Il cibo e le donne nella cultura e nella storia. Prospettive interdisciplinari 8849125216, 9788849125214

Donne e cibo: una relazione apparentemente ovvia, ma anche con forti specificità di genere che questo volume indaga in u

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Il cibo e le donne nella cultura e nella storia. Prospettive interdisciplinari
 8849125216, 9788849125214

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LEXIS Biblioteca di scienze umane

Maria Giuseppina Muzzarelli. Storica del Medioevo, insegna presso l’Università di Bologna. Si occupa di storia della mentalità e della società. Tra le sue pubblicazioni: Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo (Bologna 1999), Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di Pietà (Bologna 2001), Donne e cibo. Una relazione nella storia (con Fiorenza Tarozzi, Milano 2003, Premio Città di Minori), e Pescatori di uomini. Predicatori e piazze alla fine del Medioevo (Bologna 2005). Lucia Re. Docente di Letteratura italiana e Letteratura comparata moderna e contemporanea presso la University of California, Los Angeles. Ha pubblicato studi su scrittori e scrittrici tra cui Gabriele d’Annunzio, Marcel Proust, Filippo Tommaso Marinetti, Valentine de Saint-Point, Gertrude Stein, Benedetta Cappa Marinetti, Fausta Cialente, Paola Masino, Amelia Rosselli. Calvino and the Age of Neorealism: Fables of Estrangement (Stanford 1990) ha ricevuto il premio Marraro. Con Paul Vangelisti ha curato Amelia Rosselli: War Variations (Kobenhavn & Los Angeles 2005).

€ 22,00

CB 3823

Il cibo e le donne nella cultura e nella storia

Donne e cibo: una relazione apparentemente ovvia ma anche con forti specificità di genere che questo volume indaga in un’ottica diacronica e multidisciplinare. I saggi qui raccolti (frutto di un dialogo e confronto tra intellettuali con varie e diverse prospettive metodologiche e critiche) portano alla luce forme e peculiarità di questa relazione nei secoli, scorgendovi tanto elementi di continuità quanto aspetti di singolarità. Nei saggi si compiono sondaggi relativi ad epoche differenti e in campi che vanno dalla storia alla letteratura, dalla storia dell’arte al cinema, dalla psicanalisi alla semiologia, nel disegno di iniziare un ragionamento complesso e sfaccettato sul tema. La domanda di partenza è così formulabile: si possono recensire, interconnettere e spiegare i comportamenti nei confronti del cibo propri o attribuiti alle donne? Se sì, è possibile cogliere disegni con scopi o significati politici o sociali? Per fornire alcune risposte ed ipotesi interpretative, in questi studi si parla di donne che non mangiano e di altre che scrivono di cibo, di banchetti di sole donne e di espressioni artistiche femminili tramite il cibo, di donne sedotte e che seducono a tavola. Ne esce un quadro ricco e variegato (ben al di là dell’immagine di modeste cuciniere intente a preparare quotidianamente pasti per la famiglia) che apre nuove prospettive di indagine e di ricerca.

M. G. Muzzarelli - L. Re

LEXIS Biblioteca di scienze umane

Il cibo e le donne nella cultura e nella storia Prospettive interdisciplinari a cura di

Maria Giuseppina Muzzarelli e Lucia Re

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Il cibo e le donne nella cultura e nella storia Prospettive interdisciplinari

a cura di Maria Giuseppina Muzzarelli e Lucia Re

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© 2005 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti.

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Cibo (Il) e le donne nella cultura e nella storia. Prospettive interdisciplinari / a cura di Maria Giuseppina Muzzarelli e Lucia Re. – Bologna : CLUEB, 2005 239 p. ; 21 cm ISBN 88-491-2521-6

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In In copertina: Peter Blume, Pranzo con Vegetali (1927), olio su tela, National Museum of American Art (Smithsonian Institution), Washington, DC.

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D d CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com Finito di stampare nel mese di dicembre 2005 da Studio Rabbi - Bologna

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Introduzione, di Maria Giuseppina Muzzarelli e Lucia Re .................

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Femminilità e nutrimento. Dal Cantico dei cantici a una paziente di Freud. Dall’amore arcaico all’amore primigenio, di Alessandra Ferlini ........................................................................................................

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Si mangia o non si mangia? Il VII libro della Physica di Ildegarda di Bingen, di Maria Giuseppina Muzzarelli .............................................

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Cucina, donne e santità: dalla pratica alla scrittura, di Cristina Mazzoni .......................................................................................................

67

Donne e cibo: qualche spunto per una lettura iconografica dal Medioevo al ’700, di Elisabetta Sambo ....................................................

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Strategie alimentari ed esercizio dei sensi: donne, cibo, seduzione nella Storia della mia vita di Giacomo Casanova, di Elisabetta Graziosi ......................................................................................................

105

Famelici libertini e donne inappetenti. L’irrinunciabile dialettica dei sessi a tavola, di Bruno Capaci ...........................................................

127

In piazza per il pane: una presenza al femmile, di Fiorenza Tarozzi

145

Fame, cibo e antifascismo nella Massaia di Paola Masino, di Lucia Re

165

Le artiste e il cibo dall’impressionismo alle video performances, di Martina Corgnati ..................................................................................

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Eccessi e disturbi alimentari sugli schermi degli ultimi decenni: per un confronto Italia-USA, di Cristina Bragaglia ...................................

201

Donne, lussi e lussurie: frammenti di visioni, di corpi e di scritture del discorso alimentare, di Patrizia Calefato .......................................

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Autori ...................................................................................................

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Indice dei nomi ....................................................................................

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Introduzione MARIA GIUSEPPINA MUZZARELLI e LUCIA RE

I motivi di una relazione Donne e cibo: un nesso apparentemente ovvio perché tutti mangiano, uomini e donne, ma anche una relazione con forti specificità di genere che qui ci proponiamo di indagare in un’ottica diacronica e multidisciplinare. La nostra scommessa è quella di portare alla luce forme e peculiarità di questo rapporto nei secoli per scorgervi tanto gli elementi di continuità quanto anche eventuali aspetti di singolarità. Nel nostro lavoro ci si occupa sia del passato, assai remoto o relativamente prossimo, sia del presente, per prendere contezza di importanti distanze ma anche per registrare non poche continuità. Il caso della mancata condivisione del desco, per esemplificare, segna un’evidente distanza, mentre la cura per gli altri attraverso il cibo (dall’allattamento alla preparazione quotidiana dei pasti per la famiglia) costituisce un dato di permanenza. Vi sono differenze geografiche ed altre di carattere economico che resteranno sullo sfondo in quanto, in un certo senso, scontate o perlomeno proprie ad altri tipi di analisi. Nei saggi che seguono ci si limita ad alcuni sondaggi relativi ad epoche differenti e in campi diversi (tra cui trattatistica, letteratura, memorialistica, arte, psicanalisi, cinema, pubblicità) nel disegno di iniziare, più che di compiere, un ragionamento sul tema. Tenendo conto del lavoro di indagine ed analisi svolto nei saggi, ma anche estrapolandone temi, questioni e problemi più a largo raggio che sono emersi dal dialogo e dal confronto interdisciplinare, cerchiamo qui di articolare i termini teorico-critici del nostro itinerario di ricerca. La domanda di partenza è così formulabile: si possono recensire,

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interconnettere e spiegare i comportamenti nei confronti del cibo propri o attribuiti alle donne? Se sì, è possibile cogliere disegni con scopi o significati politici o sociali? Come ogni fenomeno culturale, anche mangiare è al tempo stesso sistema e processo, fatto istituzionale e atto individuale compiuto da uomini e da donne dai differenti destini e dalle ineguali potenzialità. Si parte dall’indiscussa differenza dei ruoli maschili e femminili per vedere come essa si proietti nella relazione con il cibo. Se in generale il rapporto con il cibo è frutto di una costruzione simbolica e culturale, altrettanto e ancor più costruita è la relazione delle donne con il cibo. Come l’uomo ha creato le sue piante e i suoi animali1, dando vita all’agricoltura e alle pratiche di domesticazione, così gli uomini hanno tentato di agire sulle donne anche imponendo loro modi e forme di accesso al cibo. Le donne a loro volta hanno usato il cibo non solo per sopravvivere e comunicare ma anche per modificare legami e condizioni. La relazione delle donne con il cibo è un fatto culturale che rappresenta rapporti di potere da mantenere e rafforzare oppure da cambiare; raffigura bisogni e progetti; prende corpo tanto nella produzione di norme come in comportamenti che segnano ora realizzazioni fedeli ora scarti rispetto alle regole. Per cercare di cogliere alcuni aspetti di questa relazione ci si può valere di testimonianze sia femminili sia maschili. Tanto Angela da Foligno quanto Casanova ce ne parlano. Alcuni lo fanno consapevolmente e direttamente ma perlopiù occorre lavorare su tracce, da scovare, giustapporre e comporre in un montaggio per arrivare a ipotesi interpretative. Questo è lo scopo che ci ha mosso a proporre questo insieme di studi. L’idea era quella di raccogliere testimonianze diverse in più campi, utilizzando differenti competenze, per interrogare le fonti circa i rapporti che le donne hanno avuto con il cibo nei secoli: quali rapporti sono stati loro imposti e quali hanno saputo crearsi o immaginarsi. Una domanda esplicita come questa, specifica ma al tempo stesso così allargata, la storiografia non se l’era posta prima degli ultimi anni. Eppure di recente si è parlato e si è scritto molto sul cibo e lo si

1

E. Hyams, “E l’uomo creò le sue piante e i suoi animali”, trad. it. Milano 1973 (ed. orig. Philadelphia 1972).

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continua a fare2. Lo studiano i sociologi3, gli storici dell’arte4 e i filosofi5. Se ne occupano gli antropologi e gli economisti. Anche gli studiosi dei nuovi media e delle nuove tecnologie se ne stanno interessando6. La prospettiva di genere in questi studi è però perlopiù minima (spesso ci si limita al ruolo della donna nella sfera famigliare) o assente: fenomeno paradossale visto il ruolo fondamentale della donna nella storia del cibo e della nutrizione. Si tratta di una mancanza che fa pensare addirittura a una rimozione. Pochissimi sono i lavori specifici dedicati al nesso donne e cibo, anche se interessanti prospettive di genere non mancano nelle ricerche antropologiche, sociologiche, etniche e di folklore di studiose contemporaneiste come Carole Counihan, Sherrie Inness, Elspeth Probyn e Sally Cline7. Nei volumi della Storia delle donne di Georges Duby e Michelle Perrot8 il tema non è oggetto di indagine e non ci sono comunque studi nel lungo periodo. Si è cercato di affrontarlo dal punto di vista storico9, ma non esiste una ricostruzione del tema su base multidisciplinare.

2 Di recente è nata una rivista che si intitola “Food and History”, Institut Européen d’Histoire de l’Alimentation, I, 1 (2003). 3 D. Lupton, L’anima nel piatto, trad. it. Bologna 1999 (ed. orig. Londra 1996); J.P. Poulain, Sociologies de l’alimentation, Paris 2002. 4 A. Appiano, Bello da mangiare. Il cibo come forma simbolica nell’arte, Roma 2000; L. Mariani, A. Parisella, G. Trapani, La pittura in cucina, Palermo 2003. 5 F. Rigotti, La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria, Bologna 1999. 6 M. Morse, What do Cyborgs eat?, in Virtualities. Television, Media Art, and Cyberculture, Minneapolis 1998. 7 C. Counihan, The Anthropology of Food and Body: Gender, Meaning, and Power, New York 1999; Cooking Lessons: The Politics of Gender and Food, ed. by S. Inness, Lanham, Rowman and Littlefield, 2001; E. Probyn, Carnal Appetites. Food Sex Identities, New York 2000; S. Cline, Just Desserts: Women and Food, Londra 1990. 8 Storia delle donne in Occidente, a cura di G. Duby e M. Perrot, trad. it. RomaBari 1990-1992. 9 M.G. Muzzarelli, F. Tarozzi, Donne e cibo. Una relazione nella storia, Milano 2003; A. Colella, Figura di vespa e leggerezza di farfalla: donne e cibo nell’Italia borghese di fine Ottocento, Firenze 2003. Per gli studi storici in lingua inglese, ancora molto scarsi, vedere il panorama tracciato da M.A. Procida, No longer Half-Baked. Food Studies and Women’s History, in “Journal of Women’s History”, VII (2004), 3, pp. 197-205.

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Michele di Matteo, Il sogno della vergine, Pesaro, Biblioteca Civica (particolare).

Non pretendiamo di aver colmato un vuoto ma abbiamo cercato di offrire – pur rimanendo all’interno della cultura occidentale e giudaico-cristiana – un primo contributo di approfondimento, ragionando non solo di limitazioni ma anche muovendo alla ricerca di tracce lasciate o di percorsi intrapresi dalle donne per parlare di sé attraverso il cibo e usando il cibo per aggiustare relazioni o per affermare intenzioni. Nel libro Donne e cibo. Una relazione nella storia si partiva da Eva e dalla mela offerta ad Adamo con successivo tragico strascico di conseguenze10. Di quelle conseguenze ci interessa il controllo delle azioni delle donne e in particolare il controllo della loro alimentazione. Già presso i Romani non potevano bere vino e non era ben visto che mangiassero insieme agli uomini così come era disprezzata una loro eventuale voracità. Ciò in un tempo e in un ambiente che assegnava valore positivo al mangiare molto in pubblico, ma solo negli uomini, che così facendo davano di sé un’immagine di potenza, tanto che non si riteneva degno d’essere re chi mangiava poco. La stessa regola non valeva per le donne, nemmeno se di ambiente sociale elevato. 10

M. Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma-Bari 1988, cap. I, Il peccato di Adamo, pp. 3-12.

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L’identificazione che affiora in alcuni saggi della donna con il cibo (la donna “è” cibo) è una costruzione culturale e di genere e a sua volta rappresenta e veicola complessi modelli e processi culturali. Questo vale per il cibo prodotto come per quello consumato, tanto per il cibo di cui si parla quanto per quello che si raffigura, per il cibo che compare sugli schermi o è evocato nei trattati e nelle opere letterarie. Come hanno suggerito fin dagli anni ’60 gli antropologi, i semiologi e i sociologi (da Claude Lévi-Strauss, a Mary Douglas, da Roland Barthes a Pierre Bourdieu), il cibo e le abitudini alimentari, attraverso le loro codificazioni rituali e testuali, costituiscono infatti sistemi di comunicazione, linguaggi e dispositivi simbolici in cui si inscrivono, operano e si autolegittimano le strutture sociali, le distinzioni di classe, i rapporti ideologici e di potere e – fattore spesso menzionato ma raramente approfondito – le differenze di genere11. Il cibo parla degli uomini che per molti secoli lo hanno cercato e che ora ne sono inseguiti (questo almeno a certe latitudini), rivela situazioni proprie a diversi territori e a differenti epoche storiche, dà sostanza a modelli di comportamento divergenti concepiti in ambienti diversi. Segna distanze, rappresenta ordini gerarchici o getta ponti fra condizioni diverse ma anche fra paesi lontani fra loro. Parla di paesaggi modificati, di animali e di piante piegate al volere umano, rivela progressi e forzature, dà corpo a sogni e allude a desideri diversi da quelli direttamente alimentari. Rappresenta progetti e regala piacere. Riguarda insomma molti aspetti della vita degli esseri umani. Di questo oggi si occupa la storiografia più avvertita12. Gli uomini sono quello che mangiano, si può ancora affermare riprendendo e reinterpretando le parole di Feuerbach. E le donne? Le donne per secoli sono state soprattutto quello che non mangiavano, sono state oggetto di tentato disciplinamento alimentare, sono state confinate in cucina e imbrigliate da una rete di limitazioni che ha impedito loro carriere di alte cuciniere e almeno in parte sottratto il piacere ricavabile da cibi e bevande: il vino, ad esempio, è stato vietato per secoli alle donne. Lo avranno bevuto, ma non pubblicamente. 11

C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, Milano 1966 (ed. orig. 1964); M. Douglas, Decifrare un pasto, e Il cibo come sistema di comunicazione, in Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita sociale, Bologna 1985 (ed. orig. 1972), pp. 165-191, 193-229; R. Barthes, Miti d’oggi, Torino 1974 (ed. orig. 1957); P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna 1983 (ed. orig. 1969). 12 M. Montanari, Il cibo come cultura, Roma-Bari 2004.

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Giuseppe Maria Crespi, La sguattera, olio su tela, Firenze, Uffizi.

Ma in questa silloge di studi non si parla solo dei limiti subiti e non ci si occupa unicamente di stili e comportamenti del passato. Infatti, se molti di quegli stili e di quei comportamenti oggi non sono più in vigore – ma è importante conoscerli – tracce di alcuni di essi appaiono ancora riconoscibili ai nostri giorni. Ancora oggi, ad esempio, sono pochi (almeno così si dice) i grandi chef di sesso femminile13, e ancora oggi sono molte le donne che volutamente si privano del cibo per affermare la loro personalità o addirittura per costruire la propria identità. Molti degli studi che seguono lambiscono il tema dell’affamamento volontario ovvero della anoressia nelle sue valenze culturali e simboliche ma non lo si tratta direttamente in quanto esula dalle competenze della quasi totalità degli studiosi coinvolti nella nostra ricerca.

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L.W. Banner, Why Women have not been Great Chefs, in “South Atlantic Quarterly”, 72, 2 (1973), pp. 198-212.

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Donna = cibo? Fin dal Cantico dei Cantici, psicanaliticamente interpretato da Alessandra Ferlini nel primo saggio della nostra silloge, l’analogia tra donna e cibo è un tema privilegiato nella storia della cultura occidentale di derivazione giudaico-cristiana. Il corpo della donna viene presentato come frutto da gustare, fonte di godimento e piacere sensuale come lo sono i più squisiti cibi. La donna è nutrimento per l’amato ma anche, con l’allattamento e nel suo ruolo di nutrice, nutrimento per il figlio. Si può riassumere allora un aspetto del rapporto “donna e cibo” semplicemente dicendo che la donna “è” cibo. Una conseguenza negativa di questa equazione donna-cibo è stata d’altro lato, già dagli albori del pensiero filosofico occidentale, la svalutazione del cibo, dell’appetito e del senso del gusto (rispetto ai sensi ritenuti più nobili e astratti della vista e dell’udito, privilegiati nell’estetica e nell’arte) proprio in quanto immediatamente e “primitivamente” connessi alla sfera della corporeità e del femminile. La mancanza di una tradizione di riflessione filosofica seria e sostenuta sul cibo (e sul senso del gusto) sono infatti collegati alla tradizionale reticenza dei filosofi ad occuparsi di argomenti “femminili”14. Da Platone e Aristotele in poi, l’elevazione della mente al di sopra del corpo, e della ragione al di sopra dei sensi, implica anche una svalutazione della donna, che viene identificata tradizionalmente col mero nutrimento corporale e vista tendenzialmente come vittima passiva degli appetiti. Una concezione nettamente dualistica che fa del corpo un oggetto distinto dalla coscienza, la quale sola definisce il soggetto pensante, si afferma con Descartes, insieme all’idea del corpo come mero “involucro” della persona15. Nel corso del XVII secolo si approfondisce l’opposizione gerarchizzata tra corpo e anima, tra fisico e spirituale, tra istinti e coscienza, tra sensualità e ragione, tra natura e cultura, e in questo gioco di opposizioni binarie la donna si trova con il cibo, e tutto quello che ha a che vedere con gli appetiti, immanca-

14 Su questo argomento è da vedere il libro di Carolyn Korsmeyer, Making Sense of Taste: Food and Philosophy, Ithaca e London 1999. 15 D. Arasse, La chair, la grâce, le sublime, in Histoire du corps, I, De la Renaissance aux Lumières, sous la direction de A. Corbin, J.J. Courtine, G. Vigarello, Paris 2005, p. 435.

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bilmente allineata con il polo inferiore16. Solo controllando, disciplinando ed eventualmente mortificando il corpo la donna potrà, almeno secondo il discorso teologico, redimersi da questa inferiorità. Eppure, pur con i suoi ovvi e prevaricanti limiti, questa equazione o analogia tra donna e cibo è a ben vedere lontana dal connotare una semplice o “naturale” passività o tanto meno istintività. Sulla scorta di innumerevoli studi non di filosofi o teologi ma, soprattutto, di antropologi, storici e semiologi che hanno dimostrato la complessità culturale, rituale e sociale del discorso del cibo (pur soffermandosi raramente sulla cruciale questione del rapporto donna-cibo) gli studi che qui presentiamo illustrano come alla manipolazione, alla (rap)presentazione e al consumo del cibo da parte della donna corrisponda una vasta e complessa gamma di espressioni, di affermazioni e di prese di coscienza e di potere. Il cibo occupa indubbiamente una posizione centrale nella relazione erotica, sociale e politica tra donne e uomini, costituendone un nodo imprescindibile. Persino nella relazione con la divinità, il cibo emerge come sistema essenziale di espressione e comprensione. E nel rapporto della donna con se stessa, nella definizione della sua identità e del suo potere e nella sua capacità di espressione estetica, il cibo risulta avere un ruolo fondamentale e fondante. Come in un gioco di rimbalzi anche Cristina Mazzoni, che si occupa di alcune mistiche medievali e moderne, osserva che se da un lato, a cominciare dalla gravidanza e dall’allattamento, corporalmente “la donna è cibo”, d’altro lato proprio attraverso la fisicità della preparazione, della distribuzione e del consumo del cibo, e la riflessione narrativa su questi processi, ad alcune donne è possibile raggiungere alte vette di unione spirituale con Dio. Si tratta di un sorprendente rovesciamento delle pratiche ascetiche di digiuno a cui associamo di solito le sante17. Angela da Foligno, per esempio, lavando l’insalata tra16 Nella famosa Allegoria dei cinque sensi (1618) di Jan Brueghel il Vecchio, il gusto è rappresentato in primo piano da una massa di vivande e selvaggina, dietro la quale si vede una donna sola a capo di una tavola imbandita che si nutre avidamente; unica sua compagnia è un satiro che le versa del vino e la guarda con un’espressione malefica di lussuriosa e bestiale attesa. Su questo quadro, vedere Korsmeyer, Making Sense of Taste, cit., pp. 152-153. 17 Sull’argomento sono da vedere soprattutto C. Walker Bynum, Sacro convivio, sacro digiuno: il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo, trad. it. Milano 2001 (ed. orig. Berkeley 1987), e R. Bell, Holy Anorexia, trad. it. Roma-Bari 1987 (ed orig. Chicago-Londra 1985).

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sforma il cibo in segno, una materia vegetale in materia teologica. Ildegarda di Bingen, d’altro canto, monaca benedettina e mistica tedesca del XII secolo, non è mai entrata in cucina, e invece di maneggiare cibi teorizza, come si vede nel saggio a lei dedicato, la commestibilità delle piante e degli animali che elenca nella sua Physica. Eppure anche lei utilizza il linguaggio pratico e fisico dei cibi per creare una visione teologica in cui la corporeità è segno visibile del divino. Invitate a non prender cibo in pubblico (cosa che valeva in particolare per le monache), indotte alla misura, confinate in cucina, alcune donne quindi già in età medievale hanno scritto di cibo anziché manipolarlo. Ildegarda di Bingen parla di cibo scrivendo un ampio trattato scientifico ove si rivela un interesse per i bisogni degli uomini analogo all’attenzione testuale e biografica ai dettagli della vita ordinaria da parte delle sante e mistiche studiate da Cristina Mazzoni. Dal saggio di quest’ultima si evince che nel Medioevo, ma non solo in quel periodo, a legare le sante al cibo non erano solo il digiuno o l’ostia consacrata. Come Ildegarda, anche Trotula de Ruggero ha scritto di cibi nei secoli del pieno Medioevo e lo ha fatto parlando di corpi da risanare, di salute da conservare, di bellezza da mantenere: insomma di concretissimi e specifici bisogni delle donne, mostrando un’evidente coscienza della differenza. Sta di fatto che l’identificazione delle donne con il cibo costituisce un elemento che ricorre nei saggi che seguono e, caratterizzando la relazione, dimostra l’opportunità di indagarla. Donne nutrici, donne buongustaie, donne sensuali L’amore erotico è profondamente legato all’amore materno e, come dimostra Elisabetta Sambo nel suo panorama iconografico, nella prima modernità tematiche erotiche e allusioni sessuali e riproduttive (pur con intento moraleggiante) sono spesso sottintese alle rappresentazioni pittoriche di donne che manipolano o servono cibo allo spettatore o al proprio figlio. La donna è nutrimento, ma il nesso tra la donna in quanto nutrimento erotico e la donna in quanto nutrice (e allattatrice) che emerge con tanta evidenza nella pittura europea dal Medioevo al ’700, è indubbiamente molto complesso, e ancora largamente da esplorare sia nelle sue strutture portanti sia nelle sue specifiche manifestazioni ed espressioni storiche e culturali.

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L’idea che una vera donna debba essere una “perfetta nutrice” (e che lo scopo fondamentale nel nutrire il proprio corpo sia di fare a sua volta da nutrimento a un altro corpo, quello del figlio) definisce la femminilità e diventa una coordinata fondamentale dell’ideologia borghese della differenza di genere che ha forse il suo culmine normativo alla fine del XIX secolo nel pensiero di Freud. Per Freud, pur teorico rivoluzionario e geniale della seduzione e del rapporto inscindibile tra istinti e ragione (e tra cibo e eros) oltre che distruttore del mito del corpo come mero involucro, quello di Casanova, e ancor più quello di Don Giovanni, erano casi patologici di complessi di Edipo insuperati in cui si confondevano immaturamente madre e amante, nutrimento ed erotismo. Ma Elisabetta Graziosi (che peraltro indaga anche su altri aspetti) dimostra nel suo saggio come il caso di Casanova fosse particolare. In Casanova il cibo e il mangiare hanno un ruolo fondamentale inscindibile dall’eros e dalla sensualità, ma nel suo sistema del piacere “coltivato dalla ragione” (che occasionalmente include l’assaggio del latte materno), la donna non è semplicemente frutto di cui cibarsi, ma partner da iniziare e con cui godere egualmente dei piaceri della tavola e dell’eros, senza alcuna subalternità o pregiudiziale riproduttiva. Non solo il piacere sessuale e il piacere del cibo vengono giudicati naturali ed ammirevoli nella donna, ma coltivarli rende sia l’uomo sia la donna creature veramente civili e socievoli. Il testo di Casanova ci fa conoscere i gusti a tavola delle donne. Di quelle che capitarono fra le braccia del gran seduttore riusciamo infatti a stabilire indirettamente preferenze alimentari e atteggiamenti nei riguardi del cibo. Dell’ebrea Lia sappiamo ad esempio che amava i sapori forti “di grasso” e le bevande spiritose. Lia «è non solo una buongustaia ma ha un eccellente appetito e pochi scrupoli anche nel consentire di nascosto piatti vietati dalla sua religione». È una testimonianza dello scarto tra norma e comportamento da aggiungere al catalogo tracciato da Ariel Toaff18. Casanova, contrariamente a Don Giovanni e agli altri libertini – anche contemporanei – di cui parla Bruno Capaci, non ha il monopolio dell’appetito, né si attende dalle sue conquiste che dissimulino il

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A. Toaff, Mangiare alla giudia. La cucina ebraica in Italia dal Rinascimento all’Età moderna, Bologna 2000.

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proprio, facendo finta di essere svogliate e inappetenti (la donna infatti sempre di più nella cultura borghese deve dare, non prendere nutrimento, e godimento). Casanova non pretende neanche di essere sempre servito dalle donne, trasformandosi invece occasionalmente in galante cameriere. Ma il libro di Casanova rimane pur sempre interno a una mentalità e a un modo di scrivere maschili. Un promettente campo di ricerca è quindi la visione femminile del pensiero e dell’azione dei libertini rispetto al cibo e all’eros. Il rapporto delle donne col cibo e con la seduzione e la sessualità costituisce un ricco e particolare filone di studi con riferimento specialmente alla produzione letteraria, artistica e cinematografica19. Nella letteratura italiana oltre al romanzo del 1938 Nascita e morte della massaia di Paola Masino, a cui è qui dedicato un saggio, dovrebbero far riflettere e divenire eventualmente oggetto di studio testi femminili di varie epoche, da La mirtilla (1588) di Isabella Andreini al recente L’ospite di Elisa Biagini (2004), in cui il tema del cibo, della seduzione e dell’eros vengono reinventati in modo audacemente trasgressivo che va dal comico al tragico. Nella letteratura femminista contemporanea, per esempio nel romanzo The Edible Woman della canadese Margaret Atwood20, e nei romanzi di Doris Lessing, Angela Carter, Jeanette Winterson, Clarice Lispector, Michèle Roberts e Calixthe Beyala, il rapporto tra cibo e eros (e l’equazione donna-cibo) divengono oggetto di satira e di demistificazione21. Ma è soprattutto nelle performances, nelle azioni, nelle installazioni, nei video e nei libri di artiste d’avanguardia quali (già dal 1959) Meret Oppenheim e poi, tra le altre, Eleanor Antin, Faith Ringgold, Judy Chicago, Martha Rosler, Mirella Bentivoglio, Hala Elkoussy che, secondo quanto indica Martina Corgnati nel suo saggio, si attua una rivisitazione veramente radicale e inquietante dei valori tradizionali del cibo in rapporto alla femminilità nella storia della cultura occidentale. Storicamente, le donne si sono valse di cibi e bevande per attrarre, 19

Per una ricognizione di questo tema nella letteratura inglese, da Shakespeare a Virginia Woolf, si veda E. Maffia, Donne e cibo tra letteratura e storia, “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 2 (1998). 20 M. Atwood, La donna da mangiare, trad. it. Milano 1976. 21 S. Sceats, Food, Consumption, and the Body in Contemporary Women’s Fiction, Cambridge 2000; Scenes of the Apple: Food and the Female Body in Nineteenth- and Twentieth Century Women’s Writing, ed. by T. Heller e P. Moran, Albany 2003.

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per sedurre, per conservare o per interrompere o rifiutare relazioni. Ciò ha determinato e rafforzato sospetti nei confronti delle donne che agendo in cucina erano sì in grado di sfamare, anche con poche risorse, la famiglia ma anche di prendersi cura dei malati nonché di indurre ad abbracci più focosi o di indebolire le forze degli uomini quando poco amati. Questi elementi prefigurano l’azione delle streghe, tanto medievali quanto moderne, che, ritenute importanti e al tempo stesso temute, hanno rafforzato l’idea dell’opportunità di controllare e limitare le potenzialità delle donne ad agire tramite il cibo. Per secoli uomini e donne di ogni condizione sociale hanno fatto ricorso alle streghe per risolvere casi difficili, non solo d’amore: comportamenti quotidiani che si sono fatti topoi letterari, come dimostra il dottor Faust di Goethe. Intenzionato a comprare il tempo dal diavolo, Faust realizza il commercio nella cucina delle streghe che sanno metterlo in conserva e ricavarne magiche pozioni. Nell’immaginario maschile, la visione erotico-nutritiva della donna si rovescia spesso nel suo contrario, dando corpo non solo a streghe e stregonerie, ma anche a mangiatrici di uomini e vampire. L’avvento del femminismo ottocentesco e il timore che, liberandosi, la donna si allontani eccessivamente dal suo ruolo domestico e nutritivo coincidono con l’apogeo della vampiresca e lussuriosa femme fatale nelle arti e nel cinema, non meno che in letteratura. Gli stessi uomini che temevano le capacità femminili in cucina dettavano regole di comportamento che prevedevano per le donne pasti separati e comportamenti misurati a tavola, pena l’inaffidabilità. Se la tavola è la metafora della vita sociale, il fatto che le donne nei secoli ne siano state spesso escluse non consente certo di pensare a una loro forte partecipazione alla sfera pubblica, che è infatti spesso mancata. Nella letteratura vi sono tracce di donne inappetenti ma anche di donne «non fameliche ma commensali discrete», come scrive Capaci, in grado di trasformare un limite in uno strumento di seduzione intrecciando a tavola con il partner un dialogo intrigante fatto di languori e morsettini. Negli spazi privati i comportamenti potevano essere diversi da quelli tenuti in pubblico. Come insegna la Corallina di Goldoni, di cui parla Capaci, in privato le donne sapevano anche organizzare allegri appuntamenti in cui il cibo era parte del piacere. Né il piacere era necessariamente limitato a incontri eterosessuali. Nel 1792, per esempio, Madame de Staël a Juniper Hall intrattenne per una piacevole settimana di buon cibo, sciarade e letture la scrittrice inglese Fanny Bur-

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ney, autrice del famoso romanzo epistolare Evelina (in cui il cibo è un tema fondamentale). Altrettanto fondamentale risulta il nesso cibopiacere omosessuale nell’opera di una delle più grandi scrittrici dell’avanguardia, Gertrude Stein22. Controllo sociale, protesta e coscienza Come il cibo è un fatto più culturale e sociale che naturale, così è il rapporto che le donne intrecciano con esso. Gli spazi loro concessi e persino i modi e le forme della loro dieta appaiono frutto di una costruzione sociale nella quale la Chiesa e le istituzioni religiose in generale hanno avuto una parte importante. Gli uomini, soprattutto ecclesiastici, hanno indicato le linee del comportamento femminile nei riguardi del cibo. La teoria del controllo ha preso le mosse da Eva. L’esegesi biblica, che ha visto in Eva e nella sua mancata resistenza alla tentazione costituita dalla mela l’origine di tutti i mali dell’umanità, ha avuto importanti conseguenze nella distinzione fra comportamento maschile e femminile a tavola e ha prodotto la teoria della debolezza delle donne che vanno opportunamente sorvegliate. Ma se nella sottrazione alle donne del piacere del cibo ha avuto una parte importante la Chiesa che ha proposto, peraltro non solo alle donne, una strategia di controllo delle passioni basata sul digiuno23, in realtà nella Bibbia si trovano molte e splendide metafore alimentari e altrettante tracce di un rapporto festoso con il cibo. Come ricorda Adriana Zarri in un breve saggio24, nei Vangeli più che di digiuno si parla di cibo e di convivialità, eppure non solo nella letteratura del mondo religioso ma anche nelle linee di comportamento proposte dalla Chiesa appare centrale il tema della privazione alimentare. Nella società medievale, che ha affidato a uomini e donne ruoli profondamente differenti, parlavano di differenze di genere non solo i cibi ma perfino le modalità di cottura: mentre il bollito era legato alla

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Soprattutto Tender Buttons (1914). La sacra mensa. Condotte alimentari e pasti rituali nella definizione dell’identità religiosa, a cura di R. Alessandrini e M. Borsari, Modena 1999. 24 A. Zarri, Cibo e cristianesimo, in I quaderni di Micromega. Il cibo e l’impegno, 2, supplemento a “Micromega”, 5 (2004), pp. 38-40. 23

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domesticità e quindi era di competenza femminile, la cura del fuoco per l’arrosto spettava ai maschi. Come osserva Montanari, queste immagini continuano a condizionare i nostri modi di pensare il rapporto col cibo25. Queste distinzioni hanno contribuito alla strutturazione del gusto26 e a sceverare fra gli alimenti e i menù quelli tendenzialmente maschili rispetto a quelli femminili. Alcuni manuali di comportamento ottocenteschi consigliavano, per esempio, alle donne di ridurre al massimo il consumo di carne e di preferire cibi morbidi per la loro femminilità. Nei secoli appare pervicace e diffusa la tendenza maschile a porre limiti alle donne, nelle conoscenze come nella dieta. D’altronde conoscere e mangiare, le parole e il cibo, come ci ricorda Francesca Rigotti, sono figli della stessa madre: la fame. Le donne sono state tenute costantemente a stecchetto: pochissime conoscenze e cibo misurato. A volte era una forma di autodisciplinamento, di limitazioni che le stesse donne si imponevano per dimostrare la propria capacità di dominare il desiderio ma anche per sottrarsi a un destino non voluto: «d’altri pensieri e d’altre voglie / Pasco la mente» scrive la grande “virago” Veronica Gambara (1485-1550) in un sonetto. Questo anche a costo della vita, in un paradossale disegno di dar prova di capacità di affermazione fino a morirne. Le pratiche del digiuno femminile volontario, straziante e persino mortale si estendono con motivazioni diversissime ma ugualmente forti da esempi medievali come Caterina da Siena alle sostenitrici inglesi del suffragio femminile, arrestate e sottoposte dalla polizia alla tortura dell’alimentazione forzata27. Nel secolo XIX, con l’affermarsi e l’irrigidirsi dell’ideale borghese della separazione delle sfere (contro cui insorgono le femministe a fine secolo), la donna virtuosa di ogni classe sociale viene sempre più esortata ad identificarsi esclusivamente con il suo ruolo domestico di semplice nutrice, i cui simboli privilegiati sono il latte e il pane. In un famoso, premiato ed emblematico quadro di Giovanni Segantini, Le due madri (1889), una giovane donna col capo chino dorme avendo

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Montanari, Il cibo come cultura, cit., p. 60. J.L. Flandrin, Il gusto e la necessità, trad. it. Milano 1994 (ed. orig. in “Annales ESC”, XXXVIII (1983)), pp. 369-401. 27 Sugli scioperi della fame delle suffragette inglesi, vedere soprattutto M. Ellman, Hunger Artists: Starving, Writing and Imprisonment, Cambridge 1993. 26

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Giovanni Segantini, Le due madri, 1889, Milano, Galleria d’Arte Moderna.

appena dato il seno al suo bambino; accanto si vede una mucca col suo vitellino. La luce soffusa di una lanterna illumina la dolce scena, che, oltre al tema dell’istintività naturale dell’allattamento (che accomuna la donna all’animale), richiama l’iconografia sacra della Natività e l’ideale materno della Vergine Madre. Un’atmosfera simile è evocata da Giovanni Pascoli nel suo esemplare Per casa, in cui una madre richiama la figlia sognante e distratta al dovere femminile di preparare la farina prima che il grano vada a male. La donna è qui chiaramente definita attraverso la sua identificazione con il cibo e il nutrimento per la famiglia: «Tra il colpeggiar del pettine sonoro / ed il suo canto, ella sentì, “Rosina!” / la verginella dai capelli d’oro. // Sorse dalla panchetta ed in cucina / venne e trovò la cara madre pia. / “Figlia,” le disse, “staccia la farina. // [...] Sai, per il grano, che spicciarsi è bene: / presto è talora, tardi è sempre male!»28. I capelli d’oro della fanciulla – immagine che ricorre più volte nel poemetto – servono implicitamente ad associarla all’immagine delle spighe e quindi del pane, alludendo anche al mito di Cerere. La donna è grano, anzi, farina anche nelle parole di Federico Tozzi chiamato in causa da Fiorenza Tarozzi: «la farina era lei stessa e tutta la sua famiglia» (si parla di Masa nel romanzo Con gli occhi chiusi, 1913). Ma lungi dall’essere simbolo assoluto del ruolo di nutrice della donna nella sfera domestica, il pane assume nella realtà storica connotazioni multiple ed oscillanti, diventando spesso, secondo Ta-

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G. Pascoli, Primi poemetti (1897-1904), in Poesie, Milano 1981, p. 195.

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Edita Walterowna Broglio, Pane e acqua, 1926.

rozzi, il segno ambivalente della doppia appartenenza della donna, e della sua costante oscillazione tra privato e pubblico, tra la sfera domestica e quella sociale e politica. Il grano e il pane rappresentano la vita, e per difendere il diritto di sopravvivere, e per consentire la sopravvivenza degli altri membri della famiglia, le donne sono scese in piazza tanto nella Milano descritta dal Manzoni come nelle città emiliane degli anni Quaranta del Novecento. Per il cibo le donne escono dalle loro case e, rotti gli usuali schemi di riferimento, irrompono nella sfera pubblica e si fanno protagoniste disperate di “tumulti del pane” e di strenue lotte sociali e politiche. Tra ’800 e ’900 il rifiuto o l’incapacità di nutrire vengono definiti come malattia, diversità, isteria. Un’eco interessante di questo tema si trova nel film di Marco Bellocchio del 1998, La balia, basato sul racconto omonimo di Pirandello, ambientato agli inizi del secolo XX. Come fa vedere Ferlini, Freud deve addirittura ipnotizzare la sua paziente per riportarla sulla retta via, dalla quale l’aveva fatta inconsciamente deviare la madre stessa, portatrice di un pregiudizio sociale ormai sorpassato nei confronti dell’allattamento materno. Ma se la protesta inconscia e “isterica” della giovane paziente di Freud viene feli-

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cemente fatta rientrare con l’ipnosi, essa esploderà invece con inaudita violenza nel personaggio di Paola Masino, la “Massaia” del romanzo Nascita e morte della massaia, del 1938-39, la cui pubblicazione, come si legge nel saggio ad esso dedicato, fu ripetutamente osteggiata dal fascismo, propugnatore di una visione essenzialistica e assoluta del ruolo materno, nutritivo e domestico della donna. L’equazione donna-cibo rischia infatti di diventare ideologia oppressiva e violenta irreggimentazione del corpo e del desiderio femminile, e il rifiuto del cibo, i disturbi alimentari, l’anoressia, la bulimia che affliggono sempre di più la modernità29 sono i sintomi di un disagio femminile profondamente radicato, ma perlopiù privo ormai delle valenze positive ed esaltanti che, come ha fatto brillantemente vedere tra gli altri soprattutto Caroline Bynum30, potevano avere per le mistiche medievali31. Al campo delle trasgressioni o degli usi “impropri” del cibo appartiene il Festino di primavera, opera d’arte contemporanea di cui parla Martina Corgnati nel suo saggio: nell’aprile del 1959, Meret Oppenheim mette in scena una sorta di happening. Si tratta di un banchetto servito non su una tavola ma sul corpo di una donna nuda e gli invitati sono tenuti a utilizzare direttamente e soltanto la bocca. L’associazione fra corpo femminile e nutrizione è apertamente proposta in maniera spettacolare e ironica. Il cibo e le donne nella società dello spettacolo La Oppenheim, autrice tra l’altro di Colazione in pelliccia capolavoro di erotismo alimentare, pensa al piacere come a un ampio territorio dove mangiare, leccare, sorbire sono tutte azioni fra loro connesse, associando corpo femminile, nutrizione e piacere in modo esplicito e “scandaloso”. Altre surrealiste hanno presentato e rivendicato il loro rapporto col cibo, il loro diritto ad essere nutrite quanto e come gli uomini ma anche la loro capacità “magica” di interpretare e trasformare 29

S. Bordo, Il peso del corpo, trad. it. Milano 1997 (ed. orig. Berkeley 1993). Walker Bynum, Sacro convivio, sacro digiuno, cit. 31 Per la permanenza delle pratiche di privazione alimentare nella modernità, vedere J. Maître, Anorexies religieuses, anorexies mentales - Essai de psychanalyse sociohistorique. De Marie de l’Incarnation à Simone Weil, Paris 2000. 30

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Meret Oppenheim, Colazione in pelliccia, 1936.

i rituali di preparazione dei cibi in operazioni alchimistiche insieme quotidiane e cosmiche. Dell’associazione ormai divenuta abituale fra cibo, donna e piacere nei mass media odierni si occupa Patrizia Calefato che percorre la strada del lusso indagato nei suoi aspetti comunicativi e sensoriali. La ragazza che fa il bagno nell’acqua Evian, come fosse latte d’asina, evoca e confonde. L’offerta di questa immagine coinvolge più sensi, rafforza l’identificazione della donna con il cibo e con il più puro ed essenziale fra essi, l’acqua. “Sor Aqua” di francescana memoria diventa il lussuoso elemento imbottigliato e successivamente liberato nella vasca nella quale una fanciulla si immerge. La pubblicità Evian agisce in riferimento a un groviglio di temi che sono all’origine di questa silloge di studi. Pur nella promozione del lusso e del piacere, il corpo femminile snello o anche spesso emaciato e apparentemente anoressico rimane comunque l’icona irrinunciabile con cui, nella corsa alla mercificazione neocapitalistica e alla spettacolarizzazione, si fa pubblicità a tutto, compreso soprattutto ciò che ha che vedere con il cibo: non solo l’acqua minerale ma anche le cucine, i biscotti, gli hamburger, i fastfood. Nella stessa società in cui graziose ed esili fanciulle blandiscono amorosamente la clientela dei McDonalds offrendo di “supersize” il cibo (come mostra Morgan Spurlock nel suo documentario, Supersize me del 2004), il disciplinamento e l’affamamento del corpo femminile sono più che mai paradossalmente e schizofrenicamente un im-

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plicito imperativo categorico. Anoressia e bulimia sono quindi ormai raramente forme di autentica protesta ma, nell’indistinzione del postmoderno, anch’esse espressioni della logica onnivora del capitale e della società dello spettacolo denunciata tempo fa da Guy Debord e poi da Susan Bordo32. Cristina Bragaglia si occupa nel suo saggio di eccessi e disturbi alimentari nella rappresentazione cinematografica, da La grande bouffe a Primo amore, notando che prevalgono almeno in Italia inquietanti parabole in cui si associa l’atto di nutrirsi alla morte, senza peraltro che si possa registrare un discorso estetico veramente riuscito o convincente, e senza che si scalfiscano i miti consumistici dell’immagine corporea. Le protagoniste dei film italiani di Maurizio Fiume ed Elisabetta Lodoli sono l’una obesa e l’altra bulimica: in questi come negli altri casi di cui ci parla Bragaglia a essere in scena sono tragici conflitti rappresentati da corpi privati o sovraccaricati di cibi. Dietro a questi corpi sofferenti si scorge una lunga e complessa relazione fra uomini e donne e fra donne e cibo. Negli Stati Uniti come in Italia, tuttavia, solo modesti TV movies riescono, seppur raramente, a dare un onesto quadro della tragica realtà dei disturbi alimentari. Non mancano tuttavia nel cinema indipendente (dai film di Chantal Akerman al documentario Fast Food Women di Anne Lewis, del 1991), efficaci analisi critiche di alto valore e estetico, e forti immagini di dissenso. Un’autentica presa di posizione ironica e creativa e una protesta a volte anche profondamente drammatica rispetto sia alla “body image” che il capitalismo postmoderno vorrebbe continuare a smerciare, sia, per parafrasare Susan Bordo, al “peso insopportabile”, si può trovare forse anche nell’opera di artiste, performers e video e body artists femministe contemporanee, da Eleanor Antin a Jana Sterbak a Elke Krystufek, di cui Martina Corgnati ci offre un’illuminante rassegna33. Anche la celebrazione del rapporto cibo-eros-lusso-lussuria nel cinema internazionale di stampo hollywoodiano non sfugge di solito al32

G. Debord, La società dello spettacolo, trad. it. Firenze 1979, Milano 1990 (ed. orig. Paris 1967). La versione italiana comprende anche la traduzione di G. Debord, Commentaires sur la societé du spectacle, Paris 1988. Di Susan Bordo, vedere Il peso del corpo, cit. 33 Sul rapporto corpo femminile-cibo nell’arte femminile contemporanea, vedere anche R. Betterton, Intimate Distance. Women, Artists and the Body, London 1996.

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la banalità; basti pensare a film come Tampopo, Come acqua per il cioccolato e Mangiare, bere, uomo donna. Ma ci sono fortunatamente deliziose eccezioni come Il pranzo di Babette ricavato dal racconto di Karen Blixen, di cui ci parla Patrizia Calefato offrendocelo come antidoto alle insipide acque minerali lisce o effervescenti della pubblicità. Nel racconto, al quale il film è stato molto fedele, Babette è cuoca straordinaria anche se non rivelata, è strega e artista insieme, è serva e signora pronta a dispensare lussi alimentari. Attraverso il cibo rivela la sua creatività e la sua capacità di ribellione. Il cibo le consente di manifestarsi, di provare piacere e di dare piacere, di lasciare un segno attraverso il meno durevole dei mezzi, un pranzo da consumare34. Il cibo è parte integrante della riflessione sul sé, come ricorda Martina Corgnati. Il cibo rappresenta il rapporto con le cose e con le persone e, come nel caso del film Primo amore di cui ci parla Bragaglia, la donna che dimagrisce sino a raggiungere 40 chili denuncia un rapporto amoroso patologico. Il cibo, come si ricava dai frammenti di visioni e di testi qui commentati da Patrizia Calefato, è nutrimento e alimento, è una cosa ma è anche un “segno”, cioè lo spazio di un’eccedenza in cui il genere femminile performa, mette in scena, rappresenta tutta la sua potenza e ambivalenza simbolica. Del resto, come ha affermato la filosofa americana Janet Mc Cracken35, il modo nel quale si soddisfano i bisogni primitivi di sopravvivenza, come si mangia o come ci si veste, è fondamentale, già a partire dalla storia della caduta di Adamo ed Eva per la formazione di scelte puramente morali ma, si può aggiungere, anche per l’acquisizione di consapevolezze, per l’estrinsecazione di esigenze, per la rappresentazione di relazioni. Strumento efficace di comunicazione, il cibo è servito alle donne non solo per esprimere disagi ma anche per dar forma a sentimenti ed a rappresentare legami spesso curati in cucina. Neologismi quali “ca-

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Su questo celebrato film e racconto, cfr. tra le altre anche l’interpretazione di Korsmeyer in Making Sense of Taste, cit., pp. 203-211. M.H. McFadden, Gendering the Feast: Woman, Spirituality, and Grace in Three Food Films, in Reel Food: Essays on Food and Film, ed. by Anne Bower, New York 2002, pp. 117-129. 35 J. Mc Cracken, Taste and the Household. The Domestic Aesthetic and Moral Reasoning, Albany 2001.

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salinghitudine” e “le merendanze”, comparsi come titoli di due libri di Clara Sereni36, alludono a nessi famigliari e amicali, a solidarietà e a relazioni sociali attraverso il cibo e le ricette per cucinarlo. Di ricette i saggi che seguono non parlano anche perché lo si fa fin troppo ed anche a sproposito ogni volta che ci si accosta al tema “Donne e cibo”. C’è perfino chi ha scritto un libro di ricette attribuendole ad Ildegarda di Bingen37, benché la dotta monaca non abbia verosimilmente mai messo piede in cucina. Tuttavia non mancano tra i nuovi studi di genere di impianto femminista analisi dedicate ai libri di cucina38, ed anche i ricettari rappresentano indubbiamente una promettente fonte per la storia del rapporto fra donne e cibo. Nonostante la complessità della relazione, il discorso sul cibo e sulle donne evoca nella mente di molti l’immagine di modeste cuciniere che preparano quotidianamente pasti per la famiglia. Questa raccolta di studi vuole partire da questo punto: da un fatto storicamente dato che è insieme l’esito di un processo e un luogo comune, da una delle molte facce di una ricca e complicata relazione che richiede e merita approcci duttili e non scontati.

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C. Sereni, Casalinghitudine, Torino 1987 e Le merendanze, Milano 2004. E. Breindl, In cucina con S. Ildegarda. 800 anni di esperienza per un’alimentazione al naturale, Torino 1991 (ed. orig. Augsburg 1984). 38 J. Neuhaus, Manly Meals and Mom’s Home Cooking: Cookbooks and Gender in Modern America, Baltimore 2003. 37

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Femminilità e nutrimento. Dal Cantico dei Cantici a una paziente di Freud. Dall’amore arcaico all’Amore primigenio ALESSANDRA FERLINI

… Amico mio vieni Usciamo per la campagna Passeremo la notte in mezzo agli orti Là ti darò il mio latte Al mattino vedremo Se la vigna è fiorita Se gli acini sono spuntati Se i melograni sono sbocciati La mandragora manda odore Tra i frutti acerbi e maturi Dietro la porta per te ho nascosto Quanto c’è di più ricco Amato mio. […]1

Pura sensualità, erotismo senza tempo. Paiono, questi versi, formule magiche che agiscono alchemicamente sui sensi, inebriandoli. Desidero partire proprio dall’alta poetica della Donna-frutto innalzata dal Cantico dei Cantici per arrivare a considerare in una sorta di parallelismo poetico gli scambi che avvengono tra madre (Donna-frutto) e neonato. Valorizzare quest’esperienza nutritivo-relazionale ha lo scopo di riconoscerle un ruolo fondante, in contrapposizione a situazioni in cui la svalorizzazione di questo scambio porta con sé conseguenze di profondo disagio sia per la donna che per il lattante. Prenderò come esempio di svalorizzazione, seppur conflittuale, il caso di una giovane paziente di Freud madre tre volte e tre volte in grave difficoltà nel nutrire il suo bimbo e sé medesima e della quale egli si occupò agli 1

Trad. di Guido Ceronetti.

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esordi della sua carriera di psicoanalista, quando ancora utilizzava l’ipnosi come intervento terapeutico. Vedremo in che modo può esprimersi il conflitto del nutrire-non nutrire e quanto l’avvio di un processo di riconoscimento e valorizzazione del ruolo nutritivo materno possa facilitare la risoluzione del conflitto. Inoltre, la poetica degli scambi relazionali tra madre e neonato che qui vorrei evidenziare rappresenta, nella sua essenza emotiva e affettiva, l’indissolubile tramite allo sviluppo unitario neurocognitivo e affettivo del bambino. Favi colanti le tue labbra oh sposa Miele e latte nella tua bocca.

«Il Cantico dei Cantici è […] puro di tracce di pensiero» scrive Guido Ceronetti nel suo Commento al Testo Sacro2. Il desiderio sensuale dell’Uomo e della Donna viene vivificato dalle ricchezze del corpo femminile e da quello maschile e trova, nelle analogie del cibo che nutre e dei frutti che dissetano, la sua perfetta rappresentazione simbolica. La Donna è colma di frutti e nettari offerti al reciproco godimento con l’Amato. Così è il suo corpo: i suoi seni sono “grappoli di vite” e “di meli è l’odore del” suo “alito”. La donna è cibo da gustare, di cui godere. Il suo corpo è espressione di frutti sugosi, offre umori che dissetano il desiderio, emana profumi che imbrigliano i sensi. E lei ne è consapevole e dal suo sapere di sé nasce parte di quel desiderio condiviso con l’Amato così come, dal riconoscimento dell’Amato di tale potenza d’amore, scaturisce la venusta sensualità della Donna. Gli Amanti si nutrono della loro stessa bramosia in forma di frutti e bevande. Corpi Assoluti al punto che «L’Amato è l’Amata e l’Amata è l’Amato» suggerisce Ceronetti. La dimensione scenica del Cantico non è circoscritta ai soli amanti e anzi il luogo di sogno dei versi rimanda a spazio e tempo in infiniti che sono il riverbero di quella simbologia. Come scrive Nadine Shenkar3, «Presso gli ebrei, […], l’arte non è catarsi; è la possibilità di un’adesione o devekuth alla creazione […] il simbolo ha dunque la particolare proprietà di essere sempre aperto, generale, relazionale, universale. Consente il passaggio dall’individuale allo spirituale del

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Il Cantico dei Cantici, a cura di G. Ceronetti, Milano 2002 (ed. orig. 1975). N. Shenkar, L’arte ebraica e la Cabala, Milano 2000.

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gruppo. […] il simbolo […] proietta l’uomo in una relazione, anziché in una definizione. Conscio e inconscio funzionano dunque in una libertà assoluta in quanto fine di […] di ogni limitazione. Il simbolo rende possibile tutti i possibili, pertanto schiude l’accesso all’infinito. L’arte ebraica è un’arte concettuale e astratta; un’arte che aspirava anzitutto a […] integrare il reale nella sua sorgente primordiale». Il linguaggio simbolico del Cantico diventa alfabeto che contiene la radice delle parole che si legano alla Vita e alla Morte, nella continua ricerca di un infinito che trascenda la finitudine della dimensione umana. Così, l’erotica intensità del Cantico dei Cantici non è scevra di rimandi all’Oscurità del Vuoto e della qinah, che se è bramosia, passione ardente è anche sfacelo delle ossa (Proverbi 14,30), come suggerisce Ceronetti: «Il corpo è ingoiato dal desiderio come da una tomba». Perché l’Amore è duro Come la Morte Il Desiderio è spietato Come il Sepolcro.

E continua: «Se Amore e Morte si bilanciano siamo delusi nel nostro bisogno che l’uno o l’altro prevalga e ci liberi dall’angoscia (tutti gli equilibri sono angosciosi). Guardando al parallelismo, l’implacabilità del Desiderio uguagliata all’implacabilità del Sepolcro, posso interpretare in modo analogo la relazione tra le due onnipotenze: l’Amore è duro, spietato, implacabile come la Morte». Entri il mio Amato nel suo giardino Per mangiare quel frutto prodigioso.

È ancora Ceronetti a guidarci in questa indagine di una poetica che pare slegata dalla dimensione temporale ma che in realtà esala tutta la potenza del Presente. «Il passato di un verbo semitico non è inchiodato alla propria forma, inseparabile dall’irripetibilità di un fatto. […] Il presente è il vero tempo scritturale, tutto è sempre, nello stesso momento, e passato e futuro sono presente con altra vita dentro, niente altro». L’incontro dei due Amanti è sospeso in un’eternità potenziale che non è Eternità e che porta con sé l’ombra di un tempo che può arrestarsi e arrestare quel flusso di piacere da un momento all’altro. Nella ricerca dell’Amato e nello slancio che è un invito al nutrirsi dei frutti del corpo vi è intrinseca la tensione per un dopo che rimanda all’i-

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dea della caducità delle cose e che nel contempo è slancio verso la vitale ricerca di un infinito. E quando l’Amato non si trova, quando colui di cui si è goduto – in sogno? – risulta introvabile vi è l’incontro con quell’ignoto angoscioso di ostacoli e rinunce che costringono a posticipare le gratificazioni del godimento, tanto desiderato da essere stato allucinato in quell’alta forma poetica della simbologia dei sensi.

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L’amore primigenio nella coppia madre-neonato

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Nutrirsi, nel desiderio sensuale ed erotico, del corpo dell’Amato e dell’Amata attraverso i giochi simbolici di metafore legate al cibo, a frutti sugosi, gonfi di nettare, gradevoli alla vista e inebrianti è il racconto in chiave poetica di ciò che accade ai sensi quando si pensa a un’altra coppia: quella madre-neonato. Nella simbologia del nutrirsi inebriato e ardente, nella qinah che muove alla bramosia amorosa ma che è anche rimando all’esser divorati dalla stessa bramosia, insaziabili d’Amore, troviamo il gioco di scambi di questa coppia primigenia. Nucleo vitale che genera vita – biologica, psichica, emotiva – in un complesso sistema unitario che contiene in sé le potenzialità di ciò che sarà. Anche qui ritroviamo la tensione della qinah. Le frustrazioni per la mancata gratificazione degli impulsi primari – che sono sempre integrati in un complesso sistema percettivo – possono, se protratte nel tempo, avere conseguenze disastrose per le future abilità e attività psicoaffettive e cognitive del neonato4. Dunque, attraverso il Cantico dei Cantici intendo mettere in evidenza come ciò che viene banalizzato o scotomizzato, sia culturalmente che all’interno delle relazioni famigliari, nello scambio nutritivo madre-neonato porti con sé un rischio. Quello di depauperare una rappresentazione della maternità che è composta di più livelli di scambi infinitesimali che avvengono attraverso quell’atto di dare e ricevere cibo. Prolattina, montata lattea, seno colmo di colostro, fame, tensione, pianto del neonato, richiami, stimolazioni endocrine e percettive reciproche, capezzoli pronti alla suzione, istinto della suzione, contrazioni uterine. Allattamento accompagnato dallo sguardo di reci4

B. Beebe, F.M. Lachmann, Infant Research e trattamento degli adulti, Milano 2002.

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procità di madre e neonato. Contatto, pelle, voce, odore, memoria, appagamento, svuotamento, sonno, scoperte sul mondo circostante, attività motoria, nuova bramosia, nuovo pianto e nuovo latte. Il godimento del neonato impara nuovi linguaggi. La ripetizione e il rinnovarsi di questi e altri eventi è condizione e crea le condizioni per quel passaggio dall’individuale al relazionale e dal relazionale all’individuale. La donna è un frutto sugoso, è albero generatore di vita attraverso frutti interni ed esterni, è come il Tikkun della Cabala, che come indica la Shenkar «è la riunificazione dei due alberi del Gan Eden: l’albero della vita e l’albero della conoscenza, che in definitiva sono un unico albero»5. Ecco perché il Cantico dei Cantici, ecco perché partire da quel nucleo poetico di simbologie amorose e di desiderio così pregni che ci porta a quest’altro nucleo pregno anch’esso di desiderio-cibo-nutrimento-appagamento. La madre che tiene fra le braccia il neonato lo nutre non solo del suo latte ma anche del suo modo di manifestare le sue emozioni e l’affettività. Lo nutre del suo odore, che stimola le capacità innate del piccolo di riconoscere la madre, della sua voce che egli riconosce già nella vita intrauterina. Lo nutre del suo sentire, in un incontro “puro di tracce di pensiero”, generatore e stimolatore di un processo neuronale di sviluppo e organizzazione molto complesso da cui scaturiranno poi la coscienza, il pensiero, la capacità di riconoscere il proprio senso del sé6. Mentre nutre il suo bimbo, la madre lo guarda, lo accarezza, gli sorride, stimolando la sua sensibilità visiva, tattile, uditiva: un’altra memoria, quella del corpo. Daniel Siegel7 scrive come alcuni studi dimostrino che «il contatto fisico influenza direttamente l’attività elettrica cerebrale dei due individui coinvolti». Si creano, così, stili di interazioni emotive e di attaccamento8 che preludono alle future modalità di relazione e adattamento sociale dell’infante. Quel che si va articolando e declinando attraverso le stimolazioni sensoriali, attraverso il senso della propriocezione che si affina è la Via Maestra dello sviluppo dell’unitarietà percettiva. È ancora l’e-

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Shenkar, L’arte ebraica, cit. A. Damasio, L’errore di Cartesio, Milano 1999. 7 D.J. Siegel, La mente relazionale, Milano 1999. 8 P. Fonagy, Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento, Milano 2001. 6

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segeta Ceronetti a illuminare il cammino: «Tu non mi cercheresti se non mi avessi trovato, possono dirsi Amato e Amata…». Il riconoscimento e poi la conoscenza dell’altro è possibile se c’è già stato l’incontro, se l’Altro si è manifestato ed è stato percepito nel suo manifestarsi.

