Da Tharros a Bitia. Nuove prospettive della ricerca archeologica nella Sardegna fenicia e punica 8873959598, 9788873959595


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Da Tharros a Bitia. Nuove prospettive della ricerca archeologica nella Sardegna fenicia e punica
 8873959598, 9788873959595

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DISCI

DIPARTIMENTO storia culture civiltà

Archeologia

Collana DiSCi Il Dipartimento di Storia Culture Civiltà, attivo dal mese di ottobre 2012, si è costituito con l’aggregazione dei Dipartimenti di Archeologia, Storia Antica, Paleografia e Medievistica, Discipline Storiche Antropologiche e Geografiche e di parte del Dipartimento di Studi Linguistici e Orientali. In considerazione delle sue dimensioni e della sua complessità culturale il Dipartimento si è articolato in Sezioni allo scopo di comunicare con maggiore completezza ed efficacia le molte attività di ricerca e di didattica che si svolgono al suo interno. Le Sezioni sono: 1) Archeologia; 2) Geografia; 3) Medievistica; 4) Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico; 5) Storia antica; 6) Studi antropologici, orientali, storicoreligiosi. Il Dipartimento ha inoltre deciso di procedere ad una riorganizzazione unitaria di tutta la sua editoria scientifica attraverso l’istituzione, oltre che di una Rivista di Dipartimento, anche di una Collana di Dipartimento per opere monografiche e volumi miscellanei, intesa come Collana unitaria nella numerazione e nella linea grafica, ma con la possibilità di una distinzione interna che attraverso il colore consenta di identificare con immediatezza le Sezioni. Nella nuova Collana del Dipartimento troveranno posto i lavori dei colleghi, ma anche e soprattutto i lavori dei più giovani che si spera possano vedere in questo strumento una concreta occasione di crescita e di maturazione scientifica.

Da Tharros a Bitia

Nuove prospettive della ricerca archeologica nella Sardegna fenicia e punica Atti della Giornata di Studio, Bologna 25 marzo 2013

a cura di Anna Chiara Fariselli

Bononia University Press

Bononia University Press Via Ugo Foscolo 7 40123 Bologna tel. (+39) 051 232882 fax (+39) 051 221019 © 2014 Bononia University Press ISSN 2284-3523 ISBN 978-88-7395-959-5 ISBN online 978-88-6923-504-7 www.buponline.com [email protected] I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. In copertina: la torre spagnola sulla collina di San Giovanni vista dalla necropoli meridionale di Tharros (foto A.C. Fariselli) Progetto grafico: Irene Sartini Impaginazione: DoppioClickArt - San Lazzaro (BO) Stampa: Global Print - Gorgonzola (MI) Prima edizione: settembre 2014

Sommario

Presentazione 1 Giuseppe Sassatelli La ripresa delle indagini della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano a Bithia 5 Marco Edoardo Minoja, Carlotta Bassoli Ricerche archeologiche e strategie di conservazione nella “necropoli meridionale” di Tharros – Capo San Marco: lo scavo del 2012 19 Anna Chiara Fariselli Appendice Valutazioni archeometriche preliminari su scarabeo e laminetta metallica 30 Mariangela Vandini La necropoli fenicia e punica di Tharros – Capo San Marco: nuove ricerche per la ricostruzione di un paesaggio funerario in 3D 33 Federica Boschi, Michele Silani Le cave di arenaria dell’area di Tharros: risultati preliminari di una ricerca archeologica e archeometrica 53 Carla Del Vais, Silvana M. Grillo, Stefano Naitza L’abitato punico-romano di Tharros (Cabras-Or): i dati di archivio 75 Melania Marano Bibliografia 95 Autori 103

PRESENTAZIONE

Sono ben lieto di presentare e di accogliere nella collana del Dipartimento e della sua Sezione di Archeologia questo volume che raduna i lavori di una Giornata di Studi la quale ha rappresentato per il Dipartimento un’importante novità sul piano scientifico, su quello della didattica e della formazione e anche su quello dei rapporti tra istituzioni. Questa Giornata di Studi è stata pensata come un doveroso momento di esposizione dei risultati relativi ai primi interventi condotti in Sardegna sul Capo San Marco nell’ambito della Concessione Quinquennale di Scavo 2012-2016 da parte del MiBACT al Dipartimento di Storia Culture Civiltà – Sezione di Archeologia. Essa si è subito rivelata come una fruttuosa occasione di colloquio e scambio fra studiosi impegnati in alcuni fra i più rilevanti progetti di ricerca oggi in corso nella Sardegna fenicia e punica. Oltre che allo spazio funerario tharrense, il riferimento è alle ricche indagini inaugurate a Bitia dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano; alle innovative investigazioni storico-archeometriche dell’Università di Cagliari sulle cave lapidee del Sinis e allo “scavo in archivio”, incentrato sulla ricostruzione del quartiere residenziale di Tharros punico-romana, che ho l’orgoglio di vedere efficacemente condotto da una giovane diplomata presso la nostra Scuola di Specializzazione e attualmente inquadrata nell’ambito della Scuola Dottorale Interateneo in Storia delle Arti delle Università di Verona e Venezia. L’incontro ci ha messo a disposizione alcune recentissime acquisizioni storico-archeologiche in merito alla facies fenicia e punica isolana e ci ha consentito di entrare in contatto con le strategie più innovative della ricerca sul campo, in un ideale viaggio fra due capisaldi della civiltà orientale in terra sarda che abbiamo voluto esplicitamente ricordare nel titolo del volume: Da Tharros a Bitia. Nuove prospettive della ricerca archeologica nella Sardegna fenicia e punica. Il punto d’avvio di tale percorso, cioè il progetto di scavi nella “necropoli meridionale” di Tharros – Capo San Marco (Penisola del Sinis, Cabras, Oristano) s’inserisce in una quarantennale tradizione che vede l’Università di Bologna protagonista di una delle più significative tappe della ricerca archeologica sulla “Cartagine di Sardegna”. La nuova richiesta di Concessione avanzata dal DiSCi – Sezione di Archeologia si accorda con un articolato piano di incremento del comparto delle discipline orientalistiche nell’Ateneo bolognese e nella fattispecie proprio dell’Archeologia fenicio-punica, come naturale conseguenza della recente aggregazione dei Dipartimenti di Archeologia, Storia An-

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Giuseppe Sassatelli

tica, Studi Linguistici e Orientali. Il processo investe l’aspetto didattico e della formazione, attraverso la presenza di tale insegnamento nella Laurea Magistrale in Archeologia e Culture del Mondo Antico e nella Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici. E come del resto accade ormai da molti anni, nel settore dell’archeologia esiste un binario quasi inscindibile tra materie dei corsi istituzionali e cantieri di scavo attivi, dove i nostri studenti possono completare la loro formazione sul campo. Questo nostro impegno sul fronte fenicio-punico s’innesta tra i molteplici ambiti di ricerca aperti nell’ampio scenario mediterraneo frequentato dalla Sezione di Archeologia, scenario che va dal Vicino Oriente al Nord Africa. La Sardegna, e Tharros in particolare, rappresentano quindi la frontiera più occidentale di uno spazio culturale variegato dalle numerose competenze scientifiche attive nella nuova realtà della Scuola di Lettere e Beni Culturali. Nondimeno l’isola costituisce una meta spesso toccata dalla scuola di Etruscologia dell’Università di Bologna, come risulta evidente dalla pluriennale articolazione, da parte di nostri allievi, di fertili itinerari di studio sui rapporti intercorsi fra Fenici, Nuragici e popolazioni preromane della costa tirrenica: penso, in particolare, al ponderoso lavoro compiuto da Stefano Santocchini Gerg, i cui risultati sono raccolti nel volume di recentissima edizione dal titolo Incontri Tirrenici. Le relazioni fra Etruschi, Sardi e Fenici in Sardegna (630-480 a.C.). Oggi, l’analisi di tali interazioni, in special modo proprio quelle che nascono nel contesto territoriale di Tharros fenicia, è resa ancor più densa di potenzialità nel riattivato interesse per i capolavori scultorei del sito oristanese di Monte Prama, enigmatico crogiuolo di incontri e convergenze culturali che certo non escludono la protostoria italica peninsulare e mediterranea. Ed essa trae, inoltre, nuovo vigore, ancor più manifestamente, dalle esplorazioni condotte a Bitia dal Soprintendente Marco Edoardo Minoja, importante voce della disciplina etruscologica italiana e del sistema della tutela del nostro paese. Per venire alla focalizzazione delle finalità della Concessione in corso a Capo San Marco va detto, innanzitutto, che la nuova stagione delle indagini nella “necropoli meridionale” segna il recupero di un ruolo primario dell’Alma Mater nel complesso programma di ricostruzione del paesaggio funerario tharrense, il cui noto stato di dissesto ha per molto tempo scoraggiato la ricerca sul campo o addirittura comportato l’ingiustificata sottovalutazione delle potenzialità scientifiche di una ripresa degli scavi. Proprio a ricercatori dell’Ateneo di Bologna deve attribuirsi il merito di aver riconosciuto l’indispensabilità di un intervento che potesse gradualmente restituire all’impianto della città antica la vastissima necropoli intagliata nella calcarenite sull’estrema propaggine della Penisola del Sinis, al fine di evitarne l’oblio. Il riaccendersi dell’attenzione su tale contesto permette finalmente di approfondirne la conoscenza, per nulla acquisita fino ad oggi, nonostante l’eco seguita alle sistematiche depredazioni dei suoi fastosi corredi aurei, e di scongiurarne il rischio di abbandono, purtroppo concreto a causa dalle difficili condizioni ambientali e delle importanti problematiche di mantenimento strutturale dei sepolcri. Il lavoro di Anna Chiara Fariselli, investita della Direzione scientifica dello scavo dalla Sezione di Archeologia del DiSCi, prosegue su questo tracciato d’intenti, dilatando gli obiettivi di indagine, ma anche mettendo in opera gli auspici di valorizzare il quartiere funerario con il ricorso alle tecnologie più avanzate e mediante l’ausilio di elevate professionalità scientifiche di cui il Dipartimento dispone e sulle quali intende sempre più investire in una prospettiva a lungo termine. In tempi incerti come quelli presenti, in cui la gestione dei Beni Culturali versa in così grande difficoltà, l’apertura di nuovi scavi in un ambito come quello della penisola del Sinis, intrinsecamente ostico a causa delle criticità geomorfologiche e delle eccezionali risorse botaniche e faunistiche, non sarebbe proponibile senza un attento piano di conservazione dell’equilibrio ecologico e senza un ripristino del dato storico. In quest’ottica, il comparto tecnico del DiSCi, forte di una pionieristica esperienza nel campo dell’archeologia preventiva, sta compiendo nell’osservatorio tharrense, sotto la guida di Federica Boschi e Michele Silani, un progetto altamente qualificato sul versante della protezione del patrimonio archeologico dell’Oristanese e della sperimentazione tecnologica, in completa sinergia con le esigenze di controllo della Soprintendenza, ma anche nel pieno rispetto dell’ambiente custodito dall’Area Marina Protetta. All’insegna di tale rinvigorito spirito di collaborazione con gli altri Enti di ricerca e

Presentazione

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tutela impegnati nel sito e nel nome di una responsabilità comune, si sono selezionati e concordati i traguardi primari del progetto, che vanno dalla minuziosa raccolta di tutti gli elementi funzionali allo studio degli ancora poco noti rituali funerari d’età punica, alla restituzione in realtà aumentata della fisionomia del quartiere cimiteriale antico. Fra i molti risultati attesi vi è senz’altro anche quello d’incentivare, mediante strategie multimediali, la fruizione del luogo, evitandone nel contempo quella progressiva e drammatica compromissione che fatalmente conseguirebbe a una prematura o indiscriminata inclusione dello spazio funerario nei circuiti della frequentazione turistica di massa. Le caratteristiche del contesto archeologico, la straordinaria longevità dell’occupazione antica dell’insediamento, la sua originaria vocazione commerciale, ne fanno, ai nostri occhi, una rara occasione di scambio interdisciplinare e una sede preferenziale di collaborazione per le molteplici istituzioni coinvolte. Sono fiducioso che tale atteggiamento accompagnerà, fino al traguardo, il cammino delle ricerche future e proprio per questo credo che il Dipartimento di Storia Culture Civiltà, e in particolare la sua Sezione di Archeologia, daranno al progetto il loro pieno sostegno. Questi atti, anche grazie all’impegno, alla disponibilità e alla tenacia di Anna Chiara Fariselli, sono la prova che il progetto è cominciato nel migliore dei modi. E sono sicuro che il suo seguito, sia nell’attività di scavo che nei relativi resoconti, non sarà da meno. Giuseppe Sassatelli Direttore del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna

LA RIPRESA DELLE INDAGINI DELLA SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI PER LE PROVINCE DI CAGLIARI E ORISTANO A BITHIA

Marco Edoardo Minoja Carlotta Bassoli

L’incontro promosso dall’Università di Bologna, che ha avuto l’intento di condividere i risultati della concessione di scavo in corso tra la stessa Università e la Soprintendenza per le Province di Cagliari e Oristano, si pone come riflessione sui diversi work in progress dedicati alle città della Sardegna fenicia e punica. Questo contributo pertanto nasce con il medesimo spirito, quello cioè di condividere, oltre che i risultati, le idee, le prospettive e le ipotesi di studio che ciascuno porta avanti relativamente a questo fondamentale settore di ricerca; intende peraltro sottoporre all’attenzione degli studiosi e delle amministrazioni un progetto, come quello dedicato alle ricerche su Bithia, che sin dal suo nascere ha rappresentato un ambito privilegiato di partecipazione in cui stanno convergendo le collaborazioni della Soprintendenza, dell’amministrazione locale, dell’università, oltre che dei professionisti che partecipano alla conduzione degli scavi. Un progetto che, oltre a lavorare per la produzione di nuovi dati, intende sottoporre ad un attento riesame le informazioni offerte dalla pubblicazione più o meno esaustiva dei risultati delle ricerche dei passati decenni. Le prime indagini archeologiche di tipo scientifico praticate nell’area risalgono alla prima metà degli anni Trenta, quando il Taramelli, a seguito di una disastrosa mareggiata che aveva gravemente eroso il litorale, intraprese una campagna di scavi, sia sul versante settentrionale del promontorio della torre di Chia, dove vennero portate in luce strutture abitative e opere di terrazzamento della collina1, sia nel tratto terminale del promontorio stesso verso la spiaggia di Sa Colonia, dove furono individuate un’ampia porzione di necropoli2, con sepolture di età punica e romana, e le strutture del cosiddetto tempio di Bes, caratterizzate da ambienti sottoscavati, accessibili tramite gradini, posti in sequenza longitudinale e terminanti in un cortile caratterizzato dalla presenza di altari, all’interno del quale si rinvenne la statua di Bes che ha suggerito l’intitolazione del sacello (Figg. 1-2). Nel 1933, in seguito agli scavi del signor Carlo Alliata Percy, i cui materiali recuperati durante queste attività sono andati in gran parte dispersi, il Soprintendente Taramelli effettuò una campagna di scavo sistematico sulle pendici settentrionali della collina, cfr. Taramelli 1934, pp. 288-291. 2   Ivi, pp. 289-290. 1 

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Fig. 1. Area del “tempio di Bes”, scavi Taramelli (1930-1933) (da Afsaco).

Fig. 2. Statua del Bes ritrovata in seguito agli scavi del 1930-1933 (da Afsaco).

La ripresa delle indagini della Soprintendenza per i Beni Archeologici

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Fig. 3. Immagine degli “scavi scandinavi” (da Afsaco).

Gli scavi del Taramelli vennero interrotti dopo il 1933 e non più ripresi fino agli interventi congiunti del Pesce e del Kunwald nel 1953; in quell’anno infatti la Soprintendenza autorizzò una missione di scavo scandinava a intervenire nuovamente nell’area del piccolo edificio sacro: di questi interventi, proseguiti poi con successive campagne di scavo estive nel 1954 e nel 1955, rimangono solo rari documenti fotografici conservati nell’Archivio della Soprintendenza (Fig. 3), anche se una preliminare ricerca tra i depositi conservati in magazzino ha evidenziato la presenza, in alcuni contenitori, di materiali certamente ascrivibili a quell’intervento di scavo. Resta purtroppo non acquisita all’archivio della Soprintendenza la documentazione delle operazioni scandinave dal 1953 al 1955, al di fuori di quanto si rileva dalle argomentazioni del Pesce3. Nello stesso anno infatti la Soprintendenza intraprese un proprio scavo collocato nella medesima area; di questo intervento Pesce ha offerto una descrizione abbastanza diffusa in diverse pubblicazioni, proponendo un quadro dettagliato dei rinvenimenti effettuati4; lo scavo risulta incentrato sulla fossa di scarico dei materiali votivi del sacello, posta a sud del medesimo, nonché sulle strutture e stratigrafie ad essa relative, di impianto successivo, come la porzione di necropoli ad inumazione di epoca romana, o precedenti la fossa, come il livello sottostante, ampiamente analizzato dal Pesce.   Sull’argomento tuttavia è intervenuta una fondamentale novità: nel mese di settembre 2013 è pervenuta alla Soprintendenza una preziosissima nota del National Museet di Copenaghen che informa del recupero dei taccuini di scavo del Professor Kunwald e di altra documentazione di archivio (cfr. Archivio Soprintendenza, prot. n. 5309 del 3 settembre 2013); i contatti con il Museo di Copenaghen, oltre a chiarire la titolarità degli scavi degli anni Cinquanta, erroneamente definiti come “svedesi” da Gennaro Pesce e in tutta la bibliografia successiva, hanno consentito di avviare un progetto di studio sulla documentazione recuperata e gettano le basi per future proficue collaborazioni. Desidero ringraziare per le preziose e inedite informazioni la Dottoressa Nora M. Petersen e attraverso di lei il Departement of Classical and Near Eastern Antiquities del Museo Nazionale di Copenaghen. 4   Pesce 1968, pp. 309-345. 3

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Fig. 4. Area della stipe votiva (da Pesce 1968).

Fig. 5. Olletta monoansata dal “pozzetto 22” (da Pesce 1968).

Questa fase precedente la fossa di scarico risulta interessante, al fine di analizzare alcune delle residue testimonianze delle prime fasi di occupazione dell’area, prima che gli scavi ora avviati alla città ci restituiscano coeve stratigrafie anche dal settore urbano. Vediamone in breve i risultati. Gli scavi si concentrarono nel 1953 in un settore della necropoli punico-romana «a sud ovest del tempio», della quale vennero scavate 25 sepolture; lo scavo delle tombe portò alla messa in luce dello strato «di terreno nerastro con materiale antico» identificato con il riempimento della stipe votiva, che evidentemente si svilupparono esternamente al sacello, da sud-ovest a nord-ovest dello stesso (Fig. 4).

La ripresa delle indagini della Soprintendenza per i Beni Archeologici

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Fig. 6. Tazza monoansata (da Pesce 1968).

Al di sotto della stipe votiva il Pesce individuò un ulteriore strato caratterizzato dalla presenza di numerosi piccoli pozzetti imbutiformi «contenenti resti di cremazione e chiusi con sassi»; questo livello viene identificato come necropoli ad incinerazione. Le descrizioni offerte dal Pesce e alcune caratteristiche dei materiali editi invitano ad alcune riflessioni e approfondimenti. La struttura dei pozzetti viene descritta in tutti i casi come imbutiforme; le dimensioni dei tagli sono estremamente ridotte: il diametro massimo è compreso tra i 20 e i 25 cm, con pochissimi casi fino a 35 e, anche le profondità si attestano mediamente intorno ai 30-35 cm. Tra i materiali, alcune forme rimandano alla tradizione produttiva di ambito nuragico: le ollette dai pozzetti 22 e 26, con breve orlo leggermente esoverso, apparentemente monoansate (Fig. 5), trovano confronti con contesti nuragici (Nuraghe Sianeddu, Santa Vittoria di Serri), oltre che con materiali dalla stessa necropoli di Bithia; la tazza monoansata di impasto grezzo dal pozzetto 34 (Fig. 6) ha anch’essa un confronto nella necropoli. In tutti i casi comunque colpiscono le ridotte dimensioni degli oggetti deposti, che tendono al miniaturistico, e sembra senz’altro esclusa la funzione di contenitori per le ceneri. In soli cinque casi Pesce parla esplicitamente di “resti di cremati”, specificando in tre casi la pertinenza ad individui bambini o in tenera età; in un caso individuando invece «grosse ossa di adulto combuste». In definitiva, la qualificazione tout court come necropoli, per il complesso di pozzetti con simili caratteristiche, appare quanto meno bisognosa di verifiche; d’altro canto fu Pesce per primo a mettere in evidenza l’ambiguo statuto di quel rinvenimento, osservando come esso non si potesse effettivamente confrontare con altri ambiti di necropoli già noti, attribuibili al periodo nuragico come a quello fenicio-punico; l’autore risolveva i propri dubbi ascrivendo l’originalità del contesto ad una convergenza di caratteristiche apportate in eguale misura dal sostrato indigeno di ascendenza nuragica e dalle influenze delle nuove popolazioni di provenienza levantina, anticipando molte riflessioni sulle integrazioni culturali che caratterizzano l’età del ferro in Sardegna, alle quali gli scavi degli ultimi anni ci stanno abituando con sempre maggiore frequenza e ampiezza di dati. Gli scavi di Bithia riprendono nel corso degli anni Sessanta, ad opera di Ferruccio Barreca a Su Cardulinu5, isolotto che chiude a N/E la baia di Chia. Gli interventi consentirono l’individuazione di almeno due sacelli, in cui vennero individuate le strutture del tophet, intorno alle quali furono localizzate sepolture a incinerazione entro cista litica (Figg. 7-8). I materiali documentati provenienti dalle ricerche di Barreca non sono molti; alcune ollette provenienti dalle sepolture appaiono confrontabili con i contenitori già analizzati dai pozzetti scavati dal Pesce e con i paralleli confronti dalla necropoli.   Barreca 1965, pp. 141-160.

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Fig. 7. Area di Su Cardulinu. Le aree contrassegnate dalle A e B segnalano i “sacelli” del tophet di Bithia; la lettera C corrisponde alla zona delle sepolture; la lettera D indica il recinto (da Barreca 1965).

Le ricerche degli anni Settanta si sono invece concentrate sugli scavi della grande necropoli evidenziata a sud-ovest del promontorio di Chia, lungo la spiaggia di Sa Colonia. Solo parzialmente edita, l’area cimiteriale documenta un uso concentrato tra il VII e il VI secolo a.C.6, ma non sembrano mancare testimonianze di un avvio più precoce, ancora una volta caratterizzato dalla persistenza delle tradizioni nuragiche; in particolare va segnalata una sepoltura isolata, la n. 25, caratterizzata dalla presenza di una coppia di recipienti in impasto di chiara tradizione locale (Fig. 9).

 Cfr. Bartoloni 1996.

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Fig. 8. Sepoltura ad incinerazione entro cista litica (da Barreca 1965).

A fronte di una simile mole di dati, raccolti in quasi un secolo di ricerche, l’attuale ripresa degli studi si è data l’obiettivo di trovare tra essi un punto di convergenza: le presenze della necropoli, degli edifici sacri, delle testimonianze di culto fanno complessivamente perno sull’esistenza di un insediamento, da tempo individuato in corrispondenza del piccolo promontorio della Torre di Chia e del suo immediato retroterra, ma rimasto finora ai margini dell’indagine archeologica sistematica. (M.E.M.)

Le attuali ricerche a Bithia sono state avviate, dunque, a seguito della rilettura dei dati pregressi, che ha permesso di maturare la convinzione che, per comprendere più compiutamente l’articolazione urbanistica del centro, fosse necessario estendere le aree di intervento in altri punti del promontorio di Chia. Ne è scaturita una prima campagna di ricognizione7 che ha posto una particolare attenzione all’analisi del territorio, alle sue caratteristiche geomorfologiche e alle trasformazioni dell’ambiente nelle quali è evidente l’attività dell’uomo. Nell’ampia pianura costiera che costituisce l’entroterra di Nora e la profonda insenatura del golfo di Teulada si inserisce il territorio dell’antica città di Bithia, i cui limiti non sono ancora ben determinabili. Meglio inquadrabile è l’area dell’insediamento urbano, che appare concentrato sul promontorio di Chia e in particolare lungo le sue pendici.   Si veda il recente contributo Bassoli et al. 2013, pp. 283-302.

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Fig. 9. Area della necropoli (scavi 1973-1976) (rielaborazione da Bartoloni 1996).

L’immediato entroterra del promontorio si caratterizza per la presenza di una fertile pianura alluvionale, localizzata tra le propaggini meridionali del massiccio sulcitano e occupata in parte dallo Stagno di Chia. L’area, di non grandi dimensioni ma dalle importanti potenzialità insediative, fu ampiamente sfruttata in età nuragica8 e destinata, nel corso del tempo, ad attrarre l’attenzione dei prospectors fenici che vi troveranno terreno favorevole per l’insediamento di un abitato (Figg. 10-11). I due accessi alla piana costiera, a nord-est e sud-ovest, si configurano come vere e proprie strettoie: a nord-est, all’ingresso della valle solcata dal Rio di Chia, alla cui foce alcuni studiosi9 indicano il porto della città, vengono indicati tagli per l’ampliamento del corso d’acqua ad oggi non visibili. A sud-ovest, in una strettoia provocata dal Monte Cogoni e dalle pendici del Monte Settiballas, in una località denominata Sa Bidda Beccia, esistevano fino a pochi anni fa, consistenti tracce di strutture riferibili a un abitato rurale e importati resti di una fornace10.  Cfr. Nieddu, in Bassoli, Minoja, Nieddu c.s.   Bartoloni 1996, p. 40, 1997, pp. 81-83. 10   Ibidem.

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Fig. 10. Territorio corrispondente all’antica Bithia (loc. Chia, Domus de Maria) (rielaborazione da Google Earth).

Fig. 11. Panoramica del territorio retrostante la collina di Chia.

