Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale 8806206028, 9788806206024


116 92 13MB

Italian Pages 202 [233] Year 2011

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale
 8806206028, 9788806206024

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

SAGGI

579

L'amore (da Ori Apollinis Niliaci De sacris Aegyptiorum notis, Parisiis 1574).

Giorgio Agamben \\

Stanze

La parola e il fantasma nella cultura occidentale

Giulio Einaudi editore

Elenco delle illustrazioni

frontespizio L'amore (da Ori Apollinis Niliaci De sacris Aegyptiorum notis, Parisiis 1574). 1. Diirer, Melencolia I. 2. Ve;pertilio (in Ori Apollinis Niliaci De sacris Aegyptiorum notis cit.). 3. Rubens, Eraclito come melanconico. Madrid, Prado.

4-5. Posate e Libreria (dal Catalogo illustrato dell'Esposizione universale di Londra, 1851). 6-7. Grandville, illustrazioni da Un autre monde. 8. Grandville, Système de Fourier (illustrazione da Un autre monde). 9. Grandville, illustrazioni da Petites misères de la vie humaine. 10. Beau Brummell. 11-12. Figure in miniatura in una tomba cinese arcaica. 13. L'amante allafontana diNarciso(Ms.fr. 12595,fol. 12v). Parigi, Bibliothèque Nationnle.

14. Narciso (Ms. fr. 12595, fol. 12v). Parigi, Bibliothèque Nationale.

15. Pigmalione come idolatra (Ms. Douce 195, fol. 149v). Oxford, Bodleian Library.

16. Pigmalione e l'immagine (Ms. Douce 195, fol. 15or). Oxford, Bodleian Library.

17. Storie di Pigmalione (Ms. fr. 12592,fol. 6w). Parigi, Bibliothèque Nationale.

18. L'amante e l'immagine (Ms. 387,fol. 146v). Valencia.

19. Venere e l'immagine (Ms. 387, fol. 144r). Valencia.

20. Venere e l'immagine(Ms. fr. 380, fol. 135v). Parigi, Bibliothèque Nationale.

Elenco delle illustrazioni

X 2

r. L'amante, l'immagine e la rosa (Ms. 387, fol. Valencia.

22.

146v).

«Fol amour» come idolatria (particolare del lato sinistro del portale cen­ trale della cattedrale di Notre-Dame).

Parigi. 2

3. Gli amanti come idolatri (vassoio per il parto attribuito al Maestro di San Martino). Parigi, Louvre.

24. L'uomo laborioso

cit.).

25.

(da Ori Apollinis Niliaci De sacris Aegyptiorum notis

L'opera futura (da Ori Apollinis Niliaci De sacris Aegyptiorum notis

cit.).

26. Ciò che è grave, diletta (da

J. Catz, Proteus, Rotterdam 1627 ).

27. L'amore è padre dell'eleganza (da Catz, Proteus cit.).

Prefazione

Da un romanzo è possibile, al limite, accettare che la storia che in esso si doveva raccontare non venga raccontata; ma da un'ope­ ra critica si sogliono invece attendere dei risultati o, almeno, tesi da dimostrare e, come si dice, ipotesi di lavoro. Eppure, quando la parola fa la sua apparizione nel vocabolario della filosofia occi­ dentale, critica significa piuttosto indagine sui limiti della cono­ scenza, su quel che, cioè, precisamente non è possibile né porre né afferrare. Se, in quanto ne traccia i confini, la critica apre allo sguardo«il paese della verità», come«un'isola che la natura chiu­ de in confini immutabili», essa deve tuttavia restare esposta al fascino dell'«oceano vasto e tempestoso» che attira «incessante­ mente il navigante in avventure che egli non sa rifiutare e che, tut­ tavia, non può mai condurre a termine». Nel gruppo di Jena, che cercò di abolire nel progetto di una «poesia universale pro­ gressiva» la distinzione fra poesia e discipline critico-filologiche, un'opera che meritasse di essere qualificata critica non poteva es­ sere altro che un'opera che includesse in se stessa la propria nega­ zione e il cui contenuto essenziale fosse cosi proprio ciò che in essa non si trovava. La saggistica europea di questo secolo non è ricca di opere di tal genere: a voler essere rigorosi, accanto a un'opera che, in quanto assente, sarà sempre «piu che comple­ ta», qual è quella di celui qui silence, Félix Fénéon, forse un solo libro merita, in questo senso, il nome di critico: l'Ursprung des deutschen Trauerspiel, di Walter Benjamin. È certo indizio dello scadimento di questa tradizione di pen­ siero che vi siano oggi molti, fra coloro che da essa piu o meno consapevolmente si autorizzano, che rivendicano il carattere

XII

Prefazione

«creativo» della critica, proprio quando l'arte ha rinunciato da un pezzo a ogni pretesa di creatività. Se la formula che nell'anti­ chità si trova applicata per la prima volta a un poeta e filologo alessandrino, Filita ( 1tOt.T)"tT)ç- &µa xaì. xpt."tt.x6ç- 'insieme poeta e critico'), può oggi tornare a valere come definizione esemplare dell'artista moderno, se la critica s'identifica oggi veramente con l'opera d'arte, ciò non è in quanto è anch'essa «creativa», ma, semmai, in quanto è anch'essa negatività. Essa non è anzi altro che il processo della sua ironica autonegazione: un «autoannien­ tantesi nulla», appunto, o «un dio che si autodistrugge» secondo la profetica, anche se malevola, definizione di Hegel. L'obiezione di Hegel al «signor Friedrich von Schlegel», a Solger, a Novalis e agli altri teorici dell'ironia, secondo cui essi sarebbero rimasti fermi alla «infinita negatività assoluta» e avrebbero finito col fa­ re del meno artistico «il vero principio dell'arte», spacciando «l'inespresso per la cosa migliore», si lascia sfuggire l'essenziale. e, cioè, che la negatività dell'ironia non è quella provvisoria del­ la dialettica, che la bacchetta magica dell'Aufhebung è sempre già in atto di trasformare in positivo, ma una negatività assoluta e senza riscatto, la quale tuttavia non rinuncia per questo alla co­ noscenza. E che dall'ironia romantica, proprio con gli Schlegel, sia potuto scaturire un atteggiamento autenticamente filologico e scientifico ( che ha dato, fra l'altro, un impulso essenziale alla linguistica indoeuropea), è qualcosa che resta ancora da interro­ gare nella prospettiva di una fondazione critica delle scienze uma­ ne. Poiché, se nelle scienze dell'uomo soggetto e oggetto necessa­ riamente si identificano, allora l'idea di una scienza senza oggetto non è un paradosso scherzoso, ma il compito forse piu serio che, nel nostro tempo, resta affidato al pensiero. Ciò che il perpetuo aguzzar coltelli di una metodologia che non ha piu nulla da ta­ gliare cerca oggi sempre piu spesso di dissimulare, e, cioè, la co­ scienza che l'oggetto che doveva essere appreso ha eluso, alla fine, la conoscenza, è rivendicato, invece, dalla critica come il proprio carattere specifico. L'illuminazione profana, cui essa ri­ volge la sua intenzione piu profonda, non possiede il suo oggetto.

Prefazione

xm

Come ogni autentica quéte, la quéte della critica non consiste nel ritrovare il proprio oggetto, ma nell'assicurare le condizioni della sua inaccessibilità. I poeti del '200 chiamavano «stanza», cioè «dimora capace e ricettacolo», il nucleo essenziale della loro poesia, perché esso cu­ stodiva, insieme a tutti gli elementi formali della canzone, quel joi d'amor che essi affidavano come unico oggetto alla poesia. Ma che cos'è quest'oggetto? A quale godimento la poesia dispone la sua «stanza» come «grembo» di tutta l'arte? Su che cosa si ri­ chiude cosI tenacemente il suo trobar? L'accesso a ciò che fa problema in queste domande è sbarrato dall'oblio di una scissione che si è prodotta fin dall'origine nella nostra cultura e che si suole accettare come la cosa piu naturale e che va, per COSI dire, da sé, mentre è, in realtà, l'unica cosa che meriterebbe veramente di essere interrogata. Questa scissione è quella fra poesia e filosofia, fra parola poetica e parola pensante, ed essa appartiene COSI originalmente alla nostra tradizione cultu­ rale, che già Platone poteva ai suoi tempi dichiararla «una vec­ chia inimicizia». Secondo una concezione che è solo implicita­ mente contenuta nella critica platonica della poesia, ma che ha ac­ quistato nell'età moderna carattere egemonico, la scissione della parola è interpretata nel senso che la poesia possiede il suo ogget­ to senza conoscerlo e la filosofia lo conosce senza possederlo. La parola occidentale è cosI divisa fra una parola inconsapevole e come caduta dal cielo, che gode dell'oggetto della conoscenza rap­ presentandolo nella forma bella, e una parola che ha per sé tutta la serietà e tutta la coscienza, ma che non gode del suo oggetto perché non lo sa rappresentare. Ciò di cui la scissione fra poesia e filosofia offre testimonianza è l'impossibilità della cultura occidentale di possedere pienamen­ te l'oggetto della conoscenza (poiché il problema della conoscenza è un problema di possesso, e ogni problema di possesso è un pro­ blema di godimento, cioè di linguaggio). Nella nostra cultura, la conoscenza (secondo un'antinomia che Aby Warburg ebbe a dia­ gnosticare come la «schizofrenia» dell'uomo occidentale) è scissa

XIV

Prefazione

in un polo estatico-ispirato e in un polo razionale-cosciente, senza che nessuno dei due riesca mai a ridurre integralmente l'altro. In quanto accettano passivamente questa scissione, la filosofia ha omesso di elaborare un proprio linguaggio, come se potesse esi­ stere una«via regia» alla verità che prescinda dal problema della sua rappresentazione, e la poesia non si è data né un metodo né una coscienza di sé. Ciò che, in questo modo, viene rimosso, è che ogni autentica intenzione poetica è rivolta alla conoscenza, cosi come ogni vero filosofare è sempre rivolto alla gioia. Il nome di Holderlin ( cioè di un poeta per il quale la poesia faceva innanzi­ tutto problema e che aveva espresso la speranza che essa fosse ele­ vata al grado della µ'T)Xf.X.V'f) degli antichi, in modo che il suo pro­ cedimento potesse essere calcolato e insegnato) e il dialogo che col suo dire intrattiene un pensatore che già non designa piu la propria meditazione col termine di«filosofia» , sono qui chiamati a testimoniare dell'urgenza, per la nostra cultura, di ritrovare l'u­ nità della propria parola spezzata. La critica nasce nel momento in cui la scissione raggiunge il suo punto estremo. Essa si situa nella scollatura della parola occi­ dentale e fa segno al di qua o al di là di essa verso uno statuto uni­ tario del dire. Esteriormente, questa situazione della critica può essere espressa nella formula secondo la quale essa non rappre­ senta né conosce, ma conosce la rappresentazione. All'appropria­ zione senza coscienza e alla coscienza senza godimento, la critica oppone il godimento di ciò che non può essere posseduto e il pos­ sesso di ciò che non può essere goduto. In questo modo essa in­ terpreta il precetto di Gargantua: «science sans conscience n'est que mine de l'ame». Ciò che è recluso nella «stanza» della cri­ tica è nulla, ma questo nulla custodisce l'inappropriabilità come il suo bene piu prezioso. Nelle pagine che seguono, il modello della conoscenza è cosi cercato in quelle operazioni, come la disperazione del malinco­ nico o la Verleugnung del feticista, in cui il desiderio nega e, in­ sieme, afferma il suo oggetto e, in questo modo, riesce a entrare in rapporto con qualcosa che non avrebbe potuto altrimenti es-

Prefazione

xv

sere né appropriato né goduto. È questo modello che ha fornito il campo tanto a un esame della trasfigurazione degli oggetti uma­ ni operata dalla merce quanto al tentativo di ritrovare, attraverso l'analisi della forma emblematica e dell'alvoç della Sfinge, un modello del significare che sfuggisse alla posizione primordiale del significante e del significato che domina ogni riflessione occi­ dentale sul segno. Ed è in questa prospettiva che acquista il suo senso proprio la ricostruzione, che occupa il posto centrale nella ricerca, della teoria del fantasma sottesa al progetto poetico che la lirica trobadorico-stilnovista ha lasciato in eredità alla cultura europea e in cui, attraverso il fitto entrebescamen testuale di fan­ tasma, desiderio e parola, la poesia costruiva la propria autorità diventando essa stessa la «stanza» offerta alla gioi che mai non fina dell'esperienza amorosa. Ognuno dei saggi qui raccolti disegna quindi, nel suo circolo ermeneutico, una topologia del gaudium, della «stanza» attraver­ so la quale lo spirito umano risponde all'impossibile compito di appropriarsi di ciò che deve, in ogni caso, restare inappropriabile. Il sentiero di danza del labirinto, che conduce nel cuore di ciò che tiene a distanza, è il modello dello spazio simbolico della cul­ tura umana e della sua oo6ç �acnÀ.T}LT} a una meta cui solo il dé­ tour è adeguato. Il discorso che, in questa prospettiva, sa infatti che «tenere fermamente ciò che è morto è quel che esige la forza piu grande» e non voglia arrogarsi «il potere magico che trasfor­ ma il negativo in essere», deve necessariamente garantire l'inap­ propriabilità del suo oggetto. Poiché esso non si comporta rispet­ to a questo né come il padrone che semplicemente lo nega nell'at­ to del godimento né come lo schiavo che lo elabora e trasforma nel differimento del proprio desiderio: la sua è l'operazione so­ vrana di una fin'amors che, insieme, gode e differisce, nega e affer­ ma, assume e respinge e la cui sola realtà è l'irrealtà di una parola «qu'amas l'aura I e chatz la lebre ab lo bou I e nadi contra su­ berna». È in questa prospettiva che si può qui parlare di una «topo­ logia dell'irreale». Forse il topos, questa cosa, secondo Aristate-

XVI

Prefazione

le, «cosi difficile da afferrare», ma il cui potere «è meraviglioso e anteriore a ogni altro» e che Platone, nel Sofista, concepisce ad­ dirittura come un «terzo genere» dell'essere, non è necessaria­ mente qualcosa di «reale» e, in questo senso, si è qui provato a prendere sul serio la domanda che il filosofo pone nel libro IV della Fisica: «1tou ycx.p Èa'·n 't'pcx.yÉÀcx.cpoç- ii crcplvç,; » 'dov'è il ca­ pricervo, dov'è la sfinge?' In nessun luogo, certo, ma, forse, per­ ché sono essi stessi dei topoi. Noi dobbiamo ancora abituarci a pensare il «luogo» non come qualcosa di spaziale, ma come qual­ cosa di piu originario dello spazio; forse, secondo il suggerimen­ to di Platone, come una pura differenza, cui compete tuttavia il potere di far si che «ciò che non è, in un certo senso sia e ciò che è, a sua volta, in un certo senso non sia». Solo una topologia filo­ sofica, analoga a quella che in matematica si definisce analysis si­ tus in opposizione all'analysis magnitudinis, sarebbe adeguata al topos outopos il cui nodo borromeo si è qui cercato di configu­ rare. Cosi l'esplorazione topologica è costantemente orientata nella luce dell'utopia. Se una convinzione sostiene infatti temati­ camente questa ricerca nel vuoto cui la costringe la sua intenzione critica, questa è appunto che solo se si è capaci di entrare in rap­ porto con l'irrealtà e con l'inappropriabile in quanto tali, è possi­ bile appropriarsi della realtà e del positivo. Cosi le pagine che se­ guono intendono porsi come un primo, insufficiente tentativo nel solco del progetto che Musil aveva affidato al suo romanzo incom­ piuto e che, qualche anno prima, la parola di un poeta aveva espresso nella formula secondo cui «chi afferra la massima irreal­ tà, plasmerà la massima realtà».

Martin Heidegger in memoriam

Stanze

Et circa hoc sciendum est quod hoc vocabulum per solius artis respectum inventum est, videlicet ut in quo tota cantionis ars esset contenta, illud diceretur stantia - hoc est mansio capax sive re­ ceptaculum - totius artis. Nam, quemadmodum cantio est gremium totius sententiae, sic stantia to­ tam artem ingremiat... DANTE, be vulgari eloquentia II 9

Parte prima

I fantasmi di Eros

Ora la perdita, per crudele che sia, non può nul­ la contro il possesso: lo completa, se volete, lo af­ ferma: non è, in fondo, che una seconda acquisi­ zione - questa volta tutta interiore_.:. e altrettanto intensa. RILKE

Molti cercarono invano di dire gioiosamente il piu gioioso; qui, finalmente, nel lutto esso si espri­ me. HOLDERLIN

Capitolo primo Il demone meridiano

Per tutto il medioevo, un flagello peggiore della peste che infe­ sta i castelli, le ville e i palazzi delle città del mondo si abbatte sulle dimore della vita spirituale, penetra nelle celle e nei chiostri dei monasteri, nelle tebaidi degli eremiti, nelle trappe dei reclusi. Acedia, tristitia, taedium vitae, desidia sono i nomi che i padri della Chiesa dànno alla morte che esso induce nell'anima; e, ben­ ché negli elenchi delleSummae virtutum et vitiorum, nelle minia­ ture dei manoscritti e nelle rappresentazioni popolari dei sette peccati capitali', la sua desolata effigie figuri al quinto posto, un'antica tradizione ermeneutica ne fa il piu letale dei vizi, l'uni­ co per il quale non vi sia alcun perdono possibile. I padri si scagliano con particolare fervore contro i pericoli di 2 questo « demone meridiano» , che sceglie le sue vittime fra gli 1 Nella piu antica tradizione patristica i peccati capitali non sono sette, ma otto. Nell'elencazione di Cassiano, essi sono: Gastrimargia 'gola', Fornicatio 'lussuria', Phi­ largyria 'avarizia', Ira, Tristitia, Acedia, Cenodoxia 'vanagloria', Superbia. Nella tradi­ zione occidentale, a partire da san Gregorio, la tristitia si fonde con l'acedia, e i sette peccati assumono l'ordine che si ritrova nelle illustrazioni popolari e nelle rappresenta­ zioni allegoriche della fine del medioevo e che ci è diventato familiare attraverso gli affreschi di Giotto a Padova, il tondo di Bosch al museo del Prado o le incisioni di Brueghel. Quando nel testo si parla di acedia, ci si riferisce sempre al complesso risul­ tante da questa fusione, che piu precisamente dovrebbe designarsi « Tristitia-Acedia». 2 «Maxime circa horam sextam monachum inquietans ... Denique nonnulli senum bune esse pronuntiant meridianum daemonem, qui in psalmo nonagesimo nuncupatur » (JOANNIS CASSIANI De institutis coenobiorum, 1. X, cap. I, in Patrologia latina, 49). Analogamente Giovanni Climaco (Scala Paradisi, gr. XIII, in Patrologia graeca, 88): «mane primum languentes medicus visitat, acedia vero monachos circa meridiem». Non è quindi casuale che, nell'incisione di Brueghel che rappresenta l'acedia, nella parte in alto, a sinistra, appaia un enorme quadrante, sul quale, in luogo di lancette, una mano indica «circa meridiem». Sul demone meridiano si veda quanto scrive Leopardi nel suo Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cap. v11. Il riferimento al « salmo nona­ gesimo» in Cassiano è, per la precisione, al v. 6, e la voce ebraica corrispondente è

6

I fantasmi di Eros

homines religiosi e li assale quando il sole culmina sull'orizzonte; e forse per nessun'altra tentazione dell'anima i loro scritti fanno mostra di una cosi spietata penetrazione psicologica e di una tan­ to puntigliosa e agghiacciante fenomenologia:

Lo sguardo dell'accidioso si posa ossessivamente sulla finestra e, con la fantasia, egli si finge l'immagine di qualcuno che viene a visitarlo; a uno scricchiolio della porta, balza in piedi; sente una voce, e corre ad affacciarsi alla finestra a guardare; e tuttavia non scende in strada, ma torna a sedersi dov'era, torpido e come allibito. Se legge, s'interrompe inquieto e, un minuto dopo, scivola nel sonno; si frega la faccia con le mani, distende le dita e, tolti gli occhi dal libro, li fissa sulla parete; di nuovo li rimette sul libro, va avanti per qualche riga, ribalbettando la fine di ogni parola che legge; e intanto si riempie la testa con calcoli oziosi, conta il numero delle pagine e i fogli dei quaderni; e gli vengono in odio le lettere e le belle miniature che ha davanti agli occhi, finché, da ultimo, richiude il libro e lo usa come cuscino per il suo capo, caden­ do in un sonno breve e non profondo, da cui lo desta un senso di priva­ zione e di fame che deve saziare '. Non appena questo demone comincia ad ossessionare la mente di qualche sventurato, gli insinua dentro un orrore del luogo in cui si tro­ va, un fastidio della propria cella e uno schifo dei fratelli che vivono con lui, che gli sembrano ora negligenti e grossolani. Lo fa diventare inerte a ogni attività che si svolge fra le pareti della sua cella, gli impe­ disce di restarvi in pace e di attendere alla sua lettura; ed ecco che il disgraziato comincia a lagnarsi di non trarre alcun giovamento dalla vita conventuale, e sospira e geme che il suo spirito non produrrà frutto al­ cuno finché resterà dove si trova; querimoniosamente si proclama inet­ to a far fronte a qualsiasi compito dello spirito e si affiigge di starsene svuotato e immobile sempre nello stesso punto, lui che avrebbe potuto essere utile agli altri e guidarli, e non ha invece concluso nulla né giovato a chicchessia. Si profonde in sperticati elogi di monasteri assenti i I e lontpni ed evoca i luoghi dove potrebbe essere sano e felice; descrive cenobi soavi di fratelli e flagranti di conversazione spirituale; e, all'op­ posto, tutto quel che ha a portata di mano gli sembra aspro e difficile, i suoi fratelli privi di qualsiasi qualità e persino il cibo gli pare di non poterselo là procurare senza una grande fatica. Alla fine si convince che

Keteb. Secondo Rohde, il demone meridiano degli autori cristiani non è che una rein­

carnazione di Empusa, una delle figure di orchessa del seguito spettrale di Ecate, che appare appunto sul mezzogiorno (dr. E. ROHDE, Psyche, Freiburg im Breisgau, 1890-94; trad. it. Bari 1970, app. II). 1 SANCTI NILI De octo spiritibus malitiae, cap. XIV.