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Pensiamo a un neonato. Nessuno di noi può ricordare come siamo stati se utilizziamo il linguaggio mnemonico dell’età adulta, quello che si lega a immagini, parole, fantasie e che è attraversato dalle emozioni e dalle sensazioni del proprio corpo. Ebbene anche così possiamo fare solo ipotesi. Ma noi agiamo sul mondo, ci comportiamo e ci muoviamo secondo una “misteriosa” alchimia temporale, che porta in sé i segreti del passato – che è stato presente – e di un futuro che è la combinazione dei presenti passati, i nostri e quelli che ci hanno attraversato passando dalle movenze materne al nostro corpo, comunicanti rappresentazioni e stati emotivi di chi si è preso cura di noi (“tutto è sempre, nello stesso momento”). Siamo anche questo, e altro ancora, naturalmente. E la nostra memoria neurale, neurobiologica, corporea, emotiva porta in sé l’alfabeto ancestrale di microeventi che sono stati codificati da una memoria in fieri. Come dimostra Gerald Edelman9, lo sviluppo neurale è identico e diverso per ciascun individuo: ogni cervello è diverso, sin dalle sue origini, già nel processo di sviluppo dei neuroni e delle successive formazioni di mappe neuronali che avviene attraverso una selezione naturale d’impronta darwiniana e che determina il loro modo di interconnettersi, benché per via generale vi siano nel contempo regole di sviluppo e di assembramento neurale assolutamente identiche. Gerald Edelman scrive: «La forza delle sinapsi subisce grandi variazioni, positive e negative, che derivano dalle variazioni nei segnali provenienti dall’ambiente con cui l’individuo interagisce»10. Questo è il punto di partenza per ogni tentativo di comprensione di meccanismi fondamentali come quelli che sottendono i processi della percezione, del riconoscimento del piacere, del godimento, del senso estetico11 e del loro mantenimento o perdita nelle

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9 G. Edelman, Il presente ricordato, Milano 1991; Id., Più grande del cielo, Torino 2004. 10 Ibidem. 11 Ludovica Marini Lumer, neurobiologa, comunicazione privata.

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scelte della vita adulta12. Dunque è da questa porta che entra il cibo, l’azione del nutrire e del nutrirsi. La paziente di Freud Sigmund Freud, da neurofisiologo13, già s’interrogava sulle origini dello sviluppo psichico riconoscendo nelle pulsioni biologiche vitali il motore primo della vita psichica. Per lui l’origine stava in quel bisogno fisiologico di gratificazione che passa attraverso il nutrimento e, dunque, soddisfacimento pulsionale, in una ciclicità biologica e funzionale ove la frustrazione della fame mette in azione i meccanismi comunicativi e pulsionali di nuova ricerca del piacere che è in nuce anche sessuale. La sua concezione di sviluppo neuropsichico arrivò a strutturarsi partendo da una lettura in termini endogeni di crescita e sviluppo ove il fuori, l’ambiente, non incideva se non in termini di risposte gratificanti o frustranti sul piano fisiologico. Questo breve sguardo per nulla esaustivo sulle posizioni di Freud mi porta però a occuparmi di pagine significative ed emblematiche sul tema del nutrimento nella relazione madre-neonato, che scrisse nel 189214. La paziente di cui scrive Freud è una giovane «tra i venti e i trent’anni». Della sua famiglia d’origine, ch’egli conosceva sin da quando ella era piccola, sapeva che nessuno soffriva di patologie mentali e tanto meno di nevrosi. La giovane primipara non riusciva ad allattare il suo piccolo e contemporaneamente non riusciva a mangiare e se ingeriva cibo lo vomitava subito dopo. Né si nutriva, né poteva nutrire. Freud scrive: «Nell’imminenza del primo figlio del suo felice matrimonio, la paziente manifestò il desiderio di allattare da sé il bambino. […] il parto non si presentò con difficoltà maggiori di quelle che sono comuni nelle primipare non più giovani […] la puerpera […] non poté essere una buona nutrice per il bambino: il latte non era abbondante, la suzione le causava dolore, l’appetito era scarso, insorse una notevole ripugnanza verso i cibi, le notti divennero inquiete e

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Siegel, La mente relazionale, cit. S. Freud, Studi sull’isteria e altri scritti. 1886-1895, in Opere, I, Torino 1993 (ed. orig. 1967). 14 Id., Un caso di guarigione ipnotica, in Opere, I, cit., pp. 122-133. 13

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insonni». Il bimbo fu affidato a una balia, «dopodiché rapidamente scomparvero tutti i disturbi della madre». E Freud venne chiamato a intervenire tre anni dopo, al secondo figlio della donna. «Ricomparvero disturbi ancora più accentuati […]. La giovane donna vomitava ogni cibo ingerito, si irritava non appena vedeva che le stavano portando il cibo a letto, era completamente insonne e si affliggeva tanto della sua incapacità […]». Freud appare così nella scena della stanza della malata. La trova «a letto, col volto congestionato, infuriata per la propria incapacità che aumentava ad ogni tentativo e contro la quale pur si opponeva con tutte le sue forze (corsivo mio)». Egli la visita e riscontra una serie di disturbi funzionali, dall’«epigastrio contratto» a «eruttazioni inodori» e «la malata si lamentava di sentire cattivo sapore in bocca». Si accorge, Freud, di non essere stato accolto «come un taumaturgo ma piuttosto con una certa aperta ostilità» e anche questo aspetto diviene importante in quanto segno di un doppio messaggio generatore e portatore di conflittualità. Tramite ipnosi, dopo «tre minuti la malata cadde in un sonno profondo con un’espressione di quiete nel volto». Durante lo stato ipnotico Freud la suggestiona dicendole che «sarà una perfetta nutrice (c.m.)» e che «farà crescere magnificamente il suo bambino (c.m.)». Le dice che il suo stomaco è calmo e che il suo appetito aumenterà. Al risveglio la donna è amnestica ed egli si fa carico di tranquillizzare il marito che temeva «che l’ipnosi potesse arrecare grave danno ai nervi di una donna» (sic!). Freud apprese poi che la malata aveva potuto allattare il bimbo e aveva mangiato senza avversione per il cibo, né tanto meno vomitò. Freud notò dal resoconto fattogli che i miglioramenti della donna non avevano provocato né in lei né nella famiglia «alcuna particolare impressione». Egli torna la sera successiva e i sintomi erano ricomparsi uguali alla sera precedente. Durante la seduta ipnotica l’intervento suggestivo fu più incisivo e Freud ingiunse alla paziente di reagire con più fermezza nel pretendere che le venisse fornito cibo a sufficienza: «si aveva forse l’intenzione di affamarla? Come avrebbe potuto provvedere al nutrimento del bambino se non le si dava nulla?». La terza sera non ebbe bisogno di procedere con l’ipnosi: la puerpera stava bene, allattava senza difficoltà e il latte era abbondante, mangiava con appetito. Inoltre, «la donna aveva rimproverato la madre, cosa che prima non era mai accaduta! (c.m.)». Del suo intervento non vi fu più bisogno e apprese dalla fa-

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miglia che l’allattamento procedette per otto mesi. Ma rimase stupito che nei loro discorsi non si facesse alcun cenno al suo intervento «che era risultato straordinariamente efficace». Al terzo figlio fu nuovamente necessario che egli intervenisse con l’ipnosi. I sintomi della donna erano sempre gli stessi ed egli notò quanto elle fosse «indispettita con sé stessa per il fatto di non riuscire ad opporsi con la propria volontà all’avversione per i cibi e agli altri sintomi». Dopo due sedute di ipnosi i sintomi regredirono e la donna gli confessò «di essersi vergognata (c.m.) di aver dovuto ricorrere all’ipnosi per una cosa di fronte alla quale la sua forza di volontà si era rivelata impotente». La donna poté beatamente allattare suo figlio per nove mesi di seguito. Freud naturalmente formula ipotesi sul meccanismo psichico del disturbo della sua giovane paziente sulle quali vorrei fare alcune riflessioni. Secondo Freud esiste uno stato affettivo di attesa al quale sono legati due tipi di rappresentazioni: i proponimenti («io farò questo o quello») e le aspettative («mi accadrà questo o quello»). Vi sono due fattori collegati allo stato affettivo menzionato: uno, l’importanza che assume il fatto; due, «il grado d’insicurezza di cui è carica l’attesa. L’incertezza soggettiva, la controaspettativa, è data da una somma di […] penose rappresentazioni di contrasto». Ora, nella vita normale, le rappresentazioni di contrasto, per cui si teme la non riuscita di un proponimento o l’interferenza di elementi che ostacoleranno l’esito atteso, vengono inibite. Nell’histerique d’occasion, come Freud definì in termini diagnostici la sua paziente, il meccanismo consisteva in una dissociazione15 della coscienza, che è una tipica tendenza dell’isteria nella concezione di Freud. Scrive: «essendovi nell’isteria una tendenza alla dissociazione della coscienza, la penosa rappresentazione di contrasto, che apparentemente è inibita, viene portata fuori dall’associazione con il proponimento e resta allora, spesso in modo inconscio per il malato stesso, come rappresentazione isolata. Ora, è squisitamente isterico il fatto che questa rappresentazione di contrasto, inibita quando deve realizzarsi il proponimento, possa obbiettivarsi sul piano dell’innervazione corporea, proprio come negli stati normali lo diviene la rappresentazione della volontà. La rappresentazione di contrasto si erige per così dire come “controvolontà”, mentre

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Freud scrive in corsivo “dissociazione”.

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il malato è cosciente, con stupore, di una volontà decisa ma priva di forza». E più sotto aggiunge: «La domanda: che cosa ne sarà dei proponimenti inibiti? sembra assurda nei riguardi della vita rappresentativa normale. Si potrebbe rispondere che essi, appunto, non si realizzano più. Ma lo studio dell’isteria mostra che essi pure si realizzano, che cioè la modificazione materiale corrispondente si conserva e che essi vengono accantonati, mantenendo una insospettata esistenza in una specie di zona d’ombra, fino a quando non vengono fuori come folletti16 impadronendosi del corpo, che altrimenti obbedisce alla predominante coscienza dell’Io». Dall’idealizzazione alla valorizzazione dalla maternità Il ritratto che si delinea di questa giovane madre ci porta a considerare l’idea della donna nella cultura sociale dell’epoca. La maternità occupava finalmente un ruolo clinico più importante nella disciplina medica17 che tentava di diffondere nuovi usi e nuove regole che salvaguardassero la salute di madre e bambino e che valorizzassero l’allattamento al seno anziché l’uso di dare il neonato “a balia”. Si andava diffondendo una maggiore informazione medica che tenesse in conto l’igiene e le cure verso il bambino. Ma allo stesso tempo la pressione sociale era troppo forte per permettere alle donne, della borghesia e degli altri strati sociali, benché in diversa misura, di sentirsi libere da vincoli e regole – ingiuste oltre che anacronistiche! – in cui venivano identificate e in cui esse, a volte loro malgrado, si identificavano. Sottostante, sia a livello individuale che sociale, non vi era un’integrazione dell’immagine valorizzata del ruolo di donna e materno18. L’“ovvietà” sottostante del mettere al mondo figli e i – taciuti – vis-

16 Il corsivo è mio per evidenziare un elemento che appartiene in modo peculiare alla cultura popolare ebraica. I folletti di cui parla Freud fanno venire in mente i dybbuk, folletti dispettosi che nella credenza popolare ebraica sono «anime di defunti che non trovano pace ed entrano nei corpi dei viventi per tormentarli o rivelarsi» (dal glossarietto in I.B. Singer, La luna e la follia, Milano 1989). 17 B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico, Torino 2000. 18 Nel 1869, anno di pubblicazione del testo di John Stuart Mill The Subjection of Women, vi era già una vasta letteratura femminile che reclamava emancipazione e denunciava soprusi e ingiustizie sociali verso le donne.

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suti di morte legati ai rischi del parto per la madre e per il bambino (ancora altissimi a quei tempi) mettevano la donna di fronte a un conflitto ben più oneroso di quello delineato da Freud. Se do alla luce un figlio, dunque gli do vita attraverso il mio corpo, io devo avere un corpo atto a questo compito, capace di sopravvivere e di far sopravvivere, forte e resistente: mio figlio deve vivere, non soccombere! L’ideale dell’Io che così si delineava nella rappresentazione collettiva e individuale dell’esser donne e madri diveniva il traguardo desiderato e irraggiungibile se la tensione si rivolgeva tutta lì, a quelle aspettative. E del resto, per quanto i costumi stessero cambiando, la donna non doveva ribellarsi alle aspettative della cultura sociale da cui proveniva. Donna forte, fedele, mansueta, perfetta padrona di casa, dedita all’educazione della prole e rinunciataria verso desideri relativi alla femminilità e alla sessualità. La donna ha una potenza – non solo generatrice! – e una responsabilità incommensurabili ma deve sottostare a un sistema di regole che negano allo stesso tempo tale importanza e potenza. L’isteria poteva assumere quindi uno stato di pro-

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testa “inconsapevole” da parte delle donne che ne erano affette e afflitte: lo stato di ribellione reso inconscio dalla necessaria dissociazione permetteva d’inscenare la trasgressione senza che vi fosse il rischio di una responsabilità diretta e della conseguente (auto)colpevolizzazione. Per quanto appaia paradossale, era meno pesante da sopportare la vergogna per il fallimento parziale – non voluto ma temuto – di alcune funzioni materne in luogo dei rischi di perdita affettiva e riconoscimento sociale legati a un’aperta messa in discussione delle norme sociali e famigliari legate alla maternità. Inoltre, non riuscire, contro la propria volontà, nell’intento nutritivo poteva alleggerire la madre proprio dalla paura di non riuscire, procurandole un – illusorio – senso di libertà! Il poco entusiasmo con cui Freud viene accolto dalla famiglia della sua paziente, esprime l’ambivalenza verso la sperata riuscita di una terapia che porta inevitabilmente con sé l’idea di un cambiamento forse rischioso: una maggiore autonomia di pensiero e d’azione della donna che prende pieno possesso delle sue funzioni con un’azione di “protesta”. La sospensione ipnotica che Freud fece esperire alla giovane madre ebbe l’effetto di detenderla rispetto ai conflitti relativi alla sua identità e le – geniali! – esortazioni e rassicurazioni di Freud circa le sue capacità di holding e care-giving (“sarà una perfetta nutrice” e “farà crescere magnificamente il suo bambino”), le resero possibile la spinta decisiva al riconoscimento delle proprie potenzialità. La valorizzazione del ruolo materno passa attraverso il riconoscimento e l’attribuzione d’importanza agli atti legati al dare vita, al nutrire, alla femminilità intesa come insieme organico e complesso di peculiari abilità corporee, psichiche, emotive, affettive, cognitive che, se scotomizzate anche dall’entourage familiare rischiano di far scivolare la madre in uno stato di “costrizione” ove è il senso del dover essere a dominare e, spesso, la depressione postpartum a comparire. La ribellione della paziente di Freud verso la madre fu e comportò un importante cambiamento. Quel tentativo di individuarsi e autonomizzarsi fu possibile attraverso l’intervento ipnotico di Freud ma soprattutto attraverso l’esortazione e successiva legittimazione da parte del medico viennese di quel gesto di protesta verso la madre. Sembrerebbe essere stato un tentativo da parte della giovane di presa di coscienza delle proprie capacità e lo slegarsi da norme imposte e tramandate. Dal dover-essere è dunque possibile passare a un modo di essere non più imposto ma scelto, sentito.

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Alfabeto Il nucleo madre-bambino e tutto quel che vi accade e che possiamo o no vedere e osservare ma che avviene, vive e s’arricchisce attraverso il nutrimento che non è mai solo mero passaggio di cibo dal seno alla bocca del neonato. È un insieme straordinariamente complesso di atti minimi e fondanti, caratterizzati da elementi emotivi e cognitivi importantissimi sottesi dalla capacità empatica della madre, anche e soprattutto quando nutre. Daniel Stern19 dice molto bene come attraverso le cure materne sin dagli esordi si creino le condizioni per uno sviluppo unitario del sistema percettivo che permetterà al bambino di riconoscere che «ciò che vede è anche ciò che sente e che ode». Lo sviluppo cross-modale del sistema percettivo è una caratteristica innata, come evidenzia il neurobiologo Vittorio Gallese20 riprendendo gli studi di Stern: «Tale capacità [innata] sembra svolgere un ruolo chiave nello sviluppo dell’intelligenza sociale, in quanto utilizzata per la costituzione di relazioni interpersonali». Ma proprio perché innata va stimolata e resa attiva altrimenti il rischio è che quelle abilità emotive e cognitive connesse all’unitarietà percettiva vadano perdute o compromesse21. Ogni relazione primigenia è unica anche se il latte è sempre latte. La cosa-in-sé assume senso se viene vista nei suoi molteplici rimandi simbolici. Sembra meno scontato se si considera che nella pratica clinica le varie forme espressive del disagio psichico sono spesso legate a esperienze e atti in cui vi è stata da parte degli adulti verso i figli deprivazione dei significati oltre che di affettività. Il semplice atto del nutrire, non accompagnato da un’adeguata affettività porta con sé il rischio di un disinvestimento emotivo e affettivo da parte di chi questa modalità nutritiva la subisce – anziché goderne nella condivisione empatica. Lo stesso Freud22 mette in evidenza, attraverso l’esperienza terapeutica con alcune sue pazienti, Dora e Emmy von N., la stretta relazione tra esperienze di deprivazione affettiva legata al nutrimento in

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D. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, Torino 2002 (ed. orig. 1987). V. Gallese, La molteplice natura delle relazioni interpersonali: la ricerca di un comune meccanismo neurofisiologico, 2003, Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Fisiologia, Università di Parma. 21 È ancora Vittorio Gallese a sottolinearlo, nel suo articolo già citato. 22 Freud, Opere, I, cit. 20

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cui prevale l’aspetto rigidamente normativo e disturbi alimentari da lui stesso diagnosticati come “anoressia”. Partire dal Cantico dei Cantici ha permesso di evidenziare l’intensità, il valore e la pienezza di una relazione, di un legame che non è solo erotico ma anche primigenio. Quando in questo scambio tra madre e neonato sia la madre che l’entourage familiare perdono il senso di quel valore di empatia che passa attraverso il nutrimento, perdono anche quella prospettiva arcaica e non-verbale di comunicazione che prelude al senso dell’esistere, al dare senso. Valorizzare quello scambio non significa reificarlo ma sottolinearne, anche attraverso una poetica sospesa in un Presente assoluto, la pregnanza e la non scontatezza. Il corpo della donna che nutre, simboleggiato da frutti e dolci nettari permette di stare al gioco – vero ludismo! – di una prospettiva che trascende l’immediatezza dei gesti che dirigono la ricerca del godimento. La qinah erotica o quella dell’infante che cerca il capezzolo della madre possono nutrirsi attraverso le ricchezze che offre quel corpo reale e simbolico, indissolubilmente legato ai gesti del nutrire. È nel manifestarsi della madre in sintonia col neonato che si avvia il processo di conoscenza, di sé e di sé nel mondo. È quella la matrice che resta, l’imprinting primigenio che, come un alfabeto dalle possibilità infinite, si crea in quello scambio. Senza alfabeto non c’è senso. Del resto, la ricerca, la scoperta o la creazione di un proprio alfabeto privato è, sia per l’analizzando che per il terapeuta, ciò che muove e nutre buona parte del lavoro psicoanalitico. Un canto Yiddysh recita: E se mai doveste conoscere il tormento dell’esilio, sappiate che dall’alfabeto potrete trarre la vostra forza!23

23 Az ir vet kinder dem goles shlepn / oysgemutshet zayn, / zolt ir fun di oysyes koyech shepn / kukt in zey arayn! Questa canzone, dal titolo Intorno al camino, era stata intitolata originariamente L’alfabeto. È stata composta da Mark Warshawky (1840-1907). Da Canti della Diaspora, I, Firenze 1987.

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Si mangia o non si mangia? Il VII libro della Physica di Ildegarda di Bingen MARIA GIUSEPPINA MUZZARELLI

Metavedere e vedere Ildegarda (1098-1179), monaca benedettina e badessa del monastero di San Disibodo, non lontano da Magonza, vedeva e vedeva oltre. Dall’età di cinque anni era infatti visitata da visioni1 («la visione avvince tutto il mio essere: non la vedo con gli occhi del corpo, ma mi appare nello spirito dei misteri»2) e grazie ad esse questa monaca di nobili origini e di malferma salute riusciva a vedere al di là della materia. La fama di profetessa le meritò la definizione di “Sibilla del Reno” e molti, anche fra i grandi, ricorsero a lei per consigli e ammaestramenti. Ma a lei si rivolgevano anche i malati che la sapevano capace di posare lo sguardo sul mondo circostante e di far fronte ad alcuni problemi di carattere medico. Fu teologa e filosofa, indovina e musicista, profetessa e terapeuta: guaritrice d’anime e di corpi. È considerata il maggior genio femminile del Medioevo. Per comunicare, se non per incidere sulla realtà circostante, forse

1 Ildegarda di Bingen, Il libro delle opere divine, a cura di M. Cristiani e M. Pereira, Milano 2003, p. 131: «Era l’anno 1163 dell’Incarnazione del Signore [...] quando una voce dal cielo si rivolse a me con queste parole “O tu, creatura poverella, che sei figlia di molte sofferenze, purificata dal fuoco di tante gravi malattie del corpo eppure ricolma di profonda misericordia di Dio, queste cose che vedi con gli occhi interiori e che ascolti con le orecchie interiori dell’animo affidale alla stabilità della scrittura, per il bene degli uomini [...]”». 2 Lettera a San Bernardo, abate di Clairvaux, in M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, In una aria diversa. La sapienza di Ildegarda di Bingen, Milano 1992, Appendice, p. 159.

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Ildegarda di Bingen colpita dalla luce della rivelazione. Scivias, (particolare), Eibingen, Rupertsberger Codex Abtei St. Hildegard.

le era indispensabile metavedere, vedere cioè oltre, vedere con altri occhi. Sta di fatto che con i suoi si applicò ad osservare il mondo che le stava intorno3. Di questo mondo le interessavano gli uomini e le donne bisognosi di cure, i loro corpi e quindi anche i cibi più adatti a nutrirli. D’altronde prendersi cura di loro era seguire le tracce di Cristo: «Christum medicum, medicus summus», come scrive nella Explanatio della regola benedettina. La cura del corpo era parte della più generale “cura hominis” che mirava a ristabilire un globale stato di benessere4. Cristo è il sommo medico ma è anche, nelle parole di Il3 P. Dronke, Donne e cultura nel Medioevo. Scrittrici medievali dal II al XIV secolo, Milano 1986 (ed. orig. 1984), pp. 195-268, in partic. p. 225: «Come scrittrice di medicina, ella propende totalmente a guardare agli esseri umani nella loro realtà empirica: sono organismi di cui si può dar conto in termini di principi fisici», e a p. 226 dove l’A. dice che Ildegarda in Causae et curae come nella Physica non presenta mai alcunché come rivelazione. 4 Fumagalli Beonio Brocchieri, In una aria diversa, cit., in partic. p. 126. Si può vedere anche: G. Penso, La medicina medievale, [s.l.] 1991, p. 53.

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degarda, l’immagine del povero che ha bisogno di soccorso: «Dio permette al ricco di possedere ricchezze che vengono sottratte ai poveri. Egli ama tuttavia la figura del povero, perché ne è la sua immagine»5. La corporeità era per Ildegarda “segno” visibile del divino giacché Dio ha raffigurato tutta la sua opera nella forma dell’uomo6. Quando volge lo sguardo al mondo naturale Ildegarda lo considera alla luce della sua cultura e tenuto conto dei bisogni degli uomini. Il suo rapporto con la realtà si dimostra forte e costante. Il suo occhio acuto si è fissato su importanti elementi spazianti tra il cielo e la terra. In questo breve saggio mi occuperò, sulle tracce di Ildegarda, della terra e in particolare delle diverse forme del creato, animali, vegetali e minerali, in essa esistenti. Il titolo dell’opera che tratta di tutto ciò è Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum ovvero Physica7 e, come indica il titolo, mirava a cogliere e a definire gli elementi distintivi, le sottigliezze appunto, delle piante, degli animali e delle pietre che possono cadere sotto lo sguardo umano e che agli uomini capita di incontrare, maneggiare, usare. Uno dei punti che mi interessa mettere in luce è la riconduzione degli animali ad una possibile e proficua utilizzazione da parte dell’uomo. Il riferimento è in particolare alla commestibilità degli animali considerati nel settimo libro della Physica, definibile, nel suo insieme, come una vera e propria enciclopedia della natura in circa 500 voci8.

5 G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, RomaBari 1997, p. 133. 6 Ildegarda di Bingen, Il libro delle opere divine, cit., Introduzione, p. LXXXIX. 7 Physica e Causae et curae sono attualmente due opere distinte ma non è affatto sicuro che Ildegarda abbia scritto due distinti testi. Vedere: L. Moulinier, Le manuscrit perdu à Strasbourg. Enquête sur l’œuvre scientifique de Hildegarde, Paris 1995. La tradizione manoscritta di queste due opere è alquanto tarda e fra gli studiosi appare condivisa l’idea che entrambi gli scritti siano stati nei secoli fortemente interpolati. 8 Ildegarda di Bingen, Subtilitatum diversarum naturarum creaturarum libri novem (Physica), Patrologia Latina, CXCVII, coll. 1117-1352, libro VII (de animalibus), coll. 1311-1338 (di qui in avanti Liber subtilitatum). Si veda la traduzione francese: Le livre des subtilités des créatures divines, traduction et présentation par P. Monat et C. Mettra, Grenoble 1988, 2 voll., libro VII alle pp. 181-238 del secondo volume. Le citazioni da quest’opera forniranno da qui in avanti l’indicazione della colonna nella Patrologia Latina (P.L.) e, fra parentesi, delle pagine della versione francese di P. Monat.

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La Physica non è fra le opere più importanti di Ildegarda che è nota come autrice di raccolte di visioni, Liber Scivias, Liber vitae meritorum e Liber divinorum operum, oltre che di lettere, di poesie e di musiche. Si tratta di un’opera descrittiva, di un’enciclopedia della natura senza precedenti9 nella quale animali e piante sono considerati in una prospettiva funzionale alla salute dell’essere umano. La teoria complessiva che fa da cornice al discorso relativo alla commestibilità degli animali trova espressione nel Libro delle opere divine, là dove Ildegarda sostiene che «L’utilità di tutte le creature riguarda l’anima non meno che il corpo»10. Ildegarda, alla quale è stata riconosciuta qualche originalità e una certa «inquietudine d’indagine»11, si è occupata nel primo libro della Physica delle piante componendo un ricco erbario che comprende 213 varietà12. Nel secondo libro ha trattato il tema degli elementi (aria, acqua etc.), nel terzo quello degli alberi (55 varietà), nel quarto ha preso in considerazione le pietre preziose, nel quinto i pesci (37 tipi), nel sesto gli uccelli (68 generi) mentre nel settimo si è dedicata all’analisi degli animali, descrivendone i diversi tipi, nell’ottavo dei rettili e nell’ultimo dei metalli. Nutrire e curare Quando Ildegarda parla delle piante, indica regolarmente l’uso alimentare o medicamentoso che se ne può fare13 ed in qualche caso sug9

L. Moulinier, Une encyclopédiste sans précédent? Le cas de Hildegarde de Bingen, in L’enciclopedismo medievale, a cura di M. Picone, Ravenna 1994. 10 Ildegarda di Bingen, Il libro delle opere divine, cit., p. 21. 11 G. Ortalli, Gli animali nella vita quotidiana dell’alto Medioevo: termini di un rapporto, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto Medioevo. Atti della XXXI settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto 1985, pp. 1389-1443, in partic. p. 1400. 12 L. Moulinier, Abbesse et agronome: Hildegarde et le savoir botanique de son temps, in Hildegard of Bingen. The Context of the Thought and Art, ed. by C. Burnett and P. Dronke, London 1998, pp. 135-156; E. Breindl, L’erborista di Dio: santa Ildegarda mistica medievale, Cinisello Balsamo 1989. 13 I. Muller, Wie „autentisch“ ist die Hildegardmedizin? Zur Rezeption des „Liber simplicis medicinae“ Hildegards von Bingen im Codex Bernensis 525, in Hildegard von Bingen. Prophetin durch die Zeiten. Zum 900.Geburtstag, hrsg. von E. Forster, Freiburg im Breisgau 1997, pp. 420-430.

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gerisce anche ricette per cure estetiche. Di questioni mediche tratta specificatamente in un’opera, forse in origine congiunta alla Physica, nota col titolo Causae et curae14 che è una sorta di manuale di medicina pratica e di farmacologia. Tracce di questa stessa materia sono nell’intero Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum (noto, come si è detto, anche come Physica o come Liber simplicis medicinae) e quindi anche nel settimo libro, quello che qui ci interessa prendere in esame. In esso Ildegarda descrive 45 tipi di animali, molti dei quali forse furono da lei visti personalmente. Non vide probabilmente mai l’elefante, il cammello, il leone, la pantera, la tigre. Forse vide l’orso, certamente non si è mai imbattuta nell’unicorno che pur credeva fermamente che esistesse15. Di sicuro conosceva il cavallo, l’asino, il cervo, il lupo, il maiale, il cane, la volpe e molti altri animali dei quali parla sulla base di conoscenze che è comunque difficile ricondurre all’una o all’altra lettura. Ildegarda non cita le sue fonti e questo, secondo Laurence Moulinier, si spiega con la «logique visionnaire» dell’autrice16. Non sappiamo che libri circolassero a Disibodenberg o a Rupertsberg dove, abbandonata Disibodenberg, fondò un nuovo convento. Conosceva, ma non si sa bene per quali vie, il primo bestiario che ci è noto, il Physiologus, un testo alessandrino risalente al II o III secolo d.C. che prende il nome dall’autore, nel quale venivano esposte le caratteristiche dei diversi animali. Di questo testo greco, composto di 48 o 49 capitoli relativi ad animali, piante e pietre, si sono fatte molteplici versioni che hanno circolato in epoca medievale17. In molti casi Ildegarda risulta essersi conformata al Physiologus mentre in altri si è discostata dal modello da lei assunto come una trama sulla quale ricamare liberamente18.

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Ildegarda di Bingen, Cause e cure delle infermità, a cura di P. Calef, Palermo

15 Ortalli, Gli animali nella vita quotidiana, cit., pp. 1428-1429 sulla confusione tra animali reali e fantastici. 16 Moulinier, Le manuscrit perdu, cit., p. 208. Su questo tema vedere in particolare il cap. VII Sources et influences, pp. 205-243. 17 Bestiari medievali, a cura di L. Morini, Torino 1996, il Fisiologo latino, pp. 3102. Fra le versioni più recenti del Physiologus vi è quella di N. Guglielmi, El Fisiòlogo. Bestiario medieval, Madrid 2002. 18 Moulinier, Une encyclopédiste sans précédent, cit., p. 131 e Ead., Le manuscrit perdu, cit., pp. 229-232.

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Sia nella scelta degli animali sia nella descrizione delle loro caratteristiche, commestibilità inclusa, Ildegarda rivela quella stessa contrapposizione, giudicata al limite della inconciliabilità, fra atteggiamento scientifico e ricorso a un universo simbolico che caratterizza più in generale la sua produzione. In essa, infatti, a opere costruite secondo le categorie della scienza del XII secolo se ne giustappongono altre che, nelle parole di Marta Cristiani e di Michela Pereira, utilizzano le forme di una vera e propria sintassi visionaria19. A differenza dal Physiologus, opera più allegorica che scientifica composta molti secoli prima, e diversamente dal De bestiis et aliis rebus attribuito al suo contemporaneo Ugo di San Vittore20, nell’opera di Ildegarda si fa esplicita menzione della commestibilità delle carni di tutti o quasi gli animali. Lo stesso vale per i pesci e per gli uccelli dei quali parla rispettivamente nel quinto e nel sesto libro. Il dato è pieno di significato e caratterizza questo testo come destinato alla conoscenza teorica ma anche alla guida nei comportamenti pratici. Per ogni animale, infatti, Ildegarda esamina anche l’apporto che esso è in grado di dare alla salute umana, diversamente da quanto compiuto in pieno IX secolo da Rabano Mauro. Quest’ultimo nella compilazione enciclopedica in 22 libri, conosciuta come De Universo21, si è occupato ai libri 7 e 8 di quegli stessi animali di cui ci parla Ildegarda ma senza far cenno alla possibilità o all’opportunità di cibarsi di essi. Animale per animale Ildegarda indica se è possibile o meno mangiarne le polpe ma anche se si possono ricavare, da organi interni o da altre parti, elementi utili alla confezione di preparati curativi. Chiarisce inoltre in quale altro modo gli animali possono essere impiegati dall’uomo per ricavarne protezione materiale, dal freddo ad esempio, o per una tutela immateriale. Costituisce esempio di quest’ultima funzione il caso della coda essiccata dello stambecco che, tenuta in mano, impediva di essere sottomessi alla volontà altrui22.

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Ildegarda di Bingen, Il libro delle opere divine, cit., pp. 1152-1153. Ugo di San Vittore, De bestiis et aliis rebus, P.L., CLXXVII, coll. 13-165. 21 Rabano Mauro, De Universo, P.L., V, coll. 199-253. Sulle conoscenze del mondo animale nell’alto Medioevo vedere: A.M. Simonetta, La conoscenza del mondo animale dalla romanità al Medioevo, in L’uomo di fronte al mondo animale, cit., pp. 107-125. 22 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., col. 1322 (Le livre des subtilités, cit., p. 205). 20

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Molti animali, se non tutti, sono considerati utili per la preparazione di farmaci realizzati con cuore o fegato essiccato e triturato oppure utilizzando la lingua, le unghie o le corna. Le indicazioni di carattere medico, introdotte analizzando i singoli animali, seguono in alcuni casi una teoria analogica che induce Ildegarda a dire che il topo, uso fuggire, si porta via il mal caduco o che mangiare la testa del pesce siluro fa venire il mal di testa ma anche che la vipera, di natura calda, se bruciata o ridotta in poltiglia è in grado di ridurre il calore che accompagna il gonfiore. Poco presente il principio “contraria contrariis sanantur”, frequentemente adottato all’epoca come medicina sia per il corpo sia per l’anima23, volto ad assicurare quell’equilibrio che in altre occasioni di approfondimento anche Ildegarda ha giudicato condizione ideale. Di ogni animale Ildegarda chiarisce se si tratta di un essere a natura calda oppure fredda. Sono caldi o comunque più caldi che freddi l’elefante, il cammello, il leone, l’orso, l’unicorno, la tigre, la pantera, il cavallo, l’asino, il cervo, il bisonte, il caprone, il maiale, la lepre, il lupo, il cane, la volpe, il castoro, la lontra, la scimmia, il gatto, la lince, il tasso, lo scoiattolo, la martora, lo zibellino, la donnola, il topo, il ghiro, la pulce, la formica, l’alce e il dromedario. Pochi gli animali definiti freddi: il capriolo, lo stambecco, il bue, il montone, il macaco, la puzzola, il riccio, la marmotta, il visone, l’ermellino, la talpa. A rendere commestibile l’animale non bastava il suo essere caldo oppure freddo, come dimostra il caso del leone, caldo ma non commestibile, o del maiale, anch’esso caldo ma fortemente sconsigliato. Caldo e freddo sono, come è stato osservato, i soggetti principali cui Ildegarda rivolge per la massima parte le sue osservazioni malgrado il suo concentrarsi su umido e secco nei trattati teologici24. La teoria di riferimento era quella classica secondo la quale gli elementi sono quattro, fuoco, aria, acqua, terra e sono caldi o freddi, umidi o secchi.

23 J.T. Mc Neill, La medicina per il peccato prescritta nei Penitenziali, in Una componente della mentalità occidentale: i Penitenziali nell’alto Medioevo, a cura di M.G. Muzzarelli, Bologna 1980, pp. 215-233. 24 A.H. King-Lenzmeier, Ildegarda di Bingen. La vita e l’opera, Milano 2004, p. 206.

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Si mangia o non si mangia Chiarita la natura calda o fredda dell’animale, Ildegarda fornisce una breve descrizione di alcuni comportamenti tipici sui quali non ci soffermeremo perché qui ci interessa ragionare sulla commestibilità e cioè sugli animali consigliati o sconsigliati come cibo per cercare di capire l’atteggiamento, la cultura e le intenzioni dell’autrice. Si può mangiare il cervo25 la cui carne è definita sana e indicata per i malati. Questa carne, assunta tiepida e non bollente, purga lo stomaco. Il cervo, preda ideale della caccia non solo aristocratica, garantiva, grazie alla sua mole, un considerevole approvvigionamento di carne26: di qui la sua importanza sul piano alimentare confermata anche da Ildegarda. In analogia con quella di cervo, la carne di capriolo è definita “bona” e indicata per sani e malati, formula che ricorre spesso, nelle valutazioni di Ildegarda, quando si tratta di cibo consigliato. Diversamente dal cervo e dal capriolo, la carne di stambecco è sconsigliata. È commestibile il bisonte la cui carne è definita sana. Le sue corna, grattugiate, sono giudicate utili alla guarigione della peste dei cavalli, degli asini e di altri animali. Non vi sono altre parti del corpo del cervo oppure del bisonte utilizzabili per preparati medicamentosi. Ildegarda fa spesso ricorso, nel parlare sia di piante sia di animali, a formule binarie di antica tradizione: non solo caldo e freddo, secco e umido ma anche puro e impuro, cotto e crudo così come parla di sano e di malato a proposito dell’uomo al quale destina i consigli per alimentarsi e curarsi. Per quanto attiene il mondo vegetale nessuna verdura o erba andrebbe mangiata cruda bensì “temperata” e cioè cotta. La cottura è giudicata utile in quanto «comparabile con il sangue dell’uomo»27. La salvia però fa bene a tutti sia cruda sia cotta. Va chiarito che per crudo si può intendere senza altre erbe o non marinato.

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È soprattutto a proposito dei pesci che Ildegarda fa riferimento alla categoria di puro o di impuro. Sono puri i pesci che assumono nutrimenti puri e sono puri quelli che vivono a media profondità in acque correnti e quindi pure, mentre i pesci giudicati impuri cercano il nutrimento in acque stagnanti e fetide e vivono prevalentemente sul fondo. È difficile precisare a quali presupposti – igienici, simbolici o d’altra natura – vada ricondotta la partizione tra puro e impuro che richiama termini e concetti veterotestamentari peraltro rivisitati28. Per definire gli animali del VII libro Ildegarda non fa ricorso ai termini puro e impuro ma del maiale dice che la sua carne è immonda e della carne di cane o di volpe che «ad nullum usum hominis valet» o «ad comedendum non valet». La carne di animale non solo si distingue in mangiabile o non mangiabile ma anche in digeribile con maggiore o minore difficoltà. Nel sesto libro in cui parla degli uccelli29 dice che il pollo ha carni magre e digeribili buone sia per i sani, in quanto non grasse, sia per i malati che ne possono trarre vigore; non va bene tuttavia per i malati gravi30. L’anatra vive di un nutrimento impuro che è però purificato dall’acqua nella quale talvolta nuota e la sua carne è definita digeribile per i sani ma non adatta a chi è malato. Meglio comunque mangiarla arrosto che lessata31. L’oca mangia alimenti puri e impuri e ciò le conferisce una doppia natura che rende le sue carni tollerabili ai sani ma non adatte ai malati32. Anche le polpe di colomba sono commestibili ma giudicate dure, secche e di poco vantaggio per l’uomo mentre è sconsigliato il consumo della tortora colpevole di causare la gotta33. Lo struzzo invece ha carni adatte a uomini grassi e forti «quia superflua

28 M. Douglas, Purezza e pericolo, Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Bologna 1975 (ed. orig. 1970), p. 22. 29 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1285-1312 (Le livre des subtilités, cit., pp. 123-179). 30 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1295-1296 (Le livre des subtilités, cit., pp. 145-147). 31 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., col. 1294 (Le livre des subtilités, cit., p. 144). 32 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1293-1294 (Le livre des subtilités, cit., pp. 141-142). 33 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., col. 1300 (Le livre des subtilités, cit., p. 155).

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carnes eorum minuit et eos fortes facit»34. La carne d’aquila, come quella dell’avvoltoio, viene definita mortale per l’uomo «quia nimis fortis ei esset propter nimium calorem qui in ea est»35 e quella del falcone non consumabile mentre con lo sparviero non si prepara un piatto da portare in tavola ma si può tentare una terapia contro la lussuria36. Ma torniamo al libro VII ove si dice che il bue, classificato come «frigidus [...] et siccus», ha una carne che non si addice ad uomini altrettanto ”freddi” («propter frigus quod in se habet frigido homini ad comedendum non valet»37) e invece va bene per uomini “caldi”. Il fegato del bue è dichiarato commestibile mentre del cuore e del polmone si dice che «non multum valent». Ildegarda fa cenno all’uso degli antichi di sacrificare buoi agli dei. In epoca medievale la relazione con il mondo sacro trova prosecuzione nella loro frequente presenza nelle fonti agiografiche nelle quali non mancano riferimenti all’antica destinazione sacrificale dei bovini38. Sappiamo che i bovini non venivano allevati per la produzione di carne ma esclusivamente come animali da traino e che i buoi erano nei secoli dell’alto e pieno Medioevo rari e preziosi. Molto più numeroso invece e destinato alla tavola il bestiame piccolo e cioè suini e ovini. Mentre l’allevamento dei suini era diffuso praticamente ovunque, gli ovini e i caprini erano allevati in particolare in alcune aziende. Certamente era piuttosto diffuso il consumo delle carni di questo «menuto peculio»39 e ciò trova solo in parte corrispondenza nelle indicazioni di Ildegarda che consiglia la capra ma sconsiglia il maiale. Gli ovini hanno goduto di grande considerazione nella società medievale e il cristianesimo ha riconosciuto un ruolo sacrale alle pecore

34 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1287-1288 (Le livre des subtilités, cit., pp. 128-129). 35 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., col. 1292 (Le livre des subtilités, cit., pp. 138-140). 36 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., col. 1297 (Le livre des subtilités, cit., pp. 149-150). 37 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1323-1324 (Le livre des subtilités, cit., pp. 206-209). 38 E. Anti, Santi e animali nell’Italia padana, Bologna 1998, pp. 98-99. 39 Montanari, L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, cit., p. 255 sgg.

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e soprattutto all’agnello40 mentre la capra, che era importante per la lana, per la pelle, per il latte e per la carne, dal punto di vista simbolico era prossima al maiale: così per Isidoro di Siviglia (560-636) e per Rabano Mauro (780ca-856)41. La posizione al riguardo della monaca benedettina prescinde da questa tradizione negativa: per Ildegarda la carne di capra è adatta a tutti anche se ai deboli è consigliato di mangiarne poca e di assumere invece brodo di capra. Anche la carne di «capra hircus», cioè di caprone, va bene per sani e malati e se assunta frequentemente giova allo stomaco. Il fegato di capra reca beneficio a chi soffre di stomaco. Anche del castoro Ildegarda consiglia di usare il fegato contro la febbre mentre la lingua, cotta, giovava alla milza; essa andava assunta triturata in polvere e miscelata con del miele. Del castoro si usavano anche i testicoli e della carne in generale di questo animale Ildegarda dice che è adatta a sani e malati42. Anche il riccio è dichiarato commestibile benché sia definito di natura immonda. La sua carne è adatta ed anzi fa bene a chi è sano. Il suggerimento è di lessarlo come si fa con la lepre. Il tasso, lo scoiattolo e la lontra non sono invece da mettere in tavola43. Le carni di animale sono definite pure o impure a seconda dell’alimentazione dell’animale ma anche sulla base di altri elementi. Il cane non è definito impuro ma Ildegarda chiarisce che la sua carne «ad nullum usum hominis valet» aggiungendo che non va assunto pane o altro cibo morso o comunque contaminato da un cane44. Il caso richiama alla mente quanto trova espressione in diversi canoni di Penitenziali, che erano libri compilati per suggerire le penitenze più opportune per riscattare i peccati commessi45, là dove si diceva che la caduta o il rinvenimento nel vino, nel latte, nell’olio o nella farina di un topo, di una donnola o di un altro animale comprometteva, ma solo 40

Anti, Santi e animali, cit., p. 124. Ibid., p. 125. 42 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., col. 1329 (Le livre des subtilités, cit., pp. 219-220). 43 Diversamente da quanto si legge in Breindl, In cucina con S. Ildegarda, cit., p. 20. 44 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1327-1328 (Le livre des subtilités, cit., pp. 217-218). 45 M.G. Muzzarelli, Penitenze nel medioevo. Uomini e modelli a confronto, Bologna 1994, in partic. sui libri penitenziali pp. 27-59. 41

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parzialmente, l’assunzione dei cibi contaminati. Problemi li suscitava anche il consumo di cibo «intinctum» o «sordidatum» da topo, da cane, da gatto o da altri animali46. Dell’asino Ildegarda dice che «caro eius ad comedendum homini non valet quia faetido est de stultitia, illam quam in se habet»47. Quanto al cavallo la monaca afferma che la sua carne «tenax est et gravis est ad comedendum et homini contraria»48. Gli equini, animali ancor più preziosi degli ovini, non venivano in effetti quasi mai consumati. Del cavallo si legge in più di un Penitenziale che è lecito mangiarne la carne quantunque non si tratti di cibo consueto49. Nel Medioevo, epoca nella quale gli uomini avevano notoriamente un rapporto con gli animali diverso dal nostro, e cioè molto più diretto e di piena consapevolezza del diritto degli uomini di nutrirsi delle loro carni, cibarsi della carne di cavallo poneva alcuni problemi. Per la sensibilità dell’epoca non era infatti tollerabile che un cavallo venisse abbattuto per essere mangiato50. Il cavallo, presenza frequente nelle Sacre Scritture, godeva di alta considerazione anche presso i germani che non si nutrivano delle sue carni e nemmeno conciavano la sua pelle51. Più in generale, la società medievale gli ha attribuito un grande valore economico, sociale e simbolico52. Per Ildegarda il cavallo, più caldo che freddo, ha una natura più che buona: in questo animale, che si ciba di alimenti sani, ritiene che vi sia un’enorme forza. Nei confronti del consumo della carne di cavallo Ildegarda non esprime una vera e propria preclusione ma dice che si tratta di carne difficile da mangiare e

46 Ead., Norme di comportamento alimentare nei libri penitenziali, in “Quaderni medievali”, 13 (1982), pp. 45-80, in partic. pp. 68-69; H. Schneider, “Die Maus in der Milch”. Hygienevorschriften in Bussuchern, in Mahl und Repraesentation. Der Kult ums Essen, hrsg. von L. Kolmer, Paderborn-Wien 2000, pp. 41-52. 47 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., col. 1320 (Le livre des subtilités, cit., pp. 200-201). 48 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1319-1320 (Le livre des subtilités, cit., pp. 199-200). 49 Muzzarelli, Norme di comportamento alimentare, cit., p. 55. 50 M. Ferrières, Histoire des peurs alimentaires. Du Moyen Age à l’aube du XXe siècle, Paris 2002, p. 93. 51 E. Annoscia, Gli animali e l’uomo nel Medioevo. Le conoscenze zoologiche dotte e popolari, in “Quaderni Medievali”, 38 (1994), pp. 86-108, in partic. p. 105. 52 Anti, Santi e animali, cit., in partic. pp. 75-89.

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ancor più da digerire. Aggiunge poi che il sangue ricavato dal cavallo è utilizzabile in medicina ma che «caetera quae in eo sunt ad medicamenta non valent»53. Se nei riguardi della carne di cavallo Ildegarda manifesta dubbi, non sembra invece averne circa il consumo di carne di maiale che, a suo dire, non va bene né per i sani né per i malati. L’animale è definito caldo e impuro. Impuro in quanto per avidità mangia anche alimenti immondi e perciò la sua carne non è sana tanto che l’assumerla produce l’aumento nell’uomo delle infermità. Chi è malatissimo, assai debilitato e col corpo totalmente disseccato se mangerà con moderazione carne di lattonzolo potrà avere qualche giovamento «ut de calore illorum calorem acquirat»54 ma appena starà meglio dovrà cessare di consumare questa carne pena il peggioramento dello stato di malattia. Chi si trova del tutto privo di forze potrà riacquistare vigore mangiando spesso fegato di maiale cotto ma, fatta eccezione per il fegato, le restanti parti del corpo di questo animale sono dichiarate inutilizzabili per la preparazione di medicamenti. Noi sappiamo che la carne di maiale era ampiamente consumata in epoca medievale e che era in pratica l’unico animale destinato al consumo di carne55. Il maiale era a tal punto importante da avere il ruolo di unità di misura al momento di quantificare l’estensione di uno spazio incolto56. Non sapeva tutto ciò Ildegarda? Certamente lo avrà saputo ma la sua opera enciclopedica non voleva essere un’istantanea della realtà circostante; pur tenendo conto di essa, era una amalgama di nozioni e di conoscenze di diversa tradizione e provenienza fra le quali va certamente annoverato l’Antico Testamento. Se infatti il Levitico annovera il maiale tra gli animali impuri, esso non gode di miglior considerazione nei Vangeli dove è assunto a simbolo dell’uomo che disprezza l’insegnamento divino. Per Isidoro di Siviglia che, come Rabano Mauro, non fa riferimento alla commestibilità degli animali di cui parla nelle sue Etimologie, «Porco sta quasi a dire spor-

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Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1319-1320 (Le livre des subtilités, cit., pp. 199-200). 54 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1325-1326 (Le livre des subtilités, cit., pp. 211-214). 55 Montanari, L’alimentazione contadina, cit., pp. 232-244. 56 M. Montanari, M. Baruzzi, Porci e porcari nel Medioevo, Bologna 1981.

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co»57. Secondo Rabano Mauro, che riprende da Isidoro due secoli dopo la derivazione del termine porco da sporco, il maiale è simbolo di eretici e peccatori e la sua carne non va consumata58. Questi testi erano certamente noti a Ildegarda che verosimilmente conosceva anche la letteratura penitenziale. Quest’ultima ha visto nel Corrector sive Medicus di Burcardo di Worms l’ultimo e più maturo frutto59. Il XIX libro del Decretum composto dal vescovo Burcardo di Worms, noto appunto come Corrector sive medicus, è stato scritto circa un secolo prima della Physica di Ildegarda. In esso sono scarsi i canoni dedicati alle regole alimentari: si vieta il consumo di animali sbranati da lupi o da cani oppure di cervi o di caprioli trovati morti; è proibito cibarsi di uccelli morti soffocati nelle reti oppure uccisi dal falco e vietato mangiare porci e galline che abbiano ingerito sangue umano. Se questi animali hanno dilaniato cadaveri, per Burcardo possono essere insaccati e mangiati ma a distanza di un anno (c. 87). Se per la fame si è mangiato un animale ritenuto impuro, volatile o quadrupede che sia, per Burcardo non è un peccato grave e la penitenza relativa sarà lieve (c. 89). Ildegarda non parla mai di peccati e di penitenze ma si limita a consigliare o sconsigliare la carne dell’uno o dell’altro animale. La monaca considera il cinghiale più pulito del maiale del quale peraltro ha la medesima natura impura. Gli esemplari giovani sono preferibili per l’alimentazione che è quindi condizionata e non sconsigliata. Quello che Ildegarda sostiene a proposito del maiale contribuisce ad orientarci nell’interpretazione delle sue indicazioni circa l’uso in cucina delle carni degli animali di cui parla. Ildegarda esprime posizioni del tutto teoriche legate alla tradizione del pensiero cristiano e perciò non necessariamente in grado di rispecchiare la realtà circostante. Parla dell’unicorno come se lo avesse visto e sembra non accorgersi che molti intorno a lei si nutrivano di carni di maiale e di lepre.

57 Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, a cura di A. Valastro Canale, 2 voll., Torino 2004, II, p. 15. 58 Ne parla Anti, Santi e animali, cit., pp. 116-117. 59 Burcardo di Worms, Decretum, Liber XIX, in P.L., 1140, coll. 943-1014 (Traduzione del Libro XIX del Decreto in A pane e acqua. Peccati e penitenze nel Medioevo, a cura di G. Picasso, G. Piana, G. Motta, Novara 1986).

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Ildegarda di Bingen allo scrittoio, miniatura, ms 1492, 38r., part., Biblioteca Statale, Lucca.

A Ildegarda, a ben vedere, non interessa quel che realmente accadeva in cucina e forse in una cucina non era nemmeno mai entrata. Ciò corrisponderebbe, peraltro, a un profilo di donna come il suo: nobile, a capo di un importante convento, dedita agli studi e attenta, da monaca sapiente e misericordiosa quale era, ai bisogni degli uomini e delle donne che stavano intorno a lei. Non è improbabile che da buona benedettina combinasse la preghiera e lo studio con il lavoro. Quest’ultimo forse consisteva nella coltivazione e nella conservazione delle erbe medicinali più che nei lavori di cucina. Se anche non avesse mai manipolato direttamente il cibo, quanto da lei teorizzato intorno all’uso in cucina di piante e di animali rivela una relazione con i cibi estremamente significativa proprio in quanto spostata su un piano usualmente precluso alle donne, quello della elaborazione concettuale e della scrittura. Ildegarda non prepara cibo, cosa che era alla portata di tutte le altre donne, ma ragiona intorno ai cibi e del tutto eccezionalmente ne scrive inserendo il tema in una complessa tessitura ideologica. Identifica il cibo come oggetto di specifico interesse al quale si avvicina munita di un sapere libresco ma anche di un’attitudine all’applicazione pratica delle sue conoscenze. Quest’ultima è rivelata proprio dall’attenzione rivolta all’uso di piante e animali come alimenti per gli uomini e come medicamenti per le loro malattie. Le

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interessa indicare a cosa possono fare ricorso gli uomini che hanno primariamente bisogno di nutrirsi ed anche di curarsi ma non scrive ricette né niente del genere, con buona pace di chi ha ritenuto di farlo al posto suo60. Del resto ai suoi tempi nessuno aveva ancora scritto un vero e proprio ricettario: il più antico risale infatti al XIII-XIV secolo61 e per disporre di un testo completo bisogna arrivare alla metà del XV secolo quando Maestro Martino redasse il noto Libro de arte coquinaria62 del tutto privo di relazione con quanto aveva scritto la monaca di Bingen. Raro caso di donna con la penne in mano, Ildegarda usa anche il cibo come strumento per esprimere la sua visione del rapporto tra l’uomo e il mondo, per fare insomma della filosofia in cucina63 a partire dal corpo e dai suoi bisogni.

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Se la carne dell’animale di volta in colta considerato non è giudicata commestibile da Ildegarda, ciò è ben lungi dal comportarne l’inutilizzabilità: può essere che il fegato seccato e triturato giovi per qualche malattia o che con la pelle si possano fabbricare cinture e sandali, come si dice a proposito dello stambecco. Della carne di cammello, animale definito instabile, non si parla di commestibilità ma Ildegarda afferma che dal cammello si possono ricavare sostanze utili per curare il mal di cuore, la scabbia, il sudore cattivo (probabilmente il malodore) o la febbre utilizzando le ossa dell’animale ma anche le unghie. Unghie e zampe essiccate sono ritenute in grado di mettere in fuga i mali spiriti «quia propter virtutem et fortitudinem cameli dyabulus haec fugit»64. Le corna grattugiate del cervo trattate con incenso dan-

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Breindl, In cucina con S. Ildegarda, cit. A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari 1999, p. 185. 62 Maestro Martino, Libro de arte coquinaria, a cura di L. Ballerini e J. Parzen, Milano 2003. 63 Mutuo la formula da F. Rigotti, La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria, Bologna 1999. 64 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1313-1314 (Le livre des subtilités, cit., pp. 186-188).

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no luogo, se bruciate, a un fumo che scaccia gli spiriti e fuga anche i vermi65. Per curare il mal di testa, un malanno al quale fa frequente riferimento Ildegarda che ne patì personalmente gli attacchi66, può risultare utile anche la pelle del leone da posare sopra alla testa. Il cuore, l’orecchio o il fegato di leone, animale dai molti ed importanti significati simbolici67, servivano, secondo Ildegarda, in casi di sordità, di stoltizia e per facilitare la digestione. Per curare l’ipoacusia Ildegarda suggerisce infatti di tagliare l’orecchio destro di un leone e di porlo sopra all’orecchio dell’uomo sordo in modo da riscaldarlo interiormente68. Circa un secolo prima Trotula de Ruggiero aveva proposto, per la medesima affezione, il ricorso a una complicata mistura di grasso di anguille fresche, succo di caprifoglio, uova di formiche ed altre sostanze da cuocere e miscelare con aceto oppure con vino69. A seconda delle affezioni da curare Ildegarda consigliava di valersi ora dell’orecchio, ora del cuore, ora del fegato dell’uno o dell’altro animale. Pratiche e medicamenti a base di organi o di parti del corpo degli animali erano destinati a curare malattie sia fisiche sia psichiche. L’orso, lo scoiattolo e la marmotta sono utilizzabili, per Ildegarda, per ricavare sostanze medicamentose oltre che per la pelliccia. Anche le formiche, non commestibili, rientrano nella farmacopea70. Se si cuoce nell’acqua un intero formicaio, il liquido di cottura potrà essere impiegato per diminuire il flegma: probabilmente si facevano delle inalazioni che liberavano il naso e la gola. 65 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1320-1321 (Le livre des subtilités, cit., pp. 201-203). 66 Dronke, Donne e cultura nel Medioevo, cit., p. 198. 67 M. Pastoureau, Une histoire symbolique du Moyen Age occidental, Paris 2004, Le sacre du lion, pp. 49-64. 68 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1314-1316 (Le livre des subtilités, cit., pp. 188-191). 69 Trotula de Ruggero, Sulle malattie delle donne, a cura di P. Boggi Cavallo, Palermo 1994, p. 121. Trotula è considerata autrice di un libro di ostetricia composto intorno alla metà dell’XI secolo, maturato nell’ambiente della scuola medica salernitana dove più di una donna professava la medicina. Sull’influenza della scuola medica salernitana sul Liber subtilitatum vedere Moulinier, Le manuscrit perdu, cit., pp. 233243. 70 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1336-1338 (Le livre des subtilités, cit., pp. 235-238).

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Di alcuni animali non si dice nulla circa la loro commestibilità: così dell’elefante come del leone. Dell’orso71 si dice che non è buono da mangiare e che aumenta la libidine, come e anzi più della carne di maiale, ma serve come ansiolitico («pavor et tremor et anxietas ab eo recedunt») se si pone sopra al cuore «pelliculam illam quae inter aures ursi est»72. Di più di un animale Ildegarda indica di cosa si nutre. L’unicorno, ad esempio, definito più caldo che freddo mangia erbe monde, secondo Ildegarda che riferisce inoltre il fatto che l’unicorno fugge gli uomini e gli altri animali. Per questa ragione non può essere catturato. L’unicorno, aggiunge la monaca, segue le donne «a viro declinat et post mulierem vadit» e a questa osservazione sul mitico animale ne fa seguire altre nelle quali confluiscono, per ricorrere ai termini impiegati da Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri, la fantasia e la curiosità, il gusto per la favola e la considerazione del valore simbolico73. Non si dice niente circa la sua commestibilità, non foss’altro perché incatturabile eppure Ildegarda non esita ad affermare che un certo unguento preparato utilizzando il fegato di unicorno serviva contro la lebbra e che con la pelle dell’unicorno si potevano fabbricare oggetti utili a fini di sanità, in particolare una sorta di cintura capace di proteggere dalla peste e dalle febbri ma anche calzature che mantenevano i piedi sani74. Fra gli animali non eduli vi è la tigre («caro eius livosa est et propter fortitudinem et velocitatem eius homini ad comedendum non valet») ma il cuore di questo animale, posto caldo sopra alle ferite provocate da una lebbre recente, è in grado di risanare il malato75. Nean71 Sull’orso vedere: M. Montanari, Uomini e orsi nelle fonti agiografiche dell’alto Medioevo, in Il bosco nel Medioevo, a cura di B. Andreolli e M. Montanari, Bologna 1988, pp. 55-72 e B. Andreolli, L’orso nella cultura nobiliare dall’Historia Augusta a Chrétien de Troyes, ibid., pp. 35-54. Vedere inoltre: C. Beck, Approches du traitement de l’animal chez les encyclopédistes du XIIIe siècle. L’exemple de l’ours, in L’enciclopedismo medievale, cit., pp. 163-178. 72 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1316-1317 (Le livre des subtilités, cit., pp. 191-194). 73 M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Ildegarda la profetessa, in Medioevo al femminile, a cura di F. Bertini, Roma-Bari 1989, pp. 144-169, in partic. p. 156. 74 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1317-1318 (Le livre des subtilités, cit., pp. 194-197). 75 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., coll. 1318-1319 (Le livre des subtilités, cit., pp. 197-198).

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che la pantera, definita vanagloriosa, offre carne di cui cibarsi così come lo stambecco («caro eius livosa est et infirma et nec sano nec infirmo homini ad comedendum valet») e la volpe («caro eius homini ad comedendum non valet, sed pellis sana est»)76. Non commestibili ma utilizzabili per ricavarne sostanze medicamentose sono il lupo, la donnola, il dromedario e la lepre. Di quest’ultimo animale la monaca riferisce che sembra cambiare di sesso e forse era su questa base che veniva sconsigliato a tavola. In farmacia Ildegarda giudicava utile solo il fiele della lepre in caso di lebbra77. Alcuni animali non solo non sono commestibili ma da essi Ildegarda esclude anche che si possano ricavare elementi curativi e questo vale per la scimmia («quia in utraque natura instabilis et infirma est ad medicamenta non valet»), per la puzzola, per lo zibellino («ea quae in eo sunt ad medicamenta non valent»), per la talpa («caro eius ad comedendum homini non valet [...] nec aliquis pro medicina comedat») o per il topo ragno («quae in ea sunt medicinae non conveniunt»)78. Se vi è una specificità nel modo di Ildegarda di affrontare l’esame del mondo animale e vegetale essa mi pare che sia costituita dall’interesse dimostrato dalla monaca per l’impiego delle piante ma anche delle polpe e di altre parti degli animali per far star meglio gli uomini e ciò nell’economia di un testo di carattere descrittivo. Nel suo Liber subtilitatum non si limita infatti a offrire definizioni e catalogazioni ma correda le descrizioni con note relative all’impiego di ogni animale, della sua carne come degli organi, della pelliccia ma anche del sangue, delle corna, delle unghie e così via. La cifra caratteristica del suo lavoro sembra consistere nell’indirizzare il suo esame del mondo fisico verso i bisogni del corpo degli uomini. Ancora una volta sembrerebbe dunque confermata la teoria che tende ad identificare l’uomo con la ragione e la donna, quando anche intellettuale, con la corporeità. Nel caso di Ildegarda lo speciale nesso con la corporeità trove-

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76 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., vedere rispettivamente col. 1322 e col. 1328 (Le livre des subtilités, cit., p. 205 e p. 219). 77 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., col. 1326 (Le livre des subtilités, cit., pp. 214-215). 78 Ildegarda di Bingen, Liber subtilitatum, cit., vedere rispettivamente coll. 1329, 1331, 1333, 1336 (Le livre des subtilités, cit., pp. 221, 225, 229, 235).

