Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea 8806159771, 9788806159771

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Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea
 8806159771, 9788806159771

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FURIO JESI

MATERIALI MITOLOGICI

Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea

Piccola Biblioteca Einaudi

C.L. 1177-5 La cultura mitteleuropea è produzione di materiali mitologici - in­ nanzitutto Pimmagine stessa di «Mitteleuropa» - , ma anche di ri­ flessioni critiche sul mito. Vi si congiungono, come raramente al­ trove, profezia e ironia. Germanista, e protagonista delle più recen­ ti vicende e incertezze della scienza del mito, Fautore di Letteratura e mito (Einaudi, 1968; 3* ed. 1977) giunge qui a una seconda tap­ pa del suo itinerario, confrontando i risultati ultimi della sua meto­ dologia con le immagini del passato su cui si è formato: miraggi eti­ ci ed esistenziali di umanesimo rinnovato, miraggi epistemologici di scienze umane alla ricerca dei propri connotati. Da questo mon­ do di ieri, in cui divengono esemplari «i movimenti di chi danza, per chi improvvisamente perde l’udito e non ode più la musica», affiorano alcuni personaggi: Thomas Mann, il buon soldato Svejk, Elias Canetti, ma specialmente Karoly Kerényi, l'ungherese euro­ peo e grande scrittore tedesco, che qui si può cogliere a colloquio con l’autore in lettere inedite. Furio Jesi, nato a Torino nel 19 41, è professore di lingua e letteratura tedesca nell’università di Palermo. Dedicatosi dapprima all’egittologia, si è poi occu­ pato di metodologia della scienza del mito e di germanistica. Tra i suoi libri: Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ’900 (Silva, 1967); Letteratura e mito (Einaudi, 1968); Mitologie intorno alVilluminismo (Edizioni di Comu­ nità, 1972); Kierkegaard (Edizioni Esperienze, 1972); Il mito (Isedi, 1973); Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su R. M. Rilke (D’Anna, 1976); Il linguaggio delle pietre (Rizzoli, 1978); Cultura di destra (Garzanti, 1979).

Copyright © 1979 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

FURIO JESI

MATERIALI MITOLOGICI Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea

Piccola Biblioteca Einaudi

Indice

p. 3

Kàroly Kerényi i. I « pensieri segreti » del mitologo

54

Kàroly Kerényi il. L'esperienza dell’isola

67

Kàroly Kerényi n i. Il «m ito dell’uomo»

81

La festa e la macchina mitologica

121

Inattualità di Dioniso

14 1

Notte mitica e notte di un mito. Considerazioni sul Rbesos pseudo-euripideo

158

Wittgenstein nei giardini di Kensington: le Bemerkungen iiber Frazers « T h e Golden Bougb»

174

Gastronomia mitologica. Come adoperare in cucina Tanimale di un Bestiario

183

Thomas Mann pedagogo e astrologo

224

Venusberg - Hexenberg - Zauberberg

253

Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli

272.

Svejk e altri: le statue come destino

309

Composizione e antropologia in Elias Canetti

335

Indice dei nomi

M A T ER IA LI M ITO LO GICI

Karoly Kerényi i. I «pensieri segreti» del mitologo

i. «Nella stagione in cui, ad Ascona, Pondata rumo­ rosa dei turisti va ormai decrescendo, si può vedere spes­ so un vecchio signore che percorre a lunghi passi il Quai della Piazza, le mani intrecciate dietro la schiena, immer­ so nei suoi pensieri. Il vento fa svolazzare leggermente i suoi capelli lunghi, pettinati alTindietro, riparati d’inver­ no da un grande feltro. “ È un uomo che pensa molto” , mi disse un giorno un vecchio ticinese» \ Questo ritratto di Karoly Kerényi è troppo levigato nella sua concisio­ ne di apologo. Il volto, quale lo ricordiamo, impresso da un ironico «Non mi vorrai dire...» che preludeva al più spazientito «So già che mi dirai...», scivola dietro Ticona del saggio. Icona specialmente falsa, poiché calata su una fisionomia animosa, accesa e magari collerica, più dispo­ sta a «venerare con entusiasmo»2 che ad essere venerata; e tuttavia icona tanto verosimile quanto la società bor­ ghese tende a imporre sui protagonisti volenti o nolenti della sua cultura un’effigie emblematica di simboli effi­ cienti. Specialmente esposta a questa manipolazione è la fisionomia di un mitologo, quale era appunto Kerényi. Se, come Kerényi stesso insegnava3, il mito si presta in 1 d.

h a s e n f r a t z , in « Tages-Anzeiger», Zürich, 22 agosto 1964. Kerényi: « I l mio rapporto con Hesse non fu acriti­ co, e tuttavia corrispondeva ampiamente al mio bisogno innato di vene­ rare con entusiasmo» (Introduzione a h . h e s s e e k . k e r é n y i , Briefwech­ sel aus der Nähey Herausgegeben und kommentiert von M . Kerényi, Lan­ gen Müller, München-Wien 1972, p. 23). 3 Ricordiamo, in particolare, k . k e r é n y i , Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Atti del colloquio internaz. su «Tecnica e casistica» («A r­ chivio di Filosofìa»), Ist. di studi filosofici, Roma 1964, pp. 1.53-68.

2 Sono parole di

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M ATERIALI MITOLOGICI

modo particolare ad essere manipolato e tecnicizzato, è del pari tecnicizzabile la figura del mitologo: non sarà ar­ duo calarla nelle false sembianze del saggio assorto nel mito. Dal 4 novembre 1954 Kerényi visse ad Ascona, in una piccola villa chiamata Casa del Sole, sul fianco del Monte Verità - nomi che parrebbero pronti a intrecciarsi in una rete di corrispondenze simboliche, tanto più per chi ave­ va scritto: «[Iperione] ha cercato la verità. Ma vero è per Hölderlin il Sole. Come spirito e aria, cosi verità e luce solare sono essenzialmente uguali»4. Di fatto, tuttavia, agli occhi di Kerényi la Casa del Sole si collocava in quel­ la potenziale trama simbolica non come punto d’interse­ zione rituale e kitsch di presunte coordinate metafisiche divenute palesi, bensì come la prima casa che dopo dieci anni di esilio egli affittava non ammobiliata: la prima che, dopo la partenza dalPUngheria, egli e sua moglie po­ terono arredare con oggetti propri5. La sua estraneità a una visione della vita «afferrata dal mito» (un’espressio­ ne che Kerényi particolarmente detestava6) si ritrova, del resto, nella lettera con cui annunciò a Thomas Mann il 15 marzo 1945 la nascita del suo ultimo figlio: «... il pri­ mo maschietto che ora ha sette settimane, si chiama Dio­ nigi Carlo Antonino, e tutti credono che io gli abbia dato pomposi nomi antichi perché la sua vita - vita di figlio di un mitologo - ne subisca Pinflusso fin da principio. Ma

4 5 6

k. k e r é n y i, Töchter der Sonne, Rascher, Zürich 1944; trad. it. s. n. [ma di F. Barberi], Figlie del Sole, Einaudi, Torino 1949, P- 19. Cfr. la lettera della moglie di Kerényi, Magda, a H . Hesse, 8 dicem­ bre 19.54, in h e s s e e k e r é n y i, Briefwechsel cit., pp. 170-72. «Caratteristicamente tedesca e per me non accettabile era una frase come questa: “ esso [il mito] è dinamico, ha un potere, afferra la vita e la plasma” ... benché il grande scienziato e venerato amico [W. F. Otto] che fece stampare queste parole fin nel 19.56, intendesse il "mito vero e pro­ prio” , autentico, non quello falso» (dalle Considerazioni preliminari di K. Kerényi a k. k e r é n y i e t . m a n n , Gespräch in Briefen, Zweiter Teil ( 1945-19*5)> Rhein-Verlag, Zürich i960; trad. it. di E . Pocar, Felicità difficile. Un carteggio, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 33. D ’ora innanzi citeremo questo carteggio con la sigla F D ; i numeri di pagina si riferi­ ranno alla trad. it.). A proposito dei rapporti fra K. Kerényi e W . F. Otto vedi i saggi di k e r é n y i: W. F. Otto zum 80. Geburtstagy in «Paideuma», 1954; Künder der Gestalt, in «M erkur», 19.58; W. F. Otto, Erinnerung und Rechnenschaft, in «Paideuma», 19.59; W. F. Otto, in «Jahresring», 19^9-60.

KÀROLY KERÉNYI I

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egli non si chiama Dioniso, bensì Dionigi, dal nome del mio più fedele amico in Ungheria, Dionigi Kövendi, il quale più a lungo di tutti usò scambiare lettere con noi e ora è tra coloro che sono ammutoliti. E l’Antonino non mi fu suggerito da Antonino Pio o da Marco Aurelio Antonino, benché questi godano la mia profonda stima, bensì dal santo patrono di un villaggetto qui nel Canton Ticino, cioè Sant’Antonino, tra Cadenazzo e Giubiasco, donde passo di frequente. Al portatore di questi nomi so­ no pretracciate tanto le forme spirituali più semplici quanto quelle complicate di suo padre...»7. Non, dun­ que, pensieri segreti, misteri («Ognuno ha i propri miste­ ri: i propri pensieri segreti - diceva Hölderlin. - I mi­ steri del singolo individuo sono miti e riti esattamente come erano quelli dei popoli»8), ma palesi rapporti uma­ ni e occasioni della vita quotidiana: nomi soltanto, non simboli, donde Kerényi «passava di frequente». Nella casa di Kerényi c’era, del resto, una traccia concreta di misteri: sulla sua scrivania un frammento di coppa antica con la lettera greca theta, l’iniziale di theos, dio, che nel santuario di Samotracia contrassegnava le suppellettili sa­ cre9. Era, sul tavolino del mitologo, non tanto un fetic­ cio quanto un promemoria: «c’è ancora molto che separa la bocca dall’orlo del calice. [...] Noi abbiamo perduto l’accesso immediato alle grandi realtà del mondo spiritua­ le - ed a queste appartiene tutto ciò che vi è di autenti­ camente mitologico»10. 7 K . Kerényi a T. Mann, 15 marzo 194.5, in FD, pp. 46-47*

8 k . k e r é n y i, Prefazione alla 2a ed. it. di La religione antica nelle sue linee fondamentali, trad. it. di D. Cantimori e A . Brelich, Astrolabio, Roma 19.51, p. 1 1 . La prima versione di questo libro usci per la prima volta in italiano: Zanichelli, Bologna 1940; il testo tedesco, Die antike Religion, fu pubblicato, ampliato, ad Amsterdam (Pantheon Akademische Verlagsanstalt) nel 1940, e, in forma definitiva, con altri saggi, costituisce ora il voi. V I I della Werkausgabe di Kerényi, Langen Müller, MünchenWien 1971* 9 II coccio antico era stato regalato da un mendicante a Samotracia: un dono che non era (e forse ancora non è) troppo raro ricevere nell’iso­ la, tanti sono i materiali affioranti nelle zone di essa non scavate, o addi­ rittura ai margini del santuario. Quanto all’interesse di Kerényi per il culto misterico di Samotracia, cfr. Mysterien der Kabiren, in «EranosJahrbuch», 1944 (1945), pp. 11-60 [ - Miti e misteri, trad. it. di A . Bre­ lich, Einaudi, Torino 1950, pp. 135-76; 2a ed., Boringhieri, Torino 1979]. 10 k . k e r é n y i , Introduzione a c. G. ju n g e k . k e r é n y i , Einführung in

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M ATERIALI MITOLOGICI

2. C'era in Kerényi, è vero, una tendenza a privilegia­ re luoghi, a sentirli degni di speciale simpatia. Ma questa simpatia non aveva a che fare con la convinzione che nei luoghi il mito durasse intatto dopo aver abbandonato gli uomini o dopo esserne stato abbandonato. Il concetto stesso di un mito (o del mito) che vive autonomamente dall’uomo gli appariva scientificamente errato e gli ripu­ gnava. Esitò spesso a parlare di «mito», e preferiva par­ lare di «mitologia» per mantenersi distante dai cultori e dagli apologeti del mito che sarebbe extraumano ed affer­ rerebbe l’uomo1, «...una delle mie tesi - posta ad epi­ grafe del Briccone divino 2 - dice: *11 mito è mito del­ l ’uomo” , e questo genitivo va inteso come genitivus subiectivus e obiectivus. Ho seguito con grande partecipa­ zione il Suo lavoro intorno al problema del mito genui­ n o3, poiché, sebbene Lei abbia scelto come esempio * mi­ ti tedeschi” [...], si è trattato del Suo proprio problema. Collegare in questo modo il proprio problema con il pro­ blema generale non è illegittimo e trova fondamento nel­ l’oggetto stesso: proprio perché il mito è sempre mito dell’uomo. [...] Solo, non dobbiamo ipostatizzare, come se ammettessimo che "mito” o " Germania” fossero so­ stanze concrete»4. das 'Wesen der Mythologie, Pantheon Akademische Verlagsanstalt, Am­ sterdam 19 4 1; trad. it. di A . Brelich, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Einaudi, Torino 1948 [Edizioni scientifiche Boringhieri, Torino 19 723], pp. 13-14 . 1 «C h i legge gli articoli coi quali a partire dal principio degli anni trenta cercai di imporre la mia opinione, vedrà con quanta parsimonia io abbia usato la parola “ mito” : parsimonia che, per avversione a un preci­ so concetto moderno, arrivò agli estremi nel mio libro sulla religione an­ tica» (dalle Considerazioni preliminari di K. k e r é n y i a FD , p. 32). 2 p. r a d in , c . G. ju n g e k . k e r é n y i , Der göttliche Schelm, Rhein-Ver­ lag, Zürich 19:54; trad. it. di N. Dalmasso e S. Daniele, I l briccone di­ vino, Bompiani, Milano 1965, p. cfr. p. 24. 3 f . J e s i , Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del *900, Silva, Milano 1967. 4 K. Kerényi a F. Jesi, 7 novembre 1967. L ’originale di questa e delle altre lettere indirizzatemi da Kerényi è in lingua tedesca. Questa lettera rispondeva aH’invio del mio libro Germania segreta; insieme con essa, Kerényi mi spedi il suo studio Menschsein als Mysterium in griechischer Deutung (in a a . w ., Weltgespräch 2.: Weltliche Vergegenwärtigungen Gottes. Zum Problem der Entmythologisierung, Editiones Herder, Frei-

KAROLY KERÉNYI I

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Il mito dell’uomo, anziché il mito che afferrerebbe l’uomo, è altrettanto palese nel patriottismo di Kerényi: in quello vero e proprio, nei confronti dell’Ungheria5, e in quello per cosi dire «dell’anima», secondo le parole dell’Ifigenia goethiana, rivolto alle terre della classicità. La lettera da cui ora abbiamo tratto il brano sul «mito dell’uomo» inizia con le parole: «... prima della mia par­ tenza per la Grecia». Kerényi amava ritornare in Grecia e in Italia. La prefazione alla prima edizione de La reli­ gione antica fu scritta a Olimpia nell’estate del 1938, e quella alla seconda edizione è datata «Roma, maggio 1950». Il saggio sul Fanciullo divino6 «fu elaborato al­ l ’Elba e messo per scritto a San Gimignano, in un piccolo albergo rustico - divenuto oggi casa di contadini, fuori città»7 (la Toscana era un haut-lieu: «il primo poeta ita­ liano che lessi - sul quale studiai l’italiano - fu Leopardi, il secondo Dante. Venne poi un ardente interesse per il Poliziano e per la poesia del Rinascimento»8). «Dovetti aprire la busta con l’aculeo di un’agave viva», scriveva Kerényi a Thomas Mann da Curzola9, e più tardi egli avrebbe datato da Andros, settembre 1959, l’introduzio­ ne alla parte ultima del carteggio con Mann. Il senso di questa simpatia verso i luoghi della religione antica (comburg i. B. 1967, pp. 9-17) con la dedica in italiano: « A F . J . in ricambio l ’Umanità Segreta». 5 Cfr. più oltre pp. 22-23. Kerényi era nato a Temesvàr (poi Timi§oara, dopo il passaggio alla Romania) il 19 gennaio 1897 da una famiglia di origine tedesca, sveva. Solo nel 1897, poco prima della nascita di Kàroly, suo padre magiarizzò in Kerényi il cognome originario tedesco Kìntzig (cfr. h e s s e e k e r é n y i , Briefwechsel cit., p. 14 3, nota 84). Incontran­ do per la prima volta lo «svevo» Hesse, Kerényi fu impressionato dal ri­ trovare in lui i lineamenti di suo padre e di suo nonno (i b i d pp. 12 , ). 6 Das Urkind in der Urzeit, scritto in ungherese neirestate del 1939, tradotto in tedesco neirinverno dello stesso anno e pubblicato con un commento di C. G . Jung nel fascicolo v i - v i i della serie « Albae Vigiliae», Pantheon Akademische Verlagsanstalt, Amsterdam-Leipzig 1940; trad. it. in ju n g e k e r é n y i , Prolegomeni cit., pp. 45-106. 7 K. Kerényi a F. Jesi, j ottobre 1964. 8 Ibid. 9 K. Kerényi a T . Mann, 13 agosto 1934, in k . k e r é n y i e T. m a n n , Romandicktung und Mythologie - ein Briefwechsel, Rhein-Verlag, Zùrich 194.5; trad. it. di E . Pocar, Romanzo e Mitologia. Un carteggio. Il Sag­ giatore, Milano i960, p. 44. D ’ora innanzi questo carteggio sarà citato con la sigla R M ; i numeri di pagina si riferiranno alla trad. it.

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presa quella del Poliziano: «Nel quadro del Botticelli [la cosiddetta Nascita di Venere] vi è almeno altrettanta mi­ tologia viva, quanta ve n’è nell’Inno omerico [ad Afro­ dite]» 10) non va colto nella convinzione o nella speranza, che Kerényi non ebbe, di ritrovare il mito sopravvissuto agli uomini nella sua patria classica, ma nel gusto di col­ locarsi entro le file dei tardi e sensibili viaggiatori, eru­ diti, archeologi, entro la dimensione dell’« intelligente dotto isolano greco», «che non era stato immaginato mai come un greco antico», ma come controfigura del gre­ co incontrato nel 18 18 dal conte de Marcellus: «un greco eccezionalmente colto di nome Yacobaki Rizo Nerulos, che parlava il francese non meno bene del greco e fece conoscere al conte il grande poema epico dionisiaco di Nonnos » n. « C’è ancora molto che separa la bocca dal­ l ’orlo del calice»: quando Kerényi scriveva a Thomas Mann, dopo aver seguito la sua Traversata con Don Chi­ sciotte [Meerfahrt mit Don Quijote]12, «Ricordo inoltre una traversata a Coo e Rodi che mi fu sempre richiamata alla mente anche dall’atmosfera del Suo Giuseppe»13, non presumeva di aver recuperato sul mare greco esperienze omeriche (e l’accenno al pastiche archeologico-mitologico 10 k . k e r é n y i , Das göttliche Mädchen, in «Albae Vigiliae», vin -ix, Pantheon Akademische Verlagsanstalt, Amsterdam-Leipzig 19 4 1 (poi in ju n g e k e r é n y i , Einführung cit.); trad. it. in ju n g e k e r é n y i , Prolego­ meni cit., p. 1.53. L ’esordio di questo saggio sulla «fanciulla divina», con le considerazioni sulla «mitologia viva» del Quattrocento fiorentino, trae spunto dalle pagine di A . Warburg sulla Nascita di Venere e la Primavera di Botticelli in Die Erneuerung der heidnischen Antikey Teubner, Leipzig-Berlin 19 32; trad. it. di E . Cantimori, La rinascita del paganesi­ mo antico, La Nuova Italia, Firenze 1966, pp. 1-58. 11 Citiamo dalla prefazione di Kerényi a Die Mythologie der Grie­ chen,, I: Götter, Rhein-Verlag, Zürich 19.51 [3® ed., dtv, München 1966]; trad. it. di V . Tedeschi, G li dei e gli eroi della Grecia, I: G li dei, Il Saggiatore, Milano 19 63, pp. 18, 23. Nel libro la mitologia greca è ap­ punto narrata come se l ’autore fosse un «intelligente dotto isolano gre­ co», il quale dice «la nostra terra», «la nostra lingua», ecc. 12 T. m a n n , Meerfahrt mit «D on Quijote», in «Neue Zürcher Zeit­ ung», dal 5 al 15 novembre 1934, ora in A del des Geistes («Stockholmer Gesamtausgabe der Werke von Th. Mann»), S. Fischer, Frankfurt a. M., pp. 520-70; trad. it. nel vol. X di Tutte le opere di Th. Mann, a cura di L . Mazzucchetti, Mondadori, Milano 19 55. È il saggio che T . Mann scrisse dopo aver attraversato l ’Atlantico in piroscafo, portandosi come lettura da viaggio il Don Chisciotte. Nel saggio è menzionato anche Ke­ rényi. 13 K. Kerényi a T . Mann, 4 giugno 193.5, in R M , p. 49.

KÄROLY KERÉNYI I

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del romanzo manniano è appunto significativo). Amava piuttosto riconoscere nella natura e nell’archeologia me­ diterranee un cerchio che sollecitava a riflettere sul mi­ to dell’uomo in quanto suscitava non brama nostalgica, Sehnsucht, ma das Interesse, nella ricchezza scientifica e psicologica del termine, verso le accezioni antiche del­ l’uomo, faber di mitologia: «Per le mie giornate nell’iso­ la di Andros avevo preso con me una copia delle lette­ re. [...] Quando perdemmo Thomas Mann trovai anzitut­ to rifugio e salvezza nel copiare le lettere, nello studio di esse, nell’evocare i dieci anni trascorsi dalla pubblicazio­ ne della prima metà del dialogo - anni pieni di delusioni, ma anche ricchi di gioie, ricchi anche per la possibilità di continuare ancora il colloquio. Il quale per me fu un’iso­ la. Ora potevo almeno recarmi in un’isola, una vera isola remota, la quale per me celava, è vero, anche certi segreti che cercavo apposta e mi furono rivelati oltre ogni aspet­ tativa, per trovare un punto di partenza verso una medi­ tazione evocatrice di quel rapporto che le lettere docu­ mentano. [...] Benché nell’isola non andassi in cerca di questo dio, non potei non ricordare una celebre scoperta che vi era stata fatta fin nel secolo scorso: l’Ermes di An­ dros14. Il nitore dolce, quasi tendente all’oscuro, della statua corrispondeva, nel mio ricordo, a quella partico­ lare radiazione o aura (se ne può parlare solo con espres­ sioni concrete e metaforiche) che mi aveva incantato alla prima decisiva lettura di un romanzo manniano»15. 14 È forse il caso di ricordare che l’Ermes di Andros, presunta copia di un originale prassitelico, parrebbe essere un Ermes Psychopompos. A l­ cuni archeologi hanno supposto che la statua scoperta ad Andros sia sta­ ta copiata da un gruppo rappresentante Vanodos di Kore, cioè il ritorno periodico della dea dagli Inferi. Certo, il serpente arrotolato intorno a un tronco presso la gamba destra dell’Ermes (verosimilmente un’aggiunta del copista) pare un simbolo infero e deve aver specialmente interessato Kerényi. Questi infatti studiò più volte le figurazioni di divinità con l ’at­ tributo del serpente (quale simbolo infero, solare, di guarigione, ecc.): k . k e r é n y i , Der göttliche Arzt, Cyba A G , Basel 1947. E durante la let­ tura del Doktor Faustus inviò a T . Mann il disegno di una medaglia di Alessandro Severo raffigurante «Asclepio su un serpente alato, come un dio solare che sorge dall’oscurità» (Der göttliche Arzt cit., fig. 56): cfr. K. Kerényi a T . Mann, 5 agosto 1947 e 1 1 settembre 1948, T . Mann a K. Kerényi, 26 novembre 1947, in F D , pp. 90, 91, 94. 15 k . k e r é n y i , Considerazioni preliminari, in FD , pp. 21-22.

