Tutti a cena da Don Mariano. Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia 9788855292955, 9788855293280

«Non risulta possibile studiare un fenomeno, certamente circoscritto, della storia letteraria isolana senza condurre una

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Table of contents :
Opere di Massimo Onofri
Opere di Massimo Onofri |
Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia
Prefazione alla nuova edizione
Che cos’è questa Sicilia?
Mafia (basta la parola)
Per inesplicabile fatalità
Le illusioni del continente
Con Mori ai ferri corti
L’Italia è fatta, ora facciamo gli affari nostri
Il pianeta Sciascia
Una galassia in espansione
Indice
Opere di Massimo Onofri
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Tutti a cena da Don Mariano. Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia
 9788855292955, 9788855293280

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Massimo Onofri

Tutti a cena da don Mariano

Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia Opere II

Opere di Massimo Onofri Opere I. Storia di Sciascia. Opere II. Tutti a cena da don Mariano.

Di prossima pubblicazione: Opere III. Per una storiografia della vita. Opere IV. Diario militante. Opere V. La critica in contumacia.

Opere di Massimo Onofri

Opere di Massimo Onofri | 2

Massimo Onofri

Tutti a cena da don Mariano Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia

Nuova edizione

Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Sassari.

Prima edizione: Bompiani, Milano 1995.

Nuova edizione © 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Opere di Massimo Onofri ISSN: 2724-6027 n. 2 – maggio 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-295-5 ISBN – Ebook: 978-88-5529-328-0 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Killer © Malchev – stock.adobe.com

A Matteo, siciliano, perché ricordi.

La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nerazzurro tra mare e cielo, ma era l’isola santa! Abbiamo a sinistra le Egadi, lontano in faccia il monte Erice che ha il culmine nelle nubi. Un siciliano che era meco sulla tolda, mi narrava le avventure di Erice figlio di Venere, ucciso da Ercole su quelle vette. Erano ameni gli antichi, ma quant’è pure ameno l’amico mio, che trova ora tempo di parlare di mitologia! Ei mi disse che su quel monte c’è un villaggio che si chiama San Giuliano, dove nascono le più belle donne della Sicilia. Giuseppe Cesare Abba Pure, l’Italia, annettendosi la Sicilia, ha assunto una grave responsabilità. Qualunque Governo italiano ha l’obbligo di rendere la pace a quelle popolazioni e di far loro conoscere che cosa sia la legge, di sacrificare a questo fine qualunque interesse di partito od altro. Ma invece vediamo i Ministri italiani d’ogni partito, dare per primi l’esempio di quelle transazioni interessate che sono la rovina di Sicilia, riconoscere nell’interesse delle elezioni politiche quelle potenze locali che dovrebbero anzi cercar di distruggere, e trattare con loro. Leopoldo Franchetti Ma era poi la verità questa? In nessun luogo quanto la Sicilia la verità ha vita breve: il fatto è avvenuto da cinque minuti e di già il suo nocciolo genuino è scomparso, camuffato, abbellito, sfigurato, oppresso, annientato dalla fantasia e dagli interessi; il pudore, la paura, la generosità, il malanimo, l’opportunismo, la carità, tutte le passioni le buone quanto le cattive si precipitano sul fatto e lo fanno a brani; in breve è scomparso. Giuseppe Tomasi di Lampedusa

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Prefazione alla nuova edizione

Era il 7 agosto 1992, quando, dalle colonne del quotidiano «La Repubblica», Sebastiano Vassalli prendeva di mira senza alcun timore reverenziale alcuni mostri sacri della letteratura italiana del Novecento. Mi riferisco a Luigi Pirandello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Leonardo Sciascia. Scriveva Vassalli: «Nel romanzo di Pirandello I vecchi e i giovani […] il personaggio forse più importante, Mauro Mortara, è l’ultimo dei “liuni” che hanno fatto l’Italia: un eroe positivo, un uomo autentico, costretto – come il principe di Salina del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – ad invecchiare in una realtà, per molti aspetti più piccola di lui. Ma il pirandelliano Mauro Mortara è anche – ahimè – il prototipo morale del mafioso di tutta la successiva letteratura italiana, fino al Mariano Arena del Giorno della civetta di Sciascia». Una constatazione che, poco più avanti, costringeva uno sconsolato Vassalli a prendere le distanze da quello Sciascia che, pur avendo tanto detto e fatto contro la mafia, «posto di fronte ad una scelta ultimativa» tra lo Stato e l’organizzazione criminale, non aveva potuto fare a meno di subirne «la forza di fascinazione», finendo, forse inconsapevolmente, per «seguirne il richiamo». Il 6 luglio 1993, in un’intervista al «Corriere della Sera», lo scrittore rincara-

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va la dose: in Mortara e nella sua disposizione sentimentale e ideologica, ormai diventato nelle parole di Vassalli addirittura il «protagonista» del romanzo pirandelliano, si arrivava a riconoscere niente altro che una «bieca apologia dei mafiosi», mentre per Sciascia veniva ribadita l’accusa di omertà già solo per il fatto d’aver trasformato nel suo libro d’esordio la nativa Racalmuto nientemeno che in Regalpetra. Vassalli, però, non era ancora pago: e su «La Repubblica» del 5 novembre dello stesso anno, in occasione – guarda il caso – dell’uscita del suo ultimo romanzo, ovvero Il cigno, dedicato a un delitto di mafia, tornò di nuovo ad attaccare Sciascia, spostando però il discorso sugli ultimi interventi dello scrittore, sulle sue famose dichiarazioni relative ai professionisti dell’antimafia. Ma non era finita qui. Su «La Repubblica» del 20 febbraio 1994, questa volta, a finire sotto processo, insieme a Sciascia, ci sono Pavese e Pasolini, Moravia e persino la neoavanguardia del Gruppo 63, nelle cui file aveva militato proprio un giovanissimo Vassalli, tutti colpevoli di aver vissuto il fatto di essere italiani «come una bizzarria dell’anagrafe», celando dietro l’impegno per le grandi cause planetarie un sostanziale disinteresse per lo Stato, considerato «un’entità aliena e abietta nei cui confronti l’inappartenenza doveva essere totale». Quella di Vassalli per Sciascia – credo si possa serenamente affermarlo – fu una vera e propria ossessione, per altro mai dismessa. Nel 2014 infatti, in occasione dei venticinque anni dalla pubblicazione di La chimera, il romanzo viene riproposto in libreria in una nuova edizione speciale. Com’è giusto: essendo questo, probabilmente, il capolavoro di Sebastiano Vassalli, diventato nel frattempo uno dei più noti e celebrati scrittori italiani. Di veramente nuovo, il lettore troverà «un inedito d’autore», e cioè l’appendice Perché il Seicento. Poche pagine, che vanno lette con attenzione, perché ci rivelano che tipo di scrittore, e di uomo, sia Vassalli. Ecco: «Ho trascorso due anni della mia vita (il 1997 e il 1988) nel Seicento, e ho

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raccontato la storia di Antonia e del vescovo Carlo Buscapè, seguendo l’esempio e l’insegnamento di Alessandro Manzoni che credeva di dover scoprire in quel secolo le radici dell’Itala moderna e del carattere degli italiani». Vassalli se lo domanda: perché tornare in quel secolo, «se già esisteva un capolavoro come I promessi sposi»? La risposta è di una chiarezza perentoria: «Uomo di fede ma anche uomo del Risorgimento, cioè della sua epoca, Manzoni aveva studiato a fondo i vizi e le virtù degli italiani e conosceva bene il nostro carattere nazionale. Avrebbe potuto rappresentarlo al peggio; scelse, invece, di rappresentarlo al meglio, perché l’Italia doveva ancora nascere e si sperava che potesse nascere con il suo aspetto migliore. Perciò il Seicento, che fu un secolo a tinte violente, un secolo terribile, nel suo romanzo è corretto con molto Ottocento». Difficile riuscire a scrivere, in poche righe – sul Seicento, sull’Ottocento, su Manzoni e I Promessi Sposi – così tanti luoghi comuni, ormai smentiti, e da decenni, persino dai manuali scolastici più sbrigativi e meno aggiornati. Il Seicento, dunque: «un secolo a tinte violente», «terribile», sottolinea Vassalli. Mi chiedo se sia possibile giudicare un secolo moralisticamente, come poteva avvenire, quanto al Seicento, prima che Croce ci liberasse – nel 1917 – dal pregiudizio (che Vassalli beatamente ripete) della responsabilità corruttrice della Spagna nell’Italia secentesca. E domando, così per giuoco, se sia più o meno violento, del Seicento, un altro secolo, quello in cui tre adulti, per scherzo, si divertano a gonfiare l’intestino d’un adolescente con un compressore d’aria fino a farglielo scoppiare, per la sola colpa d’essere grasso, episodio di cronaca avvenuto, appunto, in quel 2014. Non credo che Vassalli sia rubricabile tra gli storicisti stolidi che interpretano la Storia come un passaggio dal buio alla luce, in gloria delle magnifiche sorti e progressive: i suoi romanzi dicono il contrario. Sicché mi sarei limitato, allora, a consigliargli, sul secolo barocco, la lettura di qualche libro della nostra italia-

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nistica più antica e nobile, magari quelli di Giovanni Getto e Ezio Raimondi, mentre gli avrei ricordato di corsa che il Seicento fu anche il secolo di Galileo e della nascita della scienza moderna, di Caravaggio e della sua nuova e sconcertante idea di realtà. Ma il meglio viene dopo: Manzoni, secondo Vassalli, avrebbe corretto il Seicento con l’Ottocento, affermazione che nasce dentro un’idea d’Ottocento, tutto ottimismo e fremiti patriottici, ancora più puerile, se possibile, della precedente. Ma davvero Vassalli credeva che le verità di quel secolo possano riassumersi, che so?, nei versi del pur toccante Goffredo Mameli del nostro inno nazionale? L’Ottocento, dico, del gigantesco Leopardi, di cui il Novecento nichilistico è stato una semplicistica chiosa. L’Ottocento, appunto, di Manzoni: uomo di fede e, dice lui, del Risorgimento. E così idealizzante da averci restituito una conclusione del romanzo, «con la nascita dell’industria», «rivolta più al secolo dell’autore e alle sue prospettive di sviluppo». Tralascio qui qualche altro suggerimento di lettura, per un ritratto di Manzoni che ne serbi almeno la complessità e il pessimismo irredimibile, da Il sistema di don Abbondio (1933) di Angelandrea Zottoli a Il romanzo senza idillio (1974) di Ezio Raimondi, sino a La tabacchiera di don Lisander di Salvatore Silvano Nigro (1997). Mi chiedo se Vassalli abbia mai veramente letto il disincantato finale del romanzo, se ne abbia colto quel dettaglio polemicamente democratico, e insieme disilluso, quando, a proposito del nuovo marchese, che sta pranzando altrove con Don Abbondio, ma che vuole servire a tavola gli sposi, scrive: «v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari». Ma torniamo al rapporto con Sciascia e la sua idea di mafia. Vassalli ricorda che, prima di scrivere La chimera, avrebbe voluto cimentarsi con Caterina Medici, bruciata viva nel 1617, col Federigo Borromeo manzoniano «corresponsabile di quel

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rogo». Ma il problema vero non era soltanto il confronto con Manzoni: «mi ero anche risparmiato la sorpresa e l’imbarazzo di arrivare in libreria nello stesso momento in cui ci arrivava un altro scrittore molto più famoso di me, con la stessa storia. Lo scrittore famoso era Leonardo Sciascia. Il suo libro La strega e il capitano uscì alla fine del 1989 (La chimera è del gennaio 1990) e riuscì a compiere il miracolo di parlare di Caterina Medici senza rimettere in discussione Manzoni e il suo Seicento. Senza urtarsi con niente e con nessuno». E, con malizia, aggiungeva: «Del resto, come stupirsene? Sciascia aveva raggiunto la popolarità raccontando una storia della sua terra: la Sicilia, in cui tutti potevano rispecchiarsi, tranne naturalmente i morti ammazzati dalla mafia; e dove tutti alla fine uscivano bene, anche (e, forse, soprattutto) i mafiosi». Che si poteva aggiungere a queste parole insinuanti e diffamatorie su uno Sciascia omertoso e, appunto filomafioso? Forse un solo dato, filologicamente irrefutabile: alla fine del 1989 Sciascia era già morto, mentre La strega e il capitano era apparsa per Bompiani nel 1986, ben due anni prima che Vassalli cominciasse le sue ricerche storiche. Non sarà inutile ricordare – sempre in onore della filologia – che l’accusa a Sciascia di contiguità al sentire mafioso, formulata già da Carlo Muscetta nel 1971, se aggiunta a quella di viltà civile, risulta oggi talmente grottesca da lasciare di stucco, soltanto si ricordi alcuni fatti semplici e irrefutabili: quando Sciascia scriveva Il contesto (1971) e L’affaire Moro (1978) il nostro Vassalli si baloccava con Tempo di màssacro. Romanzo di centramento & sterminio (1970) e L’arrivo della lozione (1976), con incalcolabili danni per una sana ecologia della lingua. Per quanto riguarda l’ipotetica apologia che Pirandello e Sciascia avrebbero fatto della mafia, la loro eventuale consentaneità, non posso che rimandare a quanto scrissi in dettaglio nella prefazione a I vecchi e i giovani per i Grandi Libri Garzanti nel 1993 e in Storia di Sciascia nel 1994, ripubblicata l’anno scorso per i tipi di Inschibboleth. Oltre,

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ovviamente, alle considerazioni ulteriori che il lettore troverà qui, in Tutti a cena da don Mariano. Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia. Ribadisco soltanto, a suggello non sarcastico di questo molto significativo dibattito, una sola convinzione: accusare Sciascia di contiguità con la mafia sarebbe come rimproverare al Fëdor Dostoevskij di I demoni (1873) di essere un sodale, se non un complice, dei terroristi. La verità è semplice: la letteratura vive sempre ad altissime temperature di ambiguità, di ambivalenze insomma. Ho scrutinato i rapporti tra letteratura e mafia in Sicilia dalle origini del fenomeno sino al 1995. Matteo Di Gesù, raccogliendo il testimone, ha continuato sino al 2015, quando ha pubblicato L’invenzione della Sicilia. Letteratura, mafia, modernità. A differenza di quanto accaduto nella letteratura sulla Resistenza in libri come Uomini e no (1945) di Elio Vittorini e L’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò, nella letteratura sulla mafia di disposizione militante, non c’è manicheismo, né retorica. Lo stesso romanzo di Vassalli, così polemico contro gli scrittori che l’avevano preceduto, è tutt’al più un libro brutto e involontariamente parodico, ma non edificante. Da Sciascia a Vincenzo Consolo la letteratura mantiene tutte le sue prerogative di coscienza critica e autocritica, ma non rinuncia a restituire il fenomeno in tutta la sua complessità, anche nella sua forza di fascinazione. Detto questo, però, credo che i motivi principali d’interesse per questo libro stiano soprattutto nelle pagine apologetiche, tra i cui autori si contano talvolta nomi di tutto rispetto e grande autorevolezza, non solo in Sicilia, tra i quali non posso non citare Luigi Capuana e Giuseppe Pitrè. Mi limito a ricordare – ma il lettore troverà tante altre testimonianze in proposito-, quali formidabili documenti di più o meno volontaria celebrazione della mafia, questi testi: la borghesissima La Mafia, pubblicata nel volume Teatro Mediterraneo (1921) di Giovanni Alfredo Cesareo; il Don Giovanni Malizia (1930), ove troviamo come personaggio persino Garibaldi, appellato

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addirittura come «il gran picciotto», un romanzo che circolò assai negli anni Trenta anche nei seminari e che riuscì per altro nel miracolo di coniugare mafia e fascismo, scritto da Giovanni Maria Comandè, prete spretato che, tre anni dopo, si suicidò gettandosi nel Tevere; Gli inesorabili (1950) del giudice Giuseppe Guido Lo Schiavo, in cui si racconta una guerra durata circa cinquant’anni tra la mafia di montagna, sulle Madonie, e quella della valle, in pagine che hanno la qualità del miglior romanzo d’appendice. Il risultato più importante: la dimostrazione che la mafia possieda senz’altro una sua ideologia assai articolata, poco importa quanto consapevole, che ha sempre saputo trovare espressione in libri esteticamente discutibili, epperò efficacissimi nel tradurre e tramandare, non soltanto tra le classi popolari, una concezione del mondo quasi impossibile da estirpare: come ben sapeva il boss dei due mondi don Masino Buscetta.

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Capitolo I

Che cos’è questa Sicilia?

1. Un problema ineludibile Quando, come e perché l’insieme dei fatti compresi sotto il termine mafia emerge dal complesso della storia siciliana? Che cosa, in questa fenomenologia, cambia con il variare del contesto storico, e che cosa rimane – relativamente – stabile? Attraverso quali linee il passato si proietta sull’oggi?1

Con queste domande, che anche a noi sembrano ineludibili, si apre l’importante saggio di Salvatore Lupo Storia della mafia. La risposta che lo scrittore fornisce è inequivocabile: non si può che partire «dal periodo successivo all’Unità d’Italia», rifiutando una regressione che ci conduca verso un passato leggendario e oscuro, quello «dei Vespri siciliani, di Verre, dei cartaginesi», via via, fino agli «antichi sicani»2. Non si può che partire di là, infatti, se è vero, come è vero, che «il termine e il concetto di mafia appaiono solo al termine del “perturbamento” risorgimentale»3. Sicché, in questo lavoro, non seguiremo

1.  S. Lupo, Storia della mafia, Donzelli, Roma 1993, p. VII. 2.  Ibidem. 3.  Ivi, p. 6.

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l’impostazione di Pietro Mazzamuto4 e Antonio Altomonte5, autori delle due uniche sinossi sull’argomento di cui siamo a conoscenza, molto ricche, per altro, di informazioni, nel segno di analisi acute e circostanziate. Se, infatti, il primo muove da un libro come Il Masnadiere siciliano (1841) di Vincenzo Linares, in cui rintraccia una mentalità latamente mafiosa, senza che però la parola mafia compaia mai nel testo, il secondo affianca la mafia alla camorra ed al brigantaggio, non soffermandosi, come a noi sembra opportuno, sulla differenza specifica tra questi fenomeni così diversi. Noi crediamo, infatti, che una ricerca di questo genere debba essere circoscritta, con rigore, il più possibile, eliminando alla radice tutti gli equivoci e le ambiguità che si sono come moltiplicate, sulla storia di tale vicenda criminosa, nella vastissima pubblicistica, certamente non letteraria, dedicata alla questione, non di rado dettata da motivazioni squisitamente politiche. Questo non significa, però, che possiamo condividere per intero la prospettiva di Lupo, fondata soprattutto su fonti archivistiche e giudiziarie e sulle inchieste parlamentari, il quale, forte dei grandi risultati delle maxi-inchieste degli anni Ottanta, fa progressivamente convergere il concetto di Mafia con quello di Cosa Nostra, «organizzazione che tende al con-

4.  P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, Andò, Palermo 1970. 5.  A. Altomonte, Mafia briganti camorra e letteratura, Pan, Milano 1979. Oltre questi due libri bisogna ricordare un saggio fondamentale sull’argomento, quello di Leonardo Sciascia apparso nel 1964 sui «Nuovi Quaderni del Meridione», che, col titolo Letteratura e mafia, si trova ora nella raccolta di saggi Cruciverba (1983), in Id., Opere. 1971-1983, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1989, pp. 1104-1114. Per quanto concerne un’analisi di testi dedicati alla mafia, ma che travalicano una dimensione esclusivamente letteraria, si vedano l’utilissimo A. Uccello, Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, Edizioni Libri-Siciliani, Palermo 1965, nonché il saggio di P.M. Sipala, Sociologia e letteratura della mafia nell’Ottocento (1967), in Id., Da Carducci a Quasimodo. Saggi e letture, CEDAM, Padova 1970.

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trollo del territorio, all’estorsione-protezione su un insieme di attività economiche nelle quali si inserisce in forma parassitaria, che ha propri regolamenti e statuti, codificati rituali e definite ideologie»6. E ciò, senza tenere in gran conto il significato della parola mafia, così come si presenta in documenti letterari come I mafiusi di la Vicaria (1863) di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, o le pagine fondamentali (1889) dell’etnologo palermitano Giuseppe Pitrè che, come è facile capire, risultano invece di capitale importanza per lo studioso di cose letterarie: e chi legge ne avrà prova al momento opportuno. Se, infatti, il Lupo ha le sue ragioni nel ridimensionare «il pur importante capitolo delle interpretazioni» del fenomeno, per lo storico della letteratura tale capitolo può anche essere tutto. In questo senso, Mazzamuto e Altomonte, pur arbitrariamente dilatando i confini semantici della parola mafia, hanno avuto senz’altro le loro buone ragioni nell’allargare il proprio discorso a quei fatti per così dire di costume, di cui la letteratura isolana è prodiga, i quali hanno a che fare con una mentalità che solo per una via analogica ed impropria potrebbe essere definita mafiosa. Il fatto è che non risulta possibile studiare un fenomeno, certamente circoscritto, della storia letteraria isolana senza condurre una riflessione preliminare su quell’idea di Sicilia, dentro l’unico grande libro a cui tutti gli scrittori isolani che si rispettino, almeno da Verga e Capuana in poi, non hanno fatto altro che aggiungere qualche pagina. Questo è il punto: la Sicilia, nella sua peculiarità culturale, potrebbe anche non essere mai esistita, bisognerebbe comunque fare i conti con “l’isola di carta” che gli scrittori siciliani ci hanno consegnato in questi ultimi centotrent’anni, tanto per citare il suggestivo titolo di un libro di Antonio Di Grado7. E si tratta di un sistema di idee

6.  S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. VIII. 7.  A. Di Grado, L’isola di carta, Ediprint, Siracusa 1984.

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e sentimenti, di giudizi e pregiudizi, che va a costituire quella sorta di principio trascendentale, insomma quella condizione che rende possibile ed informa la percezione che il siciliano ha di sé stesso in quanto siciliano: un ideario che, quando trapassa nelle pagine di chi siciliano non è, rischia di degradarsi in un vero e proprio dizionarietto di luoghi comuni: quel che è capitato ad uno scrittore come Sebastiano Vassalli quando, astraendo quasi completamente da una complessa tradizione storica e letteraria, ha tentato di tradurre in romanzo tutta la vicenda che condusse al celebre delitto Notarbartolo, avvenuto il 1° febbraio 1893, per ritrovarsi tra le mani un feuilleton dalle tinte fosche, esilarante e grottesco, che della mafia restituisce l’involontaria parodia8. Non importa fino a qual punto tale sistema di idee rifletta e spieghi precise condizioni di fatto. Non interessa verificare il grado di verità di queste rappresentazioni della realtà isolana. Certo è che tale sistema non può essere trascurato da chi voglia indagare quel precipuo livello di formalizzazione della realtà offerto dalle opere letterarie. Per capire quanto ambiguo e complicato sia ogni discorso sulla Sicilia, di quante sfumature, anche delicatissime, sempre in bilico tra apologia ed autodenigrazione, non si può non muovere da un libro pubblicato in un momento di eccezionale rilevanza storica, il 1945, dalla libreria Mascali di Siracusa, nel pieno fermento di passioni unitarie e separatiste, scritto da un siciliano per lungo tempo allontanatosi dall’isola, ed all’isola fieramente legato, che si è voluto prendere «la briga di studiare le piaghe della sua terra» e volerne «parlare pubblicamente», a cuor sereno, nella convinzione che la Sicilia accolga in sé e riassuma «le caratteristiche che son proprie di tutto il Paese, accentuandole e colorendole»9: siamo

8.  Cfr. S. Vassalli, Il cigno, Einaudi, Torino 1993. 9.  S. Aglianò, Che cos’è questa Sicilia? (1945), Sellerio, Palermo 1996.

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già, come si vede bene, a quell’idea della Sicilia come metafora dell’intera nazione che sarà tanto cara a Leonardo Sciascia10. Stiamo parlando del libro di Sebastiano Aglianò Che cos’è questa Sicilia?, il quale, accolto in Sicilia con un certo risentimento, incontrò invece l’apprezzamento di personaggi come Guido De Ruggiero ed Eugenio Montale. Il libro di Aglianò era imperniato su una convinzione: che il regionalismo siciliano, «orgoglioso e baronale», fosse legato «da una stretta analogia di cause e di fini con il retorico nazionalismo italiano», che insomma «l’ultimo tentativo degli indipendentisti siciliani» fosse da considerare «come una postuma reviviscenza di fascismo», mirando il primo a fare della Sicilia «ciò che l’altro aveva fatto dell’Italia», cercando di frapporre entrambi i movimenti «duri ostacoli per ogni influenza esterna», «sulla base di miti storici esagerati e deformati»11. La tesi che lo anima dalla prima all’ultima pagina è di tipo meridionalistico, un meridionalismo di ascendenza franchettiana, secondo la quale tutti gli equivoci che hanno ostacolato lo sviluppo dell’isola non scompariranno mai se non verranno scalzate definitivamente in Sicilia «le basi di quello che è rimasto sempre il suo eterno nemico, il feudalesimo»12. E ciò, sulla scorta di un programma a tratti ingenuamente neoilluminista: quello che si prefigga, in sostanza, «di democratizzare i costumi e le istituzioni, di educare il popolo; di educarlo concretamente, di portarlo a una completa maturità, morale e politica»13. Aglianò non aveva dubbi: se si volevano centrare questi obiettivi bisognava rappresentare, senza infingimenti, quali fossero quei tratti della storia e del costume siciliani che riluttassero ad ogni 10.  Cfr. L. Sciascia, La Sicilia come metafora, intervista con M. Padovani, Mondadori, Milano 1979. 11.  S. Aglianò, Che cos’è questa Sicilia?, cit., p. 46. 12. Ivi, p. 152. 13.  Ivi, p. 156.

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forma di modernizzazione, bisognava evidenziarne le peculiarità e le anomalie che avevano tagliato fuori l’isola dalle grandi linee di sviluppo della civiltà occidentale, senza mai dimenticare, però, tutti quei fattori che la tenevano largamente ancorata al continente, i fattori che, alla fine, avrebbero consentito la piena valorizzazione di risorse ataviche, la loro straordinaria moltiplicazione di vigore. Su queste premesse, Aglianò articola la sua ricognizione socio-­ antropologica, conducendola per temi forti, quali la concezione della donna, la strada e il vicolo secondo i riti e le consuetudini che vi si consumano, la casa e la famiglia, veri architravi della vita isolana, la “roba”, dentro un sentimento che è quello verghiano, il carattere generale degli abitanti all’incrocio di natura e cultura, il predominio di una visione maschile del mondo, per rispondere infine all’interrogativo del titolo del libro. Dentro un discorso arricchito da vari apporti disciplinari, non sono rare notazioni come questa, frutto di un’immagine della storia della Sicilia che ha per noi non poche implicazioni: La Sicilia ha ottenuto l’autonomia, ha ottenuto l’assegnazione di cospicue somme per lavori pubblici o altro; ma non ha ottenuto ciò che le era più necessario e più urgente: la comprensione effettiva degli altri italiani, e, nei suoi stessi figli, le condizioni morali e sociali indispensabili per un nuovo avviamento storico. Le istituzioni, i provvedimenti, le leggi, hanno nella maggior parte dei casi valore formale, se non sono sorrette dalle intenzioni, e dalle predisposizioni, dei cittadini: questo vale per la Sicilia, dove (come, del resto, in molte altre regioni della Penisola), esiste ormai una lunga tradizione, quasi una tecnica, per evadere a ciò che viene stabilito in sede legislativa, o almeno per deformarlo, e vale anche per l’altra Italia, soprattutto per l’Italia del Nord, la più progredita, come si dice, la più evoluta, dove ogni avvenimento che abbia luogo nel Meridione e in Sicilia non viene considerato nella sua giusta luce […]. Resiste anzi, e non accenna a scompari-

25 re, la nota e stupidissima polemica antimeridionale, che urta contro la suscettibilità ritrosa specialmente dei siciliani, e non è l’ultima delle ragioni che impediscono ad essi di collocare le proprie aspirazioni entro i più vasti orizzonti dati dalla vita nazionale.14

C’è, in tali osservazioni, un chiaro avvertimento, quanto ad atteggiamenti nei confronti della legge, a quegli italiani, anche oggi numerosissimi, che non perdono occasione per criminalizzare il Meridione attribuendogli un comportamento che è invece radicato in tutto il paese. Ma, accanto alla sacrosanta registrazione di una stolta e superficiale polemica antimeridionale, c’è pure la lucida consapevolezza che in Sicilia, non di rado, si sia risposto a tali polemiche con i pregiudizi di una mitologia eguale e contraria, fondata su un’idea dell’assoluta eccezionalità della storia isolana: Nel quadro generale della storia del nostro paese la Sicilia rappresenta, e ha rappresentato per un novantennio, dal 1860 ad oggi, qualcosa come un fenomeno strano e seducente, una terra mitica, meravigliosa davvero, i cui abitanti però usano il coltello e sono tremendamente gelosi: una terra che bisogna ammirare molto per un lato e disprezzare molto per un altro; su cui comunque bisogna parlare, parlare sino all’infinito, e mai vederne risolti i secolari problemi, le sue elementari, terrene difficoltà. Già i suoi stessi figli portano nel sangue un sogno astratto della propria regione; si cullano nella loro condizione di isolani come in un privilegio o in una disavventura insostituibile. Lo scrittore siciliano ha sempre un conto da risolvere con la terra nativa; e lo risolverà in un’opera che può chiamarsi Cavalleria rusticana, o I mafiusi di la Vicaria o Don Giovanni in Sicilia o Conversazione in Sicilia: in un’opera, cioè destinata ad ingrandire il mito o a introdurne altri.15

14.  Ivi, p. 30. 15.  Ivi, pp. 30-31.

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La Sicilia come terra mitica, tanto nelle denigrazioni dell’opinione pubblica continentale, quanto nelle considerazioni apologetiche di taluni suoi figli, non di rado «un sogno astratto della propria regione», molto spesso un campionario di pregiudizi e di luoghi comuni che bisognerà cominciare a chiamare col preciso nome che gli storici hanno coniato da tempo: sicilianismo.

2. Sicilianismo e sicilitudine Giuseppe Giarrizzo, lo storico che più e meglio ha studiato l’ideologia sicilianista nei suoi effetti sulla vicenda culturale dell’isola, ha scritto in un saggio del 1987, ora raccolto in un volume fondamentale, Mezzogiorno senza meridionalismo: «Cosa ha fatto, cosa fa della storia anche contemporanea della Sicilia una storia difficile? La costante pretesa di essere un’esperienza storica “speciale”, diversa»16. La riprova di tale pretesa sarebbe offerta innanzi tutto dai diversi miti che la cultura isolana ha accampato per autogiustificarsi, per auto­ legittimarsi: «La Sicilia-nazione, il cui “popolo” sopravvive a tutti i soprusi e a tutte le conquiste; la Sicilia-isola, orgogliosa e sequestrata; la Sicilia “feudale” delle faide municipali, della gelosia possessiva, della cultura contadina»17. In questo contesto, la «costruzione di un’ideologia sicilianista» ha caratterizzato la storia della cultura isolana dopo l’Unità d’Italia, manifestandosi soprattutto nell’accusa allo Stato di «deprimere la Sicilia a colonia “piemontese”»18. Un’ideologia che la

16.  G. Giarrizzo, Per una storia della Sicilia (1987), in Id., Mezzogiorno senza meridionalismo, la Sicilia, lo sviluppo, il potere, Marsilio, Venezia 1992, p. 3. 17.  Ibidem. 18.  Ivi, p. 29. Sull’ideologia sicilianista si vedano almeno: G. Giarrizzo, Vicende del Sicilianismo, in «Tuttitalia: Sicilia», n. 2, 4 luglio 1962, pp. 45-67;

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classe dirigente isolana ha esibito e ostentato nei momenti di difficoltà, in particolare sotto i governi della Destra storica, durante l’esperienza dei Fasci, dopo la fine del crispismo, e con grande vigore dopo il delitto dell’ex direttore del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo. Giarrizzo auspica una storiografia finalmente sottratta alla duplice e gravosa ipoteca del sicilianismo, quale ideologia sostanzialmente apologetica cara a larga parte della classe dirigente isolana, e del meridionalismo, soprattutto quello che ha sempre ubbidito all’immagine di una Sicilia barbara e borbonica, refrattaria ad ogni ipotesi di modernizzazione: di tale storiografia, finalmente destinata a consegnarci, appunto, l’immagine di un Mezzogiorno senza meridionalismo, questo suo libro è una felice dimostrazione. La nostra indagine sui rapporti tra letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia, quella nata dall’impresa garibaldina, non potrà prescindere, come ovvio, da un continuo confronto con tali ipotesi: e il lettore si accorgerà da solo del fatto che, nel nostro libro, le rappresentazioni più lucide del fenomeno criminoso in questione, e del contesto storico-antropologico in cui quel fenomeno si sviluppa, provengano proprio da scrittori come Pirandello, che sono riusciti a superare l’impasse sicilianismo-meridionalismo. Alcune precisazioni, però, s’impongono, soprattutto quando si pensi che, proprio in ambito letterario, è emersa una nozione come quella di «sicilitudine»19, che dal sicilianismo rigorosamente si distingue, ma che, pure, molto spesso, dagli storici, col sicilianismo è stata confusa: lo stesso Giarrizzo non ha esi-

I. Peri, Il sicilianismo, in Id., Dal Viceregno alla mafia, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 1970, pp. 107-119; G.C. Marino, Ideologia sicilianista, Flaccovio, Palermo 1971; S.M. Ganci, La nazione siciliana, Edizioni Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1978. 19.  Cfr. L. Sciascia, La corda pazza, in Id., Opere. 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1987, pp. 961-967.

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tato a liquidare quella nozione di «sicilitudine» come uno dei «modi di spiegare il mito con il mito stesso senza storicizzarlo e senza analizzare i contenuti e la loro mutevole gerarchia e coerenza»20. Un giudizio, come cercheremo di mostrare, non tanto drastico e impaziente, quanto ingiusto. Per non dire di Rosario Spampinato che, in un bel saggio dedicato alla storia delle interpretazioni del fenomeno mafioso, ha addirittura rintracciato nei libri di Leonardo Sciascia e Giuseppe Tomasi di Lampedusa l’immagine di «una Sicilia fuori del tempo e quindi dalla storia»21. La questione è quanto mai complessa: basta tornare al libro di Aglianò, in cui la mafia è appena nominata secondo modi generici e frettolosi, di polemica abbastanza corriva22, per rendersi conto che in esso sicilianismo, meridionalismo e sicilitudine, quando il concetto non aveva ancora trovato una sua ratifica, si confondono continuamente. Abbiamo già detto del ricorrente refrain franchettiano. Ma non sono pochi i punti in cui la mai domata tentazione sicilianista, in un libro per altro finalizzato a contrastare il sicilianismo dei separatisti, riaffiora, come quando Aglianò arriva a tematizzare una radice psicologica del sicilianismo, una certa disposizione a mitizzare la

20.  G. Giarrizzo, Per una storia della Sicilia, cit., p. 10. 21.  R. Spampinato, Per una storia della mafia. Interpretazioni e questioni controverse, in M. Aymard - G. Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’unità a oggi. La Sicilia, Einaudi, Torino 1987, p. 888. 22.  L’interpretazione del fenomeno mafioso è giuocata secondo i consueti parametri franchettiani, che esamineremo al momento opportuno, di persistenza del vecchio potere feudale in funzione anticontadina, secondo argomenti genericamente diffusi in tutto il campo della sinistra politica e sindacale, ove però, nella quotidianità spesso drammatica delle lotte popolari, avevano ben altro valore e vigore: «La mafia si assunse il compito di allontanare i contadini dalle gare per l’acquisto delle terre, con le minacce e la violenza» (S. Aglianò, Che cos’è questa Sicilia?, cit., p. 39; un altro riferimento, ancor più frettoloso, è a p. 128).

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realtà, ma con argomenti, appunto, sicilianisti, quelli che con disinvoltura trasformano in dato della natura ciò che è un risultato storico. Lo scrittore sta parlando del «carattere» dei siciliani, incardinato, a suo dire, sui tratti dell’impulsività e della magnanimità: La natura stessa del siciliano porta a farsi un mito di tutte le qualità istintive e incondizionate: spicca di più, ad un certo punto, l’entusiasmo in se stesso e non l’energia concreta che si immedesima nell’opera, l’amore travolgente e non l’affetto solidale, la generosità come stato d’animo eroico e non come comprensione di circostanze particolari.23

Per non dire di certe relazioni «di cause ed effetto tra il paesaggio e la psiche», seppur avanzate con cautela, nella consapevolezza della loro improbabilità: «Ma è impossibile pensare ai siciliani senza vedere per riflesso l’aria mediterranea che li avvolge, la sagoma dei fichi d’india e delle piante tropicali, senza sentire quasi il profumo delle zagare, che d’estate addormentano i sensi in un nirvana senza risvegli»24. Ed è possibile trovare persino una convinta adesione alle tesi del Capuana di La Sicilia e il brigantaggio25, che è, come vedremo, una delle più vigorose e mistificanti risposte sicilianiste all’inchiesta di Franchetti e Sonnino. Ma vi è, di contro, un’interpretazione di Pirandello secondo un’ottica gramsciana26, quella che lo ancora alla realtà isolana, che è poi la stessa che Sciascia metterà alla base della sua idea di «sicilitudine»: di un Gramsci, quello dei Quaderni, che Aglianò non poteva conoscere perché ancora inedito. 23.  Ivi, p. 105. 24.  Ivi, p. 136. 25.  Ivi, p. 74. 26.  «L’ossessione degli eroi pirandelliani, bramosi di strapparsi dal volto la maschera che la società ha imposto loro, ha forse una preistoria inconscia nelle esperienze siciliane – le prime, le più valevoli – del loro autore» (ivi, p. 81).

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Il libro di Aglianò può essere assunto a caso emblematico: la letteratura siciliana post-unitaria è ricca di libri la cui natura ideologica, non solo genealogicamente, è alquanto complicata, se non contraddittoria. Ciò non autorizza però, lo ripetiamo, a confondere una nozione come quella di «sicilitudine» con quella di sicilianismo, quando si pensi poi che Leonardo Sciascia, lo scrittore che ha rigorosamente formulato tale nozione, è anche colui che, assai precocemente, ed in bella solitudine, in un saggio come Letteratura e mafia (1964), ha denunziato per primo le responsabilità del sicilianismo in certi silenzi, in certe apologie di tanti autori isolani, anche carissimi come Capuana, relativamente al fenomeno mafioso. Ma vediamo più da vicino in cosa consista tale «sicilitudine», richiamandoci al saggio, Sicilia e sicilitudine (1970) appunto, in cui vi si fa esplicito riferimento. Sciascia muove dall’assunto che la storia della cultura siciliana sia tutta da riscrivere e si colloca subito in una posizione mediana tra la tesi di eruditi e storici locali come Salomone Marino, Pitrè e Di Marzo, assertori della vivacità di tale cultura, e quella di Gentile che, nel suo celebre saggio sul tramonto della cultura siciliana, identificava, nell’opera di tutti costoro, l’immagine di una Sicilia «tagliata fuori dal movimento della cultura europea». Una convinzione che veniva a Gentile dal «carattere materialista della cultura siciliana», refrattaria «al romanticismo, all’idealismo e, in definitiva, al nazionalismo italiano»27. Su queste premesse, e sulla scorta degli Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré in Sicilia di Scipio Di Castro, messinese del XVI secolo, del discorso su Verga (1920) di Pirandello e del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Sciascia definisce i tratti del concetto di «sicilitudine», inteso come un modo d’essere non naturale, ma risultante «da particolari vicissitudini storiche e dalla particolarità degli istituti»28. 27.  L. Sciascia, La corda pazza, cit., pp. 965-966. 28.  Ivi, p. 962.

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Tratti che possono essere così formulati: una grande cautela negli affari privati e l’estrema temerarietà in quelli pubblici; l’insicurezza come «componente primaria della storia siciliana» per le continue invasioni dal mare, radice di «paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo»29; una specie di follia che tale insicurezza e vulnerabilità traduce in un singolare complesso di superiorità; una vocazione al separatismo ed all’indipendenza che, dando vita nei secoli a privilegi e franchigie, ha generato quella «coscienza giuridica astratta e involuta» che è alla base di quelle «facoltà causidiche e sofistiche» che già Cicerone attribuiva ai siciliani30; una radicale irreligiosità, e cioè, come si legge nel saggio Feste religiose in Sicilia (1965), una totale impermeabilità «a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica»31. Tutti i saggi della Corda pazza possono essere letti alla luce di tale sicilitudine, come una conferma di essa nelle pagine degli scrittori isolani, ma anche, viceversa, come una chiave d’accesso privilegiata a quelle stesse pagine: da Navarro della Miraglia a Francesco Lanza, da Vitaliano Brancati a Ignazio Buttitta, passando per Pirandello. Un tale concetto può farci meglio intendere certi passi, come questo che troviamo nel saggio Del dormire con un occhio solo, il quale funge da introduzione al I volume delle Opere di Brancati e che, all’apparenza, potrebbe essere indicato a sostegno dei detrattori di Sciascia. Lo scrittore sta parlando di un’idea di Sicilia riscontrabile in Brancati, una specie di “credenza” mai dismessa, anzi sempre più approfondita nel corso degli anni:

29.  Ivi, p. 963. 30.  Ivi, p. 965. 31.  Ivi, p. 1155.

32 Da questa “credenza” deriva, alla pagina di Brancati, un che di iniziatico, di segreto: una sintassi, una cifra che possono essere interamente sciolte da coloro, direbbe il Pitrè, che sono “dei medesimi pensamenti, del medesimo sentire di lui”: e cioè dai siciliani e da coloro che nella condizione siciliana sanno immedesimarsi per simpatia, per conoscenza. Non si tratta soltanto di una difficoltà strumentale: dialetto, struttura dialettale della frase, riferimenti a tradizioni ed abitudini, a particolarità storiche; si tratta, soprattutto, di una difficoltà “sentimentale”. Da ciò un margine di intraducibilità che, paradossalmente, si riduce (o si può ridurre) nelle traduzioni in altre lingue, ma si allarga per il lettore italiano che non sia passato, con attenzione e affezione, da Verga e Pirandello.32

Siamo di fronte ad uno Sciascia esoterico e reticente? Dobbiamo dare ragione a chi ha voluto parlare di lui come della vittima di una cultura dell’omertà33? Crediamo non sia assolutamente così e che, anzi, questo passo sia la più limpida dimostrazione dell’esatto contrario: tanto più, perciò, quest’ultima tesi ci risulta irritante. Sciascia sta semplicemente sostenendo che le pagine dei propri conterranei imbozzolano quasi sempre un nucleo che può essere compreso fino in fondo soltanto se si lascia affiorare quel sistema di sentimenti, giudizi, talvolta pregiudizi a cui ogni scrittore isolano, dopo Verga, ha sempre finito per richiamarsi, talvolta allusivamente, talvolta esplicitamente. Questa è, dunque, la sicilitudine: una condizione trascendentale che rende possibile un’interpretazione più autentica di certi libri; grazie ad essa possiamo avere una formidabile chiave d’accesso alla 32.  L. Sciascia, Del dormire con un occhio solo, intr. a V. Brancati, Opere. 1932-1946, a cura di L. Sciascia, Bompiani, Milano 1987, pp. IX-X. 33.  Cfr. l’intervista a Sebastiano Vassalli di Franco Marcoaldi: Il cigno e la mafia, in «la Repubblica», 5 novembre 1993, e quella di Simonetta Fiori a Pino Arlacchi: Quel cigno deve morire, ivi, 11 dicembre 1993; di Arlacchi vedi anche Stregato dalla mafia, ivi, 23 dicembre 1993.

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letteratura siciliana, certo non la sola, molto spesso non la più importante. Se questo è vero, l’operazione compiuta da Sciascia non può che essere l’esatto contrario di un atto di reticenza e omertà: anzi, è proprio grazie a tale nozione che Sciascia sa dar conto degli atteggiamenti reticenti, quando non apologetici, di tanti scrittori isolani, rispetto alla scottante questione della mafia, riesce a smascherarne l’insostenibile e agiografica ideologia sicilianistica. Questo è, infatti, il punto: quella di Sciascia è stata sempre un’etica che ha postulato, con rigore quasi matematico, un comportamento esattamente opposto a quello dell’omertà, un’etica che, con riferimento al titolo di un suo bellissimo romanzo, potremmo definire del candore34 e che lo costringeva ad affrontare i casi del mondo «senza prevenzioni, senza riserve», come scrisse del giudice Terranova in un intenso necrologio35. Un’etica, questa del candore – e della verità che del candore è figlia –, che visse con l’assillo di un imperativo categorico, fino ad arrivare a rompere, in nome di essa, i rapporti col carissimo amico Guttuso, in relazione ad una presunta dichiarazione di Berlinguer sui rapporti fra terroristi italiani e servizi segreti cecoslovacchi36. Abbiamo ora, ci pare, tutte le carte per distinguere rigorosamente il sicilianismo dalla sicilitudine. E la prima vistosa differenza tra i due concetti sta proprio nel fatto che la sicilitudine è lontanissima da ogni rappresentazione, non diciamo apologetica, ma addirittura indulgente, della Sicilia: una dimostrazione di ciò si può ravvisare nei violenti attacchi che Sciascia,

34.  Per la nozione di candore in Sciascia cfr. il nostro Storia di Sciascia, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 198-211, dove il lettore potrà trovare anche altri utili riferimenti bibliografici. 35.  L. Sciascia, A futura memoria, in Id., Opere. 1984-1989, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1991, p. 774. 36.  Sulla vicenda cfr. A. Maori, Leonardo Sciascia. Elogio dell’eresia, La Vita Felice, Milano 1995, pp. 84-89.

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nel corso degli anni, ha subito proprio da parte di alcuni intellettuali sicilianisti come Santi Correnti, storico della Sicilia dell’Università di Catania, che gli ha persino rimproverato di aver descritto i siciliani come «mafiosi, ignoranti, cretini e pazzi», quando non «indegni del nome di cristiani»37. Curiosa sorte questa toccata a Sciascia: di essere, nello stesso tempo, e per gli stessi scritti, accusato di omertà o di calunnia circa le cose di Sicilia. Ma torniamo alla questione del rapporto tra sicilianismo e sicilitudine, per dire che la vera e profonda differenza tra le due nozioni sta nel fatto che, mentre la prima si richiama ad un’idea metastorica della Sicilia, la seconda – citiamo di nuovo le parole di Sciascia – in quanto traduzione del modo d’essere dei siciliani, non rimuove mai il dato che tale modo d’essere sorga «da particolari vicissitudini storiche e dalla particolarità degli istituti». Si potrà certo discutere sulla persuasività di certe interpretazioni della storia della Sicilia, si potrà rifiutare, e con buone ragioni storiche, l’idea dell’isola sequestrata e tagliata fuori dallo sviluppo della civiltà occidentale, ma non si potrà mai affermare il carattere metafisico delle ipotesi di Sciascia. Il fatto poi che Sciascia, in Pirandello e la Sicilia (1961)38,

37.  S. Correnti, La Sicilia di Sciascia, Edizioni Greco, Catania 1977, p. 11. Il lettore ci perdonerà, ma non riusciamo a privarlo di tale citazione che raggiunge vertici di comicità quasi irresistibile. La troviamo in S. Correnti, Il contributo dei siciliani alla civiltà europea, Istituto Siciliano di Cultura Regionale, Catania 1972, p. 33: «È doveroso riconoscere che i peggiori nemici della Sicilia sono stati e saranno certi siciliani, tra cui scrittori di gran fama come Leonardo Sciascia, i cui articoli, generosamente ospitati dai grandi quotidiani del Nord, come il “Corriere della Sera” di Milano o la “Stampa” di Torino, sempre solleciti a pubblicare ciò che serva a dipingere sinistramente i siciliani, contribuiscono ad allontanare dalla Sicilia eventuali investimenti produttivi del capitale internazionale, poiché fanno ingiustamente considerare la Sicilia […] come terra di mafiosi e di delinquenti e di retrogradi, dove non valga assolutamente la pena di rischiare un investimento finanziario». 38. Cfr. L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia (1961), in Id., Opere. 1984-1989, cit., pp. 1043-1073.

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elabori questo suo concetto di sicilitudine con riferimento alle categorie che vengono fuori dal libro di Américo Castro, La realidad histórica de España, tradotto nel 1956 da Sansoni, dovrebbe invitare i suoi detrattori ad una qualche cautela.

3. Ancora due questioni Che Sciascia fosse ben consapevole della distinzione tra sicilianismo e sicilitudine è ben documentato da un passo del saggio Brigantaggio napoletano e mafia siciliana (1968), che vale la pena riportare per chiarire meglio i termini di un’altra questione non ignorabile. Sciascia sta riflettendo sulla differenza tra il brigantaggio meridionale non siciliano, sostanzialmente politico, e la criminalità mafiosa isolana: Come mai, dunque, non nasce un brigantaggio politico in Sicilia nonostante l’aperto disinganno succeduto, nello spirito pubblico, agli entusiasmi suscitati da Garibaldi? La ragione principale crediamo sia da ricercare nel «sicilianismo», cioè in quel complesso di sentimenti e risentimenti, di tradizioni e di istituzioni, che per secoli avevano più o meno efficacemente contrastato ogni attentato ai privilegi del Regno di Sicilia e, nell’ultimo periodo, la politica unitaria (di unione al Regno di Napoli) dei Borboni. […] E dentro il «sicilianismo» si agitava la formazione di una categoria sociale, se non di una classe, che approssimativamente si può dire borghese, borghese-mafiosa più esattamente, di cui è campione il Sedara del Gattopardo: la quale categoria vedeva nel parlamentarismo, o almeno nella macchina elettorale, quelle chances che lo Stato dei Borboni non offriva e non prometteva […]. In conclusione: identificando il «sicilianismo» in un corpus piuttosto confuso e contraddittorio di privilegi nazionali e di classe […], di tradizioni, di costumi, di abitudini ritenuti perfetti e superiori (e siamo nella dimensione della follia siciliana, che tuttora esiste ed esercita un suo fascino anche sui non siciliani), non è del tutto azzardato affermare che la mafia ne fosse il risul-

36 tato più conseguente al momento dell’Unità d’Italia (e oltre) e che addirittura riflettesse echi di una rivoluzione borghese limitata alla proprietà fondiaria; e da ciò la sua funzione in senso nazionale-unitario e il venir meno di quelle condizioni che davano luogo al brigantaggio nelle province napoletane.39

In sintesi: la mafia siciliana non seguì le orme del brigantaggio meridionale sanfedista e reazionario, filoborbonico, ma si trovò su posizioni di convinta adesione al movimento risorgimentale per effetto di una lunga storia sociale e ideologica di privilegi che fa capo, appunto, all’ideologia sicilianista ed alla vicenda di quella classe borghese-mafiosa che del sicilianismo fece la sua bandiera. Non staremo certo qui a discutere la fondatezza di questa ipotesi storiografica: ci limitiamo solo a notare, e il lettore lo constaterà da sé, che il binomio letteratura e mafia, in Sicilia, nasce proprio nella conferma di tale dato, e cioè della stretta connessione tra rivoluzione garibaldina e criminalità mafiosa. Una cosa, però, bisogna aggiungere: se la Sicilia, almeno fino a Salvatore Giuliano, non conoscerà un brigantaggio politico paragonabile a quello delle altre regioni meridionali, conoscerà invece un brigantaggio abbastanza cruento, la cui storia s’intreccerà spesso con quella della mafia, anche se subirà, con una certa tempestività, durissimi colpi: basti solo pensare alla campagna del prefetto di Palermo Malusardi, voluta nel 1877 dal ministro dell’Interno Nicotera, la quale condusse alla cattura e all’uccisione di alcuni banditi, tra cui il terribile Leone. Un brigantaggio che, comunque, già nel 1886, il poliziotto-­ criminologo Giuseppe Alongi, nel suo celebre testo La maffia nei suoi fattori e nelle sue manifestazioni, considerava esaurito, e condannato all’estinzione dalla stessa mafia40.

39.  L. Sciascia, La corda pazza, cit., pp. 1033-1034. 40.  Sui rapporti ambigui intrattenuti dalla mafia con le bande brigantesche, sulla rapidità di essa nel dissociarsi dai briganti a fronte della stretta repressiva dello Stato, sulla sua capacità di volgere i suoi interessi dal sequestro

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Questo brigantaggio ha lasciato profonda traccia nella storia della letteratura siciliana, non di rado incrociando il tema che ci interessa, quello della mafia. E basterebbe pensare, in un arco cronologico piuttosto ampio e citando a caso, ancora al Masnadiere siciliano (1841) di Vincenzo Linares, alla Storia di un brigante (1931) di Nino Savarese, a Vera storia di Salvatore Giuliano (1963) di Ignazio Buttitta dedicato al celebre bandito, per arrivare sino al Pasquale Sciortino di Zagare arance e limoni (1974), romanzo scritto in carcere dal cognato dello stesso Giuliano. Lo schema ideologico che questo tipo di opere spesso ripropongono è quello che viene formalizzato da Linares a proposito del bandito, realmente esistito, Testalonga: il protagonista conduce inizialmente una vita retta ed onesta fino a quando non subisce un grave torto, a causa del quale si macchia di un omicidio riparatore ed è costretto a darsi alla macchia, associandosi a bande di briganti o addirittura costituendole. Uno schema senz’altro debitore di tanta letteratura romantica europea, secondo una tipologia dell’eroe protettore dei deboli e degli oppressi che risale a Schiller. Fedeli ai limiti semantici che ci siamo imposti, non ci occuperemo di opere dedicate al brigantaggio, ma solo di quelle i cui protagonisti sono mafiosi. Non bisognerà dimenticare, però, che l’ideologia mafiosa si approprierà non di rado di questo mito brigantesco: a noi il dovere, ogni volta, di registrarlo. Già: l’ideologia mafiosa. Ha scritto Salvatore Lupo: io credo che esista un’ideologia mafiosa che riflette i codici culturali ma soprattutto per deformarli, riappropriarsene, farne un complesso di regole tese a garantire la sopravvivenza dell’organizzazione, la sua coesione, la sua capacità di trovare consenso, di incutere terrore all’interno e all’esterno.41 di persona alla gabella e alla guardianìa di feudi e giardini, si veda almeno S. Lupo, Storia della mafia, cit., pp. 38-47. 41.  Ivi, pp. 107-108.

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Un’ideologia che spesso maschera e nobilita, nella realtà storica, comportamenti ben diversi, se non addirittura opposti: e Lupo lo ha sostenuto assai bene in molti luoghi del suo libro, a proposito del valore dell’omertà, sempre contraddetto dai mafiosi in tutti i processi di mafia che sono approdati ad un qualche risultato, o in relazione al rispetto di un presunto codice cavalleresco, molto spesso smentito da azioni crudelissime. Questa ideologia, aggiungiamo, ha una notevole forza d’attrazione centripeta nei confronti della tradizione non solo popolare dell’isola, di testi e documenti che hanno una genea­ logia culturale ben diversa da quella che ci interessa: è il caso della leggenda dei Beati Paoli che verrà praticamente riscritta secondo i parametri di una concezione mafiosa nel celebre romanzo d’appendice di William Galt, pseudonimo di Luigi Natoli, I Beati Paoli appunto, apparso a puntate sul «Giornale di Sicilia» dal 6 maggio 1909 al 2 gennaio 1910. Gli studiosi hanno ancora molti dubbi sulla storia di questa leggendaria setta giustiziera e vendicatrice degli indifesi, sul fatto che di storia si possa parlare. Francesco Renda ha scritto un bel libro sull’argomento42, che va ad integrare, talvolta a correggere e rettificare, quello, altrettanto avvincente, altrettanto documentato, di Francesco Paolo Castiglione, del Renda assai più propenso a scommettere sull’esistenza della setta43. Il libro di Renda, infatti, con l’ausilio di una vasta appendice documentaria, più che una storia della setta, è uno studio, attentissimo di tutte le testimonianze che della setta si conoscono, dalla Breve Cronica di un Anonimo Monaco Cassinese del 1185 fino a Li Biati Pauli raccontati da Francesca Campo sua serva di Salvatore Salomone Marino, raccolto nel quarto volume delle

42.  F. Renda, I Beati Paoli. Storia, letteratura e leggenda, Sellerio, Palermo 1988. 43.  F.P. Castiglione, Indagine sui Beati Paoli, Sellerio, Palermo 1987.

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Fiabe novelle e racconti popolari raccolti e illustrati da Giuseppe Pitrè (1875), passando, citiamo solo gli autori dei testi più recenti, per il marchese di Villabianca, Giovanni Evangelista Di Blasi, Vincenzo Linares, Carmelo Piola, Benedetto Naselli e Giuseppe Bruno Arcaro. Ne viene fuori una vicenda che affonda le sue radici nel clima culturale del Romanticismo europeo, filtrato attraverso l’opera di Goethe e Heine, quello che riconduceva ai tribunali della Santa Fema, attivi in Germania fra il XIII e il XVII secolo. Una vicenda che contraddice decisamente il luogo comune che vede nei Beati Paoli un’associazione protomafiosa. Con I Beati Paoli di Luigi Natoli tutto cambia. La leggenda incontra felicemente l’ideologia sicilianista, di cui il romanzo, come è stato detto, diviene una specie di «valvola di sfogo»44. Nasce quell’immagine della setta che è ancora oggi quella più nota ai siciliani. Ricordiamone la trama: il protagonista è Blasco, un orfano abbandonato, ma d’origine nobile ed erede di un grande patrimonio che gli è stato usurpato dal malvagio zio che ne ha ucciso la madre ed ha anche tentato di eliminarlo proprio al momento della nascita; salvato da fedeli servitori che lo affidano ad un frate, il ragazzo, cresciuto in convento, ritorna poi a Palermo ove, dopo una lunga serie di rocambolesche avventure, viene preso sotto la protezione dei Beati Paoli, la misteriosa setta i cui membri, incappucciati di nero, nottetempo, su mandato di un tribunale segreto che si riunisce nei sotterranei, vendicano dei soprusi subiti chi non si può difendere; saranno i Beati Paoli ad infliggere al malvagio zio la punizione che si merita, reintegrando il giovane nei suoi diritti e nel suo patrimonio. Siamo, come si vede bene, al mito di un’associazione segreta nata per vendicare i deboli e per portare giustizia laddove giustizia non c’è: un mito tenacissimo di cui l’ideolo-

44.  S.M. Ganci, La nazione siciliana, cit., p. 180.

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gia mafiosa si impadronirà subito e che dovremo tener sempre ben presente. Non ci stupisce punto ascoltare dalla bocca di Masino Buscetta parole come queste: «La mafia non è nata adesso: viene dal passato. Prima c’erano i Beati Paoli che lottavano coi poveri contro i ricchi, poi i carbonari: abbiamo lo stesso giuramento, gli stessi doveri»45.