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rebbe rappresentazione anche nell’interesse da lei dimostrato per la voce e in particolare per il canto. Come è stato teorizzato, dalla distinzione dicotomica uomo-donna discenderebbero numerose altre coppie di opposti connesse al genere: una di esse opporrebbe al pensiero, proprio al mondo maschile, la voce che invece caratterizzerebbe quello femminile79. Per le monache il canto costituiva effettivamente una delle poche e strette vie praticabili per comunicare, per dare piacere – e innegabilmente lo davano a chi le udiva – ma anche per prendere piacere cantando. Sappiamo che quando ad Ildegarda e alle sue consorelle fu impedito di cantare l’ufficio divino a causa dell’interdetto dovuto alla disubbidienza all’ordine di disseppellire uno scomunicato, la badessa fu molto infelice80. È noto che la grande veggente è stata anche una sapiente erborista e ciò nell’ambito di una tradizione che alla sua epoca era assai affermata, tanto da aver prodotto un’ampia diffusione del ricorso alle piante medicinali e un forte impulso all’elaborazione dottrinale nel settore. Questa sua seconda dimensione venne sottovalutata già all’epoca della sua vita e ancor più lo fu nei secoli che seguirono, tanto che fra le opere inviate a Roma per la canonizzazione di Ildegarda non figurano né il suo Causae et curae né la Physica81. Proprio la combinazione, invece, di saperi diversi e la peculiare attitudine all’adattamento delle conoscenze teoriche ai bisogni anche concretissimi degli uomini si profila come elemento caratteristico della figura di Ildegarda e direi emblematico di un’attitudine femminile alla stretta relazione fra teoria e pratica. Fu infatti negli stessi anni in cui iniziò a stendere il Liber vite meritorum e quindi il Liber divinorum operum che redasse le opere di carattere medico-scientifico. Queste ultime non vengono presentate come frutto della rivelazione ma sono da considerarsi il risultato delle conoscenze e delle esperienze di Ildegarda82. Come è stato osservato, nelle pagine dei suoi trattati scientifici la “visione” si 79 A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Milano 2005. Vedere anche: F. Rigotti, La filosofia delle piccole cose, Novara 2004, in partic. cap. III, Questioni di gender, pp. 75-89. 80 Fumagalli Beonio Brocchieri, Ildegarda, la profetessa, cit., p. 161 e p. 152 sulla disubbidienza della badessa. 81 Introduzione a Ildegarda di Bingen, Cause e cure, cit., p. 24. 82 Ildegarda di Bingen, Ordo virtutum. Il cammino di Anima verso la salvezza, a cura di M. Rabaglio, San Pietro in Cariano (Verona) 1999, p. 41.

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spegne e resta «la vista acuta e interessata della monaca che indaga sul mondo sensibile e inferiore»83. Alla nostra monaca benedettina interessavano tutte le creature e quindi anche gli animali come traccia dell’attività creatrice di Dio e della sua volontà salvifica ma anche per la loro realtà effettuale. Interessavano soprattutto in quanto funzionali alle esigenze degli uomini e ciò è quanto trova espressione nella Physica di Ildegarda. Il Liber sulle sottigliezze delle diverse nature dell’intero creato vede al centro l’uomo e i suoi bisogni, da quello di nutrirsi a quello di curarsi. Da qui l’interesse di Ildegarda per il cibo come necessario sostentamento dell’uomo. Gli animali si offrono come cibo e come elemento-base, accanto alle erbe, della farmacopea che Ildegarda probabilmente derivava dalla medicina popolare. Questa medicina, l’unica esistente in quei tempi, trovava nei monasteri un luogo di conservazione dei principali elementi teorici ma anche di applicazione pratica. I monasteri erano infatti sede di mantenimento, accrescimento e ordinamento delle cognizioni sanitarie ma anche di rifugio e trattamento dei malati. Non a caso è proprio nelle scuole monastiche che sono maturate grandi figure di maestri quali appunto Ildegarda di Bingen e Alberto Magno nato a pochi anni dalla morte di Ildegarda proprio nell’epoca in cui si è formalizzata l’organizzazione universitaria del sapere medico. Alla fine del XII secolo infatti lo Studium di Bologna, che come luogo di approfondimento e di insegnamento delle discipline giuridiche aveva oltre due secoli di vita, creò una Facoltà medica. Ildegarda si colloca alla fine del segmento pre-universitario di storia delle conoscenze teoriche e pratiche in campo medico-scientifico, prima cioè dell’appropriazione di questo campo da parte dell’Università che vietò alle donne di avere in essa qualche parte. La sua opera dimostra cosa era in grado di concepire una donna in ambiti usualmente non praticati dalle appartenenti al genere femminile. Lo sviluppo delle conoscenze e delle abilità femminili venne però interrotto proprio all’altezza della prova formidabile data da Ildegarda e ciò rende particolarmente preziosa la sua produzione scientifica. Prima di Ildegarda nella scuola salernitana altre figure femminili si erano affermate in campo medico mostrando capacità ed originalità: Trotula in pieno XI secolo ha dimostrato la sapienza di una donna in

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Fumagalli Beonio Brocchieri, Ildegarda, la profetessa, cit., p. 153.

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Esculapio e Circe. Christine de Pizan, Epistre d’Othea, inizio XV sec., ms fr 848 f. 19r, Bibliothéque nationale, Parigi.

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campo medico e la peculiare sensibilità che l’ha portata a concepire un’opera per ovviare alla ritrosia delle donne ad esporre agli uomini i propri problemi di salute e di bellezza84. Nel pieno del secolo successivo, quando ha avuto luogo un rapido sviluppo degli interessi naturalistici85, Ildegarda ha dato prova dell’alto livello di compenetrazione fra cultura dotta e conoscenze pratiche raggiunto da una donna sapiente e attenta al mondo degli uomini se posta nelle condizioni di studiare e comunicare. Al riguardo due secoli dopo scriverà Christine de Pizan: «se ci fosse l’usanza di mandare le bambine a scuola e di insegnare loro le scienze come si fa con i bambini, imparerebbero altrettanto bene e capirebbero le sottigliezze di tutte le arti, così come essi fanno»86. Proprio parlando delle “sottigliezze” della natura di piante, animali e pietre Ildegarda ha manife-

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F. Bertini, Trotula, il medico, in Medioevo al femminile, cit., pp. 97-119. Simonetta, La conoscenza del mondo animale, cit., pp. 113-114. 86 Christine de Pizan, La città delle dame, a cura di P. Caraffi, edizione di E.J. Richards, Milano-Trento 1997, p. 153. 85

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stato le sue capacità occupandosi anche di cibi a fini di nutrimento e di risanamento. Non risulta che le sue indicazioni abbiano ingenerato sospetti considerata anche la più volte ribadita stretta connessione fra salute del corpo e salvezza dell’anima. Sospetti e accuse di stregoneria hanno invece segnato il destino delle donne che, dopo di lei, hanno maneggiato erbe o triturato corna. Dopo Ildegarda questa specifica area di riflessione e probabilmente anche di azione da parte della nota monaca benedettina si è infatti progressivamente caratterizzata come ambito agito da possibili streghe. Eppure si trattava, anche nei secoli successivi al XIII, di un settore di medicina pratica nel quale operavano con modalità simili uomini e donne, incolti e dotti. Certamente ancora all’epoca di Ildegarda non vigeva una netta distinzione tra stregoneria e medicina e quest’ultima si identificava nelle pratiche descritte da Ildegarda. Dopo la sua epoca la medicina ufficiale sarà raffigurata emblematicamente dalla figura di Esculapio e, come appare in una miniatura del XV secolo di un’opera di Christine de Pizan87, alle donne che, sulla scia di Ildegarda, continueranno ad essere e a mostrarsi esperte nella conoscenza di erbe e nella preparazione di pozioni medicamentose non resterà altra identificazione che con la maga Circe.

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87 Christine de Pizan, Epistre d’Othea, Esculapio e Circe, inizio XV secolo, ms. fr. 848 f. 19v., Paris, Bibliothèque nationale. Per un commento di questa immagine vedere: C. Frugoni, La donna nelle immagini, la donna immaginata, in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne, Il Medioevo, a cura di C. Klapisch-Zuber, Roma-Bari 1990, pp. 424-457, in partic. p. 443.

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Cucina, donne e santità: dalla pratica alla scrittura CRISTINA MAZZONI

Parlare del digiuno prodigioso caratteristico delle mistiche cristiane non è più una novità, avendo tale pratica di vita e di scrittura ispirato negli ultimi anni fondamentali studi storici, teologici, psicoanalitici e letterari. Il percorso di privazione alimentare mette alla prova la fede ed è un indicatore di santità, oltre ad essere una tappa essenziale nell’evoluzione dell’immaginario religioso delle mistiche. In questo immaginario, “santa anoressia” e “sacro digiuno” sono tanto protesta quanto acquiescenza nei confronti dell’ideale femminile dell’occidente cristiano1. Restano però tutti da indagare i testi delle sante in cui il cibo è sensualità, conoscenza, memoria, quelli in cui cucinare e servire il cibo, nonché ingerirlo, sia letteralmente che metaforicamente (il cibo quotidiano, però, e non l’eucarestia) fanno parte integrante del cammino spirituale compiuto dalla cristiana, e in particolare dalla scrittrice santa. La donna è corpo, la donna è cibo – a cominciare dalla gravidanza e dall’allattamento – ma in quanto preparatrice attiva e consumatrice di cibo ella sa stabilirsi come soggetto: soggetto santo, soggetto parlante, soggetto autobiografico. Soggetto anche di legami, di significati e di piacere. In queste pagine si propone una visione d’insieme dell’argomento, introduttiva e necessariamente parziale. Ho sviluppato ulteriormente queste mie tesi nel libro The Women in God’s Kitchen: Cooking, Eating, and Spiritual Writing (Le donne nella cucina di Dio: Cucinare e mangiare nella scrittura spirituale), a cui rimando per un’analisi di più 1 R. Bell, La santa anoressia, trad. it. Bari 1987; C. Walker Bynum, Sacro convivio, sacro digiuno. Il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo, trad. it. Milano 1992.

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ampio respiro2. Il mio è un punto di vista diacronico ma non da storica, bensì da studiosa di letteratura mistica femminile, un punto di vista che si nutre di legami (tra un testo e l’altro, tra donne e testo, tra donne e donne), di significati (letterali e metaforici, religiosi e storici) e naturalmente di piacere (testuale, estetico, estatico) per mettere in evidenza gli elementi di una sorprendente continuità tra autrici di periodi molto diversi. Perché pur scrivendo dei momenti di unione più profonda con la divinità in contesti storici diversi, queste donne menzionano pane e verdura, uva e pesce, vino e insalata, stoccafisso e stufato, frutta, polenta e maiale, per non parlare di caffè, caramelle e cioccolata? Che rapporto c’è tra la fisicità della preparazione, distribuzione e consumo del cibo, e le vette più alte dell’unione spirituale tra donna e Dio? E in quali modi tale rapporto, al di là dello specifico contesto storico, è influenzato e determinato dal genere sessuale, dal genere letterario e dalla particolare spiritualità della scrittrice? Il legame tra il fisico e lo spirituale unisce lavoro casalingo e lavoro religioso nell’opera, per esempio, di due mistiche medievali, l’umbra Angela da Foligno (c. 1248-1309) e l’inglese Margery Kempe (c. 1373-c. 1439). Entrambe sposate con figli, Angela e Margery aspettano, per poter intraprendere pienamente il loro itinerario verso Dio, una separazione da figli e marito – ad Angela muore tutta la famiglia (una morte per cui ella aveva scandalosamente pregato Iddio), e Margery ottiene dal marito un mutuo accordo di castità. Negli scritti di Angela e Margery il cibo stabilisce un legame tra il terreno e il divino, tra corporalità e spiritualità, tra il mondano e il soprannaturale, attraverso un’unione densa di significato e piena di piacere: il cibo è il luogo in cui, per la mistica, convergono umanità e divinità, nel legame che più significa e che più fa godere. In accordo con la spiritualità della loro epoca, entrambe le mistiche si soffermano sull’eucarestia e l’astinenza, ma non vi è traccia nei loro scritti di un digiuno portato agli estremi dell’anoressia. È invece la materialità del pane quotidiano a caratterizzare il significato dei loro simboli alimentari. Per queste due mistiche, il cibo può fungere da distinzione, da differenza. Come la miscela, anche la separazione è un’attività fondamentale: in cucina si separa la carne dalle ossa, frutta e verdura da buccia e semi, così come il cibo 2

C. Mazzoni, The Women in God’s Kitchen: Cooking, Eating, and Spiritual Writing, New York 2005.

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effettua una separazione sociale. Nel Medioevo e Rinascimento (e, mutatis mutandis, tutt’oggi) le classi alte consumavano cibi più raffinati, considerati più adatti alla loro costituzione, mentre i ceti più bassi si nutrivano di cibi grossolani, pesanti, magari anche indigesti – e che prolungavano, proprio grazie a questa indigestibilità, la sensazione di sazietà a chi da mangiare ne aveva sempre troppo poco. È al processo di separazione culinaria che si riferisce lo scriba di Angela quando descrive il suo ruolo nella produzione del Memoriale: «Lei [...] cominciò a manifestarmi i suoi divini segreti; e io presi a trascriverli. In verità ci capivo pochissimo. Mi sentivo uguale a un setaccio, a un vaglio che non trattiene la farina preziosa e fine, ma solo la più grossolana»3. Lo scriba è un arnese da cucina, un setaccio, le parole di Angela sono la farina migliore, pregiata, bianca – tradizionalmente preferita dagli europei come marchio distintivo di posizione sociale e di abbondanza. Ma questa farina, e come essa le parole più importanti di Angela, passa attraverso il setaccio; è solo la farina più grossolana, inclusa la crusca, a restare, per fare il pane dei poveri e il mangime per gli animali – e il libro prodotto da Angela e dal suo scriba. L’autrice e il suo scriba confermano quest’identificazione, questo legame tra scrittura e cibo, qualche riga più avanti, con un’altra metafora: «Un’altra volta che le rileggevo le parole trascritte per confermare che fossero state riprese correttamente, lei obiettò che avevo parlato senza sugo e senza sapore; e ne era stupita»4. Se le parole sono cibo, ironicamente la scrittura è il filtro attraverso il quale le parole saporite, quelle col sugo, vanno perdute. La trasformazione dal parlato allo scritto è ciò che renderà le parole di Angela immortali proprio nel momento in cui ne distrugge sugo e sapore. Sugo e sapore ritornano più volte nel Memoriale, ma è solo un altro l’episodio a cui desidero accennare: il lavaggio dell’insalata. Mentre stavo per lavare la lattuga, una certa voce ingannatrice si immischiò dicendo: “Come puoi essere degna di lavare la lattuga?” Allora io capii che si trattava di un inganno e risposi sdegnata ma anche triste, poiché queste parole mi facevano dubitare anche delle altre co-

3

Angela da Foligno, Il libro dell’esperienza, a cura di G. Pozzi, trad. it. Milano 1997, p. 93. 4 Ibid., p. 94.

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se che avevo udito, e così risposi sdegnata e triste e dissi: Sono degna che Dio mi mandi subito all’inferno, e sono degna di raccogliere lo sterco5.

La risposta di Angela lascia senza parole il diavolo, il cui discorso era ambiguo: Angela è o non è degna di lavare l’insalata? Non è nemmeno degna di lavarla, cioè non le rimane nessuna dignità? Oppure il diavolo gioca più astutamente con l’orgoglio di lei, chiedendole se davvero non ha niente di meglio da fare che lavare l’insalata? Evocando il dualismo evangelico di Marta e Maria, la donna dedita alle faccende domestiche e quella invece seduta ad ascoltare la parola divina, il diavolo fa sì che Angela si chieda quale dei due ruoli le si confaccia di più: sono le attività quotidiane, come il lavaggio della lattuga, un’occasione di peccato (distogliendoci dalla presenza divina) oppure sono proprio queste a fornire l’occasione di dimostrare la propria forza spirituale di fronte al male? Il nome della lattuga, derivato dal latte (la bianca linfa delle varietà più selvatiche), la lega nel periodo medievale alla femminilità: soporifica, anafrodisiaca, la lattuga significa semplicità, purezza, pulizia. Lavandola, Angela moltiplica questi legami e questi significati, purifica un ingrediente gastronomicamente già puro, riafferma la propria integrità rispetto allo sporco diavolo; conferma la sua santità nell’unione con Dio, la sua semplicità di significato, la purezza del suo piacere. Angela si identifica con i cibi con i quali viene a contatto, e le pratiche alimentari diventano per lei spirituali oltre che teologiche, politiche, economiche. Lavando la lattuga, Angela trasforma il cibo in segno, la materia vegetale in materia teologica. Moglie e madre come Angela era Margery Kempe, autrice della prima autobiografia in lingua inglese. La prima volta che Margery parla di cibo è per indicare la salute prima perduta e in seguito ritrovata: la fine della depressione causata dalla nascita del primo figlio è segnata dalla sua richiesta delle chiavi della dispensa. È solo dopo aver mangiato e bevuto a sazietà che Margery «riconosce di nuovo i suoi amici e la gente di casa»6. Margery diviene poi una professioni-

5 Angela da Foligno, Il libro della Beata Angela da Foligno, a cura di L. Thier e A. Calufetti, Grottaferrata 1985, pp. 269-270, traduzione mia. 6 Margery Kempe, The Book of Margery Kempe, Harmondsworth 1985, p. 43, traduzione mia.

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sta del cibo: produzione e vendita della birra sono appannaggio delle donne nell’Inghilterra medievale, ed è solo quando il giro d’affari cresce e la professione diventa lucrativa – con l’aggiunta del luppolo, ingrediente amarognolo che funge anche da conservante – che le donne escono dal giro e gli uomini ne prendono il controllo. Ma la birreria fallisce, e così anche il mulino di cui è per qualche tempo proprietaria, e Margery si dedica a soddisfare la sete e la fame spirituali. Da legame col mondo attraverso il denaro, il bere e il mangiare divengono per Margery legame con il divino attraverso il sacrificio. Non solo quel che produce e beve, ma anche quel che Margery mangia è strettamente legato all’epoca in cui vive – un’epoca in cui severe leggi religiose determinavano la presenza o l’assenza di ingredienti problematici in cucina o a tavola. Il consumo della carne, appannaggio di chi se lo poteva permettere, era proibito durante la Quaresima, l’Avvento e, con variazioni regionali, ogni mercoledì, venerdì e sabato dell’anno. Il pesce fresco era caro e così il pesce secco – lo stoccafisso, in particolare – costituiva un elemento centrale della dieta del medioevo cristiano. Dio avverte Margery, verso l’inizio del suo cammino: «Sarai mangiata e rosicchiata dalla gente del mondo proprio come un ratto qualsiasi rosicchia lo stoccafisso»7 e più avanti Margery si offre in sacrificio: «Se è la tua volontà, Dio, vorrei per il tuo amore, e per il magnifico potere del tuo nome, essere tagliata in piccoli pezzi come carne da cucinare in pentola»8. Dio stesso conferma gli effetti salvifici di questa offerta, passando dal pesce alla carne: «vorresti essere tagliata in piccoli pezzi come carne da cucinare in pentola per amor di loro, così che, attraverso la tua morte, io li salverò tutti dalla dannazione, se voglio»9. La pentola diventa il luogo di un’unione trasformativa: da soggetto di esperienze religiose in oggetto di sacrificio, da oggetto d’amore in soggetto amoroso tramite il sacrificio di sé. Ritorna infatti l’immagine dello stoccafisso come convergenza di cibo, amore e religione: «Figlia, sei obbediente alla mia volontà, e mi rimani attaccata come la pelle dello stoccafisso si attacca alla mano di chi lo prepara per bollirlo»10. La pelle appiccicosa dello

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Ibid., p. 51. Ibid., p. 181. 9 Ibid., p. 251. 10 Ibid., p. 127. 8

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stoccafisso ricorda che la fame spirituale può motivare le azioni umane con la stessa forza con cui la fame fisica spinge a mettere il cibo in bocca, e che quando si prepara da mangiare per gli altri si dà loro parte di se stessi. È infatti anche a tavola che Dio vuole che Margery lo ricordi come amante: «tienimi sempre in mente quanto puoi, e non dimenticarmi durante i pasti, ma pensa che io risiedo sempre nel tuo cuore»11. Il legame tra fame spirituale e bisogno fisico continuerà ad essere rappresentato dopo il periodo medievale attraverso immagini alimentari, legate sia alla personalità della scrittrice che alla situazione storica e religiosa nella quale ella scrive. Il cibo fornisce sì delle metafore tratte da un mondo squisitamente femminile, ma attraverso questo linguaggio culinario varie scrittrici sante codificano, oltre al significato spirituale della loro esperienza, delle strategie narrative e teologiche liberatorie: ciò che può apparire un limite linguistico – il vocabolario della cucina come espressione di un ruolo domestico, circoscritto e tradizionale – diventa invece un modo di eludere le limitazioni della scrittura, e in particolare la scrittura teologica, al femminile. Nel periodo della Controriforma, di particolare interesse sono le metafore culinarie utilizzate da Teresa d’Avila (1515-1582) per evocare i legami, i significati, i piaceri del rapporto con il divino. Le pentole sono care a Teresa come lo erano a Margery, ma non è per il sacrificio che la carmelitana spagnola le utilizza. Per descrivere gli impetuosi movimenti dell’anima amorosa verso Dio, Teresa ci fa immaginare nella sua autobiografia una pentola che trabocca: chi ama Dio deve conservare il proprio amore dentro di sé, «e non essere come una pentola che per il troppo bollire, fa traboccare il contenuto, perché è stata messa troppa legna al fuoco»12. Nel suo capolavoro spirituale Il castello interiore, Dio è un frutto da gustare golosamente: mentre descrive quell’edificio che è la nostra anima, Teresa ricorda a chi legge che queste sale «non dovete immaginarle una dietro l’altra, come in fila, ma rivolgete lo sguardo al centro, che è la stanza o il palazzo dove risiede il Re. Fingete che sia un cuore di palma in cui la parte commestibile e più saporita è circonda-

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Ibid., p. 224. S. Teresa d’Avila, Il libro della sua vita (Autobiografia), a cura di F. Rossini, trad. it. Torino 1954, p. 280. 12

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ta da una fitta copertura»13. Per quanto mangiare Dio sia al cuore del sacrificio eucaristico, la rappresentazione di Dio come cuore di palma, e non come pane o vino, è un’immagine di piacere nel mangiare e non solo di nutrimento, e riconduce la teologia al linguaggio femminile che Teresa adopera esplicitamente. Donna, Teresa scrive alle sue sorelle nel Carmelo, «siccome le donne intendono meglio il linguaggio delle altre donne»14. Ma Teresa attrae ripetutamente nella sua movimentata vita le indesiderabili attenzioni dell’Inquisizione, e il suo uso di metafore alimentari, basse e almeno in apparenza innocue, non è casuale: la retorica teresiana, infarcita di immagini culinarie (derivate cioè da un campo tradizionalmente femminile), cerca cautamente di tenersi alla larga dal tradizionale linguaggio teologico – su cui ella, in quanto donna, non può accampare diritti. Le sue ripetute proteste di inferiorità femminile, fondate sulle proprie presunte incapacità o limitazioni linguistiche, rientrano in una strategia letteraria che permette a Teresa (oggi Dottore della Chiesa) di scrivere come se si limitasse invece a parlare, e di parlare autorevolmente di teologia al suo pubblico come se stesse più umilmente fornendo istruzioni culinarie alle sue consorelle. Anche la religiosa messicana Sor Juana Inés de la Cruz (1648/1651-1695), nota per il suo lavoro letterario e intellettuale più che per la sua spiritualità, depreca attraverso una retorica dichiaratamente femminile e culinaria la propria pochezza di donna, e utilizza immagini culinarie nei suoi scritti autobiografici al fine di rivestire di femminilità, e quindi di rispettabilità, le sue ambizioni filosofiche e letterarie – che si estendevano ben al di là dei limiti entro i quali doveva essere ristretta l’attività di una donna, e in particolare di una religiosa, del Nuovo Mondo secentesco. Tra le più ardite antesignane del femminismo, Sor Juana è una delle prime a difendere i diritti delle donne in America Latina. Non diversamente da Teresa d’Avila, Sor Juana trae dal mondo di pentole e fornelli immagini volutamente umili («Entre los pucheros anda el Señor», aveva scritto la carmelitana spagnola nel suo Libro delle fondazioni, cioè «Tra le pentole cammina il Signore»15). A differenza di Teresa, però, non è Dio l’entità spi13

Teresa d’Avila, Il castello interiore, trad. it. Palermo 1999, p. 64. Ibid., p. 52. 15 Teresa d’Avila, Libro de las fundaciones, in Obras completas, a cura di L. Santullano, Madrid 1957, p. 562. 14

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rituale che si aggira nella cucina di questa suora, ma piuttosto la conoscenza stessa, una fame e una sete di sapere non meno forte, secondo l’autrice, nelle donne che negli uomini. Sor Juana utilizza esempi culinari in cui i legami intellettuali e il piacere della conoscenza si basano sulla pienezza di significato insita nel mondo e palpabile in cucina: E che cosa non potrei raccontarvi, Signora, dei segreti naturali che ho scoperto mentre cucinavo? Vedo che un uovo si rapprende e frigge nel burro o nell’olio e, al contrario, si spezza nello sciroppo; vedo che, affinché lo zucchero si conservi fluido, basta aggiungervi una piccolissima parte d’acqua in cui sia stata messa una cotogna o un altro frutto aspro; vedo che il tuorlo e l’albume di uno stesso uovo sono così contrari, che per lo zucchero possono venire usati separatamente ma mai insieme. [...] Signora, che cosa possiamo mai sapere noi donne se non filosofie da cucina? Aveva ragione Lupercio Leonardo, secondo cui si può benissimo filosofare a preparar la cena. E io dico spesso pensando a tali bagatelle: se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più. E proseguendo in queste mie riflessioni, dirò che la cosa è continua in me, sì da non aver bisogno di libri16.

Gioca col cibo, questa suora filosofa e poetessa, ma giocando col cibo, e con la cucina come luogo di apprendimento, come posto ideale di conoscenza e di scienza, gioca col fuoco. Non le basterà definirsi incapace, in quanto donna, di ciò che eccede per importanza intellettuale e spirituale le sue “filosofie da cucina” per sfuggire alle critiche del vescovo di Puebla, a cui scrive la lettera da cui ho citato. Sor Juana difende con ardore il diritto delle donne di imparare e insegnare. Da bambina questo diritto, e questo dovere, implicava il rifiuto del cibo, o almeno di un certo cibo particolarmente desiderabile: «Rammento che in quei tempi, essendo golosa com’è naturale a quell’età, mi astenevo dal mangiar formaggio, perché avevo udito dire che rendeva tarda la mente, e in me era più forte il desiderio di sapere che quello di mangiare, pur essendo quest’ultimo tanto marcato nei bambini»17. La fame di conoscenza era più intensa del desiderio della gola, il legame con il sapere più potente di quello col piacere. Assimila-

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S. Juana Inés de la Cruz, Risposta a Suor Filotea, a cura di A. Morino, trad. it. Torino 1980, p. 27. 17 Ibid., p. 10.

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to fin dall’infanzia al cibo, il bisogno di imparare è per Sor Juana inarrestabile quanto la necessità di mangiare. È questo che ripete nella lettera al vescovo: anche senza libri non può smettere di imparare. Nell’osservare ciò che la circonda – in modo particolare in cucina – Sor Juana accresce la sua conoscenza del mondo e di Dio. Ma la sua storia non ha un lieto fine; le metafore culinarie non la salvarono. Tra il 1693 e il 1694 Sor Juana fu costretta al silenzio: diede via la sua enorme biblioteca, tra le maggiori d’America, e rinunciò ufficialmente al lavoro intellettuale e letterario. Un anno dopo morì in un’epidemia. Come Sor Juana, Elizabeth Ann Seton (1774-1821) – la prima statunitense canonizzata dalla chiesa cattolica – non viene annoverata tra le mistiche tradizionali, ma il suo viaggio spirituale ha certamente del mistico. Non c’è da sorprendersi se negli scritti di una madre di cinque figli si trovano, come negli scritti di Margery Kempe ed Angela da Foligno, numerosi riferimenti alla preparazione e alla distribuzione del cibo. Elizabeth Seton parla di polenta e grasso di maiale, di abbondanti colazioni a base di caffè e frittelle di grano saraceno, di una squisita cena per i suoi cari a base di uvette e riso bolliti nel latte, delle mandorle e dell’uva passa che hanno nutrito e divertito i bambini nel viaggio in nave verso Baltimora, delle caramelle contro la tosse confezionate da lei stessa, e così via. Cibi americani che Elizabeth paragonerà ai piatti toscani che incontrerà a Livorno e Pisa. Durante la traversata oceanica verso l’Italia, dove il marito sperava di guarire dalla tubercolosi (e da dove invece egli non tornerà più), possiamo intravedere il carattere di questa donna eccezionale proprio grazie al rapporto col cibo. Mentre marito e figlia alternano periodi di appetito e di nausea, Elizabeth dice di sé: «Io sono come al solito sobria e calma, ho fatto colazione di gran gusto e la digerisco con facilità»18. Arrivata in Italia, ricorda nel suo diario come da ragazza si fosse consolata del disamore del padre grazie alla paternità di Dio, nel corso di un’esperienza che in sole due ore la fece «crescere di dieci anni nella [sua] vita spirituale». E dopo «un’altra calorosa preghiera», ricorda la santa, «cantai fino ad arrivare a casa, con un buon appetito per la polenta col grasso di maiale»19. Il ricordo termina con l’evocazione del-

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Elizabeth Seton, Elizabeth Seton: Selected Writings, ed. by E. Kelly and A. Melville, Mahwah 1987, p. 97, traduzione mia. 19 Ibid., p. 115.

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la polenta (samp, un tipo di polenta di mais macinato grosso) e del grasso di maiale con cui veniva abitualmente servita nell’America di quel tempo, e del sano appetito di Elizabeth per questo piatto contadino e sicuramente un po’ pesante. Non trova nessuna contraddizione, l’autrice, tra un’esperienza spirituale così elevata da concentrare dieci anni di crescita dell’anima in due sole ore, e il desiderio corporale di mangiare. Ci si deve anche chiedere, però, quale fosse il rapporto tra questa meditazione in cui il cibo, un cibo contadino e pesante, fa da protagonista e da lieto fine, e la situazione di Elizabeth quando scrive nel suo diario questo ricordo. Si trova infatti nel freddo e umido lazzaretto di Livorno, col marito morente e una figlia piccola, rinchiusi in quarantena a causa dell’epidemia di febbre gialla a New York; nulla possono i preparati medicinali confezionati da Elizabeth per alleviare le sofferenze del marito: «Non ho sciroppo né niente per eliminare la tosse – corteccia e latte, tè amaro e pastiglie di oppio, che egli prende silenziosamente come un dovere... è tutto ciò che posso offrirgli, giorno dopo giorno»20. Il cibo qui non è più piacere ma, in quanto necessità e medicina, e perfino strumento di salvezza spirituale, è un elemento connettivo carico di significati. I cibi semplici preparati da Elizabeth – pane, latte, vino, minestra – non differiscono molto dai preparati medicinali: William li consuma ed Elizabeth li prepara. E a chi legge fanno pensare al ruolo delle scelte alimentari nell’umano sentiero esistenziale e spirituale, al legame tra cibo e salute, tra cibo e salvezza, e al ruolo della memoria nel dare significato tanto al dolore quanto al piacere. Se il cibo come veicolo di salute e di pratica casalinga caratterizza gli scritti spirituali di autrici sposate e con figli, il cibo come dolcezza ricorre con particolare frequenza e importanza nell’opera delle donne rimaste vergini per amor di Dio. Nell’epoca medievale, l’esempio forse più eclatante è quello della benedettina Elisabeth di Schönau (1129-1165), che in una visione descrive come l’incontro con Dio abbia per le sue spose il sapore di cannella21. Dio è come la cannella perché è dolce e piccante, dice Elisabeth, e perché quando lo

20

Ibid., p. 110. Die Visionen der hl. Elisabeth und die Schriften der Aebte Ekbert und Emecho von Schönau, hrsg. von W. Roth, Brünn 1884, pp. 146-148. 21

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mastichiamo il suo divino sapore, invece di scemare, diventa sempre più intenso; Dio è come la cannella, continua la monaca, perché è più dolce di qualsiasi altra cosa che ci è dato gustare. Ma non a caso questa religiosa tedesca, scrivendo in un’epoca in cui le spezie erano ingrediente ricercato ed essenziale alla cucina dei nobili, utilizza una delle spezie più amate e più costose per rappresentare l’amore del suo Dio. La scelta alimentare della visionaria benedettina è strettamente legata ai significati culturali, e non solo alle qualità gustative, del cibo prescelto – la cannella. Le scelte alimentari di Thérèse Martin (1873-1897), meglio conosciuta come Santa Thérèse di Lisieux, sono analogamente determinate dall’epoca in cui scrive e dalle preferenze alimentari della classe sociale alla quale appartiene, la piccola borghesia provinciale francese. Nella Francia del tardo Ottocento, lo zucchero era un chiaro segno d’identità borghese22. Thérèse di Lisieux parla e riparla di dolci e dolciumi, legati alla cultura borghese e, all’interno di essa, a femminilità e infanzia. Thérèse ne parla per ricordare il passato e per interpretare il presente, ne parla per stabilire la sua caratteristica infanzia, la sua decisione di rimanere bambina per Dio, ne parla per iscriverli nella sua teologia della piccolezza. Ne parla, la piccola Thérèse, per descrivere il suo desiderio, per capire la dolcezza di Cristo e per carpirne il piacere. Nella prima parte della sua autobiografia, Storia di un’anima, abbondano i riferimenti ai dolci del ricordo, della memoria: la cioccolata regalatale dalla seconda mamma Pauline, che l’aveva tenuta per sé per tre mesi, diventa per Thérèse una “reliquia”, la cui dolcezza zuccherina è raddoppiata dalla dolcezza emotiva e la sacra corporeità che comunica alla nuova proprietaria; le caramelle di zucchero donatele dalla zia suora e tragicamente perse per strada, come Pollicino, dice Thérèse, le confermano il carattere fiabesco della propria esistenza; i giochi con cibi veri e inventati le permettono una liturgia in cui Thérèse può vivere quella vocazione sacerdotale di cui parlerà solo verso la fine della sua vita; ciliege, pesche e albicocche addolciscono la malattia della madre, la lontananza dell’amata sorella Céline, l’amara consapevolezza della fugacità della vita terrena. È nel prendere 22 M. Bruegel, A Bourgeois Good? Sugar, Norms of Consumption and the Laboring Classes in Nineteenth-Century France, in Food, Drink and Identity: Cooking, Eating and Drinking in Europe since the Middle Ages, ed. by P. Scholliers, Oxford 2001, pp. 99-118.

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la merenda preparatale da Pauline, un «bel crostino di marmellata», che per Thérèse viene confermata tale fugacità: «invece del suo colore vivo non vedevo più che una leggera tinta rosa, tutta scialba e svanita… Allora la terra mi pareva ancora più triste, e capivo che soltanto in Cielo la gioia sarebbe stata senza nuvole»23. È proprio l’amarezza che, accompagnata dall’acidità, darà sapore alla vita carmelitana di Thérèse. Una volta entrata nel Carmelo ella dovrà riconoscere, abbandonando i vari tipi di dolcezza della sua infanzia (frutta, cioccolato, marmellata, pasticceria), «che un po’ d’amarezza è preferibile allo zucchero»24. Non è un passaggio facile, per lei, quello dal dolce all’amaro, ma nella sua scrittura autobiografica la transizione da un gusto all’altro è effettuata nella sua interezza – come scrive alla superiora: «Lei sa, Madre diletta, che preferisco l’aceto allo zucchero; anche l’anima mia si stanca d’un nutrimento troppo zuccherato, e Gesù permette allora che le venga servita un’insalatina ben agra, ben piccante, non ci manca nulla tranne l’olio e ciò le dà un sapore di più… Quest’ottima insalatina mi viene servita dalle novizie quando meno me l’aspetto»25. Le novizie criticano la loro giovane maestra, e Thérèse reagisce come ci si potrebbe aspettare da lei: si sforza di riconoscere il bene nel male, e la propria santità nell’accettazione del rifiuto; ribattezza la critica come insalata, nutrimento dal sapore definito da lei stessa – poco credibilmente, a dire il vero – come preferibile allo zucchero. Thérèse non è più bambina, come nella prima parte del manoscritto della sua vita, e si considera pronta per alimenti e gusti adulti. E così, quando una novizia l’aggredisce con particolare forza, Thérèse invece di lamentarsi trasforma il potenziale veleno dell’umiliazione nel più delizioso dei cibi, nella prova, infatti, della sua crescita fisica e spirituale: «l’anima mia assaporava squisitamente il cibo amaro che le veniva servito con tanta abbondanza»26. Quando si avvicina alla fine, però, Thérèse – che aveva scelto di chiamarsi, all’ingresso al Carmelo, Thérèse “del Bambino Gesù e del Santo Volto”, di rappresentarsi, cioè, in relazione a Cristo nascente e

23 Teresa di Lisieux, Storia di un’anima, a cura di A. Morino, trad. it. Palermo 1996, p. 63. 24 Ibid., p. 265. 25 Ibid., p. 270. 26 Ibidem.

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morente (la devozione al Santo Volto essendo strettamente legata alla passione di Cristo) – ritorna ai gusti e alle scelte alimentari dell’infanzia. Ripetutamente nell’agiografia di Thérèse si parla della sua dolcezza, a volte anche in toni aspramente critici: troppo zuccherina è questa santa, troppa saccarina si trova nelle sue parole, c’è troppo miele ad attaccare tra di esse le sue scelte teologiche. La dolcezza sicuramente pervade il racconto autobiografico dell’infanzia di Thérèse, condito con dolcetti e caramelle, cioccolata e frutta matura, marmellata e pastarelle. Ma fa quasi male vedere Thérèse abbandonare il suo gustoso passato con l’ingresso al Carmelo, dove convince se stessa, se non chi la legge, di preferire l’aceto allo zucchero, l’aspro e l’amaro al dolce. Con l’appressarsi della morte, tuttavia, la santa ridiventa bambina: a causa della malattia, vive di latte (lolo, lo chiama, con il francese dei bambini), che digerisce male, e desidera altro. Tra le sue ultime richieste ce n’è una fatta a sua sorella Céline, ora suor Geneviève, che la racconta alla zia Guérin in una lettera: Thérèse chiede, se non costa troppo, un éclair ripieno di cioccolata – solo uno27. Ben diverso è il ruolo del cibo nella vita di Gemma Galgani (18781903), contemporanea di Thérèse e spesso a lei paragonata: entrambe orfane di madre, morte venticinquenni di tisi, note per la loro bellezza e santità fuori del comune. Ma se Thérèse è Teresina, una piccola santa borghese, la santa della “Piccola Via”, Gemma è una santa quasi medievale, una santa di estasi e stimmate, una santa anche di inedia: le definizioni della “santa anoressia” le calzano a pennello. Per Gemma mangiare è dolore, disgusto, sofferenza, gli unici cibi a farle gola sono mentine, cioccolata, e il misterioso liquido bianco – oltre al meno misterioso caffè – offertole dal suo angelo custode28. Se i dolci infantilizzano Thérèse, facendone un po’ una bambina golosa (e di questo farsi bambina è lei stessa l’artefice), i dolci fanno invece di Gemma una sposa sensuale, una donna che ama – forse perché le ricordano quella dolcezza divina che le è sempre sulle labbra. Se di questo cioccolato, di queste mentine, di questo vino e di questo caffè sappiamo poco, troppo poco per interpretarli individualmente, nel loro in-

o 27 Therese of Lisieux, Her Last Conversations, trad. ing. J. Clarke, Washington 1977, p. 291. 28 Gemma Galgani, Estasi – Diario – Autobiografia – Scritti vari, Roma 1958; Ead., Lettere varie, Roma 1941.

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sieme tuttavia questi cibi producono domande, se non risposte: Gemma spera di recuperare la sua lacerata dignità di orfana senza casa, attraverso questi cibi di lusso – tra i pochi cibi ad essere associati al desiderio piuttosto che al disgusto e al vomito? Vuole forse recuperare i dolci di un’infanzia che non ha mai avuto? Cosa ci comunica con queste scelte, come la aiutano a stabilire la sua identità, a riavere il suo benessere, ad esprimere i suoi desideri? Rinuncia forse al cibo e sceglie i dolci allo stesso modo in cui rinuncia al matrimonio e abbraccia l’estasi divina? I riferimenti di Gemma a specialità quali il cioccolato e il caffè, il vino e le mentine, nel suo paesaggio alimentare altrimenti nudo, sottolineano l’immagine sofferente della sua scelta dell’inedia, e allo stesso tempo ci mostrano una giovane donna affamata della dolcezza che solo il contatto divino era in grado di darle. «Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei», scrisse nel secolo scorso il noto gastronomo francese Jean Anthelme Brillat-Savarin. Cosa ci dice sull’identità letteraria e spirituale delle donne sante il racconto delle loro pratiche alimentari – del cibo che mangiano o che rifiutano, ma anche del cibo che immaginano, preparano, distribuiscono e con il quale si identificano? Il pane eucaristico permette loro di partecipare al corpo mistico di Cristo. Ugualmente partecipatorio, sebbene meno ecclesiastico, è il movimento culinario che unisce Margery Kempe, attraverso la preparazione dello stoccafisso e dello spezzatino, alle pratiche alimentari dei suoi contemporanei, ai compagni di viaggio che la sostengono fisicamente e al suo Dio che le offre sostegno spirituale. Un’altra partecipazione è quella del quotidiano al divino, del naturale al soprannaturale: il lavaggio della lattuga funge per Angela da Foligno da scudo, se non addirittura da arma, nella lotta contro il male. La scelta dello stoccafisso è dettata dalle regole quaresimali mentre quella della lattuga, più simbolicamente, richiama la purezza. Mogli e madri, Angela e Margery iscrivono la loro ricerca spirituale all’interno della domesticità che caratterizzava, e che aveva caratterizzato, la loro vita. Non dissimili, mutatis mutandis, sono le pratiche alimentari destinate a nutrire e a risanare, per Elizabeth Ann Seton, corpo e anima, costituendo un ponte tra America e Italia e, soprattutto, tra il passato e il presente: il cibo nel loro racconto e nella loro scrittura opera una mediazione sia al livello di memoria personale che di storia collettiva. Teresa d’Avila, sebbene monaca di un certo rango, non disdegna i lavori di cucina, ma le sue scelte metaforiche alimentari e culinarie appaiono dettate più direttamente dal bisogno di pro-

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teggere il suo diritto alla speculazione teologica. Aderiscono altresì a questo movimento difensivo le ricerche intellettuali praticate in cucina da Sor Juana – possibile autrice, tra l’altro, di un libro di cucina in cui i piatti dolci superano di gran lunga quelli salati29. Nella partecipazione mistica al senso del gusto, il dolce maschera l’amaro della tubercolosi di Thérèse di Lisieux e il vuoto della fame di Gemma Galgani. In tutti questi casi, la scrittura di una vita più o meno ascetica (la nuda cella della piccola Thérèse è ben diversa dal lussuoso appartamento di Sor Juana, così come la vita di madre di cinque figli di Elizabeth Seton non è facilmente paragonabile alla solitaria e verginale giovinezza di Gemma Galgani), la scrittura di una vita fondata in ogni modo su legami ultraterreni o intellettuali, si rivolge a tratti, e non senza piacere, al mondo dei bisogni e dei desideri corporali, e in particolare alimentari. In questo universo di scrittura si prepara da mangiare e si cucina, si nutre e ci si nutre, si diventa anche cibo – e non sempre e non solo per disciplinarsi, mortificarsi e, infine, per morire al mondo. Si cucina e si mangia per legarsi all’Altro e alla materialità del proprio testo, si cucina e si mangia per comprendere il significato fisico, spirituale, intellettuale del proprio percorso e dell’incontro con l’Altro, si cucina e si mangia per gustare, conoscere, trasformare in testo il piacere dell’Altro.

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S. Juana Inés de la Cruz, Il libro di cucina di Juana Inés de la Cruz, trad. it. Palermo 1999.

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Donne e cibo: qualche spunto per una lettura iconografica dal Medioevo al ’700 ELISABETTA SAMBO

La partecipazione femminile al banchetto L’accostamento figura femminile e cibo non è insolito in pittura, bensì si incontra fin dalle origini della tradizione figurativa dell’occidente medievale. La sua rappresentazione contempla le combinazioni e le situazioni più svariate; fra i primi e più frequenti ad apparire, è il momento del consumo delle vivande, nella forma codificata del banchetto, a cui seguono la preparazione, la vendita o l’acquisto dei cibi. Episodi con banchetti in cui è centrale la partecipazione della donna sono presenti sia nella letteratura profana che nelle sacre scritture. Soprattutto le Nozze di Cana e il Banchetto di Erode, ma talvolta anche episodi più desueti legati alla vita dei santi, come le Nozze dei santi Cecilia e Valeriano, sono le situazioni che vedono protagonista anche la figura femminile, la cui descrizione risulta conforme a un cerimoniale regolato da precise norme sociali. L’iconografia di queste scene si attiene tanto rigorosamente alle abitudini conviviali dell’epoca, da costituire per lo storico una documentazione assai importante, tale da integrare le notizie derivate dalle fonti scritte. Nella descrizione del Banchetto di Erode Erodiade siede alla sinistra del marito, spesso senza la presenza di altri commensali. Tuttavia esiste una variante di questa scena senza Erodiade e in cui Erode sta fra personaggi maschili, come se la presenza della regina implicasse una promiscuità non sempre accetta. Tale soluzione è stata adottata, ad esempio, da Giusto de’ Menabuoi in una delle tavolette che compongono il polittico del Battistero di Padova, risalente alla seconda metà del Trecento, o ancora da Giovanni del Biondo in uno scompar-

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to della predella del trittico con la Presentazione al Tempio, datato 1364 (Firenze, Galleria dell’Accademia). Nella raffigurazione delle nozze le donne siedono fra loro, non condividendo la tavola degli uomini. Questa disposizione a tavoli separati non implica però, nelle numerose rappresentazioni, una loro collocazione appartata quale segno di subordinazione. Talvolta è la scelta operata dal pittore nell’inquadrare la scena a stabilire invece un ben preciso ordine di importanza fra i convitati, tale da suggerire un particolare riguardo nei confronti della sposa e un rispetto di convenienze sociali più forte addirittura delle gerarchie religiose. Giotto, nel riquadro con le Nozze di Cana affrescato fra il 1303-1305 sulle pareti della cappella degli Scrovegni a Padova, enfatizza infatti la figura della sposa, elegantemente vestita e isolata in una sorta di iconica frontalità in mezzo alla scena. La descrive seduta a un tavolo a ‘elle’, al centro del braccio posto proprio di fronte allo spettatore, la Madonna al suo fianco e i convitati maschili, fra cui lo sposo e Cristo, accomodati al braccio perpendicolare. Un particolare interesse per l’icasticità e la vivacità della narrazione riveste il banchetto nuziale di santa Cecilia dipinto in una delle scene laterali del celebre dossale con Santa Cecilia in trono e otto storie della sua vita (Firenze, Galleria degli Uffizi), riferito a un anonimo pittore fiorentino attivo all’inizio del Trecento, che deriva proprio da quest’opera la denominazione di Maestro della Santa Cecilia. Per l’esiguità dello spazio a disposizione, l’artista rappresenta solo il tavolo a cui siede la santa assieme ad altri tre personaggi femminili, ma non rinuncia a descrivere, con un realismo squisitamente gotico, l’arredo della stanza delimitata da tendaggi, l’apparecchiatura del desco, il corteo dei domestici che servono i cibi sui taglieri, la lieta e conversevole mondanità del banchetto espressa attraverso la gestualità delle convitate. Singolare per una soluzione iconografica sui generis appare invece un dipinto di un artista pistoiese anonimo, anch’esso operoso nei primi decenni del Trecento, che raffigura su due registri sovrapposti il banchetto di sant’Irene ed episodi del suo martirio (New York, collezione privata)1. Pur presentandosi apparentemente come un realistico

1 È riprodotta da B. Cassidy, a cui spetta anche l’interpretazione della scena, A Bizantine Saint in Tuscany: a Proposal for the Solution of a Trecento Enigma, in “Arte Cristiana”, 769 (1995), LXXXIII, pp. 243-256, figg. 1-4.

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Maestro della Santa Cecilia, Santa Cecilia in trono e otto storie della sua vita, particolare col Banchetto nuziale di santa Cecilia, Firenze, Galleria dell’Accademia.

banchetto con sole fanciulle, tranne che per l’ospite maschile all’estrema destra, forse il padre di Irene da lei convertito, in realtà questa scena è fortemente connotata in senso simbolico. L’impostazione gerarchica dell’immagine, basata sulla frontalità accentuata e sulle misure maggiori della santa, accanto alla quale si dispongono in maniera simmetrica sei figure per lato, evoca, anche nel numero dei personaggi, l’iconografia dell’Ultima cena, un rimando immediato che accresce le finalità sacrali di questa tavola. Col XV secolo fa la sua comparsa il tema conviviale legato alla mitologia, che migliore fortuna avrà, nella pittura da cavalletto e nell’affresco, a partire dal secolo seguente. Viceversa la scena del convivio derivata dalla letteratura profana è trattata più raramente. Fra le fonti letterarie più frequentate è il Decamerone, nella trama delle cui novelle compaiono anche situazioni conviviali oggetto di rappresentazione da parte degli artisti. La novella di Nastagio degli Onesti (V, 8) ha ispirato il Banchetto in pineta (terzo episodio, Madrid, Museo del Prado) e il Banchetto nuziale (quarto episodio, già Firenze, collezione Pucci), due tavole di una serie di quattro dipinte da Sandro Botti-

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celli e Bartolomeo di Giovanni in occasione delle nozze di Giannozzo Pucci e Lucrezia di Piero di Giovanni Bini, avvenute attorno al 1483. In un’ambientazione all’aperto, attorno alle tavole coperte da bianche tovaglie e imbandite con lussuose suppellettili colme di frutta e dolciumi, le dame sono sedute separate dagli uomini, in una tavola di fianco, nel terzo episodio, o di fronte, nel quarto, secondo un’usanza conviviale riscontrata anche nel secolo precedente. Anche in questo caso si possono però citare frequenti eccezioni che evidentemente rimandano a regole non univoche dello stare a tavola. Sulla fronte di un cassone fiorentino attribuito ad Apollonio di Giovanni e databile entro la metà del XV secolo (Venezia, Museo Correr), compare un altro episodio desunto dal Decamerone con il convito nuziale fra Alatiel e il re di Garbo (II, 7), una fastosa scena cortese con i commensali, uomini e donne vestiti all’ultima moda, che si dispongono intercalandosi dietro tre tavoli a ferro di cavallo, il tavolo centrale rialzato. Una simile disposizione dei convitati è testimoniata da un altro cassone di Apollonio di Giovanni, ispirato all’Eneide, con il Banchetto di Enea e Didone (Hannover, Niedersachisches Landesmuseum). Anche qui le dame e i cavalieri siedono affiancati le une agli altri dietro tre tavole disposte di fronte allo spettatore, con quella centrale arretrata e rialzata rispetto alle laterali. Nel mondo cavalleresco e cortese ricreato dagli artefici fiorentini di cassoni e forzieri, fra i quali un artista di spicco è rappresentato appunto da Apollonio di Giovanni, la donna, nell’occasione ufficiale e ritualizzata del banchetto aristocratico, occupa un posto pari a quello maschile. Attraverso questi esempi sembra di cogliere differenze comportamentali sostanziali fra una società ancora legata a ideali di vita cortese, espressi dalla cultura elegante e mondana di Apollonio, e la Firenze laurenziana, nella quale dovevano essere in voga mode e regole sociali diverse. Nel passaggio fra XV e XVI secolo prevale, fino a divenire la norma, la partecipazione paritetica al banchetto. Questa è la scelta operata, ormai allo scadere del Quattrocento, dal Maestro di Griselda, un anonimo pittore attivo in Toscana che prende il nome dal suo capolavoro, una serie di spalliere dedicate all’ultima novella della decima giornata del Decamerone (Londra, National Gallery). Nel terzo pannello, dove è narrato il festeggiamento per il supposto secondo matrimonio del marchese di Saluzzo, una loggia di ampio respiro prospettico accoglie le tavole imbandite alle quali siedono in modo promi-

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Maestro di Griselda, Storie di Griselda, particolare, Londra, National Gallery.

scuo dame e cavalieri. Al capo sinistro un giovane abbraccia con effusione la sua compagna: qui l’occasione festosa del banchetto induce ad infrangere ogni comportamento improntato alla discrezione e alla cortese deferenza, implicito nelle scene fino ad ora citate, ma raccomandato anche nei trattati sulle buone maniere. Soluzioni simili, dove alla donna è riservato piuttosto un posto di riguardo, sono ben rappresentate anche in area veneta, come testimonia, fra le tante, una scena di banchetto attribuita al veneziano Francesco di Girolamo da Santacroce (in deposito al Bonnefantenmuseum di Maastricht)2. Al di là dei rimandi simbolici al desiderio amoroso, 2

L. de Jong-Janssen, in Italian Paintings from the Sixteenth Century in Dutch Public Collections, ed. by A.W.A. Boschloo and G.J.J. van der Sman, Firenze 1993, p. 76.

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Francesco di Girolamo da Santacroce (attribuito), Banchetto, L’Aja, Rijksdienst Beeldende Kunst (in deposito al Bonnefantenmuseum di Maastricht).

esplicitati dal concerto di fauni e dalla mela in primo piano, attributo di Venere, è ben dettagliata, e del tutto verosimile, la descrizione del convito, dalle modalità dell’apparecchiatura e del servizio di tavola, alla disposizione dei personaggi, con le donne e gli uomini seduti l’una di fianco all’altro attorno a una dama elegantemente abbigliata che assolve a una funzione protagonistica, come fosse l’oggetto del desiderio. In questa scena, in cui è evidente e immediata la sollecitazione dei sensi, la promiscuità conviviale diventa approccio amoroso. La donna e il cibo nella scena di genere A partire dalla metà del XVI secolo, con l’evoluzione dei generi pittorici e con l’apparizione della scena di genere e della natura morta, nate in risposta a nuove richieste da parte della committenza, il rapporto fra la donna e il cibo, pur nella molteplicità delle nuove solu-

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zioni figurative, si fa più stringente e diretto. Mentre permane la necessità di rappresentare le scene di banchetto descritte nella letteratura (al punto che nel Cinquecento manierista e nel Seicento barocco queste scene raggiungeranno spesso una fastosità ed una ricchezza di raffigurazione inusitate), la scena di genere e la natura morta con figure per la loro stessa tipologia si focalizzano su una raffigurazione che rinuncia ai soggetti sacri o letterari di ampio respiro narrativo per contenuti di prosaica ed episodica narratività, e privilegiano piuttosto una grande varietà di allusioni simboliche. Le figure fortemente tipizzate acquisiscono infatti in relazione al contesto, in cui l’adesione alla realtà funziona come pretesto esteriore, una ricchezza di significati che risponde alle aspettative intellettuali di una committenza colta. Numerose furono le varianti sperimentate all’interno di una produzione particolarmente vasta e differenziata. È ben noto agli studi storico-artistici come queste nuove categorie pittoriche si definiscano nel corso del XVI secolo dapprima in area neerlandese e fiamminga. La loro prima apparizione è ancora vincolata a presupposti narrativi, relegati però nello sfondo della composizione, mentre la varietà dei generi alimentari è disposta sul primo piano, una tipologia che va sotto il nome di “scena inversa” per questo ribaltamento gerarchico della raffigurazione. Si tratta per lo più di scene con Cristo in casa di Marta e Maria, dove il rapporto fra la donna e il cibo non è immediato per la presenza in secondo piano delle due sorelle e dove al cibo, a cui è attribuito un significato sacrale che ne riscatta la fisica concretezza, è riservato un ruolo prioritario. Fra le più antiche rappresentazioni di questo tipo si incontra la tela con Cristo in casa di Marta e Maria dipinta nel 1552 da Pieter Aertsen (Vienna, Kunsthistorisches Museum), dove al centro della composizione campeggiano un pezzo d’agnello e il lievito, un riferimento alla transustanziazione3. Nel corso del Cinquecento e del Seicento la raffigurazione di questo tema sacro annovera alcune varianti significative, consistenti in un arricchimento della scena tramite l’introduzione di figure, in particolare quella della cuoca, ma anche in una sua estrema semplificazione che corrisponde a ideali di evangelica semplicità o di cristiana accettazione. Questo è il caso di Velázquez, le cui cucine disadorne e po-

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V.I. Stoichita, L’invenzione del quadro, trad. it. Milano 1998.

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vere sono state poste in relazione alle parole di santa Teresa d’Àvila volte a rincuorare le consorelle nella sopportazione delle incombenze e degli obblighi della vita quotidiana: «Coraggio, quindi, figliole mie. Non affliggetevi se l’obbedienza vi impiegherà in opere esteriori! Vi mettesse pure in cucina, il Signore verrebbe ad aiutarvi, interiormente ed esteriormente, anche là fra le pentole: siatene persuase»4. Il portato spirituale di queste esortazioni, pur nella loro pragmaticità, è riflesso nella tela con Cristo in casa di Marta e Maria (1619-20 ca., Londra, National Gallery), dove l’artista, rinunciando a ogni ridondanza nella descrizione degli oggetti e alla rappresentazione delle ricchezze terrene, raffigura una giovane dietro un tavolo da cucina, su cui sono disposti pochi alimenti, intenta a pestare nel mortaio, mentre una vecchia alle sue spalle indica in direzione del luogo dove si svolge la sacra rappresentazione. Nella Mulatta (1618 ca., Dublino, National Gallery of Ireland) la protagonista è addirittura una serva di colore, descritta con grande dignità morale e ritratta in una cucina da cui è eliminata la visualizzazione del cibo, sottinteso nella scelta del luogo deputato alla sua preparazione. Nello stesso tempo si configura fra i Paesi Bassi e le Fiandre la scena del mercato ad opera di numerosi artisti, tra i quali Pieter Aertsen, Joachim Beuckelaer o Maerten van Cleve, una scena popolosa che documenta, in un’ambientazione cittadina, in genere la piazza, la copiosa partecipazione delle donne all’incipiente economia di mercato. Numerose figure femminili appaiono in qualità di venditrici o acquirenti di frutta, pesce o pollame, mentre nelle macellerie esse compaiono esclusivamente come acquirenti della carne da taglio, preparata dagli uomini. Tuttavia questi mercati cittadini, di eccessiva e triviale vivacità, in cui sorridenti protagoniste femminili esibiscono o ammirano l’abbondanza dei generi alimentari resi con straordinaria concretezza, venivano interpretati dai committenti come manifestazioni della volgarità del desiderio carnale e come moniti alla morigeratezza. Proprio la scena del mercato incontra notevole fortuna collezionistica anche in Italia, sia nella versione dei pittori olandesi e fiamminghi, sia nella variante offertane dai primi generisti italiani, in partico4 Santa Teresa de Jesus, Fondazioni, in Opere, Roma 1977, p. 1007. Per il rapporto fra Velázquez e santa Teresa d’Àvila: P. Cherry, Arte y naturaleza. El Bodegón Español en el Siglo de Oro, Aranjuez (Madrid) 1999, p. 126.

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Vincenzo Campi, Fruttivendola, Kirchheim, collezione Fugger.

lare il cremonese Vincenzo Campi e il bolognese Bartolomeo Passerotti. Vincenzo Campi, artista rinomato soprattutto per le composizioni sacre, ma dedito anche alla scena di genere che gli permise di entrare in rapporto con una committenza particolarmente altolocata, produsse numerose composizioni con mercati o cucine. Grande notorietà, attestata dalle numerose copie coeve, incontrarono le due serie per la foresteria del convento di San Sigismondo a Cremona e per il castello Fugger a Kirchheim. La prima serie, scalabile fra il 1575 e il 1578, ora a Milano, Pinacoteca di Brera, era costituita da quattro tele. La seconda, cinque tele eseguite fra il 1578 e il 1581 per la residenza estiva del banchiere Hans Fugger, ornava le pareti della sala da pranzo del castello5. Pur nella parziale identità dei soggetti che testimonia aspetti comuni nel programma iconografico, le due serie sono contraddistinte da nume5 Per la datazione si rimanda a F. Paliaga, in Natura morta italiana tra Cinquecento e Settecento, catalogo della mostra (Monaco di Baviera 6 dicembre 2002-23 febbraio 2003), a cura di M. Gregori, Milano 2002, p. 84, ripr. a p. 85.

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rose e significative divergenze. In entrambe sono rappresentati la Fruttivendola, i Pescivendoli (a Kirchheim le varianti sul tema della pescheria sono addirittura tre) e i Pollaioli, mentre la serie cremonese raffigura anche una Cucina, non presente a Kirchheim. Al di là del legame immediato, giustificato dalla loro stessa collocazione originaria, fra il cibo rappresentato e il cibo realmente presente sulla tavola del banchetto o offerto agli ospiti, queste tele facevano piuttosto riferimento a un codice figurativo assai complesso, la cui difficoltà d’interpretazione è messa in risalto dalla molteplicità e dalla varietà delle letture proposte negli studi più recenti. È incontestabile il fatto che le figure, in particolare quelle femminili per la loro posizione di rilievo all’interno delle tele, nel rapportarsi al cibo (non direttamente assunto ma manipolato, oppure preparato e offerto allo spettatore o al proprio figlio) si carichino di significati e allusioni che travalicano l’apparente quotidianità dei gesti o l’ovvietà delle situazioni. Interpretate come simboli delle stagioni (dove l’unica identificazione plausibile risulterebbe però la Fruttivendola, personificazione dell’autunno)6 o dei quattro elementi (la Fruttivendola in questo caso alluderebbe alla Terra, i Pescivendoli all’Acqua, i Pollivendoli all’Aria e la Cucina al Fuoco, un’ipotesi rafforzata dal fatto che la serie cremonese è costituita proprio da quattro pezzi)7, molto più verosimilmente queste rappresentazioni intendevano alludere a tematiche erotiche, sottintese nei gesti dei personaggi o nella forma e nelle proprietà dei cibi, a cui si accompagnavano anche intenti moraleggianti8. È difficile comunque propendere per un’unica chiave di lettura, laddove la rappresentazione e gli atteggiamenti delle figure risultano così differenziati. Alle figure femminili (le Fruttivendole e la Venditrice di pesce di Kirchheim), contraddistinte da una pacata idealizzazione nelle scene in cui compaiono da sole, nonostante le allusioni sessuali attribuite in particolare alla Pescivendola di Kirchheim e insite nel pesce,

6 B. Wind, Genre as Season: Dosso, Campi, Caravaggio, in “Arte Lombarda”, 42/43 (1975), pp. 70-73. 7 J.T. Spike, Italian Still Life Paintings from Three Century, catalogo della mostra (New York-Tulsa-Dayton), Firenze 1983, pp. 22-26. 8 B. Wind, Vincenzo Campi and Hans Fugger: a Peep at Late Cinquecento Bawdy Humor, in “Arte Lombarda”, 47/48 (1977), pp. 108-114; per un resoconto dettagliato delle varie letture, si veda F. Paliaga, B. de Klerck, Vincenzo Campi, Soncino (CR) 1997, in part. pp. 135-143.

