Il codice dei colori nella poesia di Montale 8882121305, 9788882121303

Una nuova prospettiva per leggere Montale. Infatti con il suo "vedere" il poeta ci invita entro una percezione

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Il codice dei colori nella poesia di Montale
 8882121305, 9788882121303

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BIBLIOTECA del Centro Novarese di Studi Letterari collana di letteratura italiana dell’800 e ’900

18 SAGGI E TESTI

PREMIO “EUGENIO MONTALE” 1993-94

Sonia Berti Ivonne Mariani

IL CODICE DEI COLORI NELLA POESIA DI MONTALE con un saggio introduttivo di Donatella Marchi e una nota di Maria Luisa Spaziani

interlinea

edizioni

© Novara 1998 interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321-612571 www.interlinea.com Stampato dalla Tipografia San Gaudenzio, Novara ISBN 88-8212-130-5 In copertina: Upupa e uccelliera, acquaforte colorata a pastello, 1996 (da I fogli di una vita, a cura di Laura Barile, Franco Contorbia, Maria Antonietta Grignani, Libri Scheiwiller, Milano 1996), rielaborazione grafica di Mauro Savoini

SOMMARIO

Nota (MARIA LUISA SPAZIANI)

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Il codice cromatico in Ossi di seppia e in Le occasioni (SONIA BERTI)

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Il codice cromatico in La bufera (IVONNE MARIANI)

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Schemi comparativi

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Occhi d’acciaio sull’inesorabile nulla (DONATELLA MARCHI) IL CODICE DEI COLORI NELLA POESIA DI MONTALE

La validità di un lavoro di verifica della comunicazione globale della parola poetica di Montale ha partecipato nell’unità intrinseca dell’opera dell’esperienza linguistica e del messaggio cromatico dedotto. La pluralità di dimensioni, di aderenza, di plasticità e storicità del colore rivela altresì una sistematica progettualità che corrobora e stratifica la scrittura montaliana. L’interazione sistematica dei codici lirici ha realizzato una figura dialettica di norme, sperimentazioni e prospettive cromatiche. Da un susseguirsi preciso di realtà rappresentative, da un uso consistente di giallo e azzurro, la suggestione visiva si è distesa lungo parametri sempre più volti a isolare contrappunti figurativi come nero e rosso. Ciò non toglie che, nell’immediata espressività di certe forme, prendano corpo tocchi pittorici di dichiarata intensità e tutti assolutamente decisivi di una funzionale invadenza del colore nel mondo montaliano. Motivazione di giuria del Premio “Eugenio Montale”, sezione Tesi di Laurea, 1993-1994

MARIA LUISA SPAZIANI

OCCHI D’ACCIAIO SULL’INESORABILE NULLA

Ma resiste e vince il premio della solitaria veglia chi può con te allo specchio ustorio che accieca le pedine opporre i tuoi occhi d’acciaio. E. MONTALE, Nuove Stanze

Da Aristotele ai neoplatonici – valutate e fatte proprie attraverso un senso sottile e isoformico del tradire e del “tradere” certe intuizioni lontane di matrice leonardesca1 quanto intuizioni goethiane2 – Montale con il suo “vedere” ci invita entro una percezione del colore quanto mai particolare. Si direbbe da subito – cioè fin dagli Ossi, raccolta dell’inizio e dunque di fondamento anche per il codice cromatico – che la sua aspirazione più nascosta consista nel coniugare, ma non dialetticamente, oriente e occidente. Per così dire pensiero pensante occidentale e azione visionaria, fenomenico / teofanica, tutta stretta nel fuggente squarcio dell’«inesorabile nulla», rito d’oriente anch’esso marcatamente attanziale. Le modalità di tale ardita coniugazione sono percepibili da subito in quella poetica «da taglio» o «tagli» (nel senso di una cesura che alterna arbitrariamente spaccati dell’udire quanto del vedere3 e del non vedere) ché anzi quest’ultima qualità sembrerebbe prevalere specie con le poesie più adulte di Xenia4, Satura5 e dopo e dopo, come infine nel ricominciare, sempre da zero o da «nulla». In Montale degli Ossi, di Occasioni e Bufera il colore non si dà come unico elemento o fenomeno visivo; pur nell’omaggio a Platone, che nel Timeo osanna la vista come «fonte massima del nostro beneficio», ben sapendo che «nulla di ciò che abbiamo detto sull’universo avrebbe mai potuto venir detto, se non avessimo visto le stelle, il sole e il cielo»,6 Montale sa bene che ciò non deriva soltanto da un puro sguardo “fanciullino” o di istintiva maraviglia (ma anche nelle parole platoniane bisogna saper leggere!)... sa bene quanto il massimo di chiarezza e innocenza comporti il massimo di oscurità: certa obliquità, certo ostacolo-inciampo, che è poi quello che ti permette di vedere-chiaro, o far chiarezza a livello di strutture del profondo. Il colore come fenomeno visivo cede subito il posto a qualcosa di più complesso: registra e sviluppa un rapporto che ten-

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de all’armonia con l’universo naturale e di fatto ne patisce – anche con gusto – il suo “climax disarmonico”. Il colore come tale, più che risultanza fenomenica, si configura come esito relativo, frutto di una relazione intrigante e arbitraria fra il vedente e il veduto. Si va verso un «sentimento del colore»7 per alcuni e una grammatica del colore wittgensteinianamente intesa. Varrebbe anche la pena di pensare a una “sintassi”, ove il colore veramente erge le coordinate di un suo atto linguistico. Più che scienza o tecnica diviene linguaggio.8 Sia che la natura sia incolore o a colori, nel suo puro fare biologico, che tanto aggrada al Montale terrigeno, tuttavia è certo che «soltanto la sua sollecita apparenza verso uomini e insetti si mostra a colori per ingannare loro stessi alle leggi della riproduzione necessaria quanto involontaria».9 La legge del “lasciarsi vivere” e del “lasciarsi morire” – osmotica, per dirla con il Maestro del Tao, di sentire il vivere come quotidiano esito del morire – coinvolge Montale e ciò avviene sintomaticamente attraverso la registrazione e la messa a fuoco del più minuscolo fra le polveri insetto.

Insetto/uomo Esso – tutt’occhi e tutta percezione cromatica – moltiplica i colori con le leggi della propria specie: infatti nella loro giornata in festa di colori gli insetti consumano le loro stesse funzioni, quelle biologiche e quelle della specie che è loro propria. Poi «vivono con essi prima di essere divorati o riprodotti in altre minuscole esistenze, incessanti e continue».10 Sta qui e resiste all’arsura il sistema dell’insetto montaliano, che ci invita a vita e a morte. Qui l’inganno serio e ineludibile, qui «l’avventura in polvere». Insetto come antesignano della vicenda in polvere e destino dell’uomo. Uomo/insetto – disegno e forma dell’universo apparente: uomo «fatto a pezzi» e universo a spacchi! D’altronde l’etimologia11 non tradisce, se motiva il poeta a esprimersi, attraverso il gioco di differenti specie di insetti, in maiuscola, minuscola visibilità, o invisibili, da creare quel «pulviscolo madreperlaceo che vibra» o quell’«arnica verde» o «il commuoversi dell’eterno grembo», che rinvia a una magmatica orchestrazione vegetal-minerale-animale, brulichio della forma del vivente e un tutt’uno risultante fra sguar-

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do e guardato «in un barbaglio che invischia gli occhi e un poco ci sfibra», come egli stesso mostra di patire.

Il colore è animale Talora un «fitto bulicame del fossato» negli Ossi è quello che per contrasto manifesta e supporta il distendersi protettivo di «un dòmo celestino».12 Qui, come in tanti altri esempi, il colore è funzione che risulta inestraibile dalle forme varie animali-vegetali del vivente. Il colore è animale e vive come l’albero, la foglia, il giglio. Certamente Montale ha esperito dalla poesia d’osso, d’occasione e di bufera, sviluppandola ampiamente in Xenia, ad esempio, una “grammatica del vedere” che, come s’è già detto, si evolve in una “sintassi del vedere”, attraverso i tempi e modi, con tutti i casi del possibile e anche dell’inagibile: in una tensione di scarto fra luce e oscurità. Spesso «senza occhiali né antenne», quel «povero insetto che ali / avevi solo nella fantasia», o altrove «insetto miope», riferito a Mosca che aveva, come gli insetti, occhi per «essere visti anche al buio». Per tralasciare l’«occhiuto omissis», sempre di Xenia, che ci innamora ogni volta e che fa da sipario alla poesia che segue, ove si sospira: «ma è possibile, lo sai amare un’ombra, / ombre noi stessi». L’esperienza cromatica è un’impressione neocromatica, che, per dirla con Avalle, «è incatenata all’esperienza individuale dell’animale» (e dunque dell’animale uomo). Si direbbe ineludibile, senonché nel mondo animale il colore è l’istinto, perciò direi il contrario: l’istinto è un colore. All’uomo resta allora l’esperienza della cecità, se vuol veramente vedere.13

Cecità: atto del vedere Qui sulla cecità si apre ancora una fitta trama, ricca di apparenti contraddizioni, poiché essa è solo segno del prodigio del vero vedere. Così il cieco vede la sembianza “esterna” e ingannevole, elegante sì, ma ne riconosce il presagio insieme all’incandescenza. Qui l’epifania, strettamente interiorizzata, rende visibili le cose del dentro e sembra che Montale, superando ogni tipo di seduzione diacronica, blocchi il tempo insieme allo spazio per istruire quell’eterno presente, che fa vedere in modo differente: il presente si fa matrice di

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tutto. La sincronia della storia montaliana istruisce automaticamente una logica dei concetti dei colori, che sbaraglia di fatto ogni teoria. La logica è quella della discontinuità, del taglio, dell’accozzarsi imprevedibile del vissuto col vissuto. Per Montale la trappola del vissuto si può smagliare, però, solo a una condizione: non vedendo. Il che non significa “non guardare” o rimuovere, ma vedere con l’occhio della cecità (che vede in quanto “sguardo” e non “facies”). Poiché ancora in Xenia II tante o troppe sono «le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede». La ricerca è quella del “tesoro nascosto” e, per arrivare a una fenomenologia completa del colore, non resta che meditarne le modalità, anche se nella logica del non-senso, in un atteggiamento che ci permette di «essere visti anche al buio».

L’ombra D’altronde se il colore in Montale entra in continua dialettica con la luce – per dirla con Goethe, veramente «i colori sono le azioni della luce, azioni e sofferenze»14 – non di meno esso si coniuga molto più spesso con l’ombra; si percepirà dunque una realtà materica e concreta dell’ombra: una sorta di apparizione fisica, forse fugace o repentina (a volte persistente come in Xenia) e comunque assai definita e non apparente. Tutto è concretamente fisico nel nostro poeta, in quella che definiamo “poetica del trascolorare”, di cui Trascolorando di Diario 71 resta uno dei più riusciti esempi, specie quando si legge, dopo l’interrogativo «È lei?», una sorta di risposta – si direbbe sentenza:«Felicemente / si ignora. Chi dà luce rischia il buio». In tale mescolanza, non fra chiaro e scuro, ma di chiaro e di scuro, veramente Montale getta un ponte e un ulteriore quanto più stretto legame fra occidente e oriente, che si uniscono in una fenomenologia dell’ombra quasi simile, se faceva dire a Goethe che «il colore stesso è ombra»15 e all’autore del Libro del giacinto rosso (una sorta di Goethe iraniano) che «la sorgente del colore non si riduce per nulla quando le tenebre invadono la luce».16 Certamente Goethe era per un’“armonia cromatica”, ché «la natura è predisposta per guidarci alla libertà attraverso la totalità»,17 ma ciò non vuol dire che poi essa si possa cogliere con facilità: al contrario può essere che la manifestazione sia “baluginante”, improvvisa, scheggiata, disarmonica, “a scatti”.

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È il barbaglio o barlume che semmai ci raggiunge indifesi! Per quanto riguarda un’analisi corretta metodologicamente dell’elemento “ombra” in Montale – in misura sistematica e coerente – si dirà che è importante coniugarlo con la poetica dei colori e nelle profonde iterazioni con il codice cromatico, ma sarà anche necessario valutarlo come elemento a sé, poiché si evince dalla lettura e dalla frequenza fitta del suo disporsi, che l’ombra è appunto un colore e non sempre elemento di rapporto.18 Una fisicità e quasi ostacolo – da scandalo – che è ombra appunto e non evanescenza.

La luce Altro è la luce in Montale, di frequente e ineludibile matrice escatologica: d’altronde molto s’è detto sul dantismo montaliano e non vale qui riepilogare, quanto piuttosto chiedersi se la luce sia mezzo di manifestazione del colore o causa di esso nel vasto percorso montaliano. Certamente essa non è ciò che produce o fa esistere il colore, è manifestazione del colore, non della sua esistenza. «Quello che viene messo in chiaro è luce!» dice san Paolo agli Efesini e veramente nel manifestare non c’è l’apparizione pura e semplice, prodigiosa o solo miracolistica: in ciò sta nascosta una sorta di saggezza (un sapere che è divino) per quello che di ombra divina risiede nell’universo. Qui è la teosofia, come dono inviato e dono contraccambiato dal ricevente nell’essenzialità di un attimo:19 «lieto leggerò i neri / segni dei rami sul bianco / come un essenziale alfabeto». Così in Quasi una fantasia e non diversamente in Iride, ove forse il poeta si supera varcando la soglia dell’esoterico, quando conclude con un iniziare ancora. Ora la fine si ricongiunge con l’inizio: «Ma se ritorni non sei tu, è mutata / la tua storia terrena... / non hai sguardi, né ieri né domani; / perché l’opera Sua (che nella tua si trasforma) dev’essere continuata». Quest’opera incessante, occidentale fra creatore e creatura e orientale fra signore e cavaliere (rabb e marbûb), rapporto d’incessante e reciproca solidarietà tra dare e ricevere, si stringe dunque in un’esperienza mistica e profetica. E la visione del colore in Montale segue tale Via. La luce è l’angelo del colore, è il suo segreto. Essa o Ella è lo stato spirituale “o spiritualizzato”, laddove il colore è corporeità o materia. «Ogni luce è colore manifestato»: «Luce la ma-

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dreperla, la calanca / vertiginosa inghiotte ancora vittime / ma le tue piume sbiancano e il giorno è forse salvo». Ecco così sventola Il ventaglio de La bufera! La luce come manifestazione del Principio-Teofania, se scrive Corbin: «La luce è l’Oriente divenuto visibile».20 Ma è ancora Il libro del giacinto rosso che tramanda tale intuizione e se Montale l’avesse raccolta, o intuita appunto, per dono in quell’«ansietà d’Oriente» di Dora Markus, ove le sue parole «iridavano come le scaglie della triglia moribonda», ove «l’invisibile patria», al minuscolo di Dora, non sia forse solo la Carinzia, ma l’archetipo o l’Eterno presente? «L’ésprit du divenir»! Sì, è vero che talora c’è un invito sottile all’obscurisme in Montale, oltre che un visionario risalto delle immagini. Un realismo visionario che sbaraglia, al limite, anche un certo simbolismo del colore, che si vuole spesso e facilmente attribuire a poeti ermetici come Montale: c’è, al contrario, che «i colori si simbolizzano a vicenda», in un’articolata processione (appunto del colore) che transita dal sensibile al sovrasensibile e viceversa: una simbologia di trapasso, di transmutazione di cui la luce è garanzia e funzione.

Il Nulla Il passaggio dunque da una funzione teofanica a una cosmogonica essenziale è per Montale un lampo: quasi un automatismo, un clic, una repentina intuizione, che tuttavia marchia di sé tutta l’opera poetica di un nichilismo molto speciale, di cui, ad esempio, il verso «sono colui che ha veduto un istante e tanto basta» non è che un piccolo segno o disegno di Satura. Fitta è la sentenza non filosofica, ma pratica ed esperita, del vivere che fa dire al poeta versi tanto enigmatici quanto sinceri sul nulla, che solo un Maestro del Tao potrebbe tramandare: d’altronde è molto radicata una convinzione che lo consacra come classico, in filo diretto con una tradizione vetusta e onorabile del nichilismo da Omero alla metafisica del niente del Tesauro a quello più storicamente noto, romantico, nietzscheano e novecentesco. Il “nulla” anche in Montale, come per i suoi Maestri, diviene un gioco logico e retorico, in parentela sì con la complessità ontologica e divina, ma al contempo con quella cosmologica, ove dio è al minuscolo e si nasconde se mai nel “motto”, ove i colori, in gioco con le ombre fanno la loro parte nella verità che il «nulla è la sostanza stessa delle cose» e che esso, già dal Seicento, giungeva a un estre-

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mo gioco di autorivelazione: «un effetto logico, gioco retorico e abisso ontologico». E ciò non è certo casuale nella crisi della coscienza novecentesca, che Montale interpreta e scardina. È un addio definitivo al sistema aristotelico, a ciò che l’uomo possedeva: la natura con i suoi colori, odori, sapori, musiche, animali. Qui, con il più recente Ossola,21 diciamo che per la questione del Nulla, «l’anomalia si trasforma in paradigma, il paradosso in modello». E dunque vedere o no a colori il creato è solo gioco del Nulla perché per il nostro poeta «non c’è stato / nulla assolutamente nulla dietro di noi e nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla». Qui non importa inforcare occhiali senza vetro o gradazione o “anneriti”, poiché bastano quegli «occhi d’acciaio», ormai appunto metallizzati – da una funzione di difesa o resistenza? – di fronte allo speculum che ustiona, che non è certo più il sole! È stato visto, quando l’uomo era nel suo stato fanciullino e di stupore! Ora resta l’arsura del vivere e il duro vedere non ha colore nelle Nuove stanze: nostre e sue. Così anche la parola qui s’arresta o si brucia: quelle parole di Satura che «dopo un’eterna attesa rinunziano alla speranza di essere pronunciate». DONATELLA MARCHI

1 Nel mitico e incompleto trattato Sulla pittura Leonardo già trattava con originalità le funzioni produttive della luce e ombra in rapporto alle composizioni pittoriche. C’è già una “teoria dei colori” che finisce per proporre una percezione cromatica soggettiva del colore. I colori appartengono alla “prospettiva dei perdimenti”, che entra in gioco con la “prospettiva aerea”: insieme vengono a delineare i confini della visione che si disperde per rivelare la natura colorata delle ombre. Assai suggestivo lo sguardo sull’ombra. A riguardo si rinvia alla lettura del volume IX, dedicato al Colore, di Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Einaudi, Torino 1979. 2 J.W. GOETHE, La teoria dei colori, Il Saggiatore, Milano 1979 e dunque più di recente su di essa l’ampio saggio di S. SAMBURSKY, La luce e il colore nelle scienze fisiche e nella teoria goethiana, ne Il Sentimento del colore, “Quaderni di Eranos”, Red Edizioni, Como 1993. 3 Assai forte il rapporto, che lo ricollega di rito all’avanguardia storica, fra codice musicale e codice cromatico, che già in Minstrels di Ossi è assai coniugato – testo poetico, che si presenta in seguito con titolo mutato in Musica sognata, a chiudere la plaquette di Accordi & pastelli, Scheiwiller, Milano 1962. Qui la chiusa stupenda: «Musica senza rumore / ...e si colora di tinte / ora scarlatte, ora biade / e inumidisce gli oc-

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chi, così che il mondo / si vede come socchiudendo gli occhi / nuotar nel biondo». 4 «Ma non avevi occhiali, / non potevi vedermi» (1), «Ascoltare era il tuo solo modo di vedere» (9) di Xenia I. E ancora «le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue» (5) di Xenia II. 5 Basti citare ad esempio «il colloquio con le ombre / non si fa per telefono» di A tarda notte, o quello di Auf Wiedersehen, ove si legge: «hasta la vista, à bientôt... / ridicoli perché si sa che chi si è visto s’è visto. / La verità è che nulla si era veduto». Si potrebbe continuare, citando versi da L’angelo nero, da Gli uomini che si voltano, da Dopo una fuga per finire in Luci e colori. 6 Nel Timeo Platone fa un breve compendio della propria teoria del colore, che essenzialmente si rifà ai presocratici e a Empedocle, ma è importante notare che per il filosofo la conoscenza della struttura del mondo, trasmessaci dall’occhio, rappresenta solo la premessa di un fine più alto, vale a dire il coordinamento del corso del pensiero umano con i movimenti celesti e la conseguente instaurazione di un’armonia tra uomo e natura. 7 M. Eliade nell’introdurre il Sentimento del colore, avverte che «luce, colore e ombra sono tre elementi dell’esperienza quotidiana che l’uomo “respira” senza rendersene conto». L’interrogativo resta se ci si chiede se i tre elementi siano afferenti esclusivamente alla sfera del “visivo”. A tali domande nel succitato “Quaderno di Eranos” rispondono quattro studiosi oltre il già noto S. Sambursky epistemologo, esperto di spettroscopia. Essi sono G. Scholem, studioso di mistica ebraica, col saggio I colori e la loro simbologia nella tradizione e nella mistica ebraica; H. Corbin, divulgatore del pensiero islamico, col saggio Realismo e simbolismo dei colori nella cosmologia sciita, D. Zahan, etnologo del pensiero africano, col saggio Bianco, Rosso e Nero: il simbolismo dei colori nell’Africa nera; T. Izutsu, studioso della mistica occidentale e orientale e della filosofia Zen, col saggio L’eliminazione del colore nell’arte e nella filosofia dell’Estremo Oriente. 8 «Ora, ha senso domandare quanti colori occorra aver incontrato nella propria vita per conoscere il sistema dei colori? No! [...] Non importa la quantità dei colori visti ma la sintassi». E ancora «guardando non si impara nulla sui concetti dei colori». Così L. WITTGENSTEIN in Osservazioni sui colori (Una grammatica del vedere), Einaudi, Torino 1981 (Introduzione, p. XIV). 9 M. BRUSATIN, Storia dei colori, Einaudi, Torino 1983 (Introduzione, p. IX). 10 Ibidem. 11 Insetto: dal latino insectum = diviso in parti. Il capo, costituito dalla fusione di sei segmenti, porta l’apparato boccale, gli occhi composti, gli ocelli, le antenne. Anche il torace è diviso in segmenti e così l’addome. Insomma l’esercito di insetti è immenso e attivo ed è medium fra il mondo animale e quello vegetale. Si contano circa un milione di specie. 12 Il Dòmo celestino di Flussi (Ossi di seppia), forse di lontana riminiscenza pascoliana (non fosse altro che per l’attributo) apre e contiene i veri doni della vita, ove tutto è vanità comunque («la vita è questo scialo / di triti fatti, vano / più che crudele»). 13 Martellante e concreto Wittgenstein ripete: «Impariamo a usare... le espressioni “io vedo”, “egli vede” e così via, ancor prima di imparare a distinguere tra il vedere e la cecità», Osservazioni..., p. 109. 14 J.W. GOETHE, La teoria..., p. 2. 15 Ibi, p. 69, aggiungendo che: «poiché è affine all’ombra e si unisce volentieri con essa, ci appare volentieri in essa e attraverso di essa». 16 H. CORBIN, Realismo e simbolismo..., p. 119. 17 J.W. GOETHE, La teoria..., p. 813. 18 La frequenza della parola ombra è registrata nella poesia montaliana per 78 volte, quasi a pari merito con luce (77 volte) e occhio (79). Cfr. G. SAVOCA, Concordanza di tutte le poesie di Eugenio Montale, Olschki, Firenze 1987. Ciò è sintomo di una fitta interagenza e concordanza entro una fenomenologia del mutamento.