IO

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3. In quale modo, per Kerényi, il romanzo manniano avvicinava «la bocca all’orlo del calice»? Da parte di Ke­ rényi il rapporto con Thomas Mann era nato ed era so­ prattutto destinato a durare sotto il segno di una solitu­ dine individuale che la presenza del poeta tedesco come interlocutore rendeva più tollerabile e più armata contro la sterilità. Vi è una strana coincidenza di tono fra la pa­ gina preposta da Kerényi, 1*8 settembre 1944, all’edizio­ ne della prima parte dell’epistolario con Thomas Mann: «Con la pubblicazione di questo carteggio il curatore cer­ ca conforto nella sua solitudine...» \ e l’esordio del Doc­ tor Faustus, là dove con la data del 27 maggio 1943 Serenus Zeitblom parla dei «segreti della nostra solitudi­ n e»2. Coincidenza strana, quanto più i due scriventi, il reale e il fittizio, possiedono fisionomie diverse: l’uno, Kerényi, umanista giunto prima ancora della più palese prova dei fatti a comprendere la fragilità dell’umanesimo tradizionale; l’altro, Zeitblom, trascinato dalla prova dei fatti a quella comprensione. E l’uno ungherese in esilio, l’altro tedesco, ancora disposto - almeno all’esordio del Faustus - unicamente ad una moderata emigrazione in­ terna. L ’uno, Kerényi, che si trovava in circostanze tali da apporre a quella prefazione la data del diciannovesi­ mo compleanno di sua figlia, allora deportata ad Ausch­ witz3; l’altro, Zeitblom, i cui figli «servono oggi il loro Fuhrer» (sebbene «i legami di questi giovani con la tran­ quilla casa paterna [siano] assai lenti»)4. Certo, anche Zeitblom accenna all’atmosfera della sua solitudine in termini tali da ricondurre la segregazione della Germania al proprio essere solo. Zeitblom ha rinunciato all’insegna­ 1 k . k e r é n y i , Nota introduttiva a RM , p. 2 t . m a n n , Doktor Faustus, 1947; trad.

15 . it. di E . Pocar, Doctor Fau­

stus, Mondadori, Milano 19.56, p. 9. 3 Gràcia Kerényi fu arrestata dalla Gestapo a Budapest, in seguito a una denuncia, neU’aprile del 1944. Deportata ad Auschwitz e poi a Ravensbriick, riuscì infine a far giungere al padre una lettera (25 giugno 1945), di cui Kerényi trasmise la traduzione tedesca a Hesse e a T . Mann. Vedi K. Kerényi a H . Hesse, 19 maggio 1944 e a Ninon Hesse, lu­ glio i94.5> in h e s s e e k e r é n y i , Briefwechsel cit., pp. 30-32, 123-25; e T . Mann a K. Kerényi, 17 febbraio 1946, in FD , p. 61. 4 m a n n , Doctor Faustus c it ., p . 1 7 .

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KÀR LY KERÉNYI I

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mento per dissenso verso il nazismo, e scrive: «il mio distacco da chi ha in pugno la patria ha creato un certo vuoto intorno a m e»5; Kerényi, costretto dall’esilio a so­ spendere l’insegnamento, scrive che la sua solitudine «si manifestò più che mai, nella sua essenza, nella violenta separazione da un’umanistica cerchia di allievi» \ Accenniamo a queste affinità di tono nella denuncia della solitudine, non per ritrovare in Zeitblom una con­ trofigura di Kerényi7, ma per tentare di circoscrivere la disponibilità di Thomas Mann, oggettiva e soggettiva, a servire quale interlocutore del solitario. Zeitblom non era un’esatta controfigura di Kerényi e neppure una con­ trofigura di Thomas Mann. Ma era ciò che restava dell’umanista tedesco tradizionale, il quale non osasse affer­ mare come Thomas Mann: «Là dove io sono, è la Ger­ mania»; la solitudine tedesca su cui Thomas Mann aveva insistito nelle Considerazioni di un impolitico [Betrachtungen eines UnpolitischenV, accentuando fino a trasfi­ gurarlo ambiguamente un tema di propaganda della Ger­ mania guglielmina in guerra, sopravviveva se non ambi­ guo, enigmatico, nel Doctor Faustus come confessione di peccato e al tempo stesso come senso di orgogliosa re­ sponsabilità. Con essa indubbiamente si scontrava la soli­ tudine di Kerényi - e qui è opportuno sottolineare dell ’ungherese Kerényi. La frase manniana posta da Kerényi quale motto della seconda parte del carteggio, «Questi frammenti di due autobiografie espansive e intrecciate»9, 5 Ib td .y

p. 17 . 6 Nota di K. Kerényi, in K M , p. 93, nota 1. 7 Cfr. lo studio sul Doktor Faustus pubblicato da b . a . s o r e n s e n in «Orbis Litterarum», 1958, e cit. da Kerényi in FD , p. 26. 8 «Solitudine» tedesca che, nelle Considerazioni, diviene anche la ma­ trice del paradossale «cosmopolitismo» tedesco: «rientra quasi nell’accezione tedesca di "umanità” comportarsi in maniera non tedesca o addirit­ tura anti-tedesca; ... una tendenza cosmopolitica, disgregatrice dei senti­ menti nazionali è, secondo un giudizio autorevole, inseparabile dalla na­ tura nazionale dei tedeschi; la quale, semmai, va perduta se si vuole poi davvero ritrovare» ( t . m a n n , Betrachtungen eines Unpolitischen, Fi­ scher, Berlin 19 18 , ora in «Stockholmer Gesamtausgabe der Werke von T . Mann», Fischer, Frankfurt a. M. i960; trad. it. di M. Marianelli, Con­ siderazioni di un impolitico, De Donato, Bari 1967, p. .56). 9 Tratta dalla lettera di T . Mann a K . Kerényi, 23 settembre 1945: FD , p. 50.

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ha quasi valore di scongiuro dinanzi alla tensione che in­ durrebbe a deformarla in « Questi frammenti di due soli­ tudini...» Ed è una tensione che, proprio nella seconda parte del carteggio, diviene improvvisamente saliente in occasione del Doctor Faustus: «Io avevo già letto il ro­ manzo e ne ero scosso, dolorosamente scosso - ben diver­ samente che dalla lettura delle altre sue opere precedenti o successive...»10. La lettera di Thomas Mann a Kerényi in cui compariva il primo accenno al Doctor Faustus era del resto già di per sé molto inquietante, e tale da con­ trapporre quasi a carte scoperte le due solitudini, Keré­ nyi stesso vi sarebbe ritornato anche dopo la morte di Mann - il quale allora scriveva: «L ’amico è un umanista che con tremore si mette a raccontare una storia orren­ damente non-umanistica. [...] Sarà cosa confacente al no­ stro mitologo e filologo classico? Ma lo scrive un suo col­ lega, dal cuore caldo, infinitamente devoto al demone freddo»11. Zeitblom non era Kerényi. Ma la solitudine di Zeitblom sarebbe pericolosamente inclinata, per Kerényi, a rappresentare la sua solitudine, se nel secondo capitolo del Doctor Faustus Thomas Mann non avesse fatto pro­ nunciare a Zeitblom alcune celebri parole che permette­ vano a Kerényi di porre nettamente le sue distanze verso il personaggio: durante il viaggio di studio in Grecia, Zeitblom, a Eieusi, «sull’orlo della fenditura plutonia», aveva intuito come «la civiltà consiste veramente nell’inserire con devozione, con spirito ordinatore, e, vorrei di­ re, con intento propiziatore, i mostri della notte nel culto degli d èi»12. Più volte nelle sue opere Kerényi si è espres­ so a proposito dei «mostri della notte» e del «culto de­ gli dèi» in termini tali da contrapporsi (anche anticipatamente) alle parole di Zeitblom. Ma vorrei qui aggiunge­ re ai consueti riferimenti bibliografici una testimonianza personale, diretta. Alla fine di maggio del 1965 ero in­ sieme con Kerényi nella Pinacoteca Sabauda di Torino. 10 k . k e r é n y i , Considerazioni preliminari, in FD , p. 37. 11 T. Mann a K. Kerényi, 23 settembre 194.5, in FD , p. 30. 12 m a n n , Doctor Faustus cit., p. 16.

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Kerényi si fermò a lungo dinanzi ai quadri mitologici di Francesco Albani; guardava, poi, come gli era consueto, prendeva rapide e fitte note su un taccuino. Sostò specialmente dinanzi al Ratto di Proserpina. Mi chiedevo e so­ prattutto chiedevo a lui come egli si collocasse di fronte a un’evocazione in tonalità estremamente serena dell’ir­ ruzione «demonica» della potenza infera per eccellenza. La risposta di Kerényi venne subito, come ad una doman­ da ovvia: «Ades non era un dèmone, ma un dio». Que­ sta distinzione fra demonico e divino nell’ambito delle evocazioni mitologiche risulta più chiara se la si collega a un brano della lettera che Kerényi mi aveva scritto po­ co prima di quel nostro incontro, soffermandosi sulle pre­ sunte «colpe» del mito nella storia, e soprattutto nella storia tedesca, degli ultimi cinquantanni: «Ciò che si può dire per i delinquenti e gli psicopatici13 è proprio sol­ tanto che - purtroppo per l’umanità - anch’essi sono uo­ mini, delinquenza e psicopatia poggiano su malattie cui milioni sono esposti. Le cause della malattia devono es­ sere individuate con precisione, le malattie, fin che è pos­ sibile, curate - in futuro. Questo intendo, quando dico: è Yuomo che dev’essere curato, e non il mito incolpato. Là dove nel mito il divino appare congiunto col * demo­ nico”, il * demonico” è una partecipazione umana al mi­ to: partecipazione del delinquente e dello psicopatico, la cui presenza deve sempre essere presunta nella storia del­ l ’umanità, non la partecipazione del devoto, del vero sa­ cro poeta e veggente, del legislatore e profeta. Chiudo con questa " professione di fede” , se Lei vuole - che però è anche una persuasione scientifica e una proposta di me­ todo » 14. Aggiungerò che, quale « ricordo e continuazione dei nostri discorsi di Torino», Kerényi mi spedi subito dopo il suo saggio II mito della àpETT)ls, precisando in una lettera successiva: «ciò [il saggio] poteva rappresen­ tare in certo qual modo il proseguimento del nostro col­ 13 Poco prima, nella medesima lettera, Kerényi scriveva: «Hitler fu un delinquente e uno psicopatico e lo furono anche i suoi complici...» 14 K. Kerényi a F. Jesi, 25 maggio 1965. 15 k . k e r é n y i , I l mito della àpeTT), in «Archivio di Filosofia», 196.5, pp. 2.5-34.

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loquio dinanzi al dipinto dell’Albani. Almeno, confido che Lei lo abbia inteso cosi, dialogicamente nel senso di Buber, [...], e che nel frattempo Lei abbia proseguito nel pensiero il nostro dialogo»16. Ora, proprio il saggio sul Mito della àpETT) contiene alcuni passi che servono a far luce tanto sul rapporto Kerényi-Zeitblom, quanto, e più profondamente, sul rap­ porto Kerényi-Mann. Nel Doctor Faustus Zeitblom è il troppo poco (e al tempo stesso ambiguamente) esperto di teologia, mentre Adrian è il troppo (non meno ambi­ guamente) esperto. La formula di Zeitblom, Y« inserire con devozione, con spirito ordinatore,... con intento pro­ piziatore, i mostri della notte nel culto degli dèi», è un errore teologico: gli dèi non sono mai stati «mostri della notte»; il rapitore di Proserpina «non è un dèmone, ma un dio», non è mai stato un dèmone, un «mostro della notte»; gli dèi non sono mai stati altro che se stessi: il loro «essere» non è storicizzabile mediante una ricostru­ zione di ipotetici stadi storici attraverso i quali sarebbe passata, arricchendosi o impoverendosi, la loro individua­ lità. La legittima storicizzazione delT«essere» degli dèi (dunque, di ciò che gli uomini intendevano per «dèi») è la configurazione storica di un intendere umano - il di­ vino - che finché c’è, c’è, e dove non c’è più nella sua as­ soluta integrità, non c’è, per nulla: «als käme es von nir­ gends her und führe nirgends hin »17. Non è solo un problema di scienza delle religioni, o al­ meno non lo è in questo caso. L ’errore teologico di Zeit­ blom, nella prospettiva del Doctor Faustus, è per cosi di­ re la matrice dell’errore teologico di Adrian. Un umanesi­ mo incapace di cogliere nella sua drastica interezza quell’intendere umano che è il divino fornisce la forma cava della demoniaca teologia negativa di Adrian. Di là dalla scacchiera teologica (che pure nel Doctor Faustus è fon16 K . Kerényi a F. Jesi, 23 giugno 1965. 17 « Come se non arrivasse da alcun luogo e non portasse in alcun luo­ go»; è una frase di e . c a n e t t i , Dialog mit grausamen Partner, in Macht und U eberleben, Literarisches Colloquium, Berlin 19 7 1, p. 40; trad. it. di F. Jesi, Dialogo con il terribile partner, in Potere e sopravvivenza, Adelphi, Milano 19 74, p. .58.

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damentale), il romanzo di Thomas Mann muove ombre ben riconoscibili di uomini, individui e popoli, destinati a ricadere alternativamente nella debolezza o nella col­ pa. Scriveva Kerényi: «E quando, il 14 giugno 1948, mi trovai seduto davanti a lui [T. Mann] a Küsnacht presso Zurigo, formulai cosi la mia convinzione: ”11 Doctor Faustus è un romanzo cristiano! ” Ciò lo “ colpi e gli die­ de la soddisfazione che ci è offerta dalla verità” : cosi mi scrisse in seguito. E non dimenticò che allora la sua rea­ zione si era concretata nell’invito: "D i questo dovrebbe scrivere Lei! ” » 18.

4. Di questo, tuttavia, Kerényi non scrisse. Le ragioni per cui di questo non scrisse sono indubbiamente riassun­ te da quelle parole di Wilhelm von Humboldt a Goethe, a proposito delle quali Kerényi diceva: le «avrei premes­ se al mio studio sul Doctor Faustus, se avessi avuto il co­ raggio di scriverlo»1: «Ma è molto strana la sensazione che si prova quando si debba analizzare in pubblico un uomo nel suo genere, per il quale si nutrono tutti i senti­ menti di venerazione e d’amore»2. Se però ora ci voglia­ mo permettere l’indiscrezione (certo discutibile, e non perché indiscrezione, quanto perché fondata sulla rozzez­ za della nostra indagine dall’esterno) di analizzare le ra­ gioni del silenzio di Kerényi3 circa la dimensione religio­ sa del Doctor Faustus, dobbiamo ricorrere al citato sag­ gio sul Mito della àpETT), specialmente nel contesto di ri­ ferimenti personali che, per me, lo circondano e di cui ho fatto menzione. 18 k .

k e r é n y i , Considerazioni preliminari, in FD , p. 39.

1 Ibid.y p. 29. 2 W. von Humboldt a Goethe, 6 gennaio 18 32, cit. ibid. 3 «M a quando il dotto danese [B. A . Sorensen, cfr. nota 7 del paragra­ fo precedente] cerca la fonte della più stupefacente identificazione di se stesso nella ” concezione postromantica del popolo come corpus mysticum” , non credo che colpisca proprio il punto più commovente: egli tra­ scura il fatto che il Doctor Faustus è un grandioso esempio di autoaccusa cristiana e quindi anche delle fedeltà del grand’uomo alla sua nazione. Ma chi ha scorto veramente questo gesto nascosto sotto tanti montaggi? » ( k . k e r é n y i , Considerazioni preliminari, in FD , pp. 39-40)*

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Il mito della àpsTTj contiene nel primo paragrafo alcu­ ne proposizioni che, data la loro importanza per il no­ stro discorso, dobbiamo citare integralmente: «Si po­ trebbe domandare: che cos’è il "mito della morte” ? Cer­ tamente non si intende qui per "m ito” una menzogna, una affermazione infondata, una pura favola. È dunque una verità? La verità che la morte è qualcosa? O la verità che la morte è nulla? O non piuttosto una verità supe­ riore: cioè che la morte è qualcosa ed è nulla? Tale deve essere per la virtù mitica la morte: qualcosa e insieme nulla. Ma la morte in sé, la morte mitica, come oggetto delle scienze della natura, della biologia o della medici­ na? Riguarda tale oggetto questa «superiore verità» allo stesso modo in cui essa riguarda la morte degli eroi o dei martiri? Mitica la morte diviene solo attraverso il com­ portamento che si ha con essa. Un comportamento - ma non solo verso la morte —è virtù, è àpsTT), è Tugend» \ Cosi inizia il saggio sul mito della virtù, che s’accentra poi sulla scena di una crocifissione: ma non quella del Cristo, bensì quella di Ermia, il suocero di Aristotele, morto sulla croce «per amore della forma [di àpsTT)]»5, dunque per amore della forma della virtù. Il saggio di Kerényi si conclude tuttavia con un esplicito rinvio alla sorte del Cristo: «La parola jxópcpa, che ricorre nell’inno due volte, è una intensificazione delTsiSoc; o dell’idea, ed è conforme al mito. Il mito però - il mito genuino ri­ chiedente il culto e attraverso di esso discendente tra gli uomini - questo unicamente era conforme alla realtà del­ la àpsTTi, dopo che fu testimoniata da una morte, come la morte di Ermia. Una morte sulla croce evocò il mito del­ la àpETii) - una "mitizzazione” , si dirà, se non si sa che cosa è il mito genuino. Ma anche se è solo mitizzazione, anche in questo caso dovrebbe offrirsi al pensare. Sareb4 k e r é n y i , Il mito della ¿petti cit., p. 26. 5 Kerényi cita qui l ’inno di Aristotele in memoria di Ermia di Atarneo: «Areta, laboriosa al genere umano, | preda bellissima alla vita, | per la tua forma virginale I morire è destino agognato nell’Ellade | [...] | per amore della tua forma l’uomo di Atarneo | si sottrasse alla luce del sole» (Il mito della ¿ petiq cit., pp. 30-34; cfr. f . j e s i , La morale del sacrificio umano, in Mitologie intorno all’illuminismo, Edizioni di Comunità, M i­ lano 19 72, pp. 10 1-3).

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be possibile demitizzare un’altra morte sulla croce, e man­ tenerla tuttavia per una religione? » 6. L ’ultima frase che abbiamo citato («un’altra morte sulla croce...») si collega al quadro di scienza delle reli­ gioni in cui Kerényi sarebbe stato costretto a collocare il suo studio sul Doctor Faustus. Ma una delle frasi del pri­ mo paragrafo del saggio («Tale deve essere per la virtù mitica la morte: qualcosa e insieme nulla») è più precisamente rivelatrice del perché Kerényi non scrisse quello studio. Il Doctor Faustus è un’evocazione altissima di quella virtù mitica per cui la morte è «qualcosa e insie­ me nulla», ma lo è in modo che quella virtù mitica si tro­ vi con il segno opposto: «abominazione della desolazio­ ne», quale Bekenntnis nel duplice e simultaneo signifi­ cato della parola tedesca, «confessione» e «professione di fede». Qui, le due solitudini, di Kerényi e di Mann, non possono più essere riconosciute «espansive e intrec­ ciate»: l’ungherese, che poneva le sue distanze verso il tedesco là dove il tedesco tendeva ad accettare il mito come qualcosa che esiste autonomamente dall’uomo e lo afferra, era costretto a rifondare le medesime distanze, e ancor più duramente, di fronte all’inversione di segno, al mito della colpa «demoniaca» che afferra. L ’obbligo del­ le distanze era specialmente duro da sopportare, ora che «il tedesco» rappresentava più che mai la continuità del­ la «grande entelechia»7, riempiendo di una sorta di so­ stanza mesmerica il grande vuoto tra l’umanista e il poe­ ta nel declino dell’Occidente8, se non precisamente l’a­ bisso tra il pensatore e il poeta che «risiedono su separa­ tissime vette » 9. 6 k e r é n y i, Il mito della ¿ p e tti cit., pp. 33-34. 7 « Una grande entelechia con inclinazione mitologica, anzi con indole mitologica, che è lecito considerare come vera e propria forma fondamen­ tale, con i tratti maliziosi di un essere ermetico: ecco, cosi vedo T.M ann, quando se ne tolga tutto quanto è caduco, familiare, sociale, effimero...» ( k . k e r é n y i , Considerazioni preliminari, in FD , p. 29). 8 Sui rapporti fra Kérenyi e Heidegger vedi k . k e r é n y i , Hölderlin und die Religionsgeschichte y in «Hölderlin-Jahrbuch», , PP- n -2 4 . Cfr. a . p e l l e g r in i , Hölderlin. Storia della critica, Sansoni, Firenze 1956, pp. 235-36. 9 È la nota espressione di Heidegger, in Was ist Metaphysik?, Kloster­ mann, Frankfurt a. M . 196910, p. 5 1 .

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La solitudine di Kerényi, terreno e aura del suo incon­ tro con Thomas Mann, risaliva ad anni e vicende assai precedenti la coincidenza cronologica con il Doctor Faustus e sarebbe durata oltre, elusa in certa misura da Mann finché fu vivo, confortata poi dalla parvenza necessaria­ mente più benevola del morto. La mattina del 13 giugno 1965 ebbe luogo nello Schauspielhaus di Zurigo una ce­ lebrazione rievocativa di Thomas Mann; chi tenne il di­ scorso ufficiale (un gruppo di attori offrirono una «lettu­ ra» da Fiorenza) fu precisamente Kerényi. Il quale non mancò di ricordare che in quello stesso luogo, dieci anni prima, Thomas Mann era intervenuto alla festa per il suo ottantesimo compleanno, ed era incorso per un attimo in un singolare errore: «...pubblico di Monaco!» aveva detto Mann, Anziché «...pubblico di Zurigo», congiun­ gendo involontariamente il presente con il passato10. Nel­ lo spirito di quello stesso errore, Kerényi si accinse a ri­ leggere l'epistolario con Thomas Mann dopo la morte di lui: «Quando perdemmo Thomas Mann trovai innanzi­ tutto rifugio e salvezza nel copiare le lettere...»11. Ché egli ritrovava nelle pagine indirizzate a lui dal morto una frattura vittoriosa sul continuum della storia, un segno di presenza interlocutrice prima e dopo il presente sto­ rico. La solitudine di Kerényi era nata prima che egli cono­ scesse Thomas Mann. Kerényi «usci per tempo dalla casa degli " scienziati” erroneamente trionfanti»12. Pur prove­ nendo per formazione accademica «dalla scuola severa­ mente storica»13, già con il suo lavoro sul romanzo elle­ nistico egli aveva preso le distanze da maestri e colleghi filologi e storicisti, persuaso che - come avrebbe poi scrit­ to - «Noi abbiamo perduto l'accesso immediato alle gran­ di realtà del mondo spirituale - ed a queste appartiene tutto ciò che vi è di autenticamente mitologico - , l’abbia­ 10 k . k e r é n y i , Thomas Mann zwischen Norden und Suden, in «Neue Ziircher Zeitung», 4 luglio 1965; trad. it. di F. Serpa, Thomas Mann fra Nord e Sud, in «Duemila», 1966, n. 4, pp. 60-63. 11 Vedi nota 15 , p. 9. 12 k e r é n y i , Nota introduttiva a RM , p. 13 . 13 id ., La religione antica cit., p. 9.