Per quanto riguarda l’area della collina, la ricognizione ha evidenziato diversi settori ricchi di preesistenze archeologiche. I versanti del promontorio sono stati terrazzati in modo intenso a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, e ciò ha comportato un aumento della difficoltà nella lettura dei resti delle antiche strutture murarie. Inoltre, ai limitati interventi effettuati da Taramelli non sono seguite indagini sistematiche, che avrebbero potuto chiarire l’articolazione di questo sito di importanza centrale per le conoscenze della storia dell’espansione fenicia e punica in Sardegna. La ripresa delle indagini archeologiche, iniziate nel 2011 e ancora in corso, si è concentrata nel settore orientale del promontorio che si caratterizza per la monumentalità delle strutture individuate, ascrivibili a differenti periodi storici. Attualmente le ricerche si concentrano in due saggi di scavo (Fig. 12), che si presentano delimitati in modo netto da un sensibile salto di quota causato da

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Fig. 12. Area dei saggi di scavo (campagne 2011-2012), situati sul versante orientale del promontorio.

un taglio artificiale risalente agli anni Sessanta, relativo a lavori per la realizzazione di un complesso alberghiero, ai quali va ascritto anche un potente “butto” moderno, localizzato nell’area del saggio posto nel margine orientale del settore di scavo. In questo riporto sono stati recuperati numerosi frammenti di ceramica di età fenicia, grazie ai quali si amplia il panorama delle forme conosciute, provenienti finora quasi esclusivamente dai rinvenimenti della necropoli, che permettono di innalzare di qualche decennio la cronologia del centro fenicio11. Tra i reperti, compare un ampio e variegato repertorio di forme vascolari fenicie che possono essere ricondotte ad un orizzonte temporale compreso fra la seconda metà avanzata dell’VIII e la fine del VI secolo a.C. Sono presenti ceramiche da mensa e da dispensa, da conservazione, da preparazione, da cucina e anfore da trasporto. Tra questi si distingue, per la qualità e l’alto livello cronologico, un’ampia porzione di brocca con bocca bilobata ricoperta da una spessa e brillante red slip12, che presenta ansa a doppio cannello impostata inferiormente nella zona di attacco fra la radice del collo troncoconico e la bassa spalla del ventre dal profilo marcatamente piriforme. Stringenti confronti possono   La cronologia della prima occupazione si basava infatti sui materiali della necropoli e su sporadici rinvenimenti di superficie dall’area della Torre di Chia (Tore, Gras 1976, pp. 51-60; Bartoloni 1983, pp. 491-500; Zucca 1985, pp. 43-49). 12   L’esemplare bithiense sembra richiamare tanto la brocca bilobata della tomba n. 10 di San Giorgio di Portoscuso (770/760-750 a.C. ca), quanto quella dell’US 369 del Cronicario di Sant’Antioco (prima metà del VII secolo a.C.); cfr. Bernardini 2008, p. 640 e fig. 1.5. Inoltre, il “butto” ha restituito un frammento di una seconda brocca con bocca bilobata, di produzione assai più corsiva, di cui si conserva la parte terminale del collo, la spalla e parte della parete del ventre (US 2001/4). 11

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essere rintracciati negli esemplari noti dal Cronicario di Sant’Antioco13, dall’abitato di Monte Sirai14, dall’insediamento fortificato del Nuraghe Sirai15 e dall’area del Foro di Nora16. I piatti sono ben attestati sia quantitativamente sia per la loro diffusa presenza lungo un arco di tempo molto ampio, compreso tra la seconda metà avanzata dell’VIII e il V secolo a.C.17. Gli esemplari rinvenuti afferiscono a produzioni tecnicamente differenti: dai manufatti comuni, con superfici non trattate o soltanto lisciate, a prodotti più raffinati che vengono ingobbiati, verniciati e talvolta lustrati a stecca. Discorso analogo per le coppe18, con un’ampia varietà morfologica che copre un lungo arco temporale. Sicuramente degni di ulteriori approfondimenti, sono i frammenti di due vasi potori, adattamenti locali di forme greche: dalla raccolta di superficie provengono due frammenti, uno di kotyle (RS/24)19 e uno di skyphos (RS/23) di cui è possibile riconoscere la sintassi decorativa della spalla a scansione metopale, composta di triglifi e metope vuote. Ottimi confronti sono rintracciabili negli skyphoi fenici noti dal distretto sulcitano20, da Nora, da Cartagine, da Mozia e da Toscanos databili nel VII secolo a.C.21. I ritrovamenti più consistenti, per lo meno dal punto di vista delle strutture murarie, sono stati individuati nel saggio di scavo22 posto più a ovest rispetto al “butto” sopracitato. La scelta dell’area nella quale iniziare le indagini di scavo non è stata casuale ma consequenziale all’individuazione di una poderosa struttura in blocchi di arenaria (Fig. 13) di modulo regolare di 1,00 x 0,50 m di lato23. L’indagine è partita proprio da questo punto, evidenziando una fondazione a sacco riempita di blocchetti di pietra e di frammenti ceramici che sfrutta parzialmente, come base di appoggio, il costone roccioso che appare tagliato in più punti. I lavori all’interno del saggio hanno evidenziato un’area densa di strutture eterogenee che pongono alcuni problemi di interpretazione e che vanno riferite a differenti fasi di occupazione. Al di sotto degli spessi strati di dilavamento, sono stati individuati alcuni livelli di frequentazione tardi, forse ascrivibili all’epoca della costruzione della torre aragonese. Al di sotto di questi sono emersi in più punti del saggio numerosi crolli relativi agli ambienti esistenti. In attesta della prossima campagna di scavo, che si auspica possa chiarire meglio la scansione cronologica delle stratigrafie, è possibile descrivere nell’area del saggio due differenti serie di ambienti, rispettivamente posizionate a S e a N del grande muro in blocchi di arenaria quadrangolari, che funziona da elemento di cerniera per tutte le fasi sinora individuate.   Bernardini 2000, pp. 26-61.   Guirguis 2010, pp. 173-210. 15   Perra 2005, p. 193. 16   Botto 2009, pp. 191-195. 17   I lavori condotti nel Saggio 2 hanno permesso il recupero delle tre principali tipologie (US 2001/2-3, 6, 10; RS/26.1, ove per RS sta per “Raccolta di Superficie”): piatti con breve orlo estroflesso che il più delle volte si presenta superiormente convesso, inquadrati nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. e comunque non oltre gli inizi del VII; 2) piatti contraddistinti da una maggiore ampiezza dell’orlo estroflesso, ascrivibili cronologicamente alla prima metà del VII secolo a.C.; in questo caso la superficie superiore dell’orlo può presentarsi ancora convessa ovvero rettilinea; 3) piatti “ombelicati” con fondo umbonato, che subentrano alle più antiche fogge a partire dalla seconda metà avanzata del VII secolo e che persistono nella produzione e nell’uso fino alla prima età punica (metà V secolo a.C.). 18   Si segnalano i tipi arcaici a calotta, con profilo curvilineo continuo (cfr. Peserico 1998, p. 29; Vegas, 2000, pp. 402404; Peserico 2002, pp. 67-68, 2007, pp. 278-280) e soprattutto numerosi esemplari del tipo carenato, presente in diverse varianti e dimensioni (cfr. Bernardini 1990, pp. 82-85, 2000, pp. 33, 43, 47-48, 53; Botto 2009, p. 134). 19   Il frammento di kotyle, dal corpo ceramico più grossolano, verniciato in rosso sia internamente che esternamente, trova confronti per il momento solamente a Sulky, Nora, Cartagine e Toscanos, in quantitativi sempre estremamente esigui. Un’ampia bibliografia di confronto è disponibile in Botto 2009, p. 172. 20   Pompianu 2010, p. 7, fig. 8.5. 21   Botto 2009, pp. 175-180. 22   Denominato Saggio 1 (n.d.r.). 23   Una prima dettagliata notizia della struttura si trova in Ciccone 2001, p. 44. 13 14

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Fig. 13. Struttura muraria in opera isodoma in blocchi di arenaria.

A Sud, sono stati identificati due vani che presentano almeno due fasi costruttive: una precedente, di epoca pienamente romana, i cui materiali riconducono ad un range cronologico ascrivibile tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C., e identificabile con un ambiente di cui rimane esclusivamente la preparazione pavimentale (Fig. 14); una più recente, riferibile all’occupazione dell’area in epoca vandalica, datata da numerose monete e ceramica “fatta a mano”24. A Nord invece, lo strato di dilavamento della collina copriva una imponente scalinata monumentale (Fig. 15) che sfrutta come base di appoggio il muro in blocchi di arenaria. La scalinata, che ad oggi è stata scoperta solo parzialmente, sembra aver subito ristrutturazioni nel corso del tempo. In particolare, le indagini hanno evidenziato almeno due fasi della stessa, distinguibili sia per l’orientamento delle rampe che per difformità osservate nella tecnica costruttiva e nell’impiego dei materiali. Nella fase più tarda, essa viene delimitata a nord da un muro in blocchi di scisto e calcare locale, che mostra pilastri addossati e sembra demarcare un ambiente porticato o semi-porticato, di cui solo futuri scavi potranno chiarire la funzione. In questo spazio, proprio ai margini del limite del saggio, è stato individuato un crollo da cui sono stati recuperati numerosi elementi architettonici, tra cui un capitello dorico in arenaria coperto di stucco, che al momento non sembra avere confronti stringenti in ambito sardo. Anche se si ritiene precoce formulare interpretazioni appropriate per la struttura della scalinata, è comunque possibile sin d’ora richiamare i riferimenti alle aree monumentali di età punica, dotate di scalinata monumentale di accesso, quali il tempio dell’abitato di Monte Sirai e il tempio “delle semicolonne doriche” di Tharros. Appare evidente la sua funzione di accesso monumentale ad un’area “pubblica”, situata sulla sommità della collina, che non sembra prematuro definire “acropoli” della città25. (C.B.)

  Cfr. i tipi Fulford, Peacock 1984, pp. 10-11, figg. 159-161.  Cfr. Zucca 1994.

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Fig. 14. Area del Saggio 1. Nelle immagini in dettaglio le pavimentazioni rinvenute.

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Fig. 15. Scalinata monumentale del Saggio 1. Vista da E.

RICERCHE ARCHEOLOGICHE E STRATEGIE DI CONSERVAZIONE NELLA “NECROPOLI MERIDIONALE” DI THARROS – CAPO SAN MARCO: LO SCAVO DEL 2012

Anna Chiara Fariselli

A fronte della straordinaria notorietà acquisita grazie ai prestigiosi materiali sottratti o fortunosamente recuperati dai suoi sepolcri, la cosiddetta “necropoli meridionale”1 dell’insediamento fenicio-punico e romano di Tharros, ubicata sull’estrema propaggine della Penisola del Sinis (Fig. 1) è, in effetti, uno dei settori meno conosciuti della città. Come noto, il saccheggio brutale che il quartiere funerario sul promontorio ha sperimentato dall’Evo antico, con picchi di autentica barbarie tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secolo scorso, ha determinato l’immissione nei molteplici circuiti del mercato antiquario e nelle sue diramazioni illecite di un quantitativo assai cospicuo di manufatti di pregio, irrimediabilmente disancorati dai contesti di appartenenza. La fama di vivace scalo commerciale e centro produttivo di athyrmata guadagnata dalla città a seguito dell’indiscriminata divulgazione dei suoi “ori”2 nelle collezioni museali e private d’Italia e d’Europa ha, infatti, innescato un meccanismo paradossale: da un lato, l’attenzione sul sito si è implementata, nel tempo, con la messa in opera di progetti di ricerca in vari quartieri della città punico-romana, che nel XIX secolo della nostra era versava in uno stato di grave incuria, tanto da essere utilizzata, nel disinteresse generale, come cava lapidea3; dall’altro, se si eccettua qualche disperato tentativo di salvataggio dei corredi tombali compiuto nel corso dell’Ottocento da benemeriti studiosi come il Canonico Spano o il Regio Soprastante Filippo Nissardi4, promotori di indagini rigorose in parallelo alle depredazioni condotte da squadre di clandestini prezzolati, il settore necropolare cui Tharros deve risonanza e popolarità è caduto in una sorta di oblio fino all’inizio del decennio in corso. Durante il lungo intervallo di tempo, il silenzio è stato spezzato solo episodicamente da pochi e circoscritti interventi di scavo, in qualche caso rimasti inediti, o da ricognizioni finalizzate alla verifica delle strutture tombali fuori terra lungo il costone occidentale del Capo5. Alcuni lavori, tuttavia, appaiono oggi poco fruibili in quanto, oltre che datati, perciò na  La denominazione del quartiere funerario è puramente convenzionale: cfr. infra.   A proposito della peculiare produzione di oreficeria tharrense cfr. da ultimo: Acquaro 2000. 3   La spoliazione sistematica della città antica è anzi divenuta proverbiale: Id. 1984. Per un censimento aggiornato delle cave lapidee di Tharros cfr. infra Del Vais, Grillo, Naitza. 4  Cfr. Del Vais 2006. 5   Ad esempio Ferrari 1984; Molina Fajardo 1984; Usai, Zucca 1983-1984, pp. 17-27. 1 2

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Fig. 1. Veduta dell’istmo e della collina di San Giovanni dal settore occidentale della necropoli su Capo San Marco (foto A.C. Fariselli).

turalmente inadeguati alle moderne prospettive e richieste della ricerca archeologica, sono privi di un apparato documentario sufficiente, ovvero svincolati da una cartografia generale sistematica e corredati, nel migliore dei casi, da rilievi sommari6. Si deve alla cattedra di Archeologia fenicio-punica dell’Università di Bologna la riapertura degli scavi nel 20017, proseguiti fino al 2004 in collaborazione con l’Università degli Studi di Cagliari8. Le indagini di quegli anni dimostrano che siamo ancora lontani dal possedere una piena conoscenza del contesto, ossia delle diverse pratiche funerarie e delle molteplici soluzioni architettoniche ipogeiche presenti sul Capo San Marco, aspetti rilevanti perché riflesso delle tante tradizioni che convivono e dialogano nell’ambito della cosmopolita comunità preromana. Oggi, i settori più avveduti della disciplina considerano, infatti, lo studio tipologico delle sepolture un imprescindibile versante di ricerca, non solo in rapporto alla comprensione della prassi funeraria in senso stretto, ma anche sotto un più ampio profilo storico, quello, cioè, che riguarda lo spinoso tema delle relazioni tra Cartagine e le colonie oltremare: talora indipendentemente dall’imponenza del controllo amministrativo e territoriale, queste si traducono in una complessa fenomenologia di condizio  Per citare un dato paradigmatico sull’incompletezza di alcuni resoconti, molto spesso la presenza di ipogei nell’area indagata può essere solo presunta, in quanto la documentazione grafica si riduce al tracciato superficiale del modulo d’accesso, prescindendo dall’indispensabile indicazione planimetrica della cella sotterranea. Allo stesso modo, nelle relazioni degli anni Ottanta del secolo scorso, i settori di volta in volta oggetto di scavo non sono mai agganciati alla cartografia del Capo San Marco, finanche per quanto concerne la mera indicazione dei punti cardinali, il che spesso rende inservibili gli apparati grafici. 7   Acquaro, Del Vais, Fariselli 2006. 8   Per una seriazione preliminare dei modelli sepolcrali messi in luce da chi scrive e da C. Del Vais durante le ultime campagne, in quanto al resto ancora inedite, si veda: Fariselli 2008. 6

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Fig. 2. Esempi di crolli e distacchi di intere strutture ipogeiche sul profilo costiero occidentale (foto A.C. Fariselli).

namento ideologico, culturale ed economico9. Con tali presupposti, e nella scia di quelle esperienze di lavoro, si è avviata la nuova stagione degli scavi, prima di tutto nell’area che si è scelto di denominare A, demarcata lungo il costone occidentale del Capo volto al mare aperto e tagliato dalla strada moderna che conduce al faro. In questo settore, le realizzazioni tombali scavate nella tenera arenaria sono sistematicamente erose dall’aerosol marino10 e di anno in anno appaiono più danneggiate da distacchi e crolli (Fig. 2). Tale situazione sembra particolarmente grave perché, fra le strutture funerarie emergenti, alcune conservano ancora traccia di un apparato simbolico che le integra e arricchisce, in special modo interventi ad alto e bassorilievo all’interno di nicchie o al di sopra dei portelli. Oltre a essere complessivamente poco frequenti a Tharros, almeno stando all’inventario di documenti tratti dai due quartieri funerari principali11, questi sono di straordinario valore nel quadro dello studio del complesso repertorio iconografico punico di ambito funerario e votivo. Lo stato di grave dissesto ha quindi imposto l’organizzazione di un intervento d’urgenza finalizzato, in prima battuta, alla documentazione dei cavi sepolcrali più appropriati, dal punto di vista dello stato di conservazione, ed emblematici, sul versante morfologico, anche in previsione della valorizzazione turistica del sito12.   Fariselli 2006, 2008, 2013b, passim; Del Vais, Fariselli 2010, pp. 19-20.   A proposito delle problematiche di conservazione della falesia interessata dai cavi tombali cfr. infra Boschi, Silani con bibliografia precedente. 11   Acquaro 1978; Fariselli et al. 1999, p. 98, fig. 3; Greco 2003; Gaudina 2006; Fariselli 2008, pp. 17161717; Del Vais, Fariselli 2010, p. 17. 12   Cfr. supra Sassatelli e infra Boschi, Silani. 9

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Fig. 3. Scorcio del c.d. “tempietto rustico” (foto A.C. Fariselli).

Attualmente, della necropoli meridionale non sono noti i confini, ma l’unica certezza riguarda la singolare estensione dello sfruttamento del nucleo calcareo del Capo a fini sepolcrali. Nelle aree libere da interventi costruttivi moderni, infatti, la macchia mediterranea lascia intravedere spazi vuoti e anfratti manifestamente corrispondenti a cavi tombali, che necessiterebbero di una puntuale mappatura, se non fossero per la maggior parte compresi in terreni privati13. Un’ulteriore prospettiva di ricerca – che ci troviamo costretti a ribadire14 a un decennio dall’avvio delle indagini stratigrafiche estensive nel sito, ma potendo contare finalmente su risorse tecnico-scientifiche adeguate – riguarda, quindi, la delimitazione dello spazio funerario di età fenicia e punica. Per quanto concerne il fronte rivolto al faro moderno, le attività di survey coordinate da chi scrive, oramai da più di un decennio, nel settore sud-occidentale del Capo (area C), in particolare, inducono a ritenere che tra la tarda punicità e la piena romanizzazione la zona fosse connessa organicamente alle attività della città rivolta sul Golfo di Oristano, che parrebbe ampliare in questa direzione il proprio spazio civico. Ciò sembrerebbe dimostrato dall’impianto di un edificio di probabile uso pubblico, noto in letteratura come “tempietto rustico” sul ciglio del promontorio (Fig. 3), e potrebbe trovare conferma nelle tracce di possibile sfruttamento dell’approdo, per ancoraggi di fortuna, nell’insenatura detta La Caletta, oggi inglobata nell’estremo lembo sud-orientale della proprietà privata. Ai fini dell’identificazione funzionale dei diversi settori di Capo San Marco rispetto al comprensorio cittadino, oltre che delle relazioni topografiche di questi con la necropoli a oggi nota, è di straordinario interesse tutta la zona compresa fra il “tempietto” e la profonda fenditura originatasi a S/E di questo per frana di distacco   Del Vais, Fariselli 2006, p. 43.   Acquaro, Del Vais, Fariselli 2006, p. 2.

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del bancone naturale di basalto. Il toponimo di tale doppia depressione, Sa galera eccia, si connette probabilmente alla presenza di anelli in ferro, fissati alla parete interna di una delle due faglie, forse non prima del periodo spagnolo e per motivi pratici ancora da chiarire. Le ricognizioni condotte nella zona alla fine degli anni Novanta del secolo scorso evidenziarono suggestive simmetrie tra l’edificio e un presunto santuario da tempo individuato a Capo Frasca, nella zona meridionale del Golfo di Oristano, portando alla conseguente interpretazione del luogo come punto «di isolamento e di ritiro spirituale»15. La lettura, cui i dilavati e poco diagnostici materiali dello scavo ufficiale di F. Barreca non recano apporti significativi, focalizzava una possibile interazione “ideologico-funzionale” del settore con il quartiere funerario poco distante. In tal senso orienterebbero anche i materiali recuperati dall’ultima raccolta di superficie in questa zona: prevalentemente coroplastica di abituale ambientazione funeraria e votiva16, inquadrabile in un arco temporale compreso fra la fine del VII e l’inizio del V secolo a.C., in una fase, quindi, di gran lunga anteriore rispetto alla monumentalizzazione dell’edificio periferico, che sarebbe avvenuta durante il periodo repubblicano. D’altra parte, l’esplicita rilettura della planimetria proposta nell’ultimo decennio da A. Morigi17 in favore di un inquadramento residenziale e commerciale, in qualche modo connesso alle attività d’estrazione della non lontana vena d’ematite sotto la scogliera, unitamente alla verifica dell’assenza di punti d’approdo sul lato ovest del Capo, che doveva essere doppiato per raggiungere un porto sicuro, invitano a un ripensamento di quanto inizialmente prospettato. Non parrebbe inverosimile considerare che si trattasse di una postazione d’avvistamento, una sorta di faro, caratterizzato dalla presenza permanente di un “guardiano” per alimentare i fuochi di segnalazione. Questo spiegherebbe la predominante connotazione domestica della ceramica vascolare recuperata durante lo scavo sistematico degli anni Cinquanta18. L’impossibilità di immaginare la consistenza degli alzati, certamente, rappresenta un forte limite a tale ipotesi. Sussiste, comunque, l’eventualità che la costruzione d’età romana possa aver obliterato un precedente impianto punico arcaico con identica vocazione marittima, forse non avulso da ulteriori significati religiosi e proiezioni votive a uso dei naviganti, come d’altronde già noto nella tradizione levantina19 e suggerito appunto dal reperimento di terrecotte figurate nelle immediate vicinanze. Per quanto concerne invece i confini del quartiere necropolare a settentrione, va detto che il ritrovamento di apprestamenti tombali romani in prossimità dell’istmo, Sa Codriola, che collega il promontorio alla collina di San Giovanni e sul tratto di spiaggia a nord della torre spagnola, complica la localizzazione del limite della frequentazione funeraria punica. Questa è peraltro da supporre sulla base delle notizie ottocentesche circa la presenza, nei pressi, di ipogei con portelli a più di tre metri di profondità20. Al riguardo, vale la pena precisare che la denominazione “meridionale”, con cui la necropoli di Capo San Marco è tradizionalmente indicata, si connette all’evidenza di una seconda area sepolcrale individuata a circa 3 km di distanza verso nord, nell’attuale villaggio di San Giovanni di Sinis, area conosciuta appunto come “necropoli settentrionale”21. Il ritrovamento in quella sede di soluzioni tombali affini alle molte note sul Capo San Marco, sia in senso morfologico sia dal punto di vista delle caratteristiche dei rinvenimenti mobili, per quanto concentrate in uno spazio complessivamente più ridotto, ha dato corpo all’ipotesi che la Tharros fenicia fosse originariamente dotata di due nuclei insediativi, uno a destinazione residenziale e l’altro con precipue finalità commerciali e produttive, facenti capo a due installazioni   Per tutto questo cfr. Fariselli et al. 1999, pp. 101-102.   Ivi, pp. 108-113. 17   Morigi 2003, pp. 151-158. 18  Cfr. Gaudina et al. 2000, p. 124. 19   Per esempio cfr. il «Tower Temple» di Biblo, attivo sin dall’età del Bronzo Medio anche come ipotetico «ProtoLighthouse»: Frost 2004, pp. 320-322. 20   Del Vais 2006, p. 18, nota 61. 21   Sugli scavi recenti in questa zona, condotti dall’Università di Cagliari in collaborazione con l’Università di Bologna: Del Vais, Fariselli 2010, 2012 e Fariselli 2013a. 15 16

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cimiteriali distinte e dedicate a servire comunità reciprocamente autonome22. Un ancoraggio letterario a questa prospettiva sarebbe fornito dalle parole di grammatici latini che alludono al genere plurale del nome della città antica23. Nonostante l’assunto si sia consolidato in letteratura, a ben guardare, stante la documentazione disponibile, resta indimostrato. La congettura ha trovato sostanza nella temporanea lacuna di dati concreti sull’individuazione dell’abitato fenicio, ossia quello teoricamente corrispondente al primo assetto coloniale che i rinvenimenti più antichi dalle necropoli permetterebbero di collocare forse alla fine dell’VIII secolo a.C., tenendo conto del necessario intervallo che intercorre, di norma, fra la fondazione di un insediamento stabile e l’organizzazione strutturata del quartiere funerario. Rispetto a questo problema non è irrilevante il fatto che manchino dati ineccepibili sulla reale estensione della città antica, che potrebbe proiettarsi verso l’entroterra settentrionale e la zona degli stagni in particolare, oggi in studio da parte dell’Università di Cagliari in collaborazione con quella di Bologna24. Il rapporto topografico fra i due settori cimiteriali in età fenicia e punica è, dunque, un dato ancora sfuggente e tutt’altro che facile da dirimere. Allo stesso modo, rispetto alla necropoli di Capo San Marco, trattandosi di un settore frequentato fino all’età tardo-antica, non è irrilevante la problematica che deriva dalle molteplici revisioni funzionali che la città nel suo complesso, comprese le aree periferiche suburbane, ha subito nel tempo. Nella storia tharrense vi sono diversi momenti in cui è possibile posizionare interventi di riordino e modifiche strutturali, che spesso hanno come conseguenza la dequalificazione di alcuni settori. Basti pensare alla presunta terza necropoli di Tharros, identificata da E. Acquaro nelle tombe “cartaginesi” della collina di Murru Mannu limitrofe al tofet25 che, stando ai dati di scavo, nel IV secolo a.C. vengono smantellate in funzione dell’allestimento di un quartiere pirometallurgico, sorte peraltro subita anche da edicole, altarini e sacelli presenti nel santuario tardo-punico. Proprio al fine di percorrere queste ipotesi di lavoro si è indirizzato il progetto di prospezione geofisica diretto da F. Boschi, le cui preliminari conclusioni orientano verso il riconoscimento di possibili fornaci sul limitare del circuito funerario settentrionale in direzione dell’istmo26. Il dato sarebbe da valutare in rapporto con quanto concluso al termine della seconda prospezione effettuata alla fine degli anni Novanta del secolo scorso dall’Università di Bologna, quando, se pure con criteri empirici tradizionali, si delimitò un’area di lavorazione artigianale, forse pirometallurgica, lungo le pendici sud-occidentali della collina di San Giovanni27. All’approfondimento di questo aspetto si dedicherà, nell’immediato futuro, l’apertura di saggi mirati. Per quanto concerne invece gli interventi di scavo inaugurati nella summenzionata area A – di cui forniamo qui alcune notizie del tutto preliminari, in attesa di concludere l’investigazione dell’intera fascia costiera occidentale e dedicarci all’edizione definitiva dei dati – un piccolo settore si è delimitato nella parte più bassa del declivio roccioso, ovvero tra il confine settentrionale del bancone intagliato dai cavi sepolcrali in vista e la strada moderna che, attraversando longitudinalmente e trasversalmente l’istmo, in questo punto piega a gomito verso la torre aragonese. Al di là della favorevole localizzazione del saggio nella parte più bassa del declivio, la scelta del contesto d’indagine è stata guidata principalmente dalla presenza di cuspidi di roccia, distinte da tagli netti e con orientamento regolare. Nel lembo S/E era evidente una sponda rocciosa, inclinata da E a W, di una struttura tombale (T. 1) (Fig. 4) caratterizzata da una profonda incisione longitudinale, una sorta di canaletta, larga da 0,7 a 0,10 m e con una profondità massima di 0,20 m. La ricorrenza di apprestamenti simili in altri punti della necropoli ne farebbe ipotizzare una funzione connessa al refrigerium della sepoltura, prassi già ben documentata nello spazio   Da ultimo, a proposito di questa ipotesi cfr. Spanu, Zucca 2011, passim.  Cfr. Acquaro 1999. 24   Una preliminare valutazione del comprensorio archeologico degli stagni cabraresi si è tentata nei contributi: Del Vais et al., 2008 e 2010. Le ricerche nell’area di Mistras rientrano nel progetto di Concessione ministeriale in carico dal 2013 al Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio dell’Università degli Studi di Cagliari, con la direzione scientifica della collega C. Del Vais. 25   Per una sintesi della questione cfr. Acquaro 1995, pp. 528-539. 26  Cfr. Boschi infra. 27   Gaudina et al. 2000, p. 125. 22 23

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Fig. 4. Pianta del settore A con indicazione delle T. 1 e T. 2 (rilievo M. Marano).

funerario di Tharros28. La struttura corrisponde a una larga fossa colmata in gran parte da terreno di risulta, ovvero da diversi strati di manomissione, con l’eccezione di un breve scampolo di sabbia assai compatta e ben delimitabile sul lato breve occidentale. Dal punto di vista morfologico la tomba appariva in tutto simile, per dimensioni e caratteristiche generali, ai moduli d’accesso delle camere ipogeiche con dromos gradinato visibili a poca distanza. Lo scavo dei diversi strati di riempimento tuttavia, con la completa messa in luce del lato orientale, ha evidenziato la presenza di uno scasso parziale della parete sottostante alla sponda intagliata dalla canaletta, da attribuirsi a un iniziale tentativo, messo in atto dai fossori antichi, di effettuare il taglio del portello per creare una cella ipogeica. Si tratta quindi di una delle realizzazioni, già documentate nella necropoli meridionale, che si è soliti definire “incompiute”29, cavi corrispondenti, cioè, a dromoi o pozzi privi della camera sottostante, ma ugualmente impiegati come contesti di deposizione. L’interruzione dell’opera può generalmente rimandare a errori di progettazione effettuati dagli scavatori antichi, all’inaspettato deterioramento del banco roccioso o, ancora, allo sfondamento involontario di una camera attigua, non percepibile in superficie, durante la preparazione del modulo d’accesso. Nel lembo risparmiato di riempimento originario della T. 1 si sono evidenziati alcuni materiali integri o in discreto stato di conservazione, pertinenti al corredo vascolare di una deposizione accantonata in antico: una coppa ionica, un cooking pot e un piatto, complessivamente riportabili a una fase compresa fra fine VI e inizio V secolo a.C. (Figg. 5-6)30. La tomba era, per il resto, violata. I documenti vascolari apparivano intenzionalmente deposti su una brocca del tutto consunta e  Cfr. Fariselli 2006, pp. 366-367.   Ivi, pp. 335-353 e 2008, pp. 1710-1712. 30   Per la coppa ionica si veda esemplare simile in: Boldrini 1994, p. 153, n. 262, tipo II/2 b; per il cooking pot cfr. Secci 2006, p. 182, fig. 42, n. 57. Il piatto s’inquadra, infine, nel tipo edito ivi, p. 178, fig. 37, n. 28. 28 29

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Fig. 5. Il contesto ceramico integro della T. 1 (foto A.C. Fariselli).