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19 Tal «luce che s’arrosa» aveva già visto il poeta in Arsenio, ove se c’è dantismo, c’è nel senso di un trascolorare “muto” nel rinascere, ove il rosa è realtà epifanica d’Oriente. 20 H. CORBIN, Realismo e simbolismo..., p. 14. 21 Non a caso e comunque emblematico il contributo critico che C. OSSOLA, già cultore dell’Ermetismo, fornisce oggi con il suo recente saggio Le antiche memorie del nulla, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1997, cui si rimanda il lettore più curioso e attento a tale intrigante tema.

IL CODICE DEI COLORI NELLA POESIA DI MONTALE

Ci muoviamo in un pulviscolo madreperlaceo che vibra, in un barbaglio che invischia gli occhi e un poco ci sfibra. E. MONTALE, Non rifugiarti nell’ombra Qui... il colore che resiste è del topo che ha saltato tra i giunchi o col suo spruzzo di metallo velenoso, lo storno che sparisce tra i fumi della riva. E. MONTALE, Barche sulla Marna

Sonia Berti

IL CODICE CROMATICO IN OSSI DI SEPPIA E IN LE OCCASIONI

1. Introduzione La plasticità della parola poetica del Montale di Ossi di seppia1 e di Le occasioni,2 intesa a rappresentare il mondo fenomenico e il paesaggio dell’anima montaliani, trova un riscontro puntuale e coerente nella duttilità degli elementi cromatici inseriti in tanti componimenti. Da subito il poeta si appropria di tratti paesaggistici a volte aridi, desolati e silenziosi, oppure animati dal vento e sconvolti dalle intemperie, ma pur sempre popolati di presenze misteriose, di ricordi, debolmente affioranti dalla memoria sofferente, di entità minime assurte a simboli che sono caratterizzati anche coloristicamente. Nell’economia degli Ossi di seppia si riconosce una matrice cromatica determinata dall’azione costante ma diversificata dell’azzurro e del giallo, mentre nella compagine di Le occasioni i colori vengono dosati assai più parcamente, con una sorta di cautela poetica e descrittiva, ravvisabile nelle liriche più brevi e concisamente strutturate: questa parsimonia cromatica non consente d’identificare con nettezza un colore-guida detentore di quelle stesse funzioni preordinanti e codificate, svolte dall’azzurro e dal giallo nel primo libro. Utilizzati tuttavia secondo moduli espressivi affini in entrambe le raccolte, i dati coloristici sanciscono una ben individuabile continuità tra di esse; si istituisce così una linea grammaticale comune, che contempla la presenza di determinanti coloristiche sostantivate, concretizzate o tradotte in verbi, che ne accentuano l’azione prolungata ed efficace. Con sensibilità da rabdomante, Montale rintraccia, in un paesaggio dapprima fisico e poi personale, scaturito dai ricordi della sua terra, filtrato attraverso la sua infanzia ed elaborato da un particolarissimo percorso poetico, gli emblemi che soli possono condurre alla salvezza: essi si oppongono all’incertezza di un’esistenza sfibrata, attonita, incolore e l’autore li ripone nella realtà caricati proprio di valenza salvifica, di energia vitale ed efficacia figurativa, racchiuse nelle molteplici tonalità cromatiche che li individuano. Se nel primo libro il prevalente e codificato «clima montaliano è il meriggio, aria fisica, ove solo avviene la completa maturazione, uno

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stato teso di equilibrio tra la vacuità, la tenerezza di tutti i principi e le albe e la opacità e stanchezza di tutte le fini e crepuscoli»,3 solo in esso possono apparire, in veste di emblemi, «i gialli dei limoni», le «rosse formiche», il «volto giallino» del girasole, gli «azzurri specchianti / del cielo», l’«albero verdecupo», l’«eucalipto biondo»; mentre nella seconda opera per Montale la «salvazione si rifugia [...] nei “barlumi” di una vita più intensa, più ardente, alla quale egli si sporge dalla sua “finestra che non s’illumina”, da cui cioè si sente irrimediabilmente escluso».4 Allora anche lo spazio destinato ai colori subisce un notevole ridimensionamento, le sfumature cromatiche s’incupiscono come attratte nell’orbita del nero, la luce solare diviene gelida e cede il passo a luminosità intermittenti, su cui finisce per avere la meglio l’ombra e il candore dei raggi lunari, per giungere all’oscurità mattutina di Pico Farnese e a quella notturna dell’Amiata. La parabola dei riferimenti coloristici, nelle ultime composizioni di Le occasioni, conduce pertanto a un inevitabile offuscamento degli stessi, tanto che il verde diventa «verderame», il nero si fa progressivamente più compatto comunicando una maggiore inquietudine, la notte assurge a tempo poetico privilegiato da Montale nell’evocare presenze silenziose ed evanescenti che trascendono la realtà sensibile, mentre l’indaco, tramutato in entità sostanziale, che scandisce con regolarità esasperante il susseguirsi dei minuti, «stilla / su anfratti, tagli, spicchi di muraglie», sui residui, in definitiva, di quel mondo calcinato e frammentato che era nato con gli Ossi.

2. Sostanza e magma dell’azzurro degli Ossi L’aderenza del linguaggio montaliano alla natura, ritratta negli oggetti e negli aspetti più cari al poeta, è ottenuta nella prima raccolta anche grazie a uno specifico apparato cromatico, in cui spicca immediatamente l’azzurro. Palesandosi sempre senza il minimo sintomo di estenuazione, esso permea di sé una buona porzione del paesaggio di Montale e costituisce non solo lo sfondo su cui si svolgono azioni e s’imprimono simboli, bensì una componente attiva e poliedrica nelle sue caratterizzazioni. Immagine e termine pregnante del sentire più autentico, a tratti elegiaco, di Montale, elemento ricco di sfumature fisiche e di signi-

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ficati, l’azzurro è radicato nel fertile terreno dell’anima del poeta, pronta a cogliere qualsiasi suggerimento, a indicare il colore del cielo ligure e del mare e qualche volta dell’ombra; soprattutto il colore sostanzia il cielo, il mare e l’ombra, in quanto si concretizza identificandosi totalmente in essi e dando vita e vigore a «quell’universo equoreo e terragno che costituisce il paesaggio privilegiato degli Ossi, e a un tempo il panorama culturale, autobiografico e morale di tutta l’esperienza giovanile montaliana».5 Tale fondamentale notazione cromatica fa la sua prima apparizione in I limoni6 in cui «le gazzarre degli uccelli / si spengono inghiottite dall’azzurro» e dove «l’azzurro si mostra / soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase». Il colore così compare in due differenti occasioni e in entrambi i casi in veste di sostantivo e non nella più ricorrente accezione di aggettivo. Nella peculiare ricchezza espressiva e figurativa di questo componimento dalle molteplici possibilità interpretative della poetica e della filosofia montaliane, il colore s’innesta sul livello rappresentativo e nostalgico della seconda e della quarta strofa. Il cielo, con la sua presenza costante sullo sfondo della lirica e degli oggetti in essa divenuti protagonisti, non è mai nominato esplicitamente, poiché all’autore è sufficiente individuarlo e indicarlo per mezzo della sua qualificazione cromatica diventata sostanza e corporeità; si tratta di un azzurro materiale, palpabile, avvolgente al punto che per il suo tramite la seconda strofa «offre un moto di interiorizzazione di eventi e di immagini, in base a cui sarà meglio se si spengono, inghiottite dall’azzurro del cielo, le pascoliane e melodiche»7 e felici «gazzarre degli uccelli». Tuttavia solo se calato nella natura il colore possiede ed evidenzia queste ben precise determinazioni, mentre nel momento in cui si ritorna alla realtà e «nelle città rumorose», «l’azzurro si mostra / soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase»: nel nuovo stato emotivo che succede al turbamento e alla «drammaticità dello straniamento liricoconoscitivo»8 palesato nella terza strofa, si produce il distacco, si ridimensiona il ruolo dell’elemento cromatico, che si limita a mostrarsi da lontano, in alto, e per di più a frammenti, sparsi tra le fitte case di città. Nella sua intensità e materialità la componente coloristica si muove in strettissima connessione con i sentimenti dell’autore, in un’ambientazione che si adegua pienamente ai diversi registri poetici:

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quando egli si sofferma sui valori di una natura intima e raccolta tanto che «piove in petto una dolcezza inquieta», l’azzurro è vicinissimo e con esso l’uomo instaura un contatto vitale e irripetibile altrove, come un anello di congiunzione con le vicende della terra; quando invece l’occhio del poeta si volge a scrutare le città, la pioggia, «il tedio dell’inverno sulle case», la luce «avara» e l’anima «amara», allora il colore del cielo si allontana dalla terra, frapponendosi così fra gli estremi di un paesaggio modificato dal tempo una distanza incolmabile. La cromaticità si spezza «tra le cimase», perde l’iniziale energia, il suo splendore si offusca, diventa indifferente alle vicissitudini di cui si era resa protagonista durante l’estate; il colore, che non riesce più a impregnare di sé ogni componente vegetale e animale della natura, si scorpora dalla realtà sensibile e se prima poteva sopraffare l’elemento uditivo delle «gazzarre degli uccelli», ora, dotato solo di una volontà sconnessa, non gli riesce di vincere i rumori della città. Anche in Portami il girasole9 l’azzurro individua il cielo ed è come smembrato, ma ci si avvede subito del meccanismo differente che ne regola la funzione e che lo pone in relazione con l’accadimento principale che apre e chiude la breve lirica: «Portami il girasole ch’io lo trapianti / nel mio terreno bruciato dal salino, / e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti / del cielo l’ansietà del suo volto giallino». Il colore che domina nel componimento è il giallo del girasole e della luce mentre l’azzurro svolge la propria azione posto in secondo piano, poiché il cielo risulta suddiviso in varie e distinte unità che fungono da specchi per il girasole sulla terra. L’azzurro-specchio diviene un gruppo di eguali, si trasforma negli «azzurri specchianti», che rappresentano un insieme di più elementi identici colti nell’atto irrinunciabile e individuante dello specchiare: a tal fine Montale adopera un participio desueto, proprio perché indicando l’azione degli «azzurri» tace il vero oggetto-specchio, che pure è intuitivamente percepibile. Questo inoltre è l’unico caso in cui l’azzurro sostantivato è utilizzato al plurale, in funzione di un cielo frazionato che riflette le vicende della terra e del «girasole impazzito di luce». Con la sezione Mediterraneo10 Montale inaugura una sorta di poetica dell’acqua marina, della costa e del paesaggio impregnato dei sapori e degli odori del mare: il poeta stesso afferma che in Ossi di seppia «tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante»11 e an-

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cora «più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga».12 In un contesto così prepotentemente «equoreo» anche il dato cromatico è in funzione del mare e in generale dell’ambiente marino. In Ho sostato talvolta nelle grotte13 esso s’insinua nel respiro possente della lirica, nel «suo effondersi e diffondersi entro fondali a momenti quasi scenici»14 creati dall’apparenza fiabesca di «una città di vetro dentro l’azzurro netto». L’intensità del colore accentua l’imponenza e la profondità dell’elemento-essere dell’acqua da cui sorgono le rocce che assumono le forme sacre di templi e guglie e che contribuiscono a una visione fantastica del mare: quest’ultimo, personificato e umanizzato dal poeta, si presenta come interlocutore privilegiato in un dialogo affettuoso, commosso e rispettoso che prosegue nelle altre poesie della sezione e che dà vita a una affabulazione unica e mirabile nel suo genere. Dopo il valore poetico dell’azzurro-mare nelle liriche di Mediterraneo in cui gli «“ossi di seppia” scintillanti e duri ci giungono ancora intrisi d’azzurro marino e diffondono la perduta malinconia dei rottami che il mare rigetta sulle sponde del suo abisso ignaro del trapasso dei giorni»,15 si approda nuovamente con Fine dell’infanzia16 al valore poetico dell’azzurro-cielo. Qui l’ambientazione marina seguita a rivestire un ruolo centrale, tanto è vero che la composizione esordisce con l’immagine del mare e termina con la figurazione del medesimo oggetto fisico e simbolico, mentre l’«azzurro lavato del cielo» sembra rifletterne i moti e le ansie. L’uomo lontano e fuori da ogni dimensione temporale che s’imprime indelebilmente nell’azzurro suggerisce l’idea di un cielo terso e luminoso, privo di nubi o del «fumo di un casale», tenue, che trascorre in un primo tempo proprio «la faccia candente del cielo»; questo e il dato cromatico che lo identifica in seguito subiscono una rilevante trasformazione, riempiendosi ancora di «pesanti nubi» minacciose in corrispondenza del mare, all’orizzonte, quale chiaro presagio della «fine dell’infanzia», quando «il momento della conoscenza irrompe con la violenza, con la palese manifestazione dell’inganno, spezza i giuochi della fantasia, la ricerca dei nomi delle cose, gli avventurosi giuochi infantili: il turbine, la bufera travolgono anche l’inganno infantile».17

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Il colore che nelle precedenti liriche aveva accolto in sé i suoni e i rumori della natura animata, il riflesso delle vicende della terra generosa, ora riceve una figura umana che passa, ma che resta anche fissata nell’attimo eterno del ricordo di un altro uomo, il poeta. Si manifesta la necessità di un supporto insostituibile, la componente cromatica, per far sì che la memoria di un momento distante cronologicamente non diventi labile e abbia per sorte quella di svanire: l’azzurro ha acquistato la funzione di sostegno di un ricordo, che vuol essere duraturo, di una visione anonima, un uomo lontano, sconosciuto, e al tempo stesso familiare e vicina al cuore di Montale. Il tratto deciso del colore, al di là di una sua valenza rappresentativa, si adegua al tono pacato ed elegiaco con cui l’autore rammenta e riflette e ha il suo equivalente nell’«azzurro netto» di Ho sostato talvolta nelle grotte, nell’«azzurro tranquillo» di Ciò che di me sapeste18 e nell’«azzurro fitto» di Maestrale.19 La varietà delle attribuzioni qualificative della medesima notazione cromatica evidenzia il suo essere elemento tangibile sottoposto a tutte le vicende e le trasformazioni che caratterizzano gli oggetti comuni; l’effetto immediato conduce ancora una volta a una sensibile materializzazione del colore. Con gli ultimi componimenti di Ossi di seppia muta radicalmente la funzione dell’azzurro; in Marezzo20 esso diventa «un gorgo d’azzurro», suggello potente e centrale della lirica, che testimonia ineluttabilmente la perdita d’identità degli uomini, la loro solitudine, l’alienazione cui sono soggetti senza alcuna possibilità di un gesto pietoso di ascolto e di umana comprensione, tanto che «corollario della solitudine prigioniera è l’incapacità al colloquio»21: la memoria appare «dilavata», la comunicazione è negata e ogni «parola nella poesia è sempre gesto negativo, rimane cioè impronunciata o inascoltata, suggella la solitudine senza riuscire a superarla e scivola continuamente nel campo contiguo del silenzio».22 Nell’immagine crudele del «gorgo d’azzurro che s’infolta» il poeta dichiara il risultato cui è giunto dopo lunga e intensa meditazione, la verità che attende tutti al di là delle illusioni. Ora il colore non accoglie ma sommerge, distruggendola, la coscienza e disperde l’individualità in un oblio totale e irreversibile. E il conclusivo «momento è un delirio che ci afferra: un momento panico ancora capace di unirci alla natura. Un male (a suo modo un “male di vivere”) calmo e lucente, come calmo e lucente è il mare, è il cielo. Forse qui – pur nel-

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la certezza indissolubile che proprio il male di vivere esiste – si compirà il miracolo atteso, verrà l’ora salvatrice... che corre verso di noi sulla spera ardente, sullo specchio del mare sul quale si riflette il sole».23 Unica certezza metafisica diviene il perdersi nella dimensione del colore, nell’azzurro di cui si sostanzia il gorgo che «non è più quello attivo di uno smemorato abbandono, dell’ora magica in cui esistere dissolvendoci. È il gorgo della nostra impotenza che torna a riafferrarci, la coscienza che ci turba e ci possiede di nuovo».24 A incrementare la gamma delle utilizzazioni di questo colore in Ossi di seppia concorre la poesia I morti25 in cui la figurazione del «cristallo dell’azzurro» rappresenta tangibilmente il gelo di cui è permeata la lirica, la «fissità gelida» che imprigiona anche i vivi, oltre ai defunti ridotti a «larve». La freddezza, che è assunta come qualità del colore e della luce stessa, tarda e come immobilizzata, conduce alla paralisi dei viventi, al regredire dell’esistenza verso il ricordo, sentito come «forza [...] spietata più del vivere». In questa composizione «il poeta arriverà proprio a darci, quasi fisicamente e percettibilmente, la temperie della distanza interna che lo separa ormai dalla sorgente ligure e dal rombante paesaggio mediterraneo da cui la sua poesia ha tratto origine e con cui, a un certo punto [...] ha inteso identificarsi liricamente»,26 per cui anche il colore partecipa alla trasformazione intervenuta e realizzatasi compiutamente nel clima poetico degli ultimi componimenti del libro: l’azzurro ha assunto le sembianze di un cristallo denso che «palpebra» come un occhio alternativamente luccicante, spento o luminoso, che finisce con il precipitare verso l’orizzonte «flagellato». Rammentando gli «azzurri specchianti» di Portami il girasole, l’essere cristallino del dato cromatico accentua l’evidenza della sua solidità, del suo configurarsi come entità minerale, riflettente, come un insieme di specchi o un cristallo, la cui purezza tuttavia non è in grado di sopravanzare la componente di negatività raggelante insita nelle ultime manifestazioni del colore. Preludio al secondo libro montaliano, il palpebrare del colorecristallo introduce al nuovo clima, alle balenanti e frequenti intermittenze, alle oscillazioni tra luce e ombra, assolvendo in tal modo il dato cromatico dell’azzurro anche a un ruolo di collegamento diretto tra le due fasi creative del poeta.

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3. L’occasione d’azzurro o «qualche foro...» Con Le occasioni muta dunque, almeno in parte, il quadro complessivo dei rapporti cromatici e dei significati poetici connessi ai colori, come già anticipato in I morti, per cui anche per l’azzurro si configurano meccanismi nuovi di innesto nel corpo delle liriche e risultati originalissimi negli impasti verbali assai versatili che si realizzano: «in queste Occasioni, l’artista è ancor cresciuto, s’è arricchito di più sottili e modulati echi»27 e nel nuovo libro si respira un clima diverso, «nelle sue nuove poesie circola più aria, più suggestione di pause; c’è anche, qua e là, più gioco, più bravura. Egli ha in parte rinunciato alla intensità del colore descrittivo, alle insistenze della definizione paesistica, alla continuità del nesso strofico e meditativo, a favore di una più esperta grazia di snodature e fratture ritmiche, di una più fascinosa scienza di appena indicate, balenanti evocazioni».28 La consistente diminuzione numerica che si registra riguardo alle apparizioni dell’azzurro in Le occasioni rispecchia l’andamento complessivo dei colori nella seconda opera di Montale: l’azzurro si rinviene solo in quattro poesie. Resta immutata invece la sua funzione di sostantivo accompagnato in qualche caso da un attributo: anzi esso è utilizzato solo nella categoria grammaticale del sostantivo e mai come aggettivo, come accadeva talvolta in Ossi di seppia. Il peculiare binomio che si costruisce tra l’azzurro sostantivo e l’attributo che lo qualifica più specificatamente si trova in una delle prime poesie della raccolta, Altro effetto di luna.29 Fin dall’attacco del componimento la presenza e l’effetto della luna rendono possibile la creazione di un paesaggio che è nello stesso tempo cornice e contenuto della lirica, che prende corpo con la «trama del carrubo che si profila / nuda contro l’azzurro sonnolento»: gli oggetti poetici, situati come in una «trafila» dall’autore, si susseguono all’interno dei versi fino allo scioglimento di un ipotetico volo, che è in antitesi con la prima immagine della composizione. Il colore è funzionale alla rappresentazione del profilarsi di un carrubo, figura statica, che si staglia contro un «azzurro sonnolento», animato, quindi, se non addirittura umanizzato; come umanizzati sono alcuni tratti di altre componenti, quali la pianta «nuda», «il suono delle voci» e la luna che avanza con i suoi raggi che, come in una sorprendente metamorfosi, si sono trasformati in «dita d’argento sulle soglie», quasi a voler guadagnare spazio a poco a poco.