Il demone meridiano

7

non potrà star bene finché non avrà abbandonato la sua cella e che, se vi restasse, vi troverebbe la morte. Poi, verso l'ora quinta o sesta, gli prende un languore del corpo e una rabbiosa fame di cibo, come fosse stremato da un lungo viaggio o da un duro lavoro, o avesse digiunato per due o tre giorni. Allora comincia a guardarsi intorno qua e là, entra ed esce piu volte dalla cella e fissa gli occhi sul sole come se potesse ral­ lentarne l'occaso; e, alla fine, gli cala sulla mente una dissennata con­ fusione, simile alla caligine che avvolge la terra, e lo lascia inerte e come svuotato'.

Ma è nell'evocazione del corteggio infernale delle filiae ace­ diae' che la mentalità allegorizzante dei padri della Chiesa ha fis­ sato magistralmente l'allucinata costellazione psicologica dell'a­ cedia. Essa genera innanzitutto malitia, l'ambiguo e infrenabile odio-amore per il bene in quanto tale, e rancor, la rivolta della cattiva coscienza verso coloro che esortano al bene; pusillanimi1 JOANNIS CASSIANI De institutis coenobiorum cit., I. X, cap. n. La descrizione pa­ tristica dell'accidioso non ha perduto, a tanti secoli di distanza, nulla della sua esempla­ rità e della sua attualità e sembra anzi aver fornito il modello alla letteratura moderna alle prese col suo mal du siècle. Cosi il cavaliere d' Albert, protagonisti.I di quella bibbia ante litteram del decadentismo che è Mademoiselle de Maupin, è presentato da Gautier in termini che ricordano da vicino la fenomenologia medioevale dell'acedia. Ancora piu prossima al modello patristico è la descrizione degli stati d'animo di Des Esseintes (il quale non nasconde del resto la sua predilezione per le opere dei padri della Chiesa) nell'A rebours huysmansiano. Tratti simili ma, ovviamente, di seconda mano, nel Gior­ gio Aurispa del Trior.fo della morte. Per molti aspetti, anche le annotazioni baudele­ riane in Mon CCJ!Ur mis à Jlu e nelle Fusées rivelano una singolare prossimità con la fenomenologia accidiosa. Del resto, nella poesia che apre Les fieurs du mal, Baudelaire pone sotto il segno dell'acedia (che qui figura come ennui) la sua opera poetica. Tutta la poesia di Baudelaire può essere intesa, in questa prospettiva, come una lotta mortale con l'acedia e, insieme, come un tentativo di rovesciarla in qualcosa di positivo. È da notare che il dandy, che rappresenta, secondo Baudelaire, il tipo perfetto del poeta, si può considerare, in un certo senso, come una reincarnazione dell'accidioso. Se è vero che l'essenza del dandismo consiste in una religione del trascurabile o in un'arte del­ l'incuria (cioè in un prendersi cura dell'incuria stessa), esso si presenta allora come una paradossale rivalutazione dell'acedia, il cui significato etimologico (da l'i-:X:TJOOµOCL) è, appunto, in-curia. 2 Secondo Gregorio, le figlie dell'acedia sono sei (malitia, rancor, pusillanimitas, desperatio, torpor circa praecepta, evagatio mentis). Isidoro ne elenca sette (otiositas, somnolentia, importunitas mentis, inquietudo corporis, instabilitas, verbositas, curiosi­ tas), ma, come osserva san Tommaso, esse si possono ridurre a quelle enumerate da Gregorio; infatti, «otiositas et somnolentia reducuntur ad torporem circa praecepta... omnia autem alia quinque, guae possint oriri ex acedia, pertinent ad evagationem men­ tis circa illicita ». In Aurora, il primo romanzo di uno dei piu acuti e «accidiosi» scrittori francesi viventi, Miche! Leiris, è possibile trovare un elenco di filiae acediae ben , altrimenti corpulento (sessantotto); ma è facile constatare che esse si possono quasi tutte sussumere sotto le categorie patristiche.

8

I fantasmi di Eros

tas, l' « animo piccolo» e lo scrupolo che si ritrae sgomento di fronte alla difficoltà e all'impegno dell'esistenza spirituale; despe­ ratio, l'oscura e presuntuosa certezza di essere già condannati in anticipo e il compiaciuto sprofondare nella propria rovina, quasi che nulla, nemmeno la grazia divina, possa salvarci; torpor, l'ot­ tuso e sonnolento stupore che paralizza qualsiasi gesto che po­ trebbe guarirci; e, infine, evagatio mentis, la fuga dell'animo da­ I vanti a sé e l'inquieto discorrere di fantasia in fantasia che si manifesta nella verbositas, lo sproloquio vanamente proliferante su se stesso, nella curiositas, l'insaziabile sete di vedere per ve­ dere che si disperde in sempre nuove possibilità, nell'instabilitas loci vel propositi e nell'importunitas mentis, la petulante incapa­ cità di fissare un ordine e un ritmo al proprio pensiero. La psicologia moderna ha talmente svuotato il termine acedia dal suo significato originale, facendone un peccato contro l'etica capitalistica del lavoro che è difficile ravvisare nella spettacola1 L'incapacità di controllare l'incessante discorso (la co-agitatio) dei fantasmi inte­ riori è fra i tratti essenziali della caratterizzazione patristica dell'acedia. Tutte le Vitae patrum (Patrologia latina, 73) risuonano del grido dei monaci e degli anacoreti che la solitudine confronta al mostruoso e proliferante discorrere della fantasia: « Domine, salvari desidero, sed cogitationes variae non permittunt »; « Quid faciam, pater, quo­ niam nulla opera facio monachi, sed in negligentia constitutus comedo et bibo et dor­ mio, et de hora in horam transgredior de cogitatione in cogitationem...» È bene preci­ sare che cogitatio, nel linguaggio medioevale, si riferisce sempre alla fantasia e al suo discorso fantasmatico; solo col tramonto della concezione greca e medioevale dell'intel­ letto separato, cogitatio comincia a designare l'attività intellettuale. Vedremo oltre che questa ipertrofia dell'immaginazione è uno dei caratteri che ac­ comuna l'acedia dei padri alla sindrome malinconica e all'amore-malattia della medicina umorale; come queste, l'acedia potrebbe essere definita un vitium corruptae imagina­ tionis. Chiunque, sotto l'effetto della depressione malinconica, di una malattia o di una droga, ha conosciuto questo disordine della fantasia, sa che il flusso incontrollabile del­ le immagini interiori è, per la coscienza, una delle prove piu ardue e rischiose. Flaubert, che aveva sofferto per tutta la giovinezza di un atroce disordine dell'immaginazione, ha rappresentato nella sua opera piu ambiziosa la condizione di un'anima alle prese con le « tentazioni» della fantasia. La scoperta, familiare alla mistica di ogni paese, di una possibile polarità positiva implicita nella frequentazione dei fantasmi fu, come vedre­ mo, un evento di grande importanza nella storia della cultura occidentale. Uno dei pochissimi tentativi moderni di costruire qualcosa di corrispondente alla fantasmologia medioevale, si deve a quel singolare impasto di genialità e di idiozia che fu Léon Daudet (un autore molto caro a Walter Benjamin), la cui analisi dei fantasmi interiori (definiti personimages) dà luogo a una vera e propria teoria biologica dello spirito umano come « sistema di immagini e di figure congenite» , che meriterebbe di essere sviluppata. La lettura dei suoi, ormai introvabili, Le monde des images (1919) e Le réve.eveillé (1926) è, in questa prospettiva, di grande interesse.

Il demone meridiano

9

re personificazione medioevale del demone meridiano e delle sue filiae l'innocente miscuglio di pigrizia e di svogliatezza che siamo abituati ad associare all'immagine dell'accidioso'. Tuttavia, come spesso avviene, il fraintendimento e la minimizzazione di un fe­ nomeno, lungi dal significare che esso ci è remoto ed estraneo, sono invece indizio di una prossimità cosi intollerabile da dover essere camuffata e repressa. Ciò è tanto vero, che ben pochi avran­ no riconosciuto nell'evocazione patristica delle filiae acediae le stesse categorie di cui si serve Heidegger nella sua celebre analisi della banalità quotidiana e della caduta nella dimensione anoni­ ma e inautentica del«si», che ha fornito lo spunto (in verità non sempre a proposito) a innumerevoli caratterizzazioni sociologiche della nostra esistenza nelle cosiddette società di massa. Eppure la concordanza è perfino terminologica. Evagatio mentis diventa, la fuga e il di-vertimento dalle possibilità piu autentiche dell'es­ serci; verbositas è la «chiacchiera», che dovunque e incessante­ mente dissimula ciò che dovrebbe svelare e mantiene cosi l'es­ serci nell'equivoco; curiositas è la «curiosità», che «cerca quel che è nuovo solo per saltare ancora una volta verso ciò che è an­ cora piu nuovo» e, incapace di prendersi veramente cura di ciò che ad essa si offre, si procura, attraverso questa «impossibilità di soffermarsi» (l'instabilitas dei padri), la costante disponibilità della distrazione. 1 Per un'interpretazione dell'accidia che la riconduce al suo significato originale, dr. PIEPER, Sulla speranza (trad. it. Brescia 1953). Non è certo una pura coincidenza se, parallelamente al travestimento borghese del­ l'acedia come pigrizia, la pigrizia (insieme alla sterilità, che si cristallizza nell'ideale della donna lesbica) diventa a poco a poco l'emblema che gli artisti oppongono all'etica capi­ talistica della produttività e dell'utile. La poesia di Baudelaire è dominata da cima a fondo dall'idea della paresse come cifra della bellezza. Uno degli effetti fondamentali che Moreau cercava di realizzare nella sua pittura era « la belle inertie ». L'ossessivo ri­ torno, nella sua opera, di un'emblematica figura femminile (quale si è fissata, in parti­ colare, nel gesto ieratico della sua Salomè) non può essere inteso se si prescinde dalla sua concezione della femminilità come crittografia del tedio improduttivo e dell'iner­ zia: « Cette femme ennuyée, fantasque », egli scrive, « à nature animale, se donnant le plaisir, très peu vif pour elle, de voir son ennemi à terre, tant elle est degoutée de toute satisfaction de ses désirs. Cette femme se promenant nonchalamment d'une façon végetale... » È da notare che, nella grande tela incompiuta Les chimères, in cui Moreau voleva rappresentare tutti i peccati e tutte le tentazioni dell'uomo, si può scorgere una figura che corrisponde singolarmente alla rappresentazione tradizionale dell'acedia-ma­ linconia.

IO

I fantasmi di Eros

La resurrezione della saggezza psicologica che il medioevo aveva cristallizzato nella tipologia dell'accidioso rischia quindi di essere qualcosa di piu di un'esercitazione accademica e, fissata da vicino, la maschera ripugnante del demone meridiano rivela dei tratti che ci sono forse piu familiari di quanto si poteva preve­ dere. Se esaminiamo infatti l'interpretazione che.dell'essenza dell'a­ cedia dànno i dottori della Chiesa, vediamo che essa non è posta sotto il segno della pigrizia, ma sotto quello dell'angosciosa tri­ stezza e della disperazione. Secondo san Tommaso, che nella Sum­ ma theologica ha raccolto le osservazioni dei padri in una sintesi rigorosa ed esaustiva, essa è, appunto, una species tristitiae, e, piu esattamente, la tristezza riguardo ai beni spirituali essenziali dell'uomo, cioè alla particolare dignità spirituale che gli è stata conferita da Dio. Ciò che affligge l'accidioso non è, quindi, la con­ sapevolezza di un male, ma, al contrario, la considerazione del piu grande dei beni: acedia è precisamente il vertiginoso e spau­ rito ritrarsi (recessus) di fro11te all'impegno della stazione dell'uo­ mo davanti a Dio'. Per questo, in quanto, cioè, essa è la fuga inor­ ridita di fronte a ciò che non può essere eluso in alcun modo, l'a­ cedia è un male mortale: essa è, anzi, la malattia mortale per ec­ cellenza, la cui immagine stravolta Kierkegaard ha fissato nella descrizione della piu temibile delle sue figlie: «la disperazione che è consapevole di essere disperazione, consapevole dunque di avere un io nel quale è qualcosa di eterno, e ora disperatamen­ te non vuole essere se stessa, o disperatamente vuole essere se stessa». Il senso di questo recessus a bono divino, di questa fuga del­ l'uomo davanti alla ricchezza delle proprie possibilità spirituali, 1 « Acedia non est recessus mentalis a quocumque spirituali bono, sed a bono di­ vino, cui oportet mentem inhaerere ex necessitate» (Summa theologica II 2.35). Nella descrizione di Guglielmo d'Auvergne, si dice che l'accidioso ha nausea di Dio stesso: «Deum igitur ipsum fontem omnium suavitatem in primis fastidit acidiosus ...» (GUI· LIELMI PARISIENSIS Opera omnia, Venetiis 1591, p. 168). L'immagine del recessus, del ritrarsi indietro, costante nella caratterizzazione patristica dell'acedia, compare an­ che, come vedremo, nella descrizione medica della malinconia, dalla medicina umorale fino a Freud.

Il demone meridiano

II

contiene tuttavia in sé una fondamentale ambiguità, la cui indivi­ duazione è tra i piu sorprendenti risultati della scienza psicolo­ gica medioevale. Che l'accidioso si ritragga dal suo fine divino, non significa, infatti, che egli riesca a dimenticarlo o che cessi, in realtà, di desiderarlo. Se, in termini teologici, quel che a lui viene meno non è la salvezza, ma la via che vi conduce, in termini psico­ logici, il recesso dell'accidioso non tradisce un'eclissi del deside­ rio, ma, piuttosto, il diventare inattingibile del suo oggetto: la sua è la perversione di una volontà che vuole l'oggetto, ma non la via che vi conduce e insieme desidera e sbarra la strada al proprio desiderio. San Tommaso coglie perfettamente l'ambiguo rapporto della disperazione col proprio desiderio: «ciò che non bramiamo», egli scrive, «non può essere oggetto né della nostra speranza né della nostra disperazione»; ed è alla sua equivoca costellazione erotica che si deve se, nella Summa theologica, l'acedia non è opposta al­ la sollicitudo, cioè al desiderio e alla cura, ma al gaudium, cioè all'appagamento dello spirito in Dio'. È questo persistere ed esaltarsi del desiderio di fronte a un og­ getto che esso stesso si è reso inattingibile che l'ingenua caratte­ rizzazione popolare dell'acedia di Jacopone da Benevento espri­ me dicendo che «l'acedia ogni cosa vuole avere, ma non si vuole affaticare» e che Pascasio Radberto adombra in una di quelle eti­ mologie fantastiche' cui i pensatori medioevali affidavano le loro 1 « Ergo acedia nihil aliud est quam pigritia; quod videtur esse falsum; nam pigri­ tia sollicitudini opponitur, acediae autem gaudium» (Summa theologica 2.35 ). An­ che Alcuino insiste sull'esacerbazione del desiderio come carattere essenziale dell'ace­ dia: l'accidioso « torpescit in desideriis carnalibus, nec in opere gaudet spirituali, nec in desiderio animae suae laetatur, nec in adjutorio fraterni laboris hilarescit: sed tan­ tum concupiscit et desiderat, et otiosa mens per omnia discurrit ». Il legame fra acedia e desiderio, e, quindi, fra acedia e amore, è fra le piu geniali intuizioni de_l!a p�icologia medioevale ed è essenziale per comprendere la natura d1 questo pecc_ato; c10 spiega �r-11 ché Dante (Purgatorio XVII) intenda l'acedia come una forma d1 amore e, precisa-jl mente, come quell'amore « che corre al ben con ordine corrotto». 2 Il modello insuperato di questa scienza fantastica degli etimi è nel Cratilo di Pla­ tone, la cui ricchezza in materia di scienza del linguaggio è lungi dall'essere completa­ mente esplorata. Fra le molte etimologie giocose (che non sono però da prendere solo per scherzo) che Platone vi propone, meritano almeno di essere ricordate qui quelle di ovoµcr. 'nome', da ov ov µcicrµcr. lcri:lv 'l'essere di cui vi è ricerca bramosa', di tcri:oplcr.

H

12

I fantasmi di Eros

piu audaci intuizioni speculative: «desperatio dieta est, eo quod desit illi pes in via, guae Christus est, gradiendi» 'la disperazione è cosi detta, perché ad essa manca il piede per camminare nella via che è Cristo'. Fisso nella scandalosa contemplazione di una meta che gli si mostra nell'atto stesso in cui viene preclusa e che è per lui tanto piu ossessiva quanto piu gli diventa inattingibile, l'accidioso si trova cosi in una situazione paradossale in cui, come nell'aforisma di Kafka, «esiste un punto di arrivo, ma nessuna via» e dalla quale non c'è scampo, perché non si può fuggire da ciò che non si può nemmeno raggiungere. È questo disperato sprofondare nell'abisso che si spalanca fra il desiderio e il suo inafferrabile oggetto che l'iconografia medioe­ vale ha fissato nel tipo dell'acedia, rappresentata come una donna che lascia desolatamente cadere a terra lo sguardo e abbandona il capo al sostegno della mano, o come un borghese o un religioso che affida il proprio sconforto al cuscino che il diavolo gli porge '. Quel che l'intenzione mnemotecnica del medioevo offriva qui al­ l'edificazione del contemplante, non era una raffigurazione natu­ ralistica del «sonno colpevole» del pigro, ma il gesto esemplare del lasciar cadere il capo e lo sguardo come emblema della dispe­ rata paralisi dell'animo di fronte alla sua situazione senza uscita. Proprio tuttavia per questa sua fondamentale contraddizione, al'storia', Ò't"L LO"'t"l]CTL ,:Òv pouv 'perché arresta il flusso del tempo', di à.ì-:1i1'rnx 'verità' da 1'da èiì.l] 'corsa divina'. ' Panofsky e Sax!, nella loro indagine sulla genealogia della Melencolia diireriana (Durers « Melencolia I». Eine quellen- und typengeschichtliche Untersuchung, Leipzig­ Berlin 192 3) fraintendono la concezione medioevale dell'acedia, che interpretano sem­ plicemente come il sonno colpevole del pigro. La somnolentia (come aspetto del torpor circa praecepta) è solo una delle conseguenze dell'acedia e non ne caratterizza in alcun modo l'essenza. Il facile rifugio del sonno non è che il «cuscino» che il diavolo porge all'accidioso per togliergli ogni possibilità di resistere al peccato. Il gesto di lasciar ca­ dere il capo su una mano sta a significare la disperazione e non il sonno. Ed è proprio a questo gesto emblematico che allude l'antico equivalente tedesco del termine « ace­ dia»: truricheit, da truren = den Blick, das Haupt gesenkt halten 'lasciar sprofondare a terra lo sguardo, il capo'. È solo tardi che l'essenza dell'acedia va opacandosi e con­ fondendosi con la pigrizia. È possibile che il tramite di questa conversione sia stata l'assimilazione del demone meridiano dell'acedia al somnus meridianus che il Regimen sanitatis salernitano raccomanda di evitare come causa di molti mali: « Sit brevis aut nullus tibi somnus meridianus. I Febris, pigrities, capitis dolor atque catarrhus I haec tibi proveniunt ex somno meridiano».

