I filosofi e il potere nella società e nella cultura antiche 8870429121, 9788870429121


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I filosofi e il potere nella società e nella cultura antiche
 8870429121, 9788870429121

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Introduzione

Questo volume raccoglie gli Atti della « II Giornata di studio sulla filosofia antica », tenutasi a Sorrento il 26 aprile 1985. La I Giornata di studio sulla filosofia antica, che aveva per tema « Modelli e tecniche di ricerca nella cultura greca fino ad Aristotele », si era tenuta il 4 maggio 1984 a Caserta, ma purtroppo, per varie ragioni, non fu possibile curarne gli atti. Le Giornate di studio sulla filosofia antica costituiscono parte integrante dell'attività scientifica e didattica promossa nel quadro delle iniziative organizzate all'interno della Facoltà di Lettere e Filosofia e del Dipartimento di Filosofia dell'Università di Napoli - dalla cattedra di Storia della filosofia antica dell'Università di Napoli. A partire dall'Anno accademico 1981-82 si è costituito infatti, intorno a questa cattedra, un Seminario di storia della filosofia antica con l'intento di ampliare gli spazi di discussione e di confronto su temi e problemi di grande interesse, sia sul versante metodologico, sia su quello di specifici e particolari contenuti culturali. La formula organizzativa del seminario (che fa perno sulla presenza attiva, oltre che di docenti e studenti universitari, anche su quella di docenti e studenti delle scuole secondarie superiori particolarmente interessati alle problematiche della filosofia antica) ha riscosso subito un vivo interesse ed un largo consenso: in un'assemblea iniziale si individua, tra i tanti temi possibili, quello rispondente agli interessi dei più; e già questo primo momento, che potrebbe apparire puramente organizzativo, si dimostra invece molto importante ai fini della discussione e dell'approfondimento di nodi e di schemi concettuali operanti sia nel campo della filosofia antica, sia nel campo della storiografia filosofica sull'antico.

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Il seminario vero e proprio, che ha una frequenza settimanale, si articola poi in una relazione introduttiva tenuta da un docente o da uno studente e in un ampio dibattito volto ad approfondire e/o a discutere criticamente indicazioni o soluzioni offerte dal relatore. Ci sia consentito di dare qui i nomi dei relatori nei quattro seminari finora tenuti. E questo non per offrire semplici elenchi a puro scopo gratificatorio, ma soprattutto per rendere doverosa testimonianza del costruttivo desiderio di discussione con cui tutti hanno partecipato agli incontri, e specialmente gli studenti dei corsi di Storia della filosofia antica, che si sono impegnati con serietà ed entusiasmo, raggiungendo, a volte, risultati di notevole livello. I Seminario, anno accademico 1981-82: proff. Giovanni Casertano (Università di Napoli), Giuseppe Martano (Università di Napoli), Antonio M. Battegazzore (Università di Genova), Giuseppe Cambiano (Università di Torino), Thomas M. Robinson (University of Toronto), Fulvio De Salvia (Istituto tecnico «Righi», Napoli), Lamberto Maccioni (Liceo « Umberto» Napoli), i dott. Aniello Montano, Jolanda Carmela Capriglione, Maria Luisa Silvestre, dell'Università di Napoli; gli studenti Salvatore Giammusso, Ernesto Ruocco, Lidia Palumbo, Alessandra Vitale. II Seminario, anno accademico 1982-83: i proff. Antonio Capizzi (Università di Roma), Renato Laurenti (LU.O. di Napoli), Giuseppe Manano (Università di Napoli), Marian Wesoly (Università di Poznan), Lucio Bertelli (Università di T orino), Margherita Isnardi Parente (Università di Roma), Francesco Romano (Università di Catania); i dott. Maria Luisa Silvestre, Aniello Montano, Jolanda Carmela Capriglione dell'Università di Napoli; gli studenti Lucio Celot, Elisabetta Nudi, Ernesto Ruocco, Antonio Romano, Silvia D'Angelo, Eugenio Capozzi, Annamaria Trama. III Seminario, anno accademico 1983-84: i proff. Alexander P.D. Mourelatos (University of Texas at Austin), Lamberto Maccioni (Liceo «Umberto», Napoli), Enrico Berti (Università di Padova), Gabriele Giannantoni (Università di Roma), Giuseppe Manano (Università di Napoli), Francesco Romano (Università di Catania), Antonio M. Battegazzore (Università di Genova), Gian Arturo Ferrari (Università di Pavia); i dott.

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Giuseppe T onora, Aniello Montano, Lucio Pepe, Maria Luisa Silvestre, Jolanda Carmela Capriglione dell'Università di Napoli; gli studenti Lidia Palumbo, Francesca Dovetto, Gian Carlo Lucianelli, Ernesto Ruocco. IV Seminario, anno accademico 1984-85: proff. Giovanni Casertano (Università di Napoli), Myrtho Dragona Monachou (Università di Creta), Antonio Capizzi (Università di Roma), Agostino Ziino (Università di Napoli), Luciano Canfora (Università di Bari), Giuseppe Cambiano (Università di Torino), Mario Vegetti (Università di Pavia), Gabriele Giannantoni (Università di Roma), Margherita Isnardi Parente (Università di Roma); i dott. Ernesto Ruocco, Lucio Pepe, Anna di Colandrea, Antonio Nave, Lidia Palumbo, Aniello Montano; gli studenti Luigi Di Capua, Serafina Cuomo, Anna Maria Bianco, Francesco Aglialoro. Ancora poche parole, infine, su questo volume. I filosofi e il potere: un tema sempre attuale, crediamo, e che nella società e nella cultura antiche si presenta con tutti i caratteri di complessità, di oscillazioni, di ambiguità, di teorizzazioni più o meno chiare e di esiti più o meno oscuri, di « compromissioni » ricercate sfuggite rinnegate, con cui questo difficile rapporto si manifesta anche nella società moderna e contemporanea. Sarà utile, quindi, a nostro avviso, soffermarsi ancora una volta su alcuni momenti cruciali nei quali azione pratica e riflessione teorica si combinano, armonicamente e no. E che si tratti di un rapporto sempre problematico, non solo nel senso di un rapporto difficile, ma anche nel senso che la sua stessa impostazione richiede la soluzione preliminare di problemi (di autenticità dei testi, di autenticità dei dati storici, di interpretazioni non condizionate da particolari e interessate ottiche ermeneutiche, né a loro volta condizionanti), lo dimostrano i saggi qui raccolti. I quali, appunto, individuano alcuni momenti cruciali della storia di questo problema dalla fine del VI alla fine del IV secolo a. C. Nel primo saggio si mostrano i diversi sensi del rapporto tra i pitagorici e il potere politico nelle città della Magna Grecia - e soprattutto a Crotone -, sottolineando il distacco che si venne a creare tra la perdente politica conservatrice delle

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colonie e le teorizzazioni « filosofiche » di una conduzione politica che non poteva trovare spazi concreti e reali di applicazione. E se da un lato « pitagorici » - e spesso di primo piano - si trovarono a combattersi schierati su fronti opposti, dall'altro lato il rapporto tra pitagorici «conservatori» e forze politiche conservatrici non fu mai pacifico e lineare: a dimostrazione, appunto, che le teorizzazioni della politica presupponevano molto di più di una semplice linea politica, coinvolgendo necessariamente un modo di essere - un bios - e un modo di agire - una paideia - che non potevano essere semplicisticamente costretti nella pratica e quotidiana « azione politica ». Nel secondo saggio Luciano Canfora esamina la figura e l'attività di Crizia prima del 404 a.C., quando gli Spartani entrarono in Atene e lo stesso Crizia fu uno dei cinque « efori » che governarono in un primo tempo la città. Anche nel caso di Crizia, e specialmente se si paragona la sua a~tività con quella di Alcibiade (due delle figure, quindi, eminenti dell'ambiente «socratico»), risulta uno dei dati più caratteristici di questo travagliato periodo della storia ateniese: « lo scontro, nell'ambito stesso dell'aristocrazia e delle classi possidenti, tra la democrazia e i suoi avversari». Qui però non c'è iato tra azione politica e teorizzazione della politica: se la pseudosenofontea Costituzione degli Ateniesi è davvero di Crizia, come Canfora sostiene, allora non c'è contrasto tra i tentativi di « laconizzare » l'Attica e la teorizzazione di un popolo ridotto in condizioni di servitù, in base al principio che, essendo la democrazia un sistema intimamente coerente e perfetto nella sua negatività, migliorare la democrazia non può significare che abbatterla. Anche in Platone, come nei pitagorici, i rapporti tra filosofia e politica non sono lineari, sostiene Giuseppe Cambiano: perché i filosofi sono costretti a governare, nonostante la loro riluttanza? e che rapporto c'è tra la costrizione a governare e la giustizia intesa come il compiere « ciò che è proprio »? allora filosofare e governare sono funzioni distinte? A queste domande Cambiano risponde, invece che sottolineando facilisticamente la contraddizione platonica, interrogando più a fondo il testo della Repubblica. In particolare evidenziando il

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significato complesso di termini come archein, sophrosyne, politikè techne. Giungendo quindi a risultati parzialmente diversi da quelli da lui già sostenuti (cfr. Platone e le tecniche, Torino 1971}, Cambiano sembra trovare la risposta alle domande poste all'inizio nell'inclusione all'interno del campo proprio dell'azione del filosofo di un'attività «pedagogica» che appare sempre più come il fine dell'attività politica vera e propria: il filosofo deve affrontare le « fatiche » del governo per formare altri filosofi e assicurare così la sopravvivenza del genos filosofico. Prendendo spunto da un passo del de partibus, in cui il cuore è considerato come il focolare (bestia) del corpo e perciò va difeso come fosse l'acropoli del corpo, Mario Vegetti istituisce una serie di raffronti tra la metafora aristotelica e quella platonica del Timeo (dove però l'acropoli è il cervello, baluardo contro la razza ostile dei desideri}, alla quale la prima si richiama. Con un sottile gioco di immagini, che coinvolge il campo biologico, quello cosmologico e quello politico, Aristotele compie una vera e propria rivoluzione del proprio « platonismo», rivoluzione che Vegetti individua nell'abbandono di una cosmologia « alta » e « fredda » (propria del de caelo, per esempio} a favore di una biologia «calda» e «centrale» (propria del de partibus). E se questo è dovuto al ruolo privilegiato che il calore, per l'Aristotele maturo, ha nella vita, l'allusione alla sfera del potere e del comando (archè) diventa esplicita alla luce dell'assunzione di un nuovo potente assioma teorico, quello dell'unicità del principio (archè). Ma se è vero che il discorso .biologico è pur sempre legato a quello antropologico (nel senso della eliminazione della conflittualità, di marca platonica, nel complesso psico-somatico}, è pur vero che questo discorso non è unitario né risolutorio, perché la cosmoteologia del de caelo continua a proporre i suoi schemi « acropolistici » non solo nell'antropologia, ma anche nella psicologia e nella politica, fino in opere tarde come la Politica e il de

generatione animalium. Dalla costatazione di un problema prende le mosse anche il saggio di Gabriele Giannantoni: se è vero che un'antica tradizione ci presenta Alessandro come il « filosofo in armi » perché realizza in pratica le idee cosmopolitiche e universalistiche dei cinici e degli stoici, è pur vero che questa immagine

