Il canto dell'esule-La parola nella poesia

Nella lirica del poeta tedesco Georg Trakl (1887-1914) traspare un senso inatteso di quel mondo che chiamiamo "occi

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Italian Pages 386 Year 2003

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Il canto dell'esule-La parola nella poesia

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Georg Trakl

Il canto dell’esule

Martin Heidegger

La parola nella poesia

a cura di Gino Zaccaria con Ivo De Gennaro

CHRISTIAN

MARINOTTI

EDIZIONI

Il testo tedesco a fronte delle poesie di G. Trakl e` la copia anastatica riprodotta da «Die Dichtungen», Otto Mu¨ller Verlag, Salzburg 1938.

Il testo tedesco a fronte del saggio di M. Heidegger «Die Sprache im Gedicht», e` la copia anastatica riprodotta da Unterwegs zur Sprache, Verlag Gu¨nther Neske, 1959. #

J.G. Cotta’sche Buchhandlung Nachfolger GmbH Stuttgart Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A.

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2003 Christian Marinotti Edizioni s.r.l. Milano

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I diritti di traduzione, di adattamento totale o parziale, di riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm, i film, le fotocopie), nonche´ di memorizzazione elettronica, sono riservati per tutti i Paesi.

Christian Marinotti Edizioni s.r.l. Via Alberto da Giussano, 8 - 20135 Milano Tel. 02 481.34.34 - Fax 02 481.33.10 www.marinotti.com; e-mail: [email protected]

PREMESSA

Nel saggio Die Sprache im Gedicht – pubblicato nel n. 61 (1953) della rivista «Merkur» e ripreso, nel 1959, dall’editore Gu¨nther Neske nel volume Unterwegs zur Sprache * –, Martin Heidegger (tempratosi nel lungo colloquio con Ho¨lderlin) tenta una Ero¨rterung, una puntualizzazione, del Gedicht – ovvero, secondo la nostra interpretazione, del «dettato d’origine» – di Georg Trakl, basandosi, come egli stesso avverte, «solo su una scelta di qualche strofa, di qualche verso e di qualche frase» del poeta di Salisburgo. Tale scelta, aggiunge Heidegger, e` retta dal «proposito di trasporre la nostra attenzione, quasi come attraverso un balzo del colpo d’occhio, all’Ort, cioe` al punto ortivo, del dettato d’origine» (infra, p. 287). Le Dichtungen da cui Heidegger trasceglie i passi e le parole della sua puntualizzazione sono cinquanta fra le centododici della raccolta che egli ha con se´. ** In tal modo, il pensatore compone una raccolta nella raccolta, ossia – per darle un nome consono alla natura del suddetto proposito – una silloge ortiva. Ciascuna Dichtung si trovera` ora eletta nella figurale luce d’origine di un suo detto (strofa, verso, frase, parola). Parliamo di «figurale luce d’origine» perche´, nella puntualizzazione, il detto diviene udibile grazie a una delucidazione che, illuminandone i tratti e le note, lo fa risplendere e parlare come una genuina figura poetica, vale a dire: come una raffigurazione ormai capace – giacche´ fa balzare ogni volta il colpo d’occhio al punto ortivo – di raffermare quella singola Dichtung entro il tono, la voce e il colore del dettato d’origine, e di lasciarla cosı` cantare, insieme alle altre Dichtungen (comprese quelle non accolte nella silloge), nell’inesausto verso di quest’ultimo. Nella silloge ortiva tutto e` diverso. L’anima non fugge piu` la terra, ma la cerca. Il tramonto non e` un occaso, ma il crepuscolo del ponente verso il crepuscolo del levante. La morte dell’anima non e` la fine nel niente, ma l’abbandono della vecchia forma dell’uomo. L’esule e` il dissennato, ma non il folle o il malato di mente – ed e` il morto e il trapassato, ma non l’estinto o il deceduto. La progenie umana invecchia, e disperde la propria tempra, ma protegge in se´ l’indole che la rigenera. Il tempo non e` piu` lo scadere degli attimi, ma l’istante che guida e concede. Il Geist *

Il libro e` noto al pubblico italiano con il titolo In cammino verso il linguaggio, edito nel 1973 da Mursia, a cura, e nella ponderata traduzione, di Alberto Caracciolo e Maria Caracciolo Perotti. ** Per i riferimenti bibliografici, si veda l’Avvertenza qui di seguito.

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Premessa

non e` piu` lo spirito, ma la «cocente fiamma». Il dolore non e` piu` il mero addolorarsi, ma l’offerta del piu` ampio osservare. Il male resta il male, ma e` tramutato. Dio non e` piu` muto ne´ annichilito, ma parla al cuore stesso dell’uomo. Il poetare e` ora semplicemente il canto dell’esule, e il pensare impara a venirgli incontro e in aiuto, senza disturbare il suo «salubre tono». L’Abendland non e` piu` l’Occidente della devastazione, ma la terra della sera – l’Esperia – verso il mattino. Con Trakl: «Occhio d’oro dell’inizio, oscura pazienza della fine». Questo libro offre ai pensanti la traduzione, con i testi originali a fronte, della silloge ortiva e della puntualizzazione, ovvero: dell’intimo colloquio del pensatore con il poeta. Ogni parola, ogni frase, ogni verso, ogni strofa di Trakl sono stati tradotti mantenendo la nostra lingua madre fermamente rivolta al punto ortivo del dettato d’origine. Ogni passo della Ero¨rterung di Heidegger e` stato tradotto guardando sempre all’intraducibile maniera in cui il pensiero – nel colloquio con la poesia – ottiene il tratto e la nota per stagliare la figura poetica e giungere cosı` all’ascolto. Tradurre, qui, non vuol dire mai sostituirsi all’originale, ma tentare di intonarsi con lo splendore estraneo mediante una luce familiare. Che tale luce arrivi da se´ all’inaudito e all’intimo e non si spenga nell’usuale e nell’apparente – a questo si affida, con i suoi errori e le sue insufficienze, il nostro tradurre, e in questo scompare. Ma i pensanti... dove sono? chi sono? – Per chi scrive Heidegger? Rispondiamo con le parole di Jean Beaufret, che troviamo a p. 39 di Acheminement vers la parole e che introducono la traduzione del saggio Die Sprache im Gedicht * – da lui compiuta con Wolfgang Brokmeier: «Una sola parola relativa a un sicuro malinteso. La Ero¨rterung – che cio` che segue tenta di evocare – si colloca nell’universo poetico di Trakl, attraversandolo in direzione di un elemento completamente diverso da cio` che colgono – superandosi a vicenda – la critica letteraria, la fruizione estetica e la riflessione metafisica. E` dunque pienamente legittimo che lo storico della letteratura, l’amante della poesia e il filosofo rimangano energicamente chiusi nei confronti dell’ascolto qui proposto. E` addirittura naturale che sia cosı`. Ma allora Heidegger per chi scrive? Per chi, inattualmente ritratto dalla res publica della cultura, e tuttavia ben radicato nell’eredita` della tradizione, se pure continua – come dice Eraclito – a cercarsi, esiste malgrado tutto, o piuttosto ek-siste, e in tal modo non esiste affatto. Diciamo che le pagine che seguono sono, letteralmente, ‘‘per tutti e per nessuno’’». GINO ZACCARIA *

Si veda AP in Bibliografia, infra, p. 381 sg.

AVVERTENZA E RINGRAZIAMENTI

La traduzione delle poesie di Georg Trakl e` stata eseguita sull’edizione in possesso di Heidegger, ossia sul primo («Die Dichtungen») dei tre volumi dei Gesammelte Werke (indicati anche come Gesamtausgabe, a cura di W. Schneditz, Otto Mu¨ller Verlag, Salzburg, 1938-1949) – volume che riprende l’edizione curata da Karl Ro¨ck e pubblicata nel 1917 dall’editore Kurt Wolff di Lipsia. L’ordine in cui le Dichtungen appaiono nella silloge, qui di seguito pubblicata, e` quello ricavato dall’ordine in cui queste ultime sono citate – in una loro strofa, o verso, o frase – nel saggio Die Sprache im Gedicht. La traduzione del saggio di Heidegger e` stata condotta sul testo dell’edizione Neske, accolto poi come versione definitiva * nel volume 12 della Gesamtausgabe (a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a. M. 1985, pp. 35-82). Nel testo italiano, le dizioni e le espressioni contenute fra parentesi quadre [] devono essere intese come sinonimi dei termini precedenti, mentre le espressioni o le frasi contenute fra parentesi acute costituiscono, a seconda dei casi, delle necessarie integrazioni, delle aggiunte esplicative, o delle indispensabili annotazioni sullo stesso tradurre. In alcuni brevi brani, per restare fedeli alla cosa stessa e al suo fenomeno – come il Lettore comprendera` studiando il testo tedesco –, la nostra traduzione ha dovuto discostarsi dalla letteralita` dell’originale e seguire una sua via. Le Note di traduzione (corredate di una Bibliografia) si limitano a delucidare solo alcune fra le rese delle dizioni guida della Ero¨rterung; un particolare accento va posto sulle traduzioni (ottenute tramite dei neologismi) delle dizioni das Ungeborene e Geist (note 11 e 14). – La lettura della traduzione trovera` un sicuro aiuto nello studio del testo di Heidegger L’origine dell’opera d’arte (Marinotti Edizioni, Milano 2000). In riferimento al quadro interpretativo generale, puo` essere utile consultare i miei due volumi: L’inizio greco del pensiero (Marinotti Edizioni, Milano 1999) e Ho¨lderlin e il tempo di poverta` (Ibis, Pavia 2000). * * * * L’unica variante si trova a p. 42 di HGA Bd 12, dove invece di «... d.h. verwest» (si veda ed. Neske, p. 46) leggiamo «... d.h. er verwest». Tale variante e` stata poi accolta nell’ed. Neske a partire dall’undicesima ristampa (si veda infra, p. 300).

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Avvertenza e ringraziamenti

Sono grato al dr Hermann Heidegger, che ha voluto concedere la pubblicazione separata del saggio Die Sprache im Gedicht. Ringrazio Dieter Harlos, per gli illuminanti colloqui, avvenuti ormai tanti anni fa, sul poeta e sulla sua poesia – e Kurt Strasser, per le lunghe, e anch’esse lontane nel tempo, passeggiate trakliane a Salisburgo, sul Mo¨nchsberg e ad Anif. Ringrazio inoltre Maurizio Borghi e Anna Bacigalupo, i quali hanno letto l’intero manoscritto della traduzione, e sono stati prodighi di suggerimenti e consigli. Un ringraziamento, infine, a Ivo De Gennaro: senza il suo aiuto, il suo sostegno, e soprattutto il suo occhio, questo libro non avrebbe mai potuto vedere la luce. G.Z.

GEORG TRAKL

IL CANTO DELL’ESULE

Ge or g T ra kl

Nacque il 3 febbraio 1887 a Salisburgo, quarto dei sei figli di Tobias Trakl (che aveva un negozio di ferramenta) e della sua seconda moglie Maria, nata Halik. Trascorse infanzia e gioventu` nella sua citta` natale. Frequento` il ginnasio, ma fu bocciato in sesta classe; cosı` suo padre lo destino` alla carriera di farmacista. Dopo aver svolto un praticantato di tre anni, studio` farmacia a Vienna e divenne Magister; quindi si arruolo` come farmacista militare. Dal maggio 1912 all’agosto 1914, visse per lo piu` a Innsbruck. Durante i primi sei mesi fu Medicamentenakzessist nell’ospedale della guarnigione. Ritenendo di non essere capace di sostenere a lungo la fatica di tale servizio, ottenne di essere messo in riserva. Nel gennaio del 1913, prese servizio come scrivano in un ministero viennese; ma vi resistette solo per tre giorni. Torno` quindi a Innsbruck. Per altre due volte – nel luglio e nel tardo autunno dello stesso anno – tento` di stabilirsi a Vienna, ma invano. Ogni volta torno` in Tirolo come un profugo. Qui trovo` infine un tetto – e una protezione da ogni preoccupazione materiale e quotidiana – a Mu¨hlau, presso Ludwig von Ficker, l’editore della rivista Der Brenner. Rimase a casa di von Ficker, con brevi interruzioni, fino allo scoppio della guerra. Nello stesso anno (1913), durante la primavera, soggiorno` sulla Hohenburg a Igls, e fu ogni tanto di passaggio a Salisburgo. Brevi viaggi, resi possibili dagli amici, lo portarono a Vienna, a Berlino e sul Lago di Garda. Alla fine di agosto del 1914, partı` per la guerra, e fu in Galizia, nel suo vecchio rango di tenente, come Medicamentenakzessist al seguito di una colonna sanitaria di Innsbruck. Dopo la battaglia di Grodek, dovette assistere, da solo, in un fienile, novanta feriti gravi senza essere in grado di aiutarli. Preso da somma disperazione, tento` di suicidarsi; i suoi compagni gli tolsero l’arma di mano appena in tempo. Si calmo` e, senza segni esteriori di agitazione, riprese ad assolvere il suo compito. Dopo qualche settimana, fu improvvisamente trasferito nell’ospedale militare di Cracovia. Era convinto che vi avrebbe dovuto prestare servizio come farmacista. Ma – con suo spavento – fu ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale al fine di porre sotto osservazione il suo stato mentale. Lı` morı` all’eta` di ventisette anni, nella notte fra il 3 e il 4 novembre del 1914, forse per una dose eccessiva di veleno, che probabilmente assunse la sera del 2 novembre; non e` possibile decidere se cio` avvenne per un’espressa intenzione suicida, visto che si trattava di un consumatore abituale di droga. Al suo funerale non era presente nessuno, tranne il suo fedele

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attendente, il minatore Matthias Roth di Hallstatt. Nell’autunno del 1925, le spoglie del poeta furono traslate in Tirolo, e seppellite, per l’ultimo riposo, nel cimitero del comune di Mu¨hlau presso Innsbruck. a

La simultanea attenzione al dettato d’origine di Georg Trakl e alla puntualizzazione heideggeriana del suo punto ortivo ha imposto di tradurre in piu` di una versione (integrale o parziale) quasi ogni componimento della silloge. Abbreviazioni: p.t. = prima (versione della) traduzione; s.t. = seconda (versione della) traduzione; t.t. = terza (versione della) traduzione.

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Da: TGA, Bd 1, p. 5.

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PRIMAVERA DELL’ANIMA (p. t.) Un improvviso grido nel sonno; attraverso neri vicoli tese folate di vento, L’azzurro della primavera da` un cenno nella trama dei rami che si spezzano, Purpurea rugiada notturna e si spengono intorno le stelle. S’increpuscola di verdognolo il fiume, d’argento gli antichi viali E le torri della citta`. O mite ebbrezza Nella barca che scivola via e gli oscuri richiami del merlo Nei giardini d’ingenuita`. Ma gia` si allevia il roseo velo. Maestose scrosciano le acque. Oh, le umide ombre del prato, L’animale che si muove lentamente; l’intreccio, verdeggiante, dei rami fioriti Tocca la fronte cristallina; scintillante dondolio di una barca. Lieve risuona il sole fra le nuvole rosa, sulla collina. Grande e` la silente fermezza del bosco di abeti, le gravi ombre sul fiume. Purezza! Purezza! Dove sono i terribili sentieri della morte, Del grigio tacere di pietra? Dove sono le rupi della notte E le ombre senza pace? Raggiante abisso di sole.

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Sorella – oh – trovarti nel solitario chiaro Del bosco ed era mezzogiorno e grande il tacere dell’animale; Bianca sotto una ferina quercia, ed ecco fiorı`, argentea, la spina. Vigoroso morire e, nel cuore, la fiamma che canta. Piu` oscure scorrono intorno le acque fra i nitidi giochi dei pesci. Ore del lutto, tacita occhiata del sole; Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra. Sacrigenamente s’increpuscola Azzurrita` sopra il bosco colpito e squilla A lungo, nel villaggio, un’oscura campana; scorta pacifica. Fermo, silente fiorisce il mirto sulle bianche palpebre del morto. Lievi risuonano le acque nel pomeriggio che affonda, E in fiore verdeggia piu` scura la ferina selva sulla riva, gioia nel roseo vento; Il mite canto del fratello sulla collina della sera.

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PRIMAVERA DELL’ANIMA (s. t.)

... e intorno si fanno scure le stelle. Si leva in un verde chiarobruno il fiume, d’argento gli antichi viali E le torri della citta`. O mite ebbrezza

Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra. Sacrigenamente si leva in chiarobruno Azzurrita` sopra il bosco abbattuto e squilla...

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SEBASTIANO NEL SOGNO Per Adolf Loos (p. t.) adre reco` con se´ l’ingenuo piccolino sotto la candida [luna, All’ombra del noce, dell’antichissimo sambuco, Ebbra del succo di papavero, del lamento del tordo; E fermo, silente, Si chino` su quella, colmo di compassione, un volto barbuto

M

Lievemente nell’oscuro della finestra; e vecchie suppellettili Dei padri Giacevano in rovina; amori e autunnali sognanti pensieri. Cosı` oscuro il giorno dell’anno, triste ingenuita`, Quando il fanciullo lievemente scese verso fresche acque, pesci d’argento, Quiete e volto; E si lancio`, impietrito, contro furiosi neri cavalli, E nella grigia notte la sua stella gli venne addosso; Oppure quando, tenendosi alla gelida mano della madre, Di sera attraverso` l’autunnale cimitero di San Pietro, Un tenero corpo giaceva, fermo, nell’oscuro della stanzetta, E quello aprı` verso di lui le fredde palpebre. Ma lui era un uccellino fra i rami spogli, La campana suono` nel novembre della sera, La silente fermezza del padre, quando, nel sonno, scese per la crepuscolare scala a chiocciola.

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P

ace dell’anima. Solitaria sera d’inverno, Le scure forme dei pastori al vecchio stagno; Ingenuo piccoletto nella capanna di paglia; oh, come lievemente Il viso si chino` in nera febbre. Salubre notte. Oppure quando, tenendosi alla dura mano del padre, Egli, silente, salı` su per il buio Monte Calvario, E in crepuscolari nicchie di roccia L’azzurra forma dell’uomo attraverso` la sua leggenda, Dalla ferita sotto il cuore, purpureo il sangue gocciolava. Oh, come lievemente si sollevo` nell’oscura anima la Croce. Amore; quando, in neri angoli, la neve si sciolse, Un’azzurra arietta si impiglio` limpidamente nell’antico sambuco, Nella volta d’ombra del noce; E al fanciullo apparve, lievemente, il suo roseo angelo. Gioia; quando in fresche stanze si udı` una sonata serale, Fra le travi marroni Una farfalla azzurra si levo` di sboccio dall’argentea crisalide. Oh, la vicinanza della morte. In muro di pietra, Si chino` una testa bionda mentre l’ingenuo taceva, Quando, in quel marzo, la luna cadde in rovina.

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L

ieta campana di Pasqua sotto la tombale volta della notte E le argentee voci delle stelle, Tanto che, tra i brividi, un’oscura dissennatezza rovino` dalla fronte del dormiente. Oh, un seguire, a passi fermi, in silenzio, la corrente dell’azzurro fiume, Sentendo un’indole dimenticata, quando, dalla trama verdefiorita dei rami, Il tordo chiamo` al tramonto un’indole estranea. Oppure quando, tenendosi all’ossuta mano del vecchio, Ando` di sera lungo le mura in rovina della citta`, E quello, in un nero cappotto, porto` un ingenuo roseo piccoletto, All’ombra del noce apparve il sacrigenio del male. Andare alla cieca su per i verdi gradini dell’estate. Oh, come lievemente Intristiva a il giardino nella scura silente fermezza dell’autunno, Profumo e gravezza del vecchio sambuco, Quando nell’ombra di Sebastiano si lascio` morire l’argentea voce dell’angelo.

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verlief emendato in verfiel: «andava in rovina», «intristiva». [NdC]

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SEBASTIANO NEL SOGNO (s.t.)

Oh, com’e` ferma e silente una passeggiata lungo l’azzurro fiume Sentendo un’indole dimenticata, ora che nei rami verdefioriti Il tordo un’indole estranea chiamo` nel ponente.

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RISCHIARATO a AUTUNNO (p.t.) Vigorosamente finisce cosı` l’anno Con vino d’oro e frutta dei giardini. Tacciono intorno, magnifici, i boschi, E sono compagni del solitario. E il contadino dice: tutto questo e` buono. Voi, campane della sera, a lungo e lievemente, Ancora, nella fine, infondete un lieto animo. Uno stormo di migratori saluta dal viaggio. E` il dolce tempo dell’amore. Nella barca, giu` lungo l’azzurro fiume, Come e` nitido il susseguirsi delle figure – Tutto questo tramonta in quiete e tacere.

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«Rischiarato»: che ha assunto la tempra del trasfigurante rischiaramento.

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RISCHIARATO AUTUNNO (s.t.) Finisce l’anno in un grande vigore Con frutta dei giardini e vino d’oro. I boschi intorno, tacito splendore, Sono compagni di colui che e` solo. Al contadino tutto e` benvenuto. Da voi, campane delle tarde ore, Nella fine, giunge, lieto, il favore. Da uccelli in viaggio viene un saluto. E` la dolce stagione dell’amore. Oh come, in barca lungo il fiume blu, Scorre in ogni figura il nitore – E tutto, tacito e in quiete, va giu`.

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DECLINO DELL’ESTATE (p.t.) La verde estate si e` fatta Cosı` lieve – il tuo cristallino volto. Morirono i fiori dello stagno serale. Un atterrito grido di un merlo. Vana speranza della vita. Gia` si prepara Per il viaggio la rondine nella casa E il sole tramonta la` nella collina; Gia` la notte invita al viaggio con le stelle. Silenzio dei villaggi; profondamente risuonano intorno I boschi abbandonati. Cuore, Chı`nati, adesso, e ascolta con piu` dedizione La quieta dormiente. La verde estate si e` fatta Cosı` lieve, ed ecco squilla il passo Dello straniero nella notte d’argento. Oh – se solo ripensasse un’azzurra fiera al suo sentiero, Al salubre tono dei suoi sacrigeni anni!

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DECLINO DELL’ESTATE (s.t.) La verde estate e` divenuta Cosı` lieve – il tuo volto di cristallo. Sullo stagno della sera morivano i fiori. Spavento nel richiamo di un merlo. Vana speranza del vivere. Gia` si prepara Al viaggio la rondine nella casa E il sole sprofonda dietro la collina; Gia` la notte accenna al viaggio delle stelle. Silente fermezza dei villaggi; ed ecco intorno risuonare immensi I solitari boschi. Cuore, Chı`nati, adesso, piu` amante Sulla tranquilla dormiente. La verde estate e` divenuta Cosı` lieve, ed ecco squillare il passo Dello straniero nell’argentea notte. Ripensi un’azzurra fiera al suo sentiero, Alla tonica cadenza dei suoi anni sacrigeni!

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CANZONE ESPERIDE (p.t.) Oh, il notturno colpo d’ali dell’anima: Un tempo, quando fummo pastori, andammo lungo boschi crepuscolari E la rossa fiera seguı`, il fiore verde e la voce uniforme della sorgente, Colma di umilta`. Oh, l’antichissimo verso del grillo domestico, Sangue che fiorisce sull’altare sacrificale E il grido del solitario uccello sul verde silenzio dello stagno. Oh, voi, crociate e cocenti martirıˆ Della carne, cadere di frutti purpurei Nel giardino serale, dove un tempo sono passati i docili discepoli, Adesso guerrieri nel risveglio da ferite e da sogni stellati. Oh, il mite fascio di cı`ani della notte. Oh, voi, tempi del silenzio e di dorati autunni, Quando, pacifici monaci, pigiammo l’uva purpurea; E intorno sfolgorarono collina e bosco. Oh, voi, cacce e castelli; quiete della sera, Quando l’uomo, nella sua breve dimora, giusta indole sentı`, E lotto`, in muta preghiera, per il vivente capo di Dio.

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Oh, l’amara ora del tramonto, Quando guardiamo un volto di pietra in nere acque. Ma gli amanti, radiosi, sollevano le palpebre d’argento: Un genere. Da cuscini rosa esala incenso E sale il dolce canto dei rigenerati.

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CANZONE ESPERIDE (s.t.)

E la rossa fiera seguı`, il fiore verde e la voce uniforme della sorgente – Colmi di umilta`. ...

... Oh, voi, cacce e castelli; requie della sera, Quando l’uomo, nel suo stambugio, sentı` una retta, giusta indole, E lotto`, nella preghiera priva di parole, per il Dio vivente. Oh, l’aspra ora del ponente, Quando osserviamo un volto di pietra in nere acque. Ma luminosi gli amanti sollevano le argentee palpebre: Un genere, una progenie. Da cuscini rosa esala un incenso E sale il dolce canto dei rigenerati.

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CANZONE ESPERIDE (t.t.) Oh, il notturno colpo d’ali dell’anima: Pastori, andavamo un tempo lungo boschi crepuscolari E seguiva la rossa fiera, il fiore verde e la balbettante sorgente, Colma di umilta`. Oh, il grillo domestico, il suo tono di antichissima origine, Sangue fiorente sull’altare sacrificale E il grido dell’uccello solitario sulla verde silente fermezza dello stagno. Oh, voi, crociate e ardenti martirıˆ Della carne, cadute di frutti purpurei Nel giardino della sera, dove allora passarono i devoti apostoli, Adesso guerrieri, che si risvegliano da ferite e da sogni stellati. Oh, la mite raccolta di ciani della notte. Oh, voi, tempi della silente fermezza e di autunni d’oro, Quando noi, pacifici monaci, abbiamo calcato l’uva purpurea; E intorno sfolgoravano collina e bosco. Oh, voi, cacce e castelli; requie della sera, Quando l’uomo, nella sua piccola camera, sentiva la retta, giusta indole, E, in muta preghiera, per il capo vivente di Dio lottava.

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Il canto dell’esule

Oh, l’aspra ora del ponente, Quando guardiamo un volto impietrito in nere acque. Ma radiosi sollevano le palpebre d’argento gli amanti: Progenie in un riunito genere. Incenso esala da cuscini rosa E il dolce canto dei rigenerati.

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` INGENUITA (p.t.) Carico di frutti il sambuco; quieta abito` l’ingenuita` Nell’azzurra caverna. La ferma, silente trama dei rami Sente su un sentiero trascorso, Dove ora sibila, brunastra, l’erba ferina; il fruscio delle foglie Ricorda lo scrosciare della celeste acqua nella roccia. Mite il lamento del merlo. Un pastore Segue, senza parole, il sole che rotola dal colle autunnale. Anima: nient’altro che un azzurro istante. Ai margini del bosco appare una fiera timorosa e in pace Se ne stanno sullo sfondo le antiche campane e i bui casolari. Piu` docilmente comprendi il senso degli oscuri anni, Fresco e levita` – e autunno in solitarie stanze, E in salubre azzurrita` squillano passi rilucenti. Lieve cigolio di una finestra aperta; commuove Fino alle lacrime l’improvvisa vista del cimitero in rovina ai piedi del colle, Ricordo di leggende narrate; ma l’anima, talvolta, si rischiara, Se pensa agli esseri sereni, all’oscurita` d’oro dei giorni di primavera.

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` INGENUITA (s.t.) Colmo di frutti il sambuco; tranquilla abitava l’ingenuita` In azzurra caverna. Sul sentiero trascorso, Dove ora sibila, brunastra, l’erba ferina, La ferma trama dei rami, in silenzio, sente. Il frusciare del fogliame Una stessa cosa, quando l’acqua azzurra risuona nella roccia. Mite e` il lamento del merlo. Un pastore Segue privo di parola il sole che rotola dalla collina autunnale. Un’azzurra folgore degli occhi: null’altro e` anima. Ai margini del bosco appare una fiera timorosa e in pace Requiano la` in fondo le antiche campane e i casolari bui. Piu` devotamente comprendi il senso degli oscuri anni, Fresco e levita`: cosı` e` l’autunno in stanze solitarie, E in salubre azzurrita` squillano passi rilucenti. Lieve cigola una finestra aperta; fino alle lacrime Commuove l’occhiata del cadente cimitero ai piedi della collina, Ricordo di leggende narrate; ma talvolta l’anima si rischiara d’origine Se pensa uomini sereni, oscurodorati giorni di primavera.

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` INGENUITA (t.t.)

Sul sentiero passato, Dove ora sibila, brunastra, l’erba ferina, – Ferma, la trama dei rami sente. Il frusciare del fogliame Ha la stessa indole della celeste acqua – risonante fra le rocce. Mite e` il gemito del merlo. ...

Un lampo azzurro degli occhi: ecco l’anima!

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QUIETE E TACERE (p.t.) Pastori sotterrarono il sole nel bosco spoglio. Un pescatore, con una rete di crine, Prese la luna da un raggelante stagno. In azzurro cristallo Abita il pallido uomo, la guancia posata sulle sue stelle; Oppure reclina il capo in purpureo sonno. Ma il nero volo degli uccelli sempre commuove Il guardante, cosı` come lo commuove la salubre indole di fiori azzurri, La vicina silente fermezza pensa un’indole dimenticata, angeli spenti. Di nuovo la fronte annotta nel lunare blocco di roccia; Come un raggiante adolescente Appare la sorella in autunno e nera decomposizione.

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Il canto dell’esule

QUIETE E TACERE (s.t.)

Ma il nero volo degli uccelli sempre scuote Il guardante, la salubre indole dei fiori azzurri

La sorella – un radioso adolescente – Sorge e risplende in nera destanziazione d’autunno.

