero una forza liberatrice che li spinse a svincolarsi da un tipo di primitiva società i n cui vigeva la legge del branco guidato da un unico capo e a sollevarsi a una forma di esistenza più alta, pifi conforme all'essenza dell'uomo. Attraverso Roma lo spirito greco ha caratterizzato in modo determinante la civiltà occidentale non già nella forma originaria della madrepatria greca, ma con la nuova impronta conferitagli da ll e civiltà periferiche ellenizzate. Parrebbe anzi che questa trasformazione sia stata necessaria per adattare lo spirito greco all'occidente. Che esso, pur così modificato, sia stato tanto ricco di frutti, è testimonianza de ll a sua grandezza. Questo fenomeno storico, divenuto ormai ovvio per noi, va ricordato per intendere più profondamente la portata dell'opera compiuta dai Greci dinamicizzando l'esistenza degli uomini di quei tempi. Fin dal tempo di Pitagora (vi secolo a. C.) i Greci della madrepatria chiamavano « Magna Grecia» le loro pifi prospere e ricche citt dell'Ital ~ a meridionale, in contrasto con la Grecia vera e propria piú povera e meno estesa (Polibio II, 39, I). Oggi noi dobbiamo considerare compresa sotto questa denominazione anche la Sicilia, g ~ acché essa era unita all'Italia meridionale da strettissimi vincoli politici, culturali, religiosi e artistici. Già Strabone indicava in tal modo il mondo delle colonie greche d'occidente 3 Nel i secolo a. C. i Greci che vivevano nell'Italia meridionale vennero chiamati Italioti o Italici, per distinguerli dalle popolazioni indigene. È in genere poco noto che fino al 500 a. C. circa il nome di Italia designava soltanto la punta sud-occidentale della penisola appenninica, cio esclusivamente l'odierna Calabria. È un nome molto significativo per le prime fasi della storia dell'intera penisola. Secondo íl p~ù antico storico dell'occidente, Antioco di Siracusa (frg. 3-7), era stato il mitico re Italo a chiamare questa regione Italia. Si trattava di un nipote di Odisseo e Penelope de lle cui avventure e peregrinazioni nel mar Tirreno narravano í poemi omerici. Questi ultimi, inoltre, presuppongono una buona conoscenza di queste località: le isole di Eolo, che ancor oggi portano Io stesso nome (Eolie), la terra di Circe (Monte Circeo), le isole delle sirene di fronte alla costa amalfitana, Scilla e Cariddi presso Messina. Questo nipote di Odisseo, Italo, si sarebbe impadronito della Calabria nel xiii secolo a. C. e avrebbe introdotto nel paese l'agricoltura, l'ordine e la civiltà (Dion. di Alicarnasso I 12, 35, 73; Strabone VI, 254). La sua piccola Italia si estendeva soltanto da Reghíon (Reggio) al golfo di Hipponiori (Pizzo) a nord e al golfo di Skylletion (Squillace) a est (Aristotele, Pol. VΙΙ, 9 sulla scorta di Antioco). Ma già Erodoto (430 circa) considerava Taranto parte dell'Italia. Nel iv secolo a. C. questa denominazione si estende fino a Laos (Scalea) e Metaponto e, nel n ι secolo a. C., an che alla Campania (Teofrasto, Hist. V, 8, 1 sulla scorta di Aristotele). In questo stesso secolo Roma adotta per designare tutta la penisola il nome di Italia, che rimarrà canonico fino a i nostri giorni. Dunque la storia stessa di questo nome, originariamente limitato al solo entroterra di Reggio, p~ù tardi esteso all'intera penisola, lascia intuire l'importanza culturale de lle città greche dell'Italia meridionale e la diffusione verso settentrione della loro civiltà. Ma questa è solo la tradizione mitologica, che oggi ha ben poco valore. Accanto ad essa si colloca però l'etimologia del nome: « fitalos » è chiamato anche il vitello, vitulus, in latino. La ricchezza di bestiame dell'Italia meridionale era già nota a Omero. Odisseo uccise in Sicilia, per sua sventura, í buoi .
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sacri a Helios. È probabile che proprio l'abbondanza di armenti di questa terra sia stato incentivo a miti siffatti. Essa si rispecchia nelle numerose immagini di tori che compaiono nella monetazione della Magna Grecia: il toro come simbolo di questa terra ricca di buoi. Ancora al tempo della conquista romana della Magna Grecia la ribellione dell'Italia meridionale è simbolizzata sulle monete, a scopo propagandistico, dal toro che abbatte la lupa romana; a tal punto anche allora il toro era inteso come l'animale araidico delle città italiote. Ma per alcune rappresentazioni di tori sulle monete della Magna Grecia si potrebbe citare anche una diversa tradizione mitologica. A volte l'animale è raffigurato (e ciò accade con particolare grandiosità sulle monete di Turii) i n atto di distendersi. Ora la tradizione mitologica ci dice che alcune città, non avendo p~ù di che nutrire la loro popolazione, mandassero i giovani alla ricerca di nuove terre dove stanziarsi e che questi, favoriti dagli di, fossero guidati da un animale: un toro, un lupo, un picchio o altri. I Sanniti, gli Irpin~~ e i Piceni presero nome dall'animale, inviato dalla divinità, che li aveva guidati. Sembra che nell'Ital ~a meridionale ci sia stato un toro che si stese al suolo nel punto in cui giovani dovevano fondare la loro nuova città. Le rappresentazioni di un toro che s i accinge a distendersi, particolarmente frequenti nell'Ital ~a meridionale, potrebbero forse assumere un senso proprio grazie a questa leggenda. Anche la tradizione storica, la quale, come è naturale, non è una esposizione di fatti positivamente esatta nel senso del xxx secolo, permette di gettare qualche sguardo nelle prime fasi de ll a storia della Magna Grecia. Essa è intimamente legata, come ha osservato particolarmente Jean Bérard, con il tipico modo di pensare dei Greci per miti e genealogie 3 . lasso, presso Taormina, dovrebbe essere stata fondata dieci generazioni dopo la caduta di Troia (1050 a. C.), cioè intorno al 750. Anche se le date di fondazione tramandate da Tucidide e da Eusebio possono avere soltanto un valore approssimativo, pure messe a raffronto con i reperti degli scavi (ma certo è un circolo vizioso) acquistano una qualche attendibil~tà. Tuttavia alcune restano incerte o addirittura inaccettabili. Parrebbero frutto di errore le supposte date di fondazione di Kyme (Cura) presso Napoli (1051 a. C.) e di Zankle (Messina, 1260 a. C.). Ma se è vero che lasso presso Taormina fu fondata verso il 750 e Taranto non prima del 706, ci si dovrebbe chiedere come si potessero inviare coloni nei mari sconosciuti dell'occidente, senza provvedere a basi e stazioni intermedie per l'approvvigionamento dei viveri e dell'acqua, giacché le popolazioni autoctone non dovevano vedere di buon occhio i naviganti greci e in realtà non dovettero accoglierli con maggior ospitalità dei leggendari principi occidentali, Polifemo e i Lestrigoni. La nostra ricostruzione storica non intende certo presentare la fondazione della colonie greche di occidente come qualcosa di perfettamente organizzato, un processo compiutosi grado a grado; pure sarà stato senz'altro indispensabile procedere da capo a capo, da golfo a golfo per rendere sicura la propria avanzata e garantire l'area necessaria alla nascita della colonia. Kerkyra (C οrfΙι), Taranto, Siracusa, Parthenope (Napoli), Marsiglia ed Emporion (Ampurias) testimoniano ancora oggi quanto sia stata oculata e lungimirante la scelta del sito e del tipo di pianta per le nuove colonie.
1 11 toro dell'Italia meridionale abbatte la lupa romana. Moneta di bronzo coniata dagli alleati italici durante la ribellione (grandezza quattro volte il naturale). Da: G. Pnνsλ,
La Monetazione degli Italici durante la Guerra Sociale nel suo valore storico e nel carattere simbolico. Rivista Italiana di Numismatica XXIII, 1910, p. 303 sgg., tal. VI, fig. 28, e E. S υnaνηλM, Coinage of Roman Republic, n. 628, RM. 1956, 5, tal. 2,2 (R. HERETO).
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Fig. 1
Le obiezioni sollevate più sopra sulle date iniziali di alcune colonie cadono qualora si accetti l'ipotesi che prima della sacra fondazione de ll e loro città in occidente i Greci si fossero già stanziati in modesti empori. Poteva trattarsi di commercianti, i quali rifornivano le popolazioni autoctone della regione di merci greche, o di fuoriusciti che erano stati gettati dall'avversa fortuna sulle coste dei mari occidentali. Gli scavi e le ricerche del Bernabò Brea hanno resa questa ipotesi assai più che probabile 4 . Abbiamo già accennato alle peregrinazioni di Odisseo dopo la caduta di Troia e a suo nipote Italo che si impadronì della punta estrema della Calabria. I Troiani « fondarono » Síris, presso Metaponto, e Segesta in Sicilia; í Pelasgí Spina alle foci del Po. Omero conosce la città di Temessa nell'Italia meridionale. Infine di particolare valore è il mito nazionale di Roma con il viaggio del troiano Enea verso l'Italia fino alla fondazione della città (753 a. C.), un mito attentamente e consciamente elaborato, la cui importanza non va sottovalutata. Nel 263 a. C. la città di Segesta fu risparmiata dai Romani silo perché era stata fondata dal loro antenato troiano, Enea. A stare ai numerosi ritrovamenti di vasi micenei presso Taranto e Agrigento, nelle isole Eolie e a Pitecusa (Ischia) 6 - secondo Livio la più antica colonia greca
2 Tomba a cupola di Sant'Angelo Muxaro presso Agrigento. a Pianta e sezione. Diametro m 5,8. b-c Calchi di due anelli a sigillo. Due volte la grandezza naturale. d Brocca. Diametro cm 30. a-c Da: B. PACE, Ori della reggia Sicana di Carico. Archaiologiki Ephimeris I, 1953-1954. Atene 1955. d Da: P. Οεtsτ, La Necropoli di Sant'Angelo Muxaro (Agrigento), Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti di Palermo III, 17, 1932.
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3 Pithos eteocretese. Altezza cm 54,5. Fine dell'isis secolo. Gela, Museo Archeologico. Riproduzione originale.
d'occidente — tutte queste leggende sembrano possedere un nocciolo storico. A Lipari pare siano state rinvenute persino iscrizioni minoiche. Ma l'inizio della colonizzazione greca in occidente potrebbe risalire, con un certo grado di probabilità, addirittura al secondo millennio a. C. grazie a un'altra leggenda, qualora questa non venga considerata una favola poetica, ma le si attribuisca un fondo di verità, sia pure velato dai colori del mito. Proprio nel secondo millennio, Dedalo, il favoloso artista, sarebbe sfuggito al suo re, Minosse di Creta, e sarebbe infine giunto in Sicilia. Qu~~ egli fece per il santuario di Afrodite a Erice meravigliosi favi d'oro. In effetti a Erice sono state rinvenute api d'oro. Costruì anche per il re dei Sicani la inespugnabile fortezza di Kamikos a nord di Agrigento. Il re Minosse decise allora di ricondurre indietro con la forza il fuggiasco, che gli era indispensabile come ingegnere e come artista, e perciò mosse con un esercito alla volta della Sicilia. In un primo momento egli negoziò amichevolmente con il suo nemico Kokalos, ma poi quest'ultimo lo trucidò nel bagno (asaminthos). Al defunto re Minosse fu eretto un monumento funerario con un tempio ad Afrodite, che noi potremmo configurarci soltanto nella forma dell'edificio sacro miceneo. Questo monumento fu distrutto appena intorno al 500 a. C. dal tiranno Terone. Una testimonianza della forza dell'influenza « micenea » in Sicilia si ravvisa nella tomba a cupola di Sant'Angelo Muxaro a nord di Agrigento 6 Questa è impensabile senza la conoscenza delle tombe
Fig. 2
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principesche dell'epoca micenea. Le tazze d'oro e gli anelli a sigillo rinvenuti in essa sono derivati dalla oreficeria tardo-micenea. A stare ai reperti ceramici, ai defunti sepolti in questa tomba vennero recate offerte fino al ντ secolo a. C., come accade anche per la tomba a cupola dí Menídi presso Atene. La
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forma e la decorazione di alcuni ρithoi rinvenuti a Butera e a Gela sono inspiegabili senza i prototipi minoici La ceramica sicula ovviamente dipende dal patrimonio formale tardo-miceneo. Ma anche se í '.
reperti degli scavi non risalgono fino al secondo millennio a. C., potrebbe trattarsi di opere eteocretesi, realizzate perfino nel vii e nel ντ secolo a. C. da Cretesi minoici nel loro tipico linguaggio formale
dell'ultima fase dell'arte minoica. Gli scavi sembrano provarlo almeno per Gela, fondata intorno al 690 a. C. da Cretesi (e Rodii). Vasi dell'ultimo periodo miceneo sono stati rinvenuti persino nella lontana Cerveteri in tombe del ντ secolo a. C... 15
Fig. 3
Ma questa tradizione mitica giunge ancora più in là e sembra trovare validi punti di appoggio nell'ambito de lle certezze storiche. I Sicani respinsero l'esercito lasciato dal re Minosse fino al mare e bruciarono le navi degli assalitori, cosicché i Minoici furono costretti a rimanere in Sicilia. Costoro si stanziarono lungo la costa a Makara, che fu chiamata anche Μ~noa. t assai improbabile che questa città di Mmnoa sulle coste meridionali della Sic il ia non si identifichi con la colonia di Eraclea, fondata nel ντ secolo a. C., la quale, per distinguerla dalle altre città di questo nome, fu chiamata appunto Μ~nia, in memoria dell'antica fondazione minoica del secondo millennio a. C.. Ma anche se tale identificazione fosse erronea e tutte le leggende, cui accennammo, non fossero che favole, bisognerebbe sempre dedurre dalla tomba monumentale, a torto o a ragione attribuita a Minosse, sopravvissuta alle migrazioni dei popoli del 1000 a. C. circa e distrutta appena nel 500 a. C., che l'influsso minoico i n Sicili a dovette essere tutt'altro che irrilevante. Volendo chiarire alla luce della storia queste tracce dell'influenza minoica in occidente, bisognerà rifarsi alle migrazioni dei Minoici e dei Micenei all'epoca di Ramsete III. L'invasione della Grecia da parte di genti provenienti dal nord provocò una migrazione di popoli nell'area del Mediterraneo orientale. Fu allora che Eoli e Ioni furono spinti sulle coste anatoliche. I Cretesi minoici sciamarono a frotte verso Cipro e la Siria e una parte di essi potrebbe benissimo essersi diretta verso occidente, come lasciano credere le leggende che abbiamo ricordato e i vasi reperiti negli scavi. Nell'ottavo e nel settimo secolo (e siamo ormai nell'ambito della storia) giungono poi i coloni greci; questi dovettero incontrare a Taranto, ad Agrigento e a Ischia i discendenti degli antichi colonizzatori, che, anch'essi di stirpe greca, facilitarono la sacra fondazione delle città, che noi conosciamo come colonie della Magna Grecia, e consentirono loro un più rapido sviluppo e una maggiore floridezza. Queste ipotesi rendono più complesso il problema dell'arte greca, ma al tempo stesso lo arricchiscono e lo approfondiscono.
L'ARTE DELLA MAGNA GRECIA
L'arte figurativa della « Magna Grecia» c i è nota attraverso ritrovamenti casuali, scavi clandestini e scavi sistematici condotti nell'Italia meridionale e in Sicilia. Sfortunatamente, a partire dai tempi del Risorgimento, la ricerca archeologica non è andata di pari passo con lo sviluppo economico dell'Italia meridionale. Così, ad esempio, le necropoli di Agrigento furono spogliate da entusiastici amatori di vasi greci e gli oggetti di scavo venduti. Queste necropoli contenevano i più bei vasi attici che si conoscano. Inoltre, poiché ai ricercatori di quell'epoca interessavano esclusivamente i pezzi piú belli e più preziosi, gli altri oggetti meno appariscenti, ma non meno importanti, andarono perduti. Questo è accaduto dovunque: a Nola, a Gela, a Ruvo, a Taranto. Le tombe d i Taranto, favolosamente ricche, con la loro meravigliosa simbologia funeraria, furono distrutte sessant'anni or sono dal rapido estendersi della città moderna. I loro preziosi corredi, dei quali solo una piccola parte si è salvata, sono sparpagliati nelle collezioni di tutto il mondo. Pochissimi . pezzi si trovano nel Museo Nazionale della città. A Taranto resta ormai solo un'ultima possibilità, quella di scavare la parte della città antica, sotto piazza Archita, dove ancora non sorgono edifici moderni e a oriente presso le mura cittadine. I resti, assai meno ricchi, dell'antica città di Metaponto sono stati, solo pochi anni fà rapidamente e radicalmente distrutti. Sol,
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Tay. II — Due fanciulle -n fuga. Dal tempio in Contrada Griso Laboccetta a Reggio. Terracotta. Larghezza cm 96,3. Circa 530 a. C. — Reggio.
tanto alcuni magnifici pezzi, come íl corredo della tomba di un eroe, furono tratti in salvo e inviati a Saint Louis e a Basilea. Tutto il resto è stato polverizzato dai bulldozers. Si deve all'opera, di inestimabile valore, di Paolo Orsi e dei suol collaboratori che, con modernissimi mezzi e spassionata dedizione, scavarono le città della Sicilia, se qualcosa si è salvato dalla distruzione. Quanto oggi si p υò ammirare nei Musei di Siracusa, di Gela, di Reggio (materiale che proviene da Locri, da Medma, da Caulonia), è stato in gran parte riportato alla luce da questo « archeologo militante», come egli stesso amava definirsi. Egli è stato il fondatore della Società Magna Grecia, alla quale dobbiamo, grazie alla energica opera e all'acume di Paola Zancani-Montuoro e Umberto Zanotti-Bianco, la scoperta e la salvezza del santuario, già famoso nell'antichità, dedicato a Era presso la foce del Sele, che è il solo a lasciarci intravedere lo splendore e la ricchezza dei santuari greci nel lontano occidente. Anche se í ritrovamenti di questi ultimi decenni sono ben poca cosa di fronte al materiale distrutto, pure essi schiudono una nuova valutazione dell'arte della Magna Grecia. Mentre prima (e qua e là ancor oggi) questa veniva considerata come l'eco provinciale dell'arte della madrepatria, ora l'originalità della sua struttura e del suo contenuto spirituale si va facendo sempre più chiara. Questo intendono illustrare le pagine che seguono. La generazione dei fondatori delle colonie era formata da Greci di razza pura: Corinzi (Siracusa), Achei (Locri), Calcidesi (Cura), Spartani (Taranto), Cretesi e Rodii (Gela, Agrigento), Focesi (Velia) Essi portarono con sé le statue degli di patrii, ma al tempo stesso, con essi, giunsero anche gli artigiani che dovevano soddisfare il bisogno di oggetti votivi e di vasi per la vita quotidiana, per il culto divino e funebre. Furono questi primi artisti a gettare íl seme dell'arte della Magna Grecia i cui incunaboli, infatti, si possono cogliere nelle pil'i antiche sculture di Taranto, di Metaponto e di Siracusa. Essa si sviluppò successivamente traendo nutrimento dalla nuova terra e dalla nuova intima essenza degli uomini, nata dalla mescolanza di sangue fra Greci e popolazioni autoctone. Anche il modo di manifestarsi della divinità muta nella sensibilità religiosa di questi coloni della Magna Grecia: ne sono istruttiva testimonianza í ritrovamenti di Locri e di Paestum. Poiché quasi tutte le opere d'arte, tornate al la luce in queste colonie, appartengono al culto divino o funebre, l'esame dell'arte della Magna Grecia dovrà necessariamente prendere le mosse da quest'ambito. Mancano fonti letterarie in proposito. In verità sono numerosi gli accenni alla forza e alla potenza delle credenze orfiche, al cui profondo influsso lo stesso Platone non si sottrasse, e di altre sette religiose che si rifacevano alle dottrine di Zaleuco e di Pitagora. Ma le nostre conoscenze in questo campo sono a tal punto confuse e rese astruse dalle aggiunte tardo-antiche, che tutta la tradizione è ritenuta sospetta dagli studiosi moderni. Le tavolette orfiche d'oro rinvenute a Turii e a C οriglianο 9 non vanno né sopravalutate, né tenute in poco conto. Da esse traspaiono concezioni religiose ignote alla madrepatria. Questo nuovo modo di avvertire í problemi dello spirito e della religione, che si andò configurando in una veste affatto originale nel corso della storia delle colonie d'occidente, è íl necessario punto di partenza per poter realmente comprendere la produzione artistica della Magna Grecia. Nella quasi totale mancanza di altre fonti, dovremo tentare di dedurre le forze creatrici di quest'arte dalle sue stesse testimonianze. Questo tentativo è appena agli inizi. Le diverse versioni di famosi miti greci nell'arte figurativa delle colonie occidentali potrebbero gettar luce sul problema. Ma bisogna prendere in considerazione anche altre testimonianze o fferte dalla tradizione, in genere poco considerate. Si pensi soltanto all'importanza rivestita da Apollo nelle dottrine catartiche e guaritrici dei Pitagorici. Sappiamo che í Lucani, i Messapi, í Peucezi e persino í Romani aderirono in massa a queste sette, tanta suggestione esse esercitavano sugli uomini di quell'epoca. 18
Ταν.. III — Dio in trono. Da Paestum. Τerr2cotta. Αltcν a du 90. Circa 520 a. C. — Pa:, tum. — Cfr. tap IV.
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Si pensi ancora a un frammento di Eschilo nel quale s i dice che i seguaci dell'orfismo veneravano Dionisio come protettore dell'Italia greca. Si spiega probabilmente così la frequenza delle raffigurazioni dionisiache sui vasi e sulle suppellettili e, ugualmente, la predilezione per il cantaro, la forma preferita dal dio per le sue libagioni. Anche i Sileni, personaggi del thiasos dionisiaco, sono interpretati in maniera caratteristica. A volte, nelle città dell'Italia meridionale statue di Sileni erano co llocate nelle piazze del mercato. Ne è stata rinvenuta una Paestum. Al confronto con i suoi fratelli greci questo Sileni ha una natura completamente diversa e possiede un certo grado di comicità. In questo periodo, soprattutto nei decenni sempre più travagliati della conquista romana, i Lucani e i Bruzzii, parzialmente grecizzati, veneravano Dionisio-Liber-Pater come dio della libertà (forse confondendolo con Lyaios). Perciò la soppressione del culto di Dionisio da parte dei Romani non fu probabilmente originata soltanto da ragioni morali, ma fu una mossa politica intesa a esautorare i l dio greco che proteggeva la libertà dei popoli sottomessi. L'intrecciarsi delle concezioni religiose, sociali e politiche e delle corrispondenti reazioni fa di alcuni vasi dell'Italia meridionale, artisticamente di poco valore, preziose testimonianze delle forze politiche, religiose e spirituali che agiscono nel iv e nel ιιι secolo a. C. È senza dubbio importante per conoscere l'arte della Magna Grecia nelle sue forme, nella sua struttura e nei suoi contenuti, tener sempre presenti questi fermenti delle popolazioni italiche indigene. Ma volendo cogliere la portata e la grandezza dello spirito della Magna Grecia, delle quali le arti figurative conservano solo una debole eco, bisognerà studiare profondamente le testimonianze di questo tipo e non meno, al tempo stesso, l'in fluenza esercitata dalla poesia, da Stesicoro (640-550 a. C.) a Epicarmo, e dal pensiero, da Pitagora ad Archimede. È noto come i Greci dell'età classica non attribuiscano grande valore all'arte figurativa e come raramente accennino a essa, malgrado la loro naturale sensibilità per la bellezza della forma. Tuttavia per l'arte della Magna Grecia non si può parlare di omogeneità, poiché le forme artistiche spirituali che ad essa presiedono variano da città a città. Il tentativo di Ierone, di Dionisio, di Duketios altri, d i unificare politicamente i greci d'occidente falli proprio per il particolarismo delle città greche che rifiutavano di essere sottoposte a un potere esterno. Grazie alla sacra fondazione ogni colonia aveva ricevuto inizialmente dalla città-madre una sua particolare fisionomia, soprattutto per quel che concerneva il suo culto e la sua costituzione. Ma ben presto queste differenziazioni cominciarono a farsi meno nette per l'ascesa delle classi inferiori della popolazione, per la mescolanza con gli abitanti indigeni e soprattutto per la ricchezza e per la floridezza di molte città, che finirono per l'occuparsi sempre di più del lusso e degli aspetti materiali dell'esistenza. Questa scomparsa della fisionomia tipica di ogni città è testimoniata anche nell'arte, giacché i tipi e le forme del repertorio figurativo spesso vengono scambiati fra città e città. Essi sono diffusi da copie d i argilla, facilmente ottenibili, e soprattutto dagli artisti stessi e dalle loro botteghe che giravano in cerca di ordinazioni. t difficile distinguere le varie scuole artistiche per le opere di qualità superiore, la distinzione è invece assai più facile per la produzione popolare. Se si osservano gli oggetti di scavo provenienti da città come Leontini, Caulonia o dalla stessa Locri, ci si meraviglierà nel vedere quanto a lungo si siano conservate, accanto alle forme stilistiche greche contemporanee, quelle locali, geometriche, assai primitive e quanto poco la ceramica più corrente delle necropoli risenta della tipologia greca. Persino nella produzione scultorea d i queste città esiste un'« arte popolare» piena di fraintendimenti dei modelli greci. Spesso si coglie in essa la penosa mancanza della chiara struttura plastica dei corpi. Ma i confini fra mondo greco e mondo italiota restano fluidi in ogni ambito e non possono venire tracciati con esattezza. Questi prodotti provinciali sono o doni votivi e suppellettili funerarie di abitanti dell'entroterra calabrese soltanto in parte grecizzati, oppure testimonianze 20
Ταν. IV — Dio in trono. Da Paestum. Terracotta. Altezza cm 90. Circa 520 a. C. — Paestum. — Cfr. Ταν. III.
lasciate dagli indigeni ai quali, in alcune colonie, come accade a Corinto intorno al 1000 a. C., fu concessa la cittadinanza. Questo tipo di produzione deve aver accelerato anche nelle arti fi gurative i l processo di dissoluzione, come, ad esempio, s i può osservare fin dal v secolo a. C. a Crimisa (Girò). La costante infiltrazione di forme indigene nell'arte delle colonie greche d'occidente rappresenta un fattore essenziale per la formazione di quell'ambiente storico che noi definiamo appunto Magna Grecia. L'arte italiota si differenziò di regione in regione, a seconda che le influenze le provenissero dagli Iapigi, dai Lucani, dai Bruzzii, dai Sicani o dai Siculi. Esiste poi anche un'altra componente, che naturalmente è ancora meno tangibile: l'antichissima appartenenza della Sicilia e dell'Italia meridionale alle culture megalitiche che datano dal decimo al secondo millennio a. C.. Il loro epicentro appare spostato piú a occidente, in Spagna (Altamira) e in Francia (la Dordogne). Nei ritrovamenti delle Baleari, della Sardegna, di Malta e di Pantelleria è documentata soltanto un'eco tarda. In Sicilia e nell'Italia meridionale, in epoca storica, sembrano essersi conservati sintomi di tendenze strutturali megalitiche solo in opere provinciali e attardate, le quali però, proprio per la loro struttura così antiquata, sono storicamente importantissime. Si pensi al santuario della sorgente presso Cefalù, a Centopietre presso Gagliano e a molte altre località 10. Per i giganteschi, ibridi templi di Selinunte (G) e Agrigento (Olympieion) 11 si potrebbe pensare al riaffiorare di questo sostrato megalitico, anzi, per alcuni aspetti, a una sua in fl uenza determinante. Ma anche innumerevoli altri fenomeni artistici della Magna Grecia, in cui riappare questa predilezione per le dimensioni smisurate, ad esempio i l candelabro del Pritanco di Taranto, che aveva 365 luci, tante quanti i giorni dell'anno, o l'Eracle seduto della stessa città, che era alto 16 metri, potrebbero forse essere ricondotti a queste stesse origini culturali e artistiche. Tutti questi fattori e questo sostrato, al quale abbiamo accennato, continuano ad agire come componenti di fondo nell'essenza dell'arte della Magna Grecia. Il quadro delle forze e dei conseguenti rapporti di tensione fra queste componenti cambia di luogo in luogo e di epoca in epoca. Probabilmente un ulteriore, importante fattore era rappresentato dai desideri manifestati agli artisti da coloro che commissionavano l'opera, diversi a seconda che si trattasse di Greci, di incroci fra Greci e indigeni o di indigeni veri e propri. Queste componenti di fondo affiorano con molta più energia in occidente, soprattutto nelle colonie che erano troppo deboli per conservare pura la fisionomia culturale ed artistica conferita loro dalla città-madre, che non sul suolo della Grecia vera e propria, dove, tuttavia, s i possono cogliere nelle regioni culturalmente attardate come la Boezia e l'Arcadia. Il quadro così multiforme e mutevole dell'arte della Magna Grecia è determinato in conclusione da questi elementi: l'influenza concomitante di tutte le componenti già ricordate e l'alterno flusso di sangue, spirito e forme greci, dovuto agli eροikοi (coloni) soprattutto negli anni decisivi della resistenza ai Cartaginesi intorno al 480, ma, anche, nel felice secolo (410-310 a. C.) di stretti contatti con la madrepatria. Per quest'arte è determinante i l grado e il modo in cui in ogni singola opera concorrono l'elemento greco e quello indigeno. Probabilmente per un istintivo senso di difesa di fronte alla dissoluzione della forma, avvertita come un pericolo, l'arte della Magna Grecia è, a volte, conservatrice e arcaicizzante, ma altre volte questa stessa arte geniale nell'attingere arditamente proprio all'allentamento delle forme. Nelle località periferiche essa 155 è di qualità assai inferiore, nettamente provinciale, allo stesso modo che nelle regioni più attardate della Grecia, come la Tessaglia, l'Elide o l'Arcadia. Tuttavia negli artisti occidentali la sensibilità per le qualità plastiche del corpo umano è più debole che in quelli della madrepatria. Per il Greco d'occidente i l corpo umano ideale non è tanto quello maschile, quanto quello femminile, tanto è vero che in epoca tarda il primo viene decisamente soppiantato dal secondo; di conseguenza l'artista occidentale trae anche minor godimento da un corpo atleticamente perfetto. In sostanza, la raffigurazione del 22
corpo umano tende più a un effetto decorativo esterno che alla resa della reale organicità. Già questo tratto essenziale differenzia l'arte della Magna Grecia da quella della madrepatria. La sua particolare bellezza è riposta nella resa dei moti psichici, delle passioni, anche nell'accentuazione dei gesti emotivi e, a volta, nel realismo dei tratti fisionomici. In alcune branche della plastica essa è ovviamente inferiore all'arte della Grecia; ma in quei settori della produzione artistica che sono più congeniali allo spirito e alla volontà di rappresentazione tipici della Magna Grecia, essa ha creato capolavori che non solo non sono inferiori a quelli greci, ma a volte addirittura li superano. Inoltre quest'arte riveste una particolare importanza giacché fu proprio la versione italiota dell'arte greca a influenzare fortemente l'architettura e la pittura degli Etruschi, dei Campani, dei Latini e infine dei Romani, concorrendo, grazie a questi ultimi, a determinare, al di là della tarda antichità, il volto dell'arte dell'occidente.