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non si trova in nessun autore c1mco e stoico. Si trova bensì negli scritti di Plutarco (I-II secolo d.C.) a lui dedicati, che ci tratteggiano Alessandro come il vero filosofo cosmopolita, dotato di tutte quelle virtù, come la generosità, il coraggio, la temperanza, che sono le doti più apprezzabili in un sovrano. Questo tipo di presentazione, che pure si opponeva all'altra di un Alessandro vero despota e tiranno orientalizzante, pone così un altro problema: contro chi Plutarco tratteggia la sua idealizzata figura del monarca? Giannantoni propende ad individuare l'oggetto della polemica plutarchea negli scritti dei paripatetici, i quali, dopo l'uccisione di Callistene (nipote di Aristotele) coinvolto in una congiura di palazzo, lo dipinsero come tiranno e liberticida, le cui imprese erano dovute solo al caso e alla fortuna. Né Plutarco segue fonti stoiche, perché anche queste sono ostili ad Alessandro, e non lo sarebbero state se Alessandro avesse incarnato l'idea stoica della fratellanza del genere umano, o addirittura l'avesse ispirata. Cinici e stoici sono dunque egualmente ostili al Macedone, almeno fino alla fine dell'età ellenistica: solo dopo, in una diversa temperie politica e culturale, l'immagine cambia. L'esame dei rapporti filosofia-politica in seno ali' Accademia antica evidenzia ancora una volta aspetti contrastanti. Margherita Isnardi Parente sottolinea come tesi storiografiche contemporanee si rifanno sempre a testimonianze antiche: Ateneo considera la scuola come un seminario di ribellione e di tirannide, Plutarco come un modello di retta azione politica e di educazione antitirannica. In effetti sia la presa del potere da parte del tiranno che il tirannicidio possono essere messi in relazione all'idea platonica della superiorità dell'uomo politico educato filosoficamente. La Isnardi sottolinea - attraverso l'esame di numerose fonti - che mentre la strumentalizzazione pratica della dottrina platonica interessa personaggi ed eventi marginali rispetto alla scuola di Platone, la tematica della legge, dell'ossequio al nomos, trova riscontro nella attività dello scolarca e degli elementi a lui più vicini. In particolare con Senocrate, autore di una «svolta» nella storia dell'Accademia: il suo atteggiamento « europeistico » piuttosto che democratico, di difesa di un ideale monarchico-moderato, la sua opzione per una « vita contemplativa» erano in effetti il segno di

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. . un'oppos1z1one ad un potere monarchico non nconoscrnto nella sua nuova forma, considerata oppressiva della libertà ellenica. Ci sia consentito infine di ringraziare qui ancora una volta i colleghi che hanno accettato di intervenire alla seconda giornata di studio sulla filosofia antica; il prof. Fulvio Tessitore, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, che ha incoraggiato e appoggiato la stampa di questo volume; il comitato di redazione degli « Acta Neapolitana », coordinato dal prof. Giuseppe Galasso, che ne ha accettato la pubblicazione in questa serie; i dott. Lidia Palumbo ed Ernesto Ruocco, che hanno collaborato alla correzione delle bozze.

Napoli, novembre 1985 Giovanni Casertano

GIOVANNI CASERTANO

I Pitagorici e il potere

Sulla vita di Pitagora possediamo non molti dati sicuri: è nato a Samo e vissuto nella seconda metà del VI secolo; intorno al 530 è venuto in Italia, stabilendosi a Crotone e riscuotendo subito un grande successo, non solo per le dottrine che professava, ma anche per le sue norme di vita e per i suoi principi politici 1 • L'autorità di Pitagora e dei suoi seguaci dovette andare via via crescendo, e non solo a Crotone; certo raggiunse il suo culmine intorno al 510, al tempo della guerra tra Crotone e Sibari 2 e della distruzione di quest'ultima. Dopo questa data cominciò, in Crotone e nelle altre città della Magna Grecia, quella rivolta antipitagorica che durò per decenni, fino alla metà del secolo V, e che portò alla graduale eliminazione di tutti i « circoli » pitagorici dalla scena politica dell'Italia meridionale. Ma è inutile cercare di individuare nei particolari, all'interno di queste linee generalissime, una attendibile storia della fortuna e della disgrazia dei Pitagorici, dalla fine del VI alla metà del V secolo a.C.: le nostre fonti (molto tarde rispetto agli avvenimenti} presentano discrepanze e contraddizioni notevoli, e molto probabilmente confondono spesso in uno stesso racconto fatti cronologicamente distanti fra loro 3 •

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PoRPHYR, v.P. 18 - DK 14A8a. Cfr. D100., XII 9, 2 - DK 14A14. 3 Su questa confusione si vedano le note di Maddalena e di Timpanaro Cardini a DK14A13-16: cfr. / Pitagorici, a cura di A. Maddalena, Bari 1954; Pitagorici. Testimonianze e framment~ a cura di M. Timpanaro Cardini, voli. 3, Firenze 1958-1962-1964, voi. I. Cfr. anche ZELLER, in E. ZELLER, R. MoNDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, I, Il, a cura di R. Mondolfo, Firenze 1967, p. 422 ss. 2

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Lo stesso vale per la morte di Pitagora: alcune fonti ci dicono che, prevedendo la sollevazione di Crotone contro il governo pitagorico, egli fuggì a Metaponto 4 , altre che dovette fuggire proprio in seguito alla rivolta 5 ; tutte le fonti, comunque, sembrano concordare sul fatto che finì i suoi giorni a Metaponto. I dati sicuri non sono molti, come si vede; ma anche le leggende possono nascondere dei dati significativi. Il fatto, per esempio, che Pitagora avesse raggiunto una notevole fama in tutta l'Italia sia come «sapiente», sia come uomo politico e legislatore, ci è documentato da questo episodio raccontatoci da Porfirio 6 • Dopo la sconfitta dei suoi, fuggito da Crotone, Pitagora si diresse verso Locri ove, « appena giunta la notizia, gli furono mandati incontro, ai confini del territorio, alcuni anziani. Trovatolo, gli dissero: 'Sappiamo, o Pitagora, che tu sei uomo intelligente e sapiente; ma noi siamo contenti delle nostre leggi e vogliamo che restino così come sono: tu, dunque, se hai bisogno di qualche cosa, prenditela; ma vattene altrove'. In questo modo fu allontanato da Locri; di lì passò a Taranto, ove ebbe presso a poco la stessa sorte che aveva avuto a Locri; quindi passò a Metaponto». L'episodio - vero o falso che sia - testimonia appunto, accanto al riconosciuto apprezzamento per le dottrine scientifiche ed etiche (« intelligente e sapiente») dell'uomo, anche delle inquietudini politiche che l'insegnamento non solo, ma anche l'organizzazione 7 dei Pitagorici potevano suscitare in città come quelle della Magna Grecia che proprio in questo periodo andavano maturando il loro processo di trasformazione democratica. A rigore, certo, non si può dire, sulla base di dati precisi, se questa indubbia compromissione dei circoli pitagorici nella politica delle varie città significasse uno schieramento al fianco della vecchia ari-

4 APOLL., mirab. 6 - DK 14A7; JusTIN., 20, 4 - DK 14A13; JAMBL., v.P. 255. 5 JAMBL., v.P. 249 - DK 14A16. 6 PoRPHYR., v.P. 56 ss.; il passo non è in DK: lo prendiamo dalla traduzione del Maddalena. 7 Vedi, tra le altre testimonianze, PoRPHYR. v.P. 18-19 (- DK 14A8a); D10G. LAERT. VIII 15 ( = DK 14A13); D100. XII 9,2 ( = DK 14A14).

I PITAGORICI EIL POTERE

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stocrazia terriera, oppure al fianco delle ascendenti classi commerciali e mercantili 8 • In effetti, della vita politica interna delle colonie italiche « poco sappiamo, fino al momento in cui il sorgere delle tirannidi mette dappertutto in evidenza il contrasto esistente fra i discendenti dei coloni, diventati ceto dominante di proprietari terrieri, e un demos misto di elementi greci e indigeni » 9 • Certo, come giustamente è stato osservato 10 , è estremamente improbabile che uno straniero venuto da Samo come Pitagora sia diventato il capo di una aristocrazia terriera, a carattere ereditario, in uno stato fondato quasi due secoli prima. Può essere molto utile, a questo proposito, esaminare un lungo passo della Vita di Pitagora di Giamblico 11 , che molto ci può dire - a nostro avviso - sulla complessità del rapporto fra i Pitagorici ed il potere politico, in particolare a Crotone. Non ha importanza, ai fini del nostro discorso, che ogni particolare di questo racconto abbia una sua puntuale attendibilità storica: l'importante è che esso, opportunamente decodificato, diventa una testimonianza estremamente illuminante. « Fino a che Pitagora fu pronto a conversare con chiunque gli si avvicinasse, fu gradito alla città, ma dopo che incominciò a intrattenersi soltanto coi suoi discepoli, perdette il favore ... S'aggiungeva poi che quei giovani venivano dalle famiglie più illustri e facoltose, e che, col passare del tempo, essi divennero reggitori della città... benché fossero soltanto una piccola parte della città. [Una presa del potere, quindi, graduale, che non sconvolge formalmente gli ordinamenti della città, ma che porta di fatto al governo un gruppo alquanto composito, formato da esponenti dell'aristocrazia terriera nobiliare - le « famiglie più illustri » - e da esponenti della « borghesia » commerciale - le

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Cfr. TH. A. SINCLAIR, Il pensiero politico classico, tr. it., Roma-Bari

1973, voi. I, p. 38.

H. BERVE, Storia greca, tr. it., voli. 2, Bari 1966, voi. I, p. 302. G. THOMSON, / primi filosofi, tr. it., Firenze 1973, p. 256. 11 jAMBL. v.P. 254 ss. Il passo non è in DK; lo riponiamo nella tradu1.ione del Maddalena. Da notare che Giamblico dice di riponare il racconto di Apollonio (I sec. d.C.) e questi, a sua volta, pare che si debba far risalire a Timeo (IV-III sec. a.C.). 9

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più facoltose » -: comunque un governo di chiara marca oligarchica.] E_tuttavia, fino a che i Crotoniati non s'impossessarono di terre straniere ... l'ordine instaurato ... perdurò benché fosse sgradito e si cercasse un'occasione per rovesciarlo. Ma dopo che si furono impadroniti di Sibari [510 a.C.], come i Pitagorici non vollero distribuire le terre conquistate secondo i desideri del popolo minuto, l'odio nascosto proruppe e il popolo si ribellò contro di loro. Capi della sedizione furono coloro che avevano maggiori legami d'affinità e parentela coi Pitagorici. [Il contrasto tra il ceto dominante dei proprietari terrieri e il demos scoppia violento: le ragioni sociali del conflitto sono più che evident~ così come pure è evidente il ruolo catalizzatore che hanno nella rivolta i ceti più pover~ sebbene ad essa partecipino in prima fila anche elementi molto vicini agli ambienti pitago· rici. Il che ci fa supporre che molto probabilmente la « scuola » pitagorica ha conosciuto ben presto al suo interno divisioni dottri· nali e politiche]. E la causa era questa, che molte usanze dei Pitagorici li irritavano... Per parte loro poi i parenti erano irritati dal fatto che i Pitagorici... usavano in comune delle sostanze, ma ne escludevano loro. Furono questi gli iniziatori della ribellione: e gli altri prontamente li secondarono. Tra gli stessi mille, Ippaso e Diodoro e T eage domandarono che fosse concesso a tutti il diritto di partecipare alle assemblee e di essere eletti alle cariche pubbliche, e che fosse fatto obbligo ai magistrati di rendere conto del loro operato a uomini designati dalla sorte di tra tutti. [La complessità delle diverse spinte economiche e sociali nella rivolta contro il regime aristocratico viene gradualmente coagulandosi nel classico bagaglio delle richieste politiche di strutture «democratiche», come l'elettorato attivo e passivo per tutti i poHta~ il sorteggio delle cariche, le responsabilità della magistratura. È da sottolineare, però, la complessità del movimento: l'accenno alle « usanze dei Pitagorici» - Giamblico ricorda, oltre quelle che abbiamo riportato, quella di stringersi la mano solo tra di loro, di non portare anelli con immagini della divinità, ecc. - mostra chiaramente che il legame tra Pitagorici e ceti terrieri dominanti non era un legame tanto pacifico né scontato. Ma su questo ritorneremo]. S'opposero [altri] Pitagorici... vinsero però quelli che favorivano il popolo minuto.