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Il carrubo, l’azzurro, i raggi della luna sono agenti della natura collocati in uno spazio indefinito, nella prima fase del componimento, e successivamente in un territorio, il molo, più circoscritto, anche se quest’ultimo cela in sé la prospettiva della vastità del mare, nella seconda quartina. La poesia si può dunque scindere in due unità distinte, dominata l’una dal cielo, «l’azzurro sonnolento», e l’altra dal mare. In tal modo l’azzurro-cielo della prima strofa si trasferisce e si coglie indirettamente nella seconda mediante la presenza sottintesa del mare, diventando cioè azzurro-mare e dando luogo al compendio dei suoi diversi ruoli. Allora si spiega come la notazione coloristica possa risultare il contenuto, insieme agli altri, del componimento e contemporaneamente il contenitore della rappresentazione montaliana, poiché è sfondo e scenografia su cui si imprimono le immagini, gli oggetti, i suoni e le intuizioni del poeta; questo processo, insieme allo sdoppiamento dell’azione svolta dal colore, avviene anche in Fine dell’infanzia ma in una prospettiva di accadimenti personali e pertanto autobiografica. Inoltre è proprio nei versi di Altro effetto di luna che «una figura, un paesaggio, un colore, un segno, incommensurabili con gli oggetti della realtà ordinaria, provocano di colpo la frattura»,30 la decisione o la rinuncia. Infine la sonnolenza si trasferisce dal meriggio di Spesso il male di vivere31 e delle altre poesie di Ossi di seppia all’azzurro della presente lirica collocato nella dimensione serale, in cui i riflessi della luna procedono lentamente cercando d’insinuarsi nelle case, ma arrestandosi in definitiva lì sulle «soglie», sul limite, che è anche quello di uno sguardo del poeta, sullo spazio che separa l’interno dall’esterno: allora l’occhio di colui che parla si dirige nuovamente sul mare, come su una possibile certezza. Colore e certezza vivono in simbiosi nei versi contratti e veloci di Accelerato32 dove, attraverso «qualche foro d’azzurro» che tenta di opporsi all’oscurità, si manifesta, quale visione epifanica, la donna lontana nel tempo e nello spazio, sotto forma di «ninfale / Entella». L’ingrediente cromatico rende possibile il recupero della figura salvifica, anche se evanescente, della donna e instaura un rapporto antitetico e contrastante con l’atmosfera cupa di un giorno battuto dal vento, dalla pioggia e dalla cenere sollevata dal «soffio / piovorno». Così il «dinamico opporsi dei due sistemi reciproci di durata e istante, buio e luce, resi con immagini plastiche oltre che coloristi-

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che»33 sintetizza la finalità costante, positiva, che è data come punto fermo dell’azzurro: la pesantezza di un giorno tempestoso costituisce una sorta di velo resistente, essa è «dura», interrotta a tratti da «qualche foro» attraverso cui si intravede, come una speranza tenace, ancora in vita, l’azzurro intenso dei «cieli dell’infanzia», che persiste e squarcia la realtà opprimente che circonda il poeta. L’azzurro, ancor partecipe ma frantumato, è nuovamente latore di illusioni e dolci rievocazioni; tuttavia sempre più spesso è un «cielo senza smalto e senza speranza, dove i grandi inganni tradizionali non hanno presa, in cui le presenze sono poche e innaturali, gelide e anatemizzanti»34 come alcune delle figure femminili che lo popolano, a cominciare dalla «ninfale / Entella»: il cielo montaliano ha subito alterne e complesse trasformazioni fino ad assumere le caratteristiche di una «sfera che stravolge le leggi di una cristallografia ideale, perché i corpi si fanno e si disfanno disobbedendo a ogni legge di omogeneità della materia, a qualunque poliedricità naturale preconcetta, sdegnando le strutture interne determinate e costanti».35 Nel «clima di estrema rarefazione espressiva»36 che impregna e distingue i Mottetti37 si palesa l’esiguità dei contenuti coloristici espliciti, che tuttavia testimoniano la versatilità del poeta nel calibrarli e collocarli a suggello di situazioni esistenziali universali, e a dosarli intersecandoli con percezioni attinenti ad altri campi sensoriali: così nel mottetto Il fiore che ripete38 l’architettura poetica si fonda sui dati visivi di un «azzurro pervicace», del fiore che «non ha tinte più liete né più chiare» e dell’«opposta / tappa, già buia», sui dati uditivi immaginari o reali del fiore che ripete la sua esortazione a non dimenticare e del «cigolio» che «si sferra», e infine su un dato tattile come l’«afa quasi visibile» che si riconnette a una percezione visiva. La compresenza di elementi ascrivibili a sfere percettive diverse ma interagenti tra loro contraddistingue, fin dal suo esordio, la poesia montaliana e procede di pari passo con l’evoluzione della sua sensibilità lirica. Se «l’azzurro pervicace», dai tratti ancora umani, si può accostare all’«azzurro sonnolento», il fattore innovativo di «qualche foro d’azzurro» si riconduce a «uno strappo / dell’azzurro» di Stanze,39 come rileva Ramat.40 Lo «strappo» di Stanze presuppone un’azione forte e decisa, quando non addirittura violenta, nei confronti del colore, reso immancabilmente tangibile, come se il poeta volesse restare fedele a una vivace intuizione espressiva che spiega d’un colpo net-

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to la necessità di sconfiggere «la contestuale oscurità, ch’è psichico annaspamento o delirio a vuoto»41 e che grava su tutte le cose. Lo strappo e i fori dell’azzurro sono i segni evidenti dell’ininterrotta e lucida riflessione dell’autore sull’esigenza di trovare un varco, una «stortura» nella rete che imprigiona il mondo, per poi approdare alla salvezza e sfuggire così a un destino crudele: l’azione velocissima che coinvolge l’elemento cromatico consente di comprendere che persino «il gesto e il movimento divengono, come la luce e il suono, istantanei e caduchi, contraendosi temporalmente fino alla coincidenza apparizione-attuazione-dissolvimento. Lo scatto poetico nasce allora da un movimento improvviso su cui si fissa l’immagine»;42 quest’ultima è così potente e centrale, così volta alla ricerca di un possibile scampo nella trama di un destino cosmico, che «raccoglierà tutta la luce e la forza lirica di cui non pare capace il parlante».43 E se Montale afferma con piglio categorico che la «dannazione / è forse questa vaneggiante amara / oscurità che scende su chi resta» è anche coerentemente consapevole che egli stesso è «colui che rimane letteralmente “all’oscuro” ossia privo di conoscenza».44 Non sembra pertanto ricomporsi l’eterno dissidio tra luce, colore e salvezza da una parte e buio e dannazione dall’altra, quale epilogo inevitabile nonostante la comparsa, pur misteriosa e breve, di Clizia.

4. Del giallo biondo oro La struttura cromatica di Ossi di seppia viene notevolmente corroborata dall’intervento di un colore intenso e vivace, utilizzato da Montale secondo varie sfumature: il giallo. Esso, dopo l’azzurro, è il fattore cromatico più attivo e, proprio come l’azzurro cui si affianca sovente, attraversa tutta la raccolta per «definire, colorire, particolareggiare il paesaggio, reso così tanto più icastico e concreto quanto più esemplare e simbolico»,45 e contribuire alla realizzazione di «un alto, inconfondibile, trasfigurato repertorio di colori e di presenze».46 In I limoni il giallo, a tratti taciuto ma pur sempre riconducibile agli elementi rappresentati, a tratti esplicitato, si rivela «il privilegiato momento montaliano della pura visione e conoscenza, quello che a volte si concreta in un’illuminazione, in un simbolo, a volte in una dichiarazione, in uno “statement fulmineo”, altre volte, come qui,

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nell’istante in cui pare mancare l’illusione poetica iniziale e farsi un sussulto di memoria involontaria che ingenera una pacata e pregnante immagine»47 dai toni di nostalgica rievocazione memoriale appunto e visiva: «Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni». Il poeta, che ha operato per porre in risalto il colore dei frutti, fa uso di un sostantivo plurale che promuove di nuovo la concretizzazione del dato visivo: la moltitudine dei «gialli» è la regola in questo componimento, applicata nel titolo per poi proseguire negli «alberi dei limoni», nell’«odore dei limoni», nei «gialli dei limoni» e infine nelle «trombe d’oro della solarità». In queste strofe dove «paiono liquefarsi i colori, pacificarsi gli umori»48 l’apparizione costante delle piante, incastonata al termine di ogni suddivisione lirica, realizza il centro pulsante del sentimento poetico e dell’intera figurazione e il nucleo che assorbe in sé la molteplicità delle percezioni sensoriali; infine questo nucleo si scioglierà, svelandosi e arricchendosi ulteriormente, nella suggestiva immagine delle «trombe d’oro della solarità» che «sarà, nel quadro dell’intera economia degli Ossi, la messa in opera del primo dei celebri simboli montaliani, costitutivo di un determinante e ancora soggettivo e trascendentale momento di ricchezza interiore e durata, e insieme di rottura di un equilibrio inerte e atono. Una forma da porsi dinamicamente in rapporto con l’ardua ma certa e infine vivificante e ricorrente solarità del libro».49 Con l’approdo salvifico sul terreno di una cromaticità mutevole e in costante crescita, concentrata nell’ultima strofa, «Montale ha saputo trovare un equivalente lirico tutto in movimento, a conclusione di una scena [...] che ha già il mistero pregnante e l’immobilità silente della gran pittura metafisica di quegli stessi anni».50 Spostando il ruolo del colore da sostegno di rievocazioni e illusioni a finalità primaria, poiché esso conduce alla visualizzazione di un avvenimento prodigioso, capace di riscattare il grigiore di un’esistenza protratta nel tedio e nella stanchezza, che gravano come una cappa opprimente sugli uomini, l’autore gli ha conferito anche il ruolo di creare e rafforzare «la prima comparsa funzionale di quella metafora meridiana e solare che risulterà centrale alla struttura degli Ossi nella loro interezza e che, altrimenti potenziata e arricchita e costituita in oggetto, risulterà decisiva alla suscitazione dei resistentissimi “barlumi” delle Occasioni o del sole nero della Bufera».51 Mediato e agevolato dall’apporto coloristico e luminosissimo del giallo, il linguag-

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gio poetico montaliano «nella scrosciante apparizione dei limoni [...] ha trovato oltre che un’inappuntabile proposta teorica, un’icona, una forma».52 Oltre a rivelare la messaggera celeste Clizia, in Portami il girasole questa pianta dal «volto giallino», «impazzito di luce», «deve senz’altro rappresentare l’illusione (o la speranza?) che cresce, per gli uomini, sul terreno riarso della vita; il suo colore giallino (pallido, quindi ansioso, quindi trepidante e fugace come tutta la vita degli uomini) si volge di continuo agli azzurri specchianti, rilucenti del cielo immenso, impassibile, eterno».53 Attuata mediante l’immagine del suo «volto» e dell’«ansietà» che esso palesa, la reiterata umanizzazione della pianta trova partecipe anche il colore utilizzato al diminutivo, «volto giallino», che suscita una lieve nota d’affetto, e il «pallore (umano del girasole) contrapposto al colore vittorioso ed esultante del cielo»54 si riscatta nell’attimo del mutamento del girasole che diventa al termine della poesia «impazzito di luce»; esso vivo e umano proprio in virtù della pazzia, ostinatamente si rivolge al cielo nell’eterna sfida concessagli ogni giorno dalla natura. Su un solidissimo impianto visivo-cromatico si sostiene tutta la lirica e la strofa centrale del componimento enuncia una poetica dei colori, delle luci e delle ombre che giocano e guizzano insieme caparbiamente attraverso un rapporto di proficua e duratura complicità: «Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Svanire / è dunque la ventura delle venture». Il processo cromatico attraverso cui passa tutto risulta suddiviso in tre fasi: le cose oscure divengono per tendenza naturale chiare; i corpi si riducono in tinte, trasformandosi da oggetti in qualità coloristiche e queste ultime fluiscono fino a convogliarsi in musiche, in qualità acustico-sonore. Il deteriorarsi e il dissolversi graduale e inarrestabile degli oggetti, il loro svanire quale meta ultima e definitiva, non precludono il verificarsi di «una felice ambivalenza: gli oggetti (sole, girasole, cielo...) senza perdere la loro realtà, assurgono a simboli della vita».55 Il mutamento che investe radicalmente l’atmosfera di Mediterraneo si riflette sul poeta quale «una ritrasformazione del paesaggio rivissuto in se stesso e come simbolo»,56 così egli perviene a una «perfetta concordanza con quegli scogli, quelle ripe spaccate, quel mare fermo e mutevole che sono altrettanti momenti e aspetti della sua

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storia»57 e che pulsano esemplari in Giunge a volte, repente.58 Proiettandosi nella percezione del mondo sensibile, l’alterazione e la consunzione dell’ambiente naturale interessa i fattori visivo-cromatici e il loro valore emblematico: «M’affisso nel pietrisco / che verso te digrada / fino alla ripa acclive che ti sovrasta, / franosa, gialla, solcata / da strosce d’acqua piovana». Nel quadro di siffatta realtà frantumata, la componente cromatica che in altre liriche raffigura la vita, la luce e il vigore, delineati nella stagione del rigoglio e della rinascita della natura, ora è piegata dal poeta ad arricchire la visione del mondo terrestre sgretolato in prossimità del mare, sconvolto dall’acqua e dal vento, dilavato senza sosta dalla pioggia e quasi inghiottito dal mare stesso, che ostenta la propria potenza sulla fragilità della terra «franosa, gialla», priva totalmente di una copertura vegetale, e per questo ancora più debole ed esposta agli assalti violenti delle intemperie. Ed è la vita umana che crolla indifesa e precipita dopo il fallimento nei confronti dall’amico-antagonista interlocutore, il mare; è il giallo che soccombe all’azzurro. Restando prerogativa assoluta del terreno disgregato, del «suolo non erbato», il colore si nega alla vita vegetale, cui si preclude quindi la protezione che la qualificazione cromatica sembrava accordare ai limoni e al girasole. Collocata sintatticamente tra due virgole ed esattamente al centro del verso, come se la sua posizione fosse una concreta testimonianza della centralità del suo ruolo, la nota di colore viene evidenziata dall’autore e confermata nella peculiare finalità d’indicare il disfacimento, la «devastazione»; il giallo, cuore del verso che lo contiene, centro propulsore della distruzione inesorabile, segno della fine di tutto, dell’agonia della dimensione vegetale, ricorre in quest’unica occasione all’interno della suite Mediterraneo, caricandosi in tal modo di una valenza simbolica ancor maggiore e di una responsabilità poetica ingente verso l’intera sezione e i significati che essa racchiude e trasmette. In un’ulteriore fase rappresentativa il colore si trasferisce dalla terra all’acqua con Fine dell’infanzia, dove il mare e la riva si fondono in un punto preciso, la foce del torrente, dando così origine alla colorazione gialla dell’acqua; il «flutto» che «ingialliva» è il segno visibile che la terra dell’argine vi si è riversata in gran quantità, portando a termine quel processo di lenta e continua disgregazione che aveva avuto inizio con Mediterraneo.

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Alla dimensione terragna della natura si connette il colore in Scirocco59 in cui l’aria che si respira è asciutta, improntata a una fisicità palpabile che eguaglia la materialità dell’«arsiccio terreno gialloverde»; dal vento «rabido», dalla terra secca e arida emana tutto il calore della lirica, così come dalla determinante coloristica, alterata nella sua originale tonalità dall’intervento del verde. La duplice configurazione tattile e visiva del terreno, il suo essere «arsiccio» e «gialloverde», l’azione energicamente e rabbiosamente erosiva dello scirocco, il suo ardere ciò che è già bruciato chiariscono la nuova forza negativa di cui è preda ogni realtà paesaggistica, prima salda e affidabile, così che da subito «si profilano i termini di questa corrosione dall’interno della vena mediterranea e meridiana della poesia centrale degli Ossi, di questa sua compressione [...] in rapporto al precedente rigoglio di simboli».60 Nell’equilibrio precario tra terra e acqua, in cui l’agave tenace, metafora del poeta medesimo, si è creato uno spazio, costantemente minacciato, e nella compresenza di vita e di morte, rispettivamente nel verde e nel giallo, vibra la duplicità insanabile della poesia: la stessa aspirazione alla rigenerazione della natura è negata dalla qualità di un vento ostile che non è più quello «ch’entra nel pomario / e vi rimena l’ondata della vita» come In limine.61 Si recupera, accanto a «una sensibilità per i colori, per il movimento della vita che si rinnova»,62 il valore della consistenza materiale della componente cromatica e di una sua relazione preferenziale con l’ambito vegetale della realtà in Crisalide:63«L’albero verdecupo / si stria di giallo tenero e s’ingromma». Dove copiosi si rivelano i riferimenti alla natura, colta in «un’occasione fra impressionistica e decadentistica di risveglio primaverile»,64 altrettanto varie risultano le note di colore, quattro, di cui tre concentrate nella prima strofa della lirica e connesse con la vita vegetativa; ma se con gli elementi del verde il giallo agisce in rapporto immediato, lo stesso non accade per l’azzurro, distante. Caricandosi di una valenza inedita, il giallo dà corpo a un’incrostazione che si produce sull’«albero verdecupo» e lo «stria» diventando sostanza dinamica e sostanza residuale: la concrezione gialla originatasi si estrinseca come il prodotto e contemporaneamente la testimonianza visibile dello scorrere del tempo, mentre la pianta assurge a metafora dell’esistenza degli uomini che «si modella sulle forme del paesaggio e allora il vivere viene volta per volta accostato al ven-

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to, alle piante, al mare, all’acqua in una continua contaminazione tra il tempo psicologico e l’irrequietezza di una natura mutevole».65 Come in un contrappunto visivo, il colore si modula sulla sfumatura verdecupo dell’albero, ne modifica le caratteristiche fisiche, ne addolcisce la tonalità scura con la propria luminosità, anche se esso non si cosparge interamente sulla pianta ma a linee, striandola; con la gromma, deposito organico che si sedimenta sull’albero, indizio sì del fluire del tempo ma soprattutto del brulicare della vita, viene quasi registrato il processo chimico durante il quale reagiscono diversi fattori, fra cui il giallo-residuo. Il tocco lieve e delicato della componente cromatica che traspare dall’attributo, «tenero», che la qualifica, tende a conferirle un ruolo positivo, poiché la trasformazione che essa ingenera nel verdecupo iniziale della poesia s’innesta nel clima di rinnovamento primaverile, recato dall’«alito d’Aprile», e nel «solare avvenimento», nell’alone di luce e calore solari, che intensificano e proseguono, rimarcandola, l’azione del colore.

5. L’occasione del giallo La considerevole incidenza di una realtà balenante e fuggevole, che si esprime nel secondo libro montaliano, determina di conseguenza una rilevante riduzione del cromatismo nel corpo delle nuove liriche, mentre «sotto apparenze più diradate e frammentarie, in un accendersi di “barlumi” poetici, di immagini dove all’estrema nettezza ed evidenza sensibile, sembra far contrasto il loro presentarsi soltanto di taglio all’intelligenza del lettore – immagini tanto più risaltanti e luminose quanto più per altro verso enigmatiche e di incerto sottinteso»,66 il dato fisico del colore si carica di connotazioni in parte ignote al mondo fenomenico degli Ossi di seppia. Le intermittenti manifestazioni di un universo eterogeneo, rese possibili da barlumi, la cui intensità luminosa e istantaneità è diversamente precisata nei singoli casi, non sono più associate alla luce meridiana di un sole che inonda i frutti della terra e che si svolge in aloni vaporosi di prodigiosa evidenza; il giallo tende a scomparire in Le occasioni, poiché anche i lampi, quando rischiarano fulmineamente la realtà nelle sue stratificazioni fenomeniche e simboliche, sembrano scevri di qualunque attribuzione coloristica.

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L’unico legame capace di protrarsi, anche se per breve tratto, resta quello tra l’elemento cromatico e l’acqua, che si realizza in Verso Capua:67«rotto il colmo sull’ansa, con un salto, / il Volturno calò, giallo, la sua / piena tra gli scopeti, la disperse / nelle crete». Isolato e messo subito in rilievo, all’inizio del componimento, poiché situato tra due virgole, il colore si estrinseca mediante un procedimento identico a quello già utilizzato in Giunge a volte, repente e ciò costituisce uno dei pochi fattori di continuità per quanto attiene alla sua fruizione nelle due raccolte di Montale. Nonostante faccia la sua comparsa propriamente solo in questa lirica, per il dato coloristico l’autore avverte la necessità di proseguire nella sua accentuazione e di accordargli un risalto particolare nella raffigurazione del fiume in piena; accanto alla spezzatura ritmica dei versi, la veloce apparizione del giallo concorre alla celerità rappresentativa della poesia «con la sua soppressione di antefatti e il suo rilievo più che altro visivo, con la sua maggior brevità e asciuttezza».68 Il susseguirsi incessante delle immagini rende mirabilmente l’impetuosità del fiume, il suo snodarsi e il suo repentino calarsi in «piena tra gli scopeti», mentre proprio la piena motiva la sua colorazione, che non è più un dato in divenire come in Fine dell’infanzia, ma una proprietà già acquisita: generata dall’irruenza del Volturno, la combinazione di acqua e terra dà origine ancora al colore e sottintende la corrosione e lo sgretolamento degli argini operato dal fiume. I tratti essenziali attraverso cui si indovina il paesaggio modellato dal corso d’acqua, gli «scopeti», il «sughereto» e la «scia di polvere» che adombra il fugace passaggio del «postiglione», che a sua volta innesca il moto e lo scatto poetico rievocativo, compongono una scena che «si svolge su di un pannello orizzontale di effetti naturali e di figure in rapida successione»69 e inutilmente «vi cercheremmo il punto fermo, il centro di meditazione, di raccolta delle idee: Montale non è già più qui, è balzato altrove».70 L’occasione che offre il pretesto al ricordo di un percorso reale in direzione di una città e che si tramuta in percorso memoriale è taciuta, è celata nel sottosuolo della poesia, in quei puntini di sospensione con cui essa prende l’avvio: seguendo idealmente il corso tortuoso del fiume fin dalla sua sorgente, l’autore ne intraprende la rappresentazione più a valle, dove il Volturno ha «rotto il colmo sull’ansa, con un salto» e ha assunto la colorazione gialla, che si è rivelata efficace nel captare l’attenzione del poeta, al punto da fargli de-

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cidere d’iniziare l’evocazione del passato episodio di viaggio da quel tratto preciso del corso d’acqua. Compiendo un tragitto circolare, la lirica si conclude con il fiume che si insabbia e che esprime una qualità umana mostrandosi «ingordo» di acqua, di terra, di sabbia; dopo aver disperso le proprie acque gialle, cariche di detriti, nelle crete, riportando la terra alla terra, il Volturno conserva una colorazione affine a quella di partenza, poiché si sostanzia interamente di rena fino ad assumerne e mantenerne la connotazione cromatica: da aggettivo la nota di colore diviene oggetto, ostacolo, concretizzandosi nella sabbia che è in grado di bloccare il movimento dell’acqua. Esauritasi la tonalità originaria dell’elemento cromatico con Verso Capua, restano e sopravvivono solo scarsi e deboli indizi del colore sotto forma di sfumatura dorata e lievemente luminosa, che investe uno spazio minimo della realtà esterna e il cui riverbero è assai tenue. Già con Vecchi versi71 non sopravvive che un bagliore dorato di luce sul punto di estinguersi per sempre, lontano dal poeta che osserva il crepuscolo e rammenta: «ed il punto atono / del faro che baluginava sulla / roccia del Tino, cerula, tre volte / si dilatò e si spense in un altro oro». Nei Mottetti, inoltre, che costituiscono «l’estremo disseccamento dell’arte di Montale»,72 anche il colore si è disseccato, si è fatto ancora più raro e meno variegato, la sua durata nel tempo reale e simbolico, che si articola sulla pagina montaliana, ora più che mai bianca, è ridotta in maniera considerevole. Solamente in Ecco il segno; s’innerva73 l’unica traccia di giallo presente nella sezione si coglie nell’indorarsi di un muro-schermo ai primi bagliori del mattino; costruita la lirica al presente, il colore-verbo racconta l’avvenimento del nuovo giorno al momento esatto della sua nascita, concorrendo al capovolgimento della circostanza temporale che dà vita al sottofondo di Vecchi versi. Dopo aver tratteggiato il declino di una giornata carica di presentimenti e in cui si percepisce potente l’imminenza di uno scatenarsi di elementi e forze naturali, adesso il giallo-oro evidenzia il segnale incorporeo che è all’origine del mottetto: «Ecco il segno; s’innerva / sul muro che s’indora: / un frastaglio di palma / bruciato dai barbagli dell’aurora». Lo scatto, il fatto improvviso e miracoloso che si proietta su uno schermo umile e quotidiano promuove la «sostituzione alla realtà data (effimera e fenomenica) di una nuova realtà, nella quale le parole della poesia captino e rivelino il senso non ef-

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fimero e non fenomenico che si nasconde nei dati dell’esperienza giornaliera»:74 l’indicazione prodigiosa di un riflesso è il fondamento, la premessa semplice ma necessaria che «essendo un segno dell’amata non può non essere di aspetto ornato»75 e che essendo pure un’ombra ramificata riproducente l’effigie di una pianta fa intendere che anche la componente vegetale del mondo poetico montaliano qui non è più che un’immagine parziale e unicamente riflessa.