PROBLEMI STILISTICI La problematica dell'arte della Magna Grecia risulterà forse in maniera p'.ù immediata dall'esame di tre statue, in trono di dee-madri. L'immagine culturale marmorea di una dea in trono, rinvenuta a Taranto, ha un aspetto così greco che con ogni probabilità è opera di un artista greco. Sia che questi abbia creato la sua opera nella madrepatria o quale cittadino di Taranto, la statua è, nell'aspetto e nella resa delle forme, fi n nell'ultima piega del suo abito, puramente greca.
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L'esatto contrapposto di questa dea-madre è la statua cultuale di terracotta proveniente da Megara Iblea. Non soltanto la dea accosta due lattanti al suo seno (e per la sensibilità greca questa sarebbe una forma troppo umanizzata de ll a divina maternità), ma anche la struttura di questa statua non è greca
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nella mancanza di tettonica in tutta la figura. Essa è formata esclusivamente da curve, sporgenze e incavi ed è concepita partendo da una forma chiusa e arrotondata. Grandi pieghe incurvate racchiudono come fasce l'immagine plastica. Una volontà formale non greca, eppure grandiosa, scaturisce da questa statua. Una simile predilezione per le forme turgide che si incurvano in sporgenze e in avvallamenti non si incontra in nessuna figura umana greca di quest'epoca. Si potrebbe perciò ravvisare in questa raffigurazione della fecondità femminile un principio figurativo assai prossimo a quello megalitico che ha ispirato grandiose creazioni nella vicina Malta la. Al tempo stesso, fra questi due poli, da un lato la dea di Taranto con la sua forma rigidamente plastica e tettonica, dall'altro la statua di Megara Iblea con la sua tendenza alle linee ondulate e rigonfie, si colloca l'immagine cultuale o votiva di terracotta di una dea in trono, rinvenuta a Grammichele presso Siracusa. Il suo creatore si è chiaramente sforzato di apparire «greco »: si attiene a forme conven-
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zionali e segue i modelli greci per il portamento, í gesti e il dettaglio del panneggio. Come al maestro della dea di Megara Iblea, gli manca però una sicura sensibilità plastica per la struttura tettonica e per la delicatezza dell'epidermide del corpo umano. Inoltre egli si adopera, nella resa del corpo, di evitare la rigogliosa pienezza delle forme, cadendo nell'estremo opposto. Il portamento, í gesti e la forma disadorni e asciutti fanno di questa statua un'opera poco gradevole. Fra questi estremi si muove l'arte della Magna Grecia dalle origini alla decadenza. Le sue caratteristiche peculiari, soprattutto nella fase finale, sono l'allentamento della forma fino alla sua dissoluzione e la evidente predilezione per la resa ibrida ed esagerata dell'espressione nelle figure in movimento e nella fisiognomica. Solo nell'epoca della sua piena fioritura, dalla fine del ντ a tutto il iv secolo a. C., quest'arte manifesta la sua particolare bellezza.
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ARCHITETTURA
Fig. 4
La creatività della Magna Grecia si coglie nella maniera più tangibile e in tutte le sue gradazioni nell'architettura, che qui esamineremo brevemente soltanto allo scopo di illuminare il problema come tale 13. L'architettura infatti è la pifi onesta di tutte le arti: non può mentire, al massimo p υ~~mascherare. I templi della Magna Grecia, soprattutto il tempio di Posidone a Paestum e il cosiddetto tempio della Concordia ad Agrigento, a un primo sguardo, non si distinguono in nulla dai templi greci 14 . Ma basterà esaminare le forme singole, la loro sintassi nella compagine architettonica e soprattutto la loro corporeità spaziale perché appaiano evidenti, nelle deviazioni dal canone dorico, le caratteristiche tipiche dell'arte della Magna Grecia. Le cause di tutto ciò sono molteplici e varie. Vi sono innanzi tutto ragioni tecniche, dovute al materiale impiegato. Nell'Italia meridionale non esiste marmo per la costruzione dei templi. Il calcare, d'altro canto, è pifi tenero di quello della madrepatria e per lo p ~ù non così omogeneo. Sono necessari perciò un diverso calcolo statico per la struttura dell'edificio e differenti rapporti proporzionali. In particolare poi il calcare poroso ha bisogno di essere protetto dalle intemperie da rivestimenti di terracotta lungo il cornicione e l'orlo del tetto (geison e sima). In tal modo il corpo dell'edificio assume un aspetto ancor p ~ ù pesante e goffo di quello dei templi greci di poros. Al tempo stesso però questi rivestimenti soddisfano il gusto tipicamente italiota per l'ornato e il colore, che a volte si accentua spropositatamente fino a produrre forme idride, come a Chrò e persino a Locri. Senza alcuna necessità reale, ma solo per amore di abbellimenti furono posti invece la statua di un cavaliere sulla sommità del tetto (kalipter), (Gela), e forse anche antefisse e figure agli angoli del frontone, come più tardi in Etruria e a Roma. Tutto ciò si spiega pensando che gli architetti italioti concepissero l'edificio sacro non come una massa plastica articolata secondo nessi vincolanti, ma piuttosto come una entità spaziale. Le colonne, perciò, non furono intese nella loro funzione, simile a quella dei muscoli nel corpo umano, ma assai pifi come statici elementi mediani di sostegno. Di conseguenza nel ντ secolo lo sviluppo del fusto della colonna e del capitello non si compie nell'ambito di una morfologia somatica profondamente sentita come nella madrepatria. Quasi tutte le colonne di questo secolo si attengono a ll a forma protoarcaica, usata dagli architetti della Grecia intorno al 600 (si veda il p~ù antico capitello di Agrigento, che risale al 585 a. C.). Sulla medesima linea si colloca la persistenza della gola, profonda e accentuata, fra il capitello e il fusto della colonna e, a volte, del fregio ornamentale posto in questo punto. Nella madrepatria questo elemento intermedio scompare subito dopo il 600 a. C., perché avvertito come un ostacolo al potente flusso di forze racchiuse nel corpo della colonna. Intorno al 500 a. C. gli elementi greci acquistarono un nuovo vigore in seguito a una nuova ondata di coloni, che fuggivano probabilmente la minaccia persiana. La forma della colonna e del capitello si ricollega ora al coevo, moderno canone della madrepatria. Ma anche questo nuovo tipo, a partire dal 430 a. C., non si sviluppa in occidente allo stesso modo che in Grecia, ma resta ancora una volta stazionario come già nel ντ secolo a. C. Sarebbe un errore voler vedere in questo un indizio di provincialismo, poiché gli architetti italioti miravano a effetti spaziali, non alla funzionalità delle singole parti dell'edificio. Ciò si coglie soprattutto in pianta, nel rapporto fra la cella e la peristasis, ossia il colonnato esterno. Ci si assunse volentieri la difficoltà tecnica di coprire con architravi lignei il colonnato troppo ampio di un tempio pseudodiptero perché si schiudevano, in tal modo, punti di vista e prospettive completamente nuove. L'articolazione della facciata nel tempio D di Selinunte e nel tempio di Atena e Paestum sono grandiosi esempi di questo processo di allentamento e di arricchimento della fronte del tempio 15 • Ma il desiderio di dar forma allo spazio si esprime con maggior forza nel rapporto fra cella e colonnato (peristasis). A tal punto lo spazio si configura come una sacra via, come una sublimazione della maestà 24
• •
• • 4 Selinunte, tempio D. Pianta e fronte orientale. Da: Β . PACE, Arte e Cui/Id della Sicilia antica, II, 1938.
• ι • . •
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ΙΙηι
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5 Selinmite, ~ 1 tempio dí Era (E). Pianta. Da: G. Gauirni in Berve-Cruben-Hirmer 1961. Sezione longitudinale da: HITrDORF-ZANTH, Selinunt. Scala 1 : 800.
religiosa, che alcuni di questi edifici, anticipando una tendenza tipicamente proto-cristiana, hanno sulla fronte una scalinata. Il pronao, come solenne atrio, è particolarmente profondo, tanto che l'opistodomo scompare. In tal modo la cella indietreggia sempre píú all'interno del suo baldacchino di colonne. Piú tardi, nei templi etruschi e in quelli romani, che dipendono da questo tipo di struttura spaziale, l'edilicii sacro sari concepito soltanto in funzione di un effetto fro ntale, dalla scalinata al pronao e alla cella, e non possiederà più un lato posteriore. Persino il livello della cella è innalzato fino a quello della statua cultuale, come a volte succedeva in un piccolo adyton. Ancora una volta si può ravvisare qui un'evidente anticipazione dell'edificio sacro proto-cristiano. Un'ulteriore sopraelevazione si ottenne collocando il tempio su un podio. Indubbiamente tutti questi tratti trovano per molti versi dei precedenti nella architettura ionico-orient al e del ντ secolo a. C. (tempio di Atena a Mileto), ma furono sviluppati in modo conseguente solo in occidente ls .
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Fig. 5
Fra le caratteristiche dell'arte della Magna Grecia va annoverato anche l'uso contemporaneo delle forme architettoniche doriche e di quelle ioniche. Nel tempio di Atena a Paestum è stata raggiunta in signifital modo una grazia completamente nuova, estranea alla severa logica dell'ordine dorico 16 cativo che questa mescolanza dei due ordini inizi in occidente già intorno al 500 a. C., ossia assai prima che in oriente. Si pensi ai templi rappresentati sui rilievi di Locri e alle sire di Cirò. Parlare in questo caso di mancanza di disciplina artistica e di provincialismo, equivarrebbe a riconoscere gli intendimenti proprii dell'architettura italiota. Per tutte queste ragioni bisognerà supporre che all'interno del tempio il tipo di vano ipetrale (la cella priva di tetto) era più frequente di quanto non si pensi. Era stata sicuramente adottata nel tempio G di Selinunte, nel tempio di Apollo a Crimisa (Cirò), nell'Olympieion di Agrigento e nel tempio tardoellenistico di Canosa 17 . Anche sotto questo profilo sussistono analogie con la I οnia orientale (tempio di Dydima e forse già quello di Efeso). L'accrescersi delle dimensioni, che rendeva impossibile tecnicamente la copertura del tempio, avrà concorso in larga misura, assieme alla particolare concezione dello spazio degli artisti occidentali, a determinarne l'aspetto. Esistono però anche edifici sacri più piccoli, come il tempio arcaico di Apollo a Pompei, che all'interno di un ampio colonnato presentano una minuscola cella isolata e priva di nessi architettonici con il resto della costruzione. Anche per il tempio, certamente incompiuto, di Segesta l'ipotesi più probabile è ancora quella di una disposizione degli spazi •
Fig. ~~
Fio. 7
6 Tempio di Apollo Alains a Crimisa (Cirò Marina). Pianta e sezione longitudinale. Da: P. last in Atti e Memorie della Societd Magna Grecia
(1932), Roma 1933.
• • • • • • •
ο
7 Tempio arcaico di Apollo a Pompei. Pianta.
Da: A. Μων, Pompei, und Kunst, 1908.
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in Leben
ι
3
λ
lo
a 8 a) Modellino di terracotta di una grotta con sorgente di Locri. Reggio, Museo Nazionale. b) Modello di terracotta di una grotta santuario di Locri. Ricostruzione. Entrambi da: AA, 1941 (figg. 131 e 133).
b
di questo tipo. In questo caso non solo deve essere stato determinante il desiderio di far forma e di articolare lo spazio, ma anche quella tendenza all'esagerazione che già Empedocle criticava negli Agrigentini: « Gli Agrigentini mangiano e bevono smodatamente come se dovessero morire l'indomani e costruiscono come se dovessero vivere per tutta l'eternità ». Se si volessero descrivere con un certo cinismo questi edifici, nei quali il tipo architettonico è portato fino alle sue estreme conseguenze, e che in effetti, compaiono esclusivamente in zone periferiche, ellenizzate solo per metà, come Pompei e Segesta, si potrebbe dire che essi da lontano fanno l'impressione di costruzioni grandiose, mentre all'interno il vano sacro destinato all'immagine cultuale, che originariamente era la parte più importante dell'intero tempio, è ridotto a dimensioni minime. Ma dobbiamo accennare anche ad altri tratti caratteristici dell'architettura della Magna Grecia. Soltanto qui infatti si incontrano, già nel vι secolo a. C., grotte e strutture absidali con numerose piccole nicchie che tipologicamente, ma non storicamente, precorrono le più tarde absidi trilobate 18. Dalla medesima sensibilità architettonica scaturiscono gli archivolti collocati in luogo degli architravi fra colonna e colonna 19 quali si sono conservati a Centuripe e a Pompei. Non a caso perciò il capitello corinzio con la sua corona di foglie, così instabile e pittoricamente mossa, poté svilupparsi a Taranto e a ,
Siracusa. Esso venne poi adottato ad Alessandria e caratterizzò in modo determinante il capitello repubblicano romano fino a che il classicismo atticista dell'età augustea non lo privò della sua esuberanza e delle sue anomalie 20.
ΡΙΤTURA Come nell'architettura si possono ravvisare alcuni tratti salienti della creatività degli artisti della Magna Grecia, così l'essenza stessa della loro concezione figurativa si coglie con immediatezza ancora maggiore nella produzione pittorica. Infatti nella storia delle arti figurative in tutte le epoche nelle quali si tende a porre l'accento più sul rendimento spaziale che nn su quello fisico e plastico, la pit-
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Fig. 9
tura occupa un posto d i preminenza. Ma la grande, famosissima pittura della Magna Grecia per noi perduta per sempre. Soltanto gli innumerevoli vasi dipinti rinvenuti nelle città della Sicilia e dell'Italia meridionale possono riempire in qualche modo, naturalmente a volte solo in misura assai modesta, questo vuoto. Certo già i primi coloni fabbricarono vasi di terracotta per l'uso quotidiano, per il culto degli di gli uffici funebri. Questo vasellame modesto ci è noto dalle tombe più antiche, soprattutto di Siracusa di Gela. Il prospero tenore di vita fece si che s ~~ importassero anche costosi vasi dalla madrepatria. Ma come la vite e l'olivo anch'essi importati dalla Grecia, misero nuove radici su suolo italico e diedero nuovi frutti, così, fi n dall'inizio del νιτ secolo a. C., Siracusa, Gela, Megara Iblea, Cura e Pitecusa (Ischia) produssero una propria ceramica di alta qualità, che discendeva naturalmente da prototipi greci, anche se non sempre da quelli della città-madre, ma che sviluppò forme e motivi decorativi particolari. Questa ceramica, che a volte a Gela e a Megara si differenzia notevolmente dai suoi modelli, non è ancora stata studiata. Un identico processo si compie anche in Etruria, solo che qui lo sviluppo della ceramica dipende molto più strettamente dai prototipi greci, per meglio dire dalle botteghe artigianali immigrate, le quali però appaiono già imbarbarite dopo una generazione. Questo influsso greco si avverte persino nella produzione vascolare dell'im e del νττ secolo a C. nell'entroterra di Agrigento e d i Cartagine. Continua inoltre la mescolanza di forme e motivi decorativi greci nella ceramica delle regioni intermedie, che rimane ancora per lungo tempo allo stadio preistorico, soprattutto a Locri e a Leontini e nei loro dintorni. Questi prodotti ibridi, raggiunti solo in misura minima dalla in fl uenza greca, sono meno importanti ai fi ni del problema che queste pagine intendono chiarire, e non rientreranno perci ~~nel nostro esame. Furono i vasai e i pittori che giunsero insieme ai primi coloni a gettare le basi della pittura vascolare della Magna Grecia sotto il profilo della tecnica, della decorazione e del disegno. Gli studiosi hanno spesso incomprensibilmente negato una produzione di vasi greci in occidente fra il νττ e il i secolo a. C.. Ma sarebbe assai strano se vasai e pittori greci non s ~~ fossero stabiliti nell'Italia meridionale e nell'Etruria in modo da poter fare affari migliori di quelli consentiti dalla costosa esportazione dei prodotti da Atene. Sarà stato assai più consono alla sensibilità mercantile dei Greci far fare ai ceramisti e ai pittori, particolarmente apprezzati dagli amatori della ceramica attica, tournées d ~~laviro da Taranto a Bologna, per soddisfare in tal modo le richieste dell'occidente, senza ricorrere all'espediente più costoso della esportazione, tanto più che nel viaggio una certa parte delle merci andava inevitabilmente in frantumi. Innumerevoli vasi da olio, coppe e crateri « attici » di qualità corrente sono dipinti da artisti dei quali non s i ha traccia nella madrepatria. Probabilmente si tratta di artisti migrati in occidente perché nel loro paese di origine non riuscivano a guadagnarsi sufficientemente da vivere. Ma in occidente s ~~ trovano a volte anche vasi di alta qua!ità che, per forma e rappresentazioni, difficilmente trovano paralleli in Attica: in essi si esprimono, forse, particolari richieste dei committenti italioti. È probabile anche che molti pittori s i siano poi definitivamente stabiliti in Sicilia e in Italia, divenendo essi stessi cittadini della Magna Grecia; è un'ipotesi inevitabile difronte a numerosi vasi a figure rosse di Gela, Camarina e Siracusa, come il cratere con farsa bacchica del pittore del Satiro irsuto a Siracusa c il caratere di Attenne al Louvre dovuto alla stessa mano. Il gran numero di opere create dalla bottega dagli allievi del pittore di Berlino e del pittore di Pan, rinvenute in occidente, fanno supporre la presenza di filiali delle botteghe artigianali di questi grandi maestri al di fuori della Grecia. Ma basta una sfumatura diversa nel modellato plastico di un vaso, ad esempio il piede di una lekyth οs plasmato a forma di trochilo o la curva, troppo accentuata per i l gusto attico, nel corpo d ~~ un vaso, a far trasparire il mutamento di forme e di stile che si sta compiendo. Anche in una raffigurazione così pienamente classica, come quella del pittore della phiale di Palermo, ai tratti del volto è impressa una pienezza di sentimenti ,
Fig. 9
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ÚnVζ~'J,~V{l' L.Ú:Ú•V~l'J.~L~ÚV:I'J.,I~JÚ~Ú~~1:V.U'.~ÚÚ,ÚÚÚnVIt~.Ú:~ ~ J,Út.V.l'J.I~J~V,V:V•V~ÚnV~Vlt1VnVnNIV_ t e~e~s
9 Farse bacchiche. Da un cratere del pittore del Sileno irsuto. Siracusa, Museo Nazionale Archeologico. Da: Mon. Lino. XVII 1906.
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10 Purificazione della figlia di Proitos. Da un cratere di Canicattíni. Disegno ricostruttivo di D. PTNKWART. Da: G. LmaRrsit, Il grande cratere da Cankattini del Museo di Siracusa. Bollettino d'arte, Serie IV, 35; Roma 1950.
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Fig. 10
che non si incontra in Attica in questo momento. L'opera fondamentale di J. D. BEAZLEY sui pittori di vasi attici potrà consentirci di studiare più a fondo il problema. Questo processo d ~~ « italicizzazione » che s0 compie a partire dal v secolo a. C., è stato messo in luce dal Trendall 21. Il pittore di Pisticci, il pittore di Hearst e il pittore di Tarporley sono, all'inizio della loro attiνità, artisti puramente attici. Si stabilirono poi nei dintorni di Taranto e nelle loro opere più tarde appaiono trasformati in artisti lucani. Una simile evoluzione s ~~ può ravvisare anche in Campania e soprattutto in Sicilia, ad esempio sui crateri « corinzi » di Camarina, di Siracusa e di altre località di cultura corinzia, così poco adatti alle composizioni a figure rosse; inoltre nella vasta produzione del pittore di Suessula e di molti altri, che si allontanano man mano sempre p0ì1 dallo stile attico per diventare artisti della Magna Grecia. Forse il problema potrà chiarirsi maggiormente se avremo la ventura di scoprire altre botteghe di ceramica a figure rosse, oltre a quelle oggi note d ~~ Atene, della Boezia e di Corinto, come quella, recentemente individuata, di Rhomaios in Arcadia. Come sia possibile l'inscutibile affιnità (non identità) nella forma e nello stile del disegno di a]cuni di questi vasi arcadici con quelli proto-apuli, è ancora un mistero. Mettere in luce questi problemi è però assai importante perché, se veramente i vasi a figure rosse trovati 0n occidente sono stati dipinti per committenti della Magna Grecia da ateniesi divenutine essi stessi colon0, allora questi vasi tramandano un patrimonio figurativo eccezionalmente prezioso per la storia del pensiero, della religione e della mitologia, offrono un contributo essenziale per la conoscenza del mondo delle colonie greche di occidente. Solo alla fi ne del v secolo a. C., dopo la caduta del predominio politico di Atene in occidente, la pittura della Magna Grecia acquista una sua impronta inconfondibile e originale. Si allentano sempre di più 0 legami di diretta dipendenza dall'arte attica. La sua forte in fl uenza, vincolante nell'ambito della forma, si affievolisce; va scomparendo perfino l'ideale della bellezza dei corpi, che diventano molli e poco atletici, a volte quasi femminei. Compaiono sempre p0ù frequenti alcuni espedienti pittorici come gl0 scorci e í tentativi di effetti prospettici. L'espressione del pathos nei gesti e nei tratti del volto raggiunge in alcune figure una intensità mai toccata nelle raffigurazioni vascolari della madrepatria. A volte si incontrano anche appassionati tentativi di introdurre nelle rafgurazioní architetture e paesaggi, entrambi soggetti non congeniali al genere della pittura vascolare. Un esempio particolarmente grandioso di questa tendenza è 01 cratere di Canícattini, ora a Siracusa, oggetto di una pubblicazione del Reichhold, del quale possiamo dare qui soltanto uno schizzo. L'alta qualità del disegno, il tipo della raffigurazione, così vicino al gusto greco, permettono di cogliere in quest'opera, con un'evidenza quasi unica, le peculiarità dell'arte della Magna Grecia. Vi è raffigurata l'iniziazione rituale di una fanciulla a un culto misterico. In un atrio nel quale, a sinistra, è collocata una piccola immagine cultuale della dea sono raccolti alcuni giovinetti che sacrificano un maialino sopra il capo di una fanciulla ignuda, in modo da lasciarne colare il sangue sul corpo dell'iniziata. Non sappiamo di che culto s ~~ tratti, come per la maggior parte delle raffigurazioni del genere. Il tentativo di rendere la profondità prospettica dell'atrio attraverso 0l cassettonato della volta, la disposizione delle figure, e soprattutto, la sensibilità espressiva dei gesti e dei volti, richiamano alcune monete di Catania e di Siracusa e fanno di questo dipinto una delle opere piú signi fi cative della pittura della Magna Grecia. La bottega da cui è uscito, attiva anche a Gela e a Lipari, appare come il centro di irradiazione delle scuole pittoriche di Falerii e, di conseguenza, del Lazio 22 .
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Ταν. V - Τestina di terracotta. Da Selinunte. Altezza cm 5. Circa 54& a. C. - Pale-m ο.
COROPLASTICA
L'essenza de ll 'arte de ll a Magna Grecia ha trovato inequivocabile espressione soltanto nella pittura e nell'architettura. t assai pili difficile isolarla nella massa quasi incalcolabile di statue fittili giunte fino a noi. Pure anch'esse sono testimonianze tipiche dello st il e greco d'occidente. L'immenso numero di statue rinvenute nei santuari e nelle grotte, che per altro non rappresentano esclusivamente divinità ma che a volte sono anche immagini votive di mortali, riconoscibili grazie ai loro attributi, ci danno un'idea del ,
fervore col quale venivano venerati a quei tempi in Sic ilia gli di e í defunti. Alcune usanze della religione cristiana, che oggi vanno sempre più scomparendo, forse dipendono ancora da riti della Magna Grecia. I riti funebri, in particolare, nei quali a volte si invocavano di notte, con smodate libagioni di vino, la presenza e l'aiuto di Dionisio, signore assoluto degli Inferi, non sono soltanto testimonianze dell'esaltazione religiosa che i coloni greci erano capaci di raggiungere nei tempi piú antichi, ma anche della loro mancanza di misura. I Greci della madrepatria ebbero bisogno di un numero assai inferiore di statue fittili per il culto degli di e dei defunti 23. Ma questa predilezione del popolo per le statue fittili non ha soltanto causato la presenza di un nu,
mero così smisurato di opere di questo tipo, ma anche la mancanza de ll a statuaria in marmo e in bronzo. Molti soggetti ai quali nella madrepatria era riservato un materiale più resistente, furono tradotti nella Itali a meridionale nella meno costosa terracotta. Perci ~~dalle colonie ci sono giunte anche statue fittili di grandi dimensioni, adoperate come immagini cultuali, gruppi votivi e statue sepolcrali, usati forse anche come decorazioni frontonali, allo stesso modo che in Etruria 84 Ovviamente già i primi coloni avranno portato con sé dalle terre di origine anche statue di terra.
cotta. Per essi la copia dell'immagine divina venerata nella città-madre era necessaria al pari dell'acqua sorgiva, presso la quale andavano a stanziarsi, e del grano che doveva dar loro nutrimento. Quanto alla vita culturale in una di queste città fondate nel lontano occidente, dobbiamo immaginarla estremamente semplice in un primo momento, addirittura primitiva. Inoltre era assai più facile trasportare le immagini cultuali in copie di terracotta, invece che di marmo o di bronzo. L'importazione di prodotti di lusso, come í costosi olii racchiusi negli aryballoí protocorinzi, dovette iniziare su vasta scala soltanto dopo una generazione. Certamente i contatti con la città-madre o con un'altra città della Grecia, quando si fosse in guerra con questa, non vennero mai interrotti: così le colonie, partecipi di quella profonda, quasi inconscia, inclinazione per l'arte, di quel desiderio di circondarsi di begli oggetti, comune a tutti í Greci, tennero il passo con la madrepatria. Ι pezzi importati sono ρerc~δ spesso copiati. Per gli uomini di quel tempi le cave di argilla erano importanti come le sorgenti e dovevano trovarsi nelle immediate vicinanze della città. Attraverso le copie e le rielaborazioni degli archetipi, le forme importate cominciarono ad assumere caratteri greco-occidentali. Ma anche questo processo non va interpretato solo esteticamente, giacché nel vi e nel v secolo a. C.