Fig. 6. Coppa ionica, cooking pot e brocca nel primo livello di accantonamento nella T. 1 (foto A.C. Fariselli).

priva del collo che, vista la situazione stratigrafica, sembrerebbe invece corrispondere alla porzione residuale di un corredo precedente, forse identificabile con l’impianto più antico della sepoltura, secondo una modalità di organizzazione delle sequenze deposizionali di riuso che, sulla base delle precedenti esplorazioni, possiamo ritenere non ignota né rara nel settore31. A N/E della T. 1 un accumulo di scaglie lapidee delimitato fra sponde rocciose, leggibile come riempimento originario di un dromos a rampa molto lacunoso e poco profondo, suggeriva la presenza di un’altra struttura tombale. In corrispondenza del lato breve occidentale della T. 1 si è infatti evidenziata la camera connessa al suddetto corridoio (T. 2), anch’essa, come il modulo d’accesso, totalmente priva della metà superiore, ossia di pareti laterali e soffitto (Fig. 7). Per venire a ulteriori peculiarità rituali del contesto messo in luce, è da notarsi la presenza di una nicchia a sezione trapezoidale, alta circa un metro, ricavata nella parete di fondo della camera 2 (Fig. 8). Essa si percepisce molto chiaramente, né sussistono dubbi sulla lettura morfologica dell’intaglio regolare. È possibile che tale apprestamento   Fariselli 2008, p. 1709.

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Fig. 7. La tomba a camera n. 2 (foto M. Marano).

ospitasse un simulacro mobile, forse proprio un cippo betilico, del resto in accordo con quanto già documentato in altri punti della necropoli precedentemente indagati e in corso di edizione da parte di chi scrive32. Proprio dall’interno di alcune camere, si recuperarono, negli scorsi interventi, diversi cippi parallelepipedi o troncopiramidali, intonacati e non. Ciò ricorda la consuetudine geometrizzante del rilievo lapideo nel tofet, e conferma uno specifico orientamento tharrense in materia di simbologia funeraria, quello cioè che predilige i motivi aniconici, come il betilo, appunto, singolo o in triade33. Nonostante il significativo dissesto, lungo la parete meridionale della camera si è potuto distinguere un lembo di strato d’abbandono integro, nel quale si sono rinvenuti alcuni manufatti d’età punica di notevole interesse. Tutti rientrano nelle categorie del piccolo artigianato di cui Tharros è considerata in qualche caso centro di produzione, più spesso terminale di raccolta e redistribuzione sulle rotte di smercio occidentali, sempre in stretto rapporto con Cartagine. Si annovera fra i documenti più rappresentativi uno scarabeo in probabile materiale lapideo34 con residuo del filo della montatura in argento all’interno (Figg. 9-10). Mostra sulla faccia piatta un personaggio armato, nudo e incedente, verosimilmente provvisto di barba a punta, munito di folgore o asta foliata e una sorta di flagello, o una piccola ascia, appoggiata sulla spalla destra35. Il tipo iconografico dell’armato in nudità eroica, do  Si deve invece a C. Del Vais l’edizione di questi esemplari e la redazione di un corpus di cippi, altarini e stele funerarie dalle necropoli di Tharros: Del Vais 2011 e 2013. 33   Del Vais, Fariselli 2010, p. 17. 34   Lo scarabeo misura 1,3 x 1 cm; 0,8 cm spess. Sulle caratteristiche compositive dal punto di vista materico cfr. infra Vandini, Appendice. 35   Boardman 2003, pl. 6/70. 32

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Anna Chiara Fariselli

Fig. 8. La nicchia trapezoidale sul lato sud-occidentale della T. 2 (foto A.C. Fariselli).

cumentato in varie pose su scarabei da Tharros, Ibiza e Cartagine36, s’inserisce nel filone della glittica ellenizzante attestandosi nelle esecuzioni in diaspro che, dai poli nord-africano e sardo, circolano nel Mediterraneo centrale e occidentale con speciale incidenza dal V secolo a.C. Il tema presente, tuttavia, a quanto sembra di dedurre dall’attuale stadio di ripulitura, qui riprodotto in forma assolutamente corriva e schematica, rimanda alle figure divine del Levante e a una cronologia più alta. Con un altro scarabeo in diaspro lacunoso della metà e quindi poco leggibile, non meno rilevante è il recupero di un amuleto a testa di leone in materiale lapideo, tipologicamente già documentato dalla necropoli di Tharros, sebbene in esemplari meno accurati37. I manufatti citati sono coerenti con un inquadramento nel VI-V secolo a.C. Ancora, si accordano a tale forbice cronologica un piccolo anello crinale aureo, o fermatrecce, forse infantile, del tipo con corpo a bastoncello arrotondato ed estremità avvolte a spirale, un vago d’oro sferico decorato a reticolo e un anello in argento con castone ellittico fisso38. Il reperto senza dubbio più pregevole, tuttavia, corrisponde a una laminetta39, purtroppo fram  Berges 1997, pp. 189-193, nn. 710-733 nella versione con scudo oplitico. In generale cfr. Acquaro 2011.   Id. 1977, pp. 47-48, tavv. V-VI. 38   Quattrocchi Pisano 1974, p. 81, n. 56; pp. 118-119, nn. 194-209; p. 94, n. 113. 39   La laminetta misura 3,6 x 3 cm; 1 mm spess. Se ne conservano tre frr. ricostruibili; parzialmente lacunosa sulla parte superiore e al centro della lamina inferiore al rilievo. Argento lavorato a sbalzo. Conserva due fori agli angoli inferiori, funzionali all’inserimento di piccoli chiodi. 36 37

Ricerche archeologiche e strategie di conservazione nella “necropoli meridionale” di Tharros

Fig. 9. Lo scarabeo (foto M. Vandini).

Fig. 11. La laminetta sbalzata vista anteriormente (foto M. Vandini).

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Fig. 10. La faccia incisa dello scarabeo (foto M. Vandini).

Fig. 12. La laminetta sbalzata vista posteriormente (foto M. Vandini).

mentata, ma quasi completamente ricostruibile, in argento sbalzato (Figg. 11-12), che trova un solo diretto confronto in una placchetta della collezione Spano, sempre proveniente dalla necropoli meridionale tharrense40. Vi è riprodotta una testa maschile, con capelli a calotta e barba egittizzante, identificabile, a parere di chi scrive, con un soggetto divino, già presente a Tiro nella categoria coroplastica, e veicolato alla produzione occidentale per il verosimile tramite cipriota41. Per il momento, tuttavia, difettiamo di confronti stringenti, almeno stando all’edito. La placchetta, vista la conservazione agli angoli inferiori di due fori per ribattini, doveva essere applicata a una superficie rigida o semi-rigida, forse un cofanetto in legno come pure una veste o fascia in cuoio. Tanto lo scarabeo quanto la laminetta sono attualmente in studio dal punto di vista chimico-fisico e in fase di restauro presso il Laboratorio Diagnostico del Dipartimento di Beni Culturali dell’Alma Mater, sotto la guida scientifica della collega Mariangela Vandini, cui si deve la redazione della notizia che segue in merito alle indagini analitiche ad oggi portate a compimento.   Ivi, pp. 41-42, 176-177, fig. 15, tav. XXV, n. 445.   Sul peculiare soggetto iconografico divino a partire dallo studio delle attestazioni di questo nella classe delle maschere in terracotta si veda Fariselli 2014, pp. 155-156. 40 41

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Anna Chiara Fariselli

Quanto allo stato di drammatica lacunosità della struttura, esso è da connettersi, in primo luogo, alla forte azione erosiva di venti e salsedine, che le tombe poste in questo punto di convergenza delle correnti hanno subito nel corso del tempo. L’ampliamento dello scavo ha però evidenziato la motivazione principale di questa condizione: lo sfruttamento a cava del bancone roccioso contiguo a quello intagliato dai fossori di età punica. In tutto il settore, infatti, si sono messi in luce profondi tagli regolari di circa 0,10-0,15 m di larghezza, idonei a delimitare blocchi calcarenitici di significative dimensioni, a tutt’oggi in posto appena scalzati dal piano. Siamo dinanzi a una cava lapidea, certamente posteriore alla frequentazione della necropoli in età punica, ma per ora difficilmente posizionabile sul piano della cronologia assoluta, mancando del tutto la stratigrafia di cava, alterata dalla forte manomissione dell’intero contesto. È fondamentale, da questo punto di vista, l’analogia con quanto, poco prima dell’avvio delle ricerche sul Capo, si è riscontrato nello scavo di un settore a mare della necropoli settentrionale di San Giovanni di Sinis. Qui, l’équipe dell’Università di Bologna, sotto la guida di chi scrive, ha operato dal 2009 al 2012 collaborando con quella di Cagliari concessionaria dell’attività42. Al margine occidentale del recente saggio aperto dinanzi all’edificio moderno noto come “osservatorio” o “cupola”, si sono evidenziate le impronte lasciate dai cunei metallici funzionali all’asportazione dei blocchi. Il procedimento estrattivo sembrerebbe posteriore, sebbene s’ignori di quanto, al I secolo d.C., momento in cui si collocano alcune fosse terragne che oggi concretizzano l’ultima fase di frequentazione funeraria del sito43. A partire quindi dagli esiti preliminari della nuova Concessione ministeriale quinquennale sul Capo San Marco sembra già possibile impostare percorsi di lavoro utili a completare la conoscenza della città dei morti di Tharros, e finanche a riscriverne la storia, inquadrando in senso diacronico le diverse modalità di riutilizzo ed eventuale defunzionalizzazione dello spazio funerario, anche grazie alla straordinaria opportunità di poter disporre di dati di prima mano in relazione ai due poli necropolari principali. Ancora, la minuta documentazione delle strutture grazie all’impiego di tecnologie di rilievo evolute, in parallelo al monitoraggio della falesia battuta dal “mare vivo” – procedura indispensabile allo studio delle modificazioni del profilo costiero e utile alla valutazione del rischio idrogeologico – inaugura una nuova stagione progettuale, in cui l’attività di ricerca appare rigorosamente vincolata alle strategie di conservazione del bene archeologico e di divulgazione della conoscenza storica.

Appendice Valutazioni archeometriche preliminari su scarabeo e laminetta metallica Mariangela Vandini I due reperti sono stati sottoposti ad alcune preliminari indagini diagnostiche per una prima indicazione sullo stato di conservazione, sulle tecniche di lavorazione e sui materiali costituenti. Si è dapprima proceduto ad una ripresa fotografica nel visibile, modalità macro, del materiale tal quale, allo scopo di evidenziare le manifestazioni di degrado superficiale (Figg. 9-12). Come si può osservare dalla Fig. 9, lo scarabeo appare in condizioni di conservazione tali da non comprometterne la salvaguardia, caratterizzate da diffuse concrezioni superficiali, di prevalente origine inorganica (depositi terrosi con alcune diffuse inclusioni di resti vegetali); ad una osservazione più accurata si evidenzia la presenza di una fessurazione apparentemente superficiale e che, perciò, non interessa l’intera massa dell’oggetto. Le decorazioni presenti sono realizzate meccanicamente.  Cfr. Del Vais infra.   Fariselli 2013a.

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Appendice

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Fig. 13. Spettro EDS riferibile allo scarabeo (elaborazione M. Vandini).

La situazione conservativa risulta senz’altro più critica per quanto riguarda la lamina metallica: essa si presenta frammentaria, con forte presenza di alterazione che non appare solo superficiale poiché l’oggetto mostra esfoliazione diffusa e fragilità strutturale che possono metterne a rischio la conservazione. Al fine di operare con la metodologia di intervento conservativo più opportuna, si è ritenuta fondamentale la caratterizzazione preliminare dei materiali costituenti i due oggetti, realizzata con la tecnica della microscopia elettronica a scansione abbinata a microanalisi (SEM-EDS) sugli oggetti tal quali (strumentazione impiegata SEM FEI Inspect S). La Fig. 13 mostra uno spettro EDS ottenuto da un’area dello scarabeo in cui la presenza di concrezione superficiale è ridotta: la composizione chimica elementare mostra la predominante presenza di silicio (Si), accompagnato da potassio (K), calcio (Ca) e magnesio (Mg) compatibili con la composizione mineralogica della steatite. La Fig. 15 mostra una microfotografia in elettroni retrodiffusi (BSE) della superficie della lamina metallica: le aree grigie rappresentano le concrezioni superficiali (a base silico-alluminatica e calcarea) mentre i cristalli di colore chiaro sono costituiti in prevalenza da argento, come risulta nello spettro EDS riportato in Fig. 14, confermando perciò che il metallo costituente principale della lamina è l’argento. La presenza di cloro (Cl) è indicativa della formazione di cloruri quali prodotti di alterazione del metallo.

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Mariangela Vandini

Fig. 14. Spettro EDS riferibile alla laminetta (elaborazione M. Vandini).

Fig. 15. Microfotografia in elettroni retrodiffusi riferibile alla laminetta (foto M. Vandini).

LA NECROPOLI FENICIA E PUNICA DI THARROS – CAPO SAN MARCO: NUOVE RICERCHE PER LA RICOSTRUZIONE DI UN PAESAGGIO FUNERARIO IN 3D

Federica Boschi Michele Silani

Il quartiere funerario corrispondente alla fase fenicia e punica di Tharros, noto come “meridionale”, localizzato sul Capo San Marco a sud dell’istmo Sa Codriola che collega il promontorio basaltico alla parte più interna della penisola, è da tempo oggetto di scavi e ricerche condotte dall’Università di Bologna1. Le nuove ricerche del DiSCi, volte al censimento, la mappatura e la documentazione del record archeologico esistente2, inaugurate nel 2012 con la direzione scientifica di A.C. Fariselli, prevedono anche l’utilizzo sistematico di tecniche geofisiche e geomatiche, applicate con differenti livelli di dettaglio, da una scala che potremmo definire “macro” – relativa all’intero contesto preso in esame – a una scala “micro”, rappresentata dalle singole sepolture fino agli oggetti in esse contenuti. Accanto alla valutazione preventiva del potenziale archeologico sepolto e alla documentazione di dettaglio del patrimonio monumentale esistente e fruibile, le recenti esperienze hanno avviato anche un’attività di monitoraggio dell’intero versante occidentale del promontorio sul quale si sviluppa la necropoli fenicia e punica, con l’intento di fornire un possibile contributo alla tutela del sito. Si tratta, infatti, di un’area particolarmente complessa anche da un punto di vista geologico-strutturale, caratterizzata da differenti cinematismi in atto che concorrono a provocare numerose fratture e conseguenti fenomeni franosi3. Queste differenti dinamiche che caratterizzano il contesto in esame necessitano di   Tra la bibliografia prodotta ci si limita qui a segnalare Acquaro et al. 1999 e Acquaro, Del Vais, Fariselli 2006. Cfr. in questa stessa sede Fariselli supra. 2   Sul tema del paesaggio funerario di Tharros si rimanda a Ead. 2006 e 2008. 3   Tra gli studi di carattere geologico condotti a Tharros si segnalano in particolare le ricerche del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze. Si vedano in proposito Canuti, Casagli, Fanti 1999 e Canuti et al. 2001. Degli stessi autori si veda anche il rapporto pubblicato on line: http://www.afs.enea.it/protprev/www/cases/tharros/tharros. htm. In sintesi gli studi condotti hanno dimostrato che la necropoli meridionale sorge sopra una successione stratigrafica caratterizzata da alternanze di argille e marne, colluvio detritico-argilloso arrossato e con noduli carbonatici, arenarie eoliche medie quarzoso-bioclastiche. Evidenti movimenti in massa interessano sia le argille e le marne sia le arenarie, e convergono a determinare nel settore e nell’intero complesso una morfogenesi in atto, che comporta fratture e frequenti fenomeni franosi. A causa di tali cinematismi l’intero corpo delle arenarie appare interessato da molteplici incrinature ad andamento verticale e/o poco inclinato, a tratti anche guidato proprio dalle antiche strutture sepolcrali ipogeiche. 1

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Federica Boschi, Michele Silani

essere controllate, al fine di predisporre opportuni rimedi per impedire la compromissione di un patrimonio che non è soltanto archeologico e culturale, ma anche di rilevante importanza naturalistica. La necropoli fenicia e punica di Capo San Marco è dunque un sito di grande ricchezza, che merita un’attenzione globale, un approccio olistico, che dalla prevenzione archeologica arrivi fino alla valorizzazione del patrimonio monumentale esistente, rendendolo fruibile almeno sul piano virtuale. Un approccio integrato al quale anche le tecniche geofisiche e geomatiche possono contribuire positivamente. (F.B., M.S.) Le indagini geofisiche Durante la campagna di ricerche e scavi 2012 alcune aree meno note contermini al nucleo dei cavi ipogeici sono state indagate mediante tecniche geofisiche, nel tentativo di verificare ulteriori estensioni della necropoli e il suo rapporto con altri settori dell’abitato fenicio e punico caratterizzati da differenti destinazioni funzionali. Più precisamente, le indagini hanno riguardato l’intero settore che si estende a nord del limite settentrionale della necropoli finora portato in luce dagli scavi, e la strada turistica che ne costeggia il lato est, e sono state condotte utilizzando la tecnica georadar e quella geomagnetica4 (Fig. 1). La strumentazione utilizzata è composta da un georadar IDS RIS MF Hi-Mod 1, equipaggiato con un’antenna a doppia frequenza da 600 e 200 MHz, e da un magnetometro al potassio GEM Systems GSMP-355 (Fig. 2). In considerazione del target della ricerca, le prospezioni sono state condotte con un’elevata risoluzione di indagine, impostando griglie regolari come base per l’acquisizione dei dati che sono poi state percorse dagli operatori con la strumentazione per profili paralleli e ortogonali, fra loro interdistanti 0,25 e 0,50 m ca. In generale, entrambi i sistemi hanno rivelato un significativo contrasto nelle proprietà fisiche tra il terreno, principalmente sabbioso, e le strutture archeologiche sepolte, favorendone la rilevazione strumentale. Purtroppo, la presenza di estese aree a macchia mediterranea su parte della superficie investigata non ha permesso una copertura omogenea e completa dell’intero settore oggetto della ricerca. L’indagine geomagnetica ha dovuto fare i conti con la presenza di condizioni poco favorevoli per questo metodo, come un terreno sabbioso di bassa suscettività magnetica, vistose irregolarità della superficie e un fondo roccioso irregolare poco profondo. Nonostante questo però, la mappa ottenuta in seguito alle misure magnetiche rivela diversi elementi di interesse (Fig. 3). Nella parte centrale e in quella più a nord dell’area indagata, si segnalano alcuni settori caratterizzati da alti valori di magnetizzazione, e, in particolare, alcune anomalie dipolari dalla magnetizzazione termorimanente molto intensa, propria di elementi che hanno subito un processo prolungato di riscaldamento o cottura, come può essere il caso di forni, fornaci, focolari, ma anche di aree di accumulo di materiali di scarto e residui di produzione6. Questo dato sembrerebbe avvalorare   Nella vasta bibliografia dedicata alla geofisica applicata all’archeologia ci si limita a segnalare Gaffney, Gater 2003; Campana, Piro 2009. Per una sintesi si rimanda a Boschi 2009. 5   Si tratta della strumentazione geofisica in dotazione del DiSCi, che negli ultimi anni ha investito con convinzione anche nel settore della geofisica applicata all’archeologia e, più in generale, dell’archeologia preventiva. 6   La magnetizzazione detta “termo-rimanente” viene acquisita da sostanze contenenti minerali magnetici, scaldate oltre una certa temperatura caratteristica di ogni minerale magnetico (temperatura di Curie) e poi successivamente raffreddate; durante il raffreddamento, al raggiungimento della temperatura di Curie, la sostanza acquisisce una magnetizzazione parallela al CMT presente in quel momento. Questa magnetizzazione è tipica di rocce vulcaniche e, nei manufatti, di alcune terrecotte particolarmente ricche in ossidi di ferro. Il processo di cottura delle argille spesso produce ossidi di ferro che al raffreddamento acquisiscono una magnetizzazione rimanente molto intensa (Gaffney, Gater 2003). 4

La necropoli fenicia e punica di Tharros – Capo San Marco

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Fig. 1. Aree indagate con la geofisica (metodi georadar e geomagnetico) durante la campagna 2012. Restituzione su immagine da satellite GeoEye (2011).

Fig. 2. Strumentazione geofisica utilizzata per i rilievi. A sinistra, il georadar IDS RIS MF Hi-Mod 1 (antenna 600-200 MHz). A destra il magnetometro GEM Systems GSMP-35.

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Federica Boschi, Michele Silani

Fig. 3. Risultati dell’indagine geomagnetica. Mappa relativa all’anomalia di campo posizionata sul DTM ottenuto mediante tecnologia rilievo Lidar (free access dal portale della Regione Sardegna).

ulteriormente l’ipotesi, già da tempo avanzata, circa la presenza di un quartiere artigianale o, più in generale, di un’area a principale vocazione produttiva, immediatamente a nord della necropoli7. Nella parte più a sud del settore indagato, sulla mappa sono inoltre leggibili diverse anomalie dallo sviluppo regolare, interpretabili, per forma, dimensioni e orientamento, come ulteriori sepolture. Al contrario, non sembra riconoscersi un vero e proprio limite della necropoli, dunque una separazione tra necropoli e città, né tantomeno, una demarcazione fisica rispetto all’adiacente settore di probabile diversa funzione8. Sulla base dei soli dati ricavati con la diagnostica non è ovviamente possibile spingersi troppo oltre nell’interpretazione, tuttavia, da una riflessione maturata insieme alla direzione di scavo, mettendo insieme le informazioni desumibili dalla lettura della mappa magnetica e considerazioni di carattere più strettamente archeologico, non è improbabile ipotizzare un cambiamento funzionale di questo settore investigato con la diagnostica, da zona di necropoli a quartiere artigianale, secondo uno schema già attestato a Tharros, riconoscibile nelle tracce di deposizioni arcaiche distinte presso le pendici occidentali della collina di Murru Mannu, successivamente intaccata da un quartiere metallurgico, e nella Byrsa di Cartagine9.   Da tempo, infatti, la direzione di scavo ha ipotizzato la presenza di un quartiere artigianale a nord del limite settentrionale della necropoli, anche in seguito alle ricognizioni di superficie realizzate a Capo San Marco e alla raccolta in questo settore di scorie e scarti di produzione ceramica (cfr. Fariselli, supra). 8   L’anomalia a sviluppo lineare visibile sulla mappa nella parte più meridionale dell’area indagata è piuttosto riferibile alla strada moderna, utilizzata per la sosta e la manovra del trenino turistico che conduce i visitatori del parco archeologico fino all’istmo di Capo San Marco. 9   Sulle ricerche presso l’area tharrense di Murru Mannu si veda di recente Secci 2012. Per gli studi e la bibliografia precedente si rimanda ad Acquaro 1995. 7

La necropoli fenicia e punica di Tharros – Capo San Marco

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Fig. 4. Overlay della mappa geomagnetica sul DTM dell’istmo di Capo San Marco.

Per favorire la fase interpretativa dei dati, la mappa geomagnetica è stata poi applicata al modello digitale del terreno, in modo da enfatizzare eventuali corrispondenze fra le principali anomalie magnetiche rilevate e l’andamento della superficie del terreno (Fig. 4). Nel caso del metodo georadar, le misure sono state acquisite ai nodi di reticoli ortogonali, percorrendo le griglie in due direzioni. Potendo lavorare in adiacenza del limite di scavo, si è approfittato di una delle sezioni esposte per eseguire la taratura della strumentazione radar, realizzando il rilievo trasversalmente alla lunghezza della stessa, dove erano riconoscibili residui strutturali in grado di generare una riflessione del segnale. Conoscendo la profondità di tali elementi, è stato dunque possibile calcolare la velocità dell’onda elettromagnetica nel terreno in questo punto che però, è utile ricordare, viene assunta come costante per l’intera indagine, mentre in realtà, varia di sezione in sezione sulla base delle caratteristiche locali del suolo, della presenza o meno di strutture o roccia affiorante e delle condizioni di umidità, benché si tratti di variazioni generalmente contenute. In questo caso, la velocità di propagazione media dell’onda elettromagnetica è stimabile in circa 0,12 m/ns (ns = nanosecondi). Lungo ciascun profilo i dati sono stati acquisiti ad intervalli regolari ogni 10 cm ai nodi di maglie rettangolari, percorse lungo due direzioni ortogonali. Le registrazioni sono state effettuate nell’intervallo di tempo 0-128 ns. Utilizzando un’antenna a doppia frequenza (600-200 MHz) le acquisizioni sono state realizzate contemporaneamente con entrambe le antenne, ottenendo una diversa risoluzione dei segnali radar. In fase di post-processing, sui dati è stata applicata una procedura di elaborazione 2D caratterizzata da: analisi in frequenza delle tracce registrate; modifica manuale dell’amplificazione; applicazione di filtri low-pass, per l’eliminazione del disturbo in bassa ed alta frequenza; rimozione del background (Fig. 5). Una volta così elaborati, i dati sono stati campionati a intervalli regolari di tempo in modo da ricavare, per ogni profondità, una matrice delle corrispondenti ampiezze, e interpolati per ottenere le time-slices, rappresentazioni bidimensionali relative a varie profondità del volume di sottosuolo investigato10. I risultati conseguiti sono in generale interessanti (Fig. 6). Infatti, nel settore indagato in adiacenza dell’area di scavo si segnalano, a partire dalla profondità di circa 30-40 cm, diverse sorgenti di riflessioni riferibili con buona probabilità a sepolture (Fig. 7). In particolare, nella parte centrale della   Sulla tecnica delle time-slices si vedano Conyers, Goodman 1997 e Conyers 2004. Una rapida sintesi è anche in Boschi 2009. 10

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Fig. 5. Uno dei profili georadar acquisiti. Le anomalie osservabili (asse x, p.m. 0,60 e 1,90) sono riferibili a sepolture.