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Dopo questo, raccoltasi la moltitudine, gli oratori Cilone e Ninone, il primo di ricca famiglia, il secondo dei popolari, cominciarono ad accusare i Pitagorici, dividendosi le parti. E dopo che un lungo discorso d'accusa fu pronunziato da Cilone, l'altro continuò l'accusa, vantandosi di aver conosciuto i segreti dei Pitagorici ... Diceva insomma che la loro filosofia altro non era che una congiura contro il popolo. [Scoppia infine la guerra, che coinvolge anche altre città, e che termina con la vittoria del partito « democratico » ]. Riusciti vincitori, esiliarono anche altri che erano avversi al nuovo stato di cose ... E cancellarono i debiti, e distribuirono la terra ». Alcuni dati, allora, sembrano emergere con sufficiente chiarezza, specialmente se avviciniamo questa ad altre testimonianze e le interroghiamo « in contemporanea». Anzitutto, la scuola pitagorica, - o la setta, come alcuni, estremizzando, l'hanno chiamata - ebbe fin dall'inizio una forte caratterizzazione in senso politico, di tipo chiaramente aristocratico. Questo non dovette significare, però, l'identificazione pura e semplice dei Pitagorici con il partito aristocratico, sia pure nel senso largo nel quale usiamo il termine «partito» per l'antichità classica. Abbiamo visto che, da un lato, i Pitagorici formavano una collettività abbastanza composita, comprendente membri sia dei ceti conservatori sia dei ceti innovatori; dall'altro lato la loro comunità era connotata anche - se non principalmente - da certi atteggiamenti, da certe usanze: era cioè, in una parola, una comunità fondata su ben precisi precetti etici e pedagogici, si proponeva insomma come modello di un bios, di un modo di vita ben preciso. Quest'ultimo fatto, anche se come vedremo non possiamo definire con estrema precisione quali fossero questi precetti, è molto importante per comprendere la storia del primo pitagorismo. Una testimonianza di Porfirio 12 , che, nella sua generalità, non v'è ragione di revocare in dubbio, ci dice chiaramente che l'inizio del « successo » di Pitagora fu dovuto proprio non solo alla novità ed alla bellezza delle sue dottrine, ma anche al loro valore etico e pedagogico; per la prima volta, nella cultura greca,

12 PoRPHYR.

v.P. 18 = DK 14A8a.

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l'insegnamento e la vita sociale si aprivano a tutti, compresi 1 fanciulli e le donne: alcune di queste, anzi, ben presto diventeranno famose per la loro dottrina. Pitagora educatore, dunque u, e Pitagora politico. Il fatto è che questi due aspetti non possono essere scissi, e questa è · appunto una delle ragioni del complesso rapporto tra i Pitagorici e la politica. La testimonianza di Porfirio che ora abbiamo ricordata accenna anche ad un altro carattere dell'insegnamento pitagorico che ben presto passò nella leggenda sui Pitagorici, al «silenzio». « Quello ch'egli diceva ai suoi compagni, nessuno può dire con certezza, perché serbavano su questo grande segreto » 14 • La storiografia moderna ha molto dibattuto il problema del segreto che avvolgeva le dottrine pitagoriche, chiedendosi anche che cosa questo segreto riguardasse 15 • Noi siamo con quegli studiosi che non credono al silenzio pitagorico, ritenendolo una tradizione tarda e falsa 16 : non c'è alcuna trac-

13 Naturalmente v'è chi nega questo aspetto della figura di Pitagora, ritenendolo - sulla base di PLAT. resp. 600a - una tradizione leggendaria posteriore che nasce, appunto, da Platone. Cfr., fra gli altri, W. JAEGER, Paideia, tr. it., Firenze 1970 (rs.), voi. I, p. 307. Noi crediamo, al contrario, che Platone riconoscesse un dato di fatto presente ancora al suo tempo, e non che si inventasse una tradizione pedagogica di marca pitagorica. Cfr. del resto la lunga testimonianza di Giamblico (v.P. 200 ss.), che cenamente offre elementi di una paideia molto antica, con i suoi valori di harmonia, taxis,

symmetria. 14 Questo non impedisce però a Porfirio di citare, subito dopo, le dottrine più famose di Pitagora: la trasmigrazione delle anime, l'affinità che lega insieme tutti gli esseri animati, la teoria dell'eterno ritorno. 15 Secondo J. BuRNET, Early Greek Philosophy, London 19142 e ZELLER, op. cit., riguardava i riti; secondo A.· REY, La Jeunesse de la science grecque, Paris 1933, riguardava la dottrina religiosa; secondo P. TANNERY, Pour l'histoire de la science hellène, Paris 19302 , riguardava la matematica; secondo O. G1GON, Der Usprung der griechischen Philosophie von Hesiod bis Parmenides, Basel 1945, riguardava il programma politico. Ognuna di queste interpretazioni si basa su alcune fonti antiche: il fatto da sottolineare è però che tutte queste fonti sono molto tarde. 16 Così, per esempio, A. MADDALENA, op. cit., in particolare p. 76 n. 21 e p. 81 n. 27; A. PASQUINELLI, / Presocratici, a cura di A. Pasquinelli, pp. 335-336 n. 3 (può anche essere un uso effettivamente pitagorico, ma allora è del tardo e non del prim~ pitagorismo); M. TIMPANARO CARDINI, op. cit., voi. I, in panicolare pp. 5-6.

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eia nelle testimonianze antiche del segreto pitagorico. Al contrario, c'è l'esplicita negazione di esso: Eraclito (quindi inizio del V secolo a.C.), che cita tre volte Pitagora per criticare la sua polymath{e, la sua « multiscienza » 17, ci dice esplicitamente che Pitagora « esercitò la ricerca scientifica (fo-rop(TJ) più di ogni altro uomo, e con ciò che trasse da questi scritti (crvyypoup0tQ formò la sua propria sapienza (aocpC0t): multiscienza, arte da ciarlatani» 18 • Questo frammento, che non può essere invalidato almeno per due buone ragioni - perché è una delle più antiche testimonianze su Pitagora, e perché è polemico nei suoi confronti, e quindi doveva riferirsi ad aspetti noti a tutti e facilmente riconoscibili della posizione culturale di Pitagora -, questo frammento, dicevamo, ci mostra chiaramente almeno due cose: 1) la personalità culturale di Pitagora fu certamente complessa e dovette comprendere campi molto vasti e diversi del sapere (1t0Àu1,L0t8CTJ), nei quali Pitagora si affermò (più di ogni altro uomo) con dottrine frutto di sue personali ricerche (lcr-ropCTJ); 2) che le dottrine di Pitagora erano ampiamente conosciute anche molto al di fuori delle cerchie pitagoriche, se appunto Eraclito, nei primi decenni del V secolo (si ritiene comunemente che il libro di Eraclito sia stato scritto intorno al 480), ne poteva criticare, dalla lontana Efeso, certe impostazioni metodologiche, certe finalità, certe caratteristiche. Questi due fatti, a loro volta, invalidano alla base due delle leggende - costruite, si badi, a partire da non prima dell'età ellenistica e poi riprese da gran parte della storiografia - su Pitagora e il

17 « Multiscienza non insegna ad avere intelligenza (noos); altrimenti l'avrebbe insegnato ad Esiodo e a Pitagora, e poi a Senofane e ad Ecateo,. (D10G. LAERT. IX 1 - DK22B40), tr. it. Timpanaro Cardini. Cfr. anche PttILODEM., rhet., I c. 57-62 - DK 22B81 (Timpanaro). 18 D10G. LAERT., VIII 6 - DK22B129. Questo frammento di Eraclito è stato ritenuto spurio, a panire dal Diels, e proprio perché contrasta con tutta la tradizione posteriore che parla del segreto pitagorico e dell'assenza di qualunque scritto di Pitagora! Lo status quaestionis in TIMPANARO CARDINI, op. cit., voi. I, pp. 16-17; si veda anche Mondolfo in ZELLER-MONDOLFO, cit., pp. 316-317. Ha difeso con buone ragioni l'autenticità del frammento, anche per quanto riguarda l'esistenza degli scritti pitagorici, W. KRANZ, Vorsokrati· sches I, in « Hermes,. 69 (1934), pp. 114-119 (v. p. 115 ss.), e Vorsokratisches Il, ibidem, pp. 226-228 (v. p. 227).

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pitagorismo: il punto 1 quella di Pitagora pensatore esclusivamente mistico-religioso, che nulla ha a che fare con la storia della filosofia e della scienza antica 19 ; il punto 2 quella della segretezza delle dottrine pitagoriche almeno fino a Filolao, cioè alla seconda metà del V secolo; leggenda, quest'ultima, 19 Su questo problema la bibliografia è ricchissima, e non resta che rimandare agli scritti già citati del Maddalena, della Timpanaro Cardini, del Mandolfo, in Zeller-Mondolfo, per una discussione. Gli accenni che qui faremo vogliono quindi offrire soltanto delle indicazioni significative delle varie tendenze storiografiche, a titolo di esempio e senza alcuna pretesa di completezza. Lo studioso che più degli altri ha sostenuto con forza e determinazione la tesi che Pitagora e i Pitagorici abbiano costituito per tutti i secoli VI e V soltanto una setta mistica, riformatrice sul semplice terreno religioso e con nessuna caratteristica filosofica e scientifica, è stato E. FRANK, Plato und die sogenannten Pythagoreer, Halle 1923. Prima di lui e subito dopo possono ricordarsi almeno K. REINHARDT, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Bonn 1916; I. LÉvY, Recherches sur !es sources de la légende de Pythagore, Paris 1926 e La légende de Pythagore de Grèce en Palestine, Paris 1927; G. RATHMANN, Quaestiones Pythagoreae Orphicae Empedocleae, Halle 1933. In tempi più recenti, questa tesi è stata ripresa, ma con maggiore equilibrio, senza preconcetti e con un più attento esame della documentazione, da W. BuRKERT, Weisheit und Wissenschaft: Studien zu Pythagoras, Philolaus und Platon, Niirnberg 1962, per il quale non si può parlare di una scienza e filosofia pitagoriche prima della metà del V secolo, in particolare con Ippaso (pp. 454-456). Altri hanno insistito sulla figura di Pitagora come di un profeta religioso, prescientifico, uno sciamano, che racchiudeva « in sé le funzioni, ancora non differenziate, di mago e naturalista, poeta e filosofo, guaritore e pubblico consigliere " (E. R. DoDDS, I Greci e l'irrazionale, tr. it., Firenze 1973, p. 185, ma si veda da p. 180; la definizione riportata è a proposito di Empedocle che, per Dodds, come Pitagora, era appunto uno sciamano). La questione dell'aspetto religioso dell'insegnamento di Pitagora comporta quella dei suoi rapporti con l'orfismo. Su questo, la bibliografia è sterminata. Limitandoci solo ai rapporti Pitagorici-Orfici, ed a puro titolo di esempio, ricordiamo G. THOMSON, op. cit., pp. 261-262, 264; E. RoHDE, Psiche, tr. it., voli. 2, Bari 1970, p. 435 ss.; E. DoDDS, op. cit., p. 186 sgg., p. 192 n. 2; W. JAEGER, op. cit., I, p. 310; A. CAPIZZI, La repubblica cosmica, Roma 1982, p. 262. Ha negato invece - e con argomenti degni di essere presi in gran considerazione - ogni rapporto tra l'antico pitagorismo e l'orfismo A. MADDALENA, op. cit., Appendice, sostenendo, in particolare, che la dottrina della trasmigrazione delle anime è orfica e non pitagorica. Altri studiosi hanno invece sottolineato la presenza, fin nel primo pitagorismo, di scienza e filosofia, o per lo meno di tematiche che, poi sviluppate, sono alla base delle ricerche scientifiche e filosofiche dei secoli V e IV. Cfr. per questo A. FRAJESE, La matematica nel mondo antico,

