Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe. La follia come diversità nella cultura e nella società 8857519546, 9788857519548

Termini come follia, diversità, irrazionalità, visti all'interno di ambiti molto più generali espressi dai concetti

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Italian Pages 180 [272] Year 2013

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe. La follia come diversità nella cultura e nella società
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FILOSOFIE

N. 308

Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine)

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COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3) Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna) Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo) Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari) Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari) Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

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MARIO AUGUSTO MAIERON

IL MATTO DEI TAROCCHI, ALICE E IL PICCOLO PRINCIPE

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La follia come diversità nella cultura e nella società Prefazione di Germana Pareti

MIMESIS Filosofie

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© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Filosofie, n. 308 Isbn 9788857519548 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] In copertina: Il matto dei tarocchi di Rider-Waite.

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INDICE

PREFAZIONE di Germana Pareti

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INTRODUZIONE

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I. MENTE, CULTURA E SOCIETÀ IN ANTROPOLOGIA CULTURALE E IN FILOSOFIA

1.1 Indirizzi e alcune delle varie teorie 1.1.1 I vari indirizzi in antropologia culturale 1.1.2 Lo spirito oggettivo di Hegel e la cultura nelle varie altre interpretazioni 1.1.3 Habermas e la teoria dell’agire comunicativo 1.1.4 Popper: la cultura e il suo mondo 3 1.1.5 I memi di Denett e l’intenzionalità collettiva di Searle 1.1.6 Le diverse teorie a confronto 1.2 Significato sociologico e antropologico delle diversità 1.2.1 L’identità collettiva 1.2.2 Le varie espressioni delle diversità nella società, nel loro essere e nelle loro dinamiche relazioni 1.2.3 Le diversità come identità negative in quanto pericolose o riprovevoli e fonti di paure 1.2.4 La follia: identità perduta, identità negata 1.3 Ragione, razionalismo e razionalità 1.3.1 Ragione e intelletto come funzioni separate 1.3.2 Razionalismo e irrazionalismo 1.3.3 Razionalità e irrazionalità

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II. APPROCCIO ANTROPOLOGICO E ANTROPOFENOMENOLOGICO AI DISTURBI PSICHICI

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2.1 Fenomenologia e antropologia del dolore, del disagio e del disturbo psichico 2.2 Antropologia e psichiatria

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2.2.1 Antropologia, cultura e follia. Evoluzione del loro rapporto 2.2.2 Predicati della follia e loro analisi ermeneutica 2.2.3 Aspetti della follia in un’interpretazione evoluzionistica filogenetica 2.3 L’antropofenomenologia di Ludwig Binswanger e di Eugène Minkowski 2.4 Alterità e alienità di Danilo Cargnello III. SOCIETÀ E ASSISTENZA PSICHIATRICA. ASPETTI DELLA SUA EVOLUZIONE NEL ’900 3.1 Malattia mentale e stigma di Simone Vender 3.2 L’istituzionalizzazione, il suo superamento e la territorializzazione dei servizi di Giuseppe Armocida 3.3 Le associazioni di familiari e i gruppi di auto - aiuto a cura di Lisetta Buzzi Reschini 3.3.1 Le associazioni dei familiari di Lisetta Buzzi Reschini 3.3.2 I gruppi di auto-aiuto di Giuliana Iannella e Clara Cantarelli 3.4 L’esperienza del GLP di Varese a cura di Mario Augusto Maieron IV. DIVERSITÀ, IRRAZIONALITÀ E FOLLIA NEL LINGUAGGIO, NELLA FAVOLISTICA E… NEI TAROCCHI 4.1 Parole, simboli, espressioni del linguaggio comune e non 4.2 Tarocchi e cultura: il matto 4.3 La favola del brutto anatroccolo e A beautiful mind 4.4 Il Piccolo Principe ovvero la razionalità ingenua e l’interpretazione della realtà 4.5 Alice nel paese delle meraviglie ovvero la razionalità ingenua e l’irrazionalità

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INDICE ANALITICO

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ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI

237

ELENCO DEI NOMI

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BIBLIOGRAFIA

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A tutti coloro che nella mia lunga vita professionale hanno condiviso con me il quotidiano lavoro

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Autori del III capitolo: Società e assistenza psichiatrica. Aspetti della sua evoluzione nel ’900. Per il primo argomento: Malattia mentale e stigma Simone Vender. Per il secondo argomento: L’istituzionalizzazione, il suo superamento e la territorializzazione dei servizi Giuseppe Armocida. Per il terzo argomento: Le associazioni di familiari e i gruppi di auto aiuto (a cura di Lisetta Buzzi Reschini). prima parte: Le associazioni di familiari: Lisetta Buzzi Reschini con il contributo anche di Giovanna Binda; seconda parte: I gruppi di auto - aiuto: Giuliana Iannella e Clara Cantarelli. Per il quarto argomento: L’esperienza del GLP di Varese (a cura di Mario Augusto Maieron) Edoardo Balduzzi, Fabrizia Bianchi, Roberto Bressani, Lisetta Buzzi Reschini, Pasquale Campajola, Isidoro Cioffi, Maria Grazia Crippa, Marco Goglio, Franca Molteni, Teodoro Maranesi, Giuseppe O. Pozzi, Simone Vender e collettivamente tutti gli altri componenti del GLP A tutti un sincero ringraziamento per la disponibilità, l’impegno e l’importante contributo dato. Un ringraziamento particolare però, ancora una volta, a Simone Vender, a Giuseppe Armocida e a Edoardo Balduzzi, oltre che per il loro contributo, anche per essere stati il mio costante riferimento.

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GERMANA PARETI*1

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PREFAZIONE

Il presente volume dal titolo sfavillante e ricco di suggestioni non solo letterarie, Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe, ovvero la follia come diversità nella cultura e nella società, è il terzo contributo, in un brevissimo arco di tempo, di Mario Augusto Maieron, lo psichiatra di origini friulane trapiantato a Varese, che ha raccolto in due precedenti lavori (sempre per i tipi di MIMESIS) il distillato della propria esperienza nello studio della sfera mentale (e delle sue alterazioni), elaborandola alla luce di una vasta speculazione filosofica. Maieron fa parte di quella schiera di illustri studiosi (tra cui vanno annoverati i fisiologi Charles Sherrington e John Eccles, il biologo e genetista Francis Crick e il compianto anestesiologo, appassionato indagatore della mente, Mario Tiengo) i quali, pur convinti dell’irrinunciabilità di uno studio sperimentale del cervello e delle sue funzioni superiori (la coscienza), non intendono però fare a meno della discussione filosofica. Anzi, sono convinti che soltanto dall’analisi filosofica possano provenire stimoli e indizi importanti per dipanare l’intrico della mente. Di recente, uno dei maggiori neurofisiologi viventi, Eric Kandel, ha consegnato la propria biografia intellettuale a una narrazione complessa, articolata su più piani, nella quale la neurobiologia si mescola, da una parte, con le altre scienze “forti”, ma da un’altra parte, con l’arte, la letteratura, la filosofia, la musica, la vita culturale di quella felix Austria fin-de-siècle, alla quale apparteneva la sua famiglia. Si può dire che, pur muovendosi lungo direttrici differenti, Maieron si prefigga con questa sua terza fatica letteraria un fine, che non si discosta troppo dagli obiettivi di Kandel. Difatti anche Maieron si è proposto di ricondurre la propria esperienza psichiatrica al contesto di vari saperi, soprattutto di quelle discipline che hanno profondamente influito sulla sua formazione, e che lui ora mette a disposizione di coloro i quali, in modo *

Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione Università di Torino

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

altamente specialistico, studiano la mente (e il cervello) da ben delineate – ma talora rigide – prospettive, e che pertanto potrebbero non disporre degli strumenti metodologici (o del tempo) necessari per un approfondimento da altri angoli visuali. La sua opera di “disseminazione” scientifica ha avuto inizio con Alla ricerca dell’isola che non c’è (20111, 20122 ampliata), testo nel quale lo psichiatra si avventurava sul terreno della filosofia della mente, ripercorrendo i temi privilegiati dai funzionalisti e dai riduzionisti (l’intenzionalità, il problema della sensazione, l’irrisolta questione del rapporto psicofisico e della coscienza in tutte le sue varianti, dal monismo al dualismo all’emergentismo ecc.). Tuttavia, già in questo primo lavoro, Maieron mostrava di avere a cuore l’integrazione dei vari modelli esplicativi, in una visione sintetica che potesse avere una positiva “ricaduta” sulla psichiatria clinica. Significative a questo riguardo sono le pagine dedicate a disturbi quali la depressione o gli stati d’ansia, che vengono esaminati in una dimensione, oltre che fenomenologica, anche autenticamente antropologica, per non dire “antropocentrica”. Fin da questo momento, inoltre, traspare l’interesse per concetti che appartengono al lessico filosofico: la causalità, il tempo, il linguaggio e l’uso dei simboli, ma che ora sono analizzati e approfonditi in maniera che se ne possano servire anche gli psichiatri e gli psicopatologi. L’indagine di Maieron è poi proseguita con C’era una volta un re (2012), dove il punto di partenza è rappresentato dalla storia della psichiatria. Muovendo dalla trattazione “classica” francese e tedesca, gemmata dalla filosofia positivistica e dalla reazione al positivismo, Maieron ha illustrato le varie concezioni della follia attraverso il riordinamento della nosografia psichiatrica avviato da Kraepelin ed epigoni (fino al neokraepelismo) per arrivare alle più recenti classificazioni del DSM e alla sua attuale crisi. La disamina storica si è accompagnata a un’impostazione più teoretica, comprendente gli esiti multiformi della ricerca in neuroscienze. In questo ambito Maieron è tornato a trattare le questioni di neurofilosofia già abbordate nella prima opera, ma che ora si presentano arricchite dai contributi provenienti dalla neuropsicologia e persino dalla neuropsicanalisi. È il suo un modo di diffondere, tra chi si interessa a vario titolo della mente e del cervello, le più recenti tematiche che appassionano neuroscienziati e filosofi della mente, alimentate dalla conoscenza dei processi cognitivi e del rapporto tra pensiero e linguaggio. Dalla teoria dello sviluppo psichico elaborata da Lev Vygotskij alla neurofenomenologia su base biologica di Francisco Varela, dalla fiducia nell’Intelligenza Artificiale per la comprensione dei meccanismi psichici all’indagine sulla mente modulare

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G. Pareti - Prefazione

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di Jerry Fodor (nonché sui modelli cognitivisti, computazionali e connessionistici) fino alle critiche formulate da John Searle in nome in un rinnovato concetto di coscienza non separabile dal contesto della realtà sociale: sono questi gli argomenti toccati da Maieron, in una visione complessiva, ma al tempo stesso analitica e descrittiva, che non ha mai perso di vista il nucleo dell’Io. L’Io non è soltanto quello oggetto di dibattito tra i filosofi, ma è piuttosto l’Io psichico, che può essere sede di turbe depersonalizzanti e dissociative. È qui che si svela l’anima e la tempra dello psichiatra, il quale non dimentica il proprio percorso formativo, soprattutto alla luce dei fini che lo spingono in questa opera di divulgazione. A questo punto, Maieron non poteva rinunciare a riprendere i fili di un discorso mai interrotto. Con Il matto dei tarocchi… ritorna all’antropologia culturale, perché l’uomo come “animale sociale” è sempre rimasto al centro dei suoi interessi. Spaziando dal concetto hegeliano di “cultura” ai significati che vengono attribuiti a questa nozione dalle più recenti contaminazioni tra biologia e sociologia, ora riconsidera gli aspetti dell’intenzionalità, le questioni ontologiche nel contesto del realismo, il problema dell’identità e della diversità, sia individuale sia sociale. La disamina dei progressi che derivano, nella comprensione dei processi cerebrali, dallo studio delle reti neurali e il disvelamento di un cervello “a sé” essenziale per la dimensione affettiva ed emozionale, non secondaria rispetto a quella razionale, completano il mosaico degli argomenti che costituiscono oggi un must irrinunciabile per chi intenda accostarsi allo studio della mente. Si tratta di questioni delicate anche per lo psichiatra, che può contare sulla narrazione di case studies avvincenti, talora esaminati in prima persona, servendosi però – ancora una volta – degli strumenti della fenomenologia e dell’antropologia, ma ancora più sovente dell’antropologia fenomenologica. Lungo questo cammino, l’argomento della malattia (compresa quella psichica) non pare disgiungibile dal tema del dolore, un topos che negli ultimi decenni è al centro della discussione tra filosofi, neuroscienziati e bioeticisti. Da queste premesse prende l’avvio la terza parte del libro, quella più “operativamente” strutturata, nella quale la storia della società, della cultura e dell’individuo si riverbera sugli aspetti complessi e impegnativi dell’assistenza psichiatrica, nelle sue molteplici forme. A questo proposito, Maieron si avvale del contributo di specialisti con i quali condivide esperienze professionali nonché intimi rapporti di amici-

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

zia (S. Vender, E. Balduzzi, G. Armocida). L’intervento di questi studiosi aggiunge al già vasto repertorio storico, metodologico e concettuale di Maieron ulteriori cognizioni e informazioni, frutto di esperienze e di un approfondito sapere. In questo contesto, di fondamentale rilevanza dal punto di vista assistenziale si configura anche l’apporto che proviene dalle associazioni delle famiglie e dai gruppi di aiuto. E, nella fattispecie, il Gruppo di Lavoro Provinciale per la Salute Mentale di Varese continua a rappresentare un punto di riferimento imprescindibile per affrontare i problemi della salute mentale, dal punto di vista sia dei pazienti sia dei loro famigliari. Per il “medico della mente” Maieron, che ha coniugato per cinquant’anni il lavoro clinico con quello direttivo nel Servizio Pubblico in veste di Primario di Psichiatria Responsabile di Servizi Ospedalieri e Territoriali nonché come Dirigente Coordinatore Sanitario dell’USSL di Varese, è forse questo il terreno più congeniale, considerando che, persino con il pensionamento, egli ha continuato a occuparsi di psichiatria clinica e di riabilitazione psichiatrica anche nei suoi aspetti più innovativi. Ma l’interesse per l’enigma della mente e per i giochi linguistici prende il sopravvento nella sezione finale, nella quale l’autore torna a occuparsi dei campi semantici di termini quali “follia”, “alienazione” e “diversità”, ricostruendone la storia attraverso proverbi, modi di dire, allegorie, metafore, episodi di microstorie personali. Allora non solo le vicende e i personaggi del Piccolo Principe, ma soprattutto i doppi, i nonsense, le figure fantastiche, i paradossi del mondo delle meraviglie di Alice possono costituire una cornice, nonché una chiave di lettura sorprendente, per affrontare le incognite di un sistema, di un mondo che – come già tra Otto e Novecento – sta subendo un profondo cambiamento a tutti i livelli, dall’organizzazione degli stati fino alle modalità con cui la società trasforma e regola i criteri della convivenza. Il vittoriano Lewis Carroll si rifugiava tra le mura del Christ Church di Oxford per escogitare giochetti logici da sottoporre agli amici matematici, o per fotografare giovanette in contesti irreali, nelle vesti di ninfe o creature dei boschi, elaborando nel contempo, nelle proprie fantasie letterarie, un mondo irrazionale in cui perdeva significato ogni tipo di logica, non solo linguistica. In questo modo, Carroll, che pure aveva escogitato puzzles e paradossi di tutto rispetto, che diedero filo da torcere persino a Bertrand Russell, era convinto di potersi liberare dalle maglie troppo rigide della società vittoriana, cercando una via di fuga dai mutamenti a cui la società inglese andava incontro, e che egli reputava insidiosi.

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G. Pareti - Prefazione

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Fuor di metafora, oggi, invece, i malati e i loro famigliari sono consapevoli di poter contare, specialmente in certi ambienti, su solide e ben organizzate strutture. O per lo meno sono in condizione di sperare che quei progetti si realizzino al più presto, considerando le risorse umane – più che economiche – messe a disposizione. Il messaggio che Maieron intende lanciare, non solo tra gli addetti ai lavori, ma soprattutto tra i pazienti e i loro congiunti, è che ogni forma di rinnovamento (assistenziale, terapeutico ecc.) si concretizza anche attraverso il linguaggio e la comunicazione, il comune sentire, la condivisione di problemi e di bisogni. Se la filosofia – come pensava Wittgenstein – deve aiutare a risolvere problemi, che per lui erano di natura eminentemente linguistica, l’ambito trattato nel presente lavoro, al confine tra scienza e sapere umanistico, è il terreno nel quale a breve si dovrebbero raccogliere i risultati più fecondi. Termini quali “augurio”, “speranza”, ma altresì “azione operativa sul territorio”, scandiscono la filosofia di vita dell’indomito psichiatra che, con il suo insegnamento e la sua pratica, mostra di non volersi arrendere mai di fronte alle innumerevoli difficoltà che l’impegno clinico presenta ogni giorno. E di questo messaggio noi gli siamo grati.

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INTRODUZIONE

È giusto, per parlare della follia, parlare prima, più in generale, di cultura e di società, delle discipline che si occupano delle relazioni tra mente individuale e cultura e di cosa significhi società nella sua complessità concettuale, come struttura sovraindividuale, come entità collettiva, che per certi versi è un Noi, inteso come Io + Io + Io ecc., ma per altri è un soggetto sovraindividuale irriducibile, depositario di valori, di tradizioni, di giudizi e pregiudizi, con il quale tutti, come persone, abbiamo a che fare? La follia non è solo un tema della medicina e più specificatamente della psicopatologia e della psichiatria. Molto di più delle altre condizioni mediche è una categoria antropologica, filosofica, giuridica e sociale, un aspetto rilevante della cultura, che le varie società umane hanno espresso. Anzi, la follia come categoria medica è un qualcosa di relativamente recente, di poco più di due secoli. E la sua attribuzione a una disciplina che si è sviluppata su un versante prevalentemente naturalistico e secondo alcuni è una disciplina quasi esclusivamente naturalistica, non ha certamente semplificato i problemi riguardanti il suo significato, di ciò che essa effettivamente è, di come venga considerata, di come venga trattata ed eventualmente curata. Di ciò ci si è accorti soprattutto negli ultimi decenni, quando superando condizioni di marginalizzazione, di esclusione, di separazione e di deportazione, la follia e i folli si sono riproposti alla comunità, chiedendo di essere accolti e reintegrati. Abbattute le mura del manicomi, il problema non si è però automaticamente risolto. Il manicomio oltre a essere stato un luogo fisico è stato ed è una categoria mentale, le cui mura virtuali sono molto più difficili da abbattere, È una categoria mentale che non significa più deportazione, ma significa ancora, non infrequentemente, marginalizzazione, esclusione, separazione. E ciò ha riguardato e riguarda la follia e i folli che, assai spesso, si sono trovati a porre la loro domanda di accoglimento, a volte anche esplicita,

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

a una società che per recepirla deve cambiare valori e giudizi, che, ormai sedimentati, sono diventati impliciti, con conseguenti valutazioni e comportamenti automatici. Ha riguardato però e riguarda anche gli psichiatri e gli altri operatori, che con loro si occupano della follia e dei folli, che nel passato anche recente, chiusi nelle loro concezioni naturalistiche e/o psicologiche, avevano difficoltà a capire che, per affrontare la nuova situazione, dovevano uscire da questi recinti, che in fondo li isolavano e che il problema delle mura virtuali del manicomio riguardava anche loro. Invece, per lo meno per un certo tempo, come i polli di Renzo, hanno continuato a battibeccare su chi avesse ragione tra naturalismo biologico e interpretazioni psicologiche, senza accorgersi che, per le cose di cui discutevano, avevano ragione entrambi, ma che i problemi erano invece altri. Ma uscendo dagli ambiti della loro disciplina, cosa potevano e possono trovare, dal punto di vista teorico, per riorganizzarsi e ridefinire i nuovi confini epistemologici che la situazione impone? Trovano le discipline che anch’esse si occupano o dovrebbero occuparsi, in altro modo, della follia e dei folli, di cui sanno ben poco, ma con cui devono però confrontarsi, affinché gli obiettivi di cambiamento che perseguono posano concretizzarsi, e diventare prassi. E queste discipline sono soprattutto l’antropologia e la sociologia con i loro statuti epistemologici, i loro contenuti storico-descrittivi, con le loro prassi e applicazioni. Si tratta però di discipline abbastanza estranee alla psichiatria, che però esprimono aspetti rilevanti delle problematiche che essa deve affrontare. Partendo da queste considerazioni ho voluto allora dire, innanzi tutto a me, cosa sono queste discipline, di cosa si occupano, per lo meno per ambiti di interesse comune con la psichiatria e la psicopatologia e porre ciò come inizio di un percorso che portasse poi a riconsiderare aspetti delle nostre conoscenze e del nostro agire in una diversa prospettiva. Ne è nato un volume con un primo capitolo un po’ ostico per chi è abituato ad affrontare in altro modo questi temi. A me è sembrato però importante, in funzione di un cambiamento di prospettive, introdurre anche aspetti teorici, sui quali porre poi descrizioni e valutazioni riguardanti l’evoluzione culturale e sociale dei significati della follia, per una loro interpretazione, ma anche per un loro utilizzo nei programmi e nell’attività di oggi e di domani. Nel percorso successivo la messa a fuoco riguarda due aspetti fondamentali del significato culturale e sociale di follia: il suo incontro con la fenomenologia e l’antropologia e la storia dell’evoluzione dei criteri di

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Introduzione

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presa in carico delle persone con problemi psichici, dall’istituzionalizzazione alla successiva territorializzazione dei servizi, alla nascita di una psichiatria di comunità. L’oggi presenta rispetto all’ieri un orizzonte molto più ampio e presupposti molto più consistenti e più ricchi. Si sono accentuate notevolmente le conoscenze, cioè, come direbbe Jaspers, l’intendere, si è inoltre notevolmente sviluppato, sia sul piano metodologico che su quello teoretico, il comprendere, come ci hanno insegnato Binswanger e Minkowski. Si è perfino incominciato a prendere in carico, oltre alle persone, la Società, come Io sovraindividuale che, con i suoi pregiudizi e le sue irrazionalità, è in fondo anch’essa da annoverare nella categoria dei folli. Jaspers, Binswanger e Minkowski rappresentano il risultato dell’incontro della psichiatria con la filosofia e l’antropologia filosofica, quella che si occupa ontologicamente dell’essenza dell’uomo. Interessante è però anche il significato di follia visto nell’ottica dell’antropologia culturale, sia da un punto di vista storico-descrittivo che evoluzionistico. Si scopre che la follia, come categoria concettuale, è un termine che ha sempre avuto due facce, una negativa e una positiva e che c’è stata una follia dei folli, marginalizzati perché incomprensibili e una follia più astratta, che si estende anche ad ampi settori della “normalità”. Nel mondo classico la follia negativa viene da Mania, Lyssa e dalle Erinni, divinità malvagie, c’è però anche una follia positiva che viene da Apollo, da Dioniso, da Afrodite e da Eros; nel medio evo ci sono state come condizioni marginali, la follia dei santi, come Francesco e Giovanna d’Arco e quella degli indemoniati. Poi è diventata di competenza medica, ma ancora ha mantenuto, come irrazionalità e diversità, una sua laica positività, espressa in un continuum con una lunga tradizione che, con diverse declinazioni ed estensioni, va da Orazio a Erasmo da Rotterdam fino alle molteplici rappresentazioni ed espressioni della letteratura e più in generale della cultura contemporanea. Come antropologia evoluzionistica, consente poi interpretazioni di stati mentali e di condizioni psicopatologiche diverse da quelle solitamente considerate, allargando gli ambiti della ricerca, oltre i confini dell’ontologia individuale, cui siamo solitamente abituati, al background della lunga storia filogenetica della specie. Argomenti ulteriori riguardano poi l’evoluzione dell’assistenza psichiatrica nell’ ultimo secolo, in un ottica storica, antropologica e sociale, con riferimenti a problemi e alla realtà più inerenti all’oggi.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Si tratta di argomenti non sviluppati e scritti da me. Hanno voluto onorare i miei ottant’anni ed io sono loro grato, perché questo è stato per me veramente un grande regalo, Simone Vender: con lui la psichiatria varesina è diventata universitaria e la lotta allo stigma è stato uno dei markers del suo impegno e del suo insegnamento; Giuseppe Armocida, psichiatra e cultore di storia e poi, come universitario, storico della medicina, con il quale ho condiviso, in anni lontani, il periodo dei grandi mutamenti che hanno rivoluzionato il pensare e l’agire psichiatrico; la giornalista Lisetta Buzzi Reschini, coordinatrice del Co.PA.SAM, che riunisce e rappresenta associazioni di familiari, di utenti e di volontari, persona ammirevole per la sua competenza, disponibilità e impegno, che ha contribuito enormemente a trasformare, a Varese, in alleanza vincente quella che invece, altrove, è spesso ancora o assenza o contrapposizione dialettica; le due volontarie facilitatrici di ARETE, Giuliana Iannella e Clara Cantarelli, un’associazione notevolmente attiva di auto - aiuto per persone con depressione e ansia; il gruppo del GLP (Gruppo di lavoro Provinciale per la Salute Mentale) di Varese. Di quest’ultimo, che in una parte del terzo capitolo, racconterà la sua storia, è necessario dire qualcosa di più. Ideato e realizzato da Edoardo Balduzzi, con me, un piano più sotto, come cofondatore, ha una storia ormai ultraventicinquennale ed è attualmente coordinato da Simone Vender. È nato come gruppo aperto di operatori dei Servizi, di strutture sanitarie e sociali, di familiari, di volontari, di esponenti della società civile, interessati al rinnovamento della psichiatria nella prassi e nelle espressioni della cultura. Con gli anni è diventato punto di riferimento, di incontro, di confronto e anche fucina di iniziative, poi concretamente realizzate. Balduzzi che, ultranovantenne, è ancora nel GLP un animatore e un orientatore, era stato, con la sua esperienza di psichiatria di settore, attuata in tutta la provincia di Varese negli anni ’60, uno dei promotori del rinnovamento psichiatrico in Italia ed io stesso, giovane psichiatra, avevo partecipato a questa esperienza come responsabile di un settore. Culturalmente è un fenomenologo e a lui devo molto, per avermi, a suo tempo, insegnato il significato e il modo, nella nostra professione, della relazione, come strumento per comprendere e aiutare. E ciò nel rispetto di una mia impostazione, che oltre che orientata antropologicamente, è sempre stata interessata anche agli aspetti naturalistici della nostra disciplina.

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Introduzione

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Il capitolo conclusivo è un po’ più … linguistico e letterario, pur con qualche riferimento clinico, volto a cogliere, in modo non sistematico, esempi ed espressioni significative, che hanno attinenza con i temi trattati. Il linguaggio comune e non, le etimologie, i vari significati, i proverbi e gli aforismi sono stati una prima occasione. Poi la storia di Nasch John Forbes jr, un matematico schizofrenico, premio Nobel per l’economia nel 1994, con un riferimento ad Hans Christian Andersen e al suo Brutto anatroccolo. Infine Alice e il Piccolo Principe, due fonti già notevolmente sfruttate per approfondimenti psicologici e psicanalitici e … i tarocchi. Questi ultimi sono stati una sorpresa anche per me.

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I. MENTE, CULTURA E SOCIETÀ IN ANTROPOLOGIA CULTURALE E IN FILOSOFIA

1.1 Indirizzi e alcune delle varie teorie

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1.1.1 I vari indirizzi in antropologia culturale Per cultura, nell’ambito delle scienze umanistiche, si intende l’insieme di conoscenze, credenze, comportamenti, convenzioni che caratterizzano i vari gruppi umani nelle varie epoche. La definizione più completa del Battaglia, con riferimento ai vari contesti sociali e al linguaggio sociologico ed etnologico, è la seguente: Cultura è il complesso delle strutture di organizzazione sociale, dei modi di vita, delle attività spirituali, delle conoscenze, delle concezioni, dei valori che si ritrovano, in forma e a livelli diversissimi in ogni società e in ogni periodo storico.

Per società si intende, in senso generale (Grande Dizionario Enciclopedico UTET) ogni complesso – del regno vegetale, del regno animale e dell’uno e dell’altro insieme – volto, in forma organica o almeno cooperativa, all’appagamento dei bisogni primordiali della conservazione di sé e della sopravvivenza della specie. Nel concetto è implicita l’idea di una certa continuità con la presenza di relazioni associazionali più o meno complesse.

Le società umane, come comunità organizzate, sono sistemi di individui che condividono una stessa cultura, si riconoscono in una specifica identità e continuità collettiva, stabiliscono tra loro rapporti sulla base di strumenti relazionali comuni e di regole e modalità esplicite o anche solo implicitamente definite. Le società umane rappresentano specifici ambiti di studio della filosofia e dell’ antropologia culturale.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Il concetto di società, in filosofia, è stato analizzato soprattutto da un punto di vista teoretico, su quale sia il suo significato, su cosa sia una società ontologicamente, su quali siano e come debbano intendersi le relazioni tra la società, intesa come sistema sovraindividuale e i suoi singoli componenti. L’interesse dell’antropologia culturale è invece per le sue caratterizzazioni formali, per i suoi contenuti specifici, per il tipo di cultura che i vari gruppi umani esprimono. Aggiungo un accenno anche alle principali teorie della mente. Qualche ulteriore aspetto di esse verrà più oltre presentato nella successiva trattazione. Esse sono: - il monismo, rappresentato, nella sua espressine più radicale, dalla teoria dell’identità mente – cervello, ma anche da elaborazioni non riduzioniste, che considerano la mente (con la coscienza) un’entità distinta e ontologicamente autonoma, ma condizionata, per la sua esistenza, dalle soggiacenti strutture neurobiologiche - il dualismo cartesiano delle sostanze - il dualismo delle qualità, che sottolinea l’irriducibilità del soggettivo all’oggettivo - il dualismo interazionista di Karl Popper e John Eccles, che introducono, nella loro interpretazione del mondo, oltre al regno oggettivo della realtà e a quello soggettivo e immateriale della mente, un terzo regno: la cultura, intesa hegelianamente come spirito oggettivo. Cultura, mente e società sono concetti intimamente connessi, sia in antropologia che in filosofia della mente, con rapporti e legami che sono stati e sono al centro di ampi dibattiti, che riguardano le stesse teorie che le definiscono. L’antropologia è lo studio della natura umana in tutti i vari ambiti in cui si esprime. Dall’inizio del XIX secolo si è divisa in tre branche: - l’antropologia fisica, che studia l’uomo nelle sue caratteristiche razziali da un punto di vista fisico-organico; - l’antropologia culturale, che studia la cultura e la civiltà dei vari gruppi umani; - l’antropologia filosofica (la denominazione è di Max Scheler), che si occupa del significato dell’uomo nel mondo come oggetto di indagine filosofica. In tutte queste branche antropologiche la mente è riferimento ineludibile, così come la cultura lo è in molti ambiti della ricerca filosofica e un esempio significativo è il dualismo interazionista di cui si è detto.

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Da ciò la contiguità tra antropologia culturale e filosofica con la filosofia della mente, i cui interessi, oltre che ontologici, riguardano sopratutto le varie funzioni mentali e in particolare quelle cognitive, con riferimento alle loro relazioni con il cervello, con il corpo e con la realtà. Gli aspetti che verranno presi successivamente in considerazione riguardano l’antropologia culturale e filosofica, con riferimento alle teorie della cultura e alle teorie della mente. L’antropologia culturale si è sviluppata soprattutto nell’ ’800, contestualmente all’affermarsi del positivismo e alla nascita e allo sviluppo della sociologia. Il primo approccio allo studio delle culture dei vari gruppi ebbe come riferimento le scoperte archeologiche e le conoscenze che su di esse via via si acquisivano. Il successivo loro incrocio con le teorie darwiniane portò alla formulazione dell’ipotesi che tutte avessero una base comune e che le differenze dovessero ascriversi e riguardare solo livelli diversi di sviluppo. In base a ciò, nel presupposto di un’unità e uguaglianza psichica per l’intera umanità, fu formulata anche per la cultura una teoria evoluzionista, che sembrava avere conferma dalle somiglianze di comportamento dei vari popoli primitivi, nel loro sviluppo sociale e nel modo di affrontare situazioni correlate alla sopravvivenza. Il diverso grado di sviluppo tecnico ed economico furono considerati gli elementi di sostanziale differenziazione e conseguenza di ciò fu l’attribuzione alla civiltà e alla cultura occidentale di una patente di superiorità, in tutti i suoi vari aspetti: sociali, religiosi, culturali. Verso la fine dell’’800 in contrapposizione all’evoluzionismo si sviluppò una teoria alternativa, caratterizzata dalla valorizzazione delle diversità e degli aspetti particolari delle varie culture più che delle loro somiglianze. All’evoluzionismo furono contestati contraddizioni nella formulazione teorica ed errori nei presupposti e nelle conclusioni. Contraddittorio fu considerato l’utilizzo dell’adattamento per spiegare la comparsa e lo sviluppo di funzioni e meccanismi mentali, considerati prodotto dell’interazione con l’ambiente e nel contempo, con la teoria dell’unità psichica, negazione delle evidenti diverse risposte adattative, nello sviluppo delle varie culture. Erronee furono considerate le ipotesi di una natura umana basata sul dualismo cartesiano, di un’unicità di sviluppo sociale dei vari gruppi e di autoattribuzione, da parte dei gruppi culturalmente più evoluti, di una missione morale.

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Il passaggio successivo è stato l’incontro dell’antropologia culturale con la psicologia e la psicanalisi, con nuovi interessi, nell’ambito della ricerca, riguardanti il rapporto tra personalità individuale e cultura. Si possono ricordare a questo proposito gli studi di Branislaw Malinowski e di Claude Levi-Strauss. Malinowski, uno dei pionieri nel campo della ricerca etnografica, nel suo saggio postumo Una teoria scientifica della cultura, definisce la stessa un insieme complesso costituito dalle molteplici e complicate risposte, che ogni società da ai bisogni universali degli esseri umani. Nella sua teoria questi bisogni sono di tre tipi. Il primo riguarda le soddisfazioni di necessità primarie, quali il mangiare, l’adozione di comportamenti atti a garantire la sopravvivenza, il riprodursi. Il secondo riguarda soddisfazioni di necessità secondarie, derivate dalle primarie, quali l’organizzazione politica, economica e di altre strutture sociali, necessarie per il mantenimento della coerenza interna del gruppo. Il terzo si riferisce a bisogni specificatamente culturali, quali il linguaggio, le credenze, le tradizioni. A Levi-Strauss si devono invece importanti contributi alla psicologia, alla filosofia e all’antropologia. Applicando i criteri della linguistica di Ferdinand de Saussure, ricercò le strutture logiche e le strutture inconsce comuni a tutte le culture, che giustificano costanti comuni, nei vari gruppi umani, nel modo di pensare, nell’interpretare la realtà e nel modo di vivere. Esempi sono i suoi studi sulle modalità di organizzazione familiare e sul tabù dell’incesto, come legge universale. La proibizione dell’endogamia e la spinta all’esogamia avrebbe il significato di spinta all’allargamento dei confini della famiglia e allo sviluppo di solidarietà sociali. Un rapporto più profondo ed esteso tra mente e cultura nelle elaborazioni teoriche, ha poi avuto un importante impulso nel secondo dopoguerra, con un rinato interesse per l’evoluzionismo (neoevoluzionismo), con più stretti rapporti con la psicologia, in particolare con il cognitivismo e con la partecipazione a vari temi della ricerca filosofica, quali ad esempio il mondo di valori (Max Scheler) e più in generale l’etica. Nella seconda metà del ’900, due sono stati comunque i principali indirizzi su cui si è orientato il dibattito antropologico: uno linguistico - letterario, in continuità con le impostazioni particolaristiche degli studi culturali, l’altro, conseguenza della svolta cognitivista, di ricerca nei fondamenti biologici e cognitivi del pensiero e più in generale nel funzionamento della

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mente e del cervello, di possibilità di una conoscenza antropologica, basata su ipotesi aventi carattere generale. I sostenitori dell’indirizzo linguistico - letterario (Clifford Geertz, Sthephen Tyler, Michael Fischer, ecc) ritengono che i concetti utilizzati nella descrizione di società e culture, quali ad esempio quelli di etnia o di parentela, siano frutto di convenzioni linguistico - letterarie, abbiano un significato, in ambito antropologico, non sempre univoco, ma siano comunque irriducibili ad altri domini. Per Geertz la stessa cultura è un termine ambiguo, usato per definire costumi e modelli di comportamento, a volte come realtà oggettive, a volte come interpretazioni dell’antropologo che le descrive. Lo studio e la conoscenza diretta delle varie culture non basta a definirle. Ciò può avvenire solo attraverso la comprensione del sistema di significati, che gli appartenenti ai gruppi attribuiscono alla propria vita sociale. Per i sostenitori della svolta cognitiva temi di interesse sono il rapporto mente - pensiero - cultura e biologia - cultura. Tra i sostenitori della svolta cognitiva si può ricordare Dan Sperber, Maurice Bloch, Scott Atran, Lawrence A. Hirschfeld. L’ipotesi di Sperber è che l’antropologia possa diventare una scienza oggettiva, solo se allarga ed estende la propria attenzione alle modalità cognitive di elaborazione dell’informazione, che identifica con le teorie fisico - naturalistiche della mente umana. Parte dall’idea che scienze umane e scienze naturali non siano tra loro incompatibili e che tematiche della ricerca antropologica (quali credenze, idee, rappresentazioni, comportamenti) riguardanti le varie culture, possano trarre notevole arricchimento, per una loro interpretazione gnoseologica, dalle teorie cognitive di tipo naturalistico. Ciò, a suo parere. non può e non deve però significare che i prodotti culturali e sociali sono processi cognitivi, ma bensì che questi facilitano la comprensione di come questi prodotti nascono, si diffondono, si stabilizzano, diventano idee e comportamenti condivisi. Bloch, pure lui fautore della svolta cognitiva, si differenzia però da Sperber riguardo alla definizione del rapporto tra antropologia e cognitivismo. Per lui la definizione di Sperber è comunque una soluzione riduzionista, mentre la ricerca antropologica, come conoscenza dei concreti contesti storico - sociali, deve mantenere la sua centralità di valore essenziale, integrando però al suo interno anche conoscenze e metodi derivati dalle scienze cognitive. Principali riferimenti per la corrente evoluzionista, nella svolta cognitiva, sono le ipotesi linguistiche di Noam Chomsky, con particolare riguardo

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all’innatismo della grammatica generativo trasformazionale e la teoria della mente modulare di Jerry Alan Fodor L’ipotesi di Chomsky è che tutte le lingue abbiano una struttura basilare comune riconducibile a meccanismi cerebrali innati, perfezionatisi nel corso dell’evoluzione, che non sarebbero una grammatica nel senso di parole o di frasi, ma bensì un programma che consente al cervello di acquisire in maniera ordinata informazioni sensoriali, utilizzando appositi circuiti, per poi anche riprodurle. La teoria di Fodor, che richiama per alcuni aspetti le ipotesi di Franz Joseph Gall sull’architettura cerebrale e mentale, ipotizza che la mente sia costituita da una molteplicità di moduli, sistemi innati, indipendenti, computazionalmente autonomi, con connessioni tra loro limitate, caratterizzati da una specificità di dominio (che si attivano cioè solo per input specifici: visivi, acustici, ecc., ma anche, come sottosistemi, per stimoli rappresentati da simboli linguistici o da informazioni ambientali di vario genere). Elementi fondamentali della costruzione di Fodor, oltre ai moduli, sono i sistemi centrali e il linguaggio del pensiero. Ai moduli compete la trasformazione dei dati percettivi in rappresentazioni, con modalità computazionali e con processi sequenziali. Le rappresentazioni verrebbero ulteriormente elaborate nei sistemi centrali, che non hanno però un’organizzazione modulare e questi sistemi sarebbero anche i luoghi dove si sviluppa il pensiero, in base a un programma innato, con una sua semantica codificata e sue definite regole sintattiche. La modularità si sarebbe formata nel corso della filogenesi come soluzione adattativa ai problemi posti dal rapporto con l’ambiente, in un processo evolutivo durato milioni di anni. La teoria modulare in ambito antropologico ha subito poi vari adattamenti e modifiche e la psicologia evolutiva estese applicazioni. Alcuni come lo stesso Sperber (ma anche Leda Cosmides, John Tooby, Lawrence A. Hirschfeld, ecc) la vorrebbero estendere a molti più ambiti, come per esempio allo studio delle etnie e degli scambi sociali, Atran invece, riferendosi in particolare ad alcuni tipi di abilità cognitive, ritiene che non possa essere sempre applicata. Esempi di queste divergenze sono la stessa definizione di Sperber di cultura e la Teoria cognitiva della cultura di Atran. Per Sperber la cultura è l’insieme di rappresentazioni mentali pubbliche trasmesse in modo ripetuto e propagate all’intero gruppo e a loro volta le rappresentazioni pubbliche sarebbero rappresentazioni mentali memorizzate e comunicate.

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Per Atran il modo con cui viene concettualizzata la cultura, dipende dal tipo di relazione che una determinata popolazione ha con essa e le cognizioni non hanno solo una radice individuale, ma sono profondamente incorporate e strutturate all’interno dei contesti storici e sociali. Successive nuove formulazioni di un evoluzionismo, basato sulla teoria modulare della mente, sono quelle cosiddette neuronali, che hanno assunto, come riferimento, la teoria delle reti neurali e sono ancor più legate a interpretazioni fisicaliste. Un approccio neuronale è quello espresso da Harvey Whitehouse nella sua Theory of neuronal group selection, secondo la quale le reti neurali, attivate in modo selettivo da imput ricevuti dai contesti storico - sociali in cui vivono gli individui, formano e memorizzano conoscenze culturali, allo stesso modo di come reagiscono, modificando la loro struttura biochimica, quando gli stimoli siano biologici o psicologici. Secondo questa teoria la mente non è l’hardware e il software di un computer, che elabora simboli e informazioni in modo essenziale e ripetitivo, come la macchina di Turing, ma bensì, secondo la teoria di Gerard Edelmann, l’espressione di un’attività di migliaia di neuroni fortemente interconnessi, che danno risposte in modo cooperativo, con la caratterizzazione di una grande variabilità, in rapporto alla molteplicità degli stimoli. Questa concezione troverebbe una conferma dallo studio dello sviluppo delle capacità cognitive del bambino, in cui, secondo le ipotesi di Jerome Bruner e di Barbara Rogoff, che si richiamano alle teorizzazioni di Lev Vygotskij, “l’uomo è soggetto al gioco dialettico tra natura e storia, tra le qualità che possiede, come creatura della biologia e quelle che gli appartengono come prodotto della cultura” (Bruner). E la cultura, che induce queste qualità, da Vygotskij è intesa sia come mediazione che come partecipazione. Per mediazione egli intende la capacità cognitiva, che il bambino struttura nell’interazione con il proprio ambito sociale, già al termine del primo anno di vita, che gli consente di comprendere l’intenzionalità delle azioni attraverso l’ acquisizione, per imitazione, degli artefatti culturali degli adulti; per partecipazione l’interazione con gli individui della comunità, che avviene con un reciproco accesso e comprensione di pensieri, sentimenti e azioni, ma anche con differenziazioni individuali, dovute a differenze di sensibilità e di esperienze. Questa breve rassegna dello sviluppo dell’antropologia culturale e delle modalità di affrontamento, nelle varie teorie, di temi come la mente, la cultura e la società ci permette di vedere come esse siano non solo contigue, ma anche, a volte. complementari, con elaborazioni che hanno avuto un

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loro sviluppo in ambito filosofico, psicologico, neuropsicologico e perfino neuroscientifico.

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1.1.2 Lo spirito oggettivo di Hegel e la cultura. Le interpretazioni di Dilthey, Simmel, Hartmann e Popper. Introduzione alla teoria di Habermas Per una comprensione del significato di cultura in ambito filosofico, occorre approfondire le teorie che tentano di spiegare cosa essa sia, come si formi, si conservi e si trasmetta. Un primo riferimento è Georg Hegel, la sua distinzione tra i significati di psicologico e spirituale e le sue concettualizzazioni di spirito soggettivo (subjective Geist) e spirito oggettivo (objective Geist). Lo spirito soggettivo è individuale, è il momento in cui l’idea diventa cosciente di sé, lo spirito oggettivo riguarda invece il confronto dello spirito individuale con la vita collettiva. Lo spirito oggettivo come cultura è però un’elaborazione successiva, di Karl Popper, di Jürgen Habermas, di Wilhelm Dilthey, di Georg Simmel. Per Popper tre sono, ontologicamente, i mondi che costituiscono l’universo. Il primo mondo è quello fisico, il secondo è quello degli stati mentali, il terzo quello che si estende da un originario nucleo logico - epistemologico, riferito alla gnoseologia, pur esso però solo ipotetico e congetturale, a tutto l’universo culturale nei suoi vari aspetti. Il linguaggio umano è allo stesso tempo un prodotto della mente e per un meccanismo di retroazione, un’artefice del suo prorompente sviluppo ed è proprio il linguaggio una esemplificazione di tutti i tre mondi, riportata dallo stesso Popper. I segni appartengono al primo mondo, l’esperienza mentale generata dai segni al secondo, il loro significato e il loro contenuto informativo e logico - oggettivo al terzo. La riproposta di Popper del concetto di spirito oggettivo ha aperto, in ambito filosofico, un ampio dibattito, con risvolti metodologici ed epistemologici, riguardante anche l’oggettività della scienza e il rapporto con gli oggetti della realtà. Questo tema peraltro era stato già oggetto di polemica e di ampi dibattiti tra fenomenologi e neokantiani e tra gli stessi fenomenologi. Husserl ad esempio ridefinisce il concetto di spirito oggettivo in chiave antipsicologica; Dilthey rivendica il ruolo fondamentale della psicologia e dell’antropologia per una sua comprensione e per una comprensione di tut-

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te le scienze dello spirito; Simmel approfondendone gli aspetti ontologici, lo considera un regno artificiale, non totalmente autonomo e concreto. Lo considera però come qualcosa di distinto dal mondo della natura e da quello mentale, da cui però deriva e dal quale non è mai completamente staccato. I diversi modelli di spirito oggettivo emersi da questi dibattiti sono così riassunti da Pierluigi Lecis nel suo Mente, cultura, società in bibliografia: - uno, storico - ermeneutico (Dilthey, Simmel), che lo riporta all’interno dell’uomo, all’intersoggettività e alla reciproca comprensione di individui che vivono in un ambiente spirituale comune; - un secondo, oggettivistico, caratterizzato dall’ impegno sistematico e dalla ricerca di un approfondimento ontologico (Husserl come precursore, poi Nicolai Hartman e Popper); - un terzo (Habermas), collocato all’incrocio delle posizioni suddette, con la caratterizzazione di un debole impegno ontologico e di una molto maggior attenzione per i processi e i contesti sociali che lo generano e lo riproducono. Dice Lecis: Questi tre modelli hanno sicuramente operato da protagonisti nella prima metà del Novecento, funzionando come matrici teoriche di teorie filosofiche della cultura. In altri termini hanno generato definizioni delle strutture simboliche, modelli di spiegazione dei prodotti culturali e dei loro processi di formazione e trasmissione.

Per i teorici del modello storicista (soggettivistico), lo spirito oggettivo è un costrutto concettuale volto a spiegare modi e forme con cui l’uomo crea il suo mondo, la realtà storica, esprimendo la propria interiorità in un ambiente di prodotti esterni, materialmente percepibili, della sua attività. I prodotti recano l’impronta del suo spirito, dell’attitudine creativa che lo rende capace di edificare in un ambiente autonomo da quello naturale, in cui pure è radicato.

Per i fautori dell’orientamento oggettivistico, la differenza invece tra psichico e spirituale è radicale. Lo spirito oggettivo è esterno al mentale pur essendo indagabile. I processi cognitivi e culturali che lo riguardano sono preliminari rispetto alla fase mentale. L’accento è pertanto posto non tanto sul processo di produzione di questi prodotti, ma sui prodotti stessi, senza tener conto delle attività individuali e sociali che li generano.

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Secondo i fautori di questo orientamento, le leggi della logica e gli oggetti della realtà hanno una loro autonoma esistenza che non dipende da come e quando siano stati scoperti (il teorema di Pitagora esisteva prima che Pitagora lo esponesse e la struttura del DNA prima che James Watson e Francis Crick la presentassero alla comunità scientifica). Ma anche le creazioni individuali, i prodotti dell’arte e della letteratura, le credenze, le strutture simboliche categoriali del pensiero, lo stesso linguaggio, pur avendo origine negli individui, acquisiscono poi una loro indipendente e autonoma ontologia e il loro destino si svincola e si separa definitivamente da quello dei loro produttori. Habermas poi, con il suo agire comunicativo, introduce, tra il mondo soggettivo e oggettivo, quello sociale. Secondo Habermas tradizioni e sapere culturale non possono essere concettualizzati con le garanzie ontologiche del terzo mondo di Popper e non possono essere compresi, se non attraverso le rappresentazioni simboliche e gli ordinamenti istituzionali della società. Il problema ontologico è però solo uno degli aspetti del mondo spirituale. Altri aspetti sono la produzione, la circolazione e la fruizione dei beni culturali. Approfondite teorie che riguardano questi aspetti sono quelle di Hartmann e di Habermas. Per Hartmann la produzione spirituale ha come primo momento una fase intrapersonale, che si esprime in forme verbali e non verbali e riguarda tutti i vari aspetti dell’esperienza. Questa produzione ha però il suo sviluppo nella successiva fase sovrapersonale. I contenuti dei processi a livello individuale hanno la capacità di migrare nella sfera dello spirito oggettivo, di emanciparsi dalla mente che li ha prodotti, di diventare oggetto di scambio reciproco tra individui, di permanere mentre i loro portatori cambiano e di poter essere trasmessi in ambito sociale e nel tempo storico. Lecis riporta a questo proposito un breve suggestivo brano di Hartmann, che anch’io per una maggior comprensione di quanto detto trascrivo. Una volta obiettivato in una espressione personale, il contenuto sfuggirà dalle mani della persona e migrerà con alterna vicenda finché non sia spinto in disparte da nuovi contenuti. Se particolarmente affascinante potrà migrare oltre i cerchi dei viventi e trascorrere, nella storia, di generazione in generazione. La sua maniera di essere in tale migrare, è quella di essere portato; e mentre i portatori cambiano, il “contenuto” permane. Permane in assolutezza dell’atto

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che lo aveva prodotto ma resta sempre legato all’atto di coglimento e di comprensione di colui che, di volta in volta, si fa portatore.

Il passaggio dalla dimensione di spirito soggettivo a quella di spirito oggettivo e però condizionato dall’intersoggettività spirituale, che non riguarda i contenuti, ma la comunione di attitudini strutturali di persone che vivono in un mondo comune, dispongono di funzioni somatiche e psicologiche uguali e hanno pure in comune modalità di pensare e di rappresentare la realtà. In questo il pensiero di Hartmann riecheggia concettualizzazioni di Dilthey di cui già precedentemente si è detto. Per quanto riguarda poi i contenuti dello spirito oggettivo, Hartmann li distingue differenziando uno spirito oggettivo vivente e uno spirito oggettivato, il primo caratterizzato da contenuti ancora carichi di potenzialità creative e innovative, mentre le opere dello spirito obiettivato sono ormai solidificate in strutture materiali e linguistiche rigide e definite. Spirito oggettivo vivente sono ad esempio la religione, la lingua, i costumi, la morale, la politica, l’economia; spirito obiettivato opere classiche, i contenuti delle biblioteche e dei musei, le lingue morte, teorie scientifiche superate. Anche questi possono però essere rivivificati e riproposti come spirito oggettivo vivente. Lo spirito oggettivato ha anche una sua particolare ontologia. I suoi contenuti ideali non abitano la materia inerte. Per poter essere proposti devono essere riconosciuti e con ciò rivivificati, perché la loro esistenza non e in sé, ma in relazione allo spirito vivente che li ripropone. 1.1.3 Habermas e la teoria dell’agire comunicativo L’altro modello elaborato in modo approfondito, che tende a spiegare i significati e le dinamiche che sottostanno al mondo culturale e sociale, è quello di Habermas, allievo di Theodor Adorno e uno dei maggiori esponenti della scuola di Francoforte, con la sua teoria dell’agire comunicativo Nell’esposizione delle sue concettualizzazioni il mio riferimento è stata ancora la pubblicazione di Pierluigi Lecis Cultura, Mente e Società, della quale riporto alcuni passaggi. La posizione di Habermas, antimentalista e antipsicologica (il culturale e il sociale non possono essere oggetto della psicologia, né ricondotti alla coscienza e al mentale) è ancora più radicale di quella di Popper.

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Egli però sovverte, pur richiamandosi ad esso, quello che era stato il tema centrale del dibattito sulla cultura in tutto il primo ’900, con la contrapposizione tra eventi psicologici e processi spirituali e tra natura e cultura. Habermas introduce nel dibattito il sociale e rivendica per esso completa autonomia, sia da contenuti mentali che da ogni tipo di naturalismo biologico. Per la comprensione del suo pensiero è però necessario un approfondimento su cosa egli intende per sociale e su quali basi svolge le sue argomentazioni, che espone soprattutto nella sua opera principale: Teoria dell’agire comunicativo. Concetti fondamentali sono: il mondo della vita (Lebenswelt), la nozione di sistema, l’agire comunicativo, il significato del linguaggio nella comunicazione, la sua concezione di mondo oggettivo. Il mondo della vita è un concetto di derivazione fenomenologica, inteso da Husserl come l’insieme delle strutture intersoggettive e del rapporto tra soggettività psicologica e soggettività fenomenologica, il “mondo di noi tutti”, che si forma nel rapporto originario con la natura e trascende le esperienze individuali. Habermas, sganciandola dalla prospettiva soggettivistica di Husserl, ne fa una “realtà simbolica”, base ontologica della vita quotidiana, oggettivata fondamentalmente in azioni, linguaggio e artefatti materiali. Il mondo della vita è l’insieme delle certezze e dei valori condivisi da tutta la comunità, è la base per la comprensione della società nelle sue espressioni concrete, in cui i comportamenti sono un agire orientato. E queste certezze e questi valori, pur essendo dinamici e flessibili, sono una sorta di orizzonte di sfondo, da cui discendono tutte le altre certezze, non visibile dalle persone e immune da revisioni totali. Sono un sistema d’ordine precostituito, che rappresenta il fondamento per le valutazioni di razionalità nelle relazioni interpersonali, intese come modalità di comunicazione, di confronto e di corrispondenza. In questo Habermas, con la sua attenzione ai problemi esplicativi e di sistematizzazione e con il suo apriorismo si pone in una prospettiva chiaramente neokantiana. Con il termine sistema Habernas intende invece allo stesso tempo lo stato burocratico, inteso come organizzazione del “potere”, l’economia, intesa come denaro, finanza, mercato e strutture sorte per finalità settoriali, che alterano l’unitarietà della società. Il sistema, storicamente, si è gradatamente introdotto nel mondo della vita, modificando valori e cultura e rimpiazzando l’agire comunicativo, na-

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Mente, cultura e società in antropologia culturale e in filosofia

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turalmente orientato all’intesa, con interazioni che orientano invece l’agire in senso strumentale. Approfondendo il significato di agire comunicativo, si può dire che per Habermas esso consiste nel fatto che gli individui tendono a formulare piani d’azione consensuali e a “concordare definizioni di situazioni suscettibili di consenso” e il ruolo decisivo per far ciò è svolto dall’interpretazione e dal linguaggio. L’intendere però è un processo complesso, che presuppone convergenze in stati d’animo collettivi, al di la di possibili contenuti proposizionali o di “oggetti” intenzionali. Per Habermas tre sono i livelli di questo processo: il primo è la comprensione elementare del significato di espressioni linguistiche tra gli interlocutori; il secondo è la comprensione dell’azione linguistica complessiva in rapporto al contesto; la terza é l’intesa vera e propria, la presa di posizione (si o no) assunta liberamente con gli impegni conseguenti. Il linguaggio può però avere significati diversi in rapporto al tipo di azione e le azioni sono inquadrabili in tre modelli: teleologico, normativo e drammaturgico Per questa classificazione Habermas si richiama a concettualizzazioni di filosofi precedenti, già però comunemente acquisite dalle teorie sociologiche (George H. Mead, Ludwig Wittgenstein, John I. Austin, Hans G. Gadamer) L’agire teleologico è l’agire finalistico, strumentale o strategico e riguarda piani d’azione individuali finalizzati a uno scopo, che si attuano attraverso comunicazioni e intese che riguardano il mondo oggettivo. L’agire normativo è invece l’agire guidato da regole che si riferiscono a fatti e norme. Esso presuppone un ordinamento sociale e un ambiente socio - culturale. Il terzo modello d’azione è l’agire drammaturgico, agire che presuppone un mondo interno, costituito da tutti i propri vissuti e le proprie esperienze soggettive, che si confronta con il mondo oggettivo e con il mondo sociale. Il mondo interno di Habermas non è però l’interiorità e i vissuti per come sono descritti in psicologia. Come dice Lecis, non si tratta di pensare che un soggetto “possiede” stati mentali, desideri, bisogni, etc., nello stesso modo con cui un oggetto fisico osservabile ha dimensioni, peso, colore, etc.; egli “ha” stati mentali interni in quanto può esprimerli ad un pubblico in modo che questo [colui che agisce] li possa riconoscere come suoi stati soggettivi.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

In tutti questi modelli d’azione il linguaggio è lo strumento fondamentale. Nell’agire teleologico è il mezzo per arrivare allo scopo

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[ma] la comunicazione linguistica è così ridotta a comprensione indiretta fra attori che interagiscono solo in quanto interessati ai propri scopi.

Nell’agire normativo è il “medium per tramandare valori culturali e consenso rinnovato ad ogni atto di comprensione” e “la sua funzione principale è di stabilire relazioni interpersonali e riprodurre e conservare l’orizzonte sociale esistente.” È però anche il mezzo con il quale la società e le cultura esprimono la loro vitalità modificandosi. Nell’agire drammaturgico il linguaggio è il mezzo per riconoscersi presentando se stessi. Il linguaggio è quindi la componente più importante dell’agire sociale, è un dire che è anche un fare, con una valenza di autonomia ontologica, in quanto, nella comunicazione, le azioni linguistiche interagendo con il mondo, esprimono non solo significati delle cose del mondo e degli altri o cose inerenti all’agente, ma anche aspetti simbolici e normativi della società. Infine alcune considerazioni sugli aspetti ontologici del mondo di Habermas e sul significato che egli da ai termini di cultura e di oggettività. Il concetto di cultura è per Habermas molto più esteso di quello di spirito oggettivo, che ne rappresenta solo una parte, mentre è invece il costituente fondamentale del mondo 3 di Popper. Il mondo di Habermas è costituito dal mondo oggettivo (objective Welt), i cui contenuti hanno come base conoscenze empiriche della realtà e relazioni causali, dal mondo sociale (soziale Welt), che riguarda contenuti culturali prodotti dalle relazioni interpersonali, che ricomprendono aspetti istituzionali e simbolici della società e dal mondo soggettivo (subjective Welt), ricuperato anch’esso all’oggettività, i cui contenuti sono sentimenti, desideri bisogni ecc. Questa inclusione del mondo interno nell’oggettività e già ne ho accennato parlando dell’agire drammaturgico, è una fondamentale differenza rispetto alle concettualizzazioni di filosofi precedenti, che avevano invece posto la realtà spirituale in una posizione esteriore rispetto ai processi psichici e consideravano strutture sociali e cultura come proiezioni di una interiorità pre-sociale. Gli aspetti maggiormente innovativi di Habermas, nel ridefinire confini e articolazioni interne del mondo oggettivo, sono stati però sopratutto l’au-

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tonomia e il ruolo preminente del sociale e le concettualizzazioni di mondo della vita e di sistema. La cultura, comprensiva del sapere, delle tradizioni, delle credenze, delle conoscenze correlate alle relazioni interpersonali e alle loro modalità di declinarsi in rapporto alle istituzioni e alle espressioni simboliche della società, del modo con il quale le persone si rapportano con essa, è una delle componenti fondamentali del mondo della vita. La cultura, così come il sociale, non possono però, secondo Habermas. essere ricondotte al campo del mentale e della coscienza e hanno basi essenzialmente linguistiche e una loro autonomia. I problemi così posti, come dice Lecis, si collocano su una linea sottile che distingue e collega allo stesso tempo questioni epistemologiche ed ontologiche,

Il sapere e le tradizioni culturali sono lo spirito oggettivo che entra nel mondo della vita come parte dell’agire comunicativo, in cui trova attuazione la rappresentazione simbolica della realtà, che ha però un’estensione molto più ampia di quanto essi non rappresentino. Essi comprendono le conoscenze scientifiche con la loro oggettività, ma anche le conoscenze pratiche, che rendono possibili il nostro vivere quotidiano e le espressioni artistiche (letteratura, poesia, teatro, pittura, ecc.), che, come dice ancora Lecis, accumulano risorse di sapere non meno importanti, anche se valutabili con criteri diversi di razionalità e hanno la specifica funzione di soddisfare bisogni collettivi, che per un equilibrato sviluppo sociale, non sono meno rilevanti dei bisogni di verità cognitiva e di controllo tecnico dell’ambiente.

Questi aspetti del sapere e delle tradizioni culturali non esauriscono però il loro contenuto conoscitivo nel loro essere e nella loro oggettività, in quanto, anche per essi, parte rilevante di questo contenuto, che riguarda la loro comprensibilità e validazione, va rapportato al loro rapporto con altre strutture simboliche della società, alle loro rappresentazioni linguistiche e al modo come queste si traducono nel linguaggio ordinario della vita quotidiana. Un esemplificazione facile di ciò è la vicenda di Galileo e delle sue concettualizzazioni astronomiche. Un secondo aspetto da considerare è la cultura come fatto sociale. Per Habermas tutti i fatti culturali sono fatti sociali ed è in questa collocazione che trovano una comprensibilità, che non può essere solamente ricondotta a spiegazioni causali ed empiriche.

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Dobbiamo sempre dire di essi perché hanno un valore. Non è sufficiente spiegarli, devono essere giustificati e legittimati e ciò riguarda il modo con cui la società regola, con norme implicite ed esplicite, l’agire comunicativo. La collocazione della cultura riguarda quindi sia il mondo oggettivo, sia, per aspetti esistenziali, il mondo sociale. C’è però anche da considerare la relazione delle persone con la cultura e come, con questa relazione, la cultura entra in un mondo soggettivo con i suoi contenuti simbolici. che esprimono oltre che conoscenze, anche bisogni, sentimenti e valori. Anch’esso ha però per Habermas, come già si è detto, uno statuto di oggettività. I processi che riguardano questa relazione non sono semplicemente processi meccanico - causali che verificano competenze, incongruenze ed errori, che non sono disconosciuti, ma delimitati in specifici ambiti. Sono processi, anche e soprattutto, di adesione e rifiuto in base a ragioni, che son ben diverse da quelle utilizzate per valutazioni empiriche. Essi però sono anche stimoli fecondi per esplorazioni e scoperte di aspetti diversi e inaspettati della realtà e di se stessi. Queste elaborazioni di Habermas, fortemente caratterizzate in senso ermeneutico, cioè esplicativo, hanno portato, se non a una contrapposizione, a una notevole tensione con teorie naturalistiche e mentalistiche, basate in modo rigoroso su relazioni causali, che, sulla scena filosofica e scientifica attuale, sono quelle che hanno maggior seguito. Rimane però ancora da considerare un ulteriore aspetto della teoria di Habermas, che merita qualche considerazione, proprio con riferimento alla cultura: il rapporto tra mondo delle vita e sistema. Il mondo della vita non è un mondo chiuso e autosufficiente. L’agire comunicativo, pur senza modificare il suo significato originario e di fondo di modalità di formulazione di “piani d’azione consensuale e di definizioni concordate di situazioni suscettibili di consenso”, può ricomprendere aspetti di flessibilità e dinamicità, che dipendono dai limiti del mondo (il villaggio, la contrada, la città, la patria) e dall’evolversi di tradizioni e consuetudini. Esso ha però anche un significato non mutevole, in quanto presupposto dell’esperienza e non contenuto di essa. Nelle società sviluppate le rappresentazioni simboliche del loro modo di essere cambiano, moltiplicandosi e modificandosi, rendendo così molto più ampio lo spettro delle possibili interazioni e condizionamenti.

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Ciò ha come conseguenza una sorta di adulterazione e sofistificazione dell’agire comunicativo che, per il radicamento nel mondo della vita di strutture sociali di sistema, si trasforma in agire teleologico, la cui razionalità è finalizzata a obiettivi particolari individuali o di gruppi, che si pongono al di fuori di quelli che dovrebbero invece essere obiettivi comuni della collettività. In realtà l’agire comunicativo, inteso come unica modalità di espressione del mondo della vita, ha avuto una sua realizzazione solo nelle società primitive, in cui non c’è differenza tra mondo della vita e sistema. Il sistema è una conseguenza dell’evoluzione sociale e si configura dapprima come potere politico e organizzazione statale per poi, nelle società moderne suddividersi in sottosistemi, sempre più numerosi (la politica, la finanza e il mercato, la burocrazia amministrativa, caste e corporazioni, aggregazioni su base ideologica o religiosa), solo debolmente integrati e con una autonoma razionalità, con cui perseguono proprie finalità di potere, di vantaggi economici o di espansione. In queste mutate condizioni nelle relazioni tra individui si stabiliscono nessi funzionali non solo non voluti, ma spesso anche non percepiti. La conseguenza è un agire comunicativo sempre più modificato in cui, come patologia sociale, acquista una sempre maggior rilevanza una razionalità teleologica. Il coinvolgimento della cultura in tutte le sue espressioni (letterarie, artistiche, ideologiche, di rapporto con le tradizioni e con valori condivisi, con coinvolgimento perfino di ambiti inerenti al sapere scientifico) in questa patologia è ben evidente in tutta la storia di evoluzione della società dal ’900 in poi. Lo sviluppo e la crescente influenza dei mass media, cambiamenti significativi nelle espressioni simboliche della società, creazioni di tecnologie che modificano e condizionano aspetti rilevanti delle modalità delle relazioni interpersonali, rende problematico e talora impossibile un agire comunicativo, che mantenga il suo originale significato rispetto a un mondo della vita, che sia veramente “il mondo di noi tutti”. Habermas, essendo i suoi interessi prevalentemente orientati nella definizione dei molteplici aspetti del sociale e tra questi la cultura, non ha però mai manifestato interesse per aspetti teoretici di una teoria della mente. Dei suoi rapporti con il naturalismo di Denett, il mentalismo antiriduzionista di Searle e del dualismo evoluzionista di Popper dirò successivamente.

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1.1.4 Popper: la cultura e il suo mondo 3 La cultura è invece un aspetto rilevante della teoria della mente di Popper, il cui dualismo interazionista o trialismo rappresenta una delle versione più moderne del dualismo. Rispetto a elaborazioni precedenti del dualismo, la teoria di Popper è una teoria molto articolata che, abbandonati i riferimenti alle sostanze cartesiane e con una presa di posizione decisamente antipsicologica, accoglie ed elabora concettualizzazioni sviluppate anche da altri in ben diverse direzioni, quali l’evoluzionismo, l’emergentismo, il ruolo centrale del linguaggio. In questa teoria l’universo, come già detto, è diviso in tre sottouniversi, come Popper stesso li definisce: il mondo 1, il mondo 2 e il mondo 3. Il mondo 1 è il mondo dei corpi e delle forze fisiche, il mondo 2 è il mondo della mente con tutti i suoi contenuti, il mondo 3 è il mondo dei prodotti della mente umana e in particolare il mondo delle nostre lingue, delle nostre storie, dei nostri miti, delle nostre teorie applicative; il mondo delle teorie matematiche e fisiche, delle tecnologie e delle teorie biologiche e mediche. Ma oltre a ciò […] è anche il mondo dell’arte, dell’architettura e della musica [ …]. Il mondo 3 comprende tutti i libri, tutte le biblioteche, tutte le teorie, ivi comprese ovviamente quelle false e inconsistenti.

E quello di Popper è un universo dinamico e in evoluzione e l’evoluzionismo è un evoluzionismo convinto e articolato, ancorato saldamente ai concetti darwiniani di mutamento, di selezione, di ambiente, di pressione selettiva, di adattamento, con però qualche differenza e precisazione. Riproponendo la distinzione tra evoluzionismo passivo, caratterizzato dalle mutazioni casuali e pressione selettiva e un evoluzionismo attivo, caratterizzato dalla ricerca attiva dell’ambiente più adatto a mutate condizioni somatiche e funzionali, considera preminente il secondo. Inoltre per lui l’evoluzione ha evidenti esempi, anche nella selezione naturale, di precise direzioni, finalità e scopi, come quando porta alla realizzazione o alla trasformazione di organi per funzioni ancora solo embrionalmente definite. Cita come esempio i cambiamenti che progressivamente hanno portato alla comparsa degli occhi, ma un’ altro esempio che potrebbe essere ancor più pertinente potrebbe essere quello delle modifiche della laringe e del cervello in rapporto all’evoluzione del linguaggio parlato. Per evitare però fraintendimenti, accennando a teorie alternative come quella creazionista del progetto di William Paley o a quella di Jean-Bap-

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tiste Lamarck, che prima di Charles Darwin aveva formulato una teoria dinamica di evoluzione della natura con ipotesi poi superate, come quella dell’ereditarietà per cambiamenti verificatisi in cellule o strutture somatiche, chiarisce la sua posizione in questo modo:

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Sono dalla parte della scienza e della razionalità, ma contro le pretese eccessive della scienza, che a volte vengono giustamente denunciate come “scientismo”. Io sono dalla parte della ricerca della verità e del coraggio intellettuale di questa ricerca, ma contro l’arroganza intellettuale e contro la pretesa erronea di avere la verità in tasca o quella di poter raggiungere la certezza. É importante rendersi conto che la scienza non fa affermazioni sulle questioni ultime come l’origine dell’esistenza o sul dovere dell’uomo in questo mondo.

C’è da ricordare però che, peraltro in un ben diverso contesto, anche Ludwig Wittgenstein, studioso di logica e di filosofia del linguaggio, ammonisce che ciò di cui non si può parlare [ciò che in una ricerca empirica esula dai fatti, come ad esempio ipotesi metafisiche] si deve tacere.

Popper è anche un emergentista. L’emergentismo, o meglio il neoemergentismo, è una teoria, nata negli anni ’70, come riproposta dell’emergentismo dei primi decenni del secolo, dopo la scoperta delle reti neurali e le sue prime pratiche applicazioni. Su questa teoria, che considera la mente, così come la vita o il linguaggio, produzioni emergenti non giustificate da condizioni precedenti fisiche o psicologiche, ma che aveva di proposito abbandonato pregiudiziali riguardanti aspetti ontologici, avevano potuto convergere, tra gli altri, studiosi di ben diverso orientamento, come Popper e il neurofisiologo Eccles, dichiaratamente dualisti, ma anche il filosofo Mario Bunge e il neuroscienziato Douglas R. Hofstadter, monisti funzionalisti. E anche per Popper la mente è un prodotto dell’evoluzione, sorta per risolvere problemi in sostituzione di altri risolutori di problemi. Ma mentre per i fautori di teorie monistiche questo evento è da correlare a cambiamenti verificatisi nella neurofisiologia del cervello, per Popper è qualcosa di ontologicamente diverso e autonomo, è una sorta di luce nell’universo, ripetendo con ciò, in altro modo, la frase riferita da Herbert Feigl a Albert Einstein: Se non fosse per questa “interna illuminazione” … il mondo non sarebbe che un cumulo di spazzatura.

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Per spiegarne la comparsa, egli ipotizza, richiamandosi a Ernst Mayr, i programmi genetici dei vari organismi come programmi chiusi o programmi aperti e sarebbero questi ultimi a determinare probabilità e facilitazioni alle acquisizioni. Una prima acquisizione sarebbero stati i primi bagliori di coscienza, intesi come una sorta di avvertimento centralizzato, che anticipa un pericolo insito in un determinato comportamento. Una seconda fase sarebbe stata, sempre per finalità difensive, l’anticipazione immaginaria di comportamenti successivi. La terza fase è infine quella legata alla comparsa del linguaggio e quindi anche del mondo 3. È questo dice Popper “il passo dell’uomo”. Dopo questo evento l’evoluzione della mente assume un andamento iperbolico, attraverso interazioni e retroazioni, un dare e un ricevere tra mondo 2 e mondo 3. Per tutti gli evoluzionisti uno dei problemi che si trovano a dover affrontare, in una teoria della mente, è poi quello dell’innatismo, cioè di quei caratteri, funzioni e conoscenze che sono già presenti alla nascita nel patrimonio genetico di ognuno. Il problema riguarda il quando e il come il patrimonio genetico si sia arricchito di esse. Popper lo spiega richiamandosi all’apriorismo kantiano, dando però di Kant una sua personale interpretazione. Kant si riferisce alle nozioni di tempo, di spazio e alle categorie gnoseologiche (quantità, qualità, relazione, modalità) come funzioni dell’intelletto, valide a priori, “forme trascendentali” universali e necessarie, che precedono qualsiasi tipo esperienza, ma non fanno parte dell’esperienza, senza le quali però l’esperienza non sarebbe possibile. Popper intende invece il valido a priori come geneticamente a priori e le considera come conoscenze, non trascendenti, ma presenti nel patrimonio genetico di ciascuno ab initio e come conoscenze che precedono e condizionano qualsiasi tipo de esperienza e di conoscenza. La sua conclusione è che il nostro patrimonio di conoscenze, in modo diretto o indiretto, è innato al 99% “o, diciamo al 999%” . La posizione opposta è invece espressa dalla teoria di Konrad Lorenz, pure lui evoluzionista, che considera invece comunque la percezione come la funzione e la fonte primordiale, anche in una valutazione filogenetica lontana. Il problema, messo in questi termini, ripropone la tematica espressa dal noto aforisma aristotelico “ nihil est in intellectu quod prius non fuerit in

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sensu”, cui Leibnitz aggiunse “nisi intellectus ipse”, il significato di intelletto e la teoria platonica dell’innatismo delle idee. Queste conoscenze a priori avrebbero però per Popper solo carattere congetturale e ipotetico, non ci consentirebbero di uscire dalla nostra soggettività e di raggiungere verità e certezze che di per sé sono oggettive e assolute. Ed è questa anche la base della sua teoria sulla fallibilità e falsificabilità della scienza, per la quale è noto come uno dei padri dell’epistemologia contemporanea. Popper però di questa teoria non rivendica l’esclusiva paternità, ricordando ciò che aveva scritto in versi Xenofane (o Senofane) di Colophon, un filosofo greco del VI sec. a.C., di cui riporta una sua traduzione di un frammento, che nella versione italiana di A. Pasquinelli è la seguente: E nessun uomo ha mai scorto l’esatta verità, né ci / sarà mai chi sappia veramente intorno agli / dei ed a tutte le / cose che io dico: / che se anche qualcuno arrivasse ad esprimere una / cosa compiuta al più alto grado, / neppure lui ne avrebbe tuttavia vera conoscenza / poiché di tutto / vi è solo un / sapere apparente.

Come si è detto l’evento più importante nell’evoluzione della mente, che ha caratterizzato la fase successiva alla comparsa della coscienza, è stato lo sviluppo del linguaggio, che da funzioni espressive e segnaletiche, che sono funzioni biologiche presenti anche in molti animali, ha consentito la comparsa e lo sviluppo anche di funzioni descrittive. Questa classificazione delle funzioni del linguaggio è dello psicologo Karl Bühler. La funzione espressiva, sempre presente, è l’esplicitazione di uno stato interiore di chi parla. La funzione segnaletica è invece una funzione comunicativa che implica anche degli ascoltatori e dei riceventi. La funzione descrittiva, peculiare dell’uomo, è invece la possibilità di descrizione anche non collegata ad avvertimenti e segnali, che riguarda oggetti o situazioni concrete, ma può riferirsi anche ad argomenti astratti; può essere ignorata dai riceventi, ma soprattutto, come dice Popper, può essere vera o falsa. In una certa misura anche la funzione segnaletica o comunicativa può essere descrittiva e contenere o presupporre contenuti conoscitivi anche di notevole rilevanza. Essa ha però sempre un percorso obbligato. Popper descrive a questo riguardo, la lingua delle api, studiata dal biologo Karl von Frisch, che è una lingua non parlata ma danzata e che egli giudica la più simile al linguaggio umano.