Il demone meridiano

13

l'acedia non appartiene soltanto una polarità negativa. Con la lo­ ro intuizione della capacità di rovesciamento dialettico propria delle categorie della vita spirituale, accanto alla tristitia mortifera ( o diabolica, o tristitia saeculi), i padri pongono una tristitia salu­ tifera (o utilis, o secundum deum ), che è operatrice di salvezza e «aureo stimolo dell'anima» e, come tale, «non è da considerare come vizio, ma come virtu» '. Nell'estatica ascensione della Scala Paradisi di Giovanni Climaco, il settimo gradino è cosI occupato dal «lutto che crea gioia», definito come «una tristezza dell'ani­ ma e un'afflizione del cuore che cerca sempre ciò di cui è ardente­ mente assetata; e, finché ne è priva, ansiosamente lo insegue e con ululati e lamenti gli va dietro mentre esso le sfugge». Proprio l'ambigua polarità negativa dell'acedia diventa in que­ sto modo il lievito dialettico capace di rovesciare la privazione in possesso. Poiché il suo desiderio rimane fisso in ciò che si è reso inaccessibile, l'acedia non è solo una fuga da ..., ma anche una fu­ ga per... , che comunica col suo oggetto nella forma della nega­ zione e della carenza. Come in quelle figure illusorie che possono essere interpretate ora in un modo ora in un altro, cosI ogni suo tratto disegna nella sua concavità la pienezza di ciò da cui si stor­ na e ogni gesto che essa compie nella sua fuga fa fede del perdu­ rare del vincolo che la lega ad esso. In quanto la sua tortuosa intenzione apre uno spazio all'epifa­ nia dell'inafferrabile, l'accidioso testimonia dell'oscura saggezza secondo cui solo per chi non ha piu speranza è stata data la spe­ ranza, e solo per chi in ogni caso non potrà raggiungerle sono state 1 Già in un'opera attribuita a sant'Agostino (Liber de confiictu vitiorum et virtu­ tum, in Patrologia latina, 40) la tristitia è definita gemina: «Geminam esse tristitiam

novi, imo duo esse tristitias novi: unam scilicet guae salutem, alteram vero guae perni­ cem operatur; unam guae ad poenitentiam trahit, alteram guae ad desperationem du­ cit ». Cosi anche Alcuino: « Tristitiae duo sunt genera: unum salutiferum, alterum pe­ stiferum » (Liber de virtutis, c. 33) e Jonas di Orléans: « Tristitia autem cum duobus modis fiat, id est aliquando salubriter, aliquando lethaliter; quando salubriter fit, non est vitium computanda, sed virtus ». Anche nella terminologia alchimica l'acedia com­ pare in una duplice polarità: nella Clavis totius philosophiae di Dorn (in Theatrum chemicum, Argentorati 1622, v. I), il forno alchemico è chiamato acedia per la sua len­ tezza, che appare però come una qualità necessaria (« Nunc furnum habemus comple­ tum, quem acediam solemus appellare, tum quia tardus est in operando, propter len­ tum ignem... »)

14

I fantasmi di Eros

assegnate delle mete. Cosi dialettica è la natura del suo «demone meridiano». Come la malattia mortale, che contiene in se stessa la possibilità della propria guarigione, anche di essa si può dire che «la maggior disgrazia è non averla mai avuta».

Capitolo secondo Melencolia I

Nella serie dei quattro umori del corpo umano, che un aforisma del Regimen sanitatis salernitano condensa in tre versi: Quatuor humores in humano corpore constant: Sanguis cum cholera, phlegma, melancholia. Terra melancholia, aqua phlegma, aer sanguis, cholera ignis.

la malinconia', o bile nera (µÉÀl.tL\lr.t xoÀT}) è quello il cui disor­ dine può produrre le conseguenze piu nefaste. Nella cosmologia umorale medioevale, esso è associato tradizionalmente alla terra, all'autunno (o all'inverno), all'elemento secco, al freddo, alla tra­ montana, al color nero, alla vecchiaia (o alla maturità), e il suo pianeta è Saturno, fra i cui figli il malinconico trova posto accanto all'impiccato, allo zoppo, al contadino, al giocatore d'azzardo, al religioso e al porcaio. La sindrome fisiologica dell' abundantia me­ lancholiae comprende l'annerimento della pelle, del sangue e del­ l'orina, l'indurimento del polso, l'arsura nel ventre, la flatulenza, l'eruttazione acida, il sibilo nell'orecchio sinistro', la costipazio' L'indagine piu ampia sulla malinconia resta quella di KLIBANSKY, PANOFSKY e Saturn and Melancholy (London 1964), della quale sono qui segnalate, volta per volta, le lacune e i punti dubbi. 2 È verisimilmente a questo sintomo (e non alla sonnolenza accidiosa, come sem­ bra ritenere Panofsky, tanto piu che l'autorità di Aristotele - De somno et vigilia, 457a --, affermava che i malinconici non sono amanti del sonno) che si deve l'atteggia­ mento di sorreggersi il capo con la mano sinistra, cosi caratteristico delle raffigurazioni del temperamento malinconico (nelle rappresentazioni piu antiche, il malinconico ap­ pare spesso in piedi, in atto di comprimersi l'orecchio sinistro con la mano). Probabil­ mente questo atteggiamento poté venire in seguito frainteso come indice di sonnolenza e accostato alle raffigurazioni dell'acedia; il tramite di questa convergenza può essere cercato nella teoria medica degli effetti nocivi del somnus meridianus, messo in rela­ zione col demone meridiano dell'acedia. SAXL,

16

I fantasmi di Eros

ne o l'eccesso di feci, i sogni cupi, e, fra le malattie che essa può indurre, figurano l'isteria, la demenza, l'epilessia, la lebbra, le emorroidi, la scabbia e la mania suicida. Conseguentemente, il temperamento che deriva dal suo prevalere nel corpo umano è presentato in una luce sinistra: il malinconico è pexime comple­ xionatus, triste, invidioso, malvagio, avido, fraudolento, timo­ roso e terreo. Un'antica tradizione associava tuttavia proprio al piu sciagu­ rato degli umori l'esercizio della poesia, della filosofia e delle arti. «Perché», suona uno dei piu stravaganti problemata aristotelici, «gli uomini che si sono distinti nella filosofia, nella vita pubblica, nella poesia e nelle arti sono malinconici, e alcuni al punto da sof­ frire dei morbi che vengono dalla bile nera?» La risposta che Ari­ stotele diede a questo quesito segna il punto di partenza di un processo dialettico nel corso del quale la dottrina del genio si lega indissolubilmente a quella dell'umore malinconico nella fascina­ zione di un complesso simbolico il cui emblema si è ambiguamen­ te fissato nell'angelo alato della Melencolia diireriana: Coloro presso i quali la bile è abbondante e fredda, diventano tor­ pidi e strani; ma altri, nei quali essa è abbondante e calda, diventano maniaci e gai, molto amorosi e facili ad appassionarsi ... E molti, poiché il calore della bile è vicino alla sede dell'intelligenza, sono presi da fu­ rore e entusiasmo, come avviene per le Sibille e le Baccanti, e per tutti coloro che sono ispirati dagli dei, i quali sono fatti tali non da un mor­ bo, ma da un naturale temperamento. Cosi Maraco Siracusano non era mai tanto buon poeta come quando era fuori di sé. E coloro nei quali il calore affluisce verso il mezzo, sono anch'essi malinconici, ma piu savi e meno eccentrici, ed eccellono gli altri uomini chi nelle lettere, chi nel­ le arti e chi nella vita pubblica 1• 1 Un aggiornamento della lista di malinconici citati da Aristotele nel problema xxx (Eracle, Bellerofonte, Eraclito, Democrito, Maraco) rischierebbe di essere molto lungo. Dopo una prima riapparizione fra i poeti d'amore del '200, il grande ritorno della ma­ linconia comincia a partire dall'umanesimo. Fra gli artisti, restano esemplari i casi di Michelangelo, di Diirer, di Pontormo. Una seconda epidemia è nell'Inghilterra elisabet­ tiana (cfr. L. BABB, The Elizabethan Malady, Lansing 1951): esemplare il caso di J. Donne. La terza età della malinconia è nel secolo xrx; figurano fra le vittime: Baude­ laire, Nerval, De Quincey, Coleridge, Strindberg, Huysmans. In tutte e tre le epoche, la malinconia, con un'audace polarizzazione, fu interpretata come qualcosa di, insieme, positivo e negativo.

Melencolia I

17

Questa duplice polarità della bile nera e il suo collegamento con la platonica «mania divina» furono raccolti e sviluppati con particolare fervore da quella curiosa miscela di setta mistica e di cenacolo d'avanguardia che, nella Firenze di Lorenzo il Magni­ fico, si riuniva intorno a Marsilio Ficino. Nel pensiero di Ficino, che si riconosceva un temperamento malinconico e il cui oroscopo mostrava «Saturnum in Aquario ascendentem», la riabilitazione della malinconia andava di pari passo a una nobilitazione dell'in­ flusso di Saturno', che la tradizione astrologica associava al tem­ peramento malinconico come il piu maligno dei pianeti, nell'in­ tuizione di una polarità degli estremi in cui coesistevano l'una accanto all'altra la rovinosa esperienza dell'opacità e l'estatica ascesa nella contemplazione divina. In questa prospettiva, l'in­ flusso elementare della terra e quello astrale di Saturno si univa­ no per conferire al malinconico una naturale propensione al rac­ coglimento interiore e alla conoscenza contemplativa: La natura dell'umore malinconico segue la qualità l'.lella terra, che non si disperde mai quanto gli altri elementi, ma si concentra piu stretta­ mente in se stessa... tale è anche la natura di Mercurio e di Saturno, in virtu della quale gli spiriti, raccogliendosi nel centro, richiamano la punta dell'anima da ciò che le è estraneo a ciò che le è proprio, la fis­ sano nella contemplazione e la dispongono a penetrare il centro delle cose'.

Cosi il dio cannibale e evirato, che l'imagerie medioevale rappre­ sentava zoppo e nell'atto di brandire la falce mietitrice della mor­ te, diventava ora il segno sotto la cui equivoca dominazione la piu nobile specie di uomini, quella dei «religiosi contemplativi», de1 La riscoperta dell'importanza della teoria astrologica degli influssi di Saturno per l'interpretazione della Melencolia di.ireriana fu opera di K. Giehlow (Durers Stich «Melencholia I» und der maximilianische Humanistenkreis, Wien 1903) e di A. War­ burg (Heidnisch-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten, in Sitzungsbe­ richte der Heidelberg Akademie der Wissenschaften, voi. XXVI, Heidelberg 1920), la cui interpretazione dell'immagine di.ireriana come « foglio di conforto umanistico con­ tro il timore di Saturno», che trasforma l'effige del demone planetario nell'incarnazione plastica dell'uomo contemplativo, ha largamente determinato le conclusioni dello stu­ dio citato di Panofsky e Sax!. 2 M. FICINO, Theologia platonica de animarum immortalitate, ed. critica a cura di R. Marce!, Paris 1964, I. XIII, cap. n.

r8

I fantasmi di Eros

stinata all'investigazione dei supremi misteri, trovava il suo po­ sto accanto alla schiera « tutta rozza e materiale» degli sciagurati figli di Saturno. Non è facile precisare in quale momento la dottrina morale del demone meridiano esce dai chiostri per saldarsi con l'antica sin­ drome medica del temperamento atrabiliare. Certo, quando il ti­ po iconografico dell'accidioso e quello del malinconico appaiono fusi nelle illustrazioni dei calendari e degli almanacchi popolari alla fine del medioevo, il processo doveva già essere iniziato da tempo e solo il fraintendimento dell'acedia, identificata col suo tardo travestimento come «sonno colpevole» del pigro, può spie­ gare lo scarso posto che Panofsky e Saxl hanno riservato alla let­ teratura patristica sul «demone meridiano» nel loro tentativo di ricostruire la genealogia della Melencolia diireriana. Ed è a questo fraintendimento che si deve anche l'erronea opinione (ri­ petuta tradizionalmente da tutti coloro che si sono occupati di questo problema)' secondo la quale l'acedia aveva nel medioevo una valutazione puramente negativa. Si può supporre, al contra­ rio, che proprio la scoperta patristica della duplice polarità di tristitia-acedia abbia contribuito a preparare il terreno alla riva­ lutazione rinascimentale del temperamento atrabiliare nell'am­ bito di una visione in cui il demone meridiano come tentazione del religioso e l'umor nero come malattia specifica del tipo umano contemplativo dovevano apparire come assimilabili e in cui la malinconia, sottoposta a un graduale processo di moralizzazione, si presentava, per cosi dire, come l'erede laica della tristezza clau­ strale'. Nella Medicina dell'anima di Ugo di San Vittore il processo di trasfigurazione allegorica della teoria umorale appare giunto 1 L'errore è cosi ripetuto da uno studioso attento come E. Wind (Pagan Mysteries in the Renaissance, Harmondsworth, 1967', p. 69) e da Wittkower. 2 La prova della precoce convergenza fra malinconia e tristitia-acedia, che appaiono piuttosto come due aspetti della medesima realtà, è in una lettera di san Girolamo: « Sunt qui humore cellarum, immoderatisque jeiunis, taedio solitudinis ac nimia lectio­ ne, dum diebus ac noctibus auribus suis personant, vertuntur in melancholiam et Hip­ pocratis magis fomentis quam nostris monitis indigent » (ep. IV).

Melencolia I

r9

a compimento. Se ancora in Hildegard von Bingen la polarità negativa della malinconia veniva interpretata come il segno della caduta originale, in Ugo l'umor nero si identifica invece ormai con la tristitia utilis in una prospettiva in cui la patologia umorale diventa il veicolo corporeo del meccanismo soteriologico: L'anima umana adopra quattro umori: come sangue la dolcezza, come bile rossa l'amarezza, come bile nera la tristezza... La bile nera è fredda e secca, ma gelo e secchezza possono interpretarsi ora in senso buono ora in senso cattivo... Essa rende gli uomini ora sonnolenti, ora vigilan­ ti, cioè ora gravi di angoscia, ora vigili e intenti nei desideri celesti ... Avesti attraverso il sangue la dolcezza della carità, abbi ora attraverso la bile nera, o malinconia, la tristezza per i peccati '.

È solo in rapporto a questa reciproca compenetrazione di ace­ dia e malinconia, che ne manteneva intatta la duplice polarità nell'idea di un rischio mortale insito nella piu nobile delle inten­ zioni umane o di una possibilità di salvezza nascosta nel pericolo piu estremo, che risulta comprensibile perché negli scritti del ca­ po della scuola medica salernitana, Costantino Africano, fra le cause eminenti della malinconia figuri la « bramosia di vedere il sommo bene» dei religiosi e perché, d'altra parte, un teologo co­ me Guglielmo d' Auvergne possa addirittura affermàre che ai suoi tempi « molti uomini piissimi e religiosissimi desideravano arden­ temente il morbo malinconico»'. Nella tenace vocazione contem­ plativa del temperamento saturnino rivive l'Eros perverso del1' accidioso, che mantiene fisso nell'inaccessibile il proprio desi­ derio. ' L'autore è in realtà Hugo de Folieto (Patrologia latina, 176, u83 sg.). De universo I 3.7 (in Opera omnia cit.).

' GUILIELMI PARISIENSIS

Capitolo terzo Eros malinconico

La stessa tradizione che associa il temperamento malinconico alla poesia, alla filosofia e all'arte, attribuisce ad esso un'esaspe­ rata inclinazione all'eros. Aristotele, dopo aver affermato la voca­ zione geniale dei malinconici, pone infatti la lussuria fra i loro ca­ ratteri essenziali: Il temperamento della bile nera - egli scrive - ha la natura del soffio ... Da qui viene che, in generale, i malinconici sono debosciati, perché an­ che l'atto venereo ha la natura del soffio. La prova è che il membro vi­ rile si gonfia improvvisamente perché si empie di vento.

A partire da questo momento, la sregolatezza erotica figura fra 1 gli attributi tradizionali dell'umor nero ; e se, analogamente, an­ che l'accidioso è rappresentato nei trattati medioevali sui vizi co­ me «q>�ì.:ri6ovoç-» e Alcuino può dire di lui che «si intorpidisce nei desideri carnali», nell'interpretazione fortemente moralizzata della teoria umorale di Hildegard von Bingen l'Eros abnorme del malinconico prende addirittura l'aspetto di uno stravolgimento sadico e ferino: [i malinconici] hanno grandi ossa che contengono poca midolla, la quale tuttavia arde cosi forte, che essi sono incontinenti con le donne come vipere ... sono eccessivi nella libidine e senza misura con le donne come asini, tanto che se cessassero da questa depravazione diventerebbero fa­ cilmente pazzi... il loro amplesso è odioso, tortuoso e mortifero come quello dei lupi rapaci ... hanno commercio con le femmine, e nondimeno le hanno in odio '. 1 L'associazione fra malinconia, perversione sessuale e eretismo figura ancora fra i sintomi della malinconia in testi psichiatrici moderni, a testimonianza della curiosa fis­ sità della sindrome atrabiliare attraverso il tempo. ' Causae et curae, ed. Kaiser, Leipzig 1903, p. 73, 20 sgg.

Eros malinconico

21

Ma il nesso fra amore e malinconia aveva già trovato da tempo il suo fondamento teorico in una tradizione medica che costante­ mente considera amore e malinconia come malattie affini se non identiche. In questa tradizione, che appare già comJ.?iutamente articolata nel Viaticum del medico arabo Haly Abbas(che, attra­ verso la traduzione di Costantino Africano, influenzò profonda­ mente la medicina europea medioevale), l'amore, che compare col nome amor hereos o amor heroycus, e la malinconia sono catalo­ gati fra le malattie della mente in rubriche contigue' e talora, co­ me nello S peculum doctrinale di Vincenzo di Beauvais, figurano addirittura nella stessa rubrica: « de melancolia nigra et canina et de amore qui ereos dicitur ». È questa sostanziale prossimità della patologia erotica e di quella malinconica che trova espres­ sione nel De amore di Ficino. Il processo stesso dell'innamora­ mento diventa qui il meccanismo che scardina e sovverte l'equi­ librio umorale, mentre, per converso, l'accanita inclinazione con­ templativa del malinconico lo spinge fatalmente alla passione amorosa. La caparbia sintesi figurale che ne risulta e che porta Eros ad assumere gli oscuri tratti saturnini del piu sinistro dei temperamenti, doveva restare operante per secoli nell'immagine popolare dell'innamorato malinconico, la cui allampanata e ambi­ gua caricatura fa per tempo la sua apparizione fra gli emblemi del­ l'umor nero sul frontespizio dei trattati seicenteschi sulla malin­ coma: Dovunque si porti l'assidua intenzione dell'anima, là affluiscono an­ che gli spiriti, che sono il veicolo o gli strumenti dell'anima. Gli spiriti vengono prodotti nel cuore con la parte piu sottile del sangue. L'anima dell'amante è trascinata verso l'immagine dell'amato iscritta nella fan­ tasia e verso l'amato stesso. Là sono attratti anche gli spiriti e, nel loro ossessivo volo, si esauriscono. Per questo è necessario un costante rifor­ nimento di sangue puro per ricreare gli spiriti consunti, là dove le par­ ticelle piu delicate e piu trasparenti del sangue esalano ogni giorno per rigenerare gli spiriti. A causa di ciò il sangue puro e chiaro si scioglie e ' Cosi Arnaldo da Villanova (Liber de parte operativa, in Opera, Lugdun i 1532, foll. 123-50) distingue cinque specie di alienatio; la terza è la melancolia, la quarta è « alienatio quam concomitatur immensa concupiscentia et irrationalis: et graece dicitur heroys... et vulgariter amor, et a medicis amor heroycus».

22

I fantasmi di Eros non resta piu che il sangue impuro, spesso, arido e nero. Allora il corpo si dissecca e deperisce, e gli amanti diventano malinconici. È infatti il sangue secco, spesso e nero che produce la malinconia o bile nera, che riempie la testa coi suoi vapori, inaridisce il cervello e opprime senza sosta, giorno e notte, l'anima con tetre e spaventose visioni ... È per aver osservato questo fenomeno che i medici dell'antichità hanno affermato che l'amore è una passione vicina al morbo malinconico. Il medico Ra­ sis prescrive cosi, per guarirne, il coito, il digiuno, l'ebrezza, la mar• l eia ... .