Fig. 6. Risultati dell’indagine georadar. Time-slices radar relative a profondità comprese tra 0,40-0,70 m ca, georeferenziate su immagine da satellite GeoEye.

griglia, si distingue un’anomalia localizzata che, per forma, dimensioni e orientamento, perfettamente coerente con gli adiacenti cavi ipogeici messi in luce dagli scavi, sembrerebbe compatibile con una tomba a pianta pseudo-quadrangolare. La visualizzazione tridimensionale riportata nella Fig. 8a, che consente di osservare simultaneamente e in maniera integrata i profili e le mappe radar, e di apprezzare l’andamento e il rapporto fra gli elementi che hanno generato le riflessioni del segnale, permette di ipotizzarne un’articolazione su due livelli, con una camera, di lunghezza e larghezza piuttosto omogenee, comprese fra 1,60 e 1,80 m ca, e un probabile accesso semi-verticale, con sviluppo in asse rispetto

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Fig. 7. Dettaglio dell’area indagata in adiacenza allo scavo della campagna 2012. Slice radar relativa a una profondità compresa fra 0,30-0,60 m ca. Le anomalie riferibili a sepolture presentano forma, dimensioni e orientamento analogo alle tombe portate in luce dallo scavo (in nero sul rilievo grafico).

alla camera, anch’esso di circa 1,80 m di lunghezza ma di larghezza più ridotta, secondo una tipologia che è già ampiamente attestata nella necropoli meridionale (in particolare nelle sepolture T1, T3, T7, T14, T25)11. Inoltre, coerentemente a tutti i casi già noti, la presunta camera sembrerebbe ricavata a un livello inferiore – di circa 0,50 m – rispetto al piano della trincea, come si evince anche dal modello tridimensionale ottenuto in seguito all’interpolazione dei dati, che rende il volume degli elementi sepolti riflessi dalle onde radar (Fig. 8b). Nella stessa mappa sono riconoscibili ulteriori anomalie locali, probabilmente riferibili ad altre tombe a fossa, pseudo-ovali o ellissoidali, scavate nella roccia e di diverse dimensioni. Interessanti sono anche i dati che provengono dalle altre aree indagate, che sembrano tutte confermare un’estensione della necropoli, in precedenza sconosciuta, in un vasto settore (di almeno 1000 mq) a nord degli attuali limiti di scavo. Nella griglia realizzata a nord-ovest dello scavo, è ancora una volta riconoscibile e ricostruibile dal dato tridimensionale radar una sepoltura scavata nella roccia, di forma pseudo-ovale e della lunghezza di circa 1,50 m (per la visualizzazione in planimetria si rimanda alla Fig. 6). Le interpretazioni qui avanzate sono da intendere allo stato attuale come semplici ipotesi, che derivano proprio dall’interpretare i dati geofisici in una prospettiva e con una consapevolezza archeologica, ma che non possono escludere altri elementi contingenti che potrebbero aver inciso sulla risposta strumentale ottenuta, quali il banco roccioso sottostante ed eventuali interventi di cava. Tuttavia, cre  Fariselli 2006, pp. 320-333.

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Fig. 8. Restituzioni 3D del volume di sottosuolo investigato nel settore adiacente all’area di scavo 2012; a: l’interpolazione di profili e di una slice radar permette di riconoscere una tomba forse a pianta pseudoquadrangolare con accesso semi-verticale, posto a un livello superiore; b: visualizzazione 3D dello stesso settore con resa dei volumi delle principali sorgenti di riflessione radar, interpretabili come sepolture di varie forme e dimensioni.

diamo che tali indizi possano contribuire alla programmazione futura e alla definizione della strategia di ricerca per le prossime campagne di scavo, durante le quali si auspica di poter procedere alla loro verifica tramite ispezione diretta. (F.B.) Le indagini topografiche Come evidenziato in precedenza nella nota introduttiva al presente contributo, obiettivo ultimo del progetto è la ricostruzione del paesaggio funerario della necropoli fenicio-punica di Capo San Marco, che a partire dai dati raccolti dalle indagini archeologiche possa giungere dapprima a un modello di documentazione tridimensionale dei resti presenti e in un secondo momento alla vera e propria ricostruzione virtuale del paesaggio antico. Proprio per questo si è deciso di impostare l’attività di documentazione topografica per differenti step, calibrati in funzione di un programma generale di indagine pluriennale con diversi obiettivi intermedi. La ricostruzione finale del paesaggio funerario, con la sua modellazione tridimensionale e la creazione di un ambiente virtuale per la divulgazione e la fruizione del sito, costituisce il nucleo di un mosaico di livelli di indagine in parte a sé stanti e in parte necessari alla realizzazione dello stesso modello finale (Fig. 9). Si è dunque reso fondamentale stabilire per prima cosa i vari livelli di dettaglio che dovranno caratterizzare il modello virtuale e le diverse tecniche topografiche da applicare per la generazione dei modelli tridimensionali parametrici (fotogrammetria, fotomodellazione, laser scanning, DGPS, GIS)12. Come ormai diffuso nei progetti per la realizzazione di un sistema spaziale di Realtà Virtuale, il processo di lavoro è infatti caratterizzato dall’utilizzo di tutte le fonti di informazioni utili alla ricostruzione del paesaggio antico, da diversi ordini di scala di indagine (da una visione olistica fino a quella di dettaglio), attraverso l’integrazione di tutte le tecniche topografiche di rilievo, alla cui base si pone la creazione di un progetto GIS per la gestione di tutti i dati utili per i successivi livelli di elaborazione13.   Forte et al. 2006, p. 94.   Pietroni 2008, p. 58.

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La necropoli fenicia e punica di Tharros – Capo San Marco

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Fig. 9. Protocollo di indagine pluriennale per la ricostruzione del paesaggio funerario della necropoli di Capo San Marco.

Come obiettivi paralleli, ma allo stesso tempo integranti per la ricostruzione del paesaggio antico, si pongono infatti due ulteriori elementi: la realizzazione di una sistema informativo tridimensionale per la gestione di tutte le informazioni archeologiche e per la ricostruzione di fasi con valenze strutturali e storiche14, e il monitoraggio della situazione ambientale del paesaggio costiero, che si caratterizza per la presenza delle sepolture oggetto di indagine soggette alla continua opera di erosione a causa degli agenti atmosferici legati all’azione del mare, la quale potrebbe portare nei prossimi anni alla loro definitiva scomparsa, più di quanto non sia già avvenuto15 (Fig. 10). Le considerazioni metodologiche e gli obiettivi finali sin qui illustrati hanno costituito il background di partenza del progetto e, in particolare, della prima campagna di indagini esposte, che è stata prin  Cattani 2008, p. 25.  Occorre sottolineare come, in sinergia con la direzione di scavo, si è ritenuto necessario intraprendere un monitoraggio, mediante un rilievo di dettaglio tridimensionale laser scanner, in particolare del settore occidentale del sito di Tharros sottoposto a continue dinamiche di erosione e crollo a mare delle strutture: questa strategia di intervento potrà garantire un’autentica operazione di monitoraggio, attraverso la realizzazione di scansioni ripetute a distanza di intervalli di tempo, che permettano di verificare i cambiamenti avvenuti nel sito anche, ad esempio, da un anno all’altro. 14 15

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Fig. 10. Vista della falesia costiera soggetta a fenomeni franosi. È possibile osservare diverse sepolture in parte già distrutte.

cipalmente intesa come un primo approccio al contesto, funzionale ad impostare le basi del lavoro in programma per i prossimi anni. Si è dunque cercato, da un lato, di sperimentare differenti tecniche di rilievo topografico e architettonico per la realizzazione dei modelli tridimensionali della necropoli meridionale di Capo San Marco e, dall’altro, di gettare le basi topografiche necessarie come supporto alle ricerche archeologiche future e alle indagini geofisiche in precedenza descritte. In considerazione di una serie di aspetti di carattere metodologico e pratico16 la strategia di lavoro adottata durante la prima campagna topografica a Capo San Marco nel luglio del 2012 può essere sintetizzata nei seguenti punti: – valutazione della documentazione pregressa; – sopralluogo e progettazione del rilievo topografico; – realizzazione di una solida base di capisaldi topografici; – rilievo topografico e scansioni laser mediante Imaging Station (IS); – rilievo fotogrammetrico; – elaborazione dei dati; – realizzazione delle prime restituzioni tridimensionali. Prima di procedere alle operazioni di acquisizione dei dati sul campo, è stata raccolta e analizzata la base documentaria pregressa, che si è rivelata piuttosto lacunosa in termini di rilievo sia tradizionale sia   Sempre valide, a nostro avviso, le valutazioni di metodo da effettuare al momento della documentazione di uno scavo archeologico esposte in Laurenza, Putzolu 2008. In particolare, a nostro avviso, è necessario considerare il rapporto tra oggetto da rilevare/tempi di acquisizione ed elaborazione. 16

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Fig. 11. Materializzazione a terra di uno dei capisaldi della rete di inquadramento di 1° ordine appositamente creata per le attività topografiche nel sito di Tharros.

strumentale. La documentazione prodotta dai vecchi scavi, infatti, era quasi inesistente o, al massimo, limitata a pochi sommari disegni, impossibili da ricollocare con precisione nello spazio17. A seguito di una mirata ricognizione del sito, come sottolineato in precedenza, proprio ai fini di impostare le basi per un’attività di ricerca a lungo termine, si è deciso di procedere, per prima cosa, all’inquadramento topografico dell’area di Capo San Marco attraverso la creazione di una rete di capisaldi permanenti, che possa fungere da base di riferimento per tutte le future attività di rilevamento. Tali capisaldi sono stati posizionati in diversi punti del sito, accuratamente selezionati in rapporto alla visuale offerta e alla vicinanza di elementi di riferimento, che li rendano più facilmente ritrovabili anche a distanza di tempo (Fig. 11). Dopo aver materializzato a terra tali punti, si è provveduto alla loro misurazione topografica mediante GPS differenziale18, realizzando un rilievo di tipo statico con differenti tempi di acquisizione (variabili tra i 20 e 30 minuti a punto) in funzione della distanza tra ricevitore base (master) e ricevitore mobile (rover). Per tutti i capisaldi sono state realizzate delle monografie, ovvero delle apposite  Cfr. Fariselli supra, nota 5.   Lo strumento utilizzato è un DGPS Topcon Hyper Pro di proprietà del DiSCi. Per le caratteristiche tecniche si veda http://www.topcon.com.sg/survey/hiperpro.html. 17 18

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Fig. 12. Monografia di uno dei capisaldi.

schede sintetiche descrittive, che, oltre a riportare le coordinate assolute di ogni punto, sono corredate da una documentazione fotografica e da tutti gli elementi per una chiara identificazione dei punti sul terreno (Fig. 12). La presenza nel sito di un caposaldo della rete primaria di inquadramento nazionale IGM95 presso la Torre di San Giovanni di Sinis, ha favorito notevolmente le varie fasi del lavoro, dall’acquisizione all’elaborazione19. Il ricevitore master è stato infatti posizionato sul caposaldo IGM, riducendo i tempi di acquisizione e favorendo l’elaborazione in post-processing degli altri punti acquisiti grazie all’utilizzo delle coordinate assolute già disponibili (Fig. 13).   Si tratta del caposaldo 216901A (528 sez. III, 216 ISE) della rete primaria di inquadramento IGM95, con quota derivata dal modello del geoide ITALGEO2005. 19

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Fig. 13. Caposaldo della rete primaria di inquadramento nazionale IGM95 nei pressi della Torre di San Giovanni di Sinis.

A partire dal caposaldo IGM95 sono state così create due reti di inquadramento: una di 1° ordine, costituita da tre capisaldi (indicati con triangoli), e una di 2° ordine, composta da 9 punti di stazione (indicati con quadrati) (Fig. 14). All’interno del programma pluriennale, anche questo aspetto topografico di base è stato progettato e realizzato con finalità di programmazione. Infatti, le 9 stazioni della rete di 2° ordine sono state posizionate in diretta funzione dell’inquadramento topografico dei due settori del sito nei quali si prevede di intervenire nei prossimi anni, ovvero, la necropoli meridionale e il “tempio” romano presso Capo San Marco. I punti di stazione presenti in ciascun’area risultano perfettamente traguardabili e riferibili dall’una all’altra, senza dover ricorrere necessariamente all’ausilio di ricevitori GPS, ma anche solo mediante l’utilizzo di teodolite ottico-meccanico o total station. La seconda parte di lavoro sul campo ha previsto l’acquisizione dei dati per la realizzazione di un rilievo tridimensionale laser e fotogrammetrico del settore più settentrionale della necropoli riportato in luce dai vecchi scavi, composto di oltre dieci tombe, e di un piccolo gruppo presente invece nella parte centrale del settore di necropoli prescelto come Area A, costituito di sole tre sepolture, tra le quali una si distingue per la presenza a fianco della porta di accesso di un rilievo in nicchia originariamente rappresentante un betilo (Fig. 15). Per la realizzazione del rilievo delle due aree è stata utilizzata una stazione totale motorizzata Imaging Station (IS), in grado di effettuare rilievi topografici di dettaglio, scansioni a nuvole di punti e acquisizione di immagini correlate direttamente dallo stesso terminale20. Lo strumento permette quindi   La scelta della strumentazione è stata vincolata dalla mancata disponibilità, al momento dei lavori della campagna 2012, di altri strumenti a nostro avviso più idonei per questo tipo di rilievo, quali laser scanner terrestri di ultima genera20

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Fig. 14. Elaborazione mediante GPS differenziale delle reti di inquadramento di 1° e 2° ordine appositamente create per le attività topografiche nel sito di Tharros.

di integrare tutte le funzioni di una stazione totale motorizzata ad alta precisione, come la misurazione di singoli vertici topografici, con un sistema a scansione laser21. Questa caratteristica risulta il principale vantaggio nell’utilizzo di questo strumento dal momento che permette di correlare direttamente le nuvole di punti acquisite durante le scansioni laser attraverso la creazione di una rete di inquadramento poligonale dell’oggetto da rilevare22. Dopo aver creato infatti una robusta base di appoggio topografico zione, di cui il DiSCi si è dotato nel 2013. Per quanto riguarda le differenze tra l’Imaging Station e i sistemi laser scanner si veda da ultimo Capra, Dubbini, Giorgi 2009. Per le specifiche tecniche dello strumento si veda http://www.topconpositioning.com/products/total-stations/imaging-and-scanning/imaging-station. 21   Si tratta di un sistema di scansione mediante un laser distanziometrico ad impulsi a tempo di volo (TOF, Time Of Flight). L’onda elettromagnetica viene emessa da un sensore laser di Classe 1. Per un quadro teorico di riferimento sui principi di laser scanner si veda Capra, Costantino 2007, pp. 485-529. 22   A nostro avviso questo elemento costituisce l’unico vero vantaggio nell’utilizzo di questo strumento rispetto a un laser scanner terrestre che ovviamente necessita di un rilievo di appoggio mediante stazione totale o DGPS per la georeferenziazione delle scansioni in un sistema di riferimento che non sia locale. Il laser scanner terrestre, tuttavia, sia in termini

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Fig. 15. Dettaglio del rilievo della nicchia originariamente rappresentante un betilo: nuvola di punti, DSM e ortofoto.

costituita da una poligonale formata da 23 punti di stazione, sono state acquisite complessivamente 23 scansioni con passo di acquisizione compreso tra 0,5 e 1 cm. Per il gruppo delle dieci tombe, le scansioni sono state eseguite da numerosi e diversi punti di presa che, nel caso dell’unica tomba a camera ben conservata nella parte centrale del settore rilevato, hanno comportato anche il posizionamento di punti di presa all’interno della camera, in modo da ottenere un rilievo tridimensionale anche dell’interno della sepoltura (Fig. 16). Il rilievo del gruppo delle tre tombe, fra cui quella con il betilo in nicchia, è stato realizzato con un grado di dettaglio superiore nell’acquisizione delle misure (0,1 cm), in modo da documentare con estrema precisione proprio il particolare della decorazione, purtroppo in fase di deterioramento a causa degli agenti atmosferici (Fig. 17). Inoltre, in questo caso il rilievo ottenuto acquisisce significato per la posizione in cui si trovano le tombe, particolarmente esposta verso ovest e al rischio di erosione e crollo a mare. Sebbene il numero delle scansioni effettuato per il gruppo delle dieci tombe sia stato considerevole anche in virtù della complessità delle geometrie da rilevare (volumi e spazi molto profondi e stretti), il passo di acquisizione di 0,5-1 cm, vincolato e scelto sulla base dei tempi di acquisizione legati allo strumento utilizzato23, è risultato parzialmente sufficiente per gli obiettivi del progetto, e proprio per questo si è deciso di integrare il rilievo topografico con un secondo rilievo fotogrammetrico. In questo modo è stato inoltre possibile incrementare la risoluzione fotografica insufficiente dell’IS Imaging Station che, per quanto molto utile per la colorazione della nuvola di punti generata, risulta insufficiente per qualsiasi analisi qualitativa sotto il profilo architettonico e archeologico. Si è dunque deciso di applicare tecniche di fotogrammetria basata su algoritmi che permettono di ottenere una nuvola di punti tridimensionale dell’oggetto documentato attraverso una sequenza di immagini fotografiche non ordinate e non calibrate. È stato recentemente evidenziato, infatti, come attraverso l’utilizzo integrato di algoritmi propri della computer vision, come l’algoritmo di Structure from Motion (SfM), e di fotogrammetria, come gli algoritmi multi-view stereo (MVS) e di bundle adjustement, alcuni software permettano di ricostruire sia il modello 3D dell’elemento fotografato sia la posizione della camera al momento dello scatto, utilizzando le corrispondenze di un determinato punto presente su una serie di immagini sovrapposte acquisite da una camera in movimento intorno di caratteristiche tecniche (peso, autonomia delle batterie, gestione tramite software di bordo e applicativi esterni), che di precisione strumentale, tempo di acquisizione, tempo di elaborazione dei dati, a nostro avviso, risulta più vantaggioso. Proprio per questo motivo dalla campagna 2013 si è deciso di utilizzare un laser scanner terrestre Faro CAM2 Focus 3D, recentemente acquistato dal DiSCi e non disponibile durante la campagna 2012. Al momento della stesura del presente testo è doveroso segnalare che i dati acquisiti durante il luglio 2013 mediante il laser scanner Faro CAM2 Focus 3D non erano ancora stati elaborati e pertanto non sono stati inseriti. Tuttavia la differenza notata semplicemente sulla base dei dati grezzi ha permesso di effettuare alcune considerazioni esposte nel testo e di definire il laser scanner come lo strumento più adatto per gli obiettivi proposti dal progetto. Per recenti lavori realizzati con l’IS Imaging Station si vedano Urcia, Montanari 2012 e Curci, Urcia 2011. 23  L’IS Imaging Station permette l’acquisizione di circa 20 punti al secondo.

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Fig. 16. Attività di rilievo topografico mediante IS Imaging Station: posizionamento del punto di presa per la scansione laser all’interno della camera sepolcrale.

Fig. 17. Nuvola di punti del gruppo delle tre tombe con il betilo in nicchia scansionato con dettaglio superiore.

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Fig. 18. Nuvola di punti del gruppo delle dieci tombe realizzata mediante rilievo fotogrammetrico.

all’oggetto fotografato24. Tale procedura permette di ovviare alla necessità di conoscere i parametri di calibrazione e di posizione della camera al momento dell’acquisizione e di possedere una buona distribuzione di punti di controllo, parametri impiegati durante il processo fotogrammetrico rigoroso25. Possono dunque essere utilizzate semplici camere Reflex di medio formato per ottenere ottimi risultati in termini di precisione e tempi di elaborazione26. Il software utilizzato nell’ambito del progetto per l’elaborazione delle immagini oblique è stato Agisoft PhotoScan Pro (v. 9.0), che mediante l’acquisizione di 48 fotogrammi e circa 20 punti di controllo misurati mediante stazione totale, ha permesso di ottenere una nuvola di punti 3D del complesso delle dieci tombe (Fig. 18). L’ultima fase di lavoro sul campo ha previsto la misurazione mediante GPS differenziale di alcuni punti della poligonale creata per il rilievo topografico delle tombe e di alcuni punti di controllo del rilievo fotogrammetrico, al fine di integrare e georeferenziare il rilievo topografico all’interno del medesimo sistema di riferimento degli altri dati (DTM, dati geofisici, archeologici) presenti all’interno della piattaforma GIS, la cui base di partenza è stata appositamente creata durante la prima fase di elaborazione27.   Sulle varie applicazioni di queste tecniche fotogrammetriche si veda in particolare Verhoeven 2011; Id. et al. 2012 e D’Andrea, Barbarino 2012. 25   La presenza di GCP (Ground Control Point) a terra o di parametri di calibrazione della camera permette tuttavia di migliorare i risultati finali. 26   Va inoltre sottolineato come il flusso di lavoro completamente automatizzato consente, anche a un non-specialista, di elaborare migliaia di immagini aeree per la formazione di prodotti professionali di tipo fotogrammetrico. 27   Un accenno va fatto infatti alla sistematizzazione dei dati acquisiti. È stato impostato un progetto GIS che permette la gestione di tutte le informazioni raccolte e che ha beneficiato anche di una base di lavoro, particolarmente preziosa, che è stato possibile scaricare direttamente e gratuitamente dal sito web della Regione Sardegna, vale a dire un modello digitale del terreno (DTM) realizzato tramite tecnologia laser da piattaforma aerea (un rilievo LIDAR). Questo DTM ha costituito la base di appoggio delle prime restituzioni e che ha permesso di integrare perfettamente la documentazione finora prodotta, anche in considerazione del fatto che è una tecnica in grado di fornire delle mappe altimetriche del terreno estremamente accurate, riuscendo a penetrare anche attraverso le coperture vegetazionali, che a Tharros sono largamente presenti e che fanno parte del suo patrimonio non solo storico-archeologico ma anche naturalistico e ambientale. 24

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Fig. 19. Prima elaborazione e produzione di documentazione di dettaglio per lo studio archeologico (pianta, sezione e prospetto).

Successivamente si è proceduto alle prime elaborazioni dei dati acquisiti attraverso l’utilizzo di software specifici: Image Master Pro per quanto riguarda le scansioni laser acquisite mediante l’IS Imaging Station e, come già anticipato, Agisoft PhotoScan Pro (v. 9.0) per la restituzione della nuvola di punti del rilievo fotogrammetrico28. Per quanto riguarda le scansioni laser è stata effettuata un’accurata analisi dei dati acquisiti e si è proceduto a un primo filtraggio della nuvola di punti per eliminare gli effetti di disturbo, provocati, ad esempio, da alcuni elementi vegetazionali. Successivamente si è proceduto alla scomposizione in livelli delle aree scansionate, favorendo la percezione complessiva, in termini di volumi, forme e dimensioni al fine di ottenere una prima elaborazione base in termini di documentazione di dettaglio per lo studio archeologico vero e proprio, dalle piante, alle sezioni, ai prospetti (Fig. 19). Ultimo step nella fase di elaborazione dati è stata la creazione di due modelli delle superfici (DSM): il primo generato, a partire dalla nuvola ripulita delle scansioni laser, all’interno del software open source Meshlab29 e il secondo realizzato mediante il rilievo fotogrammetrico30. I due modelli sono stati poi integrati fra di loro e vi è stata infine applicata l’ortofoto di dettaglio per la resa realistica (Fig. 20). (M.S.)

  Ovviamente la prima fase di elaborazione ha previsto anche il post-processing dei dati del rilievo statico GPS effettuato con il software Topcon Tools (v. 8.2.3), al fine di ottenere le coordinate assolute per la georeferenziazione dei rilievi. 29   È stato utilizzato il filtro Poisson Surface Reconstruction per la creazione delle mesh. 30   Il DSM da rilievo fotogrammetrico è stato ottenuto sempre mediante il software Agisoft Photoscan Pro. 28

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Fig. 20. Prima elaborazione del modello tridimensionale del gruppo delle dieci tombe texturizzato con ortofoto di dettaglio per la resa realistica.

A conclusione del presente contributo ricordiamo che i risultati qui esposti costituiscono soltanto un punto di partenza: si tratta infatti di una prima breve campagna di ricognizione nel sito di Tharros, volta principalmente alla valutazione del contesto, alla sperimentazione delle tecniche di indagine31 e alla programmazione delle ricerche dei prossimi anni32. È bene ricordare, ancora una volta, che la prospettiva finale è la ricostruzione dell’antico paesaggio funerario, sia con una valenza scientifica, sia con una valenza divulgativa destinata alla valorizzazione e alla pubblica fruizione di questo patrimonio, attraverso una documentazione completa, tecnologicamente avanzata e, soprattutto, conservativa, in particolare per quei settori che sono sottoposti a frequenti dinamiche di distruzione e rovina, per i quali potrebbe rappresentare un giorno un’autentica memoria storica di qualcosa di non più recuperabile. (F.B., M.S.)