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smentita anche dalle critiche antipitagoriche della scuola di Elea e infine dai numerosi riferimenti e dalle critiche che Roma 1951, pp. 47, 50, 52. (Lo Jaeger, op. cit., p. 304, ha avuto parole molto dure contro la tendenza sopra ricordata: « La recente moda, di rappresentarlo [se. Pitagora] come una sona di medico stregone, non merita invero una seria confutazione»; del resto lo stesso DoDDS, op. cit., p.· 187, che pure sosteneva una stretta correlazione tra pitagorismo e orfismo, così concludeva: « più leggo sull'argomento, meno ne so»). Ricordiamo le posizioni di MADDALENA, MoNDOLFO, TIMPANARO CARDINI, a nostro avviso pienamente accettabili nelle loro linee generali: del resto, parlare della presenza di filosofia e scienza nei primi Pitagorici non significa, ovviamente, parlarne nello stesso senso in cui ne parliamo oggi, e nemmeno in quello in cui possiamo parlarne per le epoche successive alla prima metà del V secolo. Questa consapevolezza, però, non era mai mancata ai migliori studiosi sostenitori di un Pitagora esclusivamente religioso: cfr. DoDDs, op. cit., p. 184 n. 1: il tentativo di distinguere « fra i Pitagorici 'scientifici' e quelli 'religiosi' illustra la stessa tendenza ad imporre dicotomie moderne ad un mondo che non aveva ancora sentito la necessità di definire né la 'scienza' né la 'religione' "· Altri studiosi hanno combattuto, pur accettando la presenza nei Pitagorici della prima metà del secolo V di un interesse scientifico, contro la sopravvalutazione di questo: interessante - anche se a nostro avviso forse un po' esagerato nelle conclusioni - è a questo proposito l'anicolo di W.A. HEIDEL, The Pithagoreans and Greek Mathematics, in « American Journal of Philology "• 61 (1940) pp. 1-33, poi in D.J. FURLEY-R.E. ALLEN (ed.), Studies in Presocratic Philosophy, vol. I, London 1970, pp. 350-381. Altri studiosi ancora hanno parlato di due «correnti,. all'interno del pitagorismo, mettendole in relazione alla distinzione tra acusmatici e matematici (cfr. per es. RoHDE, op. cit., pp. 499-500), oppure hanno sottolineato l'evolversi della scuola da posizioni scientifiche a posizioni mistiche (cfr. per es. S. SAMBURSKY, Il mondo fisico dei Greci, tr. it., Milano 1967, pp. 59-60), o viceversa da posizioni mistiche a posizioni scientifiche. Cfr. p. es. RoHDE, op. cit., p. 495 n. 2, che così interpreta la posizione di Aristosseno. Esemplare per questa tesi, la posizione di F.M. CoRNFORD, Mysticism and Science in the Pythagorean Tradition, in « The Classica! Quanerly » 16 (1922), pp. 137-150 e 17 (1923), pp. 1-12, ora in The Presocratics, ed. by A.P.D. MouRELATOS, New York 1974, pp. 135-160. Il Cornford sostiene che il sistema mistico e quello scientifico furono elaborati tra VI e V secolo all'interno della scuola pitagorica: tra i due, la critica eleatica al pitagorismo. Abbiamo quindi: 1) Il sistema originario - mistico - di Pitagora, criticato da Parmenide; 2) il pluralismo - scientifico - del V secolo, costruito per arginare le critiche di Parmenide, pluralismo a sua volta criticato da Zenone; 3) il sistema di Filolao, che appaniene al lato mistico della tradizione pitagorica (in seguito il Cornford, in Plato and Parmenides, London 1939, ha parzialmente modificato, ma non rigettato, questa sua interpretazione). Tra le altre posizioni di studiosi che hanno

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Aristotele e la sua scuola (Teofrasto, Dicearco) facevano a tesi pitagoriche note a tutti. Se gli insegnamenti di Pitagora, dunque, erano noti e se coinvolgevano vari campi del sapere e concernevano inoltre un tentato di ricostruire la storia del pitagorismo nelle sue connessioni con l'eleatismo, sono da ricordare quelle di J.E. RAvEN, Pythagoreans and Eleatics, Cambridge 1948, rs. an., Amsterdam 1966 (che vede in Parmenide la critica alla cosmologia pitagorica e in Zenone il culmine di una « purely destructive phase ,., mentre in seguito, da un lato Melisso e dall'altro i Pitagorici (Filolao ed Eurito) costruirono indipendentemente i propri sistemi), e di A. SzAB6, Wie ist die Mathematik zu einer deduktiven Wissenschafi geworden? in « Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungariae,. 1956, pp. 109-152 (che vede il sorgere di un metodo matematico-scientifico durante il V secolo in connessione con la dialettica eleatica e quindi col metodo filosofico dagli Eleati inaugurato). Anche il MADDALENA, op. cit., Introduzione p. 12 sgg., fa una distinzione tra primi Pitagorici - discepoli di Pitagora o contemporanei di Alcmeone - e secondi Pitagorici - della scuola di Filolao o di Archita, della seconda metà del V secolo -, attribuendo ai primi l'elaborazione della dottrina dei contrari, ai secondi quella della teoria del numero. Ma il tentativo di ricostruire una storia del movimento pitagorico a nostro avviso più equilibrato e riuscito è quello offenoci dalla TIMPANARO CARDINI, op. cit., passim., e in panicolare voi. I, pp. 8-9, voi. II pp. 89-92, voi. ill pp. 23-25. Lo schema è: primi Pitagorici e prime ricerche sulla matematica e la musica, scopena del numero irrazionale - critiche di Parmenide e Zenone - Pitagorici del V secolo, sviluppo delle ricerche sui numeri, sviluppo della geometria, affinarsi della visione scientifica. La conclusione è che « la dottrina pitagorica fu frutto di elaborazione e discussione collettiva svoltasi in progresso di tempo,. (ill p. 24). Vogliamo ricordare infine il bell'anicolo di CH. H. KAHN, Pythagorean Philosophy be/ore Plato, in The Pre-socratics, ed. by A.P.D. Mourelatos, cit., pp. 161-185, tradotto in / Presocratici, a cura di W. Leszl, Bologna 1982, pp. 287-314, in cui non solo si afferma l'originalità della concezione eticoreligiosa di Pitagora (pp. 292-293), ma si rivendica anche - contro BuRKERT, Weisheit und Wissenschafi, cit., cap. II - all'insegnamento di Pitagora aspetti filosofici di tipo matematico e cosmologico: c'è non solo da ricordare i frr .. 40 e 129 di Eraclito, ma anche il fatto che quando Pitagora lasciò Samo era ormai un uomo fatto ed è più che verosimile che fosse a conoscenza della filosofia naturale di Mileto (pp. 295-317). E infine il Kahn giustamente rifiuta l'idea che « l'uso pressoché aprioristico della geometria e dell'aritmetica nella costruzione di modelli semplici (o non tanto semplici) per il mondo celeste fosse incompatibile ... con un progresso dell'astronomia scientifica: anzi, una delle acquisizioni caratterÌstiche del pensiero greco è proprio questa unione di scienza e filosofia nella creazione di schemi teorici arditi e basati su principi semplici e chiari,. (pp. 307-308).

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«modo» di vivere, allora la distinzione che la tradizione antica fa tra i seguaci di Pitagora in acusmatici e matematici non può assumere il senso di un'opposizione tra un corpo di dottrine esoterico ed uno essoterico, su cui pure ha insistito la storiografia. Invero a questo non autorizzano, a ben guardare, neppure le fonti antiche. In un noto passo di Porfirio 20 leggiamo: « Pitagora esponeva i suoi insegnamenti a chi lo frequentava o distesamente o per simboli. Ché il suo insegnamento era di due modi: e quelli che lo frequentavano si distinguevano in matematici ed acusmatici. Matematici erano quelli che conoscevano la parte più importante e più approfondita della sua dottrina, acusmatici quelli cui erano insegnate soltanto le regole sommarie senza accurate spiegazioni». Noi crediamo che, se anche questa distinzione si venne cristallizzando più tardi rispetto all'insegnamento di Pitagora (ma comunque abbastanza presto, già all'inizio del V secolo) 21 , essa comunque si basava proprio sul diverso tipo di insegnamento da lui tenuto. Solo che questa distinzione non presupponeva affatto una opposizione tra dottrine che potevano essere rivelate a tutti coloro che ascoltavano (appunto gli acusmatici) e dottrine che invece erano riservate a pochi ed eletti discepoli (matematici, coloro che sanno), sulle quali gravava l'obbligo di un segreto molto simile a quello dei misteri. Il passo di Porfirio ci dice chiaramente che si trattava di una diversità di livelli di insegnamento, adattato cioè alla cultura, alla condizione, alla preparazione dei discepoli, e riteniamo che sia giusta l'osservazione « che Pitagora non dicesse tutto a tutti, ma a ciascuno quello che poteva capire, e che il famoso segreto pitagorico questo valore avesse, di divieto di diffondere tra gli estranei, e nell'interno della scuola fra i non abbastanza preparati, le dottrine più difficili e più eterogenee rispetto al modo di pensare comune» 22 . 20 PoRPHYR. v.P. 36-37 - DK 18, 2. 21 Cfr. BuRKERT, Weisheit und Wissenschaft, cit., p. 187 sgg.; M.L. WEST, Early Greek Philosophy and the Orient, Oxford 1971, p. 230 sgg. Parlano invece dei matematici come di una corrente posteriore, indipendente dalla tradizione pitagorica, REINHARDT, FRANK, RATHMANN, opp. citt. 22 M. T1MPANARO CARDINI, op. cit., I, p. 6.

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Acquista così un senso più chiaro il « modo di far politica » dei primi Pitagorici. Se questi non costituivano una setta chiusa, né un panito politico vero e proprio, ma una « scuola » nel senso più ampio del termine, nella quale l'impegno politico era organico ad un modo di vita, a dottrine filosofiche e scientifiche, a principi generali di spiegazione del mondo naturale e del mondo umano, era chiaro allora come il « programma politico » vero e proprio dei Pitagorici non potesse coincidere semplicisticamente con quello di un ceto sociale. Se è vero che i principi generali della paideia pitagorica rispondevano a quelli di una cultura di tipo aristocratico, è vero anche che essi, per la loro complessità, per la loro anicolazione, per le stesse tensioni che racchiudevano in sé, non potevano essere tout-court quelli delle classi aristocratiche 23 • A questo proposito è illuminante un passo di Giamblico: « Affermavano che sempre si deve tenere il massimo conto del principio nelle scienze e nell'esperienza e nella generazione, e così anche nella famiglia e nella ,ittà e nei campi militari e in ogni altro complesso del genere: ma che è difficile trovarlo, e abbracciare con un solo sguardo, in queste cose, la natura del principio. Non è, dicevano, di un'intelligenza comune saper riconoscere e ben giudicare, in una scienza, guardando alle varie sue pani, quale di esse è il principio ... Lo stesso si ha da dire di quell'altro modo di principio che è il comando, perché né famiglie né città possono essere ben governate quando non ci sia un vero reggitore, e questo non comandi e governi volentieri; bisogna, dicevano, che il governo lo vogliano medesimamente entrambi, l'insegnante e il discepolo» 24 • Come si vede, un chiaro modello aristocratico di società e di governo basati su una cena

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di un'aristocrazia della cultura solo in pane possono coincidere con quelli di un'aristocrazia della nobiltà e del danaro»: TIMPANARO CARDINI, op. cit., I, p. 7. 2~ JAMBL. v.P. 182-183 - DK58DS; cfr. JAMBL. v.P. 174-176 - DK58D3. Cfr. anche Srns. Fior. IV 1, 49 - DK58D4: « l'anarchia è il peggiore dei mali, essendo l'uomo per sua natura incapace di salvarsi se non ha chi lo governa. Sui governanti e sui cittadini pensavano così: dicevano che i governanti non solo devono essere sapienti, ma anche amare i cittadini, e i cittadini non solo essere obbedienti, ma anche amare i governanti ».