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mo perduto anche a causa del nostro spirito scientifico fin troppo pronto ad aiutarci e fin troppo ricco di mezzi sussidiari»14. La polemica contro la filologia «alla Wilamowitz»15 che dura come leitmotiv attraverso tutta la prima parte del carteggio con Mann, e che non a caso è richiamata esplicitamente nella prefazione del 1944, dise­ gna il contorno di una solitudine. Non, certo, solo nel senso dell’isolamento accademico che spesso circondò Kerényi, bensì nel senso dell’esperienza di solitudine forse inevitabile per chi agisce contro la superstizione del con­ tinuum storico, pur accingendosi a questa fatica quale esponente consapevole della cultura borghese che ha fon­ dato tale superstizione. La già citata frase posta (da Kerényi) ad epigrafe della seconda parte del carteggio Kerényi-Mann, « Questi frammenti di due autobiografie espan­ sive e intrecciate», indica il conforto che il solitario tras­ se dall’incontro con un altro distruttore del continuum storico-borghese, e non con «un altro» qualsiasi, ma con l’artista che apparteneva «ai classici della [sua] età giova­ n ile»16 ed era un tedesco. Dopo il suo primo incontro personale con Mann a Budapest nel gennaio del 1935, Kerényi gli scriveva nell’estate dello stesso anno: «E già che parliamo di ricordi devo dire con quanto piacere ri­ penso alla Sua visita a Budapest. Mi fece impressione specialmente la Sua giovanile freschezza. Così da lontano Lei appartiene già, direi, ai classici della mia età giovani­ le. Ed ora mi tocca stupirmi che in questi giorni possia­ mo farLe gli auguri per il Suo 6o° compleanno! » 17. Que­ ste parole sono la spia di un nodo psicologico più com­ plesso di quanto parrebbe, e destinato a durare nel tem­ po come substrato della revoca del continuum a favore della simultaneità critica, dichiarata nel discorso manniano del 1965 e in particolare nella menzione dell’equivoco «... Monaco» («... Zurigo»). Vi si intrecciano i temi della giovinezza di Kerényi, ungherese, patriotticamente pole14 Vedi nota 10, p. 5. 15 Un’esposizione riassuntiva in f . j e s i , I l mito, Isedi, Milano 19 73, pp. 52-64. 16 K. Kerényi a T . Mann, 4 giugno 19 35, in RM , p. 49. 17 Ibid.

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mico verso il tedesco e al tempo stesso guidato dai canali scientifici verso la cultura tedesca (da vecchio, e dopo aver scritto pagine mirabili in lingua tedesca, traduceva ancora quella polemica nella civetteria ironica con cui ga­ rantiva di non essere mai riuscito ad imparare bene Tuso corretto di der, die, das)> insieme con il tema della soli­ tudine del borghese, dell’umanista borghese, disposto ad infrangere il saeculum della Kultur borghese, ma non di­ sposto affatto a rinunciare a valori umanistici. «Borghese», Kerényi non avrebbe mai accettato d’es­ sere definito. Non in Marx ma in Keyserling, egli cercava attendibili schemi sociologici: «Per il nazismo, che riten­ go essere un fenomeno tedesco e per il quale non vor­ rei usare l’espressione “ nazi-fascismo”, fonte di equivoci - sebbene ciò non significhi che molto di quanto dirò non valga anche per il fascismo assolutamente italiano - non dispongo di spiegazione mitologica, bensì di una spiega­ zione ììgorosamente scientifica, sociologica. La quale pog­ gia su un’osservazione del conte Hermann Keyserling, nonché mia propria: il nazismo è una forma di conquista del potere da parte del quarto stato. Il primo stato è l’a­ ristocrazia; il secondo la borghesia; il terzo gli operai; il quarto i delinquenti e gli psicopatici, il tipo * gangster” , che la vita delle grandi città ha prodotto in pericolosa folla. [...] L ’aristocrazia era, in Germania come altrove, decadente, in parte finissima e intelligente, in parte com­ posta di idioti; la borghesia tedesca mancava di educazio­ ne politica; gli operai, attraverso l’agitazione marxista, erano divenuti ancor più sprovvisti di senso critico di quanto fossero originariamente: i tre primi stati se ne so­ no andati sottobraccio con il quarto. È innegabile, ed è una storica infamia...»18. Kerényi non avrebbe accettato d’essere definito «bor­ ghese» nel significato classista, marxista, della parola. Si sarebbe tutt’al più riconosciuto (almeno per molti an­ ni) membro della «borghesia ungherese », quale «stato» {Stand) dalle precise caratteristiche nazionali e non classe internazionale. Ed anche qui con qualche riserva, poiché 18 K. Kerényi a F. Jesi, 25 maggio 1965.

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per lui la parola «borghese» conservava un fondo del vecchio significato di «filisteo». Contro i «filistei» si scagliava Thomas Mann adolescente: contro la Lubecca «borghese», «cumulo di impolveramento intellettuale, ignoranza e filisteismo stupido e tronfio»19. Anti-«fili­ steo» era Herman Hesse in Derniari: «"V ai molto all’o­ steria?” mi chiese [Demian]. "Eh, si, - dissi pigramen­ te, - che altro si deve fare? In fin dei conti è ancora l’u­ nica cosa allegra” . “ Ti pare? Può anche darsi. Certo, c’è qualcosa di molto bello - l’ebbrezza, bacchica! Ma mi sembra che per la maggior parte di quelli che stanno mol­ to all’osteria, tutto ciò vada perduto. A me fa l’impressio­ ne che proprio andare all’osteria sia roba da filistei” » 20. Philister è - o era - parola del linguaggio studentesco, per indicare i non studenti, i «borghesi». Nel contesto di Hesse essa assume una coloritura spregiativa apparente­ mente più profonda (è Demian, il 8ai[Jittv, che condanna i «filistei» e li bandisce nicianamente dal regno divinodemonico dello spirito), di fatto tale da indicare nella borghesia non appropriatamente intellettuale il bersaglio dell’intellettuale borghese non disposto a consapevole so­ lidarietà con la classe cui appartiene. Alla borghesia tedesca che «mancava di educazione po­ litica », Kerényi rimproverava non solo il filisteismo, ma, riferendosi agli intellettuali immuni da quel difetto, la cecità dinanzi al progredire di una situazione che avrebbe condotto alla presa del potere da parte di «delinquenti e psicopatici»: Stefan George e Leo Frobenius «furono celebrati ambedue dai loro allievi e seguaci come "guida spirituale nella breccia tedesca” - attraverso la breccia passeggiò poi il diavolo, al quale né l’uno né l’altro pen­ 19 Cfr. k . s c h r ò t e r , Thomas Mann, Rowohlt Taschenbuch Verlag, Reinbeck b. Hamburg 1964; trad. it. di A . R. Zweifel, Thomas Mann, Mondadori, Milano 1966, p. 3 1. 20 H. h e s s e , Demian. Die Geschichte von Em il Sinclairs Jugend, 1919 ; diamo una nostra traduzione (dal voi. 95 della «Bibliothek Suhrkamp», p. 1 1 3 ) per necessità di aderenza letterale all’originale; una trad. it. di E. pocar, Demian. Storia della giovinezza di Em il Sinclairy è edita da Mondadori (recentemente: « G li Oscar», 1972). Hesse regalò una copia di Demian a Kerényi, in cambio del saggio di quest’ultimo Menseh und Maske (in «Eranos-Jahrbuch», 1948, edito nel 1949); cfr. h e s s e e k e rényi, Briefwechsel cit., p. 1 5 1 , nota 103.

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sava»21. Alla borghesia tedesca che «mancava di educa­ zione politica» Kerényi tendeva a contrapporre la bor­ ghesia (e non solo la borghesia) ungherese risorgimen­ tale, impegnata nelle battaglie patriottiche contro l’Au­ stria. Nato a Temesvàr ma trasferitosi nella prima adole­ scenza ad Arad, Kerényi scrisse: «Le due città si distin­ guevano l’una dall’altra per due diversi modi di sentire, due stili di pensiero nazionale e politico, e da questo pun­ to di vista la [mia] città era più Arad che Temesvàr»22. Arad significava la città in cui, nell’ottobre del 1849, do­ po la sconfitta e la resa delle truppe di Gòrgey e di Kossuth, Haynau aveva fatto giustiziare i tredici generali dell’esercito degli honvéd. Tornato da una visita in Ger­ mania nel giugno del 1934, Kerényi rispondeva ad una lettera di Thomas Mann (il quale gli aveva parlato del «malessere» suscitato in lui da ciò che accadeva nella sua patria), dichiarando23 che l’aver constatato l’educazione della gioventù tedesca «in questa follia», «con vestiti e divise dai simboli di morte», era «stata forse la più triste esperienza della [sua] vita». Kerényi aggiungeva: «... ap­ punto perché amo appassionatamente la gioventù eroi­ ca». Quale gioventù eroica? Nelle vecchie case della col­ lina torinese capita di trovare alle pareti, tra le fotografie di famiglia, i ritratti di giovani ufficiali ungheresi esuli negli anni del risorgimento, «... uniformi con gli alamari, lo spencer sulla spalla, shako civettuolo sul capo» - e si può leggere nei libri di memorie anche una traccia del­ l’anticlericalismo di quegli stranieri, simile all’ironico an­ ticlericalismo di Kerényi: «Solo col parroco del paese non erano andati d’accordo. Una volta avevano saputo che lui si lagnava di questi stranieri che non andavano mai in chiesa, non frequentavano le funzioni. E allora proprio Szirmay, a chi gli trasmetteva quel giudizio, in quel suo curioso italiano con gli accenti spostati, aveva 21 K. Kerényi a F. Jesi, 5 ottobre 1964. 22 Dal saggio autobiografico (Selbstbiographisches) pubblicato nel vo­ lume Tessiner Schreibtisch, Mytbologisches-XJnmytkologisches> Steingriiber, Stuttgart 1963, p. 148. 23 K. Kerényi a T . Mann, 13 agosto 1934, in RM , p. 46.

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risposto: "Dite al vostro parroco che se non fosse degli ungheresi lui a quest’ora sarebbe parroco dei turchi” » 24. 5. Nel configurare storicamente l’immagine di un uo­ mo, e innanzitutto di se stesso, Kerényi era ben più di­ sposto a sottolineare connotati nazionali che situazioni di classe. A ll’atto di questa caratterizzazione, quando essa si riferiva ad intellettuali, subentrava tuttavia anche un al­ tro fattore. Dinanzi agli occhi di Kerényi sopravveniva allora l’immagine di una res publica di umanisti, vera an­ corché politicamente inefficace, di là dai confini dei carat­ teri nazionali, ed aperta a tutti i d o d i viri e ai poeti che non si fossero resi colpevoli di cecità autoritaria nei con­ fronti dello «spirito» (il prototipo di codesti colpevoli era per lui Wilamowitz) o addirittura di complicità aper­ ta con «i delinquenti e gli psicopatici». In questa res pu­ blica rientravano Frobenius, Walter F. Otto, Thomas Mann, sebbene Kerényi ponesse precise riserve - e so­ prattutto esprimesse la propria personale estraneità verso il loro germanesimo. Ma ne erano esclusi al tempo stesso Lukàcs, Gottfried Benn, Mircea Eliade. «Gott­ fried Benn non dista tanto da Goebbels, quanto Frobe­ nius da Rosenberg. Nominare insieme questi ultimi due è già commettere un’ingiustizia verso il grande etnolo­ go» \ Quanto a Lukàcs, nelle Considerazioni preliminari all’edizione della seconda parte del suo carteggio con Thomas Mann Kerényi ricorre contro il compatriota ad un’autentica damnatio memoriae\ «Poi c’è Naphta, uno stupefacente prodotto del suo montaggio tecnico, come lo stesso Thomas Mann chiamò questo suo metodo. Con geniale preveggenza vi era isolato il diabolico nel dogma­ tico. (Qui preferisco non nominare il modello)»2. Più esplicitamente egli si sarebbe poi espresso in una lettera: «... Lukàcs a fianco di Thomas Mann, che nel suo Naphta 24 b . a l l a s o n , Vecchie ville vecchi cuori, Edizioni Palatine, Torino *9.50, pp. 18 1, 18 3. 1 K . Kerényi a F. Jesi, 17 maggio 1965. k e r é n y i , Considerazioni preliminari, in FD , p. 30.

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lo ritrae come il gesuita comunista e che gli attribuisce cosi, in quanto figura di romanzo, una dignità superiore a quella che gli compete...»3. Quanto a Eliade, infine, due parole soltanto: «... Mi ha interessato che Lei sia riu­ scito a trovare qualcosa perfino nel triviale Eliade»4. Tra i membri della res publica degli umanisti vi erano rapporti che trovano il loro tono peculiare nella parola tedesca Verehrung. Essa significa letteralmente «venera­ zione»; ma questo equivalente italiano è di fatto ecces­ sivo, nella misura in cui induce a prendere alla lettera un’espressione che in tedesco è convenzionalmente e ba­ nalmente cerimoniosa (è ben raro che in italiano ci si ri­ volga epistolarmente ad un «veneratissimo signor colle­ ga», mentre è banale in tedesco scrivere «Sehr verehrter Herr Kollege»). In quella res publica, d’altronde, la Verehrung conciliava quale medio termine la tonalità ceri­ moniosa, distaccata, non impegnativa, del suo uso di apo­ strofe epistolare, con quella globalmente impegnativa del «bisogno di venerare con entusiasmo» che Kerényi avreb­ be espresso nella prefazione al suo epistolario con Hesse. «Venerato e caro signor Hesse», «Caro e venerato», so­ no le apostrofi consuete nelle lettere di Kerényi a Hesse; «Caro e venerato professor Mann» è apostrofe frequente nelle lettere di Kerényi a Mann (e il riconoscimento della dignità professorale honoris causa di Mann rientra in quella Verehrung). «...dieci anni fa, quando lessi per la prima volta la Montagna incantata [...] non avrei mai sognato di sentire rivolta a me la voce che nel libro appartiene a Settem­ brini»5. Rileggendo questa frase che Kerényi scrisse a Thomas Mann, conviene ora mettere l’accento non tanto sulla nozione, senza dubbio importante, che essa contie­ ne, ma sulla tonalità di stupore e di lieta gratitudine di cui è venata. Per Kerényi fu certo interessante appren­ 3 K. Kerényi a F. Jesi, 17 maggio 1965. (Kerényi rispondeva cosi, con una certa indignazione, ad una mia lettera in cui ricorrevano insieme i nomi di T . Mann e di Lukacs). 4 K. Kerényi a F. Jesi, 22 giugno 1967. (Kerényi si riferiva al mio studio Simbolo e silenzio, 1966, ora in Letteratura e mito, Einaudi, To­ rino 19773, PP- i - i)5 K. Kerényi a T . Mann, i° marzo 1934, in RM , p. 27.

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dere una volta di più che Thomas Mann gradiva assume­ re sembianze settembriniane; ma ciò che traspare di più vivo dalle sue parole è la percezione stupita della voce di Thomas Mann che si rivolge proprio a lui e in modo tale da elargirgli una tensione personale, diretta e unica con il poeta, di là dal felice sonno nel libro: «Ci sono molte persone nella sala, ma uno non se ne accorge. Sono nei libri. Talvolta si muovono nei fogli, come uomini che dormono e si rigirano tra un sogno e l’altro»6. Malte Laurids Brigge, nella celebre scena rilkiana della Bibliothèque Nationale, «ha un poeta». Le ultime parole del­ l’ultima lettera di Kerényi a Hermann Hesse suonano: «...e quanto bisogna essere riconoscenti se si ha ancora un poeta!»7. Riferendosi a quel poeta, Kerényi scrisse, poco prima di morire: « Il mio rapporto con Hesse non fu acritico, e tuttavia corrispondeva ampiamente al mio bisogno innato di venerare con entusiasmo»8. Thomas Mann e Hesse furono, seppure in modo molto diverso l’uno dall’altro, due oggetti del venerare con entusiasmo di Kerényi, due modelli, per Kerényi, da riempire di en­ tusiasmo, dunque da riempire di quella parte espansiva dell’io che aveva bisogno di trovare forma fuori dell’io per attuarsi. Questa attuazione di una parte del proprio io su modelli di altre esistenze — esistenze esemplari di poeti che, in quanto esemplari, tendevano ad assumere la forma di esistenze di Saggi - contribuiva a far assumere all’io le sembianze stesse del Saggio. E tale contributo sarebbe stato forse determinante, se anche per Kerényi non fossero state vere le parole del motto preposto da Hesse a Demian: «Eppure, non volevo tentare di vivere se non ciò che spontaneamente voleva erompere da me. Perché era cosi difficile?» Usare qui il motto di Hesse significherebbe ricorrere ad una pura e semplice banalità 6 Questo brano delle Aufzeicbnungen des Malte Laurids Brigge di r. m . r il k e (1910) [trad. it. di F. Jesi, I quaderni di M. L. Brigge, Gar­ zanti, Milano 1974, p. 28], è stato citato da Kerényi in una lettera a T. Mann, 10 agosto 19.51, in FD , p. n o ; e nella prefazione a r a d in , ju n g e k e r é n y i , I l briccone divino cit., pp. n - 1 2 . 7 K. Kerényi a H . Hesse, 3 aprile 1956, in h e s s e e k e r é n y i , Brieftoechsel cit., p. 103. 8 Vedi nota 2, p. 3.

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agghindata, se quelle parole non venissero riferite alla precisa situazione storica, culturale e psicologica, di cui, nel caso di Kerényi, sono l’involucro più appropriato. «Hesse - scrive Kerényi - non è mai stato in Ungheria un autore cosi popolare come Thomas Mann. Per me, egli era, a fianco di Thomas Mann, il rappresentante vi­ vente della grande letteratura tedesca, quella dei classici di Weimar e di Hölderlin, che doveva valere anche per il non tedesco»9. Già da queste parole affiora la contrap­ posizione, su cui Kerényi insistette sempre, tra il proprio io ungherese e la cultura tedesca destinata a fornirgli gli oggetti preminenti del suo istintivo venerare con entusia­ smo. Sulla medesima contrapposizione egli si era già sof­ fermato a proposito di due altre persone, Thomas Mann e Walter Fr. Otto, e nel contesto di un problema che lo toccava da vicino: quello del mito. «"Esperto di Mann in questioni mitologiche” non avrei potuto essere, alme­ no al principio dei nostri rapporti, anche per il fatto che le nostre posizioni di partenza per accostarci alla mitolo­ gia erano troppo diverse. Del "mito” , nel senso in cui, nella Germania tra le due guerre mondiali, era diventato una potenza inconcepibile, ridicola ad un tempo e fune­ sta, ma pienamente riconosciuta anche da Thomas Mann - nel senso, per citare un nobile esempio, in cui Ernst Bertram chiamò Saggio di una mitologia la sua monogra­ fia su Nietzsche, un libro che accolsi con piacere in quan­ to opera letteraria - del "mito” in questo senso non fa­ cevo alcun conto. Può essere un mio difetto collegato alla mancanza di altri elementi che nei tedeschi è più fa­ cile trovare»10.

6. Il discorso che ho sviluppato fin qui sulla borghesia di Kerényi avrebbe trovato estremamente ostile il chia­ mato in causa. Lo ripeto poiché non si tratta soltanto del frutto di una mia pur ragionevole supposizione, ma di 9 k . k e r é n y i , Nota introduttiva a h e s s e e k e r é n y i , Briefwechsel cit., p. i i . 10 K. k e r é n y i , Considerazioni preliminari, in FD , p. 3 1 .

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un dato di fatto - una simile reazione, appunto - che ho personalmente constatato, proprio per averlo suscitato io stesso in passato. Mi riferisco qui al mio saggio Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito \ in cui scrivevo che (oltre a Pavese) lo stesso Kerényi non era estraneo a quella religione della morte di cui si possono seguire le orme nella cultura tedesca, da Creuzer a Nietzsche, a Frobenius, a Rilke. Dopo aver letto quel saggio, Kerényi mi scrisse una lettera piena di indignazione: «Io non so se Pavese, che con il suo suicidio probabilmente confessò al tempo stesso la sua " religione della morte” e il suo er­ rore di vita, sarebbe soddisfatto della Sua analisi. Egli non può rispondere; da parte mia, una risposta doveva esserci»2. Neppure Kerényi ormai può rispondere anco­ ra. Ma sarebbe far torto alla serietà della sua opera esclu­ derla ormai per questa ragione dal dibattito, oppure of­ frirle soltanto lo spazio artificiale del dibattito tecnico. Certo, ciò significherebbe porla solo apparentemente al riparo dal dibattito ideologico e da «quanto di falsità è implicito nella parola “ ideologia” » 3. Su questo rifiuto dell’« ideologia», sia pure in termini per molti aspetti di­ versi, Kerényi s’incontrava con Pound (con il quale, del resto, avrebbe molto probabilmente rifiutato di trovar­ si anche solo nella medesima stanza). Cito qui Pound («Non essere ideologo, lascialo agli autori dei bei piccoli saggi filosofici») non certo per dichiarare, subdolamente, «fascista» Kerényi, ma per una ragione innanzitutto per­ sonale, la quale in quanto tale non avrebbe interesse per il lettore se non introducesse considerazioni d’ordine più generale. Se Kàroly Kerényi è stato la persona da cui ho imparato di più in materia di mitologia, Ezra Pound è stato senza dubbio la persona da cui ho imparato di più in materia di poesia. Va da sé che qui non conta affatto se io sia riuscito ad imparare molto o poco. Ciò che con­ ta è invece la posizione di maestri assunta parallelamente dall’uno e dall’altro nei confronti di chi, come me, non 1 1964; ora in Letteratura e mito cit., pp. 131-60. 2 K. Kerényi a F. Jesi, 14 maggio 1968. 3 Ibid.

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presume affatto di proporsi quale figura-test di una gene­ razione, ma è persuaso d’aver potuto imparare moltissi­ mo (moltissimo, torno a dirlo, in termini soggettivi) da Kerényi e da Pound, pur trovandosi, e volendosi trovare, in assoluto contrasto politico, ideologico, con l’uno e con l ’altro, tanto da dover usare per chiarezza l’espressione «mascheratura umanistica» a proposito di Kerényi, e da sentirsi replicare da Kerényi stesso che tale concetto era «palesemente di fabbricazione italo-comunista»4. Sareb­ be sbagliato, innanzitutto storicamente sbagliato, definire Kerényi «fascista». Kerényi non era Pound; ma per ca­ pire che cosa significasse da parte sua dichiarare un con­ cetto «palesemente di fabbricazione italo-comunista» si ricordino le sue parole che già abbiamo citato: «gli ope­ rai, attraverso l’agitazione marxista, erano divenuti ancor più sprovvisti di senso critico di quanto fossero origina­ riamente»; parole che non suonano molto diverse da quelle di Hesse a proposito del comunismo: «Una vec­ chia, troppo vecchia ricetta dalle cucine polverose di al­ chimisti, diventata alquanto comica»5. Si potrà obiettare subito che tutto questo discorso por­ ta ad una semplice conclusione: che mi ero scelto male i maestri. L ’uno, Kerényi, tutt’al più liberale; l’altro, Pound, che parlava dalla radio fascista e poi collocò «Ben» impiccato per i piedi quasi nella luce di Mani, «conciato e impagliato». Non è cosi semplice. Né la spiegazione consiste sol­ tanto nel constatare che, nell’ambito delle rispettive spe­ cifiche competenze, Kerényi e Pound erano probabilmen­ te «i maggiori». Di là da questa constatazione, che di per sé non è falsa, è latente una scappatoia: grande mi­ tologo Kerényi; grande poeta Pound; politicamente va­ cui l’uno e l’altro, dunque non tali che le loro opere fos­ sero viziate in profondità dal conservatorismo dell’uno, dall’esplicito fascismo dell’altro. È solo una scappatoia 4 Ibid. 5 H. He s s e , Krieg und Frieden. Betrachtungen zu Krieg und Politik seit dem Jahr I 9 i 4 > Zürich 1946, p. 168; cit. in H. h in t e r h ä u s e r , H. Hesse, « I l lupo della steppa», in aa . v v ., I l romanzo tedesco del Nove­ cento, Einaudi, Torino 19 73, p. 196, nota 7.