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la componente più importante di ognuna di queste immagini greche era il suo contenuto spirituale e religioso. Una statuetta fittile di una dea in trono riproduce una ben precisa di νínità della madrepatria. Ma essa puδ esercitare i benefici influssi escatologici che i fedeli si attendono, soltanto se è veramente la copia della immagine originaria, l'Artemide di Focea, ad esempio, o quella di Magnesia o di Rodi, così come la Madonna della SS. Annunziata è diversa dalla Madonna del Perpetuo Soccorso. Esse hanno entrambe una tipologia fissa riprodotta, ancora oggi, sempre allo stesso modo. Si spiega cosl per gli esemplari greci la costante sopravvivenza dei tipi arcaici fino al iv secolo a. C.. L'accostamento di alcuni oggetti nei corredi tombali dell'Italia meridionale rivela chiaramente che essi furono scelti in base a precisi
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rituali ionico-orientali. Statuette fittili di tipo orientale vengono trovate per lo più assieme a vasi dipinti greco-orientali, a balsamari Iidii, a vasellame privo di decorazione e ad altri oggetti. Ovviamente, col tempo, le immagini di tutte le divinità greche si sono trasformate adattandosi alle esigenze religiose dell'Italia meridionale, dell'Etruria e di Roma. A volte anche nei miti possiamo cogliere questa trasformazione. Le raffigurazioni dei pinakes fittili di Locri esulano in gran parte dalle nostre conoscenze, a volte ci sono addirittura incomprensibili. Queste diverse epifanie di divinità greche hanno perci ó portato in occidente ad alcune modifiche degli archetipi. Nei numerosi tipi plastici di divinità in trono (che rappresentano Artemide, Demetra, Core, Era; Afrodite e probabilmente anche altre dee) questo processo si esprime visibilmente, soprattutto nella forma del polos (la corona della divinità), nel modo di portare il velo sopra o sotto di esso, nel drappeggio del manto e anche negli attributi che le dee recano in mano. La causa prima di queste varianti subite dagli archetipi, da Taranto a Mozia e da Camarina a Cura, è rappresentata innanzi tutto dalle esigenze religiose, non meno però che dal semplice piacere di modificarne l'espressione. A rendere più comprensibile questo processo gioverà forse il paragone con i nostri canti popolari, che si diffondono già nel medioevo e, pur venendo cantati altrimenti in ogni regione, sono sopravvissuti, al di là delle trasformazioni subite, per tanti secoli. Questo stato di cose rende meno agevole distinguere con chiarezza i centri della produzione scultorea in Magna Grecia, fra í quali dovettero certo esistere delle differenziazioni. Si riconoscono abbastanza facilmente i tipi di terrecotte prodotti a Taranto, Locri, Reggio, Siracusa, Gela e Selinunte. Se ne possedessimo in numero sufficiente, potremmo anche eliminare come tali gli stili locali anche se con precauzione e lentamente. Un elemento importante per operare queste distinzioni è rappresentato dal tipo di argilla adoperato. Le diversità dei colori, invece, non ci sono di grande aiuto, perché dipendono più dalla temperatura della cottura che da sostanze mineralogiche. Le terrecotte di Taranto, Lien, Medma, lasso e Gela si possono distinguere solo dalla loro composizione chimica. La fine, decantata ingubbiatura delle superfici esterne, a volte colorata, pub anche contenere colori naturali importati da fuori, come l'ocra rossa. In ogni caso bisognerà però sempre pensare che una distinzione delle terrecotte basata su analisi del genere può significare qualcosa solo nei confronti della fattura dell'oggetto, ma non dice nulla sulla provenienza del tipo. Un'ulteriore caratteristica delle terrecotte de lla Magna Grecia è rappresentata dal fatto che esse sono rifinite con gran cura a bulino e a spatola, assai pifi di frequente che nella madrepatria. Spesso sono portate a termine con questa tecnica non solo le squisite opere singole, ma anche la merce fatta in serie. Più volte una scherzosa giocondità è causa di raggruppamenti grotteschi e figurazioni ibride. lien da pensare al Settecento leccese e siciliano (Castello Pallagonia). Il campo d'azione dei coroplasti dell'Italia meridionale era più ampio di quello degli artisti della madrepatria. Inoltre anche l'intensa plasticità della forma greca si va affievolendo sensibilmente difronte alle istanze plastiche primitive indigene. Persino a Locri è notevole il numero di doni votivi di tipo primitivo. Probabilmente la prosperità di Locri, Caulonia e Leontini attrasse numerosi coloni da lla madrepatria, i quali, in seguito, debbono aver influenzato anche la richiesta indigena in campo artistico. D'altro canto si potrebbe pensare che il culto delle Grandi Dee di Locri abbia raggiunto la popolazione agricola delle valli montane calabresi. Infatti, per la prima volta nel ντ secolo a. C., í Bruzzii vennero a conoscenza de ll e statue di queste Grandi Dee, restando profondamente impressionati da lla loro forma umana. Questo potrebbe averli spinti a concepire le loro diνínità della fecondità, venerate fino a quel momento come amorfe, ed í loro doni votivi per grazie ricevute nell'aspetto delle Grandi Dee, alle quali, per la prima volta, í Greci di Locri avevano loro insegnato a guardare con reverenza, approfondendo al tempo stesso il loro senso religioso. Si sviluppò in tal modo un'arte popolare che portò ad una maggiore valorizzazione dell'elemento italico
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nell'arte della Magna Grecia. Anche qui non è facile tracciare una linea netta di separazione fra quanto greco e quanto è italiota. Comunque mettere in luce le cause originarie dei mutamenti tipologici aiuta a comprendere più a fondo le forme dell'arte greca 25. Si è già accennato alla necessità rituale di arricchire la tomba con un corredo (pag. 32). Essa nasce da ll e speranze riposte nella sopravvivenza al di là de ll a morte. Di qui trae origine anche l'usanza, di ffusa nell'Italia meridionale, di collocare sulle tombe o dentro di esse piccoli altari di terracotta 26 Nei rilievi che li adornano sono rappresentate numerose scene che sono per noi veri e propri insolubili enigmi. In esse veniva probabilmente espressa tutta una simbologia funeraria, insieme al desiderio di sopravvivenza nell'aldilà, un pi' come accadde in seguito nei rilievi dei sarcofagi romani. t interessante sotto il profilo rituale il fatto che altarini di terracotta di questo tipo manchino quasi completa_ mente in Grecia. Pochi esemplari di tipo ionico-orientale sono stati rinvenuti esclusivamente in Mace_ dona e a Corinto (dipinti). Forse questa usanza si è diffusa seguendo il tracciato della via Egnazia. Píù tardi, appena nel ii secolo a. C., diventano frequenti a Rodi altari marmorei, che di qui potrebbero essere giunti a Roma (Esquilino); per quanto sia più probabile che a Roma siano arrivati dall'Italia 32 meridionale attraverso la Campania (Pompei). I piccoli altari fittili, a volte veri capolavori, sono creazioni puramente italiote. Essi naturalmente dovevano servire soltanto per bruciare incenso e profumi. Un'altra interessante variante italiota della scultura greca scaturisce dal sorgere, alla fi ne della fase arcaica, di una particolare tendenza a caratterizzare individualmente í tratti fisiognomici, persino nelle immagini degli di e degli eroi. Un fenomeno del genere non si incontra, e per ben profonde ragioni, nella madrepatria greca. In occidente esso è favorito forse dalle amni tendenze dell'arte ionico-orientale che si esprimono nelle immagini monetali e, soprattutto, nel ritratti di Temistocle ed in quelli dei satrapi persiani, tendenze che hanno notevolmente concorso alla nascita del ritratto greco 22. Nella Magna Grecia non si tratta però tanto di elementi ritrattistici veri e propri (e come sarebbe stato possibile in ramgurazioni di dèí ed eroi !), ma di gioconda predilezione per la caricatura, per la forte tipicizzazione e la parodia. Spesso difronte a queste rappresentazioni il pensiero corre alle commedie di Epicarmo e ai filiaci. Pure, anche l'espressione nei tratti fisioguomici di uno stato emozionale transitorio ha trovato una rispondenza assai più profonda negli artisti della Magna Grecia che non in quelli della madrepatria. Già all'inizio del v secolo a. C. nelle teste di terracotta si esprime in maniera mirabile soprattutto la passionalità, l'angoscia, la malinconia e quella instabilità di carattere tipica dei Greci d'Italia, che è indulgenza verso se stessi e mancanza di autocontrollo ad un tempo. Di qui debbono essere giunti numerosi e forti impulsi a ll a pittura. In quest'ambito il graduarsi delle componenti greche ed italiote ha una possibilità di varianti pressocché infinita. In tal modo ci è concesso di penetrare più a fondo il diverso 94 in basso modo di concepire le divinità greche a noi ben note. Alcune teste di Sileni di Medma e di lasso fanno pensare inizialmente a quei tetri filosofi che specularono sul mondo dei morti e che nel loro pessimismo si gettarono nell'Etna, piuttosto che ai Sileni del greco Dioniso pieni di una sfrenata brama di vivere. Fu il sostrato italico de ll 'arte della Magna Grecia a favorire alcune di queste tendenze e di questi modi di sentire e a schiudere immediatamente la possibilità di sublimare nella sfera de ll 'arte, grazie al segreto della concezione formale greca, quella materia figurativa che fino a questo momento si era espressa esclusivamente in modi astrusi e caricaturali. Purtroppo poche di queste sculture ritrattistiche, e di qualità mediocre, sono giunte fino a noi. Possiamo farcene un'idea dai ritratti di una famiglia tardo-ellenistica al Museo di Siracusa (un'opera eseguita a Tunisi da un cittadino della Magna Grecia). Similmente i ritratti campani (Calvi, Pompei), falisci ed etruschi lasciano intravedere l'origine della prima ritrattistica romana. Fra questi gli esemplari più grandiosi sono la testa di un eroe della libertà sannita dell'ultimo periodo di resistenza degli Italici contro Roma (da Boviano, ora al Cabinet des Médailles, Parigi) e, probabilmente, •
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Tal. VI — Testa, probabilmente di una sfinge. Da Agrigento. Terracotta. Altezza cm 23,5. Circa 550 a. C. - Agrigento.
anche il cosiddetto Bruto. Entrambe sono opere campane del ii secolo a. C.. Resta ancora da chiarire fino a che punto l'arte della Magna Grecia abbia preparato e favorito il verismo ed il realismo romano 2S • Ma questa predilezione per le forme non classiche, persino brutte, non impedì a i coloni della Magna Grecia durante l'ellenismo di riprendere entusiasticamente le eleganti figurine di terracotta d ~~ Tanagra 143 152 e di Myrrhina, di variarle, perfezionarle fino all'eccesso, finché i l tipo non si•cristallizzò i n un'arida mi XIV-XIX notonia di forme sugli askoi d~~ arte provinciale apula. -
SCULTURA IN BRONZO Se la coroplastica è stata trattata prima delle altre branche della scultura, questo è dovuto esclusivamente al fatto che, grazie all'infinito numero di esemplari conservatisi, essa ci consente di penetrare a fondo í modi figurativi dei coloni della Magna Grecia, anzi l'essenza stessa dell'arte greca d'occidente. Artisticamente assai più importante era, come è ovvio, la scultura i n bronzo. Ma questa, come nella ma81 drepatria, è stata vittima della fame d i bronzo della tarda antichità. L'unica statua enèa occidentale di grandi dimensioni che sia giunta fino a noi, l'efebo di Selinunte, non deve però costituire i l metro per valutare la qualità della scultura in bronzo della Magna Grecia, perché è un'opera troppo provinciale. Il suo autore non è riuscito a padroneggiare le proporzioni del corpo umano inserito nello spazio e, al tempo stesso, non è stato cose abile da articolare organicamente la struttura corporea, infondendole in tal modo la vita. Un tratto, quest'ultimo, caratteristico della scultura dell'Italia meridionale, qualsiasi materiale essa adoperi. Quanto più intensa e capace d i modificare il modello greco era la forza nativa dell'artista, tanto piú veniva stilizzata la forma naturalistica degli uomini e degli animali, a volte con 26 effetti sorprendenti come nel cavaliere di Grumentum, che dipende da un prototipo d ~~ cavaliere calcidese. Quanto più piofbndamente uno scultore era legato agli elementi formali italici, tanto piú la sensibilità per i corpi si allontanava dalla plasticità per accostarsi al decorativo. Per questa ragione le crea93 zioni più notevoli sotto il profilo estetico s i incontrano nell'ambito della toreutica, allorché, nelle applicazioni ai vasi, i l corpo umano è considerato esclusivamente un motivo decorativo. In effetti, immagini 84, X, 85 realmente plastiche ed espressive nei gesti e nell'atteggiamento vennero create soltanto grazie alla forte influenza dei grandi maestri di Reggio, Clearco e Pitagora. La progressiva italicizzazione di queste statue, ridotte in piccole dimensioni, è particolarmente evidente a Locri e a Hipponion. La rielaborazione iapigia 82, 83 di un Apollo della Magna Grecia, a Bari, presenta un'ulteriore componente. Una caratteristica della scultura i n bronzo italiota, propria però i n particolare della produzione locrese, è la tendenza all'astrazione nella struttura del corpo umano, per cui i l modellato risulta morbido, più lineare che plastico. t chiaro che questa predilezione per l'ornato determinò essenzialmente lo sviluppo della toreutica non solo 140 in bronzo, ma anche in argento e oro, rivolta soprattutto alla decorazione di vasi e suppellettili. Ma anche in quest'ambito non dovette essere determinante soltanto la tendenza alla decorazione, esteticamente assai sviluppata nei Greci d'occidente, ma assai più il significato riposto di alcune immagini. I giovinetti 90, 91 che fanno da piedistallo agli specchi potrebbero risalire a credenze religiose italiche. Nella madrepatria, più appropriatamente, è in genere una figura femminile a reggere lo specchio (dagli attributi della base s i tratterebbe di una Afrodite). A Locri gli specchi sono sorretti spesso da figure giovanili, certo personaggi mitologici. A volte compare una seconda figura, che fuoriesce dalla testa della prima, una topica 36
Ταν. VII — Catena d'oro con protomi umYne. Da Ruvö di Puglia. Altezza delle tésti ~e circ~~ cm 2 ~~ Fine del ντ secolo a. ιΙ — Taranto.
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mitica che si incontra nella scultura cicladica fin dal secondo millennio 29. Per l'effeminata fi gura che sorregge gli specchi di Hipponion si potrebbe pensare ad Adone, il paredros di Afrodite, che ebbe una notevole importanza nell'escatologia 3ο. Ma per noi è del tutto incomprensibile come mai su uno di questi specchi, un oggetto di uso giornaliero per una donna, si sia potuto raffigurare un pugile. Bisognerà riesaminare attentamente l'ipotesi che la maggior parte degli specchi con piede fossero collocati accanto ai defunti nella tomba con finalità escatologiche e che fossero adoperati quindi, come suppellettili funebri, anche per personaggi maschili. Infatti le stesse applicazioni degli specchi locresi, lavorate a giorno, contengono scene mitiche che certo non avrebbero rallegrato una bella donna nel suo quotidiano uso dello specchio alla toletta. Il vario graduarsi della componente greca nelle opere italiote si può cogliere sulle idrie laconiche 31. Queste ultime infatti venivano prodotte anche nella colonia spartana di Taranto. Le idrie tarantine influenzarono l'idria campana di Napoli ed in seguito furono « celticizzate » nella Francia meridionale, o già in Italia, e imbarbarite nell'idria di Grächwyl 32 È interessante che questa toreutica della Magna Grecia del v secolo a. C. sopravviva cosa a lungo, fino all'epoca imperiale romana, per esempio a Pompei, dove essa torna a nuova vita forse grazie alla « rinascenza » determinata da un artista della Magna Grecia, Pasiteles, attorno al 100 a. C.. Ancora piú sorprendente è la « coppa calcidese con anse a bottone » di Copenhagen, un tipo vascolare dell'inizio del v secolo, con un emblema tardo-ellenistico, un pi' provinciale, in cui compare Afrodite attorniata da Enti volanti. La coppa fu rinvenuta in Danimarca assieme ad alcune altre d'argento, eseguite da Cheirisophos secondo lo stile del classicismo augusteo 33. Per ragioni che ci sono tutt'ora ignote si sviluppò a Locri e a Reggio un tipo di toreutica che indulgeva particolarmente al gusto per l'ornato degli italioti, ma che accoglieva, al tempo stesso, altre influenze formali. Una delle opere più signi ficative è il manico di uno specchio di Locri nel quale l'attacco dello specchio vero e proprio è rappresentato da una sirena. L'artigiano della Magna Grecia ha creato qui una figura grandiosa, quale è di ffi cile incontrare nella madrepatria. Certo la sfrena, con le sue ali spiegate, ricorda gli attacchi dei manici delle idrie corinzie, ma a Locri non è stata strutturata staticamente, come elemento tettonico di un insieme, bensì in modo dinamico. In varianti sempre nuove fiori e volute si innalzano verso la sirena con í suoi capelli disegnati con particolare piacere svolazzanti e scomposti (un motivo assai frequente nell'arte della Magna Grecia) e vanno a congiungersi alle palmette che si schiudono, come esplodendo, al di sopra delle ali. Il talento decorativo dei toreuti della Magna Grecia si manifesta qui con una grazia e con una bellezza tutte nuove, pur attraverso elementi stilistici ritardati. Lo stile ornamentale fu prediletto da numerosi toreuti. Sulla sua scia, verso la fine del v secolo a. C., nacquero i rilievi traforati, spesso incorniciati da colonnine, che appaiono già cristallizzati in forme rigide all'inizio del iv secolo a. C., mentre nell'entroterra lucano le forme sono ammorbidite in maniera del tutto particolare, con la conseguenza di rendere atteggiamenti e gesti spiacevolmente patetici. In Magna Grecia, dunque, la toreutica ebbe un particolare sviluppo grazie alla predilezione per l'ornato, più volte ricordata, e allo spirito pratico dei coloni (un tratto forse peculiare a tutte le aree colonizzate). Si aggiunga inoltre la particolare richiesta di oggetti artigianali riccamente decorati, soprattutto da parte di popolazioni, quali i Lucani, i Campani e gli Etruschi, solo parzialmente raggiunte dal culto greco della bellezza. Si tratta in primo luogo di vasi che rispondono a particolari necessità, sia del culto che della vita giornaliera, soprattutto di scodelle piatte, ai manici delle quali sono applicate, come decorazione, figure umane o animali. In altri vasi i manici sono ricoperti da figure eseguite a basso rilievo, quasi alla •
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Tav. VIII — Testa di una dea. Da Agrigento. Terracotta. Altezza cm 19,6. Cir ca 500 a. C. — Palermo. — Cfr. tav. 44.
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maniera achemenide. Uno degli esempi più belli di quest'ultimo tipo è un manico decorato con un gruppo stilizzato di belve in lotta, nel quale del leone che divora il cervo abbattuto è rappresentata la sola testa. Tutto l'insieme si distende su uno sfondo di volute e spirali dalle quali scaturisce un fiore. Irι questa decorazione gli elementi sono già combinati in maniera astratta. L'idria di Napoli attesta il progredire di questo stile decorativo verso combinazioni sempre più astratte e di conseguenza sempre meno significanti. I due giovinetti, raffigurati entrambi orizzontalmente sui manici laterali, poggiano (o si librano?) su una palmetta. Ma la componente campana è ancora più evidente nella Gorgone posta al di sotto del manico verticale. Essa consta soltanto di una testa alata e di braccia. Dalla Gorgone nasce un Pegaso, che scaturisce dalla sua testa, raddoppiato simmetricamente ai due lati di essa.
SCULTURA IN MARMO
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La scultura in marmo è trattata per ultima in questa rapida panoramica, perché purtroppo assai poche sono le opere, eseguite in questo materiale, che si siano conservate nell'Italia meridionale. Nella Magna Grecia il posto occupato dalla scultura in marmo deve essere stato assai meno importante che nella madrepatria. A quell'epoca le cave di marmo di Carrara non venivano ancora sfruttate. Le cave siciliane e quelle dell'Italia meridionale offrivano soltanto piccoli blocchi, inadatti sia per costruire templi che per scolpire statue. Per questo nelle colonie italiote e siciliote non esiste alcun tempio di marmo. Spesso il marmo della Magna Grecia non è che una quarzite ricca di mica e gli artisti se ne sono serviti raramente. Ma forse non rinunziarono ad esso neppure malvolentieri, giacché il marmo non offriva le medesime possibilità espressive dell'argilla e del calcare, assai meglio adattabili alla tendenza alla dissoluzione della forma plastica insita nell'essenza della loro arte. Il marmo greco, in verità, era importato dalle isole dell'Egeo e dalla Propontide, forse anche dalla Anatolia, ma per tutto il Ιιι, il ii ed il v secolo soltanto già lavorato. Il problema della scultura in marmo della Magna Grecia, dibattuto già da alcuni anni, culmina perciò nel dilemma se nel νττ e nel vi secolo si importassero dalla Grecia in occidente blocchi di marmo per scolpire le statue in situ, o se, sulla scorta di considerazioni economiche, non lontane per altro dalla mentalità greca, nei centri greci di lavorazione del marmo si producessero in serie í kouroi, le korai, le sfingi, le sirene, i louteria e i rilievi e dei defunti, per inviarli già finiti in tutto l'ecumene. Tanto sepolcrali necessari al culto degli d µ ρ~α che l'esportazione di blocchi di marmo era più costosa. Crepe e venature celate nella pietra potevano causare perdite rilevanti. D'altro canto non si può più mettere in dubbio l'esistenza di un'esportazinne di sculture nel vu e nel vi secolo. Le piccole lampade marmoree trovate in Sicilia, le stele ed i kouroi sono a tal punto vicini stilisticamente alle opere in marmo dell'oriente greco, che bisogna supporre la loro comune provenienza da una bottega greca orientale. Quanto ai sarcofagi antropoidi trovati in Sicilia, oggi nessuno crede più che siano stati scolpiti nella Sicilia stessa su blocchi di marmo importati; il peso di ogni blocco, tra l'altro, sarebbe stato tre volte tanto. Sarcofagi antropoidi di questo tipo sono stati rinvenuti in Fenicia, ma anche in aree di cultura punica che seguivano í rituali fenici per le sepolture, soprattutto a Cartagine, a Cadice e a Palermo. Persino questi sarcofagi debbono essere stati scolpiti in località greche con cave di marmo sulla scorta di precise indicazioni (disegni o modellini). B i sognerà inoltre supporre che alcuni punti particolarmente delicati, soprattutto delle teste, non fossero
portati a compimento nel luogo di lavorazione, ma che i dettagli finali (le pieghe degli abiti) e l'epidermide fossero rifiniti soltanto dopo un felice trasporto nel luogo dell'ordinazione, forse da uno scultore espressamente inviato assieme con l'opera. La kore di Taranto appena sbozzata pu δ chiarire assai bene questo processo di lavorazione, anche se oggi non si ρυδ più discernere se s i tratti di un'opera arcaica arcaicizzante. Tutte le più importanti statue di gr an di dimensioni, scolpite in marmo greco, dovettero
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essere trasportate in occidente appena abbozzate in questo modo, soprattutto la dea in trono di Taranto e il « trono Ludovisi » 34. Proprio i rilievi d ~~ quest'ultimo ci consentono di far luce sul processo di lavorazione. I lati corti del trono di Boston sembrano usciti dalla medesima bottega ionico-settentrionale, alla quale s i debbono í rilievi del Museo delle Terme. Al contrario sul lato lungo del pezzo di Boston la struttura del rilievo, la sua composizione ed il modo de ll e rifiniture se ne scostano notevolmente. Questo lato è stato scolpito da un artista che è un diretto scolaro del « maestro Ludovisi », ma che ha introdotto nella scultura alcuni elementi stilistici propri, i quali si ritrovano nei dintorni di Reggio. Qui il processo di « italicizzazíone » è altrettanto chiaro che nella trasformazione subita dagli archetipi greci nella coroplastica di Medma, Locri, Selinunte e Gela, e nei ρíú antichi vasi italioti. Nell'appassionato dibattito di questo problema è stato sempre trascurato un aspetto, o per meglio dire un dato di fatto 36. Uno scultore, abituato a lavorare il calcare o un marmo non cristallino, non pu δ, ipso facto, acquistare la necessaria abilità per lavorare un marmo a grossa grana cristallina. Solo dopo una lunga pratica è possibile modellare un marmo di questo tipo che facilmente slitta sotto lo scalpello subito diventa opaco. Così, per esempio, oggi gli scultori spagnoli non potrebbero adoperare l'eccellente marmo iberico, assai simile al marmo pario (sculture di Italica), poiché apprendono a scolpire a Carrara su un marmo di grana fine, che richiede un diverso modo di tenere lo scalpello e un diverso dosaggio dei colpi di mazzuolo. Due tecniche differenti dunque che si apprendono soltanto con un lungo costante esercizio. Ma tutti questi problemi non hanno, in realtà, l'importanza che si vuol loro oggi attribuire, giacchY il tentativo di tracciare un confine fra quanto è puramente greco e quanto è dovuto alle colonie è solo una questione di termini, dal momento che un'opera d'arte non si pu δ sezionare chimicamente nelle sue componenti. Un Greco vissuto a lungo nell'Italia meridionale diviene certamente partecipe in larga misura dell'essenza stessa della nuova patria (proprio come gli europei che vivono in Arne-
ríca diventano americani). E come il magico potere di trasformazione dell'Italia avrà trovato espressione nelle cadenze dialettali che si sovrappongono alla sua lingua greca, così esso affiorerà nei suoi modi stilistici se si tratta di uno scultore. Questo fenomeno si pu δ cogliere nelle arti figurative anche nel xviii secolo, per esempio in opere eseguite nella Germania meridionale da architetti barocchi italiani, come il Petrini. La loro produzione, una volta varcate le Alpi, assume una sfumatura che la differenzia da quella dei coevi artisti barocchi in Italia. Con queste premesse è assai probabile che nel vu, nel vi e nel i secolo a. C. l'origine geologica del marmo coincida, entro certi limiti, con l'origine dello scultore. Le teste leonine del tempo di Atena a Siracusa sono scolpite nel marmo ricco di mica dell'Italia meridionale. Debbono essere state eseguite sulla scorta d~~ un modello simile a quello conservato ad Agrigento. Ad Imera si possono seguire facilmente le deviazioni, conscie od inconscie, da uno o pitι modelli. Commissioni su ampia scala, come queste, debbono avere fortemente potenziato la scultura della Magna Grecia. Bisognerà per δ supporre che non soltanto scultori locali abbiano eseguito questi lavori, ma che anche artisti greci con i loro compagni di bottega abbiano cercato e ricevuto ordinazioni dall'occidente; un p0' come accadeva nel Medioevo quando le maestranze giravano di luogo in luogo per decorare le cattedrali delle necessarie sculture. 41
76 in alto
110, 111
100, 101
109 113
86, 87; 118, 119
86, 87
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Nella decorazione architettonica di Selinunte si può seguire ancora il processo di sviluppo della scultura in marmo della Magna Grecia. Le metope del tempio di Era (E) furono eseguite in calcare; soltanto le teste, le braccia e i piedi delle dee sono di marmo; il passaggio fra calcare e marmo era, in questo caso, celato dagli abiti. La bottega artigiana, che si incaricò dei lavori, aveva in precedenza operato a Cirene e in Grecia. Sulle teste di queste metope è possibile cogliere in tutte le sue sfumature ~l fenomeno del vario graduarsi di forme greche e forme italiote, del quale già parlammo a lungo. Fra le teste di queste metope, altamente espressiva per l'arditezza del suo portamento, è quella di una dea, opera certamente di un maestro ancora legato alla migliot e tradizione greca. Naturalmente non è possibile dire se si tratta di un artista immigrato dalla madrepatria o nativo della Magna Grecia o attivo qui solo temporaneamente; e la cosa ha un'importanza relativa. Ma, ad esempio, nella testa dell'Amazzone colpita a morte è indiscutibile l'infiltrazione di tratti tipicamente italioti: ~l realismo della piega dolorosa della bocca e la leggera smorfia che corre di conseguenza per tutto il volto. Proprio in questa testa si possono ammirare non solo i grandi pregi dell'arte delle colonie greche d'occidente, ma anche ~l graduale prender forma del « volto della Magna Grecia », senza dubbio, in parte determinato dallo stesso dialetto che vi si parlava. Uno dei suoi tratti peculiari sono le caratteristiche pieghe ai lati degli angoli della bocca. In altre teste manca un rendimento sensibile ed organico delle carni ed esse si cristallizzano in una struttura formale lineare. Fra questi due tipi di testa citati esiste una intera gamma di esemplari intermedi nei quali le forme greche e quelle italiche s ~~ contemperano variamente. Per esse si rimanda alla descrizione delle tavole. Tuttavia, nel ντ e all'inizio del i secolo a. C., la scultura in marmo non appare una delle produzioni artistiche congeniali e diffuse nell'Italia meridionale. G ~ à il fatto che la testa e gli arti di una statua 11011 venissero lavorati assieme con il corpo, traendoli da un unico blocco, deve aver ostacolato la scultura, un po' come accade p ~ú tardi nell'Egitto tolemaico. Se la grandezza del blocco a disposizione era troppo esigua, gli artisti si peritavano di comporre una testa di più pezzi separati, tanto che a volte accadeva che la connessione dei blocchi attraversasse una guancia 86; in questo caso la fenditura era ritoccata quando l'epidermide veniva lucidata. Il numero degli acroliti (statue d i calcare o di legno con testa e arti di marmo) è perciò superiore a quello della madrepatria. I corpi d i alcune teste di marmo, giunte fino a noi, l'Atena del Vaticano, l'Apollo di Crimisa (Cirò) e varie altre, erano di legno o di calcare e sono andati perduti. Per noi è incomprensibile che queste teste non siano state fissate al corpo della statua secondo una tecnica, comune nell'epoca imperiale romana, e assai pratica, mediante cioè un robusto e grosso perno inserito in un buco del collo. Tutte le teste di acroliti della Magna Grecia hanno la faccia inferiore piatta, con un orlo rilevato di soli uno o due centimetri, per inserirsi nel torso della statua, e stranamente non presentano alcun perno. Ma ciò che è ancora ρ~iτ incomprensibile è che il piano di appoggio di queste teste in rapporto alloro asse statico sia concepito in tal modo che l'innesto al corpo della statua non avviene orizzontalmente, ma obliquamente rispetto alla sezione del collo. È ovvio che la stabilità di queste teste, una volta unite alle relative statue, fosse assai precaria. Lo s ~~ può osservare con la massima chiarezza nella testa dell'acrolito di Atena al Vaticano: se s ~~ pensa che la testa si trovasse originariamente in una posizione cose ritta, come è posta nel Museo, bisognerà supporre necessariamente che la statua avesse un petto piuttosto grosso. A questo proposito va rilevato che anche in una stele di Siracusa, sulla quale è raffigurato un giovinetto, il profilo del petto ha una forma del tutto inusitata nella scultura greca. Solo nel iv secolo a. C. l'importazione di marmo pare farsi più frequente, grazie al miglioramento dei mezzi di trasporto. Ma in questo periodo la scultura in marmo dei grossi centri gravita in maggiore o minore misura nell'ambito della koiné attica.
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Tav. IX — Afrodite ed Ermes su una biga trainata da Eros e Psiche. Da Locri. Rilievo in ter:acotta. Altezza cm 23,3. Circa 470/460 a. C. — Taranto.