6. La grammatica del verde degli Ossi e di Le occasioni Riconoscere l’esuberanza vitale della natura, che, nell’opera montaliana, vale per se stessa e assurge a metafora dell’esistenza umana, significa anche isolare, nell’insieme delle nomenclature cromatiche, il colore verde, che costituisce un fattore in continua evoluzione e sempre in movimento là dove un’«atmosfera di arida e riflessa desolazione sembra mordere d’ogni parte la materia di questa poesia»;76 ma sull’immobilità tipica di certe situazioni montaliane, come nei meriggi accecanti e silenziosi, non è capace di prevalere e nella sezione degli «ossi brevi» non riesce a fare il suo ingresso. Dopo aver dichiarato allegoricamente una nuova identità cromatica per l’acqua marina in Antico, sono ubriacato dalla voce,77 in cui le onde del mare appaiono al poeta «come verdi campane», questa nota coloristica diviene emblema in Delta78 di una fase della rinascita che coinvolge la natura e l’esistenza del parlante che vede aprirsi uno spiraglio nell’oscurità che lo circonda: «ed affiori, memoria, più palese / dall’oscura regione ove scendevi, / come ora, al dopopioggia, si riaddensa / il verde ai rami, ai muri il cinabrese». Collocati quasi al centro del componimento, i dati cromatici risultano nettamente contrapposti tra loro, in ciò assecondati soprattutto dalla loro disposizione a chiasmo. Grazie alla figurazione del verde e del cinabrese che «si riaddensano» dopo la pioggia, s’intravede la situazione precedente della realtà e dei suoi colori: disfatti dall’acqua piovana, essi si sono disciolti in mille rivoli fino a quando con il sereno non si sono ricongiunti; le particelle a cui erano ridotti dopo la disgregazione si sono ricomposte e ridefinite su tutti gli elementi del mondo naturale e sulle opere dell’uomo, «ai rami, ai muri».

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La fisicità che contraddistingue le percezioni visive, il germogliare della nuova vita sugli alberi e la visualizzazione del verde in movimento e in crescita, si ripercuotono sulla memoria e ne riattivano la funzione dopo lo smarrimento e l’oscurità che l’avevano in parte neutralizzata. Colore e reminiscenza compongono qui i due membri di un sistema binario in cui l’uno prefigura e chiarisce l’altro pur nell’opposizione delle rispettive proprietà cromatiche. La compatta cromaticità operante nella prima parte della lirica non può protrarsi tuttavia fino all’ultima strofa in cui nulla emerge sulla indeterminatezza visiva della foschia che contrassegna il paesaggio marino, la riviera e il golfo; l’unico segno certo e penetrante proviene dal dato acustico del «fischio del rimorchiatore» e dal guizzo repentino di un «vampo di solfo» che squarcia per un solo istante la monotonia delle ore e richiama la fugacità del ricordo «che rischia di fallire perennemente alla sua missione, non durando oltre l’istante»,79 anche se si comprende che la «folgorazione conoscitiva, è tuttavia la garanzia storica di quell’istantaneità».80 Per quanto il rinverdire delle piante possa allietare l’atmosfera della nuova stagione che sopraggiunge, è il colore medesimo che approfondisce il divario esistente tra il poeta e la natura in Crisalide, e ciò rende ancora più amara la constatazione dell’estraneità dell’uomo alle leggi del divenire e alle trasformazioni delle entità naturali: «Per me che vi contemplo da quest’ombra, / altro cespo riverdica, e voi siete». A Montale non resta che un monologo fatto di ipotesi, di evocazioni, di dubbi e di visioni sovente confuse; egli mentre «parla dall’ombra appartata di un orto, dichiara ancora una volta la sua arida e dolente diversità».81 Alla tonalità verdecupo dell’albero, di cui è taciuto il nome, fa seguito il «riverdicare» di un «altro cespo» non meglio precisato e che sottintende la presenza femminile, ma che non «allude, come preludio, a una vera resurrezione della donna: sta per semplice metafora. Fallimento plurale, pertanto: anche la persona a cui si dice “voi” è un essere parallelo nella sorte d’infecondità».82 Se si considera che la poesia montaliana «nasce da un contatto stretto con le cose di cui ha accertato la preliminare inconoscibilità, la preliminare autonomia, la preliminare prosecuzione in un moto cosmico che obbedisce alla “dura lex” della necessità»,83 si evince che la sconfitta è inevitabile, il rifiorire delle piante, avvenimento reale, è un illusorio indizio di speranza e positività per l’uomo: l’intensità cromatica è preludio di una «gioia fugace» nella legge spietata

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del vivere. Così in Caffè a Rapallo84 l’infanzia del poeta, smarrita e ritrovata per il breve tratto di un ricordo, «non verdeggia» più al di là di quello stesso ricordo. L’inedito clima poetico inaugurato dalla sezione Sarcofaghi85 produce una sorta di contrazione dei dati cromatici per ammissione dello stesso autore in Dove se ne vanno le ricciute donzelle:86«il sole che va in alto, / le intraviste pendici / non han tinte». Neppure la luce e l’oscurità sono determinanti nella «natura fulminata», che pure costituisce l’impronta più autentica e distintiva di tale gruppo di liriche: «in questa valle / non è vicenda di buio e di luce». Qui, dove la «tornita terrestrità si muta in una stagione più ambigua, in un’estate che non sarà quella abbacinata e ribollente della fase veramente centrale di questi Ossi, ma piuttosto una bianca stagione di attesa, un’anticamera ancora incerta a un tempo di prodigi»,87 una sola è la nota di colore esplicitamente dichiarata nel terzo tempo della sezione, Il fuoco che scoppietta.88 Anticipato dalla raffigurazione della «pergola di vigna», dai «grappoli» e dall’«erbosa soglia» dei componimenti precedenti, il verde indica adesso il moto di un elemento, il fuoco, fino a ora escluso da tale caratterizzazione cromatica: «Il fuoco che scoppietta / nel caminetto verdeggia / e un’aria oscura grava / sopra un mondo indeciso». Il fuoco incarna un valore cromatico per se stesso e in quanto «verdeggia», ma al di fuori di «questa luce abissale / che finge il bronzo» e del movimento ininterrotto che esso manifesta, l’oscurità, l’indecisione, il senso di minaccia che incombe e un sonno molto affine alla morte gravano su ogni cosa, su ogni essere vivente: il dinamismo della fiamma non riesce a sopraffare la staticità irreversibile che imprigiona il mondo. L’assenza di riferimenti coloristici nei primi due brani di Sarcofaghi, «pezzi di natura fulminata, distaccata, circa i quali il contemplatore oscilla fra la catarsi dello spettacolo e il disinteresse»,89 è causata fenomenologicamente dal sole che, nella sua intensa e ardente luminosità, assorbe e cancella qualsiasi traccia di colore e permea di sé la realtà composita, dalla neoclassica valle percorsa dalle antiche fanciulle all’immensità cosmica delle stelle. Una volta sostituito il sole, che fissa istantaneamente gli oggetti e immobilizza il tempo, dal fuoco crepitante di un camino, e soppiantata la visione dell’esterno con un interno raccolto e rischiarato dal «focolare», la cromaticità riscopre la sua tempra e trova il vigore necessario per mostrarsi proprio nel fuoco; il sentore di morte che aleg-

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gia sulla piccola sezione non è però attenuato dal verde, che semmai «conferma quella dimensione misterica della realtà, che da ambigua come era all’inizio, diventa [...] enigmatica e sospesa».90 Lo stesso colore esplica la medesima funzione agli antipodi di Ossi di seppia nella poesia I morti in cui «il gorgo sterile verdeggia / come ai dì che ci videro fra i vivi»: nella veemenza del vortice d’acqua e nella «ferrigna costa» l’autore addita gli emblemi della morte, la sterilità universale che inghiotte ogni dato positivo, l’insidia nascosta nell’esistenza, l’inganno dell’azione cromatica che non dissimula e non mitiga la percezione di una natura logora, rugginosa, abbandonata e frantumata dalla violenza del mare. I copiosi simboli, che segnano un itinerario sofferto di vita compiuto dall’uomo-poeta in Le occasioni, tracciano una sequenza ben individuata di qualità coloristiche precise o di più generiche caratterizzazioni visive che oscillano tra l’aspetto concreto e la valenza allegorica dichiarati dalle medesime. Presente nella stessa proporzione del libro precedente, il dato del verde nella nuova raccolta è ancora depositario di messaggi che varcano il limite dell’immediatezza e della mera fisicità e si carica di tonalità inedite, mentre perde il valore di azione verbale così suggestivo espresso più volte in Ossi di seppia. Nella figurazione complessa e multiforme realizzata in Keepsake91 «tutta giuocata sull’arbitrio seriale e sull’ironia dei nomi di personaggi da operetta»,92 la nota di colore si situa esattamente al centro dell’ultimo verso ad arricchire la visione di mitiche ed esotiche isole, nella fantasia di una delle numerose comparse del componimento: «Venerdì / sogna l’isole verdi e non danza più». Come tante tessere di un mosaico, i singoli versi e i nomi si susseguono con vertiginosa rapidità e se da una parte danno origine a una vivace frammentarietà e varietà di situazioni, dall’altra creano una certa unitarietà di tono poetico, coerente con tutte le immagini della lirica: l’occhio dell’autore è sempre divertito, beffardo, ironico e veloce nel coglierle e delinearle con pochi tratti sapienti ed essenziali. In una materia così inafferrabile, la funzione simbolica del colore si accosta in massima parte a quella svolta in alcune poesie di Ossi di seppia, esprimendo il vigore e la ricchezza naturali, l’energia primordiale e incontaminata di un mondo semplice e perduto, ma in chiave parodistica poiché l’«arguzia aristocratica della elencazione accenna alla distruzione della prospettiva interiore della memoria come esperienza lirica soggettiva».93 Anche nelle due parole strettamente colle-

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gate, «Venerdì» e «verdi», si può ritrovare una delle frequenti «soluzioni dove brilla la consueta intelligenza e scaltrezza compositiva [...] l’invenzione stravolgente e quindi probabilissima in chiave ironica o assurda»:94 la raffinata abilità verbale che unisce indirettamente il nome di un personaggio e quello di un colore, sulla base di un equilibrio quasi anagrammatico e per mezzo di una forte assonanza, conduce Montale ad appropriarsi dell’elemento visivo-cromatico inserendolo in un gioco linguistico ricercato e semplice allo stesso tempo, il cui esito è un nucleo compatto di significazioni al termine del componimento. Il «picchio verde» di Corrispondenze,95 che sancisce una nuova compenetrazione percettiva tra dato acustico e colore, è uno dei segni decisi e resistenti di rinnovamento, come il «sempreverde / alloro» di Dora Markus96 è un indizio di salvezza nella imperante precarietà della vita che, sostituendo il bianco amuleto di un tempo e «quasi annullando il potere esorcistico del magico oggetto»,97 dimostra palesemente che la «sola relativa certezza per il parlante è nei poveri oggetti di ogni giorno (i segni della sempre fondamentale “non poesia” di Montale), nelle umili correlazioni cui il linguaggio può affidarsi quando non ha più spazio per simboli ambiziosi»98 nel dramma della storia e della esistenza individuale. Le tonalità del verde si incupiscono progressivamente con l’approssimarsi alla conclusione dell’itinerario poetico di Le occasioni: i «domi verdecupi» di Nel parco di Caserta99 trovano un riscontro puntuale nelle «fronde della magnolia / verdibrune» di Tempi di Bellosguardo II100 nella cui ambientazione neoclassica, scelta per gli ultimi attimi di riflessione sulla propria sorte e per inserirvi un tentativo di assimilazione dell’uomo con la vita vegetale, si può ravvisare anche la «prima concreta reazione poetica di Montale al paesaggio fiorentino, e nel suo desiderio di immetterne il risalto particolarissimo e certo più architettonico e culturalizzato della scabrosità ligure delle origini, nel paesaggio morale della propria poesia»,101 egli si è a poco a poco distaccato dal suo cielo, dal suo mare e dal passato. Infine con Elegia di Pico Farnese102 il verde non è più prerogativa della natura ma attributo dell’opera dell’uomo. Gli «archivolti tinti di verderame», unendo colore e sostanza, narrano il decadimento e la rovina che, in «questo oscuro e salmodiante recesso centroitalico»,103 ammantano le creazioni dei viventi nell’atmosfera triste e tetra di un’alba primordiale che rende lividi i tratti cromatici e gelidi i luoghi del passato, il «teatro dell’infanzia»; ma proiettato in una di-

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mensione fuori del tempo e potentemente enigmatica «prende improvvisamente forma un mito, unica struttura culturale, scaturita dal contesto medievale, che può sembrare garante di salvezza formale / esistenziale».104

7. Di altri colori 7.1. L’alfabeto del rosso da Ossi a Le occasioni Il rigore terminologico che Montale adotta nel nominare oggetti, emblemi e nel delineare i loro tratti peculiari, costituisce l’impronta distintiva anche dell’intero apparato cromatico dei due libri poetici, con riguardo particolare al rosso che, pur nella sua discreta frequenza, mostra di essere dotato di una certa versatilità. Nel complessivo disegno impressionistico di Minstrels105 in cui la musica «si colora di tinte / ora scarlatte ora biade» la determinante cromatica diventa il requisito principale del timbro e del ritmo di un ritornello che rimbalza «tra le vetrate d’afa dell’estate» e che finisce per assumere «il carattere sfumato di un arabesco [...] nella propria pirotecnica potenzialmente esplosiva»106 prodotta dalla celerità delle note; la commozione che afferra il poeta all’udire simile musica fa sì che egli veda poi il mondo «nuotar nel biondo», come in un mare alternativo all’azzurro, in un’aura diafana di fioca luminosità che subentra alla precedente connotazione coloristica. Il rosso-scarlatto lo si ravvisa anche in Fine dell’infanzia, una fra le liriche più ricche di dati cromatici, ma, come il «cinabrese» di Delta, è una proprietà delle opere dell’uomo, «poche case / di annosi mattoni, scarlatte», di cui si compone il paesaggio inquadrato nella seconda strofa della poesia e alle quali fanno da contrappunto visivo le «scarse capellature / di tamerici pallide». Una tonalità singolare del rosso è caratteristica del cielo in Corno inglese107 dove viene raffigurato «l’orizzonte di rame», mentre è in fieri in Arsenio,108 nella «luce che s’arrosa» sul far della sera dopo che il cielo azzurro ha accolto la bianca «stella di Canicola». Infine si giunge al tocco puntuale di «rossastra fotosfera» che in Vecchi versi designa una farfalla e che come «tecnicismo raro tende alla definizione di una realtà autonoma, non partecipabile, i cui nomi [...] non sembrano più termini di comunicazione, ma cose estra-

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nee»,109 mentre in Meriggiare pallido e assorto110 altri insetti, le «rosse formiche», venivano indicati semplicemente con la tonalità originaria del colore.

7.2. Il nero tra i «geroglifici di oscurità» Codici di un nuovo linguaggio sono i «geroglifici di oscurità»111 di Quasi una fantasia:112«Lieto leggerò i neri / segni dei rami sul bianco / come un essenziale alfabeto». Simboleggiata dai rami degli alberi, la natura si avvale di questi ultimi per comporre un alfabeto, con cui farsi comprendere e se il cielo bianco può rappresentare una pagina, i segni neri che vi si imprimono costituiscono parole da leggere con gioia. Mentre il paesaggio solare e meridiano di Ossi di seppia non lascia fisicamente spazio all’estrinsecazione del nero, che svolge così una funzione piuttosto limitata e marginale, i toni coloristici divengono più cupi in Le occasioni; nel mottetto Ti libero la fronte113 già il nero avanza con forza mentre il sole può opporre non più di una modesta resistenza: «Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo / l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole / freddoloso». Un’ombra infida avanza verso la salvatrice, Clizia, e il sole, non più fonte positiva di calore, diventa «freddoloso», gelido come i «ghiaccioli» raccolti dalla donna nel suo viaggio cosmico. In Notizie dall’Amiata114 si tocca il culmine dell’oscurità: le «architetture / annerite», gli «asini neri», il «volo infagottato degli uccelli / notturni» e i numerosi altri emblemi che animano un paesaggio cosmico e metafisico oramai del tutto trasformato fanno sì che l’autore riesca «a fronteggiare il destino comune di un tempo particolarmente sconvolto, privo in tutto di illusioni, e a trovare proprio in fondo ai colori più bui, più sotterranei di una vicenda drammaticamente oscurata, i simboli imprevisti della pietà e della salvezza».115

7.3. Le «frecciate» del bianco La fruizione del bianco viene subordinata alla comparsa parallela del nero; così se le «frecciate biancazzurre» di A vortice s’abbatte116 dichiarano una indipendenza figurale e allegorica sotto il segno della

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concordanza di due ingredienti cromatici colti nella luce del giorno, nel mottetto Il saliscendi bianco e nero117 la nota coloristica del bianco è accompagnata dal proprio opposto; in entrambe le liriche inoltre la duplice traccia di colore si trasferisce dall’oggetto, di cui è qualificazione sensibile, al movimento del medesimo. Per mezzo del dato cromatico l’autore delinea l’azione dinamica e celere, che dunque sfugge all’osservatore, di entità viventi quali sono rispettivamente «due ghiandaie» e i «balestrucci»; pertanto in A vortice s’abbatte «nella nettezza figurale della clausola, compaiono anche gli animalisimbolo in cui la poesia montaliana è usa già cogliere i suoi fulminei riflessi cosmici»118 e che s’inseriscono repentinamente anche nel mottetto, ma al suo esordio. Bianco è il talismano, «il piccolo totem capace di esorcizzare la malasorte per lei familiare»119 che Dora Markus, nell’omonimo componimento, porta sempre con sé: «forse / ti salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra, / al piumino, alla lima: un topo bianco, / d’avorio; e così esisti!» Anche se il riscatto per lei non è certo, l’oggetto che forse può procurarlo si trova pur tuttavia, come le altre cose citate nei versi precedenti, in un «minuscolo interno che riflette un cosmo privato e luogo dell’estrema salvezza».120 Rapporto preferenziale istituito da questo colore è inoltre anche quello con Clizia, l’ispiratrice non più individuata nel girasole ma identificata in un’aura di chiarore, di tinte sfumate, come sembra plasmarsi in Stanze, dove mostra furtivamente la propria «candida ala in fuga» dall’oscurità, sua antagonista sempre in agguato. E persino in una notte illuminata dalla «primavera lunare» di Cave d’autunno,121 in cui la luna «nimba di candore ogni frastaglio», compare un indizio della presenza dell’angelo, «la bontà d’una mano», che vince il gelo e le tenebre.

7.4. La memoria del grigio Assente nella raccolta di Le occasioni, il grigio emerge piuttosto frequentemente in Ossi di seppia e contribuisce ad accrescere la varietà del codice cromatico, oltre a precisare gli ambiti temporali e spaziali delle liriche in cui fa il suo ingresso. All’«inizio in qualche modo descrittivo, caratterizzato da una certa mondanità liberty e dalla visione di un interno, rara negli Ossi»122 di Caffè a Rapallo, si colloca,

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quasi come in una sua sede naturale e scontata, la nota di colore: «Natale nel tepidario / lustrante, truccato dai fumi / che svolgono tazze; velato / tremore di lumi oltre i chiusi / cristalli, profili di femmine / nel grigio, tra lampi di gemme / e screzi di sete...» La concatenazione delle immagini, resa dall’uso reiterato dell’enjambement nella prima strofa, concorre a delineare in modo rapido ma accurato l’interno di un locale, luogo di ritrovo tra amici, caratterizzato dal caldo quasi irrespirabile («tepidario»), dal fumo delle bevande che si diffonde dalle tazze, dalla luce debole e soffusa che s’intravede attraverso i vetri e anche da presenze umane silenziose, appena accennate, figure femminili sullo sfondo grigio che le contiene e individuate per mezzo di oggetti peculiari, gemme e gioielli, che conferiscono un tono crepuscolare al componimento. Numerose sensazioni, tattili, olfattive, visivo-cromatiche e in seguito anche uditive, tessono la trama della lirica che trova nel grigio lo scenario ideale in cui si situano gli oggetti e le figure umane rievocate: il colore svela uno spazio del passato proiettato improvvisamente nel tempo attuale, un fondale di ricordi e di affetti mai sopiti in un alone diafano di sogno e di magia d’altri tempi. Ancora vincolata al tempo e alla memoria, la nota di colore dichiara il disagio del poeta e il dolore che lo afferra in Ripenso il tuo sorriso;123 qui il contrasto tra la sofferenza, l’indecisione e la labilità memoriale del poeta da una parte, e la dolce schiettezza e ingenuità dell’interlocutore dall’altra è ulteriormente rimarcato dalla componente cromatica: «il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia / schietto come la cima d’una giovinetta palma...» All’abbraccio rassicurante di un «bianco cielo quieto» succede il grigio di un tempo interiore consumato e svuotato se non fosse per la certezza di una «pensata effigie», che agisce come un’ancora di salvezza nella vita di colui che pacatamente parla in questi versi. Il grigio è connesso al medesimo tema nel componimento Noi non sappiamo quale sortiremo124 in cui «si ricorda / del sole l’erba grigia / nelle corti scurite, tra le case», invece l’attesa è il suo motivo in Il canneto rispunta i suoi cimelli:125«Sale un’ora d’attesa in cielo, vacua, / dal mare che s’ingrigia». Infine in Delta le «ore / bige» delineano pienamente, accanto all’«aria / bigia» di Debole sistro al vento,126 un clima fisico di sonnolenza meridiana, una dimensione d’incertezza, una realtà votata allo sfacelo e un tempo privo di precise determinazioni e di plausibili risposte.

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Unica eccezione per questo ingrediente cromatico è data dal suo utilizzo in Falsetto127 dove è in funzione di una delle prime figure femminili della produzione montaliana: «Esterina, i vent’anni ti minacciano, / grigiorosea nube / che a poco a poco in sé ti chiude». Tuttavia, poiché il grigio serve al poeta per indicare metaforicamente l’età della ragazza, esso rientra per altro verso nell’ambito temporale di cui si è detto e mantiene una connotazione negativa, addolcita in parte dalla sfumatura rosea di cui si carica.