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si contrappongono i personaggi maschili nelle tre scene delle Pescherie. In queste tele sono raffigurate delle coppie, la moglie che imbocca il figlioletto seduto sul suo grembo e il marito che mangia sguaiatamente esibendo la bocca spalancata a saziare una fame implacabile. Non è estranea pertanto alle due serie una interpretazione in chiave di satira sociale che, per il divertimento dei committenti, irride il comportamento dei villani, contrapposto all’atteggiamento costumato delle fruttivendole cui è attribuibile una funzione di monito alla castità e alla rettitudine dei costumi9. Non meno esplicite e forzate in senso caricaturale risultano le scene di mercato di Bartolomeo Passerotti. Il rapporto fra la donna e il cibo vede coinvolte anche in questi esempi delle venditrici, due Venditrici di polli e ortaggi nella tela della Gemäldegalerie di Berlino, due Pollivendole nella tela di Firenze in collezione Longhi e una pescivendola nella Pescheria della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma, questi due ultimi dipinti commissionati dal marchese Ciriaco Mattei10. Nella tela fiorentina, in mezzo a volatili vivi e morti la vecchia accosta la guancia alla testa di un gallo mentre la giovane tiene in grembo un tacchino. L’atteggiamento equivoco e allusivo della vecchia ha indotto a riconoscere in quest’ultima il tipo della megera lasciva, ben nota all’epoca grazie alla caratterizzazione

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Le “pitture ridicole” sono così definite da G.P. Lomazzo, Trattato dell’arte de la pittura, scoltura ed architettura, Milano 1584, ed. a cura di R.P. Ciardi, Scritti sulle arti, Firenze 1973-75, 2, pp. 314-315; si veda anche Paliaga, de Klerck, Vincenzo Campi, cit., pp. 143-151. Sul linguaggio grottesco in pittura: F. Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, Torino 1989, p. 21. Noto anche che le figure femminili delle Pescherie, come la donna nei famosi Mangiatori di ricotta (Lione, Musée des Beaux-Arts), sorridono vistosamente mostrando i denti, al contrario delle Fruttivendole e della Pescivendola Fugger, ritratte con un sorriso appena accennato e a bocca chiusa. È evidente che queste tele rappresentano una campionatura di gesti grossolani e maleducati, già stigmatizzati nella manualistica sulle buone maniere dell’epoca e usati da Vincenzo Campi proprio per caratterizzare la volgarità delle classi inferiori. Le donne infatti sembrano atteggiare la bocca a risa «grasse o difformi» dalle quali mette in guardia Giovanni Della Casa nel Galateo. Gli uomini “trangugiano” invece di mangiare e perfino il ragazzo della Polleria, nelle due versioni di Brera e di Kirchheim, gonfia le gote, uno «sconcio atto del viso». 10 Queste tre tele erano esposte alla mostra di Monaco. Si veda Paliaga, in Natura morta italiana, cit., pp. 88-91. Per ulteriori ragguagli e per una bibliografia esaustiva sull’iconografia dei dipinti: A. Ghirardi, Bartolomeo Passerotti pittore (15291592), Rimini 1990, pp. 238-240 nn. 66-67.

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Bartolomeo Passerotti, Pollivendole, particolare, Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi.

che ne offriva il teatro comico tardo cinquecentesco11. Nell’altra tela Mattei, dove non è chiaro se la vecchia gesticolante con un pesce palla in mano sia la venditrice o piuttosto l’acquirente, la gestualità grossolana e la caratterizzazione grottesca e inelegante rimandano a quegli espedienti figurativi propri delle “pitture ridicole” teorizzati da Gian Paolo Lomazzo, capaci di indurre al riso grazie anche a precise allusioni alla sfera sessuale12. All’interno di questa stessa corrente pittorica va interpretata anche la tela di Berlino, caratterizzata dagli stessi elementi grotteschi e da allusioni simboliche.

11

B. Wind, Pitture Ridicole: Some Late Cinquecento Comic Genre Paintings, in “Storia dell’Arte”, 20 (1974), pp. 25-35. 12 Id., Annibale Carracci’s “Scherzo”: the Christ Church Butcher Shop, in “The Art Bulletin”, LVIII (1976), pp. 93-96, in part. p. 95 nota 12; C. Höper, Bartolomeo Passerotti, 2 voll., Worms 1987, 1, p. 52; Paliaga, in Natura morta italiana, cit., p. 74.

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Se la differenza dei cibi e le diverse modalità nella loro rappresentazione modificano il significato che viene attribuito alla figura femminile, è interessante in tal senso l’accostamento della donna all’uva. Si è visto come la Fruttivendola braidense di Vincenzo Campi, che con gesto gentile offre un grappolo d’uva allo spettatore, possa implicare una molteplicità di significati che vanno dall’Autunno, alla Terra, fino alla Castità. L’uva, frutto di alto significato simbolico connesso ai testi evangelici, rimane la chiave per la decifrazione della scena che sembra in tal modo caricarsi anche di valenze spirituali13. Un analogo significato evangelico assume, nel dipinto di Frans Snyders ora al Museo di Belle Arti di Bucarest, la giovane cuoca ritratta in un interno di cucina tra frutta e cacciagione che offre un grappolo d’uva, mentre nello sfondo si svolge la scena di Cristo in Emmaus. Un significato completamente opposto presenta invece la giovane donna a seno nudo e col capo avvolto in un turbante, identificata come una baccante, che spreme l’uva dentro una coppa nel dipinto di Hendrick Terbrugghen datato 1627 e conservato a Malibu al J. Paul Getty Museum. Interpretata anche come personificazione del Gusto per la presenza della scimmia e per il gesto della spremitura, è stata più correttamente spiegata come Allegoria dell’Eccesso in base alla descrizione di una figura del tutto analoga in un poema di Edmund Spenser, The Faerie Queene (Libro 2, canto 12, stanze 55-56)14. Una variante iconografica singolare è rappresentata dalla Donna che mangia l’uva di artista caravaggesco, già in collezione Fabbi a Modena ed ora in ubicazione ignota15. In questo caso una giovane figura femminile, assai idealizzata, con lo sguardo rivolto a sinistra oltre il limite del quadro, porta alla bocca un acino d’uva reggendo con la mano sinistra il grappolo, mentre sul parapetto marmoreo davanti a lei sono in mostra altri grappoli, due melegrane, un fico, una zucca e un cetriolo. Il suo atteggiamento sospeso, ben lontano dal sorriso suadente della Fruttivendola di Campi, nasconde un significato che ri13

Sul significato dell’uva come simbolo di castità e verginità: E. De Jongh, Grape Symbolism in Paintings of the 16th and 17th Centuries, in “Simiolus”, 7 (1974), pp. 166-191. 14 L. Freeman Bauer, Moral Choice in some Paintings by Caravaggio and his Followers, in “The Art Bulletin”, LXXIII (1991), 3, pp. 391-398. 15 Ripr. da Trenta dipinti della collezione Lidia e Franco Fabbi, a cura di D. Benati e L. Peruzzi, Crevalcore (Bologna) 1990, in sopraccoperta.

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Hendrick Terbrugghen, Allegoria dell’Eccesso, Malibu, J. Paul Getty Museum.

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Anonimo caravaggesco, Donna che mangia l’uva, ubicazione ignota.

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mane sfuggente. La zucca, l’uva e le melegrane appaiono spesso accostate nelle nature morte a simboleggiare la rinascita e la fecondità, evocate dalla molteplicità dei semi racchiusi dentro il frutto16. Non sembra tuttavia appropriato richiamare significati simbolici o allegorici per ogni tipo di composizione, poiché verso la metà del Seicento, soprattutto in ambiente barocco romano, nei dipinti con nature morte sembrano prevalere intenti prettamente decorativi. Nelle sontuose composizioni in cui vengono ostentate, in un complesso intreccio di piani prospettici, soprattutto mostre di frutti stillanti e succosi, a volte accompagnate da opulente figure femminili che assolvono un ruolo accessorio, appaiono evidenti l’ammirazione per il virtuosismo esecutivo e il desiderio del committente di arredare la propria dimora in modo sfarzoso e gratificante per l’occhio, con l’intento di esibire la propria ricchezza e la prodigalità, anche nel convivio. Tale volontà decorativa finisce per predominare anche sui significati simbolici che rimangono dissimulati sotto la scintillante veste pittorica. È questo il caso di quattro dipinti ascritti di recente a Michelangelo Cerquozzi che raffigurano ciascuno, in un’ambientazione bucolica, una coppia di giovani, un ragazzo e una fanciulla, dediti alla raccolta delle melegrane (Rotterdam, Museum Boymans-van Beuningen), dei fichi (Madrid, Prado), delle lumache e dell’uva (entrambi in collezione privata). Se le tele si impongono innanzi tutto per la loro esuberante ricchezza pittorica, a una più attenta lettura emergono anche allusioni simboliche insite nella scelta dei frutti. È tuttavia rimarchevole come la melagrana e l’uva, a seconda dei contesti, possano traslitterare dai significati cristologici a quelli profani, al punto che tutta la serie può essere letta come un inno alla fertilità e ai piaceri amorosi della giovinezza17. A partire dai primi decenni del Seicento fin dentro il Settecento, nella scena di genere di tradizione realistica, il legame fra la donna e il cibo sembra spesso perdere quella complessità concettuale che ne aveva caratterizzato la presenza nell’epoca precedente o in altre correnti pittoriche. In questi casi emerge piuttosto uno slittamento, per quanto riguarda il significato della presenza femminile, da un piano evocatore e simbolico a un ambito ricco di implicazioni sociali, se-

16

A. Appiano, Bello da mangiare. Il cibo come forma simbolica nell’arte, Roma 2000, pp. 33-38. 17 A. Cottino, in Natura morta italiana, cit., p. 180.

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A Michelangelo Cerquozzi, La raccolta delle melegrane, Rotterdam, Museum Boymansvan Beuningen.

condo le finalità della pittura pauperistica dei “pittori della realtà”, che avrà anche una discendenza nel genere bambocciante. È un realismo tragico e crudo, privo di corollari allegorici o morali, quello che emerge dai Mangiatori di piselli di Georges de La Tour (Berlino, Gemäldegalerie), in cui una vecchia e l’anziano compagno, entrambi segnati dalla miseria e dagli anni, si portano alla bocca i legumi con le mani. E altrettanto intense e di concentrata severità sono le scene domestiche descritte dai fratelli Le Nain e ambientate attorno a un desco umilmente imbandito, nelle quali però il rapporto fra le donne e il cibo è contestualizzato all’interno di una vicenda famigliare di cui si vuole sottolineare la dignitosa modestia (Il ritorno dal battesimo, museo del Louvre). Nel Pasto dei contadini (anch’esso al Louvre) la donna non è ammessa al desinare, riservato a chi consuma nel lavoro maggiori energie, ma assiste in piedi alle spalle degli uomini.

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Anonimo dell’Italia settentrionale, Ritratto di famiglia a tavola, ubicazione ignota.

Un capitolo interessante, in quanto parla di un rapporto particolare fra la donna e il cibo, è costituito dalla fusione fra il ritratto e la natura morta. In area protestante, fra i Paesi Bassi e la Germania, si sviluppa una particolare variante ritrattistica in cui la famiglia è raffigurata attorno alla tavola apparecchiata, la moglie, col bambino più piccolo in braccio, alla sinistra del marito (Scuola olandese, Famiglia protestante a tavola, sec. XVI, Amsterdam Rijksmuseum; Martin van Heemskerck, Pieter Jan Foppeszoon e la sua famiglia, 1530 ca., Kassel, Staatliche Kunstsammlung). È una tipologia rara in Italia ma che annovera almeno un esito di particolare rilievo, un Ritratto di famiglia a tavola, in collezione privata milanese, già attribuito al bergamasco Carlo Ceresa18. Il tavolo è coperto da un tappeto con tovaglia e imbandito con sobrietà ma non poveramente: un pollo arrostito, pane, 18 Il dipinto è stato esposto, con un’attribuzione ad artista dell’Italia del Nord verso il 1630-40, alla mostra bergamasca Il Seicento a Bergamo, catalogo della mostra (Bergamo), Milano 1987, p. 241 e fig. a p. 239.

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formaggio, frutta, una brocca di vetro colma di vino e un calice ad alette denotano un grado di vita benestante. L’uomo regge fra le dita della mano sinistra il calice, mentre il figlio maggiore siede al centro della composizione. La sconosciuta signora invece, seduta anch’essa alla sinistra del marito e vestita con eleganza, tiene in braccio il figliolo più piccolo e sta per imboccarlo con una forchetta a due rebbi. Se al ritratto si riconosce, fra le altre, la funzione di sancire il rango dell’effigiato, questa rappresentazione appare molto importante perché rivela il ruolo che la committente si attribuisce all’interno della società. Non c’è nessuna subalternità nel modo in cui è raffigurata questa dignitosa e compunta signora che riconosce per sé il compito primario, in quanto madre, di nutrire il piccolo. Nella sua classe sociale, i lavori più pesanti però non le toccano, perché alle sue spalle si intravede una domestica in cucina che solleva un secchio. A questa iconografia “alla nordica” si contrappone il Ritratto di famiglia di Ludovico Carracci (L’Aja, Rijksdienst Beeldende Kunst), purtroppo decurtato, ma che comunque presenta intatte le immagini del desco doviziosamente imbandito sullo sfondo, del padre in primo piano che regge una coppa con ciliegie e della madre che a sua volta le porge alla figlioletta. Alla descrizione di tipo intimistico ma oggettivo del dipinto precedente, qui si sostituisce invece un significato di tipo pedagogico-moraleggiante, ricostruibile attraverso il rapporto dei gesti, la reciprocità degli sguardi e il significato simbolico da attribuire alle ciliegie, la cui dolcezza, nella cultura cinquecentesca, derivava dalle buone azioni: la madre pertanto, con l’appoggio paterno, esorta la figlia alla vita virtuosa e al disprezzo dei piaceri materiali, la tavola imbandita, verso i quali la bambina punta il dito19. C’è ancora un tipo di raffigurazione che prevede la figura femminile, seppure in maniera non prevalente. La rappresentazione dei Cinque Sensi, che trova le sue realizzazioni più significative a partire dal XVII secolo dapprima nel Nord Europa e quindi anche in Italia, può introdurla, infatti, nella descrizione del Gusto. Una prima codificazione di questa iconografia avviene nelle stampe d’ambito neerlandese e fiammingo a partire dalla seconda metà del XVI secolo, prima di avere un riscontro anche in pittura. Le tipologie

19

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Carlo Cignani, Carità come allegoria dei Cinque Sensi, Andalusia (USA), collezione Nelson Shanks.

prevedono in egual misura figure maschili o femminili mentre bevono o portano del cibo, spesso un frutto, alla bocca20. Di ovvia ed esclusiva pertinenza femminile è invece l’iconografia del Gusto che assume come modello una donna che allatta al seno un bambino, assai frequente nei Paesi Bassi. Una variante è rappresentata dalla Carità come allegoria dei Cinque Sensi, dove la tradizionale immagine della Carità come donna che allatta è accompagnata da fanciulli che reggono gli attributi dei sensi. In questo modo ha risolto la duplicità tematica Carlo Cignani nella tela dipinta per il cardinale Lazzaro Pallavicini, legato papale a Bologna, tuttora conservata nella quadreria Pallavicini e della quale esistono numerose repliche.

20

Per un excursus sui cinque sensi nelle arti figurative si veda I cinque sensi nell’arte. Immagini del sentire, catalogo della mostra (Cremona), Milano 1996.

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Nel corso del Settecento infine, da un osservatorio privilegiato quale può essere la pittura francese dell’epoca, si notano due modi opposti di caratterizzare la donna e il cibo. Da un lato, nei tableaux de mode, si privilegia la descrizione dell’alta società, i passatempi mondani, la ricchezza anche sfacciata. La Colazione dopo la caccia dipinta da Jean François de Troy nel 1737 (Parigi, Louvre) descrive uomini e donne attorno a un tavolo apparecchiato all’aperto con stoviglie lussuose e con cibi raffinati, dediti al piacere del convivio. Dall’altro lato emerge con forza la soluzione intimista, stringata e priva di intenti aneddotici, adottata da Jean Siméon Chardin. Nei suoi dipinti non c’è più quella discrepanza fra l’oggetto rappresentato e il suo significato. Non sono poche le composizioni che l’artista dedica alla donna e alla sua vita quotidiana, eseguite soprattutto durante gli anni centrali della sua carriera e in numerose repliche autografe. In questi casi, mentre la sublimazione del dato reale avviene attraverso la sintesi pittorica e il rigore dello stile, sul piano umano emergono solo adesione e partecipazione affettive. L’occhio del pittore indaga la vita della signora borghese, quando non del ceto più basso, e la descrive con partecipazione commossa e con tale dovizia di situazioni al punto che è possibile ricostruire, quasi ora dopo ora, la tranquilla epopea di una signora del demi monde o di una popolana nella Parigi della metà del Settecento. C’è il Ritorno dal mercato (in tre versioni autografe, Ottawa, National Gallery of Canada, Schloss Charlottenburg, Berlino e Museo del Louvre, Parigi), dove una donna è colta mentre rientra nella sua casa modesta, ancora con la sporta in mano da cui esce un cosciotto, e mentre appoggia le forme di pane. La Ragazza che sbuccia la cipolla (in due versioni, Washington, National Gallery of Art, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen), raffigurata fra pochi oggetti di cucina e con una natura morta di zucche e cipolle ai suoi piedi, ha sospeso per un istante il suo compito umile. Nel Benedicite (Parigi, Louvre e San Pietroburgo, Hermitage) la madre attende che le due bambine recitino la preghiera prima di servire la minestra. La Signora che prende il tè (Glasgow, Hunterian Art Galley) è sola al tavolino mentre mescola la fumante bevanda alla moda. Infine nel Pasto per il convalescente una giovane premurosa sbuccia l’uovo sodo per un ammalato che rimane fuori dalla scena. Rinunciando a ogni implicazione sentimentale o narrativa, Chardin rivolge l’attenzione esclusivamente al gesto affettuoso e soccorrevole.

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Jean Siméon Chardin, Pasto per il convalescente, Washington, National Gallery of Art, collezione Kress.

Comprare il cibo, prepararlo, imbandirlo per la propria famiglia, concedersi un momento di tranquillità davanti alla tazza di tè o scegliere il pasto migliore per un ammalato, sono i piccoli piaceri e le incombenze propri della donna, spesso testimoniati dai dipinti nel corso dei secoli. Ma se la rappresentazione di quei gesti era stata fino ad allora gravata da implicazioni allegoriche, nella seconda metà del Settecento sta finalmente cambiando la descrizione del mondo femminile, perché sono del tutto nuove l’attenzione che il pittore rivolge a quel mondo e la partecipazione emotiva alla vita della donna.

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Strategie alimentari ed esercizio dei sensi: donne, cibo, seduzione nella Storia della mia vita di Giacomo Casanova ELISABETTA GRAZIOSI

Solo un centinaio di donne per la carriera di un libertino. A qualcuno non sono parse molte rispetto alle più di duemila di don Giovanni1, anche se la cifra può comunque impressionare i nuovi inappetenti dell’eros votati alle diete dai rischi dei moderni contagi. Ma certo consente per lo meno di stilare una classifica di gusti privati, identitari che in altri generi letterari non risultano immediatamente evidenti, confinati come sono fra le inezie che si prestano alle divagazioni e alle citazioni dei curiosi2. Anche se nuove indagini critiche tendono a rivendicare nei testi letterari una specificità retorica del cibo dal forte valore mimetico o simbolico o attualizzante, resta il fatto che la letteratura in gran parte pare prescindere da pranzi, digestioni e derrate, o limitarne il ruolo nei ritagli a margine, il cui accertamento esige l’acume di un ricercatore ad hoc3. Delle donne di Casanova invece sappiamo molto: della loro inappetenza o voracità, delle abitudini e dei gusti alimentari. Possiamo riconoscere facilmente alla lettura come il cibo ne formasse e trasformasse i comportamenti, rendendone visibile il

1

H.A. Glaser, I viaggi di Casanova o le “beau moment de partir”, in Casanova Fin de siècle. Actes du colloque international (Grenoble, 8, 9, 10 octobre 1998), textes réunis et présentés par M.F. Luna, Paris 2002, pp. 166-167. 2 Vedi P. Mauri, Il risotto dell’ingegnere (cibo e letteratura), in I quaderni di MicroMega. Il cibo e l’impegno, 2, Supplemento a “MicroMega”, 5 (2004), pp. 49-56. E per un approccio generale: Codici del gusto, a cura di M.G. Profeti, Milano 1992. 3 Per un tentativo recente di indagine letteraria applicata a diversi generi ed epoche, vedi La sapida eloquenza. Retorica del cibo e cibo retorico, a cura di C. Spila, numero tematico di “Studi (e testi) italiani”, 12 (2003) (e quanto è detto nell’Introduzione, pp. 12-13, 18).

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carattere che emerge in una serie di dettagli non insignificanti nel corso delle vicende del protagonista. Da queste informazioni sparse a profusione in un testo di più di tremila pagine, può uscire non solo un’integrazione al ritratto dell’uomo di mondo che fece del cibo uno degli strumenti della seduzione, ma anche il quadro dettagliato di desideri femminili pronti a manifestarsi, insieme alle trasgressioni amorose, in atteggiamenti autonomi che fanno delle donne non solo pallide figure succube del volere altrui, cuoche in casa d’altri, amanti transitorie in letti a prestito, ma anche consumatrici in proprio, acquirenti consapevoli in pienezza di diritto delle gioie dei sensi di cui i cibi sono il prodromo o la conclusione. Piacere del cibo e piacere del sesso Pranzi, banchetti, cene occupano una discreta parte nella Storia della mia vita. Le bevande eccitanti del tempo, cioccolata, tè, caffè, vi compaiono spesso insieme allo champagne, al vino di Cipro, le ostriche, la cacciagione, i tartufi, ciò che in una società afflitta ancora dalla fame endemica designava i consumi di lusso. Non mancano piatti popolari a basso costo come la polenta con le costolette di maiale, le frittate, la trippa (II, 911). O carni insaccate di provenienza contadina: prosciutto, salsicce, mortadella, maiale salato (II, 1269). Dei formaggi poi Casanova era un intenditore tanto da progettare un non mai compiuto dizionario dei formaggi (II, 1290). Nelle soste dei viaggi europei, insieme alla preoccupazione di trovare una casa, costante è la ricerca di una cuoco o di una cuoca capace di manipolare gli alimenti e di camerieri capaci di servirli in tavola. Altrettanto e più diffuso il racconto delle vicende amorose che comprende incontri, attrattive, giochi, amplessi di donne di vari paesi, di indole diversa e di diversa collocazione sociale. Quale dunque per Casanova il rapporto fra il piacere del cibo e quello dell’eros? E quale il ruolo che hanno le donne nella distribuzione e nel godimento dell’uno e dell’altro? A stabilire un parallelo fra il cibo e l’amore, enumerando gli argomenti della narrazione biografica, ciò che contava dire di sé, pensò lo stesso autore fin dalla pagina iniziale di quella che è nota come Prefazione rifiutata dove pone l’uno accanto all’altro, in situazione di equivalenza, l’amore per le donne e quello per la buona tavola, insieme alle passioni attrattive e ripulsive dell’amicizia, e dell’odio:

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La mia storia è quella di uno scapolo, che in questo anno 1791 ha sessantasei anni, e il cui principale impegno è stato di coltivare il piacere dei sensi. Non ne ha avuto altro più importante. Sentendosi nato per l’altro sesso, l’ha sempre amato, e per quanto ha potuto se ne è fatto amare. Gli è piaciuta anche la buona tavola; ha avuto degli amici che gli hanno fatto del bene e ai quali è stato riconoscente, e dei nemici dei quali non si è vendicato perché non ha potuto […]4.

Con minore evidenza, la stessa dichiarazione si ritrova anche nella Prefazione del 1797, in cui a correggere il tiro Casanova chiamava in causa anche la curiosità («Ho amato anche la buona tavola e insieme tutte le cose che eccitano la curiosità»)5, che è passione intellettuale conoscitiva legata ai sensi, capace di procurare un diletto più acuto dal nuovo o dall’inatteso, di cui anche l’amore viene a più riprese dichiarato tributario (I, 180; II, 834, 1159, 1303-4). Da questo accostamento al cibo il piacere dell’eros non esce sminuito, abbassato a livello di una fisiologica necessità quotidiana, ma collocato con la buona tavola e le buone frequentazioni nelle abitudini socievoli del Settecento libertino europeo. È forse questa la dichiarazione più esplicita dell’edonismo casanoviano enunciata con il minimo del peso ideologico in uno dei punti chiave del testo. Ma più oltre, in una delle pagine più esplicitamente libertine dell’autobiografia, il nesso fra piaceri diversi, che poteva sembrare solo il frutto di preferenze individuali, acquista vero rilievo filosofico: Casanova riporta la fame, l’odio, il desiderio del coito alle radici istintuali necessarie alla specie per la conservazione, che solo l’uomo dotato di ragione trasforma in piacere6. L’animale mangia, s’accoppia, uccide. L’uomo invece prevede, differisce, organizza il piacere: sdegna la ghiottoneria e si trasforma in buongustaio, rifiuta la lascivia e s’innamora, ritarda il piacere della vendetta (I, 969). Piaceri della tavola e piaceri dell’amore si rivelano così prossimi non solo per il loro radicamento nei sensi, ma per essere il frutto pazientemente coltivato dalla ragione: natura e insieme cultura. 4

Vedi G. Casanova, Pensieri libertini, a cura di F. Di Trocchio, Milano 1990, p. 47. G. Casanova, Storia della mia vita, introduzione di P. Chiara, a cura di P. Chiara e F. Roncoroni, I, Milano 1983, p. 10 (tutte le citazioni da questa edizione, comprese quelle nella pagina precedente, saranno date direttamente nel corpo del testo: il numero romano per il volume, quello arabo per la pagina). 6 F. Di Trocchio, La filosofia dell’avventuriero: Giacomo Casanova oltre libertinismo e illuminismo, in Giacomo Casanova tra Venezia e l’Europa, a cura di G. Pizzamiglio, Firenze 2001, p. 122. 5

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Carle van Loo, Sosta durante la Caccia, 1737, olio su tela, Parigi, Musée du Louvre.

Attraverso i sensi: gusto, olfatto, eros Ad incrociare il campo del cibo con quello dell’amore, scorgendo nell’uno una sorta di estensione nei territori dell’altro, non fu nel Settecento il solo Casanova. Il filosofo La Mettrie, nel Sistema di Epicuro metteva insieme i diletti dello studio, della letteratura, della poesia con quelli dell’eros, dell’amicizia e dei conviti, che rendono la vita più gradevole7. Da buon materialista andava oltre. Per lui, convinto che i cibi grossolani rendono uno spirito pesante, erano le abitudini alimentari nel loro complesso a fare un uomo “tardo e ottuso” oppure 7

J.O. de La Mettrie, Sistema di Epicuro, in Opere filosofiche, a cura di S. Moravia, Bari 1992, p. 291.

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“vivo, leggero, penetrante”, mentre nutrire bene il corpo significava far tracimare nell’anima succhi capaci di rinvigorirla8. La Mettrie amava i piaceri del sesso e quelli della tavola (pare, secondo quanto ne riferisce lo stesso Casanova, che sia morto per un’indigestione di paté di fagiano tartufato), ma non si trattava di sole preferenze soggettive, di gusti di retrobottega9. Per il teorico dell’epicureismo anche il letto era a suo modo una mensa a due posti dove i costumi si addolcivano in un piacere dato e ricevuto, capace di garantire quell’affabilità necessaria alla convivenza più ancora dell’esprit, la virtù socializzante per eccellenza: «Quando potrò – scriveva – mettermi a tavola con Como solo una volta al giorno, mi ci metterò ancora una volta alla settimana, se posso, con Venere per conservare questo umore dolce e affabile, se non più gradevole almeno più necessario alla società dello spirito. Coloro che frequentano questa dea sono riconoscibili dall’urbanità, dalla gentilezza, dalla piacevolezza del rapporto con essi»10. Di La Mettrie Casanova fu certamente lettore ed estimatore11 e anche per lui il letto e la mensa furono le immagini della sociabilità minima, capace di garantire la felicità, dove si coltivano passioni soft che non scatenano la competizione ma la collaborazione fra sessi e categorie sociali. Non il semplice coito ma l’amore è l’oggetto della ricerca del libertino veneziano nelle numerose avventure. Non vi è felicità possibile senza una condivisione armonica il cui nucleo è la coppia, che fa intravedere rapporti non di sfruttamento ma di compartecipazione12. Rimasto solo a Londra nel 1763, fornito di buona tavola, musica, passeggiate nei viali abitati dalle prostitute, giochi e frequentazione della buona società, rimpiange di non avere un’amante con cui condividere i piaceri effimeri, fra cui confessa di annoiarsi: «Pur in

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Id., L’uomo macchina, in Opere filosofiche, cit., pp. 182-183, 185. Sull’epicureismo di La Mettrie (con qualche dubbio sulla leggenda della morte per indigestione) vedi A. Comte-Sponville, La Mettrie et le “Système d’Épicure”, in Le matérialisme des Lumières, numero speciale di “Dix-huitième siècle”, 24 (1992), pp. 105-115. 10 La Mettrie, Sistema di Epicuro, cit., p. 296 (Como era il dio dei banchetti che presiedeva ai Saturnali). 11 M.F. Luna, Casanova mémorialiste, Paris 1998, pp. 207, 265, 462. 12 B. Capaci, La donna cometa e il romanzo, in Le impressioni delle cose meravigliose. Giacomo Casanova e la redenzione imperfetta della scrittura, Padova 2002, pp. 99-119. 9

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mezzo a tanti piaceri mi annoiavo perché non avevo un’amante che mi tenesse compagnia a letto e a tavola, ed ero a Londra già da cinque settimane. […] visto che avevo la virtù della costanza, non mi mancava che una donna per essere felice» (II, 1534). Posta la prima somiglianza fra il cibo e l’amore è facile continuare con i paralleli: amare non è impadronirsi di un corpo, né raggiungere un orgasmo, ma sedersi a tavola per partecipare a un banchetto transitivo di profumi e di sapori che trasmuta, trasforma chi lo gusta. Nell’eros, “supremo piacere” (I, 334, 900) si radunano tutti i piaceri. Vista, udito, tatto, i sensi conoscitivi più nobili, vi partecipano a pieno diritto, ma pure il gusto e l’odorato, sensi compromessi nei consumi alimentari, trovano la loro parte. L’odore e il sapore della donna amata sono squisiti quanto più sono intensi, come i piatti ricchi e corposi dai sapori mescolati, le carni ai limiti della frollatura, i formaggi fermentati, che danno sensazioni e piaceri forti, eccessivi, prossimi al cattivo gusto (per di più ormai retrò) e inadatti ai palati delicati di coloro che allora, come oggi, amavano la castigatezza della nouvelle cuisine diffusa in Francia a metà del secolo13: Ho amato i piatti dal sapore forte: i maccheroni preparati da un bravo cuoco napoletano, l’ogliapotrida, il merluzzo di Terranova molto vischioso, la cacciagione con tutti i suoi aromi, e i formaggi, soprattutto quelli passati, nei quali i piccoli esseri che li abitano cominciano a diventare visibili. Anche nelle donne ho sempre trovato che quella che amavo aveva un buon odore, e più la sua traspirazione era forte più mi sembrava soave (I, 10-11).

Sono scelte gastronomiche che si prestano apparentemente all’accusa di gusto depravato, gusto grossolano: è la critica dei raffinati del Settecento che avevano voltato le spalle agli effluvi forti e ai sapori barocchi14. E pure l’intensità di sensazioni, nell’alimentazione come nell’eros, non solo produce un incremento di piacere, ma è anche segno di salute, perché la capacità di provare sensazioni forti senza dolore o disgusto dipende materialisticamente (e così si trova anche in

13 P. e M. Hyman, La stampa in cucina: i libri di cucina in Francia tra il XV e il XIX secolo, in Storia dell’alimentazione, a cura di J.L. Flandrin e M. Montanari, Roma-Bari 1997, pp. 508-510. 14 P. Camporesi, Il brodo indiano. Edonismo ed esotismo nel Settecento, Milano 1990.

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La Mettrie) dal vigore degli organi sensoriali. Per questo Casanova può concludere il suo paragone fra i piaceri diversi rallegrandosi delle sue preferenze che sono il segno della piena capacità di godere dei sensi: «Grazie ai miei gusti grossolani, ho abbastanza faccia tosta da credermi più felice di chiunque altro, dal momento che mi sono formato la convinzione che i miei gusti mi permettono di provare più piacere» (I, 11). Per quanto siano esposti sinteticamente e senza citazioni erudite, senza un apparato critico che ne svolga il sottofondo ideologico, fin dalla Prefazione i piaceri della tavola e piaceri dell’amore mostrano un fondo comune da riportare a una vitalità libertina non del tutto manovrabile, che fa parte della conformazione di quella macchina complessa che è il corpo. A tavola e nel letto, il protagonista autobiografico dà la prova di una conformazione fisiologica al piacere che ne forma l’identità profonda perché, per concludere con le parole di La Mettrie: «L’organismo corporeo è il primo merito dell’uomo»15. Casanova non mangia solo Nonostante le dichiarazioni ostentate nella Prefazione, poche sono nel testo le sensazioni olfattive piacevoli legate al corpo delle donne: sgradevole (e démodé) il profumo d’ambra e di muschio su corpi femminili invecchiati (I, 613, 778). Il sudore non seduce (III, 319). Fuggevole la menzione per l’agrodolce della saliva che «esalta la voluttà» (II, 1117) e si gusta nel sapore del bacio (I, 967). Solo il latte succhiato al seno tradisce il piacere di ciò che esala o tracima dal corpo femminile fecondo, l’elemento vitale per eccellenza (II, 694, 1294; III, 837)16. Anche l’elogio (di maniera) dei gusti grossolani rimane inerte: in realtà le memorie di Casanova sono piene di vivande delicate, squisite, elaborate, offerte in banchetti eleganti (I, 269, 974, 987; II, 695; 716, 1379, 1295; III, 712, 849). Ricompaiono piatti ricchi fra quelli fatti servire da Casanova agli ospiti parigini della Petite Pologne (i maccheroni al sugo, l’olla podrida, il riso in cagnoni) insieme

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La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 197. M.G. Muzzarelli, F. Tarozzi, Donne e cibo. Una relazione nella storia, Milano 2003, pp. 50-58. 16

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a prodigi di raffinatezza (i polli nutriti a riso «bianchi come la neve»), con tutte le aristocratiche lusinghe della cucina francese (II, 363-64), anche se nulla appare più lontano della pretesa tutta contemporanea di fornire ricette imitabili fra i fornelli17. Invitare a mensa significa condividere e moltiplicare il piacere. Nutrirsi non è un piacere solitario. Casanova, buongustaio e non ghiottone, non mangia mai solo (II, 532). Farlo non gli piace (II, 832), lo annoia (II, 531), lo considera un vero castigo (III, 506). Non è solo in ragione della conversazione, che comunque a tavola trova i picchi del brio (I, 648; II, 406) nella settecentesca socievolezza in cui si realizza il momento privilegiato della giornata mondana. Il piacere sensuale è contagioso. Si propaga scorrendo fra gli invitati perché vedere i commensali mangiare induce l’appetito, scatena un’allegria senza la quale non c’è amore. L’appetito delle belle ospiti non solo è capace di restituire il buonumore (I, 318; 942), ma dà piacere (II, 774; 833, 841; III, 100-1), fa salire la temperatura della passione (I, 881). L’inappetenza è un rifiuto malcelato (II, 767). Tutte le donne più amate sono buongustaie come Casanova: lo sono Enrichetta, la monaca veneziana M.M. (I, 673, 974), l’ebrea Lia (III, 939, 942). L’appetito di Rosalia è eccellente (II, 797), come quello di Annetta (II, 841), di C.C. (I, 1025), di Marcolina (II, 1379), di donna Ignazia (III, 449, 526), di Armellina (III, 816). Tutte donne giovani e già o quasi innamorate o in procinto di innamorarsi. Mangiare insieme alla stessa tavola può trasformarsi in una sfida reciproca come se fosse l’esibizione di un talento visibile che allude a un talento segreto. A Chambery Casanova sfida la giovane Désarmoises ad una prova di resistenza nel bere il punch. Dopo una gara che dura fino alle due del mattino deve concludere che è impossibile tenerle testa nel bere: anzi, come ammette il promesso sposo che ha assistito alla scena senza intromettersi, è impossibile tenerle testa in ogni campo: «Nel bere e anche in altre cose» (II, 1020). Che cosa siano queste “altre cose” non è detto, ma ben presto immaginato. Ad Aix-en-Savoie Casanova si congratula per l’appe-

17 Così come hanno tentato M.A. Fabbri Dall’Oglio, Alessandro Fortis, Il gastronomo errante Giacomo Casanova. Tra gamberi e pernici a tavola con Cavaliere di Seingalt, Roma 1998; H. Romain, I Menu della seduzione. A tavola con Casanova, fotografie di D. de Nève, disegni di H. Romain, Milano 1998. Un’antologia di episodi alimentari tratti dalla Storia della mia vita si trova invece in Plaisirs de bouche, édition présentée par I. Kovàcs, Paris 1998.

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tito di una bella che risveglia quello di chi la guarda. Ne nasce una gara in cui la signora riesce a imporre al cavaliere galante una nuova cena meritandosi un complimento finale dall’allusione scopertamente sessuale: «Ma lei possiede poteri straordinari, perché mai, in vita mia, ho pranzato due volte» (II, 660). Da questo punto di vista la donna che meglio rappresenta la naturalità del consumo del sesso e degli alimenti è Marcolina il cui carattere è risolto in dieci righe fin dal primo incontro: «Marcolina mi piaceva molto anche per l’appetito con cui mangiava. […] A letto, Marcolina fu insuperabile» (II, 1379). Pranzi di società, pranzi libertini, pranzi di seduzione Nelle tavole d’Ancien régime non si mangia soltanto e i pranzi di Casanova non fanno eccezione. È l’intera gerarchia dei rapporti della società che si costruisce intorno alla tavola, retta da norme che è necessario conoscere e riconoscere se si vuole fare parte dell’élite18. Intorno alla tavola si pone in scena il potere, si svolgono transazioni, si stabiliscono alleanze, si compongono dissidi. La solitudine inflitta in un pranzo senza il rituale ostensivo della magnificenza fa pensare a un potere senza prestigio e senza realtà. Come quello della regina di Francia Maria Leszczynska, che Casanova vede seduta sola, senza trucco e con gli occhi nel piatto, davanti a una tavola per dodici con un solo coperto: vera immagine delle sovrane francesi del Settecento il cui ruolo è oramai ridotto agli spazi domestici senza possibilità d’intervento nelle questioni del regno19. La regina mangia in silenzio, a fronte di cortigiani egualmente silenziosi, lasciandosi andare a commenti che riguardano il cibo come se fosse una comune casalinga alle prese con una cuoca da controllare. Per apprezzare l’intingolo che le viene servito («La fricassea di pollo mi sembra il sugo migliore»), interpella il vincitore di Fiandra, maresciallo di Lowendal, che le ri18

M. Montanari, Nuovo convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell’età moderna, Roma-Bari 1991, pp. V-VIII; C.D. Rath, voce Alimentazione, in Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, a cura di C. Wulf, edizione italiana a cura di A. Borsari, prefazione di R. Bodei, Milano 2002, pp. 241-254. 19 F. Cosandey, La Reine de France. Symbole et pouvoir XVe-XVIIIe siècle, Paris 2000, pp. 374-375.

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sponde «con lo stesso tono con cui si pronunzia una sentenza di morte in un consiglio di guerra» (I, 787). Uno spreco di cibo, di parole e d’ingegno che il compassato e gelido scenario di corte rende più evidente. Diversi invece i banchetti fatti da Casanova per compiacere una donna e farsi conoscere in una società che si riunisce per cooptazione orizzontale, dove sono di norma lo spreco, il lusso, il costo eccessivo20. Così la colazione che, per suggerimento della bella moglie del Borgomastro di Colonia, Casanova offre a Brühl, convitando un gruppo eletto di ventiquattro persone nella villa estiva dell’Elettore di Baviera, dove da una schiera di servitori vengono servite “solo” ventiquattro portate, ventiquattro piatti d’ostriche inglesi, champagne, Tokai, maraschino, vini del Reno e «nemmeno un goccio d’acqua» (II, 452-54). Un pranzo da principe che vale come mezzo di seduzione della bella e serve di accreditamento in un ambiente sociale considerato come terra di conquista dell’avventuriero. Intenti precisamente sessuali e totalmente condivisi dall’amata hanno invece i pranzi libertini organizzati per sfruttare al massimo le sollecitazioni dei sensi in un ambiente riservato escluso ai servi e ai profani. La storia, più che celebre, con M.M., monaca nel monastero di Murano, ne offre i casi più interessanti. Innanzitutto la scelta, come luogo dell’incontro, dei due casini di Murano e di Venezia, luoghi deputati al piacere riparati dagli occhi indiscreti. E poi la singolare libertà di entrambi gli amanti che rende i ruoli scambievoli e reciproci: a turno ciascuno dei due invita nel suo casino, a turno è invitato. La parità è completa così che entrambi nella cooperazione libertina partecipano come seduttore e come sedotto. Non vi sono sensi lasciati al torpore. Cibi, arredamento, vasellame, libri, specchi, fuoco nel caminetto, immagini dipinte contribuiscono all’effetto complessivo: «Non vi era nulla che non fosse fatto per la gioia dell’amore e per il piacere della buona tavola e per procurare ogni sorta di voluttà» (I, 981). Il piacere libertino richiede efficienza e organizzazione. Nulla si lascia al caso, la spontaneità di per sé non sollecita i sensi. Del pranzo Casanova esige dal cuoco la prova preventiva con un numero di portate pari a quelle offerte dall’amata: otto, fra cui non mancano i piatti tradizionalmente afrodisiaci come le ostriche, i tartufi, lo storione (I,

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M. Delon, Le savoir-vivre libertin, Paris 2000, p. 169.

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983). Un nutrimento appropriato per le molte acrobazie di una long session in cui il numero degli amplessi, puntigliosamente squadernati, quasi pareggia quello delle portate. Forse in virtù di un’insalata di albumi d’uovo con aceto dei quattro ladri di cui pare difficile (per lo meno a chi scrive) quantificare l’efficacia (I, 1001, 1008, 1025). Poco importa che l’alcova e le cene per due si allarghino ad accogliere l’ambasciatore di Francia e l’educanda trasformandosi in una partita a quattro. Il pranzo libertino è comunque un pranzo raffinatamente riservato dove gli ospiti sono alla pari disponibili, esperti nell’arte del desiderare e del concedersi, e dove la seduzione è solo arte di accontentare i desideri dell’altro. Diversi invece i pranzi di seduzione dove la donna convitata, o giovane, o inconsapevole, o ritrosa, è in certo modo da persuadere, da indurre, da addestrare all’eros. Solo in questi Casanova trasforma il suo ruolo in quello di maestro libertino. Non dunque un don Giovanni ingannatore oltraggioso della virtù femminile, ma un paziente maieuta di quello che le donne ancora non sanno di se stesse e del piacere e quindi non riescono a desiderare. A questo fine servono molti gesti di sollecitazione sensuale: la parola, lo sguardo, le carezze, l’ostensione del sesso. Fra cui un posto di rilievo spetta naturalmente al bacio che in Casanova non è, come generalmente si dice, la miniaturizzazione dell’amplesso21, ma l’espressione del desiderio di mangiare l’oggetto che si bacia (III, 110). Qual è il ruolo del cibo in questa pedagogia che comporta disparità di età e di competenze fra i due amanti? Non quello di rendere brille e perciò più indifese le donne (spesso Casanova dichiara di non volere o non sapere approfittare dell’ebrietà: II, 1128; III, 859). Bensì quello di dilatare i desideri del corpo mescolandone e moltiplicandone l’efficacia. Per questo il libertino può dichiarare in buona fede di aver sedotto senza sapere di farlo ed essendo a sua volta sedotto (III, 883), perché gli eccitanti che usa sono comuni ai due amanti e non c’è frode nell’usarli. La strategia di Casanova non si fonda sulla debolezza dell’avversaria, ma sull’onnipotenza della natura quando non è frenata dal pregiudizio, fiduciosa della naturalità dell’eros femminile. In alcune l’operazione è più facile per le disposizioni fisiche: così nella bella Lia si tratta solo di liberare la «naturale pro-

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K. Nyrop, Storia del bacio, introduzione di C. Cases, Roma 1995 (ed. orig. 1897).

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pensione all’amore» (III, 954, 955). Mentre invece più lungo è l’addestramento che richiede a Ginevra l’intellettuale Edvige con la cugina Elena, per le quali l’accesso libertino passa anche e soprattutto attraverso la mente. Al termine del corso di seduzione, dopo aver messo in opera tutti i mezzi a disposizione, Casanova può comunque dire non soltanto di avere goduto e fatto godere, ma di avere iniziato al vero piacere due giovani donne capaci infine di proseguire da sole la loro carriera di libertine (II, 1147). Giochi, inganni, seduzioni: il falso cameriere e l’ostrica caduta I pranzi con la teologa Edvige, farciti di discussioni e di prove d’ingegno, rischiano a volte di perdere ogni traccia di seduzione per trasformarsi in banchetti filosofici, quelli che, secondo Voltaire, dovevano servire a innalzare un altare alla ragione nella sala da pranzo22. Ma sono rare queste occasioni che fanno sconfinare la conversazione conviviale nell’ammaestramento pedagogico o nella propaganda di una piccola accademia. A tavola, luogo di rappresentazione scenica della vita sociale, sono leciti invece per Casanova quei piccoli inganni che formano l’intrico di una commedia, e sovrappongono a una ritualità codificata socialmente, un’infrazione non codificata. Soprattutto l’albergo, luogo dell’equivoco comico, si presta agli equivoci erotici. Si tratta generalmente di conquistarsi un’intimità in più con l’oggetto del desiderio perché, come si è detto, veder mangiare è non solo allusivo di altro, ma di per sé seducente. A questo si aggiunge che i servi, irrilevanti come persone, sono ammessi a un’intimità fisica maggiore di quanto non sia permesso ai commensali. Giocando su questa convenzione, Casanova a Zurigo prende i panni di un cameriere e serve a tavola in albergo un gruppo di signore fra cui si trova l’oggetto dei suoi desideri (II, 502-9). L’esibizione di competenze nel servire e nel tagliare il cappone “da maestro” come uno scalco provetto, fa parte del ruolo d’attore nella pantomima, ma l’obiettivo è la piccola sensualità di toccare e farsi toccare, vedere senza rischio di essere respinti, un polso e un seno d’alabastro, preliminari dell’amore non altrimenti concesso ai subalterni. 22

108.

C. Mervaud, Voltaire à table. Plaisir du corps, plaisir de l’esprit, Paris 1998, p.

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Più audace l’inganno messo in opera nelle stanze di un albergo romano con la fanciullesca Armellina e le sue giovani accompagnatrici. Povera, Armellina non sa mangiare le ostriche, cresciuta in conservatorio non sa cosa sia un bacio. L’opera di addestramento comprende dunque e l’una e l’altra cosa in un nesso tanto più stretto perché l’ostrica è (nel Settecento) non solo per eccellenza un costoso cibo afrodisiaco ma anche il simbolo di lusso del sesso femminile23. Armellina imparerà prima a gustare le ostriche «nella loro acquetta» (III, 823). Poi imparerà a giocare con le ostriche mettendole in bocca dell’amante (III, 824-25; 836). Infine, caduta un’ostrica in seno, accetterà di essere denudata e frugata, concedendosi a un bacio in cui si confondono la ricerca del latte e quella dell’ostrica (III, 837), un passo di più sulla via della consumazione dell’eros. Armellina, e con lei le sue compagne, perdono progressivamente il senso del conveniente e del lecito, in loro prevale ed esplode la naturalità del desiderio liberato dal pregiudizio dovuto alle norme sociali e religiose. Non importa che ne siano consapevoli. La cauta condotta del loro maestro di libertinismo mostra che la progressione è necessaria nel venir meno del comune senso del pudore su cui non vi sono (allora come ora) punti fermi neanche fra le autorità che dirigono le coscienze, perché l’intera faccenda può sembrare alla superiora del conservatorio un gioco del tutto innocente (III, 827), e al confessore semplicemente una porcheria (III, 828). Gusti di donne: l’inglese, l’ebrea, la spagnola Fra tante consumazioni di cibo e di sesso può sembrare puramente aneddotico parlare dei gusti alimentari delle donne, anche senza spingersi ai gusti sessuali. Ed in parte è vero. Ma anche gli aneddoti servono a costruire le sfuggenti identità femminili, soprattutto se consideriamo la forte carica erotica attribuita alla nutrizione e la caratteriz-

23 Esplicita l’equivalenza fra ostrica e sesso femminile nel romanzo libertino anonimo Thérèse philosophe che Casanova ben conosceva (vedi l’ed. italiana Thérèse philosophe o Memorie, con uno scritto di P. Roger, Milano 1999, p. 109). Un censimento descrittivo del consumo di ostriche nel romanzo settecentesco si può trovare in S. Safran, L’amour gourmand. Libertinage gastronomique au XVIIIe siècle, Paris 2000, pp. 45-59.

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zazione nazionale della gastronomia che incide sulle opzioni dei singoli. Nell’epoca del trionfo della cucina francese che si può quasi considerare un passaporto obbligato delle élites settecentesche, i casi più interessanti paiono essere quelli delle marginali, non francesi e non assimilate all’aristocrazia internazionale. L’inglese miss Beti («così pallida che pareva quasi che non avesse sangue nelle vene») conserva a tavola un’educazione di collegio che è distintivo della sua provenienza: nel paese dell’olio apprezza il burro, mangia il plumpudding e il filetto di bue alla griglia, ma beve italianamente a piccoli sorsi Montepulciano e Montefiascone (III, 663, 664) oltre, naturalmente, al tè di cui porta con sé la provvista in una scatoletta (III, 683). Sono gusti sobri che non significano solo se stessi. In Beti la moderazione a tavola è il segno della moderazione dei sensi che si piegano all’eros solo o prevalentemente per riconoscenza verso il suo salvatore. Se all’ebrea Lia, conosciuta in Ancona nella casa del padre presso cui Casanova alloggia, non piace l’euforizzante cioccolata è perché ha gusti più forti “di grasso” e ama le bevande spiritose. Con lei Casanova mangia tutti i giorni fegato d’oca col vino di Scopolo, pagando una doppia porzione. Alla fine del pasto non mancano pasticcini e conserve all’uso ebraico e il moscato di Cipro (III, 938, 939). In breve, Lia è non solo una buongustaia ma ha un eccellente appetito e pochi scrupoli anche nel consentirsi di nascosto piatti vietati dalla sua religione (III, 941). Apprezza le figure dell’Aretino e le miniature di nudi allusivi su cui fa commenti e chiede spiegazioni. Si stupisce che agli uomini non sia necessario l’esercizio quotidiano del sesso (III, 945). Esiste già in lei il presupposto della naturalità d’amore, ma si rifiuta a Casanova per le convenzioni sociali, nonostante le reiterate lezioni. Ancora una volta però il nesso fra il sesso e il cibo, fra l’ingordigia dell’eros e quella degli alimenti, si rivela fondato perché Lia è costantemente in balia «della violenza invincibile di una naturale propensione all’amore» (III, 954): si concede infine da sola, anzi si offre senza ricatti all’amante che ne deve riconoscere la doti straordinarie di intelligenza, di determinazione, di conoscenza della natura umana. Diverso il caso della spagnola donna Ignazia che apprezza i piatti saporosi della cuoca biscaglina, beve l’aromatico Ratafià e il forte vino della Mancia, è amante del caffè e del gelato (III, 449, 452, 506, 519), e si abbandona all’amore durante il carnevale, mentre in quaresima si rivela pia e scrupolosa col suo confessore. Legata nell’eros ai devoti costumi tradizionali della Spagna cattolica, donna Ignazia pare

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dunque invece progressista nei gusti alimentari, in anticipo sugli usi italiani dove il Ratafià si attesta solo nel Piemonte del primo Novecento24. Una spagnola “a doppio fondo”, modernizzante e amante del piacere dei sensi. Ma il suo temperamento carnale, più ancora che nel cibo, si rivela nel tradizionale ballo spagnolo, il fandango con cui infiamma il compagno e danzando promette «così voluttuosamente che con le parole non avrebbe potuto promettermi tutto in modo più eloquente» (III, 437, 445). Da questo e dagli altri segnali colti alle cene e ai balli Casanova può conoscere «quanto grande fosse la sua inclinazione all’amore» (III, 529), per arrivare infine a prevalersene. Riuscirà a possedere donna Ignazia. Anzi riuscirà, come scrive lui stesso, «a domarla». E anche in questo caso, come in quelli precedentemente ricordati, si può ripetere che il cibo è non solo prodromo ma una vera chiave simbolica del sesso25. Chi ne decifra il nesso è già avanti sulla strada della seduzione e del piacere carnale che dal sesso e dal cibo si può estrarre. Commensali di tavola, commensali nel letto La mensa di Casanova ha per lo meno due posti, ma a volte ne ha di più. Non di rado vi sono gli ospiti dell’ultimo momento, quelli che si presentano alla porta all’atto di servire in tavola perché a tavola è spesso possibile una moderata promiscuità fra persone che non si conoscono o si conoscono appena26. Anche nel letto accade che non vi sia il posto soltanto per due, ma che altri vi entrino complicando i rapporti, come compresenze che non si alternano. Il primo di questi rapporti plurimi è quello con le giovanissime sorelle Nanette e Marton, quando fuori dal letto rimane proprio Angela che era il principale og-

24 Vedi G.L. Beccaria, Lessico della gastronomia, in La Linguistica in Cucina (i nomi dei piatti tipici), Milano 2005, p. 21. 25 Sulla nozione vedi le rapide indicazioni di M.G. Profeti, Dal grado zero al simbolo: ricette di lettura, in Codici del gusto, cit., pp. 9-21. 26 J.P. Chaline, Convivialité, commensalité: de la cohésion sociale à la civilisation des moeurs, in La sociabilité à table. Commensalité et convivialité à travers les âges. Actes du Colloque de Rouen. Avec la participation de Jacques Le Goff, 14-17 novembre 1990, textes réunis par M. Aurell, O. Dumoulin, F. Thélamon, Rouen 1992, pp. 253-259.

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getto di desiderio del giovane Casanova (I, 119ss). L’iniziazione delle fanciulle avviene contemporaneamente, senza antagonismi, in modo anzi da cooperare in tre nel raggiungimento del piacere a due. Questo delle due ragazze, legate da parentela, che partecipano in pari grado all’eros del protagonista e incrementano fra loro il desiderio, è un modello ricorrente nell’autobiografia di Casanova tanto che lo si trova di poco variato in molte delle storie che seguono. Non molto tempo dopo infatti è la volta di donna Lucrezia e di sua sorella Angelica, eccitate a turno dallo spettacolo e «incantate» dalla resistenza dell’amante nelle fatiche amorose (I, 282). Come nella consumazione del cibo, la visione della consumazione del sesso contagia il desiderio e induce ad apprezzare di per sé la fisicità di una macchina adatta all’uso di Venere. Teresa-Bellino non giace insieme con le sorelle Marina e Cecilia (che si alternano nel letto per accordi mutui) ma il desiderio

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circola nelle parole e nei racconti che tutti si scambiano (I, 323-24). La scena si ripete a Genova con Annetta e la sorella Veronica che, dopo essersi a lungo negata a Casanova, chiede solo di assistere ai giochi del sesso senza essere di troppo fra i due amanti, ma pure viene (generosamente!) invitata «a recitare anche lei la sua parte» (II, 849ss) nel gruppo dei tre. Variante coerente con questo sistema parafamigliare è la coppia di amiche che si prestano insieme. Salterò l’esempio più celebre che è quello della monaca veneziana e di C.C. che si allarga in un gioco a quattro di cui uno spettatore (il Bernis) non ama però essere visto. E sorvolerò anche sul caso dell’Astrodi e della Lepi che rientra nella tipologia più semplice delle prestazioni plurime a pagamento (II, 775-76), e su quello della Dubois con la piccola Sara che invece è una vera e propria iniziazione infantile all’eros (II, 604-5). Elena ed Edvige insieme ricevono la loro lezione di sesso, vengono sedotte contemporaneamente (II, 1131-32) mentre con giustizia distributiva e realistico senso del risparmio Casanova (che ha già raggiunto i trentasette anni) le colma di felicità «passando cinque o sei volte dall’una all’altra prima di esaurire le forze e arrivare al parossismo del godimento» (III, 1145). Di questi rapporti a tre Casanova dà una giustificazione, per così dire, ideologica riportandola a una consapevole strategia della seduzione: ha infatti imparato presto che «una ragazza, per mancanza di coraggio, si lascia difficilmente sedurre, mentre quando è con un’amica si arrende abbastanza facilmente: le debolezze dell’una causano le cadute dell’altra» (III, 1141). Ma questo è vero solo in parte perché diverse delle sorelle o amiche non hanno altra voglia che di cadere. La verità è più semplice, più di “natura” e meno di “cultura”: perché assistere, come per il cibo, è contagiare l’appetito dei sensi. Non soltanto l’appetito vien mangiando (III, 766) ma viene anche guardando gli altri mangiare. Il modello alimentare tiene anche col sesso. I punti più scabrosi di queste vicende di commensali nel letto, cui spetta comunque una parte di cibo, riguardano le coppie di donne in cui l’incesto intorbida il gioco. Sono madre e figlia, come donna Lucrezia e Leonilda (II, 955-56), o cugine, rispettivamente figlia e nipote di Casanova, come Giacomina e Guglielmina (III, 870-71) impegnate in amplessi in cui il fuoco si trasmette e si spegne ora su una ora sull’altra. Certo si può dire, come è stato detto, che Casanova tende a perpetuare i rapporti d’autentico amore con un vincolo che se non è proprio quello matrimoniale, ne costituisce

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tuttavia la parte essenziale27. Ma in questo caso mi pare che si vada oltranzisticamente oltre il matrimonio come unione fra sessi diversi che hanno in comune la memoria del passato. Con molte delle donne più amate Casanova stabilì effettivamente dei legami, se non coniugali, famigliari ma, con disinvoltura, utilizzò poi questi legami famigliari per stabilire rapporti erotici preferenziali: a basso investimento di tempo e ad alta trasgressione. L’eros si riversò così direttamente su figlie e nipoti. E in questo c’è poco del modello matrimoniale. C’è invece molto del modello alimentare che mette in parallelo naturalità del cibo e naturalità del sesso28. Come non esistono (per Casanova) tabù alimentari, così non esistono interdetti sessuali, non esiste la proibizione dell’incesto. L’eros consumato ha la forma di un banchetto in cui tutti i piatti, o simili, o quasi simili, o di gusto diverso (così le sorelle, o amiche, o madri e figlie), debbono essere consumati perché risalti il principio della varietà nella soddisfazione del gusto. Si tratta di marcare la varietà nella somiglianza e la somiglianza nella varietà, che possono, attraverso la riflessione intellettuale, incrementare il piacere immediato nel gusto e nell’eros. Come dichiara (cinicamente) lo stesso Casanova davanti alle cinque sventurate sorelle di Hannover che, più o meno consenzienti, passano tutte per il suo letto: «Quelle cinque ragazze, in effetti, erano come cinque eccellenti piatti che un buongustaio vuole assolutamente assaggiare tutti» (III, 108-9). Rottura dell’equilibrio e fine Assaggiare è un verbo significativo nel sistema del consumo e della condivisione dell’eros. Il buongustaio assaggia e non divora. Assapora, senza sfiorare il disgusto, secondo la ricordata norma epicurea «nocet empta dolore voluptas»29. Non vi sono nella Storia della mia vita pranzi eliogabaleschi alla de Sade che disfrenano il consumo del sesso fino all’orgia e degradano quello alimentare fino all’iperbolico,

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Di Trocchio, La filosofia dell’avventuriero, cit., p. 128. N. Châtelet, Il corpo a corpo culinario, Milano 1980 (ed. orig. 1977), p. 182. 29 Vedi B. Aleksic, Casanova à l’école buisonnière d’Épicure, in L’épicurisme des Lumières, sous la direction de A. Deneys-Tunney et Pierre Francois Moreau, numero speciale di “Dix-huitième siècle”, 35 (2003), p. 241-252. 28

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al ripugnante, al truculento30. Anche nella consumazione dell’eros, il libertino Casanova trasgredisce ma non eccede. Passa attraverso l’orgia (“oscena”, “infernale”) senza desiderio (II, 969) e non manca di notare che lo stravizio notturno «sempre lascia il cuore triste, affigit humo» (II, 421). L’eccesso «sia di cibo sia d’astinenza» (I, 8) è per lui sempre un errore che nuoce alla salute, e cioè ai piaceri futuri. Non solo sgradita, ma addirittura intollerabile è l’ospitalità che gli offre il conte Luigi Torriano, uno degli ultimi personaggi ricordati nell’autobiografia, nonostante sia un giovane aristocratico scapolo e di bell’aspetto, proprio per le sue abitudini smodate: «A tavola poi, il suo appetito, spesso, si trasformava in una sorta di furore: mangiava e, come se fosse per rabbia, dava l’impressione di divorare per odio una beccaccia succulenta, di cui io invece lodavo con aria voluttuosa la squisita delicatezza» (III, 1005). Voracità distruttiva, rabbia e violenza cui corrispondevano, nel giovane Torriano, atteggiamenti distruttivi anche nell’intimità: non soltanto «faceva una fatica enorme a procurarsi il piacere che conduce al culmine della crisi finale» ma ogni volta minacciava di strangolare l’amante che lasciava invece trasparire il felice raggiungimento della voluttà (III, 1005-6). Torriano raggiungeva l’estasi erotica con la violenza, la sazietà con la distruzione. Casanova era diverso. Per lui l’eros, in equilibrio con la vita, era impulso di compartecipazione non vertigine distruttiva. Ma gli equilibri vitali, bilanciati fra costruzione e dilapidazione di sé, sono inevitabilmente precari e soggetti a mutarsi col trascorrere degli anni e così accadde al vitalissimo libertino. Nato per condividere la mensa e il letto, per espandere, come voleva La Mettrie, l’umore dolce e affabile della socievolezza, dell’urbanità, della piacevolezza, anche Casanova si trovò necessariamente da vecchio espropriato di una parte di sé dalla decadenza del corpo. Sgretolato l’equilibrio fra il cibo e il sesso, anche in lui la voracità prese allora il sopravvento, insieme alla collera, al risentimento, alla vendetta: le passioni “dure” e antisocievoli, in luogo di quella socievole dell’amore31. Ma non nella Vita, interrotta al 1774 (la morte sarebbe giunta dopo più di vent’anni 30

Vedi N. Châtelet, Le libertin à table, in Sade, écrire la crise, Paris 1983, pp. 67-

83. 31 Su cui vedi le osservazioni del piccolo trattatello Delle passioni steso da Casanova a Venezia verso il 1780 e pubblicato solo di recente da Di Trocchio in Casanova Fin de siècle, cit., pp. 345-346.