I PITAGORJCI E IL POTERE

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gerarchia di valori costituiti (governante-governato, maestrodiscepolo) e non modificabili. Costituiti, ma in fondo anche, appunto, riconosciuti: è il quadro funzionale alla cultura « organicistica » di marca aristocratica 25 ; ma ceno non può essere un « programma politico» empiricamente dato. Tutto ciò spiega allora, da un lato, i contrasti che ben presto sorsero tra la scuola pitagorica e gli Stati costituiti nei quali essa operava, contrasto aggravato da tensioni esterne tra polis e polis 26 , dal malessere delle classi subalterne, dallo stesso dissenso che venne a crearsi all'interno della scuola; dall'altro lato ci fa meglio capire il senso dell'azione politica concreta dei circoli pitagorici, che non dovette mai essere di pieno e incondizionato appoggio alle altezzose classi aristocratiche, ma di temperamento, di smussamento degli attriti, di contemperanza degli interessi, di equilibrio tra le varie pani: in una parola, come diremmo oggi, una politica moderata di «centro» 27 •

25 Cfr.

G. CASERTANO, Il piacere, l'amore e la morte nelle dottrine dei Presocratici, voi.I, Il piacere e il desiderio, Napoli 1983, p. 17. 26 Riprendendo un accenno di I. LANA (Tracce di dottrine cosmopolitiche in Grecia prima del cinismo, in Studi sul pensiero politico classico, Napoli 1973, pp. 231-253), A. CAPIZZI, La repubblica cosmica, cit., p. 263, vede nel pitagorismo « il primo grande esempio di un sistema religioso fondato sul cosmopolitismo, di una scuola sganciata dalle tradizioni di culto delle singole città"· 27 Cfr. THOMSON, I primi filosofi, cit., p. 256 e 269-270.

LUCIANO CANFORA

Crizia prima dei Trenta

1. Figura dominante nella memoria inorridita che Atene ha serbato dell'esperienza dei Trenta, imposti da Lisandro trionfatore nel 404, Crizia è come il simbolo di una sorta di anima negativa della città che, con la fine dei Trenta, si volle espulsa per sempre. Uniche voci dissonanti in tale coro di generale condanna, quella di Platone, che di Crizia era nipote, e quella di Aristotele, che nella Costituzione degli Ateniesi riesce a parlare, a lungo, dei Trenta senza mai nominare Crizia, che, pure, di quel governo fu l'animatore. È notevole che un altro socratico, Senofonte, che di Crizia fu seguace in quello sciagurato governo, sia stato poi il narratore - tutt'altro che neutrale - di quella vicenda. Accanto alla sublimazione di Crizia come genio del male vi è dunque una linea socratica molto più sfumata nel giudizio: anche perché i nuovi reggitori democratici, che avevano combattuto Crizia, avevano, poco dopo, mandato a morte Socrate, accusandolo, tra l'altro, di avei:. allevato Crizia. Così Platone, nell'autobiografica lettera VII, finisce col porre sullo stesso piano il governo di Crizia e quello di Trasibulo. Né riesce a parlare del governo dei Trenta senza ricordare il grande discredito in cui era ormai caduta la tradizionale democrazia in Atene, quando essi si affermarono (324 C- 325 B).

2. Crizia discendeva da una delle più nobili e ricche famiglie dell'aristocrazia ateniese. Suo padre Callescro fu, secondo Lisia, nel 411 a.C. uno dei più influenti componenti del governo oligarchico dei Quattrocento (Contro Eratostene, 66); l'avo di Callescro, che si chiamava anche lui Crizia, era stato in stretto legame con Solone. A questa dinastia erano collegati

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anche Carmide, che fu tra i Trenta, e - come si è detto Platone, che coi Trema fece le sue prime esperienze politiche. Crizia era cugino del padre di Andocide, rampollo della famiglia che pretendeva di essere la più amica dell'Attica. Non ci sono ragioni per non credere alla testimonianza del discorso Contro Teocrine (confluito nella raccolta demostenica), secondo cui non solo suo padre ma anche Crizia - il quale nel 411 aveva quasi cinquant'anni - era coinvolto nel governo dei Quattrocento. L'anonimo oratore fornisce anche un dettaglio: che Crizia aveva il compito di «ricevere» l'improvviso sbarco spartano ad Eezioneia, sbarco che non ebbe più luogo perché il regime dei Quattrocento cadde, travolto dai rovinosi rovesci militari. Già in questa precisa testimonianza è racchiusa un'immagine radicale di Crizia: il tentativo di far sbarcare a sorpresa gli Spartani fu infatti il gesto estremo della fazione più oltranzista, sconfessata da altri esponenti dello stesso regime, come ad esempio Teramene, i quali, dissociandosi da quel gesto, poterono sopravvivere politicamente alla caduta dei Quattrocento. L'addebito a Crizia di essere stato, allora, esponente della fazione oltranzista può essere nella tradizione successiva l'effetto della demonizzazione negativa di cui Crizia fu oggetto dopo la fine dei Trenta. Tale tradizione lo conosceva comunque già attivo con i Quattrocento: il che è congruente con il ruolo di suo padre Callescro in quel governo. Non pochi esponenti del governo dei Trema, a cominciare da Teramene, erano già stati tra i Quattrocento: anche Crizia dovette partecipare ad entrambe le oligarchie. 3. Ma a rigore quello del 411 non era stato il suo esordio politico. Già nel 415 Crizia si era trovato tra gli accusati di aver mutilato le Erme, su denuncia di un cugino di Alcibiade. Lo stesso Alcibiade, com'è noto, fu coinvolto nello scandalo. Giovani o quasi giovani dell'alta società, frequentatori di Socrate, ma per nulla intenzionati a limitarsi a discettare sulla politica, sì piuttosto a farla, e animati dalla più grande ambizione, Crizia e Alcibiade esordiscono, in certo senso, insieme, accusati dello stesso sacrilegio. Le loro vite continueranno a lambirsi nei momenti cruciali: nel 411, quando alcuni promo-

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tori del colpo di stato sollecitavano un'intesa con Alcibiade, ritenuto un potenziale alleato, dal momento che dai democratici era stato costretto all'esilio; alla caduta dell'oligarchia, quando Crizia, postosi - è da presumere - al seguito di Teramene e perciò sopravvissuto alla sconfitta del regime, di intesa con Teramene (suffragante Theramene: Cornelio Nepote, Vita di Alcibiade, 5, 4) propose un decreto per il richiamo di Alcibiade, che rimase inoperante. Crizia non potè restare a lungo in Atene, dopo la piena restaurazione democratica. Fu probabilmente Cleofonte, l'ultimo capo della democrazia radicale del tempo di guerra, a farlo scacciare da Atene (cosl va inteso un cenno di Aristotele, Retorica 1375 b 32): comunque al tempo del processo contro gli strateghi vincitori alle Arginuse, Crizia era già esiliato in Tessaglia (Senofonte, Elleniche 2, 3, 36). A quel tempo anche Alcibiade si era allontanato una seconda e definitiva volta da Atene, indigesto pur sempre per la democrazia che, pure, nel 411 si era rifiutato di contribuire ad abbattere. Quando infine, nella primavera del 404, Crizia tornerà in Atene, sulla scia della vittoria spartana, sarà lui a chiedere insistentemente a Lisandro la liquidazione fisica di Alcibiade, vivo il quale - a suo dire - l'oligarchia sarebbe stata comunque in pericolo (Plut. Alcibiade, 38, 5). Pochi mesi più tardi Crizia stesso e Carmide morirono nello scontro a Munichia con gli uomini di Trasibulo, promotore, con l'aiuto tebano, di quella riscossa democratica che probabilmente Alcibiade non sarebbe più stato capace di provocare. Queste due vite partono da un medesimo ambiente, da uno stesso ceto, e potrebbero in un certo periodo apparire intercambiabili: eppure c'è qualcosa che le incanala verso scelte diverse. C'è qualcosa che porta Alcibiade a non ritornare in Atene né sull'onda del complotto oligarchico, né col decreto di Crizia e T eramene, e che alla fine ne farà agli occhi di Cri zia e di Lisandro il simbolo di una possibile riscossa democratica, lui isolato e da tempo messo da parte dagli stessi democratici. Questo qualcosa è la scelta di Alcibiade, della sua famiglia, sin dai tempi di Clistene e poi di Pericle, e di numerose altre famiglie nobili di Atene, di stringere un patto non scritto col demo di accettazione del regime democratico. Cosl gli approdi

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opposti, e alla fine contrapposti, dei due più rilevanti « puledri » della scuderia socratica, rappresentano con straordinaria chiarezza il dato centrale della storia politica di Atene: lo scontro nell'ambito stesso dell'aristocrazia e delle classi possidenti tra la democrazia ed i suoi avversari, in coerenza con l'atto di nascita della democrazia: l'operazione cioè con cui Clistene - come si esprime Erodoto (V, 66) - « fece entrare il demo nella sua eteria ». L'unicum della democrazia ateniese è rappresentato appunto da questa scelta che una parte non piccola dei ceti nobili e possidenti compie in direzione della democrazia politica e dal conseguente 'patto' col demo. Per un reciproco vantaggio, beninteso: dal momento che imperialismo democratico, politica estera aggressiva e di sfruttamento degli alleati, dinamismo economico legato alla valorizzazione dei meteci ben si accordano con gli interessi economici del « popolo sovrano » non meno che dei ceti possidenti che si adattano al sistema. Ciò spiega perché Crizia ed i suoi, giunti al potere e liberatisi di Teramene, abbiano per un verso infierito sui possidenti (primo fra tutti il ricchissimo Nicerato, figlio di Nicia: tanto che il cliché sopravvissuto nella tradizione attica rappresenta il governo dei Trenta essenzialmente come una proscrizione sistematica ed un massacro dei ricchi), e per l'altro abbiano consapevolmente provocato l'espulsione del demo o di una sua gran parte dalla città nell'illusione di spopolare l' Attica, e, ridotto il demo in uno status da perieci, instaurare un regime agricolo-pastorale di tipo laconico. E infatti Socrate, nel dialogo che ha con Crizia da poco giunto al potere, al principio dei Memorabili di Senofonte, lo definisce un pastore che ha deciso di decimare il suo gregge. E Flavio Filostrato (II sec. d.C.) nella Vita di Crizia così descrive il suo progetto: « collaborò con gli Spartani in un piano incredibile, in base al quale l'Attica, svuotata dal gregge umano, veniva adibita al pascolo per gli ovini» (Vita dei Sofisti, 1.16). Il bersaglio dei Trenta è dunque duplice: eliminare fisicamente quei « signori » che avevano consentito alla democrazia di funzionare, fornendole le proprie capacità di governo (e l'arte della parola); espellere dalla città il demo nell'illusione di mutare alle basi la struttura economica dell'Attica. In una parola, « laconizzare » l'Attica.