  Come in precedenza ricordato in nota, il DiSCi si è dotato, a seguito della campagna 2012, di un nuovo laser scanner di ultima generazione Faro CAM2 Focus 3D, che amplierà enormemente le potenzialità delle attività di rilievo, in termini di precisione e tempistica di lavoro, e di sperimentazione. 32   Si vorrebbe avviare una ricerca simile di diagnosi e documentazione nella zona del “tempietto” repubblicano presso Capo San Marco, sempre con il duplice fine di contribuire alla ricerca scientifica e alla valorizzazione e fruizione del sito. 31

LE CAVE DI ARENARIA DELL’AREA DI THARROS: RISULTATI PRELIMINARI DI UNA RICERCA ARCHEOLOGICA E ARCHEOMETRICA

Carla Del Vais Silvana M. Grillo Stefano Naitza

Introduzione Lo studio delle cave dell’area tharrense rientra in una più generale ricerca sull’antropizzazione del Sinis dalla preistoria al Medioevo, a cura dell’Università di Cagliari e del Museo Civico di Cabras, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano1. L’esplorazione del territorio condotta già a partire degli anni Novanta ha infatti consentito di mappare numerose aree estrattive, di grande estensione e raggruppate in più complessi di cava, che interessano sia gli affioramenti litoranei delle arenarie pleistoceniche presenti lungo la fascia costiera che si sviluppa dal Capo San Marco verso nord per circa 15 km2, sia zone interne della penisola, connotate in genere da scavi di più limitata potenza ed estensione e legati probabilmente ad uno sfruttamento tradizionale di cui è ancora viva la memoria3. Tali aree sono oggetto di una ricerca interdisciplinare da parte degli scriventi, tuttora in corso, che prevede, oltre all’approfondimento delle tematiche storico-archeologiche, la conduzione di analisi geolitologiche, geominerarie, geomorfologiche e minero-petrografiche dei materiali storicamente estratti. Nella fattispecie, si sta procedendo a realizzare una documentazione puntuale delle cave tramite la schedatura di dettaglio, supportata da un GIS, che prevede la registrazione dei dati geologici, stratigrafici e geomorfologici dei siti, la georeferenziazione con GNSS di tutti i tagli, la descrizione delle   Le ricerche sul territorio sono state condotte a partire dagli anni Novanta da Carla Del Vais e dal Professor Salvatore Sebis nell’ambito delle attività del Museo Civico di Cabras e dal 2006 grazie ad un progetto di ricerca dell’Università degli Studi di Cagliari finanziato dal Comune di Cabras, sempre in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e Oristano e in particolare con il Dottor Alessandro Usai. I risultati dell’indagine, confluiti in un GIS elaborato dalla Dottoressa Valentina Chergia (assegno di ricerca dell’Università degli Studi di Cagliari nell’ambito del programma regionale Master & Back), sono ancora in gran parte inediti. Per un inquadramento preliminare delle cave del Sinis cfr. Del Vais et al. 2006, pp. 315-319; Balletto et al. 2010; Del Vais, Grillo, Naitza 2014 e c.s. 2   Oltre alle cave del Sinis meridionale, oggetto del presente contributo, devono ricordarsi le grandi aree estrattive presenti, da sud a nord, nelle località di Punta Maimoni, Mont’e Corrigas, Is Arutas, Su Bardoni e Muras: cfr. Del Vais et al. 2006, pp. 317-318; Del Vais, Grillo, Naitza 2014 e c.s. 3   Si tratta di ampie aree estrattive presenti in prossimità del villaggio di San Salvatore, principalmente in località Sa Pedrera, Procaxius e San Giorgio. 1

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tracce di cavatura e dell’utilizzo degli strumenti da lavoro, con particolare attenzione ai dati metrici, e l’individuazione delle vie seguite per il trasferimento fino ai possibili punti di imbarco. Al fine di determinare la destinazione del materiale cavato, la cui quantificazione approssimativa è in corso di determinazione a partire dal calcolo dei volumi in negativo, al netto dei residui di lavorazione, si è avviata una ricerca archeometrica che prevede la caratterizzazione mineralogico-petrografica dei materiali estratti, eseguita tramite microscopia ottica e diffrattometria X di campioni prelevati in cava e di materiali messi in opera nel costruito storico. Va precisato che al momento si sono prese in esame le principali emergenze puniche e romane della città di Tharros (Cabras-OR), il centro antico più prossimo alle aree estrattive, e in subordine le strutture funerarie fenicie, puniche e romane di Othoca (Santa Giusta-OR) in cui è noto l’utilizzo dell’arenaria del Sinis, come recentemente riscontrato nel caso della sepoltura a camera costruita individuata negli anni Ottanta presso la chiesa di Santa Severa4; ci si propone a breve di estendere lo studio alle principali fabbriche monumentali di età medievale e post-medievale presenti nel circondario, con il supporto di una ricerca d’archivio sistematica, in ragione della probabile coltivazione dell’arenaria del Sinis anche dopo la fine dell’antichità. La scelta di campionare materiali in opera in strutture edificate in epoche differenti risulta funzionale al tentativo di ricostruire in senso diacronico lo sfruttamento degli estesi affioramenti litici della regione che, come attesta la tradizione orale, si è protratto con tecniche di cavatura tradizionali fino ad anni recenti. Le aree estrattive localizzate dal Capo San Marco alla località Muras sfruttano le estese sequenze arenacee pleistoceniche che affiorano con buona continuità nel settore costiero e per alcuni chilometri nell’entroterra, che in più punti mostrano un buon grado di cementazione e costituiscono quindi un materiale di facile lavorabilità e con discrete caratteristiche fisico-meccaniche. Tali sequenze, che nel Sinis coprono estesamente le unità del Miocene e del Pliocene5, sono costituite da depositi marini e continentali; i primi comprendono la cosiddetta “Panchina Tirreniana” Auct., costituita da arenarie e conglomerati a cemento carbonatico, trasgressivi sulle sequenze precedenti. Si tratta di originarie facies di spiaggia, da sommersa ad emersa, depostesi nel Pleistocene superiore durante le risalite eustatiche del Marine Isotope Stage 5 (Tirreniano) della scala isotopica dell’ossigeno. Queste facies affiorano diffusamente lungo le coste del Sinis, con potenze comprese tra 0 e 5,40 m s.l.m.6. I sedimenti marini sono ovunque ricoperti da sequenze di depositi continentali con arenarie a stratificazione incrociata che raggiungono 5-6 m di potenza e sono stati in passato interpretati come legati agli eventi della glaciazione würmiana7. Le sequenze includono depositi dunali di retrospiaggia e depositi eolici, con intercalati paleosuoli, croste carbonatiche e conglomerati ad elementi rielaborati della sequenza marina. Localmente, la successione è più articolata e include più episodi trasgressivi marini, alcuni dei quali di età anteriore al Tirreniano8. Le cave Volendo concentrare in questa sede l’attenzione sul rapporto tra il costruito presente a Tharros e le relative aree di approvvigionamento dell’arenaria, si è scelto di approfondire l’analisi delle cave situate nell’area più prossima alla città, dal Capo San Marco al limite settentrionale della borgata di San Giovanni di Sinis, in ragione dei risultati preliminari delle analisi mineralogico-petrografiche che, come si vedrà di seguito, mostrano la compatibilità dei materiali in opera nei monumenti punici e romani con gli affioramenti litici del settore citato e non con quelli localizzati a nord della Punta Maimoni9, che   Le analisi sono state effettuate dal Professor Luigi Massidda e dalla Dottoressa Paola Meloni (Università degli Studi di Cagliari) nell’ambito del progetto “Restauro tomba fenicia in località Santa Severa” (Comune di Santa Giusta-OR, fondi RAS ex L.R. 14/2006). 5   Cherchi et al. 1978; Carboni et al. 2002. 6   Ibidem. 7   Ulzega et al. 1982. 8   Carboni, Lecca 1985; Kindler, Davaud, Strasser 1997; Lecca, Carboni 2007; Andreucci et al. 2009. 9   Del Vais, Grillo, Naitza 2014 e c.s. 4

Le cave di arenaria dell’area di Tharros

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pure in molti casi hanno conosciuto una coltivazione su ampia scala connotata da un’organizzazione del lavoro complessa e non riconducibile ad un prelievo diffuso di tipo tradizionale. Le aree estrattive più meridionali si individuano sul Capo San Marco, rilievo che insieme all’istmo di Sa Codriola conosce da età fenicia e fino a tutta l’epoca romana una prevalente ma non esclusiva destinazione funeraria10; la frequentazione antropica interessa principalmente il settore settentrionale dell’altura, dove affiorano diffusamente le arenarie pleistoceniche che subiscono un intenso sfruttamento sia per l’escavazione dei vani funerari, sia, secondariamente, per la coltivazione delle cave11. Oltre ad un diffuso prelievo litico a danno delle sepolture, poco evidente per la presenza di una folta vegetazione a macchia mediterranea e frutto presumibilmente anche di interventi traumatici di epoca moderna, si osservano chiare tracce di coltivazione dell’arenaria principalmente lungo la fascia costiera nord-orientale del Capo. Ad un centinaio di metri a sud della Torre Vecchia, è visibile al di sotto del pelo dell’acqua, ad una profondità di pochi decimetri, un piano roccioso sub-orizzontale che corre in parallelo alla linea di costa verso sud-ovest per un altro centinaio di metri, sul quale sono chiaramente visibili numerose trincee di estrazione e negativi di blocchi asportati (Figg. 1, n. 1; 2); si tratta evidentemente del piano di cava di un’estesa area di coltivazione, le cui tracce si individuano per brevi tratti anche nel banco roccioso emerso lungo la riva, che è probabilmente da mettere in relazione con le altre aree estrattive localizzate immediatamente a nord, la cui cronologia, pure rimanendo incerta, non può inquadrarsi in età moderna in ragione della sommersione subita12. Più evidenti sono le tracce di cava presenti a nord della Torre, in località Sa Perda ’e S’Altare (Fig. 1, n. 2), già segnalate in letteratura come «probabili banchine portuali fenicio-puniche» o come «un ancoraggio protetto» di natura artificiale13. In particolare, a circa 50 m dalla Torre, si individua un’area quadrangolare ribassata di circa 6 m di lato, con bordi risparmiati solo sui lati orientale e settentrionale (Fig. 3)14; questa, ubicata a ridosso della linea di riva e affiorante quasi al pelo dell’acqua, può ugualmente interpretarsi come fondo cava, benché le tracce estrattive, a causa delle incrostazioni algali e dei depositi di sabbia, siano poco visibili e ridotte a poche trincee molto dilavate. L’area di coltivazione continua senza soluzione ma in forma irregolare per circa 50 m verso nord lungo la costa; alla base della falesia, in prossimità della battigia, compaiono blocchi parzialmente liberati di dimensioni non ricorrenti e trincee di estrazione che continuano al di sotto del livello del mare su brevi superfici rocciose sub-orizzontali che coincidono con il fondo cava. In questo settore l’attività estrattiva è stata condotta a scapito di un’area funeraria romana ad incinerazione secondaria15, impostata su un bancone arenaceo di cui residuano tre grandi elementi isolati ritagliati a gradoni procedendo su tre fronti (Fig. 4), ciascuno dei quali conserva alla sommità una fossa funeraria parallelepipeda di modeste dimensioni, in un caso provvista al bordo di una risega per la sistemazione del chiusino16. Tali   Cfr. da ultimo Fariselli et al. 1999; Acquaro, Del Vais, Fariselli 2006.   Nel settore centrale e meridionale del Capo, occupato da un’estesa effusione basaltica pliocenica (Carboni et al. 2002), le tracce antropiche di età punica risultano assai scarne e concentrate presso il c.d. tempietto rustico (cfr. ad es. Fariselli et al. 1999, pp. 99-100). 12   Una situazione analoga ma assai più estesa e complessa si riscontra nel Sinis presso la Punta Su Bardoni e, in maniera meno evidente, presso la Punta Maimoni: cfr. da ultimo Del Vais et al. 2006, pp. 317-318, fig. 3, a-e; Del Vais, Grillo, Naitza 2014 e c.s. 13  Cfr. Barreca 1986a, p. 16, 1986b, p. 63, figg. 12, n. 20; 13; Linder, Edgerton 1986, p. 47, area 16, tav. I. 14  Cfr. Barreca 1986b, fig. 13; Del Vais et al. 2006, p. 314, fig. 2, a; Del Vais, Grillo, Naitza c.s. 15  Cfr. Fariselli et al. 1999, p. 102; Del Vais et al. 2006, pp. 314, 318, fig. 2, b. L’area agli inizi degli anni Ottanta è stata oggetto di un breve intervento di scavo, rimasto inedito, da parte di Giovanni Tore che ne aveva ipotizzato un utilizzo funerario (viva voce e Fariselli et al. 1999, p. 102); nel maggio del 2009 a breve distanza è stata documentata la presenza di una cassetta litica parallelepipeda collocata in un cavo tagliato nell’affioramento roccioso, in un tratto franato alla base della falesia in seguito al cedimento del costone, provvista di un chiusino in arenaria fissato anche con una sigillatura in piombo, contenente resti ossei incinerati (loc. Sa Codriola, recupero in data 3/05/2009, C. Del Vais e N. Camedda). 16   Fossa localizzata a nord: 85-88 x 34-40 cm, prof. 48 cm; fossa centrale: 54 x 23-24 cm, prof. res. 6 cm; fossa con risega a sud: 76 x 45 cm al bordo, 63 x 34 cm alla risega, prof. tot. 47 cm, h. risega 7 cm. 10 11

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Fig. 1. Carta del settore meridionale della Penisola del Sinis (su base CTR): 1) Cave sommerse del Capo San Marco; 2) Sa Perda ’e s’Altare; 3) Strutture abitative; 4) Tempio c.d. a corte; 5) Tempio c.d. delle semicolonne doriche; 6) Castellum aquae; 7) Fortificazioni del colle di San Giovanni; 8) Fortificazioni di Su Murru Mannu; 9) Acquedotto; 10) Cave meridionali di San Giovanni di Sinis; 11) Necropoli settentrionale (Area B); 12) Necropoli settentrionale (Area A); 13) Cava c.d. “Sala da Ballo”; 14) Cave interne settentrionali di San Giovanni di Sinis (elaborazione C. Del Vais).

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Fig. 2. Cava sommersa lungo il versante nord-orientale del Capo San Marco (foto C. Del Vais).

elementi rocciosi sono segnati sulle facce laterali e su quella superiore da trincee di estrazione tracciate per serie parallele e perpendicolari a delimitare blocchi rettangolari di dimensioni varie, solo parzialmente liberati o già distaccati17; le trincee di estrazione, con fondo piano o a V, hanno una larghezza media di 6-7 cm alla sommità e di 3-5 cm alla base e sono scavate con l’uso di uno strumento a punta18 che ha lasciato segni larghi in media 1,5 cm, visibili anche sulle pareti laterali, coincidenti con i fronti di cava. In corrispondenza del risparmio centrale si evidenzia un blocco parallelepipedo ritagliato su quattro lati che mostra alla base, sul lato meridionale, almeno cinque tacche dovute all’utilizzo di cunei in ferro funzionali al distacco che non è però avvenuto; esse risultano di forma sub-rettangolare ma con bordi laterali leggermente convessi e con fondo piano, sono larghe 4-6 cm, profonde 13-20 cm e sono poste alla distanza reciproca di 5-12 cm. Più a nord, l’area urbana di Tharros offre notevoli spunti di riflessione sia in relazione alle scelte materiche operate nell’edilizia pubblica e privata, che risultano ben chiare e peculiari nelle diverse epoche, sia in riferimento allo sfruttamento del substrato arenaceo su cui si sviluppa parte dell’abitato, che ha costituito, evidentemente, una fonte di approvvigionamento primaria per lo sviluppo della città. Le poche strutture riconducibili ad età punica rivelano l’uso esclusivo come materiale litico dell’arenaria, per lo più tagliata in blocchi messi in opera a secco; possono segnalarsi, tra i   Il modulo più frequente è tuttavia di 50 x 100 cm x 25 h. Su tale tecnica di coltivazione, che prevedeva l’escavazione di trincee di estrazione a delimitare i blocchi che venivano poi staccati con l’uso di cunei, cfr. da ultimo Bessac 1996, p. 205 ss.; Slim et al. 2004, p. 261; Gutiérrez Garcia-Moreno 2009, pp. 262-270; Camporeale, Mascione 2010, pp. 163-164, con bibliografia. Il fatto che la stessa tecnica risulti utilizzata nel Sinis fino all’introduzione della sega, negli anni Settanta, rende estremamente problematico ogni tentativo di datazione degli interventi estrattivi solo su base autoptica. 18   In generale sugli strumenti impiegati nell’attività di cava cfr. ad esempio Bessac 1987, pp. 15-24, 1996, p. 205 ss.; Camporeale, Mascione 2010, pp. 165-166. 17

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Fig. 3. Sa Perda ’e s’Altare: in primo piano il fondo cava interpretato in passato come banchina portuale, sullo sfondo i tre elementi risparmiati della necropoli romana (foto C. Del Vais).

casi più significativi, le fortificazioni del colle di San Giovanni (Fig. 1, n. 7)19 e di Su Murru Mannu (Fig. 1, n. 8)20, erette con grandi conci parallelepipedi, in alcuni casi bugnati; il grande tempio c.d. “delle semicolonne doriche” (Fig. 1, n. 5), costituito da un basamento risparmiato nel bancone roccioso su cui sono messi in opera conci variamente sagomati21; o anche le edicolette originariamente edificate nel tofet cittadino, i cui blocchi, assai vari per forma e dimensione e in parte rivestiti da un fine intonaco beige o colorato, vengono reimpiegati probabilmente nel corso del III secolo a.C. in una struttura militare impiantata a scapito degli strati artigianali22. Più varia risulta la scelta dei materiali costruttivi in età romana, che prevede il ricorso al basalto locale, roccia già utilizzata in età nuragica23, come particolarmente evidente nelle fortificazioni repubblicane di Su Murru Mannu24 e nel sistema viario basolato, e l’impiego sistematico dell’opera cementizia per i grandi edifici pubblici di età imperiale; nonostante ciò l’arenaria rimane in uso sia come materiale esclusivo o prevalente   Cfr. ad esempio Pesce 1966a, p. 144; Tore 1986, pp. 232-233; Acquaro, Mezzolani 1996, pp. 62-63, 92; Giorgetti 1995, 1997, pp. 131-135. L’ipotesi di una profonda ristrutturazione di età romana proposta da Dario Giorgetti non inficia l’attribuzione ad età punica del primo impianto fortificato nell’area. 20   Cfr. ad esempio Barreca 1976; Tore 1986, pp. 230-232; Acquaro 1991, p. 558; Acquaro, Mezzolani 1996, pp. 63-68, 92. 21   Cfr. in generale Pesce 1961a; Tore 1989, pp. 43-44; Acquaro 1991; Acquaro, Mezzolani 1996, pp. 38-45. 22   Cfr. da ultimo Francisi 1995, 2000. 23   Cfr. ad esempio Sebis 1998, p. 127, nn. 86-87; p. 131, n. 28ª, con bibliografia. 24   Cfr. ad esempio Acquaro 1991, p. 558; Ghiotto 2004, p. 24. 19

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Fig. 4. Sa Perda ’e s’Altare: i tre elementi risparmiati della necropoli romana (foto C. Del Vais).

nell’edilizia privata25, in alcuni edifici templari26 e nei condotti fognari27, sia in associazione con il laterizio nelle strutture pubbliche, tra cui le tre terme28, il Castellum aquae (Fig. 1, n. 6)29 e l’acquedotto (Fig. 1, n. 9)30. In relazione allo sfruttamento in età punica del banco di arenaria affiorante in loco, risulta particolarmente significativo il caso del c.d. “tempio monumentale” o “delle semicolonne doriche” (Figg. 1, n. 5; 5-6), impiantato nella sua forma monumentale in età ellenistica e dismesso in età tardo-repubblicana o primo-imperiale31. La struttura consta di un grande basamento gradonato risparmiato nella roccia, decorato su tre lati da semicolonne e lesene scanalate, e di un alzato, variamente ricostruito32, i cui elementi lapidei, smontati in età romana, sono stati utilizzati per realizzare, al limite orientale della gradinata, un basamento quadrangolare e, come componenti di una massicciata realizzata al di sopra del tempio, per sostenere un piano pavimentale in calce33.  Cfr. Ghiotto 2004, pp. 159-161, con bibliografia.   Si può ricordare il c.d. tempio tetrastilo (Ivi, pp. 39-40, con bibliografia) e il c.d. tempietto K i cui blocchi, tuttavia, risultano almeno in parte reimpiegati da una precedente struttura punica, come chiaramente indicato dalla presenza di due conci iscritti: cfr. ad esempio Pesce 1966b, pp. 159-163; Acquaro 1983, pp. 625-628; Tore 1989, p. 44; Ghiotto 2004, pp. 38-39. 27   Le cloache, coperte dal basolato stradale, sono scavate nel bancone arenaceo e, dove necessario, integrate con blocchi squadrati in arenaria. 28   Ghiotto 2004, pp. 118-120, con bibliografia. 29   Ivi, pp. 150-152, con bibliografia. 30   Ivi, pp. 149-150, con bibliografia. 31   Cfr. nota 21. 32  Cfr. Pesce 1961a, coll. 393-395, grafico XIII; Acquaro 1991, p. 549, fig. 8. 33  Cfr. Pesce 1961a, coll. 402-413. 25 26

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Fig. 5. Veduta aerea del tempio “delle semicolonne doriche” (foto A. Sannio).

L’esplorazione dell’area templare condotta negli anni Cinquanta ha determinato la completa rimozione dei depositi stratigrafici relativi all’impianto, alla frequentazione e alla dismissione della stessa, mettendo a nudo la viva roccia; questa conserva, così come i numerosi blocchi presenti delle adiacenze, chiari segni di lavorazione e di attività estrattiva la cui lettura diacronica, anche in ragione delle manomissioni intervenute in età romana, risulta estremamente problematica e non supportata da dati di contesto. L’osservazione delle tracce di lavorazione presenti sulle pareti del basamento risparmiato nella roccia e sulle superfici dei conci dispersi nell’area e reimpiegati ha rivelato l’uso di uno strumento a tagliente trasversale con estremità larga 3,5 cm ca, impiegato per la sgrossatura, in analogia con quanto riscontrato nelle due necropoli puniche della città34; la scarsa diffusione di tali segni potrebbe imputarsi alla successiva regolarizzazione e rifinitura delle superfici, realizzata con uno strumento a punta, con ogni evidenza un piccone, le cui tracce, larghe in media 1,5 cm e ad andamento obliquo spesso incrociato, si attestano diffusamente su tutte le superfici del tempio. Attorno alla struttura sono inoltre visibili segni di lavorazione e tagli ben più evidenti, legati verosimilmente all’impianto e/o alla dismissione dell’area sacra; la stessa conformazione del monumento, in parte risparmiato nel bancone arenaceo, presuppone un’attività estrattiva di materiale litico, intrapresa o proseguita al momento della sua erezione, funzionale sia alla definizione del basamento del tempio, sia, con ogni probabilità, alla cavatura di blocchi per l’edificazione dell’alzato. Lungo il lato settentrionale di tale basamento, tra la fascia ribassata che corre a ridosso dello stesso, connotata da tagli abbastanza regolari interpretati da Pesce come piani di posa del recinto della prima fase dell’area sacra35, e il temenos, si sviluppa uno spazio allungato conformato a gradoni con superficie scabra, su cui si conservano diverse trincee di estrazione (largh. 7-12 cm) ed evidenti segni di piccone (largh. 1,5 Cfr. infra e Paretta 2006, pp. 378-379.  Cfr. Pesce 1961a, col. 377.

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Fig. 6. Lato lungo meridionale del tempio “delle semicolonne doriche” (foto C. Del Vais).

2 cm)36; in prossimità dello spigolo nord-orientale della struttura, si individua un blocco parzialmente liberato (115 x 77 cm), circondato da trincee larghe 8-12 cm. Un altro blocco di 132 x 80 cm, ritagliato solo in parte da trincee consimili, si evidenzia sulla superficie rocciosa affiorante al centro del basamento realizzato in età romana presso l’estremità orientale della gradinata con materiale di spoglio. A sud del tempio, invece, un ampio cavo rettangolare adiacente alla grande cisterna a bagnarola romana, ritenuto da Pesce una «cassetta destinata a contenere terreno vegetale a scopo di coltivazione, cioè il boschetto sacro»37 realizzato in connessione con la fase ellenistica monumentale, presenta in corrispondenza di tre dei quattro angoli trincee di estrazione, larghe 9-14 cm, scavate sulle pareti verticali con andamento leggermente obliquo, in analogia con quanto è spesso riscontrabile sui fronti di cava38. In corrispondenza di tutti i tagli citati si è riscontrata l’incidenza di tracce di lavorazione non dissimili da quelle evidenziate sulla struttura monumentale, vale a dire una prevalenza di segni di uno strumento a punta larghi in genere 1,5 cm ca, tracciati sulle pareti verticali con andamento obliquo anche incrociato. Tale uniformità di attestazione non facilita la distinzione tra gli interventi relativi all’impianto del monumento da quelli, assai probabili, connessi con la trasformazione di età romana e con la definitiva sigillatura del tempio punico attraverso la messa in opera di una potente massicciata e di un pavimento in calce, smontati solo al momento dell’indagine del Pesce e dunque non intaccati dagli invasivi interventi di spoglio perpetrati nella città a partire da età medievale39.  Cfr. Acquaro 1991, fig. 2.  Cfr. Pesce 1961a, col. 379. 38  Cfr. infra per l’area centrale della c.d. “Sala da Ballo” e Del Vais, Grillo, Naitza c.s. 39  Cfr. Acquaro 1984. 36 37

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Il ricorso all’architettura in negativo interessa in modo evidente anche un’area sacra ubicata immediatamente a sud di quella punica appena descritta, nota come tempio c.d. “a pianta di tipo semitico”, secondo la definizione datane dal Pesce, o, più recentemente, come tempio “a corte” (Fig. 1, n. 4)40. La struttura consta di un edificio sacro, conservato solo a livello di base, impiantato al centro di un grande spazio aperto scavato nel bancone arenaceo, delimitato su tre lati da pareti verticali di roccia viva, in età romana rivestite da intonaci policromi; il degrado di questi ultimi, ormai assai lacunosi, consente di individuare sulla superficie rocciosa qualche traccia di lavorazione. In particolare su quella settentrionale sono a vista numerosi segni obliqui larghi 1 cm ca, probabilmente funzionali all’allettamento dell’intonaco, e altri più larghi (1,5 cm) e piatti, forse dovuti ad un’azione di lisciatura delle superfici. Alla frequentazione punica nell’area, ipotizzabile sulla base del ritrovamento all’interno di un pozzo scavato in prossimità del sacello di un consistente numero di vasi attribuiti dal Pesce a tale epoca41, sono probabilmente da ricondurre, tuttavia, i primi interventi a danno del bancone arenaceo, forse in relazione ad una preesistente destinazione sacra dell’area o, altrettanto ipoteticamente, ad una precedente o contestuale attività estrattiva finalizzata all’acquisizione di materiale da costruzione per la città. Evidenti tagli di cava, attribuibili con maggiore plausibilità ad un momento successivo alla dismissione del santuario, sono visibili nei risparmi di roccia che ne definiscono le pareti laterali; nella fattispecie, nel risparmio meridionale, percorso da una canaletta ascrivibile all’impianto fognario di età imperiale, si leggono i piani di distacco di blocchi di grandi dimensioni, coerenti con la giacitura fortemente inclinata verso est del bancone roccioso. Il ricorso dell’architettura in negativo, che consentiva contestualmente il recupero di materiale da costruzione per integrarne l’alzato, è evidente anche in ampi settori abitativi localizzati ugualmente sul versante orientale del colle di San Giovanni. Possono citarsi, tra gli altri, alcuni ambienti di incerta interpretazione localizzati a sud del tempio a corte, uno dei quali, con fondo scavato ad un livello più basso rispetto al piano stradale, presenta sulle pareti incassi quadrangolari forse funzionali all’alloggiamento delle travi lignee di soffitti e pavimenti42. Più in alto lungo il pendio, a ridosso della strada che dal Castellum aquae conduce alle terme di Convento Vecchio, si susseguono numerosi vani, verosimilmente a carattere abitativo, i cui alzati sono ritagliati nella roccia viva (Fig. 1, n. 3); in una di queste aree, prossima alla piazza basolata43, si individuano sull’affioramento roccioso numerose trincee abbastanza irregolari, ascrivibili ad un’attività estrattiva non giunta a compimento, non sappiamo se relativa ad una fase successiva all’abbandono della città. L’ampio sviluppo dell’architettura in negativo, sia per strutture di carattere sacro che domestico, doveva fornire un volume consistente di materiale litico ricavato in situ, che in parte poteva soddisfare il fabbisogno della città, almeno in età punica, per gli interventi costruttivi ordinari, limitando di fatto la necessità di attingere ad aree estrattive esterne. Nonostante ciò, è provato che già in età preromana la città aveva avviato la coltivazione di cave di arenaria localizzate al di fuori del circuito urbano, in particolare presso la borgata marina di San Giovanni di Sinis. Ci si riferisce nella fattispecie ad un settore necropolare, indagato nel 1991 da Giovanni Tore in occasione di un intervento d’urgenza rimasto inedito, collocato a ridosso di un’abitazione moderna e in prossimità della strada provinciale che dà accesso alla borgata (Figg. 1, n. 10; 7). In tale area venne documentato un ampio lembo funerario romano comprendente numerose tombe alla cappuccina, prive di corredo e disposte su due livelli sovrapposti, che aveva occupato il fondo cava di una trincea già evidentemente in disuso; di questa si conserva solo il fronte meridionale, alto almeno 3 m, con parete verticale senza evidenti tracce di lavorazione e con andamento a zig-zag. La prosecuzione dell’attività estrattiva anche oltre la fase punica è desumibile dal danneggiamento perpetrato a danno   Cfr. ad esempio Pesce 1966a, pp. 149-150; Ghiotto 2004, pp. 48-49, con bibliografia.  Cfr. Pesce 1966a, p. 150, 1966b, pp. 143-144. 42   Cfr. Ivi, p. 144, ambiente ε. 43  Cfr. Ghiotto 2004, p. 59. 40 41

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Fig. 7. Cave meridionali di San Giovanni di Sinis (foto S. Naitza).

di diverse tombe scavate nel bancone roccioso, ascrivibili solo su base tipologica alla medesima epoca, localizzate a brevissima distanza. Tutta l’area della borgata di San Giovanni di Sinis, peraltro, presenta evidenti tracce di una coltivazione diffusa del bancone arenaceo affiorante sia lungo il settore costiero sia in aree più interne, iniziata con ogni probabilità in età antica, ma proseguita ancora nel Novecento44. I settori di maggiore interesse sono rappresentati da due lembi funerari di età punica, con sepolture in fossa parallelepipeda e a camera scavate nella roccia, che restituiscono evidenti tracce di un’azione estrattiva subita in età imprecisabile. Il primo, definito Area B, si localizza presso il caratteristico edificio cupolato sede dell’Osservatorio dell’Area Marina Protetta “Penisola del Sinis – Isola di Mal di Ventre” (Figg. 1, n. 11; 8), soggetto ad un forte degrado per l’azione meteomarina che sta determinando il progressivo crollo a mare di ampie porzioni di roccia45; il secondo settore (Area A) è ubicato a circa 160 m in direzione nord/nord-ovest, in corrispondenza della prima schiera di case della borgata ed è attualmente l’unica area musealizzata della necropoli settentrionale tharrense (Figg. 1, n. 12; 9)46.   Tale attività è nota dalla testimonianza di informatori locali, oltre che da una pratica conservata negli archivi della Soprintendenza Archeologica di Cagliari relativa ad un intervento d’urgenza effettuato del 1947 volto ad interrompere la coltivazione dell’arenaria da parte di un cavatore locale in piena area necropolare (Assaco, busta 43 e Afsaco, fot. nn. 3172-3173, 3175): cfr. Del Vais, Fariselli 2012, p. 262, fig. 2. 45   Tale area è stata oggetto d’indagine negli anni 2010-2012 da parte di Anna Chiara Fariselli (Università di Bologna), nell’ambito di una collaborazione tra l’Ateneo bolognese e quello cagliaritano, concessionario dello scavo nella necropoli (vedi nota seguente): cfr. Fariselli 2013a. 46   Nell’area, già indagata da Gennaro Pesce alla fine degli anni Cinquanta e da Giovanni Tore tra il 1988 e il 1991, sono state condotte indagini di scavo negli anni 2009-2013 nell’ambito di una concessione ministeriale all’Università degli Studi di Cagliari (dir. C. Del Vais): cfr. Del Vais, Fariselli 2010; Del Vais, Fariselli 2012. Sull’attività di cava perpetrata a danno della stessa area cfr. Del Vais et al. 2006, p. 318, fig. 3, f; Del Vais, Grillo, Naitza c.s. 44

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Fig. 8. Cave presso la necropoli settentrionale di Tharros (Area B) (foto C. Del Vais).