45.  Cfr. E. Biagi, Il boss è solo, Mondadori, Milano 1986, p. 200.

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Capitolo II

Mafia (basta la parola)

1. Un racconto di Sciascia Per chi voglia interrogarsi sul termine mafia da un punto di vista linguistico, ideologico e storico-letterario, non c’è di meglio che rileggere uno splendido racconto di Leonardo Sciascia, pubblicato nel 1964 in un libro a più voci dalla milanese Nuova Accademia, Sette piaghe d’Italia, poi inserito nella raccolta Il mare colore del vino (1973): Filologia. Si tratta di un testo tanto più significativo, in quanto i due anonimi protagonisti che discettano sul concetto in questione, con argomenti di sottile filologia, sono accomunati da un sentimento delle cose del mondo che possiamo definire, appunto, mafioso, e che, come si evincerà dallo sviluppo del racconto, dall’allusione a precise vicende criminali, risultano effettivamente affiliati ad una qualche cosca. La disputa tra i due non cade per caso: la mafia è diventata una faccenda così rilevante per l’opinione pubblica nazionale che in parlamento si è appena costituita un’apposita commissione antimafia, dalla quale uno dei due dovrà essere, di lì a poco, convocato. I personaggi non sono di medesima estrazione sociale: il primo dice di aver fatto la sua università «in mezzo alle pecore» e aspetta dal secondo, a cui si rivolge con riverenza, qualche lume sul comportamento

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da tenere durante l’interrogatorio; il secondo è uomo di larga cultura, informatissimo ma causidico, uno di quei “galantuomini” da appellare col “don”, presumibilmente un onorevole, se manifesta al suo interlocutore il desiderio di essere anch’egli ascoltato dalla commissione, se è costretto a presidiare pubbliche manifestazioni: di certo, come lui stesso riferisce, aveva ricevuto la carica di sindaco dagli americani nel 1943. Vale la pena di indugiare un attimo sulle prime battute del racconto: “Lei crede che venga dall’arabo?” “Molto probabilmente, mio caro, molto probabilmente… Ma, in materia di parole, c’è scienza tutt’altro che sicura: da dove vengono, qual è la strada che hanno fatto, i significati che hanno mutato: una confusione d’inferno… Questa è poi una di quelle parole su cui si possono dire le più diverse fesserie; fesserie dotte, fesserie che hanno tutte una loro logica… Il fatto è che ognuno, prima di vedere qual è l’origine della parola, cerca di sapere il significato che in atto ha: e qui cominciano i guai; ché chi ritiene che la parola significhi uno stato d’animo se ne va per una via, e chi invece ritiene significhi uno stato di fatto ne imbocca un’altra… Ecco il Petrocchi, che scrive la parola con due effe, all’italiana: ‘Unione di persone d’ogni grado e d’ogni specie che si danno aiuto nei reciproci interessi, senza rispetto né a leggi, né a morale’; e la mette in relazione, ma con molta incertezza, all’antico francese mafler, da cui maflé e maflu: mangiare, ingozzarsi…”.1

Come si vede bene, il nostro “galantuomo” imbroglia subito le carte, distinguendo i possibili «stati d’animo», che la parola starebbe ad indicare, dagli eventuali «stati di fatto», e come disponendosi, con sottigliezza, a vanificare il concetto stesso di mafia, quasi per saturazione, per moltiplicazione di significati, allineando, innanzi tutto, le diverse definizioni che

1.  L. Sciascia, Filologia, in Id., Opere. 1956-1971, cit., p. 1324.

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del fenomeno sono state date, comprese quelle che escono dai dizionari più accreditati. Un’operazione che, lo si capisce, attraverso la vanificazione del concetto mira alla negazione della cosa stessa: quello che si sperava sarebbe accaduto in seno alla commissione antimafia stessa. Ecco, allora, nelle parole dell’onorevole, accanto ad un Petrocchi che riconduce il termine all’antico francese mafler, un Fanfara il quale, insieme allo Zambaldi e al Rigutini, lo fa derivare dall’arabo maehfil, nel senso di «adunanza e luogo di adunanza»2. C’è poi la definizione del Palazzi, nella prima parte copiata pari pari dal Petrocchi, ma con un’aggiunta che manda in deliquio i nostri personaggi: «‘non sempre la mafia ha per fine il male, ma i mezzi che essa usa sono sempre illeciti; era diffusa un tempo in Sicilia’»3. Si tratta, osserva il notabile compiaciuto, della definizione di uno che si è fidato di “galantuomini”, non solo perché precisa che la mafia non ha sempre come fine il male, ma perché, collocandola in un passato remoto, ne sancisce di fatto l’inesistenza nel presente, che è, per il Palazzi, il 1948. Le cose, per i nostri due personaggi, non mutano nei testi degli autori siciliani che registrano la parola per la prima volta nel 1868, con il Traina, il quale, osserva lo stesso notabile, «la dà come nuova, forse proveniente dal toscano smàferi, che vuol dire sgherri», aggiungendo pure che in Toscana, cosa che fa irritare l’ignorante interlocutore del “galantuomo”, «maffia vuol dire miseria»: «‘e miseria vera è credersi grand’uomo per la sola forza bruta, ciò che mostra invece gran brutalità, cioè l’essere gran bestia’». Ma il Traina si riprende subito dal suo scivolone e registra quel significato, tanto caro ai nostri due anonimi personaggi, che sarà poi superbamente sviluppato,

2.  Ivi, p. 1327. 3.  Ibidem.

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come vedremo, dal Pitrè: la mafia è anche «‘sicurtà d’animo, apparente ardire: baldanza’»4. Definizione, quest’ultima, piegata ad un senso ancor più apologetico da Padre Gabriele Maria da Aleppo che, nel saggio Le fonti arabiche nel dialetto siciliano, scritto col suo discepolo G.M. Calvaruso, faceva derivare il sostantivo da mohafat («difendere»), hofuat («la miglior parte di una cosa») e mohafi («amico riconoscente»): la parola mafia in origine dovette avere il valore di protezione contro le soperchierie dei potenti, esenzione da qualunque

4.  Ivi, pp. 1327-1328. Non ci pare inutile, a documentare la prima ricostruzione etimologica del termine fatta in Sicilia, riportare per intero le definizioni di Mafia, Mafiarisi, Mafiusu, fornite da A. Traina nel suo Nuovo Vocabolario (1868): «Mafia, s. f. Neologismo per indicare azione, parole o altro di chi vuol fare il bravo: sbracerìa, braveria. // Sicurtà d’animo, apparente ardire: baldanza. // Atto o detto di persona che vuol mostrare più di quel che è: pottata. // Insolenza, arroganza: tracotanza. // Alterigia, fasto: spocchia. // Nome collettivo di tutti i “mafiusi”. (Smàferi si chiaman in Toscana gli sgherri; e maffia dicon alla miseria, e miseria vera è il credersi grand’uomo per la sola forza bruta; ciò che mostra invece gran brutalità, cioè l’essere grande bestia)»; «Mafiarisi, v. intr. pron. Mostrarsi valente o sbravazzone: sbravazzone, sbracciare; e in men tristo senso far il bravo dinanzi il pericolo: braveggiare, bravare, // “mafiarisi cu uno”: pigliare baldanza addosso a uno»; «Mafiusu, s. m. Chi opera e si mostra con “mafia”: sbracione, bravaccio, sbarazzino. // v. “Vappu”. // Di cosa buona, eccellente nel suo genere: smàfero. // Tracotante. // Ardito, valente: sgherro. // In buono senso: baldo, baldanzoso. // Che affetta grandigia, spocchia: spocchioso. // Detto di abito, bello, ricco, ecc.: sgherro. // Valente, bravo, esperto: bàrbero, sgherro». Come si vede bene, si tratta di definizioni assai dense di implicazioni: per ora ci pare utile sottolineare la sottile vena sicilianistica della voce mafia, non solo per taluni accenti apologetici che, lo ripetiamo, troveranno sviluppo nelle pagine di Pitrè, quanto per il sospetto che la voce, nella sua accezione negativa, abbia un’ascendenza non isolana ma, addirittura, toscana. Tale vena troverà ben più grasso alimento nel Nuovo dizionario siciliano-italiano del Mortillaro, nella terza edizione (1881), quando, dopo aver ignorato il termine nelle due precedenti del 1838 e 1862, lo definisce «voce piemontese», dai piemontesi introdotta nel resto d’Italia per significare «camorra».

45 legge sociale, riparo da qualunque danno, forza, robustezza di corpo, serenità d’animo, riconoscenza e gratitudine verso chi faceva dei benefizi da un canto, e dall’altro la parte migliore e più squisita di ogni cosa, ciò che corrisponde a quanto dice il Pitrè.5

Tali e tante sono le definizioni fornite, i tentativi di ricostruzione etimologica che, per continuare il giuoco, potremmo citare quelle suggerite da due altri scrittori siciliani: il palermitano Giuseppe Guido Loschiavo, che ricava il termine dall’arabo màha (cava di pietra), i luoghi ove «si erano dati convegno o vi si erano rifugiati i fautori dell’Unità d’Italia e gli organizzatori occulti delle squadre rurali di appoggio a Garibaldi»6; il catanese Vittorio Frosini che propende, invece, per una filiazione dal nome della tribù araba Ma afir, «che governò la città di Palermo nel periodo della dominazione dei mussulmani in Sicilia»7. Tali, insomma, che già nel 1959 il Novacco poteva allinearne parecchie, senza giungere, per altro, ad una spiegazione che lo persuadesse8. Pare certo, comunque, che il termine mafia, per indicare «associazione malandrinesca», sia stato impiegato per la prima volta nel 1865, dal prefetto di Palermo Filippo Gualterio, in un rapporto datato 25 aprile inviato al ministro dell’interno9, benché di tale “associazione”, in quanto setta «senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo», qualcosa si sapesse già nel 1838, come risulta da una relazione sullo stato economico e sociale della Sicilia inviata

5.  Ivi, p. 1328. 6.  G.G. Loschiavo, 100 anni di mafia, Vito Bianco, Roma 1962, p. 29. 7.  V. Frosini, Mitologia e sociologia della mafia, in V. Frosini - F. Renda L. Sciascia, La mafia. Quattro studi, Massimiliano Boni Editore, Bologna 1970, p. 19. 8.  D. Novacco, Considerazioni sulla fortuna del termine «mafia», in «Belfagor», XIV, n. 2, 1959, pp. 206-212. 9.  Cfr. S.F. Romano, Storia della mafia, Mondadori, Milano 1966, p. 115.

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al ministro della giustizia da don Pietro Ulloa, procuratore generale a Trapani10. Abbiamo più volte citato il nome dell’etnologo Giuseppe Pitrè: e proprio nel nome di questo intellettuale palermitano si chiude, non a caso, la conversazione tra i due personaggi del racconto di Sciascia. Chi parla è, al solito, il notabile: “[…] Dunque: il Pitrè dice che la parola mafia, quale che sia la sua origine, anche se registrata per la prima volta nel 1868 […] esisteva prima della venuta di Garibaldi… E che esistesse anche la cosa, cioè l’associazione, è provato dal fatto (aggiungo io) che i mafiosi della Vicaria, quei mafiosi che erano chiusi in prigione, fecero nel 1860 un proclama, rivolto agli amici che erano liberi, in cui raccomandavano che si comportassero bene, che non commettessero furti, rapine e omicidi che i Borboni potessero di fronte al mondo, per propaganda come oggi si dice, attribuire alla rivoluzione garibaldina…” “Questa non la sapevo”. “Ci sono tante cose che non sai, e che è bene sapere… La cultura, mio caro, è una gran bella cosa…”.11

Conclusione densissima: e ne viene fuori, nel discorso di un personaggio che si è appena definito “persona d’ordine”, un’idea della mafia come associazione i cui membri, non di rado, hanno conosciuto i rigori della Vicaria, le carceri palermitane dell’Ucciardone fatte costruire nel 1837 da Ferdinando II di Borbone, ma che non hanno mai perso il rapporto con l’esterno, un’associazione, insomma, sul modello di quella che si palesa nella commedia di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca I mafiusi di la Vicaria di Palermo (1863), la commedia che proprio il Pitrè aveva indicato come fonte del nuovo significato malandrinesco assunto dal sostantivo “mafia” dopo l’Unità 10.  Cfr. L. Sciascia, Letteratura e mafia (1964), in Id., Opere. 1971-1983, cit., pp. 1107-1108. 11.  L. Sciascia, Filologia, cit., p. 1330.

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d’Italia. E ne viene fuori pure un legame alquanto stretto tra le fortune dell’associazione malandrinesca e quelle della «rivoluzione garibaldina»: constatazione di non poco conto per chi, come noi, stia verificando i diversi paradigmi interpretativi del fenomeno offerti dalle opere letterarie. Ma andiamo con ordine: è giunto il momento di esaminare attentamente le pagine che i due mafiosi del racconto considerano come l’ultima e decisiva parola sull’argomento, pagine, aggiungiamo, che tanto conteranno nella letteratura siciliana successiva: quelle che, sotto il titolo La mafia e l’omertà, occupano una parte non irrilevante del II volume degli Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano di Giuseppe Pitrè, pubblicato a Palermo nel 1889.

2. Sotto la lente di Pitrè L’etnologo prende subito atto del tanto che è stato scritto sull’argomento negli ultimi vent’anni, ma la sua convinzione, circa la presenza ed il significato della parola a Palermo, è ben diversa da quella che registrano i vocabolari: La voce mafia (con una, e non già con due effe, come si scrive fuori della Sicilia) è tutt’altro che nuova e recente: e se nessun vocabolarista anteriore al Traina – il primo e forse il solo che la registri – la riferisce, ciò non può autorizzare nessuno a ritenerla posteriore al 1860, come molti han presunto, I nostri vocabolari, formati in gran parte su’ poeti siciliani, non danno se non la più piccola parte della lingua popolare; e basta dire che parecchie migliaia di voci, di sinonimi e di frasi e modi proverbiali della presente opera nessuno di essi le riporta. Se mafia derivi o abbia parentela col toscano maffia miseria, o col francese maufe o meffler, non mi preme di vedere qui. Io sono pago di affermare la esistenza della nostra voce nel primo sessantennio di questo secolo in un rione di Palermo, il Borgo, che fino a vent’anni addietro facea parte

48 per se stesso, e si reputava, qual era tipograficamente, diviso dalla città.12

Qual era, dunque, il significato del termine mafia in quel rione, discosto dal centro della città, e come separato da essa, in cui il poeta Meli, spesso, aveva cercato ispirazione per i suoi versi dialettali? Un significato assai lontano da quelli che erano stati avanzati fino alla pubblicazione dell’opera di Pitrè: al Borgo la voce mafia coi suoi derivati valse e vale sempre bellezza, graziosità, perfezione, eccellenza nel suo genere. Una ragazza bellina, che apparisca a noi cosciente di esser tale, che sia ben assettata (zizza), e nell’insieme abbia un non so che di superiore e di elevato, ha della mafia, ed è mafiusa, mafiusedda. Una casetta di popolani ben messa, pulita, ordinata, e che piaccia, è una casa mafiusedda, ammafiata, come è anche ’nticchiata. Un oggetto di uso domestico, di qualità così buona che s’imponga alla vista, è mafiusu: e quante volte non abbiam tutti sentito gridare per le vie frutta, stoviglie mafiusi, e perfino le scope: Haju scupi d’ ’a mafia! Haju chiddi mafiusi veru!… All’idea di bellezza la voce mafia unisce quella di superiorità e di valentia nel miglior significato della parola e, discorrendo di uomo, qualche cosa di più: coscienza d’esser uomo, sicurtà d’animo e, in eccesso di questa, baldezza, ma non mai braveria in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza. L’uomo di mafia o mafiusu inteso in questo senso naturale e proprio non dovrebbe metter paura a nessuno, perché pochi quanto lui sono creanzati e rispettosi.13

Ricostruzione etimologica, questa del Pitrè, di straordinaria importanza, di straordinaria impudenza, si direbbe, o di straordinario orgoglio, se si vuole, soprattutto a fronte di quello che era stato l’aspro dibattito sull’emergenza “mafia” che ave12.  G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Pedone Lauriel, Palermo 1889, vol. II, p. 289. (Citiamo dalla ristampa anastatica dell’editore Forni di Bologna). 13.  Ivi, pp. 289-290.

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va coinvolto l’intera nazione, a partire da quel moto d’indignazione dell’opinione pubblica che avrebbe portato all’inchiesta parlamentare del 1875, meglio nota come Inchiesta Bonfadini14 ed a quei vigorosi documenti che sono Le lettere meridionali (1875) di Pasquale Villari15 e le Condizioni politiche e amministrative della Sicilia (1877) di Leopoldo Franchetti16, testo su cui occorrerà tornare. Il termine mafia, nella sua più autentica origine, notava il Pitrè, non ha niente a che vedere con quello che, da mane a sera, la stampa “continentale” sbandierava, ma ha come sinonimi i sostantivi di bellezza, graziosità, perfezione ed eccellenza, quando poi lo si impiega per qualificare la particolare natura di un uomo, essa implica un senso «di superiorità e di valentia», una certa sicurezza d’animo, uno spiccato e fiero sentimento della propria umanità che, posseduto in eccesso, può condurre sì ad una qualche «baldezza», ma mai ad un comportamento arrogante e tracotante: rigorosamente parlando, dando cioè ad ogni parola il suo giusto significato, non esiste uomo più creanzato e rispettoso del mafioso17.

14.  Parzialmente pubblicata nel testo: S. Carbone - R. Grispo (a cura di), L’inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-1876), Cappelli Editore, Bologna 1968, 2 voll. 15.  P. Villari, Le lettere meridionali (1873), a cura di F. Barbagallo, Guida, Napoli 1979. 16.  L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia (1877), intr. di P. Pezzino, Donzelli, Roma 1993. 17.  Paolo Pezzino, nel suo Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, in M. Aymard - G. Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia, cit., p. 925, ha opportunamente osservato, sulla base di numerose testimonianze documentali, che Pitrè, in questa sua articolata ricostruzione etimologica, non fa che confermare «una posizione già elaborata a livello di classi dirigenti siciliane e di opinione pubblica», quella che troviamo perfettamente esemplata nel verbale dell’interrogatorio del marchese Antonio Starrabba Di Rudinì, tenuto a Roma il 10 marzo 1876: «Ma che cos’è questa maffia? […] io dico anzi tutto ci è una maffia benigna. La maffia benigna è quella specie di spirito di braveria, quel non so che di disposizione a non lasciarsi soverchiare,

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Non c’è che dire: Pitrè nega che, nel suo significato corretto, il sostantivo “mafia” possa indicare una qualche associazione a delinquere, lo riporta piuttosto ad un aspetto di un ipotetico “carattere” siciliano, rovesciandolo completamente di segno, per guadagnarlo ad un vocabolario di onore e dignità, di civiltà. Non poteva, però, far finta di niente in relazione a ciò che tale termine, come dicevamo, rappresentava ormai per la comunità nazionale, se non altro per la presenza di un documento letterario, per giunta siciliano, che quel concetto ma piuttosto soverchiare, quel fare del “farceur” come dicono i francesi. Dunque maffioso benigno per dir così potrei esserlo anche io, io non lo sono, ma insomma lo può essere anche qualunque persona che si rispetti, e che abbia una certa alterezza esagerata, e quella disposizione, come dissi poc’anzi, a non lasciarsi sopraffare, quella volontà di mostrarsi coraggioso, di esporsi alle lotte, e via discorrendo». Una mafia «benigna», si aggiunga, da opporre risolutamente a quella «vera associazione di malfattori», cementata dalla «solidarietà del delitto», che per il Di Rudinì prospera in tutti i luoghi e in tutti i tempi (ivi, p. 922). Altro interessante documento riportato da Pezzino è una parte della quinta di quattordici lettere pubblicate nell’agosto-­settembre 1874 sulla «Gazzetta d’Italia», che affrontavano la spinosa questione dell’ordine pubblico in Sicilia: «La mafia però non è un’associazione propriamente detta; o almeno non sempre; anzi di radissimo è tale. Chiunque o per vigoria di corpo o per superiorità di mente, o per altri pregi appariscenti, si senta in grado di imporsi agli altri […] si atteggia a mafioso […]. Questa è in un certo modo, la mafia buona, per lo più innocua e talvolta anche giovevole, quando le mire e le inclinazioni del capo non sono disoneste e perverse» (ivi, pp. 925-926). Non sarà inutile aggiungere che, subito dopo l’unificazione, parte della cultura siciliana si trovò impegnata, contro il governo piemontese, a difendere gli interessi dell’isola nella convinzione che molta della delinquenza locale potesse essere moralmente e socialmente recuperabile: significativi, in questo senso, i libri di V. Macaluso, Rimostranze al governo (1861), e A. Battaglia, Poche idee intorno alla questione politica se la Sicilia nell’attualità deve o no governarsi con misure eccezionali (1861). In una prospettiva simile, entro un discorso che condanna sul piano etico e giuridico la mafia, assolvendola da un punto di vista politico e sociale, si veda il libro, di anonimo, Profili e fotografie per collezioni (1878), ove si può trovare un’interpretazione del delinquente siciliano tutta in chiave passionale, cavalleresca e teatrale.

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avanzava in modo inequivocabile, avvolto in una luce tutta malandrinesca. Di qui, il prosieguo del suo discorso, ove è da notare l’incredibile e disinvolto incipit, mirabilmente giuocato sull’avverbio «disgraziatamente», quasi che tutto quello che sia avvenuto poi, circa il significato del termine, debba come ascriversi ad una specie di ineluttabile fatalità: Ma disgraziatamente dopo il 1860 le cose hanno mutato aspetto, e la voce mafiusu per molti non ha più il significato originario e primitivo. L’anno 1863 un artista drammatico palermitano, Giuseppe Rizzotto, in compagnia d’un signor Mosca, scrisse e cominciò a rappresentare egli stesso alcune scene della vita delle Grandi Prigioni di Palermo, alle quali dié il titolo: I Mafiusi di la Vicaria.18

Rizzotto e Mosca, insomma, per lo straordinario successo della loro opera19, sono i veri responsabili di quel significato della parola che «sta a dinotare uno stato di cose che aveva altro nome»: Esso divenne sinonimo di brigantaggio, di camorra, di malandrinaggio, senza essere nessuna delle tre cose o stato di cose, poiché il brigantaggio è una lotta aperta con le leggi sociali, la camorra un guadagno illecito sulle transazioni economiche, il malandrinaggio è speciale di gente volgare e comunissima, rotta al vizio e che agisce sopra gente di poca levatura.20

18.  G. Pitrè, Usi e costumi, cit., p. 290. 19.  Così, ancora, il Pitrè: «Poche commedie ebbero tanta fortuna quanto ne trovò questa in Italia, dove nel corso di ventitré anni conta più di duemila rappresentazioni date in molti teatri delle province meridionali, oltre a trentaquattro repliche in Roma (1884), ad una versione napoletana e ad un’altra italiana in tre atti del Rizzotto stesso» (ivi, p. 291). 20.  Ibidem. A proposito delle responsabilità della commedia di Rizzotto e Mosca nell’autorizzare una falsa idea dell’esistenza della mafia come associazione a delinquere, ancora Paolo Pezzino ha documentato come questo fosse parere molto diffuso e basti leggere, per rendersene conto, le dichia-

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E allora: se la mafia non coincide che nessuna di queste tre forme di criminalità, qual è la sua vera natura, in questa nuova forma malandrinesca testimoniata dai due drammaturghi? La risposta del Pitrè, estremamente articolata, non è esente da un ulteriore tentativo di anestetizzazione del fenomeno, di normalizzazione di quei fatti criminali dei quali, invece, l’opinione pubblica nazionale aveva denunciato la clamorosa eccezionalità. Il passo è di tale importanza che va riportato per intero. Leggiamo, non senza registrare nel Pitrè un certo sentimento di fastidio per quel che fuori di Sicilia sulla mafia si dice, quasi a lasciare intendere che molto di ciò sia frutto del puro pregiudizio: Che cosa sia io non so dire; perché nel significato che questa parola è venuta ormai a prendere nel linguaggio officiale d’Italia è quasi impossibile il definirla. Si metta insieme e si confonda un po’ di sicurtà di animo, di baldanza, di braveria, di valentia, di prepotenza e si avrà qualche cosa che arieggia la mafia, senza però costituirla.

Ma ecco il punto più interessante, quello che nega la qualità di associazione a delinquere della mafia, nonostante si fornisca poco più avanti, come vedremo, tutta una serie di elementi che della mafia come fatto associativo sembrano l’eclatante conferma: La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola la qualità di mafioso è stata applicata al ladro ed al malandrino, ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto il tempo di ra-

razioni dei sindaci di Catania e Messina riportate nell’Inchiesta Bonfadini: il facente funzione di sindaco di Messina, Giuseppe Simeone, era arrivato addirittura a proporre al prefetto di vietare la rappresentazione del dramma (cfr. P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, cit., pp. 925926).

53 gionare sul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è semplicemente un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso; nel qual senso l’esser mafioso è necessario, anzi indispensabile.21

Come si vede, la qualità di mafioso è ancora una volta declinata dal lato del coraggio e della dignità, in una certa luce di nobiltà, sia pure dentro un’eccessiva considerazione del proprio ego, ma sempre nel segno di una peculiare idea di giustizia, non importa se fraintesa ed alternativa a quella assicurata dello Stato: La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, “unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e di idee”; donde l’insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui. Il mafioso vuole essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso, non ricorre alla Giustizia, non si rimette alla Legge; se lo facesse, darebbe prova di debolezza, e offenderebbe l’omertà, che ritiene schifiusu o ’nfami chi per aver ragione si richiama al magistrato.22

Passo, questo, che, pur nel suo tono quasi apologetico, apre la strada ad un’interpretazione del fenomeno mafioso come ridiscussione, se non negazione vera e propria, di quel monopolio della forza, per la difesa della sicurezza di tutti, che dovrebbe essere esercitato dallo Stato: interpretazione che, per altro, era stato uno dei risultati forti dell’inchiesta di Franchetti23. Un 21.  G. Pitrè, Usi e costumi, cit., p. 292. 22.  Ibidem. 23.  Scriveva L. Franchetti, nelle sue Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, cit., p. 7: «La violenza va esercitandosi apertamente, tranquillamente, regolarmente; è nell’andamento normale delle cose». E ancora: «se si va a ricercare il primo fondamento dell’influenza di chi ha un potere reale, lo si trova inevitabilmente nel fatto o nella fama che quella tale persona ha possibilità, direttamente o per mezzo di terzi, di usare violenza» (ivi, p. 11). E più avanti: «L’amministrazione governativa è come accampata in mezzo

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passo, aggiungiamo, ove è da rimarcare quella notazione, che è come un’implicita e fulminea smentita del proprio discorso apologetico, nel punto in cui si accenna che il mafioso rispetta sì gli altri, ma «quasi sempre»: che è come vincolare la nozione di rispetto ad un’arbitrarietà di fatto assoluta, quella che poggia sul puro capriccio del mafioso stesso. Ma veniamo ai passaggi più interessanti, quelli dove, appunto, la natura associativa del fenomeno criminale, poco prima negata, finisce invece per essere implicitamente ammessa in base ad una precisa serie di osservazioni. Pitrè sta ancora parlando della figura del mafioso: Egli sa farsi ragione personalmente da sé, e quando non ne ha la forza (nun si fida), lo fa col mezzo di altri de’ medesimi pensamenti, del medesimo sentire di lui. Anche senza conoscere la persona di cui si serve ed a cui si affida, il solo muover degli occhi e delle labbra, mezza parola basta perché egli si faccia intendere, e possa andar sicuro della riparazione dell’offesa o, per lo meno, della rivincita. Chi non ha la forza o l’abilità di farsi giustizia da sé e ricorre ad un altro o ad altri ne’ quali riconosce forza e coraggio (cci abbasta l’arma), il che si dice fàrisi la cosca, è un vigliacco, un carugnuni; perché, che cosa è un uomo senza forza e senza coraggio?24

ad una società che ha tutti i suoi ordinamenti fondati sulla presunzione che non esista autorità pubblica. Gl’interessi di qualunque specie atti a dominare trovano all’infuori di questa autorità i mezzi di difendersi, e di fronte a loro, l’interesse comune, da essa rappresentato, è vinto prima di combattere, e la legge è nel fatto esclusa. I poteri e le influenze che la legge è precisamente destinata a contrastare, sono più efficaci della organizzazione intesa a farla valere» (ivi, p. 14). Citazioni che non lasciano adito ad equivoci: di simili se ne potrebbero indicare a decine. 24.  G. Pitrè, Usi e costumi, cit., pp. 292-293. Ci pare interessante osservare come il Pitrè, dopo aver notato che «la mafia ha una gradazione secondo l’ambiente che la circonda, le persone tra le quali si sviluppa, i fatti pe’ quali si muove», e che la differenza di queste gradazioni «deriva quasi sempre dalla

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Affermazioni per le quali non si può non convenire con Sciascia, quando sottolinea la contraddizione «tra il negare ogni forma di associazione e l’ammettere che basta il muover degli occhi e delle labbra, una mezza parola, per dar mandato di una riparazione o di una vendetta a persona o persone magari sconosciute ma “dei medesimi pensamenti, del medesimo sentire”»25. Il fatto è che non si tratta di un’unica contraddizione, per quanto eclatante. Tutto il discorso di Pitrè, nei capitoli del II volume di Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano che seguono quello sulla mafia, i capitoli dedicati all’Omertà, a La Vendetta e il Duello, alla Lingua furbesca, a I Gesti, è la dimostrazione continua della mafia come associazione a delinquere, con i suoi statuti e le sue gerarchie, i suoi codici ed i suoi riti. Dopo aver definito l’omertà come «omineità, qualità di esser omu, cioè serio, sodo, forte»26, non senza aver fatto propria una definizione espressa dal Di Menza in una Memoria letta il 7 novembre 1875 nella Regia Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo27, Pitrè ci fornisce, relativamente condizione di cittadino o di campagnuolo», dice di non poter fornire una spiegazione di tali differenze, perché ciò lo porterebbe ad «uscir fuori dai limiti di questo capitolo», costringendolo ad uno studio «esteso anche alla camorra ed al malandrinaggio» (ivi, p. 293): che è come ammettere una connessione tra mafia, camorra e malandrinaggio, cosa che, solo due pagine prima, aveva sdegnosamente negato. Degna di nota anche la chiusa, tutta “sicilianista”, del paragrafo dedicato alla mafia che abbiamo sin qui analizzato: «È chiaro, dopo tutto questo, il triste ufficio a cui è stata condannata la voce mafia; la quale era fino a ieri espressione di una cosa buona e innocente, ed ora è obbligata a rappresentare cose cattive. Essa ha seguito la sorte delle voci italiane baratteria, tresca, assassino, malandrino, brigante, le quali dal significare cose originariamente buone in sé, finirono col significarne altre nocive alla società» (ibidem). 25.  L. Sciascia, Letteratura e mafia, cit., pp. 1106-1107. 26.  G. Pitrè, Usi e costumi, cit., p. 294. 27.  «L’omertà giunge ad avere il suo punto d’onore come lo ha lo spirito cavalleresco nel duello. Nelle alte classi quasi tutte le questioni vorrebbero decidersi con la spada; il punto d’onore cavalleresco non si reputa mai in

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ai fatti omertosi, una casistica così ricca, tale da confermare l’analisi che del fenomeno aveva dato il tutt’altro che tenero Franchetti, la bestia nera di sicilianisti come Capuana, cosa che avremo modo di vedere meglio. Sicché non è azzardato dire che, dentro il guscio di questa apologia della mafia consegnataci dall’etnologo palermitano, sia possibile ritrovare un nocciolo di informazioni tutt’altro che reticenti, utilissime ai fini del nostro discorso. Il lettore ci segua, e compari da sé quel che il Pitrè scrive con quanto sull’omertà il Franchetti aveva annotato nel suo libro28. Lasciamo cadere per ora il fatto, certo non irrilevante, che l’accordo tra uomini di «medesimi pensamenti», di «medesimo sentire», venga ammesso da Pitrè non per fini di illecito guadagno, di premeditata delinquenza, ma come azione riparatrice ad un torto patito, insomma come atto di sacrosanta giustizia: anticipando così quel mito di vendetta sociale che abbiamo visto informare la traduzione paramafiosa di Luigi Natoli della leggenda dei “Bea­ti Paoli”. altro modo completamente soddisfatto. Il punto d’onore nell’omertà ha lo stesso fine, non si crede mai pago se non quando si adoperano mezzi diversi da quelli della giustizia sociale» (ibidem). 28.  Scrive Franchetti nelle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, cit., pp. 13-14: «Ma per prevenire i delitti, per punirli, per mantenere l’ordine e l’osservanza delle leggi di ogni specie, la polizia, la magistratura, l’autorità pubblica insomma, ha bisogno di querele, di denuncie, di testimonianze, del verdetto dei giurati, ha bisogno quasi ad ogni passo della cooperazione dei cittadini. […] Il timore della sanzione contro chi fa una denunzia, porta una testimonianza, o presenta una querela a danno di un prepotente di qualunque grado, è più efficace che quello della sanzione penale contro chi rifiuti la sua cooperazione alla giustizia in caso di delitto, o quello del danno materiale di chi subisce un’ingiustizia senza respingerla colle difese fornite dalla legge. […] Perché l’opinione pubblica è informata a questo sistema sociale extra legale, la massa della popolazione ammette, riconosce e giustifica l’esistenza di quelle forze che altrove sarebbero giudicate illegittime, ed i mezzi che adoperano per farsi valere; sicché, per chi volesse mettersi dalla parte della legge, si aggiunge al timore delle vendette quello della disapprovazione pubblica, cioè del disonore».

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Ma veniamo al testo di Pitrè: Base e sostegno dell’omertà è il silenzio; senza di questo l’omu non potrebbe essere omu, né mantenere la sua superiorità incontrastata; restando scoperto agli occhi della Giustizia, ne proverebbe i rigori. L’omertà intanto si sostiene, in quanto è sicura della sua impunità ed intanto è impune e passeggia, in quanto nessuno la denunzia, e denunziata, nessuno depone a suo carico.29

E più avanti: «Per via dell’omertà l’imputato, innocente del delitto che gli si addebita, non parla, e se le circostanze vi concorrono, si prende in silenzio la condanna che lo colpisce come autore o complice, la sconta in pace, mentre il vero reo se la sguazza libero e contento»30. E ancora: Il picciottu d’onuri, o onuratu, sinonimo di picciottu di sgarru ed anche un po’ di cristianeddu, di cristianu di Diu, di uniceddu di Diu, è l’uomo che sa mantenere il più stretto segreto, segue i canoni, rispetta fino i più insignificanti doveri di omertà: primo gradino per passare ed essere considerato come omu, ed anche professuri.31

Per non dire che «oltraggio sanguinoso e sanguinosamente vendicato» è proprio «quello della testimonianza che aggravi le condizioni dell’omu in faccia alla Giustizia»32. Si tratta di passi che, come si vede, inscrivono l’omu entro un’aura carismatica che provoca nel popolo sentimenti di ammirazione, quando non di complice disponibilità, sentimenti che hanno trovato espressione in numerosi e significativi proverbi popolari33.

29.  G. Pitrè, Usi e costumi, cit., pp. 294-295. 30.  Ivi, p. 298. 31.  Ivi, p. 301. 32. Ivi, p. 303. 33.  Tra questi ci piace citarne qualcuno, sempre servendoci del testo di Pitrè: «Bell’arti parrari picca» (Bell’arte quella di parlare poco); «La vucca è

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Le citazioni che, comunque, attestano chiaramente la natura associativa del fenomeno mafioso sono quelle ricavabili dal capitolo Lingua furbesca. Qui il Pitrè, alludendo ad un codice linguistico di facile se non esclusiva traducibilità da parte dei soli mafiosi, ammette implicitamente, e clamorosamente, quel che appunto venti pagine prima aveva negato, il fatto che i mafiosi siano costituiti in setta: Il mafioso nel significato ultimo della parola, l’omu, il camorrista, il malandrino, il tagliaborse hanno, non dico una lingua propria diversa dalla lingua da tutti parlata, ma una serie di voci e frasi o diverse affatto dalle voci e frasi comuni o in senso molto lontano dal comune. Queste voci cominciano dai semplici traslati, divenuti oramai patrimonio della lingua del popolino estraneo a mafia e ad omertà, e salgono per gradi fino alla lingua furfantina ed al gergo.34

Che è come dire che mafia ed omertà non siano semplicemente forme di «baldanza» e «braveria» riscontrabili in qualche popolano orgoglioso, ma la pratica quotidiana di un gruppo di accoliti che parla un «gergo» tale da distinguerli dal resto della popolazione e renderli riconoscibili. Gruppo di accoliti che ha le sue regole, i suoi riti, i suoi costumi, come attestano numerosissime “voci” di quel dizionarietto “furfantesco” che riassume la «parrata di Vicaria» (parlata della Vicaria)35.

traditura di lu cori» (La bocca è traditrice del cuore); «L’omu chi parra assai, nun dici nenti, l’omu chi parra picca è sapienti» (L’uomo che parla molto non dice niente, l’uomo che parla poco è sapiente); «Parrari picca e vistiri di pannu, mai nun ha fattu dannu» (Parlare poco e vestire di panno, non ha arrecato mai danno ad alcuno) (ivi, p. 295). 34.  Ivi, pp. 317-318. 35.  Tra le tante citabili, si vedano: «Amicu, s. m., e più comunemente Amici, nome che i malandrini si danno tra loro, e col quale sono anche intesi da chi non è di loro» (ivi, p. 320); «Baccagghiu cubbu! silenzio tutti! motto col quale in una riunione o comitiva di persone informate a’ principi di malandrineria o di omertà o d’altro, s’impone silenzio al sopravvenire o all’avvicinarsi di

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Ma l’ammissione più spudorata è rintracciabile nelle varie articolazioni della voce picciottu (giovane), in cui noi troviamo un’idea molto precisa della mafia come associazione a delinquere, descritta in tutta la sua struttura gerarchica. L’unico pudore che rimane è quello di sostituire la parola camorra a quella di mafia, quando ben sappiamo, da molte pagine già esaminate, che Pitrè sta delineando la lingua dell’omertà, l’atteggiamento peculiare, lo abbiamo visto, che distingue appunto il vero mafioso: Picciottu d’onuri o onuratu, uomo nel significato malandrinesco della parola; ed è colui che dandosi alla vita della camorra ha conseguito nella gerarchia di questa il secondo grado. In un canto popolare si dice che nel carcere sono questi uomini, capeggiati da un camorrista: E ddà cci sunnu picciotti anurati, / Ed ogni deci lu mastru di scola (Mineo). // Picciottu di sgarru, terzo grado di detta gerarchia: dal quale si passa poi a camurrista. // Picciottu grittu, vale persona che compie il suo dovere ottemperando alle regole ed al galateo dell’omertà.36

persona sospetta, alla quale non voglia farsi sentire o saper nulla» (ibidem); «Fàrisi la cosca, farsi una comitiva di persone pronte a sostener colui con il quale s’intendono ed accordano, ed a menar le mani» (ivi, p. 322); «Cùncuma, s. f., riunione o compagnia di uomini, per lo più non buoni o giudicati come non buoni. // Riunione segreta e misteriosa come quella dei Beati Paoli, che aveano le loro grotte paurose ed impenetrabili presso il giardino detto della Cuncuma. // Essiri di la Cuncuma, essere del tal numero de’ tristi, della cosca, aver l’arte e l’attitudine d’ingannare e preveder gli inganni, esser furbo» (ivi, p. 323): ove è da notare la consapevolezza di coloro che si esprimono con la “parrata di Vicaria” di essere in un qualche rapporto genealogico con la mitica setta segreta dei “Beati Paoli”; «Frati, s. m., ha il medesimo significato di amici, e dicesi specialmente di birbanti stretti in relazione segreta per aiutarsi scambievolmente nelle loro ribalderie» (ivi, p. 324). 36.  Ivi, pp. 327-328. Per completare il quadro dell’associazione manca un solo grado: «Ricruto, s. m., semplice carcerato, che nella gerarchia malandrinesca non ha nessun grado, se pure esso non voglia considerarsi come primo. Il secondo sarebbe perciò quello di Picciottu d’onuri» (ivi, p. 328). Per un’interpretazione dei rapporti tra Pitrè ed il fenomeno mafioso, per

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Abbiamo detto che questo dizionarietto “furfantesco” va sotto il titolo di Parrata di Vicaria, ove è chiara allusione a quell’opera di Rizzotto e Mosca che il Pitrè, come abbiamo visto, considera responsabile della corruzione del significato originario del termine mafia: non sarà inutile aggiungere che proprio nella commedia il sostantivo “mafioso” del titolo va perfettamente a sovrapporsi a quello di “camorrista” fino a sostituirlo completamente nel testo. È a quest’opera che dobbiamo tornare per dare una prima concreta articolazione al nostro discorso sulle immagini che la letteratura ci ha restituito del fenomeno mafioso.

3. Fatti e misfatti della Vicaria I mafiusi di la Vicaria37, per quanto testo citatissimo, non è stato studiato e interpretato come ci si potrebbe immaginare. L’analisi più ampia a nostra conoscenza è quella condotta da Giuseppe Guido Loschiavo nel suo 100 anni di mafia, ove la commedia, non certo facilmente reperibile, è stata riprodotta sulla scorta di un copione ritrovato presso una delle vecchie compagnie dialettali siciliane38. Per quanto riguarda la con-

una valutazione più generale delle sue posizioni pubbliche come la difesa, nel 1902, di Palizzolo accusato dell’omicidio Notarbartolo, si possono leggere A. Buttitta, Pitrè e la mafia, e M. Ganci, Cultura progressiva e tendenze conservatrici in Giuseppe Pitrè, in Aa. Vv., Pitrè e Salomone Marino, Flaccovio, Palermo 1968, pp. 121-129 e 208-210. 37.  Non si può non ricordare che, della commedia, esiste un suggestivo rifacimento, con non piccole varianti, di Leonardo Sciascia (1965), ora in Opere. 1984-1989, cit., pp. 1229-1296. 38.  G.G. Loschiavo, 100 anni di mafia, cit., pp. 211-359. Il testo è stato anche pubblicato da Achille Mango nel Teatro siciliano, E.S.A., Palermo 1961, vol. I, pp. 117-192, il quale, però, si rifà all’edizione Perino del 1885, che presenta un quarto atto introduttivo, da ritenersi, con probabilità, posterio-

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troversa genesi dell’opera, a cominciare dalla dubbia identità dell’autore, il Loschiavo si rifà ad una testimonianza orale39: quella dell’attore Natale Cirino, il quale, diciottenne, aveva interpretato, alla fine del secolo XIX, il personaggio di Ricu Balata – il giovane balordo che diventa «picciotto di sgarro» alla fine del secondo atto – e diceva di sapere molte cose sul conto del Rizzotto, apprese dalla viva voce di coloro che l’avevano conosciuto. Secondo tale testimonianza, Pepè Rizzotto, il capocomico di una cosiddetta “compagnia di giro”, di quelle che s’incontravano nei paesi siciliani in occasione delle fiere o delle feste patronali, capitò a Palermo durante i giorni del Festino, e cioè tra il 13 e il 15 luglio, quando la popolazione festeggia Santa Rosalia, la patrona della città. Ridotto quasi alla fame, Rizzotto trovava ospitalità nella taverna fuori Porta Nuova, sulla strada per Monreale, di proprietà del mafioso Iachinu Fanciuzza (Gioacchino Grifaccio, «grugno di porco»), che è poi il nome del protagonista mastro ciabattino della commedia. Sarebbe stato proprio costui a suggerire l’idea di mettere in scena «“i costumi della Vicaria”, recitando in veste di “mafiosi”, cioè di “appartenenti alla società”, i canoni della consorteria»40: secondo un testo redatto per conto del Rizzotto da un altro elemento della compagnia, Gaspare Mosca, che avrebbe terminato i suoi giorni come maestro elementare ad Alcamo. Alla luce di tali dati, Loschiavo almanacca sulle motivazioni psicologiche che avrebbero indotto il Fanciuzza a rompere il codice d’omertà e a pubblicizzare il gergo dei malavitosi, sulle ragioni che lo avrebbero spinto a suggerire un personaggio, l’Incognito, con le fattezze simili a quelle di Francesco Crispi, re a quella proposta dal Loschiavo: ai fini del nostro discorso, comunque, questo primo atto resta irrilevante. 39.  Ivi, pp. 43-50. 40.  Ivi, p. 46.

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sulla possibilità, autorizzata soprattutto da rilievi di ordine stilistico, che il terzo atto, ove uno Iachinu convertito alla legalità nata dalla rivoluzione garibaldina si dissocia dai suoi vecchi compagni, sia stato scritto dallo stesso Rizzotto con un fine edificante, per esaltare la virtù riparatrice dell’espiazione carceraria. Pur convenendo sulla differenza ideologica tra i primi due atti, in cui Iachinu è fiero della sua qualifica di “capo camorrista”, ed il terzo in cui si mostra ravveduto, noi non riusciamo a condividere la sicurezza di Loschiavo in tante sue affermazioni, a cominciare dalla constatazione che certi atteggiamenti del personaggio Iachinu confermino che sia stato proprio l’oste Fanciuzza «l’informatore del redattore del copione»41. Non sono comunque questi i problemi che dobbiamo risolvere in tale sede: ci basta, invece, prendere atto che I mafiusi di la Vicaria abbiano agito sulla letteratura successiva nella loro integralità, non importa quanto sincretica e posticcia. Più ancora, ci preme concordare con Loschiavo sul fatto che la commedia sia sufficiente ad offrire la visione intima dell’organizzazione di una tipica manifestazione di malavita etnica e a precisare la natura, l’origine vera della più grave espressione di attività criminosa che sia esistita ed esista in Sicilia, improntando, anche con il nome […], tutte le manifestazioni di alta criminalità nazionali e internazionali.42

Siamo nel 1854. La scena si apre con Totò lu Spanucchiatu (cioè “senza peli”) e Ricu Balata, entrambi camorristi, che dormono in una cella della Vicaria, quando Turiddu lu Masticusu

41.  Ivi, p. 48. 42.  Ivi, p. 52. Scrive più avanti il Loschiavo, ancora più chiaramente: «Il valore probatorio del dramma del Rizzotto consiste nella chiarificazione dell’origine storica della mafia come associazione per delinquere di cui tutti parlano, molti disputano, parecchi scrivono e pochi sanno ovvero, sapendo, non vogliono dire» (ivi, p. 55).

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(e cioè “lo spaccone”) entra e li costringe ad una specie di lezione sul duello rusticano. Abbiamo già al completo la piccola compagnia di malandrini che, nel carcere, è al servizio del capo-camorrista, lu zu, lo zio, Iachinu Fanciuzza. A loro si aggiungerà, già dalla scena seconda, Minicu Chiantedda, camorrista proprietario, nel quale, all’inizio, non viene riconosciuto quel giovinetto che anni prima, nel penitenziario di Nisida, proprio lu zu Iachinu aveva promosso “picciotto di sgarro”, innalzandolo di grado nella gerarchia mafiosa: cosa che ingenererà tutta una serie di equivoci grazie ai quali Minicu avrà modo di dimostrare sul campo tutto il suo valore, confermando nei fatti di meritare quel titolo di “camorrista proprietario” che era già suo, il tutto con agnizione finale. Ai camorristi si contrappone, non senza tentare di spodestare il fiero Iachinu istigando alla ribellione i suoi sottomessi, l’infido e millantatore Don Nunzio, spia del terribile capo della polizia borbonica Maniscalco: un doppio giuoco che gli costerà cruenta morte, proprio per ordine dello zu Iachinu. Ma il personaggio fondamentale è Don Leonardo, finito in carcere innocente, nel quale la tradizione riconosce l’autoritratto dello stesso Rizzotto43: ed importante non solo per la sua estrazione sociale di borghese, quanto per il fatto che, con il suo ingenuo candore, il candore di chi nulla conosce e capisce del gergo dell’omertà, ne rende possibile la decodificazione, grazie alle continue spiegazioni, per così dire metalinguistiche, a cui è costretto lo zu Iachinu nei suoi confronti. Dalla vita di questi detenuti, descritta nei primi due atti, veniamo a conoscere tutti i riti e le usanze dell’onorata società di cui Iachinu è il capo e garante. Ecco, allora, la nomina del “camorrista di giornata”, colui che, in rappresentanza del “capo camorrista”, è addetto alla riscossione della percentua-

43.  Ivi, p. 47.

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le sulle vincite di gioco; ecco il “pizzu”, e cioè il posto, quello che, come Pitrè scriverà con grande precisione, «a un nuovo entrato in carcere si imponeva di pagare dal capo-camorrista o da’ capi del camerone»44; ecco la “lampa”, «l’olio della lampada, che si accende ogni notte davanti alla Madonna»45, più precisamente il «nome d’una specie di tributo – è sempre il Pitrè a scrivere – che un nuovo carcerato, la prima sera, era invitato ed obbligato a pagare al capo-camorrista del camerone nel quale entrava»46; ecco il “toccu”, giuoco da bettola che finisce sempre in rissa, seguendo un copione che vede un patruni, o padrone, sempre dispoticamente disposto a lasciare all’asciutto qualcuno dei suoi sottomessi47; ecco, allora, il supremo valore dell’omertà che Don Nunzio ha violato con conseguenze terribili e che i testimoni del delitto di Iachinu non violeranno, se non vorranno andare incontro all’ira del mastro ciabattino48; ecco, quindi, i continui esempi di quel rito di sottomissione che il “capo camorrista” pretende sempre per sé e per i suoi diretti dipendenti49; ecco, e si potrebbe continuare, tutti quei modi di provocare a duello50, magari la “tirata” (quello ad arma corta), secondo quel rigoroso codice d’onore gestuale di cui, ancora una volta, ci parlerà il Pitrè51. Il mondo malandrinesco della Vicaria, a cui Don Leonardo è completamente estraneo, è chiuso e rigorosamente regolato: ma questo non significa che in esso sia impossibile la reden-

44.  G. Pitrè, Usi e costumi, cit., p. 328. 45.  G.G. Loschiavo, 100 anni di mafia, cit., p. 243. 46.  G. Pitrè, Usi e costumi, cit., p. 325. 47.  Cfr. ivi, pp. 310-317. 48.  G.G. Loschiavo, 100 anni di mafia, cit., p. 236. 49.  Ivi, pp. 240-242 e 310. 50.  Ivi, p. 254. 51.  G. Pitrè, Usi e costumi, cit., pp. 302-310.

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zione e il riscatto. Emblematica, a questo proposito, è la figura dello zu Iachinu: pur capace di ogni crimine, egli è animato da profondo rispetto nei confronti dell’innocente galantuomo Don Leonardo, che protegge dalle continue minacce dei suoi più gaglioffi complici. Indicative, a questo proposito, le parole che Iachinu spende per Don Nunzio, quando sente le campane a morto, quel Don Nunzio che egli stesso ha fatto uccidere, e si ribella ai commenti sprezzanti dei suoi compagni. Riportiamo le sue parole, in dialetto nel copione, nella traduzione di Loschiavo: «Zitto! Quel disgraziato in questo momento sta consegnando l’anima a Dio. Dio perdona a noi e anche noi perdoniamo»52. In questa sua pietà, nel suo rozzo senso di giustizia, il “capo-camorrista” Iachinu è di gran lunga superiore ai suoi ribaldi accoliti, e può con giusto diritto annoverarsi tra i “giuvini d’onuri”: non così, in ogni circostanza, gli altri camorristi della commedia, ad eccezione di Minicu che, non a caso, è il vice di Iachinu. Dal testo si può evincere che, quanto più si è leali e rispettosi del codice d’onore, insomma dell’omertà così come ce la descrive Pitrè, tanto più si sale nella gerarchia mafiosa: la promozione di grado coincide, insomma, con una crescita morale, per quanto distorta e criminale. Sembrerebbe quasi che Iachinu non abbia bisogno di altro che di un qualche deus ex machina, il quale sopraggiunga a salvarlo da un iniquo destino. Cosa, questa, che puntualmente avviene: con barrivo in carcere di un personaggio misterioso e affascinante, l’Incognito, sotto le cui spoglie, come abbiamo già detto, si nasconde probabilmente un futuro eroe della rivoluzione garibaldina, Francesco Crispi. Non appena giunto alla Vicaria, siamo alla scena dodicesima dell’atto primo, l’Incognito viene notato dal delatore Don Nunzio, che vi riconosce l’importante personaggio politico segnalatogli in una lettera dell’ufficio di polizia. Il nuovo arrivato è 52.  G.G. Loschiavo, 100 anni di mafia, cit., p. 319.

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presto avvicinato dai camorristi per la riscossione del “pizzu” e della “lampa”, ma, infastidito, mostra immediatamente di non aver nessuna voglia di capire, tanto meno di pagare. Decisivo è l’arrivo di Iachinu; la scena dell’incontro, per le sue grandi implicazioni, merita di essere riportata per intero, sempre nella traduzione di Loschiavo: Iachinu – Vostra signoria deve sapere che io gli affari miei li tratto con calma e senza riscaldarmi, perché il riscaldamento fa male alle viscere. Qui dentro c’è un uso, una consuetudine: usi e consuetudini sono leggi. Chi ha la fortuna di entrare qui dentro… Incognito – Bella fortuna! Iach. – Deve pagare una sommetta, che serve per i francesi. Inc. – Chi sono cotesti francesi? Iach. – È un modo nostro di chiamarli: sono i compagni bisognosi. Dando loro qualche coserella, noi stiamo quieti, voi state quieto e così tutti stanno quieti. Inc. – Ma sentite, io… (gli parla all’orecchio) Iach. – Vostra Signoria mi perdoni. Non lo sapevo altrimenti avrei fatto il mio dovere. Maledetto cavaliere! Mi espone a questa figura meschina! D’oggi in poi Vostra Signoria sarà rispettato da tutti. (si presenta) Gioacchino Fanciuzza, vita per vita. Inc. – Il calzolaio? Iach. – A servirla. Vostra Signoria mi conosce? Come lo sa? Ine. – Ero venuto a Palermo per fare la vostra conoscenza proprio il giorno che vi arrestarono. Basta! Mi rendereste un vero servizio se per questa sera mi poteste procurare un materasso.53

Si tratta di un passo carico di conseguenze: e ne viene fuori un rapporto strettissimo tra i mafiosi della Vicaria e leader politici dell’opposizione repubblicana e garibaldina come Crispi; ne viene fuori, ancora, la constatazione che l’attività dell’associazione malandrinesca non cessi oltre le mura carcerarie, se è vero che l’Incognito-Crispi aveva tentato di contattare 53.  Ivi, pp. 271 e 273.

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a Palermo, per chissà quali commissioni, il mafioso ciabattino Iachinu Fanciuzza, scoprendo però che era stato incarcerato; ne viene fuori, per continuare, l’ammissione che anche l’Incognito-­Crispi, soprattutto lui, sia un uomo di rispetto, se il “capo-camorrista” Iachinu si mette a sua totale disposizione; ne viene fuori, infine, una severissima conferma del codice dell’omertà, se è vero che nemmeno lo spettatore può conoscere quel che i due, di tanto importante, si sono detti all’orecchio54. Tutti dati che trovano deciso ribadimento, se non approfondimento, nel III atto della commedia: siamo nel 1861, dopo l’Unità d’Italia e con una situazione politica radicalmente mutata, in casa di Iachinu che ora svolge onestamente il suo mestiere di calzolaio ed è intento a terminare un lavoro per Don Leonardo; con lui c’è la moglie Carmela ed il garzone ciabattino Mastro Pasquale Ardichella, una specie di miles gloriosus, una vera e propria caricatura di aspirante mafioso, ammiratore di quel che Iachinu era stato e desideroso di affiliarsi al più presto all’associazione malandrinesca. L’intero atto è caratterizzato dal contrasto tra Iachinu e i suoi vecchi compagni di camorra. Uno Iachinu che ormai rispetta le leggi dello Stato, ansioso di entrare, per intercessione del galantuomo Don Leonardo, in una società operaia di mutuo soccorso, di contro a Minicu e Turi, che lo vogliono di nuovo complice nei loro crimini. Indicativo, in tal senso, lo scambio di battute tra Iachinu e Minicu, dopo che questi gli ha chiesto perché egli non abbia più fatto valere, nei confronti dei compagni, i suoi diritti di “capo-camorrista”: Iachinu – Me l’ha vietato la mia coscienza, perché non voglio nulla di quel che mi possa spettare per diritto di camorra.

54.  Interessante quei che risponde Iachinu ad un Don Leonardo incuriosito da quel che si fosse detto con l’Incognito: «Non lo posso riferire a lei, signor curiosone! Quegli però è uno di quelli che lavorano per il nostro bene, ed è persona che va rispettata dovunque si trovi» (ivi, p. 295).

68 Lavoro da calzolaio, mi guadagno il pane onestamente, mantengo la famiglia e mi basta. Minicu – Dunque, avete cambiato vita completamente? Iach. – Proprio così e mi ci trovo bene. Non sono stato più in carcere, la polizia mi lascia tranquillo, ho il mio libretto di operaio. La notte dormo tranquillo con mia moglie senza il timore di sentire le guardie bussare alla porta: «Sei in casa?». La polizia non sospetta più di me. Min. – Ma quando si tratta di guadagnare due o trecento lirette scrupoli non se ne dovrebbero avere. Iach. – Né trecento, né seicento, né mille, perché dopo gli scrupoli vengono le conseguenze, e voi ne sapete qualcosa più di me: vengono fuori questioni, liti, coltellate e poi carcere e carcere… Quel carcere che ora mi fa spavento. Min. – A voi, zio Gioacchino?! Iach. – Con il vostro beneplacito mi chiamo «Mastro Gioac­ chino».

Come si vede, l’associazione malandrinesca è viva e attiva fuori le mura della Vicaria. Iachinu, invece, è ormai convertito alla legalità: non sopporta nemmeno che lo si chiami zio, “zu”, che è titolo, appunto, che si deve all’uomo d’onore. La sua abiura non nasce solo dalla paura del carcere, quel carcere che non gli ha nemmeno consentito di correre al capezzale della madre morente. C’è, a monte della sua decisione, una precisa scelta di coscienza: quasi che dal guscio criminoso della sua personalità, sia riuscito ad estrarre quel nocciolo morale che avevamo già intuito quand’era recluso nella Vicaria. Date tali premesse, questo terzo atto non può che precipitare verso il suo inevitabile esito: la violenta zuffa tra il “nuovo” Iachinu ed i suoi vecchi complici, una zuffa che scoppia proprio perché Ricu, ormai baldanzoso “picciotto di sgarro”, dice di essere stato trattato, in casa del mastro ciabattino, senza alcun rispetto, quello fondato, ovviamente, sul codice dell’«omertà»55. La rissa sarà 55.  Ivi, p. 356.

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interrotta dall’arrivo dell’Incognito-Crispi con la rivoltella in mano, degno e nobile rappresentante di un ordine politico nuovo che non ha più bisogno dei mafiosi. Importantissimo, ai fini del nostro discorso, l’edificante finale: Incognito – Gioacchino, voi desideravate essere ammesso nella società operaia di mutuo soccorso. Eravamo perplessi, ma poi, rassicurati dal vostro buon cambiamento di vita e come cittadino e come padre di famiglia, siete stato accettato all’unanimità. Ecco il diploma. Iachinu – Grazie, grazie, grazie, Signore. (a Don Leonardo) Lei ne era informato e non diceva nulla… Leonardo – Pipa, tabacco… Inc. – In quanto a voi, poiché persistete nella cattiva condotta, si procederà come per legge. Iach. – Oh no, signore, perdonateli. E perdono è la più nobile vendetta. Speriamo, piuttosto, che il mio esempio li consigli a darsi a stabile lavoro, perché il lavoro è il solo mezzo che può rendere felici e contenti l’individuo, la famiglia, e formare la grandezza di tutta una nazione.56

4. Alle origini del sicilianismo letterario Questa, dunque, l’immagine della mafia della Vicaria restitui­ taci dalla commedia di Rizzotto e Mosca, commedia che noi abbiamo letto servendoci delle particolarissime lenti dell’etnologo Pitrè. Quale giudizio darne? Quali conseguenze ricavarne? Si potrebbe senz’altro, come ha fatto Loschiavo, trarne innanzi tutto la convinzione che il termine camorrista, sostituito nel testo a quello di mafioso che campeggiava nel titolo, abbia un’origine, oltre che un’utilizzazione, più antica di quella di quest’ultimo, nella convinzione che «la camorra […] sia 56.  Ivi, p. 359. G. Pitrè, in Usi e costumi, cit., p. 328, traduce il termine “Pipa!” con “silenzio! acqua in bocca!”.

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anteriore alla onorata società calabrese e alla mafia siciliana»57: il fatto che, già nel 1862, apparisse un libro di Marc Monnier, intitolato appunto La camorra, ne è indiretta conferma. Certo, subito dopo la commedia di Rizzotto e Mosca, il termine mafia viene attratto nell’orbita semantica di quello di camorra: come c’informa Paolo Pezzino, le due parole, dopo l’Unità, vengono impiegate in modo «pressoché interscambiabile»58. Si potrebbe trarne, sempre sulla scorta del Loschiavo, la testimonianza che «esisteva in Palermo […] una “società” contra legem»59 denominata con l’appellativo di mafia. Si potrebbe: ma il nostro discorso, lo abbiamo ripetuto più volte, non si preoccupa della cosa in sé, di quell’associazione che in questi ultimi cento­trent’anni ha operato criminosamente in Sicilia, tanto più se si pensa agli equivoci concettuali in cui sono caduti molti degli storici che si sono occupati del fenomeno, i quali, in qualche modo hanno tentato, diciamo “scientificamente”, di circoscriverlo. A noi interessa molto di più inseguire, di quel fenomeno, l’immagine anche fantasmagorica, non importa se mistificante o mistificata. In questo senso, la commedia del Rizzotto e del Mosca, la prima opera letteraria che, filologicamente parlando, accampa il termine “mafioso”, ci costringe ad una precisa serie di induzioni: nel 1863, anno in cui viene emanata la legge Pica contro il brigantaggio meridionale e la camorra viene equiparata a «brigantaggio di città», si concepisce drammaturgicamente, ipotizzandola esistente ancor prima dell’Unità, un’associazione che prospera nella Vicaria, organizzata gerarchicamente sul modello della camorra a cui appartengono i cosiddetti mafiosi; tale associazione, una specie di società di mutua assistenza, è attiva anche al di fuori delle mura carcerarie e, pur perseguen57.  G.G. Loschiavo, 100 anni di mafia, cit., p. 103. 58.  P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, cit., p. 913. 59.  G.G. Loschiavo, 100 anni di mafia, cit., p. 111.