SCULTURA IN CALCARE
154 in basso
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Un'importanza di gran lunga maggiore dovette rivestire per la scultura della Magna Grecia il calcare. Opere scultoree in calcare sono presenti in gran numero in quasi tutti í grandi centri, soprattutto a Taranto, a Napoli, a Siracusa e ad Agrigento. Questo materiale tenero consente una lavorazione assai più rapida che il bronzo o il marmo. Perciò era particolarmente congeniale al gusto per l'ornato alla creatività figurativa dei coloni della Magna Grecia. Esso ha durevolmente influenzato le tendenze insite nell'arte figurativa greca d'occidente, in particolare quella di incidere profondamente la massa plastica, giungendo ad allentarne i nessi spaziali e ottenendo in tal modo effetti pittorici nel gioco d i luci ombre creato dalle forme singole. Anche i tratti del volto acquistano attraverso un modellato pregnante incisivo una forza espressiva nella fisiognomica assai più grande di quanto il marmo non consenta. Ternperamento e stati d'animo potettero essere espressi nelle teste di calcare più facilmente e con maggiore efficacia di quanto gli artisti della madrepatria non avessero mai tentato, neppure in epoca p ~ù tarda. Per questa ragione probabilmente la scultura della Magna Grecia ha trovato la sua p ~ù pura espressione nelle opere in calcare. Naturalmente questo materiale pone anch° dei limiti alle possibilità figurative. Nel νιτ secolo, e ad Atene fino agli inizi del ντ, anche nella madrepatria greca il calcare (poros) era il materiale preferito dagli scultori. Nelle colonie le prime opere in calcare furono create probabilmente da artisti greci immigrati, giacché fi n dall'inizio furono necessarie le immagini divine. Anche se la testa di divinità rinvenuta a Laganello presso Siracusa risale appena alla fine del vii o all'inizio del ντ secolo, le sue forme stilistiche ancora dedaliche potrebbero conservare traccia d i statue divine pil'i antiche, in maggior grado che non le innumerevoli immagini cultuali ripetute nelle terrecotte votive. Il gusto per la decorazione deve aver spesso spinto i coloni della Magna Grecia a ornare í loro templi con metope plastiche. Forse nel più occidentale degli avamposti greci, Selinunte, la decorazione scultorea, che abbellì i templi una generazione dopo la loro fondazione, fu creata anche con intenti propagandistici. Raramente i templi della Magna Grecia ebbero statue frontonali, se non di terracotta. Forse le cause determinanti furono considerazioni di ordine statico. Ma quando il calcare adoperato per la costruzione dell'edificio era pil'i duro, come a Sibari, allora i frammenti scultorei giunti fino a noi potrebbero anche provenire da una composizione frontonale. Quando mancava i l calcare veniva adoperata l'arenaria, simile al calcare per struttura mineralogica: una pietra che permetteva di ottenere i medesimi effetti plastici 37 Entrambi questi materiali però, a causa della loro fragilità, erano disadatti alla creazione di figure ignude a tutto tondo per ragioni statiche, non solo, ma l'arenaria al pari del calcare e della terracotta non resisteva a lungo se esposta alle intemperie. Perciò si sono conservate, scolpite in questa pietra, quasi esclusivamente figure con Lunghe vesti e persino queste eseguite per lo p~ ù soltanto a rilievo. Ma anche se costretta in questi limiti, nella scultura in calcare e in arenaria trovano espressione tratti essenziali dell'arte italiota. L'impulso a creare corpi ignudi a tutto tondo ovviamente assai meno avvertito che nella madrepatria. Alcune statue panneggiate di Taranto ricordano a volte, nel ductus delle pieghe, gli abiti delle Madonne gotiche 38 Nel rilievo, la forte tendenza . pittorica degli artisti li portò a creare effetti di scorcio, d i profondità e a raffigurare movimenti difficilmente rendibili in opere a tutto tondo. Questo rilievo pittorico trovò poi seguito a Lecce, a St. Rémy e a Orange 89. Quanto ai rilievi in calcare giunti fino a noi, non va però dimenticato che le loro superfici esterne sono state fortemente levigate dalle intemperie e anche da inopportune opere di ripristino. Inoltre è per noi irrimediabilmente perduta la pittura policroma, passata su un sottile strato di stucco, determinante per l'effetto artistico dell'insieme. L'efficacia di ognuno di questi antichi rilievi infatti (e in particolare misura d i quelli della Magna Grecia) era riposta al tempo stesso nella pittura e nella scultura. .
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Ταν. X — Atleta. Da Adrano. Bronzo. Altezza cm 19,5. Circa 460 a. C. — Siracusa — cfr. Ταν. 84 e 85.
L'arte della Magna Grecia, nata su un suolo ricco di aspetti così disparati, possiede naturalmente una scala di varianti stilistiche più ampia di quella della madrepatria e ha anche prodotto opere che difficilmente si distinguono da quelle greche, sia perché i maestri che le eseguirono erano solo da poco immigrati dalla Grecia, sia perché erano rimasti in vivo contatto con essa, come il maestro del trono Ludovisi. Già all'inizio del ντ secolo a. C. però quest'arte della Magna Grecia acquista una sua particolare sfumatura, soprattutto in quelle città nelle quali, per l'elevato tenore di vita e per favorevoli circostanze esterne, s i accrebbe la richiesta di opere d'arte, Taranto, a esempio, o Siracusa e Selinunte. E ciò accadde, come è ovvio, in modo febbrile in questi più lontani avamposti della cultura greca. In molte altre città, come Reggio, Crotone, Messina e Napoli, dovette esistere una simile richiesta di opere d'arte, ma di esse non ci sono giunte testimonianze. Dovettero esistere inoltre città autarchiche sotto questo profilo, che vivevano delle risorse del loro suolo, come Hipponion, Medma e Metaponto. Ma noi sappiamo troppo poco per poter formulare un giudizio fondato. Si pensi solo che í cittadini di alcune di queste città formavano altrettante compagini fortemente differenziate e addirittura di idee opposte sotto i l profilo politico e religioso e che queste divergenze furono causa di insanabili inimicizie; potremo in tal modo avvertire quali tensioni corressero all'interno di questo campo di forze rappresentato dalla Magna Grecia. La bipolarità delle colonie doriche e ioniche, spesso non intesa giustamente, e le loro teorie sociologiche non furono le sole cause delle numerose guerre fra i coloni greci di occidente.
MONETE Uno degli elementi più significativi per far luce sul problema del vario contemperarsi di arte greca C arte italiota sono indubbiamente le monete 40. Si sono conservati più della metà dei tipi monetali dell'Italia meridionale. Il loro stile non è però così legato alle singole località come per lo più si crede. I confronti stilistici rivelano la presenza di un'unica zecca che lavorava per più città. Gli incisori di Metaponto, a esempio, fornivano anche Terina, quelli d i Siracusa, Aitniai e Leontini. Le variazioni stilistiche delle immagini monetali nel senso di un minore o maggior grado di in fluenza greca o italiota, si possono seguire particolarmente nelle serie monetali, quasi complete, di Siracusa. Le monete siracusane, soprattutto nella prima metà del v secolo, sono stilisticamente assai disparate. Esse di distinguono chiaramente in ioniche orientali, corinzie e in un terzo gruppo che presenta teste riprodotte in maniera assai più lineare e disegnativi che non plasticamente e che ricordano í rilievi locresi. Esiste poi un quarto gruppo caratterizzato da un profilo molto sfuggente, che si incontra anche sulle monete di Segesta, di Erice e della restante Sicilia e che tradisce la preponderanza di forme stilistiche indigene. La situazione è la stessa a Catania e a Leontini, le cui monete presentano differenze qualitative ancora maggiori. Forse nell'antichità non s i faceva caso a queste differenze o esse erano intenzionali e dipendevano dall'incisore al quale si faceva la commissione? Al fondo di tutto questo bisogna presupporre l'esistenza di intendimenti economici, politici o di altra natura? Oppure queste differenze stilistiche sono soltanto dovute a ghiribizzi privi di importanza? Giacché le nuove emissioni monetarie erano poco frequenti, gli incisori si dedicavano probabilmente anche all'oreficeria e alla glittica. Un ulteriore fattore dovette concorrere a determinare il carattere delle monete della Magna Grecia: non tutte le città ebbero aspirazioni panitaliote come Si46
Tay. XI — Menade. Da Locri. Terracotta. ΑΙtersa cm 18,9. Circa 40C a. C. — Reggio.
racusa, che probabilmente proprio ai fi ni di una propaganda culturale mise in corso monete inusitatamente magnifiche. Le monete delle altre città sono pi11 modeste, forse potremmo dire, ρ~δ serie (e perciò più convenzionali). Per le stesse ragioni le antiche monete inglesi da cinque sterline restarono intenzionalmente identiche per un secolo. Sotto questo profilo si possono paragonare loro le monete di Metaponto, di Crotone, di Messina, di Caulonia e d i Posidonia. Locri invece, nel periodo piil antico, non possiede alcuna moneta degna di nota. Anche dalle monete, in conclusione, si possono dedurre i molteplici aspetti della vita nelle colonie della Magna Grecia.
EVOLUZIONE FORMALE DELLA SCULTURA IN MAGNA GRECIA In occidente accanto alle grandi città, centri di cultura greca, sorgono piccole cittadine nelle qual il sostrato italico prese ben presto il sopravvento. Per contrapposto le città italiche situate nei dintorni delle colonie superarono rapidamente lo stadio preistorico, accogliendo in maggiore o minor misura le forme greche, un processo che fu facilitato dall'aumento delle importazioni. Questo progressivo amalgamarsi delle antiche popolazioni con le nuove forze immigrate nel paese, portatrici dello spirito della Grecia, si coglie chiaramente nell'Apulia settentrionale, in Campania e nell'interno della Sicilia, con particolare evidenza nei ritrovamenti di Padula. Le possibilità di combinazioni fra forme stilistiche greche e forme stilistiche italiche sono in fi nite, e perciò prive di importanza a i fi ni del problema dell'arte in Magna Grecia, così come nel nostro assunto si tenta di definirlo. Ciò nonostante, la ristretta scelta di opere d'arte della Magna Grecia conservateci dal caso, o ffre la possibilità di schizzare un quadro dello sviluppo di quest'arte dagli inizi fino al passaggio nella koiné dell'epoca imperiale romana; naturalmente un quadro tratteggiato solo a grandi linee sulla scorta di quanto casualmente è giunto fino a noi e che in qualsiasi momento può venir radicalmente mutato da nuovi ritrovamenti. In occidente, come nella madrepatria, il livello artistico delle opere d'arte dipende non da considerazioni estetiche, ma dalla funzione pratica che esse assolvono nella vita dei Greci. Dal vu al ντ secolo a. C., lo stato, il culto e il commercio furono, anche per í Greci di occidente, aspetti della loro esistenza di gran lunga piU importanti delle arti figurative. Perciò i coloni che si avventurarono in terre lontane si affrettarono ad assolvere í principali compiti per assicurarsi l'esistenza, prima di avvertire un'esigenza estetica nell'arte. Lo si nota facilmente osservando la modesta qualità dei più antichi oggetti di scavo rinvenuti in grandi centri, come Siracusa e Taranto, che risalgono ai primi decenni successivi a ll a fondazione, databile al 700 a. C. circa. Persino per tutto il secolo successivo non si ha traccia di resti di templi, né si sono conservate opere figurative degne di nota. I pihl antichi trovamenti greci di occidente provengono dalle tombe di Taranto, Metaponto, S i racusa, Gela e Megara Iblea 44 . Si tratta di modeste terrecotte votive tardogeometríche e subgeometriche, sia importate che rimodellate su esemplari greci. In un primo momento i coloni cercarono di conservare anche nei nuovi stanziamenti usi e costumi della città-madre, soprattutto nel culto divino e nei riti funebri. Le immagini cultuali delle nuove città erano perciò copia delle statue degli di della città dalla quale essi provenivano. I primi coloni le portarono con sé da ll a terra natia e in seguito ne moltiplica3 rono le copie. Una di queste copie, di ottima qualità, è la testa tardodedalica di una dea, trovata a Laganello, che risale al vu secolo a. C.. Poiché il materiale adoperato è il calcare siracusano, si tratta 48
sicuramente di un'opera scolpita a Siracusa su modello di un'immagine divina corinzia. Anche le mediocri teste subgeometriche e dedaliche di Metaponto e di Siracusa sono copie di terrecotte portate dai coloni dalla madrepatria. Gli idoli fittili illustrano ottimamente la varietà di tipi d ~~ queste immagini cultuali greche. t difficile datare con precisione queste copie, ma certo esse appartengono già al νι secolo a. C. e solo per motivi religiosi continuano ad attenersi ai modelli d ~~ stile proto-arcaico del vii secolo. La dea in trono con bambino ha l'aspetto assai primitivo, quasi da fantoccio, di una antichissima immagine divina. Corrisponde agli xoana, comuni nella madrepatria, idoli di forma appiattita con il torso e la testa assai poco simili alle forme umane. Altre figure, come quella di una donna stante con il corpo assimilato a un fusto di colonna, potrebbero riprodurre un bronzo greco-orientale. Lo stile dedalico, facilmente riconoscibile dalla pettinatura a grossi riccioli, era comune anche nell'area culturale anatolica, comprese le antistanti isole di Samo, Ch ~o e Rodi. È difficile dire per quanto tempo essi sopravvivesse in occidente. Nelle statue divine deve essersi mantenuto a lungo per ragioni religiose, forse più a lungo nelle città doriche che in quelle ioniche. È interessante il ritrovamento di una testa marmorea « dedalica » ad Agrigento, la cui fondazione è datata al 580 a. C. 41 Si potrebbe pensare alla traslazione di una antica immagine cultuale nella nuova città, ma anche ad una statua votiva. In ogni caso un'opera di questo stile non doveva più corrispondere al gusto del tempo nel 580 e dobbiamo supporre che non era smerciabile se non in una città d ~~ nuova fondazione. Solo a partire dal νι secolo a. C. i ritrovamenti di opere scultoree si fanno più frequenti. In un primo momento prevalgono terrecotte votive, comuni e poco interessanti che provengono da tombe e santuari. Accanto ad esse però comincia chiaramente a svilupparsi una produzione tipica della Magna Grecia. Il secolo successivo, dopo i l consolidamento avvenuto attorno al 590 a. C., rappresenta il periodo pifi fruttuoso e pifi interessante per la storia dei Greci d'occidente. Esaminando le opere d'arte di questa fase non bisognerà mai perdere di vista il profondo dinamismo che caratterizza l'epoca: le città greche vivono sotto la costante minaccia degli assalti di potenti nemici, Cartagine e l'Etruria. Verso il 631 a. C., per ordine dell'oracolo d ~~ Apollo delfico viene fondata Cirene con lo scopo di disturbare le rotte commerciali fenicie e di porre un freno all'espansione di Cartagine nell'Africa del nord. Con le fondazioni lungo le coste libiche s'intendeva rendere pifi sicuro ii fianco meridionale delle rotte, e si nutriva forse anche la speranza d ~~ poter porre stabilmente piede a ovest di Barce. Ugualmente le fondazioni d~~ Marsiglia intorno al 600 a. C., di Alalia in Corsica verso il 560 a. C. ed infine, dopo la catastrofe navale avvenuta nelle acque di Alalia, quella di Velia a sud di Paestum intorno al 540 a. C. dovevano garantire la libertà del transito marittimo nel Tirreno fino alle coste meridionali della Francia. Che í Greci siano riusciti a mantenere questa libertà anche dopo il disastro di Alalia, è cosa che non ci sorprenderà mai abbastanza. Queste costanti minacce all'esistenza delle città greche in occidente si accrebbero ulteriormente a causa delle rivalità intestine e ai conflitti con gli Italici dell'entroterra. Se si considerano da questi punti di vista le ampie mire dei Greci nel νι secolo a. C., ci si accorgerà chiaramente di come la loro posizione fosse insostenibile sia politicamente che strategicamente. Tutte queste città-stato indirizzavano il loro commercio a mete lontane e irraggiungibili e tuttavia, per ricavare insignificanti vantaggi, vivevano in costante rivalità fra loro. Questo modo d ~~ pensare e d i vivere «alla giornata» non è meno tipico dei Greci della madrepatria e trova il suo contrapposto nella espansione romana del y e del w secolo a. C. che punta dritto alla meta, con prudenza e senza pietà. Il «vivere pericolosamente » (*) è dunque uno dei tratti fondamentali della natura dei Greci occidentali, •
(*) In italiano nel testo — N. d. T.
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5 α sinist r a 6
Ι ~, 6
presupposto della loro meravigliosa ascesa culturale, rapida tanto nell'affermarsi che nel dissolversi, e al tempo stesso della loro rovina. Si pensi alle loro interminabili guerre, alle fanciullesche esagerazioni della vittoria nella lotta fra Locri e Crotone, allo sconsiderato annientamento di Sibari. Eppure, proprio da questo campo di forze, ricco di tensione e di νitalítà, è sbocciata l'arte della Magna Grecia del ντ secolo. Come una visione popolata di immagini mitiche essa scorre sotto í nostri occhi. Non è possibile (o forse non lo è oggi) ravvisare nella sua storia un principale mi conduttore. Già all'inizio del ντ secolo cominciano a delinearsi alcuni centri di creazione artistica. Essi non si distinguono nettamente, come quelli della madrepatria, anzi, come gí5, accennammo, si fondono e si mescolano fra loro. t naturale inoltre che il quadro che andiamo delineando in queste pagine si fondi sui risultati, del tutto casuali, delle ricerche condotte in Magna Grecia. In realtà soltanto la produzione figurativa di Selinunte ci si presenta come un tutto unico a sé stante. A Siracusa, a Messina, a Crotone e a Sibari, nei primi tempi della loro storia, l'arte figurativa deve essere stata di ben più alto livello che non nelle città più a occidente o a settentrione, situate cioè agli estremi limiti del mondo greco. Se si tenta di tracciare un quadro dell'arte figurativa sulla scorta di quanto il caso ci ha conservato della produzione databile intorno alla metà del ντ secolo, si delineano subito alcune grandi aree artistiche: quella corinzia di Siracusa, quella spartana di Taranto, aperta, alla fi ne del ντ secolo, a ogni influsso esterno, quella delle colonie achee, da Metaponto a Locri, la costa occidentale della Calabria e della Lucania, la costa meridionale della Sicilia, che conosciamo discretamente grazie agli scavi di Gela e di Agrigento, e soprattutto Selinunte con la sua scultura rozza e spiccatamente individuale. Una tipica area ionico-orientale è formata inoltre dalle città situate fra Reggio e Paestum, che subiscono l'influenza della colonia focese di Velia Volendo delineare la storia della scultura in Magna Grecia, bisognerà tenere costantemente presenti tutti questi centri di produzione artistica. Esiste però la difficoltà di non poter tracciare nettamente i confini fra un'area e l'altra. Basta prendere in esame opere della medesima epoca create in botteghe eterogenee, come alcuni esemplari rinvenuti a Taranto e a Locri, per rendersi conto della problematicità del tentativo di delineare una coerente linea di sviluppo della scultura in Magna Grecia. Per questa ragione ci limiteremo qui a indicarne soltanto alcuni tratti significativi. La migliore possibilità di tracciare storicamente un quadro dello sviluppo della scultura greco-occidentale ci è offerta dalla produzione di Selinunte, riccamente documentata grazie agli scavi del Gabrici. La figura femminile con peplo dorico proveniente da Megara Iblea, forse una dea o una sacerdotessa 5 a destra o un'immagine votiva, presenta nella struttura e nel modellato del volto quei tratti sorprendentemente grossolani che caratterizzano la produzione di Selinunte fino alla fi ne del ντ secolo a. C.. Lo stile de8 dalico è sopravvissuto a Selinunte particolarmente a lungo; si vedano, a esempio, le metope di Apollo e di Europa. Ma sottovalutare queste opere a causa de lla loro forma sgraziata significherebbe disconoscerne l'importanza, anche se il loro livello qualitativo non regge al confronto con le coeve metope del tesoro dei Sicioni a Delfi 42 Anche nelle metope del tempio C, create attorno al 530 a. C., deve essere presa in giusta considerazione questa giustapposizione di tratti antiquati nelle proporzioni, nelle 14 15 teste e nel trattamento del capelli, e di forme stilistiche piú moderne nei panneggi e nella resa degli occhi. L'aspetto un po' grossolano e pesante di alcuni rilievi selinuntini è accentuato dalla mancanza della variopinta, vivace pittura a colori contrastanti che in origine li ricopriva. Grazie ad essa tutti í rilievi greci, e specialmente quelli eseguiti in calcare, davano l'impressione di un dipinto. La profonda predilezione dei selinuntini per le immagini figurate determinò, già agli inizi del ντ secolo a. C., la nascita di uno stile locale, soprattutto nella coroplastica, che si differenzia notevolmente dallo stile delle statuette di terracotta prodotte a Siracusa, ad Agrigento e a Gela. Basta un unico esempio a dimostrare .
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Tay. XΙΙ — Testa di una dea. Terracotta. Altezza cm 34. Inizio del xv secolo a. C. — Taranto.
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quanto profonde siano state le tensioni religiose e artistiche nella Sic ilia del ντ secolo: la figura della Gran Madre che allatta due infanti rinvenuta a Megara Iblea. Simili per molti aspetti alle metope selinuntine, ma di qualità nettamente superiore e più originali, sono le metope del tesoro dell'Heraion alla foce del Sele. Questo fervore artistico di Paestum induce a pensare, come nel caso assai simile di Selinunte, che queste città greche che rappresentavano le punte estreme della colonizzazione verso ovest e verso nord, cercassero di impressionare í barbari circostanti anche con il potere suggestivo dell'arte figurativa greca. Queste metope variopinte lungo il cornicione del tempio dovettero far l'impressione di un grande arazzo colorato con il racconto dei miti greci ai contadini lucani che vivevano ancora allo stadio preistorico. La magica suggestione che si sprigionava da ogni scena deve essere stata volutamente calcolata dai sacerdoti del ντ secolo, cose come le leggende cristiane narrate sui portali delle cattedrali di Magdeburg e d ~~ Nowgorod intendevano colpire la fantasia dei barbari ancora pagani. La vitalità che traspare dalle metope dell'Heraion tradisce la mano d ~~ artisti che esprimono nelle loro opere già qualcosa del gusto per la farsa e per la parodia tipico dell'Italia meridionale. La figura di Euristeo che cerca di chiudere il coperchio dell'orcio nel quale si è nascosto per paura d~~ Eracle, deve essere scaturita dalla fantasia di un artista che attendeva alla decorazione di questo santuario (e, infatti, non è testimoniata altrove). Eracle invece che, vendicandosi d ~~ Euristeo, compie senza sforzo la sua fatica si rifà a motivi ionico-orientali, si vedano ad esempio le idrie ceretane e le metope di Assis. La tendenza alla caratterizzazione del maestro italiota si nota ancora nella curva accentuata dei nasi e nelle vesti inusitatamente sollevate troppo in alto dalle fanciulle fuggenti, come a sottolineare il loro spavento Ancor più ricche di enigmi sono le idrie di bronzo trovate a Paestum in un heroin sotterraneo. Sono interessanti per il fatto che í dedicanti non furono in grado di procurarsi, per quest'atto cultuale, vasi di bronzo tutti de lla medesima qualità. Anche in questo caso, come spesso in Italia, viene alla luce la situazione sociologica e il livello di educazione artistica della popolazione. Alcuni vasi sono così belli che possono essere opera soltanto delle migliori botteghe artigiane dell'Italia meridionale. Altri sono così provinciali e mediocri che debbono essere stati prodotti assai lontano dai principali centri della toreutica italiota (Taranto e Reggio). Il vaso artisticamente p ~ù interessante ha il manico foggiato a forma di leone. Si tratta di un motivo di origine iranica che non compare in Grecia. La forma del vaso e anche la testa del leone ricordano le idrie ceretane, opera probabilmente di Focesi e databili fra il 540 e il 520 a. C.. Forse il toreuta, per accrescere l'impressione di potenza della fiera, scelse volutament per il manico orizzontale una tipologia primitiva nella quale la componente italiota poteva esprimersi con maggior vigore, rendendo al tempo stesso p ~ù poderosa la figura del leone. Per una raro caso fortunato a Paestum si è conservata la statua cultuale di un dio in trono (Zeus ?). Il tempio cui l'immagine apparteneva fu distrutto durante l'occupazione lucana della città nel ii-n1 secolo a. C.. Sembra che la statua di terracotta sia stata sepolta nella colmata accanto al tempio in un secondo momento. La leggera capricciosità dell'insieme, il dolce alternarsi nelle forme di incavi e sporgenze, il modellato del volto, sia pure nella sua frammentaria conservazione, sono veramente unici. II taglio affettato della barba con la « mosca » al di sotto del labbro inferiore, al pari della collocazione del ductus delle palpebre sono del tutto insoliti. Si potrebbe pensare a un'influenza ionico-orientale, mediata dalla vicina colonia focese di Velia, sia per questa statua che per l'altra trovata nel medesimo punto, sempre di terracotta e di dimensioni metà del naturale 43 L'influsso dei modi orientali non è meno evidente nelle figure di fanciulle in fuga di alcune metope del tempio alla foce del Sele, il cui inseguitore, un dio o un eroe, è ancora sepolto nell'area del santuario. Il confronto fra questi rilievi, che ripetono un motivo stereotipo, dimostra ancora una volta, .
30 31 -
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Tav. XIII — =n alto: Pezzo centrale di un diadema d'oro decorato con foglie di acanto. Da Crispiano presso Taranto. Larghezza circa cm 1 ,9 . Inizio del ii secolo a. C. Al centro e in basso: Diadema d'oro e nna,lto con fori ° frutta. Da Canosa di Puglia. Lunghezza circa cm 45; larghεzza cm 2,1. Inizio del ii secolo a. C. — Entrambi a Taranto.
come a Selinunte, le varie possibili gradazioni degli elementi stilistici e la diversità di livello degli artisti che li hanno eseguiti. Il pezzo stilisticamente p ~ù interessante, anche se non il migliore, la raffigurazione di una kore di in fl uenza ionico-orientale con un petto fiorente ed un tipo di testa che si ricollega alla monetazione di Focea. Questi rilievi debbono risalire agli anni attorno al 500 a. C. Mentre i ritrovamenti di Paestum, una città situata alla periferia del mondo greco, sono assai disparati per tipologia e stile, iii compresa l'architettura, la colonia di Taranto nel ντ secolo a. C., appare 29 fortemente legata all'arte figurativa di Sparta. Una grande testa di terracotta ha ~l tipico « volto spartano » come si può notare malgrado lo stato di conservazione non sia dei migliori e sia stato inoltre 23 pregiudicato da un incompetente restauro. Gli stessi tratti fisionomici ricompaiono in una figura votiva di un banchettante con tazza e lira, anche se qui, come nella stessa Sparta, traspare con maggiore incisività la componente ionico-orientale. Il medesimo fenomeno si può constatare nelle piccole teste che VII ornano una collana d'oro trovata a Ruvo di Puglia. La penetrazione sempre più massiccia di elementi formali ionici nell'arte figurativa di Taranto s ~~ spiega con la posizione stessa della città, sulle coste del primo grande golfo che i Greci in viaggio verso occidente dovevano attraversare. Grazie ai contatti culturali fattisi maggiormente intensi con le città, più progredite, dell'oriente greco, nel 470 a. C. Taranto aboli la legislazione di Licurgo e si diede una costituzione democratica. Dal ντ al iii secolo a. C., Siracusa, la piú potente delle colonie greche, restò invece legata con ben 13 altra tenacia alla eredità della sua città-madre, Corinto. Le due sfingi del rilievo votivo di Caltagirone presentano una struttura formale quasi puramente corinzia, pur essendo ~l rilievo un'opera siracusana dell'inizio del ντ secolo. Un'unica sfumatura potrebbe denunziare l'origine siciliota dell'opera: la posizione delle due sfingi che danno le spalle alla palmetta centrale, un motivo che non s ~~ incontra nella madrepatria. Qui la palmetta ha esclusivamente la funzione di riempire lo spazio, mentre come simbolo dell'albero della vita essa è, in verità, ben pifi importante delle sfingi. Queste ultime rappresentano i demoni della vegetazione ed hanno il compito di sorvegliare e di accudire l'albero sacro. Anche i saltellanti ballerini dal grosso ventre sono demoni della fecondità, precursori dei pifi tardi Sileni. Le sfingi 12 potrebbero essere considerate come le progenitrici de ll e ninfe dall'aspetto umano. Anche la figura fittile della Gorgone in corsa ci inserisce in un mondo religioso partecipe delle medesime concezioni. Le sue forme ripetono assai da vicino le figurazioni dei vasi corinzi. La Gorgone cavalca un cavallo o un centauro; anche questo motivo si riallaccia ad un mondo mitologico già superato nel ντ secolo dai Greci della madrepatria, ma che un secolo prima aveva dato origine proprio a figure di demoni di questo tipo, come, ad esempio, i centauri. È comprensibile che a Siracusa non ci siano stati ritrovamenti artisticamente validi che risalgano al periodo arcaico, giacché il sito dell'antica città greca è stato sempre abitato fino ad oggi ed i l sovrapporsi delle varie epoche ha distrutto i resti di quelle p ~ù antiche. Ma nei piccoli centri nei dintorni di Siracusa, e che da essa dipendevano sia culturalmente che artisticamente, anche se ad un livello provinciale, sono state rinvenute alcune opere assai signi ficative, soprattutto a Camarina, Caltagirone, Ca39 smene, Grammichele, San Mauro ecc. Così, ad esempio, la dea in trono proveniente dall'entroterra di Siracusa, leggermente piú attardato rispetto alla città., è il riflesso di un'immagine cultuale siracusana di vasta in fl uenza religiosa. L'irrigidimento, l'asciuttezza del suo linguaggio formale sono illogico risultato della lontananza del mondo religioso e artistico della provincia da quello della madrepatria, ed anche del tentativo d i creare immagini cultuali che imitassero fedelmente quelle della generazione precedente nell'epoca di grande sviluppo economico e culturale che fece seguito alla vittoria di Imera del 480 a. C. 38 Nei busti fittili trovati in alcune tombe presso Siracusa si rispecchia ~l volto della medesima Grande Dea. ,
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Tay. XIV — Psiche? Da Contrada Caserma a Taranto. Terracotta. Altezza cm 34,7. Iτ_zíc del ii secolo a. C. — Taranto.