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CANZONE DELLA NOTTE (p.t.) Respiro del non incamminato. Un viso di animale S’irrigidisce dinanzi all’azzurrita` cosı` intensa, alla sua salubrita`. Vigoroso, nella pietra, il tacere. La maschera di un uccello notturno. Mite trı`sono a Si spegne in un solo suono. Elai! Il tuo volto Si china, privo di parola, su acque azzurrine. Oh! Voi, fermi, silenti specchi della verita`. Sulla tempia d’avorio del solitario Appare il fulgido riverbero di angeli caduti.

a

Accordo di terza. [NdC]

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CANZONE DELLA NOTTE (s.t.) Respiro dell’immoto. Vigoroso tacere nella pietra.

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UNA SERA D’INVERNO (p.t.) Quando la neve cade alla finestra, A lungo suona la campana della sera, Per molti la tavola e` pronta E nella casa ogni cosa e` al suo posto. Alcuni, durante il pellegrinaggio, Giungono alla porta per oscuri sentieri. Fiorisce d’oro l’albero della grazia Dalla fresca linfa della terra. Pellegrino entra in silenzio. Dolore pietrifico` la soglia. Sfolgorano qui, in pura chiarita`, Sopra la tavola, pane e vino.

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UNA SERA D’INVERNO (s.t.) Quando alla finestra cade la neve, Per molti la mensa e` apparecchiata, E la casa e` cosı` bene ordinata Nel lungo scampanio delle sere. Durante il pellegrinaggio, oscure Strade portano alcuni fino all’uscio. L’albero della grazia aureo fiorisce Sulla terra di umori e di frescure. Entra fermo – silente – un pellegrino. Soglia pietrificata dal dolore. Stagliati in unisono chiarore, Sfolgorano sulla mensa pane e vino.

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PASSIONE Quando Orfeo tocca il liuto in suoni d’argento, Lamentando un’indole morta nel giardino della sera – Chi sei tu, indole che requia sotto alti alberi? Mormora il suo lamento la canna autunnale, Lo stagno azzurro, Morendo lentamente sotto verdeggianti alberi E seguendo l’ombra della sorella; Oscuro amore Di una ferina progenie, Da cui il giorno, su ruote d’oro, mormorando si allontana. Ferma, silente notte. Sotto tenebrosi abeti Due lupi mischiarono il loro sangue In un abbraccio di pietra; un’indole d’oro, La nuvola si dissolse sul ponticello, Pazienza e tacere dell’ingenuita`. Di nuovo si incontra il tenero corpo Allo stagno del tritone Assopito nei suoi capelli di giacinto. Si rompa infine il fresco capo! Poiche´ sempre, azzurra fiera, Indole occhiante sotto alberi crepuscolari, Questi segue piu` oscuri sentieri

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Vegliando – e incamminato da notturno salubre tono, Da mite dissennatezza; Oppure risuono` profondo E colmo di un’oscura estasi l’arpeggio Ai freschi piedi della penitente Nella citta` di pietra.

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CANTO DELLA MORTE – A SETTE VOCI (p.t.) Azzurrognola s’increpuscola la primavera, sotto suggenti alberi Migra un’oscura indole nella trama di sera e tramonto, Attenta al mite lamento del merlo. Tace la notte mentre appare – la notte: una fiera sanguinante Che si accascia lentamente ai piedi della collina. Nell’aria umida ondeggiano rami di melo in fiore, Si scioglie, argentea, un’indole intrecciata, Morendo lentamente lontano da occhi notturni; stelle cadenti; Mite canto dell’ingenuita`. Piu` fulgido, il dormiente discese per il nero bosco, E, giu` in fondo nella terra, scroscio` un’azzurra sorgente, Cosı` che quello alzo` lievemente le pallide palpebre Sul suo volto di neve. E la luna caccio` dalla sua tana Un rosso animale; E morı` in sospiri l’oscuro lamento delle donne. Piu` raggiante, levo` le mani alla sua stella Il bianco straniero; Tace un’indole morta mentre lascia la casa in rovina.

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O putrescente forma dell’uomo: compagine di freddi metalli, Di notte e di terrore di boschi sprofondati, E dell’infuocante ferina indole dell’animale. Calma di vento – dell’anima. Su una barca nerastra, quello corse giu` per scintillanti fiumi, Colmi di purpuree stelle, e si lasciarono cadere Pacifici su di lui i rami inverditi, Papavero da nuvola d’argento.

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CANTO DELLA MORTE – A SETTE VOCI (s.t.) Azzurrastra si leva in chiarobruno la primavera, ... Migra un’oscura indole nell’endiadi di sera e tramonto ... Tacendo appare la notte, una sanguinante fiera Che si abbatte lentamente ai piedi della collina.

O decomposta forma dell’uomo: compagine di gelidi metalli, Di notte e d’orrore di boschi sommersi, E dell’infuocante ferina selvaticita` dell’animale. Calma di vento – dell’anima.

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CANTO DELLA MORTE – A SETTE VOCI (t.t.)

Migra un’oscura indole nell’endiadi di sera e tramonto

Nell’aria, umido s’incurva l’intrico fiorito dei rami di un melo, Si slega, argentea, un’indole intrecciata, Morendo lentamente lontano da notturni occhi; stelle cadenti; Mite canto dell’ingenuita`.

O destanziata forma dell’uomo: compagine di freddi metalli, Di notte e di terrore di boschi sprofondati, E dell’infuocante ferina selva dell’animale. Calma di vento – dell’anima.

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ELIS 1. Al suo culmine e` la silente fermezza di questo giorno dorato. Sotto vecchie querce Appari tu – Elis – uno dagli occhi intensi, che requia. La loro azzurrita` riflette il torpore degli amanti. Sulla tua bocca I loro lieti sospiri ammutolirono. Di sera, il pescatore tiro` le pesanti reti. Un buon pastore Conduce il suo gregge lungo i margini del bosco. Oh! Come sono giusti, Elis, tutti i tuoi giorni. Lievemente si lascia cadere Su muri spogli l’azzurra fermezza dell’ulivo. Si lascia morire l’oscuro canto di un vecchio. Una barca d’oro Il tuo cuore, Elis, dondola lassu` nel solitario cielo. 2. Un mite gioco di campane risuona immenso nel petto di Elis A sera, Quando il suo capo si lascia cadere sul nero cuscino.

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Un’azzurra fiera Sanguina lievemente nel groviglio di spine. Uno scuro albero se ne sta qui, come un esule, in disparte; I suoi azzurri frutti gli sono caduti. Segni e stelle Affondano lievemente nello stagno della sera. Dietro la collina, si e` fatto inverno. Colombe azzurre Bevono, di notte, il sudore gelido Che cola dalla cristallina fronte di Elis. Sempre risuona profondamente, Contro nere mura, il solitario vento di Dio.

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INCAMMINAMENTO (p.t.) La sera portarono l’estraneo nella camera mortuaria; Un effluvio di catrame; il lieve frusciare di rossi platani; L’oscuro volo delle cornacchie; sulla piazza si montava una guardia. Il sole si e` lasciato cadere in neri lini; sempre ritorna questa sera passata. Nella stanza accanto, la sorella esegue una sonata di Schubert. Lievissimamente affonda il suo riso nella fontana in rovina, Che scroscia, azzurrognola, nel crepuscolo. Oh, com’e` vecchia la nostra progenie. Qualcuno, giu` nel giardino, parla sottovoce; qualcuno ha lasciato questo cielo nero. Dal como` viene un profumo di mele. Nonna accende candele d’oro. Oh, com’e` dolce l’autunno. Lievemente suonano i nostri passi nell’antico parco Sotto alti alberi. Oh, com’e` grave il volto di giacinto del crepuscolo. L’azzurra sorgente ai tuoi piedi, colmo di mistero il rosso silenzio della tua bocca, Rabbuiato dal torpore delle foglie, dall’oscuro oro di intristiti girasoli.

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Le tue palpebre, pesanti di papavero, sognano lievemente sulla mia fronte. Miti campane fanno tremare profondamente il petto. Il tuo volto, Un’azzurra nuvola, si e` lasciato cadere su di me nel crepuscolo. Da un’estranea bettola si ode il suono di una canzone alla chitarra, Laggiu` i ferini arbusti di sambuco, un giorno di novembre trascorso da molto tempo, Passi familiari sulla scala crepuscolare, l’occhiata di travi annerite, Una finestra aperta, ove si trattenne una dolce speranza – Tutto questo e` talmente indicibile, o Dio, che si crolla in ginocchio sconvolti. Oh, com’e` oscura questa notte. Una pupurea fiamma Si spense sulla mia bocca. Nella silente fermezza, Si lascia avvincere dalla morte il solitario arpeggio dell’anima in pena. Lascia, quando ebbra di vino la testa si abbandona nel fango.

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INCAMMINAMENTO (s.t.) Di sera, l’estraneo fu condotto nella camera dei morti;

Oh, com’e` stantia la nostra progenie.

Oh, com’e` grave il volto di giacinto del crepuscolo. L’azzurra sorgente ai tuoi piedi, una recondita indole la rossa silente fermezza della tua bocca

Oh, com’e` oscura questa notte. Una purpurea fiamma Si spense contro la mia bocca. Nel silenzio, Si lascia morire dell’anima inquieta solitario arpeggio. Cedi, se ebbro di vino il capo nel fango va giu`.

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INCAMMINAMENTO (t.t.)

Nella silente fermezza, Si lascia avvincere dal trapasso il solitario arpeggio dell’anima in pena.

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CREPUSCOLO SACRIGENO (p.t.) Ferma, silente viene incontro, ai margini del bosco, Un’oscura fiera; Ai piedi della collina, svanisce lievemente il vento della sera, Diviene muto il lamento del merlo, E i miti flauti dell’autunno Tacciono nel canneto. Su una nera nuvola, Tu, ebbro di papavero, solchi Lo stagno notturno, Il cielo stellato. Sempre risuona profondamente la lunare voce della sorella Nella notte sacrigena.

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CREPUSCOLO SACRIGENO (s.t.) In silenzio viene incontro ai margini del bosco Un’oscura fiera; Ai piedi della collina finisce lievemente il vento serale, Ammutisce il lamento del merlo, E i miti flauti dell’autunno Tacciono nel canneto. Su nera nuvola Solchi tu ebbro di papavero Il notturno stagno, Lo stellato cielo. Sempre risuona profondamente della sorella lunare voce Nella sacrigena notte.

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ANIF Ricordo: gabbiani che planano sul cielo oscuro Di maschile gravezza. Ferma, silente abiti all’ombra del frassino autunnale, Sprofondata nella giusta misura della collina. Sempre discendi lungo il verde fiume, Quando si e` fatta sera, Risonante amore; pacifica ti viene incontro l’oscura fiera, Un uomo lieto. Ebbra di un fiuto azzurrino, La fronte tocca le foglie morenti E pensa il serio volto della madre; Oh, come tutto affonda lentamente nell’oscuro; Le severe stanze e le vecchie suppellettili Dei padri. Tutto questo sconvolge il petto dello straniero. Oh, voi, segni e stelle. Grande e` la colpa del genito. Ahi, voi, brividi d’oro Della morte, Quando l’anima sogna fiori piu` freschi. Sempre grida, nell’intrico dei rami spogli, l’uccello notturno Sopra il passo del lunare, Risuona un vento gelido sui muri del villaggio.

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SALMO dedicato a Karl Kraus Ecco una luce che il vento ha smorzato. Ecco, nella brughiera, un’osteria che un ubriaco lascia nel pomeriggio. Ecco un nero vigneto riarso, con buche piene di ragni. Ecco una stanza che hanno imbiancato con il latte. Il dissennato e` morto. Ecco un’isola dei mari del Sud Che puo` accogliere il Dio del sole. Battono sui tamburi. Gli uomini eseguono danze di guerra. Le donne dimenano le anche tra sarmenti e fiori di fuoco Quando canta il mare. Oh, il nostro perduto paradiso. * Le ninfe hanno abbandonato le dorate foreste. Si seppellisce l’estraneo. Poi inizia una pioggia di scintille. Il figlio di Pan appare sotto le sembianze di uno sterratore, Che passa il mezzogiorno a dormire vicino all’ardente asfalto.

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Ecco delle piccole fanciulle, in un cortile, con dei vestitini colmi di una struggente poverta`! Ecco delle stanze pervase di accordi e sonate. Ecco delle ombre che si abbracciano dinanzi a uno specchio accecato. Alla finestra dell’ospedale, si scaldano i convalescenti. Un bianco vapore viene su, vicino al canale, e porta sanguinose epidemie. * L’estranea sorella appare di nuovo nei maligni sogni di qualcuno. Se ne sta quieta nella macchia di noccio`li e gioca con le sue stelle. Dalla finestra, lo studente, forse un sosia, la osserva a lungo. Dietro di lui se ne sta suo fratello morto, oppure scende per la vecchia scala a chiocciola. Nell’oscuro dei castagni smuore la forma del giovane novizio. Il giardino e` nella sera. Nel chiostro, svolazzano i pipistrelli. Gli ingenui figli del guardiano abbandonano i loro giochi e cercano l’oro del cielo. Ultimi accordi di un quartetto. La piccola cieca corre tremando lungo il viale.

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E piu` tardi la sua ombra va alla cieca lungo fredde mura, tra favole e salubri leggende. * Ecco un battello vuoto, che di sera va alla deriva giu` per il nero canale. Nel buio del vecchio ospizio, languiscono rovine umane. Gli orfani morti giacciono ai piedi del muro che circonda il giardino. Da grigie stanze escono angeli con ali macchiate di fango. Gocciolano vermi dalle loro palpebre ingiallite. La piazza della chiesa e` tenebrosa e tacita, come nei giorni dell’ingenuita`. Su suole d’argento scivolano via vite primigenie E le ombre dei dannati scendono verso le acque sospiranti. Nella sua tomba il bianco mago gioca con i suoi serpenti. * Taciti sul Calvario a si aprono gli aurei occhi di Dio.

a

Scha¨delseite (lett. «lato del teschio») emendato in Scha¨delsta¨tte (lett. «luogo dei teschi»): Monte Calvario. [NdC]

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HELIAN (p.t.)

N

elle solitarie ore del sacrigenio, E` bello andare nel sole Lungo i gialli muri dell’estate. Si ode lieve il suono dei passi sull’erba; ma sempre dorme Il figlio di Pan nel grigio marmo. La sera, sulla terrazza, ci ubriacammo di vino scuro. Rossiccia arde la pesca nel fogliame; Mite sonata, risa gioiose.

Nitida e` la silente fermezza della notte. Su un oscuro pianoro Ci incontriamo con pastori e bianche stelle. Quando si e` fatto autunno, Si mostra sobria chiarita` nel bosco. Mitigati, camminiamo lungo rossi muri E gli occhi intensi seguono il volo degli uccelli. Di sera, la bianca acqua cade lentamente in urne tombali. In un intreccio di rami spogli, il cielo festeggia. In mani pure, il contadino porta pane e vino, Mentre, nell’assolato stanzino, maturano, pacifici, i frutti. Oh, com’e` serio il volto dei cari morti. Ma allieta l’anima un retto, giusto osservare.

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igoroso e` il tacere del giardino devastato, Quando il giovane novizio si incorona la fronte di foglie [castane, Il suo respiro beve gelido oro.

V

Le mani toccano l’epoca di acque azzurrine Oppure, nella fredda notte, le bianche guance delle sorelle. Lieve e armonica e` una passeggiata lungo stanze accoglienti, Dove sono solitudine e il frusciare dell’acero, Dove il tordo, forse, canta ancora. Nitido e` l’uomo mentre appare nell’oscuro, Quando, stupito, muove braccia e gambe, E in purpuree orbite ruotano fermi e silenti gli occhi. Al vespro, lo straniero si dissolve nella nera distruzione di novembre, Sotto una trama di rami marci, lungo mura colme di lebbra, Dove prima e` passato il salubre fratello, Sprofondato nel mite arpeggio della sua dissennatezza. Oh, come finisce in solitudine il vento della sera. Lasciandosi avvincere dalla morte, il capo si china nell’oscuro dell’ulivo.

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convolgente e` il tramonto della progenie. In quest’ora, gli occhi del guardante si riempiono Dell’oro delle sue stelle.

S

Di sera sprofonda un gioco di campane, che non risuona piu`, Vanno in rovina i neri muri sulla piazza, Il morto soldato chiama alla preghiera. Come un pallido angelo, Entra il figlio nella vuota casa dei padri. Le sorelle sono andate lontano, da bianchi vecchi, Di notte il dormiente le trovo` fra le colonne dell’atrio di casa, Di ritorno da tristi pellegrinaggi. Oh, come sono intrisi di fango e di vermi i loro capelli, Quando egli vi sta immerso con i piedi d’argento, E quelle, trapassate, escono da spoglie stanze. O voi, salmi in piogge di fuoco a mezzanotte, Quando i servi piagarono con delle ortiche i miti occhi, E gli ingenui frutti del sambuco, Stupiti, si chinano su una tomba vuota. Lievemente rotolano lune ingiallite Sulle lenzuola di febbre dell’adolescente, Prima che segua il tacere dell’inverno.

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U

n sublime fato sente, andando giu` lungo il Cidro Dove il cedro, tenera creatura, Prospera sotto le azzurre palpebre del Padre; Dove, sul pascolo, di notte, un pecoraio guida il suo gregge. Oppure ecco delle grida nel sonno, Quando un angelo di ferro, nel bosco, si avvicina all’uomo, La carne del salubre si scioglie su una grata ardente. Intorno alle capanne di argilla, si arrampicano viticci di vino purpureo, Risonanti fascine di grano ingiallito, Il ronzio delle api, il volo della gru. Di sera i rigenerati s’incontrano su sentieri di roccia.

In nere acque si specchiano uomini lebbrosi; Oppure, piangenti, aprono le vesti infangate Al balsamico vento che soffia dalla lieta collina. Agili ancelle vanno alla cieca nei vicoli della notte, In cerca del pastore innamorato. Di sabato risuona profondo nelle capanne un mite canto. Lasciate che la canzone ripensi anche al fanciullo, Alla sua dissennatezza, e a bianche sopracciglia e al passaggio nella morte, Al decomposto, che, azzurrino, apre gli occhi. Oh, com’e` triste questo rivedersi.

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I

gradi della dissennatezza in nere stanze, Le ombre dei vecchi nella porta aperta, Quando l’anima di Helian si guarda nello specchio rosa E neve e lebbra cadono lentamente dalla sua fronte. Sui muri si sono spente le stelle E le bianche forme della luce. Dal tappeto si levano ossa di tombe, Il tacere di croci in rovina sul colle, Dolcezza dell’incenso nel purpureo vento della notte. O voi, occhi in nere bocche, infranti occhi, Quando il nipote, in mite annottamento, Solitario acconsente alla piu` oscura fine, Il fermo Dio silente abbassa adagio su di lui le azzurre palpebre.

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HELIAN (s.t.)

Lasciate che la lauda ripensi anche al fanciullo, Alla sua dissennatezza, e alle bianche sopracciglia e al suo trapasso, Al destanziato, che, azzurrino, apre gli occhi. Oh, com’e` triste questo rivedersi. I gradini della dissennatezza in nere stanze...

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ANIMA D’AUTUNNO (p.t.) Richiamo di cacciatori e latrato di sangue; Dietro la croce e la scura collina, Lo specchio dello stagno se ne sta lieve nella sua cecita`. Grida l’a`store, duro e chiaro. Nel campo di stoppie e sul sentiero Gia` si tormenta un nero tacere; Cielo terso fra i rami; Solo il ruscello fluisce fermo e silente. Presto sfuggono pesci e fiere. Anima azzurra, oscuro migrare Ci costrinse presto a espatriare dai cari, dagli altri. La sera muta senso e figura. Pane e vino di un retto vivere, Dio, alle tue miti mani L’uomo rimette l’oscura fine, Tutte le colpe e le rosse pene.

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ANIMA D’AUTUNNO (s.t.) Richiamo di caccia e latrato amaro. Dietro la croce e lo scuro colle, ora Si fa cieco lo specchio della gora. Grida l’a`store violento e chiaro. I rami stagliano un cielo puro; Nel campo di stoppie e sul sentı¨ero Vibra, gia` in tormento, un tacere nero; Scorre il ruscello, silente e sicuro. Sfuggono presto e insieme pesce e fiera. Azzurra anima, migrazione oscura Ci espatrio` dalla nostra genitura. Poi muta figura e senso la sera. Pane e vino di una vita terrena, Dio, al tuo clemente intendimento L’uomo affida l’oscuro compimento, Ogni colpa, ogni infuocata pena.

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ANIMA D’AUTUNNO (t.t.) Caccia e un abbaiare amaro; Oltre la croce e il colle, chiude, Lieve, il suo occhio la palude. Grida l’a`store alto e chiaro. Rami tesi nel cielo puro; Tra le stoppie e sul sentiero Si tormenta un tacere nero; Solo il ruscello va sicuro. Sfuggono pesce e fiera. Azzurra anima, oscura strada Ci svio` dalla nostra contrada. Muta ogni figura la sera. Retta vita, vino e pane, Dio, nelle tue mani miti Sta l’umana, oscura meta, Ogni colpa e rossa pena.

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LA SERA (p.t.) Forme di morti eroi Diffondi tu, luna, Nelle tacite foreste, Falce di luna – E il mite abbraccio Degli amanti, E le ombre di tempi illustri Diffondi qui intorno, fra le putride rocce; Cosı` azzurrino s’irradia un fulgore, Laggiu`, verso la citta`; Abita lı`, fredda e malvagia, Una progenie putrescente, Che prepara l’oscuro avvenire Dei bianchi nipoti. Voi, ombre tramate di luna, Che mandate dei sospiri nel vuoto cristallo Del lago montano.

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LA SERA (s.t.)

Dove, fredda e cattiva, Abita una progenie in decomposizione, Dei bianchi nipoti Prepara l’oscuro avvenire.

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LA SERA (t.t.) Di morte forme di eroi Riempi tu, luna, I taciti boschi, Falce di luna – E del mite abbraccio Degli amanti, E delle ombre di tempi famosi, Riempi le rocce putride qui intorno; Cosı` sfolgora azzurrognolo il tempo Laggiu` verso la citta`, Dove, fredda e maligna, Abita una progenie che si destanzia: Prepara l’oscuro avvenire Dei bianchi nipoti. Voi, ombre intessute di luna, Che sospirate nel vuoto cristallo Del lago di montagna.

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SOGNO E ANNOTTAMENTO

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i sera, il padre divenne vecchio; in oscure stanze, si pietrifico` il volto della madre, e sul fanciullo gravo` la piaga della progenie degenerata. Qualche volta, egli si ricordava della sua ingenuita`, colma di malattia, di spavento e di tenebra, di segreti giochi nel giardino stellato, oppure quando dava del cibo ai ratti nel cortile crepuscolare. Dall’azzurro specchio uscı` l’esile forma della sorella, ed egli crollo` come morto nell’oscuro. Di notte, si ruppe la sua bocca, simile a un frutto vermiglio, e le stelle sfolgorarono sul suo lutto privo di parola. I suoi sogni riempirono la vecchia casa dei padri. Di sera, attraversava volentieri il cimitero in rovina, oppure guardava le salme nella crepuscolare camera mortuaria, le verdi macchie della destanziazione [decomposizione, putredine] sulle loro nitide mani. Alle porte del convento, prego` per un pezzo di pane; l’ombra di un nero cavallo balzo` fuori dell’oscurita` e lo spavento`. Quando fu disteso nel suo fresco letto, gli sgorgarono indicibili lacrime. Ma non vi era nessuno che gli appoggiasse la mano sulla fronte. Quando venne l’autunno, cammino`, come un chiaroveggente, sullo scuro prato. Oh, le ore di ferina estasi, le sere lungo il fiume verdefiorito, le cacce. Oh, l’anima che canto` lieve la canzone dell’ingiallito canneto; docilita` di fuoco. Fermo, in silenzio, guardo` a lungo negli stellari occhi del rospo, tocco` con mani

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tremanti di brividi il fresco dell’antica pietra e chiamo` a parlare la venerabile indizione dell’azzurra sorgente. Oh, gli argentei pesci e i frutti che caddero da secchi e rattrappiti alberi. Gli accordi dei suoi passi lo riempirono di orgoglio, e di disprezzo per gli uomini. Sulla via di casa, incontro` un castello disabitato. De`i in rovina se ne stavano nel giardino, soffrendo fino in fondo il lutto nella sera. Ma gli parve chiaro: vissi qui anni dimenticati. Un corale d’organo lo riempı` del rabbrividire di Dio. Ma trascorse i suoi giorni nell’oscura caverna, mentı` e rubo`; e si nascose, lupo fiammeggiante, al bianco volto della madre. Oh, l’ora in cui, con la bocca di pietra, sprofondo` lentamente nel giardino di stelle – l’ombra dell’assassino venne su di lui. Con purpurea fronte, ando` nella palude e la collera di Dio punı` le sue metalliche spalle; oh, le betulle nella tempesta, le oscure bestie che evitarono i suoi annottati sentieri. Odio bruciava il suo cuore, volutta`, quando, nel verdefiorito giardino d’estate, fece violenza all’ingenuo che taceva, e, nel raggiante volto, riconobbe il proprio annottato volto. Ahi, di sera alla finestra, quando da fiori purpurei uscı`, orrendo grigio scheletro, la morte. O voi, torri e campane; e come pietre caddero su di lui le ombre della notte.

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essuno lo amo`. La sua testa brucio` menzogna e lussuria in stanze crepuscolari. L’azzurro fruscio di una veste femminile lo fece irrigidire come una colonna e sulla porta stava la notturna forma di sua madre. Sul capo del suo letto s’innalzo` l’ombra del male. O voi, notti e stelle. Di sera, ando` con lo storpio ai piedi della montagna; sulla gelida vetta, giaceva il lieto fulgore del rosso serale e il suo cuore squillo` lievemente nel crepuscolo. Pesanti si piegarono su di loro i tempestosi abeti e il rosso cacciatore uscı` dal bosco. Quando venne la notte, si spezzo`, cristallino, il suo cuore e la tenebra colpı` e afflisse la sua fronte. In un bosco di spoglie querce, strangolo`, con gelide mani, un gatto ferino. Alla sua destra, apparve la bianca forma di un angelo che si lamentava e crebbe nell’oscuro l’ombra dello storpio. Ma lui raccolse una pietra e gliela scaglio` contro, cosı` che quello, ululando, fuggı`, e, sospirando, svanı` nell’ombra dell’albero il mite volto dell’angelo. A lungo giacque nel campo sassoso e, stupito, guardo` l’aurea volta delle stelle. Cacciato dai pipistrelli, si precipito` nell’oscuro. Entro`, ansante, nella casa in rovina. Nel cortile, bevve, ferino animale, dalle azzurre acque della fontana, finche´ non ebbe freddo. Febbricitante, sedette sulla gelida scala, furibondo contro Dio, affinche´ morisse. Oh, il grigio volto dello spavento, quando levo` gli intensi occhi sulla

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gola tagliata di una colomba. Guizzando su per delle estranee scale, incontro` una fanciulla ebrea e afferro` i suoi neri capelli e prese la sua bocca. Nemica indole lo seguı` attraverso tenebrosi vicoli e un ferreo stridore squarcio` il suo orecchio. Lungo muri autunnali, seguı` in silenzio, fanciullo di sagrestia, il tacito prete; sotto secchi alberi, respiro`, ebbro, lo scarlatto di quella veneranda veste. Oh, il distrutto disco del sole. Dolci martirıˆ straziarono la sua carne. In un desolato passaggio fra le case, a gli apparve, intrisa di immondizia, la sua sanguinante forma. Amo` piu` profondamente le sublimi opere della pietra: il campanile, che, con i suoi mostri infernali, di notte, da` l’assalto al cielo azzurrostellato; e la fredda tomba, dove e` custodito il cuore di fuoco dell’uomo. Ahi, l’indicibile colpa che quel cuore annuncia. Ma quando, sentendo un’indole ardente, ando` giu` per il fiume autunnale sotto alberi spogli, gli apparve, avvolta in un cappotto di crine, fiammeggiante demone, la sorella. Al risveglio, si spensero sul capo del loro letto le stelle.