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Danzando un’ape operaia comunicherebbe alle sue compagne informazioni di questo tipo:

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volate per 450 metri in modo che il sole sia a 25 gradi sulla destra rispetto alla vostra direzione; troverete del cibo meraviglioso da portare all’alveare.

Ma quale sarebbero le differenze sostanziali tra il linguaggio umano e questo linguaggio? Che l’ape, nell’ipotesi di Popper, è programmata geneticamente in modo da poter acquisire tutte le informazioni che poi esprime nella sua comunicazione; che le è impossibile dire con la danza qualcosa di diverso dall’esperienza riguardante la fonte del cibo; che le informazioni non possano contenere né esagerazioni né menzogne. La funzione linguistica, per l’ape, sarebbe “il risultato di un influsso ben utilizzato dell’ambiente sulla sua struttura ereditaria.” Alle tre funzioni di Bühler Popper aggiunge anche una quarta funzione, che chiama argomentativa, che è la capacità di approfondire e motivare le ragioni in base alle quali una narrazione, una storia, una teoria, può essere accettata come vera o rifiutata come falsa. Queste proprietà del linguaggio sono, dice Popper, un prodotto dell’inventività della mente umana e lo sviluppo della mente sarebbe a sua volta il prodotto dei suoi stessi prodotti.

Ma ritornando al mondo 3 e ai suoi contenuti, di cui già si è detto e al suo significato nella teoria della mente, c’è da dire che esso va visto non solo per quanto riguarda la sua autonomia ontologica, ma anche per le sue correlazioni con il mondo 2 (la mente) e con il mondo 1 (il mondo fisico). L’universo della cultura è infatti per buona parte figlio delle attività mentali di cui è il prodotto. Una volta autonomizzato, vive però una vita sua propria nei tempi, nelle relazioni, nelle influenze, nella sua sopravvivenza. Ha però anche la possibilità di interferire sulla mente (mondo 2) e sul cervello (mondo 1) e di modificarli in modo significativo, rilevante e anche rapido. Lo dimostrano l’accelerazione evolutiva della mente e del cervello dopo la comparsa della coscienza e lo sviluppo del linguaggio. Non tutto il mondo 3 è però figlio della mente. Le relazioni logiche (per esempio il principio di non contraddizione) sono relazioni del mondo 3 e non relazioni psicologiche del mondo 2 ed esistono e valgono indipendentemente dal fatto che qualcuno le abbia pensate.

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Ma il mondo 3, per la comprensione di queste relazioni, ma soprattutto per i prodotti della mente, non avrebbe mai potuto sorgere senza un linguaggio umano adeguato, che nella cultura ha perciò avuto ed ha un ruolo fondamentale. Habermas ha affrontato il problema della cultura e più in generale del mondo oggettivo, più con riferimento alla loro collocazione e al loro significato nella società piuttosto che per i rapporti con la mente, mentre Popper ha sviluppato le sue concettualizzazioni più con riferimento a quest’ultima. Per alcuni aspetti le due teorie si sovrappongono, per altri invece notevole è la differenza. Habermas è però notevolmente critico nei confronti di Popper. Per lui, antimentalista e antifisicalista radicale, Popper si è solo parzialmente emancipato dall’empirismo e il soggetto viene ancora visto come contrapposto al mondo, mentre invece tra essi c’ è sempre la società, con tutte le sue strutture simboliche e i suoi condizionamenti. Inoltre il rapporto tra soggetto e spirito oggettivo è ancora per Popper un processo di oggettivazione e di riappropriazione della cultura come sapere, con un impoverimento e una marginalizzazione delle sue componenti non cognitive, che riguardano sopratutto la sfera pratico-morale ed espressivo - estetica. Infine per Habermas il mondo 3 di Popper è troppo indifferenziato, senza una chiara distinzione tra cultura (e valori culturali) e strutture e ordinamenti della società. 1.1.5 I memi di Denett e l’intenzionalità collettiva di Searle Di mente e cultura hanno dovuto occuparsi però anche filosofi di orientamento naturalistico, per i quali lo statuto ontologico della mente e dei suoi prodotti ha presupposti e definizioni ben diversi. Denett si rifà a Richard Dawkins, che ha elaborato la teoria dei memi, termine coniato per definire idee complesse, considerate unità di trasmissione culturale o unità di imitazione. Il termine meme deriva dalla parola greca , mimema, che significa rappresentazione o imitazione e che è sembrata a Dawkins appropriata per farne comprendere il significato e la scelta del bisillabo è un richiamo alla parola “gene”. Questi i presupposti teorici della teoria. Nel nostro pianeta le unità replicanti, a livello biologico, sono i geni, porzioni di codice genetico inseriti nelle molecole di DNA. La comparsa e la replicazione dei geni è stata condizionata dall’ambiente.

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Infatti geni del mondo animale hanno potuto comparire solo quando si è creata, grazie alle piante, un’atmosfera di ossigeno e un sufficiente accumulo di sostanze nutritizie. Altrove potrebbero esserci e nello stesso nostro pianeta avrebbero potuto comparire, anche altre molecole replicanti e ciò avrebbe determinato diversi modelli di evoluzione. In realtà però, questo è il pensiero di Dawkins, nel nostro pianeta esistono già altre strutture replicanti analoghe ai geni, presenti da quando nella specie Homo sapiens è comparsa la coscienza. Questo fatto avrebbe creato nel cervello umano un ambiente idoneo per la loro sopravvivenza e il loro sviluppo e il linguaggio avrebbe realizzato le condizioni per il loro propagarsi e diffondersi. E come i geni sono strutture complesse contenenti informazioni genetiche, costituite da aminoacidi variamente disposti nella doppia elica del DNA, anche i memi sarebbero strutture complesse, contenenti informazioni culturali, costituite da idee semplici variamente combinate. Per Dawkins e per Denett i memi non sono però solo una metafora esplicativa. Nel suo libro, Il gene egoista, Dawkins invita a prendere alla lettera ciò che ha detto e a non considerarlo solo un’analogia. S tratterebbe di strutture facenti parte del mondo della natura, che hanno un’esistenza propria e che come i geni obbediscono alle leggi dell’evoluzione e della selezione. Viene in tal modo negata l’immaterialità delle idee. Sarebbero anch’esse, come la materia e l’energia, costituenti del mondo fisico come gli atomi e le molecole, ma anche come i fotoni o i quanti e la selezione si manterrebbe neutrale rispetto alle differenze ontologiche tra geni e memi. Le differenze riguarderebbero solo i diversi modi e ritmi con cui evolvono, diversi perché diversi sono gli ambienti della selezione. Denett precisa così la loro essenza: Non [sono] le “idee semplici” di Locke e Hume (l’idea del rosso o l’idea del cerchio o del caldo o del freddo), ma quel tipo di idee complesse, che si strutturano in distinte unità degne di essere memorizzate, come le idee di ruota indossare abiti triangolo retto alfabeto calendario l’Odissea…

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Queste unità replicanti, i memi, invaderebbero i cervelli degli esseri umani, modificando la struttura materiale dei neuroni, senza i quali non sarebbe stata possibile la loro esistenza, verrebbero trasmessi ad altri cervelli o anche al altre strutture materiali come i libri o i CD, dove la loro presenza sarebbe però solo passiva, avendo come veicolo il linguaggio, avrebbero una sopravvivenza individuale legata a quella dei cervelli o delle strutture materiali che li ospitano e una sopravvivenza come specie dovuta al fatto di essere comunque riusciti, in qualche modo, a mantenere una presenza in qualcuna o almeno una di queste strutture. I memi, come tutte le specie viventi tendono a vivere e a moltiplicarsi indipendentemente dal fatto di essere buoni o cattivi, utili o inutili. È la selezione a determinare il loro destino. Hanno maggiori possibilità di sopravvivenza quelli che hanno più capacità di penetrazione e più appeal. La semplicità, le mode, la pubblicità, l’accesso ai mass-media, l’aumento della scolarità possono favorirne la diffusione, mentre viceversa la complessità o l’eccessiva specificità possono limitarla. Le mode sono però effimere e i loro cambiamenti possono per molti segnare il destino. Quelli già estinti, anche da molto tempo, possono però essere fatti rivivere, così come potrebbero essere fatti rivivere i dinosauri e i mammut, dei quali solo recentemente si è riusciti a recuperare il DNA. Per i memi ciò è già accaduto, anche molto spesso, quando qualche archeologo, qualche bibliofilo o qualcuno per caso abbia avuto l’avventura di recuperarli. Ne sono esempi i bronzi di Riace e i papiri del Mar Morto. Esempi se ne possono fare migliaia. La cultura per Denett sarebbe quindi una specie di malattia virale, che però, invece di nuocere, sarebbe stata il fattore principale dell’avvio di un organizzazione sociale “umana”, nonché della nascita e dello sviluppo della mente e della svolta evolutiva della specie Homo rispetto ai primati da cui deriva. Per mente cultura e società mi riferisco poi a Searle. Searle, anche lui monista, ma con una impostazione molto più mentalistica, affronta il problema ontologico della realtà sociale intendendo con ciò l’insieme degli “oggetti” costruiti socialmente, la lingua, le regole implicite ed esplicite che regolano i rapporti interpersonali, le istituzioni e le strutture simboliche. Si tratta, nelle sue concettualizzazioni, di una realtà che esiste di per sé, che ha una sua struttura logica, che genera fatti, oggetti, simboli e istituzioni e ha come fondamento il linguaggio.

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Anche per lui, nel mondo in cui viviamo, oltre alla realtà fisica, descritta dalle scienze naturali, esistono fenomeni che non sono solo fisici, chimici o biologici, ma riguardano entità immateriali che, alle strutture fisiche o biologiche, da cui pure derivano e da cui sono condizionati per la loro esistenza, si sovrappongono come espressioni di un livello superiore. Negli individui queste espressioni di livello superiore sono la mente e la coscienza e le soggiacenti strutture il cervello e i neuroni. Esiste però anche una realtà sociale, che non è qualcosa di astratto, ma un insieme di individui, che ha espressioni non spiegabili con il solo riferimento agli individui che la compongono, né con la loro somma. Si tratta di espressioni (quali norme, tradizioni, orientamenti culturali, pregiudizi, ecc.) totalmente indipendenti rispetto agli individui, considerati singolarmente e come insieme e alle loro opinioni, ma anche di produzioni collettive, materiali o immateriali o di costruzioni simboliche, come le istituzioni, che sono il risultato di accordi tra individui. Esistono solo perché e in quanto gli stessi individui ritengano che debbano esistere. Searle per la comprensione di questa realtà si richiama al concetto di intenzionalità e lo estende a una dimensione collettiva, considerandola come una forma specifica di intenzionalità. Lo fa con le seguenti tesi: - l’intenzionalità collettiva esiste ed è cosa diversa dai comportamenti intenzionali individuali e non ne è la semplice somma. Essa è espressa dal “noi intendiamo” che è cosa diversa dall’ “io intendo” anche se sommato per più volte - l’intenzionalità collettiva è un fenomeno “primitivo” e non può essere ridotta a intenzionalità individuale - l’esistenza di un’intenzionalità collettiva non significa esistenza di una mente collettiva o di una coscienza di gruppo - l’intenzionalità individuale e collettiva sono indipendenti da ciò che uno pensa circa la loro verità o falsità - l’intenzionalità collettiva presuppone la consapevolezza dell’altro come possibile partecipante ad attività collettive ed è questa consapevolezza (Background sense), che si acquisisce nella propria interiorità, il presupposto per la comprensione di questo tipo d intenzionalità. Il Background sense è un concetto fondamentale nella teoria di Searle ed è stato oggetto di dispute e dibattiti sul come intenderlo e sul come tradurlo. Egli lo considera uno sfondo (Background) di capacità mentali preintenzionali, che non hanno capacità di tipo rappresentazionale.

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Un contributo alla comprensione di questo concetto è anche la definizione di Searle del problema intenzionalità, intesa in senso generale, in La mente:

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Penso che la soluzione filosofica contemporanea più comune al problema dell’intenzionalità sia qualche forma di funzionalismo. L’idea è che l’intenzionalità debba essere analizzata interamente in termini di relazioni causali. Tali relazioni causali intercorrono tra l’ambiente e l’agente e tra vari eventi che occorrono all’interno dell’agente. [ …] E a questo punto non c’è bisogno di dire che la versione più influente del funzionalismo è quella computazionale … .

L’intenzionalità collettiva, nell’ipotesi di Searle sulla realtà sociale, si esprime ed incide sul nostro vivere quotidiano e abita anch’essa le menti. L’intenzionalità, intesa in senso generale è una funzione di base della mente. L’intenzionalità individuale comprende fenomeni mentali come credenze o desideri, sentimenti come paura, amore, speranza, produzioni come espressioni linguistiche o opere d’arte. Searle estende questa funzione anche a un livello collettivo considerandola non solo un impegno in comportamenti cooperativi, ma anche capacità di condivisione di stati intenzionali che hanno come soggetto un noi, che non è però, come si è detto, una somma di io. L’estensione del suo naturalismo biologico, che è una teoria causalista e antiriduzionista, ai fatti sociali, per conciliare individualismo metodologico e irriducibilità dell’universo socio - culturale, ha però vari aspetti di criticità. Essi riguardano - la difficile conciliabilità tra identità personale, così come definita in un ambito naturalistico dalle teorie di Denett e di Searle, e identità collettiva irriducibile, che si pone nei riguardi dell’identità personale in modo intersoggettivo - il problema ontologico di un un’intenzionalità collettiva, primitiva, irriducibile ed esistente di per sé, riferita ad una società di persone la cui attività mentale è però dipendente dalla soggiacenti strutture neurobiologiche. Il problema ontologico in Searle esiste, peraltro, anche per la definizione di mente individuale, che contemporaneamente sottostà a due vincoli: l’irriducibilità e la derivazione causale dalle sottostanti strutture neurobiologiche. Il problema dell’intenzionalità collettiva in una teoria causalista è ancora più complesso, sia sotto il profilo ontologico che genetico.

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1.1.6 Le diverse teorie a confronto Confrontando le varie posizioni espresse a proposito di una teoria della cultura, è possibile cogliere, accanto a ben evidenti differenze, anche molti punti di convergenza. I riferimenti per un confronto possono essere le ipotesi proposte riguardo alla genesi e all’ontologia, i nessi dei collegamenti di cultura e società e cultura e mente, lo statuto del linguaggio. Per quanto riguarda il primo punto c’è da rilevare che perfino Habermas, partito da una posizione ermeneutica antinaturalista, antimentalista, antievoluzionista e anticausalista, ha dovuto confrontarsi alla fine con l’evoluzionismo biologico e l’evoluzionismo sociale, accettando, pur con dei distinguo, un naturalismo e un evoluzionismo, definiti da Lecis deboli. Ponendo l’evoluzione culturale in contiguità con l’evoluzione biologica della specie e con l’evoluzione sociale, Habermas ha posto una distinzione tra interpretazioni totalmente riconducibili a relazioni causali, come quelle degli evoluzionisti Popper, Denett e Searle e quelle espresse nella sua filosofia sociale, considerate presupposti fondamentali non negoziabili. Esse riguardano la negazione di una causalità intesa come relazione necessaria, la irriducibilità e inderivabilità di fatti, norme e valori culturali e la distinzione, nella definizione del profilo normativo dei processi culturali, dei concetti di genesi e validità, intendendo quest’ultima come relazione, che esula dalla derivabilità e riguarda invece valori e ragioni. Un ulteriore aspetto del problema, pur esso genetico, riguarda la derivazione della cultura e le sue fonti. Per i mentalisti (Searle) esiste sempre nella cultura una fase pre-sociale, psicologica e soggettiva. Popper, con una posizione antipsicologica, pone, per buona parte, la cultura, con la sua autonomia, nell’apriori e nell’innatismo della mente. Per Habemas essa ha una posizione esteriore alla mente, pur essendo entrambe aspetti del mondo della vita e della realtà oggettiva. Per Denett, con la sua teoria dei memi, essa non solo è parte del mondo della natura, ma la mente sarebbe addirittura un suo prodotto. La distinzione sulla derivazione genetica della cultura non ha precluso però convergenze sulla sua definizione ontologica. La cultura infatti ha avuto uno statuto ontologico di autonomia e di oggettività sia da naturalisti come Denett, che da mentalisti come Searle, che da Popper con il suo mondo 3 e il suo innatismo.

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È caso mai Habermas ad avere a questo proposito formulazioni un po’ meno definite, perché per lui le distinzioni categoriali di un’articolazione ontologica della realtà, che ricomprende anche il mondo sociale e soggettivo, non sono riconducibili a criteri rigidi e assoluti, ma alla pertinenza con i contesti mutevoli dei discorsi e delle azioni. Se sui criteri generali di una definizione ontologica c’è però comunque complessivamente una concordanza, diversa è invece, nelle varie teorie, la delimitazione dei confini ontologici. Ciò è evidente soprattutto nelle teorie di Popper e di Habermas Popper limita il suo mondo 3 ad un ambito prevalentemente cognitivo, mantenendo in esso, in una posizione di primato, i contenuti oggettivi, i criteri razionali di valutazione e l’agire finalistico; Habermas, invece, immettendo la cultura e le tradizioni culturali nel suo mondo della vita, lascia anche ampio spazio, per una loro definizione, alla mediazione sociale. Per quanto riguarda le reciproche interazioni tra mente, cultura, società e realtà i riferimenti sono i 3 mondi di Popper, il mondo della vita di Habermas, le espressioni dell’intenzionalità collettiva di Searle e le relazioni tra intenzionalità collettiva e intenzionalità individuali. Le ipotesi proposte sono tutte causaliste. Solo Habermas, come si è detto, assume a questo riguardo una posizione diversificata, nel senso di considerare la causalità modalità non necessaria e non privilegiata della relazione. Infine la definizione dello statuto e del significato del linguaggio nelle espressioni della cultura. Ho preferito per questo dare direttamente la parola agli autori o a loro autorevoli interpreti. Così Popper in Il posto della mente nella natura (nel suo Tre saggi sulla mente umana): Il mondo 3 potrebbe essere chiamato il mondo della cultura: Ma la mia teoria da un risalto particolare al ruolo centrale della lingua nella cultura umana. Non esiste nient’altro in tutta l’evoluzione animale a noi nota, che si sia trasformato più velocemente del cervello umano. E questa trasformazione, questo rapido sviluppo del cervello umano è [ … ] un prodotto del linguaggio in sviluppo e dunque un prodotto del mondo 3.

E ancora, Massimo Baldini nell’introduzione dei Tre saggi: Per Popper il mondo 3 ha avuto inizio grazie allo sviluppo del linguaggio […]; è un mondo che è stato fatto dall’uomo e che, a sua volta, ha fatto l’uomo.

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Così Lecis in Cultura, mente, società a proposito di Habermas:

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La mossa chiave, tipica dell’agire comunicativo, è linguistico - sociologica. [ … ] linguaggio e azione sono intimamente connessi, anzi inscindibilmente connessi; in una prospettiva comunicativa il nesso azione - linguaggio ha valenza ontologica e non semplicemente linguistica, in quanto le strutture linguistiche incorporano modi di agire e atteggiarsi degli agenti, modi di rapportarsi alle strutture del mondo circostante. Le forme strutturali delle azioni linguistiche e le modalità di interazione con il mondo “dicono” qualcosa non solo delle aspettative e atteggiamenti del soggetto agente, ma anche sulle caratteristiche obiettive della realtà, che vi lascia impressa la sua impronta sedimentata.

Così Michele Di Francesco nella Prefazione all’edizione italiana di La Mente a proposito di Searle: La struttura linguistica permette di mettere a fuoco l’articolazione logica dell’intenzionalità molto di più di quanto non potrebbe rivelare un’analisi introspettiva. Gli atti intenzionali [pur essendo prioritario il loro significato mentale rispetto al quello linguistico] saranno così analizzati attraverso nozioni come quelle di contenuto intenzionale, modo psicologico, direzione di adattamento, condizioni di soddisfazione, mediate dalle precedenti analisi linguistiche.

Così, per Denett, Massimo Marraffa nella Postfazione di Coscienza che cosa è: La coscienza umana non è un sistema biologico, ma una macchina virtuale “neumanniana”. Questa macchina è il prodotto di comportamenti appresi [memi] che hanno riprogrammato i nostri cervelli biologici. Questi comportamenti hanno natura linguistica: la coscienza è acquisita attraverso forme di “autostimolazione” linguistica, come ad esempio parlare con se stessi [ … ] In quest’ottica la mente concettuale è una costruzione sociale, che si costruisce grazie all’assorbimento dei memi da parte della cultura circostante. Si tratta, dunque di una versione molto forte del’idea che il linguaggio svolge un ruolo costitutivo nel pensiero …

Come si può ben vedere la centralità del linguaggio come elemento costitutivo della cultura e della società e come fattore fondamentale dell’evoluzione, non solo psicologica e sociale, ma anche biologica, è in tutte le teorie una valutazione comune.

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Ma perché questa introduzione teoretica sui concetti di cultura e società per quanto concerne i loro rapporti con la mente? Questi concetti rappresentano un riferimento importante per la comprensione della rappresentazione della follia nella cultura e quindi del rapporto tra follia, cultura e società e anche per la comprensione di aspetti teorici nello sviluppo del pensiero psichiatrico e della stessa prassi, con riferimento all’assistenza. Nei capitoli successivi, dopo aver completato aspetti teorici riguardanti i concetti di identità e diversità e quelli di ragione e razionalità mi propongo di approfondire da un punto di vista antropologico e fenomenologico i significati dei termini dolore, disagio e disturbo psichico e di analizzare il rapporto tra antropologia e psichiatria, spesso non sufficientemente considerato e diventato rilevante con la territorializzazione dei servizi e l’avvio di una psichiatria di comunità e con l’attribuzione alla società, come soggetto collettivo, di un ruolo terapeutico e riabilitativo che modifichi e si contrapponga a idee, giudizi e pregiudizi che invece finora spesso hanno avuto contenuti negativi e di stigmatizzazione. Il problema della malattia mentale e dello stigma e la storia dell’evoluzione dell’assistenza psichiatrica nell’ultimo secolo sarà poi trattato più specificatamente da Simone Vender e da Giuseppe Armocida. Sono anche questi aspetti della cultura, intesa come espressione di simboli, di ragioni, di valutazioni e di comportamenti e del suo evolversi, che ora vede coinvolti anche soggetti in precedenza esclusi: gli stessi pazienti, i familiari e a vario titolo molti altri soggetti della società civile.

1.2. Significato sociologico e antropologico delle diversità 1.2.1 L’identità collettiva Il significato di diversità presuppone la definizione di identità ed entrambi hanno significati diversi a seconda dei contesti in cui vengono usati e a seconda delle categorie concettuali di riferimento. Identità, dal latino idem, è un termine che nelle scienze sociali si è affermato solo nella seconda metà del secolo scorso, divenendo in breve tempo il cardine di approfondimenti teorici e concettuali, che ne hanno allargato il significato ben al di là di quello che era stato in ambito psicologico, in cui il riferimento era stata essenzialmente la persona. Questa estensione si è sviluppata in varie direzioni, quali quelle riguardanti la persona nei suoi aspetti relazionali e intersoggettivi e quelle aventi

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per riferimento contesti sociali con le loro strutturazioni più o meno articolate in gruppi e sottogruppi, con caratterizzazioni specifiche. Riguarda però anche gli stessi gruppi, nelle loro dinamiche relazionali, le modalità con le quali ciascun individuo si rapporta con il suo gruppo di riferimento e con il contesto sociale allargato e quelle con le quali la società, in quanto soggetto collettivo, espressione di norme, valori, convinzioni, pregiudizi, fatti, istituzioni, si rapporta con lui. Riguarda infine anche l’agire della stessa società, in quanto soggetto collettivo unitario, espressione di una pluralità, ma con una propria specifica autonomia anche nell’azione, che prescinde e supera le identità individuali di cui pur è costituita. L’identità, in senso sociale, è un’appartenenza e un riconoscersi in una dimensione diversa dalla propria individualità, una condivisione con altri di aspetti importanti del sé, in un rapporto dialettico che coinvolge come attori, oltre a un’io e un altro o altri, anche la società come tale. Le appartenenze, pur nell’ambito di uno stesso gruppo sociale, possono essere molteplici, tutte con specificità identitarie, tutte però confluenti in una identità superiore che le unifica. E gli stessi gruppi sociali hanno tutti un’appartenenza a una identità che li trascende, quella di specie, con suoi aspetti di universalità e di irriducibilità. L’identità, come categoria concettuale, è stata un punto di riferimento fondamentale per tutte le più moderne impostazioni della sociologia e dell’antropologia. Ha contribuito in modo decisivo a ciò lo psicanalista Erik Erikson, con il suo concetto di identità dell’Io, fortemente improntato in senso storico e sociale Per Erikson lo sviluppo e la continuità dell’identità personale dipende in larga misura dal riconoscimento che essa ha, in un contesto sociale, da parte degli altri. E lo sviluppo dell’identità soggettiva, con la quale ciascuno si definisce e si autodetermina non può in effetti prescindere da eventi, da situazioni e riferimenti riconducibili alle espressioni simboliche, istituzionali, normative e culturali della società. Queste hanno però proprie modalità evolutive ed è con esse che ciascuno deve costantemente confrontarsi. Un esempio di questi rapporti è l’attribuzione a ciascuno di un nome, che non è solo l’aspetto burocratico di un’accoglienza, ma l’assegnazione di una identità, con specificazione del genere, in cui riconoscersi ed essere

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riconosciuto e la convalida di un’ appartenenza a specifiche categorie, quali la famiglia e una comunità territoriale. Ma il rapporto tra società e individuo va ben al di là di ciò. È la società che conferma o attribuisce a ciascuno un ruolo sulla base di criteri consuetudinari o normativi, è la società che detta le regole per la convivenza civile, con criteri a volte razionali, ma a volte anche poco comprensibili che, pur rapportati ai vari contesti, possono essere ricondotti a pregiudizi ideologici, a logiche economiche o di potere o essere semplicemente la conseguenza di particolari reazioni emotive o di incomprensioni o ignoranza. Le conseguenze però, per le persone o anche per intere categorie o gruppi, possono essere anche molto gravi e significare marginalizzazione o esclusione. Un esempio è lo stigma per certi disturbi psichici. Un problema ulteriore è quello posto dall’interpretazione del concetto di identità collettiva. Si tratta di una tematica recente per quanto riguarda l’attribuzione all’ identità collettiva di un significato specifico e di una assegnazione categoriale, ma antico come enunciazione di concetti che ipotizzano la possibilità di contenuti cognitivi sovraindividuali e di un agire sociale. Già Auguste Comte, considerato uno dei fondatori della sociologia, aveva attribuito all’Umanità un Io sovraindividuale È stato però soprattutto Emile Durkheim, un sociologo e antropologo francese, a parlare, nella seconda metà dell’’800, di coscienza collettiva, attribuendo alla società caratteri uguali a quelli di un organismo vivente, con una sua ontologia sostanziale, che è qualcosa di diverso e di più delle individualità che la costituiscono. Ed è stato Adolf Bastian, uno studioso di etnografia e antropologia, di poco antecedente a Durkheim, a parlare di anima sociale e di idee elementari, nelle quali la mente collettiva si sviluppa. La mente di ogni individuo, secondo Bastian, è incorporata nella mente collettiva e ciò nell’ambito di una unità psichica di tutti i tipi umani. Ogni individuo è perciò immerso in un background sociale, da cui trae elementi fondamentali per la sua stessa identità. Bastian è anche ricordato per essere stato, con queste sue ipotesi, l’ispiratore di Carl Gustav Jung nell’elaborazione della sua teoria degli archetipi e dell’inconscio collettivo. La riflessione contemporanea evita le concezioni sostanzialistiche sopra riportate.

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Indubbiamente il parlare di identità collettiva pone però problemi sia ontologici che epistemologici, ma anche e soprattutto ermeneutici, cioè per una sua comprensione, sia nei suoi aspetti oggettivi che di percezione soggettiva. Con riferimento a quanto precedentemente detto a proposito di Habermas e di Popper, potremmo dire che l’identità collettiva è il soggetto di una buona parte dei contenuti di quelli che sono per l’uno il mondo sociale (sozialeWelt) e per l’altro il mondo 3. E anche l’intenzionalità collettiva di Searle (un filosofo su posizioni molto più mentalistiche e psicologiche), pure nella sua immaterialità, ha anch’essa uno statuto ontologico di autonomia e di oggettività. Il problema dell’identità in genere, sia individuale che collettiva, non ha invece trovato grande spazio nella filosofia analitica, attenta ai significati logici e di categorizzazione dei termini e delle espressioni verbali, tanto che Wittgenstein considerava inutile il concetto di identità, in quanto rapporto di un ente con se stesso. In realtà il concetto di identità, soprattutto se riferito all’identità collettiva non può essere considerato un problema puramente logico, essendo invece soprattutto un problema relazionale (di un Sé con altri) e un problema di rappresentazione simbolica. Infine il problema dell’autopercezione dell’identità, cioè delle modalità con le quali i gruppi sociali si autodefiniscono, di come i loro componenti autopercepiscono il rapporto di appartenenza e in che modo i gruppi sviluppano le dinamiche relazionali con altri gruppi. È stato evidenziato da vari autori (Henri Tajfel, Alberto Melucci e altri) che i gruppi si determinano e acquistano significato oggettivo e soggettivo, più che dal contenuto intrinseco delle loro caratteristiche e delle sue espressioni, dalla presenza e dal confronto con altri gruppi attraverso le relazioni che si determinano. Per una comprensione di ciò basti pensare alle identità etniche e religiose, alle situazioni di nazioni monoetniche o pluralistiche, alle vicende di convivenza e tolleranza e ai loro contrari, che hanno caratterizzato, nel corso della storia e caratterizzano attualmente, il nostro mondo. Qualche considerazione infine sulla metodologia della ricerca riguardo a queste tematiche che sono po’ all’incrocio tra antropologia, sociologia e psicologia sociale. Le modalità di approccio metodologico a cui possono essere ricondotti i vari orientamenti sono essenzialmente due. Uno è un modello interpretativo, riguardante quindi soprattutto aspetti teorici, volto alla comprensione di derivazioni genetiche e di attribuzione

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di significato all’identità collettiva, come soggetto di contenuti cognitivi collettivi e di azioni come espressioni di decisioni e azioni sociali. E questo è il modello che ha riguardato soprattutto sociologi, psicologi sociali, filosofi e antropologi culturali a orientamento cognitivo - ermeneutico. Il secondo modello è invece storico - descrittivo, utilizzato soprattutto in ambito antropologico, per descrivere come si formano, come si trasformano e quali sono le espressioni sociali, in termini istituzionali, normativi, organizzativi, culturali, ecc., di gruppi e sottogruppi, soprattutto con riferimento a studi etnici, all’evolversi delle varie modalità di organizzazione sociale. partendo da quelle primitive, fino a quelle più complesse di un mondo globalizzato. 1.2.2 Le varie espressioni delle diversità nella società, nel loro essere e nelle loro dinamiche relazioni La diversità è il fondamento della vita biologica e sociale e l’espressione della ricchezza della realtà e della natura, che proprio nella pluralità esprimono la loro essenza, dinamica e mutevole, fatta di cooperazioni e di competizioni, di conflitti, di integrazioni o di semplici coesistenze. La vita biologica, a livello individuale, dal punto di vista morfologico e funzionale, è un esempio di integrazione armonica di diversità, dalla fecondazione allo sviluppo, al concorde e ordinato funzionamento di organi e apparati. Il funzionamento del sistema nervoso e la vita psichica, sono l’esempio ulteriore di sistemi biologici enormemente complessi in cui questa armonia si realizza oltre che con la cooperazione e la complementarietà, anche attraverso competizioni e conflitti, che determinano però emozioni, sentimenti, processi cognitivi e decisionali, azioni. La vita sociale non è da meno. Le diversità sono tutti gli individui che nella società e nelle sue varie forme associative si ritrovano, con le distinzioni di genere, di fasce di età in rapporto ai diversi bisogni, di ruoli sociali e lavorativi. Molteplici e diverse sono le varie espressioni culturali, le varie credenze religiose, le varie ideologie politiche. La diversità è anche espressa dalle articolazioni dell’organizzazione amministrativa, dalla pluralità delle strutture istituzionali, dai molteplici enti sovranazionali di riferimento, Tutte queste diversità trovano però una loro sintesi in identità superiori espresse dai gruppi di appartenenza, in unità che hanno come riferimento

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la propria comunità territoriale, la comunità nazionale, le chiese e le comunità di credenti, l’umanità nel suo complesso. Come già si è accennato, tutte queste diverse identità individuali e collettive, sia a livello biologico che sociale, sono in un costante equilibrio, dinamico e mutevole, espresso dalle loro relazioni, inserite però in un contesto più o meno omogeneo e con un orizzonte non sempre facilmente definibile. E queste relazioni sono di coesistenza, ma anche di competizione e di cooperazione, con finalità di sopravvivenza, di autoaffermazione come persone o gruppi, di realizzazione di obiettivi comuni, che possono essere materiali, ma anche ideali o etici. La coesistenza di una pluralità, anche se non sempre cooperative, esprime la ricchezza di una società. La cooperazione significa complementarietà e condivisione, non però parità o uguaglianza nelle considerazioni, nei diritti e nel potere che persone e gruppi possono esprimere e competizione significa normalmente contrapposizione per quanto riguarda obiettivi. Anche posizioni contrapposte possono però avere obiettivi comuni. Un esempio può essere quello delle competizioni politiche, che dovrebbero però comunque avere, come fine superiore, il bene non di una parte ma di tutti. Ma proprio perché nelle sue espressioni concrete, la cooperazione tra individui e gruppi diversi, che dovrebbe essere comunque il fondamento della convivenza sociale, non risolve e molto spesso neppure concilia le disuguaglianze, può diventare anche conflitto. In rapporto alle posizioni di potere, le società, tutte le società, si sono gerarchizzate e per la collocazione dei vari gruppi è stato usato, in modo esplicito o implicito, un criterio valutativo di superiorità e inferiorità, che non qualifica di per sé diversità negative, ma comunque le distingue per quanto riguarda considerazione, diritti e doveri. Un po’ di esempi storici. Nella Roma repubblicana la distinzione era tra patrizi (discendenti dei patres fondatori, scelti, secondo Tito Livio, addirittura da Romolo) e plebei (il resto del popolo). Nella democratica Atene, la distinzione era per censo: proprietari da una parte e ο (demos, il popolo, cittadini liberi senza proprietà e con censo limitato) dall’altra. Nel medio evo era invece l’appartenenza a un ordine o uno stato a definire la condizione sociale: clero, nobiltà, uomini liberi (abitanti della campagna o dei borghi), aldi, servi della gleba.

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Nella società moderna industriale e postindustriale, con riferimento alla sociologia marxiana, la distinzione viene fatta per classi in funzione dei rapporti con i mezzi di produzione, con la ricchezza e con la gestione del potere. E tra i vari livelli delle gerarchie si determinano dinamiche di cooperazione accettate o subite, in rapporto a condivisioni ideologiche o di interesse o a rapporti di forza, ma anche situazioni di conflitti anche violenti. Riprendendo i riferimenti già sopra richiamati, si possono trovare di ciò evidenti esempi. A Roma, il riferimento è ancora Tito Livio, all’inizio del V sec. a.C., lo “sciopero” della plebe sul monte Sacro, contro il patriziato accusato di parassitismo, che Menenio Agrippa riuscì a risolvere con il celebre apologo e che portò poi all’istituzione di una delle prime magistrature repubblicane: il tribunato della plebe. A Atene, pure nel V sec. a.C., in un periodo considerato aureo della sua storia, le storiche battaglie all’Assemblea tra il ο (demos, il partito del popolo) e il partito dei possidenti, e l’adozione dell’ostracismo come istituzione giuridica, consistente nell’esilio dalla città per alcuni anni, usato spesso come mezzo di lotta politica. Ma oltre a questi conflitti, la società ateniese di quel periodo, come ci ricorda Luciano Canfora nel suo Mondo di Atene, può essere anche ricordata per le analogie dei suoi problemi con quelli che noi ogni giorno vediamo riportati nei quotidiani e che dimostrano le difficoltà e le precarietà per il conseguimento di un’armonica cooperazione tra istituzioni e cittadini: l’uso improprio del denaro pubblico e il dissesto dello stato, la corruzione e la concussione a livello politico e giudiziario, l’evasione fiscale e perfino i condoni a sanatoria di pregresse evasioni e le tasse patrimoniali. Nell’età moderna e contemporanea si possono poi ricordare le grandi rivoluzioni iniziate con quella francese del 1789 e poi ripetutesi soprattutto nel XIX secolo. Già questi esempi ci indicano come le diversità, pur senza assumere connotazioni negative, nel senso della pericolosità e della riprovazione, possono essere oggetto di sopraffazioni, di marginalizzazioni e di esclusioni unicamente per ragioni di potere. Un’interpretazione, da un punto di vista teorico, della società e del come in essa si concretizzano dinamiche di cooperazione e di contrapposizione tra i suoi costituenti, è quella di Habermas, già precedentemente richiamata. Per Habermas, l’agire comunicativo, finalizzato alla cooperazione, rappresenta aspetto dominante delle modalità di convivenza solo nelle società primitive con livelli di organizzazione assenti o molto limitati.

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La sovrapposizione del Sistema e un’ organizzazione sociale via via sempre più complessa, sostituiscono all’agire comunicativo, in maniera crescente un agire teleologico, finalizzato al perseguimento di benefici personali o di gruppo di vario genere: politici, economici. di autovalorizzazione e ciò rende sempre più sfumata una visione complessiva del bene comune e meno determinate azioni comuni per conseguirlo. La marginalizzazione, certe modalità di esclusione e di sopraffazione possono riguardare, rimanendo ancora in ambito sociale, ma in ambiti diversi da quelli finora considerati e con ulteriori motivazioni, anche altre condizioni di diversità, che pure possono non avere connotazione di per sé negativa. Si riferiscono al problema di valutazioni e considerazioni, ancora con il criterio della superiorità / inferiorità, in base a differenze biologiche o culturali. Esempi di diversità biologiche, valutate in questo modo, sono state la condizione femminile e le distinzioni etniche e razziali. Il mondo attuale, pur sempre più globalizzato, non ha ancora superato, per una parte ancora rilevante, questo tipo di problemi. La condizione femminile, nonostante le battaglie per l’uguaglianza dei diritti, neppure in tutti i paesi del primo mondo ha raggiunto il traguardo della parità. Eppure, sia pure in modo ironico e paradossale, una dialettica, anche in termini ideologici, sulla condizione femminile in una società rigidamente patriarcale, che le donne le relegava e le emarginava, come quella greca, era già stata avviata da Aristofane all’inizio del IV sec. a. C., nella sua cosiddetta trilogia femminista: Lisistrata, Le donne alla festa di Demetra e Le donne all’Assemblea. Quanto poi alla superiorità culturale e di civiltà, ma poi anche razziale in senso biologico di una razza sulle altre, questa è stata un’ideologia dominante per secoli nella storia dell’umanità. Le teorie scientifiche attuali, per quanto riguarda l’aspetto biologico, hanno completamente sovvertito le precedenti conclusioni. A livello culturale le diversità, con una valutazione in termini di superiorità / inferiorità, ma con riferimento però più che alla razza alla provenienza da determinate nazioni o anche da regioni diverse della stessa nazione, sono ancora, su base pregiudiziale, elemento di discriminazione e a volte di esclusione. Lo si può ben vedere studiando i fenomeni migratori e le modalità di accoglienza per i vari gruppi. Ma oltre alle diversità riferite a persone o gruppi, valutazioni, in termini di superiorità / inferiorità, hanno riguardato anche, pur con aspetti mutevoli

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in rapporto a temi e luoghi, anche credenze, ideologie, perfino espressioni dell’arte. Ciò per alcuni versi è comprensibile e quasi ovvio se il riferimento è a scelte di fede o di adesione politica, può essere più che giustificato in ambito scientifico e filosofico, in quanto le contrapposizioni dialettiche vanno anche intese come aspetto metodologico della ricerca, un po’ meno in altri ambiti, come quello artistico. Nella cultura greca, espressa non solo dalla mitologia, l’ideale supremo dell’arte trova nelle nove muse una sua personificazione. Essa però riguarda solo alcune delle espressioni artistiche: tutte le forme della poesia, il canto e la musica, la tragedia, la danza e anche la storia. Le arti figurative invece, per il fatto di usare come strumento la materia, sono considerate servili e per esse non c’è alcuna musa che le rappresenti. 1.2.3 Le diversità come identità negative in quanto pericolose o riprovevoli e fonti di paure Le diversità, nelle considerazioni delle persone, ma anche come valutazioni collettive o come espressioni della cultura, assumono una particolare connotazione negativa quando evocano pericoli, sono fonti di paura o si riferiscono a comportamenti socialmente ed eticamente riprovevoli e trasgressivi. La valutazione negativa può essere un dato definitivo o costante nel tempo, può però dipendere anche da situazioni contingenti o può essere correlata ai costumi della società in determinati momenti storici. I lebbrosi, gli appestati, l’invasore che devasta e saccheggia sono diversità sempre negative, sono espressioni dei grandi flagelli che periodicamente hanno devastato l’umanità e che le suppliche e le preghiere hanno sempre cercato di tener lontano. A peste, fame et bello, libera nos Domine! invocano nelle rogazioni sacerdoti e fedeli, continuando riti precristiani, che si perdono nel buio della preistoria. Sono negative anche quelle che identificano e qualificano persone o categorie in base a comportamenti o attività squalificanti o asociali: prostitute, malavitosi, sediziosi, strozzini. Lo erano, ma il mutare dei costumi le ha rese ora accettate, quelle relative a comportamenti sessuali considerati un tempo devianti. Un esempio di diversità negativa determinata da motivazioni sociali, riguardanti l’identità di una nazione è quella della persecuzione dei cristiani nella Roma imperiale.

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Le società antiche del mondo classico non conobbero, per il loro politeismo, persecuzioni e intolleranze religiose, tanto che perfino al Dio Ignoto dedicarono are e iscrizioni, come ricordano gli Atti degli apostoli a proposito del discorso di San Paolo nell’areopago, in cui del Dio Ignoto propose agli Ateniesi l’identificazione. La Roma imperiale aveva però come fattore identitario fondamentale la figura sacra e divinizzata dell’imperatore. I cristiani, rifiutando la divinità dell’imperatore, si ponevano nella condizione di sovversivi e di pericolosi nemici dello stato. Un altro esempio di diversità negativa, determinatasi su base ideologico - religiosa, ma poi protrattasi fino ai giorni nostri, anche con motivazioni razziali ed economiche, è quella che ha riguardato gli ebrei, con l’attribuzione a un intero popolo della colpa, considerata inemendabile, di deicidio. Nel mondo cristiano gli ebrei o giudei sono stati per secoli marginalizzati nei ghetti, che da loro prendono talvolta anche il nome, come l’isola veneziana della Giudecca e fin dal VII secolo, nella preghiera liturgica del venerdì santo, l’aggettivo, peraltro ambiguo, con cui venivano qualificati era perfidi: oremus et pro perfidis judaeis. Solo Giovanni XXIII provvide a correggere. Non era stato invece così nel mondo mussulmano, perché il Corano per rispetto alle religioni del Libro che con l’Islam condividevano la paternità di Abramo, aveva esentato dall’obbligo della conversione coloro che le professavano, tanto che floride comunità ebraiche poterono vivere e prosperare, fino alla costituzione dello stato di Israele, anche in paesi dell’Islam profondo, come lo Yemen. Una diversità, che ha pure avuto valutazioni differenti, è quella espressa dalla parola barbaro. Barbaro ( ο ) è un termine onomatopeico, che identificava coloro che non parlavano greco e “balbettavano” lingue incomprensibili. Nel significato originario, erano ricompresi in questo termine sia quello di straniero semplicemente come diverso, sia quello di straniero, con riferimento a popoli o etnie, come possibili fonti di minacce esterne. Il termine ebbe una sua trascrizione senza modifiche anche in latino, con gli stessi significati. Barbari erano coloro che nel terzo secolo attraversavano a nuoto il Danubio e il Reno, che dell’Impero romano erano il limes, per sfuggire alla povertà e venivano da clandestini a cercar fortuna, barbari erano coloro, franchi o goti, che venivano chiamati per lavorare nelle terre incolte o, sempre più spesso, per prestare servizio nell’esercito, dove veniva loro at-

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tribuito, in aggiunta al nome germanico, il nome patronimico dell’imperatore. Ben altro significato però il termine assunse quando dai valichi delle alpi orientali cominciarono ad affacciarsi intere popolazioni in trasferimento che, con i loro carriaggi e le loro masserizie, venivano per soggiogare le popolazioni esistenti e sostituirsi ad esse o quando si presentavano come orde devastatrici. Ma un esempio ancora attuale e per i temi trattati più pertinente è quello del disagio psichico e della follia. Il loro aspetto socioculturale come diversità negative è sempre stato presente, più o meno, nel corso dei secoli. Si è però accentuato negli anni tra ’800 e ‘900 con la riproposizione della follia in termini di antropologia somatica e di degenerazione per quanto riguarda l’attribuzione eziologica, in termini di pericolosità sociale per quanto riguarda la definizione di un suo tratto caratteristico, in termini di esclusione e di separazione da tutte le altre forme di sofferenza, anche per quanto riguarda assistenza e cure. Follia è un termine pressoché inesistente in ambito medico, perché, nella sua genericità, nulla dice che possa servire per una diagnosi, una prognosi o una terapia. È invece un termine importante e molto usato nella cultura moderna per definire una differenza, che non riguarda solo persone come tali, per i loro problemi psicofisici, ma in senso molto più generale, per definire una condizione di irrazionalità o di accentuata devianza rispetto a riferimenti assunti come normali. È una differenza però elastica e ambigua, che varia da società a società, che riguarda tutte le dimensioni dell’essere e dell’agire umano, che non possono però essere ricondotti a precisi ambiti categoriali, in quanto condizionati da valori e regole che possono anche essere molto diverse. “L’unico suo minimo comun denominatore” come dicono giustamente Sergio Moravia e Leonardo Ancona in un articolo dell’Enciclopedia Treccani, Universo del corpo, dal titolo Follia, pare essere [… ] la diversità: la diversità sopratutto in rapporto a modelli di essere e di agire assunti come i soli sani e normali [in modo tale che] la diversità viene assimilata alla parola devianza e il folle è anzitutto colui che esce da una determinata via, che è poi semplicemente la strada percorsa dalla maggioranza.

L’uscire dalla via, l’uscire dal solco, è del resto il significato etimologico di delirio da de lira, dove lira è per l’appunto il solco.

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La società considera però regole, consuetudini e valori un aspetto della sua identità e il non rispetto di esse una minaccia, che può anche comportare la marginalizzazione o l’esclusione. Le regole, le consuetudini e i valori possono però coprire interessi diversi e non rispecchiare effettivi bisogni collettivi e inoltre esse evolvono secondo criteri non sempre razionali. La minaccia e il pericolo possono però essere anche la distorsione e l’estensione, a livello collettivo, di disagi psicologici dei “normali”, che esorcizzano così paure consce e inconsce, che per la loro diffusione hanno assunto anch’esse una rilevanza collettiva. Questa idea estesa di pericolo e di minaccia personale e sociale aveva trovato una sua ben precisa espressione nella legge del 1904 di istituzione degli ospedali psichiatrici. Nella sua applicazione la formula rituale per un ricovero era “pericoloso a sé o agli altri o di pubblico scandalo”, intendendo ovviamente la parola scandalo in senso estensivo. Considerandolo però in questo modo, il problema della sofferenza psichica e della follia diventava un problema, prima che sanitario e assistenziale, di ordine pubblico e in effetti il riferimento per gli Ospedali psichiatrici non è stato per lungo tempo il Ministero della Sanità (o suoi equivalenti), ma bensì il Ministero dell’Interno. La evidenziazione e valorizzazione degli aspetti sociali della follia ha avuto come conseguenza che anche il sociale entrasse nel novero dei possibili fattori eziopatogenetici della sofferenza e del disagio psichico, per alcuni anche come causa prevalente o addirittura esclusiva. In realtà l’aspetto sociale è una parte rilevante sì, ma di un problema complesso, che non può prescindere però da fattori o cofattori biologici e psicologici, né tanto meno contrapporsi ad essi. È un aspetto però che di per sé fa della follia un problema la cui estensione va ben al di là degli aspetti clinici e assistenziali. La follia riguarda persone che soffrono, spesso, anche se non sempre, poveri diavoli che hanno dovuto affrontare la realtà e la competizione sociale partendo da condizioni biologiche e psicologiche di handicap, di disagio e di difficoltà e che vivono, proprio per queste condizioni, molto frequentemente situazioni di autoesclusione, di solitudine sociale, di relazioni problematiche. Sono persone bisognose di aiuto. Sono state viceversa caricate, oltre che dei loro problemi, di un fardello di errori, di pregiudizi e di colpe ascrivibili alla società o come hanno detto alcuni, in senso più politico, al Sistema.

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L’aspetto sociale o meglio sociale e psicologico, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, ha assunto, nell’interpretazione della follia, una posizione sempre più di primo piano, affiancato peraltro, in una specie di doppio binario, dal contestuale evolvere, con le neuroscienze, anche dell’aspetto biologico. L’aspetto più estremo nelle valutazioni eziopatogenetiche è stata la tesi negazionista dell’antipsichiatria, soprattutto anglosassone. Accanto però alla società come causa della follia, la società, intesa come rete espressa dal social network, è stata anche considerata come necessaria risorsa per la sua cura e per la riabilitazione. All’antipsichiatria, ma anche a tutti i movimenti che hanno contribuito al rinnovamento psichiatrico, come le esperienze di psichiatria di settore francesi, ma anche italiane come quella di Varese, alle esperienze soprattutto anglosassoni di psichiatria di comunità, va però ascritto il merito, indipendentemente dal giudizio su alcuni aspetti di certe concettualizzazioni teoriche, di aver riproposto in modo vigoroso il problema della natura della follia e dei suoi rapporti con la cultura e con la società e di aver conseguito risultati non solo significativi, ma addirittura rivoluzionari, sul piano etico, con la restituzione a persone, prima escluse, di una identità sociale e su quello assistenziale di modalità più consone per un aiuto proficuo. 1.2.4 La follia: identità perduta, identità negata Uno psicopatologo a orientamento fenomenologico, che ha fatto dell’identità nelle psicosi uno dei temi preferiti delle sue riflessioni, è Arnaldo Ballerini. Il suo riferimento è Paul Ricoeur, con la sua distinzione dell’identità in être soi même e être le même. Être soi même è essere lo stesso nel tempo (per quanto riguarda qualità e caratteristiche), être le même è invece il chi dell’uomo. Il primo è la persistenza del che cosa del chi, l’aspetto oggettivo dell’identità, mentre être le même è l’Io soggetto, che tale rimane anche quando cambiano i contenuti in modo radicale, come per esempio in una conversione. L’identità umana è la mediazione dialettica tra l’essere lo stesso e l’essere se stesso, che si esprime come identità narrativa. Nell’acuzie psicotica si verifica una “notte dell’identità”. Perdendo il chi, che è poi il funzionamento dell’Io, nel senso di Jaspers, la persona entra in crisi anche come contenuti del suo chi e vive il presente in una temporalità senza tempo, disarticolata dal passato e con un futuro

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pieno di “incertezze e di presagi” che, se poi il percorso si fa cronico, come ha detto Paul Racamier, diventa una paradossale ricerca di identità, esistendo senza esistere. Della perdita di identità nelle psicosi croniche, che sono quelle che soprattutto evocano, nell’immaginario collettivo, la follia, riporto due casi reali, di cui mi sono personalmente occupato, una trentina di anni fa. Ezio era un ragazzo che l’anno prima aveva conseguito la maturità scientifica con una votazione di 56/60, nonostante una psicosi esordita tre anni prima, che persisteva con una florida sintomatologia positiva, non modificata dalle varie terapie praticate. Dopo la maturità si era iscritto a fisica. Io lo seguivo con frequenti incontri al CPS. Un giorno mi presentò questo racconto che aveva scritto qualche giorno prima. Non so cosa raccontare In un grande castello, nascosto in una stanza inaccessibile, c’è un vecchio specchio incorniciato. Durante una gita in Scozia ho conosciuto il padrone del castello che mi ha rivelato l’enigma da risolvere per poter aprire la porta della stanza inaccessibile: “cosa vuol dire che… ? Grazie alla fata dell’amore, che io conoscevo da lungo tempo, ho capito che l’enigma voleva dire: “ …”. Ho gridato davanti alla porta misteriosa, la porta si è aperta e io ho potuto entrare e vedere lo specchio. Ma appena messomi di fronte, vi sono caduto dentro e sono diventato l’immagine riflessa di me stessa. Ma, accidenti, pensa cosa mi è capitato: ora rifletto e non so più cosa raccontare.

Il racconto è pieno di spunti fatti apposta per un’analisi psicanalitica, che in effetti un mio aiuto, P.R Cavalleri, ha poi anche fatto e, credo, pubblicato. La prima parte della narrazione espone in modo ermetico problemi che sembrano universali, espressi simbolicamente e con risposte solo implicite; la seconda parte è invece autobiografica e in essa l’autore, con aria stupita, illustra la perdita di sé e lo specchio che lo accoglie diventa la metafora autistica del non essere. In questo racconto non manca neppure l’errore, voluto o inconscio, di identità di genere attribuito a se stesso. Ezio non è più uscito da quello specchio, non ha più ritrovato se stesso.

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Trascina la sua vita senza tempo e senza identità e anche la luce interiore delle sue capacità cognitive si è ridotta a un lumicino, come quelle lampade a filamento da 5 watt di 50 anni fa, che da accese, con il loro filamento rosso, illuminavano a mala pena se stesse. Benvenuta era negli anni ’60 una paziente del padiglione agitate dell’Ospedale Psichiatrico. Si era ammalata mentre frequentava le superiori e il conservatorio, in cui già da molti anni studiava pianoforte. Era la sorella di una nota cabarettista milanese e sembrava essere stata lei stessa, come prospettiva futura, interessata al teatro. I familiari, per alleviarle i disagi del ricovero, avevano chiesto e ottenuto che potesse avere il suo pianoforte e questo faceva bella mostra di sé nella parete di fondo del salone, dove Benvenuta passava le sue giornate, insieme ad altre malate, che occupavano il loro tempo facendo piccoli lavori di cucito. Benvenuta non faceva nulla e già da qualche anno non parlava più con nessuno. Ogni tanto però si alzava, si sedeva al pianoforte e suonava, anche per tempi abbastanza lunghi, brani del suo ricco repertorio di musica classica. Se qualcuno, come facevo ogni tanto anch’io, si sedeva vicino ad ascoltarla, sembrava soddisfatta. La musica era la sola cosa che lei diceva e poteva dire, che però per dirla, lo poteva fare solo, come direbbe Lacan, con le espressioni dell’Altro e l’l’Altro erano i grandi autori delle sue melodie. Erano gli anni in cui un nuovo farmaco, l’haloperidolo, sembrava fare miracoli e in effetti pazienti, ricoverate anche da molti anni, avevano potuto avere remissioni complete o parziali della loro sintomatologia positiva ed essere dimesse. Ma, su Benvenuta, di risultati non ce n’erano proprio stati. Nulla era cambiato nella sua vita. Passavano i mesi e gli anni. Le esecuzioni al pianoforte diventavano sempre meno frequenti, meno partecipate e più povere. Persi di vista Benvenuta perché il mio lavoro mi aveva portato altrove. La rividi dopo qualche anno. Era sempre in quel reparto, in quello stanzone, con qualche capello già grigio. Come quando l’avevo vista la prima volta era seduta e non parlava. Ogni tanto si alzava, andava per brevi momenti a sedersi al pianoforte.

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La sua musica erano però solo tre note, fa, mi, do, che ripeteva stereotipatamente per decine di volte. Di identità perduta credo di non dover aggiungere altro. Del concetto di identità negata accennerò brevemente al suo significato in termini generali, in quanto la tematica dello stigma verrà trattata specificatamente in uno dei capitoli successivi. Occorre innanzitutto fare alcune precisazioni sul significato delle locuzioni identità perduta, identità negativa, identità negata. Il primo di cui si è già detto, sviluppando il tema dell’identità nelle situazioni psicotiche, ha un significato psicologico riferito all’identità personale, a quello che è stato definito il soggetto del chi, il secondo ha un significato sia psicologico che sociale, il terzo, l’identità negata, ha un significato sociale. Identità negativa non è un concetto semplice. Riguarda entrambi i significati, sia psicologico che sociale, con riferimento alla formazione dell’identità nell’individuo. La formazione dell’identità personale, come immagine che l’individuo ha di sé, è un processo, per buona parte inconscio, che ha una tappa fondamentale soprattutto nell’adolescenza ed è fortemente condizionato da giudizi, attribuzioni o imposizioni da parte di altri. La struttura della personalità, i ruoli e le condotte di ogni individuo sono per buona parte conseguenti a questa formazione. E se le attribuzioni e le imposizioni sono svalorizzanti o negative, i soggetti possono riconoscere se stessi come persone senza valore o con valori sociali negativi e adattarsi stabilmente a condotte devianti o rinunciatarie. Gli psicanalisti hanno considerato come causa principale di questi processi negativi le aspettative dei genitori o comunque dinamiche familiari. Altre teorie sulla “reazione sociale” hanno invece o comunque attribuito una maggior responsabilità, come causa o concausa, a fattori sociali. Identità negata è invece un processo sociale e riguarda l’atteggiamento collettivo nei riguardi di alcune delle diversità negative. Identità negata è anche, in un certo senso, per come l’abbiamo descritta nel modo come si forma, la stessa identità personale negativa perché è o può essere anch’essa il risultato di interventi inappropriati familiari e sociali. Normalmente però, quando si parla di identità negata ci si riferisce all’identità sociale e ai processi di marginalizzazione o di esclusione di persone o categorie di individui considerati diversi e portatori di identi-

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tà negative e pericolose, verso le quali la società assume comportamenti di difesa, perché riferiti a pericoli ritenuti rilevanti per la società, intesa come persone, ma anche come sistema di norme, di consuetudini, di valori. Processi di marginalizzazione e di esclusione hanno riguardato per lungo tempo portatori di disturbi mentali gravi e questi processi hanno avuto risvolti comportamentali, normativi e anche culturali non ancora completamente superati. Non solo su questo piano va visto però il problema, ma anche e soprattutto su quello etico. Nei disturbi psichici e nelle malattie mentali i due concetti di perdita di identità, di rilevanza psicologica inerente alla persona e di identità negata, riferito alla persona in quanto membro della società, non sono però totalmente indipendenti. Essi convergono ed esigono una sintesi non distruttiva o gravemente penalizzante, che deve in qualche modo conciliarli. È un tema che riguarda la stessa definizione di disturbo psichico e di malattia mentale e anche se, quasi sempre, è stato espresso in altro modo, è stato uno degli argomenti dominanti nei dibattiti che hanno preceduto e accompagnato la rivoluzione psichiatrica della seconda metà del ’900. È un problema però che, essendo anche correlato all’evoluzione delle conoscenze scientifiche, per molti versi, è ancora in attesa di conclusioni.

1.3 Ragione, razionalismo e razionalità 1.3.1 Ragione e intelletto come funzioni separate Benché uno modi più comuni per definire la follia sia quello di perdita della ragione, il termine ragione è pressoché assente dai trattati di psicopatologia e di psicologia. Se si vuole trovarlo bisogna andare a cercalo nei dizionari e nelle opere di filosofia, dove si scopre che il termine ratio, da cui deriva, significa calcolo e rapporto, che è stato usato da Cicerone per tradurre anche il termine greco ό ο (logos) con il significato di discorso, che ό ο è un termine usato anche con molti altri significati, oltre a quelli indicati, quali facoltà di pensare e di riflettere, ragionamento, parola. E si può anche ricordare che è proprio con ό ο , che il latino ha tradotto con Verbum, che inizia il Vangelo di Giovanni: ̉Ε χ ἦ ὁ ό ο (en archè en o logos), In principium erat Verbum.

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In realtà con il significato che ora noi gli diamo, il termine usato da Aristotele era diverso: ο (dianoia) come ragione, in contrapposizione a όο (noos) nel significato di intelletto. Perdere il ben dell’intelletto è uno degli altri modi per definire la follia. Sulla contrapposizione di questi due termini o su una loro coincidenza, o identicità di significato, il dibattito ha attraversato tutta la storia della filosofia. In epoche a noi più recenti i due termini sono diventati pressoché sinonimi e loro derivati quali razionalità, funzioni intellettive, ecc., sono usati per indicare aspetti della cognitività. Inizialmente, invece, con il termine ragione veniva indicata da Aristotele e prima di lui da Platone la facoltà che consente una conoscenza discorsiva, cioè quel tipo di conoscenza che si consegue, giungendo a conclusioni, partendo da premesse, in contrapposizione alla conoscenza intuitiva, che è invece una conoscenza cui si giunge, senza mediazioni, grazie all’intelletto. E sia per Platone che per Aristotele è la conoscenza intuitiva la forma più alta di conoscenza, perché è solo grazie all’intuizione che è possibile un accesso ai principi primi. Tipica esemplificazione dell’operare della ragione è il sillogismo, che, con un ragionamento deduttivo, partendo da una premessa generale o da una evidenza a priori non confutabile, ci consente dimostrazioni e ragionamenti formalmente corretti, la cui garanzia di verità non è però derivabile dalla correttezza del ragionamento, ma dal valore che noi diamo alla premessa. C’è però anche una diversa modalità di ragionamento, che partendo da aspetti particolari, cerca di conseguire conoscenze più generali: è questo il ragionamento induttivo. Anche nel ragionamento induttivo la garanzia di verità è un traguardo irraggiungibile, posto oltre le conclusioni del ragionamento. Tuttavia le conclusioni intermedie ci danno comunque verità provvisorie e parziali che sono parte rilevante delle nostre conoscenze. La distinzione tra ragione e intelletto nella filosofia medioevale, con riguardo soprattutto alla questione del rapporto tra ragione e fede, ha mantenuto ferme le conclusioni di Aristotele sul primato dell’intelletto. È stato nel ’600 il razionalismo di Cartesio e l’empirismo razionalista di Thomas Hobbs e dopo alcuni decenni, quello meno razionalista di Locke e soprattutto di Hume, a rimettere in discussione il significato di questi termini. Per entrambi si tratta non di specifiche facoltà, ma di espressioni generiche, tra le quali rientra anche la stessa coscienza, riferite all’attività di pensiero.

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Hobbs, tuttavia, usando di preferenza il termine ragione nel descrivere la facoltà suprema del conoscere e riservando all’intelletto, nelle sue concettualizzazioni, solo aspetti marginali all’interno di questa facoltà, è sembrato a tratti quasi capovolgere le precedenti valutazioni. Hobbs ha anche recuperato il significato originario di ratio come calcolo e nella sua definizione, la ragione è una sorta di calcolo, che consiste in azioni deduttive compiute con termini universali, considerati tali per definizioni esplicite. La veridicità delle conclusioni non ha in tal modo per lui bisogno di intuizioni di principi primi, in quanto poggerebbe su convenzioni linguistiche e la loro eventuale non veridicità dipenderebbe dal non corretto utilizzo di queste convenzioni. Per Hobbs, quindi, è il linguaggio il presupposto di una conoscenza razionale, che è propria dell’uomo e unicamente dell’uomo e questa sua posizione anticipa temi attuali sul rapporto tra linguaggio e pensiero. La contrapposizione tra ragione e intelletto, con però posizioni diversificate, si ripropone in Kant e in Hegel e anzi in Kant il termine ragione entra nel titolo di due delle principali opere: la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica. Intelletto e ragione sono infatti concetti distinti, sia nella filosofia kantiana sia in quella hegeliana, con un primato dell’intelletto in Kant e della ragione in Hegel. In Kant l’ intelletto è il cardine del processo conoscitivo. Ha come competenza i fenomeni, la cui fonte sono i sensi. I sensi sono per Kant, nell’uomo, l’unica fonte di intuizione, l’intelletto invece, quando mantiene la sua struttura logico - formale, “pensa”. “L’intelletto non può intuire nulla e i sensi non possono pensare nulla.” Ma la conoscenza umana non può andare oltre i fenomeni. Si limita cioè alla rappresentazione delle cose, non come sono in sé, ma come appaiono ai nostri sensi e all’interno di forme trascendentali cioè di funzioni a priori. Queste forme o funzioni a priori del pensiero, o categorie dell’intelletto, (Kant ne indica 12, quali unità, molteplicità causalità ecc.) assieme alle forme a priori dei sensi (le intuizioni di spazio e di tempo entro cui le sensazioni sono ordinate), rappresentano lo schema dentro il quale l’intelletto svolge la sua attività. Gli oggetti della ragione sono invece le idee trascendentali: l’anima in cui unificare i dati interni; il mondo in cui unificare la realtà fuori di noi e Dio come sintesi di tutto ciò che esiste. Ma quando l’uomo supera i limiti empirici per cogliere, al di là dei fenomeni, le cose in sé, la sua pretesa rimane insoddisfatta e quindi, quella

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che poteva sembrare una superiorità della ragione sull’intelletto, si rivela invece una capacità fittizia, un’ illusione. La ragione però, se in ambito conoscitivo, come ragion pura, fallisce, ha un altro ambito in cui funziona incondizionatamente: l’ambito della vita morale come ragion pratica, che prescinde, grazie a un “imperativo categorico” dai sensi ed è in grado di determinare la volontà di agire. Hegel capovolge la posizione kantiana ridando alla ragione il primato sull’intelletto. L’intelletto è la facoltà di astrazione, che fissa rigidamente le proprie rappresentazioni attenendosi al principio di non contraddizione, perdendo però con ciò altri aspetti della vita e della realtà. che sono invece recuperabili in un approccio dialettico. È questa la funzione della conoscenza empirica e della scienza, la cui importanza e insostituibilità è peraltro fuori discussione. È però questa anche una fonte di errori, di contraddizioni e di opposizioni. La ragione è invece la funzione che consente alla conoscenza di rivolgersi alla natura vivente e al proprio mondo sociale, in cui trova una razionalità oggettiva, che consente una ricomposizione unitaria del mondo in un universale che ricomprende anche il particolare, con il superamento di contraddizioni e opposizioni. In questa ricomposizione, per Hegel, la ragione supera anche principi della logica formale che erano stati considerati invalicabili, come il principio di non contraddizione, allargando possibilità interpretative che sono state poi sviluppate, soprattutto in ambito sociologico. da filosofi che sono partiti proprio dal suo pensiero, quali Adorno e Habermas. Questo aspetto del pensiero di Hegel, riguardante il superamento di una logica come un insieme di leggi oggettive a priori del pensiero, già ben definite e codificate (che era stata viceversa la posizione di Husserl) è staro uno di quelli più criticati. È questo però un principio ben accettato in psicologia, in quanto fonte di conoscenza è anche, in modo rilevante, il pensiero inconscio. La sostanziale differenza tra il pensiero di Kant e quello di Hegel è che mentre Kant mantiene una separazione e una effettiva differenza tra ragione, intelletto, rappresentazioni delle cose e cose in sé, Hegel, pur partendo da una distinzione di significati e competenze, opera poi, con la sua dialettica fenomenologica, una loro sintesi in un “sapere assoluto”, che supera e ricomprende ogni forma di particolarità e di alterità. Nell’evoluzione del pensiero filosofico del ’900 il dibattito sul significato e sul rapporto tra ragione e intelletto si sposta poi prevalentemente su

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altri temi, peraltro contigui, che riguardano la possibilità e la validità di una conoscenza metafisica, per la quale non vi sono riscontri empirici, i limiti e la validità delle proposizioni scientifiche, il significato del linguaggio in una teoria della conoscenza. Ogni tanto però il tema della differenziazione tra ragione e intelletto riaffiora e ne sono esempi Popper, con la sua concezione non solo empirica delle fonti del sapere, di cui già si è detto e il francofortiano Theodor Adorno, che ne ha fatto anche oggetto specifico di alcune delle sue lezioni, pubblicate poi con il titolo di Terminologia filosofica. Per Adorno la differenza tra ragione e intelletto è stato un tema centrale della filosofia illuministica tedesca rispetto ad altre correnti filosofiche, al punto che i termini Vernunft (intelletto) e Verstand (ragione), sono rimasti in tedesco anche nel linguaggio comune, mentre in inglese e in francese sono entrambi tradotti rispettivamente con il solo termine di reason e raison. Successivamente però, dopo Kant, intelletto e ragione sono state ricondotte a un unico principio soggettivo, identificato con la ragione, considerata come coincidente con il pensiero. Questa impostazione ha trovato poi, come si è detto, una sua precisa definizione in Hegel. La critica di Adorno a Kant è radicale. Kant, secondo Adorno, ha impropriamente distinto, con riferimento all’uso in condizioni diverse, la stessa funzione. L’attività della ragione dovrebbe essere, soprattutto, capacità di conoscenza di idee non più legate alla materia, che la mente da se stessa liberamente si sceglie. Dovrebbe esprimere quindi un contenuto di libertà. Kant nega invece questa capacità alla Ragion pura per poi, paradossalmente, concederla, con una soluzione che potremmo dire di tipo neoscolastico, alla Ragion pratica. Parla di intelletto quando il riferimento è a un’attività razionale che riguarda materiale che gli viene fornito dai sensi per essere riordinato e sistematizzato, di ragione quando l’attività razionale non riguarda più oggetti dei sensi, ma si riferisce alle idee trascendentali. Svaluta però questa stessa attività, che sarebbe solo fonte di errori e di “sofisticherie”, come egli stesso le chiama, mentre l’intelletto, nonostante che la sua attività sia solo subordinata, sarebbe comunque la fonte, grazie al rispetto di procedimenti logici del pensiero, delle conoscenze e del sapere. Il commento di Adorno è che Kant, in queste sue concettualizzazioni assomiglia a un bravo impiegato di concetto della vecchia burocrazia prus-

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siana, rispettoso di regole, norme e consuetudini, sulle quali però non è suo compito riflettere. Su questo problema, della subordinazione della ragione, Adorno ha però qualcosa da dire anche a Hegel.

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In Hegel questo motivo è diventato la forza che ha contrastato nel modo più funesto la forza costruttiva e illuministica del suo pensiero. La ragione deve essere […] il principio della libertà, [e] insieme anche una legge…

Un altro punto a cui brevemente accennare, più per una nota di colore, che per un suo significato nell’analisi che andiamo facendo, è che alla Ragione, oltre che essere sostanzializzata o come dice Adorno reificata, è capitato anche di essere divinizzata, nei primi anni della rivoluzione francese, proprio nel periodo del terrore. Il riferimento ideologico furono gli ideali illuministici di libertà e uguaglianza, il deismo di Voltaire e le idee sociali di Jean Jaques Rousseau, ma anche l’intransigenza fondamentalista di Robespierre. Paradossalmente ciò che materialmente resta di quel periodo sono le sculture deturpate e i bassorilievi devastati di molti portali, frontali e capitelli di chiese di Francia, tuttora ben visibili. Il culto della dea Ragione, nato nel lionese e poi sviluppatosi e diffusosi sopratutto nella Francia centrale e meridionale, ebbe una sua solenne proclamazione nella festa della Libertà, il 10 novembre 1793, a Parigi, nella cattedrale di Notre Dame, con la Déesse Raison personificata da M.lle Maillard, un’attrice dell’Opera, avvolta nel tricolore. E ciò è la dimostrazione, mi sembra, senza bisogno di esemplificazioni ulteriori, in quanto riguarda un po’ tutti i vari ambiti della vita sociale: la politica, le religioni, l’esercizio del potere, che anche quando si parta da ideologie che proclamano la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, troppo spesso la figlia primogenita della verità (o meglio di coloro che acriticamente ritengono di possederla e vogliono imporla), è l’intolleranza. 1.3.2 Razionalismo e irrazionalismo Razionalismo è il termine per indicare l’ideologia di fondo delle correnti filosofiche che considerano la razionalità come fondamento e principio di ogni conoscenza. Tutte queste filosofie considerano la realtà come qualcosa che, essendo governata da leggi e principi cui possono aver accesso i nostri strumenti

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mentali, può essere compresa dal nostro pensiero come evidenza o come deduzione in quanto queste leggi e questi principi sono gli stessi che regolano il nostro stesso pensiero. Rientrano in questa categoria filosofie, che pure hanno sviluppato interessi ed elaborazioni in direzioni diverse, quali l’idealismo di Platone, il naturalismo e razionalismo di Aristotele, cui viene attribuito il merito di aver posto la filosofia al primo posto tra le scienze, in un sistema globale del sapere, il pensiero di Socrate, denominato anche razionalismo etico, caratterizzato dalla ricerca razionale della conoscenza di se stessi e dei principi a cui richiamare i fenomeni naturali e anche le leggi che regolano la convivenza sociale, il sistema filosofico di Tommaso d’Aquino, rivolto alla ricerca di una base razionale per la fede, fondato sulla logica aristotelica. Per tutte queste filosofie il razionalismo è un presupposto di ordine generale. Per razionalismo si intende però anche, in senso più specifico, il complesso movimento storico che ha trovato il suo punto di convergenza, per la ricerca filosofica e in particolare per l’interpretazione delle modalità di funzionamento della mente e la comprensione della realtà, nel razionalismo matematico. Il discorso sul metodo, di Cartesio, è considerato il manifesto di questo movimento, ma razionalisti in questo senso sono anche i sistemi filosofici di Hobbs, di Bacone, di Galileo. Nei secoli successivi il razionalismo si trasforma, abbandonando i canoni del razionalismo classico, trovando però ancora spazio nell’idealismo, nell’illuminismo e nel positivismo. Nell’idealismo, il sistema hegeliano, in cui la realtà coincide con l’autorealizzazione della ragione nello Spirito Assoluto, il sistema è ancora razionalistico, mentre in Schelling e in Schlegel prevalgono, con un ruolo importante non riconducibile a un contesto spiegabile razionalmente, istanze irrazionalistiche che privilegiano, come fonte di conoscenza, rispetto alla ragione, l’istinto e i sentimenti. L’illuminismo, soprattutto nelle sue espressioni socio-politiche, da del razionalismo una ulteriore interpretazione, pure lontana da quello classico precedentemente presentato, con l’idea di fondo che ragione, natura e istinto coincidano e che l’uomo abbia un’istintiva capacità di comprendere, che userà correttamente e spontaneamente, se si emanciperà dalla condizione in cui è stato ridotto dal potere e dalla sua stessa ignavia.

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E anche Kant, che rappresenta viceversa un illuminismo più filosofico, pur essendo partito da concezioni prevalentemente razionaliste, sviluppa poi il suo pensiero con interpretazioni vicine all’empirismo. Nel positivismo, movimento peraltro molto articolato con il coinvolgimento di varie discipline, più che l’aspetto teorico, condivisa con il razionalismo è l’ideologia di fondo di fiducia nella ragione, nella scienza e nel progresso. Nel ’900 di matrice razionalistica è soprattutto il neopositivismo di Carnap, il cosiddetto razionalismo scientifico o positivismo logico di Wittgenstein, a cui si ricollega anche quella corrente di pensiero denominata filosofia analitica (Frege, Russel, Ryle) e la filosofia della scienza o epistemologia con il razionalismo critico di Popper. Irrazionalismo è invece un termine, usato in ambito filosofico, che il Battaglia così definisce: Atteggiamento filosofico che, appellandosi alle forze dell’istinto, della passione, del sentimento, dell’intuizione, ripudia come insufficiente o come illusorio ogni tentativo di interpretare secondo ragione la realtà e la storia, e come vana la pretesa di una condotta che si ispiri a norme razionalmente stabilite (e tale atteggiamento si fonda o sulla negazione di qualsiasi ordine nel mondo naturale e storico o sull’affermazione di un ordine del tutto eterogeneo rispetto a quello della razionalità umana.