21 a sinistra 22
20 a destra
20 a sinistra
40, 44, VIII
44
I tratti più ο meno arcaicizzanti di così numerose terrecotte della Magna Grecia si debbono alla loro funzione rituale, per cui necessariamente esse erano tenute a riprodurre la figura, o anche soltanto il volto, di una determinata statua di culto. Questa somiglianza rendeva palesi il loro nome e il loro potere, soprattutto nei riti funebri, ai quali dobbiamo la maggior parte de ll e terrecotte che possediamo. dunque naturale che città come Reggio, Gela, Agrigento, che affondavano le loro radici in tradizioni greco-orientali, seguano modelli orientali. Le figure delle « madri » a Gela e a Reggio hanno una impronta fonico-orientale. Il tipo di « madre » con un infante al seno si riallaccia ad un modello milesio e quello, di poco posteriore, senza il bimbo, rinvenuto a Medma (Rosarno), ad un altro prototipo dell'oriente greco. I vincoli rituali spiegano anche come quello che sembra il più antico di questi tipi indossi una veste con un panneggio già uniforme, che non compare prima del 500 a. C. circa, mentre fl tipo che, a giudicare dal modellato del volto, è più recente, ha un abito privo di pieghe. Queste incongruenze, così frequenti nell'evoluzione formale dell'arte figurativa della Magna Grecia, rendono più difficile la datazione. La ricorrente mescolanza di forme più antiche e forme pifi recenti è uno dei tratti più Caratteristici di quest'arte e forse si può spiegare anche osservando come nella migrazione dei moduli figurativi, cui già accennammo, í prototipi siano stati spesso fraintesi, modificati o anche modernizzati. Copie correnti, create nei centri di provincia, avranno forse anche semplificato forme troppo complesse. Il sincretismo formale tipico della Magna Grecia si coglie con particolare evidenza in due korai votive rinvenute ad Agrigento e a Gela. È impossibile determinare quale rapporto cronologico intercorra fra esse. L'una (da Agrigento) riproduce un idolo del primo arcaismo, uno xoanon, ed è adornata da tre pettorali. Bisognerà pensare ad una copia di un'immagine divina rodia dell'inizio del vii secolo a. C., che sopravvive in oggetti votivi di questo tipo nella colonia di Gela (Gela fu colonizzata infatti da Dori di Rodi e di Creta e a sua volta fondò poi Akragas) Anche le fi bule sulle spalle, rese in dimensioni pi1 grandi del naturale, attestano lo sforzo del coroplasta di riprodurre il prototipo con la massima fedeltà. Tuttavia la fi gura è tardo-arcaica, o forse persino subarcaica, non soltanto a causa della forma della testa, ma anche per il dettaglio delle pieghe del chitone al di sotto dell'ependytes, la veste cultuale liscia. In terrecotte votive di questo genere sono riprodotte, per lo meno come tipo, anche altre famose immagini di diνínità, come l'Atena priva di braccia di Lindos o la Ergane di Endoios che si trovava ad Eretria. Nella seconda kore, quella di Gela, che rappresenta una inserviente del tempio, si coglie con maggiore purezza l'in fluenza dell'arte rodia, anche se nella città-madre il tipo non si incontra mai raffigurato con un catino sacrificale anatolico poggiato sul capo. La sola figura panneggiata potrebbe essere una copia fedele di un archetipo del 540 a. C. La testa però tradisce un'origine pifi recente per la pienezza e la morbidezza dei tratti. Mentre per queste due terrecotte si può parlare di arte rodia, cioè fonica de ll a costa occidentale sud-anatolica, nelle due teste di Agrigento la forma greca appare giunta ad un violento punto di frattura. Le forti asimmetrie, che si notano specialmente nella visione frontale, invitano a formulare l'ipotesi che entrambe le teste appartenessero ad un unico gruppo, sia esso votivo o frontonale. È soltanto l'effetto di scorcio, certamente voluto dall'artista, a dare al volto una espressione plasticamente armonica. Anche le accresciute dimensioni di alcune parti (riccioli ed orecchie) fanno pensare che l'insieme fosse concepito per essere visto da lontano. Forse tutte queste deviazioni dalla scultura della città-madre, Gela, si possono spiegare facendo l'ipotesi che queste teste siano state create da un gruppo di artisti che si spostava da una località all'altra, abili nel calcolare e nell'applicare gli accorgimenti necessari alle statue che venivano collocate nei frontoni e che perciò erano viste da lontano. La varietà dei mezzi espressivi artistici dovette presentarsi con evidenza maggiore soprattutto nelle interpretazioni stilistiche. La forma di una statua di piccole dimensioni è retta da leggi diverse da quelle che presiedono alla creazione di una figura a grandezza naturale. 56
Tav. XV — Menade dormiente. Da una tomba presso í SS. Francesco e Paola a Taranto. Terracotta. Lunghezza cm 30,8. ii secolo a. C. — Taranto.
Anche in Magna Grecia, come nella madrepatria, il passaggio dal ντ al i secolo è contrassegnato da un profondo travaglio religioso, politico e artistico. La sconfitta inflitta ai Cartaginesi presso Imera nel medesimo anno della vittoria sui Persiani a Salamina (480 a. C.), e quella inflitta agli Etruschi presso Cura nel 474 a. C., lasciano sperare per un attimo che verso oriente e verso occidente si schiuda ai Greci un mondo più ampio, più grande e più felice. L'esclusione del commercio cartaginese dal Mediterraneo occidentale e di quello etrusco dalla costa occidentale dell'Italia meridionale favori lo sviluppo e la diffusione dell'arte greca in occidente. Testimonianze ne sono i ritrovamenti di monete nelle colonie focesi di Massalia e Ampurias e nelle regioni sottoposte alla loro influenza, al pari della diffusione dei vasi attici della migliore qualità in Sicilia e in Apulia. In questo periodo famosi artisti greci lavorano per i potenti signori dell'occidente, Gelone, Terone, Ierone, i quali desiderano eternare anche nella madrepatria la loro potenza, prendendo parte ai giochi di Olimpia e di Delfi, e loro vittorie, offrendo doni votivi. I poeti della Grecia, come Pindaro e Bacchilide, celebrano questi tiranni; Eschilo soggiorna due volte in Sicilia. Ma già nei decenni immediatamente successivi all'ebrezza del primo istante per la vittoria del 480 a. C., la mancanza di carattere e di misura dei Greci d'occidente causò disordini politici, dai quali le colonie italiote e siciliote non dovevano più risollevarsi. Nel v secolo l'energico imbrigliamento degli impulsi primitivi aveva portato i Greci della madrepatria alla classicità, ma questa non raggiunse mai l'occidente (e neppure l'oriente) del mondo greco, perché ad esso mancava quel sottofondo di nessi spirituali che fecero di Atene la meraviglia del mondo. L'ascesa politica ed economica dell'occidente greco nella prima metà del v secolo diede un potente impulso a tutte le arti fi gurative. Fu il periodo più grandioso, più superbo per la Magna Grecia. Noi ne abbiamo la testimonianza più imponente nelle monete de ll e città siciliane. A volte la decorazione figurata oltrepassa i limiti consueti delle raffigurazioni monetali e si a νícína, specie nelle decadramme, ai medaglioni delle epoche successive. In questi anni Agrigento e Siracusa raggiungono un'enorme potenza, che trova una singolare espressione nell'architettura dei templi. Ad Agrigento e a Selinunte vengono infatti costruiti i templi più grandi che mai i Greci abbiano progettato, quasi che queste città fossero state investite da una febbrile smania di costruire. Dalla pianta e dall'alzato scompaiono i provincialismi e gli arcaismi, come sotto il soffio di forze spirituali e creative giunte dalla madrepatria. Tutto ciò si può toccare con mano nella forma plastica del capitello. I templi di Atena a Siracusa, di Era a Paestum sono grandiose testimonianze di questa potenza e di questa dignità. Il tempio della Concordia ad Agrigenti denuncia già la fase del declino. Dovunque in quest'epoca si può cogliere il potente contributo della forma greca e della sua forza plastica, alle quali si debbono alcune innovazioni. Ad esempio, era cosa nuova ed inusitata adornare 43 alcune parti dei templi, costruiti con pietra calcarea, con il marmo e porre agli angoli del frontone, come 76 in basso acroteri, statue di Nikai. I gocciolatoi del tempio di Atena a Siracusa sono decorati con teste di leone di marmo, attraverso le quali defluiva l'acqua piovana. Nei frontoni dei templi di Locri e del promontorio Lacinío furono collocate statue di marmo. Accennammo già come per la mancanza di marmo l'occidente apprese l'arte di scolpire statue con questo materiale dalle isole greche dell'oriente da lle quali esso veniva importato. Non sappiamo però se dalla madrepatria giungessero già opere ultimate, o se queste, per facilitare il trasporto, venissero spe42 dite ancora ad uno stadio grezzo, come la kore appena abbozzata di Taranto, che evidentemente era destinata ad essere rifinita o da uno scultore che l'aveva accompagnata nel viaggio, o da un artista tarantino. Solo negli anni attorno al 500 a. C., furono importate in grande quantità opere marmoree greche. 46, 47 Il più squisito torso efebico di stile ionico-orientale è stato rinvenuto in una località insignificante, il píc58
Tal. Xi — Ballerina che esegue una danza be a (Daukismos). Terracotta. Altezza cm 23,5. n secolo a. C. — Tarant ~ .
54, 55
81
45
43 76 in basso
100-103
104
100, 101
colo centro di Grammichele. Anche í capolavori dello stile severo, le statue di efebi di Agrigento e di Leontini, debbono essere stati importati in Sicilia dalle isole dell'oriente produttrici di marmo. Di conseguenza la questione della provenienza del marmo è di notevole importanza in campo storico-artistico perché permette di identificare l'artista esecutore. L'in fluenza esercitata da questi capolavori greci sull'arte della Magna Grecia non sarà mai valutata a sufficienza. La grande richiesta di statue da parte della Magna Grecia nella prima metà del v secolo deve essersi particolarmente indirizzata a ll a scultura in bronzo, che per noi è quasi del tutto perduta. Anche la scultura in bronzo ricevette vivaci impulsi dagli artisti della madrepatria. Onatas di Egina, Hagalaidas di Argo e molti altri eseguirono opere su commissione di Taranto e di Siracusa, e dovettero trattenersi a lungo con i loro aiutanti in queste città: un soggiorno fecondo per l'arte della Magna Grecia. La statua efebica di Selinunte, di dimensioni metà del naturale, non ci compensa in alcun modo della perdita della migliore statuaria in bronzo delle colonie d'occidente; è soltanto un'opera provinciale assai mediocre creata alla periferia del mondo della Magna Grecia. La statua di Posidone, recentemente rinvenuta a Ugento (Taranto) ci dà un'idea della grandiosità del materiale perduto. La richiesta di sculture marmoree portò in quest'epoca alla scoperta di alcune cave di marmo nell'Italia meridionale e forse anche in Sicilia, le quali naturalmente non erano molto ricche e fornivano soltanto piccoli blocchi. Gli scultori de ll a Magna Grecia poterono allora cimentarsi in opere marmoree loro proprie, anche se ostacolati dalla limitata grandezza dei blocchi. È una constatazione che si può facilmente fare osservando le più antiche opere in marmo italiote, quelle di Paestum. Tutte le teste qui rinvenute erano collocate su statue di legno o di calcare. Perché il loro innesto al torso risultasse più solido, gli artisti allargarono il collo innaturalmente verso il basso. Con il marmo italico furono però scolpite anche intere statue, come la Nike del tempio dei Dinomenidi a Siracusa, che si colloca sulla scia della tradizione paria. L'architettura templare pare abbia conferito in quest'epoca forti impulsi alla scultura in marmo. Le teste leonine che servivano da gocciolatoi, poste lungo la sima del tempio di Atena, sono in parte eseguite in marmo locale. I miseri frammenti delle statue frontonali di Locri e di Crotone, eseguite in marmo della Calabria, non ci dicono nulla di più. Le sculture architettoniche più signi ficative per l'occidente in quest'epoca sono però le metope del tempio di Era a Selinunte (cosiddetto tempio E). In verità, a questi rilievi manca l'energica plasticità de ll e metope del tempio di Zeus ad Olimpia, solo di poco pifi antiche, ciò nonostante in esse si esprime in tutta chiarezza il tipico spirito della Magna Grecia. Non può sussistere alcun dubbio sul fatto che queste metope siano state ideate da artisti locali; lo rivelano con immediatezza í motivi, í tipi e soprattutto il modo di rendere il panneggio. La resa lineare, quasi manicristica dell'articolarsi delle superfici, spesso già messa in luce, vi compare in vari gradi di intensità, in modo particolarmente evidente nella disorganica e goffa metopa di Atena ed Encelado. Nelle teste femminili, eseguite in marmo, si possono cogliere tutte le gradazioni e tutti í progressivi stadi dell'adozione da parte degli artisti occidentali delle forme stilistiche delle teste greche, e, al tempo stesso, vi si esprime con particolare sensibilità e nella forma più pura, la tipica componente greco-occidentale. Queste teste sono probabilmente opera di un gruppo di artisti che, un po' come accadde poi nel Medioevo, si spostava da una località all'altra e la cui attività è testimoniata anche altrove. Quanto più forte è il contributo del sostrato locale, tanto più segnate appaiono le due pieghe ai lati de ll a bocca che determinano l'espressione del viso. Si vedano, a questo proposito, anche le monete di Catana e Leontiní. La componente siciliota va ravvisata anche nella passionalità degli atteggiamenti e nell'intensità con cui viene espresso il dolore, per esempio nella testa dell'Amazzone. 1 gruppi di artisti, ai quali si debbono queste opere, sono originari dell'area greco-orientale e furono fortemente influenzati dall'arte di Pitagora. 60
Τ 'i. XVII — Danzatrice. Τerrc οtta. Α1 zza cm 22β. secοlο a. C. — Taranto.
76 80 -
33 76 in basso
76 in alto
77 79 -
157 in basso
44, VIII
60, 61
La grandiosità e l'imponenza della concezione architettonica dei Greci d'occidente trovò un'ulteriore tangibile espressione nelle teste leonine adoperate come gocciolotoi in numerosi templi della Magna Grecia, eretti nel v secolo. All'inizio del ντ secolo ci si era accontentati di convogliare l'acqua in semplici cannelli di terracotta che con un ampio arco la scaricassero lontano dai fianchi del tempio; si veda, ad esempio, l'antico tempio di Atena a Siracusa. Alla fi ne del ντ secolo, a Gela, viene adottato il tipo di gocciolatoio, probabilmente corinzio, a testa di Sileno, che è reso qui in una forma particolarmente espressiva e di netta in fl uenza ionica. Ma già per il tempio dei Dinomenidi a Siracusa si sceglie il gocciolatioio preferito nella madrepatria a partire dal 530 a. C., quello a testa di leone, nel quale l'acqua defluisce dalle fauci aperte dell'animale. Queste teste leonine furono probabilmente scolpite sulla scorta di modelli, uno dei quali si è conservato ad Agrigento. Non si tratta di sculture naturalistiche, ma di figurazioni che, oltre alla finalità pratica, hanno anche un intento decorativo. A Siracusa esse presentano ancora una certa tensione emozionale e una certa gaiezza (se quest'ultimo termine può adattarsi ad una testa leonina). Subito dopo però gli scultori iniziano ad introdurre anche nei tratti dei leoni qualcosa della grandiosità della austera e rigida scultura di quest'epoca. Il tempio di Imera ce ne ha conservato un gran numero. Da esse traspare che gli artigiani eseguendole ebbero sotto gli occhi modelli diversi e che li trasferirono sul calcare con maggiore o minore abilità. Anche se le migliori di queste teste ci appaiono oggi magnifiche, non va mai dimenticato che un tempo la loro intima vitalità era espressa attraverso í variopinti colori che ravvivavano particolarmente gli occhi e le fauci. Si è notato in precedenza (pag. 24) come nel tempio della Concordia ad Agrigento la plasticità dell'insieme abbia già perduto, nei suoi membri architettonici e nella sua struttura, l'austerità e l'imponenza dei templi più antichi. Anche nelle teste leonine della fi ne del i secolo a. C., e soprattutto in quelle dell'epoca successiva, si inserisce questo allentamento delle forme plastiche: i singoli elementi costitutivi della immagine risultano isolati dal solco dello scalpello che incide profondamente la pietra, tanto che si giunge al disgregamento dell'unità dell'insieme. Il fenomeno è particolaremente evidente nella testa leonina proveniente dalla fonte di Kyane, presso Siracusa. Quelle, ancora più tarde, dei lati lunghi del tempio di Eracle a Siracusa hanno una forma più contenuta grazie al classicismo del tardo ellenismo. Ma i dettagli, ad esempio le fauci foggiate a mo' di conchiglia, tradiscono come anche in queste teste di leone ci si sia ormai allontanati dalla pienezza della forma plastica e dalla solidità di struttura dello stile severo, per rifugiarsi nella capricciosa giocondità della fase tarda. Forme più delicate si incontrano nell'area artistica di in fl uenza ionica della Sicilia. La magnifica testa fittile di Agrigento lascia intuire l'inusitata intensità del suo sguardo appena accennata dalle forme plastiche ed espressa soltanto attraverso il colore. Questa testa è del tutto isolata nella produzione, decisamente di in fl uenza dorica, dell'Agrigento di quest'epoca. Assai più modeste sono le terrecotte votive di Locri e di Medma (Rosarno), nelle quali affiora, con una capricciosa sfumatura, lo stile severo della scultura dell'inizio del v secolo. Tutte celebrano una Grande Dea, da identificare forse con Demetra, e ripetono un'immagine cultuale particolarmente venerata. Per lo più se ne sono conservate le sole teste. Nei tipi di terrecotte votive giunti fino a noi la Grande Dea appare raffigurata con in mano una coppa o un melograno, una volta anche con Eros ed un'altra con una figura in grembo in una posa simile a quella della dea del rilievo Ludovisi . Probabilmente in questa varietà di tipi si voleva esprimere il fatto che essa era adorata come la dea per eccellenza, la Pantadoteira, nelle funzioni di Demetra, Era ed Afrodite. La grazia particolare di queste teste, che appartengono in gran parte ai decenni immediatamente successivi al 480, nasce da un'artificiosa mescolanza di forme arcaiche e di stile severo, quale, a volte, si può osservare anche nella scultura ionico-orientale di quest'epoca. Dalla disposizione delle parti più importanti del volto (la posizione obligua degli occhi, leggermente socchiusi, 62
Tav. XVIII — Fanciulla. Tarracotta. Α1-eaa circa cm 25. ii secolo a. C. — Taranto.
a volte un po' sporgenti, con accentuate caruncole lagrimali, le labbra fortemente ricurve) nasce quella particolare espressione che distingue tutte le opere create nell'« Italia antiquissima ». Sulla testa di un 57
orante (o di un giovanetto del seguito di qualche divinità) si può osservare come, con voluta pedanteria, i riccioli siano disposti tutti allineati e come l'accentuazione delle sopracciglia conferisca al volto una
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espressione leggermente arcaicizzante. La testa del Museo Nazionale di Napoli, che probabilmente apparteneva ad un gruppo di statue votive o frontonali, presenta questi medesimi tratti caratteristici, anche se leggermente inaspriti, forse perché era stata calcolata la distanza dalla quale sarebbero state viste
48, 49
le statue. Stilisticamente affine la testa di marmo di Catania (dalla Collezione Biscari). La Demetra Malophoros in trono, rinvenuta a Selinunte, attesta quanto possa essere diverso il con-
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tenuto espressivo in queste terrecotte popolari. La severa contenutezza dello stile dorico si impone nella solennità delle pieghe del panneggio che corrono parallele sul corpo e sul petto della dea. Eppure le pieghe appena rilevate che fasciano le braccia e le gambe ci mostrano come anche queste mediocri 69
sculture possano avere un loro grado di bellezza. Nella grande statua votiva trovata ad Inessa, ora a Catania, che A. Furtwängler riscopri nel suo giusto valore, è presente un primitivismo pieno di ingenuità di grazia (non importa se voluto o inconscio) Naturalmente sotto la grossolana rifinitura si avverte appena la portata artistica di questa scultura. Messa a confronto con la produzione greca colpisce l'esilità della fi gura, l'eccessiva lunghezza del collo, il portamento altero, quasi consapevole di sé, della testa la brevità dell'occipite. Tutte queste particolarità sono proprie anche delle teste raffigurate sulle monete di Catania e Leontini, il cui stile è assai più consono al gusto locale. Inizialmente questa fi gura in peplo fu ritenuta un rifacimento provinciale di una creazione dorica. Oggi ci sono note figure con peplo ionico-orientali assai pifi strettamente imparentate con il nostro esemplare di Inessa. La scultura della Magna Grecia non è soltanto l'eco di quella greca, ma ha dato essa stessa due famosi maestri all'arte delle colonie d'occidente: Clearco e Pitagora di Reggio. Non ci sono giunte le loro opere, ma il riflesso de ll a loro produzione si coglie sia nelle terrecotte dei dintorni di Reggio che nelle statuette di bronzo della Sicilia orientale. Di Clearco non abbiamo ancora un'idea chiara, mentre l'arte di Pitagora si va gradatamente delineando grazie ai confronti stilistici fra alcune opere rinve-
62, 63
nute in Magna Grecia. Paragonando la testa della dea della collezione Ludovisi con quella di Atena
del Vaticano risulterà evidente, ad esempio, come la prima appartenga all'arte un po' convenzionale 86, 87 di Locri e come la seconda tradisca invece la mano di un maestro assai ρi~~incisivo e personale. Non soltanto essa è leggermente piú matura nella forma, ma soprattutto la sua forza espressiva deriva dai 84, X, 85 nuovi modi stilistici di un importante maestro. Anche la statua di atleta di Adrano e la fanciulla che 88 fa da sostegno ad uno specchio, proveniente da Camarina, si staccano dagli innumerevoli, convenzionali bronzetti dell'Italia meridionale per una nota tutta personale. Inoltre dal momento che la testa dello atleta di Adernò (Adrano) è quasi identica a quella di Atena, malgrado la diversità del soggetto rappresentato, la connessione di entrambe queste statue con Pitagora è un'ipotesi da prendere in considerazione. Nessuna statua atletica rinvenuta in Grecia riesce a dare un'impressione così viva del carattere e dello spirito di un atleta di professione. Guardandola vien da pensare a Milone di Crotone ed alle innumerevoli leggende nate intorno a ll a sua figura. Le opere di Pitagora si distinguevano soprattutto per simmetria ritmo (nel significato greco delle due parole). Un'altra caratteristica delle sue opere era la disposizione a chiasma delle membra, che i secoli della classicità generalmente evitarono e fu prediletta appena durante l'ellenismo. Secondo la tradizione antica Pitagora fu un innovatore, un mae stro che precorse Lisippo, un po' come Jacopo della Quercia viene considerato il precursore di Michelangelo. Si chiarisce ora la dipendenza, nel portamento e nei dettagli, di queste sculture con l'arte ionico-orientale e, al tempo stesso, gli echi che opere di questo tipo hanno lasciato in alcune teste delle metope di Selinunte. 64
Tav. XIX - Signora che incede. Da Solunto presso Palermo. Τrnacotta. Altezza cm 36,5. Ci-ca 100 a. C. - Palermo.
Dall'arte della Ionia dipende anche l'Apollo arciere di Bari, se pure di qualità inferiore e piuttosto
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provinciale. Il suo incedere incerto e soprattutto la magrezza della muscolatura del torso fanno pensare, a tutta prima, agli efebi in bronzo di Locri. Ma la
figura riacquista la sua plasticità nella visione fron-
tale voluta dall'artista. La testa rivela la dipendenza stilistica dalle più antiche opere ionico-orientali, ma anche dalle piU recenti teste di acroliti di Cirene e di Tera. Accennammo già a come i mutamenti politici e sociali portarono al potere, soprattutto nei grandi centri come Taranto, Siracusa e Crotone, sempre nuovi s tr ati della popolazione che rifiutarono l'antica tradizione conservatrice dorica. La democraticizzazione per lo più radicale, di alcune città indebolì í vincoli con la madrepatria. La fondazione attica di Turíi nel 443 a. C. avrebbe potuto rivestire una grande importanza se la colonia avesse avuto vita lunga. Forse proprio con questo allentamento dei legami con la Grecia si spiega il fatto che in occidente la fase iniziale e quella della piena classicità hanno trovato un'espressione equivalente a quella della madrepatria soltanto sulle monete. Nell'arte figurativa è indiscutibile l'in fl uenza sempre maggiore dell'oriente greco. Come nella Ιοn~α, la scultura si è fatta piU sensibile, pronta a prediligere i momenti ricchi di tensione emozionale. Lo si vede chiara-
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mente in due piccole teste di un gruppo che si stringono una all'altra. Sembrano la traduzione plastica di un motivo del pittore Polignoto, che in Grecia si incontra solo nelle raffigurazioni vascolari. Nel gruppo
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di Afrodite con Eros in braccio, simile a quello di una Madonna con Bambino, si esprime, volutamente accentuato, il senso di solennità religiosa che accompagna l'epifania della dea. Ι più bei rilievi di Locri, al pari del trono Ludovisi, sembrano essere originari dall'arte greca orientale. Α volte questa nuova sen-
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sibilità conferisce ai rilievi una sfumatura singolare e artisticamente significativa; si veda, ad esempio, la testa a rilievo di Siracusa dall'aria quasi quattrocentesca con í capelli che si rizzano sulla nuca e
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con il caratteristico sguardo pieno di sentimento del giovinetto. Tutti questi tratti si accentuano nella enigmatica testa di un'eroina che rivela la sua intima delicatezza solo se guardata di profilo, evidentemente il punto di vista tenuto presente dal suo esecutore.
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Anche le rare opere in marmo d i quest'epoca, delle quali possediamo per lo più solo frammenti, si riallacciano all'arte dell'oriente greco. La testa dell'Atena di Taranto richiama da presso lo stile del maestro delle Niobidi morenti di Roma. t un'opera di altissima qualità di questo grande scultore che ha creato numerosi gruppi frontonali scegliendo per soggetto la strage dei Niobidi. Le statue frontonali d i Roma furono probabilmente portate via da una città della Magna Grecia e più tardi trasferite nel tempio di Apollo Sosiano. All'Apollo arciere, qui rinvenuto, ha assai nociuto un restauro tardoantico; la sua autentica bellezza s i coglie perciò oggi soltanto osservandone la parte posteriore, origina-
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riamente protetta dal muro del frontone. Ci sorprendono stranamente, ad esempio, i due riccioli di bronzo dorato, aggiunti solo nel iv secolo. Essi accrescono l'espressività del volto e sembrano investiti dal vento, un espediente usato assai frequente sulle monete e nelle raffigurazioni vascolari della Magna Grecia. Anche la Niobide morente di Copenhagen era stata « abbellita» con questi ciuffi svolazzanti di capelli in bronzo, i quali fortunatamente sono andati perduti. La testa femminile appartiene ad un altro gruppo frontonale nel quale era forse raffigurato ancora una volta i l medesimo mito. Dall'attacco del collo si potrebbe dedurre che si tratti di un'Artemide saettatrice. Anche in quest'opera è innegabile la discrepanza stilistica fra forme più mature e forme di stile severo. Il retro della testa, meglio conservato, ricorda le teste di Aretusa della prima classicità, la parte anteriore, assai danneggiata, richiama invece forme pienamente classiche. Una bottega di scultori, quale è quella che ha eseguito queste opere, doveva probabilmente spostarsi di sito in sito in cerca di nuovo lavoro, giacché non poteva esservene a sufficienza in un'unica città. Tuttavia essa non si è mai sottratta all'influenza della scultura della località
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di origine. Testimonianza ne è la testa acrolitica dell'immagine cultuale di Apollo Alaios, che proviene 66
dal piccolo centro provinciale di Crimisa (Cirò). La figura intera di questa statua si è conservata in piccole copie di bronzo e d'oro. Noi oggi possiamo difficilmente giudicare questa testa, perché il cranio nudo, un tempo coperto da una parrucca di bronzo, in fl uenza sfavorevolmente l'impressione che suscita questa scultura. Ma la singolare turgidezza de ~~ tratti del volto e la mancanza di una struttura plastica portante, che conferiscono alla testa, con le sue guance paffute e le labbra prive di spirito e di tensione, un'espressione strana e sgradevole, debbono aver sempre caratterizzato quest'opera. Persino i piedi hanno una forma inesplicabilmente goffa e brutta. Forse alcuni scultori del v secolo a. C., che adoperavano il marmo, hanno avvertito il pericolo di una eccessiva morbidezza della forma plastica ed hanno, di conseguenza, conferito alle loro raffigurazioni un carattere più consono allo stile severo di quanto, nella medesima epoca, non fosse usuale nella madrepatria. I due Dioscuri che decoravano il tetto del tempio di Locri denunziano chiaramente que-
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sta tendenza nel modellato delle loro forme. Anche se nella mancanza di statica del motivo raffigurato (una caratteristica ricorrente nella Magna Grecia), il Dioscuri che salta da cavallo per correre a prestare il suo aiuto ed il Tritone dal corpo sinuoso ed ondeggiante, è inconfondibile la componente grecooccidentale, pure nei cavalli e nell'unica testa conservatasi è evidente la forte impronta dell'arte greca, forse quella della scuola di Agoracrito. Una versione volutamente esagerata di questo gruppo si incontra nella statua di un Dioscuro che monta un cavallo sostenuto da una sfinge, rinvenuta ugualmente a Locri. Ancora una volta l'origine locale dell'opera è attestata dalla mancanza di statica e di senso plastico nella concezione artistica, ed inoltre dall'esuberanza della rappresentazione. La predilezione per queste
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forme sovrabbondanti fino a rasentare il barocco si incontra particolarmente nelle terrecotte dopo la vittoria de ~~ Siracusani sugli Ateniesi del 413 a. C.; si vedano, ad esempio, la menade danzante e, soprat- XI tutto, l'Afrodite in trono di Megara Iblea. Il caratteristico gesto di sollevare la mano per rialzare il 130 velo lascia trasparire questa predilezione barocca dell'epoca intorno al 400 a. C. per l'espressione estatica, della quale sono ottimi esempi le raffigurazioni vascolari tarantine, soprattutto quelle del pittore di Amykos. All'inizio del iv secolo, dopo la sconfitta di Atene, che, a partire dal 404 a. C., perde completamente la sua potenza, Siracusa assume una posizione di predominio. Nel Mediterraneo occidentale tutto il commercio, fino a ll a Gallia e alla Spagna, è ora nelle sue mani. Ma all'ascesa economica non si accompagna una pari rinascita spirituale. Della grande epoca di splendore vissuta da Siracusa durante la tirannia di Dionisio non abbiamo che poche testimonianze artistiche. Dall'architrave di un tempio di Megara Iblea traspare il gusto e la sensibilità del tempo per i begli ornati. Qui, p ~ú forte che a Taranto, appare il contributo del pensiero greco (Platone, ad esempio) e degli artisti greci, che sembrano aver posto un freno alla predilezione per forme ed espressioni esagerate, tipica della Magna Grecia, mentre a Taranto, a Locri e a Paestum la componente locale inquina le forme greche. Questo processo d~~ dissoluzione si può seguire da presso soprattutto nei manici degli specchi locresi, fino a quel magnifico esemplare sul quale sotLo rappresentati un Sileno e un giovanetto e che ci consente, al tempo stesso, di intravedere í mutamenti avvenuti in quest'epoca nelle concezioni religiose e cultuali che presiedevano all'arte funeraria. Accanto a queste opere si collocano alcune statuette fittili, di forma perfetta, d ~~ Pae-
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stum e di Taranto, influenzate dal nuovo stile degli anni attorno al 370 a. C. Il loro aspetto è del tutto greco, mai motivi raffigurati, soprattutto la cosiddetta Eileithya inginocchiata e la fanciulla ignuda con Eros sulle spalle lasciano scorgere un diverso sottofondo religioso. In questo iv secolo, nel corso del quale nelle città situate a nord l'avanzata de ~~ Campani, dei Lucani e degli Iapigi respinge e indebolisce sempre più l'elemento greco, si p υó constatare una forte ellenizzazione dell'arte indigena, soprattutto in Apulia, in Lucania e in Campania. Cura, Napoli e Pae,
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sturo cadono in quest'epoca nelle mani dei Campani e dei Lucani. Le città lungo il golfo di Taranto godevano invece di una fiorente prosperità e di relativa pace. Le relazioni commerciali con la Macedonia, la Tracia e il Bosforo, fattesi più intese da quando queste regioni erano state pacificate dalla conquista d~~ Alessandro Magno, aveva portato ricchezza e lusso. Un'ampia ondata di attività artistica ionica sembra aver investito l'Apulia giungendo dal Bosforo lungo la via Egnazia. Furono prodotte in quest'epoca le pifi squisite opere di toreutica in oro, argento e bronzo. Α volte è difficile localizzarle.