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Durchhaus: «casa dotata di un passaggio che collega due strade» [NdC]

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h, l’afflitta progenie. Quando, in sudice stanze, ogni fato e` compiuto, entra con putridi passi la morte nella casa. Oh, se solo fosse primavera fuori e sull’albero fiorito cantasse un grazioso uccello. Ma orrenda grigiastra rinsecchisce, alla finestra dei notturni, l’erba rada e i cuori sanguinanti sentono ancora maligna indole. Oh, i crepuscolari cammini primaverili del senziente. Lo rende piu` giustamente gioioso la siepe in fiore, il primo verde della semina del contadino e il canoro uccello, mite creatura di Dio; la campana della sera e la nitida comunita` degli uomini. Se solo potesse egli dimenticare il proprio fato e l’aculeo della spina. Inverdisce, libero, il ruscello, dove cammina argenteo il suo piede, e un albero dicente mormora sul suo annottato capo. Cosı` egli prende con gracile mano il serpente e in lacrime di fuoco gli si sciolse lentamente il cuore. Sublimi sono il tacere del bosco, inverdita oscurita` e le bestie muschiose, che si alzano, svolazzando, quando viene la notte. Oh, il brivido, quando ciascuno conosce la propria colpa, e va per spinosi sentieri. Cosı` trovo` nello spino la bianca forma dell’ingenuo, che sanguinava per il mantello del suo sposo. Ma quello se ne stette dinanzi a lei, sepolto nei suoi capelli d’acciaio, muto e sofferente. Oh, i radiosi angeli che il purpureo vento della notte disperse. Abito` per una notte nella caverna di cristallo e la lebbra

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crebbe argentea sulla sua fronte. ombra, egli scese giu` per la mulattiera sotto stelle autunnali. Cadde la neve, e un’azzurra tenebra riempı` la casa. Fu quella di un cieco la dura voce del padre, e risveglio`, evoco` l’orrore. Ahi, la ricurva apparizione delle donne. Fra irrigidite mani, andarono in rovina frutta e suppellettili della progenie deposta, sgomenta [desolata]. Un lupo sbrano` il primogenito e le sorelle fuggirono in oscuri giardini da ossuti vecchi. un annottato veggente, quello canto` lungo muri in rovina e la sua voce ingoio` il vento di Dio. Oh, la volutta` della morte. O voi, figli di un’oscura progenie. Brillano argentei i maligni fiori del sangue sulla tempia di quello, la fredda luna nei suoi occhi infranti. Oh, i notturni; oh, gli afflitti. rofondo e` il torpore in oscuri veleni, colmo di stelle e del bianco volto della madre, il volto di pietra. Amara e` la morte, il cibo di coloro che portano il peso della colpa; nella scura trama dei rami che sorgono dal tronco, si sgretolarono, in un ghigno, i visi di terra. Ma quello canto` lievemente all’ombra verdefiorita del sambuco, quando si risveglio` da sogni maligni; dolce compagno di giochi, gli si avvicino` un angelo rosa, affinche´ egli, mite fiera, si addormentasse lentamente verso la notte; e

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vide lo stellato volto della purezza. Aurei si chinarono i girasoli sopra il recinto del giardino, quando venne l’estate. Oh, la laboriosita` delle api e il verde fogliame del noce; il passaggio dei temporali. Fiorı` argenteo anche il papavero, porto` nella verde capsula i nostri notturni sogni stellati. Oh, come fu silente la casa, quando il padre se ne ando` verso l’oscuro. Purpureo maturo` il frutto sull’albero e il giardiniere opero` con le dure mani; oh, i sottili segni di crine nel sole raggiante. Ma in silenzio, di sera, l’ombra del morto entro` nella cerchia in lutto dei suoi e si udı` il suono cristallino del suo passo sul verdeggiante prato fiorito dinanzi al bosco. Tacendo, quelli si raccolsero attorno al tavolo; con ceree mani, spezzarono, morenti, il pane, il sanguinante. Ahi, gli occhi di pietra della sorella, quando, durante la cena, la sua dissennatezza apparve sulla notturna fronte del fratello; fra le addolorate mani della madre, il pane divenne pietra. Oh, i decomposti, i destanziati, quando con la loro argentea lingua tacquero l’inferno. Cosı` si spensero le lampade nella fresca dimora e da maschere purpuree si guardarono, tacendo, gli uomini addolorati. Per tutta la notte, scroscio` una pioggia che rinfresco` la campagna. Nella spinosa selva ferina, l’oscuro seguı` gli ingialliti sentieri nel grano, la canzone dell’allodola e la dolce, silente fermezza dell’intreccio verdefiorito dei rami affinche´ trovasse pace. O voi, villaggi e

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scalini muschiosi: ardente occhiata. Ma i passi vacillano, ossei, su serpenti addormentati ai margini del bosco e l’orecchio segue sempre il furioso grido dell’avvoltoio. A sera, trovo` un deserto pietroso, corteo di un morto nell’oscura casa del padre. Pupurea nuvola avvolgeva la sua testa, cosı` che egli si scaglio`, tacito, sul proprio sangue e sulla propria figura, un lunare volto; impietrito, affondo` lentamente nel vuoto, quando nello specchio infranto, un moribondo adolescente, apparve la sorella; e la notte ingoio` l’afflitta progenie.

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MISERIA UMANA (p.t.) L’orologio: cinque rintocchi dinanzi al sole – Uomini solitari coglie un oscuro terrore, Nel giardino della sera sibilano alberi spogli. Il volto del morto si muove alla finestra. Forse, quest’ora se ne sta ferma, silente. Dinanzi a occhi cupi, azzurre figure giocolano Al ritmo delle barche che dondolano sul fiume. Sul molo sfila un corteo di suore sventolanti. Nel noccio`lo giocano fanciulle smorte e cieche, Come amanti che si avvinghiano nel sonno. Forse, laggiu` intorno a una carogna cantano le mosche, Forse anche piange nel grembo materno un ingenuo. Da mani si lasciano cadere asteri azzurri e rossi; La bocca dell’adolescente scivola via estranea e sapiente; E palpebre battono confuse di angoscia e lievi, Attraverso un nero di febbre si diffonde un profumo di pane. Pare di udire anche urla orrende; Scheletri brillano da muri in rovina. Un cuore maligno ride sonoramente in nitide stanze; Accanto a un sognatore passa correndo un cane.

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Un vuoto sarcofago si dissolve nell’oscuro. All’assassino si rischiarera` pallidamente uno spazio, Mentre, di notte, lanterne s’infrangono nella tempesta. Alloro orna la bianca tempia del nobile.

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MISERIA UMANA (s.t.) Al sole, suonano cinque rintocchi – Oscuro terrore, uomini soli. Di sera, un sibilo di alberi spogli. Alla finestra il morto muove gli occhi. Se ne stanno ferme, forse, queste ore. Cupi occhi: figure d’azzurro lume Al dondolio delle barche sul fiume. Sfila lungo il molo un corteo di suore. Nel noccio`lo cieche fanciulle bianche Giocano – come amanti che dormano. Mosche su una carogna, forse, cantano, Nel grembo materno un ingenuo piange. Astri azzurri caduti da mani ebbre; Bocca del giovane, estranea e sapiente, Va via, e ciglia angosciate, lievemente, Battono. Profumo di pane, e febbre. Pare di udire anche un urlo orrendo; Da muri in rovina, un osseo splendore. Ride maligno, in belle stanze, un cuore; Accanto a un sogno, va un cane, correndo.

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E va, nell’oscuro, un’arca vuota. All’assassino si apre un luogo spento, E lanterne s’infrangono nel vento. Tempia del nobile d’alloro ornata.

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CANTO DELL’ESULE a Karl Borroma¨us Heinrich (p.t.) Pieno di armonie e` il volo degli uccelli. Ecco: i verdi boschi Di sera, si sono raccolti attorno a piu` silenti capanne; I cristallini pascoli del capriolo. Oscura indole mitiga il gorgoglio del ruscello, le umide ombre E i fiori dell’estate squillano di nitida bellezza nel vento. Gia` s’increpuscola la fronte dell’uomo senziente. E riluce un lumino, il bene, nel suo cuore E la pace della cena; infatti pane e vino sono resi salubri Dalle mani di Dio, ed ecco ti osserva da occhi notturni, Fermo, in silenzio, il fratello, perche´ possa riposarsi da uno spinoso pellegrinaggio. Oh, l’abitare nell’animata azzurrita` della notte. Il tacere anche avvolge d’amore nella stanza le ombre degli antenati,

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I purpurei martirıˆ, lamento di una grande progenie, Che devotamente ora trapassa nel solitario nipote. Infatti piu` raggiante sempre si sveglia da neri minuti della dissennatezza Il paziente sulla pietrificata soglia, E lo avvolge vigorosamente la fresca azzurrita` e il rilucente declino dell’autunno, La ferma silente casa e le indizioni del bosco, Misura e legge e i lunari sentieri degli esuli.

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CANTO DELL’ESULE a Karl Borroma¨us Heinrich (s.t.)

... Ecco: i verdi boschi Di sera, si sono raccolti in piu` silenti capanne;

Gia` si leva in chiarobruno la fronte dell’uomo senziente.

... pane e vino sono resi salubri Dalle mani di Dio, mentre ti guarda da notturni occhi, Fermo, silente, il fratello, affinche´ possa requiare da uno spinoso migrante pellegrinaggio. Oh, l’abitare nell’animata azzurrita` della notte.

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GLI AFFLITTI (p.t.) 1. Ecco il crepuscolo. Vanno le vecchie donne alla fontana. Nell’oscuro dei castagni ride un rosso. Scorre da una bottega un profumo di pane E i girasoli si chinano sul recinto. L’osteria sul fiume risuona ancora mite e lieve. Ronza una chitarra; un tintinnio di monete. Un’aureola cade su quella piccola, Che attende dinanzi alla porta di vetro, mite e bianca. Oh! Azzurro fulgore che lei, incorniciata di spine, Nere e rigide nell’estasi, risveglia nei vetri. Un curvo scrivano ride, come uno spostato, All’acqua spaventata da una ferina agitazione. 2. A sera, la peste orla l’azzurro abito della piccola, E un ospite tenebroso chiude lievemente la porta. Si lascia cadere attraverso la finestra il nero peso dell’acero; Un fanciullo posa la fronte sulla sua mano. Spesso le sue palpebre si lasciano cadere maligne e pesanti. Le mani dell’ingenuo scorrono fra i suoi capelli, E versa lacrime calde e chiare Nelle orbite nere e vuote di lei.

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Un nidiata di serpenti color scarlatto s’impenna Lentamente nello sconvolto grembo della piccola. Le braccia lasciano libera un’indole avvinta dalla morte, Che orla la tristezza di un tappeto. 3. Entra nello scuro giardinetto il suono di un gioco di campane. Nell’oscuro dei castagni fluttua un azzurro, Il dolce cappotto di un’estranea signora. Un odore di reseda; e un’ardente sensazione Del male. L’umida fronte, fredda e pallida, Si china su quei rifiuti, dove il ratto scava e fruga, Lambita tiepidamente dallo scarlatto fulgore delle stelle; Nel giardino, morbidi tonfi di mele. La notte e` nera. Spettrale il favonio gonfia La bianca vestaglietta del fanciullo in cammino E lieve s’infila nella sua bocca la mano Della morta. Ride Sonja, nitida e mite.

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GLI AFFLITTI (s.t.) 1. Le vecchie donne, al sorgere del sole, Vanno alla fontana. Ride all’oscuro Della castanea un rosso. Il pane e` puro. S’inclina sulla siepe il girasole. Al fiume, l’osteria e` lieve, mite: Chitarre e trilli di moneta spicciola. Cade un’aureola su quella piccola: Dinanzi alla vetrata e` bianca, mite. Oh! Azzurro, che lei, avvolta di spine Estasiate, gia` risveglia nel vetro. Un curvo scrivano sorride tetro All’acqua atterrita da urla ferine. 2. Sera. La sua azzurra veste e` appestata. Chiude l’uscio un estraneo tenebroso. Alla finestra, l’acero frondoso. Fronte d’un fanciullo in mano adagiata. Maligne ciglia cadono pesanti. Accarezza l’ingenuo i suoi capelli, Versa lacrime, tiepidi cristalli, Nelle sue orbite nere e sonanti.

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Si alza una nidia di rossi serpenti Sul suo piccolo grembo ormai sconvolto. Liberano le braccia un che di morto Attorno a dei tappeti tristi e spenti. 3. Nel nero giardino risuona un gioco Di campane. Nell’oscura castanea, Fluttua un azzurro, una donna estranea Dal dolce mantello. Erba odorosa; e un fuoco Del male. La fronte pallida e lieve Si china dove scava e fruga il ratto, Sente le stelle, scintillio scarlatto; Nel giardino, tenui tonfi di mele. Nera la notte. Il Fo¨hn gonfia la snella Bianca veste del fanciullo errante. Mano della morta entra lievemente In bocca. Ride Sonja, mite e bella.

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A UNO TRAPASSATO PRESTO (A Uno trapassato nel primo mattino) (p.t.) Oh, il nero angelo, che lievemente uscı` dall’intimo dell’albero, Quando, di sera, fummo miti compagni di giochi, Accanto al bordo del pozzo azzurrino. Fu quieto il nostro passo, gli occhi intensi nella scura freschezza dell’autunno, Oh, la purpurea dolcezza delle stelle. Ma quello scese per i gradini di pietra del Monte Monaco, Un azzurro sorriso sul volto e stranamente rinchiuso, a crisalide, Nella sua piu` ferma e silente ingenuita` – e morı`; E nel giardino si trattenne l’argenteo volto dell’amico, Intento all’ascolto nel fogliame o nell’antico blocco di roccia. Anima canto` la morte, la verde destanziazione della carne, Ed ecco il fruscio del bosco, Il fervido lamento della fiera. Sempre si udı`, da torri crepuscolari, il suono delle azzurre campane della sera. Venne l’ora in cui quello vide le ombre nel purpureo sole, Le ombre della putredine nella trama di rami spogli;

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Sera, quando, sul muro crepuscolare, canto` il merlo, E il sacrigenio di colui che e` trapassato presto apparve nella stanza, fermo e silente. Oh, il sangue, che scorre dalla gola del risonante, Fiore azzurro; oh, la lacrima di fuoco Divenuta notte. Nuvola d’oro e aureo tempo. Nella solitaria stanzetta Tu accogli spesso il morto come un ospite, Cammini in intimo colloquio sotto gli olmi giu` per il fiume verdefiorito.

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A UNO TRAPASSATO PRESTO (s.t.)

Oh, la purpurea dolcezza delle stelle. Ma quello scese per i gradini di pietra del Monte Monaco, Un azzurro sorriso sul volto e stranamente rinchiuso, a crisalide, Nella sua piu` ferma e silente ingenuita` – e morı`; E nel giardino rimase l’argenteo volto dell’amico, Intento all’ascolto nel fogliame o nell’antico blocco di roccia. Anima canto` la morte, la verde decomposizione della carne, Ed ecco il fruscio del bosco, Il fervido lamento della fiera. Sempre si udı` il suono, dalle torri crepuscolari, delle azzurre campane della sera. L’ora venne in cui quello vide le ombre nel sole purpureo, Le ombre della destanziazione in una trama di rami spogli...

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A UNO TRAPASSATO PRESTO (t.t.)

Anima canto` la morte, la verde putredine della carne, E si udı` il frusciare del bosco, E l’ardente gemito della fiera.

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AI PIEDI DEL MONTE MONACO (p.t.) Dove nell’ombra di olmi autunnali sprofonda il sentiero in rovina, Lontano dalle capanne di foglie, da pastori addormentati, Sempre l’oscura forma del fresco accompagna il pellegrino Su un ponte di ossa, la giacintea voce del fanciullo, Che lieve canta la dimenticata leggenda del bosco, Mentre e` piu` mite, giacche´ ora e` un’indole malata, il ferino lamento del fratello. Cosı` un verde rado tocca il ginocchio dello straniero, La testa pietrificata; Piu` vicino, l’azzurra sorgente mormora il lamento delle donne.

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AI PIEDI DEL MONTE MONACO (s.t.) Dove nell’ombra degli olmi autunnali sprofonda il sentiero in rovina, Lontano dalle capanne di foglie, da pastori addormentati, Sempre accompagna il pellegrino l’oscura forma del fresco Su un osseo ponticello, la voce di giacinto del fanciullo, Che lievemente recita la dimenticata leggenda del bosco, Piu` mite, indole malata ora, il ferino lamento del fratello. Cosı` tocca un verde rado il ginocchio dello straniero, La testa pietrificata; Piu` vicino, gorgoglia l’azzurra sorgente il lamento delle donne.

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AL FANCIULLO ELIS (p.t.) Elis, quando il merlo chiama nella nera boscaglia, Questo e` il tuo ponente. Le tue labbra bevono la freschezza dell’azzurra sorgente di roccia. Lascia, quando la tua fronte lievemente sanguina Antiche leggende d’origine E oscuro chiarimento del volo degli uccelli. Ma con passi delicati vai nella notte, Che tutta pende di uva purpurea, E muovi le braccia piu` nitidamente nell’azzurro. Un cespuglio di rovi risuona Lı` dove sono i tuoi occhi lunari. Oh, da quanto tempo, Elis, sei trapassato. Il tuo vivo corpo e` un giacinto In cui un monaco immerge le ceree dita. Una nera caverna e` il nostro tacere, Da cui sbuca a volte un mite animale E lentamente abbassa le pesanti palpebre. Sulle tue tempie gocciola nera rugiada, L’ultimo oro di stelle in rovina.

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AL FANCIULLO ELIS (s.t.)

Lascia, se la tua fronte sanguina, lieve, Antichissime leggende E un oscuro presagio.

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IL CUORE Il ferino cuore divenne bianco vicino al bosco; Oh – oscura angoscia Della morte, cosı` l’oro In grigia nuvola morı`. Sera di novembre. Alla spoglia porta del mattatoio se ne stava Lo stuolo delle povere donne; In ogni paniere Caddero carne marcia e frattaglie; Cibo afflitto! L’azzurra colomba della sera Non porto` la conciliazione. Un oscuro richiamo di tromba Attraverso` l’umido dorato fogliame Degli olmi, Una bandiera lacera Fumante di sangue, Finche´ in ferina gravezza Un uomo si tende all’ascolto. Oh! Voi, tempi di bronzo Sepolti la` nel rosso della sera. Dall’oscuro corridoio uscı` L’aurea forma Della adolescente

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Circondata da pallide lune, Autunnale corteggio, Si piegarono, spezzandosi, neri abeti Nella tempesta della notte, La scoscesa fortezza. O cuore Scintillante fino al fresco della neve.

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LIMPIDA PRIMAVERA (p.t.) 1. Sul ruscello, che scorre nel giallo del maggese, Si muove ancora la canna secca dell’anno passato. Nel grigiore scivolano via suoni meravigliosi, Soffia un alito di caldo concime. Ai salici penzolano i gattini a dolcemente nel vento, Canta, sognando, la sua triste canzone un soldato. Una striscia di prato sibila soffiata via e sbiadita, Un ingenuo se ne sta nel suo tenue, mite profilo. Laggiu` le betulle, il nero cespuglio di spine, E fuggono nel fumo forme dissolte. Chiara una verde indole fiorisce e un’altra si decompone, E dei rospi erano addormentati fra giovani porri. 2. Ti amo fedelmente, rude lavandaia. L’onda porta ancora l’aureo peso del cielo. Un pesciolino scintilla e smuore; Un cereo volto scorre giu` fra gli ontani. In giardini sprofondano campane a lungo e lievemente, Un piccolo uccello canterella come impazzito. Il mite grano si gonfia lieve e in estasi, E le api bottinano ancora con seria diligenza.

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I ‘‘gattini’’ nel senso degli amenti. [NdC]

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Vieni ora, cara, dallo stanco operaio! Nella sua capanna cade un tiepido raggio. Il bosco fluisce lungo la sera, aspro e pallido E boccioli crepitano limpidamente di tanto in tanto. 3. Ma l’intero diveniente appare cosı` malato! Un alito di febbre gira intorno a un casale; Ma da un intreccio di rami da` un cenno un mite sacrigenio E dischiude l’animo di timore e vastita`. Un fiorito profluvio scorre via molto soavemente, E l’indole disingenita si dedica alla propria quiete. Gli amanti fioriscono su verso le loro stelle E piu` dolce scorre il loro respiro nella notte. Cosı` dolorosamente buono e verace e` cio` che vive; E lieve ti sfiora un’antica pietra: Veramente! Saro` sempre vicino a voi. O bocca! che freme nel salice d’argento.

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LIMPIDA PRIMAVERA (s.t.) 1. Sul ruscello, nel riposo dei campi, Svetta la canna secca dell’altro anno. Lungo il grigiore, so¨avi vanno Via dei suoni. Caldo fimo dai campi. Ai salici penzolano i gattini Nel vento. Triste lauda di un soldato. Sibila, spenta, una striscia di prato. Se ne sta un ingenuo in orli turchini. .... 3. Come e` guasto tutto cio` che diviene! Alito di febbre intorno a un villaggio; Ma un mite sacrigenio da` coraggio, E staglia l’animo sulle sue pene. Fluisce so¨ave un profluvio in fiore; Requie di cio` che non e` ancora offerto. Sbocciano gli amanti nel loro serto Di stelle, e piu` dolce batte il cuore. Buono e vero per dolore e` il vivente; E lieve ti sfiora un masso antico: E` vero! saro` sempre vostro amico. O bocca! che arde nel salice argenteo.

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CANZONE DELLE ORE Con oscure occhiate si osservano gli amanti, I biondi, i raggianti. In rigida tenebra Si avvinghiano esili le anelanti braccia. Purpurea s’infranse la bocca dei benedetti. Gli intensi occhi Riflettono l’oscuro oro del pomeriggio primaverile, Margini e nerume del bosco, angosce serali nel verde in fiore; E forse anche indicibile volo di uccello, il sentiero Del disingenito accanto a tenebrosi villaggi, lungo estati solitarie, E da un’azzurrita` in rovina esce di tanto in tanto un’indole estinta. Lieve mormora nel campo il biondo grano. Dura e` la vita e il contadino fa vibrare d’acciaio la sua falce, Il falegname congiunge poderose travi. Si tingono di purpureo le foglie in autunno; il genio monacale Attraversa giorni sereni; matura e` l’uva E festosa l’aria in ampi cortili. Piu` dolce e` l’odore dei frutti ingialliti; lieve e` il ridere Di chi e` allegro, musica e danza in ombrose cantine; Nel giardino crepuscolare passo e silente fermezza del trapassato fanciullo.

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ANGOLO AI MARGINI DEL BOSCO A Karl Minnich (p.t.) Scuri castagni. Lievemente scivolano via i vecchi Nella piu` silente sera; molli avvizziscono nitide foglie. Al cimitero, il merlo scherza con il cugino morto, Il biondo maestro accompagna Angela. Terse figure della morte guardano dalle finestre di una chiesa; Ma uno sfondo sanguinante si accampa tenebroso e colmo di tristezza. Il portone oggi resta chiuso. Le chiavi le ha il sagrestano. Nel giardino la sorella parla amichevolmente con degli spettri. In vecchie cantine, matura il vino divenendo indole d’oro – chiara indole. Dolcemente profumano le mele. Gioia sfolgora non troppo lontano. Per tutta la sera, gli ingenui ascoltano volentieri le fiabe. Spesso alla mite dissennatezza si mostra anche l’indole d’oro, il vero. L’azzurro scorre colmo di resede; nelle stanze, chiarore di candele. Ai modesti – agli esuli – e` destinato un luogo armonico. Lungo i margini del bosco scivola giu` un solitario fato; La notte appare, angelo della quiete, sulla soglia.

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ANGOLO AI MARGINI DEL BOSCO (s.t.)

Figure della morte da una chiesa; Sfondo sanguinante, animo grave. Sagrestano chiude il portone a chiave. Fra la sorella e gli spettri, un’intesa. Matura il vino nel chiaro, nell’oro. Non lontano, arde una gioia. Odore Di mele. Agli ingenui, fiabe nel cuore. Al dissennato, il vero, indole d’oro.

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ANNO Oscura silente fermezza dell’ingenuita`. Sotto verdeggianti frassini in fiore Pascola la mitezza d’animo dell’occhiata azzurrina; quiete d’oro. Il profumo delle viole, indole oscura, rapisce; ondeggianti spighe Nella sera, semi e le dorate ombre della gravezza d’animo. Il falegname squadra delle travi; nel crepuscolare fondo della valle Va la macina del mulino; tra le foglie del nocciolo s’inarca una purpurea bocca, Maschile indole si china, rossa, su tacite acque. Lieve e` l’autunno, il sacrigenio del bosco; nuvola d’oro Segue il solitario, la nera ombra del nipote. Declino nella stanza di pietra; sotto antichi cipressi Sono raccolte alla sorgente le notturne figure delle lacrime; Occhio d’oro dell’inizio, oscura pazienza della fine.

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LAMENTO (p.t.) Sonno e morte – le buie aquile Frusciano tutta la notte attorno alla testa: La raffigurazione d’oro dell’uomo Inghiotta la gelida onda Dell’eternita`. Su scogli orrendi Si sfracella il purpureo corpo. E si lamenta l’oscura voce Sul mare. Sorella di tempestosa gravezza, Vedi, una barca angosciata affonda Sotto le stelle, Sotto il tacito volto della notte.

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LAMENTO (s.t.) Sonno e morte – le cupe aquile Frusciano attorno al capo per tutta la notte: Se solo l’aurea raffigurazione dell’uomo Ingoiasse la gelida onda Dell’eternita`! – Su orrendi scogli Si sfracella il purpureo vivere. E si lamenta l’oscura voce Sul mare. Sorella di tempestosa gravezza, Guarda, una barca angosciata s’inabissa Sotto le stelle, Sotto il tacito volto della notte.

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A HELLBRUNN Seguendo di nuovo l’azzurro lamento della sera Ai piedi del colle, lungo lo stagno di primavera – Come se in alto aleggiassero le ombre di uomini trapassati da tempo, Le ombre dei principi della Chiesa, di nobildonne – Gia` fioriscono i loro fiori, le gravi viole Nel fondo della sera, scroscia l’onda cristallina Dell’azzurra sorgente. Cosı` sacrigenamente inverdiscono Le querce sui dimenticati sentieri dei morti, La nuvola d’oro sullo stagno.

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CANZONE SACRIGENA (p.t.) Segni, insoliti ricami Dipinge un’ondeggiante aiuola fiorita. L’azzurro respiro di Dio soffia Nella sala che da` sul giardino, Limpido nella sala. S’innalza una croce sull’uva ferina. a Ascolta, nel villaggio molti gioiscono, Un giardiniere falcia lungo il muro, Lievemente un organo suona, Fonde suono e aureo splendore, Suono e splendore. L’amore benedice pane e vino. Entrano anche le fanciulle, E il gallo canta per l’ultima volta. Un marcio cancelletto di legno si muove dolcemente, E tra una ghirlanda e le file di rose, File di rose, Requia Maria, bianca e delicata. Mendicante laggiu`, ai piedi dell’antica pietra, Sembra trapassato nella preghiera, Un pastore scende, mite, dalla collina, E un angelo canta nel bosco, Qui vicino nel bosco, Affinche´ gli ingenui entrino nel sonno.

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L’uva fragola. [NdC]

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CANZONE SACRIGENA (s.t.)

Antica pietra: un povero supino, Come trapassato in un’alata Preghiera. Pastore e vallata; Canta nel bosco un serafino, Nel bosco vicino Affinche´ il sonno accolga ogni bambino.

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TRASMUTAZIONE DEL MALE Autunno: nero camminare lungo i margini del bosco; minuto di distruzione senza parole; la fronte del lebbroso e` tesa in ascolto sotto l’albero spoglio. Una sera da molto tempo passata, che ora affonda sui gradini di muschio; novembre. Squilla una campana e il pastore guida al villaggio una mandria di cavalli neri e fulvi. Sotto il noccio`lo, il verde cacciatore sventra una fiera. Le sue mani fumano di sangue e l’ombra dell’animale, scura e tacita, sospira nel fogliame sopra gli occhi dell’uomo; il bosco. Cornacchie che si dileguano; tre. Il loro volo e` simile a una sonata, colma di scomparsi accordi e di maschile gravezza; lieve si dissolve una nuvola d’oro. Al mulino, fanciulli accendono un fuoco. Fiamma – della piu` pallida indole – e` fraterna amica, e quello ride, seppellito fra i suoi purpurei capelli; oppure ecco un luogo di delitti, accanto al quale passa un pietroso cammino. I crespini sono scomparsi – per un anno, vi e` sogno nell’aria plumbea sotto i pini; angoscia, un’oscura indole verdefiorita, il gorgoglio di uno che annega; pesca dallo stagno stellato un grande pesce nero, il pescatore, volto colmo di crudelta` e di folle insensatezza. Dietro di lui le voci del canneto e di uomini che litigano, quello si dondola in una rossa

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barca su gelanti acque d’autunno, vivendo nelle oscure indizioni della sua progenie e gli occhi di pietra su notti e virginei terrori. Male. Cosa ti costringe a startene fermo, in silenzio, sulla scala in rovina, nella casa dei tuoi padri? Plumbeo nerume. Che cosa sollevi con argentea mano agli occhi, mentre le palpebre si lasciano cadere come ebbre di papavero? Ma attraverso il muro di pietra, vedi il cielo stellato, la Via Lattea, Saturno; rosso. Furioso contro il muro di pietra sbatte l’albero spoglio. Tu, su gradini in rovina: albero, stella, pietra! Tu, un azzurro animale che trema lievemente; tu, il pallido prete che lo uccide sul nero altare. Oh, il tuo riso nell’oscuro, cosı` triste e maligno che un ingenuo impallidisce nel sonno. Una rossa fiamma si sprigiono` dalla tua mano e una falena vi si brucio`. Oh, il flauto della luce; oh, il flauto della morte. Cosa ti costrinse a startene fermo, in silenzio, su una scala in rovina, nella casa dei tuoi padri? Giu` alla porta, un angelo bussa con il dito cristallino. Oh, l’inferno del sonno; oscuro vicolo, scuro giardinetto. Squilla lievemente, nell’azzurra sera, una forma della morta. Verdi fiorellini giocolano intorno e il suo volto l’ha abbandonata. Oppure ecco un inchino, impallidito, sulla fredda fronte dell’assassino nell’oscuro del corridoio; adorazione, purpurea fiamma della

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volutta`; morendo lentamente, precipito` su neri gradini il dormiente nell’oscuro. Qualcuno ti lascio` al crocevia, e tu guardi indietro, a lungo. Passo d’argento nell’ombra di piccoli meli deformi. Purpureo riluce il frutto nella trama dei neri rami e nel prato il serpente cambia pelle. Oh! l’oscurita`; il sudore che viene sulla gelida fronte e i tristi sogni nel vino, nella bettola del villaggio, sotto travi nere di fumo. Tu, ancora selva ferina, che per magia fa apparire isole rosa dalle scure nuvole del tabacco e chiama dall’intimo il ferino grido di un grifone, quando va a caccia intorno a neri scogli, in mare, nella tempesta e nel ghiaccio. Tu, un verde metallo e, dentro, un viso di fuoco che vuole andare la` e, dalla collina di ossa, cantare tempi tenebrosi e la fiammeggiante caduta dell’angelo. Oh! disperazione, che in un muto grido crolla in ginocchio. Un morto ti fa visita. Dal cuore scorre il sangue che lui stesso ha versato e nel nero sopracciglio si annida un’indicibile folgore degli occhi; oscuro incontro. Tu – una luna purpurea, quando quello appare nella verde ombra dell’ulivo. Segue notte perenne.