Fig. 9. Cave presso la necropoli settentrionale di Tharros (Area A) (foto C. Del Vais).

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Nelle due aree funerarie l’attività estrattiva è stata espletata principalmente a danno dei setti divisori tra le sepolture, già tagliati quindi su due facce opposte, che sono stati asportati mediante l’escavazione di due trincee sugli altri lati e staccati attraverso l’uso di cunei, ottenendo così blocchi dalle dimensioni predeterminate dalla distanza reciproca tra i cavi sepolcrali; si documentano inoltre alcuni blocchi parzialmente ritagliati e piani di distacco di altri conci, cavati con le stesse modalità, in settori non interessati dall’azione dei fossori punici. Se nel lembo funerario prossimo all’Osservatorio dell’Area Marina le pareti rocciose conservano solo rari segni degli strumenti impiegati, a causa del forte degrado delle superfici dovuto all’esposizione continuata agli agenti meteomarini, in quello più settentrionale (Area A) la maggiore protezione assicurata dalla presenza di detriti di cava e di sabbia eolica ha consentito la migliore conservazione delle tracce di lavorazione. I fronti di cava sono marcati in maniera molto evidente da segni lineari in genere sottili 1 cm ca, per lo più ad andamento obliquo spesso incrociato a reticolo; questi sono chiaramente da distinguere dalle tracce ben evidenti all’interno delle fosse parallelepipede e dei dromoi delle tombe a camera, determinate dall’azione di scavo dei fossori punici, che si presentano in genere più larghe e quasi piatte (2,5-4 cm). Le trincee di estrazione praticate per liberare i blocchi raggiungono spesso una profondità di poco superiore al piano di distacco degli stessi47; esse hanno una larghezza variabile alla base tra i 2 e i 7 cm e tendono ad allargarsi verso l’alto fino a 11 cm; nel caso delle trincee più strette, la base si presenta in genere irregolare a sezione curvilinea, mentre quando la larghezza è maggiore il fondo risulta piatto e orizzontale48; la presenza di segni di lavorazione lineari anche in questi ultimi casi denuncia l’uso dello stesso strumento a punta le cui tracce sono visibili sui fronti di cava e non quindi di un attrezzo a tagliente trasversale simile a quello utilizzato per sgrossare le pareti dei cavi funerari49. I piani di distacco dei blocchi, sempre coerenti con la stratificazione naturale dell’arenaria che in questo settore appare pressoché orizzontale, conservano ai bordi chiari segni dell’uso di cunei che in genere hanno forma allungata ed estremità e sezione curvilinea; essi sono larghi dai 5 ai 7 cm, hanno una lunghezza di 10-20 cm e sono posti a una distanza reciproca di 16-22 cm. La misurazione dei blocchi solo parzialmente liberati e dei piani di distacco non ha evidenziato una scelta dimensionale costante50, che si accompagna ad un sistema di estrazione assai disordinato e fortemente influenzato dalle preesistenze funerarie, indizio forse di un’attività occasionale di incerta datazione. L’area di San Giovanni di Sinis, oltre al prelievo diffuso di materiale lapideo a carattere non sistematico, conosce la presenza di almeno due grandi cave ben strutturate, l’una nota localmente con il nome di “Sala da Ballo” (Figg. 1, n. 13; 10)51, situata all’estremità settentrionale della borgata lungo l’attuale linea di costa, l’altra leggermente più interna ma probabilmente in connessione con la precedente, meno visibile per la presenza di una estesa coltre di sabbia olocenica (Fig. 1, n. 14). La “Sala da Ballo” sfrutta le arenarie eoliche pleistoceniche a stratificazione orizzontale e incrociata, spesse in media 4-5 m52, fino a raggiungere nel fondo cava le sottostanti sequenze conglomeratiche (“Panchina tirreniana” Auct.), la cui natura grossolana ha probabilmente determinato la sospensione delle attività e lo spostamento o l’allargamento dei fronti. Nella geometria attuale del sito, determinata dallo sviluppo della coltivazione attraverso l’escavazione di trincee, allargate e progressivamente approfondite attraverso l’asportazione di pannelli orizzontali, si riscontrano nei diversi settori delle evidenti difformità strutturali, forse correlate con l’evolversi delle attività di cava.   Cfr. ad esempio Ferchiou 1976, p. 371; Camporeale, Mascione 2010, p. 165.   Cfr. ad esempio Ivi, pp. 164-166. 49  Cfr. Paretta 2006, pp. 378-379. 50   Tra i blocchi cavati tramite l’escavazione di trincee su tre lati e quindi non influenzati da preesistenze sepolcrali si sono riscontrate le seguenti misure: 54 x 108 cm; 52 x 93 cm; 65 x 92 cm; 65 x 122 cm. 51  Cfr. Del Vais et al. 2006, p. 317, fig. 2, d-e; Bordicchia et al. 2008; Balletto et al. 2010, pp. 1096-1099; Del Vais, Grillo, Naitza 2014, p. 37 e c.s. 52  Cfr. Balletto et al. 2010, p. 1097. 47 48

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Fig. 10. Veduta aerea della c.d. “Sala da Ballo” (foto F. Cubeddu; AMP “Penisola del Sinis – Isola di Mal di Ventre”).

Nel settore settentrionale (Figg. 11-12), la grande trincea irregolare, connotata da alti fronti verticali, risulta protetta sul lato a mare da un potente e spesso risparmio roccioso, tagliato lateralmente da un ampio varco che consente il passaggio su quel lato, secondo uno schema che ricorre frequentemente in contesti estrattivi costieri sia sardi53 sia, ad esempio, tunisini54. Le superfici dei fronti non conservano evidenti tracce di lavorazione, se non rari segni di uno strumento a punta, sottili 1 cm ca, con direzione obliqua; nel fondo cava, invece, compaiono diversi blocchi parzialmente liberati e piani di distacco di dimensioni non costanti55, definiti da trincee di estrazione con sezione a V o a fondo piano, larghe alla base 3-11 cm, scavate con un piccone; sulle superfici di distacco si individuano anche rari segni di cuneo di forma subtrapezoidale, larghi 5-9 cm, lunghi 6-11 cm e posti alla distanza reciproca di 10-15 cm. Il settore centrale della cava (Fig. 13), attualmente aperto sul lato a mare, si connota per una geometria a gradoni determinata dall’asportazione di blocchi di grande taglia56, secondo una tecnica e una scelta dimensionale che si mantengono costanti dalla sommità alla base della sequenza cavata. Sono presenti numerosi blocchi solo parzialmente liberati da trincee di estrazione a fondo piano (largh. 2,5-9 cm alla base; 10-16 cm alla sommità), tagliate in obliquo a scendere verso il lato da cui agiva l’operatore; in diversi casi le trincee vanno ad intaccare il fronte di cava oltre il blocco, solo però in corrispondenza della porzione superiore dello stesso. In questo settore le superfici rocciose risultano molto degradate e pertanto si individuano solo rare tracce di lavorazione di modesta larghezza (1-1,5 cm), sempre ascrivibili all’uso di strumenti a punta.   Nel Sinis, ad esempio, tale espediente si documenta nella cava di Punta Maimoni: cfr. Del Vais, Grillo, Naitza c.s.   Cfr. ad esempio Paskoff, Trousset 1995, pp. 61-62; Slim et al. 2004, p. 261. 55   Si è tuttavia riscontrata la prevalenza dei blocchi di 40-44 x 82-103 cm di lato. 56   Non si sono però riscontrate dimensioni costanti: ad esempio 80 x 110 cm x 50 cm h.; 72 x 96 cm x 44 cm h.; 90 x 100 cm; 76 x 115 cm; 80 x 110 cm. 53

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Fig. 11. Settore settentrionale della c.d. “Sala da Ballo” (foto C. Del Vais).

Fig. 12. Risparmio sul lato a mare del settore settentrionale della c.d. “Sala da Ballo” (foto C. Del Vais).

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Carla Del Vais, Silvana M. Grillo, Stefano Naitza

Fig. 13. Settore centrale della c.d. “Sala da Ballo” (foto C. Del Vais).

Il settore meridionale mostra invece caratteri di irregolarità nel sistema di coltivazione e una variabilità dimensionale che muta in funzione della quota; nella porzione sommitale della sequenza, infatti, i blocchi in situ e i piani di distacco denunciano chiare consonanze sotto l’aspetto tecnico e metrico con il settore centrale del sito, mentre alla base si registra una sensibile diminuzione nella taglia dei blocchi57. A tali quote la maggiore compattezza della roccia ha favorito la conservazione delle tracce di cavatura, in specie in corrispondenza dei piani di distacco (Fig. 14); le trincee di estrazione, larghe alla base 3,5-6 cm e alla sommità 10-12 cm, mostrano sezione trapezoidale con fondo piano su cui spesso si conservano i segni lasciati dalla punta del piccone, strumento evidentemente utilizzato anche in quest’area per la delimitazione dei blocchi; sono inoltre visibili numerose impronte di cunei di forma sub-trapezoidale o semicircolare, larghe 5-7 cm, lunghe 7-12 cm e collocate alla distanza reciproca di 7-17 cm. A nord e a sud dei settori descritti se ne individuano altri meno articolati; a nord il bancone roccioso affiorante sulla spiaggia è intaccato da una trincea di forma allungata di modeste dimensioni che conserva sul lato a monte alcuni grandi blocchi solo parzialmente liberati58; a sud, invece, una piccola trincea con fronti di notevole potenza mostra una geometria abbastanza irregolare e pochi segni di lavorazione. Il settore settentrionale della cava si presenta parzialmente ingombro, sul lato a monte, da grandi cumuli di detriti per la maggior parte centimetrico-decimetrici che occultano completamente i fronti di coltivazione su quel lato; sono inoltre presenti numerose schegge di maggiori dimensioni e alcuni blocchi solo parzialmente lavorati59. La notevole estensione di tali cumuli, che sono probabilmente il   Blocchi presenti nella parte alta: 50 x 110 cm x 50 cm; h. 52 x 72 cm x 55 cm h.; blocchi nella parte inferiore: 60 x 60 cm (prevalente); 55 x 56 cm; 37 x 53 cm; 70 x 77 cm. 58   Largh. blocchi 73-86 cm; lungh. 115-170 cm; largh. trincee 10-16 cm. 59   Se ne segnala in particolare uno, di grandi dimensioni (103 x 130 cm res., h. res. 68 cm), con una particolare sagomatura a base rettangolare definita almeno su due lati, che pone al momento notevoli difficoltà di inquadramento cronologico e culturale; l’interpretazione come gola egizia punica, proposta recentemente in Auriemma, Solinas 2009, p. 142, non 57

Le cave di arenaria dell’area di Tharros

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Fig. 14. Tracce estrattive nel settore meridionale della c.d. “Sala da Ballo” (foto C. Del Vais).

frutto di operazioni di riquadratura e di rifinitura dei conci, rappresenta un ulteriore indizio di un’attività di coltivazione ben organizzata e protratta nel tempo. La posizione costiera della “Sala da Ballo”, condivisa dalle principali aree estrattive del Sinis, induce a ritenere che il trasporto dei materiali avvenisse via mare60; benché non siano stati identificati con certezza i punti di imbarco, è possibile ipotizzare che i piazzali della cava abbiano svolto, almeno in qualche fase di attività, la funzione di punto di raccolta dei blocchi da caricare, così come ipotizzato per siti consimili61. Si deve tenere presente, però, che l’innalzamento del livello medio del mare dall’antichità a oggi può aver modificato anche in maniera sostanziale la linea di costa e quindi sommerso o distrutto istallazioni di questo tipo62. (C.D.V.) Caratterizzazione dei materiali e conclusioni In considerazione del conservatorismo tecnico che rende estremamente problematico ogni tentativo di inquadramento cronologico delle cave, in assenza di elementi datanti contestuali, si è avviato un progetto archeometrico diretto a definire il rapporto esistente tra le aree estrattive e il costruito storico e, può essere accettata in ragione della mancanza della scozia; si tratta al momento dell’unico elemento mobile visibile in loco che potrebbe apportare un significativo contributo alla datazione dell’attività estrattiva, anche in considerazione della totale assenza di materiale ceramico in situ. 60   Cfr. ad esempio Paskoff, Slim, Trousset 1991, p. 531; Paskoff, Trousset 1995, pp. 58, 61. 61   Cfr. ad esempio le grandi cave di Piscinnì (Teulada, CI): Barreca 1965, pp. 164-165; Tocco, Marini, Naitza 2007, pp. 127-128; Balletto et al. 2010, pp. 1089-1093. 62   Per la Sardegna cfr. ad esempio Antonioli et al. 2007, pp. 2474-2475; Auriemma, Solinas 2009, pp. 141-142; per la Tunisia cfr. ad esempio Paskoff, Slim, Trousset 1991, pp. 529-532; Slim et al. 2004, pp. 243-244.

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Carla Del Vais, Silvana M. Grillo, Stefano Naitza

di conseguenza, a ricostruire, almeno sommariamente, lo sviluppo diacronico dello sfruttamento degli affioramenti arenacei in zona. Come anticipato in premessa, si è effettuata la caratterizzazione mineralogico-petrografica di base, eseguita tramite microscopia ottica in luce trasmessa e in diffrattometria X (XRPD: X-Ray Powder Diffraction), sia di campioni prelevati in cava, sia, per un esame comparativo, dei materiali messi in opera nei principali monumenti punici e romani di Tharros. In questa sede si presentano i risultati preliminari delle analisi riguardanti alcuni dei campioni prelevati in cava, in particolare alla base del versante nord-orientale del Capo San Marco, in corrispondenza del lembo funerario romano intaccato dai tagli di cava (Figg. 1, n. 2; 15, a-b); presso il tempio a corte di Tharros (Figg. 1, n. 4; 15, c-d); nella grande cava localizzata al limite settentrionale della borgata di San Giovanni di Sinis (Figg. 1, n. 14; 15, e-f), nell’immediato entroterra rispetto alla c.d. “Sala da Ballo” già presa in esame in precedenti analisi63; presso la trincea di età punica occupata da una necropoli romana con tombe alla cappuccina situata al limite meridionale dell’abitato di San Giovanni (Figg. 1, n. 10; 15, g-h). L’esame comparativo con i materiali in opera nel costruito storico tharrense ha per il momento interessato le fortificazioni di Su Murru Mannu, e in particolare un frammento prelevato nel riempimento compreso tra i due paramenti in blocchi squadrati della terza linea, in corrispondenza della lacuna determinata dallo spoglio della struttura in età tardo-romana o alto-medievale (Figg. 1, n. 8; 16, i-l)64; le fortificazioni di San Giovanni, nella fattispecie una scaglia recuperata presso il basamento della torre quadrangolare e derivata verosimilmente dal parziale smontaggio della struttura effettuato in età spagnola per l’impianto della torre che domina il colle (Figg. 1, n. 7; 16, m-n)65; l’acquedotto romano, in un tratto in luce lungo la via d’accesso all’area archeologica (Figg. 1, n. 9; 16, o-p); uno dei pilastri interni del Castellum aquae realizzato, così come il precedente, in opus vittatum mixtum (Figg. 1, n. 6; 16, q-r). Lo studio petrografico dei materiali campionati ha fornito elementi analitici di supporto alle ipotesi sui probabili legami esistenti tra i diversi siti estrattivi antichi e l’edificato storico della città. Macroscopicamente, i materiali, sempre costituiti da arenarie del Pleistocene superiore, presentano una apparente uniformità litologica, con litotipi a prevalente grana medio-fine e forte componente carbonatica. È possibile tuttavia discriminare tra litotipi che mostrano i caratteri sedimentologici delle facies di ambiente marino (antichi depositi di spiaggia sommersa o depositi intertidali) e quelli con i caratteri delle facies di ambiente continentale (antichi depositi di spiaggia emersa e dune di retrospiaggia, depositi eolici), sovente a stratificazione incrociata. In affioramento, lungo la costa del Sinis, i depositi continentali ricoprono ovunque le facies marine. Queste ultime si caratterizzano per una granulometria più grossolana, fino a microconglomeratica (grani oltre i 2 mm); al contrario, le facies continentali, di origine eolica, hanno una granulometria più fine ed uniforme. Al microscopio polarizzatore, tutti i campioni provenienti dalle cave storiche del Sinis meridionale mostrano una tessitura grano-sostenuta, con granuli in prevalenza sub-millimetrici, da sub-arrotondati a ben arrotondati, agglomerati da un cemento calcitico fine, generalmente microsparitico. In alcuni casi risulta evidente la sovrapposizione di più fasi di cementazione, con i minuti cristalli della microsparite accresciutisi su un originario cemento micritico che forma un sottile strato attorno ai granuli (cave di Capo San Marco, Fig. 15, a-b) o si evidenzia una cementazione tardiva, con formazione di un cemento fibroso (cave urbane di Tharros presso il tempio a corte, Fig. 15, c-d) o a grossi grani di calcite (cave del settore settentrionale di San Giovanni di Sinis, Fig. 15, e-f). In tutti i campioni studiati predominano sempre gli elementi carbonatici, costituiti da bioclasti (frammenti di fossili e microfossili), noduli di alghe e intraclasti micritici (frammenti rimaneggiati di depositi carbonatici fini). Tutti questi elementi sono formati da calcite e, in minore quantità, da aragonite, costituente di parte dei bioclasti. Oltre ai granuli carbonatici è presente una frazione clastica terrigena, sempre consistente anche  Cfr. Del Vais, Grillo, Naitza c.s.  Cfr. Del Vais, Gaudina, Manfredi 1997, pp. 29, 34. 65  Cfr. Giorgetti 1995, p. 158. 63 64

Le cave di arenaria dell’area di Tharros

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Fig. 15. Microfoto in sezione sottile di campioni provenienti dalle cave storiche del Sinis meridionale: a-b) Cave di Capo San Marco [a: tessitura grano-sostenuta, elevata classazione dei grani e predominanza di bioclasti (25x, nicols incrociati); b: granuli aggregati da cemento carbonatico, da micritico a microsparitico (100x, nicols incrociati)]; c-d) Cave urbane di Tharros, presso il tempio c.d. a corte [c: presenza di abbondante cemento e di numerosi minerali e frammenti litici di derivazione vulcanica (25x, nicols incrociati); d: cementazione tardiva con cristalli carbonatici fibroso/aciculari (100x, nicols incrociati)]; e-f ) Cave settentrionali di San Giovanni di Sinis, nell’immediato entroterra della c.d. “Sala da Ballo” [e: aspetti tessiturali e composizionali (25x, nicols incrociati); f: cementazione sparitica tardiva (100x, nicols incrociati)]; g-h) Cave meridionali di San Giovanni di Sinis [g: tessitura grano-sostenuta a cemento microsparitico omogeneo, con presenza di diversi granuli (minerali e frammenti litici) di derivazione vulcanica; h: al centro, frammento di olivina inglobato in cemento microsparitico] (microfoto S.M. Grillo, S. Naitza).

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Carla Del Vais, Silvana M. Grillo, Stefano Naitza

Fig. 16. Microfoto in sezione sottile di campioni provenienti da materiali in opera a Tharros: i-l) Fortificazioni di Su Murru Mannu [i: evidente eterogeneità granulometrica e composizionale (25x, nicols incrociati); l: dettaglio dei componenti granulari, incluso un cristallo di olivina (centro della foto, 100x, nicols incrociati)]; m-n) Fortificazioni di San Giovanni [m: tessitura grano-sostenuta, cemento microsparitico omogeneo e presenza di numerosi elementi di derivazione vulcanica tra i granuli (25x, nicols incrociati); n: grosso cristallo tondeggiante di olivina (centro della foto, 100x, nicols incrociati)]; o-p) Acquedotto romano [o: aspetti tessiturali e composizionali (25x, nicols incrociati); p: cristallo di ortoclasio in cemento microsparitico (100x, nicols incrociati)]; q-r) Castellum aquae [q: in evidenza l’abbondante e omogeneo cemento microsparitico; r: presenza di elementi di derivazione vulcanica (cristallo di plagioclasio, sinistra della foto; 100x, nicols incrociati)] (microfoto S.M. Grillo, S. Naitza).

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se subordinata; essa è costituita da elementi silicatici provenienti dalle litologie affioranti nelle aree limitrofe: principalmente granuli di quarzo, feldspati, miche e frammenti litici derivanti dall’erosione di rocce granitoidi e metamorfiti, ma anche plagioclasi e frammenti litici riferibili alle vulcaniti terziarie, minerali femici (pirosseni, olivine) e frammenti litici provenienti dagli affioramenti dei basalti pliocenici. Una maggiore presenza degli elementi di derivazione vulcanica distingue i materiali delle cave del settore meridionale di San Giovanni di Sinis (Fig. 15, g-h) rispetto a quelli presenti in quelle del settore settentrionale (Fig. 15, e-f). Le facies marine, come quelle estratte nei pannelli inferiori della c.d. “Sala da Ballo”66, si distinguono da quelle continentali oltre che per la granulometria, per una maggiore abbondanza e varietà dei costituenti terrigeni, mentre le facies di deposizione eolica sono costituite soprattutto da bioclasti. L’insieme di questi caratteri litologici, tessiturali e mineralogici ha fornito elementi utili per l’identificazione dei possibili areali di provenienza dei materiali in opera nelle fortificazioni e negli edifici storici campionati a Tharros. Allo stato attuale delle ricerche, si può innanzitutto affermare che tutti i materiali in opera campionati nella città evidenziano caratteri litologici e petrografico/mineralogici compatibili con una provenienza dalla stessa area urbana e dalle vicine cave del Sinis meridionale, mentre non è stata al momento riscontrata la presenza di materiali ricavati da siti estrattivi più lontani, come quelli, peraltro molto estesi, presenti a nord di Punta Maimoni. I riscontri di maggiore interesse si sono avuti con i campioni provenienti dai grandi blocchi della cinta muraria della città, sia del colle di San Giovanni che di Su Murru Mannu (Fig. 16, i-n), e dall’acquedotto romano (Fig. 16, o-p), i quali, per caratteristiche tessiturali e composizionali (tipo di cemento carbonatico, rilevante presenza di frammenti di vulcaniti, plagioclasi, minerali femici) appaiono molto simili ai materiali delle cave del settore meridionale di San Giovanni di Sinis e a quelli della c.d. “Sala da Ballo”. La situazione appena delineata, suscettibile di ulteriori verifiche attraverso l’analisi comparata di altri campioni provenienti dalle aree estrattive e in opera nei principali monumenti, fa emergere dunque per la città di Tharros una sostanziale autosufficienza nell’approvvigionamento di materiale arenaceo grazie allo sfruttamento degli affioramenti litici localizzati in corrispondenza dell’abitato punico-romano e nelle immediate pertinenze. Deve tuttavia riconoscersi, in considerazione del perpetuarsi delle tecniche di coltivazione attraverso i secoli, che al momento non siamo in grado di distinguere senza incertezze i tagli realizzati in età antica da quelli di epoca successiva e quindi di datare in maniera puntuale le aree estrattive presenti nell’area tharrense. (S.M.G., S.N.)

 Cfr. Del Vais, Grillo, Naitza c.s.

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L’ABITATO PUNICO-ROMANO DI THARROS (CABRAS-OR): I DATI DI ARCHIVIO*

Melania Marano

Come noto, l’abitato punico-romano di Tharros è ubicato nei pressi di San Giovanni di Sinis, frazione di Cabras (OR), nella propaggine sud della Penisola del Sinis (Fig. 1). In particolare, i quartieri residenziali occupano il declivio orientale della collina della Torre di San Giovanni, l’area centrale posta nei pressi del tempio “delle semicolonne doriche”, e quella orientale tra le Terme nn. 1 e 2, prospicienti la costa del Golfo di Oristano, dove sono sopravvissuti solo alcuni lacerti di pavimentazioni e di muri, oltre ad alcuni tratti di murature identificati all’interno delle due strutture, parzialmente risparmiati dalla realizzazione degli edifici di epoca posteriore1. La ricerca in atto nel settore abitativo muove dall’esigenza di comprendere dettagliatamente l’impianto urbano di età punica e romana, in modo da poterne ricostruire in senso diacronico l’evoluzione dell’edilizia privata, l’organizzazione di ciascun isolato, il rapporto esistente fra le architetture residenziali e gli apparati idrico e viario originari2. La prima fase dell’indagine concerne appunto i documenti di archivio relativi alle diverse investigazioni archeologiche succedutesi nell’ampio contesto cittadino. L’individuazione dei quartieri residenziali è avvenuta nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso ad opera di Gennaro Pesce, Sovrintendente alle Antichità di Cagliari, il quale si è servito per le operazioni di scavo della collaborazione del Primo Assistente signor Francesco Soldati e del Restauratore signor Salvatore Busano, per mezzo di finanziamenti ricevuti dalla Cassa del Mezzogiorno * Desidero ringraziare la Professoressa Anna Chiara Fariselli per il coinvolgimento nella Giornata di Studio e per aver ospitato il contributo nel presente volume. Sono altresì grata al Soprintendente Dottor Marco Edoardo Minoja, per avermi concesso l’autorizzazione allo studio del materiale d’archivio; al Dottor Alessandro Usai e alle Signore Luciana Carta e Mariella Maxia della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano per il supporto ricevuto durante la consultazione dei documenti. I documenti presentati in questa sede sono editi su concessione del MiBACT – Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano. 1   Pesce 1966b, p. 87. 2   Tale ricerca rientra nel progetto di Dottorato di Ricerca di chi scrive, nell’ambito della Scuola Dottorale Interateneo in Storia delle Arti (XXVIII Ciclo) presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, l’Università IUAV di Venezia e l’Università degli Studi di Verona, in collaborazione con l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna (cattedra di Archeologia fenicio-punica – Professoressa A.C. Fariselli).