Nello stesso passo, il carattere proprio dell'eros malinconico è identificato da Ficino in una dislocazione e in un abuso: «questo suole accadere», egli scrive, «a coloro che, abusando dell'amore, trasformano ciò che spetta alla contemplazione in desiderio di amplesso». L'intenzione erotica che scatena il disordine malinco­ nico si presenta qui come quella che vuole possedere e toccare ciò che dovrebbe essere solo oggetto di contemplazione, e la tragica insania del temperamento saturnino trova cosi la sua radice nel­ l'intima contraddizione di un gesto che vuole abbracciare l'inaf' ferrabile. È in questa prospettiva che va interpretato il passo di Enrico di Gand che Panofsky mette in rapporto con l'immagine diireriana e secondo il quale i malinconici «non possono conce­ pire l'incorporeo» in quanto tale, perché essi non sanno «esten­ dere la loro intelligenza al di là dello spazio e della grandezza». Non si tratta qui semplicemente, com'è stato ritenuto, di un li­ mite statico della struttura mentale dei malinconici che li esclude dalla sfera metafisica, ma piuttosto di un limite dialettico che ac­ quista il suo senso in rapporto all'impulso erotico di trasgressio­ ne che trasforma l'intenzione contemplativa in «concupiscenza di amplesso». L'incapacità di concepire l'incorporeo e il deside­ rio di farne oggetto di amplesso sono, cioè, le due facce dello stes­ so processo, nel corso del quale la tradizionale vocazione contem­ plativa del malinconico si rivela esposta a uno stravolgimento del desiderio che la minaccia dall'interno'. 1 M. FICINO, De amore, ed. critica a cura di R. Marce!, Paris 1956, VI 9. ' In questa prospettiva, la «melancolia illa heroica» che Melantone, i n un passo del De anima che non era sfuggito all'attenzione di Warburg, attribuisce a Diirer, con­ tiene verisimilmente un riferimento a quell'amor heroycus che, secondo la tradizione

Eros malinconico

2

3

È curioso che questa costellazione erotica della malinconia sia cosi tenacemente sfuggita agli studiosi che hanno cercato di rin­ tracciare la genealogia e i significati della Melencolia diireriana. Ogni interpretazione che prescinda_ da questa fondamentale per­ tinenza dell'umor nero alla sfera del desiderio erotico, per quanto possa decifrare a una a una le figure iscritte nella sua cerchia, è condannata a passare a fianco al mistero che si è emblematicamen­ te fissato in questa immagine. Solo se si comprende che essa si pone sotto il segno di Eros, è possibile custodirne e, insieme, sve­ larne il segreto, la cui intenzione allegorica è interamente sottesa nello spazio fra Eros e i suoi fantasmi. medica ripetuta da Ficino, era appunto una specie di malinconia. Questa prossimità di amore e malinconia secondo la medicina medioevale spiega anche l'ingresso di Dame Merencolie nella poesia amorosa del '200 e '300.

Capitolo quarto L'oggetto perduto

Nel 1917 apparve nell' « Internationale Zeitschrift fiir Psycho­ analise » ( voi. IV) il saggio che porta il titolo Lutto e malinconia, che è uno dei rari testi in cui Freud affronta tematicamente l'in­ terpretazione psicoanalitica dell'antico complesso umorale satur­ nino. La distanza che separa la psicoanalisi dalle ultime propag­ gini seicentesche della medicina umorale coincide con la nascita e lo sviluppo della moderna scienza psichiatrica, che classifica la malinconia fra le forme gravi di malattia mentale; non è perciò senza una certa sorpresa che, nell'analisi freudiana del meccani­ smo della malinconia, ritroviamo, tradotti naturalmente nel lin­ guaggio della libido, due elementi che comparivano tradizional­ mente nelle descrizioni patristiche dell'acedia e nella fenomeno­ logia del temperamento atrabiliare, e la cui persistenza nel testo freudiano testimonia della straordinaria fissità nel tempo della costellazione malinconica: il recesso dall'oggetto e il ritirarsi in se stessa dell'intenzione contemplativa. Secondo Freud, infatti, il meccanismo dinamico della malinco­ nia prende in prestito i suoi caratteri essenziali in parte dal lutto e in parte dalla regressione narcisistica. Come, nel lutto, la libido reagisce alla prova della realtà che mostra che la persona amata ha cessato di esistere, fissandosi su ogni ricordo e su ogni oggetto che si trovavano in relazione con essa, cosi anche la malinconia è una reazione alla perdita di un oggetto d'amore, cui non segue, però, come ci si potrebbe aspettare, un trasferimento della libido su un nuovo oggetto, ma il suo ritrarsi nell'io, narcisisticamente identificato con l'oggetto perduto. Secondo la stringata formula di Abraham, le conclusioni del cui studio sulla malinconia, pub-

L'oggetto perduto

25

blicato cinque anni prima, costituiscono la base dell'indagine di Freud: «dopo essere stato ritirato dall'oggetto, l'inv��timento libidico ritorna nell'io e, simultaneamente, l'oggetto è incorpo­ rato nell'io». Tuttavia, rispetto al processo genetico del lutto, la malinconia presenta alla sua origine una circostanza particolarmente difficile da spiegare. Freud non nasconde, infatti, il suo imbarazzo di fronte all'irrefutabile costatazione che, mentre il lutto consegue a una perdita realmente avvenuta, nella malinconia non solo non è affatto chiaro che cosa è stato perduto, ma non è nemmeno certo se di una perdita si possa veramente parlare. « Si deve ammette­ re», egli scrive con un certo disagio, « che una perdita si è ben prodotta, ma senza riuscire a sapere che cosa è stato perduto», e, cercando di smussare la contraddizione per cui vi sarebbe una perdita, ma non un oggetto perduto, egli parla poco dopo di una « perdita sconosciuta», o di una « perdita oggettuale che sfugge alla coscienza». L'esame del meccanismo della malinconia, cosi com'è descritto da Freud e da Abraham, mostra, infatti, che il recesso della libido è il dato originale, al di là del quale non è possibile risalire; cosi che, volendo conservare l'analogia col lutto, si dovrebbe dire che la malinconia offre il paradosso di un'inten­ zione luttuosa che precede e anticipa la perdita dell'oggetto. La \ psicoanalisi sembra qui essere giunta a conclusioni molto simili a quelle cui era approdato l'intuito psicologico dei padri della Chiesa, che concepivano l'acedia come recesso da un bene che non era stato perduto e interpretavano la piu terribile delle sue figlie, la disperazione, come anticipazione del non-compimento e della dannazione. E come il recesso dell'accidioso non nasce da un di­ fetto, ma da una concitata esacerbazione del desiderio, che si ren­ de inaccessibile il proprio oggetto nel disperato tentativo di ga­ rantirsi cosi dalla sua perdita e di aderire ad esso almeno nella sua assenza, cosi si direbbe che il ritrarsi della libido malinconica non abbia altro scopo che quello di rendere possibile un'appropria­ zione in una situazione in cui nessun possesso è, in realtà, pos­ sibile. In questa prospettiva, la malinconia non sarebbe tanto la reazione regressiva alla perdita dell'oggetto d'amore, quanto la

26

I fantasmi di Eros

capacità fantasmatica di far apparire come perduto un oggetto inappropriabile. Se la libido si comporta come se una perdita fos­ se avvenuta, benché nulla sia stato in realtà perduto, ciò è perché essa inscena cosi una simulazione nel cui ambito ciò che non po­ teva essere perduto perché non era mai stato posseduto appare come perduto e ciò che non poteva essere posseduto perché, for­ se, non era mai stato reale, può essere appropriato in quanto og­ getto perduto. Diventa, a questo punto, comprensibile l'ambi­ zione specifica dell'ambiguo progetto malinconico, che l'analogia col meccanismo esemplare del lutto aveva in parte sfigurato e reso irriconoscibile, e che ben a ragione l'antica teoria umorale identi­ ficava nella volontà di trasformare in oggetto di amplesso ciò che avrebbe dovuto essere soltanto oggetto di contemplazione. Rico­ prendo il suo oggetto coi funebri addobbi del lutto, la malinconia gli conferisce la fantasmagorica realtà del perduto; ma in quanto essa è il lutto per un oggetto inappropriabile, la sua strategia apre uno spazio all'esistenza dell'irreale e delimita una scena in cui l'io può entrare in rapporto con esso e tentare un'appropriazione che nessun possesso potrebbe pareggiare e nessuna perdita insidiare. Se questo è vero, se la malinconia riesce ad appropriarsi del proprio oggetto solo nella misura in cui ne afferma la perdita, si comprende allora perché Freud sia rimasto tanto colpito dall'am­ bivalenza dell'intenzione malinconica, fino a farne uno dei suoi caratteri essenziali. L'accanita battaglia che l'odio e l'amore si dànno intorno all'oggetto «l'uno per staccare la libido da esso, l'altro per difendere dall'attacco questa posizione della libido», coesistono nella malinconia e si compongono in uno di quei com­ promessi che sono possibili solo sotto il dominio delle leggi del­ l'inconscio e la cui individuazione è fra le acquisizioni piu fecon­ de che la psicoanalisi ha lasciato in eredità a ogni scienza dello spirito. Come, nella Verleugnung feticista, nel conflitto fra la perce­ zione della realtà, che lo costringe a rinunciare al suo fantasma, e il suo desiderio, che lo spinge a negare la percezione, il bambi­ no non fa né una cosa né l'altra, o, piuttosto, fa simultaneamen­ te le due cose, smentendo, da una parte, l'evidenza della sua per-

L'oggetto perduto

27

cezione e riconoscendone dall'altra la realtà mediante l'assunzio­ ne di un sintomo perverso, cosi, nella malinconia, l'oggetto non è né appropriato né perduto, ma l'una e l'altra cosa nello stesso tempo'. E come il feticcio è, insieme, il segno di qualcosa e della sua assenza, e deve a questa contraddizione il proprio statuto fan­ tomatico, cosi l'oggetto dell'intenzione malinconica è, nello stes­ so tempo, reale e irreale, incorporato e perduto, affermato e ne­ gato. Non stupisce, allora, che Freud abbia potuto parlare, a pro­ posito della malinconia, di un «trionfo dell'oggetto sull'io», pre­ cisando che «l'oggetto è stato, si, soppresso, ma si è mostrato piu forte dell'io». Curioso trionfo, che consiste nel trionfare attra­ verso la propria soppressione: e, tuttavia, è proprio nel gesto che l'abolisce che il malinconico manifesta la sua estrema fedeltà al­ l'oggetto. In questa prospettiva si comprende anche in che senso vadano intese tanto la correlazione che Freud (sulle orme di Abraham) stabilisce fra la malinconia e a"V'tacnxòv 1t'VEuµa 'spiritus phantasticus') è concepita come una sorta di corpo sottile dell'anima che, situato nella punta estrema dell'a­ nima sensitiva, riceve le immagini degli oggetti, forma i fantasmi dei sogni e, in determinate circostanze, può staccarsi dal corpo per stabilire contatti e visioni soprannaturali; essa è inoltre la sede delle influenze astrali, il veicolo degli influssi magici e, come

30

I fantasmi di Eros

quid medium fra corporeo e incorporeo, permette di dar ragione di tutta una serie di fenomeni altrimenti inspiegabili, come l'azio­ ne dei desideri materni sulla «materia molle» del feto, l'appari­ zione dei demoni e l'effetto dei fantasmi di accoppiamento sul membro genitale. La stessa teoria permetteva anche di spiegare la genesi dell'amore; e non è possibile, in particolare, comprendere il cerimoniale amoroso che la lirica trobadorica ·e i poeti del dolce stil novo hanno lasciato in eredità alla poesia occidentale moder­ na, se non si tiene conto del fatto che esso si presenta fin dall'ori­ gine come un processo fantasmatico. Non un corpo esterno, ma un'immagine interiore, cioè il fantasma impresso, attraverso lo sguardo, negli spiriti fantastici, è l'origine e l'oggetto dell'inna­ moramento; e solo·l'attenta elaborazione e la smodata contempla­ zione di questo fantasmatico simulacro mentale si riteneva aves­ sero la capacità di generare un'autentica passione amorosa. An­ drea Cappellano, il cui De amore è considerato come la teorizza­ zione esemplare dell'amore cortese, definisce cosi l'amore come «immoderata cogitatio» del fantasma interiore e aggiunge che «ex sola cogitatione... passio illa procedit». Non sorprenderà quindi, data la fondamentale pertinenza del1'umor nero al processo erotico, che la sindrome malinconica sia fin dall'origine tradizionalmente congiunta alla pratica fantasma­ tica. Le «imaginationes malae» compaiono per tempo nella lette­ ratura medica fra i «signa melancoliae» in posizione cosi emi­ nente, che si può dire che il morbo atrabiliare si configuri essen­ zialmente, secondo l'espressione del medico padovano Girolamo Mercuriale, come un «vitium corruptae imaginationis» '. Già Lul­ lo menziona l'affinità fra la malinconia e la facoltà immaginativa, precisando che i saturnini «a longo accipiunt per ymaginacionem, guae cum melancolia maiorem habet concordiam quam cum alia compleccione»; e in Alberto Magno si trova scritto che i malin­ conici «multa phantasmata inveniunt», perché il vapore secco trattiene piu saldamente le immagini. Ma è, ancora una volta, in Ficino e nel neoplatonismo fiorentino che la capacità della bile ' Cfr. G. TANF ANI, Il concetto di melancolia nel '500 («Rivista di storia delle scien­ ze mediche e naturali», Firenze, luglio-dicembre 1948).

I fantasmi di Eros

3I

nera di trattenere e fissare i fantasmi è asserita nell'ambito di una teoria medico-magico-filosofica che identifica esplicitamente la contemplazione amorosa del fantasma con la malinconia, la cui pertinenza al processo erotico trova quindi la sua ragion d'essere proprio in un'eccezionale disposizione fantasmatica. Se nella Teo­ logia platonica si legge cosi che i malinconici «a causa dell'umore terreo fissano coi loro desideri piu stabilmente e piu efficacemen­ te la fantasia», nel passo sopra citato del De amore ficiniano è l'ossessivo e sfibrante accorrere degli spiriti vitali intorno al fan­ tasma impresso negli spiriti fantastici che caratterizza, insieme, il processo erotico e lo scatenarsi della sindrome atrabiliare. In questa prospettiva, la malinconia appare essenzialmente come un processo erotico impegnato in un ambiguo commercio coi fanta­ smi; ed è alla duplice polarità, demonico-magica e angelico-con­ templativa, della natura del fantasma che si devono tanto la fune­ sta propensione dei malinconici alla fascinazione negromantica che la loro attitudine all'illuminazione estatica. L'influsso di questa concezione, che legava indissolubilmente il temperamento saturnino alla frequentazione del fantasma, si estende ben presto al di fuori del suo ambito originale, ed è an­ cora evidente in un passo del Trattato della nobiltà della pittura di Romano Alberti, che è stato spesso citato a proposito della storia del concetto di malinconia, senza che si rilevasse che, piu di quattro secoli prima della psicoanalisi, esso poneva le basi di una teoria dell'arte intesa come operazione fantasmatica: Li pittori divengono malencolici - scrive Romano Alberti - perché, vo­ lendo loro imitare, bisogna che ritengano li fantasmati fissi nell'intel­ letto, acciò di poi li esprimano in quel modo che prima li avevano visti in presenzia; e questo non solo una volta, ma continuamente, essendo questo il loro esercizio; per il che talmente tengono la mente astratta e separata dalla materia, che conseguentemente ne viene la malencolia, la quale però dice Aristotele che significa ingegno e prudenza, perché, come l'istesso dice, quasi tutti gl'ingegnosi e prudenti sono stati malen­ colici 1• 1 La teoria manieristica del « disegno interno» dev'essere posta sullo sfondo di questa dottrina psicologica, nel cui ambito soltanto essa diventa pienamente intelle­ gibile.

32

I fantasmi di Eros

La tradizionale associazione della malinconia con l'attività ar­ tistica trova qui la sua giustificazione proprio nell'esacerbata pra­ tica fantasmatica che costituisce il loro tratto comune. Entrambe si pongono sotto il segno di Spiritus phantasticus, il corpo sottile che non solo fornisce il veicolo dei sogni, dell'amore e degli in­ flussi magici, ma appare anche strettamente ed enigmaticamente congiunto alle creazioni piu nobili della cultura umana. Se que­ sto è vero, non è allora una circostanza priva di significato se uno dei testi in cui Freud si sofferma piu a lungo sull'analisi dei fan­ tasmi del desiderio sia proprio il saggio sulla Creazione letteraria e il sogno a occhi aperti, in cui egli tenta di delineare una teoria psicoanalitica della creazione artistica e formula l'ipotesi secondo 1 cui l'opera d'arte sarebbe, in qualche modo, una continuazione del gioco infantile e dell'inconfessata ma non mai abbandonata pratica fantasmatica dell'adulto. Comincia, a questo punto, a diventare visibile la regione alla cui configurazione spirituale era destinato un itinerario che, ini­ ziatosi sulle tracce del demone meridiano e del suo infernale cor­ teggio, ci ha condotto fino al genio alato della malinconia diire­ riana e nel cui ambito l'antica tradizione che si è cristallizzata in questo emblema può forse trovare un nuovo fondamento. La per­ dita immaginaria che occupa cosi ossessivamente l'intenzione ma­ linconica non ha alcun oggetto reale, perché è all'impossibile cap­ tazione del fantasma che è diretta la sua funebre strategia. L'og­ getto perduto non è che la parvenza che il desiderio crea al pro­ prio corteggiamento del fantasma, e l'introiezione della libido è soltanto una delle facce di un processo in cui ciò che è reale perde la sua realtà perché ciò che è irreale divenga reale. Se il mondo esterno è infatti narcisisticamente negato dal malinconico come oggetto d'amore, il fantasma riceve però da questa negazione un principio di realtà ed esce dalla muta cripta interiore per entrare in una nuova e fondamentale dimensione. Non piu fantasma e non ancora segno, l'oggetto irreale dell'introiezione malinconica apre uno spazio che non è né l'allucinata scena onirica dei fanta­ smi né il mondo indifferente degli oggetti naturali; ma è in que­ sto intermediario luogo epifanico, situato nella terra di nessuno

I fantasmi di Eros

33

fra l'amore narcisistico di sé e la scelta oggettuale esterna, che po­ tranno un giorno collocarsi le creazioni della cultura umana, l'en­ trebescar delle forme simboliche e delle pratiche testuali attra­ verso le quali l'uomo entra in contatto con un mondo che gli è piu vicino di ogni altro e dal quale dipendono, piu direttamente che dalla natura fisica, la sua felicità e la sua sventura. Il locus severus della malinconia, «la quale però dice Aristotele che significa in­ gegno e prudenza», è, anche, il !usus severus della parola e delle forme simboliche attraverso cui, secondo le parole di Freud, l'uo­ mo riesce a «godere dei propri fantasmi senza scrupolo né ver­ gogna»; e la topologia dell'irreale che essa disegna nella sua im­ mobile dialettica è, nello stesso tempo, una topologia della cultura. Non stupisce, in questa prospettiva, che la malinconia sia sta­ ta identificata dagli alchimisti con Nigredo, il primo stadio di quella Grande Opera che consisteva appunto, secondo l'antica massima spagiritica, nel dare un corpo all'incorporeo e rendere incorporeo il corporeo'. È nello spazio aperto dalla sua ostinata intenzione fantasmagorica che prende avvio l'incessante fatica al­ chimica della cultura umana per appropriarsi del negativo e della morte e per plasmare la massima realtà afferrando la massima ir­ realtà. Per questo, se volgiamo ora gli occhi all'incisione di Diirer, ben si addice all'immobile figura alata intenta nei propri fantasmi e al cui fianco siede 5piritus phantasticus ', rappresentato in for1

L'operazione topologica della malinconia si può rappresentare in questo schema:



F

©

O

'-.____/

dove F - fantasma, O - oggetto esterno, © - oggetto irreale; lo spazio che essi delimi­ tano è il topos simbolico malinconico. 2 Un'illustrazione del primo Ripley Scrowle, dipinta a Lubecca nel 1588 (Ms. Add. Sloane 5025, British Museum) mostra cosi l'alchimista come malinconico per rappre­ sentare la prima fase dell'opera. 1 Una sistematica revisione della classica interpretazione iconografica di Panofsky e Sax! non era tra gli obiettivi tematici di questo saggio; tuttavia non è possibile non rilevare qui quali punti dell'interpretazione saxl-panofskiana siano stati via via forte­ mente scossi nel corso di una ricerca che trovava il suo spazio e la sua misura proprio

34

I fantasmi di Eros

ma di putto, che gli strumenti della vita attiva giacciano abban­ donati al suolo, divenuti cifra di un'enigmatica saggezza. L'in­ quietante straniamento degli oggetti piu familiari è il prezzo pa­ gato dal malinconico alle potenze che custodiscono l'inaccessibile. L'angelo meditante non è, secondo un'interpretazione divenuta ormai tradizionale, il simbolo dell'impossibilità della Geometria, e delle arti che su essa si fondano, a raggiungere l'incorporeo mondo metafisico, ma, al contrario, l'emblema del tentativo del-

fig. 2

in un incessante confronto con l'emblema diireriano. La novità piu importante è l'aver ricollocato la sindrome malinconica sullo sfondo della teoria medioevale e rinascimen­ tale dello spiritus phantasticus (la malinconia, in senso proprio, non era altro che un disordine dell'attività fantasmatica, un vitium corruptae immaginationis) e nell'averla conseguentemente ricondotta nell'ambito della teoria dell'amore (poiché il fantasma era, insieme, l'oggetto e il veicolo dell'innamoramento e l'amore stesso una forma di solicitudo melancolica). L'affinità fra immaginazione e temperamento malinconico era stata registrata da Panofsky e Sax!, in quanto esplicitamente affermata nel testo di Agrippa su cui si fondava la loro interpretazione, ma non era stata in alcun modo ap­ profondita. La prima conseguenza che, sul piano iconografico, deriva dal collegamento fra l'im­ magine diireriana e la teoria del fantasma, è che il putto alato non può piu essere iden­ tificato con Brauch 'la Pratica'. Klein, che vedeva nel putto scrivente una personifica­ zione del disegno (Saturne: croyances et symboles, in «Mercure de France», 1964, pp. 588-94; ristampato in La forme et l'intelligible, Paris 1970, pp. 224-30), aveva già no­ tato l'incongruenza fra la piccola figura alata e la Pratica, che dovrebbe, secondo la logica, essere rappresentata cieca e priva di ali. Il putto può essere convenientemente identificato con Spiritus phantasticus, effigiato nell'atto di imprimere nella fantasia il fantasma. Questo spiega perché il putto diireriano appartenga indubbiamente al tipo iconografico degli EPW't'Eç: spiritus phantasticus è, infatti, come abbiamo visto, il vei­ colo magico dell'amore e appartiene alla stessa famiglia degli « spiritelli d'amore» della lirica stilnovistica. La rotazione semantica che la prospettiva fantasmologica opera nell'interpretazione dell'immagine diireriana, da un limite statico (l'incapacità della geometria a raggiun­ gere la metafisica) a un limite dialettico ( il tentativo della fantasia di appropriarsi del­ l'inappropriabile ), permette anche di intendere correttamente il significato del pipi­ strello che sorregge il cartiglio con la scritta «Melencolia I» e che può essere conside­ rato come un vero e proprio emblema minore che contiene la chiave dell'emblema maggiore in cui è contenuto. Nei Hieroglyphica di Orapollo, il pipistrello in volo viene in­ terpretato come significante appunto il tentativo dell'uomo di superare audacemente la miseria della sua condizione osando l'impossibile ( « Imbecillum hominem lascivientem, tamen et audacius aliquid molientem, cum monstrare voluerint, vespertilionem pin­ gunt. Haec enim etsi alas non habeat volare tamen conatur»). Un'altra importante novità emersa nel corso di questa indagine è la rivalutazione del ruolo della teorizzazione patristica della tristitia-acedia (che Panofsky interpreta semplicemente come « il sonno colpevole del pigro») nella genesi della dottrina rina­ scimentale della malinconia. Come abbiamo visto, tristitia-acedia non soltanto non si identifica nel pensiero dei padri con la pigrizia, ma ha la stessa ambigua polarità (tristi­ tia salutifera - tristitia mortifera) che caratterizza la concezione rinascimentale della ma­ linconia.