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LA NOTTE Canto te, ferina stagliatura, a Nella tempesta della notte Turrita montuosa roccaforte; Voi, grigie torri Traboccanti di mostri infernali, Di bestie di fuoco, Di ruvide felci, di abeti, Di fiori cristallini. Infinito tormento: Che tu abbia braccato e catturato Dio, Mite sacrigenio, Che mandi un sospiro nella cascata, E fra ondeggianti pini. Aurei divampano i fuochi Dei popoli intorno. Su rocce nerastre Si scaglia, ebbra di morte, L’ardente turbine – la sposa del vento –, L’azzurra onda Del ghiacciaio Ed echeggia Vigorosa la campana nella valle: Fiamme, maledizioni, piaghe E gli oscuri Giochi della volutta`, Assalta tempestosamente il cielo Una testa pietrificata.

a

La stagliata, il frastagliato dirupo. [NdC]

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IN UN ANTICO LIBRO GENEALOGICO a (p.t.) Ritorni sempre, malinconia, Mitezza dell’anima solitaria. Arde, in fine, un giorno d’oro. Colmo di umilta` s’inchina al dolore il paziente, Risonante di salubre tono e tenera dissennatezza. Vedi! e` gia` il crepuscolo. Ritorna la notte e si lamenta un’indole mortale E con essa un’altra si addolora. Rabbrividito sotto stelle autunnali Si china ogni anno piu` profondamente il capo.

a

In un vecchio libro di ricordi. [NdC]

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IN UN ANTICO LIBRO GENEALOGICO (s.t.) Sempre ritorni tu malinconia, O mitezza dell’anima solitaria. Finisce in ardere un giorno d’oro. Umile si piega al dolore il paziente: Tonica cadenza e tenera dissennatezza. Guarda! e` gia` il crepuscolo. Torna la notte, si lamenta Un’indole mortale, Un’altra si addolora. Rabbrividisce sotto stelle autunnali E si china piu` profondamente, Ogni anno, il capo.

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A LUCIFERO a (vv. 1-3) Al sacrigenio concedi la tua fiamma, ardente gravezza. Sospirando, si erge il capo nella mezzanotte, Ai piedi della verdefiorita collina di primavera...

a

TGA, Bd 3, p. 14. [NdC]

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IL TEMPORALE (p.t.) Voi, selvagge montagne, sublime Lutto delle aquile. Nuvola d’oro Va come fumo su un deserto di pietra. Paziente fermezza respirano i pini, I neri capretti lungo il burrone, Dove all’improvviso l’azzurrita` Diviene stranamente muta, Il mite ronzio dei bombi. O verde in fiore – O tacere. Gli oscuri genıˆ del torrente Sconvolgono come in sogno il cuore, Tenebra, Che irrompe sugli orridi! Bianche voci Erranti attraversano lugubri cortili, Terrazzi in frantumi, Il vigoroso adirarsi dei padri, il lamento Delle madri, Il dorato grido di guerra del fanciullo E indole disingenita Che sospira da occhi ciechi.

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O dolore, tu, fiammeggiante osservare Della grande anima! Gia` guizza fra la nera confusione Di cavalli e carri Un orrendo fulmine rosa Nel risonante abete. Magnetico fresco Si libra attorno a questo fiero capo, Ardente gravezza d’animo Di un Dio adirato. Angoscia, tu, serpe velenosa, Nera, muori sul blocco di roccia! Ecco: precipitano Furiosi fiumi di lacrime, Pieta` di tempesta, Un’eco di tuoni minacciosi Circonda le cime innevate. Fuoco purifica la notte dilaniata.

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IL TEMPORALE (s.t.) Voi, ferine montagne, delle aquile Nobile tormento. Nuvola d’oro, Un fumo su un deserto di pietra. Paziente fermezza respirano i pini, I neri capretti sul burrone, Dove all’improvviso l’azzurrita` Stranamente ammutisce, Il mite ronzio dei bombi. O verde in fiore – O tacere. Gli oscuri sacrigenıˆ del ferino ruscello Assalgono in uno sgomento di sogno il cuore, Tenebra, Che irrompe sui dirupi! Bianche voci Errano in orride corti, Terrazze scisse di crepe, Il vigoroso rancore dei padri, il lamento Delle madri, Aureo grido di guerra del fanciullo Mentre un’indole disingenita Sospira da occhi ciechi.

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O dolore, tu, fiammeggiante osservare Della grande anima! Gia` guizza fra la nera mischia Di cavalli e carri Un’orrenda folgore rosa Nel risonante abete. Un fresco magnetico Si leva attorno a questo fiero capo, Ardente gravezza d’animo Di un Dio in preda all’ira. Angoscia, tu, serpe velenosa, Nera, muori nel blocco di roccia! Laggiu` cadono Ferini fiumi di lacrime, Benigno cuore di tempesta, Attorno echeggiano fra spaventosi tuoni Le cime innevate. Fuoco purifica l’intima scissura della notte.

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TRASFIGURANTE RISCHIARAMENTO (p.t.) Quando viene la sera Lievemente ti abbandona un volto azzurro. Un piccolo uccello canta nell’albero di tamarindo. Un mite monaco Congiunge le mani avvinte dalla morte. Un bianco angelo visita Maria. Una notturna ghirlanda Di viole, grano e vite purpurea E` l’anno del guardante. Ai tuoi piedi Si dischiudono le tombe dei morti Quando lasci giacere la fronte tra le argentee mani. Silente abita Sulla tua bocca la luna autunnale, Ebbro del succo di papavero un oscuro canto; Fiore azzurro, Che lieve e profondo risuona nell’ingiallito blocco di roccia.

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TRASFIGURANTE RISCHIARAMENTO (s.t.)

L’anno del guardante E` una notturna ghirlanda Di viole grano e pupurea vite.

Ferma silente abita Sulla tua bocca l’autunnale luna, Ebbro di papavero oscuro canto; Fiore azzurro, Che lieve e profondo risuona fra ingiallite rocce.

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TRASFIGURANTE RISCHIARAMENTO (t.t.) Quando si fa sera Lieve ti lascia un azzurro volto. Canta un uccellino nel tamarindo. Un mite monaco Dalle mani congiunte, avvinte dalla morte. Un bianco angelo investe e mette a prova Maria. Un serto notturno Di viole, grano e vite purpurea – Questa e` l’ora del guardante. Quando appoggi la fronte tra le argentee mani, Ai tuoi piedi Si stagliano le sepolture dei morti. Ferma abita Sulle tue labbra la luna d’autunno, Canto oscuro – ebbro di papavero; Fiore azzurro, Che risuona, lieve, fra le rocce ingiallite.

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GRODEK (p.t.) A sera i boschi autunnali risuonano Di armi mortifere, le dorate pianure E gli azzurri laghi, sui quali il sole, Piu` buio, lentamente rotola; avvolge la notte Morenti guerrieri, il ferino lamento Delle loro bocche straziate. Ma silenti si raccolgono sui profondi pascoli Rosse nuvole, dove abita un Dio adirato, Il sangue sparso, lunare freschezza; Tutte le strade finiscono in nera putredine. Sotto il dorato intreccio di rami della notte, sotto le stelle, Ecco l’ombra della sorella oscillare nel tacito bosco: Saluta i sacrigenıˆ degli eroi, le teste sanguinanti; E lievi e profondi risuonano nel canneto gli oscuri flauti dell’autunno. O lutto piu` fiero! Voi, altari di bronzo, Un vigoroso dolore nutre oggi la cocente fiamma del sacrigenio, I disingeniti, i nipoti.

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GRODEK (s.t.)

Tutte le strade finiscono in nera destanziazione.

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GRODEK (t.t.)

Tutte le strade si chiudono in nera putrescenza. Sotto i rami d’oro della notte, sotto le stelle, L’ombra della sorella vacilla nel tacere del bosco: Saluta i sacrigenıˆ degli eroi, le teste insanguinate; ...

O piu` fiero lutto! ...

I disingeniti nipoti.

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NEL VILLAGGIO (2. vv. 1-2) Il povero, che morı` solitario nel sacrigenio, Cereo sale su per un antico sentiero. ... IL PELLEGRINO (vv. 7-10) ... Lontano da pastori celebranti. Sull’antico blocco di roccia, Il rospo guarda da occhi di cristallo, Si leva il vento in fiore, la voce d’uccello di colui che e` simile al morto E i passi inverdiscono lievemente nel bosco. ... MUSA SERALE (v. 9 e vv. 13-14) ... L’anima ascolta volentieri le favole del bianco mago. ... Ebbre di brezza presto si chiudono torpide le palpebre E si dischiudono lievemente su estranei segni di stelle. ... CANZONE SERALE (distico finale) ... Ma quando l’oscuro salubre tono investe e mette a prova l’anima, Appari tu, bianca, nell’autunnale contrada dell’amico.

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SUSSURRATO NEL POMERIGGIO (p.t.) Sole d’autunno, fioco ed esitante, E la frutta cade dagli alberi. Silente fermezza abita, in azzurre stanze, Un lungo pomeriggio. Suoni di morte vibranti nel metallo; E un bianco animale crolla a terra. Roche canzoni di brune fanciulle Sono soffiate via nel cadere di foglie. Fronte sogna colori di Dio, Avverte le miti ali della dissennatezza. Ombre prillano sulla collina Immerse nel nerume della decomposizione. Crepuscolo colmo di quiete e vino. Fluiscono tristi chitarre, perdendosi. E la tenue luce della lampada, a casa, Ritrovi come nel sogno.

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SUSSURRATO NEL POMERIGGIO (s.t.) Sole, autunnalmente fioco ed esitante

Ombre prillano sulla collina Immerse nel nerume della destanziazione.

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SUSSURRATO NEL POMERIGGIO (t.t.)

Fronte sogna colori di Dio, sente le miti ali della dissennatezza. Ombre volteggiano sulla collina Orlate dal nerume della putredine.

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SUSSURRATO NEL POMERIGGIO (quarta t.) Sole autunnale, esile, esitante, Mentre la frutta cade nei giardini. Fermezza abita, in luoghi turchini, Un pomeriggio nel suo lungo istante. Suoni di metallo: suoni di morte; E un bianco animale cade – e smuore. Fioche canzoni di fanciulle scure, Soffiate via, tra le foglie smorte. Fronte sogna divina beatitudine, Sente le ali della dissennatezza. Ombre, sul colle, come una brezza, Prillano, nerastre, nella putredine. Crepuscolo colmo di fermezza e vino. Chitarre scorrono in un dolore. A casa, al serale chı¨arore, Come in sogno, sei ancora vicino.

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PALESAMENTO E TRAMONTO (dalla prima strofa)

... Lievemente uscı` dal muro imbiancato di calce un indicibile volto – un adolescente vicino alla morte – il nitore, la nitida bellezza, di una progenie che rimpatria, che torna a casa. ...

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ESPERIA A Else Lasker-Schu¨ler – con venerazione (p.t.) 1. Luna, come se uscisse un’indole morta Dall’azzurra caverna, E cadono fiori e fiori Sul sentiero di roccia. Argentea piange un’indole malata Sulla riva dello stagno serale, Su una nera barca, Gli amanti lentamente trapassarono. Oppure ecco squillare i passi Di Elis nel bosco, Il bosco di giacinto, Quei passi che ancora riecheggiano per spegnersi Lontano sotto le querce. Oh, forma del fanciullo Forgiata da lacrime cristalline, Da ombre notturne. La frastagliata luce delle folgori rischiara la tempia, La sempre fresca, Quando ai piedi della verdeggiante collina in fiore Risuona profondamente il temporale primaverile.

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2. Sono cosı` lievi i verdi e fioriti boschi Della nostra patria, L’onda di cristallo Che lentamente muore lungo mura in rovina E abbiamo pianto nel sonno; Esita sui suoi passi il migrare Dei cantori lungo la spinosa siepe Nell’estate serale In una salubre quiete Del lontano radioso vigneto; Ombre ora nel fresco grembo Della notte, aquile in lutto. Contrae cosı` lievemente un raggio di luna Le purpuree screziature della gravezza. 3. Voi, grandi citta` Di pietra costruite Nella pianura! Cosı` senza lingua, senza parola Il senzapatria segue Con oscura fronte il vento, Gli alberi spogli sulla collina.

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Voi, lontananti crepuscoli dei fiumi! Vigorosa angoscia Dal rabbrividente rosso serale Nel cielo nuvoloso di tempesta. Voi, popoli morenti! Pallida onda Che s’infrange sulla riva della notte, Stelle cadenti.

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ESPERIA (s.t.) Gli amanti si lasciarono avvincere dalla morte

Cosı`, senza parola, l’esule...

Voi, lontano, fiumi al crepuscolo! Vigorosamente angoscia Il rabbrividente rosso serale Nelle tempestose nuvole.

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ESPERIA (t.t.)

Amanti si lasciarono avvincere dal trapasso

Voi, lontananti crepuscolanti fiumi!

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NELL’OSCURO Ecco: l’anima tace l’azzurra primavera. Sotto un serale intreccio di umidi rami Si lascio` cadere tra i brividi la fronte agli amanti. Oh, la verdeggiante croce. In oscuro colloquio Si riconobbero uomo e donna. Lungo il muro spoglio Passeggia con la sua trama di stelle il solitario. Sui cammini del bosco sfolgoranti di luna Calo` di colpo la ferina selva Di cacce dimenticate; occhiata dell’azzurrita` Irrompe dalla roccia in rovina.

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CANZONE DI KASPAR HAUSER Per Bessie Loos In verita` lui amo` il sole, che scendeva purpureo giu` per la collina, I cammini del bosco, il nero uccello canoro, E la gioia del verde fiorito. Era serio il suo abitare all’ombra degli alberi E puro il suo volto. Dio parlo` una mite fiamma al suo cuore: O uomo! Fermo il suo passo trovo` la citta` di sera; L’oscuro lamento della sua bocca: Voglio diventare un cavaliere. Ma lo seguirono cespuglio e animale, Casa e crepuscolare giardino di bianchi uomini E il suo assassino lo cerco`. Primavera ed estate e nitido l’autunno Del giusto, il suo lieve passo Lungo le oscure stanze dei sognanti. Di notte resto` con la sua stella, solo; Vide la neve cadere su uno spoglio intrico di rami E, nel corridoio crepuscolare, l’ombra dell’assassino. Argenteo si lascio` cadere il capo del disingenito.

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Georg Trakl

Il canto dell’esule

CANTO DI UN MERLO PRIGIONIERO Per Ludwig von Ficker

Oscuro respiro nell’intreccio verdefiorito dei rami. Piccoli fiori azzurri si librano attorno al volto Del solitario, al passo d’oro Che, sotto l’ulivo, si lascia avvincere dalla morte. Si leva in volo sbattendo le sue ebbre ali la notte. Cosı` lieve sanguina l’umilta`, Rugiada, che lentamente gocciola dalla spina fiorita. Pieta` di raggianti braccia Stringe un cuore che si spezza.

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RIPRESA E FINE Il cuore Il temporale La notte

«Ma l’accordo di terza, costituito dai tre dettati tardi: Il cuore, Il temporale e La notte, e` intonato sul cantare – uno, inesausto e medesimo – dell’esilio, in un modo talmente nascosto che il nostro tentativo di puntualizzare il dettato d’origine si trova qui rafforzato nel proposito di lasciare questi tre dettati, senza una sufficiente delucidazione, al profondo risuonare del loro canto.» (Si veda infra, pp. 353-55)

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Il canto dell’esule

IL CUORE Il ferino cuore divenne bianco vicino al bosco; Oh – oscura angoscia Della morte, cosı` l’oro In grigia nuvola morı`. Sera di novembre. Alla spoglia porta del mattatoio se ne stava Lo stuolo delle povere donne; In ogni paniere Caddero carne marcia e frattaglie; Cibo afflitto! L’azzurra colomba della sera Non porto` la conciliazione. Un oscuro richiamo di tromba Attraverso` l’umido dorato fogliame Degli olmi, Una bandiera lacera Fumante di sangue, Finche´ in ferina gravezza Un uomo si tende all’ascolto. Oh! Voi, tempi di bronzo Sepolti la` nel rosso della sera. Dall’oscuro corridoio uscı` L’aurea forma Della adolescente

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Circondata da pallide lune, Autunnale corteggio, Si piegarono, spezzandosi, neri abeti Nella tempesta della notte, La scoscesa fortezza. O cuore Scintillante fino al fresco della neve.

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IL TEMPORALE (s.t.) Voi, ferine montagne, delle aquile Nobile tormento. Nuvola d’oro, Un fumo su un deserto di pietra. Paziente fermezza respirano i pini, I neri capretti sul burrone, Dove all’improvviso l’azzurrita` Stranamente ammutisce, Il mite ronzio dei bombi. O verde in fiore – O tacere. Gli oscuri sacrigenıˆ del ferino ruscello Assalgono in uno sgomento di sogno il cuore, Tenebra, Che irrompe sui dirupi! Bianche voci Errano in orride corti, Terrazze scisse di crepe, Il vigoroso rancore dei padri, il lamento Delle madri, Aureo grido di guerra del fanciullo Mentre un’indole disingenita Sospira da occhi ciechi.

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O dolore, tu, fiammeggiante osservare Della grande anima! Gia` guizza fra la nera mischia Di cavalli e carri Un’orrenda folgore rosa Nel risonante abete. Un fresco magnetico Si leva attorno a questo fiero capo, Ardente gravezza d’animo Di un Dio in preda all’ira. Angoscia, tu, serpe velenosa, Nera, muori nel blocco di roccia! Laggiu` cadono Ferini fiumi di lacrime, Benigno cuore di tempesta, Attorno echeggiano fra spaventosi tuoni Le cime innevate. Fuoco Purifica l’intima scissura della notte.

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Il canto dell’esule

LA NOTTE Canto te, ferina stagliatura, Nella tempesta della notte Turrita montuosa roccaforte; Voi, grigie torri Traboccanti di mostri infernali, Di bestie di fuoco, Di ruvide felci, di abeti, Di fiori cristallini. Infinito tormento: Che tu abbia braccato e catturato Dio, Mite sacrigenio, Che mandi un sospiro nella cascata, E fra ondeggianti pini. Aurei divampano i fuochi Dei popoli intorno. Su rocce nerastre Si scaglia, ebbra di morte, L’ardente turbine – la sposa del vento –, L’azzurra onda Del ghiacciaio Ed echeggia Vigorosa la campana nella valle: Fiamme, maledizioni, piaghe E gli oscuri Giochi della volutta`, Assalta tempestosamente il cielo Una testa pietrificata.

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MAR TIN HEIDEGGER

DIE SPRACHE IM GEDICHT Eine Ero¨rterung von Georg Trakls Gedicht

LA PAROLA NELLA POESIA 1 Una puntualizzazione del dettato d’origine di Georg Trakl

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Martin Heidegger

La parola nella poesia

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«Puntualizzare», qui, significa innanzitutto: indicare al fine di per-venire al punto, al punto ortivo. E quindi vuol dire: prestare attenzione al punto. Entrambi, l’indicare al fine di pervenire al punto ortivo e il prestarvi attenzione, costituiscono i passi preparatorıˆ di una puntualizzazione. Tuttavia avremo gia` osato abbastanza se, in quel che segue, ci accontenteremo di tali passi preparatorıˆ. La puntualizzazione, come si addice a un cammino del pensiero, trova il suo esito in un problema e quindi in una domanda. In quest’ultima viene interrogata la temperie locale del punto ortivo. La puntualizzazione, qui tentata, parla di Georg Trakl solo nella seguente modalita`: essa pondera il punto ortivo del suo dettato d’origine. Agli occhi di un’epoca storiograficamente, biograficamente, psicanaliticamente, sociologicamente interessata alla nuda espressione, una tale maniera di procedere appare come manifestamente unilaterale, se non addirittura come una via aberrante. La puntualizzazione pondera il punto ortivo. essa rinvia piuttosto al tedesco Ort, quando quest’ultimo sia pero` preso nel significato originario di «punta della lancia». In esso , tutto concorre e converge. Il punto raccoglie presso di se´ allogando fin nel supremo e nell’estremo. Cio` che e` in tal modo raccogliente pervade tutto stanziandovisi intimamente. . Il punto ortivo, l’elemento raccogliente, ottiene per se´ e accoglie in se´; quindi, custodisce cio` che ha ottenuto e accolto. Lungi dall’operare alla maniera di una capsula che tutto rinchiuda ermeticamente in se´, il punto ortivo riempie di luce e pervade di splendore cio` che ha raccolto: unicamente in tal modo, lo ri-lascia nel e al suo pieno stanziarsi. Si tratta ora di puntualizzare quel punto che raccoglie il dire poetante di Georg Trakl allogandolo entro i confini del suo dettato d’origine, vale a dire: si tratta di puntualizzare il punto ortivo del suo dettato d’origine. Ogni grande poeta – ossia: ogni grande dettatore in senso stretto – detta unicamente muovendo da un unico dettato d’origine. La grandezza si misura da questo: da quanto egli venga affidato e addetto a quest’unicum in modo tale da poter mantenere il proprio dire dettante-poetante puramente addentrato nel fulcro del suddetto unicum a. Il dettato d’origine di un poeta si disdice alla parola. Nessuno dei singoli a 3.

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dettati dice tutto; ma non dice tutto neppure la loro integrale raccolta. Ciononostante ogni dettato parla muovendo dall’intero dell’uno e inesausto dettato d’origine, e ogni volta dice unicamente tale uno e inesausto. Dal punto ortivo del dettato d’origine sorge l’onda che, sempre di nuovo, incammina il dire in quanto (dettante-)poetante. Quest’onda tuttavia non abbandona mai il punto ortivo del dettato d’origine; al contrario, il suo fluente sorgere lascia che ogni incamminamento dell’in-dizione rifluisca verso l’origine sempre piu` celata. Il punto ortivo del dettato d’origine, in quanto e` la fluida sorgente dell’onda che incammina, reconde il celato stanziarsi di cio` che all’adduttivo modo di pensare metafisico-estetico puo`, in prima battuta, apparire come ritmo. Ora, giacche´ l’unico dettato d’origine resta in se´ fermo nel suo disdirsi alla parola, possiamo puntualizzare il suo punto ortivo soltanto se tentiamo di ‘‘venire a tale punto’’ indicandolo a partire dal parlato di singoli dettati. Ma per far questo, ciascun dettato ha gia` bisogno di una delucidazione. Quest’ultima conduce a un primo risplendere quella luce limpida – quella squillante chiarezza – che riempie di fulgore tutto cio` che e` poeticamente detto. Si vede facilmente come una corretta delucidazione presupponga gia` la puntualizzazione. I singoli dettati, infatti, rilucono e sono udibili solo a partire dal punto ortivo del dettato d’origine. Viceversa, una puntualizzazione del dettato d’origine ha gia` bisogno di un pre-cursivo passaggio attraverso una prima delucidazione di singoli dettati. Ogni intimo colloquio pensante con il dettato d’origine di un poeta insiste fermamente in questo contratto di scambio fra puntualizzazione e delucidazione. Il solo vero intimo colloquio con il dettato d’origine di un poeta e` quello poetante: e` il colloquio (dettatico-)poetico fra poeti. Tuttavia e` possibile, e qualche volta addirittura necessario, un intimo colloquio del pensare con il dettare poetico, con il poetare; cio` si deve al fatto che a entrambi si addice, per costituzione, un in se´ ben stagliato contegno – sebbene per ognuno diverso – con la parola della lingua madre. Il colloquio del pensare con il poetare mira a questo: a con-clamare lo stanziarsi costitutivo della lingua madre affinche´ i mortali imparino di nuovo ad abitare in essa, ossia nella sua parola.

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Martin Heidegger

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L’intimo colloquio del pensare con il poetare durera` a lungo. Esso e` appena iniziato. Di fronte al dettato d’origine di Georg Trakl, poi, esso ha bisogno di un particolare ritegno. L’intimo colloquio pensante con il poetare puo` prestare aiuto al dettato d’origine – e sostenerlo – solo in modo mediato. Per questo, esso e` sempre esposto al pericolo di disturbare il dire (l’indicare) del dettato d’origine, invece di lasciarlo cantare a partire dalla sua propria quiete (requie) 4. La puntualizzazione del dettato d’origine e` un intimo colloquio pensante con il poetare. Essa non espone la visione del mondo di un poeta, ne´ va a esaminare il suo laboratorio. Ma la cosa piu` importante e` che una puntualizzazione del dettato d’origine non potra` mai sostituire l’ascolto dei dettati e neppure guidarlo. La puntualizzazione pensante puo` al massimo rendere l’ascolto intimamente problematico, e, nel migliore dei casi, far sı` che divenga piu` raccoltamente senziente. Ripensando continuamente ai suddetti limiti, tenteremo innanzitutto di pervenire al punto ortivo del – fermamente disdetto alla parola – dettato d’origine. Ma per fare questo, dobbiamo partire dai singoli dettati parlati. Resta, naturalmente, la domanda: da quali? Il fatto che ognuno dei dettati di Trakl indichi, in un modo sempre puntuale, sebbene non uniformemente, verso il punto ortivo, uno e inesausto, del dettato d’origine, costituisce il piu` chiaro indizio della singolare intesa unisona fra tali dettati – quell’intesa unisona che sorge dal tono di fondo, anch’esso uno e inesausto, del suo dettato d’origine. In quel che segue, tenteremo di dare un cenno in direzione del suo punto ortivo. Tale cenno dovra` pero` intanto basarsi solo su una scelta di qualche strofa, di qualche verso e di qualche frase. Daremo sicuramente l’impressione di procedere in modo arbitrario. La scelta, tuttavia, e` guidata dal proposito di trasporre la nostra attenzione, quasi come attraverso un balzo del colpo d’occhio, al punto ortivo del dettato d’origine. I Uno dei dettati dice: Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra.