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nel 1798), si può leggere l’infelice epilogo di questo Casanova oramai intristito e incapace di reggere in equilibrio le forze vitali, bensì nelle più crudeli memorie del principe Charles di Ligne che lo frequentò a Toeplitz durante il suo definitivo soggiorno in Boemia nel castello di Dux32. Furono questi gli ultimi anni di un libertino ancora ossessionato dalle figure femminili ma ormai incapace di ottenerne le grazie con la seduzione. Che ancora si sedeva a tavola, ma non più per alimentare in sé e in altri il desiderio erotico, bensì, come notava l’aristocraticissimo principe vallone, per vendicare sugli altri i suoi desideri disattesi: Le donne e soprattutto le giovinette sono sempre nei suoi pensieri, dato che ormai non può più incontrarle in altro modo. Questo lo irrita, lo manda in collera con il gentil sesso, contro se stesso, contro il cielo, la natura e l’anno 1724. Si vendica di queste cose su tutto ciò che è potabile e commestibile. Non potendo più essere un dio nei giardini è un lupo a tavola. Non lascia niente, allegro quando inizia a mangiare e triste quando ha finito, è sconsolato all’idea di non poter ricominciare33.

Nel turbamento di non poter ricominciare un pasto in cui veniva meno il desiderio, si fece allora presente anche a Casanova l’irreversibilità del tempo, l’usura per vecchiaia di una macchina vitale che era stata prodigiosamente efficiente nell’esplorazione del piacere sensuale. E con questo peso di impotenza, di frustrazione, di risentimento il libertino ormai vecchio continuò la sua vita socievole sedendosi a tavole dove non era più nemmeno gradito ad anfitrioni e ospiti commensali. Pranzi cui non si presentò col piglio trasgressivo dei trionfali anni giovanili. Al suo pranzo finale Casanova giunse fra gli scoppi di risa di un pubblico che non gli riusciva più di sedurre, fatto oramai estraneo e critico in tutte le occasioni della vita di società: a tavola, in carrozza, al gioco, nella conversazione, a caccia, al ballo. Così come lo descrisse impietosamente lo stesso principe di Ligne: […] Ogni giorno, o per il suo caffè, o per il suo latte, o per il piatto di maccheroni che esigeva, nascevano in casa continue discussioni. Il

32 Vedi R. Quinot, Charles de Ligne: prince wallon et européen, Bruxelles 1992, p. 67. E più in generale P. Mansel, Le prince de Ligne: le charmeur de l’Europe, 1735-1814, Paris 2002. 33 Charles-Joseph de Ligne, Aneddoti e ritratti, Palermo 1979, pp. 188.

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cuoco aveva cucinato male la polenta; […] invitati imprevisti lo avevano costretto a mangiare su un tavolo piccolo; un corno da caccia acuto o stonato aveva disturbato le sue orecchie; il conte non gli aveva detto buongiorno per primo; la minestra era stata servita apposta troppo calda; un domestico lo aveva fatto aspettare per dargli da bere; […] entrando aveva fatto l’inchino come glielo aveva insegnato Marcel, il celebre maestro di ballo e avevano riso; aveva ballato a passi lenti e solenni il suo minuetto e ogni volta avevano riso; aveva messo il suo cappello bianco piumato, la sua seta dorata, la sua veste di velluto nero e le sue giarrettiere con le fibbie di strass sulle lunghe calze di seta, e avevano riso34.

Nella società aristocratica già travolta e confusa dalla rivoluzione, più ancora che nell’età precedente, attraverso il cibo, le bevande, i cuochi, i servitori – esibiti nelle ritualizzate occasioni conviviali – si riconoscevano e si agglutinavano gli eguali di nascita e di educazione. Intorno alle tavole si accendevano i conflitti di precedenza e si decretavano le esclusioni di casta su sottili indizi di comportamento. Anche per Casanova era giunta l’ora del tavolo subalterno e marginale, del cibo trascurato: il tavolo piccolo, la polenta malcotta, la minestra troppo calda. Gli altri intorno non ammiravano più, ma ridevano e deridevano l’uomo di mondo invecchiato che nelle scelte di gusto rivelava la faticata adesione a norme obsolete, senza aristocratica naturalezza. Per lui la scena si chiuse non con l’irridente invito a cena del commendatore ma fra i battibecchi col cuoco e col maggiordomo. Era questa la vera fine ingloriosa di un libertino parvenu, che si era fatto strada nella società aristocratica in cui, ma lo aveva già detto La Rochefoucauld più di un secolo prima, il ridicolo disonora più del disonore.

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Ibid., pp. 200-201.

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Famelici libertini e donne inappetenti. L’irrinunciabile dialettica dei sessi a tavola BRUNO CAPACI

Premessa nel Settecento Il Settecento è il secolo del cibo squisito1, del protoconsumismo e della medicina igienista di Montpellier2 che detta più sani regimi alimentari alla gens du monde, golosa di vivande speziate, cacciagione e di sostanze eccitanti. Il genio del secolo, Voltaire, si fa campione di questa tendenza di gusto inneggiando ai pasti prelibati dalle pagine del Mondain. Alla luce dei candelabri che illuminano i volti dei commensali i repas procedono quasi interminabili come la conversazione che li accompagna. La gioia a tavola dei libertini e i languori delle dame chagrinées sono il punto di partenza di questo breve saggio che vuole cogliere dal dialogo tra i sessi il reciproco e diverso modo di assumere cibo e di pensare se stessi. Oggi anche il più sprovveduto seduttore conosce le implicazioni di un invito a cena, così come ogni donna sa che cosa significa riceverlo. Preferirà andare a colazione con un amico, riservando la cena o il pranzo serale all’uomo che le suscita un maggiore coinvolgimento emotivo. E, forse, se le sue mire sono ancora più ambiziose, preparerà per lui gustosi manicaretti nella sua dimora. A questo proposito, i campioni della seduzione settecentesca 1 P. Camporesi, Il brodo indiano. Edonismo ed esotismo nel Settecento, Milano 1990. 2 J.A. Venel, Essai sur la santée et l’education medicinale de jeunes filles destinées au mariage, Yverdon, Societé litteraire et hipographique, 1776. Di notevole interesse appaiono anche gli interventi del medico di Losanna Samuel Auguste Tissot che scrive sia il fortunato Essai sur les maladies des gens du monde, Lausanne, Grasset, 1770 sia il non meno noto De la santé des gens de lettres, Lausanne, Grasset, 1768.

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si orientano seconde due diverse scuole di pensiero. Don Giovanni offre cibo per creare diversivi alla sua azione di serial killer, ma preferisce mangiar da solo, ben servito da Leporello. Casanova al contrario sapeva essere un buon padrone di casa e offriva cene prelibate alle soglie della sua alcova. La sua tavola non lesinava ostiche, tartufi e l’inevitabile vino di Borgogna. Era un gourmet delicato e competente che infittiva la sua cena di premurose attenzioni per le commensali, a partire da un’ottima conversazione. Un suo invito a cena poteva meritare perfino una trasgressione alla regola monastica, sicché Maria Morosini, nobildonna, fatta monaca di clausura, indossava abiti maschili e usciva dal suo convento di Murano, abbandonandosi alle braccia di Casanova e alle mani del suo chef. Un pranzo con Don Rodrigo ha invece il limite di trovarci commensali un po’oscuri e comunque tutti inclini a celebrare il padrone di casa. Meriterebbe qualche attenzione la conversazione con il conte Attilio, deleterio istigatore del cugino, ma la presenza di fra Cristoforo a fine pasto metterebbe tutti in agitazione. Per cenare con l’Innominato bisognerebbe aspettare un suo pentimento. Più rosea la situazione nei Vicerè dove spicca l’attenzione culinaria dei monaci di San Nicola e gradevole risulterebbe un invito a pranzo dal barone Castorini senior, il nonno di Paolo il Caldo, se non avesse la mania di ingozzare i suoi ospiti anche quando sono sazi e se, soprattutto, non pretendesse di suonare la chitarra a fine pasto. Si è un po’ scherzato presentando alcune delle letture di questo saggio che cercherà di raccontare e, se possibile di spiegare, a partire dal secolo dei Lumi fino al Novecento, due complessi psicologici, due abiti mentali dello stare a tavola, o vicino alla tavola, tra uomo e donna, tra appetito e inappetenza. Da don Giovanni a don Rodrigo, da don Rodrigo alla dinastia libertina dei baroni Castorini, narrata da Vitaliano Brancati, passando per don Blasco dei Vicerè di De Roberto, si presenta un uomo sessualmente famelico che siede a mensa come agisce nell’alcova. Si potrà dire che don Giovanni ama come mangia. E le donne? Non fameliche, ma commensali discrete, devono la loro inappetenza ad una serie di ragioni. A volte non mangiano perché seducono e preferiscono ingaggiare schermaglie amorose con chi siede a tavola e gusta i loro piatti, a volte affettano languore e malinconia, distacco dal cibo e mal di capo. Soffrono di vapeurs e talvolta li esibiscono, ma il secolo le vuole anche colpevoli di ninfomania o meglio di furore uterino, sicché la loro alimentazione è in qualche modo im-

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posta dagli uomini. La medicina propone loro in questo caso un menu sobrio fatto di latte scremato, carni bianche, riso bollito, proibendo assolutamente vino e cioccolato. Nei casi più gravi si giunge alle pratiche idrologiche (clisteri e purganti) e perfino a salassi3. L’obiettivo è quello di spossare e indebolire il nutrimento fisico della loro libidine, che peraltro si alimenta anche con le letture e le piccanti abitudini di vita in società. Non è un caso che proprio nel Settecento si trovino soluzioni narrative per rappresentare questi scenari galenicomondani. Basti pensare allo Speziale di qualità4 un romanzo di Vincenzo Rota che narra di Felicita, una giovane e malinconica dama, incline ad assentarsi da pranzi e conviti, per dedicarsi, nel contempo, alla lettura di Rousseau e alla pratica idrologica del clistere. In senso del tutto opposto, il romanzo Justine di Sade ci propone un caso di alimentazione indotta, se non forzata. I monaci libertini fanno predisporre per le loro ragazze piatti gustosi e nutrienti affinché possano meglio sopportare, e magari più gradire, le successive sedute erotiche, spossanti quanto eccentriche. Thérèse, protagonista della Justine, ci racconta quanto ricchi e frequenti siano i pasti da lei consumati nel convento, insieme alle sue compagne di disgrazia: I nostri pasti erano quattro al giorno. Colazione tra le nove e le dieci. Ci danno pollo al riso, frutta cruda e cotta, tè o cioccolata; all’una viene servito il pranzo […] un ottimo passato, quattro prime portate, un piatto di arrosto, quattro contorni, frutta di tutte le stagioni. Alle cinque e mezza è l’ora della merenda: pasticceria e frutta. La cena è senz’altro eccellente, se è quella dei monaci, quando non vi assistiamo e restiamo in quattro per camera ci vengono servite in un’unica volta tre arrosti e quattro contorni, abbiamo ogni giorno una bottiglia di vino bianco a testa, una di rosso e mezza bottiglia di acquavite5.

Nutrite secondo una dieta ipercalorica, ricca di carni e certo non dissociata, le ragazze sadiane non rifiutano con sdegno e tristezza il nutrimento come farà Lucia Mondella, prigioniera dell’Innominato, e preferiscono votarsi come Thérèse al loro istinto di sopravvivenza. D’altra parte l’inappetenza di Lucia Mondella manifesta, oltre il trau-

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J.D. T, La ninfomania ovvero il furore uterino, Venezia 1986, p. 114. Lo speziale di qualità in Gli onesti ed imperterriti piaceri. Satire libertine in Italia, a cura di B. Capaci, Roma 2002. 5 D.-A.-F. De Sade, in Opere, a cura di P. Caruso, Milano 1992. 4

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ma della segregazione, una sorta di resistenza morale alla seduzione e all’istinto famelico dell’uomo in nome dei simboli eucaristici rappresentati dall’archetipo evangelico della Cena di Emmaus. L’antiLucia nella versione teatrale sarà la Violetta verdiana incline nella Traviata a non sottrarsi ai brindisi, anzi, a sollevare volentieri il calice per celebrare una giovinezza dedita ai sensi e al carpe diem. Attento, come e più di Manzoni ai rituali aristocratici, Federico De Roberto riporterà alla luce l’immagine sadiana del monaco famelico e libertino nella figura di Don Blasco. Costui, una sorta di monaca di Monza rediviva e al maschile, con il permesso di ritornare a casa per ingiuriare i parenti più fortunati, appare quasi borghese nell’intento di nutrire al meglio le proprie donne, saccheggiando per loro la dispensa del convento di San Nicola. Con Brancati l’inappetenza diventerà la visione del mondo di chi è come Michele Castorini nauseato dal vitalismo dongiovannesco della famiglia e ritiene pertanto che vi sia una grande differenza tra appetito e felicità. Proprio questo personaggio che ha il mal di testa, come le dame del Settecento, resuscita l’immagine dell’intellettuale leopardiano per vitalizzare il dualismo salute-malattia di grande fortuna nel Novecento, soprattutto se si pensa alla narrativa di Italo Svevo e in Europa a Thomas Mann. Non è dunque necessario essere una donna per sottrarsi al contagio del cibo e alla pretesa del libertino che vorrebbe fagocitare con il suo istinto il mondo e con questo negare altre ragioni di vita che non siano quelle dell’appetito sessuale. Tuttavia proprio nel romanzo di Brancati sarà Ester Salimbene a denunciare l’erotismo fagocitante di Paolo Castorini e a indurlo ad una presa di coscienza anche se parziale del suo rapporto cannibalico con l’altro sesso. Tramontato Don Giovanni, resta Casanova e il suo senso estetico del cibo e della seduzione. Scrittori come D’Annunzio e per certi versi anche Moravia e Malaparte, e molto più tardi Kundera, indosseranno la sua maschera per carpire e raccontare i segreti della femminilità. Oramai un pranzo a due, tra uomo e donna non suscita soltanto impulsi di fagocitazione alimentare ed erotica. La partita a due si gioca ancora a tavola e, sebbene talvolta i fantasmi di don Giovanni e della maga Circe occhieggino avidi i commensali tra una portata e l’altra, domina su tutto l’estro della conversazione, piccante nutrimento della conoscenza tra i sessi.

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Recitar mangiando È tradizione settecentesca che il teatro fosse illuminato mentre si recitava e che il pubblico assistesse con molta libertà e talvolta libertinaggio a quanto avveniva sulla scena. Il Teatro alla Moda di Benedetto Marcello stigmatizza le cattive abitudini di chi distratto amoreggiava e mangiava durante i recitativi per astenersene soltanto quando tenori e soprani conquistavano l’attenzione di tutti con il virtuosismo delle loro arie. E sulla scena? Nessun personaggio di Metastasio si sarebbe sognato di patire d’amore e mangiare in scena: il manto della regalità, lo stordimento delle passioni, l’emozioni languide e stremate suggerivano l’astinenza dalle gioie comuni della tavola. Davvero non si riesce ad immaginare Didone nell’atto di brindare mestamente con il Borgogna alla partenza del pio Enea o il re africano Jarba ripagarsi a tavola con le sue favorite dall’insuccessi presso la regina fenicia. La gioia del cibo avrebbe guastato l’atmosfera di irrealtà che si respira nell’opera del poeta di Maria Teresa d’Austria. Piuttosto il banchetto era una risorsa del carnevale, del registro comico-parodico che si era espresso un secolo prima nelle opere Croce e di Tassoni e nelle imprese di Bertoldo e del conte di Culagna. Ma se il teatro incontra il mondo le cose cambiano perché la dimensione realistica legittima il passaggio dalla cucina alla alcova. Carlo Goldoni nutre i suoi personaggi di cibi sostanziosi e alla moda. Le tavole delle sue commedie sono spesso imbandite di ravioli colanti di burro, di grassi capponi, di tenera carne di vitella, di intingoli insidiosi e prelibati e soprattutto di vino di Borgogna, accompagnato per il dessert da quello delle Canarie e di Cipro. E poi prosciutto, cioccolata, caffè per i pasti veloci e le merende consumati a Venezia come in villeggiatura. Così anche la parola dei suoi personaggi sembra ravvivarsi a tavola, le asprezze del carattere smussarsi ed emergere talvolta una personalità affatto nuova e inaspettata. Al primo bicchiere, al primo assaggio dei piatti della locandiera qualcosa sembra che accada al cavaliere di Ripafratta. Che cosa ci sia nell’intingoletto di Mirandolina non è dato sapere: certo l’effetto è sicuro. L’uomo che aveva poco prima rifiutato con sdegno biancheria di Fiandra, comincia a precipitare assaggiando quello che immaginiamo il piatto forte della ostessa fiorentina, l’arma segreta della sua cucina, che non era stato necessario sfoggiare per ospiti già sedotti, quali il conte di Albafiorita e l’affamato marchese di Forlimpopoli, quest’ultimo cliente in fa-

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Jean Etienne Liotard, La Cioccolataia, 1743-5, acquerello su pergamena, Dresda, Gemäldegalerie.

ma di insolvibilità. Così mentre il cavaliere viene portato a rinnegare il suo stato di inappetenza per le donne da una Mirandolina-Circe che gusta appena qualcosa di quello che il suo ospite assaggia con crescente favore, la medesima rimane al suo fianco quasi per assicurarsi dell’effetto della sua pozione gastronomica. Le costerà poco bagnare le labbra con il vino di Borgogna quando il cavaliere straparlerà di amicizia al femminile e di libertà, proprio nel momento in cui è più chiaro il suo cedimento uxorio a quel senso di insidiosa e rassicurante presenza che le donne affidano all’offerta dei loro piatti più semplici: Mirandolina non è Babette, ma una epigona borghese della maga Circe o di Armida tassiana. Una strega al naturale che confeziona pozioni commestibili e irresistibili, se accompagnate all’idea della sua amicizia transitoria e del tutto strumentale al progetto di fascinazione. E questo è vero a tal punto che, in poche scene, davanti allo sguardo sbigottito dello stesso Goldoni, il misogino-misantropo si trasformerà in un amante disperato pronto a credere alle donne e ai loro svenimenti. Se Mirandolina è una cameriera emancipata divenuta padrona,

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Corallina, protagonista della Donna di governo, è una cameriera in carriera che ha le chiavi della dispensa ma deve ancora renderne conto al vecchio padrone e, soprattutto, alla sospettosa nipote Rosalba. Ciò non toglie che Corallina in casa faccia quello che vuole, organizzando a suo piacimento veri e propri spuntini da enoteca nel cortile della casa. L’incipit dell’opera invita alla gioia e al cibo: Bel piacere ch’è l’allegria Bel piacer in compagnia Star a bere e mangiar! Finché dorme il mio padrone Voglio fare conversazione E con voi mi vo’ spassar6.

Corallina sembra più gioiosa e meno inappetente di Mirandolina, ma la sua libertà è assai limitata dal ruolo più tradizionale e dalla situazione sentimentale che indebolisce la sua libertà di azione: da una parte c’è Fabrizio il padrone benestante che la vorrebbe per sé, dall’altra Ridolfo giocatore e libertino di cui lei stessa mantiene i vizi e lo scorretto stile di vita. Corallina è donna di governo ma deve mentire al senex debole e diffidente per essere a sua volta ingannata da chi giovane non la ama, bensì fa uso del suo sostegno affettuoso ed economico. È tanto cinica con Fabrizio quanto docile con Ridolfo per il quale fa aprire con comando imperioso le botti migliori: Rid: presto dell’altro vino Cor: Tiritoffolo, spinate quella botte Voglio farvi assaggiar del vino asciutto Via Moschin, tagliate quel presciutto7.

Corallina ama veder mangiar Ridolfo, le piace metterlo in condizione di sentirsi soddisfatto della vita e di lei. È devota di chi la maltratta, cura chi la tradisce per tradire chi in lei ripone fiducia. Ma la sua vita va al giovane amante per il quale ammannisce cibo prelibato, denari e se stessa. Il tradimento del padrone vecchio e innamorato è in qualche modo squallido e necessario e se Goldoni sta dalla parte dell’innamorato Fabrizio, il pubblico forse sostiene il carattere di Coral-

6

C. Goldoni, La donna di governo, in Opere, a cura di G. Ortolani, Milano 1951, VII, p. 5. 7 Ibid., p. 7.

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lina che, per quanto fraudolenta, ruba per amore e nutre con dolcezza il suo traditore. La donna di governo è dunque serva dell’amante, dispensiera del suo benessere materiale derivato dalla dote fornita dal padrone, quando finalmente la caccerà non senza tristezza e rammarico, all’insegna di un altro non lieto fine goldoniano. Dunque Corallina è una donna sofferente che serve un famelico libertino, goloso delle sue ricchezze, non meno che del suo cibo. Sulla via dell’Austria, Da Ponte il librettista del Don Giovanni si ferma ad una locanda presso Gorizia: è il 1 Settembre 1777. La locandiera parla tedesco e cragnolino, sicché risulta un po’ difficile accordarsi per la cena, tuttavia la mimica gestuale e l’arte dell’improvvisazione consentono a Da Ponte di trovarsi in poco tempo in una situazione che non sarebbe certo dispiaciuta a don Giovanni, il suo doppio teatrale. La donna guarda l’uomo mangiare con avidità pollastri fritti, gli affetta personalmente una pera, porgendogliela con grazia, gli insegna pronunciare Gesundheit ad ogni brindisi. La locandiera di Gorizia non rimane passiva e nemmeno del tutto inappetente: gusta l’altra metà della pera offerta e desidera che il suo commensale ne affetti per lei un’altra. Condivide la gioia del pasto consumato dal suo ospite, senza gustarlo se non al dessert, ma alla lettera mangia con gli occhi chi le sta davanti: Non so se Bacco o qualche altra divinità cominciasse a scaldarle un pochetto il sangue. Dopo due buone ore di simile conversazione, una tinta vivissima le coloriva le guance e le brillavan negli occhi le fiamme della voluttà: ella era divenuta una vera bellezza. Sorgeva dalla sua sedia, si contorceva, mi guardava, sospirava, tornava a sedere; tutto questo però alla presenza di due vaghe servette […]8.

L’uomo mangia e la donna spizzica, il seduttore si butta sul cibo e la donna lo guarda mangiare e si accontenta di gustare un po’ di frutta, ma intanto il suo appetito sessuale si manifesta a livello fisionomico in questa locanda libertina, dove anche le cameriere riserveranno all’ospite di Cenada affettuose attenzioni. Il tutto sa di teatro e di messa in scena, di rappresentazione borghese di un approccio sessuale venato di grazia rococò, di esuberanza maschile e di una certa insistita civetteria femminile, ampliata dalla maliziosa canzone di una delle servette che canta: Ich liebe einen welschen Mann. Forse il motivo era 8

L. Da Ponte, Memorie, in Memorie. I Libretti mozartiani, Milano 1976, p. 61.

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un repertorio della locanda per i visitatori italiani, forse Da Ponte non può essere da meno del protagonista del suo famoso libretto, forse, ma importa che egli esalti del cibo la funzione propizia al sesso, anche a quello cantato. Ora siamo a Vienna ed è il 1787. Da Ponte è nei suoi appartamenti: passa dodici ore al tavolino ogni giorno perché ha ricevuto dal teatro di Giuseppe II e nella fattispecie dal conte di Rosenberg la commissione di ben tre opere, destinate a musicisti insigni: Martini, Salieri e Mozart, quanto di meglio offre l’Europa musicale. Tra queste opere vi è il Don Giovanni. La scrittura è frenetica, procede appassionata ed ispirata. Tra un recitativo e un’aria, gli endecasillabi e settenari si alternano con sapienza e felicità inventiva, soprattutto se interviene la musa, una giovanissima servetta, pronta a farsi avanti ad ogni suono di campanello per offrire allo scrittore biscotti da sbocconcellare, accompagnati da frequenti sorsi di tocai. E l’amore ancillare seduce, come tutti gli amori possibili, don Giovanni che irrompe come un demone al rinfresco del matrimonio di Masetto e Zerlina, sposi contadini e prede della sua libido imperiosa. Contrabbandando l’intrusione come manifestazione di un antico dovere di ospitalità, il libertino offre una sorta di merenda agli ospiti e allo stesso recalcitrante Masetto, purché lo lascino solo con Zerlina, destinata ad accettare il suo corteggiamento, ma anche a redimersene. Si tratta delle solite portate di vini, prosciutti, cioccolato e caffè che ormai sembrano uscire dalla dispensa settecentesca. L’ordine dato al servo Leporello è perentorio: presto va’ con costoro nel mio palazzo conducili sul fatto. Ordina ch’ abbiano cioccolatte, caffè, vini e presciutti. Cerca divertir tutti9.

L’ansia di stordire e stordirsi domina la libido gastronomica di don Giovanni: il cibo è per lui strumento di seduzione: «fin ch’han del vino / calda la testa»10 e necessità di ristoro. Offre sempre una buona tavola, ma poi lui mangia da solo o, tutt’al più, in compagnia di un’inappetente donna Elvira, venuta ad offrirgli, con il suo amore, la possibilità di pentirsi. Ma don Giovanni si burla di lei e certo non inter9

Id., Don Giovanni, in Memorie. I libretti mozartiani, cit., p. 526. Ibid., p. 541.

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rompe il pasto in cui sono servite portate di fagiano e si mesce vino marzemino. Il tutto allietato da accompagnamento musicale e dai commenti di Leporello sul famelico appetito del suo padrone, osservato nell’atto di trangugiare enormi bocconi, spropositati anche per la sua fame di servo. Il contrasto tra la donna dolente e ancora innamorata e il seduttore spronato dal proprio barbaro appetito incontro alla morte, che non tarderà molto a bussare alla porta del palazzo, è davvero fortissimo. Del resto, donna Elvira non è invitata a cena, non siede alla tavola del proprio persecutore sentimentale. Ma resterà al suo fianco in una muta e breve attesa di quello che deve accadere. Dolore, risentimento, diritto di vendetta animano i suoi pensieri ma vi è tra di essi anche il senso di uno sgomento tutto femminile di fronte al compiersi degli eventi. Tutto sommato don Giovanni è ancora suo marito e quella che accade è per lei una tragedia familiare. Elvira è dunque una moglie che osserva il consorte cibarsi, amare e morire, fiero e amorale, senza temere l’inferno. In lui agisce un impulso erotico che fa tutt’uno con una veemenza esistenziale in qualche modo rafforzata ed esplicitata dal rapporto con il cibo. Don Giovanni non pensa né a lei, né al rimorso e dunque nemmeno ai demoni che avanzano in una sorta di macabro corteo dietro la statua funebre del Commendatore. Gli basta offrire un pranzo alla morte: «Leporello, un’altra cena / fa’ subito che si porti»11. A tavola con don Rodrigo Da don Giovanni a don Rodrigo il passo è breve, anche qui c’è un palazzo in cui un nobile siede a tavola. Ma non è solo con il proprio servo, intorno a lui c’è una piccola corte di provincia, anzi di paese, composta da quelli che De Roberto chiamerà con un’efficace immagine: i lavapiatti. Intorno ai commensali si intravede lo spettro della carestia alla quale si fa più di un brindisi scaramantico e dissacratorio. Sembra che a tavola l’intenditore di vini sia l’avvocato Azzeccagarbugli che, dandosi arie di sommelier secentesco, elogia i vini del suo anfitrione:

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Tirato fuori dal bicchiere un naso più lucente e più vermiglio di quello, il dottore rispose battendo con enfasi ogni sillaba: «dico, proferi-

p 11

Ibid., p. 589.

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sco e sentenzio che questo è l’Olivares dei vini: censui e in eam ivi sententiam che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore: che Dio guardi, e definisco che i pranzi dell’illustrissimo Don Rodrigo vincono le cene di Eliogabalo: che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede e regna la splendidezza»12.

Il brindisi è di tutto rispetto e presenta una costruzione retorica che va dalla figura della antonomasia (Olivares dei vini) a quella dell’iperbole (i pranzi dell’illustrissimo Don Rodrigo vincono le cene di Eliogabalo) per sentenziare il desiderio dell’oratore di appartenere ad un mondo superiore, rappresentato dalla piccola corte di don Rodrigo. I commensali gustano il vino e il loro parlar feroce ai danni di fornai e presunti colpevoli di incetta di grano e farina. Il conte Attilio, il podestà, don Rodrigo, l’Azzeccagarbugli rappresentano il vertice di una piccola società. Nessuna figura femminile sorride a questo convito, giunto al termine quando fra Cristoforo vi porterà, non invitato, la presenza di Lucia e la minaccia di un giudizio finale che certo non farà bene alla digestione del padrone di casa. I pranzi illustrati da Manzoni sono quelli del potere, o di chi si ritiene ad esso aggregato e servono all’immagine e allo sfarzo della casa. Basti pensare al banchetto offerto dai parenti della vittima di Ludovico-fra Cristoforo, a quello predisposto dal conte Zio per stupire con la declamazione delle sue conoscenze a Madrid il padre provinciale e infine alla cena funebre offerta proprio da don Rodrigo in onore del defunto conte Attilio. I conviti dei Promessi Sposi sono non meno ricchi di retorica che di portate13. Tornando a Don Rodrigo si deve dire che non è certo un gran don Giovanni. Egli è incapace di fare sua una popolana, senza ricorrere all’aiuto di poteri più alti del proprio e rischiando addirittura il conflitto tra potere civile e religioso. D’altra parte il suo profilo nel romanzo non è quello di Egidio nel Fermo e Lucia, perché non vi è indugio di narrazione erotica. Don Rodrigo è descritto come un arrogante incontinente del tutto schiavo dei propri appetiti. Ma la sua giovanile e aristocratica boria è nulla a paragone del terrore suscitato dal-

12 A. Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di E. Raimondi e L. Bottoni, Milano 1994, pp. 108-109. 13 E. Raimondi, L’osteria della retorica. La dissimulazione romanzesca, Bologna 2004.

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l’Innominato con il quale Lucia dovrà pure confrontarsi. Dopo tutto si tratta del più temibile “bandito” del vicereame di Lombardia. Davanti a lui Lucia fa ricorso alla sua fede come mai aveva fatto prima. A poco giovano le parole rincuoranti dell’Innominato pronunciate davanti all’incredulità della vecchia, che vede nello schermirsi di Lucia un tentativo di circuire tra lacrime, preghiere, silenzi e invocazioni a Dio il suo padrone, che così gentile non è mai stato con nessuno. La notte che Lucia fa voto di sé alla Madonna, qualcuno la ritiene una privilegiata che sa intenerire gli uomini e con questo rancore sordo approfitta pure della sua cena, non senza averne declamato la prelibatezza: Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder di quella buona roba. Adoperava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza dei cibi: «di quei bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare ad assaggiarne se ne ricordano per un pezzo! Del vino che beve il padrone con i suoi amici… quando capita qualcuno di quelli…! e vogliono stare allegri!»14.

Dopo aver ricusato il cibo con un moto di inappetenza: «Non ne voglio nulla rispose quella con voce fiacca e sonnolenta» e, dopo essersi sincerata che la porta sia ben serrata, Lucia si appresta a trascorrere una notte non meno inquieta di quella che sta passando il suo rapitore. L’inappetenza di Lucia è quella di chi è posto in cattività, privato della sua libertà e minacciato nella sua sicurezza. La distanza dal cibo è quella dalla vita in una notte in cui lei si consacra alla Vergine, mentre teme la violenza morale e fisica del suo persecutore. In un romanzo a sfondo etico e religioso, come i Promessi Sposi, il ruolo del cibo deve avere anche un significato diametralmente opposto, se esaminato dal punto di vista del rapporto con il mondo o con la fede. In senso mondano, il cibo e il convito rappresentano una sorta di manifestazione dell’orgoglio di potere del ceto dominante, la cui terribile parodia nel tempo della peste sarà rappresentata dai macabri brindisi dei monatti. All’opposto si colloca la lettura allegorica del significato religioso e dunque salvifico assunto proprio dal cibo nella sua più povera e parca disponibilità. Basti pensare all’ammuffito pane del perdono che fra Cristoforo tiene nella sua borsa o alla polenta 14

Manzoni, I Promessi Sposi, cit., p. 461.

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mangiata da Renzo insieme all’amico ritrovato sul finire della sua peripezia e scampato come lui alla peste. Alla fine del romanzo, proprio il pranzo di nozze ribadisce certe differenze sociali, perché gli sposi non siederanno allo stesso tavolo del nuovo conte, che si ritirerà con don Abbondio a consumare il pasto in un’altra stanza, ribadendo così il rispetto dei ruoli gerarchici che il caos della peste sembrava aver sovvertito. Renzo e Lucia, felici al tavolo del convito, ricordano un po’ Masetto e Zerlina15 ritornati alla locanda per festeggiare il loro matrimonio, dopo la morte di don Giovanni, ma il lieto fine della loro vicenda è un po’ diverso, senz’altro meno musicale e tanto più perplesso. Pranzi in Sicilia La spesa di Don Blasco Attento conoscitore della società siciliana, Federico De Roberto sa riconoscere con molta competenza i rituali che accompagnano gli eventi privati e pubblici della famiglia Uzeda, appunto i Viceré. Memorabile è la descrizione del rinfresco offerto dal principe Uzeda, dopo la lettura del testamento. Il maggiordomo Baldassarre sembra danzare nel salone, rispettando un preciso ordine gerarchico nell’offrire gramolate, paste e biscotti ai convenuti. Il servizio procede con acuminata sapienza eleggendo una sorta di gerarchia interna tra chi per primo deve accedere ai rinfreschi e tra chi finisce con l’essere discriminato come donna Matilde di Milazzo. Costei subisce la condanna rituale perché ha la grave colpa di essere di piccola nobiltà e soprattutto di essere moglie di Raimondo Uzeda, il cobeneficiario di un testamento che ha violato la legge del maggiorasco. Tra i convenuti si agita con la sua voce alta e stridente, don Blasco che proferisce dure critiche nei confronti delle ultime volontà della defunta e dell’accondiscendenza dei parenti meno beneficiati. Certo don Blasco Uzeda è uno dei personaggi che più si stagliano nella memoria del lettore dei Viceré di Federico De Roberto. Cadetto della nobile famiglia degli Uzeda, monacato per forza, privato del titolo, della rendita e della possibilità di

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G. Macchia, Tra don Giovanni e don Rodrigo, Milano 1991.

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sposarsi, egli vive, ad un tempo torvo e sarcastico, nel magnifico convento di San Nicola, a Catania. Ma non di rado, dopo aver fatto visita alle sue amanti, se ne torna a palazzo per infamare i parenti. Il suo carattere sanguigno, irruente, maldicente, ma sincero nel proferire le verità insopportabili a tutti gli altri Uzeda, è dipinto a tinte forti. Egli risulta un uomo carnale dedito in modo clamoroso ai piaceri che la vita gli ha negato. Se il fratello Ludovico vittima della stessa situazione coglie nella monacazione la possibilità di una folgorante carriera ecclesiastica che gli restituisce nella Chiesa le dignità sottratte dalle scelte di famiglia a favore del fratello maggiore, don Blasco non tace la sua insofferenza per i vincoli religiosi, parla e gioca con libertà, è dedito alle donne e al cibo. Sotto la cappa di San Benedetto si agita un uomo energico che vuole riprendersi tutto quanto la vita gli ha tolto, ma lo fa in modo istintivo e greve, esibendo una condotta a dir poco dissoluta che spiace a molti, che irrita, che provoca e che gli impedisce di raggiungere il vertice della gerarchia. Al centro di questo regime disordinato di vita, ci sono proprio le pessime abitudini apprese nel convento di San Nicola, dove si vive nella più completa indifferenza per la regola benedettina. I piaceri della tavola sono concessi e vissuti in convento in barba ai punti 35 e 36 della regola che stabiliscono per i monaci un regime alimentare morigerato. Anzi, nella stessa Palermo la cucina del convento di San Nicola gode di una certa fama, tanto che sono passati in proverbio il suo timballo di maccheroni con la pasta frolla, le arancine di riso grossa ciascuna come un “mellone”, le olive imbottite, senza omettere l’alta pasticceria dei gelati, degli spumoni, delle cassate preparate da don Tino, rinomato pasticciere napoletano del caffè di Benvenuto. Don Blasco poi amava nutrire le proprie amanti che in numero di tre tutta la città gli riconosceva. Per questo, ogni mattina scendeva in cucina perché si destinassero a loro i piatti e, se per caso erano giorni di magro aspettava ritto sulla soglia del convento i cuochi di ritorno con la spesa del pesce. E dopo averlo visionato, diceva con aria imperiosa: «taglia un rotolo di questa cernia e portalo a donna Lucia»16.

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F. De Roberto, I Viceré, Milano 1976, p. 215.

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Le triglie di Paolo il Caldo Le donne sono l’oggetto principale della visione del mondo del barone Castorini junior. Il cibo del suo desiderio che però gli lascia addosso una strana e persistente malinconia. La sua storia deriva da un archetipo familiare dove coesistono gli spunti carnali del nonno, la raffinata lussuria della madre e l’inappetenza ai sensi del padre. La personalità di Paolo è il frutto di queste antitesi tra appetito e inappetenza di cui erano un’efficace rappresentazione i rituali conviviali di casa Castorini, caratterizzati come sempre dall’arrivo in perenne ritardo di Michele Castorini (il padre del protagonista) alla tavola presidiata e presieduta dalla imponente figura di Paolo Castorini senior. Il barone Paolo è un nipote di don Giovanni, ama la vita e la cucina da uomo mediterraneo e adora essere servito dalla nuora Marietta, donna seducente e capace di trasformare un semplice complimento o un innocente bacio in una conturbante avance per chi li riceve. Consapevole dell’inferiorità fisica e della diversità morale del marito Michele, che ama come un figlio, Marietta gioisce e si ravviva per la complicità mentale e sessuale che, inconsapevolmente o meno, la lega al destino libertino ed edonistico della famiglia. È la nuova locandiera in versione etnea e gioisce nel vedere i suoi piatti gustati dal suocero e dagli altri commensali. La vita del vecchio barone è un fiotto di sangue o di bile. Egli ama e odia con la stessa intensità. È vorace, iperteso, impulsivo quanto il figlio Michele è inappetente, ipoteso e riflessivo. Le diverse e inconciliabili nature di padre e figlio provocano un contrasto talmente forte da rasentare il disgusto reciproco. La scena del pranzo è teatro di uno scontro alla presenza degli altri familiari e degli ospiti, che hanno quasi l’obbligo di sposare le opinioni anglofobe del padrone di casa e di gustare tutto quello che viene loro offerto con insistito, quanto terrificante, dovere di ospitalità. È evidente come il barone Paolo e Marietta Castorini siano complici nella loro mania vitale. Marietta sovrintende alla cucina ed è responsabile di ogni portata che raggiunge la tavola. Il barone Paolo incita tutti a servirsi, soprattutto Michele, che trova la conversazione non meno indigesta del cibo. La sua provvidenziale emicrania lo sottrae, quando il pranzo è solo al risotto, alla tortura gastrica, inseguito da donna Marietta la quale non trova di meglio che rimproverarlo sommessamente di non aver fatto preventivamente un clistere. Il banchetto continua, dopo che lo ha lasciato il suo più pallido convitato, con portate di tac-

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china ripiena di vitello e verdura, cefalo alla maionese, abbacchio alla cacciatora con cipolline al forno ed infine un fritto di triglie e calamari la cui prelibatezza suscita scene di entusiasmo collettivo. Il profumo e la fragranza di quel piatto portano il barone a disinteressarsi degli ospiti per rievocare il passato. Dopo lo scontro con il figlio che ha rimproverato di essere disfattista e masochista, il barone Castorini sembra incline ad una nostalgia che non assume il volto di una donna, bensì l’aspetto di un altro piatto di triglie che Marietta gli cucinò, ancora nubenda, nel 1902: Queste di oggi, per esempio, sono eccellenti ma le triglie che ho mangiato a casa tua il 6 ottobre 1902… il barone socchiuse gli occhi facendo del presente la luce che si vede aldilà di un tunnel, mentre nell’ombra della memoria riappariva una tavola imbandita sotto una pergola e circondata da gente in gran parte defunta, avevano qualcosa, io non so bene, un sapore così delicato e insieme così stuzzicante… si sentiva il mare e si sentiva pure la buona frittura17.

Non è che un momento e poi la confusione continuerà fino a precipitare in un canto collettivo e semibacchico accompagnato dal suono della chitarra strimpellata dal barone, mentre Marietta batte felice ed ebbra la mano inanellata sulla spalliera della seggiola. È evidente come in questo romanzo il polo voracità-inappetenza si sia spostato dalla relazione uomo-donna a quella padre-figlio in nome di una estraneità al talento familiare. A Michele la sifilide del padre ha procurato una salute malferma e nello stesso tempo una maggiore consapevolezza di che cosa sia la gioia e quanto sia diversa dalla manifestazione di un appetito sessuale o gastronomico. Così egli stesso si rivolge al figlio Paolo: Voi amate la vita e la vita vi piace molto e io non sono riuscito mai a sentirne il sapore. Con tuo nonno e con tuo zio ho molte giornate in comune, molti pranzi, molti viaggi. Di una colazione in riva al mare, che abbiamo fatto a Napoli quindici anni fa, bisogna sentire come essi ricordino le pietanze, l’odore del muschio, il colore del vino, i motivi delle canzoni. Se confronto i loro ricordi coi miei, mi sembra che la stessa cosa si sia svolta per me in un altro paese, semplicemente insipido e incolore […] però, aggiunse Michele, […] la felicità non cir-

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V. Brancati, Paolo il caldo, Milano 1962, p. 90.

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cola in nessuno di voi, la felicità in questa famiglia avrei potuto averla soltanto io, perché la felicità è ragione18.

È una sorta di testamento morale, di sfida ed insieme un atto di rivolta alla genetica familiare che domina anche il figlio che stravede già per contadine, parrucchiere, farmaciste e attrici di passaggio. Ma la figura femminile ritorna alla fine del romanzo per suggellare le parole del padre con l’exemplum di una femminilità sottratta alla cieca libidine. Ester Salimbene merita proprio un posto a parte nel romanzo. Delicata, elegante, volitiva e comunista, Ester è una presenza atipica nei salotti romani perché rappresenta il nemico da mostrare con stupore, una belva ammansita che cammina sinuosa ed insidiosa tra chi la sente così irriducibilmente nemica del proprio tenore di vita e dei propri privilegi. Ester è un’immagine della purezza ed insieme della perfezione: nemica del corpo gonfio di sangue di Paolo quanto vagheggiata dalla sua testa anemica, desiderosa di riscatto. Ester è un’oratrice dalla voce felpata che intona i discorsi pronunciati alla Camera dei deputati con talento seduttivo. Ester sembra riportarci alle pagine manzoniane sulla carestia quando racconta la fame delle popolazioni del sud, la vecchia e nuova desolazione dei diseredati. La donna produce nel romanzo incompiuto di Vitaliano Brancati una sorta di istanza purificatrice. È una vendicatrice e nello stesso tempo una giudice di Paolo. Il processo al decadimento morale del barone siciliano trapiantato nella capitale avviene tra le baracche della periferia, davanti alla folla dei borgatari propensi più che mai a far giustizia di quell’attempato pappagallo cinquantenne. La condanna è sprezzante senza appello: Paolo è espressione di una classe decadente il cui dentro è il vuoto e il fuori l’apparenza; Paolo non ha diritto a lamentarsi della sua condizione perché è definito: «un sudicio animale pieno di Spirito, con uno sguardo sudicio pieno di ributtante Spirito». L’ultima scena del romanzo ci presenta il libertino sulla via del ritorno e della rieducazione. Ester guida la sua macchina ma sorveglia i pensieri di Paolo con femminile preoccupazione. Paolo è affranto, si direbbe sotto schiaffo, in quanto le parole di Ester sembrano penetrare la sua visione e fare finalmente luce tra le ombre del desiderio che caratterizzano per lui ogni visione femminile. Finalmente la femminilità pare sottrarsi all’appetito e all’istinto cannibalico che caratterizza ogni suo rapporto con le donne: 18

Ibid., pp. 92-93.

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Altrimenti esse erano per lui una pasta animale non molto dissimile da quella che percepisce di una persona un cannibale a cui la forma e i moti di un’esistenza simile alla sua non provocano che appetiti e abbondante salivazione19.

Ci volevano una dama comunista, sensibile alla fame delle popolazioni del sud e l’anemia di testa ereditata del padre, perché il barone Paolo Castorini junior ormai cinquantenne riconoscesse in sé la patologia del don Giovanni che si ciba dell’essere femminile violando la sua dignità e soprattutto misconoscendo la sua integrità intellettuale. La donna che nutre e seduce l’uomo che siede a tavola con lei, che si nutre della conversazione, più che dei manicaretti casanoviani, sebbene non li disdegni, stabilisce un tipo di relazione in cui la comprensione e la curiosità valgono più di un moto di salivazione.

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Ibid., p. 368.

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In piazza per il pane: una presenza al femminile FIORENZA TAROZZI

La folla si sparge ne’ magazzini. Metton mano ai sacchi, li strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: – aspetta, aspetta –, si china a parare il grembiule, un fazzoletto, il cappello, per ricevere quella grazia di Dio; uno corre a una madia, e prende un pezzo di pasta, che s’allunga, e gli scappa da ogni parte; un altro, che ha conquistato un burattello, lo porta per aria. Chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, respinte, urli, e un bianco polverio che per tutto si posa, tutto si solleva, e tutto vela e si annebbia1.

Sono questi alcuni momenti di quei “tumulti per il pane” a cui prende parte, protagonista senza suo volere, Renzo Tramaglino in quella Milano seicentesca narrata nel romanzo del Manzoni. Tumulti che vedono la presenza, solo accennata, di donne che lottano per lenire la loro fame e quella dei loro figli. Ora, pur nella limitatezza di quel passaggio, Manzoni registra una realtà di cui aveva sicura certezza: le donne, in piazza per la difesa della famiglia non erano mai mancate. Anzi, proprio nel secolo XVIII, quello che si era appena chiuso quando il letterato scriveva il proprio romanzo, si era trattato di una presenza registrata in numerose piazze europee. Un modello di presenza, peraltro, che continuerà, come vedremo, anche nei due secoli a venire. Manuela Martini – in un saggio del 1995 – ha discusso i caratteri di quella presenza delle donne in piazza durante i “tumulti alimenta-

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A. Manzoni, Promessi sposi, Milano 1965, p. 417.

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ri”, analizzando la già ricca bibliografia in merito, ponendo l’accento però più sulla funzione “politica” di quella presenza, che non su quella “sociale”2. «Escluse dall’esercizio del potere politico – scrive Martini – esse prendono parte attiva nella contestazione delle autorità che lo esprimono»3, ma a quella opposizione politica va aggiunta, non come secondaria bensì come complementare, la volontà di mettere in piazza motivazioni economiche e morali4 utilizzando i momenti che si davano, vale a dire i tumulti annonari. Pur essendo d’accordo con osservazioni di Martini relativamente al fatto che quella presenza in piazza vada letta in chiave anche di una modernità rivendicativa, espressione della capacità delle donne di uscire dallo spazio privato in una stagione storica che le escludeva dalla dimensione pubblica, credo comunque che non si debba sminuire l’aspetto più privato, la difesa di sé e della propria famiglia, difesa che va declinata globalmente in chiave sia politica che sociale. Il pane e la sua difesa o rivendicazione da parte delle donne è infatti, secondo me, un segno privilegiato attraverso cui si rivela, a chi ne studi il significato nella storia femminile, la doppia appartenenza della donna e la sua continua oscillazione fra la sfera privata e quella pubblica che costituisce in larga parte la specificità sociale femminile. Nella dinamica collettiva della protesta sociale la presenza femminile è ampiamente documentata. Una protesta da sempre legittimata dalla convinzione di difesa dei propri diritti contro leggi vessatorie e contro i soprusi dei negozianti che non esitavano ad abusare del proprio potere per aumentare i prezzi dei generi alimentari, e del pane in particolare, portando la gente alla fame. Come ci ricorda Edward P. Thompson, nel XVIII secolo i lavoratori non vivevano solamente di pane, ma il pane era assai spesso quasi l’unico alimento in molte giornate dell’anno. Quando i prezzi salivano, oltre la metà del bilancio settimanale di una famiglia di lavora-

2 M. Martini, Divisione sessuale del lavoro e azione collettiva nelle campagne padane di fine Ottocento, in Donne e spazio nel processo di modernizzazione, a cura di D. Gagliani e M. Salvati, Bologna 1995 («Quaderni di Discipline storiche», 9), pp. 75-110. 3 Ibid., p. 75. 4 Cfr. E.P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, in Società patrizia cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Torino 1981, pp. 57-135.

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tori veniva speso per il pane, ne conseguiva che la difesa dei prezzi doveva essere controllata, quando ciò non avveniva la risposta popolare si trasformava in disordini, tumulti, rivolte. E molto spesso erano le donne che davano avvio a quei tumulti. Nella cronaca di una sommossa scoppiata nel 1737 a Poole, nel Dorset, contro l’esportazione di grano, venne riferito: «La massa è rappresentata da un gran numero di donne e da uomini che le appoggiano e giurano che se qualcuno si permette di molestare una delle donne nelle loro azioni essi formeranno grandi squadre e distruggeranno sia le navi che i carichi» […] un giornale di Birmingham descrisse i disordini di Snow Hill come l’opera di «una calca incitata di donne furiose»5.

Le citazioni potrebbero moltiplicarsi, a conferma di una presenza forte e costante, una presenza giustificata sicuramente dal fatto che erano proprio le donne ad essere le più attive, perché le più coinvolte, nella contrattazione individuale al mercato, sempre attente ai prezzi, abilmente formate a scoprire se i negozianti rubavano sui prezzi, sui pesi, se vendevano prodotti di scarsa qualità. Erano spesso queste le ragioni che portavano le donne a manifestazioni spontanee – che potevano svilupparsi in un rituale di urla e imprecazioni alla porta delle botteghe, o nell’intercettazione di carri di grano o farine – oppure arrivare a forme organizzate di protesta, realizzate con il consenso e l’appoggio della comunità. All’aprirsi del XIX secolo, il clima mutava, e non poco. Le rivoluzioni che avevano chiuso la stagione dell’ancien règime si erano realizzate nel sangue e – ancora una volta ricorriamo alle parole di Thompson – «all’aprirsi del nuovo secolo si rimane colpiti dal crescente simbolismo del sangue e dalla sua assimilazione alla domanda di pane»6. A Nottingham, nel 1812, le donne manifestarono per la città con una pagnotta infilzata su un palo, venata di rosso e annodata ad essa con un nastro di crespo nero, emblema della «fame sanguinante vestita a lutto». Nel 1816 a Yeovill, nel Sommerset, una lettera anonima diceva «sangue, sangue e sangue, una rivoluzione generale ha da essere…». […] Durante i tumulti di Merthyr, nel 1831, venne sacrificato

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Ibid., p. 98. Ibid., pp. 120-121.

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un vitello, e una pagnotta, immersa nel suo sangue e infilata su un’asta di bandiera, servì come emblema della sommossa7.

Clima mutato dunque, e ciò è verificabile quando si va a mettere in luce la presenza delle donne in piazza – nel corso dei secoli XIX e XX – per rivendicare pane, o pane e lavoro: una presenza che si è liberata della dimensione forte, non riduttiva ma quasi esclusiva, del tumulto alimentare per divenire un’azione rivendicativa, in cui le posizioni economico-sociali e quelle politiche si intrecciano e assumono pari valore. Esempi di quanto sopra affermato si trovano nella storia italiana post-unitaria e ne accompagnano gli eventi fino ai decenni a noi più vicini. Il “primo caso di studio” è sicuramente la legge sul macinato del 1868. La classe dirigente del Paese da poco unificato si era immediatamente trovata nella necessità di affrontare una realtà sociale composita, fatta da segmenti disomogenei, segnata da chiusure e diversificazioni locali e da squilibri economici e civili: la povertà del Mezzogiorno, il forte divario tra città e campagna, il diffuso malessere sanitario che condannava l’Italia a condizioni di forte inferiorità rispetto ai paesi più evoluti, le deboli possibilità alimentari della popolazione causa di malattie e di forte mortalità infantile. Il pane era, come risulta da testimonianze dell’epoca, l’aliGiuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, olio su tela, Milano, Galleria Civica mento base nella casa di tutti

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d’Arte Moderna. 7

Ibid., p. 121.

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gli italiani dal nord al sud del paese. L’aumento del costo del pane metteva in crisi le già deboli economie famigliari e poteva divenire, come più volte accadde, causa di disordini sociali in cui non mancava di registrarsi il protagonismo delle donne. Tra gli esasperati fermenti sociali che caratterizzarono la vita delle campagne nel primo decennio post-unitario vanno collocati i moti del “macinato”8. La tassa sulla macinazione dei cereali fu stabilita a partire dal 1 gennaio 1869 dal governo Menabrea (secondo un progetto già presentato da Quintino Sella nella precedente legislatura), dopo una discussione nelle aule parlamentari nei mesi compresi tra il marzo e il luglio 1868. Il provvedimento legislativo rispondeva alle logiche politiche di un governo impegnato nella ricerca di mezzi finanziari per fare quadrare i conti della finanza pubblica. Venne così escogitato un macchinoso sistema che prevedeva il versamento di un’imposta corrispondente ai giri delle macine (misurati da contatori meccanici) di tutti i mulini allora esistenti, con il pagamento delle somme dovute da parte dei clienti nelle mani dei mugnai prima del ritiro delle farine. La tassa sul macinato veniva a colpire le popolazioni rurali in maniera più immediata che non gli abitanti dei centri urbani: per questi infatti la tassa sarebbe stata anticipata dai fornai, configurandosi come un’imposta indiretta, mentre i contadini la vivevano come una vessatoria imposta diretta. Altro effetto della nuova tassazione sarebbe stato l’inevitabile aumento del prezzo del pane. La reazione fu immediata, forte e articolata. Da un lato i mugnai rifiutavano il compito di esattori del fisco loro imposto e piuttosto che installare i contatori preferivano sospendere la macinazione; dall’altro la gente colpita dalla chiusura dei mulini e, quindi, dall’assenza di farina per la panificazione scese in piazza in molte parti del paese, più al nord che al centro e al sud. Nell’Emilia le sommosse contadine, cui parteciparono in prima linea i braccianti ma anche mezzadri, piccoli proprietari e artigiani, assunsero proporzioni serie in molti comuni rurali con scontri tra rivoltosi e forze dell’ordine pubblico, incendi e saccheggi di mulini. La richiesta di fondo era sempre la stessa «soppressione della tassa sul macinato [perché] gravosa ed impossibile a sopportarsi dietro le

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G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, V La costruzione dello stato unitario 1860-1871, Milano 1978, pp. 350-352.

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ingenti spese che oggi giorno occorrono pel mantenimento della famiglia»9. Alcuni mugnai cercarono di evitare la tassa macinando tutto quello che era possibile entro la fine di dicembre 1868; altri invece si ribellarono rifiutandosi di applicare la tassa. Il disordine crescente cominciava ad assumere i caratteri della rivolta: le piazze di molti paesi si riempivano di manifestanti, le cronache dei giornali ne davano conto. «A Castell’Arquato avvenne una manifestazione contro i mugnai e la legge a cui parteciparono 500 persone: donne, uomini, ragazzi»10; «in Alessandria i molini nell’ultimo giorno dell’anno dal mattino alla notte furono assediati da povere donnicciuole e da poveri contadini che volevano far macinare uno o due decalitri tutt’al più di grano e di meliga pur di risparmiare pochi centesimi. E poi si dica che nessuno ha fame»11; «a Cavacurta vennero fatti dieci arresti, fra i quali due donne»12. La presenza femminile è una costante in quei moti che la stampa democratica definiva “della fame”. Particolarmente significativo quanto avvenne in una piccola frazione dell’Appennino bolognese nei primi giorni di febbraio. Così lo raccontava in una relazione al prefetto il responsabile della legione dei carabinieri di Bologna: Alle 12 meridiane delli 11 andante, una moltitudine di donne in numero di circa 150, provenienti dalla parrocchia di S. Maria di Zena, così detto Monte delle Formiche, tutte assieme giungevano nel Borgo di Pianoro con grida e pianti chiedendo di voler discorrere col brigadiere della stazione dell’Arma per motivi del macinato. Fermata la turba da due Militari di detta stazione, questi recaronsi tosto ad avvertire il loro Brigadiere che immediatamente si presentò ad esse chiedendo loro cosa avrebbero desiderato, e quale fosse il motivo di tale manifestazione inaspettata. Le parole unanime di quelle donne furono le seguenti: “Vogliamo macinare e non vogliamo pagare la tassa, vogliamo aperti i molini oggi stesso perché siamo per morire di fame noi coi figli nostri, altrimenti saremo costrette a fare passi inconvenienti per la nostra compromissione”. […] Dopo siffatte parole il pre-

9 Archivio di Stato di Bologna (ASB), Gabinetto di Prefettura (GP), 1869, n. 163, Moti sul macinato, rapporto del questore al prefetto, 3 gennaio 1869. 10 “L’Amico del Popolo”, 4 gennaio 1869, Il frutto matura. 11 “L’Amico del Popolo”, 3 gennaio 1869, Cronaca della tassa sulla fame. 12 “La Plebe”, 30 gennaio 1869, Ultimo corriere. Macinato.

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detto brigadiere in uno ai suoi dipendenti con parole persuasive e buone maniere riescì nel termine di un’ora e mezzo, a sciogliere quell’assembramento. Risulterebbe che queste donne sono state istigate dai genitori e congiunti stessi e che il giorno 10 detto, passando sotto detto Monte delle Formiche il carro viveri dei militari accompagnato da un caporale e quattro soldati diretti a Monterenzio/Loiano si videro scagliare dei sassi contro di loro e parrebbe fossero lanciati da donne. Dalle verifiche nulla si potè rilevare»13.

Voler macinare per non morire di fame, difendere il pane alimento base della gente povera: per questo si scendeva in piazza in quell’inizio di 1869. Un pane, peraltro, descritto spesso come di pessima qualità. Il contadino dell’alto milanese o del comasco consumava quotidianamente una porzione di pane misto di granoturco, segale e miglio panificato in grosse forme che dopo pochi giorni inacidivano e ammuffivano, e lo mangiava da solo o bagnato in acqua salata e condito con olio di ravizzone o lino. I contadini pugliesi ricevevano ogni giorno «un pane nerastro e schiacciato che si chiama pan rozzo»; lo si mangiava verso le dieci del mattino, ma non interamente perché una parte bisognava conservarla per la sera, quando «cessato il lavoro, il massaro metteva sopra un gran fuoco, che era in fondo al camerone, una gran caldaia in cui faceva bollire dell’acqua con pochissimo sale». Allora «i contadini si disponevano in fila, affettavano» il pane avanzato e lo mettevano «in una scodella di legno in cui il massaro» versava un po’ di acqua salata14. Le zuppe di pane, variamente condite, facevano parte della cultura alimentare di gran parte dell’Italia povera. Inchieste ufficiali e fonti letterarie offrono ricca testimonianza di quel paese che aveva fame e con la fame aveva imparato a convivere. Racconta Federico Tozzi in uno dei suoi romanzi sociali: La farina! Masa sapeva bene quel che è la farina e quanto le costasse; la farina che le si attaccava alle dita, chiusa nella madia con un rispetto quasi fanatico. Mangiava fette di pane come un ragazzo di montagna si mette in bocca per la prima volta un pezzo di dolce e ha paura di finirlo troppo presto. Senza toccarlo con le labbra, tagliando-

3, 13 ASB, GP, 1869, n. 163, Moti sul Macinato, Dimostrazione femminile, 14 febbraio 1869. 14 P. Sorcinelli, Gli italiani e il cibo. Dalla polenta ai cracker, Milano 1999, pp. 94-95.

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lo a morsi, con un movimento annodato di tutta la bocca, lo inghiottiva con gli occhi fermi su quello che stringeva fra le dita; con una gamba sopra l’altra. La farina era lei stessa e tutta la sua famiglia. E Giacco diceva: “Non siamo fatti di pane anche noi?” E quando ficcava il braccio nudo dentro un sacco di grano, per assicurarsi che non fosse riscaldato, pareva che tutti i chicchi volessero andarglici attorno. Masa gli chiedeva: “Ci sono entrati i farfallini?” “Sarebbe meglio che si rompessero le costole a te”. Masa arrossiva, ma era contenta15.

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E, commenta Paolo Sorcinelli, «in fondo sapeva benissimo che il grano valeva molto più delle sue costole». Ancora dal ricco saggio di Sorcinelli traiamo un’ultima citazione relativa ad una testimonianza rilasciata nel 1907 da un contadino molisano in occasione di una delle tante inchieste sociali: S’alza d’inverno un’ora prima di giorno e fa la sua prima colazione. Con che? Domandai ad un contadino di Taverna: pane e potito, mi rispose in dialetto (pane e appetito). Dopo va in campagna a lavorare e a mezzogiorno fa un altro pasto di solo pane, quando non lo deve fare unicamente di sole, per mancanza di pane. La sera torna in paese e mangia una minestra di legumi secchi. D’estate i legumi sono sostituiti dagli ortaggi. Però il pane non è di grano, ma sebbene di granturco, granone, come si dice in dialetto, e qualche volta non è neanche pane, ma semplicemente focaccia cotta sotto la cenere […] Il contadino mangia granone nove mesi dell’anno ed in queste proporzioni: un uomo circa 750 grammi al giorno; la donna 60016.