Non qualifica quindi filosofie specifiche, ma piuttosto indica caratteristiche di pensiero comuni a molti sistemi. L’irrazionalismo gnoseologico, che è quello che a noi qui maggiormente interessa, ha come suo assunto di fondo che la ragione e il ragionamento discorsivo sono inadeguati per una conoscenza e una comprensione della realtà nei suoi molteplici aspetti. Ciò per la limitatezza dei sensi e l’insufficienza e l’inadeguatezza dei criteri logici. Esemplificazioni di questo atteggiamento nei sistemi filosofici e nei movimenti letterari, se ne possono trovare a partire dal relativismo dei sofisti greci quali Protagora e Gorgia rispetto al sapere. Esempi più strutturati li troviamo però nella storia della filosofia e della letteratura a noi più recente. Il romanticismo, sia letterario che filosofico, si è sviluppato in polemica con il neoclassicismo, la ragione illuminista e lo scientismo positivistico, rivendicando il primato dell’intuizione, degli istinti, dei sentimenti e dell’immaginazione.

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Espressioni tipiche dell’irrazionalismo filosofico nell’800 sono stati poi i grandi oppositori dell’idealismo e del positivismo, Arthur Schopenhauer con il suo Il mondo come volontà e rappresentazione e Friedrich Nietzsche con il Così parlò Zarathustra, Umano troppo umano, La gaia scienza e molte altre opere. Per Schopenhauer la volontà, che regge l’uomo e la natura, è cieca e insensata e il principio di ragione, per quanto riguarda il conoscere non appartiene solo al soggetto o all’oggetto, ma alla rappresentazione tra soggetto e oggetto, nella quale la realtà non esprime una sua verità, ma solo apparenza. Per Nietzsche il nichilismo rappresenta il dissolvimento della cultura platonico - cristiana, con una prospettiva indefinita e una razionalità “impossibile”. Il ’900 poi ha espresso la psicanalisi e l’esistenzialismo. Tra razionalisti e irrazionalisti esistono anche sistemi che si pongono in una posizione più moderata o intermedia. In passato c’era stato un irrazionalismo, che pur dando valore a funzioni non riducibili a contenuti concettuali logici, aveva riconosciuto alla ragione legittimità, valore e rilevanza. Ciò era accaduto con l’empirismo sei - settecentesco, che partendo dalla posizione ancora razionalista di Hobbs, si era posto poi sempre più in contrapposizione all’idea di una conoscenza della realtà dedotta da principi aprioristici. Le posizioni più radicali sono espresse da Hume e da Berkeley con Locke in una posizione intermedia. In tempi a noi più vicini il neopositivismo logico (Wittgenstein), pur ancorato a posizioni razionalistiche, ha manifestato anche aspetti meno razionali, per esempio nella dichiarata irriducibilità dei giudizi di valore o nella irriducibilità e ineffabilità mistica del mondo, sottratto a ogni sintassi, a ogni semantica e a ogni gioco linguistico (Wittgenstein). 1.3.3 Razionalità e irrazionalità Razionalità (dal latino ratio) è definita dal Battaglia come la capacità umana di articolare logicamente il pensiero al fine di giudicare rettamente e di regolarsi efficacemente nell’azione e anche come criterio fondato sull’esercizio della ragione, del pensiero logico.

In queste definizioni il termine razionalità della premessa e il termine logico della parte esplicativa hanno però entrambi come riferimento diret-

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tamente o indirettamente, nella sua traduzione latina, il termine ό ο con il medesimo significato. È perciò necessario, per superare la tautologia, specificare meglio che cosa si intende per logica. La sua definizione è di Aristotele che l’ha concepita come lo studio scientifico del pensiero, del quale il linguaggio è l’espressione, nei suoi elementi costitutivi e nelle leggi che lo regolano. I principi fondamentali della logica aristotelica sono le categorie del pensiero e il ragionamento sillogistico. Le categorie definiscono i generi delle cose (cioè degli enti) distinti in sostanze e accidenti. Le sostante sono ciò che le cose sono in sé, gli accidenti sono gli aspetti che le sostanze possono assumere senza modificare la propria identità. Sono accidenti: la quantità, la qualità, la relazione, il luogo, il tempo, lo stare, il fare, l’avere, il patire. Il ragionamento sillogistico o deduttivo è quello che consente la validazione di una conclusione partendo da due premesse vere, la prima costituita da una enunciazione a carattere generale (Tutti gli uomini sono mortali), la seconda riferita a una aspetto particolare della categoria indicata nella prima (Socrate è un uomo), La conclusione è una attribuzione accidentale (cioè di una qualificazione, di un aggettivo) alla seconda premessa (Socrate è mortale). La conclusione non è vera, pur essendo vere le premesse, quando le conclusioni assimilino due diverse categorie di sostanze sulla base di un comune predicato Tutti gli uomini sono mortali, Argo (il cane di Ulisse) è mortale, Argo è un uomo. Aristotele però, come fonte di conoscenza, valorizza anche l’esperienza, i sensi e le relazioni causali (verum scire est scire per causas) e l’intuizione, come porta d’accesso ai principi primi, che sono di per sé irriducibili. Un bell’esempio di ragionamento che potremmo definire aristotelico, ben condotto, ma in cui il pregiudizio invalida la verità delle conclusioni è il ragionamento sulla peste o più precisamente sulla contagiosità della stessa, del manzoniano don Ferrante nei Promessi sposi, Dice don Ferrante In rerum natura non ci sono che due generi di cose: sostanze e accidenti e se io provo che il contagio non può essere né l’uno né l’altro avrò provato che non esiste.

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E dopo una lunga disquisizione su perché il contagio non possa essere né sostanza, né accidente conclude che la peste è l’effetto della congiunzione di Giove e Saturno sulle varie persone e Giove, Saturno e i malefici effetti della loro congiunzione, questi sì, purtroppo, fan parte delle cose della natura! Il ragionamento deduttivo è il ragionamento della filosofia, che garantisce la correttezza del processo di pensiero, non la sua validazione mentre è l’esperienza il mezzo per la conoscenza del mondo fisico, propria della scienza. I rapporti di causalità, con riferimento alla causa efficiente di Aristotele e la rivalorizzazione dell’esperienza, dopo i lunghi secoli di dominio dell’ipse dixit, saranno poi, nel rinascimento, il punto di partenza, per Galileo e Cartesio, per la definizione della metodologia della ricerca scientifica e per le concettualizzazioni di John Stuart Mills sul ragionamento induttivo e deduttivo. Passi successivi sono state le varie revisioni del concetto di causalità e le teorie riguardo alla validità del sapere scientifico, da Hume fino al falsificazionismo di Popper e all’epistemologia dei paradigmi di Kuhn. Di razionalità, però, soprattutto in anni recenti, sono state date altre definizioni in cui la parola logica più non compare. Alcuni esempi (dall’Enciclopedia Garzanti di filosofia): - scelta dei mezzi e dei comportamenti più idonei al raggiungimento di determinati fini sulla base di una completa informazione delle alternative disponibili - scelta caratterizzata, dalla coerenza e transitività delle preferenze e dalla ottimizzazione dei risultati attesi, intendendo per transitività delle preferenze una variabile relativa a elementi soggettivi riguardante gusti e valori. Queste definizioni sono state applicate sopratutto in economia e in sociologia e includono nella razionalità anche scelte e comportamenti effettuati in condizioni di incertezza o quelle in cui i risultati possano dare solo indicazioni probabilistiche. Un esempio è il Mindreading, in cui le teorie riguardanti la valutazione di attribuzioni intenzionali o di atteggiamenti proposizionali, attualmente più seguite, si basano essenzialmente sulla valorizzazione dell’empatia. La definizione del termine razionalità diventa ancora più difficile e problematica se il riferimento è a scelte collettive. Questo argomento, che ricomprende anche aspetti non razionali del processo decisionale e interazioni tra scelte individuali e collettive, è una delle tematiche attuali della ricerca in economia e in sociologia.

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Contributi rilevanti a queste ricerche sono stati, tanto per citarne alcuni, quelli del matematico John Forbes Nasch jr., premio Nobel per l’economia per il 1994, per le interazioni sociali in termini di competizione e cooperazione e quelli dello psicologo Daniel Kahneman, pure premio Nobel per l’economia nel 2002, uno dei fondatori della cosiddetta finanza comportamentale, per aver integrato i risultati della ricerca psicologica nella scienza economica specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni di incertezza. L’irrazionalità è invece, nelle definizioni, innanzitutto il non rispetto delle regole logiche del pensiero, ma anche perdita della ragione, insensatezza, uno degli aspetti più caratteristici della follia o la follia stessa. Ma nella nostra mente esiste un luogo in cui l’irrazionalità è un aspetto rilevante dell’attività e questo luogo è l’inconscio, in cui il pensiero non rispetta regole logiche, categorie di spazio e di tempo, non si presenta con modalità sequenziali, non concede possibilità riflessive. E anche nell’Io cosciente esistono tipi di pensiero in cui le conclusioni non sono il frutto di un ragionamento, ma di una sorta di illuminazione interiore. Questo è il pensiero intuitivo e altre forme sono la fantasia e l’immaginazione, in cui le regole logiche non sono vincolanti e le espressioni sono più libere, non soggette ai vincoli da esse imposti. La razionalità e l’irrazionalità sono quindi entrambe modalità “normali” di funzionamento della mente, a livello conscio e inconscio, per le attività di pensiero. Certe forme d’arte e certe espressioni letterarie mostrano ciò con chiara evidenza. Esempi possono essere il surrealismo e l’astrattismo nelle arti figurative, il teatro dell’assurdo e la poesia ermetica in letteratura. Ma anche considerando le teorie biologiche della mente, non è certo la razionalità che regola il suo funzionamento. L’elaborazione del pensiero, in un sistema di reti neurali, avviene per frammenti e in parallelo e quindi con modalità non sequenziali, con nessi che non rispettano i nostri criteri della logica. Il processo perciò si sottrae a qualsiasi tipo di controllo e verifica. Questi possono riguardare solo le conclusioni, cioè i dati di output. Non possono quindi razionalità e irrazionalità diventare linea di confine tra normalità e anormalità, né tanto meno assumere il valore di segno patognomonico.

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Già si è visto nel capitolo precedente che con la crisi dell’Io, filosofi come Schopenhauer e come Nietzsche o correnti filosofiche, come l’esistenzialismo, hanno assunto a loro fondamento l’irrazionalità della realtà. Qualche secolo prima, Erasmo da Rotterdam, filosofo, teologo e umanista olandese, vissuto tra il ’400 e il ’500, nel suo Elogio della Pazzia, partendo proprio dall’antinomia razionalità / irrazionalità, aveva rivalutato gli aspetti folli (e irrazionali) dell’esistenza e riavvicinato follia e normalità Sia Erasmo che Nietzsche richiamano, a questo proposito, il mito greco di Dioniso, che ben rappresenta la doppia faccia del problema. Erasmo in chiave ironica, ma in fondo anche seria, elogia la follia in quanto aiuta a vivere nell’irrazionale gli aspetti più piacevoli della vita, diventando poi anche “un dono” nella vecchiaia, quando con la demenza evita “quei miserevoli affanni che torturano il saggio”. Ma anche in ambito psicologico e al di fuori delle considerazioni sull’inconscio, l’irrazionalità ha i suoi sostenitori. Un fenomenologo come Eugène Minkowski, nella sua valorizzazione dell’irrealtà, le attribuisce un ruolo altrettanto importante della realtà per un buon equilibrio psichico. Si può soffrire sia per eccesso di realtà che di irrealtà e l’irrazionalità è un aspetto costitutivo, nelle sue elaborazioni, dello slancio vitale e anche del modo di porsi nei confronti del divenire. E irrazionale, a parte l’inconscio, è assai spesso, l’attività dell’ Io cosciente: nelle fantasie, nelle immaginazioni, ma anche nei comportamenti, tanto che è proprio per questo, che la loro prevedibilità è possibile solo in termini probabilistici. Ma dobbiamo allora concludere che l’irrazionalità non c’entra nulla con la follia, oppure che la follia, essendo la normalità sia razionale che irrazionale, non è che un aspetto della normalità? Nella stessa irrazionalità si possono distinguere delle differenze. Si può dire, con un ossimoro, che ci sono irrazionalità razionali e con una tautologia, irrazionalità irrazionali. Irrazionalità razionali, cioè sicuramente “normali”, sono quelle consone con le modalità di funzionamento della mente e del cervello, quelle che possono essere ricondotte ad attività inconsce, al pensiero intuitivo, alla fantasia e all’immaginazione, come la genialità e l’arte, ma anche come il pensiero ipologico del bambino. Irrazionalità irrazionali, cioè sicuramente “anormali” o “patologiche”, sono quelle conseguenti a malfunzionamenti della mente o del cervello che esprimono perdite di capacità e abilità ed eventualmente sofferenza personale come le patologie psicorganiche, quali le demenze o gli stati confusionali.

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Tra normalità e anormalità vi è però tutta una zona grigia in cui l’attributo di normalità o anormalità dipende dai punti di vista e dalle ideologie degli osservatori e ciò riguarda un po’ tutto lo spettro delle patologie psichiatriche e sociali, dalle psicosi alle devianze, ai disturbi di personalità al semplice disagio o disturbo psichico. Si va dal negazionismo di Thomas Szasz: “La malattia mentale è un mito”; a quello più attenuato di Franco Basaglia, che parifica ragione e follia: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come la ragione”, a posizioni in cui l’irrazionalità, intesa come devianza, anche nelle forme psicotiche, viene considerata come espressione di un’altra normalità, cui viene negato il diritto di esprimersi o anche, valorizzando in questo caso ipotesi eziopatogenetiche di tipo sociale, come l’espressione del disagio di persone normali, provocato dalla marginalizzazione o dall’esclusione. Al di la del parametro normalità / anormalità c’è però un altro aspetto dell’irrazionalità e della follia da considerare: il suo significato in termini di utilità nell’ambito di una valutazione complessiva dell’attività e del funzionamento mentale. È stato detto che la follia, anche in situazioni cliniche, ha due facce, una buona e una cattiva, una che rappresenta una difesa in condizioni di grave disagio, una distruttiva. Quando si verificano situazioni che ostacolano e bloccano il percorso esistenziale, che rendono difficile o impossibile la normale relazione tra realtà esterna e realtà interna, suscitando emozioni che sovrastano la logica del pensiero, la follia, che è pur essa un fatto essenzialmente emotivo, offre, come vie d’uscita, soluzioni irrazionali, che perlomeno consentono, in un mondo diventato nemico e pieno di fantasmi, condizioni di sopravvivenza e anche se non sempre, possibilità sia pure precarie di relazioni intersoggettive. Spesso però in queste relazioni il linguaggio è in codice e le interpretazioni difficili. Queste soluzioni a volte sono efficaci, a volte no. Quando invece è distruttiva, la follia è qualcosa di più di un ‘emozione. È il venir meno di modalità di funzionamento, per il collasso di parti importanti del sistema mente e del sistema cervello, che lasciano come via d’uscita la sola possibilità di una riorganizzazione dell’attività su livelli inferiori. Questa distinzione, nei riscontri pratici, si rivela però di difficile o impossibile applicazione e non risolve il problema della zona grigia e del significato dell’irrazionalità nella follia, ma lo riporta a questioni più gene-

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rali che riguardano il significato della stessa follia, a livello individuale e sociale e la delimitazione dei suoi confini.

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II. APPROCCIO ANTROPOLOGICO E ANTROPOFENOMENOLOGICO AI DISTURBI PSICHICI

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2.1 Fenomenologia e antropologia del dolore, del disagio e del disturbo psichico Dolore, disagio e disturbo psichico sono termini che appartengono, per lo meno il primo rispetto agli altri due, a categorie concettuali diverse, che però sono tra loro interconnesse. Il dolore, sia somatico che psichico, è un aspetto dell’esistenza, comune a tutti, senza distinzione di genere, di età e di condizione sociale e riguarda condizioni di salute e malattia, di normalità e devianza, senza essere specifico per nessuno di essi. Il disagio e il disturbo psichico sono invece condizioni che attengono al funzionamento mentale e ne indicano lievi o gravi anomalie, non sempre però ascrivibili, specie per quanto riguarda il disagio psichico, a precisi ambiti patologici. Inoltre tutti, dolore, disagio e disturbo psichico, nelle loro espressioni individuali, hanno una dimensione privata (psicologica) e una dimensione pubblica, possono però anche esprimere stati affettivi collettivi e avere significati culturali non sempre coincidenti. Disagio e disturbo psichico vengono talora anche usati come sinonimi. Le espressioni sociali, riferite alla collettività come tale, espresse da questi termini utilizzano molto di più disagio e dolore piuttosto che disturbo. Il dolore indica qualunque sentimento o sensazione di sofferenza fisica o morale. I termini dolore e sofferenza sono termini quasi sinonimi. Tra loro, a voler essere più precisi, una differenza però c’è, soprattutto se i riferimenti sono le singole persone, perché il dolore è il sentimento o sensazione in sé, mentre la sofferenza è il modo di viverlo e di sopportarlo. Definire il dolore per tutto quello che questo termine, come sintesi linguistica, esprime non è però semplice, perché deve ricomprendere il dolore fisico, somatico e viscerale, il dolore psicogeno e quello che più propria-

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mente viene definito come dolore psichico e dolore mentale. Dopo anni in cui le definizioni, soprattutto in ambito medico, hanno privilegiato le interpretazioni somatiche, anche in medicina, soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso, si è data sempre più rilevanza alla sua natura mentale, come esperienza soggettiva, comprensiva di componenti cognitive, ma soprattutto emozionali. Leonardo Ancona in una relazione dal titolo Sofferenza e dolore mentale, riportata in bibliografia, così lo classifica: dolore nella sua dimensione fisica: segnale d’allarme che avverte che si è verificata un’offesa all’integrità fisica o funzionale dell’organismo dolore come sofferenza psichica: vissuto caratterizzato da rappresentazioni che implicano ricordi, ansietà, paure, rapporti con persone o contenuti mentali fonti di traumi, caratterizzati “da una dimensione motivazionale affettiva e si pone in funzione delle esperienze del passato” dolore come dolore mentale, a livello simbolico, che può riguardare il presente, ma anche estendersi al passato e al futuro, che viene sperimentato in una dimensione cognitivo - valutativa e dipende dalle caratteristiche personologiche e culturali di chi lo vive. Di questi tipi di dolore, il primo fa parte delle esperienze di tutti gli animali, il secondo oltre che dell’uomo è proprio di tutti i mammiferi superiori, il terzo è invece un’esperienza esclusiva dell’Homo sapiens, sia come modo esistenziale, che come funzione per la sopravvivenza. La differenza tra i primi due e il terzo di questi tipi di dolore è che, mentre il dolore come sofferenza fisica e psicologica è, come dice Ancona, mito - poietica, nel senso che si inserisce nella storia biografica della persona come esperienza significativa, ma rimane lì confinato, il dolore mentale è invece simbolo - poietico, può acquisire cioè espressioni in grado di essere trasmesse ad altri e di assumere quindi una rilevanza sociale e culturale. L’ evoluzione ontogenetica delle espressioni del dolore psicologico e mentale è stata ben studiata dalla psicanalisi e in particolare da Melania Klein. Secondo la Klein, vi è una prima fase nel neonato e nel bambino nei primi mesi di vita, detta posizione schizo - paranoidea, in cui il dolore biologico e psicologico è determinato dalla mancata soddisfazione di tre esigenze fondamentali: la sazietà, l’accoglimento e la tranquillità. La mancata gratificazione di queste esigenze determinerebbe automatiche reazioni di pianto e di rabbia, che sono le espressioni del suo dolore. In una fase successiva, corrispondente alla posizione cosiddetta depressiva, correlata allo svezzamento, la sofferenza è soprattutto un sentimento

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di abbandono, elaborato inconsciamente come colpa e questa fase, se non convenientemente superata, potrebbe avere rilevanti effetti sulle relazioni oggettuali, cioè sul modo di rapportarsi con la realtà, come aspetto caratteriale e come fragilità. Successivamente la sofferenza si manifesterebbe come invidia e gelosia, per la propria inferiorità nella competizione con i rivali adulti e in particolare con il padre o la madre. Questa condizione di sofferenza non sarebbe però solo negativa, sarebbe anche lo stimolo per l’emulazione e un primo importante fattore per lo sviluppo della propria identità. Queste primordiali esperienze di sofferenza e di dolore sarebbero rilevanti nell’affrontamento e nella elaborazione delle frustrazioni e dei lutti anche nella fase adolescenziale e adulta della persona. Si tratta di esperienze psicologiche di prima persona, irriducibili, che possono anche avere espressioni comportamentali o somatiche osservabili dagli altri, ma che, fondamentalmente, sono qualcosa di interiore che da un osservatore esterno possono essere solo immaginate con riferimento ai propri personali vissuti. Fenomenologicamente possono essere descritte come sentimenti di vuoto, di perdita, di pericolo o di minaccia, di incapacità, di menomazione psicofisica e nelle forme patologiche più gravi, nelle psicosi, come compromissione o disgregazione della propria identità e come alterazione del rapporto con se stessi e con la realtà. Soprattutto nelle forme gravi, queste esperienze sono state considerate incomprensibili, nel senso di Jaspers, al di fuori di possibilità empatiche fondate sul linguaggio e sui comportamenti e solo negli anni recenti si sono aperti spiragli per una revisione di questo aspetto, che le aveva collocate in una dimensione aliena. Una delle parole che le ricomprende, pazzia, significa però proprio questo: sofferenza, dolore. Ma il dolore, oltre ad avere una dimensione psicologica individuale, irriducibile nella sua completezza, ha anche una dimensione antropologica con vari aspetti: - come espressione pubblica del particolare stato interno - come espressione collettiva, che si esprime con ritualità e comportamenti che indicano partecipazione e coinvolgimento o come vera e propria condizione sovraindividuale. - come aspetto della cultura, espresso anche in termini di valori non solo negativi dalle religioni e dalla filosofia. Degli aspetti pubblici del dolore privato un po’ si è detto.

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Si può aggiungere che solo in parte questo dolore può essere espresso con parole o con emozioni o comportamenti comunicabili. Per altri suoi aspetti è un’esperienza intima ineffabile, che tale può essere sia per la mancanza di strumenti linguistici, sia per la struttura di personalità di colui che soffre, sia per l’incapacità o l’indisponibilità da parte degli altri di comprenderla. Ce lo conferma bene, con i suoi versi, il Metastasio

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Se a ciascun l’interno affanno si leggesse in fronte scritto quanti mai che invidia fanno ci farebbero pietà.

Il dolore ha però anche una sua dimensione pubblica, con ritualità e comportamenti in occasione di lutti o di calamità, come espressione oggettiva comunitaria di un sentimento sovraindividuale o come sovrapposizione collettiva o di singoli alla dimensione privata. Nelle società moderne, la partecipazione collettiva a lutti dei singoli, date le mutate caratteristiche della vita sociale, si è molto ridimensionata, ma in certe circostanze, quando la drammaticità degli eventi o la rilevanza sociale delle persone abbiano un importante impatto emotivo, emozioni o sentimenti collettivi possono manifestarsi e apparire in tutta la loro evidenza. Esistono però ancora in certi paesi o da noi in piccole comunità espressioni ritualizzate del lutto come partecipazione sociale, sicuramente in anni non molto lontani molto più diffuse, che prevedevano per esempio le piangenti come attrici di una recitazione predeterminata. Un’altra espressione di partecipazione collettiva, non rituale e più rilevante dal punto di vista pratico, riguarda poi il fare, inteso come interventi volti ad alleviare condizioni di sofferenza e di grave disagio. Questo aspetto ha avuto un suo sviluppo sì collettivo, ma soprattutto istituzionale e con una professionalizzazione degli interventi. Altre considerazioni sul dolore riguardano il suo significato in termini di valore nelle religioni e in filosofia. Sono questi aspetti culturali rilevanti. Nelle religioni il dolore, oltre a un significato espiatorio e meritorio, ha spesso assunto anche un significato salvifico. È stato inoltre considerato, in tutti i suoi modi di presentarsi, non solo un’ aspetto inevitabile dell’esistenza, ma anche una condizione da perseguire volontariamente per santificarsi.

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Basta ricordare il movimento medioevale dei flagellanti, le varie confraternite come quella dei Battuti (o denominate con termini similari) e la pratica del cilicio. La flagellazione come pratica religiosa non riguarda però solo il passato e il cristianesimo. Nel mondo antico era praticata nel culto di Iside, di origine egiziana, ma diffuso in tutta l’area mediterranea e nel culto dei misteri dionisiaci e ancora attualmente, con un significato religioso, ma anche folkloristico, in piccoli centri, nei riti di feste religiose. Inoltre nell’Islam scita è ancora pratica diffusa. Nella filosofia moderna, dopo che il tema del dolore e del suo significato era stato oggetto di considerazione anche da parte di molti dei filosofi antichi e medioevali, come Democrito, Platone, Agostino e Tommaso d’Aquino, è stato riproposto, nella sua complessa metafisica, da Schopenhauer per il quale è generato dalla volontà di vivere, sempre insoddisfatta e frustrata nei suoi desideri e nelle sue aspirazioni. È però una condizione senza via d’uscita perché, anche quando riguarda il dolore psicologico, è correlata alla nostra materialità. Il tema del dolore è stato poi ripreso e rielaborato da Kierkegaard e dalla filosofia esistenzialista e da fenomenologi come Jaspers e Scheler. È stato poi ulteriormente sviluppato, tra i contemporanei, da Peter Singer, un filosofo australiano particolarmente interessato a temi etici e da Salvatore Natoli, uno degli importanti filosofi teoretici italiani di oggi. Per Natoli il suo significato varia nelle varie culture: come contingenza del mondo fenomenico, come colpa o come modalità o via per redimersi o anche e per lui ciò non contraddice altre ipotesi, come accettazione, secondo la visione propria della cultura del mondo classico, della fragilità umana e della finitudine dell’esistenza. Il disagio psichico non è un vera e propria patologia, quanto l’espressione di reali difficoltà di adattamento e di gestione delle emozioni, con sentimenti che, più che di sofferenza, sono di difficoltà. Può presentarsi in varie condizioni: stress, insicurezza economica, instabilità o precarietà nelle relazioni familiari e/o sociali, problematiche adolescenziali o giovanili nello sviluppo di una propria identità e nel conseguimento di un sufficiente livello di autonomia, cambiamenti di ruolo o di status sociale o anche in altre condizioni. Le espressioni fenomenologiche di questa condizione non sono espresse da sintomi specifici, ma dalla percezione di stanchezza o di perdita di efficienza o da sentimenti di frustrazione, di malessere, di malumore o di tristezza.

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Si tratta di condizioni che, come quelle di benessere o di dolore fanno parte di ogni esistenza. Quando si verifichino però in persone con strutture caratteriali particolari o in persone con specifiche fragilità, possono anche essere il prodromo di veri e propri disturbi, che possono poi esprimersi in sintomatologie depressive o anche in evoluzioni psicotiche. Il loro persistere o la sproporzione rispetto a eventuali fattori causali di contesto possono perciò essere segni che meritano qualche attenzione. Così come descritto uno stato di disagio psichico è una condizione prevalentemente privata e soggettiva e spesso può essere difficile, anche per chi la vive, esprimerla e giustificarla o darle una connotazione. E questo esprimerla può anche essere un disconoscimento, un’ enfatizzazione o una drammatizzazione. Il disagio psichico ha però talvolta anche una sua espressione pubblica in quanto anche gli altri possono coglierlo nelle sue espressioni mimiche e comportamentali. Con un suo significato sociale può però anche indicare condizioni riferite a gruppi o anche all’intera società per le più varie ragioni: economiche, lavorative, di relazioni sociali, etiche, ecc. Esempi possono essere il disagio giovanile e adolescenziale, il disagio sociale per perdite di valori o per eccesive conflittualità, per malfunzionamenti delle istituzioni, ecc. Il disturbo psichico (o mentale) è invece un’ anomalia del funzionamento mentale che assume una rilevanza clinica e che in questo ambito può essere caratterizzato da vari gradi di gravità. Delle espressioni fenomenologiche del disturbo mentale parlerò però solo in termini generali, in quanto, altrimenti, il riferimento dovrebbe riguardare, con singole specificazioni, tutta la nosografia psichiatrica. Mi limiterò perciò ad accennare - al significato di disturbo mentale - al significato, in psichiatria, di unità morbosa - al significato, in un disturbo mentale, dei termini sintomo e fenomeno e alle modalità per la loro individuazione e identificazione - al loro peso in un approccio terapeutico e nella valutazione sociale del disturbo mentale, soprattutto nelle sue espressioni più gravi. Il termine disturbo è il termine usato dal DSM (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders), dalla 3ª edizione in poi, per indicare una malattia mentale.

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L’utilizzo di questo termine, di per sé generico e poco esplicativo, è stato volutamente adottato per affermare il carattere ateoretico della classificazione nosografica proposta che, abbandonando qualsiasi riferimento ideologico, è stata fatta unicamente in base a caratteristiche cliniche accessibili alla descrizione. Malattia mentale peraltro è qualcosa di difficile da definire se si vuole sintetizzare in queste due parole tutto ciò che si dovrebbe dire di essa per quanto riguarda eziologia, coinvolgimento di organi e di funzioni, sue espressioni psicologiche, biologiche e sociali e per il suo significato culturale. La stessa Organizzazione Mondiale di Sanità più che la malattia ha preferito definire la salute mentale e la definizione è la seguente: Stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive emozionali, esercitare le proprie funzioni all’interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni.

Cercare di definire la malattia mentale in termini negativi rispetto a salute da però ugualmente risultati insoddisfacenti, perché, in ogni caso, ne risulterebbe una sua rappresentazione incompleta. Una problematica che in passato è stata ampiamente dibattuta in rapporto alla definizione di malattia mentale e più in generale con riferimento alla nosografia psichiatrica, è quella riguardante il concetto di unita morbosa. Ne hanno trattato, tra gli altri, Bleuler e molto più estesamente Jaspers. Il problema nasceva dal tentativo di omologazione della malattia mentale alle malattie somatiche, applicando anche alla psichiatria i criteri di definizione di malattia di Morgagni, formulati nel suo De sedibus et causis morborum, partendo da valutazioni anatomo-patologiche ed eziologiche. L’unità morbosa in psichiatria dovrebbe essere un quadro patologico che ha le stesse forme psicologiche fondamentali, lo stesso sviluppo, gli stessi riscontri cerebrali. Dovrebbe essere un’entità naturale reale e consentire la formulazione di una diagnosi, che è per ogni medico una premessa indispensabile per un corretto approccio a una persona malata e la formulazione di un programma terapeutico. In psichiatria, però mancando un riferimento anatomopatologico ed essendo le teorie eziopatogenetiche nulla più di poco supportate ipotesi, l’applicazione dei criteri di Morgagni era impossibile.

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Si è allora cercato di individuare le unità morbose sulla base innanzitutto dei sintomi, poi del decorso e degli esiti e infine con riferimento a teorie costituzionalistiche o riguardanti il funzionamento mentale, con risultati però comunque assolutamente insoddisfacenti. Questo il parere di Bleuler:

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La quasi totale mancanza di relazioni costanti tra noxa e conseguenza psichica è dovuta al semplice motivo che una noxa non istituisce mai un sintomo psicopatologico che non rechi l’impronta della personalità. Essa può soltanto modificare la personalità preesistente. Le conseguenze non ne dipendono mai unicamente, ne dipendono sempre e in misura assai ampia dalla personalità del paziente che si configura in forza delle sue individuali disposizioni e della peculiare storia della sua vita.

Una presa di posizione analoga è stata poi assunta anche da Meyer, da Jaspers e da Binswanger. Alla fine si è ritornati ai sintomi e ai quadri sindromici e ciò è avvenuto con il DSM, nelle sue più recenti edizioni. Anche questo strumento rivela però ogni giorno di più le sue insufficienze e le sue precarietà, in quanto la mancanza nelle diagnosi degli aspetti personali, psicologici, del disturbo ha, come conseguenza, una troppo elevata comorbilità e una loro eccessiva eterogeneità interna che le modifiche del DSMV, pubblicato nel maggio 2013, dei criteri di valutazione dei disturbi di personalità, hanno solo parzialmente attenuato. Nel 2006 il PDM (Psychodynamic Diagnostic Manual), redatto da una task force che ha coinvolto esponenti delle maggiori organizzazioni psicanalitiche americane, che, ponendosi come obiettivo la creazione di un sistema diagnostico che tenesse conto dell’intera gamma del funzionamento di una persona, ha cercato di dare delle risposte diverse partendo dalla psicanalisi e dalle neuroscienze. Il sintomo, anche in una malattia psichica, è un segno, espressione di un cambiamento. È un segno però a cui è l’osservatore a dare un significato. Nell’approccio al paziente malato, diventano perciò rilevanti, per il successivo sviluppo di procedure terapeutiche e del prosieguo di un rapporto, le modalità e le finalità, con le quali l’osservatore, in questo caso lo psichiatra, si pone e fa i suoi rilievi. E questo è quanto ha colto con una felice intuizione Binswanger, il fondatore dell’antropologia fenomenologica, il cui pensiero sarà più compiutamente approfondito successivamente.

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Questi segni possono infatti essere colti come fenomeni, espressioni di una ipotetica malattia, oppure, mettendo tra parentesi, sia pure provvisoriamente le proprie ideologie, le proprie conoscenze, i propri giudizi, come fenomeni espressione dei modi dell’esistere, di essere nel mondo o come dice anche Binswanger, dell’umana presenza. Nel primo caso l’interesse del medico, dello psichiatra, è per la malattia, nel secondo caso lo è invece per la persona così come è nel suo essere nel mondo. Sta proprio in questo la svolta fenomenologica o antropofenomenologica, che ha avuto una rilevanza notevole nell’evoluzione del pensiero psichiatrico, per avere da un lato posto in primo piano i problemi etici che riguardavano l’assistenza istituzionale e dall’altro permesso di superare la barriera dell’incomprensibilità e dell’impartecipazione che, sulla base di ingiustificati pregiudizi o di non corretti presupposti teorici, aveva caratterizzato le modalità di trattamento dei pazienti psicotici, relegandoli o mantenendoli nella categoria degli alienati. Infine, sempre da un punto di vista generale, qualche accenno agli aspetti culturali e sociali dei termini che definiscono la condizione psicotica, Si tratta di tematiche che verranno trattate anche successivamente. Qui c’è però da rilevare che le parole disturbo o disturbato psichico, non hanno di per sé a livello sociale né una particolare risonanza, né rilevanza. Lo hanno invece e lo hanno avuto altri termini con lo stesso significato, riferiti però esclusivamente alle persone con disturbi psichici gravi, già radicati nel linguaggio comune, come folle, matto, pazzo, che non hanno invece ospitalità nel lessico scientifico e clinico. Essi in genere danno però rilevanza solo ad alcuni aspetti delle espressioni del disturbo: quelli che riguardano sintomi comportamentali. Si tratta però di termini che, caricati di predicati pregiudiziali stigmatizzanti, come quello riguardante la pericolosità, inducono a marginalizzazioni o a esclusioni, con cui si deve ancor’ oggi fare i conti.

2.2 Antropologia e psichiatria 2.2.1 Antropologia, cultura e follia. Evoluzione del loro rapporto Di antropologia non si parla molto in psichiatria, o meglio, se ne parla un po’, anche se non molto, con riferimento alla psichiatria fenomenologica, solo da quando questa è diventata con Ludwig Binswanger Dasei-

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nanalyse e con Eugène Minkowski e Danilo Cargnello antropoanalisi e antropofenomenologia. Entrambe hanno come riferimento l’antropologia filosofica e la filosofia dell’essere di Martin Heidegger (per Minkowski anche molti concetti della filosofia di Bergson) ed hanno per oggetto l’essere della condizione umana. Per entrambe si può dire quanto ebbe a rilevare lo stesso Binswanger per la Daseinanalyse, che non sono né una psicologia, né tanto meno una psicopatologia. E per entrambe si può aggiungere, come ha spiegato ancor meglio Eugenio Borgna, che, ponendosi completamente al di fuori dell’antinomia salute - malattia sono un constatare e un derivare modi dell’umana presenza senza possedere alcun criterio per fondare o riconoscere la morbilità di modi anche diversi di essere. … [Grazie a essi però] l’abisso che separa il nostro mondo da quello dei malati mentali e che frena ogni incontro e ogni comunicazione con loro, si fa non solo scientificamente comprensibile, ma anche scientificamente superabile.

Per un approfondimento di questo aspetto del rapporto dell’antropologia con la psichiatria rimando però alla trattazione degli argomenti successivi, in cui verrà più specificatamente affrontato e valutato l’apporto, in termini di contenuti conoscitivi e metodologie di intervento, di Binswanger, di Minkowski e di Cargnello. Qui vorrei invece affrontare l’aspetto del rapporto tra psichiatria e antropologia culturale che è poi il rapporto tra follia e cultura. Nel primo capitolo il tema di fondo è stato il significato di cultura e società, con riferimento alla mente, da un punto di vista generale e nei loro reciproci rapporti. Si tratta ora di verificare cosa sono e sono stati i disturbi psichici per la cultura e come la cultura e tramite essa la società, incida sugli orientamenti e sulla prassi psichiatrica. La cultura è il patrimonio conoscitivo complessivo espresso dall’umanità nelle sue varie espressioni sociali e ricomprende, tra le molte altre cose, anche i disturbi psichici, con le conoscenze scientifiche e pratiche a essi connesse, le teorie, le ipotesi, i giudizi, i pregiudizi, le modalità comportamentali che a essi si riferiscono. È qualcosa che, come tutte le espressioni della natura, continuamente si modifica ed evolve. La cultura ricomprende oltre psichiatria, anche la medicina somatica, tutte le scienze naturali, tutte le scienze umane.

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Tutte hanno una loro specificità, epistemologicamente definita, tutte però reciprocamente si influenzano e coevolvono. Le basi teoriche di ciascuna, come ci hanno insegnato Popper e l’epistemologia moderna, sono provvisorie e fallibili. Alcune sono però ancorate a solidi paradigmi scientifici, altre meno. La psichiatria è stata e forse ancora lo è, tra quelle in cui le teorie sono più fragili e i paradigmi sono spesso solo ipotesi e congetture, in cui è molto più difficile l’oggettivazione dei problemi. Proprio per questo è tra quelle in cui maggiormente pesano errori di valutazione, giudizi non corretti e pregiudizi. È però un luogo comune quello di considerare la medicina somatica come qualcosa di certo e di concreto, in quanto ancorata all’anatomia patologica e al concetto di malattia di Morgagni, rispetto a una psichiatria agganciata a una mente, che non si sa cos’è. Molte cose sono cambiate negli ultimi decenni. Ci sono almeno tre buoni motivi che giustificano incertezze e precarietà anche per le conoscenze mediche. Uno riguarda i cambiamenti e l’evoluzione dei processi morbosi, come fatti naturali che coinvolgono strutture fisiche, che lentamente modificano se stesse per processi di adattamento. Un secondo riguarda i cambiamenti negli elementi di contesto coinvolti nel processo, quali ad esempio le terapie o condizioni sociali più favorevoli o di maggior malessere, che possono modificarne l’evoluzione. Un terzo riguarda errori in merito a convinzioni che si ritenevano conoscenze scientifiche definitivamente acquisite e che si sono viceversa rivelate solo espressioni culturali basate su pregiudizi. E tra queste, anche per la medicina somatica ci sono gli effetti del dualismo cartesiano, che ha portato a una sottovalutazione del coinvolgimento psichico nell’eziopatogenesi delle malattie (che c’è sempre) e nei meccanismi di guarigione (che c’è sempre e in alcuni casi diventa decisivo) e la sopravalutazione del concetto di malattia di Morgagni, nel considerare separatamente processi che hanno invece coinvolgimenti complessi, come nelle malattie psico - neuro - endoscrine, la cui comprensione è completa solo se il riferimento è all’unità psicosomatica della persona. Ci sono almeno tre buoni motivi per modificare anche il giudizio sulla psichiatria. Il primo è che la mente non è più considerata un’ entità astratta fuori dal mondo o qualcosa di chimerico e sfuggente. Le neuroscienze l’hanno saldamente ancorata a un cervello, le cui principali caratteristiche sono la duttilità, la flessibilità e la plasticità, che si

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modifica e non solo metaforicamente, evolve, per ogni stimolo, sia esso fisico o anche psicologico (basti ricordare gli effetti biologici delle psicoterapie) Il secondo è che si va gradatamente consolidando l’idea che le interpretazioni biologiche, psicologiche e sociali di un disturbo psichico, non sono ipotesi alternative conflittuali, come se gli stati mentali fossero solo epifenomeni di processi neurobiologici, oppure qualcosa di diverso, di estraneo e di indipendente rispetto al mondo della natura. La tesi che essi siano punti di vista diversi di uno stesso processo, del quale va ricuperata sia la complessità dell’aspetto neurobiologico, sia la ricchezza e la singolarità delle sue espressioni psicologiche e sociali, è oggi idea dominante. Il terzo motivo, che valorizza la psichiatria nella sua specificità, è che, più che negli altri ambiti della medicina, la comprensione dei problemi e le possibilità di intervento possano proficuamente aversi solo all’interno di un rapporto intersoggettivo, in cui le persone non diventino mai una cosa, ma rimangano sempre un chi, considerato nella sua condizione esistenziale, in tutta la sua interezza. Entrando nel merito del tema proposto, dobbiamo poi considerare vari aspetti dei rapporti tra antropologia culturale e psichiatria, che vanno dalla sovrapposizione di aree di comune interesse, al coinvolgimento dell’antropologia culturale, dal punto di vista ermeneutico, per spiegare aspetti dell’attività mentale normale e patologica, alla necessità di conoscenze antropologiche per finalità pragmatiche, soprattutto con riferimento alla territorializzazione dei servizi e all’inserimento della psichiatria, in quanto psichiatria di comunità, nel social network. Questo coinvolgimento riguarda tutti gli indirizzi dell’antropologia culturale precedentemente considerati, da quello linguistico - letterario di tipo prevalentemente descrittivo, a quello evoluzionistico che, con la svolta cognitiva, ha correlato i contenuti descrittivi delle varie culture alle teorie fisico - naturalistiche sulla mente umana. Riguarda però anche aspetti dell’antropologia culturale, comuni alla sociologia e alla filosofia, riguardo all’interpretazione dei significati di società e di cultura. E il rifermento è allora Popper, Habermas, Denett e Searle, di cui precedentemente si è detto. Un primo tema riguardante il rapporto tra antropologia culturale e psichiatria può essere quello relativo al significato culturale della follia e alla considerazione del folle nella società, nella loro evoluzione nelle varie epoche.

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La follia è stata considerata aliena fin dai primordi della cultura e anche successivamente nelle culture primitive, in quanto considerata incomprensibile ed empaticamente irraggiungibile. Era vista anche come misteriosamente pericolosa, ma coinvolgente, così come altri aspetti della natura, pure misteriosi e pericolosi. Veniva perciò ascritta al sacro, rispettata e protetta da tabù, ma anche isolata e considerata intoccabile. Nella cultura greca ancora si colgono alcuni di questi aspetti. Anche se già con Ippocrate appaiono definizioni, con interpretazioni più razionali, che la includono, per lo meno parzialmente, in una concezione unitaria e naturalistica della persona, l’opinione popolare la considerava emanazione di divinità malvagie come Lyssa e Mania, le dee del furore cieco e dell’ “invasamento” o le Erinni (le Furie della mitologia romana): Aletto che rappresentava il furore, Megera l’ira e l’invidia, Tisifane la vendetta. Nelle elaborazioni filosofiche l’emanazione divina della follia ha però una duplice interpretazione. Oltre alla follia come effetto di influenze negative esiste anche una follia divina, considerata come un dono, che consente di esplorare i confini dell’anima. E questo tipo di follia, scriveva Platone nel Fedro “è tanto superiore alla sapienza, in quanto la prima viene dagli dei, la seconda dagli uomini.” Secondo Platone sono quattro queste forme di follia divina: una profetica, che viene da Apollo e consente di spingere lo sguardo nell’invisibile, una che viene da Dioniso e consente stati di estasi, una artistica che viene dalle Muse, in cui è un dio dentro di sé che diventa guida e infine la follia dell’amore, che viene da Eros e Afrodite, che porta l’anima vicina alla sua vera natura. Una desacralizzazione della follia si ebbe solo nella civiltà romana, più laica e razionale, in cui appaiono ben distinti tre tipi di valutazione: uno giuridico, uno scientifico e uno popolare. Il Diritto romano prevedeva che i “furiosi” e i “fatui” fossero considerati irresponsabili e non punibili, intendendo per fatuitas un difetto di intelligenza e per furor ogni altra forma di follia. Nel Corpus juris iustinianeum il lessico della follia si arricchisce poi di nuovi vocaboli: dementia, insania, mania, amentia, tutte condizioni che prevedevano la non punibilità per eventuali delitti. Dal punto di vista scientifico, compaiono, già ben argomentate, descrizioni e classificazioni della follia come malattia e anche, soprattutto in Galeno, come malattia del cervello.

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Ma oltre a Galeno possono essere anche ricordati, tra gli altri, medici romani che avevano, con le loro concettualizzazioni, preceduto lo stesso Galeno: Asclepiade che nel primo sec. a.C. aveva diviso la pazzia in acuta e cronica e distinto le illusioni dalle allucinazioni e Celso Aulo Aureliano che nel primo sec. d.C. aveva fatto una prima distinzione fenomenologica degli stati allucinatori in gai e tristi. Anche a Roma però le credenze superstiziose popolari continuarono a influenzare valutazioni e giudizi sui malati mentali e ad essere determinanti nella considerazione sociale e nei comportamenti nei loro riguardi, che era prevalentemente di marginalizzazione e di esclusione. Del resto lo stesso status giuridico di non imputabilità e di non punibilità, se da un lato era elemento di protezione, dall’altro era anche l’ufficializzazione di una incapacità di intendere e volere, che non poteva non avere come effetto una attribuzione di diversità negativa. Il medio evo mantiene, per lo più formalmente, classificazioni e termini dei periodi precedenti. Giuridicamente, in una prima fase, in cui al diritto romano si sostituì un diritto di derivazione germanica, avente riguardo solo per l’elemento oggettivo del reato, senza dar rilevanza agli elementi soggettivi del reo, anche i malati di mente vennero considerati responsabili e punibili, poi però la progressiva restaurazione del diritto romano, ripropose le soluzioni previste dai codici giustinianei. Nella cultura medievale, la follia abbandonò comunque gradatamente i suoi riferimenti somatici e naturalistici, per diventare un aspetto del modo di essere dell’anima, inquadrabile nell’antinomia Bene / Male. Ci fu una follia dei santi, considerata espressione del bene (Francesco dice di sé: “Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un pazzo nel mondo” e un altro esempio è quello della Pulzella d’Orléans, patrona di Francia) e una follia del male, espressa dalle streghe e dagli indemoniati. Ma oltre a queste posizioni estreme, la valutazione della follia nell’immaginario collettivo, per quanto riguarda le sue più comuni espressioni, fu, come dice Foucoult nella sua Storia della follia nell’età classica, di essere ascritta alla “categoria dei vizi”. Nel medioevo tuttavia i folli, pur emarginati, non furono totalmente esclusi dal contesto sociale e gli Asili per accoglierli, che cominciarono qua e la a sorgere (per esempio a Londra il Bethlem), hanno avuto, almeno inizialmente, più un intento caritativo che di esclusione. Avevano peraltro avuto accoglimento anche in strutture ospedaliere, che peraltro, nel medioevo devono intendersi in modo ben diverso da come noi oggi le intendiamo, essendo gli ospedali essenzialmente degli ospizi, ge-

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stiti da uomini della Chiesa, per assistere sofferenti e indigenti (i cosiddetti poveri d’Iddio) o per essere rifugi per forestieri e pellegrini. Nel rinascimento la cultura della follia è caratterizzata da due temi principali: uno è quello di una accentuazione della sua valutazione come vizio, di cui si è detto, a proposito del medioevo, l’altro quello che potremmo definire di “laicizzazione” della follia positiva. Come dice ancora Foucoult la follia diventò, nella considerazione collettiva, il primo dei vizi, in quanto conseguenza di insane passioni. Da cui dileggio, emarginazione e anche attribuzione al folle di responsabilità e di colpe. Nella categoria degli emarginati, i folli si trovarono accanto a mendicanti, a vagabondi, sfaccendati e libertini e con loro subirono “il grande internamento”, con il quale si vollero escludere dalla società gli inetti. L’internamento fu formalmente dichiarato caritativo e riabilitativo. Di fatto le ragioni furono per così dire estetiche, per rendere cioè la società più presentabile, senza immagini di cui ci si dovesse vergognare ed economiche. Proprio così, anche economiche, in quanto si trattava di utilizzare l’enorme patrimonio rappresentato dai lebbrosari ormai vuoti, dato che la lebbra, un flagello nei secoli precedenti, aveva esaurito, nel corso dei secoli la sua virulenza e la morbilità si era ridotta ai minimi termini e di utilizzare l’assistenza come fonte di lavoro coatto a basso costo. Gli intenti, così come detti, sono ben evidenti sia nel decreto di Elisabetta che autorizzava le Houses of correction, che dovevano essere ad un tempo “la punizione dei vagabondi e il sollievo dei poveri”, sia nel decreto istitutivo dell’Hôpital Général di Parigi, in cui si diceva che era destinato ai poveri “di ogni sesso, provenienza ed età, di qualsiasi tipo di estrazione e in qualunque condizione si trovino, validi e invalidi, malati o convalescenti, curabili e incurabili”. E il ricovero, che avveniva con modalità coatte, al di fuori di qualsiasi tutela giuridica, prevedeva, oltre che l’esclusione dal cotesto sociale, il lavoro obbligatorio. L’altro tema rinascimentale, certamente più letterario che pratico, ma sicuramente anche espressione, soprattutto in certe classi sociali, di una diversa concezione dell’esistenza, è quello che ho definito della laicizzazione della “follia positiva”. Si tratta della valorizzazione degli aspetti irrazionali dell’esistenza: delle trasgressioni, come arricchimento delle proprie esperienze, degli aspetti istintivi del proprio sé, non solo come fonte di piacere, ma anche come espressione di un affrancamento da troppo rigide prescrizioni e regole.

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Erasmo da Rotterdam con il suo Elogio è il riferimento d’obbligo. È un tema, questo, che aveva già avuto sue espressioni non solo letterarie nell’antichità classica greca e romana. Nell’ “internamento”, dopo due secoli, la follia rincontrò, con Pinel, la medicina e con essa una collocazione naturalistica. La sua rappresentazione nella cultura non ebbe però da ciò una semplificazione. Anzi, le rappresentazioni che la riguardavano si moltiplicarono, con la persistenza di riferimenti precedenti e la comparsa di nuove interpretazioni. La follia come malattia dell’anima, presente ancora in Vincenzo Chiarugi, autore nel 1794 della prima opera di classificazione scientifica Della pazzia in genere e in specie, anche se come teoria è stata abbandonata dalla scienza, è rimasta ed è tuttora un aspetto rilevante della cultura popolare. Fino all’inizio del ’900 c’erano santuari che la cultura popolare riteneva sedi appropriate per cure spirituali di possessioni e disturbi psichici e in alcuni di essi venivano anche praticati esorcismi collettivi. Pratiche esorcistiche, per ottenere la liberazione dal male e dal Maligno, sono però tuttora praticate non solo in aree sottosviluppate. Più laicamente, sono state però ora, molto più frequentemente, sostituite da interventi di cartomanti e fattucchiere. La cultura scientifica, riportando la follia in ambito naturalistico, ha contribuito solo in parte al superamento di pregiudizi e convincimenti precedenti, per le incertezze riguardanti il funzionamento della mente e le molteplici e conflittuali sue basi teoriche. Anzi, certe teorizzazioni, hanno contribuito ad accrescere convinzioni che rafforzavano l’idea della follia come diversità negativa, in quanto espressione di una degenerazione inguaribile. Mi riferisco in particolare alla teoria di Cesare Lombroso, che nell’ambito della sua antropologia somatica, applicò, anche alle alienazioni mentali, criteri di classificazione costituzionalistica, basati su segni fisici e psichici misurabili, considerati espressioni caratteristiche di degenerazione, devianza, di predisposizione alla criminalità. La degenerazione è un aspetto rilevante anche nelle teorie eziopatogenetiche di Morel e Magnan. Ma anche la stessa classificazione di Kraepelin della dementia precox, come rilevato da Arieti, in quanto basata sugli esiti, piuttosto che sulla sintomatologia, portava acqua all’idea di una sua inguaribilità. Altre posizioni teoriche invece, come quelle psicologiche riguardanti l’inconscio, con i suoi contenuti di irrazionalità e di pulsionalità istintive, tendevano a considerare questi aspetti, considerati caratteristici della follia,

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anche come aspetti della normalità di tutti, che trovano una compensazione socialmente accettabile nella mediazione dell’Io. Le attuali maggiori conoscenze sulla mente e sul cervello, anche se ancora poco influenti sulle rappresentazioni della cultura popolare, potranno in futuro acquisire una sempre maggiore rilevanza e ciò dovrà avere effetti sia sulle modalità di affrontamento dei problemi connessi ai disturbi psichici, sia sulla considerazione sociale degli stessi. Alcuni predicati nella definizione di follia sono comunque tuttora continuamente ricorrenti e i sostantivi astratti corrispondenti sono: alienità, incomprensibilità, irrazionalità, inguaribilità, pericolosità. Alcuni di questi come alienità, incomprensibilità e irrazionalità sono termini che hanno attraversato i secoli, sono tra loro correlati e sono la conseguenza della impossibilità, sulla base delle conoscenze che via via si avevano sulla realtà naturale, di trovare spiegazioni plausibili per la follia. Altre sono legate a ipotesi diverse, modificatesi nelle culture succedutesi nel corso dei secoli, di una follia come espressione positiva o negativa di un aldilà ultraterreno, di un modo di essere o di una malattia. Il termine guaribilità, per esempio, ha un senso solo se riferito a quest’ultima ipotesi. La pericolosità, riferita alla follia, ha assunto invece maggior rilevanza, come riferimento categoriale, solo in tempi relativamente recenti. In precedenza aveva invece un significato più generico, con riferimenti prevalentemente individuali, sia come espressione psicologica soggettiva particolarmente evidente in certe patologie, sia come dato oggettivo più aderente alla realtà che, statisticamente, non evidenzia significative variazioni, nella tendenza a delinquere, nelle persone affette da disturbi psichici rispetto al resto della popolazione, sia come considerazione sociale in quanto per evocarla occorrevano altri predicati aggiuntivi (per esempio furioso o agitato). Una sua enfatizzazione, con una importante ricaduta culturale e sociale, si è avuta dopo che il termine è entrato nelle formulazioni rituali per i ricoveri obbligatori in ospedale psichiatrico (legge del 1904). Prima, per i ricoveri in strutture di accoglienza per malati psichici, erano sì necessarie delle autorizzazioni, ma con procedure diverse da zona a zona e senza formulazioni particolari. Il ricovero coatto dei soggetti pericolosi, che voleva verosimilmente essere una limitazione, è diventata però anche importante fattore di stigmatizzazione, che ha riguardato, poi, un po’ tutti coloro che avevano rapporti con gli alienisti, termine usato per indicare gli psichiatri e con le strutture psichiatriche.

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Paradossalmente, mentre la tolleranza sociale per persone con disturbi psichici, soprattutto negli ultimi decenni è stata e lo è tuttora abbastanza buona e comunque in miglioramento e i trattamenti individuali e le psicoterapie sono molto più accettati e richiesti, la stigmatizzazione riguarda invece ancora, molto di più, persone che sono state o sono in carico ai servizi psichiatrici, come se ciò fosse la certificazione di una condizione. La stessa OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha ritenuto, alla fine degli anni ’90, di considerare questo un problema grave e l’ha posto tra le priorità dei suoi interventi. A questo riguardo c’è da dire però che mentre molte delle iniziative attuate, anche se ancora non sufficientemente diffuse, stanno dando positivi riscontri, ci sono stati e ci sono ancora norme, consuetudini e comportamenti, a livello sociale, carichi di ambivalenza e di ambiguità. Negli anni passati la legislazione sul lavoro era per molti aspetti discriminante nei riguardi di persone con disturbi psichici e tale è ancora, in generale, la legislazione sulle assicurazioni. I mass media, per ragioni legate agli indici di ascolto piuttosto che agli indici di vendita di giornali e riviste, tendono assai spesso a drammatizzare oltre misura o a presentare in modo scorretto, situazioni delittuose in cui siano coinvolte persone con disturbi psichici o anche a trovare motivazioni psicopatologiche per delitti commessi da persone normali. 2.2.2 Predicati della follia e loro analisi ermeneutica Analizzando gli aspetti sulla valutazione e considerazione sociale della follia, sembra importante richiamare alcuni dei concetti espressi, parlando in generale di cultura e società e ciò anche in funzione di azioni di contrasto nei confronti di pregiudizi. Un’analisi ermeneutica, riguarda sia la comprensione dei diversi atteggiamenti e valutazioni sociali, verificatisi nel tempo, nei riguardi della follia, sia i significati di aspetti psicopatologici, con i quali si manifesta. Innanzitutto va sottolineata l’oggettività, cioè il loro essere presenti come giudizi sociali di valore, nel senso di Popper e di Habermas, di molte valutazioni e considerazioni negative per le quali non è tanto importante il significato psicologico a livello individuale, quanto quello collettivo. Nati sicuramente dalle persone, queste idee e concetti hanno acquisito una loro autonomia e molti hanno viaggiato nei secoli, scavalcando culture e società e sono diventati fattori di condizionamento per i giudizi delle persone.

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Le interpretazioni di Popper e di Habermas sul significato di cultura sono a questo riguardo illuminanti, ma potrebbero anche esserlo quella più fantasiosa di Denett, in base alla quale potremmo dire che la stigmatizzazione è un virus patologico o quella di Searle, che comunque attribuisce a una intenzionalità collettiva, irriducibile, le varie espressioni di valore via via formulate. Ma oltre al giudizio di valore, possiamo anche valutare l’agire collettivo nei riguardi della follia e del disturbo psichico, che è stato per molti versi, fin dall’inizio, l’opposto di un agire comunicativo finalizzato alla solidarietà, per essere piuttosto un agire teleologico finalizzato alla marginalizzazione e all’esclusione. Dei vari predicati ascritti alla follia (alienità, incomprensibilità, irrazionalità, inguaribilità, pericolosità), che come una catena l’avvolgono, l’anello più debole è l’irrazionalità, anche se con essa è stata spesso identificata. L’irrazionalità è in effetti un aspetto della normalità ed è stato proprio per questa caratteristica che la follia ha trovato, in varie epoche, anche degli estimatori. L’irrazionalità è stata anche utilizzata come argomento per negarla o riumanizzarla nelle dispute ideologiche del secolo scorso (Basaglia: follia e ragione: aspetti della normalità). Di altri predicati, come alienità e incomprensibilità, un po’ già si è detto. Sono termini che a vicenda si supportano, che sono stati espressi, per la follia, in tutte le culture e in tutte le società, quasi sempre per sottolinearne la diversità, non sempre per determinare esclusioni. Perfino Jaspers, sia pure per caratterizzare l’inderivabilità genetica dei deliri primari e associandola alla incomprensibilità dell’esistenza, l’ha inclusa tra le caratteristiche delle psicosi, estendendone il significato fino all’impartecipazione, cioè all’impossibilità di accedere ai vissuti di uno psicotico. E lo stesso Freud, escludendo la possibilità di rapporto empatico, escludeva per gli psicotici possibilità di sviluppo di un transfert e di una terapia psicanalitica Queste posizioni sono state superate dagli antropofenomenologi, partendo da una valorizzazione ontologica della persona, piuttosto che dalla “malattia” e applicando modalità di comprensione husserliane. Per il superamento dei problemi posti dall’alienità e dall’incomprensibilità si aprono però importanti spiragli, nelle nuove conoscenze, che all’interno di una visione unitaria dell’uomo, consentono di avere della mente, anche nelle situazioni di disagio e di sofferenza, immagini meno sfumate

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e chimeriche, con anche maggiori possibilità operative (e questo riguarda anche l’idea di inguaribilità) Considerazioni diverse devono essere fatte sulla pericolosità, perché questo aspetto della follia, che un po’ c’è sempre stato, ha però avuto un andamento molto diverso dagli altri: si è incrementato, anziché diminuire, da quando la psichiatria è diventata una branca della medicina, con suoi ospedali, sia pure un po’ particolari, una sua organizzazione peraltro per molto tempo separata e solo di recente accolta a tutti gli effetti nella rete sanitaria complessiva, con confini epistemologici per molti aspetti diversi dalle altre specialità mediche. Ha avuto delle sottolineature, come già si è detto, dalla legislazione sui ricoveri che è stata in vigore fino alla riforma del 1978. Ha, rispetto agli altri predicati, una sua diversa condizione psicologica soggettiva, che la psicanalisi ha ben spiegato, che si diversifica in rapporto alle diverse fragilità individuali e che sfuma, senza confini netti in ambiti che riguardano tutti. È il più importante fattore di stigmatizzazione, in quanto più degli altri predicati ha un impatto emotivo, che non può essere contrastato solo su un piano cognitivo e razionale, I grandi mutamenti dell’assistenza psichiatrica determinati dai movimenti culturali della seconda metà del ’900, che hanno determinato la chiusura degli ospedali psichiatrici, la territorializzazione dei servizi e l’avvio di una psichiatria di comunità, hanno dovuto porre in primo piano il problema del significato culturale del disagio psichico, della follia e della psichiatria, perché la realizzazione degli obiettivi di recupero, che si proponevano, possono effettivamente realizzarsi solo con il superamento delle modalità di stigmatizzazione che ancora ad essi si frappongono e che hanno espressioni non sempre chiare ed esplicite. Si tratta però di un problema complesso, che ha radici profonde e lontane e per la sua risoluzione richiederà anche un effettivo miglioramento delle conoscenze scientifiche riguardanti la mente, il suo funzionamento, il reale significato dei disturbi che la riguardano. Va rilevato però che la stigmatizzazione non è solo un problema sociale. Riguarda le stesse persone che soffrono di disturbi psichici e che assai spesso, per i disturbi stessi, ma anche obbedendo inconsciamente a quella che finora è stata spesso un imposizione o per evitare un giudizio sociale negativo, supposto, temuto o anche sperimentato, si automarginalizzano e si autoescludono. Riguarda frequentemente le persone che le assistono in quanto anch’esse consciamente o inconsciamente, non sempre si sottraggono alle influenze dell’ambiente e della cultura.

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E a questo riguardo possiamo ben dire che l’ospedale psichiatrico, il manicomio, non è stato solo un luogo fisico. È una categoria mentale, che non è ancora, completamente superata e induce a considerare come aiuti o terapie attività che sono rivolte invece esclusivamente o prevalentemente al controllo comportamentale e della sintomatologia psicopatologica, che prevedono interventi di supplenza piuttosto che di responsabilizzazione e di riabilitazione, che mantengono in piedi mura virtuali di separazione. Il significato culturale del disagio psichico è però soprattutto un problema sociale, perché l’inserimento della psichiatria nel social network deve anche presupporre, per essere un effettivo aiuto a persone in difficoltà, un’accoglienza, una responsabilizzazione collettiva, un cambiamento di giudizi di valore e di comportamenti, che abbiano avuto modo di rafforzarsi e di consolidarsi in consuetudini e prassi prolungate. Per favorire questo la psichiatria deve diventare più eterogenea, più disponibile a integrazioni per lei inconsuete. Segni in questo senso però ce ne sono e hanno assunto rilevanza significativa anche nel nostro ambito territoriale. Certo, il pensiero va a una società in cui l’agire comunicativo di Habermas possa avere una sufficiente possibilità di rappresentazione e di concreta realizzazione. L’obiettivo può anche non essere un’utopia. 2.2.3 Aspetti della follia in un’interpretazione evoluzionistica filogenetica I temi di maggior interesse sono stati quelli relativi alla storia filogenetica dell’uomo relativamente all’evoluzione dei suoi comportamenti sociali, dalle aggregazioni familiari alla comparsa e definizione dei tabù, dai cambiamenti delle modalità di vita determinati per lo più dai mutamenti climatici e ambientali allo sviluppo della cultura. Sono temi che presuppongono considerazioni ancora più generali di quelle finora prese in esame, che ci rimandano ad aspetti biologici dell’evoluzione, quali quelli riguardanti la sessualità, l’aggressività, come modalità di affrontamento della competizione per la sopravvivenza individuale e della specie, la comparsa della coscienza e lo sviluppo del linguaggio e dell’intelligenza. Sono state soprattutto queste ultime a rappresentare l’arma vincente nella competizione e i fattori determinanti per il passaggio da una condizione animale a una condizione umana, per come noi oggi la intendiamo.

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Sono temi che hanno avuto una rilevanza anche nell’evoluzione del pensiero psicologico e psichiatrico e che sono stati anche riconsiderati per spiegare certe caratteristiche di sintomi psicopatologici come il delirio o di certe manifestazioni, quali l’aggressività e la violenza verso se stessi e verso gli altri, che si possono osservare in molti disturbi psichiatrici, dai disturbi di personalità, alle depressioni, alle psicosi, alle demenze. Le interpretazioni che di questi disturbi di solito si danno sono psicologiche e riferite all’ontogenesi (Volfango Lusetti). Un punto d’incontro con le interpretazioni che suggerisce l’antropologia culturale dell’evoluzione umana può essere Jung con il suo inconscio collettivo. I miti, la sessualità, l’incesto, il significato delle figure paterna e materna e le dinamiche che intercorrono tra le figure familiari sono temi comuni all’antropologia e a tutte le elaborazioni psicanalitiche. L’antropologia, che ne studia l’ l’evoluzione sia dal punto di vista biologico che psicosociale, può dare un importante contributo ermeneutico alla comprensione delle dinamiche connesse. Un esempio può essere lo studio dell’evoluzione della sessualità femminile. La sessualità femminile nella specie Homo ha abbandonato le caratteristiche estrali di tutte le altre specie, per passare a una condizione di persistenza e di fertilità continua. Solo tra i primati alcuni scimpanzé, che sono quelli biologicamente a noi più vicini, hanno, in modo però incompleto, una sessualità di questo tipo. L’ipotesi della primatologa Sara Hrdy è che il superamento della condizione estrale sarebbe stato lo strumento per l’implementazione delle attrattive sessuali della femmina nei riguardi del maschio, per distrarlo dalla sua attitudine predatoria nei riguardi della prole. Questo comportamento del maschio verso la prole è in effetti frequente in molte altre specie, anche di mammiferi ed è la più importante causa di conflitto tra maschi e femmine. Nella fase preumana sarebbe stato presente anche nella nostra specie e un ricordo ancestrale di ciò si ritroverebbe nei miti. La sessualità e fertilità permanenti sarebbero state però un’arma a doppio taglio, perché avrebbero anche avuto come conseguenza una maggior incertezza della paternità, da cui la gelosia e l’aggressività in essa inclusa, sarebbero state un incentivo all’incesto ed anche il presupposto per un’organizzazione familiare di tipo patriarcale, come argine per lo strapotere e la pericolosità della sessualità femminile e per il nascere e l’affermarsi, come imposizione morale e norma sociale, del tabù per l’incesto.

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Questa ipotesi ben delinea aspetti dei rapporti tra padre, madre e figli che sono temi fondamentali per la psicologia, la psicanalisi e la sociologia. Ad essi possono essere ricondotti il complesso di Edipo, le problematiche dei rapporti tra padre e figli e anche aspetti di devianze anche violente che, nella società d’oggi, più facilmente emergono per la mutata rilevanza del ruolo paterno. Una riprova, che gli antropologi adducono per la plausibilità delle loro ipotesi, sono i miti e anche una rilettura laica della stessa sacra scrittura. Tra i miti quello solitamente citato è il mito di Kronos. Kronos, che simboleggia il tempo è figlio di Urano (il cielo) e di Gea (la terra) e, aizzato dalla madre, evira il padre per punirlo di colpe nei riguardi di altri figli. Kronos però, per evitare che si realizzasse per lui la profezia del padre, che gli aveva predetto la medesima sorte, divora i figli, che Rea, sua sorella e sposa, in quanto anche lei figlia di Urano e di Gea, gli da. Rea (che simboleggia la fertilità e la potenza della natura), per salvare Zeus, il suo ultimo nato, da da mangiare a Kronos una pietra, opportunamente mascherata e successivamente lo stesso Zeus esilia Kronos nel Tartaro. Nella Genesi, la mela che Eva mangia, violando i tabù ad essa connessi, viene intesa come i simbolo della sessualità e la colpevole trasgressione ha come conseguenza la cacciata dall’Eden. La vita ancestrale della specie può però essere correlata ad altri aspetti degli istinti e dell’affettività e a certe reazioni automatiche a livello comportamentale o neurovegetativo, in situazioni che inducano aggressività o paura, quali acting-out o perdite di coscienza (equivalenti a “fare il morto”). Basta pensare ai milioni di anni trascorsi nelle foreste o nelle savane dell’Africa orientale, in cui ciascuno poteva essere alternativamente predatore o preda.

2.3 L’antropofenomenologia di Ludwig Binswanger e di Eugène Minkowski Un aspetto diverso da quelli precedentemente considerati del rapporto tra antropologia e psichiatria e che coinvolge filosofia e antropologia filosofica, è quello che riguarda la fenomenologia. Il parlarne in questa sede, nell’ambito di tematiche riguardanti la cultura, la società e la follia nei suoi aspetti culturali e sociali, ha un senso

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perché consente di portare anche la psichiatria o più in generale le modalità di “cura” e di assistenza dei folli all’interno della discussione e di introdurre argomenti che avranno una più approfondita trattazione nel capitolo successivo. La fenomenologia è un movimento, strettamente legato all’esistenzialismo, che ha spostato la psichiatria, epistemologicamente, anche nell’ambito delle scienze umane e delle scienze sociali. L’era fenomenologica della psichiatria inizia con la pubblicazione nel 1913 della 1ª edizione della Psicopatologia generale di Karl Jaspers. Jaspers ha posto il problema della necessità che i fenomeni in cui si imbatte lo psichiatra, per essere valutati correttamente, debbano avere come riferimento un metodo, che non può essere la semplice scomposizione della mente in varie capacità e funzioni, né l’applicazione di ipotesi meccanico - funzionali, che non possono dare una adeguata comprensione qualitativa dei nessi e delle connessioni, con cui si manifestano i quadri psicopatologici. Il riferimento per Jaspers è stato Wilhelm Dilthey e la sua dottrina sui fondamenti soggettivi della vita psichica. Il suo metodo per la definizione degli eventi psichici, normali e patologici, è quello di rivivere e comprendere nella propria soggettività quelli della persona esaminata. L’irriducibilità e la difficoltà di trasposizione di fenomeni mentali soggettivi viene da Jaspers risolta, ricorrendo ancora al pensiero di Dilthey, con la distinzione tra il capire per spiegare (erklären) e il capire per comprendere (verstehen). Il primo richiede di essere sorretto da nessi di causalità, il secondo non richiede cause, ma motivazioni, che possono essere colte intuitivamente. Per poter giungere a questa conclusione sono state fondamentali per Jaspers le concettualizzazioni di Husserl, che modificando il significato di fenomeno e fenomenologia (descrittiva), aveva ridefinito i fenomeni come evidenze pure, che, con particolari modalità, possono essere compiutamente colti intuitivamente. Per Jaspers però, la comprensione dei vissuti dell’altro (Einfühlung), nelle relazioni interpersonali, ha dei limiti e questa possibilità non c’è, quando l’altro è uno psicotico. Inoltre, per Jaspers, è l’Esistenza stessa ad essere inesplorabile, in quanto la libertà dell’uomo non può essere oggetto né di conoscenza, né di indagine. Jaspers quindi apre la strada per un approccio fenomenologico alla comprensione del mentale, ma non abbatte l’incomprensibilità dell’alienità.

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Ciò avviene invece con Binswanger e con il passaggio da una fenomenologia a un’antropologia fenomenologica. L’antropologia fenomenologica, nata nei paesi di lingua tedesca, tra le due guerre del secolo scorso, è stata proposta agli psichiatri italiani, solo nel 1947, con un saggio di Danilo Cargnello su Le configurazioni fondamentali dell’umana presenza nell’antropologia fenomenologica di Ludwig Binswanger. Il riferimento di Binswanger è Martin Heidegger. Il Dasein (essere nel mondo) heideggerriano diventa un metodo per indagare “come è l’uomo malato di mente nel suo esistere”, inteso però come uno dei modi di essere nel mondo dell’umana presenza. Così dice Binswanger di Heidegger: Con l’individuazione della struttura fondamentale (Grund - Struktur) della presenza (Dasein) come essere - nel - mondo, Heidegger ha messo nelle mani dello psichiatra un filo conduttore, una guida metodologica, che gli ha reso possibile considerare e descrivere i fenomeni presi in esame e i loro essenziali rapporti fenomenici nella pienezza del loro contenuto, senza prevenzioni, il che significa affrancati da ogni teoria.

Binswanger ha chiamato questo suo metodo Daseinanalyse, con riferimento alla Daseinanalityk di Heidegger. La Daseinanalyse è la ricerca di cosa significhi essere uomo, con riferimento alla sua essenza, al di fuori delle categorie di sanità e malattia, come modo, anche quando problematico, dell’esistere. La Daseinanalyse non è una psicologia, né una psicopatologia, né una psicoterapia. Costretta entro limiti epistemologici e vincoli applicativi essa perderebbe la sua autenticità. Come conoscenza fenomenologica è invece una percezione sovrasensibile che consente di cogliere, nel rapporto interpersonale, l’essenza dell’altro nella sua autenticità e intimità. È una conoscenza intuitiva, che ha un suo fondamento nel concetto di intenzionalità espresso da Brentano, come modalità del rapporto mentemondo. Così Cargnello, citando Binswanger: La psicologia non ha niente a che fare né con un soggetto destituito dal suo mondo (weltlose Subject), in quanto non può essere pensato che come oggetto, né con la coscienza genericamente intesa, ma solo con l’umana esistenza. L’esistenza umana però non può mai essere compresa sulla base della scissione

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soggetto e oggetto (Subject-Objectspaltung). [ …] L’esistenza può essere compresa soltanto dal suo (originario) essere nel mondo.

Ma essere nel mondo, come suo stato costitutivo, è sempre una coesistenza, un essere con (mit sein) e il Dasein è sempre un mit Dasein, cioè una umana presenza, che è anche un essere con gli altri. Ma mentre per Heidegger la sua Daseinanalityk è un’analisi ontologica dell’essere in una prospettiva filosofica, per Binswanger la Daseinanalyse è invece una ricerca pratica dei modi attraverso i quali si manifesta l’umana presenza. Questi modi non possono essere preventivamente definiti nei loro limiti o irrigiditi in schemi, perché qualsiasi manifestazione umana può esprimerli e il novero di queste possibilità è pressoché infinito. Un ruolo particolare lo ha però il linguaggio. Il linguaggio è la più umana delle possibilità espressive ed è anche quella che più di qualsiasi altra, con i suoi contenuti e la sua forma può manifestare il modo di essere nel mondo. Con esso si esprimono sentimenti, giudizi, opinioni, congetture, si possono far rivivere per gli altri proprie esperienze passate o condividere programmi, fantasie e immaginazioni presenti e future, si possono esplicitare contenuti del proprio mondo interiore, che spesso, proprio nel loro esplicitarsi, trovano una loro comprensione, si può porre la propria esistenza in una dimensione temporale, storificandola. Dice Cargnello: Nato dall’uomo e per l’uomo il linguaggio è un infallibile maestro dell’umano. E come tale lo assume l’antropologia fenomenologica moderna, che vi si appella continuamente come a sicura guida.