Improvvisamente, con questa frase, ci troviamo ricondotti a una ben nota rappresentazione. Essa ci fa immaginare la terra come il terrestre nel senso dell’effimero. L’anima, invece, e` il non effimero, l’ultraterreno. A partire

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dalla dottrina di Platone in avanti, l’anima appartiene all’ultrasensibile. La sua apparizione nel sensibile, poi, e` solo una degenerazione. Qui giu`, ‘‘sulla terra’’, non e` dato, per essa, il retto genere, il retto colpo di genesi. Non appartiene alle cose terrene. L’anima e` qui «un’indole estranea». Il corpo e` un suo carcere, se non, addirittura, qualcosa di peggiore. Cosı` all’anima non rimane, evidentemente, altra via d’uscita se non quella di lasciare al piu` presto il regno del sensibile, che, visto platonicamente, e` il vero e proprio inessente, e quindi nient’altro che l’inconsistente, il destanziato (il putrescente). Pero`, che strano! La frase Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra.

parla da un dettato intitolato Primavera dell’anima [supra, p. 17] a. Di una patria ultraterrena dell’anima immortale non vi si fa motto. Diveniamo allora pensosi e prestiamo bene attenzione al modo in cui parla la lingua del poeta < – e quindi: al modo in cui egli si intona dettaticamente nella propria lingua madre e al conseguente modo in cui noi traduciamo nella nostra lingua madre>. L’anima: ein Fremdes, ossia «un’indole estranea». In altri dettati, servendosi dello stesso tipo di dicitura b, Trakl dice spesso e volentieri: «ein Sterbliches», «un’indole mortale» [supra, p. 215], «ein Dunkles», «un’indole oscura» [supra, p. 195], ein «Einsames», una «indole solitaria», «ein Abgelebtes», «un’indole estinta» [supra, p. 189], «ein Krankes», «un’indole malata» [supra, pp. 171 e 253], «ein Menschliches», «un’indole umana», «ein Bleiches», «un’indole pallida, smorta», «ein Totes», «un’indole morta», «ein Schweigendes», «un’indole tacita, taciturna». Tale tipo di dicitura, indipendentemente dalla diversita` del proprio rispettivo contenuto, non ha sempre lo stesso senso. Ad esempio , una «indole solitaria» potrebbe voler indicare un ente isolato che, a seconda dei casi, mostri di possedere il carattere della solitarieta`; «un’indole estranea» si potrebbe riconoscere in un ente isolato o appartato il quale, in modo contingente, da un punto di vista particolare e limitato, si mostri essere di natura «estranea» o «strana». Un’«indole estranea» di questo genere si lascia in-

a

I numeri di pagina rinviano al primo volume («Die Dichtungen») della VI ed. (1948) della Trakl-Ausgabe edita per i tipi di Otto Mu¨ller (Salisburgo). Una «prima edizione integrale» delle Dichtungen, curata dall’amico di Trakl, Karl Ro¨ck, e` apparsa nel 1917 presso l’editore Kurt Wolff di Lipsia. Una nuova edizione (con un’appendice di testimonianze e ricordi) e` stata curata da K. Horowitz (ArcheVerlag, Zurigo 1946). [NdA] b Da intendere qui come un neologismo semantico: dizione, gia` in uso, pensata in un senso nuovo. [NdC]

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quadrare e riporre nella categoria dell’estraneo e dello strano in generale. Immaginata e presentata in tal modo, l’anima non sarebbe nient’altro che una delle tante ‘‘nature’’ strane o estranee che possano aver luogo. Ma che vuol dire «estraneo» , anche nel senso di «strano» e di «straniero»? Normalmente, con questo termine, s’intende cio` che non e` familiare, cio` che, negando il proprio senso, risulta non gradito, qualcosa che si mostra piuttosto gravoso e inquietante . «Estraneo», ovvero: gia` via, gia` lontano, vale a dire: gia` avanti verso un altro punto o luogo, gia` (anticipatamente) nell’incamminamento verso..., incontro a cio` che e` gia` sempre tenuto in serbo. L’indole estranea migra innanzi e in anticipo. Ma non se ne va in giro per il mondo indecisa, priva di tono e di destinazione. L’indole estranea va in cerca di quel punto ortivo dove puo` trattenersi [soggiornare, abitare] come un’indole peregrinante e migrante. «Un’indole estranea» – a se stessa appena palese – segue gia` quel richiamo che le ingiunge di incamminarsi verso cio` che le si addice. Il poeta chiama l’anima «un’indole estranea sulla terra». Ma la terra e` proprio il luogo dove il suo peregrinare e migrare non e` ancora potuto giungere. L’anima, innanzitutto, cerca ancora la terra; quindi, non la fugge affatto. Rimanere migrante in cerca della terra, per potervi costruire e abitare in senso poeticamente dettatico e cosı` poterle offrire una via di scampo innanzitutto come terra – questo esaudisce e rende compiuto lo stanziarsi dell’anima. Cosı`, dunque, l’anima non e` affatto innanzitutto ‘‘anima’’, per poi rimanere, in virtu` di un qualsivoglia motivo, un che di non appartenente alla terra. La frase Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra.

detta piuttosto una denominazione dello stanziarsi costitutivo di cio` che chiamiamo «anima». La frase non contiene alcuna asserzione intorno all’anima data gia` per nota nella propria ‘‘essenza’’, come se si trattasse solo di constatare, nella forma di un’integrazione, che le sia occorso cio` che, per essa, e` innaturale ed estraneante, ossia il non poter mai trovare, sulla terra, asilo o consolazione. Al contrario, l’anima, proprio in quanto anima, e quindi nel tratto fondamentale del proprio stanziarsi, e` «un’indole estranea sulla terra». Cosı` essa rimane l’indole in incamminamento e segue, migrando, il tratto, la «corrente», della propria stanziatura. Ma intanto ci incalza la domanda: dove e` chiamato a dirigere il proprio passo cio` che resta, nel senso appena delucidato, «un’indole estranea»? La seconda strofa della terza parte del dettato in-

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titolato Sebastiano nel sogno [supra, p. 25] risponde: Oh, un seguire, a passi fermi, in silenzio, la corrente dell’azzurro fiume, Sentendo un’indole dimenticata, quando, dalla trama verdefiorita dei rami, Il tordo chiamo` al tramonto un’indole estranea.

L’anima e` chiamata a entrare nel tramonto (ovvero a tramontare). – Ma sı`! Essa dovra` concludere il suo pellegrinaggio terreno e abbandonare la terra. Di questo, nei versi citati, non si fa parola. Essi, pero`, parlano del «tramonto». Certo. Solo che qui il tramonto non e` l’occaso, ossia non e` affatto una catastrofe, e non e` neppure il mero estinguersi nel declino e nella rovina. Cio` che tramonta, seguendo la corrente dell’«azzurro fiume», ... tramonta in quiete e tacere «Rischiarato autunno» (supra, p. 29)

In quale quiete? Nella requie del morto. Ma di quale morto? E in quale tacere? Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra.

Il verso, cui appartiene questa frase, continua cosı`: ... Sacrigenamente s’increpuscola Azzurrita` sopra il bosco colpito....

Prima, viene menzionato il sole. Il passo dell’indole estranea se ne va [va via] verso il crepuscolo. L’«increpuscolarsi» – nel senso del graduale insorgere e levarsi dei toni crepuscolari, chiarobruni – designa innanzitutto il sopraggiungere dell’oscurita`. «Azzurrita` s’increpuscola». Forse si oscura l’azzurrescenza del dı` soleggiato? Scompare, di sera, in favore della notte? «Crepuscolo», tuttavia, qui non significa il mero tramontare del giorno inteso come caduta del chiarore o della chiarita` quotidiani nelle tenebre. In generale, «crepuscolo» (da creper, chiarobruno) non vuol dire necessariamente «tramonto», «ponente». Anche il primo mattino s’increpuscola. Con esso, si leva il giorno. Dunque il crepuscolo e` anche una levata . Azzurrita` s’increpuscola – cioe` si leva e si staglia in chiarobruno – sopra il bosco «colpito», vale a dire abbattuto e percio` reso inaccessibile, come ‘‘sprofondato’’ in se stesso. L’azzurrita` della notte si leva di sera.

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Geistlich, «sacrigenamente», s’increpuscola – si leva e si staglia in chiarobruno – l’azzurrita`. Il Geistliche, la «tempra o indole sacrı`gena», caratterizza il crepuscolo. Al momento opportuno, dovremo ponderare cio` che viene inteso con questa dizione piu` volte menzionata: Geistliche, «tempra, indole sacrigena», «sacrigeno». Il crepuscolo e` il declino del corso del sole. In cio` e` contenuta la seguente indicazione: il crepuscolo e` il declino del giorno ed e` anche il declino dell’anno. L’ultima strofa di un dettato, che s’intitola Declino dell’estate [supra, pp. 33 e 35], canta : La verde estate si e` fatta Cosı` lieve, ed ecco squilla il passo Dello straniero nella notte d’argento. Oh – se solo ripensasse un’azzurra fiera al suo sentiero, Al salubre tono dei suoi sacrigeni anni! —— La verde estate e` divenuta Cosı` lieve, ed ecco squillare il passo Dello straniero nell’argentea notte. Ripensi un’azzurra fiera al suo sentiero, Alla tonica cadenza dei suoi anni sacrigeni!

Ritorna sempre, nei dettati di Trakl, questo «cosı` lieve» (o anche: «cosı` lievemente»). Noi crediamo che «lieve» significhi: appena percettibile dall’orecchio (debole, fioco). In questa accezione, cio` che e` nominato diviene relativo al nostro rappresentare e immaginare. Ma «lieve» significa : leggero, nel senso di cio` che volteggia nell’aria e va via adagio, con discrezione. Il lieve e` cio` che sfugge dalle mani (scivolando via). L’estate sfugge, scivola via nell’autunno, nella sera dell’anno. ... ed ecco squilla il passo Dello straniero nella notte d’argento.

Chi e` questo straniero? A chi appartengono i sentieri ai quali dovrebbe ripensare «un’azzurra fiera»? «Ripensare a... » – nel senso di «riandare con il pensiero», «rammemorare» – significa: «sentire un’indole dimenticata», ... quando, dalla trama verdefiorita dei rami, Il tordo chiamo` al tramonto un’indole estranea. (si veda supra, pp. 25, 29)

In che senso «un’azzurra fiera» [supra, pp. 33, 35] deve, pensando in modo consono a cio` che tramonta, ripensare a quest’ultimo? La fiera assume forse la propria azzurrescenza da quell’«azzurrita`» che «sacrigenamente s’increpuscola» e che, quindi, si leva come notte? Certo, la notte e` oscura.

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Ma l’oscuro non e` necessariamente tenebra. In un altro dettato [supra, p. 37], la notte e` invocata con queste parole: Oh, il mite fascio di ciani della notte. 5

Un fascio – una raccolta – di fiordalisi e` la notte, un fascio mite, una mite raccolta. In accordo con tale senso, l’azzurra fiera si chiama anche la «fiera timorosa» [supra, p. 47], il «mite animale» (la bestia docile, leggera) [supra, p. 175]. Il fascio, la raccolta d’azzurrita` alloga, nel fondo del proprio composto cogliere, la profondita` dell’indole salubre 6. Dall’azzurrita` riluce l’indole salubre, ma, simultaneamente, si cela attraverso quell’oscuro che si addice all’azzurrita`. L’indole salubre si trattiene nell’istante in cui si ritrae. Offre il proprio avvento nell’istante in cui si preserva convenendo interamente con l’in se´ trattenentesi ritraimento. Chiarita` recondita nella tempra stessa dell’oscuro e` l’azzurrita`. Chiaro, ossia cları`sono, e`, originariamente, quel tono che chiama dall’indole reconsiva della silente fermezza 7 e cosı` si staglia. L’azzurrita` vibra chiara, cioe` risuona nella propria chiarita`, squillando. Nella clarisona chiarita` dell’azzurro riluce il suo oscuro. I passi dello straniero squillano nell’argentino fulgore della notte. Un altro dettato canta [supra, p. 47]: E in salubre azzurrita` squillano passi rilucenti.

Altrove [supra, p. 53], dell’azzurrita` e` detto: ...La salubre indole di fiori azzurri ... commuove il guardante.

Un altro dettato dice [supra, p. 57]: ... Un viso di animale S’irrigidisce dinanzi all’azzurrita` cosı` intensa, alla sua salubrita`.

L’azzurro non e` un’immagine che serva a richiamare il senso del salubre. Nella sua raccogliente profondita`, che risplende proprio soltanto nel celamento, l’azzurrita` stessa e` l’indole salubre. Colto dall’avvistamento dell’azzurrita` e, nello stesso tempo, condotto, attraverso l’intensa estensione d’azzurrita`, a rattenersi in se stesso, il viso dell’animale s’irrigidisce e assume il volto della fiera.

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La rigidezza del viso dell’animale non e` la rigidita` cadaverica. Nell’irrigidirsi, il viso dell’animale ha un sussulto di ravvedimento. Il suo stare nell’evidenza si raccoglie per guardare, rattenendosi in se stesso e pro-tendendosi incontro all’indole salubre, nello «specchio della verita`» [supra, p. 57]. «Guardare», nel senso di «osservare», vuol dire: entrare nel tacere e assumerne la tempra. Vigoroso, nella pietra, il tacere.

suona il verso immediatamente seguente. La pietra e` la roccaforte, cioe` la reconsione, del dolore. La pietra, come blocco di roccia, raccoglie, recondendola nell’indole pietrosa, l’indole mitigante; in quanto tale, il dolore rafferma nel temprato silenzio dell’essenziale. «Dinanzi all’azzurrita` cosı` intensa» tace il dolore. Il volto della fiera, colto dall’avvistamento dell’azzurrita`, si riprende nella mitezza. Infatti la mitezza, la mite indole, e` cio` che pacificamente raccoglie e alloga. Essa tramuta la tesa duplicita`, mentre vince la lesivita` e l’indole infuocante della selva ferina dando a entrambe la tempra del dolore quietato. Chi e` l’azzurra fiera alla quale il poeta esclama e quasi grida di ripensare allo straniero? Un animale? Certo. Ma: solo un animale? Niente affatto. Tant’e` che deve ri-pensare. Il suo viso e i suoi occhi devono andare in cerca dello straniero e guardare e osservare di la` verso di lui. L’azzurra fiera e` un animale la cui animalita` non sembra affatto risolversi nell’animalesco, nella mera ferinita`; essa (animalita`) requia, piuttosto, in quell’osservante ripensare che il poeta invoca. Una tale animalita` e` ancora lontana, e puo` essere appena adocchiata. Cosı` l’animalita` dell’animale qui in questione oscilla nell’indeterminato [e` priva di intonazione costituente]. Essa non e` ancora stata condotta al riparo nel proprio stanziarsi costitutivo. Quest’animale, ovvero l’animale pensante, l’animal rationale, l’uomo, e` – in base a una dizione di Nietzsche – non ancora fest gestellt. Tale espressione non intende affatto asserire che l’uomo costituisca uno stato di cose non ancora ‘‘constatato’’. In realta`, lo e` fin troppo risolutamente. La dizione vuol dire: l’animalita` di questo animale resta non ancora raffermata nel senso che non e` ancora condotta nel firmum, ossia ‘‘a casa sua’’, nell’indole indigena – nell’ingenuita` – della propria celata stanziatura. Per una tale raffermazione lotta faticosamente, da Platone in poi, la metafisica europeo-esperide. Forse lotta invano. Forse il cammino verso l’«incam-

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minamento» e` per essa ancora impedito. L’animale non ancora raffermatonel proprio stanziarsi e` l’uomo odierno. Con la dettante denominazione «azzurra fiera», Trakl evoca quello stanziarsi dell’uomo il cui volto – ossia: l’occhiata che si volge in risposta, l’occhiata d’intesa –, mentre ripensa ai passi dello straniero, viene ab origine adocchiato dall’azzurrita` della notte, lasciandosi cosı` cogliere nello splendore dell’indole salubre. La dizione «azzurra fiera» denomina quei mortali che dovrebbero ripensare allo straniero e conseguire, in migrazione con lui, l’indole indigena dello stanziarsi dell’uomo. Ma chi sono coloro che intraprendono un tale migrante pellegrinaggio? Saranno certamente pochi e ignoti, se e` vero che cio` che e` costitutivo si addice nella fermezza del silenzio e in modo repentino e di rado 8. Il poeta evoca questi pellegrini migranti all’inizio della seconda strofa di Una sera d’inverno [supra, p. 61]: Alcuni, durante il pellegrinaggio, Giungono alla porta per oscuri sentieri.

L’azzurra fiera, dovunque si stanzi, ha gia` deposto la forma costitutiva dell’uomo durata fino ad ora. Quest’uomo decade nella misura in cui disperde il proprio stanziarsi costitutivo, vale a dire: quest’uomo si decompone, ossia si decostituisce, si de-stanzia. Trakl intitola Canto della morte – a sette voci uno dei suoi dettati. «Sette» e` il numero salubre. La salubre indole della morte: suona cosı` cio` che e` cantato in questo canto. La morte non viene qui addotta e immaginata, genericamente e con una certa stonatura, come la fine della vita terrena. «La morte» indica, poeticamente, quel «tramonto» o quel «ponente» cui e` chiamata «un’indole estranea». Per questo l’indole estranea, chiamata appunto a tramontare, e` detta anche «un’indole morta» [supra, p. 65]. La sua morte non e` affatto una destanziazione (decomposizione); essa consiste piuttosto nella deposizione della forma destanziata dell’uomo. Cosı` e` detto, infatti, nella penultima strofa del dettato Canto della morte – a sette voci [supra, p. 75]: O destanziata forma dell’uomo: compagine di freddi metalli, Di notte e di terrore di boschi sprofondati, E dell’infuocante ferina selva dell’animale. Calma di vento – dell’anima.

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La forma destanziata dell’uomo e` consegnata al martirio dell’indole infuocante e all’aculeo della spina. La sua ferinita` non e` pervasa dallo splendore dell’azzurro < – ossia: non s’illumina d’azzurrita`>. L’anima di questa forma umana non sta nel vento dell’indole salubre. Pertanto, essa non ha corsa. Cosı` il vento stesso, il vento di Dio, resta solitario. Un dettato, ove e` nominata l’azzurra fiera, che faticosamente riesce a liberarsi dal «groviglio di spine» (sterpaglia), si chiude con i versi seguenti [supra, p. 79]: Sempre risuona profondamente, Contro nere mura, il solitario vento di Dio.

«Sempre» vuol dire: finche´ l’anno e il proprio corso solare persistono ancora nel buio dell’inverno e nessuno ripensa al sentiero sul quale lo straniero attraversa, «con passo squillante», la notte. Questa notte, in se stessa, e` solo il celamento che reconde il corso del sole. Il «corso» e` la «corsa», il cammino, l’andare; «andare», i\e*mai, e` il significato primo della radice indoeuropea ier-, cui appartiene das Jahr, cioe` la hora – in italiano: «l’anno». Oh – se solo ripensasse un’azzurra fiera al suo sentiero, Al salubre tono dei suoi sacrigeni anni!

La sacrigena indole degli anni [delle horae] viene intonata da quell’azzurrita` che, increpuscolandosi sacrigenamente, diviene l’azzurro della notte. ... Oh, com’e` grave il volto di giacinto del crepuscolo. «Incamminamento» (supra, p. 81)

Il crepuscolo sacrigeno si stanzia in modo talmente costitutivo che il poeta intitola uno dei suoi dettati proprio cosı`: Crepuscolo sacrigeno [supra, p. 89]. Anche qui viene incontro la fiera, ma e` «un’oscura fiera». La sua indole ferina e` attratta dalle tenebre, e mostra anche un’inclinazione per la ferma, silente azzurrita`. Il poeta, intanto, solca «su una nera nuvola» lo «stagno notturno, il cielo stellato».

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Il dettato suona: Crepuscolo sacrigeno Ferma, silente viene incontro, ai margini del bosco, Un’oscura fiera; Ai piedi della collina, svanisce lievemente il vento della sera, Diviene muto il lamento del merlo, E i miti flauti dell’autunno Tacciono nel canneto. Su una nera nuvola, Tu, ebbro di papavero, solchi Lo stagno notturno, Il cielo stellato. Sempre risuona profondamente la lunare voce della sorella Nella notte sacrigena.

Il cielo stellato e` ritratto e simboleggiato nell’immagine poetica dello stagno notturno. Cosı` parla il nostro abituale intendere. Ma il cielo notturno, nella verita` del suo stanziarsi, e` questo stagno. Al contrario, cio` che rimane soltanto un’immagine, anzi la pallida e vuota imitazione del proprio stanziarsi, e` esattamente cio` che normalmente chiamiamo «la notte». Ritornano spesso, nella poesia di Trakl, lo stagno e il suo specchio. Le acque, ora nere ora azzurre, mostrano all’uomo il suo volto, la sua occhiata d’intesa. Ma nello stagno notturno del cielo stellato appare la crepuscolare azzurrita` della notte sacrigena. Il suo fulgore e` fresco. La luce fresca emana dal risplendere della luna (reka*mma). Nel raggio del suo rilucere, perfino le stelle, come recitano degli antichi versi greci,

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impallidiscono e si alleviano nel fresco. Tutto diviene «lunare». Lo straniero, che attraversa, con i suoi passi, la notte, si chiama «il lunare» [supra, p. 93]. La «lunare voce» della sorella, che sempre risuona profondamente nella notte sacrigena, e` udita infine dal fratello, quando egli, sulla sua barca, che e` ancora «nera» ed e` resa appena sfolgorante dall’aurea indole dello straniero, tenta di seguire questi in una corsa notturna sullo stagno. Quando dei mortali migrano, in modo consono a essa, verso l’«indole estranea» chiamata a entrare nel tramonto – quando, cioe`, sono sulla via dello straniero –, allora giungono anch’essi nell’indole estranea, divenendo cosı` essi stessi degli stranieri e dei solitari. [supra, pp. 97 e 105]. Durante la corsa sullo stagno notturno colmo di stelle, che e` il cielo sopra la terra, l’anima percorre innanzitutto la terra stessa, per conseguirla, infine, proprio come tale nella sua «fresca linfa» [supra, p. 61]. L’anima sfugge, scivola via nella crepuscolare serale azzurrita` degli anni sacrigeni. Essa diviene l’«anima d’autunno» e, come tale, si trasforma nell’«anima azzurra». I pochi versi e strofe, che qui delucidiamo, indicano e inviano nel crepuscolo sacrigeno, immettono sul sentiero dello straniero, mostrano la tempra e la corsa di coloro che, ripensando a lui, lo seguono nel tramonto. Al (tempo del) «declino dell’estate», l’indole estranea diviene, nel suo migrare, autunnale e oscura. Trakl intitola Anima d’autunno un dettato la cui penultima strofa canta [supra, p. 113]: Presto sfuggono pesci e fiere. Anima azzurra, oscuro migrare Ci costrinse presto a espatriare dai cari, dagli altri. La sera muta senso e figura.

I pellegrini migranti al seguito dello straniero si ritrovano presto espatriati, cioe` via da casa, e quindi lontano «dai cari», che, per loro, sono degli «altri». Gli altri – questa e` la genia della forma destanziata dell’uomo. Quella stanziatura umana che rechi l’impronta di un unico colpo di genesi e in quest’unico colpo di genesi resti in-generata, la lingua italiana la chiama «progenie». La dizione significa tanto la progenie umana,

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nel senso dell’umanita` [l’‘‘umana progenie’’, il ‘‘genere umano’’], quanto le progenie (genti, stirpi) nel senso dei ceppi, dei rami e delle famiglie – il tutto ancora improntato alla dualita` dei generi (la genitale dualita`). La progenie della «forma destanziata» dell’uomo e` chiamata da Trakl la progenie «inconsistente» e quindi de-costituita, ovvero: la progenie «che si destanzia» [supra, p. 123]. Essa e` posta fuori dal modo fondamentale [dalla tempra di fondo] del proprio stanziarsi, e percio` e` la progenie «deposta» e dunque «sgomenta», «desolata» [supra, p. 135]. Ma cosa fa sı` che questa progenie degeneri? Ovvero: quale maledizione, quale piaga la affligge? La dizione «piaga» deve essere intesa nel senso del greco pkgcg* e del latino plaga (tedesco Schlag): colpo che ferisce, rovina e fa degenerare. La piaga della progenie che si destanzia – di questa progenie stantia – consiste in cio`: essa, proprio in quanto progenie, degenera nella tensione fra i due pro-generanti fino a dilaniarsi in una in se´ tesa duplicita` dei generi. A causa di tale duplicita`, ciascuno dei due generi tende alla sfrenata agitazione della sempre isolata ‘‘unicita` ferina’’ della bestia, cioe` al tumulto della mera ferinita`. Non e` certo la dualita` come tale la piaga. La piaga, piuttosto, sta nella tesa duplicita`. Quest’ultima, radicandosi nell’agitazione della cieca ferinita` e alimentandosene, ‘‘offre’’ la progenie al gioco della sdoppiante disunione, e in tal modo la ingenera entro la sfrenatezza di un campo di unicita` isolate, ossia: la lascia degenerare nella smodata desolazione degli isolati. Cosı` disunita e sdoppiata, la «progenie in rovina» non e` piu` in grado di rinvenire da se´ il retto colpo di genesi . Ma vi e` retto colpo di genesi solo con quella progenie la cui genitale dualita`, liberandosi dalla tesa duplicita`, migra in anticipo verso la mite indole di una riunita diade, ossia di una candida endiadi 9. Tale dualita` – in forza del suo essere in tal modo migrante – e` «un’indole estranea»; pertanto, essa segue lo straniero. In relazione a questo straniero, tutti i discendenti (i generati) della progenie che si destanzia rimangono «gli altri». Tuttavia, sono loro riservati amore e adorazione. L’oscuro migrare al seguito dello straniero conduce nell’azzurrita` della sua notte. L’anima migrante diviene l’«anima azzurra». Al tempo stesso, pero`, essa e` tratta in disparte, e quindi se ne va via da casa, vale a dire espatria, esula. Verso dove? La` dove va quello straniero, il quale a volte e` poeticamente dettato solo mediante il pronome dimostrativo «quello». «Quello», qui, vuol dire, pero`, «quell’altro», o, meglio, «l’altro», giacche´ traduce la dizione Jener – che in antico alto tedesco suona [j]ener e significa appunto «l’altro». Enert dem Bach e` l’altra riva del ruscello. «Quello», lo straniero, e` l’altro rispetto agli altri, l’altro rispetto alla progenie che si destanzia. «Quello» e` colui che e` chiamato a ri-trarsi e a trarsi

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da parte rispetto agli altri < – ossia: e` colui che se ne e` andato via da casa, che e` espatriato>. Lo straniero e` l’esule. Dove e` indirizzato cio` che e` tale da poter assumere lo stanziarsi stesso dell’indole estranea, e cioe` il migrare innanzi e in anticipo? A che e` chiamata un’indole estranea? A entrare nel tramonto. Il tramonto – il ponente – e` il dissolversi nel sacrigeno crepuscolo dell’azzurrita`. Esso (ponente) si genera a partire dal declino verso l’anno sacrigeno. E se tale declino – che e` anche un’inclinazione – deve pure attraversare la distruggente indole del novembre, ossia dell’approssimarsi dell’inverno, quel dissolversi non significa pero` il precipitare nell’inconsistenza e nell’annichilamento. «Dis-solversi», letteralmente, vuol dire piuttosto: sciogliersi, svincolarsi, liberarsi lentamente e sfuggire, scivolare via piano. Colui che si dissolve scompare, certo, nella distruzione di novembre, ma non vi si estingue. Attraversandola, egli scivola via (‘‘vola’’) nel crepuscolo sacrigeno dell’azzurrita`, «al vespro», cioe` incontro alla sera. Al vespro, lo straniero si dissolve nella nera distruzione di novembre, Sotto una trama di rami marci, lungo mura colme di lebbra, Dove prima e` passato il salubre fratello, Sprofondato nel mite arpeggio della sua dissennatezza. «Helian» (supra, p. 103)

La sera e` il declino dei giorni degli anni sacrigeni. La sera reca con se´ e induce un mutamento. La sera, che declina e s’inclina verso l’indole sacrigena, offre altro da guardare, altro da sentire. La sera muta senso e figura.

Cio` che risplende – le cui occhiate (figure) i poeti dettano (indicono) – appare, attraverso tale sera, nell’originarieta` di un diverso splendore. Cio` che si stanzia – il cui invisibile elemento i pensatori sentono (in modo consono) – giunge, attraverso tale sera, a un’altra dizione . A partire da un’altra figura e da un altro senso, la sera tramuta l’indizione del poeta e del pensatore < – ossia: l’indizione del dettatore poetante e del dettatore pensante – >, e quindi tramuta il loro intimo colloquio. Ma la sera puo` tutto questo,

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solo perche´ essa stessa muta. Attraverso la sera, il giorno va in un declino, che, lungi dall’essere una fine, e` piuttosto unicamente incline a preparare quel tramonto ovvero quel ponente attraverso cui lo straniero si traspone nell’inizio del suo migrante pellegrinaggio. La sera muta la sua stessa figura e il suo stesso senso. In tale mutamento, si nasconde un esule espatrio dal modus fondamentale delle ore e delle stagioni rimasto in vigore fino ai nostri giorni. Ma la sera dove conduce l’oscuro migrare dell’anima azzurra? La` dove tutto e` diversamente convenuto e recondito e preservato per un’altra levata, un’altra aurora. Le strofe e i versi fin qui citati ci indicano – quale punto cui per-venire – un luogo di raccolta, un punto ortivo. Ma come si configura tale punto ortivo? Come dobbiamo chiamarlo? Certamente, in una maniera consona al modo in cui parla la lingua del poeta. L’intero dire dei dettati di Georg Trakl resta raccolto attorno allo straniero migrante. Egli e` e si chiama «l’esule» [supra, p. 149]. Attraverso di lui e per suo tramite, e nella sua chiara sfera, il dire poetante e` intonato su un unico canto. Ora, giacche´ i dettati di questo poeta sono raccolti nella canzone – o nella lauda – dell’esule, chiameremo il punto ortivo del suo dettato d’origine l’esilio. La puntualizzazione, mediante un secondo passo, deve adesso tentare di prestare piu` nettamente attenzione a tale punto ortivo – il quale, finora, e` stato soltanto accennato. II Ma l’esilio, proprio nel suo stanziarsi come punto ortivo del dettato d’origine, si lascera` stagliare nel senziente colpo d’occhio? Una tale stagliatura, posto che sia in generale possibile, puo` avere corso solo se riusciamo a seguire con occhio piu` chiaro il sentiero dello straniero e chiediamo: chi e` l’esule? Quali sono il paese e i luoghi dei suoi sentieri? Questi ultimi vanno e s’inoltrano nell’azzurrita` della notte. La luce, in virtu` della quale i suoi passi rilucono, e` frescolieve. Il verso che chiude il dettato dedicato all’esule – intitolato appunto Canto dell’esule – nomina «i lunari sentieri degli esuli» [supra, p. 151]. In italiano, con la dizione «gli

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esuli» – nel senso di coloro che se ne sono andati via, ovvero degli Abgeschiedenen –, indichiamo anche «i trapassati», «i morti». Ma in quale morte e` morto, cioe` trapassato, lo straniero? Nel dettato Salmo [supra, p. 95], Trakl dice: Il dissennato e` morto.

La strofa seguente canta: Si seppellisce l’estraneo.

Nel Canto della morte – a sette voci, lo straniero e` detto il «bianco straniero». L’ultima strofa del dettato Salmo [supra, p. 99] dice: Nella sua tomba il bianco mago gioca con i suoi serpenti.

Colui che e` morto vive nella sua tomba. Vive nella sua stanzetta cosı` fermamente trasognato che gioca con i suoi serpenti. Questi non possono nulla contro di lui. Non vengono soffocati, ma la loro malvagita` e` (stata) tramutata. Invece, nel dettato Gli afflitti [supra, p. 157], leggiamo: Una nidiata di serpenti color scarlatto s’impenna Lentamente nello sconvolto grembo della piccola.