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do i propri scopi criminosi, non è estranea a quel progetto di liberazione della Sicilia dal dominio borbonico che porterà all’unificazione del paese. Fermiamoci su quest’ultimo punto: non occorre sottolineare ancora lo stretto rapporto che Rizzotto e Mosca istituiscono tra il probabile Crispi e lo “zu” Iachinu, bisogna piuttosto spendere ancora qualche parola sulla conversione del ciabattino alle leggi del nuovo Stato. E si noti subito questo fatto: Iachinu esce dall’associazione mafiosa per entrare, su raccomandazione di Don Leonardo e l’Incognito-­ Crispi, in una società operaia di mutuo soccorso, quasi che il suo antico codice d’onore grazie al quale era diventato “capo camorrista” gli fornisca ora, agli occhi del Crispi, le benemerenze per essere affiliato a questa nuova associazione di cui il leader garibaldino è il promotore; non sfugga, inoltre, quel «Pipa» pronunciato da Don Leonardo, il quale, a conferma della continuità positiva di certi valori, non esita a rivolgersi a Iachinu impiegando, appunto, il gergo della Vicaria. Si badi, poi, al finale moralistico di Iachinu che invita i suoi vecchi compagni a seguire il suo esempio, redimendosi col lavoro, come a dire che, se la mafia sotto i Borboni poteva essere forse giustificabile, con il nuovo governo italiano ciò non sia più possibile: un appello, questo di Iachinu, che postula per questi picciotti la possibilità di un sentimento del mondo sostanzialmente morale, nell’implicita convinzione che sia possibile isolare, dentro il linguaggio dell’omertà, un codice d’onore e di dignità che potrebbe trasformarli in perfetti cittadini e patrioti. Da queste considerazioni si possono ricavare dati interessanti per il nostro paradigma letterario della mafia. In primo luogo, ma era cosa facilmente prevedibile, il legame indissolubile tra rivoluzione garibaldina e mafia, tra mafia ed una certa politica60, ad inverare sicilianisticamente quelle numerose e com60.  Ha giustamente osservato A. Altomonte, in Mafia briganti camorra e letteratura, cit., p. 16, che tale intreccio tra mafia e politica deve essere ritenu-

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moventi immagini di picciotti pronti alla lotta antiborbonica che vengono fuori dalle opere della “camicia rossa” Giuseppe Cesare Abba, dal suo Commentario sulla rivoluzione di Sicilia (Taccuino 1860) fino al memorabile Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille (1891), libro di cui possiamo citare una delle tante pagine, ove emerge chiaramente il contributo dato dalla mafia all’allestimento delle squadre di picciotti. Siamo a Salemi, il 14 maggio 1860: Le squadre arrivano da ogni parte, a cavallo, a piedi, a centinaia, una diavoleria. E hanno bande che suonano d’un gusto! Ho veduto dei montanari armati fino ai denti con certe faccie sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistole. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota.61 to di fondamentale importanza, in quanto è proprio su questo «terreno di complicità con gli uomini del potere» che si giuocherebbe la differenza tra il fenomeno mafioso e il brigantaggio. 61.  G.C. Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille (1891), intr. di P. Ruffilli, Garzanti, Milano 1991, p. 30. Questa stretta connessione tra mafia e moti rivoluzionari sarà poi sostenuta, in sede storiografica, da Napoleone Colajanni nel suo Nel Regno della Mafia. Dai Borboni ai Sabaudi (1900), Ila Palma, Palermo 1971, p. 49, il quale scrisse: «La mafia, in fine, rese i più grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borboni; e in questo addentellato politico sta una delle cause del rispetto e della devozione della medesima verso l’aristocrazia, che in massa era avversa ai Borboni, come notò Alessandro Tasca. I più noti mafiosi furono i più valorosi combattenti nelle cosiddette squadre nel 1848; gli stessi mafiosi si batterono prodemente nel 1860 tra i picciotti di Garibaldi alle porte di Palermo e dentro Palermo». Questa tesi, poi, fu molto discussa negli anni ’30 e ’60 del nostro secolo, con un vasto spettro di posizioni che andò da quelle di Virgilio Titone (Storia mafia e costume in Sicilia, Edizioni del Milione, Milano 1964) che sposava le tesi di Colajanni, a quelle di Rosario Romeo (Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Bari 1950), che era disposto a consentire con esse, ma solo per i moti del ’48. Salvatore Francesco Romano, nella sua Storia della mafia, cit., pp. 118 e ss., rintraccia invece il precedente più significativo della mafia nelle controsquadre organizzate dai proprietari terrieri in concomitanza con le insurrezioni rivoluzionarie, non senza indicare anche quegli strati popolari,

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In secondo luogo, ed è cosa molto più interessante, ne viene fuori un’idea della mafia come associazione criminosa ma addomesticabile dalla classe dirigente siciliana, quella liberale e repubblicana, comunque anti-borbonica, ed in stretta connessione con essa. Un’associazione, in cui v’è molto di benigno e positivo, della quale è stato lecito servirsi in tempi di oppressione, ma che bisogna tenere sotto controllo una volta che l’Unità ha avuto luogo. Idea che troviamo espressa, proprio in questi termini, nel verbale dell’interrogatorio di Gabriele Colonna Romano, duca di Cesarò e Fiumedinisi, tenutosi a Palermo il 1° dicembre 1875, ora riportato nei documenti dell’Inchiesta Bonfadini: Io credo che la maffia sia un’eredità del liberalismo siciliano, perché quando cadde il feudalesimo […] i Borboni contemporaneamente ruppero la fede giurata alla Sicilia e da allora incominciò una lotta continua, implacabile fra la Sicilia ed i Borboni. E dico la Sicilia perché tutte le classi siciliane erano d’accordo in questa lotta, anzi l’aristocrazia siciliana ha sempre avuta pronta ed efficace la cooperazione del popolo in tutto ciò che si riferiva alla lotta contro i re di Napoli […] e da ciò appunto consegue che l’influenza che ha l’aristocrazia in Sicilia non si riscontra in nessuna altra parte d’Italia. In tutto il periodo che durò dal ’14 al ’48 l’aristocrazia non volle avere niente di comune col governo e da cui nacque il bisogno di avere degli aiuti propri […] una forza […] della quale […] si sono serviti ogni qualvolta si è dato il segnale della rivoluzione […]. Pei furti, per le vendette personali, nonché per qualunque oggetto per cui in altre condizioni si sarebbe dovuto ricorrere alle autorità si ricorreva a questa gente, e per me qui sta l’origine della maffia […]. Ora al 1860 che cosa è avvenuto? È avvenuto che tutto ciò che era baronaggio […], classe proprietaria ovvero classe intelligente, questa classe dico ha trovato

di estrazione garibaldina, che furono violentemente estromessi dalla gestione del potere dopo la repressione governativa del 1866.

74 nel nuovo ordine di cose appagate le sue aspirazioni politiche e quindi non ha creduto più di avere bisogno di tenersi stretta a questa classe di facinorosi. Ma questa classe di facinorosi, invece di trovare quel compenso che immaginava nel trionfo della rivoluzione, si è trovata completamente disillusa […] si ritirò, ma si ritirò aspettando il compenso dell’opera che aveva prestata […]. Questi appunto sono quelli che formano il nucleo principale della mafia a Palermo.62

Non è poco, come si vede, quel che si può cavare da I mafiusi di la Vicaria. Commedia apologetica, senza dubbio: ma pur sempre in grado di preoccupare, per i suoi contenuti, l’etnologo Pitrè, che fu costretto a mettere in atto, come abbiamo visto, un processo interpretativo di anestetizzazione, se non di negazione. Processo di anestetizzazione, ma non al punto da cancellare, della commedia, quello straordinario nucleo di verità demo-etno-antropologiche. Ha ragione Pezzino: con l’interpretazione di Pitrè prende la sua forma più completa e articolata quella posizione che, tendendo a ridurre la mafia a carattere dell’ethos siciliano, poteva venire utilizzata ogni qualvolta le vicende della lotta politica lasciassero spazio alle chiassose rivendicazioni del sicilianismo e all’esaltazione dei caratteri originari dei siciliani contro un presunto nemico esterno.63

Di questa posizione parte della migliore letteratura isolana non tarderà a farsi carico: ma è cosa che vedremo nel prossimo capitolo.

62.  Abbiamo trovato la citazione in P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, cit., p. 924. 63.  Ivi, p. 928.

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Capitolo III

Per inesplicabile fatalità (I letterati contro Franchetti)

1. Sulle orme di Leopoldo Franchetti Abbiamo più volte citato, nel corso di questo libro, l’inchiesta nata dal viaggio in Sicilia del 1876 di Franchetti e Sonnino, Abbiamo più volte accennato all’irritazione che l’inchiesta, soprattutto per la parte di Franchetti, destò nell’intelligenza siciliana. Ci pare giunto il momento di ricapitolare quelle tesi che tanto sconvolsero anche i migliori intellettuali isolani, soprattutto se è vero, come è stato detto1, che la loro ombra incombe ancora su tutte le interpretazioni che sono state date del fenomeno mafioso. Ma ciò, non prima di aver ricordato alcuni fatti storici noti, a consentire una migliore comprensione delle ragioni di quella violenta reazione all’opera di Franchetti2. 1. Cfr. R. Spampinato, Per una storia della mafia, cit., p. 900. 2.  Sulle vicende politiche siciliane successive all’Unità la bibliografia è vastissima. Si possono leggere con profitto, per un primo ma comunque ottimo orientamento, P. Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra, Einaudi, Torino 1954; G. Procacci, Le elezioni del 1874 e l’opposizione meridionale, Feltrinelli, Milano 1956; R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, Laterza, Bari 1966; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, voll. IV-VI, Feltrinelli, Milano 1964-1970; F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, voll. I-II, Sellerio, Palermo 1984-1985.

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Il punto di partenza di questa nostra rapidissima ricostruzione non può che essere l’insurrezione palermitana del settembre 1866 che venne ufficialmente interpretata come espressione di un’alleanza, in funzione antigovernativa, tra forze borbonicoclericali e repubblicane, non senza il decisivo intervento della mafia: è questa la data che sancisce la radicalizzazione dello scontro politico tra la Destra e l’opposizione fino alla vittoria della Sinistra nelle elezioni del 1874. Gli atti della commissione parlamentare d’inchiesta istituita in seguito agli avvenimenti palermitani3 sono il documento più chiaro di tale scontro e, come ha osservato Pezzino, ci forniscono, «pur nella sinteticità e schematicità delle verbalizzazioni e nell’incompletezza del materiale a noi arrivato, una prima significativa testimonianza del vario atteggiarsi della classe politica siciliana e dei funzionari dello Stato sul problema della delinquenza in Sicilia»4. Da questo documento, accanto ad un’utilizzazione pacifica, non problematica, del termine mafia, quasi fosse cosa su cui tutti si potessero intendere facilmente, emerge chiaramente il sempre più deciso irrigidimento delle posizioni: da una parte i rappresentanti dell’ordine pubblico ed i politici siciliani filogovernativi, impegnati a dimostrare la stretta connessione tra mafia e opposizione politica, dall’altra gli stessi rappresentanti dell’opposizione, non importa se regionista o di sinistra, e non pochi dei più importanti maggiorenti isolani, intenti ad accusare il governo di abuso, per meri fini di lotta politica, nell’impiego delle norme di legge di Pubblica sicurezza, in particolare l’ammonizione e il domicilio coatto, emanate nel 1865; da una parte una Destra incapace di affrontare la questione “Sicilia”, se non in termini di ordine pubblico, nel segno di una progressiva criminalizzazione di tutta la classe dirigente isolana, 3.  M. Da Passano (a cura di), I moti di Palermo del 1866. Verbali della Commissione parlamentare di inchiesta, C.D. Archivio storico, Roma 1981. 4.  P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, cit., p. 915.

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dall’altra quella stessa classe dirigente sempre più antigovernativa, vieppiù cementandosi dentro la trincea del sicilianismo. Uno scontro che porta dritti alla grande vittoria della Sinistra nelle elezioni del 1874, premessa fondamentale della “rivoluzione parlamentare” depretisiana di due anni dopo. Uno scontro che ha il suo culmine nel dibattito parlamentare dei giugno 1875, quello che porterà all’istituzione di una Giunta per l’inchiesta sulle condizioni economiche e sociali della Sicilia, poi nota come Inchiesta Bonfadini, ed alla promulgazione della legge sui Provvedimenti straordinari di Pubblica sicurezza, in sprezzo alla fiera opposizione della quasi totalità dei deputati isolani; un dibattito memorabile che registra il famoso intervento del deputato Diego Tajani, già procuratore generale di Palermo, in cui si denuncia l’incredibile promiscuità tra funzionari del Regno e le bande di briganti, le numerose complicità dello Stato in fatti criminali, l’impiego di delinquenti in servizi di ordine pubblico, il continuo patteggiamento coi latitanti. In questo quadro nasce l’inchiesta privata di Franchetti e Sonnino che arrivano in Sicilia all’inizio del 1876 e vi si trattengono fino a maggio. Memorabile l’incipit del libro di Franchetti: «La prima impressione del viaggiatore che, sbarcato a Palermo, visita la città e i suoi dintorni ed ha occasione di frequentare anche in modo superficiale la parte educata di quella popolazione, è certamente una delle più grate che si possano immaginare». Non c’è che dire, aggiunge Franchetti: l’illuminazione notturna è «una delle migliori d’Europa»; quanto all’accoglienza dei forestieri, «la squisita cortesia non si limita alle forme esterne»; per di più, «la perfezione della coltura nei giardini d’agrumi della Conca d’oro è proverbiale». Insomma: «nei primi momenti, il nuovo venuto si lascia andare a quell’incanto di uomini e di cose, e sparisce dalla sua mente la memoria delle notizie e polemiche dei giornali, delle discussioni parlamentari, di tutto il rumore fatto intorno alla questione siciliana». Ma basta trattenersi qualche giorno tra quegli indimenticabili giar-

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dini, ascoltare le tante storie di mort’ammazzati, perché i colori cambino e ogni cosa si trasformi. È come lo strappo in un cielo di carta: «Dopo un certo numero di storie, tutto quel profumo di fiori d’arancio e di limone principia a sapere di cadavere»5. E in un attimo quella terra dolce e profumata si trasforma nella patria dell’impunità e dell’omertà. La domanda, quella radicale sottesa a tutta l’inchiesta, è ineludibile: «Quali sono le ragioni di questa inaudita potenza di alcuni?»6. La risposta arriva secca e chiara, sin dalle prime pagine: in una situazione in cui «la violenza va esercitandosi apertamente, tranquillamente, regolarmente»7, «se si va a ricercare il primo fondamento dell’influenza di chi ha un potere reale, lo si trova inevitabilmente nel fatto o nella fama che quella tale persona ha possibilità, direttamente o per mezzo di terzi, di usare violenza»8. Franchetti è convinto che la cagione prima dello stato di violenza che regna in una parte di Sicilia sta in quella condizione sociale comune a tutta l’Iso­la, la quale fa sì che, per una tradizione non interrotta dal Medio Evo fino ai nostri giorni, la potenza personale vi abbia conservata autorità efficace e riconosciuta.9

Ecco il punto: la permanenza di strutture feudali è la causa prima di questa prevaricazione privata che travalica ogni forma di autorità pubblica. Ma c’è un’aggravante, dovuta all’abolizione della feudalità postulata dalla Costituzione del 1812: la perniciosa «sovrapposizione delle istituzioni degli Stati moderni sopra condizioni sociali proprie di uno stadio diverso della

5.  L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, cit., pp. 5-6. 6.  Ivi, p. 7. 7.  Ibidem. 8.  Ivi, p. 11. 9.  Ivi, p. 89.

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civiltà»10. Che cosa era infatti accaduto? Che con la scomparsa dell’unico diritto positivo, per quanto feudale, e rimanendo «come prima libero il campo alla prepotenza privata, per l’assoluta impotenza dell’autorità sociale ad imporre le sue leggi con la forza»11, la popolazione finì per perdere il senso di quella distinzione tra comportamento legale ed illegale che un sistema di leggi, per quanto iniquo, riesce comunque a garantire. Insomma: se prima della riforma «la potenza e la forza materiale erano così in diritto come nel fatto, riservate ad una classe della Società»12, ora, persistendo le condizioni di fatto precedenti, e abolito ogni vincolo e privilegio, «l’industria della violenza» ha guadagnato «una esistenza e un’organizzazione indipendenti»13. Franchetti non ha dubbio: «l’organizzazione della violenza diventata per tal modo più democratica, è adesso accessibile […] quasi ad ogni ceto e ad ogni classe»14. Il risultato di tutto questo processo non è solo l’assoluta refrattarietà della «generalità dei Siciliani» ad un «sentimento della Legge superiore a tutti ed uguale per tutti»15, è, soprattutto, la nascita della «classe indipendente dei facinorosi», la cui importanza le conferisce un’autorità non solo materiale e di fatto, ma «morale»: In conseguenza, nell’Isola, la classe dei facinorosi si trova in condizione speciale, che non ha nulla che fare con quella dei malfattori in altri paesi per quanto possano essere numerosi, intelligenti e ben organizzati, e si può quasi dire di essa che è addirittura un’istituzione sociale. Giacché, oltre ad essere un istrumento al servizio di forze sociali esistenti ab antiquo, essa 10. Ivi, p. 88. 11.  Ivi, p. 94. 12. Ivi, p. 92. 13.  Ivi, pp. 94-95. 14.  Ivi, p. 95. 15.  Ivi, p. 39.

80 è diventata per le condizioni speciali portate dal nuovo ordine di cose, una classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante.16

La questione dell’autorità non solo militare, ma etica, di questa classe di intermediari che produce violenza è di fondamentale importanza: Franchetti osserva che, in Sicilia, i malfattori non sono «isolati in mezzo alla società» come negli altri paesi, ma trovano, intorno a loro, un terreno fertilissimo di sviluppo, essendo la società isolana, «fondata essa medesima sulla potenza privata»17, cementata per di più da legami fondati sull’omertà. Tale premessa è indispensabile per comprendere l’analisi della mafia. Scrive Franchetti: Si crede generalmente che i fenomeni abbracciati da questo suo significato comune compongano da sé soli un fatto sociale completo, mentre ne sono solamente manifestazioni parziali. […] Il fatto completo di cui solamente un fenomeno è compreso nel significato comune della parola mafia è una maniera di essere di una data Società e degli individui che la compongono ed in conseguenza, per esprimersi efficacemente ed in modo da ottenerne un’idea chiara, conviene significarlo non con un sostantivo, ma con un aggettivo. L’uso siciliano, giudice competente di questa materia, lo esprime precisamente coll’aggettivo mafioso, col quale non viene significato un uomo dedito al delitto, ma un uomo che sa far rispettare i suoi diritti, astrazione fatta dei mezzi che adopera a questo fine. E siccome nello stato sociale che abbiamo cercato di descrivere, la violenza spesso è il miglior mezzo che uno abbia di farsi rispettare, così è nato naturalmente che la parola usata in senso immediatamente derivato, venisse ad esprimere uomo dedito al sangue. Laonde il sostantivo mafia ha trovata pronta una classe di violenti e di facinorosi che non aspettava altro che un sostantivo che l’indicasse, ed

16.  Ibidem. 17.  Ivi, pp. 95-96.

81 alla quale i suoi caratteri e la sua importanza speciale nella società siciliana davano diritto ad un nome diverso da quello dei volgari malfattori di altri paesi.18

Si tratta di un passo di eccezionale densità. Franchetti vi distingue la mafia «come maniera d’essere di una data Società», da quella che riconosce invece in un particolare segmento della società siciliana, in quanto associazione di malfattori organizzata in modo speciale. Ha ragione Salvatore Lupo, sottolinean­ do questo particolare aspetto dell’analisi di Franchetti: siamo di fronte ad un testo fondamentale per le successive spiegazioni socio-antropologiche, le quali peraltro, tutte, si manterranno di molto al di sotto del modello assumendo il concetto della conseguenzialità tra il background culturale e il fenomeno mafioso, ma trascurando la necessaria distinzione tra l’uno e l’altro, derivante dall’esistenza di una «classe con industria e interessi suoi proprii, una forza sociale di per sé stante», quella dei malfattori.19

Vogliamo, però, spingere ancora più avanti tale discorso. Se è infatti vero che la straordinaria inchiesta di Franchetti fornì un paradigma per intendere la storia della mafia, consegnandoci un’interpretazione del fenomeno fondata sulla permanenza anomala, in Sicilia, di strutture feudali, interpretazione che sarebbe stata fatta propria da molti studiosi del nostro secolo20, è altrettanto vero che questa enfatizzazione del retroterra culturale come terreno di coltura della mafia poté guidare metodologicamente, nella sua risposta, Pitrè, il quale non fece altro che mutare di segno, da negativo in positivo, alcune del18.  Ivi, p. 97. 19.  S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 33. 20.  Si pensi, tra i tanti, al libro di E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi, Torino 1947, o a quello, molto fortunato, di H. Hess, Mafia, pref. di L. Sciascia, Laterza, Roma-Bari 1973. Sulla questione cfr., comunque, R. Spampinato, Per una storia della mafia, cit., pp. 890-893.

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le argomentazioni di Franchetti. Di più: se furono numerosi, e avremo modo di constatarlo in questo capitolo, gli apologeti della mafia, i difensori entusiastici della cultura sicilianista, non mancarono neanche quelli che, ipostatizzando il discorso di Franchetti, e traducendo la storia di un popolo nell’eterna natura di una gente, si abbandonarono, non di rado, a condanne altrettanto generiche di un cosiddetto “spirito” siciliano21.

2. Una rêverie di Sicilia: le negazioni di Capuana La reazione all’inchiesta di Franchetti e Sonnino, lo sappiamo già, fu energica e sdegnata. Energia e sdegno, aggiungiamo, moltiplicati dal fatto che essa si era svolta proprio nell’anno in cui Cesare Lombroso congedava, per i tipi di Hoepli, L’uomo delinquente, libro da cui la pubblicistica coeva e lo stesso Lombroso avrebbero ricavato molti degli argomenti per un’interpretazione della mafia in chiave etnica e genetica. Intendiamoci, non si può certo dire che la denuncia dei due “continentali” non avrebbe lasciato alcun segno sull’intelligenza siciliana: basti qui fare i nomi di Napoleone Colajanni e Giuseppe De Felice Giuffrida22. Certo è che la passione “sici21.  Si possono ricordare, per citare i soli siciliani, il saggio di G. Mosca, Che cosa è la Mafia (1901), in Id., Uomini e cose di Sicilia, Sellerio, Palermo 1980, pp. 3-25, ove si distingue lo “spirito” mafioso appartenente a tutti gli abitanti dell’isola, dall’“organizzazione”, propria di una minoranza di malfattori, oppure il libro di V. Titone, Storia mafia e costume in Sicilia, cit., p. 158, per il quale la mafia «ben lungi dal costituire qualcosa di accidentale, deve considerarsi da un lato come espressione dell’anima dell’isola, dall’altro come l’esasperazione o il massimo denominatore comune di certi dati umani in essa quasi universalmente diffusi e più o meno evidenti, in relazione alle circostanze, ai luoghi, ai tempi, agli individui stessi». 22.  Napoleone Colajanni, nel suo La delinquenza della Sicilia e le sue cause, Tipografia del «Giornale di Sicilia», Palermo 1885, polemizzando contro il Lombroso che aveva ravvisato la causa del malandrinismo isolano nell’ere-

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lianista” dilagò senza più argini, se arrivò a travolgere persino dità antichissima delle tribù berbere e semite che avevano stazionato nella Conca d’Oro, ribadiva l’importanza «determinante» del fattore sociale rispetto a quello fisico e antropologico (p. 23), focalizzando la sua attenzione sul pernicioso rapporto sociale tra proprietario e contadino, causa «dei frequenti torbidi» (p. 35). Su questa base, riteneva che una parte di vero ci fosse in quella tesi franchettiana «che designa la mafia come un sentimento medievale», caratterizzato dall’avversione allo Stato, dalla diffidenza nei confronti della polizia e della magistratura, «dalla salda convinzione che un individuo solo da sé stesso e con le proprie mani può ottenersi e farsi giustizia vera e completa» (p. 25). A differenza dell’intellettuale toscano, però, pur non negando l’esistenza della mafia come organizzazione, ne concepiva la genesi come emanazione diretta di quel «sentimento medievale», quasi modo d’essere specifico di tutta la società isolana. Colajanni ritornò sull’argomento dopo il delitto Notarbartolo che aveva attirato sulla Sicilia, durante il lungo processo, un fiero moto di indignazione e protesta. In questo suo nuovo testo, intitolato Nel Regno della Mafia, cit., Colajanni ribadisce le sue vecchie posizioni sostenendo l’esistenza della mafia sin dal tempo dei Borboni, accusando però lo Stato sabaudo di non aver fatto nulla per combatterla, ma di averne piuttosto incoraggiato la crescita per i continui ed amichevoli rapporti che i propri funzionari avrebbero con essa intrattenuto. Colajanni, insomma, porta opportunamente la polemica su un piano politico-istituzionale ma, di fronte all’attacco che la Sicilia sta subendo dal “continente”, non riesce neanche lui ad evitare il ricatto “sicilianista”, dilatando il termine mafia fino al punto di comprendervi ogni istituzione dello Stato nuovo, col risultato che se la mafia finisce per comprendere tutto, nulla, alla fine, può essere veramente definito come mafia: «Per combattere e distruggere il regno della mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il re della mafia! Ma esso ha preso troppo gusto ad esercitare quella sua disonesta e illecita podestà; è troppo esercitato ed indurito nel male. Siamo pervenuti al punto in cui non si può sperare nella cessazione della funzione, che colla distruzione dell’organo… Il regno della mafia in Sicilia non cesserà se non il giorno in cui con una vera instauratio ab imis i Siciliani acquisteranno la libertà vera, il diritto e i mezzi di punire i prepotenti, di mettere alla gogna i ladri e di assicurare a tutti la giusta!». Come non sentire in queste parole la eco di recenti polemiche: vale sempre l’antico detto salomonico nihil novi sub sole. Per quanto riguarda Giuseppe De Felice Giuffrida, ricordiamo il suo Maffia e delinquenza in Sicilia, Società Editrice Lombarda, Milano 1900, p. 38, ove il deputato socialista, tutto concentrato sulla questione sociale, persegue il suo discorso sulla falsariga

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un intellettuale radicale di orbita rapisardiana come Enrico Onufrio, l’autore dimenticato di un romanzo tutt’altro che trascurabile come L’ultimo borghese (1885), il quale, sulla «Nuova Antologia» del febbraio 1877, distinguendo i mafiosi in tre categorie, camorristi, ricottari, eufemisticamente definiti come «strenui paladini delle donne perdute», e briganti, arrivava a considerare il fenomeno criminale quasi esaurito, insomma a negarlo di fatto. Secondo l’Onufrio, infatti, i camorristi erano ormai «interamente spariti», avendo seminato «delle loro ossa i campi di Milazzo e di Volturno», i ricottari, frequentatori di taverna, giocatori di “tocco” abilissimi nel tirare di coltello, scrupolosi osservanti della legge dell’omertà, erano in via di estinzione, mentre il brigantaggio, ancora forte nonostante le numerose sconfitte subite, poteva essere debellato con un’efficace, e finalmente intelligente, opera di pubblica sicurezza, ma, soprattutto, con una decisa e rigorosa riforma agraria23. Diciamo subito che, dentro la disapprovazione generale, la risposta più interessante all’inchiesta di Franchetti e Sonnino, tra gli uomini di lettere, venne da quelli della Sicilia orientale, proprio da quelle province, cioè, che Franchetti aveva definito come «tranquille»24. In Sicilia occidentale, il vero regno della mafia, dopo quel fatidico 1876, si continuò a scrivere, come si era sempre fatto, più che di mafia, di briganti e brigantaggio, e le pagine di Franchetti erano scivolate come acqua, almeno

della polemica antifeudale di Franchetti, arrivando a sostenere convinzioni come questa: «Nella parte orientale dell’isola, scomparsa la prepotenza baronale, scomparve la mafia». 23.  Cfr. E. Onufrio, La mafia in Sicilia (1877), in P.M. Sipala, Enrico Onufrio tra ideologia e letteratura, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 1972, pp. 165-175. 24. Cfr. L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, cit., pp. 57-60.

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fino alla replica di Pitrè25: ricordiamo, tra gli altri, i nomi di Giuseppe Di Menza che nei suoi Masnadieri maurini (1878) racconta le crudeli gesta dei vari Rocca, Rinaldi, Botindari e Di Giovanni, di Emanuele Scalici col suo La Cavalleria di Porta Montalto o i fratelli Amoroso (1884), dedicata alla feroce famiglia oggetto di un famoso processo, di Salvatore Mannino il quale, nel feuilleton Terra di briganti?! (1907), celebra l’efferato brigante Antonino Leone, a proposito del quale si poteva già leggere la raccolta anonima Episodii della vita del masnadiero Leone (1878). Non occorre, su tali testi, aggiungere più di quello che abbiamo scritto nel I capitolo a proposito della letteratura dedicata al brigantaggio. Discorso ben diverso occorrerà fare per i libri dei grandi veristi della Sicilia orientale, a cominciare da un testo come quello di Capuana, La Sicilia e il brigantaggio, apparso nel 1892, ma non prima di aver sottoscritto una lucida considerazione di Sciascia: vogliamo soltanto considerare la paradossale situazione per cui una letteratura impegnata a non tradire il vero, a dare ragguaglio della realtà, di fronte alla mafia abbia osservato una sorta di omertà o ne abbia dato una rappresentazione improntata più agli astratti sensi etimologici e filologici.26

L’intento apologetico del libro di Luigi Capuana appare chiaro sin dalle prime pagine. Lo scrittore ricorda una sera di Natale a Milano, quando gli giunse il suono di una ninnananna siciliana popolarissima; la commozione lo coglie intensa e improvvisa fino alle lacrime:

25.  Anche il libro di Salvatore Salomone Marino, Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia (1897), fu concepito, originariamente, in reazione all’inchiesta di Franchetti e Sonnino, per diventare poi una risposta all’ideologia che si era manifestata nelle sollevazioni popolari del movimento dei Fasci siciliani del 1893. 26.  L. Sciascia, Letteratura e mafia, cit., p. 1108.

86 In quei pochi momenti che rimasi ad ascoltare – non ho mai più avuto una sensazione musicale così dolce e così intima, e mai strumenti suonati da mani e labbra umane mi hanno prodotto l’illusione degli angelici strumenti di cui parlano spesso i poeti – in quei pochi momenti ebbi vivissima coscienza della profonda radice che l’amore della patria ha nel nostro cuore apparentemente scettico e distratto, e fui lietissimo di sentirmi siciliano assai più che non credevo.27

E ancora: al suono della ninna-nanna, ebbi rimorso di non essermi sentito fino a quel giorno siciliano abbastanza; di avere esagerato anch’io i difetti del carattere isolano e di non averne apprezzato equamente i pregi particolari ogni volta che, interrogato, avevo dovuto ragionarne – allora non prevedevo la fioritura di novelle siciliane a cui dovevo anch’io contribuire –; ebbi rimorso di non aver difeso calorosamente e senza sciocche gonfiezze di amor provinciale, la Sicilia, quando l’avevo sentita mal giudicata o calunniata, cosa non rara purtroppo. E in questi giorni che si torna a parlare della mia isola, ripetendo con serena ignoranza i soliti luoghi comuni, da me creduti già riposti per sempre nell’arsenale delle robe smesse, quella rivelatrice sera di Natale mi è rivenuta alla mente, per contrasto.28

Questo passo, come si vede bene, si giuoca tutto nella luce della rêverie, secondo un processo psicologico che è simile, ci pare, a quello con cui si apre la novella di Verga Nedda. Un processo ben investigato da Nino Borsellino, per scoprire un Verga che «non ha ancora fiducia nell’autonomia della sua invenzione», né nell’«effetto di realtà» che la novella rivela: grazie alla «voluttuosa pigrizia del caminetto» di fronte al quale si

27.  L. Capuana, La Sicilia e il brigantaggio, Stabilimento Tipografico Italiano, Roma 1892, pp. 6-7. 28.  Ivi, p. 7.

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trova, Verga rievoca l’immenso focolare di una fattoria alle falde dell’Etna e, con esso, la storia della povera raccoglitrice di olive, così facendo, «scorge in dissolvenza, tra le faville, “l’altra parte” di sé che va lontano a recuperare un’immagine perduta»; siamo ad un giuoco di complicità e distanza che lascia affiorare, proprio mentre si stanno aprendo i nuovi orizzonti veristici del «documento umano», il «limite di una memoria di classe», quello che per ora impedisce allo scrittore di «occultarsi col mondo elementare di cui va scoprendo il significato e la forma»29. Tale giuoco di complicità e distanza, non sappiamo quanto inconscio in Verga, diventa invece in Capuana una forma di mistificazione della realtà: di fronte ai brutali attacchi di cui la Sicilia è fatta oggetto il Capuana si proietta nella Sicilia di un’infantile ninna-nanna, cullata dentro l’onda di una nostalgia, la Sicilia vera e intensa dei sentimenti da contrapporre a quella falsa delle polemiche nazionali sulla mafia e l’ordine pubblico. Su questo giuoco di identificazioni e distanziamenti, su questa oscillazione tra l’isola d’oro dell’infanzia e quella nera della lupara, inventata dai detrattori settentrionali, si sviluppa l’intero pamphlet di Capuana. Un pamphlet, occorre aggiungere, nato da un autentico disagio psicologico, quello che meglio si registra nella conferenza La Sicilia nei canti popolari e nella novellistica contemporanea, poi pubblicata nel 1894 a Bologna, ove lo scrittore s’interroga sulla «profonda tristezza» che gli era insorta nel momento in cui aveva messo piede sull’iso­la, dopo ben sei anni di assenza: una tristezza che, guarda caso, trova la sua ragione proprio in quella trasformazione dei costumi che avrebbe mutato completamente il significato, una volta positivo, di termini come mafia e mafioso; una tristezza, bisogna ribadirlo, che è, insieme, perdita della Sicilia vera e del cuore, scoperta di un’inedita Sicilia malavitosa, «imposta»

29.  N. Borsellino, Storia di Verga, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 44-45.

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col progresso dei costumi non si sa da chi, non si sa da dove30. Ma andiamo con ordine. Nel deflagrare di un inedito sentimento patrio, nell’orgoglio di sentirsi siciliano, di contro ad accuse così ingiuste e false, cresce in Capuana il rimorso di aver contribuito con le sue opere al processo di criminalizzazione dell’isola. La sua excusatio non petita ha tali e sottili implicazioni che va seguita con attenzione. Il pensiero di Capuana va subito a Verga: Hai sentito, in questa occasione, anche tu, o Giovanni Verga, la stessa acuta punta di rimorso, ripensando alla tua Vita dei

30.  Cfr. L. Capuana, La Sicilia nei canti popolari e nella novellistica contemporanea, in Id., Verga e D’Annunzio, a cura di M. Pomilio, Cappelli, Bologna 1972, ove si lamenta «l’opera livellatrice dei tempi nuovi»: «l’opera però che ha distrutto e scancellato e non ha ancora creato niente da sostituire; che ha spazzato via ogni cosa, il cattivo e il buono, la superstizione e la fede, l’eccesso e l’abuso della forza e la forza stessa insieme, la tradizione e la particolarità originale, il costume e il sentimento; e che ha pure alterato il significato d’una bella parola, riducendola ad esprimere soltanto una bruttissima cosa, e l’ha imposta ai siciliani così come l’ha fraintesa» (pp. 144-145). Quale sia questa parola, «il cui significato frainteso è stato talmente imposto ai siciliani» (p. 145), è presto detto: «Mafia, una volta non voleva dire in Sicilia una specie di associazione di malfattori; e il mafioso non era un ladro, né molto meno un brigante. L’aggettivo mafioso significava qualcosa di grazioso e gentile, qualcosa di bizzarro, di spocchioso, di squisito; mafiosa veniva chiamata una bella ragazza, mafioso qualunque oggetto che i francesi direbbero chic. E il mafioso era ordinariamente un giovane con qualche grillo in testa, vanitoso della sua bellezza virile, della sua forza muscolare; che non si lasciava posare una mosca sul naso; che riparava a modo suo i torti, o imponeva riconciliazioni; e che, quasi per insegna del suo carattere, vestiva con pantaloni larghi, con cravatte svolazzanti, camminava dondolandosi un po’, con gli occhi socchiusi e il cappello sulle ventitré, palleggiando la mazza nodosa; spesso personaggio innocuo affatto, se non aveva altro che la vanità. Oggi mafia e mafioso non sono più niente di tutto ciò. Come è avvenuto? Non m’importa di ricercarlo in questo punto, ma non nascondo che deploro che sia avvenuto» (pp. 145-146). Il lettore noterà da sé come Capuana ricalchi qui puntualmente la definizione di Pitrè, non a caso riportata in appendice nel suo La Sicilia e il brigantaggio, cit., pp. 88-93.

89 campi, alle tue Novelle rusticane, dove vive felicemente, e per l’eternità, la parte più umile del popolo siciliano, con le sue sofferenze, con la sua rassegnazione orientale, con le sue forti passioni, con le sue ribellioni impetuose e coi suoi rapidi eccessi?31

Il fatto è, aggiunge Capuana, che il pubblico, lungi dal soffermarsi sulle tante opere, da Rosso Malpelo al Canonico Salamanca, in cui non v’è «neppure una punta di spillo, quantunque quelle figure fossero tanto schiettamente siciliane», ha preferito concentrarsi sul «duello rusticano» tra Alfio e Turiddu Mosca dell’opera verghiana, quasi esso fosse «la tipica rivelazione dei costumi siciliani, e non ha più voluto udir altro»32. Un atteggiamento che suscita interrogativi: Come mai, però, questi benevoli lettori non hanno riflettuto che noi, per ragioni di arte, abbiamo dovuto restringerci a studiare quanto vi ha di più singolare, di più efficacemente caratteristico nelle nostre provincie […] e tralasciare tutto quel che di esse hanno comune con le altre provincie e che non è punto poco, come pare si creda?33

Questi lettori non hanno forse capito qual è stato il processo che ha portato gli scrittori veristi a certi approdi: «Per trovare un filone nuovo, inesplorato, noi avevamo dovuto inoltrarci nella grande miniera del basso popolo delle cittaduzze, dei paesetti, dei villaggi, interrogando creature rozze, quasi primitive, non ancora intaccate dalla tabe livellatrice della civiltà». Un processo nato talvolta dal desiderio di fissare «il residuo di un passato non lontano, ma sparito per sempre», talaltra dalla volontà di registrare «la bizzarra modalità di una passione, l’atteggiamento di un carattere eccentrico»34. Sarebbe bastato,

31.  L. Capuana, La Sicilia e il brigantaggio, cit., p. 8. 32.  Ivi, pp. 9-10. 33.  Ivi, p. 10. 34.  Ivi, pp. 10-11.

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aggiunge Capuana, che Verga toccasse «un lembo della vita signorile palermitana» nel Mastro don Gesualdo, che De Roberto intraprendesse a scrivere «la vita di una signora isolana signorilmente educata» nell’Illusione, che egli stesso componesse «un semplice idillio provinciale in Profumo», perché la vita siciliana si palesasse simile a quella di «qualunque altra provincia italiana»35. Curiosa posizione questa del Capuana: pur di rintuzzare l’attacco alla sua Sicilia è disposto ad asportare con un colpo di bisturi tutto quel che delle abitudini isolane si presti alla demonizzazione, comprese quelle entrate in larga parte dell’opera sua e di Verga: niente altro che manifestazioni di una Sicilia bizzarra e marginale, quella degli strati infimi della popolazione, su cui per altro avrebbe agito già da tempo l’opera livellatrice del progresso. Curiosa soprattutto se si pensa che due anni dopo, a proposito di un articolo di Eduardo Boutet, apparso nel «Don Chisciotte di Roma» del 7 gennaio 1894, ove si additava nell’opera dei veristi una Sicilia accademica e di maniera, diversissima da quella rivelatasi nei fatti sanguinosi di Caltavuturo e Valguarnera, durante le agitazioni dei Fasci siciliani, Capuana avrebbe risposto in modo opposto, rivendicando la capacità di rappresentazione degli scrittori siciliani, e rivendicando il grande realismo di una novella come la verghiana Libertà36. La contraddizione può spiegarsi solo notando che le due diverse reazioni sono il portato di una medesima ideologia sicilianista, quella che troviamo chiaramente formulata poche pagine più avanti del pamphlet antifranchettiano. Di fronte all’ovvia constatazione dell’identità tra il «basso popolo» siciliano e quello continentale, Capuana si chiede quali siano le ragioni che abbiano prodotto «l’incredibile miraggio della Sicilia strana, fantastica, diffor-

35.  Ivi, pp. 11-12. 36. Cfr. L. Capuana, Polemica, in Id., Verga e D’Annunzio, cit., pp. 117-125.

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me dalla realtà, di cui tutti ragionano e discutono […] con la perfetta buona fede dell’ignoranza»37, si domanda «per quale inesplicabile fatalità […] quei fatti, ordinari o anche straordinari, ma comuni a tutti i paesi del mondo, se avvenuti in Sicilia, assumano subito importanza speciale, prendano proporzioni gigantesche», tali «da far supporre che laggiù, in quell’isola mitologica, agiscano terribili forze nascoste»38. Capuana non ha dubbi sulla falsità delle tesi di chi accusa la sua terra: «l’Isola del Sole, oggi, merita questo titolo unicamente pel suo splendido cielo, per le sue campagne ricche di messi e di giardini, per le sue aridità quasi africane nella stagione estiva, per gli splendidi occhi delle sue donne, per la vivida intelligenza dei suoi abitanti, e non per altro»39. È questa la vera Sicilia: e così apparve a Guy de Maupassant che la celebrò nella cappella Palatina e nella Venere di Siracusa. E Capuana incalza: La fatalità che ho accennato apparisce ancora più misteriosa, quando si pensa all’esito degli sforzi fatti dai pochi italiani del continente andati laggiù per conoscere l’isola, per studiarla da vicino. Il vecchio pregiudizio è rimasto più forte dei loro propositi d’imparzialità. Due giovani colti e disinteressati si lanciano un giorno in un’impresa affatto nuova tra noi.40

Evidentissima, qui, l’allusione all’inchiesta di Franchetti e Sonnino: un’inchiesta, Capuana ne è convinto, che poggiava su un pregiudizio, quello di un medico che accorre al letto del malato convinto, prima ancora di andare, che la sua malattia contempli qualcosa «d’insolito, di complicato, di ribelle alle indagini

37.  L. Capuana, La Sicilia e il brigantaggio, cit., p. 12. 38.  Ivi, p. 12. 39.  Ivi, pp. 15. 40.  Ivi, pp. 17-18.

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e alle cure della scienza». E dopo aver esposto gli sconcertanti risultati di quel viaggio, Capuana perde la pazienza: Ma da quale Colonia felice, da quale repubblica di Utopia, da quale Città del Sole provengono costoro, se si scandalizzano a questo modo di cose e di fatti che avvengono dovunque, ogni giorno, forse per accresciuto pervertimento della società contemporanea, o senza forse, per intima costituzione naturale della razza umana?41

Siamo al nodo dell’argomentazione di Capuana. Forte della finzione retorica di un siciliano «mezzo sofisticato», non acceso di orgoglio provinciale e che abbia viaggiato e vissuto molto per il mondo, Capuana sfodera il suo asso dalla manica: la statistica criminale. E la statistica criminale, quanto a «totale dei reati denunciati», quanto a «grassazioni con e senza omicidio e furti qualificati», quanto a processi evasi per mancanza di prove, mostra che le città siciliane non sono mai ai primi posti: anzi42. Di fronte a tutto ciò solo questo vorrebbe il nostro siciliano «mezzo sofisticato»: «che nel giudicare i fatti non si usassero due pesi e due misure», che, insomma, ladri e assassini del continente e della Sardegna «non fossero creduti di pasta diversa» da quella dei corrispettivi delinquenti siciliani43. Una domanda sorge spontanea: «per quale nascosta ragione i malfattori isolani debbano far riverberare la loro cattiva luce sopra migliaia di oneste persone, vittime incompiante delle soperchierie di costoro; quasi laggiù soltanto […] la pianta uomo nasca maculata di particolar peccato originale»44, come del resto sembrano sostenere i Lombroso, i Garofalo, i Ferri, e un’illustre schiera di fisiologi e professori. Niente in Sicilia è

41.  Ivi, pp. 18-19 e 21. 42.  Ivi, pp. 25-28. 43.  Ivi, p. 30. 44.  Ivi, p. 31.

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differente dal resto del paese: d’altra parte «briganti, ricattatori, manutengoli, informatori, sommati insieme, non arrivano a mezzo migliaio, mettendo un conto grosso»45. Perché, si chiede Capuana, l’opinione pubblica nazionale giudica i siciliani complici del brigante Leone mentre assolve i conterranei del maremmano Tiburzi? Eppure: «i contadini e i proprietari siciliani non fanno né più né meno di quel che fanno, nelle stesse condizioni, i contadini e i proprietari […] del Viterbese»46. L’unica ragione di questa «disparità di trattamento» che l’isola subisce sui giornali e nei libri, relativamente ai fatti criminali, non può che risiedere allora in un’«inesplicabile fatalità»47. Per altro, incalza Capuana, l’accusa di cui i siciliani sono oggetto potrebbe essere rovesciata, col ricordare l’assoluta incapacità dei funzionari piemontesi di capire il luogo ove si trovavano, dato che per essi «la Sicilia rappresentava allora qualcosa di simile all’Africa nera»48.

45.  Ivi, p. 41. E ancora: «Non si può mica dire o stampare di sette popolose provincie […] che il più religioso dei loro abitanti è superstizioso peggio di un selvaggio della Polinesia o del centro dell’Africa; che il più ossequioso alla legge è recalcitrante a ogni disposizione del codice civile e penale peggio di un cafro; che la famiglia siciliana, in apparenza patriarcale, sia la più brutta negazione di questo primo e fondamentale legame dell’umano consorzio, senza poi trarne le illazioni che laggiù non ci sia una società ma il caos, non persone degne del nome di un uomo, come la forma del loro corpo indurrebbe a credere, ma jene, ma giaguari, ma tigri, ma leoni, sì, però di nome soltanto, giacché questo re degli animali ha almeno la generosità che i Leone di laggiù non conoscono neanche di nome» (ivi, pp. 43-44). Il riferimento è, ovviamente, all’efferato brigante Antonino Leone. 46.  Ivi, p. 60. Cfr. anche le pp. 72-78, ove Capuana si dilunga nel mostrare come la natura del brigantaggio isolano non sia diverso da quello che affligge altre regioni come le Calabrie o il Lazio. 47.  Ivi, pp. 36, 44, 58 e 78. 48.  Ivi, p. 45. Altra dimostrazione dell’assoluta inettitudine dei governanti “piemontesi” è offerta dagli «orrori della caccia ai renitenti alla leva – in un paese nuovo alla coscrizione – praticata come fra selvaggi, assediando

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Il discorso non cambia quando Capuana si volge alla tanto discussa questione mafiosa. Che cosa direbbe quel siciliano «mezzo sofisticato» a cui si è continuamente richiamato? Innanzi tutto che «tre quarti dei suoi coisolani conoscono la mafia soltanto di nome»49. E comunque, per quanto non ignori che tale parola, nell’opinione comune, ricorda «qualcosa di simile alla camorra napoletana, alla teppa milanese, al bagherinaggio romano», insomma ciò che il codice penale definisce «associazione di malfattori», il nostro siciliano non avrebbe dubbi: Di quella piovra sociale […] mostro dai viscidi tentacoli avvolgenti e stringenti l’Isola da un capo all’altro; di quella mafia leggendaria dagli statuti solenni, dall’organizzazione formidabile, dalle cerimonie di massoneria deturpata, Briareo dalle cento braccia, Argo dai cent’occhi, insinuatasi dappertutto, dappertutto spadroneggiante e tiranneggiante, intenta sempre a deludere la polizia e a ingannare la giustizia, per quanto abbia aguzzato lo sguardo, egli non è riuscito a trovar traccia.50

Eccolo, dunque, il punto d’approdo di Capuana: la mafia non esiste, quella già stampata a colori in forma di mostruosa piovra è solo il frutto di un vero e proprio «daltonismo morale»51. La conclusione del saggio, date queste premesse, non poteva che essere improntata al più fiero sicilianismo. Protagonista è, ancora, quel siciliano «mezzo sofisticato», che ha appena ricordato il ben altro parere che sull’isola hanno gli stranieri: E già egli sogna, ad occhi aperti, mani fraterne che si stringono, occhi che ammirano, cuori che palpitano allo spettacolo, paesetti, minacciando di fucilazione i cittadini se si fossero attentati ad uscir di casa, e di assetarli se tutti i renitenti non si fossero presentati fra 12 ore» (ivi, p. 76). 49.  Ivi, p. 53. 50.  Ivi, p. 54. 51.  Ivi, p. 57.

95 nuovo per loro, di orientali bellezze di natura, di stupendi capolavori d’arte ignorati […]. E in quel giorno – egli sogna ad occhi aperti – non solamente sarà più splendido il cielo […] ma anche i ladri, gli assassini, i briganti si daranno la parola d’ordine di resistere […] alle loro passioni malefiche, e – come nel quarantasette e nel sessanta, – mostreranno che, per patriottismo, fino i peggiori siciliani sapranno degnamente prender parte a quella festa d’amore.52

La richiesta di considerare la Sicilia alla stessa stregua di ogni altra provincia italiana, la negazione della mafia come fatto specificatamente siciliano, la convinzione che siano ben altri i motivi per cui ci si debba interessare dell’isola: sono questi i principali nodi attorno a cui Capuana intreccia il suo discorso, senza che mai venga confutato il punto forte dell’inchiesta di Franchetti, quello che puntava non tanto sulla quantità dei fatti criminosi, dallo scrittore siciliano contestata, quanto sulla qualità della delinquenza isolana, e cioè sul monopolio privato che essa esercitava della violenza, nella più totale latitanza dello Stato, in atti di vero e proprio arbitrato accettati nella competizione sociale dalle stesse classi dirigenti, atti per nulla ritenuti sconvenienti dalla stessa società. Comunque sia, nella Sicilia e il brigantaggio si profila con molta chiarezza il contesto ideologico sicilianista entro cui deve essere letto il Capuana narratore e drammaturgo quando si occupa, magari solo sfiorandolo, del tema della mafia: e non sfugga, a questo proposito, dentro un sentimento apologetico, la connessione movimento rivoluzionario antiborbonico-mafia, la stessa che abbiamo rintracciato, con ben altra articolazione, nella commedia di Rizzotto e Mosca. E già che ci siamo diciamo subito che, quando si volge alla rappresentazione artistica della mafia, Capuana lo fa in due differenti chiavi: l’una insolentemente, ed esibizionisticamente, comica, l’altra elusivamente, omerto-

52.  Ivi, pp. 83-84.

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samente, tragica; l’una e l’altra, comunque, in una direzione di minimizzazione del fenomeno, di sua riduzione ad uno dei tanti aspetti della vita isolana, e non certo tra i principali53. Ma andiamo con ordine. L’opera in cui, più che altrove, la mafia trova un’interpretazione in chiave comica è, senz’altro, la commedia dialettale Lu cavaleri Pidagna, la cui stesura autografa è datata 190354. Protagonista, appunto, ne è il cavaliere Pidagna, personaggio scisso tra l’eccessivo autoritarismo nei confronti della figlia, cui non ha mai perdonato la fuga d’amore, la “fujtina”, e l’eccessiva arrendevolezza nei confronti della giovane amante, la cantante Elsa. Non pochi sono i momenti in cui si percepisce la mentalità latamente mafiosa del cavaliere, che trova comunque la sua migliore espressione quando la giovane amante decide di abbandonarlo per seguire il suo impresario. È a questo punto che il cavaliere convoca una specie di sgherro, Carru Longu, che si definisce esplicitamente «omu d’onori» e che, non a caso, è appellato ’u palermitanu, quasi si voglia sottolineare che la mafia, come forma peculiare di delinquenza, poco abbia a che fare con il dolce lembo orientale dell’isola. Il rapporto che Carru Longu istituisce con il cavaliere, a cui si rivolge col deferente «voscenza», è quello che potrebbe avere un campiere dalla mano svelta col suo feudatario: un rapporto inequivocabilmente mafioso, e fondato sul codice dell’omertà, come ben si evince nella scena VII del I atto, quando il cavaliere mostra di saper comunicare con l’«omu d’onori» mediante il semplice movimento della testa. Non s’illuda, però, il lettore: il cavaliere Pidagna non agisce per motivi d’interesse economico, non si avvale della sua autorità per sbarazzarsi di un pericoloso avversario, non comanda di eliminare uno sco53.  Di parere simile P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, cit., pp. 24-28. 54.  Cfr. S. Zappulla Muscarà, Luigi Capuana e le carte messaggere, vol. II, C.U.E.C.M., Catania 1996, p. 536.

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modo rappresentante della Legge; il cavaliere Pidagna è “mafioso” per amore, vuole dare una bella lezione a chi sta per strappargli l’amante; per di più Carru Longu ’u palermitanu e i suoi «picciotti» sono ben lontani dal compiere un omicidio, ma dovranno limitarsi ad una bella «fraccata di lignati», qualche calcio e qualche pugno insomma, tanto per scoraggiare il rivale del cavaliere. Come si vede bene, questi mafiosi si comportano secondo regole di comportamento che la mafia storica, quella palermitana, difficilmente farebbe proprie. Ma il dato veramente saliente della commedia, quello che la volge in direzione di una decisa anestetizzazione del fenomeno, è il ritratto di Carru Longu, ignorante e un po’ testa calda55, tutt’altro che terribile quanto a ferocia, e molto prossimo al profilo di un poveruomo che si barcamena, come quando, nella scena VI già ricordata, rimasto solo nello studio di Pidagna, arraffa tre o quattro sigari, «ppi nun ’ncummidarlu», per non scomodarlo con la sola richiesta: il ritratto di un «disgraziatu», come si definisce, che non può lavorare perché perseguitato dagli «sbirri» i quali, dice, «cci l’hannu ccu mia», lui che non vorrebbe altro che farsi gli «affaruzzi» suoi. Lu cavaleri Pidagna, insomma, proprio relativamente alla figura molto teatrale e quasi caricaturizzata di Carru Longu, mostra assai bene quale funzione vi giuochi il comico: è proprio in virtù di una luce quasi di farsa che Capuana può smarginare la figura del mafioso, volgerla quasi in macchietta, e consegnarcela come esemplificazione di uno di quei tanti tipi bizzarri ed eccentrici di una vita isolana già superata, nelle sue abitudini, dal progresso, secondo una prospettiva che è appun-

55.  Ci pare interessante rilevare in Capuana l’uso del termine mafia in questa chiave di facile irascibilità, speso per descrivere sé stesso in una lettera alla moglie Adelaide Bernardini del 29 ottobre 1912: «restiamo quali siamo: tu buona, affettuosa con questo tuo povero compagno che ha odiosi momenti d’irascibilità – di mafia… tu dici ridendo» (ivi, p. 577, nota 57).

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to quella rintracciata nella Sicilia e il brigantaggio. In questo senso, non si può che ripetere il giudizio di Enrico Ghidetti, quando, parlando di quelle Paesane (1894) che dovevano rappresentare una risposta all’«immagine falsa e convenzionale» della Sicilia di Franchetti, rileva che in tali novelle «personaggi bizzarri, grotteschi o pittoreschi» finiscono invece per «comporre il quadro oleografico […] di un ambiente fuori della storia e del tempo fermato nella memoria curiosa, nostalgica e ironica dello scrittore»56. Se nel Capuana comico la mafia diventa fatto folkloristico, le cose non vanno meglio, quanto a volontà di comprendere il fenomeno, in quello tragico. Come mostra, con tutte le sue allusioni, con tutte le sue elusioni, uno dei suoi più bei romanzi: Il marchese di Roccaverdina (1901). La storia, per quel che ci interessa, è presto riassunta. Il marchese, dopo aver vissuto quasi in forma di concubinaggio, sempre salvando le apparenze, con la contadina Agrippina Solmo sin da quando questa aveva sedici anni, su pressione della vecchia zia, che ne teme le ambizioni matrimoniali, finisce per darla in sposa al suo fedelissimo campiere Rocco Criscione, col segreto accordo, però, che i due giovani vivano nella più assoluta castità, consentendo al Marchese di continuare, senza più problemi familiari, la propria relazione. Dopo tre anni di felice tranquillità, il marchese, improvvisamente acceso dall’atroce sospetto di una tresca tra i due, uccide Rocco. Poco importa, qui, seguire il marchese nel baratro di follia verso cui lo spingono i rimorsi. Più interessante è constatare quel che di un mondo latamente, e genericamente, mafioso, il Capuana registra o, per dirla meglio, elude. Si può cominciare proprio dal personaggio del marchese il cui comportamento è tipico di una mafia intesa come consuetudine alla violenza privata, comune a tutti in Sicilia, dal «barone 56.  E. Ghidetti, Introduzione, in L. Capuana, Racconti, vol. I, Salerno Editrice, Roma 1973, pp. XLIV-XLV.

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al mendicante», ben diversa dalla mafia come vasta e organizzata «unione di persone di ogni ceto […], allo scopo di provvedere agli interessi comuni, qualunque essi siano»57, stando all’interessantissima distinzione proposta dal pretore di Ravanusa, riportata negli Atti della Giunta per l’inchiesta Agraria e sulle condizioni della Classe Agricola del 1885. Le prove di questo atteggiamento sono molte nel romanzo. Basti pensare all’atteggiamento che tiene col povero Santi Dimaura, colpevole di possedere una lingua di terra dentro il suo feudo, non importa se già proprietario di essa quando «i fondi attorno erano di altri». Costretto ora a vendere la sua terra ad un prezzo vergognoso, compare Santi esprime bene la legge che governa il paese dei Roccaverdina: «Pur troppo, in questo mondo, la brocca di terra cotta che vuol cozzare col sasso ha sempre la peggio!»58. Basti pensare, ancora, alla grande massa di falsi testimoni che il marchese si compra per arrivare alla condanna dell’innocente Neli Casaccio, atto così commentato dal suo avvocato, mentre ricorda il padre del marchese: E per distrarsi, don Aquilante si sforzava di pensare al marchese grande, di cui si raccontava ancora la storiella dei testimoni… Quegli era un vero Roccaverdina!… Altri tempi, altri uomini!… Doveva vincere una lite? Occorrevano prove? E scriveva al suo agente, in paese: – Manda subito, subito, un’altra carrettata di testimoni! – Si compravano a due tarì l’uno!… Falsi, s’intende! Il marchese grande, oh! oh! non guardava tanto pel sottile! La razza su certi punti, è rimasta la stessa. Quando un Roccaverdina prende un dirizzone, è capace di tutto, nel bene e nel male!59

57.  Troviamo la citazione nel saggio di P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, cit., p. 947. 58.  L. Capuana, Il marchese di Roccaverdina (1901), Garzanti, Milano 1942, p. 16. 59.  Ivi, pp. 53-54.

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Basti, infine, pensare alla sua confessione, quando pensa di comprarsi pure l’assoluzione da don Silvio La Ciura e, non riu­ scendovi, lo minaccia di non rivelare ad alcuno quel che sa, per nulla pentito del suo comportamento, nemmeno del fatto che al suo posto sta pagando un innocente, convinto com’è «che la società non è un convento di frati che hanno fatto voto di castità»60. Ma si potrebbe continuare. Altrettanto mafiosa è la mentalità dell’ucciso, il campiere Roc­ co Criscione, che delle terre del marchese «era un altro padro­ ne»61. Mafiosa, almeno nel senso di quella mentalità «borgesemafiosa» di cui parla Sciascia a proposito del «picciotto dritto» Rosolino Cacioppo, protagonista del romanzo di Emanuele Navarro della Miraglia La nana (1879). Mentalità che consisterebbe nel processo di sofisticazione della morale sessuale di certo mondo “borgese”, quello di piccoli proprietari terrieri che lavorano anche a mezzadria le proprietà altrui, per i quali, spesso, l’illecito sessuale delle proprie donne «invece che suscitare esiti tragici veniva come assorbito nella sfera della spiritualità»62: come avviene al giovane mafioso Rosolino che decide egualmente di sposare la popolana Rosaria Passalacqua, 60.  Ivi, p. 93. 61.  Ivi, p. 17. 62.  L. Sciascia, La corda pazza, cit., p. 1059. Nella vasta opera del Capuana non mancano, oltre a Rocco Criscione, personaggi di questo tipo; si legga, ad esempio, la novella Sanguedolce raccolta in Eh! La vita… D’altra parte, replicando a Cameroni che si era stupito del tipo di siciliano che emergeva dal libro del Navarro, Capuana scriveva sul «Corriere della Sera» del 9 giugno del 1879: «“Quelli lì – ho inteso dirmi da qualcuno –. Ma somigliano proprio a noi, non hanno nulla di speciale! È una disillusione!”. Non so che farvi, ma vi assicuro ch’essi sono autentici, nei più minuti particolari. Anche l’amico Cameroni non sa persuadersi in che maniera non si trovi nel libro del Navarro né una pistolettata, né la più piccola coltellata; e non vuol mandare giù quel Rosolino che sposa la Rosaria da lui amata, benché sappia quel che è già avvenuto tra essa e il galantuomo Gigelli. Eppure la chiusa del racconto di Navarro è quanto di più siciliano si possa immaginare. La pistolettata che il

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dopo che questa era stata abbandonata dal “galantuomo” che l’aveva sedotta, nonostante fosse a conoscenza di tutta la faccenda63. È, questa, la stessa vicenda di Rocco Criscione, ma con un di più di violenza, visto che il suo matrimonio nasce per imposizione del proprio padrone. I momenti del romanzo che, comunque, alludono meglio alla temperie mafiosa son quelli che ci restituiscono alcuni dati ambientali, come questo passo sui rapporti del marchese coi “galantuomini” del paese: «Ma il marchese evitava più che poteva di attaccar discorso con quei signori; non voleva mescolarsi affatto nei loro torbidi intrighi municipali», ove si allude, velocemente, alle relazioni politico-clientelari, alle lotte tra fazioni cittadine, al fenomeno di corruzione e collusione degli amministratori, come qui il comportamento «dell’assessore dell’annona», che costituiscono, è noto, il terreno di coltura della mafia. Per non dire della presenza del codice dell’omertà, la cui presunta rottura da parte dell’innocente Neli Casaccio diventa motivo, da parte dei compaesani, di condanna64. Un codice, questo dell’omertà, rigorosamente rispettato in molte novelle, a cominciare da Alle Assise, raccolta nelle Pae­sane. Ma, tra le tante novelle, vogliamo ricordarne una, Un sogno, perché ci pare che in essa campeggi la figura minacciosa di un

Cameroni ci avrebbe voluto sarebbe stato invece un pretto convenzionalismo, e il Navarro ha fatto bene a non caderci». 63.  Sul significato veramente antesignano dell’opera del Navarro nel proporci una Sicilia inedita, quasi «il rovescio della verghiana “cavalleria rusticana”», in un racconto come Una disgrazia, tratto da Donnine, ove si denuncia già il sentimento dell’omertà, ha scritto N. Tedesco, nel suo Una premessa al realismo analitico: Navarro e la ‘morale’ sessuale dei siciliani (1974), ora in Id., La tela lacerata, Sellerio, Palermo 1983, p. 17. 64.  «E la gente, chi giudicava che Neli Casaccio era stato condannato a torto, chi a ragione. Non aveva egli detto: – Gli faccio fare una fiammata? – Questo dovrebbe insegnare a tenere in freno la lingua; chi non parla non falla» (L. Capuana, Il marchese di Roccaverdina, cit., p. 56).

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mafioso, senza che ovviamente di mafia si parli mai. Chi interroga è un uomo a cui appare in sogno l’amico morto, oggetto, in vita, delle attenzioni tutt’altro che gentili di un tal Neli Tasca: «E il Pretore? I carabinieri? Nessuno ha pensato di aprire gli occhi alle Autorità. – Chi vuoi che s’impicci, con don Neli Tasca?»65. Non possiamo non chiederci chi sia don Neli. Certamente un uomo capace di intimorire e mettere a tacere chiunque: un mafioso? Non lo sappiamo, Capuana non ce lo dice, non lo sapremo mai. Tanto meno qualche pagina più avanti, quando il morto riappare all’amico, che gli chiede come mai abbia tollerato tanta onta dalla moglie e da don Neli suo amante; la risposta non potrebbe essere più omertosa: «Dovevo scontare. Quel che ho sofferto nessuno lo saprà mai. – Scontare che? – Non puoi capirlo»66. La novella che, comunque, meglio esprime l’imbarazzato rapporto di Capuana col fenomeno mafioso è L’anello smarrito, inserita nella raccolta Coscienze (1905), un rapporto che non potrebbe essere compreso, però, senza prendere in esame uno straordinario racconto di Verga di cui essa è il rifacimento. Stiamo parlando di La chiave d’oro, l’unico espressamente dedicato dallo scrittore al tema della mafia, pubblicato nella raccolta Drammi intimi (1884) e, misteriosamente, non più ristampato, in vita l’autore.