Altri aspetti dell’umana presenza riguardano la temporalità, la spazialità, le modalità di rapportarsi con gli altri, la coloritura timica, le motivazioni dell’agire, ecc. La temporalità assume un significato anche se riferita a un tempo cronologico. Ben altro è però. per la comprensione della persona, il riferimento al tempo psicologico. La spazialità, nelle sue varie concrete espressioni, può riferirsi all’abitare, al muoversi, all’immergersi nella realtà naturale o, psicologicamente, a definire il proprio personale dominio. Le modalità di rapportarsi con gli altri possono riguardare un atteggiamento di fondo, ma anche la capacità di esprimere propri stati interiori o di adeguarsi ai vari contesti.

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La coloritura timica può indicare un aspetto del proprio modo di essere, anche, a volte, con una esasperata mutevolezza, ma mostra anche il proprio modo di vivere e di reagire nelle varie evenienze della vita. Le modalità di agire, infinite nei presupposti, nelle esplicitazioni, negli obiettivi possono meno di tutte consentire generalizzazioni. E questi sono solo degli esempi. Nelle situazioni di disagio o di disturbo psichico alcuni di questi modi possono assumere aspetti o coloriture inconsueti rispetto a quelli più comunemente riscontrati. La Daseinanalyse non ne fa però di essi dei sintomi, li mantiene nella categoria dei modi di essere dell’umana presenza. Essi sono comunque una via d’accesso a una condizione di comprensione e di vicinanza e un rapporto, basato su questi presupposti, non è mai un’oggettivazione dell’altro. Ed è proprio l’intersoggettività del rapporto, la condizione che ha consentito non solo l’umanizzazione dei trattamenti psichiatrici, ma anche il superamento dell’incomprensibilità dell’alienità. Molteplici sono gli argomenti trattati da Binswanger nella su ricca produzione scientifica, protrattasi fino a età avanzata. Alcuni di essi saranno oggetto di approfondimento nel capitolo successivo, parlando della pubblicazione di Danilo Cargnello Alterità e Alienità. Vorrei però qui ancora accennare brevemente ad alcuni aspetti della biografia di Binswanger e al problema, sorto nel dopo - Binswanger della Daseianalyse, non solo come approccio preliminare a una terapia e al suo orientamento, ma come prassi psicoterapica esplicita e definita. La formazione di Binswanger si sviluppa in una consuetudine familiare (fu assistente del padre, che prima di lui, era primario alla clinica “Bellevue” di Kreuzlingen e dello zio, Direttore della Clinica Neuropsichiatrica dell’Università di Jena), ma anche alla scuola di grandi maestri (Bleuler, Jung, Freud, con cui ebbe un intenso rapporto). Una psichiatria scientifica, dai presupposti evanescenti e una psicanalisi considerata troppo ancorata al concetto di “organismo mentale”, con il loro psicologismo e naturalismo, non riuscirono a soddisfare il suo bisogno di comprendere il mondo misterioso della malattia mentale. Fu affascinato dalla filosofia, dapprima da Husserl, cui giunse tramite Brentano, Dilthey e Bergson, ma fu soprattutto Martin Heidegger a improntare indelebilmente il suo pensiero. Fu l’incontro con Heidegger a dare risposte alle sue domande sull’uomo: chi è, com’è e il mondo in cui è. Riuscì ad applicarle all’ esercizio pratico della psichiatria.

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Una delle critiche che più frequentemente gli sono state fatte è quella di aver riferito la sua psichiatria a una teoria dell’uomo troppo filosofica. L’altro tema su cui fare qualche riflessione riguarda la Daseinanalyse, come psicoterapia e più in generale, la prospettiva di una psicoterapia fenomenologica. L’argomento è trattato da Mario Rossi Monti nell’introduzione di una riedizione di Alterità e Alienità di Cargnello del 2010 ed era stato anche affrontato da Lorenzo Calvi nel capitolo del Trattato Italiano di Psichiatria del 1993, riguardante i Fondamenti teorici della psichiatria per quanto concerne le prospettive antropofenomenologiche. La fenomenologia e l’antropofenomenologia hanno infatti determinato così importanti aperture nella comprensione del malato psichico, soprattutto grave, che una riflessione successiva è stata quella di chiedersi se questa comprensione non potesse anche diventare, sviluppando le sue potenzialità terapeutiche, oltre che un comprendere anche un “fare”. Binswanger aveva escluso questa possibilità per la Daseinanalyse, senza però toglierla completamente da eventuali future prospettive, motivandola con l’argomentazione che qualsiasi limite, anche di tipo teorico o formale, l’avrebbe comunque snaturata, limitandone le potenzialità. Aveva tuttavia indicato, come modalità pratica per una sua applicazione come prassi operativa, la psicanalisi. Della psicanalisi Binswanger rifiutava la metapsicologia, considerata naturalistica e biologicizzata: era però uno psicanalista che aveva sempre mantenuto la su iscrizione alla Società Psicanalitica Svizzera di orientamento freudiano. Rossi Monti, partendo dalle considerazioni di Binswanger, ne rileva l’ambiguità insita tra presupposto teorico e prassi, affronta però il problema da un punto di vista più generale, con riguardo non solo alla Daseinanalyse, ma alla fenomenologia considerata complessivamente. L’applicazione pratica delle conquiste fenomenologiche, come lui rileva, è da tempo ferma a un bivio: essere una psicoterapia vera e propria o invece una prassi psicoterapeutica a orientamento fenomenologico. Ciò è stato fonte di discussioni e critiche non solo esterne al movimento fenomenologico, ma anche al suo stesso interno. A questo proposito, cita quanto ha scritto il fenomenologo Carlo Sini: La teoria fenomenologica ha indubbiamente segnato in modo altamente positivo, l’abito della formazione psichiatrica in larghi settori di questa scienza, ma non ha corrispondentemente inciso nell’ambito della prassi terapeutica.

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Per Rossi Monti la fenomenologia potrà esplicitare le sue potenzialità psicoterapeutiche solo traducendole in atto, concettualizzandole, mettendole in chiaro, sottoponendole a processi di verifica. E la concettualizzazione dovrebbe riguardare un setting, come contenitore affidabile in cui mettere in moto il processo di cambiamento e una messa a fuoco dei costrutti considerati specifici di un trattamento fenomenologico finalizzato a un cambiamento. Rossi Monti li elenca, sia pure con dichiarati limiti di sommarietà e provvisorietà: disponibilità progettuale incondizionata all’ascolto, ricerca di senso nella quale accedere alla comprensione, così come tollerare la incomprensione delle costellazioni di esperienza del paziente; immedesimazione e empatia; sospensione del giudizio - epochè; esplicitazione intesa come tendenza al dispiegamento del sintomo e della esperienza vissuta nelle sue varie implicazioni e connessioni; rappresentazione metaforica; narrazione, monitoraggio riflessivo; interpretazione applicata all’interno del mondo psicopatologico in cui il paziente vive; valorizzazione degli organizzatori emotivo - cognitivi dell’esperienza.

Per una maggior comprensione de problema aggiungo anche quello che dice Calvi sul “fare psicoterapia” per la fenomenologia. Ci si domanda [ …] se intervenire esistenzialmente oppure se riflettere fenomenologicamente sul proprio proporsi come medico allo scopo di farne scaturire le potenzialità terapeutiche, che vi sono racchiuse. Il secondo orientamento [ …] ha come obiettivo di concorrere alla formazione del medico, mentre il primo si impone al momento del “fare”, sopratutto nelle istituzioni. I due orientamenti sono certamente destinati a congiungersi e lo sono già in modo abbastanza convincente nella psicoterapia fenomenologica di Barison, che coniuga la socioterapia con una “comprensione ermeneutica” fondata verosimilmente sulla evidenza e sulla trasparenza. Entrambi hanno validi motivi perché sono saldamente radicati sul terreno istituzionale. Non ne hanno invece quelle terapie “esistenzialiste” e “umaniste” che propongono visioni del mondo cristallizzate in ideologie, profferte di “comprensione” feticizzate in pratiche stravaganti, progetti di “liberalizzazione” [ …]

Mentre la Daseinanalyse è un metodo che trova nella condizione umana l’oggetto dell’analisi, altre modalità antropofenomenologiche postulano che i modi dell’essere dell’uomo possano essere indagati solo a partire dall’apriori della struttura fondamentale dell’esistenza, intesa come essere - nel - mondo.

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Sono queste storicamente le antropologie fenomenologiche strutturali di Eugène Minkowski, di Victor E. von Gebsattel, di Erwin W. Straus e di altri. Si tratta di fenomenologie, tutte, compresa la Daseinanalyse di Binswanger di tipo oggettivo che, proprio per questo, riescono a cogliere anche le destrutturazioni psicotiche come elemento comunicativo a cui può essere attribuito un senso, mentre ciò non era stato possibile nella fenomenologia soggettiva di Jaspers. Per Minkowski ciò che da un senso e una fisionomia a ogni vissuto è il tempo, che proprio per questo deve essere considerato la struttura originaria dell’esistenza e dell’esperienza. I riferimenti per Minkowski, come lui stesso ricorda nella “quasi prefazione dell’autore” a una riedizione de Il tempo vissuto del 1968, sono Bergson e Husserl, che però, come rileva giustamente Enzo Paci, sono sì un riferimento, che ha determinato, però, lo sviluppo di un pensiero assolutamente originale. Le sue ricerche hanno inoltre la caratteristica di avere come riferimento esclusivamente situazioni patologiche. L’essenza fondamentale del tempo, per Minkowski, è il divenire, senza il quale il tempo non esisterebbe. Il tempo comprende il presente, distinto dall’adesso, il passato e il futuro. Figure temporali sono, come esempi, i ricordi che richiamano il passato, i desideri e le speranze, che non solo sono rivolti al futuro, ma lo creano. Quello che da un senso alla vita e in questo Minkowski è ancora debitore nei riguardi di Bergson, è lo slancio vitale, che è una sorta di direzione del tempo verso il futuro. Sue espressioni sono l’attività, che è un movimento verso il futuro, ma anche l’attesa, che comunque guarda al futuro, ma con un futuro che si muove verso di noi. La ricerca dei modi della presenza umana nel mondo Minkowski, come ben si vede, la colloca dentro un ben delineata struttura. E questi modi, in situazioni psicotiche, ben evidenziano loro aspetti caratteristici, che sono però una via d’accesso alla comprensione della persona. Sono un tempo che diventa immobile nell’elaborazione delle tematiche dei deliri, sono ricordi che diventano speranze e desideri, che invece, per loro natura, sono sentimenti rivolti al futuro, sono slanci vitali che si congelano o assumono modalità circolari, che comunque mantengono l’immobilità. Gli effetti della svolta fenomenologica hanno avuto rilevanza in molti ambiti.

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È stata il motore, con la sua valenza etica, del movimento riformatore della psichiatria, che ha portato a una sua umanizzazione e a un rinnovamento dei suoi contenuti culturali e delle prassi terapeutiche e assistenziali. Con riferimento alla situazione italiana, per quanto riguarda le iniziative ed esperienze che hanno preceduto la legge 180, si possono ricordare quelle antiistituzionali di Basaglia a Gorizia e Trieste, quella di psichiatria di settore di Balduzzi a Varese, quelle di molte altre città italiane: di Padova, di Milano, di Perugia, di Arezzo e altre ancora. È stata una fucina per l’apporto di conoscenze psicopatologiche che hanno aperto prospettive e orizzonti che devono ancora essere completamente esplorati. È stata pure rilevante, per la passione e l’impegno di molti dei suoi cultori, nella formazione di molti psichiatri e operatori dei Servizi. Secondo Rossi Monti, che riporta il parere di Arnaldo Ballerini, la psicopatologia fenomenologica non ha però saputo sfruttare la grande occasione offertale dall’espansione della psichiatria di comunità, perdendo, strada facendo, la sua posizione di rilievo e lasciandosi marginalizzare da istanze sociologistiche e biologistiche, In altri casi poi, arroccandosi su posizioni “aristocratiche” di élite, si è automarginalizzata, idealizzando la propria disciplina.

2.4 Alterità e l’alienità di Danilo Cargnello Alterità e alienità è una pubblicazione di Danilo Cargnello del 1966, che ha avuto una seconda edizione riveduta e ampliata nel 1977. Il volume raccoglie alcuni saggi di “antropologia fenomenologica e psicopatologia antropoanalitica”, che Cargnello aveva pubblicato dal 1947 in poi. È stato ripresentato con una introduzione di Mario Rossi Monti per i tipi di Giovanni Fioriti di Roma nel 2010. Cargnello è stato un pioniere dell’antropologia fenomenologica in Italia e un appassionato studioso di Binswanger e della sua Daseinanalyse. Binswanger è stato uno psichiatra e uno psicopatologo che ha appassionato molti giovani psichiatri della mia generazione. L’interesse per le sue idee, sempre vive in ambito fenomenologico, hanno però mantenuto una loro attualità per una platea più vasta di psichiatri, psicopatologi e psicologi, soprattutto per alcuni temi di quelli da lui trattati, quali quelli relativi ai significati della relazione e al rapporto tra antropofenomelogia, psicanalisi e psichiatria.

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Ne sono una riprova, oltre che la recente edizione di Alterità e alienità, anche due pubblicazioni aventi entrambe per titolo Binswanger e Freud, una di Gabriele Lombardo e Fabio Fiorelli, pubblicata da Bollati Boringhieri nel 1984 e una recentissima di Aurelio Molaro e Alfredo Civita, pubblicata da Raffaello Cortina nel 2012. Da Alterità e alienità riprendo, per alcune considerazioni, tre argomenti che mi sembrano rilevanti per una comprensione antropologica del problema della follia: - sul significato di Daseinanalyse - sul rapporto tra antropoanalisi e psicanalisi - sul rapporto tra antropoanalisi e psichiatria. Daseianalyse è una parola composta, tradotta inizialmente in antropoanalisi o nella locuzione analisi antropofenomenologica, che vorrebbe sintetizzare in una o due parole, il significato profondo in esse racchiuso. Non riesce a farlo compiutamente né nella sua espressione tedesca, né tantomeno nella sua traduzione italiana. Il tedesco Dasein è comprensibile, nel significato che gli si vuol dare, solo con riferimento alla filosofia heideggeriana e analisi è in questo contesto un termine ambiguo, che Binswanger ha usato, come dice Rossi Monti per il suo “retroterra psicanalitico” e anche perché enfatizza il versante dell’applicazione terapeutica, che, come dice Calvi, è invece “sommessamente implicato”. In italiano poi Dasein non è sicuramente tradotto dall’aggiunta a analisi del predicato antropo o dall’aggettivo antropofenomenologico. D’altra parte non è agevole tradurlo, per alcuni è addirittura intraducibile e comunque la versione più comunemente usata è esserci. Di ciò si è ben reso conto anche Cargnello, che vistosi precluso il termine esistenziale, per i possibili fraintendimenti con l’analisi dell’ esistenza di Viktor Frankl, provò a usare terminologie alternative come analisi della presenza, analisi antropofenomenologica ontologicamente fondata, per poi però ritornare alla terminologia utilizzata nella 1ª edizione di Alterità e alienità di antropoanalisi. Il significato di antropoanalisi, per una sua più esaustiva e puntuale comprensione, deve perciò essere indicato estensivamente come la conoscenza / comprensione dell’altro, come suo modo - di - essere - nel - mondo, acquisita intuitivamente, come pura evidenza, mediante una relazione interpersonale che metta tra parentesi tutte le eventuali categorie di riferimento, tranne l’umanità.

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Nell’ambito di attribuzioni di significato, mi sembra anche importante fare alcune considerazioni sul titolo che Cargnello ha voluto dare alla sua pubblicazione. Alterità e alienità sono i termini astratti di altro e di alieno e questi termini riassumono il problema epistemico della psichiatria, che, come Cargnello stesso ha rilevato in un’altra pubblicazione, oscilla tra una scelta di intersoggettività e una invece di oggettivazione, tra l’essere con qualcuno o occuparsi, invece, di qualcosa. Ed è proprio la proposizione di questo problema epistemico ad aver rappresentato un salto di qualità nella comprensione della follia e dei folli, che precede gli altri problemi ad esso connessi, quali quelli dell’assistenza, della cura e del recupero. Non è il superamento degli altri aspetti, psicologico, biologico e sociale, ma l’attribuzione all’aspetto antropologico di un ruolo di centralità, che consente di considerare comprensibile quello che prima non era e possibili ricadute significative, sia a livello culturale che sociale. Il secondo degli argomenti riguarda il rapporto tra antropoanalisi e psicanalisi. Per una sua miglior comprensione riporto separatamente le considerazioni di Binswanger (e di Cargnello) riguardanti la metapsicologia freudiana e quelle riguardanti invece la psicanalisi come psicoterapia. Un buon punto di partenza può essere la relazione di Binswanger a un convegno a Vienna, tenutasi il 7 maggio 1936, in occasione dell’80° compleanno di Freud. Binswanger definisce l’uomo di Freud homo natura e gli contrappone, come uomo visto da un’ottica antropofenomenologica, l’homo existentia. Riconosce a Freud l’enorme progresso compiuto con la definizione di homo natura, grazie alla naturalitas, rispetto alle concezioni secolari imposte dalla teologia o elaborate dalla filosofia, di homo aeternus aut celestis e di homo universalis. Reputa però la teoria assolutamente irrealistica, perché l’homo natura non è un uomo vero, ma bensì un’ipotesi astratta di uomo, concepita inoltre in modo riduttivo, per l’attribuzione al solo istinto di una patente di autenticità e genuinità. La realtà psichica per il resto è solo un epifenomeno. L’istinto è la naturalità dell’uomo, ma è una naturalità che per la società coincide con il male e l’uomo, per poter essere accettato, deve mascherarla o rimuoverla. L’esistenza dell’uomo, per Freud, è tutta in questo conflitto, nei mascheramenti e nelle colpe per le trasgressioni.

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Ma per Binswanger un uomo così non esiste, è un uomo che non incontriamo mai e solo per poterlo concepire e astrattamente ipotizzarlo è necessario distruggere la sua globale esperienza interumana, la sua essenza antropologica e trasformare la sua vera storia in una “storia naturale” condizionata da una monocategorialità. L’ homo natura diventa in tal modo, più che un ente reale, un’ipotesi scientifica, che porta la psicologia e la psicopatologia nell’ambito delle scienze della natura e che ipotizza la comprensione di quello che lui è, nell’individuazione di relazioni e di fenomeni che sottostanno a regole genetiche e a rapporti di causalità, che però nulla ci dicono sulla sua essenza, sulle sue qualità, sulle motivazioni che caratterizzano il suo essere nel mondo. Nella costruzione scientifica di Freud, ricorda Binswanger, il concetto base è quello di apparato psichico, che è quello che Freud aveva appreso dai suoi primi maestri, poi criticati, Maynert e Wernicke, anche se non più espresso in termini anatomici, ma in termini topografici (conscio e inconscio) e funzionali (Es, Io e Super-Io), integrato da concetti derivati dalla psicofisica di Gustav Fechner (uno psicologo a lui coevo, fondatore della cosiddetta psicofisica, che ritenne di aver individuato un’equazione, detta formula di Fechner. in grado di quantificare il rapporto tra uno stimolo e una sensazione), che “gli insegnò”, così riporta Cargnello,” a concepire la libido in senso quantitativo - energetico” . L’homo existentia è invece l’uomo che con i suoi modi di esistere rivela la sua presenza e la rivela attraverso gli aspetti costitutivi di una globalità che è però inscindibile. Di questo argomento, già si è parlato, trattando precedentemente di Binswanger e della Daseinanalyse. Lo completo citando ancora Cargnello: La presenza, il Dasein - Binswanger non si stanca di ripeterlo – è anzitutto globalità umana, che comprende in sé anima e corpo, cosciente e incosciente, pensiero e azione, emotività, affettività e istinto. È l’essere globale dell’uomo che si è trasceso in una determinata situazione, è la fatticità dell’esistenza come si offre nel suo adesso e nel suo dove, contemporaneamente schiudendosi al mondo e progettandolo come proprio, in una parola, come è nel mondo. Non è soltanto un mero essere - presenti: nel presente della presenza infatti si compendia anche il futuro inteso come poter - essere e il passato, inteso come essere - già - stati.

Binswanger e Cargnello, così aspramente critici nei riguardi della metapsicologia freudiana, ricuperano però in buona parte la psicanalisi nella sua prassi terapeutica.

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In buona parte, perché ne salvano i costituenti fondamentali, mantenendo però ancora rilevanti critiche sulla Deutung psicanalitica, cioè sulle sue interpretazioni, per la sua eterogeneità. I costituenti fondamentali salvati sono il concetto di personalità e i due pilastri su cui si fonda la prassi psicanalitica che sono il transfert e le resistenze. La personalità è intesa come la componente stabile della persona, non come qualcosa che subisce passivamente gli eventi o li aggiunge semplicemente sommandoli, ma come qualcosa che li fa propri intenzionalizzandoli, cioè inglobandoli e nello stesso tempo improntandoli di sé. È quindi qualcosa di ben diverso da un organismo fisico che risponde agli stimoli con controstimoli o risposte predeterminate e sempre prevedibili, è però anche qualcosa di ben diverso dall’essere un contenitore di pulsionalità in cerca di soddisfazioni o la risultante di due istanze in conflitto, una conscia e una inconscia, con l’assoluta prevalenza di quest’ultima. Non è con ciò in discussione la teoria del conflitto, ma il riduzionismo e la sua interpretazione causalistica. L’analisi del transfert e delle resistenze sono gli altri due costituenti della prassi psicanalitica che Binswanger e Cargnello salvano perché, a loro parere, sono gli aspetti in cui maggiormente la prassi, il fare, si discosta dalla teoria, per diventare “incontestabilmente e attualmente” un rapporto interumano. Così Cargnello: Quando Freud pone l’intera esistenza dell’analista di fronte all’intera esistenza dell’analizzato, egli non è più un naturalista, è un antropologo.

Le ambiguità, dove si ripropone l’altalenanza tra naturalismo e biologismo teoretico e apertura antropologiche, come quelle di cui si è detto parlando del tranfert, stanno nell’interpretazione, nella Deutung psicanalitica. In essa, mentre da un lato si utilizza assai spesso un comprendere psicologico, nel senso di Jaspers e di Dilthey, in cui sono le motivazioni a livello cosciente a essere le protagoniste, dall’altro si hanno anche gli utilizzi e i rimandi ai presupposti teorici. Un esempio significativo che Cargnello fa, riprendendo Binswanger, è quello del non posso, non voglio. Cito liberamente: Freud ci ha insegnato a intendere l’Io non posso, come Io non voglio, mantenendo inizialmente questa istanza all’interno dell’Io.

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Ma Freud non si accontenta di questa equazione e ne propone un’altra: Io non voglio = Es non può, ponendo questo Es impersonale e disorganizzato, come Dominus, che da e toglie la parola alle istanze dell’Io”. Nella pratica però le cose vanno diversamente, perché non è questo tipo di interpretazione, né il riscontro di queste ipotetiche cause a portare a un positivo traguardo il trattamento analitico. Non basta infatti che l’analizzato sappia. Egli deve rivivere con l’analista gli avvenimenti che lui stesso ha evocato. Ed è qui che l’analista ritorna ad essere antropologo.

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La vera interpretazione, dice Binswanger, quella che da effetti, comincia soltanto quando gli si infonde la vita e ciò accade quando il materiale psichico, opportunamente riordinato, può essere rivissuto. E così soggiunge Cargnello: Ed ecco, allora, che pian piano l’equivalenza Io - non - voglio = Es non può, quale è stata postulata prima dal teorico, si ritrasforma nell’evidenza Io stesso - non - posso = Io - non - voglio, nel mentre contemporaneamente ripiglia, per dirla con Buber, la “vita dialogica” dell’Io con se stesso, sostenuta dalla mediazione dell’analista. Riemerge in una parola l’uomo [con] l’analista […] costretto a prestare all’inconscio (postulato come essenza irraggiungibile) il linguaggio e le modalità espressive della coscienza […].

Ma anche se la tecnica interpretativa può essere criticata per la sua eterogeneità, sia Binswanger che Cargnello, riconoscono alla psicanalisi di essere un metodo valido, che consente di inoltrarsi, in estensione e in profondità, nello sterminato regno dell’umano, con una tensione teleologica finalizzata a cambiamenti di significato dell’esistenza e con modalità transferali della relazione “coesistensive”. Binswanger, come già si è detto, ha precisato che la Daseinanalyse non è né una psicologia, né una psicopatologia, né una psicoterapia e un discorso analogo potremmo farlo per altre analisi antropofenmenologiche. È una conoscenza intuitiva dell’altro, svincolata husserlianamente, da ipotesi e teorie. Non possono, però, divergenze teoretiche sulla psicanalisi diventare, per i due autori, pregiudiziali negative e di esclusione. Anzi, può essere proprio la psicanalisi, come prassi centrata su un’antropologia clinica, il riferimento per la Daseinanalyse. La critica di Binswanger a Freud è stata ovviamente rifiutata in ambito psicanalitico e un esempio è proprio una delle due pubblicazioni citate.

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Lombardo e Fiorelli in Binswanger e Freud: malattia mentale e teoria della personalità negano l’esistenza, nell’opera freudiana, di una frattura teoria - prassi rivendicando per esse la convergenza nella centralità del modello psicologico proposto da Freud. Ulteriore argomento è il rapporto tra antropoanalisi (e antropofenomenologia) e psichiatria. È un rapporto che può essere esaminato da vari punti di vista. Può riguardare: - la compatibilità di teorie che ad esse soggiacciono, in quanto hanno ambiti epistemologici e riferimenti paradigmatici notevolmente diversi ed eterogenei - la compatibilità di una prassi psichiatrica clinica con un orientamento antropofenomenologico - la formazione degli psichiatri, degli psicologi e degli altri operatori della psichiatria - l’influenza del movimento fenomenologico, come analisi storica, sui processi di cambiamento che, nella seconda metà del secolo scorso, hanno portato alla deistituzionalizzazione, all’avvio di una territorializzazione dei servizi e di una psichiatria di comunità e ai cambiamenti dell’approccio clinico e riabilitativo - la differenza e le similitudini di una psichiatria fenomenologicamente orientata con la medicina somatica. C’è innanzitutto da dire che Binswanger e Cargnello, così come hanno considerato “naturalistica” e “causalistica” la psicanalisi per la sua metapsicologia e per la sua Deutung, hanno considerato la psichiatria biologica e psicologica ancor più inadatte per essere considerate idonee a una comprensione dell’uomo, in quanto persona, presenza nel mondo. La frammentazione del materiale psichico e una relazione interpersonale finalizzata unicamente alla ricerca dei sintomi per la formulazione di una diagnosi, sono la rinuncia alla sua conoscenza come persona e alla comprensione dei suoi modi di essere nel mondo e quindi a quello che di più vitale c’è in questi modi: le motivazioni dell’esistere. È questa una conoscenza per spiegare, mai per comprendere. Nonostante ciò antropoanalisi e psichiatria, non sono però incompa-tibili. Non lo sono perché le categorie malattia e salute sono estranee all’antropoanalisi e quindi i rapporti con dottrine che si occupano di queste devono essere valutati unicamente in funzione di un utilizzo pratico dell’apporto antropoanalitico.

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Ponendosi infatti l’antropoanalisi come comprensione della persona a priori rispetto alla psichiatria, consente anche una diversa comprensione di modi psicopatologici, che però rimangono comunque una competenza psichiatrica, in quanto disciplina medica. C’è però a mio parere un’altra buona ragione per questa compatibilità. È l’enorme sviluppo delle conoscenze sulla mente e sul suo funzionamento, per cui l’homo existentia e l’homo natura devono necessariamente integrarsi perché l’homo persona possa essere definito un’unità irriducibile. Dal punto di vista pratico ciò che rende fattibile una psichiatria clinica a orientamento antropofenomenologico è la relazione. La relazione, come aspetto importante dell’approccio e della cura dei disturbi psichici, non è una scoperta dell’antropofenomenologia. L’aveva già utilizzata la psicanalisi e l’avevano praticata precursori come Harry Sullivan con la sua Psichiatria interpersonale e Paul Racamier con la psicoterapia istituzionale. Il suo utilizzo nei riguardi dei malati psichici gravi, degli psicotici, ha avuto però una sua applicazione diffusa, solo dagli anni ’60 in poi proprio grazie all’antropofenomenologia. Gli psicotici infatti erano, prima, considerati inidonei a un trattamento analitico per la ritenuta impossibilità di un transfert e anche ad altri trattamenti psicoterapici per l’asserita impartecipazione, che con l’incomprensibilità (Jaspers) li relegava nella categoria dell’alienità. Il folle, da alieno, con Binswanger, è diventato per la prima volta, anche, nella sua rappresentazione come dato culturale, l’altro, uno di noi. La relazione è stata uno degli aspetti importanti dell’umanizzazione della psichiatria istituzionale e l’antropofenomenologia una delle radici del movimento riformatore. La relazione, per essere tale, per essere il necessario atto propedeutico e il successivo accompagnamento a un cura e per essere essa stessa una cura, è però un atto complesso, che richiede conoscenze e formazione. Suoi elementi costitutivi sono un incontro, un rapporto, uno scambio. L’incontro, come dice Bruno Callieri, è un dono, il rapporto è una disponibilità, lo scambio è un dare e un avere, sia in termini affettivi che cognitivi. La relazione però per essere tale, come fonte di conoscenza e di comprensione, deve avvenire con la messa tra parentesi di conoscenze, di giudizi e di pregiudizi. La psichiatria viene dopo, un dopo cronologico in un primo tempo, un dopo logico nel prosieguo.

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Lo psichiatra però, in una situazione siffatta, ha veramente un compito difficile, perché si trova a dover conciliare modi di essere eterogenei. Deve, come persona, essere l’altro rispetto al folle nella situazione intersoggettiva, che non intende, non giudica, non prende decisioni, ma solo comprende. Deve poi essere il medico che utilizza le sue conoscenze, esprime dei giudizi, prende decisioni e agisce per poter dare un aiuto. La ricerca di una coerenza e di una omogeneità è stata spesso cercata in teorie che si ritengono autosufficienti ed esaustive, senza però in realtà esserlo. Esistenza o natura? Mente o cervello? Farmaci o psicoterapia? Malattie mentali o solo varianti della normalità? Come risposta a queste domande, sono sempre stati più facili i compromessi nella prassi, che le che soluzioni teoretiche. “Il consueto vizio della psichiatria di separare le fonti di conoscenza piuttosto che integrarle” come dice Adolfo Petiziol, è stato finora l’atteggiamento più frequente, con però, negli ultimi anni maggiori aperture. Eppure non a tutte, ma almeno ad alcune delle domande che ci si pone, come quella della compatibilità, per la psichiatria, di un contestuale orientamento antropologico e naturalistico, una risposta potremmo trovarla nell’eterogeneità costitutiva del paradigma ippocratico della medicina, con uno statuto teorico - pratico di scienza della natura e allo stesso tempo di scienza dell’uomo. E altre risposte, alle domande poste, potremmo trovarle nella concezione dell’uomo come unità psicosomatica irriducibile. Mi accorgo però che invece di chiudere dei problemi ne ho aperto un altro: quello del rapporto tra psichiatria e medicina. Ma è veramente un problema? Lo è solo per gli psichiatri che rifiutano alla psichiatria la qualifica di scienza della natura e ai medici che rifiutano per la medicina una sua dimensione antropologica. L’unica differenza, che a me sembra evidente, è un aspetto della relazione, che non riguarda quelli più sopra elencati, ma invece la necessità per la psichiatria che la relazione sia sempre un aspetto esplicito del trattamento complessivo, mentre per il medico può essere anche per buona parte implicito, con però sempre un ruolo rilevante. Non potremmo altrimenti spiegarci certi effetti terapeutici, che solo nella relazione hanno la loro giustificazione. Voglio però concludere questo capitolo con le ultime frasi dell’ Introduzione della prima edizione di Alterità e alienità.

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Su cosa significhi l’antropologia psicologica per la psichiatria, su cosa sia l’antropoanalisi e quali i suoi rapporti con le altre teorie, Cargnello lo dice molto meglio di me. Sia detto però ben chiaro che l’antropologia fenomenologica psicopatologica non potrà mai sostituirsi alla psichiatria, in quanto questa è la fonte stessa dei dati su cui essa deve svolgere il suo esercizio. Più generalmente l’antropoanalisi è chiamata a svolgere - nel vasto campo di quelle discipline dell’uomo che sono la psicologia, la caratterologia, la psicopatologia e la psichiatria - un’opera di approfondimento e di purificazione. Se è svincolata da qualsiasi teoria, non è per questo contro alcuna teoria. Sa infatti che da qualsiasi parte si prenda l’uomo nel suo essere fenomenico, in questa presa non può non rivelarsi qualche cosa di ciò ch’egli propriamente può essere. Compito precipuo dell’antropoanalisi è la precisazione, appunto, di ciò che è “propriamente” umano nei “sintomi” che lo psichiatra addita e nei tratti che il caratterologo definisce. Se l’indirizzo in discorso non è contro alcuna teoria, non è neppure da intendere come una specie di sintesi di alcune teorie, come avente l’assunto di integrarle. Di fronte a ognuna di esse l’antropoanalisi è in una posizione aprioristicamente, freddamente critica. Nulla poi è più estraneo al suo senso che tendere alle conciliazioni o ai compromessi eclettici, di cui riconosce la completa inutilità, anzi, “ingenuità”.

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III. SOCIETÀ E ASSISTENZA PSICHIATRICA. ASPETTI DELLA SUA EVOLUZIONE NEL ’900

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3.1 Malattia mentale e stigma di Simone Vender1 Lo stigma della malattia mentale (ovvero quel insieme di pregiudizi che la società o i gruppi hanno nei confronti della persona affetta da un disturbo psichico, connotandolo come un soggetto diverso dagli altri) ha costituito negli ultimi decenni uno dei punti principali d’interesse dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: infatti molte ricerche avevano evidenziato che lo stigma o la paura (vergogna) di esso costituisce uno dei fattori principali nel ridurre o limitare l’accesso alle cure specialistiche, condizionando la cura e la prognosi della malattia. Ma che cosa significa curare in psichiatria? Questa domanda può essere a sua volta scomposta: a) che cosa curare? b) dove e a quale scopo? Per quanto riguarda la prima questione è necessario tener presente che nel disturbo psichico vi può essere una sofferenza acuta oppure cronica, che comunque consta di due dimensioni intrecciate. L’una è interiore e riguarda la crisi fra l’Io del soggetto e le rappresentazioni del suo mondo interno, inclusa l’immagine psichica del suo corpo. L’altra concerne i rapporti reali e immaginari con l’ambiente, inteso nelle sue varie espressioni (Vender, Callegari, Poloni, 2006) (31). A differenza quindi di altri settori della medicina, la scomparsa di un sintomo non è correlabile al concetto di “guarigione”, perché in psichiatria essa implica un recupero della libertà perduta o l’acquisizione di possibilità esistenziali diverse. Al secondo quesito si collegano interrogativi fondamentali in ordine al tipo di richiesta terapeutica o di committenza: la domanda di intervento 1

Ordinario di Psichiatria – Presidente della Scuola di Medicina – Università degli Studi dell’Insubria Varese - Como

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proviene dallo stesso paziente, dalla famiglia, dalla società? Inoltre qual è il tipo di attesa e chi decide realmente la strategia terapeutica? Infine non è assolutamente di secondaria importanza il contesto nel quale si svolge il trattamento, ovvero in un ambito privato, pubblico, istituzionale, ecc. La complessità delle cure psichiatriche richiede come indispensabile premessa per ogni attività terapeutica una autentica fiducia, non tanto in se stessi o negli strumenti tecnici, ma nella persona sofferente. Questa fiducia di base, né acritica né passionale, rappresenta uno strumento potente, se ben utilizzata, e tale convinzione va trasmessa al soggetto ed alle persone che si occupano di lui, innanzitutto i familiari, attivando così in loro una speranza (Vender, Callegari, Poloni, 2006) (31). L’esperienza manicomiale ha permesso di documentare come la cronicizzazione sia stata grandemente favorita dalla medicina e dalla psichiatria, vittima del pregiudizio di inguaribilità, pregiudizio stigmatizzante trasfuso nei parenti e rimandato al malato, costituendo un circolo vizioso che ha dato risultati catastrofici per il malato stesso, nonché per la famiglia. In ogni caso, sarà quindi meglio astenersi dal giudizio clinico piuttosto che formulare una prognosi infausta, la quale sovente è la razionalizzazione di una istanza di tipo sadico, camuffata da parere scientifico. Affrontiamo ora alcuni aspetti della stigmatizzazione. Lo stigma Lo stigma della malattia mentale è stato un argomento molto trattato nelle riviste e nei convegni dei primi anni di questo millennio, basti ricordare, per quanto riguarda l’Italia, il XLII Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria che si è svolto a Torino nel 2000, dal titolo “Dal Pregiudizio alla cittadinanza” oppure quello della Società Italiana di Psichiatria Sociale, che si è svolto a Roma nel 2002, proprio sullo stigma. L’interesse a questo tema non è solo italiano: le maggiori campagne contro la stigmatizzazione si sono svolte in Inghilterra e la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità aveva proclamato una giornata mondiale contro lo stigma per il giorno 7 aprile 2001. Il termine stigma, negli anni ’60 cavallo di battaglia di sociologi statunitensi quali Goffman e Scheff, non appartiene in senso stretto alla psichiatria: è un concetto di pertinenza della politica, della sociologia, delle scienze che studiano la vita dei gruppi e della collettività, perché riguarda il discredito sociale gettato su di una persona o un gruppo. Il discredito può essere considerato il modo in cui la società seleziona certi comportamenti,

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alcuni attributi, giudicandoli indesiderabili, svalutando la stessa persona che li possiede. Il discredito può colpire chi è affetto da una patologia ed è possibile studiare come una società affronta il male o la malattia, che coinvolgono sia l’individuo che la società, e quali tattiche mettono a loro volta in atto il soggetto ed i suoi familiari per evitare o nascondere questo marchio. La psichiatria, proprio per le sue numerose implicazioni sociali, culturali e umanistiche, non può trascurare quei processi storici volti ad affrontare i problemi posti dalla presenza di patologie che suscitano timori di contagio, pericolosità e così via. Stigma, pregiudizi e stereotipie interpretative sono aspetti degli atteggiamenti sociali che influenzano la nostra attività: non possiamo certo ritenere che la loro eliminazione possa annullare la sofferenza del malato. Essi, infatti, rappresentano solo il risultato finale di un processo molto complesso, di natura psicologica, sociale e educativa, che si sviluppa durante il corso della vita di un individuo andando incontro a possibili modificazioni e aggiustamenti (Vender, 2005) (29). La stigmatizzazione è pertanto un fenomeno sociale che contribuisce a selezionare alcune persone da altre, tenendole separate, talora dando loro paradossalmente un valore positivo, idealizzato (la persona originale, creativa, ricca di potenzialità anche taumaturgiche, ecc): da sempre le persone affette da disturbi psichici sono sottoposte ad un’azione stigmatizzante da parte della società, che può orientare in modo negativo il decorso e la prognosi stessa della malattia. Si può affermare con certezza, infatti, come hanno dimostrato numerose indagini, che l’informazione sulle iniziative adottate dalla società per la cura dei malati riduce la presenza dello stigma, tuttavia la follia è un όπο che non potrà mai essere eliminato dall’esperienza umana. Etichette La persona affetta da “malattia mentale” ha ricevuto questa etichetta generalmente da un dottore. Tali etichette originano dal bisogno dei medici di trovare categorie diagnostiche che potrebbero aiutarli a: a) riconoscere malattie simili che potrebbero incontrare; b) predire il loro corso a partire da pregresse conoscenze riguardanti la malattia stessa e i correlati fattori di rischio; c) scegliere e consigliare un trattamento che, si sa, migliora l’esito. Questo “modello medico” di approccio si è dimostrato efficace e fondamentale per una buona pratica clinica. Però porta il rischio di un’inclusione

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generalizzata, di un’applicazione incompetente, di trattamenti inutili e della creazione di etichette diagnostiche potenzialmente dannose. Inoltre, data la sua natura, spesso esclude la possibilità di riconoscere l’unicità e l’individualità della persona così etichettata. Tra i suoi diversi e possibili significati, il termine “strizzacervelli” ben descrive e rappresenta questo processo! Nella pratica di tutti i giorni, o se prevale l’indifferenza professionale o una condizione di burnout, questo meccanismo ancestrale, che sta alla base del processo di stigmatizzazione, può ora essere ancor più specificatamente attivato. L’etichetta fornisce ulteriore rinforzo e diviene un punto cruciale per la stigmatizzazione delle persone malate di mente. Per quanto riguarda le malattie “somatiche” la malattia diagnosticata è più spesso percepita come una sventura della persona colpita, la cui autonomia e individualità rimane rispettata. La diagnosi di malattia mentale, invece, conduce potenzialmente a perdere di vista la persona come un individuo. Ciò può essere dovuto al fatto che la malattia mentale è concepita, in modo riduttivo, come una malattia del “cervello”, nonostante, in alcuni casi, più apparentemente che nel caso di malattie fisiche, sia correlata alla personalità, alle relazioni sociali e ai life-events. Le etichette di malattia mentale sono per questo molto temute, potendo rendere l’individuo una vittima a meno che non la conducono verso un trattamento efficace (Arthur Crisp, 2005) (13). Handicap sociali che possono sorgere in seguito a malattie mentali Sempre A. Crisp, che ha organizzato in Inghilterra tante campagne conto lo stigma, afferma che “molte malattie e le disabilità correlate, acute o croniche, generano inevitabili handicap sociali. Le malattie infettive possono richiedere, anche con forza, un allontanamento sociale a causa del rischio di contagio, provocando una varietà di atteggiamenti, che dipendono dalla percezione della malattia (infezione stafilococcica resistente, tubercolosi, malattie trasmesse sessualmente o un comune raffreddore). Malattie associate a cattivi odori (quali quelle che causano putrefazione, incontinenza fecale) hanno un potenziale impatto simile. Frequenti crisi epilettiche possono rendere difficoltose le relazioni e condurre all’esclusione sociale”. Le menomazioni fisiche, con o senza limitazioni della mobilità, cecità, sordità o altre compromissioni dei sensi, comportano alcuni svantaggi sociali. Molte persone affette da tali malattie “fisiche” si sforzano di minimizzare i loro handicap sociali. Alcune patologie mediche portano in sé un segno, abitualmente o per immediata associazione o a causa di una eziologia presunta o evidente.

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L’obesità, ora spesso percepita come conseguenza di una indulgenza nei propri confronti, è stata considerata in passato un segno di salute, forza e benessere. I disturbi affettivi bipolari e, talvolta, alcune forme di disturbi della personalità possono essere considerati come correlati alle arti creative (1,22,27) e gli individui affetti sono di conseguenza rispettati, mettendo in secondo piano gli svantaggi sociali (24) Tuttavia le malattie mentali possono provocare una varietà di inevitabili svantaggi sociali a coloro che ne sono afflitti. Le difficoltà per i malati riguardano gli aspetti cognitivi, l’affettività e la sfera comportamentale. Tali processi sono fondamentali per le molte interazioni sociali. Inoltre, talvolta questi disturbi sono correlati e sono sensibili al contesto sociale ed alle relazioni interpersonali. La malattia mentale non è sempre riconosciuta. Può essere nascosta con successo agli altri o negata personalmente. È stato detto che non più della metà delle persone con malattie mentali acute o croniche ha evidenti handicap sociali. Così la malattia mentale può non essere scoperta. Alcune malattie mentali sono accompagnate da evidenti disabilità fisiche (ad esempio disordini del movimento quali effetti collaterali dei farmaci contro la schizofrenia) o anormalità (ad esempio ridotta crescita nell’anoressia nervosa) che generano ulteriori problemi sociali. La stigmatizzazione delle persone affette da malattie mentali non solo alimenta la loro bassa autostima (autostigmatizzazione) ma genera anche segretezza e negazione, ostacolando inoltre le capacità comunicative. Le malattie mentali sono talvolta vincolate anche alla personalità. Questa può inoltre generare handicap sociali all’individuo, specialmente all’interno della sfera dei cosiddetti disordini di personalità, ad es. collegati al comportamento antisociale o alla dipendenza da alcool e droghe. La comorbidità è frequente. Per esempio l’ansia può accompagnare la depressione severa; l’ansia e/o la depressione maggiore possono coesistere con l’abuso di alcool o sostanze stupefacenti, con la schizofrenia. Disordini dell’alimentazione possono essere associati alla depressione maggiore e all’abuso di sostanze. La demenza precoce e la depressione possono verificarsi insieme. Gli handicap sociali associati alle malattie mentali danno una notevole base alla stigmatizzazione.

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Percezione della società nei confronti delle persone etichettate come “malati mentali” Nel 1998 la commissione della campagna antistigma del Royal College of Psychiatrists ha deciso di esaminare la percezione degli adulti in Gran Bretagna nei confronti delle persone affette da patologia mentale prima di iniziare la campagna. Crisp con i suoi collaboratori hanno richiesto di esprimere un giudizio nei confronti di sei categorie diagnostiche: disturbi d’ansia, depressione, schizofrenia, demenza, disordini alimentari, abuso e dipendenza da alcool e droghe. I più importanti risultati di tale studio sono riportati nell’articolo di Gelder (14) e in quello di Crisp (12). Brevemente, persone con abuso e dipendenza da sostanze e con schizofrenia sono considerate come pericolose specialmente per gli altri; quelle con abuso di sostanze e disordini alimentari sono comunemente percepite come se dovessero rimproverarsi di qualcosa e come capaci di riacquistare il controllo di sé. Problemi più importanti di “comunicazione” e “d’empatia” venivano percepiti come comuni a tutte le categorie, come la caratteristica dell’imprevedibilità. Sono queste etichette descrittive addizionali, ancora una volta generalizzanti e spesso esagerate, che definiscono ulteriormente lo stato negativo e stigmatizzato delle persone affette da malattie mentali Atteggiamenti stigmatizzanti del personale psichiatrico Marco Chiesa (un varesino che ha raggiunto una fama internazionale per i suoi studi sui pazienti borderline eseguiti in Inghilterra) afferma che “molti autori ritengono che i pazienti con disturbo di personalità non solo subiscono il processo di stigmatizzazione che è comune anche ad altre tipologie di sofferenza mentale, ma che tali malati sono anche discriminati all’interno del mondo psichiatrico stesso” (2005) (9). Nel 1988 Lewis e Appleby pubblicarono uno studio intitolato ‘Personality disorder: the patients psychiatrists dislike’ (Disturbo di personalità: i pazienti che non piacciono agli psichiatri) (16). L’ obiettivo del loro lavoro era quello di valutare l’impatto di una precedente diagnosi di disturbo di personalità sugli atteggiamenti dimostrati dagli psichiatri verso il paziente. A questo scopo spedirono a 240 psichiatri che lavoravano nel servizio sanitario nazionale inglese dei questionari con una vignetta clinica, che dovevano essere compilati in modo anonimo. Il contenuto del caso clinico da valutare era identico in tutti, ma nella metà dei questionari vi era contenuto un accenno alla presenza di un disturbo di personalità in precedenza

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diagnosticato, ed inoltre il paziente diventava maschio e la classe sociale era cambiata da alta borghesia a proletariato. L’analisi delle risposte rivelò che differenze significative tra i casi presentati nel questionario dipendevano dalla presenza o meno di una diagnosi di disturbo di personalità. Le opinioni degli psichiatri, infatti, erano meno favorevoli e più critiche nei confronti del paziente quando era presente una diagnosi di disturbo di personalità. La variabile disturbo di personalità rivelò un effetto maggiore sulle opinioni espresse rispetto al sesso o alla appartenenza ad una determinata classe sociale. Gli psichiatri erano più propensi a considerare i pazienti con disturbo di personalità come più manipolatori, più antipatici ed esigenti di attenzione, più difficili da gestire, più noiosi e con meno probabilità di migliorare clinicamente rispetto alle vignette in cui il disturbo di personalità non era menzionato. Questo studio dimostra come una discriminazione verso pazienti portatori di disturbi comportamentali sia presente anche all’interno del mondo psichiatrico. Il termine stesso porta con sé un elemento peggiorativo che si esprime con comportamenti di rifiuto da parte degli psichiatri. Questi pazienti sono visti a priori come manipolatori, non affetti da una malattia mentale e quindi meno meritevoli di un trattamento nei servizi pubblici. Siccome il comportamento deviante e sintomatico da parte di questi pazienti è considerato come cosciente e sotto il loro controllo, e non derivante da una malattia mentale, questo è associato con atteggiamenti di scarsa simpatia e di negazione di aiuto da parte del personale sanitario. Quindi se la malattia mentale è portatrice di un atteggiamento di stigmatizzazione e di discriminazione da parte della società, il disturbo di personalità soffre di un ulteriore problema di ghettizzazione all’ interno della psichiatria stessa. Lewis e Appleby scoprirono anche che una diagnosi di depressione, invece, era associata ad atteggiamenti molto meno critici e più disponibili. Questi pazienti, infatti, sono visti e considerati come maggiormente cooperativi, genuinamente bisognosi di aiuto e più meritevoli di trattamenti psichiatrici. Un lavoro di Chiesa ed Al., concernente l’uso dei servizi psichiatrici ed i relativi costi in un campione di 110 pazienti, conferma che vi è una differenza sostanziale negli atteggiamenti del personale psichiatrico verso i pazienti affetti da depressione e quelli affetti da un disturbo di personalità. Infatti la presenza di una diagnosi di depressione maggiore era correlata ad un incremento significativo dei costi sanitari incorsi nel trattamento e nella gestione dei pazienti solo quando un disturbo borderline era assente, men-

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tre l’ utilizzo dei servizi non aumenta quando vi è una comorbidità tra depressione maggiore e disturbo borderline e addirittura diminuisce quando la diagnosi borderline non è associata ad una diagnosi di depressione (10). I risultati della ricerca pertanto indicano che i pazienti con un disturbo depressivo ricevono una maggiore assistenza sanitaria rispetto ai pazienti con una diagnosi borderline. È possibile che gli atteggiamenti, sia nei setting psichiatrici che dei medici di base, nei confronti del tipo di disturbo psichiatrico presente nel paziente influiscano sulla quantità delle prestazioni sanitarie fornite. Così una presentazione di un quadro depressivo ha una migliore probabilità di aprire le porte dei servizi e di ricevere una risposta terapeutica rispetto ai pazienti con un disturbo borderline puro. Atteggiamenti stigmatizzanti negli studenti universitari Nel panorama italiano sono apparsi alcuni lavori sull’atteggiamento degli studenti universitari nei confronti delle malattie mentali. Callegari e coll. (7) hanno somministrato un questionario tratto dal CAMI di Taylor & Dea(28) ad un gruppo di 180 studenti universitari iscritti a facoltà scientifiche dell’Università dell’Insubria, Varese-Como. I dati raccolti sono stati confrontati con quelli ottenuti in uno studio precedente sulla popolazione della città di Varese (6). Rispetto alla popolazione gli studenti dimostrano una maggior conoscenza della malattia, fatto che gli autori riconducono alla formazione universitaria. Si tratta tuttavia d’informazioni e conoscenze teoriche. Infatti, considerando gli aspetti di conoscenza diretta emerge come gli studenti abbiano un minore livello d’esperienza di rapporto con pazienti. Gli studenti ritengono che non sia immediato e facile riconoscere una persona che soffre di malattia mentale. Se nella popolazione, a differenza degli studenti, vi è un buon livello di accettazione del malato mentale, si rileva la tendenza ad attribuire agli “altri” atteggiamenti ostili e di opposizione in accordo con quanto già rilevato nella popolazione generale (6) ed in letteratura come visto precedentemente (17,18). Gli studenti appaiono meno informati rispetto alla popolazione adulta sui cambiamenti in atto nell’assistenza psichiatrica, anche se a domanda diretta si dichiarano d’accordo, più che gli adulti, sulla chiusura degli ospedali psichiatrici e si mostrano più convinti dell’inutilità dei trattamenti utilizzati in quelle istituzioni. Un altro studio italiano (Carpiniello e Tocco, 2003) ha indagato gli stessi aspetti in un campione di studenti di medicina e chirurgia utilizzando strumenti differenti ed in contesti socio-culturali differenti (8). I risultati

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ricalcano almeno in parte le evidenze già riportate. L’indagine conferma l’ampia diffusione di atteggiamenti di sostanziale pregiudizio anche tra i futuri medici. Il 66% degli intervistati identifica le cause delle malattie mentali nell’ereditarietà e nelle esperienze di vita. In particolare i maschi intervistati sembrano esprimere maggiormente sentimenti d’indifferenza o compassione e più raramente sentimenti di paura verso i malati, cui sembra far riscontro una visione meno accentuata di loro come persone pericolose e aggressive. Speculare invece la visione delle studentesse intervistate. Maggiore accettazione nel senso di una maggiore apertura a soluzioni non custodialistiche e non emarginanti è emersa tra gli studenti più “anziani”, probabilmente per la maggiore conoscenza accumulata sulla materia. In questo senso il contatto diretto con realtà psichiatriche o con pazienti o familiari sembra giocare un ruolo importante nel plasmare gli atteggiamenti anche tra gli studenti. Studenti provenienti da zone rurali della provincia di Cagliari asserivano una maggior conoscenza diretta e, in accordo con questo, mostravano meno vissuti di paura e una minor distanza sociale verso i malati. Atteggiamenti stigmatizzanti della società L’immagine, che è generalmente rimandata del malato mentale nella popolazione generale, ricalca i canoni della persona pericolosa, imprevedibile che va contro le regole del comportamento sociale, che si deve vergognare e biasimare per la sua malattia, che non ha scampo perché braccata da un decorso cronico e da una prognosi negativa (Baranzini, 2005) (4). Anche se alcune evidenze riportano indirettamente un miglioramento del grado di benevolenza nella società verso i malati di mente attraverso una riduzione degli indici di distanza sociale, che in parte può essere spiegato con il concomitante ampliamento del concetto di malattia mentale, rimane forte il sentimento di paura nei suoi confronti, in particolare verso il malato affetto da psicosi e da schizofrenia in quanto percepito come persona violenta (20). Più di un’evidenza indica i mass media tra i principali amplificatori di questo stereotipo, assieme purtroppo alla stessa psichiatria (2,20). Non si vuole in questa sede entrare in dettaglio nell’argomento ma si vuole sottolineare il fatto che i media possono anche divenire una risorsa centrale nel modificare gli stereotipi e l’immagine negativa che circonda il malato e parte dell’agire psichiatrico. Esistono molteplici modalità per un uso razionale ed efficace di questa risorsa ed esempi concreti in questo senso sono riportati per esteso da Angermeyer & Schulze (2) e Warner (32).

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Per quanto riguarda il secondo aspetto, molto è stato fatto con l’avvio del processo di de-istituzionalizzazione e chiusura degli ospedali psichiatrici, a cui ha fatto seguito, seppure in maniera irregolare, l’avvio di politiche e di servizi di comunità. Tra i risultati riportati da alcune indagini spicca, per la particolare valenza che assume alla luce della realtà italiana, il calo rilevante riscontrato nella percentuale di soggetti che si dichiarano favorevoli alla possibilità di ricovero in Ospedale Psichiatrico dal 62% al 2%. Questo dato caratterizza la realtà psichiatrica nostra rispetto ad altre realtà internazionali in cui l’ospedale psichiatrico viene accettato ancora in gran parte come luogo di cura elettivo. Non a caso l’Italia, assieme a Francia, Spagna e Regno Unito, non contempla più l’associazione tra malattia e pericolosità sociale tra i criteri per i trattamenti sanitari obbligatori. Inoltre lo stabilirsi dei reparti psichiatrici all’interno dell’ospedale generale ha rappresentato un importante passo verso l’arresto dell’isolamento, non solo in termini spaziali, della psichiatria. La riduzione dello stigma nella società oltre all’educazione, intesa come miglioramento delle conoscenze, un altro fattore che molti studi identificano come fondamentale nel ridurre la distanza sociale verso i pazienti psichiatrici è determinato dall’esperienza di contatto con un malato. Il contatto con ex-pazienti, con pazienti in trattamento ed in particolare con soggetti seguiti dai servizi territoriali sembra esercitare un effetto positivo nel modificare gli atteggiamenti di paura, di tendenza al controllo sociale e al conseguente rifiuto/distanziamento in coloro che lo hanno sperimentato. Ma il contatto in sé non è detto sia veicolo di agenti antistigmatizzanti in ogni condizione. Come visto in precedenza il contatto sociale, che implica un’interazione diretta del soggetto e del suo mondo di valori, è quello che più influisce sulla percezione di pericolosità e, in questo senso, sui sentimenti e le emozioni provocati dal riconoscimento del diverso. L’esperienza quindi per potersi definire valida in un’ottica de-stigmatizzante, deve poter essere mediata da contesti facilitanti e accompagnata da concomitanti campagne di informazione. In particolare un approccio integrato che affianchi un programma d’informazione e discussione ed opportunità di confronto con la malattia, si è dimostrato essere efficace particolarmente verso quei gruppi che mostravano atteggiamenti maggiormente negativi in precedenza (19,21,26). La diversità nei film Lo stigma che sanziona l’appartenenza a un ambito “marchiato”, facilmente riconoscibile e individuabile e quindi anche organizzatore di una

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identità gruppale può essere analizzato anche dalle immagini e dai racconti delle pellicole cinematografiche. Nei film emergono vari esempi di stigma, che rappresenta elementi scomodi, fastidiosi, sgradevoli o ideologicamente deplorevoli e vergognosi che sono direttamente ovvero involontariamente o suo malgrado proposti. Lo stigma anche nella cinematografia sembra mantenere una sua dimensione di paradosso concettuale e reale, quella delle due facce di una stessa medaglia, o di Giano Bifronte. Infatti quando si parla di stigma, “marchio di infamia”, etichetta, ma anche quando si passa alla sua rappresentazione, si osserva che la situazione o la persona, il gruppo oggetto di stigma trovano, all’interno dello stesso disagio causato loro dalla nicchia della diversità, una forza interna, un compatto senso di appartenenza a una identità precisa da difendere e nella quale riconoscersi a dispetto degli altri, che diventano a loro volta dei “diversi” con i quali non volersi più di tanto immischiare. Ciò che è stigma muta quindi in un sentimento vitale di riconoscimento e valorizzazione (C. Callegari, 2005). Nella Lettera scarlatta di Roland Joffé (Usa 1995), film poco fedelmente tratto dall’omonimo romanzo di Nathaniel Hawthorne, la grande A di adultera con la quale la comunità decide di bollare Hester Prynne, costretta a cucirla sui vestiti, si trasforma per la protagonista in un saldo sentimento organizzatore interno che la rende capace di difendere, contro tutto e tutti, i suoi valori, sé stessa e le persone che le sono care. Così come la stella di David cucita sugli abiti degli ebrei, vista e rivista in moltissimi dei film su questo popolo e sulle sue persecuzioni (Il diario di Anna Frank di George Stevens, Usa 1959, Kapò di Gillo Pontecorvo, Italia/Francia 1960, Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica, Italia 1970, Scindler’s list di Spielberg, Usa 1993 solo per citarne alcuni), la lettera, il marchio della imposta emarginazione sociale, assume il valore altro del significato personale di una identità organizzante la propria esperienza e vicenda emotiva. Si potrebbero classificare i film sulla malattia mentale in base al tratto stereotipo che caratterizza la valenza qualitativa dei comportamenti patologici vissuti o agiti dai personaggi: “spiriti liberi ribelli, maniaci omicidi, seduttori, membri illuminati della società, parassiti narcisisti, intrattenitori e/o passatempi per i “normali”, scienziati pazzi, scaltri manipolatori, individui con poteri soprannaturali, persone normali e importanti che impazziscono improvvisamente, pazienti simulatori”. Alcuni autori, Clare (11) e altri, hanno individuato rappresentazioni stereotipe dello psichiatra: “meraviglioso, diabolico, pasticcione, buonista, incompetente, psicopatico”. Altri ancora (14) hanno cercato di mettere in evidenza, rivalutando le classificazioni dei film già proposte secondo gli

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stereotipi descrittivi (15,25,11) l’attendibilità della rappresentazione cinematografica delle malattie mentali, dei pazienti, dei terapeuti e delle cure, descritti in senso “positivo e accurato, positivo ma non accurato, negativo e non accurato”4. Questi parametri, secondo l’intenzione di Roth Edney, potrebbero servire da orientamento nella scelta di veicoli da offrire come strumenti informativi per il processo di destigmatizzazione della malattia mentale con l’uso dei mass media, attraverso proposte che, se corrette, si rivelino rassicuranti e normalizzatrici per il pubblico. Esisterebbe già, a parere dell’Autrice, una maggiore informazione e quindi implicita tolleranza della malattia somatica a giudicare dalla frequenza di immagini cinematografiche di persone con disabilità o malattie fisiche, che, a dispetto di queste, hanno un ruolo nella vicenda sceneggiata per nulla influenzato dal loro stato, ma in quanto alla malattia mentale la cinematografia attuale sarebbe ben lungi da questa soluzione. Un film che rovescia egregiamente la concezione dello stigma quale diversità necessariamente da svalorizzarsi è Pleasantville (Gary Ross, Usa 1998). La vita perfetta di una cittadina ideale, Pleasantville appunto, proposta da un telefilm passatempo prediletto quotidiano dei due giovani fratelli protagonisti, è, non a caso, in bianco e nero. Quando essi, per un artificio fantastico della storia, vengono risucchiati all’interno della trama televisiva sperimentano che, nella perfezione assoluta in bianco e nero di Pleasantiville, nessuno prova emozioni e sentimenti alcuni. Singolarmente, allorché elementi di rottura intervengono a turbare gli equilibri consolidati, gli abitanti di Pleasantville, le cui iniziali passioni si dispiegano quali primitive incrinature, si umanizzano e si colorano (diventando a colori anche nel film) in quanto riescono finalmente a provare le loro prime esperienze emotive, imperfette, ma finalmente vitali. Le persone apparentemente imperfette e per questo stigmatizzate a volte trovano nella loro condizione un “colore” e una identità vitale che gli altri, del mondo dei perfetti, in parte a essi negato, ai loro occhi non hanno (C. Callegari, 2005). La dimensione cinematografica della disuguaglianza fra genti appartenenti a etnie diverse è un altro dei temi affrontati più volte nei film: in alcuni è il fulcro problematico da rappresentare volontariamente, sia nell’intento di denunciare o di fare emergere la ghettizzazione e/o le persecuzioni razziali, sia di esprimere in modo più o meno larvato una certa propaganda denigratoria nei confronti di popoli e della loro cultura di appartenenza, in altri film invece è un involontario background della narrazione filmica. Lo stigma in questa dimensione è una faccenda che, come ben visibile in alcune pellicole, ha a che fare con la reciprocità della rispettiva considerazione fra persone appartenenti a culture diverse, senza che nessuno,

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per motivi strettamente razziali, presenti una qualche diminuzione rispetto ad alcun altro. Infatti, geneticamente e biologicamente, gli uomini costituiscono tutti un’unica specie le cui differenze fenotipiche devono essere considerate irrilevanti e, come quelle culturali, conseguenti all’adattamento all’ambiente in cui vivono. Eppure a volte gli individui appartenenti a popolazioni differenti si osservano come profondamente estranei gli uni rispetto agli altri al punto da manifestare diffidenza, intolleranza, rifiuto o di desiderare di espellere o prendere il sopravvento quand’anche con la violenza. C. Callegari (2005) sostiene che il cinema ha rappresentato gli indiani del nord America come selvaggi violenti e assetati del sangue dei coloni (Ombre rosse di John Ford, Usa 1939, Passaggio a Nord-Ovest di King Vidor, Usa 1940, Sentieri selvaggi di John Ford, Usa 1956), ma anche gli stessi colonizzatori dell’America che, a causa della bramosia di appropriarsi delle nuove terre, si sono comportati da sterminatori cruenti di intere tribù di Pellerossa (Il grande sentiero di John Ford, Usa 1964, Soldato blu di Ralph Nelson, Usa 1970, Piccolo grande uomo di Arthur Penn, Usa 1970, Balla coi lupi di e con Kevin Costner, Usa 1990). In particolare il film di Penn mette anche in evidenza la crisi di identità del protagonista che, bianco e figlio di una famiglia massacrata, è stato allevato dagli indiani e, ritornato fra la propria gente, non sente più di poterle appartenere poiché disgustato dalla bramosia omicida dei suoi simili verso i nativi, così come non può integrarsi neppure con questi che lo hanno cresciuto, per motivi quasi uguali. Oltre alle numerose rappresentazioni delle vessazioni e persecuzioni subite in particolare da alcune etnie quali gli ebrei, nelle pellicole già citate sopra ma anche in numerose altre (fra le più recenti La vita è bella di e con Roberto Benigni, Italia 1997, Il pianista di Roman Polanski Francia/Polonia/Germania, Gb 2002), e i neri africani venduti in America come schiavi (Amistad di Steven Spielberg, Usa 1997), esiste una filmografia che ha voluto presentare il problema della integrazione e della tolleranza razziale di popolazioni almeno ufficialmente reciprocamente accettate (Indovina chi viene a cena? di Stanley Kramer, Usa 1967, sul razzismo verso i neri americani, questi ultimi spinti anche a vergognarsi della loro origine e ad approfittare talvolta di una pelle un po’ più chiara per farsi credere bianchi come nel caso della giovane ballerina di night Sarah Jane in Lo specchio della vita, film che ha due omonime versioni: Douglas Sirk, Usa 1959 e John M. Stahl, Usa 1934, ma anche, sulla realtà italiana degli immigrati dal meridione, Rocco e suoi fratelli di Luchino Visconti, Italia/Francia 1960, Mimì metallurgico ferito nell’onore di Lina Wertmuller, Italia 1972).

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Successivamente si è assistito a un rovesciamento delle consuete e prevedibili situazioni di diffidenza e rifiuto in film che mettono in evidenza in modo realisticamente crudo (8 Mile di Curtis Hanson, Usa 2002) oppure descrittivo e drammatico (Sette anni in Tibet di Jean-Jacques Annaud, Usa/ Gb 1997, Save the Last Dance di Thomas Carter, Usa 2000) o decisamente leggero e quasi comico (Il mio grosso grasso matrimonio greco di Joel Zwick, Usa/Canada 2001) il problema dell’integrazione fra culture diverse. In 8 Mile emerge l’opposto analogo rifiuto da parte di chi, discriminato a sua volta per differenza etnica, vede con difficoltà che siano assunti i propri stessi riferimenti culturali, come ad esempio la musica rap da parte di Eminem, ragazzo bianco che vive al confine cittadino fra bianchi e neri e di questi ultimi vuole emulare i comportamenti fino a farsi accettare come uno di loro. L’integrazione dei due stranieri bianchi nella vita tibetana lentamente avviene nonostante la cortese diffidenza di alcuni abitanti del luogo e grazie alla curiosità del giovane Dalai Lama verso i mondi a lui poco noti (Sette anni in Tibet). I legami sentimentali fra persone appartenenti a mondi diversi per cultura e religione - sostiene C. Callegari - trovano avversione sia da parte di chi pensa di appartenere a una condizione svantaggiata dalla quale sia quasi impossibile emanciparsi (Save the Last Dance), sia semplicemente per il timore di vedere non osservati rituali e cerimoniali secolarmente radicati nella propria tradizione (Il mio grosso grasso matrimonio greco). L’elenco poi dei film in cui è affrontato il tema della disabilità, come quello dell’omosessualità o della droga è molto esteso, andando ben oltre lo scopo di questo capitolo: si può dire che sceneggiatori e registi colgono spesso dalla realtà sociale ed individuale lo spunto per mettere in immagini ed in storie il “perturbante” come direbbe Freud. La malattia mentale nei film Senza voler ricordare qui tutti i film che hanno come tema da svolgere quello su di un caso di malattia mentale, come ad es. Rain man, che sono spesso sponsorizzati da Associazioni che si prefiggono lo scopo di combattere apertamente lo stigma della malattia mentale, per i quali si può discutere circa l’accuratezza o meno della raffigurazione degli ammalati, dei sintomi e delle malattie mentali, delle situazioni cliniche e terapeutiche, accompagnata da una coloritura eccessivamente positiva e ottimistica, indifferente e documentaristica o decisamente cupa e negativa, vi sono certamente film nei quali il sintomo o la situazione psichiatrica introdotte non sono del tutto volute o non hanno a che fare con la trama principale e

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la regia si trova a costruire queste sequenze seguendo un altro significato descrittivo (C. Callegari, 2005). Riprendendo dal capitolo di C. Callegari Cinema pro e contro lo stigma, si possono fare delle esemplificazioni molto interessanti a questo proposito: “Alcuni esempi riguardano pellicole decisamente insospettabili per l’argomento nelle quali i sintomi psichiatrici sono, senza probabile intenzione in tal senso, mirabilmente descritti e descrittivi. Illusioni appaiono sperimentate da Biancaneve che, mezza morta dalla paura, fugge nel bosco e interpreta rami e foglie che la ghermiscono come altrettante braccia e mani e ha l’impressione di scampare per un soffio a improbabili alligatori/tronchi. (Biancaneve e i sette nani di David Hand e Walt Disney, Usa 1937). Illusioni e allucinazioni (anche autoscopia o doppio) là dove il perfido e corrotto dottor Mabuse, atterrito dallo smascheramento per le sue molte malefatte, vede strumentazioni meccaniche trasformarsi in un mostro terribile o altrimenti intraprende un’improbabile partita a carte con quattro copie di se stesso (Il Dottor Mabuse di Fritz Lang, Germania 1922). Ancora allucinazioni ne L’Avvocato del diavolo (Taylor Hackford, Usa 1997) in corpi che si deformano improvvisamente e istantaneamente ritornano normali e in Fight club (David Fincher, Usa/Germania 1999) quando il protagonista accusa i colpi e viene trascinato con i calci e i pugni di un altro che solo egli vede, ma che non esiste. Allucinazioni di doppio negativo in Nosferatu, il principe della notte (Werner Herzog, Rft/Francia 1979) e in The others (Alejandro Amenabar, Usa/Spagna/Francia 2001) dove nello stesso modo il vampiro e il marito morto non appaiono riflessi nello specchio. Situazioni attinenti alla psicopatologia clinica sono abilmente inserite nello sviluppo narrativo di film quali Il patto dei lupi (Christophe Gans, Francia/Germania 2001) che in una breve sequenza mostra una povera gitana in preda a una crisi epilettica di grande male o forse a una crisi isterica (l’arc du circle di Charcot) e che, vittima delle credenze del suo tempo, viene etichettata come strega”. L’Autrice così prosegue: “A volte solo gli stessi artifici cinematografici (effetti di luci, colori, musica, movimento, rallentamento o accelerazione delle immagini, zoommate), come quei vecchi caroselli in bianco e nero nel Gabinetto del dottor Caligari (Robert Wiene, Germania 1920) e quegli effetti decisamente più moderni di molte sequenze del Moulin Rouge! (Baz Luhrmann, Usa 2001) sembrano corrispondere a certe descrizioni che si trovano nel trattato di psicopatologia di Jaspers là dove sono descritti i fenomeni del mondo psicotico e dell’esperienza delirante. Immagini della paranoia sono mimetizzate in Lolita (Stanley Kubric, Gb 1962) nella gelosia per la fanciulla e nel timore di essere scoperto del perverso professor Humbert mentre in The Gift (Sam Raimi, Usa 2000), thriller soprannaturale, si osserva il costruirsi e successivo

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infausto sgretolarsi di una relazione terapeutica fra la cartomante sensitiva e un giovane psicotico ben descritto e impersonato anche se con scarsa importanza ai fini della storia. Qualche riflessione finale

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Il confronto con lo stigma non sarà mai risolto una volta per sempre: riguardando il problema dell’identità individuale, ma soprattutto quello del rapporto fra individuo e gruppo, sempre attinente all’identità individuale/ sociale, si può ritenere che esso si riprodurrà nel tempo continuamente e ogni generazione dovrà fare i conti con lo stigma, e dovrà impegnarsi a trovare soluzioni sempre nuove e innovative anche attraverso gli strumenti tecnici che avrà a disposizione Bibliografia 1. Andreasen NC. Creativity and mental illness. In: Schildkraut JJ, Otero A, eds. Depression and the spiritual in modern art. Chichester: Wiley; 1996 2. Angermeyer MC., Schulze B. Reducing the stigma of schizophrenia: understanding the process and opinions for interventions. Epidemiologia e Psichiatria Sociale 2001; 10: 1-7. 4. Baranzini F. Discriminazione e accoglienza delle persone con disturbo psichico nella popolazione. NÓO 3-4 2005; 245-268 5. Callegari C. Cinema pro e contro lo stigma. NÓO 3-4 2005; 185-196 6. Callegari C, Milani S, Pace V, et al. Pregiudizio e tolleranza: una ricerca a Varese su due aree cittadine. Studi di Psichiatria 2001; 3: 108-13. 7. Callegari C., Poloni N., Milani S, et al. Stigma e malattia mentale in un gruppo di studenti universitari. Poster presentato al Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria Sociale Roma 18-21 aprile 2002 8. Carpiniello B, Tocco E. Lo stigma dovuto a malattia mentale. Risultati di uno studio sulle opinioni ed atteggiamenti degli studenti in medicina. Studi di Psichiatria 2003; 5: 48-54. 9. Chiesa M. Stigmatizzazione e disturbo di personalità. NÓO 3-4 2005; 245- 268 10. Chiesa M., Fonagy P., Holmes J., Drahorad C., Harrison-Hall A. Health service use costs by personality disorder following specialist and non-specialist treatment: a comparative study. J Personal Dis 2002; 16: 160-73. 11. Clare A. Cinematic portrayals of psychiatrists In: Crisp AH, ed. Every amily in the land: understanding prejudice and discrimination against people with mental illness. London: Royal Society of Medicine Press; 2004. 12. Crisp AH., Gelder MG., Rix S., Meltzer HI., Rowlands OJ. Stigmatisation of people with mental illnesses. Br J Psychiatry 2000; 177: 4-7 13. Crisp AH. La natura della stigmatizzazione. NÓO 3-4 2005; 167-84 14. Edney Dara Roth. Mass media and mental illness: a literature review. Canadian Mental Healt Association 2004.