I fantasmi di Eros

35

l'uomo, al limite di un essenziale rischio psichico, di dar corpo ai propri fantasmi e di padroneggiare in una pratica artistica quel che non potrebbe altrimenti essere né afferrato né conosciuto. Il compasso, la sfera, la mola, il martello, la bilancia, la riga, che l'intenzione malinconica ha svuotato del loro senso abituale e tra­ sformato in emblemi del proprio lutto, non hanno piu altro signi­ ficato che lo spazio che essi intessono all'epifania dell'inafferra­ bile. E poiché la sua lezione è che si può afferrare veramente solo ciò che è inafferrabile, a suo agio il malinconico è solo fra queste ambigue spoglie emblematiche. Come reliquie di un passato su cui sta scritta la cifra edenica dell'infanzia, esse hanno catturato per sempre un barlume di ciò che può essere posseduto solo a patto di essere perduto per sempre.

Parte seconda

Nel mondo di Odradek L'opera d'arte di fronte alla merce

Capitolo primo Freud o l'oggetto assente

Nel 1927 apparve nella « lnternationale Zeitschrift fiir Psy­ choanalyse» (voi. XIII) un breve articolo che porta il titolo Feti­ chismus. Si tratta di uno dei rari testi in cui Freud si pone tema­ ticamente il problema di quegli individui « la cui scelta oggettuale è dominata da un feticcio» '. I risulta ti forni ti dall'analisi nei casi da lui osservati gli parvero cosi concordi e inequivocabili da in­ durlo a concludere che tutti i casi di feticismo si potessero ricon­ durre a una spiegazione unica. Secondo Freud, la fissazione feti­ cista nasce dal rifiuto del bambino di prendere coscienza dell'as­ senza del pene nella donna (nella madre). Messo di fronte alla percezione di quest'assenza, il bambino si rifiuta (Freud usa il ter­ mine Verleugnung 'rinnegamento, negazione') di ammetterne la realtà, perché essa farebbe gravare una minaccia di castrazione sul proprio pene. Il feticcio non è, dunque, altro che « il sostituto del pene della donna (della madre), alla cui esistenza il bambino ha creduto e a cui ora, e noi sappiamo perché, non vuole rinun­ ciare». Tuttavia, secondo Freud, il senso di questa Verleugnung non è semplice come potrebbe sembrare e implica, anzi, un'essenziale ambiguità. Nel conflitto fra la percezione della realtà, che lo spin­ ge a rinunciare al suo fantasma, e il contro-desiderio, che lo spinge a negare la sua percezione, il bambino non fa né una cosa né l'al­ tra, o, piuttosto, fa simultaneamente le due cose, giungendo a uno di quei compromessi che sono possibili solo sotto il dominio delle leggi dell'inconscio. Da una parte, con l'aiuto di un mecca­ nismo particolare, smentisce l'evidenza della sua percezione; dal­ l'altra, ne riconosce la realtà e, per mezzo di un sintomo perverso,

'

40

Nel mondo di Odradek

assume su di sé l'angoscia di fronte ad essa. Il feticcio, che si tratti di una parte del corpo o di un oggetto inorganico, è, quindi, nel­ lo stesso tempo, la presenza di quel nulla che è il pene materno e il segno della sua assenza; simbolo di qualcosa e, insieme, della sua negazione, esso può mantenersi solo a patto di una lacerazione essenziale, nella quale le due reazioni contrarie costituiscono il nucleo di una vera e propria frattura dell'Io (Ichspaltung). È curioso osservare come un processo mentale di tipo fetici­ stico sia implicito in uno dei tropi piu comuni del linguaggio poe­ tico: la sineddoche (e nella sua parente prossima, la metonimia). Alla sostituzione della parte al tutto che essa attua ( o di un og­ getto contiguo a un altro) corrisponde, nel feticismo, la sostitu­ zione di una parte del corpo (o di un oggetto annesso) al partner sessuale completo. Che non si tratti semplicemente di una analo­ gia superficiale, è provato dal fatto che la sostituzione metoni­ mica non si esaurisce nella pura e semplice surrogazione di un termine con un altro: il termine sostituito è, invece, a un tempo negato e evocato dal sostituto con un procedimento la cui ambi­ guità ricorda da vicino la Verleugnung freudiana, ed è proprio da questa sorta di « riferimento negativo» che nasce il particolare potenziale poetico di cui viene investita la parola. Il carattere fe­ ticistico del fenomeno diventa evidente in quella specie partico­ lare di procedimento metonimico che, dall'epoca in cui Vasari e Condivi ne diedero la prima ricognizione critica a proposito delle sculture «incompiute» di Michelangelo, è diventato uno degli strumenti stilistici essenziali dell'arte moderna: il non-finito'. Gilpin, che spingeva il gusto preromantico per l'incompiuto fino a proporre la distruzione a metà delle ville palladiane per trasfor­ marle in rovine artificiali, si era già accorto che quello che egli chiamava il «laconismo del genio» consisteva appunto nel «dare una parte per il tutto». Schlegel, a cui si deve la profetica affer­ mazione che «molte opere degli antichi sono divenute frammenti, mentre molte opere dei moderni lo sono al loro nascere», pen­ sava, come Novalis, che ogni opera finita fosse necessariamente soggetta a un limite cui solo il frammento poteva sfuggire. È su­ perfluo ricordare che, in questo senso, quasi tutte le poesie mo-

Freud

41

derne, da Mallarmé in poi, sono dei frammenti, in quanto riman­ dano a qualcosa ( il poema assoluto) che non può mai essere evo­ cato integralmente, ma solo reso presente attraverso la sua nega­ zione '. La differenza rispetto alla normale metonimia linguistica è, qui, che l'oggetto sostituito ( il «tutto» a cui il frammento ri­ manda) è, come il pene materno, inesistente o non piu esistente, e il non-finito si rivela quindi un perfetto e puntuale pendant del­ la Verleugnung feticista. Analoghe considerazioni possono farsi per la metafora, che Ortega, in un libro tanto spesso citato quanto poco letto, consi­ derava «el mas radical instrumento de deshumanaci6n» dell'arte moderna. Come notava Ortega, la metafora sostituisce una cosa con un'altra, non tanto per giungere a questa, quanto per sfuggire a quella, e, se è vero, com'è stato sostenuto, che essa è in origine un nome sostitutivo per un oggetto che non deve essere nomina­ to, l'analogia col feticismo è ancora piu evidente che nella meto­ nimia•. Dal momento che egli cercava semplicemente di ricon­ durre il fenomeno del feticismo ai processi inconsci che ne costi­ tuivano l'origine, non può certo sorprendere che Freud non si sia eccessivamente preoccupato delle conseguenze che l'ambiguità della Verleugnung infantile poteva avere sullo statuto dell'og­ getto-feticcio, né abbia pensato a mettere quest'ultimo in rela­ zione con gli altri oggetti che costituiscono il mondo della cultura umana in quanto attività creatrice di oggetti'. Considerato da questo punto di vista, il feticcio ci confrontal al paradosso di un oggetto inafferrabile che soddisfa un bisogno umano proprio attraverso il suo essere tale. In quanto presenza, l'oggetto-feticcio è si, infatti, qualcosa di concreto e perfino di tangibile; ma in quanto presenza di un'assenza, esso è, nello stes­ so tempo, immateriale e intangibile, perché rimanda continua­ mente al di là di se stesso verso qualcosa che non può mai realmente essere posseduto. Questa ambiguità essenziale dello statuto del feticcio spiega perfettamente un fatto che l'osservazione aveva già rivelato da tempo, e, cioè, che il feticista tende immancabilmente a collezio­ nare e a moltiplicare i suoi feticci•. Che l'oggetto della sua perver-

42

Nel mondo di Odradek

sione sia un capo di biancheria di un certo tipo o uno stivaletto di cuoio o una capigliatura femminile, il soggetto perverso sarà ugualmente soddisfatto ( o, se si vuole, ugualmente insoddisfatto) da tutti gli oggetti che presentano le medesime caratteristiche. Proprio in quanto esso è negazione e segno di un'assenza, il fetic­ cio non è infatti un unicum irripetibile, ma è, al contrario, qual­ cosa di surrogabile all'infinito, senza che nessuna delle sue succes­ sive incarnazioni possa mai esaurire completamente il nulla di cui è la cifra. E per quanto il feticista moltiplichi le prove della sua presenza e accumuli harem di oggetti, il feticcio gli sfugge fatal­ mente fra le mani e, in ognuna delle sue apparizioni, celebra sem­ pre e soltanto la propria mistica fantasmagoria. Il feticcio rivela cosi un nuovo e inquietante modo di essere degli oggetti, dei facticia' fabbricati dall'uomo; ma, per poco che consideriamo attentamente il fenomeno, ci accorgiamo che esso ci è in realtà piu familiare di quanto non avremmo immaginato a prima vista.

Scoli. Nascita del feticismo

1 Il primo a usare il termine feticismo per indicare una perversione ses­ suale fu Alfred Binet, il cui studio su Le fétichisme dans l'amour (Paris 1888) era stato letto con attenzione da Freud all'epoca in cui scriveva i Tre saggi sulla teoria sessuale ( 1905 ). «Questo sostituto», egli scrive aven­ do in mente le parole di Binet, «viene non a torto paragonato con il fetic­ cio nel quale il selvaggio vede incarnato il suo dio». L'accezione psicolo­ gica del termine ci è oggi piu familiare dell'originario significato religioso, che appare per la prima volta nello scritto di De Brosses, Du culte des dieux fétiches, ou parallèle de l' ancienne religion de l'Egypte avec la reli­ gion actuelle de Nigritie (1760). Né Restif (il cui Pied de Fanchette ou le soulier couleur de rose, centrato sul feticismo della calzatura, è di soli nove anni successivo allo studio di De Brosses) né Sade, che menzionano entram­ bi nelle loro opere numerosi casi di cx.v-rcx.­ crlcx.ç -rwoç ), perché la voce è un suono significativo. Il carattere semantico del linguaggio è cosi indissolubilmente associato alla presenza di un fantasma, e vedremo piu tardi quanta importanza questa associazione acquisterà nel pensiero medioevale. Nel pensiero di Aristotele, il fantasma appare cosi al centro di una costellazione psichica che può essere riassunta graficamente in questo schema:

8

linguaggio \

sensmone�

I

sogno e divinazione

/

\

intelletto

.

memoria, d''' e1a vu, paramnesia, estasi

Noi moderni, forse per l'abitudine ad accentuare l'aspettò ra­ zionale e astratto dei processi conoscitivi, abbiamo cessato da un pezzo di stupirci del misterioso potere dell'immagine interiore, ' De insomniis, 459a. De divinatione per somnium, 463a-464a.

2

90

La parola e il fantasma

di questo inquieto popolo di «meticci» ( come lo chiamerà Freud) che anima i nostri sogni e domina la nostra veglia forse piu di quanto siamo disposti ad ammettere. Cosi non ci riesce certo fa­ cile comprendere immediatamente l'ossessiva e quasi reverenzia­ le attenzione che la psicologia medioevale riserva alla costellazio­ ne fantasmologica aristotelica che, drammatizzata e arricchita da­ gli apporti dello stoicismo e del neoplatonismo, 'occupa un posto centrale nel fìrmamento spirituale del medioevo. In questo pro­ cesso esegetico, in cui il medioevo nasconde una delle sue inten­ zioni più originali e creatrici, il fantasma si polarizza e diventa il luogo di un'estrema esperienza dell'anima, in cui essa può salire fìno al limite abbagliante del divino o precipitare nell'abisso ver­ tiginoso della perdizione e del male. Questo spiega perché nes­ sun'epoca è stata, nello stesso tempo, cosi«idolatra» e cosi« ido­ loclasta» come quella che vedeva nei fantasmi «l'alta fantasia» cui Dante affida la sua visione suprema e, insieme, le cogitationes malae che, negli scritti patristici sui peccati capitali, tormentano l'anima dell'accidioso, la mediatrice spirituale fra senso e ragione che innalza l'uomo lungo la mistica scala di Giacobbe di cui parla Ugo di San Vittore e le «vane immaginazioni» che seducono l'a­ nimo nell'errore che sant'Agostino riconosce nel proprio travia­ mento manicheo. Nel nostro esame della fantasmologia medioevale noi prende­ remo le mosse da Avicenna, non perché egli sia il primo a darne una chiara formulazione, ma perché la sua meticolosa classifìca­ zione del «senso interno» ha esercitato un'influenza cosi profon­ da su quella che è stata definita «la rivoluzione spirituale del se­ colo xm », che è possibile scorgerne le tracce ancora in pieno umanesimo. Inoltre in Avicenna, che, come Averroè, è anche, anzi, forse, innanzi tutto un medico' ( il suo Canone rimase come testo di medicina in alcune università europee almeno fìno al XVII secolo), appare ormai perfettamente stabilito il collegamento tra 1 È significativo che Dante (Inferno IV 143-44) nomini Avicenna e Averroè ac­ canto a Ippocrate e Galeno.

Eros allo specchio

facoltà dell'anima e anatomia cerebrale, per cui ciascuna facoltà è localizzata in una delle tre camere o cavità che una tradizione medica già compiutamente elaborata in Galeno identificava nel cervello. È opportuno ricordare, a questo proposito, che mentre oggi ci stupiremmo di incontrare riferimenti strettamente medici e anatomici in un trattato di filosofia, il sistema intellettuale del medioevo è cosi compatto che opere che a noi appaiono filoso­ fiche o religiose hanno spesso per oggetto minuziose questioni di anatomia cerebrale o di patologia clinica, e viceversa. In genere (come, appunto, nel caso di Avicenna e di Averroè, ma lo stesso potrebbe dirsi di buona parte degli autori compresi nei volumi della Patrologia del Migne) è semplicemente impossibile distin­ guere fra il medico e il filosofo. Un tale intreccio di motivi schiet­ tamente medici con temi che noi consideriamo filosofico-letterari si ritrova anche nei poeti, l'opera dei quali, come avremo modo di vedere, è spesso assolutamente inintellegibile senza una buona conoscenza dell'anatomia dell'occhio, del cuore e del cervello, dei modelli circolatori e dell'embriologia medioevali, non solo perché i poeti si riferiscono direttamente alle dottrine fisiologiche del loro tempo, ma perché spesso questo riferimento è complicato da un'intenzione allegorica che si esercita in modo privilegiato sul­ l'anatomia e la fisiologia del corpo umano. Avicenna esordisce dividendo il senso esterno (vis apprehen­ dendi a foris) da quello interno ( vis apprehendendi ab intus) e articola poi il senso interno in cinque « virtu » ': La prima delle virtu apprensive interne è la /antasia o senso co­ mune, che è una forza ordinata nella prima cavità del cervello che riceve per se stessa tutte le forme che sono impresse nei cinque sensi e a essa trasmesse. Dopo di questa vi è l'immaginazione, che è la forza ordinata nell'estremità della cavità anteriore del cervello, la quale trattiene ciò che il senso comune riceve dai sensi e che resta in essa anche dopo la rimozione degli oggetti sensibili [qui Avicenna spiega che l'immagina1 L'Avicenna che qui ci interessa è l'Avicenna latinus, cioè quello che potevano leg­ gere gli uomini colti del xm secolo in occidente. L'edizione consultata è Avicennae arabum medicorum principis opera ex Gerardi cremonensis versione, Venetiis 1545. Per il De anima, si è consultato anche il testo dell'edizione critica di van Riet (Leuven­ Leiden 1972).

92

La parola e il fantasma zione, a differenza della fantasia, non è solo ricettiva, ma anche attiva e che il «trattenere» è diverso dal mero «ricevere», come si vede nel­ l'acqua, che ha la facoltà di ricevere le immagini ma non quella di trat­ tenerle]. .. Dopo di questa è la forza che si chiama immaginativa rispetto all'anima vitale e cogitativa rispetto all'anima umana; essa è ordinata nella cavità mediana del cervello e compone secondo la sua volontà le forme che sono nell'immaginazione con altre'. Poi ,vi è la forza estima­ tiva, ordinata nella sommità della cavità mediana del cervello, che ap­ prende le intenzioni 2 non sensibili che si trovano nei singoli oggetti sensibili, come la forza che permette alla pecora di giudicare che il lupo è da fuggire... Vi è poi la forza memoriale e reminiscibile, che è quella ordinata nella cavità posteriore del cervello e che trattiene ciò che l'esti­ mativa apprende dalle intenzioni non sensibili dei singoli oggetti. Il rapporto fra questa virtu e quella estimativa è analogo a quello fra l'im­ maginazione e il senso comune. E il rapporto fra essa e le intenzioni è analogo a quello fra l'immaginazione e i fantasmi.

Avicenna presenta questa quintuplice gradazione del senso in­ terno come una progressiva «messa a nudo» (denudatio) del fan­ tasma dai suoi accidenti materiali: rispetto ai sensi, che non spo­ gliano la forma sensibile denudatione perfecta, l'immaginazione la mette invece a nudo denudatione vera, ma senza però privarla degli accidenti materiali, perché i fantasmi dell'immaginazione sono «secondo una certa quantità e qualità e secondo un certo luogo», sono cioè, diremmo noi, immagini individuate e non con­ cetti astratti. Al sommo della cavità mediana del cervello, l'esti­ mativa procede ulteriormente in questa «messa a nudo» del fan­ tasma, di cui apprende le intenzioni non sensibili, come la bontà o la malizia, la convenienza o l'incongruità. È solo quando il pro­ cesso del senso interno si è compiuto che l'anima razionale può venire informata dal fantasma completamente denudato: nell'at­ to dell'intellezione, la forma è nuda e, «se già non fosse nuda, 1 L'isolamento di questa facoltà immaginativa distinta dalla fantasia passiva (che è l'origine non tanto remota della distinzione di Coleridge tra fancy e imagination) è un carattere costante della psicologia medioevale. Esso permette di spiegare, fra l'altro, al­ cuni aspetti dell'amore ses vezer, come la domna soiseubuda, cioè fatta di pezzi «presi in prestito» a altre donne, del trovatore Bertran de Born, ' «Intenzione» è, nel vocabolario della psicologia medioevale,« ciò che l'anima ap­ prende da un oggetto sensibile e che non è stato già appreso dal senso esterno» (Avi­ cenna); essa«non è parte della cosa, come la forma, ma piuttosto è la forma della cono­ scenza della cosa» (Alberto Magno).