3. L’eloquente silenzio di Verga Per quanto riguarda la rappresentazione viva delle cose di Sicilia, il lucido e drammatico rapporto dello scrittore con le grandi trasformazioni storiche che avvenivano nell’isola, nessuno potrebbe dire per Verga quel che si è detto, legittima-

65.  L. Capuana, Un sogno, in Id., Eh! La vita…, Quintieri, Milano 1913, p. 225. 66.  Ivi, p. 228.

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mente, per Capuana, nessuno potrebbe parlare di «quadro oleografico». Tutta la fortuna critica verghiana, infatti, è stata attraversata da un intenso dibattito sull’eventuale connessione, nell’opera, tra ideologia e poetica, sulla qualità di tale ideologia, implicita o esplicita che fosse: al di là ed oltre le splendide lezioni di Giacomo Debenedetti, al di là ed oltre l’infaticabile lavoro filologico di Carla Riccardi, non c’è stato critico di personalità che di queste cose non si sia occupato, da Natalino Sapegno a Giuseppe Petronio, da Alberto Asor Rosa a Romano Luperini, da Giancarlo Mazzacurati a Nino Borsellino, da Vitilio Masiello a Vittorio Spinazzola, da Guido Guglielmi a Guido Baldi e Roberto Bigazzi67. Da parte nostra, vorremmo solo sottolineare come sia anche possibile leggere l’opera verghiana quale risposta eventuale a tutte quelle questioni di carattere socio-economico ed antropologico che sono entrate nell’inchiesta Franchetti-Sonnino: lo hanno fatto, brillantemente, Giuseppe Giarrizzo e Antonio Di Grado a proposito, rispettivamente, del capitolo IX dei Malavoglia e della novella I galantuomini, raccolta nelle Novelle rusticane68. Di Grado, per esempio, ha mostrato come il tema della «vergogna», che schianta i “galantuomini” isolani per la perdita della terra, nel presupposto del nesso tra «dignità» e «proprietà», era già stato felicemente rilevato da Sidney Sonnino nel II volume dell’inchiesta, I contadini in Sicilia. Se ci si accosta invece alla questione mafiosa, il discorso si fa elusivo come quello di Capuana: ma fino a un certo punto. 67.  Per una limpida e densa ricognizione sulla questione ci limitiamo a rimandare al libro di V. Masiello, Il punto su: Verga, Laterza, Roma-Bari 1986, a cui vorremmo aggiungere il delizioso libriccino di G.P. Marchi, Verga e il rifiuto della storia, Sellerio, Palermo 1987. 68.  Cfr. G. Giarrizzo, in C. Musumarra (a cura di), I Malavoglia di Giovanni Verga 1881-1981. Letture critiche, Palermo, Palumbo, 1982, pp. 139-148; A. Di Grado, Verga e il suo Doppio: lettura de ‘I galantuomini’, in Id., L’isola di carta, Ediprint, Siracusa 1984, pp. 32-70.

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A voler cavare, dall’opera di Verga, cenni al mondo ed alla mentalità mafiosi, si potrebbero seguire le indicazioni di Pietro Mazzamuto il quale segnala Cavalleria rusticana, Libertà e Mastro-don Gesualdo69. Se non ci sentiamo di ravvisare nei “galantuomini” di Libertà una specie di «consorteria, proprio alla maniera della mafia»70, pertinenti ci sembrano invece gli altri due riferimenti. Effettivamente, nella novella di Vita dei campi (1880), si respira aria di guapperia, con quel Turiddu dal «sangue rissoso», che si accende gli zolfanelli «sul dietro dei calzoni, come se desse una pedata», per non dire di compare Alfio, uno «di quei carrettieri che portano il berretto sull’orecchio», al modo mafioso appunto, il quale, a sentire la battuta di Santa di massaro Cola che allude alla possibile infedeltà della moglie, «cambiò di colore come se l’avessero accoltellato». E senz’altro proprio del codice d’onore mafioso, almeno nel senso della definizione fornita da Pitrè71, è il rituale che prepara il duello: abbraccio, bacio, e morso al lobo dell’orecchio («Turiddu strinse fra i denti l’orecchio del carrettiere»72). Ancor più interessante è il I capitolo della parte seconda del Mastro-don Gesualdo73 dedicato all’asta per la gabella delle terre comunali, strappate da Gesualdo al barone Zacco, la cui famiglia le aveva da quarant’anni in mano. Già la presentazione 69.  P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, cit., p. 29. 70.  Ibidem. 71.  Così G. Pitrè, in Usi e costumi, cit., p. 309, descrive le fasi del duello che nasce da un qualche insulto ricevuto: «Tizio ha dato dello schifusu a Sempronio, Sempronio, che non si crede tale, e si sente sanguinosamente oltraggiato, chiama fora Tizio e gli chiede se ha comandi da dargli. Tizio lo abbraccia, gli morde lievemente l’orecchio […]. Sempronio risponde da uomo d’onore al bacio, baciando anche lui, e quindi accettando la sfida». 72.  Le citazioni di Cavalleria rusticana sono tratte da G. Verga, Tutte le novelle, intr. di C. Riccardi, vol. I, Mondadori, Milano 1983, pp. 179-185. 73.  Le citazioni sono tratte da G. Verga, Mastro-don Gesualdo, intr. di C. Riccardi, Mondadori, Milano 1983, pp. 133-150.

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della «scrivania dei giurati», confabulanti contro l’homo novus che ha fatto una nuova e sconvolgente offerta, è emblematica: «Don Filippo Margarone, Peperito e gli altri del municipio che presiedevano all’aste delle terre comunali, si parlarono all’orecchio fra di loro». Siamo di fronte ad un vero e proprio comitato d’affari che vuole evitare ad ogni costo che Gesualdo si aggiudichi quella gabella: dapprima tentano di sconsigliare l’intraprendente, poi provano la strada del cavillo burocratico, quindi tentano l’accordo. Sconfitti nella battaglia, si preparano allora alla guerra per far perdere a Gesualdo la cauzione versata per l’appalto del ponte, quindi stipulano un accordo per abbassare il prezzo del grano e rovinarlo: tutta una serie di atti che culminano nella protesta del canonico Lupi, alleato di Gesualdo, «una camorra!». Ma veniamo al racconto cui accennavamo74, La chiave d’oro. L’incipit ci immette subito in un contesto mafioso: «A Santa Margherita, nella casina del Canonico stavano recitando il Santo Rosario, dopo cena, quando all’improvviso si udì una schioppettata nella notte». Siamo in una grande casa rurale di cui è proprietario un ecclesiastico, uno di quelli che, «al capezzale del letto, sotto il crocefisso», tengono una carabina. Non si sorprenda il lettore nel trovare, tra i protagonisti di un racconto di mafia, un ecclesiastico armato: numerose sono le testimonianze circa sacerdoti coinvolti in faccende criminose, cosa non stupefacente quando si pensi che le cosche, in lotta tra loro, avevano la loro mano nei conventi tra coloro che, relativamente alla mappa degli affari, le varie famiglie destinavano a tale ruolo75. Il mistero delle schioppettate è presto risolto quando il campiere Surfareddu, in siciliano “fiammifero” ad indicare la natura collerica del personaggio, che si sarebbe li74.  Le citazioni sono tratte da G. Verga, Tutte le novelle, cit., vol. II (1984), pp. 434-438. 75.  Cfr. P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, cit., pp. 933-934.

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cenziato proprio il giorno dopo come d’accordo, confessa al canonico di avere forse ucciso, reagendo ad una fucilata, uno dei ladri che aveva sorpreso a rubare nel frutteto. Surfareddu è il tipico campiere in odor di mafia, con una voce «che faceva accapponar la pelle», insomma «un uomo che nella sua professione di camparo aveva fatto più di un omicidio». Interessantissimo, ai nostri fini, lo scambio di battute col Canonico, angosciato per «il giudice e gli sbirri», che lo rimprovera: – Ora vattene […]. Domani poi ci avrai il tuo bisogno. Ma che nessuno ti veda, per l’amor di Dio, ora che è tempo di fichidindia, e la gente è tutta per quelle balze. Chissà quanto mi costerà questa faccenda: che sarebbe stato meglio tu avessi chiuso gli occhi. – Ah no, signor Canonico! Finché sto al vostro servizio, sfregi di questa fatta non ne soffre Surfareddu! Loro lo sapevano che fino al 31 agosto il custode del vostro podere ero io. Tanto peggio per loro! La mia polvere non la butto via, no!

Passo estremamente significativo: e vi si scorge il frainteso concetto della giustizia del campiere, quello che coincide con l’ossessivo senso dell’onore di chi svolge fino in fondo il compito che gli è stato affidato, non importa se per un niente sa anche uccidere un uomo; ma vi si ravvisa anche quel codice dell’omertà che è l’unico riconosciuto dal Canonico che, pure, è un uomo di religione, come dimostra assolvendo il ladro moribondo. Un altro momento importante è l’arrivo del giudice, il quale mostra di sapere molto bene con chi ha a che fare: «Il Giudice si sfogò contro quel servo di Dio che era una specie di barone antico per le prepotenze, e teneva al suo servizio degli uomini come Surfareddu per campari, e faceva ammazzar la gente per quattro ulive». Per un attimo, tutto sembra volgersi in direzione della giustizia, con l’incriminazione dello stesso Canonico. Ma basta un banchetto da leccarsi le dita, una chiavetta d’oro che il giudice finge d’aver perso nel frutteto, il Canonico che la fa acquistare da un amico a Caltagirone, il giu-

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dice che la riconosce come sua, perché tutto s’aggiusti secondo le regole dell’omertà: «– È questa, sissignore – rispose lui: e il processo andò liscio per la sua strada, tantoché sopravvenne il 60, e Surfareddu tornò a fare il camparo dopo l’indulto di Garibaldi, sin che si fece ammazzare a sassate in una rissa con dei campari per certa questione di pascolo». Secondo un finale tutto giuocato in una luce lugubre e beffarda: «Fu un galantuomo! Perché invece di perdere la sola chiavetta, avrebbe potuto farmi cercare anche l’orologio e la catena. Nel frutteto, sotto l’albero vecchio dove è sepolto il ladro delle ulive, vengono cavoli grossi come teste di bambini». Nella sua tragica e ironica densità, la novella non solo palesa un’idea della mafia come permanenza di residui feudali, ma ci dà una straordinaria testimonianza della collusione tra amministratori della giustizia e possidenti, non senza indicarci il fenomeno dell’istituzionalizzazione della violenza privata, quella praticata quotidianamente da un ecclesiastico possidente, «una specie di barone antico», per difendere le sue proprietà, e l’altra dovuta a un tipico rappresentante dei facinorosi ceti medi che impiegano la violenza come un lavoro, prima causa del loro innalzamento sociale da una condizione servile. Tutti elementi, si ricorderà, che escono dall’inchiesta Franchetti-Sonnino. Non diciamo poi del giudizio che si dà della rivoluzione garibaldina, delle sue radici mafiose: lo stesso che abbiamo incontrato nell’opera di Rizzotto e Mosca. Capuana, lo abbiamo già detto, riprenderà il soggetto verghiano nell’Anello smarrito, che apparirà quasi vent’anni dopo sul «Fanfulla della domenica» del 6 aprile 1902. Sciascia, che è stato il primo a rilevare la connessione tra le due novelle, ha avanzato forti dubbi sul fatto che Capuana, «assiduo e sagace critico dell’opera verghiana», non si fosse ricordato della Chiave d’oro76. Comunque sia, 76.  L. Sciascia, Verga e la memoria (1977), in Id., Opere. 1971-1983, cit., p. 1116.

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questo rifacimento ben si presta a sintetizzare l’atteggiamento di Capuana nei confronti della mafia, la sua ostinata volontà, testimoniata anche da La Sicilia e il brigantaggio, di minimizzare, se non cancellare il fenomeno. L’anello smarrito, infatti, che ripete la struttura della novella verghiana, non conserva più alcuna traccia del sentire mafioso, cancellando persino l’omicidio: protagonisti ne sono due piccoli proprietari in lite per un pero piantato proprio al confine tra i due terreni; vincerà la causa chi interpreterà nel modo giusto quella lamentela del giudice sull’anello smarrito e si precipiterà a farlo acquistare. Verga che non ripubblica più la novella, Capuana che la traduce in un racconto grottesco e leggero: due diverse negazioni dello scottante problema “mafia”. C’è stato chi ha voluto vedere, relativamente alla questione generale, il tipico atteggiamento di due intellettuali cosmopoliti, per di più vissuti nella tranquilla provincia orientale. Sciascia, quanto a Verga, ravvisa nella novella l’«accusa più netta e terribile […] contro la classe dei “galantuomini”», l’unica in cui lo scrittore è chiaramente «dalla parte della “gentuzza”, per la giustizia e contro la “giustizia”»77: lasciando dunque intravvedere un limite di classe, ideologico, alla sua non ripubblicazione. Alla luce di quanto abbiamo visto in questo capitolo, a noi pare che il motivo possa essere un altro: nel 1893 c’era stato il terribile delitto Notarbartolo, a cui sarebbero seguiti più di dieci anni di polemiche continentali contro la Sicilia “mafiosa”. Non ci pare peregrino supporre che Verga e Capuana, dal loro particolare osservatorio, potessero considerare più pericoloso, per l’isola, l’attacco della stampa continentale piuttosto che l’attività criminosa della mafia: di qui questa inspiegabile reticenza; e mettiamoci pure il terrore ingenerato in questi borghesi dai socialismo dei Fasci siciliani. Una conferma di ciò ci viene da

77.  Ivi, pp. 1118-1119.

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una rapida valutazione di quelli che saranno i successivi atteggiamenti degli intellettuali della Sicilia orientale, i quali non faranno altro che continuare a pigiare quel pedale comico, già sperimentato dal Capuana di Lu cavaleri Pidagna. Si prenda il caso del drammaturgo e poeta Nino Martoglio, il quale nel 1896 dà alle stampe un album di sonetti siciliani dedicati alla «maffia», O’ scuru O’ scuru, ove campeggia un’idea del tutto folkloristica del fenomeno, di una Sicilia eccentrica e fuori della storia, come restaurando, fuori tempo massimo, molti di quei riti che abbiamo visto rappresentati nella commedia di Rizzotto e Mosca: ecco, allora, il giuoco del “tocco” tra bicchieri di vino e canaglierie (’U Toccu), o il duello a colpi di coltello (’A tirata); ecco, infine, i versi che celebrano il codice d’onore del «parrari picca» (La omertà e ’U ’ntirrugatoriu). Nulla, della Catania di Giuseppe De Felice Giuffrida e di Antonio Paternò Castello, marchese di San Giuliano, riesce a filtrare in questi sonetti. Più interessante, per l’indubbio mestiere drammaturgico, una commedia come Nica in cui Janu si fa mafioso per vendicare la cugina Nica, di cui è innamorato, sedotta e abbandonata dal prepotente don Luigino. Siamo, come nota Mazzamuto, ad una mafia «di passione e di onore», se è vero che Janu «uccide don Luigino, alla fine, per legittima difesa e spontaneamente si costituisce, quando vede crollare tutte le sue speranze di innamorato»78. Entro una prospettiva di mafia come braveria erotica si affaccia anche il catanese Antonio Aniante, al secolo Antonio Rapisarda, con La femina del toro (1927), ove il fragoroso e taurino Bebè, noto assassino della fiabesca città di Malafede, uccide di nuovo perché offe-

78.  P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, cit., p. 33. Su Martoglio, autore un po’ trascurato, si vedano i numerosi interventi della sua più tenace studiosa, Sarah Zappulla Muscarà, tra i quali cfr. almeno Letteratura Teatro e Cinema, Tringale, Catania 1984, e Nino Martoglio, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 1985.

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so nel codice d’onore di mafioso dal tradimento della moglie con un mezzo uomo. Migliore, di Aniante, la commedia Bob Taft (1927), in cui Bob, un mammasantissima, intreccia una relazione pericolosa con Petronilla, la moglie di un altro capomafia locale: ci troviamo di fronte ad un ribaldo esibizionista e gradasso, sciupafemmine, sessualmente sfrontato e millantatore, ma amato dalle donne per la sua ribalderia. La vena comica che abbiamo visto sorgere in Capuana si volge qui in farsa grottesca, non senza esiti di surreale visionarietà, nei modi del corrente “realismo magico”, come quando Bob, inseguito dalle forze dell’ordine, ascende ad un ipotetico «paradiso della mafia», lasciando sola e sconsolata la sua Petronilla79. Per concludere la parabola, tutta orientale, del personaggio «mafiusu chi ’i fimmini»80, la definizione è di Martoglio, si potrebbe pescare, come ha fatto Mazzamuto, nell’anagrafe narrativa brancatiana, a cominciare dal protagonista di Paolo il caldo (1955), che si becca l’epiteto di «mafioso da cortile»; ma perderemmo, per il nostro sostantivo, ogni determinazione storico-temporale. Più interessante, invece, soffermarci un attimo sul sostrato ideologico che potrebbe sottostare alla deformazione grottesca e surreale di Aniante. Leggiamo in una sua lettera, inviata il 23 marzo 1921, dopo un’esaltazione critica assai confusa dei Viceré, e di quegli uomini della provvidenza chiamati a rifondare la Sicilia che ha riconosciuto nei rapaci Uzeda: 79.  Per sapere qualcosa di più di questo scrittore colpevolmente dimenticato, di cui Sellerio e Pungitopo hanno ripubblicato da poco La rosa di zolfo (1957) e Ricordi di un giovane troppo presto invecchiatosi (1939), cfr. R. Verdirame, Antonio Aniante, Marino, Catania 1982. 80.  A conferma del fatto che nella Sicilia orientale il termine mafia è impiegato perlopiù col significato di «prepotenza amorosa» ci giungono i canti popolari raccolti soprattutto nella Contea di Modica da Serafino Amabile Guastella (cfr. A. Uccello, Carcere e mafia nei canti popolari siciliani, cit., p. 69).

111 Come la forza di un regno sta nella forza di una sola città che si eleva a Capitale, così anche per noi isolani, la nostra forza potrebbe consistere nella floridezza di una famiglia sola o di un uomo solo che dia alla nostra città la potenza tanto di innalzarla a capitale di un regno che dovrebbe essere l’isola. […] O Maestro, perché oggi noi siamo soggetti ad altra gente, e veniamo chiamati briganti e barbari, e perché oggi siamo all’ombra di ogni avvenimento, mentre ieri, eravamo creatori degli avvenimenti fausti e infausti, e dettavamo le leggi per bocca di Platone e di Empedocle e soggiogavamo il nemico sui nostri mari […]. O Maestro, avete dato uno sguardo oggi alla nostra isola? Essa è irriconoscibile oggi. Ma gli elementi non mancano alla riscossa. Voi e Verga avete gettato il primo seme. E di ciò vi sono grato, e con me vi saranno grati gli uomini del domani più vicino.81

Come si vede bene, il grottesco e surreale Aniante mostra un retrobottega ideologico che è quello del solito sicilianismo che tutto punta sull’identità culturale dell’isola, pronto a scommettere sulle sue sorti magnifiche e progressive; qui aggiornato dentro un sentimento del mondo in bilico tra l’attesa protofascista del grande eroe siciliano che redimerà la Sicilia, e le istanze di un separatismo dai toni enfatici e classicheggianti. Per noi una nuova conferma della perfetta coerenza tra un’interpretazione della mafia come eccentricità etnologica, bizzarria farsesca, ed una volontà di preservare integra l’immagine di una Sicilia eroica e di nobili blasoni, su una linea ideologica assai prossima a quella inaugurata da Pitrè e Capuana.

81.  Troviamo la citazione in R. Verdirame, Antonio Aniante, in Aa. Vv., Gli eredi di Verga, Alfa Grafica Sgroi, Catania 1984, pp. 23-24.

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Capitolo IV

Le illusioni del continente

1. La vittoria dei facinorosi Il lettore non ci biasimerà se torniamo a sottolineare la centralità del delitto Notarbartolo in ogni storia della mafia, qualsiasi possa essere il punto di vista prescelto dallo storico. Ha scritto molto opportunamente Salvatore Lupo: «Per avere la giusta scala di riferimento, si pensi che per più di un secolo la mafia ha ardito colpire così in alto solo in questo caso. Quello di Notarbartolo è il primo dei cadaveri eccellenti, nonché l’ultimo sino alla morte del procuratore generale Pietro Scaglione, e quindi dall’Unità al 1971»1. E aggiunge alcune pagine più avanti: Perché viene ucciso l’ex direttore del Banco di Sicilia? La risposta a quest’interrogativo è decisiva, e non solo per la soluzione del caso. Qui siamo a una svolta fondamentale nella storia della mafia palermitana: il coinvolgimento di un membro autorevolissimo della classe dirigente nella contrattazione violenta che sinora era riservata ai rapporti vicendevoli tra i facinorosi implica un mutamento epocale, forse la rottura del diaframma che sino ad allora aveva separato i due mondi,

1.  S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 68.

114 ovvero della valvola che aveva regolato la comunicazione tra di essi.2

La tesi di fondo di Lupo è questa: nel lungo periodo che va dagli anni Novanta sino a quelli immediatamente successivi al primo grande conflitto mondiale il rapporto cruciale tra il ceto medio dei facinorosi e le classi superiori pare risolversi in una situazione di stabilità ed equilibrio. Quella in cui i mafiosi trasformano progressivamente un’attività di custodia ed intermediazione, non importa se svolta in qualità di campieri soprastanti o guardiani di agrumeti, in un affarismo che si va ancorando saldamente alla vita politica locale e nazionale, mentre i rappresentanti dei ceti superiori sembrano accettare, sempre più pacificamente, quella funzione d’ordine dalla mafia garantita. E ciò, entro un processo che trova una straordinaria accelerazione a causa dell’allargamento del suffragio elettorale tanto in sede politica (1882) quanto amministrativa (1889), culminante col suffragio universale maschile (1913), e che registrerà, proprio negli anni Novanta, il raggiungimento di un equilibrio tra i vari partiti locali, un equilibrio che si protrarrà, in molti casi, sino alla Prima guerra mondiale3. Un processo che, come perniciosa esaltazione del clientelismo meridionale, o quale dimostrazione del sostanziale fallimento della democrazia, incontrerà i suoi critici più spietati nei tanto diversi Gaetano Salvemini e Gaetano Mosca. In questo quadro, il ruolo svolto dall’onorevole Palizzolo, subito sospettato del delitto, dentro una vicenda giudiziaria annosa e rocambolesca che lo vedrà alla fine assolto, acquista un valore veramente emblematico. Manutengolo di briganti come 2.  Ivi, pp. 89-90. Sul clamoroso delitto la bibliografia è ricca, in un arco cronologico che va da G. Marchesano, Processo contro Raffaele Palizzolo e complici, Tipografia Sciarrino, Palermo 1902, fino a G. Speroni, Il delitto Notarbartolo, Rusconi, Milano 1993. 3.  S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 123.

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Valvo, De Luca e De Pasquale nel 1876, consigliere comunale e provinciale, più volte assessore anche dell’Annona, deputato quasi ininterrottamente dal 1882, membro del Consiglio generale del Banco di Sicilia, governatore del Monte di pietà, amministratore della Cassa invalidi della Marina mercantile, presidente dei consigli d’amministrazione del manicomio e di tante altre società, presidente dall’inizio degli anni Ottanta di «più di cinquanta associazioni economiche e politico-­culturali nella provincia di Palermo»4, Raffaele Palizzolo, con stretti collegamenti nel mondo affaristico-mafioso e in quello brigantesco, è veramente l’uomo giusto per assicurare una perfetta osmosi criminale tra i piani alti della politica nazionale e quelli bassi della locale. La sua vicenda si presta perfettamente per comprendere quell’evoluzione della mafia che stiamo cercando di tratteggiare velocemente: L’economia e la politica, ma soprattutto il rapporto tra queste due sfere, l’affarismo di fine secolo, spezzano la configurazione classista degli apparati di potere palermitani e anche della mafia, che per la prima volta, con Palizzolo e le sue intime relazioni in alto e in basso, intravede una grande posta e cerca di afferrarla.5

Non sarà inutile ricordare qualche altro fatto noto, come l’assassinio lucido e spietato, in perfetta sequenza, di alcuni leader socialisti o vecchi capi agitatori dei Fasci come Lorenzo Panepinto (1911), Bernardino Verro (1915), Giuseppe Rumore (1919), Nicolò Alongi (1919), personaggi i quali, in un modo o nell’altro, tentavano di sfruttare a vantaggio dei contadini la legge Sonnino del 1906, che consentiva alle cooperative di accedere ai crediti agrari erogati dal Banco di Sicilia per l’affitto del latifondi: a conferma che lo strapotere mafioso non tolle4.  G, Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882-1913), in M. Aymard G. Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia, cit., p. 309. 5.  S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 96.

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rava concorrenti nella lotta per la conquista delle gabelle. In concomitanza con tale processo di normalizzazione mafiosa, il movimento sicilianista diede fiera prova di sé: e basterebbe pensare, proprio nel corso delle varie fasi del processo Notarbartolo, ai comitati Pro-Sicilia6, che a Palermo portano in trionfo il Palizzolo ormai assolto alla fine di una concitata vicenda giudiziaria, che si era protratta dal 1899 al 1904, nelle varie sedi di Milano, Bologna e Firenze: quei comitati Pro-Sicilia in cui troviamo, di nuovo in prima fila, l’etnologo Giuseppe Pitrè, chiamato addirittura a Bologna dalla difesa per testimoniare in favore dell’imputato, a spiegare, per l’ennesima volta, il valore positivo della parola mafia, e autore, per giunta, di una specie di articolo-manifesto pubblicato sul «Giornale di Sicilia» del 7-8 agosto 1902, significativamente intitolato Per la Sicilia. Un’altra manifestazione dell’ideologia sicilianistica, emblematica del clima culturale e politico di questi anni, è il “nasismo”, dal nome di quel Nunzio Nasi, il quale, con una folgorante carriera politica, era divenuto, da sindaco di Trapani, prima deputato e poi ministro. Accusato di corruzione e peculato nella gestione del bilancio della Pubblica istruzione, il Nasi fu costretto nel 1904 alla latitanza per venire poi processato dall’Alta corte del Senato. Ha scritto Giuseppe Barone: «il blocco di potere urbano trapanese reagì con una mobilitazione di massa dalle accese punte regionaliste, che riversava sistematicamente un plebiscito di voti sul deputato, ogni qualvolta la Camera era costretta a non convalidare l’elezione»7. Bisogna comunque aggiungere che l’ideologia sicilianista non poteva

6.  Per una ricostruzione della storia dei comitati Pro-Sicilia e un’analisi della loro ideologia sicilianistica rimane fondamentale F. Renda, Il processo Notarbartolo ovvero per una storia dell’idea di mafia, in Id., Socialisti e cattolici in Sicilia 1900-1904, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 1972, pp. 377-419. 7.  G. Barone, Egemonie urbane e potere locale, cit., p. 299.

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non trovare facile terreno di coltura in una regione che subiva, di pari passo, attacchi durissimi da parte dell’opinione pubblica nazionale, non di rado pieni di pregiudizi, come quello sferrato da Alfredo Oriani su «Il Giorno» dell’8 gennaio 1900, il quale, in un articolo intitolato Le voci della fogna, arrivava a parlare dell’isola come di «un cancro al piede dell’Italia». E che la pressione sui siciliani della stampa continentale fosse cresciuta, proprio a partire dal delitto Notarbartolo, in modo notevole, ce lo testimoniano gli interventi di intellettuali isolani, non certo sospettabili di condurre discorsi apologetici, come Giorgio Arcoleo e Luigi Sturzo: il primo, in una conferenza del 1897 tenuta nel ridotto della Scala, aveva impiegato tutto il suo talento oratorio per dare un’immagine della Sicilia alternativa a quella che usciva da tanti libri di «critica sociologica, economica e politica», che l’avevano presentata come un’isola «selvaggia, malata, separatista»8; il secondo, invece, al Congresso nazionale cattolico di Bologna, ove ancora si avvertivano i riflessi negativi del processo Notarbartolo, metteva i delegati in guardia da stolti pregiudizi: Anche i cattolici del Nord, dall’estrema destra all’estrema sinistra, partecipano di questo cumulo di prevenzioni verso il Meridione, anche guardato solo dal punto di vista della nostra stessa organizzazione; e mantengono uno stacco notevole, e se vuolsi una posizione o più che altro una convinzione della superiorità del Nord verso il Sud, certo non buona alla fiducia reciproca, alla coesione degli animi e alla collaborazione delle energie.9

Questo, dunque, il contesto entro cui dovremo leggere le opere letterarie di cui ci occuperemo. Abbiamo visto quale sia stata 8.  G. Arcoleo, Studi e profili, pref. di G.A. Borgese, Mondadori, Milano 1929, vol. I, p. 205. 9.  L. Sturzo, La battaglia meridionalista, a cura di G. De Rosa, Laterza, Roma-­Bari 1979, pp. 45-46.

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la reazione all’inchiesta di Franchetti e Sonnino nelle province orientali. Dopo il delitto Notarbartolo, occorre dirlo subito, il testimone del sicilianismo letterario passa in quelle occidentali, per trovare la sua più vera consacrazione in una commedia intitolata La Mafia, pubblicata nel volume Teatro Mediterraneo (1921) stampato dall’editore Giannotta di Catania: tanto più importante, ai fini del nostro discorso, quanto più didascalica. Ne è autore Giovanni Alfredo Cesareo, storico della lirica italiana e cattedratico presso l’Università di Palermo, nonché poeta in proprio di una certa prolificità. Prima di affrontare un’analisi di questa importantissima opera, di un’importanza non letteraria ma tutta ideologica, non si può non accennare al poeta dialettale Alessio Di Giovanni, nato in Valplatani presso Cianciana in provincia di Agrigento nel 1872, anch’egli in qualche modo implicato nella tradizione apologetica che conduce al Cesareo, ma dentro un’opera che ha spunti di prepotente originalità, sicché sorprende che intorno al suo nome sia calata una specie di cortina del silenzio: non si dimentichi, allora, il giudizio di Pier Paolo Pasolini che, nel saggio La poesia dialettale del Novecento ora raccolto in Passione e ideologia, definiva Lu fattu di Bbissana (1900), «uno fra i pochi piccoli capolavori del gusto realistico»10. Ha scritto, del Di Giovanni, Luigi Russo: «Il suo realismo è sempre imbevuto di un popolaresco pathos mistico; per tale sentimento personale, lo scrittore guarda alla vita siciliana, nelle sue sofferenze superstizioni e passioni, tutto soffondendo di un alone di umile e patriarcale religiosità»11. E in questa luce mitico-religiosa va letto un interessante dramma, Scunciuru (1908), giustamente segnalato da Pietro Mazzamuto che ha parlato di mafiosi «mitizzati e addirittura concepiti come 10.  P.P. Pasolini, Passione e ideologia (1960), Garzanti, Milano 1977, p. 30. 11.  L. Russo, I narratori (1923), intr. di G. Ferroni, Sellerio, Palermo 1987, p. 89.

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sorretti da una strana primitiva religiosità» o «ridotti a una condizione fredda, dura, di invasati»12: una religiosità che, nel poemetto Lu puvireddu amurusu (1906), nella novella dialettale La morti di lu patriarca (1920) e nella traduzione in siciliano dei Fioretti assumerà la forma di un singolare neofrancescanesimo13. In Scunciuru campeggia la figura dello zu Francisco Tirritu che lo stesso scrittore, nella premessa all’edizione del suo Teatro siciliano, definisce quale «immagine precisa della mafia classica»14: l’uomo, fanaticamente devoto al San Giovanni protettore di coloro che vivono lealmente il rapporto con amici e compari, dopo aver ucciso la moglie e l’amante di lei, si ritira in un antro insieme al suo fedele cane nero, sempre armato di un vecchio fucile, col solo fine di riparare qualche torto o proteggere un innocente perseguitato. Pasolini, come registrando un fatto da ritenere inevitabile conseguenza «in tutte le letterature dei dialetti differenziati fortemente dall’italiano», ha sottolineato nel Di Giovanni «un amore verso la propria regione, come collettiva terra natale, che giunge talvolta a eccessi ingiustificati»15: ma in questo caso si tratta, piuttosto, del retaggio di un sicilianismo che mira a tradurre il comportamento criminale di una mafia qui supposta classica, di arcaica discendenza, in una sacrosanta azione di autogiustizia, laddove lo Stato latita16. Non si potrebbe abbandonare il discorso su Di Giovanni, il quale, per altro, ha significativamente tradotto in dialetto, nel 12.  Cfr. P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, cit., p. 35. 13.  Cfr. G. Santangelo, La ‘siepe’ Sicilia. Poeti e scrittori di Sicilia dal ’500 al ’900, Flaccovio, Palermo 1985, pp. 353-364. 14.  A. Di Giovanni, Teatro siciliano, Studio editoriale moderno, Catania, 1932, p. XLVI. 15.  P.P. Pasolini, Passione e ideologia, cit., p. 31. 16.  Su questo mito dell’ideologia sicilianista, cfr. P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, cit., pp. 958-959.

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1923, La chiave d’oro di Verga, senza ricordare un altro dramma importante, Gabrieli lu carusu (1909), nelle cui pagine sembra spadroneggiare un mezzo mafioso irascibile e bestemmiatore, Lu Rabbiu, un ex agitatore dei Fasci mandato al confino dopo il fallimento del movimento, il quale, ritornato alla miniera, mentre prepara un attentato al proprietario, cerca di riassoggettare con ogni mezzo i minatori, tra i quali vi è anche il giovane Gabrieli, un candido ed umile caruso. Gabrieli, alla fine, resterà ucciso per amore della padrona, nel tentativo di salvarne il marito dalla furia degli zolfatari istigati. Il ritratto di Lu Rabbia sembrerebbe smentire quello apologetico dello zu Francisco Tirritu: in realtà, quel che il Di Giovanni pare biasimare non è tanto il suo eventuale temperamento di mafioso, quanto la sua fede socialista, qui vista quale copertura per azioni prepotenti e fraudolente. In tale quadro, piuttosto, Gabrieli lu carusu va segnalato come l’interessante tappa di un ipotetico viaggio nella letteratura della solfatara17, per stare solo a quella che sfiora il tema della mafia, che muove da La zolfara (1895) di Giuseppe Giusti Sinopoli e arriva a La bella addormentata (1919) di Pier Maria Rosso di San Secondo: il Vanni della prima, il Nero della seconda, in quanto zolfatari che non si fanno posare la mosca sul naso, hanno entrambi in sé qualcosa di Lu Rabbiu18. Di Pirandello, che di tale viaggio è tra i protagonisti, diremo al momento opportuno.

17.  Sull’importanza di tale tema nella letteratura siciliana fondamentale è il saggio de La corda pazza (1970) di L. Sciascia, La zolfara (1963), in Id., Opere. 1956-1971, cit., pp. 1096-1101. Ma si veda anche il puntuale paragrafo Letteratura detta zolfatara e del latifondo del saggio di P.M. Sipala, ‘Una cosa nuova che la chiamavano sciopero’: ideologia e letteratura nella Sicilia del primo Novecento, in M. Aymard - G. Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia, cit., pp. 839-850. 18.  Nell’ultima fase della sua vita Alessio Di Giovanni, come ci informa Pietro Mazzamuto nell’introduzione a Lu saracinu, Il vespro, Palermo 1980, mostrò di apprezzare in questa sua opera alcune operazioni del regime fasci-

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2. Cos’è poi questa mafia? Una chiacchierata in casa Cesareo Se si volesse capire al meglio da quali preoccupazioni, da quale sentimento delle cose d’Italia e di Sicilia, sia nata La Mafia di Cesareo, non si potrebbe non citare una considerazione che esce dal libro di Salvatore Morasca e Gian Battista Avellone, Mafia, stampato a Roma nel 1911, i quali non esitavano a proiettare una luce sentimentale sul fenomeno mafioso, sostenendo che esso doveva intendersi come «ribellione contro la prepotenza vigliacca»19, dato che «nel carattere siciliano c’è di non essere secondo ad alcuno, c’è il senso della pietà, c’è il senso dell’eroismo, inteso nella sua più bella maniera altruistica»20. E ciò, nel segno di un’idea della mafia come «forza potentissima» per qualità morali, che spingeva i due autori ad un singolare proclama: «Gente di Sicilia, mostrate quali capacità contenga la vostra Mafia»21. Un appello che, almeno in ambito letterario, Giovanni Alfredo Cesareo sembra aver fatto proprio. Siamo negli anni che precedono, la Prima guerra mondiale. La scena si apre sull’elegante salotto di casa Fumi, il prefetto continentale. È in corso un ricevimento, quando si ode dalla via «lo scoppio di tre colpi di rivoltella». Irritata e insieme sconsolata la battuta del barone Montedomini, a rompere un clima che è subito di omertà: «La solita mafia!». Ne nasce subito una discussione in cui i diversi personaggi sembrano recitare un fin

sta come la campagna antimafia del prefetto Mori, il concordato, la bonifica del latifondo, abbandonando la posizione apologetica di Scunciuru. Queste posizioni ideologiche, queste compromissioni col regime, spiegherebbero il perché Lu saracinu sarebbe rimasto inedito sino a venticinque anni dopo la morte per disposizione testamentaria, morte avvenuta, com’è noto, nel 1946. 19.  S. Morasca - G.B. Avellone, Mafia, Enrico Voghera Editore, Roma 1911, p. 142. 20.  Ivi, p. 154. 21.  Ivi, p. 156.

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troppo meccanico giuoco delle parti, manifestando con rigore quasi didattico le differenti posizioni della classe dirigente siciliana di fronte al fenomeno criminale. Tutto avviene alla presenza di un sornione, quasi strafottente, marchese Sciamacca che, come vedremo meglio, nel suo irrinunciabile dialetto sembra rappresentare un punto di vista in bilico tra un bonario e paziente scetticismo ed una cordiale accettazione delle cose del mondo, quella che, alla fine della commedia, sembra risultare la posizione vincente. La prima battuta è quella del vanaglorioso e un po’ sciocco prefetto, la quale incarna tutti i luoghi comuni di una certa opinione pubblica settentrionale: La mafia! sempre la mafia! L’ombra scellerata e impenetrabile di questo paese d’incanti! Son venuto qui per domarla; da otto mesi me la sento da torno; la tocco con mano, la respiro nell’aria: e con tutta la mia abilità non sono ancora riuscito a ghermirla! Rubano, ammazzano, appiccano incendi, fanno ricatti; non si può mai scoprire i colpevoli. Perché? Mah! c’è la mafia. Cos e poi questa mafia? Una setta, una associazione, un partito, una classe? E chi lo sa! Perché poi…22

Il barone Montedomini, tra tutti i personaggi, della mafia è il nemico giurato: un’avversione che gli si confonde con quella che ha nei confronti della democrazia e del suffragio universale. Nel suo invocare metodi autoritari, nel suo auspicare mani libere per i funzionari dello Stato nella lotta alla mafia, il barone pare anticipare quella che sarà, di lì a poco, la linea politica del governo fascista durante la campagna del prefetto Mori. Il suo tono è perentorio e indignato: I belli effetti della vostra democrazia! Un farabutto patentato e bollato, ora, prima di mettergli le mani addosso, bisogna fargli le scuse! C’è degli individui – e tutti sanno chi siano, anche lei, caro signore – che hanno in pugno le fila della mafia locale, 22.  G.A. Cesareo, La Mafia, in Id., Teatro Mediterraneo, Giannetta, Catania 1921, p. 10.

123 la guidano, la capeggiano segretamente, se ne servono pe’ loro criminosi raggiri. Ma la gente finge di non avvedersene: sono avvocati, cavalieri, consiglieri provinciali… ma non hanno l’animo di denunziarli; ma lei mi promette di farli arrestare? Eh no, ecco!… non può… o anche non vuole. Si capisce.23

Notiamo per inciso, e il lettore se ne sarà già accorto, il fatto che Montedomini abbia già individuato con chiarezza l’identitario sociologico del mafioso: proprio quel ceto medio di facinorosi che da intermediario violento si era trasformato in affarista. Ed eccolo, infatti, il mafioso della commedia, il brillante avvocato Rasconà, il quale fa la sua apparizione vestito con ricercata eleganza, la caramella all’occhio: bacia la mano alla padrona di casa, stringe quella degli uomini, ma non saluta il barone, che lo guarda in atto di sfida. Rasconà è colto quanto basta per dare una giustificazione di pretto stampo sicilianista al fatto che si ostini a parlare in dialetto: «Chi voli? pir mia è la lingua chiù armuniusa di la terra. La pensu comu l’aba­ti Meli bon’anima!»24. E si profila subito la sua adesione a modelli di omertà. Interrogato sul delitto da donna Laura, la moglie di Fumi, proprio perché pare si trovasse sul posto, risponde così: Mala genti! genti senza cuscenza, signura mia! Ca iu vinia cà cotu cotu… quando tutt’a na vota, pum! pum! pum! Un jocu di focu. Umbri che sfilettanu, guardii chi arrivanu, genti chi accurri… Chi ci vogghiu diri? Io sono un omu mansuetu, un omu di studiu, un poviru curiali; e arrivasicari la vita contru na badda orva, vah! non c’è mancu sfiziu.25

23.  Ivi, p. 13. Non diversamente, il barone, a p. 75: «Non c’è che la mafia!… È diventata un’istituzione. Il governo la sorregge, i cittadini la temono, la giustizia non ci può nulla». 24.  Ivi, p. 15. 25.  Ibidem.

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Quando il prefetto gli fa notare che si tratta di un delitto di mafia, ecco, inesorabile, la negazione del fenomeno: «Commendaturi! Ed è lei, proprio lei, un funzionario di grido, chi parra di mafia?». E all’osservazione di Fumi, il quale non capisce perché non ne dovrebbe parlare, Rasconà è ancora più esplicito: «Perché non esiste… È un mito, na chimera, na su­ perstizioni!»26. Quando tutti gli invitati, trasecolando, mostrano di non accettare tali affermazioni, Rasconà risponde rispolverando tutti i luoghi comuni del sicilianismo. E pare quasi di risentire le parole di Capuana contro Franchetti, in una singolare alternanza di lingua e dialetto: Sente? sente? E tutti acussì, sapi! Per il gusto di denigrare questo disgraziato paese. Succede una rissa, una grassazione, un ratto, un incendio, a Milano, a Cuneo, a Pontelagoscuro? Sunnu latri, assassini, vagabundi, criminali ordinarii… di bassa forza. Succedi cà? Ah cà no! Cà è n’autra cosa… Na cosa terribili, surda, misteriusa, suprannaturali… la mafia! E tutti spateddanu l’occhi e si vannu a ammucciari, comu li carusi quannu si parra di la mamma Draja. L’immaginazioni!27

E se il prefetto, con argomentazioni che sono cascami dell’inchiesta franchettiana, osserva che in Sicilia «il disprezzo verso la legge è più diffuso che in qualunque altra parte d’Italia», che ognuno «vuol provvedere alla tutela della propria persona e del proprio avere», quasi vergognandosi di rivolgersi all’autorità della legge, Rasconà non esita a rispolverare una della tesi più care del sicilianismo, la condizione di abbandono e servitù dei lavoratori siciliani, la necessità che qualcuno renda loro giustizia, non senza un’interessante polemica antibaronale: «Sa lei qual è stata finora la condizione de’ lavoratori in

26.  Ivi, p. 16. 27.  Ivi, p. 17.

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Sicilia? Quella di bestie […]. Lu patruni può usari e abusari di tuttu»28. E come fa, allora, il contadino a rivolgersi al magistrato? Vincerà alla fine ancora il padrone, colui che ha il denaro per pagare profumatamente gli avvocati: «E lei vorrebbe che il lavoratore avesse fede nel governo?»29. A questo punto, arriva la cruciale domanda del prefetto Fumi: «Lei insomma approva la mafia?». La risposta di Rasconà aggiunge l’ultimo fondamentale mito dell’ideologia mafiosa che egli rappresenta. Ecco, allora, accanto all’idea della necessità di un’opera di autogiustizia laddove lo Stato latita, il concetto di una mafia che esercita con impeccabile rigore, con rispetto per le autorità, un’importante funzione d’ordine: Io? Ma lei ora nesci di quinta. Io sono uomo d’ordine, devoto alle istituzioni, rispettoso delle leggi… Che c’entra?… La fiducia degli elettori m’ha mandato, contro ogni mio merito, al Consiglio Provinciale… Dica lei se non ho sempre appoggiato le sue proposte. Nelle elezioni politiche ho votato e voto sempre per il candidato del Governo.30

Al che non può non scattare la reazione del barone Montedomini che accusa il governo, rappresentato dal prefetto, di collusione con la mafia: «Ah l’ha capita adesso? È proprio così, caro signore! La mafia è stata sempre uno stromento nelle mani del vostro sapientissimo governo: ecco perché essa è invincibile. Si capisce: il cittadino che sa la mafia protetta, accarezzata, superiore alla legge, sta per la mafia e si ride di tutte le autorità…»31. Un’accusa, questa di essere un mafioso protetto dalle istituzioni, che induce Rasconà, il quale si ritiene un «gentilomu», a sfidare a duello il barone: un duello subito scongiurato

28.  Ibidem. 29.  Ivi, p. 18. 30.  Ibidem. 31.  Ivi, p. 19.

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dalle donne di casa e dall’onorevole Terrasini che del mafioso Rasconà, sia detto per inciso, è il referente politico. Non sarà inutile notare che, dal delitto Notarbartolo in poi, la polemica contro il patto scellerato tra mafia e forze governative, qui sostenuta dal barone Montedomini, incontrerà in Sicilia la convergenza della destra di un Di Rudinì e dell’estrema sinistra radicale e socialista di un Colajanni, un De Felice Giuffrida, del coraggioso avvocato difensore dei Notarbartolo, quel Marchesano autore del Processo contro Raffaele Palizzolo e complici (1902): e come non sentire, nelle parole del barone, una eco della fiera condanna di Colajanni quando, appunto, nel suo già citato libro Nel Regno della Mafia, arrivava a definire il governo di Roma come il «re della mafia»? Abbiamo detto che il testo del Cesareo sembra costituirsi come una delle più nitide apologie della mafia: il lettore, perciò, non creda nemmeno per un istante che le posizioni del Montedomini possano coincidere con quelle dell’autore; né si illuda sulla rettitudine, insomma sulle qualità morali dell’aristocratico. Siamo già alla scena XV dell’atto primo e la commedia precipita verso il suo rapido svolgimento: il barone, infatti, si avvicina a Edmea, la figlia del prefetto, la quale ha una relazione col proprio figlio, e le comunica, con la restituzione delle lettere, che la storia deve considerarsi chiusa. Alle amorose resistenze di Edmea, sicura che il giovane Lucio la ricambi nella passione, la risposta di Montedomini è perentoria: «i figli obbediscono al padre»32.

3. L’invincibile Rasconà C’è dunque in giuoco l’onore di una fanciulla: e con l’onore di lei anche quello del prefetto padre il quale, pur continentale, non pare comportarsi diversamente dai suoi coetanei isolani, 32.  Ivi, p. 22.

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secondo una vulgata antropologica che è quella tipo “cavalleria rusticana”. È a questo punto che abbiamo l’intervento provvidenziale del padrino di Edmea, il marchese Sciamacca, per altro cugino di Montedomini: «Commendaturi, non mi manciassi!… C’è un omu sulu, in Sicilia, chi pò aggiustari li brigghia…»33. Quest’uomo, non poteva essere altrimenti, è Rasconà. E alle obiezioni di Fumi, il quale ricorda che Rasconà sta intentando una causa al barone per falsificazione di testamento, che il barone è sempre pronto a denunziare Rasconà come «il capo di tutta la mafia della circoscrizione», e che, ancora, Rasconà «nel suo giornale accusa ogni settimana il barone d’affamare il popolo, esercitando il monopolio del grano, d’aver commesso abusi al Consorzio dei zolfi di cui è presidente, d’aver usurpato de’ terreni demaniali», alle obiezioni di Fumi – dicevamo – il marchese Sciamacca non sembra scomporsi punto: «E chi mali c’è? e chi mali c’è? Tuttu pri lu megghiu caru prefettu… Ascutassi a mia: ci dicissi na parola all’amicu Rasconà»34. Straordinario paradosso, ma di una paradossalità quotidiana nella Sicilia di ieri: che un prefetto sia costretto, per difendere le proprie giuste ragioni, o che si presumono tali, a ricorrere all’aiuto della mafia. I dubbi del prefetto durano un attimo solo, il tempo di chiedersi in quale modo Rasconà potrà ottemperare a tale compito. La risposta di Sciamacca è mafiosamente ineccepibile: «Chistu lu sapi iddu… Ma è omu, chi si pigghia un’imprisa, non la lassa di curtu». Rasconà è dunque un uomo d’onore; per un istante, nella mente di Fumi, balena lo spettro della mafia, Sciamacca, come in precedenza Rasconà, è subito pronto a negarne l’esistenza, non senza aver dato a Fumi un consiglio preciso e perentorio circa il giusto modo di comportarsi come funzionario dello Stato, quello del33.  Ivi, p. 31. 34.  Ivi, p. 32.

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la gatta che chiude gli occhi per non vedere il topo: «E sempre cu sta fissazioni!… Quali mafia! chi mafia! Nun si camulijassi lu ciriveddu! Lei avi a fari comu la gatta chi chiudia l’occhi pri non vidiri lu surci. Allura, pirchì è prefettu?»35. La mafia, dunque, entra qui in quel suo giuoco di intermediazioni più o meno violente, e lo fa per tutelare l’onore di una famiglia rispettabile: siamo, è bene ricordarlo, ad un altro dei miti dell’ideologia mafiosa che vedremo ripetuto molte volte nella letteratura apologetica, e cioè a quello che vede gli uomini d’onore impegnati a riparare qualche torto di fronte al quale le autorità statali restano impotenti, un torto che, molto spesso, è di natura sessuale. Un punto importante della commedia è la scena prima dell’atto secondo. Ci troviamo nello studio dell’avvocato Rasconà intento a ricevere i numerosi clienti: vi campeggiano due librerie piene di libri e trofei d’armi. L’avvocato, potenza della mafia, è stato appena nominato dal Ministro presidente del Consorzio degli zolfi al posto del barone Montedomini. Interessantissimo il colloquio dell’avvocato con Giorgio Mauro, suo servo, vestito con «eleganza volgare» e con il viso solcato da una cicatrice, il quale, si badi, è l’unico personaggio ad esser presentato, nella didascalia che apre la commedia, in qualità di «mafioso»: quel che si dicono, in uno strettissimo dialetto, tocca tutta una serie di affari di Rasconà, compresa la causa intentata contro il barone, per la risoluzione dei quali il facinoroso, con l’aiuto di altri complici, ha avuto modo di giuocare col suo coltello. Emblematico dell’autorità di Rasconà è il modo con cui affronta don Piddu Spataro, un campiere in odor di mafia, con quel suo «cappello a cencio sulle ventitré», il quale arriva furioso per il fatto d’aver subito un furto di vacche, metà sue e metà del suo padrone: Rasconà, che è il mandante di quel furto, dopo averlo

35.  Ivi, p. 33.

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ridotto alla ragione, non senza usare le maniere forti, si offre come mediatore, col piglio sicuro da «omu di panza»: «Dumani stissu – dice rivolto al Mauro – ci fai ripurtari li vacchi ntra lu funnu di st’affittu camperi. Ma si no, lu so’ patroni, lu sangu ci suca… (A Piddu) E poi, s’ammatti, nun ti fari scrupulu, sa’. Mi poi sempri sparari, ma… a li spaddi… e di notti!»36. Nello studio, grazie alla mediazione di Sciamacca, avviene l’incontro tra Rasconà ed un sempre più imbelle e sciocco Fumi. L’acme della conversazione, dopo che l’avvocato ha promesso il suo aiuto, si raggiunge quando Rasconà chiede al prefetto di avere «carta bianca», e il prefetto, sbigottito, gli chiede ragione di quell’espressione: Lei è troppo esigenti, amico mio. Io sono Rasconà, un amico e un nemico fedele. Chi fazzu? Chiddu chi mi piaci. Di quali mezzi mi servu? Di tali che i suoi, al paragone, guardie, carabinieri, fondi segreti, nun sunnu chi fili di pagghia. E la prova è chi lei, prefettu, veni cà, dal signor Rasconà, la prima volta che ha per la mani qualcosa di serio, un imbroglio da cui dipende il suo onore, il suo affetto di padre, la sua posizione.37

E di fronte ad uno sconsolato Fumi, il quale è ormai convinto che «al mondo non c’è giustizia», Rasconà esplode e fornisce una straordinaria giustificazione della mafia, maledicendo quella vera prepotenza baronale che è la sicura causa di ogni iniquità: Mi fa ridere, sapi! La giustizia c’è; ma pri cu ci basta l’animu di mittirisilla di sutta […]. La giustizia sarebbe che qualcuno impedisse a quel bravo signore di commettere una prepotenza. Ma chi può far questo? lei? no. La legge? no. Io posso farlo. Perché io non sono la legge, ch’è la giustizia di pochi; ma sono la forza, ch’è la legge di tutti. Quando i deboli, i traditi, gli oppressi, si sono accorti che la giustizia era inganno e violenza, hanno detto: – E allora scambiamo le parti, e la vio36.  Ivi, pp. 45-46. 37.  Ivi, p. 50.

130 lenza e l’inganno sia la nostra giustizia. Questo lei lo chiama mafia: in fondo non è che la rivolta sociale.38

Questo, dunque, il succo del discorso di Rasconà: quel che si dice legge non è altro che il sopruso di pochi; l’unica vera giustizia, in tale contesto, non può che essere la forza, la legge a cui tutti possono ricorrere; la mafia è solo un’istintiva, e sacrosanta, risposta di giustizia. Idee che hanno come riferimento una spietata concezione antropologica, quella fondata sulla guerra di tutti contro tutti, una concezione che ritroveremo in una memorabile pagina di Sciascia, sostenuta dal capomafia, in un momento cruciale del Giorno della civetta. Ma sentiamo Rasconà: Iu nun difennu né accusu la mafia e li so’ abusi: di li malacarni ci nn’è e ci nn’avi statu sempri ntra la mafia comu a tutti banni. L’omu nesci sempri a lu so’ naturali, ch’è menzu di porcu e menzu di lupu. Sacciu a chiù d’unu di ssi chiacchi di furca, chi, prufittannu di la soggezioni chi incuti pri lu so’ curaggiu, cummetti ogni sorta di soprusi puru a dannu di la poviragghia; nni sacciu di chiddi chi pri un tozzu di pani si fannu strumenti di la priputenza di li patruni. Vilunazzi, d’accordu! Ma la curpa di cu è? C’avi fattu lu Statu pri nui? N’ha sfruttatu, n’ha demoralizzatu e n’ha calunniatu…39

Rasconà ne è certo: l’uomo nasce naturalmente mezzo porco e mezzo lupo, e non sono pochi quelli che, approfittando della loro capacità d’intimidazione, si danno a soprusi d’ogni genere. Ma la questione è un’altra: che cosa ha fatto lo Stato per questi disgraziati che dicono mafiosi, se non sfruttarli? La conversazione si chiude con un patto d’omertà suggellato da Rasconà, il quale invita il Fumi a fare finalmente il prefetto, a restarsene, cioè, «orbu, surdu e mutu»40, non senza ottenere

38.  Ivi, pp. 51-52. 39.  Ivi, p. 52. 40.  Ivi, p. 53.

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da lui un assegno di venticinquemila lire che si rivelerà decisivo, alla fine della commedia, per il trionfo, nel giuoco delle parti, dell’avvocato mafioso. E Rasconà, forte dell’aiuto dei suoi valenti picciotti, compreso quel Piddu Spataro, campiere del barone con cui si era scontrato, non ci metterà nulla a far rapire il figlio del barone, costringendo quest’ultimo ad accettare quelle nozze con la figlia del prefetto che aveva fatto naufragare. L’incontro a quattr’occhi tra Rasconà e Montedomini, incontro in cui il mafioso rivela al barone che il figlio è nelle sue mani, ci pare di decisiva importanza nel rivelare quell’ideo­ logia apologetica su cui si fonda la commedia. Il barone accusa Rasconà di collusione col prefetto, ma Rasconà risponde di infischiarsene tanto di lui che del prefetto, abituato com’è a farsi giustizia da solo, come del resto hanno potuto sperimentare i due sicari inviatigli da Montedomini. Alla domanda del barone se si credesse temibile, la risposta di Rasconà è perentoria nel rivendicare la sua potenza di capomafia con un esercito a sua disposizione: «Mi credo? No, amicu miu, ci sugnu e lu sacciu. Iu disponu di na scuccazza di juvitorti, chi mi canuscinu tutti e sunnu pronti a satari ntra lu focu a un me’ comannu: aju drittu di vita e di morti supra d’iddi, li giudicu e li cundannu senza tanti formalità»41. Ma se le cose stanno così, se non c’è nessuna alleanza tra Rasconà e il prefetto Fumi, perché, si chiede il barone, il mafioso ha tanto a cuore le sorti della giovane Edmea? Ed ecco il colpo di scena: Rasconà rispolvera una storia di soprusi patiti, di disonore subito proprio ad opera del barone, tale da nobilitare, agli occhi del lettore, tutta la sua vicenda. Siamo al solito argomento, fondamentale in tante opere apologetiche, a cominciare dalle molte leggende che circondano le storie di briganti, cioè del giovanotto onorato e retto che diventa ma-

41.  Ivi, p. 80.

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fioso solo per riparare il torto subito, tornando ad aiutare ogni volta, come se risarcisse sé stesso, qualsiasi vittima sventurata: «Vint’anni arreri, iu era studenti, a Napuli: me’ patri facia lu nutaru a lu paisi. Avia na figghia di sidici anni, Viola, Violedda: di nomu e di fattu, a criatura! Bedda, bona, massara, cu la vuccuzza sempri risulenti, onesta come lu suli». Ma un giorno accade l’irreparabile: Viola viene rapita, sedotta e abbandonata proprio dal barone Montedomini, in grembo ha il frutto della violenza. Il notaio padre muore, la madre telegrafa a Rasconà che è a Napoli ignaro: Turnai, sappi tuttu, lu tradimento, la violenza infami, lu disunuri, e poi lu partu di dda svinturata, e la so’ fuiuta, cu tuttu ca ci spasimava lu sangu pri la pietà di lu so’ nutricu. Allora affirrai nu fucili a du’ botti… (andando co’ pugni alzati contro il barone) Ah baruni! si Cristo mi ti mannava ntra li pedi ddu beddu Jornu!…42

La situazione precipita, Viola muore tra le braccia di Rasconà, il quale però promette che non ucciderà il padre di suo figlio. A Rasconà non resta che la via della mafia: io mi dissi che, per vivere in una società come questa, bisognava essere in grado di farsi giustizia da sé; e giacché io ero povero e lei era ricco, io popolano e lei patrizio, io debole e lei potente, mi guardai da torno per trovare compagni. La mia professione mi giovò: posi la mano su le fila d’un’associazione che compie, sì, de’ delitti, ma può anche venir adoperata contro l’oppressione e l’iniquità… come adesso.43

Questa, dunque, è la mafia di Rasconà: risposta contro il sopruso e la prepotenza. Inutile che il barone si ostini a vedere, in questa sua azione riparatrice nei confronti della figlia del prefetto, un semplice e criminale ricatto: «No, no, baruni

42.  Ivi, p. 81. 43.  Ivi, p. 82.

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Montedomini: iu staiu vindicannu a me’ soru! Vidissi: cà dintra ci stannu la giustizia e lu delittu: davanti a l’omini, forsi, lu delittu sugnu iu, e lei è la giustizia; ma davanti a Diu, – lei è lu delittu, e sugnu iu la giustizia!»44. Tutta la sequenza è di straordinaria importanza. Tanto il barone quanto Rasconà fanno un uso privato, e dunque illecito, della forza: ma nell’opera di Cesareo, solo la violenza del barone Montedomini, così polemico contro lo strapotere mafioso, è quella che si traduce in sopruso ed iniquità, ingiustizia. La violenza del borghese Rasconà è, invece, una violenza di reazione, la solo possibile quando ci si vuole opporre a quello strapotere feudale e baronale che ancora impedisce, in Sicilia, una vita civile e onorata. Ma è un altro aspetto di tale conversazione che ci colpisce, destinato, per altro, a diventare un topos nella letteratura apologetica successiva: il fatto che il mafioso Rasconà senta sinceramente, in cuor suo, di difendere la legge di Dio di contro a quella legge degli uomini, così iniqua, che il barone rappresenta. Siamo, insomma, alla formulazione di una specie di giusnaturalismo mafioso che, come vedremo, diventerà un fondamento importante di alcune opere nate nel clima fascista. Un altro passo ancora e ci troveremo di fronte, benché in tutt’altro contesto sociologico, alla celebrazione ideo­ logica di una mafia “buona” e onorata, consapevole di questa specie di giusnaturalismo, sempre pronta a richiamarsi ad un codice d’onore, quasi cavalleresco, inderogabile, di contro ad una mafia “cattiva” che quel giusnaturalismo ha rinnegato, con conseguenze perniciose per la Sicilia tutta. La commedia finirà col trionfo di Rasconà. Il barone, diventato suocero di Fumi, ed avuta da Rasconà la confessione di essere il capo della mafia, intima al prefetto di fare arrestare l’avvocato proprio il giorno delle nozze, se non vuole dare a credere

44.  Ibidem.

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di essere suo complice. Nell’ultima scena dell’atto quarto tutto è pronto: questore, ispettore e delegato, rappresentati da Cesareo come perfetti imbecilli, stanno per arrestare l’avvocato. Ma Rasconà ha intuito ogni cosa e riuscirà a fuggire proprio con la complicità del prefetto, costretto alla collaborazione da quell’assegno che, con leggerezza, aveva firmato all’avvocato per salvare la reputazione sua e di sua figlia. Ci piace congedarci da Rasconà mentre, poco prima di fuggire, pronuncia un discorso che, come mafioso, lo consegna, alle soglie del primo conflitto mondiale, ad un sentimento di invincibilità, un sentimento che lo porta a sfidare, convinto di vincere la sua guerra, le istituzioni dello Stato: «La legge è ingiusta, provocatrice, bugiarda? E io mi metto sopra la legge. […] Lu guvernu ci pinzassi bonu. Si facissi lu cuntu di chiddu chi ci custirà d’omini, di dinari, di dignità comprumissa la caccia a lu brigantaggiu. E poi, tra se’ misi, vennu l’elezioni… E allura… li deputati ci li mannu iu»45. Quella guerra che Rasconà minacciava con atto di sfida l’avrebbe scatenata sul serio il prefetto di ferro, Cesare Mori: e vedremo con quali conseguenze. Per ora non ci resta che registrare questo delirio d’onnipotenza dell’avvocato Rasconà, quello di una mafia giunta al suo momentaneo apogeo. È consacrata in una commedia che si chiude con la battuta irridente del marchese Sciamacca, rivolta a quel Fumi appena messo alla berlina da Rasconà, una battuta che ci pare il giusto suggello ideologico: «E chisti sunnu li sperti chi lu guvernu manna in Sicilia pri sbarbicari la mafia!»46. Se si volesse trovare una traduzione in termini ideologici e politici del sentimento del mondo che emerge dalla commedia, non si potrebbe non pensare al celebre discorso che Vittorio Emanuele Orlando pronuncerà pochi anni dopo, in occasione

45.  Ivi, p. 93. 46.  Ivi, p. 108.

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delle elezioni amministrative dell’agosto 1925, come appello estremo al popolo siciliano contro il fascismo vincente: Ora io vi dico che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal segno si tratta di contrassegni indivisibili dell’anima siciliana e mafioso mi dichiaro e sono lieto di esserlo!47

Opera apologetica, dunque, questa del Cesareo, ma capace di offrire un’articolata immagine della mafia, dei suoi miti ideo­ logici, del quadro sociale entro cui si colloca, un’immagine, insomma, ricca di informazioni anche per chi stia lavorando ad una storia della mafia e della sua ideologia. La Palermo del primo anteguerra che ci viene restituita sembra confermare in pieno l’immagine della Sicilia che usciva dall’inchiesta Franchetti-­Sonnino. Come Franchetti, anche Cesareo registra quel sistema di violenza diffusa, quel largo esercizio privato e illecito della forza, qui rappresentato da due diversi attori sociali, il barone Montedomini e il borghese Rasconà. Come Franchetti, quando implicitamente condanna il comportamento dell’aristocratico, di ingiustificata e ingiustificabile prepotenza, individua nella permanenza di certi retaggi feudali la radice di quel sistema di violenza. A differenza di Franchetti, e qui sta il lato apologetico della commedia, alla violenza ingiusta del barone contrappone quella giusta dell’avvocato, tipico rappresentante di quel ceto medio di facinorosi appena rimpannucciato in abiti di rispettabilità borghese: ma, con ciò stesso, e non volendo, Cesareo 47.  Troviamo la citazione in G.C. Marino, Partiti e lotta di classe in Sicilia da Orlando a Mussolini, De Donato, Bari 1976, p. 314.