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Melania Marano

Fig. 1. Abitato punico-romano di Tharros (da http://www.sardegnageoportale.it/webgis/fotoaeree/).

e con alcuni contributi statali e regionali3. Dall’analisi dei diari di scavo di G. Pesce è stato possibile ricostruire ognuna delle campagne archeologiche che si svolsero in quegli anni, susseguitesi con cadenza annuale tra il 1956 e il 19634, le quali misero in luce grossomodo l’area d’abitato oggi visibile (Fig. 2). Il sito è stato nuovamente oggetto di scavo negli anni Ottanta del secolo scorso, con la realizzazione di un saggio in un settore ubicato a sud dell’abitato5. Infine, l’area ha subito alcuni interventi occasionali negli anni Novanta del secolo scorso e nella prima decade di questo secolo, che hanno tuttavia riguardato soltanto alcuni settori di estensione limitata6. Noto fin dal XIX secolo attraverso le molteplici esplorazioni, ufficiali e clandestine, che coinvolsero in special modo la necropoli di Capo San Marco7, l’abitato di Tharros è stato quindi interessato da indagini programmate dal 19568. Iniziata il 16 giugno e conclusasi il 20 ottobre9, la prima campagna   Cartella “Comune di Cabras Loc. Tharros città punico-romana dal 1964 al 1965” – Archivio Storico della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano, da ora denominato Assaco. 4   G. Pesce ne dà notizia in: Pesce 1958, pp. 307-372; Pesce 1966b. In letteratura i primi scavi sono attestati fino al 1964, ma non è stato rintracciato alcun tipo di documentazione successiva al 1963. 5  Assaco-Busta “Tharros (1994-1995)” – Fascicolo “Comune di Cabras, Tharros (Documenti Vari) 3.1,2” – Relazione di scavo “Tharros. Scavo nell’area urbana-1988”. 6   Assaco-Faldone “Cabras. Tharros. Documentazione archeologica di scavo. Lavori impianto videosorveglianza e antintrusione. Impresa O. Murgia”. 7   Per una trattazione completa degli scavi ottocenteschi che hanno interessato la necropoli di Capo San Marco si veda Del Vais 2006. Dalla trattazione si evince che già al tempo delle indagini archeologiche svolte negli anni 1885-1886 dal Regio Soprastante agli scavi di antichità Filippo Nissardi vi erano limitate speranze di rinvenire tombe non ancora violate dagli scavatori clandestini (Del Vais 2006, pp. 7, 36-39 documento n. 4). Si vedano anche: Fiorelli 1884, 1886, 1887; Spano 1851, 1861. 8  Cfr. supra. 9  Pesce 1966b, p. 80. 3

L’abitato punico-romano di Tharros (Cabras-Or): i dati di archivio

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Fig. 2. Planimetria del sito di Tharros (da Pesce 1966b, Planimetria generale degli scavi anno 1965).

di scavo coinvolse parte dell’area a est della Torre di San Giovanni e i settori prospicienti la costa del Golfo di Oristano, precisamente quelli occupati dalle Terme nn. 1 e 2. Di questa impresa lo scavatore stesso illustra chiaramente le finalità: «con n. 10 operai ho iniziato inoltre un saggio di scavo a SudSud-Ovest della torre in modo da rendermi esatto conto se in questo tratto si estendesse l’acropoli o se avesse inizio la necropoli»10. In realtà, nei giornali di scavo, dopo l’iniziale lavoro di preparazione durato pochi giorni, non si rintraccia più alcuna notizia relativa a tale saggio, per cui è presumibile che sia stato abbandonato in favore del trasferimento delle indagini in altre aree più proficue11. Nel dettaglio, a est della collina fu scavato il Castellum aquae12, estendendo l’intervento verso sud e nord, e fu rintracciata parte della strada che costeggia l’edificio lungo il lato occidentale, in alcuni tratti purtroppo lacunosa dei lastroni basaltici. L’esplorazione interessò anche le aree occidentale e orientale poste oltre l’asse stradale nelle quali vennero individuati alcuni lacerti di muri pertinenti a strutture che tuttavia non furono integralmente indagate in questa campagna di scavo13. Per quanto riguarda il settore prospiciente il Golfo, lo scavo ha portato alla definizione dei singoli ambienti delle strutture termali, procedendo per le Terme n. 1 dagli ambienti centrali verso quelli posti a nord   Assaco-Giornale di scavo del 18 giugno 1956 (Faldone 114. “Tharros G. di scavo dal 18-6-56 al 26-7-1956 Blocco n. 1).   Assaco-Faldone 114. “Tharros G. di scavo dal 18-6-56 al 26-7-1956 Blocco n. 1”. 12  Sul Castellum aquae si vedano anche Giorgetti 1997, 1999; Idili 2001. 13   Assaco-Faldone 114. “Tharros G. di scavo dal 18-6-56 al 26-7-1956 Blocco n. 1”; “Tharros Blocco n. 2 Dal 27.07.1956 al 25.08.1956”. 10

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Fig. 3. Pianta della strada che fiancheggia a ovest le Terme n. 1 (da Assaco-Faldone Scavi Pesce. Foglio sparso).

e a sud, e per le Terme n. 2 dai vani sopravvissuti nei pressi della costa, allargando l’indagine verso l’area centrale, con successiva esplorazione dei settori sud-occidentale e nord-occidentale. Venne avviata anche l’indagine sugli assi viari nei pressi dei due edifici termali14. Questi, al tempo dell’intervento risultavano separati da un’area non ancora indagata, che impediva il ricongiungimento della strada posta tra l’uno e l’altro complesso termale. In particolare, risultò essere la via a ovest delle Terme n. 1 quella meglio conservata, con un ampio tratto di lastricatura in posto: questa fiancheggiava il muro della struttura termale in senso N/S per poi proseguire verso ovest e verso sud, in direzione rispettivamente del tempio “delle semicolonne doriche” e della zona inesplorata antistante le Terme n. 2 (Fig. 3). Nei pressi di quest’ultimo edificio, invece, mancando gran parte del basolato stradale, vennero seguite le cloache per lunghi tratti: precisamente furono messe in luce quella che fiancheggia l’edificio termale lungo il lato occidentale e quelle secondarie che con essa si intersecano a nord e a sud, entrambe dirette verso il Golfo di Oristano (Fig. 4). Tali percorsi portano quindi a ritenere che in questi stessi tratti fossero presenti alcuni degli antichi assi viari secondari, di cui si sono preservati rari blocchi della pavimentazione in basalto, essendo le cloache15 realizzate generalmente al di sotto del piano stradale, come è osservabile anche in altri punti dell’abitato. La seconda campagna di scavo ebbe inizio il 18 febbraio 1957 e terminò il 16 marzo dello stesso anno: l’obiettivo fu quello di mettere in luce il tratto di strada che dalle Terme n. 1 conduceva al cosid  Assaco-“Tharros Blocco n. 2 dal 27-07-1956 al 25-08-1956”; “Tharros Blocco n. 4 scavi eseguiti: dal 22-09-1956 al 20-10-1956”; Faldone 114. “Tharros G. di scavo dal 18-6-56 al 26-7-1956 Blocco n. 1”. 15   Sul sistema fognario dell’abitato di Tharros si veda inoltre: Mazzucato, Mezzolani, Morigi 1999. 14

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Fig. 4. Pianta delle Terme n. 2 (da Assaco-Faldone Scavi Pesce. Foglio sparso).

detto «edificio a Est della Torre di San Giovanni», per una lunghezza di 98,5 m e una larghezza da 2 a 4,65 m. Il lastricato, purtroppo, non era in perfetto stato di conservazione: risultò infatti sempre più lacunoso a mano a mano che si proseguiva verso nord, in direzione del Castellum aquae16. Nei giornali di scavo si fa spesso riferimento all’«edificio a Est della Torre di San Giovanni»: può ritenersi che si possa trattare dello stesso Castellum aquae essendo questo l’unico impianto architettonicamente differente rispetto agli altri edifici presenti, tutti a carattere residenziale, e quindi distinguibile tanto da essere considerato come punto di riferimento nell’ubicazione dei saggi. L’intervento sugli assi stradali impegnò anche la successiva campagna di scavo, iniziata nel maggio del 1958 e prolungatasi fino al mese di settembre. Gli assi viari in esame furono quelli già indagati negli anni precedenti, ma non ancora ultimati, quindi la via che dalle Terme n. 2 conduce al Castellum aquae e quella che da quest’ultimo edificio si dirige verso la struttura termale n. 1, interessando anche le murature che su di essi si affacciano, con i relativi ambienti17 (Fig. 5). In particolare, si inaugurò l’esplorazione del quartiere residenziale posto a sud del Castellum aquae, sul lato orientale della strada, con la   Assaco-Busta 12.   Assaco-“Tharros Campagna di scavo dal 5.5 al 4.7.1958”, “Tarros - scavi - 1958 dal 5-7 al 30-7-1958 Blocco n. 2”, “Tarros - scavi - 1958 dal 31-7 al 4-9-958 Blocco n. 3”. 16 17

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Fig. 5. Veduta del settore centrale e in parte di quello alle pendici della collina della Torre di San Giovanni (foto M. Marano).

progressiva individuazione dei vani più esterni prima e di quelli più interni poi, oltre a tre cisterne18, due delle quali rispettivamente descritte come «[…] piccola cisterna di forma quadrata misura m. 1,77 x m. 1,45 le pareti incorniciate in pietrame poco visibile a causa dell’intonaco»19 e «[…] cisterna di forma ovoidale lunga m. 3,62 larga m. 1,28… la parte superiore dell’orlo bene intonacata con intonaco costituito da sabbia cenere e calce tipicamente Punico»20. In un secondo momento, si decise di ampliare il saggio verso est, con l’avvio dell’esplorazione del tempio “delle semicolonne doriche”, includendo anche gli ambienti circostanti individuati sui lati nord, sud ed est, questi ultimi raggiungibili dal tratto di strada su cui tale settore si affaccia e che, dalle Terme n. 1, permette di raggiungere l’impianto termale n. 221. Inoltre, fu iniziata l’esplorazione della strada posta oltre il lato orientale del Castellum aquae, coinvolgendo anche alcuni vani ubicati a Oriente del medesimo asse stradale. Dalle riflessioni di G. Pesce e dei suoi assistenti si evince che le Terme n. 2 erano state edificate al di sopra di altre strutture più antiche22, rappresentate ormai da pochissimi ambienti o da alcuni lacerti di muri, pertinenti a magazzini, botteghe e abitazioni (Figg. 4, 6). A conferma di ciò, in questo stesso anno, si aprì un piccolo saggio 60 m a sud dell’edificio termale nel quale si misero in luce alcuni tratti di muri, in modo da «[…] mettere in evidenza il modo in cui in epoca Fenicia o   Per una trattazione completa sull’apparato idrico del sito si vedano anche: Acquaro, Francisi, Mezzolani 2002; Bultrini, Mezzolani, Morigi 1996; Mezzolani 1997. 19   Assaco-Giornale di scavo del 19 giugno 1958 (“Tharros Campagna di scavo dal 5.5 al 4.7.1958”). 20   Assaco-Giornale di scavo del 20 giugno 1958 (“Tharros Campagna di scavo dal 5.5 al 4.7.1958”). 21   Assaco-“Tarros - scavi - 1958 dal 31-7 al 4-9-958 Blocco n. 3”. 22   Acquaro, Mezzolani 1996, p. 31. Tale riconversione del settore, attestata anche per quello occupato dalle Terme n. 1, è da imputare a un periodo compreso tra la seconda metà del II secolo d.C. e l’età severiana (Spanu, Zucca 2011, pp. 55-56). 18

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Fig. 6. Vedute dei resti delle strutture abitative nei pressi delle Terme n. 2 (foto M. Marano).

Punica solevano ricavare ambienti per abitazioni o magazzini adiacenti alla spiaggia»23. Dalle notizie pervenute non si deduce in quale precisa area dell’abitato queste strutture fossero ubicate ma l’osservazione delle foto aeree rende plausibile che si tratti delle evidenze archeologiche percepibili poco più a Meridione del complesso termale n. 2 (Fig. 1). Ripresi i lavori tra i mesi di gennaio e marzo del 1959, si ampliò verso Settentrione l’esplorazione dell’asse stradale che conduce dalle Terme n. 2 al Castellum aquae, con la messa in luce dei muri dei vani adiacenti, e si proseguì lo scavo del tempio “delle semicolonne doriche”, dell’adiacente cisterna e della strada con direzione est-ovest posta immediatamente a sud dell’impianto templare (Fig. 2). Il dato di maggior interesse che si ricava da questa campagna, nota purtroppo solo parzialmente dai diari di scavo, riguardò la scoperta di un muro delimitante la strada a nord-ovest della Terme n. 2, sul quale fu osservato un tratto di intonaco sopravvissuto in corrispondenza della parte superiore della parete, con tracce di decorazione in colore rosso su fondo più chiaro24. Mancano, tuttavia, informazioni precise in merito a eventuali raffigurazioni, non essendo «[…] ben visibile a causa che è umido non in condizione di essere pulito»25. A quest’ultima campagna di scavo seguì un periodo utile all’ottenimento di nuovi finanziamenti, che permisero la ripresa dei lavori non prima del mese di maggio del 196026. Questi perseguirono gli stessi obiettivi precedentemente fissati: l’allargamento dell’area nota a nord-est della Torre di San Giovanni e il ricongiungimento dei settori messi in luce nelle precedenti campagne di scavo. Si proseguì nell’esplorazione dei due assi viari che si dipartivano dalle Terme n. 2 verso nord, l’uno in direzione delle Terme n. 1 e l’altro del Castellum aquae. In particolare, nel primo caso si procedette nell’indagine degli ambienti adiacenti alla cloaca che si dirigeva verso il mare, a nord delle Terme n. 2 e a sud delle Terme n. 1. Nel secondo caso, si completò l’esplorazione della strada e dei vani posti oltre il battente orientale, a Meridione di quelli scavati nel 195827, secondo lo scavatore tutti a carattere residenziale (Fig. 2). Contestualmente, si procedette nella messa in luce di alcuni degli assi stradali, tra i quali due che si incrociano a nord-ovest del Castellum aquae, comprendendo anche l’area da questi delimitata occupata da alcuni ambienti relativi a strutture di carattere abitativo; e altri due che si diramano dai precedenti28. Dalla descrizione fornita, sulla scorta della documentazione grafica, sembra che le prime due strade corrispondano a quella che fiancheggia il Castellum aquae lungo il lato occidentale e   Assaco-Giornale di scavo del 10 giugno 1958 (“Tharros Campagna di scavo dal 5.5 al 4.7.1958”).   Assaco-Faldone “Giornali di scavo 1948-1963”. 25   Assaco-Giornale di scavo del 6 marzo 1959 (Faldone “Giornali di scavo 1948-1963”). 26   Assaco-Giornale di scavo del 18 maggio 1960 (“Tharros dal 18-5-1960 all’1-7-1960”). 27  Cfr. supra, pp. 79-80. 28   Assaco-“Tharros dal 18-5-1960 all’1-7-1960”, “Giornale di scavo dal 5-9 al 29-10-960”, “Tharros dal 21-11-60 al 30-11-60”. 23 24

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Fig. 7. Collocazione delle aree indagate nel 1962-1963 (da http://sardegnageoportale.it/webgis/fotoaeree/ modificata da M. Marano).

al decumano che da esso prosegue in direzione ovest, e che gli ulteriori due assi viari siano quelli che delimitano il medesimo isolato sui lati occidentale e meridionale (Fig. 2). Per quanto riguarda la campagna di scavo del 1961, il mancato reperimento del diario di scavo non consente di essere certi circa il preciso periodo di svolgimento. Tuttavia, grazie al recupero di alcuni disegni29 realizzati durante le indagini è possibile sia attestare l’effettiva realizzazione degli interventi archeologici, svolti usualmente con cadenza annuale, sia ipotizzare una demarcazione dei settori interessati: si deduce che nel periodo estivo, certamente nel mese di giugno, sia stato indagato parte del sistema idrico del sito, in particolare alcuni pozzi e una cisterna ubicata nell’edificio n. 64, a sud del tempio “delle semicolonne doriche”, la cui esplorazione era già iniziata nel corso della campagna precedente (Fig. 13). Per quanto riguarda i pozzi, uno presenta un’imboccatura rettangolare con pareti rivestite da blocchi squadrati di medie e grandi dimensioni; il secondo, dall’imboccatura di forma circolare, mostra le pareti rivestite da filari di blocchi di piccole dimensioni; infine, un terzo, con un’ampia apertura rettangolare, presenta pareti rivestite di blocchi di piccole e medie dimensioni e una profondità inferiore ai 2 m. Notizie più dettagliate sono pervenute riguardo alle due campagne di scavo successive, l’una documentata dal mese di ottobre e conclusasi nel dicembre del 1962 e l’altra iniziata nel maggio e attestata fino al mese di luglio del 1963, durante le quali si portarono a termine alcuni degli obiettivi già delineati: nella prima proseguì l’esplorazione a sud del Castellum aquae, oltre il battente occidentale della strada che conduce alle Terme n. 2 e a sud dell’asse viario che corre in direzione est-ovest, ubicato nel settore abitativo posto lungo il declivio orientale della collina, già indagato nel 1960 (Fig. 7)30. In   Archivio Grafico della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano (da ora denominata Agsaco)-Disegni nn. 131, 132, 133, 141; Assaco-Faldone 114. “Tharros Blocco n. 3 scavi - eseguiti - dal 25-8-1956 al 21-9-1956” pianta. 30  Cfr. supra, p. 81. 29

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tale area sono state identificate dieci strutture, di cui otto interpretate come abitazioni e due come botteghe31, oltre ad alcuni ambienti poco più a meridione, dove però lo scavo non è stato ampliato per mancanza di fondi32. Per tale motivo difettiamo d’informazioni riguardo agli edifici di pertinenza e alla disposizione interna degli spazi. Contemporaneamente, furono portate avanti la ripulitura e una prima indagine nei pressi del tofet33, proseguita anche nella seconda delle due campagne di scavo, quando si concluse anche l’esplorazione nel suddetto settore residenziale (Fig. 7)34. Ultimate tali indagini, il contesto abitativo non è stato più oggetto di scavi, a causa della mancanza di finanziamenti, pur richiesti dallo stesso G. Pesce alla Cassa del Mezzogiorno, fino agli anni 1987198835, quando ripresero da parte della Soprintendenza in un’area prospiciente il Golfo di Oristano, demarcabile a sud dell’abitato36. Il primo di questi interventi previde lo scavo di un’area di 10 x 20 m, in cui furono portati alla luce alcuni vani rettangolari affiancati ottenuti con la cavatura dell’arenaria e separati da diaframmi risparmiati nella roccia, tecnica similare a quella impiegata per la costruzione del tempio “delle semicolonne doriche” (Fig. 8)37. In un settore più occidentale e separato dal precedente per mezzo di un percorso ricalcante probabilmente un antico tracciato stradale, sono emersi altri quattro ambienti, indicati con le lettere A, B, C e D, anche questi ricavati nella roccia: nel vano A venne messo in luce uno strato esteso di embrici e coppi poggianti su un battuto di argilla che ricopriva la roccia; nel B fu osservato un battuto simile al precedente; negli altri due vani, per i quali era visibile solo la delimitazione orientale, venne individuato uno strato di riempimento dovuto a crolli e a terreno scivolato da Occidente (Fig. 8). Nell’ultima di queste indagini, lo scavo fu ampliato di 20 x 5 m verso ovest, individuando integralmente i diaframmi di delimitazione dei vani precedentemente messi in luce, ricavati nella roccia e completati anticamente nei tratti mancanti da una muratura in pietrame e malta di fango. In un secondo momento, l’attenzione si focalizzò sugli ambienti A e B: per il vano A è stata avanzata l’ipotesi di una fase di utilizzo durante la quale il piano di calpestio doveva essere costituito dal battuto di argilla, identificato già nella precedente campagna di scavo, sistemazione avvenuta intorno al I secolo d.C., e i muri dovevano essere stati elevati al di sopra di diaframmi scavati nella roccia. A questa fase dovette seguire l’abbandono in data da precisare, il successivo crollo di una copertura, realizzata con tegole e coppi, e delle murature; infine, un’attività di spoliazione del materiale edilizio. Per il vano B, il pavimento era in tutto simile al precedente, coperto da materiale di crollo che, una volta rimosso, permise anche il riconoscimento di un muro posto nella parte centrale, che aveva diviso lo spazio in due ambienti, e di un focolare quadrangolare delimitato da lastre di arenaria, una delle quali in posto, nell’angolo nord-occidentale (Fig. 8). Inoltre, emersero un muro con un’apertura munita di soglia, pertinente probabilmente a due ulteriori ambienti, di cui uno all’esterno del vano A, e l’altro a nord dell’ambiente D, zona in cui doveva essere presente un’ulteriore stanza. Sulla base di tali dati, sembra possibile affermare che tale settore fosse tagliato da una strada e costituito da quattro ambienti integralmente indagati e da altri tre non esplorati, per i quali si ipotizzò una destinazione abitativa38.   Si tratta degli edifici indicati da G. Pesce nella pianta finale con i nn. 17, 18, 19, 20, 33, 34, 35, 36, 37 e 38, tra cui i primi due interpretati come botteghe, tutti gli altri come abitazioni (Pesce 1966b, pp. 107-111, 118-124). 32   Ivi, p. 111. 33   Per gli scavi successivi che hanno interessato il tofet si veda da ultimo, con la bibliografia ivi riportata, Acquaro 1987, pp. 75-79. 34   Assaco-“Tharros Campagna di scavo dal 5.10.62 al 7.12.62 e dal 16.5.63 al 8.6.63”. 35   Prima di tale data si è a conoscenza di un intervento clandestino svoltosi il 7 marzo 1982, di cui dà notizia il Gruppo Giovanile di Tharros, che ha interessato l’area del tempio “delle semicolonne doriche”, e ha portato in luce un tubo di piombo collegato con la vicina cisterna (Assaco-Cartella 29. “Progettazione Tharros 1974-1981”). 36   Le operazioni sul campo vennero realizzate dalle ditte A. Caddeo prima e A. Cannas poi, con la supervisione del Dottor P. Bernardini e del Signor Antonio Zara (Bernardini 1996, p. 97). 37   Acquaro 1991, p. 549. 38   Bernardini 1996, pp. 97-99; Assaco-Busta “Tharros (1994-1995)” – Fascicolo “Comune di Cabras, Tharros (Documenti Vari) 3.1, 2” – Relazione di scavo “Tharros. Scavo nell’area urbana-1988”. 31

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Fig. 8. Pianta di scavo del 1987-1988 (da Agsaco, n. 109).

Gli interventi nell’area residenziale ripresero nel 1994, contestualmente alle ricerche sulla collina di Murru Mannu, e riguardarono il sistema di approvvigionamento idrico, oltre a un tratto di cloaca posto sotto il cardo maximus. In relazione a questa fase va ricordato lo scavo di una cisterna non molto distante dal suddetto cardo, costituita da un braccio orientato in direzione est-ovest e da un altro perpendicolare al precedente che s’innesta lungo l’asse mediano. Tra i rinvenimenti, risultano di un certo interesse i numerosi lacerti di intonaco, provenienti dal settore più occidentale, sui quali sono stati osservati alcuni motivi fitomorfi resi in azzurro, giallo e rosso su fondo chiaro39. Successivamente a tali indagini, l’abitato di Tharros non fu più oggetto di un’analisi archeologica programmata, ma venne interessato da alcuni interventi occasionali e legati a esigenze manutentive circostanziate. Fra i più rilevanti si segnalano quelli svolti tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005, quando si realizzarono alcune trincee in concomitanza della messa in opera dell’impianto di videosorveglianza e antintrusione nel parco archeologico. Oltre a settori selezionati della collina di Murru Mannu, tali operazioni coinvolsero anche alcuni tratti nei pressi degli assi viari dell’abitato. In particolare, vennero realizzati tre saggi di scavo: due a ridosso della parete est del Castellum aquae e uno nei pressi della via che porta alle Terme n. 2, indicata come Via delle Cisterne. Nel primo caso, fu realizzato un saggio di 1 x 1 m nel quale venne portato alla luce un lembo di muratura e un secondo in un’area posta tra il cardo maximus e la via cosiddetta delle Terme n. 3 dove furono individuate alcune strutture abitative parzialmente crollate e lacerti di mosaico40. Nel secondo saggio, di 2 x 2  Del Vais et al. 1995, pp. 193-194; Del Vais, Mattazzi, Mezzolani 1995, pp. 133-136.   Nel corso di tali indagini sono state recuperate anche numerosissime tessere musive policrome frammiste al terreno di scavo pertinenti a mosaici che purtroppo non si sono preservati (Assaco-Faldone “Cabras. Tharros. Documentazione archeologica di scavo. Lavori impianto videosorveglianza e antintrusione. Impresa O. Murgia”). 39 40

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m, furono riscontrate ulteriori strutture murarie, in parte danneggiate e lacunose, pertinenti a edifici abitativi41. Infine, nel corso del terzo scavo l’esplorazione fu portata avanti su diversi fronti, interessando l’area a est e a ovest della via delle Terme n. 3, dove si individuarono alcuni apparati murari e altri lacerti di mosaico pavimentale e un’area a est del Castellum aquae, dove si identificò un residuo pavimentale in battuto di calce42. Per quanto concerne le indagini archeologiche condotte da G. Pesce, si coglie l’assenza di un’analisi di tipo stratigrafico dei riempimenti, che possiamo imputare al diverso approccio metodologico in uso in quegli anni. Va però tenuto in considerazione anche il fatto che ogni contesto risultò già sconvolto e coperto da terra di ricolmatura, come riferiscono G. Pesce e i suoi assistenti, affermando «[…] in ogni luogo abbiamo colmature alla rinfusa dimodoché dolente non mi è possibile fare anche un piccolo tratto di scavo stratigrafico»43. E ancora «[…] con il terreno come noi incontriamo, non ho la possibilità di poter fare almeno poche righe, dico poche righe su di un tratto che mi sia possibile fare uno scavo stratigrafico»44. La mancanza di una stratigrafia intatta è stata attribuita dallo stesso studioso a una fase di spoliazione dei materiali edilizi del sito45, evento cui vengono riferiti anche alcuni cumuli di lastre basaltiche rinvenuti accatastati lungo gli assi viari. Nonostante ciò, per alcune aree sono attestati tentativi di scavo stratigrafico: un esempio è dato dal terreno di colmatura che copriva la cisterna ubicata a ovest del Castellum aquae, scavata nel 1956, dove sono stati documentati e asportati sei distinti strati, per una potenza complessiva di 2,72 m: «m. 0,3 terreno vegetale, m. 0,80 pietrame con cocci, m. 0,50 cenere carbone e cocci, 0,20 terriccio e cocci, 0,12 cenere e carbone, 0,8 strato battuto di argilla giallognola»46. Nel corso dei primi scavi, nonostante l’assenza di un generale approccio stratigrafico, fu possibile intuire la sovrapposizione di più fasi di vita dei settori residenziali: è senza dubbio evidente là dove la destinazione d’uso venne del tutto modificata rispetto a quella originaria, come nei pressi delle Terme n. 2 (Fig. 6), e dove invece gli edifici abitativi continuarono a svolgere la medesima funzione nel corso dell’occupazione dell’abitato. Nel primo caso sono ancora visibili alcuni tratti di murature e ambienti pertinenti ad abitazioni più antiche ubicati all’esterno e all’interno dell’edificio termale: alcuni esempi sono dati da un tratto di muro ubicato tra la parte centrale della struttura termale e la strada non molto lontana sul lato settentrionale, e dagli ambienti nn. 23, 9, 18, 19, 30 e 31 (Fig. 4), scavati nel 1956, pertinenti il primo all’abitazione n. 81 e gli altri agli edifici nn. 83 e 84, interpretati come botteghe (Fig. 2)47. Nel secondo caso, è noto che dopo l’epoca punica gli edifici residenziali subirono dei rifacimenti, rintracciabili in alcuni tratti: è possibile osservare l’innalzamento di nuove murature in età romana, che sfruttano quelle puniche come fondazione, come risulta evidente da uno schizzo realizzato nel corso dello scavo del 1958 e riferibile a un ambiente ubicato nel quartiere a sud del Castellum aquae e a ovest del tempio “delle semicolonne doriche” (Fig. 9). È inoltre da notare la sovrapposizione, osservata nel corso dei primi interventi, di due livelli di pavimentazione, d’età romana e d’età punica, in diversi punti del sito, come nell’abitazione n. 45 e in un altro vano non precisamente individuabile48, ma ubicati entrambi a ovest della medesima struttura templare, dove quindi è ancora percepibile l’innalzamento del piano di calpestio.   Assaco-Faldone “Cabras. Tharros. Documentazione archeologica di scavo. Lavori impianto videosorveglianza e antintrusione. Impresa O. Murgia”. 42   Ibidem. 43   Assaco-Giornale di scavo del 25 novembre 1960 (“Tharros dal 21-11-60 al 30-11-60”). 44   Assaco-Giornale di scavo del 20 ottobre 1960 (“Tharros dal 21-11-60 al 30-11-60”). 45   Assaco-“Giornale di scavo dal 5-9 al 29-10-960”. 46   Assaco-Giornale di scavo del 20 settembre 1956 (Faldone 114. “Tharros Blocco n. 3 - scavi eseguiti dal 25-8-1956 al 21-9-1956”). 47   Pesce 1966b, pp. 156, 159. 48   Ivi, p. 129; Assaco-Giornale di scavo del 2 luglio 1958 (“Tharros Campagna di scavo dal 5.5 al 4.7.1958”). 41

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Fig. 9. Prospetto delle murature romane impostate su quelle puniche (da Assaco, “Tarros - scavi - 1958 dal 5-7 al 30-71958 Blocco n. 2”).