Eros allo specchio

93

tuttavia lo diventa, perché la virtu contemplativa la spoglia in modo che nessuna affezione materiale rimanga in essa». Questo schema psicologico, spesso semplificato i n una tripar­ tizione corrispondente alle tre camere del cervello della tradizione medica, si ritrova costantemente negli autori medioevali. Cosi nella Philosophia mundi di Guglielmo di Conches, uno dei mae­ stri della scuola di Chartres nel xn secolo, il processo psichico è espresso nei crudi termini temperamentali della medicina umo­ rale: Nel capo vi sono tre celle ... la prima è calda e secca e vien detta fanta­ stica, cioè visuale o immaginativa, poiché in essa è la capacità di vedere e di immaginare, e appunto è calda e secca, affinché possa attrarre le for­ me delle cose e i colori. La cella di mezzo è detta À.oyur·nx6v, cioè ra­ zionale: in essa è, infatti, la capacità di discernere. Ciò che la fantastica attrae, passa a questa e ivi l'anima discerne. È calda e umida, affinché, meglio discernendo, si conformi alle proprietà delle cose. La terza cella è detta memoriale, poiché in essa è la capacità di trattenere qualcosa nella memoria '.

Il procedimento del pensiero medioevale può essere parago­ nato, e non soltanto in questo caso, a quelle composizioni musi­ cali che prendono il nome di «variazioni su un tema»: esso la­ vora, infatti, su un tema dato che riproduce e traspone attraverso piccole divergenze che possono arrivare, in qualche caso, a tra­ sformare totalmente il materiale da cui prende le mosse. Mentre il «tema» avicenniano si ritrova cosi, con qualche variazione, in Alberto Magno, in Tommaso d'Aquino e in Jean de la Rochelle, lo schema tripartito s'incontra in opere cosi diverse come l'Ana­ tomia di Ricardus Anglicus, l'Opus maius di Ruggero Bacone, i Documenti d'amore del poeta Francesco da Barberino e la Glossa di Dino del Garbo alla canzone di Cavalcanti Donna mi prega. Non può quindi sorprendere se un «tema» psicologico ana­ logo (anche qui con qualche signific�iva variazione) appare nel­ l'opera del pensatore che forse più di ogni altro ha mediato la let­ tura di Aristotele per il secolo XIII e nel quale a ragione Dante 1 La Philosophia mundi è pubblicata nella Patrologia latina ( 172, 39-rn2) come opera di Onorio di Autun.

94

La parola e il fantasma

vede il commentatore per eccellenza del testo aristotelico: «Aver­ rois, che 'l gran comento feo». Nella sua parafrasi del De senso et sensibilibus, egli compendia il processo che va dalla sensazione all'immaginazione in una sintesi in cui la psicofisiologia medioe­ vale trova la sua espressione esemplare. Intanto troviamo qui su­ bito la spiegazione della domanda che Giacomo da Lentini for­ mula nel suo sonetto: Or come pote si gran donna entrare: L'opinione di coloro che dicono che le forme degli oggetti sensibili si imprimono nell'anima con un'impressione corporale si distrugge ... an­ che per il fatto che i corpi piu grandi sono compresi dalla vista attra­ verso la pupilla, benché essa sia cosi piccola ... per questo si dice che questi sensi non comprendono le intenzioni degli oggetti sensibili se non astratte dalla materia'.

L'occhio appare qui come uno specchio in cui si riflettono i fan­ tasmi, «in quanto in questo strumento domina l'acqua, che è ter­ sa e diafana, in modo che in essa si iscrivono le forme degli og­ getti sensibili, come in uno specchio». E come uno specchio ha bisogno, per riflettere le immagini, di essere illuminato, cosi l'oc­ chio non vede se la sua acqua ( cioè gli umori contenuti nella com­ plessa articolazione di«tuniche» che lo compongono secondo l'a­ natomia medioevale) non è illuminata attraverso l'aria. Diciamo dunque - continua Averroè- che l'aria mediante la luce riceve per prima la forma delle cose, poi la rende alla rete esterna dell'occhio e questa la trasmette via via fino alla rete ultima , dopo la quale si trova il senso comune. Nel mezzo la rete grandinosa comprende la forma del­ le cose: essa è come uno specchio la cui natura è intermedia fra quella dell'aria e quella dell'acqua. Per questo essa riceve le forme dall'aria, poiché è simile a uno specchio, e le trasmette all'acqua, poiché la sua natura è comune ad entrambe. L'acqua, di cui Aristotele dice che si tro­ va dopo l'umore grandinoso, è ciò che Galeno chiama vitreo ed è l 'e­ strema porzione dell'occhio: è attraverso di essa che il senso comune vede la forma. Non appena il senso comune riceve la forma, la trasmet­ te alla virtu immaginativa, la quale la riceve in modo piu spirituale; 1 Già nel libro De oculis attribuito a Galeno, si trovava la medesima questione per spiegare che la visione non è un'emanazione dalla cosa all'occhio: « Si ergo ad visum ex re videnda aliquid dirigitur... quomodo illum angustum foramen intrare poterit? » (GALENI De oculis liber, cap. vr, in Operum Hippocratis Coi et Galeni pergameni me­ dicorum omnium principum, Lutetiae 1679, t. X).

Eros allo specchio

95

questa forma appartiene dunque al terzo ordine. Le forme hanno in­ fatti tre ordini: il primo è corporeo, il secondo è nel senso comune, ed è spirituale, il terzo si trova nell'immaginazione, ed è piu spirituale. E, poiché è piu spirituale che nel senso comune, l'immaginazione non ha bisogno, per renderla presente, della presenza della cosa esterna; per converso, nel senso l'immaginazione non vede quella forma e non ne astrae l'intenzione se non dopo attenta e protratta intuizione. Gli or­ dini di questa forma in queste virtu sono dunque, secondo Aristotele, come se un uomo prendesse uno specchio che avesse due facce e, guar­ dando in una di esse, ponesse l'altra in direzione dell'acqua. Se ora qual­ cuno guardasse nella seconda faccia dello specchio, cioè in quella rivolta verso l'acqua, vedrebbe quella stessa forma descritta dall'acqua nello specchio. La forma di colui che guarda è la cosa sensibile, lo specchio è l'aria mediana, e l'acqua è l'occhio; la seconda faccia dello specchio è la virtu sensitiva e l'uomo che la comprende è la virtu immaginativa. Se dunque colui che guarda guardasse ora in questo secondo specchio, la forma sparirebbe dallo specchio e dall'acqua e rimarrebbe colui che guarda nella seconda faccia dello specchio immaginando la forma. E co­ si avviene alla virtu immaginativa con la forma che è nel senso comune; e perché, quando l'oggetto sensibile si assenta, subito si assenta anche la sua forma dal senso comune e rimane l'immaginazione in atto di im­ maginarla, ciò si spiega per il fatto che il senso comune vede la forma mediante l'occhio, l'occhio mediante l'aria, e la vede nell'umore acquo­ so che è nell'occhio ... '.

Se ci siamo soffermati su questo passo di Averroè, ciò è perché tutto il processo conoscitivo è qui concepito come una specula­ zione in senso stretto, un riflettersi di fantasmi di specchio in specchio: specchio e acqua sono gli occhi e il senso, che riflettono la forma dell'oggetto, ma speculazione è anche la fantasia, che «immagina» i fantasmi in assenza dell'oggetto. E conoscere è cur­ varsi su uno specchio dove il mondo si riflette, uno spiare imma­ gini riverberate di spera in spera: e l'uomo medioevale è sempre davanti a uno spec;chio, tanto quando si guarda intorno che quan­ do si abbandona alla propria immaginazione. Ma anèhe amare è necessariamente una speculazione, non tanto peréhé, come ripe­ tono i poeti, «gli occhi in prima generan l'amore» e perché esso, 1 Il brano citato è contenuto nella parafrasi di Averroè al De sensu et sensibilibus aristotelico, in Aristotelis stagiritae omnia quae extant opera cum Averrois corduben­ sis... commentariis (Venetiis 1552, voi. VI).

La parola e il fantasma

come scrive Cavalcanti nella sua canzone, «vien da veduta forma che s'intende» ( cioè da una forma che, secondo il processo che ab­ biamo illustrato, penetra attraverso i sensi èsterni e interni fìno a diventare fantasma o «intenzione» nella cella fantastica e nella memoriale), ma perché la psicologia medioevale, con un'inven­ zione che è fra le eredità piu feconde che essa ha trasmesso alla cultura occidentale, concepisce l'amore come un processo essen­ zialmente fantasmatico, che coinvolge immaginazione e memoria in un assiduo rovello intorno a un'immagine dipinta o riflessa nel­ l'intimo dell'uomo'. Andrea Cappellano, il cui De amore è consi­ derato come la teorizzazione esemplare della nuova concezione, definisce cosi l'amore come immoderata cogitatio di un fantasma interiore e aggiunge che «ex sola cogitatione, quam concipit ani­ mus ex eo, quod vidit, passio illa procedit» '. La scoperta medio­ evale dell'amore su cui, non sempre a proposito, si è cosi spesso discusso, è la scoperta dell'irrealtà dell'amore, cioè del suo carat­ tere fantasmatico. Ed è in questa scoperta, che spinge fìno alle estreme conseguenze quella connessione di desiderio e fantasma che l'antichità aveva appena presentito nel Filebo platonico, che consiste la novità della concezione medioevale dell'eros, e non certo in una pretesa assenza di spiritualità erotica del mondo clas­ sico. 1 L'accostamento fra amore e visione è già nel Fedro platonico (255c-d), in cui l'a­ more è paragonato a una «malattia degli occhi» (écpl>a.À.Jlla.), e aveva portato Plotino (Enneadi II I V 3) a ipotizzare una curiosa etimologia: « Eros, il cui nome viene dal fatto che esso deve la sua esistenza alla visione ( opa.cnç) ». In questa prospettiva, il passaggio dalla concezione classica dell'amore a quella medioevale può essere efficacemente carat­ terizzato come il passaggio da una « malattia della vista» a una « malattia dell'imma­ ginazione» («maladie de pensée» è definito l'amore nel Roman de la Rose cit., v . 4348). 2 ANDREA CAPPELLANO, Trattato d'amore, a cura di S. Battaglia, Roma 1947, cap. I. . «N am quum aliquis», continua il passo citato, « videt aliquam aptam amori et suo for­ matam arbitrio, statim eam incipit concupiscere corde; postea vero, quotiens de ipsa cogitat, totiens eius magis ardescit amore, quousque ad cogitationem advenit pleniorem. Postmodum mulieris incipit cogitare facturas et eius distinguere membra et suosque actus imaginari eiusque corporis secreta rimari ...» Dante, nella canzone Amor, da che convien pur ch'io mi doglia, descrive minuta­ mente il processo fantasmatico di questa cogitatio immoderata: « lo non posso fuggir, ch'ella non vegna I ne l'imagine mia, I se non come il penser che la vi mena. I L'animo folle, ch'al suo mal s'ingegna, I com'ella è bella e ria I cosi dipinge, e forma la sua pe­ na: I poi la riguarda, e quando ella è ben piena I del gran disio che de li occhi le tira, I incontro a sé s'adira, I c'ha fatto il foca ond'ella trista incende».

Eros allo specchio

97

In tutto il mondo classico non s'incontra nulla di simile alla concezione dell'amore come processo fantasmatico, mentre non mancano certo teorizzazioni«alte» dell'amore, le quali hanno an­ zi in ogni tempo trovato in Platone il loro paradigma originale. I soli esempi di una concezione«fantasmatica» dell'amore si in­ contrano nei tardi neoplatonici e nei medici ( in modo certo solo a partire dall'vm secolo); ma si tratta, in entrambi i casi, di con­ cezioni «basse» dell'amore, inteso ora come un influsso demoni­ co, ora, addirittura, come malattia mentale. È solo nella cultura medioevale che il fantasma emerge in primo piano come origine e oggetto d'amore, e la situazione propria dell'eros si sposta dalla visione alla fantasia. Non deve quindi stupire se il luogo amoroso per eccellenza è, per il medioevo, una fontana o uno specchio, e se, nel Roman de la Rose, il dio d'amore dimora presso una fonte che non è altro che il miroers perilleus di Narciso. Noi siamo cosf abituati all'in­ terpretazione che del mito di Narciso ha dato la psicologia mo­ derna, che definisce narcisismo il chiudersi e il ritrarsi della libido nell'io, che finiamo col dimenticare che, dopo tutto, nel mito il giovinetto non è innamorato direttamente di sé, ma della propria immagine riflessa nell'acqua, che egli scambia per una creatura reale. Diversamente da noi (e non poteva essere altrimenti, se si considera l'importanza che il fantasma ha nella psicologia medio­ evale), il medioevo vede il tratto saliente dell'infelice vicenda di Narciso non nel suo essere un amore di sé (la filautia non è ne­ cessariamente riprovevole per la mentalità medioevale), ma, nel suo essere amore di un'immagine, un« innamorarsi per ombra»'. Questa è la ragione per cui la favola di Narciso ha avuto un cosf ' Cfr. CHIARO DAVANZATI: «Come Narcissi in sua spera mirando I s'inarnorao per ombra a la fontana... », in Poeti del '200 cit., t. I, p. 425. Che questa interpretazione del mito di Narciso sia una scoperta medioevale, da intendere in stretta connessione con la teoria poetica del carattere fantasmatico del processo amoroso, risulta evidente se si mettono a confronto le versioni medioevali col racconto di Ovidio (Metamorfosi III 345-510) che ne costituisce la fonte. In Ovidio il terna dell'immagine riflessa è natu­ ralmente presente, ma non è il centro della vicenda; la punizione in cui Narciso incorre per aver rifiutato l'amore di Eco è senz'ombra di dubbio l'impossibile amore di sé, cosa di cui il giovinetto è perfettamente cosciente ( « iste ego surn ! sensi; nec me rnea fallit

98

La parola e il fantasma

ostinato rilievo nella formazione dell'idea medioevale dell'amo­ re, tanto che il miroers perilleus è diventato uno degli accessori indispensabili del rituale amoroso e l'immagine del giovinetto al­ la fontana è fra i temi preferiti dell'iconografia erotica medioe­ vale: come allegoria d'amore, tanto la storia di Narciso che quella di Pigmalione alludono esemplarmente al car.attere fantasmati­ co di un processo inteso essenzialmente all'ossessivo vagheggia­ mento di un'immagine, secondo uno schema psicologico per cui ogni autentico innamoramento è sempre un « amare per ombra» o « per figura»', ogni profonda intenzione erotica è sempre rivol­ ta idolatricamente a un'ymage. In questa prospettiva nulla impedisce di vedere nella scena dell'innamoramento del protagonista alla fontana di Eros-Narciso nel Roman de la Rose un'allegoria abbastanza fedele della psico­ fisiologia fantasmatica descritta nel passo di Averroè che abbia­ mo appena esaminato: « aqua est oculus», come dice Averroè ( e ciò spiega perché solo quando « il sole, che tutto osserva, I getta i suoi raggi nella fontana I e la luce scende fino al fondo I allora appaiono piu di cento colori I nel cristallo ... ») e il cristallo dop­ pio che riflette ora una metà ora l'altra del giardino e mai entram­ be nello stesso tempo è quello della virtu sensitiva e dell'imma­ ginativa, il che s'intende abbastanza chiaramente se si ricorda che, come Averroè mostra con l'immagine delle due facce dello specchio nelle quali non si può guardare contemporaneamente, è possibile contemplare il fantasma nell'immaginazione (cogita­ re) o la forma dell'oggetto nel senso, ma mai entrambi nello stes' so tempo imago, I uror amor mei, flammas moveoque feroque »). Proprio al contrario, quando Dante vuole far comprendere al lettore come egli abbia scambiato le anime dei beati per immagini riflesse («specchiati sembianti»), il paragone che gli viene in mente è di definire il proprio errore.come contrario a quello di Narciso («per ch'io dentro a l'error contrario corsi I a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte», Paradiso III 17-18). Agli occhi di un lettore medioevale, l'errore di Narciso non era t;anto l'amore di sé, ma lo scambio fra immagine e creatura reale. 1 «Vos amador, que amatz per figura» è in una poesia del trovatore Ozi! de Cadars (cfr. LANGFORS, Le troubadour 01.il de Cadars, Helsinki 1913). 2 Nessuna delle spiegazioni finora proposte per la scena della fontana nel Roman de la Rose è pienamente convincente. Cosi Lewis (The Allegory of Love, Oxford 1936;

Eros allo specchio

99

La fontana di Amore, che «inebria di morte i vivi», e lo spec­ chio di Narciso alludono dunque entrambi all'immaginazione, do­ ve dimora il fantasma che è il vero oggetto dell'amore: e Narciso, che s'innamora di un'immagine, è il paradigma esemplare della fin'amors e, insieme, con una polarità che caratterizza la saggezza trad. it. L'allegoriad'amore, Torino 1969, p. 123) ritiene di poter affermare «senz'om­ bra di dubbio» che le due pietre sono gli occhi della donna, sulla base del celebre passo di Bernart de Ventadorn («Anc non agui de mi poder I Ni no fui meus des !'or' en sai I Que. m laisset en sos ohls vezer I En un mirahl que mout mi plai. I Mirahls, pos me mirei en te I M'an mort li sospir de preon, I Qu'aissi .m perdei cum perdet se I Lo bel Narcissus en la font»). Non mi pare che sia stato finora però notato che Bernart non dice che gli occhi della sua donna sono lo specchio, ma che egli guarda in essi in uno specchio («en un mirahl ») che, se la nostra interpretazione fosse esatta, potrebbe essere appunto quello della fantasia. Né si capisce perché, se le pietre fossero gli occhi della donna, in essi debba essere riflessa la Rosa, né soprattutto perché essi riflettano ora una metà ora l'altra del giardino. È curioso che si sia potuto interpretare, contro ogni verisimiglianza, l'innamora­ mento alla fontana di Narciso come un incontro con se stesso e col proprio destino (cosi E. Kohler: « Le regard dans le miroir n'est autre chose que sa rencontre avec sa propre destinée... Les deux cristaux sont en premier lieu le. reflet des yeux de celui qui s'y mire, c'est à dire !es yeux de Narcisse»; cfr. RUNGE, The Narcissus Theme in European Literature, Lund 1967, p. 85). Come vedremo nel capitolo seguente, la concezione della fantasia come specchio è già in Sinesio di Cirene, e fu da lui trasmessa ai mistici cristiani. Che lo specchio nella poesia del '200 si riferisca all'immaginazione, è provato da vari passi. Cosi in CINO DA PISTOIA (Rimatorideldolce stil novo cit., p. 209): « Fa de la mente tua specchio so­ vente I se vuoi campar, guardando 'I dolce viso I lo qual so che v'è pinto il suo bel riso, I che fa tornar gioioso 'I cor dolente. Il Tu sentirai cosi di quella gente, I allor, come non fossi mai diviso ; I ma se lo imaginar serà ben fiso, I la bella donna t'apparrà presente»; nell'Acerba di CECCO D'ASCOLI (L'.4.cerba, a cura di Achille Crespi, Ascoli Piceno 1927, vv. 1959-61): «Senza vedere, l'uom può innamorare I formando specchio della nuda mente I veggendo vista sua nel 'maginare»; in AMICO DI DANTE (Poeti del '200 cit., t. II, p. 731), la fantasia è descritta come uno specchio sorretto da Amore: «Talor cre­ dete voi, Amore, ch'i' dorma I che eco lo core i' penso a voi e veglio I mirandomi tut­ tora ne lo speglio I che 'nnanzi mi tenete e ne la forma». Quest'identificazione dell'atto di guardare in uno specchio con l'immaginazione, permette anche di interpretare in mo­ do nuovo la figura di Oiseuse che, nel Romande la Rose, introduce l'amante nel giar­ dino. Come ha giustamente osservato Fleming (The «Romande la Rose» cit., p. 73), questa donna con lo specchio non è certo una personificazione dell'ozio necessario al­ l'amore cortese; ma nemmeno è semplicemente, come ritiene Fleming, una personifica­ zione della lussuria. È stata spesso notata la curiosa contraddizione per cui una donna allo specchio simboleggia, nell'iconografia medioevale, ora la lussuria ora la prudenza. Con notevole incoerenza, lo specchio è qui una volta un oggetto reale e, un'altra, un simbolo della contemplazione spirituale. La contraddizione si risolve se si interpreta lo specchio come l'immaginazione e, tenendo presente la polarità della concezione medio­ evale della fantasia, in un caso come imaginatio falsa o bestialis, e, nel secondo, come imaginatio vera o rationalis (cfr. RICCARDO DI SAN VITTORE, Beniamin minor, cap. XVI, in Patrologia latina, 196). Questo spiega perché sia proprio Oiseuse, cioè l'immagina­ zione, a introdurre l'amante nel giardino.