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fotografa impeccabilmente quella metamorfosi dell’intermediario facinoroso in affarista colluso con la politica, insomma quella cruciale trasformazione della mafia, che la migliore storiografia ha ormai da tempo sanzionato. Perché questo è il punto: la carta d’identità di Rasconà, l’avvocato capace di mandare in parlamento suoi uomini come il già citato onorevole Terrasini, non poteva essere stilata con migliore perizia. Siamo di fronte ad un uomo il cui sentimento della vita non è distante da quello di Vittorio Emanuele Orlando, capace, al pari di Orlando, di manipolare con grande abilità l’ideologia sicilianistica, agitando, come abbiamo visto, i miti della mafia come tutrice dell’ordine e dispensatrice di giustizia. Estratta la sostanza storica della commedia dalla sua forma apologetica, non è difficile vedere nel personaggio di Rasconà un rappresentante di quella «mafia in guanti gialli», cresciuta e prosperata con l’allargamento del suffragio elettorale48.

48.  G. Mosca, Domini e cose di Sicilia, Sellerio, Palermo 1980, p. 17.

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Capitolo V

Con Mori ai ferri corti

1. Vedi Trapani e poi Mori La figura di Cesare Mori, nella storia della mafia, è sicuramente quella più spesso ascesa al cielo della leggenda, e non solo popolare, non importa se di segno positivo o negativo. Di lui s’è detto tutto e il contrario di tutto: che avesse sconfitto la mafia fino a sradicarla, che, al contrario, rivolse la sua azione solo contro la manovalanza mafiosa e la piccola delinquenza, che colpì in modo parziale e interessato, che, viceversa, venne nominato senatore quando stava per smascherare i veri centri del potere mafioso, ai livelli supremi, che, infine, fosse del tutto ignaro, insomma vittima innocente, delle soperchierie commesse dai suoi uomini nel suo nome1. Mori viene nominato prefetto di Palermo il 23 ottobre 1925, dopo che Mussolini aveva compiuto un viaggio in Sicilia nel maggio dell’anno precedente, durante il quale aveva individuato nella questione

1.  Per le notizie biografiche su Mori resta sempre valido il libro di A. Petacco, Il prefetto di ferro, Mondadori, Milano 1976. Fondamentali, ovviamente, pur dentro un discorso sommamente ideologico e apologetico, i due volumi di C. Mori, Tra le zagare, oltre la foschia, Carpigiani, Firenze 1923, e Con la mafia ai ferri corti, Mondadori, Milano 1932.

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mafiosa il vero banco di prova del nuovo Stato che stava sorgendo sulle ceneri di quello corrotto democratico, guardandosi bene, come nota opportunamente Lupo2, dall’identificare i siciliani con le poche centinaia di facinorosi che terrorizzavano l’isola, dal cadere insomma in quell’errore in cui erano caduti i funzionari sabaudi della Destra storica. La carriera di Mori era già piena di successi: commissario nel Trapanese dal 1904 al 1914, aveva dato egregia prova di sé nella repressione dell’abigeato, ma si era anche distinto, come fedele funzionario filogovernativo, nella lotta contro il partito di Nasi, al punto di meritarsi, da parte dei seguaci di questo, l’ironico motto «vedi Trapani e poi Mori»3; protagonista di spicco con il questore Battioni, negli anni della grande guerra, alla guida delle squadriglie per la repressione dell’abigeato; nel 1920 è di nuovo nel Trapanese garantendo l’applicazione del decreto Micheli per la riforma del latifondo, ma guadagnandosi anche la stima degli agrari per la sua decisa difesa dell’ordine pubblico. Il suo curriculum non poteva certo essere visto di buon occhio dalle frange più estremiste del partito fascista: basti ricordare che nel 1921, a Bologna, aveva contrastato energicamente l’azione delle squadre fasciste. Quella di Mori, insomma, è una carriera che dimostra perfettamente «quanto sia falsa la contrapposizione tra uno Stato liberale, imbelle e rinunciatario, e uno Stato fascista dalla superiore volontà “etica”». È infatti chiaro, per dirla ancora con Lupo, che la spettacolare operazione del 1926-1928, quella che condusse a più di diecimila arresti e vide il clamoroso assedio e l’altrettanto eclatante occupazione di Gangi, senza risparmiare nella repressione donne e bambini dei latitanti, si ponga in decisa continuità con quanto avveniva negli anni prefascisti, 2.  S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo (1918-1942), in M. Aymard G. Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia, cit., p. 394. 3.  Ivi, p. 395.

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almeno nell’impiego di certi strumenti, tutti già in uso: «i corpi antiguerriglia, il coordinamento interprovinciale delle forze, gli attacchi ai paesi con le retate e gli arresti in massa»4. Anche il giudizio degli storici su Mori è quanto mai articolato. E si va da una posizione come quella di Christopher Duggan, allievo di Denis Mack Smith, che giudica sostanzialmente fallimentare l’operazione del prefetto di ferro, alla più recente storiografia italiana dei Pezzino e dei Lupo, che ne riconoscono l’efficacia repressiva, senza comunque dimenticare i suoi vistosi limiti di classe. Duggan riconduce l’azione di Mori ad uno scontro politico, molto duro, tra la fazione conservatrice che aveva come punto di riferimento gli organi dello Stato e quella movimentista e rivoluzionaria che faceva perno, invece, sul partito, nella convinzione che la lotta alla mafia fosse stato uno strumento nelle mani della prima fazione per raggiungere un potere incontrastato e incontrollabile5. Pezzino e Lupo vedono invece in Mori il vecchio funzionario nittiano, il conservatore non liberale, che colse nel fascismo, come regime avviato alla modernizzazione tecnocratica del paese, la possibilità di poter massimizzare le proprie competenze tecniche senza tutti gli impacci garantisti del sistema parlamentare. Sulla natura classista molto particolare di questa operazione, sul senso di quella lotta spietata alla mafia di campieri e gabellotti, col minimo coinvolgimento dei proprietari, ha scritto Pezzino: le operazioni e i provvedimenti di Mori, molto articolati e rivolti in varie direzioni, seguivano in realtà un unico disegno ispiratore: eliminando la potenzialità eversiva di gabellotti e campieri, sopprimevano quella funzione di mediazione che questi svolgevano tra proprietari e contadini sul terreno dell’organizzazione economica, restituendo valore alle rendi-

4.  Ivi, p. 396. 5.  C. Duggan, La mafia durante il fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 1986.

140 te fondiarie; colpendo poi duramente i circuiti politici locali […] si sostituiva la presenza «amministrativa» dello Stato alla tanto deprecata mediazione del parlamentarismo.6

Di parere non diverso Lupo: «il rapporto tra fascismo e Sicilia […] vuol essere rapporto diretto, senza intermediari, tra Stato e classi sociali. Gli intermediari per eccellenza sono i gabellotti parassiti; mentre i produttori, ovvero i proprietari, vengono da Mori assolti in quanto vittime di uno stato di necessità»7. E più avanti: «La discriminante classista esiste, ma divide i latifondisti da tutti gli altri»8. Non sta certo a noi entrare nei termini di una valutazione complessiva dell’impresa di Mori. Ci interessa di più, ai fini del nostro discorso, una riflessione su quella che fu la strategia ideologica del prefetto nella sua lotta alla mafia, insomma il suo rapporto con il codice culturale isolano, con quel mastice antropologico che è il sicilianismo. Una strategia individuata assai bene da Lupo, che mette in rilievo con precisione il senso di quella campagna per il consenso a cui Mori fu molto sensibile, richiamandosi a quei tratti di «omertà, onore, coraggio, e, soprattutto, virilità», che venivano inglobati nel patrimonio dei valori nazionali e fascisti, come a dimostrazione che quella isolana fosse una società sana che aspettava solo di essere liberata dalla cancrena delinquenziale e mafiosa, sviluppatasi in assenza degli anticorpi di un’etica statale9. Scriveva Mori nel suo Con la mafia ai ferri corti: «la omertà ha in se stessa i mezzi specifici per combattere le proprie degenerazioni. Quindi richiamarsi – questo intendo dire – alla fierezza per reagire alla prepotenza; al coraggio per reagire al delitto; alla forza

6.  P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, cit., p. 979. 7.  S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 149. 8.  Ivi, p. 158. 9.  Cfr. S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit., pp. 397-398.

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per reagi­re alla forza; al moschetto per reagire al moschetto»10. Commenta, a questo proposito, Lupo: «Per realizzare la riconquista dei valori folklorici lo Stato deve guadagnarsi il “rispetto” dimostrandosi più mafioso dei mafiosi»11. La mafia si può battere, dunque, proprio facendo ricorso a quel sistema di pregiudizi e sentimenti che Pitrè aveva formulato alla fine degli anni Ottanta e che costituisce, come abbiamo visto, il nucleo forte del sicilianismo, con quella riduzione della mafia ad un sentimento ipertrofico del sé, ad uno spiccato senso dell’onore, ad una vocazione all’autogiustizia, sconfinante, al massimo, nella braveria. La posizione di Mori è quanto mai interessante: soltanto a partire da essa, infatti, si potrà capire come sia stata possibile, in pieno fascismo, un’operazione letteraria come quella di Giovanni Maria Comandè, il quale ci consegna, ancora una volta, un’immagine apologetica della mafia, ma di un’apologia che va a coincidere esattamente con quella del nuovo Stato fascista.

2. Con la mafia e con il fascismo: il Don Giovanni Malizia di Comandè Giovanni Maria Comandè, un letterato di Monreale «di formazione gentiliana, rinunciatario della sua prima cultura cattolica e neofita del programma nazionalistico ed autoritario del fascismo»12, pubblica il romanzo Don Giovanni Malizia nel 1930 per i tipi di Sandron di Palermo, quando la campagna antimafiosa del prefetto è ormai terminata. Per rendersi conto del sistema dei valori che regola questo brutto ma assai interessante romanzo, un sistema fondato su quel mito dell’omer­ 10.  C. Mori, Con la mafia ai ferri corti, cit., p. 244. 11.  S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit., p. 398. 12.  Cfr. P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, cit., p. 41.

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tà fatto proprio e celebrato anche da Mori, vale subito la pena citare un brano che si trova nella parte finale, l’inizio del capitolo XXII, La moglie d’un ‘uomo’: In tutte le parti del mondo si ritiene regolarmente che sia uomo colui che porta calzoni o che comunque abbia gli attributi della virilità. In qualche angolo della Sicilia, invece, non bastava questo, tempo fa, per essere scritto al catasto sociale del sesso maschile: ci voleva altro. O per lo meno, c’erano lì anche gli uomini come in tutte le parti del mondo, che lavoravano, mangiavano, bevevano e prolificavano; ma per essere ‘uomo’ in senso antonomastico bisognava essere d’un certo tipo, avere certe qualità, non averne altre. L’‘uomo’ di cui parlavamo, doveva, anzitutto, avere ‘pancia’: tutti gli uomini credono averla e si son sempre ingannati. Avevano ‘pancia’ quei siciliani occidentali che sapevano tenere acqua in bocca, star muti come pesci, abbottonarsi come diplomatici. Dovevano sapere e non sapere, vedere e non vedere, sentire e non sentire. E allora si cominciava ad appartenere a una certa categoria, a una certa intesa. Di tali ‘uomini’, poi, c’erano quelli che pagavano e quelli che mangiavano, e tutti non aprivan bocca lo stesso.13

Si tratta di un brano ove, accanto al più corrivo dei luoghi comuni tra i tanti che infiorano il romanzo, quello dell’uomo che porta i calzoni, si rivela, nitidissima, la fotografia di una mafia come consorzio degli “uomini”. E non ci stupisce punto che la prima occorrenza del termine mafia, nel romanzo, sia proprio nel segno di una “lezione” filologica alla Pitrè, ad indicare la bellezza femminile. Chi parla è un uomo mandato dal capomafia, don Giovanni Malizia, per convincere, con modi non proprio velatissimi, un prepotente baronello a riparare il suo torto sessuale nei confronti di un’onesta fanciulla, una certa Oliva: «Io vado ogni sera all’Opera dei pupi del padre di Oliva 13.  G.M. Comandè, Don Giovanni Malizia, Sandron, Palermo 1930, pp. 315316.

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[…] e vedo che donne malandrine e mafioselle come Angelica sposano un asino qualunque come Medoro, e che signoroni di cavalieri, senza offendere Vossignoria, sposano ragazze campagnole e popolane»14. Ancor più interessante è la risposta che don Giovanni dà a tre inglesi che sono venuti a trovarlo in quanto vogliono conoscere la mafia: «Don Giovanni ne fu interdetto. Che cosa mai gli domandavano? Pareva ammutolito. Quella parola misteriosa e così indigena, in bocca inglese gli fece uno strano effetto». E all’insistenza della «miss» che cercava i briganti per essere così salvata da Malizia, come aveva sentito raccontare a Londra, ecco la pacata risposta del capomafia: «Lor signori sono sani, salvi e pieni di salute, perché cercano di me? Che cosa è questa Mafia?»15. Tutto va, come si vede, secondo copione: fino alla consueta negazione dell’esistenza della mafia come associazione. La storia si svolge dal 1849 ai primissimi anni dell’Unità tra Palermo e Monreale, ma soprattutto nelle campagne circostanti, dove regna incontrastato, appunto, l’ormai anziano Giovanni Malizia, un “uomo”, non occorre dirlo, e di grandissimo carisma, alla lettera un vero padreterno: «Siamo nel 1849, dopo Novara e dopo la restaurazione borbonica in Sicilia. La Sicilia ha un re, ma non lo conosce. Non ha più un parlamento proprio. Non ha più giustizia e non ha pace»16. Ruggiero Settimo e don Ciccio Crispi – scrive Comandè – sono in esilio, Garibaldi «è fuggito da Roma perdendo Anita e ingoiando fiele» per prepararsi alle imprese del ’60: Chi regna in Sicilia? Il Direttore di Polizia, feroce reazionario e più feroce perché siciliano: Maniscalco. Regna l’esattore delle imposte per togliere la pelle ai cristiani, dopo aver

14.  Ivi, p. 268. 15.  Ivi, p. 281. 16.  Ivi, p. 14.

144 loro tolta l’anima e la dignità. Regna nelle lontane campagne l’anarchia e la malavita. E contro la malavita organizzata sta impotente la polizia con i suoi caporali bavaresi o napoletani e talvolta siciliani».17

Ma in questa terribile situazione c’è ancora qualcuno che opera per l’ordine e la giustizia: «E i deboli? Tacciono e sopportano, non pensano nemmeno per sogno alla polizia o si raccomandano a Don Giovanni Malizia»18. I passi citati disegnano perfettamente il quadro ideologico del libro: da una parte i corrotti e feroci rappresentanti borbonici, buoni solo per depredare i sudditi o per incarcerarli, soffocando ogni loro libertà, dall’altra gli eroi della rivoluzione, i Garibaldi e i Crispi, fedeli ad un progetto di rinnovamento patriottico, secondo un’idea della storia d’Italia che è indubitabilmente quella del fascismo19, di quel fascismo che ha finalmente portato ordine e giustizia anche in Sicilia. Comandè, a questo proposito, non lascia dubbi al lettore; così scrive, in uno dei suoi tanti inserti che vorrebbero avere un sapore manzoniano, riferendosi proprio all’operazione Mori: Chi oggi va a deliziarsi in una villeggiatura a Giacalone, non può farsi una idea approssimativa della tremarella che prendeva i viaggiatori e i carrettieri che percorrevano quella regione per scendere a Monreale o salire fino a Borgetto. Oggi, grazie all’epurazione della malavita fatta con guanto di ferro dal Governo Nazionale, si respira a pieni polmoni e a cuor sicuro là dove attorno al 1850 si camminava con soprassalto di cuore.20

17.  Ivi, pp. 14-15. 18.  Ivi, p. 15. 19.  Di questo stesso parere, P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, cit., pp. 41-43, e A. Altomonte, Mafia briganti camorra e letteratura, cit., pp. 103-106. 20.  G.M. Comandè, Don Giovanni Malizia, cit., p. 78.

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E allora sì: da una parte gli abbietti funzionari borbonici, dall’altra gli eroi della rivoluzione nazionale; ma sopra di loro, ieratico, saggio e solenne, rispettoso della religione e dei costumi21, don Giovanni Malizia amministra l’unica giustizia possibile, laddove giustizia non c’è. Vale la pena di indugiare sul suo ritratto: Chi è Don Giovanni Malizia? Uno dei più grossi proprietari della Conca d’oro, vecchio di 62 anni che parrebbero appena 52, dalla barba cappuccina, dall’occhio dolce, dal sorriso ingenuo e carezzevole. Ma un suo cenno fa tacere il capo dei briganti e il capo della Polizia e talvolta il Re gli ha mandato dei saluti… Non ha una reggia e regna, non ha una corte e ha ministri e vassalli: quando siede su di un rozzo sasso squadrato alla meglio, all’ombra di un fronzuto noce o di un gelso, con le mani appoggiate a un bastone dagli intarsi rustici, ascoltando placidamente i contadini, egli pare uno dei re omerici che amministra la giustizia all’aperto. Tutte le ingiustizie e tutte le ire della Conca arrivano a Lui, ma senza acrimonia e senza ira, le tempeste si calmano attorno a Lui e si ricompongono. È un capo? Chi l’ha nominato? Nessuno. Tutti. Un sentimento diffuso l’ha riconosciuto capo: ce n’era uno prima di Lui e non era né suo padre né suo parente; ce ne sarà un altro dopo di Lui e non sarà né suo figlio né suo erede. Non ha armi, non minaccia, non dona, non riceve. Non ha registri e conosce il censo, conosce varie generazioni: sa i delitti sfuggiti alla Polizia e al Confessionale, sa la storia del Bene e del Male della Conca d’oro como solo la sa Dio, prima di Lui, e nessuno dopo di Lui.22

21.  Non riusciamo a privare il lettore di questa stucchevole, ma indicativa citazione: «Suona una campana d’una chiesetta vicina e Don Giovanni scoprendosi mormora una breve preghiera, mirando con occhio commosso quel gran dono di Dio sempre nuovo che sono i campi; d’onde viene agli uomini il pane, il vino, l’olio; gli elementi della vita che sarebbe paradisiaca senza le brame degli uomini e le tentazioni del nemico di Dio» (ivi, p. 17). 22.  Ivi, pp. 15-16.

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Negli anni in cui piaceva credere che il duce vegliasse, di notte, nel suo studio di Piazza Venezia, Giovanni Maria Comandè ci racconta di un Giovanni Malizia che distingue, imperscrutabilmente, il Bene dal Male, come un Dio biblico, e come un Dio biblico inesorabile nell’applicare la giustizia: una giustizia che nulla esclude e che può risolversi tanto nell’imposizione di un matrimonio riparatore quanto nell’allontanamento di un omicida, costretto ad emigrare in America, per porre fine a una guerra tra famiglie che va facendosi pericolosa; una giustizia che lo incorona come unico mediatore in una disputa tra un prepotente latifondista e i suoi truffati villani; una giustizia che lo induce persino ad obbligare alla libertà un carcerato, reo confesso per un omicidio che non ha commesso23. Don Giovanni, il quale Comandè assimila più ad un proprietario terriero che ad un gabellotto, secondo quelle convinzioni ideologiche che, lo abbiamo visto, erano state di Mori, è il capo dei capi di una mafia che si vorrebbe arcaica e patriarcale fondata sul rispetto assoluto del principio di autorità, e che funziona come una specie di federazione con poteri territoriali ben delimitati24.

23.  Emblematico del carisma e del potere di Malizia, questo passo irritantemente agiografico; siamo al tempo della festa più importante di Monreale e come ogni anno la processione si arresta sotto il balcone del capomafia per un atto di omaggio: «Tutte le notabilità del paese convenivano ogni anno in quel balcone dove Don Giovanni s’affacciava a capo scoperto in mezzo ai suoi uomini, per inginocchiarsi davanti al Crocifisso Gesù: l’unica autorità a cui doveva render conto dei suoi atti, sulla Terra» (ivi, p. 169). 24.  Negli anni in cui Comandè scriveva, sull’onda dei grandi processi ai mafiosi arrestati da Mori, si dibatteva aspramente, con effetti non irrilevanti sul Codice Rocco (1930), circa il concetto di mafia come associazione a delinquere. Da una parte c’erano quelli, come il procuratore generale palermitano Luigi Giampietro e il magistrato scrittore Giuseppe Guido Loschiavo, di cui ci occuperemo, i quali sostenevano che il mafioso, in quanto tale e senza aver commesso un crimine particolare, potesse essere già imputabile del reato di associazione a delinquere, dall’altra c’erano invece i fieri esponenti dell’intelligenza siciliana, e sicilianista, come l’avvocato Giuseppe Mario

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Un principio, questo d’autorità, che non sopporta trasgressioni, implacabile nelle sue condanne a morte, le quali avvengono, però, secondo le regole di un rigoroso codice d’ono­re, rivelando in don Giovanni un personaggio non diverso dallo Iachinu di Rizzotto e Mosca25. L’unica vera differenza sta nel fatto che sulla figura di don Giovanni, su quel Risorgimento di cartapesta che il capomafia attraversa in veste di eroe naziona-

Puglia, i quali ritenevano invece che si dovesse procedere penalmente solo per reati particolari e comprovabili (su questo dibattito cfr. C. Duggan, La mafia durante il fascismo, cit., pp. 217-224). Interessante, in questo quadro, l’immagine che ci restituisce il sicilianista e, insieme, fascista Comandè, il quale sembra confermare, in questo passo, un’idea della mafia, quella arcaica di Malizia, come fatto associativo, fatto salvo, ovviamente, il fine filantropico e mutualistico, tutt’altro che criminale, dell’associazione. In tal senso, c’è un passo assai interessante. Don Giovanni desidera avere un colloquio con un detenuto: «Anche qui il lettore contemporaneo supporrà che i tre fidati si siano rivolti al cavaliere Rosalis, il titolare alla Direzione delle Grandi Prigioni mandamentali. I tre invece si rivolsero al Direttore effettivo delle carceri, che abitava in Piazza Gaffarello e faceva il salumaio. Bisogna una buona volta formarsi il senso storico dell’epoca, per poterci intendere. I veri ordini alle prigioni li dava Don Saru Lupo il salumaio, coadiuvato da quattro subalterni che dirigevano in sottordine i quattro settori principali del lugubre Palazzo da Piazza Ballarò, da Piazza della Mercede al Capo, da Piazza Fieravecchia e da Piazza Castello. Erano anch’essi quattro bottegai» (G.M. Comandè, Don Giovanni Malizia, cit., p. 58). 25.  Si è appena udita una fucilata, quella che annuncia l’avvenuta esecuzione: «Brasi rizzò la testa, attese e poi guardò Don Giovanni. – C’è passaggio di allodole, stasera, disse a voce rauca e sottilineante. – Sì? chiese ingenuamente il crispino. Tirerei anch’io qualche colpo… Don Giovanni, invece, dopo un istante di pausa sepolcrale e di batticuore, si alzò, si tolse il berretto e chinato il capo mormorò una preghiera: “Requiem aeternam dona ei, Domine…” Gli altri si associarono all’implorazione. Poi Don Giovanni disse all’inviato: – Vossignoria mi farà la grazia di riferire a Don Ciccio, che a tutto ha rimediato la Giustizia divina!…» (ivi, p. 260). Don Ciccio è, ovviamente, Crispi. Il lettore si ricorderà come, nei Mafiusi di la Vicaria, Iachinu accogliesse il suono delle campane a morto, quelle che segnalavano l’avvenuta esecuzione del delatore Don Nunzio, con simili espressioni di rispetto religioso, mettendo a tacere le battute irridenti dei suoi compagni di carcere.

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le, si proietta sempre una luce da mistica fascista: non a caso il capitolo XVIII, in cui gli uomini di don Giovanni conducono a buon fine una delle tante transazioni criminose, imponendo un matrimonio riparatore, si intitola significativamente Più che il ricino, come a lasciar intendere che l’opera del Malizia fosse persino più efficace del benedetto olio usato dalle camicie nere. Inutile aggiungere che il primo tratto apologetico di questo romanzo sia proprio da rintracciare in questo mito di autogiustizia che la mafia ha sempre fatto suo, col quale ha spesso giustificato le proprie azioni criminose, e che ha trovato consacrazione letteraria, come sappiamo, oltre che nelle pagine di Pitrè, in opere come I mafiusi di la Vicaria, I Beali Paoli di Lui­ gi Natoli e La Mafia di Giovanni Alfredo Cesareo. Ma c’è un altro aspetto, inscritto nel paradigma mafioso della letteratura isolana di marca apologetica sin dai tempi della commedia di Rizzotto e Mosca, su cui occorre subito riflettere: l’idea dello stretto rapporto della mafia con la rivoluzione garibaldina. Un’idea sanzionata con decisione, sin dal titolo, da due capitoli: il V, Don Ciccio Crispi, frate, e il XVI, Il gran picciotto, il quale sarebbe poi Giuseppe Garibaldi. Abbiamo già detto di quale Risorgimento si vagheggi nel romanzo. Risparmiamo al lettore i tanti momenti in cui Comandè celebra, con retorico impegno, gli “uomini” Crispi e Garibaldi. Basti, a conferma della rappresentazione di una mafia schierata con le camicie rosse, questa citazione: Garibaldi […] abbracciò l’Uomo a cui si rivolgevano i Re, i militi e tutti i malversati, e incamminandosi con Ciccio Crispi gli andava dicendo: – In America mi hanno chiamato il Diavolo Rosso, io chiamerò il Malizia con una vostra caratteristica frasaccia il… Santo Diavolo Bianco. Don Giovanni, infatti, era oramai tutto bianco, e rappresentava una potenza stranamente superiore a quella degli Uomini tipo Garibaldi, perché operava sugli spiriti, senza forza e senza azione. – Solo i Santi, diceva Garibaldi a Crispi, hanno questi fascini, che sono penetrazioni di anime… E Don Giovanni Malizia rima-

149 sto in piedi con qualche lagrimona sulle rughe a veder partire il suo eroico amico, disse ai pochi suoi: – Picciotti, di fronte a quello siete tutti lattanti. Il gran Picciotto, come Gesù Cristo, è venuto a liberarci dal Limbo dei Padri Santi.26

Ogni commento risulterebbe superfluo: erano comunque questi i libri su cui era costretta a formarsi la gioventù isolana negli anni Trenta e Quaranta, libri il cui impatto ideologico non può essere sottovalutato. L’immagine della mafia, di cui Malizia è la suprema incarnazione, non sarebbe completa se non accennassimo al concetto di Legge su cui tale mafia fonda la sua azione, vera chiave di volta per comprendere come nel romanzo si possano insieme celebrare la mafia e lo stesso regime fascista che riteneva d’averla sradicata. Ma andiamo con ordine. Totò, ricco palermitano, ha approfittato di un’onesta fanciulla ma non ha alcuna intenzione di sposarla; laureato in giurisprudenza, si difende sostenendo con tutti, compresi gli uomini di Malizia, che «la legge» è dalla sua parte, visto che la ragazza è maggiorenne: «Questa frase ingenerosa era stata riferita a Don Giovanni e l’aveva amareggiato per più di due mesi. Il Vecchio, che vedeva la giustizia e la legge in sé stessa, non poteva capacitarsi come un uomo d’onore potesse appellarsi alla legge per andar contro la legge»27. Un concetto, questo del conflitto tra una legge, quella dello Stato che giustifica un misfatto, e l’altra, quella della mafia che è espressione di vera giustizia, un concetto – dicevamo – che Malizia ha modo di chiarire con lo stesso Totò in una discussione concitata: «Quale Legge? Quella di Dio o quella degli uomini? Avvocato mio caro, la Legge è nata ieri e l’onore l’ha fatto Dio! E lei, dunque, operava sicuro perché sapeva indifeso l’onore di una ragazza?»28. 26.  Ivi, p. 236. 27.  Ivi, pp. 134-135. 28.  Ivi, p. 140.

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Riprende corpo, come si vede, quella specie di giusnaturalismo mafioso che abbiamo già constatato nella commedia di Cesareo. C’è una legge di Dio che è superiore a quella degli uomini: tale legge è, appunto, quella interpretata da Malizia. Si capisce che laddove la legge degli uomini latita o si manifesta in norme che sono in contraddizione con la legge di Dio, l’infrazione della legge umana è autorizzata proprio dalla verità e dalla giustizia. E leggi inique sono appunto quelle dei Borboni: di qui la legittimazione, ad opera del fascista Comandè, delle azioni del mafioso don Giovanni Malizia, una legittimazione per nulla in contraddizione con la fede fascista dell’autore. Tutto cambia quando con l’Unità d’Italia, a cui Malizia partecipa da protagonista, la “vera” legge viene finalmente instaurata: il lettore, sia detto per inciso, dovrà leggere come in filigrana a questi avvenimenti, i quali sanciscono il passaggio dai Borboni alla dinastia sabauda, ben altri cambiamenti, quelli che avevano appunto dato vita al nuovo Stato fascista. Non a caso, dopo l’Unità, don Giovanni entra profondamente in crisi: Quell’oscuro sentimento che aveva pervaso l’animo e il cuore di Don Giovanni poco dopo l’ingresso dei Mille a Palermo, ora trovava riscontro in una nuova realtà dolorosa: tramontava un’epoca e un’altra ne sorgeva e i vecchi valori si trasfiguravano […]. Egli faceva a sé stesso l’effetto di un sovrano scoronato, scoronato da nessuno, ma a cui nessuno è tenuto, per dovere, ad obbedire. La sua potenza di comando, muto, calmo e temibile, era fievole adesso, non negli effetti, ché tutto cedeva a Lui, ma nelle sue origini.29

Come si vede, don Giovanni, di fronte alla nuova legge, «quella Legge che aveva ora un Codice e un Tribunale»30, non rie­sce più a trovare una giustificazione, un saldo fondamento, alle sue azioni e al suo potere. La sua crisi, sia detto in battuta, è tra29.  Ivi, pp. 254-255. 30.  Ibidem.

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scendentale, di tipo filosofico: in una pagina veramente didattica nell’auspicare la conversione del mafioso in fascista, due posizioni la cui continuità sia garantita dal concetto d’ono­ re. Le contraddizioni del vecchio leone esploderanno quando gli si presenterà, per un colloquio, il nuovo Procuratore del Regno, in una discussione incentrata proprio sul concetto di legge, di grandissimo interesse ai fini della nostra analisi. Il titolo del capitolo, il XXIII, è tutto un programma: ‘Poenite me peccasse’. Il giovane procuratore si chiama Augusto Campo: è figlio di un esule rivoluzionario morto a Malta poco dopo Ruggiero Settimo, ha avuto come padrino proprio don Giovanni Malizia, ha iniziato la sua brillante carriera in Piemonte sotto la protezione di Cavour. Significativa la battuta del giovane procuratore su Cavour, ove, in Cavour, non si può non ravvisare, per il fascista Comandè, uno dei tanti precursori del regime mussoliniano. Una battuta che sembra voler rassicurare, nel loro sicilianismo, i lettori isolani: «I Siciliani erano molto apprezzati da lui. Qualche volta lo fecero sbagliare, ma ci amava. Fra cento anni si sapranno cose che per ora devono restare un mistero»31. Ma veniamo al tema cruciale della discussione. Il giovane ha appena detto che la Sicilia è una vera spina nel cuore del nuovo sovrano; la causa di ciò è rappresentata proprio da uomini come Giovanni Malizia. Il giovane attacca: Qui non c’è stata da tempo osservanza di Legge. – La Legge non c’era. Il colpo menato dalla parola secca e tagliente del Vecchio cadde come una sentenza inappellabile. – È vero. Questo bisogna riconoscerlo. La Legge non c’era. Ma c’era di peggio. Faceva la Legge un giudice non riconosciuto dal codice. – E si evitava l’anarchia. – Può darsi. – E i deboli avevano giustizia. – Disgraziatamente sì. Ma né Dio né un Sovrano lo potevano sanzionare. – Dio no? E perché?

31.  Ivi, p. 331.

152 – Perché non la sanzionava il Re, che regnava per delegazione divina.32

Come si vede, Malizia attinge a tutti i miti di una mafia giustiziera, quella che agisce in un paese dove non c’è giustizia, sostenitrice insomma delle ragioni dei deboli: ma il procuratore ha dalla sua le argomentazioni di una giurisprudenza legittimista, teocratica, a cui lo stesso Malizia, il quale presumeva di interpretare, nelle sue azioni, la legge di Dio, non può restare insensibile. Il procuratore, avanzando l’immagine di una terra abbandonata in cui il crimine è impunito, incalza: «quanto arbitrio privato nel nome di un Uomo che forse aveva cuor puro nell’amministrare questa strana giustizia!»33. Don Giovanni oppone l’ultima, fondamentale obiezione: «Che colpa hanno coloro che ottengono una giustizia, se la Legge non riesce a difendere, a proteggere e a tutelare?»34. La risposta del giudice è di quelle che non consentono repliche: «Ma se la legge fosse una, la forza sarebbe grande. Non è lecito a un Uomo, anche timoroso, giusto, santo, di erigersi al di sopra di un Trono. C’è un Santo che possa ergersi al di sopra della Fede?»35. Il vecchio accusa il colpo, ma non può cancellare un’ultima e orgogliosa convinzione. Anche il giudice è costretto ad ammetterlo: quando le istituzioni latitano, «i soverchiati e i reietti hanno bisogno di un vindice, quale che sia la provenienza del suo potere»36. La conclusione del giovane procuratore è perfetta nel sintetizzare l’ideologia del romanzo di Comandè, a giustificare simultaneamente l’apologia della mafia, di una

32.  Ivi, p. 333. 33.  Ivi, p. 334. 34.  Ibidem. 35.  Ivi, pp. 334-335. 36.  Ivi, p. 335.

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certa mafia, e del nuovo Stato italiano, su cui sempre si riverbera la luce di quello nato dal fascismo: Padrino mio, Don Giovanni, anche se i passati Governi ebbero il gran torto dell’impotenza, anche se si possa ammettere la strana funzione sociale di una forza privata che regolava la giustizia pubblica, non trova che ora, di fronte a un Re liberamente accettato e proclamato da tutti, a un Governo solido, a un regime nuovo di Giustizia che ha i suoi organi e i suoi mezzi, tribunali e polizia e codice, non trova che un’altra amministrazione di Legge sia un doppione sociale inammissibile e ingiustificabile?37

Un’osservazione, quest’ultima, che convince definitivamente il capomafia, ma soprattutto il vecchio patriota garibaldino che per il nuovo Stato tanto aveva combattuto: Il Gran Vecchio si sentì ghermito. Era vero. E lui non ci aveva quasi pensato. Aveva sempre, da decenni, desiderato la giustizia, la bontà, il benessere e la pace per i suoi fratelli […] e ora si accorgeva che da alcuni anni Egli – come dimentico – proseguiva a voler fare il bene quando a Lui non ne spettava più il compito, perché c’era un altro Sovrano da Dio e dal Popolo delegato e a cui Lui stesso aveva dato il suo “sì” in un plebiscito.38

Abbiamo più volte affermato che, attraverso tale metafora risorgimentale, Comandè, dopo la vittoriosa campagna di Mori, abbia giuocato la sua duplice scommessa apologetica, celebrando l’ideologia mafiosa nel tentativo di conciliarla con la nuova concezione fascista dello Stato: una scommessa perfettamente in linea, come abbiamo visto, con l’operazione culturale tentata dallo stesso Mori. Comandè, se ci si pensa bene, non ha fatto altro che recuperare e tradurre in chiave fascista

37.  Ivi, p. 337. 38.  Ibidem.

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una tesi di fondo della commedia di Rizzotto e Mosca, quella che postulava la possibilità di riscatto sociale per uomini d’ono­re come Iachinu, una volta instaurato un nuovo ordine di giustizia39. A conferma della nostra interpretazione, perché il lettore non la trovi forzata, vale la pena citare questo passo, ove la volontà di proiettare il presente fascista, quello appunto della recente e vittoriosa campagna del prefetto di ferro, nel passato dell’Italia appena unita, ci pare difficilmente negabile. Sono passati solo tre giorni dal colloquio tra don Giovanni e il giovane giudice: Un’azione energica, sotto l’impulso vigoroso del Sostituto dalla coscienza di ferro, si veniva organizzando e svolgendo, inflessibilmente. Non erano più le feroci campagne di squadriglie di briganti passati alla polizia e aizzati come belve contro belve dello stesso pelame; erano ardimentose squadre di carabinieri e di poliziotti che sentivano di compiere un dovere sociale.40

La coscienza di ferro non sarà poi la stessa del prefetto fascista? L’analisi del romanzo non sarebbe completa se non accennassimo ad un ultimo tema, che va a suggellare perfettamente il discorso ideologico di Comandè: quello della contrapposizione tra la vecchia e la nuova mafia. Si tratta di un tema fondamentale e consente a Comandè un’ultima e straordinaria mistificazione, di natura filologica, ovviamente, come le molte altre che abbiamo incontrato sin qui, a partire dal saggio di Pitrè. Siamo quasi alla fine del romanzo:

39.  Si veda, a tale proposito, questo emblematico passo dedicato ai reduci della spedizione dei Mille: «Eroi e non eroi, tutti i volontari si erano elevati moralmente e avevano acquistato la coscienza del proprio valore umano e sociale: tutti avevano conquistato qualcosa e sentivano oscuramente di avere dei diritti nuovi da accampare, non capivano su di che cosa o contro di chi, ma lo sentivano» (ivi, p. 244). 40.  Ivi, p. 341.

155 E poiché ora Don Giovanni Malizia, come un Leone sdegnato della sua corona, si è chiuso impenetrabilmente nella sua caverna, macerandosi in una crisi di coscienza che lo accompagnerà fino alla morte, per essere stato cavaliere di un irraggiungibile ideale, Roccu ha raccolto stranamente la sua deposta corona e ha chiamati sotto la sua protezione i clienti del Vecchio. Così nacque un colossale storico equivoco che chiamò Mafia la malavita. Perché la Mafia, come cavalleria, era virtualmente morta il 27 maggio 1860, mentre le camicie rosse di Garibaldi abolivano un regno di negazione per crear­ ne uno di giustizia.41

Grande colpo di teatro: da una parte il vecchio leone, capo indiscutibile sotto il regno dei Borboni, dall’altra il giovane Roccu che lo stesso Malizia aveva costretto all’emigrazione in America per salvarlo dal carcere. La mafia del primo, quella nobile e generosa, si è inchinata alla nuova legge ed è morta con lo Stato unitario; la mafia del secondo, quella che per errore terminologico ci si ostina a chiamare mafia, non è altro che delinquenza: un puntello ideologico in più, ma nel rispetto di una concezione mafiosa del mondo come quella di Malizia, a quell’azione energica ed inflessibile che Mori aveva da poco portato a termine. Il romanzo finisce con l’uccisione di Roccu che don Giovanni esegue con le sue stesse mani: unica violazione, ma a fin di bene, della regola che il vecchio capomafia si era dato dopo il colloquio col giudice, promettendo di cessare ogni azione in contrasto con le leggi del nuovo Stato. Piccolo particolare, ignorato dal vecchio capomafia, che non poteva mancare in questo lutulento romanzo: Roccu è il padre della creatura che 41.  Ivi, pp. 345-346. Ma si veda anche quest’altro passo – e se ne potrebbero citare molti altri – in cui don Giovanni ha chiamato a colloquio il recalcitrante e ribelle Roccu che vuol fare troppo di testa sua: «Parevano due uomini ed erano due epoche e due tendenze: il passato cavalleresco e generoso e il presente realista e utilitario» (ivi, p. 291).

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la figlia di don Giovanni porta in grembo. Eppure, nonostante la retorica che aduggia ogni pagina e che insolentisce il lettore contemporaneo, l’opera di Comandè segna una tappa importante nella storia che andiamo tratteggiando. Vi si inaugurano due importanti topoi: la questione del confronto tra il giudice e il capomafia, rappresentanti di due diverse concezioni della legge, di due diverse quando non inconciliabili idee di giustizia; il tema della contrapposizione tra una vecchia ed una nuova mafia che è anche scontro di due visioni del mondo. Si tratta di questioni, specie la prima, che avranno molta fortuna, con esiti assai interessanti, nella letteratura successiva. Ce ne accorgeremo assai presto.

3. I mafiosi di Giuseppe Guido Loschiavo Il palermitano Giuseppe Guido Loschiavo, uno di quei “ragazzi del ’99” mandati giovanissimi a combattere sul Montello nelle decisive giornate del giugno 1918, a soli ventuno anni venne nominato pretore nel piccolo mandamento di Barrafranca, ove ebbe precoce conoscenza della mafia. La sua carriera fu velocissima: tre anni dopo veniva inviato a rappresentare la pubblica accusa presso le Corti d’Assise di Caltanissetta e di Palermo, proprio quando si stava appressando la violenta campagna del prefetto Mori. Nel 1931, sempre in veste di sostituto procuratore, con ormai alle spalle un cospicuo numero di processi contro la mafia, scrisse un importante studio sul carattere giuridico e sulla natura antigiuridica del fenomeno mafioso, significativamente intitolato Il reato di associazione per delinquere nelle province siciliane, pubblicato nel 1933 presso una casa editrice di Selci umbro: un testo che divenne fondamentale per la storia degli studi giuridici e criminologici sull’argomento. Da questa ricchissima esperienza, che lo aveva portato a conoscere direttamente, specie negli anni giovanili, alcuni capomafia locali, il Loschiavo ricavò, tra il 1948 e il 1950, al-

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cuni romanzi: Piccola pretura, da cui Germi trasse il suo film In nome della legge. Condotta di paese, e Gli inesorabili, poi riuniti nel 1962 col titolo Terra amara. La trilogia della siepe. In quel memorabile saggio Loschiavo scriveva: Perché mafioso val quanto dire delinquente ed essendo la mafia non un sentimento di esagerata supervalutazione dell’individuo ma un aggregato attivo ed operante di mafiosi, la mafia si identifica con la giuridica espressione di associazione per delinquere, con tutti gli attributi di pericolosità sociale e soprattutto di turbamento all’ordine pubblico, per cui il legislatore ha ritenuto nel codice vigente di infliggere sanzioni ben più gravi di quelle prevedute dal codice penale abrogato.42

Come si vede bene, Loschiavo negava quella definizione di mafia che era uscita dall’opera di Pitrè e tanto aveva influenzato la cultura siciliana, per concentrarsi su un concetto molto preciso di associazione per delinquere, perfettamente inquadrabile nell’articolo 416 del codice Rocco promulgato nel 1930. Loschiavo, per difendersi dall’accusa di aver avuto un atteggiamento filomafioso nei suoi romanzi, che gli era stata rivolta all’inizio degli anni Sessanta, decide di ripubblicare il suo saggio nel libro 100 anni di mafia, ricordando la sua coerenza nella sua ulteriore esperienza giudiziaria ed indicando, al «lettore imparziale» delle sue opere di narrativa, «la costanza dei criteri interpretativi del magistrato»43. Ma le cose, malgrado le buone intenzioni di Loschiavo, stanno veramente così? Basta sfogliare la prefazione scritta per il lettore non siciliano al primo romanzo autobiografico, Piccola pretura (1948), quello che racconta la storia del giovane pretore Guido Schiavi durante i dieci mesi trascorsi nel comune

42.  G.G. Loschiavo, Il reato di associazione per delinquere nelle province siciliane (1933), ora in Id., 100 anni di mafia, cit., p. 123. 43.  Ivi, p. 120.

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di Capodarso, dietro cui si cela il paese di Barrafranca, tra il settembre 1921 e il luglio 1922, per rendersi conto che la verità è ben diversa da quella sostenuta, certo in buona fede, dal giudice Giuseppe Guido Loschiavo: Bisogna distinguere il «sentimento mafioso» dalla «azione della mafia». Il primo si manifesta con la fedeltà all’amicizia, la solidarietà, il cavalleresco rispetto della donna, l’ossequio all’autorità dello Stato. Da esso deriva che l’aggettivo «mafioso» denota quanto di meglio possa apprezzarsi: così è mafiosa una ragazza di non comune bellezza, è mafiosa una casa pulita, è mafioso un vestito ben confezionato.44

Miracoli della letteratura: non appena il Loschiavo mette mano alla traduzione romanzesca delle sue vicende, il rigoroso concetto di mafia come associazione a delinquere cade per lasciare il posto a quelle stesse considerazioni antropologiche che aveva respinto nel suo studio giuridico del ’33. Il fatto è che non si tratta di un’interpolazione momentanea, negata magari dall’ideologia su cui si fonda il romanzo: è difficile non cogliere in quest’opera, infatti, una larvale apologia di certa mafia, vedremo quale, tanto più sorprendente nelle pagine di chi fu un inflessibile rappresentante dello Stato. Intendiamoci: Piccola pretura, romanzo tutt’altro che indegno stilisticamente, non manca di lacerare, con informazioni di prima mano, quel velo mistificante che avvolge sempre la mafia nei libri di marca apologetica. Basterebbe pensare al capitolo primo, che subito ci introduce in quel clima di illegalità diffusa, di violenza quotidiana, senza cedere ad alcuna indulgenza. Il lettore, infatti, si trova di fronte ad un efferato omicidio che scatenerà, inevitabilmente, una guerra di mafia. Pagine, si aggiunga, che lasciano trapelare, come finora non era accaduto nella letteratura di mafia, alcuni arcaici rituali di affiliazione

44.  G.G. Loschiavo, Piccola pretura (1948), Vito Bianco, Roma 1962, p. VI.

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con i quali abbiamo cominciato ad avere confidenza grazie alle cronache giudiziarie di quest’ultimo decennio: Il padrino trasse dal petto una immagine sacra e la baciò: la baciarono tutti. Poi Nofrio con un coltello punse il pollice sinistro a Blasi e fece gocciare il sangue sull’immagine; punse a sua volta il proprio pollice e il suo sangue si unì a quello dell’iniziato. Successivamente gli altri aggiunsero le proprie stille. Dopo, l’immagine fu buttata sul fuoco, ove crepitò, si accartocciò, arse. – Che il nostro sangue ricada sullo spergiuro. Si strinsero la mano come se avessero fatto un patto di alleanza.45

Per non dire della capacità di denunziare ritardi ed inefficienza, incapacità quando non collusioni, di alcuni rappresentanti dello Stato: è il caso di un personaggio quale il commissario, che si trova subito in conflitto col pretore. Ma non è qui il punto. Il carattere apologetico di questo godibilissimo romanzo si palesa, infatti, in alcuni snodi decisivi, quelli che hanno come protagonisti il giovane magistrato ed il capomafia massaro Turi Passalacqua ed hanno a loro oggetto la legge: la lezione del fascista Comandè non era passata invano. Prendiamo il capitolo quattordicesimo: Guido Schiavi si trova ad una festa nuziale e si sta godendo il belvedere quando di lontano ode un urlo disperato e, all’altezza di un’edicola sacra, vede «due fiammate» seguite dall’eco «delle schioppettate». La sua reazione è disperata: Che fare? Che fare?… Devo andare lassù con don Ciccio? Devo dare l’allarme e guastare la festa e fare il malaugurio agli sposi?… È orribile!… Non ne posso più!… Assistere inerte, passivo, a questo continuo macello… senza mai punire i colpevoli… senza neppure conoscerli!… Dov’è? Dov’è la Giustizia?

45.  Ivi, p. 8.

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La risposta a quest’ultima, drammatica domanda, la dà il capomafia Turi Passalacqua, che gli appare alle spalle col berretto in mano, in segno di rispetto, ma seguito da due loschi figuri armati: Voscenza può dire di avere visto la vera giustizia! […] – Massaro, quindi è vero? Questa è una esecuzione di mafia?… – Sì, signor Pretore. – Massaro, e lei ha il coraggio di dirlo a me? Proprio a me?… – Non è coraggio il dirlo come non è paura il tacerlo! Parlo a un «uomo d’onore» quale è Voscenza!… La carogna più infame, che Voscenza abbia conosciuto dacché è fra noi, finalmente ha pagato il suo debito…46

Il passo è di straordinaria rilevanza. Il morto di cui si parla è uno dei più crudeli banditi della zona, così ardito da sfidare persino la mafia. Massaro Turi, quale mandante dell’omicidio, si sente la coscienza, la sua coscienza di mafioso, a posto: ha espletato una funzione d’ordine e ha la consapevolezza di aver assolto un suo dovere. Stupefacente, in tutto questo, è non solo il fatto che il capomafia rompa la consegna dell’omertà, ma che lo faccia col pretore. La motivazione, interessantissima, è una sola: il capomafia riconosce nel pretore un appartenente alla sua stessa razza, quella degli “uomini d’onore”. La reazione di Guido Schiavi, il colloquio che segue tra i due sono ancor più stupefacenti. Ma seguiamone tutte le fasi: Io dovrei… io dovrei arrestarla! Si alzò facendo atto di mettere la mano sulla spalla del massaro, ma i due figuri fecero un passo avanti, scoprendo da sotto il mantello la doppietta… – Tante cose Voscenza dovrebbe fare, ma non può! – Massaro, basta! Mi faccia ammazzare subito da quei suoi amici; però non mi perseguiti con questo ritornello di impotenza!… Mi ammazzi! La legge ci sarà pure per lei, per loro, e se non la Legge degli uomini quella di Dio, almeno! – Sì, Pretore! Quella di Dio! – e si segnò. – Ma non crede che in fondo la

46.  Ivi, pp. 159-160.

161 nostra legge sia voluta e permessa da Dio?… – Massaro, adesso bestemmia pure! – […] I cani arrabbiati si ammazzano, gli uomini arrabbiati si ammazzano: per legittima difesa. Per legittima difesa della società! Questo ha fatto e fa la mafia!47

E più avanti, dopo l’ultimo tentativo del pretore di difendere la legge dello Stato, la finale e clamorosa capitolazione: – Pretore! Le dissi il primo giorno ch’ebbi l’onore d’incontrarla, che ho un figlio della sua età!… Comprendo come lei debba essere la gioia e l’orgoglio di suo padre. […] Quando sarà vecchio, tanto vecchio, e massaro Turi, il capo-mafia, non sarà più, forse giudicherà meglio questo massaro e penserà che le sue leggi, non di Stato, erano leggi di natura ed egli le applicava in buona fede… Mi stringa la mano: sono un galantuomo! Guido Schiavi sentiva le arterie spezzarsi sotto il battito del cuore: gli pareva di avere la febbre addosso. Massaro Turi aveva parlato lentamente, placidamente, con una voce che sembrava venisse da lontano. Tendeva la mano aperta in segno di amicizia. Guido Schiavi la strinse e lo guardò con tenerezza. – Permette che la baci… come se fosse mio figlio?… Guido Schiavi vide la testa brizzolata di suo padre e gli occhi grigi sovrapporsi a quelli del vecchio massaro e, vinto dall’emozione, dal piedistallo in cui era salito per virtù della esaltazione della sua professione, cadde giù, creatura umana, comune, semplice, romantica… Buttò le braccia al collo del vecchio e, piangendo, lo baciò…48

Valeva la pena di indugiare. Lo schema del dialogo è lo stesso della conversazione tra il giovane procuratore e don Giovanni Malizia nel romanzo di Comandè: da una parte il pretore Schiavi che tenta di difendere le ragioni della legge dello Stato, l’unica legittima, dall’altra il capomafia che si appella a quella sorta di giusnaturalismo che conosciamo bene e intende le

47.  Ivi, pp. 160-161. 48.  Ivi, p. 162.

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azioni della mafia quali attuazioni delle leggi di natura promulgate da Dio. Ma se nel romanzo di Comandè potevamo constatare la capitolazione finale del vecchio mafioso di fronte alla nuova legge, qui abbiamo un magistrato del regno che si inginocchia di fronte al capomafia, lo bacia, lo abbraccia e si lascia accarezzare paternamente da lui, dopo che quest’ultimo lo ha per giunta definito un “uomo d’onore”. L’apologia della mafia, insomma, finisce per essere nel Loschiavo ancor più risoluta di quella del Comandè. Ma quel che più sconcerta è che il pretore, testimone del crimine, perfettamente a conoscenza dei mandanti per confessione stessa di massaro Turi, aderirà al codice dell’omertà, facendo finta che l’omicidio non sia mai avvenuto: il cadavere di Vanni Vetriolo verrà trovato molto più tardi e solo allora verranno espletate tutte le formalità di rito. La scena finale del romanzo, in cui Turi Passalacqua riconosce finalmente nel giudice il rappresentante della vera legge, non cambia di molto le carte in tavola. Il magistrato, di fronte a tutti i notabili riuniti nell’aula giudiziaria, dopo l’assassinio del suo unico vero amico nel paese, ha appena definito la comunità indegna di una Pretura e ha manifestato il desiderio di lasciare il paese, quando massaro Passalacqua lo interrompe: «Voscenza ha parlato da saggio ed ha ragione. Noi siamo indegni di avere la Giustizia qui, specie quando la Giustizia è vera come quella sua. Noi la preghiamo, però, di non lasciarci […]». Guido Schiavi, implorato da tutti, si dirige allora verso Turi: «– Grazie, Massaro, – gli disse – lei è veramente il “re del paese”! – Io sono il servitore di Voscenza! Le due Leggi, quella dello Stato, la togata, e quella della campagna, avevano fatto armistizio e per la prima era vittoria»49. Una vittoria sanzionata addirittura dalla consegna al pretore dell’assassino, Ciccio Messana, da parte degli uomini di Turi Passalacqua.

49.  Ivi, p. 286.

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Ma si tratta veramente di una vittoria? A parte il fatto che i mafiosi, nell’assicurare l’omicida alla giustizia, arrivano assai prima dei carabinieri, i quali, nell’ultima pagina del romanzo, vengono fatti oggetto, per il loro tempismo, dell’ironia del pretore, c’è da aggiungere che nelle parole orgogliose di massaro Turi non v’è alcun riconoscimento delle leggi dello Stato in quanto tali, ma solo dell’autorità morale e del carisma del pretore, il quale, per altro, non manca di definire il massaro come il vero «re del paese». Non c’è che dire: il Loschiavo, pur lamentando nel suo 100 anni di mafia le ingiustizie e gli errori giudiziari dei processi fascisti50, non riesce a leggere il conflitto mafia-istituzioni in modo diverso dal fascista Mori, quel Mori che contrapponeva all’autorità dei capimafia il carisma individuale, l’energia, la forza morale dei singoli rappresentanti dello Stato. Il fatto è, comunque, che da questa visione apologetica Loschiavo non uscirà nemmeno nei romanzi successivi: un esempio clamoroso di ciò è fornito da Gli inesorabili (1950), un romanzo in cui, benché si racconti una guerra di mafia che dura mezzo secolo, incentrata sulla vicenda di due famiglie rivali i cui due ultimi discendenti si amano, non compare mai, tra i personaggi, un rappresentante dello Stato: bene e male, virtù e viltà, giustizia e crimine, in una specie di terra di nessuno, sono appannaggio esclusivo dei mafiosi che si contendono il potere e amministrano l’unica forma di giustizia possibile. Siamo sulle Madonie nel feudo di Bellolampo che si estende nella valle tra le due Petralie e Gangi, di proprietà del barone Occhipinti ma affidato in guardianìa al curatolo e gabellotto Saverio Luparello, legato a quei facinorosi mafiosi “della bassa” che, da Buonpietro, controllano quelle terre. A Gangi, signore indiscusso della mafia “della montagna”, elegante e

50.  Cfr. G.G. Loschiavo, 100 anni di mafia, cit., pp. 117-118.

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ieratico, sempre in groppa della sua splendida cavalla bianca, governa don Salvatore Sparaìno: era sempre il patrono e il padrone di Gangi e tutte le persone di riguardo e di rispetto, che fossero suoi dipendenti o soltanto amici, facevano capo a lui con crescente fiducia. La saggezza, la prudenza, la forza che emanavano da ogni sua azione o da ogni sua frase, confortavano e rassicuravano. Gangi si sarebbe detta una badìa tanto l’ordine pubblico era rispettato.51

La storia è questa: Diego Costa, carrettiere di Gangi, figlioccio di don Salvatore, stimatissimo anche nella Bassa, si mette in testa che il feudo, bonificato come si dovrebbe, potrebbe diventare un paradiso; ottenuto così un fazzoletto di terra dal barone, dimostra con la serietà del lavoro la verità delle sue tesi; ma l’atto del gangitano è considerato un oltraggio dalla mafia della valle, scatenando così una guerra che condurrà alla morte dello stesso Diego, della moglie, di un figlio dei Luparello, ma che si concluderà con la bonifica operata da Sariddu, figlio di Diego, con l’approvazione dello stesso barone; il lieto fine è da romanzo d’appendice, con Sariddu che sposa, dopo numerose vicissitudini, proprio Stellina, l’erede prediletta della famiglia nemica, i Luparello. Nel romanzo, Loschiavo inserisce una nota che illustra perfettamente il quadro storicoideologico entro cui si consuma la vicenda: Tutto il mondo civile sa che in Sicilia esiste un’organizzazione occulta, che penetra un po’ dappertutto nella vita sociale e pure nella politica dell’Isola, svolge un’attività regolata da

51.  G.G. Loschiavo, Gli inesorabili, Colombo Editore, Roma 1950, p. 49. Ma si veda anche questo passo in cui, nelle fattezze di don Salvatore, dentro una luce di agiografia, non possiamo non riconoscere quelle di don Giovanni Malizia: «Don Salvatore Sparaìno aveva adesso la testa fuori del cappuccio e i capelli d’argento nella luce lunare sembravano un’aureola. Era alle spalle di Sariddu: sembrava un Dio sceso dai monti a giudicare» (ivi, p. 283).

165 leggi severissime, ed è circondata da timorosa deferenza. In verità essa è considerata un ordine giuridico sui generis e come tale, allorquando nell’attuazione dei suoi programmi di tutela e di giustizia scantona nell’illecito penale, viene considerata associazione per delinquere e perseguitata secondo la legge dello Stato.52

Come si vede, lo scrittore riconosce alla mafia un’azione «di giustizia», che non sempre scantona nell’illecito penale. Non manca, infatti, una precisazione che ha il fine di sollevare moralmente la figura del mafioso su quella del bandito: «Però, fatto certo è che la “mafia” (aggregato di individui stretti da particolari vincoli) e i “mafiosi” (gli appartenenti alle mafie) quando non delinquono non possono essere considerati malfattori comuni, banditi, fuorilegge e via di seguito»53. Detto questo, Loschiavo fa propria una tesi del meridionalismo classico, quella che vede nella mafia il prodotto dell’arretratezza economica dell’isola: «Per “mafia” deve intendersi esclusivamente un fenomeno sociale manifestatosi in Sicilia, e soltanto lì, per effetto della natura agricola della regione e del sistema fondiario improntato a concetti feudali»54. Sulla scorta di tali argomenti, Loschiavo aderisce perfettamente alla tesi franchettiana di una classe di intermediari facinorosi nata sulle ceneri dell’abrogazione dei privilegi feudali, quando, appunto, «si rese indispensabile per la tutela delle vaste proprietà terriere un’organizzazione particolare che, senza dipendere dall’uno o dall’altro feudatario, garantisse la pacifica amministrazione delle terre», vista l’insufficienza dell’azione dello Stato55. Questa classe, aggiunge lo scrittore, visse da pro52.  Ivi, p. 20. 53.  Ibidem. 54.  Ibidem. 55.  Ibidem. Ingenuamente meridionalistico è anche il rimedio additato dal Loschiavo, che fu per altro quello in cui credettero tanti agitatori sindaca-

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tagonista l’avventura risorgimentale: «I “mafiosi” ebbero così il loro battesimo politico di sangue, allentarono un poco la segretezza sulla loro organizzazione, e i maggiori esponenti furono conosciuti, apprezzati, tollerati pure dal Governo dell’Italia, fatta Una»56. Ma ecco, entro tale quadro, l’utilizzazione di un primo mito storiografico, quello alla base dell’impianto apologetico del romanzo: Così la “mafia” divenne un antistato nello Stato, perché ebbe pubblica consapevolezza del proprio potere e non temette l’Autorità del Governo. Senonché, proprio per effetto di questa partecipazione della consorteria alla vita pubblica della regione, con il progredire delle idee di socializzazione e di rinnovamento del sistema agrario nelle zone dei latifondi e degli ex feudi, ben presto sullo scorcio del secolo XIX cominciarono a manifestarsi sovvertimenti pure in seno alle “mafie” e fra esse per i rapporti territoriali e giurisdizionali. In linea di massima le “mafie” delle montagne rimasero obbedienti alle norme di rispetto e di fedeltà verso i proprietari terrieri, che le sovvenzionavano; le altre, quelle delle pianure, dove era maggior fonte di ricchezza agricola, non esitarono a schierarsi contro i proprietari nella lusinga di sostituirsi ad essi.57

Il lettore noterà da sé come l’obiettivo polemico di Loschiavo non sia più la mafia in quanto tale, ma quella della pianura che ha l’ardire di volersi sostituire ai legittimi proprietari, i vec-

li e politici della sinistra del secondo dopoguerra: «Il fenomeno della “mafia” sparirà completamente dalla Sicilia e rimarrà ricordo storico allorché il latifondo sarà coltivato assieme agli ex feudi e sarà frazionato in piccole proprietà. Verrà meno allora la giustificazione dell’esistenza dell’organizzazione occulta: la tutela, cioè, della grande proprietà terriera privata» (ivi, p. 22). Oggi tanti studi, a cominciare da quelli di Lupo sugli agrumeti del Palermitano, hanno seccamente smentito la troppo facile equazione mafiaproprietà terriera. 56.  Ivi, p. 21. 57.  Ibidem.