8. Altre considerazioni A identificare la figura femminile come riflesso di gesti, parole e vicende vibranti nella memoria del poeta, tende in modo autonomo anche la dimensione coloristica dell’iridato: nell’avventura di Gerti le «iridi trascorrenti» suggeriscono una compresenza modulata e dinamicamente espressa di più colori, insieme all’asserto deciso che le parole di un’altra donna, Dora, «iridavano come le scaglie / della triglia moribonda». Le parole-scaglie della protagonista «non parlano: solo, cromaticamente guizzano, anzi si disperano [...] Così le iridescenze quasi non più verbali del personaggio in causa valgono già a bloccare, ad accecare la dimensione larga ed enfatica del primo suo gesto»128 additante la patria lontana. Nel percorso poetico di Carnevale di Gerti129 è ravvisabile un processo di accumulazione e contemporaneamente di scomposizione e deformazione di elementi visivo-cromatici: i «carri dalle tinte / di rosolio», le «esili bambole / bionde» e le «campane / d’argento» arretrano «dentro un disfatto prisma / babelico di forme e di colori» che pare segnalare la cifra ultima di una realtà snaturata, di un tempo alterato e sbriciolato nell’inconoscibilità di un’esistenza umana a momenti rarefatta, a momenti convulsa. In altre poesie, invece, l’unione di due distinti colori testimonia «quel gusto impressionistico dei composti giustappositivi bimembri di aggettivi coloristici – indichino un colore unico intermedio o l’accostamento di due note complementari, tendenzialmente sfumanti l’una nell’altra –, che del resto Montale saggia parcamente, e ancora con frequenza decrescente nel tempo».130 La scelta operata dal poeta nel senso di un «risvolto potenzialmente problematico, negativo [...] cioè la tematica del disfacimento,

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della realtà che si sgretola, della natura febbricitante»,131 della consunzione del tangibile che stigmatizzano il paesaggio metaforizzato degli Ossi, è portata avanti nel libro successivo grazie a una utilizzazione a effetto di attributi non propriamente coloristici atti a designare ambienti e oggetti: così la «ferrigna costa», uno degli ambiti spaziali e simbolici degli Ossi, trova un esemplare riscontro nel «nido di Corniglia rugginoso» di Vecchi versi e nel «paese di ferrame» del mottetto Lo sai: debbo riperderti e non posso,132 che ritraggono una parte del territorio lirico di Le occasioni. La fruizione di diversi materiali, sostanze e metalli impiegati per accrescere e impreziosire la gamma delle nomenclature cromatiche, è un indizio preciso della «nuova acutezza di rilievo oggettivistico che colpisce i frammenti isolati e insignificanti di realtà: nei quali ora lo scrittore si cala tutto, verticalmente, prelevandoli con scelta “casuale” e sottoponendoli all’ottica di una lente d’ingrandimento che ne sbalza con esattezza puntigliosa ogni frangia anche minima, e contemporaneamente li deforma»,133 oppure ne mette in rilievo aspetti positivi, quale è il caso del «candore di mica delle rupi» di Eastbourne.134 Considerando che il passaggio da Ossi di seppia a Le occasioni è quello da una esperienza di «linee e di segmenti» a una invece di «volumi», si evince che si è prodotta una profonda e irreversibile metamorfosi delle determinanti cromatiche nel senso di una progressiva concretizzazione delle medesime, non più o non solamente realizzata mediante l’uso del colore-sostantivo, ma resa possibile soprattutto per mezzo di oggetti e materiali specifici. Essi conducono a «un vero delirio di nominare; quell’impressione di gremito che non nasce tanto dai luoghi singolari quanto da intero il libro, corrispondono a una velleità di esercitare la conoscenza del mondo; a una presa di possesso dolorante perciò ancora virtuale».135 Dunque le qualificazioni coloristiche e percettive puntuali delle cose sono anch’esse per il poeta una tappa imprescindibile per appropriarsene nel più completo dei modi, per rievocarle a ogni istante di smarrimento della propria identità. Trattenendole come piccole e deboli certezze, esse forniscono la prova necessaria ed evidente di un «linguaggio estremamente riservato e particolare, di una musica di parole e immagini, significanti proprio in questa continua proiezione della realtà fattuale o occasionale, su uno schermo più distante e profondo, e come tale rivelatore delle sue più definitive e riassuntive essenze».136

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1 E. MONTALE, Ossi di seppia, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1991 (d’ora innanzi tale raccolta sarà indicata con la sigla OS). 2 ID., Le occasioni, in Tutte le poesie (d’ora innanzi tale raccolta sarà indicata con la sigla O). 3 O. MACRÌ, Dell’analogia naturale: Montale, in Esemplari del sentimento poetico contemporaneo, Vallecchi, Firenze 1941, p. 77. 4 S. SOLMI, “Le occasioni” di Montale, in Scrittori negli anni, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 194. 5 E. GRAZIOSI, Il tempo in Montale. Storia di un tema, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 9. 6 E. MONTALE, I limoni, in OS, pp. 11-12. 7 M. FORTI, Esercizio su “I limoni”, in Nuovi saggi montaliani, Mursia, Milano 1990, p. 30. 8 Ibi, p. 33. 9 E. MONTALE, Portami il girasole, in OS, p. 34. 10 ID., Mediterraneo, in OS, pp. 53-61. 11 ID., Intenzioni-Intervista immaginaria, in “La Rassegna d’Italia”, 1946, 1, p. 88. 12 Ibidem. 13 ID., Ho sostato talvolta nelle grotte, in OS, p. 56. 14 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia, la prosa di fantasia e d’invenzione, Mursia, Milano 1974, p. 93. 15 S. SOLMI, Montale 1925, in Scrittori negli anni, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 20. 16 E. MONTALE, Fine dell’infanzia, in OS, pp. 67-70. 17 A. SERONI, Alle origini della poesia montaliana: “Fine dell’infanzia”, in “Letteratura”, XXX, 1966, 79-81, p. 80. 18 E. MONTALE, Ciò che di me sapeste, in OS, p. 36. 19 ID., Maestrale, in OS, p. 73. 20 ID., Marezzo, in OS, pp. 90-92. 21 E. GRAZIOSI, Il tempo in Montale..., p. 13. 22 Ibidem. 23 A. VALENTINI, Lettura di Montale. “Ossi di seppia”, Bulzoni, Roma 1971, p. 184. 24 Ibi, p. 185. 25 E. MONTALE, I morti, in OS, pp. 95-96. 26 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 116. 27 S. SOLMI, “Le occasioni”..., p. 193. 28 Ibidem. 29 E. MONTALE, Altro effetto di luna, in O, p. 122. 30 S. SOLMI, “Le occasioni”..., pp. 193-194. 31 E. MONTALE, Spesso il male di vivere, in OS, p. 35. 32 ID., Accelerato, in O, p. 135. 33 E. GRAZIOSI, Il tempo in Montale..., p. 66. 34 M. GRILLANDI, Montale e Gozzano, in “Letteratura”, XXX, 1966, 79-81, p. 70. 35 Ibidem. 36 S. SOLMI, “Le occasioni”..., p. 196. 37 E. MONTALE, Mottetti, in O, pp. 137-158. 38 ID., Il fiore che ripete, in O, p. 154. 39 ID., Stanze, in O, pp. 169-170. 40 S. RAMAT, Da “Stanze” a “Nuove Stanze”: una “corrispondenza” montaliana, in “Letteratura Italiana Contemporanea”, Appendice I, 1981, p. 156. 41 Ibi, p. 151. 42 E. GRAZIOSI, Il tempo in Montale..., p. 52. 43 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 177.

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S. RAMAT, Da “Stanze” a “Nuove Stanze”..., p. 164. S. SOLMI, La poesia di Montale, in Scrittori negli anni, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 289. 46 G. NASCIMBENI, Montale. Biografia di un poeta, Longanesi, Milano 1986, p. 23. 47 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 61. 48 Ibidem. 49 ID., Esercizio su “I limoni”, p. 36. 50 ID., Eugenio Montale. La poesia..., p. 61. 51 ID., Esercizio su “I limoni”, pp. 36-37. 52 Ibi, p. 37. 53 A. VALENTINI, Lettura di Montale..., p. 86. 54 Ibidem. 55 Ibi, p. 87. 56 R. LUNARDI, Eugenio Montale e la nuova poesia, Bulzoni, Roma 1977, p. 151. 57 Ibi, p. 152. 58 E. MONTALE, Giunge a volte, repente, in OS, p. 57. 59 ID., Scirocco, in OS, p. 71. 60 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 100. 61 E. MONTALE, In limine, in OS, p. 7. 62 S. RAMAT, Montale, Vallecchi, Firenze 1965, p. 70. 63 E. MONTALE, Crisalide, in OS, pp. 87-89. 64 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 111. 65 E. GRAZIOSI, Il tempo in Montale..., p. 16. 66 S. SOLMI, La poesia di Montale..., p. 295. 67 E. MONTALE, Verso Capua, in O, p. 127. 68 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 146. 69 Ibidem. 70 S. RAMAT, Montale, p. 93. 71 E. MONTALE, Vecchi versi, in O, pp. 115-116. 72 G. DE ROBERTIS, “Le occasioni”, in Altro Novecento, Le Monnier, Firenze 1962, p. 312. 73 E. MONTALE, Ecco il segno; s’innerva, in O, p. 146. 74 R. ASSUNTO, Per una teoria della poesia di Montale, in “Letteratura”, XXX, 1966, 79-81, p. 9. 75 S. RAMAT, Montale, p. 107. 76 S. SOLMI, Montale 1925, p. 20. 77 E. MONTALE, Antico, sono ubriacato dalla voce, in OS, p. 54. 78 ID., Delta, in OS, p. 97. 79 G. CONTINI, Dagli “Ossi” alle “Occasioni”, in Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Einaudi, Torino 1974, p. 20. 80 Ibidem. 81 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 111. 82 G. CONTINI, Dagli “Ossi”..., p. 26. 83 P. BIGONGIARI, I tre tempi della lirica montaliana, in “Paragone”, agosto 1956, n. 80, p. 23. 84 E. MONTALE, Caffè a Rapallo, in OS, pp. 17-18. 85 ID., Sarcofaghi, in OS, pp. 21-24. 86 ID., Dove se ne vanno le ricciute donzelle, in OS, p. 21. 87 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 66. 88 E. MONTALE, Il fuoco che scoppietta, in OS, p. 23. 89 G. CONTINI, Dagli “Ossi”..., p. 31. 90 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 66. 45

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E. MONTALE, Keepsake, in O, p. 118. M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 140. 93 A. JACOMUZZI, Nota sul linguaggio di Montale: l’elencazione ellittica, in Sulla poesia di Montale, Cappelli, Bologna 1968, p. 17. 94 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 140. 95 E. MONTALE, Corrispondenze, in O, p. 178. 96 ID., Dora Markus, in O, pp. 130-132. 97 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 151. 98 Ibidem. 99 E. MONTALE, Nel parco di Caserta, in O, p. 134. 100 ID., Tempi di Bellosguardo II, in O, pp. 162-163. 101 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 169. 102 E. MONTALE, Elegia di Pico Farnese, in O, pp. 181-183. 103 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 189. 104 L. GRECO, Montale commenta Montale, Pratiche Editrice, Parma 1990, p. 121. 105 E. MONTALE, Minstrels, in OS, p. 16. 106 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 52. 107 E. MONTALE, Corno inglese, in OS, p. 13. 108 ID., Arsenio, in OS, pp. 83-84. 109 P. BONFIGLIOLI, Pascoli, Gozzano, Montale e la poesia dell’oggetto, in “Il Verri”, II, 1958, n. 4, p. 51. 110 E. MONTALE, Meriggiare pallido e assorto, in OS, p. 30. 111 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 63. 112 E. MONTALE, Quasi una fantasia, in OS, p. 20. 113 ID., Ti libero la fronte, in O, p. 150. 114 ID., Notizie dall’Amiata, in O, pp. 190-192. 115 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 197. 116 E. MONTALE, A vortice s’abbatte, in OS, p. 53. 117 ID., Il saliscendi bianco e nero, in O, p. 145. 118 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 92. 119 Ibi, p. 149. 120 G. LONARDI, I padri metafisici: appunti sullo spazio del privato in Montale, in “Strumenti critici”, giugno 1976, p. 282. 121 E. MONTALE, Cave d’autunno, in O, p. 121. 122 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 64. 123 E. MONTALE, Ripenso il tuo sorriso, in OS, p. 32. 124 ID., Noi non sappiamo quale sortiremo, in OS, p. 58. 125 ID., Il canneto rispunta i suoi cimelli, in OS, p. 41. 126 ID., Debole sistro al vento, in OS, p. 46. 127 ID., Falsetto, in OS, pp. 14-15. 128 S. RAMAT, Arsenio, Dora e l’“orbita” di Gerti, in L’acacia ferita e altri saggi su Montale, Marsilio, Venezia 1986, p. 44. 129 E. MONTALE, Carnevale di Gerti, in O, pp. 124-126. 130 P. V. MENGALDO, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Feltrinelli, Milano 1975, p. 63. 131 Ibi, p. 78. 132 E. MONTALE, Lo sai: debbo riperderti e non posso, in O, p. 139. 133 P. V. MENGALDO, La tradizione..., p. 106. 134 E. MONTALE, Eastbourne, in O, pp. 176-177. 135 G. CONTINI, Introduzione a “Ossi di seppia”, in Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Einaudi, Torino 1974, pp. 11-12. 136 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 217. 92

AZZURRO Celestino, cerulo, indaco

Meglio se le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall’azzurro (OS, I limoni, vv. 11-12)

Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. (OS, I limoni, vv. 37-39)

Portami il girasole ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino, e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti del cielo l’ansietà del suo volto giallino. (OS, Portami il girasole, vv. 1-4)

Ed era forse oltre il telo l’azzurro tranquillo; vietava il limpido cielo solo un sigillo. (OS, Ciò che di me sapeste, vv. 5-8)

Passò nel riquadro azzurro una fugace danza di farfalle; una fronda si scrollò nel sole. (OS, Tentava la vostra mano, vv. 9-10)

Sorgevano dal tuo petto rombante aerei templi, guglie scoccanti luci

Nota di lettura. La schedatura presenta i colori nell’ordine in cui sono stati trattati nel saggio. Ogni settore cromatico è organizzato secondo questo criterio: si parte dal colore base e si riportano le voci a esso relative; poi seguono le sfumature e infine i “verbi coloristici”. Le sottolineature sono nostre. Per indicare le diverse raccolte montaliane sono state utilizzate queste sigle: OS = Ossi di seppia; O = Le occasioni; B = La bufera; X I = Xenia I; X II = Xenia II; S = Satura; S I = Satura I; S II = Satura II; D 71 = Diario del ’71; D 72 = Diario del ’72.

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AZZURRO

una città di vetro dentro l’azzurro netto via via si discopriva da ogni caduco velo e il suo rombo non era che un susurro. (OS, Ho sostato talvolta, vv. 7-12)

Ed il tuo rombo cresce, e si dilata azzurra l’ombra nuova. (OS, Potessi almeno costringere, vv. 21-22)

Tra macchie di vigneti e di pinete, petraie si scorgevano calve e gibbosi dorsi di collinette: un uomo che là passasse ritto s’un muletto nell’azzurro lavato era stampato per sempre – e nel ricordo. (OS, Fine dell’infanzia, vv. 29-35)

sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: ‘più in là!’. (OS, Maestrale, vv. 17-20)

la tempesta è dolce quando sgorga bianca la stella di Canicola nel cielo azzurro e lunge par la sera ch’è prossima (OS, Arsenio, vv. 27-30)

Nell’onda e nell’azzurro non è scia. Sono mutati i segni della proda dianzi raccolta come un dolce grembo. (OS, Crisalide, vv. 68-70)

Ah qui restiamo, non siamo diversi. Immobili così. Nessuno ascolta la nostra voce più. Così sommersi in un gorgo d’azzurro che s’infolta. (OS, Marezzo, vv. 61-64)

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reti stinte che asciuga il tocco tardo e freddo della luce; e sopra queste denso il cristallo dell’azzurro palpebra e precipita a un arco d’orizzonte flagellato. (OS, I morti, vv. 14-18)

La trama del carrubo che si profila nuda contro l’azzurro sonnolento (O, Altro effetto di luna, vv. 1-2)

fu così e fu tumulto nella dura oscurità che rompe qualche foro d’azzurro finché lenta appaia la ninfale Entella che sommessa rifluisce dai cieli dell’infanzia oltre il futuro (O, Accelerato, vv. 10-16)

Un cigolìo si sferra, ci discosta, l’azzurro pervicace non ricompare. (O, Il fiore che ripete, vv. 6-7)

e l’urto delle leve del mondo apparse da uno strappo dell’azzurro l’avvolse, lamentoso. (O, Stanze, vv. 28-30)

Celestino E ancora si distende un dòmo celestino ed appannato sul fitto bulicame del fossato: e soltanto la statua sa che il tempo precipita e s’infrasca vie più nell’accesa edera. (OS, Flussi, vv. 34-39)

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AZZURRO

Cerulo Ora è finito il cerulo marezzo. Si getta il pino domestico a romper la grigiura (OS, Egloga, vv. 12-14)

ed il punto atono del faro che baluginava sulla roccia del Tino, cerula, tre volte si dilatò e si spense in un altro oro. (O, Vecchi versi, vv. 7-10)

Indaco Strade e scale che salgono a piramide, fitte d’intagli, ragnateli di sasso dove s’aprono oscurità animate dagli occhi confidenti dei maiali, archivolti tinti di verderame, si svolge a stento il canto dalle ombrelle dei pini, e indugia affievolito nell’indaco che stilla su anfratti, tagli, spicchi di muraglie. (O, Elegia di Pico Farnese, vv. 20-26)

GIALLO Biondo, color oro, aureo, gialloverde, ingiallire («ingialliva»), indorarsi («s’indora»)

Quando un giorno da un malchiuso portone tra gli alberi di una corte ci si mostrano i gialli dei limoni (OS, I limoni, vv. 43-45)

Portami il girasole ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino, e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti del cielo l’ansietà del suo volto giallino. (OS, Portami il girasole, vv. 1-4)

M’affisso nel pietrisco che verso te digrada fino alla ripa acclive che ti sovrasta, franosa, gialla, solcata da strosce d’acqua piovana. (OS, Giunge a volte, repente, vv. 8-12)

L’albero verdecupo si stria di giallo tenero e s’ingromma. (OS, Crisalide, vv. 1-2)

... rotto il colmo sull’ansa, con un salto, il Volturno calò, giallo, la sua piena tra gli scopeti, la disperse nelle crete. (O, Verso Capua, vv. 1-4)

Biondo così che il mondo si vede come socchiudendo gli occhi nuotar nel biondo. (OS, Minstrels, vv. 16-18)

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GIALLO

Portami tu la pianta che conduce dove sorgono bionde trasparenze e vapora la vita quale essenza (OS, Portami il girasole, vv. 9-11)

Riviere, bastano pochi stocchi d’erbaspada penduli da un ciglione sul delirio del mare; o due camelie pallide nei giardini deserti, e un eucalipto biondo che si tuffi tra sfrusci e pazzi voli nella luce (OS, Riviere, vv. 1-9)

Le grandi ali screziate ti sfiorano, le logge sospingono all’aperto esili bambole bionde, vive, le pale dei mulini rotano fisse sulle pozze garrule. (O, Carnevale di Gerti, vv. 44-48)

Color oro e il gelo del cuore si sfa, e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d’oro della solarità. (OS, I limoni, vv. 46-49)

ed il punto atono del faro che baluginava sulla roccia del Tino, cerula, tre volte si dilatò e si spense in un altro oro. (O, Vecchi versi, vv. 7-10)

La tua leggenda, Dora! Ma è scritta già in quegli sguardi di uomini che hanno fedine altere e deboli in grandi ritratti d’oro e ritorna

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ad ogni accordo che esprime l’armonica guasta nell’ora che abbuia, sempre più tardi. (O, Dora Markus, vv. 46-53)

Aureo Ah, potevo credervi un giorno o terre, bellezze funerarie, auree cornici all’agonia d’ogni essere. (OS, Riviere, vv. 45-48)

Gialloverde O rabido ventare di scirocco che l’arsiccio terreno gialloverde bruci; e su nel cielo pieno di smorte luci trapassa qualche biocco di nuvola, e si perde. (OS, Scirocco, vv. 1-7)

Ingiallire Di contro alla foce d’un torrente che straboccava il flutto ingialliva. Giravano al largo i grovigli dell’alighe e tronchi d’alberi alla deriva.

Indorarsi

(OS, Fine dell’infanzia, vv. 5-9)

Ecco il segno; s’innerva sul muro che s’indora: un frastaglio di palma bruciato dai barbagli dell’aurora. (O, Ecco il segno, vv. 1-4)

VERDE Sempreverde, verdecupo, verdebruno, verderame, verdeggiare («verdeggia»), riverdicare («riverdica»)

Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono come verdi campane e si ributtano indietro e si disciolgono. (OS, Antico, sono ubriacato dalla voce, vv. 1-4)

Quando il tempo s’ingorga alle sue dighe la tua vicenda accordi alla sua immensa, ed affiori, memoria, più palese dall’oscura regione ove scendevi, come ora, al dopopioggia, si riaddensa il verde ai rami, ai muri il cinabrese. (OS, Delta, vv. 5-10)

Venerdì sogna l’isole verdi e non danza più. (O, Keepsake, vv. 21-22)

Or che in fondo un miraggio di vapori vacilla e si disperde, altro annunzia, tra gli alberi, la squilla del picchio verde. (O, Corrispondenze, vv. 1-4)

‘Grotte dove scalfito luccica il Pesce, chi sa quale altro segno si perde, perché non tutta la vita è in questo sepolcro verde’. (O, Elegia di Pico Farnese, vv. 27-31)

Sempreverde Il sempreverde alloro per la cucina

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resiste, la voce non muta, Ravenna è lontana, distilla veleno una fede feroce. (O, Dora Markus, vv. 54-58)

Verdecupo L’albero verdecupo si stria di giallo tenero e s’ingromma. Vibra nell’aria una pietà per l’avide radici, per le tumide cortecce. (OS, Crisalide, vv. 1-4)

– e un sole si bilancia a stento nella prim’aria, su domi verdicupi e globi a sghembo d’araucaria (O, Nel parco di Caserta, vv. 6-9)

Verdebruno Derelitte sul poggio fronde della magnolia verdibrune se il vento porta dai frigidari dei pianterreni un travolto concitamento d’accordi ed ogni foglia che oscilla o rilampeggia nel folto in ogni fibra s’imbeve di quel saluto (O, Tempi di Bellosguardo II, vv. 1-10)

Verderame Strade e scale che salgono a piramide, fitte d’intagli, ragnateli di sasso dove s’aprono oscurità animate dagli occhi confidenti

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VERDE

dei maiali, archivolti tinti di verderame, si svolge a stento il canto dalle ombrelle dei pini, e indugia affievolito nell’indaco che stilla su anfratti, tagli, spicchi di muraglie. (O, Elegia di Pico Farnese, vv. 20-26)

Verdeggiare L’orda passò col rumore d’una zampante greggia che il tuono recente impaura. L’accolse la pastura che per noi più non verdeggia. (OS, Caffè a Rapallo, vv. 34-38)

Il fuoco che scoppietta nel caminetto verdeggia e un’aria oscura grava sopra un mondo indeciso. (OS, Sarcofaghi III, vv. 1-4)

Il mare che si frange sull’opposta riva vi leva un nembo che spumeggia finché la piana lo riassorbe. Quivi gettammo un dì su la ferrigna costa, ansante più del pelago la nostra speranza! – e il gorgo sterile verdeggia come ai dì che ci videro tra i vivi. (OS, I morti, vv. 1-7)

Riverdicare Son vostre queste piante scarse che si rinnovano all’alito d’Aprile, umide e liete. Per me che vi contemplo da quest’ombra, altro cespo riverdica, e voi siete. (OS, Crisalide, vv. 5-9)

ROSSO Vermiglio, scarlatto, purpureo, rossastro, cinabrese, cinabro, color rame, rosolio, arrosarsi («s’arrosa»),

Nelle crepe del suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano a sommo di minuscole biche. (OS, Meriggiare pallido e assorto, vv. 5-8)

La canna che dispiuma mollemente il suo rosso flabello a primavera (O, La canna che dispiuma, vv. 1-3)

Vermiglio ‘Por amor de la fiebre’… mi conduce un vortice con te. Raggia vermiglia una tenda, una finestra si rinchiude. Sulla rampa materna ora cammina, guscio d’uovo che va tra la fanghiglia, poca vita tra sbatter d’ombra e luce. (O, Sotto la pioggia, vv. 7-12)

Scarlatto Musica senza rumore che nasce dalle strade, s’innalza a stento e ricade, e si colora di tinte ora scarlatte ora biade (OS, Minstrels, vv. 11-15)

Nella conca ospitale della spiaggia non erano che poche case di annosi mattoni, scarlatte,

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ROSSO

e scarse capellature di tamerici pallide più d’ora in ora; stente creature perdute in un orrore di visioni. (OS, Fine dell’infanzia, vv. 10-17)

Purpurea La tua fuga non s’è dunque perduta in un giro di trottola al margine della strada: la corsa che dirada le sue spire fin qui, nella purpurea buca dove un tumulto d’anime saluta le insegne di Liocorno e di Tartuca. (O, Palio, vv. 1-8)