100

La parola e il fantasma

psicologica del medioevo, del fol amour che spezza il circolo fan­ tasmatico nel tentativo di appropriarsi dell'immagine come se fosse una creatura reale. Possiamo perciò fin d'ora, anche se molte cose restano ancora da chiarire, ritenere sufficientemente motivata tanto l' apparizio­ ne del tema dell'ymage nella poesia amorosa. che l'incontro di Eros e di Narciso presso la fontana d'amore. L'aver fatto gravi­ tare anche Eros nella costellazione del fantasma, l'averlo condot­ to a specchiarsi nel miroers perilleus dell'immaginazione è la grande novità della psicologia del tardo medioevo e forse il con­ tributo piu originale che essa, quasi senza parere, reca alla fanta­ smologia aristotelica. Prima di lasciare Averroè, è necessario soffermarsi su un aspet­ to del suo pensiero che ha un'importanza centrale per l'intelli­ genza delle polemiche fra averroisti e antiaverroisti nella filosofia del XIII secolo, e cioè alla dottrina che fa del fantasma il punto di unione, la «copula» fra l'individuo e l'unico intelletto possibile. Non è questo il luogo per ricostruire la celebre disputa sulla unità o sulla molteplicità dell'intelletto possibile che, scaturita da un oscuro passo del De anima aristotelico, divise profonda­ mente la vita intellettuale del XIII secolo. Basterà qui sapere che Averroè, facendosi portavoce di una profonda concezione ( che ci è oggi divenuta estranea, ma che è certo fra le espressioni piu alte del pensiero medioevale) che vede nell'intelligenza qualcosa di unico e di sovraindividuale, di cui i singoli sono semplicemente, per usare la bella immagine di Proust, dei «coinquilini» che si limitano a portarvi, ciascuno dal suo punto di vista, lo sguardo, sostiene che l'intelletto possibile è unico e separato; incorrutti­ bile e eterno, esso si congiunge ( copulatur) tuttavia ai singoli uo­ mini, perché ciascuno di essi possa concretamente esercitare in atto l'intellezione, attraverso i fantasmi che si trovano nel senso • I interno. 1 Cfr. AVERROÈ,

in Aristotelis cit., p.

165.

Eros allo specchio

101

Solo il misconoscimento della parte che spetta al fantasma nel­ la lirica stilnovista può spiegare che questa situazione del fanta­ sma nel pensiero di Averroè non sia stata nemmeno presa in con­ siderazione negli studi sull'averroismo di Cavalcanti'. È invece proprio la copulatio del fantasma e dell'intelletto possibile che offre a san Tommaso il bersaglio principale della sua polemica antiaverroista. Se si fa dell'intelletto possibile qualcosa di unico e di separato, egli obietta, è poi impossibile sostenere che ciascun uomo possa concretamente intendere grazie alla continuazione dell'intelletto possibile coi fantasmi, a meno che non si voglia dire che l'intelletto possibile è unito coi fan­ tasmi come lo specchio è unito all'uomo la cui immagine è in esso ri­ flessa. Una continuazione del genere non basta evidentemente alla con­ tinuazione dell'atto: è chiaro, infatti, che l'azione dello specchio, che è di rappresentare, non si può per questo attribuire all'uomo: allo stesso modo neanche l'azione dell'intelletto possibile può essere, in virtu di questa unione, attribuita al singolo uomo Socrate, in modo che egli pos­ sa intendere. È evidente che attraverso la specie intellegibile qualcosa è inteso, mentre attraverso la potenza intellettiva qualcosa intende, cosi come attraverso la specie sensibile qualcosa viene sentito e attraverso la potenza sensibile qualcosa sente. La parete dove sta il colore, la cui specie sensibile è nella visione, è vista ma non vede, mentre vede l'ani­ male che ha la potenza visiva, in cui è tale specie. L'unione dell'intel­ letto possibile con l'uomo in cui si trovano i fantasmi le cui specie sono nell'intelletto possibile è simile all'unione della parete in cui è il colore con la vista in cui è la specie del suo colore. E come la parete non vede, ma è visto il suo colore, cosi l'uomo non potrebbe comprendere, ma i 1 Nardi (L'averroismo del primo amico di Dante, in«Studi danteschi», xxv, 1940, pp. 43-79) che fonda l'averroismo di Cavalcanti su una separazione rigorosa fra l'amo­ re, che ha sede nella parte sensitiva, e l'intelletto possibile, semplicemente ignora che l'intelletto possibile si unisce al singolo individuo attraverso il fantasma che è anche l'origine e l'oggetto dell'esperienza amorosa. E evidente che, se si prende coscienza di questa situazione del fantasma nel pensiero di Averroè, l'interpretazione della celebre canzone cavalcantiana Donna mi prega risulta interamente rinnovata. Anche l'interpre­ tazione di G. Favati (G. Cavalcanti, Dino del Garbo e l'averroismo di B. Nardi, in«Fi­ lologia romanza», 1955), per molti aspetti piu perspicace, lascia da parte questo punto essenziale. L'importanza del fantasma nella dottrina cavalcantiana dell'amore non era sfuggita a Shaw (Cavalcanti's Theory of Love, Toronto 1949), che ignora però la pneu­ matologia e, di conseguenza, la complessità e la ricchezza della fantasmologia medio­ evale.

102

La parola e il fantasma suoi fantasmi sarebbero compresi dall'intelletto possibile. Pertanto è impossibile, secondo l a posizione di Averroè, che il singolo uomo in­ tenda'.

Ciò che san Tommaso, che si fa qui portavoce del soggettivi­ smo moderno, sembra non capire è che, per un autore arabo, un'immagine può ben essere il punto in cui chi vede si unisce a ciò che è visto. Se, per l'ottica medioevale, lo specchio era, infatti, per eccellenza il luogo in cui oculus videt se ipsum e la medesima persona è, a un tempo, vedente e veduta', d'altra parte l'unione con la propria immagine in uno specchio perfettamente lucido simboleggia spesso, secondo una tradizione mistica che influenza profondamente gli autori arabi ', ma che è ben familiare anche alla tradizione cristiana medioevale', l'unione col sovrasensibile. Ve­ dremo inoltre, nel capitolo successivo, che vi sono delle buone ra­ gioni, per cosi dire «scientifiche», che rendono il fantasma parti­ colarmente idoneo a questa funzione mediatrice. L'immagine ri­ flessa nel miroers perilleus della fantasia, che abbiamo visto svol­ gere una parte cosi importante nel meccanismo dell'innamora­ mento, acquista in questo modo una dimensione inaspettata. Si­ tuata al vertice dell'anima individuale, al limite fra individuale e universale, corporeo e incorporeo, essa appare come l'unica stremata scoria di cenere che la combustione dell'esistenza indivi­ duale abbandona sulla soglia illesa e invalicabile del Separato e dell'Eterno. Nella psicologia fantasmatica che abbiamo cercato di rico­ struire in questo capitolo, c'è tuttavia un punto che sembra male accordarsi con «l'immagine nel cuore» della poesia amorosa. Se' SANCTI THOMAE AQUINATIS De unitale intellectus contra Averroistas, ed. cri­ tica a cura di L. Keeler, Roma 1957, p. 42. 2 Cfr. ALEXANDRI DE AFRODISIA De sensu communi 42.10. ' Si deve a H. Corbin (En Islam iranien, voi. III, Paris 1972, pp. 65-146) la rico­ struzione esemplare del significato che il tema dello specchio ha nella mistica erotica iranica e araba. L'importanza degli studi di Corbin per la comprensione della lirica stil­ novistica costituisce una riprova della necessità, per le scienze umane, di superare la divisione specialistica in compartimenti. Solo una « disciplina dell'interdisciplinarità» è adeguata all'interpretazione dei fenomeni umani. ' Cfr. SANT'AGOSTINO, De Trinitate XV XXIII (Patrologia latina, 42, 1901); ISACCO DI STELLA, Sermo xxv in Sex. (in ibid., 176, 91 ); altri esempi citati in R. JAVELET, Ima­ ge et ressemblance au XII' siècle, Strasbourg 1967.

Eros allo specchio

103

condo i testi che abbiamo citato, il luogo proprio dell'immagine non è, infatti, nel cuore, ma in una delle camere del cervello. Que­ sta divergenza può lasciare perplessi, se si considera che l'inten­ zione teoretica cosi caratteristica della poesia amorosa medioevale avrebbe ben difficilmente tollerato una inesattezza tanto vistosa. Una piu attenta lettura dei testi risolve però senz'ombra di dub­ bio la questione. Secondo la fisiologia medioevale, il domicilio della vita è nel cuore ed è dal cuore che l'anima vivifica tutto l'a­ nimale. Esso è perciò anche il principio e l'origine di quelle virtu la cui azione trova altrove il suo strumento, come la virtù nutri­ tiva, che si attua nel fegato, e le virtu immaginativa e memoriale, che si attuano nel cervello. Avicenna spiega cosi che, benché il principio delle virtu sia nel cuore, «è nel cervello che si perfe­ ziona la temperie dello spirito che veicola nel corpo la virtu sen­ sitiva». Il Colliget di Averroè articola compiutamente questa dot­ trina, ponendola sotto l'autorità di Aristotele: Non dev'essere dimenticato che, benché le camere del cervello siano il luogo in cui si compiono le operazioni di queste virtu, tuttavia le loro radici si trovano nel cuore ... Ciò si spiega considerando che queste virtu non agiscono se non col calore interno e il calore interno non arriva ad esse se non col calore misurato, e poiché la virtu dativa e misurativa è di necessità nel cuore, la radice di queste virtu è dunque nel cuore. Pa­ rimenti, poiché l'operazione della fantasia avviene attraverso il segno che degli oggetti sensibili resta nel senso comune, com'è spiegato nel libro sull'anima, dove si legge anche che il luogo e la radice del senso comune sono nel cuore, ne consegue che il luogo della virtu immagina­ tiva è necessariamente nel cuore'.

La teoria poetica dell'immagine nel cuore non è quindi un'ar­ bitraria invenzione di innamorati, ma si fonda su una solida tra­ dizione medica; non dovrà quindi stupire se anche Dante, sempre cosi attento al rigore dottrinale della propria poesia, vi faccia piu volte riferimento'. Il meccanismo per cui una «virtu» può avere il suo luogo e la sua radice in una parte del corpo e svolgere tut' AVERROIS Cordubensis Colliget libri VII, Venetiis 1552, I. Il, cap. xx. ' «per man d'Amor là entro pinta sete» (canzone La dispietata mente, che pur mira, v. 22). Altre volte l'immagine è nella mente (canzone E m'incresce di me si dura­ mente, v. 43).

104

La parola e il fantasma

tavia altrove la sua funzione propria non è, tuttavia, immediata­ mente evidente. Tanto Avicenna che Averroè vi fanno riferi­ mento parlando il primo, come abbiamo visto, di uno «spirito» che si perfeziona nel cervello, e il secondo di un «calore interno» che ha origine nel cuore. Abbiamo anche visto Averroè sottoli­ neare la natura «spirituale» del fantasma dell'immaginazione. Quanto ai poeti, essi parlano piu volte come di realtà perfetta­ mente familiari di spiriti «sottili», «animali», «gentili» e sem­ brano riferirsi altre volte a uno spirito che esce ed entra attra­ verso gli occhi. Essi alludono cosi a una dottrina pneumatica che noi abbiamo finora omesso di prendere in considerazione, ma che dovremo ora affrontare se vogliamo veramente ricostruire nella sua integrità la fantasmologia medioevale. Lungi dall'essere giun­ ta a compimento, la nostra ricerca è appena agli inizi.

Capitolo terzo « Spiritus phantasticus »

In quello punto dico veracemente che lo spirito della vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare si for­ temente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi. In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l'alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a meravigliare molto e parlando spezialmente a li spiriti del viso, si disse queste parole: Apparuit iam beatitudo vestra. In quello punto lo spi­ rito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutri­ mento nostro, cominciò a piangere e piangendo disse queste parole:

Heu miser quia frequenter impeditus ero deinceps.'

Il fondamento di questo celebre passo in cui, sul principio del­ la Vita nova, Dante rispecchia in una triplice allegoresi l'appari­ zione, vestita di sanguigno, della «donna della sua mente», è sta­ to rintracciato abbastanza sicuramente dagli studiosi, che hanno mostrato come i tre spiriti abbiano un solido riscontro nella ter­ minologia medica dell'epoca'; tuttavia questa ricostruzione è, 1 Cfr., per tutti, G. VITALE, Ricerche intorno all'elemento filosofico nei poeti del dolce stil novo («Giornale dantesco», xvm, 1910, pp. 168-74), che rimanda soprattutto

a Alberto Magno. Vitale vede bene che gli spiriti non sono semplici «personificazioni delle potenze dell'anima», ma non si rende conto del legarne fra pneumatologia e teoria della fantasia, e mostra alla fine di ritenere che «gli spiriti erano una delle tante sotti­ gliezze tra le sottigliezze, un'astrazione fra le astrazioni, un errore fra gli errori». Solo lo studio esemplare di ROBERT KLEIN, 5pirito peregrino («Revue d'Etudes Italiennes», XI, 1965, pp. 197-236; ora in R. KLEIN, La forme et l'intelligible, Paris 1970, pp. 31-64) ha posto le basi per una ricostruzione della pneurno-fantasrnologia medioevale, mostran­ do le connessioni fra la teoria della fantasia, la teoria neoplatonica del pneurna-ocherna, le teorie magiche e soteriologiche; tuttavia, l'averle concepite come «livelli» distinti e solo casualmente comunicanti invece che come articolazioni di un edificio unitario, ha impedito a Klein di trarre tutte le conseguenze dalle sue scoperte, soprattutto per quel che riguarda la poesia amorosa. Per la storia della pneumatologia antica, si veda VER­ BEKE, L'evolution de la doctrine du pneuma du Stoicisme à St. Augustin, Paris-Louvain 1945.

106

La parola e il fantasma

secondo noi, incompleta, non soltanto perché essa non restituisce la fisiologia medioevale degli spiriti in tutte le sue articolazioni, ma soprattutto perché la dottrina pneumatica che si esprime in questo passo non è in alcun modo riducibile al solo ambito me­ dico-fisiologico. In essa si intrecciano, al contrario, tutti gli aspet­ ti della cultura medioevale, dalla medicina alla cosmologia, dalla psicologia alla retorica e alla soteriologia, ed e proprio nel suo segno che essi riescono a fondersi armonicamente nello slancio di un edificio che è forse la piu imponente cattedrale intellettuale costruita dal pensiero del tardo medioevo. Il fatto che questa cat­ tedrale sia rimasta finora almeno parzialmente sepolta fa si che noi abbiamo guardato al suo frutto piu perfetto, la lirica amorosa del '200, come a una di quelle statue mutile che il tempo ha stac­ cato dai frontoni dei templi greci o dai timpani delle chiese roma­ niche e che ci sorridono ora enigmaticamente nelle sale dei musei. Come notava Hegel, il destino benevolo che ci offre questi bei frutti recisi dall'albero non ci restituisce però, insieme ad essi, «né la terra che li ha nutriti né gli elementi che hanno formato la loro sostanza né il clima che faceva la loro individualità né l'alter­ narsi delle stagioni che regolava il processo del loro divenire». E come, nel capitolo precedente, abbiamo cercato di ricostruire le grandi linee della teoria medioevale del fantasma, sono questa «terra» e questo «clima» che proveremo ora a rievocare nello scavo di quella dottrina pneumatica nella quale la fantasmologia si lascia risolvere senza residui. L'origine della dottrina del pneuma deve ritenersi molto an­ tica. Il passo di Aristotele cui gli scrittori medioevali fanno spes­ so riferimento è De generatione animalium, 736b: C'è sempre nello sperma ciò che rende fecondi gli spermi, cioè il cosid­ detto calore. Questo non è né il fuoco né una potenza di tal genere, ma il pneuma immagazzinato nello sperma e nella schiuma, e la natura in questo pneuma che è analoga all'elemento astrale.

Questo passo sembra presupporre l'esistenza di una teoria ampia­ mente articolata e contiene già due elementi caratteristici della pneumatologia medioevale: la natura astrale del pneuma e la sua

« Spiritus phantasticus »

107

presenza nello sperma. È probabile che Aristotele trovasse que­ sta teoria in testi medici piu antichi, dai quali attinsero verisimil­ mente anche gli stoici, e gli accenni al pneuma nel corpus ippo­ cratico sembrano confermare questa supposizione'. Il primo me­ dico di cui possiamo rintracciare con una certa sicurezza la dot­ trina pneumatica è Diocle di Caristo, che Jaeger' situa all'inizio del III secolo a. C., contemporaneo di Zenone, il fondatore della Stoa; ma la pneumatologia di cui tracceremo ora le linee princi­ pali è patrimonio comune di tutta la medicina greca successiva, da Erasistrato a Galeno. Centrale, in questa teoria, è l'idea di un pneuma, di un soffio caldo che trae origine dalle esalazioni del sangue o, secondo altri, dall'aria esterna da cui è continuamente aspirato (o da entrambi, secondo Galeno). Questo pneuma, uni­ co in Diocle di Caristo, è spesso distinto ( per esempio da Erasi­ strato) in un pneuma vitale (�w·nx6ç-), il cui centro è nel ventri­ colo sinistro del cuore, e in un pneuma psichico ( �vx1.x6ç-), loca­ lizzato nel cervello. Dal cuore il pneuma si diffonde nel corpo, vi­ vificandolo e sensibilizzandolo, attraverso un proprio sistema cir­ colatorio che penetra in ogni parte dell'organismo. I canali di questa circolazione sono le arterie, che non contengono sangue, come le vene, ma solo pneuma. Arterie e vene comunicano alle estremità, il che spiega perché, quando si taglia un'arteria e il pneuma invisibile ne sfugge, esso è seguito immediatamente dal sangue che affluisce dalle vene'. Le alterazioni di questa circola­ zione pneumatica producono malattie: se il sangue è troppo ab­ bondante e invade le arterie, respingendo il pneuma vicino al cuo­ re, si ha la febbre; se, al contrario, ne è respinto e si accumula al­ l'estremità dei vasi pneumatici, si ha l'infiammazione. È verisimilmente da questa dottrina medica che la nozione di pneuma è stata desunta dai pensatori stoici, che ne fanno il prin­ cipio centrale della loro cosmologia e della loro psicologia. Nel pensiero di Zenone e di Crisippo il pneuma è un principio corpo1 2

Cfr. HIPPOCRATIS De fiatibus 3; De morbo sacro Diokles von Karystos, Berlin 1938.

16;

Regimen

I, Ix, x.

' Secondo Galeno, che critica questa teoria, il pneuma circola nelle vene misto a sangue.