Ora sono forse più chiare le ragioni delle proteste e dei moti sviluppatisi in Italia all’indomani dell’applicazione della legge sul macinato. Ma quella protesta non aveva solo contenuti sociali, era anche il grido d’accusa contro un governo che per arrivare al pareggio del bilancio non esitava a colpire i suoi figli più poveri. In questa direzione va letta la lettera che Carlo Cattaneo scrisse ai suoi elettori il 28 maggio 1867, quando si era iniziato a pensare ad un provvedimento per 15 F. Tozzi, Con gli occhi chiusi, Milano 1979, pp. 14-15 (cit. in Sorcinelli, Gli italiani e il cibo, cit., pp. 93-94). 16 C. Felice, Il disagio di vivere. Il cibo, la casa, le malattie in Abruzzo e Molise dall’Unità al secondo dopoguerra, Milano 1989, p. 41 (cit. in Sorcinelli, Gli italiani e il cibo, cit., pp. 98-99).

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tassare la macinazione del grano. Cattaneo, che moriva proprio nei giorni in cui il moto popolare si diffondeva in tutto il paese, denunciava la fretta con cui si muoveva il governo senza guardare i danni provocati a quei contadini e a quegli operai che da così poco erano diventati “italiani”. La nuova tassa, che si andava ad aggiungere agli altri innumerevoli balzelli, era “odiosa” e “pericolosa”, perché colpiva la famiglia nel suo bene più prezioso: il pane. La famiglia adunque che vive di pane e che stima non molto infelice quel giorno in cui può vivere tutta di solo arido pane, dovrà contribuire in misura massima a questo cumulo di milioni […] La famiglia che già fin d’ora può dare ai suoi figli solamente la ferrea misura del pane necessario alla vita, dovrebbe dunque, non solo per mitigarsi il martirio ma eziandio per conformarsi al calcolo legislativo dare a ciascuno ogni mattina, ogni meriggio, ogni sera un minuzzolo di meno. E da codesti miseri tozzi, tolti di bocca da milioni di infelici, si costituirà qualche centinaio (forse) di milioni che sarà necessario non si sa per quanti anni dell’era nuova affinché le consorterie gaudenti possano presentarsi in mezzo alle nazioni civili con fronte serena17.

Tassare il pane, continuava Cattaneo, avrebbe in realtà voluto dire portare nuova miseria: «colla tassa del macinato la miseria si aggrava in modo irreparabile»; ma, aggiungeva il politico lombardo, quella legge era anche contraria allo Statuto (art. 25): «giusta il quale tutti i regnicoli contribuiscono indistintamente ai carichi dello Stato nella proporzione dei loro averi. Al consumo forzoso del pane non si contribuisce in ragione degli averi ma della povertà»18. Dunque una tassa sulla povertà, così andava letto quel provvedimento; una tassa iniqua, denunciava Cattaneo attribuendo un significato chiaramente politico alle lotte che l’imposizione di quella legge avrebbe generato. Va aggiunto che gli effetti economico-finanziari della legge si fecero sentire molto lentamente: scarso nel 1869 e anche nel 1870, a causa soprattutto della complessità delle operazioni necessarie per assicurarne la regolare esazione, il gettito della tassa divenne significativo solamente a partire dal 1872 e nel decennio 1872-1881 fu certamente un elemento importante del pesante carico fiscale che rese possibile il risanamento finanziario del Paese.

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“L’Amico del popolo”, 8 febbraio 1869, Carlo Cattaneo ed il macinato. Ibidem.

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Sul finire del XIX secolo l’intreccio tra lotte sociali e battaglie politiche si andava facendo sempre più stretto, e le donne, protagoniste di tante rivolte della fame, cominciavano a rivendicare insieme il diritto al cibo e il diritto al lavoro, scendendo ancora in piazza, manifestando, scioperando al grido di “pane e lavoro”. Il primo caso che “fece notizia” fu quello delle trecciaiole toscane. Lo sciopero delle trecciaiole del 1896 fu una novità e un evento: per la sua vastità poteva avvicinarsi ai modelli propri della conflittualità agraria, delle lotte bracciantili, ma aveva come protagonisti lavoratori a domicilio, soprattutto donne. Uno sciopero di lavoranti a domicilio e, al tempo stesso un movimento di donne non si era mai visto nel nostro paese; lo svolgimento delle agitazioni evidenziava, poi, una straordinaria compattezza delle scioperanti che scendevano in piazza, chiedevano pane e lavoro, affrontavano le forze dell’ordine per difendere la dignità della loro persona e del loro lavoro e per denunciarne lo sfruttamento.

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Il grande sciopero delle trecciaiole, Firenze 1896 (da I temi di Codice Storia, Torino 2000, fig. a p. 68).

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Non si può definire un successo dal punto di vista economico il risultato di quello sciopero, a cui seguirono altri tumulti nei due anni successivi, ma una precisa presa di coscienza “sindacale” da parte delle lavoratrici è innegabile, così come l’affermarsi della consapevolezza di essere un gruppo capace di ripresentarsi, rafforzato, sulle piazze negli scioperi d’inizio secolo. Nella primavera del 1898 nuovi moti per il pane e la farina attraversarono l’Italia. A provocarli il rincaro del pane causato da un evento esterno, la guerra ispano-americana e la conseguente diminuzione di importazione del grano. A Napoleone Colajanni, grande osservatore critico e politico attento alla questione sociale, si deve la definizione di quei tumulti come «protesta dello stomaco»19. Ma la rivolta della fame non fu soltanto una protesta sociale, ebbe anche risvolti politici abbastanza evidenti perché dovunque si caratterizzò con la richiesta dell’abolizione dei dazi doganali sul grano e della costituzione di forni municipali. I moti del ’98 furono cittadini – a Milano si registrarono peraltro i più duri scontri tra manifestanti e forze dell’ordine – ma non esclusero i centri rurali minori. Nella bassa pianura padana le donne furono energiche protagoniste di quelle proteste: nel 1897 erano già scese in piazza le risaiole di Molinella, Budrio e i braccianti di Minerbio, Baricella, San Pietro in Casale, tutti comuni dell’hinterland bolognese. Nel 1898 nuove manifestazioni al grido di “pane e lavoro”. Lo svolgersi di quelle agitazioni – come ha sottolineato Manuela Martini – assunse ben presto «il carattere “ibrido” della protesta e la compresenza di finalità “di sussistenza” accanto a obiettivi sindacali»20. Si chiedevano nel medesimo momento la calmierazione dei prezzi e l’aumento dei salari giornalieri. Le piazze dei paesi si riempirono di uomini e di donne contro cui, in maniera indistinta cadde la repressione. A Castel S. Pietro la notte fra il 1 e il 2 maggio vennero arrestati e tradotti in carcere a Bologna sei uomini e cinque donne; nel complesso furono 18 le donne rinviate a giudizio per aver partecipato alla manifestazione. La gran parte delle donne (il 45,8% dei manifestanti) venne arrestata per reati connessi all’ordine pubblico: quella presenza femminile in piazza infatti non si esauriva nell’espressione attiva di

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N. Colajanni, L’Italia nel 1898. Tumulti e reazioni, Milano 1951, p. 23. Martini, Divisione sessuale del lavoro, cit., p. 86.

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una vocazione domestica alla difesa della famiglia riservata alle donne, perché a molte delle arrestate nei tumulti del ’98 venne imputato il reato di disturbo dell’ordine pubblico e associazione a delinquere per manifestazioni connesse alla libertà di lavoro. I documenti della prefettura bolognese danno conto di numeri sempre crescenti di donne arrestate e condannate: 5 a Molinella il 15 maggio 1898; 9 a Loiano il 21 maggio; il 15 febbraio a Baricella 5 operaie venivano arrestate per rifiuto di obbedienza alle autorità; il 22 marzo, a Casoni di Mezzolara, 134 operaie e 23 braccianti vengono arrestate e successivamente condannate al carcere e al pagamento di una multa21. Va aggiunto che complessivamente il numero di giorni di carcere comminato alle donne fu minore rispetto a quello degli uomini, in quanto le si riteneva meno pericolose e la loro presenza in piazza era legittimata dal loro ruolo nella sfera domestica: «le donne, responsabili della sopravvivenza dei loro figli reclamano, in quanto tali e per i loro uomini, l’opportunità di garantire la sussistenza delle famiglie»22. Lavoro, giuste retribuzioni, migliori condizioni di vita si intrecciarono da quel momento nelle proteste di uomini e donne, e spesso furono le donne a dare contenuti politici alle loro manifestazioni. Così la grande stagione degli scioperi che nel 1907-1908 attraversò la provincia di Parma vide presenti prima le bustaie (la più numerosa categoria operaia in città) che chiedevano di discutere un memoriale da loro presentato relativamente all’organizzazione e retribuzione del lavoro, poi le lavoratrici del settore agricolo. Lo sciopero del 1908 nel Parmense fu un grande sciopero agrario23, guidato dalle organizzazioni sindacali che localmente erano nelle mani dei sindacalisti rivoluzionari. Fu un’esperienza durissima conclusasi in una sconfitta, ma fu anche un’ulteriore messa in piazza del diritto alla vita. Un diritto che le donne fecero bandiera sempre più spesso delle loro manifestazioni, del loro impegno politico, delle loro denunce scritte e gridate. Per la difesa dei loro figli le donne continuavano a urlare la propria disperazione, arrivando fino a cercare la morte. 21 ASB, GP, 1898, n. 962, Agitazioni tumultuose nel Regno. Agitazioni per il rincaro del pane, Elenco degli arrestati dal 1 gennaio 1898. Cfr. inoltre Martini, Divisione sessuale del lavoro, cit., pp. 87-95. 22 Ibid., p. 93. 23 Lo sciopero agrario del 1908: un problema storico, a cura di V. Cervetti, Parma 1984.

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La Domenica del Corriere, Anno X – N. 19, maggio 1908: sciopero agrario nel Parmigiano.

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A Berlino una donna, una madre, si è gettata nel fiume con tutte le sue creature: cinque. Voleva la morte, giù, giù nell’acqua profonda per sé e pei figli. Ma i figli, che ancora ignoravano la vita e non sapevano la materna disperazione, si ribellarono; protesero, al di sopra delle acque le innocenti braccia e gridarono al soccorso. Invano la madre tentò disperatamente di trascinarli alla morte: una guardia vide la scena, accorse e salvò dalle onde chi voleva vincere e chi voleva morire. Quella donna era un’operaia, quei bimbi figli della miseria. Da giorni madre e figli non avevano mangiato, la donna aveva battuto a tutte le porte, provate tutte le umiliazioni, perduta ogni speranza. E non aveva avuto il santo coraggio di rubare per i figli. […] E come essi avevano fame e la madia era vuota, come avrebbero chiesto pane ancora l’indomani e la madia sarebbe rimasta inesorabilmente vuota, li votò e si votò alla morte. […] E la società che non seppe e non volle sfamarla prima, or la sfama in prigione […]. La legge è incorruttibile e (inchiniamoci alla sua maestà) punì senza tentennamenti né debolezze: Cinque anni di galera. Ricordate madri: se il marito è disoccupato, se tutte le porte vi si sono chiuse in faccia, se il borsellino è senza soldi, e la credenza senza pane, ricordate: «il diritto della proprietà è sacra ed inviolabile» e ricordate anche «sacro è il diritto alla vita». Voi non avete scelta, il vostro dovere è uno solo, semplice, logico, matematico: assistere alla lenta agonia dei figli, senza ribellioni, né proteste, morire silenziosamente, docilmente, con essi giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto… di fame24.

Questa l’amara denuncia della collaboratrice di uno dei più diffusi settimanali femminili italiani del primo Novecento; questa la critica ai falsi moralismi della società borghese che non voleva vedere la miseria che le stava intorno e giudicava secondo parametri legali le sofferenze e la fame dei più poveri, nascondendosi dietro il concetto della sacralità della vita, quando non faceva nulla perché quella vita fosse resa dignitosamente vivibile. E per rendere possibile la vita, sia pur ai minimi livelli, indispensabile restava il pane, alimento primo della sopravvivenza. Tu, o buon pane bianco hai la potenza magica di salvare dalla morte, dal suicidio, dal delitto e dal carcere una gran parte del genere umano che attraverso a multiformi ingranaggi del lavoro, ti crea, ti plasma e ti rende sovrano e re di tutte le mense. Tu, o buon pane, tutte le volte 24

“La difesa delle lavoratrici”, 16 giugno 1912, Un dramma del lavoro.

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che a stento entri nel tugurio del povero fai cessare come d’incanto il pianto e i lamenti dei bimbi e le imprecazioni e la disperazione degli adulti e dei genitori25.

Così il passaggio iniziale di un articolo apparso ancora su “La difesa delle lavoratrici”. Questa volta però l’intervento era declinato attorno a temi ancora più rilevanti: la lotta per il pane sottende lotte cruente i cui effetti devastanti si fanno sentire sempre e maggiormente sui soggetti più deboli. Nessuno nega il pane alle mense dei ricchi e dei borghesi, il pane è negato alle mense dei poveri. Per te, o pane, si spargono ancora ogni giorno fiumi di lacrime. Sono tenere creature che ti divorano con gli occhi o pane bianco apportatore di pace e consolatore degli afflitti. Quand’è che tu, germe di vita e preparatore di pace sarai di tutti? Sarai specialmente di coloro che lavorano? E tu rispondi o pane: che sarai di tutti, che tu smorzerai le brutali e selvaggie lotte che si combattono dagli uomini per contenderti; che tu porterai un po’ di pace e di amore fra gli uomini; la tranquilla gioiosa gaiezza fra i bimbi e che asciugherai le lacrime di molte madri quando la maggior parte delle genti del lavoro saranno meglio affratellate in un sol unico partito del lavoro avente per guida e per bussola la fede sentita nella lotta per la realizzazione del socialismo. Allora soltanto, tu rispondi o buon pane, che tutti ti conquisteranno sul serio e sapranno farne buon uso. Ebbene, o buon pane bianco, se questa è la tua voce della verità, perché dobbiamo ancora spolmonarci a predicare che deve raccoglierla, farla sua e tradurla in atto la gente della fame e del lavoro?26

Pace, uguaglianza sociale, riconoscimento di diritti fondamentali: queste le profonde richieste dell’autrice dell’articolo e divulgate fra le lettrici e le donne impegnate nella lotta politica. Parole e aspirazioni alte affossate di lì a pochi mesi nel sangue dei campi della prima guerra mondiale (durante i quali, tuttavia, le manifestazioni delle donne contadine ed operaie in tutta Italia per il pane e contro la guerra costituirono una forma di resistenza antigovernativa), e, negli anni a venire, nelle dottrine e nelle regole dei regimi totalitari. Il fascismo, ad esempio, non mancò mai di ribadire il ruolo della donna nella famiglia dove, a suo dire, essa esaltava il proprio impegno

25 26

“La difesa delle lavoratrici”, 1 maggio 1913, Al pane. Ibidem.

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politico, sociale e morale, perché «la famiglia ben ordinata, ben condotta, modestamente agiata, tranquilla e serena è la base di ogni popolo forte, di ogni nazione veramente civile»27. Le capacità economiche, le abilità domestiche, le “fantasie culinarie” delle donne italiane vennero messe a dura prova negli anni dell’autarchia e, successivamente, in quelli della fame causata dalla guerra28. Dopo l’aggressione all’Abissinia e le conseguenti sanzioni, gli italiani avevano imparato a vivere, o meglio a convivere, con una serie di restrizioni alimentari che non si vedevano solamente nel sostituire il tè, di importazione inglese, col carcadè (un infuso acidulo e rossastro che si produceva nelle colonie italiane) o nella riduzione del caffè, ma principalmente nell’impostare i pasti su minestre in cui primeggiavano patate, fagioli, piselli secchi, ceci, pomodori, zucche e zucchine; nel sostituire, alla domenica, il brodo di carne col brodo vegetale, di cui venne lanciato anche un prodotto autarchico “l’Italdado”. La campagna di educazione alimentare era incalzante: Petronilla sulla “Domenica del Corriere”, la Signora di casa su “Eva”, la Massaia su “La donna fascista” e le esperte di economia domestica dalle pagine dell’“Illustrazione italiana” proponevano, suggerivano, indirizzavano. I consigli avevano come destinatarie soprattutto le donne della piccola e media borghesia, cui si imponeva, nonostante le difficoltà dei tempi, un decoro culinario, un certo stile secondo cui lo spirito di inventiva e di adattamento doveva manifestarsi nel conciliare la più rigida economia alla necessità di mantenere quel tanto di signorilità da rendere gradevole la vita della casa. Il trionfo di questa educazione alimentare era totale quando in cucina si riusciva a realizzare il travestimento della penuria: mettere in piedi gli stessi piatti di sempre, ma senza gli stessi ingredienti. Nella campagna contro gli sprechi, le donne dovevano avere un ruolo da protagoniste in quanto mensa e cucina erano ritenuti il luogo e l’occasione in cui occorreva intervenire con urgenza. Per dare suggerimenti e consigli venivano organizzati

27 S. Pannunzio, La donna nel fascismo, in “Critica Fascista”, VI, 1 luglio 1928, n. 13, pp. 247-248. 28 F. Tarozzi, Padrona di casa, buona massaia, cuoca, casalinga, consumatrice. Donne e alimentazione tra pubblico e privato, in Storia d’Italia, Annali 13, L’alimentazione, a cura di A. Capatti, A. De Bernardi, A. Varni, Torino 1998. Cfr., inoltre, M.G. Muzzarelli, F. Tarozzi, Donne e cibo. Una relazione nella storia, Milano 2003 (in particolare le pagine dedicate all’età contemporanea).

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corsi speciali volti a diffondere i prodotti autarchici, a correggere le cattive abitudini alimentari in nome anche di una “politica salutistica” che metteva sotto accusa “il pregiudizio” che solo la carne nutrisse, mentre si esaltavano le capacità nutritive di verdure, frutta, legumi, uova29. A seguire questi corsi furono chiamate tutte le donne italiane nella loro veste di massaie capaci di mostrare «sentimento di amor patrio» rivolgendo «la massima attenzione alla cucina – riabilitando così le vecchie virtù domestiche la cui importanza non è mai stata smentita – ed abbandonare il lusso, la moda, e le chiacchiere del salotto»30. Negli anni del regime il pane divenne nuovamente l’alimento principale delle tavole italiane: veniva proposto al mattino nel latte, a mezzogiorno inzuppato nel sugo e alla sera nel brodo. I bambini imparavano a memoria fin dall’asilo una filastrocca che diceva: Amate il pane cuore della casa profumo della mensa gioia del focolare. Rispettate il pane sudore della fronte orgoglio del lavoro poema del sacrificio31.

Il pane non doveva essere in alcun modo sciupato: «una brava massaia non deve acquistarne giornalmente che il puro necessario calcolando per gli uomini robusti un massimo di 500 grammi a testa e da 150 a 250 per le donne e per i fanciulli»32. Si trattava di un pane sempre più povero, meno croccante; nell’ottobre del 1940 venne proibita la confezione di pane all’olio. Un anno dopo, nell’ottobre del 1941, il pane venne tesserato. E ricominciarono le proteste, e le donne scesero nuovamente in piazza. In un comune del foggiano gruppi di donne esasperate da un decreto che vietava la macinazione del grano in casa assaltarono il Municipio; a

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Ufficio Propaganda del PNF, Guerra allo spreco, a cura di C. Alimenti, Bologna 1941. 30 Ibid., p. 25. 31 M. Mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, Milano 1987, p. 79. 32 Ibidem.

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Spilamberto le operaie di una fabbrica dichiararono uno sciopero perché il pane era cattivo e la paga poca. A Parma, nei borghi popolari dell’Oltretorrente in occasione del razionamento del pane si ebbe, dopo molti anni di silenzio, la prima protesta pubblica: una protesta delle donne che nuovamente chiedevano pane e lavoro. E – commenta Marco Minardi in uno studio in cui racconta storie di vita di giovani operaie parmensi negli anni della guerra – «è interessante osservare come le modalità della protesta non si scostarono quasi per nulla da quelle storiche. In questo caso la tradizione orale ebbe il suo peso e funzionò come strumento per la trasmissione, di madre in figlia, di un patrimonio culturale, politico e sociale, che altrimenti si sarebbe certo offuscato durante gli anni della dittatura»33. Proprio perché concordo con Minardi sul fatto che quella manifestazione parmense rappresentò il perdurare di una tradizione, quella tradizione che aveva portato le donne a ribellarsi fin da tempi lontani contro la fame (soprattutto contro la fame dei propri figli), mi piace chiudere queste pagine col racconto di quei fatti. Il 16 ottobre 1941 la razione del pane venne ulteriormente diminuita e portata a 150 grammi pro capite al giorno. E le donne iniziarono la loro protesta. A seguito del razionamento del pane – scriveva il questore di Parma in un rapporto al ministero dell’Interno – alcune centinaia di donne improvvisarono una chiassata percorrendo alcune vie della città. Le principali responsabili, subito arrestate, per disposizioni ministeriali, sono state trattenute in carcere per due mesi34.

La protesta aveva portato le donne anche a sottrarre 20 chili di pane da un furgoncino della Barilla. Quando la notizia arrivò nei borghi dell’Oltretorrente, altre donne si unirono alle prime manifestanti, donne decise a gridare “Vogliamo il pane”. Così ricordava quei momenti una delle operaie di un calzaturificio dell’Oltretorrente: «un giorno del 1941 mentre stavo lavorando è entrato in reparto il magazziniere gridando che le donne avevano dato l’assalto al furgone del pane della Barilla. Ho subito sospeso il lavoro ed assieme ad altre operaie siamo scese in piazza»35. La spontaneità di quell’agire ne mostra il ca33 M. Minardi, Ragazze dei borghi in tempo di guerra. Storie di operaie e di antifasciste dei quartieri popolari di Parma, Parma 1991, p. 7. 34 Ibid, p. 85. 35 Ibid, p. 89.

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rattere di ribellione popolare, più che politica; fu un gesto anzitutto contro: contro il regime, contro la guerra e le privazioni da essa imposte e non il frutto di un piano prestabilito. E questo accomuna quei fatti alle dimostrazioni di fine Ottocento e primo Novecento, dimostrazioni che hanno legittima parte nel movimento politico e culturale delle donne.

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Fame, cibo e antifascismo nella Massaia di Paola Masino LUCIA RE

L’«eroica idiozia» e il «martirio carnale» della protagonista del romanzo Nascita e morte della massaia di Paola Masino, scritto fra il 1938 e il 1939 (e pubblicato a puntate sulla rivista settimanale illustrata “Tempo” tra l’ottobre 1941 e il gennaio 1942), costituiscono un audace atto di accusa contro il fascismo1. Tale atto trova nel campo metaforico del cibo e del nutrimento in relazione al corpo e al ruolo femminile il suo più efficace e suggestivo strumento. La protagonista è denominata fin dall’inizio semplicemente “la Massaia”, appellativo che immediatamente evoca il dovere e destino casalingo della donna prescritto dal fascismo con particolare alacrità negli anni ’302. La 1 Il romanzo uscì in volume presso Bompiani solo nel 1945. Tutte le citazioni nel corso di questo saggio sono tratte dalla riedizione a cura e con introduzione di S. Giacomoni, Milano 1982. Non mi occuperò qui della biografia di Paola Masino, né del rapporto della Masino con Bontempelli, preferendo evitare un’ulteriore lettura in chiave biografica dell’opera di questa scrittrice, e concentrandomi invece su un’indagine tematico-ideologica e retorica, volta a mettere in evidenza nel testo la funzione politica del campo metaforico-allegorico del cibo in rapporto al corpo femminile. Anche all’aspetto più strettamente stilistico del romanzo, estremamente complesso e affascinante, potrò qui fare solo degli accenni. Per un eccellente ritratto di Paola Masino (1908-1989), e un profilo sfaccettato della sua vita ed opera, vedere i saggi nel volume Paola Masino (Scrittrici e intellettuali del Novecento), a cura di F. Bernardini Napoletano e M. Mascia Galateria, Milano 2001, catalogo con ampio repertorio iconografico della mostra tenuta a Roma alla Casa delle Letterature nel 2001. Da vedere anche il prezioso volume di lettere, Paola Masino. Io, Massimo e gli altri: autobiografia di una figlia del secolo, a cura di M.V. Vittori, Milano 1995. 2 Fin da bambine, secondo «Il decalogo della piccola italiana», le donne dovevano imparare che «la patria si serve anche spazzando la casa». Cfr. M. Addis Saba, La donna muliebre, in La corporazione delle donne. Ricerche e studi sui modelli femmi-

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Massaia esprime ancora bambina il proprio dissenso rifiutando il cibo “normale”, e nutrendosi esclusivamente di “groncioli”, cioè poverissime croste di pane secco. Questi groncioli ritorneranno in tutto il romanzo come simbolo di un nutrimento puro, incontaminato, immaginario. Con un precoce gesto di rifiuto e sfida che prefigura la ribellione del bambino Cosimo in Il barone rampante di Italo Calvino, la Massaia non si arrampica su un albero ma si chiude invece in un vecchio baule, che le funge da «armadio, letto credenza, tavola e stanza»3. Qui la bambina, sporca e coperta di polvere, si mangia le unghie e mastica tozzi di pane, «sfogliando libri in cerca di altro nutrimento»4. Il baule allude tra le altre cose all’idea di una stanza tutta per sé (il saggio della Woolf, A Room of One’s Own, era uscito in inglese nel 1929), ma invece di avere una stanza sua in cui scrivere, o una casa su un albero in cui rifugiarsi a leggere, la Massaia avrà da accudire alle faccende e ai pranzi di un’enorme casa non sua. Insieme al baule, anche il suo corpo verrà espropriato, per essere immesso sul mercato del matrimonio e destinato alla missione riproduttiva. Benché non si renda ancora conto – spiega l’anonima e ironica voce narrante – che «se il suo corpo era carne come quella esposta sui banchi dei mercati o appesa nei negozi di macellai, lei tuttavia vi portava nascosti un pensiero e un sesso che erano la sua ragione»5, oscuramente la sua mente già rifiuta questo ruolo sessuale che le viene prospettato come un destino. Che la donna fosse importante soprattutto come corpo/carne, per il proprio ruolo/valore nutritivo e riproduttivo, e non come mente o intelletto o ragione (di pertinenza invece maschile) fu uno dei dogmi più spesso utilizzati dalla propaganda e dalla trattatistica fascista sulla differenza sessuale6. Attraverso la

nili nel ventennio fascista, a cura di M. Addis Saba, Firenze 1988, p. 41. «L’economia domestica e l’arte di essere buona massaia, madre saggia e dolce compagna dell’uomo» sono le qualità principali e precipue della donna di tutte le classi sociali, la cui educazione deve mirare innanzitutto all’adempimento dei doveri casalinghi perché «il nido deve essere per lei il suo tempio», afferma Linda Riggio Cinelli in La donna della nuova Italia, Firenze 1932, p. 26. 3 Masino, Nascita e morte, cit., p. 13. 4 Ibid., p. 14. 5 Ibidem. 6 Nel 1938 apparve Politica della famiglia di F. Loffredo (pubblicato da Bompia-

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sua protagonista, Masino disputa questo dogma, a cui contrappone l’idea femminista ante-litteram di un pensiero sessuato, appunto «un pensiero e un sesso che erano la sua ragione». Si tratta di un rifiuto che ne comporta un altro fondamentale: il rifiuto di essere prolifica madre o meglio, per usare un vocabolo caro alla trattatistica fascista sulla donna, “fattrice”7. La Massaia sarà infatti sterile. Solo in questo il suo corpo, ironicamente, asseconderà i suoi più intimi desideri. La maternità infatti è per lei – in uno scandaloso rovesciamento del dogma fascista – non una funzione naturale e patriotticamente necessaria, ma una fonte di violenza e di alienazione sia per la madre che, dato il contesto politico-sociale e il ciclo infinito delle guerre, la potenziale creatura: «a che fine alimentare la vita?»8. L’immagine di sé come prolifica madre e fonte di nutrimento le apparirà solo come incubo grottesco in una visione espressionistica e

ni, che fu anche uno degli editori della Masino), con prefazione del ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, in cui si reiterava nei termini più estremi la teoria che dare alle donne un’istruzione uguale a quella maschile è inutile e dannoso, poiché la donna è «costituita in modo da maturare nel suo corpo il figlio, per i tre quarti di un anno [e] nutrire il figlio, con una secrezione del suo organismo, per oltre un anno» (p. 351). Sulla politica fascista nei confronti delle donne c’è ormai una vasta bibliografia. Si vedano almeno, oltre al volume citato a cura di Addis Saba, P. Meldini, Sposa e madre esemplare: ideologia e politica della donna e della famiglia durante il fascismo, Firenze 1975; L. Caldwell, Reproducers of the Nation: Women and the Family in Fascist Policy, in Rethinking Italian Fascism: Capitalism, Populism and Culture, ed. by D. Forgacs, London 1986, pp. 110-141; E. Mondello, La nuova italiana. La donna nella stampa e nella cultura del fascismo, Roma 1987; V. De Grazia, How Fascism Ruled Women. Italy, 1922-1945, Berkeley 1992; L. Re, Fascist Theories of ‘Woman’ and the Construction of Gender, in Mothers of Invention. Women, Italian Fascism, and Culture, ed. by R. Pickering-Iazzi, Minneapolis 1995; C. Saraceno, La costruzione della maternità e della paternità nell’Italia fascista, in “Storia e Memoria”, 1, 1 (1994); G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino 1995. Tende a riabilitare in modo piuttosto revisionistico la politica fascista nei confronti delle donne il volume di M. Durham, Women and Fascism, London 1998. 7 Cfr. l’asserzione perentoria di “Critica Fascista” del 1933, n. 14, riguardo ai «Compiti della donna»: «La donna fascista deve essere madre, fattrice di figli, reggitrice e direttrice di vita nuova». Cfr. Mondello, La nuova italiana, cit., p. 204. Per una lettura del romanzo che si occupa specificamente di questo tema, vedere T. Rorandelli, “Nascita e morte della massaia” di Paola Masino e la questione del corpo materno nel fascismo, in “Forum Italicum”, 37, 1 (2003), pp. 70-102. 8 Masino, Nascita e morte, cit., p. 239.

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crudele degna di Otto Dix: la Massaia adulta vedrà infatti come in uno specchio deformante il proprio doppio (proiezione diretta dei suoi sogni ma anche dei suoi terrori) smagrito e spolpato con due lattanti attaccati allo scheletrico petto e dodici famelici bambini attorno9. Si tratta di un’immagine esplicitamente antitetica rispetto a quelle di floride, vaste e soddisfatte madri di famiglie numerose proposte dalla stampa di regime e premiate dal Duce, che già dal 1933 aveva lanciato l’«imperialismo demografico», sollecitando l’aumento della popolazione affinché la nazione potesse essere più potente ed aggressiva10. Se il superiore dovere della donna era quello di dare vite alla Nazione, quello degli uomini era infatti quello di dare per la Nazione la propria vita in guerra. Benché l’ambientazione del romanzo sia fantastica e surreale, con un’impostazione stilistica espressionista e numerosi brani di carattere onirico e allucinato, l’Italia fascista vi è evocata inequivocabilmente attraverso numerose allusioni dissacratorie, che neanche il ripetuto intervento della censura riuscì a rimuovere11. Come spiega in una nota del 1945 la stessa Masino, il romanzo fu giudicato cinico e disfattista, e, an-

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Ibid., p. 261. Alcuni esempi si trovano in L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine, Torino 1988. Alla formosa madre di famiglia con lattante al seno viene spesso contrapposta, come nel disegno di Maccari riprodotto in Malvano, quella della anoressica, magrissima intellettuale moderna, la cosiddetta “donna crisi”. 11 Sugli interventi censori prima dell’editore di “Tempo” (Alberto Mondadori), a cui la Masino oppose una strenua resistenza pur scendendo finalmente a inevitabili compromessi, e poi del censore ufficiale a cui il romanzo fu sottoposto in bozze nel 1942 dal nuovo editore (Valentino Bompiani), vedi il mio Women and Censorship in Fascist Italy: from Mura to Paola Masino, nel volume Culture, Censorship and the State in 20th Century Italy, ed. by G. Bonsaver and R. Gordon, Oxford 2005. Per una discussione dettagliata della censura preventiva condotta da Mondadori, Bompiani ed altri editori in era fascista, vedere G. Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino 1998. La corrispondenza con i suoi editori, insieme all’altro materiale biografico e di archivio consultato, mostra quanto Paola Masino avesse come molte altre donne intellettuali italiane un rapporto contraddittorio e problematico con un regime che, nel definire i ruoli femminili, oscillava tra un’estrema conservazione e una relativa modernizzazione, promuovendo selettivamente la presenza femminile nella sfera pubblica, finalizzata agli interessi dello stato. L’atteggiamento del regime nei confronti dell’intellettualità femminile fu però nel complesso denigratorio e repressivo. Pur senza voler fare della Masino un’eroina anti-fascista, è innegabile che i suoi testi presentino una forte carica di resistenza simbolica. 10

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che se non se ne proibì la pubblicazione, fu imposta la soppressione di vari episodi, e fu richiesta l’eliminazione sia di termini che potessero far supporre che la vicenda si svolgeva in Italia, come la parola “lire” (sostituita da zecchini), che di parole usate in modo irriverente (Patria e Nazione) o giudicate irrispettose verso le autorità (Marescialli e Prefetti furono rimpiazzati da improbabili Commodori ed Arconti). L’intera tiratura dell’edizione così censurata andò distrutta in un bombardamento nel 1942, ma sopravvissero le bozze, in base alle quali la Masino cercò nel 1945, dopo la fine della guerra, di ricostruire l’originale, ottenendo un risultato ibrido di grande fascino, che è il romanzo che abbiamo oggi. Della versione censurata rimasero tra le altre cose alcuni Arconti, e la fantastica ambientazione oltre-Oceano nel nuovo mondo, ottenuta attraverso un riferimento alle patate (e alla sifilide). Nel tentare di istruire una povera contadina e trasformarla in futura massaia rurale, la Massaia, ormai insigne dama di carità oltre che massaia modello, le spiega con evidente sarcasmo che «la patata, propriamente solanum, è un tubero proteiforme. Questo tubero e la sifilide sono prodotti originari nostri, ed è per riaverne la esclusività, poiché tutti gli altri continenti da secoli ne fanno man bassa, che abbiamo dichiarato la guerra al mondo antico»12. Le guerre che il romanzo evoca ripetutamente in modo ritenuto disfattista sono in realtà la guerra d’Africa e la guerra di Spagna, in occasione delle quali si intensificò la politica economica di autarchia, dell’autosufficienza agricola e della incentivazione dei prodotti nazionali e del “massaismo” a cui allude ironicamente questo brano13. La devastante critica del maternalismo fascista, oltre che del massaismo, che l’editore Alberto Mondadori cercò inutilmente di estirpare dal testo della Masino o almeno di attenuare (e che furono in parte tollerate dalla censura ufficiale solo perché il testo risultava surreale, e apparentemente non ambientato in Italia) si esprimono inizialmente con il rifiuto del cibo come fonte di vita da parte della bambina:

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Masino, Nascita e morte, cit., p. 250. Sulle origini del massaismo e sulla sua diffusione tra le classi alte e borghesi, oltre a quelle contadine, vedi De Grazia, Fascism, cit. pp. 99-110. Sulle campagne di educazione alimentare delle massaie legate all’autarchia, vedi M.G. Muzzarelli, F. Tarozzi, Donne e cibo. Una relazione nella storia, Milano 2003, p. 123. Sulle massaie rurali cfr. P. Wilson, Peasant Women and Politics in Fascist Italy: the Massaie rurali, London 2002. 13

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Ausiliarie distribuiscono generi di conforto ai soldati (da: R. De Felice, L. Goglia, Storia fotografica del fascismo, Bari 1982).

A volte la cuoca […] se la trascinava dietro di forza quando andava al mercato, perché prendesse un po’ d’aria, cane bastardo che nessuno vuole tra i piedi. Ma la bambina non guardava l’aria, guardava a terra le cose che imputridiscono sull’asfalto, i tacchi delle serve passare sopra i cespugli di verdura, i rigagnoli di sangue rapprendersi tra le connessure come secoli sulla vita umana. In ogni lumaca schiacciata, in ogni arancio marcito immaginava fasto e declino di grandi dinastie14.

Per la Massaia ancora bambina, lo spettacolo del mercato non offre che una serie di allegorie della morte e della dissoluzione, ma paradossalmente è proprio questa prospettiva straniata che le permette di cominciare ad apprezzare il senso ambiguo del cibo, che oltre alla vita rimanda anche al suo contrario. Fin da piccola la Massaia coltiva infatti pensieri di morte, da cui è morbosamente attratta, intuendo che l’annullamento dal proprio corpo e il ritorno allo stato inorganico promettono una liberazione e un piacere superiori a quelli che le riserva 14

Masino, Nascita e morte, cit., p. 17.

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il suo destino carnale di donna in era fascista. Le bestie squartate del mercato le appaiono come immagini allegoriche in barocche nature morte che riflettono il suo oscuro rifiuto della carnale violenza della maternità, e il suo desiderio di estinzione corporale: Al mercato cominciò ad amare il cibo perché era un modo nuovo di dare e prendere la morte. Guardava i ventri concavi dei buoi appesi con uncini di ferro alle travi delle macellerie. Dondolavano piano, privi dei loro organi; questi pendevano lí vicino non piú legati al loro alveo naturale ma a strane radici di metallo […] La bambina traeva la conclusione che anche lei nel suo interno doveva avere qualche cosa di cui il mondo aveva bisogno e che gli uomini, se lei non lo offrisse, lo strapperanno. Il modo della rapina le era ancora totalmente oscuro, ma a quel pensiero subito nel ventre provava come se la sconvolgessero e stringessero a manate le viscere. Allora doveva camminare in modo grottesco con le gambe rattratte. In tali momenti aveva anche la sensazione, per lei terribile, di essere immortale, di non arrivare mai, per quanto faccia, a liberarsi in modo definitivo del corpo che le hanno messo addosso15.

Il freudismo della Masino, implicito in questo brano, costituiva un ulteriore affronto al fascismo, che aveva bandito Freud in quanto ebreo; la Masino stessa fu a più riprese accusata di “ebraismo” dai recensori fascisti non solo per il suo malsano interesse per la psicanalisi, ma anche perché lo sperimentalismo letterario e avanguardistico erano considerati generalmente tare importate da scrittori ebrei e non italiani. L’uso che la Masino fa delle teorie di Freud, qui e negli altri suoi romanzi, è comunque molto libero, infatti i suoi romanzi, soprattutto Nascita e morte della massaia, hanno una componente femminista estranea al pensiero di Freud. Pur avendo una innegabile serietà e profondità di contenuti, il tono del romanzo è inoltre ironico, parodico e eroicomico, lontanissimo quindi da quello didascalico, sentenzioso e fondamentalmente tragico dei romanzi freudiani anche migliori, come Agostino (1942) di Moravia. Anche il conflitto della Massaia fanciulla con la madre, che vorrebbe riportarla alla normalità, estrarla dal baule, ripulirla, e immetterla sul mercato del matrimonio («Perché non tenti, una volta, di apparire come le altre? Una sola volta. Per convincermi che non ho par-

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Ibid., p. 18.

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torito un mostro»16) si esprime in termini di cibo. Alla resistenza della fanciulla la madre reagisce infatti melodrammaticamente pretendendo d’immolarsi unendosi anch’essa al suo destino ascetico di rinuncia: «“Ce ne andremo noi due per mano in un deserto, e che Dio abbia pietà di noi. Mangeremo locuste. Anche il Battista le mangiò. Berremo...” Tacque perché non si ricordava che cosa si beve quando ci si perde nel deserto. “L’orina dei nostri cavalli” suggerì la figlia»17, che pur essendo attenta lettrice della Bibbia intende tuttavia provocare la madre e smascherarne l’ipocrisia. Ciononostante, la fanciulla finisce per cedere al ricatto materno, ed acconsente a uscire, lavarsi, e farsi bella come le sue due sorelle “normali”, in una scena di trasformazione che (come tutta la sequenza iniziale del baule) allude parodicamente al mondo fiabesco di Cenerentola. Il compimento della trasformazione normalizzante della fanciulla sudicia e selvaggia in ragazza da marito si ha a quando ella acconsente a un modo civile di nutrirsi: «buttato via l’involucro di disprezzo e sudiciume [...] mangiava a tavola perfino, e mangiava con educazione. Come aveva potuto imparare?»18. È da notare però che nella crudele versione secentesca della fiaba di Basile (a cui Masino allude) Cenerentola, con freudiana intuizione, uccide la matrigna decapitandola di un colpo con il coperchio del baule affinché il padre possa sposare l’istitutrice, amata come una mammina dalla fanciulla ma in realtà suo malefico alter-ego. Infatti, appena sposata col padre, l’existitutrice subito rivela essere anche lei malefica matrigna. Nel romanzo della Masino l’ordine della violenza è invertito: la fanciulla non uccide la madre/matrigna, ma ne viene simbolicamente uccisa proprio attraverso il matrimonio che le viene fatto fare. All’orrore per la maternità come violenza fatta al corpo e alienazione di sé corrisponde infatti lo sdegno per il ruolo ideologico della madre, mantenitrice dell’ordine e responsabile della coercizione della figlia. Proseguendo sulla strada dell’incivilimento e del disciplinamento, la madre della futura Massaia organizza infatti per il debutto in società della figlia un grande pranzo con ballo, a cui vengono invitati vari possibili pretendenti ed eccellenze. È una scena comico-grottesca. Le ec-

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Ibid., p. 27. Ibidem. 18 Ibid., p. 34. 17

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cellenze si sbrodolano «la marsina di spaghetti bianchi e scivolosi»; tutti la squadrano famelicamente, divorando enormi pizze. La ragazza cade addormentata (è un altro rovesciamento ironico, stavolta della favola della bella addormentata nel bosco) e russando sogna che gli spaghetti si sono trasformati in fili di enormi ragni che la soffocano e minacciano di ucciderla. Il banchetto si rivela infatti una trappola. Svegliandosi la ragazza scopre che la madre/matrigna l’ha sistemata a pranzo di fronte a un abbiente, anzianotto e repellente zio di provincia, con cui dopo due mesi la fanciulla finisce accasata, e avviata all’atroce destino di Massaia. La “nascita” della Massaia corrisponde quindi figurativamente alla sua morte spirituale, adombrata fin dal titolo. Nel corso del surreale banchetto che segna la fine della fanciullezza della Massaia, e la sua trasformazione in “persona normale”, la ragazza si reca un’ultima volta a contemplare l’amato baule, ingombro di tozzi di pane accatastati e di libri ancora aperti, che vuol far vedere ai giovanotti per chiudere così, seppur a malincuore e con un rimpianto che non avrà mai fine, quella fase infantile e “immatura” della

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sua vita: «Andiamo a vedere il baule, onde sono uscita. Come il corpo di legno di Pinocchio, alla fine del romanzo»19. Nell’evocare quest’altra fiaba, le sue parole sono però piene di dolente nostalgia. Infatti il burattino Pinocchio, con il suo corpo non di carne, ma (come il baule) di legno, sessualmente indistinto, simboleggia per lei (in una lettura che è diametralmente opposta a quella edificante che di solito si dà del racconto di Collodi), il rifiuto della corporeità adulta e della eterosessualità obbligatoria e procreativa del fascismo. Le parole di un misterioso giovane dai capelli neri «con molta ombra sul volto e negli occhi» fanno eco ai suoi pensieri: «Non è una fine molto triste?»20. Il “giovane nero” che qui appare per la prima volta è l’anima gemella della protagonista, ma ogni reale rapporto con lui risulterà impossibile data l’alienazione a cui ambedue sono condannati non per destino esistenziale dell’umanità intera in ogni tempo, ma per la concreta situazione storica di regimentazione del corpo, della sessualità e dei sentimenti a cui il romanzo allude puntualmente nonostante l’ambientazione fantastica21. Per assumere il suo ruolo di signora della casa, oculata amministratrice per il marito di un lussuoso palazzotto provinciale con grande cucina, dispense, locali per il bucato, animali, e una schiera di servitori, la Massaia – che vive quest’esperienza come una tortura – deve non solo abbandonare le sue letture, ma anche la riflessione «e il pensiero stesso»22. Persino un tentativo di ironia fantasiosa viene aspramente respinto dal marito che da buon fascista le ricorda la sua funzione: «Non sta bene fare dell’ironia sulla casa avita. La casa è la famiglia: un’istituzione sacra che va rispettata e difesa: più si accresce, più si accresce il bene del paese. È dovere della buona sposa farla prosperare»23. È da notare qui l’uso – pur parodico – di un vocabo-

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Ibid., p. 44. Ibidem. 21 Infatti, sebbene il romanzo per un certo verso sia un’allegoria della posizione della donna come eterna “homemaker” nella società patriarcale (e dunque anche nell’Italia liberale pre-fascista), d’altro canto il riferimento specifico e costante al massaismo fascista e al grottesco e avvilente tentativo del fascismo di ridurre il femminile al ruolo di fattrice, nutrice, massaia e angelo del focolare, ne fanno un testo specificamente antifascista. 22 Masino, Nascita e morte, cit., p. 63. 23 Ibid., p. 60. 20

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lario e di stilemi non solo di stampo patriarcale, ma specificamente fascisti. Anche il sesso matrimoniale è una violenza, uno strappo che rievoca la scena del mercato nel primo capitolo «la carne gonfia e battuta. [...] Lei ha imparato ormai che cosa vuol dire esser squarciati, manomessi, rivelati»24. Il corpo della Massaia, da sempre anoressico, rimarrà diafano e bianco, ribelle, sterile. L’unico cibo di cui la Massaia – pur divenendo suo malgrado non solo casalinga modello ma anche cuoca abilissima – si nutre continua ad essere il cibo dell’infanzia, della fantasia, e dei sogni. Mangia «una fetta di cocomero perché vide bambini mangiarne»25. Oppure, oltre ai resti del pane, sogna sempre, come Pinocchio, crostini «imburrati di sopra e di sotto»26. Pinocchio, a cui il romanzo allude spesso, non solo non è di carne, ma neanche se ne ciba: il burattino è infatti essenzialmente vegetariano, e benché rischi più volte di diventare cibo e venir divorato da altri, lui si deve accontentare di pere, poi torsoli e bucce, un cantuccio di pane, un pezzetto di noce e così via. La Massaia ha una dieta egualmente scarna e limitatissima. Non prende cibo per non diventare, a sua volta, cibo. Per lei la maternità, e il nutrire con il proprio corpo, è infatti l’equivalente di essere divorati – una perdita del corpo che è anche una perdita di sé. La decisione di fare della Massaia la sposa di un uomo ricco nel romanzo è strategica; Masino riesce così a far vedere come le donne in era fascista anche quando appartengono a una classe sociale relativamente privilegiata si trovano comunque in una posizione subalterna ed umiliante. Il dovere di essere essenzialmente massaie non è solo delle donne appartenenti alle classi rurali o povere, ma di tutte le donne senza distinzione di classe: è ciò che le rende veramente fasciste, dedite al bene non solo della casa e della famiglia ma dello Stato. All’ordine casalingo corrisponde infatti quello sociale. La Massaia si trova costretta a subordinare ogni suo personale desiderio e interesse al compito di tenere in ordine la casa, economizzare con la più oculata disciplina i beni dello sposo, nonché tenere in riga e reprimere la servitù ribelle ed affamata. Il gusto stesso del cibo, la poesia e il pia-

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Ibid., p. 62. Ibid., p. 145. 26 Ibid., p. 97. 25

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Scritte di guerra sul banco di vendita delle massaie rurali di Castagnola Monferrato (da: R. De Felice, L. Goglia, Storia fotografica del fascismo, Bari 1982).

cere della cucina sono soffocati dal senso dell’obbligo e dalla regimentazione a cui è sottoposta la donna, soprattutto (ma certo non esclusivamente) la massaia fascista. Riflette infatti la Massaia: «tutta la poesia del mondo è trascorsa per una donna, da quando voi uomini le mettete sulle spalle la casa. Mangiare è sapere un giorno prima quanto masticherai il giorno dopo, sapere quanto costa, sapere come fu fatto, paventare lo spreco, dubitare il furto»27. Più la Massaia si perfeziona nel ruolo che le è assegnato (giungendo a livelli di eroicomico furor domesticus) più procede la sua degradazione personale. L’iniziazione della Massaia al suo nuovo ruolo sociale è un grande pranzo offerto alle autorità del paese – marescialli, dame di carità, un cardinale – che si rivela un vero tour de force, narrato in forma di un’esilarante scena teatral-cinematografica molto accelerata, durante la quale la Massaia cerca disperatamente di controllare cibi e servitù,

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e soprattutto di calmare il cuoco, offeso dalla prospettiva che la sua opera possa essere giudicata meramente di importanza “storica”, come il regime e il suo leader. La Massaia dice infatti: «Cuoco se mi ascolti ti prometto il trionfo. Porta i daini sul girarrosto, la polenta nel paiolo, e le allodole a stormi come se volassero ancora in cielo. Da’ retta a me. Bisogna mettersi al passo dei tempi. I tempi sono grandiosi? E noi anche. L’epoca è memorabile? E allora anche il pranzo. L’ora è storica? Storica sia anche la nostra polenta [...]» (anche qui va registrato l’uso parodico di stilemi tipicamente fascisti). Ma il cuoco sdegnato replica: «Se la Signora mi mette al pari con il tempo che è precario, io debbo dare le mie dimissioni. Se la Signora parla di un evento storico mi degrada: la cucina, Signora, non è precaria ma eterna [...] non sono un ambizioso condottiero, sono un sacerdote»28. Alla tracotanza maschile del cuoco corrisponde quella del marito. La mattina, quando scende per la colazione e la trova addormentata ancora in abito da sera, le fa le sue rimostranze, aggiungendo un commento maligno sulla marmellata che lei ha dimenticato di controllare: «“Se sei stanca non è una ragione per presentarsi in simile stato e perché la marmellata sappia di latta”. Le tende la coppa perché l’annusi»29. Ma la Massaia, esasperata, afferra la coppa e se la getta addosso, si versa il bricco del latte in testa, si taglia col coltellino del burro e si sparge sul viso il torlo dell’uovo. Questi gesti di auto-degradazione per mezzo del cibo, per quanto inseriti in un contesto pseudo-onirico, sono significativi: simboleggiano l’abiezione del soggetto – l’oscura rivolta e il rifiuto da parte della Massaia dell’identità e del ruolo che le vengono imposti30. Il rifiuto porta allo sdoppiamento della massaia in un io degradato e abietto e un io onirico. Il primo – disperato per l’inettitudine e le ruberie dei servi – provvede direttamente, ma senza alcun piacere o amore, e con mediocrissimi risultati, alla preparazione del cibo: «in cucina [...] s’immerse in tutti i fumi, raccolse le bucce dai secchi, soppesò i legumi e la verdura di cui s’era fatto scempio, misurò le paludi di grasso in fondo alle teglie»31. L’altro, l’io onirico e immaginario, 28

Ibid., p. 100. Ibid., p. 120. 30 Sul rapporto tra cibo e abiezione, vedi J. Kristeva, Poteri dell’orrore, Milano 1981. 31 Masino, Nascita e morte, cit., p. 207. 29

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continua beatamente a cibarsi di groncioli. I rapporti con la servitù permettono di far venire a galla uno dei temi più scottanti del romanzo: la fame (tema chiave anche in Pinocchio). Se da una parte c’è la fame come scelta e rifiuto del proprio ruolo riproduttivo da parte della Massaia, dall’altra c’è infatti la fame come fenomeno sociale e fonte di odio di classe. Già con il racconto Fame del 1938, la Masino aveva causato il sequestro della rivista “Grandi Firme” in cui era uscito il 22 settembre. La pubblicazione della rivista fu sospesa per ordine dello stesso Mussolini. In contrasto con la propaganda di regime infatti, e come a denunciare il fallimento del grande, spettacolare sforzo della cosiddetta “battaglia del grano” lanciata da Mussolini per sfamare la nazione, il racconto metteva in luce il problema drammatico della povertà nella classe contadina attraverso la storia di una madre che muore d’inedia mentre il padre, sempre per fame, uccide i due figli. (Il racconto, tradotto in inglese, fu pubblicato dalla rivista comunista americana “Blast: A Magazine of Proletarian Short Stories”, a cura di Samuel Putnam). Come ha dimostrato Simonetta Falasca Zamponi, la battaglia mediatica del grano e del pane combattuta da Mussolini era profondamente connessa ai fondamentali miti fascisti della virilità, della fecondità e della famiglia, e il pane (di cui venivano sfruttate in un paese cristiano e cattolico come l’Italia anche le connotazioni religiose) veniva abitualmente presentato come simbolo non solo della terra, della famiglia e del popolo, ma anche della comunione dei cittadini e quindi della patria32. Erodendo, con la sua sterile Massaia che si nutre di groncioli ammuffiti, e i suoi contadini che per fame uccidono i figli, il mito del pane, Masino colpisce il cuore stesso dell’ideologia fascista. La fame, letterale e metaforica, affligge ricchi e poveri e crea impreviste solidarietà che minano la gerarchica visione fascista delle classi sociali e dei generi. In uno degli episodi più significativi del romanzo, la Massaia cerca di assumere da un’agenzia una donna delle pulizie; arriva una fanciulletta, Zefirina, che è la madre “morta di fame” di cinque figli, con il marito disoccupato. Ella supplica di essere

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S. Falasca Zamponi, Fascist Spectacle. The Esthetics of Power in Mussolini’s Italy, Berkeley 1997, pp. 150-162.

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maltrattata e punita ma non guardata, «che se era tanto livida non erano brutti sentimenti ma fame»33. La Massaia la porterà, in un tentativo di fuga, a vivere con lei in un appartamento in città mentre va inutilmente alla ricerca di lavoro e indipendenza; fallito il tentativo finirà poi – con gesto di scandaloso e anarchico spreco e di sovversiva solidarietà femminile – per lasciarle l’appartamento e tutti i suoi contenuti e beni. In un altro esilarante episodio di irriverenza femminile nei confronti dell’autorità maschile, e di improvvisa liberazione, la Massaia, ossessionata dal marito che le rinfaccia di non essere abbastanza oculata e teme di essere derubato dal cuoco («Canaglia, tutto mi ruba. Ecco dove finiscono i miei polli, le mie verdure, il burro, l’olio, il riso. Ora che siamo in guerra [...] Razza da galera, i cuochi»34), vede in un attimo il proprio consorte trasformarsi davanti ai suoi occhi in un surreale, composito mostro degno di un quadro di Arcimboldo: «Aveva gli occhi tondi dei polli, il naso pareva una grossa pera, e la bocca quella di un luccio. All’occhiello invece del solito garofano aveva un mazzolino di prezzemolo e tutto puzzava d’aglio»35. L’affamata Massaia, a cui si impone di essere eminentemente pratica ed economica, trova nutrimento segreto solo in queste sue immaginarie invenzioni, in cui il cibo si rovescia da occupazione pratica in immagine fantasiosa, che ha il carattere libero e disinteressato, ma anche sublimante e catartico, dell’opera d’arte36. Ma la personale liberazione della Massaia attraverso la sublimazione estetica non è affatto la soluzione a cui il romanzo tende, dandoci anzi di questa soluzione – attraverso il quadro arcimboldesco immaginato dalla Massaia – una versione alquanto ironica. Il significato del romanzo va al di là della dimensione individuale tipica del Bildungsroman borghese che ci narra della formazione e maturazione di un unico individuo o artista. La fame della protagonista è infatti la sua vera e sola “arte”, e sta a significare innanzitutto proprio il rifiuto di

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Masino, Nascita e morte, cit., p. 93. Ibid., p. 143. 35 Ibidem. 36 Per una interessante discussione, rispetto al tema del cibo, della differenza nell’estetica tradizionale tra valori pratici e valori estetici, si veda C. Korsmeyer, Making Sense of Taste: Food and Philosophy, Ithaca 1999. 34

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diventare il tipo di individuo e soprattutto di donna che il fascismo e l’ideologia borghese e patriarcale vorrebbero37. Masino infatti affronta nel romanzo il tema della fame in relazione a due altri temi rispetto ai quali il fascismo era estremamente sensibile: la guerra e l’aborto. «Se metteranno le tessere per i viveri,» riflette la Massaia quasi con sollievo nel suo diario di guerra, «Zefirina avrà un margine cosí esiguo per rubarmi sulla spesa che non metterà più conto sorvegliarla»38. La fame quindi non solo rivela il vero volto della guerra, ma mette in crisi il sistema del disciplinamento sociale, di classe e di genere su cui il fascismo si basa. Nel dialogo con la portinaia, registrato nello stesso diario di guerra, la Massaia riporta che la donna ha dichiarato di essere disperata perché ha «dentro di sé un quinto bambino [...] Non vorrebbe il bimbo per povertà; non sa come nutrirlo»39. Questo brano fu uno di quelli che il censore chiese di tagliare, poiché giustificare anche solo implicitamente l’aborto era considerato un’offesa contro la razza e la nazione40. Giustificare l’aborto voleva dire contestare l’essenza della donna teorizzata dal fascismo più estremo, che la voleva fatta per «maturare nel suo corpo [e] nutrire il figlio»41. Il campo semantico del cibo e della nutrizione quindi, si rivela essere veicolo ideale di resistenza simbolica non solo per quanto riguarda la codificazione dei ruoli sessuali, ma rispetto all’ideologia fascista in generale42. Nella sezione conclusiva del romanzo, lo zelo della Massaia «in

37 La Masino dà quindi un’impronta specificamente politica e di genere al tema dell’«artista alla fame» (o della fame) ereditato da Kafka. La Massaia non solo non trova il nutrimento spirituale di cui l’artista ha bisogno, ma, dovendo materialmente dare nutrimento, l’essere artista le è precluso. 38 Masino, Nascita e morte, cit., p. 135. 39 Ibid., p. 140. 40 Per uno studio della pratica dell’aborto come forma di resistenza, vedere L. Passerini, Donne operaie e aborto nella Torino fascista, in “Italia contemporanea”, 151/152 (1983), pp. 83-109. 41 Loffredo, Politica, cit., p. 351. Su questa base Loffredo teorizzava la necessità di dare alla donna esclusivamente un’educazione basata sull’economia domestica e la nutrizione. 42 Per il concetto di resistenza simbolica, vedi R. Terdiman, Discourse/CounterDiscourse: The Theory and Practice of Symbolic Resistance in Nineteenth-Century France, Ithaca 1985.

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ogni donnesca attività»43, dalla cucina autarchica alla beneficenza, dalla rinuncia al lusso all’indottrinamento di altre giovani massaie, è tale che, in un crescendo eroicomico e satirico, ella viene finalmente nominata Esempio Nazionale. Ma questa esaltazione diventa così logorante, che neanche la fuga nel mondo del suo onirico doppio che si nutre di groncioli e vive nel baule le basta più per sopravvivere. Anzi, sia il giovane nero che la fanciulla subiscono una metamorfosi grottesca che li trasforma da immagini di desiderio irreprimibile e di indomita libertà, in mostri nei quali si concretizza ancora una volta l’incubo del destino riproduttivo e casalingo della donna fascista. La Massaia allora inizia a vagare errabonda, desiderando come una liberazione di essere «moribonda, ché allora nessuno ti viene a domandare che cosa mangerai domani»44. Ma anche nei suoi viaggi smemorati e senza meta viene raggiunta da un telegramma del marito: «Urgente offrire domani pranzo Arconte et autorità, pregoti rientrare o telefonare lista vivande»45. Nello scegliere la morte, e pianificare puntigliosamente la propria anonima sepoltura, la Massaia sente che finalmente potrà liberarsi del proprio corpo, e rivivere tornando a essere parte – e nutrimento – della terra, invece che dello Stato. Il romanzo di Paola Masino, finora perlopiù trascurato sia dagli studiosi della cultura e della letteratura italiana durante il fascismo, che dagli storici del cibo e delle donne, rivela in maniera esemplare come la resistenza femminile alla dittatura abbia potuto assumere forme simboliche complesse, i cui percorsi si sono cominciati solo recentemente a rintracciare46.

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Masino, Nascita e morte, cit., p. 223. Ibid., p. 247. 45 Ibid., p. 249. 46 Sulla resistenza femminile sono da vedere almeno i lavori di L. Passerini, per esempio, oltre al saggio citato, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Bari 1980; Saraceno, La costruzione della maternità, cit.; De Luna, Donne in oggetto, cit.; R. Pickering-Iazzi, Politics of the Visible. Writing Women, Culture, and Fascism, Minneapolis 1997; C. Gallucci, E. Nerenberg, Writing Beyond Fascism: Cultural Resistance in the Life and Works of Alba de Céspedes, London 2000. 44

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Le artiste e il cibo dall’impressionismo alle video performances MARTINA CORGNATI

Fra crisi e disagi la donna artista emerge dall’ombra e, a poco a poco, si staglia da protagonista sulla scena dell’arte a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento. È con l’impressionismo, infatti, e con il riscatto culturale di soggetti e temi fino a quel momento considerati minori, nella fattispecie pittura di genere, nature morte e paesaggi, che l’arte al femminile acquista una consistenza e una dignità fino a quel momento insperata e inaccessibile. Non sorprende dunque che siano proprio le pittrici di questa stagione a compiere una rivisitazione radicale di iconografie e temi tradizionali quali, per esempio, la maternità e l’allattamento: quindi indirettamente il cibo, il latte, l’alimento primo e fondamentale che collega l’immagine della donna all’idea (e all’ideale) della genitalità. Berthe Morisot è forse la prima pittrice a mettere in scena il complicato intreccio di affettività, di natura e di lavoro connesso con l’allattamento, prendendo a modello la propria figlia infante e la balia che le dà il seno. Studiato da Linda Nochlin in un celebre saggio, un classico della critica femminista1, questo quadro, La Nutrice, rappresenta una donna che lavora osservata da un’altra donna che lavora. È una maternità ma non è solo una maternità, ispirata alla tradizionale Madonna col Bambino, modello di tutte le scene di questo tipo. Perché l’elemento materno qui, in realtà, non è nel latte, nel corpo, ma nel partecipe sguardo femminile che inquadra affettuosamente una scena

1 Cfr. L. Nochlin, Morisot’s Wet Nurse: the Construction of Work and Leisure in Impressionist Painting, in Id., Women, Art, Power and other Essays, Boulder Colorado 1988, pp. 37-56.