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- elude solo apparentemente il problema di quella religio mortis che suscitò l’indignazione di Kerényi. Più di Kerényi, Pound in quanto poeta ha materiato la sua opera dei propri «pensieri segreti». Di rado, o forse mai per un altro poeta moderno, questa espressione può essere usata per lui legittimamente quanto nel caso di Hölderlin. Ed è precisamente nell’area di questi «pensieri segreti» («mi­ steri del singolo individuo», «miti e riti esattamente co­ me erano quelli dei popoli») che si collocano insieme, l’uno al fianco dell’altra, il suo fascismo e la sua religione della morte. Uuno al fianco delValtra: poiché né l’uno né l’altra sono corollari del predominante dei due, quale esso sia. A differenza dal fascismo, la religione della mor­ te è uno dei terreni di coltura entro i quali (e proprio in contrasto con l’azione sterilizzante del fascismo) sono ri­ maste custodite in vita nella cultura moderna la poesia e la mitologia. Dichiarare Pound e Kerényi devoti di una religione della morte significa definire religione della mor­ te l’adesione profonda e attiva alla convinzione che esi­ sta un comportamento umano con la morte, attraverso il quale la morte accederebbe alla «verità superiore» d’es­ sere «qualcosa e insieme nulla»6. Poesia e mitologia (o, se vogliamo, essenza della poesia e della mitologia) so­ pravvivono nella cultura moderna anche nella misura in cui la loro sopravvivenza è circoscritta, difesa e alimen­ tata da un «qualcosa e insieme nulla» che vale sia come loro definizione, sia come orizzonte vicino del comporta­ mento con la morte. Alla sopravvivenza della poesia e della mitologia in questo presente, e non solo in questo poiché non pare essere la prima volta che ciò accade, sembra appropriato, anche se forse non in modo esclusi­ vo, un terreno di coltura che si conserva nutritizio e cal­ do nonostante i geli e le sterilizzazioni dell’ora, grazie alle qualità della morte, che sono molteplici e in vario modo efficaci. Elias Canetti direbbe che il «mucchio di morti» (nel quale io stesso riconosco l’unica rappresen­ tazione della morte che mi sembri vera), mucchio di so­ stanze in decomposizione, è un ideale terreno di coltura. 6 k e r é n y i , I l m it o d e l l a ¿ p e t t i c i t ., p . 2 6 .

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Ma sarebbe davvero dar troppo carico al fascismo di Pound, e colorare arbitrariamente di fascismo il conser­ vatorismo di Kerényi, far scaturire la religio mortis del­ l'uno e dell’altro da quel «mucchio di morti» conside­ rato canettianamente come «preda», «bottino». Oltre al «mucchio di morti», vi è infatti alle radici della reli­ gione della morte anche la paura della morte. Ed è ap­ punto questa che, nel caso di Pound e di Kerényi, funge da fecondatrice del terreno di coltura ove sopravvivono poesia e mitologia: riparate, alimentate là, da un venera­ re la forma, la quale si comporrebbe in idolo se non in­ tervenissero una sorta di libertinaggio visionario oltrag­ giosamente sicuro di sé (nel caso di Pound) o, per conver­ so, una tristitia humanistarum che attinge all’insoddisfa­ zione, alla melanconia e alla solitudine (nel caso di Ke­ rényi). Là dove Mallarmé dichiarava che « L ’infantilismo del­ la letteratura fino ad oggi è consistito nel credere, per esempio, che scegliere un certo numero di pietre preziose e metterne i nomi sulla carta, sia pure benissimo, signifi­ casse fare delle pietre preziose» e ammoniva: «Ebbene, no! La poesia consiste nel creare, e dunque bisogna pren­ dere nell’anima umana degli stati, delle luci di una pu­ rezza cosi assoluta che, ben cantati e ben posti in luce, costituiscano di fatto le gemme dell’uomo: cosi si ha il simbolo, la creazione, e la parola poesia possiede il suo significato»7, egli contrapponeva palesemente l’una al­ l’altra due tattiche nella guerra contro la paura della mor­ te. Ribaltata nel suo inverso, nell’utilizzazione delle sco­ rie prive di luce anziché delle «luci di ... purezza assolu­ ta», la tattica prescelta da Mallarmé è divenuta quella di Pound. Comprensibile anch’essa nell’ambito della religio mortis, poiché in Pound le scorie sono materia del flusso della poesia nella misura in cui all’orizzonte di tale flusso sta la morte, la «morte per acqua», che di là dall’alterna­ 7 s. MALLARMÉ, Réponses à des enquêtes sur Vévolution littéraire, in Œuvres complètes, Bibl. de la Pléiade, Paris 19.56, p. 870. Uno sbrigati­ vo accenno di Kerényi al «difficilissimo» Mallarmé: K. Kerényi a H . Hesse, principio di settembre i944> in h e s s e e k e r é n y i , Briefwecbsel cit., p. 4 1.

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tiva dei Cantos si crea d’intorno «terra desolata». I miti sono anche qui «miti dell'uomo»: schemi di comporta­ mento che l’uomo in punto di morte getta intorno a sé per ritardare la morte ponendole dinanzi uno specchio legittimo - affinché essa, «qualcosa e insieme nulla», si riconosca e si irrigidisca in se stessa, divenga - anche so­ lo per breve tempo, fintantoché non si liberi in altre me­ tamorfosi, come Proteo - un partner paralizzato dall’es­ sere riconosciuto nella propria identità. Del pari, la no­ zione di mitologia che affiora dalle pagine di Kerényi, l’o­ stinato ricercare di Kerényi (nel senso letterale, e in quel­ lo specificamente musicale della parola) verso il bordo di una conoscenza di là dal quale sta un «espandersi come una sorgente» che è «essere conosciuti dalla conoscen­ za»8, è volontà di contrapporre alla morte - fatta irrigi­ dita nel suo essere «mito della morte», sfondo di un com­ portamento umano, non realtà a sé stante —il fluire, l’e­ spandersi dell’umano essere vivi, ma essere vivi in forme che sono costantemente circoscritte dalla morte. Se, per riprendere le parole di Wilhelm von Humboldt9, «ogni lingua getta ... intorno al popolo a cui appartiene un cer­ chio dal quale non è possibile uscire, se non a questa con­ dizione: di entrare immediatamente nel cerchio di un al­ tro popolo», nel pensiero di Kerényi la mitologia è quel linguaggio universale che getta intorno all’uomo un cer­ chio dal quale non è possibile uscire senza entrare imme­ diatamente nel cerchio della morte - poiché è la morte che delimita il bordo esterno di quel cerchio della mito­ logia: è la morte la sostanza dura («qualcosa e insieme nulla») senza la quale il fluire della mitologia sarebbe una pura corrente amorfa. La mitologia è il cerchio con­ tro la morte; ma anche: la mitologia è il cerchio che è tale poiché intorno ad esso preme la morte. La seppiauomo schizza il suo inchiostro di miti contro l’acqua che 8 È l a c it a z io n e d a r i l k e , Die Sonette an Orpbeus, 19 22, I I , 12 , v e r ­ so 9 , in j u n g e k e r é n y , Prolegomeni c i t ., p . 1 7 . 9 w. v o n h u m b o l d t , Einleitung zum Kawi-Werk, cit. da e . C a s s i r e r , Sprache und Mythos, Studien der Bibliothek Warburg, Leipzig-Berlin 19 25; trad. it. di V . E . Alfieri, Linguaggio e mito, Il Saggiatore, Milano 19 61, p. 18.

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la circonda e con cui si identifica il nemico incognito; ma solo la densità e la pressione di quell’acqua fanno assu­ mere le sue forme preziose e difensive all’inchiostro che vi fluisce. 7. I «pensieri segreti» divengono cosi la sostanza co­ lata nella forma delle paure segrete: «miti e riti esatta­ mente come erano quelli dei popoli». A queste paure si deve ricollegare la maggior parte dei rapporti che la cul­ tura italiana ebbe con Kerényi. In Italia, Kerényi fu per cosi dire «scoperto» da Pavese. Le virgolette tra cui chiu­ diamo la scoperta si riferiscono a parole di Kerényi stes­ so: «Cesare Pavese fu precisamente colui che, in Italia, mi scopri, e forse non soltanto nell’ambito della storia delle religioni, ma in quello della cultura italiana in gene­ rale. Posseggo di suo un esemplare dei Dialoghi con Leucò, con una cordiale dedica, del 1947; nel 1948 furono pubblicati - per sua iniziativa - i Prolegomeni. Egli ave­ va curato non soltanto l’edizione di quella composizione centaurica, la quale fece si che in Italia non si volesse (o non si potesse) più distinguere non solo fra due corpi, bensì anche fra due anime - che erano il più possibile di­ verse - , ma anche l’edizione delle Figlie del Sole [...], - e quest’ultimo libro era ancor meno junghiano (dopo che avevo conosciuto Jung) di quanto fossero opere junghia­ ne il Fanciullo divino e la Fanciulla divina, scritti prima che conoscessi Jung. Non so se Pavese si fosse reso conto della diversità profonda di atteggiamenti e di sentire fra i due autori - che pure rese possibile un reciproco rispet­ to. Da italiano, egli era benevolmente eclettico verso noi altri europei, ed aveva perfino fatto comparire a fianco a fianco Frazer e Frobenius. Le sue letture erano troppo va­ ste, e la sua vita fu per sua volontà troppo breve, perché egli potesse acquisire la necessaria distanza rispetto alle sue fonti» \ L ’obiezione di Kerényi nei confronti di Pavese era, en­ tro certi limiti, esatta. Per definire tali limiti occorre però 1 K. Kerényi a F. Jesi, 5 ottobre 1964.

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soffermarsi un momento sulle circostanze storiche della «scoperta» pavesiana di Kerényi in Italia. Quale specia­ lista autorevole di storia delle religioni, Kerényi fu «sco­ perto » in Italia per la prima volta dal docente più presti­ gioso di quella disciplina, Raffaele Pettazzoni. Non solo collaborò negli anni trenta a «Studi e Materiali», la prin­ cipale rivista scientifica italiana di storia delle religioni, fondata e diretta da Pettazzoni (ed anche alla «Rivista di filologia e d’istruzione classica» di G. De Sanctis e A. Rostagni), ma fu invitato da Pettazzoni a pubblicare nella sua collezione zanichelliana «Storia delle religioni» un volume, La religione antica, che usci per la prima volta, in lingua italiana, nel 1940. Nella prefazione alla seconda edizione italiana Kerényi non dimenticò di dichiarare il suo debito, e in termini che vanno un po’ al di là del sem­ plice buon uso di cortesie accademiche: « Studioso di net­ to indirizzo storico, che informa tutte le sue opere al con­ cetto dell’evoluzione, egli [Pettazzoni] era ed è tuttavia animato da un autentico spirito umanistico ed enciclope­ dico, avverso ad ogni dogmatismo e privo di intolleranza nei riguardi di punti di vista differenti dai suoi» \ Se que­ ste parole venissero da un diretto collaboratore di Pettaz­ zoni potrebbero sembrare francamente adulatorie: nell’e­ sercizio di un’autorità scientifica più che fondata, Pettaz­ zoni si mostrò talvolta non poco dogmatico e intolleran­ te. Kerényi ebbe modo di conoscere dall’esterno certe qualità di Pettazzoni che indubbiamente esistevano, ma che rischiavano di subire un’elisione dal peso autocrati­ co del «maestro universalmente riconosciuto della mate­ ria». Resta il fatto che, invitando Kerényi a pubblicare nella sua collezione la Religione antica, Pettazzoni non solo sapeva molto bene quel che stava facendo, ma, in fondo, non contraddiceva una componente della sua per­ sonalità che pure aveva subito severi blocchi dal meto­ do storico. L ’atmosfera della sua prima formazione, non tanto a livello accademico e nell’università di Bologna quanto nell’aura culturale della Monaco donde egli data­ va nell’agosto 1908 l’introduzione alla sua prima opera 2 k e r é n y i , La religione antica c i t ., p . 9 .

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stampata3, e poi il gusto della sua esperienza greca du­ rante la prima guerra mondiale4, sono soltanto alcuni sin­ tomi salienti di una disponibilità dello « studioso di netto indirizzo storico» verso esperienze diverse, contrastanti, conciliabili con la sua metodologia solo nel quadro di quello che egli definiva «un nuovo integrale umanesimo». Che questo umanesimo «nuovo» e «integrale» fosse un miraggio abbastanza inconsistente è dimostrato da certe cadute del discorso di Pettazzoni - come, per esempio, in un brano dell’introduzione al volume terzo di Miti e leggende: «Di queste forme arcaiche gli artisti per primi hanno sentito il fascino, e sono partiti alla scoperta del­ l’arte negra, oceanica e americana. Ora è la volta dei let­ terati, e già se ne avvertono i segni: valga per tutti l’e­ sperienza e la testimonianza di un umanissimo poeta, Ce­ sare Pavese»5. È un brano di cui oggi si avverte subito l’ingenua arbitrarietà, l’illusione di semplificare in positi­ vo. È più che ovvio notare l’intrinseca disparità di «ar­ caismi» e di «primitivismi» nell’arte figurativa dei primi decenni del Novecento, e la delicatezza degli eventuali rapporti di codeste vicende artistiche con il Pavese «mi­ tologo». Da questo punto di vista, Kerényi era più rigo­ roso: entrato nello Statuario del Museo Egizio di Tori­ no, la sua prima reazione fu un esplicito vituperio del­ l’arte di oggi rispetto a quella di ieri, di uno ieri antichis­ simo. Non siamo riusciti a chiarire con assoluta esattezza per quale via Pavese si sia incontrato per la prima volta con le opere di Kerényi. Fu, forse, un incontro abbastanza casuale, durante la prima fase del «periodo mitologico» di Pavese. È del 22 novembre 1945 un giudizio editoria­ le di Pavese su Figlie del Sole [T deh ter der Sonne] di Ke3 r . p e t ta z z o n i, Le origini dei Kabiri nelle isole del Mar Tracio, in «A tti della R. Accademia dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche», serie ^a, voi. X II, 1909, pp. 635-740. 4 Cfr. l’introduzione alla sua opera La religione della Grecia antica, Einaudi, Torino 19 542, p. 24. 5 r . p e tta z z o n i, Introduzione a Miti e leggende, voi. I l i , Utet, To­ rino 1953» P- v. Una replica polemica: e. d e m a r t in o , Etnologia e cultu­ ra nazionale negli ultimi dieci anni, in «Società», 19.53, PP* sgg., in particolare pp. 340-41.

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rényi, in vista della pubblicazione italiana dell’opera: «Ci presenta la mentalità mitica non come conoscenza del passato, come cronaca, ma facoltà creatrice che è anche nostra, presente, storia. Quando vede in certe dee greche la solarità (esse sono figlie o parenti del sole), mette in chiaro una nostra capacità di vivere come un tutto cosmi­ co un nostro incontro umano»6. Definizione che Kerényi avrebbe probabilmente approvato - ma collocando i con­ cetti pavesiani in un contesto europeo che forse non era del tutto presente a Pavese stesso (non sappiamo, tra l’al­ tro, fino a qual punto Pavese, nell’esprimere quel giudi­ zio, collegasse Kerényi al suo Thomas Mann: un Thomas Mann che, del resto, nel pensiero di Pavese, stava forse più come un simbolo da venerare che come un’esperienza storico-letteraria colta nella sua interezza). Fatto si è, co­ munque, che nella einaudiana «Collezione di studi reli­ giosi, etnologici e psicologici» (la «Collezione viola», che Pavese diceva «da [lui] personalmente coccolata»7) usci­ rono nel giro di tre anni, 1948, 1949, 1950, tre volumi kerényiani: i Prolegomeni allo studio scientifico della mi­ tologia (studi di Kerényi e di C. G. Jung), Figlie del Sole e Miti e misteri. Pavese fu dunque il vero «scopritore» di Kerényi in Italia, nella misura in cui la «Collezione viola» fu la prima ad attirare sistematicamente l’atten­ zione di un pubblico più ampio della cerchia ristretta de­ gli storici delle religioni sulla problematica della cosid­ detta scienza del mito. Con la «Collezione viola» nasce­ vano, tuttavia, i primi gravi equivoci. Il piano della col­ lezione era estremamente eterogeneo, in un certo senso contraddittorio. Autori come Kerényi ed Eliade, come Frazer e Frobenius, presi insieme ed ostili fra loro come i polli di Renzo, venivano presentati al lettore italiano non specialista quasi sotto un denominatore comune. Ho accennato altrove a quella che mi sembra essere stata la coerenza intima, personale, di Pavese nel comporre la «Collezione viola»: «Pavese... a partire da un certo mo­ mento dedicò la maggior parte del suo mestiere editoria­

6 Pubblicato in c. p a v e s e , Lettere 1945-1950, a cura di I. Calvino, Einaudi, Torino 1966, p. 83. 7 C. Pavese a E . Linder, i ° ottobre 1947: ibid., p. 17 5 .

3 P. . 4 Ibid .} p. 19 5.

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Käroly Kerényi il. L ’esperienza dell’isola *

Nel suo saggio su Karl Kraus, che per qualche tempo gli fu maestro e anzi modello, Elias Canetti scrive: «È importante avere un modello che possiede un mondo ric­ co, turbolento, inconfondibile, un mondo che da sé si è presentito, riconosciuto, accettato, provato e inventato. L ’autenticità del suo mondo è ciò che il modello effetti­ vamente dà a chi lo accetta, con cui esso si imprime più a fondo» \ Fin qui, Canetti. Ma resta da chiedersi se chi ci è stato modello può anche soccorrerci con l’autenticità del suo mondo nell’istante in cui noi ricordiamo lui. Se può, cioè, essersi impresso in noi cosi a fondo che quanto egli ci ha dato si tramuti in nostro atteggiamento, proprio quando, accingendoci a ricordarlo, sentiamo più forte l’impulso e il dovere di configurare noi e lui come persone separate: affinché il ricordo sia critica e vita anziché agiografia e morte. Affinché, insomma, il ricordare sia essere partecipi di quella dinamica della vita, verbi e non sostantivi, in cui Kerényi riconosceva la dimensione cosmica dell’epi­ gramma di Catullo: «Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris » 2. Può darci questo, il modello? L ’interrogativa non è re­ * Discorso in memoria di Kerényi, tenuto ad Ascona

1974.

1*8

novembre

1 e . Ca n e t t i , K. Kraus, Schule des Widerstands, in Macht und Ueberleben cit.; trad. it. di F. Jesi, K. Kraus, scuola di resistenza, in Potere e sopravvivenza cit., p. .52. 2 Cfr. k . k e r é n y i, Catullus, in Apollon. Studien über antike Religion und Humanität, Pantheon, Akademische Verlagsanstalt, Amsterdam-Leip­ zig 19422, P. 224.

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torica: tocca un problema fondamentale dell’insegnamen­ to di Kerényi; un problema difficilissimo da risolvere, ma che è necessario quanto meno affrontare, poiché l’inse­ gnamento stesso di Kerényi è stato un insegnamento, af­ fascinante ma arduo, a ricordare: a ricordare, si, ma a ri­ cordare in modo creativo, nel significato più alto e più problematico che questo aggettivo può avere, se appli­ cato a un’attività scientifica. «La via della critica, - ha scritto Kerényi, - ha un va­ lore scientifico soltanto quando è nello stesso tempo au­ tocritica»3. Diremo quindi, avendo sempre dinanzi agli occhi la nostra esperienza personale, che quanto di lui si è impresso più a fondo è quella parte della sua dottrina e della sua stessa esperienza umana che ormai riconoscia­ mo come sua solo a posteriori, riaprendo le pagine dei suoi libri e delle sue lettere; solo a posteriori, poiché è ormai in tutto nostra: è qualcosa che in noi fu aperto e reso libero - e sia pure soltanto libero nei nostri perso­ nali sotterranei, dove batte continuamente le ali contro le pareti, è e non è libero, e tuttavia senza esitazioni lo chiamiamo libero poiché ci permette di essere noi, cioè creativi, cioè in conflitto duro e continuo fra libertà e pa­ rete, fra noi e l’altro, il diverso. Il valore di conoscenza, il valore scientifico di questo conflitto, si trova espresso nel modo più chiaro e al tempo stesso più problematico nella pagina di Ergriffenheit und Wissenschaft in cui Ke­ rényi ha scritto: «... il sentimento che sta alla base dello stato di Ergriffenheit è questo: è la verità che ha prescel­ to me, e non io lei. E questo è anche il sentimento che ci permette di rispondere di questa scelta: a tale scopo im­ pegniamo la nostra persona: non sulla base dell’oscurità e della mancanza di libertà, bensì sulla base della cono­ scenza chiara e del deliberato servire» \ Ergriffenheit: potremmo tradurre con la parola italia­ na «commozione» (come è stato fatto, ma con un certo margine di non coincidenza semantica) questo vocabolo per eccellenza di Leo Frobenius: essere commossi, af­ 3

k e r é n y i , Ergriffenheit und Wissenschaft, in Apóllon cit., p. 64. 4 Ibid.y p. 69.

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ferrati, essere afferrati in modo creativo dalla commozio­ ne 5. Ci conduce direttamente al problema del ricordare la pagina rilkiana dei Quaderni di Malte Laurids Brigge che Kerényi prediligeva: « E anche avere ricordi non ba­ sta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso»6. È una configurazione delTErgrijfenheit nell’ambito del ricordare, cui oseremmo avvi­ cinare soltanto le parole di un altro poeta, la Dedica del Faust: «Di nuovo risorgete, o fluttuanti fantasmi, che in gioventù appariste al mio sguardo ancora annebbiato... Lontano mi sembra tutto ciò che posseggo; quel che di­ sparve risorge e diventa realtà»7. E qui dobbiamo privi­ legiare questi versi di Goethe, poiché nella loro tonalità di Ergriffenheit ha speciale rilievo quel senso della di­ stanza, della lontananza prima dal passato poi dal presen­ te, entro la dinamica dell’esperienza poetica, che è la di­ stanza apollinea vista da Kerényi nell’effige del dio gre­ co - ma in un’accezione cosi personale da coincidere con la vicinanza-distanza della Grecia su cui muove fino ad insospettate profondità il saggio di Kerényi su Corfù e VOdissea: «È una sorta di vicinanza [quella di Corfù alla Grecia] di cui si direbbe quasi che è ancor più Grecia del­ la Grecia stessa, perché nella realtà già raggiunta essa la­ scia ancora posto per la possibilità, per quello che della Grecia abbiamo sognato, per la nostalgia che abbiamo di le i» 8. Ed è quasi inutile sottolineare che la parola di Ke­ rényi da noi tradotta con «nostalgia» è Sehnsucht, quella 5 Insistiamo qui e più oltre sul concetto di Ergriffenheit in Kerényi, anche perché ci sembra importante caratterizzarne questa precisa accezio­ ne umanistica, in contrapposizione con quelle assunte dal medesimo con­ cetto nelle teorizzazioni della cosiddetta destra tradizionale. Su questo ar­ gomento ci siamo maggiormente soffermati in: f . j e s i , Il mito, Isedi, Milano 19 73, passim. 6 r i l k e , I quaderni di Ài. L . Brigge cit., p. 14. 7 Nella trad. it. di B. Allason, Einaudi, Torino 1965. 8 k. k e r é n y i, Korfu und die Odyssee, in Apollon cit., pp. 122-23.