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È questo il disegno di Crizia, intorno al cui perseguimento si svolge non solo la sua non breve azione politica ma anche, e non meno, la sua riflessione politica quale emerge da un'ampia e rilevante opera letteraria. Essa è conservata in modo frammentario (la raccolta dei frammenti è nel DielsKranz, nr. 88). Di un gruppo di sue tragedie sappiamo che circolarono comprese nella raccolta euripidea: ·è probabile che un fenomeno del genere sia effetto della damnatio memoriae postumamente inflittagli, che deve comunque aver influito sulla circolazione e conservazione delle sue opere. 4. Innanzitutto vi sono le Costituzioni (IloÀL'tEL~L) in prosa: degli Spanani, degli Ateniesi, dei Tessali. Che scrivesse anche Politeiai in versi (IloÀmfaL &µµi.'tpOL) è notizia che ricaviamo da un cenno di Giovanni Filopono nel commento al trattato di Aristotele Sull'anima; e si può pensare che i circa trenta versi che Ateneo (432 D) cita come tratti dalle sue Elegie, e che riguardano i costumi simposiaci degli Spanani, derivino appunto da una Costituzione degli Spartani in distici elegiaci. Come mai Crizia abbia voluto trattare la stessa materia in elegie ed in prosa è difficile spiegare in modo soddisfacente. È molto probabile comunque che le Elegi,e di argomento politico fossero destinate alla recitazione simposiaca: un modello era T eognide. Quanto a quelle in prosa, esse consentono una considerazione più approfondita se, come è probabile, tra di esse va inclusa anche la Costituzione degli Ateniesi tramandata tra le opere di Senofonte. Prima però va chiarito in che senso deve intendersi il termine politeia, dovuto probabilmente allo stesso autore. Non si tratta dell'organica trattazione, equamente suddivisa in storia costituzionale e sistematica antiquaria, che ci è documentata dalla Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, e che dovette costituire lo schema delle moltissime altre politeiai elaborate dalla scuola di Aristotele. Per capire cosa intendesse Crizia quando prometteva di descrivere la Politeia di una città o di un popolo (egli scrisse appunto una Politeia dei Tessali), un termine di paragone ci è offeno dalla Costituzione degli Spartani di Senofonte: un profilo molto sintetico del « sistema » politico, del costume civile, considerato in alcuni suoi aspetti essen-

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ziali, degli ordinamenti militari in quanto specchio e rivelatore al tempo stesso della validità e dei difetti del sistema. Si può dire anzi che nei limiti ristretti in cui ci è nota, per frammenti, la Costituzione degli Spartani di Crizia appare talora puntualmente riecheggiata da quella omonima di Senofonte. Le parole, ad esempio, con cui Senofonte incomincia la vera e propria trattazione subito dopo il preambolo (« A proposito dunque della generazione dei figli, per incominciare dal principio, ecc.») sono all'incirca le stesse con cui incominciava Crizia (Fr. 32 Diels-Kranz: « Incomincio dalla generazione dei figli, etc.»). Entrambi seguitano poi elogiando Licurgo, che ha prescritto alle donne un vigoroso regime ginnico e alimentare « perché - come si esprime Crizia - anche la madre, non solo il padre, del nascituro fosse vigorosa ed addestrata nella ginnastica ». Analogie contenutistiche se ne riscontrano anche a proposito del «disarmo» degli Iloti (Crizia Fr. 32; Senofonte Costituzione degli Spartani, 12, 4). Analoga impostazione si osserva nella Costituzione degli Ateniesi. Essa è tramandata tra gli opuscoli di Senofonte per la semplice ragione che, evidentemente, editori postumi la trovarono tra le sue carte. È stata attribuita a Crizia da August Boeckh, con un argomento difficilmente eludibile. Boeckh notò che il lessicografo Polluce dice (errando) che Crizia adopera il verbo ÒLotÒLxa.~w nel senso di « faccio il giudice per un intero anno »: un errore che non può che essere nato dal fraintendimento di un passo della Costituzione degli Ateniesi (3, 6 ÒLotÒLxa.~uv &vix1 xTJ oL' lvLotu-.ou). Senofonte, che da Crizia trae ispirazione per la Costituzione degli Spartani, nel suo opuscolo sulle Risorse di Atene (Il6pm) sembra riecheggiare alcuni concetti della Costituzione degli Ateniesi soprattutto nella iniziale descrizione delle peculiarità geografiche dell'Attica. Anche nei Il6poL dunque, in quella che a buon diritto può ritenersi la sua Politeia di Atene (dove il lato descrittivo è strettamente legato a quello propositivo), Senofonte attinge alle Politeiai di Crizia). La Costituzione degli Ateniesi è un dialogo, la cui forma dialogica è stata obliterata nel corso della tradizione. Il carattere dialogico della discussione riaffora limpidamente ad esempio nel finale, quando viene avviata l'analisi della politica estera ateniese. Lì un primo interlocutore - cui è affidato il

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compito di suscitare ogni volta la discussione su di un nuovo tema - osserva: « Secondo me c'è ancora un altro campo nel quale gli Ateniesi si comportano male: quando ci sono città divise da lotte civili, loro si schierano sempre con gli elementi peggiori»; e l'altro - lo spregiudicato analista che domina il dialogo - replica: « Ma lo fanno a ragion veduta! Se si schierassero con i migliori, sceglierebbero di non appoggiare quelli che nutrono le loro stesse aspirazioni». Nulla di più naturale, del resto, che il socratico Crizia, il quale - come ricorda Senofonte - si era indirizzato verso Socrate in ragione delle proprie ambizioni politiche, scrivesse non solo elegie ma anche dialoghi sulle forme politiche dominanti (Atene, Spana). Lo conferma esplicitamente una notizia di Filostrato. Ritiratosi in Tessaglia durante il periodo di esilio - scrive Filostrato Crizia · « rendeva più gravi ai Tessali le oligarchie dialogando coi potenti del luogo e attaccando la democrazia in generale ed in particolare gli Ateniesi come coloro che più di ogni altro sono in errore (wc; 1tÀEfo'tot àv8pw1twv &µotp'tixvov'tac;) ». È un riferimento alla Costituzione degli Ateniesi che incomincia appunto con la denuncia degli « errori che agli occhi di tutti i Greci commettono gli Ateniesi (& Òoxouaw &µotp'tixvuv 'tote; ixÀÀOLc; "EU11atv) » e culmina nella proclamazione della immodificabilità in meglio di qualunque forma di democrazia (3, 8-9). Nell'opuscolo gli interlocutori paiono non essere né ad Atene - città di cui parlano come di un luogo lontano (« lì i poveri paiono contare più dei ricchi») - né a Sparta - dove infatti i dialoganti rievocano di essere stati tempo addietro (1, 11: « a Spana il mio schiavo ha avuto paura di te ») -: evidentemente si tratta di uno di quei dialoghi che Crizia ha avuto - come attesta Filostrato - in Tessaglia « coi potenti del luogo». Che Crizia in Tessaglia componesse Politeiai è confermato poi dal fatto che - oltre alle due Costituzioni di Sparta e di Atene ha composto appunto una Costituzione dei Tessali, nella quale, come si può ricavare dall'unico frammento superstite, mostrava conoscenza del loro stile di vita. D'altra parte il soggiorno in Tessaglia (circa 409-404) dev'essere servito a Crizia anche per fare esperienza diretta di un tipo di ordinamento che aveva alcuni punti di contatto con l'ordinamento della Laconia. Crizia s'immischiò anche, a quel

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che pare, nei conflitti tra i « penesti » ( un ceto per molti versi affine a quello degli Iloti Spartani) ed i Tessali loro dominatori. Lo ricorda T eramene con intonazione molto polemica nel discorso che gli fa pronunciare Senofonte, Elleniche 2, 3, 36. Qualunque sia stata, in quella lotta, la sua pane effettiva, l'esperienza in Tessaglia lo ha messo in contatto con una società di tipo laconico funzionante, in condizioni originali, specifiche, fuori dal contesto spanano. Ciò deve averlo ulteriormente spinto a perseguire - giunto al potere in Atene - il suo disegno di sradicare con la forza le basi della democrazia e di instaurare il novus ordo spanano. Anche se l'Atene di cui si parla, dominatrice del mare, può sembrare ancora indenne dalla sconfitta siciliana del 413 (ma le grandi e ripetute vittorie navali ateniesi del 411/410 poterono dare ai contemporanei l'impressione di un riconquistato dominio dei mari), nulla impedisce di pensare che Crizia scegliesse di ambientare il suo dialogo sul sistema politico ateniese in una situazione storico-politica non immediatamente attuale, ma recente e viva nel ricordo di tutti. È ben noto del resto che la sfasatura tra cronologia fittizia e cronologia reale è assai frequente nei dialoghi 'socratici' di Platone e di Senofonte -: nel Simposio senofonteo, ad esempio, la data esplicita è il 422/421, ma nel dialogo vengono piuttosto chiaramente presi di mira gli attacchi di Policrate contro Socrate, risalenti al 393/392. Che vicende abbia poi avuto questo opuscolo non è difficile da immaginare. Nei mesi del governo di Crizia circolò ceno alla luce del sole, ciò che prima non sarebbe stato possibile, se non in cerchie molto ristrette. Senofonte, da buon cavaliere nemico del popolo e amico dei Trema si sarà po nato con sè in esilio questo amaro libro sulla sua città, si sarà nutrito di questa lettura congeniale. Passati i decenni è difficile che la damnatio di Crizia e del suo scritto avesse ancora la bruciante attualità di un tempo. Si può pensare che abbia ripreso ad essere letto, e che si sia avuta una duplice forma di circolazione: come di Senofonte (nell'ambito della raccolta completa dei suoi scritti) e come di Crizia. La tradizione 'autonoma' non dovette avere una grande vitalità, ma ancora Polluce - il che non stupisce in una compilazione lessicografica - sembra rispecchiarle entrambe.

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5. La discussione che si svolge nella Costituzione degli Ateniesi è tripartita. Una prima pane, la più ampia, è anche esteriormente delimitata con una chiara ripresa anulare delle formule adoperate in principio: qui vengono affrontati i fondamenti della democrazia nella sua più generale accezione (il fatto cioè che le cariche non vengono affidate in base ad un vaglio delle competenze); quindi vengono affrontati alcuni aspetti salienti caratteristici della situazione ateniese: il nesso imperosviluppo marittimo, il carattere di rapina che ha ormai assunto il rapporto con gli alleati, l'ordinamento militare e i suoi punti deboli. La seconda pane riguarda la lentezza della macchina giudiziaria, ingranaggio vitale della democrazia ateniese: la conclusione è che non ci sono rimedi a questi difetti, migliorare la democrazia significa abbatterla. La terza pane riguarda la politica estera: anch'essa è regolata dal principio non contraddetto secondo cui la democrazia sceglie sempre la peggior causa, e confermato dai rari casi in cui la scelta di una buona causa ha portato Atene all'insuccesso. Il dialogo si svolge - come s'è accennato - tra un detrattore rigoroso, tradizionalista, della democrazia, ed un oligarca 'intelligente' il cui proposito è non già di portare acqua alla condanna dei valori democratici, per lui ovvia, bensi di far emergere, col ragionamento, l'intima coerenza dell'odioso sistema. Coerenza che ne fa un sistema perfetto nella sua negatività: e perciò appunto non riformabile, pena lo snaturamento. Rifulge l'abilità con cui ogni volta il secondo interlocutore sembra quasi compiacersi della perfezione, della logica perversa del sistema che sta in realtà condannando. Ma al di là della bravura 'socratica' nel mettersi dalla pane della tesi avversata proprio per farne emergere la fallacia, spiccano nel corso del dialogo alcune formulazioni esplicite che rendono chiare alcune importanti concezioni politiche dell'interlocutore principale, col quale - con ogni evidenza - l'autore stesso si identifica. « Io al popolo la democrazia gliela perdono - dice avviandosi alla conclusione della prima parte -; è comprensibile che ciascuno voglia giovare a se stesso. Chi invece, pur non essendo di origine popolare, ha scelto di operare in una città governata dal popolo piuttosto che in una oligarchia, costui è pronto ad ogni malazione, e sa bene che gli sarà più facile occultare la sua ribalderia in una città democratica anziché in una città oligarchica ». (2, 20)

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L'attacco al personale politico di ongme nobile o possidente, che, nondimeno, ha accettato la democrazia, non potrebbe essere più netto e minaccioso. Gli studiosi moderni si !iono spesso domandati a chi si riferiscano queste parole ed hanno pensato per lo più ad Alcibiade. Non ha senso riferirle ad una singola persona, esse hanno di mira l'intero ceto dei 'ben nati' che hanno messo le loro capacità e le loro competenze al servizio della democrazia, che hanno legato, indispensabili leaders, la propria sorte a quella della democrazia e saranno, infatti, il principale bersaglio di Crizia giunto al potere. Così come erano stati bersaglio della sua denuncia storicopolitica i vari Temistocle e Cleone arricchitisi sfacciatamente con la politica (Fr. 45). Circa mille e cinquecento tra i cittadini più ricchi furono messi a morte, secondo Aristotele, nei primi tempi del regime dei Trenta (Costituzione di Atene, 35, 4). Anche l'altro obiettivo di Crizia, quello di ridurre il popolo in una condizione di dipendenza equiparabile alla « servitù », secondo il modello laconico, trova rispondenza in una dichiarazione propositiva che l'autore formula a conclusione della premessa generale sui fondamenti della democrazia: « Se è il buon governo che tu cerchi, allora lo scenario è tutt'altro: vedrai i più capaci imporre le leggi, e la gente per bene la farà pagare alla canaglia, e sarà la gente per bene a prendere le decisioni politiche, e non consentirà che dei pazzi siedano in Consiglio o prendano la parola in assemblea. Così in poco tempo, con saggi provvedimenti del genere, finalmente il popolo cadrebbe in schiavitù ». (1,9).