Il diadema d'oro di Taranto, certo appartenuto alla statua di una divinità, lo scettro d'oro e persino gli oggetti d'oro rinvenuti nei centri di provincia dell'Apulia parlano dell'alto livello d ~~ prosperità raggiunto in quest'epoca. Ora anche la scultura in marmo riceve un notevole impulso. La nuova arte di Prassitele e di Sci-
134 pas fu adottata entusiasticamente a Taranto. Di fronte ai tratti pieni di sentimento di una testa di Taranto vien da dubitare se non si tratti di un'opera importata da Atene. Ma l'arte tarantina tocca il 135 suo più alto vertice in una testa marmorea, probabilmente di una statua funeraria, ora a Kansas City. La leggiadria delle sue forme nasce dal gioco di forze plastiche eterogenee nel modellato degli occhi, delle sopracciglia e de ll e guance. Questo gioco di forze è mirabilmente variato in due grosse teste di terracotta che raffigurano probabilmente la Grande Dea di Taranto, dispensatrice della felicità terrena. Sarebbe interessante sapere se esse appartenevano a statue votive o a immagini divine. Opere di questo tipo attestano, per lo meno per Taranto e Reggio, il più alto livello raggiunto anche dai coriplasti minori. XIII Numerosi diademi testimoniano l'alto grado di perfezione toccato in quest'epoca dall'oreficeria taXII rantina. Uno di essi è identico a quello di una grande testa fittile d ~~ grandi dimensioni. Esemplari rinvenuti nella Grecia settentrionale, nei Balcani e nella Russia meridionale sono ugualmente preziosi come questi gioielli di Taranto. La via Egnazia infatti era divenuta una strada commerciale di grande transito da quando Alessandro aveva pacificato le regioni che essa attraversava. C'è uno scambio continuo di motivi e di influenze artistiche: l'area tarantina, sotto il profilo della produzione artistica, appare strettamente legata alla Grecia settentrionale. Tuttavia, di quest'arte figurativa che, a giudicare da alcuni singoli ritrovamenti, aveva raggiunto un alto livello qualitativo, è rimasto ben poco. Sia pure alla lontana, ma sempre in modo sufficiente136, 137 mente significativo, essa è riecheggiata nei rilievi in calcare che, a partire dal v secolo a. C., si fanno assai frequenti a Taranto per l'accresciuto lusso delle tombe. In questi rilievi tarantini si p υò toccar con mano l'incalzante succedersi di tutte le caratteristiche, già notate, della scultura della Magna Grecia: la spiccata sensibilità spaziale, la tendenza alla dissoluzione della forma plastica in forma pittorica grazie agli effetti prospettici, il sentimentalismo dell'espressione dei volti e, ben presto, anche l'incipiente tendenza a conferire morbidezza a grazia alle figure nei loro atteggiamenti, nei loro gesti e nei loro volti. Tutte queste caratteristiche, divenute però sempre più monotone ed insulse, ebbero una seconda, tarda fioritura nell'ellenismo del n e del τ secolo a. C. 138, 139 A Taranto un'eco delle grandi creazioni d i Lisippo si coglie nella statuetta di un Dioscuro. L'efebo di Saponara, ora al British Museum, è inconcepibile senza l'influsso di Lisippo, anche se completamente XIII diverso nella sua struttura plastica. Un'opera che, come i diademi già ricordati, si pone al di sopra delle scuole locali, è una tazza d'argento di Taranto, oggi introvabile. La misura, che caratterizza ogni forma, ci dice a quali vette poteva innalzarsi l'arte della toreutica a Taranto nelle mani di artisti sensibili. Questa tazza è senz'altro il pezzo pifι bello fra tutto il vasellame d'argento giunto fino a noi. Affine, e forse 140 della stessa mano, è il rilievo di una borchia d'argento da finimenti che raffigura una Nike danzante con un trofeo. Con la bottega dalla quale uscirono queste opere fu certamente in contatto il maestro del grande cratere d i bronzo recentemente rinvenuto a Salonícco. 68
Ταν XX — Neréide r un mostro m a r ino. Crhb di pisside. Da Canosa di Puglia. Argmto e oro. Diametro _m 10,3: D αρκι ι1 15C α. C. - Taranto.
A Taranto, ritrovamenti che risalgono al iv e al in secolo a. C., sono assai rari poiché nel xix secolo il primo impianto ellenistico fu completamente distrutto. Nel settore orientale della città, che fino a questo momento si è salvato dalla febbrile attività edilizia dei nostri tempi, si sono avuti soltanto ritrovamenti artisticamente poco significativi, databili al ii e al τ secolo a. C. Nel Ii secolo a. C., nel momento della grande fioritura della scultura in terracotta, anche a Taranto, che era in occidente la città guida per la coroplastica, furono create statuette fittili del tipo delle « Ta141 nagrine ». Ma di quest'epoca s i è conservata una sola fi gura votiva di una certa importanza. Le teste tro142 vate a Metaponto hanno un aspetto più severo. Anche per la forma della loro acconciatura esse attestano l'estrema raffinatezza (quasi un rococò) e l'intima corruzione della forma plastica, raggiunte i n questo secolo infausto che vide privata della libertà tutta l'Italia meridionale e le incalcolabili perdite di vite e di beni durante le guerre di Pirro, di Annibale e soprattutto durante il conflitto con i Romani. Dal tempo della prima conquista da parte dei Romani, nel 272 a. C., la città di Taranto non trovò più la forza di risollevarsi. Da allora essa visse soltanto dell'eredità della fioritura di un tempo. In verità, nel π secolo la città ebbe un apparente periodo di splendore per l'arrivo da Roma di un gruppo di sospetti filelleni; ma anche allora non si fece che affinare fino all'esaurimento l'eredità delle epoche precedenti. Agli anni 143 ss., attorno al 180 a. C. risalgono alcune graziosissime figure femminili. La situazione era la stessa a SiraXVI-XIX cusa, che fu ripagata della sua fedeltà a Roma con i l saccheggio e la distruzione. La morte di Archimede, ucciso dai soldati romani mentre attendeva ai suoi studi matematici, è un avvenimento che ha il valore di un simbolo. Come a Taranto, anche a Centuripe, a Morgantina e a Solunto, il filellenismo italico portò a una rinascita della coroplastica. Ugualmente nella madrepatria, dopo il colpo mortale inflitto alla Grecia a Pidna (168 a. C.) e a Corinto (146 a. C.), l'arte figurativa, privata delle sue energie fisiche e spirituali, condusse un'esistenza parassitaria e d iscont inua. Come alla fine di ogni ciclo, innumerevoli correnti stilistiche coesistono fianco a fianco, incrociandosi e mescolandosi. Nel u secolo a. C. l'estrema raffinatezza raggiunta dalle arti figurative si esprime con la massima evidenza nell'abbigliamento e nelle acconciature. Queste ultime torreggiano sempre più alte. Dalla grazia leggera impressa a ogni forma, persino al corpo umano ideale, si p as sa ad una decadenza geniale, per giungere a una puerile melensaggine. « Una meravigliosa, raffinata sensibilità interiore rende possibile agli artisti di quest'epoca di accogliere esteriormente ogni tipo di vera bellezza, senza però penetrarla intimamente. Finché riescono ad attingere ad essa e a rimanere giovani, spesso le loro creazioni raggiungono una dolcezza piena di lusinghe. Più tardi conferiscono questa stessa patina ad ogni soggetto che si propongono. Come il Guercino e il Domenichino, che vengono dopo grandi maestri, essi sono di volta in volta sublimi o vani, raffinati o puerili, devoti o lascivi. Dall'epoca arcadica ereditano l'artificiosità e i l gusto per la sovrabbondanza degli ornati, che solo di rado diventano tollerabili perché impregnati d i un senso di tristezza mortale ». Queste parole di Stephan George aiutano forse a comprendere meglio le figurine fittili tardo-tarantine rinvenute nelle tombe. Sono terrecotte nelle quali innanzi tutto si esprimono le speranze che quest'epoca ripone nell'aldilà. Come le Uri iraniche, esse attorniano i defunti. Con un processo magico per analogia dovevano accoglierli nella danza degli spiriti felici e delicati, i « Geni beati », dell'aldilà. Le figure alate cor!49 rispondono probabilmente alla dea dei morti etrusca, Vanth, e alla greca Nike. Danzatrici con veli, tipiche di numerosi culti, soprattutto di quello di Afrodite, dovevano attorniare in un'eterna danza 143 a destra, í defunti nelle loro tombe. A volte si tratta anche di Menadi danzanti che hanno perduto tutto 151 dell'estasi dionisiaca e sembrano manichini. Hanno forme ora più dolci, ora più rigide, e la loro 146, 147 danza è ora ρíù leggiadra, ora più impetuosa. A volte la torsione impressa ai loro corpi sug145 gerisce un'estasi dionisiaca da balletto teatrale. Altre volte questo pathos è frenato da un freddo classicismo. 70
Ma tutto questo fluisce e rifluisce in un perpetuo moto ondoso, causato da un'intima instabilità che cela sotto forme esuberanti, ma prive di significato, il vuoto interiore degli uomini di quest'epoca. Se solo tentiamo di penetrare nella reale essenza fisica di queste delicate figure, immediatamente esse si rivelano dei petits rien. t significativo che anche il corpo umano ideale (e forse non soltanto in arte, ma anche nella realtà) testimoni questa profonda astenia spirituale e religiosa. Un esemplo particolarmente istruttivo se ne incontra nella città punica di Solunto, presso Palermo, grecizzata assai tardi. Come spesso accade nella storia, í cittadini di Solunto, barbari per metà, accolsero con particolare entusiasmo una civiltà superiore che essi potevano però comprendere soltanto esteriormente. Ancora una volta gli stimoli possono essere suscitati dai rinnovati contatti culturali con le città greche situate lungo la costa anatolica, al vertice della loro fioritura in quell'epoca. I centri principali erano Pergamo e Smirne. L'arte d ~~questo periodo ci è nota soprattutto dai ritrovamenti di Myrina. A partire dal 150 a. C., le terrecotte di Myrína si diffusero per tutto l' oikoumene e furono rapidamente adattate, di località in località, al gusto del posto. Le troviamo nei centri di provincia degli Iapigí, Ruvo e Canosa, nella Campania e nel Lazio e, particolarmente numerose e di buona qualità, a Centuripe e a Solunto, due città che godettero allora d ~~ una fugace fioritura. Esse si differenziano dalle statuette più antiche soprattutto nell'ideale del corpo umano, caratterizzato da un petto astenico e gracile, da fianchi larghi e da un collo eccessivamente lungo. Le vesti appaiono di stoffe sottili, simili alla seta. Spesso lasciano trasparire le pieghe del sottostante chitone con maggiore evidenza di quanto non siano segnate quelle che esse stesse formano. Ma anche più significativi sono, in alcune terrecotte, il portamento e i gesti. Avanzano pretenziose a lunghi passi, si girano
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con aria di importanza, si gettano sulle spalle il manto con gesti magniloquenti; ma dietro a tutto questo non c'è che il vuoto. t come se attraverso questa esagerazione della loro apparenza esteriore esse cerchino di riacquistare quel significato che non riescono piU ad ottenere, nel senso delle epoche precedenti, con la loro semplice esistenza. In altre figure, ad esempio la menade di Taranto, traspare sotto il velo di un rigido classicismo l'epoca della disfatta o anche una fase di temporanea ripresa. È evitato il patetico finserimento nello spazio, il corpo stesso è concepito sempre piú piatto e bidimensionale,. Tuttavia sul lato
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frontale di questo corpo privo di plasticità giocano ancora agili cascate di pieghe, un motivo tardo-ellenistico ripetuto in ammirevoli e sempre nuove varianti. Quest'arte tardo-ellenistica, alla quale í vari Trímalcioni dell'Italia meridionale regalarono ancora una volta una soprendente fioritura, trovò senza dubbio una corrispondente espressione anche in tutte le altre branche della produzione artistica. I coperchi d'argento di pissidi, rinvenuti a Canosa ma forse XX eseguiti a Taranto, ne danno un chiaro esempio nelle figure delle Nereidi, un motivo assai fecondo e di grande effetto per tutte le epoche tarde dell'arte. Nelle opere eseguite con un materiale meno costoso, il calcare, si possono cogliere tutti i vari gradi e tutte le combinazioni di questa produzione tardo-ellenistica: il soggetto della battaglia è visto con pathos altamente tragico, ma teatrale, dai tarantini che amavano smisuratamente il teatro, oppure la mischia guerriera è resa con un sorprendente gioco decorativo delle vesti. Anche il correre qua e là senza
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scopo delle figure è un motivo sintomatico della confusione interiore di quest'epoca. In quale misura la scultura in calcare di Taranto, ma anche di Siracusa, assecondi questo dissolvimento della componente greca in occidente (si potrebbe quasi dire che essa induca gli artisti ad allentare la forma delle loro figure in modo che possano corrispondere all'immagine creata dalla loro fantasia) testimoniato, ad esempio, nelle sue forme ideali, dalla cariatide, appartenente alla ricostruzione del grande teatro di Siracusa, e da una testa ritratto di un collerico giovane dell'epoca. Potremmo quasi dire che a sprazzi affiora un linguaggio formale impressionistico, a tal punto la forma dei capelli è allentata. Gli occhi, infossati nelle cavità orbitali, sono ombreggiati da folte e ondulate sopracciglia. A volte í nessi for71
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mali sono avvertiti con maggior forza nelle immagini divine, come in un rilievo di Siracusa con tre ninfe che ripete evidentemente una famosa immagine cultuale di epoca precedente. Ma nel rilievo di Apollo, rinvenuto ad Acre, ora al Museo di Siracusa, si giunge quasi alla dissoluzione delle forme. Il dio è atteggiato secondo una posa tardo-ellenistica: il corpo descrive quasi una serpentina.Artemide invece appare in tutta la sontuosità dei suoi ampi paludamenti tardo-ellenistici che ricadono pomposamente al suolo attorno ai suoi piedi. La fine della cívílt . greca in occidente si avverte anche nella mutata concezione che gli uomini hanno degli antichi dèí e nel modo di rappresentarli. Tuttavia, come sempre accade nell'ellenismo, si tenta di frenare questa visibile decadenza rifacendosi
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a correnti artistiche del passato. La statuetta di Eracle, una piccola immagine cultuale di un tempietto di Siracusa, dovrebbe essere la copia di un famoso capolavoro di Lisippo, che sopravvive in numerose varianti. È interessante notare come in questa piccola statua il corpo abbia conservato una certa impronta classicista, nel senso del classicismo del n secolo a. C., mentre nella testa, specialmente nel volto, vivono reminiscenze prassiteliche. Tutte queste opere sono dovute alle ultime, deboli pulsazioni del cuore della Magna Grecia. La produzione artistica dell'entroterra, che attinge p ~ú alle formule e ai motivi che allo spirito dell'arte greca, 166
presenta spesso una grossolana vigoria. La statua trovata a Paestum, che risale con ogni probabilità al τ secolo a. C., c i può dare un'idea dei sileni che si trovano sui mercati italici. Ogni sensibilità per la struttura corporea è scomparsa, il torso è allungato spropositatamente ed il leggero arcaismo dei tratti del volto è una testimonianza dell'irrigidimento de ll e forme. La testa ricorda le terrecotte di Medma, ma anche un sileno di Taranto che, come un dionisiaco Caronte, trasporta sulle spalle nell'aldilà una fanciulla morta 46. Sintomatiche, come pochi altri monumenti, sono le terrecotte che trasferiscono nelle tombe l'eterna
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passione per il teatro di questi popoli: danzatori adorni di collane di fiori con volti volgari, gladiatori che
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si massacrano, ed infine una grossa maschera di uno schiavo commediante. La volgarità del viso di un uomo di infimo rango è raffigurata, con pochi mezzi, così genialmente come solo i Greci riuscivano a fare. Al tempo stesso questa maschera è espressione di un'epoca ancora tutta presa dai piaceri dell'ozio e tesa a godersi la vita, un'epoca che vede l'estremo scadimento dei Greci ad un tipo umano che í Romani del τ secolo bollarono con un termine spregiativo: graeculus. I Greci di quest'epoca si resero conto della loro decadenza, non da ultimo per la forza ammonitrice dei templi, fra í quali ancora vivevano. Così Aristoxenos (Athen. XIV, 632a) ci dice che gli abitanti di Paestum una volta all'anno invocavano i loro dèi, durante il banchetto sacrificale, ancora con í loro nomi greci e piangendo ricordavano che un tempo essi stessi erano stati Greci. Questo racconto di Aristoxenos non manca mai di commuoverci ogni volta che lo riascoltiamo. Esso si concretizza e si fa denso di significato appena noi accostiamo alle immagini votive de ll a Grande Dea le grossolane « madri » della Campania. Nelle meteres di Santa Maria di Capua si coglie con la massima
evidenza la trasformazione subita dall'immagine cultuale con il ritorno delle concezioni e delle pratiche religiose a forme primitive. In una di esse, certamente di età ellenistica, si può ancora ravvisare la forza 167 dell'influenza di una « madre » arcaica di stile ionico-orientale nel fascio di pieghe fra le gambe e nella 168 posizione obligua della mantella. Un'altra figura seduta, grandiosa e sorprendente anche oggi per la geniale concezione astratta, testimonia l'interpretazione espressionistica data alle forme greche dagli artisti campani. I bambini in fasce ritti verso l'esterno come trombe, che attestano la potenza della Grande Madre, la disposizione geometrica, volutamente espressionistica, delle pieghe dell'abito, il modo imperioso di sedere e l'altero portamento della testa testimoniano, come difficilmente potrebbe farlo un'altra scultura, la fecondità e la capacità di trasformazione dello spirito e delle forme greche. Questa statua, pro72
pr~ο come trasposizione di un'immagine greca in qualcosa di nuovo, si colloca all'inizio dell'arte della tarda antichità. Queste correnti di fondo della scultura della Magna Grecia, le cui radici attingono alla sfera originaria del potere creativo italico autoctono, da un lato, e greco dall'altro, e che si mescolano e si fondono in costellazioni e combinazioni sempre nuove, sono vive e tangibili ancor oggi per chi conosce ed ama il meridione dell'Italia L'antichissima «madre » megalitica e steatopigia di Malta, di Megara Iblea, di .
Capua è ancora presente nella « mammina » dei vicoli di Santa Lucia e di Molfetta, così come la pura e nobile bellezza della razza ellenica traluce a volte inaspettatamente dal volto di un giovane o di una fanciulla a Napoli, a Capri, a Siracusa, ricordandoci l'eredità greca dell'Italia meridionale, ancora viva, mezzo secolo fa, nel dialetto dell'Aspromonte e della penisola Salentina 4s.
NOTE ALL'INTRODUZIONE La bibliografia sulla Magna Grecia e la sua arte figurativa è stata raccolta da Jean Bérard, Bibliographie topographique des principales cités grecques de l'Italie méridionale et de la Sicile dans Ι 'antiquité, Paris 1941. Supplementi: T. J. Dunbabin in Papers of the British School in Rome XVIII, 1950, p. 104 ss. — A. Putignani, La Magna Grecia, 1960. — G. M. A. Richter, Ancient Italy, Ann Arbor 1955. — Greci e Italici in Magna Grecia, Napoli 1962. — S i veda poi particolarmente E. Kirsten, Grossgriechenland-Kunde, Heidelberg 1963.
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Jean Bérard, La colonisation grecque de l'Italie méridionale et de la Sicile dans l'antiquité, 2 0 ediz. Paris 1957. — L. e A. W. Byvanck in Dankwerk 1959, p. 1. — Gnomon 1961, ci1. 380. PalletPillard, Rhegíon 59. — T. J. Dunbabin, The Western Greeks, 1948. L. Bernabt Brea, Altsizilien, London, 1959. G. Buchner, Scavi nella Necropoli di Pithecusa, in Atti e Memorie della Società Magna Grecia 1954, p. 10 s. — Römische Mitteilungen, 1954, p. 37. Gli aryballoi rotondi cretese-geometrici sono morfologicamente più antichi di quelli rinvenuti a Cura e risalgono all'vsnn secolo a. C., al pari dei trantadue sigilli siriani. Atti dell'Accademia di Palermo XVII, 1932, p. 279. — B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica I, 20 ediz. 1958, p. 164 ss. (10 ediz. 1935, p. 156 ss.). — G. Becatti, Oreficerie antiche dalle minoiche alle barbariche, Roma 1955, no 32, 33. Archäologischer Anzeiger 1954, col. 626, fig. 88. — Revue Archéologique 1957, p. 156, fig. 23. Siracusa, Museo, Pithoi da Gela f1 50187, 21205. — Revue Archéologique 1957, p. 156. — W. Tay /our, Mycenean Pottery in Italy and adjacent areas, Cambridge 1958. — Recension dí E. W. French in journal of Hellenic Studies LXXX, 1960, p. 233.
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100 ediz., p. 217. — Inscriptiones
L. Bernabb Brea, Altsizilien, London 1959. — B. Pace„ Arte e civiltà della Sicilia antica, vol. II. Η. Bern-G. Gruben-M. Himer, Griechische Tempel und Heiligtümer, München 1961, p. 218 ss., e 226 ss. Enciclopedia Universale dell'Arte VIII, tav. 463,2. — La mag .. gior parte delle sculture s i trova nel Museo di La Valletta a Malta.
E. Langlotz in Antike und Abendland II, 1946, p. 128 ss. — Nell'Enciclopedia Universale dell'Arte, col. 783-838, la descrizione ha subito abbreviazioni per necessità di redazione e molte illustrazioni non necessarie sono state eliminate. Per questa ragione nel testo di questo libro si accenna ancora una volta brevemente al significato dell'architettura e della pittura, fondamentale per comprendere la scultura della Magna Grecia. H. Serve -G. Gruben-M. Hirmer, Griechische Tempel und Heiligtümer, München 1961, p. 205 ss e 230 ss. Nelle pagine seguenti s i accennerà spesso a questo libro, nel quale compare anche la bibliografia più recente. Per le grotte votive di Locri, cfr. Archäologischer Anzeiger 1941, col 652. — Notizie degli Scavi 1946, p. 144. — Le Arti 1940/41, p. 173. — La loro firma sopravvive nelle grotte a conchiglia della Palestina. A. von Gerkan, Kalabaktepe, Athena-Tempel und Umgebung. In: Milet, pubblicato da Th. Wiegand, vol. I, 8. F. Krauss, Die Tempel von Paestum, I, 1, Der Athena-Tempel; fig. 44, 45. — H. Serve -G. Gruben-M. Hirmer, Griechische Tempel und Heiligtümer, München 1961, p. 204.
73
P. Orsi, Templum Apollínis Alaei, in Atti e Memorie della Società Magna Grecia 1932, p. 79, fig. 45. — A. Mau, Pompei, in Leben und Kunst, 2° ediz., 1908, p. 137. — S. Stucchi, Alla ricerca della cella del tempio di Segesta, Roma 1960. Atti dell'Accademia dei Lince' VII, 1897, p. 154. — Archäologischer Anzeiger 1941, col. 650, fig. 131 ss.
G. Libertini, Centuripe, Catania 1926, tal. 22. — R. Delbruck, Hellenistischen Bauten, in Latium II, Strassburg 1912, p. 144.
R. Delbrück, 1. c., p. 155 ss. A. D. Trendall, Friíhitaliοtische Vasen, Leipzig 1938. — A. Rumpf, Malerei und Zeichnung, in Handbuch der Archäologie IV, 1, München 1953, p. 111.
A. Rumpf„ 1. c., p. 142. — Enciclopedia Universale dell'Arte VI, tal. 350.
E. Langlotz„ Vom Sinngehalt attischer Vasenbilder, in Freundesgabe für R. Böhrínger, Tübingen 1957, p. 397 ss. — Festschrift für P. Orsi, 127 (Macchioro). Quarles van
Ufford,
Les Terres - Cultes Siciliennes, Assen
1941. Il fenomeno si può seguire particolarmente a Locri e a Gela. Notizie degli scavi 1913, Supplemento p. 55 ss. — P. Gr~ff, Sulle orme della civiltà gelese. Terrecotte da Bubbonía. — P. Ε. Arias„ Problemi della scultura arcaica italiota, in La Critica d'Arte XIX, 1941, p. 49 ss.
Ε. D. van Buren in Memoirs of the American Academy in Rome II, 1918, p. 15 ss. — È di prossima pubblicazione uno studio di E. Jastrow su questo argomento. W. Schwabacher, Satrapenbildnisse. Zum neuen Μ~nzporträt des Tissaphernes. In Charites, Festschrift für E. Langlotz, pubblicato da K. Schauenbung, Bonn 1957, p. 27 ss. — Anche sugli stateri di elettro di Cízico si trovano ritratti. Le monete di Calcedone recano per la prima volta un ritratto realistico di Temistocle. Una sua statua ritratto si trovava certamente in una delle sue città ioniche. Le importanti teste di calcare, che si trovano già da lungo tempo nel Museo di Siracusa, purtroppo non sono state ancora pubblicate. Esse sarebbero assai signi ficative per comprendere la ritrattistica rom ana, che ha le sue radici nell'arte della Magna Grecia. G. von Kaschnitz-Weinberg ha esaminato con grande sensibilità la testa del cosiddetto Bruto ed altre teste con essa imparentate (Römische Mitteilungen, 41, 1926, p. 133), senza però porre attenzione ai precedenti italioti. Per il ritratto di Ummidius si veda Archäologischer Anzeiger 1941, col. 561, fig. 93.
74
E. Langlotz in Antike und Abendland II, 1946, fig. 3. — Fi gure simili a Vienna e nella Collezione Talbot, queste ultime pubblicate in S. Reinach, Répertoire de la Statuaire, V, p. 256, 1. — Cfr. anche A. B. Cook, Zeus I, tav. 34 e il Catalogo del Museo Gregoriano, Roma III, 69. — Schneider, Album des Αllerhöchsten Kaiserhauses, tal. 23, 1. Archäologischer Anzeiger 1941, col. 670.
A. Rumpf, Krater Lakonikos. In Charites, Festschrift für E' Langlotz, pubblicato da K. Schauenburg, Bonn 1957, p. 127 ss. — E. Homann-Wedeking, Von spartanischer Art und Kunst, in Antike und Abendland VII, 1958, p. 63 ss. K. Schefold, Meisterwerke griechisch. Kunst, 1960, p. 144, no 107.
K. Friis Johansen. Hobt' Fundet, 1923. G. Lippold, Die griechische Plastik, Handbuch der Archäologie III, 1, München 1950, p. 118, tay. 42, 43. Mi spiace dover contraddire il mio amico Enrido Paribeni che in Atti e Memorie della Società Magna Grecia 1954, p. 63 ss., vede diversamente il problema.
G. M. A. Richter, Catalogue of Greek Sculptures in the Metropolitan Museum of Art, Cambridge (Mass.) 1954, no 29, tay. XXVIII. Atti e Memorie della Società Magna Grecia 1961, tal. 1.
P. Wuilleumier, Tarente, des origines à la conquête romaine, Paris 1939, tal. VIII, 3,4. E. Langlotz, in Antike und Abendland II, 1946, p. 125. P. R. Franke-M. Hirmer, Die griechische Münze als Kunstwerk, München 1963. — Enciclopedia Universale dell'Arte V Ι, col. 827. P. Marroni, Agrigento arcaica, in Atti e Memorie della Società Magna Grecia 1931, p. 42. P. de la Coste-Messelíere-G. de Miré, Delphes, Paris 1943, tav. 40-43. — G. Lippold, Die griechische Plastik, Handbuch der Archäologie III, 1, München 1950, p. 24. B. Neutsch in Archäologischer Anzeiger 1956, col. 414, fig. 138. — P. C. Sestieri, Risultati degli Scavi di Pesto, p. 73. American Journal of Archaeology 1962, tal. 107, 108. Cfr. il gruppo di terracotta del Museo Nazionale di Taranto.