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che qui risuona non a caso nella tonalità dei celeberrimi primi versi dell'Iphigenie auf Tauris. Commozione che afferra, distanza: parrebbe di avere in mano, cosí, i due termini del problema del ricordare, e di quanto il modello ha lasciato di sé nel nostro ricor­ dare lui. Ma daremmo troppo credito a chi superficial­ mente ha definito «romantica» Topera di Kerényi, se ac­ cettassimo la Sehnsucht quale soluzione del problema, vero e proprio dissolvimento del problema nella pura contrapposizione di commozione che afferra e nostalgia. E soprattutto lasceremmo nell’ombra quella che a nostro parere, per nostra esperienza diretta, è una componente essenziale del pensiero di Kerényi: quella cui egli si rife­ riva con le parole che abbiamo citato: «conoscenza chia­ ra» «deliberato servire». Descrivere questa componente vuol dire al tempo stes­ so delineare i tratti più evidenti dell’originalità dell’in­ tervento di Kerényi nell’ambito della ricerca scientifica. Possiamo sintetizzarne i termini cosi: con quello che può sembrare talvolta gusto del paradosso, e che è «conoscen­ za chiara», «deliberato servire», nei confronti della ve­ rità calata di fatto entro un contesto paradossale, Kerényi ha fondato la sua operosità scientifica su basi che appari­ vano le più fragili a gran parte della scienza accademica ufficiale, rifiutando egli non senza ironia, come troppo fragili, proprio quelle altre presunte basi che tale scienza dichiarava le uniche salde. Ricorderemo qui solo tre esempi. Nel saggio che abbiamo citato, Ergrijfenheit und Wissenschaft, trovandosi dinanzi a una grande raccolta di figurazioni rupestri preistoriche, Kerényi si chiede quale sia il «minimo non ulteriormente riducibile» di ciò che 10 scienziato può individuare circa quelle testimonianze: 11 minimo su cui egli può basare il proprio approccio e il proprio discorso come su un fondamento immediatamen­ te dato, sicuro. E rifiuta, come cosa nonostante tutto ipo­ tetica, sempre suscettibile di cauzione e di dubbio, ciò che gli studiosi di preistoria e gli etnologi solevano giudi­ care la base interpretativa più certa: il fatto che una figu­ razione di elefante con speciale indicazione del cuore, o

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una figurazione di bufalo con punte di freccia espressamente disegnate, siano quasi incontrovertibilmente in funzione di incantesimi venatorii. «Mera ipotesi, - dice Kerényi, - sebbene sia un’ipotesi verosimilissima». A questa ipotesi egli contrappone qualcosa che per certa parte della scienza ufficiale sarebbe privo di ogni solidità, o addirittura da non prendere in considerazione come co­ sa estranea alla scienza: «c’è pur sempre, - egli dice, qualche cosa che si può individuare con sicurezza anche maggiore, perché è "dato” in modo ancora più immedia­ to: intendo la condizione dell’artista al momento della creazione. Non resta nessun’altra constatazione che, in ogni caso, resista a qualunque critica, quanto quella dello stato di fatto puro e semplice che l’artista si trovava nel­ la condizione d’essere afferrato e commosso, preso, pos­ seduto dalla cosa rappresentata. Questa constatazione de­ v ’essere intesa in senso ristretto, quasi triviale: non ci si deve sentire più di quanto possa essere lasciato sussiste­ re dalla critica più severa e conseguente. Ogni cosa che fu partorita rende testimonianza del fatto che qualcuno ne fu pregno, e chi la portò non era interamente libero»9. Un secondo esempio. Nella sua grande opera sul ro­ manzo ellenistico10 Kerényi ha fondato tutto il suo di­ scorso, tutto lo stile nuovo della sua lettura, su ciò che molti specialisti del tema consideravano e spesso conti­ nuano a considerare l’aspetto più dubbio, meno afferra­ bile, o addirittura più sviante, del problema: la qualità genuinamente mitologico-religiosa dei romanzi. Anziché procedere da quella che per una certa filologia è l’ipotesi più concreta, più aderente ai fatti accertati - cioè l’ipo­ tesi della derivazione genetica del romanzo ellenistico dalle esercitazioni nelle scuole di retorica - , Kerényi ha valutato questa ipotesi per quello che è, mera ipotesi, ed ha ritenuto doveroso, più serio, lavorare su ciò che non è ipotesi: sull’intrinseca dimensione spirituale e artistica

9 k. k e r é n y i, Ergriffenheit und Wissenschaft, in Apollon cit., p p . 10 id ., Die griechisch-orientalische Romanliteratur in religionsgeschicht­

65-66.

licher Beleuchtung, Mohr, Tübingen 19 27, Wissenschaftliche Buchgesell­ schaft, Darmstadt 19622.

0

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dei romanzi, visti - come essi davvero sono - quali opere organiche, prove immediatamente date di un’esperienza che trova innanzitutto in sé la propria coerenza e il pro­ prio significato, la propria storicità. Riconoscere la storicità di un’opera d’arte, o comun­ que di una testimonianza spirituale, innanzitutto nell’in­ trinseca verità e coerenza che fa di essa un mondo, una Welt, non solo una Weltanschauung, è il senso profondo di quelli che sono stati definiti talvolta gli «ardimenti esegetici» di Kerényi. Questo riconoscimento trova nella sua opera l’espressione forse più alta - certo, quella più appropriata a soccorrerci nel ricordo di lui - nel saggio Immortalità e religione di A pollo 11. Anche in questo sag­ gio vi è la confutazione della via battuta e la contrappo­ sizione di quanto apparentemente è più precario a quanto è apparentemente più solido e accertato. L ’unica legitti­ ma esegesi del Fedone, dice Kerényi, non è quella che presuppone un itinerario dal mito al logos, ma quella che si specchia nella genesi del logos dal mito, nella na­ scita del dire di Socrate dall’esperienza religiosa di So­ crate. Abbiamo detto che questo ci sembra l’ardimento ese­ getico di Kerényi più appropriato a soccorrerci nel ricor­ do di lui. Ci sembra tale, poiché apre senza alcuna limita­ zione d’ordine estetico (per quanto alto possa essere) la contrapposizione fra commozione che afferra, creativa, e distanza: tra il volto che gli dèi ebbero per i Greci, e ciò che gli dèi furono per i Greci - innanzitutto il dio «lon­ tano», Apollo. Qui il pensiero di Kerényi non colloca da parte l’esperienza artistica, ma, inglobando l’esperienza artistica nell’autenticità dell’essere al tempo stesso affer­ rati e lontani, dinanzi alla realtà raggiunta ma anche alla possibilità, all’effettivo godimento ma anche alla Sehnsucht, fa del ricordo e del modello che insegna a ricorda­ re, ed è oggetto del ricordo, lo spazio di quel conflitto perenne che indichiamo con la parola «immortalità». Il conflitto, la contraddizione, il paradosso, sono in

PP.

11 k . k e r é n y i, 33 sgg.

Unsterblichkeit und Apollonreligion,

in

Apollon

c it.,

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6o

questa parola: «immortalità». Fra tutte le contraddizio­ ni che ci è dato di immaginare, la più netta è quella che congiunge in un vocabolo la morte con il suo contrario. L ’esperienza artistica e l’esperienza religiosa che, supe­ rando la scienza accademica, Kerényi ha riconosciuto di continuo come «minimo non ulteriormente riducibile», sono non tanto gli spazi in cui quella contraddizione pa­ radossale può divenire non contraddizione o addirittura ovvietà, quanto gli spazi in cui quella contraddizione è premio della volontà di «conoscenza chiara», «deliberato servire». Avere una contraddizione in premio, può sembrare una ricompensa molto poco augurabile, tanto più quando la contraddizione si pone fra due termini, come la vita e la morte, la cui conciliazione parrebbe il risultato più auspicabile di un’operosità intellettuale cui si dedichi la propria esistenza. Cosi parrebbe ; ma di là da questo pa­ rere affiora lo schema di un vivere per la morte - secondo le parole di Heidegger - , che è di fatto una soggezione alla morte: quasi che si viva, verso la morte, per sfuggi­ re alla morte: soggezione, almeno, alla potenza minaccio­ sa di un nemico tale da porsi come necessario e costante punto di fuga nella prospettiva del vivente. È come se la morte fosse un costante problema, di cui si spera o si è certi di poter trovare la soluzione. Ma nell’Epilogo de La religione antica Kerényi ha det­ to molto chiaramente: «Le idee religiose non hanno la funzione di rispondere a questioni. Le religioni non sono soluzioni di antichissimi problemi; esse, anzi, aumentano considerevolmente il numero dei problemi, diventando esse stesse presupposti di questioni e di risposte. [...] Nel­ la loro forma originaria, viva e valida, le idee religiose appartengono a una sfera completamente differente da quella delle questioni, posizioni di problemi, risposte e soluzioni»12. La contraddizione che Kerényi ha avuto in premio è «forma originaria, viva e valida» non di una religione an­ tica e resuscitata, ma di una esperienza dell’umano, della 12 k e r é n y i,

La religione antica c it., p . 19 9 .

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vita umana, tale da modellare il suo devoto come il pro­ dotto di una dinamica cosmica che, mentre sembra aprire in esso il vacuum della sete verso il «vedere» e «pronun­ ciare» al modo degli antichi «ciò che vi è di essenziale nel mondo», in realtà colloca il suo devoto in una costan­ te apertura: in un punto di apertura fra blocchi che sa­ ranno sostanze o fantasmi, simile a quello dell’incisione antica che mostra l’astronomo (o l’astrologo), sporto sul­ la terrazza della sua torre, cosi che la sua testa passa at­ traverso una prima sfera cristallina della cosmologia to­ lemaica, e si immerge a suo rischio notturno nello stel­ lato, al di là. L ’astronomo di quella figura è stato solita­ mente inteso come un protagonista dell’« arte di doman­ darsi». Viene ora da chiedersi se egli non sia piuttosto un protagonista dell’«arte di pronunciare»: non necessa­ riamente oracoli (e Kerényi, anche negli istanti di mag­ giore, esplicita intransigenza, non volle configurarsi in oracolo), ma parole di contraddizione. Siamo lontani da ogni tentazione religiosa, quando noi, non Kerényi, riconosciamo la misura di umanità di quel­ le parole di contraddizione nell’apertura che esse non solo presuppongono, ma fanno per il fatto che sono: nel «grande aperto» - per usare una parola di Rilke - che è prima di esse e in esse e per esse, socratico. Ma Socrate diceva di avere un daimon. Non possiamo più dire altret­ tanto, né possiamo rimpiangerlo, bensì dire che apertura e silenzio, chiusura e voce, ardono - poiché sono con­ giunte - tanto da distruggersi l’un l’altra, cosi che apro­ no il vero vuoto: lo spazio di assenza, tale da far risuo­ nare la parola come pura struttura prospettica delle ar­ chitetture mute, luogo di precaria durata umana di mo­ delli e di nomi. Conoscenza chiara della morte, deliberato servire la vi­ ta. In questo senso e solo in questo senso, nelle pagine di Kerényi, la mitologia è «immortale». Non perché egli credesse che il mito (una parola che pronunciava con grande e giustificata cautela) fosse una forza extraumana, e perciò immortale, che afferra l’uomo e lo plasma e lo fa agire. Ma perché la mitologia appariva ai suoi occhi com­ posta di miti che - sono le sue parole - sono sempre

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«miti dell’uomo», e dunque trovano la loro immortalità in uno spazio-tempo interiore che l’uomo acquista nella misura in cui lo crea, adempiendo alla sua vocazione uma­ na. Nella perennità di questa vocazione, fin tanto che gli uomini siano uomini (ma non oltre, non in spazi metafi­ sici extraumani popolati di fantasmi che afferrerebbero l’uomo), sta l’immortalità della mitologia, per Kerényi, e con essa l’immortalità dell’uomo. È un’immortalità di co­ scienza umana, di sapere che è più saggezza che sapienza, di virtù e di fede: fede nell’uomo e dell’uomo: conoscen­ za chiara della morte, deliberato servire la vita. Questa tonalità per cosi dire illuministica del pensiero di Kerényi ci ha sempre lasciato molto perplessi dinanzi alle parole di quei critici che hanno applicato alla sua opera una sbrigativa etichetta di romanticismo e neo-ro­ manticismo. Certo, Kerényi ha ritrovato spesso una sorta di sintonia con i grandi teorici romantici della filosofia della mitologia, e proprio in uno dei suoi scritti più per­ spicui e profondi, il saggio Origine e fondazione della mi­ tologia, ha citato Schelling: «Le stesse grandi creazioni mitologiche - dice Kerényi - dovrebbero far capire al­ l’uomo di oggi come egli si trovi in questo caso di fronte ad un fenomeno che [son parole di Schelling] "per pro­ fondità, durata e universalità è paragonabile soltanto alla natura stessa” ». Ma subito dopo, nella medesima pagina, Kerényi osserva che «Chi veramente volesse far cono­ scere le mitologie, non dovrebbe dapprima appellarsi a considerazioni e giudizi teorici (nemmeno a quelli di Schelling, di cui sono le citate parole d’encomio sulla mi­ tologia). Neanche delle fonti si dovrebbe parlare molto. Bisognerebbe prendere e bere la pura acqua della sorgen­ te perché questa ci compenetrasse e potenziasse le nostre latenti velleità mitologiche»13. Da un lato si potrebbe aver l’impressione che, con que­ ste parole, Kerényi si rivelasse più romantico dello stesso Schelling. Ma la sua preoccupazione di salvare da consi­ derazioni e giudizi teorici, nonché da lunghe digressioni 13 k . k e r é n y i . Origine e fondazione della mitologia, i n n y i , 'Prolegomeni c i t ., p . 1 3 .

ju n g

e k e ré-

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erudite sulle fonti, la «pura acqua della sorgente», è di fatto, innanzitutto, preoccupazione di salvare alla cono­ scenza scientifica la sua indispensabile qualità di autocri­ tica, e di là da essa, nell’istante in cui quell’autocritica vanifica ogni precedente di «considerazioni e giudizi teo­ rici», l’accesso personale umano al mito che è «mito del­ l’uomo» 14. Un’illustrazione precisa di questo accesso si trova nella prefazione al libro sugli dèi e gli eroi della Grecia. «Al lettore, - scrive Kerényi, - accadrà qualcosa di simile a quello che accadde a quel conte de Marcellus, ambascia­ tore francese presso la corte del Sultano. Nel 18 18 , par­ tendo da Costantinopoli per visitare le isole del Mar di Marmara, egli ebbe la ventura di incontrarsi con un greco eccezionalmente colto di nome Yacobaki Rizo Nerulos, che parlava il francese non meno bene del greco e fece conoscere al conte il grande poema epico dionisiaco di Nonnos, che il francese più tardi tradusse e pubblicò. Supponiamo ora che nella nostra isola noi pure incon­ triamo un greco simile che ci racconti la mitologia dei suoi antenati. Egli non sa più di quanto è stato traman­ dato nella letteratura e nelle opere d’arte. Ma quella tra­ dizione lo tocca personalmente. Egli ne parla come della "nostra” mitologia e quando egli dice "noi” , intende con ciò i Greci antichi, suoi e in un certo senso anche nostri antenati spirituali»15. Questo accesso alla mitologia che è al tempo stesso personale e dotto, autocritico e critico, rispecchia la sua tonalità creativa e insieme il suo senso della distanza, nel­ l’opera di Kerényi, il quale giunse a impersonare sia il colto isolano greco, sia l’umanista straniero. Non a caso l’accento è posto sull’immagine dell’«isola»: un’isola del­ le tante isole greche, ma anche Corfù, l’isola vicino-lontana della Grecia, ed anche 1’« isola» in cui Kerényi vol­ le riconoscere un’ora della sua vita. Nelle Considera­ zioni preliminari alla seconda parte del suo carteggio con Thomas Mann, Kerényi scriveva: «Quando perdem14 Cfr. in precedenza, p. 6. K. k e r é n y i, G li dei e gli eroi della Grecia, voi. I: G li dei cit.,

15

p. 18.

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mo Thomas Mann trovai anzitutto rifugio e salvezza nel copiare le lettere, nello studio di esse, nell’evocare i dieci anni trascorsi dalla pubblicazione della prima metà del dialogo - anni pieni di delusioni, ma anche ricchi di gioie, ricchi anche per la possibilità di continuare ancora il col­ loquio. Il quale per me fu un’isola». Ma nel settembre del 1959, giunto in una vera isola, in un’isola greca, Andros, egli precisava: «Per le mie giornate nell’isola di Andros avevo preso con me una copia delle lettere. [...] Ora potevo almeno recarmi in un’isola, una vera isola re­ mota...» 16. Questa, che vorremmo definire esperienza dell’isola17, è a nostro parere una costante, un perenne punto focale nel quale l’opera di Kerényi, il suo stesso atteggiamento dinanzi all’antichità e alla mitologia, si concentrano, si propongono all’occhio dell’osservatore nell’istante stesso in cui affondano le loro radici nella personalità dell’osservato. Il quale allora diviene veramente un modello. È un colloquio ed è un’isola, una vicinanza simpatetica e una distanza che trova specchio appropriato solo nella morte. In questo senso, del resto, il Fedone è un dialogo ma anche la più solitaria delle meditazioni sulla morte, e Apollo - come proprio Kerényi ha sottolineato, e direm­ mo quasi ha scoperto - è fra gli dèi greci il dio per ec­ cellenza, il modello del divino, ma anche, sotto un suo aspetto essenziale, è un dio di morte. Se l’immortalità è conchiusa nell’uomo, del pari conchiusa nell’uomo è la morte: il mito dell’immortalità è mito dell’uomo non meno del mito della morte. 16 k . k e r é n y i, Considerazioni preliminari, in FD , p. 2 1 . 17 È opportuno ricordare che «isola», Sziget (in ungherese), fu il ti­ tolo di una piccola rivista o piuttosto raccolta annuale di studi umani­ stici, pubblicata da Kerényi con il concorso di alcuni allievi e amici. Ne uscirono tre numeri (1, 19 35; 11, 1936; m , 1939). Sul frontespizio vi era unicamente la parola «Sziget» e il disegno di una moneta antica con al centro la lettera greca sigma (intesa quale iniziale della parola «stemma», che era appunto il nome del gruppo di allievi e amici, i quali si riuni­ vano settimanalmente in casa di Kerényi per discutere i loro lavori). Il colophon dei primi due numeri di « Sziget» (il terzo ne è privo) reca, per il i , l ’indirizzo di Kerényi a Budapest (Kapy-ucta 10: una stanza am­ mobiliata sulle colline di Buda), e per il 1936, il suo indirizzo a Pécs (Tettye-dulò y. una «vigna» sulla collina dietro Pécs, in cui era pigio­ nante presso due vecchi coniugi).

935

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Vorrei fare qui una brevissima digressione. È signifi­ cativo, anche se di per sé non eccezionale e storicamente spiegabile, il fatto che uno dei primi giornali ungheresi che diffusero in Ungheria le idee della Rivoluzione Fran­ cese fosse scritto in latino: «Ephemerides Budenses politicae et litterariae», si intitolava. La storia della cultura ungherese, il peso che ebbe in essa l’umanesimo dai tem­ pi di Giano Pannonio e di Péter Pázmány, spiegano chia­ ramente questo fatto. Ma la giuntura fra la tradizione umanistica e le idee della Rivoluzione, la tonalità che avranno assunto in latino i programmi della Rivoluzione, ci portano direttamente alle avventure spirituali e allo stile delle scelte spirituali di Kerényi ragazzo, che nella biblioteca del nonno materno leggeva Saint-Just, insieme con i classici. E nel saggio che abbiamo più volte citato, Immortalità e religione di Apollo, sembra qualche volta di riudire la eco del discorso sull’immortalità dell’anima che Robespierre pronunciò alla Convenzione il 7 maggio 1794: «... Brutus et les illustres conjurés qui partagèrent ses périls et sa gloire appartenaient aussi à cette secte su­ blime des stoïciens, qui eut des idées si hautes de la di­ gnité de l’homme, qui poussa si loin l’enthousiasme de la vertu, et qui n’outra que l’héroïsme. Le stoïcisme en­ fanta des émules de Brutus et de Caton jusque dans les siècles affreux qui suivirent la perte de la liberté romai­ ne; le stoïcisme sauva l’honneur de la nature humaine, dégradée par les vices des successeurs de César, et sur­ tout par la patience des peuples»18. Non crediamo che la eco sia casuale. E aggiungiamo che proprio questa eco ci permette di configurare anche sotto un’altra luce la kerényiana esperienza delVisola. L ’Ungheria, dal punto di vista linguistico, è in Europa una sorta di isola: un’isola dalla quale l’umanesimo, cer­ to, ha gettato ponti verso le altre nazioni - e un esempio evidente è quello del giornale in latino, mediatore delle idee della Rivoluzione Francese. Ma la ricchezza spiritua­ le di quest’isola non consiste soltanto nel suo specchio 18 Cfr. a. THiERS, Histoire de la révolution française, Furne et Cie, Paris 18.5013, vol. V I , p. 26.

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latino: è una ricchezza che matura nella sua cultura più peculiare, nella sua lingua. Il saggio Immortalità e reli­ gione di Apollo è stato scritto da Kerényi originariamen­ te in ungherese. E vale la pena, a questo proposito, smen­ tire una volta di più la pagina infelice in cui Giovanni Papini rimproverò agli ungheresi di aver abbandonato l’uso del latino: «Ora nessuno vi comprende. Siete un’i­ sola». Un’isola, certo. Ma un’isola che trova il proprio senso e il proprio valore nella sua peculiarità di luogo conchiuso e tuttavia toccato in ogni sua parte da un mare che è perennità di contatto con altre terre, nell’istante stesso in cui è abisso. Non a caso, per una facoltà crea­ tiva profonda che è la sola capace di congiungere visibile ed invisibile nel mito dell’uomo, Kerényi ha parlato del1’«Ungheria alcionia» nella prima pagina del saggio de­ dicato all’isola vicina e lontana alla Grecia, Corfú, e al­ l’isola dei Beati, all’isola dell’immortalità umana, circon­ data dal mare dell 'Odissea, sul quale vi è consapevolez­ za della morte e servizio di vita. Non soltanto nell’iti­ nerario di Odisseo, ma nella consapevolezza di ciò che del modello è divenuto nostro e riscopriamo peculiare del modello solo quando riapriamo le pagine di Omero: nel­ l’esperienza del dotto isolano greco, che alla Grecia del mito è vicino e lontano, quanto più il suo sapere mitolo­ gico è sapere di essere lontano, cosi che la coscienza del tempo trascorso, della morte, si congiunge al servizio del­ la vita, dell’ora presente. Conoscenza chiara della morte, deliberato servire la vi­ ta. Questa è la vera giustificazione storica dell’etimologia della parola «immortalità» nelle pagine di Kerényi. E questo è ciò che è talmente divenuto nostro, provenendo da lui, che ci apre come nostra la possibilità di ricordarlo come colui che oggi non è, mentre basta aprire le sue pa­ gine per poter affermare altrettanto legittimamente che è lui, oggi, a ricordare noi.