108

La parola e il fantasma

reo, un corpo sottile (Àrn't'O't'Epo'V a-wµa) e luminoso, identico al fuoco, che pervade l'universo e penetra in ogni essere, dove piu e dove meno, ed è principio di crescita e di sensazione. Questo fuoco «artista» ('t'EX'VLXO'\I) e divino è anche la sostanza del sole e degli altri corpi celesti, in modo che si può dire che il principio vitale nelle piante e negli animali ha la stessa natura dei corpi ce­ lesti e che un unico principio vivifica l'universo. Questo soffio o fuoco è presente in ciascun uomo per comunicargli la vita: l'ani­ ma individuale non è che un frammento di questo principio di­ vino. Il pneuma non è però introdotto nel corpo dall'esterno, ma è «connaturato» al corpo di ciascuno e ciò permette di spiegare tanto la riproduzione, che avviene attraverso una corrente pneu­ matica che raggiunge i testicoli e, nello sperma, è trasmessa alla prole, che la percezione sensibile, che si compie attraverso una circolazione pneumatica che dal cuore si dirige alle pupille ( Òpa­ 't'LXO'\I 1t'\IEÙµa, lo spirito «visivo» della fisiologia medioevale), dove entra in contatto con la porzione di aria situata fra l'organo visivo e l'oggetto. Questo contatto produce una tensione nell'a­ ria che si propaga secondo un cono il cui vertice è nell'occhio e la cui base delimita il campo visivo. Il centro di questa circolazione è nel cuore, sede della parte «egemonica» dell'anima, nella cui sottile materia pneumatica s'imprimono le immagini della fanta­ sia come i segni della scrittura s'imprimono nella tavoletta di ce­ ra. Anche la voce è un pneuma che s'irradia dall'egemonico e, at­ traverso la laringe, mette in moto la lingua, cosicché una stessa circolazione pneumatica anima l'intelligenza, la voce, lo sperma e i cinque sensi. Dopo la morte questo pneuma non cessa di esi­ stere ma risale, per la sua leggerezza, fino alla regione sublunare, dove trova il suo luogo proprio e si nutre, come gli astri, degli ef­ fluvi che salgono dalla terra, immobile e indistruttibile. Nel neoplatonismo il tema stoico del pneuma, sulla traccia di una suggestione del Timeo ', è concepito come un veicolo ( oxri­ µa) o corpo sottile che accompagna l'anima nel suo romanzo sote­ riologico dagli astri alla terra. Cosi, in Porfirio, la discesa dell'a-

« Spiritus phantasticus »

109

nima attraverso le orbite planetarie verso il suo destino terrestre appare come il suo rivestirsi di un involucro etereo, di una sorta di sottile corpo pneumatico la cui sostanza è formata dai corpi celesti e che, nel corso del suo itinerario astrale, è progressiva­ mente oscurato e inumidito. Dopo la morte del corpo, se l'anima ha saputo astenersi dal contatto con la materia, essa risale in cielo insieme al suo veicolo pneumatico; se non ha invece saputo stac­ carsi dalla materia, il pneuma-ochema si appesantisce a tal punto che la trattiene sulla terra come un'ostrica trattenuta dalle sue valve e la conduce nel luogo del castigo'. Durante la vita terre­ stre, il pneuma è lo strumento dell'immaginazione e, come tale, esso è il soggetto dei sogni, degli influssi astrali e delle illumi­ nazioni divine nella divinazione ( quando, secondo le parole di Giamblico, «il veicolo etereo e luminoso circonfuso all'anima è rischiarato dalla luce divina» e «i fantasmi divini, mossi dalla vo­ lontà dei numi, afferrano la nostra immaginazione») e nell'estasi, che è spiegata da Giamblico con la discesa di un pneuma divino 2 nel corpo • La nozione di pneuma interviene anche nella demono­ logia neoplatonica: Porfirio, in un passo che è certamente l'ori­ gine, sia pure mediata, della .concezione dantesca del corpo aereo delle anime nel Purgatorio, afferma che il corpo aereo dei demoni altera la sua forma secondo le loro fantasie, riflettendosi come in uno specchio nell'aria circostante, in modo che essi ci appaiono in forme sempre diverse; Giamblico, da parte sua, parla piu volte del pneuma luminoso dei demoni, degli eroi e degli arconti che si rivelano nell'epopsia. Se nella pneumatologia stoica e neoplatonica pneuma e fanta­ sia appaiono spesso assimilati in una singolare convergenza, è nel De insomniis di Sinesio che essi si fondono senza residui nell'i­ dea di uno «spirito fantastico» ( wv,i appartengono infatti entrambi al progetto metafisico greco, che, qualificando «grammatica» la riflessione sul linguaggio e concependo la q:>wv,i come Ci"Y)µcx.v­ -mc,i ( cioè come segno di una « scrittura nell'anima») 3, ha pen­ sato fin dall'inizio il linguaggio dal punto di vista della «letter� La metafisica della scrittura e del significante non è che l'altra fac:-" eia della metafisica del significato e della voce, e non certo il suo superamento. Se è, infatti, possibile mettere a nudo l'eredità me­ tafisica della semiologia moderna,\ciò che resta per noi ancora im­ possibile è dire che cosa sarebbe una presenza che, finalmente liberata dalla differenza, fosse soltanto una pura e indivisa sta1 Cfr. J. DERRIDA, De la grammatologie, Paris 1967. ' Come buona parte del pensiero francese contemporaneo, anche quello di Derrida ha il suo fondamento, piu o meno dichiarato, in Heidegger. 3 Già Aristotele riferiva il carattere semantico del linguaggio umano alla fantasia, le cui immagini, secondo una metafora già presente in Platone, sono concepite come « uno scrivere nell'anima».

188

L'immagine perversa

zione nell'aperto,Quel che possiamo fare è riconoscere l'origina­ ria situazione éfe1 linguaggio, questo «plesso di differenze eter­ namente negative», nella barriera resistente alla significazione alla quale la rimozione edipica ci ha precluso l'accesso. Il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel signi­ ficato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della pre­ senza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l'uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella «commessura» della presenza. E l'umano è preci­ samente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio. L'algoritmo� deve perciò ridursi alla s sola barriera: -; ma, in questa barriera, non dobbiamo vedere soltanto la traccia di una differenza, ma il gioco topologico delle commessure e delle articolazioni ( crvvci�t.Eç ), il cui modello ab­ biamo cercato di delineare nell'a.I\loç apotropaico della Sfinge, nella malinconica profondità dell'emblema, nella Verleugnung del feticista. Nel linguaggio aurorale del pensiero greco, questa «articola­ zione» della presenza prende il nome di cipµo\llcx.. Intorno alla radice indoeuropea di questa parola si dispone una costellazione di termini che fa segno verso una nozione cardinale dell'universo dei popoli indoeuropei: quello dell'ordine giusto che regola il ritmo dell'universo, dal movimento degli astri, al succedersi delle stagioni, ai rapporti fra gli uomini e gli dei'. Quel che qui ci in­ teressa è però meno la centralità di questo concetto, quanto che l'idea di «ordine giusto» si presenti fin dall'inizio della specula­ zione greca come un articolare, un accordare, un commettere ( cip­ µ6sw, &.pcx.plcrxw, significano in origine 'congiungere', 'connet­ tere' come fa il falegname) che il «gioiello» perfetto del cosmo implichi cioè per i Greci l'idea di una lacerazione che è, insie1

,

1 Questa costellazione di termini, che deriva dalla radice ar-, comprende, fra l'altro, vedico rta, iranico arta, latino ars, ritus. artus, greco à.paplcrxw (dr. E. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris 1969, voi. II, p. 101; trad. it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino 1976, voi. II, pp. 357-58). 2 Cfr. L. SPITZER, Classica{ and Christian I deas o f World H armony, Baltimora 1963; trad. it. L'armonia del mondo, Bologna 1967, p. 188.

La barriera e la piega

189

me, una sutura, di una tensione che è, insieme; un'articolazione di una differenza che è, insieme, unità. È a questa articolazione «bellissima» e «invisibile» che Eraclito allude nei frammenti' in cui &.pµo\llcx. non è semplicemente l'armonia nel senso che ci è familiare, ma il nome del principio stesso della stazione «giusta» nella presenza. Che questa articolazione, che, per Eraclito, appar­ tiene ancora alla sfera tattile-visiva, sia poi trasferita nella sfera numerico-acustica, testimonia di una svolta nel pensiero occiden­ tale, in cui tuttavia è ancora possibile cogliere la solidarietà fra articolazione metafisica e significare, nel passaggio dall'aspetto visivo del linguaggio a quello acustico. Solo quando saremo giunti in.prossimità di questa «articola­ zione invisibile», potremo dire di essere entrati in una zona a par­ tire dalla quale il passo - indietro - al di là della metafisica, che governa l'interpretazione del segno nel pensiero occidentale, di­ venta veramente possibile.!Che cosa sarebbe una presenza resti­ tuita alla semplicità di questa «armonia invisibile», che, nella possibile comunità ritrovata di pensiero e poesia, sembra appena accennare da un quadro di Cézanne all'ultimo filosofo occiden­ 2 tale , forse possiamo per ora soltanto presentire. Fedeli in que­ sto all'intenzione apotropaica, il cui significare era apparso al­ l'aurora del pensiero greco come un dire che non fosse né un rac­ cogliere né un nascondere, noi non possiamo che avvicinarci a qualcosa che deve, per ora, rimanere a distanza. ' Fr. 8, 51, 54. ' «Nell'opera tarda del pittore è la piega I di ciò che viene alla presenza e della pre­ senza stessa I diventata semplice, «realizzata», guarita, I trasfigurata in un'identità pie­ na di mistero. I Si apre qui un sentiero, che conduce alla co- I appartenenza della poesia e del pensiero?» (M. HEIDEGGER, Cézanne, in Gedachtes, in RENÉ CHAR, L' Herne, Paris 1971).

Nota Il saggio J fantasmi di Eros è apparso, in una versione piu hreve, su «Paragone» ( aprile I 974 ). Il nucleo originario di Nel mondo di Odradek è stato pubblicato col titolo Il dandy e il feticcio su « Ulisse» (febbraio 1972). La parola e il fantasma e L'immagine perversa vengono qui pubblicati per la prima voita. L'autore ringrazia Frances Yates del Warburg lnstitute di Londra, alla cui cortesia deve di aver potuto lavorare nella biblioteca dell'Istituto. Rin­ grazia inoltre i conservatori della Bibliothèque Nationale di Parigi e il pro­ fessor Traini, del fondo Caetani della biblioteca dell'Accademia Nazionale dei Lincei.

Indice dei nomi

Abbas, P.,169 n,170. Abraham,K.,24, 25, 27. Agamben,G., 131 n. Agostino Aurelio, santo, 13 n, 90, 102 n, 142. Agrippa, C., 34 n. Alberti,R .,31. Alberto Magno,santo,30, 9 2 n,93, 105 n, u9 n,148, 149 e n. Alchero di Chiaravalle, 29, u6, 117 n, n9 e n. Alcuino di York, n n, 13 n, 20. Alessandro di Afrodisia, ro2 n, 123, 124 n. Alfredo di Sareshel, detto Alfredo Angli­ co, 112. Alfredo l'Inglese, vedi Alfredo di Sare­ shel,detto Alfredo Anglico. 'Ali ibn 'Abbas al-Magiusi, vedi Haly Abbas. Althusser,L.,48. Amico di Dante, 99 n. Ammirato, S., 178 n. Andrea Cappellano, 30,96 e n,153 n. Antiferonte di Orea,88 n. Appel, C.,7 4 n. Apuleio, 141 e n, 142 e n. Ariès,P., 68. Aristotele, xv, 15 n, 16 e n, 20, 31, B, 82, 85, 87-89, 94, 95, ro3, ro6, ro7, 128, 138,147, 148, 165,187 n. Arnaldo da Villanova, 21 n, 131 n, 133 n, 134 n,135 e n, 136 n, 138. Averroè,90 e n, 91, 94, 9 5 e n, 98, rno-3, 126 n. Avicenna, 90-92, 103, 104, II3 e n, 121, 122,133. Babb, L.,16 n. Bacone,R., 93.

Bally, C.,181 n. Barberino, Francesco da,93,143. Barbey d'Aurevilly,J.-A.,59. Bataille,G.,63. Battaglia,S.,96 n. Baudelaire, C., 7 n, 9 n, 16 n, 49-54, 56, 58-61,66. Benjamin,W.,XI,8 n,46,53,159 e n. Benn,G.,60,63. Benveniste, E., 173 n, 182 e n, 183 n, 186 n, 188 n. Bernardo Gordonio, 131,133,135. Bernart de Ventadorn,74 e n, 75 n, 99 n. Bernart Marti,153 n. Bertran de Born,80,92 n. Binet, A., 42, 65. Boezio, S., 148, 149. Ilonelli,R.,43. Bonnat, L.,48. Bosch, H., 5 n, 49, 52,53,61. Brosses, C. de,42,43, 65. Brown,N.,63. Brueghel, P.,detto il Vecchio, 5 n. Brummell, G. B., detto Beau Brummell, 55-64. Bruno,G., 130 e n. Bulwer-Lytton,E. G. Lytton,conte di, 62. Burckardt,C., 113 n. Byron, G. G., Lord, 62. Calcidio,85 n,113 n,140, 142, 150 n. Camproux, C.,152 n. Cartesio (René Descartes),119. Cassiano,G.,5 n,7 n. Cavalcanti, G., 74 n, 93, 96, 101 e n, rr2 n,118,122-26, 135,150 e n, 151 n. Cecco d'Ascoli, F. Stabili, detto, 99 n, u9 e n. Celan, P.,43,60.

Indice dei nomi Cézanne,P.,137,189. Chaucer,G.,131 n. Chladni,E.,179. Cino da Pistoia,99 n,150,151 n. Clemente di Alessandria,152 n. Coleridge,S. T.,16 n,92 n. Condivi, A.,40,43. Contini,G.,81 n. Corbin,H.,102 n. Costa ben Luca,111,112,114. Costantino Africano,19,21,111,114,133 n. Courbet,G.,48. Crespi, A.,99 n. Creuzer,F.,171. Crisippo,107. Dante Alighieri,11 n, 81, 82,90 e n, 98 n, 103,105, 110 e n,112,113 n,118,121, 122,124 n,126,134,147,149,150,151 n,153. Daudet,L.,8 n,53. Davanzati,C.,97 n. Democrito di Abdera,16 n. De Quincey,T .,16 n. Derrida, J.,187 n. Des Places,E.,109 n,143 n. Di Benedetto,L.,7 4 n. Dino del Garbo,93. Diocle di Caristo,107. Diogene Laerzio,142 e n. Dodds,E. R.,109 n,139 n. Donne, J.,16 n. Dorn,G.,13 n. Diirer, A.,16 n,22 n,33. Engler,R.,181 n,182. Enrico di Gand,22. Eraclito di Efeso,16 n,165 e n,189. Erasistrato,107. Ernout,A.,43. Ernst,M.,61. Favati,G.,101 n. Fénéon,F.,xr. Ficino, M., 17 e n, 21, 22 e n, 23 n, 30, 122,139 n,141 n,144 n. Filita,xn. Flaubert,G.,8 n. Fleming, J.,76 n,99 n. Fourier,F.-M.-C.,42,53. Fraenger,W.,53. Freud, S., IO n, 24-27, 28, 29, 32, 33, 39, 41,42,44,61,65,90,172-75,178.

Galeno, C., 90 n, 91, 94 e n,107 e n,113 n,128,150. Gaucelm,F.,7 4. Gauguin,P., 48. Gautier,T.,7 n,61. Gerson,J.,126. Giacomo da Lentini,80,82,94. Giamblico,109 e n,139 e n. Giehlow, K.,17 ,n,168. Gilpin,W.,40. Giotto di Bandone,5 n. Giovanni Climaco,santo,5 n,13. Giovanni di Salisbury,112 n. Giovio,P .,169 n. Girolamo,santo,18 n. Gombrich,E. H.,131 n,159 n,170 e n. Grandville,pseudonimo di J.-I.-I. Gérard, 52,53,55,56,61,171. Gregorio I,papa, santo,detto Magno,5 n, 7 n. Guglielmo d' Auvergne,10 n,19 e n. Guglielmo di Conches,93. Guglielmo di Saint-Thierry, 114 e n, 115, 151. Guido delle Colonne,154 n. Guillaume de Lorris, 74 n, 76 n, 77 n,78 n. Guittone d'Arezzo,152 n. Guys,C.,54. Haly Abbas,21,111,133 n. Harvey,W.,119. Hazlitt,W .,62. Hegel,G. W. F.,xn,51,106,160 e n,162164,171 e n,172 n. Heidegger,M., 9, 187 n. Henry,A.,176 n. Herder, J. G.,168. Hildegard von Bingen,19,20. Hoffmann,E. T. A.,61,171. Holder!in,F.,xrv. Hugo de Folieto, 19 n. Hulewicz,W. von,44, 47. Huysmans,K. J.,16 n. Hyppolite, J.,175 e n. Ierocle,detto il Neoplatonico,139 e n. Ipazia,111. Ippocrate,18 n ,9on,107 n,139 n. Isacco di Stella,102 n,116. Isidoro di Siviglia,santo, 7 n. Jacopone da Benevento,11. Jaeger,W.,107.

Indice dei nomi Jakobson,R., 176 n. Javelet, R., 102 n, 171 n. Jean de la Rochelle, 93, 134 n. Jean de Meung, 73-77, 78 n, 154. Jonas di Orleans, 13 n. Jones,E., 174. Kafka, F., 12,60,171. Kerényi, K., 69, 152 n, 164 n. Kierkegaard, S.,10,159 n. Klee, P., 60. Klein, R., 34 n, 105 n, 121, 159 n. Kleist, H., 60. Klibansky, R., 15 n, 85. Kohler, E., 99 n. Krafft-Ebing, R. von,43. Kraus, K.,43. Kris, E., 170 e n. Kristeller, P. O., 126 n. Lacan, J., 86 n, 151 n, 162 n, 173 n, 175 n, 176 n. Lane, E. W., 152 n. Langfors, 98 n. Lautréamont,le Comte de, pseudonimo di I. Ducasse, 60. Lavater, J. K., 171. Lecoy, F.,7 4 n. Leiris, M.,7 n. Leopardi, G., 5 n. Lewis, C. S., 98 n. Liccaro, V., 114 n. Limentani, A., 80 n. Lorenzo de' Medici, granduca di Toscana, detto il Magnifico, 17. Lowes, J. L., 131 n, 138. Lullo, R.,detto Doctor Illuminatus,30. Maestro di San Martino, 144 n. Mallarmé, S., 41, 60, 63, 154. Manet, E., 48. Marce!,R., 17 n, 22 n. Marot, C.,73. Marrou, H. I., II I n. Marx, H. K., 44-47, 50, 56, 57, 62, 63, 65. Matisse, H., 60. Maupassant, G. de, 48. Mauss, M.,57, 58. Meillet, A., 43, 182 n, 183. Meissonier,E.,48. Melantone,F., 22 n. Menestrier, C. F., 169 n. Mercuriale, G., 30. Merker, N., 160 n.

197

Merrifield,47. Michaud, P ., 134 n. Michelangelo Buonarroti, 16 n,40. Minkowski, E., 53. Montale, E., 60. Moreau, G., 9 n. Mostacci, J., 82. Musi!, R., xvr. Napoleone I Bonaparte, imperatore dei francesi, 62. Nardi, B., 101 n, 131 n. Nemesio,113 n. Nerval, G. de, pseudonimo di G. Labrunie, 16 n. Nietzsche, F., 179 e n, 182. Nilo,santo, 6 n. Novalis, pseudonimo di F. L. von Hardenberg, xn,40. Obrist, H., 61. Onorio di Autun, 93 n. Orapollo Niloo, 34 n, 153 n,168. Oribasio, 138. Origene, 122. Ortega y Gasset,J.,41, 43,64. Ovidio Nasone,P., 73-75, 97 n. Ozils de Cadars, 98 n. Panofsky, E., 12 n, 15 n, 17 n, 18, 22, 33 n, 34 n, 143 e n. Pascasio Radberto, santo, 11 . Paxton,J.,46,47. Petrarca, F., 154. Philippon, C., 178. Pieper, 9 n. Pier della Vigna, 82. Pietro Lombardo,144 n, 171 n. Pitagora, 139, 142. Platone, XIII, XVI, II n, 85 e n, 86, 97, I 37, 140, 187 n. Plotino, 96 n. Plutarco, 119 n, 142 e n, 143. Poe, E. A., 52, 63, 171. Poliziano, A.,124 n. Pontormo, I. Carrucci,detto il, 16 n. Porfirio di Tiro,108,109, 122, 141. Praz, M., 159 n. Proclo di Costantinopoli, 109 n, 139 e n, 143,144 n. Proust, M., 85, 100. Psello, M., 141 e n,142. Pseudo-Dionigi l'Areopagita, 167, 168 e n.

Indice dei nomi Renart, J., 79,80 e n,82. Restif de la Bretonne,N.-E., 75. Ricardus Anglicus, 93. Riccardo di San Vittore, 99 n. Rilke,R. M., 44, 47, 55, 66,67. Rimbaud, J.-A.,59, 60. Rohde, E., 6 n, 139 n. Rosolato,G., 43. Runge, L., 99 n. Ruskin, J., 48. Sanpaolesi, P., 43. Saussure, F. de, 162, 181-85. Sax!, F., 12 n, 15 n, 17 n, 18, 33 n, 34 n. Schelling, F. W., 172. Schlegel,A. W. von,x11. Schlegel, F. von, Xli, 40,63. Sechehaye, A., 181 n. Shaw, J. E., 101 n. Sinesio di Cirene, 29, 99 n, 109-II, 121, 122. Smirnoff,V.N.,43. Solger,K. W. F.,Xli, 63. Spengler, O.,84 n, 85 n. Spitzer, L., 154 e n, 188 n. Stazio, P. P., 122. Stobeo, G., 142 n. Strindberg, J. A., 16 n. Tanfani, G.,30 n. Tenniel,J.,171. Tesauro,E.,169 e n, 179. Tommaso d'Aquino, santo, 7 n, 10, 1 1, 93, 101, 102 e n, u9 n, 126 n, 167 e n. Tzara,T.,63. Ugo di San Vittore, 18, 19, 90, u4 n, u5, I 16, 128, 1 51, 168. Valesco di Taranta, 134. VanRiet,91 n. Vasari, G.,40,43. Verbeke, G., 105 n. Vincenzo di Beauvais,2 1. Vitale,G.,105 n. Walker, D. P .,144 n. Warburg, A., Xlii, 17 n, 22 n, 76 n, 85, 131 e n, 136,137, 159 e n. Warnum,47. Watteau,A., 137. Werner, H., 43. Wilamowitz-Moellendorf, U. von,69. Winckelmann,J. J ., 49.

Wind, E., 18 n,43. Winnicott, D. W.,68, 69. Wittkower,R., 18 n. Zenone di Cizio, 107. Zola, E., 48.

Finito di stampare il 30 aprile I977 per conto della Giulio Einaudi editore s. p. a. presso le Industrie Grafiche G. Zeppegno & C. s. a. s., Torino C. L. 4720-9