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15. Gelder M. The Royal College of Psychiatrists’ survey of public opinions about mentally ill people. In: Crisp A, ed. Every family in the land: understanding prejudice and discrimination against people with mental illness. London: Royal Society of Medicine Press; 2004: pp 21-5. 16. Hyler SE, Gabbard GO, Schneider I. Homicidal maniacs and narcissistic parasites: stigmatisation of mentally ill person in the movies. Hosp Comm Psychiatry 1991; 42: 1044-8. 17. Lewis G., Appleby L. Personality disorder: the patient psychiatrists dislike. Br J Psychiatry 1988; 153: 44-9. 18. Link BG, Cullen FT. Reconsidering the social rejection of ex-mental patients: levels of attitudinal response. Am J Comm Psychology 1983; 11: 261-73. 19. McPherson IG, Cocks FJ. Attitudes toward mental illness: influence of Data Collection measures. Soc Psychiatry 1983; 18: 57-60. 20. Mino Y., Yasuda N., Kanazawa S., Inoue S. Effects of medical education on attitudes towards mental illness among medical students: a five-year follow-up study. Acta Medica Okayama 2000; 54: 127-32 21. Phelan JC., Link BG., Stueve A., Pescosolido A. Public conceptions of mental illness in 1950 and 1996: what is mental illness and is it to befered? J Health Soc Behav 2000; 4: 188-207. 22. Pinfold V., Toulmin H., Thornicroft G., Huxley P., Farmer P., Graham T. Reducing psychiatric stigma and discrimination: evaluation of educational intervention in UK secondary schools. Br J Psychiatry 2003;182: 342-6. 23. Post F. Comment based upon a study of biographies of 453 exceptionally creative men. In: Crisp A, ed. Every family in the land: under-standing prejudice and discrimination against people with mental illness. London: Royal Society of Medicine Press; 2004: pp 313-6 24. Schildkraut JJ, Otero A, eds. Depression and the Spiritual in modern art.Chichester: Chichester: Wiley; 1996 25. Schneider KG. Stereotypes of mental illness as portrayed through Hollywood movies. Duke University, Mass media and mental illness course description. 2003 http://www.duke.edu/~klw 26. Schulze B., Richter-Werling M., Matschinger H., Angermeyer MC. Crazy? So what! Effect of a school project on student’s attitudes towards people with schizophrenia. Acta Psychiatr Scand 2003; 107: 142-50. 27. Storr A. Art and mental illness. In: Crisp A, ed. Every family in the land: Understanding prejudice and discrimination against people with mental illness. London: Royal Society of Medicine Press; 2004: pp 305-9. 28. Taylor SM, Dear MJ. Scaling community attitudes toward the mentally ill. Schizophr. Bull 1981; 7: 225-40. 29. Vender S. (a cura di) La stigmatizzazione. Dal pregiudizio alla cura della malattia mentale. NÓO 3-4 2005 30. Vender S. Stigma interiorizzato e vergogna. NÓO 3-4 2005; 233-243 31. Vender S., Callegari C., Poloni N. Psichiatria, La Goliardica Pavese, Pavia 2006 32. Warner R. Combating the stigma of schizophrenia. Epidemiologia e Psichiatria Sociale 2001; 10: 12-7

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3.2 L’istituzionalizzazione, il suo superamento e la territorializzazione dei servizi di Giuseppe Armocida2 La psichiatria italiana ha conosciuto tra il 1904 e il 1978 tutte le vicende di una disciplina che, se ha dovuto confrontarsi con il proprio interno dottrinario, è stata modulata anche dal Diritto e dalle aspettative della società, con intrecci assai complessi. La legge 36 del 1904, risultato di una quarantina d’anni di discussioni scientifiche e parlamentari, presentava un articolato largamente condiviso dagli psichiatri di allora. Le leggi 180 e 833 del 1978 furono anch’esse largamente condivise dagli psichiatri italiani che, nel correre del tempo e nell’aggiornamento scientifico, avevano mutato orientamento di pensiero e prassi clinica. L’ordinamento manicomiale del 1904 governò la psichiatria italiana fino al 1978, anno nel quale veramente si chiuse una storia e se ne avviò un’altra. Punto di partenza per la riforma del 1978 non fu semplicemente l’istanza di libertà di quanti ancora vivevano nella “reclusione” degli istituti psichiatrici. Forte premeva tra gli specialisti l’esigenza di affermare i rischi antiterapeutici della istituzionalizzazione. Delle diverse definizioni che si attribuiscono al vocabolo istituzione si può restringere la discussione su quelle che si oppongono dialetticamente tra loro, come ben ricordano Vidon e coll. (17) Solo per inciso occorre notare che il maggiore dizionario della lingua italiana, alle voci istituzione e istituzionalizzazione, ancora nel 1973 ignorava non solo il significato preciso che già la psichiatria dava con forza a questi termini, ma addirittura l’esistenza stessa del lemma deistituzionalizzazione.(3) Le problematiche delle “istituzioni” di ricovero sono state per anni al centro dei dibattiti interni della psichiatria e si deve ricordare che, anche se certe posizioni appaiono oggi affievolite nei toni e nei significati, per alcuni decenni il deciso rifiuto dei ricoveri “istituzionalizzanti” trovò un consenso così largamente generalizzato da costituire quasi un filone obbligato di pensiero e di opzioni nella pratica clinica. I rischi intrinseci al trattamento istituzionale del malato, con ricoveri di lunga e lunghissima durata, erano l’argomento molto dibattuto che alimentò la lotta contro gli ospedali psichiatrici. 2

Ordinario di Storia della Medicina, Università dell’Insubria Varese-Como

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I medici attenti alle teorie più aperte sostenevano la pericolosità dei mondi gerarchizzati negli istituti psichiatrici, a partire dal vertice del direttore, fino ai medici, le suore, gli infermieri, gli impiegati ed i ricoverati. Affermavano che, cristallizzando i malati in una situazione protetta ed ordinata, si ostacolava il loro recupero sociale. Si stigmatizzava anche la pretesa umanizzazione degli ambienti che era vista come un semplice rimodellamento alberghiero ininfluente sulla cura, anzi in un certo senso collusiva con le procedure che non aiutavano a superare il disturbo. E si spiegava che un’atmosfera cortese ed accogliente era insidiosa per tutti, sia per i ricoverati sia per quanti si occupavano di loro, adagiati nel quotidiano delle loro interne abitudini. Daumezon nel 1935 aveva descritto i rischi antiterapeutici dei mondi istituzionali organizzati e gerarchizzati, a partire da un vertice rappresentato dalla figura del medico fino alla base costituita dai pazienti, insistendo sulla necessità di introdurre delle “relazioni autentiche” all’interno di quelli che chiamava “isolats thérapeutiques”.( 8) La necessità che si avvertiva di ampie revisioni del concetto di ricovero istituzionale aveva trovato anche altre differenti teorizzazioni, come la “comunità terapeutica” di Maxwell Jones, che voleva la presenza del paziente regolata da attività integrate ed adattate ai suoi bisogni psicosociali. Negli anni Cinquanta diversi autori contribuirono a chiarire certi meccanismi che rendono un’istituzione terapeutica o non terapeutica, secondo le modalità di organizzazione, di gestione, di funzionamento e di comunicazione interna (Stanton e Schwartz) (16). Gli stessi sostenitori del ruolo terapeutico dell’istituzione ospedaliera insistevano su un cardine interpretativo della capacità di cura che voleva la formulazione di opportuni rapporti medico - infermiere - malato all’interno dei luoghi di ricovero. Molte di queste discussioni erano familiari ai medici degli ospedali psichiatrici italiani che affermavano una volontà di avvicinamento alle regole degli altri ospedali civili e parallelamente al delinearsi di nuove forti correnti dottrinarie nella famiglia della psichiatria, nel Parlamento tornato alla democrazia con la Repubblica, vennero presentate parecchie proposte di legge. Una spinta decisa si era sentita con l’avvento degli psicofarmaci che favorivano risposte alternative all’accentramento ospedaliero. Un convegno tenuto a Roma nel 1965 aveva dato spazio ad alcune voci fra le più significative del tempo, confrontando amministratori e medici d’ospedale psichiatrico.

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Mario Gozzano, percorrendo le molteplici critiche e le ripetute proposte di riforma della legislazione, ricordava che si doveva ritenere superato ogni “rigido determinismo organicista”, per considerare anche i fattori sociali e psicologici che, dopo Freud e l’attenzione all’inconscio, avevano rivelato una loro indiscussa importanza nella genesi dei disturbi psichici, accanto a quelli biologici. Bisognava lavorare intensificando gli interventi di igiene mentale in modo da ridurre le degenze e si auspicava l’istituzione di “piccole unità ospedaliere.”(11) Bruno Callieri e Luigi Frighi invitavano ad una organizzazione della psichiatria che coinvolgesse gli ospedali generali.(5) Giorgio Padovani proponeva l’abolizione dell’iscrizione nel Casellario Giudiziario dove, a mente dell’art. 604 del Codice di Procedura Penale, veniva registrato il ricoverato in ospedale psichiatrico.(15) Ferdinando Barison, interprete delle aspettative dei medici degli ospedali psichiatrici, raccomandava disposizioni legislative che impedissero i “compartimenti stagni” ed in particolare la separazione fra assistenza ospedaliera ed extraospedaliera; perfezionando i servizi di assistenza psichiatrica anche le vecchie problematiche della pericolosità sociale avrebbero potuto essere affrontate diversamente. (2) La storiografia ha ben chiarito come l’intreccio tra le espressioni della malattia e gli indirizzi della cura o del controllo sociale, alla metà del Novecento, aveva posto la medicina di fronte alle istituzioni di ricovero e alle loro problematiche in un alternarsi di momenti di consonanza e sintonia con momenti di reciproca diffidenza. Le costruzioni dottrinarie della psichiatria nel tempo hanno alimentato sicurezze o incertezze e continui ripensamenti, ma questo, come sappiamo bene, è l’inevitabile dimensione di una disciplina legata a principi complessi, a metodologie che si sfrangiano in molteplici paradigmi paralleli, derivanti da aree diverse e non facilmente sovrapponibili. Gli psichiatri appaiono spesso eccentrici accanto agli altri medici, con proposte che escono dalle sicurezze dogmatiche della biomedicina. Cercano di porsi accanto agli altri specialisti affermando il senso e il peso della responsabilità delle proprie scelte, con una “ragione critica” decisa e coraggiosa, ancorché mutevole, avversaria della “ragione pigra” che si adagia ubbidendo, anche nella scienza, alle certezze ed alla autorità dei paradigmi condivisi. Generalmente i medici si identificano in dottrine condivise e mutano in conseguenza del mutare delle loro dottrine, conformando il proprio pensiero e le prassi operative al loro aggiornamento. Dunque, è vero che il progressivo mutare della medicina cambia il medico.

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Per gli psichiatri, però, è forse vero il contrario. È lo psichiatra che, cambiando, cambia la psichiatria e dunque la psichiatria cambia quando cambia lo psichiatra. Il lavoro dello psichiatra si plasma nel contesto di società, di cultura, di conoscenza, di storia, del mondo in cui vive e non abbraccia una linea di dottrina sempre da tutti condivisa. Si indirizza a progetti riformatori, nell’enfasi di elaborazione di modelli istituzionali di cura, con correnti di maggiore o minore fortuna e durata e talvolta assiste anche ai loro insuccessi. Dopo le sicurezze degli anni nei quali l’ospedale era stato il cardine di ogni intervento, già alla metà del Novecento, in molti ambienti psichiatrici si era insinuato il dubbio di volerne incrinare la logica istituzionale (Canosa) (6). La psicologia della comprensibilità aveva offerto uno strumento prezioso, anche come necessaria reazione alla eccessiva enfasi messa sulle scienze positive ed anche la psichiatria italiana doveva misurarsi con spinte ideologiche assai complesse. Le linee dello sviluppo tradizionale, incardinato sulle strutture ospedaliere, cominciarono ad essere oggetto di ripensamento critico. Gli istituti psichiatrici continuavano ad accogliere anche soggetti estranei alla dimensione della psicosi: anziani inabili, soli o non voluti in famiglia, accanto a cerebropatici che non trovavano collocazione diversa e che, anche quando erano attenuate o oramai scomparse le manifestazioni del disadattamento, conducevano l’esistenza nel silenzio dell’ospedale. L’alternativa fenomenologica e l’impegno nella “comprensione” erano allora tra i veri punti di attrazione per gli intelletti sensibili ed aperti. Per quanto il bisogno di una nuova normativa fosse avvertito quasi all’unanimità, si confrontavano pareri assai diversi, sostanziati da differenti modelli scientifici e da differenti idealità operative. Pur nella persistente confusione di posizioni dottrinarie diverse e negli equivoci di tanti linguaggi attorno alla follia, da molte parti si chiedeva di considerare la malattia mentale come un comune disturbo della salute. Dopo una quindicina d’anni dall’introduzione degli psicofarmaci nella clinica, la pressione di una parte della comunità psichiatrica e della opinione pubblica italiana che reclamava la revisione della legislazione manicomiale, portò ad una prima riforma con la legge stralcio Mariotti n. 431 del 18 marzo 1968 (Provvidenze per l’Assistenza Psichiatrica) che introdusse alcune innovazioni e fu, pur nei suoi limiti, il punto di partenza per successive riforme.

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La legge 431 era un primo passo verso una riforma più profonda; era assai parziale, ma con aspetti innovativi nella sostanza del sistema di gestione della assistenza. In particolare venivano definiti i limiti di espansione di un ospedale psichiatrico, che non doveva avere più di cinque divisioni, con non più di 125 posti letto ognuna. Venivano ridefiniti i parametri degli organici del personale e introdotte le nuove figure di psicologo, assistente sociale e assistente sanitaria, oltre a statuire un rapporto di un infermiere psichiatrico per ogni tre posti letto. L’ingresso dei malati in forma volontaria, autorizzata dal solo medico di guardia, non prevedeva l’applicazione delle norme vigenti per i ricoveri di autorità, così come non si doveva più effettuare la comunicazione di una dimissione all’autorità di pubblica sicurezza, quando la degenza, anche se iniziata d’autorità, fosse stata trasformata nel decorso in volontaria. Veniva abrogato anche l’obbligo di annotazione dei provvedimenti di ricovero di infermi mentali nel casellario giudiziario. Innovativa era pure la formalizzazione di servizi territoriali organizzati con il nome di Centri di Igiene Mentale ai quali pure si doveva assegnare del personale di vari profili sanitari, compreso quello psichiatrico. L’ottica “manicomiale” restava comunque il cardine di ogni intervento. Non mancarono singole iniziative di trasformazione in ambienti attenti agli inviti che venivano dalle nuove idee e pronti ad aggiornarsi. L’organizzazione del Settore che aveva già movimentato la psichiatria francese, trovò un protagonista italiano in Edoardo Balduzzi. (1) Quell’esperienza introduceva il lavoro in “équipe” e proiettava all’esterno l’attività degli operatori, promuovendo anche una funzione non custodialistica degli infermieri, ma sembrava accettare ancora l’ospedale psichiatrico, pur modificandolo e migliorandolo. Era un riferimento suggestivo, ma ormai si guardava anche alle teorie che rifiutavano ogni compromesso istituzionale, come quella di Erving Goffman.(10) Sulla scena italiana si affacciavano le “provocazioni” di Franco Basaglia, a Gorizia e a Trieste, capaci di sfidare la legge, di attrarre e di parlare all’opinione pubblica in un generale clima ideologico ormai sensibilizzato alla questione psichiatrica. Si avvertiva l’incisività soprattutto delle prospettive sociali della psichiatria e nel fertile terreno di tante diverse posizioni si fece sentire il nascente movimento antipsichiatrico che, in accesa opposizione alla neuropsichiatria dominante, si muoveva dentro l’ospedale dichiarando però di volerlo combattere fino all’abbattimento e con punte di contestazione radi-

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cale che prendevano posizione addirittura contro i miglioramenti di qualità e di organizzazione interna degli istituti. L’antipsichiatria italiana, pragmatica ed orientata all’azione, nel panorama di quegli anni alimentò un pensiero ricco di aspirazioni emancipatrici, contro il mondo oppressivo della psichiatria tradizionale. La corrente del pensiero antipsichiatrico si confrontava con il pensiero e l’azione anti istituzionale di Basaglia, nella differenza fra le istanze di deospedalizzazione e di deistituzionalizzazione, comunque dirette alla lotta contro l’ospedale psichiatrico. Pur contrastato dallo schieramento di gran parte della psichiatria ufficiale e accademica, il movimento seppe conquistare ampi spazi di consenso, dentro e fuori l’ambito specialistico, per la capacità di sostenere con decisione delle proposte politiche anti istituzionali contro l’emarginazione e l’esclusione del malato di mente. Si è ben visto come in Italia l’impatto sociale e politico di quelle correnti riuscì ad influire sul legislatore, producendo la profonda rivoluzione nell’assistenza psichiatrica. Il processo di riforma si avviò durante la VII legislatura, quando alla Camera dei Deputati, nel marzo 1977, iniziava la discussione parlamentare sulla istituzione del servizio sanitario nazionale, con un disegno di legge che comprendeva una parte attenta alla psichiatria. Protagonista della formulazione delle norme che interessavano la psichiatria nel progetto di legge generale fu un deputato democristiano, lo psichiatra Bruno Orsini. (14) In quel momento si confrontavano diverse posizioni. Un forte gruppo di medici, raggruppati principalmente nel sindacato AMOPI degli specialisti, intendeva che si potessero superare gli ospedali psichiatrici istituendo dei reparti all’interno degli ospedali civili. Su un fronte diverso, il movimento anti istituzionale sosteneva, anche con la corrente di Psichiatria Democratica, che non fossero necessari nemmeno quegli spazi. Tutti erano concordi nella volontà di abrogare la legge manicomiale del 1904 ed il regolamento di attuazione del 1909, per evitare segregazione e separatezza dei malati, ma dai gruppi parlamentari andarono all’attenzione della Commissione Igiene e Sanità della Camera diverse proposte, anche tra loro divergenti. All’inizio del 1978, la Camera aveva già esaminato ed approvato gli articoli che avrebbero inciso sulla assistenza psichiatrica modificandola, ma mentre il disegno di legge seguiva il suo lungo percorso parlamentare si evidenziò una situazione politica nuova che apriva scenari rischiosi. Era stato proposto dai Radicali un Referendum per l’abrogazione della legge del 1904, dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale.

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Si paventò così lo scenario di una abrogazione che avrebbe determinato una inaccettabile confusione nel sistema della psichiatria pubblica, con il rischio di derive imprevedibili in carenza di uno specifico strumento di legge. D’altra parte, anche l’insuccesso del Referendum avrebbe costituito un vulnus del processo di riforma, perché se i cittadini si fossero espressi per il mantenimento della legge manicomiale del 1904 sarebbe stato difficile apportare le sostanziali modifiche chieste con forza dagli specialisti. Bruno Orsini si fece allora promotore di un’altra iniziativa: propose di stralciare dal disegno di legge istitutivo del servizio sanitario nazionale gli articoli che riguardavano la psichiatria, per portarli ad approvazione prima del Referendum radicale. Il Governo - presidente del Consiglio Giulio Andreotti e ministro della Sanità Tina Anselmi - approvò il disegno di legge e lo presentò alla Camera il 19 aprile 1978. Tuttavia, avanzando il rischio del Referendum abrogativo, anche per l’approvazione di questa legge sembrava che i tempi di un ordinario iter legislativo non fossero sufficienti e i due rami del Parlamento percorsero una procedura speciale. In meno di un mese la legge venne esaminata, discussa ed approvata. Con la proposta delle Commissioni competenti di Camera e Senato e con l’unanime assenso dei gruppi parlamentari, si autorizzarono le Commissioni ad approvare la legge in sede legislativa, invece di proporre il testo all’esame ed alla approvazione dei deputati e senatori. Il relatore Orsini guidò l’iter della discussione partendo dallo stralcio degli articoli appartenenti al disegno di legge generale. Si trovò nella necessità di elaborare quell’articolato per renderlo attuabile anche in carenza delle strutture che si potevano prevedere solo con l’Istituzione del Servizio sanitario nazionale e le problematiche più difficili da risolvere con un accordo politico erano quelle dei ricoveri da attuare negli ospedali civili ancora impreparati a questi nuovi compiti, nel dialogo aperto con le Province che fino ad allora avevano avuto il compito primario della organizzazione e gestione della psichiatria pubblica. Il disegno di legge elaborato dalla Camera andava al Senato il 4 maggio 1978, il 9 maggio andò alla Commissione igiene e sanità del Senato in una seduta che aveva alla presidenza lo psichiatra Adriano Ossicini. Il 10 maggio veniva approvata la legge n. 180 Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, ratificata il 13 maggio. Come ben si vede dal titolo, la legge doveva affrontare il delicato tema dei ricoveri non volontari, con le notevoli implicazioni costituzionali, politiche e sociali.

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Il dibattito tra i membri della Commissione su questa materia non era stato facile e la questione venne risolta definendo una norma di ricovero coattivo (Trattamento Sanitario Obbligatorio) che non si sarebbe applicato solo ai pazienti psichiatrici, ma avrebbe avuto valore generale, in difesa non più dell’ordine sociale, ma della persona malata. Non possiamo dimenticare che proprio in quei giorni la vita politica del Paese era scossa dal rapimento (16 marzo 1978) e dalla uccisione di Aldo Moro, il cui cadavere venne ritrovato il 9 maggio 1978. La drammaticità di quell’evento colpì una stagione politica veramente speciale, con un Parlamento capace di superare contrasti ideologici nel produrre leggi di notevole incidenza sulla vita sociale. La legge 180, che poi sarebbe stata ripresa nel testo della 833, costituiva una rivoluzione psichiatrica, una rivoluzione italiana sulla quale immediatamente si concentrò l’interesse internazionale. Ancora una volta era stato centrale il rapporto medicina - politica: nel 1978 il nostro Paese si presentava con una coraggiosa scelta legislativa, capace di demolire l’istituzione manicomiale e di aggredire anche i pilastri pregiudiziali della pericolosità sociale che avevano sostenuto gran parte della regolamentazione psichiatrica. Una mattina di metà maggio di trentacinque anni fa, gli psichiatri si accorsero che improvvisamente dovevano allontanarsi dai loro reparti e avviarsi su frontiere nuove del loro lavoro. Il mondo scientifico nazionale era concorde con le scelte politiche ed applaudì - quasi senza eccezioni - la legge che vedeva il consenso dei sindacati dei medici psichiatri, delle organizzazioni degli infermieri, della Società Italiana di Psichiatria ed anche di Psichiatria Democratica. La formulazione definitiva della legge che nella identificazione popolare restò nota come legge Basaglia, aveva raccolto elementi importanti del pensiero dello psichiatra veneziano, ma non ne fu certamente espressione completa. Del resto Basaglia, nonostante le sue personali riserve scientifiche, non rifiutò l’attribuzione di questa paternità. Si riconosceva negli articoli che decretavano la chiusura degli Ospedali Psichiatrici, ma metteva in guardia da certe contraddizioni: collocando la psichiatria all’interno della sanità si potevano presentare quelle che egli riteneva mistificazioni proprie di una tendenza a ricondurre la sofferenza psichica a connotazioni di malattia di una visione positivistica. Temeva che questo vanificasse tutti gli sforzi e il lavoro compiuto per focalizzare la prassi della psichiatria sui meccanismi sociogenetici, distogliendo l’attenzione dalla dimensione sociale del problema. A suo parere il processo di medicalizzazione poteva spegnere i fermenti critici con l’inserimento nell’ambito di una medicina tradizionale e pote-

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va altresì mantenere certi meccanismi di emarginazione, sotto l’alibi della malattia e della cura, anche senza lo schermo del concetto giuridico di pericolosità e di custodia della vecchia norma. Lasciò scritte queste idee in una Conversazione a proposito della legge 180 pubblicata nel 1980, poco prima di morire. (13) Se dopo il 1904 le Province non erano state in grado di dare una risposta assistenziale uniforme nella Penisola, anche dopo l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale del 1978 non era comparsa all’orizzonte l’auspicabile omogeneità. La chiusura degli Ospedali Psichiatrici aveva portato la psichiatria fuori dal governo delle Amministrazioni Provinciali ed aveva condotto a un radicale trasferimento non solo dell’assistenza, ma anche dei punti di riferimento culturali fuori dall’orto chiuso delle istituzioni ospedaliere. Ogni Regione e in parte anche ogni Unità Sanitaria Locale presentava realtà diverse nell’organizzazione dei nuovi piccoli Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, di 15 letti, negli ospedali generali e dei Centri Psicosociali territoriali. Molti operatori si erano trovati impreparati di fronte al radicale modificarsi dei propri progetti terapeutici. Si assisteva ad un trasferimento non solo dell’assistenza, ma anche dei punti di riferimento culturali di chi non addestrato - doveva portarsi fuori dall’ambiente in cui era cresciuto professionalmente, lontano dalle gerarchie di colleghi, tra tante posizioni contrastanti, stretto ora dalle esigenze di tempi limitati per le degenze e dalle angustie di spazio, ignorate nei vecchi ospedali. Si può indubbiamente dire che l’organizzazione fu inizialmente insufficiente, in termini di risorse messe a disposizione o forse anche di qualche risposta resistente per motivi ideologici, culturali, scientifici. Dobbiamo ricordare che la nuova assistenza territoriale non era stata accompagnata da consensi univoci, nella disparità di pareri e di aspettative formulati dalle stesse diverse associazioni di familiari dei malati. Non mancarono forme di ritardi applicativi e del resto il panorama delle possibilità di intervento era sottodimensionato rispetto ai bisogni reali di residenzialità che si erano presentati alla chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici per soggetti con gravi difficoltà nel funzionamento quotidiano e insufficiente supporto familiare o sociale. Gli operatori che subivano il fallimento dei propri progetti terapeutici cercavano una collocazione di pazienti difficili, cronici, con gravi problemi, nelle poche strutture residenziali esistenti. Molte famiglie, non si può negarlo, si erano trovate in grandi difficoltà.

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Via via negli anni il panorama complessivo è mutato: la rivoluzione aziendale della sanità, pubblica o privata, ha portato ad una crescita dell’offerta di strutture con possibilità di cure psichiatriche residenziali. L’orizzonte privato dei grandi ospedali ha visto nascere in modo spontaneo, quando ancora non esisteva una regolamentazione specifica, le strutture più disparate. Tante comunità e residenze psichiatriche colmavano il vuoto creato dalla repentina approvazione della legge 180 e rispondevano alla pressante richiesta di un “luogo” da parte di familiari ed operatori che non avevano possibilità di scelte terapeutiche alternative oppure avevano abdicato a qualsiasi speranza di modificazione del paziente. Alcune realtà regionali, come quella lombarda, sono state caratterizzate da una crescita avvenuta in stretto rapporto temporale con la progressiva dimissione dei ricoverati in vista della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici. E forse è abbastanza banale osservare come il processo sia stato favorito dalla possibilità di allocazione di quelle risorse che prima andavano alla gestione degli ospedali provinciali. Ostacolate inizialmente anche nei termini di un’opposizione per motivi ideologici, culturali, scientifici, queste strutture sono state poi spinte verso una crescita che suggerisce riflessioni non moralistiche o difensive nello spiegare perché si sono riaperti gli accessi a prolungate o definitive residenzialità. Si è poi finalmente dato ordine normativo al settore, negli anni 1992 al 1997, con profonde modifiche dell’assistenza sanitaria. I decreti legislativi 502/92 e 517/93 hanno determinato i presupposti per i successivi provvedimenti attuativi delle regioni. Le ASL (Aziende Sanitarie Locali) hanno sostituito le USSL, enti strumentali dei Comuni, e sono diventate le erogatrici di prestazioni di ricovero e di prestazioni specialistiche, comprese quelle psichiatriche. Molte Regioni hanno fruito di posti in strutture residenziali anche superiori al tasso di 2 posti letto per 10.000 abitanti, standard nel Progetto obiettivo nazionale tutela salute mentale 1998-2000, comprensivo dei pazienti ex-degenti in Ospedale psichiatrico. I dati più recenti stanno ad indicare un basso turnover dei ricoverati e una maggiore presenza di strutture residenziali dove minori sono i trattamenti territoriali, sia di tipo ambulatoriale che nei Centri diurni. Altre “mode” si sono imposte negli ultimi anni all’operatività psichiatrica, come si vede nel successo degli interventi riabilitativi residenziali e dei loro fondamenti tecnici. Esistendo diversi modelli di organizzazione, si accetta di aver sempre bisogno di istituzioni di cura, ma occorre riflettere sul loro funzionamento,

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per mantenerne vivo lo scopo terapeutico e non correre il rischio di trovarle poi simili a quello che si era voluto superare. La situazione attuale si può sintetizzare in una molteplicità di prestazioni offerte dai servizi psichiatrici ospedalieri e territoriali, impegnati a dare risposte terapeutiche nelle diverse fasi cliniche del malato, alle quali si aggiungono le offerte residenziali indirizzate soprattutto alla cronicità. Il sistema si è basato sostanzialmente sul principio di una delega terapeutica e assistenziale. Il malato viene affidato ad un luogo nel quale, per delega, lo si assiste ovvero lo si cura quando non è possibile ricomporre le crisi di fratture esistenziali con altri mezzi. Tra le due polarità della custodia e della cura, alcune realtà limitano il loro intervento all’assistenza, al recupero di alcune abilità che consentano la partecipazione degli ospiti alla vita comunitaria, per il consolidamento di un equilibrio e per impedire gravi regressioni comportamentali, ma senza prospettive realistiche di modificazione. Altre, più propriamente terapeutiche, aggiungono la terapia, lavorando per il recupero dell’individualità del singolo. Certamente si deve fare una distinzione fra le strutture, ma è pur vero che talvolta i criteri di accreditamento, con i semplici riferimenti a parametri, non consentono di differenziare adeguatamente le tipologie e le loro finalità, per sancire le differenze fra alta, media, bassa protezione. Si deve pure ammettere che, spesso, gli stessi committenti dei Dipartimenti hanno utilizzato le residenzialità per inviarvi pazienti difficili, mascherando la richiesta assistenziale con istanze terapeutiche. Si è così alimentata la domanda della committenza pubblica verso le iniziative del privato accreditato e di fronte alla tumultuosa offerta attuale è necessario che le Unità Operative di Psichiatria e quindi i Dipartimenti di Salute Mentale si pongano alcuni quesiti, assumendo poi adeguate scelte ed iniziative. Di fatto, le strutture residenziali, qualunque sia l’intenzionalità della loro organizzazione, si occupano della cosiddetta cronicità, ovvero di quanti abbisognano per lungo tempo di un luogo diverso dal loro familiare. A certe strutture, in buona sostanza, tocca anche una funzione vicariante al limite di una necessità di controllo sociale che inevitabilmente ritorna nella pratica psichiatrica. Su questi temi nasce un confronto, perché il problema dei luoghi dei malati non sia disgiunto dalle loro finalità e quindi dai progetti per fornire un autentico aiuto terapeutico.

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Dobbiamo qui intendere che se la riforma in Italia fu una vera rivoluzione, nell’ultimo quarto del Novecento il tempo degli ospedali psichiatrici andava comunque verso la conclusione; tanti motivi sociali e culturali, ma soprattutto lo stesso aggiornarsi del dottrinario specialistico, invitavano a privilegiare risposte istituzionali flessibili ed articolate sul territorio, abbandonando l’ospedale psichiatrico. Non era un fatto solo italiano, era un panorama mondiale che cambiava, anche se in verità la nostra legislazione che nel 1978 dispose la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici, non sembra aver avuto molti imitatori in altri paesi. Oggi però ci accorgiamo che la psichiatria rilancia punti di vista che modificano e riformulano le problematiche delle “istituzioni” di ricovero. Non crediamo che ci sarà una riabilitazione dei grandi ospedali, ma ci accorgiamo che gli psichiatri non hanno più a che fare con certe posizioni che loro stessi hanno sostenuto con forza per anni ed anni. Se d’un tratto, nella particolare atmosfera politica e culturale del 1978, era venuta la legge che sopprimeva gli ospedali psichiatrici per sostituirli con il trattamento del malato nel suo ambiente familiare e sociale, dopo trentacinque anni torna la “fiducia” nelle lungodegenze. C’è una sorta di dicotomia nell’organizzazione dell’assistenza psichiatrica attuale: da un lato lo sviluppo ancora non molto diffuso, soprattutto se lo sguardo si rivolge all’intero ambito nazionale, di una psichiatria di comunità, guardata come obiettivo ideale da raggiungere che ha o dovrebbe avere come riferimento i Centri Psicosociali integrati nella rete sociale; dall’altro una considerazione ambigua della cronicità, ricaduta spesso in ambiti in cui considerazioni e dichiarazioni esplicite e perfino espressioni normative non trovano poi conferma nelle disposizioni applicative, né nelle pratiche terapeutiche e assistenziali. Il problema però non è solo italiano, anche se qui si possono avere aspetti particolari riguardanti carenze legislative, ritardi ed insufficienti finanziamenti, incertezze ideologiche e metodologiche, a cui si devono anche aggiungere le ambivalenze e le ambiguità con cui viene usato il termine riabilitazione. Termini che spesso appaiono in letteratura, ma anche in legislazioni molto avanzate in senso psicosociale come quella francese del 2005, sono quelli di handicap psichico in aggiunta e con significato diverso rispetto ad handicap mentale, riguardante situazioni psicoorganiche, malato grave o difficile, Unità di cura per malati difficili (Chapireau, Finkelstein e Al., Kottler e Al.) (7, 9, 12).

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Handicap psichico, inteso come svantaggio sociale è un concetto che confina ma è diverso da quello di cronicità che è invece una malattia e di residualità che è invece una disabilità. Handicap psichico, anche se diverso può però ricomprendere anche tutte due le altre condizioni e in particolare quella di cronicità attiva. E i problemi dell’handicap psichico, che spesso si configurano come situazioni abbandoniche o di grave disagio per le famiglie, richiedono condizioni di protezione e di aiuto, temporanee o definitive, non necessariamente residenziali, che vanno al di là di quanto non possa ricomprendere il termine riabilitazione. Se dopo trentacinque anni guardiamo dove sono gli psichiatri ed i malati di oggi, ci accorgiamo che i manifesti della rivoluzione, insieme con le fantasie di chi si illuminava nell’idea di poter rinunciare ai luoghi di “segregazione”, non hanno più la stessa voce di un tempo. Forse gli psichiatri hanno cambiato strada e non sono più sulle squillanti posizioni che avevano portato con forza alla legge 180. Mentre il manicomio si è ormai dissolto, molti commenti sono possibili, ma si deve riconoscere che la stessa assistenza appaltata, che tanto inquietava gli psichiatri di un tempo, conosce momenti di innegabile fortuna permettendo una certa flessibilità nelle risposte assistenziali. Qualcuno suggerisce che si dovrebbe richiamare l’affermazione di Josef Brodskij: “la psichiatria è proprietà dello Stato”, laddove però per Stato si intende chi è deputato ad interpretare le norme e niente di più .(4) In un orizzonte assai complesso, tra tante diversità, si mantengono molte delle insicurezze del passato e non manca l’occasione per rinnovare l’importanza di alcuni concetti di valore intramontabile. Gli psichiatri seguono il loro cammino come esploratori che girano intorno alla meta, le si avvicinano, sentono di passarle accanto, ma presi tra trasformazioni e contraddizioni, comprendono bene che le ampiezze del pensiero sono spesso in contrasto con le angustie della quotidianità clinica. Ciò che ci appare più utile ancora dei concetti e dei fatti narrati è il corso di tutto il cammino e di una lunga esperienza dal 1904 al 1978, fino ad oggi, raccontata con fedeltà a se stessi ed al proprio pensiero. Seguendo una naturale evoluzione, alcune idee forti del passato hanno poi perso importanza negli interessi, nella cultura e nella vita professionale degli psichiatri, nel ripetersi di un virare che spesso, anche nella nostra storia più recente, ha portato a correggere e modificare gli obiettivi. Non si può trascurare di riflettere e di prendere consapevolezza di ciò.

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Bibliografia 1. Balduzzi E., L’albero della cuccagna. 1964-1978. Gli anni della psichiatria italiana, edizioni Stella, Rovereto 2006. 2. Barison F., Proposte dei medici di ospedali psichiatrici per la riforma psichiatrica, in “Sanità mentale ed assistenza psichiatrica”, a cura di G. Bucciante, Accademia Italiana di Scienze Biologiche e Morali, Roma 1965, p. 129. 3. Battaglia S., Grande dizionario della lingua italiana, vol. VIII, UTET, Torino 1973, pp. 609-610 4. Brodskij L, Fuga da Bisanzio, Adelphi, Milano 1987, p. 31. 5. Callieri B., Frighi L., Psichiatria preventiva e psichiatria sociale, in “Sanità mentale ed assistenza psichiatrica”, a cura di G. Bucciante, Accademia Italiana di Scienze Biologiche e Morali, Roma 1965, p. 115 6. Canosa R., Storia del manicomio in Italia dall’Unità a oggi, Feltrinelli, Milano 1979. 7. Chapireau F., Handicap psychique: confirmation ou moutation du handicap à la française? Encycl. Méd. Chir., Psychiatrie, 37-910-A-10 2006 8. Daumezon G., La situation du personnel infirmier des asiles d’aliénés, Thèse de médecine, Doin, Paris, 1935 9. Finkelstein C., Canneva J., Van Amerongen P., Association d’usager en santé mentale. Troubles psychiatriques de la Personnalité, Encycl. Méd. Chir., Psychiatrie 37-957 A 60 p.5 2006 10. Goffman E., Asylums, Einaudi, Torino 1968 11. Gozzano M., La riforma della Legislazione Psichiatrica in Italia: 1904-1965, in “Sanità mentale ed assistenza psichiatrica”, a cura di G. Bucciante, Accademia Italiana di Scienze Biologiche e Morali, Roma 1965, p. 27. 12. Kottler C., Gouyon J., Senninger JL., Robbe G., Unitée pour malades difficiles, Encycl. Méd. Chir., Psychiatrie 37-952-A10 1998 13. Omnis L, Lo Russo G. (a cura di), Dove va la psichiatria? Pareri a confronto su salute mentale e manicomi in Italia dopo la nuova legge, Feltrinelli, Milano 1980 14. Orsini B., 180. Vent’anni dopo, Varazze 1998. 15. Padovani G. Istanze fondamentali ed istanze accessorie per la riforma della legge sull’assistenza psichiatrica, in “Sanità mentale ed assistenza psichiatrica”, a cura di G. Bucciante, Accademia Italiana di Scienze Biologiche e Morali, Roma 1965, p. 159 16. Stanton A.H., Schwartz M.S., The mental hospital. A study of Institutional participation in mental illness and treatment, New York 1954. 17. Vidon G et al., Thérapeutiques institutionnelles, Encycl. Méd. Chir., Psychiatrie, 37-930-G-10 1989.

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3.3 Le associazioni di familiari e i gruppi di auto - aiuto a cura di Lisetta Buzzi Reschini3 3.3.1 Le Associazioni di familiari di Lisetta Buzzi Reschini

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Un po’ di storia Le associazioni di familiari, di amici e di volontari interessati alle condizioni dei malati psichici hanno una storia recente correlata alla deistituzionalizzazione, un processo di cambiamento radicale dell’assistenza psichiatrica sviluppatosi nella seconda metà del novecento e che ha riguardato un po’ tutti i paesi dell’occidente dall’Europa agli Stati Uniti. Da un punto di vista formale questo cambiamento è sancito dalle modifiche delle legislazioni dei vari paesi, che hanno innescato processi che hanno avuto diverse evolutività, diversi gradi di attuazione, ma che rappresentano comunque espressioni di volontà politiche e di una nuova filosofia per l’assistenza e la cura di questo tipo di disturbi. Negli USA il Community Mental Healt Center et Retardation Act del 1963 era stato così commentato da J.F.Kennedy: “Con questa legislazione Centri terapeutici rimpiazzeranno le Istituzioni psichiatriche custodialistiche. Nell’arco di uno o due decenni sarà possibile ridurre alla metà o più il numero dei pazienti che si trovano in ospedale: questa nuova legge ci da gli strumenti per farlo.” In Gran Bretagna il Mental Healt Act del 1959, completato nel 1963 dal Healt and Wefare: the Development of Community Care e dal Hospital Services for the Mentally Ill, prevedeva l’inserimento della psichiatria negli Ospedali Generali, la proposta dell’abolizione degli Ospedali psichiatrici e la creazione di servizi alternativi, poi, con atti successivi meglio specificati. In Francia nel 1960, con atti del Ministero della Sanità ci fu l’ufficializzazione della psichiatria di settore (termine che corrisponde a quella che in altri paesi è denominata psichiatria di comunità). In Italia c’è dapprima la timida legge 431 sui ricoveri volontari in ospedale psichiatrico e poi, nel 1978, la legge 180, nota come riforma Basaglia, ultima venuta ma, rispetto alle altre legislazioni, molto più radicale. Tutte queste legislazioni sono l’avvio della “liberazione” dalle precedenti situazioni istituzionali, hanno però evocato timori di vuoti nell’assi3

Presidente del Co.P.A.Sa.M (Coordinamento Provinciale Associazioni per la Salute mentale di Varese)

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stenza o li hanno anche realmente determinati, con conseguente induzione di situazioni abbandoniche e di maggiori oneri e disagi per le famiglie. Alcune legislazioni, come quella americana hanno cercato anche di prevenire questi rischi, prevedendo un affidamento comunque ai Servizi Sociali della comunità e l’istituzione di un case menegment con la precisa responsabilità di un case menager (in genere un assistente sociale). Compiti del case menager avrebbero dovuto essere: - presa carico di tutti i complessi problemi dei propri clienti - far da tramite, in caso di necessità cliniche, per i contatti con i Servizi psichiatrici - monitoraggio delle prestazioni da questi fornite - tutela e difesa (advocacy) per eventuali difficoltà che avessero a determinarsi Proprio per garantire, in senso più generale, la tutela e la difesa dei pazienti, in America, dove pure erano previste istituzionalmente, ma anche nei paesi nelle cui legislazioni ciò non era espressamente indicato, le famiglie, al fine di assicurare il rispetto di quelle che giustamente consideravano esigenze primarie, all’inizio degli anni ’60, furono spinte ad organizzarsi in associazioni. Negli USA nacque così la National Alleance for the Mental Ill, sulla base di un precedente esempio dell’Association for retarder Citizen e in Francia l’Union National des amis e familles de malades mentaux (UNAFAM), riconosciuta nel 1968 di pubblica utilità. Anche in Italia, dopo una primissima esperienza a Torino di un’associazione per la lotta al manicomio di Grugliasco del 1967, l’associazionismo delle famiglie ha avuto come motivazione la mutata legislazione, cioè la promulgazione e la prime applicazioni della legge 180. La prima di queste associazioni, nel mutato clima, è l’A.R.A.P. (Associazione per la Riforma dell’Assistenza Psichiatrica) fondata nel 1981 a Roma da familiari e amici di malati psichici che decisero di unirsi per far sentire la propria voce in contrapposizione alla Legge 180 ritenuta eccessivamente “politica” e non in grado di sopperire agli effettivi bisogni dei sofferenti psichici. Fra gli obiettivi principali posti: “La promozione di sostanziali modifiche della legge la cui inadeguatezza ha prodotto la crescita della cronicità psichiatrica, l’abbandono a sé stessi soprattutto dei malati più bisognosi, un eccessivo carico alle famiglie”. L’associazione sin da subito si dette da fare per migliorare le possibilità di cura e di assistenza dei malati psichici e per fornire appoggio ed aiuto ai loro familiari.

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Oltre all’A.R.A.P. nacquero poi via via altre associazioni, tanto che già nei primi anni ottanta si ritenne opportuno dar vita a un Coordinamento Nazionale della associazioni e nel 1993, dopo un processo pluriennale di contatti, incontri e consultazioni fra un gran numero di realtà associative, all’l’U.N.A.Sa.M (Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale). Oggi l’U.N.A.Sa.M rappresenta oltre 20.000 famiglie distribuite su tutto il territorio nazionale ed è nel direttivo dell’EUFAMI (Associazione europea dei famigliari) e della WAPS (Associazione mondiale per la riabilitazione psicosociale), che si sono nel frattempo costituite. Obiettivi dell’ U.N.A.Sa.M sono: favorire e sollecitare la piena attuazione della Legge di Riforma Psichiatrica n. 180 e della Legge di Riforma Sanitaria n. 833, dei Progetti Obiettivo Nazionali Salute Mentale, delle Linee Guida Ministeriali del 2008 e delle raccomandazioni della Conferenza Ministeriale europea sulla salute mentale di Helsinki del 2005. Promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, essa impegna tutte le nazioni dell’Europa in un Piano vincolante che sposta l’attenzione dalla “malattia” alla “persona”, ai suoi bisogni e diritti, con interventi mirati anche al suo contesto di vita, alla rete di appartenenza, ai gruppi sociali di riferimento. Questi sono (o dovrebbero essere): - la disponibilità di aiuti materiali e sussidi economici, anche transitori, per avere un reddito che consenta una vita dignitosa; - condizioni di habitat soddisfacenti: la propria casa, la possibilità di accedere ad appartamenti - comunità e residenze transitorie (protette o semiprotette), nelle fasi della vita di particolare bisogno; - l’inserimento lavorativo in rapporto alle proprie esigenze, capacità e inclinazioni; - l’accesso all’istruzione, all’informazione e alla formazione; - l’accesso a contesti e occasioni di socializzazione. Nel piano viene riconosciuto che la salute mentale e il benessere mentale di una persona, sono fondamentali per la qualità della vita, incidono sulla produttività degli individui, delle famiglie, delle comunità e delle nazioni, rendono le persone capaci di sperimentare il vero significato della vita, permettono loro di esprimere la propria creatività e di essere dei cittadini partecipi e attivi. Il piano d’azione adottato invita gli Stati membri ad aumentare gli investimenti per la salute mentale, a stabilire politiche sanitarie e leggi basate sulle attuali conoscenze e considerazioni sui diritti umani e per il decennio 2005/2015 pone i seguenti obiettivi: - promuovere la consapevolezza e l’importanza del benessere mentale; - lottare collettivamente contro lo stigma, la discriminazione e l’ineguaglianza e responsabilizzare e sostenere le persone affette da problemi di

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salute mentale e le loro famiglie affinché possano partecipare attivamente a questo processo; - concepire e realizzare sistemi di salute mentale completi, integrati ed efficaci che inglobino la promozione, la prevenzione, il trattamento, la riabilitazione, le cure e il reinserimento sociale; - rispondere al bisogno di disporre di un personale di cura competente ed efficace in tutti questi campi; - riconoscere l’esperienza e la conoscenza delle persone che fanno e/o hanno fatto esperienza del disturbo mentale e dei familiari e di quanti coinvolti quale base importante per la pianificazione e sviluppo dei servizi di salute mentale. A Varese l’associazionismo dei familiari si concretizza nel 1989 con la nascita dell’ l’ADIAPSI, fondata da Ferdinanda Vischi e da un gruppo di familiari di malati in contatto con AIUTIAMOLI (Associazione Italiana Ammalati Psichici di Milano). Nascono poi negli anni altre associazioni di familiari e di amici delle persone con disagio psichico e tutte si riconoscono nelle Unioni Regionali che nel frattempo si sono costituite. In Lombardia questa è l’ U.R.A.Sa.M (Unione Regionale Associazioni di Salute Mentale). Tutte adottano come propri gli obiettivi espressi dalla conferenza di Helsinki. Nel 1998 le associazioni varesine decidono poi di costituire anche un Coordinamento Provinciale per la Salute mentale, il Co.P.A.Sa.M, unico in Italia, che oltre agli obiettivi anzidetti si è posto anche quello, veramente innovativo, di fungere da tramite fra le istanze delle Istituzioni e dei Servizi e quelle degli utenti e delle loro famiglie con un impegno diretto, anche per quanto riguarda aspetti organizzativi e attività inerenti la riabilitazione psicosociale e la lotta allo stigma, esercitando nel contempo anche una supervisione dei diversi interventi di volontariato. Le associazioni oggi aderenti al Co. P.A.Sa.M. sono ADIAPSI di Varese e di Busto Arsizio AMICI DEL CPS DELLA VALCERESIO di Arcisate ATAP Tradate AsVAP4 di Saronno SPES di Varese SOMSART di Comerio ARETE VARESE TARTAVELA Laveno e Valcuvia

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Il Co. P.A.Sa.M: cos’è, come è nato, cosa significa nella realtà varesina Il Co.P.A.Sa.M nasce ufficialmente l’11 giugno 1999. Questa è la data della registrazione dello statuto. Il Coordinamento fra le associazioni inizia però molto tempo prima. In un certo senso è una “emanazione” del Gruppo di lavoro provinciale per la Salute Mentale. È all’interno del GLP che le associazioni iniziano infatti a incontrarsi periodicamente; è questo tavolo di lavoro che fornisce loro l’occasione di conoscersi e l’opportunità di confrontarsi, dapprima, quasi con titubanza e persino con diffidenza, ma poi sempre di più con la consapevolezza che, qualunque fosse la loro provenienza o composizione interna (associazioni di familiari, di volontari, di utenti), gli obiettivi che le accomunavano erano gli stessi e gli interlocutori a cui si rivolgevano anche. La realizzazione della Guida alle risorse psichiatriche in provincia di Varese promossa dal GLP e pubblicata nel 1998 grazie al finanziamento dell’Assessorato Provinciale alle Politiche Sociali, costituì la prima occasione di incontro. Le associazioni si riunirono fra loro per confrontarsi allo scopo di offrire all’esterno un’immagine che corrispondesse alle loro singole peculiarità, ma al contempo unitaria, quale risorsa appunto, al fianco dei Servizi psichiatrici, delle Istituzioni. Fu la consapevolezza di quanto stava avvenendo, dei grandi mutamenti a livello legislativo per quanto riguardava la psichiatria e la sanità più in generale, che insinuò l’idea / necessità di unirsi a tutti gli effetti in un Coordinamento provinciale. Il primo incontro informale, ma però ugualmente verbalizzato, è quello del 28 gennaio 1998 nell’attuale sede di Piazza Canonica a Varese. Si decise qui, anche alla luce della Legge Regionale sul Riordino del Servizio sanitario (L.31) e delle sue ripercussioni sul territorio provinciale, di costituire un Coordinamento provinciale delle associazioni di familiari, di volontari e di utenti attive nel settore della salute mentale In quel momento di grandi trasformazioni si percepì come necessario avere una visione globale di quanto stava accadendo sul territorio, per condurre un intervento meglio coordinato delle diverse forze e come detto, fungere da tramite fra le istanze delle Istituzioni e quelle degli utenti e delle loro famiglie, esercitando al contempo una supervisione dei diversi interventi di volontariato. Il Co.P.A.Sa.M. si presenta ufficialmente per la prima volta all’Ospedale di Cittiglio (2 aprile 1998), in occasione della edizione di un opuscolo sulle invalidità realizzato da quei Servizi.

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Società e assistenza psichiatrica. Aspetti della sua evoluzione nel ’900

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È un’opportunità pubblica preziosa, che vede riuniti i direttori delle Aziende Ospedaliere e dell’ASL di Varese, l’allora Assessore provinciale Orlini, i responsabili delle Unità di psichiatria. Fu dato mandato a Lisetta Buzzi Reschini, presidente dell’associazione Amici del CPS della Valceresio, quale rappresentante del Co.P.A.Sa.M. (che non aveva ancora, ovviamente un presidente) di annunciare la nascita di questo organismo e di illustrarne le finalità che sono: • Promuovere ogni iniziativa tendente, sia direttamente che indirettamente, alla tutela delle persone sofferenti di disagio psichico e delle loro famiglie • Coordinare le attività delle Associazioni di volontariato e di familiari attive nel campo della Salute mentale • Attivare tutte le risorse istituzionali propositive ad una corretta cultura della salute mentale • Promuovere tutte le attività finalizzate a curare e riabilitare le persone sofferenti di disagi psichici, a favorirne l’inserimento nella società ed a svolgere attività di prevenzione • Raccogliere, elaborare e divulgare notizie riguardanti la situazione delle attività e delle strutture per la Salute mentale Da quel giorno il Co.P.A.Sa.M. inizia a muovere i suoi primi passi. Sono le associazioni tutte insieme a tracciare la strada e a riceverne a loro volta indicazioni utili sul percorso individuale da seguire. Nel novembre 1998 esce la Guida alle strutture psichiatriche della Provincia di Varese firmata dagli psichiatri Marco Bellini, Isidoro Cioffi e da Lisetta Buzzi Reschini che, fra le altre cose, annuncia la nascita del Co.P.A.Sa.M e ne pubblica il logo. Pochi giorni dopo, il 3 dicembre 1998, il GLP e l’Assessorato alle politiche sociali della provincia promuovono un incontro pubblico importante. Il tema è: Il piano di superamento dell’ex OP: come costruire il rapporto tra le strutture nuove nel territorio e le famiglie? Il Co.P.A.Sa.M. fa sentire la sua voce con un intervento dal titolo: Timori e attese dei familiari. Momenti importanti, di alta tensione e di grandi attese. Le associazioni, i familiari, gli utenti, erano rappresentati da un unico soggetto attivo, un interlocutore universalmente riconosciuto e in cui tutte le associazioni si riconoscevano, da cui non si prescinde ormai più in provincia quando si parla di salute mentale. In quei giorni in cui finalmente cambiava la storia e si chiudevano, con vent’anni di ritardo, i manicomi, gli ex O.P., le associazioni volevano vigilare affinché il processo di superamento di quelle strutture si trasformasse

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

in un reale percorso terapeutico - riabilitativo, per poter contrastare ogni nuova eventuale forma di istituzionalizzazione all’interno delle nuove strutture residenziali. Le associazioni facevano in tal modo propria la premessa del Progetto Obiettivo 1998-2000 e rivendicavano “il loro ruolo attivo e il loro valore fondamentale come risorsa al fianco delle équipes dei servizi psichiatrici.” Si ponevano come soggetti pronti a un auspicato dialogo costruttivo fra Associazioni e Istituzioni.

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Il Co. P.A.Sa.M e la lotta allo stigma Fra le attività di maggior rilievo svolte dal Co.P.A.Sa.M, e realizzate con i Servizi nell’ambito di iniziative nate ed elaborate nel GLP del quale sono membri attivi il Co.P.A.Sa.M e tutte le associazioni, c’è la lotta allo stigma. Parte nel 2003 la lotta al pregiudizio e allo stigma, condotta nelle scuole superiori della provincia di Varese. Diventa ufficiale e coordinata nel 2004, facendo propria la Campagna Nazionale contro lo Stigma verso le persone che soffrono di disturbi mentali, lanciata il 3 dicembre 2004 dal Ministero della Salute. Da allora, questo percorso non si è mai arrestato. “La scuola contro il pregiudizio” è diventato lo slogan che caratterizza tutti i progetti svolti con gli studenti negli anni, che hanno spesso trovato momenti di premiazione nella Giornata nazionale della salute mentale. Lo stimolo fornito dalle associazioni aderenti a U.R.A.Sa.M Lombardia e dal suo allora presidente, Eugenio Riva, nel 2003, trovò infatti a Varese un terreno particolarmente predisposto, grazie anche e soprattutto alla presenza del GLP. In armonia con la Campagna Nazionale contro lo Stigma del Ministero, grazie anche all’indispensabile sostegno fattivo del Provveditorato agli Studi (l’attuale Ufficio Scolastico del Territorio) subito ottenuto, furono organizzati i primi seminari: giornate di formazione per docenti e studenti in alcune scuole superiori del territorio dei tre Dipartimenti di Salute Mentale di Varese, Busto Arsizio - Saronno e Gallarate. Questo tipo di seminari hanno costituito e costituiscono una parte importante della lotta allo stigma in quanto consentono una più corretta conoscenza delle cause del disagio mentale e delle sue manifestazioni, delle modalità con cui affrontarlo e superarlo e delle strutture cui fare riferimento.

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Ciò non solo per rendere più disponibili le attuali maggiori possibilità di un suo corretto e idoneo affrontamento, ma soprattutto per cominciare, proprio dalla scuola, ad abbattere tutta la serie di pregiudizi che ancora pervadono la cultura e la società e a promuovere una cultura dell’accettazione. Sempre nel 2004, con un’iniziativa complementare ai seminari, in linea con le indicazioni della legge 388 del 2000 riguardante il Programma nazionale di informazione contro lo stigma e il pregiudizio in tema di salute mentale e delle direttive ministeriali per l’indizione della Giornata nazionale della Salute Mentale, il GLP, bandì anche un concorso letterario per le scuole superiori della città di Varese: La scuola contro il pregiudizio, volto a promuovere i concetti indicati e in particolare quello della curabilità dei disturbi mentali. Negli anni successivi i seminari si sono ripetuti e le associazioni e gli esperti hanno continuato a entrare nelle scuole estendendo notevolmente il raggio d’azione, il numero e la tipologia delle stesse. Nel 2007 fu lanciato un altro concorso, Le voci del Silenzio. La scuola contro il pregiudizio, allargato a più scuole superiori della provincia, caratterizzato dall’utilizzo, con il contributo efficace degli studenti del Liceo Artistico Frattini di Varese, di un ulteriore forma espressiva oltre alla parola: quella pittorica. Entrambi i concorsi furono un successo. L’espressione libera degli studenti, diventata racconti, pagine di diario, poesie, cominciò a dimostrare loro che molti di noi, nella nostra vita, nella nostra interiorità sperimentiamo condizioni di disagio, che le differenze del tipo di disagio non giustificano emarginazioni determinate da noi stessi e dagli altri, che importante è trovare le parole per esprimerlo e trovare qualcuno che possa ascoltarci ed eventualmente aiutarci. Ne è uscito un bellissimo libro. Il secondo concorso ha dimostrato ai giovani studenti che anche altre forme espressive possono consentire di comunicare e comprendere il disagio psichico e rendere esprimibile ciò che per alcuni poteva essere ineffabile, indicibile o incomprensibile. La conclusione è stata una bellissima mostra con vere e proprie opere d’arte a villa Recalcati a Varese, sede Provincia, inaugurata dal prefetto, in occasione di un convegno promosso dal GLP per il 30° anniversario della legge 180 e una giornata di premiazioni, nell’aula magna dell’Università dell’Insubria, in cui studenti, persone in carico ai Servizi e atleti della UISP (Unione Italiana Sport per Tutti) si trovarono insieme per una grande festa.

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Ospite d’eccezione in quell’occasione fu Enzo Iacchetti che contribuì anche, con la presentazione di un suo breve cortometraggio sul tema, a dar significato alla giornata e ad allargare la partecipazione alla manifestazione. I seminari sono per noi ormai diventati una modalità sperimentata ma sempre rinnovata di approccio al problema. Spesso sono ora le scuole a chiederli perché oltre che uno strumento di lotta allo stigma, intesa nella sua valenza culturale sono diventati anche spesso una modalità di evidenziazione e di affrontamento, su un piano sociale, di situazioni di disagio giovanile in alcune scuole particolarmente presente. Anche i concorsi sono continuati, con ulteriore allargamento dei linguaggi espressi, che da letterari e pittorici sono diventati anche grafici, fotografici e video, per consentire a ciascuno di esprimersi utilizzando al meglio le proprie abilità, competenze e propensioni. Esempi ulteriori di occasioni di incontro con il mondo giovanile e non solo che hanno dimostrato il cambiamento di clima che si venuto a creare sono stati nel 2010 l’evento per festeggiare i 90 anni di Edoardo Balduzzi, uno degli esponenti del rinnovamento psichiatrico degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, fondatore e membro tuttora attivo del GLP, nume tutelare di molte delle associazioni di familiari e la manifestazione del dicembre 2011 all’auditorium di Gavirate a conclusione di uno dei progetti formativi. Nel primo, nella splendida cornice del Chiostro di Voltorre, nel quale era stata anche allestita una mostra sull’evoluzione storica dell’assistenza psichiatrica in provincia di Varese e di prodotti di arteterapia nelle varie strutture del territorio, il momento centrale è stata la presentazione - dibattito da parte dell’autrice Valeria P. Babini del libro Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del ’900. Nella manifestazione all’auditorium di Gavirate particolarmente significativo ed emozionante è stato ammirare studenti e pazienti dei Servizi che si alternavano al palcoscenico con le loro rappresentazioni teatrali e musicali, applauditi da centinaia di giovani. La conoscenza reciproca fa cadere il pregiudizio, aiuta a superare la paura del diverso, la diffidenza. Vergogna e stigma per la malattia mentale cadono più facilmente. Non può esistere vera riabilitazione senza lotta allo stigma. Qualsiasi percorso riabilitativo per potersi compiere non può prescindere da un contesto esterno capace di accogliere. Senza un ambiente sociale comprensivo e tollerante nessun risultato conseguito nel contesto riabilitativo potrà esservi esportato e mantenuto.

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Con queste nostre iniziative rivolgendoci ai giovani, agli studenti, stiamo gettando le basi perché un domani le persone, tutte le persone, possano esprimere nuove e più attente sensibilità, nell’ambito di una cultura del rispetto, della tolleranza e della comprensione partecipe.

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Breve presentazione delle associazioni aderenti al Co.P.A.Sa.M Il Co.P.A.Sa.M è le associazioni, una loro espressione. Quanto fatto dal Co.P.A.Sa.M è parte dell’attività da loro svolta. È però opportuna anche una breve presentazione per quello che sono nella loro specifica identità. Della primogenitura di ADIAPSI già si è detto e ancora si dirà nel capitolo riguardante il GLP, in cui troveranno una loro presentazione anche SOMSART e SPES. ARETE ha un suo autonomo più ampio spazio nella trattazione dei gruppi di auto aiuto. Di ADIAPSI (Associazione Difesa Ammalati Psichici) c’e da dire però ancora molto, prendendo spunto da quanto l’associazione dice di sé, per bocca del suo presidente Giovanna Binda, per quello che è stato il percorso associativo nei suoi ventiquattro anni di vita, per quella che viene considerata l’ esperienza fondamentale, per quello che l’associazione è oggi. Tre sono state, molto sinteticamente - dice la Binda - le fasi dell’evoluzione del rapporto associativo. La prima è stata la ricerca di una risposta a un bisogno puramente informativo e in questa fase compito dell’associazione è stato soprattutto quello di offrire una possibilità di conoscenza del disagio psichico con seminari, conferenze, lezioni. La seconda è stata quella dello scambio e del sostegno reciproco, con spostamento dell’attenzione dalla malattia alle risorse che è necessario metter in campo per affrontare le problematicità che il disagio psichico comporta. È la fase dell’incontro e dell’auto - aiuto. La terza è infine quella della piena valorizzazione delle risorse del familiare e del paziente, che è alla base di qualsiasi rapporto improntato all’efficacia dello scambio. Sono fasi – dice ancora la Binda - che mostrano una sorprendente coincidenza con il percorso interiore del singolo posto di fronte alla situazione del disagio che all’improvviso si presenta all’interno della famiglia. Nella vita associativa gli aspetti che la caratterizzano sono le esperienze personali all’interno del gruppo e le trasformazioni del gruppo attraverso i percorsi dei suoi membri.

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L’esperienza fondamentale è quella dell’incontro, incontro con persone che conoscono, per esperienza diretta la problematica del disagio psichico perché sanno cosa vuol dire essere la mamma, il papà, la moglie o il fratello di un paziente psichiatrico. L’associazione, il gruppo, diventa grazie ad esso il luogo privilegiato di conoscenze ed esperienze, il luogo della solidarietà e dell’azione.

Ma anche le altre associazioni hanno avuto ed hanno nel territorio un ruolo rilevante L’AsVAP4 di Saronno è un’associazione di volontari per l’aiuto agli ammalati psichici, nata nel 1994 con l’obiettivo “di favorire l’inclusione sociale dei nostri amici che soffrono di disturbi psichici e di dare supporto psicologico ai loro familiari.” Numerose sono le iniziative da essa attivate: corsi di informatica per imparare l’utilizzo del computer, gruppi di lettura di giornali o più culturali con attenzione alla poesia o alla musica, attività più manuali per la realizzazione di oggettistica e molte altre cose. Rilevante è stata poi l’attenzione all’auto - aiuto che a Saronno si è poi concretizzato nella nascita di Il Clan / Destino, un’associazione che ha avuto poi un rilevante autonomo sviluppo. “La nostra esperienza ci fa dire”, così riporta Goglio nel suo Quando 1+1 fa 3, “ che frequentando i nostri amici, si scopre, al di là di possibili disagi, la loro grande ricchezza umana e quanto la paura e la ghettizzazione, ancora purtroppo presenti tra le persone, non abbiano ragione di essere.” Amici del CPS della Valceresio di Arcisate è pure un’associazione di volontari, simpatizzanti, sofferenti psichici e familiari nata nel 1994 per promuovere iniziative a favore della salute mentale, svolgere opera di sensibilizzazione nei confronti del disagio e della malattia psichica in collaborazione con le Istituzioni e i Servizi, promuovere momenti di socializzazione e anche di approfondimenti culturali. “Ci basta poco” è il motto dell’associazione, suggerito proprio dai loro amici “tre parole che troneggiano al centro di una catena di persone che si tengono per mano” come ben si vede sul loro blog. ATAP di Tradate (Associazione di Tutela Ammalati Psichici) è nata poco dopo, nel 1996, ed è anch’essa un’associazione di familiari che ha sviluppato negli anni attività di sostegno, di solidarietà e di reciproco aiuto, ma anche di formazione, di informazione e di segretariato sociale. La loro evoluzione si è poi ulteriormente concretizzata con l’apertura, in locali messi a disposizione dal Comune di Castigliane Olona, del Centro “L’Incontro - Momento di Festa”.

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Infine Tartavela. Non è un’associazione autoctona essendo nata a Milano nel 1996 con l’obiettivo di concorrere alla realizzazione integrale del progetto obiettivo nazionale per la salute mentale ed è a Milano che concentra quasi totalmente la sua attività, che comprende anche la partecipazione ai vari livelli di coordinamento delle associazioni e alle attività di sostegno, aiuto e informazione promosse dal Comune. Nel nostro territorio è apparsa solo di recente, nel 2009, come associazione di familiari in Valcuvia e ha realizzato importanti sinergie con l’Unità Operativa del Verbano nella promozione di alcuni progetti tra cui il progetto “Tempo Libero” e il progetto “Amministratore di sostegno”. Nel 2012 ha anche aperto uno sportello sperimentale a Laveno per due giorni alla settimana. Bibliografia Finkelstein C., Canneva J., Van Amerongen P., Association d’usagers en santé mentale. Troubles psychiatriques de la Personnalité, Encycl. Méd. Chir., Psychiatrie 37-957 A 60 p.5 2006 Lang M. (a cura di), Strutture intermedie in Psichiatria, Ed. R Cortina, Milano 1982 Liberman R.P., La riabilitazione psichiatrica, Ed. R Cortina, Milano 1997 Muggia E., La famiglia di fronte alla malattia mentale, UNASAM, Documenti. Archivio www.unasam.it UNASAM, “Obiettivo salute mentale”. Il carico delle famiglie, la qualità dei servizi, il punto di vista degli utenti e loro famiglie. Ed. Carocci, Roma 2000

3.3.2 I gruppi di auto - aiuto di Giuliana Iannella e Clara Cantarelli4 La cultura dell’aiuto ai più disagiati, la solidarietà con chi soffre, è un principio morale, di civiltà, che ritroviamo in tutte le società organizzate, indipendentemente dal credo religioso, dalla storia o dall’area geografica di appartenenza. Si riallaccia a un sentimento profondo dell’uomo di misericordia e compassione verso i meno privilegiati dalla sorte. Il concetto di auto - aiuto è più recente.

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Volontarie e facilitatrici di gruppi di auto aiuto per persone con depressione e ansia, prima della Fondazione IDEA, poi di ARETE.

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Compare nella cultura anglosassone tra il IX e l’XI secolo, quando nascono le “Gilde”, associazioni di mutua difesa e assistenza. Alcuni secoli più tardi, tra il 1600 ed il 1800 nascono le “Friendly Societies” inglesi e i “Mutual Aid Groups” americani. Anch’essi precursori dei gruppi di auto aiuto, sono gruppi spontanei di solidarietà sorti per fronteggiare i problemi legati agli importanti cambiamenti sociali. Nel 1935, dall’incontro tra un agente di borsa e un medico chirurgo, entrambi dediti all’alcool, nasce negli Stati Uniti l’Associazione “Alcolisti Anonimi” e con essa ufficialmente l’auto - aiuto. Alcolisti Anonimi è oggi un’associazione diffusa in tutto il mondo, dalla quale si sono sviluppate esperienze di auto - aiuto per disagi di ogni tipo. Un’esperienza, diventata un vero e proprio modello di riabilitazione psichiatrica, tuttora diffuso in buona parte del mondo occidentale, è quella di “Fountain house”, associazione fondata nel 1948 a New York da un gruppo di pazienti ed ex pazienti di una struttura psichiatrica e dai loro familiari. Queste persone si incontravano non solo per sostenersi emotivamente, ma anche per trovare una soluzione ai problemi pratici quali la ricerca di un alloggio e di un lavoro. Ancora oggi le “Clubhouse Fountain house” si pongono come obiettivo il sostegno e il reintegro sociale e lavorativo. I gruppi di auto - aiuto si sono diffusi prima nel Nord America, nel Regno Unito e nel Nord Europa e, più recentemente (anni ’70) sono giunti anche in Italia. Rispetto alla cultura dell’aiuto, il principio dell’auto - aiuto è diverso e innovatore perché riscopre la volontà dell’individuo a trovare in sé la forza del riscatto, con l’auto - aiuto come emancipazione e risorsa personale. Ci si aiuta non solo ricevendo, ma dando aiuto, in modo paritario: chi riceve aiuto è sullo stesso piano di chi lo dà e si trasforma da soggetto passivo in protagonista attivo. Attualmente l’auto - aiuto è considerato un valido strumento di intervento sociale a sostegno di una svariata gamma di disagi. La sua attività è promossa e sostenuta da importanti istituzioni tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità che nel 1987 così lo definisce: L’auto - aiuto è dato dall’insieme di tutte le misure adottate da figure non professioniste per promuovere, mantenere o recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata comunità.

Nel tempo sotto il nome di auto - aiuto (alcuni parlano di auto - mutuo - aiuto) sono state collocate esperienze e metodologie diverse: ci sono

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gruppi formati da persone che condividono lo stesso problema e totalmente autogestiti, ci sono altri gruppi, sempre formati da persone con un problema comune, che hanno al loro interno anche un operatore professionista (psicologo, assistente sociale). In Italia questo secondo tipo di gruppo è piuttosto diffuso. I gruppi di auto - aiuto sono stati e sono importanti anche in psichiatria Esistono da anni in Europa, USA e Canada e sono quasi sempre gestiti dalle Associazioni di volontariato. Tali gruppi sono un elemento essenziale di una nuova cultura e di un nuovo approccio alla malattia mentale, basato sul concetto di maggior consapevolezza e responsabilità da parte del paziente e della sua famiglia e sono ufficialmente riconosciuti come strumento di recupero e di controllo della malattia e come difesa dalle ricadute. Sono raccomandati dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall’Alleanza Europea delle Associazioni di volontariato per le Malattie Mentali (GAMIAN), che ne sponsorizzano l’introduzione nei vari piani sanitari di salute mentale con relativo supporto economico. In particolare c’è un’ampia evidenza che i gruppi di auto - aiuto migliorano le capacità di relazione dei soggetti, che imparano a spiegarsi meglio, esprimere le proprie idee, argomentarle, riferire i propri stati d’animo e sensazioni ai familiari, agli amici, al medico curante con il quale a poco a poco instaurano un dialogo dialettico e fiducioso, che è la premessa per l’efficacia e il successo per qualsiasi tipo di trattamento e di cura. Inoltre, grazie all’esercizio di auto - aiuto, il paziente impara a monitorare meglio il suo stato di malessere, conseguire livelli di insight più adeguati, controllare meglio le proprie difettualità e il risultato sono condizioni di vita migliori e anche maggiori e più facili possibilità di ricupero e di reinserimento sociale. L’auto - aiuto in psichiatria, in senso più esteso, non riguarda però solo i pazienti. È anche un’ aspetto importante dell’attività delle associazioni di familiari e nella realtà varesina così è stato in tutte le associazioni. Un’associazione di auto - mutuo - aiuto in senso proprio, nata espressamente con questa finalità è Il Clan / Destino di Saronno, attivo dal 1997 all’interno di un CRA (Centro Riabilitativo di Alta Assistenza), con però una successiva amplificazione ed estensione dei suoi interventi Un aspetto particolare dei gruppi di auto - aiuto per quanto riguarda rilevanza e importanza è quello riguardante coloro che soffrono di un disturbo dell’umore o di ansia.

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In Italia tra i primi ad organizzare tali gruppi è stata la Fondazione IDEA (Istituto Depressione ed Ansia), sotto la cui egida sono sorti gruppi in varie città d’Italia già dagli anni ’90. La Fondazione IDEA nella realizzazione del progetto ha avuto come riferimento e mantenuto contatti con associazioni di paesi anglosassoni, Inghilterra, Irlanda e USA, quali “Aware” e “Freedom from fear”, tra le prime ad aver introdotto e valorizzato la pratica dell’auto - aiuto in campo psichiatrico. Per dar vita ai gruppi IDEA, è stata particolarmente curata la preparazione, con compiti di coordinamento, di facilitatori, tutti portatori del problema, con organizzazione di corsi di formazione ad alto livello (corsi para-universitari all’Università Statale di Milano-Bicocca e corsi presso l’Università di Roma) con esame finale. A Monza e Varese la promozione dei gruppi è avvenuta a partire dal 1996 e 2000, rispettivamente, per opera delle due autrici di questo capitolo, allora volontarie e facilitatrici di IDEA. Successivamente i due Nuclei locali di Monza e Varese della Fondazione si sono trasformati nell’associazione ARETE (Associazione Regionale per la Tutela e l’Emancipazione delle persone con depressione ed ansia), che ha continuato l’attività precedente dei gruppi mantenendone obiettivi e metodologie. Impegno dell’associazione ha continuato ad essere anche la formazione dei facilitatori attuata con la frequenza dei corsi IDEA, ma anche con altri momenti formativi quali i corsi AMA di Auto - Mutuo - Aiuto a Trento e Brescia e corsi della Fondazione Devoto a Firenze. Ma cos’è un gruppo di auto - aiuto? Auto - Aiuto significa aiutarsi da sé, scoprendo in se stessi capacità e strumenti che possono permettere di migliorare la propria condizione se adeguatamente sfruttati. Un gruppo di auto - aiuto è costituito da persone che hanno un problema od un obiettivo comune e che cercano di affrontare la realtà con le loro risorse, mettendo in comune le forze per superare ostacoli o situazioni che sarebbero difficili da gestire individualmente Nel gruppo le persone mettono in comune le loro sofferenze, ma anche le loro potenzialità e sono nello stesso tempo donatori e fruitori di aiuto. Vengono scambiate esperienze e informazioni. Viene fornito un supporto emotivo per combattere le difficoltà e superare l’isolamento e le paure. Le persone si offrono vicendevolmente solidarietà ed incoraggiamento e non si sentono più sole.

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Le caratteristiche del gruppo sono le seguenti: - di solito è costituito da un numero limitato di persone - prende in esame le richieste di ammissione di chiunque lo richieda - è organizzato in relazione a un problema specifico condiviso da tutti i membri - tutti i membri sono pari - è autogovernato, non dipende da una istituzione - l’azione è di gruppo, la meta è comune - i membri cooperano tra di loro - ogni membro si coinvolge personalmente al meglio delle sue capacità per il benessere di tutti - ogni membro assume personalmente la responsabilità delle proprie azioni e decisioni - la comunicazione nel gruppo è scambio reciproco di esperienze, informazioni ed emozioni tra tutti i membri. Non esiste dialogo a due. I processi che si determinano sulla base di questi presupposti sono lo sviluppo di un senso di appartenenza al gruppo e di identificazione con gli altri, una facilitazione nella comunicazione dovuta al fatto che i membri sono tutti uguali ed hanno tutti lo stesso problema, la caduta delle difese psicologiche, la nascita e l’ opportunità di momenti di socializzazione. Nasce così una “identità” di gruppo che fa sentire più forti nei confronti dello stigma sociale e aumenta l’autostima, per la consapevolezza di avere un ruolo attivo per la conquista del proprio benessere. Oltre a ciò è di particolare importanza nella crescita personale di ciascuno l’aiuto dato agli altri. Nel dare aiuto agli altri aiutiamo anche noi stessi, ci modifichiamo e correggiamo certi nostri comportamenti, apprendiamo nuove cose su di noi ed aumentiamo le nostre competenze. Altri aspetti di un gruppo di auto - aiuto sono: - il suo modo di costituirsi - il ruolo del facilitatore - il ruolo di eventuali operatori esterni - la gestione del gruppo - i rapporti con le istituzioni Un gruppo nasce per iniziativa di volontari e si fa conoscere. Il gruppo ideale dovrebbe essere di 8 -10 persone per permettere attenzione a tutti e scambi efficaci. Gli incontri sono in genere settimanali.