Il fine che i dialoganti mostrano di perseguire è di « abbattere la democrazia in Atene » (3, 12). Come ottenere questo risultato? Nelle ultime battute del dialogo viene puntigliosamente confutata la prospettiva secondo cui tale abbattimento potrebbe essere opera degli atimoi, di coloro cioè che per varie ragioni (anche politiche, per esempio per aver svolto i propri compiti militari sotto i Quattrocento) hanno perso i diritti. Sembra un riferimento al decreto di Patrocleide, che, per favorire la riconciliazione dopo il disastro di Egospotami (estate 405), restituì appunto i diritti agli atimoi: un provvedimento che era nell'aria già da tempo, e che veniva caldeggiato dai

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moderati non senza cautele per timore di irrigidimenti democratici, come quando se ne fa solennemente propugnatore Aristofane nella parabasi delle Rane (gennaio 405), là dove chiede il perdono per coloro che collaborarono coi Quattrocento, e soggiunge: « dico che non ci devono essere atimoi in città» (vv. 686-692). Dalle ultime battute della Costituzione degli Ateniesi emerge una chiara insoddisfazione per un provvedimento del genere: gli atimoi sono pochi e per giunta non tutti condannati per motivi politici, non è da provvedimenti del genere che ci si può attendere « che la democrazia ateniese corra qualche pericolo » (3, 13). Lo scritto si chiude con queste parole; il senso è pienamente intellegibile se lo si mette in relazione con ciò che viene proclamato nella prima parte, là dove si parla dei punti deboli di Atene sul piano strategico e si dichiara nettamente che l'unica via di salvezza per liberarsi della democrazia può venire dall'intesa col nemico (2, 15). Quell'intesa che appunto Crizia ha tentato forse già nel 411, quando si accingeva - pare - ad accogliere le navi spartane al molo di Eezioneia; e che gli è alfine riuscito di saldare al momento della capitolazione nell'aprile 404. Quando gli Spartani entrarono in città, imposero il richiamo degli esuli e la modifica del regime in senso oligarchico: per volere di Lisandro Atene fu allora governata per qualche tempo da cinque « efori » - mai termine fu scelto con intento più eloquente -, uno dei quali era appunto Crizia. È così che cominciò il regime dei Trenta.

Bibliografia

Premessa. Lo strumento insuperato per lo studio dell'Athenaion Politeia è l'edizione, con ampia introduzione e commento storico-antiquario non meno che linguistico, curata da ERNsT KALINKA nel 1913 (Die pseudoxenophontische A THENAION POLITEIA) per la «Sammlung Wissenschaftlicher Kommentare,. di Teubner. Kalinka diede anche un apparato ricchissimo, non sempre limpido, nell'edizione apparsa l'anno successivo nella "Biblioteca Teubneriana •. L'altra edizione critica, senza commento, curata da Kalinka per l'editore Hoelder di Vienna (1898), si avvantaggia sulla successiva per la presenza di un « index verborum ,. ricco di indicazioni sintattiche. Di circa trent'anni successivo è il commento, fornito di un'ampia introduzione dedicata soprattutto ai problemi storico-antiquari, curato da HARTVIG FRISCH, The Constitution of the Athenians, Kobenhavn 1942. Ma rende sempre ottimi servigi il commento latino di Gustav Alben Sauppe, compreso nel volume degli Opuscola Politica di Senofonte, Lipsiae 1838. La più completa e informata trattazione dei vari aspetti di questo primo esemplare di prosa attica a noi giunto è la voce curata per la « Realencyclopadie ,. da Max Treu (voi. IX A, 1966, colonne 1928-1982).

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GnJSEPPE CAMBIANO

I filosofi e la costrizione a governare nella Repubblica platonica

1. Perché nella Repubblica platonica i filosofi sono costretti a governare? A più riprese Platone sottolinea la riluttanza dei filosofi a governare: chi è orientato verso le idee non ha tempo libero (oxoÀ~) per guardare in basso alle faccende umane, né c'è da stupirsi se chi è giunto a conoscere l'idea del bene non consentirà ad occuparsi di esse, ma sarà continuamente teso verso l'alto (500 b-d, 517 c; cfr. anche 517 d). Per superare questa riluttanza occorrerà un'&vtÀloci; 'tt xoct cxv8p6i; dell' elegia di Aristotele a Eudemo 38 • Le associazioni religiose potevano ricevere in dotazione e usufrutto territorio cittadino a scopo di culto, e questo avrebbe reso pacifico il passaggio della proprietà del fondo (comprato, a quanto ci dice Diogene Laerzio, da Platone, o da amici per lui) alla scuola in quanto proprietà collettiva del tiaso. Ma il testamento di Platone resoci dallo stesso Diogene Laerzio è assai oscuro: vi si parla di due diverse parti della proprietà di Platone, una avita, da lasciarsi al discendente in linea maschile, il nipote Adimanto, , 36

DIOGENE LAEZJO, Vitae Philosophorum, IV, 19; cfr. Test. 19, M. Gigante in Speusippo, cit, p. 15. 37 DIOGENE LAERZJO, Vitae Philosophorum, V, 8. 38 U.v. WILAMOWITZ, Antigonos von Karystos, cit., Excurs IL· Die rechtliche Stellung der Philosophenschulen, pp. 262-291. Questa tesi ha dominato la critica fino a un periodo assai recente {cfr. infra, nota 40); rimando allo Status quaestionis già segnalato supra, nota 1. Sull'elegia a Eudemo cfr. di recente, con ampia citazione di bibliografia e discussione critica, K. GAISER, Die Elegie des Aristoteles an Eudemos, « Museum Helveticum,. XXIII {1966), pp. 84-106: il Gaiser è propenso a individuare nell'elegia l'espressione di un culto dell'Amicizia piuttosto che di un culto del fondatore: cfr. peraltro su questo infra, nota 42.

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una comprata, della quale in realtà non è specificato il destinatario, non facendosene netta distinzione dall'altra. Su questo brano si è esercitata a lungo l'opera della critica, a partire dal primo oppositore delle tesi wilamowitziane, rimasto peraltro a lungo senza seguito, Th. Gomperz; da parte di alcuni (A. Hug, ad esempio) si è avanzata l'ipotesi che il silenzio di Platone verso l'Accademia nel suo testamento possa presupporre una donazione alla scuola già avvenuta durante la vita di Platone stesso 39 • Tuttavia l'opposizione radicale all'ipotesi dell'Accademia-tiaso delle Muse e della scuola come esercitante proprietà a titolo collettivo è venuta di recente, soprattutto da parte di I.P. Lynch; secondo il quale il torto fondamentale di questa ipotesi è di basarsi su di una concezione del diritto associativo greco che si adatta solo all'epoca tardo-romana e ha il suo riscontro nella codificazione giustinianea; studi più recenti dimostrano invece che alla società greca è ancora ignota una vera e propria idea della personalità giuridica, che sia propria dell'associazione in quanto tale 40 • Lynch contesta inoltre il carattere religioso DIOGENE LAERZIO, Vitae Philosophorum, III, 41. I tentativi di individuazione dell'Accademia nell'alquanto enigmatico testo sono stati numerosi e discordi. Si possono qui segnalare: TH. GoMPERZ, Beitrage zur Kritik und Erklarung griechiscer Schriftsteller, « Sitzungsberiche Akademie der Wissenschaften Wien ,., Philol. Hist. Kl. CXID (1901), Abbandlung 3, pp. 9-12; A. HuG, Zu den Testamenten der griechischen Philosophen, in Festscbrift fur die Bergrussung der XXXIX Versammlung der deutschen Philologen, Ziirich 1887, pp. 1-22, per l'ipotesi relativa alla donazione all'Accademia cfr. p. 14 sgg.; per altre ipotesi cfr. lo Status quaestionis in proposito di J. GLUCKER, Antiochus, cit., pp. 231-234. Lo stesso Glucker, p. 233, dà grande imponanza alla successione ereditaria del nipote Adimanto (lo Ao&!µcxx-coç ,ò 1tcxLo!ov del passo di Diogene Laerzio) in vinù dell'esclusione dall'eredità dei discendenti in linea femminile (Pswoo-DEMOSTENE, Orat. XLIII, 51), che avrebbe reso impossibile a Speusippo di divenire proprietario del fondo su cui era edificata la scuola. Ma in realtà della successione ereditaria di Adimanto si parla solo per il primo dei due fondi citati nel testamento di Platone e non per la pane 'comprata' che viene citata a pane. Notizie sulla compera del terreno dell'Accademia in D10GENE LAERZIO, Vitae philosophorum, III, 20 - Test. 5 Gigante in Speusippo, cit., p. 12 40 J.P. LYNCH, Aristotle's Schoo~ A Study of Greek educational Institution. Berkeley-Los Angeles, University Press, 1972, pp. 113 sgg., 123 sgg., ha rimesso radicalmente in discussione l'ipotesi wilamowitziana del carattere religioso dell'Accademia, e ha quindi riapeno le questioni giuridiche che l'identificazione dell'Accademia con un tiaso aveva tacitato. Nonostante che 39

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della scuola, sostenendone al contrario il carattere pubblico e 'laico'; e ritiene che i problemi giuridici relativi alla proprietà possano esser risolti vedendo l'insieme della scuola come un complesso formato da proprietà personale dello scolarca più un t~rritorio pubblico (originariamente una palestra) destinato anchè a usi di culto insieme che ad usi di istruzione, per la st~ettissima connessione che vi è nella società greca fra le due cose. rciò basterebbe a spiegare la presenza del tempietto delle Muse, non fatto costruire da Platone come dice Diogene Laerzio, raccogliendo una tradizione probabilmente tardiva; ma già pres_ente in loco da prima 41 , Soprattutto quest'ultimo punto sembra però offrire difficoltà insuperabili. Anche prescindendo dal fatto che le testimonianze relative al culto delle Muse (intrecciato, nell'Accademia come poi nel Peripato, a una certa forma di 'culto del fondail Lynch abbia a suo nresupposto studi recenti di storia del diritto greco nei quali è contenuta una revisione delle tesi tradizionali sul diritto associativo nella Grecia Classica, come W. JoNES, Law and Legai Theory among the Greeks, Oxford, Clarendon Press 1956, e M.I. F1NLEY, Studies in Land and Credit in ancient Athens. New Brunswich, Rutger 1951, non sembra che questi autori, sul tema delle scuole filosofiche, siano giunti alle sue stesse conclusioni radicali (cfr. rispettivamente Jones, op. cit., p. 152 sgg.: Finley, p. fit., p. 276). 41 La funzione di proprietario dello scolarca fu già a suo tempo accentuata da TH. GoMPERZ, Platonische Aufsatze Il, Die angebliche Schulbibliothek und die Testamente der Philosophen, « Sitzungsberichte der Akademie der ~i"ssenschaften in Wien », Philol. Hist. KI. CXLI (1899). Abhandlung 7: cfr. oggi su questa stessa linea H.B. GorrscHALK, Notes on the Wills o/ the Peripatetic Scholarchs, « Hermes" C (1972), pp. 314-342. Tuttavia il WJLAMOWITZ, Antigonos von Karystos, cit., p. 267, aveva già sottolineato la proprietà da parte dello scolarca dei beni mobili della. scuola. Un fondo privato nell'Accademia esisteva, per comune testimonianza, accanto a un presumibile. fondo originariamente pubblico; l'espressione di D10GENE LAERZIO, Vitae Philosophorum, IV 2 (lv • Mouad • m.,hwvoç lv •Ù 'Axcx8111.1dcx [8pu8lv.1) non è in contraddizione con la testimonianza dell'/ndex Academicorum, come il LYNCH, Aristotle's School, cit., p. 116, sembra supporre (« Philochoros says only that Speusippus set up the mouseion of the Academy »), giacché in realtà nell'/ndex - di cui è presumibilmente fonte, su questo punto, l'attidografo Filocoro - sembra di leggere, nonostante le difficoltà del testo lacunoso, semplicemente l'identificazione della scuola col Mouaeiov (cfr. Speusippo, cit., fr. 1, e p. 203), e non l'accenno a un tempio delle Muse nell'area della scuola.