Colui che e` morto e` il dissennato. Ma «dissennato», qui, vuol dire forse «malato di mente»? Assolutamente no! «Dis-sennatezza» non significa : il sentire che si figura e ‘‘pensa’’ l’insensato. Quel «dis-» deve essere inteso in senso sı` privativo, ma secondo il modo originariamente liberativo; il dis-sennato sente, e sente come nessun altro. Ma egli si ritrova e rimane, in tale suo altro sentire, privo del senno degli altri, perche´ da esso gia` libero . Appartiene a un altro senno. «Senno» viene dal germanico sin (ted. Sinn), su cui si forma l’odierno sinnen, che, in antico alto tedesco, suona sinnan. Sinnan originariamente vuol dire: viaggiare, tendere verso..., prendere una direzione; la radice ie. *sent(*set-) significa via, cammino. L’esule e` il dissennato poiche´ e` altrimenti avviato e quindi altrove in cammino verso altro. In virtu` di questo, la sua dissennatezza puo` essere detta «mite»; infatti, egli sente in modo consono (acconsente) a cio` che e` piu` fermo e silente. Un dettato – che parla dello straniero chiamandolo semplicemente «quello», l’altro – canta:

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Ma quello scese per i gradini di pietra del Monte Monaco, Un azzurro sorriso sul volto e stranamente rinchiuso, a crisalide, Nella sua piu` ferma e silente ingenuita` – e morı`;10

Il dettato reca il titolo A Uno trapassato presto [supra, p. 163]. L’esule e` «morto presto», ovvero: e` tra-passato via nel primo mattino. Per questo e` «il tenero corpo» [supra, pp. 21 e 65], chiuso e posto al riparo in quell’ingenuita` ove e` custodito, in modo piu` fermo e silente, tutto cio` che, nella «ferina selva» (nella ferina selvaticita`), arde e infuoca soltanto. Cosı` il trapassato nel primo mattino appare e risplende come «l’oscura forma del fresco». Di quest’ultima canta il dettato che s’intitola Ai piedi del Monte Monaco [supra, p. 171]: Sempre l’oscura forma del fresco accompagna il pellegrino Su un ponte di ossa, la giacintea voce del fanciullo, Che lieve canta la dimenticata leggenda del bosco, ...

«L’oscura forma del fresco» non accompagna il (migrante) pellegrino seguendolo. Essa, piuttosto, lo precede guidandolo; l’azzurra voce del fanciullo va infatti a riprendere un’indole dimenticata e la predice, ossia: la indica in anticipo. Chi e` dunque questo fanciullo che e` trapassato nel primo mattino? Chi e` questo fanciullo la cui ... fronte lievemente sanguina Antiche leggende d’origine E oscuro chiarimento del volo degli uccelli [supra, p. 175] ? [scil.: E un oscuro presagio]

Chi e` colui che e` passato su un ponte di ossa? Il poeta lo evoca e lo invoca con queste parole: Oh, da quanto tempo, Elis, sei trapassato.

Elis e` lo straniero chiamato a entrare nel tramonto, nel ponente. Elis non e` affatto una forma mediante la quale Trakl si riferisca a se stesso o intenda parlare di se´. La forma Elis e` cosı` costitutivamente distinta dal poeta quanto lo e` la forma Zarathustra dal pensatore Nietzsche. Ma entrambe le forme convergono sul seguente tratto: il loro stanziarsi e il loro migrare iniziano con il tramonto inteso, appunto, come ponente. Il ponente di Elis e` la sua

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trans-posizione nell’antico primo mattino d’origine, il quale e` piu` antico dell’invecchiata, e percio` stantia, progenie destanziantesi, piu` antico perche´ piu` senziente, piu` senziente perche´ piu` fermo e silente, piu` fermo e silente perche´ in se´ piu` capace di concedere silenzio e fermezza. Nella forma del fanciullo Elis, l’indole del fanciullo non si contrappone all’indole della fanciulla. Tale indole di fanciullo – tale fanciullezza – e` la splendente apparizione della piu` ferma e silente ingenuita`. Quest’ultima reconde e risparmia in se stessa la mite diade dei generi, quella diade cui appartiene l’adolescente cosı` come l’«aurea forma della adolescente» [supra, p. 179]. Elis non e` un morto che si destanzi (si decomponga) nella tardivita` di un’estinzione. Elis e` quel morto che, libero dalla destanziazione, si stanzia gia` via nel primo mattino. Questo straniero dispiega anticipatamente lo stanziarsi umano raffermandolo nell’inizio di cio` che non e` ancora giunto nella gestazione. Quell’indole del costitutivo stanziarsi dei mortali – indole in se´ piu` requiante e quindi piu` disposta a concedere fermezza e silenzio – la quale, non essendo stata in gestazione, non puo` ancora essere offerta entro tale stanziarsi, e` chiamata dal poeta «l’indole non ancora generata» ovvero «l’indole disingenita»11. Lo straniero, tra-passato nel primo mattino, e` l’inofferto, il disingenito. Le dizioni «un’indole disingenita» e «un’indole estranea» indicano il medesimo. Nel dettato Limpida primavera [supra, p. 185] si trova il verso: E l’indole disingenita si dedica alla propria quiete [requie].

L’indole disingenita protegge la piu` ferma e silente ingenuita` custodendola nel tratto d’avvento del veniente risveglio della progenie umana. Requiando in tal modo, colui che e` trapassato presto, vive. L’esule non e` il morto(-deceduto) nel senso dell’estinto. Al contrario! L’esule guarda in anticipo (prevede) nell’azzurrita` della notte sacrigena. Le «bianche palpebre», che proteggono il suo sguardo, sfolgorano d’origine nell’ornamento nuziale, il quale da` la propria parola in favore della mite diade dei generi. Fermo, silente fiorisce il mirto sulle bianche palpebre del morto.

Questo verso appartiene allo stesso dettato in cui e` detto: Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra.

Le due frasi si trovano nella medesima breve strofa. Il «morto» e` l’esule, l’estraneo, il disingenito.

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Ma ancora passa il ... sentiero Del disingenito accanto a tenebrosi villaggi, lungo estati solitarie, «Canzone delle ore» (supra, p. 189)

Il suo cammino passa accanto ai luoghi e alle stagioni che non lo accolgono come ospite; infatti non li attraversa gia` piu`. In verita`, anche la corsa o il viaggio dell’esule sono solitari, ma lo sono per la solitudine dello «stagno notturno», del «cielo stellato». Il dissennato solca questo stagno non «su una nera nuvola» ma a bordo di una barca d’oro. Ma che ne e` dell’«indole d’oro»? Il dettato Angolo ai margini del bosco [supra, p. 191] risponde con il verso: Spesso alla mite dissennatezza si mostra anche l’indole d’oro, il vero.

Il sentiero dello straniero attraversa gli «anni sacrigeni», i cui giorni, diretti in ogni istante verso il vero inizio, sono da questo governati, cioe` retti. L’anno della sua anima e` raccolto nella dirittura dell’inizio, e quindi, unicamente in tal senso, si stanzia nella rettitudine, ossia nella retta, giusta indole. Oh! Come sono giusti [retti], Elis, tutti i tuoi giorni.

canta il dettato che s’intitola Elis [supra, p. 77]. Questo richiamo e` solo l’eco di un altro, gia` ascoltato: Oh, da quanto tempo, Elis, sei trapassato.

Il primo mattino, nel quale e` trapassato lo straniero, reconde la retta, giusta indole di stanziazione del disingenito. Questo primo mattino e` un tempo sui generis, il tempo degli «anni sacrigeni». Trakl ha intitolato uno dei suoi dettati con la semplice parola Anno [supra, p. 195]. Il primo verso inizia cosı`: «Oscura silente fermezza dell’ingenuita`.» Rispetto a quest’ultima, si staglia l’ingenuita` piu` chiara, perche´ ancora piu` ferma e silente e quindi diversa: essa e` il primo mattino verso cui l’esule e` tramontato (si e` trasposto). Nel verso finale dello stesso dettato, questa piu` ferma e silente ingenuita` e` chiamata «l’inizio»: Occhio d’oro dell’inizio, oscura pazienza della fine.

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La fine, qui, non e` la conseguenza e lo spegnersi dell’inizio. La fine, giacche´ e` la fine della progenie che si destanzia, precede l’inizio della progenie disingenita. Tuttavia l’inizio, in quanto e` il piu` primigenio mattino, si e` gia` inoltrato al di la` della fine. Questo primo mattino custodisce il sempre ancora celato originario stanziarsi del tempo. Per il pensiero egemone, tale stanziarsi rimarra` inaccessibile anche in avvenire, finche´ restera` in vigore quel modo adduttivo di pensare e concepire il tempo che, da Aristotele in avanti, e` ovunque ancora determinante . Qui il tempo (che lo si adduca meccanicamente o dinamicamente oppure a partire dalla disintegrazione dell’atomo) e` concepito come la dimensione del computo, quantitativo o qualitativo, della durata che decorre e defluisce nella forma dell’‘‘uno-dopo-l’altro’’12. Ma il vero e proprio tempo e` solo questo: avvento dell’avvenuto istante. Tale avvenuto istante non e` nulla di fugacemente trascorso o di meramente passato, ma la raccolta stessa dell’intero di cio` che si stanzia, la quale precede e anticipa ogni avvento, mentre, proprio in quanto e` una tale raccolta d’intero, si retro-reconde in se stessa come indole ogni volta piu` mattutina, piu` primigenia. Alla fine e alla sua finizione si addice un’«oscura pazienza»13. Una tale pazienza offre il nascosto alla verita` che lo riguarda. La sua sofferenza offre tutto al tramonto trasponente nell’azzurrita` della notte sacrigena. All’inizio, pero`, si addicono un colpo d’occhio e un sentire che rilucono aurei, poiche´ sono colti nello splendore dell’«indole d’oro», «del vero». Quest’indole si rispecchia nello stagno stellato della notte, quando Elis, durante la sua corsa, dischiude appunto alla notte il proprio cuore [supra, p. 77]: Una barca d’oro Il tuo cuore, Elis, dondola lassu` nel solitario cielo.

La barca dello straniero beccheggia e segue l’onda, ma per diletto, non «angosciosamente» [supra, p. 197] come la barca di quei discendenti del primo mattino, i quali dapprincipio si limitano a seguire lo straniero. La loro barca non giunge ancora all’altezza dello specchio dello stagno. Essa affonda, va giu`. Ma dove? In rovina? No. E allora dove? Forse nel vuoto niente? Assolutamente no! Uno degli ultimi dettati, Lamento [supra, p. 197], si chiude con i versi seguenti:

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Sorella di tempestosa gravezza, Vedi, una barca angosciata affonda Sotto le stelle, Sotto il tacito volto della notte.

Che cosa reconde questo tacere della notte, le cui occhiate cadono, frontali, dal fulgore delle stelle? A quale regno appartiene il tacere della notte? All’esilio. Ma quest’ultimo non si esaurisce in una pura e semplice condizione, quella dell’essere trapassato, in cui vive il fanciullo Elis. All’esilio appartiene il primo mattino della piu` ferma e silente ingenuita`; all’esilio appartengono la notte azzurra, i notturni sentieri dello straniero, il notturno colpo d’ali dell’anima; all’esilio appartiene gia` il crepuscolo nel suo essere la porta che da` sul tramonto, sul ponente. L’esilio raccoglie tali suoi appartenenti in un luogo d’insieme, ma non al modo di un suppletivo assommare, bensı` proprio dispiegandosi esso stesso nella loro gia` vigente raccolta. Il poeta chiama geistlich , il crepuscolo, la notte, gli anni dello straniero, i suoi sentieri. L’esilio e` geistlich. Che cosa vuol dire questa parola? Il suo significato e il suo uso sono antichi. E` detto geistlich cio` che va nel senso del Geist, cio` che origina da esso e segue il suo stanziarsi. L’odierno uso linguistico relega il Geistliche nell’ambito dei Geistlichen, dei sacerdoti e degli ecclesiastici, nel dominio, cioe`, del rango sacrale (sacerdotale) dei preti e della loro Chiesa. . Anche Trakl – almeno a un ascolto non attento – sembra indicare nella medesima direzione, quando, nel dettato A Hellbrunn [supra, p. 201], dice: ... Cosı` geistlich inverdiscono Le querce sui dimenticati sentieri dei morti,

Poco prima sono evocate «le ombre dei principi della Chiesa, di nobildonne» e «le ombre di uomini trapassati da tempo», che sembrano aleggiare sullo «stagno di primavera». Ma il poeta, che canta qui «di nuovo l’azzurro lamento della sera», non pensa affatto alla sacerta` del clero quando le querce, per lui, «cosı` geistlich inverdiscono». Egli pensa, piuttosto, al primo

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mattino di colui che e` trapassato da tempo – quel primo mattino che da` la propria parola in favore della «primavera dell’anima». Niente di diverso canta anche il dettato, di precedente stesura, che s’intitola Geistliches Lied [supra, p. 203], sebbene ancora in un modo piuttosto celato e ricercante. Il Geist di questo Geistliches Lied, che gioca in un singolare bisenso, viene piu` distintamente alla parola nell’ultima strofa: Mendicante laggiu`, ai piedi dell’antica pietra, Sembra trapassato nella preghiera, Un pastore scende, mite, dalla collina, E un angelo canta nel bosco, Qui vicino nel bosco, Affinche´ gli ingenui entrino nel sonno.

Ma se il poeta non pensa e non detta il Geistliche nel senso della sacerta` religiosa ed ecclesiastica, avrebbe potuto chiamare cio` che si stanzia in rapporto con il Geist semplicemente das Geistige, lo «spirituale», e parlare quindi del crepuscolo spirituale e della notte spirituale. Perche´, invece, egli evita la dizione geistig? Perche´ il Geistige, lo spirituale, designa l’opposto del materiale. Cio` rimanda alla diversita` fra due regioni e indica, parlando in termini platonico-occidentali, il baratro fra il sovrasensibile (mogso*m) e il sensibile (ai\rhgso*m). Cio` che segue il Geist nel modo appena indicato, ovvero lo spirituale – il quale, nel frattempo, e` divenuto l’ambito del razionale, dell’intellettuale e dell’ideologico –, appartiene, unitamente all’insieme dei suoi opposti, alla forma-mondo della progenie in destanziazione. Ma proprio da tutto questo espatria (e quindi si esilia, esula) l’«oscuro migrare» dell’«anima azzurra». Il crepuscolo verso la notte, in cui l’indole estranea tramonta, cioe` si traspone, puo` esser detto ‘‘spirituale’’ tanto poco quanto il cammino dello straniero. L’esilio e` geistlich, ovvero intonato dal e sul Geist, ma non, tuttavia, geistig in senso metafisico, cioe` spirituale. Ma allora: che cos’e` il Geist? Trakl parla nel suo ultimo dettato – intitolato Grodek – della «cocente fiamma del Geist» [supra, p. 235]. Il Geist e` l’indole fiammeggiante, e, forse solo in quanto tale, e` cio` che soffia e aleggia.

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Il poeta intende il Geist non innanzitutto come pneuma, come spiritus, ma come fiamma che infiamma, scova e agita bruscamente, depone, sgomenta e terrifica, scompagina ed estranea. Il fiammeggiare e` l’ardente rilucere e illuminare. L’indole fiammeggiante e` l’in-se´-estrinseco che staglia e fa sfolgorare e risplendere, ma che puo` anche divorare e tutto distruggere fino al bianco pallido della cenere. «Fiamma – della piu` pallida indole – e` fraterna amica», si dice nel dettato Trasmutazione del male [supra, p. 207]. Trakl guarda il Geist a partire da quello stanziarsi indicato nel significato originario della dizione; infatti gheis vuol dire: essere irritato e fuori di se´, deposto, terrificato, atterrito e sgomento, essere-in-se´-(a-se´)-estrinseco, essere-in-se´-estraneo a. Il Geist, il sacrigenio, cosı` inteso e` intimamente diadico; infatti esso si stanzia sia come capacita` della mite indole [dolcezza] sia come potenza dell’indole distruttiva [devastazione]. La mite indole non fa affatto degenerare, cioe` non abbatte assolutamente, quell’in-se´-estrinseco che caratterizza l’infiammante; piuttosto, lo trattiene nella quiete, anzi nella requie del benevolo. Il distruttivo proviene dalla mancanza di vincoli (sbrigliatezza), la quale, mentre distrugge se stessa nel sommovimento della propria agitazione, da` vita alla malvagita` e al maligno. Il male e` di volta in volta il male di un sacrigenio. Il male e la propria malignita` non sono mai il sensibile, il materiale. Essi non sono neppure semplicemente di natura ‘‘spirituale’’. Il male e` sacrigeno in quanto e` agitazione che divampa e culmina nell’accecamento, ossia in quanto e` l’accecante tumulto del terrificante che sommuove e traspone nella dispersione dell’insalubre, proprio mentre minaccia di infuocare e bruciare l’in se´ raccolto germogliare della mite indole. Ma dove requia la raccogliente tempra della mite indole? Dove sono i suoi vincoli, le sue ‘‘briglie’’? Quale sacrigenio le tiene? In che modo il costitutivo stanziarsi dell’uomo e` e diviene «sacrigeno»? Il sacrigenio – giacche´ il suo stanziarsi requia nell’infiammare – apre la via, la staglia, e mette in cammino. Come fiamma, il sacrigenio e` la tempesta che «assalta (tempestosamente) il cielo» e «bracca e cattura Dio» [supra, p. 213]. Il sacrigenio getta o caccia l’anima nell’incamminamento, dove accade un migrare in anticipo. Il sacrigenio sommuove e traspone nell’indole estranea. «Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra». E` lo stesso sacrigenio a donare l’anima. Esso e` l’animatore. Ma l’anima, a sua volta, protegge e custodisce il sacrigenio, e lo fa in un modo talmente costitutivo che a 14

«generare/generarsi – posto, pero`, che (e quindi non nelpuro senso verbale

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quest’ultimo, senza l’anima, forse non potrebbe mai essere quel sacrigenio che e`. L’anima «nutre» il sacrigenio. Ma in che modo? In che altro modo se non concedendogli (prestandogli) quella fiamma in cui essa stessa propriamente consiste? Tale fiamma e` l’ardere della gravezza d’animo (della malinconia), vale a dire la «mitezza dell’anima solitaria» [supra, p. 215]. L’indole solitaria non isola nella desolata dispersione, in balı`a della quale viene lasciata ogni reiezione. L’indole solitaria, all’opposto, ri-unisce: offre l’anima all’unicita` dell’unicum, la raccoglie temprandola nell’uno e inesausto, e cosı` la stanzia in migrante pellegrinaggio. L’anima e` migrante proprio in quanto e` la (cosı` ri-unita) anima solitaria. All’ardore della sua arditezza viene perentoriamente richiesto di soffrire nella forma del migrante pellegrinaggio la gravita` e l’asprezza di cio` che le e` stato dispensato – e in tal modo gli si ingiunge di condurre l’anima incontro al sacrigenio. Al sacrigenio concedi la tua fiamma, ardente gravezza.

Cosı` canta l’incipit del dettato A Lucifero [supra, p. 219], ossia il portatore di luce, il quale proietta l’ombra del male. La gravezza dell’anima arde solo la` dove essa, durante la migrazione, entri nella piu` estesa estensione del suo costitutivo stanziarsi migrante. Cio` si genera nell’istante in cui l’anima guarda verso il volto dell’azzurrita` e osserva cio` che da questa risplende. Quando osserva in tal modo, l’anima e` «la grande anima». O dolore, tu, fiammeggiante osservare Della grande anima! «Il temporale» (supra, p. 223)

La misura di tale grandezza sta nel modo in cui l’anima rimane capace del fiammeggiante (e infiammante) osservare; proprio in virtu` di quest’ultimo, infatti, essa diviene di casa nel dolore. Al dolore si addice uno stanziarsi in cui e` insito un costitutivo contrasto, meglio: una costitutiva avversione. . «Fiammeggiando», il dolore scinde traendo ‘‘via’’ e ‘‘in avanti’’, ovvero: pro-traendo-via. esso inscrive la migrante anima nella fugata compagine di tempesta e caccia, ovvero in quell’‘‘unita` d’assalto’’ che, assaltando tempestosamente il cielo, vorrebbe braccare e catturare Dio. Sembra cosı` che il pro-traente (tratto di) dissidio debba davvero soverchiare cio` verso cui, in forza del proprio scindere, attrae, anziche´ lasciarlo vigere nel suo celante rilucere.

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Esattamente di un tale lasciar vigere, invece, e` capace l’«osservare». Esso non spegne il fiammeggiante pro-trarre del (tratto di) dissidio; piuttosto, lo retro-compagina nella forma della compaginata mitezza che caratterizza il guardante accettare. L’osservare e` il ri-traente tratto di dissidio nel dolore, nel fulcro di dolore – tratto mediante il quale il dolore raggiunge la propria temperanza mitigante e, a partire da qui, il proprio vigore che, disascondendo, guida e fa da scorta. Il sacrigenio e` fiamma. Ardendo, la fiamma riluce. Il rilucere si genera nel colpo d’occhio dell’osservare. A un tale osservare si addice l’avvento del risplendente, entro cui si adstanzia l’intero stanziantesi. Questo fiammeggiante osservare e` il dolore. Per ogni pensare che concepisca il dolore muovendo dalla sensazione o dalla sensibilita`, il suo stanziarsi costitutivo e` inaccessibile. Il fiammeggiante osservare intona la grandezza della «grande anima». Il sacrigenio, che dona «grande anima», e`, come dolore, l’animante. Ma l’anima, dotata cosı` del dono della grandezza, e` la vivificante. Percio` tutto quello che vive in modo consono al senso dell’anima e` intimamente dominato dal tratto fondamentale dello stanziarsi di questa, cioe` dal dolore. Tutto cio` che vive e` dell’ordine del dolore, e` doloroso. Solo cio` che vive colmo d’anima e` capace di toccare il culmine della propria costitutiva intonazione. In forza di tale capacita`, esso e` portato per l’intesa unisona del mutuo offrirsi in cui tutto il vivente si sostiene e si tiene insieme. Conformemente a tale contratto dell’‘‘esser portato’’, tutto cio` che vive ha un comportamento idoneo, consono, vale a dire: e` buono e va bene. Ma cio` che e` buono, il bene, e` dolorosamente buono. Tutto cio` che e` animato, all’unisono con il tratto fondamentale della grande anima, non solo e` dolorosamente buono, ma e` anche verace unicamente in quel modo; sicche´, proprio in forza del costitutivo stanziarsi per avversione che caratterizza il dolore, il vivente puo` – ogni volta secondo il proprio modo – disascondere, nascondendolo, cio` che con esso si adstanzia; il vivente puo`, dunque, lasciare che il proprio co-adstanziantesi sia verace, cioe` intimamente garante del vero. L’ultima strofa di un dettato gia` menzionato inizia [supra, p. 185]: Cosı` dolorosamente buono e verace e` cio` che vive;

Si potrebbe ritenere che il verso sfiori solo fugacemente l’indole di dolore, il doloroso. In verita`, esso introduce il dire dell’intera strofa, la quale rimane cosı` intonata sulla tacita originante esclamazione del dolore. Se intendiamo

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prestare ascolto a quel dire, dobbiamo stare attenti alle interpunzioni, cosı` accuratamente apposte, mentre, a maggior ragione, dobbiamo ben guardarci dal modificarle. La strofa prosegue cosı`: E lieve ti sfiora un’antica pietra:

Udiamo di nuovo il suono di questo «lieve», che ogni volta ci rinvia, con discrezione, nella sfera dei contratti costitutivi. Di nuovo appare «la pietra», la quale, se qui fosse concesso un computo, ricorre in piu` di trenta passi dei dettati di Trakl. Nella pietra si nasconde il dolore. Piu` espressamente: il dolore, nell’impietrire pietrificandosi esso stesso, si preserva nella pura contrazione del blocco di roccia, entro il cui apparire riluce l’antica provenienza d’origine dal fermo e silente ardore del mattino piu` primigenio; quest’ultimo, in quanto inizio che pre-cede, viene incontro all’intero diveniente, all’intero peregrinante e migrante accordandogli cosı` l’inattingibile avvento del proprio stanziarsi. L’antico blocco di pietra, di roccia, e` il dolore stesso, quando esso fissi, con occhio terrestre, i mortali. I due punti, apposti dopo la dizione «antica pietra», alla fine del verso, segnalano che qui parla la pietra. Il dolore stesso prende la parola. Tacendo da lungo tempo, esso indica senza indugio ai pellegrini migranti, che seguono lo straniero, nientemeno che il proprio vigere e perdurare: Veramente! Saro` sempre vicino a voi.

A questo motto del dolore rispondono all’unisono, con le parole del verso susseguente (e finale), i migranti, che sono intenti, nel frondoso intreccio di rami, all’ascolto di colui che e` trapassato presto: O bocca! che freme nel salice d’argento.

L’intera strofa di questo dettato parla infatti in sintonia con la chiusa della seconda strofa di un altro , rivolto A Uno trapassato presto [supra, p. 163]: E nel giardino si trattenne l’argenteo volto dell’amico, Intento all’ascolto nel fogliame o nell’antico blocco di roccia.

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La strofa che comincia con Cosı` dolorosamente buono e verace e` cio` che vive;

conferisce ugualmente il liberante, distensivo controtono all’inizio della terza parte del dettato cui appartiene: Ma l’intero diveniente appare cosı` malato!

Cio` che e` perturbato, in se´ ostacolato, il non salutare e il privo di salute (il non integro), l’intera afflizione connessa al cadere in rovina costituiscono, in verita`, soltanto un’unica apparenza in cui si nasconde «cio` che si stanzia veramente», l’«indole verace»: il dolore che perdura attraverso tutto . Percio` il dolore non e` ne´ l’ostile ne´ il giovevole. Il dolore e` il favore della costitutiva indole di tutto cio` che si stanzia. L’endiadi in cui consiste il suo stanziarsi d’avversione intona il divenire sul nascosto e piu` primigenio mattino, e quindi lo informa al tono della serena limpidezza della grande anima. Cosı` dolorosamente buono e verace e` cio` che vive; E lieve ti sfiora un’antica pietra: Veramente! Saro` sempre vicino a voi. O bocca! che freme nel salice d’argento.

La strofa e` il puro canto del dolore, cantato affinche´ essa possa dare compimento al dettato tripartito che s’intitola Limpida primavera. La serena limpidezza del piu` primigenio mattino di ogni iniziante stanziatura freme a partire dalla silente fermezza del dolore nascosto. Agli occhi dell’abituale modo di pensare, lo stanziarsi d’avversione che contraddistingue il dolore – il fatto che esso scinda traendo ‘‘via’’ e ‘‘in avanti’’ proprio in quanto innanzitutto scinde traendo indietro nel proprio fulcro, ovvero in quanto e` un ri-traente tratto di dissidio – appare facilmente un controsenso. Ma in tale parvenza, si nasconde l’endiadi di stanziazione del dolore. Tale endiadi offre, nel fiammeggiare, l’estrema estensione, non appena, nell’osservare, si trattiene in se´ nel piu` intimo. Cosı` il dolore, in quanto costituisce il tratto fondamentale della grande anima, resta la pura parlante sintonia con la salubrita` dell’azzurro, ovvero la nitida addicitura a essa. Infatti la salubrita` dell’azzurro riluce incontro al volto dell’anima, mentre si ritrae nella propria profondita`. Il salubre, quando si stanzi, perdura unicamente in modo da trattenersi proprio in

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tale ritraimento, e da ricondurre l’osservare alla compaginata-compaginante mitezza. Lo stanziarsi del dolore e il suo nascosto contratto con l’azzurrita` giungono alla parola nell’ultima strofa di un dettato che s’intitola Trasfigurante rischiaramento [supra, p. 229]: Fiore azzurro, Che lieve e profondo risuona nell’ingiallito blocco di roccia.

Il «fiore azzurro» e` il «mite fascio di ciani» delle notte sacrigena. Queste parole cantano la fresca sorgente da cui origina il dettare poetico, il poetare, di Trakl. Esse concludono e, al tempo stesso, offrono il «trasfigurante rischiaramento». Il canto e`, in uno, canzone (lauda), tragedia ed epos. Il dettato e` unico fra tutti, poiche´ in esso l’estensione del guardare, la profondita` del pensare e la semplicita` del dire risplendono intimamente e per sempre in un modo ineffabile. Il dolore e` dolore verace solo quando aiuta e sorregge la fiamma del sacrigenio. L’ultimo dettato di Trakl s’intitola Grodek. Lo si celebra come un componimento di guerra. In realta`, e` infinitamente di piu`, perche´ e` qualcosa di affatto diverso. I suoi due ultimi versi suonano [supra, p. 235]: Un vigoroso dolore nutre oggi la cocente fiamma del sacrigenio, I disingeniti, i nipoti.