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L’ammissione al gruppo avviene dopo un colloquio col facilitatore o comunque con il coordinatore del gruppo, che si avvale in genere, per i casi complessi di psichiatri consulenti, in genere operatori dei Servizi, con cui valutare l’idoneità del gruppo a dare un aiuto efficace. In numerosi gruppi di auto - aiuto autogestiti è presente, figura già più sopra menzionata, un facilitatore, anch’egli con esperienza vissuta del problema comune, che in un clima di assoluta parità con gli altri membri, si occupa delle varie fasi organizzative e della comunicazione durante le riunioni. Nei gruppi dove invece è presente un operatore, è questi che assume di solito il ruolo di facilitatore. Quando nel gruppo sono presenti anche operatori esterni, questi, perché il gruppo funzioni, dovrebbero svestirsi del loro ruolo in modo da consentire e rendere più facile la crescita autonoma ed indipendente del gruppo stesso. Inizialmente possono agire da catalizzatori e organizzatori, ma poi dovrebbero staccarsene gradualmente o assumere un ruolo di “consulenti”. In Italia molti gruppi sono gestiti da un operatore (psicologo, assistente sociale, educatore). Per un buon funzionamento di un gruppo sono fondamentali possibilità e facilitazione di comunicazioni ordinate, disponibilità personali e possibilità di ascolto. Per la realizzazione di queste condizioni oltre alle motivazioni di ciascuno è fondamentale il ruolo del facilitatore, per regolare gli interventi e sintetizzarli senza sovrapporsi ad essi. È inoltre indispensabile da parte di tutti la riservatezza su quanto nel gruppo accade. Nell’esperienza varesina il gruppo di auto - aiuto di depressione e ansia di ARETE si è sviluppato avendo un preciso riferimento ai criteri su esposti. È un contenitore emotivo dove ciascun partecipante riversa le sue emozioni: dolore, fatica, gioia, speranza, tristezza, tutte quelle sfaccettature dell’anima che danno un senso alla nostra vita. È autogestito, cioè non sono presenti operatori professionisti (psicologo, assistente sociale) e tutte le persone che lo compongono soffrono o hanno sofferto di depressione e ansia, compreso il facilitatore, che ha esperienza diretta della malattia, ma ha imparato a curarla e gestirla e sta sufficientemente bene per affrontare con serenità ed equilibrio qualsiasi situazione si venga a creare nel gruppo.

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Alla solitudine e allo svuotamento emotivo che contraddistinguono la malattia, il gruppo contrappone forza, calore, vicinanza umana. La filosofia che lo caratterizza è molto semplice: il più forte da una mano al più debole, ma è vero anche il contrario, che è anche il più debole che da una mano al più forte, sullo stesso piano. E in questo gioco di domanda e risposta, dando e ricevendo aiuto, ciascuno esprime il meglio di sé: auto - aiuto appunto. I risultati ottenuti sia sul piano delle prevenzione che di supporto alle cure, sia come miglioramento della qualità della vita, sono il frutto dell’impegno che tutti i partecipanti hanno profuso. Un obiettivo infine dei gruppi è anche un rapporto con le Istituzioni di complementarietà e di sussidiarietà che dovrebbe essere ricambiata con un riconoscimento e con una loro ulteriore maggior valorizzazione, in quanto i gruppi, quali fautori di crescita personale e di autonomia delle persone sono anche attivatori di risorse e promotori di gestioni sanitarie più corrette e meno dispendiose. Bibliografia Cantarelli C, I gruppi di auto - aiuto, Quaderni di ARETE, Varese, 2009 Cantarelli C., Morselli PL, I gruppi di auto - aiuto IDEA, Ed Fondazione IDEA, Milano, 1999. Noventa A., Nava R.,Oliva F., Self - help, Ed. Gruppo Abele,.Torino 1990 Silverman P.R, I gruppi di mutuo aiuto, Ed. Erikson, Trento 2001

3.4 L’esperienza del GLP di Varese a cura di Mario Augusto Maieron La riforma sanitaria del 1978 aveva istituito come enti erogatori dell’assistenza sanitaria le USL (Unità Sanitarie Locali), in Lombardia denominate USSL (Unità Socio - Sanitarie Locali), essendosi voluto con ciò evidenziare la contestuale rilevanza anche di questo aspetto della sanità. Nello stesso anno era entrata in vigore la legge 180. Questi due eventi hanno radicalmente mutato i criteri dell’assistenza psichiatrica, con la completa cessazione, dopo un periodo transitorio conclusosi il 31.12.1980, di possibilità di ricovero in ospedale psichiatrico. In provincia di Varese le USSL erano nove e ad esse era stata attribuita la competenza per l’assistenza psichiatrica, sia per i trattamenti in regime di ricovero ospedaliero, che per le prestazioni nel territorio.

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Nel 1986 la situazione era la seguente: per l’assistenza psichiatrica erano state costituite tre Unità Operative Psichiatriche (UOP), con competenza su più USSL, che operavano, con indicazioni regionali, peraltro inizialmente assai incerte e lacunose anche per la novità dei problemi, in completa autonomia e senza alcun tipo di coordinamento e la riforma stava lentamente avviandosi tra molte difficoltà. Le UOP numerate dalla Regione in base a un criterio di ubicazione geografica regionale, erano le seguenti: - UOP n. 1 con competenza sulle USSL n. 1 (Luino), n. 2 (Cittiglio) e n. 5 (Angera), facente capo al Servizio Ospedaliero di Cittiglio, con primario Michele Mozzicato - UOP n. 2 con competenza sulle USSL n. 3 (Varese), n. 4 (Arcisate) e n. 7 (Tradate), facente capo al Servizio Ospedaliero di Varese, con primario Mario Augusto Maieron - l’UOP n. 3 con competenza sulle USSL n. 6 (Gallarate), n. 8 (Busto Arsizio) e n. 9 (Saronno), facente capo al Servizio Ospedaliero di Busto Arsizio, con primario Massimo Giovannucci. In quello stesso anno Edoardo Balduzzi, che era stato direttore dell’ ospedale psichiatrico dal 1964 al 1968, conclusa già da qualche anno la sua carriera nel Servizio Pubblico, era consigliere provinciale. A Varese, con riferimento a esperienze francesi di psichiatria di settore, aveva avviato una modalità di assistenza psichiatrica territoriale estesa a tutto l’ambito provinciale, anticipando di due decenni i nuovi criteri che si andavano delineando dopo la riforma e dopo Varese aveva avuto altre esperienze di direzione improntate al rinnovamento e al superamento dell’’assistenza manicomiale anche a Venezia e a Torino. Dopo la quiescenza, anche nella sua posizione politica, non aveva però mai abbandonato il suo interesse per la psichiatria, sia nei suoi aspetti teorici che organizzativi. La psichiatria ha rappresentato per lui e tuttora rappresenta, benché ultranovantenne, l’impegno prevalente della sua vita. Seguendo i processi di riorganizzazione dei Servizi, così come avvenivano, si rese ben conto che chiudere gli ospedali psichiatrici non significava di per sé superare l’emarginazione e la separazione in cui i loro ospiti, ma anche psichiatri e altri operatori, erano stati relegati e nemmeno sviluppare diversi criteri di cura e di riabilitazione. Perché questo potesse avvenire occorreva che i nuovi Servizi si inserissero nella rete sociale e riuscissero a modificare, trovando delle alleanze, un certo tipo di cultura.

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Si rese anche conto che non si trattava di un obiettivo facile e perseguibile a breve termine, che avrebbe richiesto tempi lunghi. Volendo ancora contribuire al rinnovamento in atto, la sua idea fu di proporre il coinvolgimento in questo processo innanzitutto dei familiari, visti non già come controparte ma come alleati e di cercare alleanze in tutto l’ambito della società civile. La sua ipotesi fu un gruppo di lavoro aperto, in cui questi soggetti interagissero con i Servizi, che avesse un riferimento istituzionale neutrale nella Provincia, da cui aveva avuto una provvisoria disponibilità di massima. Formulò la sua proposta ai primari delle Unità Operative Psichiatriche e alla sig. Ferdinanda Vischi, che come familiare stava lavorando per dar vita anche a Varese alla prima delle associazioni di familiari, l’ADIAPSI (Associazione Difesa Malati Psichici), concretizzatasi poi nel 1989. La proposta ebbe da subito l’adesione delle Unità Operative di Varese e di Cittiglio e dei familiari che nella Vischi avevano il loro riferimento. L’Unità Operativa di Busto Arsizio ebbe inizialmente delle difficoltà perché l’Amministrazione aveva delle perplessità a impegnare suoi operatori in attività non istituzionali. L’assenso venne però successivamente. Il concetto di gruppo aperto, che è una delle caratteristiche fondamentali di questa iniziativa, portò poi rapidamente all’allargamento della partecipazione alle varie associazioni di familiari e di volontari che via via si costituivano e a quanti direttamente o indirettamente erano coinvolti nelle problematiche dell’assistenza psichiatrica. È così che nacque nel 1986 il GLP (Groppo di Lavoro Psichiatrico), che poi negli anni successivi provò anche a modificare la propria denominazione in Gruppo di Lavoro Provinciale per la Salute Mentale. Il nome però ormai aveva travalicato gli ambiti locali da cui era partito con una notorietà che andava anche oltre i confini della Regione, per cui la sigla con cui è ancor oggi e noto e si definisce è GLP. È un nome che è diventato un simbolo del fare psichiatria in modo diverso da quelli che ancora molto spesso si incontrano, perché senza nulla togliere alle competenze istituzionali e ai rapporti che le singole Unità Operative intrattengono con il territorio nelle loro autonome iniziative si è posto come punto di incontro di persone e di associazioni che per le più varie ragioni sono interessate al rinnovamento psichiatrico, senza rapporti gerarchici e senza vincoli operativi, per consentire confronti, suggerimenti, proposte di iniziative e iniziative stesse. Pur svolgendosi nell’ ambito della Provincia non ne è un’emanazione.

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È viceversa un’espressione aperta e informale della società, in cui le persone per il loro interesse o per il loro ruolo e le associazioni rappresentano simbolicamente nodi di una rete, da estendere a un ambito sociale più vasto, in cui ricercare e avere correlazioni fruttuose. Volendo di questo gruppo fare succintamente la storia possiamo individuare nella sua evoluzione dei periodi, ciascuno dei quali ha avuto una sua caratterizzazione, dovuta all’evolversi del contesto, ma anche a scelte autonomamente assunte Questi periodi coincidono, grosso modo, con quelli dei coordinatori che si sono succeduti nella sua attività ultraventicinquennale, che sono stati però complessivamente solo tre: Edoardo Balduzzi, psichiatra, suo fondatore, dal 1986 al 1997, Giuseppe O. Pozzi, psicologo, allora responsabile del Servizio Sociale di Busto Arsizio, dal 1997 al 2002, Simone Vender, psichiatra, ordinario di psichiatria dell’Università dell’Insubria, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Varese, dal 2002 a tutt’oggi. Il periodo di Balduzzi è stato innanzitutto caratterizzato, essendo il periodo iniziale, da vari problemi connessi a ciò, che vanno dalla definizione dei rapporti con la Provincia, all’organizzazione delle modalità di funzionamento del gruppo stesso, alla scelta dei contenuti della sua attività. Balduzzi ha avuto l’intuizione del significato che poteva avere l’alleanza tra operatori dei Servizi, associazioni dei familiari e società di cui si è detto e ha indicato i caratteri generali del format e degli obiettivi. I contenuti specifici, gli argomenti da approfondire, da confrontare e da elaborare, sia per una presa di conoscenza, che per la formulazione di giudizi e di proposte sono stati per lo più presentati dai responsabili delle Unità operative e dalla associazioni dei familiari. La definizione dei rapporti con la Provincia si è resa necessaria perché, avendo la Provincia, con la riforma sanitaria del 1978 perso la competenza che prima aveva per la psichiatria ed avendo il gruppo superata l’occasionalità, per assumere una sua stabilità e continuità temporale, l’ospitalità e il supporto organizzativo che essa dava, doveva in qualche modo rientrare nelle sue competenze istituzionali. Questa competenza è stata individuata nell’ambito dei compiti di programmazione e di rilevamento di bisogni e risorse che le Provincie hanno mantenuto per le politiche territoriali e sociali. La competenza istituzionale della Provincia e la sua partecipazione al funzionamento del GLP, in vario grado nel corso degli anni, come poi si dirà, non hanno però mai menomato l’autonomia del gruppo nelle sue programmazioni e nelle sue attività

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Per quanto riguarda l’organizzazione interna del gruppo gli elementi essenziali sono stati la sua autodefinizione di gruppo aperto, di cui si è detto, l’egualitarismo e la pari dignità di tutti i componenti indipendentemente da qualifiche e appartenenze, la designazione di un coordinatore con il compito di stesura dell’ ordine del giorno, di regolazione delle discussioni, di predisposizioni per la stesura del verbale delle sedute, di promozione di rapporti esterni e di rappresentanza del gruppo stesso. La frequenza degli incontri, poi sempre mantenuta, è stata circa mensile. Per quanto riguarda i contenuti specifici delle trattazioni, essi, in tutto il primo periodo, sono stati prevalentemente di supplenza a carenze istituzionali, per la mancanza, in una fase come quella, di riorganizzazione dei Servizi, di una sufficiente informazione e discussione e di un coordinamento per aree provinciali o per lo meno subregionali. Le Unità Operative, oltre che i vertici delle proprie USSL, avevano come unico riferimento, senza altre intermediazioni, il Servizio di Psichiatria della Regione, peraltro sottodimensionato. Il GLP ha supplito a ciò in modo significativo, confrontando esperienze, formulando ipotesi, coinvolgendo in tematiche che solitamente non travalicavano ambiti istituzionali, anche i familiari e poi le associazioni che li rappresentavano e anche persone ed associazioni della società civile. Questa supplenza ha riguardato perfino aspetti organizzativi delle stesse USSL, perché la psichiatria e le attività sociali facevano capo a Servizi diversi solo debolmente e insufficientemente integrati: la psichiatria al Servizio di Medicina Specialistica e le attività sociali al Servizio Sociale. In questa fase è stato importante il contributo dell’Unità Operativa di Varese, diretta da Maieron, con Mozzicato e Ferdinanda Vischi, cofondatore del GLP, soprattutto perché lo stesso era anche, già da qualche anno, responsabile del Servizio di Medicina Specialistica e poi dal 1989 al 1993 Dirigente Sanitario Coordinatore dell’USSL 3 e come tale, membro dell’Ufficio di Direzione e del Comitato di gestione della stessa. In questa veste rappresentava un tramite diretto tra GLP e vertice dell’USSL 3 e poiché in rapporto a questi incarichi, aveva anche rapporti personali frequenti con gli Assessorati e i Servizi Regionali, molto ampi e facilitati potevano essere e sono effettivamente stati i flussi informativi e la trasmissione di pareri e idee che via via emergevano. I temi trattati nell’ambito del GLP riguardarono la riorganizzazione dei Servizi, il funzionamento dei CPS, le ipotesi di Comunità, ma soprattutto

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i problemi connessi alla riabilitazione nelle sue varie espressioni e al reinserimento sociale, da quello riguardante il lavoro, al tempo libero, a quello abitativo. E la ricaduta a livello istituzionale è stata notevole sia per quanto riguarda l’attività ordinaria che per proposte innovative (borse lavoro, programmi di soggiorno vacanze, prime realizzazioni di appartamenti protetti). Gli anni dal 1992 al i997 sono stati però poi anni di profonde modifiche dell’assistenza sanitaria. I decreti legislativi 502/92 e 517/93 hanno determinato i presupposti per i successivi provvedimenti attuativi delle regioni. La Lombardia l’ha fatto con la legge regionale 31 del 1997: “Norme per il riordino del servizio sanitario regionale e sua integrazione con le attività del servizio sociale”. Alle USSL, che erano organi della Regione funzionanti come enti strumentali dei Comuni, con competenza sull’organizzazione finanziaria e gestionale dell’assistenza, sono subentrate le ASL (Aziende Sanitarie Locali), con un territorio di competenza molto più vasto (nel nostro caso provinciale), con una propria personalità giuridica ed economica, come Enti Pubblici Economici con un’autonomia imprenditoriale. Contestualmente sono state create anche le Aziende Ospedaliere, con una propria autonomia finanziaria, sia pure interna all’ASL, che insieme a strutture private accreditate ed eventualmente contrattualizzate, sono diventate le erogatrici di prestazioni di ricovero e di prestazioni specialistiche. Questa riforma ha nettamente differenziato il momento programmatorio e di organizzazione generale dell’assistenza da quello gestionale di erogazione delle prestazioni e ciò ha riguardato anche la psichiatria. Il primo importante aspetto innovativo della riforma è stata una molto più articolata e approfondita organizzazione della programmazione con Dipartimenti ed Uffici a ciò specificatamente dedicati e la creazione di tavoli di consultazione e di confronto aperti a tutti i soggetti direttamente coinvolti nelle prestazioni dei servizi, con il coinvolgimento anche delle associazioni dei familiari. L’altro importante aspetto, riferito invece al versante delle prestazioni, è stata la riorganizzazione dei Servizi, con attivazione di due nuove Unità Operative, coincidenti con i pur essi nuovi Servizi ospedalieri di Gallarate e Saronno e con la creazione dei Dipartimenti di Salute Mentale, ridefiniti nella struttura organizzativa e nelle competenze, nell’ambito delle Aziende Ospedaliere (tre in provincia di Varese: Varese, Gallarate e Busto Arsizio),

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che hanno sostituito precedenti esperienze dipartimentali sperimentali, embrionali e sottodimensionate. Questa diversa organizzazione dell’assistenza, ha fatto venir meno ciò che fino a quegli anni, quindi per tutto il primo decennio di attività, era stato uno dei principali compiti che si era assunto il GLP, sia pure a livello parziale e informale: di essere punto di riferimento per l’informazione e un confronto. L’applicazione della legge regionale 31, soprattutto nella fase iniziale, più che gli effetti positivi, poi anche emersi, mostrò ben evidenti anche alcune negatività e limiti, che Balduzzi sottolineò nella prefazione di un libro di Giuseppe O. Pozzi di cui si dirà, quali l’abbandono di uno dei criteri, che nelle poche esperienze innovative della psichiatria italiana sembrava già modalità irrinunciabile: l’unitarietà dell’atto terapeutico dall’acuzie alla riabilitazione, sostituita invece da una frammentazione di strutture e di ipotizzati percorsi. Un’altra di queste negatività, che costituì per il GLP un vero pericolo, fu un impostazione molto burocratica e formale degli aspetti organizzativi dell’assistenza che rischiò di coinvolgere lo stesso GLP, per iniziative assunte dalla Provincia e da alcune Aziende Ospedaliere e di trasformarlo in un gruppo di lavoro di nominati, inquadrato nel sistema. Ciò è ben evidente nella delibera, di poco successiva, della Giunta provinciale (la n. 224 del 31.3.1998), che però per fortuna non trovò poi pratica attuazione e da alcuni limiti alla partecipazione di operatori dei Servizi, poi anch’essi superati. Altri importanti cambiamenti erano nel frattempo intervenuti sia nel contesto istituzionale che sociale. Dal 1994 la psichiatria varesina era diventata universitaria, con l’assunzione quindi di una posizione e di un ruolo che prima, nella sua dimensione ospedaliera, non aveva. Inoltre alla iniziale ADIAPSI molte altre associazioni di familiari e di volontari si erano aggiunte e ciò aveva comportato un cambiamento sostanziale della presenza dei familiari o dei volontari nel GLP che da personale era diventata di rappresentanza. Il GLP venne perciò a trovarsi in una situazione di crisi dovendo radicalmente rivedere alcuni dei cardini sui quali si era costituito e organizzato. Ciò che anche allora ne giustificò però l’esistenza fu il significato dell’alleanza tra istituzioni, famiglie e società civile che era ed è il suo fondamento e che andava oltre alle possibilità offerte anche dai nuovi assetti istituzionali.

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A questa situazione già molto problematica si aggiunse anche la necessità di un cambiamento nel coordinamento del GLP, perché Balduzzi per l’età e per problemi di salute ritenne fosse giunto il momento di passare la mano. E così fu, anche se poi Balduzzi del GLP continuò ad essere e ancora lo è membro attivo e partecipe con rilievi e proposte. Gli subentrò Giuseppe O. Pozzi, allora responsabile del Servizio Sociale dell’Azienda Ospedaliera di Busto Arsizio. La scelta di Pozzi, uno psicologo, come coordinatore del GLP ha avuto molti significati: quello di non legare obbligatoriamente il coordinamento a una professionalità, a un ruolo, a un territorio, quello di scegliere comunque una persona implicata e con una comprovata esperienza nella salute mentale (suo era stato proprio in quel periodo il percorso realizzato tra ospedale di Busto e territorio partito con il progetto Stanze di psiche e continuato con il programma permanente Atelier - laboratori espressivi di città), ma soprattutto quello di porre una sottolineatura sul sociale della psichiatria, con l’idea di investire in modo diretto proprio sulla cultura della società, per favorire un dialogo tra la città e i vari sistemi clinici, assistenziali e di volontariato che operano nella rete della salute mentale. Dice Pozzi a questo proposito: una rete che non si apra a un sociale più ampio se non incontra la cultura sociale in cui vive rischia di fare autogol. Rischia di rimanere impigliata nelle proprie maglie, aviluppandosi nei processi clinici e assistenziali senza tuttavia permettere ai pazienti che assiste una concreta possibilità di uscire dal cerchio in cui si sono venuti a trovare.

Sulla base di questi presupposti Pozzi ha dovuto affrontare la crisi del GLP in controtendenza. Lo ha fatto dopo aver sottoposto a tutti i componenti e inviato all’Amministrazione Provinciale di Varese un programma di lavoro teso a “collaborare con le risorse sociali e istituzionali per agevolare nuove formule di ricerca e di terapia.” Tra i vari programmi attuati proprio con l’obiettivo di trovare un incontro con la società civile, un impegno importante è stato un ciclo di seminari poi testimoniati nel libro La salute intellettuale e la città. Quali percorsi psicosociali? 5 con la presentazione di Edoardo Balduzzi. 5

Giuseppe Oreste Pozzi (a cura di) La salute intellettuale e la città. Quali percorsi psicosociali? – presentazione di Edoardo Balduzzi, Ed. Franco Angeli, Milano 2000

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Questi i temi: Dal manicomio alla programmazione sociale La realtà varesina dall’apertura alla chiusura del manicomio: il ruolo attuale dei quartieri e della città Cultura produttiva e salute mentale Le strutture residenziali in provincia di Varese Gli atelier laboratori espressivi di vita.

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Così Pozzi di questa esperienza: Questo ciclo di seminari è stato molto importante sia perché è stato realizzato grazie all’apporto di tutti i componenti del GLP, sia perché ha permesso di iniziare la costruzione di un dialogo con la città e con le varie istituzioni locali, nei vari paesi e nelle varie aree della provincia di Varese. Tale dialogo è stato reso possibile anche grazie ad una fase preliminare articolata attraverso una serie di conferenze organizzate nei vari ambiti territoriali dove venivano coinvolti gli operatori delle istituzioni locali, delle scuole, degli oratori, dei comuni che prendevano la parola assieme ai clinici che si occupavano delle questioni della salute mentale e dei servizi preposti alla diagnosi, alla cura ed alla riabilitazione dei malati mentali. Un laboratorio aperto alla popolazione, quindi, aperto alle istituzioni del territorio. Le varie associazioni di familiari dei malati si dimostrarono molto attive e coinvolte. Si poteva cogliere un interesse a farsi coinvolgere che di fatto otteneva due risultati significativi: le famiglie erano arruolate in una funzione di sensibilizzazione sociale che andava al di là della questione del proprio familiare in senso stretto; le famiglie percepivano l’importanza di poter appartenere ad un sistema sociale che permetteva loro di prendere la parola, di farsi sentire, di accorgersi che il sistema sociale poteva ascoltare anche loro attraverso le loro parole, poteva fermarsi e cercare di capire le loro istanze.

Esempi di ciò furono la partecipazione in modo attivo del Co.P.A.Sa.M., ricordato già dalla Buzzi Reschini, al dibattito riguardante la definitiva chiusura dell’ex Ospedale psichiatrico e il coinvolgimento nell’attività del GLP anche del livello regionale delle associazioni dei familiari, sia con partecipazione diretta di Eugenio Riva, allora presidente di U.R.A.Sa.M. ad alcune riunioni del GLP, che di concreto aiuto anche economico ad alcune delle iniziative.

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E conseguenza di ciò fu anche la divulgazione delle iniziative attuate e la rappresentazione di un GLP, come immagine simbolica esemplare di un modo diverso di far psichiatria Fu un lavoro quello di Pozzi che continuò fino al 2002, un lavoro di sensibilizzazione rivelatosi particolarmente utile anche in funzione di un programma che ebbe poi dopo il suo maggior sviluppo, quello della lotta allo stigma. Il GLP trovò poi un proprio modo per collaborare con i nuovi organismi territoriali per la salute mentale previsti dalla citata legge regionale 31/97 e un aiuto sostanziale in tal senso fu quello dato da Simone Vender anche grazie alle sue qualità e al ruolo universitario. Dopo Giuseppe O. Pozzi che, per ragioni personali, dovette poi lasciare, coordinatore del GLP, nel 2002, divenne infatti Simone Vender. Con lui il GLP ha allargato ulteriormente i suoi orizzonti, con un aggancio anche al mondo dell’Università e trovato una caratterizzazione molto più marcata della sua attività, nei contenuti e nelle modalità, per la sintonia tra potenzialità del GLP e alcuni capisaldi dei suoi interessi, del suo insegnamento e del modo di proporli. Aspetti di ciò, nell’attività del GLP nell’ultimo decennio, sono un dire che è sempre anche un fare, inteso come proposte e attuazione di iniziative proprie o come premessa o momento anticipato di conoscenza o partecipazione ad attività svolte dalle Unità Operative, dagli altri operatori del territorio e dalle associazioni dei familiari e del volontariato. Ciò senza rinunciare alla continuazione di scambi conoscitivi e di approfondimento teorico e pratico riguardanti le problematiche che vanno via via emergendo, anche con il coinvolgimento estemporaneo di persone e di operatori che per l’ attività svolta e gli interessi perseguiti possono portare validi contributi. Di questi aspetti ne sintetizzo i principali. In primo piano l’intensificazione della lotta allo stigma, con individuazione della scuola come settore privilegiato dell’intervento. Il rapporto con il mondo della scuola per questa finalità, superata l’occasionalità, è diventato ormai un impegno ordinario delle Unità Operative e delle associazioni dei familiari. Il GLP ha rappresentato e rappresenta la sede e il momento della formulazione dei progetti e dei programmi attuativi, costituiti da attività informative, ma anche da momenti di incontro e di confronto e di cose fatte insieme. Ad esse si sono fin dal 2003 aggiunti, come arricchimento, concorsi letterari evolutisi poi anche ad altri aspetti dell’espressività.

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Di essi un po’ già ha detto Lisetta Buzzi Reschini, parlando nel capitolo precedente delle attività del Co.P.A.Sa.M, di più dirà qui di seguito Roberto Bressani, dirigente medico dell’Unità Operativa di Varese, che con la stessa Buzzi Reschini e la dirigente scolastica Francesca Franz, in rappresentanza dell’Ufficio Scolastico del Territorio, è stato tra quelli che si sono per essi maggiormente impegnati. Un altro aspetto è stato il maggior coinvolgimento nell’attività del GLP dell’ ASL, di altre Unità Operative, come la Neuropsichiatria Infantile, sia pure limitatamente ad alcuni problemi convergenti e di altri Enti territoriali. Rappresenta oggi l’ASL nel GLP, come membro attivo e non più come ospite occasionale, Maria Grazia Ceriotti, dirigente responsabile del Servizio di psichiatria e neuropsichiatria. La sua presenza da significato e concretezza alle discussioni riguardanti temi istituzionali inerenti all’assistenza nel loro evolversi e nella loro ricerca di adeguatezza ai bisogni. Il coinvolgimento ha riguardato anche, per gli aspetti inerenti alla psichiatria, con riunioni dedicate, i responsabili o loro rappresentanti dei Piani di Zona, strumenti istituiti dalla regione Lombardia a livello distrettuale per la programmazione sociale e l’integrazione tra programmazione sociale e sociosanitaria, per approfondimenti ed evidenziazioni di criticità. Un ulteriore aspetto infine è stato l’allargamento del GLP alla partecipazione di associazioni riguardanti settori specifici della galassia psichiatrica come per esempio l’AIFA Lombardia per l’ADHD e un maggior coinvolgimento di associazioni di volontariato della società civile come UISP (Unione Italiana Sport per tutti). Tutte le iniziative assunte dal GLP come soggetto collettivo sono state attuate in sinergia con le associazioni di familiari e volontari, Unità Operative e altri operatori del territorio. Il rapporto tra questi vari attori è stato però un rapporto di reciproca valorizzazione anche per le iniziative autonomamente assunte da ciascuno di essi, in quanto il GLP si è arricchito delle idee e degli esempi che in esso venivano presentati, è stato però anche un diffusore, un amplificatore, un generatore di idee. Le iniziative con le scuole, per i molteplici significati che essi assumono, informativi, di confronto e anche di aiuto, il rapporto con i vari attori della rete sociale per finalità culturali e pratiche sono ormai usuali per tutte le associazioni e per tutte le Unità Operative.

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Di queste ultime, per ciascuna di esse, si deve però soprattutto ricordare l’impegno nell’interpretazione di un agire come psichiatria di comunità e nell’attività riabilitativa di recupero psicosociale. Mi riferisco a tutte le Unità Operative: di Saronno, del Verbano, di Varese, di Gallarate e di Busto Arsizio, tutte consonanti, a questo riguardo, con lo spirito e l’ideologia del GLP. Iniziative come quella di Marco Goglio dell’ utente che diventa facilitatore sociale nei CPS e nelle altre strutture buttando sottosopra l’usuale schema di relazioni, le sue recenti iniziative editoriali con le pubblicazioni Dottore non sono di psichiatria! e Quando 1+1 fa 3, la band La nuova risonanza di Massimo Airoldi, dove la parola psichiatrico è scomparsa, il rapporto con la città nell’evento Alla tua salute! con il coinvolgimento di una trentina di sue espressioni associative, sono esempi e lezioni per tutti. E altrettanto si può dire delle folli iniziative di Isidoro Cioffi nel Verbano, di apertura del reparto ospedaliero per farne di tanto in tanto, nelle notte folli di Cittiglio, il palcoscenico di un teatro, della folle corsa - incontro in riva al lago nella notte del plenilunio d’inizio estate, della sua capacità di catturare per i suoi incontri aperti al pubblico personaggi dello spettacolo e soprattutto per il suo grande amore per l’arteterapia come strumento di riabilitazione. La storia della psichiatria del Verbano ha avuto anch’essa una bella presentazione editoriale nel suo ventennale curata da Cioffi: La psichiatria nel Verbano (1981-2011). Il GLP di queste loro iniziative, in cui sempre rilevante è stata la presenza delle associazioni di familiari e di volontari, ha avuto l’onore di avere avuto in anteprima le anticipazioni e di essere stato un mezzo di divulgazione anche agli altri operatori della salute mentale. Anche Varese ha una storia, nell’ultimo decennio, ricca di iniziative nell’ambito della scuola, ma anche nel lavoro per l’accoglienza nella comunità, che spazia da giornate di sensibilizzazione e formazione a proiezioni cinematografiche aperte alla cittadinanza nelle strutture psichiatriche, alla partecipazione a manifestazioni in contesti pubblici organizzate da altre agenzie del territorio. Un po’ di questa storia l’ha ricostruita, per questo capitolo, Roberto Bressani: Nel corso dell’anno scolastico 2003/2004, nell’ambito locale della Valceresio che vedeva già allora un attivo rapporto di collaborazione tra Servizi Psichiatrici di zona e Associazioni per la Salute Mentale, il DSM dell’Azienda Ospedaliera avviò un lavoro di radicamento nel territorio e di lotta contro pre-

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giudizio e stigma promuovendo il concorso Disegnando Libera...Mente, sul tema del disagio mentale, rivolto agli alunni delle scuole elementari degli undici Comuni di valle. Poteva sembrare una scelta azzardata, per la difficoltà dell’argomento e per la giovane età degli studenti chiamati a esprimersi e invece i risultati andarono ben oltre le aspettative, con la partecipazione di venti classi di sei scuole e la pubblicazione di un volume con tutte le opere prodotte. Nel corso della manifestazione di chiusura e premiazione, al Teatro San Giorgio di Bisuschio, si poté verificare, nelle presenze istituzionali, nella numerosità e nell’attenzione del pubblico presente in sala e nell’entusiasmo di studenti e famiglie, tutto il successo dell’iniziativa. Questo primo significativo risultato motivò gli operatori sull’opportunità di tenere al centro del proprio operare un progetto permanente di lotta allo stigma e li confermò nel convincimento che tale scelta era non solo “contro” ma attivamente “per” qualcosa di essenziale al fine del buon esito degli interventi riabilitativi e cioè il lavoro di preparazione all’accoglienza. Accoglienza in senso generale, come creazione nella comunità di un clima favorevole sia nei confronti dei pazienti che delle iniziative dei Servizi tese al superamento delle barriere costruite appunto sul pregiudizio e sulla difficoltà ad accettare la diversità. La riabilitazione psichiatrica non può portarsi efficacemente oltre le mura dei suoi Servizi se il contesto sociale che deve riaccogliere non è in grado di restituire appieno il diritto di cittadinanza a chi ne è stato privato da una malattia per i più indecifrabile e inquietante. Per continuare a cimentarsi su questo terreno, dopo questa prima importante esperienza e grazie alla rete di collaborazioni e di conoscenze sviluppatasi, negli anni successivi si avviarono altre iniziative, concertate all’interno del GLP e finanziate da Regione Lombardia e Provincia di Varese su progetti presentati da Co.P.A.Sa.M., che mantenevano la scelta della scuola come luogo strategico di intervento e del concorso come strumento più idoneo per avvicinare e coinvolgere i giovani. Nell’anno scolastico 2004/2005 veniva promosso il concorso letterario Salute Mentale. La Scuola contro il Pregiudizio rivolto agli allievi degli istituti superiori della città di Varese: dopo l’espressione della creatività e della fantasia infantili attraverso la via del disegno, il passaggio alla parola scritta e ai sentimenti di giovani in un momento fondamentale e più adulto del loro percorso formativo. Nel Novembre 2007, in occasione della Giornata Nazionale della Salute Mentale, andava a premiazione un secondo concorso letterario Le Voci del Silenzio: la scuola contro il pregiudizio, sempre rivolto agli studenti delle superiori ma allargato a tutte le scuole della Provincia di Varese. Anche questa volta le composizioni venivano pubblicate in un bel volume che vedeva quelle premiate precedute e illustrate da un opera grafico - pittorica realizzata dagli studenti del Liceo Artistico di Varese: un concorso nel concorso che avviava con quell’Istituto un proficuo lavoro di collaborazione tuttora mantenuto.

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Infine, nell’anno scolastico 2008/2009, rimanendo sempre nell’ambito delle scuole superiori di tutta la provincia, il concorso Dal Silenzio alle Forme Espressive allargava i suoi spazi di proposta alle aree dell’espressione letteraria, grafico - pittorica, fotografica e video. In questo caso si andava a chiedere ai giovani di affrontare il tema del silenzio che spesso segna il rapporto tra il mondo della malattia mentale e quello della società nella quale essa si esprime. L’auspicio era quello che attraverso la loro creatività e l’utilizzo di plurime modalità espressive essi iniziassero a colmare quel silenzio, non con rumori o suoni discordanti, ma con parole, immagini, suoni, forme che, pur nella diversità dei linguaggi, esprimessero una cultura della conoscenza e dell’accettazione, della tolleranza e della comprensione.

Ma oltre alla scuola, grazie anche al ricco patrimonio di relazioni venutesi a creare, il lavoro per l’accoglienza ha avuto altre realizzazioni di cui Bressani riporta alcuni esempi: la realizzazione di una palestra all’aperto e di un percorso vita nella brughiera adiacente al Centro Diurno di Bisuschio, la partecipazione, in collaborazione con la UISP a tornei calcistici di rilevanza nazionale, le iniziative, in collaborazione con il Liceo Artistico di Varese, del Borgo d’Arte: nel 2012 “Il Muro nel Tempo” e nel 2013 i “Totem”, con le opere realizzate esposte permanentemente per il pubblico presso il CPS-CD di Varese.

Infine anche le molte iniziative del Dipartimento di Salute Mentale di Gallarate, con una proficua collaborazione dell’Unità Operativa Psichiatrica e dell’Unità di Psicologia e quelle del Dipartimento di Salute Mentale di Busto Arsizio Così presentano quelle di Gallarate Pasquale Campajola, Direttore del DSM e Fabrizia Bianchi, responsabile dell’Unità di Psicologia. Il GLP, come gruppo di lavoro aperto con il dialogo tra Servizi e associazioni di familiari, ha iniziato l’integrazione con la società civile, indicando il successivo percorso per una psichiatria di comunità. Gallarate, prima come USSL 6, poi come Azienda Ospedaliera ha preso parte alle sinergiche attività di divulgazione sull’operato e la promozione della salute mentale, sulla lotta allo stigma, sulla residenzialità, sul paziente grave e la sua qualità di vita, sui percorsi riabilitativi finalizzati al recupero dell’autonomia. Si possono ricordare, nel 2004/2005 il progetto innovativo di Marco Bellini, allora Direttore del DSM sull’accompagnamento all’autonomia, i progetti, pure inizialmente innovativi, di residenzialità leggera, attivati nel 2006 a Sesto Calende e Gallarate, gestiti direttamente dal Servizio, ampliati poi nel 2010, da Pasquale Campajola, subentrato a Bellini nella direzione del DSM, con una ulteriore attivazione a Somma Lombardo.

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Società e assistenza psichiatrica. Aspetti della sua evoluzione nel ’900

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A questi vanno poi aggiunti gli innumerevoli interventi di sensibilizzazione alla salute mentale quali le giornate di studio e seminari promossi nel territorio dall’Azienda ospedaliera di Gallarate con la collaborazione e la partecipazione dell’Università dell’Insubria. Questi i titoli: 2004 Cento anni di legislazione psichiatrica in Italia 2005 Salute mentale e Comunità 2008 Trent’anni dalla legge 180. Dalla residenzialità coatta alla residenzialità come progetto condiviso 2010 Il disagio giovanile, territorio di confine. Per tutti sono stati rilevanti la partecipazione, la presenza di esperti altamente qualificati, gli approfondimenti, le estese riflessioni che hanno consentito. Oltre a ciò, con la collaborazione di familiari, del privato sociale, di volontari, si sono attivati per tutto il triennio 2009/2012 interventi rivolti alle scuole del territorio, in consonanza con analoghe iniziative realizzate in altri ambiti della provincia, elaborate nel GLP.

Anche il Dipartimento di Salute Mentale di Busto Arsizio si è notevolmente impegnato nell’attività di sensibilizzazione del territorio, di prevenzione dello stigma e di promozione di una psichiatria di comunità nello spirito del GLP, sia con la direzione di Teodoro Maranesi che di Franca Molteni. Delle iniziative di Saronno già in parte si è detto. Sono da aggiungere quelle dell’UOP di Busto - Tradate, iniziate da Quirino Quisi e poi proseguite dalla Molteni. Esse si riferiscono soprattutto all’attività nelle scuole, sia con finalità preventive che educative e di sensibilizzazione culturale. IL CPS di Tradate aveva iniziato fin dal 2000 un’esperienza con il locale liceo scientifico, su richiesta di alcuni docenti, per un lavoro di approfondimento sul disagio mentale, sviluppatosi poi negli anni successivi con il liceo psicopedagogico (E. Proserpio e M.R. Stevenazzi). Ne è nato con il tempo un progetto sempre più strutturato che è servito da traccia per il lavoro su tutto il territorio del DSM. Si sono sviluppati interventi che hanno coinvolto gli ultimi due anni delle scuole superiori e molte sono le scuole che hanno aderito all’iniziativa. Le tecniche usate sono state molteplici, dalla fornitura di informazioni intorno alla malattia mentale al gioco dei ruoli, dalle rappresentazioni teatrali offerte dai pazienti a questionari sul concetto di benessere, da discussioni di gruppo alla visione di film. Sono sempre emerse interessati interazioni utili sia per gli studenti ma anche per gli operatori dei servizi.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Il rapporto con il mondo della scuola continua ed è significativo che in un recente corso per volontari, tenuto nel marzo - aprile di quest’anno dal CPS di Busto, molti di coloro che si sono iscritti erano stati studenti di un istituto tecnico dove più spesso era stato fatto un lavoro di sensibilizzazione contro lo stigma. A queste attività vanno aggiunti i programmi di residenzialità leggera attivati sia a Busto Arsizio che a Saronno. In provincia di Varese sono complessivamente 70 i posti attivati per questo tipo di programma. Si tratta di una nuova forma di assistenza riabilitativa, promossa dalla regione Lombardia, che cerca di coniugare, in forme diverse e con varie modalità, autonomia e bassi livelli di protezione, che possono favorire recupero di abilità, condizioni di vita più consone, reinserimenti lavorativi e sociali. Il concetto ispiratore dei programmi di residenzialità leggero è una interpretazione dell’assistenza e del recupero che privilegia gli aspetti psicosociali, per la rilevanza e la valorizzazione delle capacità di autonomia che permangono e la minimizzazione delle insufficienze che disturbi attivi o residuali possono determinare. Gestiti direttamente dalle Unità Operative oltre a quelli del gallaratese di Busto Arsizio e di Saranno c’è anche quello di Cassano Valcuvia dell’Unità Operativa del Verbano. Ma oltre a quelle facenti capo ai Servizi devono essere anche ricordate iniziative di altri operatori del territorio le cui attività direttamente o indirettamente sono riconducibili al GLP e all’ideologia da esso rappresentata, sia per la lotta allo stigma, sia e spesso ancor più, per i prevalenti impegni nella riabilitazione psicosociale. Un esempio è SOMSART, Centro Socio Culturale di promozione sociale, sorto nel 1992, con le finalità principali, tra le altre, di riabilitare persone con disturbi psichici e di promuovere iniziative volte al superamento della loro marginalizzazione e dello stigma Il rapporto tra SOMSART e il GLP è sempre stato un rapporto molto stretto, perché anche per SOMSART il promotore ideologico e culturale di questa iniziativa è stato fin dall’inizio Edoardo Balduzzi, allora coordinatore del GLP ed è questo un rapporto che tuttora perdura, importante ed efficace, con una presenza lucida e incisiva. L’attività riabilitativa svolta, che ha riguardato persone di ogni età e condizione sociale, è indirizzata soprattutto alla valorizzazione degli aspetti della comunicazione, con la ricerca di canali espressivi verbali e non verbali.

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Nel percorso riabilitativo, sono in genere questi ultimi (il disegno, la pittura e la scultura) ad essere scelti, nella fase iniziale del percorso, dalle persone coinvolte, perché meno dolorosi e nella loro dimensione metaforica, più tollerati. Il prosieguo del percorso è il laboratorio teatrale, inteso come strumento per un accesso non traumatico al proprio mondo interiore, fatto di emozioni, di tensioni, di pensieri, di ricordi, che grazie ad esso, possono trovare un loro ordine, una loro possibilità di essere accettati e soprattutto le parole per essere espressi. In queste attività psicologi, educatori, maestri d’arte, lavorano insieme agli utenti e con essi costituiscono gruppi vivi e vivaci in cui è la relazione e la partecipazione, a rigenerare, nell’essere e nel fare insieme, lo slancio e il senso del vivere. Chiaramente l’attività di SOMSART e i i risultati conseguiti, sono di SOMSART, della sua organizzazione, dei suoi programmi, non del GLP. Se c’è però una struttura che più di altre ha tratto ispirazione dal GLP, dallo spirito che Balduzzi aveva voluto in qualche modo infondere, questa è proprio SOMSART, che dal 1992 in poi del GLP è sempre stata, nella persona di Maria Grazia Crippa, membro attivo e partecipe. E un altro esempio è SPES, un’associazione promossa da operatori e familiari, tra cui Ferdinanda Vischi, che era stata la fondatrice di ADIAPSI e Maria Grazia Crippa di SOMSART. SPES è un’associazione che ha voluto aggiungere, nella scelta del suo nome, un ulteriore importante concetto a quelli della tutela e della difesa: quello della concreta speranza di un recupero e di un reinserimento sociale, con restituzione di dignità e di cittadinanza a persone che nell’emarginazione ancor più accentuano i loro problemi psicologici. Inoltre, programmi di residenzialità leggera, oltre a quelli gestiti direttamente dai Servizi, sono stati attivati anche dal privato accreditato: a Gavirate da parte della Coop. Soc. Aleph ITAca, a Gallarate dalla Cooperativa Sociale I Percorsi, a Venegono Superiore dalla Cooperativa Sociale Aretè, a Varese da AISEL - Il Mirtillo e da Mariner Uno a Villa Bernocchi. In quest’ultima il programma di residenzialità leggera attivato nel 2009, è, come già a Gallarate, il prosieguo di un progetto innovativo approvato e finanziato dalla Regione dal 2005. Di entrambi è stato promotore Mario Augusto Maieron che tuttora coordina l’equipe degli operatori, educatori professionali, ASA e OSS che nel programma di residenzialità leggera svolgono la loro attività. Va infine ricordato come esempio significativo di sinergia tra GLP, Servizi, associazioni di familiari ed Enti territoriali di promozione sociale il

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

particolare rapporto con UISP (Unione Italiana Sport per tutti), pur esso membro attivo del GLP, per le iniziative assunte. UISP è un’associazione che persegue come finalità l’estensione a tutti i cittadini del diritto allo sport in quanto bene che promuove la difesa della salute, il miglioramento della qualità della vita, l’educazione e la socialità. Nel territorio varesino è presente con più di 200 associazioni sportive aderenti e circa 15000 associati. Nei suoi obiettivi c’è ai primi posti la collaborazione con i Dipartimenti di Salute Mentale per essere parte attiva nella lotta allo stigma e al pregiudizio, ma anche nella riabilitazione e nel recupero di persone con disagio psichico. Proprio per questo è a pieno titolo membro del GLP. Tra le iniziative promosse e realizzate negli ultimi anni si possono ricordare: il campionato nazionale “Matti per il calcio”, il torneo provinciale “Lasciateci … scalciare in pace”, il quadrangolare di calcio con la presenza della squadra della Nazionale Scrittori, la manifestazione regionale “Sportivamente insieme”, i progetti di inserimento lavorativo di persone con disabilità nella gestione di impianti sportivi e i corsi / laboratori ricreativi, culturali e sportivi per il tempo libero. Oltre ai responsabili dei Servizi e ai rappresentanti delle istituzioni partecipano attualmente in modo attivo al GLP le seguenti associazioni: ADIAPSI (Associazione Difesa Ammalati Psichici) di Varese e Busto Arsizio AIFA Lombardia, associazione di genitori di bambini con ADHD AISEL Ente operante nell’ area delle tossicodipendenze e delle patologie psichiche con sede a Milano, ma con varie attività nella provincia di Varese AMICI CPS DELLA VALCERESIO di Arcisate ARETE VARESE (Associazione Regionale per la Tutela e l’Emancipazione delle persone con depressione ed ansia) ARTELIER (Associazione clinico culturale di volontari e cooperativa Sociale) ormai uscita dall’ ambito provinciale, con sede principale nel varesotto a Busto Arsizio AsVAP4 (Associazione Volontari per l’Aiuto agli Ammalati Psichici) di Saronno ATAP (Associazione di Tutela Ammalati Psichici) di Tradate Consorzio Sol. Co - cooperativa sociale - di Varese Cooperativa sociale il Giardino del Sole di Venegono Superiore Co.P.A.Sa.M. (Coordinamento Provinciale Associazioni per la Salute mentale) di Varese IL CLAN / DESTINO Associazione culturale di auto mutuo aiuto di Saronno SOMSART Centro socioculturale e di promozione sociale di Comerio

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Società e assistenza psichiatrica. Aspetti della sua evoluzione nel ’900

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SPES (Speranza, serenità), Associazione per la ricerca e l’intervento nel disagio psicofisico TARTAVELA, Associazione di familiari per la salute mentale di Laveno e della Valcuvia UISP (Unione Italiana Sport per tutti) di Varese

Il GLP è stato ed è tutto quello che si è detto. Importante per quello che ha fatto e fa, ma anche soprattutto per quello che significa La conclusione di questo capitolo la lascio però ai saronnesi: a Teodoro Maranesi, per molti anni, direttore del DSM di Busto Arsizio e dell’Unità Operativa di Saranno, attualmente direttore del DSM Luigi Sacco di Milano, ma saronnese ad honorem e al suo successore a Saronno Marco Goglio. Teodoro Maranesi è stato per molti anni uno dei membri più attivi del GLP, a cui ha portato la sua esperienza, la sua cultura, la sua passione per una psichiatria di comunità che ha trasmesso anche al suo successore. Teodoro Maranesi: All’inizio del 1997, un venerdì, mi recai a Varese per la mia prima riunione del GLP. Ero da poche settimane arrivato a Saronno. Provenivo da due anni di primariato in Valtellina, a Morbegno e Chiavenna, densi di lavoro e di impegno nella costruzione di una realtà associativa locale di volontari pazienti e familiari (oggi ben radicata nel territorio). Mi trovai nella splendida sede di Villa Recalcati, settecentesca sentinella del lago di Varese … Trovai un gruppo pensante ed operativo, forte di anni di esperienza. Strategica era stata l’idea di un insieme di forze che integrasse competenze, necessità ed interessi diversi ma complementari: dagli operatori ai familiari, all’associazionismo dei pazienti, agli enti locali, al mondo della scuola e della cultura, alle associazioni sportive, al mondo della società civile. Oggi credo che il GLP sia compiutamente tutto questo. Ha mantenuto fede negli anni alla sua istanza iniziale, quella di essere un momento di riferimento per le istituzioni senza essere esecutore di un mandato istituzionale, di essere uno stimolo critico senza essere un antagonista, di mantenere una libertà d’azione e di pensiero ed una specifica identità anche per la costante presenza di operatori con diverse professionalità e ruoli di responsabilità, di ricavare e conservare uno spazio non sovrapposto ad altri momenti istituzionali. Il GLP rimane esperienza duratura, unica ed eccezionale nel panorama lombardo e nazionale, figlio di un padre della Psichiatria di comunità, Edoardo Balduzzi, cui va un mio personale ringraziamento ed un caldo abbraccio!!

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Marco Goglio Ho conosciuto il lavoro del GLP quando ci si trovava nella stupenda cornice della Villa Recalcati. I motivi delle mie saltuarie presenze erano dovuti al bisogno di comunicare e di confrontarmi con altri Dipartimenti e con la realtà delle Associazioni, sullo sviluppo di iniziative riabilitative psicosociali che, nell’ambito di una Psichiatria di comunità, stavano consolidandosi sia a Varese che in tutta la provincia Con Maranesi, con Airoldi, con Gottardi prima e Colombo successivamente, abbiamo presentato la nascente associazione de “Il Clan / Destino” (Lisetta Buzzi Reschini è stata la prima ad accogliere e sostenere la nostra Associazione di utenti con un’intervista ai pazienti nel 1998), le varie iniziative di confronto e di prevenzione primaria in città e nelle scuole, le più recenti iniziative sugli utenti facilitatori sociali (esperti in supporto tra pari) e i percorsi di recovery. Per la mia esperienza, il GLP è sempre stato un luogo sia di confronto che di apprendimento. Il confronto è stato importante per comunicare, conoscere e condividere iniziative che da singole diventavano spesso comuni e si arricchivano del dibattito e dei contributi costruttivi del gruppo. L’apprendimento veniva dalla stessa partecipazione di soggetti diversi (operatori, familiari, utenti, volontari, insegnanti, gruppi sportivi) e proprio per la diversità e competenza differente potevano portare punti di vista e contributi nuovi. In particolare penso alla solida presenza del Co.P.A.Sa.M. e ai sempre ricchi contributi che le Associazioni di familiari e di utenti hanno portato. Negli anni successivi, questa modalità di confronto ha preso il nome di Fareassieme (da Trento) ma la prima sperimentazione di questo pensare comune l’ho incontrata proprio al GLP. Noi saronnesi, un po’ schiacciati tra la metropoli ed il confine sud della provincia, abbiamo potuto trovare nel GLP una possibilità di condivisione delle politiche comuni e quindi anche di appartenenza ad un gruppo di lavoro. Dal 2010, da quando Maranesi si è trasferito a Milano, ho seguito gli incontri mensili con continuità. Ho partecipato e discusso sulle molte iniziative culturali e sulla diffusione delle buone pratiche in salute mentale: dai convegni, alle conferenze ASL, alla promozione di eventi. Un altro punto sul quale il GLP è stato un grande motore è quello degli interventi di prevenzione in ambito scolastico. Il costante confronto sui temi da promuovere nelle scuole, sulle modalità di intervenire, sulle figure da coinvolgere è stato motivo di costante sollecitazione rispetto al tema della prevenzione primaria, che ci vede sempre disponibili ad apprendere. Ultimo punto, ma non ultimo per importanza, è la funzione di passaggio di informazioni che ha sempre caratterizzato il GLP. Le iniziative sempre creative del Verbano, i dibattiti e gli eventi del DSM e delle Associazioni varesine, le iniziative sportive, la comunicazione di serate

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Società e assistenza psichiatrica. Aspetti della sua evoluzione nel ’900

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o di convegni sono un importante momento per pubblicizzare la ricchezza di proposte di cui spesso, Associazioni e Servizi, si fanno promotori. In quest’ ottica abbiamo sempre sentito vicino e di grande sostegno il GLP anche per le iniziative che abbiamo promosso a Saronno sia per la partecipazione diretta di colleghi e Associazioni sia per la preziosa pubblicità che tramite il GLP ci connette a una fitta rete territoriale.

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IV. DIVERSITÀ, IRRAZIONALITÀ E FOLLIA NEL LINGUAGGIO, NELLA FAVOLISTICA E… NEI TAROCCHI

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4.1 Parole, simboli, espressioni del linguaggio comune e non Le parole non sono solo un dire o, come diceva Habermas, un dire e un fare. Sono molto di più. Sono un dire, un fare, un giudicare, un conservare, un modificare e molte altre cose. Sono l’espressione viva e dinamica della cultura di una società che attraverso di esse nasce, cresce, interpreta la realtà e si adegua al suo mutare, si arricchisce di conoscenze, sopravvive a se stessa nelle tradizioni e nella conservazione, orale e scritta, di ciò che è stata. Le parole però sono anche giudizi e pregiudizi che devono rispettare, nel loro associarsi, regole formali, ma non, obbligatoriamente, criteri di razionalità, né tanto meno di verità. Un esempio di come una parola, con lo stesso significato scientifico, ma la cui derivazione, nelle varie lingue, esprime diverse sensibilità, che possono essere culturalmente significative, è la parola delirio. L’ italiano delirio ha una derivazione latina: de-lirium, che significa fuori dal solco, cioè rottura di un precedente comportamento normale, il deragliamento, la perdita di senso; l’inglese delusion da de-illusion, ha il significato di irrealtà, di disinvestimento percettivo, il tedesco wahn, da una radice indo-germanica wen, correlata al guadagno, ha il significato, oltre che di disturbo del panico, anche di desiderio e di aspettativa. Tutte tre queste parole, con sensibilità diverse, esprimono però aspetti fondamentali del delirio in senso psicopatologico: la trasformazione, l’irrealtà, il vantaggio compensatorio. Per l’interpretazione dei significati delle parole, mutevoli nelle loro estensioni e per la loro categorizzazione, sono sorte branche specifiche della linguistica e della filosofia, i cui studi rappresentano aspetti molto attuali della cultura umanistica contemporanea.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

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Mi riferisco alla semantica e alla filosofia analitica le cui ricerche hanno spesso temi comuni, la prima fondata da Michel Bréal e Ferdinand de Saussure che, con le ipotesi di Chomsky sulla grammatica generativo trasformazionale, ha avuto, nell’ambito delle varie semantiche (analitica, cognitiva, interpretativa, ecc.), nuovi impulsi e la seconda che, partendo dalle concettualizzazioni di Wittgenstein e Russel e dall’analisi logica dei significati delle parole, con Ryle e Quine e poi, tra gli altri con Denett e Searle, ha sviluppato la loro categorizzazione, dando ad esse il compito di esprimere con criteri razionali la realtà. Ma se le parole sono espressione della cultura e della società, cosa ci dicono parole come diversità, irrazionalità, follia, quali sono i loro significati specifici e traslati, quali i loro sinonimi o i nomi che si usano per significati contigui. Sinonimi di diverso, per i significati attinenti alla nostra analisi, sono differente, eterogeneo o, se riferiti all’identità sociale: altro, estraneo, foresto, alieno. Sinonimi, o meglio locuzioni per irrazionale sono: non ragionevole, fuori dalla ragione, fuor di senno. Sinonimi di folle: pazzo, matto, stolto. Ulteriori informazioni ci possono venire dall’etimologia delle parole, da proverbi, locuzioni e aforismi, che a questi termini si riferiscano. Per la diversità già abbiamo avuto modo di vedere con Cargnello le analogie e le differenze di altro e di alieno. Potremmo anche cercarle tra foresto e alieno. Entrambi i termini significano essere estranei rispetto a una comunità di riferimento Il termine foresto o forestiero è attualmente usato per indicare uno non del luogo. Fino all’epoca napoleonica, il termine, nelle piccole comunità rurali era un termine contrapposto a vicino (da vicus, villaggio), cioè residente del luogo e come tale comproprietario del ben comune. Il Comune, in queste comunità, come Ente non esisteva. Comune erano tutti i residenti e i beni comunali erano le proprietà in comune dei residenti. Il foresto poteva però diventar vicino. Doveva essere accettato dai capifamiglia e riscattare la quota di ben comune, che in proporzione gli sarebbe spettata. L’alieno è invece qualcuno radicalmente estraneo e diverso, di un altro genere e l’alienato è un membro della comunità diventato alieno e conside-

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Diversità, irrazionalità e follia nel linguaggio, nella favolistica e… nei tarocchi

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rato tale, perché affetto da una malattia mentale grave, con comportamenti trasgressivi, eventualmente considerati pericolosi. L’alienità della persona con disturbi psichici, che ha la sua logica nella non comprensione e nell’ignoranza, ma anche nella paura, comportava, con modalità però diverse, nelle varie società e nelle varie epoche, la marginalizzazione o l’esclusione. Ma mentre per il foresto esistevano modalità per un‘assimilazione, per l’alienato l’esclusione era spesso una condanna a vita. Irrazionale, nel suo significato generale, è colui che non rispetta, in qualche suo modo di pensare o di operate, le regole logiche del ragionamento, ma poiché le regole logiche non sono il solo modo di pensare, un irrazionale non è per questo un anormale. L’irrazionalità è stata però anche considerata aspetto caratteristico della perdita della ragione e identificata talvolta con la stessa follia. Le parole follia e folle, pazzia e pazzo, matto, stoltezza e stolto, sono i termini usati nel linguaggio comune per indicare un disturbo o un disturbato psichico. Sono spesso usati come sinonimi, hanno però anche significati specifici non perfettamente coincidenti. La loro etimologia è quella di seguito indicata. Follia e folle sono termini di derivazione latina da follis, i cui significati non sono univoci. Quello più comunemente riportato è mantice, soffietto, gioco con pallone pieno d’aria, lo stesso pallone. Nella bassa latinità follis è stato usato in sostituzione di fatuus, stultus e insanus, per indicare un uomo privo di senno, che si perde in vane parole. Follis ha però anche un significato molto diverso. È il termine per indicare un sacchetto sigillato contenente una quantità fissa di denaro e dopo la riforma monetaria di Diocleziano, alla fine del III secolo, è il nome di una moneta di bronzo di non grande valore. Matto è un termine che qualcuno collega a αιο (mataios) con α ίη (matie) come sostantivo astratto e ha il significato di vano, stolto, demente. I più, lo riferiscono però a matus o mattus, termine usato nella bassa latinità con il significato prevalente di ubriaco, ma anche di insano e di folle. Pazzia e pazzo sarebbero una derivazione di patior, infinito pati, che significano soffro e soffrire, a loro volta riconducibili al greco π (pathein, soffrire) o anche a π , (pathe), che più specificatamente significa patimento dell’animo o tristezza. Stoltezza, dal latino stultitia, e insania, dal latino insania. sono termini ormai poco usati, per indicare il primo, prevalentemente, ottusità della mente, il secondo follia improvvisa o comportamento irragionevole.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

I termini pazzo, folle e matto, sono però talvolta anche usati per una valutazione quantitativa. Pazzo, il termine più pesante, ha il significato di perdita persistente della ragione e delle altre facoltà mentali con comportamenti imprevedibili e pericolosi, folle il significato di persona con poco ingegno, che si perde in pensieri “vuoti”, poco ragionevole e trasgressiva; matto, con un significato intermedio, di persona di poco senno, che si comporta in modo strano, bizzarro, talora ridicolo. Tutte queste parole hanno però, oltre a quelli indicati, anche significati non negativi, essendo usati anche con riferimento a persone cose o situazioni piacevoli, cose fuori dal comune, trasgressive, ma anche geniali, sentimenti ed espressioni del linguaggio amoroso (commettere una pazzia per … , far follie, folleggiate, fare una mattana, ecc.). Certe locuzioni sono poi di uso comune con un significato che è però desumibile solo dal contesto (cose da matti!, mezzo matto, testa matta, ecc.) I significati riportati dal Battaglia sono comunque per esteso i seguenti: per follia 1. Condizione di chi è affetto da grave malattia mentale: perdita della ragione, pazzia 2. Stoltezza, mancanza di senno, incapacità di ben giudicare; stupidità, ignoranza 3. Atto sciocco, stupido, sconsiderato, dissennato; contegno irresponsabile, impudente; fatto impossibile, inspiegabile, inconcepibile, assurdo 4. Orgoglio smisurato, smodata ambizione, temerarietà e impudenza; colpa, peccato 5. esasperata, vibrante, passione d’amore; forte turbamento prodotto dai sensi; desiderio smodato, senza freni 6. Favola, racconto fantastico, inverosimile; sciocchezza, assurdità 7. Danza e musica cinquecentesca popolare nei paesi iberici (è detta anche follia di Spagna) 8. Alla follia, sino alla follia: appassionatamente, perdutamente, in sommo grado, con la massima intensità (con valore superlativo)

per pazzia: 1. Alterazione grave e persistente delle facoltà mentali; condizione di chi è affetto da grave malattia mentale; alienazione mentale, demenza, follia. In senso generico perdita della ragione, associata per lo più con comportamenti difformi dalla norma, che possono spingersi fino ad atti violenti

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Diversità, irrazionalità e follia nel linguaggio, nella favolistica e… nei tarocchi

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2. Estrema mancanza di senno, incapacità di giudicare e valutare correttamente; sconsideratezza, irragionevolezza; ottusa stoltezza, stupidità; grave ignoranza 3. Passione violenta, esasperata (d’amore) 4. Orgoglio sconsiderato, eccessivo o colpevole 5. Temerarietà folle e sconsiderata 6. Pungente libertà di espressione satirica 7. In senso concreto: atteggiamento, comportamento, atto, gesto abnorme e irragionevole, che nasce da alterazione della mente o, più spesso, da estrema sconsideratezza, stoltezza o ignoranza, oppure da moti d’animo eccessivi ed esasperati (fare pazzie, fare una pazzia) 8. Divertimento libero e sfrenato 9. Opinione, idea, convinzione, credenza folle, assurda, stolta 10. Grossa sciocchezza, enormità, sproposito (che si dice o si scrive) 11. Eccesso moralmente riprovevole, atto dissoluto, sregolato 12. Fatto assurdo, spreco inconcepibile

mattità è un termine riportato, ma di fatto non più usato. per matto: 1. Che ha una visione deformata e travisata della realtà, che concepisce pensieri assurdi, idee dissennate, che agisce e si comporta come se avesse perduto la ragione, in modo sconsiderato, irragionevole, stolto e incauto. È il contrario di saggio. 2. Che è malato di mente, che ha la mente squilibrata, che è fuor di senno; pazzo, folle, demente. 3. Posseduto, esaltato da uno stato d’animo (di gioia, di dolore), da un sentimento o da una passione particolarmente intensa, viva o violenta; eccitato, invasato ossessionato. 4. Che ha intuizioni o idee geniali e originali o, anche, stravaganti, bizzarre; che si comporta in modo imprevedibile, sorprendente; inquieto, vivace, spiritoso, arguto, burlone (e spesso vi è anche una connotazione di affettuosa canzonatura) 5. Irrequieto, bizzarro, brioso, focoso (un animale); anche: indocile, riottoso, difficile da guidare, da governare 6. Che denota o che muove da un grande turbamento dell’animo e delle facoltà mentali, che nascono da convinzioni irragionevoli, da stoltezza, da sconsideratezza o, anche, da leggerezza, da insensibilità, da imprudenza o temerarietà; privo di ragionevole motivazione (un sentimento, una passione, un pensiero, un discorso, una condizione, un’idea, ecc.).

Mattoide è un termine che era stato usato da Lombroso con un significato clinico (lo riferiva a forme di psicosi maniaco-depressiva o di schizofrenia attenuate).

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Il significato del Battaglia è:

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di chi si esprime, agisce, si comporta in modo geniale e originale o anche stravagante, sorprendente, imprevedibile (e spesso vi è connessa una connotazione di simpatia, di affetto, di ammirazione) o, talvolta, anche in modo irragionevole, dissennato, stolto, incauto, imprudente.

Sono poi da considerare espressioni del linguaggio comune, stereotipi o icone, per i significati di diverso (nel senso di deviante) e di folle e poi ancora proverbi e aforismi. Non sono molte le icone della follia e soprattutto i proverbi e gli aforismi evidenziano più gli aspetti positivi che quelli negativi. Come se vi fosse una sorta di ineffabilità, di difficoltà a dire o di esorcizzazione di ciò che fa paura e non si conosce. Un’analogia, può forse essere un’espressione di Jung, riferita però all’arte, ne L’uomo e i suoi simboli: “Quanto più terrificante diventa il mondo (come sta accadendo oggi), tanto più l’arte si fa astratta …” cioè con espressioni oscure e criptiche e indubbiamente l’arte ha possibilità espressive molto maggiori delle parole. Modi di dire della diversità e della follia, spesso usati, sono: pecora nera, matto come un cavallo. Pecora nera è un’espressione usata in molte lingue per indicare una diversità negativa, una devianza. Si dice di uno che ha preso una brutta strada, che ha comportamenti riprovevoli, fuori dalle regole o che consegue risultati, nello studio o nel lavoro, che non soddisfano le aspettative. Il modo di dire è dovuto al fatto che in un gregge le pecore nere erano mal accette ed escluse dalla tosatura, per non compromettere la qualità della lana, il cui pregio è determinato anche dal colore. È un paragone significativo, perché la diversità si riferisce al gregge che è l’equivalente di gruppo o in senso più generale di società. L’opposto di pecora nera, cioè una diversità positiva, è mosca bianca. Matto come un cavallo si dice perché il cavallo è considerato un animale bizzarro, stravagante e imprevedibile. È però anche un simbolo di vitalità, istinto e potenza e viene usato più spesso come espressione positiva che negativa. È un simbolo amato dagli psicanalisti, in quanto assunto a simboleggiare l’inconscio, sede dell’istinto e dell’irrazionalità, che scalpitano e sbattono gli zoccoli alle porte dell’Io.

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Diversità, irrazionalità e follia nel linguaggio, nella favolistica e… nei tarocchi

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Un cavallo, che ha avuto molto a che fare con la follia e che è diventato il simbolo dei movimenti di liberazione dei malati di mente dai manicomi, è Marco, il cavallo dell’Ospedale Psichiatrico S. Giovanni di Trieste. Singolare la sua storia. Marco era il cavallo dell’ospedale addetto al trasporto della biancheria, dei rifiuti di cucina e di altre cose. Essendo ormai vecchio l’Amministrazione Provinciale pensava di sostituirlo con un motocarro e le prospettive per lui non erano delle più rosee. Un paziente dell’Ospedale il 12.06.1972 scrisse al Presidente della Provincia una lettera che firmò Marco il Cavallo, rivendicando il diritto dell’animale a un meritato pensionamento e dichiarandosi pronto a sostituirlo, lui e gli altri compagni umani del cavallo, per l’adempimento del lavoro da questo svolto. Marco divenne, dopo di ciò, il nome di un altro cavallo, fatto di cartapesta di colore azzurro, che veniva costruito in un laboratorio dell’ospedale, con la collaborazione di tutti: pazienti, medici, infermieri, artisti e amici esterni e che era in realtà una macchina teatrale. Quando fu completato, si decise di farlo uscire per la città, per esprimere la riconquista di un rapporto e la fine di un’esclusione, ma Marco era troppo grande per poter passare dal portone del manicomio. La cosa fu risolta da Franco Basaglia il 25.02.1973 che, con una panchina di ghisa, personalmente abbatté un tratto del muro di cinta dell’ospedale. Questo atto divenne il simbolo, come un po’ di anni dopo il muro di Berlino, della conclusione di un’epoca. Poi i proverbi. “I proverbi, signor conte”, dice il Manzoni per bocca del podestà alla mensa di don Rodrigo, “sono la saggezza del genere umano”. Non dicono però molto circa i pregiudizi che pure la società e la cultura, in altro modo, hanno espresso e esprimono riguardo alla follia. A volte avvalorano prese di distanza o giudizi perentoriamente negativi, più spesso sdrammatizzano, fanno dell’ironia, stimolano all’ autoriferimento, abbattono steccati e separazioni. La saggezza sta certamente in questo.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

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Proverbi Il primo grado di pazzia è tenersi savio, il secondo farne professione, il terzo sprezzare il consiglio Chi non fa le pazzie in gioventù le fa in vecchiaia Si vede la fine di nostra vita, ma non della nostra pazzia Ognuno ha la sua pazzia, maggiore o minore, secondo la sua temperatura Tutti del pazzo tronco abbiamo un ramo Quando non dice niente non è dal savio il pazzo differente (stultus quoque si taquerit, sapiens reputabitur) Se la pazzia fosse dolore, in ogni casa si sentirebbe piangere Ai pazzi si da sempre ragione Non tutti i pazzi sono al manicomio Vi son dei matti savi e dei savi matti Chi non crede d’essere matto è matto davvero Un matto con un savio san più che un savio da solo Del matto, del medico e del cuoco ognuno ne ha un poco Sa meglio il matto i fatti suoi, che il savio quelli degli altri Chi nasce matto non guarisce mai Chi fugge un matto ha fatto una buona giornata Le persone d’ingegno son tutte un po’ matte Non perde il cervello se non chi l’ha Ogni tanto è lecito far follie (semel in anno licet insanire) L’ira è un breve momento di follia (ira brevis furor) Infine gli aforismi per i quali si potrebbe ripetere quanto detto per i proverbi. Non esiste grande genio senza una dose di follia (Aristotele) Fin che tu puoi mescola una breve pazzia alla saggezza: a tempo è bello folleggiare (dum licet, ignium stultitiam misce consiliis brevem: dulce est desipere in loco) (Quinto Orazio Flacco) La pazzia è l’unica cosa che trattiene la giovinezza, altrimenti fuggevole quant’altro mai (Erasmo da Rotterdam) Mettersi coi pazzi finisce per essere di danno perfino al diavolo (Johann Wolfgang Goethe) A conti fatti, beati i matti (Giuseppe Giusti) Genio e folle hanno qualcosa in comune: vivono entrambi in un mondo diverso da quello che esiste per gli altri (Arthur Schopenhauer)

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C’è sempre un grano di pazzia nell’amore, così come c’è sempre un grano di logica nella follia (F.W. Nietzsche) Chi vive senza follia non è così saggio come crede (François de La Rochefoucauld) La pazzia è una forma di normalità (Luigi Pirandello) Mai la psicologia potrà dire la verità sulla follia, perché è la follia che detiene la verità della psicologia (Michele Foucauld) Si nasce tutti pazzi, alcuni lo restano (Samuel Beckett) La ragione è la follia del più forte, la ragione del meno forte è follia (Eugène Jonescu) La sanità mentale è un’ imperfezione (Charles Bukowsky) Nel linguaggio comune, quello per intenderci della strada e dei bar, parole come pazzo e matto sono ancora però usate, molto più che nei proverbi, in senso negativo e offensivo e spesso fanno ancora paura. L’atteggiamento di coloro a cui ciò non piace, che vorrebbero e si adoperano perché queste espressioni non abbiano più una ricaduta di rafforzamento dello stigma nei confronti del disturbo psichico, è spesso quello della rimozione, della cancellazione di queste brutte parole. Purtroppo però la rimozione senza che ci sia precedentemente una neutralizzazione dei contenuti emotivi, non serve a molto, anzi potrebbe portare a un rinforzo di ciò che si vorrebbe ridurre o annullare. Occorre, attraverso una maggior conoscenza del problema e un coinvolgimento di tutti, modificarne il significato, estendendo e rafforzando quello che già, nella maggioranza dei casi, ci dicono proverbi e aforismi. E a questo riguardo voglio ricordare due episodi che mi sembra illustrino abbastanza bene ciò. Uno è l’episodio dell’assemblea di quartiere del telefilm “C’era una volta la città dei matti” di Fabrizio Gifuni sulla vita di Basaglia, in cui una paziente dell’Ospedale psichiatrico, che doveva con altri ospiti andare ad abitare in un normale appartamento della città, così si rivolge in triestino agli abitanti degli appartamenti e delle case vicine che sembravano volersi opporre: (riporto a memoria) “Ma gavè sul serio paura de mi, una povera mata?” L’altro è un episodio della mia vita professionale. Avevo fatto presentare in Comune una domanda per la costruzione della prima Comunità Protetta di Varese: i Castagni. Dovevo però presentare e illustrare il progetto, per il necessario placet, anche al Consiglio di Zona. Così mi accolse il Presidente: “L’ascolteremo per cortesia e rispetto, ma il nostro orientamento, avendo sentito anche, prima di lei, suoi colleghi e

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

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persone che in ospedale psichiatrico hanno lavorato, l’abbiamo già e mi sembra doveroso dirglielo: è negativo” Nella presentazione della mia richiesta e nel dibattito successivo, durato due ore, spiegai che i criteri dell’assistenza psichiatrica erano cambiati, che la presa in carico di queste persone in difficoltà, perché potessero avere delle chances di recupero, doveva essere di tutta la comunità, che la pericolosità, intesa in una sua estensione categoriale, era un pregiudizio, che il loro quartiere era il primo scelto per ospitare una Comunità, ma negli anni futuri ogni quartiere avrebbe dovuto avere le sue Comunità e i suoi Centri polivalenti per interventi sanitari e sociali. Alla votazione finale, nonostante il parere del Presidente il progetto passò… ma passò solo per un voto.

4.2 Tarocchi e cultura: il matto I tarocchi sono un gioco delle carte apparso in Italia alla fine del medioevo e primo rinascimento, modificando giochi precedenti, che risalgono a tempi molto più antichi. Successivamente si è voluto anche ricondurli, propriamente o impropriamente, non sta a me dirlo, a pratiche cabalistiche o esoteriche dell’antichità anche remota. Si tratta di un gioco di presa di 74 carte, di cui 52 sono i quattro semi, che ancora si trovano, con diversi disegni, nella carte da gioco regionali della tradizione italiana: bastoni, coppe, spade e denari. A queste sono state aggiunte 22 carte inizialmente chiamate trionfi e che, nel gioco, hanno la funzione di briscola. Questa innovazione sembra sia stata tutta italiana e le prime notizie di essa si hanno a Ferrara all’inizio del ’400. Le carte hanno ciascuna un valore e il gioco, molto semplice, consiste nel fatto che la carta con maggior valore vince sulla carta con valore minore e le briscole, cioè i trionfi, vincono sulle altre e su quelle di loro con numero più basso. Il termine trionfi sembra sia stato usato nel significato petrarchesco, con riferimento al poemetto in versi, scritto dal Petrarca in lingua volgare, dal titolo I Trionfi. In esso in chiave allegorica e anche un po’ didascalica, viene rappresentata la vita umana nei suoi vari aspetti di fugacità e di drammaticità, con la vittoria finale dell’Eternità. I Trionfi petrarcheschi sono: il trionfo dell’Amore, della Pudicizia, della Morte, della Fama, dell’ Eternità.