Rossastro Era un insetto orribile dal becco aguzzo, gli occhi avvolti come d’una rossastra fotosfera, al dosso il teschio umano; e attorno dava se una mano tentava di ghermirlo un acre sibilo che agghiacciava. (O, Vecchi versi, vv. 32-37)

Cinabrese Quando il tempo s’ingorga alle sue dighe la tua vicenda accordi alla sua immensa, ed affiori, memoria, più palese dall’oscura regione ove scendevi, come ora, al dopopioggia, si riaddensa il verde ai rami, ai muri il cinabrese. (OS, Delta, vv. 5-10)

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Cinabro Segui coi remi il prato se il cacciatore di farfalle vi giunge con la sua rete, l’alberaia sul muro dove il sangue del drago si ripete nel cinabro. (O, Barche sulla Marna, vv. 7-10)

Color rame Il vento che stasera suona attento – ricorda un forte scotere di lame – gli strumenti dei fitti alberi e spazza l’orizzonte di rame dove strisce di luce si protendono come aquiloni al cielo che rimbomba (OS, Corno inglese, vv. 1-6)

Color rosolio carri dalle tinte di rosolio, fantocci ed archibugi, palle di gomma, arnesi da cucina lillipuziani: l’urna li segnava a ognuno dei lontani amici l’ora che il Gennaio si schiuse e nel silenzio si compì il sortilegio. (O, Carnevale di Gerti, vv. 26-32)

Arrosarsi la tempesta è dolce quando sgorga bianca la stella di Canicola nel cielo azzurro e lunge par la sera ch’è prossima: se il fulmine la incide dirama come un albero prezioso entro la luce che s’arrosa: e il timpano degli tzigani è il rombo silenzioso. (OS, Arsenio, vv. 27-33)

NERO Negro, annerire («annerito»; «annerite»), annerirsi («s’annera»)

Lieto leggerò i neri segni dei rami sul bianco come un essenziale alfabeto. (OS, Quasi una fantasia, vv. 19-21)

Il saliscendi bianco e nero dei balestrucci dal palo del telegrafo al mare non conforta i tuoi crucci su lo scalo né ti riporta dove più non sei. (O, Il saliscendi bianco e nero, vv. 1-5)

Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole freddoloso (O, Ti libero la fronte, vv. 5-7)

la rèdola nel fosso, su la nera correntìa sorvolata di libellule (O, La canna che dispiuma, vv. 4-5)

Se urgi fino al midollo i diòsperi e nell’acque specchi il piumaggio della tua fronte senza errore o distruggi le nere cantafavole e vegli al trapasso dei pochi tra orde d’uomini-capre (O, Elegia di Pico Farnese, vv. 38-41)

Son troppo strette le strade, gli asini neri che zoccolano in fila dànno scintille, dal picco nascosto rispondono vampate di magnesio. (O, Notizie dall’Amiata II, vv. 22-24)

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Negro Viene col soffio della primavera un lugubre risucchio d’assorbite esistenze; e nella sera, negro vilucchio, solo il tuo ricordo s’attorce e si difende. (O, Bassa marea, vv. 10-14)

Annerito e un interno di nivee maioliche dice allo specchio annerito che ti vide diversa una storia di errori imperturbati e la incide dove la spugna non giunge. (O, Dora Markus, vv. 40-45)

E tu seguissi le fragili architetture annerite dal tempo e dal carbone, i cortili quadrati che hanno nel mezzo il pozzo profondissimo (O, Notizie dall’Amiata II, vv. 1-4)

Annerirsi il vento che nasce e muore nell’ora che lenta s’annera suonasse te pure stasera scordato strumento, cuore. (OS, Corno inglese, vv. 14-18)

BIANCO Candore, candido, niveo, biancazzurro, color avorio, candire («candente»), sbiancare («sbianca»)

Lieto leggerò i neri segni dei rami sul bianco come un essenziale alfabeto. (OS, Quasi una fantasia, vv. 19-21)

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida scorta per avventura tra le petraie d’un greto, esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi; e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto. (OS, Ripenso il tuo sorriso, vv. 1-4)

Cola il pigro sereno nel riale che l’accidia sorrade, pausa che gli astri donano ai malvivi camminatori delle bianche strade. (OS, Flussi, vv. 3-6)

la tempesta è dolce quando sgorga bianca la stella di Canicola nel cielo azzurro e lunge par la sera ch’è prossima (OS, Arsenio, vv. 27-30)

Non so come stremata tu resisti in questo lago d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse ti salva un amuleto che tu tieni vicino alla matita delle labbra, al piumino, alla lima: un topo bianco, d’avorio; e così esisti! (O, Dora Markus, vv. 22-28)

Il saliscendi bianco e nero dei balestrucci dal palo del telegrafo al mare

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non conforta i tuoi crucci su lo scalo né ti riporta dove più non sei. (O, Il saliscendi bianco e nero, vv. 1-5)

Perché attardarsi qui a questo amore di donne barbute, a un vano farnetico che il ferraio picano quando batte l’incudine curvo sul calor bianco da sé scaccia? (O, Elegia di Pico Farnese, vv. 32-35)

Candore su cui discende la primavera lunare e nimba di candore ogni frastaglio (O, Cave d’autunno, vv. 1-2)

Freddo un vento m’investe ma un guizzo accende i vetri e il candore di mica delle rupi ne risplende. (O, Eastbourne, vv. 7-10)

Candido In te converge, ignara, una raggèra di fili; e certo alcuno d’essi apparve ad altri: e fu chi abbrividì la sera percosso da una candida ala in fuga (O, Stanze, vv. 21-24)

Niveo e un interno di nivee maioliche dice allo specchio annerito che ti vide diversa una storia di errori imperturbati e la incide dove la spugna non giunge. (O, Dora Markus, vv. 40-45)

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BIANCO

Biancazzurro Come rialzo il viso, ecco cessare i ragli sul mio capo; e via scoccare verso le strepeanti acque, frecciate biancazzurre, due ghiandaie. (OS, A vortice s’abbatte, vv. 14-17)

Color avorio Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco tocco la Martinella ed impaura le sagome d’avorio in una luce spettrale di nevaio. (O, Nuove stanze, vv. 25-28)

Candente Pure colline chiudevano d’intorno marina e case; ulivi le vestivano qua e là disseminati come greggi, o tenui come il fumo di un casale che veleggi la faccia candente del cielo. (OS, Fine dell’infanzia, vv. 23-28)

Sbiancare tu ritieni tra le dita il sigillo imperioso ch’io credevo smarrito e la luce di prima si diffonde sulle teste e le sbianca dei suoi gigli. (O, Palio, vv. 28-32)

GRIGIO Grigiorosea, bigio, ingrigiarsi («s’ingrigia»), grigiura

Natale nel tepidario lustrante, truccato dai fumi che svolgono tazze, velato tremore di lumi oltre i chiusi cristalli, profili di femmine nel grigio, tra lampi di gemme e screzi di sete... (OS, Caffè a Rapallo, vv. 1-7)

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma, e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia schietto come la cima d’una giovinetta palma... (OS, Ripenso il tuo sorriso, vv. 9-12)

Lontani andremo e serberemo un’eco della tua voce, come si ricorda del sole l’erba grigia nelle corti scurite, tra le case. (OS, Noi non sappiamo, vv. 20-23)

Grigiorosea Esterina i vent’anni ti minacciano, grigiorosea nube che a poco a poco in sé ti chiude. (OS, Falsetto, vv. 1-3)

Bigio Se tu l’accenni, all’aria bigia treman corrotte

GRIGIO

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le vestigia che il vuoto non ringhiotte. (OS, Debole sistro al vento, vv. 9-12)

Perdersi nel bigio ondoso dei miei ulivi era buono nel tempo andato – loquaci di riottanti uccelli e di cantanti rivi. (OS, Egloga, vv. 1-5)

Nulla di te nel vacillar dell’ore bige o squarciate da un vampo di solfo fuori che il fischio del rimorchiatore che dalle brume approda al golfo. (OS, Delta, vv. 17-20)

Ingrigiarsi Sale un’ora d’attesa in cielo, vacua, dal mare che s’ingrigia. Un albero di nuvole sull’acqua cresce, poi crolla come di cinigia. (OS, Il canneto rispunta, vv. 5-8)

Grigiura Ora è finito il cerulo marezzo. Si getta il pino domestico a romper la grigiura (OS, Egloga, vv. 12-14)

Ivonne Mariani

IL CODICE CROMATICO IN LA BUFERA E ALTRO

Tutte le arti provengono da una medesima e unica radice. Di conseguenza, tutte le arti sono identiche. L’elemento misterioso e prezioso è però che i frutti, pur provenendo dallo stesso ceppo, sono diversi. La differenza si manifesta attraverso i mezzi di ogni singola arte, ossia attraverso i mezzi dell’espressione. W. KANDINSKY, Dello Spirituale nell’arte

Eugenio Montale dissolve in colore una struttura poetica destinata a scandire l’unione conflittuale delle sue verità. Forzando il campo restrittivo della conoscenza esatta, egli ha enucleato e fornito un percorso che supplisce ai limiti della pura concretezza e affida al ricevente la risultante linguistico-emotiva. Così una puntuale semantica metaforica irrobustisce e coordina la rappresentatività di una funzionale connotazione cromatica che, nella specificità di La bufera, può permettersi una sottomissione a episodi tonali poco indulgenti a slanci luministici, bensì propensi a un lessico colorico più in ombra, offuscato, gravato dalla crudeltà di un’atmosfera di morte. E pur in tale accertabile cambiamento di struttura logico-temporale, la resa cromatica si configura in episodi dalla ricchezza plastica e da una forte identità di tono, senza venir meno al patto di complicità con i colori di Ossi e Occasioni o senza perdere valenza in un eventuale raffronto tematico. Pertanto, l’indagine cromosomica delle singole tipologie cromatiche, tra l’altro già sostanziatasi di un’analisi quantitativa delle tinte nella poesia, procede motivando la caratterizzazione del rosso nelle sue numerose sfumature, oppure con il nero introducendo a un discorso in cui questo corpo sintagmatico non deve essere assunto come condizione a termine di un generale colorismo. Non a caso, l’eccellenza della proposta montaliana garantisce l’intersecarsi delle unità coloristiche e fa in modo che la «ricerca archetipica [...] di sollecitazione di uno scatto»,1 crei ulteriori opportunità per i colori e reinventi argomentazioni policrome nella persistente inerzia metafisico-cromatica.

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1. L’etichetta del rosso e interrogativi sul nero Il versatile rapporto contrappuntistico del rosso e del nero è sintesi vitale di due diverse possibilità: un «volo di starna, [...] sul nero ghiaccio dell’asfalto!» e «volo / tuo [...] nell’alone scarlatto». Proprio nella tensione progettuale di Per un ‘Omaggio a Rimbaud’,2 dove il nero si rende indubbiamente forte della radicalità del contrasto ossimorico di cui è parte, e dove la realtà mimetica del ghiaccio-asfalto dalla sua nota oscura accresce il senso di profondo smarrimento e condizionamento verbale-psicologico del modulo poetico, sta l’estrema opportunità di vincere «l’ingrata terraferma» che promuove un’apprezzabile divergenza nella condizione di precipizio. La determinante del rosso s’inserisce nell’equilibrio dissestato dal nero e lo riporta alla condizione di luminosità, di ricerca ostinata della luce da parte della «figlia del sole», la quale si ritrova nell’alone, per lei espressione del numinoso o meglio del Dio immolato. La costante oppositiva della lirica è fedelmente rispecchiata nei più vari segni cromatici, per concretare un nuovo contributo al linguaggio denotativo e confermare così che è «utile fermarsi sui dati di colore, sulla contrapposizione del lucore delle foglie di gardenia (e su queste riverbera il bianco delle piume contigue) al nero ghiaccio dell’asfalto...»3 Tant’è che un simile sistema di contrasto è posto in essere da incisi di natura non solo colorica, bensì da vettori che sottolineano tensione tonale e che forniscono all’opposto tematico un incarnato straordinariamente efficace. Così, nel contesto «fucina vermiglia / della notte», di Su una lettera non scritta,4 è la gradazione del rosso a far riflettere sull’imminenza della sera-notte e a mantenere viva la sensazione del poeta-soggetto indeciso, paralizzato, nel suo «Sparir non so né riaffacciarmi». E mentre vermiglia, colore del presente persiste, si attarda, dissimula l’ansia di attesa per il futuro, il taglio temporale ne ha assunto il rinforzo cromatico per segnalare una più che sicura incrinatura del patto di luce di un cielo azzurro. Tutto questo poiché l’intensità semantica delle figurazioni montaliane si articola in segmenti tali da acquistare «un significato solo nella misura in cui riescono ad integrarsi nel nuovo sistema».5 A ragione si desume un ispessimento qualitativo del dato coloristico, il quale si lascia affidare il fraseggio lirico e raggelare in un esemplare «nerofumo / della spera» un messaggio di spregiudicata comunicatività.

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Qui «Il motivo esterno della guerra ha fatto irruzione nello schema [...] scompaginandolo»6 e altrettanto l’equivalente di Gli orecchini7 ha penetrato l’area dello specchio e ne ha offuscato le sembianze. Ne diviene che nerofumo «connota non solo il trascorrere del tempo, ma anche il suo offuscarsi»,8 anzi esso delinea la «spera», lo specchio, «come se si trattasse di attributo specifico»,9 esaltandone una sua nuova peculiarità: non esiste una vitrea superficie riflettente e il nuovo status «non serba ombra di voli». Il colore imperituro di Montale rende difficoltoso spaziare in direzione di un dialogo, naturalmente sospirato e impedito, con la donna: «Le tue pietre, i coralli [...] / vi cercavo». Tuttavia, nonostante la luce dei «barlumi» non si irradi sull’esistere creativo del soggetto e la stessa drammatica soluzione poetico-coloristica sopravviva nell’«iterazione sinonimica»10 del folle ronzio, delle nenie e della «spugna» che «scaccia» ogni impronta luminosa, esiste ancora una «disperata volontà di vita delle misteriose, squallide mani, travolte».11 Sono proprio queste mani a volersi impossessare degli orecchini, ormai «sigilli-marchiature della nuova alleanza fra i morti [...] e la Cristofora-visiting angel».12 Vengono allora trasformati in itinerari di vita ogni gesto, affinché i «desideri» si struggano «al tuo lampo», che è «l’unica luce, luce di amore e di fedeltà ben ferma nel presente d’orrore e di tenebre».13 Di nuovo tessitura compassata per Iride,14 che matura la qualità discriminante di rosso e nero in una lotta tra un passato di presenze e luce e un presente che ne è privo, «e il burchio non torna indietro, / il sole di San Martino si stempera, nero», nel quale la stella sembra aver concluso per sempre il suo consueto viaggio di colori nell’universo. E non è estranea alla lirica l’azione di un rosso porpora, «o è forse quella maschera sul drappo bianco / quell’effigie di porpora che t’ha guidato?», in una continua alternanza con il nero e in una specifica determinazione d’ineccepibili gesti di viltà. La tonalità tanto accesa è altresì essenza ontologica di una «realtà [...] divina subita in certo modo passivamente»,15 da cui l’interrogativo, e provvede a stimolare immediatamente l’occhio e il cuore del Nestoriano, dubbioso di fronte alla grandezza di una manifesta sapienza e forza interiore,16 che rende plausibile la presenza di una cromaticità cupa. Le voci di colore dalle forti giustificazioni visive e decisamente interattive con il sistema lirico e tematico dialogano con la metafora naturalistica dell’iride. Essa non conta su una singola puntualizza-

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zione cromatica, bensì su un reale senso di armonia di colori, sfumati l’uno nell’altro in un universo percettivo supremo quale la luce. E in questo «giunge al suo pieno svolgimento il mito montaliano dell’eliotropismo»17 e Iride si carica di significati audaci: «Così come Clizia è il girasole [...] Iride è la annunziatrice del sole, la sua messaggera»;18 l’una si protende alla luce, l’altra è la luce. Inoltre accade che le proponenti coloriche visualizzino la melodia trattenuta di Montale e per una sottile dinamica ancorino a un «giglio rosso», a una situazione botanicamente impossibile, il sentimento del sacrificio e cedano il posto, proprio nel finale dell’omonima poesia,19 a un’aggravante concettuale, la morte-sacrificio, che troverà una più decisa ripresa in Ballata scritta in una clinica,20 anzi per precisione, nei versi «ma il Dio che colora / di fuoco i gigli del fosso...» Il «giglio rosso e fiore di fosso si contraggono nel sintagma i gigli del fosso e l’aggettivo residuo rosso si sostantiva nel Dio che colora / di fuoco i gigli del fosso».21 Quindi, nella determinante del rosso trovano perfetta fusione il gesto criminoso dei pochi, perpetrato ai danni dei molti, l’orgogliosa inferiorità della «verità annunziata e respinta», il cui destino è fisicizzato in quello dell’uccello-donna22 o in altri simboli come quello cattolico-ortodosso della croce di Cristo. In effetti, proprio in Ballata scritta in una clinica, il rosso caratterizza una croce e traduce la dominante «d’emergenza» personale della stessa con l’imponenza e la vivezza di un’immagine simbolo: «e fuori, rossa, s’inasta, /si spiega sul bianco una croce». Questo colore riesce a ottimizzare il suo spazio giocando pure con lo sfondo bianco, che partecipa della valenza comunicativa del cromatismo montaliano, ma nello specifico esalta l’originalità del rosso. Eppure la metodica può coordinare due opposti in un unico intreccio, «rossonero/salmì» de Il gallo cedrone,23 e in questo verso sfruttare la neutralità dei colori e isolarne l’unicità di un dialogo tonale. Discorso, solo apparentemente fuori luogo, legittimo nell’essenziale ricorso al colore rosso per evidenziare il sacrificio e al nero per eliminare la possibilità di sviluppo del tempo. L’uso di «rossonero» allude «al gusto impressionistico dei composti giustappositivi bimembri di aggettivi coloristici, [...] che del resto Montale saggia parcamente, e ancora con frequenza decrescente nel tempo».24 L’associazione colorica è un caso fuori ordinanza in La bufera e comunque differente dagli analoghi nella forma delle altre due rac-

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colte: ora la giustapposizione non dà origine a «un colore unico intermediario o l’accostamento di due note complementari, tendenzialmente sfumanti l’una nell’altra».25 Il lessico cromatico che Montale usa per questa lirica indica un «accostamento di colori forti e cupi, da scuola pittorica romana, non più tenui e complementari».26 Altro innesto sintomatico è l’aver avvicinato le due tinte a un alimento, con ovvia eco al «fondamento mnemonico-familiare»,27 e intrappolato la vita della parentesi,28 di cui è parte il verso, in un dinamismo che conosce anche la ricchezza dell’enjambement tra «rossonero» e il suo soggetto «salmì». Nel concreto, si rende ben salda la certezza che a Montale «il gratuito piacere contemplativo della realtà resta sconosciuto. Il suo interesse nasce dall’incrocio fra un oggetto insignificante e un concetto esistenziale che gli dà un’improvvisa significazione».29 Una premessa tale da motivare una lirica come Dal treno,30 in cui si pittura la mirabilità di un evento attraverso un monocromatismo, che non è imitativo della natura: «Le tortore color solferino / sono a Sesto Calende per la prima / volta a memoria d’uomo». Lo scorcio rappresentativo del colore, pur nell’effettiva estraneità della tinta, propone un possibile rimando a una definizione d’ambiente esterno, a una via che ha qualche valore speciale per lui: «Una onomastica di strade prese poco per volta un giro personale: via Bigli, [...] , Solferino [...] Una possibile congenialità ha qualche elemento per coagularsi».31 Oppure le tortore possono essere complici di un più sottile nucleo tematico: «Il collare giallo delle tortore fa pensare per analogia ad altro collare (gocce forse) che si sgrana fuori»32 e al fatto che Montale è reso unico beneficiario di un dono. In base a tale modulo lirico, per cui non «è nuova la solitudine del dono»,33 il risvolto poetico «Per me solo / balenò, cadde in uno stagno» si connatura come conclusione del componimento, nonché sottolineatura del privilegio di Montale e conclusione coloristica. Quest’ultima si avvale di «balenò» e «volo di fuoco» per accostarsi al tono esplicito e dissimulare due tocchi cromatici, che suggeriscono la presenza di un bagliore improvviso e intenso di luce rossa e il volo particolare di una messaggera. Un po’ quello che accade in Il ventaglio,34 dove il particolare cromatico lampeggia nel verbo «inostrare»: «e già l’alba l’inostra». L’evidente allusione a una condizione universale di positività esprime un cambiamento, che si snoda nel presente della locuzione e riesce

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a cancellare con un «sussulto» le nebbie del passato: «Appena Montale prova a raffigurare sul ventaglio le immagini, i ricordi (muti / e immoti, ma più vivi) la magia è attivata: si dissipano le tenebre, e già l’alba imporpora la notte, il volo della donna si annuncia imminente».35 E invero nella prospettiva di Dal treno c’è un nuovo tipo di rapporto tra l’io soggetto e il tu, l’altro, che viene tradotto in questi termini lirici: «E il suo / volo di fuoco m’accecò sull’altro». Il processo di accecamento è ora una risonanza del fatto che «la presenza del visiting angel si attua per via negativa, nel confronto fra la piccolezza dell’uomo e la sovrabbondante grazia che balena proprio nella mancanza, nel mistico latere dei segni. Di tal sorta è il volo di fuoco che accieca l’io, il quale ha sostituito le tortore assenti col collare dell’amata».36 Insomma, attraverso una «metafisica dei sensi e dei colori»37 si traduce la potenzialità virtuale della parola che, nel gioco con una «sintassi delle immagini»,38 dà sostenutezza a versi in cui è presente un solitario nero: «chiatte di minatori dal gran carico / semisommerse, nere sull’onde alte...» In Voce giunta con le folaghe39 la proposta cromatica di nere ha sostanzialmente risolto il linguaggio in un cumulo di possibilità: una sorta di silenzio aperto ai più svariati significati. E ciò perché il nero assicura ulteriori determinazioni alla qualità dell’imbarcazione e costruisce lo sfondo nel quale si realizzerà l’epifanica figurazione del padre: «eccoti fuor dal buio [...], erto ai barbagli, / [...] al sordo fremito / che annunciava nell’alba / chiatte di minatori...» Nella poesia s’intravede un frammischiarsi di rosso e nero e in quest’ultimo si compone la premessa di una solarità quale l’alba. La ricerca dei preziosi aspetti si verifica solo in uno stato tonale deciso di buio assoluto e la discesa nei meandri dell’animo porta impresse la pericolosità e l’allusività dell’azione, avvenuta all’insegna della fatica: «chiatte di minatori [...] non paiono più emblemi di salvezza [...], ma piuttosto simboli della fatica che è costato al poeta il recupero d’un tempo, appunto semisommerso».40 È un poco come una fulminante libertà vissuta in uno spazio angustiato, dove ormai si legge il destino del mondo: «I luì nidaci, estenuanti a sera, [...] una vela / tra corone di scogli / sommersi e nero cupi...» L’orto,41 in quanto paesaggio, si configura come «raffreddato», benché sia stato «teatro di più solari stagioni»,42 in un tempo in cui non esistevano «acri tendìne / di fuliggine». Così ogni realtà calata

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nella natura porta in sé una nota stonata e prevale il «cieco incubo» di «nerocupi», che mantiene immobile la vita «sommersa» di Montale e, nella rafforzata sottolineatura cromatica di nero e cupi, accoglie la rinuncia alla pienezza della vita in contrasto con la forza di un «cuore d’ametista».