G. Rohlfs, Historische Grammatik der unteritalischen Grae. cität, 1949.
AGGIUNTE ALL' INTRODUZIONE
A pag. 13. — Alexander Graf Staufenberg, Trinakria 1963. G. Miri, J. Bayet, Fr. Villard, La Sicile grecque. Le notizie più importanti dei rapporti fra l'Italia e la Grecia nel II millennio saranno fornite dalla pubblicazione degli scavi di Ischia a cura di Giorgio Buchner. Forse per questi iniziali contatti è significativa la comparsa in Italia di nomi di eroi greci, come Telamone sulla costa etrusca e Diomede a Benevento, al pari dei miti sugli antenati troiani dei Romani, dei quali si è occupato A. Alföldiin Museum Helveticum 1957, 13. Cfr. anche Bernabd Brea in Kokalos X/X', 1964/5, 1. Franco Biancofiore, Civiltà Micenea nell'Italia Meridionale. Il problema dell'influenza micenea ed eteocretese in Italia potrà essere risolto soltanto quando verranno distinti i vasi di importazione dalle imitazioni locali. La datazione delle fasi tarde del submiceneo con l'aiuto degli altri reperti appartenenti al medesimo strato dovrebbe provare la sopravvivenza del patrimonio formale miceneo fino al in secolo, ad esempio lo stamnos con tre manici trovato ad Agrigento (di Marina Predio aw. Ríggio) o í due crateri della tomba 3 Mani a Villa Giulia. Le api d'oro del Museo Pepoli di Trapani potrebbero far pensare alla leggenda di Dedalo se veramente risalissero al II millennio e non dipendessero piuttosto dal culto di Artemide Efesia. I pithoi no 50187, 21205 del Museo di Siracusa, rinvenuti a Gela, la cui fondazione è datata al 690, presentano forme submicenee irrigidite sia nella forma del pithos che negli ornati. C'ò è meno evidente nei pithoi no 21211, 21209, 21206. A pag. 24. — Per l'architettura della Magna Grecia cfr. ora Berne-Gruben, Griechische Heiligtümer. I sorprendenti resti di un tempio ionico presso íl duomo di Siracusa non sono ancora stati pubblicati. t ovvio che essi imitino architetture ioniche quali quelle di Efeso e di Didyma. Le grotte riprodotte a lla fig. 8 non sono state oggetto di una pubblicazione adeguata alla loro importanza architettonica e storico-religiosa. In esse si estrinseca una sensibilità spaziale tipicamente italiota. Forse le grotte della nave nilotica di Tolomeo II si collocano ancora lungo la linea di questa tradizione della Magna Grecia, come numerosi elementi del mondo alessandrino. A pag. 26— A. D. Trendall, Redfigured Vasepainters of Lucania, Campania and Sicily, dedicato soprattutto ai pittori italioti del tardo v secolo a. C. I più recenti ritrovamenti vascolari dell'interno della Sicilia mi sembrano indicare che già subito dopo íl 480 abbiano operato in Sici lia filiali delle botteghe attiche, o forse anche emigrati attici, che fornivano di vasi soprattutto le località lontane da lle coste ellenízzate, come Sabucina e al tr e. Andrebbe anche messo in luce il processo di trasformazione di questi vasai e pittori in artisti italioti, un processo che si nota chiaramente nel pittore di Hearst e nel pittore di Pisticci. Ma anche per numerosi altri vasi attici, rinvenuti soprattutto in Sicilia e in Italia, come quelli dei pittori di Ancona, di Bologna, Curtius, di Palermo, di Monaco, Schuwalov e di Eupolis, bisognerebbe chiedersi se' loro autori non abbiano lavorato in occidente per un periodo di tempo o forse anche 75
fino alla fi ne dei loro giorni. Un dato di fatto certo potrebbero fornirlo soltanto nuove ricerche sulla qualità dell'argilla secondo il metodo chimico-sedimentario. La difficoltà delle ricerche di questo tipo sta nell'abilità dei vasai attici nel decantare l'argilla al punto da far scomparire da essa le leggere tracce di elementi mineralogici necessarie a caratterizzarla.
A pag. 28. — Il problema del luogo di fabbricazione dei vasi greci trovati in Italia fu a lungo discusso all'inizio del xix secolo e fu J. H. Krause, Angeiologie 1854, p. 190, a giungere alla conclusione che i ceramisti migravano di località in località. L'ipotesi, sostenuta nello stesso anno da
Ο. Jahn nella
sua descrizione della Collezione di vasi di Monaco, cí08 che tutti í vasi greci trovati in occidente erano frutto di importazione (p. CCXLI), è contraddetta dai ritrovamenti ceramici della Sicilia e dell'Italia meridionale. Il problema dovrebbe essere impostato su basi più ampie. Vanno perciò brevemente ricordati i vasi corinzi sicuramente siracusani (Not. Scav. 1893, 445 ss.), il Triskeles su una scodella rodia di Agrigento e sui vasi di Sabucina-Caltanissetta (Archeologia Classica XVII, 133, tav. 57 e Kokalos VIII, 1962, 29; XII, 1966, 8: Orlandini). A stare all'interesse riposto dai Greci nei commerci, sarebbe da stupirsi se i Greci di occidente, cioè i Greci emigrati, non avessero ripreso la produzione del vasellame attico, assai richiesto in occidente, sia che essi fossero già stabilmente stanziati nelle nuove colonie, sia che avessero vissuto per un certo tempo ad Atene. Forse il problema potrebbe essere risolto anche da un altro punto di vista, studiando se vasi attici di qualità inferiore dei pittori di Ancona, di Bologna, Curtius, di Lugano e di Galera siano stati rinvenuti esclusivamente in occidente. Se cose fosse, allora sarebbe probabile che anche le loro botteghe avessero sede in occidente, così come da lungo tempo si ritiene per quelle dei pittori di idrie ceretane, malgrado esse rechino iscrizioni greche. Bisognerebbe anche esaminare quelle forme vascolari che si trovano solo in Italia non in Grecia, come le olle e le anfore con i manici a fascia (che hanno dei precedenti anatolici), al tempo stesso rivedere le raffigurazioni dei dettagli, anche dal punto di vista antiquario, ad esempio se l'elmo calcidese del cratere di Polione a Siracusa ha analogie in attica, ecc. Inoltre andrebbero tenute presenti anche le tracce di forni di vasai. L'Alfieri nel 1965 ha scoperto a Spina un forno dí età imperiale che, a giudicare dai frammenti di ceramica attica rinvenuti nei pressi, era già in funzione nel v secolo a. C. Ad ulteriori passi avanti potrebbe condurre un riesame delle iscrizioni vascolari dal punto di vista della paleografia delle lettere e del dialetto usato. Utili particolarmente le ricerche del Trendall sui pittori vascolari italioti le cui opere più antiche difficilmente si distinguono dalla produzione attica.
A pag. 32 — Sulla coroplastica della Magna Grecia cfr. D. Ahrens in lest. Jahresheft. 46, 1961-63, Beiblatt 95. P. Νοelke, nella sua Bonner Dissertation ha tentato di portare avanti questa ricerca. Il problema della scultura della Magna Grecia si coglie con particolare chiarezza nelle statue di terracotta che tradiscono il processo di « italicizzazíone » di modelli ionico-orientali, ad esempio quelle di Kavalla (Deltion tes Arch. Hetairias 19, 1964, tal. 4). Interessante è il forte influsso ionico-orientale, forse mediato da Rodi, che si riscontra a Gela. A pag. 38. — Sull'idria di Grächwyl e sui vasi di bronzo italici ad essa affini cfr. H. Jucker, Bronzehenkel und Bronzehydria in Pesaro, Studia Oliveriana 13-14, 1965-66, p. 1 ss. A pag. 56— Il forte influsso rodio sulla scultura in calcare dei Greci di occidente si coglierà con chiarezza quando questa verrà finalmente pubblicata. Fra un rilievo con Eracle di Cos (senza numero) alcuni rilievi tarantini esiste una strabiliante affinità. 76
1 — Tazza d'oro. Da Sant'Angelo Muxaro presso Agrigentc. Diametro cm 14,6. Inizi θ del primo millennio a. C. — Londra.
2 — Lampada di marmo. D al santuario di Demetra N alophoros presso Selinunte. Altezza cm 7,4. Fine del ντι secolo a. C. — Palerm ςι.
3 — Testa di una statua dí dΙνinità. Da Laganello presso la fonte dí Kyane (Siracusa). Calcare. Altezza cm 55,8. 600 a. C. circa. — Siracusa.
4 — Testa votiva da Taranto. Terracotta. Altezza cm 19. Ι niο del νι secolo a. C. — Taranto,
5 — A sinistra: Statua votiva, frammento. Da Metaponto. Terracotta. Altezza m 5,4. 6~0 a. C. circa. — Reggio. A destra: Statua votiva, frammento. Da 1Vlegara Iblea. Terracotta. Altezza cm 35. Circa 530 a. C. — Siracusa.
.
6—
Statua votiva di una donna. Da Locri. Inrra εot εa Al tezz x cm 61`1.
7 — Statua del medico Scrrnbrotidas. Da Megara Iblea. Marmo dí lasso. Altezza m 1,19. Prhna metà del ντ secolo a. C. — Siracusa.
8 — Ratto di Europa. Metopa di Selim mte, Calcare. Altezza cm 84, 2. Metà dei vz secolo a. C. — Palermo.
9 — Due fanciulle in fuga. Tesoro delAHeraion del Sele. Metopa del Lato occidentale. Pietra arenaria. Altezza circa cm 78. Meià del ντ secolc a. C. — Paestum.
10 — Eracle con íl cinghiale d'Erimanto difronte al re Euristeo. Tesoro dell'Heraion del Sele. Metopa del lato settentrionale. Pietia arenaria. Altezza circa cm 78. Metà del ντ secolo a. C. — Paestum.
11 — Eracle e í Cercopidi. Tesoro dell'Heraion del Sele. Μεropa del lato meridionale. Pietra arenaria. Altezza circa cm 78. ΜeΕ à del ντ secck, a. C. — Paestum.
12 — Gorgone a cavallo. Terracotta. Altezza cm 19, 8. Circa 570 a. C. — Siracusa.
13 — Due sdngi Da Caltagíror_e. R1íe ν o in calcare. Altezza ar_ 84. Inizio del ντ secolo a. C. — Siracusa.
14 — Eracle e i Cecco ρidi. µµ etορa del cosiddetto tempio C di Selinur_te. Calcare. altezza m 1,47. Circa 530 a. . - Paiermo.
15 — Perseo decapita la Medusa. Metopa del cosidHetto ter_ιpio C di Selinunte. Calcare. Palermo. λltezza m 1;47. Circa 530 a. C.
16 — Era coi un anirnale in mano. Hera Hippía ' Terracotta. seco a. C. Paestum. Altezza cm 18,2. Fiere del ντ secoo
17 — Dea che allatta due gemelli. Dalla necropoli di Megara Iblea. Terracott a . Altezza cm 78. Dopo la metà dei vs secolo a. C. — Siracusa.
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18 — Frammento di una dea in trono. Statuetta votiva. Da Locri. Terracotta. Altezza cm 38,2. Fine del ντ seē~lo a. C. — Reggio.
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19 — Dea in trono. Statuetta votiva. Da Agrigento. Terracotta. Altezza cm 21,1. Circa 500 a. C. — Agrigento.
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20 _ Ä sír_istra: immagine vo i να di ńiïä dea. 'Da Montelusa presso Agrigento. Terracotta. Altezza cm 34,9. Circa 500 a. C. — A destra: Immagine votiva di una dea. Da Agrigento. Terracotta. Altezza cm 29,9. Fine del ντ secolo a. C. — Entrambe ad Agrigento. www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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21 — A'sinistra: Dea con bambino. Statuetta votiva. Dalla Grotta di Vassallaggi p_esso Caltanissetta. Terracotta. Altezza cm 20,3. Circa 530 a. C. A destra: Sacerdotessa: Da Gela. Terracotta. Altezza cm 35. Seconda metà del ντ se~~lo a. C. — Entrambe a Gela. www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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22 — Dea in τrοnο. Da Medma (Rosarno) presso Reggio. Terracotta. Altezza cm 21,4. Seconda meth del νι secolo a. C. — Reggio.
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23 — Giovane giacente. Terracotta. Altezza cm 20,6. Circa 530 a. C. — Taranto.
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24
-
In alto: gIaucia di mn a1tar Dall'antko tempio d- Atena a Siracuaa. Calcare. Altezza cm 92.Ε. Circa 540 a. . - Siraελsa.
Ιη άasso: dualla. Altari ι d í terracotta,. Da Locri. Larghezza cn 70 . Circa 5~ 0 a. C. - Reggio. www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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25 — Idria di bronzo. Da Paestum. Altezza cm 41. Circa 520 a. C. — Pacstum.
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età del vi secolo a. C. — Londra. 26 — Cavaliere. Da Grumenturn. $ronzo, Altezza cm 23,6. µ
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27 — Manico di specchio: Afrodite xm sfingi. Dai dintorni di Roma. Bronzo. Altezza cm 23,6. Circa 500 a. C. — Londra.
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28 — Afrodite con colomba. Da Monte Casale. Calcare. Altezza çm 45. Prima meta del vs secolo
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L.
C. — Siracusa.
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30 - Due fanciulle in fuga. Metopa dell'Heraion_ del Sele. Pietra arenaria. Altezza circa cm 85. Circa 500 a. C. - Pae5t υυm.
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31 — Due fanciulle in fuga. Metopa dell Ή era ίοn del Sele. Pietra arenaria. Altezza circa cm 85. Circa 5 ,)Ο a. C. — Paestum.
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32 — Leone che divora un toro. Altare di terracotta. Da Centuripe. Altezza cm 21. Circa 500 a. C. — Siracusa.
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33 — Testa dí Sileno. Antefissa da Gela. Terracotta. Altezza αrι :9,7. Inizio del v secolo a. C. — Ge la.
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34 — Demetra in trono. Dal santuaríä di Demetra Malophoros presso Selínunte. Terracotta. Altezza cm 37. Fine deI ντ secolo a. C. — Palermo.
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35 — Busto di Demetra o Core. Frammento. Dal santuario dí D°rnetra Malophoros presso Selinunte. Terracotta. Altezza cm 18,3. Fine del ντ secolo a. C. — Palermo. www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
36 — Busto votivo dí una dea. Da Agrigento. Terracotta. Altezza cm 27,5. Agrigento. — Çfr, tal. 37. Fine del vs secolo a. C.
37 — Bus.c emotivo di una dea. D a 3g:igento. Terracotta. Altezza cm 27,5 Fine del ντ secolo a_ C_ — Agrigento. — Cfr. tav. 36.
38 — Βυsτο votivo di una dea. Dalla necropoli del Fusco. Terracotta. Altezz a cm 20,2. Circa 500 a. C. — Siracusa.
39 — Dea in trono. Da Grammichele. Terracotta. Altezza cm 96,8. Circa 470 a. C. — Siracusa.
40 -- Testa dí Atena. Da Agrigento. Terracotta. Altezza cm 18,8. Circa 500 a. C. — Agrigento.
41 — Testa dí una dea. Da Grammichele. Terracotta. Altezza cm 17,3. Circa 460/450 a. C. — Siracusa.
ι 42 — Statua non finita di una kore. Da Punta dei .Tonno presso Taranto. Marmo. Taranto. Altezza m 1,29. Circa. 500 a. C.
43 — Nike. Da Siracusa. Marmo. Altezza cm 79,3. Prima quarto del v secolo a. C. — Siracusa.
44 — Testa di una dea. Da Agrigento, Terracotta. ΑΙteza cm 19,3. Circa 500 a. C. — Palermo. Cfr. Tay. VIII.
45 — Testa. Da Paestum. Marmo. Altezza cm 16,5. Circa 500 a. C. — Paestum.
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46 — Statua efebica, Torso, Da ί rammicheΙe, Marmo. Altezza cm 48,5. Circa 500 a. C. — Siracusa. — Cfr. tal. 47.
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47 — Statua efebica. Torso. Da Grammichele. Marmo. Altezza cm 48,5. Circa 500 a. C. — Siracusa. — Cfr. tay. 46.
48 — Testa di giovUnetto. Probabilmente da Leontini. Maturo. Altezza cxn 27,5. 'Circa 500 a. C. — Catania. Cfr. tal. 49.
49 - Testa di giovinetto. Probabilmente da Leontini. Marmo. Altezza cm 27,5. - Circa 500 a. C. - Catania. Cfr. av. 48.
50 — Dea in trono. Da Taranto. Marmo. Altezza m 1,51. Circa 460 a. C. — Berlino. — Cfr. tal. 51.
...
_
ι...λ :.
.».,
51 - Dea in trono. Da Taranto. Marmo. Altezza m 1,51. Circa 460 a. C. - Berlino. - Cfr. tal.
50.
52 — Dea in trono. Da Garagusa. Marmo. Altezza cm 21,8. Circa 480/460 a. C. — Potenza. — Cfr. tal. 53.
53 — Dea in trono. Da Garagusa. Marmo. Altezza cm 21,8. Circa 480/460 a. C. — Potenza. — Cfr. tal. 52.
54 — Statua di giovinetto. Torso. Da un santuario presso Agrigento. Marmo. Altezza m 1,10. Circa 480 a. C. — Agrigento. — Cfr. tal. 55.
55 — Statua di giovinetto. Da un santuario presso Ag-rígento. Marmo. Altezza m 1,10. Circa 480 a. C. — Agrigento. — Cfr. tal. 54.
56 Pastore con ariete. Da Medma. Terracotta. Altezza cm 22,2. Inizio del v secolo a. C. — Reggio.
57 — Piccola testa dí giovinetto. Da Medma. Terracotta. Altezza cm 10,8. Inizio del v secolo a. C. — Reggio.
58 — Dea in trono. Frammento. Da Locri. Terracotta. Altezza cm 20,3. Circa 490 a. C. — Taranto. — Cfr. tal. 59.
59 — Dea in trono. Frammento. Da - Locri. Terracotta. Altezza cm 20,3 Circa 390 a. C. — Taianto. — Cfr. tav. 58.
60 — Testa dí una dea.. Da Medma. r'erracotta.
Al zza cm 2`,3. — Reggio —
Cfr. tay. 61.
61 — Testa di una dea. Da Medma. Terracotta. Altezza 25,3. — Regg=o — Cfr. tal. 60.
62 — Testa colossale della statua cultuale di una dea. Marmo. Altezza cm 83. Dc ρο il 4$0 a. C. — Roma. Cfr. tal. 63.
63 — Testa colossale della statua cultuale di una dea. Marmo. Altezza cm 83. Dopo íl 480 a. C. — Roma. — Cfr. ta.. 62.
64 — Manico di specchio da Locri. Bronzo. Al:ezza cm 20. Circa 470 a. C. — Londra.
65 — Era in trono. Da Paestum. Terracotta. Altezza cm 51,6. Circa 470/460 a. C. — Paestum.
66 — Orante. Da Paestum. Terracotta. Altezza cm 49. Circa 460 a. C. — Paestum.
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67 — Dedicante. Da Medma. Terracotta. Altezza cm. 43,2. Circa 470 ό . C. — Reggio.
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68 — Demetra in trono. Dal santuario dí Demetra MalopYoros presso Selinunte. Terracotta. Altezza cm 32. Circa 460 a. C. — Palermo.
69 — Busto di una fanciulla. Da Inessa presso lasso. Terracotta. Circa 460 a. C. — Catania.
70 — Testa femminile. T rracοtta. Altezza cm 32,5. Circa 460 a. C. — Napoli.
71 — Fanciulle che colgono melograni. Da Locri. Rilievo in terracotta. Akezza circa cm 27. Circa 460;450 a. C. — Reggio.
72 — Ade e Persefone in trono. Da Locri. Rilievo in tc°-acotta. Altezza cm 27,6. C irca 470 a. C. — Reggio.
73 — Demetra e Dioniso. Da Locri, Rí-_e'm _rι terracotta., Altezza crn 26,8. Circa 470/460 a. C. — 3eggío.
74 — Dea presso un bimbo in un paniere. Da Lien. R !levo in terracot-a. Altezza cm 25,4. Cí °ca 460 a. C. — Re'ladre con dodici bambini. Da Curti presso S. Maria di Capua. Calcare. Altezza m 1. — Capua, Museo Campano. La statua è estremamente significativa per l'italicizzazione del tipo greco da cui deriva, quello stesso della figura a tal. 167. La statua più antica conserva ancora il linguaggio formale greco-orientale dell'immagine cultuale, certamente del ντ secolo a. C., a cui si rifà. Quella più recente presenta una struttura, invece, del tutto autoctona, ha rinunciato a tutte le forme stilistiche antiche e si avvale del linguaggio formale della koinè ellenistica. Tuttavia l'opera che ne risulta non greca, bensì un esempio estremamente importante della scultura italica nel quale la volontà di rappresentazione
degli Italici ha preso completamente il sopravvento, ad esempio nel modo di sedere a gambe larghe e con espressione imperiosa della dea, nel sollevarsi del capo, nella geometricizzazíone dell'andamento delle pieghe e soprattutto nell'espressiva accentuazione della maternità. La dea sorregge fra le braccia in luogo di un solo bimbo, ben dodici infanti. Significativa soprattutto l'intenzionale rinuncia al naturalismo della struttura plastica. La tendenza dell'artista all'astrazione per accrescere l'espressività della composizione, si estrinseca, oltre che nei tratti già ricordati, nel modo di sorreggere i dodici bimbi in fasce. Questi sono volutamente allineati nelle braccia della madre e rizzati trasversalmente, come altrettante trombe, a proclamare la inesauribile fecondità delle madri d'Italia. In questa statua, che attesta in maniera grandiosa la produttività delle forze creative dell'Italia centrale, si coglie con un'evidenza che non si ritrova in nessun'altra scultura, il modo in cui gli Italici hanno accolto le forme greche, anzi meglio, il modo in cui essi hanno trasformato l'apporto del mondo greco. La statua risale al r ιι o forse al r ι secolo a. C., né una datazione piì ι precisa è possibile. Essa testimonia anche il mutamento subito dal concetto religioso dell'antica Madre ionica in quest'epoca tarda, appartiene infatti all'ultima fase della dominazione dei Sanniti, che furono gli originali creatori della loro arte, cui si deve anche la testa di Pietrabbondante (Paris, Cabinet des Μédailles, no 857), lo straordinario ritratto di un capo sannita, che nelle sue inaccessibili montagne resiste con tutte le sue forze all'avanzata dei Romani. A. Adriani, Sculture in tufo. Cataloghi illustrati del Museo Campano I, gruppo III, n0 40.
Le nuove fotografie si debbono al Prof. Dr. Max Hirmer. I Ι materiale supplementare è stato tratto dai seguenti archivi fotografici: Basel, Photo-Widmer: 52, 53, 140,159. — Berlin, Staatliche Museen: 50, 51, 125 in alto. — Bonn, Prof. Dr. E. Langlotz: 4, 13, 26, 70, 94 in alto, 94 in basso, 95, 98, 99, 107, 114, 115, 118, 119, 125 in basso. — Buochs, L. von Matt.: 127. — Heidelberg, Hermann Wagner: 25. Kansas City, William Rockhill Nelson Art Gallery: 135. — Copenhagen, Museo Nazionale: 88. — Copenhagen, Thorwaidsen Museum: 128 in alto. — London, British Museum: 1. — Lione, Musée Municipal des Beaux Arts: 128 in basso. — Munchen, Staatliche Antikensammlungen, Museum Antiker Kleinkunst: 94 in basso. — Napoli, Museo Nazionale Archeologico: 93. — New York, Metropolitan Museum of Art: 137 in alto. — Paestum, Museo Nazionale: 25. — Reggio, Museo Nazionale: 71. — Roma, Deutsches Archaologisches Institut: 116. — Roma, Palazzo dei Conservatori: 117.
314
AGGIUNTE ALLA DESCRIZIONE DELLE TAVOLE
I Per la ricostruzione con Chrysaor vedi S. Ben ton, BSR 22, 1954, 132 ss., tav. 19; R. Hampe, GGA 215, 1963, 144; E. Κunze, AM 78, 1963, 79 s. V H. Payne, Necrocorinthia 340; Quarles υ. U, fford, Les Terrescuites Siciliennes 42, 61. XIII Quanto al problema dei rapporti fra la Magna Grecia e Taranto con Alessandria, la Grecia settentrionale e la Russia meridionale, bisognerà probabilmente ritenere che l'impulso decisivo, soprattutto nell'ambito della toreutica provenga dalla Anatolia nordoccidentale, abbia raggiunto la Tracia e la Scizia e abbia toccato successivamente anche Taranto, forse con il tramite della Via Egnazia. Ma a partire dal iv secolo il centro di irradiazione di questo genere d'arte appare essere Taranto. Una definitiva differenziazione stilistica è possibile solo per alcune opere secondarie di toreutica come íl rhyton d'argento di Trieste, rinvenuto a Taranto, í vasi d'oro di Plovdiv, che sono traci, ecc. Gli scambi di influenze artistiche saranno stati resi possibili sia dalla esportazione che da quei toreuti che si spostavano da una località all'altra. Negli scavi di Dodona sono stati rinvenuti notevoli bronzi tarantini, ad es. Atene, Coll. Carapanos 348, 349, 350, 378. Sul problema si vedano gli articoli di L. Byvanck van U, 7 οrd nel Bulletin van de Vereenigung 39, 1964, 115; 41, 1965, 1966, 34. t forse tarantina la tazza d'oro proveniente dalla Russia meridionale, Gaz. Arch. 1887, tal. 21. Sarebbe interessante esaminare anche la sopravvivenza (o la rinascita) della toreutica e dell'arte della Magna Grecia all'epoca di Pasiteles, anch'egli nativo della Magna Grecia, nelle città vesuviane; ad esempio nel cratere a volute di Napoli 6779 o nel cratere a campana 6778. La diffusione dell'arte della Magna Grecia si coglie in maniera impressionante nella figura di un cavaliere al galoppo sul corpo di un caduto, che compare
nel rilievo funerario di calcare locale di Leonardo Loredan a Padova. Un pezzo simile è nel Museo Archeologico dell'Università, Bollettino del Museo Civico di Padova IS IV, LXXI 1928, VI p. 119. Foto del Gabinetto Fotografico. XIV Cfr. la statuetta tardo-ellenistica in Herbert, Ancient art in Bowdoin Coll. 76, tal. 8. XV XVI XVII
Drago, op. cit. 64. L. υ. Matt 1961, fi g. 225. L. υ. Matt 1961, fi g. 223.
1 Paragonabile alla tazza d'oro è la piccola tazza di bronzo, qualitativamente di gran lunga inferiore, trovata a Gela, ora a Siracusa (no 23306) con tori e cavalli. Il problema della sopravvivenza fi n nehl'viii e nel in secolo a. C. delle forme stilistiche dell'ultima fase micenea richiede un esame più approfondito. 2 Lampade marmoree di questo tipo sono state rinvenute anche a Sari, a Bayrakli e a Chío. Le differenze nella qualità del marmo e quelle stilistiche fanno pensare a botteghe diverse. Cfr.G.M. Α. Richter, Catalogue of Greek sculptures in the Metropolitan Museum n ο 8, tal. XI; Rev. arch. 1964, 2, 105.
5 a sin. Replica nel Museo Naz. di Napoli Inv. 20.672, Levi 145, nο 652. 5 a destra Cfr. la statua di calcare da Lindo ad Istanbul no 1346. Lindos III, 2, 539 ss., fig. 3-7, e Mélanges d'archeologie e d'histoire, Ecole de Rome. 1964, 25. 6 Un'immagine cultuale dello stesso tipo in Säfund, Funden in Tiberiusgrotten, 36, fig. 19. C. P. Sestieri, Le Arti 1, 1939, 494 ss.; E. Lissi, Atti e Memorie della Magna Grecia IS 4, 1961, 83 no 55, tav. 28.
315
Cfr. anche Deanna, Les Apollons Archaiques, 206, 7 fig. 112-14. 9-11
34
L'archetipo di questa terracotta dipende forse
da quello stesso della piccola testa marmorea da Villa Pepe a Taranto. Atti e Memorie della Magna Grecia Le metope recentemente scoperte: P. iancani 1954, tal. 8.
Montuoro, Atti e Memorie della Magna Grecia IS 5, 1964, 57 ss., tay. 10-21.
Not. Scay. IS V, 1951, 325, fig. 51. L'argilla non 12 quella solita di Corinto, ma di un colore rosso scuro. Simile è il Phobos (?) ionico di Baden. Jhb. der Altertumsfreunde in den Rheinlanden 118, 1909, 257, tay. 10. Il fallo è stato ora asportato perché non pertinente. E. Paribeni, Essays in Memory of Karl Lehmann, 252 ss. 14 Cfr. il pinax fittile da Agrigento, Fasti 10, 1957, 110, fig. 19; W. Fuchs, ΑΑ 1964, 732. 16 Cfr. da ultimo Atti e Memorie della Società Magna Grecia 1964, 57. 18 P.E. Arias, Cr. d'Arte VI, 1941, tay. 31, fig. 13; Lissi op. cit. 86, n 1 67, tal. 31. 20 a sin. Una terracotta simile al Thorwaldsen Museum di Copenhagen.
Vedi anche la matrice da Gela. P. Grillo, Gela 35 130, fig. 95. 38 Kekulé, op. cit. 60, tal. 5, Quarles υ. U,fford, op. cit. 11 7 s. I1 rigido stile tardo-arcaico di questa kore diffi39 cilmente può essere datato prima del 480. Purtroppo la sua origine calcidese (AJA 1965, 80) non è confortata da alcun elemento stilistico. Orsi, Mon. Ant. 18, 1907, 136ss., tal. 4-5, Quarles u. Ujord, op. cit. 125. Le asimmetrie della testa fanno propendere per 40 una visione di tre quarti verso sinistra. Villard, Sicile Grecque 318, tay. 204-5, fig. 34-35, Fuchs, ΑΑ 1964, 717, fig. 33. Il marmo ricorda quello delle teste leonine del 43 tempio dei Dinomenidi, che è sicuramente siciliano.