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L’opera è un percorso introspettivo e autobiografico del poeta nei suoi sentimenti e nella sua cultura umanistica e biblica, in cui però sono anche ben evidenti aspetti della cultura della società di quel tempo, improntata dalla religiosità medievale, come componente costitutiva e diffusa. I trionfi dei tarocchi, in tutt’altro contesto, creati con una finalità probabilmente solo ludica, sono però anch’essi un’espressione di come una società esprime la sua cultura, fatta anche di rappresentazioni, che richiamano valori, conoscenze, pregiudizi, aspetti della quotidianità, stereotipi di tradizioni e consuetudini. Le allegorie presenti fanno infatti parte del repertorio figurativo del nostro medioevo, osservabile negli affreschi delle chiese e dei palazzi pubblici e nobiliari e possono facilmente essere interpretate contestualizzandole. Qualche aspetto presente è regionale padano, essendo qui nati i tarocchi, per lo più i riferimenti riguardano però aree culturali molto più estese. Una delle caratteristiche di queste allegorie è la mescolanza e la complementarietà tra espressioni che si ricollegano alla tradizione religiosa e biblica, quelle che riprendono temi e iconografie della mitologia classica, quelle che propongono figure della tradizione popolare. Nei tarocchi il principale riferimento è quello religioso biblico, tanto che sono stati chiamati Biblia pauperum, la Bibbia dei poveri, con però le contaminazioni di cui si è detto. I tarocchi viscontei o Visconti - Sforza, sono mazzi di carte risalenti al XV secolo e sono considerati i capostipiti dei tarocchi classici e in particolare della variante marsigliese, che è quella cui si riferiscono la maggior parte dei tarocchi moderni. I trionfi dei tarocchi viscontei sono: il Matto, il Bagatto, la Papessa, l’Imperatrice, l’Imperatore, il Papa, gli Amanti, il Carro, la Giustizia, il Tempo (nella variante marsigliese l’Eremita), la ruota della Fortuna, la Forza, l’Appeso, la Morte, la Temperanza, il Diavolo, la Torre, la Stella, la Luna, il Sole, il Giudizio, il Mondo. Esempi di quanto detto, tra i vari trionfi viscontei, possono essere la Forza o Fortitudo, virtù cristiana, rappresentata da Ercole che sconfigge il leone nemeo, la Papessa, che richiama nella sua iconografia la Fede giottesca della Cappella degli Scrovegni di Padova, il Mondo, rappresentato dalla Gerusalemme celeste sorretta dagli angeli, il Bagatto, che rappresenta il giocoliere o artista di strada, figura della quotidianità e della tradizione di allora. I giochi delle carte e specialmente i tarocchi, con rappresentazioni e denominazioni, talora irrispettose e trasgressive rispetto all’ufficialità e all’ortodossia, specie dopo che il gioco si fu diffuso tra i nobili, ma anche tra il

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

popolo e il clero, non furono sempre ben accolti in certi ambienti religiosi, sopratutto monastici e ciò determinò anche aspre reazioni di condanna. Vengono ricordati come esempi una predica di san Bernardino da Siena che nella basilica di S. Petronio a Bologna, nel 1423, definì il gioco delle carte praticato dai religiosi “un ingegnoso strumento del diavolo per spingere sulla via del peccato le anime elette che si sono votate a Dio” e anche, nel 1480, con un riferimento specifico ai Trionfi dei tarocchi, il sermone di un anonimo frate domenicano, che li condannò per aver fatto delle Virtù cardinali, degli Angeli e dello stesso Padre Eterno oggetti di un gioco profano. Dei tarocchi, pur nel rispetto delle denominazioni, ci furono poi varie varianti iconografiche, di collocazione e di valore delle singole carte. Dal XVIII secolo decaddero progressivamente come gioco e furono utilizzati, soprattutto dalla cartomanzia, per un uso divinatorio che accentuò ed esasperò i simbolismi, dando ad essi anche significati esoterici. Questo cambiamento determinò anche un cambiamento del termine trionfi che fu sostituito dalla parola arcani: arcani maggiori per indicare le 22 carte dei trionfi, arcani minori per indicare le carte dei quattro semi. A noi però i trionfi e i tarocchi non interessano per la loro storia e per ciò che hanno significato, quanto invece per darci qualche idea su quella che poteva essere allora, in quella società, per come veniva rappresentata, l’immagine del folle come persona diversa e della follia. La carta o meglio il trionfo che ci consente ciò è il Matto, detto anche il Folle o con altri nomi il Misero o il Vagabondo. La sua collocazione nel mazzo è in genere all’ultimo posto, come XXII trionfo, dopo il Mondo o al primo, prima del Bagatto. In quasi tutte le versioni non ha alcun numero. Quando un numero gli viene dato, questo è O. Nel gioco non può prendere, ma neppure essere preso e nel punteggio complessivo gli viene comunque attribuito un valore. Nel trionfo visconteo è rappresentato come un uomo gozzuto, vestito con abiti miseri e laceri, a piedi nudi, con un lungo bastone appoggiato alla spalla e con infilate in testa, tra i capelli, delle piume. Quest’ultimo particolare richiama la raffigurazione giottesca della Stultitia, anch’essa della Cappella degli Scrovegni di Padova.

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A sinistra: Il Matto nei quattrocenteschi tarocchi viscontei A destra: La Stultitia nella giottesca Cappella degli Scrovegni di Padova

A sinistra: Tarocchi cosiddetti del Mantegna, Il Misero A destra: Il Matto nei tarocchi marsigliesi

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Nei cosidetti tarocchi del Mantegna (cosidetti perchè l’attribuzione è solo ipotetica), il Matto è sostituito dal Misero e ad esso è stato attribuito, a differenza dei tarocchi viscontei e delle varianti successive, un numero, l’1. La loro “invenzione” viene ricondotta alla cerchia di papa Pio II Piccolomini, durante il soggiorno a Mantova in occasione del concilio del 1459-60. Siccome differiscono alquanto dagli altri tarocchi, la loro attribuzione alla categoria è da molti contestata. Per quanto riguarda il Misero, nella sua rappresentazione, per la prima volta, compaiono degli animali tra cui un cane appoggiato a una gamba. Sarà questa una caratteristica costante della carta del Matto, in tutte le varianti successive dei tarocchi Nei tarocchi marsigliesi nella figura del Matto (Le Mat o le Fou), l’uomo porta abiti multicolori e ornamenti da giullare, ha i pantaloni strappati, ha uno sguardo perso nell’orizzonte, porta due bastoni, uno utilizzato come ausilio nella marcia e uno appoggiato a una spalla con appeso un piccolo fardello. Ritorna costante anche la figura di un animale, un cane, un gatto, o una grossa lince che gli morde la gamba o la natica sinistra. Altre immagini di tarocchi marsigliesi o che ne richiamano la simbologia

I tarocchi moderni, in rapporto a un uso diverso, sono meno significativi per quanto riguarda l’espressione di una cultura, tanto più che quelli maggiormente usati sono ancora varianti dei tarocchi marsigliesi.

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Diversità, irrazionalità e follia nel linguaggio, nella favolistica e… nei tarocchi

Nel mondo anglosassone molto diffusi sono però i tarocchi di Rider - Waite, disegnati e presentati nel 1910, che si differenziano per una diversa rappresentazione iconografica anche per quanto riguarda il matto. Il matto dei Rider-Waite è un giovane vestito da buffone, con sul capo un cappello piumato, che con aria svagata, con lo sguardo rivolto lontano verso il cielo, si avvia verso un precipizio, con una rosa bianca in mano. Ha un bagaglio leggero appeso a un bastone. Un cane lo segue e sembra volerlo avvertire del pericolo. Il fascino dei tarocchi ha indotto anche artisti famosi a disegnarli. Tra gli altri si può ricordare Salvador Dalì e Renato Guttuso.

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Tarocchi di Rider - Waite. Il matto

Come si è detto, a partire dal ’700 il simbolismo di queste carte, proveniente dal repertorio simbolico classico, ha rappresentato, per la sua ricchezza allegorica, il terreno fertile per un suo utilizzo per finalità divinatorie e interpretazioni esoteriche. Ricercando invece in essi e precisamente nella carta del matto, le espressioni della follia e dei folli, come diversità in senso socio - antropologico, numerosi possono essere i rilievi e le considerazioni. Una prima annotazione la possiamo fare sul numero attribuito a questa carta, che è uno zero o non c’è e già questo è un dato significativo, se riferito a una graduatoria di categorie sociali. È inoltre una carta diversa da tutte le altre, che non può prendere, ma neppure essere presa e questa diversità e questa ambivalenza anch’esse significano qualcosa se riferite a dinamiche interpersonali e intercategoriali della società. Ha però comunque, nel punteggio finale, un valore, che contraddice in qualche modo l’assenza del numero o lo zero. Vale meno di tutti gli altri trionfi e guarda un po’, il punteggio che gli viene attribuito è uguale a quello delle Donne dei semi. Complessivamente si tratta quindi di una carta svalorizzata, ma con non del tutto, marginalizzata, ma fino a un certo punto e non esclusa, senza potere, ma comunque con qualche vantaggio o privilegio.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Un po’ diversa è però la situazione considerando i contenuti grafici delle varie carte del Matto. Nei tarocchi viscontei questi gli elementi caratteristici: la povertà, la trascuratezza degli abiti, i piedi ignudi, il bastone, il gozzo (che richiama una condizione endemica di certe valli prealpine dove l’ipotiroidismo e con esso anche la sua sintomatologia psichica, era diffuso, per un inadeguato apporto alimentare di iodio e forse anche per cause genetiche). L’elemento più caratteristico del matto visconteo sono però le piume impiantate tra i capelli. Che le parole, il pensiero e il senno siano metaforicamente alati e volino (verba volant!) ce lo ricordano una delle più utilizzate locuzioni di Omero nell’Iliade e nell’Odissea: … π α π α π ο η α (…parole alate diceva), le ali di Ermes, il messaggero degli dei, rapido come il pensiero e poi, più tardi, dopo qualche secolo, Astolfo, che, in groppa all’Ippogrifo, va a cercare sulla luna il senno perduto di Orlando (Ariosto: Orlando furioso). E le piume tra i capelli, come già in Giotto, significano proprio questo: che il senno e il pensiero se ne sono volati via. Gli altri elementi sono tutti espressioni delle conseguenze di una marginalizzazione che condanna alla povertà e al vagabondaggio. Innanzitutto, in tutti i tarocchi, l’uomo è sempre solo e di per sé questo è già un segno di emarginazione e di isolamento. Nei tarocchi marsigliesi, rispetto a quelli viscontei, vengono poi inseriti ulteriori elementi. Questi sono le caratteristiche del vestito, lacerato e talora un po’ disordinato, ma soprattutto multicolore e con orpelli come quello di un giullare, con diverse possibili interpretazioni: la stravaganza, l’irrispettosa considerazione da parte degli altri, ma in senso più positivo ed è questo un aspetto di valutazioni più rinascimentali, una diversa scelta di vita, un diverso modo di presentarsi. Altri elementi sono: il distacco dalla realtà, espresso dallo sguardo smarrito nel vuoto; la povertà e il vagabondaggio espresso dal bastone sulla spalla e dal fagotto molto piccolo che ad esso è appeso e dal bastone d’appoggio per uno che va, guardando altrove, non si sa per quale meta. Vi è infine la sofferenza espressa dall’animale, quasi sempre un cane, che azzanna la gamba dell’uomo. Scene simili potevano essere usuali per i mendicanti che si avvicinavano alle case isolate per chiedere qualcosa, ma la sofferenza può essere anche intesa, molto più in generale, come sofferenza psicologica da cui invano si cerca di fuggire.

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Diversità, irrazionalità e follia nel linguaggio, nella favolistica e… nei tarocchi

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Più moderna e con nuovi elementi è l’interpretazione del matto nei tarocchi di Rider-Waite Per molte cose vengono ripresi temi già visti nei tarocchi marsigliesi e addirittura in quelli viscontei: la piuma sul cappello, il bastone col piccolo fagotto appoggiato alla spalla, lo sguardo trasognato rivolto verso l’alto. Altri elementi sono rielaborazioni: il vestito è ancora da buffone, ma più ordinato e teatrale, il cane non è un assalitore, ma un amico, che sembra abbaiare per avvisare di un imminente pericolo. Altri sono novità: l’aspetto, che è di un giovane dai lineamenti aggraziati e regolari, con il quale è molto più facile, rispetto alle figure precedenti, identificarsi, una rosa bianca nella mano sinistra, ma soprattutto, come elemento di contesto che assume però una rilevanza fondamentale, il baratro, verso il quale il giovane sta inconsapevolmente avviandosi. Ed è questo baratro a rappresentare, più di quanto non possa esprimere la stessa figura umana, la follia. Si tratta di un significato implicito, ma forse, proprio per questo, meglio rappresentativo di quello che è stato definito il male oscuro. Con questo elemento di contesto viene introdotta in queste rappresentazioni anche la paura, che non è tanto un aspetto della descrizione, ma un sentimento evocato in chi la osserva e che nella figura del giovane può in qualche nodo identificarsi. Infine la rosa bianca, che viene normalmente intesa come innocenza, che però potrebbe avere il significato di incoscienza e/o irresponsabilità. Sulla lettura positiva della carta del matto, tralasciando le interpretazioni cartomantiche, che in tutti i trionfi cercano di vedere sia aspetti positivi che negativi, spesso con formulazioni un po’ fantasiose, difficilmente correlabili alle rappresentazioni figurative e che esulano dal nostro tema, a noi interessano di più le elaborazioni in questo senso di epoca rinascimentale o che a queste si richiamano, anche se originariamente non riferite in modo specifico ai tarocchi. Esse, identificando la follia con l’irrazionalità e con l’istinto, la contrapponevano a una normalità, fatta solo di razionalità e di autocontrollo, rivalutandola. Il riferimento è ancora Erasmo e al suo Elogio della pazzia. In questa sua opera famosa la pazzia, personificata, parla di se stessa, invitando a valorizzare certi aspetti dell’irrazionalità, dell’istinto, a lasciarsi un po’ andare rompendo le regole, a considerare certe trasgressioni un aspetto diverso e sicuramente spesso più piacevole, della normalità. La sola saggezza, secondo Erasmo, non da la felicità e a volte fa vivere anche male!

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Erasmo era una persona molto seria. Questa sua opera, in chiave ironica è un po’ l’espressione del mutar dei tempi e va vista all’interno di un atteggiamento anticonformista della cultura rinascimentale, più generale e diffuso. Del resto lo stesso Erasmo avrebbe tratto ispirazione per la sua opera, ma la cosa non è certa, dal lavoro di un umanista italiano, Faustino Perisauli, il De Triumpho stultitiae, scritto alcuni anni prima. E questa tesi di una pazzia o follia come aspetto della normalità, per lo meno per quanto riguarda la dignità delle persone, l’appartenenza sociale e il riconoscimento di un’identità, è stata considerata da alcuni l’anticipazione di posizioni che, molti secoli dopo, nei tempi nostri, hanno consentito, con il superamento dell’istituzionalizzazione, la territorializzazione dei servizi, la presa in carico comunitaria, con il riconoscimento della relazione come fondamento per qualsiasi tipo di terapia, l’avvio, per le terapie dei disturbi psichici e per l’assistenza psichiatrica, di un nuovo umanesimo. Questa breve ricognizione nel mondo dei tarocchi ci ha comunque confermato che essi possono ben rappresentare, soprattutto se ci si riferisce agli anni ’400 e ’500, un aspetto della cultura in quella società e in questo ambito, dare anche dei riferimenti su quale fosse in quel periodo il significato sociale di follia. Ciò che non si coglie o si coglie poco è un’attribuzione di pericolosità sociale e di sentimenti di paura a essi correlati. Siamo in tempi intermedi tra un medioevo in cui la follia poteva essere considerata pericolosa e far paura per la contiguità con aspetti negativi del sopranaturale e del paranormale (non c’è però mai stata per la follia una vera e propria identificazione con questi fenomeni e anzi è nel medio evo che hanno cominciato a sorgere iniziative assistenziali) e il grande internamento, iniziato nel ’500, ma poi sviluppatosi soprattutto nel ’600, in cui la marginalizzazione della follia e dei folli, ma non solo di loro, in quanto ha riguardato altre categorie considerate pur’esse, in senso molto generale pericolose o parassitarie, è diventata esclusione. Il sentimento di paura nei tarocchi è però un po’ riapparso in alcune elaborazioni moderne, con però un significato completamente diverso, in quanto riconducibile a motivazioni psicologiche. È la paura non tanto dell’ altro o dell’alieno, quanto del proprio inconscio, del “calderone ribollente”, che mescola e nasconde normalità e follia, ma è dentro ciascuno di noi.

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Diversità, irrazionalità e follia nel linguaggio, nella favolistica e… nei tarocchi

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4.3 La favola del brutto anatroccolo e A beautiful Mind Il brutto anatroccolo è una favola di Hans Christian Andersen. Il riassunto, così come riportato in Wikipedia, è il seguente:

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In una nidiata di anatroccoli, uno è grigio, grande e goffo. Sebbene la madre cerchi di accettarlo, a tutti è evidente che il piccolo è fuori luogo; tanto che alla fine egli decide di fuggire. L’anatroccolo vaga senza meta, e non trova nessuno che lo voglia; al calare dell’inverno, rischia di morire congelato. Alla fine dell’inverno, sopravvissuto miracolosamente, il piccolo giunge presso uno stagno dove nuotano un gruppo di splendidi cigni. Attratto dalla loro bellezza, si avvicina; e rimane sorpreso quando le splendide creature gli danno il benvenuto e lo accettano. Guardando il proprio riflesso nell’acqua, il protagonista si accorge finalmente di essere lui stesso un cigno.

A Beautiful Mind è la storia della vita di John Forbes Nach jr, raccontata in un libro di Sylvia Nasar e in un film famoso di Ron Howard. La storia di John Forbes Nasch jr. è anche la storia di uno schizofrenico, però allo stesso tempo geniale matematico, premio Nobel per l’economia del 1994, per la sua Teoria dei Giochi con riferimento alle interazioni sociali, in termini di competizione e cooperazione. I suoi studi e la sua teoria hanno avuto rilevanti applicazioni oltre che in economia anche in biologia, in psicologia, in sociologia e in numerosi altri ambiti tra cui perfino quello militare. Nasch è stato anche un matematico puro, che ha risolto in modo brillante problemi complessi sulle equazioni differenziali paraboliche e sulle varietà algebriche, ma il suo nome è legato soprattutto all’ “equilibrio di Nasch” e alla teoria dei Giochi per cui ha avuto il Nobel. Viene indicata come teoria dei Giochi l’analisi matematica di situazioni di conflitto. Questo tipo di problema era stato introdotto da von Neumann nel 1928 e aveva da subito suscitato l’interesse di matematici ed economisti. L’apporto di Nasch ha rappresentato un contributo di svolta. Come schizofrenico la sua è stata la storia vera, penosa e drammatica, di una persona, che sulla base di evidenti vulnerabilità, che si possono individuare già nell’adolescenza, non ha retto alle inevitabili frustrazioni dell’esistenza ed è precipitato in un mondo di fantasmi, con allucinazioni uditive e visive, deliri di grandezza, di minaccia e di pericolo, disordini comportamentali. Verso i trent’anni la sua brillante carriera a Princeton e poi al MIT, che già aveva prodotto importanti risultati scientifici, fu interrotta, per il precipitare degli eventi, da un ricovero in ospedale psichiatrico.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Per l’assoluta mancanza di insight, il ricovero e le cure a cui fu sottoposto (comi insulinici e trattamenti neurolettici), come lui stesso ebbe a dire, furono tutti contro la sua volontà. Dimesso dall’ospedale e dal MIT, fuggi in Europa con i suoi fantasmi, giungendo fino al punto di chiedere asilo politico alla Francia e alla Germania orientale. Gli anni successivi furono per lui anni travagliati di ricoveri in cliniche e ospedali psichiatrici, cure prescritte fatte e non fatte, in preda ai suoi deliri e alle sue sofferenze. Grazie anche all’affetto dei familiari e soprattutto della moglie Alicia, da cui si era separato, ma che gli fu sempre vicina e verosimilmente anche di qualche cura accettata, riuscì a trovare con la malattia una sorta di convivenza, al punto da poter anche riprendere, sia pure con difficoltà, l’attività di docente a Princeton. Nel film la difficile convivenza con la malattia è simboleggiata dall’immagine dei suoi fantasmi che assistono e lo osservano alla cerimonia della consegna del Nobel. Così Piergiorgio Odifreddi introduce un’intervista del 2008 a Nasch a Roma per un convegno : “È una tragica ironia che un uomo (oggi 80enne: è nato a Bluefield in Virginia nel 1928), che ha vissuto 25 anni da squilibrato, soffrendo di schizofrenia paranoide e credendosi l’imperatore dell’Antartide e il Messia, sia passato alla storia per aver introdotto la nozione di “equilibrio” che porta il suo nome … Ma la storia di Nasch non è qui riportata per parlare delle sue teorie matematiche o dei suoi problemi clinici e non vuole nemmeno simboleggiare, anche se così potrebbe sembrare dall’accostamento, peraltro suggestivo, alla favola del brutto anatroccolo, il trionfo della follia sulla normalità, né l’irrilevanza della psicosi sulle capacità cognitive. Mi è sembrata un’occasione per parlare di razionalità e di pensiero in una psicosi, per cercare di capire cosa possano avere in comune o comunque convivere, un pensiero delirante così grave con il pensiero iperlogico di un matematico puro geniale, come nel caso descritto. Il tema della struttura cognitiva dei pazienti psicotici è stato esaurientemente trattato da Silvano Arieti nella sua Interpretazione della schizofrenia. Io lo voglio però restringere alle considerazioni che si possono fare sulla struttura logica del pensiero schizofrenico, precisando però che il termine logico va qui inteso in senso estensivo, non come contrapposizione razionale-irrazionale, ma con riferimento a qualsiasi tipo di organizzazione, non per una sua validazione, ma per una sua comprensione.

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Diversità, irrazionalità e follia nel linguaggio, nella favolistica e… nei tarocchi

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I riferimenti sono essenzialmente von Domarus, ben illustrato da Arieti, che contrappone il pensiero fondato sulla logica aristotelica, tipica del pensiero cosciente al pensiero prelogico o paleologico e Matte Blanco, che nel suo saggio sulla bilogica, ha presentato l’uomo come il terreno di incontro di due modi di essere, uno che utilizza la logica aristotelica e uno proprio dell’inconscio strutturale non rimosso, che si fonda su due principi fondamentali: la simmetria e la generalizzazione. L’ipotesi di von Domarus, come riportata da Arieti è la seguente: ”mentre l’individuo normale accetta l’identità soltanto sulla base dell’identità dei soggetti, [chi, come uno psicotico, utilizza una modalità di pensiero primitivo, detto anche paleologico], accetta l’identità basata sui predicati.” Esempio del primo tipo è il sillogismo aristotelico già precedentemente presentato: tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; quindi Socrate è mortale. Un esempio del secondo tipo, ripreso da Arieti, è invece il seguente: “la Vergine Maria era vergine; io sono vergine; perciò io sono La Vergine Maria.” Secondo von Domarus e anche secondo Arieti, i soggetti psicotici utilizzerebbero prevalentemente il pensiero paleologico, con finalità peraltro ben comprensibili in un sistema di riferimento psicodinamico, per sottrarsi all’ansia. Utilizzando la logica aristotelica l’interpretazione della realtà li porrebbe di fronte a verità, riguardanti il Sé interiore, intollerabili e inaccettabili. Il pensiero paleologico offrirebbe invece la possibilità di vedere una realtà come la si desidera, con una “pseudosoddisfazione dei propri desideri.” Per Matte Blanco la “logica” del pensiero psicotico è invece soprattutto quella del pensiero inconscio. Egli però nella sua concezione di inconscio modifica la tripartizione freudiana di Es, Io e Super - Io, che non evidenzierebbe a sufficienza la peculiarità dell’inconscio, considerato anche come autonomo sistema logico. Secondo Matte Blanco il pensiero cosciente ha, come suo sistema logico, quello aristotelico, caratterizzato dal principio di non contraddizione e dal riferimento alle categorie di spazio e di tempo, con i quali elabora la realtà. Il pensiero inconscio è invece caratterizzato dalla generalizzazione, per la quale la parte viene equiparata al tutto, dalla simmetria nei rapporti tra rappresentazioni mentali, che annulla differenze e distinzioni, compresa quella tra Sé e l’Altro, dall’annullamento dei principi di negazione e di non contraddizione, dall’assenza delle categorie di spazio e di tempo.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Nelle sue concettualizzazioni è ben evidente l’influenza di Melania Klein, il genero della quale peraltro, Walter Schmideberg, era stato anche il suo analista didatta. Questo tipo di inconscio, matematicamente, per Matte Blanco, è un insieme di infiniti, dove il tutto e il nulla coincidono, dove il tutto e una parte sono espressi dallo stesso numero cardinale. L’inconscio strutturale, come egli lo chiama, cioè l’inconscio non rimosso, che è la struttura stessa della mente, per Matte Blanco è proprio questo: un insieme di infiniti. Nella sua concettualizzazione, l’aspetto più originale è però un altro. Le due logiche sono solo aspetti limite e man mano che si procede dal conscio al preconscio, all’inconscio rimosso, fino all’inconscio profondo, si modificherebbe la prevalenza dell’una e dell’altra logica. Inoltre l’inconscio strutturale è un concetto che richiama quello di inconscio procedurale, usato anche dalle neuroscienze e la posizione di Matte Blanco, come, per altro verso, quella di Chomsky relativa alla grammatica generativo-trasformazionale, possono perciò essere anche visti come passi importanti per una comprensione dell’unità funzionale mente-cervello nell’ambito di una teoria della mente. L’utilizzo dei due sistemi logici è ben adatto anche a spiegare il concetto di pensiero intuitivo, modalità ben presente nell’adulto normale, ma anche e ancor più, con riferimento alla classificazione di Erdmann, il pensiero intuitivo ipologico, che può essere assimilato al pensiero prelogico o paleologico, come fase che nel bambino precede quella di una più completa maturazione della razionalità e il pensiero intuitivo iperlogico degli artisti e degli scienziati. L’intuizione, meno vincolata a schemi, che anche la logica aristotelica pone, più vicina agli insiemi infiniti dell’inconscio, può più facilmente cogliere l’essenza della realtà o i suoi aspetti inusuali. Del resto lo stesso Aristotele aveva considerato l’intuizione la via maestra per cogliere i principi primi. Questi insiemi infiniti possono però anche ben essere l’espressione dell’irrazionalità della follia. John Forbes Nasch di tutto quanto detto è l’esemplificazione. L’”equilibrio di Nasch”, è la soluzione geniale di un problema “impossibile” che riesce a fondere intimamente due concetti apparentemente assai lontani: quelli di un punto fisso e di coordinate che si trasformano. Le sue soluzioni di altri problemi matematici sono pure brillanti e inusuali. Nasch è una persona ”diversa” perché in lui l’equilibrio delle due logiche e chiaramente spostato verso quella dell’inconscio strutturale.

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Nel contempo è una persona che, fin dall’adolescenza, usa professionalmente la logica aristotelica, che è l’espressione più tipica del ragionamento matematico. Il pensiero inconscio è a fasi alternanti la fonte della sua follia e delle sue intuizioni geniali, il pensiero logico, che pure era un’abilità nelle sue disponibilità, dopo lunghi periodi di eclissi, è quello, come lui stesso ebbe poi a dire, che alla fine gli ha consentito di sopravvivere e un po’ anche di resuscitare. Nasch non è mai uscito completamente dalla sua follia, ma è riuscito, in qualche modo a incistarla, a isolarla. Questo è però possibile solo se si determinino condizioni sia pur parziali, consce o inconsce, di insight. Questo è anche l’obiettivo che sempre si pongono le terapie cognitive delle psicosi. Gli strumenti intellettivi adeguati rappresentano per questo tipo di terapia la precondizione. I risultati tuttavia sono condizionati da molte altre cose. Certo in Nasch sono singolari le modalità con le quali la bilogica ha trovato le sue espressioni.

4.4 Il Piccolo Principe ovvero la razionalità ingenua e l’interpretazione della realtà Il Piccolo Principe è la principale opera di Antoine De Saint- Exupéry. È un libro presentato come un libro per ragazzi, che è diventato però una delle opere letterarie più celebri del ’900 e delle più tradotte, non solo nelle lingue principali, ma anche in molte lingue minori e in dialetti. È stato venduto in oltre cento milioni di copie. Di esso così dice Eugen Drewermann autore di una sua interpretazione psicanalitica: Se fra alcuni secoli le gigantesche biblioteche della nostra epoca, che ancora scrive libri, dovessero essere ridotte ad alcuni pochi esemplari che riflettano il clima del tempo, come possono essere per noi, oggi, la poesia di Dante per il medioevo o la poesia di Shakespeare per il periodo elisabettiano, forse due soli testi potranno essere considerati essenziali e caratteristici per il nostro secolo cruento, scosso da conflitti devastanti: Il castello di Franz Kafka e il Piccolo Principe di Exupéry.

Il Piccolo Principe è una metafora dell’esistenza, dell’amicizia e dell’amore.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

In esso non si parla di follia e dei disturbi mentali, se non con un breve accenno alla condizione di dipendenza dall’alcool, si parla però, con esemplificazioni concrete, di irrazionalità, invertendo però il rapporto con cui normalmente si considera questo problema, perché l’alieno è proprio il Piccolo Principe, venuto da un lontano asteroide, che incontra nei vari pianeti e infine anche sulla terra, l’irrazionalità e le stranezze della normalità. Le descrive, senza cercare di capirle, con la razionalità ingenua di un bambino. Nei vari pianeti ha incontrato il vanitoso, che chiede senza ragione di essere ammirato e applaudito, l’uomo del denaro, che considera tutto mercificabile, anche la luna e le stelle, un lampionaio, che fa del dovere la sua religione e l’unico suo interesse, sganciandolo completamente dalla realtà, così come il geografo, personaggio fuori dal mondo che, come sua professione, disegna il mondo. Infine giunge sulla terra che lo stupisce per le sue dimensioni e per la quantità di persone. Qui incontra un giardino pieno di rose fiorite, che gli richiamano, con delusione però, la sua rosa dell’asteroide lontano, oggetto delle sue amorevoli cure, che gli aveva raccontato di essere l’unica della specie in tutto l’universo. Incontra poi anche un indaffarato controllore di treni e una volpe che gli chiede di essere addomesticata. Questo breve parziale riassunto è l’introduzione ai seguenti tre brani che ho scelto per un breve commento, nella traduzione di Nini Bompiani Bregoli: quello dell’ubriacone, quello del controllore e infine quello della volpe. Capitolo XII Il pianeta appresso era abitato da un ubriacone. Questa visita fu molto breve, ma immerse il piccolo principe in una grande malinconia. “Che fai?” chiese all’ubriacone che stava in silenzio davanti a una collezione di bottiglie vuote e a una collezione di bottiglie piene. “Bevo”, rispose, in tono lugubre, l’ubriacone. “Perché bevi?” domandò il piccolo principe. “Per dimenticare”, rispose l’ubriacone. “Per dimenticare che cosa?” s’informò il piccolo principe che cominciava già a compiangerlo. “Per dimenticare che ho vergogna”, confessò l’ubriacone abbassando la testa. “Vergogna di che? Insistette il piccolo principe che desiderava soccorrerlo. “Vergogna di bere!” e l’ubriacone si chiuse in un silenzio definitivo.

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Il piccolo principe se ne andò perplesso. I grandi, decisamente sono molto, molto bizzarri, si disse durante il viaggio.

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Capitolo XXII “Buon giorno”, disse il piccolo principe. “Buon giorno”, disse il controllore. Che fai qui?, domandò il piccolo principe. “Smisto i viaggiatori a mazzi di mille”, disse il controllore, “Spedisco i treni che li trasportano, a volte a destra, a volte a sinistra”. E un rapido illuminato, rombando come il tuono, fece tremare la cabina del controllore. “Hanno tutti fretta”, disse il piccolo principe. “Che cosa stanno cercando?” “Lo stesso macchinista lo ignora”, disse il controllore. Un secondo rapido illuminato sfrecciò nel senso opposto. “Ritornano di già?” domandò il piccolo principe. “Non sono gli stessi”, disse il controllore. “È uno scambio”. “Non erano contenti là dove stavano?” “ Non si è mai contenti dove si sta”, disse il controllore. E rombò il tuono di un terzo rapido illuminato. “Inseguono i primi viaggiatori? domandò il piccolo principe. “Non inseguono nulla”, disse il controllore. “Dormono là dentro, o sbadigliano tutt’al più. Solamente i bambini schiacciano il naso contro i vetri. Quelli sì, che sono fortunati.”disse il controllore. Capitolo XXI In quel momento apparve la volpe. “Buon giorno”, disse la volpe. “Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. “Sono qui”, disse la volpe. “sotto il melo … ” “Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino … ” “Sono una volpe”, disse la volpe. “Vieni a giocare con me” le propose il piccolo principe, “sono così triste … ” “Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomesticata”. “Ah! scusa”, fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire addomesticare? ” “Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe, “che cosa cerchi?” “Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe. “Cosa vuol dire addomesticare?” “Gli uomini hanno dei fucili e cacciano. É molto noioso! É il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?”

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

“No”, disse il piccolo principe. “Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?” “È una cosa molto dimenticata. Vuol dire cercare dei legami …” “Cercare dei legami?” “Certo”, disse la volpe. Tu. Fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. “Comincio a capire”, disse il piccolo principe. “C’è un fiore … credo che mi abbia addomesticato.” “É possibile”, disse la volpe. “Capita di tutto sulla Terra …” “Oh! Non è sulla Terra”, disse il piccolo principe. La volpe sembrò perplessa: “Su un altro pianeta?” “Sì”. “Ci sono dei cacciatori in questo pianeta?”. “No”. “Questo mi interessa! E delle galline?” “No”. “Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea. “La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano e io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto la terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste. Ma tu hai i capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano …” La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe. “Per favore … addomesticami”, disse “Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”. “Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte, Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!” “Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ più lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio

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e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino …” Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore … Ci vogliono i riti”. “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe; “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo fino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza”. Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina: “Ah!” disse la volpe, … “ piangerò”. “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi.” “É vero”, disse la volpe. “Ma piangerai!” disse il piccolo principe. “E certo”, disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?” “Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.

Nel primo brano, quello dell’ubriacone, il Piccolo Principe deve confrontarsi con una irrazionalità per lui incomprensibile, che è la circolarità dei disturbi da dipendenza, la cui descrizione è però una ben formulata sintesi. La dipendenza è un fenomeno complesso, con molteplici aspetti psicologici e comportamentali. Nel racconto ne vengono, in modo implicito, indicati almeno tre: l’accumulo della sostanza (per non doverla altrimenti continuamente ricercare), l’interesse e l’attenzione focalizzati in modo assolutamente prevalente sulla sostanza per la reiterazione dell’assunzione, lo stato di disagio, determinato dall’assunzione della sostanza che l’ubriacone cerca di rimuovere, reiterando l’assunzione della stessa. La circolarità esprime qui in modo evidente la successione dei vari passaggi idetici e comportamentali ed esprime anche l’impossibilità, senza una rottura, di una via d’uscita.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

La circolarità non è però un fenomeno del solo disturbo da dipendenza, ma riguarda altri disturbi di più specifica pertinenza psichiatrica. Per citarne alcuni si può ricordare, tra i disturbi della condotta alimentare, la bulimia e sia pure con necessità di ulteriori precisazioni, alcune forme di disturbi affettivi ricorrenti. Già a metà dell’ ’800 lo psichiatra francese, Jules Falret aveva del resto denominato “folie circulaire” una forma caratterizzata dal regolare alternarsi di stati malinconici e maniacali, separati da un lucido intervallo. Nelle psicosi, più che fenomeni di circolarità nel senso anzidetto, c’è invece un ripiegamento della temporalità, che però isola e intrappola sentimenti e vissuti, impedendone l’ evoluzione. Uno studioso di questi fenomeni è stato Eugène Minkowski, di cui si è precedentemente detto. Un presente congelato senza futuro, con continue rielaborazioni delle medesime tematiche, sia pure a diverso contenuto (più frequentemente persecutorie o megalomaniche piuttosto che depressive) richiamano, per lo meno dal punto di vista della loro collocazione temporale, quelle precedentemente descritte per il bevitore. Per il Piccolo Principe, questi aspetti del mondo dei “grandi”, per di più patologici, sono veramente al di là di ogni possibile comprensione. Riesce solo a considerarli bizzarri. La sua perplessità, è però, la rinuncia a un giudizio. Il secondo brano, riguardante il controllore, è pure un esempio di incomprensibilità e, agli occhi di un bambino, di irrazionalità. Questa volta però l’incomprensibilità e l’irrazionalità non riguardano una persona, ma la società. Anche per la società esiste un tempo cronologico e un tempo psicologico. Nella società moderna il tempo, mercificato (il tempo è denaro), è un qualcosa che scorre sempre più veloce e che tutti si affannano a inseguire per paura di perderlo, perdendo di vista molte altre cose che dovrebbero essere molto più importanti: il pensare, il relazionarsi e confrontarsi con gli altri, il meditare, il contemplare la natura. Vista dall’esterno questa situazione è un via vai in tutte le direzioni, senza un significato apparente, che il controllore, come il vigile o un semaforo a un incrocio, può solo regolare perché non avvengano incidenti. Potremmo anche dare, di questa società, un’interpretazione riprendendo le concettualizzazioni di Habermas e la sua teoria dell’agire comunicativo.

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Per come appare al controllore è una società che ha perso il dire e il fare comunicativo, per adottare sempre di più un dire e un fare teleologico, riguardante i singoli o gruppi di singoli, ma non la società. Solo le singole persone, nei treni, conoscono il significato del loro affannarsi, non gli altri passeggeri, non il macchinista del treno né il controllore, né tanto meno un occasionale osservatore come il Piccolo Principe. Ma le singole persone, in questo loro affannarsi, se ci si riferisce a significati e obiettivi che vadano un po’ più in là del contingente, non sanno nemmeno loro cosa inseguono. La loro alienazione sta proprio in questo. Nel treno che li trasporta veloce “dormono … o sbadigliano tutt’al più”. Solo i bambini, in questa situazione alienata, riescono ad avere delle gratificazioni e per questo, come dice il controllore, “sono fortunati”. Schiacciando il naso contro il vetro dei finestrini, sono rimasti infatti i soli ad avere ancora l’occasione e la capacità di guardare il mondo. Poi, nel terzo brano, “ … apparve la volpe” L’incontro con la volpe è la metafora dell’amicizia e dell’amore. Non si tratta più di incontri con immagini della realtà incomprensibili e irrazionali. La volpe è un maestra di vita, una maestra di vita apparsa in un momento di crisi, quando il Piccolo Principe, davanti a un campo di rose, scoprì che la sua amata rosa, del suo piccolo pianeta lontano, non era l’unica rosa dell’universo. Questa scoperta, come dice Drewermann, per il Piccolo Principe tutto mette in gioco e decide: del senso del mondo intero, della sua gioia, della sua speranza, del suo amore, della sua fiducia, della sua origine e del suo avvenire: tutto dipende per lui dal capire in cosa consista l’unicità della sua rosa: la sua unicità non è una qualità oggettiva, non una proprietà esteriore, ma il risultato di un atteggiamento spirituale percepibile solo interiormente: è il proprio cuore che conferisce all’altro il suo valore e lo riempie di significato. E lì sta appunto l’insegnamento della volpe, il contenuto della sua magica introduzione nel mondo interiore dell’amore.

La ragione per cui ho inserito questo brano in un capitolo, il cui tema è la diversità, l’irrazionalità e la follia è però solo indirettamente quello della metafora anzidetta.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

È invece il ricordo di una relazione di Cesare Musatti a un convegno tenutosi a Chiavenna molti anni fa, che aveva come titolo: La fine della psicoterapia. Per Musatti l’incontro con la volpe è anche una metafora della psicoterapia e in particolare della psicanalisi: per come si instaura la relazione tra i due attori (con riferimento al trasfert), per come vengono descritti e valorizzati alcuni aspetti del setting (con riferimento all’importanza di certe ritualità), per come si conclude. Il modo per superare l’irrazionalità di un’esistenza senza senso o di un’esistenza mancata, diceva Binswanger con riferimento alla Daseinanalyse, è quello di riattribuire alla propria esistenza dei significati o, come diceva Minkowski, di ritrovare lo slancio vitale, che rompa il cerchio, temporalmente chiuso, della psicosi e riproponga un divenire. La psicanalisi e le psicoterapie in genere, mirano a questo. La psicanalisi, diceva Dario De Martis, non è una terapia, è un’esperienza di vita, un’ esperienza però che può modificare se stessi. E se di essa, quando conclusa, si dovessero sintetizzare i risultati, forse, diceva Musatti, le parole più vere che si potrebbero dire sono quelle della volpe che così riassumeva la pur dolorosa conclusione di una relazione d’amicizia: ho guadagnato il colore del grano!

4.5 Alice nel paese delle meraviglie ovvero la razionalità ingenua e l’irrazionalità Alice nel paese delle meraviglie è un’opera del matematico e scrittore inglese Charles Lutwidge Dogson, più noto con lo pseudonimo di Lewis Carrol, scritto per una sua giovanissima amica Alice Liddel, figlia del decano del collegio universitario di Oxford dove insegnava. È un’opera complessa, presentata come una favola per l’infanzia, ma che come dice Aldo Busi nell’introduzione alla sua traduzione “non è un libro per bambini” e non è neppure un libro per adulti troppo sensati, per essere invece il libro degli adulti stufi di crescere per niente [ …] il loro hula hoop che accerchia le emozioni dell’infanzia, la quale, come per quasi tutte le cose, la si possiede appieno quando è definitivamente perduta e diventa una vera esperienza quando si finisce per cominciare a immaginarsela.

La protagonista è Alice, che seguendo un coniglio bianco precipita in un onirico mondo sotterraneo, dove la realtà ha aspetti completamente diversi

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rispetto a quelli del mondo in cui prima era sempre vissuta e dove le accadono le più strane avventure. L’ambiente e lei stessa cambiano continuamente dimensione, gli abitanti sono più o meno distinti personaggi, per lo più animali, che parlano e hanno comportamenti strani e inimmaginabili rispetto a quelli che lei può aspettarsi. Perfino cose inanimate comunicano con lei con messaggi scritti, come una bottiglia con su scritto “bevimi” o un pasticcino con su scritto “mangiami”. Tutto in questo mondo è paradossale: dal Coniglio bianco con guanti e ventaglio, al Gatto del Cheshire che compare e scompare, al Re e alla Regina di cuori, lui buono, lei cattivissima, alla Lepre Marzolina che insieme a un Ghiro prende un tè matto con il Cappellaio Matto, il quale propone indovinelli senza risposta e parla del tempo e di orologi che non funzionano e segnano i giorni e non le ore. Alla fine c’è anche un processo per giudicare il Fante di cuori, accusato di aver rubato delle tartine pepate, nel quale Alice stessa, la Cuoca della Duchessa e il Cappellaio Matto sono testimoni. Alice nel Paese delle Meraviglie è però molto più di una favola. È stato uno specchio che ha riflesso i cambiamenti di un’epoca in cui l’orizzonte individuale è radicalmente cambiato, spinto dalla nuove acquisizioni scientifiche, dalle nuove dottrine politiche e filosofiche e dalla diversa organizzazione della società, evidenziando l’inadeguatezza e l’arbitrarietà del sistema vigente. È stato una modalità per esprimere la trasgressione in una società dominata dalla rispettabilità e dal perbenismo vittoriano. È, nella sua espressione onirica, un viaggio nell’inconscio, in un regno dove dominano le libere associazioni e dove il reale e il fantastico perdono i loro confini. È un esercizio sul linguaggio e con il linguaggio e di logica del non senso. Io di quasi tutti questi ambiti sono inesperto e non cercherò quindi di fare degli approfondimenti su di essi. Alice nel Paese delle Meraviglie è però anche, mi sembra, un’esperienza di sopravvivenza nella follia o per lo meno in un certo tipo di follia che ha come aspetto e come sua espressione prevalente, l’irrazionalità. Sul fondo della tana del coniglio non c’è una Alice impazzita, ma una realtà impazzita. Le cose, gli esseri viventi non sono e non stanno più al loro posto, perdono la loro stabilità e il loro significato, sono spesso qualche cosa di altro, di non prevedibile.

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Lo stesso linguaggio, in cui le parole perdono i loro significati specifici e sono usate per indicare altro o più cose, abbandona il suo compito, che è quello di essere lo strumento per l’interpretazione della realtà, contribuendo ad accentuare il caos semiotico. Alice si trova improvvisamente in un mondo dove l’ordine simbolico è mutato e fa fronte a ciò inizialmente con paura, aggrappandosi alla sua identità, che le sembra vacilli, poi con stupore e con la contrapposizione all’ irrazionalità della sua razionalità ingenua di bambina, per cercare delle chiavi di lettura. Tutto, dopo un po’, sembra un gioco. Ma è proprio così, come si è visto anche nel Piccolo Principe, che un bambino o un giovane adolescente, affronta una realtà, che continuamente si allarga e che gli propone cose talvolta per lui incomprensibili e assurde: con una razionalità ingenua e con stupore, ma soprattutto salvaguardando, come riferimento essenziale, la propria identità, ancora non completamente definita, che però ha acquistato via via consistenza fin dai primi anni di vita. E forse è anche un po’ così che, in un esordio psicotico, in questo caso più che con stupore con angoscia, una persona, vedendo cambiare il mondo e se stessa, cerca inconsciamente di salvare qualche pezzo della propria identità e di definire un ordine simbolico perlomeno di sopravvivenza. Di Alice nel paese delle meraviglie, per poter meglio esemplificare questo suo viaggio nella realtà e nella logica del non senso, ho scelto i seguenti tre brani, nella traduzione di Aldo Busi Dal II capitolo In un lago di lacrime Alice raccolse il ventaglio e i guanti [del coniglio Bianco] e siccome l’atrio era surriscaldato, prese a farsi vento senza smettere di parlare: “Che roba! Roba dell’altro mondo! Tutto il mondo oggi è roba dell’altro mondo! E pensare che fino a ieri le cose avevano un capo e una coda! E se mi avessero scambiata stanotte? Vediamo un po’: stamattina quando mi sono svegliata, ero proprio la stessa? Mi sembra di ricordare che un po’ diversa mi sentivo, sotto sotto. Ma se non sono la stessa, allora domando e dico: chi cavolo sono? Ah si che questa è una domanda da centoventidue milioni!” E cominciò a passare in rassegna tutte le bambine più o meno della sua età che conosceva, caso mai l’avessero scambiata con una di loro. “Ada non posso essere di sicuro,” disse, “lei ha tutti quei boccoli nei capelli e io sono liscia come un olio; mai posso essere Mabel, io so un sacco e una sporta di cose e lei, oh! Lei non sa un acca! Inoltre lei è lei e io io e … uffa, ho

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perso il filo! Proverò a vedere se le cose che sapevo sono ancora al loro posto. Dunque 4 x 5 = 12, 4 x 6 = 13. 4 x 7 … di questo passo non arriverò mai a venti! Comunque la tavola pitagorica non conta, proviamo con la geografia: Londra è la capitale di Parigi e Parigi è la capitale di Roma, che è … no, va al tuo posto! Devo proprio essere stata scambiata con Mabel! Proverò a ripassare Piccol’ape …” e si mise con le mani intrecciate sul grembo come quando ripeteva una lezione e cominciò a recitare, ma le uscivano dei suoni aspri e non è che le uscissero proprio le stesse parole delle altre volte …

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Dal VI capitolo Porco d’un pepe Il Gatto vedendola si limitò a sogghignare. “Sembra una buona pasta,”pensò Alice; ma aveva le unghie e tantissimi denti, e lei ritenne opportuno trattarlo con molto riguardo. “Mammolino del Cheshire,” cominciò un po’ impacciata, perché non sapeva se avrebbe gradito il nome: il Gatto si limitò ad allargare il sogghigno. “Per ora tutto liscio,” pensò Alice e proseguì: “Mi dici per piacere che strada devo prendere?” “Dipende più che altro da dove vuoi andare,” disse il Gatto. “Non mi interessa tanto dove …” disse Alice. “Allora una strada vale l’altra,” disse il Gatto “ … basta che arrivi da qualche parte,” soggiunse Alice a mo’ di chiarimento “Oh, questo è garantito al limone,” disse il Gatto, “basta che metti un piede dopo l’altro e ti fermi in tempo.” Alice dovette ammettere che era la sacrosanta verità, perciò provò a fare un’altra domanda. “Che razza di gente abita da queste parti?” “Da quella parte,” disse il Gatto agitando la zampa destra, “abita un Cappellaio e da quest’altra,” agitando l’altra zampa “abita una Lepre Marzolina. Va’ pure da chi ti pare: sono matti tutti e due.” “ Ma io non voglio andare fra i matti,” osservò Alice. “Oh, non puoi evitarlo,” disse il Gatto, “noi qui siamo tutti matti. Io sono matto tu sei matta.” “Come fai a sapere che io sono matta?” disse Alice. “Per forza che lo sei,” disse il Gatto, “altrimenti non saresti venuta qui.” A Alice questo non parve affatto un argomento probante, tuttavia non ribatté e disse “ E come fai a sapere che tu sei matto?” “Tanto per cominciare,” disse il Gatto, “i cani non sono matti. Sei d’accordo?” “Bo’, sì” disse Alice. “Bene,” riprese il Gatto, “come saprai un cane quando è arrabbiato ringhia e quando è contento muove la coda... Io, invece, ringhio quando sono contento e muovo la coda quando sono arrabbiato. Perciò sono matto.” “ A casa mia questo si chiama fare le fusa, mica ringhiare,” disse Alice.

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Dal VII capitolo Un tè fuori di sé “Non sta bene criticare gli altri,” disse Alice con una certa severità, “è da maleducati.” Il Cappellaio sgranò gli occhi nel sentire ciò, ma si limito a dire: “Che differenza c’è tra un corvo e un tavolino?” “Oh, adesso viene il bello!” pensò Alice: “Sono contenta che comincino a fare gli indovinelli, ci si può arrivare!” soggiunse a voce alta. “Vuoi dire che pensi di poter trovare la risposta?” disse la Lepre Marzolina. “Proprio così!” disse Alice. “Allora dovresti dire quello che pensi,” continuò la Lepre Marzolina. “Lo faccio sempre,” rispose Alice d’un fiato. “Almeno … almeno penso quel che dico … che è la stessa cosa, no?” “Non è la stessa cosa per niente,” disse il Cappellaio. Sarebbe come dire che vedo ciò che mangio è la stesa cosa di mangio ciò che vedo!” “Sarebbe come dire,” aggiunse la Lepre Marzolina, “che mi piace ciò che prendo è la stesa cosa di prendo ciò che mi piace!” “Sarebbe come dire,” soggiunse il Ghiro, che sembrava parlare nel sonno, “che respiro quando dormo” è la stesa cosa di dormo quando respiro!” “Ma è la stessa cosa per te! disse il Cappellaio, e qui la conversazione languì, e i convitati restarono in silenzio per qualche minuto, mentre Alice passava in rassegna tutto quello che sapeva su corvi e tavolini, cioè non molto. Fu Il Cappellaio a rompere il silenzio. “Quanti ne abbiamo oggi? Disse, rivolto ad Alice: aveva tirato fuori l’orologio di tasca e lo guardava perplesso, scuotendolo di continuo, e portandoselo all’orecchio. Alice stette a pensarci un momento e poi disse: “Quattro”. “Sgarra di due giorni” sospirò il Cappellaio. “E te l’avevo detto io che il burro non andava bene per le rotelle!” aggiunse, guardando storto la Lepre Marzolina. “Ma era Burro Imparzialmente Scremato!” si scusò remissiva la Lepre Marzolina. “Si, ma devono esserci finite dentro delle briciole,” brontolò il Cappellaio, “non avresti dovuto spalmarlo dentro con il coltello del pane.” La Lepre Marzolina prese l’orologio e se lo rigirò fra le mani con aria desolata, quindi lo pucciò nella sua tazza di tè e tornò a guardarlo, ma non le venne in mente nient’altro che la sua osservazione di prima, “Il Burro Imparzialmente Scremato è il migliore, ti dico.” Alice sbirciò da sopra le spalle, incuriosita. “Che orologio strano!” osservò “Dice i giorni del mese, ma non le ore del giorno!” “ E perché dovrebbe?” borbottò il Cappellaio. “Il tuo orologio segna forse che anno è?” “ Certo che no,” ribatté prontamente Alice, “ma solo perché un anno resta tanto di quel tempo tutto in una volta.”

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“Be’, il mio nemmeno,” disse il Cappellaio. Alice non sapeva più che pesci pigliare. L’osservazione del Cappellaio sembrava non avere alcun significato, eppure stavano parlando la stessa lingua. “Temo di non capire,” disse più gentilmente che poté. “Il Ghiro si è addormentato,” disse il Cappellaio, e gli versò un po’ di tè bollente sul naso. Il Ghiro scosse la testa seccato e disse senza aprire gli occhi: “Ma certo, ma certo, è proprio quello che stavo per dire io”. “Allora hai risolto l’indovinello?” disse il Cappellaio rivolgendosi di nuovo a Alice. “No, mi arrendo,” disse Alice, “Qual’ è la soluzione?” “Non ne ho la più pallida idea,” disse il Cappellaio. “Io neanche,” disse la Lepre Marzolina. Alice sospirò spazientita: “Mi pare che potreste impiegare meglio il vostro tempo,” disse, “invece di gingillarvi con esso facendo indovinelli senza risposta. “Se tu conoscessi il Tempo come lo conosco io,” disse il Cappellaio, “non parleresti di gingillarti con esso. È un lui, lui.” “Non capisco che cosa vuoi dire,” disse Alice. “Naturale che no!” disse il Cappellaio scuotendo sdegnosamente la testa. “Scommetto che tu col Tempo non c’hai mai neanche parlato!” “Forse parlato no,” rispose Alice cautamente, “ma so che quando studio musica devo battere il tempo.” “Ah, ecco spiegato tutto!” “ Lui non tollera di essere battuto. Invece, se fossi in buoni rapporti con lui, ti sistemerebbe le lancette, come ti gira. […]

Il primo brano riguarda Alice alle prese con il problema della sua identità. Tutto è cambiato intorno a lei e lei stessa è cambiata nel rapporto con il suo corpo, un momento troppo grande, poi, subito dopo, troppo piccolo al punto di rischiare di annegare nelle sue lacrime, diventate per lei un lago. Le lacrime sono state però per lei un momento, un solo momento, di disperazione, da cui si è però subito ripresa dicendosi: “Su, su, non serve a niente piangere.” Ripresasi ha però di fronte la nuova realtà e dopo le considerazioni che abbiamo letto, subito pensa: ma allora chi sono? Il controllo parte da alcune sue caratteristiche fisiche, poi dai suoi contenuti di coscienza, dalle sue cognizioni e scopre che anche la tavola pitagorica non è più la stessa, che la geografia è cambiata, che le poesie che le avevano fatto imparare non hanno più né parole né suoni per poter essere correttamente recitate. L’unica cosa che le è rimasto è il nome!

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Anche questo però, dopo un momento in cui ha vacillato, più come dato implicito che esplicito. Il nome, la sua identità, è però ciò che la collega alla sua passata esperienza e che in questo stato di ritorno a una fase prelinguistica e preculturale é il tramite per una continuità biografica e il fondamento della distinzione che comunque permane tra un Sé e le altre cose. Sull’importanza dell’identità e del nome come espressione di identità sono stati scritti volumi, che riconducono al rapporto tra pensiero e linguaggio e alle teorie di Piaget e di Vygotskij, che affrontano il problema di come queste facoltà si sviluppano. Nel caso di Alice il suo ritorno ad una fase prelinguistica (e preculturale) per quanto riguarda la sua comprensione della realtà e le sue cognizioni scolastiche non riguarda però il suo pensiero e quanto a lei accade si accorderebbe di più con la teoria di Piaget che considera antecedente il pensiero … se così potessimo dire. Con la sua identità Alice conserva anche la sua razionalità ingenua da bambina, da bambina ben educata dell’Inghilterra vittoriana ed è con questa razionalità che affronta la sua esperienza nel mondo del non senso. Lewis Carrol, o meglio Dogson, da bravo matematico, che si dilettava pure di giochini logici, ha voluto anche fare in questo capitolo un piccolo scherzo, che però cercherò ora di utilizzare al di là di quelle che potevano essere le sue intenzioni. Ha presentato come esempio di non senso anche i conteggi di Alice irrispettosi della tavola pitagorica 5 x 4 = 12, 6 x 4 = 13, 7 x 4 = … ben sapendo, che una logica queste relazioni matematiche ce l’hanno, anche se nascosta. È una logica che non si può però cercare con la tavola pitagorica, perché i risultati indicano che si tratta di una progressione di moltiplicazioni e differenze con una base da sottrarre che aumenta sempre di tre : 5 x 4 = 20 - 8 = 12, 6 x 4 =24 – 11 = 13, 7 x 4 = 28 – 14 = 14 ecc. Io vorrei utilizzare questo piccolo scherzo per ricordare che nelle psicosi, a differenza degli stati confusionali, in cui veramente può essere dominante il caos semiotico e il non senso, è assai spesso possibile trovare, nell’apparente irrazionalità, una logica che però non è quasi mai quella del senso comune e che assai spesso non è facile decifrare. Talvolta però ci si riesce, nonostante Jaspers e l’incomprensibilità. Il secondo brano, dopo una serie di evidenze ovvie, presenta invece una singolare definizione di follia. Alice non vuole andare con i matti, ma ahimè!, nel regno del non senso, in quello strano paese delle meraviglie, tutti sono matti e la stessa Alice,

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come le dice il Gatto del Cheshire, per il solo fatto di essere lì, è matta anche lei. Ed è il Gatto a dare la definizione di follia e non poteva essere che una definizione non senso. Per un Gatto matto cos’è che può rappresentare la normalità? Ma certo! Il comportamento di un cane. Infatti, dice il Gatto del Cheshire , “un cane quando è arrabbiato ringhia e quando è contento muove la coda.” Per lui invece … è esattamente il contrario. Più ovvio di così! L’ultimo brano è infine una sagra dell’irrazionalità del non senso ed è una irrazionalità che lascia spesso senza parole perfino la razionalità ingenua di Alice. È però un brano che qualcosa di interessante ugualmente, in modo indiretto, ci dice, al di là dei giochi linguistici, delle parole con un doppio senso a seconda della posizione nella frase, degli indovinelli senza risposta. Ci dice che l’irrazionalità, che è l’aspetto della follia spesso prevalentemente considerato, è un aspetto importante, ma non uno di quelli più importanti, che sono invece il disagio, la sofferenza e l’angoscia, riconducibili tutti all’affettività piuttosto che alla sfera cognitiva. In Alice questi appaiono solo in un primo momento, poi però, da brava bambina inglese ben educata, li controlla e li reprime, cercando soluzioni a livello razionale anche per le nuove condizioni esistenziali E affronta il pazzo mondo a volte con stupore, ma sempre e comunque con una persistente volontà di riportarlo nei canoni della sua logica e di comprenderlo. Su un altro punto voglio infine concludere: sull’ orologio del Cappellaio Matto e sul tempo. L’orologio è uno strumento, che può essere più o meno idoneo a misurare e a indicare normalmente le ore, ma anche, negli orologi moderni, giorni o anni, che comunque sono un riferimento cronologico nel senso newtoniano. IL rapporto affettivo che ciascuno di noi ha col tempo è invece la base sulla quale ciascuno costruisce e vive anche un tempo psicologico. E il Cappellaio Matto, a proposito di questo, con tutto il suo non senso, dice ad Alice una grande verità: “Scommetto che tu col tempo non c’hai mai parlato! [ … ] se fossi in buoni rapporti con lui, ti sistemerebbe le lancette, come ti gira.”

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INDICE ANALITICO

Aforismi della follia 202,203 Alice nel paese delle meraviglie 224,231 dal 2° cap.: In un lago di lacrime Il problema dell’identità in una condizione prelinguistica e preculturale 226,227,229,230 dal 6° cap.: Porco d’un pepe La definizione della follia nel regno dell’irrazionalità 226,230,231 dal 7° cap.: Un tè fuori di sé Una sagra dell’irrazionalità e considerazioni sul tempo 228,229,231 Alieno, alienato, foresto: loro significati 196,197 Antropologia: definizione 24 - le sue tre branche: fisica, culturale e filosofica 24 Antropologia culturale 25-27 - indirizzo cognitivo-evoluzionistico 2630 - indirizzo linguistico-letterario 26,27 Antropologia fenomenologica 108-112 Antropologie fenomenologiche strutturali 114,115 Antropologia fenomenologica di E. Minkowski e il tempo come senso e fisionomia di ogni vissuto 114,115 Assistenza psichiatrica. Aspetti della sua evoluzione nel ’900 142-155 - la legge del 1904, gli ospedali psichiatrici e l’istituzionalizzazione 142-145 - la crisi dell’istituzionalizzazione e le richieste di cambiamento 142-147 - la storia della legge 180 147-150 - la territorializzazione dei Servizi psichiatrici a seguito delle leggi 180 e 833 e del1e successive leggi di riordi-

no degli anni ’90 149-152 - aspetti della situazione attuale dell’assistenza 152-154 Associazioni di familiari 156-167 Associazioni di familiari a Varese 159, 160,161-167 - storia dell’associazionismo di familiari, di malati ed ex malati e loro amici nella seconda metà del ’900 in Italia e in altri paesi occidentali 156-158 - Ferdinanda Vischi e la nascita a Varese di ADIAPSI (Associazione difesa ammalati psichici) 159,175,177 - il Co.Pa.Sa.M. (Coordinamento Provinciale Associazioni per la Salute Mentale): la sua nascita e il suo significato nella realtà varesina 160-162 - il Co.Pa.Sa.M. e la lotta allo stigma 162-165 Cultura. Definizioni Cultura come spirito oggettivo (Dilthey, Habermas, Hatmann, Popper, Simmel) 30-33 - modello oggettivistico (Hartmann e Popper) 31-33 - modello storico-ermeneutico soggettivistico (Dilthey e Simmel) 31 - modello misto (Habermas) 31,32 Cultura e malattia o disturbo mentale 97102 Daseinanalyse di Binswanger 109-112, 117-124 - significato del termine 116,117 - concetti fondamentali 109-112 - prospettive della Daseinanalyse come psicoterapia fenomenologica 112-113

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Daseinanalyse e la psichiatria italiana: Danilo Cargnello 109,110, 116 e seg. - Alterità e alienità: significato di un titolo 117 Daseinanalyse e psicanalisi - Homo existentia di Binswanger contrapposto all’Homo natura di Freud 117,118 - la critica alla metapsicologia freudiana e alla Deutung psicanalitica 117, 121 - l’accettazione della psicanalisi come metodologia privilegiata con riferimento in particolare all’analisi del transfert e delle resistenze 119,120 Daseinanalyse e psichiatria 121,124 - il suo apriori rispetto alle valutazioni cliniche 122,123 - la difficile ma necessaria convivenza del mit Dasein con gli approcci di tipo scientifico - naturalistico 123, 124 Delirio: etimologia e significati 65,195 Denett: i memi e la cultura 45-47 Disagio psichico 90,93 - sua dimensione privata 90 - sua dimensione pubblica 90 - sua dimensione sociale 90 Disturbo psichico 90-93 - come sinonimo o equivalente di malattia mentale 90,91 - con riferimento al concetto di unità morbosa 91,92 - i sintomi come espressione di malattia 92,93 - i sintomi come modi dell’esistere ed espressioni dell’umana presenza (Binswanger) 93 - i sintomi con riferimento alla storia evolutiva della specie 106 Diversità nella società in varie esemplificazioni 57-61 Diversità come identità negative 63-67 Dolore psichico 85-89 - come sofferenza psichica 86 - come dolore mentale 86 - nella sua dimensione psicologica privata 87,88 - nella sua espressione pubblica 87,88

- come espressione collettiva sovraindividuale 88 - nella sua evoluzione ontologica 86,87 - sua interpretazione nelle religioni 88, 89 - sua interpretazione in filosofia 89 Erasmo da Rotterdam e L’elogio della Pazzia 82,103,211,212 Evoluzione dell’affettività e degli istinti con riferimento alla vita ancestrale della specie 105,106 - l’evoluzione della sessualità femminile 106,107 - padre, madre figli e il mito di Kronos 107 Evoluzione dei paradigmi scientifici in psichiatria 94,96,144,145 Evoluzione dei paradigmi scientifici in medicina somatica 94,96,144,145 Fenomenologia e psichiatria 104,105 Psicopatologia fenomenologica di Jaspers: il capire per spiegare e il capire per comprendere 108 Psichiatria e antropofenomenologia 108110 vedi anche Daseinanalyse di Binswanger, Antropologie fenomenologiche strutturali e Antropologia fenomenologica di E. Minkowski) Follia e cultura 96-102 - nella società greca antica 97 - nella società romana 97,98 - nel medioevo e rinascimento 98,99 - nel mondo moderno 100,101 - nell’attualità 101,102 Follia come diversità 63-65 Follia come irrazionalità 80-82 Follia come identità negativa 63,64 68, Follia come identità perduta 65-67 Follia come identità negata 68,69 Follia: le parole che la esprimono 196201,203 - follia e folle: etimologia, significati, sinonimi 197,198 - mattità, matto, mattoide:etimologia, significati, sinonimi 197,199,200,203 - pazzia e pazzo: etimologia, significati, sinonimi 195-197 - sue icone e locuzioni 200,201

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Indice analitico Follie positive: - la follia come trasgressione (Erasmo, proverbi, aforismi, modi di dire) 78,81,201,202,203,211,212 - la follia dei santi (Francesco, Giovanna d’Arco) 98 - le follie che vengono dagli dei (Platone) 97 GLP (Gruppo di Lavoro provinciale per la salute mentale) 173-193 - la sua nascita e il suo significato 174176,182,191 - i componenti 173,190,191 - la sua storia con riferimento ai suoi coordinatori dal 1986 a oggi: - Edoardo Balduzzi (dal 1986 al 1987) 176-180 - Giuseppe O. Pozzi (dal 1997 al 2002) 180-182 - Simone Vender (dal 2002 a oggi) 182191 - il GLP, la lotta allo stigma e la promozione della salute mentale 180-191 Gruppi di auto – aiuto 167-173 - un po’ della loro storia 168,169 - l’auto – aiuto in psichiatria e nei disturbi di depressione e ansia da parte dei gruppi IDEA (Istituto Depressione Ansia) e ARETE (Associazione Regionale per la Tutela e l’Emancipazione delle persone con depressione e ansia) 169-173 Habermas e la teoria dell’agire comunicativo 33-39 - concetti fondamentali: - il mondo della vita 34,35 - il sistema 34,39 - l’agire 35,36 - il linguaggio 35,52 - il mondo oggettivo 36,37 - il mondo sociale e il significato di cultura 39,40 Habermas, Popper, Denett e Searle. - mente, cultura e società: teorie a confronto 50-53 - genesi, ontologia e nessi della cultura 50-51 - lo statuto del linguaggio 51,52

235 Identità collettiva 53-57 - identità dell’Io di Erikson 54,55 - l’Io sovraindividuale di Comte 55 - la coscienza collettiva di Durkheim 55 - Bastian e l’anima sociale 55,56 - le riflessioni contemporanee (Habermas, Popper, Searle, Wittgenstein, Tajfel, Melucci) 55-57 Linguaggio: classificazione di K. Buhler 41 - nella teoria dell’agire comunicativo di Habermas: teleologico, normativo e drammaturgico 35,52 - nella teoria della mente e della coscienza di Denett 45,46,52 - nella teoria della mente di Popper 30,43,44,51,52 - nella teoria della mente di Searle 52 Linguaggio e cultura 51,52 - le parole come espressione viva e dinamica della cultura 195 - lo studio, le interpretazioni e la categorizzazione delle parole 195,196 Marco il cavallo: la sua storia 201 Nasch John Forbes jr.: la sua storia 213,214,216,217 Il pensiero schizofrenico 214-216 - interpretazione di E. von Domarus e di S. Arieti 215,216 - il pensiero prelogico e paleologico 215 - il pensiero ipologico 215 - J. Mate Blanco: la bilogica e l’inconscio come insieme di infiniti 216,216 Il Piccolo Principe 217-224 dal cap. XII: - l’episodio dell’ubriacone e la circolarità delle dipendenze 218,221,222 dal cap. XXI: - l’episodio della volpe come metafora dell’amore, della relazione e anche della psicoterapia 219-221,223,224 dal cap. XXII - l’episodio del controllore. L’incomprensibilità, l’irrazionalità e l’alienità come espressioni sociali 219,222, 223 - interpretazione psicanalitica di E. Drawermann 223

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

Popper e il mondo 3 40-43 - significato di cultura per Popper 40, 44,45 - l’evoluzionismo, l’emergentismo, l’innatismo “a priori” 40-43 Predicati della follia 101,102-105 - alienità 101,103 - incomprensibilità 101,103 - in guaribilità 101,103 - irrazionalità 81,82,101,103, - pericolosità 101,104 Proverbi sulla follia 202 Ragione e intelletto 69-74 - come sinonimi o come funzioni separate nella storia della filosofia 69-74 - loro significato in Kant e in Hegel 7174 - il culto della dea Ragione 74 Razionalismo e irrazionalismo 74-77 - loro significato nella storia della filosofia 74-76 Razionalità e irrazionalità 77-83 - loro definizione e loro espressioni 77, 83 - loro significato come aspetti della normalità 80,81 - la follia come irrazionalità e perdita della ragione 81,82 La relazione: suo significato fenomenologico 122 - in psichiatria e in psicanalisi 122-124 - in medicina somatica 124 - come espressione concreta del paradigma ippocratico antropologico e naturalistico della medicina 123 Searle e il significato di intenzionalità collettiva 47-50 - la cultura come espressione sociale 48, 50 Società: definizione 23

- nella teoria dell’ agire comunicativo di Habermas 36,37 - nella teoria dell’intenzionalità collettiva di Searle 47,48 Spirito oggettivo e spirito soggettivo in Hegel 30 Spirito oggettivo come cultura - i vari modelli: storico - ermeneutico (Dilthey e Simmel), oggettivistico (Husserl, Hartmann e Popper), misto (Habermas) 28-31 Stigma e malattia mentale 125-140 - definizione 125,126 - le etichette 127,128 - handicap sociali e stigma 128,129 - percezione sociale delle persone etichettate come malati psichici 129,130 - atteggiamenti stigmatizzanti nella società 133,134 - atteggiamenti stigmatizzanti negli studenti universitari 132,133 - atteggiamenti stigmatizzanti da parte del personale psichiatrico 130,132 - la diversità nei film 134-138 - la malattia mentale nei film 138,139 I tarocchi - Biblia pauperum 205 - il gioco 204 - il Matto: descrizione e significati 206, 207 - nei tarocchi viscontei 205,207,210 - nei tarocchi del Mantegna 207,208 - nei tarocchi marsigliesi 207,208,210 - nei tarocchi di Rider-Waite 209,211 - trionfi o arcani maggiori 204,205 - i trionfi dei tarocchi e Trionfi del Petrarca 204,205 Teorie della mente: le varie forme di monismo e di dualismo 24

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ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI

1. Il matto nei tarocchi viscontei

207

2. La stultitia nella giottesca cappella degli Scrovegni di Padova

207

3. Il misero nei cosiddetti tarocchi del Mantegna

207

4. Il matto nei tarocchi marsigliesi

208

5. Altre immagini di tarocchi marsigliesi

208

6. Il matto nei tarocchi di Rider-Waite

209

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ELENCO DEI NOMI ( con indicazione in bibliografia)

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*Adorno Theodor W. (1903-1969), filosofo tedesco della Scuola di Francoforte, autore di Terminologia filosofica, in bibliografia 33,72-74 Agostino d’Ippona (354-430), filosofo, teologo e padre della Chiesa, citato per le sue concettualizzazioni sul dolore 89 Agrippa Menenio ( … - 493 a. C.), console romano eletto nel 503 a.C. noto per il suo apologo, con cui risolse il conflitto sociale tra patrizi e plebei 59 Airoldi Massimo, educatore professionale e musicoterapeuta nell’UOP di Saronno. Iniziativa importante che lo vede protagonista: la band La nuova Risonanza 184,192 Aletto, una delle Erinni della mitologia greca 97 Amenabar Alejandro, regista spagnolo del film The Others del 2001, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 *Ancona Leonardo, psichiatra, psicanalista autore di Sofferenza e dolore mentale e con S. Moravia di Follia, in bibliografia 63,86 Andersen Hans Christian (1805-1875), scrittore e poeta danese, citato per la sua favola Il brutto anatroccolo, correlata a A Beautiful Mind e alla vita di John Forbes Nach jr 21,213 *Angermeyer Matthias C., psichiatra tedesco studioso dei processi di stigmatizzazione nelle malattie mentali, autore con B. Schulze di una pubblicazione dal titolo Reducing the stigma of schizophrenia: understanding the process and opinions for interventions,citati da S. Vender a pag, 133, nella bibliografia specifica a pag. 140 Annaud Jean Jacques, regista francese del film Sette anni in Tibet del 1997, citato da Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 138 *Arieti Silvano (1914-1981), psichiatra e psicanalista, allievo di Frieda FrommReichmann, uno dei più importanti studiosi della schizofrenia del XX secolo, autore di Interpretazione della schizofrenia in bibliografia 100,215 Ariosto Ludovico (1474-1533), poeta e commediografo, autore dell’ Orlando Furioso, citato con riferimento al senno di Orlando 210 Aristofane (450-385 a.C.), commediografo greco antico, citato per la sua trilogia femminista: Lisistrata, Le donne alla festa di Demetra e Le donne all’Assemblea, correlata alla tematica della diversità 60 Aristotele (384/383-322), uno dei grandi filosofi della Grecia classica, riferimento