2. «L’anima verde che cerca / vita...» Con la certezza che nella terza raccolta la comunicazione non è determinata da un persistente descrittivismo come negli Ossi, si verifica che, nonostante la coordinata verde di alcune liriche, Montale «è rimasto, ne La bufera, assolutamente fedele a se stesso, a quel paesaggio spirituale che per la sua singolare caratterizzazione inventiva e stilistica non possiamo che definire montaliano».43 La parentesi di novità, maturata dalla percezione visiva del diverso cromatismo, guadagna profondità dal prezioso aiuto di una tipica connessione sensoriale: «Dal verde immarcescibile della canfora / due note, un intervallo di terza maggiore». L’accorta estetica sensistica di Sul Llobregat44 sfrutta l’interdipendenza e l’allusività di differenti criteri espressivi e costruisce un legame tra messaggi visivi, olfattivi e uditivi. Ne diviene che il verde ha qualificato lo stato fisico-temporale dell’odore della canfora, ma è oltremodo valorizzato dall’aggettivo di non deteriorabilità. Il «paesaggio sonoro» risolve l’incorruttibilità dell’immagine e si realizza in uno spazio brevissimo, così come si conclude in un finale altrettanto repentino e assoluto: «ma intanto, di scatto, / tu avevi spinto l’acceleratore». Il gesto veloce e deciso è anch’esso incorruttibile, «immarcescibile»: si compie nella caducità di un attimo e non permette alcuna manovra contraria. La voce del «verde immarcescibile» proviene dall’esterno dell’avvenimento improvviso, ma in esso si annulla il grido di tensione esplosiva, «quel senso montaliano, misto di angoscia e rassegnazione, di essere sorpresi, superati dal tempo».45 Un sentimento che, l’incontenibile entusiasmo della tinta aveva anticipato pur nella sua creduta distensione. E invero, di per sé, il richiamo cromatico è privo di mobilità spazio-temporale rispetto allo scatto, ma la sua quiete è ingannatrice poiché il verde «si trova tra due colori attivi e ne è il prodotto».46 I due distici estrinsecano lo «schema comunicazione tentata / fallita»47 in maniera tale che «La bufera, sarà la sede d’un discorso non

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solo non condannato a catalogare l’aridità, ma neppur teso esclusivamente, [...] attorno al nucleo momentaneo dell’occasione che riscatta».48 Così, per Iride, sussiste l’ipotesi che «schiocchi di pigne verdi fra la cenere / o il fumo d’un infuso di papaveri» sintetizzino epigrammaticamente il ritorno della donna, che stimola a un’esistenza «in altre luci». Pertanto, nelle fulminazioni del concreto vive l’alterità e il verde delle pigne e il secco rumore vengono caricati dell’eventualità di riportare lei, l’Iride, all’uomo. Il particolare coloristico del verde e quindi la persistenza di un fattore rappresentativo della freschezza e rigogliosità nella cenere dell’annullamento,49 confortano «nella lotta / che me sospinge in un ossario». Tale risvolto della e nella natura protegge un «segno» d’Iride e pare animato da un tempo autonomo riguardo a quello del «povero / Nestoriano smarrito». Una sorta di segreta matrice per cui «sopravvive l’euristica del segno o dell’indizio»50 di un poeta, il quale sperimenta la sua autodefinizione agli altri e a se stesso con un’interna dialettica di punti cromatici e d’altro genere. Infatti, «L’apertura impressionistica [...] si ravviva [...] nell’opposizione col cupo fornello dell’Ontario»:51 il rosso prevarrà sul verde delle pigne e «il Volto insanguinato sul sudario» tingerà di sé una maturità più cosciente del dolore e del proprio compito di uomo. Poi, l’unità esperienziale di Montale e della donna e la pregnanza comunicativa di piccoli segni, tutelano l’unità emozionale che egli tenta di realizzare coi suoi morti proprio nel lavoro Proda di Versilia:52 «I miei morti che prego perché preghino / per me, per i miei vivi...» In realtà, il sentimento montaliano trascolora dal momento che i morti sono «respinti dal nuovo paesaggio artificiale e disumano»,53 il cui oculato cromatismo è solo quello di un «sole grigio» o di «Broli di zinnie tinte ad artificio». Individuato il «tempo del duro e incolore presente»54 si spiegano versi che «per contrasto» aprono «la memoria alle antiche ore d’infanzia vissute coi perduti»,55 nel tentativo di educarla a un tempo che le è proprio e che è patinato dai «sempreverdi», qualificati dall’incorruttibilità già di Sul Llobregat. La memoria «ricrea un ambiente che, seppur composto di cose tutte evidenti, appare tuttavia come escluso da ogni definizione nel tempo»,56 proprio come accade ai «sempreverdi». E qualora la natura isterilisca, «sempreverdi / bruciati e le cavane avide d’acqua», il rianimarsi della stessa esige un tempo di resistenza, che permette di opporsi alla evidente necessità. L’an-

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guilla57 persegue questo proposito col duro lavoro della medesima, «elegante» nella fatica, «ostinata ma agile e dolce come una delle messaggere».58 Essa agisce nel contesto di un preciso progetto, esplicito sin dai primi versi e che gioca sui contrasti chiamati a operare in favore di un’«immagine guizzante, colma di vita».59 L’anguilla è un «fatto essenzialmente comunicativo»,60 che si iscrive nella finalità addotta anche dal verde d’un appellativo con cui è indicata: «l’anima verde che cerca / vita la dove solo / morde l’arsura e la desolazione». La vivezza del fattore cromatico, il legame interattivo con l’acqua, la funzione attributiva della sfumatura, fanno in modo che il colore riassuma la vocazione di questa “personalità lirica”: «l’anima verde che distrugge la preesistente arsura» e «in una desolata arsura inventa la vita».61 La sottolineatura coloristica è la proiezione visiva di un rinnovato ed eroico impegno seguito alla scelta ostinata di pensare il futuro. «La resistenza di Montale, perciò, non va considerata come una resistenza alla vita, bensì come una resistenza nella vita. Il suo è anche un modo di celebrare l’esistenza, in momenti di luce, in attimi di fiduciosa vitalità quando esalta: l’anima verde [...] che cerca vita».62

3. Il bianco: «eternità d’istante» di La bufera La tavolozza pittorica di Montale è informata dalla tinta bianca e pertanto è raggiunta da un pluralismo di colori nell’unica luce. Nella simultaneità di elementi monocromatici si possono ridurre i contrasti di tonalità. All’opposto, attorno a questo stesso segno, si può costruire una forzatura, attraverso la quale rendere viva la mancanza di luce e il totale assorbimento della realtà nel mistero dell’oscuro: «nel tuo nido / notturno [...] il lampo che candisce / alberi e muri e li sorprende in quella / eternità d’istante». Il contesto lirico di La bufera63 realizza la temporalità sgombrando il campo da segmenti coloristici veri e propri, ma armonizzando il nero implicito del momento con il contrappunto cromatico. La luce, vincolata all’istantaneità del lampo marzolino, sfrutta il breve attimo per disgregare lo sfondo del tempo e creare un nuovo quadro, dentro il quale ci si muove verso l’interno della vita e di ogni suo spazio. Così, nell’ambito «della bufera e della guerra, interessante è la canditura del tempo»,64 che ne stravolge l’ovvietà e ne illumina le oscurità silenziose.

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Essa definisce la colorazione dell’ambiente privato servendosi di una metafora del colore, il «candire», e, mentre la temporalità è dissociata dal flash luminoso e penetrante del lampo, si realizza l’attesa del messaggio positivo, cui la magnolia e la donna alludono, benché siano momentaneamente sconfitte dalla bufera. Sempre la minuta specificazione della luce-colore riesce a introdurre alla definizione di un altro paesaggio, quello di Luce d’inverno65 e resta ugualmente sottintesa in «canditi» oltreché in «aurore»: «Quando scesi dal cielo di Palmira / su palme nane e propilei canditi [...] quando lasciai le cime delle aurore». La forma della luce è recuperata dai vocaboli e tutta la lirica è orientata verso la realtà luministica introdotta dal titolo. In special modo, essa presiede a un rinnovamento in una «scintilla», che rende il poeta «nuovo ed incenerito» e che «è scoccata dal confronto tra reali e simboli».66 Proprio in questo sdoppiamento di natura, «la pomice / e il diaspro la sabbia e il sole, il fango / e l’argilla divina», si rende complessa la scelta dei profili luminosi, che sono impreziositi dal candore e sono chiare morfologie di un irraggiamento superiore. Per di più, «le cime delle aurore [...] è un’allusione a un passato di luce che Montale si illude di aver goduto»,67 quando invece il momento presente devia verso un «cuore rattrappito» e un «gelido museo». L’omogeneità della tinta è da ricondurre all’agire proficuo del personaggio femminile, che vuole difendere la comunicazione della poesia Il ventaglio: «la calanca / vertiginosa inghiotte ancora vittime, / ma le tue piume sulle guance sbiancano». Il dialogo s’instaura a partire da un “silenzio cromatico”, il bianco del verbo, che si oppone alla «pesante aggressività» delle parole e di tutta l’atmosfera, da sublimare «per mezzo dell’amata, della virtuosa terribilità di lei».68 «Sbiancare» regge bene il confronto con «inostrare», sia sul piano sintattico-grammaticale,69 sia su quello visivo e tematico, tant’è vero che se «le piume della donna-angelo sbiancano [...] le guance madreperlacee del ventaglio, la salvezza è forse allora prossima».70 L’intuizione, che fa della determinante coloristica bianca una ribellione all’atmosfera infernale, quest’ultima responsabile di un coinvolgimento e sconvolgimento di tutto quanto abbia vita, si mantiene anche in La primavera hitleriana:71 «Folta la nuvola bianca delle falene impazzite [...] e le candele / romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente l’orizzonte [...] col respiro di un’alba che si riaffacci, bianca». Il bianco è ora un equivoco dell’oscurità, intrinseca e

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diffusa, e rinnova le proporzioni di un «volo» straniante: «la pazzia delle falene non è un caso o una condizione loro naturale: è lo stato d’animo avverso ai tiranni».72 E mentre la temporalità e la spazialità incerte, «Tutto per nulla, dunque?», tendono a piegare «i segni della fede (nella trasposizione luminosa delle candele) e la volontà di resistere col sacrificio... il numinoso e l’angelico ritornano a contrastare l’orrore del presente, a spargere i semi della speranza». Quindi nell’attesa della bufera la «gemma» che riga l’aria, così come le candele disseminanti un chiarore, che aveva tutte le premesse di un futuro, riconducono «alla presenza di Clizia, ai suoi eliotropi [...] segni del bisogno di luce».73 L’epifanica figurazione della salvezza, preceduta dai rituali classici delle preghiere votive, si fissa allora «nella raggelata e bianca luce»74 di un’alba che rischiara il domani di tutti e assolve compiutamente il suo dovere.

4. Il biondo-oro: l’ideogramma della luce Il presupposto logico che sottende all’uso di biondo-oro è rintracciabile nella mancanza di una solarità piena. La componente coloristica ottiene in La bufera di fissare e gestire visivamente l’immagine di una vita sorpresa dalla canditura del lampo. Inoltre, la variante del giallo introduce la costante della preziosità e affina il patrimonio di relazioni relative alla dignità del soggetto-oggetto della tinta. L’ambiente privato, sorpreso dai bagliori di una tempesta, motiva il fattore coloristico in quanto presente nel regno intaccato della figura eletta, dispensatrice di apparizioni luminose: «i suoni di cristallo nel tuo nido / notturno ti sorprendono, dell’oro / che s’è spento sui mogani, sul taglio / dei libri rilegati, brucia ancora...» Il personaggio femminile ha assolutizzato se stesso interagendo col «lampo» oppure, nell’ipotesi poetica di Gli orecchini, col «nerofumo della spera». I «barlumi indifesi» sono accolti in uno specchio dalla cornice dorata, la quale pretende di allontanare l’usura del tempo o, nella materialità del colore, sostenere la luminosità della «spera» e delle preziose «pietre», portatrici della donna e rischiaratrici nell’ombra. Il «cerchio d’oro» ha scosso l’unità colorica del buio, anticipando il gesto prodigioso di «La tua impronta verrà di giù»75 che minaccia le soffocanti «molli / meduse della sera».

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In Personae separatae76 la sostanza coloristica si distingue per un «preziosissimo confronto iniziale fra una scaglia d’oro liquefatta [...] e la persona del poeta e della sua ispiratrice separate».77 I versi, «Come la scaglia d’oro [...] / così pure noi?», istituiscono una similitudine, danno vita a un processo di desquamazione per staccare la parte da un tutto nero e inconoscibile: «uno sfondo di guerra».78 Insomma una trasposizione del dire montaliano: «La scaglia è una stella filante [...] visti oggettivamente da uno che guardi tutto sub specie aeternitatis noi siamo appena una scintilla effimera, di passaggio».79 E nel limite Montale «è ancora il solo mortale che, di fronte ai ciechi, scorga e penetri la condizione immateriale della messaggera»,80 del «carnivoro biondo» di Se t’hanno assomigliato...81 L’impressione cromatica è incatenata all’esperienza individuale dell’animale. Se «i ciechi videro la sembianza esterna di animalità elegante ed ingannevole»,82 Montale riconosce in esso «il presagio / della tua fronte incandescente». Anzi, «biondo» e «incandescente» sollecitano la conclusione: «con chi dividerò la mia scoperta / dove seppellirò l’oro che porto». Quella di «l’oro» è una nuova occasione per insistere sulla sovrannaturalità del tesoro, una «luminosa e disperata, ma inebriante, scoperta».83 Solitario il poeta vivrà del dono della donna: «Volpe è, dunque, una sorta di Clizia del dopoguerra avanzato», di «angelo segnato dal crisma del poeta» e Montale «l’unico che la decifri e la difenda».84 Il «documento iconico» di Montale ha saggiato le puntualità dischiuse dal codice, operando un’integrazione del valore cromatico e degli obiettivi poetici. La riconosciuta «schiettezza e vibratilità delle sue rese formali»85 scandiscono, sottolineano, la preoccupazione per la «realtà di essere affrontata diversamente che con i mezzi di un linguaggio estremamente riservato e particolare, di una musica di parole e immagini».86 Egli ha dimostrato di essere «troppo libero e leale per poltrire sui suoi schemi»,87 riuscendo a creare un dettato lirico forte del sistema simbolico: «mai le cose ci eran parse [...] creature e simboli, povere creature e grandi simboli».88 D’altra parte è fin troppo evidente che il mondo di La bufera rompe l’equilibrio di normalità di un «azzurro pervicace» e si ripresenti nella sua «continua e ricorrente perplessità metafisica».89 Eppure egli ha ritagliato nello spazio di scrittura degli incisi di varia natura coloristica, riempiendoli di emozioni, percezioni e sensazioni private, fino a ottenere una mobilità nell’ambiente di una dichiarata bufera.

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L’incidenza di equivalenze espressive ha reso la determinante nera congeniale alla poesia del terzo libro, l’ha intensificata con la tensione tonale del buio, dell’adombrarsi degli oggetti e dell’annuvolarsi del tempo. Essa ha finito per condividere, giustamente, il brivido della «guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione».90 Da ciò la radicalità delle formulazioni e l’impossibilità di esprimersi per il grigio, rintracciabile nell’unico caso di Proda di Versilia. Resta di fatto che il corpo sintagmatico del nero è stato abbondantemente punteggiato dalla traccia tonale rossa, rinforzatasi della plasticità delle sue figurazioni e dello scarto effettuale con il colore topico della notte. La persistenza del cromatismo rosso ha assommato l’ipotesi di animare e reagire alla prigionia fisica, avversando gli accenti di terribilità di una poesia che «deve passare attraverso le mute lettere di un alfabeto perdutamente interiore» e di un’effettiva «rete balenante di allusioni».91 Una sorta di recupero visivo di un iterato «simbolismo del terzo libro che mira a [...] captare, nell’ambito stesso dell’insignificanza quotidiana [...], figure che agiscono come messaggi, anticipazioni e giudizi».92 I precedenti colorici dell’unità tematica «salvezza / perdizione» accennano a improvvise fulminazioni metaforiche di bianco e oro e provano a superare l’immagine vuota di un sole nero, anche attraverso l’istanza eversiva della rinata cromaticità di un’anima verde. Un atto assurdo in un processo fenomenologico di ritmica disarmonica, già sintomatica delle ultime Occasioni, appropriata in Finisterre dove la realtà segnica è assolutamente «tempestosa». Analogamente, in Satura e Diario «l’uso di aggettivi cromatici» va rarefacendosi e concentrandosi attorno alle poche connotazioni del nero, rosso, bianco: «indizio che siamo sull’orlo di un mondo incolore, sull’orlo della pura inesistenza».93

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1 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia, la prosa di fantasia e d’invenzione, Mursia, Milano 1974, p. 218. 2 E. MONTALE, Per un ‘Omaggio a Rimbaud’, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1991, p. 242 (d’ora innanzi la raccolta verrà indicata con la sigla B). 3 A. JACOMUZZI, Sulla poesia di Montale, in Saggi e monografie di letteratura, Cappelli, Bologna 1968, p. 140. 4 E. MONTALE, Su una lettera non scritta, in B, p. 199. 5 D’ARCO S. AVALLE, Tre saggi su Montale, Einaudi, Torino 1970, p. 67. 6 A. MARCHESE, Visiting angel. Interpretazione semiologica della poesia di Montale, SEI, Torino 1977, p. 132. 7 E. MONTALE, Gli orecchini, in B, p. 202. 8 A. MARCHESE, Visiting angel..., p. 143, n. 25. 9 D’ARCO S. AVALLE, Tre saggi..., p. 21. 10 Ibi, p. 59. 11 Ibi, pp. 26-27. 12 A. MARCHESE, Visiting angel..., p. 147. 13 Ibi, p. 149. 14 E. MONTALE, Iride, in B, pp. 247-248. 15 E. GRAZIOSI, Il tempo in Montale. Storia di un tema, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 95-96. 16 Cfr. E. MONTALE, Intenzioni-Intervista immaginaria, in “La Rassegna d’Italia”, I, 1945, 1, p. 89. 17 S. CAMPAILLA, Per una lettura di “Iride”, in “Studi e problemi di critica testuale”, IV, 1973, 6, p. 220. 18 Ibidem. 19 E. MONTALE, Il giglio rosso, in B, p. 205. 20 ID., Ballata scritta in una clinica, in B, pp. 217-218. 21 O. MACRÌ, Esegesi del terzo libro di Montale, in “Letteratura”, XXX, 1966, 7981, p. 140. Cfr. inoltre: «Il rapporto semico profondo tra fiore di fosso e giglio rosso risulta evidente dalla sovrimpressione di alcuni versi della Ballata scritta in una clinica, dove l’angoscia è così opprimente da comportare un acuirsi della meditazione religiosa: “L’Iddio taurino...”» (A. MARCHESE, Visiting angel..., p. 175). 22 «La negazione nessun uccelletto conferma che tutti i segni che nella poesia fanno pensare ad un uccello, sono in verità tutti allusivi dell’angelo-Clizia (la piuma, le ali, ecc.): sono insomma in antitesi due temi di sempre, che Montale sinteticamente riassume c’è anche qui la guerra e la riapparizione del personaggio, dichiarazione che con semplicità riporta la poesia nell’ambito tematico di Finisterre» (L. GRECO, Montale commenta Montale, Pratiche Editrice, Parma 1990, p. 147). 23 E. MONTALE, Il gallo cedrone, in B, p. 261. 24 P. V. MENGALDO, La tradizione del novecento. Da D’Annunzio a Montale, Feltrinelli, Milano 1975, p. 63. 25 Ibidem. 26 Ibi, p. 50. 27 O. MACRÌ, Esegesi..., p. 161. 28 Cfr. G. LONARDI, Con il gallo cedrone, in Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Zanichelli, Bologna 1980, p. 187. 29 G. GETTO, Antico omaggio a Montale, in “Letteratura”, XXX, 1966, 79-81, p. 89. 30 E. MONTALE, Dal treno, in B, p. 239. 31 G. GAVAZZENI, Montale “scaligero” e “milanese”, in “Letteratura”, XXX, 1966, 79-81, p. 281. 32 L. GRECO, Montale..., p. 60. 33 O. MACRÌ, Esegesi..., p. 157.