Käroly Kerényi in . Il «mito dell’uomo»

Il nome di Karoly Kerényi resta, in Italia, circondato di un’aura piuttosto equivoca. Questo grande studioso che difficilmente avrebbe potuto indicare in un uomo del­ la generazione precedente la sua un suo «maestro»1 (sa­ rebbe dovuto risalire, semmai, a K. O. Müller e a Schel­ ling), e che non ha lasciato alcuna «scuola», ha eserci­ tato un profondo influsso tra rivelatore e provocatore in numerosi ambiti dello studio dell’antichità classica e del­ la «scienza della mitologia» in generale. Ma si tratta di un influsso che, se mi azzardo ad avanzare qualche pro­ fezia, sembra destinato ad agire sugli studiosi delle pros­ sime generazioni più di quanto sia stato accolto dai suoi contemporanei. Si ha l’impressione che la sua fosse, per usare le parole di Walter Benjamin a proposito di Bachofen, una «profezia scientifica». L ’uomo in realtà non ave­ va nulla del profeta. Direi anzi che certe durezze del suo

1

j. d e v r i e s (in Forschungsgeschichte der Mythologie, Alber, Frei­ burg-München 19 6 1, p. 3 1 7 ) dice espressamente: «W alter Ottos Schüler Karl Kerényi ist auf demselben Wege entschlossen weitergegangen...» Tuttavia, anche nei confronti di W . Fr. Otto, Kerényi non fu propria­ mente uno «Schüler»: non fu suo discepolo in senso accademico, e nep­ pure in senso più lato. W . Fr. Otto rimase sempre per lui il «venerato amico», dal quale egli non mancò di prendere le distanze. È ovvio: con queste parole non voglio dire che Kerényi non imparò nulla da Otto. Die Götter Griechenlands fu per lui una lettura assai preziosa: ma più una conferma che una rivelazione. Kerényi non si senti mai «Schüler» di Otto; lo separava da Otto quella percezione della distanza fra noi e gli antichi che è cosa tipicamente kerényiana. (Cfr. f . j e s i , Introduzione a k . k e r é n y i, M iti e misteri, Boringhieri, Torino 19792). Particolarmente importante in proposito è la critica di Kerényi ai saggi di Otto su Hölder­ lin: le posizioni di entrambi sono ampiamente illustrate in p e l l e g r i n i , Hölderlin. Storia della critica cit., pp. 206-18.

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carattere, certe animosità e intolleranze, certi atteggia­ menti con cui pareva quasi rassicurare se stesso del suc­ cesso della sua figura di studioso, derivavano in parte proprio dal contrasto tra la sua vocazione caratteriale ad essere magister hic et nunc e la situazione storica che gli imponeva di precorrere i tempi e di parlare oggi per chi lo ascolterà in un domani non troppo vicino. Di qui, an­ che, l’ambiguità dell’aura che, come dicevo, circonda il suo nome in Italia; non solo in Italia, ma soprattutto in Italia che, nell’ambito dei suoi studi, era ed in parte è rimasta recinto piuttosto provinciale. Da questa provin­ cia, che, per quanto riguarda lo studio dell’antichità, sem­ bra nobile parte delYorbis litterarum quasi soltanto se si prendono in considerazione i «filologi puri», provengo­ no per lo più critiche a Kerényi che restano ambigue poi­ ché mancano il bersaglio dell’interezza della sua figura, o lodi a Kerényi che restano anch’esse ambigue poiché sal­ vano e celebrano della sua opera e della sua personalità alcune componenti magari di fatto presenti, ma salvate e celebrate in quanto sintomi di fermenti culturali cui l’Ita­ lia rimase chiusa - e cosi isolate dalla dialettica che fu sua, presentate come elementi fascinatori, dunque ten­ denzialmente sottratte al contesto sia delle contraddizio­ ni in cui egli le vedeva, sia delle contraddizioni in cui egli stesso era calato e non poteva o non voleva vedersi. Ancora nel 1970 E. Raimondi, nel suo saggio sulla Critica simbolica, menzionava Kerényi in questi termini: ... E infine rimane ancora, ma è un’altra presenza deter­ minante, la lezione deirantropologia con le sue ricerche in­ torno alle strutture del mito e del pensiero analogico-rituale, inaugurate dal Ramo d'oro del Frazer, a non voler scen­ dere indietro ai grandi romantici, e che giungono fino alle esplorazioni di un Malinowski o di un Campbell, allo strut­ turalismo di un Lévi-Strauss o, in un contesto junghiano, airarcheologia di un Eliade o di un Kerényi2. Dico «ancora nel 1970», perché di fatto, nelle parole di Raimondi (che nel quadro generale del saggio si riferi­

2

E. ra im o n d i, Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Einaudi, Torino 1970, pp. 4-j.

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scono a un apprezzamento positivo della «lezione» di quella «antropologia») ritornano le consuetudini in base alle quali, ventanni prima, E. De Martino aveva pole­ mizzato contro «la famiglia ambigua degli irrazionalisti». Sebbene sia notoriamente esistito un rapporto fra Kerényi e C. G. Jung, il carattere assai problematico e spesso precario di tale rapporto3 dovrebbe indurre a evitare di configurare la lezione di Kerényi essenzialmente «in un contesto junghiano»4. Per non parlare dell’accostamento (che sembra occasionale, dovuto agli incerti di un’esem­ plificazione sommaria, ma che, data la sua frequenza in numerosi autori, si rivela un tic d’una parte della cultura italiana) fra Kerényi e Mircea Eliade, a proposito del quale viene spontaneo ricordare non solo una definizione lapidaria data da Kerényi, «il triviale Eliade»5, ma, per analogia, le parole scritte da Kerényi a proposito dell’e­ clettismo di Pavese: «... aveva perfino fatto comparire a fianco a fianco Frazer e Frobenius » 6. Di là dall’accostamento fra Kerényi ed Eliade si intra­ vede del resto la possibilità (non certo da parte di Rai­ mondi! è opportuno precisarlo) di un recupero da destra della dottrina di Kerényi: è evidente che ai fiduciarii del­ la cosiddetta «destra tradizionale» riuscirebbe molto gra­ dito (come già tentano di fare nei loro convegni su miti, simboli e affini) catturare stabilmente Kerényi fra i loro autori. E questo è un pericolo maggiore di quello insito nelle valutazioni dell’opera kerényiana da parte di chi può venire soltanto accusato d’essere a tale proposito su­ perficiale o impreciso. 3 Vedi in precedenza, p. 32. Cfr. anche la lettera di Kerényi a Ninon Resse, 2 1 luglio 1946, in: h e s s e e k e r é n y i , Briejwechsel cit., pp. 137138. 4 Come fa, molto più estesamente di Raimondi, A. g u id u c c i ne II mi­ to Pavese, Vallecchi, Firenze 1967, in particolare pp. 229, 263, 279. Nel libro della Guiducci, fra l’altro, vi è anche qualche inesattezza di infor­ mazione: per es., a p. 279, si dice che «Kerényi, affascinato da Jung, compose le sue ricerche sul Fanciullo divino », mentre in realtà YUrkind fu scritto e pubblicato prima che Kerényi conoscesse Jung (a parte il fat­ to che Kerényi da Jung non fu mai «affascinato», e anzi rimase sempre fra loro una certa incomprensione di fondo, una certa tensione: «che pure rese possibile un reciproco rispetto»). 5 Vedi in precedenza, p. 24. 6 Nella lettera a F. Jesi cit. a p. 32.

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La strada da seguire sia per salvare il pensiero di Kerényi da queste manipolazioni, sia per mantenere aperta la nostra possibilità di usufruire della sua lezione, consi­ ste nello studiare la sua opera con strumenti critici tali da porre in evidenza, come ho detto, le contraddizioni che egli vedeva sussistere tra la sua personalità, l'ambiente della sua formazione, l'ambiente della cultura europea entro il quale si mosse durante la maturità, e anche le contraddizioni in cui egli stesso era calato tanto da non poterle o non volerle vedere. Solo in questo modo è pos­ sibile riconoscere, com'è giusto, in Kerényi uno dei gran­ di protagonisti di quella che G. Agamben ha chiamato «scienza senza nome», progetto di una futura «antropologia della cultura occi­ dentale» in cui filologia, etnologia, storia e biologia con­ vergano con una «icologia dell’intervallo», dello Zwischenraum in cui opera l’incessante travaglio simbolico della memoria sociale7, scienza «che, purtroppo, dopo quasi un secolo di studi antropologici, è appena agli inizi» e nella quale - dice Agamben - il nome di A. Warburg si può iscrivere accanto a quelli di Mauss, di Sapir, di Spitzer, di Kerényi, di Usener, di Dumézil, di Benveniste e di molti, ma non moltissimi, altri8. Nel libro di Aldo Magris, Carlo Kerényi e la ricerca fenomenologica della religione9, la strada che ho indicato è stata generalmente seguita per quanto riguarda le con­ traddizioni di cui Kerényi poteva e voleva rendersi conto, e abbastanza trascurata per quanto riguarda le contraddi­ zioni di cui Kerényi non poteva o voleva accorgersi. Quanto alle contraddizioni, alla tensione dialettica, che Kerényi avverti nei confronti delle persone del suo tempo con le quali fu in qualche modo in rapporto, A. Magris ha il merito di sottolineare ciò che divideva Ke7 g. a g a m b e n , A by Warburg e la scienza senza nome, in « Prospettive Settanta», luglio-settembre 19 75, p. 82. 8 Ibid. 9 Mursia, Milano 19 75.

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rényi da C. G. Jung (ma su questo punto il problema re­ sta cosi complesso da sollecitare altri interventi), da Elia­ de, da T. Mann, a partire da un certo momento da W. F. Otto. A. Magris non accenna invece in alcuna pagina al rapporto, pur dialettico, fra Kerényi e G. Scholem, e accenna solo di passata al rapporto fra Kerényi e Buber. Ma soprattutto manca nel libro di A. Magris una pre­ cisa disamina dell'atteggiamento politico, nel senso più lato, di Kerényi stesso; delle interrelazioni fra la dottrina di Kerényi e la sua posizione sia genetica, sia deliberata, politico-sociale; delle medesime interrelazioni fra dottri­ na e politica a proposito di coloro che furono per Kerényi i «venerati» e gli amici. A. Magris accenna appena a que­ sti problemi, con una brevità che non si addice a un libro di 350 pagine, e con alcune ingenuità. Per esempio: so­ no io il primo ad essere convinto che Frobenius non si possa liquidare come un farneticante precursore di Ro­ senberg, ma mi sembra un po’ ingenuo limitarsi a consta­ tare che «inoltre anche la sua visione del "risorgimento” della cultura tedesca (la cui colpa consisterebbe nell’aver fornicato con gli "Dei stranieri” del darwinismo, del mar­ xismo, ecc.) manifestava un carattere patentemente con­ servatore»10. Altrettanto dicasi per W. F. Otto («la so­ stanziale indifferenza o estraneità al nazismo di perso­ naggi sia pure di tendenza conservatrice, come Walter Otto e Karl Reinhardt»11: essere indifferenti al nazismo voleva dire qualcosa di molto preciso!) Quanto a Kerényi stesso, se da un lato è necessario sottolineare molto net­ 10 p. 27. La figura e l ’opera di Frobenius meriterebbero, del resto, uno studio approfondito, né apologetico come la raccolta Leo Frobenius, ein Lebenswerk aus der Zeit der Kulturwende, né rozzamente distruttivo come la prefazione di R. Bianchi Bandinelli a d d izio n e italiana della Storia della civiltà africana. A questo punto, non si tratta più tanto di sceverare cosa vi sia di buono e di cattivo nell’opera di Frobenius, quan­ to di studiare nella sua interezza l ’intreccio ideologico-scientifico di quel­ l ’opera, le sue componenti, il come e il perché dei pensieri sensati e delle farneticazioni, presenti gli uni e le altre in quella sconcertante mescolan­ za di anticolonialismo e di « germanesimo » guglielmino. A proposito del­ l ’opera Schicksalskunde itn Sinne des Kulturwerdens (citata più volte da A . Magris), non va dimenticato che nel suo titolo riecheggiava quello di Des Deutschen Reicbes Schicksalsstunde di h . f r o b e n i u s , il pamphlet imperialista e militarista del ’ 14. 11 p. 28.

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tamente la sua esplicita e costante ostilità al fascismo e al nazismo, non si può d’altro lato negare che il suo anti­ comunismo era assolutamente viscerale e violentissimo. Nulla in comune, neppure da questo punto di vista, tra Kerényi ed Eliade. Ma questa differenza non sta nel fatto che, come scrive A. Magris, Kerényi «non si lasciò anda­ re mai alle requisitorie e alle geremiadi anticomuniste che, in piena epoca di guerra fredda, fecero la fortuna professionale del suo conterraneo12 Mircea Eliade»13 e neppure nel fatto che Kerényi «come uomo non aveva simpatia per la sua [di Eliade] tendenza a fare il martire del comuniSmo»14. Quanto a requisitorie anticomuniste, Kerényi non fu da meno di alcuno! Ne sa qualcosa chi lo conobbe, e lo stesso A. Magris ricorda occasionalmente la rottura fra Kerényi e A. Brelich, accennando tra le righe al fatto che non erano in gioco solo problemi scientifici in senso strettols. La differenza è un’altra: che - anticomu­ nisti l’uno e l’altro - Kerényi non fu mai un fascista, mentre Eliade lo f u 16. Nel libro di A. Magris, d’altronde, anche là dove vi sono accenni (esigui) all’inquadramento politico delle sin­ gole persone in gioco, sembra che l’atteggiamento poli­ tico di ciascuno fosse cosa molto marginale e comunque estranea alle dottrine scientifiche da ciascuno formulate, e cosi tutto il discorso perde consistenza e mordente, cioè rimane accademicamente estraneo a quell’intreccio ideo­ logico in cui consiste il vero problema. Nella prospettiva di queste considerazioni devo rispon­ dere a una precisa critica che A. Magris rivolge a quanto ho scritto su Kerényi. A. Magris cita in particolare que­ sto mio brano: 12 In realtà Kerényi era ungherese e Eliade rumeno; la città natale di Kerényi, Temesvàr, fu poi acquisita dalla Romania (Timi§oara). M i sof­ fermo su questo punto per ricordare che Kerényi non si senti mai wcon­ terraneo” di Eliade. 13 p p . 1 2 2 - 2 3 . 14 p . 5 4 , n o t a 8 5 . 15 P P - 3 2 6 - 2 8 .

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Cfr. d . r e i , Fra storicismo ed ermeneutica religiosa: note su Mircea Eliade, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», 1 9 7 2 , pp. 5 3 5 - 6 2 ; f. JESI, I l mito, Isedi, Milano 1 9 7 3 , pp. 6 6 sgg.; id ., Cultura di destra, Garzanti, Milano 1 9 7 9 .

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Il Kerényi ha impegnato tutta la sua opera da un lato a esaminare l’autonomia, il valore autosignificante, le leggi interne della mitologia (nel senso di materiale mitico e del modellare subito da tale materiale), dall'altro a sostenere che la mitologia è nulla di meno ma anche nulla di più di un modo dell’esistere umano. Per il Kerényi non esiste una sostanza extraumana (il m ito della «destra tradiziona­ le») che si appalesa entro l’uomo ed entro la storia. Il mo­ dellare materiali mitologici, dunque il «fare della mitolo­ gia» non è nulla di meno ma anche nulla di più che eser­ citare una tipica facoltà dell’essere umano: facoltà che il Kerényi stesso dichiara paragonabile correttamente alla fa­ coltà musicale17. Dopo aver osservato che «Questa riduzione del mito in quanto “ mito dell’uomo” a una “ facoltà” della natura umana ci sembra per la verità piuttosto lontana dallo spi­ rito del pensiero kerényiano: Vumanesimo di Kerényi non va confuso con Vumanesimo storicista in una qual­ siasi delle sue forme», A. Magris precisa le ragioni di questa sua divergenza d’opinione enunciando alcune obie­ zioni che, per chiarezza di esposizione, esaminerò qui ad una ad una, sebbene si tratti di obiezioni strettamente interrelate e armoniche con un suo atteggiamento fondamentale, sia nei confronti di Kerényi sia della Religions­ wissenschaft in generale, diverso dal mio; giungerò del resto, più oltre, a confrontare l’atteggiamento suo e mio, configurati in una loro pur approssimativa interezza. A. Magris dice, innanzitutto: Certo per Kerényi il mito non è assolutamente una «so­ stanza», a parte il fatto che è filosoficamente stravagante porre la questione se il mito sia o meno una «sostanza»: sostanza potrebbe essere eventualmente la figura divina cui il mito si riferisce, ma d’altronde, come sappiamo, an­ che questo problema per Kerényi non sussiste18. Devo qui far notare che «porre la questione se il mito sia o meno una “ sostanza” » sembrerà «filosoficamente stravagante», ma è stato ed è storicamente necessario ne­

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J e s i, I l mito c it ., p . 8 o ( m a g r is , C. Kerényi c it ., p p . 2 9 8 -9 9 ). 18 m a g r i s , C. Kerényi c i t ., p . 2 9 9 .

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gare che il mito sia sostanza. Come dicevo nel testo da cui A. Magris ha tratto la citazione delle mie parole, la cosiddetta destra tradizionale ha insistito per decenni (usufruendo di una terminologia elaborata o rimasticata da autori come Th. W eber19 e Ed. Reich20) nel configu­ rare come «sostanza» ciò che essa intendeva per «mito». Proprio riferendosi a queste tecnicizzazioni del «mito», Kerényi ammoniva: «Solo, non dobbiamo ipostatizzare, come se "mito” o addirittura wGermania” fossero so­ stanze concrete» [«Nur hypostasieren dürfen wir nicht, als ob "Mythos” oder gar "Deutschland” feste Substanzen wàren»]21. E questo ammonimento si ricollegava a uno dei problemi fondamentali del suo pensiero, cioè alla sua distinzione tra «mito» e «mitologia», alla sua cautela nell’uso della parola «mito», dato il rischio che (sulla scorta non solo dei più espliciti tecnicizzatori nazisti dei materiali mitologici, ma di autori amici o addirittura ve­ nerati come W. Fr. Otto) si intendesse per «mito», e sia pure per «mito autentico» qualcosa che «è dinamico, ha un potere, afferra la vita e la plasma » La necessità sto­ rica di prendere le distanze da questo atteggiamento ren­ de, dunque, molto meno «filosoficamente stravagante» di quanto parrebbe la volontà di negare che il «mito» sia «sostanza»; e questa volontà di negare (più che di «porre la questione se...», poiché infatti di negazione si tratta) è di Kerényi anziché mia originale. Evidentemen­ te, per chi non accetti i presupposti della «destra tradi­

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t h . w e b e r , Metaphysik. Eine wissenschaftlicke Begründung der On­ tologie des positiven Christentbumsy Gotha 18 8 1-9 1, voi. II, pp. p i, 547. 20 e d . r e i c h , Der Kosmos des IJebersinnlichen und die Entwickelung der Wesen, Flemming, Prag/Spandau 1897, passim. 21 Vedi in precedenza, p. 6. 22 Dalle Considerazioni preliminari di k . k e r é n y i, in F D , p. 33. Da quanto dice A . Magris, ho l ’impressione che egli non abbia ben tenuto conto del contesto da cui cita le mie parole. Da tale contesto, ma innan­ zitutto dalla distinzione fra « il mito [in corsivo nell’originale] della ” de­ stra tradizionale” » e la mitologia, risulta infatti che il mito (-sostanza) è quello della destra tradizionale, cioè il mito che non «si riferisce» ad una «figura divina», ma che è la sostanza cui «si riferisce» la mitologia, la sostanza extraumana che afferra l’uomo e lo fa parlare del mito (lo fa produrre mitologia) o anzi lo fa agire sotto la propria forza: vedi Schuler, vedi Derleth, vedi Dacqué, ecc. In generale, insomma, per la destra tradizionale il mito non è il parlare di qualcosa, ma la sostanza (die magische Welt-Substanz per Ed. Reich) di cui parla la mitologia.

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zionale», il «mito» non può essere sostanza; affermare che il «mito» possa essere sostanza è tanto «filosofica­ mente stravagante» quanto può esserlo una tecnicizzazione dei materiali mitologici. A. Magris prosegue nella sua critica scrivendo: La nostra impressione, anzitutto, è che nel genitivo del­ la frase «il mito è mito dell*uomo» Kerényi non sentisse tanto un genitivo soggettivo quanto un genitivo oggettivo; cioè a dire non nel senso che il mito sia un prodotto uma­ no (come vorrebbe forse concludere Jesi), ma soprattutto nel senso che il mito è un’«espressione antropologica», che il mito nella sua forma più elevata (i miti di creazio­ ne e i miti esistenziali come quello di Persefone o di Pro­ meteo) descrive figurativamente la struttura «archetipica» della condizione umana23. A proposito del genitivo soggettivo e oggettivo, credo che sia preferibile limitarsi a prendere atto delle parole di Kerényi - sia quelle nella prefazione al Briccone divi­ no', sia quelle rivolte a me: «... una delle mie tesi [...] di­ ce: " I l mito è mito dell’uomo” , [e] questo genitivo va inteso come genitivus subiectivus e obiectivus» [« ...eine meiner Thesen [...] lautet: " I l mito è mito delPuomo” , dieser Genitiv als genitivus subiectivus und als obiecti­ vus aufgefasst »]24- che fanno valere simultaneamente le due accezioni; è pericoloso avanzare ipotesi tali da anda­ re oltre quell’« und». Quanto alla presunta intenzione di concludere «che il mito sia un prodotto umano», dico soltanto: se si intende per «mito» la mitologia in quanto i materiali mitologici storicamente verificabili, Kerényi ha sottolineato che la mitologia, è il prodotto di una fa­ coltà umana spontanea di modellare materiali figurativi (o, se vogliamo, linguistici in senso lato). Se poi per «mi­ to» si intende la situazione di tensione dialettica in cui l ’uomo si trova, o addirittura che l’uomo è, tensione resa esplicita dalla facoltà dell’uomo di «fare mitologia», al­ lora bisogna passare all’ultima e conclusiva obiezione di A. Magris: 23 p . 2 9 9 .

24 Vedi in precedenza, p. 6.

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Ma il punto più importante è che a Jesi, forse perché parte da un problema di «sostanze», sfugge completamen­ te la natura dialettica del pensiero kerényiano. Senza dub­ bio il mito è una costruzione umana; se si vuole è anche il prodotto di una «facoltà» mitogenica insita nell’uomo. Ma che cos’è l'uomo? Secondo Kerényi, l’uomo è (per la sua propria essenza) rapporto, correlazione, Umgang. I due poli che sottendono la struttura relazionale dell’uomo so­ no da un lato il mondo-della-vita che nella prospettiva del­ la seconda dimensione rivela la trasparenza di un «mondo di segni»; dall’altro l’intenzionalità della coscienza che, nel senso della religio, si preoccupa di leggere scrupolosa­ mente, di comprendere e di interpretare quei segni. Il mi­ to nasce perciò dall’attività ermeneutica con cui l’uomo entra in contatto con ciò che sta fuori di lui, pur trovan­ dosi nel medesimo orizzonte di esperienza25. Sgombriamo prima di tutto il terreno dal «problema di “ sostanze” ». Come ho già detto, mi sono preoccupa­ to di sottolineare la volontà di Kerényi di negare che il «mito» possa essere sostanza, per una precisa ragione che è la ragione stessa per cui Kerényi insisteva su quella ne­ gazione. Certo, per Kerényi «la questione se il mito sia o meno una " sostanza” [...] non sussiste» (e neppure sussi­ ste per me): ma Kerényi ha sentito la necessità (ed io me ne sono fatto eco) di dire « no » poiché una schiera di tecnicizzatori - da destra - di materiali mitologici diceva e dice «si». Resta la questione della «natura dialettica» del pen­ siero di Kerényi. Affermando che tale natura mi sfugge, A. Magris giunge al nocciolo del problema, poiché di fat­ to, di là da queste obiezioni che ho esaminato partitamente, sta la contrapposizione fra l’atteggiamento di A. Magris e il mio nei confronti della religiosità di Kerényi. Dice A. Magris: ... la datità storica della religione indica che è nell’es­ senza propria dell’uomo di essere in rapporto con qualco­ sa d’«altro». La genericità di questa espressione «altro» non è dovuta solo a prudenza scientifica, ma anche ad una complessità insita nella natura stessa della cosa: non a ca­ 25 p. 299.