Fasti 11, 1958, 184 no 2825, tal. 26, fig. 72.
Stilisticamente questa testa dovrebbe dipendere 44 dalle opere ionico-orientali, come la testa del Palladio
21 a destra. Argilla rossa, ingubbiatura gialla. Piedi modellati con grande finezza. L'Artemide (?) in corsa di Taranto, Boll. d'Arte 1966, 1, 276, fig. 10, ha sul capo una scodella dello stesso tipo.
del Palatino (Boll. d'Arte 1964, p. 193 ss.) e quelle delle monete ioniche della Coll. Jamson (Cat. of Greek coins n0 1641, tal. 95) ecc. Kekulé, op. cit. 60s., tal. 7; P. Marconi, Dedalo 10, 1929/30, 657 ss.; Quarles u. Ujord, op. cit. 123.
21 a sin.
22 Una replica si trova nel deposito dello stesso museo Inv. 1052. 24 in alto L'altare da Aerai, Bernabb-Brea, Akrai 131 s., tal. 25, 1.
Jantzen, op. cit. 26 n 1 5, 6 menziona un secondo 26 cavaliere da Grumento. Jucker, Studia Oliveriana 13-14, 1965/66, 50 ss. 27 Sicuramente della Magna Grecia, forse tarantino, lo specchio con piede della Coll. von Kaufmann a Copenhagen, Mus. Naz. 53. 28
Arias, Annali di Pisa 1937, 129, tav. 3, 1-2, Quarles u. Ujord, op. cit. 128s.: datazione nell'ultimo quarto
del ντ sec. 29
L. υ. Matt 1961, fig. 189.
Questa testa non è stata soltanto lucidata nel 48 restauro moderno, ma appare anche rielaborata, soprattutto le orecchie e la bocca.
H. Ηerdejürgen si è occupato della dea nella sua 50 Bonner Dissertation (in corso di stampa). 54 Quarles u. Ujord, op. cit. 122 s. Contro la combinazione con la base di Phalakros F. Chamoux, RA 1945, 146 ss.
Sui criofori di Medma vedi anche F. Tiné Ber56 tocchi, Klearchos 17-18, 1963, 7ss. Lo stile della testa di bronzo della Coll. Tyskie57 wicz, tal. 13, è probabilmente un imbarbarimento provinciale dello stile delle terrecotte di Medma del 480 circa.
60
33 Anche le piccole teste di leone del naiskos di Eracle a Siracusa (tal. 164) furono concepite originariamente come gocciolatoi e poi fissate alla sima esclusivamente come motivo decorativo. Cfr. le altre antefisse delle nuove campagne di scavi, Orlandini, Arch. Class. 7, 1956, 47, tav. 17; 14, 1962, 42 ss., tav. 27; D. Adamesteanu, 'Sc 1960, 113, fi g. 34, 1, 35, p. 134, fig. 15.
Per l'occipite poco sviluppato della statuetta si 69 confronti l'Atena St. Angelo tav. 92,1 e alcune monete della Sicilia dalla forte impronta sicula. In ogni caso sempre possibile che la statuetta cli terracotta recasse sulla testa un nodo di capelli o un copricapo ora perduti. V. Poulsen, Der Strenge Stil 94, fig. 60; Quarles υ. U, fford, op. cit. 129.
316
58-59
Quarles υ. U,fford, op. cit. 58, 131, fig. 64.
30-31 Altre metope dell'Heraion: Zancani-]k[ontuoro, Atti e Memorie della Magna Grecia IS 2, 1958, 7ss., tay. 1-7.
S. Ferri, Le Arti 2, 1940, 162 ss., tay. 63, fig. 7-8.
Il bronzo del Museo di Lecce: M. Bernardini, Il Museo Provinciale di Lecce, 34. La testa di un manico assai simile sí trova nel Museo Civico di Locri, NSc
B. Ashmole, Late Archaic and Early Classical 70 Greek sculpture in Sicily and South Italy 28, fig. 78.
91
Il cantano, morfologicamente troppo alto e slan75 ciato per la metà del v secolo, potrebbe essere una forma particolare della Magna Grecia, che non compare in questo periodo nella madrepatria.
1913, Suppl. 26, fig. 29.
Il modello della testa è pubblicato da Mar76 in alto. coni, Agrigento, tal. V, 2.
92 a sin. 92 a destra
Marconi, Atti e Memorie della Magna Grecia 77 1930, 102 ss. Questa testa di leone dovrebbe essere piiti recente 80 e risalire verso la fine del v secolo. Stilisticamente affini í leoni di Xanthos al British Museum, BrBr Testo a 641, p. 13. La localizzazione del sito di origine del marmo a fine grana cristallina potrebbe fornirei un'idea del luogo di provenienza della scultura. H. Gabelmann, Studien zum Früharchaischen Löwenbild 77 no 96, tal. 19, 2-3; confronto con un leone del Museo di New York: G.M.A. Richter, Catalogue of Greek Sculptures 46, no 72, tal. 58-59. Sul luogo del ritrovamento: Mon. Linc., XVI, 82 1906, 494. Japigia I, 1930, 364. Il luogo sarà ora oggetto di ricostruzione e pertanto non saranno piii possibili ulteriori scavi. La connessione dell'atleta di Αdernò con la 84-85 bottega del samio Pitagora potrebbe trovare conferma nel fatto che un efebo p ~ù antico ma dello stesso tipo sia stato rinvenuto a Smirne (Langlotz, Bildhauerschulen tav. 88).
88
La testa della figura che appare sul manico dello specchio è simile alla testa di terracotta dí Napoli no 141035, A. Levi, Cat. delle terrecotte di Napoli, no 141035, p. 66, fig. 20. Sembra che oltre che a Locri, vi sia stata anche a 89 Taranto una bottega che produceva gli specchi. Accanto allo specchio del Museo di Taranto, rinvenuto in Via Japigia nel 1930, va ricordato anche lo specchio in Kunst der Antike 34, Auktion Basel no 17, tal. 6.
90
Sul significato simbolico degli specchi rinvenuti nelle tombe cfr. Thimme in Antike Kunst 8, 1965, 85.
Poulsen, op. cit. 100, fig. 68.
'Se 1912, Suppl. 7, fig. 4.
K. A. Neugebauer, RM 38-39, 1923/24, 378 ss., 93 fig. 15-17; Diehl, op. cit. 26, Β94. 95
Per la valutazione stilistica delle teste 76 in bassa. di leone, mi sembra importante il fatto che alcune tegole siano di un marmo a grossa grana cristallina, probabilmente nassio, altre di un marmo a grana fi ne, forse siciliano; Orsi, Mon Ant. 25, 1918, 725 ss., fi g. 265 ss., tav. 26; F. Willemsen. Olympische Forschungen IV, Die Löwenkopfspeier vom Dach des Zeustempels 34 s., tal. 4, 1.
H. G. Niemeyer, Promachos 63, 91 no 5.
'Sc 1944, 87, fig. 49; Bernabò-Brea, op. cit. 46.
L'Atena del Museo delle Terme, no 106165, è un'opera della Magna Grecia con tratti leggermente arcaicizzanti.
98
102 Tipica della Magna Grecia è anche la caratterizzazione del cane che Attenne respinge a colpi di spada e che con la coda fra le gambe sembra implorare pietà. 109 L'interpretazione di W. Fuchs è inaccettabile anche perché non è possibile che per un'unica metopa siano stati impiegati tre artisti tanto diversi fra loro. Röm. Mitt. 63, 1956, 115; 64, 1957, 230. Alla testa della tal. 109 è stilisticamente paragonabile anche la testa di Atena di New York, G. M. A. Richter, Cat. of Greek sculpture 28, tav. 28. Cfr. anche L. Byvancic Quarles van Ufford in Antiquity and Survival III 1, 185. 110 La testa è montata troppo inclinata. La posizione giusta è quella intermedia fra la collocazione precedente e quella odierna e la si può facilmente ottenere unendo verticalmente il foro del trapano della testa con quello del collo. L'espressione del volto ne guadagnerà notevolmente. 115-116 Un ulteriore frammento di un Niobide nel Museo del Foro a Roma, Boll. d'Arte 1960, 5, fig. 11. Stilisticamente affine, solo leggermente più rozza è la testa di terracotta del Brit. Mus. 1335 bis. Rappresentazioni di Niobidi da Taranto: già Coll. Pasanisi, Cat. Finarte V no 9. Niobide morente di calcare tarantino, copiato dal trono dello Zeus di Olimpia a Bonn, Kunstmuseum. 115-117
Helbig4 2, no 1642 (Fuchs).
117 Assai simile alla testa di Apollo è l'antefissa tarantina del Brit. Mus. no 1335 bis. 118 Nell'Italia meridionale íl singolare modellato della parte finale del collo per l'inserimento in un torso o in un'erma è ancora comune all'inizio dell'età imperiale. Napoli, Mus. Naz. no 6421 e 110035. Conducendo adeguate ricerche dovrebbe essere possibile riaccostare la testa ad una statua, probabilmente coperta da un manto di stoffa. Debbo i calchi della testa e dei piedi alla cortese sollecitudine dello Jacopi. Cfr. Bulletin van Vereenigung XII 2, 1937, 3. Cfr. anche la terracotta in Arch. Zeit. 1882, tav. 13. 1. B. Ashmole, op. cit. 25 s., fi g. 60, 61, 63; Marconi, Historia 9, 1935, 574 ss.; A. de Franciscis, RM 63, 1956, 96 ss., tav. 45-47; E. Paribeni, Atti e Memorie della Magna Grecia IS 2, 1958, 65, tal. 21, 2; Helbig 4 2, p. 447 (Fuchs); C. Turano, Klearchos 23-24, 1964 con ricostruzione come figura seduta.
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121 Orlandini in Scritti in Onore di G. Libertini, 117 ss., tay. 2-3, 5; Gri~o, Sulle Orme della Civiltà Gelese, 15 e Gela, 108, fig. 75; L. u. Matt 1959, fig. 86; li/lard, op. cit. 297, tal. 74. Röm. Mitt. 67, 1960, 15, tal. 8 (de Franciscis). 122 Ora nel Museo Nazionale di Reggio Calabria. Ferri, Divinità Ignote 95 ss.; G. Fili, Klearchos 21-22, 1964, 21 ss., fig. 1-2 ha scoperto che la testa del Dioscuro trovato dal de Franciscis appartiene al cavaliere della tay. 122. Cfr. anche i l gruppo equestre fittile da Metauro: Ε. Gagliardi, Atti e Memorie della Magna Grecia IS 2, 1958, 33 ss., tav. 9-10. 124
Con le teste di leone della tazza cfr. 128 in basso Ancona n0 4358 e Copenhagen, Museo Thorwaldsen. Una copia etrusca a Firenze, Museo Archeologico, e Londra, BM TB 350.624. 128 in alto
Dietrich von Bothmer m i ha gentilmente
segnalato i seguenti manici: New York 07, 286, 101, 102. London, Brit. Mus. 624 (350). Rouen, senza numero,
Hesperia Art, 8, 1959, n ο 8; JdI 1943, 243, fig. 31.
Publ. ‚Sc. 79, 1954, 91, fig. 16. Cfr. la sima 129 d i terracotta, probabilmente andata perduta, in Francesco di Paolo Ano/io, Antiche fatture di argilla tal. 9. La datazione di W. Fuchs all'inizio del v secolo, m i sembra impossibile nel quadro dell'evoluzione stilistica già per la forma delle palmette. Molto simili sono le terrecotte di Catania, 130 Bd'A 1960, 262, fig. 24, d, e di Paternò, Bd'A 1954, 75, fig. 4b. La figura inginocchiata è interpretata come 131 Afrodite da N. Himmelman-Wildschutz in Marburger Winckelmannsprogramm 1957, 13. Il principale punto di vista tenuto presente dall'artista s i può dedurre anche dal modellato del mantello sul lato posteriore.
A. Rumpf, RI 38-39, 1923/24, 456 ss., tay. 11 132 con bibliografia; Βernab?-Brea, RIA NS 1, 1952, 8, fig. 3; G. Schneider-Hermann, BABesch. 24-26, 1949/51, 14 ss., fig. 2.
Per questo rilievo cfr. Ch. Picard, Manuel de la 136 sculpture grecque IV e Rev. class. IVe, II partie I tal. 144. Un secondo emblema identico era dieci anni fa 140 nel commercio antiquario romano. L'asserzione di W. Fuchs che questo rilievo sia una copia di età romana priva di ogni fondamento. Cfr. anche The Classical Journal 58, 1962, 8 (Vermeule). Sulle argenterie della Magna Grecia cfr. Röm. Mitt. 1918, 103. AJA 1920, 90. Hofmann in Hermes 71, 1936, 11 fi g. 146. Bull. van de Vereenigung 1958, 43. I rapporti fra l'arte tarantina e
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quella alessandrina nella sua prima fase, già da tempo ravvisati, sono testimoniati con grande evidenza da un modello in stucco, proveniente da Alessandria, ora al Louvre, con l'oltraggio di Cassandra, che probabilmente doveva servire per la decorazione di un rhyton. Cfr. anche la tazza d'argento tolemaica JdI ΑΑ 1906, 137. Ora nel Museo di Basilea, K. Schefold, Antiken Museum Basel 132 s., n ο 181, 3; B. Segali, ΑΑ. 1965, 553 ss., fig. 3-4 con attribuzione all'arte alessandrina.
142 a destra
tal. 37, fig. 15.
147
C. Drago, Il Museo Nazionale di Taranto fig. 64a.
148 a destra 149 a sin. 152 121b.
NSc. 1940, 53, fig. 1, Le Arti 3, 1941,
G. Libertini, ‚Sc. 1947, 267s., fig. 5. L. u. Matt, fig. 222.
Kekulé, op. cit., tal. 30; Pace, op. cit. 130, fig.
155 Α questa testa di calcare s i può paragonare una testa, sempre in calcare, trovata in Etruria, che s i colloca sulla linea della tradizione della Magna Grecia, ora al Museo Gregoriano no 25. He/big 4 I, no 607 (Dohrn) 158 La predilezione per le rappresentazioni fortemente caratterizzate s i coglie anche nell'attore di Würzburg, Katalog des Martin von Wagner Museums, tal. 240, nelle monete, rFrancke-Hirmer, Die griechischen Münzen tal. 65, 4 e nel demone dell'oltretomba i n corsa di Agrigento con un martello e una campana sul fallo (P. Griffo- Ζiretta, Il Museo Civico di Agrigento, fig, a pag. 72, Phot. Röm. Inst. 1888). 159 Ora nel Museo di Basilea, Schefold, op. cit. 131, n0 185, 1. 160 Lo Sjöquist data le terrecotte di Centuripe e quelle corrispondenti di Taranto al tot secolo, perché a Morgantina statuette di questo stile sono state rinvenute in strati anteriori al 211 a. C. (AJA, 1965, 80). Purtroppo queste ultime non sono state pubblicate. Potrebbero rappresentare un importante punto d'appoggio per una datazione al tit secolo. Le terrecotte di Taranto e di Centuripe sono sicuramente databili nel tardo ii secolo grazie alla morfologia degli unguentari trovati assieme ad esse. Per questa sopravvivenza dei tipi del τττ secolo nel ii e nel τ secolo a. C., la pubblicazione degli scavi di Morgantina potrà fornire dati assai importanti per l'evoluzione stilistica dell'arte dell'ellenismo. Gran parte delle statue marmoree di ffuse nelle 161 città greche da Smirne a Barcellona, che risalgono al ét e al τ sec. a. C., provengono da una bottega della costa anatolica. Le potremmo definire come sculture di esportazione destinate ad abbellire le case degli amatori di arte greca del tardo ellenismo. La più bella è nel Βοwd~ n College, Catalogue 36, n0 76.
W. Fuchs data questa testa senza alcun fonda162 mento al tardo iv secolo (Gymnasium 1965, 146). Α me sembra piuttosto che per il virtuosismo teso alla bella apparenza, la testa possa appartenere ad una delle botteghe tardo-ellenistiche della fi ne del it secolo, delle quali una ha lavorato a Tralles. 164-165 Il tentativo di riunire in un disegno ricostruttivo le parti architettoniche pertinenti alla statuetta di Eracle, potrebbe favorirne la comprensione artistica, al pari dell'interessante base, eccezionalmente conservatasi.
Forse sono pertinenti l'architrave di Siracusa mv. no 16111 e il gocciolatoio 30566.
166
ΑΑ 1933, 640 ss., fig. 25-6.
Questa figura cose barbarica tradisce, nel 166-167 grosso fascio di pieghe fra le gambe, un modello greco orientale, come l'Atena di Endoios, Museo dell'Acropoli, l'Aiace di Sari, la figura in trono di Istanbul, ecc. Cfr. E. Langlotz, Die Hellenisierung der Küsten des Mittelmeers durch die Stadt Phokaia, p. 41.
319
INDICE DELLE OPERE RIPRODOTTE PER LOCALITA E MUSEI (Per quel che è poss i bile sono indicati i numeri di inventario).
AGRIGENTO, ANTIQUARIO
19 Statuetta votiva, dea in trono. Terracotta. 20 a destra Statuetta votiva, dea in trono. Terracotta. VI Testa, forse di una sfinge. Terracotta. 36/37 Busto votivo di una dea. Terracotta. 40 Testa di Atena. Terracotta. AGRIGENTO, MUSEO CIVICO
20 a sinistra Statuetta votiva di una dea. Terracotta. 54/55 Statua di giovinetto, torso. Marmo. 76 in alto Modello di testa di leone. Calcare. 157 in alto Gocciolatoio a testa di leone. Calcare.
CATANΙA, CASTELLO URSINO (MUSEO cIVIcO) 48/49 Testa di giovinetto. Marmo. 69 Busto di una statua di fanciulla. Terracotta, n 0 6075. GELA, ANTIQUARIO
21 a sinistra Dea con bambino. Statuetta votiva. Terracotta. 21 a destra Sacerdotessa. Terracotta. 33 Testa di Sileno, antefissa. Terracotta. 121 Testa di cavallo. Terracotta. KANSAS CITY, WILLIAM ROCKHILL NELSON ART GALLERY
135 Testa di una dea. Marmo.
BARI, MUSEO ARCHEOLOGICO
82/83 Apollo arciere. Statuetta di bronzo. Antikenabteilung 50/51 Dea in trono. Marmo. A 17 (1761). 125 in alto Banchetto funebre. Frammento di rilievo. Terracotta.
COPENHAGEN, MUSEO NAZIONALE
88 Manico di specchio con dea. Bronzo. n 0 13413.
BERLINO, STAATLICHE MUSEEN:
BONN
114 Testa di fanciulla. Marmo. 120 Modello di un a testa di cavallo. Terracotta.
COPENHAGEN, THORWALDSEN MUSEUM
128 in alto Giovinetto in atto di camminare. Bronzo. LONDON, BRITISH MUSEUM
1 Tazza d'oro. no 1574. 26 Statuetta di bronzo di un cavaliere. 27 Manico di specchio. Bronzo, n1 548. 64 Manico di specchio. Bronzo, no 550. 90 Manico di specchio. Bronzo, n0 553.
CAPUA, MUSEO CAMPANO
167 Madre con bambino. Calcare. 168 Madre con dodici bambini. Calcare.
LIONE, MUSES MUNICIPAL DES BEAUX ARTS
CASTELVETRANO
MUNCHEN, STAATLICHE ANTIKENSAMMLUNGEN, MUSEUM
81 Statua di giovinetto. Bronzo. (A Castelvetrano fino al 1962).
ANTIKER KLEINKUNST
320
128 in basso Manico di un catino di bronzo.
94 in
basso Uomo barbato, frammento. Terracotta.
NAPOLI, MUSEO NAZIONALE ARCHEOLOGICO
70 Testa femminile. Terracotta. 92 a sinistra Statuetta votiva di Atena. Bronzo. 93 Idria di bronzo. 122/123 I due Dioscuri. Acroteri angolari del tempio ionico di Locri. Marmo. 138/139 Statuetta di un Dioscuro. Bronzo, f1 5022.
109 Testa femminile. Marmo. 110/111 Testa di una dea. Marmo. 112 Testa maschile. Calcare. 113 Testa femminile. Marmo. 152 Fanciulla. Terracotta. XIX Donna in atto di camminare. Terracotta. POTENZA, MUSEO CIVICO
NEW YORK, METROPOLITAN MUSEUM OF ART
137 in alto Parte del fregio a rilievo di un'edicola sepolcrale. Calcare, no 119. PAESTUM, MUSEO NAZIONALE
9-11 Dal Tesoro dell'Heraion alla foce del Sele. Arenana. 9 Due fanciulle in fuga. Metopa del lato occidentale 10 Eracle con il cinghiale d'Erimanto difronte al re Euristeo. Metopa del lato settentrionale. 11 Eracle ed í Cercopidi. Metopa del lato meridionale. 16 Era con in mano un animale. Terracotta. III/IV Dio in trono, forse Zeus. Terracotta. 25 Idria di bronzo. 30/31 Due metope dell'Heraion alla foce del Sele. Arenaria. 45 Testa. Marmo. 65 Era in trono. Terracotta. 66 Donna orante. Terracotta. 131 Fanciulla inginocchiata, cosiddetta Eileithyia. Terracotta. 166 Sileno, forse Marsia. Bronzo. PALERMO, MUSEO NAZIONALE ARCHEOLOGICO
2 Lampada di marmo, n1 270 8 Ratto di Europa, metopa. Calcare. 14/15 Metope del cosidd. tempio C di Selinunte: 14 Eracle con í Cercopidi. Calcare. 15 Perseo decapita Medusa. Calcare. V Testina di terracotta. 34 Demetra in trono. Terracotta. 35 Busto d i Demetra o Core, frammento. Terracotta. 44/VIII Testa di una dea. Terracotta, n 1 3450. 68 Demetra in trono. Terracotta. 77 Testa di leone della sima del tempio dorico di Imera (lato settentrionale) Calcare. 78/79 Testa di leone della sima del tempio dorico di Imera (lato meridionale). Calcare. 80 Testa di leone della sima di un tempio di Agrigento. Marmo. 100-108 Metope del tempio di Era (E) a Selinunte. Calcare con teste di marmo. 100/101 Eracle con un'Amazzone. 102/103 Artemide e Attenne. 104 Atena ed Encelado. 105/108 Zeus ed Era sul monte Ida. 109/113 Teste delle metope perdute del tempio di Era (E) di Selinunte.
52/53 Dea in trono. Marmo. REGGIO, MUSEO NAZIONALE
5 a sinistra Figura votiva femminile, frammento. Terracotta. 6 Figura votiva di donna stante. Terracotta. 18 Statuetta votiva, dea in trono, frammento. Terracotta. 22 Dea in trono. Terracotta. 24 in basso Combattimento di due opliti. Altarino di terracotta, n 0 6498. II Due fanciulle ín fuga. Fregio di terracotta, na 786c. 56 Pastore con ariete. Terracotta. 57 Testina di giovinetto. Terracotta. 60/61 Testa di una dea, Atena(?). Terracotta. 67 Donna con offerta votiva. Terracotta. no 1124. 71 Fanciulle che colgono melograni. Rilievo di terracotta. 72 Ade e Persefone in trono. Rilievo di terracotta. 73 Demetra e Dioniso. Rilievo di terracotta. 74 Dea con un bambino in un paniere. Rilievo di terracotta. 89 Sirena su manico di specchio. Bronzo. 91 Manico di specchio. Bronzo. 92 a destra Manico di specchio. Bronzo. 94 in alto Testa di giovinetto e testa di fanciulla. Terracotta, n 0 685c. 96 Afrodite ed Eros. Terracotta, n 0 607c. 97 Testa di una fanciulla pensosa. Terracotta, no 647c. 118/119 Apollo Ala u os, testa. Marmo. 124 Dioscuro a cavallo. Marmo. 125 in basso Rilievo votivo. Terracotta, n 0 3382. 126 Elettra con l'urna delle ceneri del padre Agamennone. Manico di specchio. Bronzo. 127 Sileno e giovinetto. Manico di specchio. Bronzo. XI Menade. Terracotta, no 4823. 142 a sinistra Testina di terracotta, n 0 925c. 142 a destra Testina di terracotta. ROMA, PALAZZO DEI CONSERVATORI
115-117 Apollo arciere. Marmo. ROMA, MUSEO NAZIONALE DELLE TERME
62/63 Testa colossale dell'immagine cultuale di una dea. Marmo (Collezione Ludovisi). COLLEZIONE PRIVATA SVIZZERA
140 Rilievo con Nike danzante. Argento. 159 Coppia di ballerini. Terracotta.
321
SIRACUSA, MUSEO NAZIONALE ARCHEOLOGICO
3 Testa di un'immagine divina. Calcare. 5 a destra Figura votiva femminile, frammento. Terracotta. 7 Statua del medico Sombrotidas. Marmo. 12 Gorgone cavalcante. Terracotta. I La Gorgone Medusa. Terracotta. 13 Due sfingi. Rilievo in calcare. 17 Dea che allatta due gemelli. Calcare. 24 i n alto Guancia di altare. Dall'antico tempio di Atena a Siracusa. Calcare. 28 Afrodite con colomba, frammento. Calcare. 32 Leone che sbrana un toro. Altare di terracotta. 38 Busto votivo di una dea. Terracotta. 39 Dea in trono. Terracotta. 41 Testa di una dea. Terracotta. no 14222. 43 Nike, torso. Marmo. 46/47 Statua di giovinetto, torso. Marmo. 76 in basso Due teste d i leone della sima del tempio di Atena a Siracusa. Marmo. 84/X/85 Statuetta di un atleta che fa una libagione. Bronzo. 95 Rilievo sepolcrale di un giovinetto. Terracotta. 129 Frammento di architrave. Calcare. 130 Afrodite (?) in trono. Terracotta. 144 Giovinetto e fanciulla. Gruppo di terracotta. 148 a destra Satiro. Terracotta. 150 Pan con una fanciulla. Terracotta. 154 in basso Defunto eroicizzato come cavaliere. Calcare, no 839. 155 Testa d i giovinetto. Calcare. 156 Parte superiore del corpo di una cariatide del teatro greco di Siracusa. Calcare, no 37339. 157 in basso Gocciolatoio a testa di leone. Calcare, no 6341. 160 Afrodite. Terracotta. 161 Musa, dal teatro greco di Siracusa. Marmo. 164/16 Eracle giovinetto. Marmo. TARANTO, MUSEO NAZIONALE
4 Testa votiva. Terracotta. 23 Giovinetto giacente con lira e tazza. Terracotta, no 20047. VII Collana d'oro con protomi umane, no IG 6429. 29 Testa di un'immagine cultuale o di una statua votiva. Terracotta, no IV 4004. 42 Torso di una statua incompiuta di kore. Marmo. 58/59 Dea in trono, Demetra (?), frammento. Terracotta, no 8340.
322
IX Afrodite su una biga tirata da Eros e Psiche. Rilievo di terracotta, no IG 8326. 75 Fanciulla dífronte ad un cassettone. Rilievo di terracotta, no IG 8332. 98/99 Testa di Atena. Marmo. 132 Testa femminile. Marmo. XII Testa di una dea. Terracotta, n0 IG 4006. XIII in alto. Parte centrale di un diadema d'oro decorato con un cespo di acanto, 110 54114. XIII al centro e in basso. Diadema d'oro e smalto con decorazione di fiori e frutta, no 22437. 133 Giovane fanciulla con Eros. Gruppo di terracotta, no 1G 4080. 134 Testa femminile. Marmo, no 20924. 136 in alto. Tre penitenti nell'oltretomba. Rilievo in calcare no IG 6025. 136 in basso. Tre penitenti nell'oltretomba. Rilievo in calcare, no IG 6194. 137 in basso Eracle combatte contro le Amazzoni. Fregio a rilievo. Calcare. 141 Fanciulla seduta. Calcare, n0 IG 4029. 143 a sinistra. Fanciulla. Terracotta, no 52053. 143 a destra. Fanciulla. Terracotta, no 3191. XIV Psiche (?). Terracotta, no 51273. 145 a sinistra. Giovane fanciulla. Terracotta, no 52055. 145 a destra. Menade Danzante. Terracotta, no 52094. 146/147 Due danzatrici. Terracotta, no IG 4096 e IG 4092 148 a sinistra Satiro. Terracotta, no IG 4095. XV Menade dormiente. Terracotta, no IG 4104. XVI Danzatrice di baukismos. Terracotta, no IG 4106. XVII Danzatrice. Terracotta, no B 52076. XVIII Fanciulla. Terracotta, no 52074. 149 a sinistra. Danzatrice con veli. Terracotta, no IG 4055. 149 a destra. Fanciulla. Terracotta, no 52073. 151 Menade con situla. Terracotta. no 20093. XX Nereide a cavallo di un mostro marino. Coperchio di pisside. Argento e oro, no 22429. 153 Due guerrieri. Rilievo. Calcare, no 126. 154 in alto. Giovane cavaliere attaccato da un guerriero (Troilo ed Achille?). Gruppo di calcare, no 4534. 158 Maschera d i schiavo. Terracotta, no 20068. 162/163 Testa femminile velata. Marmo. CITTÁ DEL VATICANO, MUSEI VATICANI
86/87 Testa colossale di una dea, immagine cultuale. Marmo.
INDICE
Prefazione
7
Introduzione
9
Colonie greche
9
Magna Grecia
11
L'arte della Magna Grecia
16
Problemi stilistici
23
Architettura
24
Pittura
27
Coroplastica
32
Scultura in bronzo
36
Scultura in marmo
40
Scultura in calcare
44
Monete
46
Evoluzione formale della scultura in Magna Grecia
48
Note all'Introduzione
73
Aggiunte all'Introduzione
75
Tavole
77
Descrizione delle opere riprodotte
247
Aggiunte alla descrizione delle tavole
315
Indice delle opere riprodotte per località e musei
320