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imprescindibile per temi quali la ragione, la razionalità, la gnoseologia in genere 70,75,78,79,202,216 *Armocida Giuseppe, psichiatra e storico, Ordinario di Storia della Medicina dell’Università dell’Insubria, autore del capitolo L’istituzionalizzazione, il suo superamento e la territorializzazione dei servizi e con B. Zenobio di Storia della Medicina, in bibliografia 20,53,149 Asclepiade di Prusa (129-40 a.C.), medico greco che esercitò a Roma, fondatore della scuola medica romana 98 Atran Scott, antropologo statunitense di indirizzo cognitivo, con importanti studi sull’antropologia della scienza e sulla costruzione culturale della natura 27,29 Austin John langsham (1911-1980), filosofo e linguista inglese, con importanti studi sul significato degli atti linguistici 35 *Babini Valeria P., storica della scienza, citata per il suo libro Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del ’900, in bibliografia 164 Bacone Francesco (1586-1626), filosofo razionalista inglese, con Cartesio uno dei padri del razionalismo metodologico 75 *Baldini Massimo (1947-2008), filosofo della scienza e del linguaggio, autore dell’introduzione a Tre saggi sulla mente umana di K.R. Popper, in bibliografia 51 *Balduzzi Edoardo, psichiatra fenomenologo, con l’esperienza di psichiatria di settore di Varese, uno dei pionieri e dei maggiori esponenti del rinnovamento psichiatrico italiano della seconda metà del ’900, fondatore a Varese del GLP (Gruppo di Lavoro per la Salute mentale). Nella bibliografia specifica di G. Armocida a pag. 154 il suo L’albero Della cuccagna. 1964-1978. Gli anni della psichiatria italiana 20,115,146,164,174,176,179-180,188,189,191 *Ballerini Arnaldo, psichiatra fenomenologo, autore della relazione Acuto cronico: crisi e ricostruzione dell’identità in bibliografia 65,115 *Baranzini Federico, psichiatra citato da S. Vender, con riferimento alla pubblicazione Discriminazione e accoglienza della persona con disturbo psichico nella popolazione (pag.133), nella bibliografia specifica a pag.140 *Barison Ferdinando (1906-1995), psichiatra citato per la sua psicoterapia fenomenologica (pag.113) e da G. Armocida (pag 144) con riferimento alla pubblicazione Proposte dei medici di ospedali psichiatrici per la riforma psichiatrica nella bibliografia specifica a pag. 155 Basaglia Franco (1924-1980), psichiatra innovatore dell’assistenza psichiatrica in Italia, ispiratore della legge che chiuse i manicomi, la cui vita è stata raccontata nello sceneggiato di F. Gifuni C’era una volta la città dei matti 82,103,115,146149,165,201,203 Bastian Adolf (1826-1905), etnologo e antropologo tedesco che, con la sua teoria delle idee elementari, anima sociale e mente collettiva, influenzò C.G.Jung nell’elaborazione degli archetipi e dell’inconscio collettivo 55 *Battaglia Salvatore, (1904-1971) filologo, linguista e grammatico, che progettò e curò la pubblicazione del Grande Dizionario della Lingua Italiana, edito dalla UTET, opera proseguita poi da Giorgio Barbieri Squarotti 23,76,77,82,142,198,200

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Beckett Samuel (1906-1989), scrittore e drammaturgo irlandese esistenzalista, uno dei maggiori esponenti del teatro dell’assurdo, citato per un suo aforisma sulla follia 203 Bellini Marco, psichiatra, già primario dell’Unità Operativa di Gallarate, citato per la sua pubblicazione con L.Buzzi Reschini e I. Cioffi Guida alle strutture psichiatriche della Provincia di Varese e per un progetto innovativo della Regione Lombardia di residenzialità leggera 161,186 Benigni Roberto, regista del film La vita è bella del 1997, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 Benvenuta, caso clinico, esemplificazione di identità perduta 167 Bergson Henri Louis (1859-1941), filosofo francese, uno dei maggiori esponenti dello spiritualismo francese, riferimento per molte delle concettualizzazioni di Eugène Minkowski 94,111,114 Berkeley George (1685-1753, filosofo e teologo irlandese, uno dei grandi empiristi del XVIII secolo 77 Bernardino (san) da Siena (1380-1444), citato per una sua storica predica contro il gioco delle carte da parte del clero 206 Bianchi Fabrizia, psicologa responsabile dell’Unità di Psicologia dell’Azienda Ospedaliera di Gallarate, promotrice con Pasquale Campajola, Direttore del DSM, di molte attività di divulgazione e promozione della salute mentale e di lotta allo stigma 186 Binda Giovanna, presidente di ADIAPSI di Varese, citata per il suo contributo al capitolo Le associazioni di familiari di L.Buzzi Reschini 165 *Binswanger Ludwig (1881-1966), psichiatra fondatore della antropofenomenologia e della Daseinanalyse, autore di Per un ‘antropologia fenomenologica. Saggi e conferenze psichiatriche, in bibliografia 19,92-94,107,109-112,115-122 *Bleuler Eugen (1857-1939), psichiatra svizzero che coniò il termine schizofrenia, uno dei maestri di Binswanger 91,92,111 Bloch Maurice, antropologo inglese di indirizzo cognitivo con importanti studi sulle ritualità e sui rapporti tra antropologia linguaggio e scienze cognitive 27 *Bompiani Bregali Nini, traduttrice di Il Piccolo Principe di Antoine De SaintExupery, in bibliografia 218 *Borgna Eugenio, psichiatra fenomenologo, autore di Nei luoghi perduti della follia, in bibliografia 94 Bréal Michele (1832-1915), filologo e glottologo francese, fondatore della moderna semantica 196 Brentano Franz (1838-1917), filosofo austriaco, maestro di Husserl. È a lui che si deve la reintroduzione nella filosofia contemporanea del concetto di intenzionalità. È stato uno dei riferimenti per Ludwig Binswanger 109,111 Bressani Roberto, psichiatra dirigente medico dell’Unità Operativa di Varese, responsabile del Centro Diurno di Bisuschio, impegnato in molte attività di promozione della salute mentale e di lotta allo stigma svolte in collaborazione con le associazioni di familiari e di enti territoriali 183,184,186 *Brodskij Iosif 1940-1996), poeta e scrittore russo, premio Nobel per la letteratura 1987, citato da G.Armocida, per la sua pubblicazione Fuga da Bisanzio

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(pag.154), nella bibliografia specifica a pag.155 Bruner Jerome, psicologo statunitense che ha molto contribuito allo sviluppo della psicologia cognitiva e della psicologia culturale 29 Buber Martin (1878-1965), filosofo e pedagogista austriaco studioso dell’identità, della soggettività e dell’ intersoggettività 120 Bühler Karl (1879-1963), psicologo tedesco studioso della psicologia del linguaggio 43 Bukowsky Henry Charles (1920-1994), scrittore e poeta statunitense, citato per un suo aforisma sulla follia 203 Bunge Mario, filosofo della mente argentino funzionalista, esponente del neoemergentismo 41 Busi Aldo, scrittore, traduttore di Alice nel paese delle meraviglie in bibliografia 224,226 Buzzi Reschini Lisetta, giornalista varesina coordinatrice del Co.PA.SA.M (Coordinamento Provinciale Associazioni per la Salute Mentale), autrice del capitolo Le associazioni di familiari 20,156,161,181,183,192 *Callegari Camilla, psichiatra ricercatrice confermata dell’Università dell’Insubria, citata da S.Vender con riferimento alle sue pubblicazioni Cinema pro e contro lo stigma, Pregiudizio e tolleranza: una ricerca a Varese su due aree cittadine (in coll. con S. Milani, V. Pace et al.), Stigma e malattia mentale in un gruppo di studenti universitari (in coll. con N. Poloni, S. Milani, et al.) e alla pubblicazione Psichiatria, (in coll. con S.Vender e N. Poloni) (pag.125,126,132,135-139) tutti nella bibliografia specifica a pag. 140 e142 *Callieri Bruno, psichiatra fenomenologo, citato con riferimento al significato della relazione in psichiatria e psicoterapia (pag.122) e da G. Armocida con riferimento alla sua pubblicazione in coll. con L. Frighi Psichiatria preventiva e psichiatria sociale (pag. 144), nella bibliografia specifica a pag. 145 *Calvi Lorenzo, psichiatra fenomenologo, autore di Prospettive antropofenomenologiche, in Fondamenti teorici della psichiatria, Trattato Italiano di Psichiatra, in bibliografia 112,113,116 Campajola Pasquale, direttore del DSM di Gallarate, promotore con Fabrizia Bianchi, responsabile dell’Unità di Psicologia, di molte attività di divulgazione e promozione della salute mentale e di lotta allo stigma 186 *Canfora Luciano, filologo classico, storico e saggista, autore di Il mondo di Atene, in bibliografia 59 *Canosa Romano, magistrato e storico, citato da G. Armocida (pag. 145) per la sua pubblicazione Storia del manicomio in Italia dall’Unità a oggi, nella bibliografia specifica a pag.155 *Cantarelli Clara, facilitatrice e volontaria di gruppi di auto - aiuto per persone con depressione e ansia, prima della fondazione IDEA poi di ARETE, autrice con G. Iannella del capitolo I gruppi di auto - aiuto 20,167 *Cargnello Danilo (1911-1998, psichiatra antropofenomenologo che introdusse in Italia il pensiero di Binswanger, autore di Alterità e Alienità, in bibliografia 94,109-112,115-122,124 Carnap Rudolf (1891-1970), esponente del neopositivismo o empirismo logico 76

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*Carpinello Bernardo, psichiatra citato da S.Vender con riferimento alla pubblicazione con E. Tocco Lo stigma dovuto a malattia mentale. Risultati di uno studio sulle opinioni ed atteggiamenti degli studenti in medicina (pag.132), nella bibliografia specifica a pag. 140 Carrol Lewis, vedi Dodgson Charles L. Carter Thomas, regista statunitense del film Save the Last Dance, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il cinema pro e contro lo stigma 138 Cartesio (Descartes René) (1596-1650), filosofo francese, con il suo Discorso sul metodo, uno dei padri del razionalismo metodologico 70,75,79 Cavalleri Pietro R., psichiatra, psicanalista per molti anni aiuto nell’Unità Operativa psichiatrica di Varese, citato con riferimento al caso clinico di Ezio 66 Celso Aureliano, medico romano del III° sec. d. C., citato per le sue concettualizzazioni sui disturbi mentali 98 Ceriotti Maria Grazia, psicologa, dirigente del Servizio di psichiatria e Neuropsichiatria dell’ ASL di Varese. Rappresenta l’azienda nel GLP 183 *Chapireau François, psichiatra francese citato da G.Armocida con riferimento alla pubblicazione Handicap psychique: confirmation ou moutation du handicap à la française? (pag.153), nella bibliografia specifica a pag. 155 Charcot Jean Martin (1825-1893), neurologo e psichiatra francese ricordato per i suoi studi sull’isteria e sull’ipnosi, citato da S.Vender con riferimento all’ arc du circle in alcune scene del film Il patto dei lupi di C. Gans 139 Chiarugi Vincenzo (1759-1820), psichiatra italiano che con il francese F. Pinel, alla fine del ’700, fu un innovatore dell’assistenza psichiatrica 100 *Chiesa Marco, psichiatra e psicoterapeuta, citato da S. Vender con riferimento al suo lavoro Stigmatizzazione e disturbo di personalità (pag. 130 e 131), nella bibliografia specifica a pag.140 Chomsky Noam, linguista e filosofo statunitense, autore della teoria della Grammatica generativo - trasformazionale 27,28,196,216 Cicerone Marco Tullio (106-43 a.C.), scrittore romano, citato a proposito del significato del termine ratio 69 *Cioffi Isidoro, direttore dell’Unità Operativa Psichiatrica del Verbano, citato per la sua pubblicazione con M. Bellini e L.Buzzi Reschini Guida alle strutture psichiatriche della Provincia di Varese e per le sue iniziative nella riabilitazione e per una psichiatria di comunità. È stato anche il curatore della pubblicazione La psichiatria nel Verbano (1981-2011) in bibliografia 161,184 *Civita Alfredo, psicologo e psicoterapeuta autore con A. Molaro di Binswanger e Freud Tra psicanalisi, psichiatria e fenomenologia, in bibliografia 116 *Clare Anthony (1942-2007), psichiatra irlandese citato da S.Vender (pag.135) per la pubblicazione Cinematic portraials of psychiatrists, nella bibliografia specifica a pag.140 Colombo Adele, assistente sociale dell’UOP di Saronno, citata da Goglio con riferimento all’ associazione Il Clan / Destino 192 Comte Auguste (1798-1857), filosofo francese, considerato il padre del positivismo 55 Cosmides Leda, biologa e psicologa statunitense, studiosa della psicologia e

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biologia evolutive, sostenitrice in antropologia culturale di tesi funzionaliste 28 Costner Kevin, regista statunitense del film Balla coi lupi del 1990, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 Crick Francis C.C. (1916-2004), biologo e genetista inglese, con J.D.Watson premio Nobel per la medicina nel 1953, per aver realizzato il primo modello della struttura del DNA 32 Crippa Maria Grazia, fondatrice e presidente di SOMSART, associazione socio - culturale molto attiva nella riabilitazione psicosociale e cofondatrice dell’associazione di pazienti, familiari e volontari SPES 189 *Crisp Arthur, professore emerito di Psicologia Medica della London University, citato da S. Vender (pag.128,130) con riferimento alle sue pubblicazioni La natura della stigmatizzazione e Stigmatisation of people with mental illnesses, nella bibliografia specifica a pag. 140 e 141 Dalì Salvador (1902-1989), pittore spagnolo, ricordato per i suoi “tarocchi” 209 Dante Alighieri (1265-1321), citato da E. Drewermann per la sua poesia come espressione letteraria essenziale e caratteristica del medioevo 217 Darwin Charles (1809-1882), scienziato naturalista inglese che ha elaborato una teoria dell’evoluzione delle specie animali e vegetali tuttora riferimento imprescindibile 41 *Daumezon Georges.(1912-1979), psichiatra francese citato da G. Armocida con riferimento alla pubblicazione La situation du personnel infirmier des asiles d’aliénés (pag.139), nella bibliografia specifica a pag. 155 Dawkins Richard, etologo, biologo e divulgatore scientifico inglese, autore della pubblicazione Il gene egoista e della teoria dei memi, ripresa poi e rielaborata da D. C. Denett 45,46 De Martis Dario (1926-1996), psichiatra e psicanalista, maestro di Simone Vender, citato con riferimento al significato di psicanalisi 224 Democrito (460-360 a.C.), filosofo greco antico presocratico, cofondatore con Leucippo della scuola atomistica, citato per essere stato tra i primi ad affrontare il tema del dolore 89 *Denett Daniel C., filosofo della mente statunitense di area analitica, autore di La coscienza che cos’è, di Dove nascono le idee e in collaborazione con D. Hofstadter di L’Io della mente, in bibliografia 39,45-47,49,50,96,103 * De Saint-Exupery Antoine (1900-1944), scrittore francese, autore di Il Piccolo Principe in bibliografia 217 De Sica Vittorio (1901-1974), regista del film Il giardino dei Finzi Contini del 1970, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il cinema pro e contro lo stigma 135 *Di Francesco Michele, filosofo della mente e della scienza, autore della prefazione a La mente di J.R.Searle 52 Dilthey Wilhelm (1833-1911), filosofo tedesco, caposcuola dello storicismo neokantiano, ricordato per la sua distinzione tra intendere e comprendere, utilizzata poi Jaspers e per l’interpretazione in chiave ermeneutico soggettivistèes del concetto di spirito oggettivo 30,31,33,108,111,119

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Diocleziano (243-305 d. C.), imperatore romano dal 284 al 305, ricordato per la riforma monetaria che introdusse il Follis, moneta bronzea di poco valore 197 *Dodgson Charles L. (1832-1898), scrittore inglese noto come Lewis Carrol, autore di Alice nel paese delle Meraviglie, in bibliografia 224,230 Domarus (von) Eilhard, psichiatra tedesco citato da Arieti per la sua interpretazione della struttura cognitiva del pensiero schizofrenico 215 *Drewermann Eugen, etologo e psicanalista tedesco, autore di L’essenziale è invisibile. Una interpretazione psicanalitica del Piccolo Principe, in bibliografia 217,223 Durkeim Emile (1857-1917), sociologo e antropologo francese, che concettualizzò la coscienza collettiva come un organismo vivente con una sua sua autonoma ontologia sostanziale 55 *Eccles John (1903-1997), neurofisiologo e filosofo australiano, premio Nobel per la medicina 1963, autore con K.Popper di L’Io e il suo cervello, Dialoghi aperti tra Popper e Eccles, in bibliografia 24,41 Edelman Gerard M., biologo statunitense, premio Nobel per la medicina 1972, studioso della fisiologia del cervello nelle funzioni cognitive 29 *Edney Dara Roth, assistente sociale canadese citata da S. Vender con riferimento alla pubblicazione Mass media and mental illness: a literature review (pag.136), nella bibliografia specifica a pag. 141 Einstein Albert (1879-1955), fisico tedesco padre della teoria della relatività, citato per un suo aforisma sulla mente riportato da Popper 41 Elisabetta 1ª (1533-1603), regina d’Inghilterra, citata per il decreto del 1575 istitutivo delle Houses of correction 99 *Erasmo da Rotterdam (1466/69-1536), etologo umanista e filosofo olandese, autore dell’Elogio della pazzia, in bibliografia 19,81,100,202,211 Erdmann Benno (1851-1921), filosofo e psicologo tedesco, studioso del pensiero e di logica 216 Erikson Erik (1902-1944), psicologo e psicanalista tedesco, studioso dell’identità dell’Io 54 Erinni, nella mitologia greca divinità negative del mondo sotterraneo 19,97 Ezio, caso clinico, esemplificazione di identità perduta 66 Falret Jules (1824-1902), psichiatra francese che descrisse la folie circulaire 222 Fechner Gustav (1801-1887), psicologo e statistico tedesco, fondatore della psicofisica, cui si sarebbe ispirato Freud, secondo Binswanger, per la sua teoria della libido 118 Feigl Herbert (1902-1988), filosofo austriaco, autore con U.P Place e J. Smart della teoria dell’identità mente - cervello 41 Ferrante (don), personaggio dei Promessi sposi di A. Manzoni 78 Fincher David, regista statunitense del film Fight club del 1999, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 *Finkelstein Claude, presidente dalla FNAP-PSY (Federazione delle Associazioni francesi di pazienti e ex-pazienti), con J. Canneva, presidente dell’Unafam

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(associazione di familiari) e di P. Van Amerongen, psichiatra membro di Unafam, autore di Association d’usagers en santé mentale. Troubles psychiatriques de la Personnalité, citato da G. Armocida (pag 153), nella bibliografia specifica a pag. 155 e da L. Buzzi Reschini nella bibliografia specifica a pag.167 *Fiorelli Fabio, autore con G. Lombardo di Binswanger e Freud: malattia mentale e teoria della personalità, in bibliografia 116,121 Fischer Michael, antropologo statunitense di indirizzo storico-letterario 27 *Fodor Jerry Alan, scienziato cognitivo e filosofo del linguaggio statunitense autore di La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, in bibliografia 28 Ford John (1894-1973), regista statunitense dei film Ombre rosse del 1939, Sentieri Selvaggi del 1956 e Il grande sentiero del 1964, citati da S.Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 *Foucault Michel (1926-1984), storico e filosofo francese, autore di un citato aforisma sulla follia e di Storia della follia nell’età classica, in bibliografia 98,99,203 Francesco (san) d’Assisi, (1182-1226), citato per la frase di fonti francescane del 1° sec. francescano, riportata nel testo “io … un pazzo nel mondo …” 19,98 Frankl Vivtor (1906-1997), neurologo e psichiatra austriaco, fondatore della logoterapia, come forma di analisi esistenziale 116 Franz Francesca, dirigente scolastica membro del GLP in rappresentanza dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Varese per il coordinamento dei programmi di promozione della salute mentale nelle scuole 183 Frege Gottlob (1848-11925), filosofo tedesco, considerato un precursore della filosofia analitica di Bertrand Russel e di Ludwig Wittgenstein 76 Freud Sigmund (1856-1939), neurologo e psicanalista austriaco, fondatore della psicanalisi, ripetutamente citato soprattutto con riferimento a Binswanger e al rapporto tra Daseinanalyse e psicanalisi 103,111,116-121,132,144 Frisch von Karl (1886-1982), biologo austriaco, premio Nobel per la fisiologia e la medicina 1973, studioso del linguaggio danzato delle api, che Popper considera il più simile al linguaggio umano 43 Gadamer Hans Georg (1900-2002), filosofo tedesco, allievo di Heidegger, considerato uno dei maggiori esponenti dell’ermeneutica filosofica 35 Galeno di Pergamo (129-216), medico greco che esercitò a Roma, considerato dopo Ippocrate il secondo fondatore della medicina antica, citato per le sue concettualizzazioni sui disturbi mentali 98 Galilei Galileo (1554 -1642), fisico, filosofo, astronomo, che introdusse il metodo scientifico, considerato un esponente del razionalismo metodologico 37,75,79 Gall Franz Joseph (1758-1828), medico tedesco ideatore di una teoria sulla localizzazione cerebrale delle funzioni mentali 28 Gans Christophe, regista francese del film Il patto dei lupi del 2001, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 Gea ( ), divinità del mito greco che rappresenta la terra, madre di Kronos (Κ ό ο ), il tempo 107

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Gebsattel (von) Victor Emil (1883-1976), psichiatra e psicoterapeuta, uno dei pionieri dell’ antropofenomenologia in ambito psichiatrico 113 Geertz Clifford (1926-2006), antropologo statunitense di indirizzo linguistico letterario - ermeneutico 27 *Gelder Michael, professore emerito di psichiatria a Oxford, citato da S,Vender (pag. 130) per la pubblicazione The Royal College of Psychiatrists survey of public opinions about mentally ill people, nella bibliografia specifica a pag.141 Gifuni Fabrizio, regista del citato sceneggiato televisivo C’era una volta la città dei matti sulla vita di Basaglia 203 Giotto (c. 1267-1337), grande pittore e architetto medioevale, citato per le sue rappresentazioni della Stultitia e della Fede nella Cappella degli Scrovegni di Padova 205-207 Giovanna d’Arco (1412-1431), esempio tardo medievale di santità e di florida psicopatologia 19,98 Giovanni XXIII (1881-1963), citato per aver abolito la frase liturgica “oremus et pro perfidis judaeis” 62 Giovanni (san) evangelista (… - 98/99), citato per il suo: ̉Ε χ ἦ ὁ ό ο (en archè en o logos), In principium erat Verbum 69 Giovannucci Massimo, psichiatra, primario dell’Unità Operativa Psichiatrica di Busto Arsizio nel 1986, anno di nascita del GLP di Varese di cui fu membro 174 Giusti Giuseppe (1809-1850), poeta risorgimentale, citato per un suo aforisma sulla follia 202 Goethe Johann Wolfgang (1749-1832), poeta, scrittore e drammaturgo tedesco, citato per un suo aforisma sui folli 202 *Goffman Erving (1922-1982), sociologo canadese citato da S. Vender (pag. 126) per i suoi studi sui meccanismi di esclusione e di violenza nella società e da G.Armocida (pag. 146) per quelli riguardanti il fenomeno dell’istituzionalizzazione nei malati di mente ospedalizzati e per la sua pubblicazione Asylums, nella bibliografia specifica a pag. 155 *Goglio Marco, psichiatra e psicanalista junghiano, direttore dell’Unità Operativa Psichiatrica di Saronno, molto impegnato per una psichiatria di comunità, curatore delle pubblicazioni Dottore non sono di psichiatria! e Quando 1+1 fa 3 in bibliografia 166,184,191,192 Gorgia (c.485-c.375 a.C.), filosofo greco antico, esponente della filosofia sofistica, considerata una filosofia pseudo - razionale 76 Gottardi Sandra, assistente sociale dell’UOP di Saronno, citata da Goglio con riferimento all’ associazione Il Clan / Destino 192 *Gozzano Mario (1898-1985, neurologo e psichiatra, già presidente della Società Italiana di Neurologia e Psichiatria, citato da G. Armocida per la pubblicazione La riforma della Legislazione Psichiatrica in Italia: 1904-1965 (pag. 144), nella bibliografia specifica a pag.155 Guttuso Renato (1911-1987), pittore italiano ricordato per i suoi“tarocchi” 209 *Habermas Jürgens, filosofo e sociologo tedesco, assistente di T. Adorno ed esponente della scuola di Francoforte, autore della Teoria dell’Agire comunicativo, pubblicata in un volume con il medesimo titolo, in bibliografia

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30-38,45-50,52,56,59,72,96,102,103,105,195,222 Hackford Taylor, regista statunitense del film L’avvocato del diavolo del 1997, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 Hanson Curtis, regista del film 8 Mile del 2002, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 138 Hard David (1900-1966), regista statunitense del film Biancaneve e i sette Nani del 1937, prodotto dalla Walt Disney, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 Hartmann Nicolai (1882-1950), filosofo tedesco, espressione con Heidegger della Fenomenologia oggettivistica, citato per le sue elaborazioni del concetto hegeliano di spirito oggettivo 30-33 Hegel Georg W. F. (1770-1831), filosofo tedesco considerato il massimo esponente dell’idealismo, citato con riferimento alle sue concettualizzazioni di spirito oggettivo e spirito soggettivo e di ragione e intelletto 22,71-74 Heidegger Martin (1889-1976), filosofo tedesco, uno dei maggiori esponenti dell’esistenzialismo e della filosofia fenomenologica, principale riferimento per Binswanger nella sua elaborazione della Daseinanalyse 94,109,110,111 Herzog Werner, regista tedesco del film Nosferatu, il principe della notte del 1979, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 Hirschfeld Lawrance A., antropologo statunitense di indirizzo cognitivo con importanti studi sugli aspetti psicologici della cultura e sulla dimensione culturale della vita mentale 27,28 Hobbs Thomas (1588-1679), filosofo, studioso di politica, di economia e di filosofia generale, una delle più importanti figure dell’empirismo inglese 70,71,75,77 *Hofstadter Douglas, filosofo, matematico e studioso dell’intelligenza artificiale statunitense, funzionalista ed esponente del neoemergentismo, autore con Denett D. C. dell’Io nella mente, in bibliografia 41 Howard Ron, regista del citato film A Beautiful Mind sulla vita di John Forbes Nasch Jr. 213 *Hrdy Sarah.B., antropologa statunitense, nota per i suoi studi e le sue teorie sulle evoluzione filogenetica della sessualità femminile 106 Hume David (1711-1776), filosofo scozzese, una delle più importanti figure dell’empirismo inglese 43,70,77,79 Husserl Edmund (1859-1938), filosofo tedesco fondatore della Fenomenologia, riferimento per Jaspers e Binswanger nelle loro elaborazioni sul modo di intendere la psicopatologia e il rapporto terapeutico 31,34,72,108,111,114 Iacchetti Enzo, noto attore e conduttore televisivo, citato con riferimento a un suo intervento con un cortometraggio sullo stigma da lui realizzato alla manifestazione per la premiazione di un concorso organizzata dal GLP e dal Co.PA.Sa.M di Varese 164 Iannella Giuliana, facilitatrice e volontaria di gruppi di auto - aiuto per persone con depressione e ansia, prima della fondazione IDEA poi di ARETE autrice con C. Cantarelli del capitolo I gruppi di auto - aiuto 20,167

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Ippocrate (460-377 a.C.), medico greco antico, considerato il padre della medicina, citato per il suo “paradigma” scientifico e antropologico 97 *Jaspers Karl (1883-1969), psichiatra e filosofo fenomenologo tedesco, autore di Psicopatologia Generale, in bibliografia 19,65,87,89,91,92,94,103,108,114,120, 122 Joffè Roland, regista inglese del film La lettera scarlatta del i995, tratto dall’omonimo romanzo di Nathanian Howthome, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 135 Jones Maxwell, psichiatra sociale inglese, citato da G. Armocida con riferimento all’ ideologia delle “comunità terapeutiche” da lui fondate all’inizio degli anni ’50 143 Jonesco Eugène (1912-1994), scrittore e drammaturgo esistenzialista francese, uno dei massimi esponenti del teatro dell’assurdo, citato per un suo aforisma sulla follia 203 *Jung Carl Gustav (1875-1961), psicanalista svizzero, fondatore della Psicologia analitica, citato per gli archetipi e l’inconscio collettivo, autore di Io e l’inconscio e L’uomo e i suoi simboli in bibliografia 55,106,111,200 Kafka Franz (1883-1924), scrittore boemo di lingua tedesca, espressionista ed esistenzialista, citato da E. Drewermann per i l suo Il castello come espressione letteraria essenziale e caratteristica del nostro tempo 217 Kahneman Daniel, psicologo israeliano, noto per i suoi studi sul processo decisionale, premio Nobel 2002 per l’economia 80 Kant Immanuel (1724-1804), filosofo, il più importante esponente dell’illuminismo tedesco, riferimento imprescindibile per temi riguardanti la ragione, l’intelletto, la gnoseologia 42,71-73,76 Kennedy John Fitzgerald (1917-1963), citato da L. Buzzi Reschini per un commento alla legge Community Mental Healt Center et Retardation Act del 1963 da lui promulgata 156 Kierkegaard Søren (1813-1856), filosofo danese precursore dell’esistenzialismo, che ha ripreso e approfondito il tema del dolore 89 Klein Melanie (1882-1960), psicanalista austriaca, studiosa delle modalità di relazione degli oggetti dell’inconscio, considerata un riferimento per le successive interpretazioni dell’inconscio di I. Matte Blanco 86,216 *Kottler C. psichiatra, autore con J. Gouyon, JL. Senninger, e G, Robbe della pubblicazione citata da G.Armocida Unitée pour malades difficiles (pag.153), nella bibliografia specifica a pag.155 Kraepelin Emil (1856-1928), psichiatra tedesco considerato il padre delle moderne classificazioni delle malattie mentali 100 Kramer Stanley (1913-2001), regista statunitense del film Indovina chi viene a cena del 1967, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 Kronos (Κ ό ο ), il tempo, figlio di Urano (Ο ό ), il cielo e di Gea ( ), la terra. É il dio e titano, simbolo del tempo, che divora i suoi figli 107

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Kubric Stanley, regista del film Lolita del 1962, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 Kuhn Thomas (1922-1996), epistemologo statunitense, autore della teoria delle anomalie paradigmatiche 79 Lacan Jacques (1901-1981), psichiatra, filosofo e psicanalista francese, fondatore di una autonoma corrente psicanalitica 67 Lamarck (de) Jean Baptist (1744-1829), naturalista e botanico francese che elaborò prima di Darwin una teoria dell’evoluzione, basata sull’ereditarietà dei caratteri acquisititi per stimoli ambientali 41 Lang Fritz (1890-1976), regista austriaco del film Il dott. Mabuse del 1922, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 La Rochefoucauld François (1613-1680), scrittore francese, citato per un suo aforisma sulla follia 203 *Lecis Pierluigi, filosofo teoretico, autore di Cultura,mente, società, in bibliografia 31-33,35,37,52 Leibnitz Gottfried W. (1646-1716), matematico, scienziato, filosofo razionalista, considerato uno dei più grandi pensatori della sua epoca 43 *Levi-Strauss-Claude (1908-2009), antropologo, psicologo e filosofo francese, che applicò metodi di indagine strutturalista agli studi antropologici 26 Lewis G., autore con Appleby L. di Personality disorder: the patient psychiatrists dislike, citato da S.Vender (pag.130 e 131), con riferimento agli studi sugli atteggiamenti stigmatizzanti del personale psichiatrico, nella bibliografia specifica a pag.141 Liddel Alice, è la bambina per la quale Carrol Lewis (Dodgson Charles L.) scrisse Alice nel paese delle meraviglie 224 Livio Tito (59 a.C.- 17 d.C.), storico romano autore di una monumentale Storia di Roma ab urbe condita, citato con riferimento al tema della diversità 58,59 Locke John (1632-1704), filosofo inglese, considerato il padre dell’ empirismo moderno 46,70,77 *Lombardo Gabriele, autore con F. Fiorelli del citato Binswanger e Freud: malattia mentale e teoria della personalità, in bibliografia 116,121 Lombroso Cesare (1835-1909), medico, antropologo e criminologo, che elaborò una teoria della criminalità come degenerazione, evidenziabile da caratteri somatici e psichici 100 Lorenz Konrad (1903-1989), etologo austriaco, citato per la sua contrapposizione a Popper sul significato dell’innatismo nella teoria evoluzionistica 42 Luhrmann Baz, regista australiano del film Moulin Rouge! del 2001, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 *Lusetti Volfango, psichiatra, autore di Psicopatologia antropologica, in bibliografia 106 Lyssa, divinità del mito greco che personifica la rabbia e il furore 19,97 Magnan Valentin (1809-1890), psichiatra francese che formulò con Benedict

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A.Morel un’ipotesi eziologica per i disturbi psichici basata sulla degenerazione 100 Maillard (M.lle), attrice francese dell’Opera, che impersonò nel 1792 a Notre Dame a Parigi la Déesse Raison 74 Malinowski Branislaw (1885-1942), antropologo polacco ricordato soprattutto per la sua attività pionieristica nella ricerca etnografica 26 Mania, divinità del mito greco che personifica la follia 19,97 Mantegna Andrea (1431-1506), pittore e incisore rinascimentale citato per i tarocchi che, forse impropriamente, gli vengono attribuiti 207 e 208 Manzoni Alessandro (1785-1873), citato per alcuni riferimenti a personaggi del suo romanzo I Promessi sposi 201 Maranesi Teodoro, psichiatra, già direttore del DSM di Busto Arsizio e dell’Unità Operativa Psichiatrica di Saronno ed attuale direttore del DSM Azienda Ospedaliera - Polo Universitario Luigi Sacco di Milano, citato con riferimento alla sua passata partecipazione al GLP e alle iniziative assunte per una psichiatria di comunità 187,191,192 *Marraffa Massimo, filosofo della scienza, autore della postfazione della La coscienza che cos’è di Denett D.C., in bibliografia 52 *Matte Blanco Ignacio (1908-199), psicanalista cileno con concettualizzazioni sull’inconscio di derivazione kleiniana, autore di L’inconscio come insieme di infiniti: saggi sulla bi-logica, in bibliografia 215,216 Maynert Theodor /1933-1892), psichiatra e neuropatologo tedesco, esponente della prima psichiatria biologica, citato per essere stato con Wernicke, uno dei primi maestri di S. Freud neurologo 118 Mayr Walter Ernst (1904-2005), biologo tedesco, uno dei massimi esponenti della biologia evoluzionista del XX secolo, citato da Popper con riferimento ai programmi genetici aperti e chiusi 42 Mead George Herbert (1863-1931), filosofo e sociologo statunitense, considerato uno dei padri della psicologia sociale 35 Megera, una delle Erinni della mitologia greca 97 *Melucci Alberto (1942-2001), sociologo, citato per le sue concettualizzazioni sull’identità collettiva 56 Metastasio Pietro, pseudonimo di Pietro Trapassi (1698-1782), poeta e drammaturgo, citato per alcuni suoi versi che si riferiscono al dolore come esperienza privata 88 Meyer Adolph (1866-1950), psichiatra statunitense fondatore della dottrina psicobiologica, citato per le sue prese di posizione nei riguardi del concetto di unità morbosa in psichiatria 94 Mills John Stuart (1806-1873), filosofo ed economista inglese citato per la sua distinzione dei ragionamenti in induttivi e deduttivi 79 *Minkowski Eugène (1885-1972), psichiatra fenomenologo francese, uno dei promotori dell’antropofenomenologia, autore di Il tempo vissuto in bibliografia 19,81,94,107,114,222,224 *Molaro Aurelio, filosofo, autore con A. Civita del citato Binswanger e Freud. Tra psicanalisi, psichiatria e fenomenologia, in bibliografia 116 Molteni Franca, direttore del DSM di Busto Arsizio e dell’UOP di Busto Arsizio

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-Tradate, citata con riferimento alle iniziative assunte di promozione e sensibilizzazione della salute mentale e di lotta allo stigma 187 *Moravia Sergio, filosofo e antropologo, autore con Leonardo Ancona di un articolo dell’Enciclopedia Treccani dal titolo Follia, in bibliografia 63 Morel Benedict Auguste (1809-1873), psichiatra francese che formulò con con Valentin Magnan un’ipotesi eziologica per i disturbi psichici basata sulla degenerazione 100 Morgagni Gian Battista (1682-1771), anatomopatologo, innovatore del concetto di malattia con il suo De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis 91,95 Mozzicato Michele, psichiatra, primario nel 1986 dell’Unità Operativa Psichiatrica di Cittiglio, cofondatore del GLP di Varese 174,177 Musatti Cesare (1897-1989), psicologo e psicanalista, considerato il fondatore della psicanalisi italiana 224 Nasar Sylvia, scrittrice statunitense, autrice di A Beautiful mind, ispirato alla vita di Nasch John Forbes jr 213 Nasch John Forbes jr., matematico statunitense, studioso dei processi decisionali, premio Nobel per l’economia 1994, noto per il libro di S. Nasar e il film di R. Howard A Beautiful mind, sulla sua vita di paziente psicotico 21,80,213,214,216 Natoli Salvatore, filosofo e accademico. Importanti suoi contributi riguarda- no il tema del dolore 89 Nelson Ralph (1916-1982), regista statunitense del film Soldato blu del 1970 citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 Neumann von John (1903-1957), matematico ungherese uno dei padri dell’informatica 213 *Nietzsche Friedrich W. (1844-1900), filosofo tedesco antagonista dell’idealismo e del positivismo, considerato un esponente dell’ irrazionalismo filosofico, autore di Così parlò Zarathustra, in bibliografia 77,81,203 Oddifreddi Piergiorgio, matematico, logico e saggista, citato per una sua intervista a John Forbes Nasch jr del 2008 214 Omero, citato per la sua nota locuzione sulle “parole alate” 210 Orazio Flacco Quinto (65-8 a.C), uno dei più grandi poeti latini, citato per un suo aforisma sulla follia 19,202 *Orsini B., psichiatra e deputato al Parlamento, relatore della legge 180, citato da G. Armocida (pag.152,153), autore della pubblicazione: 180. Vent’anni dopo, nella bibliografia specifica a pag.155 Ossicini Adriano, psichiatra parlamentare, citato da G. Armocida, nel maggio del 1978 presidente della commissione Igiene e Sanità della Camera, che con la sua azione risoluta consentì una approvazione oltremodo rapida della legge 180 148 *Paci Enzo, filosofo esistenzialista, autore della prefazione dell’ edizione Italiana di Il Tempo vissuto di E. Minkowski del 1971 114 *Padovani Giorgio, psichiatra citato da G. Armocida (pag. 144) con riferimento

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alla sua pubblicazione Istanze fondamentali ed istanze accessorie per la riforma della legge sull’assistenza psichiatrica, nella bibliografia specifica a pag.155 Paley William (1743-1806), filosofo e teologo inglese, citato da Popper per le sue tesi sul creazionismo 40 Paolo di Tarso (san) (5/10-64/67 d. C.), citato con riferimento al suo discorso all’ aeropago di Atene sul Dio ignoto, come esempio di tolleranza religiosa nelle società politeiste come quella greca e romana 62 Pasquinelli A., traduttore di una poesia di Xenofane, nell’edizione italiana di Tre saggi sulla mente umana di Popper, in bibliografia 43 Penn Arthur (1922-2010), regista statunitense del film Piccolo grande uomo del 1970, citato da S.Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callelegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 Perisauli Faustino (1450-1523), umanista italiano rinascimentale autore del citato poemetto De Triumpho stultitiae 212 *Petiziol Adolfo, psichiatra sociale, autore della relazione Modello biologico e modello psicologico della depressione in bibliografia 123 Petrarca Francesco (1304-1370), scrittore e poeta, citato con riferimento al suo poemetto I Trionfi, a cui si sarebbero ispirati i trionfi dei tarocchi 204 *Piaget Jean (1896-1980), psicologo e psicopedagogista svizzero, studioso dello sviluppo cognitivo nel bambino 230 Pinel Philippe (1745-1826), psichiatra francese, considerato uno dei grandi innovatori, alla fine del ’700, dell’assistenza psichiatrica e della psichiatria 100 Pio II Piccolomini (1405-1464), citato con rifermento ai tarocchi detti del Mantegna 208 Pirandello Luigi (1867-1936), drammaturgo e scrittore, Premio Nobel per la letteratura 1934, citato per un suo aforisma sulla follia 203 Pitagora (570-495 a.C.), matematico e filosofo greco antico, citato per il teorema che da lui prende il nome, portato quale esempio di relazione logica che esiste indipendentemente dalla sua scoperta (modello oggettitivistico di spirito oggettivo) 32 Platone (427/428-347/8 a.C.), uno dei grandi filosofi della Grecia classica citato per l’impostazione razionalista del suo idealismo e per le forme di “follia divina” da lui riportate nel Fedro 70,75,89,97 Polanski Roman, regista polacco del film Il pianista del 2002, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 *Poloni Nicola, psichiatra ricercatore presso l’Università dell’Insubria, citato per le pubblicazioni Psichiatria (in coll. con S. Vender) e Stigma e malattia mentale in un gruppo di studenti universitari (in coll. con C. Callegari) 125,126 Pontecorvo Gillo (1919-2006), regista del film Kapò del 1960, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 135 *Popper Karl R. (1902-1994), filosofo ed epistemologo austriaco, esponente del neoemergentismo, autore di una teoria della mente, rielaborazione in chiave moderna del dualismo cartesiano, autore di Congetture e confutatazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, di Tre saggi sulla mente umana e con

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J. Eccles di L’Io e il suo cervello. Dialoghi aperti tra Popper e Eccles, in bibliografia 24,30-33,36,40-45,50,51,56,73,76,79,95,96,102,103 *Pozzi Giuseppe O., psichiatra e psicoterapeuta, dal 1997 al 2002 coordinatore del GLP di Varese, autore della pubblicazione La salute intellettuale e la città. Quali percorsi psicosociali? 176,179-182 Proserpio Enrica, psicologa del CPS di Tradate, citata con riferimento all’attività di promozione della salute mentale nelle scuole 187 Protagora (486-411 a.C.), filosofo greco considerato il padre della sofistica, considerata una filosofia pseudo - razionale 76

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Quine Willard van Oman (1908-1994), filosofo della mente statunitense esponente della filosofia analitica 196 Quisi Quirino, fino al 2008 primario dell’UOP di Busto Arsizio, citato con riferimento alle iniziative assunte di prevenzione e lotta allo stima nelle scuole 187 Racamier Paul C. (1924-1996), psicanalista francese studioso delle psicosi, e promotore di una psicoterapia istituzionale 66,122 Raimi Samuel, regista statunitense del film The Gift del 2000, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 Rea (Ρ ), divinità del mito greco figlia di Urano e di Gea, sorella e sposa di Kronos, simbolo della fertilità e della potenza della natura 107 Ricoeur Paul (1913-2005), filosofo e antropologo francese, riferimento di A. Ballerini per la trattazione del problema dell’identità nelle psicosi 65 Riva Eugenio, per molti anni presidente dell’U.R.A.Sa.M Lombardia (Unione Regionale Associazioni di Salute Mentale), ricordato per il suo impegno nell’associazionismo dei familiari 162,181 Robespierre (de) Maximilien (1758-1794), politico e rivoluzionario francese, cresciuto nelle idee dell’illuminismo e divento poi un intransigente estremista, citato con rifermento al culto della Déesse Raison 74 Rodrigo (don) personaggio dei Promessi Sposi di A. Manzoni 201 Rogoff Barbara, psicologa ed educatrice statunitense, con il suo La natura culturale dello sviluppo umano, ponte tra psicologia e antropologia 29 Romolo, mitico primo re di Roma a cui Tito Livio fa risalire la distinzione nella società romana di patrizi e plebei 57 Ross Gary, regista statunitense del film Pleasantville del 1998, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 136 *Rossi Monti Mario, psichiatra psicanalista, autore della prefazione dell’edizione di Alterità e Alienità di D. Cargnello del 2010 112,113,115,116 Rousseau Jean Jacques (1712-1778), scrittore e filosofo svizzero, uno dei massimi esponenti dell’illuminismo europeo, citato con rifermento al culto della Déesse Raison 74 Russel Bertrand (1872-1970), filosofo gallese, uno dei fondatori della filosofia analitica 76,196

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Ryle Gilbert (1900-197), filosofo inglese, uno dei fondatori della filosofia analitica 76,196 Saussure (de) Ferdinand (1857-1913), linguista svizzero, fondatore della linguistica moderna a indirizzo strutturalista 26,196 Scheff Thomas J., sociologo statunitense citato da S. Vender , che ha continuato gli studi di Goffmann sui meccanismi di stigmatizzazione e di esclusione sociale 126 *Scheler Max (1874-1928), filosofo tedesco fenomenologo a cui si deve la denominazione di “antropologia filosofica” studioso del mondo dei valori 24,26,89 Schelling Friedrich W.J. (1775-1854), filosofo, uno dei maggiori esponenti dell’idealismo tedesco, con prevalenti, nelle sue concettualizzazioni, istanze irrazionaliste 75 Schlegel Friedrich (1772-1829), scrittore e filosofo idealista tedesco, espressione del primo romanticismo, con prevalenti istanze irrazionaliste 75 Schmideberg Walter (1890-1954), psicanalista viennese, genero di M. Klein, didatta di Ignacio Matte Blanco 216 *Schopenhauer Arthur (1788-1860), filosofo tedesco antagonista dell’idealismo e del positivismo allora dominanti, considerato un’espressione dell’irrazionalismo psicologico, autore di Il mondo come volontà e rappre-, sentazione, in bibliografia 77,81,89,202 *Searle John R., filosofo della mente di area analitica, autore di La Mente; Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale; Collective intentions and actions in Intentions Communication in bibliografia 39,45,47-52,96,196 Shakespeare William (1564-1616), citato da E. Drewermann come espressione letteraria essenziale e caratteristica del periodo elisabettiano 217 Simmel Georg (1858-1918), filosofo tedesco, esponente dello storicismo neokantiano, ricordato per la sua interpretazione storico-ermeneutica soggettivistica di spirito oggettivo 30,31 Singer Peter, filosofo australiano, uno dei più importanti pensatori contemporanei di temi etici, citato per il suo interesse al problema del dolore 89 Sini Carlo, psichiatra fenomenologo citato da Mario Rossi Monti a proposito dell’ipotesi di una psicoterapia fenomenologica 112 Sirk Douglas (1897-1987), regista del film Lo specchio della vita del 1959, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 Socrate (469/470-399 a.C.), uno dei grandi filosofi della Grecia classica, citato per il suo razionalismo etico 75,215 *Sperber Dan, antropologo evoluzionista e scienziato della cognizione, autore di Il contagio delle idee. Teoria naturalistica della cultura, in bibliografia 27,28 Spielberg Steven, regista statunitense del film Scindler’s list del del 1993 e Amistad del 1997 citati da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 135,137 Stahl John M. (1886-1950), regista statunitense del film Lo specchio della vita del 1934, con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

pro e contro lo stigma 137 *Stanton Alfred H, psichiatra statunitense allievo di Sullivan, citato da G. Armocida (pag.143) con riferimento alla pubblicazione con M.S. Schwartz The mental hospital. A study of Institutional participation in mental illness and treatment, nella bibliografia specifica a pag. 155 Stevenazzi Margherita Rosa, assistente sociale dell’Unità Operativa Psichiatrica di Busto Arsizio - Tradate, citata con riferimento all’attività di promozione della salute mentale nelle scuole 187 Stevens George (1919-2006), regista statunitense del film Il diario di Anna Frank del 1959, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 135 Straus Erwin (1891-1975), psichiatra e psicoterapeuta tedesco, un pioniere dell’ antropofenomenologia in ambito psichiatrico 114 Sullivan Harry S. (1856-1924), psichiatra e psicanalista statunitense, fondatore della Psichiatria interpersonale 122 Szasz Thomas (1920-2012), psichiatra statunitense, citato per le sue tesi negazioniste della malattia mentale 82 Tajfel Henri (1919-1982), psicologo inglese, studioso dell’identità collettiva 56 *Taylor S.M., autore con M.J. Dear di questionari di valutazione degli atteggiamenti della comunità verso i malati di mente, citato da S.Vender con riferimento allo stigma (pag.132), nella bibliografia specifica a pag.141 Tisifane, una delle Erinni della mitologia greca 97 Tommaso d’Aquino (1225-1274), uno dei principali teologi e filosofi del medioevo, citato con riferimento al suo razionalismo e anche per il suo interesse al tema del dolore 75,89 Tooby John, antropologo statunitense di orientamento cognitivo - evoluzionista, studioso anche di psicologia evolutiva 28 Turing Alan (1912-1954), matematico inglese considerato uno dei padri dell’informatica e con i suoi studi un antesignano dell’Intelligenza Artificiale 29 Tyler Stephen, antropologo statunitense di indirizzo linguistico - letterario studioso di antropologia linguistica e di etnografia postmoderna 27 Urano (Ο ό ), divinità primordiale del mito greco che rappresenta il cielo, padre di Kronos( Κ ό ο ), il tempo 107 * Vender Simone, psichiatra e psicoterapeuta, Ordinario di Psichiatria e Presidente della Scuola di Medicina dell’Università dell’Insubria Varese-Como, coordinatore del GLP di Varese dal 2002, autore del capitolo “Malattia mentale e stigma” e delle citate pubblicazioni La stigmatizzazione. Dal pregiudizio alla cura della malattia mentale, Stigma interiorizzato e vergogna e Psichiatria (in coll. con C. Callegari e N. Poloni), tutte nella bibliografia specifica (pag.141 e 142) 20,53,125-127,176,182 *Vidon G., psichiatra francese, citato da G. Armocida (pag.142) con riferimento alla pubblicazione con altri Thérapeutiques institutionnelles, nella bibliografia specifica a pag. 155

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Vidor King (1894-1982), regista statunitense del film Passaggio a Nord-Ovest del 1940, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 Vischi Ferdinanda, fondatrice a Varese e per molti anni presidente di ADIAPSI e poi una della fondatrici e attuale presidente di SPES 159,175,177,189 Visconti Luchino (1906-1976), regista del film Rocco e i suoi fratelli del 1960, citato da S. Vender con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 Voltaire (Arouet François Marie) (1694-1778), filosofo e scrittore, uno dei massimi esponenti dell’illuminismo francese, citato con rifermento al culto della Déesse Raison 74 *Vygotskij Lev Semënovič (1896-1934), psicologo russo, studioso dello sviluppo del linguaggio nell’uomo, autore del citato Pensiero linguaggio, in bibliografia 29,230 Waite Arthur Edward 1857-1942), mistico ed esoterista statunitense, citato con riferimento ai tarocchi che da lui prendono il nome 209,211 Warner R., psichiatra inglese, citato da S. Vender (pag. 133), autore di Combating the stigma of schizophrenia, nella bibliografia specifica a pag. 142 Watson James, biologo e genetista statunitense, con Crick Francis premio Nobel per la medicina nel 1953, per aver realizzato il primo modello della struttura del DNA 32 Wernicke Karl (1848-1905), psichiatra e neurologo tedesco noto per le sue scoperte sull’afasia sensoriale e per l’area cerebrale che da lui prende il nome, citato per essere stato uno dei primi maestri di S. Freud 118 Wertmüller Lina, regista del film Mimì metallurgico ferito nell’onore del 1972, citato da S. Vender alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 137 Whiterhouse Harvey, antropologo, studioso del rapporto tra cognitivismo e religione con l’utilizzo di modelli di mente neurobiologici 29 Wiene Robert(1873-1938), regista tedesco del film Il gabinetto del dottor Caligari del 1922 con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 139 *Wittgenstein Ludwig (1889-1951), filosofo neopositivista austriaco, citato con riferimento al tema dell’identità 34,41,57,76,77,196 Xenofane (570-475 a.C.), filosofo greco antico presocratico, citato da.Popper, con riferimento alla sua Teoria della falsificabilità dei postulati scientifici 43 Zwich Joel, regista statunitense del film Il mio grosso, grosso matrimonio greco del 2001, con riferimento alla pubblicazione di C. Callegari dal titolo Il Cinema pro e contro lo stigma 138

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BIBLIOGRAFIA

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Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe

DSM IV Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, edizione italiana a cura di Andreoli V., Cassano G.B. e Rossi R., Ed. Masson, Milano 1996 DSM IV Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali Text Revision, Ed. Elsevier Masson, Milano 2007 Enciclopedia Garzanti di filosofia (coordinata da L.Boni), Ed Garzanti Milano 1981 Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia, Ed G. Einaudi Torino 1964

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FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio 1 2

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Deborah Ardilli, Prima della virtù. Esperienza, conoscenza e innocenza nella filosofia di Stuart Hampshire Francesco Borgia, L’uomo senza immagine. La filosofia della natura di Hans Jonas Antonino Trusso, L’uomo allo specchio Fulvio Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di agalma Giovanni Chimirri, Filosofia e teologia della storia. L’esistenza umana in divenire Pietro D’Oriano, Draga Rocchi (a cura di), Il male e l’essere. Atti del convegno internazionale di studi Girolamo Fracastoro, Della Torre ovvero l’Intellezione Giovanni Invitto, Fra Sartre e Wojtyla. Saggi su fenomenologie ed esistenze Mauro La Forgia, Morfogenesi dell’identità Giovanni Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione Giovanni Carlo Leone, Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto, Stefano Mancini (a cura di), Sguardi sulla scienza del giardino dei pensieri Julia Ponzio, Filippo Silvestri, Itinerari nel pensiero filosofico di Giuseppe Semerari Giovanni Rossetti, Le radici estetiche dell’etica in Gregory Bateson Stefania Tarantino, La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e Maria Zambrano Bruno Accarino (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner Angela Ales Bello, Patrizia Manganaro (a cura di), Le religioni del Mediterraneo. Filosofia, Religione, Cultura Roberto Armigliati, Responsabilità illimitata. “Per una nuova era di responsabilità” Mimmo Pesare, Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico Francesco Borgia, Appartenenza e alterità. Il concetto di storicità nella filosofia di Martin Heidegger Adriano Bugliani, Contro di sé. Potere e misconoscimento Damiano Cantone, Cinema, tempo e soggetto. Il Sublime kantiano secondo Deleuze Silvia Capodivacca, Danzare in catene. Saggio su Nietzsche Giovanni Chimirri, L’arte spiegata a tutti. Il senso spirituale della bellezza in dieci lezioni Maria Lucia Colì, La natura e l’ontologia in alcuni inediti dell’ultimo MerleauPonty Vincenzo Cuomo, Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene Daniela De Leo, La relazione percettiva. Merleau-Ponty e la musica Gaia De Pascale, Qui non si canta al modo delle rane. La città nelle poetiche futuriste Giovanni Di Benedetto, L’ecologia della mente nell’etica di Spinoza. Amore della natura e coscienza globale sulla via della complessità Josef Dietzgen, L’essenza del lavoro mentale umano e altri scritti

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Roberto Fai, Genealogie della globalizzazione. L’Europa a venire Fabio Farrotti, Il concetto dionisiaco della vita. Uno studio sul nichilismo Sergio Franzese, Darwinismo e pragmatismo e altri studi su William James Giacomo Fronzi, Etica ed estetica della relazione Giuliano Glauco, L’immagine del tempo in Henry Corbin. Verso un’idiochronia angelomorfica Cristina Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco Federico Italiano, Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan Michael Konrad, Amore e amicizia: un percorso attraverso la storia dell’etica Vanna Gessa Kurotschka, Chiara De Luzenberger (a cura di), Immaginazione etica interculturalità Riccardo Lazzari, Massimo Mezzanzanica, Erasmo Silvio Storace (a cura di), Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini Stefano Marino, Ermeneutica filosofica e crisi della modernità. Un itinerario nel pensiero di Hans-Georg Gadamer Markus Ophälders, Filosofia arte estetica. Incontri e conflitti Riccardo Pozzo, Marco Sgarbi (a cura di), I filosofi e l’Europa Vincenzo Rosito, Espressione e normatività. Soggettività e intersoggettività in Theodor W. Adorno Barbara Scapolo, Esercizi di de-fascinazione. Saggio su E. M. Cioran Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sui miti. Le saghe storiche e i filosofemi del mondo antichissimo Renato Troncon, Estetica e antropologia filosofica Francesco Valagussa, Individuo e stato. Itinerari kantiani ed hegeliani, Roberta Cavicchioli, Breve storia di un’ingratitudine. Victor Cousin nell’album di famiglia della scuola repubblicana Leonardo Tomasetta, Destra e sinistra. I due corni del dilemma borghese Dario Sacchi (a cura di), Passioni e ragione fra etica ed estetica Mario Alcaro (a cura di), L’oblio del corpo e del mondo nella filosofia contemporanea Luciano Arcella, L’innocenza di Zarathustra. Considerazioni sul I libro di Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche Tiziana Carena, La pneumatologia teologico-estetica di Vincenzo Gioberti, Susi Pietri, L’opera inaugurale. Gli scrittori-lettori della Comédie Humaine I Antonio Rainone, Il doppio mondo dell’occhio e dell’orecchio Francesco Giacomantonio, Introduzione al pensiero politico di Habermas. Il dialogo della ragione dilagante Emanuele Profumi, L’autonomia possibile. Introduzione a Castoriadis Fabio Vander, Essere e non-essere. La Scienza della logica e i suoi critici Gianluca Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di Rawls, Korsgaard e O’Neill Emanuele Mariani, Kierkegaard e Nietzsche. Il Cristo e l’Anticristo Viviana Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas Giorgio Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter Mario Cingoli, Marxismo, empirismo, materialismo Nicola Magliulo, Cacciari e Severino. Quaestiones disputatae

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René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Aldo Rovatti Andrea Amato, Agli esordi dell’esserci. Ancor privi del senso del bene e del male Franco Manti (a cura di), Res publica Luca Marchetti, Oltre l’immagine Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini Rossella Bonito Oliva, Labirinti e costellazioni. Un percorso ai margini di Hegel Luca Gasparri, Filosofia dell’illusione. Lineamenti di glottologia e di critica concettuale Julia Ponzio, Giuseppe Mininni, Augusto Ponzio, Maria Solimini, Susan Petrilli, Luciano Ponzio, Roland Barthes. La visione ottusa Ornella Crotti, La bellezza del bene. Il debito di Hannah Arendt nei confronti di Immanuel Kant Stefano Zampieri, Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana Vincenzo Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di Carlo Sini Felice Accame, Mario Valentino Bramè, La strana copia. Carteggio fra due avversari su natura e funzione della filosofia con documentazione a sostegno di entrambi Carlo Burelli, E fu lo stato. Hobbes e il dilemma che imprigiona Antonio Di Chiro, La notte del mondo. Luoghi del senso, luoghi del divino Claudio Lucchini, Il bene come possibile processo concreto. Natura e ontologia sociale Manuel Cruz, La memoria si dice in molti modi. La priorità della politica sulla storia Giovanni Invitto, Marleau-Ponty par lui-même. Una pratica filosofica della narrazione di sé Valentina Tirloni, L’enigma del colore. Un approccio fenomenologico e simbolico Giacomo Fronzi, Contaminazioni. Esperienze estetiche nella contemporaneità Alessia Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S. M. Ejzenštejn Luciano Ponzio, L’iconauta e l’artesto. Configurazioni della scrittura iconica Chimirri Giovanni, Siamo tutti filosofi (basta volerlo) Bordoni Giorgia, I nomi di Dio. Religione e teologia in Jacques Derrida German A. Duarte, La scomparsa dell’orologio universale. Peter Watkins e i mass media audiovisivi Filippo Silvestri, Segni significati intuizioni. Sul problema del linguaggio nella fenomenologia di Husserl Romeo Bufalo, Giuseppe Cantarano, Pio Colonnello (a cura di), Natura storia società. Studi in onore di Mario Alcaro Stefano Bracaletti, Individualismo metodologico, riduzionismo, microfondazione. Problematiche e sviluppi del paradigma individualista nelle scienze sociali Giovanni Invitto, La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino Andrea Camparsi, Irene Angela Bianchi, L’autocoscienza e la prospettiva sul mondo Veronica Santini, Il filosofo e il mare. Immagini marine e nautiche nella Repubblica di Platone Jean-Pierre Vernant, L’immagine e il suo doppio. Dall’era dell’idolo all’alba dell’arte Barbara Chitussi, Immagine e mito. Un carteggio tra Benjamin e Adorno

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Marco Jacobsson, Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia Lorenzo Bernini, Mauro Farnesi Camellone, Nicola Marcucci, La sovranità scomposta. Sull’attualità del Leviatano Francesco Barba, Il persecutore di Dio. San Paolo nella filosofia di Nietzsche Augusto Mazzone, Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij Aldo Trucchio (a cura di), Cartografie di guerra. Le ragioni della convivenza a partire da Kant Victorino Pérez Prieto, Oltre la frammentazione del sapere e la vita: Raimon Panikkar Fabio Martelli, Un libertino nel “Plenilunio delle monarchie” Angelica Polverini, L’inganno dei sensi. La percezione sinestetica tra vista e tatto dall’antichità all’arte del Cinquecento Federica Negri, Ti temo vicina ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne Maieron Mario Augusto, Alla ricerca dell’isola che non c’è. Ragionamenti sulla mente Casini Leonardo, Corporeità. La corporeità nelle Ergänzungen al Die Welt di Schopenhauer e altri scritti Giuseppe Campesi, Soggetto, disciplina, governo. Michel Foucault e le tecnologie politiche moderne Bertolini Mara Meletti (a cura di), Ragion pratica e immaginazione. Percorsi etici tra logica, psicologia ed estetica Cattaneo Francesco, Domandare con Gadamer Pantano Alessandra, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva di Jan Patočka Luisetti Federico, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità Fichte Johann Gottlieb, Lezioni sulla destinazione del dotto (1811). La Dottrina della Scienza, esposta nel suo profilo generale (1810) Marcello Ghilardi, Il visibile differente. Sguardo e relazione in Derrida Farotti Fabio, Ex Deo-ex nihilo. Sull’impossibilità di creare/annientare Paolo Aldo Rossi, Paolo Vignola (a cura di), Il clamore della filosofia. Sulla filosofia francese contemporanea Vallori Rasini (a cura di), Aggressività. Un’indagine polifonica Francesco Paparella, Imago e verbum. Filosofia dellʼimmagine nellʼalto Medioevo Gaspare Polizzi, Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano tra utopia e disincanto F. Mazzocchio, Le vie del logos argomentativo. Intersoggettività e fondazione in K.-O. Apel Soardo Andrea, Accade l’accadere Antonio Martone, Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni Pierre Macherey, Jules Verne o il racconto in difetto Elena Irrera, Il bello come causalità in Aristotele Alessandro Amato, L’etica oltre lo Stato. Filosofia e politica in Giovanni Gentile Carlo Chiurco, Etica e sacro. Il Bene e l’Autentico oltre l’Occidente Auguro Ponzio, In altre parole Grigenti Fabio, Giacomini Bruna, Sanò Laura (a cura di), La passione del pensare. In dialogo con Umberto Curi Scoto Eriugena Giovanni, Il cammino di ritorno a Dio. Il Periphyseon, a cura di Vittorio Chietti

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131. Di Bernardo Mirko, I sentieri evolutivi della complessità biologica nell’opera di S. A. Kauffman 132. Marrone Pierpaolo, Etica, utilità, contratto 133. Marsili Marco, Libertà di pensiero. Genesi ed evoluzione della libertà di manifestazione del pensiero negli ordinamenti politici dal V sec. A.C. 134. Cortella Lucio, Mora Francesco, Testa Italo (a cura di), La socialità della ragione. Scritti in onore di Luigi Ruggiu 135. Cavarra Berenice e Rasini Vallori (a cura di), Passaggi. Pianta, animale, uomo, in preparazione 136. Elio Matassi, Il giovane Lukács. Saggio e sistema 137. Giacomo Fronzi, Theodor W. Adorno, Pensiero critico e musica 138. Emma Palese, Ex Corpore. Antologia Filosofica sul Corpo 139. Andrea Campucci, Nietzsche: la fine della ragion pura 140. Umberto Lodovici, Religione e politica. Il contributo di Jacques Maritain 141. Tonino Infranca, Lavoro, Individuo, Storia 142 Matteo G. Brega, L’estetizzazione del quotidiano. Dall’Arts and Crafts all’Art Design 143. Romolo Capuano (a cura di), Bizzarre illusioni. Lo strano mondo della Pereidolia e dei suoi segreti 144. Bruno Accarino, Ostilità. Il mosaico del conflitto 145. Nicoletta Cusano, Capire Severino. La risoluzione dell’aporetica del nulla 146. Marianna Esposito, Oikonomia. Una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss 147. Georgia Zeami Francesca Presti, Daimonicità del lógos. Socrate nel Protagora e nel Gorgia 148 Marcello Barison, Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo spazio, 2011 149. Fabio Vander, Relatività e Fondamento. Filosofia di Aristotele 150. Giorgio Cesarale, Hegel nella filosofia pratico-politica anglosassone dal secondo dopoguerra ai giorni nostri 151. Francesco Valagussa (a cura di), Immanuel Kant. Prima introduzione alla Critica della capacità di giudizio 152. Marcello Ghilardi, Arte e pensiero in Giappone. Corpo, immagine, gesto 153. Pietro Piro, La peste emozionale, l’uomo-massa e l’orizzonte totalitario della tecnica. Un Seminario, alcuni saggi e materiali per uno schizo-umanesimo 154. Rosa Marafioti, Il ritorno a Kant di Heidegger. La questione dell’essere e dell’uomo 155. Giancarlo Lacchi, Ludwin Klages Coscienza e immagine. Studio di storia dell’estetica 156. Maurizio Guerri, Necessità dell’estetica e potenza dell’arte 157. Susan Petrillo, Augusto Ponzio, Luciano Ponzio, Interferenze 158. Anna Castelli, Lo sguardo di Kafka. Dispositivi di visione e immagine nello spazio della letteratura 159. Silvia Capodivacca, Sul tragico. Tra Nietzsche e Freud 160. Maurizio Guerri, La mobilitazione globale. Tecnica, violenza, libertà in Ernst Jünger 161. Natascia Mattucci e Gianluca Vagnarelli (a cura di), Medicalizzazione, sorveglianza e biopolitica. A partire da Michel Foucault 162. Alfio Fantinel, Tracce di assoluto. Agonia dell’infinito in Giordano Bruno 163. Lisa De Luigi, Animalia. Teoria e fatti della macchina antropogenica

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Massimo Canepa, Friedrich Nietzsche. L’arte della trasfigurazione Ginette Michaud, Veglianti. Verso tre immagini di Jacques Derrida Paulo Barone, Utopia del presente Giuseppe Bonvegna, Politica, religione, Risorgimento. L’eredità di Antonio Rosmini in Svizzera Luca Caddeo, L’Operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica, 2012 Simona Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo: tra ontologia, idealismo e fenomenologia Enrico Mastropierro, Il corpo e l’evento. Sullo Spinoza di Deleuze Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria Domenica Bruni, Politici sfigurati. La comunicazione politica e la scienza cognitiva Emanuele Mariani, Risonanze impolitiche. Riflessioni filosofiche tra ragioni e fedi Giovanni Chimirri, Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione metafisica dei valori Angelo Bruno, L’ermeneutica della testimonianza in Paul Ricoeur Maria Grazia Turri, Biologicamente sociali, culturalmente individualisti Leonardo Caffo, La possibilità di cambiare. Azioni umane e libertà mora Francesco Vitale, Mitografie. Jacques Derrida e la scrittura dello spazio Andrea Velardi, La barba di Platone. Quale ontologia per gli oggetti materiali? Davide Gianluca Bianchi, Dare un volto al potere. Gianfranco Miglio fra scienza e politica. In Appendice il carteggio Schmitt-Miglio Riccardo Corsi, Incroci simbolici Francesco Valagussa, L’arte del genio. Note sulla terza critica Vinicio Busacchi, Tra ragione e fede. Interventi buddisti Giuseppe Di Giacomo, Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento Daniela De Leo, Una convergenza armonica. Beethoven nei manoscritti di Michelstaedter e Merleau-Ponty Stefano Bracaletti, Microfondazione. Problematiche della spiegazione individualista nelle scienze sociali Giorgio Palumbo, Finitezza e crisi del senso. La nostra insecuritas e il richiamo dell’assenza Mario Augusto Maieron, C’era una volta un re...! Intorno alla mente (Π ί ῆ ) tra neuroscienze, filosofia, arte e letteratura Tiziano Boaretti, La via mistica. Itinerario filosofico in quindici stazioni. Massimo Frana, Il segreto dei fratelli del libero spirito Enzo Cocco, La melanconia nell’età dei lumi José Ortega y Gasset, Appunti per un commento al Convivio di Platone, a cura di Pietro Piro Antonio Coratti, Karl Löwith e il discorso del cristianesimo Sarah F. Maclaren, Magnificenza e mondo classico Jean Soldini, A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune Matteo G. Brega, Multimedialità digitale e fruizione parcellizzata. Estetica e forme d’arte del Novecento Francesca Marelli, Fisica dell’anima. Estetica e antropologia in J.G. Herder Mario Cingoli, Hegel. Lezioni preliminari Tommaso Ariemma, Estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou

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Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un discorso in frammenti Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia contemporanea Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900. Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione Luca Mori, Tra la materia e la mente Alberto Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno Paulo Butti, Un’archeologia della politica. Letture della Repubblica platonica Erasmo Storace, Ergografie. Studi sulla struttura dell’essere Francesco Maria Tedesco, Eccedenza sovrana Marco Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico Marcello Barison, Estetica della produzione. Saggi da Heidegger Elio Matassi (a cura di), Percorsi della conoscenza Mirko di Bernardo, Danilo Saccoccioni, Caos, ordine e incertezza in epistemologia e nelle scienze naturali Liliana Nobile, Democrazie senza futuro Giacomo Fronzi (a cura di), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni, con unʼintervista inedita Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale Roberto Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin Antonio Valentini, Il silenzio delle sirene: mito e letteratura in Franz Kafka Giuseppe Maccaroni, Sociologia Stato Democrazia Damiano Cantone (a cura di), Estetica e realtà, Arte Segno e Immagine Marino Centrone, Rocco Corriero, Stefano Daprile, Antonio Florio, Marco Sergio (a cura di), Percorsi nellʼepistemologia e nella logica del Novecento Pierdaniele Giaretta (a cura di), Le classificazioni nelle scienze Luca Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo Marco Piazza, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso Emilio Mazza, La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume Luca Marchetti, Il corpo dell’immagine. Percezione e rappresentazione in Wittgenstein e Wollheim Monica Musolino, New Towns post catastrofe. Dalle utopie urbane alla crisi delle identità

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237. Barbara Troncarelli, Complessità dilemmatica, Logica, scienza e società in Giovanni Gentile 238. Emanuele Arielli, La mente estetica. Introduzione alla psicologia dell’arte 239. Emanuele Arielli, Wittgenstein e l’arte. L’estetica come problema linguistico ed epistemologico 240. Giuseppe Fornari, Gianfranco Mormino (a cura di), René Girard e la filosofia 241. Erasmo Storace, Genografie 242. Erasmo Storace, Tanotagrafie 243. Erasmo Storace, Poietografie 244. Erasmo Storace, Il poeta e la morte 245. Lucia Maria Grazia Parente, Segreti mutamenti 246. María Lida Mollo, Xavier Zubiri: il reale e l’irreale 247. Susan Petrilli, Altrove e altrimenti. Filosofia del linguaggio, critica letteraria e teoria della traduzione in, intorno e a partire da Bachtin 248. Pietro Piro, Le occasioni dell’uomo ladro. Saggi, polemiche e interventi tra Oriente e Occidente 249. Giorgio Cesarale, Marcello Mustè e Stefano Petrucciani (a cura di), Filosofia e politica. Saggi in onore di Mario Reale 250. Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin (a cura di), Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche in movimento 251. Franco Maria Fontana, Immagini del disastro prima e dopo Auschwitz. Il “verdetto” di Adorno e la risposta di Celan 252. Antonello Sciacchitano, Il tempo di sapere 253. Gabriele Scardovi, L’intuizionismo morale di George Edward Moore 254. Fabio Vander, Il sistema Leopardi. Teoria e critica della modernità 255. Riccardo Motti, La mistificazione di massa. Estetica dell’industria cultura 256. Francesco Gusmano, Naturalismo e filosofia 257. Gemmo Iocco, Profili e densità temporali 258. Marco Sgarbi, Kant e l’irrazionale 259. Amato, Fulco, Geraci, Gorgone, Saffioti, Surace, Terranova, L’evento dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta 260. Luca Serafini, Inoperosità. Heidegger nel dibattito francese contemporaneo 261. Renato Calligaro, Le pagine del tempo. Scritti sull’Arte 262. Paolo Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano 263. Fabio Ciaramelli, Ugo Maria Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa 264. Giovanni Invitto, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti, temi ed eventi dell’esistenza 265. Vinicio Busacchi, Itinerari buddisti. La sfida del male 266. Plotino, Enneadi. I-II e vita di Plotino di Porfirio 267. Luca M. Possati, La ripetizione creatrice. Melandri, Derrida e lo spazio dell’analogia 268. A. Lavazza, V. Possenti (a cura di), Perché essere realisti. Una sfida filosofica 269. Mattia Geretto e Antonio Martin (a cura di), Teologia della follia 270. Vittorio Pavoncello, Il serpente nel Big Bang 271. Afonso Mário Ucuassapi, Dalle indipendenze alle libertà. Futurismo e utopia nella filosofia di Severino Elias Ngoenha 272. Roberto Fai, Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità 273. Francesco Giacomantonio (a cura di), La filosofia politica nell’età globale (1970-2010)

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274. Alberto Romele, L’esperienza del verbum in corde. Ovvero l’ineffettività dell’ermeneutica 275. John Burnet, I primi filosofi greci, a cura di Alessandro Medri 276. Giovanni Basile, Il mito. Uno strumento per la conoscenza del mondo. Saggio introduttivo attorno all’ermeneutica mitica 277. Andrea Dezi, Potenza e realtà. Il sovrarrealismo ontologico nel pensiero di F.W.J. Schelling 278. Vincenzo Cuomo, Leonardo V. Distaso (a cura di), La ricerca di John Cage. Il caso, il silenzio, la natura 279. Augusto Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico 280. Alessandra Luciano, L’estasi della scrittura Emily L. di Marguerite Duras 281. Enrico Giorgio, Esercizi fenomenologici. Edmund Husserl 282. Sara Matetich, In no time. Forme di vita, tempo e verità in Virginia Woolf 283. Marco Fortunato, La protesta e l’impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter 284. Antonio De Simone, Alchimia del segno. Rousseau e le metamorfosi del soggetto moderno 285. Francesco Giacomantonio, Ruggero D’Alessandro, Nostalgie francofortesi. Ripensando Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas 286. Fortunato Cacciatore, Isonomia/Isogonia. Percorsi storico-filosofici 287. Vallori Rasini, L’eccentrico. Filosofia della natura e antropologia in Helmuth Plessner 288. Enzo Cocco, Le vie della felicità in Voltaire 289. Rodolphe Gasché, Dietro lo specchio. Derrida e la filosofia della riflessione, traduzione e cura di Francesco Vitale e Mauro Senatore 290. Andrea C. Bertino, “Noi buoni Europei”. Herder, Nietzsche e le risorse del senso storico 291. Franco Ricordi, Pasolini filosofo della libertà. Il cedimento dell’essere e l’apologia dell’apparire 292. Viviana Meschesi, Passaggi al limite. Linguaggio ed etica nei periodi di crisi 293. Franco Sarcinelli, Paul Ricœur filosofo del ’900. Una lettura critica delle opere 294. Federica Ceranovi, Dal giogo dell’idea alla festa del pensiero. I sentieri della ἀ nel saggio L’origine dell’opera d’arte di Martin Heidegger 295. Augusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue. Introduzione alla linguistica generale 296. Augustin Cochin, Astrazione rivoluzionaria e altri scritti 297. Pierfrancesco Stagi, Di Dio e dell’essere. Un secolo di Heidegger 298. L.E.J. Brouwer, Lettere scelte, a cura di Miriam Franchella 299. Franco Aurelio Meschini, Materiali per una storia della medicina cartesiana. Dottrine, testi, contesti e lessico 300. Roberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e Schleiermacher 301. Fiorella Bassan, Antonin Artaud. Scritti sull’arte 302. Rossella Spinaci, Razionalità discorsiva e verità 303. Marcella d’Abbiero (a cura di), Passioni nere. Il fondo oscuro dei legami sociali 304. Umberto Curi e Luca Taddio (a cura di), Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia 305. Lucia Parente, Ortega y Gasset e la “vital curiosidad” filosofica 306. Gabriella Pelloni, Genealogia della cultura. La costruzione poetica del sè nello Zarathustra di Nietzsche 307. Cosimo Quarta (a cura di), Per un manifesto della «Nuova Utopia»

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Finito di stampare novembre 2013 da Digital Team - Fano (PU)

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