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chi feudatari: siamo, appunto, alla traduzione del paradigma franchettiano fatta dal prefetto Mori, fedele alleato dei proprietari terrieri contro i veri nemici, i gabellotti. Non a caso, i malvagi del romanzo, sono i Sòllima, mafiosi “della bassa”, e i Luparello loro alleati, specie l’ultima generazione, veri e propri nullafacenti, manutengoli e truffatori, i quali, nell’esercizio di guardianìa, sono i veri avversari della bonifica del feudo, voluta dall’eroico Diego Costa, il ritratto del contadino gran lavoratore, fedele e leale servitore del barone. Quel Costa, si badi, il quale non esita a tessere le lodi del governo fascista che ha finalmente sradicato la mafia: «Ora per fortuna non c’è più “alta” né “bassa”. La mafia è svanita come nebbia al sole. Ormai abbiamo il governo forte e tutto potrà andar bene pure quassù»58. Ma si veda anche con quali parole, in uno dei tanti passi citabili, lo scrittore disegni lo scontro tra le due diverse mafie, quella buona che mantiene l’ordine contro l’altra che a quell’ordine attenta: Don Salvatore Sparaìno sentiva le voci, seguiva con il suo occhio esperto, apprendeva dai suoi messi. La sua mano benefica, come prima, sorreggeva nella maniera più impensata i coloni della valle. Sariddu, il figlioccio, non doveva sfigurare col Barone. Guai se il vecchio “curatolo” avesse cantato vit-

58.  Ivi, p. 93. Continui riferimenti all’opera positiva del fascismo non mancano nel romanzo. Ne scegliamo uno ove, in filigrana, si intravede un elogio del regime ai danni della giovane repubblica nata dalla guerra: «Alla fine della guerra del 1915-18, nell’Italia vittoriosa si manifestarono sovvertimenti morali, sociali ed economici, fenomeni propri del dopo-guerra che in Sicilia, e fra l’altro nelle Madonìe, condussero alla degenerazione della mafia, al disconoscimento dell’autorità statale, allo spaventoso dilagare del banditismo. Ricondotta per il ricostituito potere dello Stato la normalità nei luoghi del disordine e dispersa, snervata, assopita la organizzazione degli aggregati di mafia, ecco che, a seguito della guerra del 1940-45, l’Italia sconfitta si ritrovò nelle condizioni di sovvertimento di pochi lustri prima, naturalmente peggiorate. In Sicilia rifiorì, pertanto, la delinquenza e si ricostituì la mafia» (ivi, p. 129).

168 toria sul programma di bonifica. I Luparello e la mafia della “bassa” dovevano sentire come la potenza della mafia della montagna si fondasse sul rispetto del lavoro, sull’ordine e sulla mutua assistenza.59

Ma l’adesione di Loschiavo ai paradigmi di Mori è testimoniata dalla piena accettazione della cosiddetta cultura dell’omertà. Sariddu, il figlio di Diego, pur avendo giurato alla madre morente di non spargere mai sangue, quando è il caso sa farsi giustizia da solo, diventando, nella parte finale del romanzo, un vero e proprio angelo giustiziere. Ma ciò che conta, alla fine, non è tanto la lotta tra la mafia e lo Stato, quanto quella tra due concezioni di “rispetto” e di “onore”, secondo quella visione del mondo che un ormai ravveduto Saverio Luparello illustra ai suoi stolti e recalcitranti figlioli: La verità è che non avete saputo farvi rispettare da Sariddu Costa. Rispettare non come l’intendete voi e Ciro Sòllima: come l’intende Sariddu e come, ora che sono vecchio, lo intendo pure io. Bisogna nella vita farsi rispettare perché lavoratori e galantuomini… Voi avete soltanto la bocca da rana per gracidare e il cervello da pìspola per non vedere ragionevolmente a due dita oltre il naso!60

Se le cose stanno così non ci può sorprendere il fatto che l’one­ sto magistrato Giuseppe Guido Loschiavo, subito dopo la morte del boss Calogero Vizzini, abbia invitato il suo «autorevole successore» Genco Russo a guidare «la consorteria occulta […] sulla via del rispetto delle leggi dello Stato e del miglioramento sociale»61.

59.  Ivi, p. 184. 60.  Ivi, p. 257. 61.  Troviamo la citazione in S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 171.

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Capitolo VI

L’Italia è fatta, ora facciamo gli affari nostri

1. Per una contro-storia d’Italia letteraria e civile Le immagini della mafia che abbiamo sin qui esaminato, il sentimento e l’idea della Sicilia che quelle immagini involgono, sono il risultato di un duplice processo ideologico: da una parte, quella tradizione meridionalistica sorta nel segno di Franchetti, Sonnino e Villari, che ha offerto il primo rigoroso paradigma della violenza in Sicilia, la prima articolata ed implacabile definizione di mafia; dall’altra quel sistema di concetti, non sempre coerente, di tono orgogliosamente auto­ celebrativo, che si inscrive dentro un’ideologia sicilianistica, tra i cui rappresentanti abbiamo trovato Pitrè, Capuana e Cesareo, Comandè e Loschiavo, ma anche, insospettatamente, un uomo come il prefetto Mori: un sistema di concetti, però, sotto la cui scorza apologetica non è stato impossibile ritrovare un ribollente magma di verità, decisive, a nostro modo di vedere, per capire qualcosa del fenomeno mafioso dagli anni dell’Uni­ tà fino al fascismo. Esiste tuttavia, dentro la storia letteraria isolana, una tradizione alternativa alle due che abbiamo avuto modo di conoscere, estranea tanto alla polemica meridionalista quanto alla tentazione vittimista del sicilianismo: una tradizione che ci piace ricondurre ad un modello d’interpre-

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tazione della storia d’Italia post-unitaria assai originale, fortemente antagonistico, che qualche studioso ha voluto tradurre nei termini di un problematico «realismo analitico»1, un modello che assume a proprio oggetto d’indagine i meccanismi del Potere, nella logica delle sue istituzioni, nei processi di cooptazione e creazione delle élites, nella dinamica politica e sociale del conflitto tra le classi, insomma nella sua articolata sintassi. Una tradizione che, se non ha sempre affrontato direttamente la questione mafiosa, ha però consentito una conoscenza del contesto antropologico, storico-sociale e ideologico, di notevole importanza per una più precisa comprensione del fenomeno criminale. Una tradizione, bisogna aggiungere, che può anche essere riletta secondo le linee di sviluppo di quel «romanzo antistorico»2 di cui ha parlato Vittorio Spinazzola. Spieghiamoci meglio, per articolare più chiaramente questa nostra ipotesi di contro-storia d’Italia letteraria e civile3. Per

1.  Per questa nozione, cfr. N. Tedesco, La norma del negativo. De Roberto e il realismo analitico, Sellerio, Palermo 1981, anche se la maggior parte delle pagine, qui riviste, sono apparse nel 1963. 2.  Cfr. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Editori Riuniti, Roma 1990, in part. pp. 3-49. Per «romanzo antistorico» si dovrà intendere un romanzo in cui vi sia uno stretto nesso tra narrazione e interventi saggistici nell’interpretazione degli eventi, certamente nel segno di un genere eminentemente borghese come quello del “romanzo storico”, impiegato però per colpire la mentalità e i miti della borghesia, in particolare il mito del progresso. E ciò, per caratterizzare opere in cui il pessimismo esistenziale e criticismo ironico confronta con una realtà immobile e disperata, opere fondate, per altro, sul primato della coscienza, la quale è forte solo del suo lucido scetticismo, e sull’adesione ad un nucleo di valori radicati nella cultura isolana, come antidoti ai veleni della modernizzazione. In questa chiave Spinazzola ha esaminato I Viceré, I vecchi e i giovani e Il Gattopardo. 3.  Abbiamo già tentato di illustrare questa ipotesi di contro-storia d’Italia letteraria e civile in questi nostri scritti: Introduzione, in V. Brancati, Paolo il caldo, Bompiani, Milano 1993, pp. V-XV; Prefazione, in L. Pirandello, I vecchi e i giovani, intr. di N. Borsellino, Garzanti, Milano 1993, pp. LVI-LXXX;

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un singolare paradosso, la letteratura della nuova Italia, quella che Benedetto Croce scrutinò tempestivamente e con severità nei suoi sei densi volumi di critico militante, si inaugura con una delle più dure condanne dell’appena compiuta Unità nazionale, nella constatazione di un tradimento perpetrato a danno delle più alte idealità risorgimentali. A distanza di soli vent’anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, Giovanni Verga, nei Malavoglia (1881), assumeva infatti la Sicilia di una povera famiglia di pescatori a vera e propria pietra dello scandalo della mancata modernizzazione del paese, nella lucida e spietata rappresentazione di uno Stato sempre latitante, salvo che per la riscossione delle imposte ed il servizio militare di leva, a causa del quale onere, con l’arruolamento coatto dei figli più giovani, si venivano a sottrarre le migliori forze di già stremate economie domestiche. Quel Verga che, nella novella Libertà (1882), avrebbe narrato, senza più illusioni di progresso economico, sociale e civile, la tragica repressione della rivolta contadina di Bronte ad opera di Nino Bixio. Quel Verga che nel segno di tale disincanto aveva progettato un ciclo di romanzi, il “ciclo dei vinti”, in cui, dopo Mastro-don Gesualdo, si sarebbe dovuto misurare col mondo aristocratico (La duchessa di Leyra), quello parlamentare (L’onorevole Scipioni), per raggiungere infine la dimensione della più alta mondanità (L’uomo di lusso). In questo progetto, mai completato dal Verga, è come contratta e anticipata la vicenda letteraria che qui propriamente ci interessa, una vera e propria contro-storia d’Italia scritta a partire dall’estremo Sud della penisola, a volte acrimoniosa e risentita, altre ironica e disincantata, e come redatta a controcanto di quelle sorti magnifiche e progressive che l’Italia Introduzione, in L. Pirandello, Verga e D’Annunzio, Salerno Editrice, Roma 1993, pp. 7-25; Presentazione, in L. Pirandello, Il turno, Theoria, Roma 1993, pp. 7-21; Storia di Sciascia, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 97-137.

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ufficiale si avviava a celebrare, sulla falsariga di una retorica risorgimentale che, di lì a poco, avrebbe condotto il paese alle imprese di Tripolitania e Cirenaica, al fascismo, per prolungarsi e perpetuarsi nell’Italia delle mafie e delle stragi di Stato. Una vicenda letteraria la cui prima e altissima tappa è rappresentata da uno dei più foschi e lucidi romanzi della narrativa italiana contemporanea: I Viceré (1894) di Federico De Roberto. Il romanzo racconta la storia di un’antica, nobile e potentissima famiglia catanese, gli Uzeda, in un arco che va dal 1855 al 1882, caratterizzato dagli ultimi anni della dominazione borbonica, dalla nascita dello Stato unitario e dall’instaurazione del regime parlamentare, nella impietosa rappresentazione del cinico e spregiudicato trasformismo della classe dirigente aristocratica isolana. Siamo ad un romanzo storico di matrice manzoniana, ma completamente ribaltato nelle premesse e nei valori, che tende a mutarsi in romanzo della contemporaneità, feroce inquisizione etico-politica del presente, processo alla comunità nazionale, quale implacabile atto d’accusa di quella mentalità utilitaristica e rapace che l’aristocrazia meridionale aveva fatto propria dopo l’unità. Un romanzo storico che si è ormai fatto «romanzo antistorico», proprio perché non accampa più un concetto di Storia come strada maestra del progresso, ma quale catena di delusioni, fallimenti e nequizie, nella felice riattualizzazione della lezione verghiana. Ma l’originalità dei Viceré non si esaurisce qui. Parallelamente ad opere come L’esclusa (1893) e Il turno (1895) del giovane Pirandello, ma con più lucida coscienza storica, questo romanzo sembra rivelare, nella forma di una risentita palinodia, il lato turpe ed egolatrico di quella «religione della famiglia» che Verga aveva celebrato con commozione nei Malavoglia. Gli Uzeda, infatti, rissosi ed aggressivi, non di rado in concorrenza tra loro, avidi e spregiudicati, restano però tutti uniti nel favorire l’inarrestabile ascesa al potere della famiglia, quasi che De Roberto avesse intravisto in questa vicenda siciliana una costan-

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te di tutta la storia dell’Italia post-unitaria, come a prefigurare quella diagnosi di “familismo amorale” che soltanto la storiografia più recente ha indicato come uno dei tratti fondamentali del nostro passato e presente nazionali. Assai emblematica la battuta di uno dei personaggi, giustamente rilevata da Giulio Ferroni: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri»4. Tutto ciò, nel quadro di una lingua pluristratificata, al servizio di un realismo raziocinante e implacabile, e di una tensione stilistica capace di mimare i gesti inconsulti e le idiosincrasie di una folla formicolante e astiosa, con esiti che talvolta sembrano preludere ad una temperie di marca espressionistica. Nel 1913, per i tipi di Treves, Pirandello pubblicava dopo lunga gestazione l’edizione completa de I vecchi e i giovani, in cui, come scrisse in una lettera del 1912, tentò di rappresentare «il dramma» della sua generazione. Quale fosse tale dramma è subito detto, osservando che il romanzo, ambientato tra Girgenti e Roma, ricco di implicazioni autobiografiche, narra le vicende pubbliche e private dei principi Laurentano, dai mesi che precedono le elezioni del 6 novembre 1892 fino alla proclamazione dello stato d’assedio in Sicilia decretata da Crispi il 3 gennaio 1894, toccando lo scandalo della Banca Romana che travolse parlamentari e ministri, nonché la nascita, crescita e sconfitta del movimento dei Fasci siciliani. Siamo di nuovo, come si vede bene, all’amara constatazione del tradimento dei valori risorgimentali operato tanto dai “vecchi” patrioti, quanto dai “giovani” e inetti agitatori socialisti. Ancora una volta, la famiglia è rappresentata come la cellula cancerosa capace di provocare metastasi in tutto il corpo sociale. In questa seconda tappa della contro-storia d’Italia che stiamo delineando, la posizione del Pirandello di questo romanzo è

4.  Cfr. G. Ferroni, Storia della letteratura italiana. Il Novecento, vol. IV, Einaudi, Torino 1991, p. 436.

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assolutamente originale, e di completo isolamento nel quadro della stessa storia del coevo meridionalismo. Lo scrittore, e lo vedremo meglio con un’analisi ravvicinata e circostanziata, sa registrare l’assoluta inadeguatezza ed amoralità della classe dirigente isolana, borghese ed aristocratica, insieme all’irrimediabile e totale immaturità politica delle masse siciliane, conservando lo stesso orrore verghiano per la violenza popolare, non esitando, per altro, ad indagare quell’ideologia sicilianista di cui abbiamo avuto già qualche testimonianza, senza che ciò gli impedisca di scandagliare con grande lucidità la logica perversa che sconvolge il legale funzionamento delle istituzioni dello Stato, a volte con inquietante preveggenza circa le gravi malattie che hanno avvelenato la società italiana, tutta intera, in questo secolo. Di fondamentale importanza per la storia della nostra letteratura il rapporto che viene istituito nel romanzo tra Roma e Girgenti, il “continente” e l’isola, come ad indicare, dalle estreme province meridionali, una strada per la capitale (sia essa quella politica od economica, si chiami Roma o Milano) che è ancora ben lungi dall’essere compiuta, e che l’intellettuale siciliano sembra costretto ogni volta a ripercorrere, pena la morte culturale o l’emarginazione, come a misurare le ragioni di una mancata e rinviata unificazione e democratizzazione del paese. Entro questa prospettiva, si legge con profitto anche Rubè (1921) di Giuseppe Antonio Borgese, la cui spietata notomizzazione dell’intellettuale primonovecentesco, subito rilevata dalla critica migliore5, acquista inedito significato se interpretata a ridosso del libro pirandelliano. Protagonista ne è Filippo Rubè; fino ai trent’anni una vita non diversa da quella di un 5.  Tra i molti che hanno battuto questa strada citiamo S. Battaglia che con i suoi Ritorno di G.A. Borgese, in Id., Occasioni critiche, Liguori, Napoli 1964, pp. 204-212; e Mitografia del personaggio, Rizzoli, Milano 1970, pp. 533-541, può essere ritenuto tra i responsabili della rinascita critica borgesiana.

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giovane meridionale che nei primi anni del secolo si trasferisce a Roma con una laurea in giurisprudenza, un baule di legno, qualche lettera di presentazione per uomini d’affari e deputati; di suo, una logica che spacca il capello in quattro, un’oratoria che consuma l’argomentazione altrui fino all’osso e una grandiosa idea di sé stesso. Da questa Roma ministeriale, quella delle spregiudicate avventure politiche, alle soglie del primo conflitto mondiale, la vita lo condurrà al fronte, poi a Milano, il cuore pulsante della vita economica, in cerca di lavoro, dove scoprirà il dramma della lotta di classe, quindi, convalescente, ad una Parigi mondanissima, la Parigi che, non a caso, è uno dei miti più radicati nella coscienza dell’intelligenza siciliana degli ultimi due secoli. Alla fine della vicenda, ad attenderlo non è solo un destino di follia, ma una morte del tutto casuale nel corso di una carica di cavalleria contro dimostranti di opposte schiere: la morte di un indifferente, di un estraneo, che “rossi” e “neri” tenteranno di strumentalizzare ai propri fini. Una morte che sta ancora una volta a dimostrare l’assoluta inanità di quel pendolarismo tra l’isola e la capitale, entro il quadro di assoluta disgregazione economica, sociale e politica del paese. Con Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel segno di un maggiore distanziamento ironico, torniamo nuovamente agli anni del passaggio dal regime borbonico allo Stato italiano unitario narrati da De Roberto, nella medesima constatazione di un irrimediabile trasformismo delle classi dirigenti, registrato dalla proverbiale battuta del giovane Tancredi, nobile che si fa garibaldino, nella convinzione della necessità che tutto cambi, perché tutto continui ad essere come è sempre stato. Ma si tratta di una ricostruzione di quegli anni che può essere letta come una risentita e insieme disincantata risposta in chiave aristocratica alla tesi dei Viceré circa la rapacità dei nobili siciliani: nel romanzo di Tomasi, infatti, i veri interpreti di quella spietata concezione sono gli sciacalli e le

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iene borghesi che, con l’unificazione del paese, si sono spregiudicatamente sostituiti agli antichi gattopardi. Un’opera tutta iscrivibile entro questa prospettiva di contro-storia letteraria e civile ma che, bisogna pur sottolinearlo, dalla disperazione storica dei Viceré, passando per quella de I vecchi e i giovani già affacciata, in un personaggio come il folle don Cosmo, sulle desolate lande dello smarrimento esistenziale, arriva ad esiti di sgomento ontologico, come ben testimoniano le tante pagine mosse da un dilagante sentimento luttuoso che si risolve, talvolta, nel corteggiamento della morte. Come si vede bene, siamo di fronte ad opere in cui il racconto pare quasi sottoposto ad una sorta di corto circuito: quello che inevitabilmente scatta quando sulla ricostruzione delle vicende isolane agisce una peculiare idea di storia d’Italia, per polarizzarsi sul pendolarismo Sicilia-continente. Bisognerebbe qui, nel quadro di questa nostra ipotesi, citare le opere di scrittori che ci sono più prossimi, almeno lo Sciascia di un racconto degli Zii di Sicilia, Il quarantotto (1958), e il Consolo de Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976): ma di essi ci occuperemo più avanti. Un’altra è, infatti, la nostra preoccupazione: che il discorso rapidamente accennato possa peccare, come in effetti pecca, di schematismo. Un peccato che darebbe ragione a chi, come Giuseppe Giarrizzo, ha lamentato il tentativo di surrogare «con la “modellistica” dei letterati» la latitanza della ricerca storica, con la conseguenza di assumere acriticamente «lo schema ideologico del letterato», senza la preliminare verifica della sua coerenza e della sua forza conoscitiva6. Per evitare tale rischio, in relazione al tema che ci interessa, quello della mafia, prenderemo in esame l’opera di Pirandello, non senza una coda significativa dedicata a Tomasi di Lampedusa, cercando di mostrare come le pagine di questi scrittori, quanto a 6.  Cfr. S. Zappulla Muscarà (a cura di), Vitaliano Brancati, Maimone, Catania 1986, pp. 147-148.

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complessità di visione, perspicuità di analisi, intensità conoscitiva, non abbiano nulla a che invidiare a quelle di Franchetti.

2. Le verità di Pirandello Su Pirandello e la mafia, non può non far fede una pagina di Pirandello e la Sicilia (1961), seconda cruciale tappa, dopo Pirandello e il pirandellismo (1953), di quel lungo e diuturno rapporto tra Sciascia e il grande conterraneo che sarebbe durato una vita intera. Sciascia ha appena parlato di quel Navarro della Miraglia di cui ci siamo già occupati nel III capitolo, sottolineando appunto come, nella sua Nana, «la morale sessuale tipo “cavalleria rusticana”» subisca quel «processo di sofisticazione» tipico in alcuni personaggi pirandelliani, quindi osserva: Si può senz’altro dire che la “precipitazione”, la formazione della visione pirandelliana della vita, avviene nel processo di decomposizione, di sofisticazione, della morale sessuale tradizionale. Una condizione storica di vassallaggio sessuale delle popolazioni rurali nei riguardi del feudatario, del gabellotto, del soprastante (e anche dello sbirro e dell’usuraio), cui è da aggiungere l’aleatorio esercizio della patria potestà e tutela per le frequenti e lunghe assenze a causa del carcere e delle latitanze, hanno determinato nel tempo una situazione morale e sentimentale, un comportamento sociale, per cui l’illecito sessuale viene accettato da coloro che ne sono offesi – purché siano salve le apparenze – in una sfera di intatta spiritualità. Sembrerà un paradosso: ma i sanguinosi risarcimenti dell’ono­re raramente si verificano nell’ambiente mafioso (e perciò proverbialmente i siciliani non mafiosi usano dire che “i mafiosi son tutti cornuti”, a consolazione di quel che dai mafiosi subiscono). Un personaggio come il Baldovino del Piacere dell’onestà è di tipica estrazione borgese e mafiosa.7

7.  L. Sciascia, Opere. 1984-1989, cit., pp. 1078-1079.

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Un’osservazione che va completata con quest’altra, che ricaviamo dal saggio più volte ricordato Letteratura e mafia (1964): Altri mafiosi vengono fuori dall’opera di Pirandello: specialmente colti nei loro giochi elettoralistici, e specialmente nel romanzo I vecchi e i giovani; mai però designati come mafiosi. Se non ricordiamo male (non andremo a rileggere tutto Pirandello per esserne sicuri) i termini mafia e mafioso non compaiono mai nelle pagine dello scrittore girgentano.8

Sono considerazioni, queste, che nascevano in Sciascia da una piena adesione alle ipotesi di Gramsci, secondo il quale il pirandellismo trova giustificazione in modi di pensare storicamente popolari e dialettali, modi di pensare, insomma, di popolani siciliani che pensano e operano così, proprio in quanto siciliani9. E tutto ciò, nel segno di una corrispondenza così rigorosa tra vita e opere, tra sistema di valori e dramma del personaggio, che aveva indotto Sciascia a scrivere che «il pirandellismo si trova in natura»10. In tale prospettiva, quella che sottolinea­ va l’assenza della parola mafia dall’orizzonte pirandelliano, Sciascia finiva per riscontrare tracce della mentalità borgese-­ mafiosa in personaggi come il Baldovino del Piacere dell’onestà, appunto, come il Tararà della novella La verità, come il Ciampa del Panetto a sonagli: tutti campioni di quella sofisti-

8.  L. Sciascia, Opere. 1971-1983, cit., p. 1109. 9.  Cfr. in particolare le Note pirandelliane de La corda pazza, cit., pp. 10661095. 10.  L. Sciascia, Pirandello nella critica d’oggi, in «La Giara», III, n. 1, 1954, p. 98. Per quanto concerne il complicato rapporto di Sciascia con Pirandello, cfr. oltre ai nostri Sciascia e Pirandello in «Rivista di studi pirandelliani», VII, n. 3, 1989, pp. 9-27, e Storia di Sciascia, cit., passim; N. Borsellino, ‘Pirandello mio padre’: un promemoria di Sciascia, in Id., Ritratto e immagini di Pirandello, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 257-262; P. Milone, Fonti e padri. Ancora su Sciascia, in «Rivista di studi pirandelliani», VIII, n. 5, 1990, pp. 95-99; e S.S. Nigro, Il volto di Sciascia sulla maschera di Pirandello, in Narratori siciliani del secondo dopoguerra, Maimone, Catania 1990, pp. 349-353.

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cazione della morale sessuale tipo “cavalleria rusticana” di cui abbiamo detto. Lasciamo per ora cadere l’affermazione che il termine mafia non compaia mai nell’opera pirandelliana: solo nel romanzo I vecchi e giovani ne abbiamo rilevato tre occorrenze e, come vedremo, in punti di decisiva importanza. Crediamo comunque che un’interpretazione dell’opera pirandelliana che riduca il fenomeno mafioso a manifestazione della mentalità borgesecontadina, quella di piccoli proprietari terrieri non di rado mezzadri di proprietà altrui, secondo un paradigma che identifichi come referente sociale della mafia una borghesia rurale non ricca, non sappia svilupparne tutte le potenzialità conoscitive: e ci rammarichiamo del fatto che Sciascia non abbia articolato, da par suo, quella intuizione del legame tra fenomeno criminale e giochi elettoralistici che proprio ne I vecchi e i giovani trova diversa e complessa testimonianza. Siamo convinti, infatti, che, per stare alle sole Novelle per un anno, è in apologhi come La cattura (1918), L’altro figlio (1905), Ciaula scopre la luna (1912) e, soprattutto, La lega disciolta (1910), che potremo trovare indicazioni molto interessanti ai fini del nostro discorso. È in tali novelle che la rappresentazione della mafia comincia ad articolarsi secondo un’idea della Sicilia tutt’altro che sicilianista, ma tale da far concorrenza a quella delle pagine di Franchetti. Nelle prime due che abbiamo citato siamo in un mondo più prossimo a quello del brigantaggio che della mafia. Ne La cattura, il proprietario terriero Guarnotta, uno che ha perso il gusto ed il senso della vita da almeno quindici anni, per la morte dell’unico figlio, se ne torna a casa stancamente dal podere, come ogni sera, quando «dall’ombra si vide saltare addosso tre appostati, con la faccia bendata, armati di fucile»11. Siamo di 11.  L. Pirandello, Novelle per un anno. Donna Mimma, Il vecchio Dio, La giara, intr. di N. Borsellino, pref. e note di L. Sedita, Garzanti, Milano 1994, p. 327.

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fronte ad uno dei tanti episodi di sequestro di persona, di cui ci parla Franchetti nella sua inchiesta: il dato saliente, a parte il risvolto tipicamente pirandelliano di un sequestrato che ritrova la sua vera vita, la sua libertà, in una ferina condizione di cattività, è rappresentato dal fatto che i rapitori non sono efferati briganti, ma tre poveri disgraziati al primo rapimento, neanche capaci di celare la propria identità, i quali, alla fine, si legheranno d’affetto vero alla vittima, traendo solo danni economici e nessun beneficio dalla loro azione criminale. Dal nostro punto di vista, comunque, la novella è di straordinaria efficacia nel rappresentare quel clima di illegalità diffusa, quell’uso privato della violenza che mette fortemente in discussione il monopolio statale di essa. Ne L’altro figlio, invece, protagonista è una vecchia cenciosa che piange la partenza di due figli emigrati molti anni prima per l’America, conducendo un’esistenza da mendicante, misteriosamente rifiutando l’aiuto di un terzo figlio rimasto al paese: verremo a sapere che quest’ultimo è nato da una violenza subita ad opera di un certo Marco Trupìa, della banda di Cola Camizzi, lo stesso che aveva costretto il marito della vecchia ad arruolarsi tra le sue file, per poi ucciderlo ferocemente a causa della sua defezione. Il nome del capo banda, come scrive in nota Luigi Sedita, «era nella realtà quello di un capomafia dell’agrigentino che nel 1867 avendo offerto protezione mafiosa al padre di Pirandello, Stefano, ne aveva ricevuto come risposta uno schiaffo a cui Cola Camizzi reagì ferendolo con una schioppettata»12. Ma l’informazione più interessante della novella è la conferma di quella connessione mafia-squadre garibaldine già formulata, come abbiamo visto, nell’opera di Bazzotto e Mosca. La colpa di tutto quel sangue e di quelle 12.  L. Pirandello, Novelle per un anno. In silenzio, Tutt’e tre, Dal naso al cielo, intr. di N. Borsellino, pref. e note di L. Sedita, Garzanti, Milano 1994, p. 45, nota 31.

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efferatezze, racconta la vecchia al giovane medico che tenta di aiutarla, è di «Canebardo», Giuseppe Garibaldi appunto: «vossignoria deve sapere che questo Canebardo diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne!»13. Dal punto di vista della stratigrafia sociale, il fenomeno comincia ad acquistare una fisionomia più precisa con Ciaula scopre la luna. Questo l’inizio della novella: I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz’aver finito d’estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s’affierò contr’essi, con la rivoltella in pugno, davanti alla buca dalla Cace, per impedire che ne uscissero.14

Quel che ne viene fuori è il ritratto di un personaggio, violento e con le armi in pugno, che esemplifica assai bene un altro tipico esponente in odor di mafia di quel ceto medio facinoroso di cui aveva parlato Franchetti: il soprastante, il vero mediatore, con metodi violenti ed intimidatori, tra il proprietario della zolfara e gli zolfatari, il procacciatore di forza-lavoro e, insieme, il vero garante dell’ordine in miniera. Ma è nella Lega disciolta che il fenomeno mafioso si palesa in una luce assai interessante, mostrando una complessità sociologica di cui Pirandello è il primo testimone letterario. Protagonista della novella è Bòmbolo, l’imperioso personaggio col «berretto rosso da turco sul testone ricciuto» che di fatto controlla e regola l’abigeato nei dintorni di Montelusa, nome attribuito talvolta da Pirandello a Girgenti, mentre, seduto al caffè, guarda tutti con l’aria di dire: «“I conti qua, signori miei, lo sapete, bisogna farli con me”», e non a torto, se era vero che 13.  Ibidem. 14.  Ivi, p. 430.

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«venivano uno dopo l’altro i proprietari di terreno non soltanto di Montelusa, ma anche dei paesi del circondario»15. Il rituale è sempre lo stesso: le lagnanze e le raccomandazioni per le solite sparizioni di capi di bestiame; Bòmbolo che prima impreca contro quei «birbanti» e poi assicura di prodigarsi per risolvere la cosa, ma non senza consigliare al proprietario di applicare l’equo salario di tre lire, invece che tre tarì, per quei dipendenti che buttano «sangue con la zappa in mano dalla punta dell’alba alla calata del sole»16; dopodiché il monito, per cui la faccenda diventa punto d’onore: «Faccia come le dico io; e, se domani qualcuno le manca di rispetto, tanto a lei quanto alle bestie, venga a sputarmi in faccia: io sono qua»17; infine Bòmbolo che finge di cercare le bestie cavalcando due o tre giorni per le campagne, quindi il ritrovamento e i ringraziamenti del marchese di turno: Ho penato, ma li ho scovati. E prima di tutto le do parte e consolazione che alle bestie hanno dato stalla e cura. Dove stanno, stanno bene. I «picciotti» non sono cattivi. Cattivo è il bisogno. E creda che se non fosse il bisogno, per il modo come sono pagati… Basta. Pronti a restituire le bestie; però, al solito, Vossignoria m’intende…18

Bòmbolo ha molto chiaro il codice dell’onore e dell’omertà, quel che vuol dire essere uomini di “rispetto”, il senso e l’importanza del suo ruolo: Gli sarebbe sembrata una mancanza di rispetto, così a sé come al signore, accennare anche lontanamente al sospetto, che quei bravi «picciotti» potessero trovare la notte in agguato guar-

15.  L. Pirandello, Novelle per un anno. Donna Mimma, Il vecchio Dio, La giara, cit., p. 376. 16.  Ivi, p. 377. 17.  Ivi, p. 378. 18.  Ibidem.

183 die e carabinieri. Sapeva bene che, se il signore s’era rivolto a lui, era segno che stimava inutile il ricorrere alla forza pubblica per riavere le bestie. Non le avrebbe riavute, di sicuro. Nel riaverle così, mediante quel piccolo salasso di denari, con Bòmbolo di mezzo, ogni idea di tradimento doveva essere esclusa.19

Come si vede bene, la situazione che qui si descrive è quella di una transazione tipicamente mafiosa, nel quadro di un’assoluta mancanza di fiducia verso l’azione delle forze dell’ordine, in una condizione che è di totale rispetto per le regole dell’omertà. Bòmbolo, come un vero e proprio capomafia, è colui che esercita, a tutti gli effetti, e con tutti gli onori, una forma di mediazione violenta tra proprietà e lavoro, una mediazione, però, che non avviene per fini di illecito arricchimento: è a questo punto della novella che i conti non tornano più, entro una visione che si fa molto più complessa e sfumata. Perché è questo il punto: la cosca è, appunto, una lega, e Bòmbolo, nelle sue transazioni, persegue sì finalità illecite, ma non di arricchimento, tanto meno personale, visto che, per altro, aveva sposato la figlia di ricchi massari ed era tornato benestante da un lungo periodo trascorso «nel Levante»: Bòmbolo prendeva il denaro, cinquecento, mille, duemila lire, a seconda del numero delle bestie sequestrate, e questo denaro ogni settimana, il sabato sera, recava intatto ai contadini della Lega, che si raccoglievano in un fondaco su le alture di San Gerlando. Qua si faceva la «giusta». Cioè, a ogni contadino che durante la settimana aveva lavorato per tre «tarì» al giorno (lire 1,25) veniva secondo giustizia computata la giornata in ragione di tre lire, e gli era dato il rimanente. Quelli che, non per colpa loro, avevano «seduto», cioè non avevano trovato lavoro, ricevevano sette lire, una per giorno; prima però venivano

19.  Ibidem.

184 detratte, come per sacro impegno, le pensioncine settimanali assegnate alle famiglie di tre socii, Todisco, Principe e Barrera che, arrestati per caso di notte da una pattuglia in perlustrazione e condannati a tre anni di carcere, avevano saputo tacere; una parte della somma era poi destinata per gli sbruffi ai campieri e ai guardiani di bestiame che, d’intesa, si facevano legare e imbavagliare; il resto, se ne restava, era conservato come fondo di cassa.20

Si tratta di un passo ove è chiaramente espresso il profilo sociologico della lega: contadini e braccianti, campieri e guardiani di bestiame in funzione di fiancheggiatori, qualche detenuto còlto in flagranza di reato. Ma vi sono anche enunciate, con precisione, le regole dell’associazione, in parte di stampo chiaramente mafioso (approvvigionamento di capitale mediante furto di bestiame, lo sbruffo, e cioè il pizzo assicurato a campieri e guardiani, le pensioncine per le famiglie di quei carcerati che avevano saputo rispettare le leggi dell’omertà)21, in parte di tipo mutualistico e pre-sindacale (integrazione dei salari iniqui, una specie di cassa-integrazione; ne per chi restava, senza sua colpa, privo di lavoro). Regole dettate da una peculiare idea di giustizia nata dalla testa di Bòmbolo che, per questa sua attività, riceveva una gratificazione esclusivamente morale, non sopportava lavativi e profittatori22, tutelava i pro-

20.  Ivi, p. 379. 21.  Tipicamente mafioso era, del resto, l’ordine che egli assicurava nelle campagne a vantaggio dei proprietari: «Era vanto supremo per lui la testimonianza che gli stessi proprietari di terre rendevano unanimi, che mai come in quei tempi i contadini s’erano dimostrati sottomessi al lavoro e obbedienti» (ivi, p. 382). 22.  Bòmbolo «diventava terribile» quando scopriva che qualcuno «“voleva far la carogna”, cioè non lavorare», non volendo passare «per un protettore di ladri e di vagabondi»: «Io ti mangio la faccia, se tu non lavori; sotto i piedi ti pesto! Il lavoro è la legge! Col lavoro soltanto acquistate il diritto di prendere per le corna una bestia dalla stalla altrui e di gridare in faccia al

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prietari che pagavano il giusto, non pretendendo nulla di più e non esitando a taglieggiare il proprio suocero, quando non si trovava denaro per le pensioncine dei detenuti: Egli era un apostolo. Egli lavorava per la giustizia. La soddisfazione morale che gli veniva dal rispetto, dall’amore, dalla gratitudine dei contadini che lo consideravano come il loro re, gli bastava. E tutti in un pugno li teneva. L’esperienza gli aveva insegnato che, a raccoglierli apertamente in un fascio perché resistessero con giusta pretesa all’avarizia prepotente dei padroni, il fascio, con una scusa o con un’altra, sarebbe stato sciolto e i caporioni mandati a domicilio coatto. Con la bella giustizia che si amministrava in Sicilia! Non se ne fidavano neanche i signori! Là, là nel fondaco di San Gerlando, amministrava lui la giustizia, quella vera; in quel modo che era l’unico. I signori proprietari di terre volevano ostinarsi a pagar tre «tarì» la giornata d’un uomo? Ebbene, quel che non davano per amore, lo avrebbero dato per forza. Pacificamente, ohè. Senza né sangue né violenze. E col dovuto rispetto alle bestie.23

Non sfuggirà, nel passo, uno straordinario paradosso, seppur di storica verità: l’immancabile persecuzione giudiziaria, quella che le leggi destinavano, mediante domicilio coatto, una specie di confino, ai mafiosi, qualora la lega avesse assunto natura di associazione sindacale, organizzata alla luce del sole, l’impunità totale, invece, nel caso si fosse costituita segretamente, come di fatto avveniva. Bòmbolo è talmente convinto di amministrare la giustizia vera, in una terra dove quella formale, assicurata dalle istituzioni, è quotidianamente violata, che, quando i tre associati escono di prigione, decide di sciogliere la lega, essendo venuti meno gli scopi per cui era stata fondata, l’assistenza

padrone: “Questa me la tengo, se non mi paghi com’è debito di coscienza i miei sudori di sangue!”» (ivi, pp. 381-382). 23.  Ivi, p. 380.

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economica ai familiari dei detenuti. Uomo veramente d’onore è quest’uomo mezzo mafioso e mezzo socialista: quando scopre che, nonostante la lega non esista più, i contadini si sono già riorganizzati per continuare a riscuotere «lo sbruffo», che, insomma, quel suo personale sistema di autogiustizia si sia rivelato perfettamente funzionale al codice culturale di quella terra, al punto che qualcuno, malgrado il suo carisma, ha già provveduto a sostituirlo in tutte le sue funzioni, a Bòmbolo non resta altro che imbarcarsi di nuovo per il Levante e lasciare per sempre quel «paese di carogne»24. L’immagine che del fenomeno mafioso ricaviamo da questa novella è quanto mai articolata. C’era stato, in Sicilia, il movimento dei Fasci, tanto rivoluzionario quanto confuso in quei cortei che accampavano, indistintamente, le icone di Marx, Garibaldi e la regina: Pirandello sa arrivare, magistralmente, proprio alle radici del primo associazionismo sindacale e socialista siciliano, sa impietosamente denunciarne l’immaturità politica, sa individuarne certe zone di contiguità con la mafia. In ciò, approfondendo di molto certe notazioni di Franchetti, il quale si era fermato, anche per ovvi limiti temporali, alla denuncia di comportamenti mafiosi impliciti nell’attività di alcune società di mestieri come quelle dei “Mulini” e della 24.  Ivi, p. 386. Quando Bòmbolo minaccia i contadini di restituire ciò che, in assenza di una lega, hanno indebitamente rubato, questi cadono dalle nuvole e ripetono le stesse espressioni di stupore che egli, in passato, aveva riservato ai proprietari. Il commento è amaro: «Ma che poteva ormai fare Bòmbolo? Gli stessi proprietarii di tetre […] lo persuasero ch’egli non poteva più far nulla. Che c’entrava lui? quando mai c’era entrato? non era stata sempre disinteressata l’opera messa da lui? E dunque, che c’era adesso di nuovo? Perché non voleva più mettere l’opera sua? Rivolgersi alla forza pubblica? Ma sarebbe stato inutile! Che non sapeva? Non avrebbero ottenuto né la restituzione delle bestie, né l’arresto dei colpevoli. […] E dal tono con cui gli dicevano queste cose Bòmbolo capiva che quelli ritenevano una commedia, adesso, il suo sdegno, come una commedia avevano prima ritenuta la sua pietà per i contadini» (ivi, pp. 385-386).

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“Posa” che raccoglievano proprietari di mulini, mugnai, garzoni e carrettieri25: ma non si dovrà dimenticare, ad onore della letteratura, quel che è emerso nell’opera di Rizzotto e Mosca, quanto a connessioni tra società di mutuo soccorso e cosche26. Forza di penetrazione storico-antropologica, questa di Pirandello, che trova massima testimonianza nel romanzo I vecchi e i giovani, sicché sorprende riscontrare in uno storico avvertito come Salvatore Lupo, irrinunciabile punto di riferimento per le questioni di cui ci stiamo occupando, un giudizio così approssimativo, nell’unico accenno all’opera pirandelliana della sua Storia della mafia: «È l’interpretazione di chi, forse, si è già messo alla ricerca di un duce cui affidare le proprie sorti»27.

3. I vecchi e i giovani: alle radici del sicilianismo Lasciando cadere la faccenda, spinosissima, del rapporto di Pirandello col fascismo, sorprende veramente che Lupo non abbia voluto far tesoro, in appoggio al suo documentatissimo

25.  L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, cit., pp. 8-9. 26.  La più recente storiografia ha perfettamente confermato l’analisi pirandelliana. Si pensi a P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, cit., p. 934, quando afferma che «le prime forme di associazionismo contadino appaiono contraddistinte da caratteri di ambiguità», come nel caso della lega di Villalba, nata «per rivendicare migliori condizioni contrattuali nei confronti del marchese proprietario della maggior parte delle terre del comune». Né sarà inutile ricordare che tra i dirigenti locali dei Fasci siciliani si trovano, non di rado, mafiosi rinomatissimi, come, a Bisacquino, Vito Cascio-Ferro, «una delle figure mafiose più significative nel primo ventennio del secolo XX» (ivi, p. 967). Le tante omissioni della storiografia più accreditata sui Fasci, e sui rapporti della mafia con essi, denunziate da Pezzino (ibidem) sono una conferma implicita della straordinaria profondità e tempestività dell’analisi pirandelliana. 27.  S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 103, nota 21.

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discorso, dello sfortunato romanzo pirandelliano, negletto anche alla maggior parte dei critici letterari, che hanno continuato ad interpretarlo come tardivo ed epigonale documento naturalistico: eppure il quadro della società siciliana che vi si disegna è tra i più lucidi ed impietosi che si siano mai contemplati, nel segno di uno sguardo a trecentosessanta gradi che non ne trascura alcun aspetto politico, sociale e culturale. Abbiamo già accennato, ad inizio di capitolo, agli eventi che vi si raccontano, dalle elezioni politiche del novembre 1892 al gennaio del 1894, quando Crispi decreta lo stato d’assedio in Sicilia: non ci resta che entrare subito nel discorso, concentrandoci proprio sulla vasta folla dei personaggi, con particolare riferimento alla loro anagrafe socio-culturale, senza preoccuparci di coglierne i tanti risvolti autobiografici che la critica non ha mancato di sottolineare28. La prima cosa da fare è isolare i diversi gruppi familiari, tutti in rapporto di parentela tra loro, quando non effettiva sul punto di diventarlo: operazione che, data la diversa connotazione politica ed ideologica dell’un gruppo o dell’altro, ci consentirà di individuare facilmente l’even­tuale legame mafioso di un personaggio con un altro. Cominciamo, allora, con la famiglia dei principi Laurentano, concentrandoci sul reazionario e borbonico don Ippolito, il

28.  Per questa ed altre questioni, a cominciare dalla lunga sfortuna critica del romanzo, non possiamo che rimandare alla nostra Prefazione, in L. Pirandello, I vecchi e i giovani, cit., pp. LVI-LXXX. Per il risvolto autobiografico del romanzo si veda, comunque, C. Ravenna, Nel segreto della creazione pirandelliana: ‘I vecchi e i giovani’ nell’arte e nella realtà, in «Atti dell’Accademia agrigentina di Scienze, Lettere e Arti», 1947-1948; G. Giudice, Luigi Pirandello, UTET, Torino 1963, passim; L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, cit., pp. 1041-1143; Id., Cruciverba, cit., pp. 1131-1140; Id., Alfabeto pirandelliano (1988), in Id., Opere. 1984-1989, cit., pp. 467-514; E. Lauretta, Lui­ gi Pirandello. Storia di un personaggio fuori di chiave, Mursia, Milano 1980, pp. 5-135 e 283-285; E. Di Bella, Risorgimento e antirisorgimento a Girgenti, Edizioni Centro Culturale Pirandello, Agrigento 1988, passim.

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quale teneva «una guardia di venticinque uomini con la divisa borbonica nel suo feudo di Colimbètra, dove fin dal 1860 si era esiliato per attestare la sua fiera fedeltà al passato governo delle Due Sicilie»29. Ma il legittimista don Ippolito, sin dalla detronizzazione dei Borboni sdegnosamente chiuso nel suo feudo, è nientemeno che il figlio di don Gerlando, l’eroe dei moti antiborbonici del 1848, finito esule a Malta, ed è inoltre, paradosso della sorte, il padre di Lando, simpatizzante socialista e leader nel movimento dei Fasci siciliani. Fratello di don Ippolito è don Cosmo che se ne vive segregato nel feudo di Valsanìa, di cui vero signore è, però, il vecchio Mauro Mortara, fedelissimo servitore di don Gerlando che aveva accompagnato persino in esilio: il personaggio dello strampalato don Cosmo, vero “eroe filosofico” del romanzo, il più vicino, probabilmente, all’autore, quanto a sentimento della vita, non è di grande interesse ai fini del nostro discorso, a differenza, come vedremo, di Mortara. Ma la faccenda è, se possibile, ideo­logicamente ancora più complicata: don Ippolito, infatti, è fratello di Caterina Auriti, «che viveva – vedova e povera – a Girgenti», l’unica figlia ad aver seguito le idee liberali paterne, fuggita di casa col garibaldino Roberto Auriti, «morto poi nel Sessanta […] nella battaglia di Milazzo, mentre combatteva accanto al Mortara e al figlio […] di appena dodici anni»30, il quale, trasferitosi a Roma ormai da anni, si presenta ora come candidato governativo alle elezioni e che sarà infine travolto, ingiustamente, nello scandalo della Banca Romana. Con Caterina, vive anche la figlia Anna, vedova anch’essa, madre di Antonio Del Re, il quale, disgustato e tramortito dagli eventi che travolgono suo zio, insegue a Roma la giovane socialista di cui è innamorato: quell’Antonio Del Re nel quale i critici, unanimemente, hanno visto il ritratto dello stesso Pirandello. 29.  L. Pirandello, I vecchi e i giovani, cit., p. 7. 30.  Ivi, p. 16.

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Intorno alla numerosa famiglia Laurentano, ruota una vasta folla di personaggi. Il più importante è un homo novus, il vero padrone di Girgenti, non privo di una sua fosca grandezza e dotato di un lucidissimo cinismo: il borghese e spregiudicato proprietario delle zolfare, disposto ad allearsi col partito clericale e sanfedista di don Ippolito, col quale per altro s’imparenta mercé la sorella, pur di mandare un suo uomo a Roma in parlamento, quell’Ignazio Capolino che batterà, nella sfida elettorale, proprio il figlio di Caterina, Stefano Auriti. Vi sono poi, tra gli altri, uomini del nuovo ceto dei tecnici come il Costa, di cui s’innamora fino alla follia la figlia del Salvo, ma che fugge con la moglie di Capolino e verrà trucidato, con lei, nel tentativo di portare alla ragione una folla di inferociti zolfatari; vi sono agitatori socialisti velleitari e disgraziati come Luca Lizio e Nocio Pigna, da tutti conosciuti come “Propaganda e Compagnia”, eclatante dimostrazione, nella loro pochezza, di chi avesse in mano, in Sicilia, le masse popolari; vi sono preti di diversa ideologia, ma di medesima rapacità, il legittimista Monsignor Montoro e il liberale canonico Agro e, insieme a loro, reietti folli come l’epilettico Marco Prèola, il figlio scapestrato del segretario di don Ippolito, non senza un certo numero di galoppini che si danno da fare per la vittoria, alle elezioni, per l’uno o per l’altro candidato, come don Lagàipa, Gian Battista Mattina e Guido Veronica; vi sono, infine, ministri e deputati come Francesco D’Atri (che cela l’identità del Crispi), Spiridione Covazza (si tratta, in realtà, di Napoleone Colajanni) e Corrado Selmi. Ma vediamo come, dentro questa intricata mappa di rapporti, si profili, implicitamente, se non un paradigma di interpretazione della mafia, il nitido disegno della gestione del potere nella società siciliana alla fine del secolo, non senza riferimenti ad un diffuso esercizio illecito della violenza e della forza privata. Abbiamo detto di don Ippolito e della sua guardia comicamente abbigliata in tenuta borbonica, quella, insomma,

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comandata da capitan Sciaralla, il primo personaggio in ordine di apparizione. Sciaralla ha una grande e malinconica idea di sé, nonostante le ingiurie che gli sono rivolte quando esce da Colimbètra: Già cominciamo che tutti lo degradavano, chiamandolo caporale. Stupidaggine! indegnità! Perché lui comandava ben venticinque uomini (ohè, venticinque!) e bisognava vedere come li istruiva in tutti gli esercizi militari e come li faceva trottare. E poi, del resto, scusate, tutti i signoroni non tengono forse nelle loro terre una scorta di campieri in divisa?31

Certo, agli occhi del mondo, quello girgentano, queste guardie campestri al servizio del proprietario terriero, in così buffa uniforme, sembrano un po’ fuori del tempo: eppure, nonostante gli improperi di «un certo “funzionario” continentale» di fronte ad «un così patente oltraggio alla gloria della rivoluzione, al governo, alla patria, alla civiltà»32, riscontrabile a suo dire nella sola Sicilia, sindaci, assessori, consiglieri comunali e provinciali, monsignori ed alto clero, non cessano di onorare don Ippolito con le loro visite, salutati militarescamente dai suoi impettiti servitori. L’abitudine di tenere una forza armata al proprio servizio trova ancor più interessante conferma nel feudo di don Cosmo. È qui, come abbiamo già detto, che incontriamo Mauro Mortara, ex guardiano di pecore, «un vecchio energumeno, terrore di tutte le contrade circonvicine»33, soprannominato, per una sua memorabile impresa di cieca violenza, il “Monaco”, in quanto, prima del ’48, aveva legato e appeso per un’intera giornata un frate ad un albero, capitato per la questua alla villa di Valsanìa, mentre era in corso una riunione clandestina dei 31.  Ivi, p. 8. 32.  Ivi, p. 9. 33.  Ivi, p. 14.

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«caporioni del comitato rivoluzionario»34. Mortara, agli occhi di Lando Laurentano «la più schietta incarnazione dell’antica anima isolana»35, è fiero, leale e generoso, irascibile e facinoroso, di nuda e forte virtù, di profonde passioni, con un vivo ed araldico sentimento della famiglia, devoto fino alla morte ad un’idea astratta, morte che troverà per errore, ucciso da quelle truppe regolari inviate in Sicilia per sedare l’insurrezione dei Fasci a cui egli, da orgoglioso patriota con la giubba carica di medaglie, avrebbe voluto unirsi. Ci vuole poco per rendersi conto che il suo senso dell’onore, il suo personalissimo concetto di giustizia si risolve tutto in quella «baldanza» e «sicurtà d’animo», in quel facile e ribaldo uso della violenza che, come abbiamo visto, Pitrè stringe nella sua apologetica nozione di mafia. Così come non è impossibile riscontrare in Mauro Mortara gli stessi tratti psicologici e culturali, la stessa estrazione sociale del mafioso della verghiana Chiave d’oro. L’illecita difesa dei propri interessi, l’uso della forza quando necessario, non è esclusivo appannaggio dell’aristocrazia, ma anche di quei borghesi che tanto avanti ha spinto la sofistica disgregazione della coscienza, nel segno della dialettica, criticamente abusata, di vita e forma: i carnefici e le vittime, insomma, di quei causidici e loici giochi dell’intelligenza, di quelle straziate parabole sull’essere e sul parere, di quegli smacchi esistenziali, che troveranno migliore realizzazione in romanzi come Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila, o in molte opere teatrali. Certo, tutto avviene in modo più sottile, quasi subdolo, ma è difficile non ravvisare in ogni azione politica di Flaminio Salvo, rappresentante eminente di quel ceto imprenditoriale che stava esautorando la classe nobiliare, la presenza della violenza e della frode con fini di criminoso arricchimento: a cominciare da quell’unione di tutti i produttori di zolfo 34.  Ivi, p. 15. 35.  Ivi, p. 469.

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dell’isola da lui guidata, secondo un progetto, poi fallito, che fa arrivare al ministro mediante il suo uomo di paglia, il deputato Ignazio Capolino. È in quest’ultimo che rintracciamo, come stigma della mentalità borgese-mafiosa di cui ha parlato Sciascia, l’interiorizzazione dell’illecito sessuale, testimoniata appunto dal silenzioso assenso alla relazione della moglie con quel Salvo che lo farà eleggere deputato, fatte salve, ovviamente, le apparenze: ma si possono anche ricordare i ragionamenti che il personaggio, alla notizia della tragica morte della moglie fuggita con il Costa, svolge con formale puntiglio, preoccupato solo di salvare l’onore. Una mentalità mafiosa, se si vuole, ravvisabile anche nella sua riduzione della politica a clientelismo: «Ora la politica, sa? bisogna viverci un po’ in mezzo; la politica, signor mio, che cos’è in gran parte? giuoco di promesse, via!»36. L’ascesa di Salvo e la decadenza dei Laurentano, nel quadro di una crisi irreversibile dei valori risorgimentali, misurata sul fallimento dei vecchi e la disillusione dei giovani, si palesa come la perfetta dimostrazione che, in Sicilia, l’estensione dei diritti civili e politici finisce per coincidere con un restringimento drastico dello spazio di moralità pubblica, in una situazione di inarginabile decadenza etica individuale. E ciò, in uno scenario su cui incombe Girgenti, la «città dei preti e delle campane a morto», angustiante e velenosa, viva solo per l’attività dei tribunali, sequestrata alla libertà e la giustizia, specie nelle campagne circostanti, ove «i reati di sangue, aperti o per mandato, per risse improvvise o per vendette meditate, e le grassazioni e l’abigeato e i sequestri di persona e i ricatti erano continui e innumerevoli»37. Non possiamo non confrontare il generale quadro pirandelliano con quanto emerge dalla puntuale analisi di Paolo Pezzino che, parlando di «tre tipi di utilizzazio36.  Ivi, pp. 333-334. 37.  Ivi, p. 154.

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ne della violenza», ha così commentato l’immagine della vita siciliana dopo l’Unità, quale emerge dall’Inchiesta Bonfadini: le nuove regole del sistema rappresentativo conferiscono alle contese locali una risonanza maggiore, che tuttavia non modifica sostanzialmente il loro marcato carattere personalistico e familistico, all’interno del quale la violenza è un’arma facilmente utilizzabile per affermare la supremazia; anche i proprietari non sono immuni da essa, nella misura in cui la utilizzano direttamente per difendere i propri interessi, sia quando questi sono minacciati da banditi e malfattori, sia, e questo sembra essere un dato nuovo, quando vengono messi in discussione da una più diretta e organizzata azione dei contadini, come nel caso di Villalba. Ma anche l’azione dei ceti popolari tende ad assumere forme che uniscono l’esperienza delle leghe e delle cooperative alla pressione intimidatoria verso la controparte.38

Queste, dunque, le tre diverse modalità dell’esercizio illecito della forza: l’aggressione e la minaccia reciproca tra facinorosi della classe media spesso in competizione elettorale per il potere; la difesa della proprietà e l’intimidazione nei confronti di rivendicazioni di classe di carattere popolare messa in atto dai proprietari terrieri; l’azione stessa delle classi meno abbienti in associazioni a metà tra la società di mutuo soccorso e la cosca mafiosa. Esattamente ciò che emerge da I vecchi e i giovani opportunamente integrati da una novella come La lega disciolta. Non è poco: ma Pirandello, quanto a comprensione della società isolana sa spingersi ben più avanti, con esiti interessantissimi per la nostra prospettiva. Una virtù del romanzo che si manifesta quando ci si chiede quale sia il rapporto che Pirandello intrattiene coi personaggi, se, insomma, al di sotto della polifonia di voci si possa cogliere una convergenza ideologica, un comune nucleo di valori tali da giustificare in qual-

38.  P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, cit., p. 940.

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che modo il carattere antagonistico dell’opera nel quadro della letteratura e della storiografia coeve. Gran parte della critica, da Salinari a Leone de Castris, da Ricciardi ad Alonge, da Spinazzola a Scrivano e Masiello39, impegnata con ottimi risultati in analisi sociologiche ed in considerazioni storico-politiche circa l’ideologia dei molti personaggi, ha quasi del tutto ignorato un dato che riguarda una più profonda storia culturale dell’isola: sappiamo molto del peculiare, non progressista, meridionalismo di Pirandello, del suo costeggiamento di dottrine irrazionalistiche ed antidemocratiche, del suo paternalismo interclassista, ma assai poco del vero comune denominatore di questi personaggi, il “sicilianismo”, nel senso più proprio del termine, quello che ci consentirà di affrontare meglio la questione della mafia. Che Pirandello conoscesse assai bene i documenti più rilevanti della storia culturale isolana è un fatto criticamente assodato: De Meijer, Sipala e Di Bella40, tra gli altri, hanno dimostrato 39.  Cfr., almeno, G. Trombatore, Pirandello e i Fasci siciliani (1955), in Id., Riflessi letterari del Risorgimento in Sicilia, Manfredi, Palermo 1960, pp. 4455; C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Feltrinelli, Milano 1960, pp. 249-284; Id., Lettura dei ‘Vecchi e i giovani’, in Id., Boccaccio, Manzoni, Pirandello, a cura di N. Borsellino e E. Ghidetti, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 185-198; A. Leone de Castris, Storia di Pirandello, Laterza, Bari 1962 (ed. ampliata 1971), passim; M. Ricciardi, Dall’esclusione dell’individuo all’impartecipazione della storia nei romanzi di Pirandello, in «Critica Meridionale», V, n. 8-9, 1971, pp. 46-83; R. Alonge, Pirandello tra realismo e mistificazione, Guida, Napoli 1972, pp. 60-78; V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, cit., pp. 3-49 e 147-90; R. Scrivano, ‘I vecchi e i giovani’ e la crisi delle ideologie, in E. Lauretta (a cura di), Pirandello e la politica, Mursia, Milano 1992, pp. 41-66; V. Masiello, L’età del disincanto: morte delle ideologie e ontologia negativa dell’esistenza ne ‘I vecchi e i giovani’, ivi, pp. 67-87. 40.  Cfr. P. De Meijer, Una fonte de ‘I vecchi e i giovani’, in «La Rassegna della letteratura italiana», LXVII, n. 3, 1963, pp. 481-492; P.M. Sipala, Dal romanzo-documento al romanzo storico: De Roberto e Pirandello, in Id., Scienza e storia nella letteratura verista, Patron, Bologna 1976, pp. 184-196; E. Di Bella, Risorgimento e antirisorgimento a Girgenti, cit., pp. 81-89.

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come nel romanzo egli abbia ricalcato alcune fonti storiche e pubblicistiche tra le quali Bandi e Parlamento. Fatti, discussioni e commenti (1893) e Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause (1894) di Napoleone Colajanni, e Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause (1894) di Francesco De Luca, ma basterebbe sfogliare il volume di Barbina La biblioteca di Luigi Pirandello41, per rendersi subito conto di quali e quanti libri lo scrittore agrigentino potesse disporre. Ma il fatto più interessante è la possibile dimostrazione di come il “sicilianismo” vada ad informare le considerazioni, il sentimento del mondo, di personaggi che, politicamente, sono agli antipodi. Cominciamo coi Laurentano. Queste le parole di Caterina Auriti, appena arrivato sull’isola il figlio Stefano per le elezioni: «E qual rovinìo era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed eran calati i Continentali a incivilirli». Senza risparmiare in questo giudizio anti-continentale, la Destra storica, fucilatrice di Garibaldi in Aspromonte, fautrice di «tribunali militari» e di processi politici ignominiosi, ma neanche la stessa Sinistra, che della tradizione garibaldina si voleva erede ed invece aveva portato nell’isola solo «usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico», favorendo «brogli elettorali» e la corruzione di funzionari statali «messi a servizio dei deputati ministeriali», causando infine «l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge». E tutto questo, nell’amara convinzione, tipica della classe dirigente isolana di passato garibaldino, di un popolo siciliano compattamente e fieramente rivoluzionario, di una Sicilia “polveriera d’Italia”, 41.  A. Barbina, La biblioteca di Luigi Pirandello, prem. di U. Bosco, Bulzoni, Roma 1980.