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so è stata usata pure da eminenti studiosi e addirittura da teologi. La scienza storico-religiosa può tuttavia, senza nes­ suna implicazione teologica, chiamare questa alterità col nome che essa ha in una tradizione culturale dell'umanità: come «il divino» (das Göttliche)76. Cito queste parole non per discuterle qui in quanto espressioni di una convinzione di A. Magris (sono pre­ sentate come tali), ma per chiarire Pinterpretazione che A. Magris dà del pensiero di Kerényi. Secondo A. Ma­ gris, infatti, quanto mi sfugge è il fatto che per Kerényi il mito è il risultato27 dell’attività ermeneutica con cui l’uomo entra in contatto con «il divino», che è «ciò che sta fuori di lui», «pur trovandosi nel medesimo orizzon­ te di esperienza». L ’unica, concreta obiezione da parte mia può essere questa: a mio parere, ho colto la «natura dialettica» del pensiero di Kerényi riconoscendo nella religiosità di Ke­ rényi una religione della morte che non era acquiescenza alla morte o idolatria della morte, ma «conoscenza chiara della morte» cui si contrapponeva dialetticamente in lui un «deliberato servire la vita»28. Sono convinto che «la natura dialettica del pensiero kerényiano» non sia sacri­ ficata da queste parole: nel pensiero di Kerényi la mitologia è quel linguaggio uni­ versale che getta intorno all'uomo un cerchio dal quale non è possibile uscire senza entrare immediatamente nel cerchio della morte - poiché è la morte che delimita il bordo esterno di quel cerchio della mitologia: è la morte la sostanza dura («qualcosa e insieme nulla») senza la qua­ le il fluire della mitologia sarebbe una pura corrente amor­ fa. La mitologia è il cerchio contro la morte; ma anche: la mitologia è il cerchio che è tale poiché intorno ad esso preme la morte. La seppia-uomo schizza il suo inchiostro di miti contro l’acqua che la circonda e con cui si identi­ fica il nemico incognito; ma solo la densità e la pressione di quell’acqua fanno assumere le sue forme preziose e di­ fensive all'inchiostro che vi fluisce29. 26 p. 293. 27 O, se si preferisce, «ciò che nasce da...» 28 Vedi in precedenza, pp. 60-61. 29 Vedi in precedenza, pp. 31-32.



MATERIALI MITOLOGICI

Ho scritto «conoscenza chiara della morte», anziché «esperienza del divino», per mantenere presente il rife­ rimento storico alle accezioni di religio mortis nella cul­ tura tedesca, e al carattere funerario della sublimazione di quella cultura, borghese, in termini di religio. Cultura tedesca: che per l’ungherese Kerényi risultò soggettiva­ mente estranea, ma oggettivamente simpatetica in quan­ to accezione esemplare di cultura borghese, di quella cul­ tura borghese, conservatrice, non fascista, in cui egli si ri­ conosceva (certo senza ammettere che fosse cultura «bor­ ghese») come «conjuratus dell’ "Esercito latino” » 30. Se, d’altronde, ci si lascia sfuggire questi connotati di Keré­ nyi, si incorre nell’errore di A. Magris nel valutare un’o­ pera veramente splendida di Kerényi, Die Mythologie der Griechen e Die Heroen der Griechen, e in generale tutto l’approccio di Kerényi a quanto sopravvive del mondo antico. Scrive A. Magris: A nostro avviso, renorme distanza che divide la «summa» kerényiana di mitologia greca da tutte le altre esi­ stenti, anche le più pregevoli, risulta subito evidente fin dalla prima lettura: è la distanza che separa inevitabil­ mente dal mondo greco qualsiasi opera scientifica moder­ na sull’antichità classica. Nel testo di Kerényi, questa di­ stanza sembra essersi annullata come per incanto; il suo discorso piano e convincente ci trasporta in un’altra di­ mensione storica e religiosa con una meravigliosa sensazio­ ne di contemporaneità31. Ma il pregio della «Mitologia greca» di Kerényi consiste esattamente nel contrario: nel fatto che Kerényi non di­ mentica mai la distanza - «C ’è ancora molto che separa la bocca dall’orlo del calice...»32. Quella che è doveroso chiamare la genialità di Kerényi consiste nella finezza con cui egli ha colto il gioco del vicino-lontano, la veridicità di ciò che ci offre la distanza, il godimento profondo dei resoconti di viaggio in Grecia nel xviii-xix secolo, il sen­ 30 Come dice di sé Zeitblom nel Doctor Faustus. 312 pp. 264-65. Dall’Introduzione di k. k e r é n y i a j u n g e k e r é n y i, Prolegomeni cit.,

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so della malinconia-profezia, del perduto che è la nostra condizione di percezione e di Sehnsucht verso il futuro dinanzi alla Grecia. Kerényi sapeva benissimo di non po­ ter eliminare quella distanza, e sapeva che Punico modo di accedere alla nostra Grecia consisteva nel prendere at­ to di quella distanza come di cosa insuperabile, cosi come Ifigenia: Denn ach! mich trennt das Meer von den Geliebten, Und an dem Ufer steli’ ich lange Tage, Das Land der Griechen mit der Seele suchend33. Chi parla nella sua «Mitologia» è un moderno «greco eccezionalmente colto», egli «non ne sa più di quanto è stato tramandato nella letteratura e nelle opere d’arte. Ma quella tradizione lo tocca personalmente»34. Il dato costantemente presente è la distanza, mai eliminabile, di ciò che ci tocca personalmente. Questa distanza (non a caso Kerényi era lettore appassionato di Rilke, e sapeva bene la Ferne rilkiana) impedisce al tono della «Mitolo­ gia» di Kerényi di cadere nel Kitsch, e congiunge ideal­ mente Kerényi al T. Mann della tetralogia di Giusep­ pe. Indubbiamente T. Mann sembra essere andato oltre, fino ad un’occasionalità dell’uso dei materiali mitologici 33 g o e th e , Iphigenie auf Tauris, w . 10-12. 34 K. k e r é n y i, G li dei e gli eroi della Grecia, voi. I: G li dei cit., p. 18. Sia queste parole, dalle quali risulta chiaramente la distanza fra il moderno isolano greco e i suoi antenati, sia (nella medesima prefazione) le considerazioni sulle alterazioni irrimediabili subite dai materiali mito­ logici, sia infine (nella prefazione ai Prolegomeni) le parole sulla distanza che ancora «separa la bocca dall'orlo del calice» e quelle che seguono, non permettono di supporre che Kerényi si fosse illuso di ripristinare l ’immediatezza di approccio alla mitologia greca, quale essa fu per i greci antichi. Quanto egli si propose di fare (e forse riuscì a fare) era: «allar­ gare quell’accesso immediato per il quale il lettore dovrà trovare la pro­ pria strada verso la mitologia». Non: «verso la mitologia greca», ma verso la mitologia; cioè favorire le esperienze mitologiche di ognuno, oggi, l ’esercizio spontaneo e libero della facoltà mitologica. Sebbene si fosse allontanato «per tempo» dal metodo storico-filologico, Kerényi non mi sembra avere mai rifiutato di fare i conti con il tempo della storia, pur avvertendo che non coincide con esso il tempo del segreto. I «pen­ sieri segreti » di ciascuno - egli ha detto - « sono miti e riti esattamente come erano quelli dei popoli»: ma avere proprii miti e riti (proprii «pensieri segreti») non significa essere in contatto diretto con quelli che furono i miti e i riti degli antichi, significa soltanto trovarsi ad esercitare una facoltà che fu anche degli antichi, e quindi accorgersi di quanto sia­ mo vicini (e lontani) rispetto a loro.

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nella quale la distanza diviene situazione di parodia. Kerényi si è fermato in quello spazio della Ferne che è al tempo stesso al di qua e al di là della parodia. La parodia è pur sempre condanna a morte, con speranze taciute nel­ la Fenice. La Ferne di Kerényi - e di Rilke - è attesa, malinconia, non dichiarazione di vita hic et nunc (come il «paganesimo» di W. F. Otto) ma ipotesi di vita lon­ tana.

La festa e la macchina mitologica

i. Gli studi sulla festa circoscrivono un ambito di ri­ cerche documentarie e metodologiche entro il quale l’an­ tropologia culturale, l’etnologia, la storia (o scienza) delle religioni e quella del folklore sono sottoposte, oggi, a una prova specialmente rivelatrice. Le feste dei «selvaggi» e le feste del calendario folklorico sono state, nei secoli scorsi, uno dei principali oggetti di studio di queste disci­ pline: forse il principale momento, nell’esistenza delle collettività studiate da etnologi e folkloristi, che - insie­ me con il sacrificio - apparisse pregno di determinati stili di vita, cosi come il patrimonio mitologico, situato non tanto /^//'esistenza delle collettività, quanto prima di es­ sa, quale suo precedente fondante. A differenza dalla mi­ tologia, la festa è, almeno in apparenza, direttamente percepibile e documentabile dall’estraneo. Mentre la mi­ tologia, ridotta a puro racconto mitologico accessibile agli estranei, si rivela subito remota dal suo essere in at­ to, la festa, pur osservata da estranei, sembra intatta e conoscibile nei suoi gesti, nel suo spazio, nel suo ritmo, nelle sue norme. Le riserve particolarmente gravi che sono state poste dalla riflessione metodologica circa que­ sta conoscibilità, hanno indotto numerosi studiosi con­ temporanei a rinunciare, almeno in parte, ad essa ed a privilegiare la mitologia come elemento peculiare di una cultura, elemento di cui sembra meno rischioso calcolare i margini di inconoscibilità. In questo modo, tra le scien­ ze umane degli ultimi due secoli e quelle di oggi, si sta compiendo una frattura che pone in evidenza soluzioni di continuità già latenti nel decorso del pensiero antropoio-

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gico in senso lato (mascherate dal modello illusorio di un progresso scientifico lineare). Ciò che viene posto in crisi è precisamente la possibilità di rapporto conoscitivo tra l’osservatore moderno e l’attualità di un momento d’esi­ stenza delle culture di interesse etnologico o folklorico. Per questo crediamo che gli studi sulla festa rappresen­ tino un banco di prova singolarmente arduo e rivelatore. Discipline che, fino a ieri, hanno affrontato l’esistenza dei «diversi» e, come suo istante saliente, la festa, si tro­ vano oggi ad esitare dinanzi ad ogni approccio a tale esi­ stenza in atto. Esse tuttavia sono costrette a prendere po­ sizione in qualche modo anche dinanzi al problema che tende a risolverle in scienze del non-conoscere, e da simili prese di posizione è lecito trarre conclusioni rivelatrici sui limiti e sulle possibilità delle scienze dell’uomo. L ’approccio di ciascun osservatore o ricercatore al meccanismo in questione può essere descritto come la ge­ nesi di un determinato modello gnoseologico, cioè dello schema determinato in cui di volta in volta s’è attuata l’esperienza conoscitiva. Ciascun modello gnoseologico coincide con un conoscere in atto fin tanto che dura la sua fase genetica. Una volta conclusa tale fase, definitosi compiutamente il modello, è più esatto parlare di cono­ scenza riflessa, cioè dell’alone di sopravvivenza che sussi­ ste intorno al modello stesso, ormai schema irrigidito, formula data anziché conoscere in fieri. Ciascun cono­ scere in fieri, ciascun approccio non riflesso al meccani­ smo osservato, ciascun modello gnoseologico nella sua fase genetica, è caratterizzato e delimitato dall’interazio­ ne fra quanto vi è di permeabile nel meccanismo e quan­ to vi è di permeabile nell’osservatore: conoscenza, in questa accezione, è incontro di due permeabilità, l’una e l’altra condizionate dalle circostanze storiche in cui il conoscere è in fieri e dalle caratteristiche che, in quelle circostanze, sono peculiari dei due enti coinvolti nel pro­ cesso gnoseologico, il conoscente e il conosciuto. Dal mo­ mento in cui il modello gnoseologico acquista definitiva­ mente forma stabile, la permeabilità dell’ente conoscente si riduce ulteriormente; l’approccio al meccanismo da co­ noscere è infatti condizionato da un ulteriore fattore: il

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modello stesso, che è ormai una formula data e che, per periodi di lunghezza variabile, continua ad imporsi in certa misura sulle operazioni conoscitive di chi non ha partecipato alla sua genesi. Ogni modello ha consentito una determinata forma di conoscenza (o, al limite, di non-conoscenza). Esaminarli tutti insieme dal punto di vista della storia delle ricerche e dell’epistemologia significa tentare non soltanto di veri-' ficare le caratteristiche condizionanti delle singole culture entro le quali sono stati formulati e il condizionamento ulteriore che essi stessi hanno esercitato, dopo che ebbe termine la loro fase genetica, ma anche un’ulteriore for­ ma di conoscenza del meccanismo che essi hanno varia­ mente affrontato e una riflessione su uno dei principali problemi di metodo nell’ambito delle scienze umane. Chi raccoglie una serie di modelli della festa formulati a par­ tire dal xvi secolo, si propone due obiettivi interrelati: lo studio dei condizionamenti primari e secondari che inter­ vengono nella genesi dei modelli e nel loro influsso ulte­ riore, e un nuovo approccio al fenomeno della festa. Dei modelli precedenti è possibile usufruire come di elementi di patrimonio gnoseologico che devono essere posti in condizione di reagire gli uni con gli altri, come parti di una composizione nella quale consiste l’ulteriore cono­ scere. Se ciascun modello possiede una sua oggettiva veri­ dicità gnoseologica, occorre tentare di adoperare insieme molteplici modelli, non cercandone le concordanze che, anche quando esistono, restano scarsamente rilevanti data l’autonomia intrinseca di ciascun modello, ma facen­ do interagire i diversi modelli e il loro raccoglitore. È questo l’ulteriore approccio al meccanismo della festa: adunare e ordinare in una composizione modelli gnoseo­ logici, in modo che tale composizione sia un conoscere in fieri. Ma per raggiungere questo fine è indispensabile ren­ dere le varie parti della composizione - i vari modelli interagenti le une con le altre, non irrigidite entro i loro singoli confini, non riparate, grazie alla loro definizione, dall’interazione reciproca. Rendere i singoli modelli gnoseologici interagenti fra loro significa ricondurre ciascuno di essi alle modalità di

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non-conoscenza che sono la forma in cavo della loro og­ gettività. Ognuno di tali modelli è una creazione concet­ tuale autonoma, obbediente a proprie leggi intrinseche, proprio perché corrisponde a determinate e autonome modalità di non-conoscenza. Rendere i modelli intera­ genti fra loro significa rendere attuale la loro oggettività, dunque il loro aderire a singole forme di non-conoscenza. La tecnica di conoscenza cui intendiamo ricorrere si attua nella tensione fra la qualità negativa del suo adoperare ogni modello gnoseologico in funzione delle modalità di non-conoscenza che gli sono proprie, e la qualità positiva del suo creare per composizione. Essa inoltre deve affron­ tare il problema dell'attualità del suo esito. Questa attua­ lità è, a sua volta, in tensione dialettica rispetto all'inat­ tualità degli elementi della composizione, cioè dei mo­ delli gnoseologici. Se configuriamo la vita di ciascuno di essi in termini temporali, osserviamo che il momento del­ la loro esistenza più difficile da conoscere è quello della loro attualità, del loro «oggi». Il loro «ieri», rappresen­ tato dai fattori che intervennero nella loro genesi, può essere conosciuto con relativa facilità, poiché quelle stes­ se scienze nel cui ambito essi sono «modelli», dispongo­ no di molteplici passe-partout metodologici per configu­ rare le origini di un fatto con rigore che potrà variare al­ l'atto pratico, ma che in teoria coincide con il rigore del principio di causalità. Questi modelli hanno anche un «domani»; di là dalla loro precisa attualità, sono pro­ getti creativi, fino al limite dell'utopia, ed anche fino a tale limite i passe-partout metodologici per configurarli non separano il loro rigore da quello del principio di cau­ salità. Si tratterà semmai, in alcuni casi, di passe-partout metodologici - di modelli gnoseologici riflessi - sufficien­ temente elastici per sussistere anche là dove radicalizzino la tensione del conoscere fino alla sospensione di giudi­ zio su taluni anelli della catena di cause e di effetti. Usia­ mo l'espressione «modelli gnoseologici riflessi», perché si tratta di passe-partout metodologici che di fatto svol­ gono la loro funzione in quanto riflettono i modelli da conoscere o vi si adeguano per trasparenza. Nei casi in cui riflettono l'oggetto come uno specchio maculato, essi

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non fanno altro che adeguarsi alle zone di buio che già sussistevano nella visione del «domani» propria dei crea­ tori dell’oggetto (dei creatori del modello da conoscere). Il «domani» di ogni modello gnoseologico inteso come progetto creativo è pieno di queste macchie oscure di là dalle quali dovrebbero celarsi anelli della catena di cau­ se; riflettere tali oscurità non è altro che adeguarsi alle caratteristiche dell’oggetto da conoscere. Nell’esistenza del modello da conoscere i veri punti oscuri, cioè i punti circa i quali la nostra conoscenza è in difficoltà senza giustificazioni di adeguamento fenomenologico, coincidono con i momenti di attualità: con i mo­ menti dell’«oggi». Ciò che più ci sfugge è precisamente l’istante dell’attualità dei modelli gnoseologici che vo­ gliamo conoscere: l’istante in cui non ci è possibile far ricorso a passe-partout metodologici fondati sul principio di causalità, poiché nell’«oggi» assoluto, nell’esclusivamente presente, resta sospeso il rapporto temporale im­ plicito in una relazione di causa e di effetto. Se la nostra metodologia è assolutamente condizionata dal principio di causalità, qui essa si arresta, trovandosi di fronte alYaltro per eccellenza. Considerata autonomamente dal suo «ieri» e dal suo «domani», la cosa dell’«oggi» asso­ luto è inaccessibile a scienze umane che non dispongano di metodologia autonoma dal principio di causalità. Queste considerazioni riescono qui specialmente op­ portune poiché l’oggetto che funge da denominatore co­ mune dei diversi modelli gnoseologici cui ci riferiamo è un fenomeno - la festa - le cui manifestazioni attirano l ’attenzione innanzitutto sul suo «oggi», sulla sua attua­ lità che risulta privilegiata al punto da sembrare identifi­ cabile con la sua essenza. Il nostro lavoro ha quindi il du­ plice scopo di verificare, da un lato, le modalità secondo le quali le scienze umane di oggi non sono in grado di conoscere la festa nella sua attualità; e di verificare, d’al­ tro lato, attraverso lo studio delle modalità secondo le quali non siamo in grado di conoscere l’attualità dei mo­ delli gnoseologici applicati alla festa, i limiti di una sto­ ria delle ricerche ristretta allo «ieri» e al «domani» dei suoi singoli oggetti.

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A ll’ambito gnoseologico di tale storia delle ricerche va aggiunta un’ulteriore limitazione. È vero che una ricerca scientifica fondata sul principio di causalità può ottenere qualche risultato quando indaga sia lo «ieri» sia il «do­ mani» di un determinato modello. Ma risulta ben presto chiaro che i risultati dell’indagine sullo «ieri» sono mol­ to più precari di quelli sul «domani»: lo «ieri» è, sia pure con ampi margini, definito nel tempo, mentre il «domani» non è costretto da limite post quem. Nello studio dello «ieri» gli oggetti tendono ad irrigidirsi in un’attualità già accaduta, dinanzi alla quale la ricerca nuovamente si arresta; nello studio del «domani» gli og­ getti - i modelli gnoseologici - rimangono operanti come progetti creativi a tempo indeterminato, e la ricerca può procedere nella misura in cui si identifica con quella stes­ sa progettazione creativa in atto. Condizioni oggettive fanno si che la nostra indagine si muova solidale con ciò che sopravvive degli oggetti studiati, solidale con la loro esistenza nella fase «domani», e cosi essa stessa diviene un progetto creativo, sia pure per negazione. L ’antino­ mia fra creatività-progettazione e negatività (determina­ zione delle modalità del non-conoscere) è, ai nostri occhi, garanzia di contributo verso l’obiettivo epistemologico che ci proponiamo: il superamento per eccesso della me­ todologia cui è estranea la conoscenza dell’«oggi». 2. «Ma, infine, quali saranno gli oggetti di questi spet­ tacoli? Niente, se si vuole... Piantate nel centro di una piazza un palo con una ghirlanda di fiori, radunate il po­ polo e avrete una festa. Fate ancora di più, fate degli spettatori uno spettacolo: fateli diventare attori anch’essi». La nozione di festa che Rousseau contrappone alle rappresentazioni teatrali in questo brano della Lettre à d ’Alem bert1 rivela un’esigenza di cui possiamo determi­ 1 Vedi anche, a proposito di questo stesso brano di Rousseau, le con­ siderazioni di j. s t a r o b in s k i in La scoperta della libertà (170 0 -1789 ), trad. it. di M . Busino Maschietto, Fabbri, Milano 1965, pp. 85 sgg., e di J. Derrida in La scrittura e la differenza, trad. it. di G . Pozzi, Einaudi, Torino 19 7 1, p. 3 1 ?*

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nare gli ambiti e le modalità di soddisfazione, ma non l'oggetto di soddisfazione. È un’esigenza che dev’essere elettivamente soddisfatta nell’ambito gnoseologico e nel­ l ’ambito politico da un fenomeno di cui ignoriamo l’es­ senza, ma per il quale disponiamo di un modello conosci­ tivo che svolge determinate funzioni. Festa, nelle parole di Rousseau, è un accadimento co­ noscibile e politicamente auspicabile, il quale coinvolge una collettività. Conoscerlo è vantaggioso poiché signi­ fica conoscere un fenomeno umano simultaneamente dal­ l’esterno e dall’interno. La festa coinvolge una collettivi­ tà, la afferra come una mano che la prenda e la chiuda, e al tempo stesso accade in una collettività, dentro di essa, nascendo con moto centrifugo che si propaga dal punto della collettività più lontano dai suoi bordi ester­ ni. Caratteristica della festa, quale essa risulta secondo tale modello, è la sua prerogativa di determinare un cen­ tro nella collettività: di rendere attuale nella collettività il punto latente più lontano dai suoi bordi. In questo senso la festa è radicamento della collettività nel suo in­ timo, fondazione della collettività. Ciò che la festa torna periodicamente a fondare è non solo la struttura immo­ bile del cristallo della collettività, evocato dai paradigmi dei veri e propri rituali di fondazione ma il dinamismo della collettività, il moto organico della sua esistenza. L ’esperienza festiva è dominata essa stessa da un moto che procede dalle radici della collettività, dall’immobilità delle sue strutture cristalline, dal destino della colletti­ vità, verso le ore di scelta - sebbene tale scelta sia soven­ te deliberata accettazione del destino e questo moto, che è di propagazione, è fatale nel suo automatismo co­ me il moto del respiro, ed è totalizzante, cosi da ricon­ durre al centro tutte le parti della collettività nell’attimo in cui il centro si disvela come tale: «... piantate al cen­ tro di una piazza un palo con una ghirlanda di fiori». L ’esperienza festiva non si limita ad afferrare la colletti­ vità dall’esterno e dall’interno simultaneamente (dall’e­ sterno della festa che non è ancora e dall’interno della fe­ sta che è, per la collettività, latenza di centro perenne), ma, coinvolgendo nel centro tutte le parti della colletti-

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vita, fondando la collettività, facendo di essa un blocco unico in cui il centro permea uniformemente ogni parte, pone il centro della collettività a contatto diretto con l’e­ sterno di essa: identifica il centro con le marche di con­ fine, fa paradossalmente del centro il bordo esterno. La festa ravvicina cosi il centro della collettività, ciò che essa più propriamente e autonomamente è, al suo esterno, ciò che essa non è. Fra la collettività e il suo esterno rimane una separazione, che anzi è tanto più netta quanto più su di essa si affaccia il centro stesso del­ la collettività, il suo essere più peculiare e caratterizzan­ te. Ma tale linea di demarcazione è penetrabile dagli sguardi. In stato festivo è possibile vedere la collettività quale essa più intimamente è. Questa permeabilità gno­ seologica della linea di demarcazione appare a Rousseau auspicabile sia dal punto di vista del puro conoscere - è possibile sapere cosa sia una data collettività - , sia dal punto di vista politico - è possibile stabilire rapporti di conoscenza armonica fra le collettività, rapporti dai quali procedono armonie di coesistenza che non sacrificano le reciproche e autonome peculiarità, e pure attuano una loro compenetrazione. L ’altro diviene permeabile all’io poiché lo si conosce meglio; l’io diviene permeabile al­ l’altro poiché ne tocca gnoseologicamente il centro e dun­ que ne subisce l’influsso per contatto diretto. La crisi del principio d’identità, che è tratto peculiare dell’antropo­ logia e dell’etnologia rousseauiane, si radicalizza dinanzi all’esperienza festiva e diviene la qualità porosa della su­ perficie che l’antropologo e l’etnologo offrono alle esi­ stenze e alle culture diverse. Non a caso le testimonianze dell’etnografia esordiente, in particolare nel x v iii secolo, sono specialmente ricche di osservazioni sulle feste dei «selvaggi». Oltre alle evidenti ragioni pratiche che solle­ citavano l’attenzione dei viaggiatori europei verso le fe­ ste dei diversi, ragioni più nettamente ideologiche indu­ cevano a caratterizzare i diversi proprio descrivendone le feste. L ’operazione di autoampliamento e di autogiustifi­ cazione dell’io, in cui possiamo configurare l’esordio del­ l’etnologia moderna, trovava le circostanze più appro­ priate nel descrivere le feste dei diversi, dunque nel por­

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re Pio in relazione con l'altro quando l'altro si rivelava centro di sé, propria essenza, fino ai bordi del proprio manifestarsi. La consapevolezza teoretica di questa op­ portunità sarebbe giunta relativamente tardi, e per lo più taciuta come confessione imbarazzante di uso interessato della scienza. Si trattò allora di un'opportunità avvertita nel buio, e tuttavia non sfuggita, già cosi necessaria da imporsi oscuramente, da sola, per chi cercava non essa stessa consapevolmente ma ciò che essa procurava. 3. Resta tuttavia enigmatico che cosa fosse, in effetto, ciò che offriva codesti vantaggi: che cosa fosse la festa a meno che non si voglia indicare l'essenza della festa unicamente nel funzionamento utile che le è proprio, se­ condo il modello descritto. Nella fase di rielaborazione teoretica delle vicende con cui esordi l'etnologia moder­ na, l'interrogativo al quale si è cercato di rispondere è, anche, appunto questo: che cos’è la festa? Ma l'esigen­ za che veniva soddisfatta dalla festa secondo il modello rousseauiano dura ancor oggi. Coloro che, oggi, rispon­ dono a quell'interrogativo, continuano ad essere costretti a preoccuparsi assai più di definire in termini di scienza le caratteristiche di quanto servi e serve a conoscere i di­ versi, proprio nei limiti di tale funzione, anziché di inda­ gare (posto che sia possibile) l'essenza della festa di per se stessa, indipendentemente dalla sua utilità per stabi­ lire un rapporto con chi si trova in stato festivo. Alle ra­ gioni di questa delimitazione del problema si può acce­ dere per il tramite delle parole con cui Kàroly Kerényi introduce lo studio della «religione antica come religione della festa»*: Che la spiegazione di una religione parta dalla fede o dal senso di realtà: comunque dev'essere presupposto uno stato, in cui la fede non era ancora fede, ma evidenza di immediata commozione, in base alla quale l'idea religiosa veniva sentita quale realtà; in cui l'usanza religiosa non

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k . k e r é n y i, La religione anticat trad. it. di D. Cantimori e A . Bre­ lich, Astrolabio, Roma 19.512, p. 42.