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E. MONTALE, Il ventaglio, in B, p. 206. L. GRECO, Montale..., p. 144. 36 A. MARCHESE, Visiting angel..., p. 190. 37 M. FORTI, Nuovi saggi montaliani, Mursia, Milano 1990, p. 12. 38 D’ARCO S. AVALLE, Tre saggi..., p. 49. 39 E. MONTALE, Voce giunta con le folaghe, in B, pp. 258-259. 40 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 271. 41 E. MONTALE, L’orto, in B, pp. 251-252. 42 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 261. 43 M. PETRUCCIANI, “La Bufera” di Montale, in Poesia pura e poesia esistenziale, Loescher, Torino 1957, p. 61. 44 E. MONTALE, Sul Llobregat, in B, p. 238. 45 M. PETRUCCIANI, “La Bufera”..., p. 63. 46 M. BRUSATIN, Colori, Einaudi, Torino 1978, vol. III, p. 409. 47 E. GRAZIOSI, Il tempo..., p. 81. 48 G. CONTINI, Montale e “La Bufera”, in “Letteratura”, novembre-dicembre 1956, 24, p. 32. 49 «È, questo, un fuoco vicino a spegnersi, e che pure riscintilla ogni volta più vivace nel momento dell’estinzione...» (S. CAMPAILLA, Per una lettura..., p. 226). 50 G. CONTINI, Montale..., p. 38. 51 S. CAMPAILLA, Per una lettura..., p. 221. 52 E. MONTALE, Proda di Versilia, in B, pp. 253-254. 53 O. MACRÌ, Esegesi..., p. 167. 54 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 262. 55 O. MACRÌ, Esegesi..., p. 167. 56 S. RAMAT, Montale, Vallecchi, Firenze 1965, p. 189. 57 E. MONTALE, L’anguilla, in B, p. 262. 58 S. RAMAT, Montale, p. 209. 59 Ibi, p. 210. 60 D. CORNO, Petruska e Montale. Per una semiotica dei personaggi, in “Strumenti critici”, ottobre 1979, 39-40, p. 302. 61 S. RAMAT, Montale, p 211. 62 A. VALENTINI, Eugenio Montale, in “Letteratura Italiana Contemporanea”, Lucarini, Roma 1980, vol. II, p. 202. 63 E. MONTALE, La bufera, in B, p. 197. 64 O. MACRÌ, Esegesi..., p. 162. 65 E. MONTALE, Luce d’inverno, in B, p. 241. 66 O. MACRÌ, Esegesi..., p. 146. 67 S. RAMAT, Montale, p. 177. 68 Ibi, p. 153. 69 «S-biancano, illuminano di bianco, come prima, al v. 7, in-ostra» (L. GRECO, Montale..., p. 144). 70 Ibidem. 71 E. MONTALE, La primavera hitleriana, in B, pp. 256-257. 72 S. RAMAT, Montale, p. 194. 73 A. MARCHESE, Visiting angel..., p. 178. 74 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 269. 75 A proposito della difficoltà d’interpretare tale e altre sequenze Ramat afferma: «il nerofumo / della spera [...], il cerchio d’oro; è tutto un susseguirsi di oggetti eleganti che indoviniamo non fine a se stesso ma che non comprendiamo da che punto di vista sicuro si debba osservare» (S. RAMAT, Montale, p. 149). 76 E. MONTALE, Personae separatae, in B, p. 207. 35

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M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 228. Così Montale risponde a una precisa domanda di S. Guarnieri. Cfr. L. GRECO, Montale..., p 55. 79 Ibidem. 80 S. RAMAT, Montale, p. 215. 81 E. MONTALE, Se t’hanno assomigliato..., in B, p. 267. 82 O. MACRÌ, Esegesi..., p. 157. 83 S. RAMAT, Montale, p. 215. 84 O. MACRÌ, Esegesi..., p. 157. 85 S. SOLMI, La poesia di Montale, in Scrittori negli anni, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 311. 86 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 217. 87 P.P. PASOLINI, “La Bufera”, in La letteratura italiana per saggi storicamente disposti. Il Novecento, Mursia, Milano 1973, p. 363. 88 G. DE ROBERTIS, “La Bufera e altro”, in Altro Novecento, Le Monnier, Firenze 1962, p. 322. 89 M. FORTI, Eugenio Montale. La poesia..., p. 218. 90 E. MONTALE, Intenzioni..., p. 88. 91 S. SOLMI, La poesia..., p. 301. 92 A. JACOMUZZI, Sulla poesia..., p. 72. 93 M. CORTI, Un nuovo messaggio di Montale: Satura, in “Strumenti Critici”, giugno 1971, 15, p. 232. 78

ROSSO Amaranto, magenta, paonazzo, porpora, rame, rossiccio, rossonero, scarlatto, solferino, vermiglio, arrossarsi («t’arrossa»), inostrarsi («l’inostra»)

Il giglio rosso, se un dì mise radici nel tuo cuor di vent’anni (B, Il giglio rosso, vv. 1-2)

il giglio rosso già sacrificato sulle lontane crode ai vischi che la sciarpa ti tempestano d’un gelo incorruttibile e le mani (B, Il giglio rosso, vv. 9-12)

il nulla che basta a chi vuole forzare la porta stretta; e fuori, rossa, s’inasta, si spiega sul bianco una croce. (B, Ballata scritta in una clinica, vv. 38-41)

Aveva sempre i capelli cortissimi, rasi da poco, il viso più scavato e rosso agli zigomi, gli occhi bellissimi, come prima, ma dissolti in un alone più profondo. (B, Visita a Fadin, p. 225)

Questo che a notte balugina nella calotta del mio pensiero, traccia madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato, non è lume di chiesa o d’officina

Nota di lettura. La schedatura presenta i colori nell’ordine in cui sono stati trattati nel saggio. Ogni settore cromatico è organizzato secondo questo criterio: si parte dal colore base e si riportano le voci a esso relative; poi seguono le sfumature e infine i “verbi coloristici”. Le sottolineature sono nostre. Per indicare le diverse raccolte montaliane sono state utilizzate queste sigle: OS = Ossi di seppia; O = Le occasioni; B = La bufera; X I = Xenia I; X II = Xenia II; S = Satura; S I = Satura I; S II = Satura II; D 71 = Diario del ’71; D 72 = Diario del ’72.

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ROSSO

che alimenti chierico rosso, o nero. (B, Piccolo testamento, vv. 1-7)

Forse hanno ciecamente lottato i marocchini rossi, le sterminate dediche di Du Bois, il timbro a ceralacca con la barba di Ezra, il Valéry di Alain, l’originale dei Canti Orfici – e poi qualche pennello da barba, mille cianfrusaglie e tutte le musiche di tuo fratello Silvio. (X II, L’alluvione ha sommerso..., vv. 4-10)

Il vecchio colonnello di cavalleria ti offriva negroni bacardi e roederer brut con l’etichetta rossa. (S II, Lettera, vv. 1-3)

Se mai ti mostri hai sempre la liseuse rossa, gli occhi un po’ gonfi come di chi ha veduto. (S II, Luci e colori, vv. 1-2)

Un coleottero tenta di attraversare il libretto delle mie Imposte Dirette, rosso su rosso. Magari potesse stingere anche sul contenuto. (D 71, Rosso su rosso, vv. 4-6)

Ma tu che godi dell’incenerimento universale rubi il mestiere ai chierici, quelli neri s’intende perché i rossi dormono e mai sarà chi li risvegli. (D 72, Il mio ottimismo, vv. 9-12)

Amaranto Entra la luna d’amaranto nei chiusi occhi, è una nube che gonfia; e quando il sonno la trasporta più in fondo, è ancora il sangue oltre la morte. (B, Nel sonno, vv. 11-14)

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Magenta Nubi color magenta s’addensavano sulla grotta di Fingal d’oltrecosta (B, Nubi color magenta..., vv.1-2)

Paonazzo L’ombra della magnolia giapponese si sfoltisce or che i bocci paonazzi sono caduti. Vibra intermittente in vetta una cicala. (B, L’ombra della magnolia..., vv. 1-4)

Purpureo o è forse quella maschera sul drappo bianco, quell’effigie di porpora che t’ha guidata? (B, Iride, vv. 27-28)

Rame Nubi color di rame si piegavano a ponte sulle spire dell’Agliena, sulle biancane rugginose (B, Nubi color magenta..., vv. 7-9)

Rossiccio Da un altro osservatorio un ragazzino rossiccio che tira ai piccioni col flòbert. (D 71, Nel cortile, vv. 8-9)

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ROSSO

Rossonero Dove t’abbatti dopo il breve sparo (La tua voce ribolle, rossonero salmì di cielo e terra a lento fuoco) anch’io riparo, brucio anch’io nel fosso. (B, Il gallo cedrone, vv. 1-4)

Scarlatto Altra luce che non colma, altre vampe, o mie edere scarlatte. (B, Finestra fiesolana, vv. 7-8)

Il volo tuo sarà più terribile se alzato da quest’ali di polline e di seta nell’alone scarlatto in cui tu credi, figlia del sole, serva del suo primo pensiero e ormai padrona sua lassù... (B, Per un ‘Omaggio a Rimbaud’, vv. 7-12)

Solferino Le tortore color solferino sono a Sesto Calende per la prima volta a memoria d’uomo. (B, Dal treno, vv. 1-3)

Vermiglio Sparir non so né riaffacciarmi; tarda la fucina vermiglia della notte, la sera si fa lunga, la preghiera è supplizio e non ancora tra le rocce che sorgono t’è giunta la bottiglia dal mare. (B, Su una lettera non scritta, vv. 8-13)

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Arrossarsi e ancora le stesse grida e i lunghi pianti sulla veranda se rimbomba improvviso il colpo che t’arrossa la gola e schianta l’ali, o perigliosa annunziatrice dell’alba, e si destano i chiostri e gli ospedali a un lacerìo di trombe... (B, Giorno e notte, vv. 12-18)

Inostrare Era una giostra d’uomini e ordegni in fuga tra quel fumo ch’Euro batteva, e già l’alba l’inostra con un sussulto e rompe quelle brume. (B, Il ventaglio, vv. 5-8)

NERO Nerofumo, nerocupi

Un masso, un solco, a imbuto, il volo nero d’una rondine, un coperchio sul mondo... (B, Sulla Greve, vv. 3-5)

e ancora il tuo lampo mutava in vischio i neri diademi degli sterpi, la Colonna sillabava la Legge per te sola. (B, Sulla colonna più alta, vv. 9-12)

Tardi uscita dal bozzolo, mirabile farfalla che disfiori da una cattedra l’esule di Charleville, oh non seguirlo nel suo rapinoso volo di starna, non lasciar cadere piume stroncate, foglie di gardenia sul nero ghiaccio dell’asfalto! (B, Per un ‘Omaggio a Rimbaud’, vv. 1-7)

Se appari, qui mi riporti, sotto la pergola di viti spoglie, accanto all’imbarcadero del nostro fiume – e il burchio non torna indietro, il sole di San Martino si stempera, nero. (B, Iride, vv. 36-39)

M’ero appoggiato alla vasca viscida, l’aria era nera, solo una vena d’onice tremava nel fondo, quale stelo alla burrasca. (B, ‘Ezekiel saw the Wheel...’, vv. 3-6)

eccoti fuori dal buio che ti teneva, padre, erto ai barbagli, senza scialle e berretto, al sordo fremito

IL CODICE CROMATICO IN LA BUFERA E ALTRO

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che annunciava nell’alba chiatte di minatori dal gran carico semisommerse, nere sull’onde alte. (B, Voce giunta con le folaghe, vv. 6-12)

Ho continuato il mio giorno sempre spiando te, larva girino frangia di rampicante francolino gazzella zebù ocàpi nuvola nera grandine prima della vendemmia, ho spigolato tra i filari inzuppati senza trovarti. (B, Per album, vv. 7-13)

e a volo alzata un’anitra nera, dal fondolago, fino al nuovo incendio mi fa strada, per bruciarsi. (B, Da un lago svizzero, vv. 16-18)

Questo che a notte balugina nella calotta del mio pensiero, traccia madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato, non è lume di chiesa o d’officina che alimenti chierico rosso, o nero. (B, Piccolo testamento, vv. 1-7)

Non dire che la stagione è nera ed anche le tortore con le tremule ali sono volate al sud. (S, Botta e risposta I, vv. 8-9)

Senza occhiali né antenne, povero insetto che ali avevi solo nella fantasia, una bibbia sfasciata ed anche poco attendibile, il nero della notte, un lampo, un tuono e poi neppure la tempesta. (X I, Senza occhiali né antenne, vv. 1-7)

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NERO

Se ne avvide Mangàno, il buon cerusico, quando, disoccultato, fu il randello delle camicie nere e ne sorrise. (X II, Con astuzia, vv. 5-7)

Abbiamo ben grattato col raschino ogni eruzione del pensiero. Ora tutti i colori esaltano la nostra tavolozza, escluso il nero. (S I, Il raschino, vv. 8-11)

O grande angelo nero fuligginoso riparami sotto le tue ali (S II, L’angelo nero, vv. 1-3)

o angelo nero disvélati ma non uccidermi col tuo fulgore, non dissipare la nebbia che ti aureola (S II, L’angelo nero, vv. 17-19)

Il mio sogno non è nell’estate nevrotica di falsi miraggi e lunazioni di malaugurio, nel fantoccio nero dello spaventapasseri e nel reticolato del tramaglio squarciato dai delfini (S II, Le stagioni, vv. 18-22)

Il mio sogno non è nell’autunno fumicoso, avvinato, rinvenibile solo nei calendari o nelle fiere del Barbanera, non nelle sue nere fulminee sere (S II, Le stagioni, vv. 26-30)

Ma tu che godi dell’incenerimento universale rubi il mestiere ai chierici, quelli neri s’intende perché i rossi dormono e mai sarà chi li risvegli. (D 72, Il mio ottimismo, 9-12)

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A Roma un’agenzia di pompe funebri si chiama L’AVVENIRE. E poi si dice che l’umor nero è morto con Jean Paul, Gionata Swift e Achille Campanile. (D 72, In hoc signo..., vv. 1-4)

Nerofumo Non serba ombra di voli il nerofumo della spera. (E del tuo non è più traccia). (B, Gli orecchini, vv. 1-2)

Nerocupo una vela tra corone di scogli sommersi e nerocupi o più lucenti della prima stella che trapela (B, L’orto, vv. 10-13)

VERDE Sempreverdi

Dal verde immarcescibile della canfora due note, un intervallo di terza maggiore. (B, Sul Llobregat, vv. 1-2)

Quando di colpo San Martino smotta le sue braci e le attizza in fondo al cupo fornello dell’Ontario, schiocchi di pigne verdi fra la cenere o il fumo d’un infuso di papaveri e il Volto insanguinato sul sudario che mi divide da te (B, Iride, vv. 1-7)

Pareva una foglia caduta dal pioppo che a un colpo di vento si stinge – e fors’era una mano scorrente da lungi tra il verde. (B, Nel parco, vv. 5-8)

l’anima verde che cerca vita là dove solo morde l’arsura e la desolazione (B, L’anguilla, vv. 20-22)

La vecchia tartaruga cammina male, beccheggia perché le fu troncata una zampetta anteriore. Quando un verde mantello entra in agitazione è lei che arranca invisibile in geometrie di trifogli e torna al suo rifugio. (D 72, In un giardino ‘italiano’, vv. 1-5)

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Sempreverdi a quel perenne alto stormire altri perduti con rastrelli e forbici lasciavano il vivaio dei fusti nani per i sempreverdi bruciati e le cavane avide d’acqua. (B, Proda di Versilia, vv. 35-39)

BIANCO Niveo, candire («candisce»; «canditi»), sbiancare («sbiancano»; «sbiancavano»)

il nulla che basta a chi vuole forzare la porta stretta; e fuori, rossa, s’inasta, si spiega sul bianco una croce. (B, Ballata scritta in una clinica, vv. 38-41)

Qui vennero un giorno a giocare due sorelle, due bianche farfalle, nelle prime ore del pomeriggio. (B, Dov’era il tennis..., p. 223)

Una colomba bianca m’ha disceso fra stele, sotto cuspidi dove il cielo s’annida. (B, Lasciando un ‘Dove’, vv. 1-2)

ma li credi tu eguali se t’avventuri fuor dell’ombra del sicomoro o è forse quella maschera sul drappo bianco, quell’effigie di porpora che t’ha guidata? (B, Iride, vv. 25-28)

quando una mischia d’acque e cielo schiude finestre ai raggi della sera, – sempre più raro, astore celestiale, un cutter bianco-alato li posa sulla rena. (B, Proda di Versilia, vv. 7-10)

Folta la nuvola bianca delle falene impazzite turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette, stende a terra una coltre su cui scricchia come su zucchero il piede (B, La primavera hitleriana, vv. 1-4)

Forse le sirene, i rintocchi che salutano i mostri nella sera della loro tregenda, si confondono già

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col suono che slegato dal cielo, scende, vince – col respiro di un’alba che domani per tutti si riaffacci, bianca ma senz’ali di raccapriccio ai greti arsi del sud... (B, La primavera hitleriana, vv. 38-44)

grande angelo d’ebano angelo fosco o bianco, stanco di errare (S II, L’angelo nero, vv. 24-26)

Gli Amerindi se tu strappata via da un vortice fossi giunta laggiù nei gangli vegetali in cui essi s’intricano sempre più per sfuggire l’uomo bianco (S II, Gli Amerindi se tu, vv. 1-4)

Il repertorio della tua memoria me l’hai dato tu stessa prima di andartene. C’erano molti nomi di paesi, le date dei soggiorni e alla fine una pagina in bianco, ma con righe a puntini... quasi per suggerire, se mai fosse possibile, ‘continua’. (S II, Il repertorio, vv. 7-12)

Niveo Poi potrai rimettere le ali non più nubecola celeste ma terrestre e non è detto che il cielo se ne accorga. Basta che uno stupisca che il tuo fiore si rincarna a meraviglia. Non è di tutti i giorni in questi nivei defilés di morte. (D 72, La danzatrice stanca, vv. 16-22)

Candire il lampo che candisce alberi e muri e li sorprende in quella

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BIANCO

eternità d’istante – marmo manna e distruzione – ch’entro te scolpita porti per tua condanna e che ti lega più che l’amore a me, strana sorella (B, La bufera, vv. 10-15)

Quando scesi dal cielo di Palmira su palme nane e propilei canditi e un’unghiata alla gola m’avvertì che mi avresti rapito (B, Luce d’inverno, vv. 1-4)

Sbiancare Luce la madreperla, la calanca vertiginosa inghiotte ancora vittime, ma le tue piume sulle guance sbiancano e il giorno è forse salvo. (B, Il ventaglio, vv. 9-12)

e le candele romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii forti come un battesimo nella lugubre attesa dell’orda (B, La primavera hitleriana, vv. 21-24)

GIALLO Biondo, color oro

Biondo (quando il salce era biondo e io ne stroncavo le anella con la fionda) (B, L’arca, vv. 8-9)

(biondo cinerei i capelli sulla ruga che tenera ha abbandonato il cielo) (B, Il tuo volo, vv. 15-18)

se t’hanno assomigliato a un carnivoro biondo, al genio perfido delle fratte (B, Se t’hanno assomigliato..., vv. 15-17)

Color oro (i suoni di cristallo nel tuo nido notturno ti sorprendono, dell’oro che s’è spento sui mogani, sul taglio dei libri rilegati, brucia ancora una grana di zucchero nel guscio delle tue palpebre) (B, La bufera, vv. 4-9)

Come la scaglia d’oro che si spicca dal fondo oscuro e liquefatta cola nel corridoio dei carrubi ormai ischeletriti, così pure noi persone separate per lo sguardo d’un altro? (B, Personae separatae, vv. 1-6)

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GIALLO

La tempesta di primavera ha sconvolto l’ombrello del salice, al turbine d’aprile s’è impigliato nell’orto il vello d’oro che nasconde i miei morti, i miei cani fidati, le mie vecchie serve (B, L’arca, vv. 1-7)

GRIGIO

macerie e piatte altane su case basse lungo un ondulato declinare di dune e ombrelle aperte al sole grigio, sabbia che non nutre gli alberi sacri alla mia infanzia, il pino selvatico, il fico e l’eucalipto. (B, Proda di Versilia, vv. 18-23)

Il mio sogno non è nelle quattro stagioni. Non nell’inverno che spinge accanto a stanchi termosifoni e spruzza di ghiaccioli i capelli già grigi (S II, Le stagioni, vv. 1-4)

AZZURRO

Un Bedlington s’affaccia, pecorella azzurra, al tremolio di quei tronconi – Trinity Bridge – nell’acqua. (B, Madrigali fiorentini II, vv. 1-3)

O cieli azzurri o nobili commerci non solo coi Celesti! Ora anche la Dea nostra serva e padrona chiude gli occhi per non vederci. (D 72, Notturno, vv. 9-12)

BLU

Per qualche anno ho dipinto solo ròccoli con uccelli insaccati, su carta blu da zucchero o cannelé da imballo. Vino e caffè, tracce di dentifricio se in fondo c’era un mare infiocchettabile, queste le tinte. (D 71, L’arte povera, vv. 5-10)

Schemi rappresentativi e comparativi delle quantità cromatiche e del “movimento” coloristico nella poesia di Montale

La visione del colore in Montale segue un’esperienza mistica e profetica: la luce è l’angelo del colore, è il suo segreto.

Biblioteca COLLANA DI LETTERATURA ITALIANA DELL’800 E ’900

SAGGI E TESTI 3. Scrittori e città. L’immagine di Novara negli sguardi letterari di sei scrittori dell’ultimo secolo, testi di Marchesa Colombi, Barisoni, Bonfantini, Emanuelli, Graziosi e Vassalli, con saggi di Giuliana Morandini, Raffaele Crovi, Massimo A. Bonfantini, Giancarlo Vigorelli, Ugo Ronfani, Elio Gioanola; introduzione di Giorgio Bárberi Squarotti, a cura di Roberto Cicala, 1993, pp. 184, lire 22 000. 4. Poesia e spiritualità in Clemente Rebora, studi e testimonianze, con saggi introduttivi di Giorgio Bárberi Squarotti, Carlo Carena e Oreste Macrì, a cura di Roberto Cicala e Umberto Muratore, 1993, pp. 232, ill., lire 30 000. 7. Rodari, le parole animate, con le illustrazioni di Altan, Luzzati, Munari, Maulini e altri, una testimonianza di Giulio Einaudi, un saggio introduttivo di Pino Boero, un’intervista a Rodari di Enzo Biagi e schede di didattica e creatività, a cura di Roberto Cicala e Anna Lavatelli, 1993, pp. 224, lire 25 000. 8. Da Petrarca a Gozzano. Ricordo di Carlo Calcaterra (1884-1952), introduzione di Carlo Dionisotti e testi di Ezio Raimondi, Oreste Macrì, Marziano Guglielminetti e altri, a cura di Roberto Cicala e Valerio S. Rossi, in appendice documenti e lettere di Graf, Gozzano, Pasolini e Contini, 19942, pp. 144, lire 30 000. 10. Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, saggi critici e antologia di testi, a cura di Giuseppe Langella e Enrico Elli, prefazione di Francesco Mattesini, in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, nuova edizione aggiornata, 1997, pp. 616, lire 45 000. 11. «Con la violenza la pietà». Poesia e Resistenza, antologia dei maggiori poeti italiani con un saggio di Franco Fortini, a cura di Roberto Cicala, 1995, pp. 112, lire 18 000. 12. Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana, a cura di Lorenzo Còveri, prefazione di Roberto Vecchioni, con un testo di Pier Vittorio Tondelli, saggi di Corti, De Mauro, Mengaldo, Bandini, Sobrero, Renzi e altri, antologia di testi di canzoni, 19982, pp. 240, lire 30 000. 13. GROSSI, ROVANI, BIFFI, Prineide, con un testo di LEONARDO SCIASCIA e una sezione iconografica, a cura di Umberto Gualdoni, introduzione di Ermanno Paccagnini, 1996, pp. 128, lire 18 000. 14. Le muse di Montale. Galleria di occasioni femminili nella poesia montaliana, a cura di Giusi Baldissone, con antologia, 1996, pp. 104, ill., lire 18 000. 16. CARLO CARENA, FRANCO CONTORBIA, MARZIANO GUGLIELMINETTI, Ricordo di Francesco Pastonchi (1874-1953), con un’antologia di testimonianze, una bibliografia, una sezione iconografica e una nota di Benito Mazzi, 1997, pp. 160, lire 30 000. 17. ROBERTO CARNERO, Lo spazio emozionale. Guida alla lettura di Pier Vittorio Tondelli, prefazione di Enrico Palandri, cronologia e bibliografia a cura di Fulvio Panzeri, postfazione di Stefano Zappoli, 1998, pp. 144, ill., lire 30 000. 18. SONIA BERTI, IVONNE MARIANI, Il codice dei colori nella poesia di Montale, con un saggio introduttivo di Donatella Marchi e una nota di Maria Luisa Spaziani, 1998, pp. 112, lire 30 000. NARRATIVA 1. DANTE GRAZIOSI, Una Topolino amaranto. Ricordi di un medico degli animali, nuova edizione accresciuta con una nota sull’autore, 19922, pp. 216, lire 22 000. 2. LA MARCHESA COLOMBI, Un matrimonio in provincia, prefazione di Giuliana Morandini, 19932, pp. 116, lire 18 000. Anche con schede didattiche. 5. DANTE GRAZIOSI, La terra degli aironi. Cronache di provincia, con una nota di Davide Lajolo, 1993, pp. 160, lire 22 000. 6. DANTE GRAZIOSI, Nando dell’Andromeda. Una romantica saga padana, prefazione di Paolo Taggi, 1993, pp. 206, lire 25 000. Anche con schede didattiche. 9. LA MARCHESA COLOMBI, In risaia. Racconto di Natale, con un testo di Carlo Emilio Gadda e saggi di Silvia Benatti e Cesare Bermani, 1994, pp. 144, lire 22 000. 15. BENITO MAZZI, Nel sole zingaro. Storie di contrabbandieri, 1997, pp. 160, lire 20 000.

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