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traditi dallo Stato sabaudo dopo l’Unità: «Nel Sessanta, caro Roberto, sai che facemmo noi qua? sciogliemmo in tante razzoline le animucce nostre, come pezzetti di sapone; il Governo ci mandò in regalo un cannellino per uno; e allora noi qua, poveri imbecilli, ci mettemmo tutti a soffiare nella nostra acqua saponata, e che bolle!». Un discorso che si conclude così: «Ma poi il popolo cominciò a sbadigliare per fame, e con gli sbadigli, addio! fece scoppiare a una a una tutte quelle magnifiche bolle che sono finite, figlio mio, con licenza parlando, in tanti sputi… Questa è la verità!»42. Sono le tesi, queste, che escono da Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause di Colajanni: in specie per la consapevolezza di un duplice fallimento siciliano, quello conseguente alla spedizione garibaldina, l’altro, ancor più amaro, seguìto al governo della Sinistra depretisiana prima, crispina poi. In un discorso di uguale sdegno, questo di Caterina Auriti, ma con meno capacità nel comprendere le ragioni politiche e sociali di quel fallimento, e con più amore patrio siciliano, tradotto nella sicilianistica idea della volontà “piemontese” di ridurre l’isola a mera colonia da civilizzare. Ancor più interessante, sotto la scorza di un socialismo riformista e gradualista, il sicilianismo del principe Lando. Come la zia Caterina, egli assiste all’irretimento a Nord dell’opera dei vecchi patrioti «in una coalizione spudorata di loschi interessi», lasciando che nell’iso­la «durassero l’inerzia, la miseria e l’ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le maggioranze anonime e supine». Di più grande interesse, invece, è il sicilianistico richiamo all’anima isolana per spiegare l’infatuazione socialista sua e dei suoi compagni, «dovuta […] quasi a un abbigliamento, al colore stesso della terra che dava tanta teatralità di voce e di gesti alla vita dei suoi compaesani»: «Come

42.  L. Pirandello, I vecchi e i giovani, cit., pp. 82-83.

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avevano potuto illudersi i suoi amici d’esser riusciti in pochi mesi, con le loro prediche, a rompere quella dura scorza secolare di stupidità armata di diffidenza e d’astuzie animalesche, che incrostava la mente dei contadini e dei solfaraj di Sicilia». Franchettiana è senz’altro l’idea di Lando circa i due ostacoli, veramente insormontabili, che impedivano la redenzione politica dei siciliani: «Da una parte il costume feudale, l’uso di trattar come bestie i contadini, e l’avarizia e l’usura; dall’altra l’odio inveterato e feroce contro i signori e la sconfidenza assoluta nella giustizia». Ma sicilianista, ancora una volta, è il richiamo all’unione interclassista tra i ceti: «Non una lotta di classe […], ma una cooperazione delle classi era da tentare, poiché in tutti gli ordini sociali in Sicilia era vivo e profondo il malcontento contro il governo italiano, per l’incuria sprezzante verso l’isola fin dal 1860»43. Non sono solo gli aristocratici Caterina e Lando (ma si potrebbe aggiungere don Ippolito) ad esibire tale sicilianismo. Del popolano Mortara abbiamo detto, ma ci sono anche rappresentanti della nuova e ambiziosa classe borghese. Si pensi alle considerazioni del deputato Corrado Selmi, circa il suo sforzo «di raccogliere in un fascio operoso tutta la deputazione siciliana», per rimediare alle ingiustizie patite dall’isola dopo l’Unità. Ritorna il riferimento ad un’atavica condizione di sicilianità: «ci ostiniamo purtroppo a voler essere ombre noi, qua, in Sicilia. O inetti o sfiduciati o servili. La colpa è un po’ del sole. Il sole ci addormenta finanche le parole in bocca!»44. Ma si faccia attenzione anche al Salvo, il quale parla dell’isola con concetti identici a quelli espressi dai Laurentano: «e prese […] a rappresentar la Sicilia come una catasta immane di legna, di alberi morti per siccità, e da anni e anni abbattuti

43.  Ivi, p. 390 e pp. 428-429. 44.  Ivi, p. 188.

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senza misericordia dall’accetta, poiché la pioggia dei benefizii s’era riversata tutta su l’Italia settentrionale, e mai una goccia ne era caduta su le arse terre dell’isola»45. Richiamo ad un orgoglioso sentimento di sé dell’intero popolo siciliano, riferimento ad una sorta di metastorica condizione antropologica che grava come una condanna sull’isola, un’idea di unificazione nazionale come colonizzazione continentale, appello all’unione interclassista di tutti i siciliani: sono questi i tratti del sicilianismo che fa da vero collante ideologico della quasi totalità dei personaggi del romanzo, ad eccezione di quel don Cosmo il cui pessimismo cosmico Pirandello sembra far proprio. È in tale quadro ideologico che deve essere interpretata la rappresentazione pirandelliana della mafia e del movimento dei Fasci, sulla quale ultima questione, comunque, non possiamo qui intrattenerci46. La mafia: e allora diciamo subito che il termine compare a chiare lettere nel giuoco delle accuse che gli avversari politici vicendevolmente si scambiano. Nel conflitto elettorale del novembre 1892, un compatto blocco affaristico (Salvo)-clericale (don Lagàipa e Monsignor Montoro)-legittimista (don Ippolito), che candida Capolino, si scontra con la cordata filogovernativa e crispina che presenta invece Roberto Auriti. Si veda quel che donna Caterina risponde al crispino Guido Veronica, che parla, a proposito dei Fasci, di «mascalzoni ambiziosi che seminano la discordia per assaltare i Consigli comunali e provinciali e anche il Parlamento», accennando poi all’influenza della Francia nel tentativo di dar vita a «qualche sommossa brigantesca, ispirata dalla mafia»: «Lei si conforta così? Sono tutte calunnie, le solite, quelle che ripetono i ministri, facendo eco ai prefetti e ai tirannelli locali capi-elettori; per maschera-

45.  Ivi, p. 339. 46.  Cfr. la nostra Prefazione, in I vecchi e i giovani, cit., pp. LXVII-LXIX.

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re trenta e più anni di malgoverno!»47. Ma si consideri anche la definizione che, nel fronte politico avverso, don Lagàipa dà di Giambattista Mattina e del Veronica: «due famosi galoppini al comando dell’alta mafia e della famigerata banda massonica». L’interpretazione che questi personaggi offrono del paradigma mafioso rientra in entrambi i casi nell’alveo ideologico del sicilianismo: da una parte, donna Caterina mette in atto la classica strategia di neutralizzare l’accusa di mafiosità, riducendola a mero pretesto governativo per continuare a vessare la Sicilia, negando di fatto l’esistenza del fenomeno; dall’altra, quella stessa accusa viene ritorta sugli eventuali accusatori filo­ governativi, mostrando come ogni partito politico tenda, nelle competizioni elettorali siciliane, a farne un uso strumentalizzante, con fini di criminalizzazione dell’avversario, fatto che è uno dei dati salienti dell’analisi condotta da Salvatore Lupo nella sua Storia della mafia. Se le cose stanno così, ci pare del tutto irrilevante, ai fini del nostro discorso, cercare di capire quale sia la posizione dell’autore. Così come si rivela di una puerilità sconcertante l’accusa formulata al romanzo da Sebastiano Vassalli sulle colonne di un grande quotidiano48: che I vecchi e i giovani siano, al fondo, un romanzo omertoso, ove si celebra su tutti un personaggio come il vecchio «lione» Mauro Mortara, il quale, tra i tanti, ci pare veramente improponibile, alla luce di quanto abbiamo visto, come portavoce delle idee di Pirandello. Quel che conta, infatti, è sottolineare il punto d’arrivo di queste nostre considerazioni e cioè che il romanzo pirandelliano si sollevi di

47.  L. Pirandello, I vecchi e i giovani, cit., pp. 86-87. 48.  Cfr. S. Vassalli, Signora Mafia con gli occhi di Medusa, in «La Repubblica», 7 agosto 1992. Un anno dopo, in un’intervista rilasciata a Paolo Di Stefano, Vassalli parlava addirittura del romanzo come della «più bieca apologia della mafia» (in «Corriere della Sera», 6 luglio 1993): lasciamo ai lettori ogni commento.

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gran lunga su tutte le altre opere coeve e precedenti dedicate al tema della mafia: la sua eccezionale capacità di assumere, distanziandosene, il contesto storico-antropologico isolano, articolandone e comprendendone la sua ideologia dominante, il sicilianismo appunto, mostrando come tale ideologia funga da eccezionale catalizzatore della vita politica e sociale siciliana, permeandone ogni aspetto, condizionandone la sintassi che regola i meccanismi del potere, compreso quello di marca mafiosa. Non è necessario soffermarci oltre: occorre infatti verificare quale sia il paradigma che emerge da quel Gattopardo che torna a confrontarsi, molti anni dopo, con gli anni cruciali della spedizione dei Mille e della grande transizione politica.

4. Codicillo per Tomasi di Lampedusa Ha forse ragione Vittorio Spinazzola in una delle tesi di fondo che si deducono dal suo Romanzo antistorico, quando sostiene che, nel passaggio da I Viceré, accolti da scarso successo di pubblico, a I vecchi e i giovani ed al Gattopardo, destinato invece a diventare un best seller, la diagnosi storiografica generale condivisa dai tre romanzi, comunque formidabile, si faccia via via meno incisiva e articolata. Una cosa è certa: la grandezza del romanzo di Tomasi sta altrove: ed è bene ribadirlo anche in un libro come il nostro, interamente giuocato su un piano più prossimo alla storia della cultura e delle idee, che a quello della critica letteraria. Noi, sul Gattopardo, continuiamo a pensarla come tutti coloro che, da Giorgio Bassani a Geno Pampaloni, complicarono di molto il significato storico di questo romanzo, ne sopraelevarono il carattere meditativo e morale. E non possiamo non sottoscrivere, ancora oggi, alcune notazioni di Eugenio Montale, il quale, parlando di Lampedusa come «di un poeta-narratore dotato di una implacabile chiaroveggenza e di un sentimento dell’esistenza ch’è insieme stoico e profondamente caritativo», giudicava così il romanzo sul «Corriere

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della Sera» del 12 dicembre 1958: «Pagine larghe e nude nelle quali tutta una vita è riassunta con l’abbagliante chiarezza e velocità di una folgore». Questo non significa, però, che Il Gattopardo, pur dentro una pagina di tersa angoscia metafisica, non possa fornire preziosissime indicazioni anche ad un discorso come il nostro. Ed in effetti, il primo riferimento alla mafia cade già nella parte prima del romanzo: a confermare quel paradigma interpretativo, già riscontrato in Rizzotto e Mosca, della stretta connessione tra le “squadre” ribelli, accampate sui monti intorno alla Conca d’Oro, che aspettano Garibaldi, e la mafia. Tancredi è andato a salutare lo “zione”, in quanto sta per unirsi ai protagonisti dei rivoluzionari avvenimenti politici che stanno per realizzarsi: “[…] Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi”. Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. “Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconieri dev’essere con noi, per il Re”.49

Ancor più interessante, in direzione della stessa interpretazione, che pone in stretta connessione le future classi dirigenti nate dalla rivoluzione e la mafia, è il ritratto di «Russo il soprastante, l’uomo che il Principe trovava più significativo fra i suoi dipendenti»: Svelto, ravvolto non senza eleganza nella “bunaca” di velluto rigato, con gli occhi avidi sotto una fronte senza rimorsi, era per lui la perfetta espressione di un ceto in ascesa. Ossequio49.  G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 4041.

203 so del resto e quasi sinceramente devoto poiché compiva le proprie ruberie convinto di esercitare un diritto. “Immagino quanto Vostra Eccellenza sarà seccato per la partenza del signorino Tancredi; ma la sua assenza non durerà molto, ne sono sicuro, e tutto andrà a finire bene.” Ancora una volta il Principe si trovò di fronte a uno degli enigmi siciliani. In questa isola segreta dove le case sono sbarrate e i contadini dicono d’ignorare la via per andare al paese nel quale vivono e che si vede lì sul colle a dieci minuti di strada, in quest’isola, malgrado l’ostentato lusso di mistero, la riservatezza è un mito.50

Si tratta di un passo in cui Tomasi distingue con grande precisione tra quella che gli apologeti sicilianisti definiscono riservatezza, la quale è di natura puramente leggendaria, ognuno sapendo tutto di tutti, e l’omertà, che è invece il preciso connotato antropologico di cui già parlava Franchetti. Un passo che prepara benissimo il dialogo tra il Principe e Pietro Russo, dialogo in cui, mafiosamente, e rispettando proprio quel codice, il soprastante assicura protezione e sicurezza, per tutta la famiglia, durante e dopo la rivoluzione: “Pietro, parliamoci da uomo a uomo, tu pure sei immischiato in queste faccende?” Immischiato non era, rispose, era padre di famiglia e questi rischi sono roba da giovanotti come il signorino Tancredi. “Si figuri se nasconderei qualcosa a Vostra Eccellenza che è come mio padre”. (Intanto tre mesi fa, aveva nascosto nel suo magazzino centocinquanta ceste di limoni del Principe e sapeva che il Principe lo sapeva). “Ma debbo dire che il mio cuore è con loro, con i ragazzi arditi”.

Quindi, dopo aver cantato le lodi dei tempi che sarebbero sopraggiunti dopo la rivoluzione, quelli che avrebbero consentito a un galantuomo «di badare ai fatti propri», aggiungeva: “Ci saranno giorni di schioppettate e di trambusti, ma villa Salina sarà sicura come una rocca; Vostra Eccellenza è il no-

50.  Ivi, pp. 44-45.

204 stro padre, ed io ho tanti amici qui. I Piemontesi entreranno solo col cappello in mano per riverire le Eccellenze Vostre. E poi lo zio è il tutore di don Tancredi!” Il Principe si sentì umiliato: adesso si vedeva disceso al rango di protetto degli amici di Russo.51

Saranno dunque gli amici degli amici, grazie all’intercessione di Russo, a tutelare il prestigio, e ancor più il potere, del Principe di Salina, quel Russo che, meglio di ogni altro, spiegherà, finalmente, il senso di quella frase di Tancredi, il quale aveva sottolineato la necessità che tutto cambiasse perché tutto rimanesse com’era: «“Tutto sarà meglio, mi creda, Eccellenza. Gli uomini onesti e abili potranno farsi avanti. Il resto sarà come prima”. Questa gente, questi liberalucoli di campagna volevano soltanto avere il modo di approfittare più facilmente. Punto e basta»52. Il soprastante Russo, il contabile don Ciccio Ferrara, gli affittuari Pastorello e Lo Nigro sono gli uomini nuovi, le iene e gli sciacalli che sostituiranno i gattopardi, ma colui che meglio esemplifica i tratti della nuova classe emergente è don Calogero Sedàra, di Donnafugata, il nuovo sindaco «plebeo», furbo e rapace, le cui proprietà superano ormai quelle del Principe: sul suo conto, i sospetti di mafia sono ancora più forti, e diventano certezze nelle parole di don Ciccio Tumeo, l’organista del paese, fedele compagno di caccia del Principe. Il quale, interrogato sulla moglie di Sedàra, così risponde: “È figlia di un vostro affittuario di Runci, Peppe Giunta si chiamava e tanto sudicio e torvo era che tutti lo chiamavano Peppe ‘Merda’. Scusate la parola, Eccellenza”. […] “Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera cha va a Rampinzeri, con dodici

51.  Ivi, p. 45. 52.  Ivi, p. 46.

205 ‘lupare’ nella schiena. Sempre fortunato don Calogero, perché quello stava diventando importuno e prepotente”.53

Del fatto che Il Gattopardo sia la risposta aristocratica al borghese De Roberto, il quale nei Viceré imputava proprio alla nobiltà siciliana le più gravi responsabilità della transizione trasformistica dal vecchio al nuovo Stato, l’iscrizione lampedusiana di affittuari, soprastanti e campieri all’anagrafe della mafia ne è la più eclatante e sprezzante conferma. Ma, a parte questo durissimo giudizio etico e politico sul ceto medio, non sono pochi i luoghi del romanzo da cui emerge un’immagine della società siciliana non distante da quella offerta da Franchetti. E basterebbe pensare al pozzo della fattoria di Rampinzeri che «custodiva cristiani sequestrati»54 o agli «otto “campieri” col Gattopardo d’oro sul berretto e nelle mani otto schioppi di non costante innocuità»55. Del resto, una sottile parodia delle pagine di Franchetti ci sembrano quelle in cui Tomasi ironizza sul povero Chevalley, il funzionano piemontese mandato al Principe di Salina per convincerlo ad accettare un seggio nel Senato del Regno, il quale arriva a Donnafugata assai impressionato, con «la testa imbottita da quei racconti briganteschi mediante i quali i Siciliani amavano saggiare la resistenza nervosa dei nuovi arrivati»56, e per nulla convinto dalla via “Corso Vittorio Emanuele” di trovarsi «in un posto che dopo tutto era la sua stessa nazione»57: un’ironia che, crediamo, non può

53.  Ivi, p. 115. 54.  Ivi, p. 60. 55.  Ivi, p. 69. 56.  Ivi, p. 154. 57.  Ivi, p. 155. Nel vedere il povero Chevalley in quello stato di agitazione innanzi al «volti barbuti dei “campieri” che stazionavano armati nel primo corrile» (ivi, p. 155), di fronte alla miseria di Donnafugata, anche Tancredi «venne subito assalito dal singolare prurito isolano di raccontare ai forestieri storie raccapriccianti, purtroppo sempre autentiche» (ivi, p. 156). Ecco, allo-

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non riverberarsi sugli stessi Franchetti e Sonnino che troppo credettero, forse, alle esagerazioni narrative degli isolani con cui vennero a contatto; un’ironia, si badi, per nulla diminuita dalla consapevolezza di Lampedusa che quelle esagerazioni non rispondessero per nulla a menzogne, come Capuana aveva voluto credere e tentato di far credere. Il quadro non sarebbe completo se non citassimo l’unico vero “uomo d’onore” del romanzo, Vincenzino, il marito di Sarina, la sorella di Padre Pirrone che vive a S. Cono, paese del Palermitano: «con la sua fronte bassa, con i suoi “cacciolani”, le ciocche di capelli lasciate crescere sulle tempie, col dondolio del suo passo, col perpetuo rigonfiamento della tasca destra dei calzoni, si capiva subito che Vincenzino era “uomo di onore”; uno di quegli imbecilli violenti capaci di ogni strage». Da Vincenzino Sarina teme un delitto d’onore, una volta saputo che la figlia ’Ncilina è stata messa incinta da Santino Pirrone, cugino di Sarina, per sfregio, per riparare ad un torto subito. Il comportamento di Vincenzino, invece, è la perfetta conferma di quella mentalità borgese-mafiosa segnalata da Sciascia per Navarro della Miraglia e Pirandello, se è vero che sembra disposto a qualsiasi immoralità purché vengano salvate le apparenze ed il patrimonio: Una volta assicurato dell’imminenza delle nozze di ’Ncilina, l’indifferenza dell’“uomo d’onore” nei riguardi della condotta della figlia fu marmorea; invece fin dal primo accenno alla dote da consegnare i suoi occhi rotearono, le vene delle tempie si gonfiarono e l’ondeggiare dell’andatura divenne frenetico: un rigurgito di considerazioni oscene gli uscì dalla bocca, turpe, ed esaltato ancora delle più micidiali risoluzioni; la sua

ra, la rievocazione del sequestro del figlio del barone Mútolo, restituito morto e «pezzo per pezzo»; ecco, quindi, l’uccisione del parroco di Santa Ninfa mentre celebrava la messa; il tutto illuminato dall’inequivocabile commento di Tancredi: «e nessuno capisce mai chi sia stato a sparare» (ivi, p. 157).

207 mano che non aveva avuto un solo gesto in difesa dell’onore della figlia, corse a palpare nervosa la tasca destra dei pantaloni per significare che nella difesa del mandorleto egli era risoluto a versare sin l’ultima goccia del sangue altrui.58

Come si vede bene, il paradigma interpretativo di Tomasi di Lampedusa converge sempre, in un modo o nell’altro, nella riduzione della mafia a fenomeno esclusivamente riguardante quella borghesia rurale che emergeva dalla crisi della grande aristocrazia fondiaria, in sostanza quel ceto medio di facinorosi di cui aveva parlato Franchetti. Non siamo certo alla complessità della pagina pirandelliana, ove si era saputo interpretare il malandrinaggio isolano come catalizzatore e, insieme, risultato di un processo di «ibridazione sociale», e ciò per quella sua capacità di coinvolgere tutte le classi sociali, di adeguarsi a nuovi contesti economici, mantenendo immutato il suo fine di arricchimento illecito e il monopolio della forza: una prospettiva intuita da Pirandello con largo anticipo sulla ricerca storiografica contemporanea59. Eppure, l’analisi di Tomasi, in specie per quell’alleanza che si crea, attraverso il matrimonio con Angelica, tra l’aristocratico Tancredi, che si fa garibaldino, ed il notabile liberale Calogero Sedàra, riesce anch’essa a battere sul tempo le conclusioni di un classico come la Storia della mafia di Salvatore Francesco Romano. Valga questa pagina, in cui Romano sembra descrivere esattamente proprio quel che avviene, quanto a dinamica storico-sociale, nel Gattopardo: La nascita o lo sviluppo della mafia vanno visti storicamente nel quadro di trasformazione, di sviluppo e di ascesa di una nuova borghesia di proprietari terrieri, alleati agli aristocratici liberali di origine feudale, e che da questi assumono resi-

58.  Ivi, pp. 186-187. 59.  Per quanto concerne il concetto di «ibridazione sociale», cfr. R. Catanzaro, La mafia come fenomeno di ibridazione sociale. Proposta di un modello, in «Italia contemporanea», n. 156, settembre 1984, pp. 7-41.

208 dui che sono stati lasciati in eredità dalla tradizione feudale, mentre essi prestano loro la propria abilità organizzativa nel controllo politico e amministrativo delle masse soggette.60

E questa identità di visione non ci sembra poca cosa.

60.  S.F. Romano, Storia della mafia, cit., p. 169.

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Capitolo VII

Il pianeta Sciascia

1. Sciascia saggista polemista e politico: lunga storia di un mafiologo controvoglia In un articolo apparso il 9 settembre 1982 sul «Corriere della Sera», una decina di giorni dopo l’omicidio del generale Dalla Chiesa, Sciascia spiegava, come meglio non si potrebbe, il senso dei suoi interventi sulla questione mafiosa: Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’essere considerato un esperto di mafia o, come oggi si usa dire, un “mafiologo”. Sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfara: a livello delle cose viste e sentite, delle cose vissute e in parte sofferte. E non amo le interviste ex abrupto: preferirei rispondere per iscritto ad ogni domanda, tranquillamente, ponderatamente. Eppure ad ogni avvenimento di matrice mafiosa accondiscendo a tante interviste all’improvviso e improvvisate, sforzandomi, facendomi violenza. E per due ragioni: mi pare di venir meno a un dovere civico rifiutandomi di parlare; e mi pare di venir meno alla cortesia, e di non rispettare quello che è l’altrui lavoro, chiudendo la porta in faccia a una persona che ha

210 fatto un centinaio di chilometri per venire a registrare la mia opinione.1

Con poche parole, Sciascia stilava l’autoritratto di un uomo di lettere impegnato controvoglia, quasi assillato da un implacabile sentimento dei doveri civici, spesso costretto da un irrinunciabile senso della cortesia, un uomo di lettere che si trovava a parlare di mafia per motivi anagrafici, e cioè dall’essere nato e vissuto in una parte della Sicilia in cui la mafia aveva da sempre allignato. Quel suo sapere di mafia, avvertiva dunque Sciascia, doveva essere sempre interpretato con riferimento a quell’idea ed a quel sentimento della Sicilia che altrove aveva chiamato “sicilitudine” e di cui abbiamo già detto nel I capitolo di questo libro. Un fatto è comunque certo: che proprio da questo scrittore riluttante, in più di trent’anni di presenza nel dibattito sulla mafia, abbiamo avuto saggi e libri fondamentali per meglio capire genesi e natura di questo fenomeno criminale, il suo complesso rapporto con la realtà siciliana. Saggi e libri fondamentali a cominciare da quel Letteratura e mafia (1964), da noi più volte utilizzato come irrinunciabile punto di riferimento, in cui si censiva, per la prima volta, quel bagaglio di sentimenti, immagini, giudizi e pregiudizi che la letteratura siciliana aveva restituito della mafia, come contemplandosi in una specie di specchio deformato, un saggio in cui, ancora per la prima volta, si registravano le confusioni e le compromissioni, il repertorio dei luoghi comuni sicilianistici, di una classe intellettuale tutt’altro che insensibile al fascino che emanava dal mito di una mafia, fiera e orgogliosa di sé, cavalleresca e giustiziera, incarnazione di un lato tutt’altro che ignobile: dell’anima isolana. Ed a Letteratura e mafia si possono certo affiancare Brigantaggio napoletano e mafia siciliana (1968) e le tante pagine su Verga, Navarro

1.  L. Sciascia, A futura memoria, cit., p. 797.

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della Miraglia, Pirandello e la mentalità borgese-mafiosa, da noi ampiamente citate. Per non dire del racconto Filologia, da noi già analizzato. Va detto subito, per chiarezza, che in questo paragrafo si prenderà in esame soprattutto l’idea di mafia che Sciascia ha elaborato, nella sua vasta produzione saggistica, in un arco cronologico che va dagli anni Cinquanta alla sua morte, avvenuta, com’è noto, il 20 novembre 1989. Avvertiamo in anticipo lo sciocco cronista che subito ci accuserà di non esserci occupati delle tante polemiche e polemicucce in cui Sciascia, suo malgrado, fu tirato per il bavero della giacca: su di lui cadrà la nostra più gelida indifferenza; è troppo pieno il mondo di coloro che, con cieca felicità, vivono galleggiando sulle schiumanti acque della cronaca, senza minimamente sospettare che quella cronaca, con la storia, possa anche non coincidere, perché li si possa prendere veramente sul serio. Esamineremo quelle polemiche solo ai fini della nostra ricognizione concettuale, e dentro il vasto discorso di questo libro: con uno scopo che vorremmo definire filologico. Del resto, si tratta di polemiche in cui troppo spesso ha avuto peso la stoltezza ideologica o la malafede, e sarebbe facile dimostrarlo, polemiche alimentate quasi sempre da pretestuose ragioni di ordine politico: anche oggi che Sciascia non può più rispondere. Sappiamo troppo bene, per il lavoro dei tanti storici citati nel libro, che una rigorosa storia della mafia e dell’antimafia è stata sempre resa difficile dall’alto tasso di strumentalizzazione politica che l’ha caratterizzata: se il cittadino che è in noi, per quelle polemiche di pochi anni addietro, ancora si sdegna, lo storico della cultura e il critico letterario che scrive questo libro, se ne congeda senza alcun senso di colpa. Non vogliamo sostenere, con questo, che Sciascia abbia avuto sempre e comunque ragione: ma una cosa è il civile dissenso, quello che solleva la civiltà di una nazione, un’altra il linciaggio a cui lo scrittore fu sottoposto, la malafede con cui gli si

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attribuirono cose che non aveva detto e non aveva pensato, specialmente in occasione della famosa polemica sui “professionisti dell’antimafia”. Ciò non toglie, però, che la sua altissima eredità, quella di un uomo vivo tra tante anime morte, come amava ripetere, vada preservata anche opponendosi a chi vorrebbe volgere in agiografia la vicenda di un uomo che fu soprattutto un eretico, insofferente di tutte le chiese in ogni momento della sua vita, un uomo che fece sempre parte per sé stesso e tenne alto, sopra ogni cosa, il diritto di contraddire e contraddirsi. I discorsi apologetici di certi amici, di certi zelanti discepoli che volentieri estrapolano i suoi argomenti dal contesto in cui li aveva collocati, che si dichiarano veri eredi, lo dobbiamo registrare per onestà, non sono poi così lontani dalle disoneste scomuniche di tanti detrattori: e in essi stinge lo stesso sospetto di strumentalizzazione ideologica che è la vera nemica di ogni seria comprensione storica. Ma torniamo al nostro discorso. Una prima precisa definizione del fenomeno mafioso la troviamo in un’articolata recensione del 1957 ai libri La mafia di Ed Reid e Questa mafia di Renato Candida, ora raccolta in Pirandello e la Sicilia (1961). In tale saggio, sulla scorta delle osservazioni di Reid, Sciascia abbozzava una differenza tra la mafia siciliana, «fenomeno rurale», e quella americana, «espressione deteriore del capitalismo industriale», rintracciando comunque, nell’una e nell’altra, una strenua fedeltà «alla classe padronale», quindi scriveva: Tuttavia, nonostante gli scarti e le eccezioni, credo che la più attendibile definizione della mafia sia questa: una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza.2

2.  L. Sciascia, La mafia (1957), in Id., Opere. 1984-1989, cit., p. 1174.

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Lo Sciascia di questi anni è un intellettuale molto più propenso a credere in una trasformazione positiva della realtà italiana di quanto non lo sarà una decina di anni dopo: cosa da cui deriva anche un più ottimistico giudizio sulle possibilità di sviluppo della mafia e sulla forza del movimento operaio organizzato. C’è un passo, a questo proposito, che vale la pena riportare. Lo scrittore sta ipotizzando un’esportazione della mafia a Milano, nei termini in cui Reid la racconta relativamente agli Usa, fantasticando di un primo successo degli estortori con i commercianti di via San Gregorio, quella in cui molti siciliani tengono negozio: A questo punto la macchia d’olio dovrebbe allargarsi, quartiere per quartiere, sulla città: ma ecco entrare in giuoco elementi specifici del “continente” […]: quella che si suol chiamare la coscienza operaia; il costume elettorale che appunto dalla forza operaia è condizionato a forme aliene da ogni altro intervento delinquenziale; l’assoluta mancanza di omertà e di quel sentimento dell’amicizia nel sud professato in moduli di complicità, di sacrificio e di rischio; e infine la conseguente impossibilità di una efficiente corruzione dei pubblici poteri.3

A parte l’idea di una Milano refrattaria alla corruzione e al sistema del “pizzo” che oggi, dopo quel che di Milano, quanto a corruzione, abbiamo saputo, fa amaramente sorridere, noi troviamo qui uno scrittore ancora fiducioso in quelle forze popolari protagoniste della liberazione del paese dal fascismo, secondo idee democratiche e resistenziali, le stesse che animano, lo vedremo, Il giorno della civetta. Sciascia non ha dubbi: Dove la coscienza di classe manca, la mafia riesce a sostituirsi al sindacato, in estremo “doppiogiochismo” tra istanze propriamente sindacali e difesa padronale (come ieri in Sicilia e oggi negli Stati Uniti); dove invece il sindacato si pone con effettualità storica contro una mafia perfettamente individua3.  Ivi, p. 1175.

214 ta in quanto forza padronale (come attualmente in Sicilia), ecco che la mafia assume caratteristiche di “sottopolizia”, di avanguardismo reazionario, di forza d’ordine (secondo l’idea­ le d’ordine che si specchia in uno Stato che di fatto tende all’esclu­sione delle masse proletarie).4

Non incontreremo più uno Sciascia così ottimista: presto, infatti, si troverà a constatare che la linea delle palme è salita a Nord e la Sicilia si è fatta metafora della nazione tutta. Ma quel che colpisce di più in questo discorso è l’individuazione di un background antropologico, che viene indicato come condizione indispensabile perché la mafia si affermi e si sviluppi: quei valori che vanno, come abbiamo visto, dall’omertà ad un vivissimo sentimento dell’amicizia5. Affermazione importante, che ci fornisce un iniziale dato per capire di quali riferimenti si sia avvalso Sciascia per elaborare il suo paradigma interpretativo della mafia. Sappiamo benissimo chi sia stato a formulare per primo l’idea di un condizionante sostrato antropologico: Leopoldo Franchetti. E Franchetti Sciascia immancabilmente cita, quasi alla fine del saggio, quando prende in esame gli eventuali rapporti tra mafia e politica:

4.  Ivi, pp. 1175-1176. 5.  Interessante conferma di ciò troviamo in un articolo apparso su «L’Ora» dell’11 ottobre 1965, in una recensione a Carcere e mafia nei canti popolari siciliani di Antonino Uccello, ove Sciascia, sulla scorta di Pitrè, distingue la mafia dal «sentire mafioso»: «Di un tale sentimento sono espressioni la repugnanza a ricorrere alla giustizia penale anche per affermare il proprio diritto […] e anche per difendere la propria sicurezza; l’omertà; la tendenza ad operare di persona o per segreti tramiti ai fini della vendetta o del risarcimento; lo scarso rispetto per l’altrui o pubblica proprietà; l’inclinazione a corrompere i pubblici poteri, cioè gli individui che li rappresentano, la pietà familiare e l’amicizia spinte agli estremi; il disprezzo verso il traditore, il delatore, lo sbirro che a volte si estrinseca nella punizione e più spesso, specie nei riguardi dello sbirro, in un distacco di “fair play”».

215 Forse nella fantasia di coloro che non conoscono la Sicilia, la connivenza dei membri della classe dirigente coi mafiosi si configura in convocazioni e riunioni segrete, in un meccanismo deliberatorio e tribunalizio. In realtà tale connivenza si realizza in modo indiretto, attraverso un giro di “amici degli amici” così largo da rendere impossibile un risultato d’indagine che valga veramente a provare il rapporto tra un uomo politico e l’associazione mafiosa. Eppure, nonostante il legame sia così diretto e sfuggente, “la mafia” – dice il Franchetti – “come qualunque altra classe facinorosa, ha indole e modi di procedere tali che difficilmente chi abbia avuto relazione con essa può mai romperla del tutto”.6

Stante la natura dell’associazione criminale – e Sciascia esclude sin da ora «convocazioni e riunioni segrete», rigorosi e gerarchici assetti interni – i rapporti tra mafiosi e politici, pur se costanti e duraturi come testimonia la casistica che segue nel saggio la citazione riportata, sembrano assai difficili da comprovare. Il discorso di Sciascia, pur legato in questo 1957 ad un’idea sostanzialmente rurale del fenomeno mafioso, per altro debitrice del modello franchettiano, non esclude un’interessante apertura su un diverso futuro, a compromettere in qualche modo l’ottimismo dell’ideologia democratica e resistenziale che ispira il saggio: il fatto è che in Sicilia la mafia è una forza: indubbiamente in conati di sopravvivenza, a meno che non riesca a portare a completamento e a perfezione la trasformazione che pare sia in atto. Se dal latifondo riuscirà a migrare e a consolidarsi nella città, se riuscirà ad accagliarsi intorno alla burocrazia regionale, se riuscirà ad infiltrarsi nel processo d’industrializzazione dell’isola, ci sarà ancora da parlare, e per molti anni, di questo problema.7

6.  L. Sciascia, La mafia, cit., pp. 1184-1185. 7.  Ivi, p. 1185.

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E allora: distinzione di un sentimento latamente mafioso dalla mafia come associazione criminale d’intermediazione tra proprietà e lavoro, sulla scorta di Pitrè, certo, ma secondo un giudizio di ispirazione meridionalistica esemplato su quello che esce dall’inchiesta franchettiana; stretta connessione tra la storia della mafia e quella del latifondo, ma nella constatazione di una pericolosa migrazione in atto dei mafiosi verso la città con ingerenze nel processo di burocratizzazione regionale e di industrializzazione; fiducia ancora forte in un processo di democratizzazione, in una crescita della coscienza di classe come unica risposta risolutiva in grado di battere definitivamente la mafia. È questa l’interpretazione del fenomeno mafioso che esce dall’importante saggio del 1957. Quanto cambierà, se cambierà, la posizione di Sciascia negli anni? Diciamo subito che nelle sue linee di fondo, quelle di carattere definitorio, Sciascia rimarrà coerente alle posizioni di partenza. È lui stesso a sottolinearlo sul «Corriere della Sera» del 19 settembre 1982, quando riporta, tra virgolette, la definizione del fenomeno data nel 19578. E sullo stesso giornale, il 25 agosto 1982, per spiegare i mutamenti che gli sembrava di poter cogliere nella nuova mafia, aveva addirittura ricordato la chiusa problematica di quel saggio, quella, appunto, in cui ipotizzava nuovi scenari metropolitani sulle ceneri del latifondo, sepolte ormai da tempo figure come Vito Cascio-Ferro. Quindi aggiungeva: Facile e persino ottimistica previsione. La mafia è andata al di là: è diventata fenomeno più vasto, indefinibile e – visibilissima nei suoi molteplici effetti – invisibile nella sua gestione, nei suoi capi, nei suoi legami, nelle sue connivenze e protezioni. Si conosceva una mafia siculo-americana e si parlava di una certa penetrazione – specialmente in ordine agli abigeati – nelle colonie francesi di Tunisia e Algeria; ma la droga e 8.  L. Sciascia, A futura memoria, cit., p. 798.

217 il traffico delle armi l’hanno fatta dilagare in ogni parte del mondo. Lentamente stiamo arretrando a rimpiangere tutto, o quasi tutto, del passato. Saremo costretti a rimpiangere anche la mafia di don Vito Cascio-Ferro?9

Il lettore non creda che arriviamo qui a una posizione nostalgica come quella di Loschiavo, Sciascia sta solo descrivendo una situazione nuova, assai difficile da capire per uno che ha sempre avuto a che fare con la vecchia mafia rurale. Che questo non sia passo apologetico, a prevenire le solite accuse in malafede che a Sciascia vengono spesso mosse, lo si può dedurre da un periodo tratto da «Il Globo» del 24 luglio 1982: Chi oggi primeggia in una associazione criminale avrà pochi punti di somiglianza con uomini come don Vito Cascio-Ferro e don Calogero Vizzini. E con ciò non s’intende riconoscere “nobiltà” alla vecchia mafia (la minore quantità di omicidi e la minore efferatezza nel commetterli non si inscrivono certamente nella “nobiltà”), ma soltanto dire che era diversa.10

Osservazione espressa, per altro, in un articolo ove si conveniva su certe affermazioni di Arlacchi fatte quattordici giorni prima su «la Repubblica», a proposito del fatto che la mafia, in quella congiuntura storica, si fosse trovata ad avere «più denaro che idee sul che farne». Abbiamo finalmente quasi tutti i dati per completare il quadro dell’interpretazione sciasciana della mafia e della sua storia. Resta solo da capire come le antiche posizioni franchettiane di Sciascia si siano poi raccordate alle tesi di Henner Hess, questione di non poco conto in quanto ci consente di intendere meglio certe idee dello scrittore a proposito del “teorema Buscetta”. E infatti, in quello stesso articolo, Sciascia scrive dopo una serie di considerazioni sulla morte di Calvi che ora non ci interessano:

9.  Ivi, pp. 795-796. 10.  Ivi, p. 783.

218 E qui vien fatto di ricordare quel saggio di Henner Hess sulla mafia: con quella semplice ed essenziale scoperta che il mafioso non sa di essere mafioso nella nozione che “esternamente” si ha della mafia; è un buon cittadino di uno stato che “esternamente” viene denominato mafia e considerato mafia.11

Ecco il punto: insistendo sul contesto culturale entro cui si esplica l’azione della mafia, Sciascia, per altro prefatore del libro di Hess12, si poneva come continuatore di una linea interpretativa che, muovendo da Franchetti, arrivava appunto ad Hess, postulando la stretta interrelazione tra il fenomeno mafioso e la società “tradizionale” isolana che lo esprimeva, con l’inevitabile conseguenza di problematizzare fortemente i confini di demarcazione tra le associazioni criminali e quel retroterra di complicità, anche politiche, entro cui esse operano: una linea a cui si sarebbe rifatto anche l’antropologo Anton Blok che, in un memorabile studio su Contessa Entellina, avrebbe sostenuto la necessità di un’interpretazione della mafia in chiave quasi esclusivamente municipale13. Se si tiene presente questa prospettiva teorica, la prospettiva di Hess e Blok, si potranno comprendere molto meglio le implicazioni di parole come queste, relative al passaggio dalla vecchia alla nuova mafia: s’intende che uso la parola “mafia” nel senso di una confederazione di associazioni criminali non più definibile – dall’esterno – come definibile era la vecchia mafia e cioè secondo i suoi interessi, i suoi bersagli, l’estrazione delle persone che vi si affiliavano. Oggi tutte le associazioni criminali, in ogni parte del mondo, hanno interessi disparati, occulte e contrad-

11.  Ivi, p. 884. 12.  Cfr. H. Hess, Mafia, cit. 13.  Cfr. A. Blok, La mafia di un villaggio siciliano 1860-1960 (1974), Einaudi, Torino 1986.

219 dittorie intrusioni, appaiono amorfe e in amorfo processo di aggregazione.14

Una prospettiva teorica che chiarisce assai bene la posizione di Sciascia rispetto al “teorema Buscetta”, quello che prevede una struttura rigorosamente gerarchizzata di “Cosa Nostra”, una “cupola” appunto, con un suo identificabile papa. Sciascia, sul «Corriere della Sera» del 27 dicembre 1987, sta parlando del maxiprocesso, del quale ha appena apprezzato la qualità giuridica della sentenza, nel senso dell’osservanza del diritto: Che l’impalcatura istruttoria abbia sostanzialmente resistito al processo dibattimentale si può senz’altro dire, ma mi pare non abbia invece retto – né poteva – la teoria della “cupola”, altrimenti detta “teorema Buscetta”. Non ho mai creduto che la mafia fosse un fatto fortemente unitario e piramidale; e ritengo che il crederlo produca fuorviazioni, rischi, cedimenti a facili e momentanee soddisfazioni (come quelle che nei media si notano di fronte all’esito di questo processo). La mia opinione è stata sempre che la mafia è una confederazione di mafie: qualche volta in pace, qualche volta in accordo, spesso in conflitto. Conflitti che è da credere nascano appunto dalla volontà di prevaricare, di sconfinare, di sconvolgere l’equilibrio federativo per farne uno stato unitario e assolutistico (usiamo, si capisce, termini approssimativi).15

Si può non essere d’accordo, e con ottimi argomenti, su queste conclusioni: come ha fatto Lupo nella sua Storia della mafia. Ma non si può negarne la verità denunciando l’impianto ideologico che le sottintenderebbe: l’ideologia, si sa, è sempre in agguato, ed è difficile, come insegnavano i vecchi marxisti, che non si interpoli, surrettiziamente, là dove pensavamo

14.  L. Sciascia, A futura memoria, cit., p. 783. 15.  Ivi, p. 884.

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di averla esorcizzata: quel che potrebbe capitare allo stesso Lupo, quando si sforza di dimostrare a tutti i costi, e in tutti i modi, il “teorema Buscetta”, proiettandone la validità nella fase aurorale della storia della mafia16. Il rischio è appunto quello di ipostatizzare, al di là di ogni cautela storiografica, una strategia investigativa e processuale che riguarda, invece, il nostro presente. Abbiamo finalmente tutti i dati per concentrarci sul percorso narrativo del nostro scrittore.

2. Sciascia narratore: Bellodi contro don Mariano Tutta la narrativa di Sciascia, a partire dalle Parrocchie di Regalpetra, può essere interpretata come una risposta alla questione mafiosa, una risposta, però, da ricercare, non senza una qualche ossessione, dentro un’idea di storia d’Italia. Basterebbe citare, di quel libro pubblicato nel 1956 dall’editore Laterza, il capitolo Sindaci e commissari, dedicato, della vita di Regalpetra, agli anni che vanno dall’amministrazione militare americana in Sicilia sino al 1954: con quel veloce alternarsi di sindaci in odor di mafia, come il primo, mort’ammazzato, voluto dai liberatori; con quella rapida crescita di una Dc abilissima nel sanzionare una decisa continuità col vecchio regime. Persino un racconto come Il quarantotto (1958), ambientato negli anni della transizione risorgimentale, non manca di accampare la figura di un mafioso, il terribile e immane Vito Lacruna, sempre a disposizione quando si tratta di eliminare gli avversari liberali del barone Garziano: una figura che sta già lì a confermare l’idea di una mafia rurale al servizio dei latifondisti, con funzione d’ordine, anche politica. Ma la vera opera con cui Sciascia affronta il problema mafia in tutte le sue articolazioni 16.  Cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit., pp. 43-46.

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è senz’altro Il giorno della civetta17, il romanzo ispirato all’assassinio del sindacalista Miraglia, avvenuto nel gennaio 1947, pubblicato da Einaudi nel 1961, due anni prima dell’istituzione della commissione antimafia. Con tale opera, di grande fortuna critica ed editoriale, Sciascia apre la serie dei romanzi d’ambientazione contemporanea composti secondo la tecnica del giallo, che contrassegnerà in modo determinante l’attività dello scrittore almeno fino alla metà degli anni Settanta, per ricaratterizzarla poi negli ultimissimi anni di vita. Un’opera, occorre aggiungere, che per la sua apparente chiarezza ideologica, non incontrò lettori sempre attenti, al punto che lo stesso Sciascia finì per confessare a Davide Lajolo: Il giorno della civetta è un libro che non amo. Ha avuto troppo successo e per ragioni anche esterne. Non rimpiango di averlo scritto, tutt’altro: ma è irritante accorgermi qualche volta che lo si legge come un ragguaglio folcloristico. Io ho scritto il racconto, invece, come un “essemplo” (direbbe Bernardino da Siena) di quel che la mafia era nel passaggio dalla campagna alla città, da fenomeno rurale a fenomeno urbano. Credo che l’“essemplo” sia di assoluta chiarezza anche nell’evidenziare i rapporti col potere legale: l’esecutivo, la burocrazia, i partiti (e soprattutto il partito della Democrazia Cristiana).18

Una confessione d’autore di estrema limpidezza, che sembra non lasciare alcuno spazio all’esegeta, sulla quale si potrebbe facilmente scivolare, come non di rado è accaduto agli interpreti, finendo al guado dell’ottusità critica e del luogo comune. Il fatto è che in tale confessione Sciascia la dice lunga, più lunga di quanto non voglia far sembrare. C’è, infatti, in questo romanzo, ricapitolativo e insieme fondativo, un’idea di Sicilia 17.  Per un’analisi ravvicinata del romanzo, cfr. N. Fano, Come leggere ‘Il giorno della civetta’, Mursia, Milano 1992. 18.  L. Sciascia, Conversazione in una stanza chiusa, intervista di D. Lajolo, Sperling & Kupfer, Milano 1981, p. 55.

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esibita nel quadro di una più generale nozione di storia d’Italia, quella che, appunto, diede corso alle più diverse divagazioni folcloristiche ed etnologiche degli interpreti. Quell’idea che fa da collante, e insieme da pretesto e premessa, ad un più inquietante apologo sul Potere: come tenteremo di dimostrare. Ma andiamo con ordine. La trama del romanzo è questa: in un paese della Sicilia interna, un certo Colasberna viene ucciso di prima mattina mentre sale sull’autobus per Palermo. Lo stesso giorno ed alla stessa ora, tale Nicolosi, probabile testimone dell’omicidio, scompare senza lasciare traccia di sé. L’indagine, svolta sullo scottante versante della speculazione edilizia e degli interessi mafiosi, conduce il capitano Bellodi, non senza che altri omicidi vengano consumati, ad individuare i moventi ed arrestare esecutori e mandanti: risultato che verrà però vanificato dalle contromosse di una mafia forte di appoggi politici ai massimi livelli nazionali. Il romanzo si apre dunque con l’omicidio dell’uomo che sta per salire sull’autobus, ma quel che subito colpisce, quanto a novità nell’ambito del genere poliziesco, è la localizzazione del contesto in cui l’omicidio avviene. Nel momento in cui i due colpi squarciano l’aria, una cappa spessa d’omertà e di terrore cala su tutti i testimoni: il venditore di panelle, a soli tre metri dalla vittima, «muovendosi come un granchio cominciò ad allontanarsi verso la porta della chiesa», i passeggeri rimangono impietriti, con volti che, agli occhi del bigliettaio tremante, si palesano come «facce di ciechi, senza sguardo»19. Arrivano i carabinieri: ma è inutile il tentativo di sapere qualcosa dall’autista, dal bigliettaio, da qualcuno dei passeggeri, quasi tutti dileguatisi. Il risultato è un’omertà totale. L’immagine della Sicilia che qui si rivela è la stessa che emerge dalle pagine di Pirandello e il pirandellismo (1953) e Pirandello

19.  L. Sciascia, Il giorno della civetta, in Opere. 1956-1971, cit., p. 391.

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e la Sicilia (1961), e che ritroveremo ne La corda pazza (1970). Un’immagine che si disegna più nitidamente nelle battute con le quali oscuri personaggi commentano l’indagine che il capitano Bellodi di Parma sta conducendo con successo. Così si esprime una non meglio precisata Eccellenza, rivolgendosi a due anonimi interlocutori, a proposito della mafia: “Voi ci credete alla mafia?” “Ecco…” “E voi?” “Non ci credo”. “Bravissimo. Noi due, siciliani, alla mafia non ci crediamo: questo, a voi che a quanto pare ci credete, dovrebbe dire qualcosa. Ma vi capisco: non siete siciliano, e i pregiudizi sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è tutta una montatura. Ma intanto, per carità, seguite attentamente le indagini di questo Bellodi”.20

Ancor più interessanti sembrano le parole che la stessa Eccellenza rivolge ad un alto ufficiale dei carabinieri, dopo l’arresto di don Mariano Arena, il capomafia. Alla constatazione dell’ufficiale che don Mariano sia indicato come capo della mafia «dalla voce pubblica», l’Eccellenza risponde così: «“La voce pubblica… Ma che cos’è la voce pubblica? Una voce nell’aria, una voce dell’aria […] Una voce anche la mafia: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa… […] Sapete come diceva Vittorio Emanuele Orlando?”»21. E di fronte all’ostinazione dell’interlocutore, il quale dice di aver avuto esperienza della mafia, l’Eccellenza insorge: Mi addolorate, figlio mio, mi addolorate: come siciliano mi addolorate, e come uomo ragionevole quale presumo d’essere… Quel che, indegnamente, rappresento, si capisce non c’entra… Ma il siciliano che io sono, e l’uomo ragionevole che 20.  Ivi, pp. 411-412. 21. Ivi, p. 433.

224 presumo di essere, si ribellano a questa ingiustizia verso la Sicilia, a questa offesa alla ragione. […] Ditemi voi se è possibile concepire l’esistenza di una associazione criminale così vasta ed organizzata, così segreta, così potente da dominare non solo mezza Sicilia, ma addirittura gli Stati Uniti d’America.22

E poi, voler vedere in don Mariano il capo di un’organizzazione criminale sembra cosa davvero incredibile: un buon uomo, padre di famiglia esemplare, lavoratore infaticabile. E si è arricchito […] ma col lavoro […]. E ha avuto i suoi guai con Mori, anche lui… Ci sono uomini rispettati: per le loro qualità, per il loro saper fare, per la capacità che hanno di comunicare, di crearsi immediatamente un rapporto di simpatia, di amicizia; e quella che voi chiamate voce pubblica, il vento della calunnia, subito si leva a dire “ecco i capi mafia…”. E c’è una cosa che non sapete: questi uomini, che la voce pubblica vi indica come capi mafia, hanno una qualità che io mi augurerei di trovare in ogni uomo […]: il senso della giustizia… Istintivo naturale: un dono… E questo senso della giustizia li rende oggetto di rispetto…23

Tutto ciò, per arrivare ad una conclusione che, certo, il lettore ormai si aspetta: la mafia, come «associazione criminale» non è mai stata attestata da alcun documento o testimonianza, in nessun processo, e può al massimo definirsi «una associazione di segreto mutuo soccorso, né più né meno che la massoneria», ispirata da «un uomo di pace» che, in «un certo senso, viene ad amministrare giustizia», facilitando e semplificando i compiti dello Stato24. Non abbiamo indugiato a caso sulla definizione del contesto in cui maturano l’omicidio e le manovre affinché resti impunito. Forte delle sue idee sul fenomeno mafioso, sul retroterra culturale ben individuato da Pitrè entro cui la mafia 22.  Ivi, pp. 433-434. 23.  Ivi, p. 434. 24.  Ivi, p. 435.

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cresce e concresce, Sciascia ha dato vita qui, con grande abilità, a un tipico campione del sicilianismo, sostenitore di tutti quei luoghi comuni sulla mafia, sulla sua inesistenza, sulla fondamentale funzione di giustizia da essa svolta, luoghi comuni che abbiamo già trovato sulla bocca di un personaggio di Cesareo, l’avvocato Rasconà. Un’altra novità, nel romanzo, è data dalla volontà di Sciascia di rappresentare, con finalità di vera demistificazione, oltre che l’ideologia sicilianista, anche le cristallizzazioni letterarie di essa: ed oggi, su questo argomento, molto sappiamo, proprio perché Sciascia, nel saggio Letteratura e mafia, ci ha aperto per primo la strada. Si veda questa inserzione ironica dell’autore, il quale così commenta le inevitabili ipotesi di delitto passionale che spesso vengono sollevate proprio per depistare le indagini in una direzione diversa da quella mafiosa: Da quando, nell’improvviso silenzio del golfo dell’orchestra, il grido ‘hanno ammazzato cumpari Turiddu’ aveva per la prima volta abbrividito il filo della schiena agli appassionati del teatro d’opera, nelle statistiche criminali relative alla Sicilia e nelle combinazioni del giuoco del lotto, tra corna e morti ammazzati si è istituito un più frequente rapporto.

Una linea d’indagine che, per altro, fa il giuoco della polizia («l’omicidio passionale si scopre subito») e della mafia («l’omi­ cidio passionale si paga poco»). Non vi sono dubbi: «La natura imita l’arte»; ecco perché, in un baleno, «Turiddu Macca cominciò a popolare le mappe turistiche della Sicilia e i tavoli d’autopsia»25. Notazione fulminante: e vi è implicito un giudizio sulla Cavalleria rusticana di Mascagni, su quel melodramma che contribuisce ad arricchire la serie dei pregiudizi sul popolo siciliano, pregiudizi che vanno a velare, omertosamente possiamo dire, ben altre drammatiche verità.

25.  Ivi, pp. 412-413.

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È tale sicilianismo, quale sottile articolazione di un ethos e di una cultura, a disvelarsi progressivamente agli occhi del protagonista, il capitano Bellodi, la cui prima apparizione, in una conversazione telefonica con il maresciallo, è suggellata dall’indicativa battuta di quest’ultimo: «“Questo qui ha fatto il partigiano” disse “mi mancava a provare proprio uno che ha fatto il partigiano”»26. Uomo del Nord, dunque, ma soprattutto ex partigiano: a identificare un personaggio di estrazione azionista e di fede democratica che meglio garantisca, come a sortire un effetto straniarne, un giudizio fermo e spassionato sulla realtà rappresentata, una decisa presa di distanza da quel nucleo di valori e sentimenti che Sciascia, pensando a Pitrè, ma un Pitrè filtrato dallo sdegno di Franchetti, ha stretto nel concetto di «sentire mafioso». L’ideologia del capitano è nitida e chiara sin dall’inizio: il capitano Bellodi […] per tradizione familiare repubblicano, e per convinzione, faceva quello che in antico si diceva il mestiere delle armi, e in un corpo di polizia, con la fede di un uomo che ha partecipato a una rivoluzione e dalla rivoluzione ha visto sorgere la legge: e questa legge che assicurava libertà e giustizia, la legge della Repubblica, serviva e faceva rispettare.27

Bellodi, un rappresentante dello Stato, e la legge: eccoci, dunque, ad un tema centrale della nostra ricognizione, di decisiva importanza nei romanzi apologetici di Comandè e Loschiavo, ispirati come abbiamo visto alle idee del prefetto di ferro. È la prima volta, in questa nostra rassegna, che incontriamo nozioni di legge ed autorità così chiaramente improntate ai valori della vita democratica: «l’autorità di cui era investito considerava come il chirurgo considera il bisturi: uno strumento

26.  Ivi, p. 396. 27.  Ivi, p. 407-408.

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da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza; […] riteneva la legge scaturita dall’idea di giustizia e alla giustizia congiunto ogni atto che dalla legge muovesse»28. Idee supportate da una ferma volontà di combattere la mafia, volontà improntata alla convinzione della necessità di una decisa azione finanziaria e fiscale: «Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale»29. Un Bellodi che non ha la minima tentazione autoritaria, terribile essendo il ricordo del fascismo, nemmeno nei momenti di massimo scoramento, vero discrimine, questo, tra il capitano ed i suoi sottufficiali, poveri cristi costretti a barcamenarsi, come cocci d’argilla, tra tanti vasi di ferro, in un mondo di fame e violenza, di cui spesso condividono il sentire30: Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà d’azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori,

28.  Ivi, p. 408. 29.  Ivi, p. 463. 30.  «Il brigadiere guardava inquieto la strada e pensava stipendio e spese, moglie e stipendio, televisione e stipendio, bambini ammalati e stipendio. Il carabiniere-autista pensava Europa di notte, che aveva visto la sera prima […] e dietro questo pensiero, più visione che pensiero, c’era sommessa, nascosta, ché il capitano non gliela scoprisse, la preoccupazione che non aveva mangiato in caserma e chi sa se faceva in tempo a mangiare coi carabinieri di S.» (ivi, p. 414). Ma si pensi pure al maresciallo còlto «col boccone in gola e rosso per la sorpresa e per il dispetto», mentre sta mangiando il castrato: «E intanto propose al capitano di prendere un boccone. Il capitano rifiutò, disse di avere già mangiato. “Hai mangiato” pensò il maresciallo: e il suo rancore fu gelido come ormai il grasso intorno alle costolette di castrato» (ivi, pp. 414-413).

228 il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti.31

Molto interessante, in tale contesto ideologico, e nel più vasto quadro di una stratificata tradizione culturale, una riflessione sulla famiglia, sulla nozione che di essa i siciliani hanno, che Bellodi svolge, mentre sta aspettando di interrogare don Mariano: «la famiglia è l’unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano: ma vivo più come drammatico nodo contrattuale, giuridico, che come aggregato naturale e sentimentale». Un concetto che induce il capitano a ragionare sugli effetti perniciosi che, così concepita, essa ha nella vita civile: La famiglia è lo Stato del siciliano. Lo Stato, quello che per noi è lo Stato, è fuori: entità di fatto realizzata dalla forza; e impone le tasse, il servizio militare, la guerra, il carabiniere. Dentro quell’istituto che è la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla convivenza.

Un ragionamento che lo porta a questa drastica conclusione: Sarebbe troppo chiedergli di valicare il confine tra la famiglia e lo Stato. Magari s’infiammerà dell’idea dello Stato o salirà a dirigerne il governo: ma la forma precisa e definitiva del suo diritto e del suo dovere sarà la famiglia, che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine.

Ma veniamo al punto che c’interessa: Questi pensieri, in cui la letteratura offriva alla sua breve esperienza ora la carta buona ora la falsa, andava rimuginando il

31.  Ma c’è anche un’altra ragione che sconsiglia metodi autoritari a Bellodi, a conferma del suo antifascismo, del suo giudizio su Mori: «Ed è inutile, oltre che pericoloso, vagheggiare una sospensione di diritti costituzionali. Un nuovo Mori diventerebbe subito strumento politico elettoralistico; braccio non del regime, ma di una fazione del regime» (ivi, p. 465). Che è, come sappiamo, la tesi che sosterrà nel suo libro Duggan.

229 capitano Bellodi mentre nel suo ufficio aspettava che gli conducessero l’Arena. E stava passando a considerare la mafia, e come la mafia si adattasse allo schema che era venuto tracciando, quando il brigadiere introdusse don Mariano Arena.32

Passo importante, questo, non solo e non tanto per il fatto che Bellodi vi riecheggi concetti cari allo Sciascia saggista tratti dagli Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré in Sicilia del poeta messinese Scipio Di Castro, o dal Discorso su Verga di Pirandello, o magari dal celebre saggio di Lawrence sul Mastro-don Gesualdo, concetti tutti instancabilmente chiosati, come sappiamo, da Pirandello e la Sicilia a La corda pazza. Quel che ci preme sottolineare, invece, è che il nesso tra sentimento siciliano della famiglia e «sentire mafioso» si giuochi sul tavolo della letteratura: a dimostrare, ancora una volta, il continuo lavoro di interpretazione e demistificazione dell’intera tradizione letteraria isolana. Qui sembra quasi che Sciascia voglia richiamare in aenigmate, a verificare e certificare la «breve esperienza» di Bellodi, quei testi siciliani che nella famiglia, come abbiamo già detto, avevano ravvisato la cellula tumorale capace di condurre in metastasi tutto il corpo sociale: I Viceré (1894) di Federico De Roberto, L’esclusa (1894), Il turno (1895) e I vecchi e i giovani (1913) di Luigi Pirandello, Don Giovanni: in Sicilia (1941), Il bell’Antonio (1949) e Paolo il caldo (1955) di Vitaliano Brancati. Parte di quella stessa tradizione che Sciascia aveva riattivato nel racconto Il quarantotto, ma ora rivisitata nel segno del “familismo amorale” e per la prima volta in raccordo con certi tratti della mentalità mafiosa. Abbiamo ora tutti i dati per esaminare la figura del grande antagonista di Bellodi, don Mariano Arena, per comprendere il valore simbolico del suo scontro col capitano. Prima di entrare nell’ufficio di Bellodi, con lo sguardo inespressivo sotto le

32.  Ivi, p. 461.

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palpebre grevi, lo avevamo già incontrato, benché ancora senza nome, spiato dal narratore mentre, dialogando con un più giovane ed inesperto interlocutore, forniva un saggio della sua concezione del mondo. In giuoco c’è la definizione di «sbirro» e «cornuto». Gli «sbirri» – nota don Mariano – non sono tutti uguali: ci sono gli «stupidi» e i «galantuomini», quelli che si lasciano corrompere a «casse di pasta e damigiane d’olio», ma anche lo «sbirro» vero, colui che «si fa sbirro perché sbirro era nato», come quel maresciallo che al tempo di Mori, nonostante fosse amico di famiglia, lo arrestò senza alcun riguardo: «tu ti illudi che lui ti veda come una persona gentile, di buoni sentimenti, a prova d’amicizia; e invece, per lui, tu sei sempre quello che risulta dalle carte che tiene in ufficio». Accanto allo «sbirro nato», c’è pure il «cornuto nato», quello che, scoprendo «le tresche che gli fanno in casa», «fa finta di niente o con le corna si dà pace»33. I tratti di questa rozza e sprezzante antropologia, che avevamo già riscontrato nelle parole di Rasconà, conducono però don Mariano, circa fascismo e democrazia, ad una curiosa e perentoria filosofia della storia. Dopo che il suo giovane amico gli ha fatto notare che oggi, senza più il fascismo, è il popolo a comandare, don Mariano osserva: «Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera solo alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna», e ciò nella convinzione che «non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi»34. La fredda astuta violenza, la spietatezza, il gusto per l’azzardo calcolato, la prontezza di mente e di mano di don Mariano, «tutte le qualità che lo avevano portato al rispetto e alla paura di cui era circondato, a volte parevano ritirarsi da lui come il mare dalla riva, lasciando alla sabbia de33.  Ivi, pp. 423-424. 34.  Ivi, pp. 424-425.