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era ancora usanza, ma atto nuovo, in cui l’idea si conti­ nuava, e si esprimeva forse tacitamente, con la esclusività di un atto emozionale. Sia lo storico quanto l’etnologo devono confessare che non potranno mai incontrare tale stato di formazione in flagranti. Ma l’idea in sé è indipendente dal tempo. E do­ vunque essa appaia, dovunque essa venga rievocata, essa porta con sé quell’elemento d’immediatezza e di commo­ zione che trasforma il tempo stesso in momento creativo. Tutto ciò che momenti simili contengono - il loro calore, la loro freschezza e originarietà - s’innalza perciò sopra la caducità del tempo comune. L’etnologo si imbatte per tut­ to il mondo in simili momenti trasformati, - «hohe Zeiten», momenti sublimi - come la lingua tedesca li può chiamare con bella espressione. Essi sono pervasi di calore di vita, penetrati di idee commoventi. Si vedrà che ad essi non manca nemmeno l’elemento creativo. Questi momenti si chiamano feste. Se vi è qualche cosa da cui possa partire la comprensio­ ne della religione antica e in cui l’indagine filologica e quella etnologica delle religioni possono prestarsi un vi­ cendevole sussidio, è proprio lo studio dell’essenza della festa... NelTaccostarsi al problema dell’essenza della festa, Kerényi confida di trovare in essa il punto di contatto vivo fra l’io e l’altro, collocati ambedue entro il fluire di una «commozione» di là dalla quale possiamo intravedere la «commozione» indicata da Frobenius come perenne stato creativo della Kultur di un popolo. Fra gli studiosi moderni di questi temi Kerényi si è rivelato uno dei più acuti nel valutare simultaneamente l’aspetto epistemolo­ gico del problema e la necessità di affrontare il quesito circa le «essenze». Perduta l’illusione di un autosuffi­ ciente ubi consistam filologico, dal quale sia possibile configurare correttamente i diversi, il pensatore coinvol­ ge in una medesima sostanza fluida di commozione tutti i possibili io individuali e collettivi, e nel moto magma­ tico continuo di essi quali enti creativi vede sia divenire permeabili le loro barriere, sia porsi nitide le essenze del­ le loro esperienze. Si tratta di una permeabilità per niti­ dezza di essenza. Le feste sono cosi gli istanti in cui ac­

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quista visibilità il moto emozionale creativo, che altri­ menti dura invisibile. La differenza radicale fra istanti fe­ stivi e istanti non festivi, su cui specialmente insiste Kerényi, coincide con la differenza radicale fra visibile e in­ visibile; in quanto istante di visibilità (del centro della collettività, del suo moto creativo di commozione), la fe­ sta è abissalmente non quotidiana. Almeno sotto questo aspetto, la differenza è più profonda di quella stessa fra sacro e profano (o apre una nuova profondità alla diffe­ renza fra sacro e profano), giacché nel sacro possono rien­ trare il visibile e l’invisibile, l’esperienza del vedere e l’assenza di essa: tra visibile e invisibile, il sacro e il pro­ fano possono - entrambi - fungere da denominatori co­ muni, mentre nell’esperienza festiva il non visibile è re­ spinto oltre i bordi esterni della collettività. Nella festa la collettività è esposta nuda alla vista come un blocco in cui centro e periferia si identificano. Questa interpretazione dell’esperienza festiva procede gnoseologicamente dalla funzione della festa alla sua es­ senza; non tanto dalla funzione della festa entro la col­ lettività in cui si svolge, quanto dalla funzione della festa quale zona di organismo vivo, non riparata dalle più spes­ se concrezioni del diverso, con cui può entrare in contat­ to l’organismo del ricercatore, che cosi sperimenta consa­ pevolmente una sorta di osmosi emozionale, dagli esiti gnoseologici. È vero d’altronde che nello studio di Kerényi il valore dell’essenza della festa di per se stessa, come ens quatenus ens, è assai più privilegiato che in altre ricerche con­ simili e garantisce all’indagine una finezza - proprio dal punto di vista epistemologico: dei limiti di conoscibilità dell’esperienza festiva - altrimenti assente. Qui non in­ tendiamo affermare che la definizione della festa quale ens quatenus ens sia specialmente apprezzabile poiché ve­ ra in assoluto. Osserviamo piuttosto che tale definizione rivela una precisa consapevolezza dei limiti di conoscibi­ lità, da parte nostra, dell’esperienza festiva: della vacuità delle pretese di conoscere l’intrinseca essenza del diverso con gli strumenti scientifici di cui disponiamo. Una testimonianza ulteriore e meno raffinata di questo

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processo d’indagine che determina l’approccio alla festa a partire dalla funzione di essa in vantaggio del rapporto scientifico - limitato a priori - con il diverso, si trova nella traduzione di un brano della Politica di Aristotele, compiuta da Mario Untersteiner. Nel libro Le origini del­ la tragedia e del tragico2, Untersteiner esamina il passo della Politica3 in cui Aristotele parla di coloro che «si abbandonano a canti tolxt]V», e traduce «a canti che mettono l'anima in uno stato di fe­ stività». Il modello conoscitivo della festa, di impron­ ta kerényiana, serve qui a Untersteiner come passe-partout (il che non vuol dire a priori che l’operazione sia inefficace e neppure che sia arbitraria) per configurare anche l’esperienza in cui Aristotele indicava la circostan­ za propizia per la iaTpeia e per la xà&apcri 3*5, 3*9-

339 Hoffmann, E . T . A ., 24 1. Hohenlohe-Schillingsfürst, C. zu, 287 n. Hölderlin, J . C. F., 4, 5, 26, 67 n, 129, 209 n. Hugo, V ., 2 1 7 n. Hulewicz, W ., 189 n. Humboldt, W . von, 15 e n, 3 1 e n, 3 1 1 n. Hume, G ., 304. Igino, 12 3. Jahier, P., 275 n. Jeanmaire, H ., 92, 93, 126 e n, 128-30, 13 2 , 1 3 4 , 1 3 7 , 1 3 8 , 150 n. Je s i, F ., n , 13 n , 14 n , 1 6 n , 19 n , 20 n , 22 n , 23 n , 24 n , 32 n , 36 n , 37 n , 54 n , 56 n , 69 n , 72 n, 73 n, 14 3 n, n , 19 1 n , 192 n , 196 n , 2 1 1 n , 218 n , 241 n , 246 n , 266 n , 268 n , 310 n , 3 1 1 n , 3 1 3 n , 3 1 5 n , 3 1 7 n , 320 n , 323 n . Joyce, J., 263. Jung, C. G ., 5 n, 6 n, 7 n, 8 n, 25 n, 3 1 n, 32, 35, 36, 39 n, 62 n, 69 e n, 7 1 , 78 n, 99 n, 2 14 n, 262 n. Jünger, E ., 206 e n. Justi, C ., 2 13 -2 1.

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Kakridis, J. T ., 14 1 e n. Kämmerer, P., 252 n. Kant, I., 193. Kasdorff, H ., 261 n. Kazarov, G . I., 14 7 n. Keller, G ., 2 15. Kemp, R., 288 n. Kerényi, D., 4, 5. Kerényi, G ., 10 n. Kerényi, K. (o C.), 3-80, 89-94, 99 e n, 100, 110 , 116 , 119 , 14 3, 14 5, 182, 184, 185 e n, 2 14 n, 226 n, 242 n, 247, 248, 250-52, 262 e n, 268, 270 e n, 268, 270 e n, 274 n, 327 n. Kerényi, M ., 3 n, 4 n. Kersten, K ., 298 e n. Keyserling, H ., 20. Kien Long, imperatore della Cina, 309, 310 , 327. Kislinger, J., 289. Kist, W ., 15 7 n. Klages, L., 260, 261. Klossowski, P., 13 3 .

27 n , n , 67 14 7

340 Kohlhauer, E ., 37 n. Kommerell, M ., 249, 2.50. Kornmann, H ., 239 n. Kosko, M ., 1 56 n. Kossuth, L ., 22. Krâpelin, E ., 310 . Kraus, K ., 54, 227 n, 291 n, 3123 14 , 3 1 5 n, 329, 330. Kuckuck, M ., 2 j 2 n. K u llm a n n , W ., 1 4 1

e n.

Lafitau (o Lafiteau), J.-F., 1 1 7 . Lang, A ., 16 1, 17 1 . Lang, M ., 239 n. Leighton, F., 162 n. Leopardi, G ., 7. Léry, J . de, 10 1 e n, 116 . Lévi-Strauss, C., 49 n, 68. Lévy-Bruhl, L ., n o , 158. Liman, P., 196 n. Linder, E ., 35 n. Littré, E ., 42. Lloyd George, D., 280, 28 1. Lowenthal, L ., 186 n, 206 n, 273 e n. Luccheni, L ., 287. Lucrezio, 1 0 1 , 1 1 8 . Ludwig, E ., 273 e n. Luigi Filippo, re dei Francesi, 5 1. Luisa, regina di Prussia, 286. Lukács, G ., 23, 24 n, 188, 2^7 n. Lundgren, G ., 2 1 1 n. Mabuse (J. Gossaert), 12 2. Machen, A ., 16 1. Mackay, C., 16 1 e n. Maeterlinck, M ., 288 e n. Magris, A ., 70-78, 246, 248, 2 5 1. Magris, C., 196 n. Mahler, E ., 268 n. Malinowski, B., 68, 109. Mallarmé, S., 30 e n . Mann, E ., 184 n, 194 n, 202 n. Mann, H ., 194 n. Mann, K ., 184 n, 2 5 1, 283 n. Mann, M ., 183 n. Mann, T ., 4 e n, 5 n, 7-12, 14, i j , 17-19 , 21-26, 35, 4 1 e n, 42, 5 1, 63, 64, 7 1 , 79, 11 8 , 119 n, 139, 18 3-2 71, 274 e n, 283, 284. Mann Pringsheim, K ., 183 n, 184 n, 195-99» 201 n. Manuel, F. E ., 239 n. Manuel, F. P., 239 n. Manzoni, A ., 45-50. Marcellus, conte di, 8, 63. Marco Aurelio, 5.

INDICE DEI NOMI Maréchal, S., 97. Mares, M ., 289, 292 n. Marett, R. R., 102. Marianelli, M ., 1 1 n, 185 n. Marinetti, F. T ., 179. Marino, G . B., 2 1 7 n. Marx, J., 240 n. Marx, K ., 20, 193. Mauss, M ., 70. Mayer, H ., 19 2, 19 3 n, 202 e n. Mazzucchetti, L ., 8 n, 184 e n, 2 12 n, 224 n. Medici, Lorenzo de’, 12 1-2 3 , 12 5, 128. Meier-Graefe, J., 249. Melantone, 2 12 , 2 2 1, 284. Mennling, J. C ., 2 1 7 n. Meriggi, B., 282 n. Merlini, M ., 189 n. Meuli, K ., 261 n. Meyer, G ., 261 n. Millais, J . E ., 162 n. Monteverdi, C ., 12 3. Moore, B., 18 7 n. Morder, R ., 160 n. Mozart, W . A ., 193. Muhammad Tughlak, sultano di Delhi, 32 1. Mülder, D., 14 1 e n. Müller, K . O ., 67, 1 3 1 . Mussolini, B., 28, 273. Mutianus Rufus, 4 1. Naumann, H ., 239 n. Needham, R., 159 n. Nestroy, J., 291 n. Newburgh, W . di, 239. Nerulos, Y . R., 8, 63. Nietzsche, F., 26, 27, 9 3 ,1 0 2 ,1 0 5 , 12 5, 128, 129, 1 3 1 , 13 2 , 137-39. Nonnos di Panopoli, 8, 145. Novalis, 2 13 . Oderò, M ., 276 n. Oetker, A ., 183 n. Oliva, R ., 277 n. Otto, W . F., 4 n, 23, 26, 67 n, 7 1 , 74, 80, 99, 100. Ovidio, 12 3. Pabst, W ., 239 n. Paci, E ., 185-87. Pagani, F., 286 n. Pallenberg, M ., 295, 297, 298. Pandolfi, A ., 183 n. Papini, G ., 66.

INDICE DEI NOMI Pater, W . H ., 53 e n. Pavese, C ., 27, 32, 34-38, 69. Pázmány, P., 65. Pellegrini, A ., 17 n, 67 n. Pericle, 285. Periini, T ., 198 n, 2 1 1 n, 274 n. Pers, C. di, 2 1 7 n. Pestalozzi, F., 14 1 e n. P e tro c c h i, P ., 4 9 .

Pettazzoni, R ., 33, 34 e n, 14 7 n. Philonenko, M ., 262 n. Piceni, E ., 40 n. Pinner, E ., 184 n. Piscator, E ., 295 e n, 297, 298 e n, 303, 304, 306. Platone, 46, 59, 64, 130. Plessen, E ., 183 n. Plinio, 5 1 , 284. Plutarco, 3 1 7 . Pocar, E ., 4 n, 7 n, 10 n, 2 1 n, 184 n, 18 5 n, 200 n, 226 n, 274 n. Poggioli, R., 282 n, 291 n. Poletti, C ., 283 n, 304 e n. Poliziano, A ., 7, 8, 12 1 . Portelli, A ., 277 n. Pound, E ., 27-30. Pozzi, G ., 86 n. Premuda, M . L ., 38 n. Propp, V . Ja., 1 6 3 ,1 6 4 n. Radetzsky, J . J. F. K ., 284. Radin, P., 6 n, 25 n, 39 n, 2 14 n. Raglan, Lord, 159 n. Raimondi, E ., 68 e n, 69 e n. Rajna, P., 15 4 n. Rathenau, W ., 322. Rauch, C. D., 286. Redford, D. B., 266 n. Rei, D., 72 n. Reich, E ., 74 e n, 259, 260. Reimann, H ., 298 n. Reinhardt, K ., 7 1 , 14 1 e n. Reuchlin, J., 4 1. Rhees, R., 158 n, 167. Rider Haggard, H ., 16 1, 162. Rilke, R. M ., 25 n, 27, 3 1 n, 38, 39, 56 e n, 6 1, 79, 80, 126, 168 e n, 189 e n, 19 1, 203, 323 e n. Rilke-Sieber, R ., 168 n. Rio, M . del, 16 3, 238 n, 239, 240 n. Ripellino, A . M ., 293 n. Robespierre, M ., 6 5 ,1 0 1 . Rohde, E ., 39. Rollin Patch, H ., 239 n. Roosevelt, F. D ., 263. Rosenberg, A ., 23, 37 n.

34 i Rossi, A ., 277 n. Rostagni, A ., 33. Roth, J., 283 n, 285 n. Rougemont, D . de, 180. Rousseau, J.-J., 49 e n, 86-88, 94,

95i 98.

Ruskin, J., 5 3. Ruzante, 290 n. Sachs, M ., 19 3. Sade, D .-A.-F. de, 1 1 7 , 118 , 133. Saffo, 128. Sailer, M ., 48 n. Saint-Just, L.-A .-L., 65. Saint-Martin, L.-C. de, 97 e n, 118 . Salvini, L ., 282 n, 290 n. Sapir, E ., 70. Sartre, J.-P ., 272. Schadewaldt, W ., 14 1 e n. Scardanelli, F., 323 n. Schefold, K ., 261 n. Schelling, F. W . J., 62, 67. Schiavoni, G ., 189 n. Schiller, J . C. F. von, 209, 210. Schlechta, K ., 249. Schlegel, F. von, 1 3 1 , 13 2 . Schleiermacher, F. D . E ., 2 15 . Schneider, G . H ., 259. Scholem, G ., 7 1. Schopenhauer, A ., 1 3 7 ,1 3 8 , 2 1 1 n, 246. Schreber, D . P., 323 e n. Schröter, K ., 2 1 n, 184 n. Schuler, A ., 74 n. Schulz, B., 287 n. Scott, W ., 48-50. Sénancour, E . Pivert de, 3 1 5 n. Seppilli, A ., 92 n, 150 n. Serpa, F., 18 n. Sertoli, G ., 277 n. Seure, H ., 14 7 n. Severyns, A ., 266 n. Seydlitz, F., 286. Shakespeare, W ., 205 n. Socrate, 59, 61. Sofocle, 14 2, 15 4 n. Solmi, R., 309 n. Sörensen, B. A ., 1 1 n, 15 n. Spaini, A ., 295 n. Spencer, H ., 138, 163. Spengler, O., 158 e n. Spitzer, L ., 70. Starobinski, J., 86 n. Stazio, 154 e n. Stendhal, 326.

137

342 Stoker, B., 16 1, 162 e n. Storm, T ., 119 , 325. Strafforello, G ., 284 n. Tasso, B., 162 n. Tea, E ., 53. Tedeschi, V ., 8 n. Terreni, L., 283 n. Tessari, R., 179 e n, 180. Thieberger, R., 225 n. Thiers, A ., 65 n. Tolstoj, L. I., 44, 296, 3 12 , 312 , 316 , 328. Toulouse-Lautrec, H . de, 290, 292. Traverso, L., 189 n. Tredegar, Lord, 162. Trier, J., 167, 169. Tschuppik, K ., 287 n. Tylor, E . B., 160. Unseld, S., 309 n. Untersteiner, M ., 92, 93. Usellini, L., 162 n. Usener, H ., 70. Valéry, P., 234 n. Vanek, K ., 282 n. Velazquez, D. da Silva y, 2 13-16 , 218 , 219 . Vergote, J., 267 n, 268 n. Verlaine, P., 234 n. Vertone, S., 189 n. Vigolo, G ., 209 n. Virgilio, 15 3 , 154, 156. Vittoria, regina d’Inghilterra, 1 7 1. Vivanti, A ., 303 e n. Vivanti Salmon, A ., 287 n. Volta, O., 162 n. Vorlicek, V ., 282 n, 291 n. Vossler, K ., 193. Waezoldt, W ., 2 15 , 2 19 n. Wagenbach, K ., 289, 292 n. Wagner, C ., 12 5. Wagner, R., 186-88, 19 7, 237, 238, 24 1, 242 e n, 245. Warburg, A ., 8 n, 70, 2 2 1 e n, 284 n. Watts, G . F., 162 n. Weber, T ., 74 e n. Weimar (Sassonia-Weimar), Carlo Augusto, duca di, 219. Weisbach, dottor, 284. Werner, Z ., 156 n. Wessel, H ., 308. Whelpley, J. D., 286 n. Whitridge, F. W ., 28.5 e n.

INDICE DEI NOMI W ila m o w itz -M o e lle n d o r ff, U . v o n ,

19, 23. Willemer, M. von, 266. Wilson, E ., 205 n. Winckelmann, J. J., 144, 2 14 , 2 15 , 220. Wis, M., 239 n. W ittg e n s te in , L .,

158 -73*

Wolf, L ., 162 n. Wolff, H ., 258, 259. Wolff, K. H ., 186 n. Wolfskehl, K . , 250. Wundt, W ., 258 e n. Wysling, H ., 252 n. Yahuda, A . S., 266, 268 n. B., 44 n, 309 n. Zagari, L ., 44 n, 309 n. Zinn, E ., 168 n. Ziolkowski, T ., h i n, 176 n. Zweifel, A . R . , 2 1 n, 184 n. Zweig, S., 274.

Z a g a r i,

Finito di stampare il 3 febbraio 1979 per conto della Giulio Einaudi editore s. p. a. presso VOfficina Grafica Artigiana U. Panelli in Torino c . l . 1177-5

Piccola Biblioteca Einaudi

BIBLIOGRAFIA. BIBLIOTECONOMIA

Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata. Catalogo siste­ matico e discografia [123].

FILOSOFIA. PEDAGOGIA. PSICOLOGIA. PSICANALISI. PSICHIATRIA Filosofia Michele Abbate, La filosofia di Benedetto Croce e la crisi della società ita­ liana [76]. Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana (tre volumi) [80]. Benjamin Farrington, Francesco Bacone filosofo dell'età industriale [93]. Paolo Rossi, Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica [113]. Karl Lowith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo xix [162]. Giuseppe Cambiano, Platone e le tecniche [170]. Paolo Rossi, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza [229]. György Lukacs, Estetica (due volumi) [241]. Luigi Marino, I maestri della Germania. Göttingen 1770-1820 [250]. Eugène Fleischmann, La logica di Hegel [251]. Theodor W . Adorno, Terminologia filosofica (due volumi) [259]. Theodor W . Adorno, Teoria estetica [324].