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primaria, la relazione fondamentale fra il cucciolo dell’uomo e chi gli garantisce la vita. Alla rappresentazione idealizzata della “natura” femminile si sostituisce qui la consapevolezza, realista e storica, del patto sociale. La balia lavora, la madre, che ne costituisce il vero contrappunto dialettico, lavora anche lei: sta dipingendo. E la funzione materna allora, non più solo “natura” ma anche mestiere regolamentato, retribuito e accettato in base a consuetudini sociali e cultura vigente, sta in un atto materiale, in un corpo che si offre, o meglio si vende; e sta nel complice ed amorevole sguardo femminile che abbraccia l’insieme, non per criticarlo no, ma per metterne in giusta luce il valore, il senso. Al soggetto di genere in quanto tale subentra qui l’amore per la verità presente, colta senza sottrarsi a complicazioni e sfaccettature emozionali; una dimensione cui la poetica impressionista si volgeva spontaneamente ma che non risultava accessibile e non possibile dappertutto nello stesso modo. In Italia, per esempio, ancora abbondantemente durante il ventennio, la pittura di genere è sempre in voga nonostante il rischioso passaggio attraverso la cometa futurista, dove però donne e artiste restano confinate al sicuro nella riserva indiana delimitata dalla misoginia diffusa, dallo screditamento sistematico e dalle “buone cose di pessimo gusto” di cui devono comunque occuparsi. In realtà non c’è da stupirsi troppo che in una fase storica così eccitata ed eccitante, segnata da prese di posizione tanto nette, frontali e retoriche, le donne finissero per parlare la stessa lingua e impiegare le stesse armi dei loro detrattori: Valentine de Saint-Point (pseudonimo di Anne Jeanne Valentine Marianne Desglans de Cessiat-Vercell), col suo Manifesto della donna futurista del 1912 e col Manifesto futurista della lussuria dell’anno successivo, elabora infatti un personaggio un po’ fumettistico, nietzschiano e hi-tech insieme, raccogliendo la provocazione marinettiana sulla virilità, forza attiva e propulsiva del mondo, e sulla passività femminile, inferiore e amorfa, e trasformandola in un modello di “superfemmina”: istintiva, autocosciente, sessualmente liberata, energica e vitale. Il gentil sesso risponde così alla sfida proposta dall’arrembaggio marinettiano: niente più mamme, o mammone, niente più svenevoli spose promesse e niente più amorosi angeli del focolare. Del cibo, neanche parlarne: perché occuparsene in un mondo di motori, di aeroplani (come quelli tanto amati dalla pittrice triestina Barbara) e di

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sovvertimenti? Se ne occupa, in verità, Marinetti stesso nel 1930, col Manifesto della cucina futurista dove, fra soprassalti presaghi di autarchia e preoccupazioni clinico-estetiche, suggerisce l’abolizione della pasta asciutta in favore di “complessi plastici saporiti” e pillole. E, proprio per questo originale ricettario, la pittrice Marisa Mori elabora un dessert erotico-patriottico, Mammelle italiane al sole, che ricorda un po’ i dolci catanesi preparati in occasione della festa di Sant’Agata: due mezze sfere ripiene di pasta di mandorle, guarnite da una fragola e ricoperte di panna montata. Non c’è di che lamentarsi ma l’esuberanza è comunque passeggera: nel ventennio i ruoli tradizionali della donna vengono ampiamente restaurati e alle pittrici, inquadrate dal 1934 in poi nell’Associazione Nazionale Fascista Donne Professioniste, Artiste e Laureate, non si riserva niente più che confortevoli, e protetti, angoli di attenzione. Organizzate nei rigidi quadri riservati alle “intellettuali” del regime, le donne possono così dedicarsi al loro “hobby” – chiamarlo ricerca è, nella maggior parte dei casi, improprio – senza venir meno ai compiti istituzionali o alla loro “vocazione”, come torna di moda dire: essere moglie e madre. Alcune, è vero, fanno eccezione e fanno miracoli, ma per la stragrande maggioranza delle artiste produrre resta un passatempo che i critici dell’epoca non si danno nemmeno la briga di prendere in considerazione. Ma non dappertutto accade la stessa cosa: in ambito surrealista, o meglio fra quelle artiste che vivono una stagione surrealista, generalmente nella prima giovinezza, e poi se ne allontanano per elaborare degli itinerari propri e, talvolta, anche esplicitamente polemici nei confronti del movimento e del suo leader, il tema del nutrimento è fra i più ricorrenti: non solo come soggetto di dipinti o sculture tradizionali, ma come pretesto e strumento di interventi e azioni fortemente originali e innovative, tanto sul piano linguistico quanto fenomenologico. Si tratta di donne che presentano e in alcuni casi rivendicano orgogliosamente il loro rapporto col cibo, il loro diritto a essere nutrite quanto/come gli uomini (posizione, questa, del tutto inedita nella storia dell’iconografia, come si è visto) oppure la loro capacità magica di interpretare e trasformare i rituali di preparazione, la cucina, in operazioni alchimistiche, insieme quotidiane e cosmiche. Il primo è piuttosto il caso di Frida Kahlo, che rappresenta il latte in alcuni dipinti molto interessanti, dedicati al “mito” della propria infanzia, in particolare La mia balia ed io del 1937. Qui una Frida bambina ma con il

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volto di donna adulta è allattata al seno da una balia indigena che indossa una maschera atzeca. Un’immagine riferita anche all’iconografia tradizionale della Madonna col Bambino, stravolta però dalla presenza di una bambina-adulta al posto di Cristo: si tratta di uno shock non indifferente, perché “piccoli”, nel mito e nella storia dell’arte, sono soprattutto i bambini maschi, giustamente accuditi da un femminile nutritivo e terrestre. Una bambina allattata da una dea rompe gli schemi e instaura un gioco speculare, identificatorio, che esclude il maschile. Inoltre, la vicinanza fra seno e bocca evoca un contatto omosessuale e rende il gruppetto ancora più conturbante. Eleonora Carrington invece, negli anni messicani elabora una lunga serie di riflessioni pratiche e teoriche sulla cucina, trattata sia in quanto luogo dell’oppressione femminile (specialmente nei paesi di tradizione latina), sia come centro spirituale preposto alla trasformazione della materia e, come tale, connesso sia all’arte sia all’alchimia. Forte di questa convinzione, l’artista è posta così a ridiscutere dalle fondamenta la gerarchia delle tecniche creative e dei generi pittorici definita dalla tradizione accademica e filosofica occidentale; per aprirsi a modalità espressive totalmente diverse, più domestiche e vicine al mondo femminile. Una rivalutazione (per certi versi parallela a quella compiuta dalle protagoniste delle avanguardie russe e sovietiche) che anticipa l’atteggiamento di molte femministe degli anni Settanta, anche se in questo caso si complica di elementi misteriosofici e alchimistici. A questo punto è relativamente breve il passo verso trasgressioni ancora più evidenti e usi ancora più impropri: nell’aprile 1959 a Berna, Meret Oppenheim mette in scena una sorta di happening privato intitolato Festino di primavera (ripreso una seconda volta a Parigi in occasione dell’Exposition InteRnatiOnale du Surrealisme - EROS). Si tratta di un banchetto servito non su una normale tavola da pranzo ma sul corpo di una donna nuda, dove gli invitati sono tenuti a utilizzare direttamente e soltanto la bocca. L’associazione fra corpo femminile e nutrizione è, in questo caso, fin troppo evidente e si iscrive in un clima mentale poetico-mitografico che trasforma senz’altro la donna presente qui ed ora in una specie di divinità primordiale, natura naturans nutritiva e materna, emblema del raccolto, della Pasqua. Un’insieme di significati di fronte a cui l’interpretazione esclusivamente erotica dell’evento proposta poco dopo da André Breton (che allestisce il Festino negli spazi della Galleria Cordier, al culmine di un percorso simbolico erotico-iniziatico

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Meret Oppenheim, Festino di primavera, fotografia di performance, Berna, 1959.

riservato ai soli uomini) risulta francamente riduttiva, se non deviante; come dimostra infatti il fraintendimento divulgato successivamente, che, cioè, la donna ricoperta di cibo fosse Meret stessa2. Non che l’artista svizzero-tedesca non avesse in più occasioni dimostrato di intendersene di corpi femminili sezionati, smembrati e, in qualche modo, divorati: ma la sua intenzione era probabilmente più di riconnettere l’idea del sacrificio alla dimensione omnicomprensiva del mondo naturale, ove il femminile nutre ma viene anche nutrito (anche le figlie hanno una madre), piuttosto che consegnarla all’uomo per il suo esclusivo e “sadico” piacere. Il tema sta a cuore alle surrealiste: la stessa Oppenheim ci ritorna sopra in più occasioni di cui il Festino è, forse, soltanto la più eclatante. In precedenza c’era stata la celeberrima Colazione in pelliccia, vero e proprio capolavoro di erotismo alimentare, che utilizza esplicitamente un significante connesso 2 «[...] per il banchetto inaugurale di una loro esposizione collettiva, la pittrice surrealista Meret Oppenheim si stese nuda sul tavolo del banchetto e fu ricoperta di cibi». Cfr. A. Schwarz, Man Ray, Milano 1977, p. 207.

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ai rituali della nutrizione ben educata cui è stato però tolto il velo della civiltà per riportarli alle fondamenta del desiderio e della “messa a nudo” dell’altro; c’era stato Ma Governante/My Nurse/Mein Kindermädchen che associa il feticcio delle scarpe femminili col tacco alto all’idea della “portata” di un pranzo importante e correda il tutto con le guarnizioni in carta arricciata normalmente riservate ai cosciotti di pollo. La Oppenheim pensa al piacere come a un territorio ampio, interconnesso e pieno di sfaccettature, all’interno del quale avanzare delle riserve, fare gli schizzinosi o trincerarsi dietro alle proprie pruderie ha davvero poco senso. Mangiare, leccare, gustare, sorbire, morsicare, desiderare sono tutte azioni collegate e compenetrate l’una all’altra da una fondamentale omogeneità e prossimità dei sensi. Il corpo senziente, il corpo femminile inteso come macchina per dare e ricevere piacere, come generoso terminale di un diffuso scambio di sostanze nutritive e di effluvi erotizzanti, trova con lei forse per la prima volta una propria armoniosa unità. Un’idea che si associa anche alla progressiva elaborazione, psicologica e culturale, della persona come complessità integrata di due parti, una maschile ed una femminile. Dal femminismo ai disordini alimentari «I primi artisti concettuali erano primitivi. Contrariamente alle loro convinzioni, la documentazione non è un elenco neutro di fatti. È una creazione concettuale di fatti successiva al loro essersi manifestati. Qualunque “descrizione” è una forma di creazione. Non c’è niente di più pregiudiziale della documentazione scientifica». A sostenere questa tesi è Eleanor Antin, pionieristica interprete del femminismo americano e autrice di originali performances che talora comportano l’impiego di attori o oggetti in- o outdoor; ma più spesso coinvolgono l’artista stessa, la sua figura e il suo corpo. Nel 1972 infatti la Antin decide di interpretare uno dei processi tradizionali della scultura, l’intaglio, assumendola su di sé, cioè sottoponendosi a un drastico processo di dimagrimento. Condotto come una performance di 36 giorni, il “lavoro” viene documentato da una serie fotografie dell’artista nuda (fronte, profili, tergo) scattate tutti i giorni e disposte in lunghe sequenze orizzontali. Dalla prima all’ultima, il corpo viene quindi rimodellato come un qualsiasi materiale plastico in nome della bellez-

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Eleanor Antin, Carving. A traditional sculpture, fotografia in bianco e nero, 1972.

za artistica ma anche, più banalmente, della bellezza “femminile”. Ricrearsi, infatti, vuol dire in questo caso obbedire a una tirannica idea di appeal conforme sia alla moda sia ai gusti maschili. Non siamo ancora di fronte all’atteggiamento ossessivo e onnipotente dell’anoressia: l’artista vuole realizzare una scultura e per farla si serve del proprio corpo come materiale grezzo, impreciso, imperfetto; e di un mezzo originale, la dieta. L’operazione in se stessa quale viene presentata nella serie Carving è di assoluta linearità e semplicità; mentre le sue implicazioni psicologiche, trattate con tutta l’ironia del caso sono raccolte in un’altra serie fotografica, The Eight Temptations, dove l’artista si fa ritrarre davanti a un tavolo nell’atto di “resistere” alla “tentazione” costituita da leccornie e snack che avrebbero facilmente compromesso i risultati della sua fatica. L’ideale di bellezza femminile, divulgato dai media dell’epoca e largamente diffuso, viene trattato qui con sferzante ironia, veicolata dalle posizioni teatrali ed eccessive, che mimano l’isteria di molte forzate della dieta e dell’appeal obbligatorio. Più narrativa e spettacolare Faith Ringgold, fra le più interessanti presenze afro-americane attiva a New York dagli anni Sessanta, che

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propone un’esperienza simile (ma più drammatica; la perdita di peso questa volta è di oltre 30 chilogrammi, non di 3!) in una variopinta serie di Quilts, Change I, II, III. Usando il supporto di stoffa come uno schermo narrativo e il patchwork o la stampa silografica di materiali eterogenei, testi, fotografie, elementi puramente decorativi, come frammenti di storia, l’artista articola un racconto denso e complesso, ricco di riferimenti personali, dove il movente “forte” e privato della crescita personale e del miglioramento di sé, si intreccia e si intarsia di questioni altrettanto vissute ma “pubbliche”: il razzismo fronteggiato quotidianamente, le difficoltà di essere nera e donna negli USA, il rapporto coi figli, con la famiglia, con l’arte. Al centro di questi interventi c’è sempre il corpo, teso al limite fra identità femminile (una dimensione di cui nei primi anni Settanta è urgente riappropriarsi) e materia prima, disponibile a essere trasformata, modificata, anche sovvertita, come di lì a poco non esiteranno a fare body artists più o meno agguerrite ed estreme, dalle fluxers Alison Knowles e Carole Schneeman, alle trasformiste dell’obbiettivo, come Cindy Sherman, alle interpreti più radicali della propria ri-creazione, come Orlan. Judy Chicago invece, una delle attiviste più agguerrite e intransigenti del femminismo americano, negli anni Settanta realizza una grande installazione dedicata alla “cena” come rituale celebrativo. È The Dinner Party, che consiste in una gigantesca tavola triangolare apparecchiata per 39 commensali, tutte identificabili attraverso piatto e coperto che ne ricorda le opere e il valore. Si tratta, però, non dei soliti eroi ma di donne eminenti in tutte le attività e i campi del sapere; altri 999 nomi sono invece inscritti nella base di ceramica su cui il tavolo appoggia. Permeata di metafore religiose, pensata come il terreno di un rituale antagonista sì ma non meno iconico e rigido di quello ortodosso, quest’opera è stata molto discussa, e in particolare rimproverata di voler sfuggire dalla contingenza storica per di ancorarsi al mito3. In questa fase, inoltre, per molte il cibo è parte integrante della riflessione sul sé, oltre che strumento operativo: all’ordine del giorno c’è, infatti, non solo il dilemma mangiare-non mangiare (prima di or3 Cfr. N. Dubreuil-Blondin, Spécificité féminine, spécificité de l’art: un couple à réconcilier, in Féminisme, art et histoire de l’art, Condé-sur-Noireau 1997, pp. 115133.

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Judy Chicago, The Dinner party, installazione, 1979.

dine estetico poi esistenziale poi quasi ontologico) ma la necessità di inquadrare e di reagire all’archetipo della donna-nutrice, o più trivialmente della donna in cucina, cui risponde infatti fra le prime l’americana Martha Rosler con i suoi memorabili video come The Semiotic of the Kitchen (1975): in questo tempestivo lavoro, la Rosler, inquadrata da una telecamera fissa, impugna e nomina a voce alta tutti gli strumenti utilizzati normalmente dalla donna di casa, i suoi fantasmi e carcerieri, il matterello, la mezzaluna, il tegame e così via. Dalla A alla Z Martha Rosler mostra e proclama gli ingredienti di queste giornate ripetitive e banali, offrendo una panoramica che nomina e imita la stupidità quotidiana con movimenti che, però, ricordano più un samurai che una piccolo-borghese di periferia. I gesti ampi e violenti con cui le sue mani descrivono nell’aria le lettere dell’alfabeto servendosi di un coltello e una forchetta, sono gesti di ribellione che colpiscono con forza dall’interno il “sistema di soggettività imbrigliata”. L’artista è poi tornata più volte sul tema del cibo in video di grande pregnanza e spesso di aperta denuncia: The Budding Gourmet esplora i processi ideologici attraverso cui la preparazione del cibo ar-

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riva a essere vista come “cucina”, cioè un elemento importante della cultura nazionale. Accompagnata dalle melodie di un concerto per violino, la fredda narrazione dell’artista espone le sue ragioni per voler diventare un gourmet. Fotografie di cibo e di viaggi, tratte da riviste specializzate, si alternano sullo schermo, mentre la narrazione della Rosler tratta del ruolo del cibo come chiave di raffinamento, di sviluppo e, nel caso delle cucine orientali, di spiritualità, mettendo in luce come il concetto di gourmet sia intimamente implicato in nozioni di classe, allo stesso modo in cui la cucina, vista tradizionalmente come la sfera del potere femminile, sia utilizzata per acquisire controllo su altre culture, in base a un funzionamento esattamente analogo a quello della sfera politica, maschile. In altri contributi più tardi, come Losing: a conversation with the parents (1977), viene proposta la storia di una ragazza morta a causa dell’anoressia. Negli stessi anni Alison Knowles pone il cibo al centro di una serie di azioni dall’impostazione dichiaratamente concettuale e di sapore vagamente zen: Identical Lunch per esempio (1971), che richiede la partecipazione di vari “interpreti”, obbligati a consumare un pranzo sempre assolutamente identico nello stesso luogo e alla stessa ora tutti i giorni per una settimana ciascuno. Fra i partecipanti all’azione, Dick Higgins, Philip Corner, John Giorno, Susan Hartung. Un’idea nata semplicemente dall’abitudine dell’artista di mangiare la stessa cosa alla stessa ora: «un panino al tonno di pane bianco, lattuga e burro, niente maionese, e una tazza di brodo o un bicchiere di latte». È già abbastanza per dare luogo a un evento artistico in base a uno dei più profondi ideali Fluxus, che, cioè, l’intera vita sia arte, anche i suoi momenti più banali e ordinari. La Knowles, inoltre, dedica un’ampia serie di opere e interventi ai fagioli, elemento-base dell’alimentazione umana in molte località del mondo. Attraenti per il loro “successo”, cioè il loro larghissimo utilizzo, per la forma, il colore, perfino la sonorità, questi legumi vengono proposti in oggetti, performance e installazioni, come Bean Garden (1971), formata da un’ampia piattaforma ricoperta di fagioli pronti per essere “suonati” dalle suole dei visitatori. La Knowles ha sempre dimostrato un forte interesse nei confronti delle risonanze quasi esplosive prodotte dai fagioli pestati su superfici dure, dedicandovi anche quattro programmi radio, diffusi dalla stazione West Deutscher Rundfunk. Nell’82 le Bohnen Sequenzen (sequenze per fagioli) vincono il prestigioso Karl Sczuka Award per il

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miglior lavoro radiofonico. Questo uso improprio e apparentemente “deviato” non è soltanto ironico e provocatorio ma riporta alle libere sperimentazioni di John Cage, intimo amico e collaboratore dell’artista, e va inquadrato nell’apertissima interpretazione della vita e delle cose proposta da Fluxus sin dai primi anni Sessanta. È con Cage che, per esempio, la Knowles rivisita Mallarmè e il suo celebre Tiro di dadi in una performance poetico-culinaria del 1988, nel corso della quale i due, seduti insieme alla scrivania, leggono parti della celebre composizione poetica, riorganizzate però non secondo l’ordine previsto dal poeta ma in base a una sequenza casuale (random) programmata da un computer. Nella seconda parte del video, i due ripetono la recitazione del testo in cucina, accompagnandosi nella preparazione di un piatto orientale, a base di riso, cetrioli, alghe. In questi e altri lavori della Knowles il cibo diventa così assimilabile a una “parola” o un insieme di “parole” versatili e originali, che possono dar luogo a costruzioni semantiche e a contenuti assolutamente imprevisti e sorprendenti. Per esempio in Bread and Water, un libro d’artista del 1995, è evidente l’intento di trasformare elementi della vita quotidiana in un progetto creativo: alcuni filoncini di pane cotti al forno vengono qui assimilati a fiumi (per prossimità formale), collegati ciascuno a un diverso corso d’acqua, fotocopiati e trasformati in stampe al palladio. Il libro (l’opera finita) riproduce quelle stampe, che associano un’immagine del fiume con passaggi letterari e frammenti di testi tratti da libri di ecologia e geografia. L’immagine del pane e quella del fiume si sovrappongono, complicandosi con flussi di informazione, di poesia e cultura. Anche in Italia, molte artiste ricorrono a un uso improprio, “semantico” del cibo a partire dai primi anni Settanta: non a caso, l’esperienza che da noi si rivela davvero cruciale, e che attira una varietà di protagoniste della scena artistica diverse per generazione e per scelte espressive è quella della scrittura4. Scrittura nel senso più lato e comprensivo del termine: per alcune infatti, essa significa semplicemente modularità e ricorrenza insistita del segno colorato sulla superficie pittorica; per altre, come Paola Levi Montalcini il segno linguistico è associato all’uso della fotografia e dell’incisione

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Sull’importanza della scrittura nell’arte italiana al femminile cfr. fra l’altro M. Vescovo, Scrittura e/o Poesia, introduzione al catalogo della mostra, Milano 1979.

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a rilievo per ottenere opere dal forte impatto visivo e dove è messo in evidenza il valore estetico e grafico del segno, del “ritmo” di superficie; per altre ancora la scrittura (illeggibile) è ossessione, appropriazione metodica dello spazio e del tempo, destrutturazione del linguaggio pittorico che in mani maschili è stato soprattutto un oggetto neutro, un semplice oggetto di cui servirsi. Destrutturazione quindi di questa neutralità apparente, e ricostituzione di un’integrità del mezzo minimo, oltre la banalità del valore d’uso. Non sorprende che fra le artiste che hanno trattato la scrittura in questo modo, se ne incontrino alcune particolarmente consapevoli e impegnate sul piano politico, come Dadamaino (1935-2003) che negli anni Settanta mette a punto un proprio linguaggio basato su due strumenti minimi, il segno più semplice (segmento – lineetta) e la superficie vuota. Per altre ancora, in genere ricomprese nell’ambito delle nuove scritture, gli esiti non sono meno rigorosi ma sostenuti da una libertà maggiore. Mirella Bentivoglio, che studia a lungo la loro produzione, osserva come la scrittura venga intesa qui soprattutto come discorso corporeo, “prelinguistico”; sorta di liberazione del linguaggio dalla schiavitù del senso e di ritorno all’origine, alla valenza ancestrale della traccia che è anche memoria del corpo, riappropriazione della propria gestualità. Ma l’associazione fra scrittura e cibo si consuma soprattutto nell’ambito genericamente poetico-visivo, laddove la prima si appropria della significazione e dell’evocazione poetica, permeandola variamente di immagini. In particolare Mirella Bentivoglio, critica e organizzatrice culturale oltre che artista, costruisce ed assembla metafore alimentari dal sapore talvolta metafisico: sono oggetti e soprattutto libri d’artista (per esempio Uomo à la coque del ’74 o Cucinare parole del ’95) che contaminano sistematicamente cultura alta e cultura bassa, trattano i rituali della cucina come i rituali della cultura e la produzione di pensiero come produzione alimentare. In questo modo l’ordine tradizionale (maschile) fra i gesti e le azioni viene sovvertito dall’interno attraverso un nobilitante recupero dei saperi e della quotidianità delle donne. Per esempio in Il cacio è il mondo, i buchi le parole (1988), nella rilegatura di un libro viene nascosta una fetta di formaggio, una “sorpresa” per l’ignaro lettore che si aspetta testi e conoscenza e invece trova formaggio svizzero; corpo, in altre parole, invece di anima. L’artista gioca con la consistenza della cultura e con il suo potere nutritivo, lasciando i buchi, cioè i vuoti, a disposizione del-

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le parole, di tutte le possibili parole che non hanno corpo. Ma non si tratta di una semplice polemica “contro” il linguaggio. Nell’epidermide interna ai buchi si annida infatti tutto il grasso che dà sapore al formaggio. La cultura dà sapore alla realtà grezza e grossolana della quotidianità e del mondo. La Bentivoglio esplora moltissime fra le possibili varianti della poesie visiva, concreta e dell’azione poetica, realizzando anche diversi collages, connotati da un’esplicita coscienza di parte: per esempio Ti amo, dove il semantema onomatopeico “am” posto proprio sopra la lingua in un’invitante bocca femminile semiaperta, complica l’apparente ovvietà del messaggio con molte altre significazioni possibili e molto differenti da quanto lo spettatore, identificato qui con lo sguardo maschile, potrebbe desiderare: amare è mangiare infatti (“am” onomatopeico) ma anche “sono” in inglese. La prospettiva allora si inverte, grazie al semplice allontanamento di un piccolo “ti” e di una piccola “o”, torna sul soggetto bocca, non più disponibile oggetto sessuale ma io autocentrato che rivendica la propria esistenza o, peggio ancora, manifesta apertamente le proprie tendenze distruttive, fagocitanti e cannibaliche. Per quanto riguarda l’Italia, va ricordata anche l’attività di Rosanna Chiessi, ideatrice-organizzatrice di performances, eventi d’arte e “pranzi” tematici, che allestisce una serie di “cene colorate” monotematiche, affidate ciascuna a un’artista diversa. Per esempio la Cena rossa affidata a Alison Knowles nell’89 e realizzata a Reggio Emilia, aveva visto la partecipazione di commensali vestiti di rosso in un ambiente decorato di arredi rossi. Nel corso della serata, si svolgono performances e recitazioni poetiche. Le “armi improprie” continuano ad essere apprezzate anche negli anni Ottanta, in pieno revival neo-pop: e, in questo momento, fra le mani delle donne esse acquistano valenze particolarmente provocatorie ed aggressive mentre, per contro, talvolta perdono qualcosa in ironia e delicatezza. Se, infatti, un artista sui generis e originale come il torinese Aldo Mondino può semplicemente divertirsi a dipingere una danza dei dervisci usando le nuances che gli offrono cereali e legumi disponibili sul mercato, Jana Sterbak è apertamente provocatoria e quasi cinica nel confezionare un elegante abitino di filetti e strisce sottili di carne bovina cruda per vestire con questo un manichino che sembra uscito due minuti prima da un atelier di moda. Lo stesso titolo dell’opera, Vanitas, parla chiaro: alle spalle c’è

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la questione del limite, della morte, del degrado delle sostanze organiche e dell’inversione di interno ed esterno. Il “dentro”, infatti, è trasformato in superficie, in fuori: la corruzione diventa visibile, anzi diventa fatto formale che non solo permea ma riveste il corpo come un manifesto. Il cibo diventa così attore di una messinscena inquieta e barocca, frequentata anche da altre protagoniste della scena anni ’80: per esempio Janine Antoni che usa il lardo e il cioccolato per realizzare giganteschi cubi compatti, oppure una serie di autoritratti a mezzobusto, pronti per essere “modellati” con lingua, denti e saliva. Si tratta di una variante significativa dell’idea di scultura proposta nel decennio precedente dalle performer che intervenivano sul proprio corpo: qui, invece, è il corpo a intervenire, trasformando l’atto del mangiare, del leccare, del godere, in scena, in costruzione sospesa fra estetica e racconto autobiografico. Il genere resta quello drammatico: la festa è (anche) un rituale dionisiaco di devastazione, che deve essere espiata mediante opportuna purificazione, cioè mediante il ritorno a una condizione di pulizia, di equilibrio, di grazia. Le installazioni dell’italiana Odinea Pamici la dicono lunga in proposito: qui corpo femminile e cibo appaiono come due “stati” della stessa materia, erotismo e nutrizione come due atti complementari e, in fondo, sovrapponibili. Indumenti intimi femminili sexy e provocanti vengono “farciti” con sostanze alimentari vagamente ributtanti: gelatine, pezzi di pollo, pastina e simili. Cibo e sesso partecipano della stessa abulimica impurezza, il corpo femminile altro non è che il cibo che ingurgita e, al tempo stesso, sta lì pronto per essere goduto, cioè in realtà mangiato, mentre l’artista, resa isterica dalla sua stessa tragica scoperta, si affanna a sovvertire gli equilibri dell’ambiente domestico, rivestendo la cucina di casa sua, con tutto quel che contiene, di rivestimenti asettici e/o esteticamente nobilitanti, come domopack, carta d’alluminio, velluto di seta. Abulimici, sempre, i suoi interventi che in certe fotografie di liquami semidigeriti ricordano alcune terribili foto di Cindy Sherman (Film Still 175, 1987): dove della donna sono rimasti soltanto pochi pezzi sparpagliati nel disordine di un fondo senza forma. E, a proposito delle tendenze abulimiche e cannibaliche, va ricordato anche l’inquietante lavoro di Louise Bourgeois, grande vecchia dell’arte al femminile, che in un’installazione emblematica, intitolata The Destruction of the Father, inscena quasi un terribile ed

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Cindy Sherman, Untitled, Film Still, 1987.

esplicito psico-dramma di sapore edipico, virtualmente interpretato da lei stessa e i suoi fratelli. Come in un rituale di tipo tribale o mitologico, insofferente della violenza e delle angherie di un padre tiranno, la gang dei giovani si ribella, attacca il patriarca, lo fa a pezzi e lo divora. The Destruction è una specie di claustrofobica ricostruzione della scena, realizzata, come di consueto per la Bourgeois, con silicone e altri materiali resistenti ma mollicci, dove, su una specie di mensa apparecchiata sono accumulati i pezzi del corpo, ancora vagamente riconoscibili. Video anoressici Negli ultimi anni, sono numerose le artiste che hanno interpretato i rituali conturbanti dell’anoressia e dei disordini alimentari in una serie di performances e video di grande intensità emotiva. Per esempio l’austriaca Elke Krystufek, una fra le artiste più versatili e radicali delle ultime generazioni, che ha affrontato a più riprese e utilizzando diversi linguaggi il problema del condizionamento sociale e psicologi-

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c s la c Louise Bourgeois, The Destruction of the Father, scultura, 1974.

co esercitato sul corpo femminile, trattando per esempio della dittatura della bellezza e dell’ossessione di essere magre: in una nota performance del ’93 (If Men Had Bulimia Too) l’artista si presentava indossando gli abiti del padre, si spogliava e, dopo aver assunto con foga quantità enormi di cibo, si procurava il vomito; l’egiziana Hala Elkoussy ha prodotto video che la ritraggono in un angolo della cucina bersagliata di cibi che le vengono tirati addosso e che lei cerca freneticamente di ingurgitare nonostante la gragnucola di colpi che continua, portando con sé sempre nuove possibilità di consumare ancora di più, ancora qualcos’altro; l’italiana Vanessa Beecroft che in una delle ultime performance, VB52 al Castello di Rivoli, ha messo in scena un sontuoso pranzo per efebiche e magrissime modelle, che siedono a tavola senza consumare nulla. L’artista, peraltro, non ha mai fatto mistero del proprio ossessivo interesse nei confronti della bellezza, del corpo perfetto e del rifiuto del cibo, investendo molti interventi artistici di una consistenza quasi autobiografica. Anche la giovane milanese Iaia Filiberti ha dedicato un video all’argomento, Lady Macbeth’s Lunch, le cui commensali (una giovane europea ossessionata dalla bellezza, una giovane africana atavicamente deprivata del cibo, Santa Caterina da Siena e la stessa Lady Macbeth) muoiono tutte una

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portata dopo l’altra, incapaci di assumere nutrimento. Nell’interpretazione della Filiberti, Lady Macbeth è una perfetta equilibrista sospesa fra incubo e tensione all’idea senza condizioni. Conturbante soprattutto la sua volontà di alterare la propria biologia sostituendo il fiele al latte, rinunciando a ogni debolezza e ad ogni tenerezza in nome dello scopo: ma tutto questo non è affatto negare la femminilità, come invece è stato sostenuto. Non a caso l’anoressia, la tensione verso il corpo assoluto è intimamente, si può dire esclusivamente, femminile. Dalla santità al controllo, al dominio totale sull’evento “corpo”, e sul suo divenire, c’è un ininterrotto percorso lineare, senza soluzione di continuità. Al ciclo del detrito si contrappone la forza di una volontà ferrea; il corpo, sottratto al progressivo e irriducibile divenire delle sue forme, si consolida in un osso stabile e virtualmente immortale. Così la tavola può diventare un rituale silenzioso, un gioco di incomunicabilità fra commensali e cose.

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Eccessi e disturbi alimentari sugli schermi degli ultimi decenni: per un confronto Italia-USA CRISTINA BRAGAGLIA

È negli anni Cinquanta che gli ideali di bellezza del mondo occidentale mutano. Nel cinema, anticipatore e riflesso della società, irrompe un nuovo tipo di figura femminile (più moderno e pertinente alle mutate esigenze della società): un’attrice scardina gli ideali preesistenti e si impone come icona della nuova femminilità. È Audrey Hepburn1. Arriva al successo nel 1953 nei panni della principessa in incognito di Roman Holiday (Vacanze romane), un film di William Wyler, ma il suo particolare statuto artistico è perfezionato da Sabrina (1954) di Billy Wilder: la snellezza si accompagna a un’eleganza estremamente raffinata, messa a punto dalla costumista Edith Head con la collaborazione del sarto europeo Givenchy. Sabrina, figlia di un autista, frequenta a Parigi una scuola di cucina, ma non appare particolar-

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Si è molto parlato di anoressia per la Hepburn. In realtà l’attrice aveva conservato la sua esilità dal tempo di guerra, quando, in Olanda (dove con la madre era rientrata nel 1939), aveva sofferto la fame come tutti gli altri abitanti del paese, arrivando persino a cibarsi di erba e bulbi di tulipani. Aveva studiato danza classica sin dall’infanzia (era la sua grande passione) tra Belgio, Olanda e Gran Bretagna e, tornata a Londra nel 1949, era entrata nel mondo dello spettacolo come ballerina. Recitava già per il cinema in ruolo di secondo piano, quando nel 1951 Colette la volle come interprete della versione teatrale di Gigi. Il successo la impose nel cinema. Sulla novità costituita dal fisico e dalle caratteristiche comportamentali della Hepburn cfr. M. Rosen, La donna e il cinema. Miti e falsi miti di Hollywood, Varese 1978, p. 202, A. Praderio, Ragazze vincenti. L’ascesa al potere delle donne a Hollywood, Milano 1997, p. 19 e S. Gundle, Dee sintetiche: lo star system americano negli anni Quaranta e Cinquanta, in Star al femminile, Bologna 2000, pp. 134-144. Sulla vita dell’attrice cfr. C. Higham, Audrey. A Biography of Audrey Hepburn, New York 1984, R. Karney, Audrey Hepburn. La principessa di Tiffany, Roma 1994.

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Audrey Hepburn nel film Sabrina di Billy Wilder del 1954.

mente interessata al cibo, né come cuoca (i suoi soufflé escono dal forno sempre seduti), né come consumatrice dello stesso. Sarà però solo nel 1963 che un suo personaggio mostra apertamente segni di disturbi alimentari: ogni volta che è nervosa, Reggie Lambert, al centro degli intrighi di Charade (Sciarada, 1963), un film di Stanley Donen, è tormentata da una insaziabile fame. Il cinema italiano degli anni ’50 abbonda invece di attrici prosperose, impegnate a mangiare con gioia (quasi a esorcizzare i ricordi della ancora recente fame bellica) e con gioia a cucinare: in Pizze a credito, episodio dell’Oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica, una procace Sophia Loren impasta con energia acqua e farina per la pizza, associando così cibo e sesso nell’immaginario degli spettatori e contrapponendosi idealmente all’inappetente Sabrina. È solo nell’Italia dei primi anni Settanta – esauriti gli effetti proficui del boom economico – che la visione positiva e ottimistica del cibo lascia il posto a inquietanti parabole dove l’atto di nutrirsi si associa alla morte. In La grande bouffe/La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri ci si ingozza fino a morirne. È l’esatto contrario dell’idea di Cuccagna dove la concezione “sovversiva” dell’abbondanza si

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contrappone sin dall’epoca medievale alla dittatura della fame. La raffinata cultura gastronomica di cui il film fa sfoggio si tramuta per i quattro protagonisti in uno strumento di suicidio. L’atmosfera mortuaria della Grande bouffe esercita la sua influenza sul cinema italiano dei decenni successivi, arrivando a trasformare la passione gourmet dei personaggi ferreriani nel rifiuto del cibo o in una sua drammatica e contrastata assunzione. Si potrebbe quasi ipotizzare che in un cinema dominato dall’eccesso quale è quello contemporaneo2 il rapporto con il cibo assuma quasi obbligatoriamente gli aspetti della dismisura: lo stanno a dimostrare alcuni film italiani e statunitensi. Non si pensi però a una uniformità di forme e contenuti. Diverse appaiono le anomalie alimentari, diverso il registro degli approcci. Se i registi italiani sembrano aver fatto propria la lezione della Grande bouffe di Ferreri, l’industria USA invece si concentra sul problema più diffuso in quella nazione, l’obesità3, trattandolo perlopiù nei toni della commedia, come del resto aveva fatto per la fame negli anni della Depressione4. Gli studi sui disturbi alimentari5 hanno stabilito che l’ossessione della magrezza ha inizio negli anni Sessanta: Audrey Hepburn aveva solo anticipato desideri che si manifesteranno nel decennio successivo e che troveranno modelli più “esasperati” nelle modelle Twiggy o Jane Shrimpton. Dall’ossessione della linea (e della dieta) al rifiuto del cibo il passo è veramente breve. Nel 1979 viene redatta la prima completa de2

Il cinema contemporaneo eccede spesso nella violenza, nell’uso degli effetti speciali, nel gioco dei colori, nelle vibrazioni del suono surround. A volte esagera persino nell’impiego di un linguaggio ellittico e disarmonico, irto di tentativi di innovazione (squisitamente filmici o derivanti dall’abuso della computer grafic) che nuocciono alla comprensibilità e spesso peccano di ingenuità. 3 Gli Stati Uniti sono la nazione che annovera la percentuale più alta di obesi. Cfr. J.-P. Poulain, Sociologies de l’alimentation, Paris 2003, p. 108. 4 Cfr. Y. Carlet, Notre pain quotidien: Hollywood et la faim, in Les cinéastes et la table, dirigé par T. Bolter, “CinémAction”, 108 (2003), pp. 61-65. 5 Cfr. J. Buckroyd, Anorexie et boulimie, Paris 2000, p. 69. Vedi anche C. Balasc, Désir de rien. De l’anorexie à la boulimie, Paris 1990, S. Argentieri, S. Rossini, La fatica di crescere. Anoressia e bulimia, segni del malessere di un’epoca confusa, Milano 1999 e della sola Argentieri, Cibo e psicanalisi, in I quaderni di Micromega. Il cibo e l’impegno, 2, supplemento a “Micromega”, 5 (2004), pp. 46-48.

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La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri.

scrizione clinica della bulimia, nel 1987 si definisce nei particolari il fenomeno dell’anoressia, malattia peraltro conosciuta da almeno tre secoli: fino all’Ottocento, le si attribuivano anche cause organiche, in seguito perentoriamente escluse6. È solo negli anni Novanta che l’anoressia compare sugli schermi italiani7: nel 1992 Dario Argento ne fa la caratteristica distintiva di Aura (una impacciata Asia Argento), sedicenne protagonista del suo irrisolto Trauma. Nel film i delitti si mescolano alle angosciose visioni che la malattia suscita nella ragazza. Come scrive Linda Badley:

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Cfr. Buckroyd, Anorexie et boulimie, cit. pp. 14-45. In realtà la produzione era statunitense e le riprese sono state effettuate a Minneapolis. Per quanto riguarda altri antecedenti italiani nel 1977 con Maternale Giovanna Gagliardo aveva imperniato un nevrotico rapporto tra madre e figlia sul cibo, che scandisce ossessivamente le loro giornate. La madre se ne serve per negare alla figlia adolescente la desiderata autonomia. Ma la giovane saprà conquistare la sua libertà. Il film si ispirava alle idee della psicoanalista Luce Irigaray, in particolare al testo Speculum. L’altra donna, edito in Italia da Feltrinelli nel 1975.

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The film’s issues are the stuff of female gothic and 1990s “trauma culture”: anorexia/bulimia nervosa, dysfunctional mother-daughter relationships, oppressive medical institutions, malpractice cover-ups, recovered memories, incest and false memory syndrome. The pop psychology usually left by Argento to subtext or used to wrap an already baroque finale, Trauma foregrounds and then develops in its casestudy of a suicidal anorexic and a mother traumatised by the loss of her infant son8.

Si è anche rilevato come il fatto che la madre abbia origini rumene (il suo nome è Adriana Petrescu) istituisca un sotterraneo collegamento con il vampirismo e in seconda istanza con la stregoneria. Elemento quest’ultimo messo in rilievo anche dal fatto che la donna è una medium. Aura si priva totalmente del cibo (se è costretta a ingoiarlo lo rigetta) perché inconsciamente percepisce la malvagità della madre, per antonomasia deputata alla nutrizione. «Quello di Aura si configura dunque come un estremo meccanismo di difesa, un astenersi dal “latte avvelenato” per mantenere intatte bontà e purezza, anche qui risultato della scissione schizoparanoide buono / cattivo»9. Attraverso il meccanismo narrativo del thriller, Argento esaspera il rapporto tra anoressia e conflittualità tra madre e figlia, ottenendo però un risultato ambiguo: da un lato attira l’attenzione dello spettatore su un problema che si sta diffondendo anche in Italia, dall’altro lo relega nei confini della eccezionalità, dell’eccesso appunto, facendo della figura materna una crudele e folle assassina. Nel 1997 due registi esordienti Maurizio Fiume10 ed Elisabetta Lodoli11 affrontano entrambi il problema delle relazioni tra cibo e corpo, cibo e mente con due personaggi femminili, l’una afflitta dall’obesità, l’altra dalla bulimia. 8

Cfr. L. Badley, Italian Horror: Dario Argento’s Trauma (1993) in “Kinoeye”, 2, Issue 12, 24 June 2002 dal sito internet www.kinoeye.org/02/12/badley12.php. 9 Tulip, La morte e la fanciulla: la donna nel cinema di Dario Argento, www.horrortv.it/darioarg.htm. 10 Prima di Isotta, Maurizio Fiume era stato sceneggiatore e documentarista. In seguito lavora per la televisione, tornando al lungometraggio nel 2002 con Io ti seguo, sull’omicidio del giornalista Giancarlo Siani. 11 Elisabetta Lodoli, laureata in Filosofia a Bologna, segue un corso di cinema a Los Angeles, realizzando corti e documentari. Dopo l’esordio nel lungometraggio con La Venere di Willendorf, alterna regie per la televisione alla realizzazione di corti e documentari.

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Fiume con Isotta, film dai risultati discontinui in cui si mescolano sfondi realistici e toni surrealistici, approfondisce le dinamiche psicologiche di una trentenne napoletana (interpretata dall’attrice teatrale – ed ex cantante rock – Nicoletta Magalotti), golosa e ben in carne, fin dall’infanzia oggetto di scherni per la sua grassezza. A lei si contrappone la madre, magrissima. Per sfuggire alla realtà meschina e complessa di una vita precaria (Isotta lavora come operaia ed è sfruttata dal proprietario della fabbrica), si rifugia nei sogni, acquisendo a poco a poco una consapevolezza che le permette di affrontare il padrone dello stabilimento e di guidare la madre verso un corretto rapporto con il cibo, fino a farla mangiare con gusto. Isotta cerca di cambiare il proprio aspetto solo quando si innamora di Alexandros, che però le preferisce Luisa, la sua migliore amica. Come ha dichiarato lo stesso regista, «il cibo non è assolutamente un’evasione, ma gioca un ruolo fondamentale nell’organizzazione della famiglia, soprattutto meridionale. Assieme al sesso, le modalità con cui viene preparato e consumato sono fondamentali nella formazione dei figli. Addirittura, penso che arrivi a condizionare la morfologia delle persone […] Alla fine […] Isotta riesce a capire che proprio il cibo è l’unica forma di comunicazione con la madre»12. La storia raccontata da Maurizio Fiume capovolge l’assunto di Trauma, il film di Argento di cui s’è trattato più sopra, a partire dal registro scelto che evita le drammatizzazioni: l’anoressica è la madre e l’amore della figlia riuscirà a portarla verso la guarigione. Il cibo non è più metafora del “latte avvelenato” e recupera il suo ruolo di espressione d’amore all’interno delle relazioni familiari. Nel progetto narrativo di Fiume l’obesità di Isotta non costituisce un problema rilevante: è anzi uno degli elementi che permettono al regista di rendere conto dell’acquisita maturità della protagonista, pronta ad accettare anche il suo corpo nonostante non rientri nei canoni estetici dettati dalle esili silfidi delle passerelle della moda. La Venere di Willendorf che dà il titolo al lungometraggio di Elisabetta Lodoli è una statuetta del periodo paleolitico ritrovata sulle rive del Danubio e conservata in un museo di Vienna: risale a ventimila, trentamila anni fa e raffigura una donna obesa con grosse mam-

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M. Fiume, intervista a cura di L. Gianferrari, in Accadde domani ’97. Nuovo cinema italiano, “Quaderni di ventiquattroalsecondo”, Reggio Emilia 1997, p. 28.

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melle e un addome enorme, simbolo della fertilità e dunque della maternità. La protagonista del film soffre di bulimia, proprio perché non accetta il proprio corpo e si vede pingue come la figuretta arrivata dal passato. La regista scrive nelle note di regia di avere scelto un caso di bulimia, solo come «espressione moderna del conflitto corpo-mente»13. Tuttavia la descrizione degli aspetti ossessivi della malattia, che colpisce Elena (interpretata dall’attrice teatrale Luisa Pesello), protagonista della vicenda assieme alla cugina Ida (Iaia Forte), è approfondita e precisa: il rimirarsi continuamente allo specchio, il controllo ripetuto del peso e un insieme di piccole ossessioni che sono inquietanti segnali di un quadro clinico grave. Elena, che non mangia mai in compagnia, ha perso la valutazione realistica del proprio corpo: da un lato ne vanta la bellezza (anche se si sente grassa), dall’altro lo strazia e ne abusa con le solitarie pratiche bulimiche. Elisabetta Lodoli costruisce il suo racconto come un thriller psicologico14: alla fine del film Ida ricompone il puzzle dei vari indizi disseminati lungo il racconto e in cucina scopre la cugina che divora bulimicamente tutto il cibo che trova. La bulimia è qui collocata all’interno di una società borghese, connotata dall’abbondanza degli oggetti e del cibo e dall’aridità dei sentimenti. Sia Ida che Elena vivono rapporti in crisi: le aspetta un futuro di solitudine. L’ambientazione in una villa al mare, fuori stagione, diventa metafora sia dell’isolamento affettivo delle protagoniste, sia della percezione alterata che Elena ha della realtà circostante. Ambedue i film (Isotta e La Venere di Willendorf) si chiudono su finali che lasciano intravedere una speranza nella solidarietà femminile, anche se non si può certo parlare di happy ending. Se si mette a confronto il film di Maurizio Fiume con Shallow Hal (Amore a prima svista, 2001) di Peter e Bobby Farrelly (i registi di There’s Something About Mary - Tutti pazzi per Mary, 1998), ci si rende immediatamente conto della differenza di registro con cui sono trattati analoghi messaggi sull’obesità e sulla sua accettazione, da parte di chi ne soffre e della società circostante. Il film hollywoodiano (che ha come protagonista una diva del calibro di Gwyneth Paltrow) fa leva su una comicità spesso sguaiata per raccontare la poco credi-

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Cfr. intervista a cura di V. Cavandoli, ibid., p. 35. Ibid., p. 39.

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bile storia di Hal (Jack Black), che, ipnotizzato da un esperto di autostima, vede bellissima e snella Rosemary, in realtà afflitta da 120 e più chili. Il messaggio – convenzionale – è che si deve guardare alla bellezza interiore e non all’aspetto fisico. A meno di non vedervi come fanno alcuni critici una tensione tra il mondo interno dei personaggi (lo “spirituale”) e quello esterno (il “corporale”)15. La Paltrow ha accettato di mostrarsi deturpata da una tuta gonfiabile, che le regalava più del doppio del suo peso. Quasi non sembra lei, non fosse per il volto, solo vagamente deformato dal grasso. E non fosse per la mimica e la gestualità che appaiono intatte anche nella versione “supersize”. La Paltrow in molte interviste si è soffermata sul fatto che ha anche sperimentato il diverso atteggiamento che le persone riservano agli obesi, uscendo nella hall di un albergo con il trucco delle riprese. Al contrario dell’opera di Fiume relegata nei circuiti d’essai, il film ha raggiunto un vasto pubblico, ma non è poi riuscito a far riflettere su un problema condiviso da molti negli Stati Uniti, rimanendo alla superficie dello spunto comico16 e deludendo il pubblico, che molto si attendeva dai registi di Tutti pazzi per Mary. Allo stesso modo non aggrediscono il problema nella sua drammaticità film di successo come Bridget Jones’s Diary (Il diario di Bridget Jones, 2001) di Sharon Maguire, la cui protagonista – è noto – ha l’ossessione del peso, oltre a essere afflitta dalla cellulite. Nonostante qualche incursione realistica, si resta nell’ambito della satira (abilmente mischiata a un romantico sentimentalismo) che tutto risolve nell’happy ending. Come fa un altro film vincente al botteghino, My Big Fat Greek Wedding (Il mio grosso grasso matrimonio greco, 2002) di Joel Zwick. Anche qui la protagonista ha qualche chilo di troppo, anche qui tutto si risolve con la conquista dell’uomo amato (coronata in questo caso dal matrimonio), con la variante di una sorta di giustificazione identitaria, dovuta all’origine greca di Toula Portokalos (Nia Vardalos, autrice anche del soggetto). Nella sua banalità

15 Cfr. Apologia del filmetto. Dieci schede, a cura di L. Bandirali ed E. Terrone, in “Segnocinema”, 134, luglio-agosto 2005, p. 9. 16 Con la stessa superficialità, Christian De Sica aveva affrontato il problema dell’obesità in Faccione (1990), suo film d’esordio interpretato da Nadia Rinaldi: i 110 chili di peso non impediscono a Daniela di vivere con gioia. Coronerà il suo sogno d’amore e avrà un figlio. De Sica si adagia nella farsa, non senza qualche volgarità gratuita.

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diegetica il film si presenta il nuovo tassello di una filmografia consolatoria che cerca di distogliere le spettatrici dagli assilli della dieta o dei chili di troppo. Il regista di culto John Waters in Hairspray (Grasso è bello, 1988) si occupa dell’obesità, esorcizzandone i problemi grazie al successo televisivo che negli anni Sessanta, a Baltimora, arride a Tracy (Ricki Lake), la sua eroina adolescente e grassa. In lei si identificano molti giovani spettatori: di qui la sua popolarità. Secondo Vito Zagarrio, autore di una monografia sul regista, nel film si mostra “il piacere del grasso”, in un gioco autoironico, che tuttavia non manca di lanciare strali contro il consumismo e la borghesia conformista: Tracy diventa modella per lo sponsor dello show, un negozio di taglie forti17. Ma Waters18 (che immerge il racconto nel suo mondo trash, trasgressivo e irriverente, popolato di travestiti e attori icone) contamina poi il tema della obesità con quello del razzismo, che finisce per prendere il sopravvento. Un’altra adolescente, Ana, protagonista di Real Women Have Curves (Le donne vere hanno le curve, 2002), film diretto da un’americana di origine colombiana Patricia Cardoso, rifiuta gli stereotipi della magritudine per affermare la propria identità: contro la volontà della madre (un’emigrata messicana) abbandona il lavoro nella sartoria di famiglia e la vita matrimoniale, cui la destinerebbero le aspirazioni materne, per andare a New York, dove ha vinto una borsa di studio alla Columbia University. La madre le rimprovera i chili di troppo, che le impedirebbero di trovare un fidanzato. Ana decide che bisogna accettarsi per come si è e puntare piuttosto sull’intelligenza, addolcita da una buona dose di sense of humour. Le sue forme abbondanti diventano un elemento distintivo della differenza etnica, esibito con orgoglio contro gli wasp magri, ricchi e belli. Ana accetta il suo corpo e le sue origini, ma vuole integrarsi completamente nella società e nel mondo del lavoro, come una qualsiasi ragazza america-

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V. Zagarrio, John Waters, Milano 2005, p. 130. In un altro dei film di Waters ambientati a Baltimora (sua città natale), Pecker (1998), la sorellina del protagonista mangia in continuazione caramelle, quasi fossero per lei una droga. Il bambino o l’adolescente obeso sono spesso personaggi di secondo piano. Ad esempio in Monster’s Ball (2001) di Mark Foster Halle Berry è la madre di Lawrence, un ragazzo eccessivamente corpulento, che finisce travolto da un’auto. Sono tocchi di realismo in film che non si occupano specificamente del problema, ma che ne testimoniano tuttavia la diffusione. 18

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na, cercando così di conciliare i termini della contraddizione che agita gli immigrati di seconda generazione. Anche Patricia Cardoso rimane confinata nei percorsi tranquilli della commedia, pur arricchendo il suo racconto di elementi e spunti realistici che affrontano i problemi della comunità ispanica negli USA. Elusivo nei confronti del peso in sovrappiù della protagonista (una Charlize Theron che per il film è ingrassata di più di 12 chili e che è abbruttita dal trucco) appare invece il film di Patty Jenkins Monster (2003), concentrato com’è su altre tematiche: la serialità omicida e il rapporto omosessuale tra Aileen (la Theron che vince l’Oscar per questa interpretazione) e Selby (Christina Ricci). All’interno di questa relazione – e nel film – secondo Mario Molinari, gioca un ruolo di rilievo la sproporzione: «L’incontro fra la gigantesca prostituta laida e spaccona come un maschio e la diafana Selby, una giovane lesbica in rotta con l’oppressione familiare e le sue regole, genera un rapporto squilibrato, i cui costi (gli omicidi), tutti sulle spalle di Aileen, sono del tutto sproporzionati ai ricavi (la gratitudine, se non l’amore dell’adolescente da cui è presa)»19. È dunque la struttura fisica a essere implicata, più che il peso: lo dichiara la stessa Patty Jenkins, che con questo film di esordio si impone sulla scena cinematografica internazionale vincendo l’Orso d’oro a Berlino nel 2004. Ed è la costituzione della Theron, simile a quella di Aileen Wuornos (l’omicida alle cui vicende è ispirato il film), che la decide a scegliere l’attrice, fino ad allora estranea a interpretazioni drammatiche20. La tragica realtà dei disturbi alimentari, evitata dal cinema spettacolare hollywoodiano, emerge con forza nei TV-movie, come Perfect Body (Per un corpo perfetto, 1997) di Douglas Barr21. Il genere comporta l’uso di un linguaggio tradizionale e di un registro realistico, adatto al pubblico del day-time, ma i temi affrontati spesso giungono al cuore di problematiche diffuse nella società USA: in questo caso l’anoressia. Andie Burton, la protagonista del film di Barr, inizia una dieta per migliorare le sue prestazioni di ginnasta e partecipare alle Olimpiadi. Presto diventa anoressica. La sua vita, fino ad allora ricca 19

Tutti i film dell’anno, “Segnocinema”, 129, settembre-ottobre 2004, p. 50. Cfr. G. Bragana, Come nasce un mostro. Incontro con Patty Jenkins, regista di Monster, in “Duellanti”, maggio 2004, p. 11. 21 In Italia è stato trasmesso nella programmazione pomeridiana di Canale 5 l’8 novembre 2000. 20

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di soddisfazioni e di affetti, ne viene sconvolta: Andie si ritrova sola, con il corpo distrutto. La parabola è semplice, ma al contrario dei film hollywoodiani non offre nessuna soluzione consolatoria, mostrando pedagogicamente i pericoli di una patologia devastante22. Anche in Italia è un film tv Briciole23, diretto da Ilaria Cirino, a mostrare a un vasto pubblico le drammatiche conseguenze di anoressia e bulimia. Nonostante alcune incertezze nel racconto e l’accumulo inutile di drammatici episodi collaterali, non indispensabili per rendere credibile la presa di coscienza della protagonista, il film, tratto dall’omonimo romanzo di Alessandra Arachi, ha il merito di descrivere senza sentimentalismi e inutili fraintendimenti l’evolversi della malattia, con il passaggio dalla fase anoressica a quella bulimica. Come altre opere presenta un finale aperto: la protagonista (Claudia Zanella), dopo la morte del ragazzo che ama, prova per la prima volta il desiderio di guarire. Mangia alcune banane e non le vomita. Non è un happy ending, ma più verosimilmente un barlume di guarigione. Di anoressia sembra trattare anche Primo amore (2004), opera di Matteo Garrone sulla quale molto si è discusso. Ispirato a un fatto veramente accaduto (poi descritto nel romanzo di Marco Marzolini Il cacciatore di anoressiche), il film si incentra su un rapporto drammaticamente complesso, che procede consapevolmente e lugubremente verso un tragico finale. Il protagonista, Vittorio (Vitaliano Trevisan), vuole plasmare fisicamente Sonia, la ragazza che ha conosciuto grazie a un annuncio, togliendole qualunque rotondità: egli ama infatti gli spigoli e le linee dritte. Sonia in un primo tempo asseconda l’uomo e si sottopone a un rigoroso regime alimentare per raggiungere i 40 chili, che diventano anche sinonimo dell’amore perfetto. Poi sopraggiunge la ribellione: la ragazza mangia di nascosto ed, esasperata, uccide Vittorio. Ma gli avvenimenti narrati dal film dimostrano come non si parli affatto di anoressia, almeno nei termini così definiti dalla diagnostica medica. Lo ha dichiarato lo stesso Garrone, insistendo sul fatto che Primo amore racconta invece di «una donna che si innamo22

Sulle produzioni televisive statunitensi dedicate ai problemi alimentari (siano essi documentari o fiction) cfr. il sito groups.msn.com/dissociated/edvideos.msnw – 98k. Tra le opere citate merita attenzione il drammatico Secrets between Friends (1996) di Jim Contner, della serie “Moments of Truth”, dove la protagonista (Lynda Carter) condivide con l’amica bulimia e anoressia, fino alla morte. 23 Il film è andato in onda il 20 gennaio 2005, in prima serata.

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ra di un uomo e, per fargli piacere, dimagrisce»24. A essere patologico è il rapporto amoroso e non quello con il cibo: giustamente il regista la descrive come una «schiava d’amore […] vittima di una storia di plagio dalla quale non è possibile fuggire se non con un atto definitivo e risoluto. La perdita di peso di Sonia è qui una prova d’amore»25. L’ossessione del protagonista è soprattutto una questione estetica. Lo ribadiscono i continui riferimenti all’arte (Vittorio, orafo, forgia statuette filiformi e allo stesso modo vorrebbe modellare Sonia; lei è modella all’Accademia di Belle Arti). Il regista ha un passato di pittore e lo si avverte nell’accuratezza della messa in scena e della fotografia. La privazione del cibo legata a un rapporto di dipendenza è l’esatto contrario delle caratteristiche individuate dagli studiosi nei casi di anoressia: secondo Susan Bordo «Thinness represents a triumph of the will over the body»26, un’idea di indipendenza dalla madre e dalla società, oltre che dalla sessualità27; il corpo magro (ma sarebbe da definire il noncorpo) è associato con la purità assoluta, l’intensa attività intellettuale e la trascendenza della carne che rimandano agli antichi eremiti cristiani che si rifugiavano nel deserto, lontano dalle tentazioni28. La storia di questa anoressia imposta e “altra” ci riconduce al cinema dell’eccesso citato all’inizio di questa analisi. Garrone ne è un significativo rappresentante, nei modi in cui l’eccesso si coniuga in Europa, privo degli apparati tecnologici che lo connotano al di là dell’Oceano. Manca tuttavia alla quasi totalità dei film presi in esami quella in-

24 Intervista a M. Garrone a cura di B. Corsi, “Vivilcinema”, IV, n.s., 1, gennaiofebbraio 2004, p. 8. 25 L’amour fou secondo Garrone, intervista a cura di M. Nicoletti, 11 febbraio 2004, http://www.ottoemezzo.com/super/super_13.htm. 26 S. Bordo, Anorexia nervosa. Psychopathology as the Crystallization of Culture, in Food and Culture: a Reader, ed. by C. Counihan and P. Van Esterik, New York 1997, p. 243. 27 Cfr. ibid., p. 233: «In Liu’s case, and in Sarah’s, the desire to appear unattractive to men is connected to anxiety and guilt over earlier sexual abuse. Whether or not such episodes are common to many cases of anorexia». 28 Cfr. J. Woods, I Was Starving Myself to Death, “Mademoiselle”, maggio 1981, p. 242.

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tima coesione tra contenuti e linguaggio che li renderebbe innovativi e che sarebbe necessaria per restituire nelle immagini la disperazione degli ammalati e il rifiuto di un normale rapporto con il cibo e l’atto del mangiare. Con l’eccezione di alcuni corti, espressivamente assai efficaci, tra cui spicca La carne sulle ossa (1996) di Daniele Gaglianone. Sono 16 minuti in bianco e nero che illustrano drammaticamente alcuni versi di Frank Bidart, dalla poesia Ellen West: Ma presto si rese conto di dover perdere peso che tutto ciò che anelava esprimere le era annientato dal corpo sepolto nella carne; d’improvviso in quattro mesi, perse almeno trenta chili… la gente diceva che lei avesse inghiottito un verme solitario cosa che certo non aveva fatto. Il verme solitario era la sua anima…

Forse è solo questione di tempo. Il cinema ha affrontato con disinvoltura e proprietà di linguaggio un tabù quale il cannibalismo, immergendolo in atmosfere irreali e astratte, lontane dalla quotidianità29. Un’operazione simile è impossibile per l’obesità, l’anoressia e la bulimia, fenomeni con cui ogni giorno si ha a che fare nella società occidentale e che ancora non sono stati metabolizzati. Di qui l’ambiguità degli approcci: la superficialità dei film commerciali versus il realismo del cinema indipendente e il didascalismo dei TV-movie. Il presente saggio può soltanto registrare un’attenzione al problema, ma anche sottolineare come la diversità degli approcci nasconda un problema legato secondo gli antropologi statunitensi30 agli ideali di bellezza contemporanei, purgati dell’apparente aggressività della donna sessualmente liberata e di tutto ciò che può rimandare a un misterioso potere della femminilità. L’ideale è oggi rappresentato dall’immagine di

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29 Si pensi al celebre e straordinario The Cook, the Thief, His Wife & Her Lover (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, 1989) di Peter Greenaway. Per l’area italiana vanno ricordati Porcile (1968) di Pier Paolo Pasolini, Come sono buoni i bianchi! (1988) e La carne (1991) di Marco Ferreri e Last Food (2004) di Daniele Cini. Per un approfondimento su questo tema rimando al mio Sequenze di gola. Cinema e cibo, Firenze 2002, pp. 143-160. 30 Cfr. Bordo, Anorexia Nervosa, cit., p. 243 e K. Chernin, The Obsession: Reflections on the Tyranny of Slenderness, New York 1981, p. 148.