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gli anni vuoti gusci di saggezza». Una saggezza che assumeva, agli occhi ammirati del giovane, il carattere di una vera e propria «filosofia», nella quale termini come “popolo” e “democrazia” non si rivelano altro che «cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità»35. Don Mariano non ha dubbi: «Un bosco di corna, l’umanità», sopra cui se la spassano a passeggiare preti, politici, e gente come lui ed il suo interlocutore. Certo, il rischio «di mettere il piede in fallo» è grande, ma altrettanto grande è il piacere di sovrastare quella misera umanità, nell’azzardo di una scommessa che tiene alto il concetto di sé, quel concetto che sancisce un certo onore del vivere: «anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno; e chi lo porta in testa è un cornuto… La soddisfazione, sangue di Dio, la soddisfazione: mi va male, muoio, ma siete dei cornuti»36. Questa stessa sicurezza, questo stesso disprezzo don Mariano ostenta con il capitano, in nulla arretrando, su niente cedendo, neanche quando è incalzato dalla logica stringente di Bellodi, conti bancari e denuncia dei redditi alla mano, a dimostrare il carattere certamente illecito dei suoi profitti. E ciò in un dialogo che non è solo scontro di diverse concezioni del mondo, ma traduzione di opposte nozioni del mondo, veramente opposte questa volta, non come nel caso di Comandè e di Loschiavo. Ma andiamo con ordine. Don Mariano sta parlando delle categorie in cui si divide l’umanità: pochissimi «gli uomini», pochi «i mezz’uomini», tanti gli «ominicchi», «che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi», moltissimi «i pigliainculo» e «i quaquaraquà», «quelli che dovrebbero vivere con le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre». A questo punto, tra i due uomini, c’è 35.  Ivi, p. 425. 36.  Ivi, pp. 425-426.

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una sorta di «saluto delle armi», di reciproco riconoscimento: «“Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…” “Anche lei” disse il capitano con una certa emozione». Il disagio provocato da tale ammissione coglie subito Bellodi, che ricorda, a propria scusante, le tante volte in cui aveva stretto le mani ad onorevoli e ministri collusi, «sui quali don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere un uomo». Così, ora, gli appariva il capomafia: Al di là della morale e della legge, al di là della pietà, era una massa irredenta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà: e come un cieco ricostruisce nella mente, oscuro ed informe, il mondo degli oggetti, così don Mariano ricostruiva il mondo dei sentimenti, delle leggi, dei rapporti umani.

Del resto, quale altro concetto poteva avere dei rapporti umani e della giustizia in un mondo in cui «la voce del diritto era stata sempre soffocata dalla forza»37? Muovendo da queste riflessioni di Bellodi, c’è stato chi, come Carlo Muscetta, ricordando una sua lezione siciliana del 1971 dedicata a Sciascia, ha potuto scrivere: «Voglio solo ricordare che molti anni prima di recenti polemiche e pesanti accuse, da cui non mi sembra si sia ben difeso, io qualificavo la sua una “letteratura della mafia” non solo per l’argomento, ma per un “riconoscimento della grandezza della mafia”»38. Sebastiano Vassalli, proprio partendo dalla figura di don Mariano, arrivava addirittura a questa conclusione: io non credo che l’infelicissima sortita di Sciascia contro i «professionisti dell’antimafia» sia stata un lapsus. Credo invece che anche un intellettuale e uno scrittore come Sciascia, che tanto ci ha aiutato a comprendere la cultura mafiosa, posto di 37.  Ivi, pp. 466-467. 38.  C. Muscetta, Don Chisciotte in Sicilia, Edizioni del Prisma, Catania 1987, p. 12.

233 fronte ad una scelta ultimativa tra Stato e mafia abbia subito la forza di fascinazione del Mostro, e abbia finito – non so quanto consapevolmente – per seguirne il richiamo.39

L’osservazione, ferma al punto di vista ancora ellittico di Muscetta, ha una sua lampante, per quanto accecante, verità, ma svolta poi nel senso di Vassalli, non può non declinarsi in un modo della mistificazione, arrivando al paradosso, amaro e doloroso paradosso, di una contiguità di Sciascia al «sentire mafioso». Vero è che Bellodi, vicario dell’autore, approdi per un attimo ad una sorta di nuda ed aspra zona franca ove persino un don Mariano può apparirgli fratello. Vero pure che in tale zona, «al di là della morale e della legge, al di là della pietà» non dimentichiamolo, e cioè nella dimensione assolutamente eslege delle passioni, riesca a ravvisare un qualche senso di giustizia, per quanto rozzo e grossolano, in un criminale come don Mariano. Ma non si deve perdere di vista, come abbiamo mostrato, quanto lontani siano dalla concezione del capomafia l’idea di Stato, il concetto di diritto e, soprattutto, la nozione di umanità40 in cui Bellodi crede. C’è comunque, nel colloquio tra i due, un passaggio che può vanificare qualsiasi dubbio. È quello in cui don Mariano arriva addirittura, per un attimo, a concepire la legge nell’ottica di Bellodi, differenziandosi nettamente dal don Giovanni Malizia di Comandè o dal Turi Passalacqua di Loschiavo. Bellodi si è subito ripreso da quel suo momentaneo cedimento emotivo: “Perché sono un uomo: e non un mezz’uomo o addirittura un quaquaraquà?” domandò con esasperata durezza.

39.  S. Vassalli, Signora Mafia con gli occhi di Medusa, cit. 40.  «“E le pare cosa da uomo ammazzare o fare ammazzare un altro uomo?” “Io non ho mai fatto niente di simile, Ma se lei mi domanda, a passatempo, per discorrere di cose della vita, se è giusto togliere la vita a un uomo, io dico: prima bisogna vedere se è un uomo”» (L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit., p. 468).

234 “Perché” disse don Mariano “da questo posto dove lei si trova è facile mettere il piede sulla faccia di un uomo: e lei invece ha rispetto… Da persone che stanno dove sta il brigadiere, molti anni addietro io ho avuto offesa peggiore della morte: un ufficiale come lei mi ha schiaffeggiato; e giù, nelle camere di sicurezza, un maresciallo mi appoggiava la brace del suo sigaro alla pianta dei piedi, e rideva… E io dico: si può più dormire quando si è stati offesi così?”.41

La differenza tra il capitano Bellodi e il procuratore di Comandè o il pretore di Loschiavo è evidente: in primo luogo, in Bellodi non c’è mai un riconoscimento dei meriti del capomafia, della sua autorità morale, non c’è mai, insomma, la giustificazione anche minima del suo operato; in secondo luogo, Bellodi non deflette mai da un nitido concetto di legge, quella di uno Stato nato dalla Resistenza, tanto meno nei momenti in cui un atteggiamento autoritario, violento, potrebbe essergli utile. Parimenti, don Mariano quando riconosce che Bellodi è un uomo, lo fa certo dal suo punto di vista antropologico, ma intravede perfettamente la differenza che c’è tra la legge dello Stato repubblicano e quella dello Stato fascista, i cui rappresentanti, nel totale sprezzo degli imputati, non esitavano ad avvalersi della tortura. Ben diversa, come abbiamo visto, la nozione legge che hanno don Giovanni Malizia e Turi Passalacqua, tutta funzionale a quella cultura dell’omertà celebrata nei rispettivi romanzi. Quel che Vassalli dice di Sciascia si potrebbe dirlo, a buon diritto, di Loschiavo. Se, dunque, nel Giorno della civetta avvicinamento ci può essere, non è appunto su un piano civile e politico che va inteso, ma secondo un certo sentimento, per così dire, religioso, di una religione del vivere42. Nessuna con41.  Ivi, p. 467. 42.  Su questi aspetti cfr. il nostro Il diritto impossibile: un’ipotesi su Leonardo Sciascia, in «Nuovi Argomenti», n. 42, aprile-giugno 1992, pp. 29-39.

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sentaneità di valori, dunque, tra i due personaggi: in quella nuda ed aspra zona franca in cui avviene l’incontro con don Mariano, Bellodi ha riconosciuto un individuo il quale, pur scegliendo il crimine, sa perfettamente che in tale azzardo è in giuoco tutto il suo essere, nel segno di una scommessa esistenziale che tiene alta la sua intera dignità di uomo. Come se dentro il guscio criminoso di questa vicenda umana si potesse estrarre un nocciolo razionale: nella convinzione che tale «massa irredenta di energia», questa «massa di solitudine», sicura redenzione, altra socializzazione avrebbero trovato in un mondo ove il diritto e la giustizia non fossero stati soffocati dalla violenza. In un diverso contesto storico, insomma, don Mariano sarebbe potuto diventare il colonnello Carini de Il quarantotto o il Diego La Matina di Morte dell’inquisitore (1964): tutti siciliani che, pur da differenti e spesso opposte sponde, sembrano attingere ad un medesimo sentire quanto alle elementari ed essenziali partite della vita. Siamo al nodo della nostra argomentazione, il cui scioglimento ci concede di comprendere per intero la dichiarazione di Sciascia a Lajolo, con cui abbiamo iniziato l’analisi sul romanzo. Diciamolo: questo interrogatorio, in cui due uomini nella loro nuda solitudine finiscono per confrontarsi su questioni fondamentali come la giustizia e il torto, la verità e la menzogna, la vita e la morte, apre il romanzo ad un nuovo ordine di considerazioni appena tangenziale al discorso sin qui svolto, ma non meno importante. Quell’ordine di considerazioni che tocca la muta e spietata sintassi del Potere, nella sua metastorica dialettica, già affacciatosi nelle opere precedenti dello scrittore, ma destinato a trovare articolata e decisa consacrazione in romanzi come Il contesto e Todo modo. Quell’ordine di considerazioni, insomma, per cui Il giorno della civetta acquista spessore, per così dire, allegorico, e si fa, appunto, “essemplo”, e che noi abbiamo già svolto nel nostro Storia di Sciascia a cui rimandiamo. A noi interessa dire qui che col Giorno della civetta, il

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nostro scrittore entra da protagonista in quella contro-storia d’Italia letteraria e civile le cui fasi salienti abbiamo descritto nel precedente capitolo. Di tale contro-storia, dopo Le parrocchie di Regalpetra e Gli zii di Sicilia (1958), questo romanzo è una tappa fondamentale: verranno poi A ciascuno il suo e Il contesto, e quella nozione di mafia che abbiamo qui indagato andrà conquistando più allusiva definizione, levitando in una più ampia e inquietante prospettiva metaforica, oltrepassando di troppo, però, l’orizzonte del nostro discorso.

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Capitolo VIII

Una galassia in espansione

1. Prima e dopo Sciascia Non creda il lettore che, in quel torno di tempo che va dall’ultimo romanzo di Giuseppe Guido Loschiavo al Giorno della civetta di Sciascia, siano mancate opere letterarie dedicate alla mafia. E si tratta, talvolta, di romanzi di un certo valore e di notevole interesse, come nel caso di Sette e mezzo, apparso per i tipi di Flaccovio nel 1952, scritto da Giuseppe Maggiore, un altro giurista siciliano, di formazione gentiliana, stando almeno a quel che dice Altomonte, poi anche rettore dell’Università di Palermo, già autore di testi narrativi per Treves e Garzanti1. L’opera, come quella di Comandè imperniata sugli anni cruciali del passaggio dai Borboni alla dinastia sabauda, va però ad incrociare, con dignità letteraria e robustezza ideologica, quella grande tradizione che da De Roberto, come abbiamo visto, arriverà sino a Tomasi di Lampedusa, Sciascia e Consolo: il titolo, abbastanza emblematico, allude all’insurrezione palermitana del 1866, battezzata, appunto, del “sette e mezzo”, dal numero dei giorni che durò. Ma se certi atteggiamenti nel

1.  A. Altomonte, Mafia briganti camorra e letteratura, cit., p. 23.

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modo di affrontare la questione mafiosa sono simili, come vedremo, a quelli di Comandè, il romanzo di Maggiore ha sicuramente più forti analogie con I vecchi e i giovani. Vasto e frondoso come il romanzo di Pirandello, ricco di inserti saggistici di carattere storico-filosofico, il libro ruota attorno alle vicende della famiglia Cortada, vicende attraversate da tensioni ideologiche di natura non diversa da quelle della famiglia Laurentano: il primogenito, don Fabrizio, legittimista e clericale, è il capo a Palermo del partito borbonico e congiura per il ritorno sul trono del vecchio sovrano; il secondo è un mistico che, dopo una sfortunata parentesi ecclesiastica, diventa filantropo e socialista, legge Rousseau e Saint Simon, conosce nelle sue peregrinazioni in Austria e Germania Marx e Bakunin, si mette quindi in testa di collettivizzare il suo feudo, trasformandolo in una specie di falansterio; il terzo, don Ramiro, eroe rivoluzionario, dopo l’esilio a Malta muore con Garibaldi in Sicilia, lasciando come erede il giovanissimo Goffredo, avuto da una donna di facili costumi, fiero e indipendente, il quale seguirà, politicamente, le orme del padre; su tutti fa sentire la sua influenza la vecchia madre, donna Ortensia, esprit fort di formazione libertina, adoratrice di Voltaire, regina di anticlericalismo e irriverenza, pazza d’affetto per il giovane nipote; personaggi non di contorno sono anche la bella e giovane moglie di don Fabrizio, Teodora, e il furbissimo e reazionario don Bastiano Assardi, cappellano privato della famiglia Cortada. L’aria, come si vede, è quella del grande romanzo storico isolano. E la mafia, in tale quadro, non poteva non giuocare la sua parte. Così, nel giudizio del personaggio più lucidamente politico del romanzo, don Assardi, il quale sta misurando le forze del partito borbonico: «La mafia è sempre ligia al governo… La mafia è sempre col più forte. Ma se i più forti siamo noi, la vedrete passare di colpo dalla nostra parte. La storia c’insegna che le compagnie di ventura servirono sempre i signori

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più potenti, coloro che le pagarono meglio»2. È lo stesso Maggiore a descriverci con una certa pedanteria il contesto storico entro cui la mafia esercita il suo potere. L’economia rurale siciliana, nota lo scrittore in una delle non poche digressioni, «riposa sul caratteristico binomio: latifondo e gabellotto: due istituzioni, legate l’una al meriggio, l’altra al tramonto del regime feudale»3. Il giudizio di Maggiore sul latifondismo non è del tutto negativo se non per gli anni della sua decadenza: Si calcola che due terzi delle terre dell’isola, fino a mezzo il Settecento, fossero infeudate alla nobiltà […]. Fu un bene? fu un male? Non c’è dubbio che a quel primo accentrarsi della proprietà terriera in poche mani si connetta una delle più salienti cagioni del decadere dell’economia nell’isola. Si verrebbe meno tuttavia al dovere di equanimità storica, se ogni merito si disdicesse all’originario regime feudale.4

Il vero obiettivo polemico di Maggiore è, infatti, l’istituzione della gabella: Dall’aspetto giuridico il gabellotto è niente più che un affittuario: colui che prende in fitto, o gabella, un fondo altrui corrispondendo un annuo canone. In realtà è un’istituzione sociale con riflessi politici: simbolo di una forma di economia crepuscolare legata alla rovina della nobiltà, elevazione di una nuova classe destinata a divenire despota dell’intera vita rurale.5

Si potrebbe credere, a questo punto, che Maggiore fornisca un’interpretazione della figura del gabellotto tale da anticipare quella fornitaci da Tomasi nel personaggio di Calogero Sedàra. Niente di più sbagliato: per Tomasi il ceto degli inter-

2.  G. Maggiore, Sette e mezzo (1952), Flaccovio, Palermo 1963, p. 78. 3.  Ivi, p. 185. 4.  Ivi, p. 186. 5.  Ivi, p. 187.

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mediari tiene sì, nella sua zoologia araldica, il posto delle iene e degli sciacalli che avevano soppiantato i vecchi gattopardi, ma svolge comunque una funzione di modernizzazione, assolve in qualche modo ad una sua rivoluzione borghese, tanto è vero che don Calogero non è solo uno spregiudicato profittatore, ma anche un affarista che sa far fruttare molto meglio il capitale di quanto non sappia il principe di Salina; Maggiore, invece, assegna a questo ceto una funzione esclusivamente parassitaria, legata cioè alla fase di decadenza del latifondo, distruttrice e non produttrice di ricchezza reale. Siamo, insomma, a una visione del gabellotto che è ancora precisamente quella del prefetto Mori, così come l’abbiamo già ravvisata negli Inesorabili di Loschiavo: Gastaldo sovente di tenute signorili, piccolo proprietario, o addirittura contadino risalito, il gabellotto ha, prima di esser tale, rabbruscolato un peculio, facendo da mediatore nella vendita di greggi o di granaglie, o si è accenciato e arricchito a furia di scroccherie e bindolerie, di prepotenze e di ribaldaggini, in combutta con la peggiore delinquenza, finché riesce a prendere in conduzione una terra e, in questa, a poco a poco diviene l’alter ego del padrone. Sprovvisto di cospicui capitali, egli non ha altro programma che di sfruttare e smungere il fondo sino all’inverosimile: non conosce altra forma di cultura che quella estensiva, alternando la semina di cereali con i pascoli, impoverisce l’humus con inconsulti ringrani, trascura ogni opera di bonifica, disbosca spietatamente le zone alberate, disargina torrenti, rovina, in luogo di accrescere, la viabilità, con le continue usurpazioni delle trazzere demaniali.6

In tale quadro, la mafia, il referente primo di tutti i gabellotti che sono o «affiliati» o «clienti» di essa7, esercita con sicurezza ed implacabilità una funzione d’ordine e di conservazione.

6.  Ivi, pp. 187-188. 7.  Ivi, p. 220.

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Quando il socialisteggiante don Federico decide di fondare quella specie di falansterio che è la colonia Astrea, la mafia non ne gioisce, ma attende, sicura del fatto suo, che tutto si compia: Il vero veleno lo masticava intanto la mafia. […] Che c’era da fare? Nient’altro che attendere, per il momento. Pazienza, pazienza! dicevano i grossi gerarchi, i mafiosi di alto rango, ai subordinati, che si lamentavano del torto patito. Verrà il giorno anche per quei galletti spennacchiati.8

E il giorno della riscossa mafiosa, infatti, arriva. Don Federico vede rapidamente precipitare il suo progetto utopico, sotto la spinta dell’invincibile individualismo di quei contadini siciliani a cui aveva voluto dare fiducia ma che, ora, mettono profondamente in crisi la sua ottimistica antropologia russoiana. Non c’è che una soluzione: riprendersi il feudo collettivizzato, ricorrendo all’aiuto di don Salvatore Calò, il vecchio e cieco capomafia nelle cui fattezze non possiamo non riconoscere quelle di don Giovanni Malizia, e come Malizia paragonato ad un re omerico. Si tratta di una pagina in cui il Maggiore, benché nemico fiero della mafia dei gabellotti, scivola nell’apologia: C’era nella sua espressione qualcosa di solenne e di maestoso come nel re omerico, che amministrava giustizia sotto un albero o a ridosso di una colonna. Da cinquant’anni egli dettava legge – sopra ogni legge – nel suo regno; e la sua autorità morale era siffatta, che sovente si ricorreva a lui da oltre i confini per sentire il responso della sua saggezza in questioni che interessavano tutta l’isola. Non vantava nella mafia tradizioni di famiglia: era anzi il fondatore di una nuova dinastia, che aveva scalzato la precedente. Salendo, col suo coraggio, con la sua risolutezza, con l’amore del rischio e il disprezzo di ogni autorità, tutti i gradi dell’invisibile gerarchia, si era guadagnato il bastone di maresciallo.9

8.  Ivi, p. 224. 9.  Ivi, p. 241.

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Nel ritratto del mafioso, dalla personalità vigorosa e incrollabile, Maggiore non esita a riattivare la leggenda di colui che diventa brigante per vendicare l’omicidio del padre, non dimenticando mai, nell’esercizio di una giustizia privata, il rispetto di un rigoroso codice d’onore particolarmente attento alle ragioni degli oppressi: Datosi alla macchia, per sottrarsi a una grave condanna riportata in seguito a un omicidio commesso in persona dell’uccisore del padre, aveva vissuto per qualche tempo la vita del brigante: di un brigantaggio sui generis esercitato non senza spirito di giustizia e di cavalleria, inesorabile con i prepotenti, generoso con i deboli. Ricercato dalla polizia, si era deciso un giorno a costituirsi per risparmiare rappresaglie alla sua famiglia. Scontata gran parte della pena (il resto gli era stato rimesso, a titolo di grazia, per la sua buona condotta) aveva fatto ritorno in paese circondato da un alto prestigio. Non apparteneva più al ruolo attivo della mala vita, anche perché, in carcere, per effetto di un glaucoma aveva perduto la vista. Conservava però un’autorità indiscussa nelle sfere direttive, che si era accresciuta e consolidata sempre più, in modo di farne il capo dei capi, il generalissimo dell’associazione. Cieco, egli vedeva tutto; eternamente confinato in casa, era presente in ogni luogo; la sua giustizia era infallibile, ogni sua sentenza inappellabile. […] Bastava pronunziare il nome di don Turiddu (e nessuno si sognava di abusarne), perché le cose andassero come dovevano andare.10

Siamo di fronte ad una specie di Dio biblico: il suo carisma è pari, in tutto e per tutto, a quello del Giovanni Malizia di Comandè. Ci pare abbia ragione Mazzamuto: Maggiore fornisce una rappresentazione negativa della mafia come garante di un certo immobilismo sociale, ma tale rappresentazione finisce poi per essere contraddetta dall’apprezzamento velatamente fascista dell’efficacia della forza per ristabilire l’ordine nel feu10.  Ivi, pp. 241-242.

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do11. Un apprezzamento che va ad incrociare quella particolare concezione antropologica del mafioso che finisce per scalzare, in don Federico, le antiche convinzioni socialistiche, i giovanili propositi di portare la felicità tra gli uomini: – La felicità è in cielo – disse il cieco, levando in alto il dito – è lassù. Qui siamo tutti infelici. Più o meno: ma tutti. Lei vuol far felice il contadino. Pazzie! Ha mai sentito un contadino che sia contento del tempo che gli manda Domineddio? […] Gli date la terra. Credete di averlo fatto felice? Anzitutto la terra, da che mondo è mondo, è stata sempre dei padroni. Solo il padrone può dar lavoro a tutti. Avete dato la terra al contadino: egli non apprezzerà mai il bene che gli avete fatto. Dirà che era un suo diritto e vi odierà. Perché il beneficato ha sempre in astio il benefattore. Così è scritto. Ma è scritto pure che il villano si tratta come il cardo selvatico: prima gli si dà addosso col piede, e poi lo si sbarbica. Se no, sentirete che spine!12

Il quadro ideologico del romanzo non sarebbe disegnato del tutto, se non aggiungessimo un altro elemento che, ancora una volta, rimanda al paradigma elaborato da Comandè: la presenza, accanto a quella cavalleresca di don Salvatore, di una mafia losca ed inaffidabile, quella rappresentata da Turi Miceli da Monreale, vecchio confidente della polizia borbonica, poi collaboratore di quella sabauda, il quale muore nel tentativo di liberare i prigionieri della Vicaria, proprio durante i giorni della rivolta che dà il titolo al romanzo. Non dimentichiamo che l’opera di Giuseppe Maggiore appare nel 1952, per quanto allunghi e dirami le sue radici ideologiche fin dentro il passato del regime fascista. Tale anacronismo intellettuale e sentimentale non è, infatti, da sottovalutare. Gli anni che precedono la pubblicazione del romanzo sono infatti quelli del grande movimento dell’occupazione delle terre da parte dei contadini 11.  P. Mazzamuto, La mafia nella letteratura, cit., pp. 43-44. 12.  G. Maggiore, Sette e mezzo, cit., p. 243.

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isolani, anni di una grande presa di coscienza collettiva, ben più matura e consapevole di quella che aveva visto nascere l’esperienza dei Fasci nel biennio 1893-94 di cui ci ha raccontato Pirandello: e se uomini di lettere come Buttitta e Consolo avrebbero intrapreso ben altre strade, abbracciato ben altre cause, non si può tacere il fatto che una posizione come quella del Maggiore, molto distante dai sontuosi e disincantati esiti metafisici che saranno poi di un Lampedusa, rispondeva perfettamente alle tentazioni liberticide e autoritarie di parte della classe dirigente isolana. Prima di passare a Buttitta e Consolo, ci pare opportuno, però, accennare ad una singolare pattuglia di testi che appaiono, lo ripetiamo, in anni di grande impegno civile, ma che di quell’atmosfera non ritengono, all’apparenza, nessun umore. Pensiamo, innanzi tutto, al romanzo di una scrittrice ingiustamente dimenticata come Livia De Stefani, La vigna di uve nere (1953), un libro che ebbe la cordiale accoglienza di critici come Eugenio Montale e Luigi Russo. Vi si racconta, ispirata ad una notizia di cronaca, la vicenda della famiglia Badalamenti, dominata dal mafioso Casimiro, un padre tirannico, violento ed irascibile, che pretende di programmare la vita della moglie Concetta, ex prostituta, e dei figli Nicola e Rosaria. La qualifica di mafioso che tocca a Casimiro è però secondaria nello sviluppo del romanzo: essa pare servire, con altri elementi di arcaica e quasi archetipica potenza, a sollevare la storia dentro un’aura immobile e arcana da tragedia greca, quella in cui i figli finiscono per pagare, dentro un destino inesorabile di colpa e castigo, le colpe dei genitori. Nicola e Rosaria consumeranno un amore incestuoso: il primo pagherà col carcere, la seconda invece, quasi spinta dal padre che vuole salvaguardare il suo onore, si suiciderà13. Dentro una stessa atmosfera di ancestra13.  Non sarà inutile ricordare che interamente dedicato alla mafia è l’ultimo libro di L. De Stefani, La mafia alle mie spalle, Mondadori, Milano 1991.

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le magia, ma in una più accentuata luce folklorica e religiosa, i due romanzi dello scrittore agrigentino Antonio Russello, La luna si mangia i morti (1960) e La grande sete (1962): in questo secondo, che racconta la storia di un mafioso, Mimì Lo Bue, il quale fa uccidere un commissario per poterne godere la moglie, l’accesa e riarsa lussuria del protagonista, la sua smisurata vitalità, vengono spiegati in termini per così dire geoclimatici, antropofisici, a documentare la grande longevità dell’ideologia sicilianista.

2. La mattanza dei sindacalisti: da Buttitta a Consolo Abbiamo già detto quali fossero, in quegli anni Cinquanta, le speranze di rinnovamento che agitavano molti intellettuali siciliani, su che strada di impegno si fossero incamminati, non di rado spinti da un sentimento di progresso agitato quasi da fuoco religioso. Speranze di rinnovamento che, sul finire del decennio precedente, erano state più volte contraddette, ma che fieramente si erano riaccese. Se nel triennio che va dal 1945 al 1948 muoiono, per mano della mafia, quasi quaranta sindacalisti ed esponenti del movimento contadino, di cui undici nella strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 voluta da Salvatore Giuliano, il decennio successivo conosce un movimento di denunzia, un fervore di opere sul mezzogiorno d’Italia che non aveva precedenti: possiamo citare il bellissimo viaggio nell’isola di Carlo Levi Le parole sono pietre (1955), avvenuto tra il 1951 e l’anno di pubblicazione del libro, ma anche opere come Un popolo di formiche (1951) di Tommaso Fiore, Contadini del Sud (1954) e L’uva puttanella (1955) di Rocco Scotellaro, I minatori della Maremma (1956) di Carlo Cassola e Luciano Bianciardi, e ovviamente Le parrocchie di Regalpetra (1956) di Leonardo Sciascia. Si prepara, insomma, quel terreno di coltura da cui verranno fuori i libri-inchiesta, i rac-

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conti di forte impianto storico-sociologico e di grande impatto politico come Banditi a Partinico (1955), Inchiesta a Palermo (1956) ed i Racconti siciliani (1963) di Danilo Dolci, Mafia e politica 1943-1962 (1962) di Michele Pantaleone, Inchiesta in Sicilia (1968) di Guglielmo Lo Curzio, Gente di rispetto (1975) e Prima che vi uccidano (1976) di Giuseppe Fava. C’è un momento del libro di Carlo Levi che testimonia assai bene, sintetizzandone sdegno e dolore, aspirazioni e speranze, di quella reazione etica e civile che movimentò le migliori intelligenze di quegli anni. Levi parla della morte di un giovane di diciassette anni schiacciato da un masso in una miniera del bacino di Lercara: È un fatto frequente: anche il padre del morto aveva avuto una gamba schiacciata da una frana, nella zolfara. Alla bustapaga del morto venne tolta una parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata; e ai cinquecento minatori venne tolta un’ora di paga, quella in cui avevano sospeso il lavoro per liberarlo dal masso e portarlo, dal fondo della zolfara, alla luce. Il senso antico della giustizia fu toccato, la disperazione secolare trovò, in quel fatto, un simbolo visibile, e lo sciopero cominciò.14

In questa pagina, come scrisse Vincenzo Consolo nella prefazione ad un’edizione scolastica, si rendeva visibile «la nuova coscienza e l’ingresso nella storia del mondo contadino siciliano»15. Non a caso, un altro momento alto del libro, ed al primo complementare, è l’incontro con la fiera Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale ucciso dalla mafia il 16 maggio 1955, la madre siciliana che invece di chiudersi in una muta ed ancestrale disperazione, parla e giudica, e tutto accende della fiamma del suo socialismo.

14.  C. Levi, Le parole sono pietre (1955), Einaudi, Torino 1979, p. 64. 15.  Ivi, p. X.

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E al sindacalista, un amico di Carlo Levi, il poeta dialettale Ignazio Buttitta, dedicherà il Lamentu pi Turiddi Carnivali (1956), l’intenso poemetto scritto come su un canovaccio di antico cantastorie, ma dentro una bruciante coscienza politica. La contrapposizione tra Turiddu ed i mafiosi che ne hanno voluto la morte è manichea: da una parte questo «ancilu», ma senza ali, che «non era santu e miraculi facìa» ed aveva solo «l’amuri» come «sò capitali / e sta ricchizza a tutti la spartìa»16, dall’altra la mafia che «non ha fede cristiana / e nemmeno fede umana»17. Non v’è dubbio che questa di Buttitta è una delle primissime opere in cui la mafia viene denunciata senza ambiguità, senza cedimenti sicilianistici, ma in termini, forse, fin troppo astratti. È, infatti, tale astrattezza il limite poetico e, insieme, ideologico di questo poemetto a tratti assai bello. Basti solo pensare a qualcuno dei versi in cui si celebra il socialismo, in cui Buttitta cede talvolta a quello che ci pare il suo punto debole, una qualche tentazione tribunizia, un qualche eccesso oratorio, ma si può anche citare la figura della madre, certamente ispirata a quella ben altrimenti tratteggiata da Levi, la quale chiude il Lamentu con queste parole, che riportiamo, per comodità del lettore, tradotte in italiano: «Figlio, te l’ho rubata la bandiera, / madre ti sono e compagna sincera»18. Il fatto è, però, che tale astrattezza è postulata dallo stesso messianismo di Buttitta: «Turiddu Carnivali nnuminatu / e comu Cristu muriu ammazzatu»19. Se, infatti, la rappresentazione perde in profondità storica, ciò è dovuto soprattutto all’impostazione palesemente cristologica del poemetto, ove tutto è trasposto in una luce quasi escatologica. 16.  I. Buttitta, Lamentu pi Turiddi Carnivali (1956), in Id., Il poeta in piazza, Feltrinelli, Milano 1974, p. 105. 17.  Ivi, p. 109. 18.  Ivi, p. 114. 19.  Ivi, p. 105.

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Tutto ciò trova una conferma nel poemetto La vera storia di Salvatore Giuliano (1963), dedicato al celebre bandito autore della strage di Portella della Ginestra, spesso braccio armato della mafia e del movimento separatista, poi dalla stessa mafia liquidato. Come sarebbe possibile il passaggio dal socialismo di Carnevale alla rivolta banditesca di Giuliano, dentro uno stesso paesaggio sentimentale, se non in quanto si tratti di stazioni di uno stesso percorso astrattamente allegorico? Come sarebbe possibile un incontro della vittima Carnevale e del carnefice Giuliano, se non nel segno di un moralismo che ha sacrificato troppo spesso la concretezza storica? È vero che Buttitta nella Vera storia denunzia vigorosamente «l’allianza di li fausi puliticanti cu la mafia»; è vero anche, come scrisse Sciascia in quello stesso 1963, che Buttitta non guarda Giuliano con ammirazione ma con pietà, la pietà, appunto, nei confronti di un figlio di mamma com’era Carnevale20. È altrettanto vero, però, che quando Buttitta contrappone Giuliano ai mafiosi, lo fa attingendo anche a tutto quel bagaglio di luoghi comuni, da noi spesso riscontrati in tanta letteratura apologetica, sul povero cristo che è costretto a diventare brigante, spinto da una forte domanda di giustizia bruscamente risolta in vendetta personale, per una complicazione improvvisamente insorta nel rapporto con le forze dell’ordine. Per quanto lucido sia il giudizio politico di Buttitta, il poeta non riesce a respingere del tutto la leggenda popolare del bandito capace di generosità, e comunque vittima, se non proprio campione di giustizia. Ben diverso è il caso di Vincenzo Consolo. Se prendiamo infatti il racconto Per un po’ d’erba al limite del feudo, pubblicato solo nella I edizione dei Narratori di Sicilia (1967) di Sciascia e Guglielmino, ispirato all’uccisione del sindacalista Carmine Battaglia avvenuta a Tusa, in provincia di Messina, nel 1966, ci accorgiamo subito del diverso spessore storico della pagina. Il 20.  L. Sciascia, La corda pazza, cit., p. 1135.

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racconto si apre con l’immagine di un vecchio, chiuso nel suo atavico silenzio, che indica al probabile forestiero il paesaggio dei Nebrodi e delle Madonie, fino a S. Mauro: come a circoscrivere lo spazio vitale di un mondo refrattario ad ogni trasformazione, un mondo per cui non vale il miraggio di Roma, di Napoli, di quel continente che il forestiero gli indica oltre l’orizzonte marino. Il forestiero, che è poi l’io narrante, è lì perché in quel cimitero, «nel cerchio del muro, nel tabuto fresco di vernice, era Carmine Battaglia, il sindacalista di Tusa ammazzato su una trazzera, una mattina di marzo, con due colpi a lupara, e messo in ginocchioni, con la faccia per terra»21, mort’ammazzato come suo padre nel ’23, quando, dopo averlo ucciso, «gli riempirono la bocca di pietre e fango»22: e ucciso, appunto, perché aveva osato chiedere «un palmo di terra o un po’ d’erba al limite del feudo»23. Quando arriva alla casa di Battaglia, dopo aver attraversato il paese, anch’esso chiuso e immobile, il forestiero trova grande dignità, raccolto dolore, legittima richiesta di giustizia, quelle della bellissima figlia di Battaglia, la quale è premurosamente accanto alla madre muta e paralitica. In queste pagine non scivola neanche una stilla di quella retorica che può inumidire, talvolta, i versi di Buttitta: anche per questo la capacità di comprendere, la forza di penetrazione storico-antropologica, sono di tanto superiori. La denuncia, lo sdegno, la rabbia non sono dichiarati, ma s’imprimono, secchi, nell’evidenza mostruosa delle cose stesse, in quell’atto brutale del cadavere ginocchioni con la faccia a terra che, agli occhi del lettore, esiliano, per ciò stesso, i mafiosi da ogni consorzio umano. Ma Consolo va oltre, non si ferma alla registrazio21.  V. Consolo, Per un po’ d’erba al limite del feudo, in L. Sciascia - F. Guglielmino (a cura di), Narratori di Sicilia, Mursia, Milano 1967, pp. 430-431. 22.  Ivi, p. 431. 23.  Ivi, p. 433.

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ne, quasi da reportage fotografico, di quell’orrore e, insieme, di quella dignità che i familiari della vittima dimostrano. Con uno scatto che sarà tipico di tutta la sua opera futura, a cominciare dallo stupefacente Sorriso dell’ignoto marinaio (1976), lo scrittore cerca l’accelerazione genealogica, tenta l’approfondimento memoriale su quel semplice dato fotografico, rifiuta un approccio semplicemente bidimensionale al quadro appena descritto, anche se non è ancora approdato a quella specie di metrica della memoria, di cui diremo. Tale scatto, propiziato dalla vista dello stemma del paese, è affidato ad un inserto saggistico, folgorante e tra parentesi, tratto da chissà quale cronaca, ed è capace di incatenare la vicenda di Battaglia in una storia di ben più lunga durata, l’unica che può consentire una spiegazione di quel tragico immobilismo: 1860: “In più luoghi, come a Bronte, a Tusa e altrove, i Consigli municipali, costituiti dai Governatori distrettuali, erano composti di elementi della grossa borghesia o dell’aristocrazia di proprietari terrieri, avversi alle rivendicazioni contadine e ai fautori e capi del movimento per la divisione delle terre demaniali”.24

Il riferimento alla situazione del 1860, al perenne protagonismo politico e sociale delle stesse classi, responsabili principali di quell’immobilismo, gettano una luce più intensa su quel delitto di mafia, sulla qualità dell’eresia di Carmine Battaglia. Un immobilismo che, sanzionato dal documento storico, trova finale suggello nella letteratura, testimonianza abbastanza precoce di quello che possiamo definire il circolo ermeneutico consoliano. Si veda il finale del racconto, che quell’immobilismo senza redenzione amplifica dentro il fatalismo quotidiano dei contadini. Il sole è appena tramontato; due preti discorrono «sopra un muretto della strada» mentre passano i contadini che tornano dal lavoro e li riveriscono: 24.  Ivi, p. 432.

251 – Vossía benedica – salutavano. – Benedetto – rispondeva il prete. – Tra loro, si ammazzano tra loro bovari. – Benedetto. Le montagne, là di fronte, erano diventate viola, di un viola tenero, sfumato. Questi Nebrodi, alti di fronte al mare, sono di una bellezza impareggiabile. Ora, con le prime ombre della sera, si udivano per la campagna ringhiare ed abbaiare i primi cani: quei cani orbi, bastardi, che si avventano feroci non appena li sfiora l’odore della carne d’un cristiano.25

Si ammazzano tra loro bovari: per i personaggi di questo mondo chiuso ed immobile, la guerra tra il sindacalista ed i mafiosi non è quella tra un giusto, uno che sogna una vita migliore, ed un’associazione criminale, ma è “guerra degli altri”, che non tocca gli arcaici riti della comunità contadina. Quei cani orbi e ringhiosi, pronti ad azzannare il primo cristiano, diventano qui il correlativo oggettivo di una Sicilia feroce e irredimibile. Il Consolo di Per un po’ d’erba al limite del feudo ha alle spalle soltanto il bell’esordio di La ferita dell’aprile (1963). Ecco perché quando il tema della violenza mafiosa tornerà con evidenza nella sua opera, e cioè nelle Pietre di Pantalica (1988), la sua eziologia si farà più complessa, trovando ancoraggio, dentro una più articolata concezione della storia, nell’abbozzo di un vero e proprio romanzo, quello che governa i singoli racconti, raccolti nella sezione significativamente intitolata Teatro, i quali hanno come protagonisti personaggi della comunità di Mazzarino, grosso centro agricolo tra Licata e Gela, in un arco cronologico che va dagli anni dello sbarco degli americani sino a quelli dell’occupazione delle terre. I racconti in cui si registra la presenza della mafia sono Ratumemi I e II, ma la forza di Consolo è, ancora una volta, proprio l’idea di storia della Sicilia entro cui quella presenza si comprende. Un’idea che il finale del racconto Lo Sherman esemplifica perfettamente.

25.  Ivi, p. 434.

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Sulla strada per Mazzarino, all’improvviso, è apparso un carro armato nemico: i notabili sono in agitazione. Gli occhi dell’autore sono gli stessi dei contadini, che, dalla remota lontananza della loro saggezza, hanno osservato tutta la scena, hanno appunto visto i notabili farsi timidamente incontro a quelli che sono già diventati liberatori: I contadini, su per i colli, avevano spiato quella scena, avevano riconosciuto i loro tre paesani montati sopra il carro, e si convinsero che tutto era finito, finiti i fuochi, i botti, gli aeroplani, che la guerra era passata e che potevano tornare nel paese. Ma si convinsero anche che quella pomponella dei tre compaesani, di Divìco, di D’Aléo e del padre Cannarozzo – andare per primi incontro ai Mericani, i fazzoletti bianchi, il parlamento e poi le regalìe – era quella di sempre, che sempre ripetono baroni, proprietari e alletterati con ognuno che viene qua a comandare, per aver grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere i villani.26

In tale storia, concepita dal punto di vista dei villani, quella dei mafiosi di Ratumemi I e II è una forza sociale fondamentale perché l’iniquità e l’ingiustizia, che a danno di essi si consuma, abbia la durata dell’eternità. Il Blocco del Popolo ha appena vinto le elezioni, i giovani leader percorrono il Corso avanti e indietro per dispetto degli avversari: “Una sventagliata di mitra, ecco quel che ci vorrebbe! Guardateli!… Proprio ora che sono a tiro tutti quanti… Ta-ta-tatà e, in un attimo, ci si potrebbe liberare di questi scalzacani” vociava don Turiddu Bàrtoli da sopra il suo balcone coi campieri schierati alle sue spalle. In testa, angelo custode, mignatta e protettore, don Peppino, Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione, compare dello Scebba, altro capo di Butèra.27

26.  V. Consolo, Le pietre di Pantalica (1988), intr. di G. Turchetta, Mondadori, Milano 1990, pp. 20-21. 27.  Ivi, pp. 44-45.

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Ma il fatto è che a sparare sui villani non saranno questi mafiosi, succhiasangue dei padroni e, insieme, garanti del loro potere. Saranno invece i carabinieri, i rappresentanti delle forze dell’ordine, che per Consolo rimane sempre un ordine “di classe”, un ordine che coincide col disordine dell’ingiustizia, lo stesso ordine a cui provvedono, nei momenti di ordinaria amministrazione, appunto, i mafiosi. Totò La Marca, il capo degli occupanti, si richiama alla legge appena promulgata dal nuovo Stato italiano che prescrive l’assegnazione delle terre incolte alle cooperative dei contadini. Il colonnello dei carabinieri fa notare che la loro è violazione di proprietà, mancando il decreto del prefetto; sotto gli occhi impassibili degli uomini dai baschi neri che scrutano di lontano, l’occupazione va avanti con i contadini che resistono ad oltranza; la situazione precipita verso il suo tragico esito, quando il maresciallo minaccia di far sparare: “Qua, a me spari, a me!” gli gridò il La Marca balzando su, aprendosi la giacca. “Fuoco!” ordinò il maresciallo. Ma i fucili scansarono il La Marca e colpirono alla cieca i dimostranti. Feriti crollarono per terra. Le donne cominciarono ad urlare. E spuntarono allora armi d’ogni parte, col fuoco si rispose al primo fuoco. Cadde ferito il maresciallo. I contadini, superata la barricata, s’abbatterono sui militari disorientati, li disarmarono, e chiusero prigionieri nel magazzino del palazzo de’ Nicastro.28

L’epilogo non è che la conferma della storia siciliana di sempre, dentro un finale irridente e disperato: Cinquanta ne presero nelle loro case, col mandato su cui c’era segnato: insurrezione armata, tentato omicidio, devastazione… Sopra un camion, incatenati, traballando per le buche e le cunette, passando per Barrafranca e per Pietraperzìa, arrivarono la sera a Caltanissetta, dentro le mura alte, il Malaspi28.  Ivi, p. 70.

254 na. “E finalmente m’assicurai il mangiare!” fece ghignando zi’ Ciccio Arcadipane.29

Ha ragione Gianni Turchetta quando dice che nella serie Ratumemi: «si ritrovano molti problemi che erano già al centro del Sorriso dell’ignoto marinaio: anzitutto la continuità del potere economico-sociale al di là dei cambiamenti formali di governo, e l’estraneità della gente siciliana allo stato italiano»30. Una continuità, però, che non esclude un sostanziale mutamento. Nel Sorriso il tema è di quelli cruciali per la letteratura siciliana: il passaggio dai Borboni ai Savoia, il Risorgimento tradito. Vi si sono già cimentati, lo sappiamo, Verga, De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Sciascia. Consolo, degno erede di tale tradizione, vi proietta la vicenda di Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, un erudito di Cefalù, autore di un trattato scientifico sulle lumache, collezionista d’arte, liberale illuminato: e tale vicenda s’intreccia a quella di un quadro misterioso, un ritratto d’ignoto attribuito ad Antonello da Messina. Alla fine del libro il barone, testimone della rivolta contadina di Alcara Li Fusi, acquista esatta coscienza di un dramma storico e sociale: in un colpo solo Consolo azzera quella teoria di personaggi aristocratici reazionari o velleitari, scettici o sofistici, che erano usciti dalla tradizione letteraria isolana. In tal senso, Il sorriso è veramente l’antigattopardo. Dov’è allora la differenza con la serie di Ratumemi, dedicata anch’essa ad una fase di drammatica transizione della storia dell’isola? Nel fatto che Consolo, pur non rinunciando alle ragioni di una vittoriniana scelta di parte, ha ormai dismesso ogni illusione sulle possibilità di riscatto ed illuminazione, per quanto soggettivissime, della classe dirigente isolana: Teatro è, appunto, il titolo della sezione che accoglie Ratumemi, quasi

29.  Ibidem. 30.  Ivi, p. XII.

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a suggerire che tutto in Sicilia è, pirandellianamente, giuoco delle parti. Una posizione tradotta perfettamente da un più recente capitolo della sua personale contro-storia d’Italia, Nottetempo casa per casa (1992). Siamo ancora a Cefalù, ma in una Cefalù sconvolta dall’incipiente fascismo, ove s’intrecciano le vicende di diversi personaggi: dal maestro che trova nella rivolta anarco-socialista un contravveleno alla follia familiare, al barone dannunziano e classista, in odor di mafia, dal satanico inglese fondatore di una setta dedita ad orge, al robusto e riottoso capraio che di quella setta diventa vittima, fino ad un invasato rivoluzionario che si è formato sui roboanti libri del poeta catanese Rapisardi. La storia, carica di presagi sulla nostra contemporaneità, s’identifica ormai con una notte perenne, appena squarciata dai bagliori di esistenze che tentano l’ultima e solitaria resistenza, sempre in bilico tra puntiglio etico e virile desolazione metafisica, speranza di riscatto e disperazione nichilista, a caratterizzare una meditazione tra le più significative sulla follia civile dell’Italia di questo secolo. Una meditazione, aggiungiamo, che giuoca la scommessa civile su un piano di oltranza linguistica, in direzione di una sintesi che è anzitutto prosodica e musicale, il vero e nuovo contributo di Consolo dentro quella contro-storia d’Italia letteraria e civile che abbiamo tentato di tracciare: una singolarissima metrica della memoria a cui, però, accenniamo soltanto, dato che una sua più precipua definizione esula dai limiti del nostro discorso. Se le cose stanno in questi termini, quasi lo scrittore si sia fatto ormai mero sismografo della secolare follia nazionale, si può meglio comprendere quale funzione simbolica possa assumere la mafia. Si leggano le pagine su Palermo delle Pietre di Pantalica, racconto che dà il titolo all’intero libro: Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola

256 compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo. […] Questa città è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacelli di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta.31

E ancora, a proposito del quartiere del Capo, dopo aver parlato della ricchissima via Ruggero Settimo: Dietro queste fresche mura di tufo, si accumulano le immondizie del mercato, degli abitanti, le ossa delle macellerie, vi razzolano bambini, cani, gatti, vi ballano topi. Qui Palermo è una Beirut distrutta da una guerra che dura ormai da quarant’anni, la guerra del potere mafioso contro i poveri, i diseredati della città. La guerra contro la civiltà, la cultura, la decenza.32

Ora lo abbiamo capito: nella Sicilia ove una sera di settembre i kalashnikov delle cosche crivellarono di colpi il prefetto Dalla Chiesa e la sua giovane moglie, la mafia era niente altro che lo sconcio bubbone che annunciava la malattia mortale di un’intera città. Di lì a poco scopriremo nell’Olivo e l’olivastro (1994) che la peste, ormai da tempo, incrudeliva in tutta l’isola.

3. Verso il futuro A riguardare quel che gli uomini di lettere isolani hanno pubblicato in questi ultimi anni, ci si accorge subito che molto raramente essi non hanno incrociato il tema della mafia. Solo a citare i più giovani, ci viene in mente lo scrittore prematuramente scomparso Paolo Prestigiacomo del quale ci resta, qua31.  Ivi, p. 166. 32.  Ivi, p. 168.

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si completamente inedita, un’autobiografia, forse il suo lavoro più riuscito, ove si accenna, nella prima parte siciliana, a drammatiche vicende familiari sconvolte dalla prepotenza mafiosa: vi emerge un’aspra e trasognata San Mauro Castelverde, con ancora vivi i truci ricordi briganteschi33. Anche Fulvio Abbate, nel suo libro d’esordio Zero maggio a Palermo (1990) incontra la mafia ed il nucleo di leggende che intorno ad essa sono cresciute, in una Palermo veramente inedita: avvelenata, ma tiepida di gelsomini e zagare, percorsa come in volo da due adolescenti comunisti dei primi anni Settanta alla ricerca del mitico tesoro dei Beati Paoli; una Palermo in cinecamera, in cui s’intrecciano storia grande e storia minima, nell’insolito timbro di un poemetto eroicomico dei nostri tempi, quello che consente all’autore di alleggerire, ma non esorcizzare, una tanto grave e greve materia. Di Abbate, comunque, va segnalato anche il reportage Capo d’Orlando. Un sogno fatto in Sicilia (1993), ove si considera la rivolta dei commercianti contro il pizzo come una sorta di rivoluzione borghese, quella che ci vorrebbe per sradicare la mafia dall’isola: curiosa riproposizione dell’antico schema franchettiano, in anni in cui la storiografia marcia in tutt’altre direzioni. Di una Palermo irredimibile ci raccontano poi i libri del modicano Aurelio Grimaldi: da ricordare senz’altro Nfernu veru (1985), Meri per sempre (1987), Le buttane (1989). Come si vede, quella dei libri che affrontano o solo costeggiano la questione della mafia è veramente una galassia in espansione. Persino un poeta della natura, cariata quanto si vuole, come il marsalese Nino De Vita, si è trovato a raccontare, nella lingua mite e dolce dei suoi versi, una storia di mafia: si veda quel capitolo del suo struggente Cutusìu (1994) che s’intito33.  A proposito di questo scrittore, ingiustamente dimenticato, rimandiamo al nostro Paolo Prestigiacomo: un siciliano a Roma, in «Nuovi Argomenti», n. 49, gennaio-marzo 1994, pp. 123-126.

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la Bbatassànu34. Né ci sorprenderemmo più di tanto se le due migliori scrittrici siciliane in attività ci regalassero, improvvisamente, un’opera interamente dedicata alla mafia: intendiamo Silvana Grasso e Silvana La Spina, quest’ultima già autrice, per altro, di un inquietante romanzo giallo, Morte a Palermo (1987) e di due bei racconti di mafia, Travatura e Il giorno di San Giuseppe, raccolti in Scirocco (1992), un libro di soffocata e aspra sensualità, in cui colpisce, ai fini del nostro discorso, la figura di povericristi che vi fanno i rappresentanti delle forze dell’ordine. Prima di concentrarci sugli esiti tragicomici di due letterati comisani, i quali, meglio di altri, sembrano aprire nuove prospettive sul fenomeno mafioso, non si può non ricordare, tra gli scrittori di più lunga esperienza, Andrea Camilleri. Già noto come sceneggiatore e regista, il Camilleri è attento lettore dell’inchiesta di Franchetti e Sonnino da cui ha tratto lo spunto per almeno due romanzi, La stagione della caccia (1992) e Il birraio di Preston (1995). Convinto che i siciliani siano perlopiù «tragediatori», e cioè propensi a confondere vita e teatro, Camilleri ha ambientato i suoi romanzi di mafia, mafia della Seconda Repubblica, in una fantastica cittadina siciliana, Vigàta, assumendo a protagonista il commissario Montalbano: in una lingua mescidata, e sprofondata talvolta nel ventre del dialetto, sono nati così i gialli La forma dell’acqua (1994) e Il cane di terracotta (1996). I due scrittori comisani a cui prima ci siamo richiamati sono Gesualdo Bufalino e Giuseppe Di Giacomo: nelle loro pagine, relativamente alla mafia, sembra riattivarsi quella tradizione grottesca che, proprio nella Sicilia orientale di Capuana, Mar34.  Anche per De Vita, poeta appartatissimo ma di ottima critica (su di lui hanno scritto Giovanni Raboni, Vincenzo Consolo, Franco Loi, Enzo Siciliano, Giuseppe Conte, Pietro Gibellini), rimandiamo al nostro Il papavaro scoronato: Nino De Vita da ‘Fosse Chiti’ (1984-89) a ‘Cutusìu’ (1991-93), in «Nuovi Argomenti», n. 46, aprile-giugno 1993, pp. 123-126, scritto quando ancora di Cutusìu si conoscevano, però, solo alcune anticipazioni.

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toglio e Aniante, aveva giuocato una sua carta comica come ad esorcizzare quel fenomeno così tristo e truce. Ma Bufalino e Di Giacomo non lo fanno certo per confermare le posizioni sicilianiste, omertose quando non apologetiche, di quegli scrittori: la scommessa è semmai quella di prenderne le distanze con un irridente, disincantato movimento della coscienza. Curioso, e tutto in una luce di mistificazione pirandelliana, è il caso di Di Giacomo. È il 16 gennaio 1993, Totò Riina è stato appena arrestato, quando sul quotidiano «La Sicilia» appare una lettera firmata da un fantomatico ragioniere che porta il nome del boss e che ringrazia le forze dell’ordine per averlo liberato, con la cattura del capomafia, da un incubo che durava da ventitré anni. Passa una settimana e sullo stesso quotidiano Giuseppe Di Giacomo, all’epoca assessore alla cultura di Comiso, confessa di essere il ragionier Riina. Da questa storia, tutta extraletteraria, ma di letteratissima malizia, nasceva il libro Salvatore Riina: io non sono il boss, pubblicato in quello stesso anno dall’editore Ediprom di Catania, composto dal diario del presunto ragioniere, da alcune lettere, da stralci di interviste immaginarie che ricostruivano, appunto, la grottesca vicenda del disgraziato omonimo. La letteratura, insomma, aveva superato in verosimiglianza la realtà, come dimostrò la vera caccia all’uomo scatenatasi per rintracciare il tanto sfortunato ragioniere: e trovava asilo in un libro non privo di orgoglio patrio, quello di chi teneva a distinguere una Sicilia di persone per bene da quella nera e feroce della lupara. Gesualdo Bufalino, se si esclude quel pudicissimo accenno alla morte di Falcone e Borsellino in una poesia raccolta nel Guerrin Meschino (1993), ci ha lasciato un’estrema testimonianza sulla mafia nel romanzo Tommaso e il fotografo cieco (1996). Il romanzo racconta, in veste di giallo, la storia di Tommaso Mulè: un giornalista aspirante scrittore che abbandona la moglie ed il lavoro, spinto da una crisi con qualche pretesa di filosofia, per esiliarsi, con la mansione di factotum, nel semin-

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terrato del Flower City, un grande condominio romano, e da lì osservare, in una vita che aspira a farsi supplenza di vita, quel mondo che, dalla sua unica finestra, gli si palesa a livello di piedi e calzature. Tra gli ospiti di questo condominio c’è anche un siciliano, Enrico Lo Surdo, dall’isola scappato proprio perché rovinato da soci mafiosi. Proprietario di una cartiera che non si vuole piegare al pizzo, quei «cinquanta miliuna» che una voce implacabile e tranquilla gli aveva più volte chiesto per telefono, alzando la posta ad ogni rifiuto, il Lo Surdo scopre che a ricattarlo, e poi a bruciargli la cartiera, sono stati proprio i suoi soci, Licausi e Tirrò, gli attuali nuovi proprietari. La vicenda ha un finale di comicità beffarda: E qui la storia sarebbe al traguardo, se non sentissi il bisogno di anticipare sin d’ora l’appendice ironico-tragica ch’ebbe, otto giorni dopo. Quando Enrico Lo Surdo fu sorpreso e arrestato in una cabina telefonica pubblica, mentre balbettava a Licausi e Tirrò, con un fazzoletto davanti alla bocca e una molletta sul naso, le stesse parolette fatali da cui era cominciata la sua catastrofe: “Priparassi cinquanta miliuna”.35

Amarissimo apologo, questo di Bufalino: e vi traspare la constatazione di un’Italia irredimibile, quella che arresta e punisce i galantuomini rovinati dalla malavita, e che la malavita favorisce, quando non addirittura protegge. Un’amarezza appena temperata da un’altra constatazione: che il degrado antropologico avesse toccato anche, e forse più, gli stessi mafiosi, lasciando magari presagire una loro possibile sconfitta, chissà se definitiva. Così aveva risposto ai giornalisti che gli chiedevano, dopo la cattura di Brusca, cosa l’avesse colpito: «E padrino che in carcere chiede le camicie di seta. I gioielli trovati nel suo covo, le vasche da idromassaggio e i quadri antichi. Si vede che i boss si stanno telenovelizzando. Fanno come la gente normale. È lo sgretolamento di un patriarcato nel tritatutto 35.  G. Bufalino, Tommaso e il fotografo cieco, Bompiani, Milano 1996, p. 55.

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delle Tv»36. Chiudiamo con questo suggestivo riferimento ai padrini rimbambiti dalle “telenovelas”: personaggi ancora in cerca d’autore, nel panorama letterario che abbiamo tentato di delineare sin qui. E tale immagine del padrino soggiogato dalla televisione accogliamo, enfaticamente, con una speranza: che questo sgretolamento si tramuti presto in crollo. Poco importa se alla fine, a trionfare, sarà la televisione.

36.  Troviamo queste dichiarazioni sul «Corriere della Sera» del 15 giugno 1996.

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Indice

Prefazione alla nuova edizione

p. 11

Capitolo I Che cos’è questa Sicilia? 1.  Un problema ineludibile 2.  Sicilianismo e sicilitudine 3.  Ancora due questioni

p. 19 p. 26 p. 35

Capitolo II Mafia (basta la parola) 1.  Un racconto di Sciascia 2.  Sotto la lente di Pitrè 3.  Fatti e misfatti della Vicaria 4.  Alle origini del sicilianismo letterario

p. 41 p. 47 p. 60 p. 69

Capitolo III Per inesplicabile fatalità. (I letterati contro Franchetti) 1.  Sulle orme di Leopoldo Franchetti 2. Una rêverie di Sicilia: le negazioni di Capuana 3.  L’eloquente silenzio di Verga

p. 75 p. 82 p. 102

Capitolo IV Le illusioni del continente 1.  La vittoria dei facinorosi

p. 113

2.  Cos’è poi questa mafia? Una chiacchierata in casa Cesareo 3.  L’invincibile Rasconà Capitolo V Con Mori ai ferri corti 1.  Vedi Trapani e poi Mori 2.  Con la mafia e con il fascismo: il Don Giovanni Malizia di Comandè 3.  I mafiosi di Giuseppe Guido Loschiavo

p. 121 p. 126

p. 137 p. 141 p. 156

Capitolo VI L’Italia è fatta, ora facciamo gli affari nostri 1.  Per una contro-storia d’Italia letteraria e civile 2.  Le verità di Pirandello 3.  I vecchi e i giovani: alle radici del sicilianismo 4.  Codicillo per Tomasi di Lampedusa

p. 169 p. 177 p. 187 p. 201

Capitolo VII Il pianeta Sciascia 1.  Sciascia saggista polemista e politico: lunga storia di un mafiologo controvoglia 2.  Sciascia narratore: Bellodi contro don Mariano

p. 209 p. 220

Capitolo VIII Una galassia in espansione 1.  Prima e dopo Sciascia 2.  La mattanza dei sindacalisti: da Buttitta a Consolo 3.  Verso il futuro

p. 237 p. 245 p. 256

Opere di Massimo Onofri

1.  Storia di Sciascia (1994). 2.  Tutti a cena da don Mariano. Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia (1995).

Pubblicato per la prima volta nel 1995, Tutti a cena da don Mariano. Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia, rappresenta il primo e più importante studio circa i rapporti tra letteratura e mafia in Sicilia, dalle origini del fenomeno sino al ’95. Contributo ancora imprescindibile, per chiunque volesse oggi confrontarsi sul tema. Il volume è arricchito dalla prefazione dell’autore a questa nuova edizione.

Opere II

Tutti a cena da Don Mariano «Non risulta possibile studiare un fenomeno, certamente circoscritto, della storia letteraria isolana senza condurre una riflessione preliminare su quell’idea di Sicilia, dentro l’unico grande libro a cui tutti gli scrittori isolani che si rispettino, almeno da Verga e Capuana in poi, non hanno fatto altro che aggiungere qualche pagina. Questo è il punto: la Sicilia, nella sua peculiarità culturale, potrebbe anche non essere mai esistita, bisognerebbe comunque fare i conti con “l’isola di carta” che gli scrittori siciliani ci hanno consegnato in questi ultimi centotrent’anni.»

Dalla prefazione: La verità è semplice: la letteratura vive sempre ad altissime temperature di ambiguità, di ambivalenze insomma. Ho scrutinato i rapporti tra letteratura e mafia in Sicilia dalle origini del fenomeno sino al 1995. (…) Il risultato più importante: la dimostrazione che la mafia possieda senz’altro una sua ideologia assai articolata, poco importa quanto consapevole, che ha sempre saputo trovare espressione in libri esteticamente discutibili, epperò efficacissimi nel tradurre e tramandare, non soltanto tra le classi popolari, una concezione del mondo quasi impossibile da estirpare: come ben sapeva il boss dei due mondi don Masino Buscetta.

€ 12,00

ISBN ebook 9788855293280