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tore', il quale nel caso di Platone, appare eroizzato o 'demonizzato', se si pensa al mito della nascita apollinea fatto valere da Speusippo 42 ) sono troppo numerose e importanti perché si possano ricondurre a un semplice fatto di carattere socio-. culturale proprio della città, difficoltà di ordine giuridico ci impediscono di trovare questo insieme di ipotesi del tutto convincente. Né Lynch, né quelli, come Glucker (o Gottschalk, per gli scolarchi peripatetici) che hanno insistito sulla piena disponibilità del fondo da parte dello scolarca - del fondo immobiliare, e non solo della biblioteca o delle suppellettili, come già Wilamowitz stesso ammetteva 43 - riescono a spiegare come mai, in virtù di qual atto giuridico, a un dato momento non più gli eredi di Platone, ma lo scolarca, e uno scolarca meteco, possa trovarsi ad essere regolarmente subentrato nella proprietà del fondo. Per poter trasmettere proprietà immobiliare a un meteco, in Atene, non è certo sufficiente la disposizione testamentaria di un privato: occorre un atto di lyx'tTjaLc;, che implica la trasmissibilità agli eredi solo nel caso, abbastanza raro, che contenga espressamente la clausola xÒtt wtc; lyy6voLc;; né certo il successore nello scolarcato può considerarsi un lyyovoc;. Se desta difficoltà, quindi, l'ipotesi di una donazione fatta da Platone alla scuola in quanto associazione, non avendo questa una personalità giuridica che le permetta di essere oggetto e soggetto di simili atti legali, la trasmissione della proprietà a un meteco, e da questo a successori non apparentati, è ipotesi che appare ancora più altamente improbabile 44 • 42 Si dimostra scettico sul 'culto del fondatore' nell'Accademia GAISER, Die Elegie des Aristate/es, cit, p. 95; tuttavia sembra indubbio che Platone venisse dai discepoli considerato figlio di una monale e di Apollo stesso, quindi eroizzato e demonizzato (Speusippo, cit., cfr. 147-148 e pp. 384-387; cfr. BoYANCÉ, Culte des Muses, cit., p. 267 sgg; O. REVERDIN. La religion de la cité platonicienne, Paris, Boccard 1946, pp. 141 sgg., 149 sgg.). 43 Cfr. quanto già supra, nota 41; J. GwcKER, Antiochus, p. 233, parla in maniera lacunosa e scarsamente convincente, perché non giustificata sotto l'aspetto giuridico, del passaggio del fondo allo scolarca, e per suo tramite alla scuola, dopo l'estinzione della famiglia di Platone. 44 Cfr. in proposito M. CLERC, Les métèques athéniens. Étude sur la condition légale, la situation morale et économique des étrangers domiciliés à

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Altro ancora si potrebbe obiettare al Lynch, ed è che il carattere di 8Cixaoç della scuola non porta necessariamente al dover attribuire a questa carattere misterico o esoterico. La scuola antica si pone sempre a due o più livelli: un gruppo di membri interni o permanenti, che conducono una certa vita comune, poi un gruppo di discepoli, i vaixv(axoL di cui parlano i testamenti dei peripatetici riportatici da Diogene Laerzio; fra i discepoli, molti avventizi, cui si impartisce un insegnamento aperto e pubblico 45 • Il carattere di associati in tiaso compete certamente a quel gruppo di accademici che costituiscono il nucleo portante della scuola, tenuti ad una certa attività sacrificale e cultuale, oltre che allo studio filosofico; ma ciò non comporta altro che una certa prassi, non toglie alla scuola il suo carattere di associazione proiettata verso la città; lo stesso culto delle Muse ha carattere cittadino. E infine, che la scuola

« Bibliothèque de l'Ecole francaise d'Athènes et Rome ~ LXIV, 1893, pp. 206 sgg.; H. HoMMEL, Metoikoi, in Real-Encycl., XV, 2, 1932, coli. 1413-1458, in part. 1422; T. THALHEIM, EfKTHl:Il: in Real-Encycl, V, 2, 1905, coli. 2584-85; più di recente C. MossÉ, Métèques et étrangers à Athènes aux IV et /Il siècle avant notre ère, in Symposion, Akten der Gesellschaft fur griechische und hellenistische Rechtgeschichte, l, Koln 1975, pp. 205-213. 45 DIOGENE LAERZIO, Vitae Philosophorum, V, 52-53, con la citazione di 1tpEa~unpoL, vEav(axoL nel testamento di Teofrasto; anche in ATENEO, Deipnosophistae, XII, 547 d-f, in un passo relativo al Peripato di Licone, troviamo 1tpEa~1J'tEpoL contrapposto a tmxupouvnç. Si trova poi l'espressione o! xowwvouvnç per indicare i membri che costituivano il nucleo fisso della scuola (DIOGENE LAERZIO, V, 53). La presenza di un nucleo di filosofi viventi in particolare comunità di vita, nell'Accademia come nel Peripato, indica certamente una duplicità della scuola, non indica peraltro una duplicità di dottrina: tutt'al più può indicare due diversi gradi di comunicazione della medesima, a filosofi avanzati nella ricerca e a 'studenti' (per l'assenza di una dottrina interna di scuola che costituisca il nucleo dogmatico di questa, nell'Accademia di Platone e degli immediati successori, cfr. H. CHERNISS, Riddle, cit., p. 61 sgg., p. 81, il quale è portato a negare, in particolare per l'Accademia di Platone, un vero e proprio insegnamento ufficiale dello scolarca). Non si può insomma fondare sulla presenza di una certa 'gerarchia' nell'Accademia, o più tardi nel Peripato, alcuna ipotesi di esoterismo. Ma non contraddice affatto a questo il ravvisare nella prassi della scuola un procedimento cultuale-comunitario, che non implica in alcun modo aspetti mistico-dottrinari; il culto delle Muse non si fonda su alcuna prassi di tipo misterico.

Athénes,

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non avesse piena capacità giuridica come la ebbero invece collegi e corporazioni in età tardo-romana, non significa che non esistessero, in Atene come altrove in Grecia, come ci è documentato da ampio materiale epigrafico, associazioni cultuali beneficiarie di una certa proprietà fondiaria da parte dell'assemblea cittadina, proprietà da adibire ad uso di culto; di un témenos in altre parole, loro regolarmente concesso dalla città per la pratica sacrificale verso divinità specifiche •6 • Forse però l'ipotesi formulata dal Lynch può contribuire a porre in più chiara luce e a dare più preciso fondamento giuridico ai nostri dati circa la svolta che sussiste fra l'Accademia platonico-speusippea e quella senocratea. Fino alla morte di Speusippo, non abbiamo alcuna ragione specifica di ritenere che la proprietà del fondo su cui sorse l'Accademia fosse di altri che della famiglia di Platone. Abbiamo già visto come, nel suo testamento, Platone riservasse al giovane Adimanto, discendente in linea maschile, secondo la legge ateniese 47 , la proprietà avita della famiglia; ma come facesse anche un'eccezione (pur se il testamento, che potrebbe anche pensarsi reso in forma incompleta, non faccia qui menzione di destinatario} per la proprietà da lui comprata, con ogni probabilità riferendosi al fondo su cui era stata edificata la scuola. Una donazione a Speusippo, nipote, cittadino ateniese, non sembra comportare difficoltà altrettanto serie che quella di una donazione alla scuola, ipotesi che presupporrebbe uno stadio troppo avanzato del diritto associativo greco. È però certamente a Platone che si deve far risalire la strutturazione della scuola, se questa vi fu, nella forma di un'associazione cultuale. Questa forma associativa può aver costituito il presupposto di una futura nuova configurazione giuridica dello status della scuola stessa. ·

• 6 Per le donazioni di questo tipo da pane di città cfr. ancora F. PoLAND, Geschichte des gri.echischen Vereinswesens, Leipzig, Teubner 1909, con raccolta sistematica di materiale. Cfr. in proposito le ragionevoli osservazioni di WHITEHEAD, Xenocrates the metic, cit., p. 221. Anche il Whitehead, ibid., p. 231, ritiene che la costituzione in forma di thiasos possa essere avvenuta anche dopo la mone di Platone, o dopo quella dello stesso Speusippo. • 7 Cfr. quanto già supra, nota 30.

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Quando la famiglia di Platone si estinse (nulla più sappiamo del giovane Adimanto) non basta supporre che 'di fatto' il meteco Senocrate si sia trovato proprietario del fondo immobiliare. È invece a questo punto che può essere stato necessario da parte sua far valere, di fronte alla città, il carattere originario che conferiva alla scuola, in quanto associazione retta da un lmµe.À7J'tTJç ,wv Moucrwv (secondo l'espressione che Ateneo, o meglio la sua fonte, usa per il peripatetico Licone 48 ), un certo diritto alla proprietà immobiliare, allo scopo di garantire ad essa l'usufrutto esclusivo e perpetuo e la pacifica trasmissibilità ereditaria dell'intero fondo. Si potrebbe allora supporre che al pieno riconoscimento giuridico l'Accademia fosse giunta con lo scolarcato di Senocrate, il quale avrebbe ottenuto la legalizzazione di uno status ancora incerto; e che in questo perfezionamento della posizione giuridica dell'Accademia come associazione sia da vedersi il fondamento concreto di quel mutamento che noi avvertiamo, indicato in forma imprecisa, nelle nostre fonti: carattere assai più intensamente comunitario assunto dalla scuola, suo divenire abitazione permanente dello scolarca e dei suoi più fedeli compagni, suo allontanamento dalla vita cittadina e ripiegamento sul proprio interno 49 •

48 ATENEO, Deipnosophistae, XII, 547 e-f: espressione cui il LYNCH, A ristotle's School, cit., p. 113, si rifiuta di dare pregnanza specifica: tuttavia lmµ&À7J,7J~ è termine strettamente tecnico, che Antigono di Caristo, fonte di Ateneo, difficilmente poteva usare a caso. 49 Non mi convince I.P. LYNCH, Aristotle's School, cit., p. 117, secondo cui nel decreto di Sofocle sarebbe da vedersi l'atto che intende sottoporre a disciplina giuridica una materia non precedentemente disciplinata: credo che questo porti a perdere il significato giuridico dell'accusa di -ypoupTJ itcxpcxv6µwv intentata da Filone contro Sofocle (cfr., già U. WILAMOWITZ, Antigonos von Karystos, cit., pp. 271-272) oltre che a ridurre la portata politica dell'azione di Sofocle e dei democratici. Un'accusa di ypcxq>T) itcxpcxv6µwv (e quella di Filone fu riconosciuta fondata, e fu a buon diritto vinta) è l'accusa di contravvenire a una legge, e non può sussistere se non nel caso che la materia sia già regolata da leggi espresse. È ben difficile pensare che Filone si sia appellato solamente a una generica libertà di associazione vigente in Atene, e non a disposizioni precise che già avevano regolato la vita di associazioni specifiche, nelle quali rientravano appunto le scuole filosofiche. Per una più recente disamina generale del problema della scuola di Platone,

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La scelta della 'vita contemplativa' da parte di Senocrate diventerebbe allora per noi un fatto più chiaramente motivato e fondato: potremmo pensare di averne individuate non solo le ragioni politiche di fondo - l'opposizione a un potere monarchico non riconosciuto nella sua nuova forma, considerata oppressiva della libertà ellenica - ma anche i condizionamenti concreti, i supporti giuridici: quella sorta di legalizzazione di fronte alla città che può aver reso possibile il costituirsi della scuola come comunità in sé conclusa, relativamente indipendente da essa, tale da garantire ai suoi adepti una vita di ricerca filosofica comune protetta dalle turbinose vicende della vita cittadina.

posso oggi rimandare a M. ISNARDI PARENTE, L'Accademia antica: interpretazioni recenti e problemi di metodo, « Riv. Filo!. Istr. Class. » CXIV, 1986, pp. 350-378, per lo status giuridico in pan. pp. 351-357.