I «nipoti» qui evocati non sono affatto i figli, rimasti non procreati, dei figli caduti in guerra, discendenti della destanziata progenie. Se fosse cosı`, se si trattasse cioe` dell’interruzione della procreazione della progenie durata fino a quel tempo, allora questo poeta dovrebbe esultare per una tale fine. Invece, egli e` addolorato per un lutto; e` addolorato, in realta`, per un «lutto piu` fiero», che, fiammeggiando, osserva la quiete (requie) dell’indole disingenita. I disingeniti si chiamano «nipoti» poiche´ non possono affatto essere figli, ossia diretti discendenti della progenie caduta in rovina. Tra loro e questa progenie vive un’altra generazione. Essa e` altra poiche´ e` di un altro genere, e cio` in conformita` a un’altra provenienza costitutiva: la provenienza dal

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primo mattino dell’indole disingenita. Il «vigoroso dolore» e` quell’osservare che, tutto infiammando dall’alto e in ogni senso e direzione, getta in anticipo un’occhiata nell’ancora ritraentesi primo mattino di quel morto, incontro al quale morirono i «sacrigenıˆ» di coloro che caddero presto. Ma allora chi protegge questo vigoroso dolore, affinche´ esso possa nutrire la cocente fiamma del sacrigenio? Cio` che si genera nel colpo di genesi di questo sacrigenio appartiene a cio` che immette nel cammino. Cio` che si genera nel colpo di genesi di questo sacrigenio e` detto, appunto, «sacrigeno». Percio` il poeta deve innanzitutto, ma anche esclusivamente, chiamare «sacrigeni» il crepuscolo, la notte, gli anni (le horae). Il crepuscolo lascia che si levi l’azzurrita` della notte, la infiamma, la suscita. La notte fiammeggia in quanto e` il rilucente specchio dello stagno stellato. L’anno infiamma, poiche´ immette sul cammino del corso del sole, delle sue levate e dei suoi tramonti (dei suoi levanti e dei suoi ponenti). Chi e` quel sacrigenio da cui si leva, si risveglia questa ‘‘indole sacrigena’’ che lo segue? Si tratta di quel sacrigenio che, nel dettato A Uno trapassato presto, viene espressamente evocato tramite la dizione «il sacrigenio di colui che e` trapassato presto». Si tratta di quel sacrigenio che getta il «mendicante» della Canzone sacrigena [supra, p. 203] nell’estraneita` dell’esilio, affinche´ resti «il povero, che morı` solitario nel sacrigenio» – come dice il dettato che s’intitola Nel villaggio [supra, p. 241]. L’esilio si stanzia in quanto terso sacrigenio. L’esilio e` il piu` fermamente fiammeggiante e – nella propria profondita` – requiante risplendere di quell’azzurrita` che infiamma una piu` ferma e silente ingenuita` temprandola nell’aurea indole dell’inizio. Proprio incontro a tale primo mattino getta un’occhiata l’aureo volto della forma Elis. Egli custodisce cosı`, in tale sua occhiata d’intesa, la notturna fiamma del sacrigenio dell’esilio. Cosı` l’esilio non consiste ne´ nella mera condizione di quell’Uno trapassato presto e neppure nell’indeterminato spazio della sua dimora. L’esilio e`, nella modalita` del suo fiammeggiare, il sacrigenio stesso e, in quanto tale, e` l’indole raccogliente. Tale indole riprende lo stanziarsi dei mortali riconducendolo fino alla sua piu` ferma e silente ingenuita`, mentre reconde quest’ultima come quel non ancora offerto colpo di genesi che impronta la

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progenie a venire. L’indole raccogliente dell’esilio serba in se´ l’indole disingenita, inoltrandola, al di la` di ogni indole estinta, in un veniente rigenerarsi del genere umano dal primo mattino. L’indole raccogliente, giacche´ e` il sacrigenio della mitezza, rende fermo e silente, nello stesso tempo, il sacrigenio del male. L’agitazione e il tumulto di quest’ultimo raggiungono l’estremo grado di malignita`, quando essi erompono dalla tesa duplicita` dei generi e irrompono addirittura nella sororale indole fraterna. Ma, al tempo stesso, nel piu` fermo integro candore dell’ingenuita` si nasconde quella diade in esso raccolta : la sororale fraterna diade della progenie umana. Nell’esilio, il sacrigenio del male non e` ne´ annientato ne´ negato, ma neppure favorito nel suo scatenamento. Il male viene tramutato. L’anima, per restare capace di una tale «trasmutazione», deve convertirsi alla grandezza della propria costitutiva stanziatura. Cio` che in tale grandezza rimane grande e` intonato dal sacrigenio dell’esilio. L’esilio e` quella raccolta mediante la quale lo stanziarsi dell’uomo viene re-condito nella propria piu` ferma e silente ingenuita` e questa nel primo mattino di un altro inizio. In quanto (allogante) raccolta, l’esilio possiede lo stanziarsi del punto ortivo. in quale modo l’esilio costituisce il punto ortivo di un dettato d’origine, e precisamente di quel dettato d’origine che i dettati di Georg Trakl portano alla parola? Ha l’esilio, in generale e a partire da se stesso, un contratto con il poetare? E posto, persino, che viga un tale contratto, in che modo l’esilio puo` ottenere per se´ e accogliere in se´ un dire poetante per divenirne cosı` il punto ortivo e conferirgli puntualmente il proprio tono? Non e` l’esilio un unico tacere della silente fermezza? In che modo l’esilio puo` mettere in cammino un dire e un cantare? Ma l’esilio non e` affatto la desolazione del decesso. Proprio nell’esilio lo straniero misura fino in fondo l’esule espatrio dalla progenie durata fino a oggi. Egli e` in cammino su un sentiero. Di che genere e` questo sentiero? Il poeta lo dice in modo sufficientemente chiaro ed esplicito, e precisamente nel verso finale – tonicamente staccato dagli altri – del dettato Declino dell’estate:

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Oh – se solo ripensasse un’azzurra fiera al suo sentiero, Al salubre tono dei suoi sacrigeni anni!

Il sentiero dello straniero consiste nel «salubre tono dei suoi sacrigeni anni». I passi di Elis squillano. I passi squillanti rilucono nella notte. Il loro salubre tono – la loro tonica cadenza – si spegne forse nel vuoto? Colui che e` tra-passato nel primo mattino e` un esiliato nel senso del separato e disgiunto, oppure e` un ‘‘esule pre-scelto’’ nel senso dell’originariamente eletto, ossia del raccolto in un piu` mite raccoglimento che chiama in un modo piu` fermamente silente? La seconda e la terza strofa del dettato A Uno trapassato presto accennano una risposta alla nostra domanda [supra, p. 163]: Ma quello scese per i gradini di pietra del Monte Monaco, Un azzurro sorriso sul volto e stranamente rinchiuso, a crisalide, Nella sua piu` ferma e silente ingenuita` – e morı`; E nel giardino si trattenne l’argenteo volto dell’amico, Intento all’ascolto nel fogliame o nell’antico blocco di roccia. Anima canto` la morte, la verde destanziazione della carne, Ed ecco il fruscio del bosco, Il fervido lamento della fiera. Sempre si udı`, da torri crepuscolari, il suono delle azzurre campane della sera.

Un amico e` intento all’ascolto dello straniero. Ascoltando in tal modo, segue l’esule e diviene egli stesso un pellegrino migrante, uno straniero. L’anima dell’amico e` intenta all’ascolto del morto. Il volto dell’amico e` un «volto avvinto dalla morte» . Ascolta, mentre canta la morte. Percio` questa voce che canta e` «la voce [il verso] d’uccello di colui che e` simile al morto» [supra, p. 241]. Essa si intona con la morte dello straniero, con il suo tramonto che traspone nell’azzurrita` della notte. Ma assieme alla morte dell’esule, l’amico canta anche la «verde destanziazione» di quella progenie dalla quale l’oscuro migrare lo «costrinse a espatriare».

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Cantare significa celebrare e quindi custodire, nel canto, cio` che viene celebrato. L’amico intento all’ascolto e` uno dei «pastori celebranti» [ibid.]. Ma la sua anima, che «ascolta volentieri le favole del bianco mago» [supra, p. 241], puo` cantare all’unisono con l’esule, solo se e quando l’esilio stesso, giungendo al suono, vada incontro a colui che segue, solo quando il salubre tono, che risuona profondamente laggiu`, squilli, solo «quando – come e` detto in Canzone serale [supra, p. 241] – l’oscuro salubre tono investa e metta a prova l’anima». Se si genera tutto questo, allora appare e risplende il sacrigenio di colui che e` trapassato presto nel fulgore del primo mattino – i cui anni sacrigeni sono il vero tempo dello straniero e del suo amico. Nel fulgore del primo mattino, la nuvola, prima nera, diviene d’oro. Ora essa e` come la «barca d’oro», che e` poi il cuore stesso di Elis nel suo dondolare «lassu` nel solitario cielo». L’ultima strofa del dettato A Uno trapassato presto canta [supra, p. 165]: Nuvola d’oro e aureo tempo. Nella solitaria stanzetta Tu accogli spesso il morto come un ospite, Cammini in intimo colloquio sotto gli olmi giu` per il fiume verdefiorito.

Al salubre tono dei passi dello straniero, alla loro tonica cadenza che investe e ‘‘mette a prova’’, s’intona l’accogliente invito al colloquio da parte dell’amico. Il dire di questo colloquio e` il peregrinare e migrare, nel canto, giu` per il fiume, il seguire fin dentro il tramonto trasponente nell’azzurrita` della notte, animata dal sacrigenio di colui che e` trapassato presto. In tale colloquio, l’amico che canta osserva l’esule. Durante questo suo osservare, egli, nell’occhiata d’intesa, diviene, per lo straniero, fratello. Migrando insieme allo straniero, il fratello giunge nella piu` ferma e silente dimora del primo mattino. Nel Canto dell’esule [supra, p. 149], egli puo` esclamare: Oh, l’abitare nell’animata azzurrita` della notte.

Ma mentre l’amico, intento all’ascolto, canta il Canto dell’esule, divenendo cosı` fratello di questi, il fratello dello straniero, proprio soltanto attraverso

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lo straniero stesso, diviene il fratello della propria sorella, la cui «lunare voce» «risuona profondamente nella notte sacrigena» – come indicano i versi finali del dettato Crepuscolo sacrigeno [supra, p. 89]. L’esilio e` il punto ortivo del dettato d’origine, poiche´ il salubre tono – la tonica cadenza – dei risonanti e rilucenti passi dello straniero infiamma l’oscuro migrare di coloro che lo seguono, nel senso che trasfigura questo migrare nel canto intento all’ascolto. L’oscuro migrare, che e` tale perche´ consiste ancora solo in un seguire, staglia tuttavia la loro anima temprandola d’azzurrita`. Lo stanziarsi dell’anima che canta non e` allora nient’altro che questo: un unico guardare, in anticipo (ovvero: tempestivamente), nell’azzurrita` della notte che reconde quel piu` fermo e silente mattino. Anima: nient’altro che un azzurro istante.

Un’azzurra folgore degli occhi: null’altro e` anima.

e` detto nel dettato Ingenuita` [supra, pp. 47 e 49]. Si compie cosı` lo stanziarsi dell’esilio. Infatti l’esilio e` il compiuto punto ortivo del dettato d’origine solo quando esso, in quanto raccolta della piu` ferma e silente ingenuita` e tomba dello straniero, allo stesso tempo raccolga presso di se´ coloro che, seguendo nel tramonto colui che e` trapassato presto e ascoltandolo attentamente, traducono il «salubre tono» del suo sentiero nell’annuncio sonoro della parola della lingua madre, divenendo in tal modo essi stessi gli esuli. Il loro cantare e` il dettare poetico, il poetare. Ma in che senso? Che significa «dettare poetico»? «Dettare (in senso) poetico», cioe` «poetare», significa: dire consono, dire consonante, nel senso della con-sonanza con l’addetto «salubre tono» del sacrigenio dell’esilio. Il dettare poetico, prima di diventare un dire nel senso del dare voce e parola, e`, quasi per l’intero suo tempo, innanzitutto un udire. L’esilio ottiene per se´ l’udire accogliendolo entro il proprio salubre tono, affinche´ quest’ultimo squilli attraverso quel dire cui esso stesso e` consono e in cui, quindi, si annuncia. Il fresco lunare della salubre azzurrita` della notte sacrigena risplende e risuona profondamente in ogni guardare e in ogni dire. La parola di un tale dire diviene cosı` «dicente consona», «dicente in consonanza», diviene: dettatura d’origine, poesia. Il parlato della poesia custodisce il dettato d’origine come il fermamente disdetto alla parola. Questo dire consono, chiamato entro l’udire, diviene in tal modo «piu` docile» [«piu` devoto»], ossia piu` capace di compaginarsi mitemente con la tonica (senziente) dicitura del sentiero lungo il quale lo straniero si muove,

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in anticipo, dall’oscuro dell’ingenuita` verso il mattino piu` fermo e silente, piu` chiaro. Per questo il poeta, intento all’ascolto, puo` dire a se stesso: Piu` docilmente comprendi il senso degli oscuri anni, Fresco e levita` – e autunno in solitarie stanze, E in salubre azzurrita` squillano passi rilucenti. «Ingenuita`» (supra, p. 47)

L’anima che canta l’autunno e il declino dell’anno non sprofonda in rovina. La sua docilita` e` infiammata dalla fiamma del sacrigenio del primo mattino, e, per questo, e` «di fuoco»: Oh, l’anima che canto` lieve la canzone dell’ingiallito canneto; docilita` di fuoco.

dice il dettato Sogno e annottamento [supra, p. 125]. Cosı` come la dissennatezza non e` uno smarrimento (un’erranza) del senno, l’«annottamento» qui richiamato non e` il mero ottenebramento del genio. La notte, che fa annottare il fratello cantore dello straniero, resta la «sacrigena notte» di quella morte attraverso cui l’esule e` tra-passato nei «brividi d’oro» del primo mattino. Guardando verso questo morto, l’amico in ascolto si addentra, con lo sguardo, nel fresco della piu` ferma e silente ingenuita`. Un tale guardare resta tuttavia un trarsi in disparte e un espatriare, un esulare dalla veterigenita progenie che ha dimenticato quell’ingenuita`, in quanto inizio ancora tenuto in serbo, e che non ha ancora mai potuto offrire l’indole disingenita. Il dettato Anif – che e` il nome di un castello lacustre vicino a Salisburgo – dice [supra, p. 93]: Grande e` la colpa del genito. Ahi, voi, brividi d’oro Della morte, Quando l’anima sogna fiori piu` freschi.

Ma in quell’«ahi» di dolore non si stanzia soltanto il trarsi in disparte e l’espatriare (l’esulare) dalla progenie stantia. Tale espatriare traendosi in disparte e`, in modo nascostamente destinale-geniturale, fermamente partecipe

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di quell’esule espatrio che viene ingiunto a partire dall’esilio. Il migrare entro la sua notte e` «infinito tormento». Il che non ha niente da spartire con una pena senza fine. L’infinito e` cio` che resta esente da ogni confinamento e da ogni sfinimento. L’«infinito tormento» e` il dolore perfettamente finito, cioe` compiuto, giunto a se stesso: e` il dolore che raggiunge la pienezza del proprio stanziarsi. Soltanto in migrante pellegrinaggio attraverso la notte sacrigena – in quel migrare che espatria continuamente dalla notte non sacrigena –, l’endiadi in cui consiste l’avversione vigente nel dolore giunge nel gioco puro. La mite indole del sacrigenio e` chiamata a braccare e catturare il Dio, mentre al suo timore viene ingiunto di assaltare tempestosamente il cielo. Nel dettato La notte [supra, p. 213] e` scritto: Infinito tormento: Che tu abbia braccato e catturato Dio, Mite sacrigenio Che mandi un sospiro nella cascata, E fra ondeggianti pini.

Il fiammeggiante protraente tratto di dissidio di tale assalto tempestoso e di tale cattura non ‘‘rescinde’’ la «scoscesa fortezza» , cioe` non la demolisce. Esso non abbatte cio` che ha catturato, ma lascia che si rigeneri d’origine nel tenore dello sguardo rivolto alle occhiate celesti, la cui pura freschezza cela il Dio. Il cantare senziente di un tale migrare appartiene alla fronte di una testa intimamente improntata al dolore compiuto. Per questo il dettato La notte si chiude con i versi seguenti: Assalta tempestosamente il cielo Una testa pietrificata.

In sintonia con essi parla la chiusa del dettato Il cuore [supra, p. 181]: La scoscesa fortezza. O cuore Scintillante fino al fresco della neve.

Ma l’accordo di terza, costituito dai tre dettati tardi: Il cuore, Il temporale e La notte, e` intonato sul cantare – uno, inesausto e medesimo – dell’esilio,

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in un modo talmente nascosto che il nostro tentativo di puntualizzare il dettato d’origine si trova qui rafforzato nel proposito di lasciare questi tre dettati, senza una sufficiente delucidazione, al profondo risuonare del loro canto. La migrazione in seno all’esilio, il tenore dello sguardo rivolto alle occhiate dell’invisibile e il dolore compiuto si appartengono l’un l’altro in un insieme. Con il suo tratto di dissidio15 si compagina il paziente. Solo quest’ultimo e` capace di seguire la via del ritorno nel piu` primigenio mattino della progenie, il cui fato e` custodito in un antico libro genealogico, ove il poeta, appunto sotto il titolo In un antico libro genealogico [supra, p. 215], detta e scrive: Colmo di umilta` s’inchina al dolore il paziente, Risonante di salubre tono e tenera dissennatezza. Vedi! e` gia` il crepuscolo.

In tale salubre tono del dire, il poeta lascia che risplendano quelle rilucenti occhiate in cui Dio si nasconde al dissennato catturare. Per questo non e` che «sussurrato nel pomeriggio» cio` che il poeta canta in un dettato che reca proprio questo titolo: Sussurrato nel pomeriggio [supra, p. 243]: Fronte sogna colori di Dio, Avverte le miti ali della dissennatezza.

Il (dettante) poetante diviene un (dettatore) poeta solo nella misura in cui segua quel «dissennato» che trapasso` via nel primo mattino e che, dall’esilio, con il salubre tono – la tonica cadenza – dei suoi passi, chiama il fratello. Cosı` il volto dell’amico getta un folgorante colpo d’occhio nel volto dell’estraneo. Il fulgore di questa «folgore degli occhi» muove il dire di colui che ode. Nel commovente fulgore, che splende dal punto ortivo del dettato d’origine, ondeggia quell’onda che incammina il dire poetante verso la propria lingua – cioe` verso la parola via via attinta alla propria lingua madre. Ma allora: in che modo – su quale tonalita` – parla la lingua della poesia di Trakl? Essa consiste in un parlare in sintonia con l’incamminamento

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su cui lo straniero si muove in anticipo. Il sentiero da lui preso porta via dalla progenie degenere e stantia. Esso conduce fino al tramonto che traspone nel primo mattino, tenuto in serbo, della progenie disingenita. La lingua del dettato d’origine, che ha il proprio punto ortivo nell’esilio, parla in sintonia con il rimpatrio della disingenita progenie umana nel requiante inizio della propria piu` ferma e silente stanziatura. La lingua di questa poesia parla muovendo dall’attraversamento. Il sentiero dell’attraversamento transita dall’occaso di cio` che cade in rovina al tramonto trasponente nella crepuscolare azzurrita` dell’indole salubre . La lingua del dettato d’origine parla muovendo dalla traversata che solca lo stagno notturno della notte sacrigena. Questa lingua intona il canto del rimpatrio esule, il quale, risalendo dalla tardivita` della destanziazione, ritrova la patria del primo mattino del piu` fermo e silente inizio, che ancora si ritrae nel proprio avvenuto istante. In questa lingua, parla l’incamminamento, nel cui splendore si rischiara, rilucente esso stesso e profondamente risonante, il salubre tono degli anni sacrigeni dello straniero esule. Il Canto dell’esule – stando al motto contenuto nel dettato Palesamento e tramonto [supra, p. 251] – canta «il nitore, la nitida bellezza, di una progenie che rimpatria, che torna a casa». La lingua del dettato d’origine, giacche´ muove dall’incamminamento dell’esilio, parla ogni volta, simultaneamente, sia a partire da cio` che essa lascia nell’esule espatrio, sia a partire da cio` a cui l’espatrio, affidandogli la propria esule tempra, va incontro. La lingua del dettato d’origine parla con una singolare dovizia di cenni, note e figure, ossia e` pluri-senziente – e cio` secondo una sua propria modalita`. Non udiamo nulla del dire di questa poesia finche´ gli andiamo incontro con un qualche ottuso sentimento di un pensare a senso unico. Crepuscolo e notte, tramonto (ponente) e morte (trapasso), dissennatezza e fiera, stagno e blocco di pietra o di roccia, volo d’uccelli e barca, straniero e fratello, sacrigenio e Dio, cosı` come le dizioni dei colori: azzurro e verde, bianco e nero, rosso e argenteo, dorato o aureo e oscuro – dettano, ogni volta, un’indole dai plurimi dispiegamenti (una dovizia di configurazioni). «Verde» e` la destanziazione (la decomposizione) e «verde» e` la fioritura, «bianco» e` il pallore e «bianca» e` la purezza, «nera» e` la contrazione della

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tenebra (o del buio) e «nera» e` la recondente oscurita`, «rossa» e` la carnosita` del purpureo e «rossa» e` la mitezza del roseo. «Argenteo» e` il pallore della morte cosı` come «argenteo» e` lo scintillio delle stelle. «D’oro» o «aureo» e` il fulgore del vero ma anche l’«orribile riso dell’oro». L’indole plurisenziente teste´ evocata e`, in prima istanza, solo ‘‘a due sensi’’, ossia bi-senziente. Tuttavia tale tratto bisenziente va a collocarsi e a stagliarsi, a sua volta, nella sua interezza, su un lato, il cui costitutivo altro (lato) e` intonato dal piu` intimo punto ortivo del dettato d’origine. La poesia parla muovendo da un bisenso in se´ bisenziente. Tuttavia l’indole plurisenziente del dire poetico non si disintegra in un’indeterminata e stonata moltitudine di sensi (polisemia). Il plurisenziente tono del dettato d’origine di Trakl proviene da una raccolta, ossia da un’intesa unisona, che, considerata per se stessa, resta sempre ineffabile. L’indole plurisenziente di questo dire poetante – la sua dovizia di cenni, note e figure – non e` l’imprecisione di chi si lasci andare alla ‘‘libera spontaneita`’’, bensı` il rigore di chi, lasciando, si lasci esigere dall’accuratezza del «retto, giusto osservare», compaginandosi con esso [si veda Helian – supra, p. 101]. Spesso risulta estremamente difficile mantenere ben distinto l’in se´ sempre sicuro dire plurisenziente, proprio dei dettati di Trakl, dalla lingua polisemica di altri poeti, la quale, giacche´ le mancano il genuino dettato d’origine e il suo punto ortivo, deriva dalla stonata indeterminazione di un’insicurezza tipica del verseggiante andare alla cieca. Il singolare rigore della lingua costitutivamente plurisenziente di Trakl e`, in un’accezione piu` alta del termine, cosı` ‘‘a senso unico’’ da restare infinitamente superiore anche rispetto a ogni esattezza tecnica del concetto, il cui ‘‘senso unico’’ sia di natura meramente scientifica. Entro la stessa dovizia di cenni, note e figure della lingua, intonata a partire dal punto ortivo del dettato d’origine di Trakl, parlano anche le molte dizioni appartenenti al mondo delle immagini bibliche ed ecclesiali. L’attraversamento dalla progenie stantia all’indole disingenita conduce attraverso tale ambito e quindi attraverso il suo modo di parlare. Se, in quale misura e in che senso la poesia di Trakl parli in modo cristiano, in quale maniera il poeta sia stato ‘‘cristiano’’, che cosa significhino qui in generale

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termini come «cristiano», «cristianita`», «cristianesimo», «pensiero e costumi cristiani» – tutto questo racchiude e implica delle questioni e dei problemi costitutivi. La loro discussione, nel senso della puntualizzazione, e` tuttavia sospesa nel vuoto finche´ non sia stato stabilito, con la dovuta circospezione, il punto ortivo del dettato d’origine. Essa richiede inoltre un pensare consono, per il quale sia i concetti della teologia metafisica sia quelli della teologia ecclesiale o dogmatica sono insufficienti. Il tentativo di emettere un giudizio sullo statuto cristiano del dettato d’origine di Trakl dovrebbe ben ponderare innanzitutto i suoi due ultimi dettati: Lamento e Grodek. Sarebbe necessario chiedere: perche´ il poeta – se fosse davvero cosı` fermamente cristiano –, qui, nell’estremo bisogno del suo ultimo dire, non invoca Dio? Perche´ non implora il Cristo? Perche´ egli evoca, invece, «l’ombra della sorella» nel suo «oscillare» e la sorella stessa come colei che «saluta»? Perche´ la canzone non si chiude con la fiduciosa prospettiva sulla redenzione cristiana, ma con quell’espressione che suona: «i disingeniti, i nipoti»? Perche´ la sorella compare anche nell’altro dettato ultimo (Lamento)? [supra, p. 197] Perche´ «l’eternita`» viene qui detta «la gelida onda»? Tutto cio` e` pensato cristianamente? – Questa non e` neppure disperazione cristiana. Ma che cosa canta questo Lamento? Nel richiamo «Sorella... Vedi... » non udiamo forse il suono d’endiadi dell’intimo candore che e` proprio di coloro i quali, malgrado la minaccia dell’estremo ritraimento dell’indole salutare, restano in migrazione verso il «volto d’oro dell’uomo» ? [supra, p. 197] La rigorosa intesa unisona della lingua a piu` voci parlante, muovendo dalla quale parla – e cio` vuol dire anche: tace – la poesia di Trakl, si addice all’esilio in quanto punto ortivo del dettato d’origine. Il prestare attenzione in modo adeguato a tale punto ortivo da` gia` da pensare. A mala pena osiamo interrogare, per concludere, la temperie locale di tale punto ortivo. III L’ultima indicazione per venire al punto dell’esilio, quale punto ortivo del dettato d’origine, ci e` stata data – nel primo passo della sua puntualizzazione –

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dalla penultima strofa del dettato Anima d’autunno [supra, p. 113]. In tale strofa sono evocati quei migranti pellegrini che seguono il sentiero dello straniero nella notte sacrigena per poter «abitare» nella sua «animata azzurrita`». Presto sfuggono pesci e fiere. Anima azzurra, oscuro migrare Ci costrinse presto a espatriare dai cari, dagli altri.

Il luogo libero che promette e concede un abitare, la lingua italiana lo chiama il «paese». Il passaggio nel paese dello straniero si genera, nell’attraversamento del crepuscolo sacrigeno, di sera. Percio` l’ultimo verso della strofa dice: La sera muta senso e figura.

Il paese, nel quale tramonta (si traspone) colui che e` trapassato presto, e` il paese di questa sera. La temperie locale del punto ortivo, che raccoglie in se´ il dettato d’origine di Trakl, e` il nascosto stanziarsi dell’esilio; tale temperie locale si chiama Abendland, «paese della sera»: Esperia. Questa Esperia e` piu` antica, ossia piu` primigenia, e quindi piu` ferma nella parola data, di quanto lo sia l’Occidente platonico-cristiano nonche´, naturalmente, l’Occidente concepito alla maniera europea. Infatti l’esilio e` «inizio» di un ascendente anno del mondo, e non il baratro della caduta in rovina. L’Esperia nascosta nell’esilio non va a fondo, ma resta – resta in attesa dei suoi abitanti proprio nel suo essere il paese del tramonto trasponente nella notte sacrigena. Il paese del tramonto – del ponente – e` l’attraversamento che conduce nell’esordio del primo mattino in esso nascosto. Ma qualora ponderiamo tutto questo, possiamo ancora parlare di un caso se due fra i dettati di Trakl evocano esplicitamente il paese della sera, l’Esperia? L’uno reca appunto il titolo di Esperia [supra, p. 253]. L’altro e` intitolato Canzone esperide [supra, p. 37]. Quest’ultima canta il medesimo del Canto dell’esule. La canzone incomincia con l’esclamazione stupita e declinante che suona: Oh, il notturno colpo d’ali dell’anima:

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Il verso finisce con i due punti, in virtu` dei quali cio` che segue resta raccolto in un’unica cadenza fino all’attraversamento che dal ponente conduce nel levante. In tale luogo del dettato, proprio prima dell’ultima coppia di versi, compaiono ancora i due punti. Sono seguiti da questo semplice motto: «Un genere». Su «un» cade l’accento tonico. Si tratta, per quanto io veda, dell’unica dizione che, nei dettati di Trakl, sia scritta in spazieggiato . Il motto tonico «un genere» reconde la tonalita` fondamentale muovendo dalla quale il dettato d’origine di questo poeta tace il recondito. L’unita` dell’«un genere» – il suo stanziarsi come unito – sorge dal quel colpo di genesi che, provenendo dall’esilio, dalla piu` ferma e silente fermezza che vige in esso, dalla sua «indizione del bosco», dalle sue «misura e legge», e passando attraverso «i lunari sentieri degli esuli», raccoglie, al modo della candida endiadi, la tesa duplicita` dei generi allogandola nella piu` mite diade. La dizione «un», nel motto «un genere», non vuol dire «uno» invece che «due». Essa non designa neppure l’uniformita` o la monotonia di una scialba uguaglianza. Il motto «un genere» non indica, qui, alcuno stato di fatto di natura biologica, ne´ nel senso di uno stato di ‘‘generazione unisessuale’’, ne´ nel senso di una ‘‘omogeneita` del genere, del sesso’’. La tonica «un genere» nasconde quell’indole riunente che da` l’unisono, l’intesa unisona, muovendo dalla raccogliente azzurrita` della notte sacrigena. Il motto parla a partire dalla canzone (lauda) in cui e` cantata la terra della sera, l’Esperia. Pertanto la dizione «genere» conserva qui pienamente il gia` menzionato plurimo dispiegarsi del senso che udiamo nella dizione «progenie» [si veda supra, p. 309]. Essa evoca in primo luogo la geniturale progenie dell’uomo – l’umanita` come «genere umano» – colta nella sua differenza rispetto al restante vivente (piante e animali). In secondo luogo, la dizione «genere» rinvia alle genti e alle stirpi, ai ceppi e ai rami, alle famiglie di questa progenie umana. Infine, per ognuna di queste accezioni, la dizione «genere» designa anche la diade dei generi. Il colpo di genesi, che impronta tale diade alla tempra della candida endiadi – cioe´ dell’integro candore – dell’«un genere» (del «genere uno»), riportando cosı` le ramificazioni della progenie umana, e quindi questa progenie stessa, alla mite indole della piu` ferma e silente ingenuita`, rigenera proprio in quanto lascia che l’anima prenda il cammino

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verso l’«azzurra primavera». L’anima canta questa primavera tacendola. Il dettato Nell’oscuro [supra, p. 263] inizia con il verso: Ecco: l’anima tace l’azzurra primavera.