Va tenuto presente che tali resti rappresentano solo lo scheletro delle antiche abitazioni, in quanto le murature dovevano essere ricoperte d’intonaco, mentre i pavimenti, in alcuni casi, dovevano essere decorati a mosaico. Dalla documentazione di scavo è possibile ricostruire la distribuzione spaziale di tali testimonianze: per quanto riguarda i resti di intonaco, non sempre sono stati rinvenuti in posto, essendo ridotti, nella maggior parte dei casi, in frammenti, a volte con tratti policromi sopravvissuti, identificati nel riempimento dei vani. I lacerti che si sono preservati, come mostra la pianta elaborata (Fig. 10), sono stati individuati negli isolati a ovest (nelle case nn. 5, 8, 11 e 15) e a sud-ovest del Castellum aquae, nella bottega n. 17 e nelle abitazioni nn. 19, 20, 3349, 34, 35, 36 e 38, lungo il tratto di strada che fiancheggia verso nord il medesimo edificio; a ovest (negli edifici nn. 45, 46, 48, 51 e 53), a sud (nelle strutture nn. 55, 63 e nei pressi delle nn. 66-67-68) e in un ambiente a est del tempio “delle semicolonne doriche”; a nord (nei complessi nn. 69 e 79) e a est delle Terme n. 2, non lontano dalla costa (nella casa n. 81); infine, in alcuni ambienti delle Terme nn. 1 e 2. I resti riconosciuti nell’edificio termale n. 2 sono i più cospicui e sono stati evidenziati su una delle pareti dell’ambiente   Dai dati di scavo appare evidente che i frammenti di intonaco pertinenti alle tre abitazioni nn. 19, 20 e 33 andarono completamente distrutti nel corso dell’esplorazione ma, da un’osservazione autoptica, risulta che nel vano di fondo dell’edificio n. 20 sono sopravvissuti alcuni tratti di colore rosso sulle pareti settentrionale (nella parte bassa del muro, non lontano dal pavimento), meridionale (nel centro e nel settore più basso) e orientale (sia alla destra che alla sinistra del varco di ingresso all’ambiente), quest’ultima caratterizzata anche dalla presenza di un breve tratto di un riquadro di colore bianco nell’angolo sud-orientale, oltre a numerosi frammenti staccatisi nel corso del tempo e osservabili sul terreno depositatosi nel vano. 49

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Fig. 10. Carta di distribuzione dei resti di intonaco (da Pesce 1966b, Planimetria generale degli scavi anno 1965, rielaborata da M. Marano).

indicato in pianta (Fig. 4) con il n. 4; sui gradini di accesso della vasca A, a ovest del vano n. 8; sui gradini e sulla parete absidata della nicchia B del suddetto vano; lungo il battente sud-occidentale della strada secondaria, indicata con il n. 15; su una delle pareti della vasca n. 21; nei vani nn. 10, 11, 13, 14, 22, 26 e 27. Alcuni di questi lacerti presentano tracce di policromia, anche se purtroppo non sono distinguibili, nella quasi totalità dei casi, i motivi che dovevano esservi raffigurati: oltre ai pochi lacerti già citati e individuati nel 199450, si sono conservati alcuni frammenti decorati in colore rosso, nero, giallo, verde e marrone, provenienti da un tratto di strada che fiancheggia, lungo il lato nord-occidentale, il Castellum aquae, da un vano dell’edificio n. 52 e dagli ambienti nn. 14 e 27 delle Terme n. 251. Vanno segnalati anche i rarissimi frammenti reperiti nei pressi del quartiere residenziale ubicato sul declivio orientale della collina i quali presentano tracce di graffiti raffiguranti in un caso una figura umana e nell’altro un occhio52. I resti musivi, invece, sono molto meno rappresentati, come risulta evidente da una foto realizzata nel corso dello scavo del 1961 in cui è osservabile un breve tratto documentato (Figg. 11-12). I pochi residui rintracciati in situ nel corso delle prime indagini archeologiche sono stati rinvenuti  Cfr. supra, p. 84.   Assaco-Giornali di scavo del 02 ottobre 1956, del 05 ottobre 1956, dell’11 ottobre 1956 e del 14 luglio 1958 (“Tharros Blocco n. 4 scavi eseguiti: Dal 22.09.1956 al 20.10.1956”; “Tarros - scavi - 1958 dal 5-7 al 30-7-1958 Blocco n. 2”). 52   Assaco-Giornale di scavo del 18 ottobre 1960 (“Giornale di scavo dal 5-9 al 29-10-960”). 50 51

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Fig. 11. Carta di distribuzione dei resti musivi (da Pesce 1966b, Planimetria generale degli scavi anno 1965, rielaborata da M. Marano).

nelle vicinanze delle Terme n. 2 (nei pressi degli edifici nn. 64 e 65), in alcuni ambienti del suddetto edificio, a ovest (nel complesso n. 45) e a sud-ovest del tempio “delle semicolonne doriche” (nelle strutture nn. 59 e 61). A questi vanno aggiunti i rinvenimenti di tessere sporadiche, di cui alcune in ossidiana, purtroppo frammiste al riempimento archeologico, rinvenute in un vano nell’isolato a ovest del tempio “delle semicolonne doriche”, a est e all’interno del Castellum aquae, a nord-est delle Terme n. 2 nell’edificio n. 74 (Fig. 11); e altre in calcare scuro e chiaro, e in vetro grigio, attestate unicamente nei pressi del Castellum aquae. Di maggior interesse risultano essere i rinvenimenti musivi riscontrati negli ambienti delle Terme n. 2, per il discreto stato di conservazione: la miglior preservazione ha permesso agli scavatori di osservarne la policromia, come nel caso dell’ambiente n. 8, in cui si attestano disegni geometrici realizzati con tessere bianche, nere e gialle. In particolare, nei pressi della parete sud-orientale di tale ambiente era presente un mosaico a larghe fasce di cui la prima, adiacente alla parete, realizzata con tessere bianche; la seconda rappresentata da alcuni motivi descritti come «croci uncinate» dagli scavatori, rese con tessere nere su un fondo bianco; e la terza in cui furono adoperate tessere di colore bianco53. Un altro esempio si riscontra in uno degli ambienti parzialmente preservati a ridosso della costa, indicato nella pianta di scavo con il n. 2, dove è stato identificato un disegno geometrico a grandi cerchi realizzati con tessere nere circondato esternamente da rombi di tessere di colore giallognolo54. È del tutto plausibile che le aree pavimentali mosaicate dovessero essere più numerose rispetto a quelle percepibili dalla documentazione di   Assaco-Faldone 114. “Tharros Blocco - n. 3 scavi - eseguiti - dal 25-8-1956 - al - 21-9-1956”.   Ibidem.

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Fig. 12. Veduta di un tratto di mosaico (da Afsaco, n. 6401).

scavo, specialmente se si tiene in considerazione anche ciò che è andato perduto nel corso del tempo. Un caso di distruzione, da imputare ad atti vandalici, risulta documentato da una lettera inviata dal Consigliere Regionale Lucio Abis all’assessore alla Pubblica Istruzione, Assistenza e Beneficenza, Pierina Falchi, in cui si attesta la devastazione quasi totale di un intero pavimento mosaicato55, per il quale però non abbiamo nessuna possibilità di identificare la collocazione. Dall’analisi della documentazione grafica esistente in letteratura e allegata ai diari di scavo delle prime indagini archeologiche appare evidente la discordanza nella numerazione delle differenti strutture. La difficoltà si connette forse al fatto che la rielaborazione d’insieme avvenne unicamente alla fine dell’ottava e ultima campagna di scavo condotta da G. Pesce, riunendo gli ambienti individuati e singolarmente numerati tra il 1956 e il 1963 in nuclei più grandi. Tale discordanza ha reso assai complessa l’identificazione dei settori indagati, ma, con un confronto accurato tra la pianta generale e quelle parziali realizzate in corso di scavo, è stato possibile ricostruire la successione delle indagini che hanno interessato il sito, localizzando puntualmente ogni intervento. Risalta immediatamente all’occhio come le strutture abitative individuate siano molto lacunose sia nell’apparato murario sia pavimentale: ciò rende particolarmente arduo definire l’effettiva pertinenza di ciascun ambiente e le caratteristiche salienti di ognuno. Un altro problema si è riscontrato anche a proposito del riconoscimento, nelle emergenze archeologiche oggi in vista, della cisterna rinvenuta nel novembre 196056 e collocata da G. Pesce sotto il piano di calpestio di tre ambienti pertinenti all’edificio n. 64, dove la pavimentazione risultava parzialmente lacunosa. Suggestiva è la presenza, su uno dei lati maggiori della cisterna, di un graffito, realizzato sull’intonaco d’impermeabilizzazione, raffigurante un felino posto di profilo (Fig. 13), di cui G. Pesce dà notizia nella sua rielaborazione finale57. La descrizione fornita dallo scavatore accosta i vani del complesso ad altri due che sembrerebbero essere serviti dalla medesima cisterna58, anche se è plausibile pensare che tali strutture possano essere state osservate e analizzate anche in un secondo momento.     57   58   55 56

Assaco-Faldone “Giornali di scavo di Tharros. Interrogazione Abis. 5 settembre 1957”. Assaco-Giornale di scavo del 26 novembre 1960 (“Tharros dal 21-11-60 al 30-11-60”). Pesce 1966b, p. 136. Assaco-Giornale di scavo del 29 novembre 1960 (“Tharros dal 21-11-60 al 30-11-60”).

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Fig. 13. Rilievo della cisterna ubicata nell’edificio n. 64 (da Agsaco, n. 141).

Suggestivo appare anche il rinvenimento di un cospicuo numero di «frammenti di flauto»59, per la maggior parte realizzati in osso60, eccettuati due esemplari in avorio61: la descrizione degli elementi fornita dai diari di scavo purtroppo riguarda solo la lunghezza e il diametro delle parti preservate e solo in un caso, ritrovato nei pressi del tempio “delle semicolonne doriche”, si fa riferimento alla presenza di «[…] 3 forellini allineati di forma quadrata larg m. 0,06 x m. 0,06»62, caratterizzazione che avvi  Purtroppo per molti di questi frammenti non viene fornita alcuna informazione sul materiale in cui sono stati realizzati. Sono stati rinvenuti nei pressi della strada confinante con il Castellum aquae (Assaco-Giornale di scavo del 09-081956); a sud delle Terme n. 1 (Assaco-Giornali di scavo del 30-09-1960, dell’01-10-1960, del 12-10-1960 e del 15-101960); nel quartiere posto a sud del tempio “delle semicolonne doriche” (Assaco-Giornali di scavo del 26-11-1960, del 29-11-1960 e del 30-11-1960); nel settore residenziale occidentale (Assaco-Giornali di scavo del 09-10-1962, del 21-111962, del 03-12-1962, del 06-06-1963, del 12-06-1963 e del 18-06-1963) e in alcuni punti dell’abitato non precisamente individuati (Assaco-Giornali di scavo del 13-10-1960, del 18-10-1960, del 20-10-1960, del 21-10-1960, del 22-10-1960, del 27-10-1960, del 22-11-1960, del 25-11-1960, del 18-06-1963, del 27-06-1963, del 28-06-1963, del 03-07-1963, del 05-07-1963, dell’11-07-1963 e del 18-07-1963). 60   I reperti realizzati in osso provengono dalle Terme n. 2, precisamente dagli ambienti nn. 1 (Assaco-Giornali di scavo del 28-07-1956 e del 30-07-1956), 15 (Assaco-Giornale di scavo del 16-07-1958), 27 (Assaco-Giornale di scavo del 1210-1956); dall’area prospiciente il Castellum aquae (Assaco-Giornali di scavo dell’11-08-1956 e del 28-05-1960); dal settore a sud delle Terme n. 1 (Assaco-Giornale di scavo del 16-06-1960); dal settore abitativo occidentale (Assaco-Giornali di scavo del 03-06-1963 e del 25-06-1963); e infine, dall’area del tempio “delle semicolonne doriche” (Assaco-Giornale di scavo del 13-08-1958). Inoltre, sono documentati alcuni frammenti il cui luogo di rinvenimento non è stato precisamente definito (Assaco-Giornali di scavo del 22-07-1958, del 23-07-1958, del 25-07-1958, del 14-06-1960 e del 25-06-1963). 61   Nei diari di scavo di G. Pesce è stato individuato un unico reperto realizzato in avorio, rinvenuto tra gli ambienti nn. 1 e 2 delle Terme n. 2 (Assaco-Giornale di scavo del 10-08-1956). Successivamente, negli anni Novanta del secolo scorso, L.I. Manfredi dà notizia di due elementi cavi con fori realizzati nel medesimo materiale rinvenuti nel corso degli scavi archeologici diretti da G. Pesce (Manfredi 1990, p. 108, tav. XXX, E14-15). 62   Nel testo originale : Assaco-Giornale di scavo del 13 agosto1958 (“Tarros - scavi - 1958 dal 31-7 al 4-9-958 Blocco n. 3”). 59

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cina effettivamente tale oggetto all’interpretazione fornita da G. Pesce (Fig. 14, a)63. A tali reperti è possibile avvicinare due frammenti in osso lavorato, identificati nei pressi della strada posta a sud-ovest delle Terme n. 2, per i quali lo scavatore non ha proposto un’interpretazione di tipo funzionale, ma che presentano «[…] delle cavità circolari nella parte superiore in globetto lung. m. 0,095»64. Dallo studio realizzato da L.I. Manfredi si rileva che alcuni frammenti in osso presentano dei fori passanti circolari (Fig. 14, b). Il quantitativo elevato di reperti di tale genere in contesto residenziale piuttosto che rituale può apparire alquanto anomalo e permette di fare alcune considerazioni: va innanzitutto tenuto presente che alcuni dei frammenti rinvenuti potessero essere pertinenti a oggetti di natura diversa e destinati ad altri usi, come cerniere di mobili65 o elementi connessi ad attività di tessitura66; invece, per gli elementi avvicinabili ai flauti dovremmo anche tener presente che il terreno di riempimento è stato considerato sconvolto per cui tali oggetti potrebbero essere stati rinvenuti fuori contesto rispetto al luogo del loro originario abbandono. Inoltre, tra i reperti confrontabili67, si notino quelli rinvenuti a Ibiza, del tutto simili a due dei reperti di Tharros, per i quali è stata proposta un’interpretazione come flauti68. Non sfugge l’interesse dei dati tharrensi che potrebbero correlarsi, ad esempio, alla presenza di una bottega artigianale in uno dei quartieri dell’abitato. Merita attenzione anche il recupero di resti faunistici, in particolare quello di un discreto quantitativo di denti ritenuti “di cinghiale”69. In alcuni casi questi presentano tracce di lavorazione, come, ad esempio, due esemplari – di cui uno con tracce di incisioni70 – rinvenuti in ambienti posti nel quartiere residenziale lungo il declivio orientale della collina71. Non è da escludere la possibilità che si trattasse di denti di suini, sia perché, in assenza di un accurato studio archeozoologico, a un mero esame autoptico la similarità delle superfici dentali non consente di distinguere gli uni dagli altri; sia sulla base del raffronto con i dati emersi dall’analisi moderna dei resti faunistici provenienti dalla collina di Murru Mannu, dove è attestata la presenza di un unico cinghiale72. Di notevole interesse risultano essere anche i resti ossei pertinenti ad alcuni individui umani, recuperati dal terreno di riempimento, al tempo dei primi scavi. In particolare, in uno degli ambienti delle Terme n. 1 « […] si è rinvenuto un teschio ben conservato e gettate alla rinfusa tutte le altre ossa […]»73 e «[…] si rinvenivano ancora 4 teschi con solo due ossa lunghe, poche vertebre e poche costole […]»74, associati ad alcuni oggetti di corredo come «[…] un framm.to di strigile di bronzo, assai ossi  Pesce 1961a, col. 398, n. 24, fig. 36 in alto; Manfredi 1990, p. 109. Sulla musica nel mondo fenicio-punico si veda Fariselli 2007. 64   Assaco-Giornale di scavo del 15 settembre 1956 (Faldone 114. “Tharros Blocco - n. 3 scavi - eseguiti - dal - 25-8-1956 - al - 21-9-1956”). 65   Si ricordano alcuni frammenti con foro passante conservati presso il British Museum di Londra e provenienti dalla Tomba n. 20, del tutto simili a quelli presi in esame in questa sede e interpretati come parti di mobilio (Barnett, Mendleson 1987, p. 199, pl. 113. 20/40-43). 66   Manfredi 1990, pp. 108-109. Cfr. per elementi attestati in contesti etruschi, Caretta 2006, pp. 97-98, figg. 12/12, 13, 18, 21; 14. 67   Per altri rinvenimenti simili a quelli tharrensi si veda Manfredi 1990, pp. 108-109. 68   Vento Mir 1985, p. 110, fig. 40: M.E.-EI/66, 79, 80; p. 111. 69   Tali resti sono stati individuati nei pressi del Castellum aquae (Assaco-Giornali di scavo del 30-06-1956, del 2007-1956, del 25-07-1956, del 29-05-1958, del 16-06-1960 e del 25-06-1960); presso le Terme n. 2, precisamente nel corso dello scavo della strada che fiancheggia l’edificio (Assaco-Giornale di scavo del 12-07-1956), a ovest dell’ambiente n. 9 (Assaco-Giornale di scavo del 30-08-1956), e nel vano n. 27 (Assaco-Giornale di scavo del 12-10-1956); nell’area tra gli edifici termali nn. 1 e 2 (Assaco-Giornali di scavo dell’08-09-1960 e del 20-09-1960); in una delle abitazioni del settore occidentale (Assaco-Giornale di scavo dell’08-10-1962); e infine, in uno dei vani centrali del quartiere posto a ovest del tempio “delle semicolonne doriche” (Assaco-Giornale di scavo del 28-06-1958). 70   Assaco-Giornale di scavo del 16 giugno 1960 (“Tharros dal 18-5-60 all’1-7-60”). 71   Assaco-Giornali di scavo del 16 giugno 1960 e del 25-06-1960 (“Tharros dal 18-5-60 all’8-7-60”). 72   Farello 2000, pp. 293-300. 73   Assaco-Giornale di scavo del 21 giugno 1956 (Faldone 114. “Tharros G. di scavo dal - 18-6-56 al - 26-7-1956 - Blocco n. 1”). 74   Ibidem. 63

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a

b Fig. 14. a: elemento di flauto rinvenuto nei pressi del tempio “delle semicolonne doriche” (da Pesce 1961a); b: elementi in avorio con foro passante (da Manfredi 1990).

dato lungh. m. 0,085, n. 1 anello di bronzo, con castone pure di bronzo […]»75. Inoltre, presso le Terme n. 2 sono state identificate tre inumazioni, una in uno degli ambienti posti nell’angolo nord-orientale, a sud della cloaca che si dirige verso la costa; e le altre due in uno dei vani centrali. In particolare, una di queste ultime, individuata nell’ambiente n. 11, «[…] non è altro che la deposizione con all’interno i resti di un inumato, la deposizione si presenta con solo due lastre di arenaria a copertura verso i piedi, i muretti laterali costituiti di sottili lastre di arenaria in N. 4 per parte […]»76 e «[…] la posizione testa a N.OV piedi a S.E i resti scheletrici un po’ in disfacimento, se ne è potuto ricavare la esatta disposizione ossea per la documentazione fotografica, il teschio assai danneggiato coricato sul lato destro, le braccia bene allineate le cui mani sono adagiate sul bacino assai scomposte le falangi […] le gambe con i piedi bene allineati lung. dei resti scheletrici m. 1,62»77. Di tale individuo, dichiarava G. Pesce, «[…] il ba-

  Ibidem.   Assaco-Giornale di scavo del 04 settembre 1956 (Faldone 114. “Tharros Blocco - n. 3 scavi - eseguiti - dal 25-8-1956 - al - 21-9-1956”). 77   Ibidem. 75 76

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Fig. 15. Proposta di tipologia di case tharrensi (da Falchi 1991).

cino assai largo ci fa pensare a un sesso femminile»78. Una destinazione del tutto simile è da attribuirsi a un piccolo vano posto alle spalle degli ambienti pertinenti all’edificio n. 46, in cui si è ritenuto fosse stato realizzato un sarcofago che doveva ospitare il corpo di un inumato79. Al momento del rinvenimento, per alcuni di questi resti si ritenne che «[…] data la loro disposizione [non si trattasse] di sepolture vere e proprie, ma in epoca antica, siano stati rinvenuti in altra parte, ma per non disperderli e per rispetto, siano stati nuovamente interrati […]»80. Certamente un dettagliato studio dei resti ossei e dei corredi permetterebbe di avere maggiori dati su tali deposizioni e sull’uso, all’epoca del seppellimento, dei vani in cui sono stati rinvenuti. Dal punto di vista del dato strutturale, negli anni Novanta del secolo scorso va segnalato il tentativo di M. Falchi di creare una tipologia di case tharrensi. La studiosa segnala quattro tipi strutturali (Fig. 15): 1) corridoio laterale e cortile decentrato; 2) cortile frontale e ambienti retrostanti; 3) pianta bipartita costituita da due ambienti allungati e affiancati; e 4) pianta allungata, con vani giustapposti81. Osservando la planimetria realizzata da G. Pesce e dai suoi assistenti (Fig. 2) e analizzando i giornali di scavo si evince che la situazione è molto varia. Va tenuto presente anche che le murature al momento del rinvenimento sono risultate essere molto lacunose, motivo per cui oggi risulta complesso anche soltanto demarcare i singoli nuclei abitativi rispetto alle piante tracciate al tempo degli scavi, e ancor più ricostruirne le fasi di vita. È rilevante notare, al riguardo, che un tipo di abitazione isolato da G. Pesce e dai suoi assistenti al tempo dei primi scavi archeologici, sembra sparito dalla letteratura moderna. Si tratta di una struttura con un lungo corridoio centrale dal quale si accede a sei ambienti, tre per lato. Tra questi i due più vicini all’ingresso sono interpretati dallo scavatore l’uno come cucina e l’altro come vano preposto ai servizi igienici. Uno di più grandi dimensioni, posto frontalmente all’entrata, dal quale si accede a una veranda laterale ubicata oltre la parete nord, era destinato, secondo lo studioso, a funzioni conviviali (Fig. 16). Purtroppo, allo stato odierno, non è possibile fornire maggiori indicazioni per questa abitazione, né di tipo cronologico, non essendo pervenute informazioni di scavo, né sul settore dove doveva trovarsi, data l’assenza di ogni riferimento nella pianta stessa e nei giornali di scavo reperiti. Osservando, però, che l’ingresso era posto lungo il lato orientale e tenendo presente che generalmente questo era ubicato su un asse stradale, sembra possibile che la residenza in questione   Ibidem.   Assaco-Giornale di scavo del 25-06-1958 (“Tharros Campagna di scavo dal 5.5 al 4.7.1958”). 80   Assaco-Giornale di scavo del 21 giugno 1956 (Faldone 114. “Tharros G. di scavo dal 18-6-56 al 26-7-1956 Blocco n. 1”). 81   Falchi 1991, p. 30. 78 79

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Fig. 16. Tipo di abitazione individuato da G. Pesce (da Assaco-Faldone Scavi Pesce. Foglio sparso).

dovesse trovarsi in uno dei quartieri le cui case presentavano l’accesso sul medesimo lato, affacciato su un asse viario. Tali caratteristiche sono osservabili nel settore abitativo ubicato alle pendici della collina di San Giovanni, precisamente quello posto oltre il battente occidentale del cardo che fiancheggia il Castellum aquae e che giunge fino alle Terme n. 2 (Fig. 2), solo parzialmente indagato in quest’ultimo tratto. A una prima osservazione autoptica di tale settore, però, il tipo di abitazione non è stato riscontrato per cui sarà necessaria una verifica sul campo dell’intera area abitativa, al fine di rubricare anche questo genere di residenza all’interno dell’abitato. Anche se è stato solo grazie al reperimento dei giornali di scavo che si sono compiuti la ricostruzione sistematica delle indagini ufficiali e il recupero dei dati sulle strutture scavate, non si potrà prescindere, nell’immediato futuro, da un’analisi autoptica degli apparati lapidei sopravvissuti al fine di elaborare una tipologia unitaria delle abitazioni presenti e tentare di percepire e ripercorrere le trasformazioni verificatesi in ogni fase di occupazione degli edifici, ove possibile, attraverso la stratigrafia muraria.

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AUTORI

Carlotta Bassoli è Archeologa, libera professionista. Federica Boschi è Tecnico Laureato presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna. Carla Del Vais è Ricercatore presso il Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio dell’Università degli studi di Cagliari. Anna Chiara Fariselli è Professore Associato presso il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna. Silvana M. Grillo è Professore Associato presso il Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura dell’Università degli studi di Cagliari. Melania Marano è Dottoranda di Ricerca presso la Scuola Dottorale Interateneo in Storia delle Arti Università Ca’ Foscari di Venezia - Università di Verona. Marco Edoardo Minoja, già Soprintendente della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province di Cagliari e Oristano, è attualmente Soprintendente della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. Stefano Naitza è Ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura dell’Università degli studi di Cagliari. Michele Silani è Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna. Mariangela Vandini è Professore Associato presso il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna.

Finito di stampare nel mese di settembre 2014 presso Global Print - Gorgonzola (MI)