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una donna che non è ancora una donna: ecco allora le adolescenti anoressiche e sul versante opposto i tentativi di dare un senso all’obesità (tutte le donne in carne filmiche possiedono un buon carattere e generosità, quasi a compensare l’infrazione alle norme estetiche correnti). A volte lo schermo allude soltanto all’anoressia, presentandoci figure femminili che donne non sono (ancora): Susan Bordo, specialista negli studi sul corpo e le loro connessioni coi media, ne stila un elenco, tra cui emergono la sirena alta e dinoccolata che Darryl Hannah disegna in Splash (Splash – Una sirena a Manhattan, 1984) di Ron Howard e la ipercinetica e sprezzante protagonista di Footlose (id., 1984) di Herbert Ross, interpretata da Lori Singer. Sono, secondo la docente americana, delle virtuali anoressiche. Dunque i diversi segnali che il cinema contraddittoriamente ci invia31 vanno interpretati alla luce di un problema centrale nella nostra società: lo scarto tra il nostro corpo e l’immagine ideale che i mass media (ma soprattutto cinema e televisione, anche attraverso gli spot pubblicitari) ci trasmettono. Difficilmente oggi cinema e televisione riusciranno a riflettere razionalmente e a districarsi all’interno di una dinamica in cui essi stessi sono colpevolmente coinvolti in prima persona. Anche perché è la società che deve prima dimostrare di essere matura e di accettare un nuovo ideale di donna, con prospettive culturali e sociali che sappiano integrare la diversità dei corpi e grazie alle quali i disordini legati al cibo non siano più espressione del disagio femminile per la particolare situazione di stallo tra tradizione e innovazione del ruolo della donna. Perché questo è il messaggio che, dall’Italia e dagli Stati Uniti, i film analizzati ci inviano: apertamente o semplicemente con allusioni, in toni drammatici o divertenti, con tematiche approfondite o di superficie, essi ci esortano a rimeditare innanzitutto la dimensione culturale di accettazione del nostro corpo. Solo allora lo scarto potrà annullarsi.

31 Ne è esempio anche il sopravalutato Super Size Me (2004) di Morgan Spurlock, che possiede tutti i difetti del film a tesi e che appare troppo ripetitivo nelle accuse al junk food.

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Donne, lussi e lussurie: frammenti di visioni, di corpi e di scritture del discorso alimentare PATRIZIA CALEFATO

Questo testo analizza alcune manifestazioni del discorso alimentare contemporaneo espresse attraverso due fondamentali sistemi di senso, tra loro connessi: la cultura visuale e la narrazione. Nell’ambito della prima, sarà dato particolare rilievo a quello speciale linguaggio del “cibo rivestito” rappresentato dal packaging degli alimenti: caso esemplare, l’acqua minerale. Nell’ambito della narrazione, verrà rivolta un’attenzione particolare sia al racconto di Karen Blixen Il pranzo di Babette che al film Chocolat di Lasse Halström – basato sul racconto omonimo di Joanne Harris – quali luoghi emblematici in cui la scrittura si impegna nel dare una dimensione testuale al “lusso” e alla “lussuria”1, principi allo stesso tempo intrinsecamente connessi al cibo e al femminile. Lo sguardo di genere attraversa l’intera analisi: essa infatti si concentra prevalentemente su testi che assumono le donne come loro “attrici” o destinatarie. Più profondamente, però, si coglie un principio femminile che attraversa in modo complesso il discorso alimentare come discorso sociale. Lusso e lussuria vivono in esso come tratti del desiderio che eccede il bisogno, come articolazione dei sensi in fusione e commistione reciproca. Il genere emerge come dimensione semiotica che traduce, inscena, interpreta, la sessualità e in cui si crea, come effetto testuale, il corpo.

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Vedi P. Calefato, Lusso, Roma 2003.

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Pubblicità dell’Evian.

Acque rivestite In una pubblicità dell’Evian, una ragazza usa una bottiglia di quest’acqua per riempire la boccia di vetro del suo pesciolino rosso. La stessa acqua minerale viene reclamizzata in un’altra immagine in cui un barman la versa da due bottiglie in uno shaker, pronto ad agitarlo come per preparare un cocktail in un locale chic. Una terza pubblicità, infine, mostra una donna immersa in una vasca da bagno che è interamente riempita di acqua Evian, come comprendiamo dalle decine di bottiglie vuote poggiate per terra. Tre testi visivi un cui un elemento semplice come l’acqua viene “lussificato”: il suo significato, cioè, riceve una amplificazione e una estensione che lo nobilitano attraverso un salto paradossale e inverosimile. Chi si prende più lussi attraverso queste strategie d’immagine? Il pesciolino, che sguazza in quel liquido pregiato? La ragazza che spreca così, buttandola letteralmente ai pesci, qualcosa che sarebbe invece destinato ad un uso alimentare? La bella al bagno? O l’acqua in quanto tale, pronta a diventare un raffinato Martini immaginario? È un lusso quotidiano ormai acquistare l’acqua in bottiglia, ma l’acqua è un lusso di per sé in situazioni limi-

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te, come in guerra, quando è uno dei primi beni tagliati e razionati nelle città sotto assedio. E l’acqua sta diventando degna concorrente del petrolio nello scatenare appetiti e conflitti, in quanto è un elemento che scarseggia in modo sempre più paradossale in un mondo in cui pure trovano cittadinanza le Evian e le Perrier dalle bottiglie trasparenti o blu notte... Una bottiglia cilindrica di media grandezza, con il tappo in color argento satinato e una stilizzata scritta in verticale sul corpo: Voss. Un’altra a forma di goccia, in vetro trasparente con accanto una gemella in vetro azzurro, che assomigliano perfettamente, anche se in taglia maggiore, al flacone del profumo J’adore: ma in questo caso l’etichetta mi parla d’altro e mi dice semplicemente Evian. Accanto, ancora un contenitore azzurrino; la scritta sulla fascetta evoca beatitudini celesti: Acqua della Madonna. Ed ecco finalmente una bottiglia di vodka, ma no, è ancora acqua: Wattwiller. Questi altri sembrerebbero invece dei vini, la forma della bottiglia e il colore sono inconfondibili, e invece si tratta sempre di acqua minerale, in questo caso aromatizzata secondo una ricetta giapponese: nome lapidario, Amé, e packaging da cantina antica. Un’ultima sosta dello sguardo prima che la sete intervenga a rompere tutti i vetri – letteralmente – e a farmi tuffare in un bagno di nomi, sorgenti, sostanze minerali, sodio, calcio e potassio; è la volta di una sagoma simile a quella di un lungo imbuto sottile, un nome che ha odore d’Islay, ma non è quello di un whisky: Gleaneagles. Visita all’acqua-store, acquateca, acquarius, waterland, o watershop: non è un genere di negozio della fantasia, tutt’altro, tant’è che in Italia ce n’è uno nel luogo più centrale della penisola che si possa immaginare, cioè alla Stazione Termini di Roma nella sua nuova versione griffata e marmorizzata in funzione antidegrado metropolitano. Ma se ne trovano diversi in altre nicchie d’Europa, per esempio ad Amsterdam. I negozi di questo genere nascono come espressione di una nuova cultura dell’acqua minerale a cui da un po’ di tempo viene dedicata un’attenzione diversa rispetto a quella tradizionale legata all’aspetto curativo e benefico, che si orienta oggi invece a considerarne gli aspetti più specificamente “estetici” e gastronomici. L’acqua, insomma – elemento che ci compone in percentuale maggiore in quanto esseri viventi, l’acqua come bene di prima necessità, sostanza pura, fresca, pulente, che ci fa pensare alla vita stessa sul pianeta e oltre – l’acqua si fa lusso.

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Lusso non semplicemente nel senso banale del costo spesso elevato di queste bottiglie e del marketing diffuso dell’acqua in quanto bene di consumo – aspetti che pure hanno il loro peso – ma in un senso più culturale, profondo, comunicativo e sensoriale allo stesso tempo. L’acqua, ci viene detto, va dosata e accordata al cibo che mangiamo esattamente come si fa col vino. Sommelier dell’acqua minerale fondano associazioni, scuole, master, stilano carte delle acque per i ristoranti analoghe a quelle dei vini, in cui ci viene insegnato il gergo per definire un’acqua e ci vengono consigliati gli abbinamenti migliori, inventano cocktail a base d’acqua e liquidi analcolici. Apprendiamo così che un’acqua può essere “piatta”, “leggermente effervescente”, o “effervescente”. In un incrocio tra cura del corpo e gastronomia, tra discorso della salute e discorso della lussuria, impariamo allora che con un antipasto a base di mare l’acqua deve essere piatta o leggermente effervescente, mentre è solo con un secondo di carne in salsa che la degusteremo pienamente effervescente, mentre con il dessert va curato che il residuo fisso, cioè la quantità di sali che resta dopo l’evaporazione di un litro d’acqua a 180° C, sia inferiore a 100. La cultura delle acque è antica quanto quella della conoscenza dei poteri benefici delle terme e delle sorgenti, è un sapere in cui si miscela come in un esplosivo cocktail naturale la durezza della roccia e la fluidità del liquido. La terra e l’acqua – elementi in opposizione reciproca nel “quadrato” che le contiene, insieme all’aria e al fuoco – si contaminano nella composizione organica e in quella dell’immaginario. Ne consegue che il liquido, di cui comprendiamo la rarità ma anche la ineluttabile volatilità, va allora contenuto in una forma che ne sia all’altezza: la bottiglia, somigliante al lussuoso flacone di profumo o di fluido cosmetico, dal colore trasparente o preziosamente azzurrino – per ricordare la più tradizionale delle acque preziose, l’ipergassata Perrier – dall’etichetta curata come quella di un vino nobile. Ma anche il bicchiere, di necessità: calice dalla curvatura studiata e accordata, cristallo temperato come uno strumento. Non si tratta “solo” di sete. Possiamo chiamarla moda? Sì, se per moda intendiamo qualcosa di più che la semplice imitazione e il banale “bisogno indotto”: certo, entrambi sono fattori presenti nel fenomeno delle mode sociali e culturali. Ma la moda è stile di vita, e più ancora, credenza, mito, senso comune: nulla di deprecabile, anzi, la cultura delle acque ci insegna forse a vivere meglio, come la gastronomia e l’enologia, come la cu-

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ra della pelle e la ginnastica per il corpo, come i massaggi e le cure termali. Riti sociali, scanditi da usi e da regole a seconda dei tempi e dei luoghi. L’acqua come lusso e lussuria conosce così anche la legge del marchio accattivante. Ma l’acqua è ancora un lusso in sé in molte parti del mondo che non occorre andare troppo lontano per trovare. Chi ne controlla il ciclo, in quei luoghi, non ha il volto amichevole di un sommellier H2O o di un packager inventore, ma quello di un capomafia o di un signore della guerra. Waterworld è su questa terra. Sensi Il gesto gratuito della ragazza che si fa il bagno nella Evian, come se fosse il latte d’asina della patrizie romane o lo champagne delle cortigiane, racconta dei lussi rari in cui possono trasformarsi i nostri atti alimentari, reali o immaginati, quando il cibo e le bevande diventano beni preziosi e sensuali. Quando il caviale viene fotografato come se fosse perla nera, quando i lamponi entrano in una ciotola di platino o si trasformano in gemme luccicanti, quando, viceversa, un rubino si fa trattare come una fragola e un mucchio di perle viene servito nella vetrina di una gioielleria in una coppa da champagne in fine cristallo. Quando la moda racconta di un cioccolato fuso versato su una borsa (Moschino), quando di una vodka resta soltanto il nome, “Absolute”, dipinto su un vestito di Gaultier, quando una mano maschile incrocia due bacchette per degustare del sushi servito sul corpo disteso di una donna bendata, quando una sigaretta bordata di rossetto viene spenta nel tuorlo di un uovo, quando un gelato si chiama “Lussuria”, vizio tra i sette vizi capitali. Sono visioni contemporanee tratte da fotografie, pubblicità, oggetti di moda e di consumo, in cui si realizza l’odierna raffigurazione del lusso-lussuria alimentare e in cui il gusto si sposa al piacere della vista e a una sensualità composita, immaginata come inaccessibile ed esclusiva. La gola è un peccato capitale proprio come la lussuria, variante appena declinata del lusso. L’etimologia accomuna questi due termini, ‘lusso’ e ‘lussuria’, ma è soprattutto nella sfera dell’oralità messa in gioco nell’atto alimentare che essi confinano non soltanto etimologicamente. Il piacere profondo che si collega alla lussuria alimentare, infatti, ha a che fare ancora con quella idea di spreco che Bataille legò all’erotismo, oltre che alla festa, al sacrificio e alla morte. L’eros è di-

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spendio di energia, annullamento dei confini del corpo, perdita di sostanza, dépense in senso assoluto. È piacere legato al desiderio come lusso dei sensi quello che si prova incorporando alterità attraverso il cibo. E quanto più elaborata e lussuosa è la manipolazione dell’alimento in “piatto”2, tanto maggiore è l’intensità composita ed erotica del gusto. La gourmandise, il piacere della gola, come mostra Brillat-Savarin, trova la sua origine nella sfera propriamente lussuosa che caratterizza l’umano. Se il mangiare fa parte del bisogno, il gusto ha a che fare con il desiderio3. Prerogativa forse “inutile”, quando è in gioco la sopravvivenza, il gusto però ci dice di un lusso che va oltre l’abbondanza e la ricchezza, ma che risiede nella complessa sensualità che regola il rapporto tra il corpo e ciò che si in-corpora. La molteplicità dei sensi umani è coinvolta nel dar vita a quel senso “genesico”, come lo chiamò proprio Brillat-Savarin4, e alle sinestesie che ogni atto di degustazione comporta. In quanto merci lussuose/lussuriose i cibi ci cercano, sfidano la nostra distrazione di consumatori abitudinari avvinghiandosi ai nostri sensi e riempiendoli di eccitazione e desiderio. Ma se si parla di un richiamo “elevato” nel piacere del consumo e di sex appeal raffinato della merce – compresa quella merce speciale che è il cibo – di packaging come “vestito” evanescente e di lusso che il sogno del possesso

2 Scrive Augusto Ponzio che il piatto è un segno, «un testo a livelli più o meno complessi di intertestualità e di elaborazione» ed è distinto dal cibo che tende invece «al grado zero della segnità». Il piatto, continua Ponzio, non è strumentale, non si esaurisce nella soddisfazione di un bisogno, ma «può presentarsi come qualcosa di totalmente superfluo, immotivato; che non serve a nulla» (A. Ponzio, Letterarietà e letteralità nelle pratiche culinarie, Cucina, cultura, società, a cura di L. Bonanni e G. Ricci, Milano 1982, p. 77). 3 «In un’epoca in cui il borghese non aveva alcuna consapevolezza sociale, B.S. ricorre ad una opposizione piena di cinismo: da una parte c’è l’appetito naturale, che rientra nell’ordine del bisogno, dall’altra l’appetito di lusso che rientra nell’ordine del desiderio» (R. Barthes, Lecture de Brillat-Savarin, in Physiologie du goût avec une Lecture de Roland Barthes, trad. it. Brillat-Savarin letto da Roland Barthes, Palermo 1978, p. XI). 4 Per Brillat-Savarin il sesto senso è «il genesico o amore fisico, che spinge i due sessi l’uno verso l’altro e mira alla conservazione della specie» (J.-A. Brillat-Savarin, Physiologie du goût avec une Lecture de Roland Barthes, trad. it., Brillat-Savarin letto da Roland Barthes, cit., p. 15).

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indossa o per meglio dire si sfila in un lento strip-tease, bisogna andare più a fondo, interrogando sensi oscuri e spesso dilaniati da contrasti. Il piacere va preso e prende “nei sensi”, alla lettera, e nei sensi trova la sua essenza quel valore aggiunto che anche l’oggetto più minimalista e apparentemente indifferente è capace di avere se solo il “racconto” che porta con sé riesce a mettere in moto, dei sensi umani, l’eccedenza e la reciproca interferenza. È infatti nella comune dimensione dell’eccedenza e dello spreco che risiedono sia il lusso inteso socialmente ed esteticamente come eccesso immotivato, sia il valore comunicativo ed evocativo dell’oggetto che si relaziona al suo consumatore non per ciò che è ma per gli universi inesplorati del piacere che gli permette di “sentire”. Dove risiedono davvero oggi il gusto, la vista, l’odorato, il tatto, l’udito, se non nella loro “lussuriosa” possibilità di espandersi e confondersi mettendo alla prova i limiti della corporeità e le tecnologie dell’immaginario? “Lussuria” è la parola in cui s’incunea, in una radice mai spezzata, quel “lusso” la cui ricerca e la cui impresa motivano nel nostro tempo investimenti e spostamenti di capitali sempre costellati da discorsi aziendali e mediatici che hanno l’ambizione di confezionare una “distinzione” nel consumo. La luxuria latina era l’esuberanza, l’eccesso, la sovrabbondanza – particolarmente nella vegetazione, universo semantico da cui viene il nostro aggettivo “lussureggiante”. Traslato, questo termine indicava fasto, lusso, profusione, sontuosità; ma anche mollezza, vita voluttuosa, sfrenatezza, intemperanza, lascivia. La parola luxuria vive ancora, oltre che nel modo in cui il lusso è espresso nelle lingue direttamente debitrici del latino, anche in lingue come l’inglese o il tedesco, quale nucleo etimologico di luxury e di Luxus. In questa catena di significanti, sussiste un’interessante coincidenza che si concentra nel termine “lust” il cui significato è “lussuria” in inglese, “desiderio” e “piacere” in tedesco. È, come è noto, il “Lustprinzip”, il principio di piacere nel suo significato complesso, un concetto chiave nella teoria freudiana della sessualità. C’è sempre un che di lussurioso nel lusso, c’è sempre un po’ di lusso nel piacere, sebbene il piacere sia soprattutto un lusso privato, non ostentato, la cui qualità anzi deriva soprattutto dal fatto che si tratta di un “prendersi il lusso” in cui s’interrompe la serialità del vivere comune e si lascia tempo, spazio, occasione, ai sensi. Anche a costo di “peccare”, anzi, proprio indugiando nel vizio e nel peccato, sapendo che si tratta di un lusso “solo per se stessi”.

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Babette dal Film Il pranzo di Babette (1987) di G. Axel.

Il pranzo di Babette Il racconto di Karen Blixen Il pranzo di Babette, da cui è stato tratto nel 1987 un film molto fedele, anche nei dettagli, al testo letterario (Babettes Gæstebud, Gabriel Axel), mette in scena il contrasto tra lusso e ascetismo, da un lato, e il rapporto tra il lusso e il cibo, dall’altro, in una deliziosa parabola che riesce a lasciare alla fine il lettore (o lo spettatore nel caso del film) con in corpo una mite sensazione di saggezza, come spesso accade nei racconti di Blixen. E questa saggezza ha a che fare con il riuscire a trasmettere una maniera transvalutata e profonda in cui sentire la nozione stessa di lusso e insieme quella di gusto. Per raccoglierne i dati come in una composizione o in una tessitura, si può cominciare dal luogo, luogo utopico, in cui il racconto si racchiude lungo i tempi narrati:

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In Norvegia c’è un fiordo – un braccio di mare lungo e stretto chiuso tra alte montagne – che si chiama Berlevaag Fjord. Ai piedi di quelle montagne il paese di Berlevaag sembra un balocco, composto da casine di legno tinte di grigio, di giallo, di rosa e di tanti altri colori5.

L’unità di tempo è un po’ il “c’era una volta” della fiaba, sebbene 5

K. Blixen (Isak Dinesen), Babette’s Gaestebud, in Ead., Anedoctes of Destiny, trad. it., Il pranzo di Babette, in Capricci del destino, Milano 1978, p. 9.

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venga circoscritto dall’autrice entro un “sessantacinque anni fa”, l’unità di spazio è invece un luogo isolato, anch’esso fiabesco: un fiordo è nell’immaginario una sorta di isola tra le montagne, un fiordo è una montagna altissima che ha la sua base nel mare, un fiordo è il luogo dove può vivere una comunità così ristretta, così rinchiusa, così frugale, come quella del Decano e delle sue due figlie, che neanche ci accorgiamo della loro esistenza, che pur tanto può dirci. Martina e Filippa si chiamano così in onore di Lutero e del suo amico Melantone che di Lutero portò la parola in Scandinavia. Sobrietà, misura, etica protestante oltre ogni immaginazione weberiana ma non per questo finalizzata all’accumulo, anzi tutt’altro, quella che vige nella comunità fondata dal Decano, una «setta o pio partito ecclesiastico noto e riverito in tutta la nazione norvegese». Viene in mente il duomo luterano di Helsinki, che domina la città rinfacciando l’aria a quello ortodosso di fronte. Interno scarno, essenziale, assolutamente “povero” nel suo rigido candore. Le statue di Lutero, di Melantone e di Agricola a rammentare ai devoti le poche ma essenziali regole di vita. Martina e Filippa sono figlie del Decano e basta: la loro bellezza straordinaria da ragazze è appartenuta soltanto a questa discendenza in linea maschile da cui è cancellato qualunque riferimento alla madre, se non un indiretto accenno al fatto che «il Decano si era sposato in tarda età». Principio maschile, quello della moderazione, principio di funzionalità ed essenzialità, che all’essenziale riduce anche la lingua e i nomi propri nell’uso comune tra gli accoliti della comunità: «Non facevano voti, ma comunicavano tra loro con un sì sì o un no no, e si chiamavano Fratello e Sorella»6. E a sottolineare questo azzeramento totale di qualunque sia pur indiretto accenno a un possibile piacere o compiacersi del corpo, nessuna moda, nessun ornamento, nessun belletto addosso alle due sorelle: A quell’epoca altre signore portavano il busto, e le due sorelle avrebbero potuto portarlo con altrettanta grazia, ché erano alte e flessibili. Ma non avevano mai posseduto un oggetto di moda, e per tutta la vita si erano vestite dimessamente, di grigio o di nero7.

Nessun cedimento neanche alle lusinghe dell’amore, che giunge in casa di Martina e Filippa giovani nei panni di due figure del mondo di 6 7

Ibidem. Ibidem.

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fuori, del mondo “normale”. L’innamorato di Martina è un ufficiale indebitato e perdigiorno, Lorens Loewenhielm, mandato da suo padre presso una vecchia zia vicino Berlevaag per «ritrovare la retta via»8. Quello di Filippa è invece il grande cantante Achille Papin di Parigi, che durante un viaggio romantico e malinconico lungo quei fiordi s’innamora della splendida voce della ragazza. È interessante notare come questi due personaggi condensino entrambi, nella loro storia personale e nelle simbologie attraverso cui agiscono, proprio alcuni caratteri tipici del lusso: Loewenhielm l’ozio, lo sperpero per gioco e per “vizi” fino all’indebitamento, insomma la lussuria. Papin il successo delle folle dell’Opéra parigina. Ma è soprattutto il personaggio del Don Giovanni mozartiano, interpretando il quale Papin duetta con Filippa-Zerlina, a stimolare ulteriori riflessioni su questo tratto di lussuria che anche Papin indirettamente porta in sé. La lussuria è prerogativa caratteristica di Don Giovanni, certo, consiste in quella quantità indeterminata del desiderio che è propria della figura del seduttore nello stadio musicale-erotico, così come questo ci viene restituito da Kierkegaard – danese anche lui come la Blixen – che al mito di Don Giovanni e al Don Giovanni di Mozart-Tirso de Molina in particolare dedica pagine bellissime di EntenEller. Don Giovanni il seduttore, dice Kierkegaard, è colui che di donne ne “ha 1003”, come risulta dal catalogo di Leporello, e 1003 è numero dispari e accidentale, la qual cosa non è affatto irrilevante in quanto dà l’impressione che la lista non sia affatto finita, ma che invece Don Giovanni prosegua nella sua corsa9.

Una lista infinita di donne, un “lusso” del numero e dei sensi che ben si sposa al cibo e al buon bere. Ma nel racconto di Blixen, tutto questo è solo implicitamente contenuto dietro una prova al pianoforte, un duetto amoroso tra Papin e Filippa che avrà ben breve durata, nella prova d’opera come nella realtà. Sia Papin che Loewenhielm escono infatti in poco tempo dalla vita delle due giovani, il tempo però per rimanere per sempre segnati da loro e dal loro modo di vivere. Il

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mondo della moderazione e il mondo delle “cose terrene”, a cominciare dalla vanità, si toccano ma non possono fondersi. E non è così, non ancora, che sarà “contaminato” il mondo utopico del fiordo. Dopo molti anni, quando il Decano è ormai morto già da tempo e le ragazze, diventate due anziane signore, ne hanno raccolto l’eredità spirituale, è proprio Achille Papin a fare giungere a Berlevaag la figura del racconto che riuscirà a rompere, anche solo per un attimo (ma lo marcherà per sempre) l’equilibrio frugale della comunità. Si tratta di una donna, Babette, una comunarda, peggio, forse una pétroleuse come chiamavano le donne della Comune di Parigi che incendiavano le case, in fuga dalla Francia e dalle repressioni seguite ai giorni della rivolta. Babette cerca protezione e ospitalità presso le due donne, lei è una cuoca, una papista e una francese, e «in Francia, lo sapevano, la gente mangiava i ranocchi»10. Il lusso che la sola idea di Francia evoca è cosa peccaminosa per la morale della comunità nordica, ma Babette viene comunque presa a servizio e impara a cucinare stoccafisso e zuppa di birra e pane come se non avesse fatto altro tutta la vita. Babette ha un unico filo che la tiene ancora legata alla Francia: il biglietto di una lotteria che ogni anno un amico le rinnova e che le potrebbe far vincere un giorno il grand prix di diecimila franchi. L’elemento della lotteria, cioè del gioco sottomesso alla regola del caso che, secondo la classificazione di Caillois, rientra nella categoria dell’alea, costituisce così un elemento di ulteriore sconvolgimento dell’equilibrio ascetico di Berlevaag. L’alea è l’imprevisto, il non funzionale, la sfida alla sorte in cui il giocatore è passivo e abbandonato al destino. E soprattutto, dice Caillois, l’alea reca al giocatore fortunato infinitamente più di quanto gli può procurare una vita di lavoro, di disciplina, di fatica. Appare come un’insolente e sovrana derisione del merito11.

“Sovrana derisione”: un’espressione che evoca la dépense bataillana, ma che, al contrario delle prove e delle sfide tipiche del potlach, non si riferisce in questo caso a qualcosa di provocato da un eccesso di energia intenzionalmente spesa, tutt’altro. La lotteria, come ogni gioco basato sulla sorte – dadi, roulette, testa o croce che sia – con10

Blixen, Il pranzo di Babette, cit., p. 21. R. Caillois, Les jeux et les hommes. La masque et la vertige, trad. it., I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Milano 1981, p. 34. 11

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templa l’inoperosità del giocatore, fosse anche quello più accanito. Dopo dodici anni di servizio presso Martina e Filippa, Babette riceve un giorno dalla Francia la notizia di avere vinto il grand prix. E, invece di ritornarsene in Francia, come le due signorine temevano pur aspettandoselo da un momento all’altro, Babette chiede loro il permesso di cucinare un pranzo francese per il giorno della commemorazione del Decano in occasione del suo centenario. E dal momento in cui loro accettano, il decorso ordinato della vita di Berlevaag comincia a cambiare. Unità narrativa e strutturale di questo cambiamento, il pranzo è costituito dal racconto di un lento accumulo nella casa di Berlevaag di beni inaspettati e lussuosi, cui seguirà la loro composizione in “piatti” e infine il momento topico del pranzo in quanto tale. Babette spende per intero la sua vincita per acquistare, facendoli arrivare proprio dalla Francia, gli ingredienti bestiali e sanguigni necessari al pasto: quaglie vive, da trasformare nel funerario ma sublime piatto delle cailles en sarcophage, mostri dalle sembianze di una tartaruga destinata a un raro brodo, vini che hanno un nome proprio. Gli ingredienti arrivano da lontano, proprio come da lontano era arrivata Babette, arrivano da oltre il mare, dalla Francia quale luogo mitico in cui si condensa ciò che non si conosce, ciò che può divenire pericolo. La Francia è patria della moda, dell’alta cucina, del nobile vino, ha conosciuto i fasti di Versailles e i tumulti della Comune, evoca lussuria, disordine, eccessi: si pone quindi come un “antimondo” di fronte al “mondo interno” di Berlevaag. Emblemi di questo antimondo, i vini che hanno un nome: “Vino, madame!” rispose Babette, “no, madame, è un Close Vougeout 1846!” Dopo un attimo soggiunse: “Viene da Philippe, in rue Montorgueil!” Martina non aveva mai sospettato che i vini potessero avere un nome, e fu messa a tacere12.

E la tartaruga: Alla luce della lampada sembrava una pietra nera o verdastra ma, poi, scaricato sul pavimento della cucina, tirò fuori all’improvviso una testa da serpente e la mosse lievemente in qua e in là. Martina aveva veduto riproduzioni di tartarughe, e da bambina aveva perfino possedu-

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Blixen, Il pranzo di Babette, cit., pp. 29-30.

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to una tartarughina, ma questa era una cosa di dimensioni mostruose, e orrenda da vedere13.

C’è sempre nella nominazione degli oggetti un che di demoniaco, in cui si anima ciò che è inanimato, in cui si “battezza” oscenamente l’inorganico. Ma il vino è vivo, a differenza di quanto immagina Martina, e il segno-nome proprio che si porta dietro è ciò che lo rende riconoscibile e unico, e che ne permette due volte il passaggio attraverso l’oralità: nella parola e nella degustazione. Così come demoniaco e abietto appare il mostro orrendo destinato a subire nella cottura la trasformazione in sublime. Ma del demoniaco, a Berlevaag, non si deve dire, la parola non deve accompagnare la lingua: “Eppure,” disse un Fratello dalla barba bianca, “la lingua è un piccolo membro e si vanta di grandi cose. Non v’è uomo che possa dominare la lingua da ogni sapore, calamità sregolata, piena di veleno mortale”14.

Il silenzio sarà così la consegna che i convitati al pranzo di Babette seguiranno: nessun commento, nessun discorso a proposito dei cibi e delle bevande. Ma la raffinata cena francese preparata da Babette, che – si scopre – è stata un tempo chef al Café Anglais di Parigi, restituisce ai commensali l’armonia e il calore che sembravano essere sfumati nel tempo tra loro. Nel pranzo di Babette, la sobrietà e la misura che vigono nella comunità vengono scompaginate dal lusso unico ed eccezionale del cibo da quel “lusso della festa” che come scrivono Ricci e Ceccarelli, «perviene al sacro meglio di ogni quaresima»15, da una lussuria mite che scioglie la parola, il sangue e i sensi degli anziani commensali, tra i quali l’ospite illustre generale Loewenhielm che riconosce nei sapori del pranzo proprio la mano di quella grande artista della cucina da lui ammirata un tempo al Café Anglais. Durante la cena, i sensi si amplificano e “lussureggiano”: il rossore avvampa le guance, il sudore affatica e quasi contamina i commensali, il ragazzo dai capelli rossi che aiuta Babette in cucina, e la cuo-

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Ibid., p. 30. Ibid., p. 31. 15 P. Ricci, S. Ceccarelli, Frammenti di un discorso culinario, Milano 2000, p. 114. 14

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ca stessa. Il pasto “di lusso” porta nella comunità la “lussuria” della parola e della conversazione. Porta eccitazione fisica e rompe il tabù del colore: “mangiare in nero” ha spesso il sapore del proibito o del lussuoso ai limiti della lussuria, e nero è il caviale, il nero di seppia, il caffè, il tartufo nero... E nel pranzo si consuma anche l’esperienza sensuale della mistura, dell’ibridazione delle caille en sarcophage, della contaminazione con il mostruoso del brodo di tartaruga... Qual è allora il valore profondo del lusso messo in scena nel pranzo da Babette? Rivelarsi artista. Incantare gli angeli. Fare a se stessa il regalo impagabile di dimostrare a tutti la grande chef che è. E non sono state molte, né in passato né oggi né in letteratura, le donne annoverabili nell’élite culinaria internazionale dei maestri di cucina. Chocolat Motivi oscuri e lussurie dalla lontana origine sono invece quelli messi in scena nel romanzo di Joanne Harris Chocolat, dal quale è stato tratto un celebre film nel 2000. Anche in questo racconto, come nel Pranzo di Babette, è un principio femminile che fa irrompere, nella quiete fittizia di un castigato e un po’ ipocrita paesino in Francia alla fine degli anni ’50 del Novecento, il vento del desiderio e del piacere, gastronomico ed erotico insieme. Una donna, Vianne Rocher, interpretata nel film da Juliette Binoche, vi giunge insieme a sua figlia da un lontano e imprecisato luogo del mondo – forse l’Andalusia, ma prima era stata ancora altrove spinta da una continua necessità di spostarsi che ha ereditato dalle sue antenate – e apre nel villaggio una cioccolateria. Non semplicemente un negozio, ma un luogo in cui s’incontrano sapori e conoscenze legate al lusso sensuale del cioccolato che consiste nel suo essere un alimento “non necessario” ma dotato di un potere afrodisiaco, di una forza e di una magia che incantano il gusto e a volte addirittura guariscono. Vianne lavora in mille modi il cioccolato: ne vengono fuori praline e miscele di sogno, incroci in cui il cacao si unisce alle spezie e al peperoncino. E le misture cambiano la vita nel villaggio, facendo venire alla luce tra i paesani sentimenti e passioni mai confessati o che sembravano spenti. Una coppia ritrova il desiderio che si era assopito; un bambino si riavvicina a sua nonna, e quest’ultima, pur diabetica, si riprende attraverso il cioccolato il piacere ed il gusto di vivere felicemente i suoi ultimi giorni di

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vita. Il cioccolato è nero, e mangiare in nero ha spesso il sapore del proibito o del lussuoso ai limiti della lussuria: nero come il caviale, come il nero di seppia, come il caffè, come il tartufo nero... Il cioccolato giunse in Spagna nel Cinquecento dal Messico insieme al bottino delle rapine sanguinarie di Cortés che lo aveva trovato in uso presso gli Atzechi come alimento altamente pregiato e cortigiano. Dalla Spagna, si diffuse poi nel secolo successivo in altre zone dell’Europa, e, secondo ciò che ne scrive Brillat-Savarin, fu subito gradito soprattutto alle donne e ai monaci16. Ma fu un sapore amaro quello che ne ingoiarono i popoli delle colonie. Amaro come il cioccolato sa essere quando è puro, così come lo avevano lavorato per primi i Maya rendendolo nella loro società anche moneta e bene di lusso. Amaro almeno quanto quello dello zucchero che fu in Europa, come scrisse Sombart, un bene ascrivibile a quella sfera del lusso che si dimostrò congeniale all’accumulazione originaria capitalistica17. Il racconto di Chocolat evoca implicitamente l’origine oscura e coloniale di questo cibo scuro, un’origine che si intreccia con l’ascendenza ibrida di Vianne da una nativa maya dalla quale ella ha ereditato il destino di doversi sempre spostare per portare nel mondo, con la cioccolata, il cibo degli dei. Esecutrice di questa consegna che raccoglie l’impronta di un mito antico, la cioccolataia riporta questo mito nella contemporaneità attraverso un segno già impresso nel suo cognome: Vianne si chiama infatti Rocher, proprio come le praline della Ferrero... Note conclusive Nei frammenti di visioni e di testi qui presentati, il nesso tra le donne e il cibo emerge come rapporto speciale che riguarda allo stesso tempo il tema del corpo quale materia semiotica, e quello del genere quale raffigurazione culturale dell’identità sessuale. Il cibo è nutrimento 16

Brillat-Savarin, Physiologie du goût, cit., pp. 86-87. W. Sombart, Luxus und Kapitalismus, trad. it., Lusso e capitalismo, Milano 1988, pp. 138-140 sulla crescita del consumo di dolci in Europa nel secolo XVI, in particolare zucchero e cacao, e sul suo rapporto con il colonialismo. Vedi pp. 184-186 sulla connessione stretta tra la nascita del lusso in Europa e lo schiavismo nelle colonie nei secoli XVII e XVIII. 17

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e alimento: risposta a un bisogno ed elaborazione di un desiderio. La natura costitutivamente “lussuosa” del cibo consiste nel fatto che, anche al livello della “nuda vita”, della fame, il cibo sia sempre, oltre che una “cosa”, anche un segno, cioè lo spazio di un’eccedenza in cui il genere femminile performa, mette in scena, rappresenta, tutta la sua potenza e ambivalenza simbolica. Donna che nutre, donna golosa, donna cuoca, donna “da mangiare”: si va dallo stereotipo più bieco della “lussuria” agita da donna, all’apertura del senso verso nuovi e inaspettati territori del desiderio in cui la soggettività delle donne afferma invece spazi di libertà e di autonomia. È fondamentale in questi ambiti lavorare sul confine, sull’ambivalenza, sui sensi inaspettati che possono sorgere dove meno si aspetterebbero: nel personaggio di una cuoca ex-comunarda come Babette, nell’immagine di una donna un po’ strega un po’ vagabonda dalle scarpe rosse come Vianne, insomma in tutte quelle metafore in cui figure femminili raccontano e mettono in scena la plurisensorialità in cui consiste l’esperienza alimentare. In ogni situazione in cui compaia il cibo, l’universo visionario cui la testualità della cultura attinge non può fare a meno di misurarsi con pratiche sociali di eccedenza femminile.

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Autori Cristina Bragaglia. Docente di cinema presso l’Università di Bologna. Ha pubblicato testi e saggi sui rapporti tra cinema e letteratura, tra cui Il piacere del racconto. Narrativa italiana e cinema 1895-1990 (Firenze 1993) e sulla critica cinematografica (in particolare su Rohmer e Flaiano). Del 2002 è Sequenze di gola. Cinema e cibo (Fiesole). Dirige la rivista “Film/letterature”. Con Fernaldo Di Giammatteo ha curato il Dizionario dei capolavori del cinema (Roma 2004). Patrizia Calefato. È professore associato presso l’Università degli studi di Bari, dove insegna nella Facoltà di Lingue e Letterature straniere, nel corso di laurea di Scienze della Comunicazione e in quello di Scienze e Tecnologie della Moda. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Lusso (Roma 2003), The Clothed Body (Oxford 2004), Nel linguaggio (Roma 2004), Metafora e immagine. Corpo, cinema, letteratura, comunicazione (Bari 2005). Bruno Capaci. Ricercatore presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna e titolare per affidamento dell’insegnamento di Metrica e Retorica. Studioso di retorica e del Settecento ha pubblicato, tra gli altri studi, Il Giudice e l’Oratore (Bologna 2000), Le Impressioni delle cose meravigliose. Giacomo Casanova e la redenzione imperfetta della scrittura (Venezia 2002), Gli onesti ed imperterriti piaceri: Satire libertine in Italia (Roma 2002) e, con Elide Casali, La Festa del mondo rovesciato. Giulio Cesare Croce e il carnevalesco (Bologna 2002). Martina Corgnati. Curatrice e critica d’arte, insegna Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Ha scritto, insieme a Francesco Poli, il Dizionario d’arte contemporanea (Milano 1994) e il Dizionario dell’arte del Novecento (Milano 2001). Ha pubblicato inoltre Artiste (Milano 2004), volume dedicato alla ricerca artistica al femminile dall’impressionismo a oggi, e numerose monografie su artisti contemporanei tra cui Pinot Gallizio (Ravenna 1992), Luciano Bartolini (Ravenna 1993), Nino Longobardi (Milano 1991), Bernard Damiano (Milano 1995), Lamberto Pignotti (Verona 1996). Ha curato il secondo volume del catalogo generale dell’opera di Enrico Baj (Milano-La Spezia 1996), e Giancarlo Sangregorio. L’opera su carta (Milano 1999). Alessandra Ferlini. È psicologa e psicoanalista. La sua esperienza professionale comprende l’esercizio della psicoterapia psicoanalitica dell’adulto e interventi psicoterapici mirati sulla relazione madre/padre/bambino. Si è occupata di progetti di Psicoterapia Transculturale e attualmente sta lavorando a un progetto sull’etica ed estetica della parola in campo medico e psicoterapico. Svolge la libera professione a Milano. Elisabetta Graziosi. Studiosa di storia letteraria. Insegna Letteratura italiana nella Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università di Bologna. Si è occupata di passioni e linguaggio (Questioni di lessico. L’ingegno, le passioni, il

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linguaggio, Modena 2004) di poesia contemporanea (Il tempo in Montale, Firenze 1978), di geografia letteraria (Da capitale a provincia. Genova 1660-1700, Modena 1993), di scrittura marginale (Avventuriere a Bologna: due storie esemplari, Modena 1998), sconosciuta (Scrivere dal convento: Camilla Faa’ Gonzaga, 2005), dissimulata (Aminta 1573-1580. Amore e matrimonio in casa d’Este, Lucca 2001), nascosta (Pascoli edito e ignoto, vari saggi dal 1993 al 2004). Cristina Mazzoni. Docente di letteratura italiana presso l’Università del Vermont, negli Stati Uniti. Si interessa di scrittura mistica e letteratura al femminile. Oltre a numerosi articoli, ha pubblicato Saint Hysteria: Neurosis, Mysticism, and Gender in European Culture (Ithaca 1996), Maternal Impressions: Pregnancy and Childbirth in Literature and Theory (Ithaca 2002) e, con Rudolph Bell, The Voices of Gemma Galgani: The Life and Afterlife of a Modern Saint (Chicago 2003). Ha inoltre curato Angela of Foligno’s Memorial (Cambridge 1999). Il suo volume più recente è The Women in God’s Kitchen: Cooking and Eating in Spiritual Writing (New York 2005). Maria Giuseppina Muzzarelli. Storica del Medioevo, insegna presso l’Università di Bologna. Si occupa di storia della mentalità e della società. Tra le sue pubblicazioni: Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo (Bologna 1999), Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di Pietà (Bologna 2001), Donne e cibo. Una relazione nella storia (con Fiorenza Tarozzi, Milano 2003, Premio Città di Minori), e Pescatori di uomini. Predicatori e piazze alla fine del Medioevo (Bologna 2005). Lucia Re. Docente di Letteratura italiana e Letteratura comparata moderna e contemporanea presso la University of California, Los Angeles. Ha pubblicato studi su scrittori e scrittrici tra cui Gabriele d’Annunzio, Marcel Proust, Filippo Tommaso Marinetti, Valentine de Saint-Point, Gertrude Stein, Benedetta Cappa Marinetti, Fausta Cialente, Paola Masino, Amelia Rosselli. Calvino and the Age of Neorealism: Fables of Estrangement (Stanford 1990) ha ricevuto il premio Marraro. Con Paul Vangelisti ha curato Amelia Rosselli: War Variations (Kobenhavn & Los Angeles 2005). Elisabetta Sambo. Studiosa di storia dell’arte, ha al suo attivo numerose pubblicazioni sulla pittura bolognese e ferrarese del secolo XVI. L’interesse per il tema della natura morta si è concretizzato nella collaborazione al volume Vicende della natura morta nelle Legazioni di Romagna e di Ferrara (Milano 2000) edito per la Banca Popolare dell’Emilia Romagna. Attualmente sta coordinando l’attività di catalogazione della Fototeca Federico Zeri donata all’Università degli Studi di Bologna. Fiorenza Tarozzi. Insegna storia contemporanea presso l’Università di Bologna. Studiosa di storia politica e sociale, negli ultimi anni ha pubblicato Il tempo libero (Torino 1999) e, con Maria Giuseppina Muzzarelli, Donne e cibo. Una relazione nella storia (Milano 2003).

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Indice dei nomi Addis Saba Marina, 165n-167n, Aertsen Pieter, 89-90 Agricola Johann, 223 Akerman Chantal, 25 Alberto Magno, 63 Aleksic Branco, 122n Alessadrini Roberto, 19n Alimenti Cesare, 161n Andreini Isabella, 17 Andreolli Bruno, 60n Angela da Foligno, 8, 14, 68-70, 69n70n, 75, 80 Annoscia Enrico, 54n Anti Elisa, 52n-54n, 56n Antin Eleanor, 17, 25, 188-189 Antoni Janine, 196 Apollonio di Giovanni, 86 Appiano Ave, 9n, 97n Arasse Daniel, 13n Arcimboldo, 179 Argentieri Simona, 203n Argento Asia, 204 Argento Dario, 204-206 Aristotele, 13, 74 Atwood Margaret, 17 e n Aurell Martin, 119n Axel Gabriel, 222 Badley Linda, 204, 205n Balasc Christiane, 203n Ballerini Luigi, 58n Bandirali Luca, 208n Banner Louis W., 12n Barr Douglas, 210 Barthes Roland, 11 e n, 220n Bartolomeo di Giovanni, 86 Baruzzi Marina, 55n Basile Gian Battista, 172 Bataille Georges, 219 Beccaria Gian Luigi, 119n Beck Corinne, 60n Beebe Beatrice, 32n Beecroft Vanessa, 198 Bell Rudolph, 14n, 67n Bellocchio Marco, 22

Benati Daniele, 95n Bentivoglio Mirella, 17, 194-195 Bernardini Napoletano Francesca, 165n Bernardo di Clairvaux, 43n Berry Halle, 209n Bertini Ferruccio, 60n, 64n Betterton Rosemary, 25n Beuckelaer Joachim, 90 Beyala Calixthe, 17 Biagini Elisa, 17 Bidart Frank, 213 Binoche Juliette, 228 Black Jack, 208 Blixen Karen, 26, 215, 222 e n, 224, 225n-226n Bodei Remo, 113n Boggi Cavallo Pina, 59n Bolter Trudy, 203n Bompiani Valentino, 168n Bonanni Luciano, 220n Bonsaver Guido, 168n Bontempelli Massimo, 165n Bordo Susan, 23n, 25 e n, 212, 212n213n, 214 Borsari Andrea, 113n Borsari Michelina, 19n Boschloo Anton Wilhelm Adrian, 87n Bottai Giuseppe, 167n Botticelli Sandro, 85 Bottoni Luciano, 137n Bourdieu Pierre, 11 e n Bourgeois Louise, 196-198 Bower Anne, 26n Bragaglia Cristina, 25-26 Bragana Giovanna, 210n Brancati Vitaliano, 128, 130,142n Breindl Ellen, 27n, 46n, 50n, 53n, 58n Breton André, 186 Brillant-Savarin Jean Anthelme, 80, 220, 228 e n Brogi Alessandro, 100n Brueghel Jan (il Vecchio), 14n, 120 Bruegel Martin, 77n Brusselmans Jean, 173

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Buckroyd Julia, 203n-204n Burcardo di Worms, 56 e n Burnett Charles, 46n Burney Fanny, 18 Burton Andie, 210 Cage John, 193 Caldwell Lesley, 167n Calef Paola, 47n Calefato Patrizia, 24, 26, 215n Callois Roger, 225 e n Calufetti Abele, 70n Calvino Italo, 166 Campi Vincenzo, 91, 93n, 95 Camporesi Piero, 110n, 127n Candeloro Giorgio, 149n Capaci Bruno, 16, 18, 109n, 129n Capatti Alberto, 58n, 160n Caraffi Patrizia, 64n Cardoso Patricia, 209-210 Carlet Yves, 203n Carracci Ludovico, 100 Carrington Eleonora, 186 Carter Angela, 17 Carter Lynda, 211n Cartesio, 13, 33n Casanova Giacomo, 8, 16-17, 105106, 109 e n, 111-125, 113n, 117n, 128 Cases Cesare, 115n Cassidy Brendan, 84n Caterina da Siena, santa, 20, 198 Cattaneo Carlo, 152-153, 153n Cavandoli Vincenzo, 207n Cavarero Adriana, 62n Ceccarelli Simona, 227n Cecilia, santa, 84-85 Ceresa Carlo, 99 Ceronetti Guido, 29n-30n, 30-31, 34 Cerquozzi Michelangelo, 97-98 Cervetti Valerio, 156n Chaline Jean-Pierre, 119n Chardin Jean Siméon, 102-103 Châtelet Noelle, 122n Chernin Kim, 213n Cherry Peter, 90n Chiara Piero, 107n Chicago Judy, 17, 190-191

Chiessi Rosanna, 195 Chrétien de Troyes, 60n Christine de Pizan, 64 e n, 65 e n Ciardi Roberto Paolo, 93n Cignani Carlo, 101 Cini Daniele, 213n Cirino Ilaria, 211 Clarke John, 79n Cline Sally, 9 e n Colajanni Napoleone, 155 e n Colella Anna, 9n Colette, 201n Collodi (Carlo Lorenzini), 174 Comte-Sponville André, 109n Contner Jim, 211n Corbin Alain, 13n Corgnati Martina, 17, 23, 25-26 Corner Philip, 192 Corsi Barbara, 212n Cortés Hernán, 229 Cosandey Fanny, 113n Cosmacini Giorgio, 45n Cottino Alberto, 97n Counihan Carole, 9 e n, 212n Courtine Jean-Jacques, 13n Crespi Giuseppe Maria, 12 Cristiani Marta, 43n, 48 Croce Giulio Cesare, 131 D’Annunzio Gabriele, 130 Da Ponte Lorenzo, 134-135, 135n Dadamaino, 194 Damasio Antonio, 33n De Bernardi Alberto, 160n De Felice Renzo, 170, 176 De Grazia Victoria, 167n, 169n De Jongh Eddy, 95n de Jong-Janssen L., 87n de Klerck Bram, 92n-93n de Ligne Charles-Joseph, 124 e n De Luna Giovanni, 167n de Nève Daniel, 112n De Roberto Federico, 128, 130, 136, 140 De Ruggero Trotula, 15, 59n, 63 De Sica Christian, 208n De Sica Vittorio, 202 Debord Guy, 25 e n

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Della Casa Giovanni, 93n Delon Michel, 114n Deneys-Tunney Anne, 122n Di Trocchio Federico, 107n, 123n Dinesen Isak, 222n Dix Otto, 168 Douglas Mary, 11 e n, 51n Dronke Peter, 44n, 46n, 59n Dubreuil-Blodin Nicole, 190n Duby Georges, 9 e n, 65n Duden Barbara, 28n Dumoulin Olivier, 119n Durham Martin, 167n Edelman Gerald, 34 e n Ekbert Aebte, 76n Eliogabalo, 137 Elisabeth di Schönau, 76 Elkoussy Hala, 17, 198 Ellman Maud, 20n Epicuro, 108n Erode, 83 Erodiade, 83 Esculapio, 65 e n Fabbri Dall’Oglio Maria Attilia, 112n Fabre Giorgio, 168n Falasca Zamponi Simonetta, 178 e n Farrelly Bobby, 207 Farrelly Peter, 207 Felice Costantino, 152n Ferlini Alessandra, 13, 22 Ferreri Marco, 202-204, 213n Ferrières Madeleine, 54n Feuerbach Ludwig Andreas, 11 Filiberti Iaia, 198-199 Fiume Maurizio, 25, 205-208, 205n206n Flandrin Jean-Louis, 20n, 110n Fonagy Peter, 33n Forgacs David, 167n Forster Edeltrand, 46n Forte Iaia, 207 Fortis Alessandro, 112n Foster Mark, 209n Francesco di Girolamo da Santacroce, 87 Freeman Bauer Linda, 95n

Freud Sigmund, 16, 22, 29, 35-37, 35n, 37n-38n, 39-41, 41n, 171 Frugoni Chiara, 65n Fugger Hans, 91 Fumagalli Beonio Brocchieri Maria Teresa, 43n-44n, 60 e n, 62n-63n Gagliani Dianella, 146n Gaglianone Daniele, 213 Gagliardo Giovanna, 204n Galgani Gemma, 79-80, 79n Gallese Vittorio, 41 e n Galloni Paolo, 50n Gallucci Carole C., 181n Gambara Veronica, 20 Garrone Matteo, 211-212, 212n Gaultier Jean Paul, 219 Ghirardi Angela, 93n Giacomoni Silvia, 165n Gianferrari Luisa, 206n Giorno John, 192 Giotto, 84 Giovanni del Biondo, 83 Giusto de’ Menabuoi, 83 Givenchy Hubert de, 201 Glaser Horst Albert, 105n Goethe Johann Wolfgang, 18 Goglia Luigi, 170, 176 Goldoni Carlo, 18, 131-133, 133n Gordon Robert, 168n Graziosi Elisabetta, 16 Greenaway Peter, 213n Gregori Mina, 91n Guglielmi Nilda, 47n Gundle Stephen, 201n Halström Lasse, 215 Hanna Darryl, 214 Harris Joanne, 215, 228 Hartung Susan, 192 Head Edith, 201 Heller Tamar, 17n Hepburn Audrey, 201-202, 201n Higgins Dick, 192 Higman Charles, 201n Höper Corinna, 94n Howard Ron, 214 Hyams Edward, 8n

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Hyman Mary, 110n Hyman Philip, 110n Ildegarda di Bingen, 15, 27 e n, 43-65, 43n-55n, 58n- 65n Inness Sherrie, 9 e n Irene, santa, 84-85 Irigaray Luce, 204n Isidoro di Siviglia, 53, 55-56, 56n Jenkins Patty, 210 e n Juana Inés de la Cruz, 73-75, 74n Kafka Franz, 180n Kalho Frida, 185 Karney Robyn, 201n Kelly Ellin M., 75n Kempe Margery, 68, 70-72, 70n, 75, 80 Kierkegaard Sören, 224 e n King-Lenzmeier Ann H., 49n Klapisch-Zuber Christine, 65n Knowles Alison, 190, 192-193, 195 Kolmer Lothar, 54n Korsmeyer Carolyn, 13n-14n, 26n, 179n Kovàcs Ilona, 112n Kristeva Julia, 177n Krystufek Elke, 25, 197 Kundera Milan, 130 La Mettrie Julien Offray de, 108n, 109 e n, 111 e n, 123 La Rochefoucauld François, 125 La Tour Georges de, 98 Lake Ricki, 209 Lambert Reggie, 202 Le Goff Jacques, 119n Le Nain, fratelli, 98 Leonardo Lupercio, 74 Lessing Doris, 17 Leszczynska Maria, 113 Levi Montalcini Rita, 193 Lévi-Strauss Claude, 11 e n Lewis Anne, 25 Liotard Jean Etienne, 132 Lispector Clarice, 17 Lochmann Frank M., 32n

Lodoli Elisabetta, 25, 205-206, 205n, 207 Loffredo Ferdinando, 166n, 180n Lomazzo Gian Paolo, 93n Loren Sophia, 202 Lucrezia di Piero di Giovanni Bini, 86 Luna Marie-Françoise, 105n, 109n Lupton Deborah, 9n Lutero Martin, 223 Maccari Mino, 168n Macchia Giovanni, 138n-139n Maestro della Santa Cecilia, 85 Maestro di Griselda, 86-87 Maestro Martino, 58 e n Mafai Miriam, 161n Maffia Elisabetta, 17n Magalotti Nicoletta, 206 Maguire Sharon, 208 Maître Jacques, 23n Malaparte Curzio, 130 Mallarmè Stephane, 193 Malvano Laura, 168n Man Ray, 187n Mann Thomas, 130 Mansel Philip, 124n Manzoni Alessandro, 22, 137, 137n138n, 145 e n Marcello Benedetto, 131 Maria Teresa d’Austria, 131 Mariani Luca, 9n Marie de l’Incarnation, 23n Marinetti Filippo Tommaso, 185 Marini Lumer Ludovica, 34n Martin Thérèse, 77-79, 78n-79n, 81 Martini Emanuela, 145-146 Martini Giovanni Battista, 135 Martini Manuela, 146n, 155, 155n156n Marzolini Marco, 211 Mascia Galateria Marinella, 165n Masino Paola, 17, 165, 165n-170n, 167-169, 171-172, 174n, 177n, 178, 179n-181n, 180-181 Mattei Ciriaco, 93 Mauri Paolo, 105n Mazzoni Cristina, 14-15, 68n Mc Cracken Janet, 26 e n

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Mc Neill John T., 49n McFadden Margaret H., 26n Melantone Filippo, 223 Meldini Piero, 167n Melville Annabelle, 75n Menabrea Luigi, 149 Mervaud Christiane, 116n Metastasio (Pietro Trapassi), 131 Mettra Claude, 45n Michele Di Matteo, 11 Minardi Marco, 162 e n Molinari Mario, 210 Monat Pierre, 45n Mondadori Alberto, 168n, 169 Mondello Elisabetta, 167n Mondino Aldo, 195 Montanari Massimo, 10n-11n, 20 e n, 50n, 52n, 58n, 60n, 110n, 113n Moran Pierre, 17n Moravia Alberto, 130, 171 Moravia Sergio, 108n Moreau Pierre Françoise, 122 Mori Marisa, 185 Morini Luigina, 47n Morino Angelo, 74n, 78n Morisot Berthe, 183 Morosini Maria, 128 Morse Margaret, 9n Moschino, 219 Motta Giuseppe, 56n Moulinier Laurence, 45n-47n, 47, 59n Mozart Wolfgang Amadeus, 135 Muller Irmard, 46n Mussolini Benito, 178 Muzzarelli Maria Giuseppina, 9n, 49n, 53n-54n, 111n, 160n, 169n Nerenberg Ellen, 181n Neuhaus Jessamyn, 27n Nicoletti Mattia, 212n Nochlin Linda, 183 e n Nyrop Kristoffer, 115n Oppenheim Meret, 17, 23-24, 186188 Orlan, 190 Ortalli Gherardo, 46n-47n Ortolani Giuseppe, 133n

Paliaga Franco, 91n-94n Pallavicini Lazzaro, 101 Paltrow Gwyneth, 207-208 Pamici Odinea, 196 Pannunzio Sergio, 160n Parisella Agata, 9n Parzen Jeremy, 58n Pascoli Giovanni, 21 e n Pasolini Pier Paolo, 213n Passerini Luisa, 180n-181n Passerotti Bartolomeo, 91, 93-94 Pastoureau Michel, 59n Pellizza da Volpedo Giuseppe, 148 Pereira Michela, 43n, 48 Perrot Michelle, 9 e n, 65n Peruzzi Lucia, 95n Pesello Luisa, 207 Piana Giannino, 56n Picasso Giorgio, 56n Pickering-Iazzi Robin, 167n, 181n Picone Michelangelo, 46n Pirandello Luigi, 22 Pizzamiglio Gilberto, 107n Platone, 13 Ponzio Augusto, 220n Poulain Jean-Pierre, 9n, 203n Pozzi Giovanni, 69n Praderio Anna, 201n Probyn Elspeth, 9 e n Procida Mary A., 9n Profeti Maria Grazia, 105n, 119n Pucci Giannozzo, 86 Putnam Samuel, 178 Quinot Raymond, 124n Rabaglio Matteo, 62n Rabano Mauro, 48 e n, 53, 55-56 Raimondi Ezio, 137n Rath Claus Dieter, 113n Re Lucia, 167n Ricci Cristina, 210 Ricci Giancarlo, 220n Ricci Piero, 227n Richards Earl Jeffrey, 64n Riggio Cinelli Linda, 166n Rigotti Francesca, 9n, 20, 58n, 62n Rinaldi Nadia, 208n

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Ringgold Faith, 17, 189 Roberts Michèle, 17 Roger Philippe, 117n Romain Hippolyte, 112n Roncoroni Federico, 107n Rorandelli Tristana, 167n Rosen Marjorie, 201n Rosler Martha, 17, 191 Ross Herbert, 214 Rossini Flaviarosa, 72n Rossini Stefania, 203n Rota Vincenzo, 129 Roth Ferdinand Wilhelm Emil, 76n Rousseau Jean-Jacques, 129 Sade Donatien-Alphonse-François de, 129n Safran Serge, 117n Salieri Antonio, 135 Salvati Mariuccia, 146n Sambo Elisabetta, 15 Santullano Luis, 73n Saraceno Chiara, 167n Sceats Sarah, 17n Schneeman Carole, 190 Schneider Herbert, 54n Scholliers Peter, 77n Schwarz Arturo, 187n Segantini Giovanni, 20-21 Sella Quintino, 149 Sereni Clara, 27 e n Seton Elizabeth Ann, 75-76, 75n-76n, 80-81 Severini Gino, 39 Shakespeare William, 17n Shenkar Nadine, 30 e n, 33 e n Sherman Cindy, 190, 196-197 Shrimpton Jane, 203 Siani Giancarlo, 205n Siegel Daniel, 33 e n, 35n Simonetta Alberto M., 48n, 64n Singer Isaac Bashevis, 38n Singer Lori, 214 Snyders Frans, 95 Sombart Werner, 228 e n Sorcinelli Paolo, 151n-152n, 152 Spenser Edmund, 95 Spike John T., 92n

Spila Cristiano, 105n Spurlock Morgan, 24, 214n Staël Madame de, 18 Stein Gertrude, 19 Sterbak Jana, 25, 195 Stern Daniel, 41 e n Stoichita Victor I., 89n Stuart Mill John, 38n Svevo Italo, 130

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Tarozzi Fiorenza, 9n, 21, 111n, 160n, 169n Tassoni Alessandro, 131 Terbrugghen Hendrick, 95-96 Terdiman Richard, 180n Teresa d’Avila, santa, 72-73, 72n-73n, 80, 90 e n Terrone Enrico, 208n Thélamon Françoise, 119n Thérèse di Lisieux, vedi Martin Thérèse Theron Charlize, 210 Thier Ludger, 70n Thompson Edward P., 146-147, 147n Tissot Samuel Auguste, 127n Toaff Ariel, 16 e n Torriano Luigi, 123 e n Tozzi Federico, 21, 151, 152n Trapani Giovanna, 9n Trevisan Vitaliano, 211 Troy Jean François de, 102 Twiggy, 203

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Ugo di San Vittore, 48 e n Valastro Canale A., 56n Valentine de Saint-Point (Anne Jeanne Valentine Marianne Desglans de Cessiat-Vercell), 184 Valeriano, santo, 84 van Balen Hendrick, 120 van Cleve Maerten, 90 Van der Sman Gert Jan J., 87n Van Esterik Penny, 212n Van Heemskerck Martin, 99 van Loo Carle, 108 Vardalos Nia, 208 Varni Angelo, 160n

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Velásquez Diego de Silva, 89, 90n Venel Jean André, 127n Vescovo Marisa, 193n Vigarelli Georges, 13n Vittori Maria Vittoria, 165n Voltaire (François Marie Arouet), 127 Von Schönau Emecho, 76n Walker Bynum Caroline, 14n, 23 e n, 67n Walterowna Broglio Edita, 22 Warshawky Mark, 42n Waters John, 209 e n Weil Simone, 23n Wilder Billy, 201-202

Wilson Perry, 169n Wind Barry, 92n, 94n Winterson Jeanette, 17 Woods Jennifer, 212n Woolf Virginia, 17n, 166 Wulf Cristoph, 113n Wuornos Aileen, 210 Wyler William, 201 Zagarrio Vito, 209 Zanella Claudia, 211 Zarri Adriana, 19 e n Zeri Federico, 93n Zwick Joel, 208

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