Il verbo «tacere» ha qui un senso transitivo. La poesia di Trakl canta l’Esperia. Essa costituisce un unico chiamare l’addicimento del retto colpo di genesi – quel colpo di genesi che parla la fiamma del sacrigenio temprandola di mitezza. Nella Canzone di Kaspar Hauser [supra, p. 265] si dice: Dio parlo` una mite fiamma al suo cuore: O uomo!

Anche questo «parlo`» e` usato in senso transitivo, proprio come l’appena citato «tace», e come il «sanguina» del dettato Al fanciullo Elis [supra, p. 175] e il «mormora» dell’ultimo verso del dettato Ai piedi del Monte Monaco [supra, p. 171]. Il parlare di Dio e` l’addire in cui viene assegnata all’uomo la tonalita` di un piu` fermo e silente stanziarsi e in cui, proprio grazie a tale raffermante tonica dicitura, egli e` chiamato a entrare in quella parlante sintonia – in quell’addicitura – in tensione verso la quale, muovendo dal vero ponente, egli si rigenera e risorge nel primo mattino. L’Esperia reconde il primigenio levante dell’«un genere» . Quanto e` corto il nostro pensare se crediamo che il cantore della Canzone dell’Esperia sia il poeta della caduta in rovina. Come e` misero e ottuso il nostro udire se dall’altro dettato di Trakl, che s’intitola Esperia, citiamo sempre soltanto la sua ultima parte, la terza, rimanendo pervicacemente sordi alla parte centrale di questo trittico cosı` come alla sua preparazione, contenuta nella prima parte. Nel dettato Esperia appare di nuovo la forma Elis, mentre «Helian» e «Sebastiano nel sogno», nei dettati piu` tardi, non sono piu` nominati. I passi dello straniero risuonano profondamente. Essi restano intonati sul «lieve sacrigenio» dell’antica leggenda d’origine del bosco. Nella seconda parte di questo dettato, il canto si e` gia` rimesso dal detto del

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brano finale, in cui sono evocate le «... grandi citta` / Di pietra costruite / Nella pianura!». Queste citta` hanno gia` il loro fato. Esso e` diverso da quello che si staglia e parla «ai piedi della verdeggiante collina in fiore», dove «risuona profondamente il temporale primaverile», ai piedi della collina cui appartiene una «[retta] giusta misura», un’«armonia» [supra, p. 93], e che e` detta anche «collina della sera» [supra, p. 17]. A proposito di Trakl, si e` parlato di una ‘‘costitutiva estraneita` alla Geschichte’’. Ma che significa, in questo giudizio, il termine Geschichte? Se significa solo «storia» nel senso della narrazione storica o della storiografia in quanto esposizione oggettuale del passato, allora Trakl e` certamente estraneo alla Geschichte. Il suo poetare non ha bisogno di ‘‘oggetti’’ storici e storiografici. Perche´ non ne ha bisogno? Perche´ il suo dettato d’origine e` geniturale in senso destinale-dispensale. La sua poesia canta la destinale dispensazione del colpo di genesi che, ingenerando la progenie umana nel proprio costitutivo stanziarsi tenuto ancora in serbo, la rigenera, cioe` le offre una via di scampo. La poesia di Trakl intona il canto dell’anima, che, quale «indole estranea sulla terra», consegue, in migrazione, la terra stessa nel suo tratto d’origine, riconoscendola come la piu` ferma e silente patria e casa della progenie rimpatriante. Trasognato romanticismo, lontano quindi dal mondo tecnico-economico del moderno esistere di massa? Oppure – il chiaro sapere del «dissennato», il quale vede e sente altro rispetto ai cronisti dell’attuale? Questi ultimi, infatti, esauriscono ogni loro energia nel racconto storico del presente, il cui precalcolato avvenire e` sempre soltanto il prolungamento dell’attuale, un avvenire costantemente privo dell’avvento di una dispensazione destinale che tocchi e scuota l’uomo proprio nel punto d’inizio del suo costitutivo stanziarsi. L’anima, «un’indole estranea», destinalmente dispensata su un sentiero che non conduce alla rovina, bensı` al tramonto inteso come ponente – questo vede il poeta. Il tramonto s’inchina e si compagina al vigoroso morire di cui muore, in anticipo, il trapassato nel primo mattino. In consonanza con lui, muore, cioe` trapassa, come cantore, il fratello. Lasciandosi avvincere dal trapasso di questa morte, l’amico, che segue lo straniero, si annotta attraversando la notte sacrigena degli anni dell’esilio. Il suo cantare e` il Canto di un merlo prigioniero. Si tratta del titolo di un dettato che Trakl dedica a Ludwig von Ficker. Il merlo rinvia al tordo, ovvero all’uccello

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che chiama Elis a entrare nel tramonto. Il merlo prigioniero e` la voce d’uccello di colui che e` simile al morto [supra, p. 241]. Esso e` prigioniero nella solitudine dei passi d’oro, che s’intonano alla corsa della barca d’oro, a bordo della quale il cuore di Elis migra solcando lo stagno stellato della notte azzurra, e cosı` indica all’anima la rotta del proprio stanziarsi. Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra.

L’anima migra verso il paese della sera, verso l’Esperia, la quale, in quanto e` intimamente dominata dal sacrigenio dell’esilio, e` essa stessa «sacrigena». Tutte le formule sono rischiose. Costringono il detto nell’esteriorita` del rapido opinare e fanno facilmente intristire il pensare consono. Tuttavia, possono costituire anche un aiuto, o almeno un impulso e un sostengo per l’insistente sentimento. Con queste riserve, possiamo enunciare la seguente formula: Una puntualizzazione del dettato d’origine di Georg Trakl ce lo indica come il poeta dell’ancora nascosta Esperia, del finora recondito paese della sera. Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra.

Come sappiamo, la frase e` contenuta nel dettato Primavera dell’anima [supra, p. 17]. Il verso che cede il passo alle ultime strofe, cui appartiene quella frase, suona: Vigoroso morire e, nel cuore, la fiamma che canta.

Segue allora l’ascesa del canto verso la pura chiara risonanza del salubre tono degli anni sacrigeni, che lo straniero migrante attraversa, e che il fratello segue – quel fratello che inizia cosı` ad abitare in Esperia: Piu` oscure scorrono intorno le acque fra i nitidi giochi dei pesci. Ore del lutto, tacita occhiata del sole; Ecco: l’anima e` un’indole estranea sulla terra. Sacrigenamente s’increpuscola

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Azzurrita` sopra il bosco colpito e squilla A lungo, nel villaggio, un’oscura campana; scorta pacifica. Fermo, silente fiorisce il mirto sulle bianche palpebre del morto. Lievi risuonano le acque nel pomeriggio che affonda, E in fiore verdeggia piu` scura la ferina selva sulla riva, gioia nel roseo vento; Il mite canto del fratello sulla collina della sera.

NOTE DI TRADUZIONE * (di Gino Zaccaria) Qui, come negli altri casi, non e` affatto vero che il nostro pensiero viva di etimologia; piuttosto, le cose stanno cosı`: l’etimologia rimane indirizzata alla ponderazione dello stanziarsi costitutivo di cio` che le parole, in quanto dizioni, indicano in maniera non dispiegata. M.H., «Das Ding», VuA, p. 167.

1. «La parola nella poesia – Una puntualizzazione del dettato d’origine di Georg Trakl». A. Die Sprache, «la parola della lingua», ovvero: «lingua madre». La dizione non deve far pensare immediatamente alla ‘‘lingua materna’’ o alla ‘‘madrelingua’’. Non e` in gioco qui l’apprendimento linguistico dell’infante, o lo stato linguistico di un individuo (o di una societa`), ma il fenomeno, ben piu` originario e normalmente non visto, del costitutivo rapporto fra l’uomo, inteso come Da-sein (ad-essere), e la sua parola. «Lingua madre», quale traduzione del senso heideggeriano della Sprache, significa: lingua d’origine dell’essere stesso nel suo parlare all’essere-uomo, ovvero: dimensione in cui, per una compagine umana (un popolo), viene via via sottoscritto il necessario contratto con l’essere dell’ente. Ogni lingua umana e` necessariamente una lingua madre in questo senso originario. A tale proposito, oltre il § 34 di Sein und Zeit (HGA Bd 2) e gli scritti contenuti in Unterwegs zur Sprache (HGA Bd 12), si veda OA, in particolare le pp. 123-25. (F. Fe´dier, in AP, p. 11, a proposito della Sprache, annota: «Die Sprache. Questa dizione serve a designare cio` che noi chiamiamo la langue. Dopo lunghe esitazioni ho deciso di tradurre globalmente la Sprache con ‘la parole’. La ragione principale e` che non esiste in francese alcun verbo prossimo al sostantivo langue – laddove, invece, die Sprache e` il sostantivo che deriva dal verbo sprechen: parlare. / E` necessario allora ricordare, ogniqualvolta si leggera` nella traduzione la dizione parole, che la dizione tedesca ha un senso piu` ampio: la parole cosı` come e` parlata in seno a una lingua. / Va da se´ che ogni nozione, definizione o distinzione della linguistica e` qui fuori luogo.») – B. Das Gedicht, «il dettato d’origine». Per l’interpretazione della parola Gedicht con «dettato», si veda HTP, in particolare le pp. 47-81. *

Per le abbreviazioni usate nelle citazioni, si veda infra la Bibliografia.

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[Di grande aiuto puo` essere lo studio del corso universitario del semestre invernale del 1934/35, intitolato Ho¨lderlins Hymnen ‘Germanien’ ¨ ber das Wesen der und ‘Der Rhein’; in particolare si veda il § 4 («U Dichtung») e il § 7 («Der Sprachcharakter der Dichtung»); HGA Bd 39] 2. «». Ci si basi pure sulla figura dell’ortus solis e del sol ortivus – il ‘‘sol levante’’. 3. «». Per il chiarimento di tali relazioni si veda HTP, in particolare le pp. 75-81; si veda inoltre OA, pp. 123-25. 4. «... a partire dalla sua propria quiete (o requie)». Per la resa di Ruhe e della sua compagine con «requie», «requiare», ecc., si veda OA, pp. 69-71, e la ndt 22. 5. «Oh, il mite fascio di ciani della notte». Die Zyane e` «il cı`ano» (entrambi da jt*amo|, azzurro, cilestre), ovvero la Kornblume, il fiordaliso (fiore azzurro, dal profumo intensissimo); si veda, ad esempio, il Carducci (Poesie, Bologna 1955, p. 678): «Come il ciano seren tra il biondeggiante / or de le spiche, tra le chiome flave / fiorisce quell’occhio azzurro... ». 6. «la profondita` dell’indole salubre». Sulla resa di das Heilige con «il salubre» (qui nel testo quasi sempre «indole salubre»), si veda HTP, pp. 81-96 (in particolare la nota 33); si veda anche OA, pp. 55-59 (la descrizione del tempio greco). 7. «... quel tono che chiama dall’indole reconsiva della silente fermezza e cosı` si staglia». La Stille rinvia alla Ruhe. La dizione «silente fermezza» intona, secondo il tratto del firmum, cio` che e` detto in «quiete» o, meglio, in «requie». L’aggettivo «silente» non ha qui naturalmente alcuna funzione ‘‘letteraria’’ o ‘‘poetizzante’’; esso va inteso alla lettera (come participio del silere latino): cio` che si stanzia sul tono del silenzio. – In Stille risuona la radice ie. *stel- di stellen, a sua volta in rapporto con l’importante radice ie. *st[h]a di stehen; per un aiuto al corretto ascolto della Stille nel senso della «silente fermezza», si veda OA, pp. 61-85 e le annesse ndt 18 e 27. 8. «... se e` vero che cio` che e` costitutivo si addice nella fermezza del silenzio e in modo repentino e di rado». Nel verbo sich ereignen parla l’Ereignis, che, da tempo, noi pensiamo come «dicevolezza» e «addicimento» (e quindi non come ‘‘evento’’, quand’anche fosse accompagnato dal senso dell’appropriazione). Nell’addirsi che afferisce all’Erei-

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gnis, e` necessario udire innanzitutto, secondo il giusto etimo, l’ad-decere (attagliarsi, essere adatto o degno; decentia, decus) e non – come erroneamente hanno creduto alcuni nostri critici – l’ad-dicere (attribuire, dedicare), assunto quale base per tradurre alcune dizioni appartenenti alla compagine del verbo sprechen. – Si vedano: IGP, pp. 31617; HTP, pp. 153-64; OA, p. 156 (ndt 15); 9. «... verso la mite indole di una riunita diade, ossia di una candida endiadi». La einfa¨ltige Zwiefalt e` interpretata come «ri-unita diade» (dt*a|), che a sua volta si lascia esplicitare (nel senso del fenomeno qui delucidato) come «candida endiadi» – dizione che traduce cosı` (assieme a «integro candore») anche la Einfalt. La parola deve essere intesa alla lettera: e=m dia+ dtoi^m – ossia: unita` (ri-unione, raccolta) attraverso la dualita`. La «candida endiadi» e` l’unita` che attraversa i due generi raccogliendoli e mantenendoli nel candore della loro gia` vigente simultanea originarieta`. 10. «Nella sua piu` ferma e silente ingenuita` – e morı`». Rendiamo Kindheit con «ingenuita`», dizione prossima al senso del Kind, in cui risuona la radice ie. *gen[ ]- («generare»): il Kind piu` che l’in-fante (colui che non ha ancora la parola) e` il «nato» in quanto «in-genuo» – nel senso di chi e` vicino alla nascita ed e` riconoscibile in una certa genesi. 11. «L’‘indole disingenita’». La delucidazione dell’indole di Elis e` affidata all’intesa della dizione das Ungeborene. Heidegger ricorda che il verbo geba¨ren – il cui participio e` appunto geboren – va inteso nel senso del tragen (in antico alto tedesco: giberan). Geba¨ren (giberan), in cui risuona la radice ie. *beh[ ]r- («muoversi», «alzarsi», «levarsi»), significa originariamente «portare (in) avanti a partire da...», «apportare», «pro-durre», «lasciar sorgere», e quindi «partorire», «dare o portare alla luce»; a *beh[ ]r- appartengono anche il greco ue*qeim e il latino ferre (si noti, in particolare, fertilitas, da fertilis, «cio` che e` atto a portare [frutti]»). Ora, di cio` che e` portato (sostenuto) in seno, e che attende di sorgere e mostrarsi come frutto quando sia giunto il tempo opportuno, si dice che «e` in gestazione». L’espressione zum Tragen kommen sembrerebbe per tanto adeguatamente interpretata dalla forma «giungere a gestazione». La gestazione e` quel «portare» fondato su un sostenere provvidente e arrecante, su un accurato reggere generante. Cosı` il «non ancora giunto a gestazione» e` il non ancora portato-sostenuto-retto da parte del costitutivo stanziarsi umano (cui e` tuttavia ab origine inerente); esso dunque rimane quell’indole umana che non puo` essere esplicitamente offerta (ob-ferre). Sulla base di queste osservazioni, posto che il Nicht-Geba¨ren (Nicht-Tragen) sia il non (poter) of-

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frire, il non (poter) portare alla luce, cioe` il non-poter-generare-nonavendo-ancora-sostenuto, possiamo rendere das Ungeborene (Nicht-Geborene, Nicht-Getragene, Ungetragene, nicht zum Tragen Gekommene) con «l’indole disingenita» (da in-genitus, in-gigno; «in-generare q.s. » = «lasciare che q.s. si generi dentro», anche nel senso dell’endo-genesi). Cosı` come il «dis-sennato» non e` il ‘‘senza senno’’ ma l’altrimenti senziente, in quanto si stanzia come il ‘‘gia` libero’’ dal cammino degli «altri», l’indole dis-ingenita non e` una ‘‘natura’’ genericamente priva di nascita, ma quell’indole che, insita nello stanziarsi dei mortali, resta libera dall’endogenesi nella progenie che si destanzia – l’indole eterogenea tenuta ab origine in serbo. 12. «... della durata che decorre e defluisce nella forma dell’‘‘uno-dopo-l’altro’’». Nacheinander: «uno-dopo-l’altro» – ossia: l’uno (in quanto attimo) come sempre succedaneo dell’altro (in quanto attimo). 13. «Alla fine e alla sua finizione si addice un’‘oscura pazienza’». Rendiamo entsprechen con quell’«addirsi» in cui deve essere udito l’ad-dicere, nel senso del dedicare e destinare, e quindi non l’ad-decere in quanto verbo guida per la traduzione della dizione Ereignis. Resta inteso che l’addirsi-Entsprechen e`, nel suo stanziarsi, originariamente riferito all’addirsi-Sichereignen dell’Ereignis. Si veda HTP, p. 164. 14. «» Tale esplicazione parentetica indica gia` l’essenziale per intendere il modo in cui interpretiamo la delucidazione del Geist in quanto «terso stanziarsi» dell’esilio (si veda supra, p. 341). Heidegger ci mette sotto gli occhi, con estrema semplicita`, una carenza del nostro pensiero tradizionale: la lingua della metafisica non ha, letteralmente, parole per questo Geist; esso resta, cosı`, metafisicamente indicibile. Ora, solo una compiuta esperienza di tale indicibilita` puo` rendere libero il nostro udito nei confronti del neologismo «sacrigenio» e della sua forma aggettivale «sacrigeno» (coniati, sia detto per inciso, guardando a termini come sacrilegus–sacrilegium o sacrificus–sacrificium – anche se, diversamente da quanto accade in questi ultimi [sacra+legere e sacrum+facere], il componente «sacri-» della nostra parola ha un valore avverbiale-modale). Il richiamo al modo indigeno in cui la lingua latina parla nelle sue due dizioni, genius

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e sacrum, ci permette di determinare sufficientemente la sfera dei riferimenti del neologismo. «Genio»–genius (da geno quale forma arcaica di gigno [gignere]), udito in latino, e` il nome del «generarsi» e del «generare», intesi nel loro senso piu` ampio, ricco ed essenziale: avere inizio e dare inizio, giungere alla luce e dare alla luce, sorgere e far sorgere, essere e lasciar essere, stagliarsi e stagliare. (Noi ipotizziamo qui che questa parola giunga a denominare il deorum filius e il parens hominum, e quindi la c.d. ‘‘divinita` tutelare’’ della singola esistenza umana, solo perche´ essa stessa designa innanzitutto il ‘‘generarsi dell’essere’’ – ossia: solo perche´ genius e` il piu` semplice nome latino del Da-sein, dell’ad-essere. Si veda DELL, alla voce geno, nonche´ DELG, alla voce dai* lxm.) «Sacro» – in accordo con i caratteri del sacrum (si veda I-E, pp. 179-207 e in particolare p. 188) – indica il contenzioso incrocio, o la contenziosa (reciproca) inerenza, di due tratti (dell’essere stesso): quello dell’estrema dignita` (mitezza, integrita`, misura, salubrita`, inviolabilita`) e quello dell’estremo pervertimento (distruzione, sgomento, dismisura, contrazione, violenza). Nella dizione «sacrigenio», il «generarsi/generare» e` allora indicato e colto nella sua piu` sorgiva (e nascosta) tempra, cioe`, appunto, nel modus originario del «sacro» – vale a dire, ora: come contenzioso incrocio fra i due tratti evocati. La dizione ricorda che – quanto all’essere stesso – la contesa fra tali tratti si e` gia` sempre generata come inerenza, mentre la loro inerenza si e` gia` sempre stanziata come contesa: contesa per inerenza, inerenza per contesa. Impariamo cosı` a pensare nel (bisenso, diadico) «sacrigenio» cio` che Heidegger, seguendo Trakl, pensa nel Geist: la fiamma, l’indole fiammeggiante, «l’in-se´-estrinseco che staglia e fa sfolgorare e risplendere, ma che puo` anche divorare e tutto distruggere fino al bianco pallido della cenere». Impariamo che la poesia di Trakl canta nell’invisibile splendore della costellazione del sacrigenio. 15. «Con il suo tratto di dissidio si compagina il paziente». Per l’interpretazione del Riß come «tratto di dissidio» o «tratto scissile», si veda OA, pp. 101-03 e p. 162, ndt 32. ——————— Nota finale. Traduzione e neologismi. In Leopardi troviamo decisivi pensieri sulla «necessita` dei neologismi» in una lingua vivente; si vedano in particolare ZIB, pp. 12; 50; 1049-1050; 1237-38, 2721-23; 2390; 2400. Solo due brevi accenni: «Rinunziare o sbandire una nuova parola o una sua nuova significazione (per forestiera o barbara ch’ella sia), quando la nostra lingua non abbia l’equivalente, o non l’abbia

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Note di traduzione

cosı` precisa, e ricevuta in quel proprio e determinato senso; non e` altro, e non puo` esser meno che rinunziare o sbandire, e trattar da barbara e illecita una nuova idea, e un nuovo concetto dello spirito umano» (ZIB, p. 2400); «I pedanti che oggi ci contrastano la facolta` di arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch’essa e` gia` perfetta... » (ZIB, p. 2723). Appaiono in sintonia con tali pensieri le seguenti riflessioni di Wilhelm von Humboldt, citate da Heidegger nell’ultima pagina del suo Unterwegs zur Sprache: «L’impiego, agli interni fini del linguaggio [Sprache], di una forma fonetica gia` esistente si puo` pensare possibile nei periodi intermedi della formazione di una lingua [Sprachbildung – piu` propriamente: configurazione della lingua]. Potrebbe accadere che un popolo, grazie a una illuminazione interna e col favore delle circostanze esterne, riuscisse a conferire alla lingua pervenutagli una forma cosı` decisamente diversa da farne una lingua completamente differente e nuova»; «Senza modificarla nei suoni e ancor meno nelle forme e nelle leggi, il tempo – grazie al progressivo svilupparsi delle idee, all’irrobustirsi del pensiero, all’acuirsi della sensibilita` – spesso introduce nella lingua quel che prima non aveva. Accade cosı` che nello stesso ricettacolo [Geha¨use: ‘‘casella’’, sede o forma accogliente] viene riposto un’altro senso, sotto la stessa forma viene offerto qualcosa di diverso, secondo le stesse leggi di connessione viene significato un processo di pensiero diversamente articolato. E` questo un frutto costante della Letteratura di un popolo, ma, nell’arco di questa, soprattutto della poesia e della filosofia» (trad. di A. Caracciolo). – Non bisogna tuttavia mai dimenticare: le due facolta` di cui ha costitutivamente bisogno il genuino tradurre, cioe` «la facolta` di arricchir la lingua» e la facolta` di pervenire, nella lingua stessa, a un diverso parlare e dire, corrono ogni volta il rischio di scadere nel mero tecnicismo neologistico. Tale scadimento si genera, ad esempio, quando il traduttore tenti di giungere al ‘‘senso’’ aggrappandosi al ‘‘testo’’ e tralasciando di passare, innanzitutto con i propri occhi, dalla cosa stessa e dal suo fenomeno; indaffarato tra sagome linguistiche e vuoti dialettismi concettuali, egli non potra` coniare altro che dei neologismi ciechi, cioe` dei format terminologici in se´ privi di capacita` fenomenologica. (A tal proposito, si legga l’illuminante pagina di Heidegger sui Seinsblinden, i ‘‘ciechi dell’essere’’, contenuta nel suo scritto sul cap. 1 del libro B della Fisica, in: HGA, Bd 9, pp. 262-65. Brevemente: ‘‘In terra di ciechi guai a chi ha occhio!’’)

BIBLIOGRAFIA (con le abbreviazioni usate nelle note di traduzione)

HEIDEGGER, M. (Le opere, citate dalla Gesamtausgabe – Klostermann, Frankfurt a. M. 1975 sgg. –, vengono indicate con la sigla HGA seguita dal numero del volume) HGA Bd 2 HGA Bd 7 HGA Bd 9 HGA Bd 12

HGA Bd 39 AP

OA

Sein und Zeit, hrsg. von F.-W. von Herrmann (1977) Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1970 Vortra¨ge und Aufsa¨tze, hrsg. von F.-W. von Herrmann (2000) Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976 Wegmarken, hrsg. von F.-W. von Herrmann (1976) Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987 Unterwegs zur Sprache, hrsg. von F.-W. von Herrmann (1985) In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973 Ho¨lderlins Hymnen »Germanien« und »Der Rhein«, hrsg. von S. Ziegler (1980) Acheminement vers la parole, a cura di J. Beaufret, W. Brokmeier et F. Fe´dier, Gallimard, Paris 1976 (edizione francese di Unterwegs zur Sprache, nell’ed. Neske) L’origine dell’opera d’arte (testo originale a fronte), a cura di G. Zaccaria e I. De Gennaro, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2000

TRAKL, G. (I volumi, citati dai Gesammelte Werke – indicati anche come Gesamtausgabe, a cura di W. Schneditz, Otto Mu¨ller Verlag, Salzburg, 1938-1949 –, vengono indicati con la sigla TGA seguita dal numero del volume) TGA Bd 1

Die Dichtungen

TGA Bd 2

Aus Goldenem Kelch (Die Jugenddichtungen)

TGA Bd 3

Nachlaß und Biographie (Gedichte, Briefe, Bilder, Essays)

BENVENISTE, E´. I-E

Le vocabulaire des institutions indo-europe´ennes, Les Editions de Minuit, Paris 1969

CHANTRAINE, P. DELG

Dictionnaire e´tymologique de la langue grecque, Klincksieck, Paris 1968

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Dictionnaire e´tymologique de la langue latine, Klincksieck, Paris 1994 (ristampa della IV edizione 1959 a cura di J. Andre´)

382

Bibliografia

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Zibaldone di pensieri, a cura di Giuseppe Pacella, Garzanti, Milano 1991

ZACCARIA, G. IGP HTP

L’inizio greco del pensiero. Heidegger e l’essenza futura della filosofia, Christian Marinotti Edizioni, Milano 1999 Ho¨lderlin e il tempo di poverta`. Un seminario sull’enigma della poesia, Ibis, Pavia 2000

INDICE

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

5

Avvertenza e ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

7

Il canto dell’esule di Georg Trakl . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

9

Fru¨hling der Seele. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Primavera dell’anima . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

14 15

Sebastian im Traum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sebastiano nel sogno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

20 21

Verkla¨rter Herbst . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Rischiarato autunno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

28 29

Sommersneige . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Declino dell’estate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

32 33

Abendla¨ndisches Lied . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Canzone esperide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

36 37

Kindheit . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ingenuita` . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

46 47

Ruh und Schweigen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quiete e tacere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

52 53

Nachtlied . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Canzone della notte. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

56 57

Ein Winterabend . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Una sera d’inverno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

60 61

Passion . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Passione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

64 65

Siebengesang des Todes. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Canto della morte – a sette voci. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

68 69

Elis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Elis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

76 77

Unterwegs . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Incamminamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

80 81

Geistliche Da¨mmerung . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Crepuscolo sacrigeno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

88 89

384

Indice

Anif . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Anif . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

92 93

Psalm. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Salmo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

94 95

Helian . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 Helian . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 Herbstseele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112 Anima d’autunno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113 Der Abend . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118 La sera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119 Traum und Nachtung . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124 Sogno e annottamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 Menschliches Elend . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 140 Miseria umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 Gesang des Abgeschiedenen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 148 Canto dell’esule . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149 Die Verfluchten . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 154 Gli afflitti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 An einen Fru¨hverstorbenen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162 A Uno trapassato presto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163 Am Mo¨nchsberg . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 170 Ai piedi del Monte Monaco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171 An den Knaben Elis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174 Al fanciullo Elis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175 Das Herz . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178 Il cuore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179 Heiterer Fru¨hling. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 182 Limpida primavera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183 Stundenlied . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188 Canzone delle ore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 189 Winkel am Wald. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190 Angolo ai margini del bosco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191 Jahr . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194 Anno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195 Klage . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 196 Lamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197

Indice

385

In Hellbrunn . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 200 A Hellbrunn. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201 Geistliches Lied . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 202 Canzone sacrigena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203 Verwandlung des Bo¨sen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 206 Trasmutazione del male . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 207 Die Nacht. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212 La notte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 213 In ein altes Stammbuch . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 214 In un antico libro genealogico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215 An Luzifer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 218 A Lucifero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 Das Gewitter . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 220 Il temporale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 221 Verkla¨rung . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 228 Trasfigurante rischiaramento. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 229 Grodek . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 234 Grodek . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 235 Im Dorf. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240 Nel villaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241 Der Wanderer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240 Il pellegrino. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241 Abendmuse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240 Musa serale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241 Abendlied . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240 Canzone serale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241 In den Nachmittag geflu¨stert . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 242 Sussurrato nel pomeriggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243 Offenbarung und Untergang . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 248 Palesamento e tramonto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249 Abendland . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 252 Esperia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253 Im Dunkel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 262 Nell’oscuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 263 Kaspar Hauser Lied . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 264 Canzone di Kaspar Hauser . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 265

386

Indice

Gesang einer gefangenen Amsel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 266 Canto di un merlo prigioniero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267

Ripresa e fine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

269

Das Herz . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 270 Il cuore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271 Das Gewitter . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274 Il temporale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275 Die Nacht. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 278 La notte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 279

La parola nella poesia di Martin Heidegger . . . . . . . . . . . . . . . . .

281

Note di traduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 375 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 381 Indice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 383

FINITO DI STAMPARE